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Il volto della storia NOVECENTO a cura di ALFREDO CARRELLA 3

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Il volto della storiaNOVECENTO

a cura di

ALFREDO CARRELLA

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INDICE

9 Introduzione

12 L’IMPERIALISMO

~ TEORIE SULL’IMPERIALISMO. Lenin: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Schumpeter: il capitalismo è antimperialista.

~ GLI IMPERIALISMI. L’epoca dell’imperialismo. Il nazionalismo. Il razzismo. Le fonti energetiche. L’Europa in Africa. Gli Stati Uniti.

19 L’ETA’ GIOLITTIANA

~ CARATTERISTICHE GENERALI. Giolitti sale in cattedra. Il decollo industriale. Il dramma dell’emigrazione. Come Giano bifronte.

~ CON I SOCIALISTI. Giolitti e il Partito socialista. Minimalisti e massimalisti. Lo sciopero del 1904.

~ CON I CATTOLICI. La Democrazia cristiana. Il Patto Gentiloni. La “settimana rossa”.

~ LA POLITICA ESTERA. La Libia: “lo scatolone di sabbia”.

25 LA GRANDE GUERRA

~ LE CAUSE E L’INIZIO. Le cause. La scintilla. Dalla guerra lampo alla guerra di posizione.

~ L’ITALIA E LA GUERRA. Neutralisti e interventisti. Il segreto Patto di Londra. Il fronte italiano.

~ LA GRANDE GUERRA. 1915-16: nel cuore della guerra. La vita al fronte. La tecnologia militare. La massificazione della guerra. Il ruolo dello Stato nell’economia. La propaganda e il consenso. Il genocidio degli Armeni. 1917: l’anno della svolta. La disfatta di Caporetto. Fasi finali del conflitto.

~ I TRATTATI DI PACE

36 LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE

~ LE CONDIZIONI STORICHE E I MARXISTI

~ LE TRE RIVOLUZIONI. La Rivoluzione del 1905. La Rivoluzione di febbraio. La Rivoluzione d’ottobre: inizio della rivoluzione internazionale.

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~ IL POTERE SOVIETICO. L’Assemblea Costituente. La guerra civile. Elementi di dittatura proletaria: La Costituzione del 1918. Il ‘Comunismo di guerra’ e la Nep.

~ LA RIVOLUZIONE SCISSA

44 Il BIENNIO ROSSO

~ LE RIVOLUZIONI FALLITE

~ IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA. La situazione economica. don Sturzo e il Partito popolare italiano. Le elezioni del 1920. Lotte contadine. Le occupazioni delle fabbriche. Partito e sindacato.

~ LA III INTERNAZIONALE.

~ 1921: NASCE IL PCd’I.

52 Il FASCISMO IN ITALIA

~ DAL MOVIMENTISMO SQUADRISTA AL REGIME. I fasci di combattimento. Il fascismo agrario. Fascisti e liberali. La marcia su Roma. Il governo di coalizione. Le riforme. Il delitto Matteotti e l’Aventino.

~ LA COSTRUZIONE DELLO STATO AUTORITARIO. Le leggi fascistissime. La riorganizzazione del partito. Propaganda e consenso. L’uso dei media. I Patti lateranensi. Dal liberalismo allo statalismo. Le corporazioni. Lo Stato imprenditore. Il colonialismo fascista: “un posto al sole”. L’asse Roma–Berlino e le leggi razziali. L’attività antifascista. Totalitarismo perfetto o imperfetto?

63 LA CRISI DEL ‘29

~ IL MEGLIO NEL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI. Ford e il modello “T”. Il consumatore di massa. L’Isolazionismo. I repubblicani al governo. La borsa di New York.

~ Il ‘NEW DEAL’. F. D. Roosevelt. Il programma politico-economico. Keynes e le politiche anticicliche.

~ TEORIE DELLA CRISI DEL ’29. Teorie borghesi. Teoria marxista.

72 L’ASCESA DEL NAZISMO

~ LA GERMANIA DI WEIMAR. Il movimento operaio tedesco. La Costituzione di Weimar. La vergogna di Versailles.

~ LA TRASFORMAZIONE DEL PAESE. L’occupazione della Ruhr. Nasce il Partito nazionalsocialista. IL Mein kampf. La stabilizzazione con Stresemann.

~ L’ASCESA DI HITLER. L’eco di Wall Street. La caduta della Repubblica di Weimar.

~ IL PROGRAMMA NAZISTA. Il rigetto del Trattato di Versailles e l’organicismo. La teoria della razza. L’ascesa elettorale del Partito nazista.

~ IL TERZO REICH. Repressione e persecuzione. L’accordo religioso. La propaganda.

~ ECONOMIA E STATO TOTALITARIO

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~ Hitler al governo. L’“economia di guerra”. H. Arendt: “Le origini del Totalitarismo”.

82 LO STALINISMO

~ L’ASCESA DI STALIN. Trotsky e Stalin. “Il socialismo in un solo paese”.

~ LA COSTRUZIONE DEL CAPITALISMO DI STATO. L’industrializzazione forzata. La collettivizzazione forzata. Bordiga: Struttura economica e sociale della Russia.

~ LO STATO TOTALITARIO. Il culto della personalità. Le epurazioni. I Gulag.

89 LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA

~ LA PROVA GENERALE. Ancora il latifondo. La Repubblica. Falange nazionalista e Brigate internazionali.

92 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

~ I PRODROMI DELLA GUERRA. L’appeseament, l'Asse Roma-Berlino e il Patto anti-Comintern. La svolta del Cominter e i fronti popolari. L’arrendevolezza della Gran Bretagna. L’annessione dell’Austria e l’aggressione della Cecoslovacchia. La Conferenza di Monaco. Mussolini vuole l’Albania. Il Patto Molotov-Ribbentrop. La Germania invade la Polonia: scoppia la Seconda guerra mondiale.

~ 1939-1942. I tedeschi a Parigi. L’Italia in guerra. La battaglia d’Inghilterra. L’Italia in Africa e in Grecia. Gli americani tra isolazionisti e interventisti. Hitler invade l’Unione Sovietica, il Giappone attacca gli Stati Uniti. La guerra civile in Cina e l’attacco giapponese a Pearl Harbor. La Carta atlantica. L’Europa sotto il nazismo.

~ 1943-1945. La svolta di Stalingrado. La caduta del fascismo. L’armistizio con gli alleati. La Repubblica di Salò. Lo sbarco in Normandia. La Conferenza di Yalta e la resa della Germania. La guerra nel Pacifico. La Conferenza di Postdam.

~ DUE FONDI DIS-UMANI DEL NOVECENTO. La shoah. L’uso dell’atomica.

105 DALLA RESISTENZA ALLA COSTITUZIONE  

~ LA RESISTENZA. La Resistenza in Europa. La Resistenza in Italia. Dopo l’8 settembre. Le tre guerre. La costituzione del CLN. Togliatti e la svolta di Salerno. Il governo Bonomi e la disgregazione della Repubblica di Salò. Gli eccidi delle SS. Le foibe. 25 aprile 1945: la liberazione.

LA REPUBBLICA. L’urgenza della Repubblica. La nascita della Repubblica. La Costituzione. Gli organi dello Stato.

118 LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE

~ Il primo Novecento. La Repubblica e il Guomindang. La guerra di liberazione e la Repubblica popolare. I ‘Cento fiori’ e il ‘Grande balzo. I rapporti cino-sovietici. La rivoluzione culturale. Il riformismo di Deng Xiaoping.

123 ONU, ISRAELE, EUROPA

~ ONU7

~ ISRAELE

~ EUROPA. La ricostruzione. La costruzione: da Ventotene alla moneta unica.

129 DUE BLOCCHI, DUE IMPERIALISMI

~ Il nuovo assetto europeo. La divisione della Germania. Gli USA: Dottrina Truman, Piano Marshall e Patto Atlantico. La risposta dell’URSS: Cominform, Comecon e Patto di Varsavia. La crisi greca. La guerra di Corea. Il XX Congresso del PCUS. I ‘fatti di Ungheria’. La rivoluzione cubana. La guerra del Vietnam. Il caso cecoslovacco. L’esperienza democratica cilena. Afghanistan: il Vietnam sovietico.

139 L’ITALIA DAL 1945 AL 1992

~ LA RICOSTRUZIONE (1945-50). Piano Marshall in Italia. Il centrismo.

~ La Cassa del Mezzogiorno.

~ LO SVILUPPO ECONOMICO (1950-73). L’industrializzazione del Paese. Dagli anni ’50 al centro-sinistra. Il ’68. L’’autunno caldo’ e lo Statuto dei lavoratori.

~ IL RALLENTAMENTO ECONOMICO E LA CRISI DELLA REPUBBLICA (1973-92). 1973: primo shock petrolifero. Il femminismo. Gli ‘anni di piombo’. La strategia del PSI. PCI e ‘compromesso storico’. 1980: la sconfitta del sindacato alla Fiat. Il pentapartito. La democrazia inquinata. La democrazia bloccata. La partitocrazia e ‘Tangentopoli’.

151 IL FEMMINISMO

~ CENNI STORICI. La possibilità storica della parità. Le origini del movimento.

~ LE ONDATE. Prima ondata. Seconda ondata. Terza ondata

~ IL FEMMINISMO INTERSEZIONALE. Prostituzione, ‘utero in affitto’ e lusso di avere il ciclo. To be continued.

158 LA FINE DEL ‘SOCIALISMO REALE’

~ LE CREPE. La Polonia di Solidarność. Il crollo del Muro di Berlino.

~ LA FINE DELL’URSS. L’URSS di Gorbačëv. La fine della ‘sovranità limitata’. Scioglimento del PCUS.

164 LA TERRA VISTA DALLA LUNA

~ IL QUADRO. I nuovi equilibri politici. Globalizzazione e capitale finanziario. Consumatore globale e evanescenza del potere decisionale.

~ IL GIARDINO DELLE DELIZIE. La fine del lavoro. Concentrazione della ricchezza. Nord e Sud del mondo. La fame nel mondo. Il problema dell’acqua. La condizione femminile. Cambiamento climatico.

173 ANTOLOGIA

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“Colui che non sa darsi conto di tremila anni rimane nel buio e vive alla giornata”.

(J. W. Goethe)

Introduzione

La storia è la narrazione dei fatti passati!

Fatti rilevanti, pesanti che hanno bisogno di una logica per disporsi, intrecciarsi, articolarsi. Dunque, la storia è l’inanellamento, l’impilarsi dei fatti uno dietro l’altro. I fatti, però, non esistono, esistono interpretazioni.I fatti sono “fatti storici”, perché gravidi di ideologia e sono tali solo se collocabili all’interno di una visione.

I modelli storici

All’ingrosso, è possibile tratteggiare quattro paradigmi all’interno dei quali sono ‘nati’ e ‘nascono’ i fatti che sono concezioni storiche, Weltanschauung.

I. Modello del cerchio (Greci)Secondo i Greci i fatti si ripetono ciclicamente. L’accadere naturale e umano sono inscritti all’interno di una perenne ripetizione, di un circolo. L’uomo, incuneato fermamente nella phýsis, produce un movimento, e, seppur siano presenti alcune differenze di fatto in fatto, esse vengono riassorbite in un necessario, inevitabile, infinito ciclo, che si ripete sostanzialmente uguale. Il tempo greco è un tempo circolare a somiglianza del susseguirsi delle eterne stagioni.

II. Modello della linea (Agostino)Nell’opera La città di Dio, capolavoro di Agostino, si stabilisce un parallelo fra i sei giorni della creazione universale e sei epoche storiche. Si rompe il circolo greco! La storia diventa una linea o, se si vuole, una freccia che viene scoccata per raggiungere un bersaglio. I fatti si riempiono di senso; si dipanano in un racconto dotato di senso e di scopo. Il télos cristiano porta a leggere la storia come storia della salvezza. I fatti, ora, vengono a connotarsi come fatti necessari, che dischiudono una dimensione soteriologica, salvifica.

III. Modello della spirale (Hegel)Hegel spiega la storia come un’autoproduzione dell’Assoluto. La Sostanza di questo processo è Soggetto, Pensiero. Il fine della storia del mondo è che il pensiero, lo Spirito, giunga al sapere, e che oggettivi questo sapere. Gli individui, in tale processo, non hanno vita autonoma, ma sono strumenti di tale Spirito. Per l’idealismo hegeliano il fine della storia è la piena autocoscienza dello Spirito che si manifesta oggettivamente nel mondo. La storia del mondo è una spirale che

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parte dall’Idea (pensiero) e che, dialetticamente, esce fuori di sé e si fa mondo, per poi tornare in sé, diventando Spirito (sapere assoluto). Nulla è casuale. Tutto è necessario e razionale.

IV. Modello delle parallele (Marx)A Marx si deve la concezione materialistica e dialettica della storia: “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Dunque, la produzione materiale, ovvero il modo in cui gli uomini producono e le cose che producono, condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale. La struttura economica determina, complessivamente, la sovrastruttura culturale, giuridica, filosofica e la coscienza. Bisogna, allora, ricondurre i rapporti sociali ai rapporti di produzione, perché i fatti possano essere letti. Non c’è un Fine, un télos nella storia. E’ possibile, tuttavia, rintracciare delle leggi relative ai modi di produzione e coglierne il necessario sviluppo e morte. E’ possibile, studiando il modo di produzione capitalistico, capirne il crollo e scorgere le caratteristiche della società futura.

V. Modello casuale (Nietzsche)L’irrazionalismo nietzschiano vede la storia come inutile e dannosa, perché, laddove vuole essere istruttiva, tarpa le ali al libero disegno della Volontà di Potenza individuale. La storia non segue un cammino, ma, come un quadro di J. Pollock, disegna dedali di strade inestricabili senza verso né direzione, e i grumi più densi presto si allargano in fili sottili di ghirigori senza meta.I fatti non esistono e le narrazioni storiche sono mero arbitrio. Essa non è scienza. Nella storia non c’è progresso. Non c’è lo scopo, la direzione, il Fine.

La storia come scienza socialeLa storia è sempre storia contemporanea, come dice giustamente B. Croce, ma tale considerazione non deve affatto indurci ad un facile relativismo.

La storia, se non vuole essere pruriginosa e vacua erudizione, deve essere scienza! Scienza, ancorché sociale. Se il “naso di Cleopatra” determinasse la storia perché studiarla? Bisogna tentare la sfida ardita di togliere i fatti dalla loro casualità e provare a sistemarli secondo una logica a loro interna. La logica specifica dell’oggetto specifico! Porre la domanda: “Perché?”

Per il padre della storia Erodoto è importante preservare la memoria e il “perché” ovvero “rintracciare la causa”. Gli fa eco, lontana, Montesquieu e, poi, il grande Voltaire dell’Encyclopédie, ecc.

Historia magistra vitae. Bene! Allora la storia, se vuole ammaestrare, aiutandoci a comprendere il presente attraverso l’intendimento del passato, deve portarsi a livello di scienza sociale. Individuare le leggi di movimento, le leggi di sviluppo del sistema dei rapporti sociali, cogliere la grammatica di un linguaggio manifesto e latente, cogliere regole, ripetizioni e generalizzare.

La reiterabilità dei meccanismi storici profondi - seppur con le notevoli differenze con le scienze naturali – deve essere il cardine della verifica della scienza storica. La reiterabilità deve essere il ‘banco di prova’ di leggi e teorie ovvero di quella strumentazione che può, in qualche modo, rendere utile lo studio della storia.

Appunto nella capacità di rintracciare generalizzazioni c’è tutta la differenza tra uno storico e un raccoglitore di fatti, come tra uno scienziato della natura e un mero collezionista di farfalle.

Ora proprio attraverso le generalizzazioni, le leggi noi possiamo imparare dalla storia. Possiamo e dobbiamo emettere finanche giudizi morali, certo non su singoli individui, ma su istituzioni, ordinamenti sociali. Le interpretazioni storiche implicano più o meno surrettiziamente un giudizio morale. Giudizi di valore che, a loro volta, sono storici e soggetti alle temperie del tempo.

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Lo studio del Novecento è doppiamente interessante. Da una parte, ci conduce allo studio e enucleazione generale degli elementi reiterabili, dall’altra, ci guida alla radice, concreta, della nostra storia, della contemporaneità.

La periodizzazione

La ripartizione in capitoli e paragrafi rispecchia, ovviamente, il modo con cui abbiamo interpretato il Novecento, movimentando il materiale storico a disposizione secondo quello che ci è sembrato la sua logica interna. Tuttavia, abbiamo tenuto conto delle esigenze didattiche, del farsi concreto dell’azione formativa e dei contenuti curricolari necessari, tali che potessero render chiara la dimensione della contemporaneità, dell’esser cosciente dell’oggi.

La lettura complessiva del materiale storico trattato convalida la scansione generale che del Novecento ha dato E. Hobsbawm nel celebre Secolo breve, dove si schizza l’immagine di “un trittico o di un sandwich storico”: 1914-1945: Età della catastrofe; 1946-1973: Età dell’oro; 1973-91: Età della catastrofe.

Un’altra possibile sintetica - non esaustiva – lettura del secolo scorso è quella che vede il Novecento segnato da due grandi Rivoluzioni: quella proletaria del 1917 e quella femminista degli anni ’70.

Innanzitutto, il secolo passato ci sembra definibile come Secolo proletario, o meglio, Secolo scisso, a voler significare che l’evento più notevole è stata la Rivoluzione d’ottobre e tutto ciò che ha comportato. Insomma il secolo si legge, in controluce, pure partendo dalla storia Russia/URSS/Russia: 1905, Domenica di sangue, 1991, Scioglimento del Pcus. Lungo una linea che impegna quantitativamente e qualitativamente l’intero secolo dal 1905 al 1992.

Se la Rivoluzione francese è la rivoluzione che segna la vittoria della borghesia sull’aristocrazia, la Rivoluzione russa doveva essere solo l’inizio della Rivoluzione internazionale proletaria che avrebbe dovuto menare la borghesia nel museo delle anticaglie. Il ciclo delle rivoluzioni europee fu schiacciato e la Rivoluzione d’Ottobre non poté che implodere nel ‘socialismo in un solo paese” di staliniana memoria, ovvero in un capitalismo di Stato che manteneva tutte le categorie economiche borghesi.

Secolo scisso, il Novecento, a significare un capitalismo di stato e una indubbia politica imperialista che si concretizza nella spartizione del mondo in due blocchi, da una parte, e pure un religioso richiamo a Marx e alla teoria della liberazione, dall’altra, come scorza ideologica di uno sviluppo economico che non gli corrisponde.

Last but not least, il secondo evento che segna, profondamente, il Novecento, nell’ultima parte del secolo, è la rivoluzione femminista che si batte per la Liberazione della donna. Il movimento femminista impegna tutta l’altra metà del cielo in un rivoluzionamento dei vetusti, antiquati, barbari schemi paternalistici e maschilisti. Un processo di liberazione dalla succubanza maschile che trova nella rivisitazione dell’istituto matrimoniale e nella riappropriazione del corpo i punti archimedei della propria emancipazione. Una rivoluzione, nei paesi a capitalismo avanzato, che, ancora in atto, è faro per la stragrande maggioranza delle donne di tutto il mondo che ancora vivono nelle pastoie patriarcali.

Infine, va ricordato che questo lavoro, didatticamente, alla esposizione cronologica, seguita fino alla fine della Seconda guerra mondiale, segue una esposizione tematica fino al 1992. Il cambio di passo è dettato dallo stesso materiale storico che, aprendosi internazionalmente a molti eventi e contemporaneamente, diventa frammentario, se lo si segue cronologicamente, interrompendo più volte il filo narrativo. L’andamento tematico soddisfa una maggiore esigenza di omogeneità e coerenza narrativa.

prof. Alfredo Carrella

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L’IMPERIALISMO

~ TEORIE SULL’IMPERIALISMO~ Lenin: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo~ Schumpeter: il capitalismo è antimperialista

~ GLI IMPERIALISMI~ L’epoca dell’imperialismo~ Il nazionalismo~ Il razzismo~ Le fonti energetiche~ L’Europa in Africa~ Gli Stati Uniti

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Teorie sull’imperialismo

Lenin: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo

Nel 1916, mentre imperversava la carneficina mondiale, V. I. Lenin scrisse quello che è considerato un vero e proprio classico sull’imperialismo: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo.

Lenin in questo testo mappa attentamente le nuove forme che il capitalismo ottocentesco andava via via prendendo e le varie articolazioni che tali cambiamenti strutturali andavano assumendo nella forma politica, ovvero nella sovrastruttura ideologica.

Il capitalismo, come un organismo vivente, si stava sviluppando e pian piano si stavano delineando delle differenze strutturali con il capitalismo ottocentesco.

In maniera molto schematica possiamo rintracciare alcune peculiarità prodotte dallo sviluppo capitalistico:

1) La concentrazione della produzione e del capitale genera forme organizzative sempre più alte e potenti tali da essere decisive nella vita economica: i monopoli. La concentrazione, ad un certo punto della sua evoluzione, porta alle soglie del monopolio. La concorrenza genera il monopolio! La concorrenza genera il suo contrario e convive con il suo contrario. Nella produzione economica reale di un Paese, la concorrenza convive con settori dove magari il monopolio ha raggiunto forme altissime. Una peculiarità della fase imperialistica è proprio la convivenza, conflittuale e parallela, tra l’industria libera e il monopolio;

2) La fusione del capitale bancario con capitale industriale e il formarsi, su tale base, del capitale finanziario e di una corrispondente oligarchia finanziaria. Parallelamente alla concentrazione industriale si sviluppa il capitale bancario. Le banche, da modeste mediatrici, si trasformano in potenti monopoliste che dispongono di giganteschi capitali liquidi. Il singolo capitalista-industriale diventa dipendente dalla banca. E, ancora, si crea sempre più un’unione personale della banca con le maggiori imprese, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei Consigli di amministrazione delle imprese e viceversa. Su questa base il capitale liquido si autonomizza sempre più in capitale finanziario, che vive attraverso una serie di speculazioni finanziarie: una oligarchia finanziaria che vive di rentiers;

3) L’esplosione dell’esportazione di capitale rispetto all’esportazione di merci. Fino ad un certo punto era caratteristico del sistema capitalistico l’esportazione di merci, mentre, sotto il dominio del monopolio, caratterizzante è l’esportazione di capitale. Il capitale si dirige verso paesi sottosviluppati dove materie prime, forza-lavoro, ecc. hanno minor costo. Il capitale finanziario si dirige verso questi spazi da sfruttare;

4) Lo sviluppo di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si spartiscono il mondo. Cartelli, trust non solo si spartiscono il mercato interno e lottano fino alla morte per avere fette sempre più pingui del mercato nazionale, ma si espandono verso mercati esteri. D’altra parte il capitalismo crea il mercato mondiale come suo spazio naturale. La spartizione del mondo si effettua in base al loro peso, in proporzione alla loro forza. La forza muta, si evolve, e così il conflitto non può che essere il mezzo per un nuovo equilibrio di forze che verrà nuovamente superato;

5) La spartizione del mondo ad opera delle grandi potenze. Il mondo per la prima volta appare completamente ripartito, cosicché, in futuro, non si potrà che passare da un padrone ad un altro. Il capitale finanziario è lo strumento principe con cui si assoggettano i popoli, si piegano le volontà, si

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riplasmano i destini e, tuttavia, non si disdegna, qualora si renda necessario, il vecchio ‘caro’ intervento armato.

“L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquisito grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i grandi paesi capitalistici”. Più sinteticamente: l'imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo!

La guerra è connaturata a questo sistema economico a partire dalle ineguali condizioni di sviluppo. L’ineguale sviluppo economico pone continuamente la soluzione dei contrasti in termini di conflitto armato.

Schumpeter: il capitalismo è antimperialista

Il filosofo dell’economia Schumpeter, in La sociologia dell’imperialismo (1919), argomenta in favore del capitalismo, che è, per sua stessa natura, antimperialistico.

Diversamente dall’impostazione marxista-leninista, che riconduce il fenomeno dell’imperialismo a fattori economico-strutturali, Schumpeter legge il fenomeno in termini, in ultima analisi, psicologici. Se per Lenin l’imperialismo non è una politica, ma la politica del capitale nella fase del capitale monopolistico ed è, dunque, consustanziale al capitalismo, per Schumpeter l’imperialismo è solo una politica ancorata ad elementi psicologici o a spazi non capitalistici ancora presenti nel sistema capitalistico: il capitalismo è antimperialistico! Per Lenin si tratta di cause endogene, per Schumpeter esogene.

Innanzitutto, nella specie umana, si può rilevare una tendenza naturale e costante, in tutto il corso della storia, al dominio di gruppi versus altri. L’imperialismo non è una fase particolare legata ad una determinata struttura economica del sistema capitalistico. Anzi la natura economica del capitalismo è refrattaria ad una politica imperialistica. L’imperialismo, e la sua rapace aggressività, “l’assurda tendenza di uno Stato a perseguire un’espansione illimitata e violenta”, è dovuta a forze irrazionali che hanno preso il sopravvento a livello politico: “l’imperialismo nasce dalle forze irrazionali e istintive dell’uomo”. Le politiche imperialistiche si configurano come “istinti pugnaci” al di fuori della logica capitalistica: formazioni arcaiche non-capitalistiche.

Per Schumpeter il capitalismo è un sistema razionale che si fonda sul libero mercato e la somma degli egoismi individuali si ricompongono nel bene sociale. Schumpeter ci assicura che il libero mercato non ammette violenze.

Il capitalismo ovunque è ostile alla guerra e all’espansione violenta giacché bastano le regole della concorrenza a ‘conquistare’ uno spazio. Il capitalismo tende a reprimere le manifestazioni violente e guerrafondaie: “un fenomeno tipico del mondo capitalistico è, indiscutibilmente, il pacifismo”.

In regime di libero scambio, nessuna classe sociale è interessata a una espansione violenta.

Il capitalismo tende alla regolazione pacifica delle controversie internazionali.

Gli Stati Uniti sono la potenza con la forma più debole di imperialismo perché meno vi allignano elementi pre-capitalistici.

Le merci e gli uomini sono in grado di muoversi liberamente all’estero, esattamente come se l’estero facesse parte politicamente del proprio territorio. Materie prime e mezzi di sussistenza di origine straniera sono accessibili a qualunque nazione come se si trovassero entro i suoi confini.

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L’imperialismo

L’epoca dell’imperialismo

Didatticamente consideriamo l’età dell’imperialismo quella che si sviluppa tra il 1870 e il 1914. Questa si presenta come una sorta di nuovo colonialismo, una tendenza all’espansione dei paesi industrialmente sviluppati, che consiste nell'azione dei Paesi capitalistici avanzati d’imporsi su altri al fine di sfruttare totalmente le loro risorse e utilizzarli come spazi di smercio assumendone il pieno controllo politico o militare. L’imperialismo è, dunque, il tratto fondamentale della società occidentale dell’inizio del XX secolo, che registra questa forza espansiva del capitalismo occidentale europeo e di lì a poco statunitense e nipponico.

Al 1914 le nazioni europee industrializzate riuscirono ad avere il controllo dell’84% del totale delle terre emerse dell’intero globo. E’ chiaro, dunque, che l’imperialismo s’associa economicamente a questo sviluppo enorme del capitalismo occidentale che ha la necessità di espandersi geograficamente e di correre alla conquista delle fonti energetiche nel mondo. La politica imperialistica è la forma sovrastrutturale che segue questa necessità economica.

Quest’epoca è segnata da grandi masse in movimento che, non trovando lavoro in patria, emigrano non solo verso le Americhe, ma in Asia e in Africa. Finanzieri e banchieri alla ricerca di investimenti remunerativi collocano grandi quantità di denaro nelle miniere e nelle piantagioni di Paesi lontani. Gli imprenditori devono e vogliono allargare i mercati di smercio delle loro merci e vogliono accaparrarsi materie prime a buon mercato di cui l’Europa è priva: petrolio, caucciù, ecc.

Le classi dirigenti dell’Ottocento tradussero queste necessità in quello che chiamiamo imperialismo, che si concretizzò attraverso:

La conquista militare di vaste zone per prenderne il controllo; Il controllo politico delle nuove colonie attraverso funzionari europei;

Lo sfruttamento economico ovvero il controllo delle materie prime e la rivendita di prodotti finiti in Europa.

Il nazionalismo

Risaltano in questo fenomeno la radice economica e poi la sovrastruttura politica che la sovrasta caratterizzata da un atteggiamento ideologico fortemente aggressivo-nazionalistico. Tale apparato ideologico si caratterizza per una propensione a scivolare verso posizioni squisitamente razziste: le razze superiori hanno il diritto, la necessità e il dovere di sottomettere razze e culture inferiori che si trovano ad un gradino più basso dello sviluppo economico, sociale e culturale. Le razze superiori hanno il compito di civilizzare il mondo imponendosi sui popoli deboli.

L’ idea di nazione, che un tempo era stata una leva d’aggregazione della borghesia, diventa, in questo scorcio epocale, una strumentazione che si connota in modo fortemente reazionaria e militare.

Il nazionalismo si diffuse in tutta Europa, anche se con articolazioni e rivendicazioni particolari:

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Il nazionalismo francese sostenne la politica di potenza della Francia, esaltando il revanscismo, ovvero la volontà di rivincita (revanche) nei confronti della Germania;

Il nazionalismo italiano rivendicò le terre ancora non liberate, come il Trentino, e un ruolo internazionale di prestigio;

Il nazionalismo tedesco ebbe come programma il pangermanesimo, ovvero il dominio della Germania su tutte le terre di lingua tedesca; esaltò la superiorità della razza ariana e accusò gli Ebrei di tutti i mali della società;

il nazionalismo panslavista sostenne in Russia la politica di espansione degli zar al fine di rivendicare tutte le terre slave.

Il nazionalismo, con la sua insistenza sulla conquista dei territori e la competizione con altri Stati, fomentò la logica di potenza e il militarismo. La conseguenza fu la formazione di grandi eserciti di massa. L’esercito si ristrutturò nelle fondamenta attraverso il servizio militare obbligatorio conferendogli una base sociale amplissima. Infine, l’idea di nazione in Europa venne ad assumere nuovi significati: a causa di politiche protezionistiche intraprese dal 1879, contro i prodotti americani, si elaborò un atteggiamento difensivo, un nazionalismo economico che amplificò il nazionalismo politico.

Il razzismoIl nazionalismo si saldava con il razzismo che ne rappresentava pure la sua conclusione estrema. E’ a partire dall’Ottocento che iniziano a circolare opere pseudoscientifiche che, travisando perlopiù la teoria darwiniana, definivano il concetto di razza. Il principio darwiniano della selezione naturale veniva erroneamente semplificato e proposto come la legge del più forte. Schematicamente i presupposti ideologici del razzismo si possono rintracciare nei seguenti argomenti:

a) esistono, a livello biologico, diverse razze umane;b) esistono, biologicamente, razze superiori e inferiori e la storia non fa che certificare tale

differenza.

Fu il francese Gabineau, con il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1855), a diffondere l’idea della razza “pura” o “ariana” del centro-nord Europa.A proposito del perimetro di tale razza vi furono molte idee a dir poco bislacche: secondo alcuni tedeschi gli italiani erano esclusi dalla purezza essendo “razza meridionale”; l’antropologo A. Niceforo faceva, invece, la sorprendente distinzione tra italiani del Nord, ariani, e quelli del Sud “inferiori”.

Fonti energetiche

Edwin Drake riuscì, il 28 agosto 1859 a Titusville, in Pennsylvania, a portare in superficie il petrolio: cominciava la storia dell’industria petrolifera! Una storia che cambia completamente e profondamente la vita economica del mondo intero. Lì, i prodromi dell’energia che metterà in moto l’intera macchina capitalistica fino ad oggi. All’inizio il petrolio fu usato solo per l’illuminazione. La Standard Oil Company di Rockefeller promosse una capillare diffusione delle lampade a cherosene (sottoprodotto del petrolio). In breve il cherosene illuminò le notti del mondo occidentale.

Come funghi sorsero compagnie petrolifere che, unendosi, diedero vita a trust petroliferi: veri e propri giganti del petrolio.

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La lavorazione del petrolio doveva portare alla benzina e all’uso per la motorizzazione. Le sagome delle raffinerie si alzavano contro l’orizzonte! Ben presto l’accaparramento delle fonti di approvvigionamento scatenarono una lotta senza quartiere. I trust americani si scontrarono con la anglo-olandese Shell che sfruttava le risorse di Sumatra, poi con colossi anglo-persiani. I tedeschi si avviarono allo sfruttamento in Turchia, i Francesi in Iraq e in Africa.

La Torre Eiffel (1889) apre l’epoca delle grandi possibilità dell’acciaio. L’acciaio e la sua produzione ben rappresenta l’inizio del XX sec. Tra il 1900 e il 1913 gli incrementi della produzione di acciaio indicano bene la propulsione e la vitalità del capitalismo.

La produzione di energia elettrica è l’altro grande indicatore di un mondo che si trasforma e che ha bisogno di movimento.

L’Europa in Africa

Dal 1880 l’Europa estende i suoi domini innanzitutto alla ricerca di fonti energetiche e di materie prime, ma anche per motivi strategico-militari e, infine, a soddisfare la sete di prestigio internazionale.

A partire dal 1894 a questa espansione parteciparono anche gli Stati Uniti e il Giappone.

L’Europa, nel continente africano, si era sostanzialmente limitata alla conquista delle coste senza avviare una vera penetrazione interna del continente. Dal 1880 si registrò un mutamento nella politica coloniale: si iniziò a pensare ad una penetrazione interna.

La Conferenza di Berlino del 1884-85, su iniziativa del cancelliere tedesco von Bismarck, riunì ben dodici paesi europei, più Stati Uniti e Turchia, per accordarsi sui criteri da adottare nella spartizione delle colonie. Bisognava trovare i criteri per definire le rispettive zone d’influenza in Africa.

Tuttavia, come al solito, i pii propositi vengono sempre sconvolti dagli interessi che man mano si formano: si accese una fortissima rivalità tra Gran Bretagna e Francia per l’influenza in Africa che troverà una prima riappacificazione con un accordo franco-inglese nel 1899. Ma la Gran Bretagna dovette anche confrontarsi con l’espansione tedesca.

In effetti tre potenze europee, Gran Bretagna, Francia e Belgio, si spartivano tutta l’Africa. La Germania, inseritasi per ultima nella lotta per la spartizione, dovette accontentarsi delle briciole del banchetto. Al fine di creare una coscienza patriottica nasceva, nel 1894, la Lega pangermanistica. Tale organizzazione aveva il fine il fine di esigere una più equa spartizione delle colonie: la Germania doveva avere quanto gli spettava per la potenza economica e per il ruolo culturale.

Gran Bretagna e Germania si sentivano nazioni profondamente superiori e un grande destino le avrebbe attese nel dominio del mondo. Non poteva che radicarsi un forte antagonismo tra Gran Bretagna e Germania che s’irraggia in tutti i settori.

Gli Stati Uniti

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All’inizio del secolo gli Stati Uniti invasero i mercati europei con merci a basso prezzo. La politica estera del presidente americano Theodore Roosevelt (1901) seguì sostanzialmente la dottrina di J. Monroe secondo la quale l’Europa non doveva intromettersi nelle vicende del continente americano. Contestualmente, si procedeva al controllo economico-politico nel Sud America nel Pacifico e in Estremo Oriente.

Al Congresso del 1904, Roosevelt rafforzava la dottrina Monroe con l’impegno a proteggere, con un intervento militare diretto del governo statunitense, le imprese e gli investimenti privati nel Sud America in qualche modo minacciati. L’America latina fu la preda da divorare. L’intervento colonialistico non fu militare, ma economico, cosicché si ci garantì il controllo attraverso la corruzione e la collusione con il potere locale. Tuttavia, non si disprezzò l’intervento armato diretto come nella rivoluzione di Pancho Villa del 1916. Non si disprezzò neanche l’ingerenza subdola, per usare un eufemismo, come nel caso del canale di Panama. In questa occasione gli Stati Uniti, contro l’idea del governo colombiano di non ratificare nessun accordo capestro, tramite agenti, suscitarono una sommossa nella regione che portò alla costituzione della Repubblica di Panama sotto tutela americana che offriva l’affitto perpetuo della zona del canale.

BIBLIOGRAFIA

Libri

J. Conrad, Cuore di Tenebre, Mondadori, 2013

Film

Queimada, G. Pontecorvo, 1969Bismark, Il cancelliere di ferro, W. Liebeneiner, 1940

Terra proibita, S. Langton, 1977

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L’ETA’ GIOLITTIANA

~ CARATTERISTICHE GENERALI~ Giolitti sale in cattedra~ Il decollo industriale~ Il dramma dell’emigrazione~ Come Giano bifronte

~ CON I SOCIALISTI~ Giolitti e il Partito socialista~ Minimalisti e massimalisti~ Lo sciopero del 1904

~ CON I CATTOLICI~ La Democrazia cristiana~ Il Patto Gentiloni~ La “settimana rossa”

~ LA POLITICA ESTERA~ La Libia: “lo scatolone di sabbia”

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Caratteristiche generali

Giolitti sale in cattedra

Nel 1901 il re Vittorio Emanuele III nominò Capo del governo Giuseppe Zanardelli, il quale, per motivi di salute, rassegnò le dimissioni, lasciando così la reggenza del governo a Giovanni Giolitti. Dal 1903 al 1914 Giolitti ebbe un’influenza così ampia ed autorevole sulla vita politica dell’Italia che questo periodo viene comunemente denominato ‘età giolittiana’. Esso accompagna la nascita del Novecento fino al baratro della Grande Guerra.

La sua ombra si estende per tutto il decennio, nonostante egli non fu sempre al comando. Una sua caratteristica era l'abbandonare il potere nei momenti di crisi, per poi risalire in vetta dopo aver dimostrato l’inefficienza altrui. Certamente Giolitti fu un politico grande conoscitore della macchina statale e delle sue articolazioni. Il giudizio sulla sua attività politica è quello di un uomo che ha governato con buon senso e furbizia; d’altra parte queste erano le caratteristiche che egli stesso attribuiva al politico.

La sua politica fu caratterizzata dalla ricerca di un equilibrio o compromesso tra le diverse classi sociali. La sua politica viene ricordata anche come una politica di vero e proprio trasformismo: di volta in volta Giolitti componeva e scomponeva la sua maggioranza parlamentare non tanto sulla base di programmi, quanto su problemi contingenti. Secondo le necessità, si alleava con i socialisti riformisti, i radicali, i cattolici e i nazionalisti e ciò non poteva non apparire come un bieco gioco di potere altamente deleterio e immorale.

Il decollo industriale

La sua attività politica s’incunea in quel particolare frangente storico d’inizio secolo che vede il decollo industriale dell’Italia.

I ritmi d’incremento medio testimoniano uno sviluppo robusto che, ad esempio, si registrò nella siderurgia, settore strategico e fondamentale per un generale processo d’industrializzazione. Nascono gli stabilimenti di Terni e l’Ilva di Piombino. L’industria elettrica passa da 100 milioni di kilowattora nel 1898, a ben 2.325 milioni nel 1914. L’industria meccanica vede nascere fabbriche storiche come la Fiat, l’Alfa Romeo e la Lancia. Piano piano prende forma il futuro ‘triangolo industriale’: Torino, Milano, Genova. Si tratta di una zona che concentra ben il 57% di tutti i lavoratori dell’industria italiana.

L’agricoltura, sotto la spinta dell’innovazione tecnologica, nella Pianura Padana fa registrare miglioramenti inconsueti. Complessivamente il Paese registra il processo d’industrializzazione anche nella diminuzione percentuale alla partecipazione al PIL: dal 1896-1900 al 1911-15 l’agricoltura scende dal 50 al 44%, mentre l’industria passa dal 19,4 al 25,6%.

Nel 1911 i contadini erano circa 10 milioni: 4,4 braccianti, cioè salariati; 3,2 affittuari e mezzadri; 1,8 proprietari.

Complessivamente, nel processo di industrializzazione dell’Italia, lo Stato inizia ad assumere sempre più importanza, intervenendo con laute commesse nei trasporti, nel settore siderurgico e meccanico.

Lo Stato andava sempre più ritagliando un ruolo attivo nella vita economica del Paese.

Le politiche protezionistiche promosse dal governo comportarono una sicura difesa del processo d’industrializzazione, ma allo stesso tempo crearono difficoltà e danni reali al commercio dei prodotti agricoli tipici del Sud.

In questo frangente storico la forbice tra nord e sud piuttosto che diminuire andava aumentando.

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Il dramma dell’emigrazione

Il fenomeno dell’emigrazione parte dagli anni Settanta dell’Ottocento, ma nell’età giolittiana si intensificò notevolmente. In una prima fase, dal 1876 al 1900, partirono 5.300.000 italiani verso Francia, Germania, Argentina, Brasile e Stati Uniti. Nell’età giolittiana, dal 1900 al 1913, si ebbe la cosiddetta “grande emigrazione”: furono ben 9 milioni di persone a lasciare l’Italia, soprattutto verso gli Stati Uniti. Emigravano principalmente i contadini del Meridione e dell’Italia del Nord Est.

Un flusso ininterrotto di uomini cercava nelle Americhe la ‘terra promessa’. Persone rozze, analfabete si ammassano sulle banchine per il grande viaggio transoceanico su piroscafi a vapore. Nel 1900 gli emigranti annuali erano 300 mila, nel 1913 la cifra raggiunse gli 873 mila.

Come Giano bifronte

La figura di Giano bifronte ben interpreta una delle caratteristiche peculiari dell’attività politica di Giolitti: l’ambiguità. Da una parte, egli sembra disegnarsi come aperto e democratico, soprattutto considerando la sua azione nell’affrontare i problemi del Nord; dall’altra, diventa piuttosto torvo, conservatore e addirittura corrotto nello sfruttare i problemi del Sud.

Giolitti mostrò di essere democratico e attento alle novità e ai bisogni del processo di industrializzazione nel voler mantenere una certa neutralità dello Stato, come garante super partes dei conflitti sociali. Lo Stato doveva mantenere una sua certa neutralità nei conflitti sindacali e furono permessi gli scioperi. Parallelamente, e con grande lungimiranza, produsse una serie di riforme per il miglioramento della classe operaia:

a) la giornata lavorativa venne portata a 10 ore;b) si riorganizzò la Cassa nazionale per l’invalidità e la vecchiaia degli operai;c) vennero elaborati una serie di provvedimenti a difesa dell’infanzia e della maternità delle operaie.

Al Sud, invece, Giolitti optò per la repressione delle proteste e degli scioperi delle masse meridionali. Il Sud si presentò subito come un serbatoio di voti da raccattare attraverso il controllo capillare del territorio. I prefetti, a suo ordine, impedivano l’espressione di una libera opposizione. La polizia arrestava i sindacalisti e, attraverso corruzione, minacce e brogli elettorali, si assicurò l'elezione di parlamentari del suo gruppo. Gaetano Salvemini lo definì “ministro della malavita” e da allora il termine ‘giolittismo’ è diventato sinonimo di clientelismo e trasformismo.

Le ultime notevoli riforme di Giolitti riguardarono il monopolio delle assicurazioni del 1911 ed il suffragio universale maschile del 1912, con cui si sanciva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi. In questo modo le masse irrompevano sulla scena elettorale.

Con i socialisti

Giolitti e il Partito socialista

Dal punto di vista politico Giolitti attuò riforme e cercò di aprire il governo alle forze di sinistra, ovvero al Partito socialista.

Giolitti intuì che bisognava spingere il governo verso le nuove istanze che si presentavano con l’industrializzazione del Paese. L’Italia si trasformava! Bisognava ampliare la rappresentanza politica e fare in modo che le forze emergenti entrassero nel parlamentare borghese. Bisognava, quindi, ampliare lo spazio politico; renderlo più democratico aprendosi alle idee riformiste e mantenere lo Stato il più possibile neutrale rispetto ai conflitti di classe.

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In questo senso Giolitti riteneva di dover includere politicamente il socialismo riformista, in quanto rappresentante la nuova Italia che stava emergendo, soprattutto al Nord. Bisognava ampliare la base rappresentativa, affinché i cambiamenti e le nuove necessità fossero rappresentate. Alla lungimiranza si aggiunse il calcolo politico, che implicava l'aumento della forza politica del suo governo. Fu così che nel 1903 Giolitti offrì al leader socialista Filippo Turati la possibilità di entrare a far parte del governo. Turati rifiutò, giacché la maggioranza degli iscritti al partito non avrebbe compreso tale alleanza. Tuttavia più volte il governo di Giolitti ebbe i voti dei turatiani.

Minimalisti e massimalisti

All’interno del Partito socialista si erano distinte due correnti: minimalista e massimalista.

I riformisti, guidati da Filippo Turati, volevano cambiare la società gradualmente attraverso un processo di lente riforme che migliorassero la situazione della classe operaia. Tale posizione era avversata dalla corrente massimalista, capeggiata da Lazzari, Labriola e Mussolini, che, al contrario, volevano la realizzazione hic et nunc (ora e subito) dell’intero programma comunista. Da una parte, quindi, si tendeva alla realizzazione del programma minimo attraverso riforme parziali, dall’altra alla realizzazione del massimo del programma attraverso la rivoluzione sociale, che avrebbe dovuto sconfiggere la borghesia e instaurare il socialismo.

Nel partito la proposta di Giolitti innescò polemiche tra i due schieramenti. La corrente turatiana fu messa in minoranza per ben due volte al Congresso di Bologna del 1904 a proposito della proclamazione dello sciopero generale nazionale e di nuovo nel 1912 al Congresso di Reggio Emilia.

Lo sciopero del 1904

Nel settembre del 1904 venne proclamato il primo sciopero generale nazionale. Fu deciso per solidarietà nei confronti di quattro operai uccisi dalle forze dell’ordine durante una protesta. Dal 15 al 20 settembre l’Italia conobbe per la prima volta uno sciopero generale proclamato dal Partito socialista. Il Corriere della sera parlò di “cinque giorni di follia”. La borghesia fu alquanto impaurita da questa capacità del movimento operaio di mobilitarsi. Giolitti comprese di non potersi fidare dell’ala riformista, sciolse la Camera e indisse nuove elezioni con la parola d’ordine “né rivoluzione, né reazione”. Le elezioni registrarono una sconfitta dell’estrema Sinistra, dovuta all'intervento dei cattolici che, per la prima volta dopo la “Non expedit” di Pio IX, furono autorizzati dal papa Pio X e dai vescovi a votare per evitare i pericoli di sinistra. La Chiesa, dunque, scendeva in campo contro il ‘ pericolo rosso’. Ciò si risolse a vantaggio di Giolitti, che aveva trovato un nuovo inatteso alleato. Per la prima volta dall’Unità entrarono in Parlamento “cattolici deputati”.

Con i cattolici

La Democrazia Cristiana

Sulla scia della Rerum novarum di Leone XII e la spinta degli scioperi socialisti, la Chiesa non potè rimanere ferma. I giovani cattolici chiedevano di partecipare alla costruzione del Paese secondo una visione cristiana. Il movimento cattolico dava vita alla Democrazia cristiana. Il programma del 1899 si caratterizzava per il richiamo alla democrazia e ai principi del cristianesimo. La Chiesa si apriva verso i fondamentali diritti della società, tra i quali una piena libertà sindacale, un’ampia legislazione sociale, un’efficace riforma tributaria, un decentramento amministrativo e un allargamento del suffragio elettorale. La crescita del Partito socialista con la sua ideologia atea e anticlericale aveva portato il pontefice Pio X ad ammorbidire l’intransigenza vaticana. Il Papa limitò la "Non expedit", ammettendo la possibilità della partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche, e permise ad alcuni fedeli di farsi eleggere nelle liste liberali. Leone XIII aveva invitato ad uscire “fuori dalla sacrestia”. Nelle elezioni del 1904, 1909 e 1913 i cattolici presero parte attiva appoggiando i liberali moderati.

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In questo fermento, nel 1905, il sacerdote don Luigi Sturzo con estrema chiarezza delineò la funzione e il perimetro di un partito cattolico laico e aconfessionale che, ispirandosi ai principi cristiani, accettava l’unità nazionale e poneva fine alla visione temporalistica che ancora ristagnava in alcuni settori della Chiesa. Sturzo sarà tra i fondatori del Partito popolare nel dopoguerra.

Il Patto Gentiloni

Con l’intenzione di rafforzare lo schieramento liberale a lui favorevole, alla vigilia delle elezioni del 1913, Giolitti stipulò un accordo con il conte marchigiano Vincenzo Ottorino Gentiloni, presidente dell’Unione elettorale cattolica. L'accordo stabiliva che i candidati dovessero rispettare sette punti programmatici . Essi si impegnavano a non adoperarsi in politiche anticlericali, come la legge sul divorzio, si impegnavano a difendere le scuole cattoliche e l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche e riconoscevano le associazioni cattoliche.

Il Patto ebbe successo e Giolitti aveva di nuovo cambiato casacca con ottimi risultati: un gran numero di candidati moderati e giolittiani furono eletti con i voti cattolici (ben 228); tuttavia i socialisti resistettero. Con grande sobrietà A. Gramsci scrisse che Giolitti “cambiò di spalla il suo fucile”: i cattolici al posto dei socialisti. Tale avvenimento segnò il rientro dei cattolici nella vita politica italiana dopo la frattura del 1870.

La ‘settimana rossa’

A marzo del 1914 Salandra succedette a Giolitti.

A giugno ad Ancona la polizia sparò su un corteo operaio, causando tre morti. Venne proclamato lo sciopero generale e dal 7 al 13 si susseguirono agitazioni, scioperi, tumulti e profanazioni di chiese, soprattutto nelle Marche e in Romagna. È quella che si definì ‘settimana rossa’: socialisti, anarchici e repubblicani guidarono le agitazioni. Il movimento non riuscì a coinvolgere il centro dello sviluppo industriale e confuse gli obiettivi. Alla fine si contarono 16 morti.

Circa un mese dopo scoppiò la Grande Guerra.

La politica estera

La Libia: “lo scatolone di sabbia”

In politica estera Giolitti decise di allontanarsi dalla Triplice alleanza con Germania e Austria ed optò per un avvicinamento con Francia e Inghilterra, il cui appoggio avrebbe potuto favorire un ampliamento coloniale dell’Italia e un suo rafforzamento nel contesto internazionale. Si decise allora a preparare la conquista della Libia, soggetta all’Impero turco-ottomano, sotto la spinta degli interessi delle grandi banche italiane.

Dal 1907 si intraprese un programma di penetrazione economica e commerciale, dando l’incarico al Banco di Roma legato agli ambienti cattolici. Il Banco di Roma fallì nell’operazione tanto che le autorità turche iniziarono a diffidare dell’istituto.

Dopo la fallita colonizzazione economica si provò con la colonizzazione militare, dall’azione finanziaria all’azione bellica. L’avventura coloniale, fortemente richiesta dal movimento nazionalista, iniziò il 29 settembre 1911. L’Italia avrebbe avuto grandi vantaggi nella conquista della Libia, poiché avrebbe potuto dirottare l’emigrazione verso questo Paese. Gli emigranti italiani avrebbero avuto la loro terra! Tranne pochi

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liberali e la maggioranza del Partito socialista, tutti erano a favore dell’avventura coloniale. Giolitti si tuffò nell’impresa con la parola d’ordine “fatalità storica”. L’Italia, infatti, non poteva restare a guardare mentre la Francia e la Germania si dividevano il mondo. L’esercito italiano incontrò forti resistenze sia da parte dell’esercito turco sia dalle popolazioni locali.

A Losanna, nel 1912, l’Italia firmò la pace con i Turchi: la Libia passava formalmente sotto il controllo italiano insieme ad alcuni possedimenti nel mar Egeo.

BIBLIOGRAFIA

Libri

G. Giolitti, Memorie della mia vita, Tredes, 1922A. Kuliscioff, Il monopolio dell’Uomo, Critica Sociale, 1894

Film

I compagni, M. Monicelli, 1963Il Gattopardo, L. Visconti, 1963

Anna Kuliscioff, R. Guicciardini, 1981Li chiamarono… briganti!, P, Squitieri, 1999

Nuovomondo, E. Crialese, 2006

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LA GRANDE GUERRA

~ LE CAUSE E L’INIZIO~ Le cause~ La scintilla~ Dalla guerra lampo alla guerra di posizione

~ L’ITALIA E LA GUERRA~ Neutralisti e interventisti~ Il segreto Patto di Londra~ Il fronte italiano

~ LA GRANDE GUERRA~ 1915-16: nel cuore della guerra~ La vita al fronte~ La tecnologia militare~ La massificazione della guerra~ Il ruolo dello Stato nell’economia~ La propaganda e il consenso~ Il genocidio degli Armeni~ 1917: l’anno della svolta~ La disfatta di Caporetto~ Fasi finali del conflitto

~ I TRATTATI DI PACE

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Le cause e l’inizio

Le cause

La Prima guerra mondiale non fu una guerra come se n’erano già viste. Non si era mai visto un evento di una tale estensione, durata, intensità. Una tale mobilitazione di massa, impiego di mezzi, un tale numero di morti e feriti, una carneficina mondiale con otto milioni di morti e ventuno di feriti. Nulla fu come prima!

Furono due, sostanzialmente, le teorie che tentano di spiegare il perché di una tale carneficina: una teoria casualistica e una causalistica. Una teoria, è propensa a vedere lo scoppio della Grande Guerra come un grande evento che scaturisce da piccole, effimere, cause. Per tale teoria, si trattò di nulla più che il frutto di errori di calcolo dei diversi Paesi che precipitarono nel conflitto a causa di un automatismo delle Alleanze politiche che scattarono inevitabilmente. Ad esempio, lo storico inglese A. J. P. Taylor sostiene che i grandi eventi possano avere piccole cause: “Fu, soprattutto, una questione di calcolo: in quella occasione gli uomini di Stato usarono i bluff e le minacce che, altre volte, avevano dato ottimi risultati. Ma nel 1914 le cose andarono male”. Insomma, un errore di calcolo! L’altra teoria, più attendibile, inquadra la Grande Guerra come il momento culminante e la risposta a cause economiche, sociali e politiche ben precise che, come un fiume carsico sbocca, irrompe alla superficie all’improvviso. Non ci resta che dettagliare tali motivi.

Le cause economiche più importanti che possiamo annoverare sono:

~ Il diverso peso economico, che gli Stati europei man mano assumono fa sì che essi cerchino di farlo valere a livello politico attraverso un riposizionamento strategico, che registri la nuova leadership sia in Europa che attraverso una spartizione mondiale delle colonie. Insomma, lo sviluppo ineguale del capitalismo fa sì che gli Stati sgomitolino per riposizionarsi politicamente in modo da far valere i propri interessi. L’economia tedesca, ad esempio, nei primi decenni del nuovo secolo, ha una crescita notevole del proprio potenziale economico, diventando così una potenza europea di primordine, scavalcando, di fatto, Francia e Gran Bretagna. Il ruolo economico della Germania diventa centrale: è ‘’locomotiva d’Europa’’. A testimonianza di questo poderoso sviluppo economico basta rilevare che dal 1887 al 1912 il commercio tedesco raddoppia, crescendo più degli altri paesi. La Germania, da questo momento, diventa una potenza economica di grande rilievo nello scacchiere europeo. A fronte di questa crescita economica tumultuosa, la Germania cerca, dunque, nuovi assetti politici che non la vedano, innanzitutto, succube della politica della Gran Bretagna e nemmeno di quella francese. C’è, dunque, una rivalità economica Germania-Gran Bretagna che coinvolge anche il possesso delle colonie. Inoltre, la presenza economica tedesca nell’area del Medio Oriente, crea frizioni non solo con la Gran Bretagna, ma anche con i Russi.

- Sbocchi per le merci. Tutti i paesi industriali trovavano, ormai, un argine nel solo mercato interno. La frontiera nazionale non era più adeguata alle necessità della produzione: gli imperi coloniali, quando non erano meri ‘scatoloni di sabbia’, ovvero senza una domanda solvibile, cioè una capacità di acquisto, servivano appunto a vendere altrove merci sovrabbondanti.

- Approvvigionamento delle materie prime. Per gli Stati diventa ‘necessario’ garantirsi, in un modo o in un altro le materie prime di cui abbisogna, al fine di far funzionare il sistema economico.

Le cause politiche sono da ricercarsi all’interno di ciascuno Stato europeo e nelle relazioni tra Stati:

- I francesi rivendicavano l’Alsazia e la Lorena;

- Austria e Russia si scontravano da secoli per l’egemonia dell’area Balcanica, punto strategico per gli sbocchi commerciali;

- Malcontento all’interno dell’Impero austro-ungarico, in particolare degli slavi e degli italiani del Trentino e della Venezia Giulia;

- La decadenza imminente in cui versava l’Impero Ottomano;

- C’era poi, in Europa, la presenza di due alleanze politiche: la Triplice Alleanza (composta da Germania, Austria e Italia) e la Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia).

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Le cause militari interessano soprattutto l’industria:

- le industrie pesanti del settore bellico e quelle leggere del settore siderurgico, l’industria alimentare e tutto il complesso della produzione, vedono nella ‘’corsa agli armamenti’’ e nelle commesse di guerra occasione di grandi profitti e sviluppo economico.

Le cause culturali che facilitarono l’entrata in guerra sono:

- un diffuso nazionalismo che serpeggia tra le classi borghesi e che diventa, come in Germania, esaltazione della razza quale fattore di preservazione dell’identità nazionale;

- un certo superficiale darwinismo applicato ai rapporti internazionali secondo cui c’è bisogno, come in natura, di una lotta tra Stati per garantirsi la sopravvivenza;

- un’aristocratica esaltazione della guerra come elemento estetizzante. Le correnti del futurismo e del Dannunzianesimo esaltano la guerra come ‘strumento di pulizia’ utile a eliminare le’ bocche in eccesso’, facendo eco a Malthus. Marinetti, nel Manifesto futurista, sostiene che la guerra sia la sola ‘igiene del mondo’, quasi riprendendo testualmente Hegel.

La scintilla

In tale situazione internazionale, la goccia che fece traboccare il vaso fu l’attentato del 28 giugno 1914 a Sarajevo, all’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, da parte del nazionalista serbo Gavrilo Princip. L’Austria vide in quest’assassinio l’occasione per attaccare la Serbia e risolvere la questione balcanica. Venne inviato alla Serbia un ultimatum estremamente umiliante e formulato in modo tale da non poter essere accettato: a) la risposta veniva richiesta entro 48 ore; b) le clausole avrebbero portato alla perdita, per la Serbia, dell’autorità sui propri territori.

Il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. Scattarono immediatamente tutte le alleanze e, nel giro di due giorni, la guerra era europea.

L’Italia si dichiarò neutrale facendo leva sul fatto che l’intervento sarebbe stato obbligatorio nel caso di attacco all’Austria. Siccome era stata l’Austria a dichiarare guerra alla Serbia, l’Italia si poteva tener fuori dalla tenzone.

La prima grande battaglia fu quella che si svolse in Francia lungo il fiume Marna, dove i francesi riuscirono a bloccare i tedeschi. La battaglia causò circa 500.000 vittime, senza che l’ago della bilancia segnasse la vittoria di alcuno. Francia e Germania continuarono a darsi battaglia lungo una linea di 800 chilometri.

Dalla guerra lampo alla guerra di posizione

La guerra mondiale era stata pensata come una guerra lampo, di movimento, ma ben presto si configurò come una guerra di trincea, di posizione, e durò per quattro lunghi anni. L’uso delle armi richiedeva efficaci sistemi di difesa, per questo motivo vennero scavati fossati lungo il fronte che furono la cifra strategica della Prima guerra mondiale. In breve, da guerra di movimento si passò a guerra di posizione: una vera e propria carneficina mondiale, attesa nel fango delle trincee.

Intanto, sul fronte orientale, i tedeschi battevano i russi per poi finire in stallo. Nell’ottobre del 1914 entrava in guerra, allargando ancor più il conflitto, anche il mastodontico Impero Ottomano che, alla fine della guerra, ne uscirà praticamente sgretolato.

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L’Italia e la guerra

Neutralisti e interventisti

Nell’agosto del 1914 il governo italiano, presieduto da Antonio Salandra, proclamò la neutralità dell’Italia facendo appello alle clausole della Triplice Alleanza, secondo cui l’intervento sarebbe scattato se l’Austria o la Germania fossero state oggetto di un’aggressione. Inizialmente, quindi, non venne ritenuto necessario né uno schieramento con l’Austria né, tantomeno, un intervento contro di essa. In un clima animato si formarono due schieramenti contrapposti: neutralisti e interventisti.

I due schieramenti non erano affatto equipollenti: sia nella maggioranza del Paese che in parlamento la posizione neutralista godeva di un ampio consenso. Gli interventisti erano una piccola minoranza, molto attiva e rumorosa, che però non rappresentava affatto il sentire comune della nazione.

In parlamento c’era un’ampia maggioranza neutralista. L’Italia non doveva entrare in guerra! Per la pace c’erano Giolitti e i liberali, che a lui si ispiravano e che puntavano ad ottenere dall’Austria Trento e Trieste proprio negoziando la neutralità.

I socialisti, in coerenza con i principi di classe della Seconda Internazionale, non intendevano partecipare al conflitto in quanto guerra mondiale tra imperialisti, il cui solo fine era la spartizione del mondo per accaparrarsi nuovi mercati: dunque, guerra capitalista per i capitalisti. Il proletariato non ha patria, non ha nazione, nasce internazionale - come recitava il Manifesto comunista del 1848. La classe operaia sarebbe stata solo ‘carne da macello’!

I cattolici, in gran parte, seguivano le indicazioni di papa Benedetto XV che era, ovviamente, contro la guerra definendola ‘orrenda carneficina’ e ’inutile strage’.

Gli interventisti erano inizialmente un gruppo alquanto scarno e di diversa estrazione politica.

C’erano interventisti di destra, come D’Annunzio e Papini, che non esitarono ad affermare l’utilità della guerra come pulizia dei popoli. Il loro obiettivo era, prioritariamente, quello di ottenere Trieste e Trento. In effetti godevano delle simpatie del re, dell’ambiente di corte, dell’élite militari e dei grandi industriali, che già immaginavano cospicue commesse e grandi profitti.

C’erano anche interventisti di sinistra, che caldeggiavano la tesi secondo la quale l’Italia doveva schierarsi con l’asse delle nazioni democratiche, l’Intesa, affinché l’Europa post-guerra non fosse diretta da governi conservatori. Come direttore dell’Avanti - giornale del Partito socialista - Mussolini sostenne la causa del neutralismo per poi passare, nel giro di pochi mesi, a quella dell’interventismo. Scacciato dal Partito socialista fondò Il popolo d’Italia, dalle cui colonne sostenne gli argomenti per l’intervento nella guerra.

Il segreto Patto di Londra

Il 26 aprile del 1915, il ministro degli esteri Sonnino stipulò un trattato segreto, il cosiddetto ‘Patto di Londra’, secondo il quale l’Italia s’impegnava a partecipare alla guerra entro un mese a patto di ottenere Trento, Trieste e altre colonie in Africa, in caso di vittoria dell’Intesa. Tale accordo stipulava l’entrata in guerra dell’Italia al di là e al di fuori di qualsiasi volontà popolare del Paese e del parlamento. Il Patto di Londra mostra come i poteri forti del nostro paese, contrariamente alla volontà della maggioranza, s’accordavano, non solo sulle terre irredente, ma anche sulla spartizione delle colonie. Mostra, in maniera chiara, come, pur all’interno di una monarchia costituzionale quale era quella italiana, i poteri forti fossero in grado di prendere decisioni senza tener conto di alcunché. Il liberalismo mostra di saper sempre sorvolare su questioncelle parlamentari e democratiche quando lo ritiene opportuno. Questo frangente, mette in luce una vera e propria ‘microfisica del potere’. Il governo, con la collaborazione dei servizi segreti, intervenne nelle piazze dando man forte agli interventisti in maniera da creare tumulti e scontri, allo scopo di curvare l’opinione pubblica e parlamentare verso una posizione interventista. Ai tromboni che suonavano gl’inni marziali furono dati loro gli ottoni in cui soffiare baldanzosi. In questo clima creato artificiosamente dai poteri forti, il governo e la corte, per spostare l’opinione pubblica sulle posizioni interventiste, si distinsero

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personaggi come Mussolini e D’Annunzio, che dette fiato alla sua penna in quelle che definì “radiose giornate”.

Il 3 maggio, l’Italia, tradendo l’Austria e la Germania, usciva dalla Triplice Alleanza. Salandra ebbe i pieni poteri dal re e il parlamento, spinto dalla piazza e piegato alla volontà interventista, li accettò. Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria e successivamente, nel 1916, alla Germania.

Il fronte italiano

L’esercito italiano, fin da subito, rivelò mancanza di organizzazione, scarsità di armamento e pessima preparazione tecnica. Esso era composto da masse ingenti di contadini analfabeti e arretrati, provenienti dall’entroterra meridionale e senza alcuna preparazione, velleità bellica e giuste motivazioni per partecipare alla guerra. Luigi Cadorna fu nominato comandante supremo dell’esercito italiano, ma sarebbe stato, in seguito, sostituito a causa dell’adozione di strategie militari obsolete e una durissima disciplina imposta ai soldati, che lo rendevano particolarmente inviso. Nel 1915 si svolsero le prime quattro battaglie dell’Isonzo, che provocarono migliaia di vittime senza che si arrivasse alla vittoria ma, anzi, avvitandosi in una situazione di immobilismo degli schieramenti bellici. Nel 1916 gli austriaci misero in atto la cosiddetta “Strafexpedition”, la spedizione punitiva contro un’Italia che agli occhi austriaci risultava rea di vero e proprio tradimento della Triplice. Le truppe austriache sfondarono le linee italiane e arrivarono fino ad Asiago. Poi l’offensiva si placò sia per la resistenza italiana, sia perché l’esercito austriaco dovette dirottare sul fronte orientale per l’attacco russo. Seguì, successivamente, una vittoriosa controffensiva italiana, sempre sull’Isonzo, sotto il comando di Cadorna. Le cosiddette “spallate autunnali del Carso” consolidarono le linee e si tornò alla logorante guerra di trincea.

La Grande guerra

1915-1916: nel cuore della guerra

Tra il 1915 e il 1916, i tedeschi occuparono importanti zone industriali della Francia, preparando contro l’esercito francese una dura offensiva, che sfociò nella battaglia di Verdun, rimasta memorabile per le sue 500.000 vittime. Nello stesso periodo, entrò sul fronte austro-russo l’esercito dello zar, che rese prigionieri ben 400.000 soldati. Sin dalle prime fasi del conflitto, la Gran Bretagna aveva realizzato un blocco navale con lo scopo d’impedire l’entrata di materie prime e derrate alimentari nei porti tedeschi. La flotta tedesca reagì a questo blocco affrontando la marina inglese nel Mare del Nord, durante la battaglia navale dello Jutland. I tedeschi, attraverso l’utilizzo di sottomarini - impiegati per la prima volta - tentarono di mettere in fuga la flotta inglese, senza successo.

La vita al fronte

La cifra della Grande Guerra è la trincea. Da guerra di movimento si declinò subito in guerra di posizione. Gli eserciti si acquattavano nelle trincee, fossati che riparavano i soldati dall’offensiva nemica e che funsero, in seguito, da rifugio vero e proprio. I militari erano continuamente esposti alle intemperie; essi dovettero sopportare per tutta la durata della guerra condizioni di vita estreme, anche a causa di una totale assenza di igiene che, a sua volta, rese questi luoghi ricettacoli di topi. A causa di tali condizioni, le epidemie erano frequenti e contribuirono ad aumentare il numero di vittime. Gli uomini nelle trincee furono costantemente accompagnati dalla quotidianità della morte e dalla costante presenza di cadaveri lungo i fossati. Le vittime non potevano essere immediatamente seppellite, e si approfittava dei momenti di tregua per poter interrare i corpi senza vita. Le fosse erano così superficiali che ai primi colpi di mortaio v’era un ribollir di interiora: cadaveri scaraventati ovunque. La morte divenne una presenza costante, causando un’angoscia diffusa. Il momento più sofferto delle battaglie era certo l’assalto alle trincee nemiche. L’esercito era composto da soldati che, nella stragrande maggioranza, erano contadini strappati ai luoghi natii, che abbandonavano per la prima volta. Strappati al lavoro dei campi per andare a combattere un nemico che neanche conoscevano, non

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erano affatto motivati alla guerra. A tronfi discorsi sull’eroismo e sulla bellezza estetica della guerra, la realtà andò sostituendo ben presto la vita da trincea tra accettazione, rassegnazione, timidi ribellioni e autolesionismo. A causa della stanchezza e della mancanza di motivazione delle masse, tutti gli eserciti dovettero affrontare la diserzione individuale o di massa dai fronti. Per trattenere le masse dei soldati disertori, fu imposta una disciplina durissima che si imponeva con la pena della fucilazione.

La tecnologia militare

Secondo i grandi progressi scientifici di quegli anni, la Prima guerra mondiale fu contraddistinta dall’uso di nuove armi, in addizione all’artiglieria tradizionale. In questa situazione, si registrò il primo impiego nella storia di armi chimiche (ad opera dei tedeschi), che fu però poco rilevante giacché si trattava ancora di tecniche artigianali. Vere e proprie bombole di gas velenosi venivano aperte quando il vento soffiava nella direzione delle trincee nemiche, affinché causasse morte per soffocamento e avvelenamento. Proprio a causa di questa impostazione ancora ‘artigianale’ e ‘casuale’, i gas non furono usati su larga scala e non fecero grandi danni.

Il carro armato, ancora rozzo e poco agile, non fu sfruttato appieno (cosa che avverrà nella seconda guerra mondiale). Insomma, questa tecnologia militare fu solo il prodromo all’impiego massiccio e ‘scientifico’ nella seconda carneficina mondiale: una preparazione tecnica!

Con la guerra navale, la Germania tentò di creare danni all’interno delle rotte commerciali inglesi per minare il dominio anglosassone sui mari. Importante fu l’utilizzo dei sottomarini, nel cui settore produttivo la Germania era all’avanguardia. Il sottomarino era una macchina complessa e molto avanzata, tale che la sua produzione richiedeva un’enorme potenza militare ed economica, possibile solo grazie allo sviluppo industriale che caratterizzava la Germania. Esso fu l’emblema di una Germania sviluppata tecnologicamente ed economicamente, che non voleva più sottostare alle grinfie delle politiche inglesi e francesi.

I tedeschi, comunque, non riuscirono a sconfiggere la flotta inglese. Nel conflitto molti furono gli attacchi contro navi passeggere. Celebre fu l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania, in cui persero la vita 140 passeggeri americani. Questo evento darà, tra l’altro, la forza agli americani interventisti ad entrare in guerra. L’intervento americano – come vedremo – al di là della retorica sulle vittime innocenti, era stato già deciso in base a ragioni più ‘congrue’: ragioni saldamente e prosaicamente economiche.

La massificazione della guerra o militarizzazione della massa

La Grande Guerra segna l’ingresso delle masse nella storia in due accezioni: 1) furono interessati dal conflitto ampi strati della popolazione civile e non solo la classe militare in senso stretto; 2) la mobilitazione di milioni di uomini segna lo sviluppo di una coscienza collettiva.

Diversamente dalle guerre precedenti, la Prima guerra mondiale interessò non solo gli eserciti, ma l’intero corpo sociale. L’intera società, come un sol corpo, fu sottoposta alla tensione della guerra: ci fu un processo di ‘militarizzazione delle masse’ o ‘massificazione della guerra’: l’esercito non era più composto di soli soldati di professione, ma le sue fila si ingrossarono di intere popolazioni e la popolazione tutta fu, in un modo o nell’altro, interessata al conflitto.

Insomma, la Prima guerra mondiale proprio a causa della quantità di nazioni, popoli coinvolti e quantità di fronti aperti, produsse cambiamenti qualitativi nel corpo sociale: la quantità si trasformò in qualità secondo la ben nota legge dialettica hegeliana.

La guerra aveva determinato una cospicua mobilitazione delle masse sui territori. Masse ingenti di uomini si erano mosse dalla loro abituale dimora per andare a combattere in un altrove che molti non immaginavano nemmeno. In questo senso, la Grande Guerra fu un momento di sprovincializzazione, di rottura con un ottuso e limitato radicamento e l’occasione, per le masse, di una presa di coscienza che, attraverso l’unione, era possibile perseguire e realizzare diritti. Concretamente, ciò significherà una partecipazione di nuovi

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soggetti alla storia attiva che per l’innanzi erano ancora rimasti in sordina: partiti, sindacati, organizzazioni sociali, ecc. Tali soggetti, da qui innanzi, saranno sempre più strumenti necessari, insostituibili per la vita dello Stato.

Nella fattispecie, in Italia, la Grande Guerra fu l’occasione, seppur tragica, di riannodare quel faticoso lavoro di sentirsi nazione; giovani del nord e del sud combatterono fianco a fianco nelle trincee.Ancora, di eccezionale significato sarà il ruolo che la donna assumerà nel conflitto, soprattutto se si considerano gli sviluppi che si registreranno fino al movimento femminista degli anni ’70. Fu l’occasione per ‘testare’ l’ipotesi femminista di una società in cui uomini e donne potessero avere gli stessi diritti e farla finita con una società ossessivamente patriarcale. Con i maschi al fronte, le donne subentrarono spesso in quei lavori che erano tradizionalmente considerati appannaggio maschile. I maschi in trincea e le donne in fabbrica! Scricchiolava, nel concreto, un plurisecolare servaggio della donna all’uomo. Scricchiolava il maglio patriarcale! Se il primitivo e originario matriarcato dei clan e delle tribù di nomadi, cacciatori e raccoglitori, era stato soppiantato dalle aggregazioni sociali stanziali che, praticando l’agricoltura, richiedevano una vigorosa forza fisica maschile, ora la grande industria, con la sempre più elevata divisione sociale del lavoro, con l’atomizzazione, la parcellizzazione del processo produttivo, richiedeva sempre più dispendio di energia nervosa o intellettiva e con ciò rendeva di nuovo possibile il lavoro femminile al pari di quello maschile. Insomma, la grande industria gettava le basi reali affinché il giogo patriarcale crollasse. Le donne, l’altra metà del cielo, percettori di reddito, avrebbero di lì a poco richiesto, a viva voce, una ridefinizione dei ruoli nell’ambito della famiglia. Tra il 1918 il 1920, l’Inghilterra, la Germania, gli Stati Uniti e l’Urss riconoscono il diritto di voto anche alle donne. Per l’Italia è ancora presto.

Il ruolo dello Stato nell’economia

La Prima guerra mondiale causò, nei fatti, un cambiamento in ambito ideologico di grande rilievo per quanto riguardava il ruolo dello Stato nell’economia e nella società in generale. Lo Stato diventa sempre più protagonista nella vita economica e sociale.

In ambito economico-politico, il paradigma egemone della borghesia era la concezione liberista che è possibile compendiare nella formulazione dell’economista A. Smith, autore de La ricchezza delle nazioni. Il mercato, e solo il mercato, con le sue leggi è unico regolatore dello sviluppo economico dei Paesi: arbitro dello sviluppo economico. C’era una regola aurea dello sviluppo capitalistico che garantiva progresso e ricchezza: ‘laissez-faire’. Il mercato, lasciato a sé stesso, avrebbe assicurato la ricchezza e il progresso economico illimitato: umani sorti progressive! La somma delle singole azioni individuali, che ricercano il proprio tornaconto egoistico, avrebbe assicurato il benessere e la ricchezza collettiva. Lo Stato, dunque, non avrebbe dovuto ingerirsi nelle faccende economiche, ma limitare al massimo il suo peso.

Beninteso, la teoria liberista non ebbe mai una verifica nella realtà storica. Al contrario, le continue crisi cicliche testimoniano esattamente il contrario, tuttavia rappresentò bene gli interessi della borghesia almeno fino alla Grande guerra. Il libero mercato era effettivamente libero solo nella teoria; esso non produceva affatto un’armonia attraverso la sua ‘mano invisibile’. Solo metafisicamente era possibile postulare un’identità tra interesse privato e pubblico mentre più spesso la realtà ne mostrava un conflitto. Il libero mercato mostrava non tanto un’armonia, un equilibrio, quanto una propensione a creare una sperequazione tra ricchi e poveri, un accentramento di capitali e una sproporzione sempre più ampie tra le sfere produttive, ecc.

Il ruolo dello Stato doveva essere completamente rivisto di lì a poco, soprattutto dopo la crisi americana del 1929, il Big crash. Tuttavia, i prodromi di tale cambiamento sono già all’interno delle modificazioni strutturali che si verificano nella Grande Guerra. La Prima guerra mondiale vide l’intervento massiccio dello Stato, sia sotto forma di investimenti, nuove strade e opere pubbliche, sia nelle laute commesse di guerra fatte ai privati per la produzione di materiale bellico.

Lo Stato, inoltre, intervenne spesso nell’ambito economico per calmierare coattivamente i prezzi di beni di prima necessità o, addirittura, per imporre determinati comportamenti ai singoli produttori per garantire l’interesse generale si intervenne, in tempo di guerra, in maniera illiberale e dispotica soprattutto nell’ambito

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del diritto, scalfendo e, a tratti, abrogando, di fatto, con le requisizioni, il diritto alla proprietà privata dei singoli. Fu il cosiddetto ‘comunismo di guerra’!

La propaganda e il consenso

Un elemento che pure marca la differenza con le epoche passate fu il ruolo che lo Stato affidò alla propaganda nella ricerca del consenso sociale. La propaganda divenne un vero e proprio mezzo governativo. Il consenso sociale diventava sempre più necessario a fronte di una marea di ignari contadini che veniva catapultata in un tritacarne mondiale. Bisognava tener testa anche alla più scaltra classe operaia che, nei partiti socialisti, trovava sempre più eco e si assestava su posizioni disfattiste: “guerra alla guerra” era la consegna dei partiti socialisti. Seppur con qualche distinguo, i socialisti erano, quasi nella loro totalità, contrari alla guerra, ritenuta una guerra capitalista di rapina per la spartizione del mondo tra predoni. Pochi pensarono fosse giusto entrare in guerra e mettersi al fianco di quei Paesi democratici la cui vittoria avrebbe assicurato un avvenire almeno liberale all’Europa.

Il genocidio degli Armeni

Assolutamente raccapricciante è il genocidio degli Armeni.

Si tratta di un crimine contro l’umanità. Il territorio armeno si divideva tra l’Impero Russo e l’Impero Ottomano, dove avevano fondato numerose città. In territorio turco gli Armeni rivendicavano la propria autonomia in quanto cristiani ma per l’Impero ottomano era impensabile la perdita di parte del territorio. Il sultano di Turchia, contro tale richiesta, utilizzò alcuni rancori esistenti tra la popolazione armena e altre popolazioni musulmane dell’Impero, per creare dei moti d’insurrezione contro questa minoranza cristiana. Il suo piano ebbe una buona riuscita e ci furono vere e proprie sommosse popolari contro gli Armeni. L’ascesa al governo dei “giovani turchi”, movimento fortemente nazionalista, peggiorò notevolmente la situazione già critica: gli Armeni, in quanto non cittadini turchi, potevano e dovevano essere perseguitati.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, gli Armeni, sudditi dell’Impero russo, si trovarono a combattere contro i loro compatrioti sudditi dell’impero ottomano.

Nel 1915 la Turchia maturò l’eliminazione sistematica della popolazione armena. Si sviluppò un piano preciso. La prima fase prevedeva sic et simpliciter l’eliminazione fisica di questo popolo. In secondo luogo, eventuali superstiti sarebbero stati deportati nelle zone periferiche dell’Impero, in veri e propri campi di concentramento. Molti diplomatici tedeschi raccontarono nelle loro relazioni di uno sterminio inimmaginabile. Le vittime di tale sterminio si calcolano intorno al milione di morti, ovvero la metà della popolazione armena presente nel 1914. Nonostante tale genocidio sia stato condannato da un tribunale militare e i colpevoli principali puniti, il governo turco ha sempre negato le stime fatte, attribuendo, tra l’altro, la causa dei decessi alle privazioni comuni in periodo di guerra.

1917: l’anno della svolta

Il 1917 rappresenta una svolta per gli esiti della Grande guerra. Da quest’anno si delinearono definitivamente le due nazioni protagoniste assolute di questo conflitto: la Germania e gli USA che, proprio a partire dal 1917, iniziano ad imporsi politicamente come protagonisti incondizionati della politica internazionale.

Sin dal 1917, i tedeschi intensificarono la guerra sottomarina per bloccare tutta la circolazione di rifornimenti nei paesi nemici e isolare economicamente l’Inghilterra. L’offensiva tedesca penalizzava, però, anche gli affari commerciali degli USA, che si decisero a entrare in guerra. Tuttavia, questo motivo non è altro che la punta di un iceberg: la partecipazione americana al conflitto fu, infatti, frutto di un acceso dibattito interno che possiamo ricondurre a due ragioni di fondo, su cui s’incardinava il dilemma americano se entrare o meno nell’agone europeo. Una parte della borghesia americana si schierò su posizioni isolazioniste, rivendicando la crescita e i progressi del capitalismo americano, che sarebbero stati inevitabilmente turbati dall’intervento in Europa. Gli interventisti avevano altri argomenti al loro arco. Innanzitutto, non era possibile tirarsi fuori

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dal conflitto perché, nonostante l’Oceano, venivano toccati gli interessi economico-politici americani. Metà della produzione degli USA era diretta all’Europa. Ora, un continente a leadership tedesca, con una pax tedesca, non avrebbe giovato per nulla al libero scambio e agli interessi economici americani. In secondo luogo l’intervento americano si faceva pressante anche a riguardo del recupero degli ingenti crediti ai paesi europei. In terzo luogo, una parte della borghesia americana addentò l’occasione di una guerra come occasione per arricchirsi con le commesse di guerra. La posizione interventista alla fine prevalse!

