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LA PICCOLA LOL DI LENA BERTO CAPITOLO I Io so bene che a quei tempi non ero altro che una giovinetta povera e semianalfabeta. Mi sono sempre considerata una creatura di questo tipo, che esiste più per la grazia di Dio che per i propri meriti. Nonostante ciò, oggi, mentre sto scrivendo queste righe alla bella età di trent’anni, ho il coraggio di accettare il mio passato e non provo nessun rammarico. Quando cammino per la strada noto una moltitudine di persone che a prima vista sembrano ricche, ma non altrettanto felici. Tutte pallide, rabbuiate e frettolose, con gli sguardi stralunati, come se avessero perso di colpo tutti i loro valori; sono capaci di calpestarti, di passarti sopra la testa, di ferirti in maniera letale. Non rientra tra le loro maggiori preoccupazioni il rispetto per le vite e i sentimenti degli altri:

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LA PICCOLA LOL DI LENA BERTO

CAPITOLO I

Io so bene che a quei tempi non ero altro che una giovinetta povera e semianalfabeta. Mi sono sempre considerata una creatura di questo tipo, che esiste più per la grazia di Dio che per i propri meriti. Nonostante ciò, oggi, mentre sto scrivendo queste righe alla bella età di trent’anni, ho il coraggio di accettare il mio passato e non provo nessun rammarico. Quando cammino per la strada noto una moltitudine di persone che a prima vista sembrano ricche, ma non altrettanto felici. Tutte pallide, rabbuiate e frettolose, con gli sguardi stralunati, come se avessero perso di colpo tutti i loro valori; sono capaci di calpestarti, di passarti sopra la testa, di ferirti in maniera letale. Non rientra tra le loro maggiori preoccupazioni il rispetto per le vite e i sentimenti degli altri: ectoplasmi, sordi echi, ombre senza nessun rilievo.

Prima di venire in Italia vivevo con la mia numerosa famiglia in un villaggio della Moldavia, una tra le regioni più povere della Romania (dell’est). Eravamo circa venti persone che dormivano, mangiavano e si lavavano in una piccola casa con cucina, camera da letto e corridoio trasformato anch’esso in dormitorio. La mia famiglia era composta da mamma, papà, dodici figli, dai nonni e alcuni cugini che potevano essere considerati ancora più poveri di noi, poiché erano rimasti orfani di entrambi i genitori. Circondati da un incredibile disordine, ci aggiravamo dentro casa e nell’annesso giardino, vestiti semplicemente di stracci.

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L’unico sentimento che riuscivo a provare in quel periodo in merito alla mia famiglia, alla nostra situazione e a me stessa era lo stupore. Mi stupivo quando mi rendevo conto che le altre famiglie non vivevano in una casa brutta come la mia, simile quasi a una baracca, tutta sporca e puzzolente, e con i pidocchi che saltavano allegramente nella polvere del cortile d’estate e nei nostri capelli d’inverno. Mi sorprendeva che gli altri non fossero come noi, che non vivessero in venti persone stipate solamente in due camere, ma mi stupivo soprattutto del fatto che a scuola tutti i bambini della mia stessa età venissero sempre puliti e con i compiti fatti, cosa che, per quanto mi riguardava, non succedeva quasi mai. Per farvi capire meglio la mia situazione devo rivelare che spesso mi mancava persino la biancheria, cosicché ero obbligata a mettermi quella di mia madre. Per questo fatto lei mi rimproverava con un tono di voce alto, stridulo e allo stesso tempo annoiato, dicendomi: “Irina, darling, quando smetterai di usare le mie cose”?

A mia madre piaceva molto fare una buona impressione sulle altre persone, dimostrare loro che era molto più che una poveraccia: usava con noi questo appellativo -darling- che con me, sinceramente, non sortiva alcun effetto. Mi ripeteva spesso che aveva studiato con profitto,

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diplomandosi in non so quali materie con ottime votazioni, ma tutto ciò mi lasciava indifferente. A quei tempi ero semplicemente una ragazzina di nove anni piena non di dolore ma di stupore.

Mia madre era alta e magra, per via delle frequenti gravidanze, con i capelli bruni, lisci, sporchi e maleodoranti, gli occhi a mandorla, un po’ neri e un po’ dorati; era senza denti e con un sorriso ebete sulle labbra sottili, rosee e screpolate. Non so dire se la amassi oppure no: so solo che alla sua vista mi veniva un groppo alla gola, avvertivo forti e dolorose fitte allo stomaco e mi assaliva una grande voglia di scappare lontano. Non ricordo di aver ricevuto carezze o particolari attenzioni, come nessun altro dei miei fratelli, del resto, né da mia mamma né dal mio papà. Rammento bene invece che, spesso, la sera li sentivo fare le cose dei grandi nel loro letto, pieno di sporcizia e pidocchi e, tra me e me, pensavo: “Irina, sta per arrivare un altro fratellino o una sorellina, e così tu avrai ancora meno tempo per le tue tranquille e meravigliose passeggiate nel bosco”. E questa faccenda, sì, mi amareggiava.

I miei genitori dormivano nell’unico letto dell’abitazione mentre noi altri dovevamo farlo per terra, in cucina o nel corridoio.

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Anche mio padre era secco come un chiodo, con folti capelli bianchi, ma con baffi ancora così neri che sembrava non gli appartenessero. Indossava sempre una tuta blu marine, i cui pantaloni all’inizio avevano delle strisce bianche ma che, nel tempo, a causa della carenza di lavaggi, erano diventate scure, quasi nere. Calzava stivali di gomma sempre sporchi di melma, fango e alghe secche: quando se ne liberava, tutti noi sentivamo sprigionarsi una nauseante e insopportabile puzza di piedi non lavati.

I miei erano al servizio dei ricconi del villaggio. Potreste essere meravigliati da questa mia affermazione e di conseguenza domandarmi: “ma come, avevi detto che abitavi in un villaggio della regione più povera della Romania, e allora cosa c’entrano adesso i ricconi?”. Ma sto dicendo la verità. Malgrado fossi una povera semianalfabeta, che non aveva concluso nemmeno le prime cinque classi della scuola elementare, avevo notato che nel mio paese c’erano casi di enorme disuguaglianza sociale: sbirciando la TV dei vicini, dato che noi, ovviamente, non potevamo permettercela, avevo appreso che tale discrepanza era presente anche in paesi come l’India.

Tornando a noi: ebbene sì, in quel villaggio di poveracci, di cenciosi e piccoli delinquenti, c’erano anche dei signorotti, persone che possedevano delle meravigliose villette con

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stupendi giardini e grandi terreni dove crescevano in abbondanza grano, girasole, granoturco ma soprattutto patate, peperoni, pomodori e soia. D’estate e d’inverno i miei genitori si spaccavano la schiena lavorando questi appezzamenti di terra, e anche io li affiancavo dopo aver rinunciato del tutto all’istruzione. Del resto, cosa avrei avuto da guadagnare frequentando la scuola? Niente. Non mi piacevano gli insegnanti, che mi sembravano freddi e intolleranti, né i miei piccoli compagni di classe, sporchi e a volte pieni di pidocchi quanto me, ma infinitamente più crudeli.

I miei genitori arrivavano alla sera stanchi morti, sporchi di fango e pieni di polvere. Papà si buttava subito sul letto e spesso aspettava che mamma gli togliesse i lunghi stivali di gomma, che ogni giorno che passava diventavano sempre più bucati, tanto che, in corrispondenza dei punti consumati, si distingueva la pelle dei piedi arrossata. La mamma non aveva scelta: faceva la serva durante il giorno e continuava a farla anche di sera. Non diceva niente: dalla sua bocca sottile, sdentata e stretta come una prugna non usciva nessuna parola di protesta o di risentimento. Papà sapeva essere un despota, un misero despota, crudele, egoista e indifferente a tutto, eccetto che alle sue necessità. Quando, ogni settimana, riceveva la paga dai suoi padroni,

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spendeva gran parte dei soldi ubriacandosi in un angolo del nostro piccolo cortile, bestemmiando e imprecando contro la vita tra un sorso e un altro di acquavite di mele, acquistata a buon mercato da un nostro vicino. Ogni tanto, nel cuore della notte io e i miei fratelli sentivamo litigare i nostri genitori: mio padre era accusato di intrattenere una relazione adulterina con una certa Florica, che io non conoscevo affatto. All’epoca, da bambina quale ero, pensavo che ciò fosse solo una bizzarra invenzione, una stramba fantasia di mia madre. Stanca anche lei della situazione, vagava per la casa facendo finta di riordinarla. Ci friggeva delle patate, trafugate nei campi, con del grasso di maiale, spesso rancido e amaro. Quando non aveva neanche questo a disposizione, ce le preparava su un braciere improvvisato il più delle volte in cortile, ovviamente quando il tempo e la stagione lo consentivano. Dopodiché si buttava anche lei sul letto, senza lavarsi, senza svestirsi e iniziava subito a russare, povera donna. Almeno nel sonno nessuno poteva ordinarle di fare qualcosa per gli altri. Dormiva pesantemente, russando di continuo, fino alle quattro del mattino, quando riprendeva la sottomissione della servitù per tutti, specialmente per suo marito.

Eravamo dodici figli. I due più grandi erano gemelli: Vasilica e Leonard, ed io ero la sesta delle ragazze. Non so di preciso

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quale fosse la data di nascita dei miei fratelli (non abbiamo mai festeggiato nessun compleanno a causa della miseria che c’era in casa); a malapena conosco la mia: 3 agosto 1987. Ricordo perfettamente tutti i loro nomi: oltre ai gemelli vi erano: Jana, Georgeta, Doina, Lori, Doru, Adrian, Petru, Cornel e Bogdan. Non rammento se non vagamente i loro volti giovanili, dunque non riuscirei a descriverli fisicamente, e non sono nemmeno sicura di averli amati davvero in quanto sorella. Di una cosa però sono sicura: ho iniziato a scrivere queste note all’inizio di questo 2017 con la speranza che qualche editore volesse pubblicarle. Il mio unico desiderio, se davvero venissi sfiorata dalla fortuna e quindi diventassi improvvisamente agiata, è quello di ricercare tutti i miei familiari per baciarli, abbracciarli e soprattutto aiutarli economicamente.

Spero quindi che questa storia di persone emarginate possa interessare e attirare l’attenzione, anche se ho il timore che questa mia speranza non si realizzerà e che non riuscirò ad aiutare tutti i miei cari in difficoltà; l’idea m’intristisce, mi causa dolore. Non so perché ma da qualche tempo a questa parte li penso intensamente. Negli anni passati, soprattutto quando mi sentivo sola e depressa, mi assaliva una grande nostalgia della mia infanzia. Ma ora che sono passati diciotto anni sento che amo profondamente quelle persone

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e quei luoghi che prima non accettavo. La lontananza, prolungata nel tempo e nello spazio, al contrario di quello che si pensa, esalta i sentimenti.

CAPITOLO II

Le mie meravigliose passeggiate nel bosco, da sola, erano il momento in cui mi dimenticavo della mia famiglia, del mondo, di tutto. D’estate partivo subito dopo che mamma e papà erano andati per i campi e vagavo per ore senza meta. Tutto m’incantava in quel bosco: gli alberi e le loro foglie, i fiori e il loro profumo; l’olezzo dell’erba, giovane e fresca.

ma soprattutto mi affascinava il mormorio dei germogli, pronti a sbocciare, a dare inizio ad una nuova vita. E poi il borbottio del ruscello, il canto continuo e allegro degli uccelli: insomma l’intero fremito della natura mi riempiva il cuore di una felicità pura, autentica e senza limiti.

Là, nel grembo del bosco, mi sentivo realmente a casa, mi sentivo me stessa e ci andavo furtivamente, senza dirlo a nessuno, perché non desideravo alcun tipo di compagnia.

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Non accettavo di condividere quella mia esperienza unica e ineffabile con nessun altro.

I nonni erano molto vecchi e, malgrado fossero anche loro cenciosi come noi altri, erano più puliti, più curati e dunque diversi dai miei genitori da questo punto di vista, ma soprattutto dalla loro figlia in quanto nonni materni (quelli paterni vivevano in un altro villaggio, lontano dal nostro, e non avevamo rapporti stretti con loro). Erano molto amati e apprezzati dalla gente che regalava loro sempre dei vestiti, così come facevano anche con noi ragazzi: soltanto a mamma e papà nessuno regalava niente. Gli abitanti del villaggio erano arrabbiati con loro perché avevano dato vita a troppi figli senza pensare seriamente a come allevarli, educarli e soprattutto aiutarli a costruirsi un futuro. I nonni erano bassi di statura, scuri in volto, con la pelle simile al cuoio a causa dell’esposizione al vento, al gelo e al sole; erano sdentati anche loro e entrambi avevano sguardi rassegnati e miti. Ogni tanto ci accarezzavano con timidezza i capelli e sospiravano. Ricordo molto bene gli occhi azzurri di mia nonna, appassiti come un “non ti scordar di me” in un vaso da fiori senz’acqua. Quando non avevamo niente da mettere sotto i denti, lei ci preparava una bella insalata con cipolle, un pizzico di pepe nero, sale, olio di girasole e tanto aceto di mele, perché più dolce, accompagnata da tozzi di

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pane secco, duro come la pietra. Masticavamo in silenzio senza badare al bruciore sulla lingua e all’odore pungente del tutto. Lei aveva sempre una soluzione alla nostra fame: metteva da parte una gran quantità di pane raffermo, di quello che le donavano ben volentieri i vicini, e questo, per noi bambini affamati, era un’evidente, inoppugnabile prova d’affetto.

Eppure un’amica ce l’avevo: Adela. La sua famiglia abitava a cinque case di distanza rispetto alla nostra ed era ugualmente povera, eccetto per il fatto che nella loro baracca (sto usando questo termine perché era questa l’impressione che mi davano le nostre abitazioni rispetto alle altre) c’erano una o due camere in più. Possedevano, per grazia di Dio, un asinello con il quale il padre svolgva alcuni lavori; per questo motivo, e anche per il fatto che il numero dei membri della famiglia era minore rispetto al nostro (loro erano solo cinque persone, mentre noi eravamo in venti) supponevamo che loro fossero meno affamati di noi. Oltre Decebal, come fu battezzato l’asinello, avevano anche sette galline, tre galli, otto anatre e sei oche. Io e Adela giocavamo e correvamo, inseguendo quelle povere bestioline per tutto il pomeriggio con l’unico obbiettivo di spaventarle. Ogni tanto rubavamo un uovo per

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uno dal pollaio, gli bucavamo il guscio e lo sorseggiavamo con ingordigia.

Poi un giorno d’estate è successo quello che le persone definiscono una tragedia: Decebal, dopo aver mangiato troppo elleboro, che sembrava fosse stato avvelenato con dei tossicidi, è caduto a terra come fulminato e non si è più rialzato. Era così gonfio che sembrava il piccolo di una balena ed il suo musetto grigio e vellutato spumeggiava come un’onda furiosa in riva al mare.

Adela ha pianto per due settimane e si rifiutava continuamente di mangiare: fu così che un sabato se ne andò anche lei, la mia unica amica, in un mondo migliore, o almeno così dicono. Era alta quanto me, circa un metro e quaranta, ed aveva la mia stessa età. Aveva stupendi capelli biondo cenere e occhi meravigliosamente verdastri, come le foglie ad ago sempre verdi di un abete, rotondi ed umidi: sorrideva di continuo e non era mai di cattivo umore. Quando l’ho persa non ho versato nemmeno una lacrima; sono corsa subito nel mio bosco, vicino al ruscello e mi sono nascosta nella cavità di una grotta, sotto un salice piangente. Sono rimasta lì per tre giorni, senza mangiare e sorseggiando di tanto in tanto gocce d’acqua direttamente dal ruscello. Quando i miei genitori insieme ad una nostra vicina di casa, Vivi, mi hanno trovata dopo lunghe ed

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assidue ricerche, ero così debole che mi girava la testa e non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Avvertivo quel groppo alla gola che avevo quasi sempre e che aumentava sempre più al passare di ogni giorno e ogni notte della mia misera vita.

CAPITOLO IV

Vivi, che era anche la vicina di casa di Adela, era una vedova fiorente, allegra che sapeva scherzare e che quando si incontrava con le altre persone davanti alla porta, come d’abitudine tra le donne di un villaggio romeno, metteva tutte di buon umore. Scherzava, raccontava barzellette ed era un vero piacere starle intorno. Era minuta, con forme rotonde, senza esagerazione, con una enorme massa di capelli corti, crespi, neri e lucenti, con gli occhi grigio-azzurri; nonostante avesse i suoi bei trent’anni sembrava una ventenne ed era un’adorabile donna loquace. Insieme alle altre donne si radunavano spesso per spettegolare un

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po’, anche se in realtà Vivi non aveva un carattere petulante ma piuttosto l’opposto, molto discreto. Credo che lo facesse sia per un po’ di compagnia femminile, sia per non farsi odiare dalle altre; per prudenza, insomma. Vestiva con abiti molto colorati e alquanto scollati d’estate. A me la sua presenza piaceva molto, al contrario di quella delle altre donne che tendevo ad evitare. La parlata di Vivi mi ricordava il dolce cinguettio dei miei piccoli amici del bosco.

Nella stessa estate in cui Decebal ed Adela se ne andarono lasciandomi sola, Vivi cominciò ad interessarsi a me. A quei tempi avevo circa dieci anni. Mi invitava spesso il pomeriggio a casa sua: prendevamo assieme una tazza di tè di fiori d’acacia o di tiglio e a me dava anche dei biscotti secchi, aromatizzati e dolci, spalmati con del burro e miele. Una prelibatezza che mi lasciava senza fiato.

Vivi mi ha insegnato tante cose. Prima di tutto, mi ha insegnato come curare me stessa, e quindi lavarmi il corpo ogni giorno e anche i denti; è stata lei che mi ha regalato il mio primo spazzolino, il mio primo tubo di dentifricio, la mia prima saponetta: era gialla-verdognola, profumata e femminile. Mi ha anche regalato alcuni suoi abiti e della biancheria, quella che ormai non le stava più. Mi ha insegnato come parlare educatamente, come soffiarmi il naso senza fare rumore, come camuffare certi rumori di

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stomaco dopo aver mangiato, a coprirmi la bocca quando tossivo o sbadigliavo. Ma soprattutto mi ha insegnato a cucire, a lavorare ai ferri e all’uncinetto. Andare da Vivi per me era una festa. In più mi obbligava a leggere: leggevo qualche articolo dei suoi giornali, qualche storiella o fiaba; leggevo per sillabe ma leggevo. Mi ricordo che possedeva un libriccino di storie brevi di un tale che si chiamava Esopo, tutte molto divertenti e con delle copertine di un bianco-grigio, lucenti.

VII

In seguito sono molto cambiata, anche sul piano fisico,

tale che a dodici anni, quando ho fatto conoscenza a casa sua con Walter, un signore italiano, questi mi ha proposto di andare con lui in Italia, malgrado fossi ancora minorenne. Ero sviluppata e, nonostante la mia tenera età, sembravo già una donna, per cui nessuno mi dava meno di diciotto anni. È ovvio che la compagnia della loquace e fiorente Vivi mi aveva favorito sotto molti punti di vista. Infatti negli ultimi due anni mangiavo di tutto e con più appetito rispetto a prima, anche grazie alle prelibatezze che lei mi

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preparava. Spesso dormivo da lei e riposavo molto bene tra le sue lenzuola pulite e profumate. La nostra vicina era la più benestante fra tutti coloro che abitavano nella zona: aveva una casa grande con tre camere, due cucine: una che usava in estate e l’altra in inverno, e un bagno alla turca dove c’era anche un’enorme vasca di pietra nella quale, alla fine di ogni settimana, dopo di lei, mi lavavo anche io. Rispetto alle nostre misere baracche, la sua abitazione era il paradiso in terra. Vivi possedeva anche due mucche e un cavallo; allevava galline e maiali; coltivava il suo giardino con destrezza ed amore e poi ne raccoglieva i frutti in abbondanza. Aveva un carattere gentile e generoso: spesso mi consegnava per l’intera famiglia dei sacchetti con legumi, verdura, frutta e persino del pane fatto in casa, preparato dalle sue belle mani curate e con delle unghie smaltate sempre di fresco.

VIII

Il giorno della mia partenza verso un mondo nuovo e allo stesso tempo sconosciuto, è stato l’unico momento di tenerezza che ho vissuto insieme ai miei familiari.

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Attenzione: parlo di momenti, di secondi e niente di più. Come ho già detto, avevo solo dodici anni, ma ne dimostravo diciotto: ero già una donna, ma il mio cuore era rimasto quello di una ragazzina di nove anni che non provava niente di speciale per nessun essere umano, eccetto forse una scintilla di affetto per l’allegra Vivi.

Avevo l’animo e la testa unite dallo stesso forte ed invicibile stupore. Questo era l’effetto che la vita faceva su di me.

IX

Era primavera, per la precisione il mese di marzo, e il tempo era più caldo che mite per quel periodo. Indossavo un deux pieces verde con delle rose gialle e un soprabito marrone chiaro; stivaletti che arrivavano fino alle caviglie, con un po’ di tacco: tutti regali di Vivi. Ero bruna, con la pelle olivastra, i capelli neri e lisci e sciolti, che mi saltavano lucenti e setosi sulle spalle; alta un metro e cinquantatre, camminavo con indifferenza vicino a Walter in su ed in giù per la stazione ferroviaria di Iasi. Dovevamo partire per Bucarest-Otopeni dove ci saremmo imbarcati su un aereo. Nemmeno la prospettiva insolita di viaggiare con l’aereo mi produceva altro sentimento che il mio maledetto, continuo

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stupore. Non amavo, non soffrivo, non speravo, non disperavo, non pregavo. Ero soltanto profondamente immersa nel mio consueto stupore. Era come se sognassi e non esistessi davvero; come se non riuscissi a penetrare il vero significato, ammesso che ci sia qualche significato, della vita in generale e quello della mia in particolare.

X

Walter era un uomo piccolo e gentilissimo, vestiva abiti grigio ferro e camicie bianco burro con delle cravatte di seta colore blu marine. Magro, con un inizio di calvizie, aveva uno sguardo cupo e intenso che mi dava l’impressione di un animaletto chiuso in gabbia. Le sue scarpe scure di cuoio lucido facevano uno strano rumore, una sorta di fischio che mi avvertiva della sua presenza. Mi stringeva leggermente un gomito, sia mentre camminavamo assieme, sia mentre mi parlava. La sua pelle scura mi rimandava col pensiero ai pochi film di ambiente orientale che avevo visto alla TV dei vicini, e così facevano anche le sue labbra, piene e sode. Era molto più grande di me, credo che si aggirasse intorno ai quarant’anni; profumava di menta selvatica, quella che

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usava anche mia nonna per prepararci il tè le mattine fredde d’inverno, odore che a me non piaceva affatto.

Dapprima Walter mi ha portato in un albergo e successivamente in una casetta in affitto. Non mi chiedevo come mai non mi portasse a casa sua per presentarmi ai suoi familiari perché avevo già capito che aveva una moglie: quando eravamo sul treno aveva parlato spesso di lei: si chiamava Olga. “Siamo arrivati a Torino” mi disse, guardandomi fino nel profondo del cuore con i suoi occhi neri come la pece, “la città italiana che pullula di voi, i romeni”.

Mi piaceva molto questa città, anche se non risvegliava nessun sentimento speciale nel mio giovanissimo animo. Era molto estesa e senza colline, per cui potevo camminare molto senza faticare per niente. C’erano molti bar, totalmente diversi dalla misera “cafenea” del nostro villaggio, dove tutte le sere ed anche le domeniche gli uomini si incontravano per trangugiare litri di acqua sporca, di vino o di quel liquido marrone chiaro che i padroni commercializzavano col nome di caffè.

Anche le persone che si riunivano in questi bar erano diverse da quelle del mio villaggio: erano pulite, eleganti e sembravano dei veri ricconi. Entravano ed uscivano dopo massimo un quarto d’ora: non perdevano tempo, restavano

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il necessario per un caffè corto, scuro e aromatizzato, o per mangiare delle fette di pane sottile, che loro chiamavano “focaccia”, o dei dolci denominati brioche, spalamate con del cioccolato. Queste ultime, all’interno, avevano dei grandi pezzi di cioccolato che non avevo mai assaggiato prima di allora. L’unico dolce che avevo mangiato a casa mia era del pane ricoperto di zucchero o della polenta con la marmellata di mele cotogne.

