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ISCRA Istituto Modenese di Psicoterapia Sistemica e Relazionale
(Sede di Cesena)
VORREI MA NON VOGLIO!
Lavoro di rete e disturbi del comportamento alimentare
Tesi di Specializzazione in Psicoterapia Sistemica e Relazionale
Relatori: Presentata da: Dott.Fabio Bassoli Dott.ssa Francesca Pepoli Dott. Mauro Mariotti Dott. Francesco Ciotti Allieva didatta: Dott.ssa Silvia Severi
Anno Accademico 2011
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A Donata, grazie per avermi accompagnata in questi anni, nella mia crescita personale e professionale
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INDICE
Introduzione pag.4 Il lavoro con la complessità: uno sguardo sistemico-relazionale pag.7 Il lavoro d’équipe nell’approccio ai disturbi
del comportamento alimentare pag.13
Un caso clinico: “Il pulcino di casa” pag.18 1. Genogramma e ciclo di vita pag.19 2. Tutti insieme appassionatamente pag.22 3. Un blocco evolutivo pag.25 4. Due relazioni importanti pag.28 5. Perché una terapia familiare pag.34 Conclusioni e riflessioni pag.37 Ringraziamenti pag.41 Bibliografia pag.43
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INTRODUZIONE
“La vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale: quello dell’onda del mare che da quando si forma muta ad ogni istante”
(Italo Svevo,“La coscienza di Zeno”)
Nello stesso momento in cui sto scrivendo questi pensieri in me albergano emozioni di ogni
tipo: dalla gioia per la conclusione di un percorso che all’inizio sembrava interminabile (e non
credevo a chi mi diceva che quattro anni sarebbero volati!), alla paura di non sapere cosa mi
aspetta una volta terminata questa esperienza; dall’ansia che ormai ho compreso essere elemento
costituente la mia personalità e che, volente o nolente, mi accompagnerà nei momenti salienti
della mia vita, alla consapevolezza che questi quattro anni vissuti tra alti e bassi abbiano
arricchito la persona che sono a prescindere da ogni teoria ed epistemologia.
Vivere il confronto, lo scontro, la pluralità di punti di vista ed espressioni, le crisi, il senso di
incapacità ed impotenza, la paura di non essere in grado, la volontà di migliorarsi. Potrei
elencare all’infinito tutto ciò che ho provato, vissuto e che mi è passato per la mente in questi
anni di formazione, ma ci tengo a sottolineare che, in ogni caso, tra sentimenti ambivalenti e
confusi, emerge la speranza e la propositività di riuscire a far tesoro di tutto questo per poter
diventare una terapeuta. Sì, perché nonostante alla fine di questo percorso ufficialmente si
diventi psicoterapeuti, penso che per esserlo e definirsi veramente tali bisognerà attendere
ancora anni, in cui le esperienze che mi avranno arricchita mi permetteranno una sempre
maggiore flessibilità mentale e un allenamento alla lettura circolare delle situazioni cliniche e di
vita.
Ciò che mi porto a casa con maggiore entusiasmo è il pensiero “cecchiniano” sui concetti di
curiosità e di pregiudizio. Penso che nulla in questi anni mi abbia illuminata come la lettura del
pensiero di questo nostro maestro, proprio perché mi ha messo molto in discussione.
Ritengo che uno degli insegnamenti maggiori di questi anni si racchiuda nelle sue parole e nel
frattempo mi viene in mente l’esperienza dell’outdoor in barca a vela, vissuta con il gruppo di
formazione qualche anno fa. Questa esperienza mi ha fatto riflettere molto, attraverso il
linguaggio della metafora, rispetto alla terapia come sfida continua nei confronti di noi stessi e
delle nostre premesse, di un lavoro intenso e condiviso con l’equipaggio (che può essere la
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famiglia, l’individuo o la rete) che viene determinato da varie condizioni che ci spingono a
dubitare continuamente e ad essere curiosi di cercare storie, ipotesi e rotte alternative.
Questa è una metafora (come già ho espresso in passato in una mia tesina) che mi ha permesso
di fare molte connessioni, un’esperienza che ha iniziato a espugnare l’idea che avevo di non
avere pregiudizi e mi ha permesso di mettermi in discussione.
A proposito della metafora del mare e della barca a vela mi viene anche in mente una situazione
vissuta in ambito clinico. Una ragazza, che partecipa ad un gruppo che ho condotto per ragazze/i
con DCA, alla domanda di riflettere su cosa piace a loro della propria parte di sé senza il
sintomo, ha detto: “non so perché, ma mi viene in mente la vela, il mare, è un momento della
mia vita in cui mi stupisco di me e delle mie capacità, un momento in cui ho modo di riflettere,
pensare e mettermi in contatto con i miei limiti…”
Riflettere sui propri limiti pregiudiziali, sul come vediamo la realtà attraverso le nostre lenti, sul
come le situazioni vengano lette in base ai nostri vissuti, al bagaglio culturale che ognuno di noi
si porta dietro dal momento in cui nasce, non è facile, ma, come diceva Cecchin (1997), è
impossibile non utilizzare i pregiudizi personali nella terapia; egli a questo proposito affermava
che il migliore utilizzo dei pregiudizi fosse l’esserne acutamente consapevoli, piuttosto che
impegnarsi in un’inutile tentativo di scrollarseli di dosso.
Sempre Cecchin spiegava quanto sia importante da parte del terapeuta prendere coscienza dei
propri pregiudizi, assumersene la responsabilità e utilizzarli in modo costruttivo all’interno della
terapia, definendo questa capacità, come un atteggiamento di irriverenza e coraggio e io
aggiungerei anche curiosità.
Bisogna ammettere l’estrema difficoltà nel mantenere un atteggiamento del genere: in questi
anni in cui ho visto (soprattutto come tirocinante) famiglie, genitori e figli me ne sono resa
sempre più conto, infatti più ho cercato di auto-osservarmi, più mi sono convinta
dell’impossibilità di guardare le situazioni in modo “pulito” da qualsiasi tipo di preconcetto, ma
soprattutto mi sono resa conto anche dell’importanza dell’auto-osservazione e della riflessione
su se stessi che comporta quella presa di consapevolezza responsabile che può permettere di
mantenere una giusta distanza.
Ho deciso di sviluppare la tesi del mio ultimo anno di specializzazione su un caso clinico che,
nelle prime parti di valutazione, ho seguito e condotto insieme ad una collega psicoterapeuta
all’interno di un servizio di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, luogo che, per
questi quattro anni, ho frequentato come tirocinante.
Ho ritenuto potesse essere un caso interessante su cui fare delle riflessioni anche perché si
inserisce all’interno del contesto pubblico e quindi aiuta a fare considerazioni su come si può
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lavorare in un’ottica sistemica all’interno del Servizio, con tutti i limiti e i pregi che ne possono
derivare; inoltre è stato un caso che, forse anche visto l’avvicinarsi della fine di questi quattro
anni e di conseguenza il potenziarsi di tutti i sentimenti di incertezza e dubbio che ne
conseguono, ha messo molto in discussione me come professionista, e mi ha spinto ad auto-
osservarmi e a mettermi alla prova. Per questo ringrazio anche la collega che mi ha
accompagnato in questo percorso, sostenendomi e indirizzandomi, dandomi spunti e stimoli,
aiutandomi ad un allenamento alla circolarità degli eventi all’interno di un contesto clinico
“reale”.
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IL LAVORO CON LA COMPLESSITA’:
UNO SGUARDO SISTEMICO - RELAZIONALE
“Il massimo segno d’intelligenza
è il dubbio”
François Mauriac
È opportuno, secondo me, introdurre alcuni concetti chiave dell’approccio sistemico, che ne
definiscono il contesto in cui si inserisce e sviluppa, e il metodo di lavoro su come si osservano
le diverse realtà e su come gli operatori debbano porsi nei confronti delle situazioni.
Non si può non parlare dell’importanza che ha avuto, per lo sviluppo del pensiero sistemico nel
campo medico, il modello biopsicosociale alla malattia.
Howard Brody fu il primo ad aprire la strada, nel 1973, all’applicazione del pensiero sistemico
alla teoria ed alla pratica in campo medico. In seguito, nel 1977, George Engel sfidò la medicina
e la psichiatria ad abbandonare il modello bio-medico ed adottare il nuovo orientamento
sistemico. Descrisse un modello di malattia e patologia basato sulla teoria generale dei sistemi
che denominò “biopsicosociale”. Secondo questo modello la salute di ogni individuo,
l’insorgenza di malattie, lo sviluppo e la prognosi di queste, sono legate all’interazione degli
aspetti biologici, psicologici e sociali.
Facendo riferimento alla “Teoria dei sistemi” (Von Bertalanffy, 1968), egli considera il corpo
umano come una “configurazione di sistemi” collegati a sistemi esterni più ampi. Tutti questi
sottosistemi possiedono specifiche proprietà comuni a tutti i sistemi viventi (confini, gerarchia,
etc.) e sono impegnati nei processi di sviluppo ed evoluzione e ogni cambiamento che avvenga
all’interno di un sottosistema produce ripercussioni su tutti gli altri.
“Ogni evento che osserviamo ha componenti culturali, biologiche, psicologiche e sociali. Ha
senso stabilirne la percentuale? Assolutamente no. Ogni situazione è al 100% culturale,
biologica, psicologica e sociale” (Telfener, 2010).
Emerge così l’interdipendenza fra i diversi fattori e sottosistemi: ogni cambiamento all’interno
dell’organizzazione di un sottosistema, può condurre a conseguenze positive che determinano
un’ulteriore evoluzione del sistema stesso o negative che determinano una situazione di stasi e/o
di sviluppo di una malattia.
A partire da questi concetti di relazione e interdipendenza non è più pensabile, come fa il
modello bio-medico, di individuare una causa specifica per un disturbo, in modo lineare e
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deterministico. Questo comporta la necessità di lavorare sull’origine multifattoriale delle
malattie e di conseguenza anche a riflettere sulla multifattorialità della salute e del benessere.
Si sottolinea così il concetto di circolarità. La possibilità, quindi, di pensare in termini di
relazioni e processi e in termini di unità dinamiche (Telfener, 2010).
Passando dal campo medico a quello delle relazioni sociali, anche Lewin (1972), nello studio
sui gruppi, esprimeva il concetto si interdipendenza dicendo che i cambiamenti di stato di una
parte del gruppo influenza lo stato di tutte le altre parti.
Sempre Telfener cita il pensiero di Fruggeri (2005) che identifica la circolarità come il processo
attraverso cui gli individui interagiscono e si influenzano reciprocamente rispetto alle
motivazioni, credenze, esperienze e questo di conseguenza porta a dare al contesto valore, in
quanto luogo, reale o figurato, che dà significato ad ogni comunicazione ed azione, nell’ottica
della seconda cibernetica, in cui non si divide l’osservatore dall’osservato e non si separa il
sistema dall’ambiente.
Ciò che caratterizza il modello sistemico, come dice Telfener (2010), è la centralità della
comunicazione, l’utilizzo della relazione come modalità per arrivare alla conoscenza, il contesto
in cui sono inserite le situazione che dà significazione agli eventi stessi, oltre che la “polifonia”
intesa come ascolto/presenza di più voci, più posizioni.
Proprio riflettendo sul concetto di polifonia di voci e, aggiungerei, di professionalità, per ciò che
riguarda lo sviluppo e l’evoluzione dell’approccio biopsicosociale, si è assistito sicuramente ad
un ampliamento del campo di osservazione e di intervento, tale per cui si renderebbe auspicabile
e necessaria la condivisione e la collaborazione tra le diverse competenze.
Mariotti (2008) sottolinea che il modello biopsicosociale enfatizza la comprensione del paziente
all’interno del suo contesto e con queste premesse si prefigge di integrare le cure biomediche e
psicosociali trasformando il paziente in un soggetto unico e attivo. Evidenzia anche come,
secondo quest’ottica, oggi la cura della malattia sia delegata a diverse professionalità e
specializzazioni: il medico si occupa della salute fisica, della salute mentale si occupano lo
psichiatra e lo psicologo, il sistema dei parenti e degli amici fornisce l’accoglimento e
contenimento della situazione di sofferenza fisica o psichica di un individuo in una determinata
fase del proprio ciclo di vita. E proprio poiché il compito di aiutare l’individuo nel suo processo
di cura è attribuito a diverse professioni, “uno degli obiettivi fondamentali della cura consiste
nel creare “reti intelligenti” di operatori, in grado di lavorare in gruppo potenziandosi
vicendevolmente con interazioni costruttive”.
