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1 A cura di MARIO GORI LETTERATURA GINNASTICA, GIOCO E SPORT

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A cura di MARIO GORI

LETTERATURAGINNASTICA, GIOCO E SPORT

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SOMMARIO

MA SE QUALCUNO...CONTRO IL FANATISMO SPORTIVODalla PITICA 10Dalla ISTMICA IDalla LISISTRATAAD ARISTAGORA DI TENEDO PRITANEA ERGOTELE IMERESE VINCITORE NELLO STADIO LUNGOAD ARISTOMENE DI EGIDA LOTTATOREda L'ILIADELA CORSA CON IL CARROIL GIOCO DELLA PALLALA CORSACONSIGLI PRIMA DELLA GARAAD AUTOMEDE DI FLIUNTE VINCITORE NEL PENTATLO NEI GIUOCHI NEMEIA MELISSO TEBANO VINCITORE COI CAVALLI E NEL PANCRAZIOAI DIOSCURIA TIMOTEO ACARNESE VINCITORE NEL PANCRAZIOL'ATLETA SPARTANOIL PUGILE PITAGORADALL'ODE XIICANOTTAGGIOLA GARA DELL'ARCOGLI ESERCIZI DEL CORPO E QUELLI DELLO SPIRITO (Lettere a Lucilio)CON LO SPORT CONQUISTERAI IL TUO FANCIULLOIN LODE DI UNA LIBERA EDUCAZIONEIL GIUOCO DELLA PICCOLA PALLAARTE GINNASTICAQUAL SOGLIONO I CAMPIONNOI SALIVAMCONTRADDIZIONI SUL GIOCO DELLA PALLAPER LI GIUOCATORI DEL PALLONE IN FIRENZE, L'ESTATE DELL'ANNO 1619LA CACCIA A CAVALLOLIBRO DÈ PRIVILEGI, CAPITOLI ET ALTRE MATERIE SPETTANTI ALLI BALE-STRIERI DELLA CITTÀ DI GUBBIOCANTO DI GIUCOLATORI DI SCHIENALETTERA SULLA PALLAMAGLIOCANTO DI GIUCATORI Dl PALLA AL MAGLIODELLA GIOSTRA E ANELLOCANTO DI GIOSTRANTI A CAVALLODELLE BATTAGLIE FINTEDELLE PALESTRE E DE I XISTIORDINAMENTO PER IL TIRO A SEGNO CON LA BALESTRACOMMENTARI DELLE COSE MEMORABILI (Regata sul lago di Bolsena, 1462}DE LA PALESTRACALCIO FIORENTINODELLA DIVERSITÀ CHE C'È FRA LA PALLA SODA E LA PALLA DI VENTOL'UOMO GALLEGGIANTELA GINNASTICAA UN VINCITORE NEL PALLONEGLI AZZURRI E I ROSSIIL CACCIATOREI PROMESS1 SPOSI (Il duello di Lodovico)

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UN PUGNO DI COLORILA GINNASTICA EDUCATIVAER MAESTRO DE NOTOFANCIULLI ALLO STADIOTREDICESIMA PARTITASQUADRA PAESANATRE MOMENTIIL GIRO D'ITALIANUOTARE NELLA SPADAI CRUISERI DUECENTOPALIOA CHICKA JAMESIL PALIOBIKILARUGHE IN VOLTO GIOVANILEDALL'ALTO GIÙ PER LA CHINA RIPIDORINGSPORT IO TI CHIAMO FRATELLOLA PALLASUL CAMPO APERTOIL MESSIA VESTITO D'ATLETACONCENTRAZIONEIL DECATLETALA SUBL'ARBITROSTADIOI TUFFATORIMEZZOFONDOINCONTRO DI PUGILATOFRAMMENTOBUFFALO (gara di Stayers in un velodromo)IL CALCIOLA CARRIERA DI PIMLICOA LORENZO BANDINI

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MA SE QUALCUNO...Ma se qualcun dei piedi nel cimento consegua la palma,O nel quinquerzio, ove di Zeus è il tempioIn Olimpia là sopra le correnti del Pisa, o alla lotta,O nella dolorosa arte del pugile,O nella fiera gara che si chiama pancrazio, ei diventaFra i cittadini suoi già più onorevole;E negli agoni ha il dritto di sedere tra i primi là in mostraEd ha le spese dal denaro pubblicoDella città e qualche altro ricco don da potersi riporre.E questo pure coi cavalli acquistano,Non degni essendo, come me; però che miglior della forza,D'uomini e di cavalli è il cor del savio.Ma queste cose a caso veramente si trattano, e ingiustoè preferir la forza al savio intendere.Poiché se anche ci fosse un buon pugil nel popol nostro,O uno buon nella lotta o nel quinquerzio,O nel vigor dei piedi, che più d'ogni altra forza si pregiaQuante son negli agoni opre degli uomini,Non perciò meglio fora la città, d'eque leggi fio-rente;E di questo n'avrebbe un piacer piccolo,Se alcuno fosse in gara vincitor sulle rive del Pisa:Poiché lo Stato non di questo impinguiasi.Senofane

CONTRO IL FANATISMO SPORTIVOChiunque invero sia vincitore con il velocepiede o nel pentatlon, dentro il recintodi Zeus, là dove le correnti di Pisa irriganol'olimpica città, o nella lotta,nel pugilato che ammacca o la terribile sfidadel pancrazio, e presso i cittadinifamosissimo ottenga nei giochi un posto egregio,ed a pubbliche spese mantenutoriceva dalla città cimeli in donazione,primo anche coi cavalli, coronatodi successive vittorie, quanto me non è degno.La sapienza supera la forzabruta e gli uomini e i cavilli. Ma ciò, è consideratotroppo a caso, ed anteporre la forzaalla sapienza buona è ingiusto. Infatti non tra il popolochi è bravo pugile o lottatorenel pentatlon, o bravo corridore, sopra tuttiil più degno di lode negli agonitra le umane esibizioni della forza, accrescedella città la stima. Quale miseragioia arrecherebbe a una città la tua vittoriacombattuta sulle sponde di Pisa!Certo, con questa non ingrasseresti i suoi quartieri.Senofane

Dalla PITICA 10" ... felice e degno del canto dei Vati è coluiche, col braccio e con destrezza di piedi

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vincendo riportò i massimi premicon la sua audacia e la sua forza"..…Pindaro

Dalla ISTMICA I…..nelle gare parteciparono a moltissimi agonie ornarono la casa di tripodi,di lebèti e calici d'oro,assaporando vittoriosecorone: chiaro ad essi il valorerisplende negli stadi percorsi ignudie nelle corse oplitiche sonanti di scudi;e così con le mani, tirando con l'astae quando lanciavano i dischi di pietra.Il pentatlo ancora non c'era, ma ad ognigara era imposto un trofeo.Pindaro

Dalla LISISTRATAPresso l'Eurota lancianoqui le fanciulle comepuledre, in gara gli agilipiedi al corso e le chiomesquassan come festantitirsigere Baccanti.E di Leda la proleveneranda conduce le carole.Su, cingi bende al crine, balza come cerbiatta,e a guidare le danze palma a palma si batta.Aristofane

AD ARISTAGORA DI TENEDO PRITANEFiglia di Rea, custode dei pritanei,Estia, sorella di Giove supremoe di Era al suo fianco nel trono,accogli benigna Aristagora nelle sue stanze,benigna accanto allo splendido scettroi suoi compagni devotia te, che reggono Tenedo salda,e di libagioni frequenti onorano te fra gli deiprima e di vittime molte fumanti;e vibrano la lira nel canto;e la legge di Giove ospitalesi esercita in mense perenni.Così valichi in gloria egli il terminedi dodici mesi, con animo illeso.Beato io lo chiamo per il padre Agesilaoe le mirabili membrae l'ardimento nativo.Ma se alcuno gode fortunae vince gli altri in bellezzae negli agoni primeggia provando il vigore,ricordi ch'egli cinge carne mortalee, fine d'ogni vanto, si vestirà di terra.Ma giusto è che la vocedei cittadini si levi in sua lode

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e lo celebri l'arte in dolci canzoni.Sui vicini sedici vittoriesplendide hanno coronatoAristagora e la nobile patrianella lotta e il superbo pancrazio.Pavide le speranze dei genitori stornaronole forze del figlio dai cimenti di Pito e di Olimpia.In fede io credo, se alla Castalia movevae al declivio di Crono dagli alberi ombrosi,godeva un ritorno più bello degli avversari,celebrando la festa che imposeEracle ogni quint'anno, recinta la chiomadi ramoscelli purpurei. Ma fra i mortalivano vanto rimuove taluno dai beni;altri; che abbassa il proprio vigore,sviava da glorie ben sueritraendolo indietro un animo schivo.Ma lieve era in lui riconoscere il sangueantico di Pisandro spartano - che venne d'Amiclecon Oreste guidando egli squadred'Eoli vestite di bronzo -misto dalle rive d'Ismenoalle vene di Melanippo, dell'avo materno.Le antiche virtù per alternevicende, il vigore rinnovano ai cespiti umani.Né senza posa recano le nere zollefrutto né gli alberi voglionoa tutti i ritorni degli anniportare eguale tesoro di fiori odorosima in sorte varia tramutano. Regge il destinocosì la stirpe mortale.Né da Giove segue agli uomini certoIndizio. Pure a grandi imprese ci avventuriamo,ad opere molte mirando, poi che ci tieneincatenate le membra speranza impudente;ma di previdenza s'occultano lontane le fonti.Misura al lucro si ponga;brama d'irrangiungibile è acuta follia.Pindaro

A ERGOTELE IMERESE VINCITORE NELLO STADIO LUNGOTi supplico, figlia di Giove liberatore,difendi Imera gagliarda,salvatrice Fortuna.Tu nel mare governi le navi velocie in terra le subite guerree i consigli del popolo.Ma degli uomini or alteor inabissate, solcandomenzogne vane, rotolano le speranze,né segno certo di cosa venturaalcuno mai sulla terrascoprì per dono d'un dio;è cieco al futuro ogni senno.Molti cadono agli uomini eventi inattesi,ora a ritroso della gioia,

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e altri, sbattuto da crude tempeste,in breve tempo tramutain bene profondo la pena.Figlio di Filanore, a tepari a un gallo guerrierofra i muri di casa,presso il focolare paternoignoto si sfogliava il vantodei piedi veloci,se la discordia che avventa l'uomo sull'uomonon ti rapiva Cnosso tua patria.Ora coronato in Olimpiae a Pito due volte e sull'Istmo,Ergotele, esalti i lavacrifervidi delle Ninfe calcando zolle ormai tue.Pindaro

AD ARISTOMENE DI EGIDA LOTTATORE…..Ma non mi basta ora il tempoa stendere sulla lira e la voce soaveintera la lunga lode,che sazietà non insorga pungente.Ma quanto alle mani mi si offre, la tuaultima gesta, o fanciullo,sulle ali dell'arte mia voli.Ché nella lotta seguendo le orme tu dei fratellidi tua madre non hai svergognatoTeogneto in Olimpiané la vittoria sull'istmodi Clitomaco ardito di membra;ma fama accresci alla stirpe tua dei Meldilidie in te s'avvera l'oscuromotto che il figlio d'Oicleogettava un giorno vedendoin Tebe di sette portefermi nell'armi i figli,quando mossero d'Argo gli Epigoniall'assalto secondo.Mentr'essi combattono, dice:"Riaccende natura nei figliil nobile fuoco dei padri. Vedo sicuro,che agita il drago, maculatosul lucido scudo, Alcmeoneprimo alle porte di Cadmo.Afflitto dalla prima sconfitta,ora s'imbatte in miglioreaugurio Adrasto l'eroe; ma sulla casascende sventura; che solo nel campo dei Danai,raccolte le ossa del figliomorto, per grazia dei numitorna con le schiere illesealle ampie contrade di Abante".Tali cose annunciava AnfiaraoE anch'io lieto ad Alcmeonegetto fronte e nell'inno l'aspergo,ché mio vicino e guardia alcuna ai miei beni

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mi venne incontro, che andavoall'ombelico del mondo famoso nei canti;e tentava le arti profetiche infuse al suo sangue.E tu, Saettatore, che tieniil tempio glorioso che tutti raccoglienelle gole di Pito,là donavi tu la più grandegioia e, prima, nella sua patriagli recasti il premio bramatodel pentatlo nelle tue feste.Propizia, ti prego, sovrano,in ogni impresa cui intendoda te m'arrida armonia.Alla festa che allietano i cantiGiustizia assiste; ma supplicoimmune d'invidia lo sguardo dei numi,Senarce, alle vostre venture.Ché se alcuno raccoglie fortuna senza lunga fatica,a molti appare fra gli stolti un saggio,che con arti di retto consigliomunisca la sua vita.Ma non è questo in pugno degli uomini:un démone lo porge,cbe ora l'uno solleva, ora l'altroabbatte con forza di mani.A Megara hai colto il premioe sul piano di Maratona,e il patrio agone di Erain tre vittorie, Aristomene, hai tu domato.Dall'alto piombavi spietatosu quattro corpi avversari,cui non dava Pito ritornosoave, pari al tuo,né dolce riso suscitava allegrezzaintorno ai reduci presso la madre; maper vicoli obliqui s'appiattano, evitando i nemici,morsi da mala sorte.Ma chi nuova letizia ebbe in dononella grande felicitàsi leva a imprese virilisulle ali della speranza,inteso a più nobili studiche il lucro. In breve ora la gioias'accresce ai mortali;ma rapida al suolo ripiomba;scossa ove attesa fallisca.Creature d'un giorno, che maiè alcuno? che mai non è?Sogno di un'ombra l'uomo.Ma quando piova, donodi Giove, lo splendore,fulgida luce si stende sugli uomini e vita soave.Egina, madre cara,governa in libero corsoquesta città con Giove ed Eaco sovranoe Peleo, Telamone animoso ed Achille.

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Pindaro

da L'ILIADE…..Odesi orrendosotto i colpi il crosciar delle mammelle,e da tutte le membra i1 sudor piove.Il terribile Epèo con improvvisafuria si scaglia all'avversario, e mentrequesti bada a mirar dove ferire,Epèo la guancia gli tempesta in guisa,che il meschin più non regge, e, balenando,con tutto il corpo si rovescia in terra.Qual di Borea al soffiar l'onda sul lidogitta il pesce talvolta, e lo risorbe;tale l'invitto Epèo stese al terrenoil suo rivale, e tosto generosala man gli porse, e il rialzò...Omero

LA CORSA CON IL CARROStavano tutti con le sferze alzateSu gli ardenti destrieri; e, dato il segno,Lentar tutti le briglie, e co' flagelliE co' gridi animaro i generosiCorsier, che ratti si lanciar nel campo,E dal lido spariro in un baleno.Sorge sotto i lor petti alta la polve,Che, di nugolo a guisa o di procella,Si condensa, ed a1 vento abbandonateSvolazzano le giubbe. Or vedi i cocchiRader bassi la terra, ed or sublimiBalzarsi; né perciò perde mai piedeDegli aurighi veruno, e batte a tuttiPer desiderio della palma il core;E in un nembo di polve ognun dà spirtoA' suoi volanti alipedi. VarcataLa meta, e preso i1 rimanente corsoDi ritorno alle mosse, allor rifulseDi ciascun la prodezza, allor si steseNello stadio ogni cocchio.Omero

IL GIOCO DELLA PALLAQuando furono sazie, Nausicaa e le ancellesi tolsero in fretta i veli per giocare alla palla.Cominciò il gioco Nausicaa dalle braccia splendenti.E come Artemide, che lancia i dardi, va per i monti,o sul Taigeto altissimo o su l'Erimanto,a caccia di cervi veloci e di cinghiali;e con lei si dilettano le ninfe delle selve,figlie di Zeus, e ne gioisce in cuore Latona:e tutte son belle; ma lei si riconosce subito,perché su tutte leva il capo e la fronte,così tra le ancelle spiccava la vergine fanciulla,Ma quando già pensava di ritornare a casa,e piegare le belle vesti e aggiogare le mule,

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altra cosa immaginò Atena dagli occhi lucenti:destare Odisseo perché veda la bella fanciulla,che poi lo guidi alla città dei Feaci.Nausicaa intanto lanciò la palla a una compagna,ed ecco le cadde di là dal segno,in un gorgo profondo. Levarono un alto gridoallora le fanciulle, e si svegliò Odisseo.Omero

LA CORSA…quindi trascorsero, l'uno fuggendo, l'altro inseguendoprode chi avanti fuggiva, più prode chi dietro seguivavelocemente, perché non un lombo o una pelle di boveessi correvano -premi che s'usano al correre a piedi-ma per la vita correvano d'Ettore il buon domatore.Come d'intorno alla meta cavalli da corsa, solunghi,corrono al grande galoppo- un bel premio è deposto nel mezzo, tripode o donna -la corsa è in onore d'un morto guerriero,tali fuggirono i due torno torno alle mura tre volte.Omero

Grazie alla gelosia di Era, Eracle verrà chiamato in questo modo, visto che prima il suo nome era Triselenos (tre lune!). Le doti del nascituro non tardarono a manifestarsi:Eracle aveva dieci mesi e IficleUna sola notte di meno. Alcmena una sera, dopo averli lavati e allattati,nello scudo di bronzo li mette a dormire,e carezzando le loro testine ricciute,così dice: “dormite, piccini, un sonnosoave, ma poi risvegliatevi. Dormite”.Ma la perfida Era, nel profondo della notte chiama due orribili mostri,due neri serpenti dalle orride spire,e li spinge a passare sotto la soglia.Già sono giunti presso i figli dormienti,già le loro lingue vibrano vicino alle gote,quando ecco che i bambini si svegliano!Ificle, con i piedi scalcia la copertaE cerca di fuggire, Eracle invece, cheMai non piangeva, tende le mani e afferraI due serpenti in una morsa d’acciaio.Teocrito, Idilli, XXIV

“Non m’implorare pei miei ginocchi, pei miei genitori. Così potessi il cruccio sfogare e la furia, sbranando E divorando, a farne vendetta, le crude tue carni,Come non c'è nessuno che possa dai cani salvareIl corpo tuo neppure se dieci, se venti riscattiDinanzi qui venissero a pormi, con altre promesse.Né porsi a peso d'oro volesse pagarne il tuo corpo,Priamo, neppure allora potrebbe deporti sul letto,potrebbe lagrimarti la madre che t’ha partorito;Cani ed uccelli, a brani dovranno cibar le tue membra”.Omero, Iliade, XXII canto, vv. 344.358

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“.Allora in Pisa raccolte le schiere tutte e le prede, il figlio gagliardo di Zeus al Padre massimo dedica sacro il terreno; cinta la radura dell'Altis, diede la piana intornodelle mense al ristoro, onorando il corso d'Alfeo tra dodici numi sovrani; e il clivo chiamò di Crono, ché prima senza nome, regnando Enomao, sotto la spessa neve affondava. Assistevano a quel primo rito le Moire e chi solo prova infallibile la verità il Tempo. E avanzando fedele trasmise come Eracle, scelte le spoglie di guerra, sacrificò le primizie e fondò, che tornasse al quint'anno la festa con la prima olimpiade e i premi dei vincitori. Ma chi la novella corona fregiò per valore di mani, di piedi e di carri? Chi, posto nella fama del vanto degli agoni, lo rapì con l’opera? Trionfò nello stadio, correndo diritto, Eono, il virgulto di Licinnio, che venne da Midea con le sue schiere; e nella lotta Echemo, gloriando Tegea. Toccò la palma fra i pugili Dòriclo, che aveva le case in Tirinto; e sulla quadriga Samo di Mantinea, cui fu padre Alirrozio; colpì Fràstore il segno con l'asta; rotando la mano scagliava Niceo la pietra lontano oltre tutti, e i compagni levarono grande clamore. E irradiò la sera dalla pupilla della luna un amabile lume. E il sacro bosco risonava nei lieti festini di encomi...”. Pindaro, Olimpiche X

Alcinoo, re dei Feaci, indice delle gare sportive per dimostrare a Ulisse e la valenza del proprio popolo.“(…) usciamo adesso, e prova facciamogli tutte le gare Perché l’ospite (ndr. si riferisce a Odisseo) possa, e tornato alla terra materna,Dire agli amici quanto più validi siamo d’ogni gentenell'arte della lotta, nei pugni, nel salto, nel corso”.Detto così, per primo si mosse; e seguirono gli altri.E via dalla parete spiccata la cetera arguta, prese l'araldo per mano Demòdoco, e fuori dalla stanzalo addusse, E la guidò per quella medesima viaChe pur gli altri Feaci battean, per mirare gli agoni.Givano verso la piazza, seguì la gran turba di gente,mille e poi; e molti dei giovani sursero a gara. Vettadinave surse, con Rattopermare, e Pilota

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Reggilapoppa,Nocchiero,Marittimo, Mastrodiremo,Guidalaprora, Marino, Veloce, Salpasubarca,Giraperlonda, figliuolo di Roccodinavi, e nipoteD’Artefice; ed Eurialo, simile a Marte nel voltoDopo Laomedonte il più bello fra tutti i Feaci.Tre figli sursero anche d’Alcinoo immune da pecca:Laomedonte, Marino, con Inclitonave divino.Essi per prima gara tentarono la prova del corso.Stendeasi dalle mosse la lizza. Balzarono insiemeTutti velocemente, di polvere empiendo la piana.Inclitonave fu fra tutti primissimo al corso.Quanta maggese dissoda d’un fiato una coppia di muli,tanto egli innanzi corse che gli altri rimasero indietro.Poscia le forze ne l’arduo cimento provar della lotta:e si distinse Eurialo in questo fra tutti il migliore.Giraperlonda fu più valente di tutti nel salto,nel disco si mostrò più forte di tutti Pilota,Laodamante, figliuolo di Alcinoo, nel pugile agone”. VIII Canto dell’Odissea, versi 130-175.

Descrizione di una olimpiade(IV sec. A. C)- Primo giorno, Olympia si riempie di atleti, allenatori, filosofi, politici, vincitori di precedenti olimpiadi, spettatori. Due giorni prima erano arrivati i giudici attraverso la via sacra. Le cerimonie iniziavano con il giuramento degli atleti davanti all'altare di Zeus; si suddividevano quindi gli atleti per età e a seconda delle gare; il pomeriggio veniva pubblicata una lista col nome degli atleti e le rispettive gare. Avevano inizio le gare riservate agli annunziatori e ai trombettieri dell'olimpiade e dei vincitori. Il giorno terminava con preghiere e sacrifici agli dei.- Secondo giorno: col sorgere del sole, si riempiva lo stadio di folla ed entrava la giuria, vicino all'altare sedeva la sacerdotessa della dea Dimitra. Il trombettiere dava inizio alle gare. Il giudice responsabile suddivideva gli atleti, a sorte, in batterie per le gare eliminatorie; quando il vincitore della finale tagliava il traguardo, i suoi concittadini lo portavano in trionfo percorrendo tutto lo stadio. Si continuava poicon la lotta dei giovani e il pugilato con le mani fasciate con striscie di pelle di bue. Al tramonto i vincitori venivano festeggiati fino a tarda notte.- Terzo giorno: dedicato al pentathlon e alle ippodromie (ogni ippodromia era 10 volte il giro dell'ippodromo: 10x1770 m=17.700 m). Alla curva dell'ippodromo era stato costruito un altare dedicato al dio Taraxippo (era lui che faceva perdere il controllo dei cavalli). Più pericolose erano le corse con i carri. Dopo mezzogiorno, terminate le gare dell'ippodromo, la folla si recava allo stadio dove iniziavano le gare di pentathlon, la più difficile e completa tra le gare olimpiche. Ogni atleta doveva partecipare a: salto in alto, lancio del disco, corsa sullo stadio, lancio del giavellotto, lotta.- Quarto giorno: è il giorno sacro: la mattinata comincia con le celebrazioni all'altare di Zeus a cui partecipavano tutti i rappresentanti delle città-stato, quindi si fanno le offerte dei privati agli dei. Successivamente si effettuano le gare di lotta e di pugilato degli adulti e il pancrazio; si hanno inoltre le gare di corsa degli armati. I vincitori camminano in mezzo alla folla che lancia fiori e foglie.- Quinto giorno: è quello della chiusura ufficiale nel quale vengono fatti sacrifici agli dei e i vincitori vengono cinti con corona di ulivo (tagliate da un albero sacro da un fanciullo che avesse i genitori ancora in vita). Si trattava di un giorno di festa con balli, canti e inni. L'olimpiade era terminata.

