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Vol. 47 • N. 186 aprile-giugno 2017 Redazione Editoriale Valentina Bàrberi Tel. 050 3130376 [email protected] Amministrazione Pacini Editore Srl Via Gherardesca, 1 56121 Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 [email protected] Stampa Industrie Grafiche Pacini, Pisa Abbonamenti Prospettive in Pediatria è una rivista trimestrale. I prezzi dell’abbonamento annuo sono i seguenti: PREZZO SPECIALE RISERVATO A SOCI SIP: € 20,00. Contattare: fax +39 02 45498199 E-mail: [email protected] Italia € 60,00; estero € 70,00; istituzionale € 60,00; specializzandi € 35,00; fascicolo singolo € 30,00 Le richieste di abbonamento vanno indirizzate a: Prospettive in Pediatria, Pacini Editore Srl, Via Gherardesca 1, 56121 Pisa – tel. +39 050 313011 – fax +39 050 3130300 – E-mail: [email protected] I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle disposizioni conte- nute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appositamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione. Ai sensi dell’articolo 7 del D.Lgs. 196/2003, in qualsiasi momento è possibile consultare, modificare o cancellare i dati o opporsi al loro utilizzo scrivendo al Titolare del Trattamento: Pacini Editore Srl, Via Gherardesca 1, 56121 Pisa. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, E-mail: [email protected] e sito web: www.aidro.org. © Copyright by Pacini Editore Srl Direttore Responsabile: Patrizia Alma Pacini Rivista stampata su carta TCF (Total Chlorine Free) e verniciata idro. Direttore Generoso Andria, Napoli Comitato di Direzione Andrea Biondi, Monza Francesco Chiarelli, Chieti Giovanni Cioni, Pisa Giovanni Corsello, Palermo Achille Iolascon, Napoli Alberto Martini, Genova Luigi Daniele Notarangelo, Boston Fabio Sereni, Milano Riccardo Troncone, Napoli Comitato Editoriale Salvatore Auricchio, Napoli Sergio Bernasconi, Parma Silvano Bertelloni, Pisa Mauro Calvani, Roma Liviana Da Dalt, Padova Mario De Curtis, Roma Maurizio de Martino, Firenze Pasquale Di Pietro, Genova Alberto Edefonti, Milano Ciro Esposito, Napoli Carlo Gelmetti, Milano Giuseppe Maggiore, Ferrara Gianantonio Manzoni, Milano Bruno Marino, Roma Pierpaolo Mastroiacovo, Roma Eugenio Mercuri, Roma Paolo Paolucci, Modena Luca Ramenghi, Genova Daria Riva, Milano Martino Ruggieri, Catania Franca Rusconi, Firenze Francesca Santamaria, Napoli Luigi Titomanlio, Parigi Pietro Vajro, Salerno Massimo Zeviani, Cambridge, UK Gianvincenzo Zuccotti, Milano Redazione Scientifica Roberto Della Casa (Redattore Capo) Simona Fecarotta Giusy Ranucci

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Redazione EditorialeValentina BàrberiTel. 050 3130376 [email protected]

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Comitato di DirezioneAndrea Biondi, MonzaFrancesco Chiarelli, ChietiGiovanni Cioni, PisaGiovanni Corsello, PalermoAchille Iolascon, NapoliAlberto Martini, GenovaLuigi Daniele Notarangelo, BostonFabio Sereni, MilanoRiccardo Troncone, Napoli

Comitato EditorialeSalvatore Auricchio, NapoliSergio Bernasconi, ParmaSilvano Bertelloni, PisaMauro Calvani, RomaLiviana Da Dalt, PadovaMario De Curtis, RomaMaurizio de Martino, FirenzePasquale Di Pietro, GenovaAlberto Edefonti, MilanoCiro Esposito, NapoliCarlo Gelmetti, MilanoGiuseppe Maggiore, FerraraGianantonio Manzoni, MilanoBruno Marino, RomaPierpaolo Mastroiacovo, RomaEugenio Mercuri, RomaPaolo Paolucci, ModenaLuca Ramenghi, GenovaDaria Riva, MilanoMartino Ruggieri, CataniaFranca Rusconi, FirenzeFrancesca Santamaria, NapoliLuigi Titomanlio, ParigiPietro Vajro, SalernoMassimo Zeviani, Cambridge, UKGianvincenzo Zuccotti, Milano

Redazione ScientificaRoberto Della Casa (Redattore Capo)Simona FecarottaGiusy Ranucci

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Ematologia pediatrica (a cura di Achille Iolascon)

Presentazione ............................................................................................................................................. 83

Il metabolismo del ferro: i nuovi tasselli di un grande puzzleAntonella Gambale, Luigia De Falco, Roberta Russo, Immacolata Andolfo, Achille Iolascon .............................................................................................................................................. 85

Quando i globuli rossi aumentanoDomenico Roberti, Immacolata Tartaglione, Maddalena Casale, Saverio Scianguetta, Silverio Perrotta ............................................................................................................................................ 97

Anemia aplastica acquisita: novità sulla diagnosi e il trattamentoCarlo Dufour, Filomena Pierri ................................................................................................................... 108

Chirurgia pediatrica (a cura di Ciro Esposito)

Presentazione ............................................................................................................................................. 117

La chirurgia mini-invasiva nelle urgenze addominali in età pediatricaFrancesco Turrà, Maria Escolino, Alessandra Farina, Mariapina Cerulo, Alessandro Settimi,Serena Izzo, Giuseppe Cortese, Ciro Esposito ..................................................................................... 119

Malformazioni ano-rettali: classificazioni e strategie di curaErnesto Leva, Giulia Brisighelli, Anna Morandi ................................................................................... 126

Nuove strategie chirurgiche nel trattamento dell’atresia dell’esofagoMaria Luisa Conighi, Cosimo Bleve, Elisa Zolpi, Lorenzo Costa, Salvatore Fabio Chiarenza ......................................................................................................................... 138

Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)

La trombofilia in età pediatricaMaurizio Margaglione, Elvira Grandone ................................................................................................ 150

Prospettive in Pediatria

INDICE N. 186aprile-giugno 2017

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Prospettive in Pediatriaaprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • P. 83

Ematologia pediatrica

Il midollo osseo costituisce uno degli organi più grandi del nostro organismo. Basti pensare che in un adulto normale esso pesa approssimativamente 3 kg e occupa un volume variabile da 1,5 a 3 litri.Tale tessuto è in grado di generare un notevole numero di cellule ogni giorno e ciò in maniera molto regolata, in modo da mantenere costante il numero di quelle che circolano nel sangue. La produzione quotidiana rag-giunge le 4-5 x 1011/cellule/giorno; numeri simili si osservano solo per l’epitelio intestinale e per la produzione di spermatozoi.Per far fronte a tali volumi produttivi, il midollo ha a disposizione un ristretto numero di cellule staminali, che sono in grado in una prima fase di replicare in maniera asincrona, in modo che una delle cellule figlie conservi la staminalità e di differenziare, portando alla produzione di cellule che sono molto differenti tra di loro per mor-fologia e funzione (globuli bianchi, piastrine e globuli rossi).Tale processo è sotto il controllo di fattori trascrizionali che agiscono per solito in maniera sequenziale. Nel caso della linea eritroide, in una fase più tardiva la produzione è sotto il controllo dell’eritropoietina e infine del ferro.Negli articoli che seguono verranno presi in considerazione le anemie che derivano dal deficit di ferro, cer-cando di spiegare i meccanismi con cui si possono realizzare. Una delle forme di anemia più comuni è rap-presentata dall’anemia microcitica; in questo articolo si mettono in evidenza le novità circa la fisiopatologia del metabolismo del ferro. Si delineano anche i comportamenti diagnostici per le forme ereditarie di anemia da patologia del metabolismo di questo oligoelemento. Nel secondo articolo verranno presi in considerazione sia il meccanismo di controllo del numero dei globuli rossi dipendente dalla produzione di eritropoietina, come pure le cause di aumento del numero di tali cellule dovute a mutazioni nel pathway dell’eritropoietina. Nell’ultimo lavoro, infine, verranno delineate le anomalie, sia genetiche che acquisite, che possono colpire le cellule più primordiali che realizzano le aplasie midollari. In questo caso si assiste al realizzarsi di piastrinopenie e leu-copenie, che di solito precedono la comparsa dell’anemia vera e propria. Nell’articolo si evidenzia come per pazienti pediatrici sia necessario un accurato work-up diagnostico, allo scopo di escludere disordini sottostanti (in particolare condizioni congenite) che richiedono approcci differenti.

Achille IolasconCEINGE - Biotecnologie Avanzate,

Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche,Università di Napoli “Federico II”

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aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 85-96 Prospettive in Pediatria

Ematologia pediatrica

Il metabolismo del ferro: i nuovi tasselli di un grande puzzle

Antonella Gambale1 2

Luigia De Falco1 2

Roberta Russo1 2

Immacolata Andolfo1 2

Achille Iolascon1 2

1 CEINGE, Biotecnologie Avanzate, Napoli; 2 Dipartimento

di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche,

Università “Federico II”, Napoli

Iron is essential for biological systems, and is involved in many biological processes in-cluding oxygen transport, DNA synthesis and ATP generation. It can also damage or kill cells, leading to the generation of reactive oxygen species (ROS) with the subsequent production of oxidative stress and ROS-dependent cell death. For these reasons, iron homeostasis is finely regulated. Indeed, some hereditary disorders are due to mutations in genes involved in iron metabolism that can result in either iron overload, mostly in liver and heart, or iron deficiency. Of note, in some situations these conditions can also coex-ist: this is the case of DMT1 deficiency that is characterized by the association of liver iron overload and iron deficiency anemia. The key regulator of iron metabolism is the liver hormone hepcidin, which regulates intestinal iron absorption, plasma iron concentrations and tissue iron distribution.Hepcidin production is regulated by the concentration of extracellular and intracellular iron; moreover, its synthesis is modulated by the iron requirements of erythroid precursors for haemoglobin synthesis in bone marrow, although this molecular mechanism is not yet well-understood. Recently, an erythroblast produced hormone has been identified, termed erythroferrone, which relates iron concentration and hepcidin levels with erythropoiesis, adding another element to this framework. Knowledge of iron-regulating mechanisms have allowed the possibility of new pharmacological approaches focused on modulation of hepcidin synthesis.

Summary

Il ferro è un elemento essenziale per la vita: è implicato in diversi meccanismi biologici tra cui il trasporto di ossigeno, la sintesi del DNA e la generazione di ATP. Allo stesso tempo è potenzialmente tossico per le sue capacità di generare specie reattive dell’ossigeno (ROS), coinvolte nello stress ossidativo e nei segnali di sopravvivenza cellulare e morte cellulare. Il bilancio di tale ione è quindi regolato con precisione. In alcune patologie ere-ditarie, infatti, l’alterazione di uno degli attori di tale scenario può comportare, a seconda del gene coinvolto, accumulo di ferro a livello di diversi organi e apparati (fegato e cuore in primis), oppure sideropenia. In condizioni particolari come il deficit di DMT1, tali condizioni possono peraltro coesistere: vi è accumulo di ferro in pazienti con anemia sideropenica, a causa del mancato utilizzo da parte del midollo. Uno dei meccanismi chiave di tale bilancio è rappresentato da un ormone prodotto dal fegato, l’epcidina, che inibisce l’assorbimento intestinale e il rilascio del ferro dai macrofagi. La produzione della stessa epcidina è a sua volta regolata dalla quantità di ferro disponibile e dalla produzione midollare di globuli rossi, ma ancora non si conosce bene tale meccanismo regolatorio. Recentemente è stata individuata una molecola che rappresenta uno dei ponti del complesso meccanismo ferro-epcidina-eritropoiesi e che aggiunge un altro tassello a tale quadro. Dalla conoscenza di tali meccanismi deriva anche la possibilità di interagire sugli stessi: negli ultimi anni gli stu-di e le conoscenze del meccanismo di regolazione del ferro nell’organismo umano hanno aperto le porte a nuovi approcci farmacologici che puntano sulla modulazione del bilancio marziale, mettendo a punto strategie terapeutiche che hanno come target l’epcidina.

Riassunto

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A. Gambale et al.

GlossarioASC: anemia sideroblastica congenitaDMT1: trasportatore dei metalli divalenti di tipo 1EPO: eritropoietina ERFE: eritroferroneFPN: ferroportinaFTH: catena pesante di ferritinaFTL: catena leggera di ferritinaID: deficit di ferro (iron deficiency) IDA: anemia sideropenica (iron deficiency anemia)IRE: elementi di risposta al ferro IRIDA: anemia sideropenia refrattaria al ferroHb: emoglobinaHIF: fattore inducibile dall’ipossiaHMOX1: eme ossigenasi-1 LFR: recettore della lattoferrina MLASA: miopatia - acidosi lattica - anemia siderobla-stica NTBI: ferro non legato alla transferrinaRMN: risonanza magnetica nucleareROS: specie reattive dell’ossigenoSQUID: superconducting quantum interference de-viceTFR: recettore della transferrina

Metodologia di ricerca bibliograficaLa ricerca degli articoli rilevanti è stata effettuata tra-mite la banca bibliografica PubMed, utilizzando come parole chiave: “iron metabolism”, “hepcidin”, “hemo-chromatosis”.

IntroduzioneIl ferro è un elemento essenziale per la vita, coinvolto in una varietà di importanti processi biologici tra cui il trasporto di ossigeno (integrato nell’eme dell’emoglo-bina), la sintesi del DNA (come cofattore della ribo-nucleotide reduttasi) e la generazione di ATP (come cofattore di molte proteine nel ciclo dell’acido citrico e nella catena di trasporto degli elettroni). Allo stesso tempo è potenzialmente tossico per le sue capacità di generare specie reattive dell’ossigeno (ROS), coin-volte nello stress ossidativo e nei segnali di sopravvi-venza e morte cellulare. Nell’organismo umano, in vir-tù delle di tali caratteristiche, l’assorbimento e utilizzo del ferro è finemente regolato, tramite l’interazione di una grande quantità di mediatori e processi biologici (Fig. 1). Tale regolazione risulta essenziale soprattutto in quanto non esiste un processo fisiologico di elimi-nazione del ferro in eccesso.

AssorbimentoL’organismo umano contiene circa 3-4 gr di ferro. I due terzi di tale quantità sono contenuti nei globuli rossi, all’interno dell’emoglobina; il resto è invece stipato come ferro di deposito legato alla ferritina, come ferro circolante legato alla transferrina, o legato a enzimi

e citocromi. La fonte del ferro è rappresentata dall’a-limentazione: la dieta di un soggetto adulto fornisce circa 10-20 mg di ferro al giorno, dei quali solo 1-2 mg sono assorbiti. Il ferro della dieta può essere legato o non legato a una molecola di eme. Il ferro inorganico, non legato all’eme, è presente nel lume intestinale (a livello del duodeno) come ferro ferrico (Fe3+) e viene ridotto a ferro ferroso (Fe2+) dall’enzima ferro-redutta-si, citocromo  b duodenale (DCYTB), presente sulla membrana apicale dell’enterocita, e attraversa quindi la membrana duodenale mediante il trasportatore dei metalli divalenti (DMT1). Il ferro legato all’eme, inve-ce, è assorbito, con un’efficienza circa 5 volte maggio-re rispetto al ferro inorganico, attraverso un sistema di trasporto ancora non ben conosciuto, probabilmente rappresentato dalla proteina HCP1. Nel citosol l’eme viene poi degradato dall’enzima eme ossigenasi-1 (HMOX1), liberando lo ione. Giunto nella cellula in queste due modalità, il ferro viene quindi esportato nel sangue attraverso la ferroportina, FPN (Donovan et al., 2000), presente sulla membrana basolaterale di enterociti, macrofagi ed epatociti. Lo ione viene quindi ossidato a Fe3+, dall’Efestina, prima di legare la transferrina ed essere trasportato in periferia (Fuqua et al., 2014). La maggior parte del ferro giunto in circo-lo (80%) arriva al midollo osseo, dove viene utilizzato dagli eritroblasti per la sintesi di emoglobina, mentre il restante 20% viene utilizzato per altri processi me-tabolici (respirazione, sintesi DNA ecc.).

DistribuzioneIn condizioni fisiologiche in circolo ogni molecola di transferrina lega due atomi di ferro con una satura-zione inferiore al 45%. La transferrina, legata al ferro, viene legata dal recettore della transferrina di tipo  I (TFR1) presente sugli eritroblasti. Tale complesso viene internalizzato attraverso il meccanismo di en-docitosi mediata da recettore (Fig. 1); nell’endosoma così formato l’ambiente acido, creato grazie all’azione di una pompa protonica, promuove il rilascio di fer-ro dalla transferrina. Dall’endosoma il ferro, ridotto a Fe2+ dall’enzima con attività ferroreduttasica STEAP3, viene trasportato al citosol mediante il trasportatore DMT1. La rilevanza del ciclo della transferrina-TFR1 nella fornitura di ferro alle cellule eritroidi è dimostrata dalla severa anemia sideropenica osservata in pa-zienti e modelli animali con mutazioni nel gene co-dificante la transferrina (atransferrinemia). Non sono invece stati osservati pazienti con mutazioni puntifor-mi in TFR1, mentre in modelli murini in cui è silenziato il gene vi è morte in utero, con grave anemia durante l’embriogenesi (Chen et al., 2015). Oltre al recettore di tipo I, esiste anche il recettore della transferrina di tipo II (TFR2) il quale, avendo una minore affinità per la transferrina, ha un ruolo ridotto nell’assorbimento di ferro, ma agisce da sensore della saturazione del-la transferrina. Tale recettore è ampiamente espresso sulla membrana cellulare degli eritroblasti, dove mo-

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Update sul metabolismo del ferro

dula il segnale del recettore dell’eritropoietina (Nai et al., 2015)(vedi paragrafo Regolazione). In condizioni di sovraccarico di ferro, invece, la sa-turazione della transferrina è elevata e il ferro è pre-sente nel plasma come NTBI (ferro non legato alla transferrina). L’NTBI, a differenza del ferro legato alla transferrina, viene captato preferenzialmente dal fe-gato.

DepositoNel citosol, il ferro è conservato legato a molecole di ferritina; ogni molecola può legare fino a 4500 ato-mi di ferro, sequestrandolo in caso di eccesso e rila-sciandolo in caso di deficienze di ferro. La ferritina si presenta come eteropolimero, essendo formata da 24 subunità di catene pesanti (FTH1) e catene leggere (FTL) di ferritina. Tali catene sono ubiquitarie, ma l’e-spressione delle due forme varia nei differenti tessuti e in risposta a condizioni patologiche. FTH1 ha attivi-tà di ferrossidasi, necessaria per l’inserimento degli atomi di ferro nell’involucro di ferritina, mentre FTL promuove il trasferimento di elettroni attraverso il po-limero; l’entrata di ferro nella ferritina è facilitato dalle proteine PCBPs (PCBP1 e PCBP2), che agiscono da molecole chaperone del ferro. La ferritina conserva il ferro in una forma mineraliz-zata, non tossica per la cellula, ma per poter essere utilizzato deve essere rilasciato da essa. Ciò avviene mediante un meccanismo di autofagia, che coinvolge la degradazione lisosomiale della ferritina, in condi-zioni di deficienze di ferro. Recentemente, NCOA4, il recettore nucleare coattivatore di tipo 4, è stato iden-tificato come proteina coinvolta nella degradazione lisosomiale della ferritina: NCOA4 interagisce con FTH1 e indirizza il complesso della ferritina alla de-gradazione nei lisosomi, un processo detto di “ferriti-nofagia”. Nei modelli di topo knock-out, la mancanza del meccanismo di ferritinofagia porta ad accumulo della ferritina e anemia da deficienza di ferro per ridot-ta disponibilità di ferro per l’eritropoiesi e/o diminuito rilascio di ferro da parte di altre cellule coinvolte nel metabolismo sistemico del ferro.

RicicloLa maggior parte del ferro utilizzato dal corpo umano deriva da un imponente processo di riciclo. Tale proces-so origina dai globuli rossi che, dopo circa 120 giorni, si avviano a essere distrutti e fagocitati da macrofagi di milza, fegato e midollo osseo, con liberazione dell’eme contenente il ferro. L’eme viene quindi trasportato nel citosol dei macrofagi dal trasportatore dell’eme HGR1; a tale livello l’eme ossigenasi 1 (HMOX1) libera il ferro, che viene conservato nella ferritina o esportato dalla ferroportina per il suo riutilizzo.

Regolazione a livello cellulareIl metabolismo del ferro è controllato mediante la re-

golazione post-trascrizionale di diversi geni che par-tecipano a tale complesso meccanismo. Molti di que-sti geni codificano per RNA messaggero che contiene elementi di risposta al ferro (IRE), strutture a forcina localizzate al 5’ o al 3’ delle regioni non tradotte del gene. Alle sequenze IRE si legano proteine regola-torie, IRP1 e IRP2; tale legame avrà effetti diversi a seconda che la sequenza IRE sia localizzata al 5’ o al 3’ del gene. Solitamente le IRE al 5’ si trovano in geni che agiscono diminuendo la quantità di ferro libero nella cellula, come la ferritina e le ferroportina, mentre le IRE al 3’ si ritrovano in geni coinvolti nell’entrata del ferro, come TFR1 o DMT1. In condizioni di deficit di ferro, le proteine IRP legano le sequenze IRE al 5’, bloccando il reclutamento del ribosoma e inibendo quindi la traduzione di geni che controllano negativa-mente il metabolismo del ferro; contemporaneamente le molecole di RNA che codificano per proteine che agiscono positivamente sul bilancio sono legati dalle IRP a livello della sequenza IRE posta al 3’, tale le-game stabilizza la molecola di RNA, proteggendola dalle endonucleasi e aumentando la produzione pro-teica. Nel sovraccarico di ferro, le IRP non legano le IRE, consentendo l’espressione dei messaggeri con IRE al 5’ e degradazione dei messaggeri con IRE al 3’ (Selezneva et al., 2013).

Il ruolo centrale dell’epcidinaIl principale regolatore del bilancio del ferro è l’epcidi-na, un ormone prodotto dal fegato in risposta a side-ropenia e infiammazione. L’epcidina esplica la sua azione legando la FPN, de-terminandone l’endocitosi e la conseguente degrada-zione. In tal modo l’aumento dell’epcidina, in condi-zioni di eccesso di ferro, comporta un ridotto rilascio di ferro da parte di enterociti (riducendo l’assorbimen-to intestinale di ferro) e dei macrofagi di milza e fegato (comportando deficit del riciclo del ferro), con conse-guente riduzione della biodisponibilità.In condizioni di sideropenia, invece, l’epcidina è dimi-nuita, consentendo l’espressione della FPN in mem-brana, con conseguente assorbimento intestinale e riciclo del ferro, aumentando la biodisponibilità dello stesso per l’eritropoiesi (Hentze et al., 2017)

Ruolo del ferro nell’eritropoiesiL’eritropoiesi è un meccanismo molto complicato, sot-to l’influsso di vari fattori, in primis la biodisponibilità di ferro. Il ferro influenza l’eritropoiesi, contribuendo alla regolazione della produzione di eritropoietina (EPO) da parte del rene, attraverso un’azione coor-dinata di IRP1 e del fattore inducibile dall’ipossia di tipo 2 (HIF2-α). In condizioni di deficit di ferro, infatti, IRP1 si lega alla IRE posta al 5’ di HIF2α, limitando l’espressione dello stesso fattore e, di conseguen-za, l’espressione dell’EPO. Infatti, topi knock-out per IRP1, sviluppano grave policitemia durante la crescita o in condizioni di deficit di ferro per deregolazione di

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HIF2α e EPO. Vi è quindi un profondo legame tra bio-disponibilità del ferro, regolata dall’epcidina, ed eritro-poiesi. Recentemente è stato identificato, inoltre, un “regolatore eritroide” dell’epcidina, responsivo all’E-PO, chiamato eritroferrone (ERFE). EPO aumenta il rilascio da parte degli eritroblasti di ERFE, che agisce riducendo l’epcidina, favorendo così l’assorbimento di ferro e il rilascio dai tessuti (Kautz et al., 2014). A oggi non si conosce il meccanismo di azione di ERFE sul fegato, né quale sia il suo recettore e la relativa via di trasmissione del segnale in cui è coinvolto. Anche TFR2 regola la produzione di globuli rossi inte-ragendo direttamente con il recettore dell’eritropoieti-na (EPOR), favorendone l’esporto e la stabilizzazione sulla superficie cellulare: TFR2 connette l’eritropoiesi alla regolazione di epcidina attraverso i livelli di ferro legati alla transferrina e modula la risposta dell’EPO per adattare l’eritropoiesi alla disponibilità di ferro e, allo stesso tempo, coordina le richieste di ferro attra-verso il rilascio di ERFE (Fig. 1).

Assorbimento di ferro nel primo anno di vitaCome per molti altri processi metabolici, anche per il metabolismo del ferro vi sono discrepanze tra lattante e adulto: la prima consiste nell’alimentazione, a base esclusivamente di latte nei primi mesi di vita. A differen-za dell’adulto, nel neonato e nel lattante, il trasporto del

ferro a livello dell’enterocita non avviene tramite DMT1, ma è veicolato dal recettore della lattoferrina (LfR), che ne consente un assorbimento altamente efficiente. Il latte materno, infatti, presenta valori relativamente ri-dotti di ferro, ma alta concentrazione di lattoferrina, che lega a livello della membrana apicale dell’enterocita l’L-fR e viene internalizzata insieme al ferro a esso legata. Anche il sistema di regolazione negativo dell’assorbi-mento del ferro mediato dall’epcidina è diverso tra lat-tante e adulto: tale sistema, finemente regolato dopo il nono mese di vita, non è presente alla nascita. Infatti nei lattanti non sideropenici la supplementazione ora-le con ferro comporta aumento dell’Hb (dovuto all’au-mentato assorbimento del ferro, non inibito dall’epci-dina); dopo il nono mese di vita, invece, la supple-mentazione non comporta ulteriore innalzamento dei paramentri emocromocitometrici, aumentando i valori di epcidina (Lonnerdal et al., 2015). Studi su model-li animali hanno dimostrato che variazioni dell’ome-ostasi del ferro nei ratti di 10 giorni non modificano l’espressione di DMT1 e FPN; la regolazione di tali proteine, legata principalmente all’azione dell’epcidi-na, è presente invece a 20 giorni di vita. La conferma sull’uomo deriva invece dai piccoli affetti da IRIDA (vedi paragrafo) che presentano i segni classici della patologia dopo circa 4 mesi di vita (De Falco et al., 2016).

Figura 1. Metabolismo del ferro.In figura le molecole principalmente coinvolte nel metabolismo del ferro nei vari compartimenti: enterocita, epatocita, macrofago e precursore eritroide.

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Patologie del metabolismo del ferro

Forme ereditarie (Tab. I).Anemia da deficit di Divalent Metal Transporter 1 (DMT1) Il deficit di DMT1 è una condizione recessiva estre-mamente rara, attualmente sono descritte solo 6 fami-glie. Nell’uomo, mutazioni in DMT1 causano anemia microcitica e ipocromica presente già dalla nascita, di entità variabile, dovuta a una ridotta utilizzazione del ferro da parte degli eritroblasti. Vi è anche elevata sa-turazione della transferrina, ferritina moderatamente aumentata e sovraccarico di ferro epatico: probabil-mente ciò deriva dall’assorbimento di ferro eme con la dieta (non inibito dal deficit di DMT1) e dal mancato utilizzo midollare.Il trattamento con EPO migliora i livelli di emoglobina, ma non l’MCV e l’MCH. Probabilmente l’eritropoie-tina non migliora l’utilizzazione del ferro, ma agisce inibendo la morte cellulare (apoptosi) dei progenitori eritroidi mutati in DMT1 e degli eritroblasti in differen-ziamento.

Anemie sideroblastiche congeniteLe anemie sideroblastiche congenite (ASC) sono un gruppo eterogeneo di anemie ereditarie, caratterizza-te da depositi di ferro nei mitocondri dei precursori eritroidi. L’anemia solitamente è microcitica, ma il riscontro di MCV normale o elevato non esclude una ASC, la cui unica caratteristica patognomonica è l’anello sidero-blastico, ossia la distribuzione perinucleare a forma di anello (completo o incompleto) dei mitocondri ricchi di ferro. Nella maggior parte dei pazienti è presente re-ticolocitopenia, eritropoiesi inefficace e sovraccarico secondario di ferro. Sebbene l’anemia sia spesso l’u-nica manifestazione della malattia, diverse ASC sono sindromiche, potendo associarsi a fenotipi neuromu-scolari e metabolici che, in alcuni casi, rappresentano i sintomi più evidenti. L’insorgenza ed entità dei segni e sintomi è molto variabile. Molti sono i geni che, se mutati, possono portare ad ASC. Di seguito le principali forme (Bottomley-Fleming, 2014).ALAS2. Le mutazioni in tale gene spiegano circa il 40% delle ASC. Tale patologia si trasmette con moda-lità X-linked colpendo soprattutto i maschi. Si presenta solitamente prima dei 40 anni, con anemia microcitica ipocromica a severità variabile e sovraccarico di fer-

Tabella I. Patologie del metabolismo del ferro: forme ereditarie

Patologia OMIM Trasmissione Geni associati Locus genico

Anemia sideropenica refrattaria al ferro 206200 AR TMPRSS6 22q12.3

Anemia microcitica ipocromica 206100 AR SLC11A2 (DMT1) 12q13.12

Anemia sideroblastica con atassia 301310 XLR ABCB7 Xq13.3

Anemia sideroblastica X-linked 300751 XLR ALAS2 Xp11.21

Anemia sideroblastica piridossina-refrattaria 205950 AR SLC25A38 3p22.1

Anemia sideroblastica piridossina-refrattaria 205950 AR GLRX5 14q32.13

Miopatia, acidosi lattica e anemia sideroblastica 1 600462 AR PUS1 12q24.33

Miopatia, acidosi lattica e anemia sideroblastica 2 613561 AR YARS2 12p11.21

Sindrome da anemia megaloblastica tiamina-responsiva

249270 AR SLC19A2 1q24.2

Emocromatosi di tipo 1 235200 AR HFE 6p22.2

Emocromatosi di tipo 2A 602390 AR HFSE2 (HJV) 1q21.1

Emocromatosi di tipo 2B 613313 AR HAMP 19q13.12

Emocromatosi di tipo 3 604250 AR TFR2 7q22.1

Emocromatosi di tipo 4 606069 AD SLC40A1 2q32.2

AD: autosomico dominante; AR: autosomico recessiva; XLR: X-linked recessiva

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ro, con aumento della saturazione della transferrina e iperferritinemia. Il trattamento consiste nella sommini-strazione di piridossina, a cui i pazienti rispondono in percentuale e modalità diverse. Nei casi in cui vi sia as-senza di risposta o risposta non soddisfacente, il tratta-mento è sintomatico, basato sul supporto trasfusionale e, in caso di emosiderosi, ferrochelanti. Essendo una patologia X-linked le femmine general-mente risultano portatrici non affette della patologia, in rari casi possono presentare sintomi: • femmine con mutazione in ALAS2 possono pre-

sentare ASC conclamata già dall’età pediatrica per lyonizzazione preferenziale del cromosoma X sano (con un fenotipo simile a quello dei maschi);

• possono presentare i segni della ASC solo in età avanzata, per esaurimento del clone che espri-me l’allele sano e prevalenza invece di quello che esprime il gene ALAS2 mutato;

• sono descritti rari casi di femmine eterozigoti per una mutazione particolarmente severa di ALAS2 che presentano anemia macrocitica. Ciò è pro-babilmente dovuto alla contemporanea presenza di precursori eritroidi che esprimono l’allele e che vanno incontro ad apoptosi, e precursori eritroi-di che esprimono l’allele normale. Per cercare di produrre un numero di globuli rossi adeguato alle esigenze del soggetto tali cellule vanno incontro a stress midollare, differenziandosi in cellule con MCV aumentato (Sankaran et al., 2015).

SLC25A38. Le mutazioni in SLC25A38 sono le cause più comuni di ASC trasmessa con modalità autoso-mica recessiva. L’anemia in questi pazienti, microciti-ca e ipocromica, solitamente insorge in epoca molto precoce (prime settimane o primi mesi di vita) e non risponde al trattamento con piridossina. Rispetto alla forma da mutazione in ALAS2, l’anemia è general-mente più severa: quasi tutti i pazienti necessitano di supporto trasfusionale cronico e chelanti del ferro. La proteina codificata dal gene SLC25A38 sembra es-sere espressa nella membrana mitocondriale interna dei precursori eritroidi e probabilmente ha un ruolo nell’importo mitocondriale della glicina.GLRX5. In un piccolo numero di pazienti affetti da ASC trasmessa con modalità autosomico recessiva sono state osservate mutazioni nel gene GLRX5, un gene che codifica per una proteina mitocondriale coinvolta nella biogenesi dei complessi [Fe-S]. CSA X-linked con atassia. Sono stati descritti pochis-simi pazienti affetti da tale forma. Oltre all’anemia si-deroblastica, generalmente lieve e microcitica, questi pazienti presentano problematiche neurologiche come ritardo motorio, l’atassia e disartria. Il difetto molecolare è stato individuato a carico del gene ABC7, localizzato all’interno della citobanda Xq13. La proteina codificata da tale gene è un trasportatore ATP-binding cassette (ABC), presente nella membrana interna mitocondria-le, è coinvolta nell’omeostasi del ferro. MLASA. È un raro disordine mitocondriale caratteriz-

zato da miopatia, acidosi lattica e anemia siderobla-stica, sebbene il fenotipo possa essere molto varia-bile. Per quanto sia un disordine del mitocondrio, è legata a mutazioni nei geni nucleari, PUS1 e YARS2 e si trasmette in modo autosomico recessivo. PUS1 codifica per la pseudouridina sintasi nucleare 1 che aggiunge residui di pseudouridina ai tRNA mentre YARS2 codifica per la tyrosyl-tRNA mitocondriale.

IRIDAL’IRIDA, acronimo di Iron Refractory Iron Deficiency Anemia, è un’anemia sideropenica, secondaria ad al-terazioni del metabolismo dell’epcidina. La patologia è legata a mutazioni del gene TMPRSS6, che codifica per una proteasi transmembrana, matrip-tasi2. Tale proteina, specifica degli epatociti, regola negativamente l’espressione dell’epcidina tramite il taglio proteolitico del suo target HJV, presente sulla membrana epatocitaria, in maniera ferro-dipendente. Le mutazioni in tale gene comportano la perdita del controllo negativo sull’epcidina, la cui concentrazione risulta elevata in circolo (o comunque non adeguata al deficit di ferro). In pazienti affetti si evidenzia quin-di anemia nettamente microcitica con bassi livelli di ferritina e saturazione della transferrina: il trattamento per os non comporta miglioramento del quadro clini-co, mentre il trattamento per via parenterale comporta miglioramenti parziali, comunque temporanei. L’insor-genza dei sintomi è generalmente in età pediatrica, comunque dopo i primi 6 mesi di vita; generalmen-te i piccoli pazienti presentano parametri di crescita staturo-ponderali e sviluppo psico-fisico nella norma. Modelli murini della patologia (sia il topo mask, in cui la proteina manca del dominio proteasico, che il topo knock-out) mostrano anemia microcitica ipocromica e alopecia. Per quanto riguarda la popolazione adulta non sem-brano esserci fenotipi differenti rispetto all’infanzia. Attualmente è riportata un’unica paziente affetta da IRIDA che abbia avuto una gravidanza portata a ter-mine, evoluta con la nascita di un bambino anch’es-so affetto da IRIDA (anche l’altro genitore è risultato portatore di una mutazione in TMPRSS6), ma con parametri ematologici normali alla nascita (De Falco et al., 2016); topi femmine omozigoti per mutazione in TMPRSS6, invece, non sono fertili.

Emocromatosi primariaNell’ambito del metabolismo del ferro ben conosciute sono le 4 forme classiche di emocromatosi primaria. Tali forme, tranne l’emocromatosi di classe II, sono a insorgenza prevalentemente in età adulta. Di tali for-me verranno esclusivamente accennate, per comple-tezza di esposizione, le caratteristiche peculiari:1) l’emocromatosi di classe I, legata a mutazioni nel

gene HFE, è caratterizzata da un inappropriato aumento dell’assorbimento di ferro a carico della mucosa intestinale. Le mutazioni più frequente-

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mente legate a tale disordine sono la Cys282Tyr e la His63Asp. I sintomi solitamente si presentano dopo la terza decade di vita;

2) l’emocromatosi di classe  II, definita anche emo-cromatosi giovanile, è una patologia autosomica recessiva. Maschi e femmine sono colpiti con la stessa frequenza.

Solitamente ferritina e saturazione della transfer-rina sono molto elevate, frequenti sono le compli-canze dell’accumulo di ferro a livello epatico, car-diaco ed endocrino. Il follow-up deve essere mo-dulato sulla base del singolo paziente, valutando l’accumulo a livello dei vari organi e apparati, oltre all’età, intensificandolo nei pazienti più grandi in cui la possibilità di accumulo e di danno d’organo è maggiore.

Il trattamento di prima scelta dell’accumulo consi-ste nella flebotomia, laddove mal tollerata è possi-bile l’utilizzo dei ferrochelanti; sintomatico è invece il trattamento del danno d’organo.

Sono descritte 2 forme:• emocromatosi ereditaria di tipo 2A, il cui difetto ge-

netico è stato identificato nelle mutazioni del gene HFE2 codificante per l’emojuvelina, proteina che regola l’espressione dell’epcidina. Mutazioni in tale gene sono state riscontrate in circa il 90% dei pazienti affetti da emocromatosi giovanile (partico-larmente frequente è la mutazione Gly320Val);

• emocromatosi ereditaria di tipo 2B, legata a muta-zione nel gene HAMP che codifica per l’epcidina. Mutazioni in tale gene sono molto più rare, essen-do riscontrate in meno del 10% dei pazienti con emocromatosi di tipo 2.

In entrambe le forme di emocromatosi (di tipo 2A e 2B), i valori di epcidina sierica e urinaria sono molto ridotti: nella forma A per alterazione nella regolazione dell’espressione genica, nel secondo caso è la protei-na stessa a essere alterata. 3) l’emocromatosi di classe  III viene trasmessa con

modalità autosomico-recessiva legata a mutazioni nel gene TFR2, codificante per il recettore della tran-sferrina di tipo 2. Più spesso insorge in età adulta, ma sono stati descritti anche casi in epoca giovanile.