Il 1917 rappresenta una faglia anche a partire dalla Rivoluzione d’ottobre in Russia, che rovescia lo zarismo e decide di uscire dalla guerra e procedere subito con le trattative con gli imperi centrali. Si giunse, così, all’accordo di Brest-Litovsk, secondo il quale la Russia dovette concedere la Polonia e i Paesi baltici alla Germania e dare l’indipendenza all’Ucraina.

La disfatta di Caporetto

In seguito all’uscita di scena della Russia, gli Austriaci e i Tedeschi poterono concentrarsi sul fronte occidentale e sull’Italia. Gli Austriaci, appoggiati dai Tedeschi, dopo una faticosa offensiva, sfondarono le linee italiane a Caporetto, penetrando per circa 150 km nel territorio italiano. Non fu una semplice sconfitta, fu una disfatta! La ritirata italiana fu rovinosa, un disastro che coinvolse la popolazione civile. La ritirata fu praticamente incontrollabile. Le stime ufficiali parlano di 400.000 uomini persi tra morti, feriti e prigionieri. Caporetto ebbe un’eco vastissima per tutto il Paese. Fu formato un nuovo governo con a capo Vittorio Emanuele Orlando. Il generale Cadorna fu sostituito dal più lungimirante e accorto Armando Diaz, che organizzò una linea difensiva lungo il Piave in grado di poter fermare l’avanzata austriaca. Il governo e le élite militari paventarono alle truppe una riforma agraria, che prevedeva la confisca di grandi proprietà terriere ai latifondisti che sarebbero state poi divise tra i soldati come ricompensa. Era un modo di imbrigliare il malcontento in una motivazione che potesse spronare i soldati alla guerra.

Caporetto fu una sconfitta dovuta certo all’accorta preparazione militare austro-tedesca, ma rivelò anche la profonda stanchezza fisica e mentale delle truppe che sfociava nel rifiuto per la guerra, nelle insubordinazioni, nelle fughe, nella diserzione in massa, simulazioni di malori e, addirittura, nell’autolesionismo, pur di astenersi dalla partecipazione militare. Caporetto è stata letta anche come “una sorta si sciopero” delle truppe - come dice Lehner, Economia, politica e società nella prima guerra mondiale e come confermano le lettere dei soldati raccolte da Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra – tanto che avrebbe potuto “trasformarsi in un’impresa rivoluzionaria grande e sconvolgente”.

Fu una disfatta che gli italiani non hanno mai ricordato volentieri perché implica, nella logica militarista, una dose di viltà dei soldati italiani. La proporzione tra morti e prigionieri è assolutamente irragionevole: i soldati si arrendevano al nemico senza colpo ferire e decidevano di non combattere. Un esercito in rotta che scende dalle montagne come un fiume in piena che tutto travolge al passaggio. La battaglia del Piave cancellò Caporetto.

Fasi finali del conflitto

Nella primavera del 1918, l’attacco tedesco sul fronte occidentale venne vanificato dalle truppe anglo-francesi che ottennero poi una vittoria definitiva nelle battaglie della Marna e di Amiens. L’Austria subì una feroce controffensiva italiana che culminò con la sconfitta e la ritirata definitiva degli Austriaci durante la battaglia di Vittorio Veneto. A Villa Giusti, il 3 novembre si stilò il patto che sanciva la vittoria dell’Italia; intanto l’imperatore Carlo I abdicò e l’Austria divenne una repubblica.

Anche la Germania si arrese definitivamente in seguito alla resa turca. A Berlino un socialdemocratico, Elbert, fondò la repubblica e avvio le trattative per l’armistizio di Rethondes.

Con lo sgretolamento di queste potenze si chiudeva finalmente la Prima guerra mondiale che da “indolore” guerra lampo si era trasformata in una travagliata guerra di trincea durata, più di quattro anni e con il

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sacrificio di più di otto milioni e mezzo di morti, tra cui seicentoquindicimila italiani, e circa ventuno milioni di feriti più o meno gravi.

I trattati di pace

I rappresentanti dei Paesi usciti vincitori dal conflitto si radunarono a Parigi il 18 gennaio 1819, in una Conferenza per la pace, mentre i Paesi vinti vennero coinvolti solo dopo che le trattative furono terminate. L’obiettivo della Conferenza era quello di trovare un equilibrio che consentisse all’Europa una pace duratura: un nuovo assetto geo-politico. I protagonisti del congresso furono: Clemenceau per la Francia, Lloyd George per la Gran Bretagna, Wilson per gli Stati Uniti e Orlando per l’Italia.

Alla Conferenza si fronteggiavano sostanzialmente due strategie politiche: quella americana e quella francese.

In vista della stesura delle trattative per la pace, il presidente americano Wilson aveva già presentato i Quattordici punti, nei quali chiarì le intenzioni americane per quanto riguarda le relazioni internazionali. Wilson faceva appello all’autodeterminazione delle nazioni e ai principi che avevano ispirato l’Intesa. Dietro le altisonanti parole di democrazia, autodeterminazione, ecc., Wilson rappresentava gli interessi economici americani, che si sarebbero fatti valere meglio in una Europa dove c’era libero mercato e senza aspri conflitti fra Stati.

La Conferenza si sviluppò su ben altri presupposti: la Francia puntava ad indebolire la Germania per avere l’egemonia economica e politica in Europa; la Gran Bretagna, al contrario, era poco propensa a penalizzare severamente la Germania, poiché non intendeva lasciare libero spazio alla Francia. Tuttavia dovette scendere a compromessi con i francesi per perseguire gli obiettivi di annullamento della flotta tedesca e della spartizione dei territori coloniali tedeschi.

L’Italia premeva per il rispetto degli accordi stipulati nel Patto di Londra.

In realtà anche gli Stati Uniti facevano valere, al di là dei pii intenti di democrazia e autodeterminazione, i loro interessi meramente economici. Avrebbero voluto una soluzione condivisa da tutti gli Stati, in modo da pacificare il continente e renderlo un libero e democratico mercato per le proprie esportazioni. Insomma, una soluzione equilibrata che non fosse troppo punitiva per i perdenti avrebbe meglio assecondato i loro interessi.

I Trattati di Parigi furono firmati in Francia tra il 1919 e il 1920 e disegnarono la nuova Europa.

1) L’Austria dovette rinunciare ai sette ottavi dei territori. L’Impero austro-ungarico mantenne Fiume ma iniziò un processo di inesorabile sgretolamento: perse Trieste, Trento, la Dalmazia ed altri territori;

2) L’Italia ricevette dall’Austria i territori di Trieste, Venezia Giulia, Trentino e Alto Adige, ma non acquisì i territori promessi con il Patto di Londra (26 aprile 1915); non le furono riconosciute Fiume e la Dalmazia e non ricevette le colonie promesse in quanto l’acquisizione di tali territori andava contro i principi di autodeterminazione di Wilson. L’Italia, non ricevendo i vantaggi per cui si era battuta si ritenne penalizzata e ciò scatenò lo sdegno da parte di nazionalisti, che parleranno di ‘vittoria mutilata’;

3) La Germania fu riconosciuta come unica responsabile della guerra e fu privata di tutte le sue colonie: l’Alsazia e la Lorena passarono alla Francia; altri territori passarono alla Danimarca e alla Polonia che così si trovava, di fatto, divisa in due dal corridoio di Danzica. La Germania perdeva il 13% del territorio e fu obbligata a risarcire le spese di guerra, per un totale di 132 miliardi di marchi-oro, cifra oggettivamente insostenibile per l’economia tedesca. Inoltre, fu costretta a ridurre il suo esercito e la sua flotta. La Germania fu, di fatto, penalizzata e sottoposta a condizioni troppo dure. Tali provvedimenti non faranno che alimentare l’insofferenza germanica e dare alimento alle teorie politiche di Hitler che riportarono la Germania alla guerra.

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Le condizioni stabilite dai Trattati di Parigi (1919-1920) furono causa di grande, diffusa insoddisfazione per la gran parte degli Stati. Con l’intento di disegnare un’Europa capace di garantire un equilibrio politico e mantenere la pace, si crearono, all’opposto, i prodromi della Seconda Guerra Mondiale. In effetti, le uniche due nazioni che trassero vantaggio dai Trattati furono la Francia e la Gran Bretagna, che si spartirono, tra l’altro, le ex-colonie tedesche (incluse l’Alsazia e la Lorena).

L’Europa che emergeva dalla Grande guerra aveva, dunque, un volto completamente diverso. Registrava il crollo dei quattro imperi centrali (Austro-ungarico, tedesco, russo e turco) ed erano nate numerose nuove nazioni che comprendevano etnie diverse e, talvolta, in contrasto tra loro: Cecoslovacchia, Iugoslavia, Polonia.

La Grande guerra segnava anche l’ascesa definitiva del capitalismo USA come potenza mondiale. I vincitori assoluti del conflitto furono, infatti, gli Stati Uniti che prima dello scoppio della guerra, erano debitori all’Europa di 5 miliardi di dollari, mentre alla fine erano creditori di 7 miliardi di dollari. Prima della guerra, gli scambi internazionali venivano effettuati con la sterlina inglese che, dopo la guerra, cedette il posto al dollaro.

Infine, dalla Grande guerra, come dalla testa sanguinante di Giove, emerse un evento cruciale, destinato a segnare in maniera indelebile tutto il Novecento. Una rivoluzione che agglutinerà le speranze di tutto il movimento operaio internazionale nella lotta contro la borghesia, che interpreterà le speranze di un mondo migliore di milioni di uomini e donne, di umiliati e offesi, degli ultimi della terra: la Rivoluzione d’ottobre in Russia.

BIBLIOGRAFIA

Libri

Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, MondadoriHemingway, Addio alle armi, Rizzoli

Film

Orizzonti di gloria, S. Kubrik, 1957La Grande Guerra, Monicelli, 1959

Uomini contro, Rosi, 1971La masseria delle allodole, Taviani, 2007

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LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE

~ LE CONDIZIONI STORICHE E I MARXISTI~ LE TRE RIVOLUZIONI

~ La Rivoluzione del 1905~ La Rivoluzione di febbraio~ La Rivoluzione d’ottobre: inizio della rivoluzione internazionale

~ IL POTERE SOVIETICO~ L’Assemblea Costituente~ La guerra civile~ Elementi di dittatura proletaria: La Costituzione del 1918~ Il ‘Comunismo di guerra’ e la Nep

~ LA RIVOLUZIONE SCISSA

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Le condizioni storiche e i marxisti

La Russia del XIX secolo si presenta come un paese arretrato e autocratico, simbolo del conservatorismo politico e sociale europeo.

L’impero russo continuò ad espandersi durante tutto l’Ottocento raggiungendo un’estensione assai notevole. Al suo interno, infatti, convivevano decine di popoli caratterizzati da lingue ed etnie diverse. Tuttavia, la cifra che determina l’impero è l’arretratezza delle campagne e una scarsissima produzione industriale concentrata in poche città. La Russia d’inizio secolo, dunque, era come impantanata in un letargo economico atavico. Circa il 90% della popolazione era costituito da contadini che solo nel 1861 erano stati formalmente liberati dai ceppi medievali della schiavitù della gleba, il che descrive plasticamente l’arretratezza russa. D’altra parte, la risoluzione formale della schiavitù non risolse affatto i problemi dell’agricoltura russa, giacché perdurò lo stato di miseria dei contadini poveri contrapposto ai ricchi kulaki. Tra i contadini questa situazione non poteva che generare malcontenti e vere rivolte puntualmente represse nel sangue.

Soltanto alla fine dell’Ottocento cominciò un processo di industrializzazione, che venne ‘introdotto’ attraverso l’ingresso di capitali stranieri provenienti da Francia, Germania e Gran Bretagna. Lo stesso zar promosse questi finanziamenti esteri che fecero di Mosca e San Pietroburgo le città più industrializzate. In pratica, sotto il profilo dello sviluppo industriale la Russia dipendeva del tutto dal capitale straniero. Si trattava, quindi, di un’industrializzazione le cui cause non erano tanto da ricercare nello sviluppo interno e nel fermento autoctono, quanto nelle cause esogene.

L’industrializzazione - ancorché timida - e la situazione politica effervescente avevano spinto alcuni intellettuali ad avvicinarsi alle tesi marxiste: alla teoria più avanzata del movimento operaio.

I militanti russi, sulla scorta della dottrina di K. Marx:

valutavano positivamente lo sviluppo capitalistico in Russia che avrebbe portato il paese fuori dal torpore economico, dall’immobilità che relegava milioni di contadini alla miseria;

consideravano positivamente il ruolo rivoluzionario della borghesia nelle condizioni russe; avrebbero appoggiato lo sviluppo capitalistico e un’eventuale rivoluzione democratico-borghese

che rompesse gli argini della monarchia zarista e “i lacci e laccioli” feudali; erano consapevoli dell’impossibilità dei “salti” della Storia: la Russia avrebbe dovuto attraversare

una fase capitalistica al termine della quale sarebbe sorto il ‘sole dell’avvenire’, ovvero la rivoluzione socialista.

Nel 1898 venne fondato il POSDR, Partito Operaio Socialdemocratico Russo, che successivamente si dividerà in due correnti contrapposte:

i bolscevichi (maggioranza) capeggiati da Vladimir-Uljanov, detto Lenin, volevano un partito rivoluzionario che fosse in parte segreto e in parte pubblico. Lenin agognava che il partito fosse formato unicamente da uomini disposti a dedicare la loro vita al partito: rivoluzionari di professione;

i menscevichi (menscevichi) capeggiati da Jilij Caderbaum, detto Martov, volevano un partito che s’ispirasse alla socialdemocrazia europea. Il loro obiettivo era quello di realizzare riforme sociali e politiche in maniera democratica.

Le tre rivoluzioni

La Rivoluzione del 1905

Un periodo di crisi seguì la sconfitta militare contro il Giappone. Le condizioni di vita nelle città diventarono assai problematiche. Le condizioni del proletariato peggiorarono e si diffuse un malcontento generale.

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Il 9 gennaio 1905 più di 140.000 persone sfilarono per San Pietroburgo fino a raggiungere il Palazzo d’Inverno. La manifestazione pacifica degli operai che avanzavano una semplice petizione allo zar Nicola II – succeduto ad Alessandro II, - fu fermata con brutale violenza. L’intervento dell’esercito fece circa un migliaio di morti. Quel giorno passò alla storia come “la domenica di sangue”. Scioperi e rivolte a catena si estesero a tutti i lavoratori e al mondo rurale per l’intero anno. Gli eventi del 1905 fecero in modo che anche la borghesia liberale si organizzasse nel partito Costituzionale Democratico, più conosciuto come Cadetto. Il partito chiedeva un sistema costituzionale che potesse convivere con la già esistente monarchia.

Lo zar Nicola II si trovò costretto a concedere l’elezione di un Parlamento, la Duma, con l’intento di sedare il malcontento. La protesta, però, continuò ad espandersi, coinvolgendo anche l’esercito e la famosa corazzata Potëmkin - ammutinata - immortalata nel film di Eisenstein. La rivolta raggiunse l’apice in ottobre. In seguito ad uno sciopero generale a San Pietroburgo venne creato il primo Soviet (consiglio), ovvero un Consiglio dei lavoratori che agiva come un organo di governo parallelo a quello ufficiale basato su un principio di democrazia diretta. A capo del Soviet di san Pietroburgo troviamo il menscevico Lev Davidovič Bronstein, detto Trotski.

La Rivoluzione di febbraio

Il 23 febbraio 1917, il malcontento generale degli operai di Pietrogrado sfociò in una seconda rivoluzione. Lo zar lanciò contro gli operai le truppe dell’esercito ma esse, disobbedienti, si schierarono dalla parte degli operai. Lo zar, con tutta evidenza, non era più capace di controllare la situazione. Il 2 marzo 1917 gli insorti, insoddisfatti del regime zarista, costrinsero Nicola II ad abdicare: crollava così la monarchia zarista e nasceva l’esperienza della repubblica borghese. Non potendo più contare su un minimo consenso neanche tra gli aristocratici la monarchia zarista collassò subitamente; s’accartocciò su se stessa in un baleno e si obliò nel nulla. Fu una rivoluzione indolore e con poche vittime.

La rivoluzione di febbraio porta alla luce due centri di potere: 1) un governo provvisorio formato, perlopiù, da borghesi e aperto alle riforme; 2) il soviet di Pietrogrado formato da socialrivoluzionari (populisti) e menscevichi. Entrambi gli schieramenti intendevano continuare la guerra; il governo provvisorio per rafforzare lo stato e creare un regime parlamentare moderato: il soviet per sconfiggere Germania e Austria, potenze reazionarie e conservatrici la cui vittoria avrebbe ostacolato la nuova Russia.

La Rivoluzione d’ottobre: inizio della rivoluzione internazionale

La doppia tattica

All’interno del movimento socialista internazionale era ormai assodata l’adozione di tattiche diverse dei partiti operai a partire dallo sviluppo economico del paese. Qualora il paese fosse a forte sviluppo economico, ampiamente industrializzato e il movimento operaio largamente radicato e forte, la tattica del partito comunista non avrebbe previsto nessuna collaborazione con la borghesia ma, al contrario, una politica che ponesse all’ordine del giorno la rivoluzione e l’instaurazione della dittatura del proletariato allo scopo di eliminare la resistenza della borghesia e concentrare le forze produttive al fine di socializzarle. Nei paesi a capitalismo avanzato, all’ordine del giorno c’era la rivoluzione socialista e il passaggio alla socializzazione dei mezzi di produzione. Nei paesi in cui lo sviluppo delle forze produttive era ancora ad uno stadio basso e la borghesia come classe non aveva ancora vinto l’aristocrazia o forme ancora semifeudali, il proletariato, seppur esiguo, avrebbe collaborato con la borghesia al fine di accelerare lo sviluppo del paese.

In questo modo si delineavano per i comunisti due tattiche a partire dalle condizioni storiche in cui il partito operava: rivoluzione socialista o collaborazione alla rivoluzione democratico-borghese.

In Russia, con tutta evidenza, il movimento operaio non poteva che adottare la tattica collaborativa con la borghesia per una rivoluzione.

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Le Tesi di aprile

Quando, il 4 aprile 1917, Lenin arrivò a Pietrogrado, i due centri di potere risultavano incapaci di risolvere gli immensi problemi della Russia. Lenin propose le sue Tesi di aprile che sviluppavano in 10 punti le sue idee sui compiti che il partito doveva svolgere nella nuova situazione e all’interno della guerra imperialistica mondiale.

1. Tutto il potere ai soviet! Tutto il potere doveva essere trasferito nelle mani dei soviet perché prodotto originale delle masse operaie e dei contadini. I soviet rappresentavano la forza creativa democratica e rivoluzionaria delle masse;

2. Terra ai contadini! L’uscita immediata della Russia dalla guerra;3. Fabbriche agli operai! La produzione doveva passare sotto il controllo del proletariato organizzato;4. Pace immediata! Uscita immediata della Russia dalla carneficina della Grande Guerra, il cui unico

scopo era la spartizione imperialistica del mondo.

Le Tesi di aprile presero alla sprovvista gli stessi dirigenti e militanti bolscevichi attardati sulla tesi che bisognava appoggiare la rivoluzione democratico-borghese. Si trattava di lanciarsi verso la presa del potere, verso la rivoluzione socialista. Imprimere alla Storia un’accelerazione tremenda. Le Tesi promettevano il fuoco e la speranza agli ultimi della terra. Ora, subito!

La vecchia tattica rivoluzionaria che prevedeva l’appoggio alla borghesia in una società arretrata, affinché potesse attecchire il capitalismo e le sue corrispondenti istituzioni liberali al fine di ammodernare la società e liberarla dai residui medievali, veniva totalmente superata nell’ottica leniniana.

Il ragionamento di Lenin che stava alla base delle Tesi si fondava, sostanzialmente, su tre perni: a) l’imperialismo e la guerra mondiale che si stava consumando avrebbero portato, probabilmente, il movimento operaio alla rivoluzione vittoriosa in Europa; b) la borghesia russa non era abbastanza ferma, pronta, salda per portare a termine la sua stessa rivoluzione; c) la Russia era l’anello debole della catena imperialista. Bisognava ora prendere il potere e aspettare la rivoluzione europea.

Le Tesi di aprile ebbero un notevole riscontro tra le masse operaie e contadine che chiedevano pace e la terra, mentre allontanarono i bolscevichi dai menscevichi e dai social-rivoluzionari che, invece, appoggiarono il governo. I bolscevichi, dunque, si posizionavano soli all’opposizione e fuori da qualsiasi collaborazione con il governo provvisorio borghese.

L’Insurrezione

La situazione al fronte era sempre più difficile; il 18 giugno, il governo provvisorio inviava truppe contro le forze austro-tedesche, ma i soldati rifiutarono di combattere. Intanto, spinte conservatrici si facevano sentire: in settembre il generale Kornilov, comandante in capo dell’esercito, marciava su Pietrogrado con l’intento di abbattere il governo repubblicano e riportare l’ordine. Il colpo di Stato si rivelò un fallimento, in quanto il social-rivoluzionario Kerenski, al comando del governo, riuscì a far fronte all’attacco, ma solo con l’appoggio di contadini, operai e bolscevichi. La borghesia si rivelava troppo debole per la sua stessa rivoluzione borghese e nei momenti cruciali aveva sempre bisogno della classe operaia e dei bolscevichi. Questi ultimi, in seguito a questa vicenda, ottennero la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca.

I bolscevichi iniziarono a costituire una forza militare: la Guardia rossa. Infine, rafforzati dall’appoggio del popolo, ruppero ogni indugio e organizzarono l’insurrezione armata contro il governo provvisorio. Il 24 ottobre i bolscevichi occuparono i punti strategici di Pietrogrado senza spargimento di sangue. La stessa guarnigione di Pietrogrado favorì l’azione delle truppe bolsceviche che riuscirono a conquistare, il 25 ottobre, il Palazzo d’Inverno, sede del governo Kerenski, senza grandi spargimenti di sangue (quindici

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morti). Il Palazzo d’Inverno - come la Bastiglia per la Rivoluzione Francese - era il simbolo, insieme, della monarchia zarista e della rivoluzione democratico-borghese appena nata.

La stessa notte del 25 ottobre fu dichiarato aperto il II Congresso panrusso dei soviet e la sera del 26 Lenin, dalla tribuna del Congresso, di fatto apriva il capitolo della Rivoluzione comunista internazionale con l’inizio del potere sovietico.

Il potere sovietico

Il Congresso approvò due decreti:

1) Il Decreto sulla pace. Si invitavano tutti i paesi belligeranti alla pace immediata.

2) Il Decreto sulla terra. Si aboliva la proprietà privata della terra e si confiscavano le grandi proprietà.

In questo stesso periodo venne creato il Consiglio dei commissari del popolo, presieduto da Lenin e interamente formato da bolscevichi.

In primo luogo, il Consiglio nazionalizzò le banche e consegnò nelle mani degli operai il controllo delle fabbriche, per poi essere nazionalizzate. Socialrivoluzionari e menscevichi accusarono i bolscevichi di aver affossato la democrazia e, in virtù di ciò, abbandonarono il Congresso dei soviet; soltanto i socialrivoluzionari di sinistra appoggiarono questo nuovo governo.

L’Assemblea Costituente

Il 12 novembre 1917 si votò per la formazione dell’Assemblea Costituente, i risultati furono sfavorevoli per i bolscevichi che ottennero il 25% dei voti, ma non per i socialrivoluzionari che ottennero il 58%. Le campagne avevano votato in maggioranza per i socialrivoluzionari, mentre le città più grandi, dove era presente un movimento operaio organizzato, avevano massicciamente votato per i bolscevichi. In seguito alla riunione del 18 gennaio 1918, i bolscevichi decisero di chiudere l’Assemblea alla fine del primo giorno di lavoro.

Il nuovo governo rivoluzionario bolscevico dovette affrontare il problema della pace con la Germania. Gran parte dell’ex-impero russo era occupato dai tedeschi, che ormai minacciavano la stessa Pietrogrado: per questo la capitale divenne Mosca. Il 3 marzo 1918, a Brest-Litovsk, i bolscevichi dovettero trattare con il nemico, firmando la pace che da tempo avevano promesso al popolo.

La pace stabiliva che la Russia dovesse:

Cedere la Bielorussia, il Caucaso e le terre tra queste comprese alla Germania; Riconoscere l’indipendenza della Finlandia e dell’Ucraina; Rinunciare ai Paesi Baltici e alla Polonia.

Seppur ritenuta necessaria, Lenin definì questa pace “vergognosa”. Tra le ripercussioni di Brest-Litovsk, notevole fu che i socialrivoluzionari uscirono dal governo e i bolscevichi rimasero soli alla guida del paese.

La guerra civile

Dalla primavera del 1918, la Repubblica dei soviet dovette fronteggiare due minacce: l’invasione dei paesi occidentali ai confini e la guerra civile interna.

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L’obiettivo dei governi dell’Intesa era quello di togliere il potere dalle mani dei bolscevichi affinché si potesse ricostituire una repubblica democratico-borghese che riportasse la proprietà privata come quintessenza del capitalismo.

La Rivoluzione d’ottobre infiammò il movimento operaio europeo e fomentò l’opposizione operaia e socialista. Il Paese fu invaso da truppe anglo-francesi e statunitensi che occuparono il nord della Russia e da truppe giapponesi che occuparono la zona del Pacifico. Le potenze occidentali appoggiarono le forze controrivoluzionarie che si erano formate nel Paese già alla fine del 1917. L’imperialismo occidentale si schierò, senza riserve, dalla parte delle armate bianche guidate da ex generali zaristi e composte da truppe fedeli al vecchio regime che avrebbe voluto riportare indietro l’orologio della storia.

Contro l’Armata Bianca si schierò l’Armata Rossa, ovvero l’esercito bolscevico costituito e guidato da Trotskij, che finì per diventare una figura leggendaria. La guerra civile portò alla morte di circa 3.000.000 di persone. Si trattò di una guerra civile complessa, atroce, con nefandezze da ambo le parti che si concluse solo nell’estate 1920 con la vittoria dell’Armata rossa che ebbe l’appoggio determinante dei contadini. Se la presa del Palazzo d’Inverno assomigliò ad un colpo di Stato, tre anni di guerra civile provarono le ragioni e la forza del potere bolscevico.

Nell’aprile del 1920 il paese dovette difendersi anche dall’attacco della Polonia che, approfittando della guerra civile, pensò di riprendersi i territori persi con la pace di Versailles del 1919. La guerra si concluse nel 1921, con l’annessione della Bielorussia e dell’Ucraina al territorio polacco.

Elementi di dittatura proletaria: La Costituzione sovietica del 1918

Nel luglio 1918 venne approvata la prima Costituzione Sovietica che affermava i diritti del popolo lavoratore sfruttato. Essa fu importantissima per due motivi principali: a) divenne un documento storico all’interno dello sviluppo proprio del paese b) non era altro che una traduzione particolare dei principi enunciati nel Manifesto del partito comunista del 1848.

Secondo il Manifesto, infatti, la classe operaia al potere doveva, innanzitutto, spezzare le reni alla controrivoluzione e procedere all’accentramento dei mezzi di produzione per dirigere il passaggio ad una economia socialista. La Costituzione apre con una Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato che faceva da contraltare alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della grande Rivoluzione francese.

La Costituzione, quale raccolta di principi fondamentali dello stato sovietico, presenta la dittatura socialista nelle forme che essa assunse in Russia. Vi si legge lo scopo fondamentale: “sopprimere qualsiasi forma di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, di abolire completamente la divisione della società in classi […], di instaurare l’organizzazione socialista della società e di assicurare la vittoria del socialismo in tutti i Paesi”.

La forma giuridica della dittatura di classe si fa sentire, violenta e cristallina, quando si afferma che “godono del diritto di eleggere e di essere eletti coloro che vivono del proprio lavoro, mentre non eleggono e non possono eleggere ovvero sono fuori da qualsiasi rappresentanza politica […] e persone che ricorrono al lavoro salariato al fine di ottenere un profitto; le persone che vivono di redditi non lavorativi come: interessi di capitale, redditi di impresa, entrate patrimoniali, ecc.”. Con un semplice articolo della Costituzione, si vietava all’aristocrazia e alla borghesia qualsiasi intervento nella vita pubblica dello stato sovietico.

Particolare attenzione va poi riservato all’applicazione del voto plurimo. Si stabilisce che il voto degli operai conta più di quello dei contadini nella misura di 1 a 5. Il voto plurimo, che pure ha avuto diverse applicazioni in altri paesi, rivela, in maniera chiarissima, la difficoltà del potere bolscevico di mantenersi in un paese a stragrande maggioranza contadina. Il potere bolscevico, espressione della classe operaia rivoluzionaria, deve comprimere il voto contadino per non essere travolto e snaturato.

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Tra il 1920 e il 1922 si unirono alla Repubblica russa altre provincie capeggiate dai bolscevichi, i quali erano riusciti a sconfiggere le Armate bianche. Così, nel dicembre 1922 nacque l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).

Il ‘Comunismo di guerra’ e la Nep

Quando i bolscevichi presero il potere, la Russia era già in una situazione economica disastrosa. I contadini producevano per l’autoconsumo nelle piccole aziende agricole, non rifornendo le città dei beni necessari. Il governo non si rivelò in grado di riscuotere le tasse e si vide costretto a stampare carta moneta che, però, perse qualsiasi valore, provocando un’inflazione elevatissima. Spesso si ritornò al baratto e al pagamento in natura. In questa situazione il governo bolscevico, nel 1918, attuò una politica economica autoritaria che fu definita ‘comunismo di guerra’. Lo stato iniziò a controllare tutta l’economia attraverso la nazionalizzazione delle terre e la statalizzazione delle grandi e medie imprese. Per approvvigionare le città, i bolscevichi intervenivano dispoticamente nelle campagne (Tambov, 1920), strappando ai contadini tutto ciò che non fosse assolutamente necessario. La situazione economica raggiunse il culmine critico nel 1921 per l’effetto congiunto della crisi economica della guerra civile e di un anno di siccità che provocò una terribile carestia. La rivolta più grave contro il governo scoppiò a Kronstadt e portata avanti proprio da quei marinai e soldati russi che avevano contribuito all’Ottobre: la repressione militare fu durissima.

Nel 1921 il “comunismo di guerra” lasciava il posto alla Nuova Politica Economica (NEP) approvata al X Congresso del partito comunista.

La NEP si configura come una politica economica che si muove nella direzione di un maggior spazio all’iniziativa privata, al fine dell’ammodernamento capitalistico della Russia. Insomma, la Russia stava soffocando in una grave crisi economica ed era il momento di dare spazio ad una seppur limitata liberalizzazione dell’economia e degli scambi. Bisognava stimolare l’agricoltura, favorendo, nel contempo, l’approvvigionamento delle città. I contadini potevano vendere le eccedenze sul libero mercato. Tale liberalizzazione riguardava anche la piccola industria e il commercio. Lo Stato manteneva il controllo delle banche, delle grandi fabbriche che avessero più di venti dipendenti, creando così un sistema di produzione statale e privato.

In generale, le misure che furono prese possono inscriversi nell’alveo borghese, nella direzione di un pesante intervento statale nel tentativo di controllare e gestire un’economia in un periodo di guerra. Dall’altro lato si inserivano in una direzione tesa ad accelerare il passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico. Siamo in presenza non del “passaggio al socialismo” quanto della modernizzazione dell’economia russa ovvero della “costruzione del capitalismo”, dunque, del capitalismo di Stato. La NEP, in realtà, era un invito esplicito a far rinascere, nelle campagne, il capitalismo privato per uno sviluppo del mercato agrario.

Dunque: sviluppo del mercato agrario, forme di capitalismo monopolistico come il monopolio del commercio estero, forme di capitalismo di Stato come il censimento, il controllo, ecc. ma anche la statalizzazione del settore industriale; ecco la serie di attuazioni in campo economico tra il 1917 e il 1921.

Si faceva un passo verso il socialismo, ma solo nel senso che si saliva la scala storica dei modi di produzione che Marx aveva tratteggiato. La Russia si avviava al capitalismo di Stato che era certamente il gradino indispensabile per poter andare verso il socialismo.

La rivoluzione scissa

La Rivoluzione d’ottobre, inizio della rivoluzione internazionale, si presenta come una rivoluzione scissa.

Da una parte, la Rivoluzione d’ottobre è, indubitabilmente, una rivoluzione socialista per ciò che concerne la sua forma politica in quanto instaurazione della dittatura del proletariato, cioè della forma all’interno della quale si realizza la rivoluzione del movimento operaio che è superamento del capitalismo. Dall’altra, l’Ottobre è una rivoluzione borghese per ciò che concerne il suo contenuto economico: la terra ai contadini, il ‘comunismo di guerra’, la NEP, ecc. si inscrivono nell’alveo di una rivoluzione borghese e

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rimangono ancorate saldamente al capitalismo. Dunque, rivoluzione scissa: socialista la forma politica, borghese il suo contenuto economico.

L’Ottobre presenta questa particolarità che è la sua spietata condanna al fallimento qualora non avesse incrociato l’appuntamento con la rivoluzione europea. Una rivoluzione comunista vittoriosa in Europa tardava a congiungersi con quella russa. L’appuntamento non vi fu e la Rivoluzione d’ottobre non poteva che adeguare sempre più l’involucro politico al suo contenuto economico. La rivoluzione stava ormai soffocando già al 1921 come, d’altra parte, registrava la NEP. Il ciclo rivoluzionario previsto da Lenin s’infrangeva contro il blocco borghese e perdeva rovinosamente, dappertutto, aprendo la strada alla dittatura borghese: il liberalismo indossava la maschera del fascismo.

Toccò a Stalin lanciare la Russia verso quell’ossimoro che egli definì la “costruzione del socialismo in un solo paese”!

BIBLIOGRAFIA

Libri

M. Gor’kij, La Madre, 1906J. Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, 1919

B. L. Pasternak, Il dottor Živago, 1957 V. Majakovskij, Poesie d’amore e di rivoluzione, 2012

Film

Il giovane Karl Marx, R. Peck, 2017La corazzata Potëomkin, S. Eisenstein, 1925

Ottobre, S. Eisenstein, 192743

L’assassinio dello zar, K. Šachnazarov, 1991Taurus, A. Sokurov, 2001

Il BIENNIO ROSSO

~ LE RIVOLUZIONI FALLITE~ IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA

~ La situazione economica~ don Sturzo e il Partito popolare italiano ~ Le elezioni del 1920~ Lotte contadine~ Le occupazioni delle fabbriche~ Partito e sindacato

~ LA III INTERNAZIONALE~ 1921: NASCE IL PCd’I

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Il biennio delle rivoluzioni fallite

Un’ondata rivoluzionaria scuote l’Europa! Tutta l’Europa, tra il 1918 e il 1920, fu percorsa da un fremito, un ardore, una passione, uno slancio rivoluzionario che chiedeva un cambiamento radicale. Tutta l’Europa, tra il 1818 e il 1920, fu interessata da un crescendo di scioperi e di partecipazione operaia spontanea. La lotta per gli aumenti salariali, la lotta per le otto ore portarono in piazza milioni di lavoratori. Dappertutto spuntarono spontaneamente Consigli operai che si richiamavano più o meno direttamente alla vittoriosa esperienza russa. L’onda rivoluzionaria post-guerra della fase imperialista, preconizzata da Lenin, sembrava prendere sempre più forma concreta, sempre più forza.

In Germania, addirittura, prima della fine della guerra, i Consigli operai avevano occupato le fabbriche. A Berlino vi furono violenti scontri di piazza. L’estrema sinistra della Lega di Spartaco, guidata da rivoluzionari del calibro di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, non accettava più il ruolo moderato del Partito socialdemocratico e si assestava su posizioni esplicitamente rivoluzionarie. Si arrivò, dopo la proclamazione della repubblica, ad autentici tentativi rivoluzionari repressi sanguinosamente. Nel 1919 gli Spartachisti tentarono una sollevazione contro il governo di Berlino, ma furono repressi con estrema violenza dall’esercito e da corpi speciali su ordine del cancelliere socialdemocratico Ebert. Ad opera dei corpi speciali Freikorps (Corpi franchi), nelle settimane successive, furono assassinati centinaia di Spartachisti e gli stessi leaders Liebknecht e Rosa Luxemburg. Con la decapitazione della Lega di Spartaco si allontanava irrimediabilmente il tentativo di una rivoluzione in Germania.

In Austria, dopo la disgregazione dell’impero, venne proclamata una repubblica retta dai socialdemocratici. Il tentativo rivoluzionario anche in questo caso fu sanguinosamente represso.

In Ungheria fu fondata, da socialisti e comunisti, la Repubblica dei Consigli, capeggiata dal comunista Bela Kun. Anche qui il tentativo fallì. L’opposizione fu fisicamente eliminata e si instaurò il primo regime autoritario dell’Europa.

In Italia il tentativo rivoluzionario fallì e la borghesia, nelle sue varie articolazioni, si presenterà nella maschera del fascismo.

Il tentativo rivoluzionario del ‘biennio rosso’ europeo vide il movimento operaio sconfitto dappertutto. La svolta epocale implodeva! Molte furono le cause: troppo debole il movimento operaio; troppo tardi si provò a scindere la politica riformista da quella comunista; troppe divisione all’interno del campo comunista mentre la borghesia minacciata trovava, per converso, grande unità: dai liberali all’estrema destra. Fatto sta che in quello scorcio storico, gravido di grandi promesse, che aveva guidato la strategia della Rivoluzione d’ottobre, la rivoluzione internazionale fu battuta e la risposta borghese fu una controrivoluzione che si cristallizzerà nella forma del regime autoritario.

Il dopoguerra in Europa si caratterizza, dunque, per la battuta della rivoluzione proletaria e, per converso, del sorgere - tranne che per l’Inghilterra e la Francia - di regimi autoritari e totalitari.

In termini generali assistiamo al fatto che la Prima guerra mondiale e, nella fattispecie il dopoguerra, imprime al corpo sociale una sollecitazione che non si riesce a gestire nell’ambito dei vecchi istituti politici. Il dopoguerra apre la strada alla dittatura borghese con varie sfumature locali. Complessivamente, la risposta della borghesia europea davanti al caos e alla prospettiva di una rivoluzione proletaria è di riportare l’ordine borghese in maniera cristallina: è la dittatura borghese!

Il Biennio rosso in Italia

La situazione economica

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Nel 1919 il costo della vita è ormai insostenibile per ampi stradi proletari e contadini poveri. L’Inflazione crescente ha moltiplicato l’effetto di erosione del già scarno potere d’acquisto delle masse più povere. In tutto il paese scoppiano agitazioni. Folle esasperate saccheggiano negozi che vendono beni di prima necessità. In molte regioni, i contadini poveri occupano le terre incolte. Prima si moltiplicano gli scioperi spontanei, poi quelli organizzati dal sindacato.

Il debito pubblico passò da 14 miliardi nel 1910 a 95 miliardi nel 1920.

La moneta si svalutava fortemente: tra il 1914 e il 1919 perse il 40% del suo valore e il costo della vita aumentò di ben tre volte. Lo studioso G. Candeloro in Storia dell’Italia moderna, illustra, in maniera dettagliata ed esaustiva, la situazione economica rilevando che, dal biennio 1917-18 fino al 1923, il reddito nazionale era al di sotto del livello ante-guerra. La situazione della classe operaia e, in genere, delle classi popolari, era assai peggiorata: fatto 100 il salario del 1913, nel 1918 era 64,6. Causa immediata delle lotte spontanee, che si verificano a partire dal 1919, è il rincaro del costo della vita.

Il governo cerca di imporre prezzi politici sul pane e concede alcune terre, ma non riesce a contenere la spinta spontanea delle masse.

La CGdL nel periodo tra il 1918 e il 1920 aumenta clamorosamente gli iscritti dai 250.000 ai 2.200.000.

Il Partito socialista era cresciuto enormemente passando dai 50.000 iscritti del 1915 ai 250.000 del 1919; una crescita che il partito non riesce a gestire. Le masse, nel Biennio rosso, sembrano più avanti del partito!

Don Sturzo e il Partito popolare italiano

Nel 1919 il sacerdote don Luigi Sturzo fonda il Partito popolare italiano (PPI), dando inizio alla partecipazione attiva dei cattolici nell’ambito politico nazionale. Il non expedit, ovvero il divieto di partecipare alla vita politica del Paese, venne abrogato.

Come lui stesso dichiarò diverse volte, l’”illuminazione”, che avrebbe determinato la sua ascesa in politica, fu la bolla papale Rerum Novarum del 1891, promulgata da Leone XIII: essa s’imperniava su una generica difesa dei diritti degli operai e la difesa dallo sfruttamento, pur rimanendo fortemente ancorata nella difesa della proprietà privata capitalistica e contro ogni insubordinazione socialista. Collaborazione tra padroni e operai per il bene comune: questa la ricetta!

Don Sturzo elaborò le linee guida del partito attorno al concetto di ‘popolarismo’, ovvero volontà di dare dignità politica al popolo; rifiuto del centralismo statale a favore del decentramento; chiara ispirazione evangelica. Secondo Don Sturzo, era ormai tempo che i cattolici fondassero un partito che fosse una sorta di “finestra sul mondo”: che tornassero all’impegno politico; formassero un partito di massa cattolico!

Laico, aconfessionale, costituzionale e non classista: ecco le linee generali del PPI, che poté contare sull’appoggio delle alte gerarchie ecclesiastiche (preoccupate, per lo più, di una possibile vittoria del Socialismo).

Ai liberali si rimproverava di far poco per le masse povere, ai socialisti di far molto, ovvero di voler l’abolizione della proprietà privata. Il partito occupò subito una posizione centrale dello schieramento politico. L’obiettivo di Don Sturzo era quello di dare vita ad un partito in grado di essere l’ago della bilancia di un sistema politico italiano. Il partito esprimeva bene i valori e gli interessi della piccola e media borghesia: da una parte rintracciava gli interessi e le paure della piccola e media borghesia agraria verso la confisca delle proprietà, dall’altra dava consistenza e cemento a quella piccola borghesia legata ai tradizionali valori religiosi.

Le elezioni del 1920

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Nel novembre 1919 si assistette a delle elezioni che rivoluzionarono il quadro politico. Il Partito socialista e il Partito popolare chiesero e ottennero che il sistema elettorale si ispirasse ad un principio più democratico che restituisse in seggi parlamentari una mappa reale del diverso sentire politico del paese. Tale sistema garantì pure che la contesa, nei diversi seggi elettorali, si spostasse dalle persone e dalle clientele ai partiti politici. Fu il momento di due grandi partiti di massa:

- Il Partito socialista vinse le elezioni con una maggioranza relativa del 32% ottenendo ben 156 seggi in parlamento;

- Il Partito popolare, alla prima prova elettorale, si affermò secondo con il 20% ottenendo 100 seggi;- I gruppi liberal-democratici di ispirazione giolittiana subirono un drastico calo.

La vittoria socialista, invece che portare le masse a contare di più, creò una situazione politica più complessa. Il partito socialista era arroccato sulla intransigente posizione di nessuna alleanza con i partiti borghesi sicché era assai complesso dare vita ad un governo che avesse una maggioranza parlamentare.

Nel 1920 il capo del governo Nitti cercò di fronteggiare il marasma politico venutosi a creare con la vittoria socialista, ma non riuscendo a trovare una maggioranza si dimise cedendo il posto al vegliardo ottantenne Giolitti.

Lotte contadine

Per Biennio rosso in Italia s’intende quel periodo che va dal 1919 e si conclude con l’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920. E’ sicuramente uno dei momenti più alti dello scontro di classe in Italia: il momento apicale del movimento operaio italiano oltre il quale si spiana la strada al fascismo.

Tra il 1919 e il 1920 l’Italia fu interessata da un duplice movimento che avrebbe potuto congiungersi saldamente per l’assalto al potere borghese. L’Italia registrò, in quello scorcio, due potenziali forze telluriche che avrebbero potuto portare al crollo del capitalismo italiano. Le lotte interessarono la terra e l’industria, contadini e operai.

Durante la Grande Guerra più volte - soprattutto dopo Caporetto - a mo’ di sprono, fu usata la promessa della “Terra ai contadini” da parte delle gerarchie militari. Fu un incitamento, un pungolo a masse contadine, sostanzialmente refrattarie a farsi usare in quel tritacarne mondiale. “Terra ai contadini” fu la carota che si fece balenare davanti agli occhi di questi soldati prima di farli uscire dalle trincee per gli assalti mortali. Le stesse masse, al ritorno a casa, capirono di essere state turlupinate: non guadagnarono un palmo di terra!

La struttura agricola italiana vedeva, al vertice, dei latifondi con pochi proprietari che avevano terreni estesi e, alla base della piramide, i 9/10 dei proprietari che ne avevano soltanto un ettaro cioè un appezzamento che costringeva gli stessi piccoli proprietari a trasformarsi in braccianti, cioè salariati agricoli per poter sopravvivere. C’era, dunque, una fame di terra da coltivare, che si sviluppò nella lotta per una più equa redistribuzione delle terre e per più equi salari.

Nelle campagne si svolsero una serie di lotte furiose e durissime per la distribuzione delle terre incolte e del latifondo e per un salario più umano. Tali lotte apportarono, indubbiamente, grandi miglioramenti per ciò che concerne la condizione dei contadini poveri. Nel 1920, lo sciopero agrario vide la partecipazione di un milione di uomini tra cui le leghe rosse, ma anche le leghe bianche d’ispirazione cattolica, seppur in netta minoranza, guidano l’azione delle masse contadine.

Nell’estate del 1920 le leghe contadine e i proprietari agrari si scontrano violentemente a proposito dei rinnovi dei patti colonici. Uno dei metodi di lotta fu quello di non raccogliere la parte che spettava ai padroni, lasciando che marcisse. Il governo intervenne. Si arrivò ad un accordo che il padronato ritenne inaccettabile. Rimase comunque la paura che derivava non solo dalle lotte sindacali ma dal clima generale che c’era nel paese: la rivoluzione!

Principalmente in val Padana e in Puglia, dove i braccianti agricoli vivevano una vita assai grama di sfruttamento inaudito, le lotte delle leghe e delle cooperative socialiste, a prezzo di grandi sacrifici, ottennero: a) aumenti dei salari; b) un controllo sul mercato dell’offerta di lavoro.

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Il controllo sul mercato del lavoro da parte delle associazioni contadine faceva si che l’offerta di lavoro non si presentasse individualmente, dunque, più ricattabile, ma collettivamente, in modo da esigere salari equi. Non più i singoli contrattavano con i padroni terrieri ma le associazioni: si contrattava il numero di giorni lavorativi sui campi e si distribuiva il lavoro tra gli iscritti.

Le occupazioni delle fabbriche

L’apparato industriale italiano, durante la Grande Guerra, aveva subito un processo di razionalizzazione e aveva incrementato notevolmente la produzione grazie alle commesse di guerra. Il vecchio Stato liberale si era fatto sempre più protagonista nel ‘libero mercato’ e, sotto forma di commesse, aveva promosso lo sviluppo industriale. Le acciaierie Ansaldo di Genova, che nel 1915 impiegavano 6.000 operai, nel 1918 ne aveva 110.000. La Fiat di Torino passò da 4.000 a 40.000. Tale processo comportò una sempre maggiore presa di coscienza operaia. La stessa grande industria nei suoi immensi reparti organizzati educava, disciplinava, organizzava il proletariato dandogli, involontariamente, gli elementi per una coscienza di classe.

Nel 1920 la protesta e le occupazioni delle terre si svilupparono sino a diventare occupazioni delle fabbriche. Si moltiplicano gli scioperi in tutto il paese: da 303 del 1918 a 1.633 nel 1919, fino a 1.861 nel 1920 con una partecipazione sempre crescente: dai 158.036 del 1918, a 1.049.438 del 1919, fino a 1.267.953 del 1920.

L’occupazione delle fabbriche rappresentò lo zenit di questo movimento.

In questa crescita generale del movimento operaio e contadino, la FIOM (sindacato dei metalmeccanici) chiese il rinnovo del contratto agli imprenditori che respinsero ogni tipo di richiesta e trattativa. Fu questo netto rifiuto che provocò, di fatto, un aumento di tensione. I sindacati proclamarono uno sciopero bianco, secondo il quale era prevista l’entrata in fabbrica ma senza lavorare. Gli industriali risposero con la serrata ovvero la chiusura degli stabilimenti. L’occupazione fu la risposta alla serrata dei padroni. Insomma, l’occupazione delle fabbriche inizia come semplice rinnovo del contratto di lavoro collettivo dei metalmeccanici e finisce per essere risposta di classe rivoluzionaria.

Così, nell’agosto di quell’anno, scattarono le occupazioni nelle fabbriche guidate dai sindacati rossi, mentre, i sindacati bianchi, guidati dai cattolici, decisero di tenersi fuori dalla questione.

In poco tempo si occuparono circa 300 fabbriche nella zona del triangolo industriale (Milano, Genova, Torino), i 400.000 lavoratori coinvolti, si organizzarono persino con servizi armati di vigilanza (Guardie rosse) e, in alcune fabbriche, tentarono di proseguire da soli la produzione. A Milano le fabbriche occupate sono 160: sui tetti sventola la bandiera rossa! A Torino si occupa e si cerca di riavviare la produzione con una gestione operaia. Il governo non usa la forza per reprimere l’ondata operaia.

Sembrava l’inizio di un processo rivoluzionario, ma il movimento non ebbe la forza di estendersi maggiormente anche a causa delle numerose divisioni interne ai partiti di sinistra e alla mancanza di una linea chiara e precisa che indicasse la strada per abbattere il potere borghese.

Tra i gruppi rivoluzionari più attivi si distinse quello intorno al giornale Ordine Nuovo (1919), tra i cui fondatori vi era Antonio Gramsci, che rimarrà alla storia per essere uno dei grandi teorici del comunismo italiano. La forma che prese la lotta operaia in quel frangente non sarebbe stata la stessa senza il contributo teorico dei Consigli di fabbrica come “organismi di auto-governo operaio” portata avanti sul giornale.

Un altro gruppo rivoluzionario, minoritario e che non riuscirà ad incidere, ma che farà la storia della sinistra comunista in Italia, sarà quello di A. Bordiga che si raccoglie attorno al giornale il Soviet (1918) che, fin dall’inizio, guarda alla luminosa esperienza sovietica; ritiene necessario una netta distinzione tra riformisti e rivoluzionari; ripone - diversamente dall’impostazione gramsciana - la riuscita di uno sbocco rivoluzionario, non tanto nella questione dei Consigli operai e dell’occupazione delle fabbriche, quanto nella capacità del partito di guidare la classe operaia. Il gruppo bordighiano pensa che la questione dirimente sia non l’occupazione delle fabbriche, ma l’occupazione dello Stato e delle sue propaggini!

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Partito e sindacato

Proprio nei giorni cruciali dell’occupazione operaia di settembre si vide uno scollamento tra sindacato e partito e, infine, l’impreparazione del partito che ripiego su una posizione opportunista. Certo, sia il sindacato che il partito si trovarono davanti ad una situazione nata spontaneamente e inaspettatamente ma che era cresciuta al punto che ora la soluzione non poteva che essere che politica e non più semplicemente economica.

Il sindacato, si attestava su posizioni riformiste, poneva - com’è nella sua natura - solo rivendicazioni economiche e non voleva spingere il movimento all’insurrezione. Il compito del sindacato, la sua funzione è quello di organizzare le masse operaie nella difesa dei propri interessi economici. E’ ovvio che, ad un certo punto, ovvero, quando la protesta diventa generale, ampia, possente, tale difesa non può essere più gestita dal sindacato ma richiede una soluzione squisitamente politica; richiede che il partito intervenga nella guida dell’azione rivoluzionaria.

Incredibilmente, in una riunione del 10 settembre tra esponenti del PSI e CGdL il partito socialista demandava, di fatto, al sindacato la leadership del movimento e la decisione della direzione in senso rivoluzionario o riformista.

L’11 settembre, il Consiglio nazionale della CGdL deliberò su due mozioni: una demandava al PSI la direzione del movimento indirizzandolo così verso la soluzione rivoluzionaria, l’altra prevedeva la direzione sindacale del movimento e la realizzazione di obiettivi puramente sindacali. Il Congresso della CGdL rinunciò a fare delle occupazioni il primo atto di una rivoluzione socialista.

Il Partito socialista con ciò rinunciò a portare il livello dello scontro da economico a politico: dalle fabbriche all’assalto allo Stato borghese. Il Partito avrebbe potuto comunque prendere la leadership del movimento ma non fece nulla in tal senso: rinunciò a guidare la sua classe.

Il Partito socialista non aveva affatto seriamente pensato, né preparato, nessuna strategia rivoluzionaria per l’assalto allo Stato borghese. Il Partito rinunciò al suo compito! Rimettendo la leadership al sindacato si disperdeva così la tensione rivoluzionaria e il movimento, pur conquistando miglioramenti sindacali, si accartocciò su sè stesso. La rivoluzione non era più all’ordine del giorno!

Era il tempo delle trattative! Era il tempo di Giolitti che, a Roma, il 19 settembre, mediò un accordo di massima tra confindustria e CGdL.

Il 1 ottobre i sindacati firmarono un accordo che prevedeva aumenti salariali e una forma di controllo sull’azienda - che non sarà mai riconosciuta nei fatti - contro la smobilitazione operaia delle fabbriche. La firma dei contratti significò, pubblicamente, la rinuncia alla rivoluzione.

A fine settembre del 1920 gli operai sgombrarono le fabbriche. Le guardie rosse che avevano occupato le fabbriche riponevano i fucili! Si erano tagliate le ali alla rivoluzione, tuttavia, rimase, nel paese, soprattutto nella borghesia, la percezione di un possibile decollo rivoluzionario e ciò favorì una soluzione anti-socialista, reazionaria e autoritaria: il fascismo.

La III Internazionale

“Gli operai non hanno patria” recita il Manifesto del partito comunista del 1848 di Marx ed Engels a sottolineare che, strutturalmente, il passaggio al comunismo è un problema internazionale e, in pari tempo, che il proletariato di tutti i paesi deve muoversi come un sol uomo contro il capitalismo. La rivoluzione comunista o è internazionale o non è! La Russia si trova ad essere la prima rivoluzione vittoriosa in quel

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cataclisma della Grande guerra: anello debole della catena imperialistica. Lenin e i bolscevichi sentono, dunque, l’urgenza di organizzare il movimento operaio internazionale con una struttura unitaria, precisa, accentrata e coesa tale da indicare la strategia politica unitaria ai movimenti nazionali e che, in pari tempo, si differenziasse sideralmente da posizioni opportuniste, riformiste, minimaliste che corrompevano gli obiettivi rivoluzionari del proletariato. Se la rivoluzione comunista doveva essere internazionale allora c’era bisogno di un partito comunista internazionale e i diversi partiti nazionali dovevano figurare come semplici sezioni locali. Il movimento operaio internazionale doveva avere il suo partito comunista internazionale. Il movimento operaio doveva concentrare la sua forza, evitare localismi e dannose differenze strategiche: muoversi come un solo esercito per l’assalto al cielo. Fu così che nel marzo 1919 nacque a Mosca la Terza Internazionale, conosciuta anche con il nome di Comintern, (Internazionale Comunista) che soppiantava la II Internazionale che aveva visto partiti addirittura votare a favore dei debiti di guerra.

Al Congresso dell’Internazionale Comunista del 1920, in un’aria di grande fiducia nelle sorti della rivoluzione internazionale, intervennero 169 delegati in rappresentanza di 64 partiti e 50 nazioni con l’intento di tracciare la strategia internazionale per la “rivoluzione mondiale”: il movimento operaio cresceva di numero e di forza in Germania, Francia, Italia, Inghilterra e Stati Uniti. Il Comintern fu fin dall’inizio, come prevedibile, egemonizzato dai bolscevichi e il Comitato esecutivo permanente ebbe sede stabile a Mosca. Il Congresso approvò, tra l’altro, i 21 punti elaborati da Lenin per aderire all’Internazionale comunista che è possibile così sintetizzare:

I partiti comunisti dovevano farla finita con la politica riformista, minimalista; Appoggiare nei fatti ogni movimento di liberazione nelle colonie; Appoggio alla liberazione delle colonie dagli imperialisti; Sostegno della lotta contro le forze controrivoluzionarie; Ogni partito doveva assumere la denominazione di “Partito comunista”, relativa ad ogni paese.

Era ormai tempo che per il movimento operaio e i comunisti ponessero, senza indugio, all’ordine del giorno, il compito storico della rivoluzione comunista. La Germania e l’Italia venivano esplicitamente citati come i paesi dove, presumibilmente, la rivoluzione internazionale sarebbe iniziata per prima. Bisognava, a livello internazionale, rompere gli indugi con il riformismo e il minimalismo socialista, che di fatto frenavano qualsiasi azione rivoluzionaria, imbrigliando il movimento in piccoli miglioramenti all’interno del sistema borghese. Era il tempo di scindersi dai partiti socialisti e fondare partiti comunisti compatti, granitici.

Tra i temi discussi, vi fu anche la posizione che i comunisti avrebbero dovuto tenere rispetto alla partecipazione o meno al parlamentarismo borghese. La posizione astensionista, tra l’altro sostenuta vigorosamente dall’italiano A. Bordiga, venne battuta a favore di quella leniniana che accettava il parlamento borghese come mezzo di agitazione in “campo nemico”.

1921: nasce il PCd’I

Nonostante il PSI con il Congresso di Bologna del 1919 aveva registrato la vittoria dei massimalisti con Serrati e l’adesione del partito alla III Internazionale, nel corso del Biennio rosso il partito non era stato in grado di guidare le masse chiudendo il movimento spontaneo in una mera lotta sindacale. Questa esperienza, congiuntamente al rifiuto del partito di espellere i riformisti - così come chiedevano i 21 punti del Comintern - fece si che al Congresso di Livorno si acuisse la distanza tra rivoluzionari e riformisti. In effetti, lo stesso Lenin aveva chiesto, in un articolo, che il partito si liberasse dei riformisti come Turati, Treves, ecc. perché era giunto il momento di fare pulizia, di distinguersi e porre, concretamente, il problema della rivoluzione.

Al Congresso di Livorno del PSI del 1919, il 21 gennaio, i comunisti, al canto dell’Internazionale, abbandonarono la sala del teatro Goldoni e si recarono al teatro san Marco: con la fuoriuscita della frazione comunista dal PSI, nasceva il Partito comunista d’Italia (P.C. d’I), sezione italiana dell’Internazionale comunista.

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I principali protagonisti della nascita del PCd’I furono A. Bordiga (fondatore del Soviet nel 1918) e A. Gramsci (fondatore del periodico Ordine nuovo nel 1919).

Il partito era sezione della Internazionale comunista:

a) riconosceva la Rivoluzione d’ottobre come la prima vittoriosa rivoluzione comunista;

b) rompeva definitivamente con in riformismo opportunista;

c) l’obiettivo era la rivoluzione comunista e la presa del potere.

Fu A. Bordiga ad essere eletto primo segretario del partito che lo guidò, con ortodossa intransigenza teorica, fino al 1924, quando, a causa di divergenze tattiche con il Comintern - sulla questione del fronte unico e sulla fusione con il PSI – fu prima allontanato dalla direzione e poi definitivamente sconfitto al Congresso di Lione (1926), dove venne sostituito da A. Gramsci.

Troppo tardi nacque il partito comunista. Troppo tardi le forze rivoluzionarie si erano separate da quelle opportuniste e riformiste. Il ciclo delle lotte contadine e operaie si era ormai esaurito e subentrava la reazione della borghesia che stabiliva l’ordine borghese.

Il ciclo delle lotte si esauriva anche in Europa! La Rivoluzione d’ottobre rimaneva orfana della rivoluzione europea che avrebbe dato ossigeno all’avanguardia politico-rivoluzionaria sovietica. Lenin aveva visto giusto sul ciclo di lotte che la guerra e la fase imperialistica avrebbero scatenato, ma non previde il vincitore: né, del resto, avrebbe potuto!

La borghesia vinceva dappertutto e dava prova di essere ancora forte e longeva.

BIBLIOGRAFIA

Libri

Film

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Vita di Antonio Gramsci, R. Maiello, 1981

Rosa Luxembourg, von Trotta, 1986

Il FASCISMO IN ITALIA

~ DAL MOVIMENTISMO SQUADRISTA AL REGIME

~ I fasci di combattimento~ Il fascismo agrario~ Fascisti e liberali~ La marcia su Roma~ Il governo di coalizione~ Le riforme~ Il delitto Matteotti e l’Aventino

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~ LA COSTRUZIONE DELLO STATO AUTORITARIO

~ Le leggi fascistissime~ La riorganizzazione del partito~ Propaganda e consenso~ L’uso dei media~ I Patti lateranensi~ Dal liberalismo allo statalismo~ Le corporazioni~ Lo Stato imprenditore~ Il colonialismo fascista: “un posto al sole”~ L’asse Roma–Berlino e le leggi razziali~ L’attività antifascista~ Totalitarismo perfetto o imperfetto?

Dal movimentismo squadrista al regime

I Fasci di combattimento

Nel 1919 nacque il movimento dei Fasci di combattimento fondato da Benito Mussolini. Nelle prime fasi questo gruppo politico fu caratterizzato da un misto ideologico, un ‘minestrone’ di idee e pensieri che, in linea di massima, si collocavano politicamente a sinistra battendosi essenzialmente per riforme sociali radicali. Tale coacervo di idee fu ben stilizzato nel manifesto teorico dei Fasci: il programma di san Sepolcro.

La proposta politica dei Fasci per ciò che concerneva il sociale prospettava: il minimo salariale; la giornata lavorativa ridotta ad otto ore; una gestione aziendale che comprendesse anche il coinvolgimento di rappresentanti dei lavoratori; un’imposta progressiva sul capitale e l’estensione del voto alle donne. In altri termini, il programma dei Fasci, faceva suo rivendicazioni che erano del movimento sindacale e socialista.

Mussolini si sbarazzò repentinamente di tale programma politico e diresse il movimento verso una propaganda più aggressiva e violenta, sia verso le organizzazioni socialiste che verso i dirigenti liberali. Questo nuovo indirizzo fu segnato in maniera palmare il 15 aprile del 1919, giorno in cui i Fasci incendiarono la redazione del giornale socialista l’Avanti di cui, paradossalmente, era stato direttore lo stesso Mussolini.

Il fascismo agrario

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Alla fine del 1920 la città di Bologna diventò il fulcro del movimento sindacale, tanto che, alle elezioni amministrative comunali fu eletto un sindaco appartenente al partito socialista. Il 21 novembre 1920, in occasione dell’insediamento del Consiglio Comunale a Palazzo d’Accursio, il sindaco si affacciò sulla piazza per parlare al popolo e dalla folla partirono dei colpi di pistola. La gente, terrorizzata, cominciò a scappare e i socialisti, incaricati della sicurezza, spararono tra la folla provocando diversi morti. Fu questo il punto di svolta che segnò in maniera chiara e precisa la politica e il programma del fascismo, il passaggio cristallino e irreversibile dal programma di San Sepolcro alle squadre militari d'azione. Fino a quel momento il ruolo del fascismo non era stato rilevante nelle vicende politiche italiane ma questa fu l'opportunità (soprattutto per la borghesia terriera rurale) di organizzarsi contro i socialisti ingaggiando squadre fasciste, per porre fine alla rivendicazione contadine e contenere la loro azione.

Lo squadrismo fascista arruolò militanti principalmente tra: gli ex-combattenti che non trovavano più un posto nella società; i giovani, trascinati contro i ‘nemici della patria’ e le file della piccola borghesia antisocialista. In seguito all'eccidio di Bologna, le spedizioni punitive delle squadre d'azione aumentarono in maniera esponenziale: partivano dalle città e andavano in campagna creando caos con l'obiettivo di colpire le sedi delle leghe, le camere del lavoro, le case del popolo e i municipi. Molti comunisti furono costretti con la violenza a lasciare l'Italia. Oltre alla violenza fisica si mirava alla violenza psicologica col fine di ridicolizzare l'avversario. Lo squadrismo deve il suo successo principalmente alla neutralità, ma non solo, a volte anche al pieno appoggio delle classi dirigenti (la borghesia), all'indifferenza e connivenza delle forze dell'ordine. Il fascismo delle squadre d’azione si presentava, politicamente, come il manganello della borghesia rurale contro la lotta di classe che divampava nelle campagne.

Fascisti e liberali

La classe politica liberale diede platealmente appoggio al fascismo: i candidati si unirono in un blocco formato da: liberali, gruppi di centro e fascisti. Storicamente e socialmente, questo blocco può considerarsi borghesia in tutti i suoi aspetti. La borghesia agraria utilizzò le squadre fasciste per stroncare la forza dell’associazionismo rurale e le lotte per la terra dei salariati agricoli, mentre la borghesia industriale utilizzò il fascismo per frenare le ribellioni operaie.

Il liberalismo italiano andò a braccetto con le squadre fasciste in funzione antisocialiste. Bisognava mettere in ginocchio il movimento socialista e i suoi propositi rivoluzionari. Per la borghesia, nel suo complesso, urgeva prepotentemente la reazione.

Nel 1921 Giolitti indisse nuove elezioni e accettò liste comuni, cioè blocchi nazionali, che comprendevano: liberali, gruppi di centro e fascisti. Le liste comuni sancivano una sorta di luna di miele tra liberalismo e fascismo, un’affinità elettiva contro il socialismo!

I risultati elettorali, però, delusero le speranze di Giolitti poiché il Partito socialista subì solo un lieve calo (da 156 a 122), compensato in parte, dal Partito comunista (17 seggi), ed i popolari da 100 passarono a 107. I blocchi nazionali ottennero 275 seggi, tra i quali solo 35 andarono ai fascisti. Giolitti prese atto della sostanziale sconfitta e rinunciò al governo in favore del socialista Ivanoe Bonomi.

I fascisti erano una esigua minoranza, da qui la decisione di Mussolini, nel novembre 1921, di irreggimentare la forza delle squadre militari in un vero e proprio Partito nazionale fascista (PNF), in modo da renderlo presentabile con la speranza di ottenere un incarico dal re.

La nuova politica di Mussolini si addolcì vistosamente, abbandonando le posizioni repubblicane del programma di san Sepolcro per dichiararsi, opportunisticamente, favorevole alla monarchia accettando la politica liberista e aprendosi alle tendenze della borghesia capitalista. Mussolini chiuse con il socialismo e

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abbandonò l'anticlericalismo, ponendosi in collaborazione con la Chiesa.

La marcia su Roma

Il 24 ottobre, Mussolini riunì a Napoli migliaia di camicie nere, preparandole a un’imminente marcia su Roma che avrebbe consentito ai fascisti di dare una spallata al torpore politico che si era creato e di assumere il potere con la forza. All'annuncio dell'evento, Luigi Facta, l'allora presidente del governo socialista, chiese al re Vittorio Emanuele III di firmare la proclamazione dello stato d'assedio, che avrebbe mosso l'esercito contro le camicie nere in marcia su Roma. Il re però rifiutò e, il 28 ottobre, le colonne fasciste entrarono a Roma. Il 30 ottobre Mussolini ebbe l'incarico dal re Vittorio Emanuele di formare il governo. Il re Vittorio Emanuele III consegnava così, senza colpo ferire, le chiavi del Parlamento al fascismo!

Il governo di coalizione

Tra il 1922 e il 1924 Mussolini presiedette un governo che univa forze diverse: fascisti, liberali, popolari, con don Sturzo contrario e varie altre componenti. Benché contasse solo trentacinque deputati in parlamento, il PNF godeva del consenso della corte, dei più importanti esponenti dello Stato, della borghesia industriale e agraria. Una ‘cura fascista’ avrebbe salvato l’Italia dal caos e dall’avanzata socialista! Il prepotente e sfrontato ‘discorso del bivacco’ con cui Mussolini si presentò al Parlamento sanciva, anche nei toni, l’intento della borghesia al completo di porre ordine nel Paese. Mussolini ottenne 306 voti, contro 116 dei socialisti e comunisti. Forte dell'appoggio ottenuto dai vari gruppi, Mussolini sciolse le amministrazioni comunali presiedute da socialisti e popolari, penalizzò le cooperative rosse, limitò la libertà sindacale e adottò delle strategie economiche al fine di rivalutare la moneta italiana. I gruppi di alleati e l'opposizione insistettero per porre fine alla violenza usata dalle squadre fasciste; Mussolini, di tutta risposta, istituì la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, legalizzando così lo squadrismo e proclamandolo forza armata del regime. In seguito a tali riforme radicali, nel 1923, il governo Mussolini perse il sostegno dei popolari, i quali, nel Congresso di Torino, si dichiararono con don Sturzo apertamente anti-fascisti.

Negli anni 1922 e 1924 dal punto di vista internazionale, Mussolini si mostrò come un semplice leader conservatore, riuscendo a nascondere abilmente le tendenze dittatoriali del suo movimento. D’altra parte, Stati democratici come la Francia e l'Inghilterra concessero fiducia a Mussolini, reputando il fascismo come male minore rispetto ad una temutissima rivoluzione comunista operaia. Nel frattempo le violenze squadriste si protrassero, culminando con l'omicidio di don Giovanni Vinzoni e le violenze sul liberale anti-fascista Giovanni Amendola.

Le riforme

Nel 1923 fu varata la riforma della scuola sotto l’egida del Ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile. Con tale riforma si creò un sistema educativo protrattosi, sostanzialmente, fino ai nostri giorni. Nei suoi tratti essenziali la riforma prevedeva due tipi di percorsi: da una parte la formazione della classe dirigente con un’istruzione liceale, dall’altro un avviamento al lavoro.

La riforma del sistema elettorale fu invece messa a punto con la legge Acerbo, la quale introdusse un meccanismo elettorale fortemente maggioritario dove bastava il 25% dei voti per avere il 75% dei seggi.

Il delitto Matteotti e l’Aventino

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Nelle elezioni del 1924 il partito fascista ebbe il controllo di un listone che riuniva ancora in un afflato gran parte dei liberali, tra cui Orlando e Salandra e alcuni cattolici conservatori. Si ripeté, in un certo senso, l'esperienza del 1921, ad eccezione del fatto che ora erano i fascisti ad essere più forti e non i moderati. Il risultato delle elezioni fu una clamorosa vittoria dei fascisti con il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi. L'opposizione si presentò divisa, per cui la sconfitta per opera dei fascisti fu inevitabile. Ancora una volta ci furono episodi di violenza durante le elezioni. Il deputato Giacomo Matteotti con un coraggioso discorso denunciò gli aspetti oscuri delle elezioni fasciste; il 10 giugno fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi e ucciso in auto a pugnalate. Il delitto Matteotti fu eclatante e destò scalpore e indignazione. Quest'episodio rese consapevole l'opinione pubblica delle responsabilità del fascismo e provocò un crollo della popolarità di Mussolini; le opposizioni però non riuscirono ad approfittare della situazione per una rivalsa.

Il Partito comunista vide respinta la sua proposta di sciopero generale. I partiti di opposizione scelsero di non partecipare più alle attività parlamentari, ma di riunirsi al di fuori della Camera dichiarandosi disponibili a rientrare in Parlamento solo dopo l'abolizione della Milizia e il ritorno alla legalità. Era la secessione dell’Aventino! L’opposizione sperava in un intervento da parte del re affinché ritirasse la fiducia data a Mussolini, ma il sovrano non assunse alcuna iniziativa e non si espresse in alcun modo.

Mussolini, il 3 gennaio 1925, con un discorso alla Camera estremamente sfrontato e irriverente, si assunse la responsabilità ‘politica, morale e storica’ del delitto Matteotti. Il fascismo era ormai tanto forte da poter dire senza infingimenti: “Se il fascismo è un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione”.

Con tale discorso si avanzava verso la costruzione di un nuovo involucro politico più adatto alla situazione: la democrazia liberale si trasformava in dittatura fascista! Di lì a poco si procedette con sanzioni che resero praticamente impossibile ogni attività anti-fascista. In questo senso, l'assassinio di Giacomo Matteotti rappresentò la fine della democrazia e l'ascesa definitiva della dittatura fascista.

La costruzione dello Stato autoritario

Le leggi fascistissime

Mussolini riorganizzò il potere statale in maniera dittatoriale e autoritaria tale da annientare i veli liberali dello Stato borghese.

Nell'anno 1925, il partito fascista approvò delle leggi dette 'fascistissime' ispirate dal giurista, nonché ministro guardasigilli, Alfredo Rocco. I cardini di tale quadro legislativo erano: il PNF era l’unico partito politico riconosciuto; la figura del Presidente del Consiglio fu sostituita da quella del Capo del Governo, che doveva rendere conto solo al re e non al parlamento; il potere legislativo fu riconosciuto al capo del governo.

Altre modifiche riguardarono l'assetto amministrativo in ambito locale e comunale. La figura del podestà, nominato direttamente dal governo, sostituì quella del sindaco segnando, di fatto, la fine della democrazia locale. La libertà di stampa e di associazione ricevette drastiche limitazioni fino a giungere, nel 1926, alla completa chiusura di tutti i giornali anti-fascisti e allo scioglimento di tutti i partiti d’opposizione.

Al fine di avere il controllo totale sul Paese, il Partito nazionale fascista istituì un corpo di polizia segreta, l'Opera di Vigilanza per la Repressione Antifascista. Fu istituito, inoltre, un Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Esso ordinò decine di condanne a morte e comminò un totale di 28.000 anni di carcere.

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È interessante sapere che ad Alfredo Rocco si devono anche i due Codici Penali, definiti anche Codici Rocco, risalenti al 1950, che sono ancora alla base del nostro Codice Penale e Civile.

La riorganizzazione del partito

Contemporaneamente alla ristrutturazione dello Stato, Mussolini si occupò del riassetto del Partito governativo. Fu sottratta la direzione del partito a Roberto Farinacci, squadrista di primo ordine, per dimostrare che la violenza nel nuovo sistema istituzionale non fosse più necessaria. Le cariche gerarchiche erano assegnate da Mussolini, egli era a capo del partito e a lui era affidato il Gran Consiglio del fascismo, l'organo costituzionalmente più importante del partito. Nel 1928 si assistette alla liquefazione dello Stato liberale a favore della costituzione di uno Stato totalitario. Ció avvenne grazie ad una nuova legge elettorale che diede al Gran Consiglio il compito di preparare la lista unica, bloccata di candidati, la quale, per essere approvata aveva solo bisogno della metà più uno dei voti. Insomma, le elezioni si trasformarono in ‘plebisciti-farsa’!

Propaganda e consenso

Il nuovo assetto del Partito fascista fu caratterizzato dall'utilizzo ingegnoso quanto indispensabile dei mezzi di propaganda al fine di ottenere il consenso. Bisognava avere il controllo educativo e formativo dell’individuo dalla culla alla tomba. Il tempo libero doveva essere organizzato dal Partito saturando tutti gli spazi privati.

Pure non mancarono forme coattive di consenso: per avere lavoro o promozioni, all'interno della pubblica amministrazione, si rese obbligatorio il possesso della tessera del Partito.

Furono, tuttavia, più finemente ideate delle organizzazioni capaci di coinvolgere l’individuo in un processo di massificazione attraverso ad es. l'Opera Nazionale Dopolavoro che si occupava dell'intrattenimento dei lavoratori nel loro tempo libero e il Comitato Olimpico Nazionale Italiano che promuoveva le attività sportive. Altre organizzazioni come i Fasci Giovanili, i Gruppi Universitari Fascisti e l'Opera Nazionale Balilla curavano l'educazione e la formazione dei giovani all'insegnamento fascista e alla venerazione del duce Mussolini.

Uno degli obiettivi principali del partito fascista era quello di creare un ’uomo nuovo'. L'uomo nuovo, secondo i fascisti, doveva avere determinate caratteristiche: il maschio doveva essere virile e doveva differenziarsi dalla donna, più remissiva, per la sua tenacia. La struttura naturale della famiglia vedeva nell’uomo il suo capo e nella donna la fattrice indispensabile per la Patria. L'uomo fascista doveva essere: atletico, valoroso, pronto al sacrificio, energico e coraggioso. Altra importante caratteristica della concezione dell'uomo fascista era l'ispirazione all'antico Impero Romano, visto come il momento in cui spirito e razza italica furono netti con il loro dominio su tutto il resto del mondo. Dall'antico splendore della Roma imperiale si ereditarono il saluto romano e il fascio littorio, che divenne simbolo del partito fascista. Mussolini non poteva che essere il dux, il duce, termine col quale nell'antica Roma s'indicava il capo militare, valoroso e vincente in battaglia.

Tuttavia, accanto a questa retorica che cercava le radici nel mondo antico, i fascisti cercarono anche di presentarsi come moderni.

L’uso dei media

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Il controllo dell'informazione di massa si dimostrò estremamente importante durante il governo del duce. La stampa fu sottoposta ad una totale censura!

La radio in quel momento costituiva uno dei più diffusi mezzi di comunicazione di massa, perciò, nel 1927, fu fondato un nuovo ente radiofonico, l'EIAR (antenato della RAI) che gestiva tutte le trasmissioni radiofoniche. La radio si rivelò uno strumento estremamente utile e potente per la diffusione delle informazioni che il regime intendeva trasmettere e, dunque, nella formazione della percezione della realtà storica.

La propaganda utilizzò anche il cinema, nuovo coinvolgente mezzo di comunicazione di massa. Ogni sala fu obbligata a proiettare le produzioni dell'Istituto Luce, alle dirette dipendenze di Mussolini.

Nel 1937 fu istituito il ministero della Cultura popolare con lo scopo di controllare e manipolare gli orientamenti culturali della società italiana.

Il progetto titanico di plasmare la società in maniera fascista dovette però scontrarsi con la capillare presenza della Chiesa cattolica. Le parrocchie costituivano ancora il principale luogo d’incontro. In alcune zone dell'Italia, dunque, sarebbe stato difficile governare senza l'appoggio della Chiesta e Mussolini trovò il modo di risolvere questo problema cercando un compromesso con la chiesa.

I Patti lateranensi

Mussolini comprese che un accordo con la Chiesa era vitale in un Paese ampiamente cattolico al fine di ottenerne il consenso. Il fascismo, d’altra parte, era la sola compiuta ed efficiente risposta all’ateismo del comunismo che minacciava le stesse radici dell’Occidente. Si era decisi a chiudere definitivamente la lunga e complessa ‘questione romana’, iniziata con l’unità d’Italia nel 1871, quando Pio IX si dichiarava prigioniero dello Stato italiano e con la non expedit invitava i cattolici a boicottare lo Stato italiano non partecipando alle elezioni politiche.

Le trattative tra lo Stato e la Chiesa cominciarono nel 1926 e si conclusero l'11 febbraio 1929 con la firma dei Patti lateranensi.

Il documento era costituito da tre parti: la Chiesa riconosceva lo Stato italiano ed esercitava la sua sovranità nello Stato della Città del Vaticano; l'Italia versava un’indennità al Vaticano per la perdita dello Stato Pontificio ed, infine, si stabiliva un'intesa tra Stato e Chiesa su tre punti: a) si stabiliva che la religione era religione di Stato e la si insegnava nelle scuole pubbliche; b) il matrimonio religioso aveva effetti civili; c) vennero riconosciute le organizzazioni dell’Azione cattolica. Il pio Pio XI non poteva che essere satollo di un simile accordo e presto parlò del Duce come dell’”uomo della Provvidenza” lontano dai conati della scuola liberale.

Veniva meno, con i Patti, la separazione liberale e democratica tra Stato e Chiesa che l’illuminismo aveva postulato teoreticamente e la borghesia della grande Rivoluzione francese aveva realizzato con la scristianizzazione, la laicizzazione e la secolarizzazione.

In ambito cattolico fu don Sturzo a mostrarsi non favorevole all’accordo in quanto riteneva che i fascisti traessero troppi vantaggi dal più stretto rapporto con i cattolici mentre egli, metteva l’accento sulla differenza tra morale fascista e quella cattolica.

Nel 1931 vi furono momenti di tensione che rientrarono quando l’Azione cattolica fu riconosciuta, anche se in ambito strettamente diocesano. Il conflitto sorse a proposito dei compiti che l’Azione cattolica doveva espletare nell’ambito dell’educazione. Il fascismo non aveva certo intenzione di affidare ai cattolici la

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formazione della gioventù. Il fascismo aveva appeso il crocefisso nelle aule ma non aveva intenzione di dare all’Azione cattolica anche quel figlio pronto ad entrare nei gruppi organizzati dai fascisti.

Dal liberalismo allo statalismo

La politica economica adottata da Mussolini durante gli anni tra il 1922 e il 1925 fu decisamente e fortemente liberista. Nella prima fase l'economia fu di stampo liberista, con agevolazioni da parte del governo alle imprese e ai privati. La spesa pubblica fu ridotta. Erano, però, ancora considerevoli l'alto tasso d’inflazione e l’instabilità della moneta; per questo motivo, nel 1926, Mussolini cambiò strategia nominando un nuovo ministro dell'economia, Giuseppe Volpi, e adottò delle misure protezionistiche per stabilizzare la lira, accompagnate da interventi dello stato nell'economia.

Tra i più importanti provvedimenti presi da Mussolini per risanare l'economia nazionale ci fu l'incremento del dazio sui cereali, a cui affiancò una forte propaganda: la 'battaglia del grano'. Lo Stato interveniva sempre più nell’economia di mercato attraverso grandi investimenti nella costruzione di infrastrutture o nelle opere di bonifica di interi territori. Nel 1928 fu attuato il progetto di bonifica integrale nei territori maggiormente paludosi, al fine di migliorare e aumentare le superfici coltivabili e le tecniche di coltivazione. Questo avrebbe significato una maggiore autonomia per l'Italia nella produzione del grano. Il progetto di bonifica non fu portato a termine ma un grande risultato si ebbe nelle zone dell'Agro Pontino, dove fu fondata l'attuale Latina.