CONSIGLI PRIMA DELLA GARAI tuoi maestri,giovane ancora, t'erudir di tuttal'arte equestre; perciò poco fia d'uopod'ammaestrarti, perocché sai destrogirar la meta: ma son tardi al corsoi tuoi destrieri, e qualche danno io temo.Destrier più ratti han gli altri, ma non artee scienza maggior. Dunque, o mio caro,

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tutti richiama al cor gli accorgimenti,se vuoi che il premio da tue man non sfugga.L'arte più che la forza, al fabbro è buona ;coll'arte, in mar, da venti combattuto,regge il pilota la sua presta nave,e coll'arte il nocchier passa il nocchiero.Chi sol del cocchio e dè corsier si fida,qua e là s'aggira senza senno; incertidivagano i cavalli, ed ei non puotepiù governarli. Ma l'esperto auriga,benché meno valenti i suoi sospinga,sempre ha l'occhio alla meta, e volta stretto,e sa come allentar, sa come a tempocon fermi polsi rattener le briglie,ed osserva il rival che lo precede.Or la meta, perché tu senza errorela distingua, dirò. Sorge da terra,alto sei piedi un tronco di lariceo di quercia che sia, secco e da pioggianon putrefatto ancor. Stan quinci e quindi,dove sbocca la via, due bianche pietre,da cui si stende tutto piano in girodè cavalli lo stadio. O che sepolcroquesto si fosse d'un illustre estinto,o confin posto dalla prisca gente,meta a1 corso lo fece oggi il Pelide,Tu fa' di rasentarla, e vi sospingialcun poco piegando alla sinistravicin vicino il cocchio e i corridori,la persona, e flagella e incalza e sgridail cavallo alla dritta, e gli abbandonatutta la briglia, e fa' che l'altro intantorada la meta, si che paia il mozzodella ruota volubile toccarla;ma vedi, vè, che non la tocchi; infranton'andrebbe il carro, offesi i corridori,e tu deriso e di disnor coperto.Sii dunque saggio e cauto. Ove la metatrascorrer netto ti riesca, alcunonon fia che poi t'aggiunga e ti trapassi,no, s'anco a tergo ti venisse a voloquel d'Adrasto corsier, nato d'un Dio,il veloce Arione; o quei famosiche qui Laomedonte un dì nutria.Omero

AD AUTOMEDE DI FLIUNTE VINCITORE NEL PENTATLO NEI GIUOCHI NEMEIDate alla parola un aspetto seducente, voi, o Grazie dai fusi d'oro, e il divino interprete delle Muse dalle brune ciglia, pronto a celebrare Fliunte e il verdeg-giante piano di Zeus Nemeo, dove la dea dalle bianche braccia, Hera, allevò ad Heraklea, per la prima delle sue decantate fatiche, lo sterminatore degli armenti, il leone dalla cupa voce.Ivi appunto gli eroi dalle candide armature, il fiore degli Argivi, istituirono il primissimo agone in onore di Archemoros a cui un immane dragone dagli occhi di fiamma diede le morte, presagio di futuro eccidio. O molteplice potere del destini! il figlio d'Oicleus non riusciva a persuaderli di ritornare alle ben popolate vie della patria. La speranza sottrae agli uomini il senno; essa che allora spingeva il Talaionide Adrasto contro

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Tebe, al fianco di Polinice domatore di cavalli. Dopo quelle gloriose gare di Nemea, celebrati sono al mondo coloro che con la corona biennale cingano la bionda chioma.Ad Automede vincitore diede ora il cielo questo vanto; poiché fra pentatli brillava egli a quel modo che la luna splendente vince i chiarori delle stelle nella notte di mezzo mese.Tale per tutte l'immensa cerchia degli spettatori Elleni mostrò le mirabili membra nel getto del rotante disco, e quando con la mano al sublime etere lanciava il ramo di sambuco dalle nere foglie, suscitando l'acclamazione del popolo, o negli splendidi movimenti della lotta finale. Con siffatto magnanimo vigore, dopo aver atterrato corpi forniti di gagliarde membra, giunse fino all'Asopo dalla bruna corrente, la cui gloria andò per tutto il mondo. E quelli che possiedono l'estreme terre del Nilo, e quelle che abitano sul ben fluente corso del Termodonte, le guerriere figlie di Area domatore di cavalli, della tua discendenza; o molto invidiato signore dei fiumi, ebbero un saggio, e il suolo di Troia, la città dall'alte porte. Procede per ampio cammino, immensa d'ogni parte, la fama della tua discendenza, delle tue figlie dalle splendide cinture, che gli dei con la fortuna costituirono fondatrici d'inespugnabili piazze. Chi non conosce infatti la ben costruita città di Theba dai bruni riccioli o la rematrice Egina, che, stretta al supremo amplesso di Zeus, partorì l'eroe Eaco... ?Bacchilide

A MELISSO TEBANO VINCITORE COI CAVALLI E NEL PANCRAZIOSe alcuno degli uomini goda fortunao negli agoni famosio in potenza di tesorie nell'animo domi la proterva insolenza,degno è che gusti le lodi dei cittadini.Giove, e le grandi virtùscendono da te sui mortali;ma vive più lunga nei piila felicità; né s'accompagna nel tempouguale agli animi erranti.Premio d'opere insigni, al prode l'inno s'addice,s'addice elevarlo su splendide grazienel corteo della festa.È toccato a Melisso il favoredei duplici agoni, che volga il cuore a dolce letizia,poi che nelle balze dell'Istmocorone lo cinsero, e nella convalledel leone dal petto profondo esaltava egli Tebetrionfando pei cavalli nel corsoné svergogna l'innata virtù dei maggiori.La gloria antica nei carridi Cleonimo è insigne;e per vene materne legati ai Labdàcidinel fasto incedevano tra le fatiche delle quadrighe.Ma, rotolando i giorni, il tempo mutavagli eventi: invulnerabili solo i figli dei numi.Pindaro

AI DIOSCURILasciate l'Olimpo,audaci figli di Zeus e di Leda,e con animo a noi propizio apparite,o Castore e Polluce,che la terra e i maricorrete su rapidi cavalli.A voi è facile salvare i navigantida pietosa morte, saltando da lontanosull'alto delle navi folte di rematori:

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girando luminosi all'avversanotte intorno alle gomene, portateluce alla nave nera.Alceo

A TIMOTEO ACARNESE VINCITORE NEL PANCRAZIODonde usano ordirei cantori omeridi la trama alle gesta,da un preludio al Cronide,anche Timodemo ha coltoprima nel bosco di Giove Nemeo famoso negl'inniil fondamento alle sue vittorie nei sacri agoni.E anche dovrà, se il tempo per dritto camminolo pose sulle orme degli avi,fregio alla grande Atene,sovente falciare il bellissimo fioredelle gare sull'Istmo e di Pito,il figlio di Timonoo. Né maiconviene ruoti lontanodalle montane Pleiadi Orione.E Salamina valea nutrire guerrieri: in IlioEttore udiva Ajace.E te la forza, o Timodémo,animosa nel pancrazio esalta.E Acarne per antica famaè terra di prodi. E nei giochii Timodemidi si vantano primi.Presso il Parnaso che domina d'altotrassero quattro vittorie;e i giudici corinziinelle valli di Pelope insigneli cinsero d'otto corone;e sette a Nemea - le patrievincono ogni numero -nell'agone di Giove.E Lui celebrate, voi cittadini,col glorioso ritorno, a Timodemo.L'inno intonate con voce soave.Pindaro

L'ATLETA SPARTANONé di Messene né d'Argo sono io lottatore; ma Sparta,Sparta a me, gloriosa d'uomini forti, è patria.Quegli altri sanno giocare d'astuzia; io, come si addicea figli di Spartani, vinco con la mia forza.Damageto

IL PUGILE PITAGORAIo quel Pitagora sono, o straniero, ricordi i1 chiomatopugile, quel famoso Pitagota di Samo.Sono Pitagora; e a quanti dell'Elide chiedi le miegesta, dirai che narrano incredibili cose.Teeteto

DALL'ODE XII

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Di Alcide io parli e dei figli di Leda,nel pugilato e nell'ippica nobilicampioni; che in albana stella apparsial marinaio,la spuma, a tanto influsso, dagli scoglisi ritira e i venti cadono e fuggonole nubi, e minacciosa si richiudel'onda del mare.Orazio

CANOTTAGGIOQui d'un elce frondoso il segno poseIl padre Enea, fin dove il corso avantiStender pria si dovesse, e poi dar volta.Indi, sortiti i lochi, a1 suo ciascunoSi pose in fila. I capitani in poppa,Addobbati di bisso e d'ostro e d'oro,Risplendean di lontano; e gli altri tutti,D'una livrea di pioppo incoronati,Stavano con le terga ignudi ed unti,Si che tra l'olio e '1 sol lumiere e specchiParean da lunge. E già nè banchi assisi,Tese a' remi le braccia, al suon l'orecchie,Aspettavano il segno. I cori intantoPalpitando movea disìo d'onoreE timor di vergogna. Avea la trombaSquillato appena, che in un tempo i remiSi tuffar tutti, e tutti i legni insiemeSi spiccar da le mosse. I gridi al cieloN'andar de' marinai. Il mar di schiumaS'asperse intorno, e 'n quattro solchi egualiFu con molto stridor da' rostri, apertoE da' remi stracciato. Impeto pariNon fer nel circo mai bighe e quadrigheDa le carceri uscendo, allor ch'a sciolteEd ondeggianti redini gli aurighiAi volanti destrier sferzan le terga.Le grida, il plauso, il fremito e le voci,In favore or di questi ed or di quelli,Tra i curvi liti avvolte e da le selveE da' colli riprese e ripercosse,Facean l'aria intonar fino a le stelle.Virgilio

LA GARA DELL'ARCOImmantinente Enea l'altra contesaPropon de l'arco, e i suoi premi dichiara.Ma l'albero condur pria de la naveFa di Sergesto, e ne l'arena il pianta:Suvvi una fune, e ne la fune appendeUna viva Colomba e per bersaglio.La pon dè le saette e degli arcieri.Fersi i più chiari avanti e i nomi loroDel fondo si cavar d'un elmo a sorte.Uscìo primiero Ippocoonte; il figlioD'Irtaco generoso, a cui con lieto

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Grido la gente applause. A lui secondoFu Memmo, che pur dianzi il pregio ottenneDel naval corso: e Memmo, sì com'era;Di verde oliva incoronato apparve.Apparve Eurizio il terzo; ed era questiMinor, ma ben di te degno fratelloPandaro glorioso, che dè TeucriRompesti i patti e saettasti in mezzoA l'oste greca il gran campione argivo.Ultimo si restò de l'elmo in fondoIl vecchio Aceste, che sì vecchio anch'egliArdì di porsi a giovanil contrasto;Tesero gli archi e trasser le quadrellaDe le faretre. A tutti gli altri avantiDi Irtaco il figlio a saettare accinto.Col suon de1 nervo e del pennuto straleL'aura percosse e si dritto fendellaChe l'albero investì. Tremonne il legno,Spaventossi l'augello, e d'alte gridaRisonò il campo e la riviera tutta.Memmo vien dopo, e pon la mira, e scocca:E 'l misero fra' piè colpisce appuntoln su la corda, e ne recide il nodo.Libera la colomba a volo alzossi,E per lo ciel veloce a fuggir diessi.Eurizio allor, ch'avea già l'arco tesoE la cocca in sul nervo, al suo fratelloVoltossi e trasse; e ne le nubi stesse,(Si come lieta se ne giva e sciolta),La ferì si che con lo strale a terraCadde trafitta e lasciò l'alma in cielo.Sol vi restava Aceste, a cui la palmaEra già tolta; ond'ei scoccò ne l'altoLo strale a volo e la destrezza e l'arteMostrò nel gesto e nel sonar de l'arco.Virgilio

GLI ESERCIZI DEL CORPO E QUELLI DELLO SPIRITO (Lettere a Lucilio)Oggi posso dedicarmi a me stesso, e non solo per merito mio, ma anche grazie allo spettacolo, che ha richiamato tutti gli importuni ad assistere al pugilato con palle di ferro.Nessuno irromperà nella mia casa, nessuno disturberà le mie meditazioni, a cui appunto tale sicurezza permette di procedere più speditamente. Non si bussa di continuo alla porta, la tenda non sarà sollevata: mi sarà possibile andare da solo, cosa parti-colarmente necessaria a chi va per conto proprio e segue una strada sua.Dunque io non seguo le orme di quelli che mi han preceduto? Si, le seguo; ma mi permetto la libertà di scoprire qualcosa di nuovo e di mutare questo e di tralasciare quello: non sono di fronte ad essi in un atteggiamento di servile sottomissione, pur approvandone i principi fondamentali. Tuttavia mi sono spinto troppo innanzi, allorché ho detto che mi attendevano il silenzio e la solitudine senza alcun disturbatore: ecco che dallo stadio mi giungono agli orecchi forti grida, le quali non mi tolgono dal mio raccoglimento, ma mi inducono a fare un confronto di questo genere.Penso tra me quanti sono quelli che esercitano il corpo e quanto pochi quelli che esercitano lo spirito; quanta gente accorre ad assistere ad uno spettacolo inutile e vano, in che abbandono siano lasciate le attività spirituali; quanto sia debole l'intelletto di quelli le cui braccia e spalle eccitano tanto la nostra ammirazione. In modo particolare mi fermo su questa riflessione: se il corpo mediante l'esercizio può diventare così resistente, da tollerare del pari e pugni e calci di parecchi uomini, e permettere ad una persona di passare il giorno sotto la vampa del sole e sopra l'area ardente e bagnata del suo sangue: quanto più facilmente l'animo

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potrebbe rinvigorirsi, così da non lasciarsi piegare dai colpi della fortuna e tosto risollevarsi appena abbattuto e calpestato. Infatti il corpo abbisogna di molte cose, per essere forte: l'animo cresce da sé, si alimenta, si esercita. Molto cibo, molta bevanda, molto olio, infine una lunga fatica sono necessari agli atleti: la virtù invece l'otterrai senza alcuna preparazione e senza spesa. Tutto ciò che può renderti buono è dentro di te.Seneca

CON LO SPORT CONQUISTERAI IL TUO FANCIULLOÈ prepotente il tuo fanciullo? Ebbene favoriscilo;più sovente, nel cedere, la spunterà l'amore.Tu, anche se spacca il solleone gli assetati campie la gita pare lunghissima, non rinunciare;accompagnalo sotto il cielo coperto da un mantellocupo, mentre la, nube tiene l'imminente pioggia.Se lui vuol darsi al canottaggio sopra l'onde azzurre,tu spingi col remo pei i flutti il legno leggero.Di buon umore addossati dure fatiche, e il lavoroin cui è principiante incallisca le tue palme.Se con il roccolo vuol chiudere alte valli; accetta,per piacergli, di portare le reti sulle spalle.Se ama schermire, tira con una mano delicata,e perché vinca, offrigli spesso il tuo fianco nudo.Diventerà di miele: allora cogli i suoi soavibaci. Lotterà, ma ne darà di buoni, rubatiprima, e poi spontanei concessi al supplicante;vedrai, in fondo sarà lui che vuol saltarti al collo.Tibullo

IN LODE DI UNA LIBERA EDUCAZIONELe molte leggi della tua palestra io ammiro, oh Sparta,ma sopra tutto il ginnasio delle verginiche l'esercizio del corpo non infama e dove nudasta la fanciulla tra i maschi lottatori.La palla spinta dalle braccia rapida vola e giranella mazza adunca il sibilante cerchio,e sul traguardo impolverata la femmina s'arrestae sopporta i colpi duri del pancrazio.Ora al braccio divertito allaccia il cesto e ora ruotaper scagliarlo il pesante diaco, dà suonoalla pista col cavallo, cinge con la spada il niveofianco e col bronzeo casco copre i1 virgineocapo; così nell'acque del Termodonte si bagnavala truppa dell'Amazzoni, il petto nudo.Con i capelli rugiadosi sugli alti declividel Taigeto insegue i patrii cani; comesulla spiaggia d'Eurota, fra Caetore e Polluce (quellopugile campione e questo coi futuricavalli) Elena armata mostrava le mammelle nudesenza rossore ai suoi fratelli numi.La legge di Sparta vieta dunque agli amanti il mistero .....Properzio

IL GIUOCO DELLA PICCOLA PALLAQuanto per la buona salute giovino gli esercizi, o Epigene, e quanto sia necessario che abbiano importanza più degli stessi alimenti, è stato sufficientemente dimostrato dai più famosi personaggi dell'antichità, sia filosofi che medici: e quanto l'esercizio che si fa con una piccola palla sia più eccellente di tutti gli altri

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nessuno degli antichi ha spiegato abbastanza; per cui è giusto che noi facciamo palese quanto pensiamo su questo argomento.E tu potrai essere giudice dei miei detti più di ogni altro, poiché in modo veramente mirabile lo hai praticato. E, invero, coloro, ai quali tu avrai inviato questo breve commentario, vedranno come in esso sono state dette cose utilissime. E, infatti, come credo, quell'esercizio più di tutti è giovevole, perché non solo non affatica il corpo, ma anche ricrea lo spirito. E certamente quelli che promossero l'inseguimento delle lepri, dei cervi, dei cinghiali e tutte le altre forme di caccia per il piacere, il diletto e il desiderio della lode, furono veramentesapienti e profondi conoscitori della natura umana perché cercarono di alleviare la fatica degli uomini.Tanto, infatti, può il movimento dell'anima che molti, con il solo buon umore, sfuggirono ai morbi, mentre altri per il solo timore, ammalarono. Né esiste un dolore fisico tanto forte da vincere i patemi d'animo.Non bisogna quindi, tenere in poco conto i movimenti di questa, quali che siano, ma bisogna prenderli in considerazione più dei movimenti del corpo: perché, per molte ragioni, l'animo è più nobile del corpo. Il che è cosa comune a tutti gli esercizi, che danno gioia ed altri vantaggi sono propri di quegli esercizi che facciamo con la piccola palla, le quali cose noi ora esporremo. E prima di tutto si nota la facilità. Se, infatti, prenderai in considerazione di quanto preparativo e tempo hanno bisogno sia tutti gli esercizi di caccia, sia quelli che muovono all'inseguimento delle lepri, dei cervi e dei cinghiali con i cani, ed altri di tal genere ti sarà presto manifesto, che, né coloro che sono addetti agli impieghi civili, né i lavoratori possono darsi a tali esercizi; infatti essi richiedono molte cose e un uomo completamente libero. Questo solo, perciò, è possibile, tanto che non ha bisogno nemmeno de1 più piccolo preparativo. Non sono, infatti, necessari, né reti, né armi, né cavalli, né cani da caccia, ma una palla sola e per giunta piccola. E fino a tal punto tieni conto delle altre azioni, che per essa, non siamo costrette ad abbandonare nessuna.E, infatti, che cosa può essere più conveniente di quella che fa accordare il riposo con l'azione? E, invero, noi non abbiamo la possibilità di servirci degli esercizi di caccia: essi, infatti, richiedono ricchezza,per apprestare la fornitura di strumenti, il tempo libero, per le varie occasioni; ma la fornitura di strumenti per l'esercizio della piccola palla è minima e facile, come è stato detto, e l'agio di servirsene spetta ai lavoratori.E la comodità, la quale consiste nella facilità di questo esercizio, è veramente grande, E da ciò potrai benissimo conoscere quanto sia più degli altri salubre: se osserverai la potenza e la natura di ognuno, troverai che le altre muovono le singole parti, o le forti o le deboli o le più inferiori, o le più superiori, o una parte più delle altre, come i fianchi, la testa, le mani o il torace, ma di uno che, invece, muova ugualmente tutte le parti del corpo e possa essere compiuto con grande forza, o possa essere portato al minimo movimento, nessun altro ne troverai, ad eccezione di quella, che prende origine dalla piccola palla: questa, dico, suole essere fatta a piacere, o con molta sveltezza, o con somma lentezza e, come il corpo si sente di poterlo tollerare, diventa o fortissimo o debolissimo. Così, invero, è lecito muovere tutte le parti del corpo, quando sembreràopportuno, o solo alcune parti, quando ciò sembrarà bene.E, infatti, avvicinandosi scambievolmente, affinché colui che sta in mezzo non prenda la palla, si affaticheranno a vietarlo vicendevolmente, e ciò è la cosa più importante e forte, perché è commista a molti movimenti del collo e a molti movimenti da palestra, di modo che la testa e la cervice, con il piegarsi ripetuto del collo dei fianchi, del torace e il ventre vengono affaticati dall'innalzarsi, dall'abbassarsi, dallo spingersi avanti rapido della faccia e dagli altri movimenti da palestra. Con lo stesso genere di esercizio vengono tesi, e molto fortemente i muscoli delle gambe; infatti l'andare avanti a destra e a sinistra, non è piccolo esercizio per le gambe; infine, in verità, c'è questo: tutte le loro particelle sono egualmente mosse. Infatti, mentre andiamo avanti od indietro e ci portiamo a destra o a sinistra, ora sono più affaticati alcuni muscoli e nervi, ora altri. Chi, invece, muove le gambe solo in un senso, allo stesso modo di quelli che corrono senza ragione, non diversamente di coloro che frequentemente le portano di traverso, esercita inegualmente i muscoli.Invece questa esercitazione, con somma eguaglianza, divide il lavoro tra le braccia e le gambe, poiché ogni persona deve ricevere la palla; di qui ne viene che, a seconda dei casi, bisogna tendere fortemente ora alcuni muscoli, ora altri; per cui tutti, lavorando a vicenda, hanno un egual periodo di riposo, poiché, mentre alcuni agiscono, altri sono fermi; e, operando tutti e riposando vicendevolmente, né restando tardi, né lavorando, solo alcuni, vengono presi dalla stanchezza. Inoltre si può osservare come importi esercitare anche gli occhi: infatti vedremo che se qualcuno, verso il quale la palla s'inclina, non se ne sarà accorto in tempo, per cuinon la prende è necessario che questi sia allontanato.Inoltre è necessario seguire la stessa norma riguardo alla sveltezza, sia affinché non la getti inutilmente per terra, sia per impedire che sia raggiunta quando va verso il centro o che la stesse persona la riceva più volte.E, infatti, solo lo sforzo fa stancare il corpo, mentre, invece, il gioco, unito al desiderio della lode, cioè terminando in letizia, molto giova alla buona salute del corpo e all'equilibrio dell'anima.