Emerge quindi la priorità di costruire una rete di cura intesa come gruppo di lavoro che
comprende tutte le persone chiave che ruotano e intervengono sul sistema: il paziente designato,
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i familiari, i suoi contesti di vita e i professionisti come il medico di base, lo psichiatra, lo
psicoterapeuta, l’internista, etc…
Come dice Saba (2005): “la cura si affida alla interazione umana per poter essere efficace. Gli
operatori e le famiglie devono sviluppare delle regole di comunicazione, stabilire un
programma condiviso di cura, stabilire delle priorità nelle problematiche sanitarie, decidere
come dare voce alle loro opinioni e come gestire il disaccordo ed infine chiarire cosa ci si
aspetta gli uni dagli altri per quanto riguarda i ruoli e responsabilità nel processo di cura”.
In questa ottica si crea l’opportunità non solo di creare un équipe di lavoro tra professionisti, ma
anche di coinvolgere paziente e familiari nella co-costruzione del processo di cura, in modo
attivo.
Gli operatori e il “sistema malato” si relazionano in continuazione e attraverso i propri
pregiudizi, motivazioni e aspettative modificando la relazione; gli operatori-osservatori non
osservano distaccati il sistema inducendone dei cambiamenti in modo “istruttivo” dal di fuori,
ma sono partecipi e costruttori della realtà vissuta, così come il paziente e la famiglia.
Tale collaborazione comporta una flessibilità e un’apertura mentale, soprattutto da parte degli
operatori che devono mettersi in continua discussione e intervenire con l’idea di base che il
proprio intervento può essere utile solo in un contesto di condivisione; ciò significa che, pur
rimanendo ognuno coerente al proprio ruolo e alla propria professionalità, lo psicologo debba
conoscere gli aspetti biologici delle malattie, il medico debba comprendere l’importanza del
sistema famiglia e delle componenti relazionali che ne influenzano gli sviluppi positivi e
negativi.
L’obiettivo del lavorare insieme consiste nel cercare di scoprire i punti di forza e le risorse che
possano permettere al paziente e alla famiglia di ricostruire un senso di potere, controllo e
competenza sul disturbo.
Ritornando alla metafora della barca che un po’ mi ha accompagnato in questi anni, penso
proprio al lavoro di rete, all’importanza che ha per il lavoro con le famiglie e le problematiche
psicologiche e relazionali; penso a come all’interno della barca l’equipaggio sia un gruppo di
lavoro che deve comunicare, sincronizzarsi, ascoltarsi per poter raggiungere l’obiettivo comune,
il raggiungimento della meta; e parallelamente penso a quanto sia importante all’interno dei
servizi, sui casi complessi, il lavoro attraverso la rete e l’équipe.
Se in un equipaggio ogni membro facesse il proprio lavoro senza considerare gli altri, la
navigazione non avverrebbe, probabilmente si rimarrebbe in una situazione di stallo, fermi in
mezzo al mare, incapaci di cogliere le opportunità e di utilizzare le varie risorse disponibili
(come il vento, le correnti, le vele più adatte…) per procedere in maniera fluida.
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Allo stesso modo se ogni operatore che lavori sul caso non comunicasse, non condividesse e
non si integrasse con gli altri, il lavoro di quegli stessi operatori risulterebbe inutile, in quanto
non considererebbe la complessità delle situazioni e la conseguente circolarità, ma sarebbe
soltanto riduttivo e lineare.
Siccome nell’ottica sistemica, come ci è stato detto dal primo anno di corso, è il più complesso
che spiega il più semplice, è giusto gestire la complessità mantenendola a un buon livello.
Umberta Telfener (2010), nell’ultimo seminario in cui ha presentato il suo libro, ha ben espresso
questi concetti.
L’autrice parla dell’ottica sistemica come di uno strumento per trattare e gestire la complessità.
Spiega che per rispettare questa complessità, e quindi la natura del contesto e delle situazioni,
non si devono frammentare gli oggetti di studio e osservazione, ma bisogna considerarli in
relazione fra loro, analizzandoli riflettendo sulla loro interdipendenza.
La relazione è ovunque e dà significato agli eventi; l’individuo non viene mai considerato come
un’isola a se stante ma come parte integrante di una rete più ampia e complessa di individui e
contesti: familiari, colleghi, amici, medici ect…
Conseguentemente, come ricorda Telfener (2010) “neppure l’operatore è solo, in quanto è
naturalmente connesso al sistema che organizza le sue attività, a quello che ha richiesto il suo
aiuto e al gruppo di colleghi e ad altri che fanno parte del sistema determinato dal problema”.
All’interno di un sistema organizzativo complesso ci sono differenze, e siccome come diceva
Bateson (1977) dalle differenze nascono la conoscenza e l’apprendimento, è utile a livello
pratico, sul campo, poter sfruttare queste differenti voci e professionalità per ottenere una
complessità e una lettura che mette insieme più punteggiature degli eventi che ne rispettino la
natura complessa.
Telfener (2010) sottolinea l’importanza di realizzare un “cervello cibernetico” che consiste nella
possibilità di unire più teste e più posizioni discutendo in maniera dialettica sul problema,
sfruttando ed evidenziando le differenze tra i componenti e costruendo una visione più
complessa, variegata, interconnessa e profonda. Si tratta della costituzione di una mente
collettiva “che diventa il contesto e il testimone per la crescita di ciascun membro, nel dominio
di spiegazioni multiple”.
All’interno della mente collettiva rientrano gli utenti, i committenti, gli operatori e le credenze,
le premesse, i valori, le definizioni che ogni attore si porta dietro.
Tornando alla complessità delle situazioni, all’importanza di rispettare tale complessità
favorendo l’interconnessione tra i diversi sistemi che ruotano intorno al problema, sicuramente
il lavoro di rete può rendere possibile il coordinamento delle azioni di ciascun attore, in modo
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che gli interventi di uno non vadano ad inficiare quelli di un altro, in modo da costruire un
progetto di intervento complesso che sia evolutivo invece che ridursi ad una sommatoria dei
singoli interventi dei singoli professionisti.
In quest’ottica gli operatori si ritrovano attivamente a dover collaborare e condividere il proprio
lavoro con quello di altro colleghi che magari operano anche in altri Servizi; quindi ciascun
professionista deve lavorare considerando i colleghi della propria équipe, in cui vengono prese
delle decisioni e delle linee di condotta condivise, e i professionisti del territorio che sono
implicati nel caso in esame, oltre a considerare il sistema politico-amministrativo (la provincia,
la regione, la AUSL…).
“ Se la rete è una serie di collegamenti dove ogni operatore rappresenta un nodo, un intervento
di rete diventa una trama che vede ogni volta persone differenti coinvolte. Non possiamo quindi
lavorare senza avere un’interconnessione tra Servizi e operatori…è mia esperienza che i Servizi
utilizzino l’alibi dell’urgenza per non cercare il coordinamento che, benché faticoso, risulta
indispensabile per non costruire la cronicità” (Telfener, 2010).
Un rapporto faticoso tra due Servizi che lavorano sullo stesso caso può ripercuotersi sulla
difficoltà nel rapporto tra gli operatori dei Servizi stessi e gli utenti, i quali possono vedere
ripetute le modalità di relazione disfunzionale che vivono all’interno del sistema familiare e che
quindi si perpetuano senza creare un movimento evolutivo, ma favorendo la cronicità.
Purtroppo nella realtà odierna, sottolinea Mariotti (2008), nel campo della salute prevale ancora
il modello lineare biomedico, in cui il processo di cura viene delegato all’invio dei medici a
colleghi sempre più specializzati, rischiando di perdere la complessità della situazione,
riducendola e sminuzzandola a piccoli pezzetti che vengono separatamente analizzati da persone
diverse.
Mariotti prosegue dicendo che pensare al modello biopsicosociale prevede e richiede la
presenza di organizzazioni e pratiche a supporto del modello.
Emerge ancora la difficoltà, nonostante gli sforzi messi in atto da psicoterapeuti, psicologi,
terapeuti e medici alternativi, di messa in opera di questa realtà. Sicuramente all’interno dei
servizi “oggi si moltiplicano sempre più le esperienze di messa a rete delle varie risorse, di
coordinamento operativo, di cooperative di medici, di protocolli di intesa, di Leggi delle
Regioni e dello Stato che incitano alla messa in atto di questi modelli”.
Anche a livello di formazione universitaria per il medico è previsto l’insegnamento dei
presupposti psicosociali, così come in alcune scuole di psicoterapia vi è l’apertura e la
condivisione delle conoscenze in ambito psicosociale anche a medici e operatori che lavorano
nel campo della salute (non solo mentale).
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Ma ciò che sottolinea Mariotti è che mancano ancora le procedure e la pratica a livello delle
organizzazioni, mancano ancora i mattoni di base, le fondamenta che diano stabilità e forza al
modello.
Nonostante gli sforzi e alcune realtà, l’organizzazione dei Servizi non sempre favorisce una
visione olistica e multidisciplinare ma, come già accennato sopra, è spesso caratterizzata da una
logica riduttivista che amplifica la frammentazione degli interventi e rende difficile la possibilità
di creare una “rete intelligente” di lavoro sul caso.
Spesso accade in questi contesti che le famiglie, l’individuo, il paziente si sentano poco
ascoltati, frammentati e in confusione; ciò non fa altro che aumentare la possibilità di
cronicizzazione di una situazione patologica.
L’idea che dovrebbe stare alla base del progetto di lavoro è che bisogna passare da un ruolo in
cui il professionista e il Servizio sa tutto e si pone in maniera istruttiva nei confronti delle
famiglie, che devono passivamente subire le decisioni, ad una posizione di dubbio e non sapere,
in cui vengono esplicitate le difficoltà e in cui non si hanno risposte giuste al problema, ma si
hanno delle ipotesi che vanno condivise attraverso la conversazione riflessiva; ciò può aiutare i
sistemi coinvolti a negoziare le soluzioni tra le tante possibili e aiutare il sistema famiglia ad
assumere un significato diverso nel qui ed ora della sua storia, favorendo processi trasformativi
collettivi.
Il passo più importante secondo me è quello di porsi in un’ottica diversa di osservazione:
guardare tutto come se ogni soluzione, ogni ipotesi pensata andasse continuamente valutata e
messa in dubbio.
Quello che diceva Cecchin rispetto alla curiosità si lega a questo: perdendo l’interesse, la
curiosità per la situazione che ci viene posta in esame, la voglia di capire e riflettere sulle
interazioni e relazioni tra i sistemi coinvolti, può portare i professionisti ad “incancrenire” la
situazione, portandola ad una condizione di stallo e cronicità che ne caratterizzano la patologia.
E così facendo non si possono creare nuove storie possibili e processi trasformativi evolutivi che
possano portare la famiglia, il paziente designato, a rivedersi e rinarrarsi in modo diverso.
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IL LAVORO D’EQUIPE NELL’APPROCCIO AI DISTURBI DEL
COMPORTAMENTO ALIMENTARE
“Avevo bisogno di un punto fisso nella mia vita. So che per lei è assurdo, ma sentire le mie ossa, il loro contatto sotto la pelle, mi sembrava l’unica cosa di cui potevo fidarmi” (Ostuzzi e Luxardi, 2009)
Ricollegandomi alle tematiche esposte nel capitolo precedente, vorrei analizzare un caso clinico,
evidenziando in prima battuta il contesto e le modalità di lavoro che definiscono il trattamento
ai disturbi del comportamento alimentare, facendo riferimento proprio ad una realtà esistente sul
nostro territorio che ho potuto conoscere direttamente in quanto vi ho potuto fare il tirocinio di
specializzazione in questi quattro anni.
L’intento in questo elaborato è, oltre a quello di mettere in evidenza il tentativo di porre le basi
per un lavoro che si fondi sulla rete e l’équipe, prendere in esame successivamente un caso che
ho seguito direttamente e fare delle riflessioni cliniche, ponendo l’attenzione sull’utilizzo degli
strumenti sistemici anche all’interno di un primo momento di consulenza e valutazione.
L’impegno di questi anni all’interno del servizio di Neuropsichiatria Infantile di Lugo è stato
soprattutto nell’Ambulatorio della Neuropsichiatria rivolto all’accoglienza e valutazione dei
disturbi del comportamento alimentare (Ambulatorio DCA).