Nel retro di questi bar c’era poi un elegante WC, chiamato bagno dagli italiani, dove tiravi una catena e tutto spariva, tutto diventava pulito in un attimo. Ogni volta che usavo questo locale sorridevo nello specchio al di sopra del lavandino dove mi lavavo le mani con il sapone, liquido e profumatissimo, per più tempo del dovuto. Facevo anche delle bolle come quelle che creavo in grande quantità nel cortile di casa nei giorni buoni, assolati, quando, in una catinella, lavavo la mia poca roba e quella degli altri.----------

----Dato che mi trovavo dentro al bagno ormai da più di mezz’ora, qualche avventore, italiano o italiana, stanchi di aspettare, cominciavano a bussare, all’inizio con calma poi in maniera sempre più insistente, a volte furiosamente. Io mentre uscivo dalla porta, asciugandomi le mani diventate ormai rosse sul grembo, con le tasche piene di carta (rubavo sempre quella bellissima carta bianca, immacolata), li

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studiavo con occhi spalancati e aspettavo che mi riempissero di botte da un momento all’altro poiché avevo osato usare il loro bagno. Entrando nel locale avevo studiato e imitato la gestualità degli avventori copiando ogni loro minimo gesto, compreso quello di consumare caffè e due-tre brioche. Walter mi dava sempre venti euro al giorno: “per le tue piccole spese” mi diceva.

Anche le panetterie mi attiravano molto, con tutti quegli scaffali sovraccarichi di pane assortito e ordinato, con forme, sapori e profumi diversi tra loro. Spesso la persona che stava al banco si offriva di darmi qualche pezzo in più, gratis, di quel pane caldo, croccante, appena sfornato ed il gesto mi sembrava molto carino e premuroso. Lo mangiavo boccone dopo boccone mentre continuavo la mia esplorazione sotto i portici alti e larghi della città, dove su innumerevoli tavole di legno riposavano, enigmatiche, pile di centinaia e centinaia di libri. Non avevo mai visto così tanti libri fino a quel marzo in cui arrivai a Torino. A casa non avevamo neanche un libro, eccetto qualche manuale scolastico, e nemmeno Vivi ne possedeva molti: oltre ad Esopo, aveva solo altri tre volumi di “Povesti nemuritoare”. Da lei avevo visto per la prima volta, da vicino, la Bibbia.

Mi soffermavo a contemplarli per delle ore, senza che qualcuno mi sgridasse e, malgrado non fossi ancora capace

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di farlo in modo adeguato, visto che avevo cominciato a imparare l’alfabeto molto tardi (all’età di otto anni), leggevo. Mi affascinava sentire la consistenza delle pagine di carta tra le dita, il rumore che facevano mentre le giravo, i disegni, le immagini che qualche libro sfoggiava. Questo fatto, nella mia mente di allora, lo associavo al mio amore per il bosco, per quei piccoli uccelli che cinguettavano senza sosta, per il salice dove mi ero nascosta quando Adela mi aveva abbandonato e mi aveva lasciata da sola. In quei primi giorni in Italia credo che Adela fosse l’unico essere umano che mi mancasse veramente. Per nessuno dei miei familiari, durante la nostra difficile e soffocante convivenza, almeno così la definivo dentro di me, avevo mai provato un sentimento così forte: se loro c’erano, bene, se non c’erano, era lo stesso. Invece la sua mancanza la sentivo ancora.

Ho detto che leggevo tranquillamente, sillaba per sillaba, in piedi, con la schiena appoggiata a quelle pile di libri; nessuno mi rimproverava o mi mandava via e io, approfittando di questa situazione favorevole, me ne restavo lì per ore. Certo, non è che capissi granché di ciò che leggevo, ad essere sincera non ci capivo un’ acca.

Lo stupore continuava ad alloggiare nel mio cuore e nella mia testa. Mi stupivo di quante persone esistessero al mondo, di quante case, strade e macchine ci fossero, e

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soprattutto mi stupivano quelle abitazioni che arrivavano fino al cielo, con finestre dalle quali si affacciavano i volti di gente sconosciuta. Era una marea di persone estranee che a me non suscitava alcun interesse; mi interessavano di più gli oggetti del mondo che gli esseri umani. Io non indugiavo mai per troppo tempo con lo sguardo su nessun essere antropico, ma soltanto per un attimo e, anche durante quel frangente, non mi soffermavo mai sulle loro facce o sul fisico, ma sui loro vestiti e sugli accessori.

Questo mio stupore aumentava alla vista dei bambini con i quali ogni tanto, nelle mie lunghe e solitarie passeggiate, cercavo il contatto. Mi avvicinavo e mi chinavo su di loro, senza tener conto dei loro genitori e delle altre persone che mi spingevano via con fretta e furia, con gesti accompagnati a volte da parole pesanti e a volte persino offensive. Non avevo mai visto fino ad allora bambini così belli, attraenti come i fiori della mia foresta.

XI

Torino era un pianeta strano per me, con le abitazioni ancora più strane, dove si radunavano uomini e donne non per giocare a carte, a scacchi o a dama, ma per stare in piedi, parlando tra di loro a voce bassa o persino restando in silenzio. Guardavano tutti dei pezzi di carta che non erano libri: sorridevano, puntavano con il dito su di

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esse e, man mano che passavano le ore, entravano uno per uno da quelle porte altissime, ma solo dopo che una persona vestita in abito scuro e con una camicia bianca o azzurra gli chiedeva di mostrare una cosa. Egli, dopo averla controllata un secondo, con gentilezza li invitava a proseguire. Una volta ho provato anche io a mettermi in coda e con mia grande sorpresa non mi hanno permesso di entrare. Solo più tardi ho capito che si trattava di musei e a ripensarci mi viene ancora da ridere; ma anche da piangere, poiché quel rifiuto, sebbene giustificato, mi ha sdegnato e ha aumentato il mio stupore.

Ero molto diversa da adesso, ero solo una ragazzina, una creatura di Dio; avevo lasciato la scuola, non mi piaceva studiare e non capivo molte cose, così come non avevo capito, quando ancora mi trovavo nella nostra baracca in quel villaggio romeno, come mai vivevamo in quelle condizioni; ero stupita da come andassero le cose nel mondo. Piano piano la domanda “perché certuni vivono in un modo ed alcuni in un altro?” diventò un chiodo fisso nel mio giovanissimo cervello, l’emblema di tutta la mia esistenza.

XII

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Quei giorni in albergo, tre in tutto, li ho passati restando in camera e guardando la TV. Ancora oggi mi chiedo come mai l’albergatore mi abbia fatta entrare, dato che avevo solo dodici anni. Le risposte che mi sono data sono tre: è vero che ero una minorenne ma ormai sembravo una donna; semplicemente a lui non importava niente; oppure Walter aveva comprato il suo silenzio così come aveva comprato me.

XIII

In seguito ho capito il motivo per il quale Walter mi dava l’impressione di essere una bestiola chiusa in gabbia. Da un lato perché era sposato, dall’altro perché era entrato in un giro di affari dal quale mi sembrava che volesse scappare, ma non trovasse più una via d’uscita. Questa convinzione l’acquisivo osservando il suo sguardo sfuggente, il suo mezzo sorriso, il tremito delle sue dita quando, come da abitudine, mi stringeva il gomito. La sua presa non era più carezzevole e leggiadra come quando ci eravamo appena conosciuti, ma diventava sempre più aggressiva e

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insopportabile ogni giorno che passava. A volte, addirittura, mi lasciava dei lividi. ---------------

XIV

La casetta affittata da Walter non era tutta per me: al mio arrivo c’erano già altre due ragazze romene, Rada e Zara, di Iasi. Loro mi hanno raccontato tutto ciò che sapevano in merito all’intera faccenda: Walter e Vivi, assieme ad altri romeni di Iasi e alcuni italiani di Torino, facevano parte della cosidetta criminalità organizzata, cioè si occupavano dello sfruttamento dei bambini poveri come me.

A loro volta, anche Rada e Zara erano arrivate in città quando avevano appena tredici anni ed erano solo due povere orfanelle. Mi ci è voluto del tempo per capire che c’era del torbido nella vicenda ma alla fine ce l’ho fatta, e con questa scoperta inaspettata il mio stupore è aumentato a dismisura. No, non odiavo Vivi per la sua perfidia, per il suo atteggiamento abietto e nemmeno mi chiedevo come mai avesse avuto quel cuore di pietra nei miei confronti, tanto da farmi questo. Mi stupivo solo del fatto che potessero succedere certe cose, di quanto fosse strano il

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mondo per alcuni e di quanto spenta fosse la vita in certi casi, come i nostri.

Rada e Zara già da cinque anni si trovavano nell’abitazione di via Giovanna D’Arco, che portava il soprannome di “giglio giallo” per i suoi muri esterni, dipinti di un color limone maturo, e ormai erano diventate maggiorenni. Erano due ragazze carine con le quali, con mia grande sorpresa, dopo un mese di convivenza, mi trovai completamente a mio agio. Il mio cuore si apriva lentamente, ma senza esitazioni, deciso, verso gli altri esseri umani. Ogni giorno che passava sentivo che sbocciava, nel profondo del mio giovane corpo, un giglio tenero e profumato: l’affetto. Non saprei dire come nè perché succedesse così tardi, non saprei dire come mai fino all’età di dodici anni non avessi mai sentito un reale affetto per qualcuno, non considerando quel sentimento commovente, come quello che avevo provato per Adela e Decebal, e l’amore per la mia foresta ed i suoi dolci e amichevoli abitanti, sia del regno animale, che di quello vegetale. E nemmeno so spiegare perché non abbia mai sentito, a quei tempi, un profondo affetto nei confronti di nessuno dei miei familiari, inclusa la mia povera nonna, visto che mentre sto scrivendo queste parole mi sento il cuore spezzato da una profonda nostalgia. Magari questo è

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un altro genere di amore, tutto mio; forse questo è l’unico modo in cui io riesca ad amare i mei familiari, le mie radici! Inutile perder tempo ad analizzare il mio potenziale in merito all’argomento. Ci vorrebbe uno psicologo per aiutarmi a capire il mio passato da questo punto di vista ed io di certo non lo sono. Approssimativamente sono la stessa di una volta, ad eccezione del fatto che nel frattempo ho letto migliaia e migliaia di volumi, arricchendo in modo considerevole la mia cultura. Magari, chissà, un giorno deciderò di riprendere a studiare, non si sa mai: in Italia ci sono donne anziane di oltre ottant’anni che vanno a scuola! Strana la vita, vero?

Tornando a noi, ho detto che avevo avuto una scintilla d’affetto anche per la fiorente vedova Vivi, che, in fin dei conti, mi aveva poi venduto con tanta crudeltà. Non le ho mai mandato notizie di me: niente di niente, ed il fatto che la nonna non ci fosse più ormai da anni lo appresi da Walter che, ovviamente, manteneva rapporti stretti con i suoi compagni d’affari di Iasi. Degli altri parenti e familiari nessuno di noi due ne aveva mai fatto parola. Il passato è passato, e specialmente quando si tratta di uno come il mio è meglio non voltarsi più indietro, almeno fino a quando non si possiede una sistemazione sicura, altrimenti ci potrebbero essere guai seri. In un altro ordine d’idee,

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ditemi, cosa si può fare per gli altri, quando non si può fare niente per stessi, quando non si è liberi?

XV

Rada era una moretta, alta un metro e settanta, ben fatta e con delle spalle larghe e una vita sottile da manichino: aveva i capelli scuri, lisci e cortissimi, due occhioni azzurri, lucenti ed allegri, la bocca rotonda e sensuale ed il nasino all’insù; vestiva in modo sobrio, con colori tenui e sfumature di grigio e crema. Al contrario, Zara era bionda, con una capigliatura folta e riccioluta che le arrivava fino alla vita; anche lei era alta, credo più di un metro e settanta, ma con un corpo più da ragazza del liceo, alla quale piace seguire le ore di educazione fisica; infatti aveva gambe robuste e muscolose. Vestiva spesso con delle tute da ginnastica, abbinate a scarpe firmate, ma ogni tanto, quando il mestiere lo richiedeva, si metteva anche abiti femminili che le stavano benissimo e ciò ricordava a tutte e tre che anche lei era una donna. Amava molto la combinazione contrastante di rosa e nero, ad esempio gonna nera e giacca rosa, ed era molto più bella così che con

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le sue solite tute, poiché i suoi occhi a mandorla, neri come il carbone, diventavano ancora più scuri e attraenti.

Io, nei primi tempi in cui arrivai nell’appartamento, ero più bassa di loro, anche per via dell’età, ma oggi, a distanza di diciotto anni, sono cresciuta e sono diventata più o meno della loro stessa altezza e sinceramente non sono brutta nemmeno io.

Il giglio giallo di via Giovanna D’Arco era un’abitazione ad un solo piano ma era comunque molto spaziosa: ognuna di noi aveva la sua cameretta, mentre la cucina e il bagno erano in comune.

Le camere erano ammobiliate in maniera molto semplice, quasi spartana: avevano un letto, un armadio con una sola anta, un tavolo e una sedia senza schienale. Sopra il tavolo c’era uno specchio di circa ottanta centimetri di diametro, nel quale ci guardavamo per l’ultima volta prima di uscire, per verificare il viso, il trucco. Tutte e tre avevamo gli stessi mobili; persino il parquet sembrava lucidato nella stessa identica misura, con lo stesso identico colore comune, per non litigare tra di noi, penso. Il bagno era provvisto di una sola doccia ma aveva tre lavandini, credo per lo stesso motivo.

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La cosa che più mi piaceva di quel posto era il giardinetto davanti al portone di casa. Appena si apriva il cancello, a sinistra e a destra del marciapiede di mattoni rossi, incastrati tra loro perfettamente, c’erano delle rose meravigliose di tutti i colori: gialle, rosa, crema, arancione, bianche e così via. Sì, quel giardinetto era un sogno, un gran bel sogno… Al mattino mi alzavo alle cinque e, con una tazza di caffè in mano - che ormai prendevo regolarmente come le mie coinquiline - nero, forte e bollente, mi sedevo sulla soglia e contemplavo incantata quella meraviglia. All’inizio questi momenti mi rinvigorivano e mi davano una grande vitalità; più tardi invece mi rendevano felice, sempre che la felicità esista davvero.

Oltre a noi c’erano altri cinque abitanti al numero civico 100 di via Giovanna D’Arco: tre gatti e due cani. Rada e Zara li avevano trovati durante il loro soggiorno, li avevano battezzati, nutriti, curati e trasformati nei loro migliori amici. La sera, quando non riuscivo a prendere sonno, dato che non avevamo la TV ma solo una radiolina, se non leggevo qualche rivista (non avevo mai letto in vita mia un romanzo e per questo mi consideravo ancora una semianalfabeta) prendevo uno dei gattini e me lo portavo nel letto. Giocavo con lui fino a quando non ci addormentavamo tutti due, abbracciati.

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Durante la notte il suo respiro e le sue fusa mi davano un grande sollievo: mi confortavano.

Ma io, Rada e Zara ci trovavamo in quel luogo per un motivo ben preciso: dovevamo andare per negozi, per i supermercati e i mercati, sui mezzi di trasporto e rubare. Ogni giorno che passava dovevamo diventare sempre più brave, sempre più professioniste del mestiere. Lo standard dal quale partiva Walter quando ce lo insegnava, era quello proposto dalla protagonista del film “Teresa la ladra”, nel quale la meravigliosa Monica Vitti ha interpretato quella parte molto bene.

Quando uscivamo di casa nessuno doveva sospettare che fossimo delle misere ladre; al contario, tutti dovevano credere che fossimo delle giovani donne in procinto di intraprendere una carriera soddisfacente e piena di aspettative. Queste erano le parole chiave del nostro mestiere, le parole che tanto gradiva pronunciare Walter, pavoneggiandosi di qua e di là per la Casa Gialla, come un pastore che si è comprato di recente tre pecore grasse e produttive. Noi aprivamo bene le orecchie e imparavamo: la nostra non era una scelta, ma un obbligo.

La prima volta che ho adempiuto al mio compito di ladra tremavo come una foglia. Ormai non ero più una novellina, erano passati tre mesi dal mio arrivo a Torino, tempo nel

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quale sono stata ben addestrata sia dalle ragazze che da Walter; quindi nella mia mente avevo già definito per bene il mestiere, si era già elaborata la netta distinzione tra il bene ed il male. In poche parole ero perfettamente cosciente che quel giorno di maggio io, che fino ad allora ero una semianalfabeta sporca e pidocchiosa, rimanevo tale, ma stavolta pulita, profumata ed elegante come una modella, ed in più diventavo una delinquente di bassa categoria.

Dovevo entrare in un grande supermercato Carrefour e rubare qualcosa di prezioso. Ma - mi chiedevo - cosa ci poteva essere di prezioso in un locale dove c’erano esclusivamente dei viveri, dove dappertutto c’era solo cibo?

Camminavo in su e in giù tra la gente indaffarata a scegliere la merce, che guardava con attenzione le confezioni di carne, verdura, formaggio, per informarsi sulla data di scadenza; osservava la frutta ed altre cose del genere, mentre io mi tormentavo su cosa avrei potuto rubare!

In tutto questo tempo Walter e le ragazze mi tenevano d’occhio con discrezione, vestiti anche loro elegantemente quanto me, camuffati tra gli altri clienti; sembravano persone normali, per bene, integrati socialmente e non di sicuro delinquenti abituali. Ed io, per la prima volta in vita mia, ho cominciato pregare. Non desideravo affatto deluderli perché

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non volevo tornare nella baracca della mia famiglia, laggiù in quel miserabile villaggio romeno.

Poi all’improvviso ho realizzato che cosa volevano Walter ed i suoi da me. Non per niente avevano scelto come modello il personaggio interpretato dalla formidabile Monica Vitti: dovevo derubare la gente, i clienti del supermercato e non il supermercato in sé. Questa era una prova per me ed io dovevo superarla. Nello stesso momento mi sono ricordata, come un flash, certi dettagli delle lezioni e certe espressioni e non riuscivo a capire come avessi potuto dimenticarmene. Ma, come ho detto, tremavo come una foglia e dunque ero piuttosto confusa. ------------

Così, a mia volta, ho iniziato a guardare con finto interesse la merce in esposizione, con falsa preoccupazione il cibo di questo e quello scaffale, con l’unico scopo di avvicinarmi a delle povere vecchiette, mezze cieche e malandate per l’età, interessandomi alle loro borse, ai loro gioielli, agli orologi d’oro e alle collane. Quando sono uscita, dopo aver pagato alla cassa mezzo chilo di parmigiano, tre confezioni di prosciutto e due scatolette di tonno, avevo la faccia olivastra tutta lucida e rosea per l’emozione e per la soddisfazione mentre un largo sorriso mi scopriva i denti.

Ma le gambe mi tremavano ancora, come se fossi appena stata assolta dalla pena capitale, in qualche località

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del Texas. Se qualcuno, in quei momenti, mi avesse chiesto chi ero, come mi chiamavo e da dove venivo, non sarei stata sicura di riuscire a rispondere con coerenza e lucidità, addirittura non sarei stata capace di aprire bocca. Tremavo e sorridevo, e basta.

Arrivati al Giglio giallo ho tirato fuori il bottino: due collane, un orologio del più prezioso oro e cinque mila euro in contanti. Quella sera stessa abbiamo festeggiato: siamo usciti tutti assieme e abbiamo mangiato pizze giganti e bevuto birra. Era la prima volta che derubavo della povera gente che non aveva nessuna colpa, eccetto che per il fatto di essere fragile, debole per l’età e non si sono accorti che una piccola disgraziata, sporca romena, li stava privando dei loro beni. Era anche la prima volta che bevevo birra e tutte le due cose insieme mi hanno fatto uno strano effetto, un genere d’eccitazione incontrollabile, quasi abominevole.

Dunque questo era il mio lavoro, il nostro lavoro: derubare le persone che andavano semplicemente a fare la cosa più normale e necessaria al mondo, ovvero la spesa. Oppure andavano a lavoro: infatti, le altre ragazze, che erano del mestiere da molto più tempo di me, prendevano di mira anche queste ultime, che affollavano i mezzi di trasporto urbani e spesso anche interurbani.

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Ma bisognava stare attente e non ripetere mai l’attività nello stesso supermercato durante la medesima settimana. Questo non fu un problema perché Torino è una grande città ed è piena di questo genere di negozi. La cosa più importante era non lasciarmi riprendere dalle telecamere di sorveglianza. Spesso ci scambiavamo i ruoli, proprio per un fatto di maggiore sicurezza, per non essere in qualche modo riconosciute da una guardia o da uno dei clienti. Proprio come succedeva tra normali colleghe di lavoro, Rada e Zara prendevano il mio posto ed io il loro: derubavamo la gente per strada, nella metro, nei tram e nei bus, nei piccoli o grandi negozi. Ricordiamoci che oggi come oggi là dove ci sono i supermercati è molto probabile trovare anche orologerie e gioiellerie. Spesso è più facile derubare la gente in questi posti, dopo che hanno appena fatto acquisti, tra tutta quella folla di gente che pensa solo a comperarsi da mangiare o pagare le bollette, tutti in una disperata fretta di arrivare a casa, senza mai badare a possibili delinquenti, pronti a fare il loro mestiere, ad adempire il loro destino di emarginati. E noi eravamo solo tre esemplari di una multitudine di persone che, chiamate con il loro vero nome, sono semplicemente delle svergognate, insensibili persone! Le altre due ragazze spesso operavano contemporaneamente nella stessa zona, malgrado fosse molto pericoloso, ma devo concludere che erano entrambe estremamente abili, dato

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che negli otto anni in cui sono rimasta assieme a loro, non sono mai state arrestate, come neanche io del resto, e non hanno mai avuto guai con la polizia. ----------------

XVI

Dopo un periodo di intensa attività, per non rischiare, Walter dava a ciascuna di noi qualche migliaio di euro e ci spediva a Rimini dove un romeno, Vlaicu, ci ospitava gratis in un appartamentino per cui le nostre spese erano limitate al cibo. Erano vacanze splendide. Piano piano mi affezionavo alle due ragazze e la vita non mi sembrava più una schifezza: il mio stupore diminuiva, mentre aumentava il ritmo con il quale quel giglio bianco e profumato a cui io assomigliavo e che corrispondeva al mio possibile amore per la vita in generale, sbocciava dentro il mio corpo giovane e robusto ed in una certa percentuale, ancora innocente.

Passavamo il tempo tra passeggiate lungo mare e le corse da un negozio all’altro: però non dovevamo mai toccare un oggetto senza pagare, e devo ammettere che questa restrizione, questa regola, mi frustrava un po’. Rimini è la città dove, in primavera ma specialmente in estate, arriva

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un grande numero di ricconi, appartenenti a tutti gli strati sociali e le tentazioni per rubare di certo non mancavano!

Ogni tanto di notte restavo tutta sola nell’appartamento di Vlaicu, mentre Rada e Zara erano impegnate con qualche flirt che si prolungava fino all’alba. A me questa cosa non dispiaceva affatto: non mi sono mai sentita sola nella mia grande solitudine.

Ho lavorato e vissuto in questo modo per otto anni senza avere mai problemi con la giustizia, senza essere mai stata coinvolta in qualche scandalo o smascherata. Insomma ero tutta felice e contenta, sempre che essere una delinquente, una ladra, possa rendere una ragazza, anche una miserabile semianalfabeta come me, felice!

Il giorno in cui ho compiuto vent’anni, il 3 agosto 2007, ho conosciuto George, il mio attuale marito, anche lui romeno, natio di Bucuresti.

Quando l’ho visto per la prima volta, non potevo credere che un uomo potesse essere così bello, così maledettamente attraente. Più grande di me di cinque anni (oggi ne ha trentacinque), a quei tempi sembrava un ragazzino del liceo con quella capigliatura arruffata, scura e lucente, con quel ciuffo che gli cadeva sulla fronte e che lui si metteva sempre da una parte con un gesto infantile e allo

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stesso tempo seducente. La sua pelle bianca contrastava con la mia olivastra, altro motivo in più per cui mi piaceva. Gli occhi verdi smeraldo scintillavano verso di me, simili a due stelline miti e benevole, che contribuivano a farmi sciogliere in un mare d’amore. Poi le sue labbra carnose mi davano l’impressione di una rosa fresca del nostro giardinetto. Non c’era un solo difetto in tutta quella fisicità esile e robusta allo stesso tempo, nel suo modo di vestirsi sempre in abiti di jeans di tutti i brand e di tutte le firme, da quelle più antiche e molto conosciute, a quelle più nuove, ultramoderne, ultrachic. E cosa dire del suo tic di mordersi il labbro inferiore, quando era troppo emozionato, anzi vorrei dire eccitato?

Abbiamo fatto conoscenza nel modo più strano che ci potesse essere: ci trovavamo entrambi sulla metro ed io stavo per derubare una vecchietta del suo portamonete; avevo già tagliato la borsa con il piccolo stiletto che usavo regolarmente tra la folla per non rischiare di essere vista, quando ho sentito uno sguardo fisso su di me: mi sono venuti i brividi. Ho pensato subito che era arrivata la fine della mia carriera di miserabile borsaiola. Invece no. Alzando gli occhi, impaurita e tremante, ho visto il panorama più meraviglioso di tutta la mia vita: il suo sorriso incantevole, metà stupito e metà divertito. Il risultato è questo: non ci siamo più lasciati,

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malgrado le cose della vita non siano sempre rose e fiori tra di noi. C’est la vie, n’est pas?