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Non poco, quindi, gioverà quell'esercizio, che per la sua virtù, può portare giovamento al corpo e all'anima. Ma non è difficile vedere con quali esercizi possano giovarsi sia l'uno che l'altra, poiché di essi, con leggi adatte, i duci dei soldati e i comandanti delle città comandano di fare uso.E, infatti, piombare opportunamente addosso al nemico e, invadendo, tenersi nascosto e diligentemente difendere il territorio e impadronirsi delle cose degli avversari sia con la forza che con impensate aggressioni, difendere, le cose acquistate, è dovere dell'ottimo comandante, e, per dirla più semplicemente il comandante dell'esercito deve essere imperatore, custode e ladro.Questa è la somma di tutta la sua arte. E forse che vi è qualche altra cosa, che sia più adatta di questo esercizio a formare l'uomo, affinché difenda le cose acquistate o rimetta in ordine le cose rovinate o preveda il proposito dell'avversario? Molto mi meraviglierei se qualcuno dicesse di aver trovato qualche altra cosa: infatti molte cose rendono per-fettamente contrari e cioè deboli, sonnolenti e con i sensi non acuiti, poiché tutti quelli che lavorano nella palestra sono spinti più ad irrobustirsi che allo studio della forza, e molti si sono tanto ingrassati da respirare a stento. Uomini di tal fatta non possono servire né all'esercito, né negli affari regi e civili.Piuttosto ai maiali che ad essi qualcuno potrebbe affidare quello che vuole. Forse tu potrai stimare che io approvi la corsa e qualsiasi esercizio che stanchi il corpo, ma ciò non è; io infatti, ritengo che ciò che è immoderato e reca danno debba essere trattato modicamente e, se qualche cosa mancherà di misura, dirò che sia bella.Non loderò la corsa, come quella che stanca il corpo e per niente abitua l'uomo alla fortezza.Infatti non si deve la vittoria a quelli che corrono celermente, ma a quelli che sono capaci di durare nella mischia corpo a corpo. Né corsero celermente gli Spartani, ma, lottando, trucidarono i nemici.E, se mi domanderai se la corsa giovi alla salute, ti dirò che non può ritenersi salubre, perché esercita in modo diverso le parti del corpo.In essa, infatti, necessariamente, alcune parti sono molto affaticate, altre sono in riposo, per cui l'una e l'altra cosa producono germi di malattia e rendono le forze deboli.Quindi piuttosto raccomanderò questo esercizio, il quale è capace di portare buona salute al corpo ed eleganza a tutte le parti e insieme fortezza all'anima, come è quello che consiste nella piccola palla: infatti può giovare all'animo e soprattutto esercita nello stesso modo tutte le parti del corpo, cosa che giova grandemente alla buona salute e porta al giusto equilibrio dell'abito corporeo, poiché non porta né grassezza né magrezza il che è sufficiente e adatto più che le azioni prive di forza e di celerità.Per quanto, adunque, si riferisce alla sveltezza, nessuna cosa è inferiore.E era vediamo quanto si riferisce alla elasticità del corpo: di questa, talvolta, manchiamo o per l'età (la quale, se è giovane, non ancora può sopportare le gravi fatiche, e se è avanzata, non è capace di sostenere fatiche), o perché vogliamo risparmiarci stanchezza, o perché siamo in convalescenza.Il gioco della piccola palla, come mi sembra, è eccellente anche per altre cose; infatti nessun altro è così poco faticoso che potrai farlo senza sforzo, basta, infatti, che in esso tu tenga il luogo di centrale, non ti allontani da nessuna parte (il che richiederebbe leggera fatica), ora procedendo di poco, ora stando nello stesso luogo e, infine, non muovendo le membra. Di poi ti servirai di frizioni di morbido olio e di bagni caldi. Ciò è più delle altre cose rilassante, perciò è utilissimo a quelli che sono affaticati, ed è molto giovevole per richiamare le forze indebolite ed è molto utile al vecchio ed al fanciullo.Le quali cose, invero, sogliono accadere nell'esercizio della piccola palla e, colui che ne conosca la necessità, sempre vorrà farla.E, infatti, se per le necessarie occupazioni dalle quali spesso siamo trattenuti, ti sentirai molto stanche o le parti superiori o le parti inferiori, o le mani o i piedi, ti gioverà un esercizio di tal fatta, nel quale le parti che prima hanno lavorato e le parti che sono state in riposo sono portate ad un eguale movimento.Se qualcuno, infatti, ha bisogno di far riposare le gambe, camminando poco o affatto, getti la palla con grande sforzo, così ferma le parti inferiori muove più fortemente le parti superiori; e se spesso e celermente correrà e con molto intervallo, getterà la palla, affaticherà di più le parti inferiori.Inoltre la velocità e la celerità, che si trovano in questo esercizio, pur essendo tolto un grande sforzo, esercitano maggiormente la respirazione. Per di più, ricevendo la palla e rigettandola senza troppa celerità, maggiormente si fortifica e corrobora il corpo; ma, se vi sarà stato un forte sforzo e una grande velocità, moltissimo saranno affaticati il corpo e la respirazione e questo esercizio potrà considerarsi come il più violento di tutti.Ora è impossibile dire singolarmente per quale uso sia da fare o no questo esercizio, né si può dire in quale quantità giovi a ciascuno; facendolo, tuttavia, si può provocarlo; e in ciò consiste massimamente tutta la sua bontà.

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A nulla, infatti, giova la qualità dove la quantità viene meno. Ciò sarà cura del maestro di gioco che vi sarà a capo.Il resto del nostro discorso si conduca presto a fine: infatti ho in animo di non aggiungere parola per questo esercizio, alle cose belle già dette prima: né ad alcun patto, il che sarebbe non senza pericolo, si. faccia obiezione alle molte cose dette contro gli altri.Intatti le corse troppo celeri hanno rovinato molti per la rottura di vasi: parimenti le grida alte e forti, emesse in poco tempo in sufficienza, non pochi danni arrecano a molti. Quelli, poi, che vanno a cavallo con violenza spesso ebbero rotto qualcosa intorno ai reni e anche nella cassa toracica e molto spesso recarono danno agli organi sessuali.Passo sotto silenzio i delitti dei cavalli: spesso i cavalieri caduti di sella, morirono, alla stessa guisa debbono essere ritenuti il salto, il disco e gli esercizi che si fanno per flessione. Che cosa, poi, può dirsi di quelli che vivono nella palestra? Se non che furono lesi in ogni parte, non meno di quanto dice Omero.Infatti, il poeta, rappresentando le maledizioni, le chiama zoppe, rugose e con gli occhi storti; così vedrai quelli che vivono nelle palestre o zoppi, o storti, abbattuti, o completamente mutilati.Per cui, oltre le buone cose che ho già detto, si aggiunga anche questo all'esercizio della piccola palla: ciò che non presenta alcun pericolo e si presta ad essere da tutti fatto ottimamente.Galeno

ARTE GINNASTICANoi ci siamo proposti di trattare della ginnastica autentica, che, come abbiamo già detto, fa parte della medicina. Dato però che ci sono altri generi di ginnastica imperniati all'incirca sugli stessi elementi, dobbiamo necessariamente parlare anche di questi in modo che risultino ben evidenti le differenze esistenti fra tali generi.Ripetendo quanto abbiamo già detto sopra, affermiamo che esistono tre generi di ginnastica: la ginnasticaautentica o legittima, per dirla con Galeno, quella bellica, e la terza, l'atletica, definita viziosa dallo stesso Galeno.Tutte e tre riguardano grosso modo l'esercitazione del corpo umano; tuttavia differiscono di molto, come anche sopra abbiamo dimostrato, negli scopi per cui ognuna di esse è stata istituita. La ginnastica che è fine a se stessa e che fa parte della scienza medica ha come scopo soltanto che gli uomini con l'aiuto di regolati esercizi acquistino la sanità e la conservino, formando una robusta costituzione.Platone diceva: "La robusta costituzione viene agli uomini non dai molti esercizi, ma dagli esercizi regolati". Poiché già Galeno ha dimostrato abbondantemente e chiaramente che le cose stanno così, e poiché anch'io sopra ho già scritto sull'argomento, non indugerò ulteriormente a parlarne, ma passerò subito a trattare della ginnastica bellica.L'unico scopo di essa era quello di predisporre e addestrare gli uomini, i fanciulli, e anche, presso alcuni popoli, le, donne, mediante gli stessi esercizi, in modo che si comportassero da forti in guerra, respingessero il nemico, proteggessero la patria, e insomma si mantenessero nella migliore efficienza bellica. Sebbene anche questo genere di ginnastica, come la precedente, miri a una robusta costituzione fisica e a salvaguardare in qualche modo la sanità, tuttavia, per il fatto che essa si proponeva soprattutto di rendere gli uomini forti e adatti ad affrontare le guerre, appare abbastanza chiaro che non è uguale alla precedente. Per dimostrare che la ginnastica bellica non ha alcun altro carattere diverso da quello che ho sopra esposto, porterò in campo l'autorità della testimonianza di Platone, il quale nel VII libro delle Leggi, dopo aver dimostrato che in ogni Stato l'educazione dei giovani e dei fanciulli deve avere una parte preminente, stabilisce che devono esserci pubblici maestri di ginnastica per i fanciulli, le fanciulle e le giovani, perché non esiste cosa alcuna che meglio della ginnastica palestrica e saltatoria addestri alla capacità militare; e lo stesso concetto, anche in forma più elegante, ribadisce nel terzo libro della Repubblica e altrove. Dopo Platone similmente Aristotele parla espressamente della ginnastica bellica nell'VIII libro della Politica, quando biasima tanto quelle città che tendono a deformare con l'esercizio atletico i corpi dei giovani impedendone lo sviluppo, quanto gli Spartani che miravano ed imbaldanzire i giovani mediante la fatica, e raccomanda di insegnare ai giovanetti quella ginnastica che con minore sforzo e con esercizi più moderati sia in grado di renderli robusti e al tempo stesso atti alle operazioni belliche.Non mi consta che Galeno abbia espressamen-te trattato questo genere di ginnastica, a meno che non vogliamo intenderla compresa nella trattazione della ginnastica legittima, dato che anch'essa atten-dealla creazione di una robusta costituzione fisica pur indirizzando ogni suo sforzo all'acquisto del-l'addestramento e dell'attitudine militare: tanto più che coloro i quali coltivano la ginnastica medica, sono in grado di praticare anche, all'occorrenza, la ginnastica bellica. Tra i Latini Vegezio nei suoi libri Sull'Arte

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Militare ha abbondantemente discusso quanto giovi alla milizia questo genere di ginnastica, in qual modo si debba apprendere e come sia da praticare. Non c'è dunque alcun dubbio che questo genere di ginnastica fu tenuto in grande considerazione sia presso i Greci che presso i Latini.Oltre ai due generi suddetti, esiste anche un terzo genere di ginnastica, quella viziosa, detta da Galeno atletica, che mirava a rendere robusti gli uomini (quali furono Milone di Crotone, e quell'atleta del quale Olimpiodoro scrisse che era solito polverizzare il terreno), per abilitarli a vincere le gare e ad ottenere i premi e le corone. Trovo peraltro che presso gli antichi scrittori tale genere di ginnastica viene indicato con nomi diversi: i Greci la chiamano ora agonistica, ora agone sacro, ora atletica, ora ginnica; i Latini, a, volte certame ginnico, a volte certame sacro, a volte ludi, o ludi ginnici, a volte anche arte atletica.Quando gare di tal genere venivano celebrate in onore di qualche divinità, erano chiamate o sacri certami o agoni sacri: e trovo che gli atleti che vi partecipavano erano denominati talvolta atleti di sacri certami come si può vedere in Senofonte, nei Memorabili di Socrate: "Come gli atleti degli agoni ginnici che facilmente primeggiano, disprezzano ogni esercizio". Invece si chiamavano con altri nomi, quando tali gare si svolgevano negli anfiteatri e nei circhi per il diletto del popolo, oppure nei ginnasii o in altri luoghi pubblici a solo scopo di esercizio. Comunque secondo l'opinione di Giulio Polluce, tutti i partecipanti a gare siffatte furono indicati con il comune nome di atleti: nome derivato o dal fine per il quale operavano, cioè il premio, detto con parola greca "athlon", oppure "athlos", cioè gara.Girolamo Mercuriale

QUAL SOGLIONO I CAMPIONQual sogliono i campion far nudi e unti,avvisando lor presa e lor vantaggio,prima che sian tra lor battuti e punti......Dante Alighieri

NOI SALIVAMNoi salivam per una pietra fessaChe si moveva d'una e d'altra parte,Si come l'onda che fugge e s'appressa.Qui si convien usare un poco d'arte,Cominciò il Duca mio, in accostarsiOr quinci or quindi al lato che si parte.E questo fece i nostri passi scarsiTanto, che pria lo scemo della lunaRigiunse al letto suo per ricorcarsi,Che noi fossimo fuor di quella cruna.Lo Duca a me si volse con quel piglioDolce ch'io vidi in prima appiè del monte.Le braccia aperse, dopo alcun consiglioEletto seco, riguardando primaBen la ruina, e diedemi di piglio.E come quel che adopra ed istima,Che sempre par che innanzi si proveggia,Così, levando me su ver la cimaD'un ronchione, avvisava un'altra scheggiaDicendo: Sovra quella poi t'aggrappa:Ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia.Non era via da vestito di cappa,Che noi a pena, ei lieve, ed io sospinto,Potevan su montar di chiappa in chiappa.Dante Alighieri

CONTRADDIZIONI SUL GIOCO DELLA PALLAGaudio: Lo gioco della palla ancora mi diletta.Ratio: Ecco un'altra giulleria di gridare e di saltare.

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Gaudio: Volentieri gioco alla palla.Ratio: Come veggo, lo riposo v'è in odio; da ogni parte voi cercate fatica: volesse Iddio ch'ella fosse fatica convenevole e debita. Imperò che [se] questo gioco si cerca per esercizio corporale, priegoti che tu mi dica; se questa furiosa palla nella quale non si può pensare alcuna cosa buona, e l'andare più pianamente e riposatamente ti dà più lieto e onesto esercizio; nel quale andare tranquillo lo movimento delle membra è utile, e l'esercizio dello ingegno è onesto.Lo quale costume alcuni filosofi feciono si loro proprio, che quinci una setta famosissima prese il nome.Or vuoi tu piuttosto seguitare Dionisio tiranno di Saragoza [Siracusa], che Aristotile di Stagira?Quando noi leggiamo, che come Aristotile fu usato di pigliare diletto dell'andare studiosamente, così Dionisio si dilettò di questo gioco turbolento?Benché il diletto di questo gioco abbi alcuna volta a sé uomini Quinto Muzio Scevola, quello grande indivinatore per augurio gentilissimamente fece ciò; e Ottaviano imperadore, dopo la fine delle battaglie civili, si dilettò del gioco della palla in scambio degli esercizi della guerra; e Marco Aurelio Antonio infino da puerizia giucoe alla palla; come di lui si trova scritto. Nientedimeno benché Scevola fosse saputissimo di ragione divina e umana; e benché Ottaviano e Antonio fossono savissimi e ottimi principi e Signori; non però mi piace questo gioco strabocchevole e clamoroso.Imperò che 'n si conviene a uomo virtuoso, qualunque, troppo grande movimento corporale, spezialmente s'egli è mescolato con gridare.Francesco Petrarca

PER LI GIUOCATORI DEL PALLONE IN FIRENZE, L'ESTATE DELL'ANNO 1619Melpomene, di fior sparsa le gote,E di neve il bel seno,Sull'Argivo terrenogià si te giuoco di volubil rote,E per lo campo Eleo forti cursoriGià travagliaro il piede,E corona si diedeAllo studio gentil de' lor sudori:Certo a ragion; perché virtù s'avanza,Ov'ella di mercé prende speranza.Ora sull'Arno a Gioventù, che spandeSudore in giuochi egregi,Melpomene, quai fregi,Deh dimmi, e quali si daran ghirlande?Io così dissi, ed ella indi rispose:Porgi gli orecchi attenti;Io con giocondi accentiCose dirotti al vulgo vil nascose:Poi sulla cetra d'or la bella DivaRosate labbra a queste note apriva:Tempo già fu, che per li monti errante,E per le Frigie selveGuerreggiator di belve,Un rapido garzon movea le piante,Ben largo il petto, ed allenato il fianco,Bruni gli sguardi e vivi,E per li campi estiviTinti alquanto gli avorj, ond'era biancoIl nobil volto, ed avea d'or le chiome,Acero per ciascun chiamato a nome.Per sua beltà nelle foreste d'IdaCento Ninfe penaro,Ma d'incendio più chiaroArse le vene, e si distrusse Elvida;Né fu scarsa di pianti e di lamenti;

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Anzi preghiere offerse:Ma pur tutte disperseQuell'indurato cor lasciolle ai venti;Ond'ella al fin del Cacciator crudeleFece con Berecintia aspre querele:Poiché il soave fin de' miei desiriIn tutto si dispera,E con un cor di feraPerdono suo valor pene e martiri;Veggane almen vendetta, alma Cibelle,Se mai per Ati ardesti,I tuoi furor sian presti,Per me fedele infra tue note ancelle;Flagella tu lo smisurato orgoglio,E verrà meno acerbo il mio cordoglioCosi diss'ella, e giù dal viso adornoCaldi pianti disciolse,E Cibelle raccolseL'afflitte voci, e vendicolla. Un giornoAcero in selva dava caccia ad orsoTerribile e feroce,Ed ecco il piè velocePiantasi in terra, e gli vien meno il corsoE verdi rami gli si fer le braccia,E rozza scorza gli adombrò la faccia.Or di tal pianta, e che tra voi già nacqueD'uom forte e sì robusto,Par che fregiar sia giustoI vostri Atleti, e qui sorrise, e tacque;Ond'io trascorrerò con le man prontePer la selvaggia sponda,E della bella fronda,Giovani altier, v'adornerò la fronte,Poiché del tronco istesso anco guernitoIl nudo braccio, ove a contesa uscite;Con picciol premio lusingando onoraLa mortale faticaClio, che di cetre amica,Sulle piagge Febee fa sua dimora;Ma Cosrno, la cui, luce alma rischiaraD'Italia i bei sembianti,I cui fulgidi vantiAnco l'invidia a riverire impara,Di cui poggiano al ciel pensieri e voglieLargo dell'oro arricchirà le foglie.Gabriello Chiabrera

LA CACCIA A CAVALLOL'ardito Iulio al giorno ancora acerboallor ch'al tufo torna la civetta,fatto frenare il corridor superbo,verso la selva con sua gente elettaprese il cammino (e sotto buon riserboseguia de' fedel can la schiera stretta);di ciò che fa mestieri a caccia adorni,con archi e lacci e spiedi e dardi e corni.

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Gia circundata avea la lieta schierail folto bosco; e già con grave orroredel suo covil si destava ogni fera;givan seguendo è bracchi il lungo odore.Ogni varco da lacci e can chiuso era:di stormir, d'abbaiar cresce il romore:di fischi e bussi tutto el bosco suona:del rimbombar de' corni il ciel rintruona.Con tal romor, qualor l'aer discorda,di Giove il foco d'alta nube piomba;con tal tumulto, onde la gente assorda,dall'alte cateratte i1 Nil rimbomba.Con tal orror del latin sangue ingordasonò Megera la tartarea tromba.Quale animal di stizza par si roda;qual serra al ventre la tremante coda.Spargesi tutta la bella campagna,altri alle reti, altri alla via più stretta.Chi serba in coppia i can, chi gli scompagna;chi già'1 suo ammette, chi 'l richiama e alletta.Chi sprona il buon destrier per la campagna:chi l'adirata fera armato aspetta:chi si sta sopra un ramo a buon riguardo:chi in man lo spiede e chi s'acconcia il dardo.Già le setole arriccia e arruota i dentiel porco entro il burron; già d'una grottaspunta giù '1 cavriuol; già i vecchi armentidè cervi van pel pian fuggendo in frotta:timor gl'inganni della volpe ha spenti:le lepri al primo assalto vanno in rotta:di sua tana stordita esce ogni belva:l'astuto lupo vie più si rinselva.E rinselvato le sagaci naredel picciol bracco pur teme il meschino:ma '1 cervio par del veltro paventare,dè lacci el porco o del fero mastino.Vedesi lieto or qua or li volarefuor d'ogni schiera il giovan peregrino;pel folto bosco el fier 'caval mette ale;e trista fa qual fera Iulio assale.Angelo Poliziano

LIBRO DÈ PRIVILEGI, CAPITOLI ET ALTRE MATERIE SPETTANTI ALLI BALE-STRIERI DELLA CITTÀ DI GUBBIOChe quel giorno che si dovrà tirare al palio, tutti li capo banchi devino aver fatto portare li loro banchi in piazza a ore 20, e quando non si trovassero in piazza in dett'ora, li si faccia pagare tre pavoli di pena per ciascheduno banco, e questi da applicarsi per risarcimento della casella.Che si pigli il mezzo della rotella, e poi si faccia al conto delli luoghi delli banchi, e questi si prendino per la mano, e che debbano esser lontani uno dall'altro mezza canna romana.Che li capo banchi siano i primi a tirare, facendo tra di loro al conio conforme il solito.Che la rotella sia messa al luogo solito, e che il tasso non sia più lungo di due palmi di canna romana.Che tutti li balestrieri faccino segnare le verette dal sig. Cancelliere pubblico con i loro nomi, e quando deve tirarsi doveranno dal medesimo esser cavati a sorte.Che finito di piantare li banchi, si faccia sapere, se è commodo all'Ecc.mo sig. Luogotenente ed all'Ill.mo Magistrato acciò possino far mandare il bando conforme al solito, e poi si principiarà a tirare dal capo banco, che a sorte li toccarà, e così di mano in mano.