Iniziava quella politica che avrebbe preso il nome di ‘autarchia’, cioè di autosufficienza, che è la cifra del fascismo negli anni Trenta. L’Italia doveva essere autonoma e autosufficiente evitando di dipendere e indebitarsi con altri Paesi. Produrre e acquistare prodotti italiani divenne il motto di quel periodo. La politica autarchica ebbe alcuni meriti, come nella produzione del grano, ma a discapito di altri settori, come quelli dell’allevamento. L’autarchia trovava limiti concreti anche perché un Paese come l’Italia era privo di materie prime che doveva necessariamente comprare dall’estero.

A ben guardare lo stesso concetto di autarchia nasceva già vecchio, obsoleto rispetto alla realtà capitalistica degli anni Trenta che presupponeva già un alto grado di interrelazione e specializzazione del mercato internazionale.

Le corporazioni

Il fascismo trovò nel corporativismo l’involucro formale della sua dittatura economico-borghese. Il corporativismo è l’architrave teorico e pratico della visione organicistica del fascismo in ambito economico, corrispondendo perfettamente agli interessi borghesi, che schiacciano completamente la resistenza operaia prefigurando un bene comune.

Il Fascismo, innanzitutto, abolì ogni libertà di contrattazione operaia che non fosse con sindacati fascisti. Fascismo e Confindustria, nel 1926, sancirono con una legge, che non c’era spazio per sindacati socialisti, comunisti o cattolici. Il bene della nazione richiedeva un nuovo modo di ordinare i conflitti economici. Il corporativismo forma la griglia teorica a questa operazione. Innanzitutto si condannava lo sciopero come mezzo di lotta e la stessa teoria della lotta di classe dovette cedere il posto ad una concezione organicistica, secondo cui: la nazione è una e le classi non sono che membra di uno stesso corpo, dunque, non possono che avere interessi comuni. Dunque, nella fattispecie, i padroni e gli operai dovevano collaborare nell’interesse della patria e tutto sarebbe andato per il meglio nel migliore dei mondi possibili. L’armonia veniva calata dall’’alto’.

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La Carta del lavoro approvata nel 1927 fu la rappresentazione plastica di questa armonia imposta per legge! Per legge si stabilì che padroni e operai si sarebbero dovuti unire in corporazioni per settori produttivi. La lotta di classe e gli interessi confliggenti venivano, così, d’incanto evaporati. L’operazione era una manovra forzata che si risolse, di fatto, sempre a vantaggio dei padroni.

Lo Stato imprenditore

In termini generici, dalla Prima Guerra Mondiale e durante tutto il corso del XX secolo, muta radicalmente la concezione ed il ruolo dello Stato, soprattutto in ambito economico: il modello liberista puro (se mai sia esistito storicamente) salta del tutto. Così lo Stato poté godere della concentrazione, in un sol luogo, di forze economiche amplissime, cioè ingenti capitali e di avere una capacità decisionale capace di imporsi anche senza un profitto immediato.

È possibile individuare durante il fascismo due diverse fasi per ciò che concerne il ruolo dello Stato in economia. La prima fase si protrae fino al 1926 ed è caratterizzata da uno Stato liberista. Dal ’26 in poi s’inaugura una fase sempre più protezionistica, anche per far fronte agli effetti internazionali della spaventosa crisi economica americana del 1929.

In quegli anni lo Stato intervenne in modo massiccio nelle sorti economiche italiane diventando uno strumento propulsore dello sviluppo economico.

Nel 1931 fu fondato l’IMI (Istituto Immobiliare Italiano), istituto di credito pubblico a sostegno delle industrie in difficoltà.

Nel 1933 fu fondato l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) con cui lo Stato diventava azionista di alcune grandi fabbriche (Ilva, Terni, Ansaldo).

Il colonialismo fascista: “un posto al sole”

Nel 1911 il socialista Mussolini, nel 1939 il Mussolini fascista si sente colonialista e decide di dare un Impero all’Italia e conquistare l’Etiopia ampliando i possedimenti coloniali già acquisiti (la Libia).

Il colonialismo fascista in Libia e in Etiopia è stato assai lontano da quanto veniva descritto dalla stampa di regime e da quello stereotipo degli “Italiani brava gente. La stampa europea dell'epoca considerò la colonizzazione italiana in Libia addirittura più sanguinosa di quella delle altre potenze europee.

Fin dalla conquista la Libia era formalmente una colonia, ma l'autorità italiana era limitata ai principali centri urbani della costa; il resto del Paese era in mano a gruppi ribelli. Il fascismo volle portare a termine la colonizzazione libica e stroncare definitivamente la ribellione capeggiata dal maestro settantenne Omar al-Mukhtar. Mussolini si avvalse di Graziani noto per la sua inflessibilità. Tra il 1930 e il 1931 l'intera popolazione della Cirenaica fu deportata in 13 campi di concentramento allestiti nel deserto. Ancora, l'esercito italiano utilizzò stragi e torture per debellare i patrioti libici. E non mancò pure l’uso di armi

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chimiche come il fosgene e l'iprite, vietate dalla Società delle nazioni nel 1925, che continuarono a essere utilizzate dall'Italia in Libia fino al 1931.

Nel 1934 Mussolini decise di conquistare l’Etiopia. Il Duce intendeva dare all’Italia un Impero ampliando i possedimenti coloniali già acquisiti. Inoltre, vi era anche l’illusione che la nuova conquista potesse diventare una meta per l’emigrazione italiana.

Pensando di poter fare a meno di un’opportuna dichiarazione di guerra, l’esercito italiano invase l’Etiopia il 3 ottobre 1935. Addis Abeba, la capitale, fu conquistata il 5 maggio 1936 costringendo il sovrano etiope Hailé Selassié alla fuga. Si trattò di una vicenda a metà tra la tragedia e la commedia che ben si legge anche nella terminologia: dal giolittiano “scatolone di sabbia”, come disse Salvemini, ad “un posto al sole” per l’Italia.

Ciò che sembrava un’impresa facile si rivelò una vera e propria spina nel fianco. Ne scaturì, infatti, una guerriglia della quale i fascisti non riuscirono mai a liberarsi, si trattò di un’evidente sottovalutazione del nemico. Si andò baldanzosi e, tronfi della propria superiorità razziale, ci si meravigliò che gli Etiopi potessero avere sussulti patriottici.

Mussolini intraprese la conquista senza preoccuparsi minimamente della Francia e dell’Inghilterra, certo che non sarebbero mai intervenute. Viceversa, la Società delle Nazioni condannò l’Italia in quanto aggressore e, nel novembre 1935, vennero decretate delle sanzioni economiche che furono in ogni caso transitorie e non fruttarono nessun riscontro positivo.

La propaganda fascista ebbe modo di rispondere alle sanzioni con una ricompattazione del consenso interno. L’Italia vittima delle sanzioni rispondeva unita: molte famiglie donarono la fede d’oro alla Patria per rimpinguare le casseforti della macchina militare. Fu probabilmente questo il periodo in cui Mussolini e la sua politica godettero del maggior consenso tra gli Italiani.

Il 28 febbraio il generale Graziani arrivò addirittura a proporre di radere al suolo la parte vecchia della città di Addis Abeba e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento, ma Mussolini si oppose, temendo più decisive reazioni internazionali. Le esecuzioni sommarie proseguirono anche a marzo e Graziani ordinò la fucilazione perfino di tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano. L'iniziativa fu approvata da Mussolini.

Il 9 maggio 1936 Mussolini comunicò al popolo la fondazione ufficiale dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana ponendovi a capo il re Vittorio Emanuele III che acquisì la corona d’imperatore d’Etiopia.

Come accaduto per la Libia, lo sterminio fu conseguito anche tramite l’uso dell’iprite, un gas altamente nocivo. Dalle carte di Graziani risultano, dal 27 marzo al 25 luglio 1937, un totale di 1.877 esecuzioni.

L’asse Roma-Berlino e le leggi razziali

La Germania appoggiò sin dal principio il progetto coloniale italiano fornendo armi e materie prime.

Nel 1936 venne firmato un patto di amicizia sancito dall’Asse Roma-Berlino.

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Due anni dopo, nel 1938, un gruppo di intellettuali fascisti sottoscrisse il Manifesto della Razza. Si stabilì che gli Ebrei non appartenevano alla razza italiana e si invitava gli italiani a dichiararsi apertamente e chiaramente razzisti.

Nello stesso anno si approvavano le vergognose leggi razziali antisemite, ad imitazione della legislazione tedesca del 1935. Si vietarono i matrimoni misti, si impedì loro di frequentare la scuola, di prestare servizio militare e di praticare certe professioni. Era il primo atto di ciò che Sarfatti chiama la “persecuzione dei diritti”, a cui avrebbe seguito la persecuzione delle vite dall’8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945, alla deportazione nei campi di concentramento.

Le leggi razziali furono per molti una sorpresa: non c’era in Italia una vera tradizione antisemita, né il fascismo, a differenza del nazismo, si presentò all’inizio come razzista o antisemita. Colse di sorpresa anche molti fascisti ebrei. Fu il momento, assai tardo, in cui molti liberali dovettero fare i conti con la faccia reale del fascismo. Proprio a partire da questa generale estraneità del popolo italiano ad una tradizione razzista, il fascismo, importando la mala pianta, si rese maggiormente colpevole.

Tuttavia sarebbe sbagliato pensare alle leggi razziali come a funghi venuti fuori all’improvviso. Le prime forti avvisaglie di un atteggiamento razzista si erano fatte sentire a proposito della guerra d’Etiopia. Lo stesso Mussolini aveva affermato platealmente che era giunta l’ora che razze più evolute dovevano dominare razze inferiori, sia per fruire di questa superiorità sia per operare un generale incivilimento dei barbari.

L’attività antifascista

Dal 1926 opporsi al fascismo divenne perseguibile penalmente, per cui molti antifascisti per sottrarsi alle persecuzioni preferirono l’emigrazione.

Tra le fila dell’antifascismo vi furono diverse personalità di spicco tra le quali: Antonio Gramsci (segretario del Partito comunista) e Benedetto Croce (uno dei maggiori filosofi italiani del Novecento). Benedetto Croce fu dapprima fascista, poi si staccò rigettandone le concezioni e scrivendo il Manifesto degli intellettuali antifascisti.

Altro argomento degno di attenzione in questo periodo fu la nascita dell’organizzazione Giustizia e Libertà di cui fecero parte Carlo Rosselli e Piero Gobbetti. Fu uno degli elementi che tenne uniti i migliori intellettuali antifascisti e sarà l’origine del Partito d’Azione, che ritroveremo durante la reazione del popolo italiano al nazi-fascismo.

Il Partito comunista costituì l’unica organizzazione politica in grado di organizzare e gestire una densa rete di opposizione clandestina al movimento fascista. Il Partito comunista pagò un alto costo durante il regime fascista: circa i tre quarti dei condannati dal Tribunale speciale fascista proveniva dalle fila comuniste. A. Bordiga e A. Gramsci, entrambi dirigenti massimi del partito, furono messi in carcere.

Complessivamente l’attività antifascista durante il regime fu minima e, di fatto, ininfluente. Tuttavia, furono proprio tali organizzazioni (Giustizia e libertà, il Partito comunista, etc.) a mantenere le fila di un’attività antifascista che si svilupperà, in maniera geometrica, nel corso della Seconda guerra mondiale e che, come un fiume carsico, riapparirà nella Resistenza.

Totalitarismo perfetto o imperfetto?

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La maggioranza degli studiosi è propensa a distinguere il mondo liberale dal fenomeno del fascismo. Il fascismo sarebbe dunque un elemento esogeno, esterno, che segna una rottura vera e propria con la tradizione liberale italiana. Dall’altro canto, molte sono le affinità di interessi e gli accadimenti che mostrano una contiguità tra il liberalismo e il fascismo: il fascismo può essere considerato la camicia che la borghesia liberale indossa quando il suo sistema politico inizia a franare sotto il maglio della rivoluzione operaia. Il fascismo non sarebbe altro che la dittatura della borghesia in particolari momenti storici caotici.

Il fascismo fu un fenomeno complesso e la sua perimetrazione deve tener conto della sua stessa evoluzione teorica, da san Sepolcro alle leggi fascistissime, ecc. Gli studiosi si sono attardati alquanto sulla determinazione del carattere del fascismo e della comparazione con il nazismo e lo stalinismo. Il tratto comune è la costruzione del regime totalitario. Gli studiosi però divergono sul fatto di classificare il fascismo come totalitarismo perfetto o imperfetto. Per molti il fascismo non è stato diverso da quello nazista e stalinista.

Secondo altri, tra cui H. Arendt – a cui si deve un notevolissimo lavoro Le origini del totalitarismo - il fascismo è un totalitarismo imperfetto perché:

1. In Germania e in Russia il partito si sostituì, sic et simpliciter, alla struttura dello Stato, la struttura dello Stato si mantenne per molti versi autonoma rispetto a quella del partito;

2. La presenza del fascismo nella società fu arginata in parte dalla Chiesa. Nonostante i Patti lateranensi vi fu, sostanzialmente, tra le due istituzioni, una certa diffidenza. L’Italia dei mille comuni, aveva mille campanili e mille parrocchie che non entrarono mai organicamente in una concezione fascista e che, anzi, forniranno elementi che vedremo in azione alla fine della Seconda guerra mondiale;

3. Il ruolo del re, nonostante le indubbie compromissioni e responsabilità nella deriva autoritaria, mantenne una qualche indipendenza formale e rimase, comunque, il punto di riferimento dell’esercito e della borghesia conservatrice in generale.

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BIBLIOGRAFIA

Libri

A. Moravia, La ciociara, 1957

A. Scurati, M. Il figlio del secolo, 2018

Film

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La vecchia guardia, A. Blasetti, 1935Il delitto Matteotti, N. Risi, 1956

La marcia su Roma, D. Risi, 1962Il conformista, B. Bertolucci, 1970

Novecento, (I parte), B. Bertolucci, 1976Il leone del deserto, M. Akkad, 1981

LA CRISI DEL ‘29

~ IL MEGLIO NEL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI~ Ford e il modello “T”~ Il consumatore di massa~ L’Isolazionismo~ I repubblicani al governo~ La borsa di New York

~ Il ‘NEW DEAL’~ F. D. Roosevelt~ Il programma politico-economico~ Keynes e le politiche anticicliche

~ TEORIE DELLA CRISI DEL ‘29~ Teorie borghesi~ Teoria marxista

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Il meglio nel migliore dei mondi possibili

Ford e il modello “T”

Per fordismo s’intende quel particolare sistema di organizzazione tecnica e politica industriale, realizzato, a partire dal 1913, da H. Ford nella sua fabbrica di automobili. Quest’ultimo era basato sul sistema messo a punto dall’ingegnere Taylor che, attraverso la scomposizione e la parcellizzazione dei processi lavorativi fin nei singoli movimenti, assegnava tempi standard di esecuzione. Ford aveva come obiettivo l’ottimizzazione dei diversi fattori della produzione con una accorta pianificazione delle singole operazioni lavorative, con l’uso generalizzato della catena di montaggio e con un articolato programma di incentivi per i salariati (aumenti salariali, diminuzione della giornata lavorativa).

Il nucleo fondamentale del fordismo è il suo nocciolo tecnologico, dato dalle “tecnologie di concatenamento” e da una “strettissima interdipendenza seriale”. Nel 1936, Charlot metteva in scena, sul grande schermo, il film Tempi moderni, in cui rappresentava i ritmi estremamente ripetitivi, alienanti, disumani della fabbrica. Tutto ciò rendeva possibile una produzione crescente a costi decrescenti, ovvero un aumento dei volumi produttivi a prezzi più bassi. Ciò significava che il produttore poteva “produrre il proprio mercato” intercettando fasce sempre più ampie di consumatori, cioè una domanda solvibile, una domanda pagante. L’intento di Ford era, dunque, quello di trasformare l’auto da oggetto di élite in prodotto di consumo di massa.

La mitica Ford modello “T”, la Tin Lizzie - come venne soprannominata – rappresentava plasticamente quest’idea e diventò l’auto di ogni americano. Nel 1909, furono prodotte 13.840 auto a 950 $; nel 1910, 20.727 auto a 780 $; nel 1911, 53.488 auto a 690$; nel 1916, 586.388 auto a 360$. Nella prima metà degli anni Venti la “T” raggiunse i 2.000.000 circa ad un prezzo unitario di 290 $ circa.

Il consumatore di massa

Gli anni ‘20 del ‘900, soprannominati gli “anni ruggenti”, furono caratterizzati da una inusitata crescita economica e da un eccezionale fermento sociale e culturale.

Alcuni dati illustrano questo eccezionale periodo di prosperità succeduto alla Grande Guerra . La produzione industriale statunitense, infatti, crebbe del 64% contro il 12% del decennio precedente. Si trattava di una trasformazione strutturale dell’economia statunitense che partiva da un mutamento tecnico-organizzativo e coinvolgeva uno sviluppo delle forze produttive e dei metodi di produzione. Si trattava, quindi, di una ristrutturazione capitalistica che accentrava, razionalizzava e ottimizzava, a partire dalle nuove e più sviluppate tecniche innovative. In pari tempo, si creavano sovrastrutture ideologiche adeguate alle nuove capacità produttive, formando un consumatore vorace, capace di avere bisogni che fino a quel momento non erano affatto necessari. È l’epoca della produzione di massa, dei beni di consumo di massa e della ‘produzionÈ del consumatore di massa.

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Se la produzione di merci dispiegava il suo potenziale in una favolosa quantità di valori d’uso, bisognava formare un nuovo individuo capace di tener loro dietro. Si dispiegò, allora, una vera e propria opera ‘educativa’ che fece perno essenzialmente su tre strumenti scintillanti:

• Le tecniche pubblicitarie;

• I grandi magazzini;

• Il pagamento rateale.

Con queste tre sgorbie, al ritmo del charleston, si mise mano all’’uomo nuovo’.0

Le nuove e raffinate tecniche pubblicitarie aprirono nuovi spazi immaginativi, nuovi stili, nuovi bisogni. I grandi magazzini erano la prova concreta della nuova giostra dei desideri. I pagamenti rateali testimoniavano che tutto era possibile per tutti!

La diffusione della radio fu di straordinaria importanza nel processo di massificazione generale del Paese: rappresentava la possibilità concreta di raggiungere milioni di famiglie nella loro intimità! Nel 1992, si contavano 400.000 radio; nel 1928, ben 8 milioni.

L’elettrificazione del Paese rimodellò il sistema nervoso del corpo sociale; nel 1926, il 63% della popolazione usava l’energia elettrica.

Tutto andava per il meglio, nel migliore dei mondi possibili!

L’isolazionismo

La Prima guerra mondiale aveva sancito il declino dell’ordine mondiale inglese, come del resto aveva mostrato, prosaicamente, il dollaro che aveva ormai sostituito la sterlina negli scambi internazionali. Tuttavia, gli USA si rinchiusero in una politica isolazionista che, secondo i repubblicani, avrebbe favorito i loro affari interni e il loro illimitato progresso; non ingerirsi nella politica europea sembrò, in un primo momento, un buon affare. Con questa idea di politica estera il repubblicano Warren Harding vinse le elezioni presidenziali del 1920.

L’atteggiamento isolazionista, d’altra parte, aveva visto gli USA rifiutare di ratificare il Trattato di Versailles, che ‘sistemava’ i nuovi equilibri europei. L’idea che fosse saggio difendere il proprio orticello la si legge anche nell’atteggiamento americano verso la Società delle nazioni.

Durante la Conferenza di Pace, Wilson aveva tracciato, nei Quattordici punti, il progetto per regolamentare i rapporti internazionali, facendo a meno della forza. L’idea era quella di creare un organismo sovranazionale che, super partes, dipanasse le controversie internazionali, risolvesse i potenziali conflitti, in maniera diplomatica. Si trattava della Società delle Nazioni, fondata, poi, a Ginevra nel 1920 e che, nel giro di un decennio, vide la partecipazione di quasi tutti gli stati del mondo. Sfortunatamente, tale organizzazione non riuscì a mantenere la pace nel mondo principalmente per due motivi: 1) gli USA non vi parteciparono: il senato americano bocciò la proposta del presidente, non intendendo immischiarsi negli affari europei; 2) la Società non ebbe mai un esercito regolare tale da poter imporre le sue risoluzioni, potendo, al contrario, far leva solo su blande sanzioni economiche.

Insomma, l’isolazionismo fu il momentaneo rifiuto del capitalismo statunitense di prendere la leadership internazionale. Si pensò che meglio corrispondesse allo sviluppo capitalistico e ai suoi splendidi indici d’incremento una politica ‘autarchica’. Solo nel 1946, gli USA cambieranno strategia e, con la forza della loro potenza economica e militare, faranno valere i loro interessi, imponendo un nuovo ordine mondiale.

L’atteggiamento isolazionista si manifestò anche, mutati mutandis, nei confronti del fenomeno dell’emigrazione; il ‘diverso’ venne visto spesso come ‘sovversivo’.

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Il caso di Sacco e Vanzetti, giustiziati nel 1927, la cui colpa fu di essere anarchici e italiani, fu emblematico di questo clima xenofobo che si diffuse nel Paese.

I primi quindici anni del Novecento furono anni caratterizzati da una forte immigrazione: circa metà della popolazione Statunitense era Europea. Molti individui si recavano negli Stati Uniti con la speranza di trovare un lavoro oltreoceano. Il fenomeno dell’immigrazione raggiunse la punta massima nel decennio 1900-1910 quando, su una popolazione di circa 75 milioni, gli immigrati furono quasi 10 milioni.

I repubblicani al governo

Per tutti gli anni Venti, furono i repubblicani a cavalcare questo clima di infinite sorti progressive. Il partito repubblicano s’incardinava su un programma politico classicamente liberista che prevedeva, in ultima analisi, che la ricerca individuale della felicità e, diremmo anche del profitto, coincidesse con il bene comune. In termini più prosaicamente economici il programma dei diversi governi che si successero prevedevano:

la rinuncia, da parte dello Stato, a qualsiasi intervento e controllo nell’economia di libero mercato che, in un modo o nell’altro, con la ‘mano invisibile’ di smithiana memoria, si sarebbe regolato da solo;

la diminuzione della spesa pubblica, ovvero la rinuncia a costruire una articolata rete di servizi sociali e un solido stato sociale. Insomma, ognuno per sé;

la riduzione delle imposte dirette che, gravando sui redditi, avvantaggiavano i ricchi e l’aumento delle imposte indirette che, pesando su tutti gli acquirenti, significavano un peggioramento reale delle imposte sui ceti meno abbienti;

la compressione dei tassi d’interesse in maniera da agevolare l’accesso al credito dei capitalisti.

La fase capitalistica, che attraversò il Paese in quegli anni, fu di grande accelerazione alla concentrazione in cartelli, monopoli e oligopoli che, nati dalla concorrenza, ora si spartivano grandi profitti, fissavano prezzi al di là di qualsiasi concorrenza. Plasticamente, tale fenomeno lo illustra il fatto che il 30% del capitale industriale e commerciale, nel 1909, era detenuto da 200 società, mentre, nel 1929, la quota era salita del 50%. Alla fine dei favolosi anni Venti l’1% della popolazione deteneva il 30% del capitale nazionale.

Nel 1929, gli Stati Uniti rappresentano il primo Paese per produzione industriale mondiale. Quasi la metà della intera produzione mondiale era statunitense (45%), seguiva la Germania (12%), Gran Bretagna (9%), Francia (7%), URSS (5%).

Il Paese investiva circa 15 miliardi di dollari all’estero: Europa (5 miliardi), America latina (5 miliardi), Canada (3 miliardi). Gli investimenti in Europa centrale erano dettati, ovviamente, da una convenienza economica, ma anche da una lungimiranza politica che tentava di allontanare il pericolo comunista, cioè un avvicinamento europeo all’URSS. L’America latina era il naturale partner economico, sia per la sua posizione geografica, sia perché ricca di risorse minerarie. Gli USA avranno sempre, nei confronti di questa terra, un atteggiamento predatorio: una riserva di caccia!

La Borsa di New York

Nel 1925, la Borsa di New York lavorava circa 500.000 azioni; nel 1928, le azioni erano circa 760.000; nei primi mesi del 1929, circa 1.100.000. Parallelamente, cresceva a dismisura il valore di questi titoli: fatto 159 punti il valore nel 1925, nel 1928 era di 300; nell’agosto del 1929 a 381.

Questa gigantesca massa di azioni, in rapida ascesa, con numeri da capogiro e con un valore sempre crescente, ingenerarono negli operatori l’idea di facili guadagni, tanto che investire in Borsa divenne un

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fenomeno di massa; piccoli possessori di titoli agivano in base a principi meramente speculativi acquistando le azioni per rivenderle, poco dopo, in un puro gioco di domanda e offerta, senza tener minimamente conto della produzione reale.

I trend azionari erano tutti in crescita: la nazione cresceva ininterrottamente e sembrava sfuggire alle crisi economiche che, dal nascere del capitalismo, avevano tormentato l’Europa.

Eppure si potevano già scorgere delle crepe nella cornucopia del capitalismo americano. Gli agricoltori dell’est erano in difficoltà, poiché i prezzi agricoli iniziavano a calare e rovinavano malamente le loro farmer. La produzione industriale, sempre in crescita, in settori importanti dell’economia, subiva un pesante rallentamento nell’estate del 1929.

I titoli, al contrario, sembravano non avvertire questo cambiamento e continuavano a crescere avvitandosi sempre più in una mera azione speculativa.

Il giovedì del 24 ottobre del 1929 verso le 11.30, alla Borsa di Wall Street, tutti iniziarono a vendere le proprie azioni, tutti volevano assolutamente liberarsi, al più presto, dei titoli, il cui valore crollò repentinamente! Intere fortune accumulate nell’arco della vita si liquefanno nel giro di poche ore. La giornata del solo ‘giovedì nero’ conta 11 suicidi tra gli operatori di Borsa. È il panico!

Alla fine della giornata sono state vendute 13 milioni di azioni e il giorno 29 se ne venderanno ben 16 milioni in una caduta inarrestabile.

L’economia in ginocchio

La crisi borsistica produsse una serie di reazioni a catena. Il crollo borsistico, come nel gioco del domino, trascinò, nella rotta, le banche. Molte banche giocavano in Borsa e molti tra i giocatori di borsa non erano più in grado di restituire quanto avevano preso a prestito. Infine, molti correntisti, presi dal panico, chiesero di estinguere i conti per riprendere i propri capitali. La crisi della finanza aveva coinvolto nel naufragio il sistema bancario. I fallimenti bancari nel 1928 furono 49, nel 1931 salirono a 2.298.

La somma di questi fattori fu una stretta del credito, ovvero una diminuzione della liquidità. Tale diminuzione si abbatté, come in un circolo vizioso, sui finanziamenti che chiedevano le imprese.

Nel 1932, la produzione industriale era diminuita di 10 punti e il numero dei disoccupati raggiunse cifre impressionanti. La disoccupazione è il dato più sconcertante: nel 1929 – 1.5 milioni; nel 1930 – 4.3; nel 1931 - 8; nel 1932 – 12,1; nel 1933 – 12,8 ovvero, il 25% della popolazione attiva totale e il 54% rispetto ai salariati attivi. Abbiamo, cioè, un esercito salariato di riserva amplissimo (accanto a 20 salariati nel 1929 c’era un disoccupato, nel 1933 ogni due salariati c’era un disoccupato). L’occupazione agricola scende sotto i 10 milioni e prosegue in maniera inarrestabile. L’urbanizzazione rallenta: riprenderà solo nel dopoguerra. Intere famiglie alla ricerca di lavoro, percorrono gli States in treno e si accampano nelle periferie delle grandi città, definite Hooverville. I vagabondi girano il paese in un clima di collasso generale, a cui nessuno sa dare una spiegazione. I sindacati vengono immediatamente colpiti: calano gli iscritti.

Il ‘New Deal’

F. D. Roosevelt

Le risposte della destra americana alla crisi furono alquanto deludenti giacché si affidarono, sostanzialmente, alla ‘mano invisibile’ del mercato. Il presidente repubblicano H. Hoover si rifiutò di separare il dollaro dalla parità con l’oro, nel timore di un processo inflattivo che avrebbe aggravato il debito pubblico. Quando intervenne, al di sopra della mano invisibile, lo fece con una politica fortemente protezionistica, con lo Smoot-Hawley tariff act del 1930. Egli faceva riferimento soprattutto alle classi sociali degli imprenditori, dei capitalisti, all’alta borghesia e alla borghesia finanziaria.

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Nel 1932, Franklin Delano Roosevelt, del partito democratico, promise una politica completamente diversa dal repubblicano Hoover, il quale venne battuto con oltre 22,8 milioni di voti contro 15,7. Roosevelt partì da una politica socialdemocratica progressista più attenta alle esigenze e alle speranze delle classi medie, operaie e contadine. Se Hoover rappresentò gli interessi del capitale, Roosevelt tentò di elaborare una risposta economica anticiclica che tenesse insieme gli interessi del capitale e quelli dei lavoratori. Si delineavano, così, in questo scorcio storico, risposte anticicliche che facevano fronte alle crisi economiche capitalistiche, pur rimanendo nell’alveo borghese.

Il programma politico-economico

Il nuovo presidente costituì un “consorzio di cervelli” (brain trust), con il compito di mettere in piedi un programma politico-economico capace di far uscire il Paese dalla crisi. Il gruppo di cervelloni fu fortemente influenzato dal pensiero dell’economista John Maynard Keynes e dalla sua teoria economica, che rompeva con la tradizione liberista.

All’impostazione classica liberista si scelse una strategia di forte intervento dello Stato per controllare e intervenire nel mercato; alla mano invisibile si sostituì la mano dello Stato! Il dogma del libero mercato veniva così abbandonato; il mercato, in realtà, fin dalla formulazione smithiana era rimasto più un modello teorico astratto che una realtà del sistema capitalistico; in effetti, il mercato, abbandonato a se stesso, non aveva mai, storicamente, mostrato la capacità di autoregolarsi se non attraverso forti squilibri sociali e rovinose crisi economiche.

Nasceva il nuovo corso, ‘New Deal’, ovvero il programma politico-economico degli USA, che s’imperniava su una strategia economica anticiclica, nuova, scintillante e d’impostazione keynesiana.

Tra gli interventi indiretti tesi alla ripresa economica il governo Roosevelt approvò:

La riforma del sistema creditizio e l’abolizione della parità dollaro-oro, che imponeva un cambio fisso del dollaro con le riserve auree. Con tale abolizione fu possibile svalutare la moneta e avere due effetti positivi: aumento della circolazione monetaria, rilancio del credito e degli investimenti, da una parte e dall’altra, svalutazione del dollaro rispetto alle altre monete, che avrebbe reso più efficace le esportazioni;

La legge Agricultural Adjustement Act (AAA) che concedeva denaro a coloro i quali limitavano i propri raccolti, limitando con ciò la produzione agricola e il ribasso dei prezzi;

Il National Industrial Recovery Act (NIRA), attraverso una serie di accordi aziendali, imponeva da una parte la limitazione della produzione industriale, dall’altra concedeva una serie di miglioramenti per la classe operaia, come la rinuncia all’impiego di lavoro infantile e, soprattutto, stabiliva minimi salariali e un orario di lavoro comune;

L’emanazione del Wagner Act che sanciva il diritto all’organizzazione sindacale, diritto di sciopero e contrattazione aziendale;

Il Social Security Act creò un moderno sistema pensionistico e di tutele per i lavoratori che in parte era pagato dal Tesoro e in parte da imprenditori e salariati;

L’approvazione di una riforma fiscale che prevedeva tassazioni progressive e, dunque, colpiva i redditi più alti.

Gli interventi diretti furono una vera e propria rivoluzione nella strategia economica degli USA. Lo Stato non era solo regista della ripresa economica, ma interveniva come imprenditore: forniva lavoro attraverso investimenti statali. Lo Stato dava lavoro a milioni di disoccupati attraverso un programma di opere pubbliche che, ad esempio, perseguivano il miglioramento del territorio e delle infrastrutture. Lo “Stato imprenditore” era il cardine del New Deal.

L’uscita degli Stati Uniti dalla crisi fu lenta se si pensa che i disoccupati nel 1934 erano ancora 11 milioni. Alle elezioni presidenziali del 1936, Roosevelt venne rieletto con notevole scarto rispetto all’avversario; 60,2% dei voti contro il 36,5% del repubblicano Alfred Landon.

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Il New Deal non fu apprezzato da tutti e grandi furono le asperità che dovette affrontare anche sul versante giuridico. La parte più reazionaria del capitalismo americano lottò come poté di fronte a questi cambiamenti. Il NIRA fu oggetto di particolare avversione da parte degli industriali, che si videro ledere nei ‘diritti’ di sfruttamento illimitato dei propri operai. Stabilire il minimo salariale sembrava una intromissione, nelle ferree leggi economiche.

La Corte suprema fu l’organo giuridico che diede voce a questa opposizione, muovendo sospetti di incostituzionalità per questi provvedimenti troppo intromessivi nella vita dei cittadini. Il contrasto finì con la vittoria di Roosevelt che riuscì a sostituire alcuni giudici della Corte.

Complessivamente il New Deal segnò profondamente il Paese e, in generale, il rapporto tra lo Stato e la società:

Fu possibile, negli anni Trenta, sviluppare il welfare state (Stato del benessere), che aveva come obiettivo di garantire a tutti uno standard di vita adeguato;

L’amministrazione pubblica e la burocrazia si espansero; Il sistema economico iniziò ad essere gestito dall’amministrazione statale; I sindacati divennero dei legittimi interlocutori politici.

La crisi del ’29, da questa particolare prospettiva, come cambio del paradigma liberista, segna, in termini generali, un cambiamento strutturale nell’economia mondiale; aumenta il peso del capitalismo statale.

La crisi determina un’accentuazione del capitalismo di stato che aveva avuto già un suo rilievo a partire dalla Grande guerra. La tendenza generale si espresse nella forma staliniana in Russia, nella forma fascista in Germania e Italia e nella forma democratica negli USA, Gran Bretagna e Francia.

Keynes e le politiche anticicliche

La teoria economica di Keynes informa il New Deal e la politica borghese di sinistra, dando, in pari tempo, una ricetta anticiclica esattamente opposta a quella della destra liberista.

Keynes parte dalla constatazione storica che il mercato, lasciato a se stesso, non avrebbe prodotto nessuna ripresa, ma si sarebbe avvitato su se stesso. Dunque, Keynes registra il ruolo che lo Stato storicamente va sempre più acquisendo e, con forza, lo rappresenta teoricamente, non solo come arbitro del mercato, ma come attore.

Dal punto di vista anticiclico, l’intervento dello Stato diventa decisivo per la ripresa degli investimenti e per l’inizio di un ciclo virtuoso che riporti all’occupazione.

Schematicamente per Keynes bisogna che si attui:

a) una tassazione progressiva, in modo che le entrate dello Stato siano pagate da chi ha di più, cioè dai ceti più benestanti, lasciando così un certo potere d’acquisto ai ceti popolari;

b) una diminuzione dei tassi d’interesse, in modo da dare maggiore liquidità all’impresa;c) un vasto programma di opere pubbliche. Lo Stato doveva sostenere lo sviluppo dell’occupazione

attraverso massicci investimenti statali. Tali investimenti sono finanziati attraverso un momentaneo indebitamento pubblico (un deficit di spending). Gli investimenti si traducono immediatamente in occupazione, dunque, in una rinnovata domanda di beni. La domanda di beni permette che l’offerta, cioè l’industria, si riprenda dallo stato di torpore e ampli la produzione. L’innesto di questo circolo virtuoso fa sì che le entrate dello Stato, attraverso il prelievo fiscale, s’ingrossino e il deficit iniziale possa essere, così, ammortizzato in un certo numero di anni.

La ricetta di destra o liberista - che fa leva sull’idea che il mercato provvede a ciò che è necessario per il sistema economico - riduce le imposte dirette, aumentando quelle indirette. Taglia la spesa sociale, assistenziale, pensionistica, scolastica, ecc. affinché la spesa statale sia meno gravosa possibile. Insomma, la

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politica liberista lascia che la crisi si svolga in tutta la sua estensione; faccia il suo corso e venga pagata, sostanzialmente, dalle classi meno abbienti. Alla fine essa, come una guerra, distrugge tutto ciò che incontra: non rimangono che macerie. Al di là della metafora i valori sono azzerati, gli impianti produttivi sono svalutati, inutilizzati e il salario compresso fino al punto della mera sussistenza. Da qui in poi è possibile, timidamente, ritornare a nuovi cicli d’investimento.

Teorie della crisi del ‘29

Teorie borghesi

Molte sono le spiegazioni teoriche della crisi del ’29; l’economia borghese ne dà, sostanzialmente, due spiegazioni:

a) autonomizzazione del capitale finanziario;b) crisi di sovrapproduzione.

La crisi di Wall Street è una crisi che si produce in ambito finanziario e si ripercuote, a cascata, sulla produzione reale. La spiegazione ultima deve essere cercata nel processo di indipendenza, autonomia, raggiunto dal capitale finanziario che vive di vita propria, completamente slegato dalla produzione reale. Certo, la Borsa nasce come mercato di titoli azionari che corrispondono alle concrete economie aziendali, ma man mano tale forma assume sempre più una sua indipendenza e, come Pinocchio sfugge a Polendina, inizia una sua vita capricciosa. Ebbene, la mera intenzione speculativa degli operatori di borsa che non hanno più di vista il mercato reale sarebbe alla base del crollo di Wall Street. E, manco a dirlo, in questa visione, l’elemento psicologico giocherebbe un ruolo eccezionale se si tramuta in panico.

È stato fatto notare che tale teoria è manchevole poiché non spiega il motivo per cui il crollo arriva proprio nel 1929, e che, una sproporzione, un disequilibrio tra produzione reale e gioco di borsa, potrebbe spiegare una ‘increspatura’ negli andamenti del capitale ma non una depressione così profonda e duratura.

Per quanto riguarda la spiegazione della crisi di sovrapproduzione, gli economisti borghesi riportano il problema della crisi non tanto a problemi relativi alla circolazione del capitale, quanto a fenomeni strutturali della produzione capitalistica. In buona sostanza, la crescita a ritmi vigorosi del capitalismo americano dopo la Grande guerra, in particolare di beni di consumo di medio termine (frigoriferi, radio, ecc.), non è accompagnato da una crescita relativa dei salari, sicché si crea una forbice tra la massa di prodotti creati e la capacità solvibile delle masse; i salari non riescono a comprare i prodotti sul mercato. La crisi si verificò perché la produzione fu portata ad un livello troppo alto rispetto alla domanda solvibile. Crisi di sovrapproduzione!

Dunque, una quantità immensa di merci rimane invenduta nei depositi perché le masse non hanno abbastanza soldi per comprarle. In altri termini, si crea una sproporzione tra le merci prodotte e la capacità dei salari di acquistarle.

Anche questa teoria, tuttavia, dà il fianco a varie critiche. In effetti, pur non crescendo in proporzione ai profitti, i salari aumentano quando la produzione è al massimo e decrescono in periodo di crisi. Se i salari crescessero in proporzione alla maggiore produttività, non sarebbe possibile una massa del profitto tale da procedere ad una ulteriore e più avanzata fase di investimenti. Si dimentica semplicemente che la parte relativa ai salari non può crescere proporzionalmente alla produttività, dato che la produzione capitalistica è produzione di profitto. Infine, fu V. Lenin, in polemica con R. Luxemburg sul processo di accumulazione, a dimostrare che la teoria delle crisi di sovrapproduzione, o se si vuole, di sottoconsumo

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delle masse, non spiegano un bel niente, perché non tengono conto che la quota maggiore di merci sul mercato si presenta sotto forma di capitale costante, ovvero sotto forma di mezzi di produzione e non nella forma di beni di consumo.

Teoria marxista

L’economia marxista spiega la crisi del 1929 come una crisi di valorizzazione simile a tutte quante le altre; la tredicesima crisi ciclica capitalistica dalle guerre napoleoniche. Certo, la forma che essa assume deve essere indagata con un’analisi dettagliata della situazione specifica, ma essa viene riportata alla strutturale, endogena difficoltà del processo di valorizzazione del capitale che Marx espone articolatamente nel Capitale e che, in ultima analisi, riguarda la caduta tendenziale del saggio del profitto.

Le crisi sono generate dal modo di produzione delle merci e non da quello della circolazione. Lo stesso sviluppo delle forze produttive crea una sperequazione tra capitale costante (macchinari, materie prime, ecc.) e capitale variabile (salari). Proprio questa tendenza del capitale costante a crescere più velocemente del capitale variabile crea una caduta del saggio del profitto. Più specificamente, la caduta del saggio si presenta come una diminuzione della massa del plusvalore prodotta, che non è più in grado di riprodurre una nuova accumulazione. Subentra allora una sovraccumulazione di capitali, ovvero una quantità di capitali che non vengono utilizzati non trovando un impiego redditizio. La sovraccumulazione di capitali si manifesta come sovrapproduzione di merci che, appunto, rimangono inutilizzate.

Subentra un periodo di crisi che la borghesia non riesce né a prevedere né a gestire con politiche anticicliche. Tali crisi – dirà Marx nel Manifesto - possono essere superate o con la guerra o con rimedi che ampliano, su più vasta scala, gli elementi che l’hanno generate.

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BIBLIOGRAFIA

LibriJ. Steinbech, Furore, Bompiani

FilmTempi moderni, C. Chaplin, 1936

Furore, J. Ford, 1940Sacco e Vanzetti, G. Montaldo, 1976

L’ASCESA DEL NAZISMO

~ LA GERMANIA DI WEIMAR~ Il movimento operaio tedesco ~ La Costituzione di Weimar~ La vergogna di Versailles

~ LA TRASFORMAZIONE DEL PAESE~ L’occupazione della Ruhr~ Nasce il Partito nazionalsocialista~ IL Mein kampf~ La stabilizzazione con Stresemann

~ L’ASCESA DI HITLER ~ L’eco di Wall Street~ La caduta della Repubblica di Weimar

~ IL PROGRAMMA NAZISTA~ Il rigetto del Trattato di Versailles e l’organicismo~ La teoria della razza

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~ L’ascesa elettorale del Partito nazista~ IL TERZO REICH

~ Repressione e persecuzione~ L’accordo religioso~ La propaganda

~ ECONOMIA E STATO TOTALITARIO~ Hitler al governo~ L’”economia di guerra”~ H. Arendt: “Le origini del Totalitarismo”

La Germania di Weimar

Alla fine della Grande Guerra uno spesso malcontento serpeggiava nella popolazione, che si aspettava delle risposte dal punto di vista politico ed economico dalla monarchia, ormai indebolita e priva di controllo.

Già a partire dal 1918 si diffusero i primi conati rivoluzionari. Esercito ed operai, sul modello della rivoluzione bolscevica vittoriosa, formarono i primi Consigli ad imitazione dei soviet russi e diedero il via ad una prima stagione di lotte.

Questa perdita progressiva di potere da parte della monarchia culminò il 9 novembre 1918, nel passaggio alla repubblica, causando la fuga da parte del kaiser Guglielmo II. Tali eventi si avvicendarono in un clima decisamente particolare, poiché il cambio di regime vide il crescere di numerosi partiti con interessi ed orientamenti contrapposti. L’incapacità di prendere decisioni, inoltre, sarà un fattore logorante per il governo.

Ciononostante fu apprezzabile l’impegno del presidente socialdemocratico Friedrich Ebert nel riportare il paese alla stabilità.

Il movimento operaio tedesco

Le prime fratture all’interno del movimento socialista tedesco emersero durante l’elezione dell’Assemblea Costituente voluta da Ebert. La maggioranza del movimento operaio era raccolta nel SPD (Partito Socialdemocratico) che risultava essere moderato e democratico. Questo partito sosteneva la provvisorietà dei Consigli dei soldati e degli operai, che sarebbero stati smantellati con la creazione di organismi democratici statali. Di parere divergente era l’ala estrema del movimento operaio, che era contrario a qualsiasi Assemblea Costituente e che vedeva i Consigli come organismi che avevano un loro potere autonomo e indipendente, come organismi indispensabili per una rivoluzione sul modello sovietico. Tale posizione era assunta dall’USPD (Partito Socialdemocratico Indipendente), formato nel 1917 e da cui successivamente si scisse la Lega di Spartaco, che nel dicembre del 1918 costituirà il KPD (Partito comunista tedesco).

Da quanto detto emerge la profonda divisione dei rappresentanti del movimento operaio sugli obiettivi che il movimento doveva realizzare: questo sarà uno dei motivi che porterà alla sconfitta dell’intero movimento. Il tentativo di boicottare le elezioni della Costituente e di rovesciare il governo fu completamente soggiogato.

La Costituzione di Weimar

Dalle elezioni dell’Assemblea Costituente, ad essere premiati furono i membri dell’SPD che, tuttavia, non ebbero la maggioranza, cosicché dovettero organizzare un governo di coalizione con i moderati, il partito cattolico e i liberali democratici.

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Il socialdemocratico Ebert fu nominato presidente della Repubblica.

Per elaborare una nuova Costituzione, l’assemblea preferì la città di Weimar a Berlino per evitare il clima caotico della capitale.

Nasceva una repubblica federale con a capo il presidente Ebert, che prevedeva una rivalutazione del Reichstag (Parlamento), il quale assunse il potere legislativo. Il potere esecutivo veniva affidato ad un cancelliere, responsabile di fronte al Parlamento. Ampi poteri venivano concessi alla figura del presidente della repubblica, eletto direttamente dal popolo ogni sette anni.

L’architettura istituzionale che la Costituzione di Weimar disegnava era fortemente presidenzialista.

Va menzionato, infine, che l’articolo 48 esaltava ancor più il ruolo del presidente dandogli il diritto di poter esautorare il parlamento in caso di pericolo. Più tardi, proprio questo articolo, permetterà ad Hitler di cancellare la democrazia.

La vergogna di Versailles

Con il Trattato di Versailles del 1919, la Germania si ritrovò ad essere letteralmente umiliata dato che erano state scaricate su di essa tutte le responsabilità, politiche ed economiche, del primo conflitto mondiale. Il Trattato era stato il frutto della volontà delle nazioni europee - soprattutto la Francia - di annientare la locomotiva tedesca, privandola degli elementi su cui aveva costruito il proprio potere politico ed economico.

Le riparazioni di guerra furono assai gravose, durissime quanto impossibili da onorare! La Germania doveva risarcire una cifra pari a 132 miliardi di marchi d’oro e versare un quarto della produzione nazionale (25 % ogni anno) alla Francia. Un debito che avrebbe avuto “fine” solo negli anni sessanta del novecento.

Tutto ciò non poteva che esaltare un risentimento, una rabbia del popolo tedesco che diede vento alle vele del nazismo. La propaganda nazista non mancò di sottolineare l’umiliazione della Germania e di accusare socialisti e democratici di aver accettato il Trattato e firmato la pace e le condizioni intollerabili al momento della firma. Tutto ciò culminò nell’attentato a Matthias Erzberger nel 1921, ovvero colui che aveva firmato l’armistizio del 1918.

La trasformazione del paese

L’occupazione della Ruhr

La Francia approfittò del mancato pagamento di una rata delle riparazioni da parte dei tedeschi per occupare il produttivo e industrializzato territorio della Ruhr.

Infruttuosa risultò la protesta di lavoratori e imprenditori, che iniziarono una serie di scioperi e boicottaggi rifiutandosi di collaborare con i francesi.

Dal punto di vista finanziario, esorbitante era la distanza tra dollaro e marco nel 1923 (1 dollaro/4200 miliardi di marchi) e terribili furono le conseguenze del movimento inflattivo: si andava a fare la spesa con una carretta piena di monete ridotte, praticamente, a carta straccia.

Il processo inflattivo gravò anche sul piano sociale: i percettori di reddito fisso subirono l’inflazione come una sferza che lacerava le carni giacché il loro stipendio o salario diminuiva sempre più. Imprenditori e proprietari di immobili, indebitati con le banche, cavarono lauti guadagni!

Nasce il Partito nazionalsocialista

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Tra il 1918 e il 1923, il corpo sociale tedesco era stato sottoposto a fortissime sollecitazioni. Il tentativo rivoluzionario spartachista aveva creato una forte preoccupazione nella borghesia tedesca e nell’elettorato moderato e conservatore. Nonostante la repressione delle forze socialiste rivoluzionarie, l’inquietudine di ampi strati sociali spostò ampi consensi verso le formazioni di destra che si presentavano come garanti dell’ordine costituito.

Nel 1920, a Monaco, nasce il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP) ad opera di Adolf Hitler. Nello stesso anno, Hitler fu a capo di un putsch (colpo di stato) per scardinare le istituzioni democratiche. Il complotto fallì miseramente: per Hitler e il generale Ludendorff l’arresto fu inevitabile! La tribuna di imputato fu per Hitler l’occasione per farsi conoscere e per diffondere le sue idee: nelle sue parole il putsch si trasformò in un atto patriottico. La condanna a cinque anni fu, poi, ridotta a nove mesi di carcere, niente affatto duro.

Il Mein Kampf

Nel periodo della prigionia Hitler fu trattato con tutti i massimi riguardi: prigionia dorata! Ebbe modo anche di dettare al suo fedele R. Hess il Mein Kampf (La mia battaglia), considerato una vera e propria sintesi del programma nazista e contenente il primo assaggio di esplicazione della teoria della razza. Nel corso dell'opera, Hitler evidenzia le sofferenze politiche del cancellariato tedesco durante la Repubblica di Weimar e accusa gli ebrei, i socialdemocratici e i marxisti. Inoltre, si propone di formare un socialismo nazionale, combattendo il bolscevismo e annientando “i mali peggiori”, ovvero il comunismo e l’ebraismo.

Alla base del programma vi è la ricerca di uno “spazio vitale”, cioè nuovi territori ad est, su cui estendere il dominio nazista. Sostiene, poi, la necessità di un nuovo Reich (impero) al cui vertice ci deve essere un Führer (guida, luce) che sappia essere sintesi dello spirito del Volk (popolo). Infine, tra le priorità dello Stato, vi deve essere la preservazione della razza, giacchè con ciò si garantisce il dominio sulle razze inferiori.

Nel 1930, poi, Alfred Rosenberg pubblicava Il mito del XX secolo, dove l’ideologia nazista si dispiega e articola completamente.

La stabilizzazione con Stresemann

Nel 1923, Gustav Stresemann, leader del Partito tedesco popolare, di matrice democratico-liberale, decise di aggregarsi con il Zentrum e con il partito socialista. Tra gli obiettivi comuni vi era il risanamento dell’economia e la riforma monetaria, che avrebbe sostituito il marco che ormai era fortemente svalutata.

Un contributo determinante per la politica di stabilizzazione di Stresemann giunse dagli Stati Uniti con Charles Dawes, che mise a punto un piano per risanare l’economia tedesca.

Affinchè la soluzione avesse i risultati sperati, bisognava che in Germania giungessero capitali freschi sotto forma di prestiti agevolati e investimenti. Le banche statunitensi avrebbero sfruttato i capitali eccedenti investendo in Germania e ottenendo importanti profitti. Iniziava, insomma, un periodo di stabilizzazione e finanche di ripresa.

La crisi americana del ’29 interruppe il flusso di capitali verso la Germania e la crisi economica si ripresentò molto più forte facendo tremare, fin nelle fondamenta, la società tedesca.

Intanto si stabilizzavano anche le relazioni internazionali.

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Nell’ottobre 1925 furono firmati dalla Germania e dalla Francia gli Accordi di Locarno, che sancivano un periodo di distensione, di rapporti relativamente pacifici tra le potenze europee.

Secondo le condizioni del Trattato i tedeschi perdevano l’Alsazia e la Lorena e accettavano la smilitarizzazione della Renania.

Infine, all’interno di questo processo di stabilizzazione si inserisce la decisione di ammettere la Germania nella Società delle Nazioni.

Un ulteriore tassello riguardante i rapporti internazionali fu disposto da un nuovo accordo: il Patto Briand-Kellog, entrato in vigore il 24 luglio 1929 e sottoscritto da ben 62 paesi, in cui si ripudiava la guerra come risoluzioni delle controversie internazionali a favore della via diplomatica.

L’ascesa di Hitler

L’eco di Wall Street

Tra il 1925 e il ’28 s’intravidero i primi segnali di ripresa e stabilità economica. Fu eletto presidente il maresciallo Paul Von Hindenburg, candidato di destra. Ciò accadde perché i comunisti non fecero convergere i loro voti sul candidato del ‘blocco popolare’.

Dalle elezioni la sinistra uscì, comunque, rafforzata ma, ancora una volta, non abbastanza da poter formare un governo, sicché si rese di nuovo necessario un governo di coalizione con i cattolici, i popolari e i democratici. A capo di questo traballante e conflittuale governo c’era il socialdemocratico H. Müller.

Dal punto di vista economico, si distinsero due periodi: tra il 1918-23, il paese fu completamente in ginocchio; tra il 1923-29, il paese accenna ad una stabilizzazione e ad una ripresa.

Il 1929 segna l’inizio della fine. La crisi di Wall Street segna il crollo della Borsa americana, che si ripercuote immediatamente sull’economia europea ma in particolare su quella tedesca. L’onda attraversa l’oceano più velocemente di Colombo con le caravelle.

Tutti i settori dell’economia tedesca risentono della contrazione dei capitali americani: le fabbriche chiudono e gli operai vengono licenziati. La produzione industriale diminuisce dal 1929 al ’32 del 50%. Il numero dei disoccupati aumentò vertiginosamente in soli 3 anni: dai 650.000 nel 1928 ai 4 milioni e mezzo nel 1931.

In questa tremenda sollecitazione al corpo sociale dovuta alla crisi economica, i comunisti accusano i socialdemocratici di tradire il proletariato con la politica delle grandi coalizioni. La destra attaccò i socialdemocratici e il loro governo debole e incapace di risolvere la crisi. Fu necessaria una svolta politica verso governi forti.

In un clima di tensione, Müller fu costretto a presentare le dimissioni e fu sostituito dal cattolico Heinrich Brüning, ‘amico’ del presidente Hindenburg.

La caduta della Repubblica di Weimar

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Brüning indebolì sistematicamente la giovane e fragile democrazia repubblicana di Weimar anche ricorrendo sistematicamente all’art. 48 che esautorava il Parlamento. Restò al potere anche all’appoggio dei socialdemocratici, che intesero difendere così le istituzioni dai comunisti e dai nazisti.

Nel 1930, Brüning indice le elezioni che si svolsero in un clima di violenza tra comunisti e nazionalsocialisti. I partiti estremi ebbero un enorme successo: i comunisti conquistarono il 13% dei voti, i nazionalsocialisti il 18%, mentre i partiti di centro persero voti.

Il successo elettorale di Hitler segnò su tutto un cambio di rotta estremamente importante nello scenario politico tedesco. Hitler diventava un interlocutore ‘rispettabile’. Era il salto qualitativo della destra tedesca.

Nel 1932, Hitler fu il candidato della destra contro Hindenburg per le elezioni presidenziali. Quest’ultimo venne eletto solo grazie ai voti cattolici e socialdemocratici che bloccarono Hitler.

In un clima di guerra civile ci furono due prove elettorali che sfiancarono il paese: luglio e novembre del 1932. I governi che si realizzarono non ebbero tuttavia alcuna forza. I nazisti si rafforzavano sempre più ad ogni tornata elettorale. A luglio divennero il primo partito tedesco con il 37,4% dei voti.

Il Partito poteva ormai contare sull’appoggio di tutta la borghesia al gran completo: dalla grande industria, finanza, all’esercito, passando per il movimento agrario. Grande era la fiducia nelle capacità dei nazisti di riportare ordine; dare ordine al caos tedesco.

La sconfitta definitiva della Repubblica di Weimar si consumò il 30 gennaio 1933, quando Hindenbug incaricò Hitler di formare il nuovo governo.

Il programma nazista

Il rigetto del Trattato di Versailles e l’organicismo

Gli ambienti di destra in Germania erano cresciuti attorno all’idea che la sconfitta della grande Germania non fosse da imputare ad errori militari ma al tradimento dei marxisti che, con il loro pacifismo e disfattismo, avevano indebolito la forza militare tedesca. La destra non accettavano il fatto che l’esercito più potente avesse perso il conflitto mondiale.

I socialisti e i marxisti erano responsabili delle condizioni umilianti del Trattato di Versailles. La destra faceva propaganda contro le clausole vessatorie che infangavano la Germania. Per la destra, insomma, bisognava uscire dall’umiliazione e portare ordine in Germania!

Tale ordine s’incrociava con il rigetto della teoria del conflitto sociale. Lo Stato era un solo organismo rigidamente strutturato in senso verticistico. Il corporativismo era lo strumento capace di dissolvere il conflitto sociale. Teoria cara alla destra era quella di un unico organismo in cui le singole membra hanno pari dignità. Come per il fascismo italiano, tuttavia, significò soltanto che la mente della borghesia della nazione potesse dar ordine alla pancia operaia! Con questa visione organicista il nazismo interpretò perfettamente le esigenze della borghesia nel suo complesso.

La teoria della razza

Uno degli elementi di cementificazione della propaganda nazista fu la teoria della razza. Pur non avendo alcun fondamento di tipo scientifico, questa teoria fu proposta come una concezione fondata su un radicamento biologico-scientifico. Diversamente dal fascismo italiano, il nazismo adotta fin dalla sua nascita la teoria della razza e ne fa un elemento caratterizzante.

La teoria della razza prevede, ovviamente, una gerarchia delle razze.

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Al vertice delle razze c’è la razza ariana come testimonia anche la storia che dà, a questo popolo, le migliori realizzazioni della civiltà. La razza migliore di Übermensch (superuomini) o “razza padrona germanica” ‘pretende’ una razza inferiore di Untermenschen (sottouomini). La razza migliore deve preservarsi e, possibilmente, migliorare. Come per Platone nella Repubblica, l’identificazione della società in un gregge porta inevitabilmente il pastore a selezionare le pecore migliori, per i tedeschi allo stesso modo bisogna assolutamente distinguere il grano dalla pula. Lo sapevano bene le SS che portavano Platone nello zaino e lo piegavano alla loro funzione. Se c’è una razza migliore c’è né una peggiore!

Assumendo la tradizione antisemita cristiana, il nazismo si spinse a fare degli Ebrei il capro espiatorio di tutti i mali tedeschi. Ciò riuscì perfettamente anche a fronte di una identificazione di questi ultimi con il capitale finanziario, proposto dalla propaganda come causa dei mali economici del paese. La selezione è selezione e, dunque, anche la difformità fisica, la materia biologicamente inferiore o, addirittura, etica doveva essere marchiata per preservare la purezza. Così la purezza doveva anche guardarsi dai portatori di handicap, malati di mente, dagli zingari, dagli omosessuali.

Nel 1933 venne emanata una legge che prevedeva la sterilizzazione “eugenetica”, ovvero un programma scientifico incentrato sul miglioramento della razza e, contestualmente, avente lo scopo di impedire la riproduzione di materiale biologico inferiore. Oltre 400.000 persone subirono una sterilizzazione. L’Operazione Eutanasia, tra il 1940 e il 1941, fu uno sterminio di massa che portò alla morte di 80.000 cittadini tedeschi ritenuti imperfetti e, quindi, irrecuperabili: handicappati fisici, neonati malformati.

Nel minestrone ideologico nazista finì la caricatura di Hegel, di Nietzsche, di Darwin assieme a personaggi di dubbia ‘scienza’ come Gobineau o Chamberleain.

L’ascesa elettorale del Partito nazista

Il programma di Hitler era basato su alcuni principi fondamentali, quali: la lotta contro il liberalismo e la democrazia; la lotta al marxismo materialista; la lotta contro gli ebrei, colpevoli, tra l’altro, di danneggiare economicamente il paese.

Compito della nuova Germania era la conquista dello “spazio vitale”, che consisteva nell’ampliare il territorio espandendosi verso est, verso l’URSS, sottomettendo la razza slava inferiore. Bisognava ridare alla Germania il posto che le competeva nella storia e nella geografia!

Con il tempo Hitler provò a conquistare il consenso anche del ceto medio e della destra tradizionale, intraprendendo attività legalitarie all’interno del suo partito. Nello stesso periodo formò il corpo militare delle SA finalizzato all’assalto delle organizzazioni comuniste

La scalata del Partito nazionalsocialista fu progressiva e impressionante e merita di essere presentata nel suo evolversi elezione dopo elezione. In sette elezioni politiche il partito nazista divora l’opposizione politica e cresce a dismisura, raggiungendo il culmine, alle elezioni del 1933.

Alle elezioni del 5/5/1924 prende il 6,6%; 7/12/1924 il 3%; nel 1928 il 2,6%; nel 1930 il 18,3%; al 31/7/1932 il 37,4%; al 6/11/1932 il 33%; infine, nelle elezioni del 5/3/1933 il 44%.

Il Terzo Reich

Hitler al governo

Il 28 gennaio del 1933 Hitler salì al governo attaccò tutti gli oppositori, in special modo i comunisti, contro cui sguinzagliò le SA (formazioni di assalto).

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Il 27 febbraio del 1933 il Parlamento (Reichstag) fu distrutto da un incendio, probabilmente causato dagli stessi nazisti. La colpa dell’incendio fu data ai comunisti. L’incendio fu l’occasione per presentarsi come garanti dell’instaurazione dell’ordine e varare una serie di misure eccezionali. E’ in questo contesto che il Partito nazista riceve, nelle elezioni del 1933, il 44% dei consensi, dando inizio al processo di nazificazione della Germania.

Durante la prima seduta del parlamento, il 23 marzo 1933, Hitler si batté affinché fosse creata una legge che gli assegnasse pieni poteri.

Nel luglio del 1933 si sancì l’instaurazione dello stato totalitario a partito unico. In questo modo s’instaurò un dominio totale da parte dei nazisti. Tutti gli altri partiti furono aboliti, fu istituita un'unica organizzazione corporativa, il Fronte del Lavoro, controllata dallo Stato che diventava dunque sede di accentramento del potere economico. La concezione economica liberista era cestinata!

Fu anche creata una polizia segreta, la Gestapo, gestita dal capo delle SS, Himmler.

Il 30 giugno 1934, le SS e la Gestapo uccisero il vecchio amico Röhm e molti altri membri delle fedeli SA. Fu la “notte dei lunghi coltelli”: oltre mille i morti. Fu anche l’anno della morte di Hindenburg e dell’elezione di Hitler a presidente, oltre che cancelliere.

Repressione e persecuzione

Gli oppositori furono rinchiusi nei Lager, controllati dalle SS. I primi ad essere repressi furono i comunisti, poi fu il turno degli altri partiti. In questi anni l’emigrazione aumentò provocando una vera e propria fuga di cervelli con lo spostamento dell’élite intellettuale tedesca verso gli Stati Uniti (Thomas Mann, Freud, Einstein, Fromm, ecc.): i loro libri furono messi al rogo nella piazza di Berlino, come in quel fare medievale che fu proprio della Chiesa che purificava con il fuoco!

Hitler impostò il nuovo corso politico su un forte antisemitismo elemento attorno al quale cementare il consenso popolare. Tre furono le fasi:

a) dal 1933 al 1935 fu attuato il licenziamento degli individui “diversi” impegnati in incarichi pubblici dello Stato;

b) il 15 settembre 1935, in seguito alla formulazione delle Leggi di Norimberga, gli Ebrei furono estromessi dalla comunità tedesca. Tra il 9 e il 10 novembre 1938 si consumò la notte dei cristalli: le vetrine dei negozi, le abitazioni e le attività possedute dagli ebrei furono messe a ferro e fuoco;

c) Nel 1941 Hitler mise a punto la “soluzione definitiva”: in seguito all’invasione dell’URSS, nel 1942 ebbe inizio la deportazione degli Ebrei nei Lager, in cui morirono sei milioni di persone.

L’accordo religioso

Il 20 luglio 1933 fu firmato un Concordato con la Chiesa Cattolica, che concedeva piena libertà di culto e di organizzazione. Generalmente i cattolici si attennero a ciò che era indicato nel Concordato, l’unica eccezione fu il caso di Pio XI che condannò il governo tedesco. La reazione fu violenta e migliaia di cattolici furono perseguitati.

Negli stessi anni, la Chiesa Protestante prestò giuramento, mostrando piena fedeltà nei confronti del Führer.

La propaganda

La struttura propagandistica e del consenso del Reich fu affidata al Ministro per l’Educazione e la Propaganda, Joseph Goebbels. L’idea della razza e della superiorità tedesca fu il fulcro attorno al quale si

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organizzò la ricerca del consenso. La difesa della famiglia patriarcale era centrale nella propaganda razzia. Il superuomo tedesco era maschio, bello (biondo e occhi azzurri), forte, sano, radicato alla terra, che viveva in una società di contadini guerrieri.

Il totalitarismo hitleriano usò al massimo grado i nuovi mezzi di comunicazione di massa: radio, cinema e le oceaniche adunate. La monopolizzazione dei mezzi massa attraverso il controllo diretto e la capillare e la censura assicurarono una voce unica senza opposizione.

L’educazione dei giovani spettava alle organizzazioni hitleriane più che alla scuola e alla famiglia. Si decise di organizzare la vita dei tedeschi in modo da accompagnarli dalla culla alla bara, occupando il loro tempo libero: dai 6 ai 10 anni c’era la Gioventù hitleriana; poi la Giovane popolo; infine si passava alla Gioventù hitleriana vera e propria. Per le ragazze la Giovani ragazze. Un’altra organizzazione, la Forza attraverso la gioia, si occupava di organizzare manifestazioni sportive e teatrali, gite e, ovviamente, di diffondere il credo nazista.

Fu introdotto un nuovo tipo di insegnamento nelle scuole, quello delle “scienze razziali”, con l’intento di esaltare la razza tedesca, in quanto superiore alle altre e soprattutto a quella ebrea. Gli insegnanti erano sottoposti ad una severa verifica volta a dimostrare la loro fedeltà ad Adolf Hitler. Si trattava procedere verso la “nazificazione dell’istruzione”. Le materie alle quali erano dedicate più ore erano educazione fisica, per fare dei ragazzi dei soldati e storia, che aveva uno scopo prettamente propagandistico.

Tuttavia va ricordato che il consenso popolare fu raggiunto dai successi hitleriani in sede di politica estera e di miglioramento economico, realizzato attraverso il riarmo e le opere pubbliche.

Economia e stato totalitario

L’economia di guerra

Hitler aveva spazzato via lo Stato democratico e aveva costruito uno stato totalitario presente in tutti i settori della vita pubblica e privata dall’economia all’educazione.

In ambito economico lo Stato assunse il controllo dell’economia.

Per quanto riguarda il settore agricolo fu creata la Corporazione alimentare del Reich, con lo scopo di controllare la produzione, il mercato e il consumo. Furono favoriti i piccoli proprietari terrieri con leggi riguardanti l’ereditarietà, si intervenne sul prezzo dei prodotti agricoli e i latifondisti ottennero sovvenzioni statali. L’obiettivo della Germania era, dunque, l’autosufficienza alimentare.

Nel settore industriale, invece, gli sforzi furono indirizzati alla ripresa economica. La ripresa fu possibile grazie alla politica di riarmo: le commesse militari garantirono, infatti, un incremento notevole nella produzione industriale. Hitler avviò un programma di lavori pubblici, iniettando investimenti che fecero calare il tasso di disoccupazione fino al raggiungimento della piena occupazione nel 1938.

Gli interventi economici erano comunque convergenti con il fine supremo: preparare il paese alla guerra e dare ai tedeschi il primato. Si trattò di organizzare una vera e propria “economia di guerra” per favorire la produzione interna. Lo Stato accentratore e imprenditore garantiva, tra l’altro, anche il totale controllo sui lavoratori e le loro organizzazioni che, senza più sindacati autonomi, furono inquadrati nel corporativo Fronte tedesco del lavoro. Esso comprendeva imprenditori e operai.

Intorno al 1934 furono emanate alcune leggi che impedivano la libertà di scelta del posto di lavoro e istituivano il servizio di lavoro obbligatorio assegnato coattivamente e senza possibilità di rifiutarlo. Per i giovani si istituì il servizio di lavoro obbligatorio: manodopera a basso costo per i lavori pubblici.

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Si applicava un controllo dei prezzi dall’alto. Furono introdotti alcuni servizi sociali tra cui l’assistenza medica e pensioni.

Nasce in questo periodo la “macchina per il popolo”, la Volkswagen.

H. Arendt: “Le origini del totalitarismo”

Le origini del totalitarismo (1951) di Hannah Arendt spiega quali fattori hanno maggiormente contribuito e spinto i tedeschi ad appoggiare il nazismo: la paura del diverso e l’insicurezza economica ma, in particolar modo, l’aver trasformato l’uomo in singolo individuo isolato privandolo della propria libertà di scelta e dell’interesse verso il bene pubblico. Il nazismo fece dell’uomo-massa, di per sè indifferente alla sfera pubblica e alla pòlis, un uomo di regime, privandolo, con una martellante propaganda che fagocita tutti gli spazi vitali, della libertà di scelta, della coscienza critica.

“Il livellamento delle condizioni dei sudditi è sempre stato una delle principali preoccupazioni dei despoti e dei tiranni fin dai tempi più antichi; ma un simile livellamento non è sufficiente per il regime totalitario, perché lascia più o meno intatti certi legami non politici, come i vincoli familiari e gli interessi culturali comuni. Se tale regime vuole sul serio raggiungere il suo scopo deve far sì che "finisca una volta per tutte la neutralità del gioco degli scacchi", vale a dire l'esistenza autonoma di qualsiasi attività.”

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BIBLIOGRAFIA

Libri

M. Paolini, Ausmerzen, 2012

FilmIl trionfo della volontà, Leni Riefenstahl, 1935

Storia di una ladra di libri, B. Percival, 2013

LO STALINISMO

~ L’ASCESA DI STALIN~ Trotsky e Stalin~ “Il socialismo in un solo paese”

~ LA COSTRUZIONE DEL CAPITALISMO DI STATO~ L’industrializzazione forzata~ La collettivizzazione forzata ~ Bordiga: Struttura economica e sociale della Russia

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~ LO STATO TOTALITARIO~ Il culto della personalità~ Le epurazioni~ I Gulag

L’ascesa di Stalin

Trotsky e Stalin

Quando Lenin morì, il 21 gennaio del 1924, nel partito si aprì una durissima lotta per la leadership. Trotsky e Stalin sembravano in quel momento i due personaggi che, a diverso motivo, potessero prendere la guida del partito e dell’URSS. Lo stesso Lenin, in una lettera-testamento, aveva caldeggiato la persona di Trotsky e messo in guardia il partito da Stalin per i suoi modi “grossolani”. In effetti, i due avevano un retroterra culturale molto differente e un’esperienza politica rivoluzionaria che li aveva visti impegnati in ruoli assai diversi nella Rivoluzione. Stalin era considerato sostanzialmente un pratico: ottimo organizzatore! Trotsky era un teorico sopraffino, pur avendo un’esperienza enorme nella direzione dei movimenti concreti: aveva guidato il Soviet di Pietrogrado nella Rivoluzione ed era stato il mitico capo dell’Armata rossa contro l’esercito ‘bianco’ di Kornilov. Trotsky era un grande conoscitore dell’opera di Marx, mentre la conoscenza di Stalin era alquanto lacunosa. Stalin poco avvezzo all’oratoria, Trotsky infiammava le folle con la sua retorica. Trotsky era assai leale verso i compagni, l’altro, invece, era piuttosto rozzo.

Al di là delle differenze caratteriali, i due, in quello scorcio storico, si scontrarono su grandi questioni teoriche e pratiche: finirono per rappresentare, nel dibattito politico, due modi di vedere il destino, la direzione della Rivoluzione.

Lo scontro e le divergenze erano su aspetti fondamentali: l’organizzazione del partito; la valutazione della Nep; il socialismo in un solo paese e la rivoluzione permanente di Trotsky.

In questo scontro, Stalin riuscì ad avvantaggiarsi del fatto di essere stato nominato segretario del partito nel 1922 e ciò gli conferiva, di fatto, pieno controllo sulla nomenklatura, cioè sulla burocrazia sovietica. Detenere il controllo del partito equivaleva ad avere un forte potere sullo Stato, e quindi sull'intera società. Trotsky poté solo capeggiare l'opposizione di sinistra.

Lo scontro tra le due correnti si risolse con la vittoria di Stalin. Messo in minoranza, nel 1927 Trotsky fu addirittura espulso dal partito. Iniziò per lui un lungo esilio, che si concluse nel 1940 a Città del Messico, dove venne ferito a morte da un sicario di Stalin.

“Il socialismo in un solo Paese”

Marx, Engel e Lenin non hanno mai affermato che il socialismo fosse possibile con la vittoria in un solo paese. Ancora, questa possibilità viene decisamente negata dai tre per i paesi con economie arretrate. Marx, interrogato specificatamente sulla Russia, disse chiaramente che, nonostante particolarità di forme

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proprietarie agrarie relative all’obsticina (comunità agraria, caratterizzata dalla proprietà in comune di varie famiglie che si autogestivano), il paese non avrebbe potuto saltare il suo ‘destino’ capitalistico prima di arrivare all’organizzazione socialista.

La rivoluzione o è internazionale o non è! Il marxismo nasce direttamente internazionalista nella forma e nel contenuto, per il semplice fatto che il capitale, come gli operai, non ha patria. La forma propria del capitalismo non è più da un pezzo la patria, ma gli scambi internazionali. Certo il proletariato di un determinato paese abbatte la propria borghesia, ma questo processo rivoluzionario viene pensato all’interno di una ‘simultaneità’, almeno dei paesi più avanzati.

Pensare che la Russia, arretrata economicamente, con tratti spudoratamente medievali (1861 abolizione della servitù della gleba), potesse passare al socialismo è, dal punto di vista teorico marxista, una vera corbelleria che solo Stalin poté affermare nello stupore generale dei marxisti più agguerriti.

Al 1926, il ciclo della rivoluzione in Europa era chiaramente passato e la Russia era rimasta isolata, senza una rivoluzione sorella. Ora ci si attendeva un ciclo di stabilizzazione del sistema capitalistico e i fascismi europei confermavano questa tendenza. Quale doveva essere il compito del potere bolscevico in questa situazione di stallo? Un partito comunista al potere in un paese di contadini, in un Paese che aveva appena assaggiato, in zone limitate, il capitalismo.

Nel 1926, la questione fu dibattuta nell’Internazionale. Stalin da una parte e Trotsky, Zinoviev, Kamenev dall’altra. Stalin pose il problema della edificazione del socialismo con le sole forze sovietiche, altrimenti i bolscevichi avrebbero dovuto lasciare il potere. Stalin pensò che la sovrastruttura politica, cioè il potere, desse la possibilità di costruire una struttura economica come il socialismo. Non s’avvide che la base economica del socialismo era, in Russia, l’edificazione del capitalismo. Trotsky, Zinoviev e Kamenev, in diverso modo, ribadirono le tesi fondamentali del marxismo: l’impossibilità della costruzione del socialismo in un solo paese, men che meno in Russia e le tesi di Lenin sull’impossibilità di costruzione socialista senza una rivoluzione europea.

La tesi di Stalin vinse! Si ci appropinquò alla costruzione del socialismo contro Marx, Engels, Lenin! Lo stalinismo rappresentava la controrivoluzione, incarnava oggettivamente la difficoltà di una rivoluzione, soffocata dalla mancanza di ossigeno europeo. Stalin esprime la difficoltà oggettiva in cui la Rivoluzione d’ottobre viene a trovarsi: da un lato è lanciata verso la costruzione del capitalismo, dall’altra è politicamente proletaria e socialista. Ora, tale sopravanzamento politico non poteva che avere il tempo che è concesso all’autonomia della sovrastruttura politica di sganciarsi, momentaneamente, dalla struttura economica. In Russia, finito il ciclo delle rivoluzioni europee e rimasta sola, il peso determinante della necessità economica si fece sentire: il corso storico riprendeva il suo cammino, ponendo all’ordine del giorno, la costruzione del capitalismo di Stato.

La costruzione del capitalismo di Stato

L’industrializzazione forzata

Per Stalin, bisognava imprimere al Paese un’accelerazione tale nel processo d’industrializzazione da raggiungere in pochi anni il livello dei paesi più progrediti; bisognava eliminare l’arretratezza e procedere nella realizzazione del socialismo. Il gap con il capitalismo avanzato dei Paesi industrializzati sarebbe stato colmato con una politica fortemente programmata dallo Stato, cioè una economia pianificata: i piani quinquennali.

Nel 1928, fu varato il primo piano quinquennale per l’industria (1928-32), che programmava gli obiettivi della crescita industriale nei diversi settori. Bisognava incrementare soprattutto quei settori che strutturalmente potevano favorire una rapida industrializzazione del Paese: materie prime (ferro, carbone, acciaio). Insomma, bisognava sviluppare innanzitutto un’industria pesante che assicurasse un processo d’industrializzazione largo, possente, duraturo.

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Il flusso di denaro, cioè di investimenti, per tale operazione fu sottratto ai consumi interni, cioè comprimendo i beni di consumo fino al razionamento. Ancora, la grande produttività fu ottenuta portando al massimo il grado di sfruttamento della forza-lavoro: gli operai furono sottoposti a ritmi massacranti e ad una disciplina rigorosissima.

A causa dell’aumento della richiesta di manodopera, si ricorse all'assunzione di personale straniero, specialmente tedesco e americano. Il governo istituì l'istruzione tecnica per controllare la formazione del personale. Per far fronte all'esigenza di 'braccia in più' nel settore industriale, furono coattivamente presi contadini dalle campagne, causando un notevole aumento della popolazione cittadina.

Accanto a queste trasformazioni strutturali in economia si mosse tutto l’ impianto propagandistico. La mobilitazione ideologica prevedeva lo sviluppo della motivazione operaia allo sforzo industriale: i lavoratori migliori avrebbero avuto premi e onorificenze. A. Stachanov, nel 1935, estrasse dalla miniera una quantità di carbone mai raggiunta. Il suo nome divenne un aggettivo (stacanovismo), una volontà e un metodo che bisognava emulare per aumentare la produttività del lavoro.

Tale programma di industrializzazione accelerata trasformò l’Unione Sovietica: dal 1928 al ’32 l’industria crebbe del 40%.

Nel 1932, fu promosso il secondo piano quinquennale (1933-37), grazie al quale la produzione superò di gran lunga le aspettative previste, con uno sviluppo produttivo del 121%. Il terzo piano quinquennale non fu portato a termine a causa dell'inizio della seconda guerra mondiale, la quale favorì soprattutto la produzione di armamenti, indispensabili in periodo di guerra.

Indubbiamente piani quinquennali promossero, tra gli anni Venti e Trenta, un notevole sviluppo industriale. Si calcola che dal 1913 al 1940, la produzione dell’acciaio passò da 4,6 a 18,3 milioni di tonnellate. Tuttavia, queste cifre scintillanti vanno anche riviste con la nota legge, secondo cui lo sviluppo del capitalismo, al suo inizio, produce incrementi a due cifre per poi naturalmente assestarsi su cifre molto più modeste nella sua fase matura o senile.

La collettivizzazione forzata

Durante il periodo di industrializzazione forzata, il potere sovietico privilegiò i bisogni dell’industria. L'agricoltura fu piegata alle necessità del settore industriale: bisognava però collettivizzarla, meccanizzarla e legarla ai piani quinquennali.

Lo Stato procedette alla concentrazione, nelle proprie mani, di tutta la proprietà agraria in due modi: a) espropriando i kulaki, cioè i contadini ricchi che avevano grandi appezzamenti di terra; b) organizzando la proprietà agraria nella forma dei Kolchozy e dei Sovchozy.

Innanzitutto, Stalin ruppe con la Nep di Lenin, procedette a mettere i contadini poveri contro i kulaki (contadini ricchi) e proseguì con requisizioni coattive del bestiame e dei prodotti agricoli. Infine, alla forte e, a tratti, violenta resistenza dei kulaki, che erano contro l’espropriazione delle loro terre, Stalin scatenò una repressione durissima. Arresti, deportazioni, fucilazioni eliminarono i kulaki come classe sociale. A nulla valsero l’opposizione, ad esempio di Bucharin, che difese la Nep e l’alleanza proletari-contadini. Nel 1930, Bucharin fu condannato e fucilato come deviazionista. La repressione dei kulaki fu spietata: processi sommari, deportazione in Siberia o fucilazione, attesero chi non si piegò all’esproprio.

Lo stalinismo vinse sui kulaki sia per la pressione dei contadini poveri, sia per la forza che gli dava lo sviluppo dell'industrializzazione (piani quinquennali).

Le masse contadine furono obbligate ad entrare in grandi strutture produttive collettive sotto il controllo statale. Il Kolchoz era un’azienda agraria dove i contadini usavano collettivamente la terra di proprietà statale; ad ognuno veniva dato, poi, un piccolo pezzo da sfruttare individualmente. Il Sovchoz era un’azienda interamente di proprietà dello Stato, dove i contadini erano semplici operai. Lo Stato

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prelevava una quota fissa del raccolto e una parte per la riproduzione del ciclo agrario e lasciava ai contadini il resto.

A rendere ancora più tragica la situazione della campagna fu la grande carestia del 1933, negata ufficialmente, che fece milioni di vittime.

Alla fine degli anni Trenta, lo Stato deteneva la quasi totalità della proprietà agraria. Tuttavia, ad un’analisi più approfondita, si può articolare meglio circa la coesistenza di diverse forme: un capitalismo di Stato con i sovchoz; un cooperativismo privato, nelle terre comuni del kolchoz; un’economia mercantile nel campicello singolo del kolcosiano e qui, insieme, uno ancora inferiore di economia naturale familiare.

