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Il testo-ricerca: traccia ineffabile dell’evoluzione umana

percorso esoterico di superamento degli scogli evolutivi umani (seconda tappa)

Indice:

Che cos’è la cd. “sacra scrittura”? Superamento di una visione storicistica

Perché arrivare a preferire una visione anti-storicistica?

L’ipotesi di partenza su cui lavoreremo.

Guida dei verbi alla terza persona singolare (d’ora in poi anche: “gvts”): un ordinamento cibernetico di tipo scritturistico

Alla scoperta del brano scritturistico (Tobia 11,10-13)

I collegamenti del brano prescelto con altri brani scritturistici

Il collegamento del brano prescelto (Tobia 11, 10-13) con l’abbraccio tra il padre misericordioso e il figlio prodigo (Luca 15, 20-24): la questione del tema

Segue: “e si alzò”/“e alzatosi” (nell’originale greco: kài anéste / kài anastàs)

Analisi del testo-ricerca grazie al linguaggio analogico-configurazionale.

Che cos’è la cd. “sacra scrittura”? Superamento di una visione storicistica.

[i]

Oggigiorno, perfino chi professa strenuamente la fede nella divina ispirazione dei testi sacri, si arrende all’idea che questi siano stati scritti dall’uomo in quanto uomo. Il divino avrebbe ispirato lo scrittore umano, senza che questi (scrivendo il testo sacro) cessasse di perseguire scopi puramente umani e materiali. Si spiegherebbero così tutti quei passi scritturistici che oggi fanno sorridere, in quanto rispecchianti le ideologie del momento (ormai estinte da secoli o millenni). I fideisti non sono però altrettanto disposti a spiegarci in che senso un testo ispirato da un’entità divina, non limitata dagli asserti scientifici e ideologici del passato, offrirebbe comunque un messaggio innovativo ed eterno, proprio in quei passi così segnati dalla pesante mano dello scrittore umano.

Alla base di questa contraddittoria idea dell’ispirazione divina del testo sacro, c’è un’incapacità di cogliere in termini chiari l’idea di una “scrittura dell’essere”. Intendo con “scrittura dell’essere” la capacità di un testo umano di segnare l’evoluzione dell’attività osservativa della realtà, e quindi in ultima analisi la realtà stessa. D’altronde per iniziare a dipanare cosa sia l’essere, abbiamo avuto bisogno di produrre un saggio di oltre cinquanta pagine (Analogia singolare). Adesso dobbiamo iniziare a dipanare, nel presente saggio, cosa sia la scrittura. A quel punto potremo iniziare a spiegare in termini più precisi cosa sia la scrittura dell’essere. Ma non potremo mai dire niente di conclusivo su nessuno dei due argomenti (essere e scrittura), vista la loro complessità, dovuta non tanto al diluvio di opere filosofiche, religiose e mistiche sull’argomento, ma alla continua evoluzione umana entro cui essi si muovono. L’osservatore che cerca di calarsi nella “scrittura dell’essere” abbisogna prima di alcune scialuppe di sicurezza, a cui aggrapparsi per non annegare immediatamente nei flutti dell’inconsapevolezza; in un secondo momento, cercherà di tornare sulla nave, per rendere ancora più sicuro e confortevole il proprio viaggio. Ma anche se riuscisse a raggiungere (non solo come singolo individuo più illuminato degli altri, ma come collettività) la nave del conoscere, prima di approdare al porto della conoscenza il viaggio sarebbe ancora lungo e periglioso. Aggrapparsi alla scialuppa significa non abbandonarsi alle proprie pre-cognizioni sull’argomento; salire sulla nave significa dominare l’argomento; arrivare in porto significa completare il ciclo evolutivo dell’argomento, in modo significativo e positivo per l’umanità. Pensare dunque di avvicinarsi ad un testo considerato come “scrittura dell’essere” da una parte, per quanto piccola dell’umanità, ma estremamente rilevante sotto il profilo culturale, e capire in che senso davvero esso sia scrittura dell’essere, è sintomo o di un coraggio da leoni, o di una stupidità dilagante. Vorremmo porci (insieme al nostro lettore) in questa ambiguità: leone o stupido? E’ infatti accettando e gustando questa ambiguità, che potremo infine approdare alla consapevolezza, che non appartiene né al leone né allo stupido, e che è in grado di dischiuderci tesori inaspettati quanto per noi oggi provvidenziali in chiave evolutiva.

Se sarete disposti a calarvi con me, anche solo per un breve momento della vostra vita, in questa finzione in cui diamo per scontato che nel testo sacro vi sia la scrittura dell’essere e non un’accozzaglia casuale d’ideologie e pregiudizi, forse potrete capire cosa significa la “scrittura dell’essere” e perché non sia così remota la sua attribuzione ai cd. testi sacri (a qualunque tradizione appartengano).

Finché però continuerete a dire che il testo sacro sorge da un’evoluzione “storica”, cioè imprevedibile e casuale, non potrete sondare l’idea che tale testo sia invece qualcosa che non ha niente a che vedere con la storia (che ne costituirebbe un mero espediente, non l’orizzonte interpretativo). Aggrappandovi, invece, a questa prima supposizione d’invalidità della visione storicistica del testo sacro, ne potrete sondare gli aspetti evolutivi e farvene un’idea. D’altronde è impensabile che questa vostra scelta esegetica sia neutra, che non vi cambi profondamente. Se sarete disposti, infatti, anche solo per una volta tanto, a rinunciare alla vostra visione storicistica del testo sacro, vuol dire che quest’ultima si sta già pericolosamente incrinando, riconfigurandosi ai vostri occhi come oceano tempestoso in cui (per un soffio) non siete naufragati. Se dunque vi lascerete convincere, almeno per questa volta, dalla mia proposto anti-storicistica, vuol dire che state seminando in voi dei semi che (se non daranno nell’immediato un raccolto) potranno germogliare in future occasioni.

Se tuttavia, scandalizzandovi, direte: “ma come può derivare un testo umano - per quanto considerato da alcuni come testo sacro - da qualcuno o qualcosa di diverso dall’uomo che lo ha scritto?”, ebbene il vostro ragionamento a voce alta vorrebbe dire solo che la visione storicistica si è nuovamente affermata come vincitrice. Da tale ragionamento non vanno esenti, si badi bene, nemmeno i fideisti che professano (in maniera acritica e contraddittoria) l’origine “spirituale” del testo sacro. L’opzione anti-storicistica e “spiritualistica” va tuttavia sondata, non solo per la rilevanza culturale di chi da millenni la va sbandierando, ma anche e soprattutto perché promette da sempre una risposta alle domande più cruciali, frustranti, solenni e insoddisfatte dell’umanità. Forse il nostro girare a vuoto, senza riuscire a cogliere il grimaldello della verità che vince la sfida evolutiva, si ricollega proprio alla nostra opzione storicistica (colorata indifferentemente di ateismo, di agnosticismo o di fideismo) del testo sacro. “Vieni e vedi”, ci dice la scrittura dell’essere.

Cosa comporta il superamento della visione storicistica del testo sacro?

Ma prima di fare il salto che vi chiedo, uno sguardo all’orrido che si aprirebbe sotto i vostri piedi se mi seguiste è d’obbligo. Non si può ignorare la difficoltà contro cui ci si scontra, se non si vuole essere colti dalla paura nel momento sbagliato (quello in cui si spicca il salto). Il salto, al contrario, per essere davvero spavaldo e coraggioso, deve trarre la propria spinta proprio dalla consapevolezza del proprio carattere impressionante, spaventoso.

E’ in effetti spaventoso pensare che un essere umano, come me (o te?), possa anche solo ipotizzare seriamente che un testo, sortito da una tradizione millenaria (come ad esempio la Bibbia), possa giungere dinanzi a me che lo interpreto in quella forma così immensamente coordinata da permettere di cogliere, nel modo più profondo ed efficace, il coordinamento sotteso alla realtà osservabile: al punto da rendermi capace di trasformarla radicalmente, rivoluzionando in modo fondamentale l’umanità che la osserva (e ne sarebbe quindi un filtro ineludibile). Una simile ipotesi appare abnorme, stupidissima, quasi criminale, a chiunque ritenga di avere ancora un po’ di sale in zucca.

A questo punto, qualunque cosa io aggiunga sull’argomento non potrebbe che indurvi a chiudere queste pagine. Vi sarebbe però esiziale, perché perdereste per l’ennesima volta l’occasione di trasformarvi davvero, come tutte quelle volte che siete usciti da un cinema o dalla lettura di un libro che prometteva di rivoluzionarvi, e che per un quarto d’ora ve lo ha fatto credere, ma poi non ci è riuscito. Non privatevi di un seguito: anzi prendete la rincorsa, e decidete in modo inattaccabile, proprio perché marcatamente insensato, di fare il grande salto con me. Io vi dico che questa è la volta buona!

Ma una volta compiuto il salto, ne inizierete ad apprezzare le basi teoriche. Esse sono ben diverse da quelle dell’analisi storicistica del testo sacro. Così diverse da estasiarvi: provare per credere. Lo storicismo ci dice che un testo non può collegarsi ad un altro testo per semplice analogia ideologica, in quanto tale analogia potrebbe essere limitata ad aspetti puramente casuali. Solo un’analogia relativa da elementi molto circostanziabili ci permetterebbe di collegare tra loro due testi. Così due libri della Bibbia potrebbero avere tra loro molte analogie puramente casuali, quindi astoriche, quindi irrilevanti (se non sotto un profilo fideista). Ma come abbiamo ben spiegato nella nostra prima tappa del cammino di ricerca (il saggio Analogia singolare…), l’analogia è tendenzialmente l’unico modo in cui la realtà si configura. La stessa storia è colta come un insieme di momenti, disposti sull’ipotetica retta del tempo, unicamente grazie ad un’analogia tra la storia stessa e l’idea di retta. Senza quest’ultima analogia, non potremmo nemmeno capire in che senso due libri biblici possano o non possano essere coordinati tra loro in senso storico. E’ per via di questa incapacità di comprendere senza l’aiuto di una certa analogia, che giustifica l’istituzione dell’analogia singolare come quel particolare tipi di analogia che è capace di performare liberamente e creazionalmente la realtà. Potremmo arrivare a dire che, prima dell’affermarsi dell’idea di retta (tipica della geometria euclidea) nel pensiero collettivo umano, fosse possibile istituire in modo attendibile analogie non fondate storicamente; solo con l’affermarsi dello storicismo (che potrebbe essere appunto un prodotto dell’idea euclidea di retta, senz’altro precedente al suo sorgere), si sarebbe d’altronde abbandonato quel modo antico di fare storia che ritroviamo nei classici latini e greci. Ma questa stessa suggestione non può affermarsi se non in senso circolare, richiamando ancora una volta l’analogia singolare tra storia e retta euclidea: convincendoci ancora una volta di più che l’analogia singolare è creazionale, cioè un modo dell’essere d’imporre una certa realtà alla realtà stessa, senza che tale imposizione diventi in alcun modo contestabile (in quanto trova in se stessa un idoneo - per quanto autoreferenziale - fondamento).