L’ amore per George mi ha reso ribelle nei confronti di Walter e insofferente con le ragazze. Non riuscivo più a fare il mio lavoro come dovevo, ero diventata imprudente e frettolosa, e spesso anche pigra. Non avevo più voglia di svegliarmi, di alzarmi a certe ore e, quando dovevo andare al lavoro, ritardavo sempre la partenza con un abbellimento prolungato davanti allo specchio di camera mia o con l’oziare sul letto, sognando ad occhi aperti una vita totalmente opposta: onesta, un futuro al fianco del mio amato.

Walter si era ormai stufato del mio atteggiamento e non sapeva più come prendermi; talvolta mi puniva non dandomi più la parte del bottino che mi spettava. Addirittura minacciava di fare una denuncia anonima alla Polizia o mi diceva che avrebbe pagato un disgraziato qualunque per farmi del male; per esempio, per gettarmi dell’acido addosso, sulla faccia, per imbruttirmi. Quest’ultima cosa mi impauriva da morire e in seguito ho trovato il coraggio di confidarmi con George.

Dopo avermi ascoltata con attenzione, mordendosi freneticamente il labbro inferiore, come sua abitudine, mi propose quello che in fin dei conti speravo: di scappare via assieme. Mi disse che aveva un buon amico che possedeva

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un piccolo appartamento a Genova e che questi e sua moglie, per quasi due anni, non sarebbero tornati, poiché lei doveva partorire a breve e preferivano restare per un po’ di tempo dai genitori della donna, a Bucuresti. Mi disse che eravamo due giovani cuori baciati dalla fortuna perché questo regalo glielo aveva appena fatto l’amico: infatti gli aveva dato la notizia per telefono appena tre giorni prima e lui non sapeva decidersi, dato che anche lui ci teneva molto a stare con me, ma io avevo questo maledettamente pericoloso, antisociale impegno. Gli chiesi come sarebbe entrato in possesso della chiave e mi rispose, tutto sicuro di sé, che per questo non dovevo affatto preoccuparmi poiché lui e l’altro erano buoni amici e aveva sempre avuto un duplicato della chiave dell’abitazione. ------

E così, dopo tre mesi dall’incontro con George, un bellissimo giorno d’inizio novembre abbiamo preso il treno per Genova. Ero felicissima di lasciare quella vita e anche lui: infatti, mi aveva già confessato un sacco di volte che non approvava il mio mestiere. Ho lasciato Il Giglio giallo senza rimpianti e da quel giorno non ho più saputo niente, per mia fortuna, di Walter e dei suoi colleghi; e nemmeno di Rada e Zara. Per quanto riguarda loro, mi vergogno un po’ di averle lasciate senza neanche un biglietto, ma riflettendoci su, prima

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di andare via, ho deciso che sarebbe stato meglio per tutte noi se ci fossimo separate in quel modo.

Come ho detto, non ho lasciato alcun biglietto né per le ragazze né per Walter, ma ho preso invece tutto ciò che potevo: orologi d’oro, collane, catene, vestiti, scarpe e persino delle lenzuola e qualche migliaio di euro; insomma, tutti i soldi che io avevo messo da parte e in più tutti quelli che sono riuscita a trovare entrando nelle camere delle ragazze. Questo fatto di aver preso i soldi delle mie compagne mi pesa ma mi consolo con la speranza che mi abbiano capito e, di conseguenza, anche perdonato. Loro erano al corrente del mio progetto di scappare via con George, perciò con il passare del tempo si è formata in me la convinzione che tutti quei soldi trovati nelle loro stanze, Rada e Zara, li avessero appositamente lasciati bene in vista poiché io potessi prenderli per iniziare una nuova vita, senza di loro e Walter, e soprattutto senza quelle paure e complicazioni derivate dal pericoloso impegno. Se è così che stanno le cose, che Dio le benedica le mie care ragazze; se non lo è, che Dio mi perdoni per il mio miserabile gesto…

Avevamo bisogno di tutto quello che ho portato via dal Giglio giallo perché né io né George avevamo un lavoro. Lui mi disse che era bravo in più di un mestiere e che, quindi, non mi dovevo preoccupare per il nostro futuro.

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L’appartamento di Genova, precisamente Genova-Sampierdarena, non era di lusso ma era sempre meglio di stare per strada.

Quando siamo arrivati lì per la prima volta era buio e non ho potuto vedere granché. Abbiamo fatto la doccia, ho preparato una omelette e poi abbiamo mangiato nel soggiorno, davanti alla TV. Non sono riuscita a guardare il film fino alla fine, dalla stanchezza; era un film con dei poliziotti che inseguivano invano dei gangster feroci, crudeli e brutti. Ho sentito solo quando George ha spento il televisore e mi ha portato sulle sue meravigliose braccia nella camera da letto. Mi ha coperto per bene ed io mi sono riaddormentata. Tutta la notte ho sognato che Walter e le ragazze litigavano con me perché li avevo derubati.

Il giorno dopo ho notato che l’abitazione era composta dal soggiorno e dalla camera da letto, e anche da una cucina e un bagno. Questo, che avevo già usato la sera prima, era stretto ma con una grande vasca: aveva delle piastrelle lucidissime, azzurre come il cielo sereno in un caldo e accogliente giorno d’estate. La cucina, alla luce del sole, sembrava più confortevole, con un tavolone rotondo nel mezzo e tre sedie con schienali alti e impagliati: sopra al tavolo c’era una tovaglia di plastica con rose rosse su sfondo

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verde. I muri erano bianchi immacolati e una finestra enorme dava su un balcone attraverso il quale si poteva ammirare una buona fetta di cielo, cosa che mi incantava in maniera assoluta. Eravamo al pianterreno, così quando sono uscita sul balcone e mi sono sporta ho potuto notare la pratica griglia per pulirsi i piedi prima di entrare all’interno del palazzo. Sul davanti c’era una stradina alla cui destra si estendeva maestosamente il complesso commerciale Fiumara.

Nel soggiorno c’era una sofà in ecopelle, color cioccolato fondente, un tavolo basso rettangolare sul quale si appoggiava una piccola TV, mentre sul muro della finestra c’erano dei fiori rampicanti verdi e freschi.

La camera da letto era meno spaziosa del soggiorno e aveva come pezzi di arredamento il letto matrimoniale e due comodini. Niente armadio. Mi chiedevo dove avrei messo la mia roba quando, uscendo nel corrioio, ho scoperto degli armadi a muro, vuoti. Tutta la casa era pulitissima e mi piaceva: dato che ormai da anni vivevo in condizioni normali di igiene e pulizia, come tutti intorno a me, non mi consideravo più una ragazzetta sporca e pidocchiosa.

Fu una vita molto bella quella che feci in seguito. George andava al lavoro ed io mi occupavo dell’abitazione: lucidavo, mettevo ordine, stiravo e cucinavo. A mezzogiorno George tornava a mangiare con me, dopodiché ripartiva e io

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rimanevo da sola a sonnecchiare sul sofà. La sera uscivamo per lunghe passeggiate in riva al mare ed ogni giorno che passava amavo sempre di più quell’uomo…

Dopo due mesi che ci trovavamo già nella nostra casa, come la chiamavamo noi, ci siamo addirittura sposati, in Comune. George era cittadino italiano, erano quindici anni che viveva nel bel paese.

Era di Bucarest e subito dopo essersi diplomato era partito per l’Italia. Anche lui come me non amava molto studiare ma aveva almeno finito il liceo; quindi, per non sentirmi inferiore a lui, ho cominciato a leggere più spesso: leggevo tutto quello che avevo a portata di mano: riviste, giornali e quando uscivo per fare la spesa avevo preso l’abitudine di acquistare qualche libro. Leggevo due o tre libri alla settimana: i gialli di Agatha Cristie, i romantici francesi, tra i quali preferivo Victor Hugo. Mi sono appassionata a Zolà, di cui mi è piaciuto fin da subito il romanzo “Nanà”, e mi attraeva molto anche “Papa Goriot” di Balzac. Li ho letti entrambi almeno una decina di volte nel giro di tre mesi. All’inizio è stato difficile; non capivo granché, ma con il passare tempo la mia mente si è aperta e ho cominciato a capire e a vivere quello che leggevo.

Scrivere, invece, restava un grande problema: le doppie consonanti dell’italiano mi confondevano e mi mandavano su

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tutte le furie. Infatti ancora oggi non sono capace di scrivere correttamente la lingua di Dante, come diceva mio marito: sinceramente io non sapevo chi fosse questo Dante e non mi interessava nemmeno saperlo. L’unico motivo per il quale leggevo, all’inizio della nostra vita insieme, era perché non volevo essere più stupida e più ignorante del mio George. Temevo che se avesse capito quanto vuota fosse la mia testa mi avrebbe lasciata.

Certamente fare la spesa da sola le prime volte per me è stato non difficile ma un vero e proprio incubo. La cosa più strana che mi succedeva nella mia nuova qualità di cliente, di una persona che stavolta comprava in un supermercato, per esempio alla Lidl, era essere assalita da una grande paura di essere derubata da una come Rada e Zara, insomma da un abominevole essere umano come lo ero stata anche io! Appena si avvicinava qualcuno cominciavo a vibrare con tutto il mio corpo. Ero tutta un fremito, mentre tutta la mia attenzione si concentrava sulle tasche, sulla borsa a tracolla oppure sulla spesa: mi aspettavo da un minuto all’altro che quel qualcuno provasse a derubarmi. I miei piedi cominciavano a fare dei passi avanti ed indietro senza tregua, come in una sorta di danza caotica o, meglio detto, di movimenti ossesivo-compulsivi come succede nei casi dei malati psichici, così detti pazzi. Sì, diventavo una specie di

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matta e mi pareva di essere completamente fuori di senno. Poi, quando avevo la certezza che nessuno voleva derubarmi, mi accasciavo a terra in posizione fetale e cominciavo a piangere a singhiozzi. Non ci sono parole per descrivere la mia vergogna, il mio imbarazzo quando una persona per bene si avvicinava e mi chiedeva con un tono molto gentile, mite:

_”Signorina, tutto bene”?

_”Ah, sì, sì, tutto bene, grazie”. - bisbigliavo con gli zigomi arrossati, come di fuoco. –“ È solo che ho un gran mal di stomaco...”

_”Poverina, anche io ho sofferto tanto di stomaco e quasi diventavo matta quando mi arrivava il dolore...”

Erano signore di tutte le età, alcune molto giovani e attraenti, altre di settanta o ottanta anni...

Come si sa già, le donne italiane di qualsiasi età dimostrano sempre una decina d’anni meno di quelli che hanno sulla loro carta di identità, perciò mi trovavo all’improvviso davanti a una situazione strana, a parlare della mia salute con delle donne che malgrado la loro età stavano meglio di me e questo mi umiliava, mi riempiva di rancore, di un odio invisibile e irrazionale. Così ho deciso di raccogliere tutte le mie forze e di provare a guarire o al limite di

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sorpassare il mio disagio con il meno rumore possibile. Però non sapevo come fare! Come pena non era per niente inferiore a quella provata dalle persone bruciate sul rogo quando l’umanità si compiaceva con leggerezza e quasi con incanto ad assassinare delle povere innocenti; quelle presupposte streghe nell’epoca dell’inquisizione. Dopo ore e ore di tormenti ho deciso di camuffare le mie sofferenze in questo modo: appena cominciavo ad avvertire i primi sintomi mi aggrappavo con tutte le mie forze agli scaffali e in questo modo non mi accasciavo a terra. Nonostante questo non riuscivo ad impedire al mio corpo di tremare: vacillavo così forte che sembravo una che ha il diavolo dentro di sé e debba essere esorcizzata, o una alla quale mancava la dose quotidiana di eroina o di un altre sostanze simili. E l’incubo non si manifestava solo nei supermercati ma in qualsiasi tipo di negozio: assieme a Rada e Zara avevamo fatto furti un po’ ovunque e, come ho detto, appena avevo la convinzione che qualcuno mi volesse derubare diventavo, anima e corpo, lo specchio di una sofferenza senza fine.

Nei momenti di tregua e di riflessione del dopo, concludevo con un sorriso amaro sulle labbra screpolate e mordicchiate fino al sanguinamento; un gesto aggressivo di autopunizione, che questo non era nient’altro che il castigo divino per tutti i misfatti, il male provocato a delle persone

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innocenti, sconosciuti che non avevano altra colpa che quella di fidarsi della società odierna e del prossimo. Ama il prossimo come TE stesso!

Un giorno, mentre mi trovavo proprio nelle mani del castigo divino, ero in una gioelleria a un centinaio di metri da casa nostra. Era un giorno stupendo di aprile del 2008. George la sera prima mi aveva dato una somma di denaro con la quale sarei dovuta andare a comprarmi un regalo per la festa di Pasqua. Decisi di acquistare un meraviglioso orologio da polso che guardavo con desiderio ogni volta che passavo davanti alla vetrina della gioielleria.

Dopo di me, a nemmeno due minuti di differenza, è entrato un individuo giovane, sulla trentina, tutto profumato, di un olezzo forte quasi insopportabile di giglio, nemmeno fossimo in una delle chiese di Sant’Antonio; era vestito di un completo nero con una camicia gialla e cravatta verde militare. Capelli corvini, lisci e untuosi dal troppo gel. Sembrava nervoso e sorrideva con tutti i denti in mostra, sotto il naso carnoso; sopra il labbro superiore minuscole perline di sudore luccicavano orgogliose ed antipatiche, mentre i suoi occhi neri e sporgenti mi guardavano dalla testa ai piedi con uno sguardo strano, insistente, mentre contavo attenta i soldi tirati su a metà del portafogli. Quello che ha determinato il mio eccesso nevrotico, lo chiamerò così da

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adesso in poi giusto perché abbia anch’esso un’identità come tutte le cose in questo mondo, sono stati i movimenti della sua mano destra che si agitava spasmodicamente nella tasca della giacca. Ho sentito una fitta allo stomaco, il mio addome, cellula per cellula, sembrava prendere fuoco e un bruciore allucinante, mostruso - il solito - ha cominciato ad abbaiare e ululare, a mordere il mio di dentro. Un cane enorme ed immensamente arrabbiato prendeva posto sempre di più nel mio addome in quegli attimi terribili e mi tormentava lasciandomi senza forze per almeno mezz’ora. Ritornando alla mia nevrosi, da quello stupendo giorno di aprile, nel negozio dell’orologiaio più simpatico e più accomodante di tutta Genova, mi era venuto il sospetto che quel giovane fosse nient’altro che un rapinatore, un maschiaccio cattivo della stessa classe di Walter, l’amico di Vivi; la mia paranoia era talmente aumentata e accentuata che non mi balenò neanche per l’anticamera del cervello l’idea che semmai fosse stato un delinquente, di quella mia stessa categoria, in fin dei conti non sarei stata io quella presa di mira ma l’orologiaio, n’est pas?

Mentre mi accasciavo a terra tutta intontita dal dolore, in preda a quel rogo interno, infernale pugno di piombo rovente, vittima delle mie fissazioni, ossessioni, tremando madida di sudore ghiacciato, l’orologiaio, un uomo di una

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sessantina d’anni, piegato sopra di me con i palmi delle mani bianchi, leggermente paffuti, raccolti in preghiera, mi chiedeva con una voce calda, amichevole, senza interruzione:

_”Ma signorina, sta bene? Ma signorina, devo chiamare l’ambulanza?”

A sentirlo parlare, malgrado stessi male e mi sentissi mancare, feci un lieve sorriso: quel suo tic verbale, quella sua abitudine di aggiungere davanti ad ogni nuova frase “ma” era fantasticamente carina e lo è anche oggi, perché la nostra amicizia esiste ancora sul mappamondo delle nostre vite incrociate per caso, solamente perchè George mi regalò 200 euro per comperarmi una chic chose. Allora risposi con voce flebile, guardandolo in un modo che era volutamente ironico:

_”Ma sì, certo...Ma no, non chiamare...Ma sì, signore...”

Sopra una camicia bianco neve e un paio di pantaloni grigio ferro indossava un camice di lino azzurro. Chinato sopra di me la sua capigliatura leonina, sale e pepe, radunata intorno alla faccia rotonda, chiara, con delle rughe sottili un po’ dappertutto, sembrava l’aureola di un angelo e il suo sorriso mi pareva piuttosto un sogghigno autorevole. I suoi occhi verdastri mi ricordavano quelli di George. Aveva un alito buono, sapeva di cannella e vaniglia allo stesso tempo e

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la sua presenza mi destava echi lontani, primordiali, di pace e tranquillità.

_”Il mio nome è Julien, Julien Dennis. E questo è mio figlio, Roland Romain Dennis”.

_”Lo so. L’ho visto sull’insegna il suo nome...Il nome di suo figlio… è lo stesso di uno scrittore che a me piace moltissimo”. – “Piace a tutti Romain Roland” pensai, così come piace Dumas.

-“Ma allora sappiamo leggere!” - esclamò ridendo silenziosamente. “Ma scherzo, lei lo capisce”.

“Ma sì. Piacere, Irina”. - mi presentai a mia volta. Mi sentivo all’improvviso molto sollevata ma anche ridicola. Mi rattristavo tantissimo per il fatto che per l’ennesima volta mi ero lasciata cadere nella trappola di quello che avevo denominato il mio eccesso nevrotico. Oppure alla fine non era altro che l’ineludibile castigo divino?...Ma...

_”Ma allora, signorina Irina, sta bene!”

_”Sì”. - risposi con un tono che volevo sembrasse il più convincente possibile, rinunciando ad imitarlo.

_”Ma cosa le è successo, cara?”

_”Niente” – mormorai, arrossendo sugli zigomi per l’imbarazzo. “Volevo comperare un orologio...Quello...”

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Intendevo indicare l’oggetto della mia ammirazione, così fortemente desiderato da sognarlo anche di notte come avevo confessato a mio marito, ma vista la mia strana posizione, non ce la feci. Mi limitai a sorridere stringendomi ancora più forte in quella posizione fetale, l’unica sopportabile in quei terribili attimi di malessere. Per fortuna indossavo i blue-jeans più comodi di tutto il mio guardaroba, un maglione largo, di almeno tre taglie in più rispetto alla mia, tipo XXXLLL, e un cappotto di cotone color amarena acquistato recentemente, che era tra i miei preferiti poiché si addiceva alla mia pelle olivastra e ai miei capelli castano scuro.

Lui mi accarezzò i capelli neri e setosi, che fluttuavano sulle spalle, con i suoi palmi bianchi e paffuti; sul suo dito sinistro luccicava una fede d’oro. A proposito dei miei capelli, mi è sempre piaciuta questa lunghezza fino alle spalle: appena crescono li taglio subito perché più lunghi di così, non saprei spiegare come mai, mi danno una fortissima nausea. Infatti quando mi trovo sui mezzi pubblici faccio di tutto per non toccare quelle meravigliose capigliature, malgrado il loro buon profumo, a seconda dei casi Dior, Dolce e Gabbana ecc. Mi direte, e avreste perfettamente ragione, che possiedo un sacco di fobie ed io vi risponderei :

“Ma sì!”

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I gesti di Julien mi davano un conforto che speravo mi aiutasse a rimettermi in sesto, perciò lo lasciai fare. La sua aria era di assoluta buona fede.

_”Ma va bene, cara. Ma va bene, tranquilla. Ma io ho capito che vuole comperare qualcosa visto che ha tirato fuori il portafogli. Ma io continuo, se non le dispiace, a domandarle come mai si è sentita così male, all’improvviso, nel nostro negozio? Ma è allergica a qualche metallo, a qualche pietra preziosa, signorina ...”

_”Irina”.

_”Giusto, Irina”.

_Sinceramente non lo so - bisbigliai.

Un attimo dopo mi venne invece una risposta più logica, più naturale:

_”Soffro di ulcera....una malvagia ulcera...”

_”Ma, ah...”

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Romain Roland ci guardava con un’espressione di forte disagio sul volto bianco come quello del padre, con la differenza che il genitore aveva un naso di dimensioni normali, delicato, con le narici sottili, e la bocca carnosa. Notavo in lui un nervosismo, un’inquietudine quasi

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parossistica. Il dialogo che avvenne in seguito tra di loro, mi fece subito capire il perché: parlarono in fondo al negozio, oltre una spessa tenda di velluto, color arancione sbiadito, e io fui testimone involontaria della loro conversazione poiché ci separavano appena 10 passi.

Stavo seduta comodamente in una poltrona di ecopelle color caramello, l’unica presente nel locale, con dei braccioli morbidi e vellutati; avevo appoggiato la testa con le tempie che mi pulsavano su quello sinistro premendomi gli occhi con il palmo delle mani: li sentivo affaticati, mi bruciavano, come se avessi avuto milioni di granelli di sabbia all’interno. Avevo una profonda voglia di dormire ma per farlo dovevo andare a casa, cosa che al momento non era possibile perché non avevo ancora comprato l’orologio dei miei sogni!

_”Ma, Romain, figlio mio, non puoi continuare a rovinarti la vita, a sacrificarti così...Ma tu non lo capisci, è una situazione spiacevole, sgradevole al massimo!”.

_”Papà, ma non capisci? Io l’amo! L’amo con ogni fibra del mio corpo. Me la dai o no la somma che ci serve, papi?” - domandò il giovane con un tono mellifluo che mi rivoltava lo stomaco e mi riempiva di orrore.

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_”Ma sì, ti capisco mio caro, ma quella non è una donna, è un uomo. Ma come puoi amare un uomo? Ma va bene, ma va bene! ti faccio un assegno”.

_”Papà non sono venuto da te per sentire i tuoi giudizi su Cler. Fammi l’assegno, ho fretta, papà! Papà sbrigati!” - lo tormentava quel brutto pivello antipatico, gli avrei spaccato volentieri quel suo nasone e tirato fuori gli occhi, già molto sporgenti, dalle cavità oculari. “Canaglia” esclamavo dentro di me, indignata oltre ogni misura da quel comportamento.

_”Ma certamente, figlio mio” - rispose dopo un breve ed intenso momento di silenzio il mio amico, con la sua voce calda che adesso mi confortava ma allo stesso tempo mi inquietava al massimo. Romain Roland amava...un uomo. Che dolore doveva essere per il papà, pensai sospirando.

“Romain Roland amava un uomo” questo pensiero mi martellava nel cervello e un dispiacere enorme mi invadeva l’anima per il mio futuro amico, per quell’orologiaio così gentile, così mite. La mia convinzione si rafforzò subito dopo la partenza del figlio, mentre il signor Julien stava intrattenendo una cliente entrata nello stesso momento in cui costui usciva. Per qualche attimo mi limitai a guardarla. Era giovanissima, tutta vestita di rosso: indossava un completo meraviglioso, di una stoffa finissima che destava la mia più grande invidia; portava un cappello nero abbellito

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con dei dolcissimi mughetti sul bordo stretto. Era una donna di classe, con un sorriso smagliante ed immensi occhi grigi, mi pare, con delle ciglia lunghe e voluminose grazie al mascara. Io iniziai a camminare a passi lenti per il negozio. Tutti quei gioelli mi facevano gola, mi toglievano il fiato; nonostante ciò la mia mente continuava ugualmente a tormentarsi, ad esigere una risposta: “come può un uomo amare un altro uomo, una donna amare un’altra donna, in quel modo lì...visto che Dio creò Adamo ed Eva proprio per questo compito e per la diversità dei sessi?” Sentivo il mio antico stupore bussare di nuovo con insistenza alla porta del mio cuore; provavo un terribile scoraggiamento che, adesso lo so, anzi ne ho la certezza, solo una sincera preghiera poteva annientare. Ma io in quel periodo non pregavo come faccio oggi: non avevo la minima idea di che grande sollievo dona all’animo del cristiano l’amore per la Madonna e per Gesù; insomma per la vita e per il prossimo.

Alla fine, molto confusa e sconcertata, fui alleggerita dallo sconforto dal mio instinto e mi dissi: “E allora? non sono affari miei, punto.” Proprio nel momento in cui avevo deciso di smettere di preoccuparmi per una persona estranea alla mia famiglia, composta da me e George, avvicinandomi all’entrata per osservare meglio l’oggetto dei miei sogni, l’orologio che avrei finalmente acquistato appena se ne fosse

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andata the lady in red, guardando giù, verso la soglia della porta, notai un pezzo di carta. Mi chinai e lo raccolsi, ed ecco che il mio stupore ritornò: era una fotografia, in bianco e nero, di un giovane uomo che in qualche modo assomigliava al figlio di Julien, Romain Roland Dennis, ma di certo non era lui. “Ah, voilà!” dissi tra me e me, “ecco la prova del fatto che ho capito bene!” La prova che quel disgraziato, figlio del mio gentilissimo Julien, se la spassa con un uomo! Quella foto gli era caduta dalla tasca! La faccia mi diventò rossa come una ciliegia matura e lacrime ardenti cominciarono a bruciarmi le guance. E lui gli ha dato anche dei soldi! Lo sapevo perché ne ero stata testimone diretta. Un peso insopportabile alloggiò nel mio petto e mi sentii all’improvviso molto stanca e molto vecchia. Credo che, se in quegli attimi, qualcuno mi avesse chiesto l’età, avrei risposto senza minima esitazione:

_”Cento anni passati, signore/a!”.