Bordiga: Struttura economica e sociale della Russia

Bordiga, negli anni ’50, con un lavoro intitolato Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, traccia una mappa dettagliata e precisa della natura economica e politica dell’URSS. La riflessione di Bordiga è assolutamente preziosa perché, senza mai uscire dalla metodologia e dalla via indicata da Marx, Engels e Lenin, individua nello stalinismo la curvatura che la rivoluzione comunista non poteva non avere, a fronte di due questioni: la mancata rivoluzione europea e l’arretrato stadio di sviluppo economico. La Russia di Stalin non è l’edificazione del socialismo, ma una particolare forma di capitalismo: capitalismo di Stato. Senza aspettare le rovinose e terrificanti imprese dell’imperialismo russo, Bordiga, sulla base di una teoria ancorata ai principi marxisti, sgretola l’illusione della realizzazione del socialismo in URSS.

Lenin stesso, ad esempio, aveva parlato di statizzazione delle industrie e di conduzione attraverso i criteri della “redditività economica” e con metodi di calcolo economici, ma mai osò parlare di socialismo. Nell’URSS di Stalin, la conduzione ragionieristica delle fabbriche e la contabilità capitalistica rivela la sostanza stessa del rapporto economico capitalistico. Bordiga rivela semplicemente che in Russia sono presenti tutte le categorie dell’economia capitalistica, dell’economia borghese: valore, merce, salario, denaro, profitto, impresa. L’impresa - a prescindere dalla forma giuridica di proprietà (individuale, società per azione, proprietà statale) - viene gestita con criteri capitalistici: redditività o profitto. Finché la produzione avviene per aziende, i prodotti assumono la forma di merce ed il lavoro è lavoro salariato, si è in pieno capitalismo.

La collettivizzazione forzata nelle campagne restituisce, a fronte di una lotta durissima, un’articolazione di forme di proprietà e di scambio che sembra non molto superiore a quelle occidentali.

Infine, l’economia pianificata, che sembra fare la differenza con quella occidentale, è, viceversa, perfettamente compatibile con il capitalismo: la pianificazione non è affatto un principio socialista e può essere applicata, e in parte si applica, all’economia occidentale. L’economia pianificata sovietica si svolge in una forma mercantile monetaria laddove quella socialista sarebbe una pianificazione in base ai puri valori d’uso.

Stalin pretese di costruire il socialismo in un solo paese, fondando tale tesi sostanzialmente su due punti: a) bolscevichi al potere; b) identificazione dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione con il socialismo.

Rispetto al primo punto, Stalin non tenne in considerazione la puntuale distinzione tra struttura e sovrastruttura: la politica è un elemento della sovrastruttura che si erge sulla struttura economica. Certo essa ha una sua autonomia, ma tale indipendenza viene riassorbita in tempi medi. Per ciò che riguarda il secondo punto, Stalin, semplicemente, non tenne in considerazione che la mera abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non coincideva affatto con il socialismo, ma con forme capitalistiche. Il tratto distintivo del capitalismo non è neanche la proprietà privata dei mezzi di produzione, quanto l’appropriazione del prodotto. In un sistema capitalistico, la cosa più importante è che l’appropriazione del prodotto, sotto forma di profitto, debba essere, nella gran parte, destinata all’accumulazione di capitale. Insomma, lo stesso capitalismo, come forza sociale, può fare a meno dei capitalisti singoli. Il capitale può fare a meno dei capitalisti! Si assiste a quello che Bordiga chiama “divorzio tra proprietà e capitale” o

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“spersonalizzazione dei capitali”. Il capitalismo di Stato vede la scomparsa dei singoli capitalisti, della classe dei capitalisti sostituita dal capitalista generale, cioè il capitale come potenza impersonale “anonima”; il capitale vive senza capitalista individuale. La funzione che prima aveva il capitalista, ora viene realizzata dalla rete. Dunque, il capitale fa a meno della proprietà e della funzione del capitalista singolo. La classe capitalistica, man mano che il capitale diventa sempre più sociale, decade come classe sociologica.

La proprietà statale è la forma più alta capitalistica perché è proprietà sociale. Corrispondentemente, tutto il lavoro è lavoro salariato e scompare la proprietà privata. La società si trasforma in “astratto capitalista”, come aveva detto Marx nei Manoscritti del 1844. Il socialismo è abolizione della produzione del valore, della produzione mercantile, del salario, dell’azienda.

La demistificazione della struttura sociale e politica dell’URSS è indispensabile, per Bordiga, per la restaurazione del programma comunista. Bisogna che sia chiara la struttura e la natura del cosiddetto socialismo reale, per prenderne risolutamente le distanze. Trattasi di capitalismo di Stato e non di socialismo, perciò l’identificazione dell’URSS con il socialismo è una falsificazione staliniana e arreca grave nocumento al proletariato internazionale e al programma comunista internazionale.

Stalin è stato rivoluzionario e controrivoluzionario! Rivoluzionario borghese che traghetta la Russia dal letargo asiatico al capitalismo, al netto del grandissimo pegno che il corpo sociale dovette pagare in termini di sfruttamento e repressione. Stalin è controrivoluzionario perché ha spacciato il capitalismo di Stato con il socialismo, ancorché reale.

La controrivoluzione stalinista, frutto del fallimento rivoluzionario europeo e della stabilizzazione capitalistica, precipitò su tutto il comunismo internazionale, attraverso l’Internazionale comunista. La politica controrivoluzionaria russa si fece sentire a partire dalla tattica che si impose ai partiti aderenti alla Internazionale: si riconosce che è possibile il socialismo in un solo paese, i partiti delle singole nazioni devono unirsi in Fronti popolari contro il fascismo, collaborazione social-nazionale nel corso della Seconda guerra mondiale imperialistica, fino alla guerra fredda imperialistica. Ciò fece dell’URSS il nemico giurato della classe operaia e del comunismo. Lo stalinismo come fenomeno controrivoluzionario sta nella distruzione della potenzialità proletaria mondiale verso l'autentica conquista socialista.

La costruzione del totalitarismo

Il culto della personalità

L’URSS assunse le caratteristiche di un vero e proprio Stato totalitario! Il partito s’identificava sempre più con l’apparato dello Stato. C'era un partito unico in grado di gestire e controllare ogni assetto della vita sociale, politico e militare; lo Stato assunse il controllo dell’intera economia, politica, attività sindacale, cultura e media.

All'apice dello stato totalitario vi fu la promozione del culto del capo: Stalin si proclamò legittimo successore di Lenin e unico continuatore della sua opera; tutta la storia bolscevica fu riscritta. La personalità di Stalin fu grandemente enfatizzata come padre del Paese.

Tuttavia, Stalin godeva di grande popolarità e consenso, che aveva il suo fondamento nella trasformazione del paese in potenza industriale e negli sviluppi che si registrarono nella lotta all’analfabetismo e nello sviluppo dei servizi sociali e assistenziali, che interessarono milioni di uomini che prima ne erano totalmente privi.

Il costo fu però la soppressione di ogni libertà; la pervasività di uno Stato autoritario pronto a scovare ovunque il dissenso.

Le epurazioni

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Censura, conformismo e angoscia furono la cifra della società degli anni Trenta! Il dissenso o anche la semplice protesta nei confronti di Stalin furono duramente repressi. Particolarmente eclatanti, tra il 1935 e il 1938, furono le grandi epurazioni o purghe: tutti i vecchi bolscevichi della prima ora che in qualche modo facevano resistenza a Stalin furono accusati di ‘trotskismo’, tradimento e antibolscevismo; furono condannati e giustiziati. Spesso le confessioni venivano ottenute con la tortura. Il bolscevismo veniva decapitato, assicurato alla epurazione e alla condanna. Grandi rivoluzionari come Trotsky, Bucharin, Kamenev, Zinoviev, ecc. vennero fatti fuori.

Non solo il partito; all’esercito toccò la stessa sorte. Ancora, la repressione riguardò ogni articolazione sociale: chi non era giustiziato veniva deportato nei gulag, i campi di rieducazione e lavoro.

I Gulag

I gulag erano veri e propri campi in cui i prigionieri, per lo più politici, venivano costretti al lavoro forzato. I campi di lavoro erano presenti in Siberia fin dal periodo zarista come pure si può leggere in Memorie di una casa morta di F. Dostoevskij. A partire dagli anni Trenta, sotto la repressione stalinista, crebbero fino a 150, disseminati come isole sul territorio, finanche vicino a Mosca: un Arcipelago gulag come s’intitola il libro dello scrittore dissidente A. Solzenicyn.

L’”attività controrivoluzionaria” e i “delitti contro lo Stato” erano le accuse che portavano al Gulag, dove i detenuti lavoravano in condizioni disumane. Secondo alcuni dati, tra il 1930 e il 1958 vennero internate 15.000.000 di persone: 1.500.000 persero la vita nei Gulag a causa delle precarie condizioni di detenzione.

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BIBLIOGRAFIA

Libri

V. Serge, Se è mezzanotte nel secolo, 1935

Al. Solženicyn, Arcipelago Gulag, 1973

Film

Il proiezionista, A. Končalovskij, 1991

LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA

LA PROVA GENERALE~ Ancora il latifondo~ La Repubblica~ Falange nazionalista e Brigate internazionali

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La prova generale

Ancora il latifondo

Ai principi del 1900, la Spagna era caratterizzata da una condizione di estrema arretratezza sia in campo sociale, che in campo economico; quest’ultimo era basato ancora in gran parte sul latifondo, mentre l’industrializzazione rimase circoscritta a determinate aree quali la Catalogna, le province basche e le Asturie.

Contadini e operai erano raggruppati in sindacati di orientamento socialista e anarchico, con l’obiettivo di vedere attuata una riforma agraria. La media borghesia, di cui faceva parte il ceto degli intellettuali, richiamava ad una modernizzazione del Paese.

In quegli anni si erano ormai ben definiti i due schieramenti politici spagnoli: la destra, composta da i ceti abbienti come i proprietari terrieri, gli imprenditori, i comandanti d’esercito e il clero, quest’ultimo deteneva il controllo di ogni decisione in ambito culturale, come ad esempio l’istruzione; la sinistra, composta dalla borghesia progressista, con un proletariato animato da forti correnti anarchiche, i contadini poveri.

Nel 1923 il re Alfonso di Borbone decise di spodestare il Parlamento per promuovere il governo dittatoriale di Miguel Primo de Rivera, che seguiva le orme del fascismo italiano. 

La Repubblica

Alle elezioni del 1931 si assistette ad una vittoria dei repubblicani, che causò l’esilio del re e la proclamazione della repubblica. Nelle elezioni successive, si formò una coalizione tra repubblicani e socialisti, i quali attuarono un ampio programma di riforme volte a modernizzare la Spagna. Nel 1933 le elezioni videro il sopravvento della destra, favorito dalla divisione politica della sinistra: gli anarchici si astennero dal voto. Si aprì così un biennio caratterizzato da un governo reazionario e autoritario, che sfasciò tutte le riforme del governo precedente. Numerose furono le proteste di anarchici e socialisti represse nel sangue: nessuna delle due fazioni era disposta al compromesso.

Le forze progressiste si riunirono, allora, nel Fronte popolare per sbarrare la strada al fascismo spagnolo: comunisti, socialisti, anarchici, liberali, autonomisti. Il Fronte vinse contro le destre e si formò un governo liberale, con appoggio esterno dei liberali. La vittoria diede il segnale di una rivincita e scoppiarono insurrezioni contro i ricchi proprietari terrieri, il clero e la destra. Sembrò che fosse l’inizio di una rivoluzione.

Falange nazionalista e Brigate internazionali

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La destra reazionaria rispose a tali attacchi con un colpo di Stato ai danni del governo repubblicano che diede avvio ad una sanguinosissima guerra civile protrattasi dal 1936 al 1939.

Truppe stanziate in Marocco, sotto la guida di Francisco Franco, mossero verso la Spagna repubblicana aiutate prontamente dall’aviazione italiana e tedesca. Si costituiva così, la Falange nazionalista che comprendeva varie organizzazioni filofasciste contro le Brigate internazionali, che riunivano i combattenti antifascisti provenienti da tutti i paesi.

Fin dall’inizio lo scontro apparve come una questione internazionale.

I repubblicani chiesero invano aiuto alla Francia. L’Inghilterra neanche si mosse. Decisero di non intervenire.

La Germania e l’Italia parteciparono con mezzi militari ingenti.

I repubblicani furono soccorsi dall’Unione Sovietica che organizzò le brigate internazionali, le quali videro personalità come G. Orwell, S. Weil, E. Hemingway; quest’ultimo descrisse la guerra nel celeberrimo Per chi suona la campana. Parteciparono italiani come Luigi Longo, Giuseppe di Vittorio e Pietro Nenni, che andarono a combattere con l’esercito repubblicano. Dalla parte repubblicana si schierarono, pur non combattendo direttamente, personalità come Neruda, Beckett, Brecht, V. Woolf che sentirono il pericolo di una Spagna fascista.

La migliore organizzazione militare arrise la destra.

I partiti di sinistra non riuscirono ad avere il sopravvento sulla forza dell’esercito di Franco, la loro debolezza militare era acuita, altresì, dalle divisioni interne tra comunisti filosovietici, troskisti, socialisti, anarchici.

Nella primavera del 1937 Franco, con l’aiuto dell’aviazione tedesca, ottenne il bombardamento di Guernica, città dei Paesi Baschi, controllata dai repubblicani. Il bombardamento fu immortalato nel famoso dipinto di Picasso divenuto un’icona contro la guerra in generale.

L’esercito di Franco, alla fine di marzo del 1939, occupò Madrid e Barcellona. Fu l’inizio della dittatura durata fino al 1975.

Si concludeva quella che, per molti versi, sembrava una ‘prova generale’ della destra italo-tedesca, nel silenzio delle grandi potenze ‘democratiche’.

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BIBLIOGRAFIA

Libri

E. Hemingway, Per chi suona la campana, 1940

H. Janeczek, La ragazza con la Leica, 2018

Film

Terra e libertà, K. Loach, 1995

LA SECONDA GUERRA MONDIALE~ I PRODROMI DELLA GUERRA

~ L’appeseament, l'Asse Roma-Berlino e il Patto anti-Comintern~ La svolta del Cominter e i fronti popolari~ L’arrendevolezza della Gran Bretagna~ L’annessione dell’Austria e l’aggressione della Cecoslovacchia~ La Conferenza di Monaco~ Mussolini vuole l’Albania~ Il Patto Molotov-Ribbentrop~ La Germania invade la Polonia: scoppia la Seconda guerra mondiale

~ 1939-1942~ I tedeschi a Parigi~ L’Italia in guerra~ La battaglia d’Inghilterra~ L’Italia in Africa e in Grecia~ Gli americani tra isolazionisti e interventisti~ Hitler invade l’Unione Sovietica, il Giappone attacca gli Stati Uniti~ La guerra civile in Cina e l’attacco giapponese a Pearl Harbor ~ La Carta atlantica~ L’Europa sotto il nazismo

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~ 1943-1945~ La svolta di Stalingrado~ La caduta del fascismo~ L’armistizio con gli alleati~ La Repubblica di Salò~ Lo sbarco in Normandia~ La Conferenza di Yalta e la resa della Germania~ La guerra nel Pacifico~ La Conferenza di Postdam

~ DUE FONDI DIS-UMANI DEL NOVECENTO~ La shoah~ L’uso dell’atomica

I PRODROMI DELLA GUERRA

L'appeasement, l’Asse Roma-Berlino e il Patto anti-Comintern

La politica della Gran Bretagna, appoggiata pure dalla Francia, fu quella dell’appeasement (pacificazione), ovvero del mantenimento della pace anche a costo di concessioni alla politica apertamente aggressiva della Germania. Tale politica si rivelò assolutamente fallimentare giacché invece di mantenere la pace fu intesa come un segnale di debolezza delle democrazie europee. Si lasciò che Hitler smantellasse l’ordine stabilito a Versailles; che si armasse affinché potesse dar seguito ai sogni di costruzione della Grande Germania capace di imporre un nuovo ordine mondiale.

Già dal 1933 Hitler avvia il riarmo ed esce perciò dalla Società delle Nazioni. Nel 1936 riportava le truppe nella Renania.

Nel 1936, su proposta della preoccupata Francia, fu indetta la Conferenza di Stresa, a cui parteciparono Francia, Gran Bretagna e Italia, proprio per discutere le violazioni tedesche. La Conferenza fu un fallimento dal momento che si limitò ad una condanna meramente formale delle attività tedesche. Nella Conferenza l’Italia si mantenne equidistante tra gli interessi inglesi e quelli tedeschi.

Intanto, l’inizio della guerra in Etiopia e le condanne della Società delle nazioni verso l’Italia fece sì che essa si spostasse più verso la Germania.

Nel 1936 venne firmato l’Asse Roma-Berlino che, inizialmente, non fu un patto militare – come sarebbe stato tre anni dopo con il Patto d’acciaio - ma una comunione di intenti antibolscevichi.

Nel 1937 Roma aderiva al Patto anti-Comintern, ovvero all’alleanza politica tra Germania e Giappone contro l’Unione Sovietica e l’Internazionale comunista. Il Patto, è, con tutta evidenza, in nuce l’alleanza tripartita che si stipulerà più tardi. Già si disegna la volontà di una supremazia tedesca in Europa e giapponese in Asia: all’Italia sarebbe andata l’influenza sui paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La firma del Patto coincise con l'aggressione nipponica alla Cina.

La svolta del Comintern e i fronti popolari

La politica estera della Germania e del Giappone allarmò ben presto l’Unione Sovietica. Nel 1934 l’URSS ruppe il suo isolamento, decise di entrare nella Società delle Nazioni e di stringere un patto di alleanza con la Francia. Questa svolta indicò la volontà da parte di Stalin e del Partito comunista di affrontare il pericolo nazifascista. Nel 1935 si decise di combattere i fascismi con la tattica del fronte unico, alleandosi con i partiti democratici nei diversi paesi. Vennero creati i Fronti popolari, che saldassero in un’unica coalizione, contro tutte le organizzazioni fasciste, dai cattolici ai socialisti.

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L’annessione dell’Austria e l’aggressione alla Cecoslovacchia Il 13 marzo 1938, le truppe naziste entrano in territorio austriaco. Lo Stato austriaco cessava di essere autonomo e veniva annesso alla Germania. L'Anschluss (annessione) dell’Austria passò nel silenzio generale delle democrazie europee: Gran Bretagna e Francia non mossero un dito e non alzarono la voce. L’Anschluss fece certo scalpore, ma la si ritenne inevitabile.

L’Austria era stata appena annessa alla Germania, quando, nel volgere di un battito, si profilava l’aggressione tedesca alla Cecoslovacchia. Hitler voleva l’annessione degli industrializzati territori dei Sudeti, dove erano presenti circa 3 milioni di tedeschi e una forte propaganda nazista. Nonostante la Francia fosse impegnata con la Cecoslovacchia nel Tratto di Locarno, che la impegnava ad un intervento in caso di aggressione, non mosse un dito e non alzò la voce.

Le democrazie europee, Gran Bretagna e Francia, anche questa volta, lasciarono che le cose accadessero senza muovere un dito, senza alzare la voce contro Hitler.

La Conferenza di Monaco

Su proposta di Mussolini nel 1938, si tenne una Conferenza a Monaco per decidere il destino della Cecoslovacchia. Quattro le potenze che si sedettero al tavolo delle trattative: Mussolini, Hitler, Chamberlain e Daladier. Paradossalmente, mancava la Cecoslovacchia! Le richieste di Hitler furono tutte esaudite. La Cecoslovacchia fu sacrificata sull’altare della pace. Pace apparente, giacché le mire di Hitler non furono affatto sazie e l’accondiscendenza della Gran Bretagna e della Francia furono interpretate come codardia. Infatti, poco dopo la conferenza, Hitler si spinse oltre: pose sotto il suo protettorato anche la Boemia e la Moravia. La Slovenia si dichiarò indipendente e si pose sotto protezione tedesca. Si trattava di un’aperta aggressione imperialistica ai danni di popolazioni estranee al mondo tedesco. Il 21 marzo 1939, infatti, la Germania chiese alla Polonia la città di Danzica e la disponibilità della striscia di terra che univa quella città con la Polonia (il corridoio polacco).

Solo l’occupazione tedesca di Praga fu il campanello d’allarme per la Gran Bretagna e la Francia, le quali compresero che bisognava reagire alla Germania, in modo tale da arrestare la sua espansione.

Nel 1939, la Gran Bretagna dichiarò che sarebbe intervenuta in soccorso della Polonia qualora fosse stata minacciata dalla Germania. Nel frattempo, Mussolini aveva lasciato alle sue spalle gli alleati della Prima Guerra Mondiale, divenendo, così, uno strumento nelle mani di Hitler.

Mussolini vuole l’Albania

In questa mancanza di risposte concrete all’espansione tedesca, Mussolini pensò di poter approfittare dell’indecisione di Gran Bretagna e Francia e decise di occupare l’Albania e di rivendicare versus la Francia: Tunisia, Nizza, Savoia, Corsica e Gibuti.

Il 22 maggio 1939, l’Italia firma con la Germania il Patto d’Acciaio, ovvero un vero e proprio trattato militare con cui l’Italia si impegnava a scendere in guerra senza riserve al fianco dell’alleato. Il patto fu firmato con una certa superficialità italiana che aveva fretta di usare l’alleanza in funzione anti-francese e che non si preoccupò di capire fino in fondo gli intenti di Hitler che, di lì a poco, avrebbe portato l’Italia in guerra.

L’Italia risultava, oggettivamente, impreparata ad una guerra! Le differenze tra l’imperialismo tedesco e quello italiano erano evidenti: quello tedesco era evoluto sia dal punto di vista ideologico che militare ed adeguato, nei mezzi ad affrontare la prospettiva di una guerra aggressiva.

Il Patto Molotov-Ribbentrop

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Il 23 agosto 1939 a Mosca, Molotov, collaboratore di Stalin, e Ribbentrop, ministro degli esteri tedesco, sottoscrissero un patto di non aggressione tra URSS e Germania. I Sovietici hanno sempre sostenuto che furono le incertezze delle democrazie occidentali nel contrastare Hitler e le continue annessioni al territorio tedesco a spingere l’Unione Sovietica a proteggersi contro la Germania e le sue mire espansionistiche. Il Patto Stalin-Hitler stabiliva:

- le aree di influenza sugli Stati cuscinetto tra Germania e URSS;

-la spartizione della Polonia;

- l’occupazione delle Repubbliche baltiche da parte sovietica.

La Germania invade la Polonia: scoppia la Seconda guerra mondiale.

L’1 settembre del 1939 Hitler attacca la Polonia.

Quando la Germania decise di attaccare la Polonia, Mussolini, proprio per l’impreparazione militare, con il consenso di Hitler, si tirò indietro dalla pugna dichiarando la non belligeranza dell’Italia.

Il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania: la Seconda guerra mondiale era formalmente iniziata!

Il giorno precedente all’invasione della Polonia, Hitler disse ai suoi generali che l’unica cosa importante era la vittoria, non si doveva avere pietà dei nemici perché 80 milioni di tedeschi dovevano ottenere ciò che gli spettava di diritto. La Polonia si batté valorosamente e la sua cavalleria compì una difesa commovente, ma nulla potettero contro i carri armati tedeschi. La Polonia capitolò in tre settimane e fu costretta alla resa.

1939-1940

I Tedeschi a Parigi

Il 17 settembre entra in guerra anche l’Unione Sovietica che, sulla scorta del Patto Molotov-Ribbentrop, rivendica e occupa i territori orientali polacchi. La Polonia è così dilaniata tra tedeschi e sovietici. Ancora, i sovietici occupano la Lituania, la Lettonia e l’Estonia, da Stalin considerati stati cuscinetti indispensabili per la sicurezza del suo Paese. Fu la Finlandia a fermare i sovietici.

Il 9 aprile 1940, Hitler occupò improvvisamente la Danimarca e la Norvegia, che furono in breve annesse all’impero tedesco.

In Gran Bretagna, il governo di Chamberlain fu sostituito, a causa della sua evidente incapacità politica, dal conservatore Winston Churchill che in precedenza aveva segnalato il pericolo nazista e le mire del 'signore della guerra'.

Il 10 maggio, le truppe tedesche danno il via all’operazione Fall Gelb (caso giallo) invadendo l’Olanda e il Belgio, cosicché la difesa francese, costituita dalla ‘Linea Maginot’ (fortificazioni militari lungo la frontiera orientale con la Germania), fu semplicemente aggirata e l’esercito tedesco poté puntare dritto su Parigi. Il 14 giugno i nazisti erano a Parigi!

I nazisti controllavano la Francia settentrionale, compresa Parigi, mentre il governo collaborazionista di Pétain si trasferiva a Vichy, comunque sotto il controllo tedesco. In opposizione a tale governo, si pose fin da

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subito Charles De Gaulle che da Radio Londra chiamò i Francesi alla resistenza contro l’esercito d’occupazione.

Anche l’Italia proclamò guerra alla Francia, ma la sua impreparazione militare gli permise d’avanzare soltanto per qualche chilometro in territorio francese.

La guerra lampo di Hitler prevedeva un uso massiccio di carri armati e stukas (aerei da picchiata): una rapidità d’azione tale da spiazzare il nemico e non dargli possibilità di riprendersi.

La Francia fu schiacciata, umiliata in venti giorni! Pierre Laval, uno dei capi del governo collaborazionista francese, riteneva che la vittoria tedesca fosse preferibile e necessaria per evitare una Parigi bolscevica.

L’Italia in guerra

Le diplomazie internazionali si adoperarono affinché l’Italia restasse fuori dal conflitto mondiale, nella fattispecie le democrazie inglese, francese, statunitense. Badoglio avvertì dell’impreparazione dell’esercito. Nonostante ciò, Mussolini fu irrevocabile! Abbagliato dalle strepitose vittorie dell’alleato e dalla rapidità dei successi, temette addirittura che la guerra potesse durare troppo poco. Il crollo repentino della Francia gli sembrò una iattura che avrebbe lasciato l’Italia senza gloria e, soprattutto, senza nulla da spartire.

Mussolini ritenne che la guerra sarebbe durata poco. Decise ‘eroicamente’ di catapultarsi nell’avventura per partecipare al banchetto finale: “Ho bisogno soltanto di qualche migliaio di morti – disse Mussolini – per potermi sedere da ex-belligerante al tavolo delle trattative”.

Il 10 giugno 1940, Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, annunciava l’entrata in guerra dell’Italia per sconfiggere “le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente”: Gran Bretagna e Francia!

L’Italia entrò in guerra come anestetizzata.

La battaglia d’Inghilterra

Dopo aver occupato la Polonia, la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda, il Belgio e la Francia, la Germania decise di procedere con un’operazione che venne denominata “Leone marino” che prevedeva l’invasione dell’Inghilterra. Un ruolo di primo piano avrebbe dovuto assolvere l’armata aerea (Luftwaffe) guidata da Herman Göring. Notevoli furono i bombardamenti tedeschi sulle città industriali e su Londra ma le truppe inglesi disponevano di aerei più veloci e, soprattutto, radar capaci di intercettare gli aerei tedeschi impedendogli di raggiungere gli obiettivi. Il 17 settembre 1940 l'operazione 'Leone Marino' fu accantonata. La guerra contro l’Inghilterra allora si spostò cercando di attaccare i suoi dominions: da una parte si tentò con la guerra sottomarina di rendere difficili i commerci inglesi, dall’altra si intervenne massicciamente in Africa. La guerra sottomarina risultò di una qualche efficacia, ma il prezzo che pagò la Germana in sommergibili fu elevato.

Per intraprendere la conquista dell’Africa, Hitler avrebbe voluto l’appoggio della Spagna, ma Franco si rifiutò di correre in suo aiuto.

L’Italia in Africa e in Grecia

L’Italia, intanto, combatteva in Libia. Dopo qualche iniziale successo in Africa, gli italiani dovettero cedere alla controffensiva inglese. E il 5 maggio gli inglesi occupavano Addis Abeba.

I problemi per gli italiani erano appena cominciati. La situazione italiana peggiorò quando Mussolini decise improvvisamente di invadere la Grecia. Anche qui gli italiani registrarono una impreparazione logistica-

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militare. I greci resistettero e poi passarono all’offensiva occupando parte dell’Albania italiana. Le sorti italiane cambiarono di segno quando intervenne l’esercito tedesco: attaccati al Nord dagli italiani e al Sud dai tedeschi, i Greci furono costretti alla resa.

Il 27 settembre 1940, prima dell’attacco alla Grecia, Germania, Italia e Giappone si erano riuniti per firmare a Berlino il Patto Tripartito attraverso il quale i tre paesi si dividevano le sfere d’influenza: alla Germania sarebbe spettata l’Europa continentale, all’Italia il Mediterraneo e al Giappone l’Asia. Il sogno di Hitler della “grande Germania” sembrava avverarsi.

Hitler decise di mandare in Libia uno dei più furbi e geniali generali della Seconda guerra mondiale, Erwin Rommel: la “volpe del deserto”. Col suo arrivo la situazione si capovolse: i tedeschi occuparono Bengasi e gli Inglesi furono costretti a ritirarsi.

Gli americani fra isolazionisti e interventisti

Era stato eletto alla presidenza degli USA, per la terza volta consecutiva, Franklin Delano Roosevelt che aveva dichiarato la neutralità del suo paese e contrarietà a concedere prestiti. Roosevelt preferiva una politica di tipo isolazionistico. L’Europa si presentava, agli occhi degli Stati Uniti, come un ginepraio di problemi da cui era saggio e conveniente tenersi lontani. L’Europa era lontana e non c’era nulla da temere, anche se i carri armati tedeschi avessero preso l’intero continente, compresa la vecchia madrepatria.

Inoltre, opportunisticamente, era sempre possibile aspettare che si scannassero nazisti e comunisti per poi intervenire e dettare la pace.

Gli interventisti erano di parere contrario. Bisognava intervenire. Gli USA erano potenza mondiale e dovevano far sentire la loro potenza nel mondo. Bisognava intervenire finché non fosse troppo tardi, finché Hitler non avesse l’Europa ai suoi piedi e ai suoi ordini. Trattare con un partner europeo nazificato non avrebbe giovato alle esportazioni statunitensi.

Roosevelt si mosse con cautela fra queste due correnti ma, tendenzialmente, egli operò in maniera tale da favorire la resistenza inglese. Nel marzo del 1941, il Congresso Americano emanò la Land-lease act (Affitti e prestiti), con la quale il presidente poteva prestare, vendere o affittare materiali a tutti i paesi che si ritenevano necessari per la difesa degli interessi americani. Si aiutarono così, di fatto, quei paesi impegnati contro Hitler. La Gran Bretagna, la Cina, l’URSS poterono usufruire di tale legge senza l'assillo dei pagamenti e il peso delle riparazioni, che avevano avvelenato i rapporti internazionali nel primo dopoguerra.

Hitler invade l’Unione Sovietica

L’esercito tedesco, il 22 giugno 1941, mise in atto il ‘’piano Barbarossa”. Hitler dava seguito al suo vecchio sogno di invadere l’Unione Sovietica già caldeggiato nel Mein Kampf.

La Germania aveva bisogno di ulteriore spazio vitale. L’impero germanico esteso su tutta l’Europa avrebbe dovuto garantire, innanzitutto ai tedeschi, un alto livello economico e poi, agli stessi popoli d’Europa, un buon tenore di vita affinché le stesse fondamenta del comando tedesco non fossero mai messe in discussione.

Mantenere l’impero avrebbe richiesto risorse! Hitler mirava alle pianure di grano che avrebbero fatto dell’URSS il ‘granaio d’Europa’; ai minerali di ferro del Donetz; al petrolio di Baku.

Hitler pensò che l’Unione Sovietica sarebbe caduta nel giro di poco tempo come la Francia. Non lo preoccupò nemmeno la partita che stava giocando con l’Inghilterra, che pensava di chiudere presto a suo favore.

Per la grande impresa Hitler scaraventò sull’Unione Sovietica la cifra gigantesca di tre milioni di soldati: le divisioni corazzate, l’aviazione, ecc. L’urto fu tremendo! Alla ‘tattica a tenaglia’ tedesca, che consisteva nel

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formare enormi sacche entro le quali cadevano le truppe dell’Armata rossa, i sovietici risposero con la tattica della ‘terra bruciata’: la stessa - mutatis mutandis - adottata contro Napoleone.

L’esercito tedesco riuscì a penetrare fin presso Leningrado, Stalingrado e Mosca, ma non fu abbastanza rapido da chiudere la partita prima che l’inverno russo facesse capolino e fermasse l’avanzata inarrestabile. La guerra lampo dovette sbattere contro le porte dell’inverno.

La guerra civile in Cina e l’attacco giapponese a Pearl Harbor

Il Giappone aveva intenzioni espansionistiche in Asia. Già nel 1937 il Giappone voleva sottomettere interamente la Cina: Shangai e Nanchino erano già sotto il suo controllo. La Cina, inoltre, era in una guerra civile: si combattevano forze borghesi che facevano riferimento a Chiang Kai-Shek e forze comuniste che volevano instaurare una dittatura comunista sulla falsariga sovietica. In un primo tempo, Chiang Kai-Shek sconfisse l’esercito comunista che però si ritirò iniziando quella che passerà alla storia come la Lunga marcia. La guerra che il Giappone condusse contro la Cina, fece sì che vi fosse un momentaneo riavvicinamento tra Chiang Kai-Shek e i comunisti di Mao Zedong, che organizzarono un’efficace resistenza.

La conquista della Cina poteva essere risolta nel più vasto quadro della conquista sudorientale, ma ciò comportava inevitabilmente uno scontro con Gran Bretagna e USA.

Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre del 1941, senza preavviso, gli aerei giapponesi attaccarono la flotta americana in rada a Pearl Harbor, nelle isole Hawaii: furono distrutte tre corazzate, tre cacciatorpediniere, 250 aerei e morirono 5.000 uomini.

L’8 dicembre Roosevelt dichiarava guerra al Giappone, mentre Germania e Italia dichiaravano guerra agli Stati Uniti.

La Carta atlantica

Il 14 agosto del 1941, prima dell’attacco da parte del Giappone, Roosevelt, Churchill e Stalin avevano sottoscritto la Carta atlantica che sanciva: Gran Bretagna e Stati Uniti non avevano scopi espansionistici; tutti i popoli erano liberi di scegliere la forma di governo che volevano; tutti i popoli godevano di libero accesso alle materie prime e ai commerci necessari per la prosperità economica del paese; i mari erano liberi; si doveva costruire un organismo di sicurezza internazionale che avrebbe evitato il ricorso alla forza nei rapporti tra le nazioni.

1943-1945

La svolta di Stalingrado

Il 19 novembre 1942 rappresentò un punto di svolta nella Seconda guerra mondiale: i Sovietici liberarono Stalingrado dall’assedio, liquidando l'arma tedesca del feldmaresciallo Friedrich von Paulus. Il colpo fu cocente e da qui in poi le sorti della guerra prenderanno un’altra piega. I tedeschi subirono numerose perdite: duecentomila furono i morti e centomila i prigionieri. L’ARMIR, l’Armata italiana in Russia, impegnata sul fronte del Don con 230.000 uomini, seguì la stessa tragica sorte: 85.000 uomini tra morti e dispersi.

Nel 1943 anche Leningrado venne liberata. Nell’agosto del ’44, i Sovietici avevano ormai occupato la Romania, la Bulgaria, la Slovacchia orientale e la Jugoslavia. L’Armata rossa dilagava!

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In Africa, Rommel, la “volpe del deserto”, con le sue truppe era giunto fino ad el Alamein, a ottanta chilometri da Alessandria d’Egitto, ma, nell’ottobre del 1942, il generale inglese Bernard Law Montgomery aprì il fuoco sulla linea del fronte tedesco-italiano che iniziò dopo durissime battaglia a ripiegare. Ad el Alamein gli Inglesi ebbero la meglio in quanto dotati di maggiore numero di aerei, maggior numero di mezzi e maggiore disponibilità di carburante rispetto ai tedeschi ed agli italiani.

L’8 novembre del 1942, comincia la controffensiva degli Anglo-americani che giunsero in Algeria e in Marocco.

L’anno seguente anche la Tunisia veniva liberata.

Gli Anglo-americani controllavano tutto il mediterraneo.

Il 9 luglio 1943 sbarcarono in Sicilia dove vennero accolti come liberatori. La caduta del fascismo era vicina!

La caduta del fascismo

Lo sbarco alleato in Sicilia suonò come una campana a morto per il fascismo. La guerra lampo si era trasformata in una lunga e disastrosa esperienza sui diversi campi. Il fascismo aveva catapultato l’Italia in un’avventura che lasciava esangui.

Già dall’inverno del ‘42-43 il fascismo appariva come una struttura organizzativa e una forma politica che non aveva più consenso nel Paese.

A suggellare questa mancanza, l’inverno del 1943 vide il riorganizzarsi del movimento operaio il quale, pian piano, riprendeva dalle lotte economiche sindacali. Gli operai che rialzavano la testa: fu più che un campanello d’allarme per il fascismo che guardò sgomento come anni di corporativismo non avessero ancora estinto la conflittualità di classe.

Il fascismo, che pure aveva avuto notevoli punte di consenso nel Ventennio - fino all’impresa etiopica del ’36 -, aveva iniziato a perderlo pian piano: la curvatura verso la Germania, le leggi razziali, il Patto d’Acciaio e le stesse sorti della guerra che, ovunque, rilevava impreparazione militare.

Il 15 maggio, prima dello sbarco in Sicilia, il re Vittorio Emanuele III aveva comunicato a Mussolini che era necessario pensare al modo di sganciare il destino dell’Italia da quello della Germania. Bisognava salvare il salvabile e la monarchia!

Il 19 luglio del 1943, Roma subiva il primo bombardamento.

Il 24 luglio venne riunito il Gran consiglio del fascismo che terminò il giorno dopo. Mussolini venne messo in minoranza e si presentò dal re che gli comunicò di considerarsi dimissionario e che il suo successore era Badoglio. All’uscita da villa Savoia, Mussolini fu arrestato. Stranezze della storia… la monarchia aveva dato le chiavi del Parlamento a Mussolini, ora gliele toglieva sistemandolo in gattabuia. Con tutta evidenza la crisi politica del fascismo fu pilotata dall’alto, nel tentativo di conservare la monarchia.

Quando la notizia della destituzione di Mussolini venne resa pubblica si diffusero scene di entusiasmo, i fascisti gettarono i loro distintivi, la milizia evaporò.

L’armistizio con gli alleati

Il maresciallo Badoglio, al capo del nuovo governo, entrò in contatto con gli alleati e il 3 settembre 1943 firmò l’armistizio a Cassibile (Siracusa), che improvvidamente fu reso noto l’8 settembre senza aver preparato un piano per far fronte all’esercito tedesco sia sul territorio italiano che negli scenari esteri. Lo sbando fu totale! Come si poteva prevedere, l’esercito tedesco, venuto a conoscenza dell’armistizio, attaccò tutti i reparti militari italiani.

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In Corsica gli italiani si unirono agli alleati. A Cefalonia, in Grecia, la resistenza italiana contro i tedeschi fu eroica, ma, alla fine, tutta la guarnigione fu passata per le armi.

A Napoli la popolazione insorse contro l’occupante e, dopo quattro giornate di lotta, i tedeschi dovettero abbandonare le falde del Vesuvio.

Il re, la famiglia ed il governo abbandonarono Roma e fuggirono verso Pescara per poi proseguire verso Brindisi, dove Badoglio costituì il primo governo nazionale della liberazione.

La Repubblica di Salò

Il 12 settembre 1943, su ordine di Hitler, Mussolini venne liberato grazie a dei paracadutisti che scesero sul Gran Sasso d’Italia in suo soccorso. Hitler consentì che Mussolini istituisse una Repubblica sociale italiana o Repubblica di Salò, dal nome del paese sul lago di Garda dove si instaurò il governo: uno stato fascista nel Nord Italia. Molti storici hanno messo in evidenza come il Mussolini di Salò fu un Mussolini “patetico, tragico” (G. De Rosa) e ciò perché, ormai, l’esperienza fascista era stata archiviata dalla storia, volerla riproporre non poté che essere una farsa!

Mussolini cercò anche di radicare la restaurazione del fascismo con tre analisi della situazione storica:

1) La monarchia aveva tradito! Bisognava allora ritornare alle origini, al Programma di san Sepolcro e instaurare la Repubblica;

2) Bisognava altresì ritornare al fascismo ‘sociale’ impegnato tra le masse;3) Bisognava riorganizzare l’esercito e riprendere la guerra al fianco della grande Germania di Hitler.

L’analisi politica era del tutto sbagliata e le condizioni storiche erano tali che i repubblichini non fecero che rendere più dolorose le doglie del parto: la liberazione dal nazi-fascismo.

Risulta evidente come la Germania caldeggiò la Repubblica: la si instaurò con la protezione dei carri armati tedeschi e la si usò come una copertura collaborazionista per l’occupazione tedesca.

Lo sbarco in Normandia

Alla fine del 1943, Roosevelt, Churchill e Stalin si riunirono a Teheran e decisero di aprire un secondo fronte in Europa, spostando quindi la guerra nel centro dell’Europa: in Germania.

Il 6 giugno del 1944, tale scelta strategica si realizzava con lo sbarco in Normandia. Al comando del generale Dwight Eisenhower si mosse un esercito poderoso: fu impiegata una flotta di 1200 navi e più di un milione di uomini.

I Tedeschi si aspettavano un attacco da parte degli alleati, ma non erano a conoscenza né del luogo dello sbarco, né della data. Insomma, lo sbarco risultò un potente attacco a sorpresa che fu accanitamente contrastato dai tedeschi. Essi però dovettero infine soccombere.

Intanto, in Francia il 19 agosto Parigi insorse. Il 26 De Gaulle entrava nella capitale e a metà settembre, la Francia era liberata dall’occupazione tedesca.

I tedeschi registravano, ormai, una serie di sconfitte su più fronti e i Sovietici minacciavano direttamente Berlino.

La Conferenza di Yalta e la resa della Germania

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Nel febbraio del 1945 i tre grandi si riunirono a Yalta per decidere dell’attacco finale alla Germania: un assedio finale che avrebbe circondato la Germania senza dargli via di scampo.

Si trattò di un attacco terribile: le città tedesche si sgretolavano sotto atroci bombardamenti. A Dresda, sotto un bombardamento, morirono ben 200.000 persone.

Hitler, nel bunker della cancelleria, lanciò un ultimo appello: “Mai i Russi a Berlino”. Ignorava che i Sovietici, al comando del generale Zukov, fossero già lì.

I Sovietici a Berlino ingaggiarono una lotta strenua: un corpo a corpo che contese la città palmo a palmo. I soldati dell’Armata rossa mandavano avanti mandrie di buoi nelle strade minate per aprirsi dei larghi: si combatté per le strade, nelle case, nelle fogne.

Quando i Sovietici si avvicinarono al bunker, il 30 aprile, Hitler si suicidò. La resa della Germania fu firmata il 7 maggio a Reims e ratificata l’indomani a Berlino.

La seconda guerra mondiale, in Europa, era finita. Proseguiva nel Pacifico nonostante la chiara inferiorità nipponica.

La Germania aveva confidato in una guerra lampo: nella incapacità politica delle democrazie occidentali di decidere in tempi brevi, aveva sottovalutato la resistenza sovietica, la tecnologia e la produttività statunitense. Il sogno di imperare su tutta l’Europa era tragicamente svanito.

La guerra nel Pacifico

La potenza nipponica, approfittando dello sforzo alleato contro la Germania, riuscì ad espandere la propria influenza e ad aggredire i possedimenti inglesi e francesi nel Pacifico. Le vittorie nipponiche furono dovute sia alla strategia militare che attuò una sorta di guerra lampo, sia al consenso delle popolazioni che li vedeva come liberatori dalla dominazione occidentale. Non ci volle molto tempo per rendersi conto che i Giapponesi erano il nuovo governo oppressivo!

L’inarrestabile ascesa militare giapponese iniziò a rallentare dal 1942, quando gli americani intensificarono gli sforzi militari. Nel 1944, finì sotto il controllo americano l’isola di Saipan che distava dal Giappone solo 2.500 chilometri e che portava il Giappone nel raggio di azione degli aerei americani. L’ammiraglio Naguno e il generale Saito si tolsero la vita dopo che la resistenza a Saipan fu schiacciata. Gli Americani assistettero a scene mai viste: i 20.000 abitanti dell’isola s’abbandonarono al suicidio di massa pur di non cedere all’invasore americano.

Altro aspetto della cultura nipponica, che sembrava sconcertante, erano i kamikaze: i piloti nipponici che per colpire obiettivi vi si gettavano con carichi di bombe.

Nel 1944 ebbe luogo anche la battaglia di Leyte, che riportò le Filippine sotto il controllo americano.

Nel 1945 gli americani sbarcarono a Okinawa. Il Giappone era ormai sotto i bombardamenti americani.

La Conferenza di Postdam

Nel luglio 1945, i “tre grandi” si riunirono di nuovo a Potsdam, nei pressi di Berlino. Il presidente Truman prese il posto di Roosevelt morto nel frattempo.

Si decise il disarmo, la denazificazione della Germania, la punizione dei criminali di guerra e la liquidazione dei grandi trust che avevano alimentato la guerra.

A Truman arrivò la notizia che nel deserto del nuovo Messico era stata ‘provata’ con successo l’atomica. Il presidente americano comunicò la notizia a Stalin che pare non capì la portata dell’evento. La “denazificazione” della Germania e la liquidazione dei beni, i quali avevano portato in alto l’industria tedesca degli armamenti, appartenevano ormai ai capi di stato vincitori della guerra in Europa.

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DUE FONDI DIS-UMANI DEL NOVECENTO

La shoah

10.000.000 milioni di persone morirono nei campi di concentramento hitleriani. Nei lager nazisti finirono oppositori politici comunisti e socialisti, ma anche zingari, omosessuali, disabili, malati mentali, ecc.

La teoria della razza fu il nocciolo di una visione di un mondo perfetto dove la materia, biologicamente inferiore, doveva essere scartata per dare spazio alla “razza padrona germanica”.

La legge sulla sterilizzazione “eugenetica” del 1933 e l’Operazione Eutanasia, del 1940-41 sembrano voler realizzare il miglioramento della razza a cui allude la Repubblica di Platone che le SS, da bravi scolari, portavano nello zaino.

Dei 10.000.000 di morti nei lager, ben 6.000.000 furono vittime della teoria razzista che annoverava gli ebrei come sottouomini (Untermensch).

La persecuzione si snodò in tre fasi distinte.

La prima fase, dal 1933 al ’35, fu contraddistinta da una violenta propaganda antisemita e dal decreto di espulsione dei dipendenti pubblici non ariani (7 aprile, 1933).

La seconda fase, dal 1935 al ’38, è, invece, caratterizzata, dalle leggi di Norimberga (settembre, 1935) con cui si escludono gli ebrei dalla nazione, alla ‘notte dei cristalli’ dove vanno in frantumi, assieme alle vetrine dei negozi ebrei, le ultime speranze di contenere la follia.

Infine, la terza fase si caratterizza come la realizzazione dello sterminio, del genocidio, la “soluzione finale della questione ebraica”: a) si iniziò nel 1941, con la penetrazione in URSS quando le SS avevano il compito di rastrellare e uccidere sul posto gli ebrei; b) e, a partire dal 1942, ebbe inizio la deportazione nei lager.

Non solo i nazisti, ma anche i fascisti italiani hanno dato il loro macabro apporto a questa follia iniziando con l’emanazione delle Leggi razziali del 1938, poi inasprendo le violenze con la Repubblica di Salò quando, nel novembre del 1943, fu dato ordine che tutti gli Ebrei fossero internati in campi di concentramento per poi essere avviati verso i Lager tedeschi.

Due i campi tristemente famosi: Fossoli (Mo) e la Risiera di san Sabba (Ts). Non mancò nemmeno un campo di concentramento in Libia a Giado per rinchiudervi gli Ebrei libici.

La storia, nella sua lunga scia di sangue, ha spesso incontrato follie che ha contrapposto gruppi che hanno usato violenza verso oppositori, nemici e anche sottomesso altri con l’idea della superiorità fisica, culturale, ecc.

Ciò che fa la cifra della shoah è il numero! Ciò che annichilisce e disegna un tratto fondamentale dell’orrore dei campi di concentramento, è la quantità che diventa qualità - come la dialettica hegeliana insegna. Il tratto che segna un oltre-passamento, una dis-proporzione è esattamente il numero. Ad un certo grado il numero si trasforma in un cambio qualitativo e la ‘normale’ follia umana della guerra e della violenza si trasforma in orrore in un fondo dis-umano.

Qui, il numero indica un cambio qualitativo!

La follia che striscia nel corso della storia spunta nel Novecento come un cataclisma: puro orrore! La differenza con la barbarie, la violenza precedente, è nel processo tecnico, nella industrializzazione della morte, nel procedimento ‘fordistico’ applicato allo sterminio di un popolo. Il processo tecnico scompone l’azione, la parcellizza in maniera tale che la responsabilità evapori. Si assiste alla divisione sociale del lavoro che porta alla morte. Ognuno assolve ad un piccolo segmento di un processo che dal rastrellamento

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porta ai treni, ai campi e, infine, ai forni crematori e camere a gas. Questo processo fece sì che semplici burocrati, uomini mediocri si macchiassero di crimini contro l’umanità. Uomini semplici la cui coscienza critica era ormai annichilita. La banalità del male di H. Arendt registra bene questo aspetto.

I carri armati russi per prima aprono i campi di concentramento (Auschwitz, 27 gennaio 1945), poi gli Americani documentano. Il processo di Norimberga porta a galla il lavoro, la perizia, la tecnica attraverso cui bisogna necessariamente passare affinché l’idea – volatile per sua natura - diventi realizzazione: l’idea della ‘soluzione finale’ diventi ‘corpo’. I corpi sono pesanti, ingombranti, refrattari, più difficili da trattare delle idee: materia biologica che deve essere smaltita! Milioni di corpi, montagne, per essere eliminati hanno bisogno di registri, calcoli, ecc… e di una vasta rete di lavoro: operazione tecnica complessa che richiese una fitta rete di snodi, di gangli diversamente articolati, di diversa importanza e funzione che facessero affluire un popolo nel buco dell’oblio.

Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen e Dachau, i gangli più grandi, risuonano come snodi funesti della storia del Novecento: come fondo della storia! Furono 900 i lager destinati esclusivamente alla “soluzione finale della questione ebraica” in Austria, Cecoslovacchia e nella stessa Germania sotto il ferreo controllo delle SS. I lager erano costruiti meticolosamente lungo le linee ferroviarie per facilitare in termini di mobilità il flusso della morte. I lager erano il terminale di una lunga filiera che partiva dal semplice rastrellamento, allo stoccaggio del prigioniero, alla stazione di partenza, al riempimento dei vagoni blindati, ecc. Una rete meticolosa e agghiacciante copriva l’Europa.

L’uso dell’atomica

Il 6 agosto 1945, alle 8:16 (ora locale) una bomba atomica venne sganciata su Hiroshima provocando 80 mila morti e altrettanti feriti che morirono poco dopo a causa delle gravi ustioni: 65mila edifici su 90mila distrutti.

Il 9 agosto, alle 12:02 una seconda bomba atomica venne sganciata su Nagasaki causando 40 mila morti e 70 mila ustionati. Lo stesso giorno l’URSS dichiarava guerra al Giappone e 5 giorni dopo, il 14 agosto, l’esercito nipponico si arrendeva: la resa fu firmata a bordo della corazzata americana Missouri ancorata nella baia di Tokyo.

Il nuovo ordigno militare messo appunto nei laboratori di Los Alamos (Nuovo Messico), a cui avevano partecipato centinaia di scienziati, era fin dall’inizio un tabù. Il grande tabù atomico!

L’atomica fu vissuta fin dall’inizio come un tabù per almeno tre ragioni:

a) Per la prima volta l’uomo penetrava i segreti dell’atomo, un infinitamente piccolo che sprigionava una potenza inaudita. C’era la consapevolezza che si toccavano strutture elementari quanto possenti e imprevedibili della natura, che impauriva lo stesso stregone che ne suscitava le forze;

b) Nella violenza irrefrenabile di un conflitto si poteva ancora scorgere l’idea e la norma di due eserciti l’un contro l’altro armato. C’era ancora qualcosa che la mente umana riconosceva come perverso ma umano; c’era ancora l’idea di ‘misura’;

c) Lo strumento bellico aveva ancora le sembianze di uno strumento di guerra ancorché tecnologicamente avanzato e il cui uso aveva un effetto ‘limitato’.

L’atomica è subito la dis-misura! Il superamento di un limite! Un oltre-passamento! Una dis-proporzione!

a) Da subito fu chiaro che s’era alle prese con qualcosa di imponderabile, non solo per ciò che riguardava l’immediatezza dell’esplosione e l’impatto sulla popolazione civile, quanto a lungo termine ossia sull’acquisizione tecnologica della bomba da parte di altri paesi e sull’inevitabile e imprevedibile escalation storica nella sua costruzione;

b) L’uso dell’atomica non poteva essere contenuto entro limiti militari. Non si trattava più di colpire un nemico ma di colpire indistintamente una popolazione: donne, vecchi, bambini, infermi, civili inermi come mai prima. Una città è un organismo molto diverso che uno squadrone di cavalleria o di carri armati;

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c) Infine, il potenziale distruttivo dell’atomica segna un salto quantitativo che diventa qualitativo. Con l’atomica la quantità diventa qualità, per riprendere di nuovo il buon vecchio Hegel! Lo strumento, per la prima volta nella storia umana, è potenzialmente capace non di annientare un gruppo, una popolazione ma lo stesso genere umano. Lo strumento cioè non è strumento di una azione ma ha la potenza ‘illimitata’ di annichilire qualsiasi azione.

Per queste ragioni, l’uso dell’atomica è fin dall’inizio un tabù e il suo uso è l’inizio di un nuovo limite. In questo senso l’uso di un’arma di distruzione di massa come la bomba atomica è qualificabile come un crimine contro l’umanità.

Perciò, insieme alla shoah l’uso dell’atomica rappresenta l’altro fondo raggiunto nel Novecento!

Era necessario l’uso dell’atomica?

Il grande fisico A. Einstein si mostrò nell’occasione di essere anche un uomo capace di pensare in grande, con consapevolezza, accortezza, con saggezza per quanto gli elementi del problema erano già inficiati nella stessa premessa. Einstein pronunciò un netto parere contrario a sganciare la bomba su una città giapponese. Secondo lui bisognava innanzitutto sganciare su un’isola deserta a scopo dimostrativo affinché il Giappone potesse capirne il potenziale d’orrore. Nel caso in cui il Giappone non si fosse arreso, bisognava allora prospettare concretamente l’utilizzo della bomba sul territorio all’ONU (Organizzazione della Nazioni Unite). In questo modo, Einstein intendeva strappare l’uso concreto dell’ordigno ad una sola nazione e consegnare la decisione al consesso di tutte le nazioni affinché tale atto estremo fosse condiviso e davvero necessario. Era il meglio che si potesse pensare nell’ambito di un problema che la propaganda americana impostava nei termini di necessità militare, fine della guerra e risparmio di vite umane.

Era necessario l’uso della bomba?

Fu fatto credere che il Giappone non si sarebbe mai arreso!

Fu fatto credere che bisognava risparmiare vite americane che si sarebbero perse in una invasione del Giappone: le cifre che Truman usò lievitarono geometricamente negli anni fino al milione di uomini!

Fu fatto credere che si sarebbero colpiti, intelligentemente, città militari importantissime.

In verità a rendere più amara la questione è che, da documenti a lungo rimasti segreti, si è appreso che gli americani sapevano benissimo che il Giappone era in ginocchio, stremato e che si sarebbe arreso immediatamente se avesse ricevuto una proposta che non li avesse umiliati e mortificati nei simboli della sua cultura come ad es. l’imperatore considerato un dio in terra. Non sfugge nemmeno come la sola dichiarazione di guerra dei sovietici al Giappone li avrebbe terrorizzati e fatti arrendere all’istante.

Dunque? Gli americani vollero chiudere la partita della Seconda guerra mondiale in fretta in modo da sedersi al tavolo della pace con un forte potere contrattuale.

Bisognava assolutamente chiudere la guerra e arrestare l’avanzata dell’Armata rossa che dilagava in Europa: mezza Europa era sotto i carri armati sovietici che macinavano chilometri. Bisognava, altresì, far finire immediatamente la guerra per evitare che l’URSS spostasse la sua forza militare in Giappone e potesse, così, accampare pretese nel Sud-est asiatico.

La questione non è il Giappone. Hiroshima e Nagasaki sono l’agnello sacrificale al tavolo della nuova spartizione del mondo. Un monito all’URSS a fermare i carri armati. Un annuncio che gli USA sono la più forte potenza militare del pianeta padroni della scienza dell’atomo!

In questo senso, Hiroshima e Nagasaki sono il primo atto di ciò che chiameremo ‘guerra fredda’!

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BIBLIOGRAFIA

LibriH. Arendt, La banalità del Male, 1963

P. Levi, Se questo è un uomo, 1947K. Hayashi, Nagasaki, 2015

FilmRoma città aperta, R. Rossellini, 1945

Salvate il soldato Ryan, S. Spielberg, 1998Il pianista, R. Polanski, 2002

DALLA RESISTENZA ALLA COSTITUZIONE  

~ LA RESISTENZA~ La Resistenza in Europa La Resistenza in Italia Dopo l’8 settembre Le tre guerre La costituzione del CLN Togliatti e la svolta di Salerno Il governo Bonomi e la disgregazione della Repubblica di Salò

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Gli eccidi delle SS Le foibe 25 aprile 1945: la liberazione

~ LA REPUBBLICA L’urgenza della Repubblica La nascita della Repubblica La Costituzione Gli organi dello Stato

LA RESISTENZA

La Resistenza in Europa

Nel 1942 tutta l’Europa era nelle mani di Hitler e nessun paese godeva di libertà. Le SS avevano il compito di rastrellare politici sospetti, Ebrei, comunisti e renitenti al lavoro o al servizio militare. I paesi occupati conducevano una vita insostenibile; nelle città si diffuse il “mercato nero” degli alimenti mentre nella campagna il disagio era minore data la produzione, comunque, di beni di prima necessita. Nonostante le difficili condizioni di vita, nei primi anni di guerra non si assistette ad alcun movimento resistenziale rivoluzionario perché, di fatto, mancava qualsiasi speranza di successo contro la terribile macchina da guerra nazista. La gente aveva preferito adattarsi al nuovo tipo di governo e concentrarsi sulla sopravvivenza nelle città.

La Resistenza è l'insieme dei movimenti sociali, politici e militari che si batterono contro il nazi-fascismo al di là di eserciti regolari. In Francia venivano chiamati Maquisardes. La guerriglia partigiana in Unione Sovietica agì per conto del maresciallo Zukov, in una serie di azioni ravvicinate dietro le linee raggiunte dall’avanzata nazista.

La Resistenza in Italia

La Resistenza in Italia, in maniera manifesta, dopo l’armistizio di Cassibile, si oppose al nazi-fascismo nell’ambito della guerra di liberazione italiana. Segni resistenziali si iniziarono a manifestare a partire dalla metà del 1941 in varie forme che impegnavano in diverso grado le persone contro il nazi-fascismo: dalla non-collaborazione alla risolutezza radicale della guerra armata al nemico. Gruppi esigui di partigiani, sparuti, disorganizzati militarmente, politicamente iniziarono ad organizzarsi contro il nemico. La forma tattico-militare non poté che essere quella di azioni fulminee, improvvise per poi ritrarsi e, ancora, colpire. Però, già nel 1936, Celeste Negarville, famoso comunista, aveva intuito come sotto il fascismo si venisse formando una nuova gioventù, che ci descrisse in tal modo: “Non sono dei timidi questi giovani, non sono dei conservatori, non sono dei reazionari! Sono giovani del nostro popolo, della nostra gente, sono giovani italiani pensosi dell’avvenire del nostro paese, che dimostrano coi loro sforzi che il fascismo non ha distrutto nella gioventù italiana l’anelito verso una visione di giustizia e di progresso”.

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Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, lo sfascio sociale e politico dell’Italia si palesò improvvisamente tale che si diffuse l’idea che l’unico modo per liberarsi definitivamente dal nazi-fascismo fosse la guerra stessa. La volontà patriottica di liberare l’Italia dal fascismo spinse, una volta per tutte, molti giovani a riunirsi nelle file della Resistenza. Gli italiani dovevano liberare l’Italia con o senza l’aiuto degli alleati. La guerra intrapresa dai membri dei gruppi partigiani fu una guerra civile, patriottica e di classe, che spinse esponenti di diversi partiti a combattere fianco a fianco per lo stesso scopo. A tal proposito scrisse Rosselli, politico anti-fascista: “La demagogia fascista ha abituato questa generazione a guardare alla realtà delle cose e dei rapporti di classe, e se una crisi risolutiva dovesse aprirsi saprà puntare sugli obiettivi decisivi: le armi, le masse, il potere”.

La cospirazione antifascista aveva i suoi centri a Parigi e a Londra, dove dall’attività politica dei fratelli Carlo e Nello Rosselli nacquero i primi movimenti antifascisti (1935-1942), che vedevano in Nenni, Sturzo e Donati i principali rappresentanti di quei “gruppi” che avevano dovuto abbandonare l’Italia. Il Partito comunista, specialmente dopo la svolta dell’Internazionale comunista, che aveva stabilito la tattica dei fronti popolari, condusse azione di proselitismo. Il movimento di Giustizia e Libertà, di orientamento socialista e radicale, reclutava i suoi aderenti soprattutto fra gli intellettuali e scrittori. Il Partito Socialista condusse le sue attività anti-fasciste al fianco del Partito comunista. Indipendente da questi si sviluppò un movimento cattolico antifascista che coinvolse non solo intellettuali, ma ampi strati di popolazione, soprattutto delle campagne. L’arretratezza economica e politica delle masse contadine spesso aveva costituito nel passato la premessa materiale di ogni tentativo controrivoluzionario. Attraverso la Resistenza le masse contadine sia agendo che non prendendo parte, si trovarono allineate, per la prima volta, ad un evento che segnava una partecipazione popolare alla tradizione risorgimentale. Da questo punto di vista la Resistenza s’inquadra in quel processo risorgimentale che si fece contro le masse contadine del sud e dei cattolici.

Ad aprile 1945 le statistiche stimano 200mila combattenti con circa 75mila caduti. Nonostante i 200mila combattenti possano risultare pochi rispetto alle forze del nemico, bisogna considerare il fatto che questo esiguo numero di combattenti attivi facesse parte di un intero movimento di resistenza ben più grande. Essi infatti erano esclusivamente la punta di questo movimento, ovvero coloro che imbracciavano direttamente il fucile.

Dopo l’8 settembre

L’8 settembre 1943 segnò lo sbando dell’esercito che, senza direttive, franò. I tedeschi, invece, seppero prontamente cosa fare occupando le città italiane in poco tempo. I vecchi alleati nazisti si trasformavano in nemici che occupavano le città e imponevano regole ferree. Proprio a Roma si ebbe il primo segnale di resistenza, a porta San Paolo, dove i neo-resistenti combatterono fino allo stremo.

Dovunque ci fu resistenza, i Tedeschi intervennero con grandi forze, ignorando ogni codice militare. A Cefalonia, possedimento italiano delle isole greche nello Ionio, si trovavano 12.000 soldati italiani, ai quali, dopo l’8 settembre, fu ordinato di arrendersi dai Tedeschi. Il generale italiano Gandin fece svolgere tra i suoi soldati una sorta di referendum. Le alternative erano tre: arrendersi, resistere oppure ripristinare la vecchia alleanza con i Tedeschi. Si decise di resistere nonostante la superiorità militare tedesca. Oltre 10.000 morirono e i sopravvissuti furono fatti prigionieri ed inviati nei campi di concentramento in Germania. Dell’intero episodio non si seppe nulla per lungo tempo; oggi si stima che siano attorno ai 600mila i soldati italiani imprigionati e inviati nei campi di concentramento. Casi di strenua opposizione da parte delle truppe italiane si erano registrati anche a Corfù, dove i soldati italiani furono travolti dalle soverchie forze nemiche.

Dal punto di vista politico, la Penisola appariva divisa in due blocchi:

il Nord era governato dalla Repubblica di Salò, repubblica collaborazionista fondata da Mussolini e sostenuta dai Tedeschi;

il Sud e parte del centro continuava ad essere sotto il Regno d’Italia ed erano, dunque, in vigore gli accordi con gli Alleati americani

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Le tre guerre

Claudio Pavone, storico del ‘900, ha dato la miglior perimetrazione di quel vasto e complesso fenomeno della Resistenza. La Resistenza italiana può essere compresa nella sua poliedrica articolazione come “serbatoio” in cui si produssero tre conflitti differenti:

una guerra patriottica per sbarazzarsi dello straniero tedesco; una guerra civile tra partigiani e fascisti; una guerra di classe tra proletariato e borghesia che spingeva per una rivoluzione comunista.

Quando si parla di Resistenza bisogna, quindi, tener conto di un processo complesso e, tuttavia, unitario. Negli ultimi decenni si è tentato, a proposito della guerra civile che si ebbe nel Paese, di proporre una ‘pacificazione’, di stemperare i contrasti e, in fondo, di riabilitare le ragioni fasciste che combatterono per la Repubblica di Salò. Secondo Pavone, “un paese come l’Italia, privo nella sua storia di nette e incontrovertibili fratture, ha tutto da guadagnare, nel rivendicare, come tavola di fondazione di una propria rinnovata identità, il momento di verità rappresentato dalla guerra civile tra i fascisti e gli antifascisti”.

La costituzione del CLN

In seguito alla caduta del regime mussoliniano, venne a crearsi un’associazione che coordinava le azioni delle bande partigiane nei confronti dei tedeschi occupanti. Nacque quindi il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), cui aderirono le varie brigate partigiane accomunate da un senso profondo di antifascismo. Tre figure in particolare guidarono la Resistenza: Ferruccio Parri, che guidò il Partito d’Azione, Luigi Longo (“forza” comunista) e Raffaele Cadorna, generale dell’esercito. I gruppi più attivi, numerosi e il cui contributo di sangue fu particolarmente alto erano le Brigate Garibaldi, di ispirazione comunista; le Brigate Matteotti, costituite da socialisti; le Brigate del Popolo da democristiani e i Gruppi di Giustizia e Libertà, legati al Partito d’Azione. Inoltre erano presenti brigate autonome che raccoglievano monarchici, repubblicani, cattolici. Queste forze politiche, pur condividendo l’ideale antifascista, presentavano discordanze sotto altri aspetti. Ad esempio, in merito ad alcune eventuali soluzioni politiche del conflitto, i comunisti proponevano di un progetto che avrebbe dovuto portare alla rivoluzione sociale (tipologia sovietica); al contrario, i socialisti pensavano a una serie di riforme sociali che avevano alla base la lotta di classe. Il movimento resistenziale si radicò soprattutto nell’Italia settentrionale, dato che Roma era stata già liberata il 4 giugno del 1944.

Togliatti e la svolta di Salerno

Le differenze ideologiche dei diversi gruppi si manifestavano soprattutto nell’atteggiamento da avere, una volta liberata la penisola, sulla questione: Repubblica o monarchia. Queste divisioni vennero accentuate dagli Alleati, Gran Bretagna ed USA in primis, i quali avevano timore che un passo verso la repubblica potesse rafforzare quelle forze progressiste e così far balenare la possibilità di spingersi fino ad una rivoluzione comunista che avrebbe curvato il Paese verso l’influenza sovietica. Gli Alleati erano, dunque, attestati per una soluzione che non creasse troppe illusioni e tenesse il Paese sotto la propria influenza politica oltre che militare. In questo quadro Churchill, primo ministro inglese, pronunciò il famoso “Discorso della Caffettiera”, dove auspicava che in Italia potesse rimanere la monarchia per evitare eventuali pericoli. I cattolici e i liberali erano favorevoli alla monarchia. Secondo i comunisti e i socialisti in Italia, come del resto in tutti i Paesi, si doveva costituire una repubblica, in quanto consideravano lo stesso istituto monarchico non più all’altezza dei tempi, come del resto aveva egregiamente insegnato la grande Rivoluzione francese del 1789.

La situazione si sbloccò nel 1944 quando, Palmiro Tagliati, segretario del Partito comunista, dopo anni di esilio a Mosca, arriva a Napoli da poco liberata dopo le ‘quattro giornate’ di lotta antinazista (27 marzo).

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Togliatti il 31 marzo, al Consiglio nazionale del partito, sostenne la ‘svolta’ ovvero un compromesso fra badogliani, comunisti, monarchici. L’11 aprile tenne un celebre discorso a Napoli al cinema Modernissimo, passato poi alla storia come la svolta di Salerno in quanto dopo pochi giorni si sarebbe concretizzato con la formazione del primo governo dell’Italia liberata proprio a Salerno che assunse, momentaneamente, pure il ruolo di Capitale fino alla liberazione di Roma. La svolta insisteva sulla unità di tutti i partiti antifascisti e sulla necessità di realizzare un governo di unità nazionale. Bisognava abbandonare ogni divergenza, polemica, e concentrarsi, unitariamente, contro il nemico nazi-fascismo. Solo dopo, in una Italia libera, sarebbe stato possibile, con un referendum, rimettere la questione monarchia o repubblica al popolo italiano.

A Salerno il 22 aprile del 1944 s’insediava il governo di “unità nazionale” del “regno del Sud”. Badoglio presidente, Togliatti vicepresidente. Ne facevano parte i sei partiti del CLN (Partito comunista, Democrazia cristiana, Partito d’Azione, Partito liberale italiano, Partito socialista italiano di unità proletaria, Partito democratico del Lavoro). A Vittorio Emanuele III, gravemente compromesso con il fascismo, s’impose il ritiro dalla politica e la nomina di suo figlio Umberto suo Luogotenente.

La svolta destò non poche perplessità nello stesso Partito comunista perché ad una linea “rivoluzionaria” e “insurrezionalista”, propria dei quadri che uscivano dalla clandestinità, opponeva la realizzazione di un governo di coalizione democratica ferma in un quadro monarchico: governo monarchico con a capo Badoglio, anch’esso compromesso con il fascismo.

La svolta togliattiana dal punto di vista internazionale registrava e articolava, nella figurazione propriamente italiana, la strategia del Comintern staliniano che aveva dettato la strategia del Fronte unico a tutti i Partiti comunisti nella lotta al nazi-fascismo.

Il governo Bonomi e la disgregazione della Repubblica di Salò

In seguito alle dimissioni di Badoglio, toccò a Ivanoe Bonomi formare il nuovo governo con l’appoggio del CLN. Come obiettivi principali furono posti la defascistizzazione dello Stato, l’acquisizione della massima autonomia possibile dall’amministrazione degli Alleati e un aiuto alle popolazioni del settentrione. In realtà questo programma non venne pienamente attuato, poiché al governo mancò unità d’azione sia per le pressioni esterne degli Alleati, sia per le divisioni al proprio interno fra le diverse forze politiche.

Nel frattempo andava disgregandosi la Repubblica di Salò, in quanto non poteva contare né sul consenso popolare né sull’appoggio degli industriali, che registrato il nuovo vento stavano prendendo contatti con gli Alleati. La Repubblica di Salò sopravvisse solo grazie all’appoggio nazista. Intanto, proprio il sentore della fine politica acuì la violenza fascista sia nei confronti delle opposizioni antifasciste, sia nei confronti degli Ebrei per puro ossequio alla ferocia nazista.

Il 30 novembre 1943 venne ordinato che tutti gli Ebrei fossero internati nei campi di concentramento per poi essere spediti nei lager in Germania.

Gli eccidi delle SS

Nel 1944 il numero di partigiani pronti a resistere al nemico crebbe notevolmente e, proprio a maggio di quello stesso anno, venne fondata la prima ''repubblica partigiana''.

L’azione dei partigiani divenne tanto importante che alcune tra le più grandi città d'Italia vennero liberate senza l'intervento degli Alleati, come accadde a Firenze. Esasperati dalla guerra, i partigiani divennero protagonisti di attacchi sempre più violenti ai quali i tedeschi rispondevano con feroci rappresaglie. Dopo la liberazione di Roma venne alla luce uno dei massacri più impressionanti ai danni della popolazione. Il 23 marzo 1944 furono fucilati dalle SS, alle Fosse Ardeatine, 335 ostaggi, in maggior parte Ebrei, antifascisti e ufficiali badogliani, per rappresaglia in seguito a un’azione di guerriglia partigiana in via Rasella, che aveva provocato la morte di 32 militari tedeschi. Con un ordine diretto di Hitler i tedeschi rastrellarono italiani nella misura di dieci italiani per un tedesco. Soltanto nel 1995 il governo italiano ha

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ottenuto l’estradizione dall’Argentina del comandante tedesco Erich Priebke, che prese parte alla fucilazione.

L’esercito tedesco insidiato dalla guerriglia in montagna, continuava a essere protagonista di crudeli rappresaglie. Va ricordata, infatti, la strage di Marzabotto, dove, nel Bolognese, vennero uccisi più di 1800 civili. Fu uno dei più gravi crimini di guerra compiuti contro la popolazione civile perpetrati dalle SS in Europa occidentale. Al termine della seconda guerra mondiale, Walter Reder, capo dell’operazione, fu processato e nel 1951 condannato all'ergastolo.

Ancora vi furono l’eccidio dei sette fratelli Cervi, la fucilazione di Aldo Mei, parroco di Monsagnati (Lucca) e i massacri a Sant’Anna di Stazzema, ecc. Spaventosa fu l’irragionevolezza con la quale i tedeschi cercarono di reprimere tutti i possibili “fastidi”.

Le foibe

Intanto anche in Friuli Venezia Giulia si verificavano diversi eccidi a opera dei partigiani di Tito. Molti civili, sacerdoti e carabinieri vennero gettati nelle foibe, profonde spaccature dalle quali è quasi impossibile uscirne vivi.  Un caso particolare è quello delle foibe istriane, ovvero dell’operazione di polizia partigiana staliniana, che aveva come obiettivo quello di eliminare Italiani reazionari e fascisti, senza il rispetto di alcun trattato internazionale. Secondo alcuni dati, furono circa 3000 gli italiani a soccombere alle stragi dei partigiani di Tito aiutati da quelli italiani. L’intera faccenda, inoltre, è venuta alla luce solamente in tempi recenti: essendo Tito tra i vincitori del conflitto, si è sempre praticato un relativo ostruzionismo riguardo il tragico episodio. Il fenomeno delle foibe andò ben oltre una reazione politico-militare, ma venne riconosciuto in seguito come vero e proprio genocidio. L'eliminazione degli italiani fu determinata non solo dall’odio etnico, ma anche dalla volontà da parte degli slavi di annettere il Friuli Venezia Giulia alla Iugoslavia. Va ricordato, infatti, che l’Istria era passata nelle mani degli italiani dopo la prima guerra mondiale.

25 aprile 1945: la liberazione

Nella primavera del 1945, sotto l'azione decisa dei partigiani, i tedeschi iniziarono la ritirata. Mentre Genova e Milano si liberarono il 25 aprile, Bologna fu aiutata dagli Alleati.

Intanto Mussolini cercava di scappare, travestito da SS, in Svizzera col progetto di riparare poi in Spagna, governata dal generale Franco. Il 27 aprile fu però riconosciuto e arrestato a Dongo (sul lago di Como) da un gruppo di partigiani della Brigata Garibaldi. Fu successivamente condannato a morte mediante fucilazione per ordine del CLN. Il suo cadavere, insieme a quello della campagna, Claretta Petacci, venne esposto nei giorni seguenti a piazzale Loreto di Milano, dove il 4 agosto 1944 i fascisti avevano fucilato 15 patrioti italiani. Il 30 aprile moriva suicida anche Hitler: scomparivano così dalla scena i due dittatori che avevano trascinato l’Europa in questo sanguinoso conflitto.

I combattimenti dureranno ancora qualche mese in alcune regioni del Nord Italia, ma non andranno oltre il 7 maggio.

LA REPUBBLICA

L’urgenza della Repubblica

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Appena finita la guerra, l’Italia del nord, liberata dai tedeschi e dalla Repubblica sociale, si ricongiunge all’Italia del sud nell’aprile del 1945.

La Resistenza fu una svolta cruciale che significò non solo la liberazione dal nazifascismo, ma più in generale, la partecipazione attiva alla costruzione della democrazia repubblicana. In questo senso le votazioni, del 2 giugno 1946, per l’Assemblea Costituente e il referendum costituzionale rappresentano simbolicamente il traguardo raggiunto dal movimento resistenziale.

Era possibile, a questo punto, fare la conta e tracciare il perimetro dei danni, non solo sociali ma anche materiali del paese. Bisognava, insomma, fare i conti con quell’eredità disastrosa che il fascismo ci aveva lasciato trascinando l’Italia in un vero e proprio macello mondiale.

Il 20% del patrimonio nazionale era perduto. Le zone più colpite, sia dal punto di vista sociale che materiale, furono quelle dove insistettero le battaglie e, quindi, la linea del fronte: Montecassino, linea Gotica, Bologna, Firenze, la zona di Anzio; le grandi città che furono bombardate: Milano, Torino, Genova e Napoli, così come anche molti altri piccoli paesi che erano stati dilaniati dal passaggio dell’esercito. L’Italia patì la fame, la situazione alimentare era gravissima, la produzione granaria disastrosa. La produzione di grano dagli 80 milioni di quintali del periodo prebellico, era ormai scesa, nel 1945, a 43 milioni. In pratica un dimezzamento che rifletteva a pieno la situazione alimentare degli italiani. Bisognava ora affrontare enormi sacrifici per la ricostruzione morale e materiale del paese. Per comprendere a pieno quale fosse la vera entità del problema bisogna analizzare diversi aspetti:

1) Per quanto riguarda la situazione dell’industria, si può dire che nonostante l’apparato industriale avesse subito delle perdite (in media pari all’8% del valore degli impianti) non fu annichilito, smantellato, ma rimasero in piedi ampie aree produttive. Il fatto è che la stessa tensione bellica, lo sforzo a cui l’apparato produttivo fu sottoposto per ciò che concerne la produttività fece registrare paradossalmente dei miglioramenti per ciò che riguarda la concentrazione e l’intensificazione produttiva. Inoltre va ricordato che la Resistenza ebbe la lungimiranza di mettere al sicuro i macchinari e gli impianti, come le installazioni portuali di Genova, le fabbriche di Milano e Torino proprio in vista di un eventuale ripresa del paese;

2) La situazione dei trasporti era sostanzialmente deficitaria, ovvero molto più pesante; fu dovuto ai bombardamenti, che fecero in modo che i trasporti e la viabilità venissero messi a dura prova. Infatti, il 60% circa tra macchine e locomotive fu perduta e l’80% dei vagoni viaggiatori era oramai inutilizzabile, tant’è che nei primi mesi della liberazione si viaggiava da nord a sud con mezzi di fortuna, più che con i trasporti ufficiali. Tuttavia, va evidenziato come nel 1946, con l’opera tempestiva del governo, la situazione fu pressoché normalizzata. Insomma, complessivamente l’economia italiana non collassò. Nonostante gli eserciti che avevano imperversato sul suolo patrio e i bombardamenti, il sistema economico, nel suo complesso, resistette e appena finita la guerra vi fu un clima di grande speranza, iniettato anche dalla guerra di liberazione, che diffuse un sentimento di fiducia nel paese. Questo clima di euforia, dovuto all’accettazione del sacrificio al fine di rinnovare il sistema economico, politico e sociale italiano, nel 1945 fu sicuramente un fatto estremamente positivo, a fronte di una situazione che, per quanto l’economia non fosse completamente al collasso, aveva inferto dei durissimi colpi al sistema economico e sociale;

3) La produzione agricola si era contratta del 60%: prezzi al consumo aumentarono di 18 volte rispetto al ’39 e la disoccupazione era molto diffusa. Tuttavia questo clima di euforia produsse degli effetti estremamente benefici. Infatti questo periodo registra un cambiamento importante, rappresentato dalle grandi masse che prendono la parola: la società italiana che si presenta all’indomani dalla liberazione è una società completamente nuova, dove le masse diventano

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protagoniste attraverso i grandi partiti, come il Partito comunista, il Partito socialista e la Democrazia cristiana.

Per la ripresa economica del paese fu decisivo, insieme all’intervento statale, l’aiuto portato dagli alleati che, appena sbarcati, offrirono una serie di sussidi alle popolazioni, sia dal punto di vista alimentare che economico. Infatti da un lato distribuirono medicinali e alimenti, dall’altro immisero sul mercato le famose am-lire, proprie dell’amministrazione alleata.

Non solo, a questo contributo iniziale per la ricostruzione seguì poi il Piano Marshall, che fece confluire in Italia milioni di dollari, decisivi per il rilancio definitivo dell’economia italiana. Oltre agli aiuti americani un altro elemento che contribuì alla ripresa furono le rimesse degli emigrati, ovvero il denaro che veniva inviato dagli italiani all'estero alle loro famiglie. Questi afflussi spinsero la domanda di beni e, dunque, l’offerta.

Da un punto di vista politico, invece, si abbandonava, per così dire, lo stato paternalista di stampo liberale-moderato, che aveva caratterizzato il risorgimento italiano; i governi italiani si ispirarono all'unità antifascista e compresero, oltre alla democrazia cristiana anche i socialisti e i comunisti. Queste forze di governo erano d'accordo sul fatto che era necessario l'abbandono del modello autarchico fascista e la conseguente liberalizzazione degli scambi commerciali con l’estero.

A sottolineare l’estrema vitalità, i sindacati avevano raggiunto una forza e una coscienza che non era mai stata appannaggio delle classi subalterne della società italiana. Insomma, il sindacato aveva ora un peso specifico estremamente importante nella costruzione del nuovo Stato. Il popolo italiano ebbe la sensazione palpabile di essere uscito dal tunnel in cui era stato portato dal fascismo.