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Che venendo estratto il bulletino di qualche balestriero, che non si trovi presente in piazza, o che abbia guasto qualche istromento, se non tira allora, non possa più tirare.Che la veretta, che sarà a tasso più vicina alla boletta vinca il palio, benché fosse senz'asta, quando l'asta sia stata segnata come sopra dal Cancelliero, perché asta senza nome non vale, e quando non ve ne entrasse niuna a tasso, vinca quella che sarà più vicina alla bulletta o di penna, o di legno, e la seconda veretta più vicina vinca la rotella, e il vincitore della medesima sia tenuto render tutte le verette gratis.Che subito finito di tirare si porti la rotella al palazzo pubblico avanti l'Ecc.mo sig. Luogotenente e avanti l'Ill.mo Magistrato conforme al solito, e ricevuta da loro la sentenza, si porti il palio a casa del vincitore a suono di trombe e tamburi, e accom-pagnato dalla famiglia dell'Ill.mo Magistrato con darli di mancia tre pavoli per ciascheduno cioè tre pavoli alli trombetti, tre alli tamburini, e tre alli donzelli.Che quelli che avranno vinto il palio e la rotella siano soprastanti per quell'anno di sopraintendere alla casella e orto, e ad altre contingenze che aca-dessero.Che nel provare, che si fa a tirare la giù alla casella, chi sarà l'ultimo e lascia la sedia nel banco debba pagare mezzo pavolo per volta.Che detti soprastanti devino invigillare, che sopra la casella vi sia la caneleccia, acciò non dia danno al tetto di detta casella, mentre è obligato mante-nerlo il padrone della casa di sopra, e anche invigilare che nell'orto avanti detta casella non vi si piantino arbori che possino impedire il tirare ai balestrieri e che avanti la casella non vi si possino tenere né litami né altra imondezza.Che l'utile e il frutto tanto della casella, quanto dell'orto di là dal greppo, proprii de' balestrieri, sia e lo goda solamente quello che vincerà la rotella, con peso e obligo di rifare il detto greppo di mattoni crudi, e non di creta, per il primo di maggio con-forme al solito ecc.Che volendosi i beni a loro spettanti affittare ad altre persone, ciò non possa farsi senza istromento, o poliza, e senza participazione degli altri balestrieri, ma però l'affitto spetti come sopra al vincitore della rotella coll'obbligo di rifare il detto greppo.Che per il risarcimento della casella, quando ocorra, ogn'uno sia tenuto contribuire la sua rata.Che volendosi da' balestrieri in detto luogo tirare ogni mese, ciò sia in loro libertà.Che il presente libro di nuovo fatto ad effetto di conservare alcune memorie per i balestrieri, è intitolato Libro dè Capitoli, e altre notizie dè Balestrien, dove sono registrati i presenti capitoli, si ritenga e custodisca diligentemente da quello che riceverà il palio, e nell'anno seguente debba restituirsi al sucessore, e così di mano in mano ecc., sotto pena della privazione dell'uso di tirare mai più alle balestre, di paoli trenta d'applicarsi alla Chiesa di S. Ubaldo, e ad altre ad arbitrio dell'Ill.mo Magistrato ecc.Anonirno

CANTO DI GIUCOLATORI DI SCHIENAGiovani siam, Giocolator si destri,e di si forte schiena,che non fur mai di noi miglior maestri.Noi facciam giuochi sì vari, e sì strani,che noi paiam travolti,ed andiam colle maniper terra, e non innanzi, come moltiSiamci dal giocar tolti.dell'entrare, ed uscir di questo tondo;perch'oggi in tutto il mondo,infino i contadin ne son maestri.Il Tombol Stiavonesco, e faticoso,donne, sì ben facciamo,che senz'alcun riposotre volte, e quattro già fatto l'abbiamo:ma sopratutto stiamoin nel far quercia tanto ritti poi,che benché piaccia a voi,donne, pesso ha nociuto a noi maestri.Bisogna, che chi fa questo mestiero,sia ben fatto, ed ossuto,gagliardo, atto, e leggero,

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ma sopratutto giovane, e nerbuto;perché noi abbiam vedutomolti, che giocolaro in giovinezzacon arte, e con destrezza,or non son né discepol, né maestri.Donne, il far questi giuochi nella via,ci è sconcio, e dispiacere;però grato vi fia,che dappresso vi diam qualche piacere;e faremvi vedere,come I'Insegna, qui dipinta, mostra,che della schiena nostrafacciam maravigliar gli altri maestri.Giovanbatista dell'Ottonaio

LETTERA SULLA PALLAMAGLIO...Per questo giuoco sono necessarie tre cose; una palla, un maglio, dei giocatori, dal momento che non esiste un luogo speciale per giocare.La palla dev'essere di legno molto duro e solido, come ad esempio di corniolo, sorbo, ulivo o d'altri alberi dello stesso genere; la forma della palla sia resa uguale da ogni parte con una perfetta tornitura e la sua grossezza non deve superare di molto quella di un uovo rotondo, affinché, se scagliata per l'aria, la attraversi più facilmente, o se debba scorrere sul terreno, scivoli più agevolmente.Il maglio, parimenti, è di legno ed è fatto così: fusto di legno robustissimo, grosso più o meno tre dita e lungo mezzo piede; a partire dai due capi esso viene progressivamente sgrossato, in modo che nel mezzo sia un poco più sottile, mentre le estremità sono lasciate più spesse: l'una, piatta, serve a percuotere la palla più facilmente con un colpo risoluto, l'altra, per prendere la palla più comodamente, ha una piccola cavità, la cui parte inferiore (quella con cui si estrae la palla) sporge un po' rispetto a quella superiore; i due punti estremi sono circondati opportunamente da un anello di ferro, sia per conferire al colpo maggior peso, sia allo scopo di rinforzarli.L'aspetto complessivo è simile a quello di una barchetta volta leggermente all'insù; in mezzo un buco, in cui viene fissato un manico di legno lungo due piedi o poco più, cosicché volgendosi la parte curva verso l'alto, sembri un albero di nave; questo per quanto riguarda il maglio.Si può giocare da soli o in molti, ma gareggiano o ciascuno per sé o divisi tutti in squadre uguali, avendo pagato ognuno la sua posta.In questo gioco il modo di colpire la palla è diverso che in tutti gli altri: in questo, essa viene scagliata da terra, mentre negli atri è colpita correttamente solo per aria; questa (ma soltanto all'inizio del giuoco) viene piantata opportunamente in terra come meglio piace, in un luogo donde si possa lanciarla più comodamente. Piazzata la palla, il giocatore si atteggia a questo modo: i piedi pari sul terreno, leggermente separati, avanti ai quali pone la palla in modo che, piegandosi con le spalle, ci stia sopra a perpendicolo; allora assetta le mani sul maglio, afferrando con la sinistra la parte più alta del manico, mentre la destra un poco più giù sostiene il maglio per conferirgli maggior forza; ma prima di battere la palla, il giocatore lo innalza più di una volta calandolo sino a toccarla, come ad esperimentare l'esatta traiettoria del colpo e quando ne è certo, solo allora colpisce con tutte le forze e con tutta la sua abilità. Quella in parte vola per aria, in parte corre sul terreno dove, gradatamente diminuendo l'impulso, si ferma.Bartolomeo Ricci

CANTO DI GIUCATORI Dl PALLA AL MAGLIOGiovani, e giucator di palla al magliotutti siam noi d'intorno,sol per giucar venuti questo giorno.In Napoli trovatofu questo nobil giuoco primamente;or' ognun l'ha imparato,però si giuoca tanto fra la gente;ma noi, che veramentemaestri eletti siamo,

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giucando con ognun sempre vinciamo.Giovane soprattuttoa chi vuol ben giuocar esser conviene,ed a farne buon fruttosode bisogna, e forti aver le schiene;e veder lume beneimporta molto, e poigagliarde braccia aver, com'abbiam noi.Il maglio vuole avere,siccome ha 'l nostro, uguale, e buona presa;accio con man teneresi possa meglio a seguitar l'impresa:e dopo alla distesamenar con ardimento,e cor la palla sempre, e non il vento.Ponsi la palla in terra,e poi con gran destrezza, e maestriaquesto a due man s'afferra,chi d'acquistare onor brama, e desia:e con galanteriafassi arco della schiena,per darle dritto, e corla meglio in piena.Piover non vuol giammai,quando si debba far questo bel gioco;perocché nuoce assai,anzi esser vuole asciutto, e netto il loco;perché varrebbe poconel fango, e nella motamenare e resteria la botta vota.In camicia la Statesi giuoca, e 'l Verno in colletto, o in giubbone;benché certe brigatetrovansi ancor, che lo fanno in salone:pur chi ha discrezione,to' pochi panni in fatto,per esser come noi, destro, et adatto.Non antico, o modernopiù bel giuoco del nostro si ritrova:fassi la State, e il Verno,e sempremai diletta, e sempre giova;né questo cosa nuovavi paia, o strano effetto,dappoiché gli ha le palle per soggetto,Or chi con noi provaresi volesse, e giucare,ne venga via col maglio, e colle palle,e noi ci avvierem verso le Stalle.D'Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca

DELLA GIOSTRA E ANELLOGiostre propriamente si chiamano tutte quelle operazioni che s'adopra la lancia, così che anche l'incontro è giostra; onde per dirlo in una parola la giostra è nome generale che include in sé varie feste; ma in oggi pare che sia particolarizzato e che solo voglia dire la corsa che si fa al saracino o facchino che vogliam dire, o vero quintana.Anticamente usavano armar un facchino e in quello correvano, e così è restato il nome di facchino; adesso hanno inventato il far un busto di legno, quale si mette sopra un palo all'altezza di un uomo a cavallo, e di

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questo, armato, si serve, senza mettere un misero uomo a quel tormento. A questo busto dunque se gli dà nome di saracino o vero quintana, e alcuni ancora continuano col nome di facchino; in questo si corre, avendo i suoi punti nell'istessa maniera che ho detto nell'incontro, e questa festa propriamente si chiama giostra, della quale in questo capitolo particolarmente voglio discorrere.In varie maniere si fa questa festa: prima si fa a chi fa più punti; seconda, a scavalcare; terza, un mantenitore.Le comparse si fanno secondo l'invenzione, ma come ho detto nel capitolo del carosello non è questo il mio fine e però le tralascio, e dico solo che in questa festa, in ogn'una delle tre maniere, deve avere ogni cavaliere li suoi padrini; si pianta la lizza in mezzo e dalla banda del saracino si fa il palco adeguato per li signori giudici.La prima maniera dunque si fa con correr tutti tre lancie per uno, e quello che fa più punti guadagna il premio e in caso di patta quelli che l'hanno fatta tornano a correre una o vero altre tre lancie, ad arbitrio de' giudici, sino sia deciso. L'altra e di scavalcare, e questi saranno per esempio in otto; cor-rono prima a due per due cavati a sorte dai giudici; finiti di correr le quattro coppie, due restano quattro vincitori e questi si tornano a cavar a sorte, chi deve correr contra l'altro, e così restano due e questi due tornano a correre e chi di questi resta vincitore guadagna la giostra e il premio. La terza poi, d'uno che si fa mantenitore e tutti corrono contro quello, uno per volta, e ciascheduno il suo premio, e il mantenitore, vinca o perda, deve sempre correr con gli altri.Nell'ultimo poi, così in questa come nell'altre maniere, si fa la folla, cioè che tutti corrono, un dietro l'altro a refuso senz'ordine, e in queste carriere si sogliono far arie galanti, come di buttate, e altre, servendo queste per galanteria né si guarda a punti.Terminato di dire il modo di far la giostra, mi rivolgerò a discorrere della maniera di correre bene una lancia e degli errori ne quali s'incorre in questo esercizio, acciò il cavaliere se ne possi guardare, e poi dirò quello di far le arie, per sfuggire d'incorrer nei detti errori. E prima cominciarò dal corpo del cavaliere, il quale in tutte l'operazioni a cavallo deve esser bello, ma nel corgere più che in ogn'altra.Deve dunque il cavaliere, nel correr, star dritto a cavallo e non gobbo o troppo la vita indietro, che colcato si dice, o troppo avanti, che impozzato si suol dire. Le spalle egualmente dritte, che né una né l'altra sia più avanti, che correre in spalletta si suol dire, e tutti i principianti sogliono difettare nel portar la spalla dritta in dietro e questo deriva da due cause: una, che dovendo abbassar la man della briglia la portano avanti e in conseguenza la spalla la seguita e così quella della lancia resta indietro; l'altra, che nel far l'aria, particolarmente nel venire in giù, portano la mano in dietro e la spalla seguita la mano e così vengono in spalletta. Per non incorrer dunque in questo errore deve avvertir, nell'abbassar la mano, di non portarla avanti ma al pomo della sella, e, nel venir giù del primo tempo, venir con la mano a drittura del suo ginocchio e così pro-curar di mantenere la spalla dritta avanti e star dritto.Nel far l'aria non deve in alcun modo seguitar la mano con il corpo, ma lasciar che la mano con il braccio operi e il corpo stia fermo e immobile; e questo intorno al corpo.Nicola e Luigi Santapaulina

CANTO DI GIOSTRANTI A CAVALLOViva, viva la potenzad'esta diva alma Fiorenza.Questo nostro gran Signore,di Ginevra, e d'Ungheria,è venuto con furored'essere vostra compagnia:non apprezza Signoria,anzi vuol fama, ed onore,e cavalca per amorecon sì gran magnificenza.Cavalcare è l'arte nostra,ma vogliam la bestia nuda;perché quando siamo a giostraè più destra, e manco suda:e s'ell'è di schiena cruda,regge meglio alle percosse;colle nostre lance grossedimostriam nostra potenza.

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Abbiamo sotto Corridore,e gagliardo a maraviglia,che in manco di due orefacciam più di cento miglia:se si scuote un po' la briglia,prestamente in piè si rizza;e così due lanci sguizza,che non puote aver pazienza.Per tener la bestia sana,riposiamci quando piove,si farebbe bolsa, e strana,se n'è fatte mille pruove:non lasciate andare altrove,donne, questi Forestieri;perch'avendone mestieri,serviran con diligenza.Anonimo

DELLE BATTAGLIE FINTELe battaglie che si fanno nelle feste le chiamo finte perché tali veramente sono; paiono vere perché si devono osservar le regole di buon soldato, e sono finte poi che i colpi di pistola non sono che con sola polvere e quelli di spada non si danno che di taglio sopra l'armatura, e si pigliano ancora spade senza taglio per sfuggir tutti gli accidenti e in vece di dar un trattenimento d'allegria alle dame, fargli veder un spettacolo di compassione. Dissi che si devono osservar le regole di buon soldato perché si devono aver tutti i riguardi che ha un soldato, cioè di pigliar l'inimico su la mano più facile a ferirlo, come per esempio con la lancia e cherubina su la sinistra, con pistola e spada su la dritta, e così di tutte l'altre; per altro poi è permesso qualche licenza nelle gite, essendo che queste sono fatte per allettamento di chi sta a vedere e però si devono far più vaghe che si puole, ancor che occorresse, per farla bella, di passar vicino alle squadre nemiche: il che non sifarebbe in guerra senza il pericolo di restar o morto o prigioniero. Anco questo però si deve procurar di sfuggire più che sia possibile, essendovi sempre qualche critico che vuol dire, che però se bene è permesso qualche licenza, nulla di meno procurar di dar materia di discorrere il meno si puole.Ma per tornar a noi, dico che si può pigliar qualche licenza; per esempio se, combattendo da solo a solo, facendo una passata per il dritto per far più bella la gita, si venisse a pigliar la volta vicino alla squadra nemica, sarà un poco di licenza, ma per vaghezza dell'operazione dico che si può fare.Errore essenziale sarebbe se, avendo la spada o pistola alla mano, si voltasse su la man sinistra; con la pistola però non si deve mai galoppar dritto ma in biscia e però per necessità si volta anche alla sinistra; e questo galoppar in biscia è necessario per non dar all'inimico quel punto dritto da ferire e in conseguenza meno fallace dell'obliquo; anzi quest'operazione solita a farsi da soldati a cavallo ha preso la denominazione di " cavalleria ".Osservando dunque il più sia possibile le regole militari, si deve procurar di far venir i cavalieri a ferirsi con il colpo di pistola e poi di spada, con gita vaga e che dia allettamento alli spettatori. Si suol e si deve principiar da solo a solo, e in questo poche figure si possono fare come si puole a squadra per squadra; e già che ho nominato figure, mi par necessario il dirvi che le figure nelle battaglie devono farsi sempre nel moto e non fermandovisi, come nei balletti, dè quali a suo luogo ne farò la debita dichiarazione.Nicola e Luigi Santapaulina

DELLE PALESTRE E DE I XISTIDelle palestre, e dei xisti dè Greci. Poiché s'è trattato delle vie, dei ponti, e delle piazze; resta che si dica di quegli edifici che fecero gli antichi Greci, né quali gli huomini andavano a esercitarsi: ed è cosa molto verisimile, che le Città della Grecia si reggevano a Republica, per ogni città ne fosse uno di questi tali edificij; dove i giovanetti oltre l'imparar delle scienze, esercitando i corpi lor nelle cose inerenti alla milizia, come a conoscer gl'ordini, à lanciar il palo, à giocar alle braccia, à maneggiar l'arme, à natar con pesi sopra le spalle, divenissero atti alle fatiche, e à gli accidenti della guerra, onde poterno poi co'l lor valore, e disciplina militare, essendo essi pochi, vincer eserciti numerosissimi.A' esempio lor hebbero i Romani il Campo Marzio, nel quale pubblicamente la gioventù si esercitava nelle dette militari attioni, dal che nascevano mirabili effetti, e le vittorie delle giornate.

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Scrive Cesare nei suoi commentarij, che essendo egli all'improvviso assalito da' Nervi, e vedendo che la settima legione, e la duodecima erano di maniera ristrette, che ristrette non potevano combattere; commandò che si allargassero, e si mettessero l'una ai fianchi dell'altra, accioché havessero commodità da adoperar l'arme, e non potessero essere da nimici circondare: il che con prestezza fatto dai soldati, diede a lui la vittoria, e a loro fama e nome immortale di valorosi, e di bene disciplinati; conciosiaché nell'ardor della battaglia, quando le cose erano in pericolo, e piene di tumulto facesse quello, che à molti à tempi nostri per difficilissimo da farsi quando anco gli inimici sono lontani, et si ha commodità di tempo e di luogo. Di questi tal gloriosi fatti ne sono quasi piene le Greche e Latine Historie, e non è dubbio che di loro né fosse cagioneil continuo esercitarsi dè giovani. Da questo essercitio i detti luoghi, che (come racconta Vitruvio al cap. XI del V libro) frabricavano i Greci furono da loro chiamati palestre, e Xisti: e la loro disposizione era tale. Prima disegnavano la piazza quadrata di giro di due stadij; cioè di duecento e cinquanta passa; e in tre lati di lei facevano portici semplici, e sotto quelli alcune sale ampie, nelle quali stavano gli huomini letterati, come filosofi e simili; à disputare e discorrere. Nel quarto lato poi, il quale era rivolto al meriggio, facevano i portichi doppij, accioché le pioggie da venti spinte non entrassero nella parte più a dentro nel verno; e l'estate il sole fosse più lontano.Nel mezo di questo portico era una sala molto grande lunga un quadro e mezo, ove si ammaestravano gli adolescenti. Dalla destra della quale era il luogo ove s'impolveravano gli Athleti: e più oltre la stanza per la fredda lavatione, c'hora chiameressimo bagni di acqua fredda; la qual viene a esser nel voltar del portico.Dalla sinistra del luogo de gli adolescenti era il luogo ove s'ongevano i corpi per esser più forti; e appresso la stanza fredda, ove si spogliavano; e più oltre la tepida, per dove si faceva foco; dalla quale si entrava nella calda: haveva questa stanza da una parte il laconico (era questo il logo, ove sudavano) e dall'altra la stanza per la calda lavatione.Percioché vollero quei prudenti huomini, imitando la natura, la qual da un'estremo freddo ad un'estremo caldo con i suoi mezi ci conduce; che nò subito dalla stanzs fredda si entrasse nella calda, ma co'1 mezo della tepida. Di fuori da detti luoghi erano tre portichi, uno dal lato, dove era l'entrata, che si sarebbe verso Levante, overo verso Ponente.Gli altri due erano, uno dalla destra, l'altro dalla sinistra, posti l'uno a Settentrione, l'altro a Mezogiorno. Quello, che guardava a Settentrione, era doppio, e di larghezza quanto erano lunghe le colonne. L'altro rivolto a Mezogiorno era semplice, ma molto più largo di ciascuno de' sopradetti, ed era diviso in questo modo: che lasciati dalla parte delle colonne, e dalla parte del muro dieci piedi, il qual spacio da Vitruvio è detto Margine; per due grandi larghi sei piedi si discendeva in un piano non meno largo di dodici piedi; nel quale al tempo del verno gli Athleti potevano esercitarsi stando al coperto, senza esser impediti da quelli ch'erano sotto il portico a vedere; i quali anco, per detta bassezza, ov'erano gli Athleti, vedevano meglio.Questo portico propriamente si chiamava Xisto. Li Xisti si facevano, che tra due portici vi fossero selve e piantationi, e le strade tra gli arbori, lastricati di Musaico. Appresso il Xisto e il portico doppio si disegnavano i luoghi scoperti da caminare detti da loro Peridromide: nè quali il verno, quando era sereno il cielo, gli Athleti si potevano esercitare.Lo Stadio era à canto questo edificio, ed era luogo, dove la moltitudine poteva stare commodamente à veder combatter gli Athleti. Da questa sorte di edifici presero l'esempio gli Imperatori Romani, che ordinarono, le Terme per dilettare e compiacere al popolo, per esser luoghi, ove gli huomini andavano a diportarsi, e à lavarsi; delle quali ne libri che seguiranno, piacendo al Signor Iddio, ne ragioneròAndrea Palladio

ORDINAMENTO PER IL TIRO A SEGNO CON LA BALESTRANell'anno del Signore 1443, indizione VI, il giorno 29 di giugno, i magnifici e potenti Signori anziani e il Confaloniere di giustizia ecc., deliberarono e decretarono come di sotto è detto ordinatamente, cioè:Che ogni anno per il primo maggio e per il primo settembre debbono essere predisposti e approntati, a spese del comune di Lucca, quattro premi di diverso valore ammontanti complessivamente a 18 fiorini del valore di 36 bolognini ciascuno; i detti premi saranno costituiti da quegli oggetti e secondo la forma e il modo che sembreranno convenienti ai magnifici Signori che saranno in carica nel momento di istituirli.I premi debbono essere assegnati ai migliori balestrieri e saettatori ammessi al tiro della balestra secondo la regola e l'ordine detti qui di seguito.Nei giorni e tempi detti sopra, i magnifici Signori facciano allestire nel cortile del palazzo o in altro luogo opportuno, come loro sembrerà più conve-niente, una rotella di misura adatta, nel cui centro sia un segno detto in lingua volgare la "brocca", alla quale si tiri con la balestra. Quindi si dispongano i balestrieri alla distanza di CXX passi da detta rotella; donde tireranno alla brocca una volta soltanto per ciascuno; perché si

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conosca a qual balestriere appartenga la saetta, ciascuna porti iscritto il nome del saettatore. Finalmente, compiuto il tiro, di modo che tutti i balestrieri abbiano effettuato la loro prova, allora soltanto sia ispezionatacon cura la rotella da parte di coloro che dai magnifici Signori siano stati specificatamente a ciò deputati; i quali avendo prestato giuramento di esercitare il loro ufficio con ogni lealtà e diligenza, distacchino dalla rotella le quattro saette che risultino infisse più vicino alla brocca o addirittura in essa.Riconosciuto poi, da parte dei deputati alla sorveglianza del giuoco, a chi appartengono le saette vincitrici il primo e maggior premio sia assegnato al balestriere la cui freccia sia stata trovata più vicina alla detta brocca; il secondo premio a chi abbia conficcato la sua freccia nel secondo posto più vicino alla brocca; il terzo premio a chi abbia conficcato la sua freccia nel terzo posto più vicino alla brocca; il quarto premio infine (che consisterà sempre nella rotella con le saette ivi confitte) spetterà al balestriere la cui freccia sia trovata nel quarto posto più vicino alla brocca.Per, togliere ogni indecisione e dubbio che potrebbero nascere sulla " vicinanza " delle saette al centro, si stabilisca apertamente e in virtù di questo decreto che la saetta conficcata nella brocca stessa, sia sopra tutte le altre considerata come il colpo migliore.Potendo peraltro accadere che, sopraggiunga una seconda freccia e che rompa l'asta di una precedente già infissa nella brocca, in modo da rendere impossibile il riconoscimento del nome del primo tiratore, la seconda freccia, purché si ficchi nella brocca o vi rimanga la più vicina e si sappia con certezza a chi appartenga, sia considerata vincitrice; la prima freccia, di cui non possa individuarsi iltiratore, accusi non la legge ma la sfortuna. E questa sia norma generale per ogni caso consimile, tutte le volte che non si sappia a chi appartiene una freccia, alla quale deve subentrare per il primo posto quella più vicina.La freccia che non abbia colpito la brocca ma che si trovi a essere la più vicina ad essa sia considerata prima. Tra le frecce più vicine alla brocca, primasu tutte sia considerata quella che si trova sulla linea verticale dalla parte superiore (sulla perpendi-colare cioè passa per il centro della brocca); la freccia che per la medesima perpendicolare si avvicinerà al centro della brocca, dalla parte inferiore, a parità con le altre poste in linea trasversale, sia considerata prima. Fra tutte le frecce confitte in linea trasversale, sia reputata prima quella più vicina alla brocca.Se due o più frecce siano da considerare pari in tutto e per tutto, il premio deve spettare al balestriere che per sorteggio sia stato ammesso per primo al tiro; poiché infatti la fortuna lo ha fatto sortire primo al tiro della balestra, così per quella medesima fortuna deve poter conseguire la vittoria.Non sia ammesso al tiro con la balestra chi non sia cittadino di Lucca, o del suo contado o del distretto, o abitante abituale di quei luoghi. I nomi di quanti siano stati ammessi a tirare debbono essere imborsati e quindi estratti uno ad uno: il primo estratto sia il primo a tirare con la balestra e così si procede di seguito sino all'ultimo nome. Non sia ammesso a tirare chi non sia proprietario della freccia e del teniere ed ogni balestriere sia tenuto a giurare che la balestra gli appartiene e non è di altri. Il contravventore sia punito con una multa due ducati ogni volta e nella pena incorra chi sarà sorpreso ad aver tirato due volte nello stesso giorno. Così sia fatto di qui innanzi contro ogni opposizione.Anonimo - 1443