4) l’emocromatosi di classe IV è trasmessa con moda-lità autosomico dominante, legata a mutazioni del gene che codifica per la ferroportina (SLC40A1). Di tale patologia esistono 2 forme, 4A e 4B. Nella forma 4A, mutazioni loss of function (con perdita della funzione della proteina) comportano un feno-tipo diverso dalle altre forme di emocromatosi ere-ditaria: la saturazione della transferrina è normale o bassa, associata ad aumentati livelli di ferritina e accumulo di ferro nel sistema reticoloendoteliale. Peculiare di tale forma è l’accumulo a livello della milza (meno rilevante a livello epatico), in quanto il ferro derivante dal riciclo dei globuli rossi sene-scenti rimane intrappolato nei macrofagi splenici, non potendo essere esportato. L’emocromatosi di

tipo 4B, invece, è legata a mutazioni gain of fun-ction (con guadagno di funzione), comportando un fenotipo analogo alle altre forme di emocromatosi ereditaria (con accumulo prevalentemente epatico, aumento della saturazione della transferrina e della ferritina).

Discorso a parte, invece, è quello inerente l’emocro-matosi neonatale. Di tale problematica non è ben conosciuta l’esatta incidenza, ma maschi e femmine sembrano colpiti con la stessa frequenza. La principa-le causa (> 95%) sembra essere legata a una proble-matica autoimmune, legata all’attivazione del sistema immunitario materno nei confronti di antigeni fetali, con trasferimento di IgG materne attraverso la placenta. Tali anticorpi riconoscerebbero antigeni del fegato fe-tale, attivando la cascata del complemento. Tale ipotesi è stata in parte confermata dall’alta frequenza (90%) di feti affetti, nati da madri con precedenti figli affetti. Nel restante 5% di casi, l’emocromatosi neonatale è più frequente in pazienti affetti da trisomia  21, nella Sindrome da deplezione del DNA mitocondriale, sin-drome GRACILE, sindrome tricoepatoenterica e difetto congenito della sintesi degli acidi biliari da deficit da delta(4)-3-oxo-steroido 5-beta-reduttasi.Tale patologia si presenta con segni prenatali (idrope fetale, epatomegalia, ascite e IUGR), a partire dalla 18° settimana di gestazione, riscontrabili all’esame eco-grafico. In epoca postnatale, fino all’età di 3 mesi, ma con un picco di incidenza nelle prime ore di vita, si pos-sono presentare ipoglicemia, coagulopatia ittero ed ede-ma. Frequente è il decesso nei primissimi giorni di vita.A livello biochimico si riscontra ipertransaminasemia (generalmente lieve-moderata, aumento dell’AFP, iperferritinemia con ipotransferrinemia e aumento del ferro non legato a transferrina, trombocitopenia massiva e scompenso epatico mentre a livello ana-tomopatologico si osserva emosiderosi, laghi endo-canalicolari di bile e fibrosi panlobulare. Di comune riscontro è anche la presenza di dotto arterioso pervio e accumulo extraepatico di ferro (pancreas, ghiandole salivari, paratiroidi, timo) (Lopriore et al., 2013).La diagnosi viene posta in presenza di segni di scom-penso epatico e accumulo di ferro in altre sedi.Il trattamento classico, basato su antiossidanti, terapia chelante e trapianto di fegato, è stato recentemente soppiantato da infusioni di IgG alla madre in gravi-danza e trasfusioni. Nello specifico in uno studio su 110 donne con precedenti gravidanze con emocroma-tosi neonatale l’utilizzo di 1 g/kg di IgG per via endo-venosa somministrate alla 14°, 16° e settimanalmente dalla 18° settimana ha evitato insufficienza epatica e accumulo di ferro (solo 1 bambino è deceduto a due mesi di vita per encefalomielite post virale) (Whiting-ton, 2012).

Forme secondarieDeficit nutrizionaleUna delle forme più comuni di alterazioni del bilancio

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del ferro è senza alcun dubbio il deficit nutrizionale di tale metallo.Tale problematica è particolarmente comune in al-cune regioni geografiche, effetto della malnutrizione, intesa sia come denutrizione, ma soprattutto come deficit selettivo. Tale carenza è molto comune nei bambini e negli adolescenti, in cui la richiesta di ferro, in proporzione al peso rispetto all’adulto, è maggiore per poter garantire l’accrescimento corporeo.Nelle prime fasi degli stati ferrocarenziali s’instaura uno stadio di iron deficiency (ID), in cui l’eritropoiesi non è intaccata, ma iniziano a ridursi le scorte. Con l’aggravarsi del deficit si riduce dapprima l’indice di saturazione della transferrina e in seguito si svilup-pa una restrizione dell’eritropoiesi, manifestazione di una condizione definita come iron deficiency anemia (IDA), caratterizzata da anemia microcitica, ipoferriti-nemia e riduzione della saturazione della transferrina. Tale condizione è facilmente riconoscibile se presen-te in maniera isolata, ma la presenza di altre condizio-ni potrebbe rendere più difficile la diagnosi.In seguito al sospetto di ID o IDA è necessario valu-tare con attenzione la risposta alla successiva terapia orale con ferro.Nella popolazione pediatrica con ID/IDA mal rispon-denti alla terapia con ferro orale è necessario an-dare infatti a ricercare talune condizioni patologiche, prima tra tutte la celiachia. In tale condizione, infatti, è estremamente comune, nei piccoli pazienti come negli adulti, un’alterazione del metabolismo del ferro. Le caratteristiche lesioni del duodeno, infatti, riduco-no nei soggetti a dieta libera, l’assorbimento intesti-nale. La dieta in assenza di glutine consente di ripri-stinare i villi intestinali, migliorando lo stato di salute del duodeno e di conseguenza l’assorbimento orale di ferro.

Anemia da infiammazione cronicaAltra condizione in cui l’alterazione del metabolismo del ferro è particolarmente rilevante è l’infiammazio-ne. Si parla infatti di anemia da infiammazione cronica: di tale condizione uno degli aspetti peculiari è proprio l’alterazione dell’assetto marziale che contribuisce, ac-canto all’inibizione della crescita dei precursori eritroidi e riduzione dell’emivita dei globuli rossi, all’instaurarsi dell’anemia. Durante lo stato infiammatorio l’organismo mette, infatti, in atto un meccanismo di difesa al fine di ridurre la biodisponibilità del ferro nei confronti di agen-ti batterici patogeni e cellule neoplastiche. L’aumento di alcune citochine come IL-6, IL-11, IL-22, TLR2 e IFN-α comporta, attraverso una cascata di fosforilazioni (in primo luogo viene attivato il pathway di Jak1/2-STAT3), l’aumento della trascrizione del gene che codifica per l’epcidina, con conseguente aumento della sua con-centrazione nel plasma. Tale ormone comporta quindi l’internalizzazione e la degradazione della ferroportina, con conseguenze scarso assorbimento intestinale e sequestro nei macrofagi: il tutto comporta ridotta biodi-

sponibilità del ferro da parte dei patogeni, ma anche da parte dell’intero organismo. Le conseguenze cliniche dei diversi meccanismi mole-colari alla base dell’anemia da infiammazione cronica si esplicano quindi come anemia generalmente nor-mocromica normocitica, con riduzione dei globuli rossi. In tale condizione la ferritina non può essere conside-rata un buon indice del metabolismo del ferro, mentre la saturazione della transferrina può rappresentare un buon indicatore del ferro utilizzabile; nei pazienti in cui si sospetta anemia da infiammazione cronica può es-sere utile anche valutare il sTfR (recettore solubile della transferrina), indice dell’attività eritropoietica midollare.Tra le condizioni infiammatorie croniche menzione particolare spetta alle malattie infiammatorie croniche intestinali. I pazienti affetti da tali patologie, infatti, pre-sentano una condizione particolarmente complessa in quanto l’anemia (piuttosto comune in questi casi), è determinata da un insieme di componenti: l’infiam-mazione riduce la biodisponibilità del ferro, la distru-zione degli enterociti ne riduce l’assorbimento e le ulcerazioni, determinando perdita ematica, riducono ulteriormente l’Hb.

Eritropoiesi inefficace ed emolisi cronicaLe anemie da eritropoiesi inefficace, ereditarie o ac-quisite, sono caratterizzate da livelli bassi di epcidi-na, iperassorbimento di ferro alimentare e sovrac-carico di ferro secondario. Esempi paradigmatici di questo tipo di condizione sono la beta-talassemia non-trasfusione dipendente, le anemie diseritropo-ietiche e sideroblastiche, nonché alcune forme di mielodisplasia. In queste condizioni, i precursori eri-troidi si espandono massivamente ma non maturano in eritrociti e per lo più vanno in apoptosi in fase di eritroblasti, con conseguente stimolazione croni-ca dell’eritropoiesi. La massa eritroide sopprime la produzione di epcidina mediante iperproduzione di molecole regolatorie della sintesi dell’epcidina stes-sa, quale ad esempio ERFE. Studi recenti hanno in-fatti dimostrato che ERFE risulta sovraespresso in pazienti affetti da anemia congenita diseritropoieti-ca di tipo II e beta-talassemia intermedia (Russo et al., 2016). Nonostante il sovraccarico di ferro risulti indipendente dal regime trasfusionale in questi pa-zienti, esso può essere ulteriormente aggravato da quest’ultimo, in quanto ogni unità di emazie concen-trate contiene 200-250 mg di ferro.Il sovraccarico di ferro è presente anche nelle anemie emolitiche da difetto di membrana come la sferocitosi ereditaria e le stomatocitosi ereditarie, caratterizzate da emolisi croniche. L’emosiderosi è più rilevante nei pa-zienti trasfusione-dipendente e nei pazienti che hanno co-ereditato mutazioni nei geni responsabili dell’emo-cromatosi ereditaria. Analogamente a quanto osserva-to per i pazienti con anemia da eritropoiesi inefficace, anche quelli affetti da stomatocitosi ereditaria in forma disidratata mostrano sovraccarico di ferro, indipenden-

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temente dal regime trasfusionale e dalla splenectomia con diversi casi di epatosiderosi.

TerapiaIl trattamento dei disturbi del metabolismo del ferro si basa, ovviamente, innanzitutto sulla risoluzione della patologia di base che è causa degli stessi, laddove possibile. Ad esempio nei pazienti celiaci la dieta pri-va di glutine comporta indiscusso miglioramento della sideropenia. Ovviamente non in tutte le condizioni è possibile approcciare una terapia mirata, ma in alcu-ne condizioni è necessario affidarsi esclusivamente a un trattamento sintomatico.

Terapia marzialePer quanto riguarda i trattamenti attualmente in uso cli-nico per i disordini del metabolismo del ferro intesi come sideropenia, il trattamento ha lo scopo di fornire abba-stanza ferro da normalizzare la concentrazioni di emo-globina e ripristinare i depositi. Il trattamento di prima linea consiste nella supplementazione orale di ferro.Tale trattamento può essere eseguito secondo diverse modalità e preparazioni; attualmente la posologia più utilizzata nei pazienti pediatrici consiste nella sommini-strazione di ferro solfato (FeSO4) (sono però disponi-bili varie preparazioni) in preparazioni liquide (3-6 mg/kg) in una/due somministrazioni/die. Idealmente la somministrazione deve avvenire a stomaco vuoto, ma tale approccio prevede frequentemente effetti collate-rali a livello gastroenterico, con scarsa compliance a lungo termine. L’entità degli effetti collaterali si riduce con l’assunzione contemporanea di cibo, che però, a sua volta riduce l’assorbimento del composto ferroso. La somministrazione orale di ferro presenta infatti mol-teplici fattori che riducono la biodisponibilità, come le infiammazioni intestinali croniche e l’uso di alcuni far-maci (antiacidi, inibitori di pompa protonica).Uno dei maggiori fattori che modifica l’assorbimento del ferro, come detto in precedenza, è la concentra-zione dell’epcidina. Recenti studi, infatti, hanno dimo-strato che la somministrazione giornaliera, e ancor di più la somministrazione due volte/die di ferro, elevano i valori di epcidina riducendo la biodisponibilità di fer-ro, mentre la somministrazione dopo 48 h normalizza i valori di epcidina e massimizza l’assorbimento di fer-ro (Moretti et al., 2015).In caso di scarsa risposta al trattamento per os o laddove si richieda un aumento rapido dei valori di Hb è possibile passare al trattamento per via endo-venosa. Tale modalità di somministrazione assicura ottima biodisponibilità del farmaco, ma è necessario prestare attenzione agli effetti collaterali (legati anche alla velocità di infusione). La quantità di ferro da som-ministrare viene calcolata con la formula di Ganzoni modificata:

Dose di ferro (mg) = peso corporeo (kg) x 2,4 x (Hb bersaglio- Hb attuale) (g/dL) + 350

Fabbisogno di ferro in mg: [kg] x 2,4 x {(15 M/13 F) - Hb[g/L]} + 350

Flebotomia e ferrochelantiPer quanto riguarda l’iron overload, la terapia mira alla prevenzione e trattamento delle complicanze dell’ac-cumulo di ferro a carico di vari organi e apparati. L’ac-cumulo di ferro, infatti, può comportare danno a livello epatico, cardiaco, pancreatico, endocrino. Solitamen-te i segni clinici si manifestano in maniera età-dipen-dente, dando raramente complicanze clinicamente significative già in età pediatrica. Per l’approccio a un’opportuna terapia ferrochelante è importante una valutazione attendibile del contenuto di ferro. Per sta-bilire ciò risulta inizialmente utile la determinazione della saturazione della transferrina e il dosaggio della ferritina, ma questi due parametri possono non es-sere perfettamente indicativi. Il metodo più attendibile per valutare la quantità di ferro presente nel fegato è la biopsia epatica, ma tale indagine è estremamente invasiva; in sostituzione della biopsia è possibile in-vece utilizzare tecniche di diagnostica per immagini. Nello specifico è possibile utilizzare la SQUID (super-conducting quantum interference device) e la RMN con sequenze pesate T2*: quest’ultima è però netta-mente più utilizzata in quanto la diffusione a livello territoriale è più rilevante. In seguito alla quantizzazione dell’accumulo di ferro è possibile valutare la terapia ferrochelante. In commer-cio attualmente sono riportati vari ferrochelanti:• deferoxamina: viene somministrata per via sotto-

cutanea. A causa dell’emivita ridotta necessita di infusione continua. Il trattamento con tale farmaco è costoso, invasivo e doloroso soprattutto per i pic-coli pazienti. Tra gli effetti collaterali vanno inclusi ipoacusia neurosensoriale, problemi gastrointesti-nali, ipotensione e aumento delle infezioni (Mobar-ra et al., 2016);

• deferiprone: somministrato per via orale, in 3 somministrazioni giornaliere per via dell’emivita di circa 3-4 ore. In seguito al trattamento possono presentarsi aumento degli enzimi epatici, distur-bi gastrointestinali, artralgia e, soprattutto, neu-tropenia/agranulocitosi, che solitamente recede dopo la sospensione della terapia. Per quest’ul-tima complicanza (si presenta in circa 0,2-2,8% dei trattati) è necessario monitoraggio regolare dei neutrofili;

• deferasirox: somministrato per os in unica sommi-nistrazione giornaliera, può comportare disturbi gastrointestinali, rash cutaneo, aumento della cre-atinina (che va monitorata durante il trattamento) e reazioni di ipersensibilità.

Tali trattamenti possono essere utilizzati in monote-rapia o in terapia combinata: sono stati formulati vari protocolli, la cui sicurezza è stata validata per l’età adulta, mentre ancora non vi sono appropriati studi nella popolazione pediatrica.

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Epcidina-mimetici e inibitori ed epcidina Attualmente sono in fase di studio diversi agenti che stimolano o bloccano l’attività dell’epcidina. Sono stati progettati diversi derivati dell’epcidina, detti epcidina-mimetici, attualmente in fase di sviluppo da parte di company quali: Merganser Biotech (M012, fase  I di trial clinico), la Jolla Pharmaceutical Company (LJPC-401, fase  I di trial clinico) e Protagonist The-rapeutics (PTG-300, fase preclinica). Gli studi precli-nici hanno dimostrato l’efficacia di questi farmaci in diverse malattie quali β-talassemia, policitemia vera ed emocromatosi (Crielaard et al., 2017). Altre strategie sviluppate per inibire l’espressione dell’epcidina mirano alla modulazione della via BMP6-SMAD (Fig. 2). In particolare, è stato utilizzato un anti-corpo umanizzato (LY3113593; Eli Lilly) e una proteina di fusione composta da haemojuvelina e dal dominio Fc di una IgG (FMX-8, FerruMax Pharmaceuticals) per sequestrare BMP6 ed evitare il suo legame al recettore BMP6R. Purtroppo, il trial del farmaco LY3113593 è sta-to interrotto per l’aumento del tasso di abbandono dei partecipanti nel 2016 (NCT02604160), mentre studi di fase II di FMX-8 sono stati terminati nel 2016 a causa della mancanza di un numero sufficiente di pazienti che soddisfacessero i criteri di ammissibilità. Una seconda

strategia mira a bloccare la fosforilazione delle SMAD utilizzando dorsomorphin o suoi derivati. In alternativa, sono stati utilizzati piccoli RNA interferenti (siRNA) per degradare l’mRNA di TFR2 che agisce sull’espressione di epcidina (Alnylam Pharmaceuticals); tuttavia, questo approccio è stato interrotto per ragioni sconosciute. È stata inoltre testata la possibilità di modulare, durante gli stati infiammatori, il metabolismo del ferro tramite un anticorpo, il tocilizumab, che inibisce il recettore dell’IL6. Infine, sia oligonucleotidi antisenso (Tmprss6-ASO), che molecole di RNA interferenti (Tmprss6-siRNA) diretti sul gene TMPRSS6 possono aumentare l’atti-vità dell’epcidina, degradando il messaggero di TM-PRSS6 (Guo et al., 2013). Questi composti, infatti, uti-lizzati nei modelli murini di emocromatosi mediata da HFE e di β-thalassemia, rispettivamente, ne migliora-no il fenotipo, con aumento dell’espressione dell’epci-dina, diminuzione della saturazione della transferrina e riduzione dell’apoptosi delle cellule eritroidi. I topi, inoltre, mostrano bassi livelli di EPO, miglioramento dell’eritropoiesi inefficace (che caratterizza queste condizioni), splenomegalia e un aumento dell’emo-globina (Schmidt et al., 2013). In un altro studio, sem-pre su topi, queste molecole sono state somministra-te insieme a chelanti del ferro, con miglioramento così

Figura 2. Bersagli molecolari.Principali target biologici e nuovi approcci terapeutici applicati alla modulazione del bilancio del ferro. Nel riquadro “Epa-tocita” sono rappresentati oligonucleotidi antisenso (utilizzati per bloccare la sintesi di TMPRSS6), sHJV.Fc (proteina di fusione composta da haemojuvelina e dal dominio Fc di una IgG utilizzata per sequestrare BMP6), il tocilizumab.Nel riquadro “Enterocita/macrofago” è rappresentato l’utilizzo delle miniepcidine.

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Update sul metabolismo del ferro

dell’eritropoiesi e sovraccarico del ferro (Casu et al., 2014) (Tab. II).

ConclusioniIl metabolismo del ferro è un bilancio estremamente complesso. Nel tempo sono stati scoperti e studiati nuovi attori di tale processo; tali avanzamenti hanno permesso di diagnosticare alcune patologie genetiche rare, caratterizzate dalle mutazioni in geni che codifi-cano per uno dei tanti fattori che intervengono in tale bilancio. Sempre nuove patologie rare, prima senza diagnosi, hanno negli ultimi tempi, una nuova defini-zione, con una migliore conoscenza dei meccanismi patofisiologici, dei meccanismi genetici e, di conse-guenza, anche una migliore gestione clinica. Difatti le nuove conoscenze dei meccanismi di azione e dei

pathway molecolari hanno aperto le porte a nuove forme di terapia, non basate esclusivamente sull’ap-proccio sintomatico. Adesso, e sempre più in futuro, infatti, si cerca di applicare un approccio terapeutico teso a modulare l’espressione e l’azione dei principali protagonisti del bilancio marziale. Di tali nuovi approcci potranno beneficiare sia i pazienti affetti da patologie genetiche rare, portatori di mutazioni in uno dei geni che modulano il bilancio del ferro, ma anche pazien-ti con patologie acquisite. S’ipotizza infatti che i nuovi trattamenti molecolari potranno essere applicati anche in patologie molto più comuni, come l’anemia sidero-penica o l’infiammazione, in cui vi sia alterazione del metabolismo del ferro. Lo scenario descritto finora è però ancora solo l’inizio di un lungo percorso, che pas-serà necessariamente per la scoperta e la definizione di altri tasselli di questo complicato puzzle.

Tabella II. Trial sui nuovi target terapeutici.

Farmaco Company Tipologia Meccanismo d’azione

Indicazione terapeutica

Stato di sviluppo trial clinico

LY3113593 Eli Lilly & Company

Anticorpo umanizzato

Cattura BMP6 per interferire con l’espressione dell’epcidina

Anemia Fase II (interrotto nel 2016)

FMX_8 FerruMax Pharma-ceuticals

Proteina di fusione HJV-Fc

Cattura BMP6 per interferire con l’espressione dell’epcidina

Anemia Fase II (interrotto nel 2016)

LY2928057 Eli Lilly & Company

Anticorpo umanizzato IgG4_specifico

Lega la ferroportina per prevenire la sua degradazione tramite l’epcidina, stabilizzando l’espressione di ferroportina

Anemia Fase II (interrotto nel 2016)

M012 Merganser Biotech

Peptide Peptide epcidina mimetico

ß-talassemiaSindrome mielodisplatica a basso rischioPolicitemia vera

Fase I

LJPC_401 La Jolla Pharmaceutical Company

Peptide Peptide epcidina mimetico (agonista)

Sovraccarico di ferro

Fase I

PTG_300 Protagonist Therapeutics

Peptide Peptide epcidina mimetico (agonista)

Sovraccarico di ferro

Fase preclinica

Deferoxamine (Desferal)

Novartis Piccola molecola

Chelante del ferro Sovraccarico di ferro

In commercio

Deferasirox (Exjade/ Jadenu)

Novartis Piccola molecola

Chelante del ferro Sovraccarico di ferro

In commercio

Deferiprone (Ferriprox)

ApoPharma Piccola molecola

Chelante del ferro Sovraccarico di ferro

In commercio

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A. Gambale et al.

Box di orientamento

• Cosa sapevamo primaIl ferro è un elemento essenziale per la vita, entra infatti in un gran numero di processi biologici. Tuttavia rappresenta anche una possibile fonte di ROS e danno cellulare, per cui il suo metabolismo è finemente regolato. Da alcuni anni si conosce il ruolo centrale dell’epcidina come principale regolatore del suo as-sorbimento.

• Cosa sappiamo adessoRecentemente si è scoperto il ruolo di varie molecole in grado di modulare finemente il metabolismo del ferro. Si è infatti dimostrato il ruolo di un ormone di recente scoperta, l’eritroferrone, in grado di rispondere alle esigenze del midollo osseo e stimolare quindi l’assorbimento di ferro tramite l’inibizione dell’epcidina.

• Quali ricadute sulla pratica clinicaLe nuove scoperte hanno fornito nuovi target terapeutici che possono essere utilizzati in varie patologie: si stanno infatti sperimentando nuove molecole in grado di modulare a livello subcellulare il metabolismo del fer-ro. Tali nuove terapie permetteranno in futuro di agire in maniera mirata, agendo sul meccanismo fisiopatolo-gico di patologie ereditarie del metabolismo del ferro, ma anche di modificare l’outcome di patologie acquisite che comportano alterazioni dello stesso.

Corrispondenza

Achille IolasconCEINGE, Biotecnologie Avanzate, via Gaetano Salvatore 486, 80145 Napoli - Tel. +39 081 3737898 - Fax +39 081 3737804 - E-mail: [email protected]

Bibliografia

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* Interessante review sulla diagnosi e ma-nagement delle anemie sideroblastiche.

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** Articolo sui nuovi approcci terapeutici del metabolismo del ferro.

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aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 97-107 Prospettive in Pediatria

Ematologia pediatrica

Quando i globuli rossi aumentano

Domenico Roberti, Immacolata Tartaglione,

Maddalena Casale, Saverio Scianguetta,

Silverio Perrotta

Dipartimento della Donna, del Bambino e di Chirurgia

generale e specialistica, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”,

Napoli

Erythrocytosis is characterized by an increase in the red blood cell mass defined by hae-moglobin and haematocrit values above the 97th percentile for age and sex. It can be due to physiological processes, such as high altitude living, pathological conditions, like dehy-dration, or personal habits, including smoking. These conditions, as well as iron deficiency, a potential confounding factor, must be ruled out before additional examinations for abso-lute erythrocytosis are made. First line exams include oxygen saturation evaluation, venous blood gas analysis with p50 measurement and plasmatic erythropoietin (EPO) dosage, whose results may guide molecular screening. Low plasmatic levels of EPO are typical of primary erythrocytosis, showing endogenous erythroid colony formation in vitro, such as in familial erythrocytosis type 1 and polycythemia vera. High or inappropriately normal EPO values are a feature of erythrocytosis due to a defective Oxigen Sensing mechanism or to abnormal haemoglobin with high oxygen affinity. The proper therapeutic approach is still debated due to the rarity and heterogeneity of these conditions and, to date, patient-tailored therapy and follow-up are recommended. Maintaining good hydration and avoiding any kind of physical activity that can increase blood viscosity (i.e. diving with oxygen, climbing, sky-diving, smoking) is mandatory, as well as performing venous thromboembolism prophy-laxis when needed.

Summary

Valori di emoglobina superiori al 97° percentile caratterizzano la condizione di eritrocitosi. L’aumento dei globuli rossi può essere associato ad alcune condizioni fisiologiche, come l’al-titudine, patologiche, come la disidratazione, o ad alcuni stili di vita, come il fumo di sigaretta. Queste condizioni, insieme alla carenza marziale, che invece può mascherare un’eritroci-tosi, vanno escluse prima di avviare qualunque iter diagnostico. Gli esami di primo livello, rappresentati dalla determinazione della saturazione di ossigeno, dell’emogasanalisi con la determinazione della p50 e dal dosaggio dell’eritropoietina (EPO) sierica, sono utili per direzionare lo screening molecolare. Bassi livelli di EPO sono tipici delle eritrocitosi prima-rie causate da mutazioni del recettore dell’eritropoietina o da policitemia vera. Livelli alti, o inappropriatamente normali, di EPO sono invece tipici delle eritrocitosi secondarie, come ad esempio quelle causate da alterazioni del sistema sensore dell’ossigeno o da emoglobine ad alta affinità per l’ossigeno. Essendo rare e ancora scarsamente caratterizzate clinicamen-te, l’approccio terapeutico alle eritrocitosi pediatriche è oggetto di studi e di discussione e al momento si raccomanda un approccio terapeutico individualizzato per ogni paziente. In generale, è importante mantenere una buona idratazione, ed evitare attività che aumentino la viscosità ematica e mettere in atto manovre di prevenzione dei fenomeni di tromboembo-lismo, in caso di attività che ne predispongano l’insorgenza.

Riassunto

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D. Roberti et al.

Metodologia della ricerca bibliograficaÈ stata effettuata una ricerca degli articoli più rilevan-ti, utilizzando come motore di ricerca PubMed e come parole chiave: “erythrocytosis”, “polycythemia”, “erythro-poietin”, “oxygen-sensing pathway”, “hemoglobin”.Sono stati anche tenuti presenti articoli di revisione e capitoli di libri di più recente pubblicazione. Alcuni dei lavori citati sono derivati dall’analisi delle referenze bi-bliografiche degli articoli selezionati.

IntroduzioneL’emocromo è senza dubbio l’esame del sangue più frequentemente prescritto e spesso ritenuto il più sem-plice da interpretare; al contempo, alcune sue alterazio-ni possono creare una serie di difficoltà diagnostiche, come si verifica, ad esempio, nel caso di un aumento di parametri quali l’emoglobina e l’ematocrito. Obiettivo di questa revisione è quello di fornire una guida all’in-quadramento diagnostico e alla gestione di pazienti nei quali, spesso in maniera incidentale, si riscontra una eritrocitosi.

Obiettivi della revisione• Definire il bambino/adolescente con livelli aumenta-

ti di Hb• Classificare l’eritrocitosi• Riportare un algoritmo diagnostico• Descrivere le possibili manifestazioni cliniche dell’e-

ritrocitosi• Orientarsi sui diversi meccanismi etiopatogenetici• Valutare le attuali strategie terapeutiche

DefinizioneIl termine eritrocitosi è utilizzato per identificare un grup-po eterogeneo di patologie caratterizzate da un’espan-sione del compartimento eritroide, con conseguente aumento dei valori di emoglobina e di ematocrito al di sopra delle 2 deviazioni standard (DS) o 97° percentile rispetto a soggetti di pari età e sesso. Tuttavia vanno considerate anche altre condizioni nell’inquadramen-to di un’eritrocitosi, prima tra tutte l’altitudine (la vita in alta montagna determina un aumento fisiologico dell’e-moglobina), la razza (i livelli medi di emoglobina nei soggetti di razza nera sono mediamente inferiori) o le abitudini di vita del paziente (si veda, ad esempio, l’eri-trocitosi spuria dei fumatori).Inoltre, l’eritrocitosi può essere relativa o assoluta. Nel-la forma relativa l’aumento della massa eritrocitaria non è reale, ma relativo a una riduzione della massa plasmatica. Tale evenienza in età pediatrica si realizza molto facilmente per la disidratazione secondaria, ad esempio, a diarrea, all’uso di diuretici o semplicemente alla scarsa introduzione di liquidi. D’altra parte, nella

valutazione di un quadro di eritrocitosi, bisogna anche considerare che uno stato di carenza di ferro può an-che mascherare una condizione di eritrocitosi. Per tali motivi viene definita eritrocitosi assoluta un aumento dell’emoglobina superiore alle 2  DS (97°  percentile) in un bambino senza carenza marziale, in stato di be-nessere e con buona idratazione almeno nelle 72  h precedenti il prelievo. In ogni caso, la presenza di un ematocrito superiore al 56% nelle femmine e 60% nei maschi è sufficiente, di per sé, a configurare diretta-mente il quadro di eritrocitosi assoluta (Pearson, 1991).Le forme assolute possono essere poi suddivise in primarie e secondarie; ed entrambe possono esse-re congenite o acquisite. La forma primaria è carat-terizzata da un’intrinseca alterazione dei progenitori eritroidi, che si espandono indipendentemente dallo stimolo dell’eritropoietina (EPO). Queste forme si ca-ratterizzano per i bassi livelli di EPO, dovuti al fisiologi-co feedback negativo indotto dall’aumento autonomo della massa eritrocitaria. L’unica forma di eritrocitosi primaria congenita fino a oggi conosciuta è quella causata da mutazioni del recettore dell’EPO (EPOR). Le eritrocitosi secondarie, invece, sono caratterizzate dall’espansione del compartimento eritroide in seguito a stimoli “esterni” e pertanto sono caratterizzate da alti livelli sierici dell’EPO. Esistono eritrocitosi secondarie congenite causate da difetti intra-eritrocitari, quali ad esempio quelle causate dalle emoglobine ad alta affi-nità per l’ossigeno, e forme causate da alterazioni del sistema sensore dell’ossigeno (Cario et al., 2013).

Classificazione

Eritrocitosi primarieLe eritrocitosi primarie sono forme caratterizzate da aumentata sintesi degli eritrociti da parte del midol-lo emopoietico, dovuta a un’intrinseca ipersensibilità, presente anche in vitro, dei progenitori eritroidi (BFU-E e CFU-E). L’EPO è un ormone prodotto dai reni e in misura minore dal fegato e dal cervello, che ha come funzione principale la regolazione della produzione dei globuli rossi da parte del midollo osseo. Tra le forme di eritrocitosi primarie meglio caratteriz-zate vi sono l’eritrocitosi familiare di tipo I (ECYT1) e la policitemia vera (PV), entrambe contraddistinte da livelli sierici molto bassi di EPO.La ECYT1, anche conosciuta come policitemia pri-maria congenita e familiare, è una forma ereditaria, solitamente dominante, anche se esistono forme de novo, dovuta a mutazioni troncanti del gene del recet-tore dell’EPO (EPOR) che lasciano il recettore sempre attivo e non permettono la sua degradazione (Box 1) (Huang et al., 2010). La PV è una forma clonale acquisita con leucocitosi e/o trombocitosi e con splenomegalia, con prevalente amplificazione del compartimento eritroide, molto rara in età pediatrica e causata da mutazioni del gene tiro-

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Inquadramento delle eritrocitosi in età pediatrica

sin chinasi citoplasmatica Janus 2 (JAK2). La mutazio-ne più frequente è la V617F e comporta un’attivazione costitutiva della chinasi che migliora la sopravvivenza cellulare e aumenta la produzione di cellule ematiche. Negli ultimi anni un altro cluster di mutazioni di JAK2 è stato riscontrato nell’esone 12, con un quadro di PV o di eritrocitosi idiopatica (Percy et al., 2007; Bento et al., 2016) (Tab. I).

Eritrocitosi secondarieLe eritrocitosi secondarie sono generalmente dovute a fattori intrinsici o estrinseci al globulo rosso, che de-terminano una disregolazione dell’eritropoiesi e sono caratterizzate da livelli sierici di EPO molto elevati. Tuttavia, per meccanismi di adattamento, alcune for-me secondarie possono mostrare anche livelli di EPO inappropiatamente normali. L’aumento della produzio-ne di EPO può essere dovuto a una risposta fisiologica a una condizione di ipossia, a una produzione ectopi-ca su base tumorale o a una disregolazione generale dei meccanismi di Oxygen Sensing. Fanno parte delle eritrocitosi secondarie congenite anche quelle dovute alla presenza di varianti emoglobiniche ad alta affinità o alla persistenza di alte percentuali di Hb fetale, e le rarissime forme da deficit di 2,3-bifosfoglicerato o da incremento ereditario dell’ATP da iperfunzione della pi-ruvato chinasi (PK) (Cario et al., 2013).La prima forma di eritrocitosi secondaria congenita, descritta nel 1966, era dovuta alla formazione di una variante anomala dell’emoglobina ad alta affinità per l’ossigeno, nota come l’emoglobina di Chesapea-ke. Da allora, sono state descritte più di 200 varianti emoglobiniche ad alta affinità per l’ossigeno, tutte con trasmissione autosomica dominante. L’iperaffinità per l’ossigeno è determinata da anomalie strutturali delle globine, dovute a sostituzioni aminoacidiche localiz-zate nei punti d’interazione α1-β2, che interferiscono con la struttura quaternaria dell’emoglobina, o nella zona C-terminale della β globina, essenziale per l’ef-fetto Bohr e per il legame con il 2,3DPG (geni HBB e HBA) (Bento et al., 2014). Il risultato funzionale di quest’aumentata affinità per l’ossigeno è una riduzione della concentrazione di ossigeno nei tessuti periferici,

con successiva ipersecrezione a livello renale di EPO e conseguente eritrocitosi. Un’altra forma di eritrocitosi secondaria congenita da cause intra-eritrocitarie è dovuta al deficit di 2,3-difo-sfoglicerato (DPG), che è un fosfato organico che lega l’emoglobina, riducendone notevolmente l’affinità per l’ossigeno. Il deficit congenito, autosomico recessivo, di difosfoglicerato mutasi (gene BPGM), un enzima coinvolto nella sintesi del 2,3DPG, determina una ca-renza di questo fattore, con conseguente stabilizzazio-ne dell’emoglobina nella configurazione ad alta affinità per l’ossigeno e, pertanto, un minore rilascio di ossige-no a livello dei tessuti periferici. Anche un’iperattività su base congenita della piruvato chinasi (gene PKLR), un enzima intraeritrocitario, sem-brerebbe essere causa di un aumento dei livelli di ATP e di una diminuzione del 2,3DPG, causando di conse-guenza eritrocitosi (Bento et al., 2014).Alterata cessione periferica di ossigeno, invece, è alla base delle forme di eritrocitosi da Metaemoglobinemia, condizione in cui il ferro contenuto nell’eme è nella sua forma ossidata, passando da ferroso a ferrico. Clinica-mente, la presenza di cianosi accompagnata a valori normali di PaO2, ma bassa saturazione misurata al pulsiossimetro, pongono il sospetto di metaemoglo-binemia. Le forme congenite sono di tre tipi: autoso-miche recessive da deficit del citocromo b5 reduttasi (gene CYB5R3) (che converte il ferro da ferrico a ferro-so), deficit del citocromo b5 (gene CYB5A) e le forme autosomiche dominanti di Malattia da emoglobina M (gene HBB) in cui vi è una spontanea ossidazione del ferro da ferroso a ferrico (Patnaik e Tefferi, 2009).Altre forme di eritrocitosi congenite secondarie sono quelle dovute ad alterazioni del sistema sensore dell’os-sigeno (Box 2, Fig. 1). Tali forme in realtà dovrebbero es-sere considerate miste, perché hanno sia una crescita spontanea in vitro dei progenitori eritroidi (caratteristica delle forme primitive), sia un aumento dei livelli sierici di EPO (caratteristica delle forme secondarie). Le eritrocitosi da alterazione del sistema sensore dell’ossigeno (Figg. 1C, D e E) sono:• l’eritrocitosi familiare di tipo 2 (ECTY2) da mutazio-

ne del gene Von Hippel-Lindau (VHL), autosomica recessiva;

• l’eritrocitosi familiare di tipo  3 (ECYT3), dovuta a mutazioni del gene EGLN1, codificante per la pro-teina Prolyl Hydroxylase Domain 2 (PHD2), autoso-mica dominante;

• l’eritrocitosi familiare di tipo 4 (ECYT4), causata da mutazioni del gene EPAS1, che codifica per il fattore di trascrizione hypoxia-inducible factor-2 (HIF2 α), autosomica dominante.

Tra le eritrocitosi secondarie acquisite vi sono quelle da produzione ectopica di EPO, come da neoplasie del fegato (epatoma, HCC), del sistema nervoso centrale (emangioblastoma), del rene (nefroblastoma, carcino-ma a cellule renali) o del sistema endocrino (i.e. feocro-mocitoma) e le eritrocitosi da aumentata produzione

BOX 1• Recettore dell’eritropoietina

Il gene EPOR codifica per il recettore dell’Epo e mappa nel genoma umano in 19p13.3-p13.2. In condizioni fisiologiche, il legame di Epo al suo recettore determina fosforilazione della sua estremità citoplasmatica e di JAK2, permet-tendone così la sua attivazione. Tale processo viene poi “spento” dal legame di altri fattori alla porzione citoplasmatica di EPOR (Huang et al., 2010).

