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articolo sottoposto a peer review diritto penale contemporaneo 101 1/2013 Matteo Caputo La mano visibile. Codici etici e cultura d’impresa nell’imputazione della responsabilità agli enti «Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo …» 1 1. Premessa. – 2. La trasformazione del campo giuridico. – 3. La trasformazione del campo economico. – 4. Origini e impulsi alla codificazione etica. – 5. Il c.d. rating di legalità. – 6. Codici etici sotto tiro. – 7. In difesa del codice etico. – 8. Condizioni di efficacia degli ethical codes. – 9. Codici etici e modelli organizzativi ex d. lgs. 231/2001. – 10. Codici etici e cultura d’impresa. – 11. Corporate culture e imputazione della responsabilità agli enti: la sostanza della colpevolezza organizzativa. – 12. Il ruolo dell’organismo di vigilanza e le modalità di reazione all’illecito in un contesto organizzativo “etico”. La locuzione “codici etici” procura al giurista, quando va bene, un moto di scetti- cismo 2 . Combattuto tra la poesia dei valori e la prosa della loro attuazione nel mondo dell’economia, il penalista, in particolare, si trova avvinto dal dilemma se, in fin dei con- ti, si tratti di “fuffa per gonzi”, di un’operazione di pura cosmesi per accreditare un senso etico che nelle organizzazioni complesse, in realtà, non esiste 3 ; ovvero, se, al contrario, di tali strumenti debba predicarsi l’utilità nella circolazione di modelli decisionali e ope- rativi corretti all’interno dell’impresa, e possa sostenersi che una loro legittimazione sia praticabile nel settore della responsabilità degli enti al metro del principio di extrema ratio e abbracciando le componenti positive della prevenzione generale 4 . 1. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), Milano, 1973, p. 18. 2. Sui rapporti controversi tra diritto penale dell’impresa e codici etici cfr. C. Pedrazzi, Codici etici e leggi dello Stato, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 1049; C. De Maglie, L’etica e il mercato, Milano, 2002, pp. 280 ss.; F. Stella, Il mercato senza etica. Introduzione a C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. XI s.; G. Marinucci, Sui rapporti tra scienza penale italiana e legislazione, in P. Grossi (a cura di), Giuristi e legislatori, Milano, 1997, p. 467; A. Melchionda, Interferenze di disciplina fra la responsabilità sociale delle imprese e la responsabilità “da reato” degli enti. Il ruolo dei c.d. “codici etici”, in S. Scarponi (a cura di), Globalizzazione, responsabilità sociale delle imprese e modelli partecipativi, Trento, 2007, pp. 215 ss.; G. Forti, Percorsi di legalità in campo economico, quaderno n. 15 ASSBB, 6 novembre 2006, p. 38; M. Pontani-M. Zanchetti, Prevenzione dei reati organizzativi e discipline premiali, in L. Sacconi (a cura di), Guida critica alla responsabilità sociale e al governo dell’impresa, Roma, 2005, pp. 478 ss. 3. Per tutti cfr. R. McCusker, Codes of Ethics as Corporate Camouflage: An Expression of Desire, Intent or Deceit?, in Journal of Financial Crime, 7, 1999, pp. 140 ss. 4. Cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 283 s., che al termine di un serrato esame dei punti di forza e dei punti debolezza della codificazione etica, ne parla in termini di «opzione di politica criminale non velleitaria», e formula una prognosi positiva sulla «permeabilità del diritto penale economico ai codici etici», aggiungendo, in sintonia con un uso residuale del diritto penale in campo economico e con una valorizzazione della leva promozionale insita nei precetti: «qualora riuscissero a legittimarsi come strumenti di autoregolamentazione interna, sarebbero in grado – molto più e molto meglio della mi- naccia esterna e aleatoria della pena – di contenere i comportamenti devianti e antigiuridici, grazie ad un processo di interiorizzazione di una morale diver- sa, che questa volta coinciderà con i valori consolidati della solidarietà sociale». Per una rivalutazione dei codici etici nell’architettura del d. lgs. 231/2001, cfr. G. Forti, Uno sguardo ai “piani nobili” del d.lgs. n. 231/2001, Relazione introduttiva del convegno di studi “ A dieci anni dal d. lgs. 231/2001 – Problemi applicativi e prospettive di riforma” – Roma 14-15 aprile 2011, p. 34 dal dattiloscritto; C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale (dalla fun- zione alla struttura del «modello organizzativo» ex d. lgs. 231/2001), in M. Bertolino-G. Forti-L. Eusebi (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, III, Sommario 1 Premessa

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articolo sottoposto

a peer review

diritto penale contemporaneo 1011/2013

Matteo Caputo

La mano visibile. Codici etici e cultura d’impresa nell’imputazione

della responsabilità agli enti

«Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo …»1

1. Premessa. – 2. La trasformazione del campo giuridico. – 3. La trasformazione del campo economico. – 4. Origini e impulsi alla codificazione etica. – 5. Il c.d. rating di legalità. – 6. Codici etici sotto tiro. – 7. In difesa del codice etico. – 8. Condizioni di efficacia degli ethical codes. – 9. Codici etici e modelli organizzativi ex d. lgs. 231/2001. – 10. Codici etici e cultura d’impresa. – 11. Corporate culture e imputazione della responsabilità agli enti: la sostanza della colpevolezza organizzativa. – 12. Il ruolo dell’organismo di vigilanza e le modalità di reazione all’illecito in un contesto organizzativo “etico”.

La locuzione “codici etici” procura al giurista, quando va bene, un moto di scetti-cismo2. Combattuto tra la poesia dei valori e la prosa della loro attuazione nel mondo dell’economia, il penalista, in particolare, si trova avvinto dal dilemma se, in fin dei con-ti, si tratti di “fuffa per gonzi”, di un’operazione di pura cosmesi per accreditare un senso etico che nelle organizzazioni complesse, in realtà, non esiste3; ovvero, se, al contrario, di tali strumenti debba predicarsi l’utilità nella circolazione di modelli decisionali e ope-rativi corretti all’interno dell’impresa, e possa sostenersi che una loro legittimazione sia praticabile nel settore della responsabilità degli enti al metro del principio di extrema ratio e abbracciando le componenti positive della prevenzione generale4.

1. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), Milano, 1973, p. 18.2. Sui rapporti controversi tra diritto penale dell’impresa e codici etici cfr. C. Pedrazzi, Codici etici e leggi dello Stato, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 1049; C. De Maglie, L’etica e il mercato, Milano, 2002, pp. 280 ss.; F. Stella, Il mercato senza etica. Introduzione a C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. XI s.; G. Marinucci, Sui rapporti tra scienza penale italiana e legislazione, in P. Grossi (a cura di), Giuristi e legislatori, Milano, 1997, p. 467; A. Melchionda, Interferenze di disciplina fra la responsabilità sociale delle imprese e la responsabilità “da reato” degli enti. Il ruolo dei c.d. “codici etici”, in S. Scarponi (a cura di), Globalizzazione, responsabilità sociale delle imprese e modelli partecipativi, Trento, 2007, pp. 215 ss.; G. Forti, Percorsi di legalità in campo economico, quaderno n. 15 ASSBB, 6 novembre 2006, p. 38; M. Pontani-M. Zanchetti, Prevenzione dei reati organizzativi e discipline premiali, in L. Sacconi (a cura di), Guida critica alla responsabilità sociale e al governo dell’impresa, Roma, 2005, pp. 478 ss.3. Per tutti cfr. R. McCusker, Codes of Ethics as Corporate Camouflage: An Expression of Desire, Intent or Deceit?, in Journal of Financial Crime, 7, 1999, pp. 140 ss.4. Cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 283 s., che al termine di un serrato esame dei punti di forza e dei punti debolezza della codificazione etica, ne parla in termini di «opzione di politica criminale non velleitaria», e formula una prognosi positiva sulla «permeabilità del diritto penale economico ai codici etici», aggiungendo, in sintonia con un uso residuale del diritto penale in campo economico e con una valorizzazione della leva promozionale insita nei precetti: «qualora riuscissero a legittimarsi come strumenti di autoregolamentazione interna, sarebbero in grado – molto più e molto meglio della mi-naccia esterna e aleatoria della pena – di contenere i comportamenti devianti e antigiuridici, grazie ad un processo di interiorizzazione di una morale diver-sa, che questa volta coinciderà con i valori consolidati della solidarietà sociale». Per una rivalutazione dei codici etici nell’architettura del d. lgs. 231/2001, cfr. G. Forti, Uno sguardo ai “piani nobili” del d.lgs. n. 231/2001, Relazione introduttiva del convegno di studi “A dieci anni dal d. lgs. 231/2001 – Problemi applicativi e prospettive di riforma” – Roma 14-15 aprile 2011, p. 34 dal dattiloscritto; C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale (dalla fun-zione alla struttura del «modello organizzativo» ex d. lgs. 231/2001), in M. Bertolino-G. Forti-L. Eusebi (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, III,

Sommario

1Premessa

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Detto in altri termini: è più fondato il rischio di «codici alibi»5, creati ad hoc per placare le ansie dei consociati sulla tenuta etica dell’humus aziendale, ma privi di un autentico sostrato auto-regolativo6, o bisogna prestar fede alla prospettiva che li vuole elementi di compartecipazione delle imprese nella cura dell’interesse pubblico alla pre-venzione dei reati?

Il tema sfoggia bordi slabbrati e richiede uno studio interdisciplinare, che sappia attingere alle risultanze di dottrine correlate a quella giuridico-penale (diritto commer-ciale, economia aziendale, business ethics, sociologia dell’organizzazione etc.), per com-prendere il reale spessore di un ritrovato che, alla larga diffusione nel mondo imprendi-toriale, va accompagnando un crescente gradimento da parte del legislatore. L’interesse per la materia scaturisce dalla considerazione che i codici etici, pur non espressamente richiamati dal d. lgs. 231/2001, sono parte costitutiva dei modelli organizzativi: la loro presenza, oltre a concorrere alla prova in ordine all’idoneità e all’efficacia del modello, è specchio, sia pure parziale, della cultura aziendale, perché riflette l’identità dell’ente, la sua mission, i suoi valori. L’esperienza del reato commesso nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica è un’esperienza di tradimento del codice etico, che solleva il que-sito se l’illecito rappresenti il portato di una corporate culture deviante, incompatibile con un codice etico ridotto a specchietto per le allodole, oppure se configuri un episodio isolato, frutto del comportamento di singoli, che con il “credo” dell’ente non ha nulla da spartire. Entrambi gli scenari schiudono a una considerazione della cultura della perso-na giuridica, superiore a quanto finora consentito dalle maglie del d. lgs. 231/2001, nella imputazione del reato alle organizzazioni complesse7.

I codici etici si collocano in una sorta di spazio vuoto, fra mercato e Stato, e rispon-dono a esigenze che né il mercato né gli ordinamenti giuridici sembrano in grado di soddisfare pienamente8. Non sostituiscono il diritto delle leggi, ma gli sono comple-mentari, spiegando una funzione di supplenza tanto delle “falle” del legislatore, quanto dell’incompletezza dei contratti: lacune entrambe connesse alla razionalità limitata e alla ridotta capacità di previsione degli accadimenti futuri, e che possono aprire spazi inquietanti alla discrezionalità e all’abuso di autorità negli ordinamenti privati9.

Vi è unanimità di opinioni nel riconoscere che i codici etici rappresentano una del-le più note espressioni dell’autoregolazione societaria10. Situati al crocevia tra diritto

Napoli, 2011, p. 2063. In merito alla sussidiarietà del diritto penale dell’economia cfr. L. Foffani, «Sicurezza» dei mercati e del risparmio: il diritto penale dell’economia di fronte alle tensioni della «modernità», in M. Bertolino-G. Forti-L. Eusebi (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, III, Napoli, 2011, pp. 1930 ss. Sull’esemplarità dei precetti e sulla loro funzione dialogico-consensuale cfr. invece C. Mazzucato, Giustizia esemplare. Interlocuzione con il precetto penale e spunti di politica criminale, in M. Bertolino-G. Forti-L. Eusebi (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, I, Napoli, 2011, pp. 407 ss.5. Per questa espressione v. C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 109.6. Cfr. M. Delmas-Marty, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, tr. it. di A. Bernardi, 1992, p. 173 s.7. Esula dal tema, nonostante gli indubitabili punti di contatto, un’analisi dell’impatto preventivo dei codici etici nella pubblica amministrazione. Per un assaggio del dibattito che i recenti scandali di maladministration rendono sempre vivo cfr. V. Cerulli Irelli, Etica pubblica e disciplina delle funzioni amministrative, in F. Merloni-L. Vandelli, La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, Firenze, 2010, pp. 89 ss.; R. Nunin, Integrità e corruzione amministrativa. L’etica pubblica e il codice di comportamento dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2010, pp. 522 ss.; B. Mattarella, Le regole dell’onestà. Etica politica, amministrazione, Bologna, 2007, p. 166, il quale ammonisce circa il rischio che ai dipendenti pubblici siano contestati reati sulla base della sola violazione delle norme di un codice, soluzione che ritiene criticabile poiché «una simile evenienza rap-presenterebbe un abuso di uno strumento che serve per prevenire (e non per provare) la commissione di reati; la violazione di un codice di condotta può solo dare contenuto a clausole generali, e quindi assumere valore sintomatico di una responsabilità penale che va comunque valutata alla luce di tutti gli elementi richiesti dalla norma incriminatrice». V. anche L. Fasano-N. Pasini, Schema generale di Codice Etico per politici e funzionari pubblici, in Notizie di Politeia, 2007, pp. 21 ss.; S. Belligni, Corruzione, malcostume amministrativo e strategie etiche. Il ruolo dei codici, POLIS Working Papers 7, Institute of Public Policy and Public Choice – POLIS, 1999, pp. 1 ss., che sottolinea come i codici etici favoriscano una «discrezionalità responsabile». Più risalente nel tempo, ma di notevole interesse, N. Pasini (a cura di), Etica e pubblica amministrazione: analisi critica di alcune esperienze straniere, supplemento al n. 3/1995 de Il nuovo governo locale, con contributi di N. Pasini, D.L. Pugh, L.G. Nigro-W.D. Richardson, J.H. Rohr, V. Bogdanor, M. Findlay-A. Stewart. Da ultimo, cfr. la c.d. Carta di Pisa, il Codice etico elaborato da Avviso Pubblico per gli enti e gli amministratori locali.8. Cfr. C. Angelici, Responsabilità sociale dell’impresa, codici etici e autodisciplina, in Giur. comm., I, 2011, p. 168.9. Cfr. L. Sacconi, Può l’impresa fare a meno di un codice morale?, quaderno n. 10 ASSBB, 13 febbraio 2006, Milano, p. 21.10. Cfr. G. Bosi, Autoregolazione societaria, Milano, 2009, pp. 79 ss.; F. Cafaggi, Crisi della statualità, pluralismo e modelli di autoregolamentazione, in Pol. dir., 2001, pp. 558 ss. La galassia dell’autoregolazione contempla vari “pianeti”: codici di condotta, codici etici, codici deontologici, codici di autodisciplina,

2La trasformazione del campo

giuridico

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positivo e diritto naturale, conferiscono una “vincolatività soffusa” a valori e norme di condotta in virtù del loro intrinseco contenuto, e non dunque come conseguenza neces-saria della fonte da cui promanino11. Sono figli di una sorta di riflessività regolativa, per cui l’impresa si piega su sé stessa, si studia e si produce per via auto-poietica in un eser-cizio normativo, andando a comporre un proprio micro-ordinamento di riferimento12.

Attraverso i codici etici, le imprese enunciano i valori fondanti la rispettiva cultura organizzativa e imprenditoriale; esplicitano le scelte in materia di responsabilità sociale ed etica d’impresa e, dichiarando la propria responsabilità nei confronti dei c.d. stakehol-der, rappresentano il punto di vista degli altri soggetti coinvolti negli scambi di mercato; prescrivono norme di condotta cui devono attenersi i dipendenti e i collaboratori, crean-do un positivo senso di appartenenza; favoriscono l’interiorizzazione di valori espressi in provvedimenti normativi, aiutando a modificare i comportamenti devianti interni e, se divulgati all’esterno, a scoraggiare prassi illecite con e di terzi; attestano che il conflitto tra etica e possibilità di condurre con successo gli affari aziendali è in via di superamento13.

Prima di indagare le origini della loro diffusione, conviene appuntare lo sguardo su alcune macro-tendenze in atto nel campo del diritto che contribuiscono a spiegare l’attecchimento dell’etica nella normazione aziendale.

La fluttuazione di corporation di grandi dimensioni nel mondo globalizzato, l’estre-ma libertà di operare in uno spazio senza confini, lo svolgimento dell’attività impren-ditoriale utilizzando reti informatiche che azzerano tempo e distanze: sono caratteri dell’agire economico contemporaneo che inducono i governi nazionali a creare condi-zioni favorevoli sul piano della regolamentazione giuridica e fiscale, allo scopo di man-tenere radicate le imprese locali e attrarre capitali dall’estero. Esposti al ricatto della corporation mobility, che li costringe a rinunciare a una vocazione regolatrice di stampo autoritario e dirigista, gli Stati optano per un’ambizione contenuta: evitare che il mer-cato domestico rimanga escluso dallo spazio globale e ai margini degli interessi degli investitori, con le intuibili ricadute sui livelli occupazionali e del benessere generale14.

Ha preso il via una forsennata race to the bottom, una competizione tra ordinamenti a chi più riduce i vincoli all’attività di impresa, e che dimostra l’incapacità della politica e l’inadeguatezza del diritto di impronta statuale a governare gli attuali processi econo-mici. L’unica politica del diritto perseguita nei confronti dell’attività di impresa sembra essere la deregulation, praticata anche attraverso l’introduzione di modelli di corporate governance molto più elastici rispetto al passato.

carte d’integrità etc. Nella pratica è invalso un uso indifferente delle espressioni “codice etico” e “codice di condotta”, «per indicare documenti di natura volontaria, volti a disciplinare le azioni delle categorie di soggetti cui i codici stessi sono indirizzati». Cfr. A. Perulli, Diritto del lavoro e globalizzazione. Clausole sociali, codici di condotta e commercio internazionale, Padova, 1999, p. 264. Autorevole dottrina ha distinto il codice di autodisciplina dal codice etico, sottolineando come il primo si curi prevalentemente di regolare il funzionamento interno delle società, la corporate governance, mentre il secondo nutra «l’incauta ambizione di definire i rapporti dell’impresa con beni e soggetti del mondo esterno, di enucleare fini ed obiettivi ultimi, insomma di nobilitare con i “valori” il valore del profitto». Cfr. N. Irti, Due temi di governo societario (responsabilità «amministrativa» – codici di autodisciplina), in Giur. comm., I, 2003, p. 699.11. Osserva G. Visentini, L’etica degli affari è strumento di autoregolamentazione?, in Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, I, Milano, 2005, p. 827, che «quando parliamo di etica degli affari, di codici etici per la regolamentazione degli affari, ci riferiamo non a giudizi di valore, a valutazioni di principio, alla morale; ma ci riferiamo a regole astratte, da porre o già poste, che devono prevedere, o già prevedono, il comportamento che si deve tenere per essere onesto. Ci riferiamo a sistemi di norme che, in quanto prescrittivi, operano o hanno già operato le scelte sui comportamenti da tenere. Il codice etico si presenta come il diritto, cioè come un sistema di norme. Per vero le regole dell’etica possono o meno essere il contenuto del diritto; il diritto è etica codifi-cata». Cfr. anche A. Gambino, Etica dell’impresa e codici di comportamento, in Riv. dir. comm., I, 2005, p. 881.12. Cfr. G. Bosi, Autoregolazione societaria, cit., pp. 14 ss., 286 ss. V. anche sulle prospettive future del fenomeno G. Teubner, Self-Constitutionalizing TNCs? On the Linkage of “Private” and “Public” Corporate Codes of Conduct, in Indiana Journal of Global Legal Studies, 18, 2011, pp. 17 ss.13. La letteratura sui codici etici, soprattutto di matrice USA, è davvero imponente. Il contributo “originario” può essere individuato in quello di D.R. Cressey-C.A. Moore, Managerial values and corporate codes of ethics, in California Management Review, 25, 1983, pp. 53 ss. Per un quadro d’insieme della letteratura in argomento cfr. B.J. Farrell-D.M. Cobbin-H.M. Farrell, Codes of ethics: Their evolution, development and other controversies, in Journal of Management Development, 21, 2002, pp. 152 ss. Sulla funzione pedagogica dei codici etici, che ne fa affiorare il profilo di orientamento culturale, tipico della prevenzione generale positiva, cfr. C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale, cit., p. 2103. Sul mismatch tra valori morali presenti in una società e processi materiali che determinano il funzionamento a livello economico, cfr. da ultimo l’interessante affresco pennellato da D. Friedman, Morale e mercato. Storia evolutiva del mondo moderno, tr. it. di G. Barile, con intensa prefazione di G. Corbellini, Torino, 2012.14. Cfr. G. Conte, Codici etici e attività d’impresa nel nuovo spazio globale di mercato, in Contratto e impresa, 2006, pp. 111 ss.

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Il crescendo dei codici etici si deve, secondo alcuni, alla percezione degli attori del mercato della carenza di regolamentazione generata dalla deregulation. Gli episodi di self regulation rinviano all’elaborazione e al rispetto di best practices come risposta al processo di progressiva erosione del controllo legislativo sull’attività di impresa. Lo smarrimento regolativo sperimentato dalle imprese al ritrarsi dello Stato dall’economia lascerebbe aperte lacune di disciplina che propiziano comportamenti irresponsabili, da arginare con il ricorso alla codificazione interna di tipo etico15.