COMMENTARI DELLE COSE MEMORABILI (Regata sul lago di Bolsena, 1462}Finito il pranzo, si presentarono i piloti delle barche che dovevano gareggiare e alcuni giovani molto robusti designati a remare. Le imbarcazioni scelte per la corsa furono cinque in tutto: la prima allestita dai Bolsenesi che si millantavano come fossero certi della vittoria; la seconda era dei Clarentani; la terza dei sudditi di Corneto; la quarta degli abitanti di Grotta San Lorenzo; dei Martani la quinta.Tutti avevano fiducia di vincere, la presunzione era ancora maggiore e ogni equipaggio disprezzava l'altro vantando se stesso; e quanto più avevano bevuto, tanto più, magnificavano le loro imprese: che altra volta avevano vinto, che avevano già vinto altro premio, che non averano dubbi di vincere ancora.Ci furono dispute sulla grandezza delle imbarcazioni, sul numero dei vogatori e sulla lunghezza dei remi, finché Gabriele Farnese Alessandro maestro del palazzo apostolico e Pazzaglia guardia del corpo del Papa, scelti come giudici, appianarono ogni questione.Il punto di partenza fu fissato presso Capodimonte e i1 traguardo nel porto dell'isola Bisentina dove furono posti i premi da assegnarsi: ai vincitori otto braccia di ottimo panno scarlatto di Firenze e altri premi per chi arrivasse al traguardo subito dopo.Fu deciso che le imbarcazioni, che non erano più grandi di un palischermo, avessero ciascuna quattro rematori e un capovoga, e giunte che esse furono presso Capodimonte fu affidata alla sorte la scelta del luogo da cui ciascuna prendesse l'abbrivo come cavallo da uno steccato; i capovoga assisi alla poppa, presso il

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timone, cinsero le chiome di lino bianco e di rami di pioppo e la stessa cosa fecero i rematori, nudi fuorché le parti basse, lucidi per gli oli che si erano cosparsi addosso, le braccia pronte sui remi, aspettando sui banchi il segnale di partenza; battono i cuori e un gran desiderio di gloria occupa gli animi.Al segnale della tromba tutti si slanciano dai loro posti riempiendo l'aria di grida; le acque spumeggiano sotto l'impeto dei muscoli contratti; procedono sull'acqua insieme e le profondità del lago si spalancano sconvolte dai remi e dalle prue; segue da presso una gran moltitudine di barche piene di spettatori che parteggiano per questi o per quelli e applaudono e riempiono l'aria di clamori: risuonano i boschi sui monti, rimandano le voci i lidi d'intorno, riecheggiano i colli.In prima posizione, tra la folla delle barche e gli applausi, voga il battello dei Bolsenesi che supera gli altri di tutta la sua lunghezza; secondi i Cornetani alla pari con quelli di Marta; gli altri inseguono staccati di poco.Il papa, benché lungi dal porto, in luogo appartato, discorresse con i cardinali di affari di stato, tuttavia assistette alla gara delle barche e all'intera corsa con gioia e serena disposizione di spirito.. Sulla spiaggia vicina al porto e al traguardo si accalcavano i referendarii, gli altri prelati e molti nobili, fra i quali era un certo Guicciardo Fortiguerra imparentato col papa da parte di madre e perciò fatto prefetto di Bolsena.Accortosi che i suoi erano in testa (un vago clamore aveva annunciato questa novità) cominciò: " Ve lo avevo detto e non mi avete voluto credere, conosco la forza dei Bolsenesi di cui non c'è nessuno più forte al mondo, forti per l'esercizio e per il vino schietto che bevono; invano lottano i Martani, non ho paura dei Clarentani, né di quelli di Grotta, stimo uno zero i Cornetani: fra poco arriverà vittoriosa la nostra imbarcazione. Giudici, preparate il palio e assegnatecelo, la vittoria è nostra e non ci può sfuggire; abbiamo vinto ".Gli rispose Gabride: " Non nego che se si trattasse di una gara tra beoni i tuoi protetti vincerebbero, benché anche i Clarentadni non scherzino, ma manovrare un remo non è facile come scolare bicchieri.Questa gara fu istituita la prima volta dal vescovo di Cornetoe sono già molti anni che si corre, ma non ho mai sentito che i Bolsenesi abbiano vinto qualche volta. I Martani hanno vinto più volte e spero che vincano anche quest'anno, a meno che non abbiate predisposto che i vostri rematori possano buttar giù una sorsata ad ogni colpo di remo".Non si potevano ancora distinguere le barche e quale fosse in testa, essendo distanti dal porto oltre mille passi (il percorso della intera corsa era infatti di circa duemila).Frattanto il capovoga dei Martani gridò dalla poppa della sua nave; " Che facciamo amici? 'Siamo terzi, proprio noi che eravamo abituati ad esser sempre primi? Vergogna! Dov'è andata a finire la vostra forza? Stiamo gareggiando con gente che altre volte abbiamo sempre sconfitto. Sono migliori loro o siamo divenuti peggiori noi? Potremo sopportare questo affronto, noi sempre invitti, di esser vinti proprio oggi, alla presenza del papa? Meglio morire!Forza ragazzi, riprendete lena e dateci sotto coi remi, risparmiandoci questo disonore ".Lo ascoltarono gli animosi giovani e a tutta forza a grandi remate fendono l'onda, che pare che gil suolo marino fugga sotto la tremante poppa; lasciati indietro i Clarentani si appaiano con i Bolsenesi per qualche momento. Finché la Martana vittoriosa supera le altre di lunga misura; la Clarentana passa la Bolsenese e così pure la Cornetana mentre il respiro concitato inaridisce le labbra degli assetati e il sudore gronda non compensato da alcun vino.Guicciardo, essendosi accorto che vincevano i Martani, si allontanò addoloratissimo.I Martani toccarono il porto di gran lunga prima degli altri, e come vincitori si ebbero il palio: secondi arrivarono i Clarentani; i Bolsenesi rimasti fra gli ultimi, temendo la vergogna e i rimproveri di Guicciardo, evitarono di raggiungere il porto ed ugual disonore si trovarono ad affrontare quelli di Grotta San Lorenzo; i Cornetani, fra la gloria dei primi e la vergogna degli ultimi, furono terzi.S.S. Pio II (Enea Silvio Piccolomini)

DE LA PALESTRALe lege del luttare se hanno in diversi modi, perché ciascuno le usa secondo il costume de la sua patria e secondo il suo arbitrio; ma noi statuiremo qui una certa regula e norma, qual da tutti universalmente si poterà osservare. In prima il numero non dè essere maior né minor de due ruine, e una si poterà dare per qualche infortunio onde la vittoria serà dubia e non colta drittamente e quando ci si passa ultra due, l'altro per il mancare del fiato pote perdere la vittoria; per la qualcosa si dè statuire un termine celere al qual presso si possi pervenire e il qual non si finisca prima che le forze de tutti vengano a la pugna.Le veste cum la quale si ha a luttare non deno in tutto essere disciolte né in tutto ligate, benché in alcuni lochi si lutti nudo, il che per due cause non si fa dirittamente: l'una perché è brutta e disonesta cosa, l'altra perché la facultà del luttare sempre è coniunta e cognata a le arme; e quando si combatte da vero non è utile a

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ritrovarsi nudo, perché in quello modo molto ci si esponeressimo al periculo e se uno forsi volesse demettere le vesti lo avversario non voria. Per la qualcosa si dè luttare con le calze e giuppone né quelle veste si vogliono colligare insieme, abenché ne la cintura la torace si dè congiungere cun una certa pelle a ciò il mezzo si osservi da ogni banda, imperò che quando siamo ligati la abilità ne è tolta, presertim chi avesse le calze curte o che non fosse uso a portarle.Il modo di cadere è questo, cioè quando ambidui in un medesimo instante toccano terra, colui che arma certamente avanza, benché a quello non si debia dare il prezio; ma se qualunqua membro, salvo che li piedi, imprima tocca terra, l'altro si dè iudicare vincitore e questo vinto; né sempre l'altro va di sotto che è estimato, massime secondo la opinione de li ignoranti.Anonimo del XV sec.

CALCIO FIORENTINODiffinizione del calcio. Che cosa sia il calcio e la sostanza sua, diffiniremo così: il calcio è un giuoco publico di due schiere di giovani a piede e senza arme, che garreggiano piacevolmente di far passare di posta oltre allo opposto termine, un mediocre pallone a vento a fine d'onore. Il campo dove egli si ha a fare, vuole essere una piazza principale d'una città a fine che le nobili donne e i popoli possino meglio stare a vederlo, della qual piazza s'ha da fare uno steccato lungo braccia 172, largo braccia 86, alto braccia due.Numero dè giucatori. Gli uomini eletti per lo calcio deono essere cinquantaquattro, divisi in due schiere eguali di numero e di valore; la qualità de' quali l'istessa natura umana determina: perché non tutti gli uomini sono atti ad uno esercizio tale, non essendo tutti quanti fatti dalla natura per questo, e però disse Vergilio: Tutti non possiam noi tutte le cose. Per tanto non l'età puerile, perché è troppo tenera; non la senile perché è troppo asciutta né può soffrire i sudori e durare le fatiche, 1e quali, correndo, urtando, percotendo, è forza soffrire; né anche della età giovenile sono avvenenti coloro, quali o sparuti o brutti come i Baronci, o scrignuti o zoppi o ciechi o in qualche modo stroppiati o contrafatti, farebbono di sé mostra ridicola in su lapiazza. Oltre a di ciò, al come l'Olimpiade non ammetteva ogni sorte d'uomini, ma i padri delle lor patrie e regni, così nel calcio non è da comportare ogni gentame; non artefici, non servi, non ignobili, non infami, ma soldati onorati, gentiluomini, signori e principi. Saranno dunque eletti per fare al calcio i gentiluomini d'anni XVIII fino alli XLV o di più o di meno, secondo la complessione, e bene armonizzati, cioè belli, atanti e prò della persona e di buona fama, a fine che tali campioni siano da ogni banda ragguardevoli e grati; e oltre a ciò in tutti gli esercizi, de' quali nel proemio si fece menzione, ammaestrati.Stagione da giuocare al calcio. Di che tempo giuocare al calcio si deggia, il sole padrone dell'ore e duce dell'anno n'ammaestra; perché si come non ogni stagione partorisce i vaghi fiori, così non ogni tempo invita i giovani ai piaceri del calcio: imperoché essendo questo giuoco di estrema fatica, essa non si purrebbe commodamente durare fuori della fredda stagione. Dalle calende di gennaio insino al marzo distenda il corso suo e poi si riposi per tornare ogni anno a noi, come fa il sole, al medesimo punto. Ma perché il calcio è uno spettacolo, che tanto più è bello di quanto più spettatori è fornito, fra gli altri giorni, quelli delle feste di Bacco, cioè carnovale, siano al calcio dedicati per più solenni.In oltre, conciosia che tutte le zuffe, non altrimenti che un arco stando gran tempo teso, si snervano e si fiaccano, non può durare dalla mattina alla sera, ma come il sole cali i raggi in verso l'occidente cominciare e quando, tramontando egli, Espero luce, alla venente notte cedere gli conviene e fare posa. Imperoché, una e altra ora, puote egli a pena sostenere tanti sudori, tanti impeti e tante percosse.Giovanni Maria Bardi

DELLA DIVERSITÀ CHE C'È FRA LA PALLA SODA E LA PALLA DI VENTOAncora ch'assai chiara e apparente sia la differenza ch'è fra la palla soda e quella di vento, nondimeno, per non lasciar cosa che degna potesse parer della presente contemplazione, ho deliberato di conside-rar brevemente in questo luoco il mondo della diversità loro. Onde è da sapere che oltra la manifesta differenza c'hanno insieme, per esser la palla di vento ordinariamente maggiore della palla soda, evvi ancora un'altra differenza molto più importante, che la soda s'empie di cimatura di lana e è tale che avendole il maestro imposta l'ultima mano, di subito si rende atta a giuocare né di cosa altra esteriore fa mestiero perch'ella salti sopra la terra, battuta da' giuocatori, ma le basta quella forma solida e rotonda c'ha ricevuta dal maestro, quando per lui fu composta; laonde la palla di vento s'empie di spirito e è tale, che quantunque finita dal maestro, non però di subito può servire all'uso del giuoco, ma conviene che con un instrumento di metallo o d'altra materia, da alcuni detto schizzo e da altri chiamato gonfietto, s'empia di fiato per via d'un certo forame grande come l'ombilico, il qual forame in sé contiene essa palla fattogli dal maestro molto artificiosamente; e è il gonfietto come un canale per lo qual passi l'acqua otturato nella parte di lui maggiore da un manico di

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legno, intorno a cui si avviluppa alquanto di stoppa, al che ritraendosi poi a dietro il detto manico l'aere entra nel corpo del gonfietto e spingendosi innanzi il medesimo n'esce fuor per un picciolo suo canalecto e così si caccia l'aere nella palla per la via di quel buco ch'ella in sé contiene, dentro al quale è attaccata una pellicina detta battello e altrimenti linguina, la quale si come ne gli animali c'hanno il polmone, quel coperchio, ch'è congiunto con l'arteria per cui si respira, detta volgarmente lunella, serve; quando con l'aprirsi e quando col serrarsi, al refrigerio de gli animali con il concorso del continuo aere; cosi questa pelletta di dentro dal forame della palla è con tal artificio posta che per suo mezzo s'introduce la vita dentro alla palla già morta, essendo il detto battello la strada all'entrare e all'uscire del spirito fuori e dentro.E in questo modo si rende la palla di vento, che dianzi era non atta, attissima a saltare e a volar per l'aria con gran furia, sendo con qualche impeto battuta da' giuocatori. E di qui è che tal palla si rompe di leggiero dando in cosa che sia dura e tagliente, il che alla palla soda non così facilmente avviene; e questo perché la palla da vento, piena d'aere, ch'è di natura sottilissimo e facile da disciorre, battuta contra cosa dura e tagliente, l'aere non che porga aiuto in mantener lei nella sua forma, ma è più tosto cagione insieme con la cosa tagliente che la palla scoppi; il che ancora più di leggieri le avviene sendo in tutto colmo gonfiata, perché dando ancora sopra cosa piana si rompe, cosa ch'alla palla soda non così facilmente accade per esser la lana, di cui è piena, molto facile a cedere e a sofferire le percosse.E se alcuno ricercasse onde sia che sendo il battello la via per la quale s'introduce lo spirito nella palla, ch'egli introdotto da sé dentro si fermi, non essendo così del respirar dello animale, il quale continuamente nuovo aere e riceve e manda fuori, è da saper che questo avviene per rispetto della pellicina tanto congiunta sopra 'l battello, che introducendosi con il gonfietto l'aere vaporoso e molto ingrossato, egli da se stesso non può uscir fuori per non essere luoco all'uscita, se la pellicina non è in qualche modo sollevata, il che quando avviene, l'aere n'esce di subito e con gran furia. E di qui è, che gl'intendenti giuocatori inanzi al gonfiare risciacquano molto bene il gonfietto con vino o con altro vaporoso liquore, acciò l'aere in questo modo ingrossato, introdutto si mantenga meglio nella palla.Antonio Scaino

da L'UOMO GALLEGGIANTE(Modo di nuotare di fianco con una mano innalzala fuori dell'acqua portando cosa da non farsi bagnare; o sia il nuoto di Cesare)Scrive Svetonio nella vita di Cesare che per dugento passi portò egli nuotando il libro dè suoi Comentari nella sinistra mano, sollevata fuori dell'acqua senza farlo bagnare. Ecco le sue parole:Alexandriae circa oppugnationem pontis, eruptione hostium subita compulsus in scapham, pluribus eodem praecipitan tibus, quum desiliisset in mare, nando per CC. passus, evasit ad proximam navem, elatalaeva, ne libelli, quos tenebat,madefierent.Questo modo stesso di nuotare fu anche osservato dal rinomato capitan Cook e dal suo equipaggio, presso dè salvaggi della nuova Calidonia. Ecco come egli scrive: "Molti di loro venivano a nuoto dalla costa più di un miglio lontana e con una mano tenevano fuori dell'acqua quel pezzo di stoffa bruna che portavano indosso, mentre coll'altra mano fendendo l'acqua, elevando una picca o una mazza, la quale però non era fatta del solito legno di casuarina; poiché questa sorta di legname sarebbe stata troppo pesante per poter essere portata in questa maniera ".Il fatto di Cesare è stato fin oggi un problema di equivoca credenza presso di molti; o almeno si è voluto credere sull'autorità di Svetonio, senza la menoma intelligenza della fisica ragione che lo persuadesse; o al più, si è voluto da' sostenitori del vecchio sistema del nuoto, sostenere come un prodigio della destrezza de' movimenti dell'uomo, da' quali facevano derivare essi la facultà di nuotare, in un corpo creduto specificamente più grave dell'acqua.Oggi non però, che la facultà galleggiante, per isperimental conoscenza, si è provata inerente al corpo dell'uomo vivente debbono cedere assolutamente gli equivoci; e il fatto di Cesare trova tutta la sua sussistenza nella innegabile forza della sperimentale fisica ragione. Soventi fiate si è detto di aver l'uomo galleggiante la facultà dell'uso libero delle proprie braccia; e si conosce senza velo di misterio, che la forza dell'equilibrio è la sola che produce il fenomeno di adoperarle come fece Cesare sostenendo con un braccio il libro e procurandosi col-l'altro il vantaggio del cammino. Cesare e i salvaggi della Caledonia sentivano la voce della natura, quella della prerogativa galleggiante ne corpi loro; e, praticamente equilibrandosi, se ne valevano con profitto. L'error volgare, figliuolo della filosofia verbale, co' tortuosi rigiri de' raziocini delle scuole ha soffogata ed estinta in noi cotesta tanto utile verità. Quindi si è trovata in noi e nell'Europa colta una insormontabile diffidenza relativamente all'acqua, cagione di frequenti mortali disgrazie; e pure tanta facilità e speditezza si trova nel nuoto degli antichi Egizi, dè Greci, dè Romani, e dè salvaggi tutti!Oronzio De Bernardi

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LA GINNASTICAInfra gli educator ferve pur quiuna gran lite, per quant'io ne so:se si può la ginnastica oggidìnelle scuole introdurre o non si può.I giovani, si sa, dicon di si,e, si sa, i vecchi dicono di no.Questo va ben; ma nel durar cosìverran presto alle mani e senza pro.Per me, direi, se interrogasser me,si approvi la ginnastica, e di piùne addurrei un chiarissimo perché.La ginnastica è un'arte, e sempre fu,atta a piegar le vertebre; e quest'èla prima dote per salir ben su.Giuseppe Gioacchino Belli

A UN VINCITORE NEL PALLONEDi gloria il viso e la giconda voce,Garson bennato, apprendi,e quanto al femminile ozio sovrastila sudata virtude. Attendi, attendi,magnanimo campion (s'alla velocepiena degli anni il tuo valor contrastila spoglia di tuo nome), attendi e il coremovi ad alto desio. Te l'echeggiantearena e il circo, e te fremendo appellaai fatti illustri il popolar favore;te rigoglioso dell'età novella,oggi la patria caragli antichi esempi a rinnovar prepara.Dal barbarico sangue in Maratonanon coloro la destraquei che gli atleti ignudi e il campo eleo,che stupido mirò l'ardua palestra,né la palma beata è la coronad'emula brama il punse. E nell'Alfeoforse le chiome polverose e i fianchidelle cavalle vincitrici astersetal che le greche insegne e il greco acciaroguidò de' Medi fuggitivi e stanchinelle pallide torme; onde sonarodi sconsolato gridol'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.Vano dirai quel che disserra e scotedella virtù nativale risposte faville) e che del fiocospirto vital negli egri petti avvivail caduco fervor). Le meste roteda poi che Febo instiga, altro che giocoson l'opre dè mortali? ed è men vanodella menzogna il vero? A noi di lietiinganni e di felici ombre soccorsenatura stessa: e là dove l'insanocostume ai forti errori esca non porse,

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negli ozi oscuri e nudimutò la gente i gloriosi studi.Alla patria infelice, o buon garzonesopravviver ti doglia.Chiaro per lei stato saresti allorache del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,nostra colpa e fatal. Passò stagione;che nullo di tal madre oggi s'onora:ma per te stesso al polo ergi la mente.Nostra vita a che val? solo a spregiarla:beata allor che nè perigli awolta,se stessa oblia, né nelle putti e lenteore il danno misura e il flutto ascolta;beata allor che il piedespinto al varco leteo, più grata riede.Giacomo Leopardi

GLI AZZURRI E I ROSSITaci, profano. (Non dico a te, caro Orazio). Tu non puoi comprendere quanto noi godiamo coi sensi e con lo spirito, noi che impugnammo il bracciale nei nostri begli anni, allo spettacolo d'una partita al pallone giocata da artisti di polso; né si può spiegare a chi non lo comprende, come non si spiega l a virtù della musica a chi ha gli orecchi turati dalla natura. Tu, mal venturato, non sai che le arcate descritte da un pallone battuto e ribattuto alla brava sono per noi immagini vive e distinte, nella cui varietà infinita vediamo la maestà, la forza, l'eleganza, la grazia come in linee d'archi di trionfo titanici, in curve d'arcobaleni, in traiettorie di bombe, in fughe di razzi, in voli di rondini e di saette, in contorni di montagne e d'onde d'oceano in tempesta.Tu non sai che la battuta o la rimessa d'un pallone che rade il muro d'appoggio e lo morde e ne sfugge e vi ribatte, rabbioso come il ronzone che non si può staccar dal vetro dove dà del capo, ci fa fremere di piacere col riso del genio delMonteverde che imprigiona il fulmine fra le dita; che dietro al pallone che supera il gioco da tetto o da basso va la nostra fantasia come dietro all'aereostato che si perde nell'azzurro o all'astro che cala dietro l'orizzonte; che alla vista d'un pallone preso di posta a fior di terra e ricacciato in fondo al gioco quando non appariva più speranza di coglierlo, i nervi tesi ci s'allentano e il petto oppresso ci si dilata, con un senso profondo di sollievo come al mala-to per un'inalazione d'ossigeno o all'avaro al veder salvata da un pericolo una cosa preziosa. E tu non sai nemmeno che certe grandi volate diritte, fatte con un colpo sicuro e senza sforzo, ci fanno vibrare da capo a piedi come una nota sostenuta e limpidissima d'un tenore; che la ribattuta trionfale con cui si chiude un palleggio prolungato e fortunoso, che ci tenne l'animo sollevato come una disputa di medici al nostro capezzale, ci allarga l'anima come un annunzio di salvezza, che i diversi colpi alti e bassi, forzati e liberi, fiacchi e gagliardi, e i vari rimbalzi, scozzi, salti inaspettati e archi crescenti e calanti del pallone hanno per noi figura e senso di provocazioni, di scherni, di risposte superbe, d'audacie eroiche e d'insidie feline, e che nelle vicende d'una partita vediamo tutte le vicende di sfortuna e riscossa, di scoramento, d'entusiasmo e di disperazione di una battaglia umana. Tutte queste cose tu non sai, e forse non credi neppure. Taci dunque, profano, e accetta l'espressione del nostro com-pianto.A parte lo scherzo, il diletto che noi proviamo è assai più grande di quanto si possa credere da chi, non conoscendolo, lo argomenti da qualsiasi altro gioco, poiché dicendo che vi son persone sensate e colte le quali hanno da questo spettacolo commozioni d'un altro ordine, ma di gran lunga più forti di quelle che dia loro qualunque rappresentazione drammatica, e che all'aprirsi d'una grande partita sentono un'agitazione così violenta di curiosità e d'impazienza da dover, ragionando, far vergogna a se stessi per sedare i nervi, non esageriamo punto la verità. Ma spiegare chiaramente in che questo diletto consista, e definire tutte le fonti da cui deriva, non è facile. Dire che nasce dal veder compiere facilmente un esercizio di destrezza e di forza che noi conosciamo per esperienza difficile è dire una ragione che vale per tutti gli esercizi fisici. Questo ne ha molte altre sue proprie. È la curiosità destata da ogni pallone battuto che, per la parte che hanno insieme nel gioco l'abilità e la fortuna, può dar luogo a una grande varietà di casi imprevedibili come l'aprirsi d'una discussione politica in un parlamento eccitato; e con questa curiosità, l'acconsentire che si fa irresistibilmente con tutto il corpo a tutti gli sforzi dei giocatori con una ginnastica accennata appena, ma energica, e avvivata da moti diversi dell'animo, la quale ci dà un sentimento intenso della vita fisica; e oltre di ciò l'esercizio vivo e largo dell'occhio che segue come le linee d'un disegno aereo continuamente cangiante, facendo d'ogni linea