L’Ambulatorio DCA della Neuropsichiatria è nato come servizio specifico sulla scia del già
esistente Ambulatorio Multidisciplinare per i Disturbi del Comportamento Alimentare che si
rivolge essenzialmente ad una fascia di utenti adulti, che va dai 17 anni in su; penso che questo
sia stato un passo dovuto alla sempre più crescente necessità di affrontare in maniera adeguata
la richiesta di aiuto proveniente da fasce di età sempre più basse, cui i professionisti
specializzati a lavorare con persone adulte, non potevano rispondere in maniera adeguata.
L’Ambulatorio DCA si organizza intorno ad un referente medico (un neuropsichiatra infantile) e
ad uno psicologo specializzato nel affrontare le problematiche dei DCA.
I due ambulatori (quello rivolto agli adulti e quello rivolto alle fasce di età inferiori) lavorano in
un’ottica di rete e coordinamento, grazie alla costituzione di un’équipe che a cadenza mensile si
incontra, insieme alla dietologia e pediatria, per discutere dei casi.
L’obiettivo principale dell’ambulatorio è quello, inizialmente, di fare una valutazione della
situazione portata in esame attraverso colloqui e somministrazione di test specifici e di fornire
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una diagnosi; successivamente l’iter è quello di inviare sul territorio a professionisti designati le
varie situazioni per poter effettuare i trattamenti che si ritengono più indicati.
In alcune situazioni (soprattutto quando si allungano i tempi di attesa per la presa in carico del
trattamento) sono previsti anche incontri definiti di “controllo” che permettono alla famiglia di
non sentirsi abbandonata (nei casi in cui ci si trova di fronte a famiglie ansiose e “disperate” che
non hanno gli strumenti per affrontare e gestire la figlia o il figlio) o di mantenerla agganciata
(per quelle situazioni in cui sembra esserci un disimpegno da parte dei genitori e una mancanza
di presa di consapevolezza della gravità della condizione).
Secondo la letteratura più recente e le linee guida, nel campo specifico dei disturbi della
condotta alimentare, in generale, la strategia di intervento più adatta è, appunto, quella che si
rifà all’approccio biopsicosociale (Engel, 1980), multifattoriale, (Garfinkel e Garner, 1982) e
al lavoro di rete (Rovera e al., 1984) per cui, come accennato nelle pagine precedenti,
all’intreccio di fattori causali biologici, psicologici e sociofamiliari dovrebbe corrispondere
una strategia terapeutica che articoli e coordini in modo non contraddittorio i trattamenti
nutrizionistici, internistici, psicofarmacologici e psicoterapeutici.
La caratteristica principale dell’intervento sui DCA, quindi, è la personalizzazione della
strategia terapeutica, considerata l’unicità dell’individuo, l’intervento è sull’individuo e i suoi
sistemi di vita. Un tipo di approccio del genere è un tentativo di rispondere alla complessità e
multifattorialità della patologia del comportamento alimentare.
Ciò determina la realizzazione di un progetto terapeutico che si sviluppi in rete, creando
un’équipe di lavoro in cui sono coinvolte più professionalità. Tale progetto, quindi, dovrebbe
prevedere frequenti raccordi di coordinamento tra i professionisti coinvolti: psicoterapia
individuale spesso associata a psicofarmacoterapia, interventi del medico nutrizionista,
supporto psicoterapeutico alla famiglia (condotto da un secondo psicoterapeuta), eventuali
ricoveri in ambiente ospedaliero o interventi in day hospital.
La strategia di intervento nei DCA prevede diverse fasi e dipende dal gradi di denutrizione e
di compromissione dello stile alimentare e dalla collaborazione tra paziente, famiglia e
terapeuti. Essa prevede un andamento a fasi di cura con alternanza di interventi supportivi,
volti ad arrestare le situazioni acute di emergenza e a intraprendere una terapia farmacologica
e nutrizionale.
Questa modalità di intervenire sulla patologia si basa proprio sul modello biopsicosociale che
si propone di progettare e attuare interventi mirati e “ad personam”, cioè tarati sulla misura
unica ed irripetibile di ogni singolo individuo e del suo sistema familiare, sulle sue risorse e
potenzialità.
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Per poter realizzare dei progetti di intervento secondo questo tipo di modello diventa quindi
fondamentale il lavoro di rete, di cui si è sopracitato, e il lavoro di coordinamento tra
operatori di diverse discipline che può avvenire solo attraverso un lavoro d’équipe.
Così come definito dalle linee guida, nella realtà di cui personalmente ho potuto avere
esperienza, il lavoro sul caso è svolto in coordinamento tra la neuropsichiatria (psicologo e
neuropsichiatra), la dietologia (dietista e dietologo) e la pediatria.
Il lavoro di coordinamento e condivisione avviene attraverso comunicazioni telefoniche e
mail, attraverso relazioni e riunioni a cadenza mensile in cui le diverse figure si incontrano e
si confrontano sulle difficoltà, sui miglioramenti, sulle possibili proposte di trattamento.
Non è sicuramente un lavoro semplice: le difficoltà possono provenire da più versanti, come
per esempio l’aspetto organizzativo o la difficoltà di mantenere il proprio ruolo senza
invadere quello dell’altro. Ma pur con tante difficoltà, nel momento in cui il lavoro d’équipe
riesce a divenire fluido e strutturato, non si possono non ritrovare i vantaggi che la “mente
collettiva” comporta.
Come anche Boscolo afferma (Boscolo e Bertrando, 1996), la “mente collettiva” che si
costituisce durante un lavoro di gruppo permette di elaborare il lavoro teorico e clinico
connettendoli secondo una logica circolare e quindi generativa di possibili cambiamenti e
soluzioni. In questo caso Boscolo si riferiva più specificatamente al gruppo di formazione, ma
sicuramente queste suggestioni si possono trasporre all’idea di lavoro di gruppo più ampia,
comprendendo quindi anche il lavoro d’équipe.
Telfener (2010) sottolinea che l’équipe rappresenta una forma di cervello cibernetico:
“ intendo per équipe un sistema con storia che evolve e cresce, sceglie e si forma
costantemente, più teste e più professionalità che si radunano e ragionano insieme, ciascuna
apportando le proprie competenze nel gruppo paritario, che non vuol dire mansioni uguali,
ruoli, posizioni e punti di vista…..vanno rispettate le differenze di carattere e di competenza,
al fine di promuovere incontri tra operatori in cui si discutono i progetti e i casi, le
situazioni, si crea apprendimento, si commenta la prassi reciproca e si prendono decisioni
circa il da farsi”.
Il lavoro di gruppo permette di analizzare le situazioni nella loro natura circolare, in quanto le
forze interagenti producono un pensiero interconnesso e complesso, si costituisce così una
progettualità condivisa all’interno di un contesto in cui le incertezze prendono il posto delle
certezze di ogni singolo individuo.
Soprattutto con i ragazzini e le ragazzine più piccole (la fascia di età di cui si occupa la
neuropsichiatria infantile) penso che un lavoro di rete e d’équipe sia ancora più fondamentale
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in quanto le famiglie che accedono al servizio per chiedere aiuto sono spesso spaventate,
impaurite, nel panico più completo perché non sanno come poter gestire le difficoltà della
figlia (o del figlio, anche se in percentuale minore) che, se continuasse nel raggiungere i suoi
obiettivi, incomprensibili agli occhi de genitori, potrebbe anche morire.
E hanno paura, perché le continue sfide della figlia li portano all’esasperazione, ad una
sensazione di impotenza e di totale squalifica delle proprie competenze genitoriali; questa
esasperazione a volte porta a momenti tali di escalation che i genitori spesso ammettono di
aver paura anche di commettere azioni violente come forzare pesantemente la figlia a
mangiare ed arrivare alle mani. Questi vissuti li distruggono.
Allora penso che il lavoro d’équipe sia importante anche per dare un senso di contenimento e
accoglienza a tutta la famiglia. Penso che sapere, da parte della famiglia, che un gruppo di
professionisti lavora in condivisione e sincronia sulla loro situazione, li aiuti a sentirsi meno soli
e persi.
La difficoltà del lavorare in équipe sta anche nel fatto che all’interno di un gruppo si possono
creare dinamiche relazionali tipiche dei gruppi quali gelosie, invidie, posizioni di simmetria
aperta o mascherata, frustrazione, timori dei commenti e del giudizio dei colleghi, la formazione
di un capro espiatorio. È importante mantenere sempre attivo un livello di confronto e
discussione in cui sia evidente il rispetto di ciascuno per il lavoro degli altri; nel momento in cui
la discussione dei problemi clinici tra le diverse figure scende al di sotto di un certo limite, il
lavoro dell’équipe svanisce e si crea una situazione di indipendenza operativa dei singoli
professionisti (Viaro e colleghi, 2004) che comporta la frammentazione del lavoro sulla stessa
situazione e quindi confusione sia per gli operatori che per gli utenti che può favorire, come già
accennato, la cronicità.
Si possono creare allora situazioni in cui gli interventi dei vari professionisti non vengono
coordinati e ogni operatore lavora individualmente sul caso; i dubbi di uno rispetto al suo
operato, al rapporto che ha con la famiglia, con il singolo paziente, non vengono condivisi con
gli altri colleghi che lavorano sulla stessa situazione. A volte alcuni professionisti sconfinano
dal loro specifico ruolo andando magari anche a disconfermare il lavoro di un altro collega.
Tutto questo può provocare attriti fra i vari operatori che, se mascherati, potrebbero esprimersi
nella relazione con la famiglia stessa.
Da una situazione di impasse del genere la famiglia può uscirne confusa, non sapere di chi
fidarsi, se allearsi con uno piuttosto che con un altro e questo può portare ad una
frammentazione e potrebbe anche evolvere in un potenziale drop-out.
17
Il ruolo dell’équipe secondo me è anche quello di contenere ed elaborare situazioni del genere e
promuovere dei processi generativi all’interno del lavoro del gruppo e di riflesso anche nel
lavoro sulla famiglia o l’individuo.
Pensando ai vantaggi che può avere un approccio integrato e multidisciplinare alla malattia,
sicuramente emerge la possibilità che ha il sistema paziente-famiglia di “riunire” le varie parti
della propria sofferenza e di elaborarle.
Pensando anche al sistema curante e ai singoli terapeuti, l’integrazione delle varie parti della
malattia, dovuta alla presenza di una équipe di lavoro, permette di fronteggiare i vissuti di
impotenza e inutilità che possono spesso sopraggiungere nell’affrontare situazioni così
complesse, in cui ci sono invischiamenti familiari, che potrebbero coinvolgere il singolo
terapeuta, aggressività mascherata, difficoltà di agganciamento, diffidenza…
Importante, quindi, è la funzione dell’èquipe di supporto tra professionisti: spesso le scelte che
devono essere fatte in tali situazioni sono complesse e gli interventi su più livelli (organico e
psicologico, con il paziente e con la famiglia). Il confronto costante e il coordinamento degli
interventi diventa fattore protettivo, oltre che per il processo terapeutico e la diminuzione di
abbandoni da parte dei pazienti, anche per gli operatori stessi, prevenendo anche il rischio di
burn-out.
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UN CASO CLINICO: IL PULCINO DI CASA
“…diventare un corpo adulto è una dura prova.
Rinunciare per questo al proprio corpo di
bambino non è una cosa di minor conto. Il
corpo è il garante di una sicurezza acquisita nel
corso degli anni, nelle relazioni di dipendenza
con le immagini familiari, con i loro desideri,
con le loro esigenze”.
(Birraux, 1993)
La famiglia arriva all’Ambulatorio per i Disturbi del Comportamento Alimentare inviata dal
proprio pediatra di riferimento.
Sulla scheda telefonica, che raccoglie i dati principali della richiesta di aiuto, come motivo della
richiesta viene riportata una importante difficoltà che fa pensare a me e alla mia tutor ad una
situazione abbastanza preoccupante da dover accogliere senza perdere tempo.
Infatti la madre aveva riferito che la figlia, 13 anni da compiere a breve, non mangiava e non
beveva e che negli ultimi 3 mesi aveva perso 10 chili.
Al primo colloquio si presentano madre, padre e Luce. Ricordo che quando arrivai
all’Ambulatorio passai per la sala d’attesa e vidi con la coda dell’occhio la famiglia aspettare e
commentai con la mia tutor il fatto che di primo acchito mi era sembrato che Luce fosse un
maschietto: capello corto, nessun accenno di femminilizzazione, come per esempio una collana
o anelli, gracile e nascosta tra mamma e papà.
Appena entrati i genitori appaiono sorridenti, quasi sollevati di essere qui, mentre Luce fa fatica
a guardare in faccia tutti, si mette a sedere in posizione di totale chiusura, con braccia e gambe
incrociate e testa bassa, decisa a farci capire il suo messaggio: “sono qui ma non ci sono”. Luce
si siede tra mamma e papà i quali hanno una postura rivolta verso l’interno che sembra
convergere verso Luce, tanto da far capire quanto possano essere preoccupati e quanto vogliano
proteggere la loro bambina.