Anzi, avrei aggiunto con amarezza:

_”Cento anni passati, signore/a, su un pianeta bellissimo ma abitato da mostri”.

Mi pulii in fretta le guance dalle lacrime con la manica del maglione e subito dopo, una volta accomiatato dalla sua bellissima cliente, il signor Julien Dennis mi rivolse la parola:

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_”Ma, Irina, perché lei, una ragazza così graziosa, si tormenta in questo modo?”

_Ma?...- mormorai stupita, non sapendo a che cosa si stesse riferendo; non pensavo che lui mi avesse vista e che avesse osservato, nonostante il suo impegno con quello schianto di donna, ogni mio movimento”.

_”Ma, cara, lasci perdere il labirinto intricato della sua ancor più intricata immaginazione e venga ad ammirare il suo orologio che l’aspetta impaziente in questa mia meravigliosa vetrina! Si fa per dire, l’aspetta mia cara impaziente come un fidanzato...”

_”Io, signore, sono sposata” - borbottai stupidamente con un tono così lieve che lui non riuscì a sentire, per mia fortuna!

_”Ma, prego? Ha detto?”

_”Ah, niente, niente”.

Non aggiunsi altro, lo guardai e gli sorrisi con gratitudine. Poi ci sedemmo intorno a una tavola rotonda, senza tovaglia, di legno di noce, così lucida che potevo specchiarmi su di essa, potevo vedere il mio viso olivastro, giovane e carino con i miei occhi castani, grandi e leggermente tristi; il mio sorriso accomodante, dolce come lo definisce l’amore mio, George. E in quel momento, dopo 8

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anni d’assenza dal mio povero villaggio di Moldova, dalla nostra baracca, dove dormivamo, ci lavavamo e mangiavamo in venti, mi venne un certo malessere psichico, una certa nostalgia.

Ero più che sbalordita: mi resi conto che mi mancava quella povera donna che era mia madre, quella donna magra con il sorriso mezzo scemo ma con degli occhi bellissimi, a mandorla, un po’ neri e un po’ dorati. Mia madre, dicevo, non era una semianalfabeta come me ma si era anche diplomata, conosceva qualche parola d’inglese, di francese e ne andava molto fiera; le piaceva farsi vedere come una donna istruita malgrado la situazione deplorevole in cui si trovava. Mi ricordai questo dettaglio di lei senza volerlo, del carattere di quella donna che mi aveva donato la vita e per la prima volta sentii dolcezza mischiata a un sordo rancore. Pensai dunque che ormai ero guarita, che ero anche io come tutti gli altri: un essere umano normale capace di tollerare, comprendere e anche amare…

Stavo dicendo, ci sedemmo intorno a questo bellissimo tavolo di legno di noce, e tra di noi c’era una caffettiera piena di caffè aromatizzato e bollente e un piatto sul quale riposava un invitante pollo arrostito, con la pelle marroncina e croccante e con delle patatine dorate, sottili e gustose. Mangiammo. Masticavamo in silenzio e ogni tanto ci

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sorridevamo a vicenda: ciascuno aveva nello sguardo quella luce tipica di un’armoniosa amicizia, totalmente estranea a me fino a quel giorno di aprile.

È vero avevo provato amicizia durante la mia infanzia per Adela, per l’asinello Decebal, per il mio bosco e anche in qualche misura per la vicina Vivi che mi aveva venduto senza scrupoli all’italiano di Torino. Avevo provato amicizia per le due ladre, cosa che d’altronde ero stata anche io, ma adesso era diverso! Completamente diverso. Nessuno aveva badato a me in un modo così disinteressato come aveva fatto Julien Dennis.

Grazie a lui, che ribadisco è un mio caro amico ancora oggi, ho acquisito piano piano fiducia in me stessa, nella vita, negli altri e quell’angosciante mio stupore, credeteci o meno, da quel magnifico giorno incominciò a diminuire; compare ogni tanto ma con meno forza, meno invadenza e ormai con il passare dei giorni diviene solo una fievole voce del passato.

Alla fine del pranzo e dopo il caffè mi spiegò:

_”Ma, Irina, la foto che hai raccolto prima non è di Cleria, Cler come la chiama Romain, la sua fidanzata. Ma è una cosa persa ieri da qualcuno e che ho dimenticato di gettare nel cestino. Ma tutto qui, cara, capisce?”

_”Oh!” - esclamai con l’animo alleggerito.

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_”Ma si, è vero, la definisco uomo davanti a mio figlio...Ma lo faccio da una parte per gelosia: come sai tutti i genitori sono gelosi dei loro figli. Dall’altra perché Cleria, malgrado sia una ragazza sensibile e bellissima dal punto di vista fisico, ha un atteggiamento così egoista che mi viene più naturale pensare a lei come a un uomo, o meglio a un ragazzo visto i suoi ventitré anni. Per esempio non fa mai niente in casa: non pulisce, non fa il bucato, non cucina, non stira una camicia!”.

_”Ohh...”

_”Ma in più, cara, quando Romain ritira il suo stipendio di commercialista, lo spende tutto in regali costosi per lei…”

_”Ma lei non lavora?”

_”Macché, sta ancora studiando...Studia medicina. Ma persino l’affitto lo paga solo lui, capisci?”

_”Abitano assieme dunque?”

_”Ma si. Certamente!”

Quando mi accompagnò all’uscita era quasi mezzogiorno e mezza. Dovevo essere a casa per le tredici perché George arrivava a quell’ora con la puntualità di un robot, ogni santo giorno per il pranzo. Lavorava in un cantiere

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non molto lontano da casa, dove si stava costruendo un complesso commerciale, e lui faceva il muratore.

L’orologio era fantastico: il quadrante era rettangolare ed il cinturino di oro bianco con dei piccoli diamanti che luccicavano fortemente sotto il sole caldo e generoso di aprile. Lo baciai una quarantina di volte per la strada, prima di rientrare a casa.

Per fortuna George non era ancora arrivato. Feci una doccia veloce - in soli tre minuti - mentre l’acqua per il riso doveva ancora bollire. Poi indossai una tuta per stare in casa, pantaloni e maglietta senza maniche color rosa acceso e cominciai ad apparecchiare la tavola. Oltre al riso, che mangiavamo di solito o con la salsa di pomodoro o con olio extravergine di oliva e curcuma, avevo deciso di preparare anche una bella insalatona con tante verdure fresche, filetti di sardine a pezzettini e olive verdi.

George arrivò puntuale come sempre:

_”Ehi, biondina, cosa c’è da manger”?

Malgrado io sia di carnagione scura, si sa, a lui piaceva e piace ancora oggi chiamarmi biondina. Dice che sono così nel mio cuore, un’autentica bionda. Poi, George, come mia madre, ha sempre avuto una grande passione per le lingue straniere e spesso e volentieri mi parlava in francese o in

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inglese ma io non ci capivo un tubo. Anche oggi non ne capisco tanto; conosco giusto uno o due vocabuli e qualche espressione ricorrente.

_”Riso alla curcuma, chèri”- rispondo imitandolo.

_”Di nuovo riso, darling!”

Sistemati a tavola, mangiammo in silenzio per un po’, dopodiché lui cominciò a raccontarmi la sua giornata:

__”Sai, amore mio, circolano delle voci stranissime al cantiere, tra gli operai, i miei colleghi...”

_”Che tipo di voci, George?” - domandai mentre aggiungevo un altro pò di riso nel suo piatto.

_”Beh, stranissime. Si dice che ci sono due persone di nazionalità inglese, un uomo e una donna, tutti e due giovani, sulla trentina se non ricordo male, che si aggirano da queste parti e che sarebbero pericolosi, molto pericolosi”.

_”Oh, George, ma cosa vai dicendo, caro?”

_”Ehi si, credimi, sono entrambi individui veramente molto pericolosi”.

_”Mah, sono solo delle voci, caro. Non badare tanto a questo tipo di cose, George, amore mio”.

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_”Mon amour, devi capire che non tutti in questo mondo sono persone per bene”.

_”Allora dimmi di che cosa si tratta: quali sono queste voci?”

_”Dicono che questi due sono quel genere di posseduti dal diavolo, dei satanisti che vanno in giro a rapire i bambini per poi rivenderli a grandi, esorbitanti somme di denaro. Le ragioni sono due: o li vendono per riusare i loro organi oppure li danno a persone sterili che di consequenza non li possono avere in modo naturale”.

_”Per quanto ne sappia io di questo argomento delicatissimo, sono tutte invenzioni delle persone che non hanno altro da fare che spiare, immaginare, ingrandire le cose in genere, di quella gente che per semplice noia infangano gli altri...Poi, George, mio caro marito, i bambini sono sempre accompagnati da qualcuno quando escono: dai loro genitori, dai loro nonni o dalle baby-sitter”.

_”Però tu dimentichi una cosa fondamentale: ci sono momenti del giorno in cui i piccoli non sono così strettamente sorvegliati come tu dici, per esempio quando giocano nei parchi e i loro genitori o le loro baby-sitter, seduti a qualche cinquantina di metri, sono del tutto concentrati sugli smartphone oppure nella lettura di qualche rivista di gossip,

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e allora ecco che, proprio in quei momenti lì, arriva Mister Diavolo, il lupo cattivo. Li prende per mano e via, chi si è visto si è visto, nessuno saprà mai cosa è successo a un bambino o ad un altro, maledizione!”

_”Per fare poi cosa con loro, amore mio?”

_”Te l’ho già detto, cara, li vendono!”

_”Oh” - esclamai inorridita – “dici davvero?”

_”Davvero, amore. Ma tu in che mondo vivi?”

_”Io non credo che queste cose possano succedere proprio qui a Genova Sampierdarena!”

_”E invece sì! Qui come in qualsiasi altra parte del mondo. Dicono che queste due persone lavorano: lei come governante, lui come giardiniere e maggiordomo nella Casa Grigia”.

La Casa Grigia, così la chiamavano tutti non per le mura o la facciata che erano di mattoni rossi ma per le tende pesanti che pendevano dalle enormi finestre, mai tirate da parte, senza lasciare che s’intravedesse qualche cosa dell’ambiente interno. Apparteneva alla famiglia Reynolds. Sempre chiuse quelle finestre, sempre buie eppure la Casa Grigia era abitata non solo da gente anziana, che si può capire che non desiderasse tanto la luce del sole, ma anche

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da giovanissimi; io stessa avevo visto qualcuno di questi in certe occasioni, ovviamente da lontano e senza mai avere un incontro ravvicinato o una minima conversazione con loro. I Reynolds erano e sono ancora i managers del più grande Mc Donald’s di Sampierdarena. Spesso sono passata davanti a quell’abitazione, con le tende più orribili che abbia mai visto, mentre facevo jogging e ci passai anche tre-quattro giorni prima della nostra strana conversazione. Quando prendo chili di troppo, mi decido a fare una corsa al mattino, di solito dalle 8 alle 10. La zona dove vado a correre si trova nella parte est del quartiere, una zona molto tranquilla e rigogliosa di verde, specialmente per magnifici cipressi. Poi, subito sull’ala nord della villetta, che malgrado le sue antipatiche tende grigie sembra un castello delle fiabe dei fratelli Grimm o di Anderson o di “Mille e una notte”, c’è un parco di circa 800 metri quadrati, arcipieno di rose di tutti i colori e di varie specie. Il suo nome se non è strano è comunque insolito perché è in inglese, Lady Mary’s Paradise, e sembra che sia uno dei tanti meravigliosi beni che appartengono a questi ricconi: ai Reynolds. Di sicuro certa gente se la gode la vita, eccome! Vero? Arrivata là, di solito mi fermavo per riprendere fiato e bere un sorso d’acqua; mi sedevo su una panchina e spesso tiravo fuori dallo zainetto anche un romanzo. È proprio là che ho capito, che ho vissuto fino al pianto I miserabili di Victor Hugo; è là che ho riletto decine e

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decine di volte frammenti di Nanà, Al paradiso delle signore o di Papà Goriot; e sempre là, un po’ alla volta, ho letto dall’inizio alla fine il primo romanzo scritto da un italiano, La coscienza di Zeno. Mi era piaciuto tantissimo anche se la prima lettura è stata incredibilmente difficile. Ho dovuto leggere anch’esso tre volte per poter concludere poi che “sì” avevo capito cosa intendesse comunicare Italo Svevo.

_”Guarda, George, io mi sono trovata da sola da quelle parti mentre facevo jogging, mi pare che te lo avevo anche detto, e ti assicuro che non ho notato alcuna persona strana”.

_”Irina, cara, queste persone nonostante siano strane, non lo fanno certo vedere nella loro vita di tutti i giorni o nel loro modo di fare, capisci? Nemmeno sotto tortura. Zitti e muti come la sfinge di Tutankhamon, amore dei miei occhi!”.

_”E allora, se è così come dici tu, come ci si può difendere da loro se non è possibile riconoscerli?”

_”Prima di tutto, amore mio, non siamo noi adulti ad essere in pericolo, ma i bambini”.

_”Ho capito, George, ma ci sarà qualcosa di inconsueto, fuori dal normale, nel loro atteggiamento, nel loro modo di vestirsi...”

_”In effetti c’è qualcosa, anche se non è poi così inusuale, poiché è una cosa che fanno in molti oggigiorno”.

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_”Cioè?”

_”Hanno l’abitudine di indossare scarpe di colori diversi”.

_”Non capisco”.

_”Per esempio per il piede destro usano una scarpa adidas bianca e per l’altro, per quello sinistro, una identica nera o rossa o rosa ecc.”

_”Ah...in effetti ho notato dei casi simili, George. Nei giorni scorsi, sulla strada principale e anche nel complesso Fiumara, ho visto che molte persone usano i lacci delle scarpe di colori diversi. È di moda caro, è beaucoup en vogue come diresti tu; non è affatto una stranezza”.

_”Invece sì, è una stranezza. È una diversità stranissima questa e sai perché?”

Lo guardai sbalordita senza proferire parola. Mio marito sembrava fuori strada: questa espressione viene usata dai romeni in situazioni del genere, per definire una persona che in qualche modo è uscita di senno.

_”Perché” - riprese lui il discorso – “questa moda non è venuta fuori adesso, nel 2008, ma c’è da molti anni: alcuni l’hanno adottata e altri no. Questa moda non è né italiana né europea, ma è internazionale. Noi siamo in Italia da anni, ma

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tu hai mai notato che qualcuno indossasse le scarpe in questa maniera più che bizzarra?”

_”A dire il vero, adesso che ci penso, mai. Sinceramente non ci ho mai fatto tanto caso. Ma ti assicuro che da oggi in poi starò molto più attenta”.

_”Sarebbe l’ideale, Darling!”.

_”E fisicamente, come sono queste due persone?”

_”Lei ha una pelle bianchissima, come solamente le ragazze del Regno Unito hanno: è un’autentica Biancaneve, con i capelli tagliati giusto ad altezza spalle e rossi come le fiamme degli inferi di Dante...”

_”Ah, ancora con questo tuo Dante!” - lo interruppi impaziente, versando il caffè nelle nostre tazzine di porcellana, azzurre e con dei cuoricini fucsia. (Erano il primo regalo che mio marito aveva fatto a noi due per San Valentino, pochi mesi prima).

Era la prima volta che festeggiavamo la Festa dell’amore a Genova Sampierdarena. Era sempre l’ora di pranzo e George era arrivato a casa tutto eccitato, con i suoi capelli scuri e lucenti in disordine, con la faccia sorridente e macchiata di gocce di pittura bianca sul mento rotondo. Tornava spesso con tracce del suo lavoro sui vestiti, sulle mani, sotto le unghie mangiate qualche volta fino a

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sanguinare. È per quest’ultimo motivo che poi decidemmo che avrebbe lasciato quel mestiere, malgrado vensse pagato abbastanza bene: oltre che stancante era anche sporco. Un altro motivo che ci spinse verso questa decisione fu quello di trovare un lavoro regolare. L’attuale impiego è molto più gratificante poiché fa il giardiniere in una tenuta di un potente commerciante genovese, in uno dei quartieri più chic della città: Il Casteletto. Trascorre ogni giorno tra meravigliose piante, ha i contributi pagati e anche lo stipendio è doppio rispetto a quello che aveva prima: come muratore in nero prendeva 900 euro, ad oggi invece raggiunge quasi i 2000. Un vero e proprio affare per noi!

Lui mi guardò come solo lui era capace di fare, con quei suoi occhi verdi smeraldo, scintillanti. Poi sorrise e guardando l’orologio osservò:

_”Come passa il tempo, amore mio, quando siamo insieme! pranziamo e chiacchieriamo nella nostra casetta come due vecchietti”.

_”Hai ragione. La casa è così piccola, proprio come piace a me, caro. Magari fosse nostra! - gli feci notare con un filo di amarezza nella voce”.

Lui finse di non cogliere la mia allusione e la mia leggera inquietudine in merito al nostro futuro. Spesso di

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notte mi svegliavo e mi chiedevo cosa ne sarebbe stato di noi dopo un anno, quando avremmo dovuto lasciare l’appartamento; e mi si stringeva il cuore per il disagio e l’angoscia.

-“La donna porta quei capelli, che sembrano lingue di fuoco, sempre sciolti. Tu riderai di me e di queste voci che circolano, ma è la verità. Poi indossa sempre un berretto nero con la visiera larga in modo tale che i suoi occhi non si vedono e non si riesce mai ad incrociare il suo sguardo. Addirittura ci sono persone che affermano che questa specie di streghetta non abbia neanche gli occhi come tutti noi, ma che li abbia in una posizione molto strana: alcuni dicono che ce gli abbia sulla fronte, vicino alle radici dei capelli, altri che ne abbia solo uno vicino al naso, anch’esso metà mangiato e scorticato come quello dei lebbrosi”.

_”Certo che i tuoi colleghi di cantiere sono bravi a inventare delle cose orribili, da incubo!”

_”In questo sono perfettamente d’accordo con te, Irina. Ma qualcosa di vero ci deve pur essere, n’est ce pas? Senza fuoco non esce mai fumo. Inoltre è alta un metro e settanta e veste sempre a seconda dell’occasione. Se corre per il parco lì vicino, come si chiama...ah sì, Lady Mary’s Paradise; indossa una tuta normale, con delle adidas di colori differenti, come ti dicevo; in realtà questo lo dicono loro, i pettegoli come

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diresti tu. Se invece fa colazione al bar, quello che si trova sempre nelle vicinanze della Casa Grigia...”

_”The Old Man and The Sea? Quello con tanti gerani sul vialetto?” -

_Esatto, proprio quello. Stavo dicendo, quando prende il caffè e mangia il cornetto, senza mai guardare nessuno! pensa che nemmeno il barista è mai riuscito a vedere i suoi occhi. Veste di un completo leggero; in estate è bianco con pantaloni a zampa d’elefante e una giacca aderente che la fanno assomigliare ad un fantasma o ad un vampiro. Ovviamente non le mancano le scarpe, una verde e una nera oppure una rossa e una blu, dipende, dicono, dal giorno della settimana.

Il barista ha detto a qualcuno che lavora con noi al cantiere, un romeno, un siciliano o un napoletano, che ha osservato questa donna così come Einstein osservava il cosmo e che ha notato tutto en détail, assolutamente tutto. In inverno invece veste di blue-jeans e maglioni di lana pesanti e degli stivaletti di cuoio, anch’essi di colore differente, come sua abitudine”.

_”E tutte queste informazioni per non chiamarle con il loro vero nome, pettegolezzi, i tuoi colleghi presumo che le abbiano prese da quel farabutto del barista, vero?”

_”Così sembra”.

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_”Quel barista è un personaggio fissato con questa ragazza e per questo ne inventa di cotte e di crude su di lei! Non gli credere, caro, sono solo delle farneticazioni di una persona gelosa, invidiosa!”

_”L’uomo, al contrario, è così scuro di carnagione che sembra un meridionale e veste più o meno come lei. Anche lui ha i capelli lunghi fino alle spalle, ma usa legarli in un codino che gli oscilla quando corre. Entrambi fanno jogging nel parco vicino alla Casa Grigia, ma ognuno per conto suo (li vedono assieme solo quando sono a fare la spesa o nelle vicinanze di qualche scuola). Le persone dicono che questo suo strano codino somigli a qualcosa di lugubre, come un corvo o un gufo morto. Ah ah ah...Questa è buona, no?”

_”Se non fosse così disgustosamente macabro, riderei anche io! È proprio vero che l’uomo ha la bocca per parlare. Si dicono tante cose, si consuma tanta energia per delle ...puah...Oh, Cristo Santissimo, come è strana certa gente, George! Come dice Susie Morgenstern: Il cuore degli imbecilli è sulla loro bocca, la bocca dei saggi è nel loro cuore”.

_”Assolutamente vero, mia cara. Adesso devo proprio andare altrimenti il capo squadra mi licenzia”. -

_”Ma non lo può fare, lavori in nero!”

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_”Lo può fare, Irina. Loro possono fare tutto, sono loro che hanno il coltello dalla parte del manico, amore mio”.

Dopo essere rimasta sola, ho messo in ordine la cucina e in seguito sono uscita sul balcone. Sono stata lì per ore a prendere un po’ d’aria fresca, in piedi e con le mani appoggiate sulla ringhiera; davanti a me, sulla strada, c’era un gran viavai di gente di tutte le età, malgrado fossero le 15 e 20 (George e i suoi colleghi muratori avevano, per grande generosità del loro capo, la pausa pranzo di un’ora e mezzo, dalle 13 alle 14 e 30). Il sole primaverile riscaldava tutto. Anche sugli spazi verdi intorno a Fiumara c’erano parecchie persone; tante di quese erano bambini che giocavano e strillavano come dei gattini ammattiti.

Mi appoggiai meglio ai solidi sostegni di ferro e mi sporsi, come avevo fatto la prima mattina che eravamo arrivati nella nostra casetta per vedere quella benedetta griglia pulitrice che tutti usavano e nessuno puliva, incastrata nel pavimento di marmo grigiastro all’entrata del palazzo, che in tutto aveva ben 5 piani. Ogni tanto facevo questo gesto imprudente e non saprei spiegare il perché: sarà perché quella posizione, con il ferro che mi schiacciava l’addome, diminuiva il peso allo stomaco che avvertivo ancora, reminiscenza del mio eccesso nevrotico recentemente vissuto dall’orologiaio. Proprio in quel

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momento, deus ex machina, passò di sotto una giovane donna dai capelli rosso fuoco, che indossava una tuta nera e un semplice berretto, anch’esso nero. Camminava lentamente, ancheggiando sensualmente come fanno le donne che hanno la certezza di essere belle e seducenti. In entrambe le mani aveva dei sacchetti della spesa carichissimi, con la scritta KOME. Mi sporsi di più per osservare le scarpe: erano delle ballerine estive dello stesso colore, rosa pallido e con dei lacci azzurri. Come se avesse percepito il mio sguardo fisso su di lei, alzò la testa: aveva degli stupendi occhi chiari e una pelle delicata, bianchissima. La sua bocca era fresca e carnosa, senza trucco e sul mento triangolare si formava un’attraente fossetta.

_”Ciao” – mi salutò con un amichevole sorriso.

_”Ciao” - risposi sorridendo a mia volta.

Rientrai in casa subito dopo e mi gettai con un sospiro profondo su una delle poltrone del soggiorno. Le mie guance erano in fiamme e i palmi delle mani erano leggermente sudati.

“Mais voilà santissima paranoia, come vedi ti sto inseguendo; grazie mille per quest’altra fissazione che mi regali”, borbottai tra me e me.

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Subito dopo me la presi con il mio caro George: se solo lui non mi avesse raccontato tutte quelle fandonie!

Ma il mio tormento stavolta durò solo un attimo. Un altro pensiero, confortevole, s’impadroni della mia mente ed eliminò con destrezza e rapidità l’angoscia, così riuscii a rilassarmi e il mio respiro diventò calmo e regolare. L’indomani andai a comprare 10 vasi da fiori e dei gerani scarlatti per abbellire il nostro balcone. “Voglio che diventi il più bello ed il più allegro di tutta zona!”, pensai.

I gerani mi sono sempre piaciuti un sacco. Sono dei fiori che trovi spesso alle finestre delle case romene, specialmente a quelle dei più poveri: sono resistenti e non necessitano di tante cure o attenzioni particolari. Alcuni romeni li usano, come l’aloe, per curare ferite superficiali causate ad esempio dal taglio di un pezzo di vetro calpestato per negligenza in giardino o per strada.

Sì, in quei villaggi di Moldova molti di noi camminavano scalzi e non solo nei nostri cortili. Che meraviglia, che sollievo camminare a piedi nudi su quella polvere dorata e vellutata, piegandosi ogni tanto per ammirare e accarezzare le piccole margherite con i loro petali candidi, trasparenti, sulle quali il sole riposava sereno!