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D. Roberti et al.

fisiologica di EPO (secondaria a patologie polmonari, cardiache, epatiche o renali). Tali forme sono general-mente rare e tutte caratterizzate da livelli sierici di EPO elevati (Tab. I).

Algoritmo diagnosticoIn linea generale, quando s’identifica un bambino con un valore di emoglobina superiore alle 2 DS (97° per-centile) rispetto a soggetti di pari età e sesso, l’approc-cio diagnostico deve essere indirizzato verso l’indivi-duazione di una forma congenita piuttosto che di una

PV, essendo quest’ultima, a differenza dell’età adulta, molto rara in età pediatrica.Un’anamnesi approfondita e un esame obiettivo com-pleto sono fondamentali nell’inquadramento dell’eri-trocitosi. Le forme congenite andranno sospettate se è presen-te familiarità positiva per eritrocitosi, salassoterapia, eventi trombotici o morte improvvisa e nei casi a insor-genza molto precoce (< 2 anni). Ulteriori elementi di sospetto per forme congenite sono: ipotensione arte-riosa, aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, ipertensione polmonare e presenza di vene varicose

Tabella I. Classificazione dell’eritrocitosi.

Eritrocitosi primarie Espansione del compartimento eritroide da alterazioni intrinseche dei progenitori eritroidi

Congenite

Eritrocitosi familiare tipo 1- ECYT1 (EPOR)

Acquisite

Policitemia vera (JAK2)

Eritrocitosi secondarie Espansione del compartimento eritroide da alterazioni estrinseche

Congenite

Hb ad alta affinità per l’ossigeno

Deficit 2,3 bifosfoglicerato (deficit e mutazioni di BPGM, mutazioni attivanti PKLR)

Metaemoglobinemia

Alterazioni dell’Oxigen Sensing:• eritrocitosi familiare tipo 2 - ECTY2 (VHL)• eritrocitosi familiare tipo 3 - ECTY 3 (EGLN1)• eritrocitosi familiare tipo 4 - ECTY4 (EPAS1)

Acquisite

Aumento fisiologico di Epo dovuto a patologie: • cardiache (cardiopatie cianogene – mixoma atriale)• respiratorie (patologie “ipossiche” polmonari – fumo –apnee notturne – sindromi

ipoventilatorie – anomalie arterovenose polmonari – sindrome TEMPI)• renali (stenosi arteria renale – cisti renali – trapianto renale – idronefrosi –

malformazioni renali – nefrocalcinosi – sindrome di Bartter)• epatiche (cirrosi epatica)• paratiroidea (iperparatiroidismo)

Produzione autonoma di Epo per tumori:• renali (idronefroma – Wilms – adenoma – emangioma – sarcoma)• epatici (epatoma – amartoma – angiosarcoma – emangioma -carcinoma)• SNC (emangioma cerebellare – meningioma)• endocrini (feocromocitoma)

Incremento degli androgeni plasmatici:• sindrome di Cushing e iperaldosteronismo primario• tumori secernenti androgeni nelle donne• iperandrogenismo gestazionale

Iatrogene:• altitudine• doping• androgeni• tossicità da Cobalto• avvelenamento da ossido di Carbonio

Eritrocitosi idiopatiche

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Inquadramento delle eritrocitosi in età pediatrica

(tipiche della forma VHL- correlata). Storia familiare o personale positiva per malattie croniche cardiache, renali, respiratorie o abitudine al fumo di sigaretta o all’uso di sostanze dopanti sono invece più indicativi di forme secondarie, così come una bassa saturazione di ossigeno o la presenza di cianosi indirizzerebbero maggiormente verso una patologia cardio-respiratoria o alla presenza di metaemoglobinemia. Sintomi da iperviscosità ematica, come cefalea, ver-tigini, disturbi visivi, acufeni, epistassi, palpitazioni e dispnea, dolore o parestesie agli arti inferiori, possono essere presenti sia nelle forme congenite che acquisite e devono essere sempre ricercati, al fine di indirizzare la tempestività dell’intervento terapeutico. In assenza di sintomi clinici riferibili all’iperviscosità ematica, in assenza di carenza marziale (che potreb-be sottostimare l’entità dell’eritrocitosi) e con una testi-moniata buona idratazione almeno nell’arco delle 72 h precedenti il prelievo, si consiglia la ripetizione dell’e-same emocromocitometrico (comprendente anche la valutazione dei reticolociti) per almeno altre due volte nell’arco dei successivi tre mesi a distanza di almeno un mese l’uno dall’altro. Laddove l’aumento dell’Hb al di sopra delle 2 DS (97° percentile) sia confermato nei tre emocromi si procede con una serie di esami labo-

ratoristici e di indagini molecolari, che possono portare alla diagnosi definitiva (Fig. 2). Gli esami di primo livello sono: la determinazione della saturazione di ossigeno, l’emogasanalisi venosa per la determinazione della p50, l’elettroforesi dell’Hb per al-cune varianti emoglobiniche ad alta affinità e il dosag-gio dell’EPO sierica. In base al risultato di questi esami è possibile direzionare lo screening molecolare per i maggiori difetti genetici finora conosciuti.

Determinazione della saturazione di ossigenoSe inferiore al 92% valutare cause acquisite cardiache o polmonari, se invece maggiore del 92% effettuare emogasanalisi con valutazione della p50.

Valutazione p50La p50 rappresenta il valore di pO2 al quale la metà dei siti di legame dell’emoglobina sono occupati dall’ossi-geno e può essere facilmente calcolata essendo a co-noscenza dei valori di pO2, pH e SatO2 (Agarwal et al., 2007). In caso di p50 bassa effettuare in primis HPLC dell’emoglobina con analisi molecolare dei geni dell’al-fa e della beta globina e poi l’analisi del gene BPGM e PKLR che causano deficit del 2,3 DPG.In caso di normalità della p50 o se non eseguita, effet-tuare il dosaggio sierico dell’EPO (Fig. 2).

Dosaggio sierico dell’EPOSe EPO bassa (< 5 mU/ml) sequenziare, soprattutto in caso di familiarità, esone 7 e 8 del gene EPOR e, in caso di negatività o in caso di splenomegalia, leucoci-tosi e/o piastrinosi, esone 12 e 14 di JAK2.Se EPO aumentata, o inappropriatamente normale, effettuare lo screening dei geni del sistema sensore dell’ossigeno fino a oggi conosciuti per essere respon-sabili di eritrocitosi congenite, e in particolare: VHL se i genitori risultano con Hb nella norma, o PHD2 e HIF2α se l’eritrocitosi è dominante.Se il paziente ha un valore di EPO sierica particolar-mente aumentata, considerare anche le indagini volte alla diagnosi di tumori secernenti EPO e alla diagnosi di stenosi dell’arteria renale.Ovviamente questo algoritmo diagnostico ha qualche limite soprattutto alla luce dei recenti approcci esclu-sivamente genetici che hanno evidenziato mutazio-ni in geni che non sarebbero stati analizzati se ci si fosse basati esclusivamente sui livelli di EPO sierica e/o sull’ereditarietà. Infatti, recentemente, sono state descritte in pazienti con eritrocitosi mutazioni in altri geni, di cui però non è stato ancora formalmente di-mostrato il nesso causativo con la diagnosi di eritro-citosi, quali EPO (trasmissione dominante), GFI1B (autosomico recessivo), KDM6A (autosomico reces-sivo), BHLHE41 (autosomico recessivo/dominan-te?), EGLN2, HIF3A and OS9 (Camps et al., 2016).Una volta raggiunta la diagnosi etiologica ogni forma

BOX 2• Sistema sensore dell’ossigeno

Il sistema sensore dell’ossigeno rappresenta un complesso pathway che permette all’organismo di adattarsi a una situazione di ipossia, sia cronica che acuta. HIF è il principale fattore di trascrizione coinvolto in tale pathway. HIF è costituito da 2 su-bunità α e β, entrambe costitutivamente espresse. La subunità α presenta tre isoforme: 1α, 2α e 3α. Modelli murini hanno confermato che l’isoforma HIF2α è quella maggiormente coinvolta nella ri-sposta all’ipossia. HIFα può essere rapidamente degradata in condizioni normossiche grazie a una serie di idrossilazioni, catalizzate dagli enzimi PHD1, PHD2 e PHD3, a carico del dominio ODD (Dominio di Degradazione O2-dipendente). L’atti-vità idrossilasica dipende dal ferro e dalla dispo-nibilità di ossigeno. L’idrossilazione sito specifica costituisce un motivo di riconoscimento da parte dell’ubiqutin-ligasi VHL che, attivandosi, determi-na la degradazione di HIFα. In condizioni di ipos-sia questo processo è interrotto, perché l’azione della PHD è limitata dalla carenza di ossigeno. HIF attiva non solo l’Epo, ma anche vari geni con funzioni incluse nel meccanismo di risposta all’i-possia: regolazione del tono vasale, angiogenesi (VEGF, PDGF), glicolisi anaerobia e introito cellu-lare di glucosio (Franke et al., 2013) (Figg. 1A e B).

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di eritrocitosi andrà indirizzata verso un programma di follow-up individualizzato e verso eventuali terapie, sul-le quali purtroppo non esistono a oggi evidenze sulla loro indicazione ed efficacia.

Manifestazioni clinicheDati di correlazione genotipo-fenotipo, valutazioni si-stematiche e prospettiche sulla presentazione clinica

e biochimica di pazienti pediatrici con eritrocitosi sono quasi del tutto assenti in letteratura. Dati a oggi dispo-nibili riguardano case report o analisi retrospettive su piccoli gruppi di pazienti. È da precisare che in circa il 40-50% delle eritrocitosi clinicamente congenite non si raggiunge una diagnosi causativa (Bento et al., 2013).

ECTY1 La forma di eritrocitosi dipendente da mutazioni del

Figura 1. Regolazione del sistema sensore dell’ossigeno ed effetto delle sue alterazioni sull’espressione dell’Epo. Sistema sensore in condizioni di normossia (A) e ipossia (B). Patogenesi dell’eritrocitosi da mutazioni dei geni VHL (C), PHD2 (D) e HIF2α (E).

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Inquadramento delle eritrocitosi in età pediatrica

gene EPOR è caratterizzata da EPO sierica molto bassa e da trasmissione autosomica dominante, ma esistono anche casi de novo. In genere i pazienti han-no un’insorgenza precoce dell’eritrocitosi con una mil-za di dimensioni normali. Le manifestazioni cliniche sono quelle dovute all’aumento della massa eritroci-taria e comprendono pletora, sindrome da ipervisco-sità (astenia, cefalea, vertigini, disturbi visivi e audio-logici, parestesie, mialgia), sintomi da ipoperfusione cerebrale, eventi tromboembolici venosi e/o arteriosi. La gravità della sintomatologia è estremamente varia-bile e non è correlata con i livelli medi di ematocrito o con le terapie praticate (Bento et al., 2016).

Policitemia vera (PV)In età pediatrica tale disordine è estremamente raro e quindi i dati di letteratura sono mancanti. Tali pazienti sembrerebbero avere una minore incidenza di compli-cazioni gravi rispetto alla controparte adulta, ma in ogni caso più alta rispetto alle altre forme di eritrocitosi pe-diatriche (Cario et al., 2009). Alcuni studi hanno dimo-strato che i pazienti pediatrici con la PV hanno meno frequentemente la mutazione classica JAK2(V617F) mentre presentano altre mutazioni dell’esone 12 di JAK2 (Percy et al., 2007; Karow et al., 2015).

Emoglobina a elevata affinità per l’ossigenoTali forme di eritrocitosi sono trasmesse con carat-tere autosomico dominante. La diagnosi viene fatta

mediante la determinazione su prelievo ematico ve-noso della p50, che risulta ridotta, con una deviazio-ne a sinistra della curva di dissociazione della ossi-emoglobina, in presenza di un normale dosaggio del 2,3DPG. Solo un terzo di tutte le varianti emoglo-biniche che determinano un’aumentata affinità per l’ossigeno sono associate a eritrocitosi secondaria, poiché, in diversi casi, l’aumento dell’affinità per l’ossigeno è molto lieve, oppure la variante emoglo-binica è presente in quantità troppo bassa, oppure l’eritrocitosi può essere mascherata dall’emolisi, quando la variante emoglobinica è anche instabile. La maggior parte dei pazienti affetti sono asintoma-tici o presentano segni clinici aspecifici da correlare con l’iperviscosità ematica (eritrosi del volto e delle mucose, cefalea, vertigini, acufeni, ipertensione ar-teriosa).Una lista aggiornata delle varianti emoglobiniche è di-sponibile su http://globin.cse.psu.edu/hbvar/menu.html

ECTY2La maggior parte dei dati clinici su questa forma di eritrocitosi riguarda un gruppo omogeneo di pazienti presente nella regione della Chuvashia in Russia e dovuto a un deficit su base genetica della degrada-zione di HIF da parte di VHL (Ang et al., 2002). Da sottolineare l’esistenza di un altro cluster della ma-lattia localizzato in Italia, con un’alta prevalenza della mutazione nell’isola di Ischia (Perrotta et al., 2006).

Figura 2. Algoritmo per la diagnosi di eritrocitosi.

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La ECTY2 è trasmessa in maniera autosomica reces-siva e i pazienti di questi due cluster sono tutti omo-zigoti per la mutazione Arg200Trp del gene VHL, con identico aplotipo, e pertanto si ipotizza una comune origine genetica. Sono stati poi identificati pazienti con differenti mutazioni del gene VHL in omozigosi o doppia eterozigosi.La ECTY2 è caratterizzata da ipotensione arteriosa sistemica, aumentata incidenza di vene varicose, emangiomi vertebrali, ipertensione polmonare e una bassa conta piastrinica e leucocitaria. È stato di-mostrato come alcune di queste complicanze siano comunque legate alla patogenesi di questa forma di eritrocitosi e in particolare all’aumentata trascrizione di geni regolati da HIF come il vascular endothelial growth factor (VEGF) (responsabile dell’ipotensione arteriosa e delle vene varicose) e l’endotelina 1 (re-sponsabile dell’ipertensione polmonare). Studi retro-spettivi hanno evidenziato una maggiore associazio-ne con trombosi arteriose e venose, eventi vascolari cerebrali e diminuita aspettativa di vita (età media 42 anni). Da sottolineare che in tale popolazione non è stata riscontrata l’efficacia di terapie flebotomiche o antiaggreganti nel ridurre le complicanze o nel miglio-rare l’aspettativa di vita (Gordeuk e Prchal, 2006).Il meccanismo fisiopatologico alla base di tale forma di eritrocitosi spiega anche la loro diversa dinamica cardio-respiratoria, per cui tali pazienti hanno un’au-mentata frequenza respiratoria e cardiaca in normos-sia, che aumenta drammaticamente in condizioni di ipossia. Inoltre i vasi polmonari mostrano un tono maggiore e una maggiore reattività alla diminuzione della tensione di ossigeno rispetto ai controlli (Smith et al., 2006; Bushuev et al., 2006).Pazienti affetti da tale forma di eritrocitosi hanno inol-tre elevati valori plasmatici di omocisteina, glutatio-ne e cistein-glicina, nonché bassi livelli di cisteina ed epcidina, così come glucosio ed emoglobina glico-silata (Sergueeva et al., 2008; Gordeuk et al., 2011; McClain et al., 2013).Nella popolazione pediatrica, in particolare, è stato dimostrato come tali pazienti soffrono di cefalea e do-lori alle gambe in misura maggiore rispetto a una po-polazione normale di pari età. Tali pazienti hanno un aumentato rischio di complicanze gravi a breve termi-ne, che correla con la presenza nella storia clinica di vertigini, aumentata frequenza cardiaca e utilizzo di antistaminici (Sergueeva et al., 2015). L’unico studio prospettico fino a oggi effettuato nell’e-ritrocitosi congenita, è stato su una popolazione adul-ta e ha valutato gli eventi trombotici in pazienti con ECTY2 a 6-10 anni dall’arruolamento. Questo studio ha riscontrato un aumentato rischio di eventi tromboti-ci di 9,6 volte, non correlato ai valori di ematocrito alla diagnosi, bensì al fumo, all’età, alla terapia cronica con flebotomie e/o pentossifillina e all’overespressio-ne di geni, quali THBS1, CXCL2 ed EREG. Ha inol-tre dimostrato un aumento significativo del rischio

di trombosi nei pazienti con livelli sierici di trombo-spondina 1 maggiori di 3448 ng/mL (Sergueeva et al., 2017).

ECTY3-4Le eritrocitosi dovute a mutazioni germinali dei geni EGLN1 ed EPAS1 hanno caratteristiche cliniche so-vrapponibili a quelle da mutazioni del gene VHL (Percy et al., 2006; Percy et al., 2008). Tali forme sono domi-nanti anche se è stato descritto un caso de novo nel caso di HIF2α. Il meccanismo etiopatogenetico risulta in un’inattivazione di PHD2 o in una stabilizzazione di HIF2α. Tali forme hanno valori di EPO elevati o inap-propriatamente normali. Le forme dovute a mutazioni del gene EGLN1 sembrerebbero avere una maggio-re tendenza a sviluppare complicanze cardiovascolari (Minamishima et al., 2008; Wilson et al., 2016). Da sottolineare, inoltre, il ruolo di mutazioni di EPAS1, in genere somatiche ma in un caso anche germinale, in pazienti con associazione di eritrocitosi e tumori del sistema nervoso. HIF infatti, oltre a essere un regola-tore chiave nel pathway dell’Oxigen Sensing, gioca un ruolo importante nello sviluppo e differenziamento della cresta neurale, per il funzionamento della midol-lare del surrene e dei paragangli. In particolare HIF2α è necessario per lo sviluppo dei paragangli e per la sin-tesi di catecolamine. Recentemente, sono state ripor-tate alcune mutazioni somatiche in HIF2α in individui che presentavano sia eritrocitosi, che tumori (feocro-mocitomi, paragangliomi, somatostatinomi) (Zhuang et al., 2012). Queste mutazioni comportano una mag-giore stabilità di HIF2α che, avendo un’emivita più lun-ga, garantisce l’iperespressione non solo di EPO, ma anche di altri geni ipossia-inducibili, importanti per la trasformazione neoplastica (Jochmanová et al., 2014). L’unica mutazione germinale associata a eritrocitosi e paragangliomi multipli è stata identificata nell’esone 9 (c.1121T/A; p.Phe374Tyr) e induce un cambiamento conformazionale tale da ridurre l’interazione con pVHL (Lorenzo et al., 2013).

Eritrocitosi idiopatiche La diagnosi di eritrocitosi idiopatica è in realtà una diagnosi di esclusione, e pertanto è una forma clinica poco definibile e molto eterogenea.Uno studio che ha confrontato casi di eritrocitosi idiopatica con casi di eritrocitosi familiare e di PV ha messo in evidenza che i casi idiopatici si avvicinano per età di insorgenza a quelli di PV, essendo presen-ti in pazienti di età maggiore. Essi hanno un aumento dell’EPO comparabile ai casi familiari e un’incidenza di splenomegalia ed eventi trombotici minore rispetto ai casi di PV. Inoltre, l’aumento delle piastrine riscontrato di norma nei pazienti con PV era solamente sporadico nei casi di eritrocitosi idiopatica. Tali caratteristiche del-le eritrocitosi “idiopatiche” suggeriscono un substrato genetico a penetranza variabile, ma fino a ora scono-sciuto (Randi et al., 2016).

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Inquadramento delle eritrocitosi in età pediatrica

TerapiaGli autori raccomandano un approccio terapeutico in-dividualizzato basato sulle caratteristiche cliniche e ge-netiche di ogni paziente.Suggerimenti generali comprendono la necessità di mantenere una buona idratazione e di evitare attività che potenzialmente possano aumentare la viscosità ematica quali immersioni con bombole, alpinismo, pa-racadutismo, fumo, e di mettere in atto manovre di pre-venzione di fenomeni di tromboembolismo in caso di attività che ne predispongano l’insorgenza, come voli a lunga distanza. I principali argomenti di discussione riguardo la gestio-ne di tali pazienti sono:• salassoterapia• terapia marziale• terapia antiaggregante• follow-up

SalassoterapiaL’aumento della viscosità ematica comporta di norma un aumentato rischio trombotico per cui, nella popola-zione adulta con PV, la salassoterapia è mandatoria; in tale contesto, insieme alla riduzione della viscosità ematica, si cerca di determinare uno stato di carenza marziale, tale da far sì che l’eritrone sia meno stimo-lato.Le eritrocitosi pediatriche, d’altra parte, hanno un sub-strato genetico e fisiologico estremamente diverso da quelle adulte; inoltre, in tale fragile categoria di pazienti vi è necessità di evitare uno stato di carenza marziale, per permettere un normale accrescimento e sviluppo psicofisico mediante una corretta funzione di enzimi dipendenti dal ferro.A tale riguardo gli autori di tale revisione richiamano a una cautela nell’esecuzione della salassoterapia in pa-zienti che hanno un’alterazione generalizzata dei mec-canismi di Oxigen Sensing (mutazioni di VHL, HIF2α e PHD2), a meno di precedenti eventi trombotici o di sintomatologia fortemente correlata all’aumentata vi-scosità ematica.Nelle altre forme di eritrocitosi, quali quelle da mutazio-ni del gene EPOR e nella Hb ad alta affinità, la salasso-terapia deve essere valutata caso per caso, mentre la PV deve essere trattata come quelle nella popolazione adulta.Le eritrocitosi secondarie devono essere anch’esse va-lutate in maniera individuale, focalizzandosi in primis su una pronta risoluzione del quadro patologico di base.Gli autori di tale revisione consigliano sempre e co-munque di considerare l’ematocrito “teorico” del pa-ziente piuttosto che quello reale (ossia il valore a cui corrisponderebbe l’ematocrito se l’MCV fosse al 50esi-mo percentile per età) al fine di indicare o meno la tera-pia flebotomica. Tale suggerimento è in considerazione dell’elevata prevalenza di carenza marziale in tali pa-tologie che, causando microcitemia, può mascherare

un marcato aumento della conta eritrocitaria e un’au-mentata ampiezza di distribuzione eritrocitaria, fattori di per se estremamente predittivi di un aumentato ri-schio trombotico.Comunque, la salassoterapia deve essere sempre consigliata in pazienti che hanno avuto precedenti epi-sodi trombotici e/o con elevato rischio trombofilico o fortemente sintomatici. La quantità di sangue da prele-vare è pari a 5-7 ml/kg e la frequenza dei salassi dipen-de dal valore di ematocrito iniziale.

Terapia marzialeIl metabolismo del ferro è un complesso processo che coinvolge proteine cellulari ed extracellulari, nonché composti organici.L’eterogeneità di funzioni di tale elemento, essendo esso co-fattore di numerosi enzimi, ne spiega l’estre-ma importanza per un corretto funzionamento di ogni organismo cellulare.In particolare una carenza marziale in età pediatrica può comportare uno stato caratterizzato da astenia, scarsa attenzione e difficoltà mnemoniche, scarso ren-dimento scolastico, alterazioni della cute, del derma e degli annessi, ritardo nella guarigione delle ferite, ri-tardo dello sviluppo psicofisico e sessuale, sindrome delle gambe senza riposo, cheiliti angolari e stomatiti, e glossite atrofica.Gli autori di questa review consigliano quindi la supple-mentazione marziale in bambini affetti da eritrocitosi, almeno fino al completamento dello sviluppo puberale e psicofisico.Tale suggerimento è basato anche su studi molecola-ri condotti sul modello della Policitemia di Chuvash. È stato dimostrato, infatti, che in condizioni di normossia, la carenza di ferro provoca una down-regulation dell’i-soforma specifica HIF2α, per la presenza di una regio-ne sensibile al ferro nella 5’ UTR del gene. Questo pro-voca uno squilibrio di espressione tra le due isoforme HIF1α e HIF2α, a favore della prima, con un ulteriore stimolo pro-trombotico (Zhang et al., 2014).

Terapia antiaggregantePazienti con PV necessitano di terapia anti-aggregante con acido acetilsalicilico a basse dosi poiché è stato di-mostrato, in pazienti adulti, che tale terapia è associa-ta a una riduzione del rischio di eventi trombotici fatali e della mortalità, senza aumento del rischio di eventi emorragici maggiori. Tale discorso vale in generale, anche se con un livello di evidenza minore, per tutte le eritrocitosi secondarie.Tuttavia, le eritrocitosi da alterazione del Sistema Sen-sore dell’Ossigeno, sebbene presentino un maggior rischio trombotico rispetto alla popolazione sana, in base ai dati disponibili dalla letteratura, e a nostro av-viso, non dovrebbero essere trattate con terapia anti-aggregante. Tale consiglio clinico è dovuto al fatto che meccanismi di compenso (come l’ipotensione sistemi-ca e la piastrinopenia presenti in tali forme) bilanciano

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D. Roberti et al.

il maggior rischio trombotico dovuto all’aumentata vi-scosità ematica.È comunque buona norma porre in terapia anti-aggre-gante ogni paziente che abbia presentato un evento trombotico maggiore nella storia clinica.

Follow-upNon esistono a oggi evidenze circa la frequenza dei controlli clinici, ematici e strumentali di questi pazienti. In generale, i pazienti con eritrocitosi da mutazioni dei geni del Sistema Sensore dell’Ossigeno devono esse-re monitorati per il rischio di ipertensione polmonare, vene varicose, trombosi arteriose e venose ed eman-giomi vertebrali.

Conclusioni e prospettive future L’esiguo numero di pazienti pediatrici affetti da eritro-citosi non consente di dare indicazioni prognostiche a lungo termine né di dare indicazioni terapeutiche e di prevenzione basate sull’evidenza. Essenziale sarà la costituzione di banche dati e di studi retrospettivi e soprattutto prospettici, volti a comprendere quale sia la migliore gestione clinica e terapeutica di tali giovani

pazienti. Inoltre sono necessari investimenti volti all’i-dentificazione delle basi patogenetiche delle numero-se forme di eritrocitosi “idiopatiche”.Da un punto di vista terapeutico, soprattutto per le rare forme di PV pediatrica e per le Eritrocitosi da altera-zioni del sistema dell’Oxygen Sensing, estremamente promettenti sono gli inibitori di JAK2, quali il Ruxolitinib, già approvato dalla FDA per il trattamento della PV ne-gli adulti. Il Ruxolitinib è stato utilizzato con successo in tre pazienti affetti da ECTY2 e al momento è in corso uno studio clinico per valutarne gli effetti su un gruppo maggiore di pazienti (Zhou et al., 2016).In futuro, potrebbe esserci l’utilizzo di inibitori delle se-lectine (primo tra tutti il crizanlizumab, inibitori della P-selectin), che stanno riscuotendo un grande interesse nel trattamento degli episodi vaso-occlusivi in pazienti con anemia a cellule falciformi. Tali inibitori riducendo i fenomeni di adesione eritrocita-endotelio-piastrine, potrebbero idealmente ridurre l’incidenza dei fenomeni trombotici nei pazienti con eritrocitosi.Infine, sarebbe utile la valutazione, da tempo proposta ma mai valutata, dell’utilizzo degli antagonisti del recet-tore delle endoteline nei casi di eritrocitosi che sono a rischio di ipertensione polmonare.

Box di orientamento

• Cosa sapevamo primaL’eritrocitosi è una patologia rara causata soprattutto dalle emoglobine ad alta affinità per l’ossigeno e da mutazioni del recettore dell’eritropoietina.

• Cosa sappiamo adessoDiverse forme a insorgenza giovanile sono causate da alterazioni dei geni coinvolti nel Sistema Sensore dell’Ossigeno e possono causare complicanze gravi.

• Quali ricadute sulla pratica clinicaIl pediatra dovrebbe considerare, nella sua pratica clinica, non solo l’emoglobina quando è al di sotto del 3° percentile ma anche quando è al di sopra del 97°, indirizzando il paziente verso un percorso diagno-stico ed a volte terapeutico in base al tipo di eritrocitosi e alla sintomatologia del bambino.

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Inquadramento delle eritrocitosi in età pediatrica

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** Prima mutazione di EPAS1 in una for-ma di eritrocitosi familiare.

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* Unica descrizione clinica sistematica di un gruppo omogeneo di pazienti pediatrici affetti da eritrocitosi familiare.

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* Primo studio prospettico nelle eritroci-tosi congenite.

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* Studio molecolare sugli effetti della ca-renza marziale sull’espressione differenziale delle isoforme di HIF e dei loro geni target.

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** Risultati clinici preliminari riguardo l’uso di un inibitore di JAK2- ruxolotinib – in pazienti con ECTY2.

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Corrispondenza

Silverio PerrottaDipartimento della Donna, del Bambino e di Chirurgia generale e specialistica, Università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, via L. de Crecchio 4, 80138 Napoli - E-mail: [email protected]

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aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 108-116aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 108-116 Prospettive in Pediatria

Ematologia pediatrica

Anemia aplastica acquisita: novità sulla diagnosi e il trattamento

Carlo DufourFilomena Pierri

UOC Ematologia, Istituto Giannina Gaslini, Genova

Acquired aplastic anaemia is a rare haematologic disease associated with significant morbidity and mortality. Paediatric patients should be offered accurate diagnostic work-up to rule out other underlying disorders, primarily constitutional marrow failures, which may require different approaches. An abnormal T cell response facilitated by genetic pre-disposition has been postulated as the pathogenetic mechanism leading to overproduc-tion of bone marrow-inhibiting cytokines. Immuno-mediated pathogenesis is confirmed by the response to immunosuppressive treatment (IST) (cyclosporine A + ATG). The problem with IST is failure to respond, development of late clonal disorders and relapse. These aspects are of particular relevance in children. Bone marrow transplantation is another therapeutic option: matched sibling donor (MSD) haematopoietic stem cell transplanta-tion (HSCT) is associated with cure rate in ~ 90% of patients. Front-line matched unrelated donor (MUD) appears to be a viable option in children with similar OS and event-free survival to that in MSD HSCT. In paediatric patients, IST can still be considered a first line option mainly because of the good chances of rescue offered by HSCT performed after IST failure. MUD HSCT appears to be an excellent first line option in case the transplant is feasible within 2-3 months after diagnosis. Alternative donor transplants and/or immu-nosuppressive therapies, such as alemtuzumab, may represent valid tools for resistant/relapsing cases. New promising strategies, such as eltrombopag, are currently under in-vestigation.

Summary

L’anemia aplastica acquisita (AA) è un raro disordine ematologico associato a una si-gnificativa morbidità e mortalità. I pazienti pediatrici dovrebbero essere sottoposti a un accurato work-up diagnostico allo scopo di escludere disordini sottostanti (in particolare condizioni congenite) che richiedono approcci differenti. Una risposta immune T mediata facilitata da una predisposizione genetica è stata ipotiz-zata come meccanismo patogenetico alla base dell’eccessiva produzione di citochine che inibiscono l’ematopoiesi midollare. La patogenesi immunomediata è confermata dalla risposta alla terapia immunosoppressiva (IST) (ciclosporina + ATG). I maggiori problemi dell’IST, di particolare rilievo in pediatria, sono la refrattarietà, lo sviluppo di disordini clonali tardivi e la recidiva. Il trapianto di midollo osseo è l’altra opzione terapeutica per l’AA: quello da donatore familiare HLA identico è curativo per il 90% dei pazienti. Il trapianto da donatore compatibile non familiare è una valida opzione nei bambini con overall survival ed event free survival simili a quello da donatore familiare. Nei pazienti pediatrici l’IST può essere ancora considerata un’opzione di prima linea, soprattutto per le buone possibilità di risposta al trapianto eseguito dopo il fallimento di tale terapia. Tutta-via, il trapianto da donatore non familiare in prima linea, in caso in cui sia possibile realizzarlo 2-3 mesi dalla diagnosi, è una ottima terapia alternativa.Il trapianto da donatori alternativi e/o terapie immunosoppressive come l’alemtuzumab, possono rappresentare validi approcci per i casi resistenti alle terapie di prima e seconda linea. Nuove promettenti strategie, come l’eltrombopag utilizzato come singolo agente o associato all’IST, sono in corso di studio.

Riassunto

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Novità sull’anemia aplastica acquisita

Metodologia della ricerca bibliograficaGli autori hanno selezionato dalla letteratura più re-cente i contributi scientifici che a loro giudizio fossero i più rilevanti sulla patogenesi, la diagnosi e terapia dell’anemia aplastica acquisita (AA).La ricerca degli articoli è stata effettuata su banca bi-bliografica (Medline), utilizzando come motore di ri-cerca PubMed e le seguenti parole chiave: “aplastic anemia” and “diagnosis”, “pathogenesis”, “treatment”, “stem cells transplantation”, “immunosoppressive the-rapy”, “clonal hematopoiesis”, “regulatory T cells”, “no-vel therapeutics approches”.

IntroduzioneL’anemia aplastica acquisita (AA) è un disordine ematologico raro (1-2 casi/milione/aa) e grave, la cui prognosi è notevolmente migliorata negli ultimi anni grazie ai progressi delle terapie specifiche (trapianto di cellule staminali emopoietiche e terapia immuno-soppressiva) e delle terapie di supporto, raggiungen-do una possibilità di cura del 90% (Miano e Dufour, 2015). Fondamentale è, per una gestione corretta, la certezza della diagnosi, che passa per l’esclusione di condizioni congenite che possono essere alla base dell’insufficienza midollare, caratteristica principale della patologia. In questo articolo descriveremo le caratteristiche cli-niche, l’approccio diagnostico, la patogenesi dell’AA e le differenti opzioni terapeutiche disponibili.

Caratteristiche cliniche e diagnosiMolti casi di AA si manifestano fra i 10 e i 25 anni di età e dopo i 60 anni. La maggioranza (70-80%) dei casi è idiopatica; in alcuni casi si può identificare un farmaco, un agente chimico o un agente infettivo qua-le possibile causa precipitante l’insufficienza midolla-re (Miano e Dufour, 2015).Per definizione si tratta di una condizione caratterizza-ta da pancitopenia associata a insufficienza midollare in assenza di segni maggiori di mielodisplasia (MDS) e fibrosi midollare. Il coinvolgimento di almeno due li-nee nelle cellule del sangue periferico è richiesto per la diagnosi e la sua gravità si valuta con i criteri di Camitta (Tab. I).La maggior parte dei pazienti presenta alla diagnosi segni e sintomi correlati all’anemia e alla piastrino-

penia, meno spesso un quadro infettivo correlato alla neutropenia. In alcuni casi in anamnesi si rileva una citopenia monolineare o un’epatite sieronegativa.Per la diagnosi, è indispensabile eseguire una valuta-zione midollare e una serie di esami volti a escludere: le leucemie e MDS ipocellulari, le forme di aplasia in un contesto di malattia autoimmune o immunode-ficienza definita, le forme genetico-costituzionali, le infezioni, l’emoglobinuria parossistica notturna (PNH) (Tab.  II). È importante inoltre con l’anamnesi esclu-dere l’esposizione a farmaci che possono essere re-sponsabili di aplasia midollare.L’anamnesi familiare positiva per anemia, citopenia o malattie ematologiche maligne deve far sospettare la presenza di una condizione su base genetica, che deve essere sospettata anche in presenza di anoma-lie fisiche (bassa statura, difetti congeniti renali, degli arti, delle unghie, della cute). La valutazione midollare deve comprendere un aspi-rato midollare e una biopsia osteomidollare (BOM). La cellularità midollare deve essere valutata sulla BOM e per definizione si definisce ipocellulato un midollo con una cellularità < 30% nei bambini e nei giovani adulti, mentre negli adulti, che hanno una cellularità fisiolo-gicamente ridotta, tale cut-off è meno applicabile. La BOM serve anche ad escludere la presenza di mielo-displasia, fibrosi e infiltrati patologici. L’esame morfo-logico dell’aspirato midollare spesso mostra segni di diseritropoiesi, ma non segni maggiori di displasia dei megacariociti e dei granulociti. In particolare, il pattern dei megacariociti è utile nella diagnosi differenziale, in quanto tali cellule sono spesso ridotte o assenti nelle AA, mentre sono piccoli o aberranti nelle MDS.Nonostante circa il 10% dei pazienti con AA abbia anomalie citogenetiche midollari, la presenza di una monosomia del 7 o 5q- fa propendere per una MDS e/o altre anomalie clonali.Il work-up diagnostico (Tab.  II) deve essere quindi estensivo ed accurato al fine di: • confermare la diagnosi e definire la gravità dell’a-

plasia;• escludere altre possibili cause di pancitopenia con

midollo ipocellulare; • evidenziare o escludere forme costituzionali/eredi-

tarie; • evidenziare l’eventuale agente causale; • evidenziare o escludere la presenza di coesistente

clone citogenetico o PNH. L’utilizzo del next generation sequencing (NGS) e del whole exome sequencing, pur con le inevitabili difficol-

Tabella I. Definizione della gravità dell’AA.

AA severa (SAA): cellularità midollare ridotta (< 30%)Almeno 2 fra neutrofili < 500/mmc, piastrine < 20.000/mmc, reticolociti < 20.000/mmc.

AA molto severa: criteri SAA soddisfatti più neutrofili < 200/mmc.

AA non severa: ridotta cellularità midollare e citopenia, ma non soddisfatti i criteri diagnostici della SAA.

