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VOGLIO VIVERE COSÌ di ANSOINO ANDREASSI VOGLIOVIVERE 20_1_10 20-01-2010 12:58 Pagina 1

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VOGLIO VIVERE COSÌ

di ANSOINO ANDREASSI

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ANSOINO ANDREASSI è stato uno dei protagonisti della lotta alterrorismo, dalle prime avvisaglie degli anni di piombo alle piùrecenti minacce internazionali, al vertice prima degli apparatidella Polizia di Stato e poi dell’Intelligence.

© 2009 Ansoino Andreassi© 2009 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons-Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Ita-lia. Il testo integrale della licenza è disponibile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/.L’autore e l’editore inoltre riconoscono il principio della gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a norme odirettive che, monetizzando tale servizio, limitino l’accesso alla cultura. Dunque l’autore e l’editore rinunciano a ri-scuotere eventuali introiti derivanti dal prestito bibliotecario di quest’opera. Per maggiori informazioni, si consultiil sito «Non Pago di Leggere», campagna europea contro il prestito a pagamento in biblioteca <http://www.nopa-go.org/>.

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A mia moglie Valeria

e ai nostri figli Guido e Camilla

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A parte gli eventi storici del Novecento e i fatti di cronaca che fanno da sfondo al racconto, i personaggi e le vicende in esso narrate sono frutto della miafantasia. Qualsiasi riferimento ad avvenimenti o persone reali è casuale.

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PREFAZIONE

Questo bel romanzo di Ansoino Andreassi ha molti

protagonisti, uomini e donne le cui storie

variamente si intrecciano fra loro. Il principale

protagonista è, però, il terrorismo degli anni ‘70/80,

che origina, condiziona o accompagna le storie

narrate.

Il terrorismo di sinistra non è un fenomeno

esclusivamente italiano. Alla fine degli anni

Sessanta, gruppi simili alle Brigate rosse (Br) e

Prima linea (Pl) compaiono in altre democrazie

industriali: la Rote Armee Fraktion tedesca, l’Esercitorosso giapponese, i Weather Undergroundstatunitensi, la Nouvelle resistence populaire in

Francia. Tutti questi gruppi nascono come “costole”

di movimenti collettivi e ne riprendono alcune

forme d’azione estremizzandole, per stabilire gli

obiettivi da colpire. Ma il percorso imboccato con la

scelta della lotta armata li porterà a un progressivo

allontanamento da tali movimenti: con un graduale

e definitivo abbandono della logica di intervento

politico, cui si sostituiscono forme anche estreme di

militarizzazione del conflitto.

Caratteristica esclusiva del nostro Paese, peraltro, è

l’aver dovuto registrare un terrorismo di sinistra

che ha raggiunto capacità offensive di entità

decisamente maggiore rispetto a ogni altra

situazione e assai più persistenti nel tempo (le

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“prime” Br durano per circa 15 anni), per di più

con tendenza alla riemersione ciclica, quasi che la

violenza terroristica sia un fiume carsico che non

cessa mai di scorrere, neppure quando la storia

sembra chiusa. Ben si comprende, allora, perché la

letteratura sul terrorismo italiano di sinistra, dopo

i primi anni di silenzio imbarazzato o negligente,

vada sempre più arricchendosi, con saggi, inchieste

giornalistiche, interviste, biografie, documentari…

opere nelle quali la riflessione etico-politica

(quando c’è) si intreccia con la ricostruzione delle

vicende delle principali organizzazioni clandestine

e dei loro militanti.

Gli ex terroristi (non si può non ricordarlo anche

in questa sede) dimostrano uno scarso senso del

pudore tutte le volte che tentano di giustificare

quella stagione come un fatto generazionale o –

peggio – come una fase in cui metodi e momenti

sbagliati compromisero giusti obiettivi. È vero: ci

sono sempre diversi punti di vista attraverso cui

raccontare ogni cosa, e talora ci sono anche più

verità. Ma ci sono verità prevalenti che non possono

in alcun modo essere taciute. E la storia del

terrorismo ha una e una sola verità prevalente: il

dolore causato. Il dolore dei “gambizzati” storpiati,

che a trent’anni di distanza camminano a fatica o

sono costretti all’ennesima operazione chirurgica. E

soprattutto il dolore delle famiglie, che ancora oggi

(e il tormento non avrà fine) pagano il terribile

prezzo di lutti insensati. Questa ineliminabile

verità prevalente impone – certo non il silenzio –

ma sicuramente prudenza e onestà intellettuale.

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Il romanzo di Andreassi affronta i temi del

terrorismo politico di sinistra secondo un’ottica

particolare. Delinea i percorsi di vita dei

protagonisti, sia quelli che sceglieranno di

praticare la violenza politica o saranno ad essa

contigui, sia quelli che si troveranno ad operare su

sponde contrapposte.

Speciale attenzione, intrecciata con considerazioni

critiche che sanno dare ai problemi la giusta

dimensione, è riservata – nei dialoghi e

nell’inquadramento delle situazioni – alla

prospettiva, presente in molti giovani di allora, di

porsi con assoluta radicalità nella vita sociale:

prospettiva che per alcuni finirà per essere una

forte componente della propensione alla lotta

armata.

La stessa attenzione Andreassi dimostra nel

delineare (con ampie e tuttavia sempre interessanti

pennellate) le interazioni politiche nelle città in cui

il fenomeno terroristico andrà poi maggiormente

sviluppandosi, partendo dai fermenti (studenteschi

e operai) che puntavano a una società migliore, ma

che subivano anche la tentazione del radicalismo,

spesso fondato sul richiamo a luoghi comuni che

banalizzano l’intelligenza con “evidenze di

comodo”, bloccando in realtà ogni filtro critico fino

a privilegiare l’impazienza e le scorciatoie

criminali. “Fil rouge” dell’intera narrazione è una

tenera quanto complicata storia d’amore,

tratteggiata con grande sensibilità e dolcezza – fra i

due principali soggetti del romanzo, con una

mescolanza di considerazioni e vicende legate sia

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ad aspetti privati sia a impegni “professionali”

diversissimi (sul piano delle scelte e delle

conseguenze), che conferisce al romanzo un fascino

davvero suggestivo.

Gli anni della guerra e della Resistenza democratica

(contrastata dai fascisti repubblichini) costituiscono

il primo scenario di fondo del romanzo, che poi si

apre alla ricostruzione postbellica, con la

progressiva conquista di un benessere quotidiano

diffuso ma ancora segnato in profondo da gravi

disuguaglianze, con tensioni politiche fortissime che

spesso esplodono in manifestazioni di piazza

duramente represse: mentre il fascismo riemerge

“come un fiume carsico” e si annida subdolamente

“dentro i gangli delle istituzioni, dentro la stessa

Democrazia cristiana, un qualcosa di

profondamente radicato nella borghesia e

funzionale ad essa”. E sull’altro fronte “i comunisti,

con il loro mastodontico apparato di partito,

(finiscono per essere) risucchiati dai giochi della

politica e attratti dal miraggio del potere, pronti al

compromesso pur di raggiungere lo scopo”.

Venate di nostalgia per le piccole, semplici cose, ma

ricche di autenticità e freschezza, sono le

rievocazioni di quel buon “tempo antico” che era

fatto anche di “grattachecche” gustate come

primizie da gourmet, di vino mescolato col brodo

per insaporirlo, di giochi coi tappi delle bottigliette

a rappresentare i campioni delle corse in bici, di

berrettini con la visiera di plastica per ripararsi

dal sole e di tante osterie nelle quali ci si poteva

ritrovare fra amici.

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Di speciale interesse (è evidente che l’Autore le

scrive in presa diretta con la sua esperienza sul

campo…) sono le pagine dedicate all’impegno delle

forze dell’ordine sul versante dell’antiterrorismo. Vi

si rievoca innanzitutto la formazione dei primi

nuclei specializzati, che della specializzazione,

appunto, e della centralizzazione dei dati (senza

dispersioni controproducenti) sapranno fare le

carte decisive e vincenti in una guerra che

qualcuno – dal mondo parallelo e cupo della

clandestinità – aveva unilateralmente dichiarato:

stabilendo quali nemici meritassero di essere colpiti

o annientati, e mettendo in pratica questo disegno

in maniera spietata per oltre un decennio, con un

crescendo di violenza che raggiunse livelli tali da

indurre il Ministero dell’Interno a calcolare persino

la cadenza oraria degli attentati! Una rievocazione

che si articola nella descrizione delle attività di

composizione di un puzzle sempre intricato: dalla

identificazione dei terroristi alla localizzazione dei

loro covi, con paziente e analitica ricerca dei

tasselli anche più minuti necessari allo scopo. Da

una traccia poco significante, via via – con

paziente sviluppo – a risultati di grande rilievo,

attraverso pedinamenti, esame di reperti, contributi

di polizia scientifica, confidenze, segnali

apparentemente confusi decifrati e quant’altro

intelligenza e fantasia investigativa fossero capaci

di inventarsi. Con rischi e pericoli gravissimi

sempre cupamente incombenti, tanto da indurre i

poliziotti dell’antiterrorismo a usare nomi di

copertura speculari ai nomi di battaglia con cui i

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terroristi coprivano la loro vera identità. Una

rievocazione cui fanno da costante contrappunto le

azioni delle Brigate rosse, nel libro spesso solo

accennate, ma con tratti sempre precisi e

fortemente incisivi che consentono di riandare con

la memoria alle principali imprese

dell’organizzazione e alla sua progressiva

escalation: danneggiamenti, sequestri di persona,

rapine per autofinanziamento, gambizzazioni e

omicidi; – arresti, fughe dal carcere e conflitti a

fuoco; – e insieme legami torbidi con servizi segreti,

attività “logistiche” di falsificazione di targhe e

documenti, collegamenti internazionali per il

procacciamento di armi, propaganda con i

documenti contrassegnati dalla famigerata stella a

cinque punte, capillarmente diffusi in una stagione

spesso caratterizzata (quando non favorita) da

slogan tipo “compagni che sbagliano” o “né con lo

Stato né con le Br”.

Andreassi non fa sconti, e delinea chiaramente la

possibilità che all’interno delle forze di polizia si

applichino diverse “filosofie”, con immediate e

robuste conseguenze sul piano operativo, a partire

dall’approccio con coloro che sono sospettati di essere

terroristi o vengono arrestati in quanto tali. La scelta

dell’autore (filtrata dalle riflessioni e dai

comportamenti di Guido, poliziotto che ha nel

romanzo un ruolo centrale) è univocamente nel

senso del rispetto – sempre e comunque dovuto – e

per la persona e per le regole democratiche.

Nello stesso tempo Andreassi sottolinea (ed è di

speciale rilievo che lo faccia proprio un poliziotto

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nato e cresciuto, istituzionalmente parlando, per la

repressione dei delitti…) che “bisogna prima di tutto

capire; sì capire anche le cause di questo tipo di

terrorismo… Certo non tocca a noi (poliziotti)

intervenire sulle cause, ma noi possiamo aprire gli

occhi ai nostri politici. Ci vuole una strategia

antiterrorismo a trecentosessanta gradi. L’azione

repressiva può non bastare”. Parole sacrosante

(quanto quelle che ci ricordano come “cercare di

capirne le cause non vuol dire giustificare un

fenomeno”), ma che al tempo stesso pongono

interrogativi piuttosto sconfortanti sulla capacità

della politica italiana di affrontare i problemi del

crimine organizzato (non solo terroristico ma anche

mafioso) senza limitarsi alla solita, comoda delega a

forze dell’ordine e magistratura. Andreassi sa bene

quanta importanza abbia avuto l’intuizione che il

terrorismo andava sconfitto non solo sul piano

investigativo-giudiziario ma anche (se non

soprattutto) sul piano politico. Bisognava isolarlo,

andando nei quartieri, nelle scuole, nei circoli, nelle

sedi di partito e del sindacato, nelle parrocchie e

nelle fabbriche per parlare con la gente, per rendere

la cittadinanza consapevole che il terrorismo era

una minaccia non solo per le possibili vittime, ma

per tutti, in quanto fattore di imbarbarimento della

vita civile e di progressiva involuzione in senso

reazionario del sistema. Bisognava fare chiarezza,

spazzando via tutte quelle incertezze e ambiguità

(anticamera di contiguità e connivenze) che erano

state – agli inizi – presenti soprattutto a sinistra. E lo

si fece con gli strumenti della democrazia (riunioni

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e confronto), dimostrando così la forza delle

istituzioni e riuscendo a tagliare un bel po’ di erba

sotto le gambe dei brigatisti, posto che la rivoluzione

presuppone – per avere qualche probabilità di

successo – il venir meno di ogni fiducia nelle

istituzioni. A Torino, Palazzo d’Inverno di tutti gli

estremismi italiani, in quanto città della Fiat, città

operaia, città comunista per antonomasia, capace

perciò di esercitare una speciale “attrattiva” sui vari

gruppi terroristici autoproclamatisi “partiti

comunisti combattenti”, a Torino il mezzo principale

con cui si conseguirono questi risultati furono le

assemblee. Assemblee cui parteciparono anche, con

ruoli spesso centrali, magistrati e poliziotti e che i

terroristi definivano “di guerra”, quando invece si

ispiravano proprio al quadro complessivo che

Andreassi ben definisce enunziando l’insufficienza

della sola azione repressiva.

Tornando al discorso delle diverse “filosofie” e

soprattutto prassi operative che possono riscontrarsi

anche all’interno dello stesso ufficio di polizia

(diversità di cui il romanzo di Andreassi offre

cospicui esempi), si può ancora dire che il tema si

lega strettamente a quello della democrazia come

antidoto contro la violenza terroristica. Qual era la

teoria dei brigatisti? Era che lo Stato democratico

non esiste, è puramente e semplicemente una

finzione, un paravento, una maschera. Noi brigatisti

– dicevano – un colpo dopo l’altro (cioè un omicidio

dopo l’altro, una gambizzazione dopo l’altra, un

sequestro dopo l’altro) faremo cadere questa

maschera, disveleremo il volto autentico dello Stato,

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reazionario e fascista, di negazione dei diritti, di

ogni possibilità di progresso, in particolare di

crescita del proletariato, delle classi sociali più

bisognose. E quando questo vero volto dello Stato

sarà disvelato, ecco che le masse – avendo finalmente

capito, grazie a noi brigatisti, come stanno davvero

le cose – si ribelleranno e ribellandosi si riuniranno

automaticamente intorno all’avanguardia

organizzata già esistente, che siamo noi delle Br,

innescando la palingenesi rivoluzionaria… È

evidente che semplifico molto, è chiaro che brutalizzo

concetti che persino i brigatisti esponevano a volte in

maniera più sofisticata, ma è per intenderci, per

capire che siamo riusciti a non cadere nella trappola

tesa dai brigatisti. Perché la risposta al terrorismo

brigatista dal punto di vista legislativo ha raschiato –

lo ha detto più volte la Corte Costituzionale – il fondo

del barile della corrispondenza ai principi e precetti

costituzionali, ma non è mai andata oltre. Come ha

saputo non andare oltre i confini stabiliti dalle

regole la stragrande maggioranza delle forze di

polizia giudiziaria impiegate in funzione di

antiterrorismo, così contribuendo a “spiazzare” e

mettere in crisi i terroristi che ben altri

atteggiamenti si sarebbero aspettati.

Per concludere, il bel libro di Andreassi ha

l’indiscutibile merito (fra gli altri) di farci conoscere

un po’ più da vicino – sia pure nell’ottica di un

romanzo - i cosiddetti “anni di piombo”, che meglio

sarebbe chiamare (come hanno deciso alcuni

documentaristi) “anni spietati”. Forse le Br non

finiscono mai e riaffiorano ciclicamente anche

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perché di quegli anni non si discute abbastanza,

soprattutto coi giovani. Col rischio che ci si condanni

a quella che Barbara Spinelli individua come una

patologia tipicamente italiana: una perdita della

memoria che sconfina nell’amnesia; una profonda

sottovalutazione del pericolo che si corre quando si

occulta il passato. Un passato che per quanto

riguarda i brigatisti comporta anche gravi

responsabilità di scelte criminali che hanno offerto il

terribile spettacolo (sul quale Andreassi nel suo libro

spesso si sofferma) di una macabra usurpazione di

legittime istanze di lotta antifascista. Questa

usurpazione ha prodotto danni gravissimi col mito

della “Resistenza tradita” di cui le Br pretendevano

di raccogliere il testimone. Se oggi l’antifascismo

incontra tante difficoltà, se il revisionismo dilaga è

anche perché (Sergio Luzzato lo ha dimostrato) c’è

stata da parte dei terroristi un’appropriazione

indebita, un uso arbitrario della eredità partigiana,

che ha azzoppato la tradizione antifascista,

svalutandone e indebolendone i valori, resi

impresentabili dal ricorso alla violenza criminale in

un sistema democratico, che per affrontare i suoi

problemi non ha certo bisogno che il terrorismo ne

crei altri.

Della “trama” del libro e del suo epilogo ovviamente

non parlo. Perché quello di Andreassi per certi

profili è anche un giallo. E come tutti i gialli

interessanti pretende riservatezza.