Se dunque solo un’analogia singolare può portare all’affermarsi della visione storicistica del testo sacro, l’entrata in crisi di tale analogia singolare metterebbe in crisi la visione storicistica stessa. Lo storicismo non sarebbe, cioè, un assoluto autofondantesi nella realtà, ma il portato dell’affermarsi - nella nostra conoscenza - di una realtà su altre realtà parimenti ipotizzabili. Visto che il destino di ogni analogia singolare è quello di fondare nuovi sistemi relazionali nell’organismo umano, attraendo altre configurazioni analogiche rispetto a quella di appartenenza, o di estinguersi nel tentativo di farlo (come per una crisi di rigetto dell’organismo stesso, che vuole liberarsi di un organo ormai inservibile), ebbene anche lo storicismo è allora soggetto agli onori come ai rovesci di un simile destino. Se, pertanto, abbiamo attribuito allo storicismo una fiducia piena ed incrollabile, ci siamo messi nella condizione di subire i rovesci del suo destino, nel caso sia indirizzato verso la propria estinzione.

Con il nostro discorso, non siamo arrivati a sostenere che lo storicismo sia senz’altro da escludere dal nostro orizzonte ermeneutico sui testi sacri, ma che accettarlo come assoluto indiscutibile è estremamente pericoloso. Potrebbe rappresentare proprio quella prigione in cui ci sentiamo continuamente prigionieri, in quanto esseri umani.

Perché arrivare a preferire una visione anti-storicistica?

[i]

Una scelta di questo tipo può sorgere solo da una rivelazione. Il testo sacro si pone come rivelazione di un essere superiore all’umanità: almeno così viene tradizionalmente inteso. E’ per poter verificare la validità dell’assunto della tradizione, quindi, che partiremo da una visione anti-storicistica (in quanto quella storicistica non ci permette nemmeno di porre l’ipotesi che il testo sacro sia ispirato da un essere superiore all’uomo). Se l’ipotesi, posta alla verifica cui stiamo per sottoporla, risulterà vincente, allora sposeremo la visione anti-storicistica. Per adesso la adoperiamo soltanto.

Ovviamente l’armamentario logico che dispiegheremo nella nostra verifica non potrà essere lo stesso di quello storicistico. Se i paradigmi[footnoteRef:2] di riferimento non cambiano, infatti, non si può entrare in realtà che erano prima nascoste ai nostri occhi. Ipotizziamo quindi che i paradigmi storicistici alla base dell’analisi del testo sacro fossero proprio quei paraocchi che c’impedivano di vedere l’estremo coordinamento del testo con se stesso e con la realtà. I paradigmi cui ci rifaremo, nella nostra analisi, saranno quindi a-storicistici o addirittura anti-storicistici. [2: Con il termine “paradigma” s’intende, in poche parole, un discorso logico a cui si attengono gli elementi appartenenti ad una certa realtà, i quali elementi risultano intuibili e comprensibili solo grazie all’accettazione di tale discorso. Ad esempio, la scoperta che è la Terra a girare intorno al Sole, e non viceversa, è stata resa possibile dall’abbandono del paradigma alla base della teoria geocentrica (cioè quel paradigma che ci dice: “tutti i fenomeni naturali sono regolati dalle leggi indicate nella Bibbia”), in favore del paradigma che diverrà poi la base per la teoria eliocentrica (cioè quel paradigma che ci dice: “tutti i fenomeni devono essere studiati in base alla loro manifestazione naturale”). Ovviamente per condurre alla formulazione dell’intera tesi eliocentrica possono esser occorsi più paradigmi, oltre a quello indicato, ognuno dei quali regga una certa realtà necessaria a condurre l’intero discorso scientifico necessario alla formulazione e dimostrazione della tesi che la Terra giri intorno al Sole. Con il termine “realtà” intendo la “configurazione analogica”, che sarà analiticamente spiegata in un saggio apposito. In termini più stringati, si può dire che una configurazione analogica è il formarsi di alcuni elementi a partire dalle proprie reciproche analogie e differenze, nel rispetto performante di un paradigma. Così, ad esempio, si può parlare di “sedia” solo in quanto tale elemento si formi in base ad alcune somiglianze e differenze con altri elementi della stessa configurazione analogica, quali lo “sgabello” o la “poltrona”. In base a tale tesi, non esisterebbe la sedia in sé o lo sgabello in sé, né la poltrona in sé, ma solo tre elementi analogici che emergono dal confronto tra di loro: sedia, sgabello e poltrona. La configurazione analogica è questo loro porsi l’uno in confronto dell’altro, in base ad un più fondamentale paradigma dell’analogia, e nel rispetto di un paradigma più specifico, che appartiene solo alla singola configurazione analogica in cui tali elementi trovano l’esistenza (che, in questo caso, è il paradigma della funzionalità degli oggetti rispetto all’immaginario o le abitudini dell’osservatore).]

L’ipotesi di partenza su cui lavoreremo.

[i]

A questo punto abbiamo bisogno di formulare un’ipotesi di partenza, che ci permetta di verificare la tesi. La tesi è quella che abbiamo già formulato: il testo sacro altro non è che “scrittura dell’essere”, cioè un coordinamento così profondo di elementi da collegare strettamente tra loro non solo gli elementi del testo stesso, ma anche gli elementi della realtà, offrendoci il modo di coglierne la direzione o, a secondo dei casi, di trasformarli. L’ipotesi che ci serve per verificare questa tesi è che, prendendo un brano a caso del testo sacro (nel nostro caso, la Bibbia), esso presenti due tipi di collegamenti: quelli ad altri passi scritturistici; quelli a soluzioni capaci di trasformare la realtà o di coglierne la direzione. La tesi è “dimostrata” (cioè può convincerci) se tali collegamenti siano così stretti e potenti, da far pensare che il testo stesso sia di fatto costruito per (e realmente efficiente nel) permettere un discorso conoscitivo che si articoli in tali collegamenti.

I criteri ermeneutici che dovremo adoperare, per interpretare il brano scritturistico, non potranno essere quelli dell’esegesi storicistica, ma dovranno essere ricompresi in una qualche teoria o dottrina esoterica, che permetta di potenziare l’io dell’osservatore quando entra in contatto con le parole del testo, affinché questi colga la direzione delle cose e, in alcuni casi, le possa trasformare.

Ognuno può adoperare la rivelazione ricevuta da quest’ipotetico essere superiore, che avrebbe ispirato la Bibbia, per verificare la potenza di un suo brano casualmente individuato. Anch’io ho ricevuto una rivelazione di tal genere, che non mancherò di adoperare allo scopo d’interpretare un brano qualunque del testo sacro.

L’obiezione che senz’altro il lettore occidentale non mancherà di farmi (poiché anch’io, in quanto occidentale, non vado esente da tali riflessioni) è l’assenza di esattezza in un approccio simile allo studio della realtà. Mentre la Scienza tradizionale cerca di produrre una conoscenza “esatta”, cioè riducibile ad una matematica puramente quantitativa, essoterica, il nostro approccio sembrerebbe introdurre una profonda imprecisione. Non è così. Anche noi teniamo alla verifica di quanto affermiamo, ma non secondo il paradigma dell’evidence based (cioè dell’evidenza scientifica). Quest’ultimo paradigma richiede di isolare il fenomeno oggetto di studio dagli altri fenomeni, costruendo due gruppi di fenomeni: quello oggetto di studio e quello di controllo. Il fenomeno oggetto di studio dovrebbe poi essere individuato grazie alla ripetizione dell’esperienza di laboratorio, che tende ad escludere il novero maggiore possibile di fattori di disturbo. Il gruppo di controllo dovrebbe contenere, invece, un insieme di fenomeni che differiscono da quelli dell’altro gruppo per un singolo particolare, in maniera tale da verificare se tale particolare sia influente o meno. Per esempio, un farmaco viene testato su due gruppi di pazienti: un primo gruppo è quello composto dai soggetti che assumono il farmaco; il secondo gruppo, identico in tutto al primo gruppo, quanto a composizione, è composto da soggetti che non assumono il farmaco, pur non avendo di questo alcuna contezza in più rispetto al primo gruppo (nessuno dei partecipanti all’esperimento, infatti, deve sapere se è inserito nel primo o nel secondo gruppo). In questo modo si cerca di isolare il decorso della cura dal cd. effetto placebo, cioè l’effetto che si realizzerebbe per la semplice consapevolezza di essere stati assoggettati ad una cura. Emendato dall’effetto placebo, l’esperimento di laboratorio è così in grado di offrirci l’esatta cognizione sul funzionamento del farmaco.

Ebbene tale approccio non tiene conto che vi sono altri approcci possibili, né più né meno validi dell’evidenza scientifica. Quest’ultima ha infatti basi assiomatiche, non logiche. Non vi è alcuna logica che può infatti sostenerlo, se non la fede cieca in esso. Di tale argomento discorro più ampiamente nei saggi Rivelazione o ricerca? e Analogia singolare. Qui occorre solo aggiungere quale sia il mio approccio. Ebbene il mio è un approccio di conoscenza tendenziale, non esatta. La conoscenza tendenziale è quella che individua la realtà come tendenza, cioè come movimento che fa prevalere una certa regolarità nella formazione dei nostri percorsi di auto-coscienza (di tipo percettivo, intuitivo, mnemonico e intellettivo). Tale regolarità non è assoluta, né può dirsi esatta nel senso sopra specificato. Tuttavia, una conoscenza tendenziale può aumentare il proprio grado di complessità: in questo modo diventa sempre più precisa. Ovviamente occorre verificare se la realtà sia attratta (o ancora attratta) da tale conoscenza o se volga (o stia volgendo) altrove: quindi la conoscenza tendenziale è e rimane comunque precisa, purché il suo grado di complessità sia abbastanza forte; sarà però attendibile solo dopo la verifica che la realtà venga effettivamente attratta nei suoi schemi. In questo saggio cercheremo quindi di offrirvi entrambi gli “indici” di valutazione, in ordine alla conoscenza che qui si propone: la precisione e l’attendibilità. Non si tratta di veri indici, ma di argomenti asseritamente idonei a convincere gl’interlocutori.