L’espansione di postulati etici nel dominio aziendale può dunque leggersi come im-possibilità di giungere a un soddisfacente bilanciamento degli interessi in gioco attra-verso le sole leggi dell’economia, che non offrono sufficienti garanzie di tutela per quei soggetti che appaiono emarginati rispetto ai processi decisionali economici, siano essi singoli soci, minoranze, investitori, risparmiatori, consumatori (i succitati stakeholder).

Com’è stato autorevolmente osservato, l’abbraccio tra etica ed economia, oltre che fondativo della c.d. corporate social responsibility, si mostra sintonico con i precetti con-tenuti nell’art. 41 Cost., troppe volte snobbato dai commentatori e dalla classe politica16. Ci sono almeno due caratteri nella norma che fungono da cardini dell’impresa social-mente responsabile: lo svolgimento dell’attività non deve collidere con l’utilità sociale né recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, in tal modo delineando un modello di impresa apportatore di benessere per la comunità e rispettoso dei più elementari diritti della persona umana17.

Da visuale se si vuole opposta, altri ritengono che i codici etici impongano di abban-donare un approccio pan-giuridico, ovvero la pretesa di considerare il diritto come lo strumento in grado di risolvere tutti i problemi, per riconoscere che ve ne sono molti, forse quelli più importanti, che reclamano altri strumenti di soluzione, tra i quali anno-verare, per l’appunto, i codici etici.

L’ingresso della codificazione etica nell’economia parrebbe dunque scandire il de-clino di una concezione del diritto intrisa di formalismo positivistico e, parallelamente, segnare un’ulteriore propaggine del c.d. soft law18. Con siffatta espressione si allude a una serie di atti di natura autoritativa o contrattuale, che quantunque sprovvisti della forma propria delle fonti tipiche e di una stretta vincolatività, sono tuttavia giuridica-mente rilevanti e tenuti in considerazione nel momento dell’interpretazione e, dunque, di soluzione di concrete controversie giudiziali. I fenomeni riconducibili al concetto di soft law sono eterogenei e non identificabili in base a una cifra unitaria, ma tutti acco-munati da una peculiare forma di legittimazione legata al consenso e alle facoltà suasive di questi atti circa l’opportunità del comportamento da essi indicato19.

Grazie al soft law si fa strada un’idea gradualistica della normatività, entro la quale ca-lare i codici etici annettendo loro compiti, per un verso, di moral suasion e, per l’altro, di sussidiarietà orizzontale, intesa quale disponibilità dello Stato e della dimensione pubblica ad arretrare rispetto a norme di riconoscimento del potere dei privati di regolare i propri interessi, secondo una plausibile ricognizione esegetica dell’art. 118, quarto comma, Cost.20. Discorso, quest’ultimo, al quale viene naturale allacciare una riflessione sulla sussidiarietà dell’intervento punitivo che i codici etici potrebbero validare, sol che si riuscisse a dimo-strare la loro idoneità a prevenire comportamenti aziendali pericolosamente vicini all’area

15. Cfr. ancora G. Conte, Codici etici e attività d’impresa nel nuovo spazio globale di mercato, cit., pp. 115 ss.16. Sulla corporate social responsibility cfr. il saggio fondativo di A.B. Carroll, The Pyramid of Corporate Social Responsibility: toward Moral Management of Organizational Stakeholders, in Business Horizon, 1991, July-August, pp. 39 ss. Più recentemente, sulla distinzione tra corporate social responsibility neo-classica, strategia ed etica, cfr. L. Venturini, Significati e potenzialità della responsabilità sociale d’impresa: gli sviluppi del dibattito teorico, in H. Alford-G. Rusconi-E. Monti (a cura di), Responsabilità sociale d’impresa e dottrina sociale della Chiesa cattolica, Milano, 2010, pp. 28 ss.17. V. Buonocore, Etica degli affari e impresa etica, in Giur. comm., I, 2004, p. 197; C. Pedrazzi, Codici etici e leggi dello Stato, cit., p. 1050. 18. C. Angelici, Responsabilità sociale dell’impresa, codici etici e autodisciplina, cit., p. 170; S. Rossi, Luci e ombre dei codici etici d’impresa, in Riv. dir. soc., 2008, p. 26.19. Cfr. per tutti sul fenomeno A. Somma (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, Torino, 2009.20. Cfr. A. Moscarini, Le fonti dei privati, in Giur. cost., 2010, pp. 1912 ss.

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del “rischio reato”21, inibendo l’irruzione della penalità ogni qual volta meccanismi di auto-organizzazione interna, anche di matrice etica, siano sufficienti a contenere tanto condotte penalmente rilevanti quanto condotte illecite che, ancorché penalmente irrilevanti, ripe-tendosi e intrecciandosi, finiscono per attingere la soglia dell’illiceità penale22.

Seguendo questa concettualizzazione, la formalizzazione dell’etica asseconda l’accu-mulazione di un “capitale normativo” delle imprese, come effetto, oltre che di movimen-ti di deregulation e di soft law, di un mutamento nella strategia di contrasto al crimine economico nelle recenti politiche criminali. Riconosciuta, anche in Italia, la criminosità delle corporation, anziché puntare su costose e controproducenti architetture puniti-ve da zero tolerance, il legislatore sembra aver giocato le proprie fiches sulla ruota del carrot & stick approach23. Chiamate al tavolo della concertazione politico-criminale, le persone giuridiche hanno preso atto di un ordinamento in difficoltà, impossibilitato a signoreggiare autonomamente i meccanismi di contrasto all’illegalità delle corporation. Per ragioni di razionalità politica, opportunità processuale e convenienza economica lo Stato rinuncia a dissipare energie e tempo in investigazioni estenuanti, che scontano ab origine un deficit di conoscenza dell’impresa, e passa la palla alle persone giuridiche che, messa a punto la struttura organizzativa, sono responsabilizzate nella prevenzione delle condotte a rischio, nella ricerca delle offese e nell’attuazione di controlli interni.

Si crea un doppio sistema di giustizia, statuale e privato: a questo il compito di gesti-re per primo la prevenzione e repressione degli illeciti, a quello di intervenire in seconda battuta, qualora le violazioni realizzate dall’ente, per l’ente, con l’ente non siano incanalate nel solco della legalità utilizzando autonomi presidi di sanzione e controllo. Ergo: l’am-ministrazione della giustizia, da sola, non ce la fa, ma, preoccupata dei costi sociali della criminalità del profitto, coinvolge le aziende in una partnership preventiva, promettendo loro, come corrispettivo per la serietà dell’impegno assunto, l’esonero da responsabilità o cospicui abbuoni sanzionatori. La self regulation dell’impresa, motore di una normazione interna finalizzata al rispetto della legalità, si scioglie in una co-regulation stimolata da testi come il d. lgs. 231/2001, che indirizzano gli enti sulla tipologia di opzioni aziendali da adot-tare per centrare l’obiettivo della prevenzione e intascare il premio della non punibilità24.

Nel corso degli ultimi quarant’anni si è andata consolidando una nuova concezio-ne del ruolo dell’impresa, nella direzione di un maggiore riconoscimento delle respon-sabilità verso la società dove opera. Il concetto chiave è quello, già altrove richiama-to, di stakeholder, individui o gruppi che vantano un interesse legittimo nei confronti dell’azienda e il cui contributo è essenziale al successo sul mercato25. Mentre la dottrina

21. Il dubbio resta in piedi, anche per la pochezza delle indagini empiriche al riguardo, secondo M.A. Cleek-S.L. Leonard, Can Corporate Codes of Ethics Influence Behavior?, in Journal of Business Ethics, 17, 1998, pp. 619 ss. V. anche sul punto M. Dion, Corporate crime and the dysfunction of value networks, in Journal of Financial Crime, 16, 2009, pp. 436 ss.22. Cfr. S. De Colle-L. Sacconi, Il Codice etico come strumento di gestione delle relazioni con gli stakeholder, in L. Sacconi (a cura di), Guida critica alla responsabilità sociale e al governo dell’impresa, Roma, 2005, p. 616.23. Per questa logica, riprendendo l’efficace metafora di John Coffee, cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, pp. 467 ss.24. Cfr. F. Centonze, La co-regolamentazione della criminalità d’impresa nel d.lgs. n. 231 del 2001. Il problema dell’importazione dei «compliance pro-grams» nell’ordinamento italiano, in AGE, 2, 2009, pp. 219 ss.; S.S. Simpson, Corporate Crime, Law, and Social Control, Cambridge, 2002, pp. 100 ss. Da ultimo v. le stimolanti riflessioni di C. Visconti, Contro le mafie non solo confische ma anche “bonifiche” giudiziarie per imprese infiltrate: l’esempio milanese, in Diritto Penale Contemporaneo, 20 gennaio 2012. La letteratura sul d. lgs. 231/2001 è ormai sterminata; tra le ultime pubblicazioni meritevoli di attenzione, si segnalano G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato. Profili storici, dogmatici e comparatistici, Pisa, 2012; A. Fiorella (a cura di) Corporate Criminal Liability and Compliance Programs, I, Liability ‘Ex Crimine’ of Legal Entities in Member States, Napoli, 2012; e, per la mai a sufficienza considerata dimensione processuale della responsabilità dell’ente, G. Varraso, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano, 2012. 25. La teoria degli stakeholder è stata formulata compiutamente da R.E. Freeman, Strategic Management: a Stakeholder Approach, Boston, 1984. Sulla stakeholder theory cfr. T. Donaldson-L.E. Preston, The Stakeholder Theory of the Corporation: Concepts, Evidence and Implications, in Academy of Ma-nagement Review, 20, 1995, pp. 65 ss. Per alcune critiche alla teoria cfr. M.A. La Torre, Questioni di etica d’impresa. Oltre l’homo oeconomicus, Milano, 2009, pp. 170 ss.

3La trasformazione del campo

economico

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tradizionale vuole i manager moralmente responsabili esclusivamente verso i proprie-tari/azionisti, la teoria dell’impresa basata sul modello degli stakeholder esprime una visione secondo cui i decisori sono legati da un rapporto fiduciario a un’ampia serie di portatori d’interesse (fornitori, clienti, dipendenti, azionisti, comunità locale)26.

Soggiacente al riconoscimento di una responsabilità sociale delle imprese è la consa-pevolezza di un cambiamento avvenuto nel “contratto” tra società ed enti privati, cam-biamento che riflette un mutamento nelle aspettative che la società ripone nei rapporti con le imprese27.

Il vecchio contratto tra società e impresa si articolava intorno alla premessa che lo sviluppo fosse la fonte del progresso sociale ed economico, e che la ricerca del profitto da parte di imprese private in competizione tra loro facesse da inevitabile propulsore. Il compito dell’impresa stava tutto nella produzione di beni e servizi in vista del profitto per gli azionisti/proprietari, e in ciò consisteva il massimo contributo che l’impresa dava alla società. Il nuovo contratto tra impresa e società, invece, si stipula a partire dall’os-servazione che la tensione per lo sviluppo economico non necessariamente fa rima con il progresso sociale, ma, anzi, può condurre all’inquinamento ambientale, alla creazione di posti di lavoro pericolosi per la salute dei dipendenti, etc., conseguenze che impongo-no costi sociali non più tollerabili. La nuova piattaforma d’intesa esige una riduzione di questi costi, facendo accettare all’impresa l’obbligo di operare contemperando il legitti-mo ideale del profitto con quello del benessere delle generazioni presenti e future. Per-tanto, ancorché debba ribadirsi che la giustificazione ultima dell’esistenza dell’impresa sta nella sua capacità di creare ricchezza, la legittimità dell’impresa come istituzione sociale dipende dalla sua attitudine a soddisfare le aspettative dei numerosi stakeholder che con essa inteloquiscono28.

La riuscita di questa prospettiva, evidentemente debitrice degli assunti della filosofia rawlsiana, dipende dalle probabilità di istituzionalizzare l’etica nel clima aziendale, os-sia di integrare assunti etici nei processi decisionali e nella prassi lavorativa di manager e dipendenti29. La via principale per ottenere tale risultato consiste nell’adozione di codici etici che, incarnando il contratto sociale tra l’impresa e i suoi stakeholder, annunciano pubblicamente che l’impresa è consapevole dei suoi obblighi di cittadinanza, che ha sviluppato politiche e pratiche coerenti con questi obblighi e che è in grado di attuarle attraverso appropriate strutture organizzative e sanzioni per i trasgressori.

L’impresa smette di essere concepita come un’organizzazione di mezzi finalizzata a perseguire esclusivamente scopi di lucro, e guadagna la dimensione di realtà organizzativa operante in un contesto complesso e dinamico, che richiede l’articolazione di strategie ad alto coefficiente di elaborazione30. La diffusione di prassi socialmente responsabili va collegata altresì al fatto che le imprese hanno cominciato a comprendere l’inefficienza di una strategia vocata esclusivamente al perseguimento di utili, senza la benché minima considerazione della qualità delle relazioni instaurate con tutti i partner delle iniziative economiche31. È dunque soprattutto il confronto con il vasto parterre degli stakeholder dei

26. Il manifesto della dottrina tradizionale, contraria alla configurabilità di una responsabilità sociale dell’impresa, può essere rinvenuto in uno scritto di Milton Friedman, che individua la funzione dell’impresa in «to make as much money as possible», salvo precisare – aspetto troppe volte negletto in let-teratura – che ciò deve avvenire «while conforming to the basic rules of the society, both those embodied in law and those embodied in ethical custom». Cfr. il celebre M. Friedman, The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits, in The New York Times Magazine, 13 settembre 1970. Sul tema cfr. C. Angelici, Responsabilità sociale dell’impresa, codici etici e autodisciplina, cit., p. 161. 27. Cfr. E. D’Orazio, Codici etici, cultura e responsabilità d’impresa, in Notizie di Politeia, 2003, p. 127.28. Cfr. E. D’Orazio, Codici etici, cultura e responsabilità d’impresa, cit., p. 127 s.29. Sulla istituzionalizzazione dell’etica nelle organizzazioni cfr. J. Weber, Institutionalizing Ethics into Organizations, in Business Ethics Quarterly, 1993, 3, pp. 419 ss.; S. Maffettone, Etica pubblica. La moralità delle istituzioni nel terzo millennio, Milano, 2001, p. 231.30. Cfr. G. Conte, Codici etici e attività d’impresa nel nuovo spazio globale di mercato, cit., pp. 120 ss.31. È bene precisare che le imprese che conformano le loro attività a standard di comportamento etico-sociali non vanno confuse con i soggetti che affol-lano la colorata galassia del non profit. Per un esame dei codici etici di enti no profit v. comunque G. Bosi, Modelli di autoregolazione per l’impresa sociale, in Giur. comm., I, 2012, pp. 138 ss.; L. Sacconi, Impresa non profit: efficienza, ideologia e codice etico, in F. Cafaggi (a cura di), Modelli di governo, riforma dello stato sociale e ruolo del terzo settore, Bologna, 2002, pp. 257 ss. Sul controllo degli enti non profit cfr. A. Propersi, Gestione e bilanci degli enti non profit, Milano, 2012, pp. 196 ss.

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processi produttivi e distributivi della ricchezza che spinge le imprese a mettere in discus-sione consolidati stilemi operativi e a ripensare le politiche aziendali e le scelte di business.

Dalla combinazione di questi fattori origina una crescente attenzione per l’impatto ambientale e sociale delle attività, con ricadute che rendono l’immagine e la reputazione di un’impresa un fattore competitivo strategico.

Le pagine della cronaca economica e finanziaria segnalano di continuo l’urgenza di perseguire comportamenti socialmente responsabili32. È accaduto che talune multinazio-nali siano state costrette a modificare, di punto in bianco, alcuni rodati processi produttivi per la necessità di adeguare le iniziative economiche a parametri etico-sociali. Gli oneri sostenuti al fine di attuare comportamenti socialmente responsabili sono stati giustificati dalla necessità di scongiurare gravi pregiudizi di ordine economico. Le proteste di movi-menti di pensiero, le ferme prese di posizione di ONG e delle associazioni dei consumato-ri, una più forte e consapevole presenza dell’opinione pubblica, hanno inciso sulle scelte imprenditoriali sino a condizionare le strategie aziendali, orientandole verso comporta-menti percepiti come socialmente responsabili. Sicché una politica imprenditoriale che punti solo sulla creazione di valore per gli shareholder è ritenuta miope e di breve respiro, perché espone l’azienda e fenomeni dannosi per la propria redditività33.

Prende piede il convincimento che vi sia una convenienza nell’essere etici, che ri-sponda a un calcolo razionale impostare operazioni di mercato in modo coerente con la corporate social responsibility34, che intercetti l’interesse economico dell’impresa con-formare la propria organizzazione a una legalità profitable, che nel medio-lungo perio-do, sfruttando i vantaggi reputazionali acquisiti attraverso la credibilità dell’impegno versato (anche) nella conformità alla legge e nella prevenzione dei reati, li traduce in vantaggi competitivi nei rapporti con gli stakeholder35. Comportamenti socialmente re-sponsabili possono risultare convenienti per l’impresa, per esempio, a fini di advertising o perché creano un contesto che favorisce la fidelizzazione dei clienti e/o dei dipen-denti36. L’eticità dell’impresa si risolve in una leva favorevole nella concorrenza, sol che riesca a influenzare le scelte di quel risparmiatore o di quel cliente che si sentirà mag-giormente garantito circa la qualità dell’offerta proveniente da un ente a prova di codice etico37. Quest’atto di autodeterminazione privata e collettiva assume così i tratti di una sorta di “carta costituzionale” dell’impresa, un extra legal code che «si atteggia come una imprescindibile tavolozza di valori, una sorta di Wertordnung, che addita, in chia-ve prevalentemente ‘evocativa’ ed ‘esortativa’, i valori e le prescrizioni che permeano la

32. Solo per citare alcuni “classici”, basti pensare al caso Nike e agli accorgimenti adottati a seguito delle proteste per lo sfruttamento della manodopera minorile nei Paesi del sud-est asiatico; al caso Shell e alle misure implementate per ridimensionare l’impatto ambientale delle attività petrolifere; al caso Big Pharma, e alla scelta dell’industria farmaceutica di abbandonare il giudizio instaurato a Pretoria in materia di impiego dei brevetti e dei marchi dei farmaci contro l’Aids.33. Cfr. G. Conte, Codici etici e attività d’impresa nel nuovo spazio globale di mercato, cit., 2006, p. 125.34. Per L. Sacconi, Etica degli affari, Milano, 1991, p. 341, «il rispetto di regole etiche di condotta è un presupposto della possibilità di fare profitto nel lungo periodo». V. anche M. Wiehen, Impresa etica e codici etici. L’etica non è un lusso per virtuosi ma una necessità economica, in A. Marra (a cura di), L’etica aziendale come motore di progresso e di successo. Modelli di organizzazione, gestione e controllo: verso la responsabilità sociale delle imprese, Milano, 2002, pp. 100 ss. Esistono studi, soprattutto nel sistema americano, volti a dimostrare che “l’adozione del codice etico paga”: si veda per esempio la ricerca di Karen Koll, su Industry Week del 2001, in cui si sostiene che l’investimento socialmente responsabile attira un dollaro su ogni otto investiti; e che tra il 1997 e il 1999 gli investimenti etici hanno reso dall’82 per cento in su, ovvero il doppio rispetto al mercato complessivo. Secondo questa analisi esiste dunque una domanda etica, almeno in alcuni settori, per cui i consumatori sono disposti a pagare un sovrapprezzo per i prodotti delle imprese che garantiscono una direzione eticamente orientata.35. Il meccanismo della reputazione funziona se esiste un impegno alla legalità e il suo premio è l’aumento della reputazione stessa, fattore che rende cre-dibile l’organizzazione. Gli effetti di reputazione possono tramutarsi in un fattore di vantaggio competitivo per le organizzazioni, sui mercati e nei rapporti con la P.A.: se un’organizzazione è ritenuta capace di rispettare gli impegni assunti, i suoi stakeholder la preferiranno ad altre. Si fa strada un meccanismo imitativo di tipo evolutivo, perché le imprese che ottengono vantaggi di reputation attraggono imprese che non praticano ancora quegli standard. Cfr. D. Kreps-R. Wilson, Reputation and imperfect information, in Journal of economic theory, 27, 1982, pp. 257 ss.; D. Kreps-P. Milgrom-J. Roberts-R. Wil-son, Rational cooperation in the finitely repeated prisoner’s dilemma, in Journal of economic theory, 27, 1982, pp. 245 ss.36. C. Angelici, Responsabilità sociale dell’impresa, codici etici e autodisciplina, cit., p. 163.37. Sulla convenienza dell’etica v., tra gli altri, G. Visentini, L’etica degli affari è strumento di autoregolamentazione?, cit., p. 835; R. Senigaglia, La vin-colatività dei codici etici: ossimoro o sineddoche?, in Riv. crit. dir. priv., 2011, pp. 581 ss.; G. Conte, Vincoli giuridici, principi economici e valori etici nello svolgimento dell’attività d’impresa, in Contratto e impresa, 2009, pp. 704 ss.

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cultura di impresa, deputata ad informare i comportamenti individuali dei dipendenti e dei partners abituali dell’ente»38.

Una storia della codificazione etica è in questa sede proponibile solo per rapidi cen-ni. Essa muove i primi passi negli Stati Uniti, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, in conseguenza di alcune indagini del Department of Justice e della Securities and Exchange Commission che avevano accertato un alto livello di corruzione e di ri-corso a fondi neri, come provvista per attività illecite, da parte di numerose corporation, soprattutto nei settori delle forniture alla Difesa e all’industria farmaceutica.