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un giudizio e tra le une e le altre una comparazione continua. È forse ancora quel che di simmetrico e di ritmico che c'è nell'avanzarsi e nell'indietreggiare alternato di ciascuna squadra dopo la battuta e dopo la rimessa nell'accorrere simultaneo degli uni e degli altri ora a destra ora a sinistra come in una contraddanza disordinata retta da una musica, che non percepisca il nostro orecchio. Ma è più di questo, certamente, la bellezza e la varietà degli atti, dei passi, degli slanci, dei salti, delle corse, che presentano insieme, lo spettacolo dell'acrobatica, della scherma, del ballo e del pugilato. E sopra ogni cosa, in fine, è la sospensione d'animo cagionata dal parteggiare che fa involontariamente ogni spettatore, per bisogno d'acuire il diletto, per l'uno o per l'altro partito, onde ogni colpo è per lui una vittoria o una speranza o una rivincita o un disinganno, e ogni " gioco " come l'atto d'un dramma, dal cui scioglimento egli avrà soddisfazione o stupore o dispetto o rammarico.Ma tutto questo non basta. Ci dev'essere nel gioco qualche altro elemento di bellezza e argomento di diletto di cui non ci riesce di renderci conto, un segreto che cercai sempre e che mi sfugge ancora; ma che è forse meglio di non conoscere, perché rimanga allo spettacolo anche la virtù attrattiva del mistero.Edmondo De Amicis

IL CACCIATOREFrulla un tratto l'idea nell'aria immota;canta nel cielo. Il cacciator la vede,l'ode; la segue: il cuor dentro gli nuota.Se poi col dardo, come fil di solelucido e reuo, bàttesela al piede,oh il poeta! gioiva; ora si duole.Deh! gola d'oro e occhi di berilli,piccoletta del cielo alto sirena,ecco, tu più non voli, più non brilli,più non canti: e non basti alla mia cena.Giovanni Pascoli

I PROMESS1 SPOSI (Il duello di Lodovico)Lodovico aveva contratto abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l'avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s'accordava, né con l'educazione, né con la natura di Lodovico.S'allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d'inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s'era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l'aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie.Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l'angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commetteva-no alla giornata; ch'erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitate tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d'un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s'intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un'altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettore degli oppressi, e un vendicatore de' torti. L'impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggirie violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co' birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d'una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell'avvenire, per le sue sostanze che se n'andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d'una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a què tempi,

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era il ripiego più comune, per uscir d'impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d'un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant'anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio giacché è uno de' vantaggidi questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s'avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all'alterigia e allo sprezzo.Tutt'e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto! ) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L'altro pretendeva, all'opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d'andar nel mezzo; e ciò in forza d'un'altra consuetudine.Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s'abbattesse in un'altra della stessa tempra. Què due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse in un tono corrispondente di voce: " fate luogo "." Fate luogo voi ", rispose Lodovico. " La diritta è mia "." Co' vostri pari, è sempre mia "," Si, se l'arroganza de' vostri pari fosse legge per i pari miei ".I bravi dell'uno e dell'altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagne-sco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia.La gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservar il fatto; la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de' contendenti." Nel mezzo, vile meccanico; o ch'io t'insegno una volta come si tratta c o' gentiluomini "." Voi mentite ch'io sia vile "." Tu menti ch'io abbia mentito ".Questa risposta era di prammatica." E se tu fossi cavaliere, come son io", aggiunse quel signore, " ti vorrei far vedere, con la spada e con la ceppa, che il mentitore sei tu"." È un buon pretesto per dispensarvi di sostener co' fatti l'insolenza delle vostre parole "." Gettate nel fango questo ribaldo ", disse il gentiluomo, voltandosi a' suoi" Vediamo! " disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada," Temerario! " gridò l'altro, sfoderando la sua: " io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue".Così s'avventarono l'uno all'altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla difesa dè loro padroni.Il combattimento era disuguale, e per il numero, e anche perché Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d'un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell'estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò cori la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch'era finita, si diedero alla tuga, malconci:quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall'altra parte. Lodovico si trovò solo, con que' due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla." Com'è andata? – È uno. – Son due. – Gli ha fatto un occhiello nel ventre. – Chi è stato ammazzato?– Quel prepotente. – Oh santa Maria che sconquasso.– Chi cerca trova. – Una le paga tutte. – Ha fini-to anche lui. – Che colpo! – Vuol essere una faccendaseria. – E quell'altro disgraziato! -Misericordia! che spettacolo! – Salvatelo, salvate-lo.– Sta fresco anche lui. – Vedete com'è concio! butta sangue da tutte le parti. – Scappi, scappi. Non si lasci prendere ".

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Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l'aiuto.Il fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora a' birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L'uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: " È un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo; l'ha fatto per sua difesa: c'è stato tirato per i capelli".Alessandro Manzoni

UN PUGNO DI COLORI"... Che cosa rappresentano le Olimpiadi? Ciò che c'è di meglio nei popoli, una grande gara di uomini sul terreno della pace. Oggi prendiamo gusto a degradare tutto: ma io credo allo sport come strumento di cultura. E le Olimpiadi entrano nella cultura di un paese, non solo nel senso del piacere e dell'evasione; esse fanno parte della realtà e della cultura più viva.Lo sport esprime energia ed aiuta a capire la bellezza del corpo umano.Il concetto stesso del campione è nobilitante: lo sforzo di migliorarsi continuamente trascende il muscolo bruto, la materia: in lui c'è qualcosa di diverso, una spinta ideale. Per questa ragione i grandi artisti della nostra epoca hanno riproposto costantemente gli elementi naturali, la pittura ha il dovere di celebrare la vita e lo sport in genere.Le ultime Olimpiadi che ho visto furono quelle di Roma nel '60: un grande spettacolo, che si ripeterà a Los Angeles, uno spettacolo che seguirò da lontano con la curiosità di chi non ha talento per lo sport ma non dimentica le passioni giovanili.Quando ero al liceo, infatti, mi piaceva boxare fra le corde di una palestra a Palermo. Ero un buon pugile. Poi, nell'autunno del 1930 mi sono iscritto all'Università e ho lasciato la Sicilia quando ho saputo che la Quadriennale di Roma accettava due miei quadri. Da quel momento ho accettato di soffrire solo per la pittura. Lo sport della mia vita è cambiato ". Renato Guttuso

LA GINNASTICA EDUCATIVANoi faremo così: lei venga puro,Che lei vedrà si è vero quer che ho detto;Lei venga, studi, appoggi; e stia sicuroChe diventa un ginnastico perfetto.Perch'io comincio cor levaje er duro:Poi j'allargo li muscoli der petto,E quanno è er tempo che sarà maturo,Je fo pià er volo come a un ucelletto.Ché si lei mi frequenta la ginnastica,Co' du' mesi di studio e di lezione,Io lo fo diventa' de gomma elastica.Che poi, qualora avesse fantasiaDe volesse forma' 'na posizione,Pò fa' pure er pajaccio in Compagnia.Cesare Pascarella

ER MAESTRO DE NOTOMa caro lei, bisogna intennè questaChe er noto e come un'antra professione,Dunque, si lei nun pia quarche lezioneÈ indificile assai che j'entri in testa.Er fisico ce l'ha che je si presta;Ma si nun viè co' me ner capannone,Si Dio guardi si stacca da un passone,Sarv'ognuno, c'è er caso che ce resta.Perché, capisce?, nun si po' presumèChe senza di sapè le miccherieLei noti in mezzo ar Tevere di fiume.

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Solo, da sé, così, nun je riesce.Ma lei si metta ne le mano mie,E dopo un mese nota come un pesce.Già, dico, a lei serve de spiegalla.La capisce da sé. Lei vadi piano,Facci' l'istesso movimento umanoCome si camminasse, e lei sta a galla.Che si ar contrario lei ce se riscallaE dà li carci all'acqua co' le mano,Si pure vi trovate in d'un pantanoVoi ve n'annate giù come 'na palla.Dunque, per cui, quanno mi fe er braccetto,Si 'sta notata la vo' fa' pulita,Lei bisogna che nun s'affanni er petto.Lei vadi naturale. Vadi sciorto.Basta, che si er Signore ce dà vita,Domatina v'imparerò a fa' er morto,Dunque, adesso che lei, caro signore,Ha imparato, ce vo' 'n po' d'esercizio.Vadi piano, nun vadi a precipizio,E lei diventa un primo notatore.Capisce? Seguitate con amoreA fa' li vostri studi co' giudizio.Che quanno ve levate quarche vizio,Come v'ho detto, sete un professore.Pero nun v'esponete. E, verbigrazia,Quanno che ve buttate, state attentoPerché nun ce vo' gnente 'na disgrazia.Anzi, vede, nun è pè mettè bocca,Ma si lei nun vo' avè quarche spavento,Lei vadi sempre indove ce se tocca.Cesare Pascarella

FANCIULLI ALLO STADIOGallettoè alla voce il fanciullo; estrosi amori,con quella, e crucci, acutamente incide.Ai confini del campo una bandierasventola solitaria su un muretto,Su quello alzati, nei riposi, a garacari nomi lanciavano i fanciulli,ad uno ad uno, come frecce. Vivein me l'immagine lieta; a un ricordosi sposa - a sera - dei miei giorni imberbi.Odiosi di tanto eran superbipassavano là sotto i calciatori.Tutto vedevano, e non quegli acerbi.Umberto Saba

TREDICESIMA PARTITASui gradini un manipolo sparutosi riscaldava di se stesso.E quando- smisurata raggera - il sole spensedietro una casa il suo barbaglio, il camposchiarì il presentimento della notte.

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Correvano su e giù le maglie rosse,le maglie bianche, in una luce d'unastrana iridata trasparenza. Il ventodeviava il pallone, la Fortunasi rimetteva agli occhi la benda.Piacevaessere cosi pochi intirizziti uniti,come ultimi uomini su un monte,a guardare di là l'ultima gara.Umberto Saba

SQUADRA PAESANAAnch'io tra i molti vi saluto, rossoalabardati,sputatidalla terra natia, da tutto un popoloamati.Trepido seguo il vostro gioco.Ignariesprimete con quello antiche cosemeravigliosesopra il verde tappeto, all'aria, ai chiarisoli d'inverno.Le angosce,che imbiancano i capelli all'improvviso,sono da voi sì lontane! La gloria.vi dà un sorrisofugace: il meglio onde disponga. Abbraccicorrono tra di voi, gesti giulivi.Giovani siete, per la madre vivi;vi porta il vento a sua difesa. V'amaanche per questo il poeta, dagli altridiversamente - ugualmente commosso.Umberto Saba

TRE MOMENTIDi corsa usciti a mezzo il campo, dateprima il saluto alle tribuna. Poi,quello che nasce poiche all'altra parte vi volgete, a quellache più nera s'accalca, non è cosada dirsi, non è cosa che abbia un nome.Il portiere su e giù cammina comesentinella. Il pericololontano è ancora.Ma se in un nembo s'avvicina, oh allorauna giovane fiera si accovaccia,e all'erta spia.Festa è nell'aria, festa in ogni via.Se per poco, che importa?Nessun'offesa varcava la porta,s'incrociavano grida ch'eran razzi.La vostra gloria, undici ragazzi,come un fiume d'amore orna Trieste.Umberto Saba

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IL GIRO D'ITALIATra poche ore partenza. Comincia la vita di carovana. L'albero del Giro ha messo le sue foglie multicolori. Vivrà in tre settimane le sue tre stagioni: la primavera delle speranze, l'estate della lotta, l'autunno di quello che in termine tecnico si chiama "l'assestamento generale della classifica". E molte foglie si pensa, cadran prima dell'autunno: e molti fiori non daranno frutto.Ma si parte ugualmente lieti: ventun giorni di fatica, di ansie, di sudate, di sbucciature, di bocconi amari. Capitomboli, sonni agitati, levatacce all'alba, pneumatici che tradiscono e perdon l'anima con un soffio sottile. Ma si va via ugualmente lieti. C'è in mezzo anche un milionario che questa sgobbataccia se la potrebbe risparmiare, lui, che i soldi se li è fatti, ad uno ad uno, a colpi di pedale, a gocce di sudore. Ma se non partisse gli sembrerebbe di dare, d'un colpo, un addio alla sua giovinezza; e questo è un dolore che anche i milioncini non alleviano.È un frutto dallo strano sapore, il Giro, amaro e dolce, agro e profumato. Ma chi ne ha mangiato, ne mangerà, finché si han denti in bocca.Orio Vergani

NUOTARE NELLA SPADAII riflesso sul mare si forma quando il sole s'abbassa: dall'orizzonte una macchia abbagliante si spinge fino alla costa, fatta di tanti luccichii che ondeggiano; tra luccichio e luccichio, l'azzurro opaco del mare incupisce la sua rete.Le barche bianche controluce si fanno nere, perdono consistenza ed estensione, come consumate da quella picchiettatura risplendente.È l'ora in cui il signor Palomar, uomo tardivo, fa la sua nuotata serale.Entra nell'acqua, si stacca dalla riva, e il riflesso del sole diventa una spada scintillante nell'acqua che dall'orizzonte s'allunga fino a lui. Il signor Palomar nuota nella spada o per meglio dire la spada resta sempre davanti a lui, a ogni sua bracciata si ritrae, e non si lascia mai raggiungere. Per tutto dove egli allunga le braccia, il mare prende il suo opaco colore serale, che s'estende fino a riva alle sue spalle.Mentre il sole scende verso il tramonto, il riflesso da bianco-incandescente si colora d'oro e di rame.E dovunque il signor Palomar si sposti, il vertice di quell'aguzzo triangolo dorato è lui; la spada lo segue, indicandolo come la lancetta d'un orologio che ha per perno il sole."È un omaggio speciale che il sole fa, a me personalmente", è tentato di pensare il signor Palomar, o meglio l'io egocentrico e megalomane che abita in lui. Ma l'io depressivo o autolesionista che coabita con l'altro nello stesso contenitore, obietta:"Tutti quelli che hanno occhi vedono il riflesso che li segue; l'illusione dei sensi e della mente ci tiene sempre tutti prigionieri ". Interviene un terzo coinquilino, un io più equanime: "Vuol dire che, comunque sia, io faccio parte dei soggetti senzien-ti e pensanti, capaci di stabilire un rapporto con i raggi solari, e di interpretare e valutare le percezioni e le illusioni ".Ogni bagnante che a quest'ora nuota verso ponente vede la striscia di luce che si dirige verso di lui per spegnersi poco più in là del punto dove la sua bracciata si spinge: ognuno ha un suo riflesso, che solo per lui ha quella direzione e si sposta con lui. Ai due lati del riflesso, l'azzurro dell'acqua è più cupo.È quello il solo dato non illusorio, comune a tutti, il buio?", si domanda il signor Palomar. Ma la spada s'impone ugualmente all'occhio di ciascuno, non c'è modo di sfuggirle. "Ciò che abbiamo in comune è proprio ciò che è dato a ciascuno come esclusivamente suo? ".Le tavole a vela scivolano sull'acqua, tagliando con bordate oblique il vento di terra che si leva a quest'ora.Figure erette reggono il boma a braccia distese come arcieri, contenendo l'aria che schiocca nella tela. Quando attraversano il riflesso ecco che in mezzo all'oro che li avvolge i colori della vela si attenuano e il profilo dei corpi opachi è come entrasse nella notte."Tutto questo avviene non sul mare, non nel sole", pensa il nuotatore Palomar, "ma dentro la mia testa, nei circuiti tra gli occhi e il cervello. Sto nuotando nella mia mente; è solo là che esiste questa spada di luce; e ciò che mi attira è proprio questo.È questo il mio elemento, l'unico che io possa in qualche modo conoscere ".Ma anche pensa: "Non posso raggiungerla, è sempre lì davanti, non può essere insieme dentro di me e qualcosa in cui io nuoto, se la vedo ne resto fuori ed essa resta fuori ".Le sue bracciate si sono fatte stracche e incerte: si direbbe che tutto il suo ragionamento, anziché aumentargli il piacere di nuotare nel riflesso, glielo stia guastando, come facendogli sentire in esso una limitazione, o una colpa, o una condanna. E anche una responsabilità a cui non può sfuggire: la spada esiste solo perché lui è lì;

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se lui se ne andasse, se tutti i bagnanti e i natanti tornassero a riva, o solo voltassero le spalle al sole, dove finirebbe la spada?Nel mondo che si disfa, la cosa che lui vorrebbe salvare è la più fragile: quel ponte marino tra i suoi occhi e il sole calante. Il signor Palomar non ha più voglia di nuotare; ha freddo. Però continua: ora è obbligato a restare in acqua fino a che il sole non scompare.Allora pensa: "Se io vedo e penso e nuoto il riflesso, e perché all'altro estremo c'è il sole che lancia i suoi raggi. Conta solo l'origine di ciò che è: qualcosa che il mio sguardo non può sostenere se non in forma attenuata come in questo tramonto. Tutto il resto è riflesso tra i riflessi, me compreso".Passa il fantasma d'una vela; l'ombra dell'uomo-albero scorre tra le scaglie luminose. "Senza il vento questa trappola messa insieme con snodi di plastica, ossa e tendini umani, scotte di nylon non si terrebbe su; è il vento a farne un'imbarcazione che pare dotata d'una propria finalità e intenzione; è solo il vento a sapere dove va il surf e il surfista", egli pensa. Che sollievo se riuscisse ad annullare il suo io parziale e dubbioso nella certezza d'un principio da cui tutto deriva! Un principio unico e assoluto da cui prendono origine gli atti e le forme?Oppure un certo numero di principi distinti, linee di forza che s'intersecano dando una forma al mondo quale appare, unico, istante per istante?" .. il vento e anche, s'intende, il mare, la massa d'acqua che sorregge i solidi galleggianti e fluttuanti, come me e la tavola ", pensa il signor Palomar facendo il morto.Il suo sguardo rovesciato ora contempla le nuvole vaganti e le colline nuvolose di boschi. Anche il suo io è rovesciato negli elementi: il fuoco celeste, l'aria in corsa, l'acqua culla e la terra sostegno.Sarebbe questa la natura? Ma nulla di ciò che egli vede esiste in natura: il sole non tramonta, il mare non ha quel colore, le forme sono quelle che la luce proietta nella retina. Con movimenti innaturali degli arti lui galleggia tra gli spettri; sagome umane in posizioni innaturali spostando il loro peso sfruttano non il vento ma l'astrazione geometrica d'un angolo tra il vento e l'inclinazione d'un congegno artificiale, e così scivolano sulla liscia pelle del mare. La natura non esiste?L'io nuotante del signor Palomar è immerso in un mondo scorporato, intersezioni di campi di forze, diagrammi vettoriali, fasci di rette che convergono, divergono, si rifrangono. Ma dentro di lui resta un punto in cui tutto esiste in un altro modo, come un groppo, come un grumo, come un ingorgo: la sensazione che sei qui ma potresti non esserci, in un mondo che potrebbe non esserci ma c'è.Un'onda intrusa turba il mare liscio; un motoscafo irrompe e corre via spandendo nafta e sobbalzando a pancia piatta. Il velo di riflessi unti e cangianti della nafta si dispiega fluttuando dentro l'acqua; quella consistenza materiale che al barbaglio del sole manca, non può essere messa in dubbio per questa traccia della presenza fisica dell'uomo, che cosparge la sua scia di perdite di carburante, detriti della combustione, residui non assimilabili, mescolando e moltiplicando la vita e la morte intorno a sé."Questo è il mio habitat", pensa Palomar, " che non è questione d'accettare o d'escludere, perché solo qua in mezzo posso esistere ". Ma se la sorte della vita sulla terra fosse già segnata? Se la corsa verso la morte diventasse più forte d'ogni possibilità di recupero? L'ondata scorre, cavallone solitario, fino a che non s'abbatte sulla riva; e dove sembrava esserci soltanto arena, ghiaia, alghe e minutissimi gusci di conchiglie, il ritirarsi dell'acqua ora rivela un lembo di spiaggia costellato di barattoli, noccioli, preservativi, pesci morti, bottiglie di plastica, zoccoli rotti, siringhe, rami neri di morchia.Sollevato anche lui dall'onda del motoscafo, travolto dalla marcia delle scorie, il signor Palomar d'im-provviso si sente relitto tra i relitti, cadavere roto-lato sulle spiagge-immondezzaio dei continenti-cimiteri.Se nessun occhio tranne quello vitreo dei morti s'aprisse più sulla superficie del globo terracqueo, la spada non tornerebbe più a brillare. Aben pensarci, una tale situazione non è nuova: già per la durata di milioni di secoli i raggi del sole si posavano sull'acqua prima che esistessero degli occhi capaci di raccoglierli. Il signor Palomar nuota sott'acqua; emerge; ecco la spada! Un giorno un occhio uscì dal mare, e la spada, che già era lì ad attenderlo, poté finalmente sfoggiare tutta la snellezza della sua punta acuta e il suo fulgore scintillante.Erano fatti l'uno per l'altra, spada e occhio; e forse non la nascita dell'occhio ha fatto nascere la spada ma viceversa, perché la spada non poteva fare a meno d'un occhio che la guardasse al suo vertice.Il signor Palomar pensa al mondo senza di lui: quello sterminato di prima della sua nascita, e quello ben più oscuro di dopo la sua morte; cerca d'immaginare il mondo prima degli occhi, di qualsiasi occhio; e un mondo che domani per catastrofe o lenta corrosione resti cieco. Che cosa avviene (avvenne, avverrà) mai in quel mondo? Puntuale un dardo di luce parte dal sole, si riflette sul mare calmo, scintilla nel tremolio dell'acqua, ed ecco la materia diventa ricettiva alla luce, si differenzia in tessuti viventi, e a un tratto un occhio, una moltitudine d'occhi fiorisce, o rifiorisce...Ora tutte le tavole del surf sono state tirate a riva, e anche l'ultimo bagnante infreddolito - di nome

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Palomar - esce dall'acqua. Si è convinto che la spada esisterà anche senza di lui; finalmente s'asciuga con un telo di spugna e torna a casa.Italo Calvino