All’indomani della liberazione le truppe alleate mantennero Roma sotto controllo, sperando che il vento socialista, “il vento del nord” (come fu chiamato) potesse soffiare su Roma, con formazioni di sinistra, e spostare l’asse del movimento resistenziale verso quella che Pavone chiamava “guerra di classe all’interno stesso del processo resistenziale”. Così non fu, anche perché l’Italia entrò immediatamente a far parte degli interessi degli alleati, i quali volevano che l’Italia rimanesse monarchica e tranquilla, in ogni caso lontana dalle tentazioni rivoluzionarie che potessero curvarla verso l’Unione Sovietica.

A Roma vi fu inizialmente il governo Parri, leader del Partito d’azione della Resistenza, fino al 1945 e poi subentrò il governo formato direttamente da tutti i partiti del CLN e presieduto dal democristiano Alcide De Gasperi, che governerà poi fino al 1953. De Gasperi, presidente del consiglio del partito adotterà, man mano, una politica sempre più anticomunista, fino al 1953, quando l’Italia oramai sarà nell’orbita alleata e la rivoluzione sarà esplicitamente accantonata.

La nascita della Repubblica

Il 2 giugno 1946 vi furono le elezioni politiche per l’Assemblea costituente e, in pari tempo, si votò per il referendum istituzionale, che doveva decidere tra repubblica e monarchia. Quindi il popolo italiano, così come era stato preannunciato con la svolta di Salerno di Togliatti, aveva la possibilità di decidere la forma istituzionale dello stato. La Repubblica vinse con 12.717.923 di voti, ovvero con il 54%. Umberto II abbandonò dopo poco l’Italia e fu eletto primo presidente della repubblica Enrico De Nicola, noto sia per il suo equilibrio che per la sua vasta formazione giuridica. Va rimarcato che le elezioni del 1946, con un Italia ormai libera, si svolsero a suffragio universale, nel senso che per la prima volta votarono anche le donne. Ovviamente l’entrata in politica delle donne, attraverso il suffragio universale, in Italia avveniva in ritardo rispetto ad altri paesi come, ad esempio, l’Unione Sovietica. Nonostante il paese accolse con qualche titubanza

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questa novità, data la pervicace, forte mentalità maschilista, si segnò un passaggio di notevole importanza nella vita della democratica.

Alle elezioni vinse la Democrazia cristiana con il 35,18% dei voti, il Partito comunista ebbe il 18,96% e il Partito socialista il 20,72%.

Il Partito socialista, pur contiguo ideologicamente con il Partito comunista, aveva una impostazione ideologica più riformista, gradualista che mirava ad una politica di lenti miglioramenti della classe operaia. Il Partito comunista era, di fatto, ideologicamente guidato dal filosovietico Palmiro Togliatti, che pur si richiamava alla tradizione di tipo gramsciana.

Nel luglio del 1946, De Gasperi formò un governo con demo-cristiani, socialisti, comunisti e repubblicani. Era un governo di coalizione, di unità nazionale, a cui si deve, tra l’altro, il merito dell’elaborazione della Costituzione che entrò poi in vigore nel 1948. Costituzione che molti critici, ancora oggi, pensano come ad una delle più belle del mondo e, sicuramente, come il frutto alto di un compromesso fra la tradizione cattolica e quella comunista.

Il governo di unità nazionale cessò la collaborazione nel maggio del 1947, quando De Gasperi formò un governo estromettendo socialisti e comunisti e chiamando tecnici come “Luigi Einaudi” e il repubblicano Carlo Sforza. Le elezioni del 18 aprile 1948 si svolsero in un clima estremamente teso e grande influenza su di esse fu rappresentata dal colpo di stato comunista che si svolse a Praga. La novità di queste elezioni fu che il Partito socialista e il Partito comunista fecero fronte unico ma, nonostante ciò, la paura di quanto era successo a Praga fu decisiva nella sconfitta del fronte.

La Democrazia cristiana, invece, vide rinsaldato il suo successo conseguendo alla camera una maggioranza assoluta, il che significava che avrebbe potuto formare un governo a sola direzione democristiana. De Gasperi, da profondo conoscitore della politica e da grande statista, formò un governo di coalizione con liberali, repubblicani e social-democratici; quello che gli storici hanno poi chiamato un governo “centrista”, cioè che situava il suo asse ideologico al centro dello schieramento politico.

L’operazione di De Gasperi fu anche estremamente intelligente dal punto di vista politico, perché capì che le elezioni del 1948, di fatto, si inserivano in una più vasta dimensione, come è possibile definire quella della Guerra fredda. I risultati delle elezioni del ‘48 avevano subito l’influenza internazionale, così De Gasperi non volle che la Democrazia cristiana avesse la direzione univoca di un paese fortemente travagliato e con partiti socialisti di massa, la cui opposizione era molto ampia, e preferì dare una base larga alla sua maggioranza facendo entrare istanze di altri partiti del centro.

Poco dopo le elezioni, il 14 luglio, un giovane esaltato sparò a Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista. La diffusione della notizia fu come un fremito lungo la penisola e in maniera subitanea si ebbero manifestazioni di protesta, soprattutto al nord, alcune delle quali ebbero addirittura un carattere insurrezionale. Le armi furono ripescate, fu bloccata la prefettura di Milano e le comunicazioni tra il nord e Roma rischiarono di essere interrotte. Prevalse, però, il buon senso del Partito e della CGIL che cercò, con un’opera di persuasione, di calmare gli animi affinché non si arrivasse ad un’insurrezione vera e propria.

La Costituzione

La Costituzione è Grundnorm, ovvero "norma fondamentale", ovvero Magna Charta, come i padri latini ci insegnano. Essa stabilisce i princìpi fondamentali e l'architettura dello Stato. Rappresenta un alto compromesso tra due concezioni, teorie, culture, due dottrine estremamente

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diverse, quella cattolica e quella comunista. Il compromesso alto fra due concezioni del mondo fu possibile pure perché il pensiero cattolico, pur rimanendo nell’alveo di un pensiero liberista, seppe esprimere un cattolicesimo che faceva perno sul principio di solidarietà che riuscì, perciò, ad incontrare il pensiero comunista. Due ideologie e tre partiti! I partiti che la approvarono, nel 1947, furono la Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partiti socialista ed altri partiti minori.

Gustavo Zagrebelsky, uno dei maggiori costituzionalisti italiani, afferma che "La Costituzione non è un ibrido, ma un prodotto alto delle concezioni cattolica e marxista" e Calamandrei ne vede i padri nel movimento resistenziale.

I primi articoli della Costituzione costituisco i principi fondamentali del nostro Stato.

Senza la pretesa di essere esaustivi, possiamo brevemente commentare i primi articoli della Costituzione che riguardano i principi fondamentali.

Art.1: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione."

La presenza del termine "lavoro", nel primo articolo della Costituzione italiana, evidenzia la matrice ideologica di chi l'ha scritta. Viene da lontano questo principio, ma una prima articolata sistemazione si ha con la tradizione democratica e socialista dell’Ottocento.

Il lavoro assurge a elemento fondamentale dello sviluppo sociale, economico e culturale; è l'elemento su cui si fonda la possibilità di un miglioramento generale e personale; è garante della libertà e della dignità. Il lavoro non è finalizzato unicamente ad appagare alcuni bisogni dell'uomo, ma è strumento di libertà. La proprietà privata individuale frutto del lavoro è strumento che permette non solo di soddisfare bisogni primari ma dà la strumentazione necessaria per l’esercizio della libertà. Jacques Roux durante la Rivoluzione francese affermava che la liberta è una parola vana se non riesco neanche a comprare il pane che, giorno dopo giorno, costa sempre più. Il lavoro mi permette di acquisire quella proprietà privata individuale che mi permette di esprimere la mia personalità nella sua potenzialità e libertà.

Art.2: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale."

I diritti inviolabili dell'uomo si rifanno al diritto naturale affermato anche dagli stoici, secondo i quali alcuni diritti sono fondati sulla ragione. A questo proposito Cicerone afferma che "Essendo il diritto universale basato sulla ragione, è uguale sia a Roma che ad Atene". La seconda parte riguarda i doveri inderogabili di solidarietà, secondo i quali i fondi sociali devono essere messi a disposizione di chi è bisognoso. Il dovere della solidarietà lo ritroviamo, poi, nel princìpio di tassazione progressiva (art. 53), il quale stabilisce che chi possiede un reddito maggiore subisce una tassazione maggiore. Il diritto unico ed egualitario è un diritto ingiusto se il corpo sociale è diseguale.

Art.3: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."

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Si sottolinea che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che intralciano il libero sviluppo della persona. Lo Stato s’impegna nei confronti dei cittadini ad assicurare interventi proporzionali ai bisogni rimuovendo le cause della disuguaglianza.

Art.4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società."

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto-dovere di lavorare secondo le proprie possibilità per promuovere lo sviluppo sociale e garantire la libertà dell'individuo. Ancora una volta, come nell'articolo 3, viene ribadito che la Repubblica interviene per rendere accessibile a tutti il diritto al lavoro, alla realizzazione e al miglioramento sociale.

Art.5: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento."

Nel 1947 i costituenti venivano dall'esperienza del regime fascista che aveva creato una separazione tra il governo e le masse (il governatore ad es. non era eletto dal popolo, ma dall'entourage fascista). Per ricomporre il tessuto sociale i costituenti vollero consacrare nello scritto la necessità di mediazione tra i poteri tra centro e periferia, ma pure articolare una maggiore democratica pervasività decisionale.

Art.6: "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche."

Per evitare le situazioni di conflitto ai confini, i costituenti decisero di includere garanzie, protezione per le minoranze affinché fossero vissute come ricchezza.

Art.7: "Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale."

Per revisionare i Patti lateranensi è necessario un accordo tra lo Stato e la Chiesa senza redigere un nuovo articolo costituzionale. In una Costituzione semplicemente liberale questo articolo non sarebbe entrato. Entra a dispetto della storia e dell’intero processo di laicizzazione, secolarizzazione, scristianizzazione iniziato dalla grande Rivoluzione francese per la particolare situazione specifica italiana. Paradossale che nella Costituzione repubblicana entrino i Patti fascisti. Dalla Rivoluzione francese in poi, dal punto di vista teorico, si era stabilito che lo Stato ha tutte le religioni al suo interno e ne garantisce la libertà, ma non ne riconosce nessuna in particolare come propria. Si rinuncia così, per la contingenza politica, e il compromesso politico ad una delle grandi conquiste laiche e, paradossale, tale rinuncia viene proprio dal Partito comunista. Il Partito comunista voterà questo articolo proprio per la risolutezza democristiana mentre il Partito socialista, invece, si rifiuta ad oltranza.

Art.8: "Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze."

È una sorta di appendice dell'articolo 7.

Art.9: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione."

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L'articolo 9 si distanzia dal modello puramente liberale poiché la Repubblica per la prima volta si intromette nell'ambito della ricerca, dello sviluppo e della tecnica. In effetti, dalla prima guerra mondiale in poi lo Stato diventa sempre più protagonista nell'ambito nazionale, con la Costituzione; in seguito, si registra questo cambiamento e si abbandona definitivamente la visione liberale.

Art.10: "L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici."

Come direbbe Hemingway "La Repubblica italiana non è un'isola, ma una parte di un continente", cioè noi non siamo in un diritto nazionale, ma ci inseriamo volentieri in un diritto di tipo internazionale, che implica regolamenti commerciali e regolamenti limitanti la libertà.

Con quest'articolo si garantisce il diritto di asilo a quelli che hanno libertà compresse o limitate nei loro paesi. Di nuovo il principio di solidarietà!

Art.11: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo."

Art.12: "La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni."

Gli organi dello Stato

Il Presidente della Repubblica è eletto con maggioranze qualificate in seduta congiunta dai Deputati, dai Senatori e dai rappresentanti delle regioni.

Le più importanti cariche che la Costituzione italiana assegna al Presidente della Repubblica sono: garante delle Istituzioni, rappresenta l'Unità nazionale e lo Stato italiano all'estero. Egli è il Presidente del Consiglio superiore della Magistratura, delle Forze Armate, del Consiglio supremo di difesa e dichiara, previa delibera delle Camere, lo stato di guerra difensiva, non offensiva perché la Costituzione la vieta (art. 11), diversamente da quel che accade in altri paesi come gli USA. Tale limitazione fu dettata dal fatto che in passato, durante il periodo fascista, l'accentramento personale del potere era stato uno dei principali fattori determinanti l'entrata in guerra dell'Italia guidata da Mussolini.

I costituenti stabilirono, nel 1947, che il Capo dello Stato non potesse essere eletto direttamente per due ragioni:

1) un'elezione diretta avrebbe implicato un'attribuzione di maggiori poteri;

2) una carica così alta dovrebbe essere sottratta alla mischia elettorale che spesso è sinonimo di popolarismi e occasione di promesse non facilmente realizzabili.

L’elezione del Capo dello Stato è, pertanto, affidata al Parlamento integrato dai rappresentanti delle regioni e richiede maggioranze qualificate.

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Il Parlamento italiano detiene il potere legislativo. Si compone di due Camere: la Camera dei Deputati e la Camera dei Senatori. Il Parlamento è caratterizzato da un “bicameralismo perfetto”, ogni legge deve essere approvata da entrambe le Camere. Il Governo Renzi aveva proposto il superamento del bicameralismo perfetto, ma il referendum del 4 dicembre 2016, ha bocciato questa proposta. La Camera dei deputati è composta da 630 rappresentanti, eletti a suffragio universale dalla popolazione che ha raggiunto i 18 anni di età; la camera del Senato, composta da 315 membri più i senatori a vita e gli ex Presidenti della Repubblica è eletta dai cittadini che hanno compiuto 25 anni di età.Il Presidente del Senato ricopre il ruolo di vice del Presidente della Repubblica assumendone i poteri, in caso di assenza o impedimento. Il Presidente della Camera dei Deputati è anche la terza carica dello Stato.Le leggi ordinarie sono approvate da entrambe le Camere del Parlamento se ottengono la maggioranza dei voti in ciascuna Camera. La legge diventa esecutiva, quindi entra in vigore dopo la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Per modificare le legge fondamentale dello Stato, ovvero la Costituzione, i Costituenti hanno previsto un maggioranze parlamentari molto più ampie, ovvero pari o superiori al 75% dei componenti in ciascuna Camera.

La Corte Costituzionale è un organo formato da alti magistrati e giuristi; questi vigilano sul rispetto delle norme costituzionali e verificano la costituzionalità delle leggi approvate dal Parlamento. Nel caso in cui le leggi risultano “incostituzionali", il Parlamento ha il dovere di correggerle.

Il Presidente del Consiglio è il capo del Governo, è nominato dal Presidente della repubblica e riceve la fiducia dalla maggioranza dei Parlamentari. Il governo, composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, svolge potere esecutivo.

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BIBLIOGRAFIA

LibriE. Vittorini, Uomini e no, 1945

B. Fenoglio, Il partigiano Jonny, 1968

FilmLa ciociara, de Sica, 1960

Le quattro giornate di Napoli, N. Loy, 1962La donna nella resistenza, L. Cavani, 1965

La ragazza di Bube, Comencini, 1963

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LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE

~ Il primo Novecento~ La Repubblica e il Guomindang~ La guerra di liberazione e la Repubblica popolare~ I ‘Cento fiori’ e il ‘Grande balzo~ I rapporti cino-sovietici~ La rivoluzione culturale~ Il riformismo di Deng Xiaoping

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LA REPUBBLICA POPOLARE CINESEIl primo Novecento

Attraverso la rivoluzione socialista cinese, la Cina è passata dall’essere una media potenza del continente asiatico a diventare una superpotenza che influenza pesantemente l’ambiente geopolitico mondiale e determina il destino del globo.

La Cina, tecnicamente, si potrebbe considerare come un continente a sè stante considerando la sua estensione geografica, la moltitudine di ambienti geografici e le diverse etnie che la compongono. Fino all’inizio del 1900 l’arretratezza economica e tecnologica era talmente forte che l’economia cinese era costellata da veri problemi di sussistenza. Lo Stato sembrava una istituzione un’istituzione effimera sostanzialmente medievale. La struttura economica della Cina era essenzialmente agricola e imperniata sulla struttura del latifondo che proietta si proietta socialmente nelle figure del ricco latifondista e di una massa di contadini poveri che componevano la stragrande parte della popolazione.

Proprio questi ultimi, riuscirono a portare a termine una rivoluzione di stampo socialista richiamandosi a quella teoria che, viceversa, poneva al centro la classe operaia come elemento strutturale del passaggio al socialismo. Anche la Cina rappresenta una ‘deviazione’ dal modello classico marxista che, tuttavia, Mao seppe interpretare in un paese di contadini poveri.

All’inizio del Novecento la Cina era diventata neanche una colonia, una sotto-colonia, a indicare il grado di assoggettamento e di vessazione delle potenze straniere che strangolavano il paese.

Solo alcune zone dello sterminato territorio conobbero, attraverso gli investimenti stranieri, la nascita di una fragile borghesia intraprendente, di una fragile classe operaia, di intellettuali ‘occidentalisti’ che studiava in Europa e che si pone contro le tradizioni. Tuttavia, la struttura economica della Cina, nel suo complesso, rimaneva agraria, medievale, che si reggeva sulla dialettica grande proprietà/contadini poveri.

La Repubblica e il Guomindang

Nel 1911 Sun Yat-Sen guidò la prima rivoluzione cinese che rovesciò la dinastia dei Manciù e instaurò la Repubblica. La Repubblica fu opera, soprattutto, del Guomindang (Partito Nazionale del Popolo) ovvero il partito della borghesia nazionale.

La borghesia non ebbe, però, la forza di contrastare, né gli interessi della grande proprietà terriera, né le pretese delle potenze coloniali. La Cina cadde, allora, sotto la dittatura di Yuan Shibkai rappresentante dei grandi proprietari terrieri.

La Cina non migliorò nell’opinione internazionale, nei rapporti con le grandi potenze. Infatti, alla fine del Primo conflitto mondiale, nel 1919, la Conferenza di pace assegnava al Giappone i possedimenti della Germania nello Shantung.

La guerra di liberazione e la Repubblica popolare

Nel 1921 nacque il Partito comunista cinese. Per un periodo il partito collaborò con il Guomintang fino a quando ne diventò leader Jang Jeshi (Chang Kari-Shek) che fu ostile ai comunisti. Chang Kari-Shek condusse una campagna militare contro i comunisti che avevano proclamato una repubblica sovietica al

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Nord. I comunisti che riuscirono a sfuggire all’accerchiamento si misero in salvo, attraverso una leggendaria ritirata di diecimila chilometri la cosiddetta ‘Lunga marcia’. Attorno alla figura di Mao i comunisti cercarono il consenso partendo dai contadini poveri.

Nel 1937 il Giappone invase la Cina con l’intento di sottometterla e ciò ricompattò le file cinesi: fece riavvicinare, in funzione anti-nipponica, Mao e Chang Kari-Shek.

Il Partito comunista prendendo parte al processo di liberazione nazionale diventò sempre più forte. Il conflitto finì per essere uno dei tanti all’interno della Seconda guerra mondiale. Intanto il Partito comunista apparve come il vero liberatore della Cina. Dopo la fuga dell’esercito Cinese nazionalista di Chiang Kai-Shek a Taiwan, il 1 ottobre 1949 Mao proclamò la Repubblica Popolare Cinese.

I ‘Cento fiori’ e il ‘Grande balzo’

Si avviò subito, nella Cina contadina, la costruzione del ‘socialismo cinese’. La prima riforma fu quella agraria che prevedeva l’eliminazione del latifondo a favore dei contadini poveri. In effetti, ma proprio l’eccessivo frazionamento dei lotti, che ne seguì non portò risultati positivi in termini economici. Anche il primo piano quinquennale, elaborato sul modello sovietico, che prevedeva la collettivizzazione delle terre e un’industrializzazione forzata, non ebbe successo. Iniziò, allora, ciò che Mao, il ‘ Timoniere’, chiamò il periodo dei ‘Cento fiori’ cioè un periodo di liberalizzazione e autonomia in campo economico, culturale, ecc. Ma i ‘Cento fiori’ produssero anche le “erbe velenose”.

Nel 1958 iniziò la fase del ‘Grande balzo in avanti’ cioè di un programma economico che intendeva basarsi sul principio del “camminare su due gambe”: agricoltura e industria. Secondo gli obiettivi in 15 anni si sarebbe raggiunti gli standard della Gran Bretagna. Insomma, l’idea era quella di portare, nel più breve tempo possibile, la Cina da agricola a industriale tale da poter competere con le maggiori potenza mondiali.

In questo quadro di mobilitazione generale furono sperimentate le Comuni popolari ovvero un’istituzione organizzativa di base dell’economia agricola cinese che dovevano traghettare il socialismo cinese al comunismo. Esse dovevano essere autosufficienti cioè sviluppare anche il settore industriale e terziario. In questo senso furono una novità rispetto al Kolcoz sovietico. La Comune popolare rappresentò il modello economico e politico-culturale del comunismo cinese: ne furono costituite circa 750.00 comprendente ognuna circa mille famiglie. Fu, tra l’altro la risposta alla frammentazione antieconomica della terra. La cellula base era rappresentata da 40-50 contadini e contadine, collettivamente proprietari di circa 20 ettari di terra che gli veniva assegnata. I contadini stessi organizzavano il lavoro e ripartivano quanto prodotto in base alle necessità (ad es. numero di figli) e ad un metodo basato su punti-lavoro che maturavano. L’esperienza-esperimento delle Comuni fu chiuso definitivamente nel 1984 e registrata nella Costituzione nel 1993 quando ad esse si sostituì una forma di contratto di responsabilità con lo Stato ed un prelievo statale attraverso le imposte.

I rapporti cino-sovietici

I rapporti tra i due paesi s’incrinarono già all’epoca del XX Congresso del PCUS quando Krusciov denunciò i crimini di Stalin. Mao fu assai critico verso Krusciov bollandolo come revisionista.

La Cina, da tempo, appariva sofferente riguardo i numerosi tentativi Sovietici d’influenzare la politica di Mao. D’altra parte la classe dirigente cinese non vedeva di buon occhio l’atteggiamento autoritario di Mosca nell’assumere la funzione di guida del socialismo internazionale. Pian piano riprese l’orgoglio nazionalista e

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montò la marea antisovietica. La vera e propria rottura si palesò ufficialmente nel 1963 quando i dirigenti sovietici furono indicati come traditori del marxismo-leninismo a capo di un nuovo ‘social-imperialismo’. La Cina, di fatto, si proponeva come paradigma socialista mondiale.

Motivo del contrasto fu anche la decisione, da parte dell’URSS, di non assistere la Cina in ambito nucleare con lo scopo di non perdere la supremazia militare. Tuttavia, già nel 1964 la Cina fece esplodere la prima bomba atomica consolidando il suo stato di superpotenza internazionale. Legati a queste controversie vi furono alcuni scontri di frontiera tra truppe dei due schieramenti, come il celebre “Incidente del fiume Ussuri”, evento che, per poco, non fece degenerare il tutto in guerra aperta.

La rivoluzione culturale

Per ciò che riguarda la politica interna i più giovani vennero mobilitati in una rivoluzione contro i fautori della via capitalistica. Fu la cosiddetta rivoluzione culturale lanciata dallo stesso Mao che avvertiva di un cambio di rotta e invitava alla sorveglianza dei giusti principi socialisti.

Nel 1964 fu diffuso il famoso Libretto rosso che condensava il pensiero del Presidente Mao; forniva una guida sintetica per la formazione del rivoluzionario. Fu stampato in milioni di copie e raggiunse il ’68 europeo.

Il Libretto s’inquadrava in una considerevole lotta politica interna al paese tra la linea politica di Mao e quella di Deng Xiaoping e Liu Shao-chi dipinti come revisionisti dei principi socialisti. La rivoluzione culturale aveva come obiettivo quello di scardinare chi aveva tradito i principi socialisti e aveva assunto ruoli di potere nella società e nel partito. Mao lanciò la parola d’ordine di controllare i dirigenti del partito e di spazzare via i parassiti. I giovani cinesi – organizzati come ‘guardie rosse’ - seguirono Mao e, a tutti i livelli, costrinsero i burocrati a fare pubblica ammenda.

Il riformismo di Deng Xiaoping

Nel 1976 Mao morì e salì al potere Deng Xiaoping, il quale procedette ad un vero e proprio processo di ‘modernizzazione’.

Stravolse pesantemente la strategia politica di Mao verso una radicale liberalizzazione economica e una normalizzazione dei rapporti con le nazioni occidentali. Furono rimossi tutti gli ostacoli economici verso importazioni ed investimenti stranieri. La Cina apriva le porte agli investimenti stranieri, all’importazione tecnologica. In ambito politico, invece, questo riformismo non si senti quasi per nulla: la struttura autarchica dello stato rimase prettamente invariata; invariate le restrizioni alla libertà di stampa, di associazione, ecc.

La politica riformista di Deng sollecitò, alla lunga, domande di democrazia e libertà come quella del movimento studentesco del 1989 quando i giovani pechinesi occuparono piazza Tienammen. La protesta fu sedata con i carri armati e non vi fu nessun allentamento sulle libertà da parte del regime.

Nel 1993 si emendava la Costituzione in vari punti rimarcando di essere nella costruzione della “prima fase del socialismo”, di accettare l’iniziativa priva e di praticare l’economia socialista di mercato:

a) “Il nostro paese è nella prima fase del socialismo” (punto 7 Preambolo); “Nella prima fase del socialismo, lo stato si fonda sul sistema della proprietà pubblica e sullo sviluppo di ogni altro sistema economico di base” (art. 5).

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b) Non si richiamano più le Comuni, ma “Il sistema di responsabilità contrattuale rurale basato principalmente sulla remunerazione familiare collegata alla produzione […] I Lavoratori che sono membri di collettivi economici rurali hanno diritto, nei limiti prescritti dalla legge, a coltivare appezzamenti di terreno e terre collinose assegnati per il loro uso, a impegnarsi in produzioni collaterali su base familiare e ad allevare bestiame posseduto privatamente.” (art. 8); “Lo stato permette al settore privato dell'economia di esistere e svilupparsi nei limiti prescritti dalla legge” (art. 11).

c) “Lo stato pratica l'economia socialista di mercato” (art. 15). “Le imprese statali, presupposta l'obbedienza alla guida unitaria dello stato e presupposto il completamento del piano economico sociale, hanno il diritto di autonomia nell'amministrazione gestionale, entro l'ambito prescritto dalla legge. Le imprese statali attuano un'amministrazione democratica, attraverso assemblee di impiegati-operai ed altre forme, in conformità alle norme di legge.” (art. 16)

BIBLIOGRAFIA

Libri

Mao Zedong, Libretto rosso, 1963T. Terzani, La parta proibita, 1984

Film

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L’ultimo imperatore, B. Bertolucci, 1987Lanterne rosse, Zhang Yimou, 1991

ONU, ISRAELE, EUROPA

~ ONU~ ISRAELE

EUROPA~ La ricostruzione~ La costruzione: da Ventotene alla moneta unica

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L’ONU

L’ONU, che si pose sul sentiero tracciato dalla Società delle Nazioni, era stata già anticipata in diverse occasioni. Tra queste si possono ricordare: la Carta Atlantica del 1941 che a sua volta riprendeva i 14 punti di Wilson, la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1942, la Conferenza di Mosca del 1943, di Dumbarton Oax nel 1944 e di Yalta del 1945. Si decise di stabilire la sede centrale dell'ONU a New York nel Palazzo di Vetro.

Durante la Conferenza Internazionale di San Francisco (25 aprile – 26 giugno 1945) nasce l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) con la partecipazione di 50 stati – oggi 193 su 196 – e con lo scopo di garantire l'equilibrio internazionale tramite metodi pacifici. Nella fattispecie l’art. 1 e 2 dello Statuto sanciscono i fini e i principi:

“Art. 1, comma 1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai princìpi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace.

2. Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale.

3. Conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione. […]

Art. 2, com. 3. I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo.”

All’interno di questa organizzazione internazionale vi sono cinque grandi nazioni, che hanno un ruolo predominante rispetto alle altre: Unione Sovietica, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Cina. Tra gli organi principali dell’ONU vi sono:

L’Assemblea Generale: formata da tutti gli stati membri, dove le delibere vengono prese per maggioranza;

il Consiglio di Sicurezza: una sorta di organo esecutivo formato da dieci stati eletti a turno e dalle cinque potenze principali, le quali deliberano all’unanimità e hanno ognuna il diritto di veto ovvero, la possibilità di bloccare qualsiasi disposizione ritenuta contraria ai propri interessi, diretti o indiretti, ponendo un enorme freno alla delibera dell’Assemblea Generale. Si ritiene, quindi, che la semplice maggioranza non sia sufficiente per decidere riguardo questioni di interesse nevralgico, che possono portare a ricadute, come lo era stata la Seconda Guerra Mondiale. Serve, pertanto, l’unanimità delle cinque nazioni. Ciò si spiega considerando che una grande potenza può essere messa in minoranza facilmente da un'alleanza tra tante piccole nazioni.Il Consiglio può decidere anche l’intervento armato attraverso le truppe dei Caschi blu.I due organi di controllo dell'ONU corrispondono ad altrettante concezioni: la concezione utopistica, presente nella Assemblea generale, che sostiene i principi di libertà dei popoli e di uguaglianza fra le nazioni; la concezione realistica, espressa nel Consiglio di Sicurezza, che in

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linea con le idee del presidente americano Roosevelt affida alle potenze vincitrici, munite di un notevole peso politico-militare, le decisioni più importanti.

ISRAELE

Nel 1945 la Palestina era abitata da 500.000 Ebrei e da 1.500.000 Arabi. La presenza degli ebrei in Palestina era cresciuta soprattutto negli anni Trenta sotto la spinta del movimento sionista che ‘prometteva’ di riportare gli Ebrei in Palestina dopo la diaspora del 70 d.C. e fondare uno Stato ebraico. Il sionismo, la cui iniziativa si deve a Theodor Herzl, si sviluppa rapidamente anche favorita dalla Gran Bretagna che con la Dichiarazione Balfour del 1917 si dichiarava disponibile all’insediamento di uno Stato ebraico in quella zona.

La Società delle nazioni aveva dato sotto mandato, quelle zone alla Gran Bretagna a seguito della dissoluzione dell’Impero ottomano all’indomani della Prima guerra mondiale.

La shoah aveva fatto sì che a livello internazionale si creasse un movimento favorevole alla nascita di uno Stato ebraico, che divenisse la terra dei superstiti delle atrocità nazi-fasciste. La causa sionista aveva forti alleati negli Stati Uniti, dove la comunità ebraica godeva di grande prestigio.

Intanto, la massiccia presenza di coloni ebrei aveva creato frizioni con le popolazioni locali. Nel 1945 era nata anche la Lega araba (Libano, Siria, Iraq, Egitto, Arabia Saudita, Transgiordania e Yemen) con l’intento di costituire uno Stato arabo in Palestina.

Le organizzazioni militari ebraiche passarono alla lotta armata, sotto la guida del leader ebreo David Ben Gurion, facendo saltare in aria nel 1946 la sede del quartier generale britannico a Gerusalemme (il King David Hotel) e provocando decine di vittime. Di fronte alla situazione divenuta ormai incontrollabile, la Gran Bretagna decise di ritirare le truppe dalla Palestina.

Nel 1947 l’ONU propose di dividere la Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme zona internazionale. Gli Ebrei accettarono la spartizione mentre gli Arabi rifiutarono dichiarandosi pronti a ricorrere alle armi.

Nel 1948, Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele il giorno prima che l’ONU ne sancisse ufficialmente la nascita. Il giorno dopo la Lega Araba attaccò il nascente Stato d’Israele, ma dovette registrare una cocente sconfitta e l’affermazione definitiva dello Stato d’Israele come una realtà nuova quanto stabile nell’area medio-orientale.

Al termine del conflitto, Israele aveva allargato i suoi confini del 40% oltre ciò che l’ONU aveva stabilito e la creazione di uno Stato Arabo non fu più possibile; un milione di profughi arabi fuggirono nei paesi vicini: nacque, così, la questione palestinese che si protrae fino ai nostri giorni e rende l’area instabile dal punto di vista geo-politico.

Nel 1964 fu creata l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), allo scopo di combattere gli Israeliani e creare uno Stato palestinese, ma i conflitti sono aperti ancora oggi.

Nel 1967 l’Egitto del presidente Nasser impediva agli israeliani il commercio nel golfo di Aqaba. La risposta di Israele fu pronta: attaccava l’Egitto e si difendeva da Siria e Giordania che prendevano parte alla guerra.

Subito si schierarono in maniera aperta le superpotenze: gli Usa appoggiarono Israele, l’Urss l’Egitto.

La “guerra dei sei giorni”, dal 5 al 10 giugno, registrò un nuovo successo israeliano che ampliò maggiormente i propri territori. L’Israele dimostrò la forza dirompente del suo esercito e della sua aviazione e conquistò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza che appartenevano al territorio Egiziano, la Cisgiordania e Gerusalemme che appartenevano alla Giordania e le alture del Golan che erano governate dalla Siria.

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Ancora, nel 1973, l’Egitto di Sadat (succeduto a Nasser) scatena la “guerra del Kippur” (festività israeliana), insieme alla Siria. Israele con grandi difficoltà riuscì comunque a respingere l’attacco e ad acquistare nuovi territori.

Nel 1977 Sadat propose un accordo di pace che poi venne sancito nel 1978 a Camp David sotto lo sguardo del presidente americano Carter, tra Sadat e l’israeliano Begin. Tale accordo fu considerato pregiudizievole dall’Olp e dagli interessi palestinesi.

Il 1987 registra la cosiddetta Prima intifada (“risveglio”) o “guerra delle pietre” ovvero la rivolta dei ragazzi palestinesi (12-15 anni) che lanciano pietre contro i soldati israeliani che occupano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza che finirà solo nel 1993 anno della storica stretta di mano tra Arafat, leader dell’Olp, e l’israeliano Rabin a Washington al cospetto del presidente americano Clinton.

Ancora oggi è difficile dire che sia stata raggiunta definitivamente la pace.

 

EUROPA

La ricostruzione

Non solo la dottrina Truman caratterizzò il periodo post-guerra, ma anche quello che verrà chiamato il Piano Marshall, che assicurerà una massiccia partecipazione economica ai paesi alleati degli Stati Uniti, di fatto sarà un propellente per il miracolo economico e per la ricostruzione europea che diede linfa vitale per uno sviluppo che surclassò ben presto la situazione anti guerra.

Il Piano Marshall fu un vero e proprio volano per l’economia europea. Gli Stati Uniti parteciparono alla ricostruzione dal punto di vista economico in maniera eccezionale. Il Piano, ufficialmente chiamato European Recovery Programm, fu annunciato il 5 giugno del 1947 dal Segretario di Stato George Marshall e divenne operativo l’anno successivo, nel 1948. L’intento dichiarato dagli americani fu quello di iniettare una massiccia dose di denaro nei paesi europei per favorire la ricostruzione, al fine di prevenire il rischio comunista e quindi di evitare eventuali rivolte, sommovimenti, rivoluzioni europee. Per evitare che i Sovietici e l’idea del comunismo potessero influenzare le economie europee e gli Stati europei stessi, si iniettò nel corpo vivo dell’Europa una quantità di denaro tale da poter tenere sedati gli animi della rivolta. Si addormentò, insomma, la rivoluzione comunista col farmaco del denaro, con l’anestetico del denaro. Il Piano si doveva inserire in quella vasta teoria di Keynes, che prospettava una piena occupazione attraverso un sostegno alla domanda. Gli Stati inoltre avevano capito in maniera cristallina che l’ascesa di Hitler era stata favorita esattamente dalla depressione economica e da una disoccupazione di massa, dunque bisognava scongiurare entrambe attraverso una ricostruzione economica che potesse prevedere delle mete ambiziose e un miglioramento della vita in generale. Già dal 1936 le teorie di Keynes e la politica rooseveltiana avevano dimostrato che, in funzione anticiclica e quindi anticrisi, era possibile un’iniezione di denaro liquido tale da mettere in moto l’economia e da fornire benzina al capitalismo per favorire una ripresa. In questo senso i governi occidentali capirono che bisognava mantenere alta la domanda effettiva, in modo da assicurare una piena occupazione, ma accanto al Piano Marshall si inserì un altro tipo di strumentazione, ovvero una strumentazione che favoriva l’abilità monetaria. Gli accordi Bretton Woods, del 1944, stipulati tra 45 nazioni, crearono due strumenti estremamente importanti: il fondo monetario internazionale e la banca mondiale. In questa contrattazione si raggiunse un accordo tra gli stati nel mantenere un regime di cambi fissi tra le varie monete e, a lungo termine, di creare una libertà negli scambi internazionali. Con grande acume, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio italiano, chiese immediatamente, già dal 1947, che l’Italia fosse ammessa ad entrambi gli organismi previsti dagli accordi di Bretton Woods. È importante capire che la ripresa dell’economia europea non solo derivò da questa iniezione di liquidi, ma le radici della ripresa erano, paradossalmente, incardinate nella stessa crisi che aveva causato dei disordini economici in Europa e che aveva portato l’Europa alla guerra; la ripresa aveva delle basi economiche che erano all’interno

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stesso del conflitto perché esso era l’acme di una crisi economica e politica, ma la guerra, nel suo incedere, aveva portato alla massima espressione il sistema economico. Il sistema economico si era concentrato sulla produzione bellica, che aveva prodotto una concentrazione di tecnologie e un’intensificazione dei metodi produttivi, che, convertiti in economia civile, saranno oltremodo importanti. Dunque lo sforzo bellico, nella produzione convertita in usi civili, consentì una maggiore capacità da parte del capitalismo, sia nei processi di concentrazione economica, sia nei processi di intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro, in modo che questo tipo di ammaestramento servì da volano anch’esso nella produzione e nello sviluppo economico post guerra. Questo tipo di carattere è visibile soprattutto in Gran Bretagna e in Germania. Il potenziale economico delle nazioni in guerra beneficiò dei progressi della tecnica e delle scoperte scientifiche che si ebbero soprattutto nelle industrie con delle munizioni. Il risultato fu, appunto, che il Regno Unito, l’Urss, l’USA e la Germania acquistarono nuove capacità tecniche, così come capacità soggettive e quindi capacità professionali; m industrie, una volta operato la trasformazione in termini civili si dimostrarono molto proficue. Il Piano Marshall fu estremamente importante fu considerato dai Sovietici un oggetto di penetrazione della politica imperialistica americana, un tipo di impostazione perfettamente coerente. In effetti era appunto lo strumento di penetrazione della politica espansionista, imperialista americana, un imperialismo che oramai allargava la propria influenza non tanto con gli eserciti, ma con tutta una serie di strumentazione finanziaria. I legami sempre più stretti tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti furono ribaditi con il patto atlantico del 1949 e a livello militare con la NATO, cioè con il North Atlantic Treaty Organization, l’organizzazione del trattato Nordatlantico estremamente importante, che aveva come scopo la difesa militare dell’Occidente. Va ricordato che, soprattutto con la Francia e l’Italia, la NATO ha questo legame così forte e per molti versi definitivo. Essa poneva i paesi sotto la protezione statunitense, creò grandi dimostrazioni e grandi malcontenti soprattutto nei partiti di sinistra, quindi in Francia ed in Italia, dove questi ultimi erano massicciamente rappresentati.

La costruzione

Tre sono le ipotesi per giungere all’unità europea dopo che i nazionalismi europei si erano ferocemente dilaniati:

Ipotesi confederale prevedeva una certa unità politica senza che i governi cedessero una qualche sovranità nazionale;

Ipotesi federalista si reggeva sull’idea di una vera federazione di stati che si costruiva sulla cessione della sovranità nazionale. La federazione era possibile a patto che i singoli stati cedessero parte della loro sovranità nazionale fino alla costituzione di organismi europei, cioè di una Assemblea costituente europea capace di accentrare i poteri e di dar luogo ad una Costituzione federale;

Ipotesi funzionalista si articolava sull’idea che l’integrazione economica, sempre più stretta, avrebbe portato pian piano alla constatazione della necessità della unità politica.

Quest’ultima ipotesi si era fatta strada già all’interno del movimento resistenziale europeo. Alfiere di questa via fu Altiero Spinelli, che al confino, insieme a Ernesto Rossi, scrisse il Manifesto di Ventotene che ebbe largo eco fra l’élite intellettuali.

La via ipotizzata da Spinelli era soprattutto di ordine politico in una visione che faceva scendere dall’alto il processo unitario: la carta costituzionale europea avrebbe avuto la capacità di unire i diversi popoli che fino al giorno prima si erano ferocemente squassati.

Nel 1948 fu costituita l’OECE, l’organizzazione per la collaborazione economica europea. Nel 1951 venne costituita, poi, la CECA, la comunità europea del carbone e dell’acciaio. All’interno di questo processo che riguarda i primi organismi economici europei, di notevole importanza è la data del 25 marzo 1957, quando,

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con il Trattato di Roma, si istituiva la CEE, comunità economica europea, detta anche MEC, mercato comune europeo che aboliva le tariffe doganali e gli ostacoli alla libera circolazione delle persone, e, nello stesso tempo si costituiva l’EURATOM, cioè comunità europea dell’energia atomica. Sia Alcide De Gasperi che Robert Schuman tentarono di proporre una maggiore unione tra diversi paesi reduci dall’esperienza della seconda guerra mondiale. Essi proponevano la costituzione di una comunità europea di difesa, la CED, ma evidentemente i tempi erano troppo immaturi per una cosa del genere. Si tenga conto che neanche oggi c’è una comune difesa europea, certamente questo avrebbe significato anche una maggiore cementificazione dal punto di vista politico perché l’uso della forza avrebbe necessariamente richiesto anche organismi estremamente importanti per quanto riguarda la fase legislativa, decisionale. L’Europa, dopo la seconda guerra mondiale, dilaniata dai conflitti tra gli stati, cercava faticosamente di ricomporre un’unità o almeno un’armonia con cui poter sopravvivere alle catastrofi che aveva prodotto. Il principio su cui l’Europa si mosse fu innanzitutto quello di diventare economicamente un’unità, ovvero di integrare le economie dei singoli stati e renderle sempre più cosa una. L’integrazione economica e l’interdipendenza doveva suscitare e, inevitabilmente, portare ad un’unione tra stati politica e ideologica, se si vuole considerare che poco prima si erano contese guerre, territori e lingue. Sarebbe stato difficile pensare che queste nazioni potessero rinunciare alla propria sovranità, quindi, per molti versi, il problema dell’Europa e di una pace europea fu intesa materialisticamente e marxisticamente come integrazione economica, dalla cui integrazione si sarebbe dovuti passare ad un’integrazione necessariamente politica e anche per quanto riguarda organismi di difesa. De Gasperi, in quel momento, ebbe il merito non solo di proporre, insieme a Schuman e Adenauer, questo obiettivo, ma di guardare lontano e appunto di vedere come la progressiva integrazione avrebbe poi richiesto una limitazione della sovranità nazionale a favore di organismi europei; l’obiettivo è ancora pienamente da raggiungere. Un’impostazione di tipo politica si ebbe nel 1979, quando si istituì il Parlamento europeo di Strasburgo eletto a suffragio universale e poi rinnovato nel 1984, ogni 5 anni. All’inizio il Parlamento di Strasburgo ebbe poteri molto limitati e si raccomandavano ai governi una serie di iniziative. Un passo avanti, estremamente importante, ci fu nel 1989 con la creazione del sistema monetario europeo (SME), con il quale si cercò sempre più di unire le monete europee in un rapporto di cambio estremamente stretto. Un altro passo importante verso l’unificazione dell’Europa fu il trattato di Maastricht del 1992, firmato a Maastricht, in Olanda. I 12 rappresentanti della Comunità economica europea vi si riunirono per concordare regole e scadenze dell’Unione europea con una moneta unica: l’euro. Solo la Gran Bretagna ottenne l’esenzione da questa moneta unica e le si concesse la possibilità di mantenere la propria, ovvero la sterlina.

Questa accelerazione politica fu anche il prodotto della caduta del muro di Berlino del 1989 e delle preoccupazioni francesi per il ricostituirsi di una nuova grande Germania: l’Unione avrebbe legato la Germania all’Europa e limitato le sue aspirazioni di dominio europeo.

Con questo Trattato si prevedeva l’introduzione, nel 1999, della moneta unica e della Banca centrale europea (BCE). Inoltre si elaborarono i parametri di convergenza economica per la permanenza e l’entrata nella Comunità. Tra i cinque parametri economici spiccano per la loro importanza la fissazione non superiore al 3% del rapporto tra deficit pubblico e PIL e non superiore al 60% il rapporto tra debito pubblico e PIL. Il Belgio e l'Italia con un rapporto superiore furono esentate da quest’obbligo, ma con l’impegno di ridurre tale rapporto.

BIBLIOGRAFIA131

LibriA. Spinelli, R. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, 1944

FilmIl figlio dell’altra, di L. Lévy. 2012

DUE BLOCCHI, DUE IMPERIALISMI~ Il nuovo assetto europeo~ La divisione della Germania~ Gli USA: Dottrina Truman, Piano Marshall e Patto Atlantico~ La risposta dell’URSS: Cominform, Comecon e Patto di Varsavia~ La crisi greca~ La guerra di Corea~ Il XX Congresso del PCUS~ I ‘fatti di Ungheria’~ La rivoluzione cubana~ La guerra del Vietnam~ Il caso cecoslovacco~ L’esperienza democratica cilena~ Afghanistan: il Vietnam sovietico

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DUE BLOCCHI, DUE IMPERIALISMILa fine della Seconda guerra mondiale consacrò due superpotenze: l’URSS e gli Stati Uniti. Le due superpotenze vincitrici dal conflitto mondiale si spartirono letteralmente il mondo in due aree che si contrastarono per modello economico, ideologico e politico. Le armate di entrambi i vincitori segnarono il perimetro delle loro rispettive ‘aree di influenza’ e furono la base su cui si andò ad articolare l’intera storia della seconda metà del Novecento.

Negli stati finiti sotto il controllo sovietico nacquero regimi con modelli di economia pianificata, istituzioni dispotiche e totalitarie. Tra il 1945 e il 1948, Stalin impose il suo paradigma economico e politico all’Europa orientale, cosicché i diversi stati divennero ‘stati satelliti’ dell’Urss. I paesi che si trovarono sotto occupazione anglo-americana si svilupparono in stati ad economia di mercato con istituzioni libere e democratiche.

Due gendarmi, due imperialismi che furono sempre pronti ad intervenire, posizionarsi e confrontarsi ovunque si muovesse qualcosa, al fine di configurare al meglio il loro assetto mondiale. Il mondo fu ridotto al pari di una scacchiera e l’autodeterminazione delle varie nazioni fu annichilita di fronte alla strategia di gioco dei due avversari.

Abbiamo già specificato come lo sgancio della prima bomba atomica – con gli eserciti ancora impegnati a dilaniarsi – possa essere considerato il primo atto della cosiddetta ‘guerra fredda’ ovvero di quella guerra che l’URSS e gli USA combattono senza mai fronteggiarsi né direttamente, né sui rispettivi territori, ma sempre per ‘procura’, su territori diversi coinvolgendo milioni di uomini. Una guerra considerata ‘fredda’ poiché non coinvolse direttamente le superpotenze, né l’Europa, incapace di tirare in ballo le grandi nazioni in un nuovo conflitto mondiale. Una guerra ‘fredda’ perché oltre alle armi, spesso usò le strategie politiche per determinare lo schieramento di una nazione da una parte piuttosto che dall’altra.

Il nuovo assetto europeo

Le condizioni di pace dopo la Seconda Guerra Mondiale vennero decise nella Conferenza dei Ventuno (o Conferenza di Parigi), che si tenne a Parigi dal luglio all’ottobre del 1946. In questa circostanza vennero stesi i Trattati di pace che furono firmati alla fine del 1947 a Parigi. Tra le modifiche territoriali più importanti vi furono quelle riguardanti la Romania, la quale cedette la Bucovina e la Bessarabia all’Unione Sovietica, e che ottenne il territorio della Transilvania, precedentemente ungherese.

L’Europa che usciva dalla Seconda guerra mondiale veniva, dicevamo, disegnata dalle armate: quelle russe e quelle americane.

L’URSS che con l’Armata rossa aveva travolto i tedeschi fino a Berlino estendeva la sua influenza su tutti i territori ‘liberati’. Gli USA che avevano a loro volta liberato i paesi assieme alla Gran Bretagna, alle forze resistenziali ponevano sotto la loro influenza l’altra metà dell’Europa.

In Italia la situazione risultava piuttosto complicata, a causa del mancato riconoscimento del contributo militare della Resistenza Italiana alla liberazione. Il Trattato di pace fu firmato da Alcide De Gasperi, il presidente del consiglio, mentre intellettuali come Croce, Luigi Sturzo ed anche Vittorio Emanuele Orlando furono protagonisti di un acceso dibattito. Costoro, infatti, ritenevano profondamente ingiusto che non fosse riconosciuta all’Italia la partecipazione alla lotta anti-nazista e che si ignorasse completamente il principio

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dell’autodeterminazione dei popoli nella questione dei confini orientali, ovvero quelli con la Iugoslavia comunista di Tito. Le clausole del Trattato comprendevano:

1. La restituzione alla Grecia delle isole del Dodecaneso nel Mar Egeo;

2. La cessione alla Francia di due comuni al confine quali Briga e Tenda;

3. L’Alto Adige rimaneva all’Italia, che si era già impegnata con l’Austria a concedere un’ampia autonomia amministrativa e linguistica nella provincia di Bolzano;

4. L’Eritrea fu federata all’Etiopia, la Somalia fu affidata all’Italia in amministrazione fiduciaria per dieci anni e resa indipendente nel 1960, la Libia divenne Stato indipendente e l’Albania, che era stata annessa all’Italia nel 1939, tornò indipendente;

5. La cessione dell’Istria, di Fiume, di Zara e di gran parte delle province di Gorizia e di Trieste alla Iugoslavia. Dopo una serie di momenti drammatici, Trieste fu dichiarata territorio libero. Nel 1945, infatti, fu occupata dalle truppe comuniste iugoslave di Tito e rischiò di essere inglobata nel nuovo stato iugoslavo, ma fu salvata dall’arrivo delle truppe neozelandesi, le quali impedirono che Trieste e il Friuli Venezia Giulia diventassero iugoslave. Dopo scontri piuttosto violenti, alla fine del 1946, si arrivò alla soluzione provvisoria che prevedeva una cessione della penisola istriana, escluso il territorio di Trieste e Capo di Istria, alla Iugoslavia. Con il trattato di pace del 1946, Gorizia e Monfalcone furono assegnate all’Italia e la città di Trieste, insieme con le zone limitrofe, fu divisa in due zone, una sotto controllo alleato, l'altra con amministrazione iugoslava e con sovranità italiana. Solo nel 1954 Trieste venne finalmente restituita all’Italia, mentre alla Iugoslavia fu affidato un altro territorio. Il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975 sancì in maniera definitiva la sovranità della Iugoslavia su questa zona ed essa riconobbe il dominio italiano su Trieste. Il conflitto riguardo la questione di Trieste costò consistenti disagi alla popolazione italiana, che dovette abbandonare i territori occupati dalle truppe di Tito. Si calcola che circa 350.000 italiani dovettero lasciare le terre cedute alla Iugoslavia comunista.

La divisione della Germania (1946)

La Conferenza di pace di Parigi del 1946 non ratificò altro che lo schieramento in campo.La divisione della Germania e di Berlino rappresentò l'incrinarsi palmare dei rapporti tra USA e URSS e l'acme del contrasto tra queste due superpotenze, che si contendono lo spazio europeo.A causa dei conflitti tra gli alleati, la Germania fu divisa, in principio, in quattro zone di occupazione: americana, inglese, francese e sovietica. Questa occupazione si prolungò finché si formò nel 1949 ad Ovest, la Repubblica Federale Tedesca (BDR), guidata da Bonn e controllata dagli Anglo-Americani, e ad Est la Repubblica Democratica Tedesca (DDR) guidata da Pankow e controllata dai Sovietici. In effetti furono gli eserciti a disegnare i confini della Germania divisa.Anche Berlino nel 1948, nonostante si trovasse, dal punto di vista territoriale, nella zona occupata dai sovietici, fu divisa in due: Berlino Est, sotto controllo sovietico, e Berlino Ovest, sotto influenza anglo-franco-americana.Nel 1961 il presidente americano Kennedy incontrò il presidente sovietico Kruscev per discutere della questione di Berlino Ovest. Per i sovietici bisognava rendere Berlino Ovest una “città libera” mentre per gli americani essa era parte integrante della Germania Federale. L’incontro non portò a nulla di fatto. Due mesi dopo, nottetempo, il 12 novembre 1961, fu costruito il famoso muro per evitare soprattutto le numerose fughe verso Berlino Ovest. Il Muro divenne il simbolo della Guerra fredda.

Gli USA: Dottrina Truman, Piano Marshall e Patto Atlantico

Alla fine della guerra, dopo che USA e URSS avevano combattuto fianco a fianco al fine di sconfiggere il comune nemico nazi-fascista, le differenze tra i due Paesi erano più evidenti che mai. La rivalità divenne manifesta con l'elezione di Henry Truman alla carica di presidente degli Stati Uniti. Questi, in un discorso

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pronunciato il 12 marzo 1947 al Congresso, espresse ciò che è passato alla storia come "Dottrina Truman". Bisognava appoggiare "i popoli liberi che lottano contro la sopraffazione da parte di minoranze armate o di pressioni esterne". Il presidente, infatti, riteneva che: "La nascita dei regimi totalitari è favorita dalla miseria e dalla privazione". Era necessario, dunque, aiutare l'Europa nella ricostruzione istituzionale, economica, sociale ed ideologica per limitare l'avanzata del comunismo.

La realizzazione pratica della dottrina Truman fu il Piano Marshall. Questo, ufficialmente chiamato European Recovery Programm, fu annunciato il 5 giugno del 1947 dallo stesso ideatore e segretario di Stato americano George Marshall (riceverà il premio Nobel per la pace nel ‘53), divenne operativo l’anno successivo, nel 1948, e terminò alla fine del 1951. Il piano, che costò 14 miliardi di dollari, assicurò agli stati europei la massiccia partecipazione economica degli Stati Uniti e fu lo strumento cruciale per innescare la ricostruzione e il successivo miracolo economico. I maggiori beneficiari in termini assoluti furono: Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania Federale, Paesi Bassi. Il Piano Marshall fu un volano per l’economia europea. Il suo intento era chiaro: destinare all'Europa una massiccia quantità di denaro per prevenire il rischio di rivoluzioni comuniste. In questo modo si addormentò il pericolo comunista con l’anestetico del denaro. Il piano seguiva la teoria dell'economista Keynes, che prospettava una piena occupazione mantenendo alta la domanda: bisognava quindi creare la richiesta di prodotti per rilanciare la produzione industriale ed agricola e, quindi, tutta l'economia. Gli Stati europei, naturalmente, videro di buon occhio un tale flusso di denaro, anche perché avevano capito che l’ascesa di Hitler e dei nazionalismi in generale, era stata favorita dalla depressione economica e dalla disoccupazione di massa. Bisognava, dunque, scongiurare entrambe le cose attraverso una ricostruzione economica che si prefiggesse mete ambiziose e che prospettasse un reale miglioramento della vita. Il Piano Marshall fu firmato a Parigi nel 1947 con un trattato bilaterale tra USA e i paesi europei beneficiari, tra i quali i principali erano Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania Ovest. Gli Stati Uniti crearono l'Economic Cooperation Administration (ECA) e inviarono in Europa dei loro rappresentati affinché controllassero che gli aiuti venissero impiegati nel modo giusto.

Il Piano Marshall fu affiancato da strumenti che avrebbero reso più flessibili e governabili i mercati. Negli accordi di Bretton Woods del 1944, stipulati tra 45 nazioni, si diede vita al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale. Si raggiunse un concordato tra gli stati al fine di garantire la libertà negli scambi internazionali attraverso il mantenimento di un regime di cambi fissi tra le diverse monete. Con grande acume Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio italiano, chiese immediatamente, già dal 1947, che l’Italia fosse annessa ad entrambi gli organismi previsti dagli accordi di Bretton Woods.

La ripresa economica dell'Europa, comunque, non solo derivò dall'arrivo di capitali liquidi americani, ma affondava le sue radici nella stessa guerra. Il secondo conflitto mondiale portò il sistema economico alla sua massima espressione. Quest'ultimo si era focalizzato sulla produzione bellica, che aveva generato la concentrazione delle tecnologie e l'intensificazione dei metodi produttivi. Lo sforzo industriale bellico, quando fu riconvertito per l'uso civile, consentì una maggiore capacità da parte del capitalismo sia nei processi di concentrazione economica sia nei processi di intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro. Esso, quindi, servì da base per la produzione e per lo sviluppo economico post-guerra. Questa tendenza fu visibile soprattutto in Gran Bretagna e in Germania, le quali durante la guerra, insieme con USA e URSS, avevano acquisito nuove capacità tecniche e professionali.

Dopo i soldi, arrivarono le basi militari! Il Piano Marshall, oltre a rendere possibile la ricostruzione europea, rese anche sempre più stretti i legami tra l'Europa occidentale e gli Stati Uniti. Questo rapporto fu ufficializzato dalla firma del Patto Atlantico, il 4 aprile 1949. Gli Stati che vi aderirono (Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Canada, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia) si organizzarono anche in un'alleanza militare con la creazione della NATO (North Atlantic Treaty Organization), che aveva come scopo la difesa militare dell’Occidente. Essa poneva i paesi firmatari sotto la protezione statunitense attraverso ‘l'ombrello nucleare’. La forte (se non invadente) presenza della NATO provocò dimostrazioni e malcontenti nei partiti di sinistra, soprattutto in Francia e in Italia, dove questi ultimi erano molto forti.

La risposta dell’URSS: Cominform, Comecon e Patto di Varsavia

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La dottrina Truman e il successivo Piano Marshall furono subito percepiti dai sovietici nella loro funzione politica di strumenti dell’imperialismo americano.

Pochi mesi dopo la dichiarazione di Truman veniva fondato il Cominform ovvero un ufficio d’informazione che legava i partiti comunisti del mondo dato che la Terza Internazionale, che era stata fondata da Lenin nel 1919, fu sciolta nel 1943.

Alla dottrina Truman si rispondeva altresì con il COMECON (Consiglio di mutua assistenza economica), istituito nel 1949 e sciolto con la fine dell’URSS, che includeva Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia. Si trattava di un'alleanza economica dei paesi comunisti che seguiva le orme del Piano Marshall.

Al Patto Atlantico e alla Nato si rispondeva, nel 1955, con il Patto di Varsavia, ovvero un'alleanza militare tra i paesi comunisti.

Intanto l’Unione Sovietica iniziò una furibonda corsa agli armamenti e alla produzione della bomba atomica succedette la bomba H, una bomba ancora più micidiale di quella sganciata sul Giappone, mentre gli arsenali dei due blocchi crescevano a dismisura.

Una pagina nera dell’imperialismo sovietico e della propaganda comunista fu scritta da alcuni incidenti e processi che avvennero in Bulgaria, Ungheria e Cecoslovacchia contro esponenti comunisti accusati ingiustamente di collusione con gli americani. A questa morsa si sottrasse in parte la Iugoslavia di Tito, che era un paese satellite filosovietico. Ad un tratto i rapporti tra Tito e Stalin si ruppero, perché Stalin voleva che la Iugoslavia entrasse in una federazione balcanica. Al rifiuto di Tito i Sovietici reagirono accusandolo di atteggiamenti filo-imperialisti e di tradimento della causa comunista. Tito rispose con le epurazioni degli oppositori interni. Alla fine, nel 1948, la Iugoslavia venne espulsa dal Cominform.

La paura del comunismo negli Stati Uniti si concretizzò nel maccartismo: un clima di "caccia delle streghe" dove il sospetto e la delazione ebbero la meglio. Joseph McCarthy fu, infatti, il promotore di numerose leggi conservatrici, reazionarie e repressive riguardo la dimensione politica e sindacale. Vittime della persecuzione non furono solo i comunisti, ma anche i liberali e i democratici, sospettati di antiamericanismo.

La crisi greca (1947)

La crisi greca fu un altro momento per chiarire i conflitti a livello internazionale. Nell’inverno tra il 1946 e il 1947, in Grecia, si profilava una situazione estremamente complessa: il governo, a maggioranza di destra, aveva intrapreso una vera e propria caccia ai comunisti ed al partito comunista e socialista. Questo fece sì che nel nord del Paese si formassero organizzazioni partigiane guidate dal comunista Marcos, che fu appoggiato dal governo iugoslavo titino. Vi erano, dunque, partigiani comunisti greci che programmavano l’insurrezione. Negli accordi internazionali, la Grecia rientrava nell’orbita britannica, che in quel momento non aveva i mezzi per intervenire. Furono quindi gli Stati Uniti a sostituire la Gran Bretagna e ad aiutare la Grecia. La guerra civile greca fu estremamente violenta e finì nel 1949 con la sconfitta dei partigiani comunisti, i quali furono vinti anche a causa della frattura tra Tito e Stalin, che aveva interrotto le fonti di approvvigionamento per Marcos. Trionfarono gli Americani anche grazie alla dottrina Truman. Per tale motivo alcuni storici ritengono che la guerra civile in Grecia segnò l'inizio della Guerra Fredda, in quanto gli USA si presentavano come garanti e difensori, grazie ad aiuti economici e militari, degli stati minacciati dall'URSS. La Grecia, insieme con la Turchia, furono i primi esempi visibili dell'applicazione della dottrina.

La guerra di Corea (1950)

La guerra di Corea mostra, in maniera plastica, la contrapposizione dei due imperialismi, dei due blocchi USA-URSS nella Guerra fredda. La Corea, dopo la seconda guerra mondiale, era stata divisa in due zone: Corea del Nord, occupata dai Sovietici, e Corea del Sud, occupata dagli Americani, divise lungo il

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trentottesimo parallelo. Le due Coree avevano a loro volta due governi: la Repubblica democratica al Sud e la Repubblica Popolare al Nord. La divisione della Corea, del tutto artificiale, produsse ben presto delle frizioni che si conclusero in un vero e proprio conflitto, che scoppiò nel 1950 e terminò nel 1953. La guerra ebbe inizio con l’attacco improvviso da parte della Corea del Nord che invase la Corea del Sud. L’ONU dichiarò la Corea del Nord come paese aggressore e gli americani risposero immediatamente, affidando al generale Mac Arthur la sovraintendenza delle operazioni. Dal Giappone arrivavano rinforzi e mezzi militari statunitensi, mentre dalla Cina di Mao arrivavano volontari in aiuto della Corea del Nord. Il generale Mac Arthur chiese l’impiego della bomba atomica contro la Cina, ma cercò di risolvere diplomaticamente la situazione. Dopo tre anni di sanguinose battaglie, si ripristinò la situazione precedente, ovvero la divisione delle due Coree lungo il trentottesimo parallelo. Le due superpotenze si erano scontrate in Corea, in uno spazio a loro estraneo, avevano seminato morte e devastazione, ma la partita si era conclusa con un pareggio ai danni dei coreani, che continuarono ad essere un popolo scisso in due nazioni.

Il XX Congresso del PCUS (1956)

Il 5 marzo 1953 muore Stalin. Alla guida dell’URSS arriva Nikita Krusciov che subito promosse un vasto piano di riforme economiche e politiche, da una parte, e tentò di migliorare le relazioni con l’occidente nella fattispecie con l’USA, dall’altra. Secondo Krusciov l’URSS doveva dimostrare la sua superiorità non con una vittoria militare, ma dimostrando concretamente la superiorità del sistema economico ovvero dell’economia pianificata. Iniziava, così, quella fase detta della ‘distensione’ suggellata dalla Conferenza di Ginevra del 1955, che, pur vedendo i due imperialismi confliggere per accaparrarsi zone d’influenza nel mondo, non esacerbava i conflitti con quella veemenza, quegli eccessi degli inizi del dopoguerra.

Uno degli eventi più importanti nel mondo del ‘socialismo in un solo paese’ è stato, sicuramente il XX Congresso del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica), del febbraio 1956. Durante questo Congresso, Krusciov pose sotto accusa i metodi di governo di Stalin e ne denunciò i crimini: lo accusò della repressione politica dei cosiddetti ‘nemici del popolo’, delle ‘purghe’ del 1938 nel partito, delle colpe ‘prefabbricate’, delle liste di proscrizioni, dell’estorsione delle confessioni con le torture, delle deportazioni di massa.

Addirittura, Stalin - vincitore internazionalmente riconosciuto della barbarie nazi-fasciata – venne accusato di errori durante la guerra contro Hitler.

Venne reso noto il Testamento di Lenin nel quale il vecchio capo metteva in guardia dall’affidare il potere ad un personaggio come Stalin.

Krusciov, in maniera inaspettata, parlò al Congresso del culto della personalità di Stalin e della degenerazione del regime sovietico. La critica fu durissima anche se parziale giacché non prese in considerazione lo sterminio dei kulaki, la persecuzione contro la chiesa ortodossa, i gulag. Dal rapporto emergeva che il culto di Stalin aveva portato a delle degenerazioni nella politica del partito, gestita da un dittatore spregiudicato: questo creò non solo disorientamento, ma innescò anche un processo di critica verso le classi dirigenti.

Il rapporto di Krusciov ebbe una vasta eco non solo in URSS, ma in tutti i ‘paesi satelliti’ e nei partiti comunisti creò speranze e disorientamento giacché in Stalin avevano visto il leader indiscusso e indiscutibile.

I ‘fatti di Ungheria’ (1956)

In Ungheria, ad esempio, si mise sotto accusa la politica dello stalinista Matyas Rakosi e si aprì una fase in cui si chiedeva un’apertura verso un orizzonte democratico. Il nuovo capo del governo, Imre Nagy avrebbe

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voluto avviare un processo di democratizzazione del sistema: libertà di stampa, ecc. ma anche uscire dal Patto di Varsavia.

L’Armata rossa, con il consenso dei governi comunisti (Cina compresa), represse nel sangue la ribellione e il 3 novembre 1956, il presidente ungherese Nagy fu arrestato, processato ed in fine impiccato nel 1958.

I ‘fatti di Ungheria’ disorientarono ulteriormente i partiti comunisti nei paesi occidentali, poiché l’URSS mostrava chiaramente tratti autoritari, repressivi verso qualunque ipotesi di autodeterminazione dei popoli. Mostrava chiaramente di essere una nazione imperialista.

Il Partito comunista italiano fu uno dei primi a denunciare la situazione e a chiedere maggiore autonomia da Mosca piuttosto che tollerare la politica repressiva che l’URSS attuava nei confronti di governi che chiedevano maggior tolleranza.

La rivoluzione cubana (1959)

L’America latina è sempre stata considerata dagli USA una riserva di caccia, un deposito di materie prime per il proprio sviluppo economico. Gli USA avevano sostituito l’Inghilterra nel controllo economico e politico degli stati latino-americani a partire dalla fine della Prima guerra mondiale. Lo stato di controllo e dipendenza fu costruito attraverso sottili meccanismi imperialistici.

All’imperialismo che conquista con eserciti e che impiega pesanti amministrazioni locali gli USA avevano proceduto con un controllo economico, attraverso ad esempio l’imposizione delle monocolture, tutto a vantaggio delle compagnie come la United Fruit Company, oppure attraverso istituzioni come l’Organizzazione degli Stati Americani, che metteva gli stati latinoamericani sotto tutela degli USA.

In questo quadro di controllo e di dipendenza latino-americana s’inserisce la rivoluzione cubana destinata a sconvolgere non solo gli assetti dell’America latina ma anche quelli internazionali, inserendosi prepotentemente nel quadro di una Guerra fredda sull’orlo di diventare una Terza guerra mondiale.

La rivoluzione cubana sfuggì al controllo della superpotenza americana, unicamente a patto della risoluta piega verso la protezione dell’URSS.

Cuba era guidata da Fulgenzio Batista, capo di un governo conservatore corrotto: tale situazione fu rovesciata, nel 1959, da un movimento di guerriglieri rivoluzionari con a capo Fidel Castro e Ernesto Che Guevara, il quale di lì a poco diventerà un vero e proprio mito.

In un primo tempo, gli Stati Uniti riconobbero addirittura il nuovo governo, pensando di poterlo in qualche modo mantenere in un alveo democratico filoamericano, ma ben presto Castro cominciò a colpire gli interessi americani nell’isola con l’idea di una riforma agraria che minacciasse in particolare la United Fruit Company. Gli americani cambiarono subitamente atteggiamento e il presidente Eisenhower impose il boicottaggio economico impedendo qualsiasi tipo di commercio.

Allora i cubani si rivolsero ai Sovietici che s’impegnarono ad acquistare la canna da zucchero cubana a prezzi ‘politici’, ovvero a prezzi più alti rispetto a quelli di mercato. La rivoluzione socialista cubana si radicò ancora di più e si spostò inevitabilmente verso l’Unione Sovietica, statalizzando e nazionalizzando l’economia.

Essa rappresentava una spina nel fianco per l’imperialismo americano e un pericoloso esempio per gli altri stati dell’America latina.

Nel 1961 Kennedy diede il suo placet affinché Castro fosse eliminato e la rivoluzione rovesciata. In questa direzione doveva mirare la spedizione - a firma dei servizi segreti americani (CIA) – di esuli cubani che sarebbero dovuti sbarcare alla Baia dei Porci e riportare ordine nell’isola. Tuttavia la spedizione ebbe la peggio perché i cubani si strinsero attorno a Fidel e sostennero la rivoluzione.

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Data la situazione i cubani furono costretti a cercare nell’Urss una sponda economica e politica. L’aiuto che i cubani chiesero all’Unione Sovietica fu pagato, ovviamente, con l’installazione di basi missilistiche sovietiche nell’isola. Quando l’America venne a conoscenza dei missili, John Fitzgerald Kennedy reagì immediatamente, intimando ai sovietici il loro ritiro. Proprio in quei giorni, un sommergibile sovietico puntava verso Cuba e solo alla fine si decise di sospendere le installazioni missilistiche a Cuba. Il mondo, per tredici giorni, fu sull’orlo di una Terza guerra mondiale con uno scontro diretto tra USA e URSS.

La guerra del Vietnam (1965)

Alla fine della seconda guerra mondiale, proprio sotto la spinta del conflitto del Giappone, i francesi occuparono quella che chiamavano ‘Cocincina’. Sotto la loro influenza il Vietnam si distinse pian piano in due strutture completamente diverse: quella del nord e quella del sud. La prima era legata alla cultura cino-vietnamita ed era basata su un’economia artigianale e contadina, la seconda, invece, era sotto il dominio coloniale francese e assunse i tratti di un’economia capitalistica. Il 2 settembre 1945 Ho Chi Minh, guida della Repubblica comunista del Nord, lesse ad Hanoi la dichiarazione d’indipendenza della Repubblica Democratica del Vietnam liberando con ciò il Vietnam del Nord dalla dominazione francese. I francesi però non si rassegnarono affatto a perdere una colonia come l’Indocina. Dunque si giunse ad una sorta di compromesso tra la Repubblica Democratica e i francesi, il quale prevedeva che la Francia riconoscesse la Repubblica del Vietnam del nord come Stato libero ed autonomo da un lato, mentre dall’altro si impegnava, nella parte sottoposta al suo dominio, a ratificare una serie di decisioni popolari attraverso referendum. In effetti l’intesa non venne rispettata dai francesi che proclamarono una Repubblica Indipendente al Sud con capitale Saigon. Il Vietnam si trovò così diviso in due. Ciò segnò l’inizio di una lunga e spietata guerra.

Nel 1954 l’URSS, la Cina, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti raggiunsero un accordo a Ginevra sul destino del Vietnam, decidendo per una divisione della regione lungo il diciassettesimo parallelo; entro il 1956 si sarebbero dovute tenere libere elezioni. Intanto il Vietnam del Nord portava a segno una vasta riforma agraria, mentre il Vietnam del Sud con a capo Ngo Dinh Diem, instaurava un governo anticomunista sostenuto dagli statunitensi. La protesta sociale nel Vietnam del Sud si organizzò in un movimento comunista di guerriglia chiamato Vietcong, appoggiato dal Vietnam del Nord.

A questo punto fu il presidente Kennedy a decidere di intensificare la presenza statunitense a Saigon che nel 1961 contavano 15.000 consiglieri politici. Qualche anno dopo l’invio di questi consiglieri, vi fu la spedizione di veri e propri contingenti militari.

Nel 1965 il presidente Lyndon Johnson decise di intervenire bombardando tutto il territorio del Vietnam del Nord. I bombardamenti statunitensi furono atroci per le popolazioni civili che furono massacrate ed i villaggi furono rasi al suolo. Nel 1967, durante la sua presidenza, i soldati americani divennero 400.000; furono sperimentati vari tipi di armi e gli Stati Uniti ricorsero addirittura al Napalm, ovvero una miscela incendiaria che faceva letteralmente terra bruciata di interi villaggi. Nessuna delle due parti riusciva ad avere la meglio: i due Stati si fronteggiavano quindi senza che nessuno dei due riuscisse ad imporre la propria supremazia militare. La guerra si concluse nel 1973 con un armistizio firmato a Parigi da Nixon che prevedeva un graduale ritiro delle truppe statunitensi dal Vietnam del Sud.

La riunificazione del paese avvenne nel 1975 quando i Vietcong entrarono a Saigon, capitale del Vietnam del Sud, segnando la fine del regime di Van Thieu. Gli Stati Uniti vissero con la guerra del Vietnam uno dei periodi più difficili della loro storia recente: oltre l’insuccesso militare, gli Americani dovettero affrontare una contestazione interna. L’opinione pubblica americana si chiedeva sempre più frequentemente il motivo per cui i giovani americani dovessero abbandonare la loro famiglia, lo studio e il lavoro per andare a combattere dall’altra parte del mondo. A questi interrogativi il governo rispondeva che la guerra era necessaria in quanto occorreva impedire al comunismo di espandersi in Vietnam e che le difficoltà nascevano dal fatto che il Vietnam del Nord non combatteva in modo tradizionale, ma usava il metodo della guerriglia. Il “gendarme del mondo” crollava ad opera della resistenza, della tenace volontà di un popolo di contadini guidati dal mitico ‘Zio Ho’ (Ho Chi Minh) che campeggerà nei cortei studenteschi del ’68.

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La sconfitta americana portò come contraccolpo alla costituzione di regimi comunisti anche in Laos e in Cambogia: in quest’ultimo paese andarono al potere i cosiddetti Khmer rossi, un gruppo di guerriglieri comunisti, i quali diedero il via a durissime misure di repressione. Nel 1978 un intervento vietnamita li allontanò dal potere collocando al loro posto un governo fedele al regime di Hanoi. La Cina nel 1979 attaccò il Vietnam; tuttavia l’intervento cinese non portò grandi risultati, tanto che la Cambogia restò, ed è tutt’ora, nell’orbita del Vietnam.

Il caso cecoslovacco (1968)

Successe a Krusciov nella guida del Partito e del governo dell’URSS Leonid Brežnev, che guiderà il paese dal 1964 al 1982.

Nel 1968 il Partito comunista ceco, con a capo Alexander Dubcek cercò di dar luogo ad un processo di riforme politiche interne al partito e un programma che rendesse la Cecoslovacchia più democratica per tentare un’altra strada nell’edificazione del socialismo: “un socialismo dal volto umano”.

Agli occhi dei sovietici, le idee di Dubcek erano vera e propria follia e tradimento, capaci di minare la tenuta politica dei paesi del Patto di Varsavia. La Cecoslovacchia, in particolare, avrebbe potuto influenzare la Polonia, la quale appariva come una bomba pronta ad esplodere, a causa del nascente movimento di contestazione anti-regime.

Nell’estate del 1968, arrivarono i carri armati dell’Armata rossa e contingenti militari del Patto di Varsavia e schiacciarono le speranze nella costruzione di ‘un socialismo dal volto umano’. Il 21 agosto i carri armati dell’Armata rossa gelarono la ‘Primavera di Praga’! Venne imposto d’imperio un governo filo-sovietico capace di ristabilire l’autorità e i dettami di Mosca.

L’URSS di Brežnev giustificò l’intervento in Cecoslovacchia con la cosiddetta Teoria della sovranità limitata, firmata da tutti i paesi del blocco sovietico. Tale teoria prevedeva che nessun paese del Patto di Varsavia potesse cambiare sistema politico ed economico giacché ciò avrebbe compromesso la sicurezza militare di tutti gli altri paesi del blocco a vantaggio delle forze dell’imperialismo USA.

L’esperienza democratica cilena (1970)

In Cile nel 1970 libere elezioni democratiche portarono alla vittoria il socialista Salvador Allende: nell’America latina degli Stati Uniti vinceva un socialista che inaugurava la “via cilena al socialismo” – come lo stesso Allende amava chiamare il suo progetto politico! La vittoria non fu gradita agli Stati Uniti, i quali avevano preventivamente affermato: "se Allende prenderà il potere condanneremo il Cile a dure privazioni e miserie"

Fino al 1952 le miniere di rame erano nelle mani di gruppi privati sia interni che stranieri; Eduardo Frei, candidato della democrazia cristiana, vinse le elezioni nel 1964 offrendo un programma di mediazione tra una rivoluzione socialista e una reazionaria conservatrice. Frei dovette mediare tra due istanze: da una parte la richiesta di una riforma agraria da parte dei contadini poveri e, dall'altra, la volontà di estendere il controllo dello stato sulle miniere. La classe media cilena ebbe paura dell’oscillazione del governo verso politiche di sinistra e le società straniere temettero la nazionalizzazione delle miniere. Tale timore indebolì la Democrazia cristiana cilena e permise ad Allende di vincere le elezioni del 1970. Il suo governo era formato dalla coalizione tra comunisti, socialisti, radicali e democristiani dissidenti dall'ala sinistra. Durante il primo anno di governo il programma di Allende consisteva nell'aiuto dei poveri: ogni giorno veniva distribuita una determinata porzione di latte ad ogni bambino, l’istruzione primaria divenne gratuita, le tasse per quella secondaria furono ridotte, vi fu la nazionalizzazione delle miniere di rame.

La pressione anti-socialista delle multinazionali americane fece crollare il prezzo del rame. Gli Stati Uniti intervennero finanche presso la Banca mondiale affinché attuasse misure per restringere il credito al Cile così

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che la giovane democrazia cilena potesse essere strozzata economicamente: si passò da 300 a 30 milioni di dollari all’anno.

Nel 1972 la CIA finanziò uno sciopero generale, poi quello dei camionisti con l’obiettivo di far cadere il paese nel caos. Lo sciopero dei trasporti si dimostrò disastroso anche per un paese che si estendeva per una lingua di terra.

L'11 settembre 1973 il palazzo presidenziale della Moneda venne bombardato. Allende rifiutò di arrendersi ai golpisti di Pinochet e, dopo aver resistito a lungo, si sparò per evitare l'esilio. Nel paese ci fu un'ondata di arresti e uccisioni tanto che le prigioni non riuscirono ad accogliere l’enorme massa di detenuti e lo stato di Santiago si riempì in poche ore di oppositori politici nelle mani dei militari di destra.

August Pinochet assunse il potere con il colpo di stato ed instaurò una dittatura. Questa si protrasse fino al 1989, quando le elezioni politiche vennero vinte da partiti democratici ed egli venne accusato di crimini contro l'umanità. Diverse furono le cause del fallimento del socialismo cileno: l'esercito, con cui Allende aveva cercato di mantenere buoni rapporti, ed i ceti abbienti si schierarono contro il presidente e molti all'interno del partito socialista e il MIR appoggiavano una via violenta per realizzare le riforme, in più anche i ceti abbienti si ribellarono ad Allende. Lo stadio di Santiago del Cile divenne un lager dove furono rinchiusi i prigionieri di guerra sottoposti a torture e uccisioni. Circa un milione di cileni scelse l'esilio.

La lezione cilena mostrava come l’imperialismo statunitense non andava tanto per il sottile nel ripristino dell’ordine quando i suoi interessi economici e politici erano minacciati. Libere elezioni avevano portato al governo uomini che volevano una più equa distribuzione delle terre ai contadini poveri e la nazionalizzazione delle miniere. Questo governo socialista-comunista, questa esperienza democratica in America latina era, dal punto di vista strategico-politico, intollerabile per gli Stati Uniti e fu eliminato con metodi subdoli e violenti avallando, infine, una violentissima deriva di destra nel paese.

Afghanistan: il Vietnam sovietico (1979)

Per quanto riguarda la politica estera, i sovietici si impegnarono nella guerra per il controllo del vicino Afghanistan. Nel 1978 il Partito comunista afghano aveva preso il potere con un colpo di stato scagliandosi contro vari movimenti religiosi islamici e diversi gruppi etnici.

Nel 1979 il presidente sovietico, Brežnev inviò l’Armata rossa a sostegno del Partito comunista afghano. Nonostante la superiorità militare, i sovietici non riuscirono mai ad avere il controllo del territorio. I guerriglieri antisovietici erano infatti appoggiati dal Pakistan e dagli Stati Uniti. Le lotte snervanti e violente produssero due milioni di profughi. Nel 1987 M. Gorbačëv annunciò il ritiro dell’esercito.

Nel 1992 il governo comunista, senza il sostegno sovietico, cadde e il potere venne conquistato dai taleban, gruppi di fondamentalisti islamici.