Gian Carlo Caselli

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A PIAZZA SAN GIOVANNI

Piazza San Giovanni era stracolma di gente e il cielo diquell’azzurro profondo e magico del maggio romano: DeGregori e la Marini cantavano alla folla in estasi “Bellaciao”, nella versione originale e cioè come era prima chedivenisse il canto dei partigiani: un canto accorato dellemondine, più che di protesta, di rassegnazione alla faticadell’oggi e ai soprusi dei padroni nella speranza di un futu-ro migliore. Ma forse i partigiani avevano deciso di adottar-ne l’aria per dare testimonianza della riscossa, facendo diquel lamento il canto del popolo in armi. O meglio l’aveva-no scelto proprio perché era tutt’altro che un lamento, mauna denuncia feroce nella sua apparente mitezza, capacedi evidenziare la brutalità dell’abuso e di suscitare sensi dirivolta. Come Le mie prigioni di Silvio Pellico, pensò Gui-do perso davanti al televisore, ma si sentì subito a disagiocome se avesse detto una fesseria in pubblico. Poi s’accorse che gli stava venendo un nodo in gola comegli capitava ormai spesso e cercò anche questa volta dicamuffare davanti a Lucilla e ai ragazzi l’incipiente statodi commozione. “È un segno di vecchiaia!” pensò e glivenne in mente che qualche giorno prima, nella ricorren-za del 25 aprile, aveva visto una trasmissione televisivasulla ritirata di Russia, durante la quale alcuni vecchi re-duci della Julia si erano messi a piagnucolare sull’ondadei ricordi. E lui con loro.Eppure al tempo della ritirata di Russia, Guido era appe-na nato e non capiva proprio perché dovesse commuo-versi tanto a sentirne parlare, come se l’avesse vissutaanche lui.

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Allora quel nodo in gola non dipendeva né dall’età né dairicordi, anche perché ne soffriva da almeno una decinad’anni.Decise perciò di analizzare la situazione e quando il con-certo del Primo Maggio stava per concludersi ritenne diavere, almeno da quel punto di vista, le idee un po’ piùchiare: il “nodo” era causato dalla “Storia”. Sì, dalla sto-ria delle generazioni che avevano costruito il suo Paese,dalle loro sofferenze che aveva rivissuto attraverso i rac-conti dei genitori e dei vecchi. Era come se, rievocandoun evento di quella nostra storia, lui venisse travolto dauna cascata di passioni, coinvolto in lotte, tribolazioni,paure, entusiasmi, dalla vita nella sua pienezza, mortecompresa. E allora vedeva irrompere soldati atterriti dalfragore delle cannonate o ansimanti come bestie al ma-cello negli assalti alla baionetta e poi folle urlanti, le cari-che dei carabinieri a cavallo, i singhiozzi delle donne edei bambini, una moltitudine in lotta per appropriarsidella vita, per rivendicare il diritto di esistere e di inse-guire i sogni. O anche l’incedere silenzioso, non violento,ma nondimeno implacabile, di una folla di proletari, del“quarto Stato” insomma come nel quadro di Pellizza daVolpedo. Al punto che se tentava di parlare, quel nodo gliserrava la gola e le parole uscivano ridicolmente lamen-tose.In quella dimensione, storia collettiva e ricordi individua-li si fondevano e si completavano. La storia siamo noi,

nessuno si senta escluso; siamo noi padri e figli…

aveva cantato Francesco De Gregori. Esattamente così.E questo era il patrimonio che gli premeva lasciare ai fi-gli, integro e arricchito del suo vissuto. Bandiere rosse in piazza, bandiere con il volto di Che Gue-

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vara, “Bella ciao” cantata in coro. Ma quanto restava degliideali che originariamente quelle icone contenevano?Le giovani generazioni guardano al futuro. Questo Guidolo capiva benissimo, ma sul resto era confuso. Un futuromigliore – pensava – lo si può costruire solo in continui-tà con i valori del passato, senza fratture, riconoscendo-si nella storia.L’esigenza del tutto umana e inarrestabile di andareavanti, di superare una fase storica, rileggendola magaricon maggiore obiettività, non poteva indurre alla rimo-zione della storia. Quante cose erano successe in quelle poche decine dianni! E lui ne aveva vissute intensamente molte. Avevagustato gli anni della ricostruzione e della conquistadella sua piccola porzione di benessere quotidiano, siera scambiato con i genitori tacite occhiate di intimasoddisfazione, quasi di orgoglio, davanti alla prima tavo-la imbandita come “cristocomanda”, o seduti sui sedilidi seconda classe imbottiti e comodi come quelli di “pri-ma” del direttissimo Roma-Milano, con tanto di postoprenotato. Aveva potuto pian piano fare sue le cose, untempo destinate a rimanere inesorabilmente nelle vetri-ne. E l’infanzia e la giovinezza erano corse così felice-mente che avrebbe voluto riviverle esattamente co-m’erano state.Lucilla lo ascoltava pazientemente quando rievocavacerti ricordi. Ma Lucilla era più giovane di lui e Guidonon riusciva a coinvolgerla fino in fondo. Forse non erasolo questione di differenza di età: era lui stesso in findei conti a farsi condizionare dalla paura di risultare no-ioso, alla quale si aggiungeva spesso una sorta di pudo-re a scendere nel dettaglio dei sentimenti o a svelare

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aspetti meno pittoreschi o poetici delle ristrettezze diun tempo, cosicché il racconto risultava quasi sempremonco e discontinuo, talvolta fino al punto da sembra-re inverosimile o banale. I ragazzi poi lo guardavano in-creduli e divertiti, come se raccontasse storie strava-ganti.Eppure desiderava tanto trasmettere loro le esperienze diquegli anni, la parte migliore di sé, che era poi sprofonda-ta nelle sabbie fini e insidiose della sua vita di adulto.Sentiva addosso un disagio strano, un senso come di op-pressione. Si guardò intorno in cerca di Lucilla e dei ra-gazzi. Mai come adesso avvertì che essi lo avevano ripe-scato da una voragine nella quale era stato risucchiato daeventi immensamente lontani dai sogni e dai progetti diun tempo. Quel senso di oppressione sembrava ora dargli tregua. Ein attesa che Lucilla o i ragazzi ricomparissero nella stan-za, si abbandonò ai ricordi, perché ricordare è come rivi-vere.Ripensò a quella finestra che si apriva sul Lungotevere esentì forte e struggente il desiderio di affacciarcisi anco-ra come nelle belle mattine di primavera di un tempo,quando, prima di andare a scuola, lo sguardo cadeva sul-le masse vaporose verde chiaro dei platani che bordava-no i muraglioni riflettendosi sulle acque del fiume.Si adagiò nel ricordo di quei momenti e riuscì a tornarenella casa di un tempo inondata di luce, nella cucina po-vera eppure beata, dove la madre preparava la colazionetra i trilli delle rondini e le note di quella canzone che di-ce Voglio vivere così col sole in fronte, fischiettatesommariamente dal padre.

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STILE NOVECENTO

I

Nell’Emilia più profonda, in quella parte della Bassa chesi estende uniforme al di sotto dell’argine destro del Po,in una serata di marzo Bicio, detto Folletto, ha lo sguardofisso su quei piccoli banchi di legno con i calamai di coc-cio delle scuole elementari del suo paese. Gli sembra ieridi aver finito la quinta e di aver lasciato la scuola con rim-pianto, perché studiare gli piaceva. Ma anche se era statopromosso in sesta con buoni voti, papà Zuanin sopranno-minato “Linguria” aveva detto alla maestra, con gli occhibassi e girando il cappello tra le mani, che loro non pote-vano permettersi il lusso di farlo proseguire. Così era fini-to anche lui a lavorare nei campi con gli altri fratelli.Gli sembra ieri e va verso quei banchi con lo stesso pas-so titubante del primo giorno di scuola.I militi delle Brigate Nere sono lì a parlottare davanti al-la porta e lanciano ogni tanto un’occhiata minacciosaverso di lui e gli altri compagni catturati durante la nottee pestati a sangue. Avevano tentato un’azione a sorpresa,concordata con i capi del Comitato di Liberazione Nazio-nale del capoluogo: disarmare il presidio della GuardiaNazionale Repubblicana del paese. Era andata male perloro cinque, ma gli altri erano riusciti a mettersi in salvo. Ma nessuno di loro ha parlato e se lo dicono orgogliosa-mente con gli occhi. Nessuno di loro ha tradito. Si fa co-raggio e s’infila nel piccolo banco: è così mingherlino cheriesce ancora ad entrarci nonostante i suoi vent’anni suo-nati.

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C’è una penna nella scanalatura del ripiano e Folletto laprende come una reliquia. Si accorge di piangere soloquando le lacrime gli impediscono di mettere a fuoco ilpennino per controllare se è pulito, come faceva sempreuna volta prima di iniziare a scrivere il dettato con la suacalligrafia ordinata sui quaderni che sembravano anchedopo mesi come usciti dalla tabaccheria-emporio delCanzioel, dove l’odore greve dei sigari toscani si mischia-va a quello della carta stipata.– Vuoi fare testamento? – chiede sghignazzando uno deimiliti, un ragazzo come lui con i tratti del volto stravoltida una maschera di ferocia che gli serve forse solo a na-scondere anche lui la gran voglia di gridare disperata-mente basta e ricominciare a vivere.Segue un conciliabolo tra i repubblichini, uno dei quali siallontana per ricomparire poco dopo insieme a un tiposegaligno e spiritato, di età indefinibile; sulla giubba del-la sua uniforme stazzonata spicca una croce vermiglia. Èil cappellano della brigata, con in mano alcuni foglietti dicarta a quadretti.– Se volete potete scrivere qualcosa alle vostre famiglie. Eanche confessarvi… – dice in tono forzosamente burbero.Si interrogano con gli sguardi smarriti e dopo qualcheminuto di esitazione prendono anche loro posto sui ban-chi in ordine sparso: Giovannino detto Dardo, fornaio;Sergio detto Boris, muratore; Luigin detto Civetta, con-tadino; James detto Volpe, meccanico, il più malconcio ditutti.– Una bella classe di asini! – sghignazza qualcuno fuori.Ma nessuno dei suoi commilitoni ride.E sembrano davvero degli alunni impacciati con i loro te-stoni chini sul foglietto e con la penna tra le dita legate.

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– Carissimi genitori, perdonatemi per questo dispiacere...– Cara Brunilde, la tua fotografia la porto con me dentrola fossa…– Miei cari tutti e paesani…Ognuno scrive il suo ultimo messaggio, così come gli vie-ne e come può.Folletto, con la più bella calligrafia che gli sia mai riusci-ta, scrive:Carissimi genitori, fratelli e sorelle, fatevi coraggio

perché io sono sereno, anche se penso al dolore che

proverete per questa brutta notizia. Fate avere l’altro

bigliettino alla Elisa, che volevo sposare a settembre

se Dio avesse voluto. Vi volevamo dire proprio in

questi giorni che lei è in stato interessante. Vi bacio

e abbraccio tutti e verrò da voi in sogno. Muoio da co-

munista cristiano. State vicini alla Elisa e a mio fi-

glio che nascerà. Vostro affezionatissimo Bicio.

L’altro messaggio gli costa molto di più. Deve nascon-dersi più volte il viso tra le mani e così si sporca tutto diinchiostro peggio che da bambino: Elisa mia, chi im-

maginava che sarebbe andata così quando abbiamo

incominciato. Io ti vorrò bene anche da di là e so

che tu mi risponderai. Il destino non ha voluto che

io vedessi nascere nostro figlio. Chiamalo Libero se

sarà maschio e Libera se femmina. Parlagli di me

appena capisce e speriamo che voi possiate vivere

in un mondo migliore. Elisa perdonami. Ti abbrac-

cio forte forte e per sempre. Tuo Bicio. A rileggerle, quelle poche parole gli sembrano terribil-mente misere, rispetto alle mille cose che gli traboccanodal cuore. Ma a Elisa le parole non servono. Torna con lamente ai loro momenti felici, ai primi sguardi in piazza la

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domenica, al loro primo ballo durante la festa di san Ve-nerio. Gli pare di avvertire ancora il profumo dei suoi ca-pelli e il tepore del corpo morbido. Come è bella l’Elisa, lasua morosa! Si perde nel suo sguardo profondo di allora. Forse prima ha fatto solo un brutto sogno e si assopiscesperando che lei lo baci.È confuso quando lo ridestano.Vengono condotti tutti fuori e in fila s’incamminano ver-so il vicino cimitero, scortati da un plotone di repubbli-chini. Sta albeggiando e sotto il nebbione si avverte laprimavera. Arrivano attutiti i rumori del quotidiano risve-glio: gli zoccoli di un cavallo e le ruote del carro che avan-za sull’acciottolato, qualche colpo di tosse, un camionrantolante, il cinguettio dei passeri, un gallo.Mentre gli fanno scavare la fossa, la campana batte le sei eFolletto guarda verso la chiesa e cerca di scorgerne il cam-panile dietro la nebbia, ma la nebbia è troppo fitta. Anzi di-venta sempre più fitta fino a convincerlo che è solo unbrutto sogno. Quando la scarica del plotone di esecuzionefa crollare a terra il suo corpo, Folletto è già volato via so-pra la nebbia, sottratto per sempre alle miserie degli uomi-ni. Mai si è sentito così bene. Tutto gli è improvvisamentechiaro e così semplice da lasciarlo stupefatto.

II

È una splendida mattina di settembre e Guido è statosvegliato dal sole che rimbalza sui frontoni del “Palazzac-cio” e irrompe dalle finestre senza tende della nuova ca-sa, tanto più bella di quella di Terra di Lavoro, buia escrostata.

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Quando esce con la Annetta per andare a Tor di Nona, c’èagitazione intorno al tribunale.– Ma che c’è oggi al Palazzaccio? – chiede la Annetta alportiere.– C’è il processo per le Fosse Ardeatine. Oggi sentono ilquestore Caruso. È stato lui, dicono, a dare ai tedeschi inomi di quelli da mandare al macello.– O quelli o altri… i tedeschi l’avevano detto che avreb-bero ammazzato dieci italiani per ogni tedesco morto, senon si fossero presentati i responsabili dell’attentato divia Rasella – fa un avvocatuccio con una borsa malanda-ta sottobraccio.– Boni pure quelli… A Roma ci sono ancora gli Alleati, compresi gli scozzesicon il gonnellino. Guido è felice di scendere, aggrappatoalla borsa a rete della mamma, le scalette che dal Lungo-tevere portano a Tor di Nona, perché il mercatino lo af-fascina con i suoi strani personaggi e la sua clandestini-tà: soldati americani, anche negri, tante donne come fal-chi a scrutare le bancarelle della borsa nera nel tentativodi aggiungere qualcosa al misero boccone della tesseraannonaria, le grida dei venditori, le merci. Per lo più sibaratta: pasta in cambio di caffè o di surrogato marcaMoretto; farina, zucchero contro olio d’oliva; sigarettecontro uova fresche e così via. Ci sono anche dei ban-chetti con mucchi di tabacco da cicche raccolte per lastrada. Non si butta niente. I soldati americani vengono avendere le loro razioni in cambio di AM lire da spenderenei casini di via degli Avignonesi e di via Capo le Case.La Annetta, fatta scaltra come una faina dalla necessità,mercanteggia con una vecchia contadina dall’aspetto avi-do un pacco di cannolicchi che Peppe riceve con una cer-

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ta continuità dall’Opera Nazionale per i Combattenti, peravere in cambio patate e verdure fresche. Sono da pocoa Roma e si sono sistemati in una casa procurata loro dal-lo stesso ente al piano sopraelevato di un palazzo umber-tino del quartiere Prati. Vengono dalla Terra di Lavoro, dove Peppe era stato as-sunto un paio di anni prima, come meccanico, dall’OperaNazionale, grazie alla raccomandazione di un gerarca fa-scista. Avevano raggiunto Roma poco dopo la liberazionedella città, attraverso un viaggio lungo e avventuroso suun camioncino con le poche carabattole. Peppe aveva fatto appena in tempo, quando i tedeschiresistevano ancora a Montecassino, a sfuggire all’arruola-mento coatto. Era stato per ore in fila insieme ad altri po-veri disgraziati davanti al comando tedesco, con la An-netta incinta attaccata disperatamente a lui ad aspettareche venisse il suo turno.In quelle ore si sentono come persi in un labirinto osses-sivo, nel quale ogni percorso esplorato porta o verso cu-nicoli senza uscita o in direzioni assurde, che li separanoper farli ritrovare soli e senza difese nel momento piùbello ma anche più esposto della loro storia. La fila staper esaurirsi. È rimasto di guardia solo un soldato dellaWehrmacht, che li guarda con insistenza. Peppino si sen-te ancora di più confuso e incapace di valutare se il suodestino sia ormai inesorabilmente segnato o se ci sianoancora vie di scampo, chissà, magari non subito, ma di lìa qualche tempo. Ce l’avrebbe fatta la Annetta a tirareavanti, con un bambino da crescere? Ma sì, ce l’avrebbefatta almeno per un po’, anche perché sarebbe venuta adarle una mano la sorella Nilde. Il lavoro non le era maimancato, anche se si trattava ormai solo di rattoppare

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abiti vecchi o di rivoltarli. Poi sarebbe ritornato lui… Masì, Dio provvede. Non è la fine poi! Ma ad Annetta pareproprio la fine ed è come di pietra, con gli occhi fissi nelvuoto, aggrappata al suo Peppe, stretto nella giacchettalisa. Il soldato tedesco seguita a fissarli insistentemente. Aguardarlo bene non ha un aspetto cattivo. Sono soli ora,davanti al comando. Non ci sono occhi indiscreti e i fattiaccadono al di fuori di loro, come al cinema. Il militare hauno scatto: tira fuori chissà da dove un fagottello, lo fic-ca a forza sotto il braccio della Annetta sibilandoSchnell, schnell! e li allontana a spintoni, scomparendopoi dentro il portoncino del comando. Era accaduto il mi-racolo!Annetta e Peppe si allontanano barcollanti come se aves-sero preso una gran botta, poi si riscuotono e attaccanoa correre verso casa tenendosi per mano. Si fermano an-simanti nel portone guardandosi ancora increduli negliocchi. Si stringono e scoppiano in un pianto liberatorio.Annetta scarta il fagottello del tedesco: ci sono un paio discarpe ortopediche. Ne aveva proprio bisogno. Quando finalmente arrivano gli Alleati, la musica cambiain tutti i sensi, anche in quello letterale. Alle meste e ca-denzate note di “Lily Marlene” subentrano quelle menoromantiche dei boogie-woogie, che schiudono peròsquarci di allegria, di benessere e di vitalità mai speri-mentati.Le ragazze si danno da fare con quei ragazzoni simpatici.Annetta finisce di rattoppare abiti consunti e incominciaa confezionare per loro audaci vestitini in seta. In casaarriva l’abbondanza. Le “signorine” non pagano in valuta,ma in generi alimentari destinati alle truppe: uova in pol-