Com’è noto, già il Foreign Corrupt Practices Act del 1977, poi emendato nel 1988 e nel 1999, con cui il Congresso degli Stati Uniti varò una campagna di contrasto dei compor-tamenti illeciti attuati dai rappresentanti di società americane, al fine di conseguire van-taggi e ingraziarsi i favori di pubblici ufficiali di Stati esteri, dette l’abbrivio all’adozione di compliance programs e di codici etici. A seguire, nel 1978, venne approvato l’Ethics in Government Act, che istituiva l’Office of Government Ethics, preposto a elaborare e diffondere norme etiche tra i funzionari federali e a vigilare sulla loro osservanza.

L’atteggiamento di favor nei confronti dei codici etici si è manifestato ancor più apertamente con l’introduzione delle Federal Sentencing Guidelines nel 1991. Sia pure attraverso perplessità e incertezze di disciplina, e animate per lo più dalla speranza che i codici riuscissero a fare da cuscinetto all’“aggressione sanzionatoria” del governo, le imprese sono state incoraggiate a iniettare dosi di etica nell’organizzazione39. Con tale ultimo provvedimento il legislatore americano ha introdotto pene severe per i compor-tamenti illeciti imputabili agli amministratori e ai dipendenti delle corporation, degli enti no profit e di altri organismi collettivi. Al contempo, ha previsto regole specifiche e concrete per incentivare gli enti a dotarsi e a rispettare «internal mechanism for preven-ting, detecting and reporting criminal conduct», stabilendo che, a mitigare la responsa-bilità dell’ente sul piano commisurativo possa intervenire «the existence of an effective compliance and ethics program».

Nel 2002 lo scandalo Enron ha accelerato l’irruzione del draconiano Sarbanes Oxley Act, con il quale si è previsto espressamente che le società quotate debbano, in ossequio al meccanismo comply or explain, munirsi di codici etici per promuovere una «honest and ethical conduct». E, sempre attraverso il Sarbanes Oxley Act, nel 2004 si è ottenuta un’incisiva modifica della sezione Effective compliance and ethics program delle Federal Sentencing Guidelines.

Mentre la prima versione stabiliva che un «“effective program to prevent and detect violations of law” means that it has been reasonably designed, implemented, and enforced so that it generally will be effective in preventing and detecting criminal conducts. Failure to prevent or detect the instant offense, by itself, does not mean that the program was not effective. The hallmark of an effective program to prevent and detect violations of law is that the organization exercises due diligence in seeking to prevent and detect criminal conduct by its employees and its agents»; la norma fuoriuscita dalla riforma del 2004 pre-vede al paragrafo 8B2.1 che, al fine di ottenere un compliance and ethics program dotato del carattere di effettività, l’organizzazione «shall (1) exercise due diligence to prevent and detect criminal conduct and (2) otherwise promote an organizational culture that encourages ethical conduct and a commitment to compliance with the law», associando espressamente l’etica al concetto di cultura d’impresa40.

38. Cfr. C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale, cit., p. 2063.39. Sull’esperienza delle sentencing guidelines cfr. G.M. Garegnani, Etica d’impresa e responsabilità da reato, Milano, 2008, pp. 67 ss.; C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., pp. 64 ss.; G. Mannozzi, Razionalità e ‘giustizia’ nella commisurazione della pena : il just desert model e la riforma del sentencing nordamericano, Padova, 1996.40. Sul c.d. SOX o SOA cfr. M. Ippolito, Il modello organizzativo ex d. lgs. 231/2001 e la Sarbanes-Oxley Act statunitense, in La responsabilità amministrativa

4Origini e impulsi alla

codificazione etica

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Anche nella vecchia Europa il vento dei codici etici ha presto cominciato a gonfiare le vele delle determinazioni normative nazionali e sovranazionali41.

Si pensi, per stare alle più significative, al Libro Verde 2001 della Commissione delle Comunità europee (“Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle im-prese”), che definisce il codice di condotta come una «dichiarazione ufficiale del valore e delle prassi commerciali e, a volte, dei suoi fornitori. Un codice enuncia norme minime e attesta l’impegno preso dall’impresa di osservarle e di farle osservare dai suoi appaltatori, subappaltatori, fornitori e concessionari. Può trattarsi di un documento complesso che ri-chiede il rispetto di norme precise e prevede un complesso meccanismo coercitivo». Sono seguite, nel tempo, altre risoluzioni e comunicazioni dell’Unione Europea, tra cui ricor-diamo: la Comunicazione della Commissione del 2 luglio 2002 “relativa alla responsabilità sociale delle imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile”, COM (2002) 347; la Comunicazione della Commissione del 22 marzo 2006 su “il partenariato per la crescita e l’occupazione: fare dell’Europa un polo di eccellenza in materia di responsabilità sociale delle imprese”, COM (2006) 136; la Risoluzione del Parlamento Europeo del 13 marzo 2007 “sulla responsabilità sociale delle imprese: un nuovo partenariato”; il Com-pendio della Commissione Europea del 7 maggio 2008 e del 6 aprile 2011 su “Corporate Social Responsibility. National Public Policies in the European Union”.

In Italia, a parte l’esperienza nel settore pubblico della c.d. “proposta Cassese”, poi trapiantata nel decreto del Ministro per la Funzione pubblica in data 31 marzo 1994, ora sostituito dal d.P.C.M. 28 novembre 2000 (“Codice di comportamento dei dipen-denti delle pubbliche amministrazioni”)42, la codificazione si espande nel settore privato principalmente grazie al d. lgs. 231/2001. Sulla scia di questa normativa, non possono trascorrere inosservate le scelte di alcune Regioni in materia di “compliance 231”, come la Lombardia che, di recente, dopo aver previsto l’applicazione in via sperimentale alle aziende sanitarie pubbliche locali di un codice etico e dei modelli di organizzazione e controllo, mutuando la relativa disciplina dettata dal d. lgs. 231/2001, ne ha deciso l’obbligatorietà con Delibera della Giunta Regionale 30 maggio 2012, n. IX-3540, per l’accreditamento delle unità d’offerta sociosanitarie43 .

delle società e degli enti, 2, 2012, pp. 175 ss. 41. Tra gli altri riferimenti non si può non menzionare il c.d. Global Compact, un’iniziativa lanciata dalle Nazioni Unite e consistente in un network multi-stakeholder che unisce governi, imprese, agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni sindacali e della società civile allo scopo di promuovere su scala globale la cultura della cittadinanza d’impresa. L’iniziativa, proposta per la prima volta nel gennaio del 1999 dall’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha preso il largo nel luglio 2000 e attualmente il Global Compact si presenta come il primo forum globale chiamato ad affrontare gli aspetti più critici della globalizzazione. L’idea di fondo del Patto Globale è quella per cui le imprese che hanno una visione strategica di lungo periodo orientata alla responsabilità sociale, all’affidabilità e all’innovazione possano contribuire a una nuova fase della globalizzazione caratterizzata da sosteni-bilità, cooperazione e partnership, promuovendo un’economia mondiale sana e sostenibile che garantisca a tutti l’opportunità di condividerne i benefici, attraverso la sottoscrizione di un codice volontario che copre alcune aree critiche con cui si confronta oggi l’economia di mercato sotto il profilo etico: il rispetto dei diritti umani, la tutela dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, la lotta alla corruzione.42. Ma v. adesso la l. 6 novembre 2012, n. 190, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, che all’art. 54, co. 1, impegna il Governo a definire «un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico. Il codice contiene una specifica sezione dedicata ai doveri dei dirigenti, articolati in relazione alle fun-zioni attribuite, e comunque prevede per tutti i dipendenti pubblici il divieto di chiedere o di accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità, in connessione con l’espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi i regali d’uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia».43. Si legge nella delibera: «Il codice etico costituisce uno strumento importante per l’attuazione di politiche di Responsabilità Sociale e fissa le regole di comportamento cui debbono attenersi i destinatari nel rispetto dei valori e dei Principi Etici enunciati dalle Leggi e dai Regolamenti della Repubblica Italiana; descrive la mission dell’ente e le regole che lo stesso si pone al fine del raggiungimento dei suoi obbiettivi. Entra a pieno titolo nell’ordinamento dell’ente e rappresenta il complesso dei diritti e dei doveri morali e la conseguente responsabilità etico-sociale di ogni partecipante alla organizzazione. Ha l’ulteriore obiettivo di attestare la prevenzione rispetto a comportamenti irresponsabili e/o illeciti da parte di chi opera in nome e per conto dell’ente per-ché definisce l’ambito delle responsabilità etiche e sociali di tutti gli operatori. Non sostituisce e non si sovrappone alle norme legislative e regolamentari esterne ed interne, ma nell’azione di integrazione e di rafforzamento dei principi contenuti in tali fonti, introduce modelli organizzativi e comportamentali volti ad impedire ed ostacolare condotte “criminose” o che portino indebiti vantaggi. È strumento per migliorare la qualità di servizi in quanto incentiva condotte coerenti con i principi e le regole in esso contenute, nonché strumento di comunicazione verso tutti i componenti l’organizzazione, permettendo nel contempo agli stakeholder esterni di conoscere i principi informatori dell’ente, e la possibilità quindi di richiederne una più puntuale attuazione».

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Da ultimo, non può tacersi l’attenzione suscitata sui mezzi di informazione dal c.d. rating di legalità, con cui si valuterà l’affidabilità etica di un’impresa. Il recente decreto sulle liberalizzazioni ha investito l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato del compito di preparare un regolamento in forza del quale attribuire un punteggio alle imprese che scelgono di iscriversi in uno speciale albo, pensato per valutare il “tasso di legalità” delle aziende italiane44.

Le imprese potranno ricevere da un minimo di una fino a un massimo di tre stelle. Il rating, secondo quanto previsto dal decreto, svolgerà una funzione di filtro per l’accesso al credito bancario e ai finanziamenti della P.A., nel senso di agevolare le società con punteggio più alto o comunque iscritte nell’elenco tenuto dall’Antitrust rispetto a quelle che invece scelgano di restarne fuori45.

Il rating si attiva su istanza volontaria e dovrà essere rinnovato ogni due anni. La procedura: le imprese interessate a comparire nell’albo – che sarà reso pubblico attra-verso una sezione del sito internet dell’Authority – presentano domanda all’Antitrust di-chiarando il possesso di alcuni requisiti minimi, come l’assenza di sentenze di condan-na (o di patteggiamento) in ordine a particolari reati (usura, riciclaggio, terrorismo etc.); l’assenza di provvedimenti sanzionatori da parte dell’Autorità; l’assenza di sanzioni per illeciti fiscali, per il mancato rispetto delle previsioni di legge sulla sicurezza sul lavoro e sulla tracciabilità dei pagamenti etc.

L’osservanza di questi requisiti comporta per l’impresa l’assegnazione di un punteg-gio di base pari a una stella. Il borsino potrà incrementare fino a giungere a tre stelle se si accerterà il conseguimento di altre condizioni. Tra queste: il rispetto del protocollo di legalità firmato da Confindustria e dal Ministero dell’Interno il 10 maggio 2010 e rinno-vato il 19 giugno 2012; l’uso di sistemi di tracciabilità anche per importi inferiori a quelli fissati per legge; la costituzione di una struttura organizzativa, anche in outsourcing, che espleti un’azione di compliance di un modello organizzativo ai sensi del d. lgs. 231/2001; l’adozione di processi volti a garantire forme di CSR anche attraverso l’adesione a pro-grammi promossi da organizzazioni nazionali o internazionali e l’acquisizione di indici di sostenibilità; l’adesione a codici di autoregolamentazione approvati dall’Antitrust.

I requisiti aggiuntivi sono in tutto sei: il rispetto di ciascuno di essi darà titolo a ottenere un segno “+” (tre “+” fanno scattare il premio di una stella). Oltre ad assegnare siffatti riconoscimenti, l’Antitrust potrà sospendere o revocare l’iscrizione delle imprese nell’albo in caso di dichiarazioni false o per l’intervento di condanne o provvedimenti sanzionatori da parte della stessa Autorità.

Come si vede, l’impresa che, tra i vari requisiti, possegga e vigili su un modello

44. Cfr. l’art. 5 ter del d.l. del 24 gennaio 2012, poi convertito nella legge n. 27 del 24 marzo 2012, integrato dal d.l. n. 29 del 24 marzo 2012, convertito nella legge n. 62 del 18 maggio 2012: «Al fine di promuovere l’introduzione di principi etici nei comportamenti aziendali, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato è attribuito il compito di segnalare al Parlamento le modifiche normative necessarie al perseguimento del sopraindicato scopo anche in rapporto alla tutela dei consumatori, nonché di procedere, in raccordo con i ministeri della Giustizia e dell’Interno, alla elaborazione e all’attribuzione, su istanza di parte, di un rating di legalità per le imprese operanti nel territorio nazionale che raggiungano un fatturato minimo di due milioni di euro, riferito alla singola impresa o al gruppo di appartenenza, secondo i criteri e le modalità stabilite da un regolamento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato da emanare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Al fine dell’attribuzione del rating, possono essere chieste informazioni a tutte le pubbliche amministrazioni. Del rating attribuito si tiene conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario, secondo le modalità stabilite con decreto del ministro dell’Economia e delle Finanze e del ministro dello Sviluppo economico, da emanare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Gli istituti di credito che omet-tono di tener conto del rating attribuito in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta». Per una prima valutazione critica del provvedimento cfr. M. Centorrino-P. David, Come attribuire il rating di legalità, su www.lavoce.info dell’8 agosto 2012, pp. 1 ss.45. L’albo si ispira alle c.d. white list, elenchi di imprese (appartenenti ai settori dei trasporti vari, smaltimento dei rifiuti, movimento terra, noleggio macchinari, forniture di ferro e calcestruzzo, guardiania dei cantieri) definite non soggette a inquinamento mafioso, formate dalle prefetture (ai sensi del d.P.C.M. 18 ottobre 2011) dopo una corolla di controlli preventivi. Tali elenchi, al momento adottati dalla Regione Abruzzo e dal Comune di Milano, an-noverano imprese che, sulla base di una sottoposizione volontaria ai predetti controlli, sono esonerate per un anno da adempimenti burocratici in ordine alle qualificazioni anti-mafia. Al momento, deve peraltro riconoscersi la scarsa efficacia delle white list e il poco interesse del mondo delle imprese per lo strumento in parola. Per una serie di critiche articolate e incisive alla concrete modalità attuative delle white list, che prendono spunto dalle obiezioni avan-zate dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, cfr. G. D’Angelo, Per un diritto amministrativo dell’antimafia: considerazioni sul d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, pubblicato su www.giustamm.it – Giustizia amministrativa. Rivista di diritto pubblico, n. 7-2012, pp. 1 ss.

5Il c.d. rating di legalità

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organizzativo ex d. lgs. 231/2001 (con tanto di codice etico), che conformi il proprio modus operandi sul mercato ai canoni della responsabilità sociale, che aderisca a codi-ci di autoregolamentazione validati dall’Authority, viene premiata con facilitazioni alla concessione di finanziamenti pubblici e all’accesso al credito bancario. L’adozione di principi etici, oltre a rendere ancora più stringente per le imprese che non vogliono ri-sultare escluse dal gioco della concorrenza la conformità al d. lgs. 231/2001, avrà dunque rilevanza non solo nei rapporti con la P.A., ma anche nei confronti di soggetti privati, quali le banche.

Solo il futuro dirà se il rating funzionerà o meno, invogliando le imprese a percorre-re con maggiore decisione la strada della trasparenza, della fairness e dell’integrità nei rapporti socio-economici46. Non c’è dubbio, però, che si tratti di un messaggio forte, con il quale l’ordinamento, per un verso, mette in chiaro come, più del crimine, sia l’etica della legalità aziendale a pagare; e per l’altro, conferma il legame esistente tra reputazione dell’ente e soddisfazione di standard etici ancorati a concrete scelte gestionali che diven-tano elementi del giudizio d’affidabilità sull’ente, dai risvolti decisivi in tempi di crisi. In questo modo, l’intero bacino della responsabilità sociale delle persone giuridiche, che pe-sca sia nella sfera etica dei codici, sia nella sfera organizzativa dei modelli, viene valorizza-to all’insegna di una legalità profittevole che rende conveniente orientare la performance aziendale a valori suscettibili di trovare effettivo riscontro nelle prassi economiche.

La vita dei codici etici è meno facile di quanto si pensi, sottoposta com’è a un fuoco di fila di feroci obiezioni.

Un primo nucleo di argomentazioni contro l’istituzione “codice etico”, proveniente dall’ideologia economica neoclassica, risiede nella tesi secondo cui l’esistenza di una “mano invisibile del mercato” dispenserebbe dal bisogno di un codice morale. La “mano invisibile” guida le scelte egoistiche dell’impresa verso un risultato desiderabile senza la necessità che queste siano rette da uno scopo buono o coerenti con un principio morale. Sempre di fonte economica è l’accusa alle disuguaglianze che si verrebbero a creare tra imprese virtuose e competitor che o non si danno il codice o non lo rispettano, penaliz-zando le prime e spingendole rapidamente fuori dal mercato, senza contare che, secon-do altri, la diffusione dell’etica aziendale avrebbe comportato un aggravio dei costi di produzione con conseguente innalzamento dei prezzi e rimbalzi negativi per gli stessi consumatori47.

Del pari avversa all’idea che l’impresa debba avere un codice morale, perché inu-tile, è l’opinione, di matrice giuridica, che rimprovera all’etica di essere senza “denti per mordere”, al contrario della legge. L’etica può coartare solo il “foro interno della coscienza”, ma non è efficace nel guidare il comportamento pratico, poiché manca di sanzioni sociali effettive e di forza motivazionale. La posta in palio, quella dell’enforce-ment, ruota intorno al carattere vincolante del codice nei confronti del comportamento pratico e alla possibilità di far rispettare le prescrizioni mediante opportuni meccanismi sanzionatori48. Tale questione si trascina dietro la scelta della tipologia di sanzioni e dei soggetti chiamati a giudicare le infrazioni (su cui v. infra)49.

46. Sulla trasparenza quale pre-condizione per rendere effettivo e non propagandistico il rispetto dei diritti degli stakeholder, cfr. G. Forti, Democrazia economica e regolazione penale dell’impresa, in Dir. pen. proc., 2010, pp. 773 ss. 47. Per una sintesi delle critiche di stampo economicistico cfr. L. Sacconi, Etica degli affari, cit., pp. 344 ss.48. Cfr. per tutti C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 108, che vede nella mancanza di un credibile deposito sanzionatorio «il tallone d’Achille» dei codici etici. Così anche F. Stella, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, cit., p. 477.49. Un sottoinsieme di critiche riguarda la considerazione che, appiattendosi sui comandi legislativi il codice etico sarebbe inutile, risolvendosi, di fatto, in un mero rinvio a una fonte sovraordinata ed esaustiva. In realtà, come osservato da L.K. Trevino-K.A. Nelson, Managing Business Ethics, New York, 2004, pp. 398 ss., e L.S. Paine, Per l’integrità delle organizzazioni, in Etica degli Affari e delle Professioni, 3, 1995, pp. 40 ss., per risultare efficace un codice etico deve essere basato sia su una attenzione ai valori, sia sulla conformità alla legge. Secondo E. D’Orazio, Codici etici, cultura e responsabilità d’impresa, cit., p. 132, «se i programmi non tengono conto dell’esigenza della conformità, l’enunciazione di valori astratti rischierà di apparire ipocrita ai dipendenti: è infatti indispensabile che i valori siano tradotti in norme di comportamento e perché queste abbiano significato, i trasgressori devono essere puniti;

6Codici etici sotto tiro

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Sul fronte dei rapporti tra diritto e morale, sono due i principali motivi di insoddi-sfazione. Da un lato, si contesta con argomentazioni anti-paternalistiche che l’etica possa essere imposta per legge, in mancanza di un’autentica rifondazione etica degli affari nel loro complesso, da tempo invocata50. Argomento forte, ma che rischia di esserlo troppo, se in attesa della sospirata rifondazione la prospettiva è che … “dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”, laddove una riflessione sui valori attraverso la codificazione eti-ca viene quanto meno incoraggiata, lasciando preferire a scenari rivoluzionari, anche in campo etico, quelli più sostenibili e praticabili di una graduale e corale riforma51.

Dall’altro, non può tacersi la tesi che vede nelle intersezioni tra etica e diritto un pericoloso aggiramento del principio di legalità per il tramite del potere giudiziario. Ciò che si contesta, facendo il caso dello scandalo Enron e della reazione etica che innerva il SOA, è che «nei casi in cui la legge contenga un preciso riferimento all’etica, il giudice che la applica si trova a operare come un supremo censore e guardiano dei costumi e della moralità pubblica, a tutto detrimento di altri, e altrettanto importanti, valori. E la prima vittima illustre è proprio il principio di legalità, in base al quale i reati devono essere definiti nel modo più chiaro possibile, in modo che sia preventivamente noto ciò che è lecito e ciò che non lo è … il richiamo del legislatore alla morale, o all’etica, va quindi sempre guardato con sospetto, e spesso equivale a un’ammissione di fallimen-to: generalmente, infatti, la morale viene chiamata in causa dove, e quando, il diritto fallisce»52.

Non risulta, finora, che la legge penale italiana contenga i temuti riferimenti all’etica. Nondimeno, non si può escludere che le norme etiche possano svolgere una funzione integrativa di talune norme incriminatrici o fornire un contributo sul piano interpre-tativo. In dottrina è stato prospettato un impiego del soft law in sede di riconoscimento della colpa generica, ove non si voglia ammetterne il rilievo già nella categoria delle discipline ex art. 43 c.p., asseverando un ausilio nella valutazione dell’eventuale sussi-stenza o meno della negligenza e/o dell’imprudenza penalmente rilevante53.