I CRUISERAffascinato dagli yachts, in un primo tempo avevo disdegnato di soffermarmi su i cruisers. Sapevo che avevano nella pancia motori con la forza di tantissimi cavalli, motori che, sincronizzati, precipitano nell'elica il tumulto di migliaia di garretti.I cruisers si chiamano anche cabinati poiché hanno vezzeggio di cabine, il saloncino gonfio di cuscini; sono barche di sette metri, ma possono essere di dieci e più, e quasi tutti hanno la carena Hunt, fatta a brevi scalini, sì che lo scafo sta più aderente all'acqua, insieme plana e insieme aderisce.Appunto distoglievo da loro lo sguardo, irritato per lo sfoggio di una ricchezza protetta dai motori, nemica dell'arte, vana superbia guidare sulla sterminata pianura del mare come si fosse in automobile.Quand'ecco mi capitò assistere alla gara Viareggio-Bastia e ritorno.Ero chinato un giorno ad armare la mia barchetta di quattro metri, grazioso sciabecco, unico alberello, unica vela tra la torma di motorizzati bestioni, quando udii di una gara che si doveva svolgere il giorno dopo, che era sabato.Chiesi migliori notizie a Salvatore, il custode del pontile.Era una gara che si svolgeva in due tempi; il sabato i cruisers partivano da Viareggio e andavano a Bastia. Ci avrebbero messo dalle due alle tre ore.Il giorno dopo da Bastia tornavano a Viareggio.Ambedue le volte la partenza era a mezzogiorno preciso. Le ditte costruttrici si combattevano per il primato.C'erano anche concorrenti stranieri.Il giorno dopo arrivai in darsena di buon tempo.Già i cruisers erano allineati davanti alla Capitaneria e una siepe di uomini sulla banchina teneva in silenzio gli occhi sopra di loro. A contrasto, l'eccitazione spumeggiava per tutta la restante darsena. Si intrecciavano ogni sorta di domande e risposte; chi timidamente ne sapeva meno domandava a chi sfoggiava saperne di più, quanto tempo per percorrere le miglia da Viareggio a Bastia, se era una gara veramente sportiva, quali le industrie che si contendevano il primato.Una notizia galleggiò su tutte le altre: un famosissimo industriale di Torino, apposta, con un aereo speciale aveva tratto a Viareggio il suo tecnico più bravo perché sincronizzasse i motori del suo cruiser, i quali non ne volevano sapere di mettersi d'accordo e continuavano a far battibecco.La terrazza del club nautico fermentava di concor-renti, di simpatizzanti, di coloro che delirano a sfiorare con il gomito i miliardari. Due giovani, gridando a distanza di pochi metri, annunciarono che avrebbero seguito la gara da un elicottero, dal cielo.La partenza avveniva al di fuori delle bocche del porto. Mancava mezz'ora. I cruisers misero in moto per avviarsi alla linea stabilita. Vomitarono un primo boato; nessuno guardò più, l'eleganza delle cabine. Ribollendo, lasciarono lentamente la darsena.Qualcuno mi chiamava. Era mio nipote da un motoscafo." Sono con la giuria. Vieni! ".Calai giù, montai a bordo. Perbacco! d'improvviso ero tra le autorità.E fu patetico vedermi vicino Idano Domenici, un vecchio viareggino che ha dedicato il meglio della sua vita a organizzare gare sportive. Era armato di un megafono e di un pistolone.Si arrivò davanti si cruisers, già disposti a cento metri dalle due boe che idealmente segnavano sull'acqua la linea di partenza. I motori in folle ruggi-vano come bestie feroci nella gabbia.Il nostro motoscafo cominciò a correre nello specchio antistante. Idano col megafono avvertiva le piccole imbarcazioni, gli innamorati in smemoratezza su i pattini, che si allontanassero perché tra poco sarebbero passati a gran velocità i concorrenti.I secondi battevano verso mezzogiorno; rifummo alle boe del traguardo.Poi seppi la meticolosità dell'organizzazione, addirittura un ammiraglio era, sulla punta del molo con radio e altri congegni; la Marina militare silenziosamente proteggeva contro possibili eventi.Idano Domenici alzò verso il cielo il pistolone, premette il grilletto. Nel celeste si alzò un nastro opalescente che disegnò una cupola e mollemente si nascose nel mare.I cruisers, liberati dalle sbarre, si gettarono sulla preda del mare, mi passarono davanti in un tumulto di spume, infuriati serpenti che frustano l'acqua.

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Erano già laggiù, tutti accostati. Avevano già oltre-passato la boa di Fossa dell'Abate, adesso erano dodici gorghi bianchi in alto mare. Le prue puntavano su Bastia, migliaia di cavalli battevano sulle eliche gli zoccoli.Quella gara era la moderna storia del mio paese.Come una volta ero stato al varo del Garibaldino, quel giorno che ci fu una delle zuffe tra fascisti e sovversivi, così oggi, tanto tempo passato, tante esperienze consumate, desideravo essere testimone.Il giorno dopo, domenica, gli equipaggi da Bastia sarebbero tornati a Viareggio.A mezzogiorno ero già in darsena. Era silenziosa e quasi deserta; i cruisers sarebbero arrivati circa alle tre. Le onde si erano ingrossate. Avevo saputo che nella gara del giorno prima gli equipaggi si erano dovuti aggrappare a ogni maniglia per non essere scaraventati in acqua. Il mare aveva un poco scrollato le enormi spalle quasi a ricordare agli uomini la loro insulsaggine.La velocità degli scafi già ardua quando il mare è una pianura, era divenuta irta di pericolo per la muraglia delle onde, che hanno al di là la voragine del vuoto.Misi la vela alla mia piccola barchetta e uscii dalle bocche. Bordeggiando, il vento mi piegava e mi consolava. Al di là della costa si ergevano i moti apuani; il soffuso manto viola che il cielo stendeva sulle loro spalle li faceva più solenni, non più benigni.Mi ricordavo di certe lontanissime mattine di inverno sulla punta del molo, i nostri cappotti per-forati dalla tramontana, e qualcuno voleva indicarci ogni cima nevosa, la Pania, il Forato, l'Altissimo, stendeva il dito verso quei picchi, e noi testardi a non farci distrarre, a non farci togliere dal nostro amore, dal mare.Veleggiavo con la mia barchetta e nuova mi appariva la costa. O amore per il mio paese! Quei recenti fabbricati, la cosiddetta città giardino, gli ultimi grattacieli, immobili nel sole, li vedevo belli, leggendaria città orientale, allucinata bianca selva.Veleggiavo con il mio fragile sciabecco in attesa dei cruisers, incrociatori da diporto.Alle due e mezzo, siccome ero solo ad andare su e giù nel mare, mi sorse un leggero stupore; ma la spiegazione era facile, i bagnini avevano impedito ai bagnanti di uscire con i pattini perché sulla battimale onde si frangevano.Avvicinandosi le tre, la solitudine continuando, mi domandai se la gara era stata rimandata. Ed ecco vidi arrivare su un bianco naviglio lo stesso vecchio viareggino Idano Domenici, ancora armato di megafono e pistolone; e la vita mi si rifece trasparente come la fonte Bandusia. Bordeggiai allegro ancora una volta; lo sciabecco catapultava tra le onde, minuscolo eroe. I cruisers erano per arrivare.Calai l'ancora vicino al naviglio di Idano ed attesi.Idano speculava col binocolo verso l'orizzonte, verso Bastia. Nessuna farfallina biancheggiava, tra l'una e l'altra onda.Improvvisamente gridò, il binocolo sulle due occhiaie, il dito indirizzato:" Il primo! ".Infatti laggiù, dalle parti di Livorno, ma più dirottato verso il largo, tra i raggi del sole, appariva e spariva uno specchietto. Presto distintisi una prua che si ergeva. Scoccarono ancora pochi secondi e mi passò davanti lo scafo, i motori urlavano la felicità di avere il mare sotto le unghie.La tecnica, la meccanica, la fisica, l'officina, l'industria, i sindacati, il dolore di tanti uomini, questo era il mio tempo, quello della vela lontano, leggendario, polverosa fotografia il bastimento che si allontanava con le vele spiegate.A bordo del cruiser tre persone, tagliando la immaginaria linea del traguardo, agitarono le braccia, travolti dalla gioia di essere arrivati primi.Già sopraggiungevano insieme il secondo col terzo, le onde alzate dall'uno si zuffavano con quelle dell'altro, come essere al teatro dei burattini quando di santa ragione se le danno i due re. Poi si seppe che da molte miglia avevano gareggiato costa-costa, due galli da combattimento, lanciandosi gli speroni delle spume.Arrivo il quarto, il quinto, il sesto. Invece di aspettarli tutti, desiderai essere tra la folla che infine nereggiava sui moli e le banchine della darsena; mi pungeva la voglia di ascoltare i diversi commenti.Arrivai al pontile, scesi e mi mescolai. I cruisers erano di nuovo ormeggiati e muti davanti alla capitaneria.La stessa siepe di persone del giorno prima guardava con quel silenzio dei contadini davanti alle prime automobili.Arrivò anche l'equipaggio femminile, un cruiser composto nella guida solo da donne. La madre e la figlia scesero per la passerella. Gli altri equipaggi maschili, appena toccata la terra, avevano alzato le loro confessioni, ad alta voce ripetuto i momenti difficili, le paure, le rabbie, la volontà di resistere, quell'onda che veniva di traverso, l'urto violento, e adesso la maggior parte di quegli uomini era radunata sulla terrazza del club nautico e continuava a sfogare la tensione che aveva sopportato durante la gara.

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Le donne invece scesero dal loro cruiser quasi distratte, come si avviassero in un pomeriggio di tiepido sole a certe compere. Avevano tutte e due il passo leggero, la statura era identica, ed esili nella persona. La figlia, che non arrivava a vent'anni, aveva i calzoncini corti, si che si vedevano due gambe diritte, miracolose colonnine che si muovevano.Sulla coscia destra, unico segno della recente avventura, appariva un grosso livido, una macchia viola. A braccetto si avviarono per il viale che porta al molo, in silenzio e quasi severe.Mario Tobino

I DUECENTOOtto proiettili esplosidalle micce dei blocchiparalleli disegnanouna corona alla curvaun diadema di bengala e di fiondedi sonagliere disperate al rettifiloazzannato per il laccio del traguardoove s'aprono nidi di respirisu lievitati tappeti di tartan.Giuseppe Brunamontini

PALIOLa tua fuga non s'è dunque perdutain un giro di trottolaal margine della strada:la corsa che diradale sue spire fin qui,nella purpurea bucadove un tumulto d'anime salutale insegne di Liocorno e di Tartuca.Il lancio dei vessilli non ti mutanel volto; troppa vampa ha consumatigl'indizi che scorgesti; ultimi annunziquest'odore di ragia e di tempestaimminente e quel tiepido stillaredelle nubi strappate,tardo saluto in gloria di una sorteche sfugge anche al destino. Dalla torrecade un suono di bronzo: la sfilataprosegue fra tamburi che ribattonoa gloria di contrade.È strano; tuche guardi la sommossa vastità,i mattoni incupiti, la malcertamongolfiera di carta che si spiccadai fantasmi animati sul quadrantedell'immenso orologio, l'arpeggiantevolteggio degli sciami e lo stuporeche invade la conchigliadel Campo, tu ritienitra le dita il sigillo imperiosoch'io credevo smarritoe la luce di prima si diffondesulle teste e le sbianca dei suoi gigli.Torna un'eco di là: c'era una volta...(rammenta la preghiera che dal buioti giunse una mattina)

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"non un reame, ma l'esiletraccia di filigranache senza lasciarvi segnoi nostri passi sfioravano.Sotto la volta diacciagrava ora un sonno di sasso,la voce dalla cantinanessuno ascolta, o sei te.La sbarra in croce non scandela luce per chi s'è smarrito,la morte non ha altra vocedi quella che spande la vita".ma un'altra voce qui fuga l'orroredel prigione e per lei quel ritornellonon vale il ghirigoro d'aste avvolte(Oca e Giraffa) che s'incrociano altee ricadono in fiamme. Geme il palcoal passaggio dei brocchi salutatida un urlo solo. È un volo! E tu dimentica!Dimentica la mortetoto coelo raggiunta e l'ergorantebalbuzie dei dannati! C'era il giornodei viventi, lo vedi, e pare immobilenell'acqua del rubino che si popoladi immagini. Il presente s'allontanaed il traguardo è là: fuor della selvadei gonfaloni, su lo scampaniodel cielo irrefrenata, oltre lo sguardodell'uomo - e tu lo fissi. Così, alzati,finché spunti la trottola il suo pernoma il solco resti inciso. Poi, nient'altro.Eugenio Montale

A CHICKQuesta è la medesima bestia esultanteChe così gioiosaRincorreva la palla con teIn quegli ampi giorni d'ardore.Ricordi con quanto slancioEsultavamo nella febbre e nella polvereE nel turbine della lotta?Ricordi che ci chiamavanoI due Terribili?E ricordiDopo esserci gettati testaE corpoContro il muro della loro difesa,Ricordo il grido ch'io lanciavo,E come tu mi guardaviFedele e ammiratoE dicevi "Andiamo..."Come le linee si scontravanoE tendevanoE come io m'infiltravoLottando e divincolandomiOltre la linea

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Verso la vittoria.Ricordi Chick?..Frank Horne

A JAMESRicordiCome vincestiL'ultima corsa?Come gettasti il tuo corpoAlla partenza...Come le tue scarpette chiodateSolcarono la cenereLungo la pista...Come tagliasti a catapultaIl nastro d'arrivo...Ricordi...?Credi che ioNon balzassi con teDalle fossette di lancio...?Credi che i miei nerviNon si tendesseroA quelle primePoche falcate...E quando infilasti volando la pistaNon fosse tutto il mio fremitoDi mille corseNel tuo sangue...?Nel tuo guizzo finaleLungo la diritturaNon ti disseIl mio gridoL'estasi trionfaleDella vittoria...?Vivi come t'ho insegnatoA correre, Ragazzo...È una breve corsaScava le fossette di lancioProfonde e saldeSlanciati da esseSulla pistaCon tutto il vigoreChe è in teGuarda dritto innanziVerso il traguardoPensa solo alla metaCorri drittoCorri forteCorri tenaceNon risparmiartiE concludiCon uno strappo estaticoChe ti portiA capofittoAttraverso il nastroAlla vittoria...Frank Horne

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IL PALIOQuanto correre; mamma,a bisdosso, abbrancato alla crinieradel mio selvaggio barbero!Una corsa sfrenatacon la frustata del nervo di buedei compagni sleali sulla faccia...Fu come se corressi con la testachiusa nel sacco d'un gran balzana;come se avessi dentro i poveri occhitutti i ghiaccioli della cattedrale,ed allodola mia,nel cielo azzurro il più alto azzurro punto,mi assordasse l'orecchio e il vecchio cuorecon la romba implacabile del Sunto...Forse dai primi passi rotolaia mordere la polveredella tufacea pista...Ma tu corri lo stesso, o maledetta,sputa l'anima e corri, o poesia,il traguardo è già in vista:corri anche solo con la spennacchieradella mia tradita primavera!Cosi al Palio di Siena,tra la folla in delirio,irridendo il destinovince il barbero che scrollò il fantino.Corrado Govoni

BIKILA- Colui che corre così leggerosu per gli erti spazi del cieloè lo scalzo maratoneta.Gli portarono in omaggio gli scudi e le lancei bisnonni superstiti delle stragi coloniali,il suo viso nero s'affacciò sui giornalicome uno Zorro sorridentee treni, e navi e carovaneautonomie, libertàsi chiamarono come lui,perché arrivassero prestoin tutto il Continente.Quando per primo varcò l'ombradell'arco romano,alzò le braccia e ricusando l'acquacorse attraverso il tuono della follaun altro miglioper sé, come sugli altipiani,Per ringraziare i genitoridel dono dei garretti,l'antilope braccatache gli insegnò la lunga fugae la capanna della ragazzadi là dai monti,raggiunta in gara con la luna.

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Non gridate il suo nome,Che ci attraversi ignarocome le vuote sabbie del desertoe sia per lui concerto degli uccellimoltiplicato nella foresteil nostro applauso mentale.Marcello Venturoli

RUGHE IN VOLTO GIOVANILERughe in volto giovanile,lievi incrinature in sasso nuovo,nella luce dell'aprile.Oh la freschezza della tua boccadi giovane atletae il riso dei tuoi occhi mattutini!Nebbia, sole, pioggia, vento, nevenel campo sportivoe il tuo corpo quasi di fanciullomarmo antico.Rughe in volto giovanile.nube gentilenel sereno fondo.giovani sempre, sempre vivi, tula cui maglia non hanno stinto tuttigli uragani del secolo. Tu guidasereno, dallo spalto dei tuoi anni.Filippo De Pisis

DALL'ALTO GIÙ PER LA CHINA RIPIDODall'alto giù per la china ripidao corridore tu voli in ritmoinfaticabile. Bronzeo il tuo corpo dal turbinetu vieni nocchiero dal cuore insaziato.Sotto la rupe alpestre tra grida di turbe ridestealla vita primeva, gagliarda d'ebbrezze.Bronzeo il tuo corpo dal turbinediscende con lancio leggerovertiginoso silenzio. Rocciosa catastrofe ardente d'intornoe fosti serpente inelante col ritmo concorde del palito indomofuggisti nell'onda di grida fremente, col cuore dei mille con te.Come di fiera in caccia di dietro ti vola una turba.Dino Campana

RINGIl pugile all'angolosembra più vulnerabile,ai lati può sfuggirequando suonan le corde,ma queste non difendono, ti umilianose tentenni al loro arpeggio,ti salveranno solo in apparenza,l'instabile equilibrioti mette alla mercé dell'avversarioche da destra o sinistra ti sbilancia....Non il centro del quadrato ti alletti,la filigrana non difende il ragno

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dalle insidie dei colpi,la ragnatela è un dominio effimero,cercati invece l'angolo senza lusinghe,non quello dei "secondi"che ti consigliano dall'esterno.Loro non si trovano mai sul ringquando i pugni incalzano.Elio Filippo Accrocca

SPORT IO TI CHIAMO FRATELLOSport io ti chiamo fratellofratello dalla faccia cotta e pulitadi pane contadinolavorato dalla madre pel giorno dei mortifratello dal cuore di zolla nera e generosasquarciata dalla sigla urlante del dolorefratello che chiedi un pasto di giustizia al giornocome il bastardo partorito tra le ortichelasciato solo a masticare la terrafratello dal bicipite di pacecosì duro e buonoche ci ricordi il torrone che mangiavamo ragazzifratello come Francesco dall'occhio di biadache ti nutri di fatica mansueta e silenziofratello forte, che abbatti senz'odioe inventi carezze pei vinticome la cagna che allattafortuna e sfortuna con identico amorefratello dall'anima verde che lotti e credinel vangelo di te stessoappreso in pista un po' per giorno.Sport io ti chiamo fratellofratello senza agguato dell'uomoal cui fianco nello stadio elittico dell'esistenzagiochi a foot-ball con Dio.Liana Catri

LA PALLALe magre giovinette in avvenireche rimbalzando la palla di gommasudano delicate nel cortiledi cemento ove giocano, la trombadel silenzio perché non sanno udirecome so io? Al bianco d'una tombamentre la porcellana fa saliredal piatto acceso il pensiero, nell'ombrache prenotturna le copre oh la giallavampa dalle magliette acri - il clamoredi giubilo, se per un fatuo errorelibero di capelli e aliti, dallafinestra chiusa raggiunge il mio cuore,spaccato un vetro celeste, la palla.Giorgio Caproni

SUL CAMPO APERTOSul campo aperto giuocano al pallone.

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Il sole ora l'investe ora li lascia.La camera d'albergo è del mio corponudo agli specchi. E sconosciuta è la città.Sandro Penna

IL MESSIA VESTITO D'ATLETANon sarà di certo l'ultima anforadi viole questo tripode di Moscase la fiamma arderà come la setedelle vacche senz'oasi nelle pianed'Africa, sbandierata dalle gambelunghe dei maratoneti nelle Olimpiedel nord, ormai alla resa coloratadei dilettanti di mondi detti terzieredi per legge all'apprendistatodi fede segnata da scongiuriattorno ai pozzi prima dei giochid'Achille, ignaro d'industria come oraloro scampati agli sponsor su pistedi cervi lunari ove il tedoforofugge l'opulenza del colossoe ripianta il seme sotto Nairobifra Kilimangiaro e Monbasa nelle immensepiste delle maree per congiurarela sede alternativa dopo Moscasegnata a dito come sforzo estremoavanti di virare su scoglieredi angeli gladiatori già in attesadel nuovo Messia vestito d'atleta.Giuseppe Brunamontini

CONCENTRAZIONELa punta dell'asta nell'arial'assicella fra le nuvoleil rosso palloncino segnaventole mani strette sull'impugnatureil silenzio sospeso nello stadioe lui biondo che infrange la preghieraper iniziare la rincorsa tra le strisce.Giuseppe Brunamontini

IL DECATLETACredetemi, la maratona non è niente,Né il martello né il peso; nessuna gara singolaPuò compararsi con la nostra faticaHo vinto, sì, sono più famoso di ieri,Ma sono molto più vecchio e più logoro.Ho corso i quattrocento come uno sparviero,Senza pietà per quello che mi stava a spalla.Chi era? Uno qualunque, un novizio,Uno mai visto prima,Un tapino del terzo mondo,Ma chi ti corre accanto è sempre un mostro,Gli ho stroncato le reni, come volevo;Godendo del suo spasimo, non ho sentito il mio.Per l'asta, è stato meno facile,

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Ma i giudici, per mia fortuna,Non si sono avveduti del mio truccoE i cinque metri me li hanno fatti buoni.Il giavellotto, poi, è un mio segreto;Non bisogna scagliarlo contro il cielo,Il cielo è vuoto: perché vorreste trafiggerlo?Basta che immaginiate, in fondo al prato,L'uomo o la donna che vorreste mortiE il giavellotto diverrà una zagaglia,Fiuterà il sangue, volerà più lontano.Dei millecinque, non vi saprei dire;Li ho corsi pieno di vertigineE di crampi, testardo e disperato,TerrificatoDal tamburo convulso del mio cuore.Li ho vinti, ma a caro prezzo:Dopo, il disco pesava come di piomboE mi sfuggiva dalla mano, viscidoDel mio sudore di veterano affranto.Dagli spalti mi avete fischiato.Ho sentito benissimo,Ma che cosa pretendete da noi?Che cosa ci richiedereste ancora?Di levarci per l'aria in volo?Di comporre un poema in sanscrito7Di arrivare alla fine di pi greco?Di consolare gli afflitti7Di operare secondo pietà?Primo Levi

LA SUBPartire così da questo maresenza dire per dovelasciare sul greto le canne altela capanna cadente di ricordiincidere il nome la datada rivivere al ritorno.Un gommone sbiadito di tanti annialla finestra sempre schiusa al golfoti portava a pescare pescare pescaree indicare nel mistero dei fondalipunti appena che non vidi mai.Eppure questo tempo trascorsoqueste canne sommesse alla bonacciaquesti legni scollati aperti ai ventisi ricompongono con disegni d'acquache piegata strizzavi dai capelli.Giuseppe Brunamontini

L'ARBITROÈ vuoto il Babuino a quest'ora / non passa un'ombracome lo stadio olimpico dopo la partita del trionfo.Dicevi anche tu 50 mila macchinecome ieri / che prendono d'assaltoi parcheggi disperatie, il ministero degli Esteri

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per la domenica impoliticae ogni area del fiume / ogni viale:ora si sono riversate in altre zone della città.La ROMA a metà maggio ha fatto strariparegli argini da San Lorenzo a Testaccio:lo scudetto risaliva dal fondo di una vita...Sulle scalinate che erano imbottitedi visi di parole di striscionioggi zampettano i passeri dell'estate.Anche il fischio dell'arbitro è una sciasfumata sulle sponde del Tevere,l'occhio non insegue più il pallonecome un animale la preda,s'è placato l'urlo della follae il grido isolato del solito ignotoche animava il sorriso sugli spalti....ha dato fuori fiume. All'acqua giallas'è aggiunto il rosso tardivo della primavera.È tornata ai colori di Scipione la capitaledove una stagione dura più del consueto:e il Tempo che straripa oltre le soglie...E qui su questa strada- spogliatoio segreto della memoria -che ripassi alla moviolauna partita più lunga.Ma l'allenatore non lo trovi in campo,il gioco è diverso,la panchina è muta.Tempi supplementarinon esistonotra queste facciatee non sempre i rigorisono riparabili - lo sai -trai paletti di casa.E ché t'importa della folla?ora devi marcare solo un'ombra,l'arbitro è dentro di te.Elio Filippo Accrocca