Nel corso del primo colloquio cerchiamo di raccogliere le informazioni principali attraverso il
racconto dei genitori: parlano dell’umore depresso di Luce, del fatto che non parla più, non
mangia, che non vuole più andare a scuola, del fatto che il fratello maggiore piange per lei, dei
problemi di salute che Luce ha avuto fin da piccola. I genitori ci rovesciano addosso tutta la loro
19
ansia un po’come se pensassero che, se fossero riusciti a raccontarci tutto entro quell’ora, noi
avremmo potuto risolvere ogni problema come per magia.
1. GENOGRAMMA E CICLO VITALE
1960
Franco
51
1963
Patrizia
48
1989
Stefano
22
1998
Luce
13
1929
Rocco
82
1933
Maria
78
D. 1990
1978
33
Sicuramente uno strumento che ci ha aiutate a mettere un po’ di ordine tra molte delle
informazioni “buttate” dai genitori, come spesso accade in modo anche scollegato, è stato il
genogramma.
Questo strumento mette in risalto come ognuno di noi sia una parte in stretta relazione con gli
altri all’interno del proprio sistema familiare; come ogni individuo abbia origini dalle proprie
radici familiari che si radicano all’interno del sistema, luogo in cui ognuno trova il proprio
significato.
Il genogramma è stato introdotto in terapia sistemica familiare da Murray Bowen (1979),
inizialmente con un utilizzo che riguardava la formazione dei terapeuti familiari, in quanto egli
riteneva che gli allievi dovessero vivere l'esperienza definita "il viaggio di ritorno a casa" che
era incentrata sulla conoscenza di sé e della propria famiglia di origine, per poi giungere ad un
processo di differenziazione del sé.
Il genogramma permette di rappresentare graficamente una famiglia allargata almeno a tre
generazioni, in un dato momento della sua storia. È uno strumento che pone l’enfasi sul
percorso di vita di questa famiglia: costituzione, evoluzione, dinamiche relazionali, eventi
critici, risorse. Si costituisce così una sorta di mappa degli eventi e delle relazioni che
percorrono la linea del tempo dal passato al presente e grazie al quale il terapeuta può anche
aiutare la famiglia ad introdurre un tempo futuro di cambiamenti ed evoluzioni.
20
Il genogramma si rivela uno strumento in cui la narrazione della propria storia, supportata dalla
rappresentazione grafica e guidata dalle domande e dalle riflessioni del terapeuta, permette di
rileggere il passato e di vederlo attualizzato nel presente attraverso l’interpretazione
dell’attualità come risultato di emozioni, azioni e relazioni che nascono nella storia di una
determinata famiglia.
Nel nostro caso il genogramma è stato utilizzato inizialmente nella sua funzione anamnestica di
raccolta di informazioni in modo da aiutare i terapeuti a fare ordine e solo successivamente è
stato arricchito promuovendo delle connessioni e riflessioni da sviluppare con la famiglia.
Dal genogramma della famiglia emerge che i genitori di Luce si sono sposati nel 1989, anno in
cui è nato il fratello maggiore di Luce che, dal racconto dei genitori, sembra essere molto
partecipe e presente nella vita della sorella.
Il padre è una guardia giurata e lavora nei turni notturni (questo fa sì che madre, Luce e Stefano
passino sempre insieme le serate), la madre lavora in un negozio alimentari di cui è socia e il
fratello di Luce lavora come magazziniere nello stesso negozio. Luce sta frequentando la
seconda media.
La madre di Luce, stimolata a raccontare qualche elemento della loro storia familiare, riferisce
di aver avuto un lutto molto importante quando il figlio primogenito era piccolo: suo padre, a
cui dice di essere molto legata, è morto a causa di un tumore. La signora ricorda il fatto
associando il giorno della morte del padre al giorno in cui Stefano ha iniziato a camminare.
Emerge che con i fratelli e i nipoti dei genitori non ci siano particolari rapporti, mentre i rapporti
più intensi e quotidiani sono con i nonni paterni di Luce che vivono in una casa a adiacente alla
loro (le due case sono comunicanti grazie ad un cancello sempre aperto). Durante il primo
colloquio però l’attenzione è volta tutta verso Luce e il suo problema, vissuto dai genitori come
qualcosa di inspiegabile e improvviso.
Emergono elementi salienti che caratterizzano il ciclo vitale di questa famiglia, attorno ai quali
probabilmente la famiglia non è riuscita a riorganizzarsi in modo da trovare modalità diverse e
funzionali per affrontare le nuove situazioni, aggiustando e rinegoziando relazioni, regole e ruoli
al suo interno.
Le famiglie, infatti, devono affrontare, durante il loro percorso evolutivo, eventi nodali naturali
(matrimoni, nascite, separazioni, vecchiaia, morte…) più prevedibili e altri meno prevedibili a
cui dovrebbero corrispondere compiti di sviluppo che segnano il passaggio della famiglia da
uno stadio all’altro e la sua evoluzione: quando la famiglia non riesce ad attuare il cambiamento
e si blocca ad una tappa del ciclo vitale, interrompendone l’evoluzione, possono insorgere i
problemi e qualche membro della famiglia può fare dei sintomi.
21
“In quest’ottica il sintomo può essere visto come il segnale che una famiglia ha difficoltà a
superare uno stadio: il sintomo è l’espressione di una disfunzione momentanea all’interno di
una famiglia che non riesce ad affrontare un evento e, contemporaneamente, è sempre il
tentativo di provocare un cambiamento”(Malagoli Togliatti, 1991).
Il sintomo, quindi, viene anche concepito come una tentata soluzione del sistema a mantenere
un equilibrio.
In questa famiglia ci sono stati degli eventi “traumatici” che ne hanno segnato l’evoluzione:
• All’età di un anno di Stefano la madre perde il padre a cui era molto legata e di cui ammette
sentire ancora molto la mancanza.
• A 3 anni a Luce viene fatta una diagnosi di favismo che dai medici era stata inizialmente
valutata come una leucemia fulminante.
• Quando Luce ha circa 3 anni la madre viene accusata ingiustamente di furto sul lavoro,
diventando vittima di mobbing. La questione si è risolta poco tempo fa, coprendo quindi
tutto l’arco di vita di Luce.
• La madre per questo motivo va in depressione e viene seguita da uno specialista per un
periodo.
Qui di seguito viene presentato il cronogramma che può aiutare a raccogliere e mettere in
evidenza gli eventi principali che hanno toccato il nucleo familiare di Luce.
ANNO MADRE PADRE LUCE STEFANO
1989 Smette di lavorare
Nasce prematuro
1990 Perde il padre Nel giorno in cui muore il nonno, inizia a camminare
1998 Riprende a lavorare. Prende 5 mesi di maternità quando nasce Luce
Nasce
2001 Accusata di furto sul luogo di lavoro. Depressione. Subisce mobbing.
Va sul luogo di lavoro della moglie e “fa l’uomo” (così riferisce)
Diagnosi di favismo inizialmente confusa con diagnosi di leucemia fulminante
2011 Conclusione processo. Cambia lavoro
Luce fa il sintomo Lavora insieme alla madre
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Dal primo colloquio emerge che i genitori danno la colpa di tutto quello che sta succedendo alla
loro bambina, ad un avvenimento accaduto a scuola: un compagno di classe di Luce le avrebbe
fatto un regalo da lei non accettato, che avrebbe comportato l’esclusione della ragazza
dall’intero gruppo classe (Luce dice di non voler più andare a scuola, perché è un brutto luogo).
Raccontano anche che il fratello è intervenuto direttamente telefonando al ragazzino.
Questi elementi ci incuriosiscono e decidiamo di convocare per l’incontro successivo tutta la
famiglia, compresi Stefano, nonno e nonna, pensando che un’osservazione delle dinamiche
familiari potesse aiutarci meglio nel costruire delle ipotesi.
Nel frattempo, come prevede la prassi di lavoro con i DCA, prendiamo contatti con la dietologia
per presentare la situazione che apparentemente sembra abbastanza critica e poter fissare un
appuntamento, oltre che contattare la pediatria.
2. TUTTI INSIEME APPASSIONATAMENTE
All’incontro familiare si presentano tutti. La disposizione in cui si mettono a sedere è: padre,
nonno, nonna, Luce, Stefano e madre. La nonna si presenta dicendo che sono tutti preoccupati
per la loro bambina.
Penso sia stato molto importante avere avuto la possibilità di fare un’osservazione familiare, in
quanto ha potuto permettere di cogliere dinamiche e processi relazionali che hanno potuto
influenzare lo sviluppo della personalità di Luce. L’osservazione relazionale ha evidenziato
l’impalcatura di questa famiglia, mettendone in evidenza le caratteristiche fondamentali.
La nonna prende subito la parola e mentre lamenta le sue preoccupazioni per la ragazzina che
non sembra più essere la sua adorata nipotina, Luce si attiva in maniera simmetrica nei suoi
confronti, dicendole che non sa nulla, che tutto quello che dice è falso e che lei sta bene, che
così si sente proprio bene e che anche la sua attività fisica (Luce fa nuoto agonistico) ne sta
traendo vantaggio in quanto si sente di poter volare come una farfalla, alludendo anche al fatto
che il suo allenatore le ha fatto i complimenti per la forma fisica (in realtà anche l’allenatore è
molto preoccupato in quanto ha notato un affaticamento).
Dal colloquio familiare e dai successivi colloqui con la coppia genitoriale e con il sottosistema
fratelli, emerge un quadro familiare caratterizzato da legami confusi e diffusi, di tipo
invischiato.
Come affermano Minuchin e collaboratori (1980), una bambina che si è relazionata con modelli
invischiati può diventare anoressica, specie se nella famiglia sono presenti anche altri processi.
23
Gli stessi autori sottolineano che due particolari caratteristiche della struttura familiare sono
cruciali per il suo funzionamento: la natura dei confini, che definiscono i ruoli e i sottosistemi, e
la capacità del sistema di essere flessibile ai cambiamenti.
La chiarezza dei confini viene utilizzata come un parametro del funzionamento familiare: la
famiglia invischiata, come nel nostro caso, appare come un sistema rivolto su se stesso. Gli
autori evidenziano che un sistema del genere può non avere le risorse necessarie per adattarsi e
modificarsi di fronte allo stress. Il problema di un singolo membro merita il sostegno di tutta la
famiglia; ma nel momento in cui un singolo membro necessita di un’autonomia individuale,
questa viene limitata; ogni membro della famiglia può manifestare intrusioni nei pensieri, nei
sentimenti, nelle azioni e nelle comunicazioni degli altri.
Nel caso della famiglia di Luce c’è più di un evento che secondo me ben corrisponde a tale
descrizione. Stefano, “il paladino” di casa, nel momento in cui Luce si è trovata in difficoltà con
il suo compagno di classe, con il consenso dei genitori, è intervenuto direttamente con il
dodicenne, chiamandolo e intimandogli di lasciare stare la sorella.
Un altro esempio è avvenuto durante la valutazione: la madre dei ragazzi aveva telefonato in
segreteria per disdire l’appuntamento che avrebbero avuto Stefano e Luce il giorno successivo a
causa di problemi di lavoro del figlio. La mattina, la collega sulla sua posta elettronica (di cui
non ha mai dato l’indirizzo a nessuno) trova una mail di Stefano: “buongiorno, innanzitutto le
faccio gli auguri di buona Pasqua e mi scuso per il disturbo in questa giornata di festa. Sono il
fratello di Luce P. e volevo riconfermare (mia madre ha lasciato un messaggio in segreteria) la
disdetta dell’appuntamento fissato per domani per problemi lavorativi; sono disponibile dalla
settimana successiva. Grazie per l’attenzione. Ancora auguri” .
Si riscontra la labilità dei confini tra individui e sottosistemi generazionali, con conseguente
confusione di funzioni e di ruoli.
Sembra che in questa famiglia i ruoli dei sottosistemi vengano sovvertiti, che il padre faccia di
più il figlio (ancora non svincolato dalla sua famiglia di origine) avendo anche la scusante di
essere molto fuori casa causa lavoro, che il suo ruolo sia stato delegato al figlio maggiore che
viene visto dalla madre e dalla sorella un po’ come un “paladino”, pronto a venire in soccorso
delle sue donne. Sembra che la madre si stia riappropriando solo ora della propria vita, avendo
avuto altro a cui pensare negli ultimi anni, e che Stefano abbia assunto consensualmente un
ruolo genitoriale protettore nei confronti di Luce.