Si è così sostenuto, in bonam partem, che il rispetto da parte di un membro dell’azien-da delle regole contenute nel codice di comportamento interno indurrà verosimilmente il giudice a ritenere il soggetto in questione «in buona fede», e a mandarlo esente da responsabilità penale. Su questa linea di pensiero, è stata pronosticata l’esclusione della responsabilità penale qualora si accerti che il comportamento rispettoso del codice etico abbia implicato per il membro dell’azienda la violazione di una norma penale nell’in-consapevolezza della sussistenza di quest’ultima, tenuto conto della difficoltà di «distri-carsi all’interno di un coacervo di norme eterogenee e tra loro contraddittorie, come tali idonee in definitiva a creare incertezza e confusione circa i comportamenti imposti, suggeriti, ammessi ovvero vietati»54.

Non manca chi, interrogandosi sulla natura della regolazione etica, assegna alle norme del codice di comportamento il valore di usi (si discute se negoziali o normativi)55.

dall’altro lato, un programma basato sulla sola conformità alle legge, senza un richiamo a valori forti, rischia di essere visto con cinismo dai dipendenti: ciò che in questo caso conta è “acciuffare” i dipendenti che fanno la cosa sbagliata piuttosto che aspirare a fare la cosa giusta».50. Cfr. G. Rossi, Il gioco delle regole, Milano, 2006, p. 44; Id., La cosiddetta morale giuridica e l’equivoco dei codici etici, in AA.VV., Scritti in onore di Vin-cenzo Buonocore, I, Milano, 2005, pp. 671 ss.; Id., Il conflitto epidemico, Milano, 2003, p. 141. In tema v. più diffusamente G.M. Garegnani, Etica d’impresa e responsabilità da reato, cit., p. 19 ss.51. Cfr. anche M. Pontani-M. Zanchetti, Prevenzione dei reati organizzativi e discipline premiali, cit., p. 479, nota n. 4, che replicano così alle tesi “privatistiche” di Rossi: «l’etica degli affari non è solo etica del carattere: essa è soprattutto etica delle regole, che non opera (solo) a livello della coscienza individuale sancendo la bontà o la malvagità di determinati comportamenti: al contrario essa raccoglie per lo più faticosi compromessi tra diverse visioni del mondo e detta regole minime (imparziali e universalizzabili) per lo svolgimento corretto di una certa attività, regole il cui rispetto deve essere sempre ritenuto non buono in sé, ma funzionale al miglior svolgimento possibile dell’attività regolata».52. Cfr. G. Rossi, Il gioco delle regole, cit., pp. 39 ss.53. Cfr. A. Bernardi, Sui rapporti tra diritto penale e «soft law», in M. Bertolino-G. Forti-L. Eusebi (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, I, Napoli, 2011, p. 34.54. Cfr. A. Bernardi, Sui rapporti tra diritto penale e «soft law», cit., p. 35.55. Cfr. H. Simonetti, Codici di autoregolamentazione e sistema delle fonti, Napoli, 2009, pp. 178 ss.; 198 ss. Sulla possibilità di configurare i codici etici come fonti di obbligazioni, azionabili in giudizio, nel quadro di una impostazione che li aggancia alla teoria dei beni giuridici, cfr. R. Senigaglia, La

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È noto che l’uso o consuetudine è un fatto produttivo di regole sociali invalsi in un determinato ambiente e riferibili a un determinato gruppo sociale. Al fine di accertar-ne l’esistenza, occorrerà tenere conto della struttura e dell’organizzazione specifica del gruppo all’interno del quale la regola consuetudinaria è accettata. L’accettazione confe-risce alla regola una vincolatività nei confronti dei destinatari, la cui misura è data dalle reazioni sollevate in caso di sua violazione. È noto, altresì, l’atteggiamento che il diritto penale riserva alla consuetudine: l’ossequio alla riserva di legge comporta che l’uso non possa svolgere una funzione incriminatrice, né abolitrice. Mentre si ammette un ruolo scriminante56, è discusso il contributo che la consuetudine possa recare in funzione in-tegrativa del precetto, ad esempio sul versante colposo. In letteratura, sul punto, si regi-stra un dissidio tra chi ritiene l’uso rispettoso della determinatezza richiesta alla norma penale e chi invece si mostra preoccupato, oltre che della sciatteria che talvolta involge la prassi, anche della poca precisione che circonda la definizione dell’uso, rendendolo, nella sostanza, vago e dai confini insopportabilmente mobili57. Siffatte preoccupazioni si ripercuotono sulla materia dei codici etici e sulla possibilità di considerarli fonti inte-grative dei precetti penali.

Premesso che la genericità dei testi etici consente alle volte interpretazioni di como-do, sicché per taluno sarebbe impossibile vietare concretamente alcun tipo di compor-tamento, in quanto residuerebbe sempre la possibilità di sperimentare una ermeneusi volta ad ammetterne la liceità, va detto che, sul piano della tecnica descrittiva, il diritto penale insegna come si possa ricercare un equilibrio tra la necessità di fissare un prin-cipio di comportamento in termini generali e la opportunità di enunciare, magari “ai commi successivi”, ipotesi concrete ed esemplificative di contegni da adottare o dai qua-li astenersi. È anzi auspicabile che il codice non volti la faccia dall’altra parte, non igno-ri l’esistenza di aree di conflitto reale o potenziale tra il comportamento moralmente corretto, stabilito in base al codice, e gli interessi economici dell’impresa per più rapidi e immediati profitti, come anche di particolari individui o gruppi membri della stessa.

Dunque, della norma etica non può predicarsi la genericità a prescindere, ma biso-gna verificare caso per caso, anche perché spesso i codici etici suppliscono alle carenze del legislatore, specificando i contenuti di legge in termini meno generali e astratti e rapportandoli alla concreta realtà aziendale58. Del pari, un’analisi concreta s’imporrà per individuare l’esistenza di un eventuale contenuto cautelare cui ancorare una respon-sabilità colposa59. Tuttavia, nel dubbio sulla reale natura delle norme etiche, pare pre-feribile assecondare un loro contributo sul piano interpretativo, nel senso che la prova che il soggetto ha disatteso (anche) le norme del codice etico persuaderà il giudice circa l’illiceità penale del comportamento tenuto, a patto che la condotta non solo contrasti con la regola etica interna all’ente, ma possa anche venir ricondotta «in via interpretati-va ad una qualche fattispecie dell’ordinamento penale»60.

Infine, vi è chi ha giustificato le proprie perplessità in ragione del pluralismo etico che contraddistingue le società contemporanee, attraversate da sistemi multi-valoriali

vincolatività dei codici etici: ossimoro o sineddoche?, cit., pp. 591 ss. V. anche N. Irti, Due temi di governo societario (responsabilità «amministrativa» – codici di autodisciplina), cit., p. 699.56. Cfr, ad esempio con riguardo all’art. 51 c.p., M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, p. 543.57. A favore del rilievo della consuetudine in ambito medico, onde sostituire il controverso criterio dell’agente modello, si pronuncia, com’è noto, F. Giun-ta, La legalità della colpa, in Criminalia, 2008, pp. 149 ss. Contra, per i motivi anzidetti, v. G. Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 29 ss. Recentemente, per un’approfondita rimeditazione del tema, cfr. M. Grotto, Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012. 58. Cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 110. Conviene inoltre riportare quanto scrive A. Alessandri, Introduzione, in C. Beria D’Argentine (a cura di), Impresa e giustizia penale: tra passato e futuro. Un’introduzione, Milano, 2009, p. 21: «anche le obiezioni alla genericità dell’etica tacciono di fronte ad una realtà come quella italiana, così vistosamente a-morale … Resta solo la sfida, flebile ma ineludibile, di un retaggio o, se si vuole, di un impegno illuministico, che non sa tacere, tradotto nella speranza che le nostre azioni possano laicamente contribuire a mutare la collettività in cui si situano. Che siano possibili sforzi di orientamento dell’agire: anche rispetto al fenomeno imprenditoriale. È forse ingenuo, ma altrimenti converrebbe tacere».59. Sui limiti alla possibilità di inferire vettori cautelari dalle norme di deontologia professionale cfr. P. Veneziani, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, II, I delitti colposi, in G. Marinucci-E. Dolcini (diretto da), Trattato di diritto penale. Parte speciale, Padova, 2003, p. 190 s.60. Cfr. A. Bernardi, Sui rapporti tra diritto penale e «soft law», cit., p. 36.

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irriducibili alla codificazione etica. In una società plurale e relativista come quell’at-tuale, quale progetto etico potrebbe riscuotere il consenso convergente della policroma platea degli stakeholder61?

Il fascio di dubbi sull’efficacia dei codici spiega, almeno in parte, le resistenze alla loro introduzione nelle imprese (e nelle amministrazioni pubbliche), opposte dal ma-nagement, dai sindacati e dai lavoratori62. Le principali difficoltà sembrano peraltro concernere il metodo attraverso il quale i codici sono di regola introdotti e implemen-tati, che prescinde dal coinvolgimento e dal consenso dei destinatari, specie di quelli di livello più basso. Quasi sempre si tratta di atti calati dall’alto, al più approntati con il concorso verticistico e ritualistico dei sindacati, motivati da ragioni strumentali e di im-magine dei soggetti apicali, senza la partecipazione e con una insufficiente informazione dei dipendenti. Tutto ciò ha ingenerato indifferenza e financo sentimenti di avversione: indagini empiriche hanno mostrato che molti dipendenti conoscono a mala pena i prin-cipi e gli obiettivi dei codici e le ragioni della loro introduzione; e che spesso li vivono come strumenti di controllo unilaterale da parte del management, e addirittura come potenziali vincoli ai loro diritti presenti e futuri, dipendenti da programmi efficientistici e collegati a tagli all’occupazione63.

Chi si volesse impegnare in una difesa dei codici etici, avrebbe buon gioco a rilevare che commissionare la moralità dell’agire d’impresa solo alla virtù dei singoli può rive-larsi un azzardo, o comunque un affidamento insufficiente, ove si rifletta sulla debolezza del volere, specie quando si appuri l’esistenza di un conflitto tra l’auto-interesse e il comportamento morale64. Al contrario, specificare e rendere pubblico un insieme di regole scritte che tutti sono chiamati a rispettare, si profila come un rinforzo contro la defezione opportunistica dai principi morali: più che introdurre regole nuove, i codici di comportamento servono a svegliare e tenere desta l’attenzione in merito all’esigenza di comportamenti corretti e, invece di delegare l’interiorizzazione dei valori esclusiva-mente a meccanismi di prova/errore/sanzione, sostengono il processo di apprendimento in merito a scelte che possono avere conseguenze sul piano etico e giuridico65.

Peraltro, va messo in conto come talora accada che il comportamento scorretto non sia generato dal conflitto tra regole etiche e interesse egoistico, ma dalla complessità della valutazione che investe molteplici aspetti della decisione. Anche in questo caso,

61. Per G. Sapelli, Etica d’impresa e valori di giustizia, Bologna, 2007, p. 85, il fenomeno dei codici etici «è il risultato di un lungo e diversificato processo che oggi giunge alla sua più evidente rivelazione che riflette … un grande problema dell’ordine sociale e, insieme, della domanda di senso alla vita di lavoro che sale dal mondo dell’impresa». I codici etici sarebbero più della semplice somma di etiche individuali presenti all’interno di un’organizzazione. Essi «aspirano a realizzare una convergenza crescente tra principi etici personali e le obbligazioni dell’impresa facendo salve – per non dare adito all’equivoco di auspicare pratiche di manipolazione delle coscienze – le singole pulsioni morali delle persone. Tali strumenti precostituiscono una sorta di minimo etico comune, mentre sono neutrali rispetto alle diverse concezioni personali di ciò che è bene e giusto in senso ontologico, affermano contestualmente una sorta di corollario morale unificante trascendente le singole pulsioni e volizioni» (G. Sapelli, op. cit., p. 89). Per un tentativo di mediazione tra diverse visioni culturali e valoriali, cfr. C. Curtis-J.D. Neill-S.O. Stovall, The Impact of Cultural Differences on the Convergence of International Accounting Codes of Ethics, in Journal of Business Ethics, 90, 2009, pp. 383 ss.; M.S. Schwartz, Universal Moral Values for Corporate Codes of Ethics, in Journal of Business Ethics, 59, 2005, pp. 27 ss. Contro il relativismo che infesterebbe i moderni codici etici si scaglia invece Z. Bauman, Le sfide dell’etica, tr. it. di G. Bettini, Milano, 2010, p. 19.62. Sulle resistenze opposte all’introduzione di un codice etico in una multinazionale cfr. S. Helin-J. Sandström, Resisting a corporate code of ethics and the reinforcement of management control, in Organization Studies, 31, 2010, pp. 583 ss.63. Per M. Sacchettoni, Il codice etico, il codice di condotta: carta di valori o norme non condivise?, in G. Felici (a cura di), Dall’etica ai codici etici: come l’etica diventa progetto d’impresa, Milano, 2005, pp. 107 ss., le regole dei codici etici ampliano la sfera degli obblighi verso l’impresa e lo fanno attraverso una iniziativa unilaterale del datore di lavoro, che determina le regole al di fuori dei contratti collettivi e al di fuori della negoziazione con le associazioni sindacali, al punto da far supporre che dietro lo schermo virtuoso del codice etico si possa celare il tentativo di introdurre un nuovo metodo di regolazione dei rapporti di lavoro differente da quello istituzionale. Simile orizzonte, sicuramente degno di attenzione per la sua problematicità, non va affatto sotto-valutato e costituisce un ulteriore motivo per privilegiare modalità partecipative nella stesura del testo (su cui v. infra), le quali sono vieppiù indicate se si vuole evitare un altro pericolo, consistente nella percezione, da parte dei dipendenti, che scopo dell’introduzione in azienda di un programma etico/di conformità sia quello di proteggere il top management da ipotesi di responsabilità per colpa.64. Cfr. L. Sacconi, Etica degli affari, cit., pp. 350 ss. 65. Cfr. G. Airoldi, Introduzione, in AA.VV., Ripartire dall’azienda, Milano, 1996, pp. 13 ss.

7In difesa del codice etico

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però, è agevole avvedersi dell’utilità del codice etico, poiché la specificazione a priori di criteri di comportamento può notevolmente semplificare la soluzione dei dilemmi etici.

Certo, può capitare che il comportamento opportunistico o irresponsabile sia frutto di una cultura diffusa, che non rispecchia i valori che intessono il codice: in questi casi è pretenzioso attendere che questo, da solo, modifichi un atteggiamento gruppale e radicato, anche se va detto che in contesti aziendali caratterizzati da “panico etico”, come alcune arene societarie all’indomani della scoperta di reati, la modifica o l’introduzione del codice etico sono un primo indispensabile passo per il cambiamento culturale, a tacere del fatto che, anche in ambienti pesantemente contaminati, il codice etico offre ai dipendenti lo stru-mento per resistere a richieste immorali dei superiori66. Appellarsi al codice etico significa trovare il sostegno necessario a rifiutare obbedienza a un uso improprio dell’autorità del manager. E anche se si annuncia l’insorgere di un conflitto che potrebbe comportare costi altissimi per il dipendente virtuoso, il più delle volte potrà risultare sufficiente, anziché un atteggiamento di rifiuto dell’autorità del superiore, la segnalazione alle strutture competen-ti (all’OdV, per esempio), dell’esercizio di un potere che esorbita dai principi guida67.

Non si dimentichi, inoltre, che il codice etico può diventare sorgente della CSR, ma anche suo limite, stabilendo fin dove la responsabilità sociale può spingersi, onde go-vernare la discrezionalità nella scelta delle cause da sostenere, ed evitare che si scada nell’arbitrio o si facciano gravare su dipendenti e impresa costi insostenibili. Da que-sto punto di vista, le regole organizzative dovrebbero anche determinare il quantum dell’impegno finanziario da dedicare all’assolvimento degli obblighi assunti nel codice etico, con ciò indicando il limite dei costi che l’impresa intende a tale scopo sostenere e pertanto il limite entro il quale il profitto dell’impresa possa essere sacrificato per la protezione di interessi terzi68.

Si noti, inoltre, che essendo auto-imposto, rappresenta un’alternativa più gradita alle limitazioni esterne alla libertà d’impresa, che il mondo degli affari avversa69.

Proprio quest’ultima indicazione dovrebbe convincere circa l’impossibilità di venire a capo delle discussioni sull’efficacia/utilità dei codici etici senza valutare gli argomenti etici a favore dell’autoregolazione morale delle imprese70. Le ragioni della loro propa-gazione, pur rafforzate dalla crisi economico-finanziaria in atto, non possono esaurirsi nella sola segnalazione della retorica, pur indubbiamente presente. Il problema dell’ef-ficacia dei codici è un problema di attuazione dell’etica nel contesto organizzativo. Oc-corre costruire un accordo tra le prescrizioni morali e le motivazioni reali degli agenti. La motivazione reale è l’auto-interesse. Bisogna perciò salvaguardare l’assunzione per la quale la morale richiede a prima vista comportamenti contro-interessati, e dimostrare che assumere comportamenti contro-interessati è in realtà in accordo con l’interesse complesso dell’azienda e di chi la gestisce71.

Senza entrare nello specifico dei contenuti72, ciò induce a definire il nucleo di azioni

66. Il codice etico rappresenta solo il primo passo verso la creazione di una cultura aziendale etica. Sulla necessità di inserire il codice all’interno di un programma di training etico, onde evitare di ridurlo a un’operazione di propaganda, cfr. G. Wood-M. Rimmer, Codes of Ethics: What Are They Really And What Should They Be?, in International Journal of Value-Based Management, 16, 2003, pp. 181 ss.67. V. infra § 11.68. Cfr. S. Luchena, Codice etico e modelli organizzativo-sanzionatori nel d. lgs. n. 231/01: legittimità ed efficacia, in Giur. comm., I, 2011, p. 256; S. Rossi, Luci e ombre dei codici etici d’impresa, cit., p. 36. Si potranno verificare ipotesi in cui l’opera di bilanciamento sia richiesta in situazioni che sfuggano alla dimensione organizzativa e quindi a un’attività preventiva di organizzazione e pianificazione, quello che conta è che nel codice etico sia possibile rintrac-ciare un criterio che consenta di individuare le priorità e di risolvere il potenziale conflitto.69. Cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 106.70. Cfr. L. Sacconi, Etica degli affari, cit., p. 350.71. Cfr. L. Sacconi, Etica degli affari, cit., p. 351.72. Per un’analisi accurata dei contenuti ricorrenti nei codici etici, cfr. di recente P.M. Erwin, Corporate Codes of Conduct: The Effects of Code Content and Quality on Ethical Performance, in Journal of Business Ethics, 99, 4, 2011, pp. 535 ss. Più indietro nel tempo, ma comunque rilevante, appare anche l’indagine OECD, Codes of Corporate Conduct: Expanded Review of their Contents, Working Papers on International Investment, n. 6, 2001. Come linea metodologica, condividendo l’indicazione di B. Stevens, An Analysis of Corporate Ethical Code Studies: “Where Do We Go From Here?”, in Journal of Bu-siness Ethics, 13, 1994, pp. 63 ss., invece di soffermarci sui contenuti, abbiamo privilegiato in questo saggio concentrarci sulla dimensione “comunicativa” dei codici etici, ritenendola di non minore importanza ai fini della loro effettività, in accordo con i postulati della prevenzione generale positiva, intorno

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che dovrebbe prioritariamente essere oggetto di un codice etico. Sono le decisioni di quei soggetti che nell’impresa sono dotati di maggior potere discrezionale e che conse-guentemente sono in grado di intraprendere azioni opportunistiche verso gli altri sta-keholder. Lo scopo fondamentale di un codice etico dovrebbe pertanto essere quello di vincolare il comportamento del vertice aziendale, in modo da preservare tutti gli altri soggetti dal suo potenziale opportunismo73.

Ciò detto, è bene ribadire che anche chi non condivide una visione cinica dell’ammi-nistrazione e del mondo degli affari e delle professioni, ed è propenso a sperimentare la via dei codici, difficilmente può pensare che si tratti di un rimedio autosufficiente e risolutivo contro l’opportunismo e la cattiva amministrazione. L’efficacia della gestione etica sembra essere positivamente correlata con la presenza di appropriate strategie istituzionali e or-ganizzative e richiede di essere integrata in programmi di intervento più generali. Come scrive Amartya Sen, «le riforme istituzionali e i codici di comportamento devono essere visti come complementari: essi possono rinforzarsi a vicenda in maniera significativa»74.

Chiunque si occupi di organizzazione aziendale sa che un conto è la documentazio-ne che definisce la struttura organizzativa, un conto è l’insieme delle regole che presiede all’agire reale dell’ente75. Anche il codice etico animato dalle migliori intenzioni resterà lettera morta se non gode di talune “condizioni di efficacia”76, in difetto delle quali, an-ziché rappresentare l’alfa e l’omega della cultura aziendale, sarà confinato alla mera par-venza e slegato da quelle che sono le autentiche dinamiche culturali e comportamentali in seno all’azienda, concretando in sostanza … un «imbroglio»77.