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C. Dufour et al.

tà interpretative di risultati non univoci, potrà permet-tere di diagnosticare le forme genetiche criptiche e di migliorare quindi l’accuratezza diagnostica dell’AA.Alla diagnosi, inoltre, riteniamo opportuno eseguire una tipizzazione HLA sia per permettere di avviare il più rapidamente la ricerca di un donatore nei pazien-ti che non hanno un familiare HLA identico sia per identificare soggetti con HLA-DR2 and HLA-DRB1*15 che hanno buona probabilità di rispondere alla ciclo-sporina A (CsA) e di diventare dipendenti da questa terapia (Sugimori et al., 2007).L’evoluzione clonale è l’evento più temuto nell’AA, si verifica nel 15% dei pazienti ed è più frequente in pa-zienti di età più avanzata o con una storia clinica più lunga. È in genere annunciato da un peggioramento della citopenia, dalla comparsa di mielodisplasia e/o anomalie citogenetiche nel midollo, anche se è da te-ner presente che alcune anomalie citogenetiche, ec-cetto la monosomia del 7, possono essere transitorie e necessitano esclusivamente di follow-up (Miano e Dufour, 2015).Nuove tecniche di biologia molecolare come l’NGS sono state utilizzate per analizzare i geni coinvolti nell’evoluzione clonale delle AA attraverso le MDS. Gli studi attualmente disponibili in letteratura riguarda-no prevalentemente pazienti adulti affetti da AA. Uno studio recente (Yoshizato et al., 2015) ha dimostrato infatti che circa il 20% dei pazienti con AA è portatore di mutazioni somatiche di geni coinvolti nella regolazio-ne epigenetica della trascrizione del DNA (DNMT3A

e BCOR-BCORL1) o nella regolazione della risposta immune (ASXL1). È stato osservato inoltre che cloni BCOR-BCORL1 tendono a scomparire o rimanere di piccola entità, e che la loro presenza si associa a una migliore risposta alla terapia immunosoppressiva e a un outcome più favorevole. Al contrario, cloni portatori di mutazioni in ASXL1 e DNMT3A tendono a crescere nel tempo e associarsi a una mancata risposta alla te-rapia immunosoppressiva, a un outcome peggiore e all’evoluzione verso MDS/LMA (Yoshizato et al., 2015). In particolare i pazienti con una lunghezza del telo-mero inferiore e una durata più lunga della patologia. Queste mutazioni sono associate al 40% di rischio di trasformazione (Ogawa, 2016).

PatogenesiDal punto di vista patogenetico l’AA è una malattia multifattoriale dovuta a un attacco autoimmune verso le cellule staminali emopoietiche (CSE), in cui posso-no avere un ruolo le stesse cellule, la risposta immu-nitaria e lo stroma. Nei pazienti AA è stato osservato un difetto quantitativo e qualitativo della CSE. Il numero delle cellule staminali pluri-potenti residue in un midollo aplastico è < 1% ri-spetto a quelle presenti in un soggetto normale. Da un punto di vista qualitativo, il 30-50% dei leucociti dei pa-zienti AA ha un accorciamento dei telomeri, imputabile secondo alcuni studi a un meccanismo di aumentato turnover cellulare e stress replicativo (Bar et al., 2016),

Tabella II. Work-up diagnostico dell’AA in età pediatrica (da Barone, 2015, mod.).

Test obbligatori:• Emocromo con formula e reticolociti• Striscio di sangue periferico • Test di funzione epatica • Ricerca virus: epatiti, EBV, CMV, Parvovirus, HHV6, HSV, HIV, Adenovirus and Varicella-Zoster• Aspirato midollare per morfologia, citogenetica, immunofenotipo, colorazione di Pearls• Biopsia osteomidollare• Citometria a flusso per ricerca clone PNH (possibili falsi negativi per bassa conta di leucociti)• Autoanticorpi (ANA, ENA, anti dsDNA)• Vitamina B12 e folati• Sottopopolazioni linfocitarie e dosaggio Ig, per escludere immunodeficienze• Fibrinogeno, ferritina, trigliceridi (per escludere la sindrome emofagocitica)• Elastasi pancreatica fecale, lipasi (per identificare la sindrome di Shwachman)• Bilirubina e LDH• Sottopopolazioni linfocitarie e dosaggio Ig (per escludere immunodeficienze)• Ecografia dell’addome (per escludere splenomegalia, linfoadenomegalia e malformazioni)• Ecocardiografia (per escludere malformazioni)• Radiografia del torace (per escludere infezioni in atto e anomalie polmonari)Per la diagnosi differenziale con le forme congenite:• Test di fragilità cromosomica (MMC o DEB). Gold standard per la diagnosi di anemia di Fanconi• Valutazione della lunghezza del telomero (per escludere telomeropatie, se patologica avviare studi genetici)• Test ancillari:• Ricerca infezioni da micobatteri (più spesso atipici)• Studio dei progenitori midollari (non disponibile in tutti i centri) • Ricerca mutazione TERT, TERC, (più raramente TNF2, NHP2, NOP10, DKC1), cMPL, geni SDS• RM colonna (midollo sostituito da tessuto adiposo nell’AA, chiazze miste di midollo ipo/iper cellulato nella MDS)

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Novità sull’anemia aplastica acquisita

che predisporrebbe a una maggiore fragilità della cellu-la staminale emopoietica. L’accorciamento del telome-ro può essere però anche dovuto a mutazioni nei geni di riparazione o protezione dei telomeri (DKC1, TERC, TERT ecc.) che sono responsabili in omozigosi delle discheratosi congenite, ma che possono essere ritro-vate in eterozigosi nel 10% circa delle AA e sarebbero quindi responsabili di una maggiore fragilità della CSE (Yamaguchi et al., 2005). Inoltre, è stato osservato che il fattore di trascrizione GATA2, indispensabile per l’ematopoiesi, è espresso in modo ridotto e presenta difetti di funzione delle CSE dei pazienti AA. Questo deficit provoca un aumento della componente adiposa del midollo e influisce negativamente sulla formazione di colonie, contribuendo all’insufficienza midollare. (Ka-mata et al., 2014). Uno dei meccanismi prevalenti nella patogenesi dell’AA è quello immunomediato, come dimostra la presenza di un’inibizione della crescita dei progenitori midollari in vitro mediata dai linfociti dei pazienti AA o la presenza di cellule CD4 + specifiche e di CD8+ oli-goclonali (Risitano et al., 2004). In particolare, è stato osservato un andamento fluttuante dei cloni che cor-rela con la risposta alla terapia immunosoppressiva (IST) (Risitano et al., 2002). Alla base dell’AA vi è un’attivazione di linfociti  T ci-totossici auto-reattivi che liberano citochine mielo-soppressive fra cui TNF-alfa e INF-gamma le quali bloccano la mitosi e aumentano l’apoptosi, con con-seguente distruzione delle CSE (Dufour et al., 2009). La formazione di questi cloni autoreattivi sarebbe fa-vorita anche dal fatto che linfociti T regolatori (Tregs) nei pazienti AA sono ridotti e presentano alterazioni qualitative (Solomou et al., 2007). Un recente studio (Kordasti et al., 2016) ha caratterizzato le sottopopo-lazioni di Tregs presenti nei pazienti AA identificando-ne 2 sottotipi (A e B) con distinti fenotipi, espressione genica e funzione. Il tipo B prevale nei pazienti che rispondono alla terapia immunosoppressiva, ha un fenotipo memoria/attivato ed esprime il pathway in-terleuchina-2 (IL-2)/STAT5. Questi studi aprono nuove frontiere riguardo la presenza di marker predittivi di risposta alla terapia immunonosoppressiva e, aven-do dimostrato che questi Tregs sono sensibili all’IL2, suggeriscono nuovi approcci terapeutici come l’utiliz-zo di basse dosi di IL-2. Un possibile contributo patogenetico è offerto anche dalle sovraespressione da parte della CSE di ligandi quali NKG2D che richiamano e attivano linfociti T, NK, NKT che danneggiano la cellula emopoietica.L’espansione di polimorfismi in regioni promoter dei geni delle citochine nei pazienti con AA suggerisce inoltre un’influenza genetica nella risposta immune per la presenza, nei soggetti portatori di tali polimorfi-smi, di una maggiore attivazione della risposta infiam-matoria che predisporrebbe i soggetti a sviluppare un’inibizione midollare (Dufour et al., 2004). Altri dati a favore di questa ipotesi sono il riscontro del fatto

che alcuni alleli HLA sarebbero predisponenti a svi-luppare AA (DRB1 (1501, 0405), B14, B (4801) e altri invece sarebbero protettivi (HLA-DRB1*03:01, HLA-DRB1*11:01, HLA-DRB1*03, HLA-B*51:01) (Zeng e Katsanis, 2015).Di recente, la presenza di una perdita acquisita di ete-rozigosi del braccio corto del cromosoma 6 (6pLOH), che causa la perdita di un aplotipo HLA, è stata ri-scontrata nelle cellule staminali di un certo numero di pazienti con AA. Tale anomalia può essere suggestiva di un meccanismo di escape dai T citotossici diretti contro le cellule staminali emopoietiche. Questo insul-to autoimmune sembra inoltre stimolare l’emopoiesi clonale, ma il meccanismo alla base appare ancora poco chiaro (Ogawa, 2016).È stato anche riportato un ruolo degli elementi dello stroma nella perdita della sorveglianza dei linfociti T attivati e delle citochine mielosoppressive (Baciga-lupo et al., 2005). Le cellule stromali di soggetti AA infatti sono alterate e non inibiscono la proliferazione di cellule T e la liberazione di citochine mielosoppres-sive (IFN-g). Tale difetto persiste indefinitamente dopo la terapia immunosoppressiva, ma è normalizzato dal trapianto (Bacigalupo et al., 2005).L’attuale modello patogenetico proposto per l’AA pre-vede quindi che un evento iniziale che può essere rappresentato da un’infezione virale e/o la presenza di una mutazione genetica nel compartimento delle cellule staminali emopoietiche può scatenare una scorretta presentazione dell’antigene da parte del complesso maggiore di istocompatibilità, che porta alla formazione di cellule T autoreattive e che libera-no citochine mielosoppressive fra cui TNF-alfa e INF-gamma, con conseguente apoptosi della CSE. Nel complesso pertanto la patogenesi della AA appa-re multifattoriale e ancora non completamente definita in tutti i suoi aspetti (Fig. 1).

TrattamentoIl trattamento dei pazienti pediatrici con AA va effet-tuato in centri specialistici di comprovata competenza nella gestione di pazienti con insufficienza midollare. Il centro deve garantire servizi e presidi idonei a un rapido approvvigionamento di farmaci immunosop-pressori specifici, una ottimale terapia di supporto trasfusionale e anti-infettivo e un’adeguata gestione medico/infermieristica (Barone et al., 2015). L’iter diagnostico-terapeutico da intraprendere in un paziente pediatrico con aplasia midollare (AA) idiopa-tica è estremamente complesso. In attesa di stabilire con certezza la diagnosi di AA e il grado di severità è ammesso un periodo di osservazione durante il quale va praticata la sola terapia di supporto. È inoltre rac-comandabile che le condizioni cliniche del paziente, in termini di controllo emorragico e trattamento del-le infezioni, vengano stabilizzate prima dell’avvio del trattamento specifico.

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C. Dufour et al.

Il trattamento specifico si basa sul ripristino dell’e-matopoiesi attraverso il trapianto di cellule staminali emopoietiche (HSCT) o l’avvio di terapia immunosop-pressiva combinata (IST).

Terapie di supporto L’anemia deve essere trattata con trasfusioni di globu-li rossi concentrati che hanno l’obiettivo di migliorare i sintomi legati all’anemia, ma non di raggiungere un valore specifico di emoglobina. La presenza di so-vraccarico marziale deve essere monitorata e deve essere iniziata una chelazione se il carico di ferro va-lutato alla RM T2* è superiore a 200 ml/kg o il ferro epatico è > 7 mg/g del peso secco. Se non è possibi-le valutare il contenuto marziale epatico con una RM T2*, la ferritinemia, anche se meno specifica, può es-sere utilizzata come marker di sovraccarico marziale e sono da considerare significativi livelli persistente-mente > 1000 ng/ml (Miano e Dufour, 2015).La piastrinopenia deve essere trattata con trasfusioni di piastrine solo quando la conta è sotto le 10.000/mmc o ci sono sanguinamenti in atto. Alcuni autori raccomandano di trasfondere le piastri-ne al di sotto del cut-off di 30.000/mmc durante la te-rapia con globulina antilinfocitaria (ATG)Tutti gli emoderivati trasfusi devono essere leucode-pleti e irradiati per ridurre il rischio di reazioni trasfu-sionali e di sensibilizzazione.

Nei pazienti linfopenici, inoltre, è raccomandata la profilassi anti Pneumocystis. Nonostante non ci siano studi clinici disponibili nei pa-zienti pediatrici, la profilassi antifungina può essere presa in considerazione se la conta dei neutrofili è persistente-mente < 200/mmc. La profilassi antibiotica deve essere considerata in pazienti con neutrofili < 200/mmc, fra il giorno + 30 e + 90 dopo terapia immunosoppressiva.

Terapie specifiche

Considerazioni generaliI pazienti con anemia aplastica severa o molto severa e pazienti con anemia aplastica non severa trasfusio-ne-dipendenti devono essere il più rapidamente pos-sibile sottoposti a terapie specifiche, in quanto, in que-sti pazienti, la remissione spontanea è estremamente rara e un intervallo di tempo superiore a 2-3 mesi tra diagnosi e trattamento può associarsi a un peggiora-mento della prognosi (Locasciulli et al., 2007).Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche da dona-tore familiare HLA identico è l’opzione di prima scelta, perché rappresenta una possibilità di cura definitiva e il suo impiego si associa a un tasso di sopravvivenza in età pediatrica intorno al 90% (Burroughs et al., 2012).Il razionale della IST risiede nella possibilità di soppri-mere la disregolazione immune presente nelle AA, utiliz-zando farmaci ad azione immunosoppressiva antilinfoci-

Figura 1. Modello patogenetico dell’AA (vedi testo per descrizione dettagliata).

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Novità sull’anemia aplastica acquisita

taria (siero antilinfocitario, ciclosporina), con probabilità di sopravvivenza a lungo termine simili a quelle del tra-pianto da familiare compatibile, ma con una qualità della sopravvivenza largamente inferiore (Bacigalupo, 2017).

Trapianto di cellule staminali ematopietiche (HSCT)La scelta dell’HSCT da donatore familiare HLA compa-tibile come terapia di prima linea si basa su studi che ne hanno comparato la sua efficacia rispetto all’IST (Yoshida et al., 2014 ; Dufour et al., 2015). In partico-lare, citiamo lo studio del Working Party della Severe Aplastic Anemia (SAAWP) dell’European Society for Blood and Marrow Transplantation (EBMT) pubblica-to nel 2015 (Dufour et al., 2015), in cui sono stati re-trospettivamente analizzati 563 pazienti AA da 0 a 12 anni. L’Overall Survival (OS) nei pazienti che sono stati sottoposti a IST in prima linea era 87%, versus 91% dei pazienti sottoposti a HSCT da donatore familiare HLA identico. Il dato più rilevante emerso da questo studio è che l’Event Free Survival (EFS, intendendosi come eventi la morte, la non risposta, la recidiva, lo sviluppo di clone PNH, le neoplasie secondarie e la necessità di ricorrere al HSCT dopo aver fallito l’IST) che è dun-que un indicatore qualitativo della sopravvivenza, risul-tava essere 87% per i pazienti che ricevevano HSCT da familiare identico in prima linea, versus 33% per i pazienti sottoposti a IST. Altro dato interessante è che i pazienti in cui la IST era fallita sottoposti a HSCT da donatore non familiare raggiungevano un OS dell’81%, ma con una maggiore incidenza di GVHD acuta e cro-nica e di neoplasie tardive rispetto ai pazienti sottoposti a HSCT in prima linea. Di recente, grazie all’utilizzo di regimi di condiziona-mento a ridotta intensità, a una maggiore risoluzio-ne della tipizzazione HLA e al miglioramento delle terapie di supporto, vi è stato un significativo miglio-ramento dei risultati ottenuti anche con l’HSCT da do-natore compatibile non familiare (Matched Unrelated Donor, MUD) fino a un OS, nei soggetti fra 1 e 10 anni dell’85% (Bacigalupo, 2017). In età pediatrica, alcuni recenti studi retrospettivi han-no dimostrato sopravvivenze nei trapianti da donatore non familiare comparabili a quelle dei trapianti da do-natore familiare.In particolare, uno studio del 2015 (Dufour et al., 2015) ha analizzato l’outcome di 29 pazienti di età media-na 8,6 anni, che hanno ricevuto in prima linea HSCT da donatore non familiare (Matched Unrelated Donor, MUD) e l’ha comparato ai pazienti, con simili caratte-ristiche, che hanno ricevuto in prima linea HSCT da donatore familiare o IST o HSCT da donatore non fa-miliare dopo fallimento dell’IST. L’OS e l’EFS a due anni nella coorte MUD sono risultate essere rispettivamente del 96% e del 92%, versus il 91% e 87% per i pazien-ti sottoposti a HSCT da familiare in prima linea, 94% e 40% per i pazienti sottoposti a IST, 74% e 74% per i pazienti sottoposti a MUD-HSCT dopo IST. Tali dati

nell’insieme, indicano che l’IST in prima linea pur of-frendo un’eccellente probabilità di sopravvivenza, non permette una buona qualità di vita alla maggioranza dei pazienti (EFS dopo IST sono fra il 30% e il 40% nei vari studi). In base a ciò e data l’importanza, soprattutto nelle età più giovani, della qualità della sopravviven-za, appare legittimo considerare, nei pazienti pediatrici privi di un donatore familiare, il trapianto MUD come opzione di prima linea, a patto che possa essere effet-tuato entro 2-3 mesi dalla diagnosi per evitare il rischio di gravi infezioni legato al persistere della neutropenia. Per i soggetti in cui non è possibile eseguire entro i tempi indicati un MUD-HSCT l’IST rappresenta una buona opzione terapeutica.Negli ultimi anni in alcuni centri si è sviluppata la tendenza a effettuare trapianti da donatore familiare compatibile per metà (aploidentici) sia con manipola-zioni delle cellule infuse miranti a eliminare il rischio di GVHD senza penalizzare troppo la ricostituzione im-munologica, sia con l’aggiunta di ciclofosfamide post trapianto, con l’obiettivo di modulare l’attività delle cel-lule T infuse. Questo tipo di trapianto ha il vantaggio di avere il donatore disponibile in tempi rapidi e risultati ottenuti finora sono decisamente incoraggianti, ma al momento non riprodotti in un numero di centri tale da poter essere considerato un trattamento consolidato e quindi uno standard di cura (Bacigalupo, 2017). I pazienti con anemia aplastica non severa (NSAA) trasfusione indipendenti possono presentare remis-sione spontanea senza trattamento specifico (Ho-ward et al., 2004). I restanti casi trasfusione dipendenti, possono pro-gredire verso la forma severa o presentare un quadro ematologico stabile per mesi o anni.Data la potenziale tossicità della terapia specifica e la mancanza di alto livello di evidenza circa i benefici di un avvio precoce della stessa nei pazienti con NSAA trasfusione-indipendenti, appare ragionevole un periodo di osservazione e supporto, seguito da un trattamento specifico soltanto in caso di progressione del quadro.

Terapia immunosoppressiva (IST)L’ATG e la ciclosporina (CSA) sono gli agenti utilizzati in prima linea. Il loro uso combinato si è dimostrato esse-re più efficace che il solo ATG (Locasciulli et al., 2007). L’ATG più efficace è quello di origine equina, sommi-nistrato alla posologia di 40  mg/kg/die per 4 giorni. Per prevenire lo sviluppo di malattia da siero, è rac-comandata l’associazione con steroidi per almeno 14 giorni. Uno studio prospettico dell’NIH (Scheinberg et al., 2011) ha dimostrato che l’ATG di origine equina è più efficace di quello derivato dal coniglio (probabilità di sopravvivenza a 3 anni 96% versus 66%, con un’alta incidenza di morti precoci nel gruppo trattato con siero di coniglio). Tale dato è stato confermato da uno studio dell’EBMT (Marsh et al., 2012) che ha documentato un OS del 91% per i pazienti SAA trattati con siero di caval-lo versus 73% di quelli trattati con siero di coniglio e, in

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C. Dufour et al.

quest’ultimo gruppo, una maggiore incidenza di infezio-ni tardive letali rispetto allo studio americano. Questi dati hanno avuto un forte impatto nell’approvvigio-namento del siero di cavallo, ritirato dal mercato in Europa dal 2007, è di nuovo disponibile in molti paesi europei. La terapia con CSA va iniziata contestualmente all’ATG (al giorno 1) alla dose di 5 mg/kg/die in due sommini-strazioni per 12 mesi (mantenendo i livelli ematici basali tra 100 e 250 ng/ml), quindi ridotta lentamente nel cor-so dei successivi 12 mesi (la sospensione in non meno di 24 mesi in caso di risposta completa). È stato infatti evidenziato che un tapering più lento e graduale (< 0,3-0,7 mg/kg/mese) della CSA si associa a una riduzione del tasso di recidiva rispetto a un tapering più rapido (³ 0,8 mg/kg/mese) (Saracco et al., 2008). L’impiego del G-CSF, dopo trattamento con ATG e CsA, trova spazio per ridurre il rischio infettivo nei primi pe-riodi dopo l’IST in attesa della risposta ematologica. È stato osservato che l’utilizzo del G-CSF riduce il tasso di infezioni e i giorni di ospedalizzazione, senza però effetti sulla OS, EFS e sulla risposta alla terapia (Tichelli et al., 2011). Inoltre è stato dimostrato un ruolo predittivo della risposta, perché è stato visto che i pazienti che ricevo-no G-CSF e raggiungono > 500 neutrofili/mmc al giorno 30 hanno più alte probabilità di risposta all’IST al giorno 120 (Tichelli et al., 2011). Vi sono preoccupazioni circa il costo derivante dall’im-piego di G-CSF a lungo termine e soprattutto sulla possibiltà di aumentare il rischio di evoluzione clonale (mielodisplasia e/o leucemia). In realtà il ruolo favorente l’evoluzione clonale non è dimostrato in modo univoco. Uno studio retrospettivo del SAAWP dell’EBMT su 840 pazienti (sia adulti che pediatrici, età mediana alla dia-gnosi 26,8 anni, range 15,4-46,6 anni) trattati con ATG e CsA dei quali oltre il 43% ha ricevuto anche G-CSF, ha dimostrato che l’uso di tale farmaco era associato a un maggior rischio di MDS/LMA (10,9%) in chi era esposto a G-CSF, rispetto a chi non riceveva tale farmaco (5,8%) (Socie et al., 2007). Tuttavia finora né gli studi di meta-analisi (Gurion et al., 2009), né i trials randomizzati han-no dimostrato un aumento del rischio di malattia clonale associato all’uso di G-CSF. Considerato l’insieme di tali dati, si raccomanda di mini-mizzare l’utilizzo del G-CSF confinandolo in modo conti-nuo ai primi 30 giorni di trattamento e on demand, in caso di infezioni nei pazienti neutropenici, nei giorni successivi.Recentemente il gruppo del NIH ha sperimentato l’associazione della terapia IST classica (CsA e ATG equino) con il farmaco Eltrombopag, un agonista del recettore della trombopoietina (TPO), capace di stimo-lare la componente ematopoietica residua (Townsley e Winkler, 2016). L’aggiunta di tale sostanza ha migliora-to la risposta ottenuta con la sola IST classica raggiun-gendo valori di risposta complessiva (parziale + com-pleta) a 6 mesi dell’86% quando l’Eltrombopag veniva somministrato simultaneamente all’ATG. Nello studio erano compresi anche pazienti pediatrici. Nel SAAWP dell’EBMT è in corso uno studio prospettico rando-

mizzato comparativo (lo studio NIH era senza braccio comparativo) che potrà confermare tali dati. In tal caso, considerato anche il loro uso per via orale, è verosimile che gli agonisti della TPO, entrino, in aggiunta all’IST classica, nei protocolli come standard di cura.

Forme refrattarie alle terapie di prima e seconda lineaIn caso di fallimento dell’IST e nei pazienti non candi-dabili a HSCT da familiare identico o MUD, oltre al già citato HCST aploidentico, le strade percorse, riassunte recentemente da Townsley e Winkler (Townsley e Win-kler, 2016) sono state: - intensificazione del regime standard ATG/CsA con

l’aggiunta di un terzo agente immunosoppressore, possibilmente con un diverso meccanismo d’azione per sfruttare la sinergia tra farmaci. I farmaci studiati sono stati: il micofenolato mofetile, il sirolimus, la cui associazione all’IST non ha mostrato alcun vantag-gio né in termini di risposta al trattamento (62% a 6 mesi), né in termini di prevenzione delle recidive.

- utilizzo di ciclofosfamide ad alte dosi al posto dell’ATG in associazione a CSA: tassi di risposta buoni, ma più alta incidenza di eventi infettivi gravi;

- androgeni: efficacia non confermata da studi ran-domizzati, ma in base ad alcune esperienze si può ipotizzare un loro ruolo nei pazienti refrattari, in cui la terapia dovrebbe essere proseguita per almeno 3 mesi prima di essere dichiarata inefficace;

- alemtuzumab (anticorpo monoclonale anti CD52) associato a CSA a basse dosi: tale associazione si è rivelata promettente in un trial condotto dall’SAAWP su pazienti adulti, con una percentuale di risposta del 58% senza tossicità severe. Quest’ultimo dato è stato confermato anche da uno studio NIH, che ha invece evidenziato differenti percentuali di risposta in base alla fase di malattia (53% nelle recidive e 37% nelle forme refrattarie);

- eltrombopag: in uno studio di fase II è stata ottenuta una risposta (in alcuni casi coinvolgente tutte le linee cellulari) nel 44% di 25 pazienti adulti refrattari all’IST. In un update del follow-up dei pazienti sottoposti a tale trattamento, è stato osservato che 8/43 (18,6%) hanno sviluppato anomalie citogenetiche clonali dopo la somministrazione.

Conclusioni e prospettive Come già sottolineato, tutti i pazienti con AA andrebbero riferiti a Centri specializzati, in grado di stabilire la dia-gnosi, l’iter terapeutico e il follow-up più adeguati. Il trattamento di prima scelta delle forme severe in caso di presenza di un donatore familiare HLA identico è il trapianto di cellule staminali emopoietiche. L’IST in prima linea pur offrendo un’eccellente probabi-lità di sopravvivenza, non permette una buona qualità di vita alla maggioranza dei pazienti (EFS fra il 30% e il 40%), per cui appare legittimo considerare, nei pazien-

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Novità sull’anemia aplastica acquisita

ti pediatrici privi di un donatore familiare, il trapianto MUD come opzione di prima linea a patto che possa essere effettuato entro 2-3 mesi dalla diagnosi. Per i soggetti in cui non è possibile eseguire entro i tem-

pi indicati un MUD-HSCT l’IST rappresenta una buona opzione terapeutica di prima linea.Lo schema riportato in figura 2 mostra l’algoritmo tera-peutico da noi suggerito attualmente per l’AA.

Box di orientamento

• Cosa sapevamo primaDal punto di vista patogenetico l’AA è una malattia multifattoriale dovuta a un attacco autoimmune verso le cellule staminali emopoietiche (CSE) in cui possono avere un ruolo le cellule ematopoietiche stesse e lo stroma. Questi concetti sono supportati dall’efficacia della terapia immunosoppressiva (IST), che rap-presenta una delle alternative terapeutiche insieme al trapianto di cellule staminali emopoietiche (HSCT). La scelta dell’HSCT da donatore familiare HLA compatibile come terapia di prima linea si basa su studi che ne hanno dimostrato una maggiore efficacia in termini di event free survival rispetto all’IST. In assen-za di donatore familiare compatibile, veniva invece fino a pochi anni fa raccomandata l’IST in prima linea.

• Cosa sappiamo adessoIn età pediatrica, alcuni recenti studi retrospettivi hanno dimostrato sopravvivenze e EFS nei trapianti da donatore non familiare comparabili a quelle dei trapianti da familiare. Tali dati nell’insieme indicano che l’IST in prima linea, pur offrendo un’eccellente probabilità di sopravvi-venza, non permette una buona qualità di vita alla maggioranza dei pazienti (EFS dopo IST sono fra il 30% e il 40% nei vari studi).

• Per la pratica clinicaIn base ai dati emersi dai recenti studi, appare legittimo considerare, nei pazienti pediatrici privi di un donatore familiare, il trapianto MUD come opzione di prima linea a patto che possa essere effettuato entro 2-3 mesi dalla diagnosi per evitare il rischio di gravi infezioni legato al persistere della neutropenia.Per i soggetti in cui non è possibile eseguire entro i tempi indicati un MUD-HSCT l’IST rappresenta una buona opzione terapeutica di prima linea.

Figura 2. Algoritmo terapeutico AA (MSD: Matched Sibling Donor, HSCT: Hematopoietic Stem Cell Transplantation, MUD Matched Unrelated Donor, MMUD: Mismatched Unrelated Donor).

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Corrispondenza

Carlo DufourUOC Ematologia IRCCS Istituto Giannina Gaslini, via Gerolamo Gaslini 5, 16147 Genova - E-mail: [email protected]

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Prospettive in Pediatriaaprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • P. 117

Chirurgia pediatrica

La gastroenterologia pediatrica, disciplina tra le più affascinanti in ambito chirurgico pediatrico, è senza dub-bio una branca in rapida evoluzione, grazie allo sviluppo tecnologico che si è affermato in questi ultimi anni in chirurgia pediatrica. Essa si interessa del trattamento chirurgico delle patologie del tubo digerente dall’esofago al colon-retto e rap-presenta oltre il 50% delle patologie infantili di interesse chirurgico. In rapporto a questa frequenza la diagnostica in questo campo si è gradualmente affermata, tanto che oggi è possibile fare la diagnosi della maggior parte delle patologie congenite gastrointestinali come l’atresia esofagea e le malformazioni ano-rettali già in epoca prenatale, il che consente di verificarne alla nascita le caratteristiche anatomo-fisiologiche e ciò si traduce nella messa a punto di protocolli terapeutici che hanno notevolmente migliorato la prognosi che nella maggior parte delle patologie consente la loro guarigione completa e definitiva. Altre patologie dell’apparato gastro-enterico sono invece acute, come l’appendicite acuta, l’invaginazione in-testinale, l’occlusione intestinale ed in questa categoria la Chirurgia Mini-invasiva ed in particolare la laparo-scopia si è affermata come trattamento di scelta per la loro risoluzione. Per quanto concerne le malformazioni congenite come l’atresia esofagea e le malformazioni ano-rettali che comportano tecniche chirurgiche rico-struttive estremamente complesse, anche in questa patologie la Chirurgia Mini-invasiva per via laparoscopica e toracoscopica si è affermata come terapia di primo livello. Le tecniche mininvasive quali la laparoscopia e la toracospcopia vengono effettuate con l’uso di trocars, inseriti in addome e nel torace attraverso dei piccoli fori (da 3 mm) che consentono degli importanti risultati estetici e soprattutto la riduzione dei dolori postoperatori e nella maggior parte dei casi una degenza molto ridotta rispet-to a quella del trattamento tradizionale per via open.Dovendo scegliere alcune malformazioni gastrointestinali di interesse pediatrico in cui negli ultimi anni si sono avute maggiori novità sia nel campo della diagnostica che nella terapia, abbiamo scelto tre tra le affezioni chi-rurgiche più interessanti in chirurgia pediatrica: l’atresia dell’esofago, le malformazioni ano-rettali e le urgenze addominali. In tutte e tre le patologie negli ultimi anni si sono avute importanti novità diagnostiche, ma soprat-tutto terapeutiche grazie allo sviluppo di trattamenti mini-invasivi.

Ciro EspositoDirettore UOC di Chirurgia Pediatrica,

Università di Napoli “Federico II”

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aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 119-125 Prospettive in Pediatria

Chirurgia pediatrica

La chirurgia mini-invasiva nelle urgenze addominali in eta pediatrica

Francesco Turrà Maria Escolino

Alessandra Farina Mariapina Cerulo

Alessandro Settimi Serena Izzo

Giuseppe Cortese Ciro Esposito

Dipartimento di Chirurgia pediatrica,

Università “Federico II” , Napoli

Abdominal pains represent one of the more frequent causes of hospitalisation in a pedi-atric emergency department. At the end of the 80’s minimally invasive surgery (MIS) has changed completely surgical approach of pediatric abdominal pathologies. MIS permits to perform an accurate dagnosis and a safe and effective surgical treatment with a reduc-tion of complications compared to open surgery with a shorter and painless hospital stay. The authors in this review article examine the main causes of abdominal pain in pediatric age and their treatment.

Summary

I dolori addominali del bambino rappresentano una delle più frequenti cause di ricovero d’urgenza in un pronto soccorso pediatrico. L’avvento della chirurgia mini-invasiva alla fine degli anni Ottanta ha radicalmente cambiato l’approccio chirurgico a questo tipo di patolo-gie. La chirurgia mini-invasiva permette non solo la diagnosi di certezza ma soprattutto un trattamento chirurgico efficace e sicuro con una riduzione delle complicanze rispetto alla chirurgia Open e un decorso post-operatorio rapido e spesso indolore. Gli autori in questa review fanno una disamina delle principali cause di dolore addominale in età pediatrica e del loro trattamento.

Riassunto

IntroduzioneL’innovazione tecnologica che si è sviluppata negli ultimi anni in campo medico soprattutto legata allo sviluppo dell’endoscopia e della chirurgia mini-inva-siva ha cambiato radicalmente l’approccio a molte patologie in particolare in chirurgia pediatrica. Il do-lore addominale in età pediatrica è una delle più fre-quenti cause di ricovero ospedaliero. La laparosco-pia ha assunto un ruolo significativo ed è diventata il trattamento gold standard nella diagnosi e nel trat-tamento di molte delle cause di dolore addominale (Talat et al., 2016).Le cause più frequenti di dolore addominale che rap-presentano la cause della maggioranza dei ricoveri di urgenza pediatrici le possiamo ricondurre principal-mente a:- appendicite acuta;- diverticolo di Meckel;- occlusione intestinale da aderenze; - invaginazione intestinale;

- malrotazione intestinale; - patologia ovarica o annessiale nelle pazienti di

sesso femminile.In questa review verranno trattate singolarmente tali patologie causa di urgenza addominale, che possono essere approcciate utilizzando la chirurgia mini-invasiva.

Metodologia della ricerca bibliograficaÈ stata condotta una ricerca sistematica della lette-ratura degli ultimi 3 anni sulle patologie prese in esa-me attraverso i database PubMed, Medline e Ovid, selezionando pubblicazioni in lingua inglese o con abstract in lingua inglese. La ricerca è stata condot-ta combinando i termini laparoscopy o mini-invasive surgery, children e la patologia (acute appendicitis, intussusception, Meckel diverticulum, bowel adhe-sions, adnexal torsion, malrotation) (Tab. I).

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F. Turrà et al.

Appendicite acutaLa prima appendicectomia è stata eseguita circa 300 anni fa in un paziente con appendicite acuta e da allo-ra questa metodica è divenuta il trattamento di scelta per questa patologia (Meljnikov et al., 2009).Il trattamento chirurgico dell’appendicite dipende dal tipo di presentazione. Si possono distinguere tre ca-tegorie di appendicite:- senza segni di perforazione;- perforate;- ascessualizzate con peritonite.La migliore strategia nel trattamento di questa pato-logia è ancora dibattuta tra il trattamento chirurgico

alla diagnosi e l’interval appendectomy, ovvero, il trattamento chirurgico a distanza di alcune settima-ne dall’episodio acuto preceduto da una prolungata terapia antibiotica. Il razionale del trattamento a di-stanza, prima con antibiotici e a seguire l’intervento chirurgico, consiste nell’evitare eventuali complicanze effettuando l’intervento in fase acuta con il paziente non in perfette condizioni (St. Peter e Snyder, 2016).Secondo Duggan et al. in una meta-analisi condotta e pubblicata nel 2016, sebbene il trattamento precoce sembri ridurre la possibilità di eventi avversi e di even-tuali nuovi ricoveri, questo appare vero principalmente per i casi non complicati da ascessi, mentre per gli altri i risultati appaiono sovrapponibili (Duggan et al., 2016).Il trattamento mini-invasivo di questa patologia ha as-sunto sempre maggiore importanza diventando oggi il gold standard, legato, soprattutto, a una semplicità di esecuzione, ma in particolare a una riduzione delle complicanze osservate rispetto alla tecnica open, se non nell’aumentare lievemente la necessità di dre-naggio di ascesso addominale, non allungando, tut-tavia, la durata dell’ospedalizzazione (Gasior et al., 2012; Jen e Shew, 2010).Questo è stato dimostrato da numerosi studi clinici prospettici e meta-analisi ed è applicabile anche per le appendiciti perforate.Pertanto l’approccio open o laparotomico è diventato un intervento, come primo approccio, obsoleto e da ri-servarsi nei casi che richiedano una conversione per eventuali complicanze sopraggiunte.Oggi a essere dibattuto è più che altro il tipo di approc-cio laparoscopico: attraverso un’unica incisione, dove gli strumenti vengono posizionati nello stesso port della camera, oppure con l’ausilio di una o due incisioni in più; e se l’appendice debba essere sezionata e rimossa in addome o essere esteriorizzata dall’ombelico e quindi rimossa (Fig. 1). Tuttavia non c’è evidenza sulla supe-riorità dell’uno o dell’altro approccio, se non per quanto riguardi il risultato cosmetico (St. Peter e Snyder, 2016).

Diverticolo di MeckelIl diverticolo di Meckel è una delle più frequenti mal-formazioni intestinali (2-4%), nella maggior parte dei casi clinicamente silente e accidentalmente diagno-sticata in corso di esplorazioni addominali per altre patologie. È dovuto a un difetto di obliterazione del dotto onfalomesenterico e pertanto situato sul bordo antimesenterico dell’ileo a circa 70-100 cm dalla val-vola ileocecale. Quando sintomatico può presentarsi con sanguinamenti intestinali severi, dolore addomi-nale, invaginazione o ostruzione intestinale (Ruscher et al., 2011; Menezes et al., 2008).Un tempo la diagnosi e il trattamento erano molto difficol-tosi, con metodiche con numerosi falsi positivi e negativi; una svolta è arrivata dalla laparoscopia che ha ridotto l’ospedalizzazione, il dolore post-operatorio e migliorato i risultati estetici dell’intervento. (Papparella et al., 2014).

Tabella I. Criteri di inclusione.

Lingua Inglese (almeno abstract)

Data Gennaio 2014 - Gennaio 2017

Popolazione Pediatrica (0-18 anni)

Ttipologia studio RetrospettiviProspettici

Caso-controlloStudi di coorte

Criteri di esclusione ReviewCase report

Parole chiave “laparoscopy” o “mini-invasive surgery”

+ “children” + “acute appendicitis”

o “intussusception” o “Meckel diverticulum”

o “bowel adhesions” o “adnexal torsion”

o “malrotation”

Figura 1. Appendicectomia laparo-assistita per via trans-ombelicale.