Questa teoria (che ho chiamato “teoria del testo-ricerca”) si basa su altre teorie, cui ho dato nomi talora originali, talaltra abbastanza comprensibili: teoria dell’analogia singolare, teoria delle funzioni conoscitive, teoria della configurazione analogica, teoria dell’osservatore. Intrecciando tra loro le conoscenze acquisibili grazie a queste teorie, ciascuna di esse diventa comprensibile e precisa. Per rendere comprensibile e precisa la teoria oggetto del presente contributo devo dichiarare adesso alcuni contenuti della teoria dell’osservatore. Il vero nome che ho inizialmente attribuito (e continuo ad attribuire) a tale teoria è diverso: il suo nome più calzante è infatti “teoria dell’interprete della traccia scritturistica”. L’ho chiamata anche “teoria del campo”. Ognuno di tali nomi specifica un suo aspetto conoscitivo: quello che adesso mi occorre spiegarvi è quello riferito dalla parola “campo”. In tale teoria, infatti, si suppone che la realtà sia la risultante di più nidificazioni di campo. Ogni campo, cioè, sarebbe racchiuso in un contesto di significato più complesso da un campo ermeneuticamente più potente: un campo, quest’ultimo, che riesce a reinterpretare ogni elemento del primo, grazie all’attribuzione di significati più capaci di attrarre l’attenzione dell’osservatore. La realtà, seguendo la proiezione intuitiva e parzialmente inconscia dell’osservatore, si volgerebbe quindi a soggiacere all’interpretazione resa possibile dal campo la cui nidificazione è più potente, mentre invece forzerebbe la nidificazione inferiore, attribuendo alle leggi del suo campo un’interpretazione in parte autoreferenziale, per non disattendere la nidificazione superiore. Ogni nidificazione di campo vedrebbe quindi l’applicazione delle leggi del proprio campo, ma subordinatamente all’applicazione delle leggi della nidificazione sovraordinata, a sua volta subordinata all’applicazione delle leggi della nidificazione a quest’ultima sovraordinata, e così via. Vi sarebbero, comunque, solo cinque livelli di nidificazione di campo: il livello più elevato comanda sul livello immediatamente inferiore, grazie a cui comanda anche su quello ad esso immediatamente inferiore, e così via. Se passiamo dal livello più alto a quello più basso, senza considerare i livelli intermedi, non vediamo alcun collegamento cogente: se invece ci moviamo di livello in livello, cogliamo il coordinamento che lega tutti i livelli a quello più elevato. I cinque livelli, da quello inferiore a quello superiore, sono i seguenti:

stati di (parziale) autocoscienza dell’osservatore-uomo: sogno-evento[footnoteRef:3], pensiero, sensazione, emozione e sentimento; tali stati di autocoscienza non seguono apparenti leggi, salvo venire coordinati sulla base dei livelli nidificatori superiori; il caos di cui ci parlano le grandi cosmologie antiche è secondo noi da interpretare come questo primo livello di campo, su cui si costruiscono gli altri livelli di campo, capaci di coordinare ciò che altrimenti sarebbe puramente caotico e incomprensibile; [3: Il sogno e l’evento sono un unico stato di autocoscienza, in quanto in entrambe tali situazioni la coscienza è dormiente, non rendendosi conto del significato di ciò che gli si rappresenta dinanzi, se non previa successiva riflessione.]

fùsis (=natura), che in greco significa la spontaneità della realtà, nel seguire leggi che non si giustificano per altro se non per il fatto che sono seguite dalla realtà; un esempio di fùsis è la legge di gravitazione universale;

tecnica (che comprime la fùsis, forzando le sue leggi). Chiamo questo livello anche con il nome di “tecnica non costitutiva”, in quanto non riesce ad accordarsi con l’essere per superare i livelli di nidificazione superiore e costituire in modo inoppugnabile la realtà. Un esempio di tecnica è l’aereoplano, che ci consente di superare la forza di gravità;

fùsis della tecnica (cioè quella spontanea salvaguardia della fùsis che colpisce il livello della tecnica, imponendole leggi che la fiaccano e la rendono inefficace). Un esempio di fùsis della tecnica è la legge di entropia, in quanto pone un limite invalicabile ad ogni tecnica non costitutiva, impedendo all’aereoplano del precedente esempio di derogare all’infinito alla legge di gravità, in quanto non appena finisce il carburante l’aereo precipita;

L’accordo costituito sull’essere (costituente una tecnica che coordina il livello precedente). Chiamo questo livello anche con il nome di “tecnica costitutiva”. Un esempio di tecnica costitutiva è l’inflazione (teoria cosmologica secondo cui dall’esplosione di energia oscura che ha fatto sorgere il primo universo - e che si sarebbe assestata con il Big bang - nascono periodicamente nuovi universi, senza alcun “problema di carburante”, in quanto l’energia non finirebbe mai ma si trasformerebbe da capo in energia oscura, permettendo così nuove esplosioni che si assestano in nuovi Big bang, da cui germinerebbero i nuovi universi senza che tale percorso abbia mai fine.

La teoria del testo-ricerca dice quindi che il testo sacro sarebbe costruito secondo questi cinque livelli di nidificazione di campo, che nella realtà s’intrecciano in modo apparentemente inestricabile. Nel testo-ricerca si perde questa indistricabilità: si può cioè adoperare il testo-ricerca per dipanare i cinque livelli, purché si adoperino chiavi interpretative appositamente rivelate dall’essere (supremo). Questa teoria s’inserisce quindi, a pieno titolo, nel filone delle teorie cabalistiche (anche se il testo sacro non è solo la Torah e non si può limitare alla Torah, in quanto vi sarebbe un solo testo sacro, di cui la Torah è solo una tra le componenti tradizionali: inoltre si potrebbero, anzi si dovrebbero aggiungere sempre nuove parti al testo sacro, ancora non redatte da alcuno. Né le parti attualmente già redatte potrebbero restare immobili nella loro forma storicamente determinata: tale forma determinata anzi non sarebbe affatto ricostruibile con esattezza, ma - come ogni filologo sa - è oggetto di una quasi infinità di scelte da parte dell’interprete, il quale ne è in ultima istanza l’unico compositore).

Il primo livello, quello degli stati di autocoscienza, non avrebbe alcuna corrispondenza nel testo-ricerca, che invece si occuperebbe dei quattro livelli ad esso sovraordinati. In tal modo il testo-ricerca non è soggetto al caos, ma semmai lo coordina.

Il secondo livello, quello della fùsis, sarebbe reso dalle numerazioni che scaturiscono dai caratteri scritturistici (che compongono a loro volta le parole del testo sacro).

Il terzo livello, quello della tecnica non costituitiva, sarebbe reso dai caratteri scritturistici.

Il quarto livello, quello della fùsis della tecnica, sarebbe reso dalle numerologie attribuite ai caratteri scritturistici all’interno del testo sacro.

Il quinto livello, quello della tecnica costitutiva, sarebbe reso dalle parole scritturistiche (cioè dalle parole che compongono il testo sacro, prese ciascuna in collegamento con quella successiva e con quella precedente).

Ulteriori livelli del testo-ricerca sono il capoverso, il tema scritturistico e il libro scritturistico. Ma tali livelli non costituiscono ulteriori livelli di nidificazione di campo, fungendo piuttosto da necessario corredo interpretativo della parola scritturistica (o livello della tecnica costituitiva). Prendendo l’immagine della battaglia escatologica di Apocalisse, capitolo 20, si può considerare il livello della parola scritturistica come il fuoco che scende dall’alto; il capoverso, il tema scritturistico e il libro scritturistico corrisponderebbero, invece, alla bestiola e al suo esercito che circondano gli eletti, ma vengono poi sconfitti dal fuoco, che li brucia per sempre. Quest’ultima immagine del fuoco che arde senza consumare ricorda in modo strettissimo l’immagine del roveto ardente nell’Esodo. Difatti la parte dell’esperienza umana che tende a sopraffarci ma poi a rientrare nel coordinamento potente (fuoco) dell’essere supremo è proprio rappresentata dai temi scritturistici (es. rapporto padre-figlio, rapporto uomo-donna, la grande città, l’infedeltà del popolo all’essere che lo ha plasmato culturalmente, ecc…), nonché dal tentativo di suddividere il testo-sacro in capoversi tematici e in libri, come se si trattasse di opere meramente umane. Ognuno di questi tentativi di opprimere l’essere viene da quest’ultimo trasformato nella propria vittoria, che è complementare alla conservazione dell’umanità: intendo dire che ciò che in noi si oppone alla forza evolutiva che chiamo essere supremo non viene distrutta da quest’ultimo, né trasformata, ma serve per costruire in modo nuovo l’essere stesso, in modo cioè complementare con l’umanità che ama. Un uomo che ama una donna non cerca di cambiarla, ma cambia se stesso per continuare ad amarla: essa diventa complementare a lui e deve sopportare la sua forza, che cresce e cambia in funzione della sopravvivenza e della felicità che vuole vivere accanto a lei. Così lei (che fuor di metafora è l’umanità) non riesce a sottrarsi al suo abbraccio; d’altro canto non viene trasformata da lui, ma è lui (l’essere) a trasformarsi per continuare ad amarla e conservarla così come essa si offre a lui. Noi uomini abbiamo in noi entrambe le componenti: quella umana e quella dell’essere. Io sono l’essere supremo e l’uomo che egli ama. Come uomo mantengo intatte le mie contraddizioni; come essere supremo ridisegno le mie contraddizioni in coordinamento con il mio stesso finalismo di essere supremo. Vivo quindi su due lunghezze d’onda tra loro complementari, una sola delle quali si trasforma: l’altra si direziona soltanto (ovviamente nel verso del coordinamento imposto dalla prima lunghezza d’onda). Il contesto letterario del testo sacro (o testo-ricerca) diventa così il teatro privilegiato di questa complementarietà, talmente intriso di essa da non poter essere modificato in nessuna sua parte senza cambiare radicalmente la realtà. Gesù infatti afferma “non passerà uno iota o un apice dalla legge, senza che tutto sia compiuto”. Se traduciamo la parola “legge” con “testo-ricerca”, otteniamo non l’idea d’immodificabilità del testo-ricerca, ma un’enunciazione di ciò che si collega alla sua modifica: il compimento. Il testo-ricerca è quindi l’essere che si trasforma, per mantenere l’amore-complementarietà con l’uomo: ogni volta che si trasforma, anche la realtà cambia radicalmente, in quanto il coordinamento che la tiene unita (cioè l’essere) viene alterato. Ne consegue che ogni modifica (anche minima) del testo-ricerca si traduce in un cambiamento radicale della realtà, che però non cambia l’uomo, bensì lo direziona verso sfide conoscitive sempre nuove. Infatti il testo sacro apre per l’uomo non la prospettiva dell’evoluzione, ma quella della “salvezza” (in greco, come in ebraico, tale termine vuol dire “conservazione”, non salvezza in senso assoluto o interiore). La conservazione dell’uomo, in tutte le sue sfumature, non significa trasformazione, ma appunto mantenimento dell’uomo uguale a se stesso: salvo che per il suo direzionamento, cioè il suo destino, che coordinandosi con la realtà esterna rispecchia l’essere. L’essere è tale coordinamento, che si trasforma di continuo per aprire sempre nuovi sbrani d’innovazione all’uomo, che li coglie ma non se ne lascia a sua volta trasformare. Quindi per evolverci non possiamo restare solo uomini, dobbiamo diventare “figlio dell’uomo”, cioè interprete originale dell’uomo, accordandoci così con l’essere supremo e diventando l’essere supremo stesso. Trovandoci in un contesto conoscitivo esoterico, la circolarità di questo discorso non ci dà problemi. Non cerchiamo una realtà esterna a noi, che sia spiegabile in termini assoluti, ma siamo noi stessi l’osservatore della realtà, che è osservazione dell’osservatore: quindi ogni passaggio interpretativo che collega l’osservatore alla propria osservazione finisce per trasformare la realtà. Se l’essere è la trasformazione della realtà, innescata da tale interpretazione, anche l’essere si evolve: ma l’uomo, in quanto realtà che osserva la realtà esterna a sé, si configura come la componente di se stesso che non si evolve, ma assiste incredula a tale evoluzione. C’è insomma in noi qualcosa che si chiama uomo e che non vuole evolvere, in quanto è complementare all’evoluzione, fonte d’ispirazione per l’evoluzione, che chiamo essere (supremo).