Un autore che ha particolarmente vagliato l’argomento, ha riconosciuto tre funzioni alla codificazione etica, dalle quali trarre alcune indispensabili indicazioni di metodo. Le tre funzioni sono di tipo normativo, cognitivo e motivazionale78. Il codice etico esibisce: un contenuto normativo, se dice ex ante cosa si deve fare, se identifica i doveri che un’im-presa ha nei confronti dei diversi portatori di diritti e di interessi che con essa interagisco-no (gli stakeholder); un contenuto cognitivo, se pone doveri e regole di condotta “…anche quando gli eventi sono imprevisti”, in questo modo formando aspettative determinate in contesti dei quali si ha una conoscenza incompleta. La regola etica finisce così per riem-pire un gap cognitivo che altrimenti metterebbe fuori gioco i meccanismi di controllo e di auto-regolazione sociale. Infine, il codice etico possiede un contenuto motivazionale, perché non si limita a prescrivere cosa fare anche quando l’evento è imprevisto e la nostra conoscenza incompleta, ma ci dà la forza per farlo. Al codice etico spetta di attivare risorse interiori che promuovano il rispetto dei principi sulla scorta di meccanismi cooperativi, quali la fiducia e la reputazione. Si assiste così a forme di egoismo illuminato in base al quale la cura della reputazione viene programmata e mantenuta viva grazie alla coopera-zione con terzi che hanno maturato sentimenti di fiducia nei confronti dell’azienda virtuo-

ai quali sono sempre valide le riflessioni di L. Eusebi, La pena “in crisi”, Brescia, 1990; M. Romano-F. Stella (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, Bologna, 1980. Per una recente valorizzazione della sfera cognitiva della prevenzione generale, confortata anche dai risultati di docu-mentate indagini empiriche, cfr. G. Andrighetto-D. Villatoro-F. Cecconi-R. Conte, Simulazione ad agenti e teoria della cooperazione. Il ruolo della sanzione, in Sistemi intelligenti, 2011, pp. 367 ss.; G. Andrighetto-R. Conte-F. Giardini, Le basi cognitive della contro-aggressione: vendetta, punizione e sanzione, in Sistemi intelligenti, 2010, pp. 521 ss. 73. Cfr. L. Sacconi, Etica degli affari, cit., p. 352.74. Cfr. A.K. Sen, Codici morali e successo economico, tr. it. di A. Balestrino, Il Mulino, 2, 1994, p. 196. 75. Cfr. A.N. Licht-C. Goldschmidt-S.H. Schwartz, Culture, Law, and Corporate Governance, in International Review of Law and Economics, 2, 2005, pp. 229 ss.76. Sulla tematica delle condizioni di efficacia cfr. principalmente V. Coda, Codici etici e liberazione dell’economia, in AA.VV., Codici etici e cultura di mercato, Milano, 1994, pp. 33 ss.; v. anche U. Lago, Etica d’impresa e codici etici, in Aggiornamenti sociali, 1994, pp. 834 ss.; S. Bertolini, Il codice etico: elementi introduttivi, in S. Bertolini-R. Castoldi-U. Lago, I codici etici nella gestione aziendale, Milano, 1996, pp. 35 ss.; M. Kaptein, Toward Effective Codes: Testing the Relationship with Unethical Behavior, in Journal of Business Ethics, 99, 2011, pp. 233 ss.77. Testualmente F. Stella, Il mercato senza etica, cit., p. XI.78. Per questa impostazione cfr. L. Sacconi, Può l’impresa fare a meno di un codice morale?, cit., p. 22 ss.

8Condizioni di efficacia degli

ethical codes

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sa e dalla buona fama79. La reputazione, d’altronde, dipende essenzialmente dal fatto che i terzi riconoscano la condotta aziendale conforme alle norme etiche80.

Se si conviene sulla forza normativa, cognitiva e motivazionale del codice etico, una prima e fondamentale condizione di efficacia andrà rintracciata nell’intendimento pro-fondo del vertice, in quella che potremmo definire come “leadership etica”: con soggetti apicali provvisti di tensione etica, trasfusa in scelte gestionali e comportamenti perso-nali coerenti con il credo etico che si vuole ispiri la prassi, i valori filtreranno nei ranghi aziendali comunicando la volontà di un agire economico che fa del riferimento ai prin-cipi un impegno credibile e tangibile e non un’operazione di facciata.

Ne discende che uno dei principali obiettivi di un ethic management sta nel definire una serie di valori aziendali, creare un ambiente capace di sostenere comportamenti eticamente retti e infondere tra i dipendenti dell’organizzazione un condiviso senso di responsabilità.

Senza scomodare detti comuni come “il pesce puzza dalla testa” o “la scopa si vede dal manico”, va dunque sottolineato come manager poco credibili dal punto di vista eti-co, che non danno il buon esempio o adottano condotte inconciliabili con gli assunti del codice, condannano al fallimento la normativa interna, anche la più nobile e meditata.

L’introduzione del codice etico, checché se ne pensi, è un’operazione complessa e laboriosa: anche se c’è chi ne snobba l’importanza e la sua definizione avviene in tempi tanto rapidi quanto sospetti, una codificazione etica che si rispetti non può prescindere da una previa analisi della cultura esistente all’interno dell’azienda, per cogliere i valori di fondo della struttura81: se tali valori sono già improntati all’etica, il codice rappresen-terà soltanto lo strumento della loro formalizzazione. Un minimo grado di diffusione dei valori sottesi ai codici etici si pone allora come precondizione affinché questi non rimangano lettera morta, ovvero per evitare che siano branditi come strumenti di im-posizione di una cultura aziendale destinata a rimanere estranea ai soggetti tenuti ad accoglierla e promuoverla82.

L’adozione del codice etico può essere imposta dall’alto o condivisa secondo modali-tà più democratiche e bottom up. Entrambe le opzioni presentano pro e contra, ma non c’è dubbio che allargando la base degli estensori si favorisce una migliore legittimazione dei contenuti e dell’enforcement del testo. Il punto di vista dei destinatari delle norme deve essere presente all’istituzione che approva il codice, sicché questo andrebbe pro-mulgato solo dopo una consultazione allargata e attraverso i lavori di una commissione nella quale siedano i rappresentanti delle categorie soggette alle norme.

Non meno importante è il linguaggio, il tono del codice etico: un testo è tanto più efficace quanto più è chiaro e incisivo nel comunicare ciò che è bene e ciò che è male, sia sul piano dei valori e dei principi generali, sia in termini di applicazione degli stessi ai problemi dell’agire concreto (“è più facile fare la cosa giusta se si sa con precisione qual è”); quanto meglio rende esplicito, ove non sia percepibile con immediatezza, il passaggio dalla enunciazione di una politica aziendale alla individuazione dei doveri che ne derivano per i singoli; quanto più si focalizza sui problemi etici rilevanti per quella data impresa in quel dato momento storico83.

79. Cfr. F. Ghezzi, Codici di condotta, autodisciplina, pratiche commerciali scorrette. Un rapporto difficile, in Riv. soc., 2011, pp. 683 ss. Sulla c.d. fiducia responsiva e la rispondenza fiduciaria cfr. V. Pelligra, I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, Bologna, 2007, pp. 167 ss.; e J. Braithwaite, The essence of responsive regulation, in U.B.C. Law Review, 44, 2011, pp. 475 ss.; G. Forti, Uno sguardo ai “piani nobili” del d.lgs. n. 231/2001, cit., pp. 5 ss. dal dattiloscritto. In merito alle ricadute penalistiche del pensiero di Braithwaite cfr. le dense riflessioni di C. Mazzucato, Giustizia esempla-re. Interlocuzione con il precetto penale e spunti di politica criminale, cit., pp. 408 ss.80. Cfr. C. Camardi, A proposito di impresa ed etica. Spunti di riflessione su diritto, etica ed economia, in Cives, 4, 2006, p. 30: «la fiducia che l’impresa riesce a riscuotere sul mercato, anche in ragione della apprezzabilità sul piano etico ovvero comunque della valenza sul piano relazionale dei suoi compor-tamenti, costituisce, alla fine, un valore economico stimabile, un fattore di competitività, rispetto al quale sono allo studio nuovi sistemi di contabilità, sì da farne una sorta di nuova posta di bilancio». Sulla fiducia come strumento di governance cfr. G. Bosi, Autoregolazione societaria, cit., pp. 48 ss.81. Cfr. S. Guidantoni, Codici etici, Milano, 2011, pp. 45 ss.82. Cfr. G. Bosi, Impresa etica, etica d’impresa e diritto societario, in Giur. comm., I, 2011, p. 131; S. Maffettone, Ragioni dell’impresa e vincoli morali, in Filosofia e questioni pubbliche, 2001, p. 17.83. Cfr. V. Coda, Codici etici e liberazione dell’economia, cit., p. 35.

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Pari se non superiore riguardo dovrà essere garantito al momento successivo, quello riservato alla formazione e informazione sul codice etico, finalizzato a una piena socia-lizzazione e condivisione dei contenuti. Sarà opportuno prevedere periodici aggiorna-menti del testo, così come strutture deputate a controllarne il rispetto (come ad esempio l’organismo di vigilanza, su cui v. infra), a impartire sanzioni in caso d’inosservanza, a fornire una consulenza etica ai soggetti che versino in stato di dubbio, onde sollevarli da scelte eccessivamente responsabilizzanti o a rischio di configurare condotte illecite (si pensi alla figura anglosassone dell’ethics officer)84.

Per smettere di essere “cosmetico”, e diventare “armato”85, il codice etico abbisogna di un’impalcatura di protocolli e regole operative offerte dal resto del modello al qua-le partecipa. Volendo impiegare un’abusata metafora architettonica, il codice etico è il frontone del tempio greco, i pilastri sono dati dai protocolli e dalle procedure. Al codice etico vanno dunque affiancate direttive volte ad azzerare o ridurre il rischio di viola-zioni86. Tali direttive avranno l’effetto di rafforzare le nome del codice, comunicando la volontà di rendere effettive, già nella fisiologia dell’agire quotidiano, le prescrizioni della grundnorm aziendale87. Insomma, l’efficacia del testo sta e cade con il suo inserimen-to all’interno di un modello organizzativo che ne rappresenti la naturale evoluzione88, definendo compiti e responsabilità della gestione del codice con riguardo ai processi di comunicazione, di formazione, di aggiornamento, di counselling (su questioni inter-pretativo-applicative), di segnalazione di violazioni, di monitoraggio, perseguimento e censura di condotte anti-codice89. Trova così conferma l’idea che l’etica aziendale abbia, fondamentalmente, un’origine organizzativa, ovvero che possa predicarsi una radice organizzativa del comportamento individuale interno all’ente90.

Il successo di un codice etico, d’altra parte, non dipende solo dal livello di eticità endogena, interna all’organizzazione: l’ambiente esterno gioca una parte affatto secon-daria nell’alzarsi e abbassarsi della marea etica. Se il contesto di riferimento è abitato da portatori di cospicue attese di gestione improntata a rigore etico è probabile che l’ef-ficacia dei codici risulti notevolmente accresciuta; viceversa, se le imprese si trovano a operare in un ambiente eticamente degradato dove le sollecitazioni alla trasgressione delle regole risultano continue e forti, è difficile che il testo possa esplicare pienamente la sua funzione91.

84. Secondo L.K. Trevino, Ethical Decision Making in Organizations: A Person-Situation Interactionist Model, in Academy of Management Review, 1986, 11, 3, pp. 601 ss., sbagliano quelle organizzazioni che fanno assegnamento esclusivo sulla integrità individuale, e ciò perché è improbabile che tutti i membri dell’azienda raggiungano un livello di ragionamento morale sui principi etici tale da assicurare una piena coerenza tra giudizio e azione. Per tale ragione è compito dell’azienda fornire un contesto che favorisca il comportamento etico e scoraggi quello immorale. Così anche A. Tessitore, Codici etici e comportamenti organizzativi, in AA.VV., Ripartire dall’azienda, Milano, 1996, p. 23. Sul ruolo dell’ethics officer cfr. S. de Colle, Comitato etico d’impresa ed Ethics Officer, in L. Sacconi (a cura di), Guida critica alla responsabilità sociale e al governo dell’impresa, Roma, 2005, pp. 637 ss.85. Per questa aggettivazione cfr. C. De Maglie, Etica e mercato, cit., p. 284 s.86. Per la giurisprudenza l’impiego di codici etici non è di per sé sufficiente a esonerare l’ente da responsabilità specie se questi risultino di contenuto ge-nerico e privi di strumenti di controllo sulla loro attuazione. Cfr. Trib. Milano, 9 novembre 2004 (ordinanza del G.i.p. Secchi); Trib. Milano, 27 aprile 2004 (ordinanza di applicazione di misura interdittiva ex art. 45 ss. d. lgs 231/2001, G.i.p. Salvini), ambedue consultabili su www.reatisocietari.it. 87. Sulla necessità di piena coerenza tra codice etico e protocolli, che devono rappresentare la concreta attuazione a valle dei principi contenuti nel testo a monte, si spende C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale, cit., p. 2063.88. Per la considerazione dei compliance programs come naturale sviluppo dei codici etici, senza che possa registrarsi un’autentica soluzione di continuità, v., tra gli altri, C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., pp. 104 ss.89. Cfr. G.M. Garegnani, Etica d’impresa e responsabilità da reato, cit., pp. 50 ss.: «L’efficacia del codice etico è in diretta relazione con l’attuazione di meccanismi operativi volti a stimolare il rispetto di meccanismi di regolazione del codice stesso (e quindi procedure di aggiornamento e adattamento rispetto alle dinamiche sia aziendali che di contesto); meccanismi di controllo volti a disciplinare e monitorare i processi all’interno dei quali possono es-sere messi in atto comportamenti non in sintonia con i principi promossi dal codice; meccanismi diretti sulle persone che fanno parte dell’organizzazione (formazione e anche previsione, nel rispetto delle norme in materia giuslavoristica, di procedure sanzionatorie); previsione di adeguati flussi informativi per l’individuazione di possibili violazioni».90. Cfr. E. D’Orazio, Codici etici, cultura e responsabilità d’impresa, cit., p. 132: «se è vero che gli individui devono esercitare il loro giudizio morale e assumersi la responsabilità delle proprie scelte, è anche vero però che fattori organizzativi (obiettivi irrealistici, sistemi di incentivo perversi, mancanza di controlli, inadeguata formazione, mancanza di leadership etica) esercitano un forte influsso sul comportamento dei dipendenti. Se ne deduce quindi che l’etica ha a che fare con il management». V. anche A. Tessitore, Codici etici e comportamenti organizzativi, cit., pp. 19 ss.91. Per un progetto avanzato di codificazione etica, attento alle suindicate condizioni di efficacia, cfr. E. Baldin-L. Sacconi, Standard e linee guida Q-Res per il miglioramento delle prestazioni etico-sociali dell’organizzazione, Liuc papers n. 145, suppl. marzo 2004, pp. 21 ss. V. anche V. Vecchi, Il codice etico

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Il bacino CSR, nel quale la discussione sui codici etici affonda le radici, fornisce un equilibrio ancora troppo ideale, a tendere, che pecca di eccessiva fiducia nella capacità degli enti di auto-organizzarsi solo per ragioni reputazionali, e abbisogna di essere pun-tellato da una base normativa più solida e concreta92. Questa piattaforma è oggi offerta dal d. lgs. 231/2001: la responsabilità degli enti di fronte al giudice penale conferisce all’impostazione neo-contrattualista maggiori chances di tenuta, perché la integra in un complesso sistema di controllo93.

A suo modo, il d. lgs. 231/2001 ha individuato un punto di incontro tra le attese di legalità e di tutela dei beni giuridici proprie degli stakeholder e la legittima vocazione al profitto delle imprese. Il contemperamento delle istanze è avvenuto all’insegna di quella che potremmo chiamare “legalità profittevole” – good ethics is a good business – una visione che, ben lungi dal potersi dire compiutamente realizzata, visti anche i difetti della disciplina, ha però tradotto in termini normativi l’idea (un po’ aerea, propria del-la CSR) che una compliance aziendale ben fatta contribuisca al successo economico94. Nel d. lgs. 231/2001 la composizione dei diversi punti di vista avviene attraverso una corresponsabilizzazione dell’ente, il cui tasso di conformità all’appello preventivo lan-ciato dall’ordinamento viene messo alla prova dall’adozione ed efficace attuazione di un modello organizzativo rispondente all’esigenza di individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati e di allestire opportuni presidi di controllo. Nel dettare le regole della responsabilità delle persone giuridiche, il legislatore italiano ha così sta-bilito che, nel caso in cui si ottenga la prova che una particolare tipologia di reato è stata commessa nell’interesse o a vantaggio di un ente, esso potrà risponderne in via diretta e autonoma ed essere sottoposto a sanzione qualora, a tacere di altre condizioni, l’or-gano dirigente non abbia «adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi».

Ai sensi degli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001, i modelli di organizzazione e di gestio-ne vanno conformati in modo da intercettare specifici obiettivi: l’individuazione delle attività nel cui ambito possono essere realizzate condotte penalmente rilevanti; la pre-visione di protocolli ad hoc, congegnati per garantire la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in ordine ai reati da sventare; la definizione delle modalità di gestione delle risorse finanziarie finalizzate a impedire la commissione di reati; la previsione di obblighi di informazione nei confronti di un apposito organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli; l’introduzione di un sistema disciplinare che sanzioni il mancato rispetto delle misure costitutive del modello.

Si aggiunge, poi, che detti modelli possono essere adottati «sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti», per i quali è altresì previsto l’obbligo di successiva comunicazione al Ministero della Giustizia che, di con-certo con i Ministeri competenti, avrà la facoltà di formulare osservazioni sulla idoneità

quale strumento per la diffusione di una cultura etica: alcune indicazioni per una corretta redazione, in S. Sciarelli, Etica e responsabilità sociale nell’im-presa, Milano, 2007, pp. 241 ss.; S. Guidantoni, Codici etici, cit., pp. 63 ss.; M.A. La Torre, Questioni di etica d’impresa, cit., pp. 194 ss.; S. Maffettone, Progetto per un codice-quadro di etica per le imprese, in Filosofia e questioni pubbliche, II, 2, 1997, pp. 21 ss.; E.A. Molander, A Paradigm for Design, Pro-mulgation and Enforcement of Ethical Codes, in Journal of Business Ethics, 6, 1987, pp. 619 ss. 92. Per D. Galletti, Corporate governance e responsabilità sociale d’impresa, in AA.VV., Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, III, Milano, 2005, pp. 2633, l’efficacia deterrente della sanzione reputazionale implica un dato non scontato: che la società civile esprima una sensibilità così diffusa ed elevata da condurre a una generale e comune censura delle condotte immorali delle imprese. Secondo L. Sacconi, Etica degli affari, cit., p. 350, «la reputazione è un bene scarso che è più difficile acquistare (perché occorre una lunga ripetizione di esperienze positive per acquistarla) che perdere (per questo è sufficiente un piccolo numero di esperienze negative)». In merito alle c.d. sanzioni reputazionali e alle differenti possibilità di un uso della vergogna in ambito penale e politico-criminale, nonché sulla distinzione tra una vergogna “stigmatizzante” e una “riabilitante”, cfr. le intriganti osservazioni di A. Visconti, Teorie della pena e «shame sanctions»: una nuova prospettiva di prevenzione o un caso di atavismo del diritto penale?, in M. Bertolino-G. Forti-L. Eusebi (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, I, Napoli, 2011, pp. 633 ss.93. Per una prospettiva critica sull’attuale proliferazione di controlli non sempre efficaci cfr. F. Centonze, Controlli societari e responsabilità penale, Mi-lano, 2009, pp. 64 ss.; M. Catino, Gatekeepers miopi? Aspetti organizzativi nel fallimento dei controlli, in Stato e Mercato, 2010, pp. 219 ss. 94. Cfr., per la distinzione tra codici espressione di autoregolamentazione a impulso esclusivamente volontario e codici a impulso normativo, R. Seniga-glia, La vincolatività dei codici etici: ossimoro o sineddoche?, cit., pp. 565 ss.

9Codici etici e modelli

organizzativi ex d. lgs. 231/2001

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di tali modelli rispetto allo scopo di prevenzione dei reati al quale sono destinati.Più d’una associazione di categoria ha elaborato apposite linee guida per la reda-

zione dei modelli, allo scopo di fornire alle imprese un supporto metodologico nella costruzione di intelaiature organizzative piegate alla nuova strategia preventiva. Le linee guida hanno rappresentato l’occasione per individuare i passaggi operativi suscettibili di conferire concretezza organizzativa alle disposizioni del d. lgs. 231/2001, sul piano della costruzione di modelli che superino il test dell’idoneità e dell’efficacia. Tra i pas-saggi più salienti, tutte le principali associazioni di categoria hanno convenuto circa l’opportunità di perorare l’introduzione di codici etici come base sulla quale innestare il sistema dei controlli preventivi95.

Sebbene non espressamente evocato dal testo del d. lgs. 231/2001, dunque, il codice etico è oggi considerato parte integrante e indispensabile del modello di organizzazione, gestione e controllo, e come tale, diventa oggetto della verifica di idoneità ed efficacia da parte dei giudici che devono decidere della responsabilità dell’ente96.

I contenuti dei codici etici varieranno in ragione del tipo di attività svolta dalla per-sona giuridica, e la specificità di ognuno dipenderà dalle aree di rischio individuate at-traverso le operazioni di risk management. È opportuno, pertanto, che l’elaborazione del codice etico, anche se in senso ideale inaugura il modello e precede la definizione delle procedure e dei protocolli, giunga solo al termine dell’analisi dei recinti di rischio-reato e riporti, per ognuno dei segmenti operativi, l’indicazione dei principi di comportamen-to dai quali ricavare le condotte in grado di prevenire le violazioni della legge penale97.