Sempre secondo Minuchin e collaboratori, la protettività è una delle caratteristiche tipiche delle
famiglia anoressica: la bambina cresce protetta dai genitori, che si focalizzano solo sul suo
benessere. I genitori ipervigilanti e attenti ai bisogni psicofisiologici della bambina, mostrano
24
così tutte le loro preoccupazioni che investono la piccola. Anche nella ricostruzione delle
dinamiche relazionali della famiglia di Luce si riscontrano questi elementi: entrambi i genitori,
sia nell’incontro familiare che di coppia, raccontano di come hanno impostato il loro modello
educativo; si sono definiti dei genitori molto protettivi verso i figli, anche nei confronti del
maggiore. Raccontano che il padre (non a caso fa di lavoro il guardiano notturno), quando
Stefano usciva con gli amici e andava al pub, si appostava di nascosto dal figlio per controllare
cosa faceva. Luce ancora non può uscire da sola di casa neppure per andare dall’amica che abita
a 5 minuti da casa sua: al nonno è delegato il compito di accompagnatore (sembra che in questa
famiglia ognuno svolga dei compiti genitoriali nei confronti di Luce).
Durante i colloqui Luce lamenta il controllo eccessivo, esprimendo un desiderio di maggiore
autonomia, ma nello stesso tempo disconfermandolo, sottolineando che poi a lei va bene che il
nonno l’accompagni. L’autonomia quindi è limitata all’intrusività e all’iperprotettività della
famiglia, in quanto ampie aree restano sotto controllo altrui. Tranne il controllo del proprio
corpo: grazie a questo sistema Luce può tenere in scacco tutti, dall’essere controllata esercita
controllo su tutta la famiglia.
Come sottolineano anche Loriedo e Costa (2007), l’iperprotettività da parte dei genitori,
soprattutto nelle situazioni ad esordio preadolescenziale, è molto accentuata e si evidenzia anche
un maggiore coinvolgimento paterno, generalmente fino a quel momento mantenuto in una
posizione più periferica.
Luce racconta che sono tutti troppo fiscali: il nonno l’accompagna ovunque (la nonna interviene
sottolineando che è lei a chiederlo), la mamma arriva sempre in orario quando la va a prendere
ai compleanni delle amiche, Stefano la manda a letto all’orario esatto, senza farla sgarrare. Il
padre rimane sempre un po’ defilato.
In restituzione di questa seduta familiare si sottolineano gli elementi che sono venuti alla luce
durante l’osservazione, mettendo in risalto l’unità di questa famiglia ma evidenziando anche la
necessità di definire dei confini maggiori e dei ruoli.
T: “è sicuramente un momento difficile per Luce perché deve modificare le sue abitudini in due
famiglie”(la casa in cui vive con i genitori e il fratello e la casa dei nonni, in cui ha passato gran
parte del suo tempo).
Luce: “sì, ma io mi trovo bene così!” Terapeuta: “non credo, perché hai smesso di mangiare e
hai deciso di bloccare la tua crescita….forse è troppo doloroso abbandonare le tue abitudini di
bambina…” Luce: “a me va bene essere accompagnata..” Terapeuta: “magari nonno sta da solo
e può sentire la tua mancanza…questo pensiero magari ti può far star male…” Nonna: “per noi
non sono nipoti…sono figli!” (piangendo). Terapeuta: “ Luce deve capire, e voi dovete aiutarla
25
in questo perché per lei non è facile, che se cresce non perde i legami. Siete una famiglia molto
unita, e questa è una cosa molto bella, ma a volte la troppa unione può determinare delle paure
che si può esprimere in una crisi di crescita..”
Nelle famiglie anoressiche mentre i confini con l’esterno sono ben definiti e tengono invischiati
tra di loro i membri della famiglia, i confini all’interno sono sfumati e deboli, in particolar
modo con la famiglia di origine. Così come dice Minuchin (1980) anche in questo caso sembra
che uno dei due coniugi, il padre, mantenga una forte affiliazione con la propria famiglia
d’origine.
I modelli interattivi descritti dell’invischiamento, iperprotettività (di cui parlato) evitamento del
conflitto e rigidità (accennati successivamente), vengono evidenziati non solo dalle ricerche
pioneristiche di Minuchin e coll. (1980), ma anche da una ricerca più recente del gruppo di
ricerca di Onnis presso il Servizio di Terapia Familiare dell’università “La Sapienza” di Roma
(1997; 2000; 2002) che denota una ridondanza di questi modelli interattivi.
3. UN BLOCCO EVOLUTIVO
Come già accennato nel capitolo precedente, altro elemento che definisce la struttura familiare e
il grado di funzionamento, è la capacità della famiglia stessa di affrontare i cambiamenti in
modo innovativo e generativo.
Dalle osservazioni su questa famiglia sembra che ci siano degli eventi, situazioni passate,
disfunzioni familiari che, utilizzando le difficoltà di un singolo membro che nel nostro caso è
Luce, frenano lo sviluppo della famiglia stessa.
Come anche nell’incontro familiare è stato verbalizzato, ci troviamo di fronte ad un blocco di
crescita di Luce, che però ha alle spalle ben altre dinamiche ancora più radicate che
caratterizzano la storia dei coniugi e il loro rapporto con i propri familiari nella famiglia di
origine, piuttosto che loro difficoltà personali.
L’adolescenza, oggetto di osservazione di molti autori, viene intesa come una crisi, cioè come
una fase di passaggio e periodo di trasformazione e costruzione dell’identità individuale e
sociale finalizzata al compimento di uno status individuale adulto (Palmonari, 1997).
Questo momento del ciclo vitale di una famiglia, che determina la fase dello svincolo
dell’adolescente dalla dipendenza infantile, impegna l’adolescente e la famiglia in una nuova
organizzazione di ruoli e funzioni che determineranno una nuova identità familiare e
individuale.
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Onnis (1985) evidenzia che si tratta di un periodo di “doppia crisi” che talvolta può sfociare in
un momento di stallo dello sviluppo dell’adolescente e della famiglia. In generale si può
affermare che ad ogni disagio adolescenziale corrisponda una difficoltà o un blocco del gruppo
familiare ad affrontare questa fase e nello specifico il disturbo alimentare può determinare un
vero e proprio sciopero della crescita.
Onnis (2004) afferma che dalle osservazioni su famiglie associate a disturbi del comportamento
alimentare, emerge una difficoltà da parte degli adulti ad accogliere e favorire il cambiamento e
ad accettare il tempo che passa. Emergono infatti difficoltà della coppia genitoriale ad accettare
e sostenere la separazione dai figli, a causa probabilmente di vissuti d’angoscia da ricondurre ai
propri legami di attaccamento con la famiglia di origine.
Onnis (1990) afferma anche che è possibile ritrovare la presenza di miti di unità e di fantasmi di
rottura che animano lo scenario inconscio familiare promuovendo, come detto, legami di tipo
invischiato, oltre alla difficoltà di mettere in discussione una relazione coniugale gravida di
tensioni latenti e conflitti irrisolti che si teme affrontare per non perdere il legame. Tale
coniugalità inespressa viene sostituita da una genitorialità persistente, passando il messaggio
alla figlia che loro hanno bisogno di lei per star bene.
A questo proposito mi viene in mente un seminario organizzato dalla Scuola di
Specializzazione, a cui ho assistito nel 2010, tenuto dal dottor Nolè.
Egli parlava dell’anoressia come il frutto di un blocco nel ciclo vitale della famiglia. Qualsiasi
evento di separazione subito e non elaborato può determinare un blocco: come fa una figlia ad
assumersi le proprie responsabilità in modo sereno e maturo se i propri genitori a loro volta sono
bloccati rispetto a vissuti separativi non elaborati? Egli sottolineava l’importanza di sciogliere
questi nodi che tengono legata la figlia e la famiglia in un tempo presente e passato,
congelandoli.
Come afferma Bowen (1979), infatti, è nella famiglia d’origine che si avvia il processo di
differenziazione del sé che ci permette di sentire l’appartenenza in una relazione affettiva e,
nello stesso tempo, ci consente di sentirci proiettati verso la vita.
Togliatti e Telfner (1991) sostengono infatti che “le relazioni familiari hanno un doppio
aspetto, di vincolo e di risorsa. Il vincolo è dato dall’assunzione del ruolo in relazione a un
evento… un aspetto di risorsa in quanto definisce, organizza, crea relazioni”. Se il vincolo non
diventa una risorsa si rimane imprigionati.
Nel caso di Luce, secondo me, si possono ritrovare questi elementi. Dalla costruzione del
genogramma, infatti, è emerso che la famiglia ha dovuto affrontare degli eventi inaspettati che
l’hanno molto scossa.
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La domanda che ci siamo poste in prima battuta è: per quale motivo questa famiglia non vuole
crescere? Perché Luce ha smesso di crescere? Pensando agli elementi rinvenuti dai racconti
familiari l’ipotesi principale è che questa famiglia provi un gran senso di angoscia e abbandono
nel momento in cui qualcuno si allontana e per questo fa di tutto per mantenere l’unione, i ruoli
genitoriali sono un po’ delegati ad altri membri (i nonni e Stefano), i genitori sono ancora figli e
fragili, Luce lamenta la situazione perché si sente stretta, “soffocare”, ma comunque partecipa al
gioco facendo il sintomo e stringendo tutti intorno a sé.
Perché questa unione a tutti i costi? Sicuramente il fatto avvenuto all’età di 3 anni di Luce può
avere scatenato dei sentimenti di angoscia e di paura di perdita in tutti i membri della famiglia,
in particolare da parte della madre che non avendo ancora elaborato il lutto paterno si è vista
cadere questa notizia nefasta come un macigno soffocante. Questo può avere già ai tempi
definito le dinamiche familiari di fronte alle situazioni di stress: il padre incapace di sostenere la
moglie delega al figlio tale ruolo che diventa nel tempo sempre più radicato e riconosciuto:
Stefano, definito da noi durante gli incontri “il paladino” della famiglia, trova il consenso da
parte di tutti, in particolar modo da parte di Luce.
Dalle narrazioni familiari emerge che il figlio maggiore di 22 anni praticamente fa una vita
casalinga, è fidanzato dall’età di 16 anni e con la fidanzata mantiene un rapporto che sembra
essere quello di un adolescente. I genitori nell’incontro di coppia hanno riferito che Stefano e
Luce fino all’ètà di 7-8 anni hanno dormito nel lettone, mentre il padre si recava nella stanzetta
dei bambini e che ancora oggi non accade di rado che il lettone dei genitori sia disponibile alle
visite dei figli.
L’immagine che danno è quella di una famiglia molto unita (troppo), in cui non si discute (Luce
è l’unica che provoca con i suoi agiti e rovina la tranquillità familiare), in cui tutto è sempre
andato bene, senza alcun problema.
Qui si evidenzia un’altra delle caratteristiche interattive delle famiglie anoressiche descritte
dagli autori, l’evitamento del conflitto: “va bene tutto, ci vogliamo tutti bene, condividiamo
tutto, tra noi non ci sono segreti, ma non capiamo cosa sia successo a Luce…”, ha detto la
madre durante il colloquio con la coppia genitoriale. La tipica famiglia del “Mulino Bianco”!!
Ciò che lamentano tutti con forza è il fatto che Luce sia diventata musona e triste, il disturbo
alimentare sembra a volte essere messo anche in secondo piano rispetto a questo aspetto. Dai
colloqui è emerso che i genitori, soprattutto la madre, fanno fatica ad imporsi in maniera decisa
con Luce, per la paura che lei si arrabbi e faccia delle scenate.
Come dice anche Onnis (2004) “ogni qualvolta la tensione della famiglia sale e diviene
minacciosa, qualcuno dei membri, spesso il paziente, interviene richiamando su di sé
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l’attenzione di tutti. Il conflitto così rimane coperto, viene negato o comunque si focalizza
esclusivamente sulle difficoltà alimentari del paziente”. Infatti, a parte questo problema di Luce,
in famiglia tutto scorre normalmente.
La scarsa tollerabilità alle situazioni conflittuali può anche essere spesso accompagnata da una
conflittualità occultata, attraverso la negazione, all’interno della coppia coniugale, come
accennato sopra, e questo può rappresentare un fattore di rischio: per esempio, dai colloqui è
emerso che questi genitori vanno d’accordo su tutto, ma come coppia non stanno mai insieme. Il
fatto è giustificato dalle difficoltà di orario lavorativo del marito, ma anche nei momenti di
vacanza viene riferita la volontà di occuparsi dei figli e di fare cose insieme a loro. Anche nel
colloquio con il sottosistema fratelli emerge il tema della coppia coniugale, mantenendo
l’idealizzazione della coppia perfetta e ideale che non ha mai discusso. Tutto va bene, ma si
siedono agli antipodi ben lontani e non rimandano affinità e complicità.