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vere, latte condensato, farina di piselli, marmellata, cioc-colata e altre cose mai viste. Ci sono anche le Camel perPeppino, che fino ad allora si era potuto concedere cin-que “Africa” al giorno. Peppe e Annetta si erano conosciuti a Littoria grazie allabonifica dell’Agro Pontino, provenienti da direzioni di-verse: lei a seguito della famiglia del fratello Anselmo,che aveva deciso di lasciare il paese in Emilia per trova-re maggiore fortuna in quella realtà in forte espansione,come migliaia di altri emiliani, romagnoli e veneti; lui re-duce da vari tentativi di sopravvivere con i mestieri piùdiversi, con un camion Fiat sbilenco e pochi stracci, de-sideroso di mettere meglio a frutto quell’unica risorsanell’avventuroso sviluppo dell’Agro Pontino.Non si presentava certo come un principe azzurro Pep-pe, ma così trasandato, spettinato e con la barba lunga siinseriva bene nell’ambiente multiforme e pionieristicodella bonifica. Aveva un suo fascino. Annetta aveva capi-to subito che era suo compito rimetterlo in ordine e unavolta ripulito Peppe non era affatto da buttare e lei ave-va un gran bisogno di crearsi una famiglia e di avere unasua casa, perché era rimasta terribilmente sola, nono-stante l’affetto dei molti fratelli e sorelle, da quando i ge-nitori erano morti a pochi anni di distanza l’una dall’altro:la mamma falciata come migliaia di altri italiani in quelperiodo dall’epidemia di febbre spagnola, quando lei eraancora una bambinetta. Era toccato allora alla Nilde, lapiù grande delle sorelle, accudire le altre, perché la non-na non ce la faceva da sola. E gli anni dell’infanzia eranopassati per loro nel rimpianto struggente delle carezzedella mamma. Il papà, ancora più taciturno da quandoera rimasto vedovo, se ne era andato qualche anno dopo

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in silenzio, stroncato da chissà quale malattia, senza chenulla, all’infuori della sua tristezza, facesse presagirne lafine, come spesso accadeva in quei tempi.Avevano fatto appena in tempo a fabbricare una bella ca-sa alla periferia del paese, con le loro mani, pietra su pie-tra, rubando, il padre e i nove figli, le ore al riposo e allefeste comandate. Ma la domenica il papà tornava a casacon una sporta piena di carne e di ogni ben di Dio per ri-compensarli della fatica. E dopo pranzo si sedeva all’om-bra del pioppo a leggere l’“Avanti” e a fumarsi il mezzotoscano.Annetta, come del resto le sorelle Zoraide, Gianna, Vilmae Nilde, era proprio una bella ragazza e in diversi al pae-se le avevano messo gli occhi addosso. Lavorava alla sar-toria dell’Artioli al quale il papà l’aveva affidata insiemealla Zoraide quando erano ancora poco più che bambine,perché imparassero un mestiere adatto alle donne. In ve-rità la sartoria Artioli confezionava solo abiti da uomo,ma l’apprendistato e i rudimenti del mestiere erano glistessi: ago e filo, mesi e mesi di imbastiture e sopraggit-ti, poi la macchina da cucire. Diversa era ovviamente nel-le sartorie da donna la scuola di taglio. L’Annetta e la Zo-raide erano sveglie e intraprendenti. Avrebbero potutofare ben altro se la morale corrente e le possibilità offer-te dal paese fossero state diverse. In breve tempo diven-nero le più brave fra le giovani lavoranti. La Annetta poi,abile a rubare il mestiere e a cogliere al volo le mode,portò una ventata di vita nella stimata ma ammuffita sar-toria dell’Artioli, che incominciò a sfornare non solo i tra-dizionali abiti della domenica o da cerimonia, ma anchequalcosa di più allegro e adatto ai giovani.L’Annetta rivelò per esempio una mano particolarmente

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felice nel confezionare calzoni alla zuava del tipo indos-sato da Rodolfo Valentino nel film “I quattro cavalieri del-l’Apocalisse”, molto richiesti dai giovani bellimbusti dellazona; e loro, quando venivano per le prove e si chiudeva-no con un Artioli ringalluzzito nel camerino con lo spec-chio, ripetevano a voce più alta del necessario che i cal-zoni dovevano essere pronti entro sabato perché c’erauna festa nel salone della villa comunale dove si sarebbeballato il tango. E così dicendo, nell’uscire dal camerinodi prova, lanciavano sguardi ammiccanti alla Annetta ealla Zoraide.Quando dunque l’Annetta aveva lasciato il paese al segui-to di Anselmo per andare a Littoria, non ne aveva risen-tito soltanto la sartoria Artioli, ma anche il cuore di più diqualche danzatore di tango. Le altre sorelle erano rimaste ancora al paese, Zoraide eNilde fermamente decise a restarvi, perché i loro morosiavevano lì le loro attività; Gianna e Vilma pronte invece atrasferirsi con i mariti a Littoria non appena Anselmoavesse individuato per loro una qualche possibilità di la-voro.Peppe era tanto diverso dai giovani del paese e non por-tava calzoni alla zuava né sapeva ballare il tango, ma An-netta se ne innamorò lo stesso. Si sposarono con tuttal’incoscienza e l’approssimazione di due giovani poveri-cristi che il destino ha fatto incontrare, che stanno beneinsieme e vogliono costruirsi una vita senza spaventarsidi dover partire da zero.Peppe aveva capito subito che era troppo rischioso con-tare solo sul suo sciaraballe per mantenere una famigliaed era riuscito a farsi assumere dall’Opera Nazionale peri Combattenti, che aveva condotto in quegli anni “la bat-

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taglia contro la mortifera palude” – così aveva detto il du-ce inaugurando Pomezia – ma che curava analoghe inizia-tive rurali sul Volturno. Fu così che Peppino e la Annettaarrivarono ancora sposi novelli nella Terra di Lavoro.

Intorno al Palazzaccio la folla va aumentando.La Annetta sta ancora trattando con la contadina, quan-do si sente provenire da ponte Umberto un vociare mi-naccioso che sale di intensità, punteggiato da insulti, daparole terribili, da tonfi, da rumori indistintamente sini-stri come se la folla inferocita si stesse abbandonando auna violenza sconcia. Tutti corrono verso la vicina spalletta del Tevere e ancheAnnetta tenendo forte Guido per mano. Dalla folla si le-va un urlo lungo come di appagamento bestiale e Guido,affacciandosi al muraglione, fa appena in tempo a scorge-re un corpo che compare e scompare dalle acque del Te-vere in un alone rossastro. Quattro o cinque uomini loraggiungono con una barca e uno di essi si alza in piedi esi affanna a infierire con un remo su quei poveri resti, in-citato dalle grida della gente.– Hanno fatto bene! – esulta qualcuno lì intorno. – Era proprio un gran figlio di…– Ma chi era? Che ha fatto?– Era Carretta, il direttore di Regina Coeli. Ha dato unamano ai boia delle Ardeatine… Non era affatto così, ma nessuno avrebbe potuto convin-cere la folla in quel momento!Guido aveva già visto i morti nei bombardamenti e dalontano gli erano sembrati dei fantocci, ma non gli era ca-pitato fino ad allora di vedere degli esseri umani accanir-si su un loro simile ed eccitarsi reciprocamente come un

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branco di lupi all’odore del sangue, fino a farlo a pezzi. Sistrinse con quanta forza aveva alle gambe di Annetta eaffondò la testa nelle sue carni.

III

I due ragazzini sono al chioschetto di legno verde addob-bato di limoni e di noci di cocco, all’ombra dei platani delLungotevere a gustarsi una grattachecca in quella tardamattinata di metà luglio manco a dirlo soffocante. Guidol’aveva voluta alla menta, Marco all’amarena. La vecchiacicciona in camice bianco li aveva sì e no degnati di unosguardo al momento dell’ordinazione:– Due grattachecche da dieci.Poi aveva grattato quasi con fastidio il ghiaccio dalla co-lonna, servendosi di una specie di pialletta e il ghiacciotritato era finito nei bicchieri un po’ per forza di gravità,un po’ con l’aiuto dell’indice non proprio immacolato del-la vecchia, che aveva sapientemente rovistato il serbato-io dell’attrezzo. Gli sciroppi adesso: il verde smeraldodella menta, il rosso cupo dell’amarena. L’operazione erastata seguita con circospezione dai due ragazzini, perchéla vecchia non godeva di buona fama, al contrario del ma-rito, il sor Giulio, che era molto più generoso nella mesci-ta. Ma questa volta non aveva lesinato poi tanto e avevacompletato l’opera ficcando i cucchiaini dentro le gratta-checche, con lo stesso fastidio di prima accompagnatoperò da un sospiro liberatorio da fatica superata. – Ammazza! – fa Guido strabuzzando gli occhi per l’effet-to paralizzante del primo boccone di ghiaccio.– Tienilo un po’ in bocca come faccio io – consiglia Mar-

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co mentre pesta col cucchiaino nel bicchiere – quandohai succhiato tutto il gusto, poi lo inghiotti.La “circolare nera” in versione estiva, e cioè senza portee con i finestrini aperti, passa pigra, sferragliante e la-mentosa sui binari proveniente dal ponte Umberto, diret-ta verso l’isola Tiberina carica all’inverosimile, con ungrappolo di passeggeri aggrappati alla meglio sul predel-lino posteriore.– Che facciamo dopo? – chiede Guido. – Perché non andiamo dai preti a vedere se c’è qualcu-no?– Andiamo invece a Castel Sant’Angelo, alle acque putri-de – propone Marco.– Però lì ci stanno quelli di Borgo…Pausa. Quelli di Borgo sono ossi duri e non vogliono in-trusi alle acque putride. I due si concentrano nella pre-parazione della goduria finale: l’ultima sorsata dei resti ingran parte liquefatti della grattachecca.Er Zella è, come sempre, intento a ficcare pezzetti di car-ta e porcheriole varie negli interstizi dei muri di Tor di No-na e brontola a bassa voce. Capelli e barba lunghi e spor-chi, avvolto in un cappottone militare fermato alla vita conuna corda e lungo fino ai piedi scalzi e sudici. Non ha maifatto del male a nessuno e non reagisce nemmeno aglisberleffi. Dicono che fosse un artista che faceva mosaiciper le lapidi del Verano, diventato pazzo dopo la morte del-la moglie e dei figli sotto i bombardamenti a San Lorenzo.– A Zellaaa…! I due amici si fermano a guardare giù dal ponte Umber-to. Sul galleggiante der Tulli c’è gente in costume aprendere il sole. Altri fanno il bagno nel fiume.– Perché oggi pomeriggio non andiamo al pidocchietto?

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– fa Marco alludendo a una sala cinematografica a bassoprezzo sulla via Cola di Rienzo.– Non mi va. Fanno ancora Tarzan. L’ho visto dieci voltee m’ha stufato.Camminano in silenzio nelle loro camiciole di taglia so-vrabbondante con le Superga di gomma che quasi affon-dano nell’asfalto liquefatto dal caldo africano, abbagliatidal sole riflesso dalla facciata di travertino del Palazzac-cio.Mentre i due ragazzini camminano senza meta sul Lun-gotevere, l’ordinario movimento di mezzi e persone subi-sce come una repentina accelerazione: corre qualcosanell’aria di indefinito e di grave. Non si sa ancora che co-sa stia accadendo, ma nelle facce della gente, neglisguardi che si incrociano per interrogarsi, c’è sgomentoe apprensione. C’è la paura di tornare indietro, di ripiom-bare nel caos, di perdere quella meravigliosa condizionedi pace e di operosità da poco faticosamente riconquista-ta.– Hanno sparato a Togliatti! – grida qualcuno e subito in-torno a lui si assiepa gente per chiedere dove, quando, seè morto, chi è stato. La piccola folla aumenta, aggrega in-torno a sé altri passanti, altri gruppi si formano rapida-mente nei pressi e si attraggono; come branchi di stornivagano da un punto all’altro, si frammentano, si ricom-pongono fino a formare una grande nuvola scura, minac-ciosa.– Gli hanno sparato a Montecitorio. Tutti a piazza Colon-na! Stavolta non ci ferma nessuno – grida un uomo sullaquarantina. Nella sua magrezza che fa risaltare gli occhispiritati, nell’abituccio misero e consunto si leggono leprivazioni di quei giorni, ma nello sguardo e nei modi ri-

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soluti c’è la smania di uscirne, di afferrare al volo l’occa-sione giusta per saldare i conti ancora in sospeso. Lo se-guono altri come lui: un gruppo ristretto affiatato e de-terminato. Lo si capisce al volo.Guido fa in tempo a scorgere che uno di loro nascondesotto la giacca una pistola infilata nella cinghia dei pan-taloni e dà un’occhiata ammiccante a Marco. Assiepati di fronte al caffè Ruschena ci sono distinte si-gnore e professionisti del quartiere, per lo più abitato daavvocati, data la vicinanza del Palazzaccio. Osservanocon artificioso distacco, ma tra di loro si scambianosguardi di disapprovazione, disgusto e soprattutto pauraper quella fiumana di popolino che avanza urlando. Qual-cuno intona “Bandiera rossa” ed è l’innesco di un coropossente e rabbioso. I volti dei buoni borghesi del caffèRuschena diventano lividi. Che cosa vogliono questi pez-zenti? Le hanno buscate alle politiche e si devono solorassegnare. Ma Scelba non scherza e vedrai come gli fa-rà abbassare le penne… Le signore sbiancano e sussur-rano “gesù mio” pensando, per un bisogno istintivo diprotezione, a un Gesù più prossimo, a un crocifisso incarne e ossa: si staglia nella loro mente atterrita la figuraieratica, signorilissima di papa Pacelli con le braccia spa-lancate e gli occhi rivolti al cielo in segno di infinita pie-tà, come nella fotografia apparsa sui giornali quando an-dò a visitare il quartiere di San Lorenzo dopo i bombar-damenti. C’è chi dice che la veste candida del Santo Pa-dre si sporcò perfino di sangue. E il re, i Savoia…È pro-prio una repubblica. Chissà dove andremo a finire!– Quel Togliatti poi, non se l’è cercata? Se fosse per luiquesta povera Italia sarebbe già finita nelle grinfie di Baf-fone. E allora addio piano Marshall e aiuti americani. I co-

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munisti, i partigiani sono belve, cercano solo l’occasioneper ricominciare con gli ammazzamenti e le vendette,per distruggere, per arraffare, per fare i loro comodi, persbeffeggiare perfino la nostra fede. Gentaglia che non hanulla da perdere.Il giornale radio dà qualche notizia in più: è ferito grave-mente, lo opera Valdoni.– Pensa tu! Addirittura Valdoni per quel maiale. Quandogli hanno sparato, vicino a lui c’era la sua amica, quellaNilde Iotti, la partigiana… peccato che non hanno becca-to anche lei. L’attentatore si è fatto arrestare.I negozi abbassano le saracinesche, i tram si fermano, siferma tutto. Sciopero generale! Tira una brutta aria.Piazza Colonna è invasa e la folla preme minacciosa suPalazzo Chigi. Entrano in azione gli “scelbini”, tentano icaroselli con le jeep regalate dagli americani, ma non c’èspazio sufficiente per manovrare. Sparano! L’ondata del-la folla si ritrae come nella risacca. Si incominciano a sca-vare i sampietrini per fare le barricate sotto la galleriaColonna.Anche Guido e Marco si danno da fare e aiutano a porta-re selci sotto la galleria insieme ad altri ragazzini. – Bravo maschio! – fa a Guido uno dei dimostranti con lafaccia da duro e la cicca tra le labbra. – Ma adesso anda-tevene. Non se ne parla nemmeno. Mica hanno paura. Guido faanche lui la faccia da duro mentre incita Marco. Un nugo-lo di celerini con elmetto e divisa grigio-verde compare al-l’improvviso non si sa da dove e si avventa sui dimostran-ti a colpi di manganello. Segue un corpo a corpo furibon-do. Manici di piccone contro manganelli. Nonostante gli

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elmetti qualche poliziotto ha la faccia insanguinata per lemazzate, qualcun altro cade e su di lui infierisce la folla.Sopraggiunge in soccorso uno squadrone di carabinieri indivisa cachi, inquadrati e compatti nonostante la confu-sione, implacabili come una mandria di bufali. A romper-si sono questa volta le teste dei manifestanti, sotto i calcidei moschetti che si abbattono con durezza contadina.Volano pietre. Si sentono ancora altri spari. Non è più ariaper i ragazzini. Guido e Marco se la battono infilandosi trale gambe dei manifestanti e nonostante la ressa riesconoa raggiungere la vicina piazza San Silvestro, dove c’è me-no gente e la situazione sembra più tranquilla. Chiusi imagazzini de La Rinascente e quelli prospicienti dellaStanda, chiuso il caffè Aragno, chiuso tutto. Vicino casa incontrano alcuni amici del quartiere con ri-spettive mamme e sorelle accaldate e cariche di sporte,secchielli e palette. Hanno fatto appena in tempo a tor-nare da Ostia con il trenino prima che venissero interrot-te le corse per lo sciopero generale. Poi però se l’eranodovuta fare a piedi fin dalla Piramide. Per fortuna che aponte Testaccio avevano trovato una bancarella col coco-mero fresco. – Daje ch’è rosso! Raccontano le loro peripezie, come avevano saputo del-l’attentato nello stabilimento balneare Belsito sentendo ilgiornale radio dell’una, come tutti in spiaggia si eranoprecipitati verso la stazione del trenino per non rimane-re bloccati, per ritornare il più presto possibile a casapreoccupati per i mariti, i padri, i parenti, gli amici.– Noi stavamo a piazza Colonna. C’è stato un bel casino!– fa Guido con l’espressione di chi può dire c’ero anch’io,ma non la può raccontare tutta. Il portiere dello stabile,