XVII

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Il giorno dopo, alle 9 e 2 minuti precise, mi trovavo dal fioraio, un negozietto distante all’incirca 1 chilometro da casa nostra. L’avevo scelto, da una parte perché aveva i fiori più belli che avessi mai visto in vita mia, dall’altra perché volevo fare una passeggiata più seria, per schiarirmi le idee; dato che non correvo ormai da una settimana, ho pensato bene di riprendere l’allenamento cominciando con una lunga camminata. Presto però sarei ritornata a fare jogging e dunque sarei arrivata di nuovo presso l’enigmatica Casa Grigia! Era una primavera fantastica ed io mi sentivo viva e quasi quasi anche felice. Ci vuole poco per essere felici a volte, soprattutto quando il cielo è di un meraviglioso azzurro, il respiro caldo e amichevole del vento ti bacia le gote avec tendresse, e quando il sole ti ammicca con i suoi enormi occhi. Ho percorso la strada due volte per trasportare i 10 vasi color cioccolato fondente e i miei adorati gerani, tutti scarlattissimi, e una terza volta quando ho portato il vaso che avevo acquistato appositamente per il mio recente amico: il mite, il gentilissimo, Julien Dennis. Mentre stavo pagando l’ultimo vaso, tutta sorridente manco avessi visto San Pietro(!), mi ricordai di aver raccontato del nostro

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incontro a George, che era rimasto abbastanza contento. Non aveva nulla in contrario, bastava che rimanesse una semplice amicizia, aveva sottolineato. “Ci mancherebbe”, avevo replicato, “potrebbe essere il nostro bis-bis-nonno! Poi io ho te, amore, per sempre...” Anzi, mi promise che avrebbe fatto anche lui la conoscenza dell’orologiaio e che un giorno lo avremmo invitato a casa nostra per una bella spaghettata al pomodoro. Comunque non mi sono lasciata sfuggire una sola parola sul mio attacco di panico. George non doveva sapere, come non deve nemmeno oggi, delle mie fissazioni, delle mie paranoie, altrimenti sono sicura che non mi amerà più. Non lo saprà mai, lo giuro su tutti i benedetti abitanti dell’Olimpo.

Arrivata alla gioielleria, suonai solo una volta e la porta si aprì in tutta la sua larghezza. Julien mi accolse con calore, allegro e disponibile come sempre :

_”Ma che bella sorpresa, mia cara! Buongiorno, accomodati”.

_”Buongiorno!”

Fu molto contento del mio regalo. Dopo qualche secondo, per non dimenticarmane, gli dissi con le guance lievemente arrossate:

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_”Julien, ti prego, non parlare mai a nessuno del mio disagio di ieri...”

_”Ma non dovevi neanche dirmelo, mia cara Irina. Io so cosa dire e cosa non dire. Preferisco sempre farmi gli affari miei e non quelli degli altri- sottolineò con un’espressione di estrema sincerità nei suoi occhi verdi. -Poi, sai cosa dice Socrate?”

Dato che non risposi ma mi limitai a guardarlo con tutto il peso della mia ignoranza nello sguardo (non avevo mai sentito parlare di Socrate, né di Aristotele, né di altri mostri sacri del genere), altrettanto sincero come il suo, lui proseguì dicendo: “Meglio subire un’ingiustizia che commetterne una. Poi noi due siamo amici, non è vero?”

L’argomento finì lì perché entrò una cliente e Julien mi condusse nel vano sul retro, dove il giorno prima aveva parlato con suo figlio, Romain. Voglio precisare che in seguito non aggiungerò più il suo “ma”, che lui sfoggia ancora oggi con tanta naturalezza. Sedetti su una delle quattro sedie di legno, con lo schienale alto, dipinte con un bellissimo color caramello, sistemate intorno a un tavolo rettangolare di dimensioni standard: su di esso c’era una lastra di vetro, e al centro troneggiava un vaso di cristallo rossastro arcipieno di rose gialle appena sbocciate che emanavano un profumo buonissimo. Non c’era nessun altro pezzo di arredamento in

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quella camera spaziosa, ma tutte le pareti erano ricoperte, dal pavimento al soffitto, da scaffali dai quali mi guardavano amichevolmente centinaia di libri di argomenti differenti: andavano dalla cucina all’astronomia, dalle raccolte di storie popolari ai romanzi dei politici e della gente televisiva di oggi, tipo quelle che ci insegnano in diretta tv ricette stranissime come il risotto all’ananas o alle pesche. Qualcuno potrebbe domandarmi:

_”Come mai ti ricordi i particolari dei dialoghi avuti con tuo marito o con altri più di 10 anni fa?”

_”Perché – risponderei - prima di tutto eravamo nel periodo che precedeva la Pasqua, ed è noto che noi romeni siamo il popolo più religioso d’Europa e con il passare del tempo lo sono diventata anche io; o meglio, sono diventata fedele, non une bigotte intendiamoci, signore e signori. Je deteste les bigottes dice sempre George, che non ammette l’ipocrisia dei tanti cosidetti cristiani... In secondo luogo, sono questi scaffali culturali e accoglienti di Julien, con il quale ho un forte legame di amicizia ancora oggi, che mi hanno rafforzato la memoria di quei giorni. Tornando a quel meraviglioso tavolo, devo dire che non avevo mai visto una cosa del genere in un’abitazione. Sì, avevo visitato e tratto qualche ispirazione da quei tavoloni sotto i portici di Torino dove, nei primi giorni del mio arrivo in Italia, mi fermavo

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ammaliata dallo splendore e attratta da quell’olezzo indimenticabile del tempo, da quella dolce fragranza dell’animo umano trasformato in eterna poesia. Anche se avessi avuto il forte desiderio di seppellire questi ricordi che sto mettendo nero su bianco su questi fogli immacolati, non ci sarei mai riuscita.

Dopo la crudele Vivi, Julien Dennis è stato colui che ha contribuito molto alla formazione della mia personalità attuale. In seguito, mi sono creata l’abitudine di andare spesso da lui e prendere in prestito qualche libro. Ogni tanto anche lui ricambiava, venendo a mangiare da noi, la domenica: io, lui e George, nella nostra modesta cucina, mangiavamo patatine fritte a più non posso e uova all’occhio di bue: andavano matti per questo genre de manger. Entrambi sono importanti in uguale misura per me, con la differenza che uno è un caro amico e l’altro è il mio amore.

Mi alzai di scatto dalla sedia e scelsi un volume a caso: Ottocento. Preludio romantico di Salvator Gotta. Mi rimisi a sedere confortevolmente, con le gambe incrociate, e cominciai a leggere: “Il giorno 10 di novembre dell’anno 1858 ebbe luogo l’inaugurazione della strada ferrata di Ivrea…” Lo lessi per qualche minuto e decisi che quel libro mi piaceva. Lo misi sul tavolo e ne presi un altro, sempre a caso, con l’intento di chiedere a Julien di darmeli in prestito. Il secondo

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libro era di Indro Montanelli, Storia di Roma, dedicato a Susina Moizzi.

Con i due libri vicino al gomito sinistro, poggiai la testa sul vetro fresco che copriva il tavolo e guardavo le rose, cercando di trovarvi qualche difetto e inspirando con ingordigia il loro profumo. Mi sembrava di non vivere più in questo mondo ma di essere arrivata all’improvviso, come Alice, la bambina del Giardino Segreto, in un altro luogo simile al Paradiso, e pensavo di non voler andarmene più da lì.

Mi assopii.

Sentii una leggera carezza sui capelli:

_”Gradisci un caffè?”

Guardai il mio fantastico orologio e vedendo che era più di mezzogiorno decisi di accettare. Sarei potuta restare ancora una ventina di minuti. Sistemati l’uno davanti all’altra, con le tazze tra di noi e due brioche dorate con dell’uvetta sopra, Julien mi raccontò in poche parole della scomparsa di sua moglie:

_”Ormai sono vedovo da tre anni. Nel 2005 Sonia mi lasciò” - farfugliò con una tristezza infinita nei suoi occhi verdi come l’erba.

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Tacevo e sentivo il cuore martellare nel petto per la compassione.

_”Nel 2002 abbiamo avuto la dolorosa notizia: aveva un tumore. Per tre anni ce lo siamo portato nell’anima...Con tutto ciò non abbiamo mai rinunciato a lottare. Tu pensa che poco tempo prima avevamo anche fatto un viaggio in Egitto”.

_”In Egitto!“- esclamai con un mezzo sorriso per sdrammatizzare.

_”Eh sì...Abbiamo vissuto per una settimana in un clima terribilmente caldo; ma Sonia, malgrado fosse già malata, come ci confermarono i medici al nostro ritorno in ospedale, non si è mai lamentata. Io la vedevo più pallida del solito e le chiedevo se c’era qualcosa che non andasse, ma lei mi zittiva con i suoi abbracci affettuosi e con il suo incantevole sorriso… il suo incantevole, indimenticabile sorriso.“– mormorò ancora, guardando sbalordito le brioches e le tazze con il caffè ormai diventato freddo, cose che ormai non facevano più gola a nessuno dei due.

Rientrata a casa, la prima cosa che feci fu accendere una sigaretta presa dal pacchetto di George, che quella mattina lo aveva dimenticato sul tavolo della nostra angusta ma accogliente cucina. L’ho fumata in piedi, di fretta, con delle boccate grandi come se mangiassi delle caramelle al

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latte e miele, appoggiata al frigo che ronzava nelle mie orecchie, come un moscone che triste e dispiaciuto volesse parlarmi della sua breve vita.

_”Ecco – mormorai - ecco un argomento al quale pensare...A cosa servono i mosconi? A parte il fatto che sono terribilmente fastidiosi, non hanno alcun senso...”

Malgrado m’incuriosissero tutti e due i libri, rimandai la lettura e mi sedetti sulla mia poltrona in soggiorno; non riuscivo a dimenticare il dolore nello sguardo del mio amico. Piansi un po’ con i palmi premuti fortemente sulle gote bollenti, come se avessi avuto la febbre a 40.

Il pranzo era già pronto: gli avanzi di riso del giorno prima, cosicché dovetti solo apparecchiare ed aspettare.

_”Sei triste oggi, amore?” - mi chiese mio marito mentre eravamo seduti l’uno davanti all’altra al tavolo della cucinetta, come la chiamo io con un misto di disprezzo e di affetto.

Lo guardavo con gli occhi ancora umidi dalle lacrime, con le palpebre che mi bruciavano e masticavo senza appetito i chicchi di riso leggermente croccanti; li cucino sempre al dente come ci insegnano i master chef italiani.

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Gli dissi in due parole quello che avevo appena appreso.

_”Oh che peccato, mi dispiace tanto per il tuo amico”.

_”Il nostro, George, ricordati che me lo hai promesso”.

_”Hai ragione, il nostro amico. Ogni promessa è debito”.

_”Ho preso in prestito questi libri da Julien “- aggiunsi.

_”Ah, anche lui ama leggere?”

_”Ama leggere? Penso che sia ossessionato dalla lettura! Possiede un’enorme stanza sul retro del negozio strapiena di tutti i tipi di questi stupefacenti oggetti - continuai, scegliendo un vocabolo particolare per stupirlo”.

_”Oh, come siamo intellettuali!”

Con le guance in fiamme, poiché mi vergognavo per la mia recente esagerazione e le mie finte arie da erudita, cambiai in fretta l’argomento. Così gli chiesi, senza pensarci tanto, dettagli che già conoscevo in merito all’inconsueta storia dei due inglesi, i presunti rapitori di bambini:

_”George, ma anche lui indossa...?”

_”Chi è che cosa, cara?”

_”Il fidanzato, l’inglese, anche lui indossa delle scarpe di colori differenti?”

_”Si, anche lui, te l’ho gia detto”.

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_”Oh, incredibile, George. Non è veramente sbalorditivo questo fatto?”

_” È poco ma sicuro”.

Poi, arrivati al caffè, mi ricordai dei miei adoratissimi gerani:

_”George, quando sei rientrato, non hai notato niente di diverso sul nostro balcone?”

_”No”.

_”Davvero, caro?”

_”Davvero, Irina”.

_”Allora prendi la tazza e vieni a goderti lo splendore del mio giardino sospeso!” - esclamai tutta fremente di gioia e orgoglio.

Erano là i miei piccoli amici floreali, con le loro faccine rosse, fresche e profumate, con le foglie che somigliavano a delle lacrime verdi. Ero profondamente innamorata dei miei gerani ed in seguito anche George vi si affezionò. Ogni sera al ritorno dal lavoro era lui per primo che mi diceva con un sorriso largo, arruffandosi ancora di più la capigliatura con le dita sporche di calce:

_”Andiamo in giardino, Irina”?

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Restavamo sul balcone, seduti su due sedie di plastica bianca abbastanza comode, e ci godevamo il cielo pieno di stelle fino a notte fonda. Parlavamo di cose da nulla, in quei momenti di relax non affrontavamo mai argomenti seri riguardanti ad esempio le nostre famiglie o il nostro passato, ma ci limitavamo a dialoghi leggeri oppure restavamo semplicemente in silenzio. Ogni tanto lui mi dava un bacetto quasi paterno sulla fronte o mi stringeva forte le mani. Quando il traffico pesante cessava, quando la gente del quartiere si ritirava per dormire, potevamo sentire a vicenda il rumore del nostro respiro. Ero immensamente felice e non smettevo mai, in quei giorni, di ringraziare Gesù per la pace e la tranquillità della mia vita con George.

Altrettanto felice ero durante i nostri pranzi da persone modeste: a dire la verità, in Italia il cibo non costa tanto se fai la spesa nei supermarcati. Io e George siamo persone un po’ civettuole; ci piace acquistare capi d’abbigliamento alla moda, così ogni mese facevamo compere in negozi come Stefanel e simili, e là si sa che i prezzi sono alti; o almeno lo erano per noi in quel periodo della nostra vita in comune.

Così ci riempivamo di spaghetti al pomodoro, lattuga, patate, uova e solamente di rado mangiavamo il pesce. Ma eravamo felici e la nostra esistenza sembrava a entrambi un vero miracolo. Ci amavamo, eravamo fedeli, leali l’uno con

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l’altra: cosa si potrebbe desiderare di più? Mi ricordo delle parole di un tale che si chiamava Maimonide (ho saputo di lui da un libriccino preso in prestito da Julien) e che diceva: Un miracolo non può provare ciò che è impossibile; è soltanto utile per confermare che cosa è possibile. Questa è una citazione presa da Primo amore, ultimo amore di Susie Morgenstern, che l’ha pubblicata nella collana Ex Libris. Con ciò voglio dire che noi eravamo felici perché desideravamo esserlo: facevamo tutto il possibile per esserlo; devo ricordare che entrambi eravamo giovanissimi e con una vita non facile, anzi abbastanza travagliata alle spalle.

Seduti al tavolo della nostra cucinetta, mentre ingoiavamo piatti interi di patatine fritte, George, guardandomi con i suoi magnifici occhi di smeraldo, scintillanti e stracolmi d’amore per me, mi raccontava delle storielle, degli aneddoti che sentiva dai suoi colleghi: i muratori. Capitava di divertirci e il più delle volte di ridere a crepapelle.

XVIII

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Continuavo a far visita a Julien Dennis che a sua volta faceva la stessa cosa con noi. Veniva sempre per pranzo, portando gamberi, aragoste e roba del genere della quale lui andava matto, mentre a noi non piacevano così tanto; preferivamo di gran lunga le patate, ma non facevamo commenti per non offenderlo. Quando è venuto per la prima volta a casa nostra era giugno e ci portò un sacco di piantine di rose, dei vasetti con dentro questi meravigliosi fiori che io amo tanto quanto i gerani. Faceva un caldo da morire e si sudava tantissimo, malgrado fossero già le 19.30.

Julien Dennis si mise il mio grembiule e cominciò a cucinare i suoi gamberi nella nostra cucina. Io e George stavamo seduti comodamente sul divano in soggiorno e guardavamo Reazione a catena con Amadeus, con il ventilatore che ci scompigliava i capelli amichevole e gentile come il filo di vento in un quadro di Botticelli.

Ogni volta che andavo da Julien non facevo altro che leggere nella stanza sul retro del negozio, mentre lui si occupava dei suoi clienti. Poi quando faceva una pausa prendevamo un caffè assieme, dopodiché con 6-7 libri in braccio mi affrettavo a tornare verso casa dove arrivavo in circa 10 minuti. A seconda dell’ora sbrigavo le faccende di casa oppure preparavo il pranzo, dopodiché con mio grande

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piacere cominciavo a leggere uno dei libri. Che aggiungere? Penso che una vita così sarebbe piaciuta a chiunque!

XIX

Ma ecco che una nuvoletta si affaccia all’orizzonte. In realtà una mezza nuvoletta: nel novembre del 2009 veniamo a sapere che gli inquilini romeni che prima abitavano il nostro appartamento non sarebbero più tornati. Sarebbe stata bellissima notizia se non fosse stato per il proprietario che decise di aumentarci l’affitto, che passò da 350 a 650 euro: quasi il doppio!

_”Cosa facciamo, Irina?”

Guardai George stordita. Cosa dovevo, ma sopratutto cosa avrei dovuto rispondere?

_”Se non riusciamo a pagare l’affitto qui, cercheremo un altro appartamento più piccolo...” - risposi a mezza voce non sapendo cos’altro dire.

_”Irina, ma cosa dici? Più piccolo di così!”

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_”Hai completamente ragione, amore...E allora cosa facciamo?”

_”Non lo so” - rispose così abbattuto da farmi pena, povero amore mio…

Alla vista del suo sguardo di smeraldo immensamente triste e del suo struggente sgomento mi venne subito l’ispirazione:

_”Mi cercherò un lavoro anche io! Giusto – ribadii - ecco la soluzione, George. Anzi, appena ritorni al cantiere, andrò da Julien. Impossibile che lui non conosca nessuno nei dintorni che mi potrebbe assumere, cosa ne dici?”

_”Non so cosa dire” –rispose lui ancora più desolato di prima, e i miei occhi si riempirono di lacrime.

Il pomeriggio stesso andai di corsa da Julien a cui, con ansia, spiegai la situazione. Per fortuna in poco tempo riuscì a trovarmi un lavoro: la settimana successiva avrei cominciato a lavorare nel più grande supermercato Carrefour di Sampierdarena, gestito totalmente dai Darlings, di cui lui era un amico . Melody Darling e suo marito David erano due boss straricchi di Londra che abitavano nei pressi del parco Lady Mary’s Paradise, ed erano anche i vicini dei Reynolds. Oh my goodness, che fortuna, vero?

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Mentre stavo camminando verso il posto di lavoro mi ricordai di certi episodi accaduti mesi prima nella stessa zona, durante il mio jogging mattutino. Dei cosidetti rapitori di bambini avevo fatto quasi una fissazione e quando ripresi l’abitudine di fare le mie corse per tenermi in forma, mi resi conto che il mio atteggiamento era cambiato rispetto a prima: non ero più rilassata, o meglio non ero più concentrata sul momento, cioè su quello che stavo facendo ma mi sentivo tesa, in qualche modo inquieta, come se avesse dovuto succedermi qualcosa di spiacevole, se non addirittura grave, da un momento all’altro.

Ho capito la ragione di tutto ciò quando mi sono sorpresa a guardare a lungo, con insolita attenzione, tutti i passanti del parco, specialmente le donne con la pelle chiara e con beretti neri, e gli uomini bruni, cercando di scoprire tra di loro la ragazza con i capelli di fuoco e il giovane con il codino corvino. La mia nuova fissazione non si limitò a questo ma aumentò; guadagnò molto terreno nella mia mente nevrotica tale che sempre più spesso facevo delle soste durante la corsa e mi chinavo, fingendo di aggiustare i miei lacci per osservare meglio le scarpe delle persone che a me sembravano sospette. Ovviamente tutto era semplicemente una grande follia: Freud sarebbe stato di sicuro molto interessato a studiare e scoprire le origini di quei miei

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pensieri ricorrenti. In più era anche una perdita di tempo, perché in questo modo non riuscivo mai a finire la corsa che avevo progettata di fare e l’indomani dovevo, per forza, faticare il doppio. Per non parlare degli sguardi curiosi della gente, dei loro occhi che mi squadravano come se fossi una squilibrata se non addirittura un’aliena. Adesso sento un lieve imbarazzo nel ricordare il mio atteggiamento così poco abituale, così tanto fuori dal normale, ma in quei giorni in qualche modo ero orgogliosa di me perché mi definivo un essere generoso, disponibile, altruista e non vedevo l’ora di scovare quei due giovani inglesi così malvagi, abominevoli, perché piano piano la mia immaginazione era caduta nella trppola delle storielle da due soldi veicolate da persone senza istruzione ma con tanta fantasia e sopratutto con tanta voglia di adoperarla. Mi sorprendevo di essere un po’ risentita nei confronti di George, visto che tutte le mie ricerche non davano alcun risultato plausibile: insomma, me l’aveva messa lui la pulce nell’orecchio, giusto?

Un giorno meraviglioso di tardo autunno del 2008 mi successe, per colpa di questa mia nuova fissazione, una vicenda davvero sgradevole. Mi trovavo sempre nelle vicinanze della tenuta Reynolds, la Casa Grigia, con l’intenzione di correre in quello stupendo parco dedicato alla

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Madonna, Lady Mary’s Paradise. Mi ero fermata un attimo per ammirare il panorama: l’abitazione imponente come un castello, la sagoma gigantesca del supermercato Carrefour che spuntava a circa 500 metri alla sua destra, l’immensità del parco anch’esso più o meno alla stessa distanza ma sul lato opposto. Per entrare nel parco dovevo camminare diritto verso il cancellone di ferro lucente, alto all’incirca 3 metri e poi girare alla mia sinistra e proseguire su un vialetto di una trentina di metri. Mi sembrava di sentire già il fresco profumo degli alberi, delle piante grasse, la fragranza delle foglie gialle, marroni e rossastre che riposavano sui suoi larghi sentieri di mattoni vecchi, mangiati dalle intemperie e dal tempo.

Arrivata davanti al cancellone, dove sette cipressi s’innalzavano verso l’infinità del cielo, guardiani fieri ed orgogliosi, all’improvviso uscì dal di sotto di uno di essi un individuo: un quarantenne alto e magro come un paletto, vestito con una tuta color amarena putrida, con una faccia triangolare e piena di pustole e dai capelli corvini e untuosi che gli cadevano sulle spalle, magre e affilate come lame di coltello, in spaghetti di pece. Guarda caso indossava adidas diverse, una rossa come il sangue e una verde come il veleno. Il cuore cominciò a martellarmi nel petto impazzito dalla sorpresa e dalla paura. Tutto il mio corpo si trasformò in un

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attimo in una massa di sudore e gelatina: le gambe non mi volevano più sostenere e così finii in ginocchio davanti all’individuo, che nel frattempo mi si era avvicinato, con il naso sopra le sue orribili adidas dalle quali uscivano sporchi e puzzolenti calzini, anch’essi diversi: uno color melanzana e l’altro arancione. Alzai la testa con difficoltà e in quel momento il mio orrore arrivò all’apogeo: l’individuo, tramite una contrazione dei muscoli facciali, sporgeva e faceva rientrare nelle cavità orbitali i suoi occhi di un celeste terso con la parte bianca insanguinata. Li muoveva ritmicamente, come in un motivo musicale, e nello stesso tempo le sue labbra, sottili e umide come due pesciolini bolliti, sogghignavano diabolicamente. Mi premetti con forza una mano sul petto e una sulla bocca per impedirmi di urlare. Fortunamente tutto ciò durò solo una decina di secondi. Con un ultimo largo e infernale sogghigno questi girò lentamente le sue adidas da incubo e sparì oltre i cipressi. È stata la più tremenda e spaventosa esperienza della mia vita; ogni volta che rivivo quei secondi mi vengono i brividi e una forte nausea mi invade. Anche se provo a dimenticare la faccenda mi capita spesso di ricordarla; per mia fortuna, non ho più rivisto quell’uomo. Non ho mai raccontato a nessuno l’accaduto: era una cosa così terribile che non desideravo affatto contaminare i pensieri e l’anima di un'altra persona con un simile ricordo, una simile immagine. Comunque

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questa esperienza, in fin dei conti, mi è stata più che utile: mi sono tolta per sempre la fissazione dei rapitori di bambini che amavano indossare le adidas in maniera inconsueta e che vagavano per Sampierdarena in cerca di fanciulli non sorvegliati. Conclusi, e sapevo di avere perfettamente ragione, che non erano affari miei ma degli organi di polizia che si occupavano dell’ordine pubblico.

XX

Dunque, in un mattino caldo e luminoso di novembre, iniziai a lavorare al Carrefour, questa meravigliosa catena di supermercati di origine francese che ha delle succursali che spuntano ovunque a Genova, come l’erba tra le pietre dei marciapiedi.

Le prime persone che ho conosciuto in quel nuovo ambiente di lavoro sono state Trudi Villa e Adriano Fantasia.

Sono della mia stessa età e malgrado la mia simpatia per loro e il mio affetto attuale, quel primo giorno non mi fecero per niente un’impressione positiva. E sapete perché? Perché sono due rockers alti e magri come chiodi che amano vestirsi in maniera appariscente, con magliette e jeans strettissimi, dai colori sgargianti, o in canottiere con

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scollature ampie dalle quali escono trionfanti i loro colli sottili, le loro spalle e braccia pelle e ossa, tatuate in ogni minimo pezzo di pelle: tutti disegni di streghe, dragoni e cose simili che fanno paura a una come me, figuratevi ai bambini! Abitano in un monolocale stretto come i loro jeans, in un palazzetto sul retro del supermercato stesso.