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Infatti, la tecnica non invasiva di scelta per la diagnosi di DM è la scintigrafia eseguita con emazie autologhe marcate con TC99, che però è gravata da numerosi falsi positivi e negativi con casistiche che riportano una sensibilità del 66,6% (Menezes et al., 2008). Al contrario, come nella recente casistica pubblicata da Papparella et al., viene sottolineato come la dia-gnosi sia semplice mediante approccio laparoscopico o laparo-assistito soprattutto nei casi sintomatici in cui la causa è di difficile individuazione (Fig. 2).Tuttavia, le linee guida pubblicate dalla Società Italia-na di Gastroenterologia Pediatrica indicano la laparo-scopia solo dopo la scintigrafia e l’esame endoscopico nella diagnostica dei sanguinamenti intestinali a prove-nienza dal piccolo intestino (Romano et al., 2017).In accordo con la letteratura pubblicata, la divertico-lectomia mini-invasiva è divenuta il gold standard, rimpiazzando la tecnica open. Poco è stato scritto negli ultimi tre anni riguardo al trattamento del DM se

non alcuni case report e studi retrospettivi sulla casi-stica di alcuni centri (Papparella et al., 2014).Le tecniche descritte in chirurgia mini-invasiva sono due: la diverticolectomia trans-ombelicale laparo-assistita e quella laparoscopica che richiede tre trocars. La exeresi del diverticolo può, quindi, essere condotta per via intra- o extra-corporea. Nelle varie casistiche pubblicate la re-sezione extra-corporea viene preferita per la semplicità e soprattutto perché può essere eseguita senza l’ausilio di suturatrici endoscopiche (Huang e Lin, 1993).In caso di DM con larga base di impianto viene ef-fettuata una resezione intestinale con anastomosi termino-terminale.

AderenzeLe aderenze, post-operatorie o legate a fenomeni infiammatori, sono spesso sottostimate. Queste pos-sono essere causa di importanti complicanze e pro-blemi quali: infertilità, dolori addominali, occlusione intestinale (Andreson et al., 2014).In caso di occlusione intestinale da aderenze, secon-do la letteratura scientifica, la laparoscopia per la lisi delle aderenze risulta una tecnica efficace e sicura riducendo la morbidità e i tempi di ospedalizzazione dell’intervento laparotomico. Il vantaggio della laparo-scopia è rappresentato dal fatto che il pneumoperito-neo, mettendo in tensione le anse intestinali, mette in evidenza le aderenze che vengono lisate (Fig. 3). Tuttavia viene riportato in letteratura un elevato nu-mero di conversioni in oltre il 30% delle procedure eseguite quando sono presenti occlusioni con anse molto dilatate. Interessante è l’aiuto della laparoscopia nei casi di do-lore ricorrente nel quadrante inferiore destro che non trova una risposta nel tradizionale iter clinico diagnosti-co-strumentale. Nei casi in cui non venga individuata una patologia organica significativa tale da giustifica-re il dolore ricorrente in fossa iliaca destra, è risoluti-va l’appendicectomia e/o la lisi di aderenze in questa sede (Aguayo et al., 2010; O’Connor e Winter, 2012).

Invaginazione intestinaleL’invaginazione intestinale è la causa più comune di ostruzione intestinale nei bambini sotto i 5 anni. (Fra-ser et al 2009) (Fig. 4). Il trattamento di prima scelta consiste nella riduzione radiologica pneumatica o at-traverso clisma, dell’invaginazione, efficace nell’80% dei casi (Takeuchi et al., 2012). Molto è stato scritto in letteratura sulla superiorità della laparoscopia in chirurgia pediatrica rispetto alla chirurgia tradiziona-le per numerose tecniche; tuttavia, poche di queste pubblicazioni riguardano questa patologia e poche di queste risultano essere abbastanza recenti (ultimi 3 anni). Le casistiche pubblicate in letteratura sono concordi nel sottolineare che la tecnica mini-invasiva risulta nei casi non responsivi alla terapia radiologica

Figura 2. Diverticolo di Meckel – esplorazione laparoscopica.

Figura 3. Aderenze epiploon-parietali. Immagine intra-operatoria.

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F. Turrà et al.

sicura ed efficace anche nei casi che richiedono una resezione intestinale (Fraser et al., 2009).Nel 2014 Sklar et al. hanno pubblicato una serie di 28 pazienti sottoposti a terapia chirurgica, 23 con tecnica tradizionale e 5 operati per via laparoscopica (Sklar et al., 2014).In letteratura c’è accordo nel ritenere che la laparo-scopia consente di ridurre i tempi di ospedalizzazione e il dolore post-operatorio, nonché ovviamente, garan-tire una migliore cosmesi e ridurre complicanze come aderenze intestinali causa di possibile ostruzione.Pertanto diverse revisioni della letteratura sono con-cordi nel riconoscere la chirurgia mini-invasiva quale il principale approccio chirurgico a questa patologia in centri specializzati di chirurgia mini-invasiva di terzo livello (Apelt et al., 2013).

Torsione annessialeLa torsione degli annessi è una rara condizione chi-rurgica di cui circa il 15% dei casi si verifica durante l’infanzia o l’adolescenza (Cass, 2005). In letteratura è riportata un’incidenza di circa 0,3-3,5 casi per anno (Bertozzi et al., 2016).L’eziologia in assenza di cisti o masse rimane miscono-sciuta, fattori predisponenti sembrerebbero essere un’e-longazione del legamento ovarico o una iper-lassità del meso-salpinge o del meso-ovario (Tsafir et al., 2012). La letteratura internazionale recente è d’accordo nel ritenere la derotazione ovarica per via laparoscopica il gold standard per il trattamento di questa patolo-gia (Fig. 5). Un importante studio multicentrico è stato condotto da 10 gruppi di chirurgia pediatrica italiani e pubblicato nel 2016, prendendo in esame 125 pa-zienti operati per torsione ovarica nel decennio 2004-2014. Questo ha messo in evidenza che l’approccio mini-invasivo, come riportato in letteratura risulta es-sere l’approccio più diffuso per questa patologia, an-che se in una ancora troppo elevata percentuale e, nonostante l’evidenza di ottimi risultati riguardo alla

funzionalità a lungo termine dell’ovaio torto, si predili-ge la ooforectomia (Bertozzi et al., 2016).Pochi altri studi retrospettivi internazionali come quel-lo di Ashwal et al. e Sobah et al. sono stati pubblicati negli ultimi anni su questo argomento su popolazioni, tuttavia, meno numerose, rispettivamente 32 e 70 pa-zienti. In entrambi veniva sottolineato il ruolo centrale della laparoscopia nella diagnosi e nel trattamento della patologia per la sua semplicità tecnica, quando eseguito in centri specializzati di terzo livello e, so-prattutto, superiorità per gli aspetti generali del post-operatorio con una più rapida ripresa, un minor uso di analgesici, una più breve ospedalizzazione e il mi-glior risultato estetico rispetto alla tecnica tradizionale (Ashwal et al., 2015; Nair et al., 2014).Ancora dibattuta risulta la tecnica di ooforopessi, ovve-ro la fissazione dell’ovaio alle strutture vicine. Questa risulta utilizzata principalmente nelle recidive di torsio-ne e in quelle operate con tecnica “a cielo aperto”. In laparoscopia occorre sicuramente una conoscenza avanzata delle tecniche di base, quali il saper maneg-giare gli strumenti e il saper suturare (Bertozzi et al., 2016; Crouch et al., 2003; Svensson et al., 2008).

Malrotazione intestinaleLa malrotazione intestinale è definita come anomalia congenita di rotazione e fissazione dell’intestino te-nue, per cui, la flessura duodeno-digiunale si trova a destra della linea mediana nelle vicinanze della val-vola ileo-cecale (Fig. 6). Questo può essere causa di volvolo intestinale, ischemia intestinale con necessità di effettuare ampie resezioni intestinali, con il rischio di sviluppare una sindrome dell’intestino corto (You-sefzadeh, 2009; Luks, 2011). La tecnica chirurgica di correzione descritta per la pri-ma volta da Ladd consiste nella derotazione in caso di volvolo, lisi delle bande di Ladd e lo spostamento del piccolo intestino nei quadranti destri dell’addome

Figura 4. Invaginazione intestinale. Immagine ecografica.

Figura 5. Torsione annessiale. Immagine intra-operatoria.

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La chirurgia mini-invasiva nelle urgenze addominali in eta pediatrica

e dell’intestino crasso in quelli a sinistra (Ladd, 1936).Dalla sua prima discrezione di van der Zee e Bax nel 1995 anche per questa patologia l’approccio mini-in-vasivo ha preso sempre più piede, risultando utile so-prattutto nei pazienti in condizioni stabili, fino a essere considerata il gold standard dall’American Pediatric Surgical Association (Graziano et al., 2015).Tuttavia ancora nessuno studio prospettico che compa-ri la tecnica laparoscopica a quella open è stata finora pubblicato.

In letteratura si osserva che, la tecnica open risulta ancora di scelta quando la patologia è diagnosticata nei neonati nei quali la sicurezza dell’approccio lapa-roscopico è tutt’ora dibattuta (Miyano et al., 2015).

DiscussioneIl dolore addominale è il sintomo più comune osser-vato in tutti i reparti di emergenza. Anche se è spesso legato a cause benigne, la presentazione è così varia e aspecifica che la diagnosi della causa risulta una sfi-da, soprattutto, per le rare cause che rappresentano condizioni devastanti. Lo studio si propone di sottoli-neare come in letteratura internazionale sia ormai ri-conosciuta l’importanza e la centralità della chirurgia mini-invasiva in chirurgia pediatrica, anche in casi acu-ti che si presentano come urgenze chirurgiche. A ri-guardo si nota una certa carenza nella letteratura degli ultimi tre anni di studi prospettici e comparativi per la maggior parte delle patologie più frequenti, tra tecnica mini-invasiva e “a cielo aperto”. Questo, probabilmen-te significa che ormai sembra universalmente accer-tato il beneficio che la chirurgia mini-invasiva apporta ai pazienti, soprattutto, pediatrici nel ridurre i tempi di ospedalizzazione, il dolore e l’uso degli analgesici, e nel garantire un ottimo risultato estetico (Fig. 7). Negli ultimi tre anni la letteratura scientifica si è con-centrata maggiormente sul come migliorare i risultati già eccellenti mostrati dalla chirurgia mini-invasiva dalla sua introduzione.Infatti, per quanto riguarda una delle patologie più am-piamente trattate, principalmente per la sua incidenza in età pediatrica, come l’appendicite, gli autori si sono concentrati su come rendere sempre più semplice e, così possiamo dire, meno-invasiva la tecnica. In que-sto caso il dibattito ancora aperto riguarda l’utilizzo di un unico accesso per l’esecuzione di tutto l’intervento, o l’aggiunta di uno o più trocars e se sia più sicura l’e-secuzione dell’appendicectomia in cavità addominale o all’esterno dopo aver esteriorizzato l’appendice at-traverso l’ombelico. Anche il timing per l’intervento di appendicectomia è ancora fonte di discussione scien-tifica tra l’intervento in urgenza e la cosiddetta interval appendectomy, senza che ci siano ancora evidenze della superiorità di una strategia rispetto all’altra (St. Peter e Snyder, 2016).Ugualmente, anche per quanto riguarda il DM, la let-teratura scientifica mostra univocamente certezza ri-guardo alla superiorità della laparoscopia rispetto alla tecnica open, discutendo sugli stessi aspetti tecnici dell’appendicectomia, se uno o più accessi e se pre-feribile eseguire l’asportazione per via intra- o extra-corporea.Interessante, per quanto riguarda la presenza di ade-renze, è sicuramente sottolineare come la chirurgia mini-invasiva abbia potuto rendere possibile un ap-proccio più semplice e soprattutto più accettabile per i pazienti.

Figura 6. Malrotazione intestinale. Clisma opaco.

Figura 7. Risultato cosmetico a 6 mesi dall’intervento chirurgico in chirurgia mini-invasiva.

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F. Turrà et al.

Il trattamento dell’invaginazione intestinale ha eviden-ziato come, sebbene ormai la chirurgia mini-invasiva sia universalmente accettata quale approccio di scel-ta, questa debba essere comunque eseguita in cen-tri altamente specializzati di terzo livello, soprattutto per interventi più complessi e delicati quali, anche, la malrotazione intestinale e la torsione degli annessi (Apelt et al., 2013; Bertozzi et al., 2016).Infatti, la torsione annessiale, richiede notevole espe-rienza nella sua gestione. Il chirurgo deve sicuramen-te avere dimestichezza con tutte le tecniche di base, manipolazione dei tessuti, per evitare di causare danni a organi e tessuti delicati, accurata dissezione, per eventuali aderenze infiammatorie che possono essere riscontrate, sutura, nei casi che richiedono la ooforopessi. L’esperienza del chirurgo risulta fonda-mentale anche per la valutazione del danno dell’orga-

no, onde evitare annessectomie non necessarie nella paziente pre-pubere o fertile (Bertozzi et al., 2016).La letteratura riguardo al trattamento della malrota-zione intestinale sottolinea, invece, l’importante con-troversia riguardo all’applicazione delle tecniche mini-invasive al paziente neonato. Infatti, come sottolineato da Graziano et al. (2015), i pazienti più piccoli e con minore peso alla nascita sono più spesso sottoposti a intervento di Ladd con tecnica open. Tuttavia, per questi pazienti è importante sottolineare che la scelta sembra essere dettata non soltanto dalle dimensioni del paziente, ma anche perché sembra più elevata la percentuale di casi in cui l’intervento è eseguito per il sospetto di un volvolo. Al contrario i pazienti sintoma-tici, ma senza sospetto di volvolo, che vengono trattati per sintomi aspecifici che correlano con questa causa, vengono comunemente trattati per via laparoscopica.

Box di orientamento

• Cosa sapevamo primaIl dolore addominale in età pediatrica è una delle più frequenti cause di ricovero ospedaliero. L’avvento della chirurgia mini-invasiva alla fine degli anni Ottanta ha radicalmente cambiato l’approccio chirurgico a questo tipo di patologie.

• Cosa sappiamo adessoLa chirurgia mini-invasiva ha assunto un ruolo significativo ed è diventata il trattamento gold standard nella diagnosi e nel trattamento di molte delle cause di dolore addominale. La chirurgia mini-invasiva per-mette non solo la diagnosi di certezza, ma soprattutto un trattamento chirurgico efficace e sicuro con una riduzione delle complicanze rispetto alla Chirurgia Open e un decorso post-operatorio rapido e spesso indolore.

• Quali ricadute sulla pratica clinicaLa chirurgia mini-invasiva permette l’ottimale cura del piccolo paziente, riducendo i tempi di degenza, il dolore post-operatorio e l’aspetto estetico post-operatorio in tutte le patologie in cui viene applicato tale approccio. Tuttavia, richiede notevole esperienza dell’operatore e, pertanto, i pazienti dovranno essere riferiti, soprattutto per le patologie di minor riscontro, a centri altamente specializzati di III livello e con casistiche numerose.

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La chirurgia mini-invasiva nelle urgenze addominali in eta pediatrica

Corrispondenza

Francesco TurràUnità di Pediatria d’Urgenza, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali (DISMET), Università “Federico II”, via Pansini 5, 80131 Napoli - E-mail: [email protected]

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aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 126-137aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 126-137 Prospettive in Pediatria

Chirurgia pediatrica

Malformazioni ano-rettali: classificazioni e strategie di cura

Ernesto Leva Giulia Brisighelli

Anna Morandi

UOC Chirurgia Pediatrica, Fondazione IRCCS Ca’ Granda

Ospedale Maggiore Policlinico, Milano

Anorectal malformations (ARM) comprise a wide spectrum of malformations involving the distal anus and rectum as well as the urinary and genital tracts, which can affect both genders with an incidence of about 1 in 2500-5000 live births. Defects range from mild anal anomalies to complex malformations. Associated anomalies are frequent and include genitourinary, vertebral, spinal, cardiac, gastrointestinal and skeletal defects. Screening for these anomalies is mandatory in all patients. The etiology remains unclear and is likely multifactorial. Familial cases have been described. Patients can either undergo a primary repair procedure (anoplasty) or a protective colostomy and definitive repair at a later date, depending on the malformation. The surgical approach to repair these defects changed dramatically in 1980 with the introduction of the posterior sagittal approach by Dr Peña, that remains the treatment of choice. The functional outcome in term of fecal and urinary continence is dependent on several factors, such as the type of malformation and the presence of associated sacral and spinal defects. However, in order to achieve social continence, a bowel management program, consisting of dietary advices, laxatives and enemas can be individualized for each patient.

Summary

Le malformazioni ano-rettali (MAR) comprendono un ampio spettro di difetti che coinvolgo-no la parte distale del tratto gastro-intestinale e possono interessare anche il tratto genito-urinario. Individui di entrambi i sessi possono essere affetti da MAR, con un’incidenza di circa 1/2500-5000 nati vivi. L’eziologia è ancora incerta e probabilmente multifattoriale, ma sono stati descritti casi familiari. Spesso sono presenti malformazioni associate quali ge-nito-urinarie, vertebrali, midollari, cardiache, gastro-intestinali e scheletriche. Lo screening per le malformazioni associate è imperativo in tutti i pazienti. A seconda del tipo di MAR si può procedere a una correzione chirurgica primaria oppure a confezionamento di colo-stomia alla nascita, seguito dalla riparazione del difetto e dalla ricanalizzazione intestinale. L’approccio chirurgico per la correzione delle MAR è stato rivoluzionato nel 1980 grazie all’introduzione della tecnica di anorettoplastica sagittale posteriore da parte del dott. Peña. Tale tecnica rimane a tutt’oggi il trattamento di scelta. La prognosi funzionale dei pazienti con MAR in termini di continenza fecale e urinaria dipende da diversi fattori, quali il tipo di MAR e la presenza di anomalie sacrali e midollari. Tuttavia, al fine di ridurre al minimo le perdite fecali, è possibile attuare dei programmi individualizzati di bowel management basati su modifiche dietetiche e sull’utilizzo di lassativi e clisteri.

Riassunto

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Malformazioni ano-rettali: classificazioni e strategie di cura

Metodologia di identificazione articoli rilevanti La ricerca degli articoli rilevanti sulle malformazioni ano-rettali è stata effettuata su Medline utilizzando come motore di ricerca PubMed. La parola chiave utilizzata è stata Anorectal Malformations. Per ogni paragrafo dell’articolo, alla parola Anorectal Malfor-mations sono state poi abbinate le parole chiave epi-demiology oppure associated anomalies. Sono sta-ti selezionati gli articoli più recenti (dal 2013 in poi) sull’argomento prediligendo le review o le metanalisi. In assenza di queste, abbiamo ampliato la nostra ri-cerca bibliografica anche a fonti scritte prima del 2014, selezionando comunque le voci più recenti. Qualora non fossero disponibili review o metanalisi abbiamo selezionato e utilizzato opinioni degli esperti.

IntroduzioneLe malformazioni ano-rettali (MAR) comprendono una vasta gamma di difetti che interessano la parte distale del tratto gastro-intestinale (retto e ano) e della via genito-urinaria. I difetti variano da anomalie lievi con prognosi favorevole, a malformazioni complesse con prognosi sfavorevole in termini di continenza fe-cale e urinaria.

EpidemiologiaIn Europa l’incidenza è di circa 4.1 casi ogni 10.000 nati, con leggera predominanza nei maschi (Cuschie-ri et al., Moore 2006). Nei paesi in via di sviluppo la prevalenza è simile a quella europea, ma alcuni tipi di MAR, come il pouch colon o la fistola retto-vaginale, sono tipici di determinate aree geografiche (Theron et al., 2015; Theron e Numanoglu, 2017).

Fattori di rischioSebbene non sia stata dimostrata una sicura trasmis-sione di tipo genetico, in letteratura sono riportati casi di MAR nei membri della stessa famiglia (Falcone et al. 2007). In particolare alcuni tipi di MAR, come la fistola retto-perineale e retto-vestibolare, sembrano essere associati a ereditarietà. Inoltre la MAR può essere espressione di alcune sindromi con una base genetica riconosciuta (Falcone et al., 2007; Ronzoni et al., 2016). L’utilizzo di farmaci in gravidanza, in particolare talido-mide, trimetadione e benzodiazepine pare essere po-sitivamente correlato con lo sviluppo di MAR oltre al fumo durante il primo trimestre di gestazione, la pre-senza di malattie respiratorie nelle gestanti, l’esposi-zione a solventi e a prodotti per la pulizia industriale, nonché l’obesità materna, il diabete gestazionale e precedenti aborti spontanei (Wang et al., 2015; Zwink et al., 2015; Vermes et al., 2016; Zwink et al., 2016).

Tra i fattori di rischio paterni, il fumo, l’esposizione a fumi tossici e gas di scarico possono essere associati a un aumentato rischio di concepire un figlio con MAR (van Rooij et al., 2010).

ClassificazioneNel maggio 2005, con lo scopo di sviluppare una classificazione che fosse universalmente accettata e per permettere l’utilizzo di un linguaggio comune al fine di rendere paragonabili i risultati di centri diversi, fu indetta una conferenza internazionale sulle MAR a Krickenbeck, in Germania (Holschneider et al., 2005). Al termine della conferenza venne elaborato un nuo-vo sistema di classificazione che raggruppa le MAR in due grandi sottogruppi in base alla frequenza con cui si presentano: MAR comuni e varianti regionali (Tab. I) (Holschneider et al., 2005).

Gruppi clinici maggioriFistola retto-perineale Questo tipo di MAR può colpire entrambi i sessi ed è caratterizzato dal fatto che il retto si apre a livello perineale attraverso una fistola dislocata anterior-mente al complesso muscolare (Fig. 1) (Levitt e Peña, 2007). Nel maschio la fistola può emergere in un pun-to qualsiasi a livello del perineo anteriore, sboccare alla base dello scroto o talvolta del pene. La presenza di un ponte di cute a livello della fossetta anale, sul-la linea mediana, definito a “manico di secchio”, o la presenza di una “membrana anale” che copre l’ano devono far sospettare al chirurgo di trovarsi davanti a questo tipo di MAR. La diagnosi viene fatta sulla base di un esame obiettivo accurato.

Fistola retto-uretrale Prevede una comunicazione fra il retto e il tratto uri-

Tabella I. Classificazione delle MAR secondo il consenso raggiunto a Krickenbeck (2005).

Gruppi clinici maggiori

Fistola retto-perineale

Fistola retto-uretrale • Bulbare

• Prostatica

Fistola retto-vescicale

Fistola retto-vestibolare

Cloaca

Ano imperforato senza fistola

Stenosi anale

Varianti rare/regionali

Pouch colon

Atresia rettale/stenosi rettale

Fistola retto-vaginale

Fistola a H

Altro

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nario a livello dell’uretra ed è la malformazione più frequente nel maschio. Comprende due malforma-zioni distinte, a seconda del punto in cui la fistola si inserisce sull’uretra: la fistola retto-uretro-bulbare e retto-uretro-prostatica. Clinicamente, la presenza di meconio nelle urine alla nascita è segno inequivoca-bile di una comunicazione tra retto e apparato urinario (Levitt e Peña, 2007).

Fistola retto-collo vescicaleÈ la malformazione a peggior prognosi nei maschi e prevede che il retto si unisca alla via urinaria a livello del collo vescicale. La maggior parte dei pazienti pre-senta comorbidità associate, un complesso muscolare iposviluppato e un sacro malformato con perineo piatto.

Fistola retto-vestibolareLa fistola retto-vestibolare rappresenta la MAR più frequente nella femmina (Fig. 2). Il retto si apre at-traverso una fistola a livello del vestibolo vaginale e spesso retto e vagina sono separati da una parete estremamente sottile. La diagnosi è clinica e richie-de un accurato esame obiettivo del perineo, che mo-strerà la presenza dell’uretra e di due orifizi distinti a livello del vestibolo (vagina, retto). Frequenti sono le malformazioni genitali associate (Breech, 2010). La fistola retto-vestibolare non deve essere confusa con la fistola retto-vaginale, che rappresenta una variante rara nella quale il retto si apre nella parete posteriore della vagina.

CloacaRappresenta la forma più complessa di MAR nella femmina e si caratterizza per la convergenza di retto, vagina e apparato urinario in un’unica struttura defini-ta come canale comune (Bischoff et al., 2010, Levitt e Peña, 2010). All’esame obiettivo si riscontrerà per-tanto un singolo orifizio perineale (Fig. 3). Spesso i

genitali esterni sono ipotrofici, quelli interni possono essere malformati e la vagina può essere ripiena di liquido (idrocolpo) al punto da comprimere il trigono vescicale e causare dilatazione delle vie urinarie (Bi-schoff et al., 2010). La prognosi e l’approccio chirur-gico dipendono dalla lunghezza del canale comune (Breech, 2016).

Ano imperforato senza fistolaIn questa MAR il retto termina a fondo cieco senza comunicazioni con l’apparato genito-urinario. Ha ca-ratteristiche anatomiche e funzionali simili nei due sessi ed è tipico dei pazienti con sindrome di Down. Si stima infatti che circa il 95% dei pazienti Down con associata MAR abbia un ano imperforato senza fisto-la. La lontananza del cul di sacco rettale dalla cute e la gravità del ritardo mentale del paziente influenzano la prognosi in termini di continenza (Bischoff et al., 2014).

Anomalie associateLe MAR possono essere classificate in due grandi gruppi: isolate e con malformazioni associate. L’in-cidenza di malformazioni associate varia tra il 40% e il 78% (Nah et al., 2012). Le anomalie associate sono significativamente più frequenti nei soggetti con MAR a cattiva prognosi (Nah et al., 2012; Runck et al., 2014; Wang et al., 2015). È stato coniato l’acro-nimo VACTERL (Vertebrali, Ano-rettali, Cardiache, Tracheo-Esofagee, Renali, Limbs = arti) per poter rendere di più facile memorizzare le anomalie più fre-quenti che devono essere ricercate in tutti i pazienti con MAR (Ashcraft, 2006).

Figura 1. Fistola retto-perineale nella femmina (a sinistra) e nel maschio (a destra)

Figura 2. Fistola retto-vestibolare: sono visibili uretra e e vagina. La fistola non è visibile nell’immagine, ma si inseri-sce sulla parete posteriore del vestibolo vaginale.

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Malformazioni ano-rettali: classificazioni e strategie di cura

Anomalie vertebrali e spinaliLe anomalie scheletriche sono molto frequenti e han-no un’incidenza che varia tra il 5 e il 41% (Ratan et al., 2004; Ashcraft, 2006). Possono interessare diversi segmenti della colonna con presenza di emivertebre, vertebre a farfalla, o assenza di una o più vertebre. Ol-tre alle malformazioni vertebrali possono inoltre essere presenti malformazioni a carico delle coste: assenza, fusione o presenza di coste soprannumerarie. Tuttavia, la maggior parte delle malformazioni vertebrali è loca-lizzata a livello del sacro e/o del coccige e comporta importanti implicazioni funzionali (Arnoldi et al., 2014). Per poter stabilire la potenzialità, in termini continenza fecale, nei pazienti con MAR Peña ha introdotto il cal-colo del sacral ratio (Fig. 4) (Peña, 1995). Circa il 25% dei pazienti con MAR può presentare inoltre un’anomalia del midollo spinale (Levitt et al., 1997; Ashcraft, 2006; Levitt et al., 2009; Di Cesare et al., 2010; Nah et al., 2012). Il midollo ancorato, o tethered-cord (TC), è l’anomalia più frequente e con-siste in un’anomala fissazione del filum terminale al canale vertebrale che può comportare disturbi motori e sensitivi agli arti inferiori. L’incidenza di midollo an-corato nei pazienti MAR è del 24%, con valori supe-riori per pazienti con MAR a cattiva prognosi (Levitt et al., 1997; Levitt et al., 2009; Nah et al., 2012). Altre anomalie spinali associate alle MAR sono la siringo-mielia, il mielomeningocele, il lipoma intradurale e la regressione caudale. L’indagine di scelta per valutare la presenza di anomalie spinali è la risonanza ma-gnetica. Il ruolo dell’ecografia della colonna eseguita entro i 3 mesi di vita come test di screening per la pre-senza di midollo ancorato è tuttora dibattuto (Scottoni

et al., 2014; van den Hondel et al., 2016). Non è anco-ra del tutto chiarita la correlazione clinica che esiste tra la presenza di anomalie midollari, specialmente di midollo ancorato, e la prognosi in termini di continen-za urinaria e fecale (Levitt et al., 1997; Di Cesare et al., 2010; Arnoldi et al., 2014).

Anomalie cardio-vascolariCirca il 10% dei pazienti con MAR presenta una car-diopatia associata (Ashcraft, 2006). Questo dato è molto variabile a seconda che vengano considerate anomalie minori che vanno solitamente incontro a risoluzione spontanea (pervietà del forame ovale,

Figura 4. Sacral ratio nell’Rx anteroposteriore e laterale del sacro. Il sacral ratio corrisponde al rapporto tra BC e AB (Peña 1995).

Figura 3. Cloaca. In entrambe le immagini è visibile solo un orifizio (rappresentato dalla confluenza di retto, vagina e uretra) a livello perineale.

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pervietà del dotto arterioso di Botallo), o anomalie maggiori (es. difetti interatriali e interventicolari, te-tralogia di Fallot, trasposizione dei grossi vasi ecc.) che comportano alterazioni emodinamiche significa-tive con necessità di interventi cardiochirurgici cor-rettivi (Ashcraft, 2006; Nah et al., 2012). Non sembra esserci differenza nell’incidenza di malformazioni cardio-vascolari tra pazienti con MAR considerate favorevoli e quelli con MAR sfavorevoli (Nah et al., 2012). La presenza di una cardiopatia deve essere obbligatoriamente indagata alla nascita, perché può condizionare l’iter chirurgico. È di fondamentale im-portanza infatti rimandare la correzione della MAR a quando il paziente è stabile dal punto di vista car-diocircolatorio.

Anomalie tracheo-esofagee e dell’apparato digerenteLe anomalie gastro-intestinali più frequentemente as-sociate alle MAR sono: l’atresia esofagea (presente in circa l’8% dei pazienti con MAR), l’atresia duodena-le e la malrotazione intestinale (presente nel 2% dei pazienti)(Fernandez et al., 2014; Martinez-Leo et al., 2016). Queste malformazioni sono più frequenti nei pa-zienti con MAR a cattiva prognosi (Fernandez et al., 2014; Martinez-Leo et al., 2016). L’associazione tra ma-lattia di Hirschsprung e MAR è invece molto dibattuta e sembra che l’elevata coincidenza delle due patolo-gie riportata in letteratura sia piuttosto da imputare alla stipsi severa di cui pazienti con MAR possono soffrire.

Anomalie renali e dell’apparato genito-urinarioA causa di uno sviluppo embriologico contiguo e si-multaneo a quello del retto, le anomalie dell’apparato genito-urinario sono quelle più frequentemente asso-ciate alle MAR e sono riportate nel 14-30% delle MAR a buona prognosi e nel 50-70% delle MAR a prognosi sfavorevole (McLorie et al., 1987; Rich et al., 1988; Metts et al., 1997; Wilcox e Warne, 2006). Le anomalie pos-sono interessare i reni, il sistema collettore o la vescica e possono essere differenziate in strutturali e funzionali ma non sempre la differenziazione è chiara posto che possono essere una conseguenza dell’altra. L’agenesia renale è la più comune ed è presente nel 18% dei pa-zienti con MAR, seguita dalla displasia renale (nel 4%), reni ectopici (4%), e rene a ferro di cavallo (Rich et al., 1988). La vescica neurologica interessa circa il 7% dei pazienti con MAR ed è associata alla presenza di ano-malie sacrali (Rich, Brock et al., 1988). Si stima che circa il 2-6% dei pazienti con MAR a cattiva prognosi e l’1% di quelli con MAR a buona prognosi presenti insufficienza renale (Wilcox e Warne, 2006; Giuliani et al., 2013). Le anomalie genitali sono meno frequenti ma nel 55% dei casi fungono da spia di una sottostante problema urologico (Metts et al., 1997). Fino al 52% dei ma-schi possono presentare anomalie dei genitali tra cui i testicoli ritenuti sono l’anomalia più frequente, se-guiti dall’ipospadia, la trasposizione peno scrotale

e l’epispadia. Circa il 50% delle pazienti con cloaca presentano anomalie genitali (Wilcox e Warne, 2006; Breech, 2010; Breech, 2016), quali la presenza di un setto vaginale, la duplicazione vaginale, l’idrocolpo, l’utero didelfo e l’agenesia vaginale.

Anomalie degli artiLe anomalie scheletriche possono coinvolgere anche gli arti e includono l’aplasia del radio e/o del pollice o la presenza di dita sovrannumerarie (van den Hondel et al., 2016).

Anomalie associate coinvolgenti altri organi o apparatiLe MAR posso associarsi sporadicamente ad ano-malie a carico di altri apparati quali labioschisi, pa-latoschisi, idrocefalo, agenesia del corpo calloso e coloboma (Fig. 5). Quest’ultimo può rivelarsi predit-tivo della presenza di malformazioni potenzialmente molto gravi come la malrotazione intestinale, l’atresia delle vie biliari, la trasposizione dei grossi vasi, o il ritardo mentale (Brisighelli et al., 2013).

Ritardo mentaleIl ritardo mentale non è frequente nei pazienti con MAR isolate o con malformazioni associate ma è presente, seppur in grado variabile, nella quasi totalità dei pa-zienti con anomalie genetiche o cromosomiche asso-ciate alla MAR. La presenza di ritardo mentale ha im-portanti implicazioni sulla continenza urinaria e fecale.

Anomalie genetiche L’11% dei pazienti con MAR presenta un’anomalia cromosomica (Cuschieri et al., 2002). Contrariamente alla norma, le anomalie cromosomiche sono più fre-quenti in pazienti con MAR a buona prognosi. Tra le anomalie cromosomiche più frequentemente riscon-trate nei pazienti con MAR troviamo la trisomia 21,

Figura 5. La pupilla è allungata e non circolare segno ca-ratteristico del coloboma.

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Malformazioni ano-rettali: classificazioni e strategie di cura

13, 18, 22 e la sindrome di Pallister Killian. Sono inol-tre state identificate, grazie alle più recenti tecniche di analisi genetica e molecolare, 6 sindromi maggiori che oltre a presentare una MAR sono anche caratte-rizzate da una definita anomalia genetica. Tra queste vi sono la sindrome di Townes-Brocks, la sindrome FG, quella di Pallister-Hall, la sirenomelia, la regres-sione caudale e la sindrome di Currarino (Martucciel-lo, 2006). In diverse altre sindromi, tra cui quella di Fraser, quella di CHARGE, di Kabuki, di Goldenhaar e di Opitz, la MAR è una possibile manifestazione ma non espressione costante (Siminas et al., 2015).

La gestione del neonato con MARNella maggior parte dei casi il riscontro di MAR avvie-ne alla nascita, in quanto solo le forme più complesse vengono identificate, o meglio sospettate, durante l’e-cografia prenatale, sulla base di solito della presenza di malformazioni associate (Bischoff et al., 2013). Le prime 24-48 ore di vita rappresentano un momento cruciale nella gestione di un paziente con MAR e il ruolo del pediatra e del chirurgo pediatra è quello di stabilire se vi siano malformazioni associate che met-tano in pericolo di vita il neonato, e se sia possibile eseguire una riparazione primaria del difetto senza la necessità di una colostomia oppure se sia prefe-ribile confezionare una colostomia (Bischoff et al., 2013). È pertanto imperativo eseguire un’ecocardio-grafia per escludere malformazioni cardiache, un’e-cografia dell’addome per escludere dilatazioni delle vie urinarie e far progredire un sondino nasogastrico per escludere un’atresia dell’esofago (Bischoff et al., 2013). Nelle femmine con cloaca è inoltre importan-te determinare, attraverso l’ecografia dell’addome, la presenza di idrocolpo. Quest’ultimo può rappresenta-re una vera e propria urgenza chirurgica a causa del-la compressione esercitata sul trigono vescicale con

conseguente dilatazione e stasi urinaria che possono compromettere la funzionalità renale (Bischoff et al., 2010). A completamento diagnostico è inoltre oppor-tuno eseguire una radiografia della colonna e del sa-cro in due proiezioni per poter stabile il sacral ratio ed escludere difetti sacrali, e una ecografia della colonna entro i 3 mesi di vita per escludere la presenza di mi-dollo ancorato (Bischoff et al., 2013). Sulla base del sesso del neonato con MAR, Peña ha proposto due algoritmi diagnostici diversi (Levitt e Peña, 2006b).

La gestione del neonato con MAR di sesso maschileIl primo approccio al neonato di sesso maschile con MAR prevede un’ispezione attenta del perineo con attenzione alla presenza di meconio a livello perinea-le o nelle urine, alle caratteristiche della muscolatura perineale, alla profondità del solco intergluteo, alla presenza di aree pigmentate e di fossette. È probabile che dopo l’iniziale esame obiettivo il chirurgo abbia già un sospetto diagnostico sul tipo di MAR da cui è affetto il paziente. È comunque fondamentale non prendere decisioni chirurgiche nelle prime ore e com-pletare la ricerca di malformazioni associate, per poi ripetere l’ispezione del perineo dopo 24 ore dalla na-scita. Questo lasso di tempo dovrebbe consentire al meconio di farsi strada attraverso l’eventuale fistola e di fuoriuscire pertanto attraverso la cute (fistola retto-perineale) o di comparire nelle urine del neonato (fi-stola retto-urinaria) (Fig. 6). La fuoriuscita di meconio a livello del perineo, la presen-za di una membrana anale o di un “manico di secchio”, dovrebbe guidare il chirurgo verso l’esecuzione di una correzione della MAR mediante un’anoplastica prima-ria senza la necessità di aprire una colostomia. La ri-parazione primaria può essere effettuata nelle prime 48 ore di vita oppure dilazionata, soprattutto in presenza di

Figura 6. Ispezione del piano perineale alla nascita. A) fistola retto-perineale tipo buckethandle; B) meconio sul meato uretrale indicativo di fistola retto-urinaria; C) ano imperforato in paziente prematuro, con perineo solco intergluteo iposvi-luppato.