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con la giacca della divisa grigia sbottonata e il berretto inmano per asciugare il sudore, racconta col suo sgraziatoaccento marchigiano, di aver saputo da un amico che fal’infermiere al San Giacomo che Togliatti non è morto,anzi ha parlato dopo l’operazione di Valdoni e ha racco-mandato la calma. Ha detto proprio state calmi, non fatesciocchezze. Possibile? Stanno tutti a sentire a boccaaperta e vorrebbero saperne di più, ma il portiere ammu-tolisce e si ricompone frettolosamente. Si avvicina al por-tone a passi decisi per rincasare il generale Leccisi, pen-sionato, impeccabile nel suo abito chiaro, con tanto dipaglietta e bastone da passeggio. Il portiere saluta in mo-do ossequioso, accennando a un inchino piuttosto goffo.Il generale risponde con misurata sufficienza, poi si fer-ma di colpo, scruta con aria severa quel campionario digentucola, rimane per qualche secondo in silenzio con gliocchi vitrei fissi nel vuoto. Si nota chiaramente tutto iltravaglio del pensiero in formazione. Infine sillaba quasiin tono minaccioso: – Il momento è grave. Bisogna tenere la testa sulle spalle– e s’inoltra impettito nel portone, seguito dagli sguardiperplessi della combriccola. Appena è scomparso all’oriz-zonte, alcuni ridacchiano e ad altri viene la tentazione difare una pernacchia. Il portiere, per rimarcare che lui la sa lunga e non è pro-prio l’ultimo degli ignoranti, se ne esce con: – Faceva bene Nerone, che li ammazzava tutti a cinquan-t’anni! – E non soddisfatto prosegue: – Potevamo maivincere la guerra co ‘sti campioni. Altro che calma. Nonli ferma più nessuno questi. Manco Togliatti.In effetti, la tensione cresce in tutto il Paese. La radionei suoi scarni comunicati parla di gravi incidenti, an-

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che con morti, a Napoli, Taranto, Livorno, Genova.L’Italia è paralizzata, spezzata, con i treni fermi e i tele-foni in gran parte interrotti. Durante la notte Guido ri-pensa agli scontri di piazza Colonna. I genitori l’hannosgridato e domani di uscire proprio non se ne parla. So-no preoccupati soprattutto per i parenti della mammache vivono nell’Emilia rossa, nel paesino della Bassa,dove la guerra tra partigiani e repubblichini è stata par-ticolarmente cruenta e ha lasciato strascichi di odio.Loro sono stati sempre molto prudenti, hanno pensatosolo a lavorare e a tirare avanti, ma la Carla, la figlia delSarnagòn, aveva conosciuto quel mascalzone, il Russin,che l’aveva tirata tra i partigiani a fare brutte cose. Ungiorno quella disgraziata si era presentata di notte a ca-sa della Nilde con il suo amico, i mitra sotto al tabarro euna valigia piena di soldi e di cose d’oro, rubati chissàdove. La Nilde non la voleva tenere, tremava dalla pau-ra, poverina, ma quella brutta faccia del Russin l’avevaguardata fissa bisbigliandole in tono minaccioso di nonfare storie e di tenere la bocca chiusa, ché loro sarebbe-ro tornati a riprendersi la valigia entro un paio di gior-ni. Erano tornati eccome, e se l’erano portata via. Me-glio non sapere! E non era stata la svergognata dellaCarla a rapare a zero la figlia del farmacista e a trasci-narla per tutto il paese con le armi puntate, lei e i suoicompagni con i fazzoletti rossi al collo, perché andavacon un fascista di Reggio?La mattina dopo, mentre Guido sta facendo ancora cola-zione, Peppino ascolta preoccupato il giornale radio.Scelba accusa i comunisti di voler scatenare una insurre-zione. Ogni tentativo di manifestazione sarebbe però sta-to represso con la forza. A Genova i manifestanti hanno

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disarmato la polizia e si sono impossessati anche di alcu-ni autoblindo. C’è veramente aria di rivoluzione.Ma chi è questo Pallante che ha sparato a Togliatti? Chi loha mandato? Dicono che è un esaltato, uno studente uni-versitario siciliano iscritto al Partito liberale, che ha agitodi testa sua, perché, secondo lui, era stato il Migliore – co-sì Togliatti veniva chiamato dai compagni di partito – adare ordine ai partigiani di massacrare tanta gente.“Ma non venissero a raccontare storie” dicono altri: Ughet-to il benzinaio è stato visto parlottare con altri comunisti,e uno di loro, quello che sta alle Botteghe Oscure, è sicu-ro che si tratta di un vero e proprio complotto dei servizisegreti americani in combutta colla mafia per mettere fuo-ri giuoco i comunisti, privandoli della guida del Migliore.Avevano fatto male i conti però! Togliatti questa volta de-ve finirla di frenare. Tutti in piazza, e con le armi! È arriva-to il momento di svoltare veramente. Se no che l’abbiamofatta a fare la Resistenza e la guerra partigiana? Per met-tere l’Italia in mano a De Gasperi e al Vaticano?Guido è riuscito a convincere i genitori a lasciarlo anda-re almeno “dai preti” insieme a Marco e ad altri ragazzinidel quartiere. La chiesa è così vicina che dalle finestre dicasa Annetta può vederli giocare nel cortile dell’oratorio,mentre lei fa la sfoglia con le uova delle galline che hamesso in terrazza.Sono una decina impegnati in una tappa del Giro di Fran-cia, quella di oggi Cannes-Briançon. La pista, disegnatacol gesso sul pavimento del cortile, è lunga e tortuosaperché è una tappa di montagna. Ci sono le Alpi. Ognu-no fa tre tiri per volta, tre “schicchere” con le dita al tap-petto metallico delle bottiglie di birra, cercando di man-tenerlo entro il tracciato della pista. Non è facile, specie

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nei punti in cui la pista si riduce a una semplice linea ser-pentiforme che rappresenta i tratti più duri delle monta-gne sulle quali i corridori si devono inerpicare. Guido il suo tappetto, come la maggior parte degli altriragazzini, lo ha levigato e zavorrato con un po’ di stuccoda vetraio per farlo scivolare meglio.Tutti, meno Marco, vorrebbero fare Bartali, anche se èmolto indietro in classifica: settimo a 21 minuti dallamaglia gialla Louison Bobet. Del resto è l’unico campio-ne in gara per l’Italia, visto che Coppi non se l’è sentitadi partecipare al Tour. Marco non ci tiene perché il pa-dre, che è tipografo dell’“Unità”, fa il tifo per Coppi.Bartali è sì un campione, però è un “baciapile”. Allora aMarco tocca fare l’odiato Bobet. Guido è Bartali, il vec-chietto che ha già vinto il Tour dieci anni prima e chis-sà che non ritiri fuori la grinta di una volta. Ma è un so-gno. Non ce la può fare con quel distacco. La gara par-te e Guido ce la mette tutta. Marco difende la sua ma-glia gialla, studia attentamente il tracciato della pista, sisdraia per terra per indirizzare meglio i suoi tiri. È pal-lido e gracile, visetto distinto, da signorino. I capelli sot-tili e ondulati, con il ciuffo che si appiccica alla fronteper il sudore e gli occhi infiammati. Anche se fa caldo,tossisce spesso.– Ma che sei tubercolotico? – sbotta il Cacalocchi. Marcoavvampa e per un attimo rimane in silenzio con unasmorfia strana nel visetto, tra la stizza e il pianto. Poi siriscuote e replica con un – Ma vaffa…–. Tocca a lui es’impegna ancora di più. Si va verso la serpentina dellemontagne e la schicchera di Marco è un po’ troppo forte.È fuori per un pelo. – Daje Bartali!

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incitano i compagni e Guido col primo tiro riesce a por-tarsi al bordo esterno di un’ampia curva e col secondo atagliare bene il percorso senza uscire di pista. Col terzo èin testa tra le grida di gioia degli altri corridori. Anche sulvolto di Marco aleggia un sorriso.Intanto i disordini seguitano a divampare in diverse città.I morti tra forze dell’ordine e dimostranti sono saliti auna quindicina o forse anche di più, dicono i ben infor-mati. A Torino la Fiat è in mano agli operai e a Milano sistanno tutti concentrando in piazza Duomo.Ma non sono solo i ragazzini a pensare al Giro di Francia.C’è chi – e sono molti – nonostante la tensione che gravasul Paese e il rischio di ripiombare nelle violenze, tienel’orecchio teso alla radio per sapere che cosa stia succe-dendo al giro. Ci sono cime impegnative oggi, speciel’Izoard. Il toscanaccio è forte in salita. È coriaceo, se nefrega del freddo e della strada bianca tutta buche e brec-cia. Chissà che non riesca a guadagnare una manciata diminuti. Poi domani c’è un’altra tappa dura, c’è la scalatadel Galibier e anche lì…Molti stanno con le orecchie tese, nonostante tutto. Per-dio, si avrà pure diritto a un minimo di svago, a seguirelo sport preferito, questo ciclismo che è rinato; a discu-terne con gli amici al bar, a fare il tifo. Si avrà il diritto ditornare a sorridere, di campare insomma! Invece si ri-schia di tornare indietro. E pensare che due anni fa, conla guerra appena finita, avevamo avuto la forza di rifare ilGiro d’Italia. E la gente era tornata ad abbracciarsi, a sor-ridere, a dimenticare l’odio e gli orrori. Che gioiosa folliaquel giro! C’erano macerie dappertutto, i ponti distruttidai bombardamenti, le strade piene di buche, molte nonancora asfaltate. Non fa niente! Si corre lo stesso, riden-

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do proprio come pazzi, per tornare a vivere, per abbuf-farsi di vita, dopo che è stata tanto negata.Bartali arranca su per i tornanti dell’Izoard. Forza Barta-li! Bobet è cotto. Bartali guadagna terreno, lo lascia in-dietro, uno a uno lascia indietro tutti gli altri. Bartali èprimo sulla cima dell’Izoard! Si grida vicino alla radio ser-rando i pugni, si piange di gioia come non accadeva datroppo tempo. Bartali si getta a capofitto nella discesa.La sua faccia è incrostata di fango e sfigurata dalla faticae dal freddo, ma ha staccato tutti. Un urlo: ha forato. Im-precazioni, bestemmie, morsi alle mani. Ma fa presto acambiare la ruota. Quanto ha guadagnato finora? Ha re-cuperato quasi tutto il distacco. Incredibile!La notizia incomincia ad attraversare la folla, a Milano, aTorino, a Genova, a Roma, a Napoli, ovunque. Entra neipalazzi del potere. Il traguardo non è lontano, Bartali èsempre primo. Bartali vince, Bartali ha vinto! Ha vinto!È un’esplosione di gioia: nelle piazze sulle quali incombe-va una livida atmosfera, i manifestanti e i poliziotti si ab-bracciano e gridano insieme “Viva Bartali, viva l’Italia”.Ovunque si esulta: nelle strade, nei cortili delle case po-polari, a Montecitorio. Anche Togliatti sorride.Guido alza le braccia in segno di trionfo. Il pericolo è pas-sato. Domani potrà di nuovo uscire.

IV

Il desiderio di non tralasciare nulla per garantire a Guidotutte quelle opportunità che loro non avevano avuto, in-dusse Annetta e Peppe a seguire, come meglio potevano,l’esempio dei “signori” – come dicevano loro – e a spin-

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gerlo a frequentare i preti e cioè l’oratorio della vicinaparrocchia, dove andavano anche i rampolli delle famigliepiù abbienti del quartiere. Non che fossero convinti cheall’oratorio Guido sarebbe stato in tutto e per tutto equi-parato ai coetanei più fortunati, ma pensavano che co-munque avrebbe tratto benefici da certe frequentazioni.Ma anche all’oratorio Guido si ritrovò aggregato ai proprisimili e cioè a figli di portieri, domestici, pizzaioli e picco-li artigiani, che venivano convogliati in massa versol’Azione Cattolica e confinati in uno stanzone seminter-rato del complesso parrocchiale, dove la risorsa più am-bita e contesa era il tavolo da ping-pong.I figli dei “signori” avevano invece a disposizione, comeappartenenti alla Congregazione, locali ben più acco-glienti e godevano della precedenza nell’uso del lungocortile interno dove si disputavano partite di “palletta”,qualcosa di simile all’odierno calcetto.Una volta, i preti organizzarono una festa di Carnevale,ma quando Guido si presentò all’ingresso del teatrinodell’oratorio mascherato da Alì Babà, con il costume chegli aveva cucito la mamma, un capetto dei “Congreguer-ci” – così chiamati per disprezzo dagli “aspiranti” del-l’Azione Cattolica – non lo fece entrare perché – così dis-se – la festa era riservata a loro.Guido era scortato da tre dei più svegli dei suoi coetanei:Giancarlo, Marco e il “Cacalocchi”, i quali avevano moltoammirato il costume dell’amico e con una serie di “Am-mazza!” ne avevano esaltato la forte somiglianza a quellodi Alì Babà ragazzo nel film in technicolor Alì Babà e i

quaranta ladroni. – Tu entri lo stesso, non ti preoccupare – lo rassicuròGiancarlo e se lo trascinarono per una serie di passaggi

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segreti, con scavalcamenti impegnativi di cancellate dife-se da spuntoni, fino ad arrivare con il costume miracolo-samente incolume proprio dietro al palco dove erano giàallineate, per la premiazione, altre mascherine: fate, da-mine del Settecento, Pecos Bill, Zorro, Corsari Neri etc.In un attimo anche Guido è tra i concorrenti. C’è qualcheistante di evidente irritazione e di silenzio imbarazzatosia da parte del prete che fa da presentatore sia da partedel pubblico di ragazzini perbene e rispettivi familiari.Poi il prete-presentatore si riprende e saluta con finta af-fabilità l’intruso: – Che sorpresa! Abbiamo anche Aladino,che è piovuto certamente qui col suo tappeto volante.Ah, ah!C’è un brusio tra il pubblico, seguito dagli applausi e dal-le grida dei tre amici di Guido.– Ma quale Aladino… è Alì Babà, Alì Babà, Alì Babà – tut-ti quanti in coro.Ma Alì Babà non vince, manco a dirlo, alcun premio. Bel-lo il costume: turbante, blusa e le ampie braghe alla tur-ca di un bel tessuto celeste lucido, meglio ancora il cor-petto in velluto nero con ornamento di lustrini. Le scar-pe però proprio non vanno, perché non sono ricamate econ le punte all’insù come quelle di Alì Babà e anche lasciaboletta che ha appesa al fianco non ricorda nemme-no lontanamente una scimitarra e anzi appare del tuttoridicola. Peccato! Giancarlo si ferma di botto mentre camminano per la stra-da mogi mogi, con la coda tra le gambe. Smucina con lemani infilate nelle tasche dei calzoni corti, contempla esta-siato un grande manifesto di Silvana Mangano anche lei incalzoni corti e con le calze scure che lasciano scoperte lecosce proprio nel punto più interessante. – Ammazza

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quant’è bona! – esclama con tutti i sentimenti. Gli altri ap-provano e sghignazzano. Riprendono a fare caciara.

Il benessere incomincia a fare capolino anche a casa diGuido.Hanno fatto fatica a portarla su per i cinque piani e la An-netta ha trepidato per paura che la rovinassero. Ma ora èlì a riempire la stanza, elegante e signorile: buffet e con-trobuffet entrambi con specchio rettangolare di diversalunghezza. Al centro il tavolo grande, anch’esso rettango-lare, con sei sedie imbottite belle pesanti. È completa-mente nera lucidata a specchio. Certo non è di legnomassiccio, ma, come si dice, tamburato. Ma adesso mas-sicce non vanno nemmeno più. Annetta e Peppe control-lano che non ci siano graffi. Lei passa delicatamente unamano su un angolo del tavolo osservando in controlucequella che le sembra una imperfezione. No, è soltantol’unto delle mani dei facchini.Stanno montando il lampadario di cristallo, a sei bracciche ricadono in giù, intercalati da foglie di acanto.Quando l’elettricista ha finito di avvitare l’ultima lampa-dina da venticinque candele, è Peppe che gira la chia-vetta dell’interruttore: uno spettacolo, una cascata diluce che si riflette sullo specchio nero del ripiano del ta-volo.Si guardano soddisfatti.– Sarai contenta adesso! – fa Peppe alla Annetta che datanto tempo lo tampinava e lei fa una smorfia trionfalesottolineata da un gesto delle mani come per dire “Locredo bene. Guarda che roba…!”. Tante privazioni, tanteeconomie, tanta strada fatta a piedi perfino per rispar-miare il biglietto del tram – fino a piazza Vittorio magari

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per risparmiare sulla spesa – tante ore passate a cucire ivestiti per le servette venete, ma ne è valsa la pena.– Ma che stile è? – se ne esce il portiere sopraggiunto acuriosare.– È stile Novecento – interviene, tra l’altezzoso e lo stiz-zito, Guido che l’aveva più volte sentito dire dai genitoriquando la sera si sognava tutti insieme aspettando la ca-mera da pranzo.Littoria è stata ormai ribattezzata Latina e Gianna vi si ètrasferita anche lei con il marito, che però non ha avutocon l’officina da meccanico auto-moto la fortuna speratae ha dovuto adattarsi a fare l’operaio in una fabbrica divasche da bagno per sfamare la famiglia in forte crescita.La Gianna non se ne sta con le mani in mano e sembraaver trovato il filone giusto per arrotondare il magro bi-lancio familiare: il plissettato, visto che sono di moda legonne con le pieghe a fisarmonica. Tutte le famiglie delvicinato ricorrono alla Gianna che sa plissettare bene e abuon prezzo, e anche diversi coloni dei poderi sparsi nel-le campagne, ai quali la Gianna fa le consegne a domici-lio in bicicletta, ritornando poi a casa con polli e verdure. Come riesca a fare il plissettato senza i costosi macchina-ri a vapore usati dagli altri nessuno se lo chiede, visto chei suoi lavori soddisfano la clientela.Il metodo è e deve restare segreto. Nessuno, all’infuori dilei e della figlia maggiore, può entrare nello sgabuzzinoche funge da laboratorio. Il perché è presto detto: non vitroverebbe altro che sagome di cartone, pezzi di marmoe un ferro da stiro. E la tecnica è altrettanto elementare:basta stirare bene il tessuto, inserirlo tra due stampi dicartone a plissé e lasciarlo un paio di giorni pressato trai pezzi di marmo perché prenda bene la piega.