Erano fuori, davanti a uno dei molteplici ingressi del nostro posto di lavoro (lavoriamo ancora assieme) e bevevano a sorsate golose i contenuti strani delle loro red-bull e fumavano sigarette fai da te. Io dovevo entrare dalla stessa porta per andare a presentarmi al manager, Francesco Chiara.

Gli altri, i veri padroni, i Darlings, non erano mai presenti perché erano sempre in giro per il mondo: a Londra, la loro città natale e di residenza (di questa cosa n fui informata da Julien), a Parigi, in Egitto, sulle orme della maledizione di Tutankhamon, o a Dubai, tra gli arabi più ricchi del pianeta. (A proposito di questi ultimi, si dice che vivano felici e contenti a temperature pazzesche di 50 gradi, in abitazioni stracolme di apparecchi per l’aria codizionata).

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_”Ciao, io sono Irina. Devo parlare con il signor Francesco Chiara”. – dissi, nascondendo un po’ di preoccupazione.

_”Ah, ...” - fece il ragazzo, Adriano.

_”Ah ... “- lo imitò lei, Trudi.

“Che giovani inusuali”, dissi tra me e me, “niente ciao, niente io sono X, io sono Y...”

Li guardai sforzandomi di non lasciar trasparire le mie prime sensazioni su di loro. Avevo le gote in fiamme, la mia caratteristica di sempre, imbarazzante e pericolosa allo stesso tempo, poiché può svelare agli altri molte cose sul proprio carattere che vorremmo invece tenere nascoste. Nello stesso tempo mi concentrai per potenziare la mia energia mentale tale che mi aiutasse a stamparmi sulla faccia il più amichevole sorriso del mondo.

_”Ciao, io sono Irina” - ripetei come una bambola con il meccanismo vocale guasto. Tesi la mano pregando che accettassero di stringerla e di non farlo troppo forte per non farmi male; avevo tre anelli d’acciaio su ciascuna, l’ultimo grido in materia di moda inventato da aziende come Morellato e simili, e che George continuava ad inseguire, così che ogni suo stipendio valeva un arricchimento della mia collezione.

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_”Eh, beh?” - fece lui con pigrizia grattandosi i capelli cortissimi e celesti.

“È demenziale questa voglia di dipingersi i capelli con delle sfumature così inusuali” conclusi disgustata tra me e me. Lei li aveva della stessa lunghezza corta, quasi rasati, ed erano di un arancione acceso. Tutti e due sono di carnigione chiara, fatto che, in quel primo giorno di conoscenza, mi ricordò lo strano racconto di George in merito ai due rapitori di bambini. “Si, ma ci sono delle incongruenze”, mi bisbigliava la ragione sempre di guardia, “eh beh” replicavo, “le incongruenze ci sono sempre ed in tutte le situazioni, non vale la pena analizzarle tutte”…Alt!Avevo appena notato che indossavano adidas di colore diverso, verde-rosso lui, verde-fucsia lei. “Oh my God, ci siamo, ho trovato i rapitori di bambini, i più grandi delinquenti della storia” ripetevo come una forsennata tra me e me. È facile giudicare e mettere le etichette sugli altri quando si dimentica le proprie malefatte, le proprie imperfezioni. Questo era quello che stavo facendo io, Irina, una ragazza romena semianalfabeta e, fino a qualche anno fa, nient’altro che un’abominevole ladra. STOP. Mi sono imposta all’instante di smetterla di fare la moralista, e di provare invece ad essere una persona normale, comprensiva e tollerante con me stessa e gli altri, e più di ogni altra cosa di non essere maledettamente ridicola e

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stupida poiché avevo deciso di mettere fine a tutte le mie angosciose fissazioni e paranoie.

_”Io sono Trudi “- mi disse la ragazza sorridendomi. –“ Lui è il mio fidanzato, Adriano. Lavoriamo al Carrefour come addetti agli scaffali e abitiamo qui vicino, all’incirca a una cinquantina di metri. Lieti di conoscerti, Irina”.

“Una presentazione più che completa”, osservai soddisfatta della svolta positiva che aveva preso la situazione. Cosa dire di più? I due sono diventati miei buoni amici fin da subito così come era succeso con Julien Dennis. Mi reputavo fortunatissima a lavorare assieme a loro, anche io addetta agli scaffali, a quei tempi, come ancora oggi. Non ho mai voluto fare la cassiera, non era da me stare sempre seduta a scambiare delle ipocrite frasi di gentilezza con persone delle quali non mi fregava più di tanto. Si sa che quando lavori in un supermercato incontri parecchia gente e a volte quelle di una certa età e con una vita solitaria sorpassano i limiti della riservatezza, alcune arrivano a dare persino dei dettagli imbarazzanti di vita di coppia o di famiglia, cosa che io detesto profondamente. Se non l’ho già detto lo dico adesso: Trudi e Adriano sono delle persone meravigliose, generose e disponibili al massimo con me e con tutti gli altri. È proprio vero che non bisogna mai giudicare il prossimo dalle apparenze. Sì, ci sono situazioni in cui qualcuno ci offende

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senza ragione, ma ho sempre pensato che è meglio passarci sopra e non ripagare con la stessa moneta, quando è possibile. E qui cito unaltro frammento dal romanzo della stessa autrice menzionata sopra, che Julien mi aveva donato; libro che mi regala ancora oggi tanta gioia, mi consola nei momenti di sconforto psicologico, quando, triste, sprofondo nella poltrona della nostra cucinetta (ormai abbiamo comprato l’appartamento) per fare i conti con la mia vita. Lo rileggo ogni volta con lo stesso piacere di una bambina che mangia un intero barattolo di marmellata all’insaputa della nonna. Si tratta di una lettera che un certo LUI scrive a una certa LEI: “Tu che sei in buona salute, usa la tua capacità di amare e il tuo affetto per rendere la vita più sopportabile a coloro che ti circondano. Sii buona anche con coloro che non ti piacciono: le persone sono cattive perché infelici, cerca di capire i loro problemi, ma rimani te stessa e scrivi. Impegnati a tirar fuori quello che di meglio c’è in te”; e ancora: “Una parola al momento giusto: questo fa bene all’anima.” Condivido pienamente.

XXI

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Ma il mio racconto oltre che parlare un po’ della mia famiglia di Moldova, oltre che parlare del mio unico e ricambiato amore, mio marito George, oltre che descrivere i nostri amici migliori, Julien Dennis, Trudi Villa e Adriano Fantasia, vuole narrare delle cose anche in merito alla vita di una ragazzina di 12 anni, molto infelice e sola, e della sua famiglia, che in seguito ha avuto un ruolo molto importante e decisivo nella mia, nella nostra vita: il ruolo della miracolosa mano che ti dà aiuto quando meno te lo aspetti!

Era una splendida mattinata d’inizio marzo del 2010. Avevo una decina di giorni tutti per me, giorni di ferie presi su consiglio del manager Francesco Chiara, perché poi secondo lui non sarei più riuscita a godermeli dato che ci aspettava un’estate pesante e “bla-bla-bla”. Era vero ma solo in parte: solo certa gente prende i giorni di ferie nel periodo migliore, si sa, è la pura e semplice verità. Nella vita bisogna essere raccomandati persino per una boccata d’aria o per un grido di dolore!

Così decisi di dividere le mie nobili attenzioni fra l’ambiente domestico e quello fresco del Lady Mary’s Paradise, leggendo, passeggiando o correndo.

Un giorno, dopo tre giri intorno parco decisi di riposarmi su una delle panchine di ferro verniciate di verde; avevo ancora più di un’ora a mia disposizione. Mi trovavo sul viale

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principale quando vidi che un esserino, alto circa 1 metro e 30, camminava dritto verso di me: era vestita con un abito rosa acceso e con delle scarpe in tinta; aveva delle treccine biondo oro che le scendevano sul petto, informi ed infantili, sottomesse e tranquille, orgogliose dei loro nastri lunghi e celesti, gli unici che sembravano muoversi in questo insolito quadro. Perché la bambina, malgrado camminasse dava, non so spiegare per quale ragione, l’impressione di stare ferma, in attesa. Involontariamente sentii dei brividi in tutto il mio corpo e un groppo in gola: una necessità imperiosa di piangere, di abbracciare quella bambina, di stringerla al seno e accarezzarla e cantarle una ninna-nanna o raccontarle delle belle fiabe con lieto fine. Rimasi immobile con il fiato sospeso, aspettando che arrivasse vicino a me.

_”Ciao “- le dissi piano quando era già a tre passi da me.

Si mise a sedere silenziosamente: stava per piangere, come una persona che sta soffrendo troppo e reprime l’angoscia.

_”Ciao” - rispose con una voce di velluto e campanellino nello stesso tempo come penso che solamente gli angeli possiedono. –“ Io sono Darling Lol. E tu come ti chiami?”

Trassalii. Questa bimba che sembrava non avere più di 12 anni era dei miei padroni, di quelle persone che, come

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le chimere, nessuno aveva mai visto dal 2007, quando avevano preso in gestione il gigante Carrefour di Sampierdarena. Tutti affermavano che non li avevano mai notati né sul posto, né tanto meno per il quartiere o per la città di Genova. Viaggiavano sempre di qua e di là con un aereo privato, stile Tom Cruise in Mission Impossible. Francesco Chiara era l’unico che gestiva veramente tutto, assieme a una ventina di persone, tra cui vi erano assistenti, segretarie, guardiani e così via. Ma se loro erano sempre in giro, perché lasciavano la bambina con la governante come avevo già sentito dire? Perché non se la portavano con se? Mistero. Buio.

_”Ed io sono Irina. Piacere di conoscerti, miss Darling Lol!”.

_”Il piacere è tutto mio” - rispose l’angelica creaturina guardandomi con i suoi occhi celestiali, regalandomi anche un sorrisetto, un bocciolo fresco di rosa. – “In realtà il mio nome è Lorelei. Marianne Lorelei Darling ma la mia mamma mi ha sempre chiamato semplicemente Lol”. Queste sono le sue parole. Io sono la sua semplicemente Lol, capisci?”

Dopo neanche 5 minuti eravamo amiche per la pelle e quando ci dividemmo mi diede il suo diario dal quale trascrivo qualche riga giusto per farvi capire i tormenti di una

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bambina tutta sola e lasciata alla deriva come una barchetta di carta.

XXII

DEAR DARLING LOL

“Mia cara amica,

Inutile che io mi presenti. Tu sai chi sono, così come io so chi sei tu. Tu sei me ed io sono te. Amiche per la pelle e assolutamente identiche. Identiche in tutto. Abbiamo la stessa età, 12 anni, lo stesso fisico, la stessa altezza e gli stessi genitori. Mi dispiace che tu sia tanto sola quanto me. È vero, c’è Nancy, la governante, c’è Andrew, il maggiordomo e l’amico stretto di lei, ma in fin dei conti noi due, io che sono te, tu che sei me, siamo sole solissime...Non ho più voglia di scrivere. Buonanotte e a presto. Baci, baci, baci”.

“Mia cara amica,

Non sono riuscita a dormire tanto bene. Tuonava e il cielo era pieno di fulmini. Serpenti di fuoco mi svegliavano ogni volta

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che mi assopivo. Alla fine sono corsa nella camera di Nancy, come faccio sempre quando David Darling, papà, e Melody Darling, mamma, non ci sono. E tu lo sai che non ci sono mai. Ho trovato anche Andrew nella camera di Nancy; sì, sono amici buonissimi loro due, ma Andrew è adulto… perché dorme dalla mia governante? Ha paura anche lui dei tuoni! Ecco perché. Ma anche io. Allora dovremmo dormire tutti e tre quando Dio si arrabbia e ci manda quei tremendi tuoni, tanto il letto di Nancy è uguale a quello di mamma e papa: è matrimoniale. Mia cara Darling Lol, parlerò di questo con Nancy. Ma che paura camminare in piena notte tutta sola per quel corridoio che ha solo qualche lampadina qua e là. Con le statue, i quadri... A me non piace per niente questa abitazione enorme, così come quella di Londra. Ma a cosa servono 3 piani e altrettante camere da letto, cucine e bagni quando vi si dorme in una persona sola? Da grande avrò un appartamentino, piccolo piccolo. Voglio vivere come Alice. L’unica cosa che mi piace di questa casa è il giardino che è immenso. Dunque l’appartamento sarà minuscolo ma il giardino sarà il più grande possibile, il giardino più grande d’Europa, del pianeta! Devo lasciarti. Ho i compiti da fare, sennò Nancy, che è anche la mia insegnante d’inglese, letteratura e grammatica, di matematica, latino, greco, musica, teatro e sport, mi punisce. Ogni volta che non faccio

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la brava mi obbliga a imparare a memoria un sonetto di Shakespeare. Ciao. A presto. Baci”.

“Mia cara amica,

ma a te piace il mare? A me un sacco. Ieri io e Nancy abbiamo fatto una bellissima passeggiata sul lungomare di Nervi, (si chiama così il posto, che nome buffo, vero?) Mi fa pensare alla mamma e alle sue crisi di nervi, come le chiama sempre papà”.

_”Melody, mi sono stufato delle tue continue paranoie, e isterie, lo vuoi capire o no, mia cara?”

_”Lo capisco, eccome se lo capisco, mio caro!

Io invece non comprendo come due adulti possano litigare così spesso! Ma che gusto può trovare una persona nella baruffa? Nancy dice che nell’amicizia è bene attrezzare un piccolo spazio per la baruffa, e nella baruffa un altro per la riconciliazione. Tu che ne dici? È giusto pensarla così, comportandosi in questa maniera? Sai la mamma dice spesso a papà:

_ “Caro, quando uno si comporta da villano, bisogna rendergli pan per focaccia”.

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Ho chiesto a Nancy cosa significa la parola villano e non ha voluto dirmelo. Anzi mi ha sgridata, mi ha detto di non origliare più le conversazioni degli altri. Ma io non ho origliato; non c’è bisogno che lo faccia perché loro litigano davanti a me, davanti a tutti e dovunque. Delle volte sento la mamma dire a papà:

_”Non credere che ti lasci da solo, mio caro. Ormai lo so che appena lo faccio o le telefoni o corri da quella, dalla tua bellissima Megan!”

Megan è la donna per la quale loro litigano. Fossi la mamma mi piacerebbe avere un’amica che si chiama Megan. Ma non capisco, litigano spesso e poi si sorridono a vicenda; quando ci sono Nancy e Andrew, si chiamano caro, persino amore e si danno dei bacetti sulle guance. Melody, cioè mamma, alza sempre gli occhi al cielo quando David, cioè papa, le dà i bacetti. Ma a questo punto sarebbe più giusto che tutti e due non sprecassero quelle dimostrazioni d’affetto. Perché non baciano me invece? Nessuno di loro lo fa se non per Natale, Pasqua o per il mio compleanno.

Quando ci rivediamo, dopo 1 mese o 2 di lontananza, ciascuno di loro mi abbraccia di sfuggita, mi arruffa un pò i capelli e la sera mi rimbocca le coperte. Non mi davano più tanti baci come quando ero piccola. Da quando ho compiuto 9 anni, precisamente da quando siamo venuti a vivere a

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Genova, niente più baci. Hanno deciso di smettere all’improvviso. Una sera papà tornò da uno dei suoi lunghi viaggi di lavoro e trovò mamma in lacrime, con delle valigie vicino l’ingresso. Si guardarono a lungo, poi si rifugiarono nello studio di papà dove rimasero fino al mattino dopo. L’indomani eravamo sull’aereo per Genova. A me il posto non dispiace, almeno qui c’è il mare. Nervi, ti dicevo, è bellissima: è il quartiere di Genova dove si sta meglio. D’inverno fa più caldo e d’estate fa più fresco rispetto agli altri quartieri. Comunque ho guardato nel dizionario il significato della parola villano, ma non sono sicura che a te interessi tanto. Baci. A presto”.

“Mia cara amica,

Oggi è domenica. Scriverò per te qualche riga di Shakespeare. A forza di essere obbligata ad impararli, cominciano a piacermi:

28

How can I then return in happy plight,

That am debarred the benefit of rest?

When day’s oppression is not eased by night,

But day by night and night by day oppressed,

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And each, though enemies to either’s reign,

Do in consent shake hands to torture me,

The one by toil, the other to complain

How far I toil, still farther off from thee.

I tell the day, to please him thou art bright,

And dost him grace when clouds do blot the heaven.

Non continuo. Non voglio annoiarti più di tanto. Piuttosto ti dico due parole sulla mia gattina. L’ho trovata oggi davanti alla porta: è piccola, tutta grigia con le zampette e il musetto bianchi come la neve. Sarà piacevolissimo dormire assieme a lei, sentire la sua pelliccetta vellutata vicino al mio cuore. Povero cuorincino! Nenche lei ha una mammina molto presente, sai? A presto. Baci”.

“Mia cara amica,

Non sai quanto sia felice che tu sia con me. Mi sento meno sola”.

“Mia cara amica,

è venerdì e come ogni venerdì in Italia mangiano tutti il pesce, cosa che a me sta antipatica. Poveri pesciolini… Povere

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sardine, aragoste ecc. Didina, la cuoca, non ha un minimo di sensibilità…le getta ancora vive nell’acqua bollente. Io non le tocco e non lo farò mai, neanche se, all’improvviso, mi comparisse davanti la più cattiva e la più brutta delle streghe e mi spaventasse a morte. Neanche se tuonasse e fulminasse terribilmente di notte 365 giorni all’anno, capisci? Ma hai visto con che appetito le mangiano, Nancy e Andrew? Per non parlare di Didina che sarebbe capace di inghiottire anche la pentola!

Lei è romena e spesso mi racconta della sua passata vita in Romania. Non è più giovane come Nancy, ha 57 anni, e non è nemmeno bella come lei. A differenza di Nancy, che è bionda come me e mamma, con dei bellissimi capelli morbidi e vellutati, gli occhi blu scuro come il mare inquieto, e magra con la vita sottile, Didina è bassa, grassa, di pelle olivastra e la sua capigliatura sembra quella di un riccio. Quanda mangia mastica rumorosamente e si sporca un sacco sul mento quadrato e pieno di piccoli sfoghi rossi, con in cima del pus giallo. Lei dice che non si notano neanche e poi aggiunge: chi se ne frega! Invece io li noto eccome! E mi provocano una forte nausea. Però devo ammettere che si comporta in maniera gentile con me. Talvolta mi permette di stare in cucina a guardarla mentre cucina; oppure mi lascia sbucciare le patate, sbattere le uova con la forchetta, come fanno i

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romeni per preparare l’omelette. A me piace l’omelette e anche lei ne va matta. Quando Nancy e Andrew lasciano la città, e succede spesso, io mangio con Didina in cucina oppure dormo con lei. Ma questo è un segreto segretissimo! Non deve saperlo nessuno. Lei si mette una camiciona da notte di lino portata dal suo paese e ne dà una uguale anche a me. Mi sta enorme come fosse un lenzuolo. Sembriamo due fantasmi! Devo ammettere che Didina è molto pulita e ha un buon profumo. Sa di lavanda! A presto. Baci”.

“Mia cara amica,

Mi dirai di tutto. Sto facendo una cosa orribile. Ho trovato queste pagine nella Bibbia che Didina tiene sempre su un tavolino in cucina. Non capisco un’acca di tutto quello che c’è scritto, così come non capisco una parola della sua Bibbia. Siccome mi trovo di nuovo completamente sola perché mamma e papà sono in giro come al solito (Nancy e Andrew sono a Venezia per 5 giorni dove una cugina di Nancy sta per avere un bambino), Didina ha l’influenza e sta a letto piena di dolori reumatici, io in camera mia mi diverto a copiare delle righe in romeno. Abbiamo appena pranzato, insalata di pomodori e stracchino, e mi sa che per tutta la settimana mangeremo più o meno in questo modo, cosa che a me non

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dispiace affatto. E adesso ognuno per conto suo. Non ho voglia di giocare in giardino, così inizio a scrivere. È un po’ come studiare il greco o il latino: quando faccio i compiti spesso lo faccio automaticamente, seguendo gli esempi e nemmeno in quei momenti mi diverto più di tanto. Almeno il romeno non è una lingua senza vita come lo sono il latino o il greco antico. Cosa vuoi che m’importi di Patroclo, Ettore, Ulisse e la sua Penelope?

Che noia quella Penelope, sempre seduta al telaio! Per non dire poi che trovo molto ingiusto che i popoli si massacrino tra di loro perché Paride amava disperatamente Elena, la moglie di unaltro! E in fin dei conti sono righe scritte dalla mano di Didina per la quale provo un certo tipo di amicizia e anche di affetto. Lei non ha un Andrew e quando è possibile passa molto tempo con me. Sul letto, la gattina, che si chiama semplicemente gattina, fa le fusa. Vuol dire che è felice di stare assieme a me?

“Mia cara amica,

Ieri Non ho più scritto. Non ho potuto. Dopo che ho scarabocchiato l’ultima parola ho dovuto nascondere in fretta

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il diario. C’era Didina che mi chiamava perché voleva che stessimo un po’ assieme; così sono andata in camera sua e abbiamo guardato Happy Hour, sai quel film carino per ragazzi con Fonzie? Te lo ricordi? Dopo abbiamo guardato anche Lassie che a me piace tantissimo. Verso la fine Didina si è addormentata e così io ho trovato nel cassetto del comò questo quaderno dove lei, come me, scrive della sua vita. Ma stavolta in italiano. Vedi, noi due abbiamo gusti comuni, un po’ come lo zio Tom ed il suo giovane padrone. Adesso lo sto leggendo!

Sono le 9 del mattino, abbiamo fatto colazione e Didina si è appisolata di nuovo. Io faccio finta di leggere Zanna bianca di Jack London. Sono nella sua camera, su una poltroncina coperta con un telo di lino color cioccolato con dei grandissimi gigli bianchi e gialli. È un ricordo del suo paese. Sembra che i romeni vadano pazzi per il lino. Beh, a dire la verità Didi ha regalato anche a me un vestitino di lino azzurro con delle minuscole rose rosse e devo dire che mi piace molto. Quando fa caldo non si suda affatto”.

XXIII

(Dal diario di Didina, la cuoca:

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“Uffa. Sì, lo so che non è molto originale iniziare un diario con una interiezione, ma chi se ne frega! Voglio solo avere la possibilità di esternare i miei sentimenti, le mie impressioni. Quando lavori per gli altri in questo modo, genere serva corpo di pietra che non può fare nessun gesto, nessuna parola mi ferisce, ma a volte è necessaria una valvola di sfogo per la tensione, altrimenti ti scoppia il cuore.

Per fortuna ho la mia Bibbia: amo veramente Gesù e la Madonna. Che sollievo parlare con loro nelle sere di solitudine, rinchiusa in questa stanzona, raggomitolata su questo letto, in questa casa che non finisce più. “Ma Santo Cielo, questa non è una casa, è un castello!”, ho esclamato tra me e me il primo giorno. Non smetto di chiedermi, da quel giorno di primavera del 2007, perché qualcuno su questa terra

abbia troppo, mentre altri non hanno nemmeno un pezzo di pane ammuffito come quelli del mio villaggio, nell’arida Dobrogea…

Non avrei mai voluto lasciare il mio paese. Facevo la maestra nell’unica scuola elementare di T. È vero che non guadagnavo molto ma per me era sufficiente: ero da sola, senza marito perché non mi sono mai sposata. E chi avrebbe mai voluto sposare una ragazza brutta come me? Bassa e grassa da fare schifo, per non parlare della mia pelle sempre

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con sfoghi antiestetici e addirittura maleodoranti. Di quest’ultima caratteristica nessuno sa niente. Ma come potrebbero, visto che nessuno mi da mai un bacetto? Se ci penso bene, sì, la piccola Lol può anche darsi che lo sappia...è l’unica che mi si avvicinae non lo fa da padrona ma da amica. Povero cuorincino mio!

I miei genitori, anche loro crudeli, mi hanno lasciato sola quando avevo solo 10 anni. Ero una ragazzetta tutta nera, (intendo dire di carnagione decisamente scura), con gli occhi castani e strabici, la bocca larga, l’addome grosso, le mani corte e le gambe storte a causa delle quali ho sempre dovuto indossare delle gonne lunghissime. Certo che Venere non è stata molto generosa con la sottoscritta! Come sono morti i miei? Chi lo sa! Li hanno trovati in un bosco a circa un chilometro dalla nostra abitazione, distesi l’uno accanto all’altra. L’indagine ha confermato che avevano mangiato funghi velenosi. Avevano trovato i resti di un focolare dove sembrava che loro, quella mattina, dopo aver riempito la sacca di funghi, ne avevano fritti e mangiati alcuni per colazione.

Ci guadagnavamo da vivere così: vendendo sulla piazzetta del villaggio, ai nostri compaesani, funghi, more, mirtilli, nonché tutto quello che la fertile e cara madre Terra ci regalava. Inoltre mio padre era anche un buon pescatore.