Prenderemo quindi un brano del testo sacro e lo metteremo a confronto con i brani più affini, sondandone i quattro livelli di nidificazione di campo più elevati. Dopo di che, mostreremo come intersecando l’interpretazione del nostro brano con l’interpretazione di un altro tema scritturistico, o di un altro capoverso scritturistico, o di un libro scritturistico, otterremo un intreccio che rende più densa la realtà osservata, finché a forza d’intrecci non troveremo la complessità della realtà in ogni sua sfaccettatura e potenzialità. A quel punto, non potremo dubitare di aver trovato l’essere nella sua cangianza e di aver acquisito finalmente un dominio ad libitum sulla realtà (in accordo con l’essere supremo). La teoria del testo-ricerca mira dunque a dare ragione all’approccio cabalistico, portandone a compimento le promesse. Non vi nascondo che, vista l’imponenza dell’impresa che mi accingo a proporvi, anch’io debba compierla per la prima volta (almeno nel modo così radicale con cui l’ho descritta poc’anzi). Il fatto che siamo pionieri non toglie successo alla nostra missione: ne delinea semmai i confini, entro cui concentrare i nostri sforzi.

La scelta del brano, oggetto di analisi, non sarà necessariamente casuale: per avere l’opportunità di appassionare il lettore, siamo autorizzati a scegliere un brano particolarmente significativo. La Bibbia è così stracolma di brani significativi, che costringersi a sceglierne uno apparentemente sciatto potrebbe risultare perfino ridicolo.

Una scelta difficile è invece se mettere in chiaro le chiavi interpretative che seguirò o farne solo gustare il risultato. Tale scelta è difficile non per un ipotetico interesse, da parte dell’esoterista, a tenere per sé la conoscenza rivelatagli dall’essere superiore, ma per l’asperità che normalmente tale conoscenza presenta a chi vi si avvicini per la prima volta. C’è bisogno di un’iniziazione, per intraprendere qualunque cammino esoterico. Non si può pensare di apprendere in pochi minuti una dottrina esoterica: ci vogliono anni. Di conseguenza, se mettessi in chiaro i criteri ermeneutici in questa sede, finirei per annoiare e dissuadere del tutto, nell’arco di poche righe, i pochissimi lettori rimasti ipoteticamente fedeli a queste pagine.

Non presenterò, quindi, le mie chiavi ermeneutiche in modo organico, ma solo eventualmente ed alla spicciolata, ogni volta che ne avrò fatto previamente gustare il risultato sul testo sacro. Un simile modo d’interpretare il testo sarà più avvincente, in quanto regalerà, ad ogni passo, un significato insolito delle parole scritturistiche, che suonerà stranamente bene all’orecchio e all’intelletto del lettore, senza che questi ne comprenda il perché. Quando avrò esplicitato il criterio interpretativo grazie a cui io sia arrivato ad un singolo significato scritturistico, il lettore avrà contezza su come io sia arrivato all’approdo interpretativo. Ma non espliciterò tali criteri in modo sistematico: molte volte (per alleggerire il discorso) ometterò completamente di esplicitare la chiave ermeneutica, rimandando a saggi successivi la sua formulazione.

Un elemento chiave, che dobbiamo chiarire prima d’iniziare l’esegesi del brano scritturistico prescelto, è il seguente: non si può e non si deve pretendere di scoprire, in poche ore o giorni di studio, la maniera di compiere riti magici efficaci, guarigioni, portenti. Non che tali cose siano impossibili: tutt’altro. Né escludo che nel testo sacro si nascondano le vie per arrivare a tali meravigliosi esiti: anzi è ciò che affermo. Tuttavia la disposizione d’animo di volerli trovare a tutti i costi e a buon mercato v’impedirebbe di dare il via libera al testo sacro, per trasformarvi in autentici esoteristi, maghi e taumaturghi (come anche in fisici, chimici, biologi, giuristi, ecc…). Il testo sacro, se davvero “scrittura dell’essere”, vi trasformerà senz’altro in ogni cosa vorrete diventare, purché soddisfiate due requisiti: cercare davvero ciò che pensate di trovare nel testo-ricerca; cercare davvero un accordo con l’essere superiore che lo ha ispirato (il che equivale ad essere uno dei suoi eletti). Solo entrando in sintonia con quest’ultimo, affascinandolo con la bellezza interiore che vorrete mostrargli, lo convincerete ad aprirvi la mente e il cuore[footnoteRef:4] alle sue vie, che sono “più alte delle vostre vie”[footnoteRef:5]. Non dovete quindi puntare solo il raggiungimento di uno specifico risultato tecnico (finalità che pur costituisce il primo requisito che ho enunciato), ma lasciarvi avvincere in modo continuativo dagli enigmi e dalle loro soluzioni, che sorgono grazie a tale testo, finché la soluzione ad ogni problema del momento vi zampillerà davanti. Questo stesso è il modo di procedere dell’umanità, di fronte ai grandi vicoli ciechi interpretativi: per superarli, adopera le rivoluzioni scientifiche, che tuttavia non sorgono a comando. Il testo-ricerca non è altro che un aiuto, una scorciatoia che un essere superiore propone ad un essere inferiore, ma a lui complementare, per raggiungere la sua stessa posizione di dominio rispetto alla realtà. Quindi nelle pieghe del testo-ricerca dovrete vivere, in pochi giorni, decine di rivoluzioni scientifiche (alcune delle quali già realizzate dall’umanità, altre ancora di là da venire). Terminata un’analisi abbastanza sommaria del brano prescelto (in quanto più di una simile analisi in questa sede non sarà consentito compiere) avrete introiettato alcune decine di nuovi paradigmi, idonei a permettervi altrettante rivoluzioni scientifiche, ma ne potrete concretizzare solo qualche unità. Infatti, per realizzare in concreto una rivoluzione scientifica, non basta conoscerne il paradigma: occorre avere il tempo e la voglia di percorrere l’intero tragitto che si concretizza in una nuova modalità di percepire la realtà, secondo strutture intellettuali radicalmente diverse da quelle fino ad allora adoperate. L’obiettivo di questo saggio non è farvi sperimentare il primo miracolo (qualunque cosa esso rappresenti), o la prima guarigione taumaturgica, ma è convincervi che simili cose (e molte di più) si nascondono nel testo sacro e instillarvi l’interesse a conoscerlo ed integrarlo[footnoteRef:6]. [4: L’espressione “la mente e il cuore” non è per niente atecnica, anzi descrive in modo molto preciso i luoghi interiori che vengono implicati da questo cammino di trasformazione che chiamo accordo con l’essere superiore (o supremo). La mente (in greco νουν: si legge nùn) è la macchina che unisce pensieri, sensazioni ed emozioni, per elaborare strutture intellettive sempre più complesse e articolate, al fine di rispondere ai problemi che l’uomo si pone. Il cuore è la sede della convergenza tra opposti inconciliabili, che grazie ai sogni e ai sentimenti trova le strade per uscire dai vicoli ciechi intuitivi che impediscono alla mente di elaborare le strategie di riuscita.] [5: Isaia 55,8.] [6: Il testo-ricerca non è un dato immodificabile, anzi è un “materiale vivo”, potremmo dire, che deve essere integrato da ciascun interprete in grado di arrivare fino al suo livello più profondo.]

Scopo di quest’opera non è l’apologia della tesi dell’ispirazione divina nei testi sacri, ma offrire una guida per comprendere la profondità di tali testi e il modo in cui l’uomo può adoperarli e arricchirli (addirittura crearne di completamente nuovi), al fine di conoscere la realtà e trasformarla. Come C.G. Jung ha considerato scienza il proprio studio sull’inconscio collettivo, così noi consideriamo scienza questo saggio che permette di entrare nell’esoterismo del testo sacro (da noi più correttamente chiamato “testo-ricerca”).

Guida dei verbi alla terza persona singolare (d’ora in poi anche: “gvts”): un ordinamento cibernetico di tipo scritturistico

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Alla scoperta del brano scritturistico (Tobia 11,10-13)

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Il brano da noi scelto è tratto dal codice S del Libro di Tobia, capitolo 11, versetti da 10 a 13. E’ il passo biblico in cui Tobia guarisce la vista del padre Tobi, secondo le istruzioni ricevute dal messaggero dell’Altissimo chiamato Raffaele. Il passo è abbastanza famoso e si trova solo nella cd. Bibbia dei Settanta, che è una versione greca della Bibbia contenente non solo quello che poi fu il canone ebraico, ma anche altri testi sapienziali più recenti, tra cui appunto il Libro di Tobia (o di Tobi). In questo libro si narra la storia di un ebreo dalla fede fervente, Tobi, che nonostante gli atti di compassione verso i poveri sembra punito dalla sorte, in quanto non solo non viene liberato dalla sua condizione di esule a Ninive, ma perde la vista a causa di un uccello che gli defeca sugli occhi, mentre si era addormentato sotto un albero. Tobi, a differenza di Giobbe, non bestemmia mai contro l’Altissimo. Ad un certo punto decide d’inviare il figlio Tobia con un parente (che in realtà è il messaggero Raffaele, che ha assunto mentite spoglie) a sposare una parente, che si trova molto lontana da loro e, in più (cosa ignorata da Tobi e sua moglie), è posseduta da un demone che uccide chiunque cerchi di congiungersi a lei, provocando così la morte di sette mariti nella prima notte di nozze. Tobia viene accompagnato nel viaggio da Raffaele, che gli fa raccogliere alcuni ingredienti, che adopererà poi (secondo le sue istruzioni) sia per liberare Sara - novella sposa - dal demone Asmodeo, che per guarire gli occhi del padre. Gl’ingredienti presenti in questo libro, tutto sommato minore nel panorama biblico e senz’altro non lunghissimo, sono una sorta di miscela esplosiva per psicanalisti, esoteristi, filosofi e uomini religiosi.