Tornano agli elementi che caratterizzano le famiglie anoressiche, anche la rigidità è collegata al
pensiero inespugnabile della famiglia che non ci sia nulla che non vada bene, a parte il disturbo
alimentare, su cui bisogna intervenire per riportare la tranquillità di sempre.
4. DUE RELAZIONI IMPORTANTI
Facendo un po’ di ordine, i colloqui effettuati con il team della neuropsichiatria per la
valutazione sono stati così organizzati: primo incontro con madre, padre e figlia; secondo
incontro familiare; terzo incontro con coppia genitoriale; quarto incontro con il sottosistema
fratelli; quinto incontro con la coppia genitoriale (in cui è avvenuta la restituzione); sesto
incontro di controllo con Luce e la madre. In più è stata somministrata a Luce la batteria di test
standard per la valutazione e la diagnosi di un disturbo del comportamento alimentare.
Contemporaneamente, come da protocollo per un lavoro d’équipe multidisciplinare, la ragazzina
è stata vista dalla dietologa e dalla pediatra e in èquipe è stato discusso il caso.
Tornando alla valutazione psicologica, durante tutti i colloqui effettuati sono emerse due
relazioni, anche se con modalità diverse, speciali per Luce. Prima fra tutte la relazione con la
madre. Da subito la madre descrive il rapporto tra lei e la figlia come molto stretto ma anche
pieno di grandi sensi di colpa. La signora racconta che con Luce non c’è stato lo stesso
“impegno” che con Stefano; infatti la signora racconta che quando il primogenito è nato lei è
rimasta a casa dal lavoro, fino ai suoi 7-8 anni, mentre con Luce ha ripreso subito il lavoro,
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affidando la figlia alle cure della nonna paterna (nei racconti la madre della signora non viene
mai citata, sarebbe un aspetto da indagare maggiormente).
Sicuramente la nascita di Luce è coincisa con una fase del ciclo vitale della signora e della
famiglia molto delicata; dalle nostre ipotesi relazionali è emersa l’idea che questa donna, già
colpita da un lutto probabilmente inaspettato e ancora non accettato ed elaborato (nei pochi
momenti durante costruzione del genogramma in cui parla del padre le si spezza la voce) e
ulteriormente invischiata in una situazione che l’ha resa impotente (l’accusa di furto), è arrivata
al punto di togliere l’attenzione a Luce e delegare questo compito ad altri maggiormente in
grado. L’ulteriore preoccupazione nata dalla diagnosi di favismo, secondo noi, ha innescato un
meccanismo di mutuo soccorso, in cui la famiglia si è organizzata intorno a Luce creando un
nido sicuro e impenetrabile, che potesse tenere tranquilla la madre, impegnata a risolvere i suoi
drammi. Ricordo come il padre si riferisce a Luce nei primi colloqui: “lei è il nostro pulcino di
casa, è sempre stata protetta e curata, perché adesso fa così?”
Dal canto suo Luce lamenta uno stato di abbandono. La madre riferisce spesso, stranita e
incredula, che Luce ha l’ansia di essere abbandonata. Non capisce come sia possibile che in una
famiglia come la loro in cui tutti sanno tutto di tutti, in cui si condivide tutto e in cui lei è trattata
come la principessina di casa, possa sentirsi sola.
Anche in colloquio viene fatto emergere questo paradosso: in una famiglia tanto unita, Luce
percepisce di essere in più e richiede più attenzioni facendo dei sintomi.
L’idea è che tra questa donna e Luce si sia instaurato un tipo di relazione distanziante. Infatti, a
seguito del colloquio familiare, i genitori riferiscono che sono avvenuti dei piccoli cambiamenti
sui comportamenti di Luce, la ragazza si è ammorbidita e si concede anche a livello affettivo,
scegliendo, però, di essere contenuta e coccolata dal padre; raccontano che una sera si è aperta
su quello che le è successo a scuola con il suo compagno di classe, e si è messa sulle gambe di
papà. Questo fatto viene raccontato durante il colloquio con la coppia genitoriale: il padre lo
racconta con orgoglio, la madre rimane fredda e distaccata, disconfermando il fatto che si sia
aperta perché comunque non è che sia cambiata molto, è comunque volubile di umore e li fa
impazzire per il mangiare. La madre quindi sposta l’attenzione dagli affetti e dalle relazioni,
riportando al centro dei discorsi il disturbo. Come se sentisse il peso di non essere stata lei in
grado di portare Luce a sedersi sulle sue di gambe.
Si potrebbe ipotizzare che Luce presenti uno stile di attaccamento più vicino a quello insicuro-
ansioso di tipo ambivalente (Ainsworth et al, 1978). Può essere che Luce durante la sua infanzia
abbia vissuto esperienze di rifiuto affettivo da parte della madre perché ripiegata maggiormente
su di sé e sulle proprie difficoltà, ma anche presente e attenta in modo ansioso alle sue richieste.
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Questi bambini di fronte allo stress della separazione dalla madre, mettono in atto
comportamenti ambivalenti, caratterizzati da momenti di avvicinamento per essere confortati e
momenti di resistenza e distacco. Sarebbe stato interessante a questo proposito analizzare il
rapporto tra la signora e sua madre.
Da varie ricerche (O’Kearny, 1996, Ward, Ramsay, Treasure, 2000), condotte con strumenti che
misurano lo stato mentale relativo all’attaccamento, emerge che vi sia un’alta incidenza, in
relazione all’insorgenza di un disturbo del comportamento alimentare, di attaccamenti di tipo
insicuro, con una preponderanza di attaccamenti evitanti. O’Kearny suggerisce anche che la
concentrazione di queste pazienti sul corpo può essere intesa come una modalità di presa di
distanza dall’importanza della famiglia, evitando le angosce che fanno parte della separazione
dagli affetti parentali.
Secondo la letteratura i bambini insicuri-ambivalenti hanno genitori “preoccupati-invischianti”:
questi adulti infatti parlano di solito dei legami infantili con rabbia e nello stesso tempo
risultano ancora molto legati alle figure genitoriali; emerge anche che, dal modo in cui riportano
le loro esperienze (valutazione con l’Adult Attachment Interview, AAI), non riescono ad avere
un’identità personale distaccata dalla famiglia di origine. A questo proposito sarebbe
interessante indagare questi aspetti con i genitori di Luce.
Inoltre, uno studio di Lambruschi e Ciotti (1985), ha evidenziato un’associazione con
l’attaccamento di tipo ambivalente-invischiato con vari disturbi di tipo psicosomatico (coliche,
asma, dermatiti), ansia da separazione e fobie, condotte volte a richiamare l’attenzione
genitoriale; mentre disordini alimentari sono stati evidenziati in adolescenza.
Anche Fonagy (1996) suggerisce che questo tipo di attaccamento sia legato a psicopatologie
introiettive come la depressione, disturbi ossessivi, ansia e problemi psicosomatici, tra cui anche
l’anoressia.
Selvini Palazzoli (1998) esprime delle ipotesi rispetto alla correlazione tra i tipi di attaccamento
e le personalità delle ragazze.
Selvini Palazzoli associa il tipo di attaccamento insicuro-ambivalente ad una personalità di tipo
dipendente. Secondo le sue osservazioni in questi casi l’empatia materna è mancante (la madre
preoccupata per sé), ma la figlia è stata da sempre una consolazione per lei, grazie alla sua
presenza e diligenza. La figlia si è sempre dimostrata una bambina buona e condiscendente. Ha
un attaccamento eccessivo verso la madre o ad altre figure femminili, come la nonna, ed è
idealizzante verso i genitori.
I genitori e in particolar modo la madre, percepiscono il mondo come pericoloso e quindi le
insegnano ad essere dipendente. L’unica cosa in cui riesce a dimostrare autonomia e mancanza
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di controllo materno e genitoriale è il controllo sul proprio corpo. Riguardando queste categorie
mi sembra che Luce possa essere inscritta per certe caratteristiche anche all’interno della
personalità di tipo ossessiva-compulsiva, caratterizzato da tipo di attaccamento più evitante e
distanziante dalla figura materna.
Comunque ciò che caratterizza il rapporto tra le due è l’ambivalenza: la madre vorrebbe essere
autorevole ma non riesce, teme le risposte di Luce, di ferirla e perderla e quindi cerca di fare
l’amica, vestendosi anche in maniera giovanile e alla moda (paradossalmente non permette a
Luce nemmeno di mettere il lucida labbra). Luce dal canto suo vorrebbe una madre più presente
nella loro relazione, ma allo stesso tempo la rifiuta rifiutando il suo cibo e cercando una
relazione speciale con colui che le porta via l’amore materno: Stefano.
L’altra relazione speciale per Luce è quella con il fratello. Stefano appare colui verso cui, tutti i
membri della famiglia, hanno fatto e fanno affidamento. Stefano quando hanno ricevuto la
notizia della potenziale leucemia fulminante e successivamente della diagnosi di favismo c’era,
è stato forte, è riuscito a sostenere la mamma. Stefano quando la mamma è caduta in
depressione e doveva accudire una bambina piccola c’era, l’ha consolata e sostenuta. Stefano
quando Luce si è trovata in difficoltà con un compagno ha agito, sostenuto da tutti. Stefano “il
paladino”, colui che c’è al posto di papà che lavora, Stefano che alla sera sta a casa perché la
sorella e la mamma sono sole e teme che possa loro succedere qualcosa, Stefano che guarda la
televisione insieme a loro e manda Luce a letto all’orario opportuno, Stefano che, a detta della
madre, condivide tutto con lei, non ha segreti. Luce e sua madre quando parlano di Stefano si
accendono, danno l’impressione di essere in competizione per il suo amore. Il triangolo che si
forma è molto interessante: la madre sembra fare coppia con Stefano e Luce lo ammira quasi
con venerazione, mentre il padre rimane fuori e defilato, probabilmente ancora non svincolato
da una madre iperprotettiva che se l’è voluto tenere vicino.
L’idea di vedere il sottosistema fratelli è nata proprio dai racconti fatti duranti gli incontri e
dall’osservazione effettuata durante il colloquio familiare: si è evidenziata infatti una forte
alleanza tra Luce e Stefano: Luce lo guarda e ascolta con adorazione, tanto da sembrare quasi
due fidanzatini. Ciò che ci interessava era di capire se si potesse lavorare con il sottosistema
fratelli, utilizzando Stefano, già grande e in un certo senso svincolato, come gancio per poter
trascinare Luce fuori da questo groviglio e permettere lo sblocco evolutivo della sorella oltre
che della famiglia.
De Bernart (1992), afferma che spesso il sottosistema fratelli è stata una risorsa trascurata,
soprattutto per quanto riguarda la presa in carico dei DCA, ma sottolinea anche che nessuno più
di un fratello può conoscere a fondo i problemi della sorella (o fratello), per aver vissuto nello
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stesso sistema familiare in tanti casi anche nello stesso livello generazionale (non riguarda però
il caso preso in esame).
De Bernart sottolinea anche che spesso la responsabilità di qualsiasi sintomo viene attribuita alla
responsabilità genitoriale e che troppo spesso l’unica risorsa per cambiare le situazioni è stato il
sottosistema genitoriale. Sottolinea invece che il sottosistema fratelli possa costruire un vero e
proprio “cervello dei fratelli”, capace di poter effettuare dei movimenti verso il cambiamento:
“dare una lettura della situazione familiare attraverso i fratelli e intervenire sulla famiglia
utilizzando la risorsa fratelli, spesso può fornire uno strumento nuovo di lavoro ed un antidoto
contro la noia e la rigidità”.
Durante il colloquio con la fratria, è stato interessante utilizzare uno strumento che ci ha
permesso di evidenziare alcuni aspetti relazionali: il Disegno Congiunto.
Si tratta di una tecnica proposta in ambito peritale da Cigoli, Galimberti e Mombelli (1988) la
cui consegna è la seguente: “Desidererei che vi rappresentaste come genitori e figli mentre
state facendo qualcosa insieme. Potete prima parlarne e decidere cosa disegnare, oppure
mettervi subito a disegnare. A disegno finito ne parleremo insieme”.
Questo strumento ha un ampio raggio di utilizzo che va dall’ambito peritale a quello di
mediazione a quello clinico: appare uno strumento interessante che permette di poter effettuare
un’osservazione di tipo relazionale.