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Alla Gianna l’aveva insegnato per solidarietà fra donnesul fronte del bisogno un’amica che aveva diversi figli dasfamare e lo stipendio del marito, anche lui operaio infonderia, che non bastava a mettere insieme il pranzocon la cena. Finché dura…

V

Ci tornavano spesso al paese perché Annetta aveva sem-pre una gran voglia di rivedere i parenti e soprattutto dichiacchierare con Zoraide e Nilde. Era però anche l’occa-sione per comprare a prezzi convenienti qualche capo divestiario, maglieria e l’immancabile pezzo di parmigiano.Anche Peppe ci si trovava bene, nonostante ironizzassespesso sul dialetto emiliano, sul pane di quelle parti chenon aveva la mollica e non si poteva quindi intingere nelsugo, e sul fatto che l’olio d’oliva non venisse assoluta-mente preso in considerazione nemmeno per condirel’insalata.Guido non vedeva l’ora di tornarci ogni volta, sia d’estatesia d’inverno.– Modena, stazione di Modena. Per Carpi, Suzzara, Man-tova si cambia.L’avviso diffuso con l’altoparlante in marcato accento lo-cale gli metteva addosso un grande buonumore e, se eraestate, smanie di corse in bicicletta, di canne e di reti dapesca, di pesci gatto neri con la pancia gialla, di carpe do-rate, di rane, di bambine bionde e dalle buone manierepaesane nei loro vestitini della festa, che si ritrovavanonell’ombroso giardino della Villa comunale.

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D’inverno, e cioè durante le vacanze di Natale, le pro-spettive erano ovviamente diverse ma egualmente attra-enti: il fascino della nebbia, qualche volta la neve, i vec-chi col tabarro, le grandi tavolate con i parenti nelle cu-cine grondanti di sapidi vapori. Si ripetevano di anno inanno i riti della tradizione contadina: tortelli di zucca o dispinaci affogati nel burro per rispettare il magro la seradella vigilia, e per il pranzo di Natale cappelletti in brododi manzo e cappone, poi zampone e altri bolliti con salsaverde e mostarda. Lo zio Dante seguitava, secondo una vecchia usanza cheaccordava questo privilegio solo agli uomini, a bev’r in

vin, cioè ad aggiungere un po’ di lambrusco al brodo deicappelletti.Nonostante le insistenze di Dante e la sua alterata delu-sione di fronte al rifiuto, Peppe e Guido non avevanoavuto mai il coraggio di provare quella variazione per glieffetti cromatici pessimi che la mistura provocava nelpiatto.

In genere, bisognava aspettare un bel po’ alla stazione diModena per il treno locale, ma l’attesa non era noiosa: siincontrava spesso qualche lontano parente o conoscentedel paese e sempre, d’estate e d’inverno, Egisto, anchelui un mezzo parente, rotondetto, sorridente e affabile,con il quale la Annetta si fermava sempre a spettegolare,perché Egisto era come il gazzettino. Guido non si chie-deva come mai quell’ometto non più giovane, che in pae-se faceva il sarto, si trovasse sempre a passeggiare in sta-zione con aria comicamente cospirativa. Gli stava simpa-tico e tale restò per lui anche quando, divenuto più gran-dino, capì che Egisto stava sempre lì non perché fosse un

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amante dei treni, ma perché era un “culattone”. Lo eraperò in maniera così garbata da non destare scandalo eda risultare alla fine simpatico a tutti per il suo modo difare partecipe e affettuoso, quasi a voler farsi perdonarequella sua diversità.Il treno locale o, come lo chiamava da piccolino, il trenocol fumo s’identificava per Guido, come per molti bambi-ni della sua età, con l’avventura del viaggio, ben al di làdei confini del reale. Sopraggiungeva maestoso, luciferi-no e sferragliante tra sbuffi di vapore e di fumo nero allastazione facendo tremare il marciapiede, fino ad acquie-tarsi sui binari dopo un lungo cigolio lamentoso accom-pagnato da qualcosa di simile a un profondo sospiro libe-ratorio, come di chi conclude una fatica immane. Ma du-rante la sosta, scandita dal saliscendi dei viaggiatori edallo sbattere delle porte, nel suo petto portentoso se-guitava a ribollire con un brontolio cupo, una potenzaignea pronta di nuovo, al trillo del capostazione, a spri-gionarsi sulle leve delle grandi ruote di acciaio e a farleruotare con quella iniziale maestosa lentezza che è pro-pria dei giganti.Queste suggestioni raggiungevano il culmine nell’atmo-sfera invernale allorché la mole possente della locomoti-va sgorgava dalla nebbia in una miscellanea di fumi, scin-tille e rumori, suscitando visioni fiabesche.D’estate Guido assaporava il silenzio e la languida solitu-dine del paese, specie quando nei pomeriggi soffocantiscorreva in bicicletta lo stretto sentiero di sabbia di fiu-me ai bordi del corso Matteotti. “Cicli ARTAR”, l’insegna a vernice nera, che spiccava an-che se un po’ sbiadita sul muro di una delle case più vec-chie del paese gli evocava ingranaggi perfetti, ruote e

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manubri da corsa. Allora, vincendo il rammarico di tro-varsi a cavallo della modesta bicicletta della zia, si imma-ginava su una Bianchi celeste come quella di Coppi, conil cambio a levetta, i tubolari leggerissimi e i raggi scintil-lanti e si pavoneggiava con il berrettino con la visiera dicelluloide colorata, mentre pedalava lungo il corso constudiata lentezza per sottolineare la perfetta padronanzadel mezzo, ormai al centro del paese. Bordeggiava il barimmerso nel silenzio grave della penombra rotto dallostridore delle poltroncine di ferro trascinate sul pavi-mento; i portoni dei palazzi più vecchi lasciavano intrave-dere cortili e orti con tralci di vite e galline ruspanti; lapiazza deserta nel primo pomeriggio estivo, inondata diun sole velato dalla cappa di umidità che emanava dallezolle dei campi, dai canali e dal vicino Po. Nessuno sottoi portici infuocati.Anche il portone del palazzetto dove abitavano le zie diGuido si apriva sul corso ed era tanto ampio da far pas-sare un carro sulle larghe strisce parallele in pietra cheintramezzavano l’acciottolato. Tutto gli piaceva lì dentroforse perché avvertiva nelle luci e nelle ombre, negli odo-ri di muffa e nei suoni di quelle mura vissute serenità,protezione, premure, intimità; le scale per i due piani su-periori, fatte di mattoncini di cotto, come quelli dei pavi-menti di casa, irregolari e consunti per l’uso, tirati a luci-do con la cera, che ne impreziosiva l’essenza profonda-mente casalinga. Al di là dell’ampio atrio, il cortile e ilporticato con la pompa del pozzo, la lunga leva da azio-nare a forza di braccia, il sapore ferroso dell’acqua chesgorgava a fiotti da una bocca grande e rude anch’essa diferro. Poi un localino appartato che fungeva una volta daritirata per tutti gli inquilini del caseggiato. A seguire,

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l’orto che beneficiava degli esiti delle sedute nel confi-nante localino, tali in senso improprio perché la struttu-ra degli arredi imponeva posizioni alla turca. E poi lacampagna, con i campi coltivati a granturco, i lunghi fila-ri di pioppi, le viti a festone, i gelsi, gli alberi da frutto.Il tratto della campagna confinante con l’orto ospitava uncasolare di quelli col porticato per la rimessa dei carri,che, costruito a suo tempo a conveniente distanza dalpaese, vi si trovava ora a ridosso.La famiglia piuttosto numerosa che lo abitava, sopranno-minata dei Toursàn, sembrava costituire una comunità asé stante rispetto alla gente del confinante caseggiato,che comprendeva oltre ai parenti di Guido, altre due fa-miglie di piccoli commercianti del paese, quella dellassciura Diomira con negozio di merceria e quella delssciur Orlando, personaggio autorevole, che, tra i diver-si commerci, si dedicava anche alla vendita ambulante ditessuti. Con la buona stagione lo si vedeva infatti, di tan-to in tanto, partire la mattina presto in bicicletta, con unavaligia enorme in inverosimile equilibrio sul portapacchiposteriore e l’altra più piccola ancorata – chissà come –poco sotto il manubrio, in impeccabile abito marronescuro completo di panciotto, papillon, cappello intonato.La sera ricompariva in paese altrettanto impeccabile, do-po aver percorso chissà quanti chilometri sotto il sole esu strade polverose per piazzare i suoi articoli tra laclientela dei casali e nelle frazioni della campagna. Era gente chiusa i Toursàn, che amava tenere con i vici-ni i rapporti strettamente indispensabili pur essendo unadelle famiglie più antiche del paese. Nessuno poteva direniente sul loro conto: grandi lavoratori, persone oneste,corrette, specialmente i vecchi. – I figli, però, comunisti

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sfegatati –, dicevano i parenti di Guido alzando le soprac-ciglia e atteggiando la bocca in una certa smorfia chesembrava rievocare tragedie passate che era meglio di-menticare.C’erano anche dei ragazzini nel casolare, che avevanocon i confinanti coetanei rapporti estemporanei, comequando, nei pomeriggi estivi, si ritrovavano lungo la retedivisoria a scambiarsi qualche giornalino o a parlare delfilm di cow-boy che avevano proiettato al cinema al-l’aperto.Guido si univa volentieri alla combriccola, ma aveva do-vuto faticare un po’ per farsi accettare specialmente dairagazzini del casolare. Anzi all’inizio il loro atteggiamen-to era stato addirittura ostile come se Guido, per il solofatto di vivere nella capitale, fosse uno spaccone inten-zionato a far valere la propria superiorità e a mortificarli.Non tralasciavano allora di deriderlo quando si mostravaall’oscuro dei piccoli segreti della campagna o impaccia-to nell’arrampicarsi su un albero, magari a piedi nudi co-me facevano loro, o ad acchiappare le lucertole e le ra-nocchie.Quando si accorsero che era invece Guido a sentirsi inposizione di inferiorità, si dettero pian piano a coinvol-gerlo nei loro giochi e, nello stesso tempo, a sollecitarloa raccontare della vita di città. Alla fine Guido diventòper loro un amico importante e la sua provenienza roma-na motivo di orgoglio.In un tardo pomeriggio di fine agosto, i piccoli Toursànsono intenti ad arrostire su un improvvisato fuocherellole pannocchie di granoturco ancora fresco, mentre Gui-do e gli altri osservano interessati. Ce n’è per tutti. Que-sta volta però c’è una novità: nel gruppetto compare una

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ragazzina che Guido non aveva mai visto prima, biondacon le treccine, slanciata e soda, la carnagione tempratadall’aria aperta e di un bel colorito sano. È accoccolatavicino alle pannocchie, seduta su una grossa pietra cheha avuto cura di spolverare prima con la mano, e osservacon attenzione la cottura con i suoi profondi occhi azzur-ro scuro quasi bleu, appoggiando il mento sulle ginocchiae abbracciandosi le gambe avviluppate nella gonnellinacon pudore sapiente.Guido si sente rimescolare tutto, come mai gli è capitatofinora. Si sente attratto da quella figurina vivace e allostesso tempo pensosa. La inattesa comparsa ne accentuail fascino misterioso e Guido vuole capire, parlarle, farsiinquadrare da quegli occhi profondi e persi.– Rina, lo sai che devi andare. Non far aspettare la mam-ma – le grida in tono cantilenante la vecchia Toursana,seduta sotto il porticato a fare la treccia con le fettuccedi paglia.Rina schizza via e Guido la insegue con lo sguardo men-tre inforca la bici e si allontana per la strada bianca delcasale lasciando nuvolette di polvere.Della famiglia dell’Annetta al paese erano rimasti il fra-tello Dante, sua moglie Tecla e le sorelle Zoraide e Nilde,entrambe ancora zitelle per diversi destini. La Zoraide,più giovane, aspettava che la motonave Africa, con cuiFernando, il suo moroso, era partito da Trieste alla voltadi Mombasa, glielo riportasse a casa. Ma pare che a trat-tenere Fernando a Mombasa fosse, più che la fortuna ne-gli affari, il famigerato “mal d’Africa” contro il quale Fer-nando diceva di lottare disperatamente con la certezza divincere presto.La Nilde invece era fidanzata da quasi vent’anni con

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Achille, che aveva una segheria nel vicino paese del man-tovano e che incontrava tutte le domeniche e nei giornidi mercato. Ai ripetuti e corali – Che cosa aspettate asposarvi? – rispondevano entrambi con il sorriso di chi lasa lunga ma non la può raccontare, lasciando a intende-re che quello che non era accaduto in tanti anni potevaaccadere in quattro e quattr’otto quando nessuno più selo aspettava.Il capo famiglia era di fatto la Zoraide, divenuta una sar-ta affermata nel paese. La Nilde e la Tecla erano al suoservizio, mentre Dante, il più anziano, amava rivestirsi diautorità soprattutto per esigere puntualità a pranzo e peraffermare alla sera il proprio diritto, cascasse il mondo,di andare a giocare a carte nel “bottegone”, la grande eaffumicata osteria dove – nonostante l’ammonimentoL’uomo civile non bestemmia e non sputa in terra

stampato su un cartello in lamierino – i molti avventoricontinuavano da sempre imperterriti a fare entrambe lecose. Nondimeno, per il suo carattere bonario Dante ve-niva trattato con affetto e rispetto, ma le tre donne sape-vano che non gli si poteva chiedere di più che seguitarea fare con tutta calma il capomastro.Completava la famiglia il gatto della Zoraide, Mouk, il so-riano fumo di Londra dal gran testone, esploratore silen-zioso dei tetti circostanti nella buona stagione e ronfatoreinstancabile sulla poltrona della Zoraide nei mesi freddi.La sartoria Zoraide era in un salone piuttosto ampio alpiano sottostante l’abitazione e, oltre alla Zoraide e allaNilde, vi lavoravano un paio di ragazzette che nei periodidi punta potevano raddoppiare.La sartoria era anche un luogo d’incontro per molte si-gnore del paese, di chiacchiere, di pettegolezzi, di aggior-

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namento reciproco sulle ultime novità, un po’ quello cheera per gli uomini il salone del barbiere.Guido avrebbe voluto curiosarvi più di quanto gli fosseconsentito, perché si sentiva attratto da quella atmosfe-ra di intimità femminile, fatta di momenti di abbandono,di seni scoperti e di gambe accavallate in libertà, deglisguardi furtivi e maliziosi che gli lanciavano le lavoranti,fra pezze di stoffa, macchine per cucire, spolette, filati,manichini, forbicioni e ferri da stiro.La sera, come sempre d’estate, la piazza è un salotto po-polatissimo dove la gente torna a ritrovarsi dopo cena,pulita delle fatiche del giorno, nelle sue migliori sembian-ze, ognuno a proprio agio: giovani e vecchi, donne e uo-mini, zanzare e pipistrelli. Saluti, incontri, chiacchiere,sguardi ammiccanti, sussurri, scoppi di risa, grida dibambini che si rincorrono, il trillo delle biciclette che cer-cano di aprirsi un varco tra la gente, fidanzati dolcemen-te avvinti, vecchietti convenuti lì a commentare tra i rim-pianti quel fluire di vitalità e a gustarselo, cullati dal bru-sio di fondo. Una maggiore concentrazione è a ridossodel bar Centrale, che raccoglie la clientela più distinta,seduta con un certo sussiego ai tavolini sotto i portici;nell’altro lato della piazza, il più popolare e rumoroso bardello Sport.È la riconquista della vita dopo gli anni dell’odio e delledivisioni, il recupero di una tradizione profondamenteumana e felicemente paesana, dove il privato si trasfon-de nel pubblico per ricreare una sorta di familiarità col-lettiva, nonostante ferite ancora aperte. Sulle mura antiche della Rocca, alle lapidi che ricordanoi caduti della prima e della seconda guerra mondiale sisono aggiunte quelle dei caduti della Resistenza. Spicca-

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no i nomi di Giovannino, Sergio, Luigin, James e di Biciodetto Folletto, preceduti dalla scritta a lettere di bronzograndi e in rilievo: CADUTI DELLA LIBERTÀ. Guido vaga apparentemente senza meta tra la gente, se-guito dai figli del ssciur Orlando: la Franchina, bella ru-biconda, alla prese con una fetta di anguria e Cesare, chesfoggia la sua prima cinta di cuoio sui calzoni corti. Sonostanchi di gironzolare senza meta appresso a Guido, e laFranchina, finita l’anguria, se ne ritorna dal padre, che,sempre vestito di tutto punto, parla animatamente di ar-ticoli di maglieria con altri commercianti. Cesare cerca ditrascinarlo all’arena a rivedere “Robin Hood”, ma Guidoresiste e seguita a vagare e a guardarsi intorno.Sta quasi per mollare, ma mentre volge a caso e senzasperanza l’ultimo sguardo sconsolato sente all’improvvi-so un tuffo al cuore: forse quella ragazzina tra un grup-petto di donne ferme a chiacchierare vicino al bar delloSport è lei, è Rina; non ha più le treccine, ma i capelli rac-colti all’indietro tenuti da un fermaglio, la camicetta can-dida, che fa risaltare ancora di più il suo visetto lumino-so, il collo e le braccia tornite. Guido va verso di lei conla paura di essersi sbagliato, ma man mano che si avvici-na, l’immagine di Rina diventa più nitida. Rina è a pochimetri, quasi attaccata alla gonna di una donna giovane,dall’aspetto grazioso e forte allo stesso tempo, che sta sa-lutando le amiche. Incrocia lo sguardo di Guido e per unattimo fissa su di lui i suoi occhi profondi e dolci come ilcielo stellato. Un sorriso quasi impercettibile comparesul visetto pensieroso.Lo avrà riconosciuto? Rina e la mamma hanno già lascia-to il gruppo delle amiche per andare a recuperare lì vici-no le loro bici. Si sistemano la gonna e montano in sella.