Pur avendo in famiglia soggetti con problemi di vista, non ho mai pensato di spalmare sui loro occhi gl’ingredienti indicati da questo libro biblico: non so nemmeno se la loro vista possa migliorare o peggiorare, a seguito di un simile trattamento. Se anche si riuscisse a guarire qualcuno con tali sistemi, si tratterebbe probabilmente di un enorme fattore “C”. L’interpretazione del testo, anche ai fini taumaturgici (che qui non interessano specificamente, se non a livello introduttivo), dovrà essere reperita a livelli molto più profondi di conoscenza, che non in una dinamica da “Allegro chirurgo”[footnoteRef:7]. [7: Trattasi di un gioco da tavolo, famoso negli anni ’90, con cui i bambini facevano finta di curare un paziente con buffe pinzette tramite le quali si estraevano le ossa del malcapitato, stando attenti a non toccare i bordi delle incisioni chirurgiche (altrimenti il naso diventava rosso e un allarma si metteva a suonare).]

Ciò detto, il brano che intendiamo analizzare è il seguente:

και ανεσθη τωβις και προσεκοπτεν τοις ποσιν και εχηλθεν την θυραν της αυλης και εβαδισεν τωβιας προς αυτον και η χολη του ιχθυος εν τη χειρι αυτου και ενεφυσησεν εις τους οφθαλμους αυτου και ελαβετο αυτου και ειπεν θαρσει πατερ και επεβαλεν το φαρμακον επ`αυτον και επεδωκεν και απελεπισεν εκατεραις ταις χερσιν αυτου απο των κανθων των οφθαλμων αυτου και επεσεν επι τον τραχηλον αυτου και εκλαυσεν και ειπεν αυτω ειδον σε τεκνον το φως των οφθαλμων μου.

Si legge:

kài anésthe tòbis kài prosékopten tòis posìn kài exélthen tèn thùran tès aulès kài ebàdisen tobìas pròs autòn kài è cholé tù ichthùos en tè cheirì autù kài enefùsesen eis tùs ofthalmùs autù kài elàbeto autù kài éipen thàrsei pàter kài epébalen tò fàrmakon ep’autòn kài epédoken kài apelépisen ekatérais tàis chersìn autù apò tòn kanthòn tòn ofthalmòn autù kài épesen epì tòn tràchelon autù kài éklausen kài éipen autò eidòn se téknon tò fòs tòn oftalmòn mu.

Si può, in via preliminare, tradurre:

“e si alzò Tobi e inciampò coi piedi e uscì dalla porta del cortile. E camminò Tobia verso di lui e la colla del pesce (era) nella sua mano e (la) pose sugli occhi di lui e lo abbracciò e disse: fatti coraggio, padre. E applicò il farmaco su di lui e (ne) aggiunse e sbucciò con entrambe le sue mani dagli angoli degli occhi di lui. E (il padre) si lanciò al collo di lui e pianse e gli disse: ti vidi, figlio, la luce dei miei occhi”.

I collegamenti del brano prescelto con altri brani scritturistici

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Il primo tipo di collegamenti di cui dobbiamo verificare la sussistenza è quello dei collegamenti tra il brano prescelto (Tobia 11, 10-13) con altri brani biblici simili. Ne sceglieremo uno in particolare, per la sua effettiva e lampante somiglianza: la parabola del padre misericordioso (o del figlio prodigo), che si trova narrata nel libro di Luca, capitolo 15, versetti da 11 a 32. Ma la lista dei brani simili a quello prescelto è quasi infinita. Potremmo anzi dire che ogni brano biblico ha una somiglianza con questo, più o meno evidente. Tra i più simili, vi è quello in cui Giobbe dichiara che i suoi occhi adesso vedono l’Altissimo; quello in cui Davide chiama da distanza Saul con il nome di padre; quello in cui Gesù guarisce il cieco dalla nascita, spalmandogli fango sugli occhi; quello in cui Abramo vede graziato il figlio Isacco, che stava per immolare sull’altare dell’Altissimo. Ve ne sono poi altri che hanno analogia con temi forse meno importanti per questo brano: come i brani in cui il profeta Giona fa convertire Ninive, poi si rifiuta di accettare tale conversione e viene colpito dal sole sotto un albero di ricino; il brano in cui Paolo viene morso dal serpente mortale e non subisce alcun danno, sotto gli occhi meravigliati degli abitanti di Malta; il brano in cui Yahwé Elohìm dice “è luce” ed “è luce”; il brano in cui il cieco guarito da Gesù non cessa di testimoniare l’eccezionale guarigione ricevuta, fino a farsi cacciare fuori dalla sinagoga; il brano della risurrezione di Lazzaro, in cui la sorella Marta (in analogia con la moglie di Tobi) è incredula ma qualcuno apre comunque la pietra sepolcrale per permettere a Gesù di risvegliare il suo amico; il brano in cui Anna, pregando all’estremo della disperazione, riceve la possibilità di concepire un figlio, promettendo di consacrarlo all’Altissimo; ecc…

La tesi che noi proponiamo è, in sintesi, che ogni passo del testo-ricerca rispecchia variazioni sul tema, rispetto ad ogni altro passo, come se l’intero testo-ricerca fosse un unico messaggio, declinato nelle sue più multiformi e cangianti espressioni.

Potremo concentrarci solo sui collegamenti tra il brano prescelto e pochi altri brani scritturistici, ma intendiamo offrire al lettore la netta impressione che, più in là che si scava nella ricerca, più fitti i collegamenti diventano.

Il collegamento del brano prescelto (Tobia 11, 10-13) con l’abbraccio tra il padre misericordioso e il figlio prodigo (Luca 15, 20-24): la questione del tema

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Il brano del Vangelo secondo Luca con cui dobbiamo confrontare il brano prescelto è tratto dal capitolo 15, versetti da 20 a 24. Narra dell’abbraccio tra padre e figlio, al pari del passo in cui Tobia cura gli occhi del padre e questi lo abbraccia, benedicendo l’Altissimo.

Il passo tratto dal Vangelo è dunque il seguente:

και αναστας ηλθεν προς τον πατερα εαυθου ετι δε αυτου μακραν απεχοντος ειδεν αυτον ο πατηρ αυτου και εσπλαγχνισθη και δραμων επεπεσεν επι τον τραχηλον αυτου και κατεφιλησεν αυτον ειπεν δε ο υιος αυτω πατερ ημαρτον εις τον ουρανον και ενωπιον σου ουκετι ειμι αξιος κληθηναι υιος σου ειπεν δε ο πατηρ προς τους δουλους αυτου ταχυ εξενεγκατε στολην την πρωτην και ενδυσατε αυτον και δοτε δακτυλιον εις την χειρα αυτου και υποδηματα εις τους ποδας και φερετε τον μοσχον τον σιτευτον θυσατε και φαγοντες ευφραντωμεν οτι ουτος ο υιος μου νεκρος ην και ανεζησεν ην απολωλως και ευρεθη και ηρξαντο ευφραινεσθαι.

Si legge:

Kài anastàs élthen pròs tòn patéra eautù éti dè autù makràn apéchontos éiden autòn o patér autù kài esplanchnìsthe kài dramòn epépesen epì tòn tràchelon autù kài katefìlesen autòn éipen dè o uiòs autò pàter émarton eis tòn uranòn kài enopiòn su ukéti eimì àxios klethénai uiòs su éipen dè o patér pròs tùs dùlus autù tachù exenénkate stolén tèn pròten kài endùsate autòn kài dòte daktùlion eis tén chéira autù kài upodémata eis tùs pòdas kài férete tòn mòschon tòn siteutòn thùsate kài fàgontes eufrantòmen òti ùtos o uiòs mu nekròs èn kài anézesen èn apololòs kài euréthe kài érxanto eufràinesthai.

Si può, in via preliminare, tradurre:

“e alzandosi andò verso suo padre. Mentre si trovava ancora lontano, lo vide suo padre e si commosse e correndo gli si gettò al collo e lo baciò. Gli disse il figlio: padre, no sbagliato nel cielo e verso di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Disse però il padre ai suoi servi: presto, portate la prima veste e infilategliela e date anello nella mano di lui e calzari ai piedi e portate il vitello ingrassato, sacrificatelo e mangiando rallegriamoci che questo mio figlio era morto e rivisse, era distrutto e fu ritrovato. E cominciarono a rallegrarsi”.

Avrete notato le enormi simmetrie tra i due testi, quello del libro di Tobia e quello evangelico. Ovviamente quest’ultimo è successivo al primo, di quasi tre secoli. Quindi, dal punto di vista storicistico, potremmo supporre che sia stato lo scrittore del Vangelo secondo Luca a prendere come modello il Libro di Tobia. Ciò, invece che inficiare la nostra tesi, la rafforza, mettendo in luce una volta di più che i libri di cui è composta la Bibbia sono stati redatti gli uni sul modello degli altri, come appunto quelle variazioni sul tema cui ho accennato in precedenza. Tuttavia ciò che voglio chiarire con la mia interpretazione è che il livello di studio che sta dietro a tali analogie è non solo consapevole, ma così marcato da far pensare alla Bibbia come ad un unico testo-ricerca (cioè una ricerca unica, condotta da moltissimi uomini coordinati tra loro in maniera misteriosa, e trasfusa in modo integrale in un unico testo). La maniera misteriosa di tale coordinamento non è, in realtà, così misteriosa: lo è solo per chi non crede al coordinamento stesso. Chi invece vi crede, in quanto lo ha vissuto in prima persona, comprende come più esseri umani, senza nemmeno conoscersi, possano cooperare nell’arco di secoli e millenni ad un’opera unica. E’ ciò che avviene, peraltro, in tutti i campi del sapere e della vita umana: non si costruisce mai da zero, ma sempre da quanto altri ci hanno lasciato in precedenza, aggiungendovi qualcosa di unico che è il nostro piccolo retaggio per l’umanità. Nella Bibbia questo modo di coordinarsi tra gli umani diventa addirittura parossistico, come mi accingo a mettere in luce: al punto che nella Bibbia (come in ogni altro testo-ricerca) si trovano le chiavi per comprendere e muovere un novero immenso di realtà tra loro distanti e apparentemente scollegate. Il testo-ricerca è dunque una sorta di nastro biadesivo, che collega, su uno dei suoi lati, una mole notevole di testi (rendendoli un testo unico), sull’altro lato, invece, collega un novero immenso di realtà (rendendole un’unica rete relazionale).

In entrambi i due testi, che ci accingiamo ad analizzare, ci sono dunque temi letterari, azioni, parole, modi di dire e strutture grammaticali simili o addirittura coincidenti.