Ciò che di solito è importante osservare è: il grado di partecipazione dei diversi membri della
famiglia (chi prende l’iniziativa, se c’è collaborazione o se invece i diversi membri disegnano
individualmente, ecc.); l’utilizzo dello spazio (vicinanza/distanza tra i vari membri durante
l’esecuzione, esclusione di un membro, ecc.); l’utilizzo del materiale (utilizzo dei colori,
eventuali cancellature).
La fase successiva è quella di discussione in cui i membri della famiglia (in questo caso i due
fratelli) parlano del disegno, raccontano i vari personaggi, il perché hanno scelto di disegnare
quel particolare soggetto, come si sono sentiti. È importante che tutti vengano coinvolti in una
conversazione circolare.
Tornando al disegno congiunto di Luce e Stefano, ciò che ha colpito maggiormente è stata
l’assoluta mancanza di collaboratività tra i due. A dispetto di quello che avevo immaginato, tra i
due non c’è stato nessuno scambio di idee prima di cominciare, hanno diviso a metà il foglio e
in modo sbrigativo, ognuno nella propria parte, hanno disegnato un momento della famiglia
insieme. Ciò che è saltato agli occhi è che Stefano ha terminato il suo disegno molto
velocemente e tutto il tempo rimanente è rimasto a guardare quello che faceva Luce, dall’alto, in
modo protettivo e rassicurante senza minimamente cercare di intervenire aggiungendo qualcosa.
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Le osservazioni fatte durante questa seduta e durante l’esecuzione del compito mi hanno fatto
maggiormente supporre che il legame tra i due fratelli sia sbilanciato: da una parte c’è Stefano
che si pone con uno stile genitoriale nei confronti della sorella e dall’altra c’è Luce che venera
in maniera idealizzante questa figura maschile, quasi come se ne fosse innamorata.
Ricordo che questa osservazione “inattesa” mi ha fatto molto riflettere sulla continua messa in
discussione delle proprie premesse e sulla necessità di non sposare teorie, ma di lavorare alla
continua ricerca di una disconferma di queste. Infatti ciò che mi sarei aspettata da questo
incontro era di vedere due fratelli molto uniti, complici, che condividono segreti, che si coprono
a vicenda, ma soprattutto in grado, una volta da soli, di uscire dal meccanismo del “va tutto
bene” e quindi capaci di riflettere sulle vicende che direttamente o indirettamente li hanno
colpiti, sulle dinamiche familiari, sulle difficoltà di ciascuno. Tutto ciò non è avvenuto e devo
ammettere che questo ha stimolato maggiormente la curiosità nei confronti di questa famiglia;
sicuramente il confronto successivo (questo incontro con il sottosistema fratelli l’ho condotto
individualmente) con la collega, mi ha aiutata nel trasformare l’iniziale sensazione di
“spiazzamento” in un processo di maggiore e ulteriore ipotizzazione.
Tornando al disegno congiunto, al momento della discussione i due non hanno fatto altro che
negare difficoltà di tipo relazionale che vadano oltre al disturbo di Luce (da lei non
riconosciuto). Per esempio, con i fratelli si è indagato come abbiano vissuto il fatto grave che ha
colpito la madre: Luce non sapeva di cosa si stesse parlando e Stefano inizialmente non capiva,
poi, minimizzando ha detto che è andato tutto bene, per quello non se ne parla.
Mi è parso che ci siano dei “segreti di Pulcinella” in famiglia, per cui delle cose per cui si sta
male non se ne parla (riguardo a come ha vissuto il momento della diagnosi di favismo della
sorella non dice nulla, se non che è passato e adesso va tutto bene).
Nella situazione presa in esame il fattore della grande differenza di età (ci sono 9 anni di
differenza tra i due fratelli) può sicuramente avere influito sull’instaurazione di un legame
fraterno di tipo genitore-figlia, ma a questo tipo di legame si associa anche una difficoltà della
coppia genitoriale di mantenere la propria autorità.
Si può ipotizzare anche (riprendendo De Bernart) che il compito che di solito ha l’anoressica di
tenere in casa il padre per tenerlo vicino alla madre, in questo caso si sposti anche sul fratello,
che se esce del tutto da casa e pensa alla sua vita e alla sua fidanzata, lascia mamma sola e
“depressa” a dover gestire, con le sue difficoltà e i sensi di colpa, il rapporto con una figlia che
le ha sempre chiesto tanto in termini emotivi, ma alla quale non è riuscita a dare quanto avrebbe
voluto, a causa delle proprie fragilità personali.
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De Benart (1992), descrivendo un caso clinico, evidenzia che questa sensualità che tiene vicini
alla ragazza gli uomini di casa risulta, sia nel caso che venga rivolta al padre sia che venga
rivolta al fratello, intollerabile per la ragazza tanto da dover, come unica soluzione, bloccare la
propria crescita per evitare rischi di incesto.
5. PERCHE’ UNA TERAPIA FAMILIARE
Dalla valutazione psicologica, che oltre ai colloqui ha compreso anche la somministrazione di
test specifici, è stata delineato un quadro di anoressia atipica di tipo restrittivo in assenza di
riferiti atteggiamenti volti a procurare perdita di peso, quali uso di lassativi o vomito (ICD-10
Asse I F.50.1).
In restituzione ai genitori e all’équipe di lavoro è stata indicata la terapia familiare come
intervento più consono alla situazione presa in esame. L’idea era quella di prendere in carico
l’intero nucleo familiare, mantenendo un monitoraggio da parte della dietologia e della pediatria
ed eventualmente di inserire i genitori all’interno di un gruppo psico-educativo, luogo in cui
avrebbero la possibilità di potersi confrontare con altre situazioni simili e poter mettere in atto le
proprie risorse e competenze genitoriali.
Questa famiglia appare molto invischiata mentre a livello affettivo ed emozionale la vicinanza
sembra essere solo apparente: sembra esserci un paradosso in quanto pur essendoci sul piano
pratico invischiamento e fusionalità, sul piano affettivo sono separati, tanto che Luce lamenta di
essere abbandonata. C’è una madre che ha dovuto pensare per molto tempo al proprio stato di
salute, un padre che sembra molto defilato dalle situazioni familiari, un fratello che sembra aver
preso il ruolo genitoriale paterno, una nonna molto ansiosa che ha accudito Luce e Stefano come
fossero i suoi figli e un nonno, forse il più affettivo di tutti, cui viene dato il ruolo di controllore.
L’idea di fare intraprendere loro una terapia familiare deriva dal fatto che la famiglia stessa si è
mostrata molto interessata e collaborativa, ma soprattutto è motivata dal fatto che Luce è ancora
piccola (13 anni compiuti durante il percorso valutativo): Luce è in fase pre-adolescenziale, la
famiglia deve rispondere a queste trasformazioni permettendo a Luce un graduale svincolo e un’
individuazione, mantenendo comunque un equilibrio.
L’ipotesi è che Luce riesca ad esprimersi meglio e ad attivarsi durante gli incontri familiari,
come se avesse l’opportunità di dire a tutti come la pensa in un luogo strutturato in cui sono tutti
lì e tutti devono ascoltare.
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L’idea è anche quella di aiutare Stefano a svincolarsi dal ruolo genitoriale, che
conseguentemente non gli permette di svincolarsi dalla famiglia d’origine (Luce ce l’ha già un
padre!), aiutando la coppia a trovare un equilibrio di ruoli che possa aiutarli anche a sostenersi a
vicenda nel loro compito genitoriale.
Come dice Minuchin (1980), il sintomo può essere insorto in un individuo sia a causa delle sue
particolari condizioni di vita sia come tentativo di risolvere la disfunzione esistente nella
famiglia, e la malattia può sparire solo a prezzo di un cambiamento intervenuto nel “gioco
familiare” che possa portare la famiglia stessa a funzionare indipendentemente dal disturbo. Di
solito le fasi iniziali di una terapia con una anoressica devono focalizzarsi sulla sindrome che
presenta una minaccia di morte e muoversi verso lo scopo primario che è quello di abbandonare
il sintomo (in questo caso tale timore non è presente). Successivamente il terapeuta deve andare
otre il sintomo, decentrando l’attenzione dal paziente designato alla famiglia. In questo modo la
paziente anoressica è libera di sperimentarsi solo come parte di un sistema disfunzionale.
Quindi, secondo Minuchin, il terapeuta dovrebbe andare a sfidare le modalità relazionali che
mantengono in vita il disturbo: invischiamento, iperprotettività, rigidità ed evitamento dei
conflitti. Sempre l’autore sottolinea come nelle famiglie delle anoressiche si presenta una
difficoltà della famiglia a sperimentare e ricercare nuove possibilità interattive quando sono
necessari crescita e cambiamento.
Selvini Palazzoli nel corso degli anni ha sviluppato e modificato, manifestando la capacità di
saper dubitare, le teorie sull’anoressia mentale, passando dalla fase psicodinamica a quella più
sistemica purista (Selvini,1985): il periodo della Scuola Milanese è stato caratterizzato dalla
fase del “metodo paradossale” (1975), la fase delle “prescrizioni invariabili” (1988) e la fase del
metodo del “disvelamento del gioco familiare”. Già nell’ultimo capitolo de “I giochi psicotici
nella famiglia” (1988), viene posta la riflessione di come fosse ineludibile l’analisi del passato
degli individui, dei bisogni insoddisfatti di ciascuno, le relazioni di ciascun genitore con la
propria famiglia d’origine, integrando la dimensione individuale e trigenerazionale, in un’ottica
multidimensionale che rendesse più complesso il pensiero: “…il pensiero complesso è invece
l’arte di distinguere senza disgiungere e di far comunicare ciò che è distinto” (Selvini e al,
1988).
Onnis (2001) afferma che “la famiglia è, per ogni individuo, il luogo primario di
apprendimento. È il luogo dove si sperimentano e si sviluppano, con esisti individuali diversi,
sia i movimenti di individuazione e differenziazione, sia i processi di acquisizione dell’identità.
È dunque possibile che nel nucleo familiare, possano insorgere difficoltà relazionali ed
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emozionali capaci di legare, in un circolo vizioso, il paziente e il suo sintomo al sistema
familiare stesso”.
Uno degli interventi proposti dal gruppo Milanese prevede di alternare sedute familiari e con i
sottosistemi, in cui si mettono in luce i giochi familiari e sedute individuali con la paziente
designata. A differenza delle precedenti fasi in cui l’intervento era esclusivamente familiare,
questa introduzione deriva dai risultati delle ricerche del gruppo Milanese, che evidenziano un
sentimento di esclusione da parte delle ragazze.
Nel nostro caso non abbiamo pensato alla terapia individuale per il fattore dell’età di Luce, ma
soprattutto perché abbiamo percepito ed osservato, in particolar modo durante l’incontro
familiare, il suo desiderio di relazionarsi con tutti loro.
Per quanto riguarda la presenza di fratelli nella fase di terapia, il gruppo di Selvini sottolinea
come siano un’importante risorsa nel momento della consultazione, mentre nelle fasi successive
sarebbe meglio non coinvolgerli in quanto questo potrebbe collocarli in un ruolo terapeutico-
genitoriale. Nella nostra idea il fratello potrebbe essere coinvolto successivamente in maniera
discontinua, principalmente con incontri tra fratelli in cui si possa lavorare sulla loro relazione e
sulla loro lettura e rilettura della storia familiare e genitoriale, cercando di favorire lo
sganciamento totale di Stefano dal ruolo di “paladino” e promuovere un graduale svincolo di
Luce.
Il lavoro con la famiglia al completo viene comunque consigliato, dal gruppo di Milano,
soprattutto con patologie all’esordio (come nel nostro caso): le ragazzine possono non essere
motivate ad un lavoro su di sé ma venire aiutate attraverso il chiarimento del gioco familiare. Se
i genitori e i fratelli collaborano poche sedute familiari, intervallate da sedute con i sottosistemi
fratelli e con la coppia genitoriale, potrebbero essere sufficienti; infatti è emerso che gli incontri
familiari in cui si ripercorrono aspetti del ciclo di vita familiare possono essere illuminanti.
Un aspetto da tenere in considerazione è che spesso i genitori, che si sentono esausti e impotenti
per la situazione che stanno vivendo, possono, invece che lavorare congiuntamente con il
terapeuta, abdicare al proprio ruolo lasciandolo nelle mani dell’esperto, soprattutto se si tende a
fare degli interventi individuali sulla paziente designata; proprio per questo è importante creare
una relazione collaborativa con i genitori, attraverso anche interventi sulla figlia che possano
passare indirettamente tramite loro, proprio per rafforzare le loro risorse e restituirgli l’autorità.