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cardiopatie associate o prematurità, purchè sia garantita l’evacuazione attraverso la fistola mediante l’eventuale ricorso a calibrazioni della fistola stessa. Se dopo 24 ore dalla nascita non è stata ancora evidenziata la presenza di meconio, è indicata l’esecuzione di una radiografia in proiezione laterale con il paziente in posizione prona e il bacino soprelevato (cross-table lateral x-ray) (Fig. 7). Nell’eseguire questo esame è d’aiuto collocare un re-pere metallico nella sede dello sfintere. Se la colonna d’aria nel retto raggiunge un livello al di sotto del coccige e il paziente non presenta malformazioni associate, che ne compromettano la stabilità, il chirurgo, se sufficiente-mente esperto, può procedere alla ricostruzione anale senza la necessità di confezionare una colostomia. La presenza, invece, di meconio nelle urine oppure della colonna d’aria al di sopra del coccige al cross-table la-

teral x-ray, o di una clinica instabile, dovrebbero guidare il chirurgo verso una diagnosi di MAR con fistola retto-urinaria o di ano imperfoarto e di conseguenza la scelta chirurgica dovrebbe essere quella di confezionare una colostomia, seguita dall’esecuzione di uno studio con contrasto prima di eseguire l’intervento correttivo (Levitt e Peña, 2006d; Bischoff et al., 2013).

La gestione del neonato con MAR di sesso femminileIl primo approccio prevede sempre un’accurata ispe-zione del perineo, seguita dalla determinazione di eventuali malformazioni associate, e da una nuova ispezione del perineo dopo 24 ore di vita. Fine ultimo dell’ispezione perineale è determinare la presenza di eventuale meconio e valutare il numero di orifizi visibili, che possono variare da 1 a 3 (Fig. 8). La presenza di tre orifizi, con l’orifizio rettale situato nel piano perinea-le anteriormente al complesso muscolare, è suggesti-va di fistola retto-perineale. In tal caso si può procedere all’intervento correttivo senza l’esecuzione di una colo-stomia preliminare. Soprattutto se la neonata presenta malformazioni associate o grave prematurità è possibi-le posticipare l’intervento correttivo dilatando tempora-neamente la fistola per permettere la fuoriuscita di feci. Se gli orifizi visibili sono tre, con l’orifizio rettale situato a livello del vestibolo posteriormente all’introito vagina-le, la diagnosi è di fistola retto-vestibolare. In questo caso il trattamento dipende dell’esperienza chirurgica e dalle condizioni generali della paziente, in partico-lare dalla presenza di gravi malformazioni associate o prematurità. Si può infatti optare per la riparazione primaria in epoca neonatale, per la dilatazione della fistola con riparazione primaria posticipata o per il con-fezionamento di una colostomia (Levitt e Peña, 2006c). In meno del 10% dei casi sono identificabili solo due orifizi (quello uretrale e vaginale) e che non sia visi-

Figura 7. Cross-table lateral film. In questo caso la distan-za tra la colonna d’aria e il repere sulla fossetta anale è minima.

Figura 8. Ispezione del piano perineale alla nascita in neonato di sesso femminile con MAR.A) 3 orifizi visibili in una fistola retto-perineale; B) due orifizi visibili in una fistola retto-vestibolare: il catetere più in alto è posizionato in uretra e quello più in basso è inserito all’interno della fistola; C) un unico orifizio visibile con genitali esterni iposviluppati in una cloaca.

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Malformazioni ano-rettali: classificazioni e strategie di cura

bile meconio a livello perineale o vaginale. In questo caso, come nel maschio, è indicata l’esecuzione di un cross-table lateral film nel sospetto di ano imper-forato senza fistola. In questo caso, a seconda della distanza tra la colonna d’aria e il repere radiopaco sul perineo, delle condizioni generali della neonata, e in base all’esperienza del chirurgo, si può decidere se eseguire la ricostruzione primaria o se aprire una colostomia, posticipando la ricostruzione.In una neonata con genitali esterni poco sviluppati e un singolo orifizio perineale si porrà invece diagnosi di clo-aca. Tale condizione richiede non solo l’apertura di una colostomia ma, a cause delle associate malformazioni dell’apparato genito-urinario, impone una tempestiva valutazione ecografica per escludere la presenza di idrocolpo. Se quest’ultimo è presente, il chirurgo deve valutare la necessità di confezionare una vaginostomia e di un eventuale vescicostomia allo scopo di garantire l’emissione di urina per preservare la funzionalità re-nale (Levitt e Peña, 2006b; Bischoff, Levitt et al., 2010).

La colostomia nel paziente con MARCome già discusso, molti sono i fattori che possono portare alla decisione di aprire una colostomia in un neonato con MAR al fine di posticipare l’intervento di ricostruzione anale. Diversi studi, tra cui una recen-te metanalisi, hanno cercato di confrontare tecniche diverse di confezionamento della stomia nei pazienti con MAR ed è stato dimostrato che la colostomia ad ansa, se comparata a quella a stomi separati, è as-sociata a un tasso di complicanze superiore, in par-ticolare il prolasso. Le infezioni delle vie urinarie non sembrano invece più frequenti nei pazienti sottoposti a colostomia ad ansa (Oda, Davies et al., 2014; Liech-ty, Barnhart et al., 2016; Youssef, Arbash et al., 2017).

Il colostogrammaNei pazienti nei quali sia stata confezionata una co-lostomia, il colostogramma rappresenta la tecnica ra-diologica di scelta per definire l’anatomia della MAR, determinando il livello del cul di sacco rettale e dell’e-ventuale fistola con l’apparato urinario per decidere il tipo di approccio chirurgico (Gross et al., 1991). Que-sto esame va eseguito in tutti i pazienti con stomia. L’esame consiste nell’iniettare del mezzo di contrasto nel tratto di intestino distale defunzionalizzato con una pressione adeguata, al fine di vincere il tono muscola-re del pavimento pelvico, per poter contrastare l’intero cul di sacco rettale e per poter riuscire a contrastare l’eventuale fistola retto-urinaria (Gross et al., 1991) (Fig. 9). Negli anni sono state introdotte tecniche di imaging alternative per determinare la distanza del cul di sacco rettale dalla cute e per identificare even-tuali fistole tra retto e via urinaria o tra retto e vagina. Nessuno di questi metodi si è però dimostrato affida-bile e rigoroso quanto il colostogramma (Niedzielski, 2005; Haber et al., 2007; Kavalcova et al., 2013).

La tecnica chirurgica di ricostruzione analeNel 1982, Peña e De Vries proposero una nuova tec-nica per la correzione chirurgica delle MAR: la PSARP (anorettoplastica sagittale posteriore) che è tuttora la tecnica di elezione (deVries e Peña, 1982; Peña e De-vries, 1982). I principi generali della PSARP consisto-no nell’esporre la regione ano-rettale attraverso un’in-cisione perineale sagittale mediana, la cui estensione varia in rapporto al tipo e alla complessità della MAR (Levitt e Peña, 2007). La fase più delicata dell’inter-vento chirurgico è rappresentata dall’identificazione del retto e dalla sua separazione dalle strutture uro-genitali. Una volta completata la separazione, si con-tinua con la mobilizzazione circonferenziale del retto, in maniera tale da guadagnare sufficiente lunghezza per raggiungere la cute del piano perineale. Con l’au-silio dell’elettrostimolatore vengono identificati i limiti, anteriore e posteriore dello sfintere, all’interno delle quali lo stesso dovrà essere collocato. Una volta ri-collocato all’interno del complesso muscolare, si pro-cederà all’esecuzione dell’anoplastica (Levitt e Peña, 2006a). Circa il 90% delle MAR nel maschio possono essere approcciate mediante l’approccio sagittale posteriore senza richiedere un approccio addominale (laparoto-mico o laparoscopico), necessario per mobilizzare un retto estremamente altoposto (Levitt e Peña, 2006a). Tutte le MAR delle femmine, a eccezione del 30% delle cloache, possono essere approcciate con il solo tempo perineale (Levitt e Peña, 2006a; Levitt e Peña, 2006c). Nelle pazienti con cloaca, oltre all’anopla-stica sarà necessario ricreare un’uretra e un introito vaginale. Questo viene fatto con tecniche diverse a seconda della lunghezza del canale comune (Peña, Levitt et al., 2004).

Figura 9. Colostogramma. In questa immagine sono con-trastati sia il retto, che la vescica che l’uretra. La fistola retto-urinaria si inserisce a livello dell’uretra bulbare.

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E. Leva et al.

La gestione post-operatoriaIl ricovero post-intervento avrà una durata variabile a se-conda del tipo di MAR e della presenza o meno di una stomia di protezione (Levitt e Peña, 2007). Il catetere vescicale potrà essere tolto nella prima giornata post-operatoria nei pazienti con fistola retto-perineale o vesti-bolare, dovrà rimanere in sede per almeno 7 giorni nei maschi con fistola retto-urinaria, per almeno 3 settima-ne in caso di cloaca. Nei pazienti che presentano una stomia protettiva l’alimentazione potrà essere iniziata in prima giornata post-intervento, mentre in quelli che non hanno una stomia è consigliato un digiuno di 7-14 gior-ni, con nutrizione parenterale, per evitare il passaggio di feci e permettere il consolidamento dell’anoplastica.È fondamentale considerare che l’atto chirurgico non esaurisce la gestione e il trattamento del paziente af-fetto da MAR, ma ne rappresenta soltanto il principio. Infatti, a partire dal quattordicesimo giorno post-ope-ratorio, per prevenire la comparsa di stenosi legata al processo di cicatrizzazione della sutura a livello del neoano, è necessario intraprendere un programma di dilatazioni anali fino al raggiungimento di un calibro adeguato all’età del paziente (Brisighelli et al., 2016). Inoltre, nel caso di stomia, una volta raggiunto il ca-libro adeguato il paziente potrà essere sottoposto a intervento di ricanalizzazione intestinale.

Follow-up a lungo termine e programma di bowel managementUna volta terminato il percorso chirurgico e il program-ma di dilatazioni, è comunque necessario garantire un follow-up adeguato ai pazienti con MAR. Il fine ul-timo è quello di renderli “asciutti e puliti”, consentendo loro di avere una buona qualità di vita che gli permetta di vivere alla pari dei loro coetanei. È inoltre importan-te considerare che le MAR rappresentano uno spettro di malformazioni e il tipo di follow-up e trattamento dovrà essere personalizzato sul singolo bambino a seconda del tipo di MAR, dell’età, e della presenza di malformazioni associate. La prognosi in termini di continenza dipende infatti da diversi fattori, e in parti-colare soprattutto dal tipo di MAR e dalla presenza di anomalie sacrali e midollari. Circa il 75% dei pazienti con MAR ha evacuazio-ni spontanee con pieno controllo sfinterico e circa la metà di questi, presenta occasionali episodi di pseu-doincontinenza fecale (soiling) (Peña, 1995). Questi pazienti generalmente necessitano solo di una dieta adeguata o di terapia lassativa. I lassativi più utilizzati nella pratica clinica sono la senna, il macrogol, il selg, e, più raramente, il lattulosio. Nei pazienti con MAR, quando possibile, è indicata la somministrazione di sennosidi, in quanto riducono significativamente l’inci-denza di soiling, poiché non modificano la consistenza delle feci, ma promuovono la peristalsi (Santos-Jasso et al., 2017). Prima di somministare il lassativo, è ne-

cessaria la valutazione clinica ed eventualmente radio-logica dell’addome, per valutare se il paziente presenti ingombro fecale. Se così fosse, è necessario ricorrere, per alcuni giorni, all’esecuzione di clisteri evacuativi al fine di liberare il colon dalle feci e di evitare crampi ad-dominali dopo la somministrazione di lassativi. Il 25% dei pazienti MAR invece presenta problemi di vera incontinenza fecale; alcuni di questi hanno una motilità intestinale ridotta, altri invece hanno un transi-to intestinale accelerato. Questi bambini generalmen-te richiedono l’utilizzo di clisteri evacuativi, così da garantire l’evacuazione e da mantenere il colon pulito fino all’esecuzione del successivo clistere, al fine ulti-mo di rimanere asciutti e puliti come i loro coetanei. I clisteri possono essere somministrati quotidianamen-te o a giorni alterni e sono costituiti principalmente da soluzione fisiologica pura. Altre sostanze, come il sa-pone, la glicerina o i fosfati, possono esser aggiunte alla soluzione fisiologica per ottenere un clistere con maggior potere evacuativo. I clisteri possono essere eseguiti mediante sonda rettale semplice, con l’uti-lizzo di cateteri di Foley o tramite presidio Peristeen. Quest’ultimo consiste in un’apparecchiatura ergono-mica che garantisce una pressione costante dell’ac-qua da iniettare e permette al bambino di essere auto-nomo e più rapido nella somministrazione del clistere (Midrio et al., 2016). In alcuni casi è necessario, per i pazienti che presentano motilità accelerata, associa-re al clistere evacuativo l’assunzione di loperamide.

PrognosiNel determinare la prognosi in termini di continenza fecale e urinaria di un paziente con MAR è fondamen-tale considerare 3 fattori: il tipo di MAR, la presenza di malformazioni sacrali associate e la presenza di disrafismi spinali associati (midollo ancorato). Un ul-teriore fattore che può influire sulla prognosi in termini

Tabella II. Continenza fecale completa in base al tipo di MAR (Peña, 1995).

Continenza completa

Tipo di MAR Numero %

Perineale 14/14 100%

Ano imperforato senza fistola 9/17 53%

Atresia/stenosi rettale 5/5 100%

Bulbare 16/47 34%

Prostatica 15/57 26%

Retto-vescicale 0/19 0%

Vestibolare 29/44 66%

Cloaca 12/38 32%

Vaginale 0/4 0%

Totale 100/245 41%

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Malformazioni ano-rettali: classificazioni e strategie di cura

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Bischoff A, Levitt MA, Breech L, et al. Hydrocolpos in cloacal malformations. J Pediatr Surg 2010;45:1241-5.

** Nonostante non sia un articolo recen-te, sottolinea l’importanza di identificare e trattare l’idrocolpo, fin dalla nascita, nelle pazienti con cloaca.

Bischoff A, Levitt MA, Peña A. Update on the management of anorectal malforma-tions. Pediatr Surg Int 2013;29:899-904.

** Nonostante non sia un articolo re-cente, fornisce, sulla base dell’esperienza maturata su 3000 pazienti, dettagli tecnici e consigli sulla gestione intra e post opera-toria dei pazienti con MAR.

Breech L. Gynecologic concerns in pa-tients with anorectal malformations. Semin Pediatr Surg 2010;19:139-45.

* Nonostante non sia un articolo recente, fornisce, sulla base dell’esperienza matura-ta, dettagli tecnici e consigli sull’identifica-zione e gestione di anomalie ginecologiche in pazienti MAR.

di continenza è la presenza di ritardo mentale.

Tipo di MARIl primo Autore che pubblicò i risultati funzionali, a seconda del tipo di MAR, nei pazienti sottoposti alla PSARP fu Peña nel 1995 (Tab. II) (Peña, 1995). Come già accennato in precedenza però, più “alta” è la mal-formazione ano-rettale più è alto il rischio di presentare malformazioni associate, in particolare a carico della colonna e del sacro, che possono contribuire a peg-giorare la prognosi funzionale in termini di continenza.

Anomalie sacraliLa presenza di un sacro malformato, specie se pri-vo di due o più corpi vertebrali, o la presenza di un emisacro sono segni che correlano con una cattiva prognosi funzionale.È noto infatti che l’innervazione, sia volontaria che involontaria, dell’ultimo tratto intestinale dipende dai nervi sacrali.Di conseguenza, la presenza di un osso sacro grave-mente malformato o ipoplasico, porta a un’alterazione dell’innervazione rettale e sfinteriale che potrà interferire negativamente con la prognosi funzionale del paziente, in termini di continenza. Fondamentale risulta pertanto,

come già accennato in precedenza, lo studio del sacro attraverso un RX, sia antero-posteriore che laterale e il calcolo del sacral ratio per poter determinare la prognosi in termini di continenza. In pazienti senza malformazioni ano rettali la media del sacral ratio è 0,74 (Warne et al., 2003). Peña ha dimostrato che i pazienti con sacral ratio superiore a 0,7 hanno un ottima prognosi per continen-za, quelli con sacral ratio inferiore a 0,4 sono inconti-nenti e quelli con sacral ratio compreso tra 0,4 e 0,7 presentano prognosi dipendente dal tipo di MAR.

Midollo ancoratoLa presenza di midollo ancorato è strettamente cor-relata alle caratteristiche del sacro e al tipo di MAR. Infatti, la media del sacral ratio è significativamente in-feriore in pazienti con midollo ancorato rispetto a quelli che non presentano midollo ancorato: 0,4 vs 0,7 (Levitt et al., 1997). Inoltre, la presenza di midollo ancorato è significativamente più probabile in pazienti con MAR sfavorevoli (Tab. III) (Levitt et al., 1997). Numerosi stu-di sono stati condotti per comprendere in che modo la presenza di midollo ancorato possa influenzare la prognosi dei pazienti con MAR, ma a tutt’oggi non c’è al riguardo un consenso univoco (Di Cesare et al., 2010; van den Hondel et al., 2016). Inoltre, a causa del-la frequente coesistenza di MAR a cattiva prognosi e anomalie sacrali con il midollo ancorato, non è stato possibile comprendere se sia la presenza di disrafismi neuronali di per sé o piuttosto la combinazione di diver-si fattori prognostici negativi, a peggiorare la prognosi di questi bambini (Levitt et al., 1997).

Ritardo mentaleIl ritardo mentale può essere associato a MAR so-prattutto nel caso in cui sia presente un’anomalia ge-nica o cromosomica. È riconosciuta l’associazione tra MAR e sindromi ed è inoltre riconosciuto il fatto che alcuni tipi di MAR sono più frequenti in pazienti che presentano anomalie genetiche, come l’ano imperfo-rato senza fistola e la sindrome di Down (Torres et al., 1998). Proprio la presenza di ritardo mentale può influire sulla continenza urinaria e fecale.

Tabella III. Incidenza di midollo ancorato in base al tipo di MAR (Levitt et al., 1997).

Midollo ancorato

Tipo di MAR Numero %

MAR complessa 3/7 43

Estrofia della cloaca 2/5 40

Retto-vescicale 2/6 33

Cloaca > 3 cm 6/21 29

Cloaca > 3 cm 2/9 22

Prostatica 2/11 18

Bulbare 2/11 18

Vestibolare 1/9 11

Totale 20/79 25

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E. Leva et al.

Breech L. Gynecologic concerns in pa-tients with cloacal anomaly. Semin Pediatr Surg 2016;25:90-5.

** Articolo molto recente e dettagliato, che fornisce consigli tecnici sul trattamento delle anomalie ginecologiche nelle pazienti con cloaca.

Brisighelli G, Bischoff A, Levitt MA, et al. Coloboma and anorectal malformations: a rare association with important clinical im-plications. Pediatr Surg Int 2013;29:905-12.

* Dettagliata review della letteratura su pa-zienti con associazione di MAR e coloboma. Vengono descritte importanti anomalie associa-te, che vanno sempre indagate ed esclude in pa-zienti che presentino entrambe le malformazioni.

Brisighelli G, Morandi A, Di Cesare A, et al. The practice of anal dilations following anorectal reconstruction in patients with anorectal malformations: an international survey. Eur J Pediatr Surg 2016.

Cuschieri A, Group EW. Descriptive epi-demiology of isolated anal anomalies: a survey of 4.6 million births in Europe. Am J Med Genet 2001;103:207-15.

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Di Cesare A, Leva E, Macchini F, et al. Anorectal malformations and neurospi-nal dysraphism: is this association a ma-jor risk for continence? Pediatr Surg Int 2010;26:1077-81.

Falcone RA Jr, Levitt MA, Peña A, et al. Increased heritability of certain types of anorectal malformations. J Pediatr Surg 2007;42:124-7.

** Dettagliata review della letteratura e chia-ra presentazione di casi di MAR con familiarità.

Fernandez E, Bischoff A, Dickie BH, et al. Esophageal atresia in patients with anorectal malformations. Pediatr Surg Int 2014;30:767-71.

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Holschneider A, Hutson J, Peña A, et al. Preliminary report on the international confe-rence for the development of standards for the treatment of anorectal malformations. J Pedia-tr Surg 2005;40:1521-6.

** Nonostante non sia un articolo recente rappresenta il riassunto del consenso rag-

giunto dopo la conferenza di Krickenbeck, identifica dei chiari tipo di MAR, ne stabilisce una classificazione e una prognosi.

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* Nonostante non sia un articolo recente, fornisce, sulla base dell’esperienza maturata e della review delle complicanze, dettagli tec-nici e consigli pratici sulle caratteristiche della stomia nei pazienti con MAR.

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** Recentissimo studio prospettico, rando-mizzato, che dimostra la superiorità della sen-na rispetto agli altri lassativi per il trattamento della stipsi nei pazienti con esiti di MAR)

Scottoni F, Iacobelli BD, Zaccara AM et al. Spinal ultrasound in patients with anorectal

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Malformazioni ano-rettali: classificazioni e strategie di cura

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** Dettagliata review della letteratura e metanalisi sul confronto tra stomia a stomi separati e ad ansa nei pazienti con MAR.

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Corrispondenza

Ernesto LevaUOC Chirurgia Pediatrica, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Padiglione Alfieri 3° Piano, via Commenda 12, 20122 Milano - Tel. +39 02 5503 2544 - Fax + 39 02 5503 2546 - E-mail: [email protected]

Box di orientamento

• Cosa sapevamo primaNessuna familiarità delle MAR e nessun fattore di rischio ambientale identificato. Le MAR presentano un elevato numero di malformazioni associate. Esistono algoritmi di gestione diversi per neonato di sesso maschile e di sesso femminile. Il primo gesto da compiere è sempre un’accurata ispezione del perineo. Nella neonata con MAR è fondamentale escludere la presenza di idrocolpo. La stomia a stomi separati è la stomia di scelta nei pazienti con MAR, perché previene le infezioni delle vie urinarie, il prolasso e consente l’esecuzione del colostogramma distale.

• Cosa sappiamo adessoAlcuni tipi di MAR hanno una maggior ereditarietà e sono stati identificati fattori di rischio materni e paterni per MAR. Nel 2005 è stata fornita una classificazione delle MAR che è tuttora universalmente accettata e utilizzata. Le malformazioni associate sono significativamente superiori nei pazienti con MAR a cattiva pro-gnosi, a eccezione di quelle cardiovascolari. La presenza di un coloboma deve far sospettare la presenza di malformazioni associate potenzialmente urgenti. In alcune sindromi la MAR è una possibile manifesta-zione, ma non espressione costante. Le infezioni delle vie urinarie non sembrano più frequenti nei pazienti sottoposti a colostomia ad ansa, rispetto a quella a stomi separati. Il colostogramma risulta tuttora il metodo più affidabile, per determinare il tipo di MAR. Nell’esecuzione delle dilatazioni anali vengono fatte molte ec-cezioni al protocollo suggerito da Peña. La senna dovrebbe essere il lassativo di scelta poiché non modifica la consistenza delle feci, ma promuove la peristalsi. L’esecuzione di clisteri evacuativi tramite Peristeen si è dimostrata efficace nei pazienti con MAR.

• Quali ricadute sulla pratica clinicaDal punto di vista della pratica clinica, questa review stressa l’importanza di un inquadramento clinico appro-fondito del paziente con MAR per escludere la presenza di malformazioni associate e per determinare il tipo di MAR. Nonostante siano state proposte nuove tecniche chirurgiche, l’approccio chirurgico più utilizzato per la ricostruzione delle MAR , dal 1980 a oggi, rimane quello proposto da Peña. La gestione del paziente con MAR non si esaurisce con il gesto chirurgico ma impone un follow-up a lungo termine del paziente che è fisiologi-camente predisposto a episodi di soiling e incontinenza fecale. La senna dovrebbe essere il lassativo di scelta nei pazienti con stipsi in esiti di MAR. Recentemente si sono sviluppati nuovi metodi, con ottima efficacia, per l’esecuzione di clisteri evacuativi nei pazienti incontinenti.

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aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 138-149aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 138-149 Prospettive in Pediatria

Chirurgia pediatrica

Nuove strategie chirurgiche nel trattamento dell’atresia dell’esofago

Maria Luisa Conighi Cosimo Bleve

Elisa Zolpi Lorenzo Costa

Salvatore Fabio Chiarenza

UOC di Chirurgia Pediatrica-Urologia, Chirurgia

Mininvasiva Pediatrica e Nuove Tecnologie,

Ospedale San Bortolo, Vicenza

In 1999, Lobe performed the first thoracoscopic correction of esophageal atresia. Since then, an increasing number of pediatric surgeons have adopted and improved this ap-proach. Thoracoscopy offers different technical advantages compared to open thoracot-omy (reduced chest and pulmonary trauma, better visualization during surgery, vessels and nerves sparing surgery, easier mobilization of esophageal pouches) and leads to a faster postoperative recovery (shorter analgesic therapy, faster realimentation). Consid-ering postoperative complications, anastomotic leakage and stenosis present the same incidence after thoracotomy and toracoscopy, and gastro-esophageal reflux disease that affects long term these patients doesn’t seems to be related to the surgical approach. Obviously thoracoscopy presents also limits (a small operative space, technical difficul-ties, longer operative time) this makes minimal invasive correction of esophageal atresia a complex surgical procedure requiring a learning curve also for expert pediatric surgeons. Despite everything, this approach is becoming the gold standard for the treatment of one of the most common congenital malformations that a pediatric surgeons faced with.

Summary

Nel 1999 Lobe eseguì la prima correzione di un’atresia esofagea per via toracoscopica. Da allora questo approccio è stato adottato e perfezionato da un numero sempre mag-giore di specialisti. La toracoscopia assicura diversi vantaggi tecnici rispetto all’approccio tradizionale (minori danni alla parete toracica e al polmone destro, migliore visione du-rante l’intervento chirurgico, maggiore risparmio di strutture vascolari e nervose, più agile mobilizzazione dei monconi esofagei) e permette un più rapido recupero nel postoperato-rio (minore uso di analgesici, più precoce rialimentazione). Considerando le complicanze postoperatorie, a oggi il tasso di deiscenze e stenosi postoperatorie fra i due approcci si equivale e la malattia da reflusso gastro-esofageo che interessa a lungo termine questi pazienti sembra non essere influenzata dalla tecnica chirurgica utilizzata. Certamente ol-tre ai vantaggi esistono anche dei limiti legati alla toracoscopia (piccolo spazio operatorio, difficoltà tecniche elevate, maggiore durata dell’intervento) questo rende la correzione to-racoscopica dell’atresia esofagea un intervento complesso che anche per chirurghi esperti richiede una importante learning curve. La correzione toracoscopia dell’atresia esofagea è destinata a diventare nel mondo, come in Italia, il gold standard di trattamento di quella che è una delle malformazioni congenite che il chirurgo pediatra si trova più frequente-mente ad affrontare.

Riassunto

Metodologia della ricerca bibliograficaLa ricerca bibliografica è stata effettuata attraverso l’utilizzo della banca dati biomedica on line PubMed,

sviluppata dal National Center for Biotechnology In-formation (NCBI) presso la National Library of Me-dicine (NLM), USA. Particolare attenzione è stata rivolta alla letteratura più recente (ultimi 5 anni) e rilevante.

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Nuove strategie chirurgiche nel trattamento dell’atresia dell’esofago

IntroduzioneL’atresia esofagea (AE) è una malformazione conge-nita severa del tratto gastrointestinale superiore, che si presenta con o senza una fistola tracheo-esofagea (FTE). Le prime descrizioni di questo difetto conge-nito sono comparse in letteratura già nel XVII secolo (Dutson, 1670; Gibson, 1697). Nel 1880, Mackenzie riportò una casistica di 57 pazienti e per primo affron-tò la complessità di questa patologia discutendone embriologia, patogenesi, diagnosi clinica e malforma-zioni associate. È alla fine dell’Ottocento che compa-iono i primi tentativi di correzione chirurgica (Steele, 1888), ma la mortalità di questi pazienti rimase del 100% fino agli anni Quaranta quando Humphreys e Ferrer a New York, Leven dell’Università del Minne-sota e Ladd a Boston portarono a termine con suc-cesso la riparazione del difetto in più tempi chirurgici. Fu Haight dell’Università del Michigan che nel 1941 eseguì con successo il primo intervento di chiusura della fistola tracheo-esofagea e confezionamento di anastomosi primaria mediante un approccio toracoto-mico extraplaurico sinistro. Da allora molti sono stati i progressi nella gestione, nel trattamento chirurgico e nella prognosi dei bambini affetti da questa malforma-zione congenita, che raggiunge a oggi una soprav-vivenza del 85-95% dei casi. Un’altra fondamentale tappa di cambiamento nel trattamento dell’atresia esofagea risale al 1999 quando durante un congres-so IPEG (International Pediatric Surgery Group), Tom Lobe e Steve Rothenberg eseguirono la prima cor-rezione di un’atresia esofagea per via toracoscopica. Da allora questo approccio è stato adottato e perfe-zionato da un numero sempre maggiore di specialisti. Oggi è vivace in letteratura il dibattito su quale sia la tecnica migliore (toracotomica versus toracoscopica) da utilizzare per la correzione di una delle malforma-

zioni congenite che più frequentemente un chirurgo pediatra si trova ad affrontare.

L’atresia esofagea

ClassificazioneDiverse sono le classificazioni proposte per distin-guere i vari tipi di difetti, tali sistemi possono essere basati su aspetti esclusivamente anatomici, come la classificazione di Gross (Fig. 1); sull’incidenza dell’a-nomalia (Tab. I); su fattori di rischio che risultano pre-dittivi della prognosi del paziente, come nella classi-ficazione di Spitz (Tab. II) che risulta al momento la più utilizzata.

EpidemiologiaL’AE è la più comune malformazione congenita del tratto gastrointestinale superiore. Secondo il registro europeo EUROCAT la sua prevalenza in 23 regioni europee dal 1987 al 2006 è stata di 2,43 per 10000

Tabella II. Classificazione di Spitz.

Gruppo Sopravvivenza (%)

I Peso alla nascita > 1500 gr senza malformazioni cardiache maggiori 97

II Peso alla nacita < 1550 gr o malformazioni cardiache maggiori 59

III Peso alla nascita < 1500 gr con malformazioni cardiache maggiori 22

Tabella I. Incidenza anomalie.

Tipo Incidenza (%) Tipo sec. Gross

1 AE con fistola tracheo-esofagea distale 85.,8 C

2 AE senza fistola tracheo-esofagea 7,8 A

3 Fistola tracheo-esofagea senza AE 4,2 E

4 AE con fistola tracheo-esofagea prossimale e distale 1,4 D

5 AE con fistola tracheo-esofagea prossimale 0,8 B

Figura 1. Classificazione di Gross. A, AE senza fistola tracheo-esofagea (long gap). B, AE con fistola tracheo-esofagea prossimale. C, AE con fistola tracheo-esofagea distale. D, AE con fistola tracheo-esofagea prossimale e distale. E, fistola tracheo-esofagea senza AE (fistola ad H). F, stenosi esofagea. (tratta da Grosfeld JL, et al. Pediatric Surgery. Philadelphia: Mosby Elsevier 2006).

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nati vivi (Cassina et al., 2016). L’eziologia è eteroge-nea e multifattoriale. A oggi un’anomalia genetica pre-cisa può essere identificata solo nel 11-12% dei casi, nella maggior parte dei pazienti affetti è una condi-zione sporadica, la ricorrenza familiare è bassa (1%) e questo suggerisce che fattori ambientali ed epige-netici possono contribuire al suo sviluppo (Brosens et al., 2014). Molti studi e case report hanno preso in considerazione fattori di rischio quali età materna (minore dei 20 anni o avanzata), prima gravidanza, teratogeni ambientali (esposizione a progesterone ed estrogeni durante la gravidanza, talidomide, erbicidi, alcol, droghe), ipertiroidismo e diabete materni.

La diagnosi

Diagnosi prenataleL’accuratezza della diagnosi prenatale dell’AE è anco-ra argomento dibattuto. Esistono segni ecografici che pongono il sospetto diagnostico:- polidramnios; - bolla gastrica piccola/assente;- anomalie della deglutizione fetale;- moncone esofageo superiore dilatato che può es-

sere visibile dalla 23^ settimana gestazionale;- polidramnios combinato a malformazioni note per

essere parte dell’associazione VATER/VACTERL (anomalie cardiache, anomalie delle vie urinarie, malformazioni ossee ecc.).

Il polidramnios isolato è il segno ecografico con va-lore predittivo positivo principale (35-63%, Bradshaw et.al, 2016), quando associato a bolla gastrica pic-cola/assente il valore predittivo positivo arriva fino al 67% (Kunisaki et al., 2014). In caso di dubbio eco-grafico, la risonanza magnetica nucleare fetale può essere utilizzata per un approfondimento diagnostico, questa indagine permette anche di evidenziare anche eventuali malformazioni associate. È comunque im-portante sottolineare che, come dimostra la letteratu-ra recente (Bradshaw et al. 2016; Kunisaki et al., 2014; Spaggiari et al., 2015), non vi è differenza nell’outco-me tra neonati con diagnosi prenatale di AE e quelli con diagnosi postnatale, il beneficio della diagnosi prenatale è da ascrivere alla possibilità di eseguire un corretto counseling prenatale per le famiglie e di pro-grammare una più appropriata e tempestiva gestione perinatale e postnatale del bambino, ricordando co-munque che l’AE di per sé non costituisce un’indica-zione né al parto anticipato né al parto cesareo.

Diagnosi alla nascitaIn caso di sospetto diagnostico prenatale di AE, alla nascita il tentativo di posizionamento di sondino oro-gastrico sarà la manovra che dirimerà il dubbio. In caso di mancata ipotesi prenatale, la sintomatologia risulta sospetta il più delle volte già nelle prime ore di vita, ed è caratterizzata da:

- scialorrea (non sempre presente nei pazienti pre-maturi);

- tosse e rigurgito al tentativo di alimentazione;- cianosi, sia in assenza che in presenza dei pasti,

per aspirazione di saliva o cibo;- distress respiratorio;- polmonite chimica (evento raro) nel caso in cui le

secrezioni gastriche passino in trachea attraverso la FTE.

Queste condizioni devono indurre a immediato so-spetto clinico e quindi a un approfondimento diagno-stico:- posizionamento di sondino esofageo (la normale

distanza fra cavo orale e cardias è di circa 17 cm);- radiografia con sondino esofageo in sede ed even-

tuale utilizzo di mezzo di contrasto (Fig. 2). L’Rx dà informazioni sulla presenza di FTE distale nel caso in cui siano pneumatizzati stomaco e intestino; l’utilizzo del mezzo di contrasto offre il vantaggio non solo di poter visualizzare meglio il moncone prossi-male e la sua lunghezza, ma anche di poter identifi-care un’eventuale FTE (rara) a questo livello (Lal et al., 2016).

Malformazioni associateIl 50% dei pazienti affetti da AE presentano almeno una malformazione associata (Cassina et al., 2016; Bogs et al., 2017) e sono proprio queste a rivestire un ruolo importante nella prognosi del piccolo paziente affetto da AE (Tab. III).Il fenotipo più frequentemente riscontrato è quello dato dall’associazione con malformazioni dello spet-

Figura 2. Rx con mezzo di contrasto di neonato affetto da AT di tipo C: visibile moncone esofageo superiore che ter-mina in corrispondenza del corpo di D3-D4, in sede sondi-no oro-esofageo, stomaco ed intestino pneumatizzati.

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tro VACTER (o delle sue eventuali varianti VACTERL o VACTERL-H): difetti vertebrali (Vertebral, 17%), malformazione anorettale (Anal, 12%), malformazio-ne cardiaca (Cardiac, 20%), AE/FTE, malformazioni dell’apparato urinario (Renal, 16%), anomalie degli arti (Limb, 10%), idrocefalo (Hydrocephalus). Un’altra associazione che si può riscontrare in questi pazienti è la CHARGE: coloboma, atresia delle coane, malfor-mazione cardiaca, anomalie dei genitali. Tra le ano-malie cromosomiche più frequenti la trisomia 18 e la trisomia 21. Da un recente studio condotto sulla base del Registro Italiano delle Malformazioni Congenite (Cassina et al., 2016), la sopravvivenza a 25 anni di pazienti affetti da questa patologia raggiunge l’85,1% con la maggior parte dei decessi che intercorre nel primo mese di vita. I principali fattori di rischio che influenzano la prognosi sono il basso peso alla nasci-ta e la presenza di gravi malformazioni associate (in particolare cardiache). Nel corso delle ultime decadi è stato comunque registrato un significativo incremento nella sopravvivenza nei pazienti con forme non isola-te di AE.

Il trattamento chirurgico

Gestione preoperatoriaAlla luce dell’elevata incidenza di anomalie associa-te in questi bambini risulta mandatorio un accurato screening preoperatorio che preveda un accurato esame obiettivo con particolare attenzione ai genita-li esterni (ipospadia, criptorchidismo) e della regione anale (malformazione anorettale) oltre all’esecuzione di ecocardiografia, ecografia dell’apparato urinario ed ecografia cerebrale.Nella gestione del neonato devono inoltre essere at-tuati i seguenti accorgimenti:- posizione semiseduta per ridurre il rischio di aspi-

razione di saliva e il reflusso gastrico attraverso la FTE;

- sondino naso-esofageo in blanda aspirazione per evitare aspirazione di saliva;

- digiuno;- nutrizione parenterale totale;- terapia antibiotica ad ampio spettro;- se possibile evitare una ventilazione ad alti flussi

o in c-PAP per prevenire un’eccessiva distensione

gastrica (data la frequentissima presenza di FTE distale) che potrebbe portare a uno scompenso respiratorio.

L’interventoL’obiettivo del trattamento chirurgico è quello di chiu-dere la fistola tracheo-esofagea (presente globalmen-te in circa l’86% dei casi) e di ricostituire la continuità esofagea mediante una anastomosi termino-termina-le fra i due monconi esofagei.