BIBLIOGRAFIA

Libri

Film

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Apocalypse now, F. Coppola, 1979Missing – Scomparso, C. Gravas, 1982

Che – L’argentino, S. Soderbergh, 2008

L’ITALIA DAL 1945 AL 1992

~ LA RICOSTRUZIONE (1945-50)~ Piano Marshall in Italia~ Il centrismo~ La Cassa del Mezzogiorno

~ LO SVILUPPO ECONOMICO (1950-73)~ L’industrializzazione del Paese~ Dagli anni ’50 al centro-sinistra~ Il ‘68~ L’ “autunno caldo” e lo Statuto dei lavoratori

~ IL RALLENTAMENTO ECONOMICO E LA CRISI DELLA REPUBBLICA (1973-92)~ 1973: primo shock petrolifero~ Gli “anni di piombo”~ La strategia del PSI~ PCI e “compromesso storico”~ 1980: la sconfitta del sindacato alla Fiat~ Il pentapartito~ La democrazia inquinata~ La democrazia bloccata~ La partitocrazia e “Tangentopoli”

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LA RICOSTRUZIONE (1945-50)

“Ricostruzione” materiale e morale: è questa la parola d’ordine che campeggia nel Paese dopo la fine della guerra e la liberazione dal nazi-fascismo.

Bisognava, innanzitutto, metter mano alla ricostruzione materiale di ciò che era stato distrutto nel periodo bellico.

Per perimetrare le condizioni materiali in cui versava la situazione, basta dire che:

gli impianti industriali registravano danni pari all’8%; la produzione era 1/3 di quella del 1938; il costo della vita era di 23 volte superiore al 1938, mentre i salari non erano cresciuti più della metà; la disoccupazione nel 1945 aveva superato i due milioni; i generi di sussistenza sopperivano solo ad 1/3 del fabbisogno.

I primi governi cercarono di provvedere alle necessità del paese, ma fu subito evidente che c’era bisogno di un aiuto internazionale per mettere in moto l’economia.

Il Piano Marshall in Italia

Il Piano Marshall iniettò in Europa una somma di denaro enorme per l’epoca: 11 miliardi e 780 milioni di dollari a fondo perduto e 1 miliardo e 139 milioni come prestito agevolato.

L’Italia usufruì dei finanziamenti in quanto gli americani ritenevano che il nostro Paese fosse a rischio di una rivoluzione comunista. L’immissione di denaro doveva essere un deterrente anti-rivoluzione e doveva mettere in moto l’economia. Fu apertamente affermato, infatti, che se in Italia avessero vinto le sinistre, il flusso di dollari sarebbe stato immediatamente interrotto. Allo stesso tempo fu attuata una vasta propaganda anticomunista e filoamericana, fondata sulla costante apologia degli aiuti e concretizzata nelle inaugurazioni di fabbriche, nelle mostre, sugli articoli di giornali, nelle trasmissioni radio e televisive. Fu usato, quindi, ogni strumento mediatico che potesse radicare nel Paese l’idea di un aiuto americano reale e disinteressato.

Oltre all’intervento americano anche le rimesse degli emigrati contribuirono alla ripresa economica.

Riguardo la politica economica, i governi che si avvicendarono dopo la guerra si liberarono della concezione autarchica e protezionistica per sviluppare la liberalizzazione degli scambi con l’estero.

Il centrismo

Il centrismo è la configurazione politica inaugurata da De Gasperi dopo la rottura con le sinistre. Essa prevedeva la partecipazione al governo dei piccoli partiti moderati di centro con il grande partito della Democrazia cristiana, così da aprirsi più velocemente verso soluzioni economiche liberali. Luigi Einaudi, economista liberale divenuto ministro del Bilancio e vicepresidente del Consiglio nel ‘47, impose un rigore economico che, in parte, sacrificò l’occupazione.

Il governo cercò di modificare la riforma agraria a seguito delle occupazioni dei contadini del Sud. Nel 1949, infatti, i contadini meridionali, in particolare in Calabria, avevano lottato contro il latifondo. La riforma agraria non ebbe buoni risultati: in Sicilia solo il 26% delle 67.000 famiglie idonee ottenne l’assegnazione della terra.

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La Cassa del mezzogiorno

Lo Stato continuò a mantenere un ruolo propulsivo nell’economia.

Il centrismo italiano, dunque, si impegnò affinché l’intervento dello Stato fosse più ampio, dal punto di vista quantitativo e qualitativo. La politica economica seguì la stessa direzione. Fu fondato l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) e l’Ente nazionale idrocarburi (ENI). Tra le novità vi fu anche la Cassa del mezzogiorno del 1950, che ebbe un ruolo di grande importanza per la programmazione delle opere pubbliche al sud (bonifiche, acquedotti, ecc.) e per superare il gap con l’Italia settentrionale.

Nonostante queste buone intenzioni, il centrismo mostrò delle falle enormi: la gestione delle aziende di stato mostrò chiaramente come l’interesse personale si sovrapponesse e obliasse l’interesse pubblico. La formula del centrismo, quindi, dovette essere superata nel 1953.

Agli inizi degli anni ‘50 la disoccupazione aumentò, di conseguenza furono indetti dalla CGIL e dai partiti di sinistra una serie di scioperi. In tale occasione il governo fu inflessibile, e il ministro dell’Interno Mario Scelba rispose con una dura repressione: a Modena, per esempio, il 9 gennaio 1950 sei operai vennero uccisi dalla polizia durante una manifestazione sindacale.

LO SVILUPPO ECONOMICO (1950-73)

L’industrializzazione del Paese

Tra il 1952 e il 1962 si verifica ciò che viene definito dagli storici il ‘boom economico’. In questo decennio l’Italia si trasformò da paese agricolo a paese industriale, un cambiamento radicale a tal punto da portare lo sviluppo economico italiano allo stesso livello degli altri paesi europei. Esso richiese anche una trasformazione interna e uno spostamento delle popolazioni, e ciò comportò un nuovo assetto politico e ideologico improntato sul sistema capitalistico. La crescita economica continuò fino agli inizi degli anni ’70. Il 1973 fu l’anno col quale generalmente si indica una crescita che l’Italia e l’Europa non riprenderanno mai più con gli stessi ritmi.

Il cambiamento del Paese fu profondo e velocissimo. Osservando i dati economici e l’occupazione nei tre settori produttivi, è inevitabile registrare, in questo decennio, una diminuzione assoluta dell’agricoltura da 7.663.000 a 5.430.000 e un aumento parallelo nell’industria da 5.728.000 nel 1952 a 7.991.000 al 1962. Riguardo l’attività terziaria, la trasformazione industriale fu consistente: dai 4.681.000 ai 6.368.000 lavoratori. A questa trasformazione economica corrispose anche una crescita del reddito pro-capite nazionale (indicatore fondamentale nella valutazione della ricchezza di un paese). Esso, che rapporta la ricchezza al numero di abitanti, raddoppiò rispetto al valore precedente alla Seconda guerra mondiale.

Il “miracolo economico” ebbe diverse origini: la fine dell’autarchia, che era stata celebrata dal regime fascista; l’abolizione delle restrizioni fasciste che avevano impedito ai lavoratori di spostarsi da una regione all’altra; gli aiuti del Piano Marshall; il basso costo della manodopera dovuto alla presenza di un esercito proletario; l’ingresso nella CEE (1958); la ripresa mondiale dell’economia. Ulteriori elementi di ripresa possono essere individuati nell’atteggiamento psicologico di una popolazione che voleva ricostruire un paese distrutto e lasciarsi alle spalle gli anni della guerra e della privazione.

Da un punto di vista marxista, il miracolo economico rappresentò un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica successivo alla crisi economica, che aveva svalorizzato masse enormi di merci. A partire da questa svalorizzazione, poté iniziare una nuova fase di accumulazione. I costi sociali da pagare per questo cambiamento furono enormi, poiché implicarono il trasferimento di grandi masse contadine dall’agricoltura all’industria, dal Sud Italia al Nord. Il contadino meridionale abbandona la terra per dirigersi verso il triangolo industriale di Torino, Milano e Genova. Il lavoro di fabbrica viene vissuto come un’elevazione

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sociale rispetto alla miseria e all’ignoranza contadina. L’organizzazione della fabbrica è assolutamente ad un livello più alto rispetto a quello dell’agricoltura ed implica rapporti sociali e una sovrastruttura culturale diversa rispetto a quella contadina. Torino è la capitale del triangolo industriale, dove si concentrano le migrazioni interne che causano scontri dovuti alle differenze socioculturali. Una cultura contadina e maschilista finisce con lo scontrarsi con una società industrializzata, nella quale insorgono, addirittura, le prime rivolte femministe e i moti studenteschi. Tra il 1951 e il ’67, 400.000 meridionali migrarono nella capitale del triangolo, che divenne la ‘Terza città meridionale’ dopo Napoli e Palermo.

L’operaio diviene un obiettivo per il contadino: il divario tra il reddito di un lavoratore del nord è maggiore rispetto a quello di un contadino del sud.

Parallelamente alla trasformazione industriale del paese, nasce una società dei consumi di massa che si manifesta in segni semplici e tangibili: gli scooter, la Seicento (FIAT), il frigorifero, la lavatrice.

Nel 1954 la RAI-TV inizia le trasmissioni, contribuendo in modo notevolissimo all’uso della lingua italiana.

L’emigrazione in questo periodo è duplice: se durante il fascismo il flusso migratorio si era rivolto in America, in questo periodo si rivolge verso la Svizzera e la Germania, ma è soprattutto interno, con spostamenti dalle zone meridionali al triangolo industriale. Questa rapidissima ed estesa trasformazione italiana corrisponde ad uno spostamento dell’asse politico che cerca di intercettare i nuovi bisogni e i nuovi obiettivi che la società italiana deve porsi.

Dagli anni 50 al centro-sinistra

La DC perdeva voti nelle tornate elettorali amministrative del 1951 e 52.

Nel 1953 la DC, pur avendo contro tutte le opposizioni, approvò quella che passerà alla storia come legge truffa. Questa prevedeva che lo schieramento dei partiti che avesse ottenuto il 50% dei voti avrebbe avuto il 65% dei seggi in parlamento. Con tutta evidenza la DC pensava di poter garantire con questo meccanismo una stabilità politica centrista contro i socialisti e i comunisti. Si sacrificano così il metodo proporzionale e la rappresentatività per la stabilità del governo. In ogni caso l’operazione fallì in quanto i partiti, seppur per poco, non riuscirono a prendere il 50%.

Era finita l’era dei governi De Gasperi!

Dal 1953, i governi a sola guida democristiana erano ormai infattibili. Parte della DC era propensa ad allacciare rapporti addirittura con la destra, costituita dai fascisti del Movimento sociale. Nel 1960, il governo Tambroni, governo monocolore DC, fu appoggiato fermamente dal Movimento sociale. Le piazze antifasciste si fecero sentire con grande fermezza nonostante venissero represse con durezza. Il governo cadde dopo pochi mesi.

La DC iniziò a guardare a sinistra, dunque al Partito socialista. Quest’ultimo si spostò progressivamente su politiche riformiste, abbandonando ogni tentazione rivoluzionaria e chiudendo ogni rapporto con l’URSS. L’invasione dell’Ungheria da parte dell’URSS del 1959 fece sì che il PSI si staccasse ancor più dal PCI. Sul piano internazionale la figura del cattolico e progressista presidente USA, Kennedy, pure favorì il rapporto DC-PSI con nuove riforme e l’emarginazione del più ostico PCI. Infine, anche la posizione di Giovanni XXIII – ‘il papa buono’ - che con il Concilio Vaticano II ‘aggiornò’ la Chiesa, sembrò andare verso un mutamento ormai necessario.

Il centro-sinistra si sviluppò negli anni che vanno dal 1962 al 1968. Fu nel Congresso della DC del 1962 che Aldo Moro, uno dei massimi esponenti della DC nonché persona integerrima e statista di levatura politica assoluta, si mostrò favorevole ad una apertura con il PSI. Fanfani poté, in tal modo, ottenere l’appoggio esterno del PSI. Il governo riuscì ad attuare la riforma scolastica che elevava l’obbligo a 14 anni e la nazionalizzazione dell’energia elettrica (ENEL).

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Il primo governo del centro-sinistra, con un apporto diretto del PSI, venne costituito nel 1963 da Aldo Moro che con alterne vicende governerà fino al ’68.

Il centro-sinistra ben colse l’esigenza del Paese di ammodernamento non solo delle istituzioni, ma anche dei rapporti sociali, che non si identificano più con la struttura economica profondamente cambiata. Lo sviluppo economico fece sì che l’Italia potesse essere annoverata tra le società e le nazioni più progredite d’Europa. Era necessaria una manovra complessiva che cogliesse l’aspetto politico e culturale e ammodernasse società, cultura e sentire del popolo italiano, ancora cristallizzato e avviluppato, per molti versi, in una concezione agricola della società.

Il ‘68

Il ’68 è un vasto movimento sociale che comprende più temi (generazionale, di genere, di classe), ma è anche quell’entusiasmo che colse contemporaneamente gli studenti delle università di New York, Parigi, Praga, Roma, Città del Messico, Milano, Berkeley, ecc.

Il movimento studentesco fece capolino da principio negli Stati Uniti: l’università di Berkeley fu una delle prime nelle quali tale protesta prese forma e crebbe in contenuti. Lì Herbert Marcuse, grande filosofo della scuola di Francoforte, divenne teorico indiscusso del movimento, scrivendo testi come L’uomo a una dimensione e Saggio sulla liberazione, che ebbero un largo seguito e delinearono il conflitto generazionale e, ancor più, di stili di vita. Furono questi i testi che infiammarono gli studenti.

I moti rivoluzionari di questo periodo erano pervasi dalle idee di Mao Zedong e della sua rivoluzione culturale e dalla rivoluzione cubana di Castro. Si amplificarono ulteriormente con la critica antimperialista alla partecipazione americana in Vietnam, letta come imperialismo tout court che non tiene assolutamente conto dell’autonomia e della volontà dei popoli. Ho Chi Minh, perciò, divenne, affianco a Mao e Che Guevara, figura simbolo delle manifestazioni studentesche.

Il movimento americano di contestazione si articola attorno a due temi di fondo: 1) la questione della guerra in Vietnam, alimentata dalla pubblicazione negli USA delle immagini della guerra e delle bare dei soldati, che restituisce un’America di cui non si aveva percezione: le armi come il napalm e i defoglianti fanno vittime in maniera indistinta, rendendo il Vietnam campo di esperimento militare e i giovani non vogliono partecipare al massacro; 2) la questione dei diritti civili dei neri, che si inserisce in questa critica ampia dei modelli di vita americani. L’apartheid e il razzismo costituiscono ancora un problema nell’America di quegli anni e lunga sarà la strada con la Black Power, Martin Luther King, ecc.

A Parigi, il movimento studentesco si mostrò sostanzialmente diverso e incrociò il problema coloniale. Alla Sorbonne, che divenne simbolo della protesta studentesca, fece sentire la sua voce il filosofo esistenzialista di sinistra Jean-Paul Sartre, tendenzialmente materialista e marxista, che scrisse testi fondamentali come La nausea ed Il muro. Parole d’ordine del movimento erano “Immaginazione al potere” e “Vogliamo tutto e subito” (Hic et nunc). La contestazione, di altissimo livello intellettuale, si scagliava contro la società vecchia e rigida dei padri reclamando la democrazia e l’abbattimento della distanza abissale tra studenti e docenti.

Il movimento studentesco italiano fu, invece, ancora più critico e radicale verso il sistema capitalistico: arrivò non solo ad essere una critica feroce alla società borghese, con l’obiettivo intrinseco di rinnovare le forme culturali che ormai soggiacevano ai rapporti economici vetusti di una società agricola e patriarcale, ma mise in discussione direttamente anche il rapporto di asservimento della cultura all’accumulazione capitalistica.

Secondo l’ideologia rivoluzionaria del periodo, la scuola non si prestava ad elaborare e sviluppare cultura né aveva come obiettivo lo sviluppo della persona e delle sue capacità critiche, ma era semplicemente uno strumento di formazione: a) del cittadino ossequioso delle leggi che tengono in vita una società organizzata

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gerarchicamente e con poca mobilità sociale; b) del consumatore dotato di una cultura media con desideri tali da inserirsi perfettamente in una società consumistica, basata sui bisogni fittizi dell’uomo; c) dell’operaio fornito di sapere strumentale, quanto basta per essere impiegato nell’organizzazione alienante della fabbrica.

La scuola, quindi, essendo funzionale al sistema capitalistico, aveva venduto gli studenti al sistema economico, producendo e riproducendo ideologia borghese senza dare gli strumenti per un pensare altro, critico. In Italia, il movimento studentesco incrociò anche organizzazioni extra-parlamentari di sinistra e le loro analisi marxiste, dando vita a una critica complessiva della società borghese.

Il sessantotto italiano svecchiò la società da una mentalità, da un costume e da una morale tradizionale ancora incapace di porsi all’altezza dei tempi. Fu la lotta di giovani che si ribellarono ai padri e chiedevano più partecipazione, più autorevolezza e meno autoritarismo. Fu una ventata d’aria fresca che ebbe il coraggio di dire che il re era nudo.

Soprattutto in Italia, il movimento studentesco seppe incontrarsi con il movimento operaio dell’“autunno caldo” e con il movimento femminista – una delle grandi rivoluzioni del ‘900.

L’“autunno caldo” e lo Statuto dei lavoratori

Per “autunno caldo” s’intende quello scorcio del settembre 1969 quando, per la prima volta, dopo il 1952, si assistette ad un vero e proprio braccio di ferro tra lavoratori e patronato, sindacato e capitale industriale, in un clima in cui si registrò in maniera massiccia l’uso dello ‘sciopero selvaggio’. In più, le lotte sindacali furono affiancate, ad un certo punto, da quelle studentesche e assunsero maggiore importanza.

A dare il via all’autunno caldo fu lo sciopero nazionale dei metalmeccanici, che è storicamente la punta di diamante della classe operaia, la più organizzata e la più combattiva. Lo sciopero a settembre era stato organizzato per il rinnovo del contratto di lavoro. A novembre si chiusero le trattative e il sindacato aveva vinto su tutti i punti proposti: 40 ore settimanali, aumenti salariali e diritto di organizzare assemblee durante il lavoro.

I lavoratori diedero prova di autorganizzazione e di spirito creativo: si organizzarono spontaneamente in comitati e consigli di fabbrica. CGIL, CISL e UIL furono comunque capaci, rimanendo unite, di dirigere le lotte spontanee e ne uscirono rafforzati, tanto da diventare da qui in poi protagonisti di trattative con il governo anche su materie come sanità, scuola, ecc.

Proprio la ripresa delle lotte operaie, che sfociò nell’autunno caldo, getterà i prodromi della conquista, nel 1970, dello Statuto dei lavoratori.

Lo Statuto dei lavoratori è un insieme di norme estremamente semplici che stabiliscono una serie di diritti del lavoratore. Di questo Statuto faceva parte anche il famoso articolo 18 che è stato abrogato recentemente. L’articolo 18 stabilisce che il datore di lavoro non può licenziare il dipendente se non per giusta causa. Questo tipo di articolo è stato più volte messo in discussione, sia con il governo Berlusconi che con il governo Renzi per cui, alla fine, è stato eliminato. L’abrogazione di questo articolo rende più fluida la manovra dell’imprenditore, il quale può disporre della manodopera in maniera più elastica; in ciò sottende la concezione filosofico-culturale di tipo liberista. Se c’è un problema di tipo economico, l’imprenditore ha tutte le ragioni di licenziare, così come se un operaio, assunto a tempo indeterminato, è inetto ad un determinato tipo di lavoro, per cui provoca problemi alla produzione o addirittura al sabotaggio dei macchinari, l’imprenditore non esita a licenziarlo, rientrando perciò nella giusta causa. L’idea centrale è quella che l’imprenditore possiede il capitale necessario per comprare il lavoro e di questo lavoro può farne tutto ciò che desidera. Questo processo lineare è da ricondurre all’impostazione liberista di Smith.   Una precisazione necessaria è che lo Statuto dei lavoratori si applica a quelle aziende che hanno un numero almeno pari a 15 lavoratori, ma se la cifra è inferiore a 15, lo statuto non si applica. Per legge, si è deciso che

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le aziende che hanno fino a 14 lavoratori sono delle imprese quasi a carattere familiare, per cui l’imprenditore ha un rapporto di tipo familiare, addirittura di tipo amicale con i suoi dipendenti. Lo Statuto dei lavoratori, quindi, si applica quando l’azienda ha un numero di operai abbastanza congruo da essere un nucleo economico autonomo e i ruoli al suo interno sono ben distinti (all’interno di una sola azienda c’è una dirigenza, una ragioneria, una segreteria, una massa operaia, ecc.).

Se si consulta il codice civile, l’imprenditore è colui il quale organizza in maniera ottimale gli elementi della produzione. Abolendo l’articolo 18 però si dà all’imprenditore la facoltà di trattare il lavoro come un semplice elemento della produzione, ovvero il lavoro e il lavoratore come una merce. E tuttavia il lavoro non è una cosa, un oggetto, una merce come le altre. La differenza è tra schiavo e operaio! 

IL RALLENTAMENTO ECONOMICO E LA CRISI DELLA REPUBBLICA (1973-92)

1973: primo shock petrolifero

Dal punto di vista economico, l’inizio degli anni ’70 fu contrassegnato dallo shock petrolifero che ebbe una ricaduta non solo sull’Italia, ma anche sull’economia mondiale.

In concomitanza con la ‘guerra del Kippur’ combattutasi tra Egitto, Siria e Israele, i paesi dell’OPEC (Organizzazione dei paesi Esportatori di Petrolio) annunciarono una diminuzione della produzione petrolifera e un aumento del prezzo del barile “fino a che gli Israeliani non si fossero completamente ritirati dai territori occupati”.

Iniziò così una crisi economica mondiale che provocò un secondo shock petrolifero nel 1979 a seguito di rivolgimenti politici in Iran.

Gli “anni di piombo”

In Italia il terrorismo sia di destra che di sinistra interesserà un ampio e funesto periodo, che va sommariamente dal 1969 al 1980.

Il terrorismo nero o politicamente di destra è contraddistinto dagli attacchi in luoghi pubblici e ha l’obiettivo di generare nel corpo sociale un’angoscia, un’instabilità, un caos tali da richiedere l'intervento di un ‘uomo della provvidenza’ per favorire una deriva autoritaria. Si parla, dunque, di “strategia della tensione”. Un'altra caratteristica del terrorismo di destra è la connivenza con i servizi segreti deviati, con i quali vengono pianificati molti attacchi terroristici atti a frenare la spinta propulsiva del movimento operaio e studentesco, avvenuta nel cosiddetto ‘autunno caldo’ (1969).

Il 12 dicembre 1969 a piazza Fontana nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura esplode una bomba: 17 morti e 90 feriti.

Il 28 maggio 1974 a piazza della Loggia di Brescia durante un comizio antifascista esplode una bomba: 8 morti e centinaia di feriti.

Il 4 agosto 1974 sul treno Italicus esplode una bomba: 12 morti e 48 feriti.

Il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna esplode una bomba: 85 morti e centinaia di feriti.

Il terrorismo rosso dà le prime avvisaglie all’inizio degli anni '70 nelle università, in particolare nelle nuove facoltà di sociologia. Curcio, ad esempio, leader indiscusso delle Brigate Rosse, si forma all'università di

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Trento proprio nella facoltà di sociologia. Questi primi vagiti si manifestano attraverso volantini dal contenuto fortemente politicizzato, come quello del 1970 alla Siemens a Milano.

A partire dal 1972 si verificano sequestri di persona, ‘processi proletari, ‘rapine politiche’ed uccisioni. Sindacalisti, magistrati e giornalisti vengono ‘puniti’, ‘gambizzati’ per la loro attività ‘antiproletaria’. Dal 1978 il terrorismo di sinistra, con le Brigate rosse, alza il tiro in maniera esponenziale, riuscendo ad essere assai pericoloso perché inserito in un tessuto sociale sul quale avevano insistito i movimenti studentesco e femminista, ottenendo strati ampi di consenso e di fiancheggiatori. Una faglia vera e propria o meglio, un innalzamento del livello terroristico militare e politico, si compie il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, quando le BR sequestrano Aldo Moro, personaggio integerrimo, presidente della Democrazia cristiana, e uccidono gli uomini della sua scorta. L’obiettivo è disarticolare La Dc, Partito-regime – come veniva chiamato – e, il Pci, Partito dello Stato nella classe operaia evidenziandone il revisionismo riformista. Aldo Moro, propenso ad un'alleanza col Partito comunista, sperava di poter raggiungere un accordo chiamato ‘convergenze parallele’. La possibilità che il Partito comunista giungesse al potere con una serie di avvicinamenti alla DC era avversata dal terrorismo delle BR. La politica del segretario E. Berlinguer con il ‘compromesso storico’, portava definitivamente le masse operaie nell’alveo socialdemocratico. L’attentato a Moro sembra perciò un punto d’attacco esiziale per il terrorismo sia perché è l’uomo più influente della DC sia perché è quello che può traghettare il Partito comunista su posizioni definitivamente centriste. Moro con le sue aperture avrebbe potuto maggiormente offendere la causa della rivoluzione comunista. Insomma, c’era la possibilità che il PCI e le masse operaie potessero partecipare alla politica italiana e questo ovviamente andava a detrimento della radicalizzazione della lotta rivoluzionaria. Nel linguaggio delle Brigate rosse Moro venne processato e condannato a morte perché “padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialistiche”. A nulla valsero le pure accorate parole di Paolo VI. Dopo 55 giorni di prigionia il corpo di Moro venne ritrovato il 9 maggio nel bagagliaio di una Renault 4 rossa.

Dopo l’esecuzione di Moro le morti per opera delle BR non si fermarono.

Dal punto di vista teoretico, esse si rifanno nel linguaggio e in tratti di analisi politica al marxismo dimenticando però che né Marx, né Lenin hanno mai pensato al terrorismo come forma di lotta politica: Marx ha sempre parlato di rivoluzione proletaria di massa e Lenin qualifica il terrorismo già nel titolo di una sua famosa opera come “Estremismo, malattia infantile del comunismo.”

Il terrorismo di sinistra italiano è stato certamente un fenomeno complesso. Due sono, in genere, le spiegazioni delle cause che si fanno varco, anche attraverso gli atti processuali:

- cause endogene (interne), per cui il terrorismo di destra nasce come reazione ai grandi movimenti studenteschi di sinistra, degli operai e al movimento femminista che riscuotono ampio successo e spostano l’asse politico del paese. Il terrorismo di sinistra, a partire da questi movimenti, lotta per una rivoluzione contro tutti gli imperialismi (USA-URSS);

- cause esogene (esterne), per cui il terrorismo di destra, legato ad una “strategia della tensione”, si scontra con i servizi segreti deviati il cui obiettivo è un golpe autoritario. Il terrorismo di sinistra sarebbe, invece, il risultato di interventi di potenze estere, segnatamente dell’Est, che, attraverso i loro servizi segreti, hanno cercato di destabilizzare il paese del Patto atlantico più fragile. Altra tesi, più lineare, viole che siano stati servizi segreti americani ad infiltrarsi nelle Br creando caos per mantenere fuori dal governo il Pci. Tuttavia, queste ipotesi non sono suffragate da una seria documentazione.

Al terrorismo di sinistra italiano si affiancano quelli francese e tedesco.

La strategia del PSI

Con le elezioni amministrative del giugno del 1975, il Partito comunista ebbe un incremento sostanzioso, dal 27,9% al 33,4%, mentre la Democrazia cristiana, il partito che aveva governato ininterrottamente dal dopoguerra, scendeva dal 37,9% al 35,3%. Era il segnale di un malessere concreto che serpeggiava nel paese, insieme ad una voglia di cambiamento. Il ruolo del Partito socialista in questa situazione diventava quindi

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l’ago della bilancia nella formazione dei governi: un suo spostamento politico a sinistra avrebbe permesso al PCI di governare; d’altra parte questo significò pure un’arma di ricatto nei confronti della DC. L’abbandono, da parte del Partito socialista, della teoria marxista era oramai una cosa assodata e, in realtà, anche il Partito comunista aveva abbandonato il programma della rivoluzione comunista e i suoi contenuti economici e politici. Tuttavia, il Partito socialista si era spinto molto più in là, fino a diventare un partito social-democratico, un vero e proprio partito del centro riformista. Il segretario Bettino Craxi non ebbe tentennamenti e la sua prossimità ideologica e politica con la Democrazia cristiana favorì la nuova strategia del partito che consisteva in una collaborazione con la DC.

PCI e “compromesso storico”

Le elezioni amministrative, intanto, avevano fatto registrare un notevole balzo in avanti del PCI che sempre più si proponeva come prossima guida del paese. Le elezioni dell’anno successivo, del 1976, confermeranno questa tendenza e la relativa incertezza nel costituire governi stabili. Il governo formatosi fu denominato “delle astensioni” perché i Partiti liberale, Repubblicano, Socialista e Comunista non appoggiarono il governo monocolore, tutto democristiano, pur non opponendovisi. La novità fu proprio questa: il Partito comunista rinunciò ad un’opposizione decisa per una blanda astensione. Il segretario del Partito comunista era, in quel momento, Enrico Berlinguer. Con Berlinguer, il PCI fece dei passi ulteriori verso una normalizzazione democratica che l’avrebbe accreditato come partito di governo sia per quanto riguarda il suo inserimento nell’ambito delle democrazie occidentali in generale, sia per ciò che concerne l’accettazione della NATO, dell’organizzazione militare, capeggiata dagli Stati Uniti. In questo senso lo strappo da Mosca era ben consistente. In verità, con la segreteria Berlinguer si parlò anche di eurocomunismo, in quanto il PCI si mise alla guida di una formazione di partiti comunisti europei che cercavano una loro distanza dall’Unione Sovietica, “un socialismo dal volto umano”.

A Berlinguer si doveva anche la formulazione di quello che sarà chiamato “compromesso storico”, una proposta estremamente importante avvenuta a ridosso dell’infausta fine dell’esperienza democratica cilena a causa delle barbarie del generale Pinochet. L’esperienza cilena aveva dimostrato che la sinistra, pur andando al potere attraverso libere elezioni democratiche, qualora avesse toccato gli interessi americani, sarebbe stata in pericolo e con essa tutto il paese. Nel caso specifico, l’atteggiamento americano schiacciava questa esperienza, instaurando nel paese una dittatura di destra. Il ‘compromesso storico’ era un modo con cui il PCI proponeva alla DC una collaborazione, affinché le due culture, cattolica e comunista, potessero trovare degli spazi di mediazione e integrazione nella gestione del paese. Un altro elemento interessante fu la difesa, da parte di Berlinguer, di una via democratica al comunismo in Italia, che potesse distinguere quella strada lastricata dai crimini del “socialismo in un solo paese” di staliniana memoria. La “via italiana al comunismo” rigettava altresì gli interventi autoritari dell’URSS in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968), pertanto cercava di adeguare il comunismo ad una versione che potesse essere accettata in una democrazia come quella italiana, che tra l’altro si trovava sotto l’ombrello della NATO. Questo tipo di posizione ebbe – come abbiamo già ricordato – la sua sponda politica proprio in Aldo Moro che ritenne possibile, con grande disappunto degli Stati Uniti, una mediazione, un compromesso per superare l’emergenza che il paese stava attraversando.

Vi furono, in questi anni, governi definiti di ‘solidarietà nazionale’, perché il terrorismo era un’emergenza che il paese dovette affrontare e da cui uscì complessivamente senza grossi danni, per quanto riguarda lo stato di diritto. Vi furono, però, delle incursioni che non obliarono lo stato di diritto, ad esempio la legge reale del ‘75 e quella di Cossiga negli anni ’80, che furono certamente delle incursioni molto forti per contrastare il terrorismo e in ogni caso rappresentarono una limitazione delle libertà personali. In questa fase i governi di solidarietà nazionale rappresentarono un apporto del Partito comunista al governo, senza tuttavia che questo avesse un riconoscimento ufficiale. Questi governi di coalizione non ebbero mai la loro formalizzazione istituzionale, nel senso che il partito di Berlinguer e i suoi esponenti non ebbero mai delle cariche istituzionali, delle cariche di governo. Tuttavia, questo periodo e i governi di ‘solidarietà nazionale’ ebbero il merito di aver sconfitto il terrorismo.

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1980: la sconfitta del sindacato alla Fiat

Gli anni ’80 iniziarono con la sconfitta del sindacato e della classe operaia che, a partire da questo momento, persero la centralità di classe ovvero il protagonismo politico che l’aveva contraddistinta nelle battaglie degli anni Settanta. Si chiuse così quell’“autunno caldo” che portò all’acquisizione dei diritti essenziali quanto elementari in una società evoluta.

Nel 1980 la Fiat annunciò la cassa integrazione per 15 mesi per 24.000 operai, di cui metà sarebbero stati licenziati alla fine di questo periodo. La richiesta venne poi precisata con l’annuncio di un licenziamento immediato di 14.000 operai. Il sindacato dichiarò immediatamente uno sciopero a oltranza. Il PCI di Berlinguer diede il massimo appoggio agli operai mostrandosi disponibile finanche all’occupazione della fabbrica.

La Fiat propose, allora, di sospendere i licenziamenti e di procedere con tre mesi di cassa integrazione per 24.000 operai. La proposta ebbe l’effetto di spaccare il sindacato tra chi voleva proseguire lo sciopero e chi voleva accettare le nuove condizioni.

Il 14 ottobre 30-40.000 manifestanti attraversarono Torino per chiedere di essere riammessi a lavoro: era una manifestazione organizzata dai quadri intermedi della fabbrica, impiegati, ecc. che avevano coinvolto ampi strati operai stanchi e prostrati da uno sciopero lunghissimo. Il giorno dopo i sindacati firmarono un accordo che era una vera e propria capitolazione.

La manifestazione dei 40.000 rappresentò la chiusura di un ciclo di lotte da cui uscirono sconfitti il sindacato, gli operai e il PCI. Le conseguenze sociali e politiche non tardarono a farsi sentire.

Il pentapartito

Le conseguenze politiche della sconfitta del PCI alla Fiat si tradussero politicamente nella formula del ‘pentapartito’ ovvero la riproposizione del centro-sinistra (DC, PSI, PRI, PSDI) allargato anche al piccolo Partito liberale (PLI).

Nel 1981 il repubblicano Giovanni Spadolini formò il primo governo, dal 1945, a guida non democristiana.

Nel 1983 spetterà al segretario del PSI, Bettino Craxi, essere a capo del governo. Nel 1984 il governo Craxi prese importanti provvedimenti: a) abrogò la scala mobile ovvero quel meccanismo che automaticamente riportava il potere dei salari e degli stipendi al costo della vita. Seguì un referendum abrogativo, appoggiato dal PCI, che fu perso; b) revisionò il Concordato lateranense del 1929. Tuttavia, da una parte si aboliva l’anticostituzionale riferimento alla “sola religione dello Stato”, dall’altra si introduceva l’ora di religione alle scuole materne, che si dimostrava congrua col meccanismo dell’8 per mille, di fatto più vantaggioso per la Chiesa.

Last but not least, negli anni ‘80 va messa in rilievo, pure, la nascita del “movimento dei verdi” che rivendicava, in maniera originale, l’interesse e la preservazione per le risorse naturali e per tutte le problematiche relative all’ambiente. Insomma, il movimento dei ‘verdi’ mise sotto accusa e sotto osservazione il sistema capitalistico e la sua rapacità nel distruggere le materie prime e l’ambiente in generale.

Nel 1986 abbiamo uno dei peggiori disastri nucleari che, suo malgrado, generò una più forte coscienza ambientalista. Nella notte tra il 25 e il 26 aprile a Cernobyl, nell’Unione Sovietica, dai reattori della centrale nucleare si sprigionarono sostanze altamente pericolose e radioattive: 700 tonnellate di grafite e 50 di uranio. Il disastro interessò 82.000 km² e in 48h una nube tossica, trasportata dai venti, raggiunse i paesi Scandinavi e lambì l’Europa occidentale. Il disastro di Cernobyl ancora oggi viene studiato proprio per i danni incredibili che provocò, soprattutto per le conseguenze riguardanti malattie cardiache, tumori e malformazioni neonatali e natali.

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La democrazia inquinata

Nel 1981 ci si rese conto che la democrazia italiana era una democrazia inquinata da associazioni segrete ovvero che la classe dirigente del paese, tre ministri in carica, senatori, deputati, il segretario del PSDI, i più alti dirigenti dei servizi segreti, ufficiali dei corpi militari, magistrati, prefetti, giornalisti, ecc. erano iscritti alla loggia massonica segreta: la Propaganda2 (P2) con a capo Licio Gelli.

Una loggia massonica segreta era nel cuore delle istituzioni e governava i gangli vitali del paese. Massoni, tra di loro fratelli solidali, sarebbero stati poi ‘ligi’ e indefessi funzionari delle istituzioni e dei ruoli che ricoprivano?

No. La democrazia era inquinata da Camorra, Cosa nostra, Ndrangheta, Sacra Corona Unita, ecc. ovvero da associazioni mafiose. Niente di nuovo, ma il grado di pervasività e in certi casi di consustanzialità con la politica era oramai intollerabile. Gli enti locali, i comuni sciolti per inquinamento mafioso si moltiplicavano soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno.

L’offensiva intimidatoria mafiosa nei confronti delle parti sane dello Stato la si legge bene dapprima nell’assassinio del generale Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, poi nei confronti del pool antimafia di cui facevano parte G. Falcone, P. Borsellino.

Il 23 maggio 1992, a Capaci (Pa), la mafia faceva saltare un pezzo di autostrada al passaggio della macchina che portava G. Falcone, la moglie e tre agenti di scorta.

Il 19 luglio 1992, a Palermo, un’autobomba uccideva P. Borsellino e cinque agenti di scorta.

La democrazia bloccata

La democrazia italiana si definisce anche come una democrazia bloccata. In effetti la storia italiana dal 1945 è stata una storia senza alternanza in quanto la DC ha governato ininterrottamente dal ’45, anche se si è poi aperta alla collaborazione con piccoli partiti di centro e al PSI. La democrazia italiana finita sotto l’influenza americana, sotto l’ombrello della NATO ha subito, di fatto, il veto dell’alternanza al governo: l’unico partito di opposizione, di massa, capace di raccogliere un popolo, era il PCI.

L’assenza di alternanza ha adulterato non poco la vita democratica e i suoi meccanismi, sia per ciò che riguarda la funzione dei partiti, sia per ciò che concerne le istituzioni a tutti i livelli. In questo senso si parla della democrazia italiana come di una ‘democrazia malata’.

Tale stallo in cui il PCI si è trovato ha prodotto il consociativismo ovvero accordi tra maggioranza e opposizione a governare insieme che, certo, è soluzione congrua in caso di crisi particolari come ad esempio furono i governi di ‘solidarietà nazionale’ per combattere il terrorismo, ma rivela effetti negativi se diventa una modalità di comportamento generale dei partiti.

Possiamo definire le elezioni del 1987 come quelle che portano l’Italia verso la fine di quella che sarà considerata la ‘Prima Repubblica’.

La partitocrazia e ‘Tangentopoli’

I partiti sono strumenti indispensabili nell’ambito del funzionamento democratico dello Stato. Eppure, i partiti in Italia, visibilmente dagli anni Ottanta, hanno subito un processo di vera e propria degenerazione e corruzione, hanno finito per spartirsi le istituzioni a tutti i livelli (RAI, ASL, Banche, INPS, ecc.), esercitando un controllo capillare sul corpo sociale. Il clientelismo ha portato al voto di scambio.

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Negli anni Ottanta divenne plateale che i partiti finanziavano i loro mastodontici apparati burocratici imponendo vere e proprie tangenti al corpo sociale attraverso commesse truccate alle aziende private, concorsi pubblici, ecc. Un vero sistema proporzionato al peso specifico dei partiti è stato messo in rilievo dai processi di “Mani pulite” tenuti al Tribunale di Milano (1992) che fecero emergere connivenze ai livelli più alti del pentapartito. Una vera ‘Tangentopoli’!

La Magistratura, anch’essa per anni - in certa misura - connivente con la politica, metteva fine allo scandalo di una politica corrotta non più sopportabile.

Lo squarcio storico per un’azione di pulizia della magistratura fu reso possibile sostanzialmente per due fattori: a) le elezioni del 1992 mettevano bene in evidenza il clima di sfiducia e, in pari tempo, di cambiamento. Tutti i partiti del pentapartito persero voti e pure l’ex-PCI dal 1991 PDS (Partito Democratico della Sinistra), mentre un nuovo partito come la Lega Nord – che si presentava con una politica di anticorruzione e secessionista - faceva incetta del malcontento popolare. Questo fenomeno significò un reale depotenziamento del potere dei partiti; b) il sistema delle tangenti che faceva lievitare i prezzi di opere pubbliche, ecc., era un costo economico non più sopportabile per l’economia asfittica di fine anni Ottanta.

Interi partiti, tra cui DC e PSI, si dissolsero come neve al sole sotto il peso del pubblico ludibrio. Craxi che venne fatto oggetto di lancio di monetine dalla gente inferocita è l’immagine eloquente del disastro di quella che in seguito sarà chiamata ‘Prima Repubblica’.

BIBLIOGRAFIA

LibriE. de Martino, Sud e magia, 1959

FilmLadri di biciclette, De Sica, 1948

Mani sulla città, F. Rosi, 1963Fragole e sangue, S. Hagmann, 1970

I cento passi, M. T. Giordana, 2000Il divo, P. Sorrentino, 2008

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IL FEMMINISMO

~ CENNI STORICI~ La possibilità storica della parità~ Le origini del movimento

~ LE ONDATE DEL FEMMINISMO~ Prima ondata~ Seconda ondata~ Terza ondata

~ IL FEMMINISMO INTERSEZIONALE~ Prostituzione, “utero in affitto” e il lusso di avere il ciclo~ To be continued…

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Cenni storici

La possibilità storica della parità

La storia è costellata di donne che chiedono a gran voce parità di dignità e di diritti e, tuttavia, non riescono mai ad andare oltre il gesto singolo, la voce sparuta che non riesce a farsi grido di battaglia: scintille che non riescono ad illuminare l’ambiente. Perche? Se si indaga il femminismo solo dal punto di vista della maturazione intellettuale singola o collettiva, come evoluzione dello Spirito, conquista ideologica, ecc. non si riesce a rintracciare il filo lunghissimo che porta alla schiavitù della donna e poi alla lotta per l’emancipazione.

Iniziamo dall’inizio! Il matriarcato è lo stato che, ad es. Bachofen con lo studio dei miti, individua come originario. La donna domina il clan che è semplice originario aggregato che si articola perlopiù sulla base della semplice divisione sessuale. La donna predomina in base alla sua ‘potenza’ sessuale: è ‘oggetto’ magico in grado di partorire e dare vita; ha rapporti con più maschi cosicché si è certi della sola madre.

L’aggregato sociale passa, poi, dal nomadismo alla stanzialità con la scoperta dell’agricoltura. L’agricoltura comporta un dispendio di forza-muscolare notevole che è propria del maschio. Il maschio pian piano diventa dominante nell’articolazione del gruppo. L’istituto della famiglia diventa lo strumento di controllo della donna e della sua sessualità. La restrizione sessuale con il solo marito garantisce, a questo punto, la linearità maschile con padri sempre ‘certi’ che possono pure agevolmente elaborare con tranquillità l’istituto dell’eredità.

La società agricola si evolve in millenni e finisce, sostanzialmente, con la rivoluzione industriale che si fa diversamente strada in Occidente. Ad es. l’Italia della fine del dopoguerra è ancora per molti versi agricola. Se l’industria dell’inizio ha bisogno di forza-lavoro capace di mettere in moto una massa muscolare potente, la stessa continua evoluzione ‘tecnologica’ fa si che il lavoro muscolare diventi sempre più secondario. Lo sviluppo industriale cambia pian piano il lavoro da muscolare in nervoso. La frammentazione, atomizzazione del processo lavorativo scompone il processo in micro-segmenti che ognuno può fare: maschi e donne. E’ l’ora della possibilità storica, che il principio della parità, più volte isolatamente affermato nella storia, possa concretamente realizzarsi.

Il femminismo

Il femminismo non è semplicemente un movimento locale, ma coinvolge tutti i Paesi a capitalismo avanzato e intacca direttamente uno degli elementi primari e fondanti della società civile: i diritti delle donne. La lotta per la parità dei diritti tra i sessi assume un valore paradigmatico per le società in cui la donna, ancora oggi, è considerata un ‘essere inferiore’, che deve sottostare all’uomo.

Il femminismo nasce quando a metà del Novecento anche alle donne è consentito inserirsi all’interno dei processi lavorativi, poiché il lavoro fisico diventa sempre meno necessario e quindi alla loro portata. Le donne, divenute economicamente indipendenti, non possono essere più considerate succubi dell’uomo e della sua mentalità patriarcale. La parità dei diritti in ambito lavorativo comporta uno stravolgimento dei rapporti uomo-donna. Il corpo, dunque, finora strumento con cui l’uomo assoggetta la donna ormai emancipata, perde la sua ‘forza’ e diviene un punto dirimente delle controversie con la società maschilista.

In Italia, la società patriarcale viene superata solo grazie alle proposte di uguaglianza tra i sessi presentate dal movimento femminista. Per raggiungere l’obiettivo perseguito, le donne attaccano il dominio culturale del maschio sulla concezione della sessualità.

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Dal momento in cui l’uguaglianza appare possibile, nasce l’esigenza di lottare per i propri diritti e di scendere in piazza nonostante l’ostracismo maschile che colpisce le giovani donne. L’attacco è rivolto contro la sfera sessuale, che vede la donna quale oggetto atto solo alla procreazione. La rivoluzione sessuale consiste nella rivendicazione, da parte delle donne, del proprio corpo nel provare piacere. Si svelano i tabù di una società patriarcale e bigotta. La scoperta del corpo e della sessualità da gestire in prima persona, pian piano, porta il movimento femminista alle tematiche relative alla contraccezione, all’aborto e al divorzio, rivendicazioni che diventeranno poi oggetto di accese discussioni nel paese e di leggi che segneranno le conquiste culturali del movimento.

Nel 1974, ha luogo un referendum riguardante il divorzio, attraverso il quale il movimento femminista mette in crisi una delle istituzioni millenarie ed assolutamente maschilista: il contratto matrimoniale lega la donna all’uomo al fine di assicurargli una prole certa, affinché egli possa procedere con sicurezza all’istituto dell’eredità. Il divorzio mette in discussione non solo il matrimonio come certezza della paternità, ma anche il rapporto amoroso come fedeltà eterna.

In questo dibattito, l’Italia si divide in due: da una parte la DC e le forze cattoliche, dall’altra PSI, PCI e le forze progressiste. In prima linea, nella difesa del diritto delle donne, si schiera il Partito radicale sia per il divorzio sia per l’aborto. Il referendum vinto con il 59% mostra un’Italia più laica e secolarizzata di quanto si credesse.

L’aborto è per le donne uno strumento di liberazione assoluta dalla schiavitù dettata dai maschi. La possibilità di abortire ripropone un corpo femminile che prende autonomamente la decisione della maternità, svincolandola dal servaggio maschile. ‘Il corpo è mio e lo gestisco io’ è lo slogan dell’emancipazione sessuale femminile che arriva all’atto estremo e tragico della possibilità di proseguire o meno una maternità non desiderata. La Chiesa e i Cattolici si oppongono, ovviamente, all’aborto e alle pratiche anticoncezionali. Nel 1981, il Partito radicale promuove il referendum sull’aborto, volendo depenalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza fino al terzo mese di vita del feto, e riesce a vincere con l’88,4% dei voti.

Le origini del movimento femminista

Per secoli il patriarcato è stato avallato costantemente anche da filosofi del calibro di Aristotele.

Costretta in condizione di sudditanza politica e sociale, la donna ha avuto di rado la possibilità di passare alla storia. Tra le figure che mette conto di ricordare è il caso di citare Ipazia, Trotula De Ruggiero, Giovanna D'Arco.

Ipazia (filosofa, matematica, e astronoma greca, esponente della filosofia neoplatonica) anticipò già nel IV secolo d.C. la teoria dell'eliocentrismo e delle orbite ellittiche ma le sue intuizioni vennero soffocate e viene ricordata come una martire della libertà di pensiero.

Trotula De Ruggiero è conosciuta come la prima medichessa donna che ha operato nell'ambito della Scuola Medica Salernitana, celebre per aver dato i natali all'ostetricia e alla ginecologia moderne intorno all'anno mille.

Giovanna D'Arco, eroina nazionale francese che visse nella prima metà del XV secolo, guidò le armate francesi contro quelle inglesi.

Francese è anche una donna divenuta simbolo del protofemminismo, ossia delle rivendicazioni tentate dalle donne prima che venisse a crearsi la possibilità di un vero e proprio movimento. Il suo nome è Olympe de Gouges, drammaturga e attivista, autrice, nel 1791, della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne); fu ghigliottinata nel 1793 per essersi opposta all'esecuzione di Luigi XVI ("perché si era dimenticata le virtù che convengono al suo sesso").

Nonostante l'eccezionalità di queste figure il ruolo della donna rimase a lungo subordinato.

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In tempi più moderni, grazie alla trasformazione del lavoro e alla diffusione di una mentalità progressista, aperta al riconoscimento dei diritti individuali, le circostanze sono mutate: l'affermazione dei diritti fondamentali delle donne e il raggiungimento della parità sono diventate possibili ed anzi, grazie a intense rivendicazioni politiche e sociali, reali ed effettive almeno nel mondo occidentale.

Durante la Prima guerra mondiale, soprattutto, a causa dell'assenza di forza-lavoro, impegnato al fronte, e di uno sviluppo delle forze-produttive che per molti lavori non richiedevano più una notevole massa muscolare, fu possibile, in notevole quantità, per le donne inserirsi nella sfera del lavoro subordinato e professionale.

Tra il 1914 e il 1918, crebbe notevolmente il numero di lavoratrici, conseguentemente alla assenza degli uomini impegnati al fronte. Inoltre, in questo periodo molte donne furono impiegate per la professione infermieristica, acquisendo conoscenze fino ad allora appannaggio esclusivamente maschile.

La possibilità di incontro e confronto generò nelle donne una sorta di coscienza di classe, permettendo loro di cominciare a lottare per rivendicare i propri diritti.

La divisione in ondateDalla nascita del femminismo nell' Ottocento ad oggi, il movimento è stato suddiviso in varie ondate, secondo un criterio temporale e contenutistico, ovvero in base al tipo di diritti rivendicati. La divisione in ondate è una convenzione ancora molto discussa, soprattutto perché, se presa in considerazione troppo rigidamente, potrebbe indurre a dimenticare gli intervalli temporali tra le diverse ondate e di conseguenza a perdere di vista l'iter complessivo del fenomeno.

Prima ondata: suffragette e diritto di voto

Si tende a collocare la prima ondata di femminismo verso la fine dell'800, quando nacque il movimento delle suffragette in Inghilterra, capitanate da Emmeline Pankhurst. Tali donne, chiamate inizialmente con disprezzo in questo modo, combattevano per l'estensione del suffragio universale anche al genere femminile. Le militanti propagandavano le proprie idee attraverso scioperi e azioni dimostrative estreme (incatenandosi alle ringhiere, incendiando cassette postali, rompendo finestre...) spesso soffocate con la violenza e con gli arresti.

Nel 1918 venne approvata nel Regno Unito la proposta del diritto di voto alle donne con determinati requisiti: infatti solo le donne al di sopra dei 30 anni, sposate con un capofamiglia, ebbero accesso al voto; nel 1928, poi, fu conseguito completamente l'obiettivo e il suffragio fu esteso a tutti coloro che avevano raggiunto il diciottesimo anno di età. Nello stesso periodo, il suffragio universale era stato raggiunto anche in altri paesi. Per dare un’idea della progressione, riportiamo alcune date significative: Nuova Zelanda (1893); Finlandia (1906); Germania (1912); Russia (1917); Francia (1945); Svizzera (1971).

Nel 1945 anche in Italia venne istituito il suffragio femminile e le donne votarono per la prima volta alle elezioni amministrative. Nel 1946, poi, ci furono il referendum istituzionale per la scelta tra monarchia e repubblica, e le elezioni politiche dell'assemblea costituente, che rappresentano il primo voto su scala nazionale per le donne nel nostro Paese.

Seconda ondata: gli anni '60-'80

Centro propulsivo della seconda ondata furono gli Stati Uniti d'America, dove, grazie al boom economico, dopo il periodo di stallo dei due conflitti mondiali, molte vecchie convenzioni sociali vengono abbandonate.

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Le rivendicazioni di questo periodo sono principalmente di carattere sociale; temi come lo stupro, l'aborto, il divorzio, la contraccezione e la libertà sessuale vengono portati all'ordine del giorno.

Nonostante fosse stato ottenuto il diritto di voto, il periodo immediatamente successivo alle due guerre mondiali, fu caratterizzato anche nei paesi più progressivi da un apparente ritorno al passato. L'uguaglianza sociale appariva ancora lontana e la donna tornava essere vista come "angelo del focolare", con l'unico scopo di garantire la ripopolazione necessaria.

Contributo consistente a questa visione del ruolo femminile veniva aggiunto dai mass media e dalla cultura popolare, che le femministe tentarono di contrastare creando una propria cultura di massa (corroborate da libri, canzoni...).

Uno degli obiettivi principali del movimento era quello di proporre un’immagine positiva della figura femminile e di diffonderla per far sì che il maggior numero di donne possibile si rendesse conto di violenze, oppressioni, sottomissioni subite più o meno tacitamente, più o meno consapevolmente. Queste promossero anche campagne di sensibilizzazione sui temi riguardanti i cambiamenti sociali.

L'eco della rivoluzione arriva anche in Italia, seppure in ritardo, con la legge del 1970 sul divorzio e del 1978 sull'aborto.

Questi progressi furono raggiunti nonostante la strenua opposizione della Democrazia Cristiana: infatti entrambe le proposte di legge contrastavano con i principi cristiani della sacralità del matrimonio e della vita umana (anche non ancora formatasi).

Di conseguenza, nel 1974 venne proposto dal partito di maggioranza un referendum abrogativo della nuova legge sul divorzio, il cui esito ribadì col voto popolare il consenso della più gran parte del popolo italiano.

In seguito al referendum venne anche modificata la normativa riguardante il diritto di famiglia: la codificazione precedente, datata 1942, prevedeva la subordinazione della moglie al marito e una disparità giuridica nel trattamento dei figli non legittimi; con la modifica del 1975 venne riconosciuta la parità giuridica dei coniugi, alla “patria potestà” venne sostituita la “potestà genitoriale” di entrambi (ora “responsabilità genitoriale”), venne eliminato l'istituto della dote ed istituita, venne riconosciuta ai figli naturali la stessa tutela prevista per i figli legittimi, venne istituita la comunione dei beni come regime patrimoniale legale della famiglia, venne attribuita, in caso di decesso, l’eredità di uno dei due coniugi all’altro e concessa ai figli naturali la stessa tutela data ai figli legittimi.

Quanto all’aborto, prima del 1978 il codice penale italiano considerava un reato l'interruzione volontaria della gravidanza. Alla campagna abortista si unirono anche partiti come PSI, PCI e il Partito Radicale, per contrastare innanzitutto la piaga dell'aborto clandestino diffusasi a macchia d’olio per l’intera nazione “grazie” al fenomeno delle mammane (infermiere che clandestinamente e con mezzi di fortuna, facendosi però pagare molto, praticavano gli aborti).

Anche in seguito all’approvazione di questa legge venne promulgato un referendum abrogativo, nel 1980, e anche in questo caso la volontà popolare ribadì la necessità dell’aborto legale.

In seguito all’esito del referendum nel 1981 furono inoltre apportate ingenti modifiche all’ordinamento sul “delitto d’onore”: in precedenza infatti vigevano pene diverse per gli assassinii compiuti in seguito a uno scatto d’ira dovuto alla scoperta di un tradimento, sa che la vittima fosse il coniuge, sia che fosse l’amante. Nel 1968 si era stabilità l’incostituzionalità della legge sul delitto d’onore in quanto gli sconti di pena erano applicati solo se a commettere adulterio fosse stata la donna.

Nel 1981, insieme al totale annullamento del “delitto d’onore”, venne eliminato anche l’istituto del matrimonio riparatore, per cui l’accusa di violenza carnale sarebbe caduto se lo stupratore avesse acconsentito a sposare la vittima.

A distanza di 40 anni dalla promulgazione della legge, che prevede la possibilità di abortire entro i tre mesi dal concepimento (prima dunque che si formi il sistema nervoso), il completo accesso all'IVG (Interruzione

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volontaria di gravidanza) non è ancora garantito: la percentuale di obiettori di coscienza, infatti, raggiunge anche più del 90% dei medici in alcune regioni d'Italia (Trentino Alto Adige e Molise).

Terza ondata: dagli anni ‘90

La terza ondata nasce dalle macerie della seconda e, secondo molti, riprende le sue battaglie non ancora concluse: la parità legislativa non garantiva una parità ancora concreta ed effettiva; emergono veri e propri "studi di genere" per affiancare una teoria critica alla lotta pratica e per contrastare il pregiudizio e gli stereotipi ancora dilaganti. Abbracciando per la prima volta la diversità il movimento femminista si fa baluardo non solo dei diritti delle donne bianche, borghesi, ma anche di quelle di altre classi ed etnie e di quelle appartenenti alla comunità LGBTQ+ (femminismo intersezionale). Il fulcro della terza ondata e la rivendicazione energica di un’effettiva parità di genere.

Femminismo intersezionale

Il dibattito riguardante la divisione del movimento in ondate non definisce all'unanimità i limiti delle stesse. In particolare, è opinione diffusa che al momento ci si trovi ancora a combattere le battaglie della terza ondata, ma si pensa anche che sia possibile definire l’attuale fronte di rivendicazioni come una quarta ondata. Tendenzialmente, il movimento che attraversa questi ultimi anni è definito femminismo intersezionale, in quanto si occupa di tutte le questioni di disparità! Grande mancanza del femminismo nella prima ondata, infatti, è quello di aver lottato esclusivamente per i diritti delle donne bianche, eterosessuali, cisgender e borghesi.

Prostituzione, “utero in affitto” e il lusso di avere il ciclo

Tra i temi più attuali è possibile annoverare la legalizzazione della prostituzione e della GPA, Gestazione Per Altri (“utero in affitto”). Al riguardo esistono opinioni fortemente contrastanti anche all'interno del movimento stesso, soprattutto per quanto concerne la GPA: se da un lato pratiche di questo tipo rientrano nella libertà della donna di disporre del corpo a proprio piacimento, dall'altro queste sono spesso espressione di forme di sfruttamento di donne povere e bisognose.

Un’altra battaglia dei nostri giorni è quella riguardante la tassazione degli assorbenti e dei prodotti di igiene femminile necessari durante le mestruazioni.In molti paesi, grazie al sostegno delle proteste in strada, la tassazione è stata abbassata; in altri, la fornitura di questi prodotti è a spese dello Stato. In Italia, invece, sono soggetti all’IVA (imposta sul valore aggiunto) del 22%, e sono quindi tassati come beni di lusso.Svariate proposte per cambiare questa decisione presa nel 1972 e ridurre l’IVA al 4% in quanto beni di prima necessità sono state avanzate in parlamento, la più recente delle quali a maggio 2019; l’anno precedente il deputato Giuseppe Civati aveva presentato la stessa proposta, ricevendo in cambio solo commenti ironici e, stando alle sue stesse parole, “provinciali, trogloditi e involontariamente sessisti”.

To be continued…

La strada da percorrere per giungere alla parità è ancora lunga.

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Nonostante i notevoli progressi ottenuti nella società, come l'approvazione del disegno di legge sull'aborto in Irlanda nel maggio 2018, ancora sono evidenti, finanche nei paesi più sviluppati, residui della cultura patriarcale: in Alabama, Ohio, Connecticut, Georgia, Utah, stati che fanno parte della progredita e civilissima America, sono state emesse nuove legislazioni (rigorosamente da parlamentari uomini e bianchi), estremamente restrittive proprio sull'interruzione di gravidanza.

Molti pregiudizi e luoghi comuni ancora condizionano l’esistenza sociale, tra i quali spiccano la figura della madre e il mito dell’amore materno: come ha affermato Simone de Beauvoir (1908 – 1986), scrittrice, saggista e filosofa francese, nonché moglie di Jean-Paul Sartre,

Non ci sono madri «snaturate» poiché l'amore materno non ha niente di naturale: ma, appunto per questo, ci sono delle cattive madri. È una delle grandi verità che la psicanalisi ha rivelato.

Simone de Beauvoir aveva sottolineato, ben settant’anni fa, anche la precarietà dei diritti delle donne:

Non dimenticate mai che è sufficiente una crisi politica, economica o religiosa per mettere in discussione i diritti delle donne. Questi diritti non sono acquisiti per sempre. Dovete restare vigili per tutta la vostra vita.

A fronte di tutto ciò è dunque fondamentale tenere a mente l’importanza di una lotta costante.

BIBLIOGRAFIA

Libri

Chimamanda Ngozi Adichie, Dovremmo essere tutti femministi, 2014Carla Lonza, Sputiamo su Hegel, Rivista femminile,1972

Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea, 1989Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, 1961

Film

Theodore Melfi, Il diritto di contare (Hidden Figures), 2016 Roland Joffé, La lettera scarlatta, 1995

Martin Scorsese, L'età dell'innocenza, 1993 Steven Spielberg, Il colore viola, 1985

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LA FINE DEL ‘SOCIALISMO REALE’

~ LE CREPE~ La Polonia di Solidarność ~ Il crollo del Muro di Berlino

~ LA FINE DELL’URSS~ L’URSS di Gorbačëv ~ La fine della ‘sovranità limitata’~ Scioglimento del PCUS

LA FINE DEL ‘SOCIALISMO REALE’

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LE CREPE

La Polonia di Solidarność

Nel processo che porta alla caduta del blocco sovietico il 1989 è una data epocale.

La Polonia era sempre stata una spina nel fianco dell’imperialismo sovietico: la popolazione cattolica aveva sempre dato segni di insofferenza verso il regime. In Polonia, parallelamente al movimento operaio di ispirazione marxista, si venne a creare un movimento operaio di estrazione cattolica che si organizzò nel sindacato Solidarność (solidarietà). Nel 1980, il paese venne sottoposto ad una grande agitazione ed ondata di scioperi, ma la protesta si radicalizzò in seguito all’innalzamento dei prezzi alimentari e, quindi, alla bassa capacità dei salari di mantenere il potere d’acquisto. Pian piano la lotta si sviluppò verso obiettivi sempre più generali ed importanti. Si giunse alla volontà di far riconoscere il nuovo sindacato Solidarność che - ironia della storia - aveva un suo punto di forza nel cantiere navale Lenin, e dove, tra l’altro, campeggiavano l’immagine della Madonna di Czestochowa e l’effige del papa polacco cioè di papa Giovanni II, Wojtyla.

Il sindacato cattolico guidato da Lech Walesa non poteva non essere in conflitto con il governo presieduto dal generale Jaruzelski che, presto, proclamò lo stato d’assedio nel Paese. Il conflitto fu smorzato dall’intervento della Chiesa: governo e sindacato s’incontrarono in cerca di un compromesso che, per certi versi, fu paradossale, ma tecnicamente geniale. Il risultato fu la richiesta di elezioni per il giugno 1989. L’accordo prevedeva che si sarebbero indette elezioni a cui avrebbe pubblicamente partecipato il nuovo sindacato-partito e che, comunque il popolo si fosse espresso, al Partito comunista polacco venisse attribuita una maggioranza assoluta del 65%.

Il risultato delle elezioni andò oltre ogni aspettativa per i dissidenti: il Partito comunista si aspettava una sconfitta, ma non una debacle (disfatta) conseguendo solo il 12% dei voti. Solidarność conseguì quasi tutti i seggi del senato. Insomma, alla prima prova elettorale democratica, il Partito comunista polacco evaporò completamente, ma Solidarność stette ai patti sia per evitare bagni di sangue con la reazione interna al paese e con una, sia per scongiurare una possibile repressione violenta da parte sovietica. Ciò dette al Partito comunista, ancora per un po', la parvenza di poter avere una qualche guida o, almeno, un ruolo nella società polacca.

Con la vittoria di Solidarność, il generale Jaruzelski affidò a Masoweick l’incarico di formare un governo. Il 12 settembre del 1989 il governo ottenne l’appoggio del parlamento. Questa data segnò una svolta epocale, poiché, fu la prima volta che in un paese del blocco sovietico si formava un governo di coalizione.

Gli eventi precipitavano: il 29 dicembre del 1989 la Polonia si proclamò Repubblica e, nel 1990, il capo operaio del sindacato Solidarność, Walesa, fu nominato presidente della repubblica.

Il crollo del Muro di Berlino

L’evento che simbolicamente rappresenta la caduta del blocco sovietico, dei regimi dell’Est è, sicuramente, la caduta del muro di Berlino.

Il muro era stato costruito in brevissimo tempo nell’agosto del 1961, per impedire le fughe dalla Germania dell’est a quella dell’ovest e le guardie appartenenti alla fazione sovietica erano autorizzate a sparare anche sui loro concittadini se questi tentavano di valicare il muro, come spesso accadeva. In breve divenne la rappresentazione plastica della guerra fredda.

Nell’ottobre del 1989 il presidente della Germania dell’Est (DDR) e capo del partito, Erich Honecker, diede le dimissioni in favore di E. Krenz. Il 24 e 25 ottobre del 1989 cominciano manifestazioni di piazza sempre più grandi a Dresda, Berlino, Lipsia: si chiede maggiore libertà e democrazia.

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Il 7 novembre il governo annuncia le dimissioni e diventa Primo ministro il riformista H. Madrow. Intanto, sorprendendo tutti, il 9 novembre il presidente della DDR annuncia l’apertura delle frontiere con la Germania dell’Ovest (RFG). Il 10 novembre i cittadini salgono sul Muro. Le famigerate e temute guardie (Vapos) non spararono. Le armi tacciono!

Da entrambe le parti RFG e DDR, nel momento in cui si diffuse la notizia, i berlinesi si accalcarono presso il Muro, sul quale salirono e festeggiarono le speranze di riunificazione del popolo tedesco.

Nel marzo del 1990, nella DDR si tennero le elezioni che registrarono la volontà di riunificazione delle due Germanie. Il 2 ottobre 1990 la Germania era di nuovo unita.

Nessuno aveva previsto quello che stava accadendo. Il mondo restò incredulo, attonito difronte a quelle immagini. Tuttavia, la caduta del Muro di Berlino non trova spiegazione a Berlino, con le folle che lo demoliscono: il Muro cade, sostanzialmente, a Mosca.

LA FINE DELL’URSS

L’URSS di Gorbačëv

Quello del 9 novembre fu un evento epocale: il muro della discordia, che aveva diviso la città in due parti, si sgretolò e, nelle settimane successive, il ‘socialismo reale’ si dissolse ‘pacificamente’ come uno in spettacolo surreale. Nella piena indifferenza di Mosca, i carrarmati non arrivarono a schiacciare questo esito imprevisto dalle cancellerie di tutti i paesi del mondo.

Per capire come questo Muro, messo e mantenuto in piedi soprattutto per volontà sovietica, fosse caduto così improvvisamente, occorre tornare indietro ai primi segnali di crisi economica sovietica, avuti con la presidenza di Brežnev. A questi, si erano aggiunti i costi della gara spaziale che fu un elemento fondamentale nella lotta tra le due super-potenze. La gara spaziale tra le due super-potenze divenne, iconicamente, il segno della superiorità delle rispettive economie e dei sistemi ideologici, tout court. In un primo tempo la competizione fu assolutamente a favore dell’Unione Sovietica: basti ricordare che, il 4 ottobre del 1957, lanciava nello spazio lo Sputnik, il primo satellite; poco dopo, il 12 aprile 1961, lanciava invece Jurij Gagarin, primo uomo nello spazio che compì, con la navicella Vostok, un giro completo in un’ora e quaranta minuti. Gli USA ci riuscirono il 20 febbraio 1962 con John Glenn e infine, il 20 luglio 1969, lo scettro passò nelle loro mani con la missione Apollo, che prevedeva l’atterraggio sulla luna di Neil Armstrong, Michael Collins ed Edwin Aldrin. In seguito alla buona riuscita della missione, gli americani eseguirono cinque sbarchi sulla luna tra il 1969 e il 1972. Il grande sviluppo tecnologico dovuto alla conquista dello spazio fece sì che le importanti scoperte si riversassero in campo militare, con l’invenzione di armi sempre più raffinate. La gara spaziale fu prodromica alla produzione di missili a testata nucleare dalla distruttività crescente, che rendevano obsolete le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Gli USA iniziarono a porre un freno alla gara spaziale solo nel 1986, a seguito di un incidente nel quale la navetta spaziale esplose poco dopo il lancio, causando la morte di tutto l’equipaggio; l’Unione Sovietica continuò invece fino al 1991 col lancio di astronavi che sempre più depauperavano i conti e mettevano in crisi il sistema economico.

Il mantenimento dell’impero imponeva un apparato militare e una spesa militare enorme che divorava ingentissime quantità di ricchezza prodotta. Insomma, i sovietici, nella gara spaziale e militare condotta contro l’altro gendarme del mondo, gli USA, per il controllo delle aree strategiche, dissipavano una quantità enorme di ricchezza che non aveva nessuna immediata ricaduta sullo sviluppo reale dell’economia: il surplus prodotto dal sistema dell’economia pianificata si dileguava nelle spese spaziali e militari senza che vi fosse una ricaduta virtuosa per il miglioramento di vita della gente. Il sistema militare messo in piedi dall’Unione Sovietica fu un vero e proprio pozzo senza fondo che assorbì enormi ricchezze che potevano essere certamente meglio distribuite ed investite per il miglioramento economico-sociale dell’intero Paese.

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Appariva sempre più chiaro che il sistema militare sovietico fagocitava sostanze enormi che potevano essere, invece, distratte, per ampliare processi di accumulazione sotto forma di investimenti produttivi per il paese.

Ancora, va ricordato come l’URSS spendeva cifre cospicue per mantenere il suo impero attraverso scambi ineguali o scambi a prezzi politici: valga per tutti il prezzo politico con cui pagava la canna da zucchero cubana.

Infine, la classe dirigente del paese era diventata sempre più corrotta e parassitaria e questo era un sicuro ‘costo’ per il paese in cui, tuttavia, non si registrarono ribellioni, sommosse sociali o semplici proteste giacché il sistema riusciva a mantenere una certa adesione sociale proprio attraverso il lavoro garantito a tutti. Il lavoro, in generale, diventava meno produttivo e ciò comportava un abbassamento del tenore di vita reale che però non arrivò ad inficiare i livelli di sopportabilità delle masse nelle città. Insomma la crisi sovietica fu simile ad una stagnazione generalizzata senza che s’incrinasse la coesione sociale e una sola sommossa divampasse: il corpo sociale sembrò anestetizzato.

A ritroso, possiamo dire che l’economia pianificata del capitalismo di Stato sovietico non fu assolutamente all’altezza degli obiettivi storici che si volevano raggiungere e che il gap con l’economia Usa non fu mai messo seriamente in discussione. Tuttavia, la contrapposizione ideologica, militare, ecc., insomma la politica dei due blocchi contribuì all’inganno sullo stato reale dell’economia sovietica. Inoltre, non si intravidero arretratezze e crepe anche perché lo stesso Occidente era impegnato, a sua volta, nella crisi energetica del 1973 che squassò le economie dei paesi capitalistici liberali. In ogni caso, l’idea di Krusciov che l’Unione Sovietica avrebbe, in vent’anni, superato l’economia degli Stati Uniti era solo un pio desiderio. L’economia pianificata fu con Stalin certo una clava potente, propulsiva per distruggere la Russia arretrata e procedere risolutamente verso l’industrializzazione, ma, nel tempo, divenne un’economia sempre più asfittica.

Un cambiamento essenziale nella politica sovietica fu la designazione, l’11 marzo 1985, di M. Gorbačëv a segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica: questo cambiò il corso non solo dell’URSS, ma di tutti i paesi dell’Est. Gorbačëv nasce all’interno dell’élite del Partito comunista. Ad appena 54 anni, diventa presidente del Soviet supremo, e si pone alla guida dell’URSS con l’intento di ammodernare il paese.

La politica di Gorbačëv si sostanzia e racchiude in due parole dirompenti: Perestrojka (ristrutturazioni) e Glasnost (trasparenza).

La macchina del potere sovietico ovvero la burocrazia sovietica era un animale mastodontico inefficiente, ma che fagocitava una ingente massa di plus-prodotto. Bisognava, dunque, mettervi mano alleggerendola, semplificandola. Contrassegnata dalle stimmate della lentezza della burocrazia russa quella sovietica era ugualmente inefficiente, inefficace, parassitaria. Bisognava mettere in atto una serie di riforme economiche di ‘ristrutturazioni’, che rompessero quei lacci e lacciuoli che tenevano l’economia legata ad una burocrazia e ai dirigenti del Partito che non solo rappresentava tecnicamente una superfetazione, ma che era diventata anche una rete di potere e corrutela. Le riforme economiche dovevano andare nella direzione delle liberalizzazioni per creare una economia ‘mista’. D’altro canto ciò non era possibile senza metter mano ad un profondo cambiamento nella nomenclatura del partito, nei suoi organi, nella corruzione.

In questo processo di ammodernamento va pure annoverato l’apertura verso la libertà religiosa e di coscienza e lo sforzo di eliminare le misure repressive nei confronti degli avversari politici.

La fine della ‘sovranità limitata’

Gorbačëv cercò, a più riprese, di portare avanti una politica di disarmo. Nel 1985 vi fu il primo summit a Ginevra con Reagan che non portò a nessun risultato visto che gli americani non vollero rinunciare allo ‘scudo stellare’. Dopo l’incontro di Reykiavik (1986) vi fu quello più sostanzioso e proficuo a Washington (1987), dove si ci accordò per l’eliminazione degli euromissili.

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Il fatto più importante, però, al fine della comprensione della caduta del Muro di Berlino e della dissoluzione dei sistemi a ‘socialismo reale’, avvenne il 18 marzo 1988 quando Gorbačëv annunciò la fine della ‘sovranità limitata’ scherzosamente soprannominata ‘Dottrina Sinatra’ in riferimento alla canzone My way.

La fine della ‘sovranità limitata’ stabiliva che l’URSS non si sarebbe si sarebbe più ingerita nella politica interna dei paesi del Patto di Varsavia, né, tantomeno, sarebbe intervenuta militarmente. Tutti i paesi del Patto potevano liberamente scegliere la propria ‘via al socialismo’. Si abbandonava la politica che fu di Breznev che comprimeva le libertà dei diversi Stati all’interno del blocco sovietico – revival, in effetti, del ‘principio d’intervento’ che fu della Santa Alleanza. Ogni Stato satellite sovietico era sciolto dal patto di ‘sovranità limitata’ ovvero da quella stretta politico-militare che obbligava a rimanere all’interno del blocco sovietico e seguirne le direttive. Ai diversi Stati satelliti veniva restituita una sovranità illimitata ovvero la capacità di autodeterminarsi, l’indipendenza senza essere più vincolati, di fatto, dall’URSS. A testimoniare che l’annuncio non fosse propagandistico-ideologico, il 25 aprile 1989, l’Armata rossa cominciò a ritirarsi dall’Ungheria e l’11 maggio dalla Cecoslovacchia; il 14 aprile 1988, l’Unione sovietica si era già impegnata a ritirarsi dall’Afghanistan.

Addirittura, il 6 luglio del 1989 Gorbačëv, in un Discorso al Consiglio d’Europa, lanciava l’ipotesi di “ una casa comune europea” e con ciò, segnò un passo estremamente radicale verso la distensione, allontanando l’idea di diversificazione ideologica e avvicinandosi a quella di cooperazione economica e politica.

In politica interna, ancora nel 1989, Gorbačëv fu ancora più radicale nella rottura col passato: venne soppresso l’articolo 6 della Costituzione, che assegnava la guida del paese al Partito comunista modificando gli articoli che assegnavano al partito le sole candidature nelle elezioni.

A partire dal 1991 si proclamarono indipendenti l’Uzbekistan, la Moldavia, l’Ucraina, la Bielorussia e gli Stati Baltici dell’Estonia, la Lituania e la Lettonia mentre iniziavano sommovimenti nelle repubbliche dell’Armenia e dell’Azerbaijan. La caduta dei diversi regimi comunisti segnò l’inizio del “terzo dopoguerra”.

Scioglimento del PCUS

Nell’agosto 1991, abbiamo il tentativo di golpe. Gorbačëv si trovava in Crimea quando fu fatto prigioniero con la moglie e la sua guardia del corpo: i golpisti annunciarono che era malato e istituirono un Comitato di emergenza al quale partecipò anche il presidente del KGB. Al golpe seppero rispondere gli uomini di Boris Eltsin, leader democratico radicale e Presidente della Repubblica Russa eletto nel maggio del 1990 attraverso libere elezioni, che spesso era entrato in conflitto con le politiche del più moderato Gorbačëv. Durante il tentativo di golpe Eltsin e i suoi scesero in piazza, parlarono al mondo intero raccontando ciò che stava succedendo, occuparono il Parlamento, dalla torretta di un carrarmato davanti al museo di Lenin. Eltsin lesse i decreti con cui si nominava comandante delle forze armate russe prendendo su di sé i massimi comandi. Intanto, anche a Leningrado la popolazione protestò per resistere al golpe. Intanto, il presidente americano G. Busch americano, dichiarò di appoggiare Eltsin per difendere la democrazia nascente in Unione Sovietica e confermava la sua fiducia in Gorbačëv. Il golpe durò 48 ore, poi i golpisti si arresero. Nel frattempo, Gorbačëv tornò a Mosca e, in Parlamento, affrontò le accuse di Eltsin che in parte lo riteneva responsabile dell’accaduto perché aveva dato posizione di potere ai golpisti. Gorbačëv si dimise da segretario del Partito comunista e, accertata la responsabilità dell’élite del partito nel tentativo di golpe, ne decretò lo scioglimento. Con quest’atto, finiva ufficialmente il PCUS.

Il 31 dicembre 1991, l’URSS cessò ufficialmente di esistere: al suo posto, nacque una comunità di stati indipendenti formata dalla Russia e da dieci repubbliche ex-sovietiche. La caduta dell’URSS portò all’effetto domino ovvero alla caduta dei regimi dell’Est e a processi di disintegrazione della federazione sovietica. La caduta dell’URSS portò alla fine dei due blocchi – almeno, così come li avevamo conosciuti fino ad allora.

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BIBLIOGRAFIA

Libri

FilmGood bye, Lenin!, W. Becker, 2003

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LA TERRA VISTA DALLA LUNA

~ IL QUADRO~ I nuovi equilibri politici~ Globalizzazione e capitale finanziario~ Consumatore globale e evanescenza del potere decisionale

~ IL GIARDINO DELLE DELIZIE~ La fine del lavoro ~ Concentrazione della ricchezza ~ Nord e Sud del mondo~ La fame nel mondo~ Il problema dell’acqua~ La condizione femminile~ Cambiamento climatico~ ….

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IL QUADRO

F. Bacone aveva ben presente che scientia potentia est! Oggi Bacone impallidirebbe alla vista della potenza inaudita che abbiamo acquisito nella capacità di trasformare il pianeta con le nostre conoscenze e con la tecnologia che abbiamo dispiegato. Resta oggi, intonsa, la disamina di P. P. Pasolini su sviluppo economico e progresso sociale, come pure il tema del consumismo come fascismo diversamente dal cripto-fascismo storico che ebbe bisogno della forza per piegare alla volontà unica. Resta, pure, la domanda se abbiamo ancora il controllo di questo apparato o se siamo – per dirla con U. Galimberti – diventati semplici funzionari di tale sistema.

Oggi possiamo dispiegare meraviglie impensabili: Internet, biogenetica, robotica, ecc. eppure, a guardar da lontano, la Terra ha una serie di ‘sofferenze’… A fronte di tali meraviglie portentose il sistema economico genera continue crisi cicliche sempre più ampie e profonde – si veda la crisi del 2007 non ancora finita -; un rallentamento nei ritmi di crescita dei ‘vecchi’ capitalismi (Europa, Usa, Russia), mentre reggono i ‘giovani’ capitalismi come la Cina; una precarietà crescente dovuta ad una disoccupazione che è diventata strutturale; una sperequazione ricchi/poveri e Nord/Sud del mondo; ecc.

Se si guarda la Terra dalla luna sembra che il turbo-capitalismo non garantisce, per la stragrande maggioranza dell’umanità, diritti essenziali come il diritto al cibo, all’acqua, all’istruzione, ad una aspettativa di vita ormai possibile solo nelle nazioni più avanzate.

Si scorge, ormai con una certa chiarezza, il paradosso di una forza produttiva magnifica, incatenata in una appropriazione privata della ricchezza prodotta, che risponde alla sola sollecitazione del profitto senza più nessun legame con i bisogni.

Se la fine del ‘socialismo reale’ pone fine a quella esperienza storica che a K. Marx si richiamava in maniera quasi religiosa, l’analisi del capitalismo di Marx sembra riemergere pressoché intatta dal Capitale e offrire una strumentazione per comprendere la contemporaneità e i processi di globalizzazione.

I nuovi equilibri politici

La fine dell’Urss segnò, ovviamente, la fine della cosiddetta Guerra fredda e sembrò possibile, per l’espace du matin, l’illusione di una governance mondiale che potesse avere la sua realizzazione in istituti internazionali riconosciuti, come l’ONU. L’Onu però ha mostrato, a più riprese, di non essere in grado di gestire politiche di mediazione nei conflitti, ma troppo spesso ha assistito impotente ad azioni unilaterali. En passant, i cinque membri del Consiglio dell’ONU che hanno diritto di veto producono l’85% della produzione mondiale delle armi.

La fine dei Blocchi ha dato subito agli USA il destro per presentarsi gendarme unico planetario e ha elaborato la ‘magnifica’ e ‘lungimirante’ strategia della “Guerra preventiva” affiancata dalla “Esportazione della democrazia” con i marines o i droni. Gli USA hanno preso il ruolo di gendarme del mondo per poi, con il presidente Obama alle prese con la crisi economica del 2007, ripiegare verso una maggiore attenzione alla politica interna per ritornare, con D. Trump, alla politica estera con un America first.