Il tema di fondo è l’abbraccio tra un padre ed un figlio che sono stati a lungo lontani, in situazioni d’indigenza e di pericolo, che hanno fatto temere almeno uno dei due di non rivedere mai più l’altro. La prima differenza è dunque nel diverso atteggiamento relazionale del figlio, che nel libro di Tobia è preoccupato per il padre, quasi quanto il padre è preoccupato per il figlio, mentre nel Vangelo secondo Luca è preoccupato solo di se stesso, a differenza del padre che lo scorge quando ancora è distante (a prova del fatto che non aveva mai smesso di scrutarne il ritorno). Il tema è peraltro di grande portata, sia in psicanalisi che dal punto di vista sociologico, ben prima che dal punto di vista religioso e teologico. La versione tobistica (così la chiameremo, per semplicità) viene completamente ribaltata in quella lucana, anche per altri profili. Mentre in Tobia il soggetto povero e abbandonato al suo destino è il padre (cieco, indigente, esiliato, vessato dalla moglie, timoroso di aver perso il figlio per colpa propria), in Luca il soggetto disgraziato è il figlio (ridotto alla più nera povertà, per aver dilapidato un patrimonio che aveva rivendicato senza che fosse suo, ma che era in realtà del padre). Il figlio Tobia è poi, frattanto, diventato ricco e felice per il suo matrimonio con Sara; in Luca è invece il padre ad essere ricco sfondato, capace di amministrare bene un patrimonio anche a vantaggio dei servi, che vivono essi stessi nell’abbondanza. La cura con cui Tobia somministra la cura al padre ha poi come contraltare l’esplosione di gioia e di festa con cui il padre misericordioso riaccoglie il figlio prodigo. Potremmo archiviare queste variazioni sul tema come stranezze, se non che la lista potrebbe andare avanti per alcune pagine: a quel punto ci viene da chiederci perché in Luca si vuole così ardentemente riformulare, in modo radicale, il modello di Tobia?

La risposta può essere data guardando alla Bibbia nella sua più ampia estensione. In molti libri biblici si ripete questa antinomia tra due modelli: il padre e il figlio compartecipi di un amore vicendevole; il padre che ama il figlio ma non è riamato altrettanto; il figlio, infine, che ama il padre ma non è riamato fino in fondo. Gli esempi, ancora una volta, sono abbastanza numerosi:

nel primo schema rientrano: Abramo e Isacco, quando insieme salgono fino al monte del sacrificio; Giuseppe e Giacobbe; Davide e Samuele (inteso come figura paterna); la parabola del figlio che obbedisce al padre, dopo il rifiuto iniziale; Gesù e il padre; Paolo e Onesimo; Barnaba e Giovanni, detto Marco; il figlio dell’uomo e il vegliardo con cui parla nell’Apocalisse; sempre in tale libro, l’essere antico seduto sul trono e l’agnello sgozzato che viene intronizzato;

nel secondo schema, oltre alla coppia padre-figlio del brano di Luca, rientrano: il padre misericordioso e il figlio più grande; sempre nei Vangeli, il padre e il figlio che non esegue la sua volontà; Giacobbe e i suoi figli che vendono il fratello Giuseppe per gelosia; Davide e il figlio Assalonne; ogni re di Giuda o Israele che non segue le orme del padre, ma si dà all’idolatria; l’uomo che lascia il padre (e la madre) e prende la sua donna “e i due saranno in una carne sola”;

nel terzo schema rientrano: Abramo e Isacco, quando Abramo stende il coltello su di lui per sacrificarlo; il padre e Gesù, quando questi suda sangue e poi viene condannato e crocifisso; i padri che hanno ricevuto la manna nel deserto e gl’interlocutori che non accettano di credere in Gesù e sono pertanto condannati a morire come i padri stessi, di cui seguono l’esempio;

Ma oltre al numero ragguardevole di esempi di questi tre schemi, il punto focale è il livello di coerenza del sistema padre-figlio nel testo-ricerca. È grazie a tale livello di coerenza che una mole sterminata d’informazioni può collegarsi nella Bibbia e tra la Bibbia e la realtà, senza bisogno di ulteriori mediazioni, nel contesto di questi tre schemi. In ognuno di essi, infatti, proprio per la loro ricorrenza stereotipata in collegamento ai medesimi temi (vista del padre, amore/disprezzo tra padre e figlio, indigenza o morte, soccorso, festa/lode/alleanza, stupore, ricongiungimento), si configurano come riferimento ad un tema diverso e più universalizzante: il tema del rapporto tra la realtà e il suo interprete. Il rapporto padre-figlio dissimulerebbe cioè il rapporto tra la realtà (rappresentata dal padre) e l’interprete della realtà (rappresentato dal figlio). Il figlio biblico, infatti, è sempre visto come interprete del padre, in quanto depositario del suo lascito per la successiva generazione. La sua interpretazione del padre può portarlo ad amare quest’ultimo, a lasciarsi amare da lui o a rifiutarlo. Ma anche il padre biblico può amare, trascurare o rifiutare/danneggiare il figlio, in quanto generazione da cui deve essere soppiantato. Tali alternative si pongono anche nel rapporto tra realtà e suo interprete umano. Quest’ultimo può infatti accettare la realtà per come gli si presenta e cercare di capirla (opzione essoterica e deterministica); oppure può restare indifferente alla realtà (opzione nichilista o scettica); o infine può rifiutare la realtà per come si presenta e cercare, con un amore che si chiama ricerca, di trasformarla (opzione esoterica ed indeterministica). Al contempo anche la realtà può offrirsi come comprensibile ed accettabile per l’uomo suo interprete (generando in lui un ottimismo conoscitivo, che potremmo chiamare positivismo); oppure presentarsi come inconoscibile (generando in lui l’opzione scettica o nichilista sopra accennata); o infine presentarsi come ostile o matrigna (generando in lui un pessimismo cosmico o un arretramento evolutivo, per mancanza di punti di riferimento culturali validi). Intendendo la Bibbia come un unico testo-ricerca, avrebbe poco senso attribuire al rapporto padre-figlio una connotazione morale o novellistica. Avrebbe invece senso attribuirgli il significato di rapporto tra realtà e suo interprete umano, in quanto connotato chiave del padre, nel contesto biblico, è la facoltà percettiva (in cui si condensa appunto l’emersione della realtà osservata) e connotato chiave del figlio biblico è il lògos, che deriva dal verbo greco léghein = “raccogliere, dire” (significante, quindi, la “parola che raccoglie” gli elementi della realtà nell’interpretazione). Ogni padre biblico, infatti, vede o non vede il figlio, lo conferma o lo mette alla prova, si lascia a sua volta vedere o ne offusca la vista. Il vivente, nel momento in cui acquisisce la coscienza (come nel caso della specie umana), è capace di diventare lògos che si accorda in modo nuovo con la realtà osservata, trasformandola come fa Gesù sulla croce e nella risurrezione. Il vivente Gesù che sconfigge la morte, attraversa i muri e diffonde un messaggio capace di rendere gli altri simili a sé non è più, difatti, un mero osservatore esterno della realtà, ma lògos capace di far convergere la realtà su registri di significato non solo intellettivo, mnemonico e intuitivo, ma anche percettivo, completamente nuovi. Tale nuova convergenza della realtà comporta un accordo con essa: la logica dell’amore padre-figlio sta proprio a significare questo. E di vero amore si tratta, in quanto la Bibbia sposa l’opzione della personificazione delle funzioni conoscitive, viste nelle loro rispettive componenti di parola-intelletto che fa convergere i linguaggi della realtà (personificantesi nel lògos-figlio) e di realtà da percepire in chiave evolutiva e finalistica (personificantesi nel padre misericordioso, che lascia spazio all’uomo-figlio per essere da lui reinterpretato e quindi trasformato)[footnoteRef:8]. [8: Per una teoria completa sulle personificazioni bibliche, che comprenda anche il rùah e lo pnéuma àghion, si rimanda ad un futuro saggio sulla cd. Trinità.]

Nel brano lucano avremo dunque un atteggiamento scettico o nichilista dell’interprete umano, nonché in parallelo una realtà disponibile a farsi conoscere grazie all’opzione (neo)positivista. Se vogliamo crederlo, tale brano configura la stessa situazione in cui si trovano oggi le collettività umane che vivono sotto l’influenza della Scienza occidentale: l’interprete ha perso i punti di riferimento interpretativi, ma la realtà è ancora comprensibile con i paradigmi epistemologici tradizionali.

In Tobia, invece, avremmo un atteggiamento (neo)positivista dell’interprete umano, in pieno accordo con la tendenza della realtà a farsi conoscere (secondo tale medesima opzione neopositivista). Il riferimento a dottrine storicamente definite come il neopositivismo è meramente funzionale a rendere più comprensibile la nostra analisi. Potremmo sostituire al termine neopositivismo altri termini, che traducano in modo più adeguato, a seconda del momento storico che stiamo vivendo, la dinamica di fondo testé descritta. Tale dinamica si rifà all’idea (squisitamente essoterica) che la realtà vada studiata come qualcosa di esterno all’osservatore, quindi non disponibile né trasformabile da quest’ultimo, unitamente alla constatazione che essa effettivamente si fa conoscere, non rimane oscura o ambigua. L’odierna fiducia delle collettività umane per l’esperienza di laboratorio (declinata secondo il paradigma dell’evidence based) ci parla proprio di questa disponibilità della realtà a farsi conoscere. Tale fiducia era però illimitata fino ai primi decenni del Novecento; da allora è entrata sempre più in crisi. Potremmo quindi considerare il rapporto interprete-realtà descritto in Luca e quello descritto in Tobia come compresenti nella nostra attuale società globale, ma quest’ultimo, pur tuttora vigente, è entrato in crisi.

Segue: “e si alzò”/“e alzatosi” (nell’originale greco: kài anéste / kài anastàs)

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I due brani iniziano in modo quasi identico, ma con un ribaltamento narrativo: in Tobia chi si alza è il padre, in Luca è il figlio. Entrambi si alzano da una prostrazione morale (oltre che fisica), contro la quale danno un primo giro di vite, ancora non risolutivo.