Anche il codice etico risentirà dei ritocchi al catalogo dei reati presupposto: per stare alle modifiche più recenti, i testi che non avevano contemplato alcuna previsione in rapporto al tema della sicurezza sul lavoro, della criminalità ambientale, della repressio-ne del caporalato98, della corruzione tra privati99, all’indomani dell’introduzione della responsabilità degli enti anche per fatti riconducibili alle nuove tipologie criminose, ove già non avessero anticipato il legislatore, configurando soluzioni CSR oriented, sono stati sottoposti a un intenso restyling, preceduto da una verifica dei rischi correlati a siffatte classi di reati e a un ripensamento delle procedure interne ideate per inibirne la realizzazione100.

Il d. lgs. 231/2001 ha senz’altro condizionato la fattura dei codici etici: prima dello storico intervento legislativo, essi potevano permettersi una certa “leggerezza”, anche

95. Cfr. Linee Guida Confindustria per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, ex d. lgs. 231/2001, pp. 26 ss., dove si legge: «L’ado-zione di principi etici rilevanti ai fini della prevenzione dei reati ex D. Lgs. 231/2001 costituisce un elemento essenziale del sistema di controllo preventivo»; Linee Guida Assosim ex d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, pp. 29 ss.; Linee guida ABI per l’adozione di modelli organizzativi sulla responsabilità amministrativa delle banche, p. 36. 96. Sui rapporti tra codice etico e modello organizzativo, di gestione e controllo cfr. S. Luchena, Codice etico e modelli organizzativo-sanzionatori nel d. lgs. n. 231/01: legittimità ed efficacia, cit., pp. 245 ss.; N. Brutti, Codici di comportamento e società quotate, in Giur. comm., I, 2007, pp. 256 ss.; R. Seni-gaglia, La vincolatività dei codici etici: ossimoro o sineddoche?, cit., pp. 577 ss.; M. Wiehen, Impresa etica e codici etici. L’etica non è un lusso per virtuosi ma una necessità economica, cit., pp. 119 ss. Un penetrante esame di alcuni codici etici, che ha fatto affiorare carenze specifiche, tali da contribuire a una declaratoria giudiziale di inidoneità e inefficacia del modello (in particolare quando il codice etico non ne fa parte, ma costituisce un documento estra-neo), si rintraccia nell’indagine peritale svolta sui modelli organizzativi di alcune note case farmaceutiche italiane e straniere nell’ambito di una vicenda giudiziaria balzata agli onori della cronaca. Sul punto cfr. M. Vizzardi, Prevenzione del rischio-reato e standard di adeguatezza delle cautele: i modelli di organizzazione e di gestione di società farmaceutiche al banco di prova di un’indagine peritale, in Cass. pen., 2010, p. 1253 s. Sui requisiti dell’idoneità e dell’efficacia dei modelli cfr. G. Lunghini, L’idoneità e l’efficace attuazione dei modelli organizzativi ex d. lgs. 231/2001, in C. Monesi (a cura di), Etica d’impresa e punibilità degli enti, Milano, 2005, pp. 251 ss.97. Si noti come, in linea con quanto la prassi ha fatto registrare a riguardo dei modelli organizzativi, non possa escludersi a priori la configurazione di una responsabilità civile degli amministratori per mancata adozione e attuazione del codice etico.98. Cfr. il recente art. 2 del d.lgs. 16 luglio 2012, n. 109 (“Attuazione della direttiva 2009/52/CE che introduce norme minime relative a sanzioni e provve-dimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”), che ha introdotto l’art. 25 duodecies nel d. lgs. 231/2011, rubricato “Impiego di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”. Per un primo commento cfr. L. Masera, Nuove norme contro i datori di lavoro che impiegano immigrati irregolari, in Diritto Penale Contemporaneo, 3 settembre 2012, pp. 1 ss.. 99. Cfr. adesso l’art. 77 della l. 6 novembre 2012, n. 190, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.100. Cfr. l’«Analisi relativa al monitoraggio dei codici etici delle società partecipate dallo Stato», condotta dall’(allora) Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione, Rapporto 9 luglio 2007, rinvenibile sul sito www.anticorruzione.it e in Giornale di diritto amministrativo, 2008, pp. 215, con commento di B. Cimino; nonché, l’Indagine sull’attuazione del d. lgs. 231/2011, condotta da Assonime, maggio 2008, pp. 17 ss.

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in termini di voluminosità, e rispondere solo alle istanze della responsabilità sociale d’impresa; adesso, il peso della responsabilità amministrativa degli enti li ha curvati a scopi preventivi originati da impulsi penalistici che, pur non essendo del tutto estranei alla riflessione CSR, hanno costretto le imprese a una riscrittura dei testi condizionata da obiettivi di politica criminale e di prevenzione delle ricadute d’immagine (e non solo) connesse all’instaurazione di un procedimento penale a carico dell’ente101.

Negli attuali codici etici, senza che sia agevole tracciare una precisa linea di demar-cazione, confluiscono oggi entrambe le preoccupazioni: una istanza generale di etica d’impresa e una “speciale” di impronta penalistica, che ha trovato nelle componenti del modello un avamposto di legalità, interno all’azienda, sintonico con il dettame del ricorso alla sanzione penale come extrema ratio102.

Peraltro, è la stessa CSR che, in qualche modo, può dirsi debitrice del legislatore pena-le, perché obiettivi di tutela degli stakeholder vengono oggi raggiunti grazie all’aumento di accountability che il d. lgs. 231/2001 ha stimolato nell’interesse dell’azienda: il cam-biamento organizzativo indotto dai timori che circondano l’apertura di un “procedi-mento 231” è un’opportunità di crescita e di sviluppo per le imprese che sono state spinte ad accelerare una trasformazione in senso solidaristico dell’agire economico. È proprio Confindustria a ricordare che «l’impegno delle imprese a rispettare valori etici deve essere percepito come mezzo per conseguire migliori prestazioni, generando maggiori profitti e crescita delle possibilità e delle opportunità dell’impresa stessa sul mercato. La “moralizzazione” dell’impresa e il perseguimento dell’“integrità” aziendale rappre-sentano quindi un sicuro momento di valorizzazione delle attività imprenditoriali»103.

L’impatto “etico” della disciplina non ha tardato a farsi sentire nelle prassi di merca-to: sono numerosi gli enti che, conformatisi alle prescrizioni del d. lgs. 231/2001, richie-dono ai propri clienti e fornitori – in sostanza ad altri stakeholder – una dichiarazione di impegno che s’incanala nella duplice direzione di verificare l’adempimento della mede-sima normativa e di reclamare il rispetto di principi e regole riportati nei codici etici104. Tanto la mancata osservanza del d. lgs. 231/2001, sub specie adozione dei modelli, quan-to la mancata accettazione dei principi etici della controparte diventano il presupposto per applicare una sanzione atipica, ratificata dalla prassi di mercato: l’estromissione dal circuito produttivo di quegli enti che non si adoperino per promuovere al loro inter-no la legalità aziendale. In questo modo compiendo un ulteriore passo, di fatto, verso l’obbligatorietà dell’adozione dei codici etici e dei modelli, pena l’esclusione dal gioco concorrenziale105.

101. Peraltro, è opportuno che il codice etico non si focalizzi esclusivamente sui reati, ricalcando le preoccupazioni del legislatore 231, ma mantenga un suo spazio di autonomia che lasci apprezzare come esso faccia parte di un contesto già eticamente orientato in senso CSR. Cfr. G.M. Garegnani, Etica d’impresa e responsabilità da reato, cit., p. 53. 102. Per un’impostazione attenta a un impiego marginale della sanzione penale nel campo della responsabilità degli enti, fondata su una progettazione regolativa pre-penalistica, alla quale ben possono concorrere anche i codici etici, cfr. G. Forti, Uno sguardo ai “piani nobili” del d.lgs. n. 231/2001, cit., p. 7 dal dattiloscritto: «Le previsioni del d.lgs. n. 231 hanno infatti contribuito a re-immergere l’extrema ratio in quel contesto empirico-sociale e, quindi, interdisciplinare, dal quale soltanto esso può derivare le sue chances di concretizzazione applicativa: ciò nel senso che la nuova disciplina ha offerto l’oc-casione per una più attenta comprensione delle dinamiche situazionali e, quindi, organizzative alla base degli illeciti aziendali, premessa indispensabile di quella “regolamentazione responsiva”, da cui soltanto può derivare la possibilità di relegare l’intervento penale (in senso lato) a ultima ed estrema risorsa. La stessa questione relativa alla natura della responsabilità prevista dal decreto potrebbe trovare una risposta più mobile e originale laddove ci si spingesse a immaginare, nell’impianto sanzionatorio del d.lgs. n. 231, quanto meno una duplicità di profili di responsabilità, tali per cui la dimensione propriamente penale, pur identificabile, venga configurata solo al culmine di un percorso di adeguamento regolativo da parte degli enti giocato preliminarmente e pre-valentemente su piani sanzionatori extrapenali».103. Cenni in A. Melchionda, Interferenze di disciplina fra la responsabilità sociale delle imprese e la responsabilità “da reato” degli enti. Il ruolo dei c.d. “codici etici”, cit., p. 230.104. Si consideri inoltre quanto rilevato da S. Sciarelli, Etica e responsabilità sociale nell’impresa, cit., pp. 138 ss., a proposito del carattere della reciproci-tà dell’etica aziendale, destinata a indurre al rispetto dei diritti e degli interessi dei differenti stakeholder, ma altresì a sostenere che il comportamento etico dovrebbe correlativamente estendersi a tutti gli stakeholder, inducendoli a rispettare diritti e interessi dell’impresa.105. Cfr. A. Melchionda, Interferenze di disciplina fra la responsabilità sociale delle imprese e la responsabilità “da reato” degli enti. Il ruolo dei c.d. “codici etici”, cit., p. 234. Le clausole hanno normalmente questo tenore: «Il sottoscritto ... dichiara di aver preso atto delle previsioni contenute nel codice etico di ... facente parte del modello di organizzazione, gestione e controllo ex d. lgs. n. 231/2001, di condividerne i contenuti e di impegnarsi a rispettarlo nello svolgimento dell’attività del presente incarico. L’inosservanza di tale impegno, salvo il fatto che non sia di modesta entità anche in relazione alle possibili

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Il codice etico, soprattutto il “codice etico 231”, assume un ruolo significativo là dove l’impresa tessa relazioni economiche in Paesi diversi da quello d’origine. Si profilano almeno un paio di problematiche. La prima: si pensi a casi nei quali nell’ordinamento straniero vigano discipline la cui inosservanza è foriera di profitti illeciti per l’impresa italiana. È importante che una simile evenienza venga stigmatizzata nel codice etico e non considerata alla stregua di un rischio d’impresa da assumere, in quanto quel me-desimo comportamento non riceve un’analoga censura nell’ordinamento italiano. La seconda, speculare alla prima, e in linea con il dettato dell’art. 4 d. lgs. 231/2001, riguar-da invece l’ipotesi di un ordinamento diverso da quello domestico che ammette attività contrarie ai diritti umani, o comunque configuranti un reato per la legge italiana. Pri-ma ancora di scomodare la legge penale nazionale, il codice etico, purché provvisto di sanzioni, ha la possibilità di manifestare l’autonomia riflessiva dell’ente che, prendendo congedo da valutazioni opportunistiche su discutibili margini di liceità assicurati a con-dotte dannose o pericolose dalla normativa straniera, come minimo dimostra di porsi il problema della sostenibilità etica di talune scelte aziendali in Paesi a basso tasso di civiltà giuridica. Ovviamente, qui si pone la questione della alterazione della concorren-za, falsata dalle aziende che intendano approfittare della situazione di disparità etica106.

Per quanto riguarda il futuro del “codice etico 231”, probabilmente non si è riflettuto a sufficienza sul ruolo che potrebbe assolvere all’interno delle piccole e medie imprese. Nel dibattito scientifico è ormai acclarato che l’onere modellistico per soggetti di piccole dimensioni si traduce, quasi sempre, in un aggravio al quale non corrisponde nessun reale beneficio, nemmeno in termini di prevenzione107. Da qui una proposta: prevedere l’obbligo per le PMI di dotarsi di un modello, da ritenere assolto con l’adozione di un appuntito codice etico. Ovviamente, la verifica di idoneità sul codice etico di una PMI andrà affrontata con il dovuto impegno, ed è ben possibile che, a seconda del tipo di attività compiuta o servizio erogato, possa darsi la necessità di allegare al codice etico uno o più protocolli, come in tema di sicurezza sul lavoro, dove peraltro il contenuto può dirsi in larga parte etero-normato da preformate disposizioni legislative. Ma, fatto ciò, adottato un codice etico che sancisce una corrispondenza tra il “predicato” e il “raz-zolato”, il piccolo/medio imprenditore andrebbe sottratto al peso di inutili impalcature organizzative. Qui il d. lgs. 231/2001 non sembra trovare un solido ancoraggio: in caso di reato, meglio limitarsi a punire il singolo imprenditore/datore di lavoro, secondo i dettami del diritto penale classico e senza scomodare la responsabilità dell’ente, e preve-dere un’aggravante speciale per la violazione del codice etico o per la sua inefficace ado-zione. Il senso dell’aumento di pena starebbe nella stigmatizzazione dell’“imbroglio”, di un codice etico frutto avvelenato di un innocuo make up: verrebbe così colpita una sorta di truffa ai danni della collettività, il tradimento dell’impegno assunto dall’imprendi-tore nei confronti degli stakeholder, con un aggravio di pena da calibrare a seconda che il codice etico non sia stato formalizzato in maniera convincente (il datore di lavoro di un’impresa edile si “dimentica” di cristallizzare il valore della tutela della salute dei la-voratori o lo tratteggia in modo eccessivamente generico), ovvero, ipotesi più frequente, dello scostamento tra i precetti e le condotte tenute.

conseguenze a carico di ..., costituirà grave inadempimento contrattuale e legittimerà ... a risolvere il presente contratto con effetto immediato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1456 cod. civ., fermo restando il risarcimento dei danni eventualmente causati alla società». Le parti prevedono dunque che l’ina-dempimento dell’obbligazione di rispettare il codice sia causa di risoluzione del contratto, risoluzione che consegue alla comunicazione della parte non inadempiente alla controparte di voler esercitare il diritto potestativo conferitole dalla clausola.106. Cenni in G. Visentini, L’etica degli affari è strumento di autoregolamentazione?, cit., p. 836. Quanto al diverso fenomeno del c.d. codice di gruppo, ovvero dell’adozione da parte di società controllate del codice etico adottato dalla società capogruppo, osserva C. Piergallini, Paradigmatica dell’auto-controllo penale, cit., p. 2063, come si debba ponderare «l’effettiva adeguatezza del Codice rispetto all’attività svolta dalla “controllata”. Una simile valuta-zione dovrà necessariamente ispessirsi quando la Capogruppo è situata all’estero: in questo caso, il Codice, forgiato dalla controllante, potrebbe contenere previsioni che, per eccesso o per difetto, non si armonizzano con la legislazione interna della “controllata”».107. Cfr. F. Centonze, La co-regolamentazione della criminalità d’impresa nel d.lgs. n. 231 del 2001, cit., pp. 234 ss.

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David Kreps ha notato che in tutte le organizzazioni vigono regole che esercitano un’autorità impersonale sui membri, inclusi coloro ai quali è attribuita un’autorità di tipo personale108. Esaminando i fattori che concorrono all’edificazione dell’autorità im-personale, Kreps ha elaborato una teoria economica della “cultura d’impresa”, inten-dendo con siffatta espressione un codice di comportamento, un sistema di norme sociali che vincolano i soggetti appartenenti a un’organizzazione109. L’esistenza e la conoscenza comune di un codice di condotta (tutti conoscono il codice; tutti sanno che tutti cono-scono il codice; e così via …) consente ai membri dell’organizzazione di formulare ex ante congetture appropriate su come ogni altro membro si comporterà anche in circo-stanze non previste, perché crea aspettative razionali circa l’adempimento di impegni attraverso azioni conformi110.

Una parte saliente della cultura di impresa è espressa dai codici etici, i quali a) chia-riscono ai partecipanti all’organizzazione attraverso alcuni dispositivi generali i criteri che rendono riconoscibili l’esercizio non abusivo dell’autorità e i limiti entro i quali ciascuno deve mantenere le sue prerogative; b) creano le condizioni perché ciascun par-tecipante calcoli razionalmente che l’osservanza degli obblighi risulta essere la risposta ottimale al comportamento atteso dagli altri nell’ipotesi che anch’essi si avvalgano del codice per giudicare i comportamenti111.

Il codice etico condivide con la cultura d’impresa, come detto, la disponibilità a somministrare indicazioni di condotte reattive a eventi non immediatamente prevedi-bili: più precisamente, delinea una procedura standard di comportamento condizionale non rispetto all’accadere di eventi specifici, ex ante ignoti, ma a classi di casi che con un certo grado di approssimazione possono essere considerati appartenere all’evento al quale si applica un dato principio etico e una data procedura. Il linguaggio etico, non diversamente da quello giuridico, serve così a favorire un’attività di sussunzione, per la quale un accadimento esterno viene ricollegato a una classe di casi moralmente rilevanti alla luce di un dato principio112.

Un topos ricorrente nella discussione intorno all’ammissibilità di una responsabilità penale delle persone giuridiche concerne l’obiezione antropomorfa che nega l’esistenza di un’anima nelle organizzazioni complesse: strutture soulless, le imprese sarebbero on-tologicamente spersonalizzate e, in quanto prive di sensibilità, incapaci di essere (prima ancora che penalmente) eticamente responsabili113.

Di contro, si deve a un saggio seminale di L. Friedman la persuasiva affermazione che la persona giuridica possiede un’anima, una coscienza, da cogliere in seno a una cultura aziendale dalla quale promana un’identità specifica, che si manifesta in modo autonomo in ambito sociale e che si distingue nettamente da quella dei singoli individui che la compongono. Un’identità diversa da impresa a impresa, che rispecchia le con-suetudini, i modi di gestire la corporate governance, gli obiettivi espressi o taciti, e che

108. Cfr. D. Kreps, Corporate Culture and Economic Theory, in J. Alt-K. Shepsle (a cura di), Perspectives on Political Economy, 1990, pp. 30 ss.109. Cfr., oltre a Kreps, H. Simon, Organizations and Markets, in The Journal of economics perspectives, 5, 1991, pp. 25 ss.; J. Tirole, Hierarchies and bure-aucracies, in Journal of law, economics and organization, 2, 1987, pp. 235 ss. In Italia il riferimento imprescindibile è a P. Gagliardi (a cura di), Le imprese come culture: nuove prospettive di analisi organizzativa, Torino, 1995.110. Cfr. L. Sacconi, Può l’impresa fare a meno di un codice morale?, cit., pp. 48 ss.111. Cfr. L. Sacconi, Il vincolo etico e l’economia: l’impresa, in L. Tundo (a cura di), Etica e società di giustizia, Bari, 2001, pp. 142 ss.; U. Lago, I codici etici nella realtà delle imprese, in S. Bertolini-R. Castoldi-U. Lago (a cura di), I codici etici nella gestione aziendale, Milano, 1996, pp. 56 ss.112. Ad esempio, un codice etico può richiedere di salvaguardare il posto di lavoro di un dipendente tutte le volte in cui egli versi in situazione di reale bisogno e non sia responsabile di danni all’impresa: evento condizionante abbastanza ampio da includere una varietà di situazioni che ex ante non saprem-mo specificare. Cfr., in una prospettiva di etica fuzzy, L. Sacconi, Il vincolo etico e l’economia: l’impresa, cit., p. 150 s., che osserva: «un codice non può essere una prescrizione di comportamenti del tutto indipendente da contingenze, poiché in tal caso la condotta risulterebbe talmente rigida da essere quasi certamente catastrofica per l’impresa. In secondo luogo, però, il codice non può essere una strategia di tipo condizionale rispetto a tutti gli eventi possibili, semplicemente perché noi non siamo in grado di prevederli».113. Si noti come la struttura burocratica delle società per azioni e il loro orientamento al c.d. shareholder value possano determinare effetti disumaniz-zanti che propiziano un atteggiamento d’indifferenza degli azionisti verso i valori morali coinvolti nelle scelte da cui derivano i loro guadagni.

10Codici etici e cultura

d’impresa

11Corporate culture e imputazione della

responsabilità agli enti: la sostanza della colpevolezza

organizzativa

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fa leva sulla capacità di comunicare giudizi morali che impegnano la persona giuridica come soggetto unico non scomponibile114.

Il passo successivo è breve: poiché possiedono un’identità definita a cui è riconduci-bile il loro comportamento, gli enti possono soffrire della condanna morale, dello stig-ma, che è un effetto fondamentale ed esclusivo del diritto penale115.

A dar man forte alla rimproverabilità di un’anima “ingombrante” giunge il codice etico, che tra i suoi propositi/esiti annovera quello di creare un’identità collettiva trami-te l’assunzione volontaria di responsabilità da parte dei membri dell’ente116. Interprete e promotore dei valori aziendali, il codice etico contribuisce a costruire un’immagine del gruppo che, una volta innalzata, incide sull’opinione dei membri che ne fanno parte come pure degli stakeholder esterni. Perché il codice etico sostenga una “coscienza di gruppo” occorrerà che sia il più transitivo e il meno autoreferenziale possibile: occorre-rà, in altre parole, che sappia incorporare dosi massicce di relazionalità, ossia il punto di vista dell’altro, degli stakeholder interni ed esterni, ed esprimere la cultura dell’ente, il suo essere e dover essere in rapporto al tipo di attività o servizio praticati.

Si è già detto del rapporto tra codice etico e cultura aziendale: un codice che prescin-da dalla cultura aziendale è destinato all’insuccesso, ma – in caso di crisi e di mutamenti radicali – può anche essere leva di positivi cambiamenti culturali se si dimostra ragio-nevole e persuasivo e se poggia su procedure che ne attualizzano i contenuti117. Orbene, val la pena di domandarsi in che misura la cultura d’impresa concorra alla commissione dell’illecito e all’ascrizione di responsabilità a carico dell’ente118.