STADIOPlaudiscela cangiabile folla,dice che la bellezza fuggecome all'arrotino la scintilla.Mario Tobino

I TUFFATORIDai trampolini delle nuvolea perpendicolopiombano sull'acqua i tuffatorie dagli abissi scoscesi di fiorili osservano atterriti uccelli predatori.Giuseppe Brunamontini

MEZZOFONDOIo misuro la pista

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con occhi sottilie dico metrima il cuore pulsaa misura diversaE non sono neanche palpitiné centimetriné paurané rabbia.La misura è solitudinetra la gente.Remo Musumeci

INCONTRO DI PUGILATOSuonano grida, parole di sangue,nella sala accesa di bandiereun pugile vuole la vendetta,copre il suo labbro di miele.Come un sasso staccato dal monterotola sulle eriche di pietra;scatta, per non fuggire, con uri visoesangue contro il nemico,palpita fradicio di pioggia.Tra le foglie inquietedei riflettori, soli enormi, in raucadanza perduti, un grido rompenera e compatta la selva degli occhi.S'accalca nella rissa ogni furore,un lampo scuote l'erba del quadrato,l'uomo appeso col cuorea un filo, china la testa intenta,pare, a segreti strani.La paura è confusa a una malvagiaavidità di morte,l'ansia scuote le gole, la gentefischia con delizioso fervore.Si spezza sul marmo ogni timoree uno zecchino il suono della sorte;un anziano signore corrucciato,fantasma bianco grida il vincitoree gli alza la mano.Roberto Roversi

FRAMMENTOE adesso sul finire del roundsi piega sulle corde,va giù colpito durolui, il gigante, primacon artee con puntiglio lavorato ai fianchipestato in volto, lardellato in tutte le carni:ed eccola scattata supercossa dal suo proprioimprovviso ammutolimentola vociante cavea, gli piantaaddosso un'unicaterribile pupilla, lo fissa,

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maledetta occhiata,lì al tappeto,contato fino all'aut,contato spietatamente.E l'altroancora chiusonella sua allentata guardia,ancora preso nelle magliedel troncato combattimento - attornogli vibra una raggieradi non placata forza - è lìsolo lasciatoin bilico sul nero risucchio,prossimo a ricadere -giù, nel buio depositodi sudori e bave, nel formicolante inferodell'inespressa violenza...finito lui pure, finiti l'uno e l'altro,creati dalla lotta,disfatti dal suo moglimento, forte, subitamente.Mario Luzi

BUFFALO (gara di Stayers in un velodromo)Un dolce inferno a raffiche addensavanell'ansa risonava di megafoniturbe d'ogni colore. Si vuotavanoa fiotti nella sera gli autocarri;Vaporava fumosa una calurasul golfo brulicante; in basso un arcolucido figurava una correntee la folla era pronta al varco. Un negrosonnecchiava in un fascio luminosoche tagliava la tenebra; da un palcoattendevano donne ilari e mollil'approdo di una zattera. Mi dissi:Buffalo! - e il nome agì -.Precipitavonel limbo dove assordano le vocidel sangue e i guizzi incendiano la vistacome lampi di specchi.Udì gli schianti secchi, vidi attornocurve schiene striate mulinantinella pista.Eugenio Montale

IL CALCIOÈ un vizio? Indubbiamente è un richiamo molto forte, irresistibile, ovunque mi trovi, quale che sia il valore delle squadre, il tempo, gli impegni che mi consiglierebbero di rinunciarvi. Nelle mie domeniche, salto la messa, mai la partita. Ed onestamente parlando, oggi come oggi, non so cosa possa accadere di più importante nel resto del mondo, in quelle ore della domenica, di quanto non accade negli Stadi, e che meriti di essere veduto e vissuto.Appunto per questo, vanto al mio attivo le cinque ore di attesa, sotto una pioggia filata, ritto in piedi nel pulvinare di San Siro, per Italia-Inghilterra del '39; e una camminata di quaranta chilometri, tra andata e ritorno, in occasione di un incontro Prato-Torino (il Torino dal trio centrale. Balonceri-Libonatti- Rossetti, grande, immortale come l'altro, della mia generazione, Loik-Gabetto Mazzola), e una cicatrice che mi traversa da parte a parte il ginocchio sinistro. Questa mi ricorda una domenica della tarda adolescenza:

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mancandomi il denaro, scalai il capannone di un'officina prospiciente il campo di via Bellini, a Firenze, e nella discesa la lamina mi ferì. Ma giocava Meazza, quel giorno, una delle sue prime partite di nero-azzurro titolare, e due fazzoletti intrisi di sangue, quattro punti di sutura, l'iniezione antitetanica, i suoi due goals non li valevano? Uno in specie, i1 secondo, segnato alla sua maniera, che non era ancora la sua maniera, ma una verità per la prima volta rivelata: lasciarsi i terzini alle spalle, " surplace ", e dire al portiere: "prego, dopo di lei ". È il gusto dello spettacolo, con tutti i suoi deliri anche, che un grande spettacolo comporta. Poiché di un grande spettacolo si tratta, il più autentico della nostra epoca, lo spettacolo collettivo, " per tutti ", che il teatro moderno non ha saputo darci. O non abbastanza, o non ancora, decaduto il melodramma. È un'arte nuova, corale, moderna ripeto, coetanea del cinema, pensataci bene. Si chiama calcio, In Europa, e tra i popoli dell'America latina, è rugby o base ball negli Stati Uniti. (Ma rugby e baseball, rispetto al calcio, checosa sono, se non delle varianti in chiave di forma muscolare e di destrezza, a scapito dell'intelligenza e della fantasia?). Ora, il calciatore ha la salute dell'Apoziomenos, e la versatilità del poeta estemporaneo, che improvvisa sulla rima obbligata e nel giro di un'ottava. La squadra è una compagnia di undici attori, con una precisa distinzione dei ruoli, e di ciascuno di essi resterà solo il ricordo: è l'insegnamento che si tramanda, la scuola che si perfeziona (o decade) di generazione in generazione. E quello che essi recitano non è uno spettacolo di gladiatori, non è il circo, e non è sport soltanto, è il gioco di una diversa civiltà, una rappresentazione tutta scienza e tutta istinto, razionale e fantasiosa insieme, incruenta. È una nuova commedia dell'arte appunto, con delle platee piene a diecine di migliaia di spettatori che sanno, che conoscono, e che si riconoscono. Per guitti e incolti che siano gli interpreti, il canovaccio è quello, i suggerimenti che si offrono allo spettatore sono quelli, idem l'emozione, l'entusiasmo, le ire... Il marcamento del-l'uomo e il rimando di De Vecchi Figlio-di-Dio, il senso di precisione e d'offesa di Bernardini centro-mediano, il passo doppio di Biavati, la rovesciata di Piola, lo scatto e la chiarezza di gioco di Mazzola, la stangata stessa di Levratto, il gioco pericoloso di De Pra, il dribbling di Zizì Cevenini e via dicendo, per circoscrivere l'argomento al calcio nazionale, e il congegno di precisione, l'opera d'arte davvero, animata, ineffabile, e fatalmente caduca, ch'era la Juventus dei cinque scudetti o l'ultimo Torino, con il suo retroscena umano, le "tranches de vie" che vi si accompagnano, sono tanti capitoli di una storia ancora da scrivere, una materia vergine che aspetta l'equivalente di quello che Hemingway ha saputo rivelarci sulla tauromachia... E chi scriverà (un episodio solo, il più patetico, così come lo favoleggia la memoria) di Seghesio, anche lui portiere, che gli annali collocano fra il tramonto di De Prà e il sorgere di Combi?Era un ragazzo esile, bruno, il campo di Marassi gli apparteneva, dovevano convocarlo per la nazionale.Ed ecco, un giorno, che il mezzodestro avversario è solo in area, scende libero verso la rete.Seghesio abbandona i pali, ha una scelta di tempo, un'audacia sue poprie, eccezionali. Una frazione di secondo, quanto basta tuttavia perché l'attaccante tenti di precederlo: la cannonata parte che Seghesio è già lanciato. Sempre dentro una frazione di secondo tutto questo.Ora Seghesio si rimette in piedi inarcandosi sulle reni, un macigno viene ad urtargli contra il petto e lui riesce a trattenerlo, poi cade, in ginocchio, la testa reclina, il pallone tra le braccia, stretto.Vedetelo, è sul campo di Marassi, tra la prigione e il mare, una domenica di primavera, sul finire di una partita che la sua prodezza conclude nella vittoria...Il grido della folla, i compagni che gli corrono incontro, lo rialzano, lo baciano, e lui mantiene il pallone sotto il braccio, nascostamente lo pulisce del sangue appena vomitato. Lo portano in trionfo, e lui sorride: sarà la sua ultima partita da giocatore.La scriverà Hemingway, la sua storia, o De Amicis, chi dei due?Vasco Pratolini

LA CARRIERA DI PIMLICOL'adolescenza di un cavallo finisce a un anno e mezzo. Prima di questo termine la sua vita non muta, a parte il vitto che diventa gradualmente più abbondante e sostanzioso. Allevatore, caporazza, caporali e ragazzi di scuderia cominciano a guardarlo con maggiore attenzione. Osservano come muove le gambe, studiano il suo carattere. Un giorno gli mettono i primi ferri, corti e leggeri; è vento il momento della domatura.Il cavallo viene fatto entrare in un recinto di forma circolare, dal fondo sabbioso, dove viene lasciato libero per qualche minuto. Cammina rasente la staccionata, va avanti, torna indietro, stupito di vedere la gente che si affolla intorno. Tutto il personale delle scuderie assiste allo spettacolo. Il cavallo si ferma sollevando il muso. È l'occasione buona. Due braccia gli stringono la testa, due mani gli agguantano il muso, glielo infilano in una specie di museruola, il capezzone, a cui è fissata una lunghissima cinghia che un ragazzo tiene per l'altra estremità. Il cavallo tenta di fuggire. La cinghia però lo trattiene e l'obbliga a correre intorno, una, due, tre, cinque volte, mentre il ragazzo gli va dietro e gli spettatori ridono. Infine si acquieta. Tenta di

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liberarsi dell'ingombro scuotendo il muso; poi si accorge che non fa male. Nei giorni che seguono, la cerimonia si ripete. Il cavallo non tenta nemmeno di fuggire.Il cavallo adesso offre quasi volontariamente il muso al capezzone. Ma l'uomo ha preparato una novità. Di nuovo gli afferrano saldamente la testa, lo trattengono. Il cavallo non si ribella, perché quella museruola non gli dà più fastidio. E a un tratto si sente la bocca attraversata da qualcosa che lo strangola.È l'imboccatura, una sbarra di cuoio duro alla quale sono attaccati alcuni ciondoli di ferro, e che si fissa con due cinghie intorno alla testa. Se il cavallo si sforza di sputarla i ciondoli gli entrano in bocca e gli fanno male. È dunque più comodo lasciarla dove sta. Non è un impedimento molto grave.Passate alcune ore il cavallo non se ne accorge più.Il giorno dopo gli mettono il soprafascio, una cinghia larga un palmo che gira intorno ai fianchi; poi lo ferrano una seconda volta; poi gli mettono la sella; poi le redini fisse per la bocca. Un ragazzo gli monta in groppa. A quest'ultima costrizione il cavallo si ribella, fa le bizze, salta, si dibatte: la sua rivolta dura qualche giorno e d'un tratto cessa.Pimlico si comportò bene, non si ribellò alla domatura più del previsto, e il giorno in cui partì dall'allevamento splendeva di salute. Finita la domatura il cavallo è atteso alle scuderie di allenamento, situate in prossimità dei campi di corsa. Il viaggio si fa in un vano, un camion chiuso sul quale salgono, perassisterlo, alcuni uomini dell'allevamento. Pimlico fu accompagnato da Giulio, e quell'impertinente, prima che chiudessero il camion mi strinse l'occhio.Feci richiudere il cancello, poi detti ordine a un caporale di cambiare la targhetta del box. Il successore di Pimlico si chiamava Senecio.Le notizie di Pimlico erano buone: mangiava e dormiva.Questi sono requisiti essenziali per un corridore di qualità. Uno stomaco buono è come un serbatoio di energie e bisogna digerire bene se non si vuole che la biada si converta in veleno.Un buon sonno ripara l'organismo dalle eccitazioni.Il puledro, dopo l'uscita del mattino, trascorre tutto il suo tempo chiuso nel box, solo, fasciato dalla penombra. I suoi nervi sono desti e vibrano al minimo segnale: un nitrito, dei passi nel cortile, il rombo di un'automobile che si allontana, le voci, un secchio che l'uomo di scuderia fa cadere in terra.L'occhio, subito iniettato di sangue, ruota follemente nel buio, e sotto la pelle dei fianchi serpeggiano lunghi brividi. È raro che un cavallo dorma più di sei ore. Ci sono cavalli che non dormono affatto. A volte un cavallo comincia a girare e non si ferma prima dell'alba. Va con passo regolare, col muso basso, e gira, gira, sempre nello stesso senso, come se avesse perduto la coscienza del luogo dove si trova. Non si riesce a fermarlo; sembra concentrato in un pensiero fisso, e continua a camminare sommando chilometri e chilometri. Si mettono di traverso al box tramezzi di legno; ma non serve. La bestia gira fra i tramezzi, seguendo il suo sentiero, e continua mentre caporale e uomini di scuderia cadono dal sonno; continua fino al mattino, quando lo portano fuori, stracco e sudato. E la sera ricomincia.Pimlico mangiava, dormiva e galoppava volentieri.I primi allenamenti si fanno su brevi percorsi, al massimo di quattrocento metri. Ogni puledro viene affiancato a un anziano che gli fa da battistrada, e le coppie, a brevi distanze, galoppano sulla pista senza accelerare. I primi lavori cominciano in ottobre e finiscono in dicembre. Col freddo è più pru-dente restare al chiuso. Riprendono in febbraio.In febbraio Pimlico compiva due anni, l'età in cui il puledro comincia a correre e si accelera la sua preparazione.I galoppi diventano più lunghi e veloci, si abitua il puledro a partite svelto, poi lo si porta ai nastri per educarlo alla partenza di una vera corsa.È un momento delicato. La compagnia e i nastri che attraversano l'aria all'altezza della testa, turbano i puledri. Qualcuno resta abbastanza tranquillo, gli altri s'impennano, si gettano avanti prima del tempo, e vedendo quelle strisce bianche scattano, disarcionano il ragazzo o l'allievo fantino che li monta e si danno a una fuga disperata.Pimlico fece le bizze, si gettò addosso ai compagni, ma dopo le prime volte restò abbastanza calmo fino al momento in cui i nastri venivano tirati via e suonava la campana. Le poche notizie le avevo dal padrone. Da lui non c'era da sapere molto, però. Il padrone è un uomo che non dà confidenza e che per regola non si occupa di due cose nello stesso tempo: in allevamento si comporta da allevatore e parla di rado delle corse. Inoltre non c'erano ragioni perché mi desse specialmente informazioni diPimlico e perché io gliene chiedessi. La signora, che spesso lo accompagnava, sembrava avesse dimenticato di essere stata una madre adottiva.

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Finita la visita ai box sedeva a piedi larghi al tavolino del bar, con quella grande borsa posata accanto, e sorseggiava una bibita con la cannuccia.Avrei potuto parlare con Giulio che scendeva spesso in città per commissioni e si fermava a trafficare nelle scuderie. Giulio era anche troppo loquace, discorreva di cavalli, di fantini, di corse e di scommesse, soprattutto di scommesse, ma evitava di parlarmi di Pimlico. Maligno com'è lo faceva di proposito, aspettando che cominciassi io a fargli domande.In maggio Pimlico fece la prima comparsa in pubblico, in una corsa di ottocento metri che vinse con facilità. Passare dai campi d'allenamento alla pista è una prova grave: il puledro ne riceve una scossa che può turbare il suo equilibrio nervoso.Comincia ad avvertire la novità quando lo portano in un cortiletto dove altri cavalli aspettano anch'essi di essere condotti in pista. L'accesso al cortile è riservato ai soci del Jockey; i fantini, in mezzo, discorrono con gli allenatori e i padroni, e la folla preme all'ingresso cercando di vedere.I cavalli continuano a girare per non raffreddarsi.Poi mettono loro la sella e il numero. D'un tratto il girotondo si spezza. Tranquillo ogni fantino si avvicina al suo cavallo, vi monta sopra, è accompagnato dall'allenatore che continua a parlargli, prende posto nella fila che si ricompone davanti all'uscita.La fila esce all'aperto, passa in mezzo alla folla che si apre e corre sotto gli alberi del parco. Il fantino è serio, non gira la faccia, risponde appena a quelli che lo salutano, stringe le redini in pugno, e guida il cavallo verso il tondino della passeggiata in pubblico, il paddock. È impassibile; con i ginocchi però sente il cuore del cavallo che batte più rapido.Alla stecconata del paddock, si affollano gli spettatori, mille facce sconosciute che ridono, si avvicinano, ondeggiano. Nella luce le casacche dei fantini, rosse, verdi, blu, viola, splendono, abbagliano.La faccia del fantino è immobile, ma il suo corpo è in ascolto, pronto a calmare con una mossa, una stretta di ginocchi, una carezza, lo sgomento del cavallo che potrebbe esplodere. La passeggiata è finita. Il capofila si avvia, uscendo dal paddock verso la pista e gli altri lo seguono mentre la folla si precipita a prendere posto nelle tribune. Il cavallo entra nella pista ampia, verde, splendida sotto il cielo primaverile. Il fantino sente che il cavallo trema, eccitato, che si vuole slanciare, e allora deve frenarlo mentre a lunghe falcate lo porta al luogo del1a partenza. Oppure s'accorge che sotto i suoi ginocchi il cuore batte più lento, e che il cavallo galoppa svogliato. Il pubblico, i colori, le voci che eccitano la vanità di uno, spengono la volontà di un altro. Un'onda elettrica percuote il cuore di Fulmine che si precipita; la stessa onda torce i visceri di Baleno che si scaricano violentemente lasciando il corpo molle, sudato, disfatto.Anche la vista degli avversari agisce in modo diverso. Per Fulmine è una frustata che brucia i fianchi; per Baleno è un colpo di manico sul naso: Baleno s'impermalisce e prima di partire ha già rinunciato a combattere. È forte, ha tutte le qualità per riuscire, ma non il coraggio; perciò correrà come se della corsa non gli importasse nulla, resistendo a tutte le sollecitazioni, incorreggibile e ignaro della sorte che attende un cavallo la cui carriera non risponde all'attesa.Pimlico vinse anche la seconda corsa sui mille metri. Ugo, il nostro primo fantino, era contento."Ubbidisce come un cane", disse facendo un gesto circolare con la mano, il gesto del fantino che spinge il cavallo col braccio, senza ricorrere alla frusta.Alla corsa successiva Giulio tornò arrabbiato."Quel brocco m'ha fatto perdere cinquemila lire", disse stizzosamente. Pimlico era arrivato terzo.Le corse dei due anni in primavera non hanno importanza. Quelle che contano si fanno in autunno: sono il Criterium nazionale, il Gran Criterium e il Chiusura, ed è in base ai risultati di queste corse che alla fine della stagione si compila una classifica che ha nome Optional. Oltre a Pimlico avevamo altri due puledri di qualità: Soho e Guy. Quando il padrone salì all'allevamento, alla vigilia del Criterium nazionale, a cui aveva iscritto Pimlico e Soho, gli stetti vicino per sapere a chi avrebbe dato la prima monta. La prima monta ha una grande importanza, può influire sulla carriera del puledro perché stabilisce una graduatoria con un preferito e gli altri che si devono sacrificare. Il proprietario non disse niente. La sera arrivò Giulio. Lo affrontai brusco. - Ugo chi monterai? - chiesi - Soho –rispose Giulio passandomi accanto senza guardarmi.Soho vinse e Pimlico, che aveva fatto l'andatura ed era montato da Riccardo, il secondo fantino, arrivò terzo. Per l'allevamento era un bel successo.Ragazzi e caporali ne parlavano nel cortile. Era l'ora in cui si portano le misure di biada ai cavalli chiusi nei box. Bene, bene - dissi - ora sbrigatevi -.Senecio aveva cominciato a nitrire.Nel Gran Criterium, Ugo montò Guy. Guy vinse e Pimlico arrivò secondo.Nel Chiusura partirono tutti e tre.

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Il Chiusura che si corre in novembre è una corsa in linea retta, e siccome ha una lunghezza di millequattocento metri, duecento più della dirittura normale, il traguardo non è quello davanti alla tribuna del peso, ma è posto duecento metri oltre. Pioveva.Gli spettatori raggiungevano il traguardo camminando sotto gli ombrelli e bagnandosi le scarpe nell'erba.Stavo accanto al padrone riparandolo col mio ombrello. Suonò la campana e in fondo alla dirittura emersero dall'aria nebbiosa le casacche scolorite dei fantini. Non riuscivo a distinguere le nostre: bianche, con la croce di Sant'Andrea blu. – Sono partiti bene - disse il padrone che s'appoggiava alla mia spalla puntando il binocolo. –- Guy è allo steccato,Soho è al centro - osservò.La folla gridava e i concorrenti si avvicinavano frontalmente occupando come una riga colorata e ondeggiante tutta la pista. Adesso vedevo le tre casacche bianche e bleu; non capivo però le loro posizioni. II padrone mi gravò tutto sulla spalla, tremante, per pochi secondi, poi si rialzò e vidi che il binocolo gli scivolava sul petto. Allo steccato c'era Ugo che girava il braccio come un mulinello sul collo di Guy, al centro avanzava la casacca viola e nera di Nibelungo, e dieuo, gli erano attaccate una casacca grigioperla e una casacca bianca e blu. La targa con l'ordine d'arrivo salì subito accanto alla torretta dei giudici: 1° Nibelungo, 2°, Pimlico, 3° Milongs, 4° Guy. Soho non s'era piazzato.- È una generazione mediocre - borbottò il padrone mentre si tornava verso le tribune in mezzo alla processione degli ombrelli. Camminava appoggiandosi al bastone.- Gli altri non sono meglio di noi - aggiunse mettendomi una mano sulla spalla, credendo di consolarmi.Abbassò gli occhi sulla punta delle scarpe che affondavano nell'erba.Continuava a piovere e l'odore della terra bagnata mi pizzicava il naso piacevolmente. Stava per sopraggiungere l'inverno; fuori dell'ippodromo già brillavano i primi lumi, i fanali erano fasciati di nebbia e il cuore mi batteva di felicità. La sconfitta di Guy e di Soho era un danno per la scuderia ma rimetteva tutto in gioco e potevo ancora sperare per Pimlico. L'inverno è lungo per i cavalli: si riposa, si dorme; e si ha il tempo di riflettere. Poi sarebbe venuta la primavera, quella dei tre anni, la primavera importante. Allora avremmo visto. Nell'Optiond Pimlico fu classificato al quinto posto.Manlio Cancogni

A LORENZO BANDINIOssa secche,bruciate,vampata nel sole.Rimembranza della vita.Rapiva lo spazionell'ultimo orizzontedi gloria,spasimi di morte,movimenti automatizzati,mani arrossate,liscia fronted'avorio,lacrime di sangue.È finito l'inumano vagitodi gloria e di speranza.Là, rimasero, ossa secche,bianche nel sole,rimembranzaanelante di vita.Mario Gori