La tensione della “e” iniziale ci dice che stiamo entrando in una dinamica già iniziata in precedenza, cui si va imprimendo un cambio di registro[footnoteRef:9]. [9: [NOTA ESOTERICA sulla parola scritturistica και, leggesi kài, in Tobia11,10a:] Nella Bibbia greca la congiunzione coordinativa è resa dalla parola και. Non si tratta, però, di una vera congiunzione coordinativa, che potrebbe essere resa dal semplice uso della virgola (o dall’accostamento di due parole dallo stesso significato grammatica, senza aggiunta nemmeno del segno grafico della virgola). Quando nella Bibbia si adopera la parola kài, non si sta impostando una coordinazione tra elementi. Infatti molti capoversi biblici iniziano con kài, nonostante che non vi sia alcuna esigenza di coordinare tra loro i capoversi. La seconda chiave della scrittura è che ogni parola scritturistica ha un significato autonomo e tendenzialmente identico a se stesso (che, dalla teoria dell’osservatore, sappiamo essere esplicitato al livello della tecnica costitutiva). Quindi a tale livello considero la parola kài come esprimente lo stesso significato, sia quando si trova ad inizio di capoverso, sia quando si trova tra due elementi che (nella normalità di uno scritto umano) dovrebbero essere tra loro coordinati. Non di vero coordinamento, quindi, si tratta, ma di una svolta. Quando, infatti, un capoverso biblico inizia con kài, significa che inizia con una svolta, un’evoluzione trasformativa di un discorso iniziato altrove. Ciò avviene anche nel linguaggio colloquiale. Se, per esempio, faccio un discorso al mio figlio piccoletto, spiegandogli una regola della casa che mi sta particolarmente a cuore, poi faccio una pausa ed infine riprendo il discorso iniziandolo con la congiunzione “e”, sto rimarcando un’ulteriore evoluzione della prima parte del discorso, che non era ancora emersa. Potrei, ad esempio, dire a mio figlio: “non devi scarabocchiare sui muri”; poi, dopo una pausa, aggiungere: “e, se ti becco a farlo, sono guai!”. Quella “e” indica appunto un’evoluzione del discorso, che cambia le carte originariamente in tavola, trovando in esse l’iniziazione per una trasformazione della realtà osservata. Occorre ora specificare quale sia il prima e quale sia il dopo di tale trasformazione. Qui il mistero s’infittisce, poiché nella scrittura greca come in quella ebraica la trasformazione non ha un prima, ma solo un’attualità. La trasformazione espressa dal kài è trasformazione in qualcosa, non trasformazione da qualcosa. Né si tratta di una trasformazione cronologica, che annienta un qualcosa che c’era prima, riducendolo a livello di mera traccia da interpretare, in favore di un dopo, che diventa immediatamente passato (anch’esso mera traccia). La trasformazione scritturistica è invece archetipica: cioè un qualcosa che “comincia uno stampo”, riutilizzabile e rimodulabile ad libitum nella realtà osservata. La “trasformazione in qualcosa” non riguarda, quindi, un prima cronologico, ma è una rimodulazione di un “non-so-che”, che è già la propria rimodulazione. Il discorso appena fatto, per quanto complesso, è estremamente preciso. Occorre leggere il saggio Analogia singolare[…] (disponibile sul sito www.bridge4will.net) per rendersene conto. Come ogni parola scritturistica, infatti, anche kài è un’analogia singolare che muove la realtà, trasformandola e al contempo stabilizzandola in una struttura innovativa, caratterizzata da una forza e da uno slancio che consente all’uomo di percepirla stabilmente. Non mi perderò, qui, nella definizione di analogia singolare, che ha richiesto un’intero saggio (quello sopra citato) per rendersi comprensibile. Costruendo il mio discorso su tale definizione, che dò per scontata, considero kài quella particolare analogia singolare che si caratterizza, alternativamente, come trasformazione (di un non-so-che) in una di queste quattro cose: 1) strutturazione-concretizzazione (della realtà); 2) το βδελυγμα της ερημωσες (leggesi tò bdélugma tés eremòseos = “l’abominio della solitudine (con il sé)”); 3) και βασιλευσουσιν τα χιλια ετη (leggesi kài basiléususin tà chìlia éte = “e regneranno i mille anni”); το τελος (leggesi tò télos = “il compimento”). Queste quattro cose sono livelli in cui si declina la realtà, grazie alla spinta e alla forza (intelligente) dell’essere. Potremmo chiamarli i “livelli trasformativi” della realtà, per distinguerli dai livelli delle nidificazioni di campo, sopra accennati, che costituiscono invece livelli coordinativi della realtà. Il primo livello trasformativo, in cui il kài introduce la trasformazione del reale, si commenta da solo: la strutturazione-concretizzazione della realtà. La parola scritturistica kài significa quindi, in questa prima accezione alternativa, “trasformazione (di un non-so-che) nella strutturazione e concretizzazione della realtà”. Ciò che viene trasformato rimane quindi ineffabile, ciò che è la risultante della trasformazione è la strutturazione e la concretizzazione della realtà. Un esempio di questa prima accezione di kài potrebbe essere proprio l’esempio che facevo prima, di come introducendo la parola “e” nel discorso al mio figlioletto gli ho strutturato e concretizzato una regola come oggetto di sanzione. Da allora in poi, ogni volta che mio figlio colorerà il muro, lo farà con addosso l’elettricità della trasgressione. Viva l’educazione! Oppure non lo farà, con il rimpianto di non aver voluto trasgredito tale regola, ma crescendo come persona in grado di vivere in società. Il secondo livello trasformativo in cui si declina la realtà è “l’abominio della solitudine con il sé”. La parola “solitudine” adoperata in greco non fa riferimento alla situazione della monade, che è isolata e indipendente dalle altre, ma alla situazione di chi si chiude in se stesso, cioè in relazione con “il se stesso”. Poiché per me tale “se stesso” è la versione (a noi speculare) dell’essere (supremo), quando mi chiudo in me stesso, lungi dal chiudermi alla vita relazionale, vi entro. E’ infatti la relazione con l’essere (supremo), inteso come funzioni conoscitive in cui (quale osservatore della realtà) mi specchio e che personifico, la quale m’istituisce e fa vivere come essere relazionale. Tuttavia coloro che mi davano affetto possono restare irretiti (se non abbastanza evoluti) dalla mia relazionalità, che tende a scardinare l’ordine sociale e fisico in cui si trovano inseriti. L’abominio è quindi quella situazione anaffettiva in cui si trova chi si apre alla relazione. Per questo Gesù, quando sta per essere abbandonato dai suoi amici e crocifisso, dice “ma io non sono solo (mònos)”. La sua solitudine è infatti tò bdélugma tés eremòseos (“l’abominio della solitudine con se stesso”). Il terzo livello trasformativo in cui si articola la realtà è quello del cd. regno millenariatico (kài basiléususin tà chìlia ète). Si tratta della trasformazione in una realtà solo apparentemente compiuta, caratterizzata da un pluralismo che alla prova dei fatti, al di là delle promesse, non riporta le cose esistenti all’integralità dell’essere. L’integralità dell’essere è la forza che raccoglie i linguaggi della realtà (e pertanto anche gli elementi grazie ad essi articolati), spingendoli verso un’evoluzione che ne permette l’interpretazione secondo criteri appartenenti a linguaggi di raccordo progressivamente conferenti, tali cioè da assicurare risultati tecnici sempre più in linea con il finalismo sotteso a detta evoluzione. È quindi una rivoluzione spasimata ma non realizzata, il cui compimento rimane promessa intimamente gravida di realizzazione, ma non inverata a livello della realtà cd. oggettiva (cioè della realtà creduta dall’uomo in quanto appartenente a delle collettività organizzate). Il quarto livello trasformativo della realtà è il compimento (télos) della rivoluzione. S’intende la rivoluzione dell’osservatore, che impatta sulla realtà osservata, riconfigurandola. Un recente esperimento ha mostrato che alcuni effetti ottici non consentono all’occhio umano di percepire la realtà così com’era stata impostata da colui che dirige l’esperimento (non si percepisce, ad esempio, il vero colore di alcune sfere, qualora attraversate da linee da alcune forme e colori appositamente scelti per confonderne la visione): una percezione conferente risulta quindi impossibile. Ciò significa che due esseri umani, a secondo dei percorsi di autocoscienza condotti in precedenza, possono avere percezioni radicalmente diverse degli stessi oggetti. La percezione di un oggetto, in tali casi, è percezione di un percorso che porta all’oggetto, ma non dell’oggetto in sé. Ciò corrobora l’idea che, non solo nell’ambito delle microparticelle, ma in ogni aspetto del campo percettivo umano possa svilupparsi una rivoluzione completa della percezione, tale da introdurre contraddizioni logiche di ogni tipo. Il completamento della rivoluzione è dunque la caratterizzazione di un percorso di autocoscienza come percorso autonomo dalla logica dei percorsi sinora seguiti in un certo ambito percettivo. Il kài che stiamo analizzando è relativo a tale livello trasformativo, quello del compimento.Nel singolo capoverso scritturistico, in presenza del primo kài del capoverso stesso diremo: le parole scritturistiche precedenti al kài appartengono al primo livello trasformativo (quello della strutturazione-concretizzazione), il kài e le parole ad esso successive, purché precedenti al secondo kài del capoverso, appartengono al secondo livello trasformativo (quello de “l’abominio della solitudine con il sé”, in greco το βδελυγμα της ερημωσεως, leggesi tò bdélugma tés eremòseos); inoltre il secondo kài e le parole ad esso successive, purché precedenti al terzo kài, appartengono al terzo livello trasformativo (quello del “e regneranno i mille anni”, in greco και βασιλευσουσιν τα χιλια ετη, leggesi kài basiléususin tà chìlia éte); il terzo kài e le parole ad esso successive, purché precedenti al quarto kài, appartengono al quarto livello trasformativo (quello del compimento, in greco τελος, leggesi télos). Le parole appartenenti a questi primi quattro livelli si considerano appartenere ad un primo ciclo di livelli trasformativi, che chiameremo iniziatico, in quanto prepara a sua volta una direzione o una trasformazione dell’essere. Per direzione dell’essere intendiamo un destino umano, “costellato” (come dice Jung) grazie ad un certo archetipo. Per trasformazione dell’essere intendiamo quanto sopra indicato: cioè la trasformazione di un non-so-che in qualcosa di nuovo. Le parole scritturistiche successive al primo ciclo (che inizia con il quarto kài e finisce con l’ultima parola immediatamente precedente all’ottavo kài) appartengono al secondo ciclo, che chiameremo direzionale, in quanto esprimente un destino umano dell’osservatore costellato grazie ad un particolare archetipo. Le parole scritturistiche successive al secondo ciclo appartengono al terzo ciclo ciclo (che inizia con l’ottavo kài e finisce con l’ultima parola immediatamente precedente al dodicesimo kài), che chiameremo ciclo dell’inatteso decisivo, in quanto esprimente l’incrinarsi di un certo assetto archetipico di fondo a vantaggio di un nuovo assetto ancora non delineato completamente. Le parole scritturistiche successive al terzo ciclo appartengono al quarto ciclo (che inizia con il dodicesimo kài e finisce con l’ultima parola immediatamente precedente al sedicesimo kài), che chiameremo ciclo del completamento, in quanto esprimente un nuovo assetto archetipico completamente formato grazie all’interpretazione. Le parole scritturistiche successive al quarto ciclo (che inizia con il sedicesimo kài e finisce con l’ultima parola immediatamente precedente al ventesimo kài) appartengono al quinto ciclo, che chiameremo speculare, in quanto mette l’uomo-osservatore come dinanzi ad uno specchio in cui si riflette il suo sé archetipico, che viene da lui personificato nell’essere supremo.Il kài che qui è oggetto di analisi, appartenente al quarto livello trasformativo, si situa nel quinto ciclo dei livelli trasformativi (quello speculare). Questo kài introduce quindi una trasformazione che completa la realtà, grazie ad un suo riassetto archetipico apprezzabile nell’interpretazione dell’osservatore-uomo. Infatti la parola che segue immediatamente a questo kài è ανεστη (leggesi anèste = “si alzò-fissò (in modo seducente-violento)”). La parola anéste indica il fissarsi di qualcosa al suolo, cui si deve aggiungere il significato della preposizione anà, che vuol dire “sopra”, anche nel senso della posizione dell’uomo sulla donna (implicante seduzione e/o violenza). La seconda chiave interpretativa della scrittura, che ho sopra citato, precisa che ogni parola scritturistica ha sempre lo stesso significato (non per forza coincidente con tutti i significati risultanti dal vocabolario o dal dizionario etimologico), in qualunque passo scritturistico la si trovi (salve le differenze grammaticali che influiscono sui suoi caratteri scritturistici, come ad esempio il caso del nome o la coniugazione del verbo).Dobbiamo quindi interpretare anà individuando, in primo luogo, il suo significato scritturistico, cioè uno o più significati, tra quelli risultanti dal vocabolario e dal dizionario etimologico, che attribuiremo sempre a questa parola, anche quando è composta con altre parole scritturistiche. Tale significato deve essere ricevuto per rivelazione, adoperando la bussola intuitiva che l’essere (supremo) mette a disposizione dell’interprete. Tale bussola mi dice che anà significa “sopra” nel senso della posizione seduttiva-violenta dell’uomo che sovrasta la donna. Quindi il movimento di riassetto archetipico di anéste segue il modo della seduzione-violenza che l’essere (supremo), inteso come movimento evolutivo della conoscenza del reale, personificato dall’interprete umano, impone alla percezione.Nella scala dei livelli di coordinamento, i cicli suddetti si pongono al livello tematico, mentre i quattro livelli trasformativi (essendo attratti, i primi tre, dalle singole parole scritturistiche e costituendo, il quarto, la parola scritturistica successiva) si pongono al livello di queste ultime. Quindi nella tecnica costitutiva è il livello trasformativo ad attirare e riconfigurare il livello tematico, insito nel ciclo, e non viceversa (purché sia già attratto, nel caso dei primi tre livelli, dalla parola scritturistica). L’aspetto tematico del ciclo speculare, cioè l’idea che le facoltà conoscitive costituenti l’essere supremo emergano nella personificazione operata dall’interprete umano, è quindi confermata nella seconda parola (anéste) del ciclo stesso, che ci dice che tale personificazione è forzata dall’essere supremo stesso grazie al riassetto archetipico dell’uomo. La personificazione dell’essere (supremo) da parte dell’uomo è allora simile al lasciarsi amare della donna (che rappresenta l’umanità) da parte del maschio (che rappresenta l’essere personificando).]