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CONCLUSIONI E RIFLESSIONI
Attraverso questo elaborato ho voluto mettere in evidenza come l’approccio ai disturbi del
comportamento alimentare debba rispondere alla complessità di queste patologie.
Ho cercato di sottolineare le difficoltà e i vantaggi di un lavoro di rete, in quanto più figure
professionali ruotano attorno alla stessa persona e malattia: psichiatra o neuropsichiatra,
psicologi, pediatra, terapeuta familiare, nutrizionista, specialisti di medicina interna, psicologi
post-lauream, psicologi specializzandi, e, nel caso di ricoveri, infermieri ed educatori addetti al
pasto. Questa è la "Mente Sistemica".
Durante la mia esperienza ho potuto osservare che spesso in queste situazioni i singoli
specialisti si trovano a dover fare un vero e proprio “braccio di ferro” con la paziente o anche
con la famiglia stessa: c’è poco spazio mentale in quanto tutte le energie sono rivolte al proprio
corpo e al cibo e quindi è importante il lavoro sulla relazione sia con il sistema familiare che con
gli altri componenti dell’équipe di lavoro.
Spesso alla Neuropsichiatria affluiscono situazioni che appaiono agli esordi e richiederebbero
una presa in carico e un intervento precoce, che può divenire anche preventivo rispetto
all’evoluzione in patologie più gravi e croniche.
L’intervento precoce e coordinato può permettere di intervenire e risolvere tali situazioni: a
volte possono bastare anche solo gli incontri di valutazione per poter promuovere dei
cambiamenti trasformativi all’interno del sistema familiare.
Nel caso di Luce alla fine della valutazione abbiamo notato dei cambiamenti: la cartina
tornasole è stato l’umore di Luce che, da deflesso, è apparso negli ultimi incontri più sereno.
I genitori, pur mantenendo un certo grado di preoccupazione, hanno evidenziato certi
miglioramenti (pur non essendoci nel cibo) quali appunto un umore migliore e una lieve
apertura di Luce nei loro confronti, soprattutto verso la madre.
Sembra che dalla storia ufficiale, portata in prima seduta, in cui i genitori descrivevano Luce
come cambiata senza motivo, capricciosa, a volte anche cattiva nei loro confronti per le risposte
che dava, si sia passati lentamente alla ridefinizione di una storia familiare condivisa da tutti, in
cui sono emersi dei blocchi evolutivi, delle difficoltà da parte di tutti di stare nel proprio ruolo e
in cui è emersa la necessità di rimettere un po’ di ordine nei ruoli e compiti familiari.
Gli strumenti che maggiormente hanno permesso al sistema terapeutico e alla famiglia di
osservare tali dinamiche e, successivamente, di potervi riflettere secondo una modalità diversa,
sono stati l’utilizzo delle domande circolari, del disegno congiunto e del genogramma. Questi
strumenti sistemici hanno permesso alla famiglia di poter narrare e ri-narrare la propria storia
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insieme ai terapeuti, in un contesto conversazionale di co-costruzione. In un setting valutativo
all’interno del Servizio, in cui di norma ciò che interessa è la quantificazione del disagio e la
conseguente etichetta diagnostica, si è potuto associare alla necessaria valutazione
psicodiagnostica strutturata e standardizzata, uno spazio di narrazione, passando dalla linearità
alla circolarità del pensiero.
Come afferma Sluzki (1992), ogni storia che ci viene raccontata è una storia che merita la nostra
attenzione e la nostra curiosità, cercando di ri-narrare una “storia meglio formata” per il cliente,
attraverso maggiori connessioni, prospettive evolutive e di miglioramento e un punto di vista
alternativo non patologizzante.
Per riuscire in questo intento è necessario che il terapeuta adotti un approccio di “non esperto”
(Anderson, Goolishian, 1998) che permetta di costruire una conversazione terapeutica in cui sia
terapeuta che cliente partecipano alla co-costruzione di nuovi significati. Questa posizione
richiede un atteggiamento di grande curiosità da parte del terapeuta che lo ponga sempre in una
posizione di ascolto attivo e quindi sempre in attesa di “essere informato” dal cliente. Proprio
come diceva Cecchin (1997), la curiosità permette di fare ipotesi generando la ricorsività e non
la linearità.
“…la sofferenza che conduce le persone a cercare una terapia può essere letta come
espressione di un’inadeguatezza tra le storie che le persone raccontano di se stesse e la propria
attuale esperienza, oppure della discrepanza tra la loro esperienza e le storie che gli altri
raccontano di loro. Il processo terapeutico diventa allora soprattutto un processo di ri-
narrazione delle storie. In esso, i clienti recuperano la possibilità e la capacità di essere autori,
tramite l’interazione col terapeuta, di storie positive per sé, che attenuino la sofferenza o
perlomeno che le diano un senso”(Boscolo, Bertrando, 1996).
Penso che all’interno del contesto valutativo e di consultazione possa iniziare questo processo di
ri-narrazione in quanto, come già sottolineato, si evidenziano nella relazione con il terapeuta
delle modifiche delle storie narrate dai familiari.
Il percorso familiare può permettere al sistema di rivedere certi aspetti, secondo punteggiature
diverse e di poter trovare altre storie possibili che, pur nella trasformazione, ne mantengano il
senso e l’identità.
Penso che, dopo l’esperienza fatta all’ambulatorio e grazie alle osservazioni effettuate, durante
il percorso di diagnosi e valutazione (che già di per sé ha una valenza terapeutica), attraverso
l’utilizzo di vari strumenti sistemici, quali il genogramma, il ciclo vitale e le domande circolari
(citando i principali), possano avvenire cambiamenti che, in alcuni casi, come nelle situazioni ad
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esordio precoce, riescono a stabilire ulteriori equilibri e ridefinizioni di ruoli, senza la necessità
di intraprendere ulteriori percorsi terapeutici.
Questo naturalmente può avvenire nel momento in cui l’impegno è familiare, nel senso che vi è
una presa di responsabilità e di messa in discussione da parte di tutti delle proprie difficoltà,
evitando la totale delega del disagio al figlio o alla figlia che esprime un sintomo; tornando alle
riflessioni riportate nei primi capitoli, si parla di co-costruire un lavoro di rete e di équipe anche
con la famiglia.
Pensando alla natura multifattoriale di queste patologie, ma riflettendo anche rispetto alla
complessità generale delle situazioni e alla necessità di attivare più sistemi e individui nella co-
costruzione di interventi che rispondano a tale complessità, mi viene in mente una metafora
estrapolata da una giornata di studio a cui ho partecipato sui disturbi del comportamento
alimentare.
Il relatore ha paragonato il senso più profondo della terapia con i DCA alla “Tela di Penelope”.
Penelope, nella mitologia greca moglie di Ulisse, ogni notte tentava di congelare il tempo (da
notare l’associazione con il tempo congelato delle anoressiche e delle loro famiglie)
imbrigliando ogni forma e cambiamento, evitando, così, di scegliere uno dei proci a cui si
sarebbe dovuta legare in matrimonio. Ma la tela di Penelope, così come può rappresentare il
congelamento, il tempo sospeso, può anche essere una trama che può de-costruirsi per
ricombinarsi in forme nuove ed evolutive; così la terapia si pone l’obbiettivo, come più volte
detto, di ri-narrare, ri-costruire storie diverse della famiglia, all’interno anche di altre trame e
altri nodi che definiscono il lavoro di rete.
Vorrei concludere facendo un riferimento alla mia esperienza formativa: durante il percorso dei
quattro anni posso affermare che io stessa (ma voglio osare la presunzione di parlare anche per i
miei colleghi) attraverso l’utilizzo delle potenzialità e risorse del gruppo, ho narrato e rinarrato
la mia storia personale e professionale, nella condivisione e nel confronto continuo. Questo
lavoro mi ha permesso di riflettere su me stessa e sui miei pregiudizi, ma mi ha anche permesso,
soprattutto nell’ultimo anno di corso, in cui i vari pezzi del puzzle iniziano a prendere posto e
dare una visione complessiva del disegno finale, di farmi comprendere l’importanza del lavoro
d’équipe, della supervisione, della forza del gruppo.
Ho potuto capire che, a prescindere dalle varie tecniche utilizzate, ciò che differenzia questo
orientamento e metodo di lavoro da tutti gli altri, ciò che lo rende per me più ricco e completo, è
proprio l’ottica del lavoro in team. In questi anni di sicuro ho imparato a vedere e vivere il
gruppo, la supervisione, come un grande punto di forza, come una risorsa contro la stasi, la noia,
la perdita di curiosità e quindi di ipotizzazione.
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Concludo con un riferimento a Boscolo (1996) che afferma come l’apprendimento in gruppo
svolga la funzione di formare il terapeuta anche da un punto di vista personale; egli infatti
afferma che è possibile, all’interno del gruppo, fare un lavoro su se stessi che avviene nel qui ed
ora della formazione. Tali attività permettono quindi, come già più volte detto, la costruzione di
una “mente collettiva” che elabora il lavoro teorico e la pratica clinica, connettendoli in modo
circolare e ricorsivo.
“Penelope and her suitors” (J.W. Waterhouse, 1912)
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RINGRAZIAMENTI
Vorrei concludere questo elaborato ringraziando doverosamente chi ha accompagnato me e il
resto dell’equipaggio (rimanendo agganciata alla metafora della barca) in questi quattro anni di
viaggio verso la meta specializzazione.
Il ringraziamento va a tutti i didatti che nel corso del training si sono alternati regalando e
trasmettendo a me e ai miei colleghi la loro passione ed esperienza personale e professionale:
grazie al dott. Bassoli e al dott. Mariotti, due forti personalità che hanno sempre saputo mettersi
in discussione utilizzando l’ironia e l’umorismo, offrendoci tanti spunti di riflessione e di
arricchimento per il nostro percorso professionale e personale.
Grazie al dott. Ciotti, alla dott.ssa Severi e alla dott.ssa Venturi. Ognuno di loro ha portato la
propria visione delle cose, il proprio vissuto, la propria esperienza, il proprio modo di essere
psicoterapeuti.
Riflettendo, la nota positiva di aver potuto incontrare professionisti e personalità tanto diverse, è
proprio quella di aver potuto arricchire la nostra tavolozza di colori, in modo da poter in seguito,
nella formazione della nostra esperienza, creare le sfumature per noi più affini o più adatte a
seconda delle nostre diverse attitudini e personalità, a seconda delle situazioni che potremo
incontrare, osservare, descrivere, narrare e rinarrare in base alle nostre lenti di lettura e alle
nostre esperienze; la pluralità di voci e di punti di vista è fondamentale di fronte alle situazioni
complesse che conosceremo, e aver avuto la possibilità di ascoltare e vedere diversi
professionisti all’opera sui casi ci ha aiutato, almeno parlo per me, nel cercare di essere sempre
pronti all’apertura, alla flessibilità e al cambiamento.
Grazie anche a tutti i professionisti che hanno portato le loro esperienze e realtà, anche solo per
una volta, attraverso i seminari e le lezioni scientifiche.
Grazie alla dott.ssa Silvia Severi, allieva didatta paziente e attenta alle nostre esigenze, che ha
saputo comprendere e contenere le nostre ansie, paure e incertezze, cercando anche di stimolarci
a metterci sempre in discussione.
I ringraziamenti sono doverosi anche per chi mi ha sostenuto e accompagnato per tutto il mio
percorso al di fuori della scuola.
Un ringraziamento davvero speciale è rivolto innanzitutto alla dott.ssa Cesti Donata,
neuropsichiatra e psicoterapeuta, persona dalla grande personalità e umanità che ha saputo
trasmettermi, durante i quattro anni di tirocinio, la sua passione per questo lavoro, l’importanza
del contatto empatico, dell’accoglienza e del contenimento, insegnandomi a voler sempre essere
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curiosa, cercando di trovare alternative possibili alle situazioni, mettendoci il cuore e “la
pancia” (come direbbe il professor Carmine Saccu).
Grazie alla dott.ssa Zaccarini Alessia che mi ha sostenuta, consigliato e contenuta nei momenti
di sconforto.
Grazie alla Neuropsichiatria di Lugo e Ravenna in cui mi sono sentita accolta e ascoltata, in cui
soprattutto ho potuto veramente fare esperienza di cui farò tesoro e che mi potrà essere utile
lungo il mio percorso professionale.
Concludo ringraziando i miei familiari che più che altro mi hanno sopportata!
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