A scorrere il d. lgs. 231/2001, la consolidata acquisizione criminologica del potenzia-le delittuoso insito in una cultura aziendale deviante affiora solo indirettamente119. Il le-gislatore italiano, sulla scia di quello statunitense, ha plasmato la responsabilità dell’ente intorno al concetto di preventive fault120, costruendo una “colpevolezza della persona giuridica” «colma di istanze preventive», sicché il rimprovero viene sostanzialmente a dipendere da un difetto di autocontrollo interno121.

114. Cfr. L. Friedman, In Defense of Corporate Criminal Liability, in Harvard J. L. Pub. Pol., 2000, pp. 833 ss. Per un articolato commento cfr. C. De Ma-glie, L’etica e il mercato, cit., pp. 294 ss. 115. Cfr. in G. Forti, Explete poenologi munus novum: dal controllo delle “variabili usurpatrici” alla stimolazione delle “flessibilità” del sistema, in M. Pavarini (a cura di), Silète poenologi in munere alieno! Teoria della pena e scienza penalistica, oggi, Bologna, 2006, pp. 79 ss. 116. Cfr. C. Angelici, Responsabilità sociale dell’impresa, codici etici e autodisciplina, cit., p. 173; A. Voiculescu, Changing Paradigms for Corporate Criminal Responsibility: Lessons for Corporate Social Responsibility, in The New Corporate Accountability, 2007, nt. 5, p. 399; R. Vigo, Diligenza e colpa organizzativa in una fonte privata: I modelli di organizzazione e di gestione, in Le fonti private del diritto commerciale, a cura di V. Di Cataldo e P.M. Sanfilippo, Milano, 2008, pp. 65 ss.117. Mutatis mutandis, riecheggiano le parole di C. Pedrazzi, voce Diritto penale, Dig. Disc. Pen., IV, Torino 1990, p. 68, quando osservava come «una legge penale che affondi le radici nella coscienza sociale può ambire al tempo stesso a plasmarla». In tema cfr. anche M. Romano, Legislazione penale e consenso sociale, in Jus, 1985, pp. 413 ss.; C.E. Paliero, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, pp. 849 ss.118. Il ruolo determinante della cultura d’impresa nella criminogenesi della delittuosità dell’ente è ben scolpito da C. Piergallini, Danno da prodotto e responsabilità penale: profili dommatici e politico-criminali, Milano, 2004, pp. 332 ss. V. anche G. Marinucci, Diritto penale dell’impresa: il futuro è già cominciato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, pp. 1472 ss.; P. Bastia, Implicazioni organizzative e gestionali nella responsabilità amministrativa delle aziende, in F. Palazzo (a cura di), Societas puniri ipotest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, Padova, 2003, p. 35; F. Centonze, La normalità dei disastri tecnologici, Milano, 2004, pp. 202 ss.; C. Pedrazzi, Codici etici e leggi dello Stato, cit., p. 1051; L. Fornari, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Padova, 1997, p. 263. 119. Impossibile non ricordare il legame scoperto da Sutherland tra corporate crime e cultura aziendale e tematizzato nella celebre teoria delle associazioni differenziali attraverso l’enfasi posta sul concetto di apprendimento. Scrive E.H. Sutherland, Il crimine dei colletti bianchi. La versione integrale, a cura di G. Forti, Milano, 1987, p. 305, nota n. 1: «Secondo questa teoria, il comportamento criminale è appreso a contatto con individui che definiscono tale comportamento favorevolmente e in isolamento da altri individui che di esso danno una definizione sfavorevole; nelle condizioni adatte, una certa persona tiene un comportamento criminale solo se le definizioni favorevoli prevalgono su quelle sfavorevoli». Sulla teoria delle associazioni differenziali cfr. G. Forti, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, 2000, pp. 510 ss.120. Qui v. la lucida e approfondita disamina offerta da G. De Simone, Societates e responsabilità da reato. Note dogmatiche e comparatistiche, in M. Bertolino-G. Forti-L. Eusebi (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, III, Napoli, 2011, pp. 1883 ss. Cfr. anche A. Fiorella, La colpa dell’ente per la difettosa organizzazione generale, in F. Compagna (a cura di), Responsabilità individuale e responsabilità degli enti negli infortuni sul lavoro, Napoli, 2012, pp. 267 ss.; N. Pisani, Posizioni di garanzia e colpa di organizzazione nel diritto penale del lavoro, in F. Compagna (a cura di), Responsabilità individuale e responsabilità degli enti negli infortuni sul lavoro, Napoli, 2012, pp. 53 ss. 121. Per questa espressione cfr. A. Alessandri, Riflessioni penalistiche sulla nuova disciplina, in A. Alessandri (a cura di), La responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2002, p. 43. Sul concetto di colpevolezza organizzativa cfr., tra gli altri, F. Giunta, Il reato come rischio d’impresa e la colpevolezza dell’ente collettivo, in AGE, 2, 2009, pp. 243 ss.; E.R. Belfiore, Colpevolezza e rimproverabilità dell’ente ai sensi del d. lgs. 231/2001, in M. Bertolino-G.

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diritto penale contemporaneo 1251/2013

Diversa la scelta del Criminal Code Act australiano del 1995, dove – sia pure senza la sufficiente profondità analitica e prescindendo dai necessari collegamenti con il siste-ma commisurativo/sanzionatorio – la corporate culpability si forgia nella prova: “a) di una cultura interna che ha diretto, incoraggiato, tollerato o indotto a non rispettare le prescrizioni; oppure, b) che la persona giuridica ha omesso di creare e mantenere una cultura d’impresa finalizzata al rispetto delle disposizioni fissate”122.

L’attenzione a una colpevolezza organizzativa di tipo culturale dipende dallo scar-to, criminologicamente accertato, tra regole scritte e non scritte, tra una modellistica interna impeccabile sulla carta e l’insieme di convenzioni, riti e costumi tacitamente riconosciuti che formano il reale ethos della persona giuridica, rimarcandone l’ordine ambientale123.

Ma davvero l’attuale impianto di ascrizione della responsabilità all’ente non accorda spazi per una ri-meditazione della cultura d’impresa nell’articolazione della colpevolez-za organizzativa? In effetti, ferma restando l’opzione principale per la fondazione di un rimprovero su basi preventive (l’ente non si è auto-organizzato a sufficienza per preve-nire il reato), residuano margini di manovra per ridisegnare il concetto di colpevolezza di organizzazione inserendovi anche suggestioni di tipo culturalista.

A ben vedere, la colpevolezza organizzativa serve a tipizzare i criteri di imputazione della responsabilità nelle persone giuridiche, dove «l’agire organizzato, la cultura del gruppo e i processi decisionali rendono disagevole il ricorso ai sedimentati paradigmi del diritto penale classico»124.

Nel nostro ordinamento, la colpevolezza di organizzazione presuppone che l’ente sia concepito alla stregua di un organismo in grado di esprimere una propria visione del mondo, una propria cultura capace (anche) di propiziare comportamenti criminosi125. D’altra parte, deve rimarcarsi come il d. lgs. 231/2001, congedandosi da un’adesione ide-ologica alla teoria dell’identificazione, contempli l’ipotesi di una dissociazione tra l’ente e il soggetto che commette l’illecito, facendo dell’estraneità della persona giuridica al reato il fondamento dell’impossibilità di muovergli un rimprovero.

Orbene, l’incompatibilità tra ente e illecito dipende (anche) dalla possibilità di di-mostrare che la cultura del primo non ha agevolato la commissione del secondo. Se, al contrario, ci si avvede che il reato è il frutto maturo di quella cultura (ipotesi do-losa) o, circostanza più frequente, che la sua realizzazione è stata favorita da una di-sorganizzazione interna che denota la circolazione di una sottocultura d’indifferenza/

Forti-L. Eusebi (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, III, Napoli, 2011, pp. 1743 ss., che muove una critica alla eticizzazione della responsabilità penale delle persone giuridiche, insita nella normativa 231, e ottenuta (anche) attraverso i codici etici e il riferimento alla categoria della “condotta di vita dell’ente”. In giurisprudenza, sia pure senza involgere la responsabilità dell’ente, cfr. in tema di colpa di organizzazione la recente Cass., sez. IV, 1 ottobre 2012, n. 38024, in Dir. pen. proc., p. 1334 s.122. Sulla responsabilità penale delle persone giuridiche nell’ordinamento australiano e sull’incidenza della dimensione culturale cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., pp. 163 ss. Per il div. 12.3 (4), fattori rilevanti per accertare la corporate culture sono: il fatto che (a) sia stato consentito l’esercizio del potere di commettere un reato da parte di un alto dirigente dell’organizzazione; oppure, che (b) l’impiegato, l’agente o il dipendente dell’organizzazio-ne che ha commesso il reato ritenga fondatamente o comunque abbia avuto la percezione ragionevole che un alto dirigente della persona giuridica abbia autorizzato o permesso la commissione del reato”.123. Cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 359 s., che ammonisce il legislatore a non tralasciare questa forma di colpevolezza, onde non ripetere le peripezie giurisprudenziali fatte registrare in tema di “concussione ambientale”. Sui tre livelli della c.d. organizational culture cfr. E.H. Schein, Organiza-tional Culture, in American Psychologist, 45, 1990, pp. 113 ss. In argomento v. anche N.R. Vance-R.J. Stupack, Organizational Culture and the Placement of Pretrial Agencies in the Criminal Justice System, in Just. Sys. Journal, 51, 1997, pp. 54 ss.; S. Sun, Organizational Culture and Its Themes, in International Journal of Business and Management, 3, 12, 2008, pp. 137 ss.; D. Vaughan, The Challenger Launch Decision. Risk Technology, Culture, and Deviance at Nasa, Chicago, 1996; Id., Beyond Macro- and Micro-Levels of Analysis, Organizations, and the Cultural Fix, in N.H. Pontell-G. Geis (a cura di), Interna-tional Handbook of White-Collar and Corporate Crime, New York, 2007, pp. 3 ss. 124. Cfr. C.E. Paliero-C. Piergallini, La colpa di organizzazione, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2006, p. 169.125. Cfr. C.E. Paliero-C. Piergallini, La colpa di organizzazione, cit., p. 173: «la scelta per l’illegalità non si atteggia quasi mai come “occasionale”, ma costituisce l’esito coerente di un’azione organizzata che non ha introiettato e metabolizzato la cultura della legalità, bensì, al contrario, un atteggiamento di normalizzazione della devianza». Peraltro, «così come denota una capacità di commettere reati – e di autolegittimarli attraverso i meccanismi ridefinitori del “secondo codice” tipico della sua peculiare sub-cultura – l’ente può trovare al suo interno le risorse per forgiare dispositivi di autorinforzo, che, agendo proprio sul versante dell’intelaiatura organizzativa, si rivelino idonei a minimizzare il rischio-reato e ad implementare un ciclo virtuoso in direzione del rispetto, continuo, della legalità».

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accondiscendenza al reato (ipotesi colposa), anziché l’affermazione di una cultura im-prontata alla legalità, ecco allora che un esame accurato della cultura d’impresa, senza che si debba dare luogo ad alcun automatismo, può, nei casi più eclatanti (tipo Enron)126, indiziare la responsabilità dell’ente e svolgere un’utile corroborazione di altri elementi di prova, raccolti seguendo lo schema del preventive fault127.

Riguardando l’illecito sotto la lente del codice etico, uno dei principali artefatti cul-turali dell’ente, quest’ultimo risponde se si accerta un conflitto tra culture che vede per-dente la cultura della legalità. La commissione del reato segnala una possibile smentita fattuale del codice etico, la sua confutazione in action, che l’equilibrio tra i vari inte-ressi in gioco è saltato e ha prevalso in modo irragionevole quello egoistico del profitto aziendale (interesse o vantaggio). L’illecito è un potente campanello d’allarme: oltre a configurare una violazione del codice etico, attesta la potenziale incoerenza tra l’im-pegno assunto dalla società nei confronti della comunità dei portatori di interesse e i comportamenti concreti di manager e dipendenti.

La sanzione scatta qualora si raggiunga la prova che il reato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente è stato agevolato da una cultura organizzativa ipocrita, che al codice ufficiale ha sostituito un codice di secondo livello latente e antagonista, frutto di una politica d’impresa deviante, ovvero di un’inerzia che ha impedito la sedimentazio-ne di una cultura della legalità, inibendo una reale interiorizzazione dei valori del codice etico. Ne deriva il venir meno della fiducia dell’ordinamento nella capacità dell’ente di mantenere l’impegno alla legalità, di cooperare alla prevenzione del crimine.

È qui che la prospettiva preventiva della colpevolezza si allarga e ricomprende l’orientamento culturalista. Palesando un difetto di autocontrollo interno, l’ente dà mo-stra di non assolvere a pieno il dovere di auto-organizzarsi per prevenire i reati. Ma questo difetto, tipico di una concezione a sfondo cautelare della colpevolezza, in realtà mette in luce (anche) uno stile di vita dell’ente che si pone in conflitto con le pretese dell’ordinamento. Dallo scontro tra sottocultura deviante e cultura di legalità l’ente può uscire vincitore solo a patto di adottare tangibili misure organizzative sintomatiche di una cultura positiva, che sollecita decisioni e condotte incompatibili, per qualità e nu-mero, con quella causativa dell’illecito128.

Se l’ente non vince la battaglia della legalità interna, se non assicura il dominio di uno stile aziendale compliant, significa che non è riuscito a demolire costumi, routine e rituali sui quali si regge la pratica illecita o la complicità che la circonda, né a esaltare meccanismi di coesione anti-illecito in seno all’organizzazione.

La logica che vede i reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente come l’il-lecito di una persona giuridica che ha perso la partita della legalità – in quanto il com-portamento illecito e l’accondiscendenza siano patrimonio di una sottocultura deviante che prevale sulla cultura incarnata dal codice etico – reca, come conseguenza neces-saria, che l’esclusione della responsabilità dell’ente si fondi sulla conoscenza comune, all’interno e all’esterno dell’organizzazione, che la cultura d’impresa condanna sia l’atto illecito, sia l’indifferenza complice.

126. Per un’analisi della corporate culture di Enron, cfr. S. Rosoff-H.N. Pontell-R. Tillman, Profit Without Honor: White Collar Crime and the Looting of America, New York, 201, pp. 310 ss. V. anche a proposito G. Forti, Il crimine dei colletti bianchi come dislocazione dei confini normativi. “Doppio stan-dard” e “doppio vincolo” nella decisione di delinquere o di blow the whistle, in AA.VV., Impresa e giustizia penale: tra passato e futuro, Milano, 2009, pp. 200 ss.127. Cfr. C.E. Paliero-C. Piergallini, La colpa di organizzazione, cit., p. 181: «L’ente risponde del reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio per una … colpevolezza di organizzazione, proprio perché la scelta per la disorganizzazione ha aumentato il rischio-reato, rivelando un atteggiamento che, più che denotare temerarietà o sconsideratezza …, evoca una condizione di tolleranza, di disinteresse nei confronti del rischio-reato… Alla lunga, la persistenza della disorganizzazione, sul versante del rischio-reato, favorisce il radicamento di una cultura dell’illegalità, di uno stile di vita capace di penetrare in ogni ansa dell’ente, sì che la consumazione di illeciti sarà traducibile in una colpevolezza non soltanto organizzativa, ma anche “d’autore”, recando indelebili tracce di una criminalità di origini “ambientali”».128. A favore del codice etico quale strategia di contrattacco per svellere una sottocultura deviante si pronuncia C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 285. Sul concetto di sottocultura, riguardato in chiave criminologica, cfr. G. Forti, L’immane concretezza, cit., pp. 478 ss. Sulle sottoculture devianti in campo economico cfr. W. Coleman, Toward an Integrated Theory of White-Collar Crime, in AJS, 93, 1987, p. 434.

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Una simile constatazione non è priva di ricadute sul piano dell’idoneità dei modelli organizzativi: essa implica che il modello sia da ritenere idoneo a prevenire l’illecito solo se ha come principale finalità di determinare siffatta conoscenza diffusa.

Rischieranno di non superare il test d’idoneità quei modelli che si limitino a gover-nare le circostanze che offrono occasione al comportamento criminale, mentre saranno da apprezzare modelli capaci di concentrare l’attenzione, con l’obiettivo di rimuoverle, sulle condizioni dalle quali dipende il favor verso comportamenti illeciti posti in atto da soggetti appartenenti all’impresa e a beneficio di questa. Detto altrimenti, l’idoneità del modello sta e cade con la sua capacità di affermare una cultura di impresa che favorisce l’autonomia e il giudizio indipendente di ciascun individuo, affinché questi sia in grado, senza doversi per ciò stesso escludere dall’impresa, di contrastare l’insorgere di com-portamenti illeciti e di opporre resistenza a eventuali pressioni129.

Ne deriva, sul piano giudiziale, l’importanza di valorizzare indici del carattere più o meno deviante o più o meno etico della corporate culture130: occorrerà prestare attenzio-ne, in parte sulla scorta di quanto suggerito dalla lezione delle guidelines statunitensi, al volume di attività dedicate all’informazione e alla formazione su modello organizzativo e codice etico, alle procedure di selezione (in particolare dei manager), al caseload giu-diziario, civile, penale, amministrativo, e quindi alla storia dell’ente, alle certificazioni, all’instaurazione e definizione di procedimenti disciplinari, alla coerenza tra codice eti-co e modello per verificare se le prassi in atto facciano affiorare un codice di secondo livello, allo spazio concesso al dissenso interno (su cui v. infra).

Quanto più l’azienda riuscirà a dimostrare l’efficacia del codice etico e che lo scarto dalle prescrizioni in esso cristallizzate è minimo o inesistente, tanto più vicino sarà il traguardo dell’esonero da responsabilità. Dall’altra parte, bisognerà che l’accusa, senza farsi ingabbiare dalla distorsione cognitiva del “senno di poi”, provi che la cultura non ha impedito o ha agevolato il reato e che il codice etico è soltanto maquillage131.

Al momento, lo si ripete, l’orientamento culturalista trova spiragli angusti nel det-tato normativo: il richiamo, in particolare, è all’art. 11 d. lgs. 231/2001 che, combinato con l’art. 14, contempla tra i criteri di commisurazione delle sanzioni pecuniarie e in-terdittive il “grado di responsabilità dell’ente”. Nel concetto graduabile di responsabilità o corresponsabilità dell’ente, può essere utilmente allocato l’elemento della sua cultura interna. È difficile negare che la corporate culture figuri come uno dei termometri più fedeli della compromissione della persona giuridica con l’illecito del singolo, che aiuta il giudice a comprendere, al termine di un’esaustiva analisi della struttura aziendale (per la quale sono necessarie competenze aziendalistiche e sociologiche), se la violazione contestata è un accadimento isolato oppure si iscrive nel duplice schema della politica d’impresa o di una collusione anomica e inerziale. In entrambi i casi, la disamina dello stile di vita dell’ente, della sua reale identità, non potrà tralasciare una verifica delle suindicate condizioni di efficacia del codice etico, che diventa un indice significativo dell’impegno alla legalità della persona giuridica.

129. Si tratta di un punto tanto decisivo, quanto denso di implicazioni problematiche: una cultura d’impresa che incoraggi l’autonomia e l’indipendenza tra i suoi dipendenti e dirigenti facilita l’accertamento di una dissociazione della responsabilità dell’ente da quella individuale, ma, al contempo, può anche far precipitare il rischio di comportamenti illeciti, propiziati proprio da quella autonomia e indipendenza di cui si avvantaggi, abusandone, il singolo. Non-dimeno, il riscontro di una tale cultura “aperta” dovrebbe rendere il giudice più “disponibile” verso modelli organizzativi che, in nome della fiducia e del rispetto dell’autonomia e indipendenza dell’individuo, presentino una minore capillarità di prescrizioni e controlli; con conseguenti accresciute attenzioni a verificare se il reato sia davvero realizzazione di un rischio non “consentito” dall’esigenza di autonomia. Cfr. per questi spunti G. Forti, Uno sguardo ai “piani nobili” del d.lgs. n. 231/2001, cit., pp. 28 ss. dal dattiloscritto.130. Per un’indagine comparatistica sul rilievo della corporate culture nella imputazione della responsabilità agli enti cfr. il paper presentato all’Onu dalla law firm Allen Arthur Robinson, “Corporate Culture” as a Basis for the Criminal Liability of Corporation, 2008, pp. 1 ss., consultabile all’url http://198.170.85.29/Allens-Arthur-Robinson-Corporate-Culture-paper-for-Ruggie-Feb-2008.pdf. Sempre in tema v. N. Cavanagh, Corporate Criminal Lia-bility: An Assessment of the Models of Fault, in The Journal of Criminal Law, 75, 2011, pp. 414 ss.; P. Sfameni, Idoneità dei modelli organizzativi e sistema di controllo interno, in AGE, 2, 2009, p. 266. C.E. Paliero-C. Piergallini, La colpa di organizzazione, cit., pp. 167 ss.; C. De Maglie, Etica e mercato, cit., pp. 355 ss.131. Sulla distorsione del “senno di poi” o hindsight bias cfr. G. Forti, Il crimine dei colletti bianchi come dislocazione dei confini normativi. “Doppio stan-dard” e “doppio vincolo” nella decisione di delinquere o di blow the whistle, cit., pp. 225 ss.