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Si dirigono pedalando lentamente verso il Borghetto. Ri-na arriva a stento con la punta del piede a completare lapedalata sulla sua bicicletta da donna, che ha la sella tut-ta abbassata. Anche così si muove con grande grazia. Sivolta prima di allontanarsi: Guido è lì, in mezzo alla stra-da, stordito da quei due occhi dolci e profondi come ilcielo stellato.Domani mattina riprenderà il treno col fumo per ritorna-re a Roma.

VI

Per diverso tempo dopo averla conosciuta, a Guido pia-ceva pensare alla Rina prima di addormentarsi e appro-fittava del silenzio e della solitudine per rivisitare istanteper istante i momenti dei loro due brevissimi incontri ericostruire nella mente la sua figura nei minimi dettagli.E più ci pensava più sentiva il desiderio di rivederla, discoprire chi fosse, dove abitasse e gli altri affascinanti se-greti che quella ragazzina sembrava custodire gelosa-mente dietro ai suoi occhi pensosi.La cotta si affievolì nei mesi successivi, occupati dagli im-pegni di scuola, dai compagni, dalla comparsa sulle stra-de della Vespa e della Lambretta. Ma restò a covare sot-to la cenere tanto che, ai primi segnali dell’estate, il desi-derio di rivederla si risvegliò imperioso. Quando il trenocol fumo lo riportò al paese, la prima cosa che Guido fe-ce fu di andare giù nell’orto col cuore in agitazione. Fra iToursàn Rina però non c’era e Guido non ebbe il corag-gio di chiedere subito e apertamente notizie di lei, spe-rando che qualcuno dei compagni la nominasse o gliene

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desse l’occasione. Oppure che comparisse all’improvvisocome era successo la prima volta.Così accadde, ma solo dopo qualche giorno di inutili e va-ghi tentativi di ricerca per il paese e di speranze disillu-se. Rina ricomparve più deliziosa di prima, cresciuta, vel-lutata come una pesca. Salutò Guido con un ciao quasidistratto, mentre scendeva dalla bici e andava a sedersivicino alla vecchia Toursana intenta come sempre a farela treccia.Quel ciao detto distrattamente e in lontananza con dolcecadenza emiliana stordì Guido come un diretto al mento.Replicò con un ciao rantolante avvertendo, con imbaraz-zo, di essere diventato rosso e si girò per non farlo nota-re. Ma dentro di sé era al settimo cielo.Per attirare l’attenzione della Rina incominciò a parlare avoce alta e a fare un po’ lo spaccone. Ma poi gli sembròdi esagerare e cambiò stile, col risultato di aggrovigliarsisempre di più in atteggiamenti e discorsi assurdi, che fi-nirono per renderlo decisamente ridicolo. Rina seguitavaapparentemente a parlottare con la vecchia e a ignorar-lo, fino a quando, di fronte a una sua nuova uscita piùesagerata delle altre, gli lanciò uno sguardo che a Guidosembrò quasi di compatimento.Allora si innervosì e non sapendo come uscire da quellasituazione disse di sentirsi male e se la svignò, sperandoin questo modo di offrire alla Rina una giustificazionedelle sue stranezze e nello stesso tempo – perché no – difarla trepidare per la sua salute. Se ne pentì quasi subito,ma sarebbe stato indecoroso tornare indietro.A letto ripensò intensamente alla Rina, quasi detestando-la per la sua freddezza. E se fosse stato veramente male?E se l’avessero ricoverato in ospedale? Allora sì che

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avrebbe voluto vedere la sua faccia, di fronte a lui stesosul letto con appena una leggera smorfia sulle labbra no-nostante dolori atroci, come John Wayne quando gliestraggono una freccia dalla spalla… Lui pure dopo tut-to era rimasto ferito al ginocchio scalando le mura soprale acque putride qualche giorno prima. E lei questo nonlo sapeva! Superò i desideri di rivalsa in chiave tribolato-ria e si abbandonò alla piacevole prospettiva di rivederlal’indomani e di parlarle a tu per tu.Durante la notte sognò di girare per le vie del paese suuna grossa moto, ammirato da tutti. In piazza, davanti albar Centrale e sotto gli occhi degli amici, si era fermatoe facendo rombare per un attimo il motore con un col-petto di gas, l’aveva invitata a salire con un cenno del ca-po e lei era saltata su a cavalcioni e gli si era aggrappataaddosso, anche perché era partito in bruciante accelera-zione. Poi si era sentito la sua guancia sulla spalla e vol-tandosi un pochino per guardarla era finito con il nasotra i suoi capelli e aveva sentito il profumo delle spigheche si mettono nella biancheria.La mattina si era svegliato felice e aveva evitato con cu-ra di toccarsi la testa per non far svanire quel sogno. Eracosì rimasto a letto per un bel pezzo a fantasticare e aguardare le immagini che la luce, penetrando attraversouno spazio tra le pesanti imposte di legno, proiettava ca-povolte sul soffitto, come nella camera oscura di unamacchina fotografica. Vi vedeva scorrere biciclette, carrie pedoni in una luce magica e provava a riconoscerequalcuno dei passanti associando quelle immagini sfoca-te e fugaci ai rumori e alle voci.– Chi hai visto ieri dei tuoi amici? – gli aveva chiesto laNilde. E lui li aveva nominati tutti, la Rina per ultima,

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sforzandosi di apparire indifferente mentre pronunciavaquel nome.– Com’è carina la Rina, neeh! – era saltata su la Nildeguardandolo con un’aria furbetta e ammiccante chel’aveva subito fatto diventare rosso.– Poverina, lo sai che non ha il papà? Lei non era ancoranata quando lo hanno fucilato durante la guerra per quel-le brutte storie di fascisti e partigiani. C’è una lapide allaRocca con il suo nome e quello degli altri partigiani. Io loconoscevo, Bicino. Sembrava un putèl svelto come unoscoiattolo. Pensa che lo chiamavano Folletto. Che corag-gio che hanno avuto ad ammazzarlo in quel modo! Nonha fatto in tempo neppure a sposarsi con la Elisa, lamamma della Rina. Ne ha dovuti fare di sacrifici lei pertirare su la bambina. Meno male che stanno tutti insiemenella casa dei vecchi e uno aiuta l’altro – proseguì la Nil-de. – La Elisa vive per la figlia e non le fa mancare nien-te. La tratta come una principessina. Vedi come è sem-pre in ordine! Ma anche la Rina è una ragazzina seria.Studia, è sempre promossa con bei voti…Non era certo avara di notizie e di chiacchiere la zia Nil-de e così Guido apprese che la Elisa faceva l’operaia inuna maglieria di Carpi e che tutte le mattine si dovevasvegliare alle cinque, farsi qualche chilometro in biciclet-ta per andare in stazione a prendere il treno fino a Carpi,dove trovava una corriera della fabbrica che portava fi-nalmente lei e gli altri operai, prevalentemente donne,sul posto di lavoro. Se nevicava o pioveva a dirotto, la Eli-sa si concedeva il lusso di prendere la corriera da casa fi-no alla stazione di partenza, risparmiandosi la pedalatamattutina, ma andando incontro a una piccola spesa –quella del costo del biglietto – che preferiva evitare a me-

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no che le condizioni del tempo non fossero proprio proi-bitive.I vecchi, e cioè i genitori della Elisa, Gaetano detto il“Suldà” e la moglie Generosa, avevano alla periferia delpaese una osteria, con un grappolo di uva dipinto sull’in-segna di lamiera. La mandavano avanti soprattutto conl’aiuto della sorella minore dell’Elisa e quello saltuariodel marito che lavorava in un caseificio e faceva oraricompatibili.Anche la Elisa dava una mano quando poteva e abitavainsieme agli altri nelle stanze dei due piani superiori delfabbricato, che apparteneva per intero alla famiglia.Gli altri figli erano andati ognuno per la sua strada.Dietro l’“Osteria del Grappolo” o del “Suldà” c’era un per-golato e poi un bel pezzo di terra con il campo di bocce,l’orto e il pollaio.L’osteria si animava la sera, quando al termine di unagiornata di lavoro l’abituale clientela del paese, fatta perlo più di operai, manovali e contadini, si ritrovava per laconsueta partita a carte o, quando era buona stagione,per giocare alle bocce. Estate o inverno che fosse, i tavo-li degli avventori erano allietati da “pistoni”, ossia botti-glie di lambrusco, che accompagnavano spuntini a basedi gnocco fritto, servito ancora caldo dalla Generosa, e dasalame “casalino”, come diceva lei.La Generosa era una donna spiccia e gentile nello stessotempo, che soltanto a vederla metteva di buon umore.Quando non era impegnata ai fornelli, la trovavi sotto alpergolato a fare il bucato ancora nel mastello, con il toc-co di sapone Scala e con la cenere del camino per sbian-care ancora meglio le lenzuola. Le piaceva cucinare e ci riusciva benissimo. Sembrava

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che ci godesse a vedere gli uomini gustare le sue pietanze,anche se erano rare le occasioni che le permettevano diesprimere tutte le sue potenzialità culinarie. Si doveva in-vece adattare più spesso – ma lo faceva volentieri – a cu-cinare quello che le portavano i clienti per cene improvvi-sate: rane, pesci gatto, fagiani, lepri, galline faraone.Gli anni se li portava bene, nonostante avesse incomin-ciato a faticare fin da bambina in campagna. Da ragazzaaveva fatto anche la mondina, come molte altre giovanidella zona, costrette dal bisogno a sobbarcarsi per quasidue mesi, lontane da casa, la fatica della monda e, peggioancora, della messa a dimora delle nuove piantine nellerisaie, chine per otto ore al giorno con le gambe immer-se nell’acqua, fra gli insetti e sotto il sole cocente. Per ri-tornare al paese trionfanti con il gruzzolo che avevanoguadagnato e con il sacco di riso dato dal padrone a inte-grazione del salario. Doveva essere proprio di costituzione robusta se a cin-quant’anni suonati stava ancora dritta, sulle sue gambeforti e sempre belle.Gaetano l’aveva sposata quando era tornato dalla guerrafortunatamente sano, anche se sembrava l’ombra del ra-gazzo prestante che era partito tre anni prima. L’avevafatta veramente la guerra e ne aveva di storie da raccon-tare quando riprese a gestire l’osteria che i suoi gli ave-vano lasciato.È davanti all’osteria del Suldà che Guido s’imbatte nellaRina, mentre vagava in bicicletta pensando a lei:– Già sei guarito da ieri? Sono soli, uno di fronte all’altra, come mai era accaduto.Lui diventa di nuovo rosso mentre mormora una qualchespiegazione seguita da un: – Che cosa fai qui?

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– Questa è l’osteria dei miei nonni. Io abito qui sopra. Sevuoi ti faccio vedere i conigli nell’orto.È frastornato, ma prova un piacere nuovo e pieno accan-to alla Rina e quando tutti e due chini con le mani appog-giate alle ginocchia vicino alla gabbia dei conigli s’incon-trano con lo sguardo, Guido è sicuro che anche Rina ècontenta di stargli vicina. Rimangono muti per qualcheistante e poi la vede aprirsi per la prima volta in un sor-riso e gli occhi stellati acquistano una profondità nellaquale Guido veleggia come un gabbiano. La Rina sta en-trando nella sua vita con la grazia e la leggerezza di unaantilope, ma guardinga e pronta a schizzare via con unbalzo al minimo gesto sbagliato. E Guido incomincia a ca-pire.

VII

Guido si sentiva molto più leggero da quando aveva pre-so la licenza liceale. Per l’Annetta era molto di più cheuna fatica superata. Era raggiante e non tralasciava occa-sione, ben spalleggiata dalla Nilde e dalla Zoraide, pervantarsi al paese del successo scolastico del figlio contutti quelli che incontrava, senza stancarsi mai di ripete-re che era stato il migliore della classe, anzi di tutto il li-ceo Dante Alighieri, uno dei più severi di Roma e che inprospettiva c’era una borsa di studio per l’università.Guido si sentiva in imbarazzo di fronte agli altri quandoera presente a questi panegirici, anche perché l’Annettaesagerava e a lui sembrava che i sorrisi e i complimentiche gli venivano rivolti fossero spesso altrettanto esage-rati e, se provenienti da altre mamme di studenti, anche

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venati da invidia o da velleità di competizione e tutt’altroche sinceri. Del resto ciò che gratificava di più l’Annettaera proprio il fatto di essere nelle condizioni di far crepa-re di invidia le sue amiche, le quali cercavano come po-tevano di respingere l’attacco decantando a loro volta isuccessi e la genialità dei propri figli.Ma c’era da capirla la Annetta, perché per lei Guido eratutto, specie da quando Peppe se ne era andato in pochigiorni per una paresi intestinale. L’avevano quasi dovutotrascinare a forza in ospedale e quando si era reso contoche non si trattava di una indigestione, ma che stava permorire, li aveva fissati e accarezzati a lungo, sussurrandoalla Annetta “Mandalo dai preti” . Poi all’improvviso si eraalzato dal letto per andare incontro al fratello Paolo,morto qualche anno prima con il torace schiacciato in unincidente di lavoro, che aveva visto entrare nella stanza.L’Annetta era così rimasta sola ancora giovane, con un fi-glio da crescere e con una pensione detta di reversibilitàche sarebbe bastata appena a pagare l’affitto della casa alpiano soprelevato dove avevano fino ad allora abitato. Era stata allora costretta a malincuore a sistemarsi in unappartamento più piccolo, di due camere e cucina, cheaveva voluto a tutti i costi in zona, perché si sarebbe sen-tita morire ad andare in periferia e l’avrebbe vissuta co-me una seconda disgrazia dopo la morte di Peppe: sareb-be stato come se tutti gli sforzi e i sacrifici che avevanofatto in quegli anni difficili non fossero serviti a nulla. Sa-rebbe stato come vanificare i grandi progetti che lei ePeppe avevano fatto per l’avvenire di Guido. Era assolu-tamente necessario fargli frequentare una buona scuolasuperiore, quella dove sarebbero andati i compagni be-nestanti.