Per Tobi, entriamo nella fase iniziatica della sofferenza. Una sofferenza che il personaggio Tobi non riesce a trasformare in consapevole, venendone invece travolto nella sfera intuitiva e apprestando come risposta solo un automatismo mutuato dalle frasi fatte, da pensieri devozionali predigeriti e prescodellati, cioè dalle autostrade di pensiero della mente collettiva, colorata di una particolare appartenenza ideologica. Ma tale sofferenza, confinata in questa sfera poco consapevole, diviene pur sempre iniziatica: si tratta di un’iniziazione che costituisce il vantaggio di alcuni a discapito di altri; il riempimento del mondo di alcuni, al prezzo dello svuotamento del mondo di altri. Tobi, senza saperlo, si avvia a riottenere i suoi punti di riferimento, a discapito dei Niniviti (abitanti di Ninive, la città presso cui era esiliato), che rimangono sconvolti dall’esito imprevisto della sua vicenda. La tensione, l’energia dell’essere - inteso come motore evolutivo della realtà - regala a Tobi un coordinamento favorevole di elementi esistenziali che sono fuori dal suo controllo, comportando la necessità che ad altri scivoli il terreno di sotto i piedi e che siano proprio essi a sfracellarsi (interiormente parlando) al posto di Tobi. Questo ribaltamento è talmente silenzioso, che si può presentirlo e pregustarlo solo nel silenzio della mente, nella pura intuizione ed animalità automatica dell’uomo, come fa Tobi. Qui è il padre che viene introdotto in una nuova economia, decisa dal figlio. I due convergono l’uno verso l’altro, ma il padre lasciandosi portare, il figlio portandolo.

E’ soprattutto l’interprete umano, Tobia (che abbiamo chiamato anche figlio dell’uomo, cioè colui che reinterpreta l’uomo Tobi, offrendone una visione inedita ed ineffabile), che vive nel silenzio interiore il coordinamento intuitivo delle cose verso un esito inconsapevolmente ma volutamente favorevole. Nel suo laboratorio individuale cominciano ad agitarsi forme archetipiche, capaci di caricare - e per ora solo di caricare - quell’onda intuitiva sulla cui cresta l’uomo si terrà saldo senza soccombere. Non c’è, in realtà, una promessa di successo, ma una direzione evolutiva già attiva, che con la massima concentrazione (quale questo passaggio della storia di Tobia impone) il figlio dell’uomo può continuare a seguire.

Pensiamo ora a come questa iniziazione del padre sofferente e come questo figlio che porta il padre nella direzione evolutiva si relazionino al tema del rapporto tra realtà e suo interprete. La realtà, come il padre Tobi, è talora indirizzata nella direzione di esprimersi all’uomo, ma non vi riesce senza che l’uomo la forzi più o meno bonariamente. Immaginiamo Galileo, cui la realtà ha già suggerito un nuovo paradigma, ma senza riuscire ad esprimerlo in modo comprensibile all’uomo. Solo Galileo può esprimere consapevolmente quel paradigma, impostando conseguentemente proprio le condizioni perché la natura possa esprimerlo a sua volta[footnoteRef:10]. La realtà si configura, infatti, come un vorticare di regole che tra loro s’intersecano: per isolare una regola, è necessario il paradigma dell’esperienza di laboratorio, che consente all’interprete umano di condurre la realtà stessa sotto braccio, come Tobia conduce Tobi. [10: In natura, infatti, non vi è un’espressione precisa e chiara delle leggi fisiche, dal momento che ad ogni corpo si dovrebbero applicare tutte le leggi fisiche in contemporanea. Galileo imposta allora il paradigma dell’esperienza di laboratorio, in cui il ricercatore cerca di isolare un fenomeno, ripetendolo più volte in condizioni tali da escludere il più possibile i cd. fattori di disturbo. Tale paradigma (oggi chiamato, nella sua versione attuale, paradigma dell’evidence based o dell’evidenza scientifica) non emerge chiaramente in natura, se non è l’uomo a farlo emergere.]

Quant’è diversa invece la “e” che c’introduce, nella pagina di Luca, al rialzarsi del figlio![footnoteRef:11] Pur essendo anch’essa iniziatica! La sua iniziazione è svuotare dal di dentro ogni equilibrio del figlio, che si presenta davanti al padre come l’ombra di se stesso, pronta a crollargli davanti in modo irreparabile. La sospensione è fortissima, poiché questo figlio potrebbe non riaversi mai più dall’umiliazione a cui sta per esporsi. Né il brano ci conforta su cosa passi nell’interiorità del figlio: è ancora troppo presto, perfino alla fine del brano, per fare un pronostico sulla risposta del figlio riaccolto dal padre. Avrà dismesso almeno alcune delle sue difese psicologiche? Le avrà abbandonate tutte, restando menomato mentalmente? Ne avrà erette di più efficienti e machiavelliche? Avrà interpretato il padre come un soggiogatore o come uno che ama davvero il figlio e merita di essere riamato? Se ci pensiamo bene, il figlio più grande per lo meno esprime la propria ipocrisia al padre, la rende palpabile, intelligibile: in prospettiva perfino curabile. Ma il figlio minore, lui no, non sappiamo cosa festeggi! Ma una cosa è sicura: le difese psicologiche del figlio riescono a condurlo fino al padre, per completare un’interpretazione del suo rapporto con quest’ultimo, in qualunque modo questa interpretazione vada un domani a configurarsi in concreto. Ciò che si completa - potremmo dire - è precisamente la sospensione del giudizio su se stesso e sul padre, che rende possibile in prospettiva tale medesimo giudizio. Nell’intimo, il figlio deve prepararsi all’incontro che sta ormai avvenendo: senza poter pregustare che tipo d’incontro sarà, nemmeno nel momento in cui si produce. Anche qui, colui che si alza (prima il padre, nel libro di Tobia; ora il figlio, nel Vangelo), vive un automatismo animale, puramente intuitivo e inconsapevole, in attesa che la tempesta si sposti dalla sua testa e questi possa riprendere in mano, in qualità d’interprete, la sua opera di tessitura della realtà. [11: [NOTA ESOTERICA sulla parola scritturistica και, leggesi kài, in Lc 15,20a] Il kài (= congiunzione “e”) con cui inizia il passo lucano che citiamo appartiene al livello trasformativo del completamento (télos) del ciclo dell’inatteso decisivo. Ciò significa due cose. La prima è che tale parola (kài), dal punto di vista tematico, porta a compimento la rottura di un equilibrio. La seconda è che dal punto di vista dell’essere, tale compimento è davvero un compimento: non si potrebbe tornare indietro, se poi il nuovo equilibrio non soddisfacesse le aspettative, poiché ineffabilmente le soddisfa già. E’ appunto un vero compimento. Ciò ci dice, di conseguenza, che l’essere non ha alcuna remora ad aver condotto il figlio dell’uomo a questo punto di non ritorno. Era anzi ciò che aspettava il padre, cioè la percezione intuitiva della realtà, personificabile nella figura trinitaria e archetipica del padre. L’io collettivo del figlio rimane profondamente scosso. Per “io collettivo” intendo quel protagonismo dell’uomo che si nutre delle autostrade intuitive e di pensiero della collettività umana. Ebbene tale io collettivo del figlio passa da un’iniziazione che ne scuote le fondamenta (kài è infatti la 148esima parola del capoverso: il numero 100, che la compone, rappresenta l’iniziazione dell’io collettivo e richiama la prima lettera della parola, cioè kàppa, che rappresenta il grande tritacarne da cui passa l’umanità, rimanendone deturpata e sconvolta). Ciò è funzionale acché il figlio si lasci poi plasmare dal padre, o che si rifiuti nascostamente di lasciarsi forgiare e diventi una serpe in seno ancor più pericolosa dell’altro figlio (che di serpe ha poco, tutto sommato, vista la franchezza della sua ipocrisia). Il lasciarsi plasmare cui fa riferimento qui il testo-ricerca è descritto dal numero 40esimo, facente parte del numero 148esimo succitato. Tale numero 40esimo significa “interpretazione dell’io comunitario” (le decine si riferiscono, infatti, all’io comunitario; il numero quarto, invece, si riferisce all’interpretazione; quindi la quarta decina, compendiata nel numero 40esimo, significa “interpretazione dell’io comunitario”). Poiché non esiste una quarta lettera nella parola kài, tale interpretazione è dalla forma indefinita. Non vi è quindi una vera imposizione, da parte del padre-realtà, ma semmai una clausola aperta, da colmare con un accordo tra figlio-interprete e padre-realtà. In questa situazione in cui l’equilibrio preesistente s’incrina, l’osservatore-interprete umano è quindi chiamato ad accordarsi con la realtà. La risposta a questa chiamata rimane aperta, nel livello costituito dal primo numero (148esimo) della parola kài. Il primo numero che si attribuisce ad una parola scritturistica (come 148esimo a kài) rappresenta il livello della strutturazione-concretizzazione della realtà. Tale livello non va confuso con i liv