Sembrò all’Occidente, per un momento, che con la fine del ‘socialismo reale’ dei ‘blocchi contrapposti’, con la ‘distruzione mutua assicurata’ o ‘strategia del terrore’, si potesse pensare ad uno sviluppo ormai lineare e pacifico dove ‘piccoli’ contrasti locali potessero essere sedati

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facilmente. Il Terzo millennio: un tempo di grande sviluppo sulle ali della rivoluzione informatica e della globalizzazione dei mercati.

Pian piano l’ex-URSS, ora Russia, ha ripreso il suo ruolo internazionale e il mondo sembra ridisegnarsi con la vecchia polarizzazione come mostra in maniera chiara la questione siriana, e la Crimea. I vecchi attori del dramma novecentesco sembrano ancora lì a polarizzare e movimentare la scena internazionale. La fine della Guerra fredda segna un cambio della scorza politica degli imperialismi, ma non della sostanza nella politica degli equilibri di potere.

Pian piano però, a livello internazionale, emerge sempre più la Cina ‘comunista’, ormai prima potenza industriale mondiale, che per il momento vuole essere lasciata in pace e fare i propri commerci, ma che entrerà, presumibilmente, nel prossimo futuro nella pugna internazionale per la spartizione delle zone d’influenza.

L’Europa, la vecchia e stanca Europa, sembra non accorgersi che non è più il Centro del mondo e, senza una unione politica reale e senza nessuna influenza internazionale, s’attarda ancora nei nazionalismi che s’acuiscono, ovviamente, nei periodi di crisi economica, mentre la globalizzazione economica spinge verso unioni macro-economie sovranazionali.

Se non ci sono elementi di stabilizzazione politica che possono assicurare un cammino di pace duraturo alla Terra, dal punto di vista della governance economica, oggi più di ieri, si mostrano i limiti del sistema economico con una serie di dati impressionanti per ciò che concerne le variabili fondamentali sulla sanità del sistema, della sua vivibilità e della sua sostenibilità.

Globalizzazione e capitale finanziario

Natura imprescindibile del sistema capitalistico è la sua propensione ad espandersi, ad assoggettare mercati, a dilagare sul globo. Fin dalla sua nascita il capitalismo ha vocazione internazionalista, globalista. Il capitalismo ottocentesco trova il suo obiettivo nella costruzione dello Stato-nazione come ‘spazio’ che gli corrisponde, poi cerca aree ecogeografiche più rilevanti. A partire dalla rivoluzione informatica e con la crescita del capitale finanziario, la globalizzazione planetaria è ormai un dato di fatto. Il mondo è villaggio globale – per parafrasare Mc Luhan.

Tale processo, ancorché inevitabile, rappresenta una via assai complessa, lastricata di ostacoli, conflitti, soccombenti.

Il capitale finanziario è protagonista indiscusso della globalizzazione economica del Terzo millennio! Esso fomenta questo processo storico muovendosi senza requie per tutto il globo: attraversa il mondo nei cavi di fibra ottica sorvolando i confini delle nazioni, le culture, i diritti dei lavoratori, ecc. e dove non scompagina e volatilizza, porta a ‘ragionevolezza’ le culture locali. E’ un capitale senza Paese, internazionale per sua natura e, soprattutto, onnipresente, ‘volatile’: capace però, con un clic, di trasformarsi in investimenti concreti, di determinare fallimenti a Bangkok, il taglio della foresta amazzonica, dare lavoro a Vladivostok e buttare sul lastrico gli artigiani di Brema. Alla volatilizzazione del capitale finanziario fa da pendant la delocalizzazione materiale delle fabbriche che migrano in Paesi dove le imposte, il salario e i diritti del lavoro sono meno onerosi. I diritti del lavoro deflagrano in una arena mondiale di forza-lavoro a basso costo. Per il capitale essi sono superfetazioni, escrescenze fastidiose, lacci che intralciano l’inarrestabile processo di valorizzazione delle merci.

L’unico imperativo categorico in un’economia basata sul valore di scambio è massimizzare il profitto attraverso la riduzione dei costi.

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Ridurre i costi significa di fatto comprimere i costi dei due elementi della produzione: a) materie prime; b) salari.

L’Occidente è, sostanzialmente, in una stagnazione tendenziale, ovvero una crescita irrisoria che inizia a partire dagli anni Settanta. Lo scenario più probabile sembra essere, per lo studioso tedesco W. Streeck, quello di un capitalismo in cui il declino economico si accompagna a quello morale, secondo un’involuzione progressiva che avviene in un mondo caratterizzato da una sorta di anarchia globalizzata, privo com’è, di un centro di riferimento geopolitico. La bassa crescita non permetterà di usare risorse finanziarie per appianare i tanti squilibri distributivi e garantire un regime di pace sociale, e ciò mentre le politiche monetarie liberali contribuiranno, attraverso il potenziamento del settore della finanza, ad aumentare l’iniquità distributiva. In conclusione, secondo How will capitalism end? di W. Streeck, non è da escludere un scenario socioeconomico basato sulla ‘guerra di tutti contro tutti’, sullo sfondo di un’economia stagnante e per di più minata dal rischio dell’esplosione ricorrente di bolle speculative.

Consumatore globale ed evanescenza del potere decisionale

Il capitalismo vuole una Terra che sia uno spazio ‘piano’, ‘continuo’, sgombro da ostacoli, da confini, da balzelli locali, per potersi dispiegare liberamente in tutta la sua potenza. Il capitalismo anela, di fatto, al consumatore mondiale, dunque al pensiero unico.

La progressiva omogeneizzazione dei consumi, si fa valere attraverso la perdita delle identità culturali locali che possono sopravvivere finché non sono ostacolo alla universale produzione delle merci. La costruzione del consumatore mondiale ha bisogno di una ideologia unica e, tuttavia, non monolitica, ma che al suo interno preveda una eterogeneità e, perfino, una certa dose di antagonismo.

Interessante è l’analisi di Z. Bauman che prende in considerazione le conseguenze della globalizzazione sulla vita quotidiana delle persone. Studia in particolare lo "spazio", dimensione che tende a rarefarsi nel tempo della globalizzazione. Da un lato abbiamo l’élite, il vertice, dall’altro le masse, la base. "Piuttosto che rendere omogenea la condizione umana, l’annullamento tecnologico delle distanze spazio temporali tende a polarizzarla. Chi opera nei pressi del potere finanziario (vero motore della globalizzazione), vive l’incorporeità del potere: non ha bisogno di luoghi deputati, è extraterritoriale e proprio per questo può isolarsi (in un nuovo apartheid) dal resto della popolazione che rimane tagliata fuori”. La conseguenza è la fine degli spazi pubblici, la creazione di "non-luoghi" direbbe Augé. Ma la conseguenza più tragica – per Bauman - è che l’abolizione degli spazi pubblici implica anche la crisi dei luoghi ove si creano norme, ove i valori sono discussi, negoziati, elaborati. In assenza di luoghi pubblici, i giudizi su ciò che è buono/bello/giusto/utile... possono discendere solo dall’alto, da regioni imperscrutabili, da un’élite lontana che non ha lasciato indirizzo di sorta e che rifiuta ogni interrogazione.

IL GIARDINO DELLE DELIZIE

La fine del lavoro

La macchina sostituisce l’operaio! Era questa la sana, e confermata, tesi dei luddisti degli inizi del XIX sec. che sabotavano la produzione rompendo le macchine che sostituivano gli operai. Gli

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apologeti del capitalismo hanno sempre sostenuto che, nonostante si riducessero i posti in un settore produttivo, l’aumentata produttività avrebbe portato un beneficio generale alla popolazione e, che la stessa produzione di macchine, avrebbe ridato lavoro a quegli operai espulsi. Oggi pare che, gli stessi economisti, constatino l’erroneità di questa tesi. Si è mostrata chiara, infatti, la tendenza che, oltre un certo sviluppo capitalistico, i posti di lavoro persi in questo modo non si recuperano.

Nel 1997 J. Rifkin con La fine del lavoro. Il declino della forza-lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato chiariva il problema divenuto esiziale per il capitalismo.

Secondo un rapporto presentato a Davos, all’ultimo meeting del World economic forum (2016), entro il 2020 i robot si ‘prenderanno’ 5 milioni di posti di lavoro che erano prima occupati da altrettanti uomini in 15 Paesi del mondo. L’ONU ritiene che nel giro di qualche decennio i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano.

La macchina, i robot, i processi di automazione non sono solo da condannare, poiché rappresentano lo sviluppo e la potenza che l’uomo ha raggiunto nel trasformare la natura per renderla fruibile ai propri bisogni. Il problema è che lo sviluppo tecnico-scientifico, applicato all’interno del sistema capitalistico, genera una costante espulsione di manodopera. Cosicché l’intelligenza umana, che dovrebbe dare maggior agio all’uomo, paradossalmente, crea differenze e precarietà.

La fine del lavoro è la faccia speculare della disoccupazione a meno che non si tamponi con una riduzione della giornata lavorativa ovvero con la formula: “lavorare meno, lavorate tutti” o, soluzione certo più ardita, abolire il lavoro salariato.

Concentrazione della ricchezza

La concentrazione della ricchezza si manifesta, non solo nella disparità tra paesi al livello mondiale, ma anche all’interno degli stessi paesi ricchi vi è una differenza, sempre più evidente, tra persone abbienti ed indigenti.

La ricchezza si concentra nelle mani di pochi in maniera scandalosa e non più sostenibile economicamente.

Lo squilibrio economico e, contestualmente, l’insostenibilità del sistema si leggono assai chiaramente nel grafico sotto riportato, tratto dagli studi di Thomas Piketty, che illustra la concentrazione di bilionari rispetto alla popolazione mondiale.

La ong britannica Oxfam ha rivelato dati assai significativi - diffusi alla vigilia del World Economic Forum di Davos (2013) - secondo cui nel mondo 8 uomini (Bill Gates, Amancio Ortega, Warren Buffett, Carlos Slim Helu, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Larry Ellison, Michael Bloomberg) posseggono 426 miliardi di dollari, la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta, ossia 3,6 miliardi di persone.

Sono passati quattro anni da quando il Forum Economico Mondiale ha identificato nella crescente disuguaglianza economica la maggiore minaccia alla stabilità sociale. Eppure, da allora, nonostante i leader mondiali abbiano sottoscritto tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, anche quello di riduzione della disuguaglianza, il divario tra i ricchi e il resto dell’umanità pare essersi allargato. Secondo le nuove stime, la metà più povera del pianeta, lo è ancora di più rispetto al passato. Così nel biennio 2015/2016 dieci tra le più grandi multinazionali hanno realizzato complessivamente profitti superiori a quanto raccolto dalle casse di 180 Paesi del pianeta. Il divario, però, ha radici più profonde. Sette persone su dieci vivono in luoghi dove la disuguaglianza è cresciuta negli ultimi 30 anni: tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari, meno di 3

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dollari l’anno, mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto. Oggi un amministratore delegato delle 100 società più capitalizzate dell’indice azionario Ftse: “guadagna in un anno tanto quanto 10mila lavoratori delle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh”, spiega il rapporto Oxfam.

Per quanto riguarda il nostro Paese, il rapporto mostra che, stando ai dati del 2016 i primi 7 miliardari italiani posseggono una ricchezza superiore a quella del 30% più povero dei nostri connazionali. L’1% più ricco del Belpaese può contare su oltre 30 volte le risorse del 30% più povero e 415 volte quella del 20% più povero della popolazione. Per quanto riguarda il reddito tra il 1988 e il 2011, il 10% più facoltoso ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani.

Nord e Sud del mondo

La tragica distinzione tra ricchi e poveri investe macro aree continentali. Vengono così a crearsi Paesi prosperi ed emergenti contrapposti a regioni sottosviluppate. Fu l’economista francese A. Sauvy a suggerire per primo la distinzione tra Paesi di 1° mondo (i Paesi capitalisti), di 2° (quelli socialisti), e di 3° (i restanti). Sebbene sia un concetto ormai superato, dato il diverso assetto economico-politico globale, rimangono significative le differenze tra gli Stati. I Paesi cosiddetti del Nord sono quelli più sviluppati (USA, Canada, UE, Russia, Australia, Nuova Zelanda, Scandinavia, Giappone…), mentre i restanti sono detti “del Sud”.

Le statistiche delle principali fonti internazionali stimano una sproporzione della spartizione delle ricchezze anomala: solo il 20% della popolazione mondiale si appropria dell’86% delle ricchezze prodotte sulla Terra ogni anno. Il restante 80% si deve accontentare del 14% dei beni che ne rimangono. Di questo 80%, il 60% usufruisce di un vago 4,5% delle risorse del pianeta; un altro 20% della porzione di umanità meno fortunata, invece, può a mala pena gestirsi solo l’1% delle risorse mondiali.

La fame nel mondo

795 milioni di persone nel mondo, oggi, soffrono la fame! Circa una persona su nove non ha abbastanza cibo per condurre una vita sana ed attiva. A livello mondiale, il rischio maggiore per la

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salute degli individui è rappresentato dalla fame e dalla malnutrizione, più che dall’azione combinata di AIDS, malaria e tubercolosi. I seguenti punti riassumono le stime del WFP:

1) La stragrande maggioranza delle persone che soffrono la fame vive nei Paesi in via di sviluppo, dove il 12,9% della popolazione soffre di denutrizione;

2) L’Asia è il continente che ha la più alta percentuale di persone che soffrono la fame nel mondo: due terzi della popolazione totale. Negli ultimi anni, in Asia meridionale la percentuale si è ridotta, ma nell'Asia occidentale essa è lievemente aumentata;

3) L'Africa Sub-sahariana è la regione con la più alta incidenza (percentuale della popolazione) della fame. Una persona su quattro soffre di denutrizione;

4) Se le donne avessero lo stesso accesso degli uomini alle risorse, ci sarebbero 150 milioni di affamati in meno sulla terra!

5) La scarsa alimentazione provoca quasi la metà (45%) dei decessi dei bambini sotto i cinque anni: 3,1 milioni di bambini ogni anno;

6) Nei Paesi in via di sviluppo, un bambino su sei (sono circa 100 milioni) è sottopeso;

7) Un bambino su quattro nel mondo soffre di deficit di sviluppo. Nei Paesi in via di sviluppo, questa percentuale può crescere arrivando a un bambino su tre;

8) Nei paesi in via di sviluppo, 66 milioni di bambini in età scolare - 23 milioni nella sola Africa - frequentano le lezioni a stomaco vuoto;

9) Il WFP calcola che ogni anno sono necessari 3,2 miliardi di dollari per raggiungere i 66 milioni di bambini in età scolare vittime della fame.

Il problema dell’acqua

L’acqua potabile è stata vista finora come una merce qualsiasi e non come un elemento limitato ed essenziale alla vita stessa. Nei Paesi sviluppati questo bene viene dato in gestione ad aziende private, che hanno con tutta evidenza, il compito di far profitto, tuttavia l’acqua non è affatto garantita a tutti: settecento milioni di persone vivono in condizioni tali da non avere accesso ad una fonte d’acqua sicura ovvero potabile. Le zone dove più si accentua tale problema sono l’Oceania, Africa subsahariana, Caucaso e Asia centrale.

Tale mancanza idrica genera problemi igienici, malattie a livello internazionale, eppure la gran parte del problema potrebbe essere risolto semplicemente con la costruzione di pozzi potabili.

Secondo stime attendibili 4 miliardi di persone soffrono per almeno un mese all’anno il problema dell’approvvigionamento idrico e, circa 2 miliardi di persone vivono i problemi della siccità per almeno sei mesi l’anno. Questi dati, già preoccupanti, non rappresentano la peggiore delle ipotesi: secondo le previsioni del World Resources Institute, infatti, 167 Paesi avranno problemi di

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approvvigionamento entro il 2040. Sulla stessa lunghezza d’onda si è espressa la Conferenza delle Nazioni Unite di Rio nel 1992.

La condizione femminile

Sulla Terra il rapporto uomo-donna è ancora, nella stragrande maggioranza dei Paesi, profondamente sbilanciato a favore dell’uomo.

La società patriarcale è radicata ancora in moltissimi Paesi. Lo stato di succubanza delle donne è ancora fortissimo soprattutto nei paesi economicamente arretrati.

Una donna su tre, in tutto il mondo, ha dichiarato di aver subito (almeno una volta nella vita) una violenza fisica e/o sessuale.

Finanche nei Paesi altamente sviluppati, dove il movimento femminista ha prodotto grandi rivoluzioni culturali, la condizione di parità è ancora lontana dall’essere raggiunta.

In Italia, l’asimmetria di genere si rileva – dati Istat - ad es. nella retribuzione del lavoro, dove gli uomini sono meglio retribuiti delle donne. Aumenta, inoltre, il numero di lavoratrici irregolari e di neo mamme senza occupazione dopo il parto; il trattamento pensionistico vede le donne con assegni più bassi rispetto agli uomini.

Il fenomeno del femminicidio, ancora largamente diffuso finanche nei paesi più sviluppati, indica la distanza da un vero e proprio cambio di rotta!

Cambiamento climatico

L’ONU, con la Conferenza di Kyoto del 1997, ha perimetrato il problema climatico dovuto all’effetto serra e ha dato indicazioni su come porvi, quantomeno, un freno. Il trattato internazionale (firmato da più di 180 Paesi) è entrato in vigore nel 2005 dopo che lo ha ratificato anche la Russia, Paese responsabile del 17% delle emissioni.

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Paradossalmente, il maggior responsabile mondiale delle emissioni di gas nocivi, gli Stati Uniti, che partecipano per il 37% di emissioni di biossido di carbonio, hanno abbandonato il Protocollo di Kyoto, che era stato firmato dal democratico B. Clinton, e rigettato, poi, dal conservatore G. Busch.

La Conferenza di Parigi del 2015 segna un evento straordinario che vede, per la prima volta, tutte le nazioni del mondo alle prese con la riduzione delle emissioni di CO2. Gli obiettivi sono ancora lontani dallo scongiurare il pericolo del surriscaldamento del pianeta, ma sono previsti: a) riduzioni delle emissioni tali che contengano l’aumento della temperatura globale entro due gradi; b) aiuti finanziari ai Paesi in via di sviluppo per la riconversione in energie pulite.

Fuori da questo storico accordo mondiale solo la Siria, il Nicaragua e gli USA che, il 1° giugno del 2017, con il presidente americano D. Trump, repubblicano, annuncia l’uscita dagli accordi di Parigi precedentemente firmati dal presidente, democratico, Obama.

Un segno di speranza arriva, invece, il giorno dopo, dall’accordo Cina-Europa a Bruxelles: i due grandi mercati economici rinnovano la volontà a rispettare gli accordi di Parigi e siglano politiche di contenimento e modelli di efficienza e funzionalità energetiche che avranno ricadute sui processi produttivi e sugli standard richiesti alle merci.

Il riscaldamento globale avrà sulla Terra un impatto catastrofico di cui saranno segno evidente: l’innalzamento del livello del mare; l’incremento delle ondate di calore, dei periodi di intensa siccità e delle alluvioni; l’aumento, per numero e intensità, delle tempeste e degli uragani. Tutto questo va a danneggiare gli habitat e gli ecosistemi in modo irreversibile. Una ricerca condotta dal WWF, infatti, afferma che anche se i paesi soddisfacessero tutti gli impegni di mitigazione del fenomeno finora assunti, il mondo continuerebbe a confrontarsi con una minaccia di aumento medio della temperatura globale di almeno 4°c rispetto alla temperatura media dell’epoca preindustriale.

BIBLIOGRAFIA

LibriN. Chomsky, Chi sono i padroni del mondo, 2018

Film

Il pianeta delle scimmie, F. J. Schaffner, 1968Il sale della terra, W. Wenders, S. Salgato, 2014

Lavori in corso!!!175

ANTOLOGIA

Imperialismo

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J. SCHUMPETER, SOCIOLOGIA DELL’IMPERIALISMO

Schumpeter (Triesch, 1883 – Taconic, 1950), noto esponente della scuola economica austriaca del XX sec. conservatore, sostenne che il capitalismo sviluppandosi si sarebbe trasformato pian piano in una qualche forma di socialismo giacché lo stesso sviluppo capitalistico avrebbe portato al capitalismo monopolistico e all’affermazione di valori contrari al capitalismo. L’imprenditore-innovatore sarebbe stato sostituito dal manager-burocrate-immobilista.In Sociologia dell’imperialismo del 1920 tenta una spiegazione del fenomeno imperialistico diverso dalla spiegazione materialistica-marxista-leninista. Nell’imperialismo si configurano come “istinti pugnaci” al di fuori della logica capitalistica le formazioni non-capitalistiche. Il libero scambio – ci assicura Schumpeter – non ammette violenza! Se per Lenin l’imperialismo è la fase suprema del capitalismo, per Schumpeter è la mancanza di un alto grado di capitalismo ovvero la presenza di spazi non-capitalistici! Per Lenin causa endogena, per Schumpeter causa esogena!

Primo: In tutto il mondo del capitalismo, e fra gli elementi della vita sociale moderna da esso forgiati, si è venuta determinando un’ostilità di principio alla guerra, all’espansione, alla diplomazia segreta, agli armamenti, e agli eserciti di mestiere con relativo status sociale. […] il pacifismo moderno, per fondamenti politici se non per derivazione di ognuno dei suoi concetti, è indiscutibilmente un fenomeno tipico del mondo capitalistico.

Secondo: Dovunque penetrò il capitalismo, sorsero partiti pacifisti così forti, che ogni guerra venne in pratica ad assumere l’aspetto di una lotta politica interna. [..] Oggi, nessun popolo e nessuna classe dominante può considerare apertamente la guerra come stato di cose normale o come elemento normale della vita collettiva. Nessuno dubita che la si debba ritenere una anomalia e una sciagura. […]

Terzo: Il tipo di operaio industriale creato dal capitalismo è dovunque apertamente antimperialista.

Quarto: Malgrado ovvie resistenze di fattori in vario modo influenti, l’era capitalistica ha assistito allo sviluppo di metodi di prevenzione della guerra, di regolamento pacifico delle controversie fra gli Stati, che appunto a causa di tali resistenze possono spiegarsi solo con la mentalità del capitalismo in quanto modo di vita. […]

Quinto: Fra tutte le economie capitalistiche, quella degli Stati Uniti è la meno appesantita da elementi, stati di fatto, reminiscenze e fattori di potere precapitalistici. Certo non possiamo aspettarci che anche negli Stati Uniti manchino del tutto tendenze imperialistiche, perché gli immigrati vi sono giunti dall’Europa con una mentalità precostituita, e l’ambiente stesso favoriva la rinascita di istinti pugnaci. Ma è lecito supporre che gli Stati Uniti presentino, fra tutti i paesi, la forma più debole di imperialismo. […] ne segue che il capitalismo è per sua essenza antimperialistico […] possiamo intenderle [le forze imperialistiche] come elementi estranei, introdotti nel suo mondo dall’esterno, poggianti su fattori non-capitalistici. […]

Si può ritenere che, in regime di libero scambio, nessuna classe in quanto tale è interessata a un’espansione violenta. Le merci e gli uomini di ogni nazione sono qui infatti in grado di muoversi liberamente all’estero – il libero scambio implica più della semplice libertà doganale – esattamente come se l’estero facesse parte politicamente del proprio territorio. Materie prime e mezzi di sussistenza di origine straniera, terre libere ecc., sono accessibili a qualunque nazione come se si trovassero entro i suoi confini. Là dove l’arretratezza culturale di un territorio fa della sua colonizzazione il presupposto di normali scambi economici con esso, in regime di libero scambio è indifferente quale dei ‘popoli civili’ intraprenda l’opera di colonizzazione. In questo caso, ‘dominio dei mari’ significa poco più che polizia stradale marittima.

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J. Schumpeter, Sociologia dell’imperialismo, Laterza, 1972, pp. 76-82

A. NICEFORO, ITALIANI DEL NORD E DEL SUDNiceforo (Castiglione di Sicilia, 1876 – Roma, 1960) è un criminologo e antropologo di scuola lombrosiana. Sostenne la superiorità della “razza bianca” e di due razze nello Stato italiano: ariana al Nord e negroide al Sud. “La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d'Italia dovrebbe essere trattata ugualmente col ferro e col fuoco - dannata alla morte come le razze inferiori dell'Africa, dell'Australia, ecc. “

CAPITOLO I: LE DUE RAZZE

Noi vogliamo cominciare questo nostro studio, - che ci mostrerà come una ben nota differenza separi l’Italia del Nord da quella del Sud, e come tutta la iridescenza dei costumi, della vita sociale, delle credenze, e sopra tutto della civiltà, si manifesti in modo diverso a seconda che si esplichi nell’Italia del Settentrione o in quella del Mezzogiorno, con una dimostrazione che forma la base antropologica di questa vivace differenza fra le due Italie: con la dimostrazione, cioè, di questo fatto, che l’Italia del Nord è popolata,- in maggioranza fortissima, - da una razza diversa da quella che forma la grande maggioranza degli Italiani del Sud : gli Italiani del Nord e gli Italiani del Sud appartengono - come vedremo – a due razze diverse. […]

I mediterranei sono predominanti al Sud, gli ari predominanti al nord (suddivisi in proto-celti o proto-slavi) fino alla Toscana. E gli attuali ari dell’Italia settentrionale, vale a dire i piemontesi, i lombardi, i veneti, i romagnoli, che appartengono a quella stirpe che venne ad invadere l’Europa primitiva, sono perciò - antropologicamente - fratelli dei tedeschi, degli slavi, dei francesi celti. Gli attuali mediterranei d’Italia del sud invece - che appartengono alla stirpe mediterranea venuta dall’Africa - sono antropologicamente fratelli degli spagnuoli, dei francesi dolicocefali del sud, dei greci e di gran parte dei russi meridionali. Un siciliano dunque è – antropologicamente – più vicino allo spagnuolo, al greco, che non al piemontese; e viceversa il piemontese è – per razza – più fratello di uno slavo o di un tedesco di quel che non sia di un siciliano. […]

L’indice principale della differenza di razza risiede nella forma del cranio, però accanto ad esso, vi sono altri caratteri secondari. La razza aria che popola il nord ha, come carattere antropologico principale, il cranio grosso, corto, pesante, voluminoso, a forma sferoide, platicefalo e come caratteri antropologici secondari la circonferenza del cranio larga, la fronte spesso alta, il naso spesso lungo e affilato, la statura alta, la differenza tra la statura dell’uomo e della donna ben marcata, presenta frequenti casi di macrosomia e gigantismo. Assai sviluppato il perimetro toracico e il peso, in certa abbondanza i capelli biondi o rossi e gli occhi celesti, - una certa scarsezza di capelli ondati e ricci, – una calvizie relativamente precoce.

Le popolazioni del sud Italia, al contrario, hanno come carattere antropologico principale, il cranio snello, elegante, leggero, a forme ellissoidali, ovoidali e come caratteri antropologici secondari, piccola la circonferenza del cranio, la fronte spesso bassa, il naso spesso arricciato e non profilato, il viso spesso corto e sporgente, la statura bassa, la differenza tra la statura dell’uomo e della donna non molto marcata, in grande abbondanza i capelli neri e gli occhi scuri, tarda la calvizie. Tuttavia, molti dei caratteri antropologici specifici alla razza che abita il Mezzogiorno d’Italia, sembrano rivelare una serie di degenerazioni organiche e più specialmente quelle degenerazioni dovute alla denutrizione. C’è dunque nell’organismo dei meridionali una sottil vena di degenerazione organica che manca o è assai minore presso gli Italiani del nord.

A. Niceforo, Italiani del Nord e del Sud, Torino, Fratelli Bocca, 1901

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R. KIPLING IL FARDELLO DELL’UOMO BIANCO

Il Fardello dell’uomo bianco è un poemetto di Rudyard Kipling, poeta e scrittore britannico, celebre per il suo romanzo Il Libro della giungla. Pubblicato nel 1899 in occasione dello scoppio della guerra per imporre il dominio statunitense sulle Filippine, il componimento non si limita all’apologia della conquista di carattere imperialista, ma anzi ne rivendica la necessità e, addirittura, l’eroicità. Il conquistatore viene dunque presentato come un martire, che nell'adempiere ad un presunto bene superiore deve anche guardarsi dal “giudizio dei pari” (la critica degli intellettuali anti-imperialisti), mentre il conquistato, in un’ottica spiccatamente razzista, è un individuo gretto, selvaggio e malvagio per sua stessa natura. Per l’autore, dunque, la conquista non può che portare ad un miglioramento delle condizioni del popolo assoggettato, con la fine delle carestie e delle malattie e l’avvento della civilizzazione.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco –Disperdi il fiore della tua progenie –Obbliga i tuoi figli all’esilioPer assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;Per vegliare pesantemente bardatiSu gente inquieta e selvaggia –Popoli da poco sottomessi, riottosi,Metà demoni e metà bambini.Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco –Resistere con pazienza,Celare la minaccia del terroreE frenare l’esibizione dell’orgoglio;

In parole semplici e chiare,Cento volte rese evidenti,Cercare l’altrui vantaggio,E produrre l’altrui guadagno.Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco –Le barbare guerre della pace –Riempi la bocca della CarestiaE fa’ cessare la malattia;E quando più la mèta è vicina,Il fine per altri perseguito,Osserva l’Ignavia e la Follia paganaAnnientare la tua speranza.Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco –Non sgargiante governo di re,Ma fatica di servo e di spazzino –La storia delle cose comuni.I porti in cui non entreraiLe strade che non percorreraiLe costruirai con i tuoi vivi,E le contrassegnerai con i tuoi morti.Raccogli il fardello dell’Uomo BiancoE ricevi la sua antica ricompensa:Il biasimo di coloro che fai progredire,L’odio di coloro su cui vigili – Il pianto delle moltitudini che indirizzi(Ah, lentamente!) verso la luce:«Perché ci ha strappato alla schiavitù,La nostra dolce notte Egiziana?»Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco Non osare piegarti a un compito inferiore –E non invocare troppo forte la LibertàPer nascondere la tua stanchezza;Che tu grida o sussurri,Che tu agisca oppure no,I popoli silenziosi, astiosiSoppeseranno te e i tuoi Dei.Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – Dimentica i giorni dell’infanzia –L’alloro offerto con leggerezzaIl premio facile, concesso di buon grado.Viene ora a esaminarti, nell’età adulta, Per tutti gli anni ingrati,Freddo, affilato da saggezza costata cara,Il giudizio dei tuoi pari!

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L’età giolittiana

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PIO IX, QUANTA CURA

Quanta cura è la XXVII enciclica di Papa Pio IX, promulgata a Roma l’8 dicembre 1864.Fu scritta per condannare i principali errori demoniaci della civiltà moderna, definiti poi in un elenco di ottanta proposizioni, il Sillabo, pubblicato in appendice al testo.Viene espressa la critica ai perniciosissimi errori del comunismo, socialismo, liberalismo e progresso. In particolare, viene respinto il concetto di libertà e i liberali sono considerati il “demonio del mondo che si è fatto carne”.

[…] in questo tempo si trovano non pochi i quali, applicando al civile consorzio l’empio ed assurdo principio del naturalismo (come lo chiamano) osano insegnare che “l’ottima regione della pubblica società e il civile progresso richiedono che la società umana si costituisca e si governi senza avere alcun riguardo per la religione, come se questa non esistesse o almeno senza fare alcuna differenza tra la vera e le false religioni”. Contro la dottrina delle sacre Lettere della Chiesa e dei Santi Padri, non dubitano di affermare “essere ottima la condizione della società nella quale non si riconosce nell’Impero il dovere di reprimere con pene stabilite i violatori della Religione cattolica, se non in quanto lo chieda la pubblica pace”. Con tale idea di governo sociale, assolutamente falsa, non temono di caldeggiare l’opinione sommamente dannosa per la Chiesa cattolica e per la salute delle anime, dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio [Eadem Encycl. Mirari], cioè “la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società ed i cittadini avere diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità ecclesiastica o civile, in forza della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti, quali che siano, sia con la parola, sia con la stampa, sia in altra maniera”. […]

Né contenti di allontanare la religione dalla pubblica società, vogliono rimuoverla anche dalle famiglie private. Infatti, insegnando e professando il funestissimo errore del Comunismo e del Socialismo dicono che “la società domestica, cioè la famiglia, riceve dal solo diritto civile ogni ragione della propria esistenza, e che pertanto dalla sola legge civile procedono e dipendono tutti i diritti dei genitori sui figli, principalmente quello di curare la loro istruzione e la loro educazione”. Con tali empie opinioni e macchinazioni codesti fallacissimi uomini intendono soprattutto eliminare dalla istruzione e dalla educazione la dottrina salutare e la forza della Chiesa cattolica, affinché i teneri e sensibili animi dei giovani vengano miseramente infettati e depravati da ogni sorta di errori perniciosi e di vizi. […]

Altri poi, rinnovando le prave e tante volte condannate affermazioni dei novatori, ardiscono con rilevante impudenza sottomettere all’arbitrio dell’autorità civile la suprema autorità della Chiesa e di questa Sede Apostolica, ad essa affidata da Cristo Signore, e di negare alla Chiesa e alla Sede Apostolica tutti i diritti che a loro appartengono intorno alle cose che si riferiscono all’ordine esterno. Infatti costoro non si vergognano di affermare che “le leggi della Chiesa non obbligano in coscienza se non quando vengono promulgate dal potere civile; che gli atti e i decreti dei Romani Pontefici relativi alla Religione e alla Chiesa hanno bisogno della sanzione e dell’approvazione, o almeno dell’assenso, del Potere civile. […]

Pertanto, tutte e singole le prave opinioni e dottrine espresse nominatamente in questa Lettera, con la Nostra autorità apostolica riproviamo, proscriviamo e condanniamo; e vogliamo e comandiamo che esse siano da tutti i figli della Chiesa cattolica tenute per riprovate, proscritte e condannate. […]

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Voi ben sapete, Venerabili Fratelli, che nel presente tempo altre empie dottrine d’ogni genere vengono disseminate dai nemici di ogni verità e giustizia con pestiferi libri, libelli e giornali sparsi per tutto il mondo, con i quali essi illudono i popoli e maliziosamente mentiscono. Né ignorate come anche in questa nostra età si trovino alcuni che, mossi ed incitati dallo spirito di Satana, pervennero a tanta empietà da non paventare di negare con scellerata impudenza lo stesso Dominatore e Signore Nostro Gesù Cristo ed impugnare la sua Divinità.

G. SALVEMINI, IL MINISTRO DELLA MALAVITAGli storici descrivono Giolitti come un personaggio politico tra luci e ombre: procedette ad una modernizzazione del Paese, ma anche a contribuire alla piaga del trasformismo politico e al mantenimento di strutture arcaiche al sud. Implacabile avversario fu il meridionalista, socialista e antifascista, Gaetano Salvemini (Molfetta, 1873 – Sorrento, 1957) che lo accusava di mantenere, scientemente, il Mezzogiorno d’Italia in condizione di grande arretratezza politica e di praticare senza scrupoli brogli e violenze elettorali, pur di legare a sé i deputati meridionali. Insomma, Giolitti: “ministro della malavita”.

Nelle lotte elettorali di tutti i tempi e di tutti i luoghi è sempre avvenuto e sempre avverrà che gli elementi peggiori di ciascun partito pensino di sopraffare gli avversari con la violenza e con la corruzione, quando i mezzi legittimi di vittoria manchino, o siano insufficienti, o appaiano di esito incerto. E quanto più agevole e fruttifero si presenta l’impiego dei metodi elettorali malsani, tanto più forte deve essere la tentazione di adoperarli. Ora, un corpo elettorale poco numeroso è fatto apposta per allettare i partiti alla prepotenza e alla frode. Quando gli elettori sono scarsi, il segreto del voto è una finzione: ogni partito riesce facilmente a comporre l’anagrafe completa ed esatta degli amici sicuri, dei nemici inflessibili e della massa incerta. Basta allora comprare qualche centinaio d’incerti e bastonare qualche centinaio di avversari: e la elezione è fatta. Questo è il caso dell’Italia meridionale. […] Affinché questo possa avvenire, è necessaria la complicità del governo. Ed ecco dove incominciano le responsabilità personali e consapevoli dell’onorevole Giolitti. Il quale approfitta delle miserevoli condizioni del Mezzogiorno per legare a sé la massa dei deputati meridionali: dà a costoro carta bianca nelle amministrazioni locali; mette nelle elezioni a loro servizio la mala vita e la questura; assicura ad essi e ai loro clienti la più incondizionata impunità. […] Nessuno è stato mai così brutale, così cinico, così spregiudicato come lui nel fondare la propria potenza politica sull’asservimento, sul pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno d’Italia; nessuno ha fatto un uso più sistematico e più sfacciato nelle elezioni del Mezzogiorno di ogni sorta di violenze e reati. Giolitti ebbe il buon senso di capire che occorreva cambiare strada e non continuare, nelle nuove condizioni sociali e psicologiche del popolo italiano, la politica del mulo bendato. Sarebbe stolto negare quel buon senso. Ma deve rimanere ben chiaro che quando Giolitti sopravvenne a largire quella «concessione» [il suffragio universale], gli operai italiani quella concessione se l’erano già presa da sé, grazie ai loro sacrifici, e di loro volontà. Per dargli tutto quanto gli spetta, bisogna dire che non appena Giolitti diventò ministro degli Interni nel 1901 e abbandonò la politica di compressione contro le organizzazioni operaie si scatenò per due anni in Italia, e specialmente nelle campagne, un ciclone di scioperi senza precedenti. Innanzi a quella tempesta un uomo che fosse stato dotato di un sistema nervoso meno solido avrebbe perduto la testa e sarebbe ritornato ai metodi animaleschi degli anni passati, provocando chi sa quali più violente complicazioni. L’uomo non perdé la testa. [...] Ma quando avremo dato a Giolitti il merito che gli tocca per aver accettato e non frastornato le nuove correnti benefiche della vita italiana, stiamo bene attenti a non perdere noi quella testa che egli non perdette nel 1901 e 1902, attribuendogli meriti che non ebbe. [...] Giolitti era quel che nel secolo XVIII sarebbe stato definito come un sostenitore del dispotismo illuminato: cioè un conservatore paternalista, che riconosceva ai poveri diavoli il diritto di mangiare un po’ di più, vestire un po’ meglio, e fare il possibile per raggiungere risultati; ma non pensò mai che i poveri diavoli potessero cambiare le basi della società, in cui erano nati, o dovessero ardire di cambiarle. [...] Giolitti migliorò o peggiorò i costumi elettorali in Italia? […] Li trovò cattivi, e li lasciò peggiori, nell’Italia meridionale.

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G. Salvemini, Il ministro della malavita: notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale, 1910

La Grande guerra

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G. DANNUNZIO, IL DISCORSO DI QUARTOStralcio dall’Orazione, piuttosto roboante, pronunciata a Quarto il 5 maggio 1915 per l’inaugurazione del monumento ai Mille.

[…] Mentre questo santo bronzo si struggeva nella fornace ruggente e la forma da riempire si taceva nell’ombra della fossa fusoria, una più vasta fornace, una smisurata fornace s’accendeva “di spirital bellezza grande”. E non corbe di metallo bruto v’erano issate in sommo: ma, come i manovali gettano ad uno ad uno nel bacino i masselli, gli spiriti più generosi vi gettavano il meglio della virtù loro e incitavano i tardi e gli inerti con l’esempio. Or ecco, alla dedicazione e sagra di questo compiuto monumento ci ha chiamati un messaggio d’amore.

E a questa sagra di popolo datore di martiri, per altissimo auspicio, è presente la maestà di Colui che, or è molt’anni, in una notte di lutto commossa da un fremito di speranze, salutammo Re eletto dal destino con segni che anch’essi ci parvero santi. A questa sagra tirrena istituita da marinai è presente la maestà di Colui che chiamato dalla morte venne dal Mare, che assunto dalla Morte fu Re nel Mare. Risalutiamolo col voto concorde. Fedele è a lui il destino, ed Egli sarà fedele al destino.

Guarda egli la statua che sta, la statua che dura; ma intanto ode il croscio profondo della fusione magnanima. Accesa è tuttavia l’immensa chiusa fornace, o gente nostra, o fratelli, e che accesa resti vuole il nostro Genio, e che il fuoco ansi e che il fuoco fatichi finché tutto il metallo si strugga, finché la colata sia pronta, finché l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente della resurrezione.

Già da tutte le fenditure, già da tutti i forami biancheggia e rosseggia l’ardore. Già il metallo si comincia a muovere. Il fuoco cresce, e non basta. Chiede d’esser nutrito, tutto chiede, tutto vuole. Voluto aveva il duce di genti un rogo su la sua roccia, che vi si consumasse la sua spoglia d’uomo, che vi si facesse cenere il triste ingombro; e non gli fu acceso. Non catasta d’acacia né di lentisco né di mirto ma di maschie anime egli oggi dimanda, o Italiani. Non altro più vuole. E lo spirito di sacrificio, che è il suo spirito stesso, che è lo spirito di colui il quale tutto diede e nulla ebbe, domani griderà sul tumulto del sacro incendio: “Tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, e voi datelo alla fiammeggiante Italia!”.

O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere.

Beati quelli che hanno venti anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.

Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza, ma la custodirono nella disciplina del guerriero.

Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per essere vergini a questo primo e ultimo amore.

Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato, se lo strapperanno con le lor proprie mani; e poi offriranno la loro offerta.

Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l’evento, accetteranno in silenzio l’alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi.

Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati.

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Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore.

Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia”.

G. UNGARETTI, VEGLIA

Giuseppe Ungaretti (Alessandria d'Egitto, 1888 – Milano, 1970) fu uno dei grandi poeti e scrittori del Novecento italiano. Profondamente interventista ed arruolato nell’esercito come volontario, collaborò al giornale di trincea Sempre Avanti, un periodico destinato alle forze armate, e pubblicò una raccolta di poesie, Il porto sepolto, nella quale raccontò l’esperienza drammatica della Grande guerra. In una delle sue liriche più famose, Veglia, qui riportata, l’autore testimonia l’atrocità della vita di trincea, ricordando una notte passata accanto al cadavere di un compagno caduto: la vista raccapricciante della salma, descritta con incisiva crudezza, suscita in lui il desiderio di aggrapparsi alla vita con tutte le forze.

Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

Cima Quattro, 23 dicembre 1915

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A. BARICCO, QUESTA STORIA Lo scrittore Alessandro Baricco in Questa storia (2005) racconta la vita di Ultimo Parri che dall’inizio del Novecento si spinge fino agli anni Sessanta. E’ appena adolescente quando ‘vive’ Caporetto. Secondo l’autore gli alti comandi avevano due principi strategici fermi e da mantenere a qualsiasi costo: possedere le cime; essere compatti. La montagna e la trincea sono mirabilmente disegnate dalla penna dell’autore e pure quella strana fratellanza che viene ad emergere e soprattutto la morte dell’anima.

Le granate fischiavano sopra le loro teste, e, per errore umano o deficienza tecnica, spesso addosso alle teste – il cosiddetto fuoco amico. Così si moriva di piombo patrio. In un frastuono scioccante, gli uomini rimanevano abbandonati ai loro pensieri, costretti a trascorrere nella passività più assoluta quelli che in molti casi erano gli ultimi istanti della loro vita. […] Sempre era difficile spiegarsi il mistero di quella silenziosa mansuetudine da animale domestico che non reagiva allo sconcio che gli uomini facevano di lui, piagandolo di guerra bombardata e reticolati, senza rispetto e senza requie. Per quanto ci si dannasse a farne un cimitero, la montagna ristava, incurante dei morti, ricucendo ad ogni ora il dettato delle stagioni, e mantenendo l’impegno a tramandare la terra. Crescevano i funghi, e si spaccavano le gemme. C’erano pesci nei fiumi, e deponevano uova. Nidi tra i rami. Rumori nella notte. Rimaneva inspiegato quale lezione ci fosse da imparare in quel messaggio muto di inattaccabile indifferenza. Se il verdetto dell’irrilevanza umana, o l’eco di una resa definitiva all’umana follia”. […]

Ma quella fratellanza di uomini in guerra non l’avrebbero trovata mai più. Era come se remote regioni del cuore si fossero schiuse per loro sotto la cova della sofferenza, scoprendoli capaci di sentimenti miracolosi. Senza dirlo, si amavano e questa gli sembrava semplicemente la parte migliore di sé e la guerra l’aveva liberata. Era d’altronde proprio ciò che erano andati a cercarsi ognuno a modo suo, compiendo quel gesto oggi incomprensibile, che era stato volere e in molti casi andare volontariamente alla guerra. Tutti avevano risposto d’istinto a una precisa volontà di fuga dall’anemia della loro gioventù: volevano che gli si restituisse la parte migliore di sé. In guerra era tutto più vero e completo giacché nel gesto obbligatorio del combattere, quell’identità pura di animali maschi trovava compimento e per così dire si chiudeva su sé stessa, disegnando l’inattaccabile figura di una sfera perfetta. Erano maschi sottratti a qualsiasi responsabilità procreativa e sfilati via dal tempo, combattere, quella non sembrava altro che una conseguenza.

La trincea fu l’idea che ridisegnò tutto, fu in quelle viscere che maturò un nuovo inaspettato tipo di guerra, guerra di posizione la chiamarono ma soprattutto fu lì che come oggi mi è ormai chiaro, si consumò una disfatta collettiva, non immediatamente percepibile e pure profonda e devastante, qualcosa che aveva a che fare con la definizione degli spazi e forse addirittura di un orizzonte morale. La regressione animale che aveva spinto gli uomini sottoterra aveva generato una contrazione smisurata dello spazio vivibile, una sorta di azzeramento del mondo. […] Le trincee sembrano le strutture di un corpo reduce da un’autopsia. «Usciremo da qui vivi ma resteremo morti per sempre» diceva Ultimo. […]

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La collina vomitava soldati come insetti scendevano senza fretta ma con un passo che sembrava inevitabile e definitivo. Ultimo penso che avrebbe aspettato i soldati tedeschi immobile, con le braccia alzate, perfino curioso di provare un gesto così vile eppur elegante ma prima che gli riuscisse di farlo, sentì la mano della donna che cercava la sua e gliela stringeva, tiepida e tranquilla, c’era il riflesso della mano del bambino in quella stretta e la forza con cui le cose tramandano sé stesse. Così si arrese senza braccia alzate ma tendendo fermo il cuore del mondo.

A. Baricco, Questa storia, 2005

LA CANZONE DEL PIAVE

La canzone del Piave, conosciuta anche come La leggenda del Piave, è una canzone patriottica scritta nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (noto con lo pseudonimo di E. A. Mario). I fatti storici che ispirarono l'autore risalgono al giugno del 1918, quando l’Impero austroungarico sferrò un grande attacco sul fronte del fiume Piave per piegare definitivamente l'esercito italiano, già reduce dalla sconfitta di Caporetto. Le quattro strofe - che terminano tutte con la parola "straniero" - hanno quattro specifici argomenti:

1. la marcia dei soldati verso il fronte

2. la ritirata di Caporetto 3. la difesa del fronte sulle sponde

del Piave 4. l'attacco finale e la conseguente

vittoria

Nell'ultima strofa si immagina che una volta respinto il nemico oltre Trieste e Trento, con la vittoria tornassero idealmente in vita i patrioti Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti, tutti uccisi dagli austriaci.

In effetti la canzone, nella retorica patriottica, dimentica che erano stati gli italiani a dichiarare guerra all’Austria.

Il Piave mormorava,calmo e placido, al passaggiodei primi fanti, il ventiquattro maggio.L'esercito marciavaper raggiunger la frontieraper far contro il nemico una barriera...

Muti passaron quella notte i fanti:tacere bisognava, e andare avanti!

S'udiva intanto dalle amate sponde,sommesso e lieve il tripudiar dell'onde.Era un presagio dolce e lusinghiero,il Piave mormorò:«Non passa lo straniero!»

Ma in una notte tristasi parlò di un fosco evento, e il Piave udiva l'ira e lo sgomento...Ahi, quanta gente ha vistavenir giù, lasciare il tetto,poi che il nemico irruppe a Caporetto!

Profughi ovunque! Dai lontani montiVenivan a gremir tutti i suoi ponti!

S'udiva allor, dalle violate sponde,sommesso e triste il mormorio de l'onde:come un singhiozzo, in quell'autunno nero,il Piave mormorò:«Ritorna lo straniero!»

E ritornò il nemico:per l'orgoglio e per la famevolea sfogare tutte le sue brame...Vedeva il piano aprico,di lassù: voleva ancorasfamarsi e tripudiare come allora...

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«No!», disse il Piave. «No!», dissero i fanti,«Mai più il nemico faccia un passo avanti!»

Si vide il Piave rigonfiar le sponde,e come i fanti combattean le onde...Rosso del sangue del nemico altero,il Piave comandò:«Indietro va', straniero!»

 Indietreggiò il nemicofino a Trieste, fino a Trento...E la vittoria sciolse le ali al vento!

Fu sacro il patto antico:tra le schiere, furon vistiRisorgere Oberdan, Sauro, Battisti...

Infranse, alfin, l'italico valorele forche e l'armi dell'Impiccatore.

Sicure l'Alpi... Libere le sponde...E tacque il Piave: si placaron l'onde...Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,la Pace non trovòné oppressi, né stranieri!

IL MITO DELL’ESPERIENZA DELLA GUERRALa Prima guerra mondiale lasciò un segno indelebile in tutti coloro che vi avevano partecipato. Dopo essere stati messi quotidianamente di fronte alla “morte di massa”, i reduci cercarono di trasfigurare questa tragica realtà in una forma di rassegnazione. Elaborarono quello che lo storico americano di origine tedesca George L. Mosse definisce il “Mito dell’Esperienza della Guerra”. Il conflitto divenne, attraverso gli scritti e i racconti dei reduci, un evento carico di senso favorendo il sorgere di una “religione civica”: il culto del soldato caduto.

Il lutto era generale. Eppure, diversamente da come ci si potrebbe attendere, questo tema non avrebbe dominato incontrastato la memoria della prima guerra mondiale. Un sentimento d’orgoglio si mescolava spesso al lutto: il sentimento di aver avuto parte in una nobile causa, e di aver sofferto per essa. Benché non tutti cercassero consolazione in pensieri del genere, l’impulso a trovare nell’esperienza della guerra un significato più alto, qualcosa che giustificasse il sacrificio e la perdita irreparabile, era largamente diffuso. Nessuno avvertiva questo bisogno più fortemente dei reduci, essi erano spesso divisi tra il ricordo dell’orrore della guerra e la sua gloria: in guerra avevano adempiuto il compito sacro di difendere la nazione, e le loro vite avevano assunto un significato nuovo […]

Furono i ricordi di quei reduci che nella guerra scorgevano elementi positivi - e non quelli di coloro che rifiutarono la guerra - che vennero generalmente adottati dalle rispettive nazioni come veridici e legittimi (dopo tutto, la guerra era stata combattuta per la gloria e nell’interesse della nazione). […] Coloro che si occupavano dell’immagine e della nazione lavorarono alla costruzione di un mito volto a cancellare l’orrore della morte in guerra, e a mettere in risalto il valore del combattere e del sacrificarsi. E trovarono un sostegno non soltanto nella celebrazione dei caduti, ma anche nella letteratura, in prosa e in versi, che era emersa dalla guerra. […]

La realtà dell’esperienza della guerra giunse a trasformarsi in quello che potremmo chiamare il Mito dell’Esperienza della Guerra, che guardava al conflitto come ad un evento carico di senso, positivo, e anzi sacro. Questa visione si sviluppò soprattutto (ma non esclusivamente) nei paesi sconfitti, dove ve n’era un così pressante bisogno. Il mito dell’Esperienza della Guerra era volto ad occultare la guerra e a legittimare l’esperienza della guerra; esso mirava a rimuovere la realtà della guerra. La memoria della guerra venne rimodellata in un’esperienza sacra, che forniva alla nazione una nuova profondità di sentimento religioso, mettendo a sua disposizione una moltitudine di santi e di martiri, luoghi di culto, e un retaggio da emulare. L’immagine del soldato caduto tra le braccia di Cristo, così comune durante e dopo la prima guerra mondiale, trasferiva la credenza tradizionale nel martirio e nella resurrezione alla nazione, facendone un’onnicomprensiva religione civica. Dopo il conflitto, il culto del soldato caduto divenne un elemento centrale della religione del nazionalismo, ed ebbe la sua maggiore influenza politica in nazioni che, come la

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Germania, avevano perso la guerra, e che la transizione dalla guerra alla pace aveva portato sull’orlo del caos. Grazie al mito che giunse a circondarla, l’esperienza della guerra fu innalzata nel regno del sacro. […]

Gli artefici di miti della prima guerra mondiale utilizzarono un mito già esistente, elaborandolo per far fronte alle nuove dimensioni della guerra moderna. Nel 1914, gli elementi costitutivi del Mito dell’Esperienza della Guerra erano già pronti, o quanto meno largamente discussi: come bisognasse onorare e seppellire i morti in guerra, quale simbolismo i monumenti ai caduti dovessero proiettare, e come da un lato la natura e dall’altra il cristianesimo potessero essere impiegati per affermare la legittimità della morte e del sacrificio in guerra. Il ruolo dei volontari nel propagare il mito era chiaramente definito, e non mutò nell’arco di tempo che separa la Rivoluzione francese dalla generazione del 1914.

[…] La Germania fu il paese in cui il mito ebbe l’accoglienza più favorevole, quello in cui esso informò la più gran parte della vita politica postbellica. La sconfitta della Germania, il passaggio traumatico dalla guerra alla pace, la tensione cui fu sottoposto il tessuto sociale: tutto congiurò a rafforzare il nazionalismo in quanto fede civica, e con esso il ruolo svolto dal mito dell’Esperienza della Guerra.

G.L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 6-11

La Rivoluzione russa

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LEV TROTSKY, STORIA DELLA RIVOLUZIONE RUSSALev Davidovič Trotsky - pseudonimo di Lev Davidovič Bronštejn - (Janovka, Ucraina, 1879 – Città del Messico,1940) fu, insieme a Lenin, uno dei più importanti esponenti della Rivoluzione d’ottobre del 1917 che, tra l’altro, organizzò e condusse alla vittoria l’Armata Rossa. In seguito, accentuatosi sempre più il suo contrasto ideologico e politico con l’ormai padrone del Partito comunista Stalin, che teorizzava la realizzazione del “socialismo in un solo paese”, fu ucciso con una picconata in testa da un sicario di quest’ultimo. Qui riportiamo un brano tratto dalla sua Storia della rivoluzione russa: capolavoro della letteratura storica in cui si delineano le vicende di quel cambiamento che doveva grandemente segnare la Russia e l’intero pianeta. Gli avvenimenti sono descritti con la rigorosità scientifica e l’eccezionale competenza di colui che partecipò direttamente agli avvenimenti raccontati.

IL RIARMO DEL PARTITO

Come si spiega lo straordinario isolamento di Lenin ai primi di aprile? Come poté crearsi una situazione simile? E come si riuscì a riarmare i quadri del bolscevismo?

Dal 1905 il partito bolscevico conduceva la lotta contro l’autocrazia con la parola d’ordine della «dittatura democratica del proletariato e dei contadini». Questa parola d’ordine, come l’argomentazione teorica su cui si basava, era di Lenin. Al contrario dei menscevichi, il cui teorico Plekhanov combatteva irriducibilmente «l’idea erronea che fosse possibile fare una rivoluzione borghese senza la borghesia», Lenin riteneva che la borghesia russa fosse ormai incapace di dirigere la sua rivoluzione. A portare a termine la rivoluzione democratica contro la monarchia e i proprietari fondiari potevano essere solo il proletariato e i contadini strettamente uniti. Questa unione vittoriosa avrebbe dovuto, secondo Lenin, instaurare una dittatura democratica, che non solo non si identificava con la dittatura del proletariato, ma, al contrario, vi si contrapponeva in quanto suo compito era non di edificare una società socialista, e neppure di creare forme di transizione verso una società di questo tipo, ma solo di pulire senza esitazioni le stalle di Augia del Medioevo.

L’obiettivo della lotta rivoluzionaria era fissato chiaramente in tre parole d’ordine – repubblica democratica, confisca delle terre dei proprietari terrieri, giornata di otto ore - che venivano chiamate correntemente le «tre balene» del bolscevismo, con allusione alle balene su cui, secondo una vecchia credenza popolare, si appoggia il globo terrestre. […]

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Lenin si rendeva conto, tuttavia, che la rivoluzione democratica non era stata completata, o, più precisamente, che appena iniziata già stava rifluendo indietro. Ma ne ricavava la conclusione che sarebbe stato possibile portarla sino in fondo solo sotto il dominio di una nuova classe, e non ci si poteva arrivare se non strappando le masse all’influenza dei menscevichi e dei socialrivoluzionari, cioè all’influenza indiretta della borghesia liberale. Il legame di questi partiti con gli operai e in particolari con i soldati si basava sull’idea della «difesa del paese» o della «difesa della rivoluzione». Lenin esigeva quindi una politica intransigente verso tutte le sfumature di socialpatriottismo. Differenziare il partito da queste masse arretrate per poi emancipare queste masse dalle loro condizioni di arretratezza. «Il vecchio bolscevismo deve essere abbandonato – ripeteva. - È indispensabile distinguere la linea della piccola borghesia da quella del proletariato salariato».

L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Mondadori, 1972

ANTONIO GRAMSCI, LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALEAntonio Gramsci (Ales, 1891- Roma, 1937, politico, filosofo, giornalista, tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia) definisce la rivoluzione dei bolscevichi come la “rivoluzione contro il Capitale” con ciò sottolineandone la peculiarità rispetto al modello marxista classico secondo cui una rivoluzione socialista è possibile solo in un paese altamente sviluppato. L’esperienza della guerra e la propaganda socialista ha fatto sì che si saltasse quella lunga fase iniziale del capitalismo. La rivoluzione bolscevica può innalzare la Russia al grado di sviluppo inglese per poi passare, più in fretta, alle condizioni che permettono il socialismo.

I massimalisti [bolscevichi …] si sono impadroniti del potere, hanno stabilito la loro dittatura, e stanno elaborando le forme socialiste su cui la rivoluzione dovrà finalmente adagiarsi per continuare a svilupparsi armonicamente. La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti. Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così feroci come si potrebbe pensare e come si è pensato.Eppure c'è una fatalità anche in questi avvenimenti, e se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente vivificatore. […] Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l'uomo, ma la società degli uomini, che si accostano fra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici e li giudicano e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell'economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove. […]Marx ha preveduto il prevedibile. Non poteva prevedere la guerra europea, o meglio, non poteva prevedere che questa guerra avrebbe avuta la durata e gli effetti che ha avuto. Non poteva prevedere che questa guerra, in tre anni di sofferenze indicibili, avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva popolare che ha suscitata. Una volontà di tal fatta normalmente ha bisogno per formarsi di un lungo processo di infiltrazioni capillari […] Normalmente, è attraverso la lotta di classe sempre più intensificata, che le due classi del mondo capitalistico creano la storia. Il proletariato sente la sua miseria attuale, è continuamente in istato di disagio e

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preme sulla borghesia per migliorare le proprie condizioni. È una corsa affannosa verso il meglio, che accelera il ritmo della produzione. E in questa corsa molti cadono, e rendono più urgente il desiderio dei rimasti, e la massa è sempre in sussulto, e diventa sempre più cosciente della propria potenza, della propria capacità ad assumersi la responsabilità sociale, a diventare l'arbitro dei propri destini.[…] Ma in Russia la guerra ha servito a spoltrire le volontà. Esse, attraverso le sofferenze accumulate in tre anni, si sono trovate all'unisono molto rapidamente. […] La predicazione socialista ha messo il popolo russo a contatto con le esperienze degli altri proletariati. La predicazione socialista fa vivere drammaticamente in un istante la storia del proletariato, […] ha creato la volontà sociale del popolo russo. Perché dovrebbe egli aspettare che la storia dell'Inghilterra si rinnovi in Russia, che in Russia si formi una borghesia, che la lotta di classe sia suscitata, perché nasca la coscienza di classe e avvenga finalmente la catastrofe del mondo capitalistico? Il popolo russo è passato attraverso queste esperienze col pensiero. […] Il proletariato russo, educato socialisticamente, incomincerà la sua storia dallo stadio massimo di produzione cui è arrivata l'Inghilterra oggi, perché dovendo incominciare, incomincerà dal già perfetto altrove, e da questo perfetto riceverà l'impulso a raggiungere quella maturità economica che secondo Marx è condizione necessaria del collettivismo. […] Le critiche che i socialisti hanno fatto al sistema borghese serviranno ai rivoluzionari per far meglio. Ma le stesse condizioni di miseria e di sofferenza sarebbero ereditate da un regime borghese. […]Si ha l'impressione che i massimalisti siano stati in questo momento la espressione spontanea, biologicamente necessaria, perché l'umanità russa non cada nello sfacelo più orribile, perché l'umanità russa, assorbita nel lavoro gigantesco, autonomo, della propria rigenerazione, possa sentir meno gli stimoli del lupo affamato e la Russia non diventi un carnaio enorme di belve che si sbranano a vicenda.

A. Gramsci, Avanti, 24/11/1917; Il Grido del Popolo, 5/1/1918

COSTITUZIONE SOVIETICA DEL 1918 (approvata dal V Congresso Panrusso dei Soviet, 10 luglio, 1918. Stralci)

PARTE PRIMADICHIARAZIONE DEI DIRITTI DEL POPOLO LAVORATORE E SFRUTTATO

Capitolo I

l. La Russia viene dichiarata Repubblica dei Soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini. Tutto il potere, centrale e locale, appartiene a questi Soviet. […]

Capitolo II

3. Proponendosi come scopo fondamentale di sopprimere qualsiasi forma di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, di abolire completamente la divisione della società in classi, di reprimere implacabilmente gli sfruttatori, di instaurare l’organizzazione socialista della società e di assicurare la vittoria del socialismo in tutti i Paesi, il III Congresso panrusso dei Soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini delibera quanto segue:a) Nell’attuazione della socializzazione della terra, la proprietà privata sulla terra è abolita e tutto il complesso delle terre viene dichiarato patrimonio di tutto il popolo e trasferito ai lavoratori, senza alcun riscatto, su basi di uso egualitario della terra. […]c) Come primo passo verso il totale trasferimento in proprietà della Repubblica Sovietica Operaio-contadina delle fabbriche, delle officine, delle miniere, delle ferrovie e degli altri mezzi di produzione e di trasporto, viene confermata la legge sovietica sul controllo operaio e sul Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale, al fine di assicurare il potere dei lavoratori sugli sfruttatori. […]

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e) Si conferma il trasferimento di tutte le banche in proprietà dello Stato Operaio-contadino, come una delle condizioni della liberazione delle masse lavoratrici dal giogo del capitale. […] g) Allo scopo di assicurare alle masse lavoratrici la totalità del potere e di eliminare qualsiasi possibilità di restaurazione del potere degli sfruttatori, viene decretato l’armamento dei lavoratori, la formazione di un’Armata Rossa Socialista degli operai e dei contadini e il disarmo completo delle classi possidenti.

Capitolo III

7. Il III Congresso panrusso dei Soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini ritiene che ora, nel momento della lotta decisiva del proletariato contro i suoi sfruttatori, non vi debba essere posto per questi ultimi in alcun organo del potere. Il potere deve appartenere interamente ed unicamente alle masse lavoratrici ed ai loro rappresentanti autorizzati: i Soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini.

8. Al tempo stesso, mirando a realizzare un’unione veramente libera e volontaria e, conseguentemente, tanto più completa e duratura delle classi lavoratrici di tutte le nazioni della Russia, il III Congresso panrusso dei Soviet si limita a stabilire i princìpi fondamentali della Federazione delle Repubbliche Sovietiche della Russia, lasciando agli operai ed ai contadini di ogni nazione di decidere liberamente, nel rispettivo congresso sovietico plenipotenziario, se e a che titolo essi desiderino partecipare al Governo federale e alle altre istituzioni sovietiche federali.

PARTE SECONDADISPOSIZIONI GENERALI

Capitolo V

9. Il compito fondamentale della Costituzione della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa – destinata al periodo transitorio attuale – consiste nell’instaurazione della dittatura del proletariato delle città e delle campagne e dei contadini più poveri, sotto forma di un forte potere sovietico panrusso, al fine di schiacciare totalmente la borghesia, di eliminare lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e di insediare il socialismo, nel quale non vi saranno né divisione in classi nè potere statale. […]

18. La Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa considera il lavoro come un obbligo di tutti i cittadini della Repubblica e proclama il motto: «Chi non lavora non mangia». […]

25. Il Congresso panrusso dei Soviet è composto dai rappresentanti dei Soviet di città, in ragione di un deputato ogni 25.000 elettori, e dai rappresentanti dei congressi dei Soviet di provincia, in ragione di un deputato ogni 125.000 abitanti.

IL DIRITTO ELETTORALE ATTIVO E PASSIVO

Capitolo XIII

64. Godono del diritto di eleggere e di essere eletti ai Soviet, indipendentemente dalla loro confessione religiosa, nazionalità, residenza, ecc., i cittadini qui appresso elencati della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, di entrambi i sessi e che al momento delle elezioni abbiano compiuto diciotto anni:a) tutti coloro che traggono i loro mezzi di sussistenza dal lavoro produttivo e socialmente utile, nonché le persone che, svolgendo un’attività domestica, permettano ai primi di compiere il loro lavoro produttivo, e cioè: gli operai e gli impiegati di qualsiasi genere e categoria occupati nell’industria, nel commercio, nell’agricoltura, ecc., i contadini e i coltivatori-cosacchi che non si servano di lavoro salariato al fine di ottenere un profitto; […]

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65. Non eleggono e non possono essere eletti:a) le persone che ricorrono al lavoro salariato al fine di ottenere un profitto;b) le persone che vivono di redditi non lavorativi, come, interessi di capitale, redditi di impresa, entrate patrimoniali, ecc.;c) i commercianti privati, i mediatori e gli intermediari commerciali;d) i monaci, il clero e tutti coloro che sono al servizio di Chiese e culti religiosi;e) gli impiegati e gli agenti dell’antica polizia, del corpo speciale della gendarmeria e dei servizi di sicurezza, nonché i membri della casa regnante di Russia; […]

Il Biennio rosso

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L’INTERNAZIONALE COMUNISTA ALLA CLASSE OPERAIA ITALIANA, 1920

Il II Congresso della III Internazionale comunista rivolse un appello al proletariato italiano redatto da Zinoviev, Bucharin e Lenin - pubblicato su l’Ordine Nuovo il 30 ottobre del 1920, a. II, n. 19 - affinché il Partito socialista italiano e i Sindacati si liberassero dagli elementi riformisti che, di fatto, con la loro politica riformista e attendista frenavano la rivoluzione in Italia. L’analisi della Internazionale incoraggerà, poi, la parte più risoluta e rivoluzionaria del PSI a scindersi a Livorno nel 1921 e fondare il PCd’I.

[…] Compagni […] il primo dovere di ogni partito che accetta non soltanto a parole ma nei fatti la dittatura del proletariato, è di prepararsi a gettare al momento opportuno sulla bilancia tutto il peso dell'energia rivoluzionaria del proletariato. Nulla è più falso attualmente che la tattica dell'attesa indeterminata della rivoluzione negli altri paesi. […]

La classe operaia d'Italia é di una unanimità meravigliosa. Il proletariato italiano é tutto per la rivoluzione. La borghesia italiana non potrebbe contare sulle sue truppe regolari: nel momento decisivo queste truppe passeranno dalla parte degli insorti. Il proletariato agricolo é per la rivoluzione. La più grande parte dei contadini è per la rivoluzione. L'ultima parola spetta al partito operaio italiano. La borghesia italiana sente venire la tempesta. Non è per nulla che essa crea tanto febbrilmente la sua guardia bianca. I continui eccidi e scontri fra gli operai e gli sbirri della borghesia (per esempio, Ancona) dimostrano che la guerra civile si accentua. In una tale situazione ogni incertezza nella condotta, ogni esitazione nell'interno del partito possono essere per la classe operaia sorgente di incalcolabili disastri.

Invece di assicurare i capitalisti contro la rivoluzione é necessario assicurare il successo di questa. Ma non vi si può arrivare che accentuando la marcia della rivoluzione non con delle insurrezioni parziali e male organizzate, ma colla rivoluzione stessa. […]

Lo ripetiamo ancora: "Noi siamo contro ogni provocazione artificiale di sommosse. Noi siamo contro le insurrezioni isolate e sconsiderate. Ma non vogliamo neppure che il partito proletario si trasformi in corpo di

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pompieri destinato a spegnere la fiamma della rivoluzione quando questa prorompe da tutti i pori della società capitalista".

L'Italia presenta oggi tutte le condizioni essenziali garantenti la vittoria di una grande rivoluzione proletaria, di una rivoluzione veramente popolare. Bisogna comprenderlo, e questo deve essere il punto di partenza. Tale è la constatazione della Terza Internazionale. Ai compagni italiani spetta decidere tutto ciò che resta loro da fare in seguito.

Crediamo che da questo punto di vista il Partito socialista italiano ha agito ed agisce ancora con troppa esitazione. Ogni giorno ci apporta la notizia di nuovi disordini in Italia. Tutti i testimoni, compresi i delegati italiani stessi, assicurano, lo ripetiamo, che la situazione in Italia é profondamente rivoluzionaria. Tuttavia il partito, in molti casi, si tiene da parte, ed in altri, si contenta di contenere il movimento invece di sforzarsi a generalizzarlo, a dargli la parola d'ordine, ad organizzarlo, a dirigerlo secondo un piano determinato, a trasformarlo, in una parola, in un attacco decisivo contro il dominio borghese.

In questo caso il Partito abbandona in talune località le masse nelle mani degli anarchici, esponendosi così al pericolo di perdere la propria autorità, tale tattica è piena di conseguenze deplorevoli delle quali è difficile misurare la portata del male che possono cagionare. Così non è il Partito che conduce le masse, ma sono le masse che spingono il Partito: questo non fa che trascinarsi a rimorchio degli avvenimenti, cosa che è assolutamente inammissibile.

Se noi esaminiamo le cause di un tale stato di cose, scorgiamo che la principale consiste nel fatto che il Partito é contaminato da elementi riformisti o liberali borghesi, i quali nel momento della guerra civile si trasformano in veri agenti della controrivoluzione, nemici della classe proletaria. […] E' impossibile preparare le masse ad una rivoluzione violenta se ci sono nelle proprie file dei nemici della rivoluzione e dei partigiani della pacifica penetrazione del socialismo. Ma siccome questa gente continua ad essere presente nel partito italiano, si capisce che la tattica di questo non può essere uniforme. […]

Più grave ancora è la situazione nei Sindacati. Il proletariato non può vincere senza una regolare direzione di queste organizzazioni da parte del partito. Tuttavia taluni dei posti più importanti sono tenuti da elementi riformisti, da una cricca burocratica che detiene l'apparato direttivo sindacale e compie ogni sforzo per frenare lo sviluppo della rivoluzione.

Per caratterizzare la tattica di questi signori basti dire che essi non hanno riunito il congresso dei sindacati da più di sei anni, temendo di vedersi sfuggire il timone dalle loro mani piccolo borghesi.

Gli operai sono per la rivoluzione e i Sindacati operai sono contro la rivoluzione. I Sindacati professionali italiani, alleati al vostro partito, rimangono ancora parte costitutiva della Internazionale gialla e traditrice di Amsterdam, agenzia evidente degli imperialisti. I dirigenti dei vostri Sindacati, come D'Aragona ed altri riformisti, collaborano colla borghesia nelle sue commissioni create dai capitalisti per la lotta contro la rivoluzione. Simile situazione è assolutamente inammissibile. Non è così che si prepara la dittatura del proletariato. Il Partito deve escludere dal proprio seno i capi riformisti e mettere al posto di quelli che fanno il giuoco della borghesia i veri capi della rivoluzione proletaria. Il Partito deve aiutare gli operai a trasformare i Sindacati in cittadelle della rivoluzione proletaria. […]

Tutta l'arte della strategia proletaria è basata sul legame del partito colle grandi masse operaie, perciò è indispensabile che il partito presti la più seria attenzione all'importantissimo movimento dei Consigli di fabbrica e di officina; il partito deve dirigere attivamente questo movimento dal centro e sul posto, e non astenersene col pretesto sdegnoso che questo movimento porta un carattere spontaneo, infantile, non organizzato. Il dovere del partito è quello precisamente di porre rimedio a questi difetti, di aiutare il movimento a prendere la sua massima efficienza ed incanalarlo nel torrente della rivoluzione. La sorte dell'intero movimento dipende in modo considerevole dalla giusta soluzione di queste questioni. I nemici della classe proletaria si rendono perfettamente conto della situazione. Il corrispondente del giornale borghese francese L'Information ha avuto perfettamente ragione di dire che la chiave dei destini della rivoluzione in Italia si trova nelle mani del partito socialista italiano; se il partito s'impegna nella via

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indicatagli da Turati, il capitalismo è salvo; se il partito prende la strada della lotta rivoluzionaria, il capitalismo è finito. I dirigenti in vista del vostro partito, ci hanno detto che ogni giorno in Italia gli organi influenti della borghesia italiana fanno assolutamente le stesse dichiarazioni. […]

Perciò in nome della solidarietà internazionale e della rivoluzione universale il Comitato Esecutivo domanda al Comitato Centrale del Partito socialista di mettere tutte queste questioni all'ordine del giorno in tutte le organizzazioni del Partito e di risolverle nel Congresso del Partito il più presto possibile. Il Comitato Esecutivo crede indispensabile di dichiarare che esso considera la questione della epurazione (purificazione), del partito e delle altre condizioni di ammissione nella Terza Internazionale in modo ultimativo. Esso non saprebbe altrimenti assumere tutta la responsabilità dinanzi al proletariato internazionale per la sua Sezione italiana. Il Comitato […]

Il nemico è nelle vostre stesse case. É impossibile di soffrire in questo partito proletario gli avversari convinti e coscienti della rivoluzione proletaria. L'Internazionale Comunista ve ne supplica, operai italiani, suoi fratelli: liberate il Partito dall'elemento borghese ed allora, allora soltanto, la disciplina di ferro del proletariato e del partito condurranno la classe operaia all'assalto delle fortezze del capitale. […]

Viva il Partito Comunista d'Italia!Viva la Repubblica soviettista italiana!Viva la rivoluzione proletaria d'Italia

Pietrogrado - Mosca, 27 agosto 1920

Il Presidente del C.E. della Internazionale Comunista: Zinovievmembri della C.E. della Internazionale Comunista: Bucharin, Lenin

Il fascismo in Italia

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BENITO MUSSOLINI, IL DISCORSO DEL BIVACCO

Il 16 novembre 1922 Benito Mussolini, in veste di Ministro del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia, tiene il cosiddetto Discorso del bivacco dove definisce il Parlamento “un’aula sorda e grigia” che lui avrebbe potuto far diventare, se solo avesse voluto, un “bivacco di manipoli”. Il popolo italiano si è dato, invece, “un Governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento”.

Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza. Da molti, anzi da troppi anni, le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata come un assalto, ed il Ministero rappresentato da una traballante diligenza postale. Ora è accaduto per la seconda volta, nel volgere di un decennio, che il popolo italiano - nella sua parte migliore - ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al disopra e contro ogni designazione del Parlamento. Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922. Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere», inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione. Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. […] Ho costituito un Governo di coalizione e non già coll'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno, ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare. Ringrazio

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dal profondo del cuore i miei collaboratori, ministri e sottosegretari: ringrazio i miei colleghi di Governo, che hanno voluto assumere con me le pesanti responsabilità di questa ora: e non posso non ricordare con simpatia l'atteggiamento delle masse lavoratrici italiane che hanno confortato il moto fascista colla loro attiva o passiva solidarietà. Credo anche di interpretare il pensiero di tutta questa Assemblea e certamente della maggioranza del popolo italiano, tributando un caldo omaggio al Sovrano, il quale si è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell'ultima ora, ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria. Prima di giungere a questo posto, da ogni parte ci chiedevano un programma. Non sono ahimè i programmi che difettano in Italia: sibbene gli nomini e la volontà di applicare i programmi. Tutti i problemi della vita italiana, tutti dico, sono già stati risolti sulla carta: ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il Governo rappresenta, oggi, questa ferma e decisa volontà. […] Le direttive di politica interna si riassumono in queste parole economia, lavoro, disciplina. Il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare colla maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale. […] Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva e classi lavoratrici delle città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzino con quelli della produzione e della Nazione. Il proletariato che lavora, e della cui sorte ci preoccupiamo, ma senza colpevoli demagogiche indulgenze non ha nulla da temere e nulla da perdere, ma certamente tutto da guadagnare da una politica finanziaria che salvi il bilancio dello Stato ed eviti quella bancarotta che si farebbe sentire in disastroso modo specialmente sulle classi più umili della popolazione.[…] I cittadini, a qualunque partito siano iscritti, potranno circolare: tutte le fedi religiose saranno rispettate, con particolare riguardo a quella dominante che è il Cattolicismo: le libertà statutarie non saranno vulnerate: la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo.[…] Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi. Lavoriamo piuttosto con cuore puro e con mente alacre per assicurare la prosperità e la grandezza della Patria. Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica. Benito Mussolini, ‘Discorso del bivacco’, Parlamento, 16 novembre 1922

MANIFESTO DELLA RAZZA

L’articolo Il fascismo e i problemi della razza fu pubblicato il 14 luglio 1938 su Il Giornale d’Italia e, poi, ripreso sul primo numero della rivista La difesa della razza. La pubblicazione si inserisce nel quadro di un avvicinamento politico sempre più stretto con la Germania nazista ed è prodromica alle Leggi razziali del 1938. Mussolini in persona, testimonia G. Ciano, avrebbe scritto quasi per intero i 10 punti.

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BENITO MUSSOLINI, LA SUPERIORITA’ DELLA RAZZA

Il 18 settembre 1938, Benito Mussolini pronunciò a Trieste il Discorso sulla superiorità della razza ovvero la nuova politica razzista e antisemita del regime. Il 14 luglio era stato pubblicato il manifesto sulla razza e il 1 e 2 settembre varati i decreti sull’espulsione degli stranieri ebrei e di arianizzazione della scuola. Nel 1943 il regime decise di arrestarli e consegnarli ai nazisti per la deportazione nei lager. Si rivendica con orgoglio l’autonomia decisionale dal nazismo: non “abbiamo obbedito a imitazioni”; che il problema razziale “non è scoppiato all’improvviso”; che esso “è in

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relazione con la conquista dell’Impero” e che occorre far chiarezza circa le “superiorità nettissime”.

Nei ricordi della politica interna, il problema più scottante di attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie.

Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà.

Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli, perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero; poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime.

Il problema ebraico è, dunque, un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questi incontentabili dati di fatto. L’ebraismo mondiale è stato, durante questi 16 anni, malgrado la nostra politica, un nemico irriconciliabile del partito.

Tuttavia gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibili meriti militari o civili nei confronti dell’Italia o del regime troveranno comprensione e giustizia.

In quanto agli altri si seguirà nei loro confronti una politica di separazione.

Alla fine il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che, a meno che i semiti, di oltre frontiera e quelli dell’interno, e soprattutto i loro improvvisati e inattesi amici che da frotte e cattedre li difendono, non ci costringono a mutare radicalmente cammino.

Benito Mussolini, Discorso, 18 settembre 1938, Trieste

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La crisi del 1929

J. MAYNARD KEYNES, THE END OF LAISSEZ-FAIRE

John Maynard Keynes (Cambridge, 5 giugno 1883 – Tilton, 21 aprile 1946) è uno dei più grandi economisti del Novecento ed è considerato il teorico del “Welfare State”. Le

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sue teorie sullo Stato imprenditore, dunque su uno Stato che intervenga nell’economia con investimenti immediatamente percepibili, rappresentano la risposta di sinistra alle crisi economiche. Egli infatti non crede nel laissez-faire (principio liberista del “lasciar fare” al mercato) come mezzo per conciliare il bene privato con il bene collettivo e ritiene che l’intervento dello Stato sia un mezzo per promuovere il massimo bene della collettività attraverso metodi opportuni. L’organizzazione sociale ed il funzionamento del sistema capitalista possono essere rese più efficienti promuovendo strutture intermedie tra l’individuo e lo Stato centrale in modo da non interferire oltre misura con i criteri validi in materia di stabilità e di giustizia sociale. Egli individua esplicitamente tali strutture in enti semiautonomi all’interno dello Stato ma distinti dagli organi del governo centrale, quali, ad esempio, le Università, le Banche Centrali e gli enti socializzati. Tuttavia, egli ha anche in mente associazioni, corporazioni, sindacati e movimenti collettivi, cioè autonomie separate operanti all’interno dei principi democratici e parlamentari.

Liberiamoci dai principi metafisici o generali sui quali, di tempo in tempo, si è basato il laissez-faire. Non è vero che gli individui posseggano una «libertà naturale» imposta sulle loro attività economiche. […]

Il mondo non è governato dall’alto in modo che gli interessi privati e sociali coincidano sempre. Esso non è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano. Non è una deduzione corretta dai principi di economia che l’interesse egoistico illuminato operi sempre nell’interesse pubblico. […]

Forse il compito principale degli economisti in quest’ora è di distinguere di nuovo l’agenda del governo da non agenda; e il compito connesso della politica è di escogitare forme di governo, nei limiti della democrazia, che siano in grado di compiere l’agenda. Credo che in molti casi la dimensione ideale per l’unità di controllo e di organizzazione è un punto intermedio fra l’individuo e lo Stato moderno. Io opino perciò che il progresso sia nello sviluppo e nel riconoscimento di enti semiautonomi entro lo Stato – enti il cui criterio di azione entro il proprio campo sia unicamente il bene pubblico come essi lo concepiscono, e dalle cui deliberazioni siano esclusi motivo di vantaggio privato, benché possa ancora essere necessario, finché non diventi maggiore l’ambito dell’altruismo umano, lasciare un certo campo al vantaggio separato di particolari gruppi, classi o facoltà – enti che nel corso ordinario degli affari siano di massima autonomi entro le proprie prescritte limitazioni, ma siano soggetti in estrema istanza alla sovranità della democrazia quale è espressa attraverso il parlamento.