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De lege ferenda, appare poi promettente la proposta di una riforma che tenga conto degli echi del dato culturale e, sulla scorta dell’esperienza australiana, sicuramente bi-sognosa di una migliore tipizzazione, ricolleghi la colpevolezza organizzativa alla prova «che all’interno della struttura organizzativa esiste una “corporate culture” che ha diret-to, incoraggiato, tollerato o indotto a non rispettare le prescrizioni stabilite»132.

Una rinnovata considerazione della cultura d’impresa quale presupposto della re-sponsabilità dell’ente porta a rivedere la funzionalità di due pilastri del disegno preven-tivo sotteso al d. lgs. 231/2001: l’organismo di vigilanza e il sistema disciplinare.

Al di là dei requisiti soggettivi che si richiedono ai membri che lo compongono, e che ne dovrebbero preservare l’indipendenza e l’autonomia di azione, all’organismo preposto all’attuazione di un modello organizzativo idoneo ai sensi del d. lgs. 231/2001 un acuto economista chiede «l’autorità di sostenere, a nome dell’impresa e come stru-mento della cultura d’impresa, un’etica del dissenso dal comportamento illecito posto eventualmente in atto a beneficio della stessa impresa»133. L’OdV deve cioè poter dire, avendone la forza, «che è estraneo alla cultura d’impresa, e in contrasto con essa, un criterio dell’agire individuale consuetamente considerato essenziale per la vita di un’or-ganizzazione: il criterio secondo cui «Right or wrong, my country» o, con la battuta di un protagonista del film di Costa-Gavras, L’aveu, «è meglio avere torto con il partito che avere ragione contro il partito»134.

La possibilità che l’OdV gridi la distanza tra la violazione del singolo, sia pure per-petrata a vantaggio dell’ente, e la cultura d’impresa, è reale solo in quei contesti in cui, da un lato, l’illecito e la connivenza non appartengono alla storia dell’ente, e, dall’altro, esistono strumenti per rendere credibilmente riconoscibile il valore dell’estraneità. Ne consegue che strutturare l’OdV in linea con una concezione della colpevolezza di stam-po eminentemente preventivo, come l’impianto del d. lgs. 231/2001 attesta, va incontro a una serie di controindicazioni non facilmente superabili. Non è solo la fama di in-quisitori che aleggia intorno ai membri del collegio a preoccupare, con il contorno di dubbi sull’esistenza di una posizione di garanzia a loro carico135. La smentita più dura sta

132. Cfr. G.M. Flick, Le prospettive di modifica del d.lgs. n. 231/2001, in materia di responsabilità amministrativa degli enti: un rimedio peggiore del male?, in Cass. pen., 2010, p. 4040; con riferimento alle vicende Parmalat ed Enron v. G. Forti, Uno sguardo ai “piani nobili” del d.lgs. n. 231/2001, cit., p. 34 dal dattiloscritto. Lamenta l’approssimazione e l’inafferrabilità di concetti come “cultura” e “politica d’impresa” A. Alessandri, Reati colposi e modelli di organizzazione e gestione, in AGE, 2, 2009, p. 347 ss.133. Cfr. M. Grillo, La teoria economica dell’impresa e la responsabilità della persona giuridica: considerazioni in merito ai modelli di organizzazione ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, in AGE, 2, 2009, p. 212. Sull’etica del dissenso v. anche N. Abriani, La responsabilità da reato degli enti: modelli di prevenzione e linee evolutive del diritto societario, in AGE, 2009, 2, p. 200. Sul legame tra codici etici, cultura d’impresa e canali del dissenso, cfr. L.H. Nicholson, Culture Is the Key to Employee Adherence to Corporate Codes of Ethics, in Journal of Business & Technology Law, 3, 2008, p. 454: «corporations can inculcate adherence to their codes of ethics by creating a corporate culture of ethics, inter alia, (i) where employees are actively counseled that increased profitability should be met only through the application of the company’s ethical values; (ii) that visibly and equitably rewards ethical behavior; (iii) that includes analysis of ethical conduct as part of employee performance reviews; (iv) that implements regular and on-going training about the importance of the corporation’s ethical standard and corporate values; (v) that encourages different voices amongst decision-makers, including voices of dissent; (vi) that promotes whistle-blowing protections; and (vii) that provides for an immediate investigation and discipline of unethical behavior complaints». Sugli incentivi al dissenso nel contesto organizzativo cfr. F. Centonze, Controlli societari e responsabilità penale, cit., pp. 464 ss.134. Cfr. M. Grillo, La teoria economica dell’impresa e la responsabilità della persona giuridica, cit., p. 212. Si noti come l’etica del dissenso assuma i tratti di un valore essenziale anche agli occhi del Global Business Standards Codex – GBS Codex, elaborato nel 2005 da alcuni studiosi della Harvard Business School al termine di un esame incrociato delle guidelines più autorevoli emanate in tema di codici etici di corporation internazionali. Orbene, tra i principi delineati dal GBS Codex spicca il responsiveness principle, in forza del quale la persona giuridica deve mostrarsi aperta e reattiva verso gli stimoli critici interni ed esterni, «as a corrective to the indifference that often characterizes bureaucratic systems. It implies a readiness to engage with other parties that may be affected by a company activity». Cfr. G.M. Garegnani, Etica d’impresa e responsabilità da reato, cit., pp. 61 ss. Per un’altra ampia indagine sull’uso dei codici etici (e di autodisciplina) nelle organizzazioni complesse con sede in Regno Unito, Italia, Francia, Germania e Spagna, cfr. S. Webley-S. Basran-A. Hayward-D. Harris D., Corporate Ethics Policies and Programmes. UK and Continental Europe Surveys, 2010, Institute of Business Ethics, London, 2011. 135. Sul tema, con diverse sfumature, ex multis, cfr. S. Giavazzi, Poteri e autonomia dell’organismo di vigilanza: prime certezze, nuove incertezze, in Le Società, 11, 2012, pp. 1217 ss.; N. Abriani-F. Giunta, L’organismo di vigilanza previsto dal d.lgs. 231/2001. Compiti e funzioni, in La responsabilità ammini-strativa delle società e degli enti, 3, 2012, pp. 190 ss.; F. Centonze, Controlli societari e responsabilità penale, cit., pp. 405 ss.; N. Pisani, Controlli societari e responsabilità da reato degli enti, in Banca, borsa e tit. cred., 2008, pp. 100 ss.; A. Nisco, Controlli sul mercato finanziario e responsabilità penale, Bologna, 2009, pp. 382 ss.; F. Sgubbi-V. Manes, Responsabilità degli enti e modelli organizzativi: spunti problematici e questioni applicative, in [email protected], 2009, pp. 228 ss.; R. Alagna, L’organismo di vigilanza nel d. lgs. n. 231 del 2001: funzione e responsabilità, in [email protected], 2008, pp. 571 ss.; D. Fondaroli,

12Il ruolo dell’organismo di vigilanza e le modalità di

reazione all’illecito in un contesto organizzativo

“etico”

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diritto penale contemporaneo 1291/2013

nella impossibilità pratica di esercitare il controllo assegnato, sia perché un tale control-lo, se preso sul serio, assume tratti di pervasività paralizzante, sia perché quand’anche risultasse utile per prevenire taluni illeciti individuali, non riuscirebbe a scongiurare l’illecito della persona giuridica, da intendere come precipitato criminoso di una cultura d’impresa che abbia accettato o favorito pratiche illecite, a onta dei sommari di buoni propositi suggellati nei codici etici.

Una cultura d’impresa avvezza ad approvare tali pratiche, a girare lo sguardo dall’al-tra parte, quando non a battere le mani, sarebbe anzi tentata di attrarre l’OdV nella rete dei propri mores, o comunque a ricercare strategie di convivenza indolore con le funzio-ni preposte ai controlli. L’OdV sconterebbe sulla sua pelle quella verità organizzativa che accredita chances di successo al contrasto della criminalità d’impresa solo se ci si risolve a svellere l’illecito dalla cultura d’impresa, senza dare eccessivo peso alla prevenzione/repressione del singolo episodio delittuoso.

Un OdV non più ossessionato dalla preoccupazione di intercettare l’illecito di un soggetto dell’ente, ma impegnato a promuovere una cultura d’impresa che rifletta valori autentici, e tra questi la legalità profittevole dell’agire economico, potrà portare i membri del collegio a indossare la toga dell’«avvocato del dissenziente»136. Dismesso il mantello dell’inquisizione, costoro non potranno che muoversi come «strumento di equi librio di poteri all’interno dell’impresa»137. Solo la difesa delle ragioni del dissenziente, sintoni-che con una sana cultura aziendale, dimostra seriamente che in quel contesto non è dif-fusa l’accondiscendenza all’illecito e sono anzi praticabili soluzioni dialettiche e pole-miche tra stakeholder all’interno dell’organizzazione138. In questo modo, peraltro, anche il dibattito sull’eventuale posizione di garanzia in capo ai membri dell’OdV parrebbe ridimensionarsi: il dovere di “vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento” andrebbe tradotto, sotto la specie dei flussi informativi, nell’impegnativo compito di ascoltare e comprendere le reali ragioni del dissenso, di ag-ganciarle al codice etico e di rappresentarle in modo convincente agli apicali, chiedendo e ottenendo soluzioni che confermino la salubrità della corporate culture139.

A proposito del destino dei dissenzienti, poi, rendere l’OdV testimone attivo di una cultura d’impresa “etica”, fa sì che anche la tutela dei whistleblower debba essere rivista sotto altra luce. Finora, infatti, l’incentivo alla segnalazione è stato coltivato attraverso la promessa dell’anonimato, ma il retrostante assillo di proteggere segnalanti timorosi con-traddice l’esistenza di una cultura d’impresa compliant: per dirla con le parole di un’illu-stre economista, «se la conoscenza comune che la cultura dell’impresa ingloba un’etica del dissenso dal comportamento illecito è con dizione necessaria per rimuovere la responsabi-lità della persona giuridica, la cartina di tornasole dell’idoneità di qualsiasi modello di or-ganizzazione non può essere altro che l’evidenza che il dissenso non è anonimo. Solo così, infatti, si rende credibile che il dissenso dal comportamento illecito è un “valore” nella cul-tura dell’impresa ed è possibile escludere che com portamenti illeciti, dai quali l’impresa eventualmente tragga vantaggio, si configurino come “illecito della persona giuridica”»140.

Organismo di vigilanza ex art. 6 d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231: profili di responsabilità penale, in F. Dassano-S. Vinciguerra (a cura di), Scritti in memoria di Giuliano Marini, Napoli-Roma, 2010, pp. 309 ss.; O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti. Guida al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, 2005, pp. 108 ss.; F. Giunta, Controlli e controllori nello specchio del diritto penale societario, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2006, pp. 608 ss.; P. Valensise, L’organismo di vigilanza ex d.lgs. n. 231/01: considerazioni su poteri, composizione e responsabilità, in AGE, 2, 2009, pp. 380 ss.; M. La Rosa, Teoria e prassi del controllo “interno” ed “esterno” sull’illecito dell’ente collettivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, pp. 104 ss.; C.E. Paliero, Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societas delinquere (et puniri) potest, in Corr. giur., 2001, pp. 845 ss.136. Sull’etica del dissenso e sui vantaggi dati dalla tolleranza verso il dissenso interno, che rendono plurale e democratico ogni ordinamento, anche quello privato, impossibile non richiamare la lezione di S. Milgram, Obbedienza all’autorità, Torino, 2003; P.G. Zimbardo, L’effetto Lucifero, Milano, 2008; Z. Bauman, Modernità e olocausto, tr. it. di M. Baldini, Bologna, 1992; M. Benasayag-A. del Rey, Elogio del conflitto, tr. it. di F. Leoni, Milano, 2008. 137. M. Grillo, La teoria economica dell’impresa e la responsabilità della persona giuridica, cit., p. 216.138. Esplicitando questa prospettiva, la controversia sulla composizione dell’Organismo di Vigilanza perde però molta della sua rilevanza.139. Ove mancasse tale capacità o regnasse una sospetta connivenza dell’OdV con i vertici dell’ente, non v’è dubbio che il modello sarebbe inidoneo. Sul piano sanzionatorio, dovrebbe bastare la previsione di sanzioni disciplinari e il ricorso alla responsabilità civile.140. M. Grillo, La teoria economica dell’impresa e la responsabilità della persona giuridica, cit., p. 217.

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Breve: il dissenso del segnalante, oltre a essere un valore da codice etico, perché ren-de tangibile l’esistenza di una cultura non connivente, non può essere anonimo, sol che lo si consideri, per l’appunto, una posta attiva di una cultura d’impresa che, nel respin-gere ipotesi di complicità della persona giuridica nell’illecito del singolo, al contempo promuove prese di posizione tese a ribadire la vigenza di valori quali la collaborazione dei dipendenti nella scoperta di pratiche illecite, anche se commesse da soggetti apicali.

L’enfasi sul profilo culturalista si fa sentire anche con riguardo al sistema disciplinare.Si è detto che uno dei principali terreni di prova dell’efficacia del codice etico è quello

dell’enforcement, un ambito che riguarda da vicino l’effettività del codice etico sia sul versante del rispetto quotidiano, praticato attraverso procedure che realizzano i valori aziendali nella fisiologia della vita dell’ente, sia sul fronte della riaffermazione di tali valori in caso di inosservanza: è in asse con le proposizioni della stessa prevenzione generale positiva che l’illecito venga tempestivamente perseguito, pena una bagatelliz-zazione dei precetti e la pericolosa sensazione di una leadership disinteressata ad attua-lizzarli fino in fondo.

Quando il codice etico viene calpestato è dunque importante che gli stakeholder as-sistano prontamente a una reazione, che può assumere tonalità differenti a seconda che il sistema sanzionatorio interno sia stato costruito come appendice di regole complier-centered, caratterizzate dall’amplificare le motivazioni che spingono alla cooperazione e scoraggiare comportamenti opportunistici; oppure, di regole deviant-centered che invece sono applicate in base all’assunto che gli operatori abbiano preferenze date eso-genamente e immutabili, e tali per cui siano più sensibili alle conseguenze delle proprie azioni che al processo che le determina.

Si badi: in questa seconda prospettiva, l’irrogazione di sanzioni di tipo tradizionale rischia di produrre fenomeni distruttivi delle basi collaborative su cui si fonda la condi-visione di una sana corporate culture.

Il link tra cultura d’impresa, fiducia e reazione all’illecito del singolo merita di essere approfondito. Percorrendo l’originale pensiero di Pelligra, ci si avvede che:

a) molti agenti sono motivati ad agire cooperativamente dalla prospettiva della fi-ducia e del riguardo che tale comportamento può suscitare negli altri. Un tipo di regola-mentazione deviant-centered, presupponendo che un atteggiamento cooperativo derivi solo da incentivi di tipo egoistico, compromette l’efficacia di tali motivazioni;

b) sanzioni di tipo tradizionale, costruite sull’assunto di una generalizzata sfiducia, per il quale i soggetti sono di base inaffidabili, segnalano a soggetti potenzialmente affi-dabili che il modello culturale dominante in un dato ambiente è quello opportunistico;

c) si potranno così registrare fenomeni di adverse selection, in virtù dei quali, anche in ambiti di attività connotati da alta intensità ideale, si faranno avanti soggetti meno motivati;

d) potrà inoltre verificarsi, come nel caso del crowding-out, che pure soggetti disposti a cooperare prescindendo da incentivi e sanzioni, messi di fronte a soluzioni deviant-centered, subordinino il comportamento collaborativo alla loro somministrazione;

e) infine, quel che è più grave, potrà manifestarsi una sorta di «solidarietà inversa», che si sviluppa quando uno schema sanzionatorio (specie se ritenuto ingiusto) fa scatta-re la chiusura del gruppo, un fenomeno facilmente degenerante in sentimenti di reticen-za e omertà che rendono assai ostica l’individuazione delle violazioni e l’applicazione di sanzioni efficaci.

Diversamente, una strategia alternativa alla regolamentazione deviant-centered, una strategia, cioè, che sappia a un tempo esaltare le motivazioni intrinseche alla coopera-zione e scoraggiare i comportamenti opportunistici, è quella complier-centered, grazie alla quale tutte le motivazioni degli agenti (intrinseche ed estrinseche) sono considerate e gestite senza mai perdere di vista la complessità della situazione e i possibili effetti controproducenti.

Tre principi stanno alla base di questa strategia: 1) occorre selezionare l’insieme di

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soggetti sui quali ricadranno le sanzioni; 2) le sanzioni dovranno essere congegnate in modo da favorire comportamenti cooperativi piuttosto che punire quelli opportunistici; 3) le sanzioni dovranno considerare le dinamiche fiduciarie; e 4) sia i potenziali coope-ratori sia i possibili opportunisti.

Si tratterà di introdurre, per esempio: a) richiami informali, al primo apparire di violazioni; b) richiami formali se il comportamento deviante dovesse persistere; c) san-zioni più severe se il comportamento deviante dovesse risultare sistematico. Si sfrutta così la possibilità di applicare sanzioni, nei primi due stati a) e b), che sono neutre da un punto di vista motivazionale, cioè non segnalano sfiducia e non sono deresponsabiliz-zanti, senza però precludere all’ente la possibilità di utilizzare sanzioni di tipo tradizio-nale nei casi estremi141.

Al fondo della strategia complier-centered c’è l’idea della fiducia, che fa il paio con quella già richiamata di un’etica transitiva, che non pensa all’impresa come a un’enti-tà autoreferenziale, ma alla stregua di una rete di relazioni interne ed esterne all’ente. Sull’onda della filosofia walzeriana142, si è cosi suggerita la creazione di una c.d. terza sfera di giustizia, che segue la sfera della sanzione classica e quella dell’accordo, e cristal-lizza una relazionalità interpersonale «che si dipana dall’organizzazione e che deve con-sentire, insieme, la continuità dell’organizzazione e la salvezza della relazionalità inter-personale sulla quale quell’organizzazione si fonda». Ecco perché, si aggiunge, «non si può parlare di una sanzione simile a quella che scaturisce da un reato in cui al colpevole non è consentito altro che l’exit. La sanzione esclusiva, l’abbandono dell’organizzazione, la pena. Dalla terza sfera di giustizia scaturisce una giustizia benevolente e riparatrice che ricerca continuamente la ritessitura dell’ordito delle relazioni sociali distrutte dalla sofferenza inflitta»143.

Un’azienda provvista di un codice etico con le condizioni di efficacia sopra descritte, espressione convinta di una cultura rispettosa del valore della legalità, che sa afferrarne la convenienza, e che alimenta la fiducia nei rapporti interpersonali, è anche un’azienda che, di fronte al problema dell’errore, della violazione e dello sbaglio, sa allestire spa-zi di inclusione dell’errante e di reingresso nella cultura tradita dall’illecito144. Da qui una proposta: non limitarsi a prevedere meccanismi riparatori e conciliativi nel siste-ma disciplinare, pur necessari, ma introdurre già nel codice etico l’impegno a riparare le conseguenze di un agire scorretto come valore proprio di una corporate culture ri-costruttiva.

141. Cfr. V. Pelligra, Rispondenza fiduciaria: principi e implicazioni per la progettazione istituzionale, in Stato e Mercato, 2002, p. 349. Quanto all’appa-rato sanzionatorio delineato, sono evidenti le assonanze con il c.d. accountability model, di impianto piramidale, elaborato da B. Fisse-J. Braithwaite, Corporations, Crime and Accountability, Cambridge, 1993, pp. 140 ss, sul quale, in rapporto alle organizzazioni complesse, cfr. G. Forti, Il crimine dei colletti bianchi come dislocazione dei confini normativi. “Doppio standard” e “doppio vincolo” nella decisione di delinquere o di blow the whistle, cit., pp. 225 ss.; e A. Visconti, Teorie della pena e «shame sanctions»: una nuova prospettiva di prevenzione o un caso di atavismo del diritto penale?, cit., pp. 670 ss.142. Cfr. M. Walzer, Sfere di giustizia, tr. it. di G. Rigamonti, Milano, 1987.143. Cfr. G. Sapelli, Etica d’impresa e valori di giustizia, cit., pp. 112. E qui riferimenti a C. Mazzucato, Mediazione e riparazione, in Dignitas, 2 giugno 2003, pp. 61 ss.; J. Braithwaite, Crime, Shame and Reintegration, Cambridge, 1989; A. Ceretti, Mediazione penale e giustizia. Incontrare una norma, in A. Ceretti (a cura di), Scritti in ricordo di Giandomenico Pisapia, III, Milano, 2000, pp. 717 ss. Si pone in linea di continuità con gli assunti della giustizia riparativa la Carta d’integrità del Gruppo Unicredit, dove spiccano le figure interne degli ombusdman ed esterne dei mediatori.144. De lege ferenda cfr. inoltre sul punto G. Forti, Uno sguardo ai “piani nobili” del d.lgs. n. 231/2001, cit., p. 39 s. dal dattiloscritto: «Utile a un riequilibrio della disciplina nella direzione di un “approccio organizzativo” più che meramente “accusatorio”, in coerenza con la modalità di “regolazione responsiva” degli enti di cui si è detto, mi parrebbe altresì l’attribuzione di una maggiore incisività, al percorso riparatorio, che rappresenta peraltro di per sé uno degli aspetti più interessanti e innovativi dell’intero d.lgs. n. 231. Ciò innanzi tutto con una maggiore attenzione a tale percorso sul piano applicativo (ma eventualmente, in prospettiva di riforma, anche con l’introduzione di qualche ritocco alla vigente disciplina dell’art. 12 co. 2), sia con un arricchimento contenutistico dell’impegno dell’ente a una revisione organizzativa (ad es. con un’esplicitazione in sede di art. 12 della clausola di cui all’art. 17 lett. b, relativa alla “eliminazione delle carenze organizzative che hanno determinato il reato”), sia con aumenti dei benefici».