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Mi prese subito in custodia l’orfanotrofio di B., una città abbastanza grande, o meglio, molto più grande del mio villaggio. Eravamo una ventina di ragazze che dormivano in un dormitorio lungo con dei letti a castello e dovevano rispettare delle regole ben precise: ci alzavamo alle 6, rifacevamo i letti e pulivamo l’ambiente fino alle 7.30, dopodiché toccava a noi pulirci, lavarci i denti e la faccia, cambiare i vestiti e lavare quelli sporchi. Non avevamo a disposizione un guardaroba ricco, perciò finivamo di fare tutto in una decina di minuti. Alle 7.45 eravamo tutte nella sala dove ci veniva servita la colazione dalle ragazze più grandi: essa consisteva in una tazzona di tè appena addolcito e un tozzo di pane nero, di segale, secco e croccante che a me piaceva tanto. Niente marmellata, niente burro ma ogni tanto ci davano un po’ di strutto rancido, un uovo fritto o delle omelette che a me piacciono da morire ancora oggi. Piano piano mi sono abituata all’ambiente e mi sono fatta persino un’amica: una ragazza della mia stessa età, Rodica. Lei sì che era bella. Bionda, alta, con la vita sottile e le gambe lunghe. Aveva un sorriso gentile e occhi azzurri, limpidi, con ciglia nere che sembravano truccate e arrossiva ogni volta che cominciava a raccontare qualcosa di sé o della sua famiglia.

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Erano in 11 a casa e si trovava in orfanotrofio per la decisione del Comune, in quanto erano poverissimi e nessuno dei genitori aveva un lavoro stabile, ma si guadagnavano da vivere lavorando i campi per i benestanti del villaggio.

Adoravo pettinarle la chioma biondo cenere che le arrivava fino alle spalle, morbida e odorante di sapone cheia, l’unico a nostra disposizione, ed intrecciarla in una moltitudine di codine à l’africaine. Sorrideva tutta felice specchiandosi nei vetri delle finestre del nostro dormitorio, il solo mezzo che potevamo consultare per notare i cambiamenti avvenuti ai nostri giovani corpi nel corso del tempo.

La struttura possedeva anche una propria scuola con i rispettivi insegnanti: è così che abbiamo potuto diplomarci. Non mi è dispiaciuto quando, all’età di 18 anni, ho lasciato l’ambiente. Fuorché quella di Rodica non rimpiangevo la presenza di nessuno. Anzi, ero contentissima di non vedere più Rita, la nostra sorvegliante, che in tutti quegli anni mi ha trattato malissimo. Per lei, penso che non fossi nemmeno un essere umano ma una bestia, un animale. Infatti mi aveva soprannominato la topa. Qualsiasi cosa succedesse di non regolare ero io la colpevole. Non mi ha mai dato il permesso di uscire in città come lo dava alle altre, nemmeno alla

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domenica. Inventava sempre dei lavoretti, degli impegni indispensabili per me. Alla domenica, quindi, ripulivo tutto da sola, riordinavo, mettevo a posto la roba delle altre, strofinavo con le mani quasi sempre insaguinate il pavimento e i vetri; dopodiché Rita entrava nel dormitorio e con le sue braccia possenti, forti, mi portava un cestone pieno di calze, maglie, lenzuola, federe, cose da rammendare e da stirare. Quanto odiavo quella donna senza cuore, perfida e maligna come solo il diavolo può essere! A vederla nessuno avrebbe mai pensato che fosse un essere così malvaggio. Aveva un bel fisico, era alta all’incirca 1 metro e 70, esile, con mani bianche e dita vellutate, con le unghie sempre smaltate à la française, i capelli biondo miele tagliati stile Mireille Mathieu, occhi di un verde trifoglio, con lo sguardo limpido e vigile. Però la bocca di questa donna era bruttissima e penso che le sue labbra sottilissime e strizzate continuamente in un sorriso di falsa cortesia rivelassero il suo carattere ostile verso di noi, verso tutti, verso il mondo intero! Per attenuare questo effetto le sovraccaricava di rossetto color rosso sangue; odioso! ma ciò non riusciva affatto ad addolcire l’espressione del suo visetto da strega cattiva, anzi! Non c’era nessuna tra di noi che amasse Rita ma tutte la temevano. Il giorno in cui sono andata via da quel posto infernale mi ha fulminato con i suoi occhi da vipera affamata ma ha provato a sorridermi gentilmente: il risultato fu una smorfia così terribile che

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rabbrividii tutta dalla testa ai piedi e cominciai a dire il Pater noster sottovoce.

Da quel giorno ogni volta che intravedevo un atteggiamento ostile da parte di qualcuno mi ricordavo di Rita e scattava in me il desiderio imperioso di pregare. Si dice che ogni male ci porta in fin dei conti al bene. Ecco, Rita ha radicato in me involontariamente la fede e l’amore per Gesù e la Madonna, e per questo, in un certo senso, le sono grata.

All’età di 18 anni facevo la maestra nel mio villaggio. Mi sono adattata subito perché è facile lavorare con i bambini; non credo che mi sarebbe piaciuto insegnare ai grandi. Loro mi davano tanto affetto, in un certo modo mi rendevano felice. Ogni tanto scrivevo a Rodica e le raccontavo le mie vicende, cosa che faccio ancora oggi. Anche lei fa la maestra in un vilaggio di Transilvania. E’ sposata e ha 6 figli dei quali va molto orgoliosa. Suo marito lavora nei campi ma è pagato bene in quanto il padrone del terreno è italiano. È felice e io lo sono altrettanto per lei. Non ci siamo più riviste, ma manteniamo comunque il nostro rapporto di amicizia con una corrispondenza regolare e a volte parliamo anche per telefono.

Avevo ripreso ad abitare nella nostra casetta. Ho dovuto restaurarla perché era poco più di un tigurio, ma lentamente, col tempo, l’ho rimessa a posto ed era diventata una casa

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accogliente, anche se povera: aveva un soggiorno, una camera da letto, una cucina e con il tempo ho costruito persino un bagno con l’acqua corrente. Era un piacere alla fine della giornata immergermi nella vasca piena di acqua limpida, calda, profumata di lavanda e tutta schiumosa. Mi avvolgevo poi in un accappatoio morbido di cotone e mi stendevo sull’unica poltrona del soggiorno a sonnecchiare. Lavoravo solo per me stessa, cosa che in un primo momento mi sembrava abbastanza strana, dato che in orfanotrofio Rita mi obbligava abitualmente a svolgere lavori pesanti e noiosi più per gli altri che per me stessa.

In poche parole se non ero felice ero contenta. Dopo tre anni di duro lavoro sono riuscita a comprare una capretta da un vicino e così avevo anche la mia porzione giornaliera di latte; dopo due anni, per la grazia di Dio e la bontà dello stesso vicino, ricevetti altre 2 caprette. Era una persona davvero speciale il pastore Mitica: vedendo che trattavo bene la capretta mi ha fatto un dono benedetto dal Signore proprio per il giorno di Pasqua. Mi disse:

_”Tu, Didi, sei una dei nostri, hai avuto una vita travagliata ma Gesù ti ha amato e ti ha aiutato. Io ti regalo queste due bimbe della mia capretta perché sono sicuro che le tratterai bene, perché tu ami Nostro Signore.

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Ed è proprio così: non solo trattavo bene le mie 3 caprette ma le amavo! Spesso quelle piccole volevano dormire con me ed io non le rifiutavo. Come avrei potuto farlo? Loro erano un dono di Dio e allo stesso tempo le mie migliori amiche. Certo, la cosa non succedeva sempre e man mano che sono cresciute ho avuto la forza di sistemarle diversamente. La capacità di spiegare loro che non era una cosa da fare, che nella vita gli animali devono dormire con gli altri animali mentre la persone con i propri simili, come il marito o i figli, e se questi non ci sono è per la decisione del Destino, e noi non possiamo farci niente. Così io per tutta la mia vita ho riposato da sola sia nelle notti buie, senza stelle o senza luna, sia in quelle luminose come il giorno.

Vivo in Italia ormai da 15 anni, qui a Genova, la più bella città del mondo. Ho fatto tutti i tipi di lavoro: da lavapiatti a badante, ma non sono sicura che gli italiani e specialmente i genovesi siano più felici dei romeni malgrado, rispetto a loro, abbiano più mezzi per esserlo. Ecco tutto!

Magari mi sbaglio. Me lo auguro. Per quanto mi riguarda, da quando lavoro per i Darlings non sono molto infelice; sarà perché la paga è ottima, la casa è quasi sempre vuota eccetto la presenza della piccola Lol, così che nessuno mi rompe la scatole. A proposito della piccola, ormai sono tre anni che vivo insieme a questa bambolina e mi sono

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affezionata tanto a lei. Nancy, la governante, è una persona fredda ed ingrata per non parlare dei suoi genitori: David e Melody Darling. Fanno parte di quel 99% delle persone al mondo che malgrado siano pieni di soldi, di risorse materiali e di conseguenza di possibilità di sentirsi vivi e felici, per me sono dei morti che camminano. Non sanno neanche di essere vivi a forza di odiarsi a vicenda e invidiare gli altri.

Invece io, quando ero in Romania, ero contentissima della mia vita e del mio lavoro alla scuola elementare del paese. Come erano dolci ed affettuosi quei ragazzini , maschi e femmine, che condividevano con me la loro umile merenda, che consisteva in un panino di segale e strutto e qualche mela o pera pallida, intirizita dal tempo; condividevano anche le loro tristezze, le loro emozoni e soprattutto i loro sogni. Tanto piccoli e miserabili erano loro, tanto grandi le loro speranze e i loro progetti! Desideravano tutti, senza eccezione, diventare qualcuno in grado di cambiare le persone, anzi, il mondo intero. Non so come facessero, non so come riuscissero ad amare così fortemente un essere brutto come me… Me lo dimostravano ogni giorno con dei regali commoventi che mi spezzavano il cuore: mazzetti di fiori raccolti nel bosco, pezzettini di porcellana colorata trovata per le strade, pietruzze di tutte le dimensioni tolte alle loro collezioni, tazzine di terracotta rubate alle loro

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madri e nonne, e così via! Ma i regali più preziosi erano per me il profondo silenzio e desiderio di ascoltarmi durante le mie lezioni, con i voti che erano i più alti di tutta la scuola. Infatti io ho avuto, in tutti quegli anni, i migliori risultati! I miei allievi, di seguito alle classe superiori, erano in cima alla lista delle olimpiadi di lingua romena o di matamatica. Poveri miei cuorincini d’oro!

Ma il destino aveva in serbo per me un’altra sorpresa spiacevole, mortificante. Nel 2001, quando ormai avevo raggiunto i quarant’anni, il direttore della scuola venne a mancare. Così è arrivata, non so da dove, la nuova direttrice. Si chiamava Parfene Svetlana, che, come dimostra il nome, aveva delle profonde radici slave. Era bionda, alta più di 1 metro e 75, robusta e con una folta capigliatura rossastra che ondeggiava libera e seducente sulle spalle quadrate. I suoi occhi grigi mi guardavano con una fissità imbarazzante ogni volta che m’incontrava per i corridoi o nella sala professori, come se avessero sempre voluto dirmi: “sei proprio la più sgraziata donna del mondo, sei proprio una pulce per me e ti schiaccerò…”. Subito dopo averla vista o dopo averci parlato stavo male fisicamente e psicologicamente. Era ovvio che mi odiava perché ero brutta. Per lei io ero solo uno scherzo della natura, un’offesa personale. Il fatto che io vivessi e lavorassi

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nello stesso posto dove c’era lei, sotto il suo stesso tetto, era un fallo enorme nei suoi confronti.

Così ha deciso di farmi fuori, metaforicamente parlando. Rispetto a lei Rita dell’orfanotrofio era un angelo! È proprio vero che alla meschinità di certa gente neanche Dio si può opporre: per un anno la direttrice ha rubato alcune cose che appartenevano ai miei colleghi: manuali, quaderni, guanti, pacchetti di sigarette, occhiali da sole, per poi dare la colpa a me! Subito dopo aver commesso l’atto abominevole parlava con le sue amiche ed esprimeva le sue insinuazioni, anzi le sue certezze sulla mia disonestà. La mia! Ho sofferto come un bambino ferito dalla propria madre che prima lo allatta e poi lo getta tra le fiamme dell’inferno! Così nel 2002 ho deciso di cambiare mestiere. Tramite dei giornali ho trovato il mio primo lavoro a Genova come badante presso una donna anziana di 82 anni. Sinceramente, da quando sono in Italia, l’unico posto dove mi sono sentita abbastanza bene è in questa casa: la casa dei Darlings; sarà perché sono quasi sempre sola in casa, eccetto per la presenza della piccola Lol.

Voglio dimenticare il mio passato ma non ci riesco. Oh, no, non è che penso tanto, che rimugino sulle vicende spiacevoli, no per carità di Dio...

Penso alla mia dolce casetta, alle mie caprette ...Tutto quello che mi appartiene è in cura dal mio buon pastore:

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Mitica. Ogni tanto gli mando dei soldi come ringraziamento e per aiutarlo a tirare avanti: ( ha sua moglie, Catrina e i 5 figli...)”

“Mia cara amica,

Spero che tu abbia notato le parentesi che racchiudono dentro il mio diario le pagine del quaderno di Didi. È un artificio del quale vado molto fiera perché questo dimostra, indubbiamente, le mie doti di futura scrittrice di grande successo. Tu cosa ne pensi a proposito?

Dunque... sono riuscita a finire di leggere il diario di Didina, ma purtroppo lei si è svegliata all’improviso e mi ha sorpresa. Si è offesa! Mi ha preso il quaderno e lo ha rinchiuso a chiave nella sua valigetta che tiene nell’armadio. Poi mi ha chiesto:

_”My dear, Darling Lol, vuoi essere mia amica?”

Le ho risposto di sì.

_”Per davvero? Sei sicura di voler essere mia amica? Perché se è veramente così non dovrai mai, ma assolutamente mai, toccare più quel quaderno, intesi?”

_”Sì, Didi”.

E così io e Didi siamo diventate amiche. L’amicizia inizia sempre con una promessa o un giuramento. Noi due, cioè io e te, non ci siamo fatte nessuna promessa semplicemente

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perché non ce n’era bisogno. Noi due siamo un’unica persona, un unico sogno di esistere. A presto. Baci, baci, baci!”

“Mia cara amica,

È un bel po’ che non ti scrivo e nel frattempo sono successe cose che ti devo assolutamente raccontare. Prima di tutto ribadisco il fatto che io e Didi siamo diventate buonissime amiche. Sono decisa a non tradire mai la sua fiducia. Non ficco più il naso tra le sue cose senza il suo permesso; faccio bene, vero? Ok, ammetto di averlo fatto di nuovo nei giorni successivi: ho preso il quaderno dalla valigetta nella speranza che la storia avesse un seguito. Invece no. Allora mi è venuta in mente l’idea di copiare tutto nel mio diario, così, quando sarò grande e diventerò una scrittrice di successo, come ti ho già confessato, scriverò un po’ anche di lei. Sì, sì, mi dirai che c’è ancora tempo ecc...ma io voglio avere la sua storia alla portata di mano, capisci? Non si sa mai nella vita, può capitare che il quaderno sparisca, che Didi lo bruci o semplicemente che lo distrugga per pudore... Perché come hai potuto notare Didi non è una di quelle persone che parla a tutti di sè… È la persona più discreta che ci sia a questo mondo ed io, dato che mi regala tanto in questi giorni quando mi sento così sola e abbandonata, voglio donarle a

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mia volta qualcosa. Quando lei sarà ormai vecchia, diventerà la protagonista, l’eroina di un romanzo insolito, poiché lei è una romena che ha vissuto esperienze totalmente diverse da tante altre persone. Lei mi offrirà l’occasione di descrivere ambienti poco conosciuti come l’orfanotrofio... Da ora in poi però starò buona e tranquilla, così guadagnerò la sua fiducia e lei mi racconterà altri dettagli di quella vita inconsueta, strana…Brrrrr...mi vengono i brividi solo al pensiero, cara amica mia...

Comunque sono stata fortunata. Di questa seconda effrazione non si è nemmeno resa conto. Una volta copiato tutto ho rimesso il diario al suo posto. E a cominciare da adesso sì, lo posso giurare, che non ficcherò più il naso tra le sue cose. Mi puoi credere, io sono una persona di parola! Aspetterò con pazienza il giorno giusto per farle delle domande e ci puoi scommetere che lei sarà felice di accontentarmi, rispondendo a quanto le chiederò; sono la sua adorata bambina, come mi ripete sempre.

La settimana scorsa la nostra casa era piena: c’erano mamma e papà, Nancy e Andrew, io e Didi. Così ho dovuto ritornare al ritmo di prima: colazione, compiti, pranzo, riposo, di nuovo compiti e finalmente alla sera con la mamma in camera mia che mi rimboccava le coperte”.

_”Mamma?”

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_Sì, my dear?”

“Che bella è la mamma, rispetto a Didi, con i suoi occhi grigi come il cielo prima della pioggia, quando le nuvole si radunano sopra le nostre teste, burrascose, arrabbiate. Le sue ciglia sono lunghe e truccate con mascara di qualità. Non ho mai visto la mamma senza trucco. A volte, anni fa, quando eravamo ancora a Londra, mi capitava di dormire assieme a lei: ci svegliavamo quasi nello stesso momento. Lei, come sua abitudine, mi toccava di sfuggita una spalla, mi arruffava i capelli e si ritirava in bagno. Alle 9.30, per la colazione, era già pettinata, profumata, e notavo delle macchie rosse sulle gote bianchissime; le labbra con il gloss, completamente vestita nei suoi deux-pieces color pesca, il suo colore preferito, segno che la sua giornata di lavoro cominciava. Nessuna traccia della giovane donna della sera prima, in una camicetta di seta bianca, morbida e trasparente, sopra le ginocchia rotonde e belle come quelle delle statue che si trovano ovunque nella nostra abitazione. Con i capelli color miele che mandavano, verso il mio cuscino, un’incantevole fragranza, un miscuglio di rose e mughetti, e che scendevano morbidi e vellulati sulle sue spalle scoperte, come di marmo. Quando penso a lei la memoria viene invasa subito da questo indimenticabile profumo e il cuore mi si riempe di tandresse”.

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_”Mamma mi racconti una fiaba?”

_”Una fiaba alla tua età, dear Lol? Ormai sei una signorina, hai 12 anni!

_”Mamma, da grande voglio fare la scrittrice.

_”La scrittrice?” Ripetè lei.

_”Sei d’accordo, mamma?”

_”Ok, my dear” - mi disse pensosa, dopo una pausa.

Poi mi rimboccò le coperte, mi arruffò i capelli con le sue dita lunghe e piene di anelli, il cui tocco mi sembrò quello di una catena con la quale leghi un animaletto perché non scappi.

L’indomani, sul tavolo del soggiorno, mentre facevamo colazione, noi due sole, la mamma mi fece vedere come funziona il PC. “Ebbene sì, mia cara amica, hai capito bene, mia mamma mi ha regalato un computer tutto mio!”

_”Te l’ho comprato giorni fa. Non avevo intenzione di regalartelo adesso, ma visto il tuo desiderio di fare la scrittrice da grande...”

“Mia cara amica!!”

“Adesso hai capito per quale motivo mi è venuta una descrizione della mamma così incantevolmente bene, vero?

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È tutto il mese che sto facendo pratica. La mia decisione di fare la scrittrice è ferma. Ho cominciato già a scrivere sul Microsoft Word un piccolo romanzo. Il titolo è: My friend Didi. Ho scritto un po’su tutti i membri della mia famiglia e per quanto riguarda la nostra cuoca mi sono ispirata abbondantemente alle sue stesse pagine. A dire la verità, lei stessa è stata l’origine dell’ispirazione per la descrizione che ho fatto prima della mia mamma. Non avrei mai pensato di prendere come modello, in qualità di futura scrittrice, una persona che vive ogni giorno tra mucchi di verdura, polli e pesce surgelato, bottiglie di olio e passata di pomodoro! Sì!, ma lei è una cuoca che in passato faceva la maestra! Adesso ti lascio. Ho i compiti da fare. Poi mi esercito sul PC. A presto. Baci”.

“Mia cara amica,

Sono 2 mesi che non mi senti. Sono molto infelice. Non riesco neanche a scriverti i motivi. Ti dico solo che sono due. Uno più doloroso dell’altro...”

“Mia cara amica,

È passato un altro mese ma il mio dolore è lo stesso. Non esco più nemmeno in giardino a giocare. Faccio i compiti e ogni tanto mi diverto con la gattina. Le ho trovato un nome:

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Didi. In memoria di lei. Hai capito bene: Didi è andata in un mondo migliore…

“Mia cara amica,

Ti dicevo che Didi è mancata. Sì, è morta in un incidente stradale, mentre ritornava dal mercato, carica di borse. La mamma ha spedito il corpo nel suo paese d’origine e ha provveduto a tutte le spese per il funerale. Mi ha promesso che andremo a trovarla ogni anno. Povera mamma, anche lei sta soffrendo un sacco: papà invece è sparito nel nulla. Nessun segno di vita. Nessuna traccia. Ho sentito la mamma dire a Nancy:”

_”Spero tanto che non gli sia successo niente di grave. Spero che sia scappato insieme alla sua adorata Megan. Così è la vita, mia cara...Da oggi dovrò occuparmi da sola della gestione del Carrefour. Io a Londra non ritorno. Tu cosa dici? Faccio bene a rimanere qui?”

_”Secondo me, sì, signora Darling”.

_”Ma tu ed Andrew, rimarrete con noi, vero? Con me e la mia piccola Lol?”

_”Ma certo, signora Darling!”.

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_”Bene. Sono contenta. Almeno ho voi due. Ti occuperai tu di trovare un’altra cuoca?”

_”Certo”.

_”Grazie, Nancy. Cosa farei senza te e senza Andrew adesso che ho il cuore completamente spezzato? Povera, cara Didi… Non so se sto soffrendo più per la sparizione di David o per quella di lei. Sono sicura che non ho mai sofferto così tanto in tutta la mia vita. E il motivo del dolore è soprattutto lo smarrimento totale della mia dear Lol.

_”Lei è solo una bambina, signora. I bambini si riprendono rapidamente. Non hanno ancora la vera percezione della realtà…”

_”Tu credi? Me lo auguro più di ogni altra cosa, Nancy”.

“Mia cara amica,

Non ho dimenticato ancora il mio profondo dolore, e non sono sicura che Dio mi farà questa grazia”.

“Mia cara amica,

La mia gattina è proprio una sciocchina. In questi giorni di marzo giochiamo spesso tra gli alberi pieni di germogli nel

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nostro grande giardino. Sono passati 5 mesi. Vuoi sapere se soffro ancora? Sì! Comunque ho ripreso da poco le lezioni con Nancy. Abbiamo anche una nuova cuoca, è francese e si chiama Madelène. La mamma è quasi sempre a casa e ne sono molto contenta. Di papà ancora nessun segno. La mamma ha denunciato la sua scomparsa. Ogni tanto viene a farci visita un detective privato con i baffi che sembra Poirot in persona. Si chiama Ludovico Tempera. È buffo e simpatico, e sembra che alla mamma faccia piacere la sua compagnia. Logico! Lui è sempre di buon umore e ci racconta tante barzellette. Malgrado ciò io non rido. Sono ancora molto triste…”

“Mia cara amica,

Poirot mi ha regalato un binocolo, così ogni giorno mi diverto a sbirciare nei pressi della nostra abitazione e tengo sotto osservazione quasi tutta la zona. Vedo abbastanza bene la Casa Grigia, il parco Lady Mary’s Paradise e soprattuto il Carrefour. Lo faccio, da una parte perché spero di veder ritornare mio papà, dall’altra perché mi piace sapere quando mamma ritorna. La vedo dalla finestra della camera degli ospiti del terzo piano. Esce dal supermercato, dice qualche parola al guardiano, saluta qualche cliente e poi sale in macchina. Nonostante che tra casa nostra e il Carefour ci

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siano all’incirca 100 metri, la mamma va sempre in macchina. Dice che l’abitudine è una seconda natura.

Questa settimana ho tenuto sotto osservazione anche un’altra persona: è una ragazza più grande di me, moretta, con i capelli neri che gli saltano sulle spalle mentre fa jogging. Indossa una tuta di colore rosa acceso, (il mio colore preferito). Ad un certo punto si è fermata e si è seduta su una delle panchine del vialetto principale di Lady’s Mary Paradise. Di solito legge, beve da una bottiglietta, sicuramente acqua, e poi rimane seduta lì anche mezz’ora. Guarda sempre verso il cielo, dagli alberi sotto i quali sosta, come se volesse contarne i rami. Non riesco a vedere benissimo la sua faccia, però da quello che intuisco sembra carina e ha un’espressione dolce e gentile. È sempre sola e questo mi incuriosisce. Voglio dire che se è una persona sola come me potremmo fare amicizia, vero? Posso così sostituire Didi. È vero che ci sei tu, mia cara, ma tu non parli, non scrivi, devo fare tutto io. Per un po’ può andare bene ma poi uno si stanca. Cosa ne dici? Ho ragione? Perfetto. Sono contenta che tu non ti sia offesa. Domani proverò ad avvicinarla. Magari le farò leggere il mio diario, così si creerà subito un po’ di fiducia tra di noi. Senza fiducia non può esistere nessun tipo di rapporto: tanto meno l’amicizia! Questa è

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semplicemente un viaggio piacevole verso il proprio cuore e quello dell’altra persona…”

XXIV

Questa estate sembra che non voglia più lasciarci... Per fortuna che ho fatto visita in Romania a maggio, quando le temperature erano ancora sopportabili. È stata una decisione improvvisa e determinata dalla volontà di più persone; una di loro è mio marito che, visto che non era più stato a Bucarest dal mio stesso numero di anni, desiderava tanto rivedere i suoi...