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In barba ai consigli di parenti e amici di avviare Guido aun istituto tecnico, cioè verso un diploma che gli offrisseben presto possibilità di lavoro, la Annetta non avevaavuto esitazioni a volere il massimo per lui: il liceo classi-co, quello dove andavano “i signori” e che apriva le por-te all’università. Ci avrebbe pensato lei a mantenerlo aglistudi, a costo di mangiare pane e cipolla e di diventareorba sui vestiti.Anche per questo era indispensabile restare lì. Non l’ave-va mai lasciato il mestiere e anzi si era fatta una certaclientela nel quartiere, nonostante Peppe l’avesse più vol-te invogliata a smettere di fare la sarta, visto che, secon-do lui, non ce n’era più la necessità e che gli dava fastidiovedere tutte quelle donne e quegli stracci per casa.Per fortuna non l’aveva fatto. Era venuto il momento didarci dentro. Una delle stanze della nuova casa, quella unpo’ più grandina, avrebbe dunque ospitato la sartoria:macchina da cucire, tavolo da taglio e da stiro, ometto –cioè il manichino –, il vecchio armadio con lo specchio,ma anche un divano letto per far sedere le clienti e perdormire lei.Nella seconda stanza, i mobili della camera da pranzo sti-le Novecento erano entrati a malapena e certamente nonsarebbe stato possibile utilizzarli per la loro funzione,perché il tavolo era schiacciato tra i due buffet e uno deilati lunghi era a ridosso del letto di Guido. Ma avevano unsignificato particolare per loro e non se ne erano volutiprivare. Così il bel tavolo nero lucidato a specchio, sulquale avevano sognato di celebrare i momenti più solen-ni della loro vita familiare, venne da allora utilizzato daGuido come scrivania, previe adeguate protezioni.Tra una versione di greco e una di latino, Guido si adat-

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tava ad aprire la porta alle clienti e a fare consegne a do-micilio dei vestiti confezionati dalla Annetta. Gli avanza-va il tempo di andare a svagarsi un po’ nell’oratorio e poidi approfittare delle occasioni che la scuola offriva in fat-to di sport, in particolare le corse campestri domenicali,che non richiedevano se non un paio di calzoncini corti ele scarpe di gomma.La sera, la Annetta e Guido si ritrovavano soli soletti a ce-na a chiacchierare e ascoltare la radio, ma soprattutto adarsi coraggio l’un l’altra senza bisogno nemmeno di dirlo.Avevano sofferto tanto a lasciare la vecchia casa piena disole e di ricordi, con le finestre che spaziavano su un pa-norama di Roma che aveva alimentato i loro sogni.Cascasse il mondo, alla puntata al paese non rinunciava-no mai, anche se le permanenze si erano abbastanza ac-corciate, visto che la Annetta non poteva permettersi illusso di stare con le mani in mano troppo a lungo. Ancheper una questione di mancanza di spazio disponibile nel-l’angusto appartamento, lei non poteva dare alla propriaattività una dimensione maggiore e andare al di là diquanto riuscisse a fare da sola o con l’aiuto saltuario del-la signora Irma, una simpatica veneziana abbandonatadal marito, la quale, con il suo carattere allegro, sapevasoprattutto farle compagnia e tenerla su di morale.Le visite al paese servivano alla Annetta anche per scam-biare idee e modelli di carta con la Zoraide, la cui sarto-ria seguitava a marciare bene, nonostante l’abbandono dicampo della Nilde.Perché, zitta zitta, la Nildina si era sposata col suo Chil-lìn: era stato un vero e proprio colpo di mano che avevalasciato spiazzati tutti, da una parte e dall’altra, e cioè pa-renti di lei e di lui. Nessuno li avrebbe mai ritenuti capa-

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ci di osare tanto e nessuno era ormai disposto più a cre-dere che Achille, Chillìn, ormai vicino alla sessantina, sela sarebbe sentita di cambiare vita.E difatti non la cambiò poi molto, perché la Nilde andòad aggiungersi al discreto numero di sorelle, fratelli, co-gnati e nipoti, che costituivano la famiglia di Achille e cheabitavano un grande e articolato caseggiato, ove l’unicospazio di intimità riservato alla nuova coppia era una lu-gubre stanza da letto. Tutto il resto era in comune comein un kibbutz.Annesso al caseggiato c’era il capannone di Achille, consegheria e deposito di legnami. Completava, infine, leproprietà della famiglia, un bar-tabaccheria-trattoria-pensione, così che la piazzetta della stazione ferroviariaera quasi per intero occupata da loro.La Nilde, come tutte le altre donne, doveva dare una ma-no, il che significava non solo stare a turno dietro al ban-co del bar a iniziare dalle cinque di mattina, ma se neces-sario, aiutare in cucina, e tenere dietro agli uomini e cioèlavare e stirare per tutti. E come rifiutare di dare una ma-no, qualche volta, anche a scaricare il legname insiemeagli altri?Chillìn era contento della sua donna e non aveva nulla darimproverarle, se non che le piaceva un po’ troppo dor-mire, specie d’inverno quando faceva freddo e per la neb-bia non si vedeva neppure l’insegna della stazione.I primi tempi la Nilde aveva spesso gli occhi lucidi e ladomenica pomeriggio, quando le era riconosciuto il dirit-to di avere qualche ora solo per sé, andava a piangeredalla Zoraide.Dopo un annetto però mostrò di essersi abituata al nuovogenere di vita e di trovarsi bene in quella casa e guai allo-

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ra a criticare Chillìn o qualcun altro dei suoi. Questa ras-segnazione mandava in bestia la Zoraide e ancor di più laAnnetta, che sottoponevano la povera Nilde a bordate dirimproveri e di commiserazioni, come se fosse ormai di-ventata una povera scema incapace di farsi rispettare.Non avevano capito o non potevano capire per differenzadi temperamento che invece la Nilde era veramente feli-ce, perché aveva avuto finalmente l’occasione per libera-re la sua vera indole, che era quella di una santa.Guido andava spesso a trovarla e lei ne era immensamen-te felice e si prodigava in premure e attenzioni verso dilui e subito dopo verso i nipoti acquisiti, decantando al-l’uno i meriti degli altri e viceversa. Le piaceva, in parti-colare, creargli occasioni di incontro con la Marcella, unaragazzetta in fase di forte sviluppo, che prometteva sen-z’altro bene ma che a lui non interessava, perché ognivolta che rivedeva la Rina ne restava sempre più affasci-nato.In quegli anni avevano avuto diverse occasioni di stareinsieme e conoscersi meglio, soprattutto gite in biciclettacon altri coetanei del paese o come quella volta alla Fiu-ma a pescare e a fare il bagno o ancora una sera anchecon la mamma della Rina e altri adulti a prendere le ranecon le lampade a carburo e la lenza col granoturco. Eranoandati poi tutti alla trattoria del Suldà a farsele cucinarefritte dalla Generosa. E Guido cercava in ogni modo distare il più possibile vicino alla Rina e rimaneva contraria-to quando qualcun altro lo precedeva e la Rina non face-va niente per toglierselo di torno. Allora si indispettiva esi metteva a ridere e scherzare con qualche altra ragazzi-na, fosse pure la Franchina che cresceva più in larghezzache in lunghezza, con la speranza di far ingelosire la Rina

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e siccome lei rimaneva del tutto indifferente si indispetti-va ancora di più e la notte stentava a prendere sonno.“Com’è strana la Rina” pensava Guido. “Non si riesce maia capire che cos’ha in testa”. Quando gli sembrava chetra di loro ci fosse ormai un rapporto diverso che con tut-ti gli altri, eccola far qualcosa come per far intendere chenon era affatto così. Soprattutto ora che era diventataproprio una bella ragazza. Eppure…Guido incominciava a essere sospettoso e geloso.La notte è calda ma luminosa come di rado accade nellaBassa e loro si trovano soli mentre il resto della compa-gnia si è fermato a prendere un gelato. Forse non è capi-tato per caso. Lo hanno desiderato entrambi. Si incammi-nano silenziosi verso la parte più buia della villa comuna-le, dove si notano palpitare delle piccole luci.– Ma guarda! Ci sono le lucciole laggiù – fa lei prenden-dolo per la prima volta per mano. Sono avvolti da sciamidi lucciole danzanti e di stelle e del resto della compagniarimane soltanto l’eco di parole e di risa lontane. È anco-ra lei a prendere l’iniziativa: si stringe di più al fianco diGuido avvolgendogli il braccio con il suo. Lo guarda inuna maniera nuova. Anche nei suoi occhi blu danzanosciami di lucciole e di stelle. Si ritrovano uno di fronte al-l’altra e Guido si accorge di tremare quando si decide dibaciarla come si può fare la prima volta.La Rina non ne aveva voluto sapere di andare ad abitarenella nuova casa dove la Elisa si era sistemata dopo il ma-trimonio con un operaio della maglieria di Carpi.Era rimasta in quella di famiglia sopra l’osteria del Suldà,ma ora andava sempre più spesso a trovare gli altri non-ni, i Toursàn.Erano stati mesi difficili quelli che avevano preceduto il

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matrimonio e dolorosi per madre e figlia. Ma la Rina nonera stata capace di accettare l’idea che la figura del pa-dre venisse sostituita da un estraneo qualsiasi, senza unastoria, e se aveva ormai l’età sufficiente per capire le esi-genze di una donna giovane, bella e piena di vita come laElisa, non ne condivideva la scelta. Era per lei un oltrag-gio alla memoria e alla figura del padre, che era abituataa sentire esaltata in casa e nelle cerimonie ufficiali.Questa figura l’aveva accompagnata e sorretta fino ad al-lora, compensando con l’orgoglio della memoria l’assen-za di tutto ciò che l’abbraccio del padre le avrebbe dona-to. E cercava di immaginarselo, tentando di creare nellasua fantasia il tepore del contatto fisico con il padre el’odore del suo corpo.Dimostrava sotto questo profilo una sensibilità esaspera-ta, che minacciava di contagiare altri aspetti del suo ca-rattere. Soffriva lei e faceva tribolare forse ancora di piùla Elisa che, dopo aver dato tutta la propria giovinezza aquella figlia, riteneva di meritare almeno un po’ di com-prensione.Ciò che la addolorava di più era che la Rina si sottraevaalle sue premure o le subiva con ostentato fastidio, comese volesse farle capire che ora non aveva più il diritto dioccuparsi di lei. Era come se la Rina fosse caduta in unvortice che la trascinava sempre di più in un abisso di di-sprezzo e crudeltà d’intensità pari all’affetto prima river-sato sulla madre. Era come se le negasse il diritto di es-sere ancora sua madre.Non si confidava con nessuno la Rina e teneva tutto den-tro di sé, ma in paese sapevano di questa situazione ecompativano la Elisa, ma provavano anche pena per labella Rina che non sorrideva più.

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– Sai qual è il mio vero nome? È Libera; ti piace? – È un bel nome, ma anche Rina mi piace – risponde Gui-do.– Prima di morire, mio padre lasciò scritto di chiamarmiLibera. Tu sai la storia di mio padre. Era un partigiano.Venne catturato dai fascisti durante un’azione e poi tor-turato e fucilato. È medaglia d’oro della Resistenza.– Sì lo so, me l’hanno raccontato i miei. Ho visto la lapi-de in piazza…– Non sarai mica fascista tu? Roma deve essere piena difascisti. – Beh, sì. Cioè, no. Voglio dire io no, ma al liceo ce n’era-no molti di “Giovane Italia”. All’università sarà ancorapeggio. Il Fuan è forte – risponde genericamente Guidosperando che la Rina non tocchi più quel tasto, perché inrealtà a lui quelli della “Giovane Italia” non stavano anti-patici. Anzi un paio dei suoi migliori amici erano propriodei gruppi giovanili del Movimento Sociale Italiano e in-sieme a loro aveva partecipato ad alcune manifestazioni,come quelle contro l’invasione sovietica dell’Ungheria. Liaveva poi aiutati a organizzare, grazie alle sue entraturenella parrocchia, una messa in suffragio dei caduti nel-l’insurrezione ungherese e l’iniziativa aveva riscosso uncerto successo, tanto che ne avevano parlato “Il Tempo”e “Il Secolo d’Italia”. Degli insegnanti del liceo, ricordavaquasi con affetto il professore di filosofia, che era di de-stra come il fratello regista cinematografico gradito al re-gime fascista. Ma c’era di più: era tesserato alla “SocietàSportiva Fiamma”, che faceva indossare ai propri atletitute e magliette rigorosamente nere. E lui aveva diversefotografie in quei panni. Era assolutamente necessarioche la Rina non venisse a sapere nulla di tutto questo.

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Del resto tale era l’ambiente nel quale era cresciuto: an-ticomunista. Per i preti della parrocchia, per la gran par-te degli insegnanti, per i coetanei delle famiglie perbenedel quartiere il comunismo era il vero pericolo, non i no-stalgici del fascismo. E anche i poliziotti e i carabinieri diservizio alle manifestazioni sembravano guardare conuna certa indulgenza i ragazzi della destra, amanti dellapatria e dell’ordine. Ce n’erano di comunisti in giro, an-che tra gli insegnanti. Bastava guardarli!Guido si spaventa all’idea che la Rina possa leggergli nelpensiero e cerca di cambiare discorso, ma niente.– Hai visto che cosa è successo a Reggio Emilia qualchesettimana fa? Cinque morti per colpa dei fascisti. Tutti diqueste parti!Guido aveva seguito durante l’estate le cronache dei di-sordini che erano successi in varie parti d’Italia, dopo cheil governo Tambroni aveva dato il suo assenso al Movi-mento Sociale Italiano a tenere il congresso a Genova.Anche a Roma, a Porta San Paolo, c’erano stati incidentie i carabinieri avevano addirittura fatto una carica di ca-valleria per disperdere i dimostranti. I suoi amici “fasci”si erano esaltati per questa prova di forza che finalmen-te il governo aveva dato. E i “compagni” se l’erano busca-te. A Genova e a Reggio Emilia però era stata dura per-ché molti comunisti – tutti ex partigiani – erano compar-si in piazza armati. Molti erano stati i feriti, anche gravi,tra le forze dell’ordine. Che cosa avrebbero dovuto fareallora i poliziotti? Farsi massacrare tutti? Anzi, troppobravi erano stati!– Non mi dici niente tu? Non te ne importa niente diquello che succede? – incalza la Rina.– Certo che m’interessa. Dico però che bisogna vedere

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anche come sono andate le cose. Non credo che i poli-ziotti siano degli assassini… – azzarda Guido senza riu-scire più a trattenersi e il visino della Rina avvampa dicolpo.– Allora per te va bene che i fascisti tornino a comanda-re. Che quelli che hanno torturato e ucciso mio padre…– Ma cosa c’entra questo, adesso…– Lo sapevo! Sei un fascista, o se non sei fascista sei unasino, anche se hai preso la licenza liceale e andrai al-l’università – e così dicendo si allontanò quasi correndo.

Di lì a qualche giorno ci sarebbe stata la “Fiera millenariadi Gonzaga”, un evento importante per quelle zone, che sicelebrava fin dal quindicesimo secolo per iniziativa pare diFrancesco II Gonzaga, il quale caduto malamente da caval-lo nei pressi del paese, pensò bene di ringraziare la Ma-donna per non averci rimesso la pelle dedicando in suoonore una grande festa per l’otto settembre di ogni anno,non solo religiosa ma anche di svago per il popolo e di li-bero commercio senza imposizione di gabelle.Se nei secoli passati convenivano dunque a Gonzaga peri primi di settembre contadini, artigiani, commercianti,allevatori di bestiame con ovini, bovini, suini e animali dacortile, zingari, saltimbanchi e malandrini, col progrediredei tempi la fiera aveva assunto sempre di più connota-zioni industriali, ma non aveva ancora perso il suo carat-tere popolare e rurale e gli animali seguitavano ad avereil loro spazio accanto alle nuove macchine per l’agricoltu-ra e ad altri prodotti della vivace inventiva delle molteaziende locali.Per la fiera si mobilitava anche la famiglia di Achille, Nil-de compresa, non solo per fare fronte alla numerosa

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clientela che affollava in quei giorni il bar e la trattorianel piazzale della stazione, ma anche per condurre fino anotte inoltrata il chiosco con tabaccheria, che Chillìn erariuscito ad accaparrarsi nel comprensorio della fiera.Si mobilitavano anche le donne per dare una mano in cu-cina nell’immenso tendone dell’“Unità”, dove si potevagustare alla sera un piatto di cappelletti in brodo sedutiuno accanto all’altro sulle lunghe panche di legno, al suo-no di una orchestrina con fisarmonica e sassofono in po-sizione dominante. La Generosa del Suldà ci andò come sempre anche quel-la volta portandosi appresso la Rina e Guido la trovò astricar, cioè a confezionare a mano i cappelletti.Guido si avvicina timoroso al piccolo esercito di donneindaffarate e con le mani e i grembiuli bianchi di farina.C’è anche Rina, ma non vociante e sorridente come le al-tre. È a testa china e si vede che sta inseguendo i suoipensieri, quasi imbronciata. Non si sono più visti dopoquella discussione ed è passata quasi una settimana daallora. Non si accorge di lui e Guido rimane lì a guardar-la e le appare ancora più desiderabile in quella dimensio-ne casalinga. È la Generosa a sciogliere inconsapevol-mente la sua situazione di imbarazzo:– Toh, guarda chi c’è: Guido! Rinaa, hai visto?Lei spalanca le finestre degli occhi.– Andate a ballare, voi che siete giovani – li incita quasigridando la Generosa con l’approvazione evidente delleamiche.Rina si leva il grembiule e si spazza di dosso la farina, maquando si avvicina a Guido ancora odora di sfoglia e delpesto dei cappelletti.Se ne vanno senza dire niente verso la pista da ballo.

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L’orchestra già ci dà dentro e molte sono le coppie di tut-te le età che piroettano sull’onda di una mazurca.Guido è in imbarazzo. Sa a mala pena fare il ballo dellamattonella, figuriamoci il liscio! Ma la Rina se lo trascinain pista e lui non si sente di resistere e di sprecare l’oc-casione di stringerla. Lei parte in quarta, ma s’accorge subito che Guido è a di-sagio. Sorride e cerca di guidarlo, ma dopo qualche mi-nuto di sofferenza ecco che l’orchestra conclude la ma-zurca tranciandola di netto. Seguono istanti di silenziodurante i quali loro si staccano. Poi parte a sorpresa unmotivo lento e romantico: “Estate”, un successo di Bru-no Martino. Il cantante che lo imita marca troppo emilia-no, ma va bene lo stesso. Lui non sperava tanto. Ora se la può stringere come vuo-le e alla Rina non dispiace, anzi stringe anche lei abban-donando la testa sulla sua spalla. Poi il guancia a guanciae ritornano tra gli sciami di lucciole e tra le stelle di qual-che sera prima.Quando il cantante esala l’ultima nota, rimangono anco-ra stretti, confusi tra le altre coppie. Ma l’incanto finiscecon una bordata di liscio e loro lasciano la pista andandoverso il luna-park.Lei vorrebbe andare sull’autoscontro, ma Guido è inveceattratto da una grande giostra di quelle tradizionali, ba-rocche, piene di figure, con i cavalli ornati di pennacchie di specchietti e le carrozze dorate sulla pedana di legnoche rimbomba sotto i piedi. Quel mondo fantastico ani-mato da bambini festanti che gira lentamente al suono diun valzer e lo affascina da sempre. Chissà perché. Rina loasseconda non troppo convinta.