Broncoscopia preoperatoriaL’utilizzo della broncoscopia preoperatoria rientra tra gli aspetti ancora discussi nella gestione del pazien-te con AE (Holcomb, 2017; Pepper et al., 2017). Nei centri in cui viene effettuata, ha una duplice finalità: ricercare un’eventuale fistola a livello del moncone superiore e identificare la fistola a carico del mon-cone inferiore. Una volta visualizzata, la fistola può essere incannulata con un catetere (meglio se tipo Fogarty) di piccolo calibro che può servire come re-pere nel corso dell’intervento chirurgico. La fistola a carico del moncone inferiore è abitualmente situata pochi mm al di sopra della carena, più raramente si trova in corrispondenza della carena o alla radice del bronco di destra, indicando in questi casi un monco-ne inferiore particolarmente corto (forme long gap). Il suo incannulamento facilita l’identificazione intraope-ratoria della FTE da parte del chirurgo (Rinkel et al., 2017) ed evita air leakage attraverso la fistola durante la ventilazione meccanica in corso di anestesia (Zani et al., 2017). Tuttavia bisogna segnalare che alcuni chirurghi preferiscono non eseguire tale procedura perché talvolta indaginosa e penalizzante per il neo-nato in quanto aumenta i tempi anestesiologici. In una piccola percentuale di pazienti (circa 2,5%) può esse-re presente anche una fistola a livello del moncone esofageo prossimale, la sua mancata identificazione può complicare l’intervento chirurgico comprometten-do la mobilizzazione del moncone esofageo superio-re e ponendo inoltre il paziente a rischio di episodi di aspirazione, anche gravi, una volta ripresa l’alimenta-zione per os. Da casistiche recentemente pubblicate emerge però che solo una piccola percentuale di fi-stole prossimali viene identificata con la broncosco-pia preoperatoria, questo a causa delle sue differenti caratteristiche anatomiche rispetto a quelle distali: calibro minore, sede immediatamente distale alle cor-de vocali, mancata apertura chiusura in rapporto alla ventilazione (Summerour et al., 2017).

Approccio toracotomicoL’approccio chirurgico tradizionale prevede un acces-so toracotomico postero-laterale destro, a eccezio-ne dei casi in cui sia diagnosticato un arco aortico destro-posto, nel qual caso l’approccio toracotomico sarà sinistro. Si posiziona il bambino in decubito la-terale sinistro con braccio destro sollevato a esporre

Tabella III. Anomalie associate.

Cardiovascolari 35%

Genitourinarie 24%

Gastrointestinali 24%

Neurologiche 12%

Muscoloscheletriche 20%

Associazione VACTERL 20%

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la parete toracica (Fig. 3). Dopo incisione cutanea, dall’apice inferiore della scapola destra e lateralmen-te fino alla linea ascellare media, si procede all’ac-cesso alla cavità toracica; dopo aver legato la FTE (moncone inferiore), si disseca il moncone superiore e si procede al confezionamento di un’anastomosi esofago-esofagea termino-terminale previa apertura del moncone prossimale e posizionamento di sondi-no transanastomotico (Fig. 4).Durante l’intervento è fondamentale cercare di pre-servare la vascolarizzazione e l’innervazione dei due monconi esofagei, in particolare di quello inferiore: danni ischemici o da denervazione (lesioni del ner-vo vago) possono compromettere la tenuta dell’ana-stomosi e/o alterare la già congenitamente anomala motilità esofagea. Molto importante è inoltre riuscire a confezionare, se possibile, un’anastomosi che non sia sotto tensione poiché questo predispone a feno-meni ischemici che possono causare deiscenza della anastomosi nell’immediato postoperatorio e in un se-

condo momento stenosi esofagea. I vari espedienti tecnici introdotti negli anni per ridurre la distanza fra i due monconi (miotomia circolare secondo Livaditis, miotomia spirale secondo Kimura, flap esofageo se-condo Bianchi), sebbene inizialmente incoraggianti, si sono rivelati spesso fonte di ulteriori complicanze a distanza (stenosi lunghe).

Approccio toracotomico mini-invasivo (Minimal Acces Surgery - MAS)Per ridurre al minimo l’invasività e quindi anche le complicanze legate ad ampie toracotomie, l’approc-cio chirurgico tradizionale è stato modificato negli anni. Il professor Adrian Bianchi, di Manchester, nel 1998 introdusse un’incisione “ascellare alta” succes-sivamente associata a un approccio muscle-sparing (Steve Rothenberg) (Bianchi et al., 1998; Taguchi et al., 2011) (Fig. 5). La sede dell’incisione (III-IV spazio intercostale lungo la linea ascellare media) dà un mi-gliore risultato estetico in quanto la cicatrice con l’ac-crescimento ha la tendenza a migrare verso il cavo ascellare; la tecnica muscle-sparing, che prevede il divaricare le fibre dei muscoli della parete toracica piuttosto che sezionarle, riduce il rischio di deformità dell’emitorace destro, scoliosi, scapola alata.

Approccio toracoscopicoNel 1999, durante un congresso IPEG (International Pediatric Surgery Group), Tom Lobe e Steve Ro-thenberg per primi eseguirono la correzione com-pletamente toracoscopica di un’AE/FTE. Da allora questo approccio è stato adottato e perfezionato da un numero sempre maggiore di centri. Dal punto di vista tecnico l’intervento prevede l’utilizzo di 3 accessi mininvasivi (da 3 e/o 5 mm)) per il posizionamento degli strumenti (Figg. 6, 7), quindi mediante approccio transpleurico si procede agli stessi passaggi tecnici previsti dalla tecnica tradizionale: legatura della vena azygos; isolamento della FTE e sua chiusura median-te posizionamento di punti trasfissi o endoclips in tita-

Figura 3. Posizione del paziente. (tratta da: Puri P, et al. Pediatric Surgery. Berlin Heidelber: Springer-Verlag 2006).

Figura 4. A, esposizione della parete toracica; B, anastomosi fra moncone esofageo superiore, a sinistra, moncone esofageo inferiore, a destra.

A B

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nio; mobilizzazione adeguata dei due monconi esofa-gei; apertura del moncone prossimale e confeziona-mento di anastomosi esofagea termino-terminale con punti endocorporei, previo posizionamento di sondino transanastomotico; al termine della procedura viene solitamente posizionato drenaggio toracico periana-stomotico (Fig. 8).L’utilizzo della tecnica mininvasiva, pur essendo più difficoltoso in quanto richiede un elevato skill da par-te dell’équipe chirurgica (il chirurgo lavora guardando uno schermo e non può manipolare gli organi) offre innumerevoli vantaggi rispetto all’approccio open. Grazie infatti alla magnificazione delle immagini e alla presenza di micro-strumenti da 3 mm, anche le strut-ture più piccole come nervi, vasi sanguigni e linfatici sono chiaramente evidenziati e quindi, se possibile, risparmiati. Inoltre in presenza di un gap esofageo ampio, la dissezione dei monconi risulta più agile e completa senza necessità di ampliare l’incisione chi-rurgica, come può essere invece necessario in tora-cotomia; infatti il solo spostamento dell’ottica permette di dominare ampiamente il mediastino sia superiore che inferiore, permettendo una migliore dissezione, una conseguente netta riduzione del gap esofageo e quindi il confezionamento di un’anastomosi anche in casi difficili. Mente in toracotomia è prevista un’incisio-ne ampia, la divaricazione dei muscoli e quindi delle coste, grazie alle microincisioni da 3 mm la toracosco-pia riduce nettamente anche le complicanze precoci e tardive dell’approccio open: scoliosi, scapola alata po-tenziali lesioni nevose (sindrome di Claude Bernard-Horner), come pure ovviamente le cicatrici (Fig. 9).

Figura 5. Incisione sec. Bianchi.

Figura 6. A-B, posizione del paziente e siti di inserzione dei trocars.

A B

Figura 7. A, strumentazione toracoscopica; B, posizione dei trocars; C, anastomosi esofagea.

A

B

C

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Gestione postoperatoriaNell’immediato postoperatorio, per ridurre al minimo il rischio di deiscenza, è molto importante che l’ana-stomosi esofagea sia soggetta alla minima tensione possibile, per questo il bambino è inizialmente man-

tenuto curarizzato e intubato nel reparto di terapia in-tensiva neonatale (ciò è importante soprattutto per i pazienti che presentavano un gap esofageo ampio, maggiore di 3 cm). Dopo mediamente 48 ore, in buo-ne condizioni cliniche e in assenza di sospetto leaka-ge anastomotico, viene sospesa la curarizzazione e il paziente viene estubato (il chirurgo potrà dare diver-sa indicazione in base alla tensione da lui riscontrata tra i due monconi esofagei nel confezionare l’anasto-mosi). L’anastomosi deve consolidarsi prima che sia possibile iniziare l’alimentazione per via orale, così in VI-VIII giornata postoperatoria si esegue un con-trollo radiologico con mezzo di contrasto: verificata l’assenza di deiscenze e/o stenosi dell’anastomosi, il neonato viene gradualmente rialimentato. Il sondi-no transanastomotico e il drenaggio perianastmotico vengono rimossi intorno alla VIII-IX giornata postope-ratoria dopo che sia la pervietà dell’anastomosi che un eventuale leakage sono stati esclusi. Durante le prime giornate postoperatorie al bambino vengono somministrate per via endovenosa oltre a una nutri-zione parenterale, anche una terapia antibiotica ad ampio spettro e una terapia antalgica a orari fissi. L’avvento della toracoscopia ha nettamente migliorato sia in termini di qualità che di analgesia la gestione del piccolo paziente. Infatti, come più volte riportato in letteratura, il decorso postoperatorio rispetto alla chi-rurgia open, richiede una minore durata della terapia antalgica e anche l’estubazione e la rialimentazione sono più precoci (Yang et al., 2016).

Figura 8. Rx postoperatorio in cui sono visibili: endoclips in titanio utilizzate per la chiusura della FTE, sondino naso-ga-strico trans-anastomotico e drenaggio perinanastomotico.

Figura 9. A-B, esito estetico a distanza di un anno.

A B

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Le complicanzeLe complicanze possono essere maggiori e/o minori e possono manifestarsi precocemente (cioè nell’im-mediato post-operatorio) o tardivamente (dopo mesi o persino anni dall’intervento). In termini assoluti an-che in questo caso i vantaggi della chirurgia minin-vasiva sono evidenti non solo in termini di minori ci-catrici (praticamente invisibili nelle toracoscopia), ma soprattutto in termini di outcome.

Complicanze precociDeiscenza dell’anastomosiPuò interessare fino al 14-16% dei pazienti; i fattori di rischio sono la scarsa vascolarizzazione dei monco-ni esofagei, un’eccessiva tensione fra gli stessi, l’uso della miotomia. Nel 95% dei casi la deiscenza si ri-solve spontaneamente, con il rischio però di evolvere poi in stenosi cicatriziale. Nel 5% dei casi si possono avere deiscenze maggiori che compaiono nelle prime 24-48 ore postoperatorie e che si manifestano con pneumotorace iperteso o mediastinite, questi casi possono necessitare di revisione chirurgica che può essere effettuata in toracoscopia, sia che il primo in-tervento sia avvenuto per via tradizione, sia che sia stato effettuato per via toracoscopica. (Fig. 10a).

Stenosi dell’anastomosiRappresenta una complicanza frequente che può in-teressare fino l’80% dei pazienti. La diagnosi può es-sere fatta clinicamente (disfagia, intrappolamento di bolo alimentare, polmonite da aspirazione) o per via

strumentale (esame contrastografico, endoscopia) (Fig.10b). Le cause che la possono determinare sono un’anastomosi sotto eccessiva tensione (ischemia secondaria), la presenza di reflusso gastro-esofageo (molto frequentemente associata alla AE), la conse-guenza della risoluzione di una deiscenza anasto-motica. Il trattamento primario della stenosi consiste in dilatazioni per via endoscopica mediante dilatatori rigidi tipo Savary o dilatatori a palloncino; il 53% dei casi risponde a un ciclo di 1-3 dilatazioni (Grosfeld et al., 2006). Nel caso di stenosi persistente l’alternativa è chirurgica. Ottimale sarebbe preservare l’esofago nativo quando possibile tramite resezione della ste-nosi e ri-confezionamento di una nuova anastomosi; a volte può essere necessaria, o può essere scelta dal chirurgo, una chirurgia di sostituzione esofagea, in questo caso possono essere scelti colon, stomaco od ileo; infine può essere utilizzato un pull-up gastri-co, cioè una toracizzazione dello stomaco per ridurre il gap esofageo a seguito della resezione del tratto stenotico e permettere quindi il confezionamento di una nuova anastomosi esofagea. Nella gestione di questa complicanze è fondamentale stabilire se vi è associato un reflusso gastro-esofageo: senza risolu-zione di quest’ultimo la stenosi tenderà a persistere/recidivare; in questi casi può quindi risultare necessa-rio ricorre a una plastica antireflusso sec.Nissen, da effettuarsi preferibilmente per via laparoscopia.

Fistola tracheo-esofagea ricorrenteL’incidenza segnalata in letteratura di questa subdo-la complicanza è del 3-14% dei casi. Può essere ri-

Figura 10. Rx prime vie con mezzo di contrasto: A, spandimento di mezzo di contrasto in corrispondenza della deiscen-za dell’anastomosi; B, sede dell’anastomosi che risulta stenotica.

A B

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conducibile a varie cause tra cui: l’inefficace legatura chirurgica della FTE durante l’intervento; la deiscen-za dell’anastomosi esofagea che può provocare una flogosi locale e quindi un’erosione nella sede della pregressa FTE. La comparsa della FTE recidiva è di solito precoce e i sintomi possono essere eclatanti o molto subdoli in caso di fistola di piccole dimensio-ni. Tipicamente la presenza questa complicanza è associata a tosse, soffocamento e cianosi al pasto, infezioni polmonari ricorrenti (bronchiti e broncopol-moniti). La diagnosi clinica e strumentale è spesso difficile (esofagogramma, esofagogastroduodenosco-pia, tracheoscopia) e può avvenire anche a distanza. Raramente la fistola recidiva si chiude spontanea-mente, necessita il più delle volte di trattamento chi-rurgico (legatura e sezione), l’alternativa nei casi più favorevoli è il trattamento endoscopico (scarificazione della fistola e chiusura con colle di fibrina o sintetiche) (Smithers et al., 2017; Coran, 2015).

Complicanze tardiveMalattia da reflusso gastro-esofageo (MRGE)È una complicanza comune (40-65%) correlata all’ac-corciamento del tratto esofageo intraddominale e a un’alterata motilità esofagea per difetto congenito e per esito della chirurgia. Come dimostra la recente letteratura (Tong et al., 2015; Iwanczak et al., 2016) la MRGE è legata sia a episodi di reflusso acido che in particolare a reflussi non acidi tipici di questi pazienti che assumono per lunghi periodi inibitori di pompa; una dismotilità esofagea di grado variabile da sogget-to a soggetto è inoltre causa di un’alterata clearance del bolo alimentare e dell’acido gastrico che rimango-no quindi più a lungo a contatto con la mucosa esofa-gea causandone l’irritazione e la flogosi. È importante considerare questa complicanza per i rischi a lungo termine come la stenosi esofage e/o la metaplasia intestinale (esofago di Barrett), lesione pre-cancero-sa. Il sospetto clinico è dato da sintomi quali: dolore, disfagia, vomito, stenosi ricorrenti, sintomatologia re-spiratoria acuta e/o cronica. La diagnosi strumentale prevede l’utilizzo combinato di pH-metria e impeden-ziometria esofagea per registrare sia i reflussi acidi che quelli non acidi; l’endoscopia permette oltre a una diagnosi macroscopica, di eseguire biopsie e valutare eventuali segni istologici di flogosi cronica e/o atipie. Un ruolo marginale nella diagnosi è rappresentato dall’Rx delle prime vie con mezzo di contrasto che tut-tavia, se eseguito correttamente (a pieno riempimento gastrico e con radiogramma ritardato) fornisce delle ottime informazioni sia sull’esofago che sull’eventuale ernia iatale associata al reflusso. Nonostante la tera-pia medica con inibitori di pompa propionica (IPP) sia preventivamente e largamente utilizzata, una percen-tuale di pazienti affetti da MRGE che varia dal 10 al 50%, è sottoposto a trattamento chirurgico mediante confezionamento di plastica antireflusso sec. Nissen (Tong et al., 2015). Al momento sembra inoltre che la

scelta dell’approccio chirurgico toracoscopico rispet-to a quello toracotomico, non influenzi lo sviluppo di MRGE (Iwanczak et al., 2016).

TracheomalaciaInteressa il 75% dei bambini affetti da AE, consiste in una debolezza localizzata o generalizzata della pare-te tracheale a causa di anomalie delle cartilagini che il collasso del lume in corso di espirio o di tosse. Cli-nicamente ha un vario spettro di manifestazioni: dalla tipica “tosse abbaiante”, a infezioni polmonari ricorrenti a gravi apnee. La diagnosi è clinica e completata da un esame broncoscopico. La prognosi è tendenzialmente benigna poiché la tracheomalacia tende a migliorare con la crescita del bambino; tuttavia nei casi più gravi con importanti apnee life-threatening, il trattamento di scelta è chirurgico e consiste nell’aortopessia.

Il dibattito attuale: toracotomia o toracoscopia?La letteratura nel corso degli ultimi anni sta eviden-ziando sempre più come la correzione toracoscopica della AE/FTE stia diventando il gold standard di trat-tamento per questa patologia non soltanto per motivi estetici, ma soprattutto per un migliore outcome dimo-strato. Nonostante questo è ancora acceso in lettera-tura il dibattito tra i sostenitori della tecnica toracoto-mica open e della chirurgia mininvasiva.Innanzitutto argomento di discussione è il principio su cui si basa la toracoscopia: le procedure toracoscopi-che nel neonato possono essere associate a ipercap-nia e acidosi intraoperatorie anche in assenza di ipos-sia, questa alterazione negli scambi gassosi sembra riconducibile all’insufflazione e all’assorbimento di CO

2 medicale utilizzata durante l’intervento toraco-scopico. Non essendo noti gli effetti a lungo termine di questa alterazione dei gas sullo sviluppo cerebrale (Pierro, 2015), questo punto ha creato controversie fra i sostenitori dei due differenti approcci. Iniziali trial randomizzati non hanno però al momento evidenziato che durante l’intervento di correzione toracoscopica di AE si raggiungano livelli di acidosi e ipercapnia tali da sconsigliare questa procedura (Bishay et al., 2013), inoltre non è emerso che a lungo termine i bambi-ni operati con tale metodica presentino gravi danni cerebrali. Va comunque sottolineato che grazie alla componente ossea della parete toracica, la necessità di insufflazione di CO

2 di solito è molto ridotta: è suf-ficiente insufflare una quantità iniziale di CO2 tale da portare al collasso il polmone destro e poi proseguire con insufflazione minima, poiché lo spazio ottenuto verrà mantenuto dalla struttura stessa della parete.Rispetto alla chirurgia open, la toracoscopia assicura diversi vantaggi tecnici: l’insufflazione di CO2 all’inter-no della cavità pleurica permette il delicato collasso del polmone destro, evitando traumi da retrazione sul parenchima; l’utilizzo della magnificazione ottenuta

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Nuove strategie chirurgiche nel trattamento dell’atresia dell’esofago

con l’ottica operativa garantisce una migliore visio-ne al chirurgo rispetto a quella che avviene attraver-so una breccia toracotomica, ciò rende più agevole l’individuazione dei monconi esofagei e la loro mo-bilizzazione, nonché il riconoscimento delle strutture vascolari e nervose a essi associate; grazie alla ma-gnificazione di tali strutture dovuta alla telecamera, queste verranno più facilmente risparmiate durante l’intervento, riducendo così il rischio postoperatorio di complicanze ischemiche o da lesione nervosa; anche l’individuazione e l’isolamento di un’eventuale fistola tracheoesofagea risulta facilitata per le stesse ragioni. Sebbene la tecnica chirurgica toracoscopi-ca ripercorra i passaggi della chirurgia tradizionale, è stato introdotto il concetto di risparmio della vena Azygos: questa vena rappresenta una delle principali vene del nostro circolo, quindi cercare di preservarla rende ancora meno invasivo l’intervento, questo può essere possibile grazie alla buona visualizzazione dei monconi esofagei concessa dalla scopia: l’anasto-mosi può essere confezionata sul lato sinistro della vena azygos (questa variante tecnica è descritta da Correia-Pinto come “Anatomic Thoracoscopic Repear of Esophageal Atresia”) (Fonte et al., 2017).La toracoscopia ha sfatato alcuni “miti” chirurgici quali ad esempio la necessità assoluta dell’accesso extrapleurico, che con l’approccio mininvasivo viene sistematicamente disatteso senza creare alcun pro-blema né in termini di aumento delle complicanze di un eventuale leakage, né per l’esecuzione di un reintervento. Inoltre per ridurre i tempi operatori legati all’annodamento intracorporeo utilizzato in toraco-scopia, sono stati introdotti alcuni accorgimenti come la chiusura della FTE mediante il posizionamento di clips in titanio piuttosto che di punti di sutura; tale tec-nica che aveva creato inizialmente molte perplessità, si è dimostrata sicura (non sono stati registrati infatti casi di dislocazione delle clips nel postoperatorio) e veloce (riduce quindi i tempi chirurgici).Solo recentemente in letteratura iniziano a comparire lavori in cui viene dimostrato che l’approccio toraco-scopico porta dei vantaggi in termini di minore tempo di intubazione e rialimentazione, minore durata della terapia antalgica postoperatoria, e conseguentemen-te minore durata complessiva della degenza (Yang et al., 2016). Questi ultimi dati oltre che migliorare l’out-come del piccolo paziente riducono notevolmente i costi sanitari per singolo neonato operato. Nonostan-te queste considerazioni, nei primi report sull’argo-mento venivano riportati tempi di intubazione, degen-za e rialimentazione in linea con quelli riguardanti la tecnica tradizionale open, questo accadeva secondo la nostra opinione per due motivi: il primo legato all’i-niziale esperienza dei chirurghi con l’approccio tora-coscopico; il secondo perché inizialmente i chirurghi, pur utilizzando tecniche mininvasive, cautelativamen-te mantenevano le medesime collaudate e sicure abi-tudini nella gestione postoperatoria del paziente.

Considerando le complicanze postoperatorie, chi pre-dilige l’approccio tradizionale sottolinea una maggiore incidenza di deiscenza delle anastomosi in toraco-scopia (0-18% vs 2-3%) e, dal momento che questa tecnica prevede un approccio transpleurico, questo esporrebbe il paziente a un maggiore rischio di svi-luppare un empiema (Davenport et al., 2015). Tuttavia questi dati, a nostro avviso, non possono purtroppo essere considerati attendibili in quanto troppo legati alla esperienza del singolo chirurgo. Per quanto ri-guarda invece il reflusso gastro-esofageo non sem-brano esserci evidenze di differente incidenza tra la tecnica open e mininvasiva. (Iwanczak et al., 2016).L’utilizzo di incisioni cutanee di 3-5mm e l’assenza di incisione o stretching muscolare, si traducono nell’im-mediato postoperatorio in una minore necessità di terapia antalgica e quindi di un più rapido recupero del piccolo paziente. Molto importante a lungo termi-ne è anche l’ottimo risultato estetico e funzionale con assenza di deformità della cassa toracica e di sco-liosi. Tali complicanze a lungo termine storicamente interessano i pazienti trattati con toracotomia (54% in toracotomia versus 10% in toracoscopia) (Davenport et al., 2015).Dai dati via via maggiori in letteratura emerge che l’approccio toracoscopico risulta sicuro anche in neo-nati pretermine e di basso peso. Quando necessario, è inoltre fattibile e sicuro anche un reintervento tora-coscopico.Certamente oltre ai vantaggi esistono anche dei li-miti legati alla toracoscopia: l’intervento risulta tec-nicamente complesso e lo spazio all’interno in cui deve muoversi il chirurgo è piccolo, questo rende la correzione toracoscopica dell’atresia esofagea un intervento complesso che anche per chirurghi esper-ti richiede una importante learning curve, questo si traduce per il paziente in tempi operatori maggiori di quelli richiesti dalla tradizionale tecnica open e nella necessità, sempre importante ma ancora maggiore in questo caso, di un’équipe multispecialistica (neona-tologo, anestesista, chirurgo) preparata alla gestione di questi pazienti.In conclusione le nuove frontiere nel trattamento chi-rurgico dell’atresia esofagea vedono una sempre maggiore e inarrestabile diffusione delle tecniche mininvasive (con bassissimo impatto chirurgico) a di-scapito delle tecniche open. Il basso impatto è prin-cipalmente legato a: microcicatrici (3-5 mm); delicata manipolazione dei monconi esofagei e delle strutture nervose, vascolari e linfatiche; minore traumatismo a carico del polmone e delle strutture mediastiniche. Se aggiungiamo poi a tutto ciò una miglior mobilizzazione dei monconi esofagei in caso di long gap, possiamo sostenere che la toracoscopia rappresenta non tanto un’alternativa alla chirurgia open, ma un’esigenza per il piccolo paziente. Deve tuttavia essere sottolineato come purtroppo attualmente solo pochissimi centri in Italia e in Europa siano in grado di applicare tecniche

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M.L. Conighi et al.

così innovative. L’esperienza ormai decennale del no-stro centro ci permette di affermare come questo tipo di chirurgia mininvasiva neonatale necessiti non solo di elevate tecnologie e skill chirurgico ma anche di

un équipe anestesiologica e infermieristica altamente specializzata che conosca molto bene le problemati-che tecniche e quelle legate alla gestione del neonato intra e post-operatoriamente.

Box di orientamento

• Cosa sapevamo primaL’atresia esofagea (AE) è la più comune malformazione congenita del tratto gastrointestinale superiore. La sua prevalenza in Europa è di 2,43 per 10000 nati vivi. Nel 91,4% dei casi si associa una fistola tra-cheo.esofagea (FTE). Il 50% dei pazienti affetti da AE/FTE presenta almeno una malformazione associa-ta e spesso questa riveste un ruolo prognostico importante. La correzione chirurgica prevede la chiusura della FTE e l’anastomosi fra i due monconi esofagei, tradizionalmente tale intervento viene condotto per via toracotomica.

• Cosa sappiamo adessoAlla tecnica chirurgica tradizionale si sono affiancati negli ultimi anni un approccio toracotomico mi-ninvasivo secondo Bianchi e soprattutto la correzione per via toracoscopica. La toracoscopia permette vantaggi tecnici chirurgici, un più rapido recupero postoperatorio e un migliore risultato estetico-funzio-nale a lungo termine. Le complicanze postoperatorie più frequenti sono rappresentate dalla deiscenza dell’anastomosi (14-16%), la stenosi della stessa (fino all’80%) e, a lungo termine, la malattia da reflusso gastro-esofageo (40-65%). L’incidenza in particolare di quest’ultima non è correlata all’approccio chirur-gico utilizzato.

• Quali ricadute sulla pratica clinicaUn sospetto diagnostico prenatale di AE/FTE non incide sull’outcome del paziente, ma consente un cor-retto counseling prenatale e la programmazione di una gestione perinatale più appropriata e tempestiva. La correzione toracoscopica dell’AE/FTE è destinata a diventare il gold standard di trattamento di que-sta malformazione congenita, è importante sottolineare però come sia fondamentale un’esperta équipe multidisciplinare per la gestione di questi neonati (neonatologo, chirurgo pediatra, anestesista pediatrico, strumentista.

Bibliografia

Bianchi A, Sowande O, Alizai NK, et al. Aesthetics and lateral thoracotomy in the neonate. J Pediatr Surg 1998;33:1798-800.

** Presentazione dell’accesso chirur-gico toracotomico mininvasivo: incisione cutanea ascellare alta.

Bishay M, Giacomello L, Retrosi G, et al. Hypercapnia and acidosis during open and thoracoscopic repair of congenital diaphragmatic hernia and esophageal atre-sia: results of a pilot randomized controlled trial. Ann Surg 2013;258:895-900.

** Trial randomizzato pilota per valutare I livelli di ipercapnia e acidosi in corso di toracoscopia.

Bogs T, Zwink N, Chonitzki V, et al. Eso-phageal atresia with or without tracheoe-sophageal fistula (EA/TEF): association of different EA/TEF subtypes with specific co-occurring congenital anomalies and implications for diagnostic workup. Eur J Pediatr Surg 2017.

Borruto FA, Impellizzeri P, Montalto AS, et al. Thoracoscopy versus thoracotomy for esophageal atresia and tracheoeso-phageal fistula repair: review of the litera-ture and meta-analysis. Eur J Pediatr Surg 2012;22:415-9.

Bradshaw CJ, Thakkar H, Knutzen L, et al. Accuracy of prenatal detection of tra-cheoesophageal fistula and oesophageal atresia. J Pediatr Surg 2016;51:1268-72.

** Non sono emerse differenze progno-stiche fra i bambini che presentavano una diagnosi prenatale di AE/FTE e quelli che hanno avuto una diagnosi postnatale.

Brosens E, Ploeg M, van Bever Y, et al. Clinical and etiological heterogeneity in pa-tients with tracheo-esophageal malforma-tions and associated anomalies. Eur J Med Gene 2014;57:440-52.

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** Nelle ultime decadi è molto migliora-to il tasso di sopravvivenza a 25 anni dei pazienti affetti da forme non isolate di AE/FTE: è stato calcolato essere dell’85,1%.

Coran AG. Redo esophageal surgery: the diagnosis and management of recurrent tracheoesophageal fistula. Pediatr Surg Int 2013;29:995-9.

Davenport  M,  Rothenberg  SS,  Crab-be DC, et al. The great debate: open or thoracoscopic repair for oesophageal atresia or diaphragmatic hernia. J Pediatr Surg 2015;50:240-6.

** Articolo di dibattito fra esperti che confrontano le proprie opinioni su approc-cio toracoscopico e toracotomico per la correzione dell’AE/FTE ed ernia diafram-matica.

Grosfeld JL, et al. Pediatric Surgery. Phi-ladelphia: Mosby Elsevier 2006.

Holcomb GW 3rd, Rothenberg SS, Bax

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Nuove strategie chirurgiche nel trattamento dell’atresia dell’esofago

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Holcomb GW 3rd. Thoracoscopic surge-ry for esophageal atresia. Pediatr Surg Int 2017 Jan 7.

** Presentazione della casistica persona-le e ampia revisione della letterature con di-scussione degli aspetti ancora controversi.

**Iwańczak BM, Kosmowska-Miśków A, Kofla-Dłubacz A, et al. Assessment of clini-cal symptoms and multichannel intraluminal impedance and pH monitoring in children after thoracoscopic repair of esophageal atresia and distal tracheoesophageal fistula. Adv Clin Exp Med 2016;25:917-22.

** Fisiopatologia, tecnica diagnostica e importanza del follow-up della MRGE nei pazienti con esiti di AE/FTE.

Fonte J, Barroso C, Lamas-Pinheiro R, et al. Anatomic thoracoscopic repair of eso-phageal atresia. Front Pediatr 2016;4:142.

** Presentazione e discussione della tecnica chirurgica, che prevede il risparmio della vena Azygos durante l’intervento di correzzione di AE/FTE.

Kunisaki SM, Bruch SW, Hirschl RB, et al. The diagnosis of fetal esophageal atre-sia and its implications on perinatal outco-me. Pediatr Surg Int 2014;30:971-7.

** Dalla letteratura emerge che il so-spetto ecografico prenatale di AE/FTE si as-socia a un elevato numero di falsi positivi, la conferma alla nascita si associa invece frequentemente a forme long gap e prolun-gata ospedalizzazione.

Lal DR, Gadepalli SK, Downard CD, et al.

Perioperative management and outcomes of esophageal atresia and tracheoesopha-geal fistula. J Pediatr Surg 2016; Dec 5. pii: S0022-3468(16)30597-8.

Pepper VK, Boomer LA, Thung AK, et al. Routine bronchoscopy and fogarty catheter occlusion of tracheoesophageal fistulas. J Laparoendosc Adv Surg Tech A 2017;27:97-100.

** La broncoscopia preoperatoria con in-cannulamento della FTE è una manovra sicu-ra che facilita il chirurgo durante l’intervento.

Marseglia L, Manti S, D’Angelo G, et al. Gastroesophageal reflux and congenital gastrointestinal malformations. World J Gastroenterol 2015;21:8508-15.

Pierro A. Hypercapnia and acidosis du-ring the thoracoscopic repair of oesopha-geal atresia and congenital diaphragmatic hernia. J Pediatr Sur. 2015;50:247-9.

** Considerazioni circa l’ipercapnia e l’a-cidosi in corso di toracoscopia.

Pini Prato A, Carlucci M, Bagolan P, et al. A cross-sectional nationwide survey on esophageal atresia and tracheoesophageal fistula. J Pediatr Surg 2015;50:1441-56.

Rinkel R, Van Poll D, Sibarani-Ponsen R, et al. Bronchoscopy and fogarty balloon inser-tion of distal tracheo-oesophageal fistula for oesophageal atresia repair with video illustra-tion. Ann Otol Rhinol Laryngol 2017;126:6-8.

** La broncoscopia preoperatoria con incannulamento della FTE è una manovra sicura che facilita sia l’anestesista nella ventilazione del paziente che il chirurgo du-rante l’intervento.

Smithers CJ, Hamilton TE, Manfredi MA, et al. Categorization and repair of re-

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** La broncoscopia preoperatoria non sempre permette di identificare un’even-tuale FTE prossimale.

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** Studio del reflusso gastro-esofageo nei pazienti con esito di AE/FTE.

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** Revisione della letteratura e metanali-si, che confronta approccio toracoscopico e toracotomico.

Zani A, Jamal L, Cobellis G, et al. Long-term outcomes following H-type tracheoe-sophageal fistula repair in infants. Pediatr Surg Int 2017;33:187-90.

Corrispondenza

Salvatore Fabio ChiarenzaOspedale San Bortolo, via Rodolfi 36, 36100 Vicenza - E-mail: [email protected]

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aprile-giugno 2017 • Vol. 47 • N. 186 • Pp. 150-159 Prospettive in Pediatria

Frontiere

La trombofilia in età pediatrica

Maurizio Margaglione Elvira Grandone

Genetica Medica, Dipartimento di Medicina Clinica e

Sperimentale, Università di Foggia, Unità di Emostasi e

Trombosi, “Casa Sollievo della Sofferenza”, San Giovanni

Rotondo, Foggia

La sensibilità al tema della trombosi in età pediatrica è considerevolmente aumentata negli ultimi anni, anche grazie all’osservazione di un maggior numero di eventi dovuto all’inten-sità di trattamento dei pazienti pediatrici ospedalizzati. Dunque, la necessità di identificare fattori di rischio trombofilico ha determinato un’aumentata richiesta di esami diagnostici in pazienti pediatrici con trombosi o bambini asintomatici provenienti da famiglie trombofili-che. I fattori di rischio trombofilici ereditari definiscono una tendenza geneticamente de-terminata a sviluppare episodi trombotici, quasi esclusivamente venosi. Sebbene la trom-bofilia ereditaria costituisca un fattore di rischio nei bambini con tromboembolia idiopatica e nella popolazione pediatrica con concomitanti fattori di rischio clinico, le linee guida per la diagnosi, il trattamento e la prevenzione nella popolazione pediatrica sono per lo più estrapolate da quanto stabilito per la popolazione adulta, nonostante l’unicità del sistema emostatico nella prima infanzia. Sulla base di queste problematiche, saranno discussi i vantaggi e i limiti dei test per la identificazione dei fattori di rischio trombofilico nella popo-lazione pediatrica, cercando di definire gli ambiti clinici in cui può essere maggiormente utile la consapevolezza di una predisposizione a un evento tromboembolico.

Riassunto

SummaryThrombosis is increasingly recognised in the paediatric population, thanks to the in-creased intensity of treatment of hospitalized paediatric patients. As a result, the impor-tance of identifying the presence of thrombophilic risk factors has resulted in increased demand for diagnostic testing in paediatric patients with thrombosis or asymptomatic children from thrombophilic families. The hereditary thrombophilic risk factors define a trend that is genetically determined to develop venous thrombotic events, almost exclu-sively. Although inherited thrombophilia constitutes a risk factor in children with idiopathic thromboembolism and in children with concomitant clinical risk factors, guidelines for diagnosis, treatment and prevention in the paediatric population are mostly extrapolated from studies in the adult population, despite the uniqueness of their haemostatic system. Based on these issues, this article addresses the advantages and limits of laboratory tests for identification of thrombophilic risk factors in children, trying to define the clinical set-tings where awareness of predisposition to thromboembolic events can be most useful.

Metodologia della ricerca bibliograficaTutti gli studi rilevanti pubblicati nella letteratura scien-tifica in lingua inglese sono stati cercati in MEDLINE, utilizzando una combinazione di più termini (mesh) nel modo seguente: “thrombosis/thromboembolism” AND (“pediatrics” OR “children” OR “newborns” OR “neona-tal”) AND (“epidemiology” OR “prevalence” OR “throm-bophilia” OR “gene” OR “risk factor”). Sulla base della lettura estratta, i lavori completi sono stati selezionati, rivisti e quelli in cui erano presenti i criteri di selezione sono stati mantenuti. Inoltre, sono stati esaminati an-che tutti i riferimenti bibliografici dei lavori selezionati.

Questo processo è stato eseguito in modo iterativo, fino a quando è stato trovato alcun nuovo studio adeguato.

IntroduzioneLa trombosi è ancora considerata un evento raro in età infantile e, di conseguenza, la conoscenza degli aspetti diagnostici, della relativa terapia e profilassi è limitata. Negli ultimi anni, tuttavia, è aumentata la consapevo-lezza che sia la trombosi arteriosa che il tromboem-bolismo venoso (TEV) hanno un impatto significativo sulla mortalità, la morbidità e il normale sviluppo del bambino. Inoltre, la maggiore incidenza di trombosi in età infantile, è da ascriversi, almeno in parte, ai pro-

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La trombofilia in età pediatrica

gressi nel trattamento medico dei pazienti in condizioni critiche (Raffini et al., 2009). In particolare, il crescente uso di terapie complesse (cateteri centrali e procedu-re interventistiche innovative nel trattamento di neonati prematuri, di neonati e bambini più frequentemente af-fetti rispettivamente da difetti cardiaci complessi e ne-oplasie), che aumentano la sopravvivenza di bambini con malattie precedentemente incurabili, comporta il ri-schio di complicanze iatrogene. Inoltre, il miglioramen-to della modalità di diagnosi non invasiva, una maggio-re consapevolezza e, eventualmente, i cambiamenti nella prevalenza di condizioni associate giustificano l’aumento dei casi di trombosi. Sebbene in alcune fasce di pazienti in età pediatrica sia maggiormente prevalente, la trombosi è ancora una condizione rara rispetto a quanto si osserva negli adulti. Le differenze fisiologiche nel sistema emostatico del bambino rispetto a quelle dell’adulto non vengono adeguatamente considerate nella gestione clinica de-gli eventi e la scarsità di dati consistenti in popolazioni pediatriche complica ulteriormente la situazione.