Le altre sono tutti i nostri amici italiani. Al villaggio stanno tutti bene, in vita e sani. Io e George abbiamo trasformato la vecchia capanna in una bellissima villetta a due piani. Ciascuno possiede adesso una sua camera da letto e nell’abitazione oltre a una cucina enorme dotata dei più moderni utensili e fornelli, ci sono 3 bagni ultra spaziosi. In più la mia famiglia riceve da noi anche una cospicua somma mensile. E tutto grazie alla famiglia Darling dei quali siamo diventati carissimi e fedelissimi amici, da quel marzo di 7 anni fa. Giorno per giorno, ora per ora, lentamente, così come si

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costruiscono tutte le solide relazioni. Tutto grazie ad un piccolo angelo, che sei tu, “my dear Darling Lol.”.

_”Irina?”

_”Si, Lol?”

_”Verrai con noi a Londra anche quest’anno?”

_”Certo, come potrei non onorare un invito così piacevole da parte tua e di Melody, mia cara?”

Lol ormai ha 19 anni e studia all’Università di Oxford, una delle migliori del Regno Unito, facoltà di Lettere. Non ha mai smesso di sognare di diventare una scrittrice. D’altronde ha anche un debito sentimentale nei confronti di un’amica sincera ed affettuosa: Didi.

Ecco, sono arrivata in un momento della mia storia dove devo assolutamente mettere i puntini sulle i: anche io ho scritto queste righe per l’amore che provo (e non ditemi che mi sto contraddicendo, perché ciò succedeva molto, ma molto tempo fa!) per certe persone, la cui identità è gia conosciuta ai miei possibili lettori. Ma ci saranno lettori di queste mie note oltre a me? That is the question!”

My dear Darling, Lol è diventata una giovinetta bella, spiritosa, molto intelligente e colta, esattamente il mio opposto alla sua stessa età! “Nonostante ciò siamo

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buonissime amiche”, dico tra me e me sorridendo. È sera, mi trovo sul balcone della nostra casetta a dar da bere ai miei fantastici gerani, che frattempo sono aumentati di numero, ed oltre a quelli rossi ce ne sono anche bianchi, viola e gialli. George è fuori ad incontrare un carissimo amico d’infanzia appena arrivato da Bucarest e per qualche attimo provo gelosia ed invidia nei suoi confronti, perché io non ho nessuna cara amica romena. Subito dopo però mi tranquillizzo e sussurro al mio cuore affamato d’amore:

_”Sii ragionevole, realista e soprattutto sii affabile; hai degli amici italiani leali e divertenti, hai ritrovato la tua famiglia di origine, che grazie agli stessi italiani non vive più come una volta, come Quella sporca dozzina, per citare il nome del celeberrimo film. Ma cos’altro vuoi dalla vita?”

Sopra di me il cielo, addobbato di innumerevoli stelle, questi enigmatici occhi dell’infinito, mi guarda e sembra che mi stia dicendo con la sua enorme e fredda saggezza: ”non ti preoccupare, tutto passa, tutto è un continuo ed eterno presente, perciò, cara Irina, cogli l’attimo, guardami bene, goditi la mia unica bellezza e poi vai a riposarti.

Voi, gli abitanti della terra, per riuscire a vedere bene noi ed il nostro stupefacente futuro, fatto di tutto o di nulla, di alfa ed omega, avete bisogno di essere forti, in piena forza fisica e mentale. Buonanotte, Irina.”

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Nel letto, con le guance affondate nel cuscino, inspirando con piacere il fresco profumo di borotalco, decido di comunicare a George che, nei mesi prossimi, magari ad ottobre o novembre, desidero invitare mamma e papà a casa nostra. Vorrei che stessero con noi, se non per sempre, almeno per...per il tempo che vorranno. Punto. Non bisogna mai dimenticare da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo, per parafrasare Paul Gaugain. È così, mio caro infinito, no? Buonanotte a te e sogni gentili e tolleranti nei nostri confronti, che siamo deboli, fragili anime terrestri e, ti supplichiamo, dacci un po’ di pioggia e diminuisci i gradi di questi terribili giorni di fuoco...

XXV

Per ciò che mi riguarda agosto è insopportabile così come lo sono stati giugno e luglio. I mass-media non fanno altro che parlare di questo. E non solo loro. Nel Carrefour, come in tutti gli altri supermercati, si sta bene perché c’è l’aria condizionata. Con tutto ciò le conversazioni dei clienti sono di questo genere:

_”Mamma mia, mi sto sciogliendo...”

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_”Santo cielo, nella mia abitazione riusciamo a malapena a respirare...”

_”Dicono che è tutta colpa di Donald Trump...”

_Ma, no, cosa dici, marito mio, la colpa è della Brexit...Se l’Inghilterra non avesse deciso di uscire dall’Europa...”

Si sentono queste frasi sciocche e senza senso, si desidera sdrammatizzare straparlando in modo insolito, quasi scherzandoci sopra. Gli unici che prendono l’argomento dei cambiamenti del clima, sul serio, e analizzano tutti i problemi che si potrebbero ritorcere contro di noi a causa di ciò, sono gli scienziati, gli ecologisti. Una sera di 2-3 settimane fa, alla TV hanno mostrato come è diventato il nostro pianeta negli ultimi tempi, a causa dell’inquinamento e del riscaldamento globale: un’enorme palla di fuoco!

Anche io e George soffriamo molto il caldo, specialmente di notte. Melody Darling ci ha regalato un bellissimo apparecchio per l’aria condizionata però mio marito si lamenta:

_”Irina, questo condizionatore mi provoca più malessere che benessere. Mi viene mal di gola, mal di schiena...”

_”Amore, il mal di schiena ti viene per il tuo lavoro!”.

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_”Cioè?”

_”Stai sempre chinato per tagliare l’erba e così via...”

_”Il lavoro di giardiniere mi gratifica molto di più che quello di muratore, lo sai, no?”

_”Certo, e sono perfettamente d’accordo con te. Se è tutto qui il problema, non accenderemo più il condizionatore” - lo rassicurai; e da quel giorno niente più condizionatore nel nostro appartamento. Quando rientro dal mio job mi sembra di entrare in un forno. Mi aspetto da un momento all’altro che il mio corpo cominci a bruciare come una candela; nel caso, preferirei una di quelle superprofumate e, se fosse possibile, desidererei diffondere nei dintorni una squisita fragranza di fragola.

Questo tipo di conversazioni tra me e George creano forti dissapori così, con mio immenso dispiacere, succede che lui non mi parli per dei giorni interi oppure che non mi dia più il bacio quando esce per andare a lavoro e quando rincasa. In seguito pensai a come trovare la via giusta per la riconcilazione. All’improvviso esclamai, guardandomi nello specchio del bagno riservato agli operai del Carefour:

_”Un bambino, ecco cosa farò! Mi darò da fare! Da ora in poi non mi proteggerò più e scommetto che nel giro di una settimana il test di gravidanza diventerà blu! Poi, qualsiasi

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cosa a lui sgradita farò, non avrà più tempo di occuparsene, perché lo sanno tutti che più tempo hai da perdere, più lo occupi in delle sciocchezze. Una volta ho sentito un medico dire in TV: “quando una persona non ha nessun hobby e possiede i mezzi economici per vivere tranquillamente la sua vita, se è una persona di carattere perennemente ansioso, si ammala di qualsiasi malattia. Tutte le malattie del mondo sembra che trovino in lui, lei, un meraviglioso ed accogliente ospite. Sì, tante persone, e mi riferisco a quelle che non hanno problemi di nutrimento o importanti disagi sociali o di salute, non sanno apprezzare l’opportunità che il loro destino ha generosamente regalato loro l’opportunità di essere semplicemente se stessi, assolutamente nient’altro.

_”E così, mio caro George, la tua ipocondria sarà sconfitta e se ne andrà da qualchedun altro” - brontolo mentre mi lavo le mani per la settima volta. - Come se io non avessi nessun problema di salute... Ma io almeno ho il buon senso e la maturità di ricordarmi l’età che ho e soprattutto che siamo fatti di carne ed ossa, perciò è ovvio che a certi dolori dobbiamo dare il benvenuto con la massima naturalezza, come se prendessimo un caffè... Invece lui no, lui deve sempre esagerare, e così io soffro anche per lui oltre che per il caldo soffocante, che mi fa sentire come un fiore in un

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bicchiere di grappa e sudo come se fossi nel deserto del Sahara... Insensibile, egoista che non è altro!!!

Buttai la testa sotto il rubinetto e mi bagnai completamente i capelli neri che così sembravano ancora più scuri. Mentre mi asciugavo le lacrime notai una presenza: appoggiata al muro verniaciato di azzurro c’era la mia amica, Trudi Villa.

_”Ciao, Trudi, cosa ci fai qui? “

_”Stavo ascoltando la recitazione della mia amica romena, Irina, nella sua formidabile interpretazione dell’Amleto al femminile...”

_”Dai, Trudi, non mi prendere in giro anche tu perchè non ce la faccio più… Tutta questa fatica per riempire e svuotare sempre gli scaffali, di cambiare ogni minuto la posizione della merce; oggi l’aglio lo trovi là, domani al posto suo c’è il miele alle castagne e così via. Per non parlare di questo maledettissimo Lucifero che non ci vuole abbandonare e di mio marito, che non sopporta di mettere in funzione il condizionatore d’aria perché è molto delicato di salute... Non ti ci mettere anche tu adesso, ho già i miei problemi, mi scoppia la testa e ti giuro che...”

_”Oh, oh, calmati, eh? Non ti avrà mica dato di volta il cervello, vero?”

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_”Scusa” - mormorai tutta imbarazzata.

Ci abbracciammo e andammo a lavorare agli scaffali del Carrefour, il gigante supermercato che, tra le altre cose, permette agli italiani di stare al fresco. Ci stavamo occupando di cambiare l’impostazione degli scaffali; Trudi era così vicina a me che potevo quasi toccarle i capelli, che erano più lunghi del solito e coloratissimi, rossi rosa marroni neri arancioni (sette anni non hanno cambiato i suoi gusti e neanche quelli di suo marito, malgrado adesso abbiano un bambino di … 1.825 giorni, per l’esattezza!). Ad un certo punto notai due persone con un fisico e un tipo di abbigliamento che mi ricordarono certi racconti di mio marito del 2009, quando our family friend, Julien Dennis, mi aveva trovato l’impiego; l’anno in cui cominciai a manovrare con destrezza le migliaia e migliaia di barattoli e conserve, recipienti di vetro, di plastica e metallo, che disponevo in riga come si fa con le collezioni dei soldatini di piombo durante l’adolescenza.

_”Trudi, guarda quei due là”. – le dissi con apprensione.

_”E beh?” - replicò lei sorridendo con ironia. – “E dopo che li ho guardati, cosa dovrei concludere, Irina?”

_”Guardali con attenzione, ti supplico, Trudi Villa, oppure non farai più parte del mio elenco di amici fidati” - la

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minacciai sottovoce, cosa che, con mia sorpresa diede dei risultati.

_”Oh – esclamò - mi sembrano quei due inglesi dei quali mi avevi raccontato moltissimo tempo fa...”

_”Esatto. Sembra siano proprio quei due lì...Guarda, lei ha i capelli rossi come lingue di fuoco che le arrivano fino alle spalle ed indossa una tuta...Di che colore è? Rosa fucsia?”

_”Sì. Ma l’importante è il beretto nero sopra gli occhi... e, guarda caso, indossa delle adidas di colori differenti!”

_”E lui? Lui? Come è vestito il suo accompagnatore? Dai, Trudi, sbrigati, guarda bene e dimmi!”

_”Smettila con questo atteggiamento, Irina, sembri una…”

_”Una posseduta... - dissi io spalancando gli occhi, un po’ in ansia ma soprattutto furente. - Trudi, ma tu non capisci la gravità della situazione…non capisci che quei due sono delinquenti? Semplicemente due delinquenti di prima categoria. Dimmi, dimmi come è vestito lui? Indossa o non indossa le stesse cose di lei?”

_”Intendi le adidas di colore differente? Sì, Irina, hai veramente ragione. Se vuoi diventare l’eroina dell’8 agosto 2017 stai sicura che ci riuscirai, mia cara! Perché, in più, come

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prova decisiva, lui ha un codino nero; i suoi capelli corvini ed untuosissimi sono stretti in un codino nero che a me sembra un serpente... un maledetto e schifosissimo serpente... - aggiunse Trudi con un tono scherzoso, e che denotava un profondo disprezzo nei confronti della sua collega di scaffali nonché sua migliore amica.

La guardai sorpresa, ma lei non capiva la gravità della situazione, cioè la malvagità di quelle due persone, che solo Dio sa quanti bambini avevano rapito e ...

_E va bene, Irina, se è tutto qui quello che devo fare per te, amica mia, per renderti felice e contenta, lo farò.

_”Cioè, cosa farai? Spiegati. Punto primo non capisco le tue intenzioni, punto secondo io non ti ho chiesto niente. Ti ho detto semplicemente di guardare con attenzione quei due individui che stanno pagando la spesa alla cassa e sono pronti per uscire, di dirmi quello che vedevi. Per l’amor del cielo, Trudi, non è che ti ho chiesto di fare il giro del mondo in 80 giorni! A me quei due sembrano... insomma... magari mi sbaglio... magari sono solo maledettamente paranoica...Se George non mi avesse raccontato, anni fa, delle sciocchezze...”

_”Dai, Irina, non essere così esagerata! Adesso tu stai tranquilla qui, sul posto di lavoro, vicino a questi antipatici

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scaffali pieni di barattoli e scatole, mi copri le spalle e io vado ad inseguire quei due. Vado a vedere la macchina, la targa e così sarai contenta, mia cara...”

_”Ma, Trudi, non ce n’è proprio bisogno” - sussurai con un filo di voce, completamente imbarazzata dalla disponibilità immediata della mia amica.

_”Invece sì-. Ormai ho preso la mia decisione, OK? Ormai ci sono dentro anche io...”

_”Ok” – risposi ancora molto a disagio.

Ma cosa mi è successo? Mica sarò impazzita così, all’improvviso? Per non parlare dello spavento che mi è preso nel vedere la sagoma del manager, Franceso Chiara, che parlava ad un nostro collega, proprio a due passi dallo scaffale dove io e Trudi, invece di lavorare, discutevamo di cose che non c’entravano né con i nostri interessi, né con quelli del Carrefour. Con mia fortuna egli se ne andò senza neanche accorgersi della mia presenza. Continuai a lavorare controvoglia, tutta preoccupata per la mia amica quando, dopo circa 5 minuti, sentii il suo fiatone sul collo.

_”Guarda, ho scritto il numero della targa, Irina - mi disse mostrandomi un pezzettino di cartone ingiallito, con la faccia tutta rossa e con la fronte piena di gocce di sudore, a causa

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dell’alta temperatura che c’era fuori ma anche per l’eccitazione di aver fatto qualcosa d’insolito, o almeno penso. - È una mercedes blu marine - continuò bisbigliando, senza farsi sentire dai clienti del supermercato. - E indovina se ne sei capace chi c’era ad aspettare quei due dentro la macchina?”

_Chi?” - la guardai sbalordita, come se avessi appena visto il fantasma di Edgar Allan Poe, lo scrittore del mistero e del lugubre, che a me, sinceramente, non ha mai fatto grande piacere leggere .

Se Julien Dennis non avesse insistito a regalarmi quei suoi volumi di racconti, io, amante di tutt’altro tipo di letture, sono certa che non avrei mai chinato il mio sguardo su quelle righe pesanti ed ansiose al di là dei limiti dell’immaginazione della gente comune, come me.

_”Una bimba di circa 5 anni!

_”Una bimba piccola!” - esclamai assolutamente stupita, sgomenta.

Per non farla breve, subito dopo aver lasciato il Carrefour intorno alle 14, incominciammo a cercare la mercedes nella zona. Era un pomeriggio asfissiante di venerdì ed entrambe grondavamo di sudore, ma questo non ci impedì di proseguire nella ricerca, stile tenente Colombo. Per

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fortuna George era partito per Roma con il suo padrone, per non so che tipo di acquisti urgenti per l’abbellimento del giardino di cui lui era custode, così io ero libera fino a domenica sera. Verso le 16 ci sedemmo stanchissime su una panchina del parco Lady’s Mary Paradise. Mentre affamate ci preparavamo a trangugiare dei panini al provolone piccante con peperoni gialli e verdi e pepe bianco in quantità industriale, vedemmo sul vialetto la mercedes, che si indirizzava verso il portone della Casa Grigia, lo strano residence dei Reynolds, oggetto di innumerevoli pettegolezzi.

Come ad un segnale cominciammo a correre nella stessa direzione rimandando il nostro pranzetto. Quando arrivammo, la mercedes stava entrando nel cortile e davanti ai nostri occhi c’era come al solito solo l’altissimo recinto forgiato in ferro, freddo ed impenetrabile. Ci sedemmo abbattute sull’unica panchina nell’immediata vicinanza e decidemmo di riflettere bene prima di agire in qualsiasi modo, godendoci nel frattempo il sapore squisito dei panini. Sia io che Trudi andiamo matte per i peperoni e per il loro stretto parente, il peperoncino, perciò ognuna ne tirò fuori due esemplari piccolissimi, ma che ci bruciarono le labbra come se avessimo mangiato una cipolla e mezza testa d’aglio. Da quanto pizzicavano ci scorrevano le lacrime; sospirammo tutte e due ma senza lamentarci troppo a parole per il timore

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che qualcuno ci potesse sentire, magari qualche guardia che ci stava spiando tramite le telecamere disposte visibilmente in cima al recinto.

Dopo circa 20 minuti, verso le 17 ci avvicinammo al portone e con il cuore in gola tutte due, citofonammo.

_”Si? “- sentimmo dire quasi subito. – “Qui è il residence Reynolds. Chi è che suona?” - ci chiese una voce femminile. – “Io sono Sara Ciro, la governante...”

_”Buongiorno, signora Ciro...Stiamo cercando...”

Poco dopo ci trovavamo in un salotto lussuoso come penso che solo il Re Sole possedesse, sedute su due poltrone morbidissime nelle quali sprofondammo fino a perderci, davanti a una signora di circa 60 anni, di altezza media, con delle forme rotonde, uno sguardo azzurro e limpido e un sorriso bonario, di una gentilezza più unica che rara; indossava un vestito nero e delle scarpe senza tacco in tinta, un grembiule bianco-giallastro con delle tasche enormi, piene di chiavi e lucchetti. Decidemmo di raccontarle la nostra storia. La Signora Sara Ciro ci ascoltò attentamente, senza interruzioni, muovendo ogni tanto, da destra a sinistra, la sua testa con la capigliatura riccioluta, grigia e cortissima, lasciando bene in vista il collo arrossato e pieno di rughe, con la pelle cadente, come se volesse rimproverarci per la nostra

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indiscrezione, la nostra troppa curiosità nei confronti di persone a noi totalmente sconosciute. Alla fine ci disse:

_”Mie care ragazze, capisco benissimo che la molla che ha fatto scattare questi pettegolezzi è, come succede sempre, la bocca di certe persone, che parlano senza tener conto della voce della ragione. Come diceva un filosofo, il sonno della ragione genera mostri... Sì, avete perfettamente il diritto di pensare che Cindy Hector e Danny Rice…”

_”Cindy Hector e Danny Rice! E chi sono questi?” – chiese subito Trudi.

_”Ssst…per favore, signorina, non m’interrompa, o non vi raccontero più niente e vi chiederò di lasciare subito la residenza – la ammonì la governante, con uno sguardo leggermente severo”.

_”Trudi, stai zitta, ti prego “- intervenni anche io irritata.

_”Ok, Ok, me ne sto zitta “- disse lei alzando gli occhi al cielo.

_”Trudi, non fare l’offesa, non ce n’è alcun motivo...”

_”Care ragazze, siete qui per parlare tra di voi, oppure per avere dei chiarimenti sull’atteggiamento dei miei padroni?”

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_”I suoi padroni!” - gridò Trudi sbigottita.

_”Trudi” - mormorai premendo l’indice sulla bocca. – “Signora Ciro...”

_”Sì, avete sentito bene. Le persone che voi pensate che abbiano fatto non so che cosa, sono i cugini di Mrs Reynolds e la bimba: Mildred e la loro figliola di 5 anni. Vengono a Genova ogni tanto, è vero che hanno un modo eccentrico di vestirsi ma da qui a pensare che sono degli assassini...”

_”Rapitori di bambini, signora Ciro” – puntualizzai con le gote in fiamme e tutta sudata, con un unico desiderio: che si aprisse un precipizio e che m’inghiottisse per sempre.

_”Oh, signora Ciro, ci scusi tanto” - intervenne subito Trudi guardandomi, non sapendo cos’altro aggiungere.

_”Sì, signora S..S..Sara, ci scusi tanto” - riuscii finalmente a dire borbottando.

Davanti al cancello Trudi mi guardò di nuovo ma invece di essere ferocemente arrabbiata con me quasi urlò:

_”Che mi venga un colpo! Tu, romena, sei proprio speciale, sai!”

Cominciammo tutte due a correre sul vialetto del parco con un unico scopo: ridere tranquillamente senza

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essere viste da nessuno. Ridemmo fino a quando ci venne mal di stomaco e ci sentimmo le guance gonfie e doloranti.

Arrivata a casa, dopo cena, telefonai a Lol e le feci il riassunto dell’intera vicenda.

_”Oh, mio dio, Irina, cosa avete combinato? Sai che potrebbero denunciarvi per diffamazione!”

XXVI

È domenica mattina e mi trovo da sola in cucina. Mentre fumo una sigaretta e prendo una tazzona di caffè forte, amaro e bollente, guardo il telegiornale:

“Questa mattina, 10 agosto 2017, è stata arrestata Brigite Stanford, la celeberrima dottoressa in legge, di origini genovesi ma che lavora a Londra, dove possiede un proprio studio legale. La dottoressa ha 39 anni ed è molto amata dai suoi colleghi... È accusata di aver rapito, a partire dal 2007 fino ad oggi, almeno 10 bambini, dei due sessi. Tutti, nel giorno del rapimento, avevano l’età di 9 anni... Sembra che la cifra 9 abbia uno stretto legame con il passato della bella

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Brigite, che ha perso il suo fidanzato, il suo primo amore, all’eta di 19 anni, in data 9... Nessuno sa dove siano e cosa sia successo ai bambini... Sembra che un ruolo importante nell’arresto della donna l’abbia avuto il detective privato, Ludovico Tempera, soprannominato dagli amici stretti e dai parenti, Poirot, per le sue eccezionali doti investigative... Egli ha risolto anche altri casi, in collaborazione con l’Interpol, FBI ecc...”

_Ma senti, senti, questo Poirot, cosa combina, però il papà di Lol non riesce a trovarlo - borbotto e spengo la TV.

Non voglio più ascoltare. Mi sono occupata persino troppo di questa vicenda. Esco sul balcone tra i miei gerani ed inspiro incantata la loro dolce fragranza. “Domani lavoro di pomeriggio” penso, “così andrò a fare visita al fioraio. È arrivato il tempo di acquistare anche delle rose, giusto per un po’ di compagnia”.

Sulla stradina davanti al palazzo c’è gente che passeggia, malgrado siano appena le 8.45 di mattina; l’aria è già tremendamente calda. Si preannuncia un altro giorno di fuoco.

Rientro in cucina e apro il frigo per decidere se devo o meno uscire a fare la spesa. Dopo aver fatto la lista mi rendo conto che mancano un sacco di ingredienti per una buona

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cena assieme a tutti i nostri amici. “Ma prima farò una telefonata” mormorai tra me e me.

_”Pronto, Lol?”

Mentre ascolto le parole della mia giovane e gentilissima amica guardo verso la finestra: tra le tende pesanti, anticalore e antiafa, leggermente distanziate l’una dall’altra, è riuscito ad entrare un timido raggio di sole. Vedo la sua luce dorata disegnata sul pavimento di marmo bluastro e non so per quale motivo, ma comincio a ripensare a tutto quello che ho passato; tutte le difficoltà, tutti i dolori, tutta la malinconia che avevo provato fino ad allora svanisce in un attimo. Mi accorgo di stare bene e di essere pronta a sorridere di nuovo alla vita, anche grazie all’affetto e all’amore di mio marito, dei miei amici, e soprattutto della mia piccola Darling Lol…

FINE