J. M. Keynes, The end of laissez-faire, 1936, cap. IX

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L’ascesa del nazismo

ADOLF HITLER, LA MIA BATTAGLIA

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Il titolo originario doveva essere “Quattro anni e mezzo di lotta contro menzogna, stupidità e codardia”, ma l’editore lo convinse al più sintetico La mia battaglia (Mein Kampf, 1925). L’edizione italiana fu fatta stampare su indicazione di Mussolini – figura esaltata nel testo - che ne pagò anche i costi. Definì il libro “un mattone leggibile solo dalle persone più colte e intelligenti” (Mac Smith). Si delinea sotto forma biografica il programma politico del nazismo. Vari i temi: antiliberalismo e volontà di distruzione del sistema parlamentare naturalmente corrotto; anticomunismo; destino storico della Germania e dello spazio vitale ovvero della dipendenza “dalla conquista dei territori ad est della Russia”; accordo politico con la Gran Bretagna per non aprire conflitti su due fronti; antisemitismo e superiorità della razza ariana.

Ogni tanto le riviste riportano delle notizie al piccolo borghese tedesco: un negro per la prima volta è diventato avvocato, professore, pastore o qualcosa del genere in un posto o in un altro. Mentre la stupida borghesia accoglie la notizia con sorpresa per un così stupefacente avvenimento, ammirata per questo strabiliante effetto della pedagogia attuale, l'ebreo astutamente si serve di questo per convalidare la teoria da inculcarsi ai popoli in merito all'eguaglianza degli uomini. La nostra società borghese e decadente non si accorge che in questo modo si commette un vero peccato contro la ragione; che è una vera pazzia quella di istruire una mezza scimmia perché si pensi di aver preparato un avvocato, mentre milioni di membri della eccelsa razza civile devono rimanere in posti pubblici e miseri.

Si pecca contro il volere di Dio, permettendo che centinaia e centinaia delle migliori creature perdano la loro forza nell'odierno pantano proletario per istruire a professioni intellettuali Ottentotti e Zulù. E in questo caso è proprio un addestramento come per il cane, e non di un "perfezionamento" scientifico. Il medesimo zelo e lavoro, rivolto a razze intelligenti, formerebbe uomini mille volte più capaci a tali prestazioni. Questo fatto sarebbe insopportabile se in futuro non si trattasse più unicamente di eccezioni, ma oggi è insopportabile nel caso in cui non il genio e le capacità insite nell'individuo determinano un'educazione superiore. […]

Non è lo Stato che forgia un determinato grado di civiltà; esso può soltanto conservare la razza che è la premessa e la base di quel grado. In altri casi, lo Stato può continuare ad esistere come tale, per secoli, mentre, siccome non gli fu proibita una mescolanza di razze, la genialità e l'esistenza di un popolo limitate da questo hanno subito radicali cambiamenti. Ad esempio, lo Stato presente può, come complesso esteriore, continuare ad esistere per secoli, ma l'avvelenamento razziale del corpo della nostra nazione crea un declino culturale, che già oggi ci appare disastroso. Quindi, la condizione preliminare della vita di un'umanità superiore non è lo Stato, ma la nazione, unica capace di portarla. […]

Dobbiamo distinguere con massima chiarezza fra lo Stato che è il recipiente e la razza che è il contenuto. E questo recipiente ha valore solo se sa contenere e custodire il contenuto; altrimenti non ha senso. Essa non solo ammette un diverso valore delle razze, ma anche quello dei singoli. Mette in luce l'uomo di valore e agisce così da ordinatrice di fronte al marxismo creatore del disordine. Riconosce il bisogno di idealizzare l'umanità, vedendo solo in questa idealizzazione la base della vita dell'umanità stessa. Ma non può permettere ad un'idea morale di esistere se questa idea costituisce un rischio per l'esistenza razziale dei sostenitori di una morale superiore: perché un mondo corrotto "negrizzato" resterebbe per sempre privo dei concetti di umanamente bello e del sublime e di ogni cognizione di un futuro idealizzato della umanità. Cultura e civiltà del nostro continente sono strettamente collegate con la presenza degli Ariani. Il declino e la sparizione dell'Ariano riporterebbe sul mondo ere di barbarie.

Distruggere il contenuto della civiltà umana con la distruzione di quelli che la simboleggiano appare il più disprezzabile dei delitti agli occhi di un'idea nazionale del mondo. Chi ha il coraggio di alzar la mano sulla migliore delle creature fatta a immagine di Dio pecca contro il munifico creatore e coopera alla espulsione dal Paradiso.

Adolf Hitler, La mia battaglia, 1925

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MARTIN GILBERT, LA NOTTE DEI CRISTALLI

Sir Martin Gilbert (Londra, 25 ottobre 1936 - Londra, 3 febbraio 2015) è stato uno storico e divenne famoso come biografo ufficiale di Winston Churchill e come uno dei più noti studiosi dell'Olocausto. Ha pubblicato 72 libri tra cui “La notte dei cristalli”. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre i nazisti infrangono le vetrate dei quartieri ebraici di numerose città tedesche. È la “notte dei cristalli”, un evento che segna l’inizio della fase più violenta della persecuzione antisemita condotta dal nazismo. In ventiquattro ore, il bilancio sarà di migliaia di sinagoghe, negozi, uffici e abitazioni di ebrei devastate e di quasi duecento vittime, mentre verranno avviati nei campi di concentramento circa 26.000 ebrei.

La violenza contro gli ebrei residenti in Germania si scatenò a partire dalle prime ore del 10 novembre 1938 e proseguì, senza interruzione, fino al calare della sera, in un turbinio di distruzione. Nel giro di alcune ore vennero incendiate e distrutte oltre un migliaio di sinagoghe. Dove si ritenne che il fuoco avrebbe potuto mettere in pericolo edifici non ebraici nelle vicinanze, gli autori delle aggressioni fecero a pezzi le sinagoghe con martelli ed asce. Non si trattò di un'esplosione di violenza spontanea, ma di un attacco coordinato e globale. In centinaia di quartieri ebraici, truppe paramilitari delle Sturmabteilung - alcuni in uniforme con le camicie brune, altri in abiti civili - accesero dei falò e diedero alle fiamme mobili e libri presi dalle sinagoghe e da abitazioni private. Nelle strade si diede la caccia agli ebrei, che furono oltraggiati e malmenati. Decine di migliaia di case e negozi ebraiche furono saccheggiati. Gli ebrei furono attaccati in ogni città tedesca, dalla capitale Berlino alle più piccole città e ai villaggi in cui vivevano, in tutto il Reich di Hitler. In ventiquattro ore di violenza ne furono uccisi novantuno. La notte e il giorno di terrore presero il nome di Kristallnacht, Notte dei cristalli. Per coloro che perpetrarono la distruzione, il nome esprimeva sia il senso di trionfo sia il disprezzo che li aveva animati: trionfo per quanto avevano distrutto, disprezzo al pensiero del suono dei vetri infanti. Ciascun ebreo tedesco fu colpito dalla paura e dalla sofferenza. Nessun avvenimento nella storia del destino degli ebrei tedeschi fra il 1933 e il 1945 fu coperto tanto ampiamente dai quotidiani proprio nel momento in cui si verificava. [...]

Il resoconto dettagliato delle dimensioni e della forza dell'attacco contro gli ebrei e le loro proprietà durante la Notte dei cristalli produsse ondate di sconvolgimento in tutti i paesi democratici e pose efficacemente fine a qualsiasi tipo di attrattiva per il nazismo fra la gente comune e i rispettivi governi. La Notte dei cristalli fu un drammatico punto di svolta nella percezione del nazismo. [...]

Quasi quattrocento anni prima nel 1543 Martin Lutero nella lettera pastorale “Gli ebrei e le loro bugie” consigliava di «appiccare il fuoco» alle sinagoghe e «se qualcuna non dovesse bruciare, dovrebbe essere coperta o disseminata di sporcizia, in modo che nessuno possa essere in grado di vederne un mattone o una pietra. E questo deve essere fatto in onore a Dio...». Hitler e i suoi adepti seguirono tali consigli per i loro personali fini di distruzione. [...]

Ma nulla può diminuire la sofferenza di coloro che furono vittime di quella notte o mitigare le terribili conseguenze causate agli ebrei tedeschi e alla condizione umana in generale. La Notte dei cristalli costituì il preludio alla distruzione di un popolo intero e un'indicazione di ciò che accade quando una società soccombe ai suoi istinti più bassi.

Martin Gilbert, La notte dei cristalli, Corbaccio, 2008

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W. REICH, PSICOLOGIA DI MASSA DEL FASCISMO

In questo scritto del 1946 l'autore rigetta le tesi dell'influenza degli elementi biografici sulla formazione di Hitler e del nazismo. Relaziona l'ideologia del Nazismo all'affermazione dei partiti di massa, nella fattispecie al marxismo del quale utilizza l'organizzazione di massa ma rifiuta i valori internazionalisti, puntando invece su un nazionalismo pangermanico. Altro punto centrale è il ruolo della crescita dello Stato. Una delle componenti è la visione corporativa della società, che contrasta con la visione della lotta di classe. Ideologia corporativistica e visione nazionalistica fanno breccia sia sulle frange della popolazione piccolo borghese sia sulle masse operaie.

Cap. 2: L’origine di Hitler

Il Führer del ceto medio tedesco che si ribellava era figlio di un funzionario. Egli stesso racconta il conflitto che caratterizza specificamente la struttura di massa piccolo-borghese in cui venne a trovarsi. Suo padre voleva che diventasse anche lui un funzionario, ma il figlio si ribellò contro il progetto paterno, decise di non rispettarlo «a nessun costo», divenne imbianchino e cadde in miseria. Ma nonostante questa ribellione contro il padre egli continuava ad avere stima e rispetto della sua autorità. Questo atteggiamento contraddittorio nei confronti dell'autorità, cioè "ribellione contro l'autorità e nello stesso tempo riconoscimento e sottomissione ad essa", è una delle caratteristiche fondamentali di ogni struttura piccolo-borghese nel momento del passaggio dalla pubertà alla piena età adulta, ed è particolarmente pronunciato quando il livello di vita è materialmente modesto. Della madre Hitler ci parla in termini estremamente sentimentali. Egli assicura di aver pianto una sola volta in vita sua, cioè quando morì sua madre. La teoria della razza e della sifilide rivela inequivocabilmente il suo rifiuto del sesso e l'idealizzazione nevrotica della maternità. […] Non ci si farebbe molto caso se l'idea dell'«avvelenamento del popolo» e tutto l'atteggiamento nei confronti della sifilide non tornasse continuamente a galla e se successivamente, dopo la presa del potere, essa non avesse costituito in modo particolare una parte centrale della politica interna. Inizialmente Hitler simpatizzò con la socialdemocrazia perché essa lottava per il diritto di voto generale e segreto e perché questo poteva condurre a un indebolimento del tanto odiato «regime asburgico». Però il fatto che mettesse l'accento sulle classi, sulla negazione della nazione, sull'autorità dello Stato, sul diritto di proprietà dei mezzi sociali di produzione, sulla religione e la morale respingeva Hitler. […] Ora partiva da obiettivi nazionalistico-imperialisti che egli pensava di realizzare con altri mezzi, più idonei del vecchio nazionalismo «borghese». "La scelta di questi mezzi era determinata dalla conoscenza della forza del marxismo organizzato e dalla conoscenza dell'importanza delle masse per qualsiasi movimento politico". […] La tendenza fondamentalmente antisovietica del nazionalsocialismo si manifestò: «Se si volevano territori in Europa, ciò non poteva avvenire che a spese della Russia, perciò il nuovo Reich avrebbe dovuto riprendere la marcia degli antichi cavalieri dell'Ordine per aprire all'aratro la strada con la spada e dare così alla nazione il suo pane quotidiano». In questo modo Hitler si trova davanti ai seguenti interrogativi: in che modo si può aiutare il pensiero nazionalsocialista ad ottenere la vittoria? Come si può combattere efficacemente il marxismo? Come si possono avvicinare le masse? A questo scopo Hitler si appella ai sentimenti nazionalistici delle masse ma decide di organizzarsi, come il marxismo, su una base di massa, di sviluppare una propria tecnica di propaganda e di svolgerla in modo coerente. Egli vuole dunque, cosa che viene pubblicamente ammessa, imporre l'imperialismo nazionalista con metodi che prende a prestito dal marxismo e dalla sua tecnica di organizzazione di massa. "Il fatto che questa organizzazione di massa sia riuscita va attribuito alle masse, non a Hitler". Era la struttura disposta alla sottomissione all'autorità, timorosa della libertà degli uomini, a permettere che la sua propaganda potesse attecchire. Di conseguenza, ciò che è importante dal punto di vista sociologico in Hitler non deriva dalla sua personalità, ma dall'importanza che gli viene attribuita dalle masse. Il problema era tanto più scottante in quanto Hitler disprezzava profondamente le masse col cui aiuto voleva imporre il suo imperialismo. A questo proposito ci basta citare una sola franca confessione: «L'opinione del popolo è sempre soltanto la risonanza di ciò che si versa nell'opinione pubblica dall'alto». Quale era la costituzione delle strutture delle masse perché fossero, nonostante tutto, disposte ad assorbire la propaganda di Hitler?

W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Mondadori, 1971

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Lo stalinismo

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BORDIGA, STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGIAmedeo Bordiga (Ercolano, 1889 – Formia, 1970), fondatore del PCd’I con la scissione di Livorno del 1921, partecipa alla III Internazionale e diverge con Lenin sul parlamentarismo. Si occupa assiduamente dell’analisi economico-sociale della Russia. Difende accanitamente l’Ottobre dalle angherie teoriche e politiche di Stalin e dello stalinismo. “Struttura economica e sociale” vede la luce come raccolta di interventi in seno al Partito intorno agli anni 1955-57.

Indubbiamente, dopo le violente crisi di cui ci occuperemo - lotta per la conquista del potere, per lo strangolamento della guerra, per l'uccisione della controrivoluzione - l'industria ha preso da un lato a divenire tutta o quasi statale e dall'altro ad assumere un peso quantitativo molto più forte nell'economia sociale russa. Ove un tale fatto fosse rimasto associato al potere politico nelle mani del proletariato russo e legato al moto generale del proletariato rivoluzionario mondiale, il piede di cui diceva Lenin starebbe ancora più fortemente nel socialismo pure essendone il corpo ancora fuori, in ambiente mercantile e di capitalismo di Stato.

Purtroppo è l'altra condizione politica base che si è allentata. Lo Stato russo ha partecipato in pieno ad una guerra tra Stati imperialisti, come alleato di uno (qualunque) dei due gruppi di essi. Il proletariato russo non ha più ruolo dirigente rispetto alla classe contadina, sia pure colcosiana, cui è reso pari nella costituzione politica del 1936 e nel diritto. Il suo movimento politico non è più legato al programma internazionale della rivoluzione armata e della dittatura, l'Internazionale Comunista è stata smontata. Quella condizione è stata demolita pezzo per pezzo, e l'espressione fisica di tale fatto sono state le persecuzioni all'opposizione di sinistra e le «purghe» che ne hanno sterminato le file.

In queste condizioni il capitalismo di Stato resta, il dominio della grande industria resta, ma il carattere socialista della realizzazione di queste «misure» si è perduto: siamo al livello di un capitalismo di Stato come quello tedesco e di altri paesi (che Lenin illustra nel citato opuscolo del 1921).

La rivoluzione che Lenin voleva, e l'Ottobre ci dette, fu dunque socialista, perché mise solidamente il piede politico-proletario nel socialismo.

Vi avrebbe messo il secondo piede economico-rurale se fosse venuta in soccorso la rivoluzione proletaria internazionale. Forse solo dopo questa perfino paesi avanzati come Germania e Stati Uniti vedranno come forma di passaggio il grande capitalismo agrario di Stato. E vi sarebbe entrata con tutto il suo corpo iniziando lo sradicamento della autonomia aziendale del salariato e della distribuzione mercantile monetaria, in città e in campagna in parallelo.

Ma ha vinto nel mondo la controrivoluzione capitalista, pure essendo stata battuta in Russia quella feudale, spalleggiata dai borghesi del tempo.

Non solo quindi non è stato portato il secondo piede sul terreno del socialismo, ma il primo ne è stato ritratto. Tutti e due, oggi, e da non pochi anni - quasi trenta - ne stanno fuori.

Non solo la Russia non è una società socialista, ma nemmeno una repubblica socialista. Socialista resta, alla luce della storia rivoluzionaria, la Rivoluzione di Ottobre, e la coerente monolitica lungimirante costruzione di Lenin del cammino della Russia.

Amedeo Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, par. 54

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VICTOR SERGE, SE È MEZZANOTTE NEL SECOLO

Victor Serge (Victor L’vovic Kibal’cic, Bruxelles, 1890 – Città del Messico, 1947), giornalista, saggista e romanziere, di lingua francese e di nascita e nazionalità belga, figlio di un esule dalla Russia zarista, fu deportato negli Urali. Fu infatti dapprima anarchico, conobbe Lenin e fu nel Comitato esecutivo del Comintern ma poi, disgustato dal crescente imbarbarimento dei metodi di potere dell’URSS, aderì all’opposizione di sinistra di Trotskij, finché fu espulso dal partito, arrestato e cacciato. Tornato in Occidente, tentò di denunciare i crimini sovietici guadagnandosi l’odio degli stalinisti e dei trotskisti. Nel suo romanzo “Se è mezzanotte nel secolo”, ci racconta quella che fu denominata l’”epoca dei lupi” in cui i vecchi bolscevichi rivoluzionari venivano sottoposti alla repressione “preventiva” e rinchiusi nelle carceri e nei gulag, dove erano costretti a lavorare in condizioni disumane.

Rodion, entrando in quella nuova prigione, la trovò gremita di gente. Alcuni lavoratori stranamente puliti e calmi erano seduti per terra attorno a due vecchie automobili: erano cristiani, battisti, flagellanti, castrati… Rodion non dovette dare neppure una spinta, perché tutti si scostarono gentilmente per fargli posto. Andò a sdraiarsi ai piedi di una delle Ford, lungo la parete di assi. Per vicini si ritrovò, a sinistra, un giovane ebreo e, a destra, un pescatore barbuto, sulla quarantina, i cui abiti non puzzavano né di salamoia né di budella di pesce. Il giovane ebreo si presentò: «Deportato sionista. E lei, compagno?». Il pescatore barbuto, a sua volta interrogato, non rispose, ma un sorriso illuminò i suoi tratti mentre scuoteva a lungo la testa. Siamo tutti uomini, non è vero? O almeno Rodion lo interpretò così e non insistette. «Che cos’è Sion?», domandò con aria sognante. «La luce sulla montagna, la speranza, la salvezza, la resurrezione del popolo d’Israele, il nostro socialismo che aspettiamo sin dalla diaspora…». La notte calò e ancora conversavano. […]

Rodion tornò a sdraiarsi, immobile, con le braccia sotto la nuca, in preda a un profondo turbamento. Quanto era vicina l’immensa notte!... Il freddo della terra gli penetrava nella schiena. Terra molle, cenere, le dita la scavarono da sole.

***

L’indomani, Avelij e Varvara scesero in un mondo sotterraneo che già conoscevano e dove si viveva un’esistenza larvale, in un lento delirio… Alle finestre, munite di ferro spinato, mancava la metà dei vetri e tutta la polvere annerita dagli anni ricopriva quelli restanti. Qui dodici donne, laggiù diciassette uomini erano immersi nello stesso calore animale, respirando lo stesso tanfo di defecazione, ammazzando il tempo con gli stessi racconti di sventure. Le donne si stendevano a turno per dormire su tavole che odoravano di cimici. Avelij visse tra ladri, gente del posto, commessi di cooperative, pescatori, deportati speciali, un borsaiolo di Tiflis, giovane vagabondo che era molto bravo a raccontare storie complicate. […]

Anche la prigione era come una favola, e quel mormorio di uomini, quelle ombre riunite, disparate e materiali, quel cuore a cuore, quel carne a carne, quella paura senza paura, con la fame nel ventre, i sintomi dello scorbuto che facevano vacillare i denti nelle gengive. La maggior parte dei prigionieri erano così deboli che non si offrivano più per la corvè del rancio da andare a prendere due volte al giorno.

Victor Serge, Se è mezzanotte nel secolo, Fazi Editore, 1940

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La Seconda guerra mondiale

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PRIMO LEVI, SE QUESTO E UN UOMO “Se questo è un uomo” è un'opera memorialistica di Primo Levi scritta tra il 1945 ed il 1947. Rappresenta la coinvolgente ma meditata testimonianza di quanto vissuto dall'autore nel lager Monowitz, satellite del complesso di Auschwitz. Il testo venne scritto con l’intento di testimoniare un avvenimento storico e tragico: “nato fin dai primi giorni di lager per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi”.

Ed altro ancora abbiamo imparato, più o meno rapidamente, a seconda del carattere di ciascuno; a rispondere «Jawohl», a non fare mai domande, a fingere sempre di avere capito. Abbiamo appreso il valore degli alimenti; ora anche noi raschiamo diligentemente il fondo della gamella dopo il rancio, e la teniamo sotto il mento quando mangiamo il pane per non disperderne le briciole. Anche noi adesso sappiamo che non è la stessa cosa ricevere il mestolo di zuppa prelevato dalla superficie o dal fondo del mastello, e siamo già in grado di calcolare, in base alla capacità dei vari mastelli, quale sia il posto più conveniente a cui aspirare quando ci si mette in coda. Abbiamo imparato che tutto serve; il fil di ferro, per legarsi le scarpe; gli stracci, per ricavarne pezze da piedi; la carta, per imbottirsi (abusivamente) la giacca contro il freddo. Abbiamo imparato che d’altronde tutto può venire rubato, anzi, viene automaticamente rubato non appena l’attenzione si rilassa; e per evitarlo abbiamo dovuto apprendere l’arte di dormire col capo su un fagotto fatto con la giacca, e contenente tutto il nostro avere, dalla gamella alle scarpe. Conosciamo già in buona parte il regolamento del campo, che è favolosamente complicato. Innumerevoli sono le proibizioni: avvicinarsi a meno di due metri dal filo spinato; dormire con la giacca, o senza mutande, o col cappello in testa; servirsi di particolari lavatoi e latrine che sono «nur für Kapos» o «nur für Reichsdeutsche»; non andare alla doccia nei giorni prescritti, e andarvi nei giorni non prescritti; uscire di baracca con la giacca sbottonata, o col bavero rialzato; portare sotto gli abiti carta o paglia contro il freddo; lavarsi altrimenti che a torso nudo. Infiniti e insensati sono i riti da compiersi […]Per quanto concerne il lavoro, siamo suddivisi in circa duecento Kommandos, ognuno dei quali conta da quindici a centocinquanta uomini ed è comandato da un Kapo. […] L’orario di lavoro è variabile con la stagione. Tutte le ore di luce sono ore lavorative: perciò si va da un orario minimo invernale (ore 8-12 e 12,30-16) a uno massimo estivo (ore 6,30-12 e 13-18). […] Una domenica ogni due è regolare giorno lavorativo; nelle domeniche cosiddette festive, invece di lavorare in Buna si lavora di solito alla manutenzione del Lager, in modo che i giorni di effettivo riposo sono estremamente rari. Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il ritmo prestabilito, Ausrücken ed Einrücken, uscire e rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire o morire ... E fino a quando? Ma gli anziani ridono a questa domanda: a questa domanda si riconoscono i nuovi arrivati. Ridono e non rispondono: per loro, da mesi, da anni, il problema del futuro remoto è impallidito, ha perso ogni acutezza di fronte ai ben più urgenti e concreti problemi del futuro prossimo: quanto si mangerà oggi, se nevicherà, se ci sarà da scaricare carbone. Se fossimo ragionevoli, dovremmo rassegnarci a questa evidenza, che il nostro destino è perfettamente inconoscibile, che ogni congettura è arbitraria ed esattamene priva di fondamento reale. Ma ragionevoli gli uomini sono assai raramente quando è in gioco il loro proprio destino: essi preferiscono in ogni caso le posizioni estreme; perciò, a seconda del loro carattere, fra di noi gli uni si sono convinti immediatamente che tutto è perduto, che qui non si può vivere e che la fine è certa e prossima; gli altri, che, per quanto dura sia la vita che ci attende, la salvezza è probabile e non lontana, e, se avremo fede e forza, rivedremo le nostre case e i nostri cari. Le due classi, dei pessimisti e degli ottimisti, non sono peraltro così ben distinte: non già perché gli agnostici siano molti, ma perché i più, senza memoria né coerenza, oscillano fra le due posizioni-limite, a seconda dell’interlocutore e del momento.Eccomi dunque sul fondo. A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme. Dopo quindici giorni dall’ingresso, già ho la fame regolamentare, la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e siede in tutte le membra dei nostri corpi; già ho imparato a non lasciarmi derubare, e se anzi trovo in giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi possa appropriare senza pericolo di punizione, li intasco e li considero miei di pieno diritto. Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il

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viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro.

P. Levi, Se questo è un uomo, capitolo due: “Sul fondo”HANNAH ARENDT, LA BANALITA’ DEL MALE Hannah Arendt scrive “La banalità del male” dopo aver assistito al processo Eichmann a Gerusalemme in qualità di inviata della rivista The New Yorker.Il libro non risulta essere una cronaca dei processi ma una cogitazione che parte dal processo per giungere alla conclusione della “normalità” dell’accusato e della potenza di disumanizzazione di un processo “industriale” applicato alla morte. La divisione specialistica del lavoro finalizzato allo sterminio fa evaporare la responsabilità individuale e macchia uomini mediocri di crimini contro l’umanità. Nel passo riportato, tratto dal secondo capitolo del libro, l’Arendt si sofferma sulla difficoltà, da parte degli psicologi, nell’individuare l’instabilità mentale dell’imputato, apparentemente riconosciuto come una persona “normale”. Questi non si sente responsabile di nessuna colpa in quanto eseguiva ordini e solo semplici operazioni di una complessa catena che portò allo sterminio di sei milioni di ebrei.

«Per tutto il processo, Eichmann cercò di spiegare, quasi sempre senza successo, quest’altro punto grazie al quale non si sentiva “colpevole nel senso dell’atto d’accusa”. Secondo l’atto d’accusa egli aveva agito non solo di proposito, ma anche per bassi motivi e ben sapendo che le sue azioni erano criminose. Ma quanto ai bassi motivi, Eichmann era convintissimo di non essere un innerer Schweinehund, cioè di non essere nel fondo dell’anima un individuo sordido e indegno; e quanto alla consapevolezza, disse che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato – trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte – con grande zelo e cronometrica precisione. Queste affermazioni lasciavano certo sbigottiti. Ma una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato “normale”, e uno di questi, si dice, aveva esclamato addirittura: “Più normale di quello che sono io dopo che l’ho visitato”, mentre un altro aveva trovato che tutta la sua psicologia, tutto il suo atteggiamento verso la moglie e i figli, verso la madre, il padre, i fratelli, le sorelle e gli amici era “non solo normale, ma ideale”; e infine anche il cappellano che lo visitò regolarmente in carcere dopo che la Corte Suprema ebbe finito di discutere l’appello, assicurò a tutti che Eichmann aveva idee “quanto mai positive”. Dietro la commedia degli esperti della psiche c’era il fatto che egli non era evidentemente affetto da infermità mentale. […] Peggio ancora, non si poteva neppure dire che fosse animato da un folle odio per gli ebrei, da un fanatico antisemitismo, o che un indottrinamento di qualsiasi tipo avesse provocato in lui una deformazione mentale. “Personalmente” egli non aveva mai avuto nulla contro gli ebrei; anzi, aveva sempre avuto molte “ragioni private” per non odiarli. Certo, tra i suoi più intimi amici c’erano stati fanatici antisemiti, per esempio, quel Làzlo Endre, sottosegretario di Stato addetto agli affari politici (problema ebraico) in Ungheria, che fu impiccato a Budapest nel 1946; ma secondo lui questo equivaleva più o meno a dire: “alcuni dei miei migliori amici sono antisemiti”.

Ahimè, nessuno gli credette. Il Pubblico ministero non gli credette perché la cosa non lo riguardava; il difensore non gli dette peso perché evidentemente non si curava dei problemi di coscienza; e i giudici non gli prestarono fede perché erano troppo buoni e forse anche troppo compresi dei principi basilari della loro professione per ammettere che una persona comune, “normale”, non svanita né indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male. Da alcune occasionali menzogne preferirono concludere che egli era fondamentalmente un “bugiardo” – e così trascurarono il più importante problema morale e anche giuridico di tutto il caso. Essi partivano dal presupposto che l’imputato, come tutte le persone “normali”, avesse agito ben sapendo di commettere dei crimini; e in effetti Eichmann era normale nel senso che “non era una eccezione tra i tedeschi della Germania nazista”, ma sotto il Terzo Reich soltanto le

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“eccezioni” potevano comportarsi in maniera “normale”. Questa semplice verità pose i giudici di fronte a un dilemma insolubile, e a cui tuttavia non ci si poteva sottrarre».

H. Arendt, La banalità del male, Laterza, 1963

EINSTEIN-SZILARD, LETTERA A ROOSEVELT

La lettera Einstein-Szilárd fu una lettera inviata al Presidente Franklin Delano Roosevelt nell'agosto 1939 a firma di Albert Einstein ma ampiamente scritta da Leó Szilárd con il consulto dei colleghi fisici ungheresi Edward Teller e Eugene Wigner. La lettera avvisava Roosevelt che la Germania nazista avrebbe potuto condurre ricerche sulla possibilità di usare la fissione nucleare per creare bombe atomiche e suggeriva che gli Stati Uniti avrebbero dovuto iniziare anche loro stessi a condurre ricerche in tal senso.

F. D. Roosevelt Presidente degli Stati Uniti

Casa Bianca

Albert Einstein Old Grove Road Peconic, Long Island 2 agosto 1939

Signor Presidente,

la lettura di alcuni recenti lavori di E. Fermi e di L. Szilard, comunicatimi sotto forma di manoscritto, mi induce a ritenere che, tra breve, l'uranio possa dare origine a una nuova e importante fonte di energia. Alcuni aspetti del problema, prospettati in tali lavori, dovrebbero consigliare all'Amministrazione la massima vigilanza e, se necessario, un tempestivo intervento. Ritengo quindi mio dovere richiamare la Sua attenzione su alcuni dati di fatto e suggerimenti. Negli ultimi quattro mesi, grazie agli studi di Joliot in Francia e di Fermi e Szilard in America, ha preso sempre più consistenza l'ipotesi che, utilizzando un'adeguata massa di uranio, vi si possa provocare una reazione nucleare a catena, con enorme sviluppo di energia e formazione di un gran numero di nuovi elementi simili al radio: non vi e dubbio che ciò si potrà realizzare tra breve. In tal modo si potrebbe giungere alla costruzione di bombe che - e da supporre - saranno di tipo nuovo ed estremamente potenti. Uno solo di tali ordigni, trasportato via mare e fatto esplodere in un porto, potrebbe distruggere l'intero porto e parte del territorio circostante. D'altra parte, l'impiego di queste armi potrebbe risultare ostacolato dal loro eccessivo peso, che ne renderebbe impossibile il trasporto con aerei. Negli Stati Uniti esistono solo modeste quantità di minerali a bassa percentuale di uranio; minerali più ricchi si trovano in Canada e nella ex Cecoslovacchia, benché i più cospicui giacimenti uraniferi siano nel Congo belga. Alla luce delle precedenti considerazioni, Ella converrà con me, Signor Presidente, sull'opportunità di stabilire un collegamento permanente tra il governo e il gruppo di fisici che, in America, lavorano alla reazione a catena, collegamento che potrebbe essere facilitato dalla nomina di un responsabile di Sua fiducia, autorizzato ad agire anche in veste non ufficiale. A tale persona dovrebbero essere affidati, fra l'altro, i seguenti compiti:

a) mantenersi in contatto con i Dipartimenti interessati per tenerli al corrente di eventuali sviluppi e suggerire al governo misure atte ad assicurare la fornitura di uranio;

b) accelerare il lavoro di ricerca nel settore, attualmente svolto nei limiti di bilancio dei laboratori universitari, sollecitando, all'occorrenza, forme di finanziamento volontario da parte di privati disposti a

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contribuire alla causa, e assicurandosi altresì la cooperazione di laboratori industriali dotati delle attrezzature necessarie.

Mi si dice che la Germania, subito dopo l'occupazione della Cecoslovacchia, ha posto l'embargo sull'uranio proveniente da questo paese, il che non stupisce, quando si pensi che il figlio del Sottosegretario di Stato tedesco, von Weisszacker, e membro del Kaiser-Wilhelm-Institut di Berlino, dove sono attualmente in corso esperimenti con uranio, analoghi a quelli svolti in America.

Distintamente Albert Einstein

PRIMO LEVI, LAGER E GULAG

Nell’Appendice a Se questo è un uomo (1976), Primo Levi risponde alle domande che di solito gli venivano rivolte dagli studenti durante gli incontri promossi per ricordare la tragicità dello sterminio e della Shoah. Lo scrittore propone un dettagliato quanto elementare confronto tra i lager nazisti e i gulag sovietici, sottolineando le innegabili differenze tra i due sistemi.

[…] Alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subite e viste. […] I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell’umanità: all’antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture, […] deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; […] In questo lugubre confronto fra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i ‘’colpevoli’’ venivano talvolta condannati a pene lunghissime. […] I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, […] non sono “superuomini’’ e “sottouomini’’ come sotto il nazismo. […] La personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, nei Lager tedeschi, la strage era pressoché totale. […] Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, […] ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 90-98 per cento.Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzienti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in ospedali psichiatrici, e sottoposti a ”cure’’ che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono ed indeboliscono le funzioni mentali. […] Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili.Per contro, e per quanto riguarda appunto l’aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di ‘’Amnesty International’’ […] essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila.In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e disumanità. […] Sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell’assolutismo zarista. […] Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile.

Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 1976

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Dalla Resistenza alla Costituzione

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PALMIRO TOGLIATTI, LA SVOLTA DI SALERNO

Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista, tenne un celebre discorso a Napoli al cinema Modernissimo passato alla storia come la ‘Svolta di Salerno’. Propose di accantonare ogni divergenza con gli altri partiti, rimandare la questione monarchia o repubblica per concentrarsi, unitariamente, contro il nemico nazi-fascista.

Compagni, vogliamo una Italia democratica, ma vogliamo una democrazia forte, la quale annienti tutti i residui del fascismo e non lasci risorgere niente che lo riproduca o che rassomigli.

Nel combattimento durissimo per liberarci oggi, dall’invasione straniera e iniziare e condurre sollecitamente, non appena sia possibile, la Ricostruzione, noi chiamiamo ad unirsi, nel fronte delle forze democratiche, antifascista e nazionali, tutti gli italiani onesti, tutti coloro che soffrono della situazione cui è stata portata l’Italia, tutti quelli che vogliono vedere finita rapidamente questa situazione. Per questo, compagni, la nostra politica è una politica nazionale e una politica di unità.

La nostra politica deve essere tale che ci permetta di marciare sempre fianco a fianco con gli amici, fratelli socialisti, con i quali abbiamo stretto un patto di unità d’azione, che prevede anche, per il futuro, la possibilità di creazione di un partito unico della classe operaia.

Noi non dobbiamo e non vogliamo urtaci con le masse contadine cattoliche, con le quali invece dobbiamo trovare oggi e domani un terreno di intesa e di azione comune perché sappiamo che esse hanno sofferto dal fascismo, odiano il fascismo quanto lo odiamo noi e possono e devono essere nostre alleate nella costruzione di un’Italia migliore, di un’Italia democratica. La nostra politica deve essere tale che ci permetta di raccogliere in un blocco tutte le forze antifasciste e democratiche, tutte le forze schiettamente nazionali, di opporre questo blocco all’invasore tedesco e ai residui del fascismo, di schiacciare il primo e di distruggere i secondi, affinché in questo modo siano create le condizioni per l’instaurazione ed il consolidamento di un vero e sicuro regime democratico. La nostra politica deve essere tale che, mentre crea le condizioni di questa unità e ci permette di realizzarla, paralizza i nemici di essa e getta in confusione nel campo della reazione e ne avvicina lo sbaraglio.

Come si è arrivati alla situazione attuale? Quando l’Italia venne occupata dai tedeschi, fu loro dichiarata guerra. Il popolo ha incominciato a riorganizzarsi attorno a partiti politici corrispondenti alle sue idee e aspirazioni. Si è creato un vasto movimento di massa che diventa sempre più organizzato. Il più grande risultato è stato l’unità di forze antifasciste liberali e forze democratiche nel loro congresso di Bari. Esso non deve essere ora né perduto né compromesso. Infatti, in seguito, si è creata una scissione: partiti democratici si oppongono al governo attuale e agli elementi che lo sostengono. Bisogna superare la scissione perché essa è esiziale al paese. Vi è però un ostacolo che sembra insuperabile: la questione istituzionale cioè, della monarchia e del re. Noi non avemmo una monarchia, quando una monarchia ci sarebbe stata utile per realizzare qualche secolo prima l’unità d’Italia, il che ci avrebbe permesso di diventare più presto una

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nazione forte e rispettata. Abbiamo avuto invece ed abbiamo una monarchia quando avremmo potuto e potremmo farne benissimo a meno. Non è stata cioè, quel fattore di equilibrio che avrebbe dovuto impedire a determinati gruppi economici e politici di imporre il loro interesse egoistico esclusivo al di sopra dell’interesse nazionale, di far violenza al popolo e di portare il paese alla catastrofe. Non si può pretendere di arrivare ad una soluzione definitiva ora, a meno che non si voglia rimanere, come oggi siamo, in una via senza uscita. Abbiamo fretta, tutta l'Italia ha fretta di vedere superata una divisione che le è fatale, perché allontana l'ora della sua liberazione.

Togliatti, Ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana (11 aprile 1944) in Politica comunista, Ed. L’Unità, 1945

PIERO CALAMANDREI, DISCORSO SULLA COSTITUZIONEPiero Calamandrei (Firenze, 21 aprile 1889 – Firenze, 27 settembre 1956), nato in un’antica famiglia di giuristi toscani, a 26 anni fu professore universitario di procedura civile: insegnava ai suoi studenti a non assoggettarsi mai, soprattutto non alla mistica fascista, per cui ogni frase del Duce (Mussolini) era legge, e ad usare l’ironia contro i pregiudizi. Rifiutò la tessera del Partito, non firmò la lettera di sottomissione a Mussolini che il rettore gli imponeva, animò inoltre la resistenza a Firenze e diventò rettore dopo la liberazione della città di Milano. Dapprima membro del Partito d’Azione e poi del Partito socialdemocratico, è uno dei padri della patria che hanno scritto la Costituzione.

L’art. 34 dice: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: “É compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. É compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” - corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi! […] Ma c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le

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libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente. Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è - non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani - una malattia dei giovani. “La politica è una brutta cosa”, “che me ne importa della politica”: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà, di quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava: e allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: “Ma siamo in pericolo?”, e questo dice: “Se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda”. Allora lui corre nella stiva svegliare il compagno e dice: “Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda!”. Quello dice: “Che me ne importa, non è mica mio!”. Questo è l’indifferentismo alla politica. É così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica. La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. É la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo. Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946, questo popolo, che da venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, per la prima volta andò a votare dopo un periodo di orrori- il caos, la guerra civile, le lotte le guerre, gli incendi. Ricordo - io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui - queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese. Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto - questa è una delle gioie della vita - che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo. Ora vedete - io ho poco altro da dirvi -, in questa costituzione, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo nell’art. 2, “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, o quando leggo, nell’art. 11, “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle alte patrie, dico: ma questo è Mazzini; o quando io leggo, nell’art. 8, “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour; quando io leggo, nell’art. 5, “la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo; o quando, nell’art. 52, io leggo, a proposito delle forze armate, “l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica” esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo, all’art. 27, “non è ammessa la pena di morte”, ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo,

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fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti.

Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione.

P. Calamandrei, Discorso sulla Costituzione, Università di Milano, 1955

T. MARTINES, LE CARATTERISTICHE DELLO STATO ITALIANO

Martines, esperto costituzionalista, nel manuale ad uso universitario di Diritto Costituzionale, ritiene che ogni “Costituzione” imprima al gruppo sociale, organizzato in Stato che esso regola, delle determinate caratteristiche. Anche il nostro Stato ha assunto con l’emanazione della Costituzione del 1947, alcune determinate caratteristiche che differenziano profondamente la sua struttura da quella impressagli dallo Statuto albertino (al quale si erano, per di più, sovrapposte le innovative riforme fasciste).

La Costituzione nel suo art. 1, comma I, definisce l’Italia una Repubblica. Questa definizione appare, forse, superflua ove si consideri che tutto l’ordinamento statale è orientato in senso repubblicano e non poteva non esserlo. L’art.1 non si limita, però, a definire l’Italia una Repubblica ma qualifica ulteriormente la Repubblica come “democratica” e “fondata sul lavoro”, cioè identifica un particolare “tipo” di Repubblica. A ciò si aggiunge che la Costituzione contiene una “norma di chiusura”: l’art. 139 difatti pone un limite alla revisione della forma di governo. In altri termini, il nostro attuale ordinamento o è repubblicano o non lo è. Cosicché, se per avventura si volesse restaurare la monarchia in Italia, si dovrebbe ricorrere non alle vie legali ma ad un procedimento extralegale. La repubblica, come forma di governo, si contrappone alla monarchia. Fra i criteri distintivi che, volta a volta, sono stati adottati sembra di dovere accogliere quello secondo il quale la differenza andrebbe rinvenuta nel carattere rappresentativo del Capo dello Stato repubblicano, derivategli non tanto dalla elezione come mezzo di investitura dell’ufficio bensì, piuttosto, dal continuo collegamento i cui esso si trova con la comunità sociale che lo ha espresso e che può far valere, alla scadenza del mandato, la sua responsabilità politica non procedendo alla rielezione. In Italia, il carattere rappresentativo del Capo dello Stato è espressamente previsto nella Costituzione (art.87: “il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”).

Nell’art.1 e nell’art. 4 è contenuta la norma che enuncia il diritto-dovere al lavoro, che sta a significare che al lavoro si è attribuita rilevanza costituzionale. Essa vuole indicare, soprattutto, che “nella nostra Repubblica non si dovrebbero riconoscere i privilegi economici, perché condannevoli; il solo lavoro dovrebbe essere il titolo di dignità del cittadino” (GIANNINI M. S.). Il lavoro diviene, in tal modo, valore informativo dell’ordinamento, giacché la dignità del cittadino è commisurata esclusivamente alla sua capacità di concorrere al progresso materiale o spirituale della società, senza che possano farsi più valere posizioni sociali che non trovano il loro titolo nell’apporto del soggetto all’evoluzione della comunità alla quale appartiene.

Secondo la nostra Costituzione, inoltre, “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. La domanda alla quale dobbiamo rispondere è la seguente: nell’ordinamento italiano il popolo è soltanto la fonte politica della suprema potestà di governo (nel senso che la sovranità emana dal popolo ma titolare ne è pur sempre lo Stato, inteso come organizzazione giuridica della collettività popolare) ovvero il popolo non è soltanto il titolare formale ma anche quello effettivo del potere sovrano? Sembra si possa affermare al riguardo che la nostra Costituzione, ispirandosi ai principi della democrazia

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pluralista, non si è limitata a prevedere la formazione di una società politica perfetta (art.1, comma I: “L’Italia è una Repubblica democratica”) nel senso che si è detto di società che assicura la salvaguardia ed il proporzionale soddisfacimento degli interessi dei governanti, ma con l’attribuzione della sovranità al popolo, cui fa seguito una serie di norme che danno un contenuto sostanziale a questa attribuzione e stabiliscono le forme ed i limiti per l’esercizio del potere sovrano, ha voluto, altresì, garantire che questo tipo di società si realizzi e che la democrazia non si risolva in una vuota formula (governo del popolo od in nome del popolo) ovvero venga usata come un “dentifricio”, bensì divenga, oltre che un costume di vita, un metodo di vita per governare lo Stato.

T. Martines, Diritto Costituzionale, Giuffrè editore, pp. 140-146

I FIGLI NELLA COSTITUZIONEI diritti dell’uomo che sono inseriti nella Costituzione implicano anche i diritti sociali e delle comunità attraverso le quali la libertà della persona si espleta. G. Ambrosini in La Costituzione spiegata a mia figlia, argomenta su tali problemi a partire dall’art. 2 e 29 del dettato costituzionale.

Art. 2. “La Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.Art. 29. “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.” […]Entrambi i genitori hanno l’eguale obbligo di mantenerli [i figli], istruirli, educarli. È un obbligo che prescinde dal fatto che essi siano untiti in matrimonio. Se sono incapaci di adempierlo, la legge prevede interventi sostitutivi, fino al più drammatico dei provvedimenti, quello di sottrarre i figli alla potestà di uno o di entrambi i genitori, di affidarli a istituzioni pubbliche o ad altre famiglie, di recidere i legami di sangue per dare luogo all’adozione. La Costituzione prevede che, prima di arrivare a misure estreme, vi siano interventi di carattere economico e sociale tali da consentire a una famiglia, obiettivamente idonea all’educazione, di svolgere il proprio ruolo affettivo ed educativo, specie quando le difficoltà siano determinate da condizioni economiche disagiate o dal numero di figli elevato.Ti riferisci alla famiglia tipica, ma cosa succede in caso di divorzio o separazione, di ragazze madri, di figli nati al di fuori del matrimonio?Capisco la tua esigenza di avere una risposta a tutto. Sto andando per gradi. Nell’assemblea costituente c’è stata una tendenza a chiudere il discorso intorno alla famiglia legittima, composta da due coniugi ritualmente sposati ed eventualmente con figli. E tanto forte è stata questa tendenza da suggerire a taluno di introdurre nella Costituzione il principio di indissolubilità del matrimonio, quale era previsto dal codice civile del 1942 allora vigente. L’idea era stata bocciata (si obiettò che l’indissolubilità del matrimonio era comunque stabilita dalla legge, anche se la separazione era consentita), ma i problemi delle “coppie irregolari” e dei figli “nati fuori dal matrimonio” non potevano essere ignorati. La costituzione li ha contemplati e ha affermato che i doveri di mantenimento, di istruzione e di educazione da parte dei genitori sono uguali, a prescindere dalla circostanza che siano o meno sposati. Non solo, ma ha assicurato ai figli nati al di fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima. A completamento di tutto ha stabilito che la ricerca della paternità è sempre consentita, spettando alla legge stabilirne le regole e i limiti. […]

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L’evoluzione del costume in questa materia ha comportato dopo anni di difficili scontri a livello politico, l’approvazione nel 1970 della legge amministrativa del divorzio, confermata due anni dopo dall’insuccesso del referendum abrogativo della legge stessa.La famiglia ipotizzata dalla costituzione come modello ideale, non ha subito traumi con l’introduzione del divorzio, anzi questo istituto ha legittimato la formazione di una nuova famiglia dopo lo scioglimento della prima e ha consentito una maggiore tutela ai figli nati nella seconda unione senza sacrificare i diritti di quelli nati nel primo matrimonio.Se famiglia non c’è, la maternità è ugualmente tutelata a livello giuridico, con la previsione di norme specifiche in omaggio al principio di solidarietà, anche se – come è ovvio – non sempre i riflessi di carattere psicologico sui figli possono essere sopperiti da una più equa legislazione. Il risultato è comunque che non esistono figli “illegittimi” e la parola stessa è scomparsa dal vocabolario giuridico.

G. Ambrosini, La Costituzione spiegata a mia figlia, Einaudi, 2014

ARTICOLO 9«In un mondo in cui siamo sempre meno uguali, il fatto che il paesaggio e l’arte appartengano egualmente a ricchi e poveri è uno dei pochi segni di speranza». Lo scrive Tomaso Montanari, storico dell’arte, professore dell’Università Federico II di Napoli, presidente di «Libertà e Giustizia», in un libro pubblicato dall’editore Carocci, Costituzione italiana: articolo 9.Nel 1948 la Costituzione ha spaccato in due la storia della cultura e della ricerca scientifica italiane, assegnando a spiagge e montagne, a musei, università e chiese una missione nuova al servizio del nuovo sovrano: il popolo. La storia dell'arte è in grande parte la storia del potere di re e papi, granduchi e tiranni, principi e banchieri. Ma il progetto della Costituzione ha cambiato questa storia, dando parole nuove a una tradizione secolare che suggeriva che proprio l'arte e il paesaggio fossero leve potenti per rimuovere gli ostacoli all'eguaglianza e permettere il «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3).

‘’La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica [cfr. art. 33, 34]. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.’’ (art. 9)

L’esegesi del comma 1° dell’art.9 è sempre ruotata intorno il rapporto con il primo e l’ultimo comma dell’art. 33:

“L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento […] le istituzioni di alta cultura, università ed accademie hanno diritto di darsi ordinamento autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello stato”.

Giova quindi dire che in nessun modo il comma 1° dell’art. 9 prefigura una cultura egemonizzata dalle forze che hanno, di volta in volta, la responsabilità del governo.

La cultura deve essere, dunque, intesa da una parte, soprattutto come senso critico, come strumento per una consapevole resistenza al potere; dall’altra invece, deve trasparire l’idea che attraverso la cultura ci si possa opporre ad un presente dominato da un pensiero unico, così come era stato nel periodo fascista.

La scelta della parola ‘’patrimonio’’ crea un forte nesso all’interno dei Principi Fondamentali della nostra Carta, collegando in particolare l’art. 9 all’art. 1: con la sovranità del popolo, cioè la nazione, acquista ora un patrimonio, quello che nel tempo era nella disponibilità del re. Una prospettiva ermeneutica che appare rafforzata dalla dimensione ‘’territoriale’’ che il patrimonio acquista nella formulazione del comma 2°: la vera chiave per capire cosa sia il ‘’patrimonio’’ è la sua intima connessione al paesaggio. Si tratta di un’endiadi inscindibile e concettualmente formidabile sia che la si guardi dal punto di vista culturale sia da quello più strettamente giuridico.

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Con l’articolazione “patrimonio storico e artistico” i costituenti mettono in evidenza che tutto questo non viene declinato su un piano estetico. L’art. 9 menziona e collega tre entità, tra le quali la meno emergente è senz’altro il patrimonio storico, fatto dalle biblioteche, dagli archivi, dai singoli documenti e da tutte le “testimonianze materiali aventi valore di civiltà” (così il Codice).

É la triplice stratificazione di paesaggio, patrimonio storico e artistico è ciò che la Repubblica tutela, e che tutela proprio nella sua dimensione contestuale, tutelando i nessi che uniscono tutte queste “cose” non meno delle cose stesse. È la dimensione ‘’contestuale’’ in cui l’insieme è maggiore della somma delle parti a costruire l’Italia e a renderla unica.

T. Montanari, Costituzione Italiana: Articolo 9, Carocci, 2018

ONU, Israele, Europa

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SPINELLI-ROSSI-COLORNI, IL MANIFESTO PER UN’EUROPA LIBERA ED UNITA

Il celebre Manifesto di Ventotene, una sorta di bibbia dell’unità d’Europa, fu scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nell’estate del 1941 presso l'isola di Ventotene, nel mar Tirreno, dove erano stati confinati dal regime fascista, per poi essere pubblicato da Eugenio Colorni, che ne scrisse personalmente la Prefazione. Con il Manifesto proposero, primi nella storia, non quel disegno ideale di una unità europea sognata da uomini politici, poeti, scrittori ma un concreto progetto di azione politica. Si fondava su concetti di pace e libertà kantiana e sulla teoria istituzionale del federalismo e promuoveva la necessità di creare una forza politica esterna ai partiti tradizionali, inevitabilmente legati alla lotta politica nazionale, e quindi incapaci di rispondere efficacemente alle sfide della crescente internazionalizzazione.

CAPITOLO I - LA CRISI DELLA CIVILTA' MODERNA

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettino:

1. Si è affermato l'eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in Stati indipendenti. Ogni popolo, individuato nelle sue caratteristiche etniche geografiche linguistiche e storiche, doveva trovare nell'organismo statale, creato per proprio conto secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore ai suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo.

[…] La nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza degli uomini, che, pervenuti, grazie ad un lungo processo, ad una maggiore uniformità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana. É invece divenuta un'entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne. […] Per tenere immobilizzate e sottomesse le classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo governante e ad esso solo responsabili. Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli Stati totalitari.

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A.Spinelli, E. Rossi, E.Colorni, Manifesto di Ventotene, Ventotene, 1941

Due blocchi, due imperialismi

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HARRY TRUMAN, LA DOTTRINA TRUMAN La Dottrina Truman è la strategia di politica estera ideata dall'allora presidente degli Stati Uniti d'America Harry S. Truman il 12 marzo 1947, in un discorso tenuto alle camere in seduta comune. La dottrina si proponeva di contrastare le mire espansioniste dell'avversario comunista nel mondo. È importante sottolineare come l'Unione Sovietica fosse chiaramente al centro dei pensieri di Truman, anche se nel suo discorso tale Paese non venne mai direttamente menzionato.

La gravità della situazione che il mondo ha oggi di fronte esige la mia presenza a una sessione congiunta del Congresso. La politica estera e la sicurezza nazionale di questo paese vi sono coinvolte.

Un aspetto della situazione attuale, che desidero presentarvi oggi perché lo prendiate in considerazione e perché decidiate in merito, concerne la Grecia e la Turchia. Gli Stati Uniti hanno ricevuto dal governo greco un urgente appello per assistenza economica e finanziaria. Rapporti preliminari della Missione Economica Americana attualmente in Grecia, e relazioni dell'Ambasciatore Americano in Grecia, confermano la dichiarazione del governo greco, secondo la quale tale assistenza è indispensabile se la Grecia deve sopravvivere come nazione libera. Io non credo che il popolo americano e il Congresso desiderino fare orecchio da mercante all'appello del governo greco. [...] La stessa esistenza dello Stato greco è oggi minacciata dalle attività terroristiche di parecchie migliaia di uomini armati, guidati dai comunisti, che sfidano in varie zone l'autorità del governo, in particolare lungo i confini settentrionali. […] La Grecia deve essere aiutata se si vuole che divenga una democrazia indipendente e dotata di amor proprio. Gli Stati Uniti debbono fornire questo aiuto. Noi abbiamo già dato alla Grecia certe forme di assistenza e di aiuto economico, ma in misura del tutto inadeguata. Non vi è d'altra parte un altro paese al quale la Grecia democratica possa rivolgersi. Nessun'altra nazione è disposta e capace di provvedere il sostegno necessario ad un governo greco democratico. […] Anche la vicina della Grecia — la Turchia — merita la nostra attenzione. È chiaro che il futuro della Turchia quale stato indipendente ed economicamente sano non è per le nazioni amanti della pace meno importante del futuro della Grecia. […] Questa integrità è essenziale per la conservazione dell'ordine nel Medio Oriente. […] In questa fase della storia del mondo ogni nazione deve scegliere fra due diversi sistemi di vita. La scelta, troppo spesso, non è libera affatto. Un sistema di vita è fondato sulla volontà della maggioranza, ed è caratterizzato da libere istituzioni, governo rappresentativo, libere elezioni, garanzie di libertà individuale, libertà di parola e di religione, libertà dall'oppressione politica. L'altro sistema si fonda sulla volontà di una minoranza imposta con la forza alla maggioranza. Poggia sul

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terrore e l'oppressione, sul controllo della stampa e della radio, su elezioni prefabbricate, e sulla soppressione delle libertà personali. Io credo che debba essere politica degli Stati Uniti sostenere i popoli liberi che resistono ai tentativi di soggiogamento effettuati da minoranze armate o mediante pressioni esterne. Credo che noi dobbiamo aiutare i popoli liberi a costruire il loro destino alla loro propria maniera. Credo che il nostro aiuto debba essere in primo luogo di natura economica e finanziaria, il che è essenziale alla stabilità economica e ad un ordinato sviluppo politico. […] Aiutando le nazioni libere e indipendenti a conservare la loro libertà, gli Stati Uniti daranno pratica efficacia ai principi della Carta delle Nazioni Unite. È sufficiente uno sguardo alla carta geografica per rendersi conto che la sopravvivenza e l'integrità della nazione greca sono di grande importanza in un quadro molto più ampio. Se la Grecia dovesse cadere sotto il controllo di una minoranza armata, l'effetto sulla sua vicina, la Turchia, sarebbe immediato e grave. La confusione e il disordine potrebbero diffondersi in tutto il Medio Oriente. Inoltre, la scomparsa della Grecia come stato indipendente avrebbe un profondo effetto su quei paesi europei i cui popoli lottano contro grandi difficoltà per mantenere le loro libertà e la loro indipendenza nella fase della ricostruzione dei danni bellici.

Harry Truman, Discorso al Congresso degli Stati Uniti, 12 marzo 1947

NIKITA KRUSCIOV, IL RAPPORTO SEGRETONon esistono verbali della seduta a porte chiuse della notte del 24 febbraio 1956 al termine del XX Congresso in cui il discorso fu pronunciato. Un testo “ufficiale” fu pubblicato solo nel 1989 (Izvestiia TsK KPSS n. 12). Riportiamo uno stralcio della prima traduzione italiana del Rapporto di Kruscev, come fu pubblicata dalla DC SPES traendolo dal New York Times del 5 giugno 1956, che l’aveva ricevuta dal Dipartimento di Stato USA informato dai servizi segreti israeliani in Polonia.

[I metodi di Stalin?]

Se analizziamo la condotta di Stalin nei confronti della direzione del partito e del paese, se ci soffermiamo a considerare tutto quello che egli ha perpetrato, dobbiamo convincerci che i timori di Lenin erano giustificati. Le caratteristiche negative di Stalin, che all’epoca di Lenin cominciavano appena a profilarsi, si trasformarono negli ultimi anni in un grave abuso di potere da parte sua, che ha arrecato indicibili danni al nostro partito. Dobbiamo esaminare attentamente ed analizzare correttamente tale questione, al fine di impedire che possa ripetersi sotto qualsiasi forma quanto è avvenuto durante la vita di Stalin, che assolutamente non tollerava la collegialità nella direzione e nel lavoro e che adottava una brutale violenza non solo contro tutto quello che gli si opponeva, ma anche contro tutto quello che al suo temperamento capriccioso e dispotico appariva contrario alle sue vedute. Stalin non operava mediante una chiara spiegazione ed una paziente collaborazione con gli altri, ma imponendo le proprie vedute ed esigendo un’assoluta sottomissione ai suoi voleri. Chiunque si opponesse a tali vedute o cercasse di far valere il proprio punto di vista e la validità della propria posizione era destinato ad essere eliminato dagli organi collegiali direttivi e, di conseguenza, ad essere annientato moralmente e fisicamente. […] Fu precisamente in questo periodo (1935-1937-1938) che ebbe origine il sistema della repressione in massa attuata attraverso l’apparato governativo prima contro i nemici del leninismo — i seguaci di Trotski, di Zinoviev, di Bukharin, già da tempo sconfitti politicamente dal partito — e successivamente anche contro molti onesti comunisti, contro quei dirigenti del partito che avevano sopportato il grave onere della guerra civile, […]

Fu Stalin a formulare il concetto di «nemico del popolo». Questo termine rese automaticamente superfluo che gli errori ideologici di uno o più uomini implicati in una controversia venissero provati. Questo termine rese possibile l’uso della repressione più crudele, in violazione di tutte le norme della legalità rivoluzionaria, contro chiunque che in qualsiasi modo fosse in disaccordo con Stalin, contro coloro che fossero appena

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sospettati di intenzioni ostili, contro coloro che non godessero di buona fama. Il concetto di «nemico del popolo» eliminò praticamente la possibilità di qualsiasi forma di battaglia ideologica e la possibilità di render noto il proprio punto di vista su questo o quel problema, anche quelli di carattere pratico. Principalmente, e nella prassi, l’unica prova di colpevolezza usata, contro tutte le norme del diritto, era la «confessione» dell’imputato stesso; e, come provarono le successive risultanze, le «confessioni» venivano ottenute mediante pressioni fisiche contro gli accusati. Ciò portò ad evidenti violazioni della legalità rivoluzionaria e al fatto che molte persone del tutto innocenti, che in passato avevano difeso la linea del partito, rimasero vittime delle repressioni. […] In realtà Stalin ignorava le norme che regolano la vita di partito e calpestava il principio leninista della direzione collegiale di partito. […] E’ divenuto evidente che molti attivisti del Partito, del Governo e degli organi economici i quali nel 1937-38 furono bollati come «nemici» non furono mai in realtà dei nemici, delle spie o dei sabotatori, ecc., ma semplicemente degli onesti comunisti; bollati con queste accuse, spesso non essendo più in grado di sopportare barbare torture, si autoaccusavano (per ordine dei giudici istruttori-falsificatori) di ogni genere di gravi e assurdi delitti. […] E’ stato accertato che sui 139 membri e candidati del Comitato Centrale dei Partito, eletti durante il XVII Congresso, 98, e cioè il 70%, furono arrestati e fucilati (per la maggior parte nel 1937 e 1938). (Grida di indignazione nella sala) […] Allo stesso destino andarono incontro non soltanto i membri del Comitato Centrale, ma anche la maggioranza dei delegati al XVII Congresso del Partito. Dei 1966 delegati con diritto di voto o di consulenza, 1108, e cioè assai più della maggioranza, furono arrestati su accusa di delitti antirivoluzionari.

Rapporto segreto Krusciov, New York Times, 5 giugno 1956

L’Italia dal 1945 al 1992

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INTI-ILLIMANI, EL PUEBLO UNIDO Il loro nome, in dialetto Ayarnara, significa: "Sole di una montagna nelle vicinanze di La Paz, Bolivia". Ambasciatori del patrimonio musicale latinoamericano, la loro è una delle storie più esemplari della canzone popolare del dopoguerra. Gli Inti-Illimani divengono esuli a causa del colpo di Stato di destra di Augusto Pinoschet ai danni del presidente Salvador Allende in Cile. Al gruppo fu riconosciuto il diritto d’asilo politico. Con la musica e i canti di lotta il gruppo mantenne alta l’attenzione dei democratici sulla tragedia cilena.El pueblo unido jamás será vencido (Il popolo unito non sarà mai vinto) è una delle più note canzoni diventate simbolo di lotta e grido di libertà contro i fascismi.

Il popolo unito, non sarà mai vinto In piedi, cantare che trionferemo. Già avanzano bandiere di unità. E tu verrai camminando con me e così vedrai prosperare il tuo canto e la tua bandiera. La luce di un tramonto rosso già annuncia la vita che verrà. In piedi, combattere, il popolo trionferà. Sarà migliore la vita che verrà a conquistare la nostra felicità e in un lamento mille voci di lotta si alzeranno, diranno canzone di libertà, con decisione la patria vinceràE ora il popolo che si alza nella lotta con voce da gigante urlando: avanti!

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La patria sta forgiando l'unità da nord a sud si muoverà dal salare ardente e minerale al bosco australe, uniti nella lotta e nel lavoro andranno, percorreranno la patria il loro passo già annuncia il futuro.In piedi, cantare il popolo trionferà. A milioni impongono la verità, sono uno squadrone di acciaio ardente, le loro mani porteranno la giustizia e la ragione Donna, con fuoco e con valore, sei qui insieme al lavoratore. E ora il popolo che si alza nella lotta con voce da gigante urlando: avanti!

Il popolo unito, non sarà mai vinto.

FABRIZIO DE ANDRÉ, LA CANZONE DEL MAGGIOFabrizio Cristiano De André (Genova, 18 febbraio 1940 – Milano, 11 gennaio 1999), è stato un tormentato cantautore italiano, di idee anarchiche e pacifiste, ricordato anche come “il cantautore degli emarginati” o il “poeta degli sconfitti”: nelle sue composizioni scelse di sottolineare i tratti nobili e universali degli emarginati, affrancandoli dal "ghetto" degli indesiderabili e mettendo a confronto la loro dolorosa realtà umana con la cattiva coscienza dei loro accusatori e soprattutto riuscì a trasferire in esse la sua posizione politica.Particolarmente esemplificativa è La canzone del maggio (appartenente all’album intitolato Storia di un impiegato), accreditata come "canto del maggio francese", che è in realtà una lontana rielaborazione di un pezzo del 1968 attribuito alla cantante Dominique Grange (Chacun de vous est concerné) che lo donò a De André rinunciando ai diritti d'autore. La canzone ben rappresenta il desiderio di cambiamento e di rinnovamento generale della società che nel movimento studentesco trovo la sua punta più avanzata.

Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio,se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento, anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti.

E se vi siete detti «non sta succedendo niente», le fabbriche riapriranno, arresteranno qualche studente 

convinti che fosse un gioco a cui avremmo giocato poco provate pure a credervi assolti siete lo stesso coinvolti.

Anche se avete chiuso le vostre porte sul nostro muso la notte che le pantere ci mordevano il sedere lasciandoci in buona fede massacrare sui marciapiedi anche se ora ve ne fregate, voi quella notte voi c'eravate.

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E se nei vostri quartieri tutto è rimasto come ieri, senza le barricate, senza feriti, senza granate, se avete preso per buone le “verità” della televisione anche se allora vi siete assolti siete lo stesso coinvolti.

E se credete ora che tutto sia come prima perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina, convinti di allontanare la paura di cambiare, verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti, per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.

Fabrizio De André, La canzone del maggio,

in album Storia di un impiegato, 1973

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IL ’68 AL LICEO TASSO DI SALERNO: SOUS LES PAVÈS, C’EST LA PLAGE

Sous les pavés, c’est la plage, sotto le strade c’è la spiaggia: ovvero sotto le costrizioni borghesi del quotidiano si nasconde un'altra vita. Questo, uno degli slogan del ‘68 che predica “il cambiamento liberatore della società e della vita in cui siamo incastrati", un invito allo scontro e alla ribellione. Altri slogan, come “l’immaginazione al potere” e “siate realisti, chiedete l’impossibile” si diffusero a Salerno, ricorda Ernesto Scelza, a cinquant’anni esatti, uno dei leader del movimento studentesco del Tasso e tra i fondatori del Manifesto.

“Salerno era una città chiusa, bigotta, con un forte impianto clericale, tradizionalmente di destra; si ricordi che la maggioranza dei Salernitani aveva votato al referendum costituzionale per la monarchia. Il clima degli anni precedenti al ’68 era, teso e, nonostante venissimo da famiglie comuniste e facessimo culturalmente parte di quest’area, già eravamo critici nei confronti del Partito Comunista, dal quale non ci sentivamo rappresentati. Infatti smisi di frequentare la FGIC (Fondazione giovani italiani comunisti) poco dopo essermi iscritto. Ricordo che nel ’66 avremmo dovuto contrastare uno sciopero indetto dai giovani fascisti contro la nascita delle Regioni, in nome di uno Stato forte, centralizzato. Avevo quattordici anni, ed eravamo solo in due ad opporci al Tasso: insieme al mio compagno andai davanti alle porte del liceo, rivendicando il diritto di entrare. Di lì a poco passò un camion con una ventina di fascisti che, scesi, ci vennero incontro; uno di loro mettendomi una catena al collo mi trascinò per terra fin sotto il camion. Quella stessa catena mi fu portata due anni dopo dalla stessa persona, che si era pentito e voleva partecipare, ora, all’occupazione del Tasso. Non lo feci entrare ma la utilizzai per chiudere di notte i cancelli del liceo occupato.

Nella mia classe fui l’unico ad entrare e il giorno dopo tutti i miei compagni erano giustificati mostrando solamente la tessera della formazione di destra La Giovane Italia. I professori erano figli del fascismo e sostenevano, per lo più, le idee di destra. Il mio docente di latino e greco era Mario De Fazio, che in precedenza era stato un repubblichino e poi divenne senatore del Movimento sociale italiano. Con lui il rapporto era conflittuale, ma mi stimava e quando, anni dopo fui arrestato, telefonò a mio padre per esprimergli solidarietà.

Un problema che affliggeva il corpo studentesco era la grande differenza tra maschi e femmine: fino all’occupazione del ‘69, infatti, le donne portavano il grembiule ed avevano, oltre alle classi, ingresso e corridoi separati. Con il tema dell’uguaglianza tra i sessi le portammo tutte dalla nostra parte. Le ragazze del ginnasio durante l’occupazione venivano costrette ad andare a messa e li si faceva l’appello. Una mattina entrai in chiesa, mi frapposi tra il prete che officiava e le ragazze e dissi loro che dovevano sentirsi libere e decidere senza costrizione cosa fare. Uscirono tutte e si aggregarono all’assemblea. E io diventai il punto di riferimento di quel movimento.

I programmi scolastici erano estremamente insoddisfacenti e distaccati dalla realtà: in storia si fermavano alla Prima Guerra Mondiale, senza trattare assolutamente il fascismo. In letteratura si arrivava a D’Annunzio, in filosofia a Benedetto Croce. Gli stessi insegnanti non conoscevano gran parte degli intellettuali del ‘900, e quando io, che leggevo autonomamente, li citavo, rimanevano spiazzati.

Dopo aver rotto con la Federazione giovanile comunista mi vedevo con Michele Santoro. Nel ’67 mettemmo su un gruppo teatrale, ci vedevamo nella sede dell’Università popolare salernitana al Corso, il cui responsabile era il professore Nicola Crisci. Ci eravamo riconosciuti come gruppo, e tra di noi era nata un’altra cultura.

Leggevamo gli autori della beat-generation come Kerouac, Ginsberg e Ferlinghetti conosciuti anche grazie alla collezione di Fernanda Pivano, ma anche Whitman e filosofi come Marcuse, Sartre e Foucault. Molta influenza avevano su di noi le riviste d’avanguardia culturale, che assunsero poi un ruolo politico ed erano il

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principale mezzo di informazione. Le più importanti erano “Carte segrete”, “Quindici”, che erano riviste letterarie, “Sipario” che era teatrale e “Ombre rosse”, di critica cinematografica.

Ascoltavamo la musica a partire dai Beatles e dai Rolling Stones, specialmente questi ultimi, che avevano per noi una carica eversiva, ma anche Jimi Hendrix. Siamo cresciuti con il rock, insomma, ma anche con il folk, di John Baez e Bob Dylan.

Scoprimmo allora quella che chiamavamo l’“altra America”, quella delle contestazioni all’imperialismo, che contestava la guerra in Vietnam che si occupava della questione razziale e che promuoveva la marcia di Martin Luther King.

Contribuirono notevolmente alla crescita della nostra coscienza politica: la crisi dei missili a cubana; la morte di Che Guevara e la guerra in Vietnam.

Quando arrivò il Maggio francese, che operò un totale cambiamento nella mentalità comune e nell’atmosfera, non ci facemmo trovare impreparati. Non scimmiottammo. Lo riconoscemmo.

Ci demmo appuntamento il 23 agosto ’68 in piazza san Francesco per costituire il movimento studentesco salernitano. C’era anche Michele Santoro, che l’anno prima era stato espulso dal Tasso e frequentava il De Sanctis. Ognuno di noi doveva presentarsi e qualificarsi. Io e D’acunto ci qualificammo come comunisti anarchici, perché qualche giorno prima, su una panchina del lungomare, avevamo trovato un documento a firma dei Comunisti anarchici di Bologna. Lo avevamo letto ed eravamo d’accordo con loro. Ferdinando Argentino si qualificò come comunista di sinistra, mentre Nicola Paolino e Salvatore Galizia semplicemente comunisti. C’erano anche i cattolici del dissenso, cresciuti sull’onda del Concilio Vaticano II che aveva scosso le fondamenta della mentalità clericale. Carlo Rizzo aveva le chiavi della casa disabitata della donna in piazza Sinno, e continuammo la riunione lì quella sera. Comprammo delle candele e ci sedemmo per terra. Decidemmo di chiamarci "Movimento del 23 agosto". Ho ancora il nostro manifesto, scritto con i pennarelli sul retro di altri.

L’obiettivo dell’occupazione del Novembre ’68 era l’Assemblea, che rappresentava l’aspetto politico, con i collettivi di classe e i rappresentanti. L’Assemblea era per noi un momento di grande crescita, ed era partecipata e burrascosa; non se ne andava nessuno se non era finita, ma riuscimmo a concluderne davvero solo una, quella in cui decidemmo l’occupazione, nel novembre del ’68. Un’occupazione aperta a tutti i movimenti della città: di mattina il liceo era aperto ai vari cortei che venivano dalle altre scuole per l’Assemblea, nel pomeriggio si riunivano i collettivi tematici, mentre di sera si preparavano i documenti per il giorno dopo e l’occupazione continuava a porte chiuse perché bisognava difendersi. All’occupazione partecipavano anche Paola Coppola, Carlotta Baldi, Miki Rosco, Ciro Romaniello, Giovanni De Rosa, Angelo D’Amico, Dino Risi, Nicola Basile, i cattolici Andrea Campana, Sabatino Fusco, e Aurelio Musi, allora giovane repubblicano del "Movimento 23 agosto". Eravamo arrivati a dicembre e in città il clima era cambiato, si respirava un’aria di liberazione: di idee e sessuale. Nessuno era emarginato, tutti potevano esprimersi. L’occupazione continuò anche durante le feste di Natale, mi ricordo che andai a casa solo per il cenone e gli auguri. A fine dicembre, all’alba, la polizia fece irruzione. Scendemmo gli scalini cantando l’Internazionale comunista. Ci presero tutti e ci portarono in caserma. Fummo rilasciati la mattina, tornammo a casa e poi di nuovo a scuola e in strada con i cartelli per preparare il primo sciopero generale di tutte le scuole il 9 gennaio del ’69. Decine di migliaia di studenti sfilarono per le vie della città.

Di quest’occupazione due momenti mi sono rimasti particolarmente impressi: l’inizio, quando abbiamo appeso lo striscione rosso con scritto “Occupazione” sul balcone del Tasso, e la fine, quando mi svegliai con una pistola della polizia premuta contro la tempia, a segnarne la fine.

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Troppo presto ci siamo fatti condizionare dal principio di realtà: avremmo, forse, potuto e dovuto mantenere ancora aperta la prospettiva utopica di questo movimento.

Intervista degli studenti del Tasso R. Adinolfi e R. De Crescenzo al prof. Ernesto Scelza, maggio 2018

ART. 18 DELLO STATUTO DEI DIRITTI DEI LAVORATORILa Legge del 20 maggio 1970, n. 300 conosciuta come Statuto dei lavoratori rappresenta il frutto della dura lotta del movimento operaio, a partire da quell’’autunno caldo’ del 1969. Con lo Statuto la Costituzione è entrata nelle fabbriche! In effetti fino al 1970, diritti ivi sanciti non avevano oltrepassato la soglia delle fabbriche. Dignità e tutela dei lavoratori erano rimasti una mera promessa: il diritto di riunione pacifica (art. 17 Cost.); il diritto di libera associazione (art. 18 Cost.); il diritto di manifestare il pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art. 21 Cost.); la libertà sindacale (art. 39 Cost.).In particolare, nella filosofia di questo Statuto, l’art. 18 secondo cui non è possibile licenziare un lavoratore senza giusta causa, si registrava l’idea che il lavoro non è una merce come le altre e che non può essere trattata a capriccio del ‘padrone’ con signoria illimitata, come illimitato potere direttivo e disciplinare.Il lavoratore licenziato senza giusta causa, dunque, oggetto di un licenziamento illegittimo può chiedere al giudice di essere reintegrato.Più volte si è certato di abrogare o limitare gli effetti di questa effettiva tutela del lavoratore con referendum o leggi. Infine, l’art. 18, ironia della sorte, è stato abrogato il 29 agosto del 2014, in seguito alla promulgazione e attuazione del Jobs Act da parte del governo di centro-sinistra Renzi, attraverso l'emanazione di diversi provvedimenti legislativi varati tra il 2014 e il 2015.

1, Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

[…]

4. Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.

5. Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta

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giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.

Statuto dei lavoratori, 20 maggio 1970

MANIFESTO FEMMINISTA

La rivoluzione femminista in Italia si fa strada negli anni Settanta. Il Movimento di Liberazione della Donna (MLD) nasce nel 1970, all’interno del Partito radicale, e prosegue fino al 1983. Al centro dell’attività del MDL stava la sessualità, l’omosessualità, l’aborto, il self-help come pratica condivisa, la battaglia contro la violenza sulle donne, i consultori. Protagonista del manifesto è Maria Grazia Tajé: “Per questo manifesto slacciai il reggiseno e gridai Bandiera Rossa!”. Il manifesto nacque come di un giornale socialista mai pubblicato ma se venne in seguito se ne appropriarono le femministe. Nessuno sospettò che quel manifesto sarebbe diventato il simbolo delle manifestazioni delle donne di quegli anni ’70 ovvero del “secondo femminismo” ben diverso dalle battaglie e dalle rivendicazioni femministe dell'Ottocento. Le suffragette chiedevano la parità dei diritti, il voto, giusti salari, senza, tuttavia mettere in discussione i ruoli maschile e femminile. Il movimento, nato dalle piazze del 1968, ha da subito messo in discussione i ruoli, i rapporti uomo-donna, ha puntato sulle differenze nella parità. La donna degli anni Settanta si batte per essere diversa nella uguaglianza di scelte, di rapporti. Erano donne di tutte le classi sociali, di tutte le età. Spesso in disaccordo sulle modalità e i tempi delle battaglie. Molte erano ancora riottose a partecipare alle manifestazioni ma l’aria stava cambiando e le vittorie erano nel vento!

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L’ASSASSINIO DI ALDO MOROL’articolo sull’assassinio di Aldo Moro fu pubblicato sul quotidiano La Repubblica il giorno 9 maggio del 1978, quando l’uomo, dopo 55 giorni trascorsi sotto sequestro, fu ucciso per mano delle Brigate Rosse a Roma. Il corpo fu rinvenuto nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure, a poca distanza dalla sede nazionale del Partito comunista italiano (PCI) e da Piazza del Gesù, sede nazionale della Democrazia cristiana (DC).

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MANI PULITE: INTERROGATORIO DI CRAXITangentopoli cominciò il 17 febbraio 1992. Il pubblico ministero Antonio Di Pietro chiese e ottenne un ordine di cattura per l'ingegnere Mario chiesa, esponente di prim’ordine del PSI di Milano, colto in flagrante mentre intascava una bustarella di 7 milioni di lire da un imprenditore di Monza, che, stanco di pagare, lo aveva denunciato. Le sue rivelazioni chiamano in causa decine di indagati tra cui il segretario socialista Bettino Craxi che in un primo momento negò l'esistenza della corruzione a livello nazionale, definendo Chiesa un “mariuolo isolato”, una scheggia impazzita dell'altrimenti integro PSI. Interrogato nel processo Cusani dichiarò, poi, che tutti

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sapevano delle tangenti! Da qui, l'espressione Mani pulite indica la serie di inchieste che travolse i maggiori partiti politici: lo scandalo di Tangentopoli.

Stralcio Interrogatorio di Bettino Craxi da parte del Pm Antonio Di Pietro.

CRAXI: Io sono sempre stato al corrente della natura non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio partito.

DI PIETRO: C’è qualcuno prima di lei stamattina che l’ha saputo qualche giorno fa.

C.: Vede, in Italia il sistema di finanziamento ai partiti e alle attività politiche in generale contiene delle irregolarità e delle illegalità, io credo a partire dall’inizio della storia repubblicana. Questo è un capitolo che possiamo definire oscuro della storia della democrazia repubblicana ma da decenni il sistema politico aveva una parte – non tutto - del suo finanziamento che era un finanziamento di natura irregolare o illegale e non lo vedeva solo chi non lo voleva vedere e non ne era consapevole solo chi girava la testa dall’altra parte. Si immagini, scusi, i partiti erano tenuti a presentare dei bilanci in parlamento, i bilanci erano sistematicamente dei bilanci falsi, tutti lo sapevano, ivi compreso chi doveva esercitare funzione di controllo, nominati dal presidente della camera, ma agli atti parlamentari non risulta.

DP.: Ma allora i partiti di opposizione che opposizione facevano?

C.: Riferiamoci al maggiore partito di opposizione, il partito comunista, il quale non è mai stato un partito povero, è sempre stato un partito ricco di risorse, talvolta si aveva l’impressione che ne disponeva più di quante ne disponessero i partiti di governo, aveva costruito in Italia la macchina burocratica più potente ed organizzata dell’intero mondo occidentale e per questo si avvaleva di un finanziamento che non proveniva, o non proveniva tutto, ma che proveniva in gran parte da fonti illegali.

DP.: Perché imprenditori, società, enti e cooperative sentivano questo bisogno di pagare i partiti? Un migliaio sono venuti da me dicendo che sono stati concussi.

C.: Mentono, in questo caso mentono, non dicono la verità! Ci sono gruppi industriali che in Italia sono una potenza ed erano più potenti dei partiti… potevano spaventare non essere spaventati, proprietari di giornali, proprietari di banche. Mentono e continuano mentire non dicendo la verità! Ma si può mai immaginare che un gruppo come la Fiat non ha mai dato contributi elettorali a partiti o a parlamentari o candidati? Lo si può immaginare, lo si può credere seriamente che un gruppo come la Fiat sia stato concusso o spaventato? Ed è cosa grave che gli esponenti politici non dicano la verità! E continuano anche loro a mentire! Lei dovrebbe andare a rivedere cosa è successo nel corso dell’ultimo anno. Le verità sono venute fuori quando sono emersi dei fatti inoppugnabili!

DP. A chi lo dice!

Interrogatorio di Bettino Craxi; Pm Antonio Di Pietro, Processo Cusani, Tribunale di Milano, 1993

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