EpidemiologiaNella popolazione generale, circa 1 bambino su 10.000 va incontro a un episodio trombotico. La prevalenza dell’evento è molto più bassa di quanto si registra nella popolazione adulta ma, se si prende in considerazione la popolazione pediatrica ospedaliera, essa si attesta a 1 caso ogni 200 bambini circa. Pertanto, la trombosi rappresenta un problema clinico importante nei bambi-ni, soprattutto in coloro che sono ricoverati in ospedale (Kuhle et al., 2004). L’età nella quale si manifestano più frequentemente le trombosi sono la prima infanzia e l’adolescenza (Stein et al., 2004).Per quanto riguarda le trombosi arteriose, gli eventi cerebrovascolari sono di gran lunga i più frequenti. Anche se durante l’infanzia l’ictus cerebrale si verifi-ca in 3-8 casi su 100.000 bambini, la prevalenza nel periodo perinatale è molto più alta, verificandosi in almeno 1 su 3500 neonati (25-35 per 100.000 nati vivi) (van der Aa NE et al., 2014; Giroud et al., 1995).

Anche il TEV è una malattia rara in età pediatrica e ha un’incidenza annuale riportata pari a 0,07-0,14 casi ogni 10.000 bambini, che sale a circa 5,3 casi ogni 10.000 bambini ricoverati in ospedale e l’incidenza sembra essere in aumento nel corso degli ultimi de-cenni (Monagle et al., 2000; Sandoval et al., 2008). Infine, il rischio di recidiva è più basso di quanto si osserva nella popolazione adulta ed è di circa il 3% in età neonatale e 8% nell’intera popolazione pediatrica (Monagle et al., 2000; van Ommen et al., 2001). Le ragioni per le quali la prevalenza del fenomeno trombotico sia più bassa nella popolazione pediatrica rispetto a quella adulta non sono del tutto chiare. La presenza di un endotelio vascolare intatto, la minore capacità di generare trombina e livelli elevati di α-2-macroglobulina, un inibitore della trombina, sono tutti

possibili fattori che dipendono dall’età e che possono svolgere un’azione di modulazione del rischio trombo-tico nel bambino (Heidl et al., 2006). In età pediatrica, il fenomeno trombotico ha due picchi d’incidenza: il pri-mo picco corrisponde al periodo perinatale/neonatale, con la più alta incidenza, e il secondo si osserva negli adolescenti, con una maggiore frequenza nelle ragaz-ze (Kuhle et al., 2004; Stein et al., 2004). L’incidenza relativamente alta nei neonati – il 12% degli episodi trombotici si verifica nella prime 4 settimane di vita – rispetto ai bambini più grandi può essere dovuta alla presenza di un ematocrito maggiore e alla maggiore immaturità del sistema emostatico nei neonati, cau-sata prevalentemente dalla generale diminuzione dei livelli sia dei fattori della coagulazione che dei loro inibi-tori in questa fascia di età, ad eccezione del fattore VIII (FVIII) e del fattore di vonWillebrand (VWF), che sono normali o anche elevati (Monagle et al., 2006). Negli adolescenti l’incidenza è uguale a quella dei giovani adulti, probabilmente a causa dell’assetto ormonale, l’uso di contraccettivi o la gravidanza in giovani donne, l’obesità e il fumo di sigaretta (Stein et al., 2004).

Presentazione clinicaL’ictus ischemico arterioso si manifesta nei neonati principalmente con crisi epilettiche e anomalie del tono muscolare, mentre nei bambini più grandi è l’e-miparesi il segno neurologico più frequente (Steinlin et al., 2005). La carenza, acquisita o congenita grave, di proteina S e proteina C rappresenta una condizio-ne che coinvolge sia la microcircolazione, che i vasi arteriosi e può manifestarsi con sintomi caratteristici quali la necrosi degli strati profondi della cute (pur-pura fulminans), la cecità a causa dell’occlusione dei vasi della retina e l’embolia arteriosa seguita da ne-crosi delle estremità distali o di interi arti.Dolore, gonfiore e arrossamento delle estremità sono, invece, sintomi tipici di TEV acuto. La trombosi della vena cava inferiore si può manifestare con la presenza di vene cutanee prominenti ed eventualmente di disfun-zione epatica o renale, a seconda del sito e dell’esten-sione del trombo. La trombosi della vena cava supe-riore comporta cianosi e gonfiore del collo, della testa e della porzione superiore del torace con la presenza di vene collaterali importanti e, in fase avanzata, può causare insufficienza cardiaca acuta. La trombosi della vena porta, nella maggior parte dei casi imputabile alla presenza di cateteri, e quella della vena renale, che si manifesta molto frequentemente con ematuria, posso-no provocare compromissione funzionale e, rispettiva-mente, insufficienza epatica e renale. La presenza di dolore toracico acuto e dispnea può essere indicativa di embolia polmonare, mentre la presenza di cefalea acuta, deficit visivo, convulsioni e segni di congestione venosa cerebrale può indicare una trombosi venosa di uno o più seni venosi cerebrali. Segni e sintomi di un’occlusione trombotica del catetere venoso centrale

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M. Margaglione, E. Grandone

(CVC) sono la perdita della pervietà del CVC stesso, il verificarsi di sepsi CVC-correlate, la formazione di circoli collaterali che possono interessare il torace, il collo e la testa con la relativa necessità di una terapia trombolitica locale o la sostituzione del CVC.

Trombofilia - nota semanticaGeneralmente il termine “trombofilia” è utilizzato per descrivere un gruppo di condizioni in cui vi è un mag-giore rischio di andare incontro a eventi tromboembo-lici, talvolta ripetuti, che può essere transitorio o du-rare per un lungo periodo di tempo, anche per tutta la vita. La trombofilia include due situazioni differenti, frequentemente coesistenti: 1) fenotipo clinico: presen-za di un’anamnesi personale e/o familiare positiva per eventi tromboembolici; 2) fenotipo biochimico: presen-za di fattori di rischio genetico, quali una carenza di uno degli inibitori naturali della coagulazione (antitrom-bina, proteina C e S), lo stato di portatore di uno o più alleli (variante R506Q del fattore V della coagulazione, conosciuto anche come fattore  V Leiden, e variante G20210A della protrombina), oppure una condizione acquisita come la presenza stabile nel tempo di anti-corpi antifosfolipidi (lupus anticoagulant, anticorpi anti-cardiolipina e anticorpi anti-beta2-glicoproteina I).

Fattori di rischioLa trombosi, sia arteriosa che venosa, è un fenome-no multifattoriale e, come per gli adulti, anche in età pediatrica le cause possono essere schematicamen-te suddivise in tre gruppi (la cosiddetta triade di Vir-chow): la presenza di riduzione del flusso (stasi), il verificarsi di un danno all’endotelio e una condizione di ipercoagulabilità (Chalmers, 2006). La trombofilia è di solito classificata in due tipi: acqui-sita ed ereditaria. Nella trombofilia acquisita il maggior rischio trombotico è generalmente dovuto a una causa specifica non presente dalla nascita, ma intervenuta successivamente, come gli anticorpi antifosfolipidi. Vi-ceversa, le cause di trombofilia ereditaria rappresenta-no una condizione di natura genetica che porta a un aumento del rischio di trombosi per tutta la vita di una persona (Martinelli et al., 2014). Tale incremento è da ritenersi per lo più di modesta importanza e spesso non determina un diverso atteggiamento nella gestione clini-ca del bambino. Eventuali condizioni cliniche predispo-nenti, quali il posizionamento di un CVC, periodi prolun-gati di riposo a letto dopo un intervento chirurgico, un trauma a un arto inferiore, o la presenza di un tumore, possono essere le condizioni “scatenanti” l’evento.

Trombofilia ereditariaInibitori naturali della coagulazioneAlcuni dei fattori della coagulazione, una volta at-tivati, svolgono un’azione enzimatica del tipo serin-

proteasico, modulata da diversi inibitori plasmatici. Gli inibitori naturali circolanti più importanti del sistema della coagulazione sono l’antitrombina, la proteina C e la proteina S. Il deficit ereditario di una di queste tre proteine si trova più frequentemente nei pazien-ti che si presentano con trombosi venosa profonda giovanile (prima dei 45  anni di età) e nella popola-zione pediatrica, soprattutto adolescenti. L’antitrombi-na (AT) è un inibitore delle serin-proteasi che svolge un ruolo importante nel processo di coagulazione grazie all’interazione con il suo cofattore, eparina o sostanze eparinosimili presenti sulla superficie delle cellule endoteliali, come i glicosoaminoglicani, che ne accelerano l’azione inibente (Fig.  1). L’antitrombina inattiva la trombina e il fattore X formando un com-plesso covalente ed è in grado di inattivare anche i fattori IX e XI. La proteina C è attivata dalla trombina sulla superficie endoteliale grazie all’interazione della trombina con trombomodulina. La forma attivata della proteina C inattiva proteoliticamente i fattori Va e VIIIa, sulla superficie cellulare delle piastrine e delle cellule endoteliali, riducendo così la generazione di trombina e le successive fasi della coagulazione (Fig. 2). Per svolgere la sua azione inibente, la proteina C neces-sita di un co-fattore, la proteina S, un’altra molecola vitamina K-dipendente. La riduzione di uno degli ini-bitori circolanti naturali della coagulazione comporta uno squilibrio tra fattori ad azione procoagulante e fattori anticoagulanti con un conseguente aumentato rischio trombotico.

Fattore V R506Q Una transizione (da guanina ad adenina) nel nucleo-tide 1691 del gene che codifica per il fattore V com-

Figura 1. Meccanismo d’azione anticoagulante dell’anti-trombina (AT). L’antitrombina, grazie all’azione di molecole ad attività eparinosimile come i glicosoaminoglicani (GAG), inattiva la gran parte dei fattori della coagulazione ad attività enzi-matica, quali la trombina (FII) e il fattore X (FX).

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La trombofilia in età pediatrica

porta la sostituzione di un’arginina, in posizione 506, con una glutammina. Questo porta alla formazione del fattore V di Leiden (città dei Paesi Bassi nella cui università è stato identificato), che è una variante del gene non suscettibile di inattivazione, per scissione in posizione 506, da parte della proteina  C attivata (Fig.  3). La conseguenza di questa variante è uno stato di ipercoagulabilità dovuta alla maggiore dispo-

nibilità di fattore  V attivato all’interno del comples-so protrombinasi con aumento della generazione di trombina. Inoltre, il fattore V attivato svolge un ruolo di cofattore, insieme con la proteina S, della protei-na  C attivata nella degradazione del fattore  VIII. La presenza del fattore V R506Q in eterozigosi è la con-dizione ereditaria di rischio trombotico più frequente nella popolazione caucasica, con una prevalenza del 4% circa nella popolazione generale, ma il rischio as-soluto è nettamente inferiore a quello associato alla presenza di un deficit di uno degli anticoagulanti cir-colanti naturali, soprattutto un deficit di antitrombina, che rappresenta la trombofilia ereditaria a maggior rischio trombotico (Young et al., 2008).

Protrombina G20210ALa protrombina (fattore II) è il precursore della trom-bina, il prodotto finale della cascata coagulativa che svolge sia attività procoagulante, che anticoagulante e antifibrinolitica; quindi un disturbo che coinvolge la trombina può comportare lo squilibrio di moltepli-ci meccanismi dell’emostasi. La sostituzione di una guanina con un’adenina, nel nucleotide 20210, nella regione non tradotta 3’ del gene della protrombina, de-termina livelli proteici maggiori e una maggiore attività in circolo (Fig.  4). La mutazione G20210A del gene della protrombina in eterozigosi è relativamente fre-quente, con una prevalenza del 2-3% nella popolazio-ne generale, ed è associata a un aumentato rischio di trombosi venosa profonda, anche se in misura minore rispetto a quello associato al fattore V R506Q (Young et al., 2008).

Figura 2. Meccanismo d’azione anticoagulante della pro-teina C attivata (PCa). La proteina C (PC) si lega al suo recettore specifico pre-sente sulla superficie delle cellule endoteliali (EPCR) e vie-ne attivata dalla trombina (FII), a sua volta adesa al proprio recettore sulle cellule endoteliali, la trombomodulina (TM). Successivamente, la proteina C attivata, insieme al suo cofattore, la proteina S (PS), è in grado di inattivare sia il fattore V attivato (FVa) e il fattore VIII attivato (FVIIIa).

Figura 3. Fattore V R506Q. La presenza di una sostituzione dell’arginina (R) in posi-zione 506 con una glutammina (Q) coinvolge uno dei siti di clivaggio del fattore V attivato da parte del complesso proteina C attivata-proteina S, rendendolo resistente all’a-zione inibitoria.

Figura 4. Protrombina G201210A. La presenza, nella regione a valle della regione codificante del gene della protrombina, di una adenosina (A) invece che di una guanosina (G) comporta una maggiore stabi-lità ed emivita del RNA e, di conseguenza, una maggiore produzione di proteina con livelli in circolo più alti di pro-trombina (FII).

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Il fattore etàCome si è già accennato, le condizioni cliniche predi-sponenti la trombosi e gli stati trombofilici, sia eredi-tari che acquisiti, possono essere classificati avendo come riferimento la triade di Wirchow: presenza di stasi, danno all’endotelio e ipercoagulabilità. A secon-da dell’età, epoca neonatale o bambino/adolescente, la prevalenza e l’importanza delle singole cause va-ria; pertanto, queste verranno brevemente illustrate in relazione all’epoca di vita (Tab. I).

Epoca neonataleCatetere venoso centraleA causa del ridotto calibro dei vasi nel neonato, l’utiliz-zo di un CVC provoca una significativa alterazione del flusso ematico e, di conseguenza, il rischio di stasi e successiva trombosi. Il posizionamento di un CVC è di per sé causa di danno endoteliale nel sito d’inser-zione, così come la presenza nel lume intravascolare di materiale esogeno, benché inerte. Nella popolazio-ne pediatrica, la presenza di un CVC è tra i fattori di rischio maggiormente frequenti, interessando almeno il 30% dei casi di TEV.

Cardiopatie congenite Nei neonati con cardiopatie congenite gravi, qua-li la trasposizione delle grandi arterie, l’atresia della

tricuspide e la tetralogia di Fallot, vi è un significati-vo aumento del rischio trombotico, sia arterioso che venoso. Anche la correzione chirurgica o protesica è gravata da un incremento del rischio trombotico.

SepsiLa sepsi rappresenta uno dei fattori di rischio più fre-quenti ed è presente in circa un terzo dei casi di trom-bosi in epoca neonatale.

DisidratazioneUna condizione di disidratazione s’instaura frequente-mente nel neonato pretermine o con patologia, a cau-sa della restrizione dei fluidi, della aumentata perdita di liquidi con la traspirazione o di uno stato diarroico. Il successivo aumento dell’ematocrito rappresenta una condizione di alterato flusso ematico che predispone a un maggior rischio di trombosi.

Nutrizione parenterale Il neonato pretermine o con patologie peri-natali viene frequentemente nutrito per via parenterale ed è que-sto un fattore di rischio per trombosi, probabilmente per la presenza di destrosio ed elevate concentrazioni di calcio.

Deficit di uno degli inibitori naturali della coagulazioneIl verificarsi di uno di questi deficit (carenza di anti-trombina, proteina C o proteina S) può essere dovuto a cause acquisite o genetiche ed è un riscontro abba-stanza raro nel neonato.

Fattore V R506Q e protrombina G20210AEntrambe le varianti sono frequenti, essendo rispet-tivamente presenti nel 4% e nel 3% dei soggetti di discendenza europea, ma conferiscono un debole in-cremento del rischio di TEV. Non sono associate a un incremento del rischio di trombosi arteriosa.

Bambino/adolescenteCause anatomicheTra le cause anatomiche che più frequentemente si ritrovano associate con TEV, si annoverano le ano-malie congenite della vena cava inferiore (atresia parziale o completa e ipoplasia), la compressione estrinseca della vena iliaca di sinistra (per esempio da parte dell’arteria iliaca), la sindrome dello stretto superiore (compressione della vena succlavia da par-te di anomalie ossee, per esempio della prima costo-la, o di fasci muscolari). In quest’ultima condizione, nota anche come sindrome di Paget-Schroetter, lo spazio anatomico, in cui una parte della vena succla-via risiede, è congenitamente stretto. Se è presente, in associazione, un’ipertrofia del muscolo succlavio, come ad esempio può verificarsi in caso di sforzo muscolare prolungato della parte superiore del cor-

Tabella I. Condizioni cliniche di rischio per trombosi.

Associate al peripartum

Asfissia neonataleDistress respiratorio

Nutrizione parenteraleInfezioni

Enterocolite necrotizzanteDisidratazione

Sindrome nefrosica congenita

Anomalie anatomiche congenite

Anomalie della vena cava inferiore

Sindrome dello stretto superiore

Procedure mediche invasive

Cateterismo venoso e arteriosoChirurgia

Trapianto renaleProlungata immobilizzazione

Malattie in fase acuta SepsiDisidratazione

Sindrome nefrosicaMalattie infiammatorie

Malattie croniche NeoplasieNefropatie

Malformazioni cardiacheMalattie metaboliche

Malattie autoimmunitarie

Farmaci AntineoplasticiCortisonici

Estroprogestinici

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La trombofilia in età pediatrica

po (per esempio nel nuoto agonistico), la vena viene particolarmente compressa e in quella sede può veri-ficarsi più facilmente una trombosi.

Catetere venoso centraleAnalogamente a quanto avviene in età neonatale, anche nel bambino e nell’adolescente la presenza di un CVC comporta sia un’importante alterazione del flusso venoso che un danno endoteliale.

Cardiopatie congeniteLa correzione chirurgica, spesso con protesi vasco-lari, può non essere in grado di correggere del tutto le anomalie di flusso, causando il permanere di tur-bolenze che rappresentano un importante fattore di rischio di trombosi.

NeoplasieLa presenza di una neoplasia rappresenta uno dei più comuni e importanti fattori di rischio di TEV nel bambi-no e nell’adolescente. Il rischio è maggiore in caso di leucemia mieloide acuta, linfoma e sarcoma, più basso per tumori cerebrali. Anche le terapie mediche posso-no contribuire ad aumentare il rischio di TEV, come nel caso dell’uso di asparaginasi nella leucemia mieloide acuta, probabilmente mediante una riduzione degli ini-bitori naturali della coagulazione (antitrombina).

Sindrome nefrosicaL’aumento del rischio di TEV nella sindrome nefrosica è multifattoriale e a esso contribuiscono la elimina-zione per via urinaria degli inibitori naturali della co-agulazione (antitrombina, proteina C e proteina S) e della fibrinolisi, l’incremento dell’attività procoagulan-te (aumento dei livelli di fibrinogeno, fattore V e fatto-re VIII), la piastrinosi e l’iperaggregabilità piastrinica. Tutti questi fenomeni conducono a una condizione di sbilanciamento dell’equilibrio emostatico con un sen-sibile aumento del rischio di TEV.

Nutrizione parenteraleLa nutrizione parenterale viene spesso utilizzata in caso di enteropatia con perdita di proteine e muco-siti gravi secondarie a chemio- e radioterapia. Ana-logamente a quanto si osserva nel neonato, le alte concentrazioni di destrosio e di calcio favoriscono l’in-staurarsi di una condizione protrombotica.

DisidratazioneUna condizione di disidratazione si può verificare in caso di chetoacidosi nel diabete mellito tipo I, poliuria nel diabete insipido, grave perdita di liquidi per diar-rea, febbre o ustioni.

InfezioniDurante le infezioni, soprattutto se gravi e prolunga-te, come per es. nella sepsi, può verificarsi uno stato di ipercoagulabilità essenzialmente determinato da

un’attivazione della coagulazione (via estrinseca), a cui si associa un danno endoteliale determinato dal rilascio di notevoli quantità di endotossine e varie in-terleuchine. Infezioni a livello dei seni frontali e, so-prattutto, dell’orecchio medio e della rocca petrosa rappresentano un’importante causa di trombosi dei seni venosi cerebrali.

Anticorpi antifosfolipidiLa presenza di anticorpi antifosfolipidi (lupus antico-agulant, anticorpi anticardiolipina e anticorpi anti-be-ta2-glicoproteina I) può rappresentare un importante fattore di rischio trombotico, soprattutto in età adole-scenziale, più raramente in epoca neonatale. La pre-senza degli anticorpi può essere isolata o associata a malattie autoimmunitarie. Il rischio trombotico è maggiore nel caso di una positività ad alto titolo (de-finita come la presenza di un titolo anticorpale di IgG e/o di IgM > 40 GPL o MPL) e se sono presenti due o tre delle tipologie di anticorpi. Inoltre, il soggetto con anticorpi antifosfolipidi ha un rischio aumentato di trombosi sia arteriosa, che venosa. Per fare una diagnosi di positività è necessario che la presenza degli anticorpi sia confermata di nuovo a distanza di almeno 12 settimane dalla loro identificazione. In-fatti, gli anticorpi antifosfolipidi sono frequentemente indotti da infezioni batteriche (streptococco, stafilo-cocco, gram-negativi e Mycoplasma pneumonia), più spesso virali (parvovirus B19, citomegalovirus, varicella zoster) e possono essere transitori, non rappresentando in questo caso, di solito, un fattore di rischio trombotico.

Cause ereditarieLa presenza di una condizione di ipercoagulabilità di natura genetica (deficit di antitrombina, proteina  C, proteina S, fattore V R506Q, protrombina G20210A) si riscontra in una percentuale di casi non differente da quanto si osserva nella popolazione adulta, ma ra-ramente rappresenta l’unico fattore di rischio in caso di trombosi. Molto più spesso, invece, contribuisce all’aumento del rischio dovuto alla presenza di altri fattori (neoplasia, CVC ecc.).

FamiliaritàAnche in età adolescenziale e soprattutto nelle ragaz-ze (Zöller et al., 2011), un’anamnesi familiare positiva è un importante fattore di rischio per TEV, in particola-re quando sono presenti in famiglia più di un parente di 1° grado o se l’evento è avvenuto in epoca giovani-le (< 50 anni). Soltanto in una parte di queste famiglie è possibile identificare uno o più fattori di rischio trom-bofilico, la cui presenza si associa all’evento clinico, mentre nelle altre non è possibile evidenziare alcuna trombofilia ereditaria. Perciò, il rischio conferito da una storia familiare positiva non è sempre imputabile alla presenza in famiglia di una trombofilia ereditaria e rappresenta un fattore di rischio autonomo.

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cerebrovascolari, non vi è alcuna indicazione all’im-piego di test di laboratorio per verificare la presenza di un fattore di rischio trombofilico ereditario in caso di trombosi arteriose (Raffini, 2008). Nonostante questo, i piccoli pazienti sono a volte studiati dopo un evento occlusivo arterioso. Poiché sia il trattamento, che la prevenzione secondaria dipendono dai fattori di ri-schio cardiovascolare stabiliti, i test per la ricerca di fattori di rischio trombofilici ereditari non sono, in ge-nerale, raccomandati e la loro esecuzione va valutata caso per caso (O’Brien, 2015).

Utilità nella terapia e nella profilassi Pertanto, lo screening per l’identificazione di un fattore di rischio trombofilico ereditario o acquisito non è ge-neralmente raccomandato, perché la consapevolezza di un fattore di rischio non modifica significativamente la decisione circa la profilassi primaria del tromboemboli-smo venoso, anche perché può determinare trattamen-ti non necessari e provocare preoccupazioni inutili per l’intera famiglia (Baglin et al., 2010; Thom et al., 2014).Al contrario, sottogruppi specifici di pazienti possono trarre beneficio dallo screening (Raffini, 2008). Nei pazienti con trombosi spontanea, e magari con un’a-namnesi familiare positiva per episodi trombotici in età giovanile (< 50 anni), può essere particolarmente utile eseguire uno screening di laboratorio per l’iden-tificazione di un fattore di rischio trombofilico eredita-

Test di laboratorio/geneticiIl ruolo patogenetico dei fattori di rischio ereditari è chiaro e ben definito e l’entità del rischio è sovrappo-nibile a quanto si riscontra nella popolazione adulta. Cionondimeno, nel 70% dei casi di trombosi in età pediatrica, è presente una condizione clinica predi-sponente, come la presenza di un CVC (fattore con maggior prevalenza), neoplasie, cardiopatie congeni-te e sindrome nefrosica (Klaassen et al., 2015).

Utilità diagnosticaIn generale, l’esecuzione di test di laboratorio per ve-rificare la presenza di un fattore di rischio trombofilico ereditario o acquisito (anticorpi antifosfolipidi) è utile se l’esito può determinare un differente atteggiamen-to terapeutico (Ross, 2004). Infatti, benché i fattori di rischio trombofilico ereditari siano una causa di TEV in età pediatrica e la loro determinazione venga ef-fettuata per meglio comprendere la patogenesi di un episodio trombotico, il loro ruolo cambia a seconda del paziente (Tab. II). Quasi tutti i casi di trombosi in età pediatrica si verificano in presenza di più di un fattore di rischio e solo in una piccola parte dei casi (nel 5% circa di TEV) non è possibile identificare una condizione clinica predisponente (cosiddetta trombo-si spontanea). Benché tali fattori siano stati identificati con una maggior prevalenza in neonati con ischemie

Tabella II. Utilità diagnostica dei test trombofilici di laboratorio.

Caratteristiche cliniche Utilità Motivo Commenti

Bambino asintomatico con anamnesi familiare positiva per TEV.

Alcuna Assenza di dati a supporto. Possibili effetti negativi psicologici nella famiglia.

Neonato o bambino senza TEV con prevista procedura invasiva.

Alcuna Assenza di dati a supporto. Possibili effetti negativi psicologici nella famiglia.

Neonato o bambino con TEV e condizione clinica predisponente (CVC, neoplasie ecc.)

Alcuna Dati negativi da studi clinici. Possibili effetti negativi psicologici nella famiglia.

Neonato o bambino con TEV (o ictus) senza una condizione clinica predisponente.

Indicato Identificazione di trombofilie a elevato rischio (deficit di inibitori, deficit combinati).

Possibile importanza per il rischio di recidiva.

Adolescente con TEV e condizione clinica predisponente (sindrome nefrosica, neoplasie ecc.)

Non indicato

Assenza di dati a supporto. Possibili effetti negativi psicologici nella famiglia.

Adolescente con TEV in assenza di una condizione clinica predisponente.

Indicato Identificazione di trombofilie a elevato rischio (deficit di inibitori, deficit combinati,

aPL).

Possibile importanza per il rischio di recidiva.

Valutare se anticoagulazione a lungo in

caso di presenza di aPL.

Adolescente asintomatico con anamnesi familiare positiva per TEV

Da valutare caso per

caso.

Presenza di trombofilia ereditaria ad alto rischio (per

esempio deficit di AT).

Possibili interazione con condizioni cliniche

predisponenti (per esempio estroprogestinici).

TEV: tromboembolia venosa, CVC: catetere venoso centrale, AT: antitrombina, aPL: anticorpi antifosfolipidi.

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La trombofilia in età pediatrica

rio. In questo gruppo di soggetti, infatti, l’associazione risulta molto significativa (Ichiyama et al., 2016). In neonati con purpura fulminans, la dimostrazione di una carenza di uno degli inibitori naturali della coagu-lazione è utile nell’approccio terapeutico.

Bilancio costo/beneficio Una delle ragioni più importanti che giustificano la ri-cerca di un fattore di rischio trombofilico in un bambi-no con trombosi è la possibilità d’identificare i pazienti ad alto rischio di TEV ricorrente. In teoria, un pazien-te ad alto rischio potrebbe beneficiare di terapia an-ticoagulante a lungo termine. I bambini con TEV, in assenza di una condizione clinica che ne aumenti il rischio, dovrebbero essere testati per la presenza di anticorpi anti-fosfolipidi e quelli con persistente positi-vità potrebbero giovarsi di una terapia anticoagulante a lungo termine (Chalmers et al., 2011). Ma, analogamente a quanto si verifica nella popolazio-ne adulta, non ci sono evidenze che giustifichino una modifica della durata della terapia anticoagulante cor-relata alla presenza di un fattore di rischio trombofilico ereditario o acquisito (De Stefano et al., 2013). Molto importante sembra essere, invece, l’educazione della famiglia perché siano evitati fattori di rischio protrombo-tico comportamentali, quali l’immobilità, la disidratazio-ne, uno stile di vita sedentario, il sovrappeso e l’obesità. Un potenziale vantaggio dell’eseguire i test per la trombofilia, in pazienti pediatrici con TEV, è la possibi-lità di identificare la presenza di una predisposizione ereditaria in fratelli asintomatici con lo stesso fattore di rischio. L’incidenza di TEV in portatori di deficit di anti-trombina, proteina C e proteina S, è significativamente maggiore di quello di soggetti portatori in eterozigosi del fattore V R506Q o della protrombina G20210A; in-vece, nei rari casi di coesistenza di più di un fattore di rischio trombofilico ereditario la probabilità di TEV è ancor di più incrementata. La presenza in omozi-gosi del fattore V R506Q, o in eterozigosi doppia con la protrombina G20210A, rappresenta una situazione rara ma associata a un rischio maggiore di TEV, pro-babilmente comparabile a quello presente in portatori di deficit di proteina C o proteina S. Questa informazio-ne può essere utile nella gestione futura di episodi e situazioni già di per sé a rischio di TEV (traumatismi, interventi di chirurgia maggiore, soprattutto addomino-pelvica e ortopedica, gravidanza, puerperio e uso di contraccettivi orali). Analogamente, il rischio di recidi-va trombotica è significativamente aumentato in bam-bini con deficit di antitrombina (Limperger et al., 2016).

Consulenza geneticaL’identificazione di un fattore di rischio trombofilico ereditario è indicativa di una condizione genetica che può interessare non soltanto il soggetto studiato, ma anche la sua famiglia con ricadute transgeneraziona-

li, perfino su soggetti non ancora nati. Pertanto, è di fondamentale importanza fornire informazioni cliniche e genetiche del fattore di rischio identificato. Queste condizioni sono trasmissibili con modalità autosomica dominante, cioè ognuno dei figli ha una probabilità del 50% di ereditarle dal genitore, indipendentemente dal sesso. Nessuna di esse, però, costituisce un fattore necessario o sufficiente perché avvenga un episodio di TEV, ma rappresenta una condizione di predisposi-zione o di “suscettibilità” per una malattia complessa e comune, diversa dalla popolazione generale. È, per-tanto, importante fornire alla famiglia interessata una corretta informazione per evitare di provocare reazioni difformi a livello psicologico, nei comportamenti e nelle decisioni importanti dell’interessato, non sempre pro-porzionate al valore dell’informazione offerta dal test di laboratorio. Nel caso di bambini asintomatici, appar-tenenti a famiglie nelle quali vi sia una condizione di rischio ereditario importante (deficit di antitrombina, proteina C, proteina S, omozigosi del fattore V R506Q, combinazione di più fattori), l’atteggiamento consigliato da autorevoli gruppi di esperti è quello di rimandare l’e-secuzione del test fino a quando non sono abbastanza grandi per decidere autonomamente, soppesando i pro e i contro di tale scelta. Questo indirizzo è determina-to, essenzialmente, dal basso rischio assoluto di TEV nei bambini con trombofilia ereditaria (Baglin et al., 2010). Inoltre, nei bambini molto piccoli, e soprattutto nei neonati, la diagnosi di una carenza di antitrombina, proteina C, proteina S può essere molto problematica a causa dell’incompleto sviluppo del sistema emosta-tico nel primo anno di vita e della presenza fisiologica di livelli significativamente più bassi di alcuni inibitori della coagulazione, rispetto a quanto si osserva nella popolazione pediatrica più grande e in quella adulta (Monagle et al., 2006).

Note di terapiaIn assenza di studi clinici randomizzati, la terapia an-ticoagulante impiegata e la sua durata sono basate su raccomandazioni e linee guida adattate da quanto previsto per il paziente adulto (Chalmers et al., 2011; Monagle et al., 2012). Nel caso di un primo episodio trombotico la terapia anticoagulante è somministrata per almeno tre mesi, da sei a 12 mesi nel caso di TEV idiopatico. La decisione sull’estensione della terapia anticoagulante si basa, caso per caso, sulla presen-za di fattori di rischio che condizionano il verificarsi di una recidiva e il rischio emorragico determinato dalla terapia stessa. I neonati sono a volte trattati per perio-di meno lunghi, ad esempio fino alla risoluzione del trombo. L’eventuale proseguimento a lungo termine della terapia anticoagulante, dopo un primo episodio di TEV in portatori di un fattore di rischio trombotico, è ancora oggetto di dibattito.Più che negli adulti, l’uso prolungato di terapia anti-coagulante in una fascia di età a elevata attività fisica

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deve essere ben soppesato contro il rischio di san-guinamento.L’eparina non frazionata, le eparine a basso peso molecolare e gli antagonisti della vitamina K sono i farmaci antitrombotici comunemente utilizzati, mentre la terapia trombolitica è impiegata più frequentemente nei neonati in caso di trombosi arteriose che compor-tino il rischio di morte o amputazione di un arto.Gli antagonisti della vitamina K hanno il vantaggio di essere somministrati per via orale, ma la mancanza di preparazioni pediatriche, la necessità di un frequente monitoraggio dell’INR, la suscettibilità a cambiamenti di dieta, l’impatto delle infezioni intercorrenti e il loro trattamento antibiotico ne comportano una seria limi-tazione all’uso, soprattutto nei bambini molto piccoli. Viceversa, sono preferibilmente utilizzati in bambini di età maggiore, che richiedono una terapia prolungata e in assenza di altre terapie (ad esempio: antitumora-le, antibiotica) che interferiscano con il metabolismo dei farmaci anti-vitamina K. Per evitare un eventuale accumulo, causa di un aumento del rischio emorragi-co, sarebbe, infine, necessario un adeguamento con-tinuo del dosaggio. Le eparine a basso peso molecolare hanno acquisito sempre maggiore importanza rispetto agli altri farma-ci, benché le dosi attualmente raccomandate differi-scano ancora tra i neonati e i bambini più grandi, e

non vi sia alcuna raccomandazione di consenso sulla maggiore efficacia di un’unica somministrazione ri-spetto allo schema che prevede due somministrazioni al giorno. Malgrado i progressi fatti, è necessario ottimizzare l’utilizzo degli anticoagulanti in popolazioni speciali, come neonati e bambini con malattie infiammatorie, e migliorarne la sicurezza durante le procedure invasi-ve (Lyle et al., 2015).

ConclusioniL’utilità dell’esecuzione di test di laboratorio in bam-bini asintomatici, con storia familiare positiva per la presenza di un fattore di rischio trombofilico eredita-rio, è controversa e al momento non vi sono eviden-ze cliniche a supporto di questa pratica. Data l’utilità clinica incerta, occorre considerare con attenzione il potenziale beneficio medico – per es. in bambini con TEV senza fattori di rischio clinico (neoplasie, CVC, sepsi ecc.) – di indagare nei bambini la presenza di un difetto trombofilico ereditabile. Idealmente, nel bambino il test per l’identificazione di trombofilie ere-ditarie deve essere rimandato fino a quando non si raggiunga un’età sufficiente (di solito l’età adulta), af-finché comprenda le implicazioni derivanti dai risultati e possa dare il consenso informato a eseguire i test.

Box di orientamento

• Cosa sapevamo primaGli eventi trombotici arteriosi e venosi durante l’infanzia si verificano prevalentemente in epoca neonatale e in età adolescenziale.

• Cosa sappiamo adessoL’aumento dell’incidenza della trombosi in età infantile è da imputare, almeno in parte, ai progressi nel trat-tamento medico dei pazienti in condizioni critiche. Rispetto a quanto avviene nella popolazione adulta, nel bambino la presenza di fattori clinici coesistenti ha un ruolo più importante dei fattori di rischio trombofilici nella patogenesi della malattia. Nei bambini, in assenza di cause cliniche predisponenti concomitanti, può essere particolarmente utile eseguire uno screening di laboratorio per l’identificazione di un fattore di rischio trom-bofilico. La familiarità per episodi tromboembolici venosi giovanili costituisce un fattore di rischio aggiuntivo.

• Per la pratica clinicaLa ricerca in tutti i bambini di un fattore di rischio trombofilico ereditario o acquisito non è generalmente rac-comandata. L’identificazione di una o più trombofilie è giustificata in caso di tromboembolia venosa idiopatica.

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* Interessante confronto tra differenti li-

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La trombofilia in età pediatrica

Corrispondenza

Maurizio MargaglioneServizio di Genetica Medica, Azienda Ospedaliero-Universitaria “OO.RR.”, viale Pinto, 71122 Foggia - E-mail: [email protected]

nee d’indirizzo elaborate da autorevoli gruppi di esperti che mette in evidenza la notevole discordanza delle raccomandazioni.

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* Analisi delle attuali strategie d’impiego dei farmaci antitrombotici in età pediatrica e possibilità d’implementazione.

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** Raccomandazioni di un gruppo di esperti internazionali, sulla base delle evi-denze degli studi clinici, sulle strategie te-rapeutiche e di profilassi del tromboembo-lismo venoso in pediatria.

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* Disamina interessante e di agevole consultazione delle trombosi in epoca neo-natale e dell’utilità della ricerca di una trom-bofilia congenita.

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* Importante studio in una grande po-polazione pediatrica che descrive i diversi quadri clinici correlati alle differenti sedi di ostruzione trombotica.

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** Vastissimo studio di popolazione che dimostra, anche in età adolescenziale, il ri-schio aumentato di tromboembolia venosa in soggetti con familiari di 1°  grado con pregresso evento trombotico.

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Prospettive in Pediatria

Errata corrige

Articolo “Update sulla diagnosi e trattamento precoce della displasia congenita dell’anca”

Rubrica Ortopedia pediatrica - Prospettive in Pediatria • Vol. 47 • N. 185 (gennaio-marzo 2017) • Pp. 34-41

Nella sezione “La diagnosi clinica”, al paragrafo “La manovra di Ortolani”, la frase:

“Si abduce delicatamente l’anca, ponendo una leggera pressione in direzione antero-posteriore sopra il gran-de trocantere” va corretta come segue:

“Si abduce delicatamente l’anca, ponendo una leggera pressione in direzione postero-anteriore sopra il gran-de trocantere”.

In realtà nell’esecuzione della manovra di Ortolani  la pressione applicata è in direzione postero-anteriore, contrariamente alla manovra di Barlow – successivamente trattata nell’articolo – nella quale la pressione è correttamente descritta in direzione antero-posteriore. Ci scusiamo per l’errore.