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Guido è seduto sulla panchina di pietra del giardinettodella stazione in attesa dell’accelerato per Modena. Il tre-no col fumo è stato sostituito da un trenino con motricediesel. La vacanza al paese è finita. Accanto a uno dei ca-pannoni della stazione c’è un merci che sta caricandobarbabietole e l’aria già fresca di qualche temporale lon-tano è appesantita dal loro odore greve.Gli giungono le voci della Annetta e della Nilde che sistanno scambiando i saluti e le ultime raccomandazioni,animata la prima, remissiva la seconda. Le può scorgerenel giardino della Nilde tra le lenzuola stese, le rose, i ge-rani e le petunie dai colori morbidi.Tornato a casa dovrà decidere che cosa fare, quale facol-tà scegliere, ma anche trovarsi un qualche lavoretto, per-ché non può fare il signorino e gravare ancora sulle spal-le della Annetta, anche se lei non esiterebbe a tirare sul’ago per tutta la vita o a inventarsi qualsiasi cosa per far-lo diventare, dice lei, un pezzo grosso, magari un grandemedico, un architetto, un ingegnere. O di mandarlo al-l’Accademia Navale di Livorno. E se lo sognava cadetto dimarina nella elegante divisa bleu e con lo spadino, imbar-cato sulla “Amerigo Vespucci”, come il figlio di quellavacca della Esilde. Se c’era riuscito lui con quella facciada cafone… Mai comunque impiegato o avvocatuccio daquattro soldi! Guido non ha affatto le idee chiare, ma non per questo sisente confuso o impaurito. Gli sembra di poter far tutto,di avere un tempo illimitato per scegliere e per cambia-re, di avere mille possibilità davanti a lui.La vita gli sorride e gli pare un’avventura meravigliosa,una regione incantevole da esplorare, sempre nuova esconfinata come la grande pianura che ha davanti agli oc-

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chi nella limpida mattinata settembrina, con i casolaripersi tra le vigne e i frutteti, i riquadri verdi di erba me-dica, i campi ancora lussureggianti di granoturco, la gras-sa terra smossa per le prossime semine, gli argini del Pocon le file di pioppi, un campanile a cuspide. E lontanis-sime in direzione di Verona si intravedono le prime colli-ne e la fantasia e la speranza possono galoppare versonuovi orizzonti.L’ama profondamente quella terra, è dentro di lui ancorapiù di prima, perché c’è Rina e non poteva essere diver-samente.Gli dispiace come non mai partire. Si scriveranno, ma giàgli sembra di non vederla da un secolo.Le ha lasciato un portachiavi che ha vinto al tiro a segnoalla fiera di Gonzaga quando erano insieme: uno scoiatto-lo di gomma che a stringerlo gonfia le gote e squittisce.

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L’ORGANIZZAZIONE

I

È la terza o quarta volta che Guido legge quel foglio ma-lamente ciclostilato con l’emblema della stella a cinquepunte. Vuole capire bene chi sono e che cosa voglionoquesti dell’Organizzazione, ora che è stato assegnato alnucleo antiterrorismo.È orgoglioso di essere stato chiamato, nonostante la suascarsa anzianità di servizio, a far parte di quell’organismodi élite e che gli sia stata data la responsabilità dellasquadretta investigativa che dovrà occuparsi di eversio-ne e terrorismo di sinistra. La materia lo appassiona.Due missini assassinati nella sede del partito a Padova. È la prima volta che l’Organizzazione si sporca le mani disangue. C’erano stati fino ad allora attentati e azioni di-mostrative che attestavano il livello e la capacità offensi-va raggiunte dal gruppo: incendi di autovetture di capet-ti nei complessi industriali soprattutto del milanese, ilgrande rogo del deposito pneumatici, i sequestri lampodi dirigenti d’azienda, rapiti e sottoposti a rapidi proces-si popolari, a punizioni esemplari inflitte dalla “giustiziaproletaria”. Poi lasciati alla gogna, magari attaccati a unpalo della luce con un cartello al collo: “Colpiscine unoper educarne cento”.Poco tempo prima del duplice omicidio di Padova però,l’Organizzazione aveva portato a segno a Genova unaazione ben più ardita e complessa di quelle precedenti,tenendo il governo, le forze di polizia, l’opinione pubbli-ca sulla corda e col fiato sospeso per oltre un mese: il se-

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questro di un magistrato, il quale aveva sostenuto l’accu-sa in diversi processi a carico di estremisti di sinistra. Perrilasciarlo avevano chiesto la liberazione di alcuni dete-nuti di una banda di rapinatori politicizzati. Ma il procu-ratore generale aveva scelto la linea della fermezza, cau-sando gravi lacerazioni nel mondo politico e fra gli stessicolleghi del magistrato rapito.Polizia e carabinieri, nonostante gli sforzi, non erano riu-sciti a trovare la “prigione del popolo” e si era temuto chel’Organizzazione facesse fuori l’ostaggio perché le richie-ste non erano state assecondate.Il magistrato, invece, era stato inaspettatamente rilascia-to quando e dove i suoi carcerieri avevano voluto. Nel vo-lantino finale l’Organizzazione diceva di averlo fatto permettere il procuratore generale di fronte a precise re-sponsabilità e poi per far esplodere le contraddizioni chedurante il sequestro si erano manifestate dentro gli appa-rati dello Stato.Una bella prova di potenza sotto il profilo operativo e unlucido e perfido disegno politico da parte dei terroristi.Un bell’ultimatum al procuratore generale…Ora questo brutto fatto di Padova. Nel loro volantino iterroristi fanno chiaramente intendere che l’azione allasede del Movimento Sociale doveva essere soltanto di-mostrativa e che il duplice omicidio era stato un inciden-te sul lavoro dovuto alla reazione dei missini presenti neilocali. C’è da credergli, secondo Guido.“Portare l’attacco al cuore dello Stato! Lotta armata peril comunismo!” così si conclude il volantino.Il salto è fatto e per il futuro c’è da aspettarsi semprepeggio.Che cos’è l’Organizzazione? Se lo chiedono tutti. Il Parti-

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to comunista fa intendere che si tratta in sostanza di pro-vocatori.Ma a Guido tutto questo non sembra del tutto plausibile.Il discorso dell’Organizzazione gli pare genuino e coeren-te. Nessuno, secondo lui, sarebbe in grado di simularetanto bene, provenendo da esperienze diverse da quelledella sinistra estrema. Per fare certi progetti, per scrive-re certe cose non si può improvvisare. Bisogna avere del-le convinzioni profonde, un’esperienza alle spalle, unacultura comunista. Che cosa significa comunista dopo tutto? Aveva affronta-to l’argomento nei mesi precedenti con un suo compagnod’infanzia, il Cacalocchi, sì proprio il Cacalocchi che dabambino frequentava la parrocchia insieme a lui. Era di-ventato un attivista del Partito comunista e di quelli seri,destinati a fare carriera. Rivestiva un ruolo importantedentro la federazione giovanile romana e lui l’aveva in-contrato per caso a una manifestazione, dove era statocomandato di servizio. Avevano discusso ore e ore sul-l’Organizzazione, Feltrinelli, Lotta Continua, Potere Ope-raio, Mao, la guerra nel Vietnam, Che Guevara, Fidel Ca-stro…Il Cacalocchi non credeva neppure lui a una cosa costrui-ta ad arte da abili simulatori di diverso segno. Sia purecon molta circospezione e tra discorsi complicati, gli ave-va fatto capire di sospettare che si trattasse di qualchecompagno impazzito. Era interesse anche del partitoscovarli per evitare che facessero danni, come quegli al-tri imbecilli dei gruppettari.– Eppure, caro Sandro, certi discorsi si sono sempre fat-ti in casa vostra…– aveva detto provocatoriamente Gui-do, non osando chiamare più col soprannome il suo vec-

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chio amico. In effetti il Cacalocchi aveva assunto unaspetto ieratico che incuteva soggezione: alto, legger-mente curvo, con un testone di capelli irti, occhialini ton-di ed espressione mesta che ricordavano Gramsci. E luifaceva di tutto per accreditare tale somiglianza.– Ma non dire fesserie! – aveva replicato con il suo tonoprofessorale. – Fin dai tempi di Togliatti, il nostro partitoha bandito la violenza dal suo modo di fare politica. La ri-voluzione che noi vogliamo è quella che passa attraversoi meccanismi del confronto democratico. Basta rilegger-si un po’ la storia. Già con la svolta di Salerno, Togliatti…– Infatti! Basta vedere quello che accadde ai tempi delgoverno Tambroni – aveva replicato Guido sorvolandosulla svolta di Salerno che non ricordava bene cosa fos-se. – Avete scatenato la piazza allora. Sono ricomparse learmi!A questo punto il Cacalocchi aveva assunto una espres-sione di una durezza inusitata sibilando: – Se vengonosuperati certi limiti, il discorso è diverso. E tu sai perfet-tamente che cosa successe nel Sessanta e che aria tira-va. In ogni caso, anche in quella circostanza, il nostropartito cercò di controllare la situazione.Poi riconquistata la calma, aveva ripreso in tono pacatoma meno professorale del solito e quasi confidenziale:– Noi stessi ci trovammo spiazzati. A fare casino fu unamassa di gente fuori del nostro controllo, gente che si erastaccata dalle organizzazioni politiche tradizionali, unmovimento nuovo fatto di operai e studenti. Accanto aloro però anche ex partigiani, armati effettivamente. Maquali partigiani? I delusi della Resistenza, quelli che lostesso Togliatti riusciva a controllare a fatica nel dopo-guerra, quelli che avrebbero voluto che la guerra di libe-

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razione si traducesse in guerra di classe per la conquistadel potere. Ma ti pare possibile? Dopo Jalta? Degli illusiallora, pericolosi, che accusavano e accusano il partito ditradimento. Ti ricordi l’attentato a Togliatti nel 1948? An-che allora questi illusi speravano che si fosse presentatal’occasione buona per prendere il potere e istaurare ladittatura del proletariato. E ricomparvero in piazza ar-mati, ma Togliatti li rimandò a casa!– Se non mi sbaglio – osservò Guido – anche quella voltafu Genova a dare certi segnali.– Ricordi bene. Fu proprio Genova, medaglia d’oro dellaResistenza, da dove viene il tuo ministro. Anche lui è sta-to partigiano, partigiano bianco. Vedi di quante razze cen’erano. Genova è stata anche l’epicentro dei moti delSessanta. Del resto l’insulto lo ricevette la città, perché lìi fascisti avrebbero voluto tenere il loro congresso con labenedizione di Tambroni. I morti poi ci furono soprattut-to a Reggio Emilia e anche questo ha il suo significato.– Lo so. Lo so bene – disse Guido sentendo stringersi ilcuore.– Ma mi stai seguendo? Che t’è preso? Ti vedo come as-sente.– Mi sono distratto un attimo; mi sono tornate in mentecerte storie mie…Sandro era troppo infervorato dall’argomento per chie-dere spiegazioni a Guido su vicende personali e aveva giàripreso di buona lena la sua analisi, come spinto dall’esi-genza di chiarire anche a se stesso certi passaggi delica-ti: – Non a caso Reggio Emilia, ti stavo dicendo. L’Emiliadove più aspro è stato lo scontro durante la Resistenza edove qualcuno ha voluto che il mito della rivoluzione distampo marxista-leninista passasse in eredità alle giova-

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ni generazioni, mentre noi stavamo coltivando il mitodella riconquista della democrazia e i progetti più con-creti della ricostruzione del Paese. Ma anche la Lombar-dia, il Piemonte, il Veneto, la Liguria, e cioè le regioni do-ve dentro una classe operaia forte, preparata e vigile cisono anche gli esaltati. Non vi siete chiesti come mai pro-prio a Genova è nata la prima formazione armata, la“XXII Ottobre”? Avete analizzato le biografie degli arre-stati? C’era di tutto là dentro: gruppettari, proletari deiquartieri più popolari di Genova e anche ex comunisti edex partigiani. Ma perfino gente proveniente dalla sinistracattolica. Insomma, uno spaccato dei movimenti deglianni Sessanta. Avete mai riflettuto su quanto è accadutoin quella decina d’anni?– C’è stata la contestazione al sistema. E allora? – replicòprovocatoriamente Guido. – È anche roba vostra. I miti delSessantotto non sono Fidel Castro, Che Guevara, Mao?– Io spero che tu stia scherzando. O sei veramente ottu-so e ignorante fino a questo punto? Mi ricordi un tuo col-lega anziano del commissariato di zona, con cui sono sta-to in contatto per un certo tempo per le nostre manife-stazioni. Andavo insomma da lui per notificarle e per ca-pire che aria tirava. Una brava persona in fondo, ma chepena! Per lui tutti quelli che scendevano in piazza conuna bandiera rossa erano comunisti e cioè sovversivi:maoisti, autonomi, Lotta Continua, Partito Comunista,tutti la stessa cosa. Come si può fare un mestiere come ilvostro senza capire quello che succede dentro la società?Ecco perché poi vengono fuori i casini! Per fortuna nonsiete tutti così. La polizia va smilitarizzata. La democra-zia deve entrare anche nelle vostre caserme.– Ne conosco anch’io qualcuno dei nostri sindacalisti ag-

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ganciato alla confederazione. Tutta gente che si sta fa-cendo egregiamente gli affari suoi. Questo mestiere nonsi può fare timbrando il cartellino delle otto ore.– Guido, posso essere sincero? I tipi come te sono peri-colosi. Cerca di ragionare, ché l’intelligenza e la culturanon ti mancano. Leggi, documentati, rivediti la storia piùrecente di questo disgraziato Paese. Chiediti perché cisono le stragi, le manovre golpiste. Capirai anche forsecome possa essersi sviluppata la logica della lotta arma-ta, l’idea di far politica con le armi, il partito armato. Io tiposso aiutare.Guido rimase in silenzio. Perché tanta disponibilità daparte del Cacalocchi? Ne sapeva però di cose! E sembra-va ben addentro anche alle faccende della polizia. C’erada fidarsi?L’amico parve intuire le sue perplessità:– Se non lo sai, io sono in contatto da tempo con l’UfficioPolitico della questura. Non lo faccio evidentemente dimia iniziativa. È il compito che mi è stato assegnato dalpartito. Il terrorismo è un problema anche nostro e voglia-mo capire. Rischiamo di diventare anche noi degli obiet-tivi dell’Organizzazione, oltre che a riceverne danni indi-retti. Non vedi che ci accusano sempre più spesso di revi-sionismo? Ma abbiamo occhi e orecchie dentro le fabbri-che, fra i lavoratori, nei quartieri. Possiamo meglio di voicogliere dei segnali… Secondo me, noi dobbiamo restarein contatto perché possiamo fare un buon lavoro insieme.Non ti aspettare però da noi la spiata di basso livello.Guido ripensa a quel colloquio, mentre rigira tra le maniil volantino. Lo rilegge per l’ennesima volta.Effettivamente ci sono scorie di odio che riportano indie-tro nel tempo, ma traspare nello stesso tempo la volontà

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di non appiattirsi sull’antifascismo. Sandro il Cacalocchiha ragione: c’è un filo rosso, ma il progetto è ampio… Bi-sogna studiare, capire perché. La mente corre al paesedella Bassa, alle lapidi partigiane. Il papà di Rina perònon aveva impugnato le armi per la presa del potere, maper riconquistare la libertà.Ancora la Rina! Ancora il ricordo di lei.Si è fatto tardi. Nella caserma che ospita l’antiterrorismosono rimasti solo i piantoni. Guido infila la Colt 38 Spe-cial nella fondina legata alla caviglia. La moda dei panta-loni a zampa d’elefante facilita questa soluzione strava-gante, che consente però di nascondere bene l’arma.La guardia di pubblica sicurezza che gli fa da autista, no-me di battaglia il Fachiro, se la dorme alla grande sedu-to al posto di guida della Giulia. Si sveglia di soprassaltoquando Guido richiude con un colpo secco la portiera.Rimane per qualche istante inebetito con lo sguardo per-so nel vuoto. Poi realizza, si stropiccia gli occhi, raddriz-za lo schienale e mette in moto la macchina.– M’ero appena appisolato, dotto’. Comandi! Dove andia-mo?– Ma dove cazzo vuoi andare a quest’ora? A casa, no! Pe-rò domani mattina mi vieni a prendere alle sei insieme aSnoopy e al Ruspante. Andiamo a Padova per qualchegiorno.Cerca di fare meno rumore possibile mentre apre la por-ta di casa, ma la Annetta è ancora sveglia:– Ti ho aspettato fino a poco fa – la sente dire con la vo-ce assonnata dalla sua stanza nell’oscurità. – Come maicosì tardi? – Sempre la storia dei due missini ammazzati ieri a Pado-va.

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– Avete trovato qualcosa?– No. Ma pensa a dormire. Io domani mattina, cioè allesei, devo partire per Padova.– Uh, figlio mio! Vai a mangiare subito. Ti ho lasciato tut-to sulla tavola. Poi vai a dormire anche tu, sennò domaninon stai in piedi. Metto la sveglia anche io, così ti prepa-ro la colazione.C’è del roast beef, formaggio e frutta. Anche ai tempi del-la scuola, quando era sotto esami, la Annetta gli compra-va il roast beef, mentre lei mangiava la frittata con le ci-polle perché – diceva – le piaceva di più.

II

La Annetta era rimasta fortemente delusa quando Guidosi era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza e ancora dipiù quando era entrato in polizia.Lui però non se l’era sentita di imbarcarsi in studi che, ri-chiedendo una costante presenza alle lezioni, non gliavrebbero consentito di lavorare e studiare allo stessotempo, senza gravare ancora sulle spalle della madre.Andava di rado all’università, umiliato da quella sceltanecessitata e invidioso dei coetanei che frequentavano lefacoltà scientifiche, i laboratori, le cliniche universitarie,tutti quei luoghi insomma dove lo studio era scienza, ap-plicazione pratica, sperimentazione e non soltanto teo-ria. Ma era la sua un’invidia senza risentimento, anzi unasorta di ammirazione per quanti potevano fare ciò cheanche a lui sarebbe piaciuto e da cui si sentiva al momen-to, ma solo al momento, escluso. E pur provando imba-razzo come un disabile in mezzo agli atleti, coglieva ogni

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occasione per andarli a vedere nelle aule affollate con lelunghe lavagne piene di formule e per confondersi fra lo-ro, nascondendo i suoi libri di diritto.La sua avversione era in particolare proprio verso le ma-terie giuridiche in senso stretto, verso le leggi e i codici esoltanto gli aspetti storici del diritto suscitavano in lui unqualche interesse, proprio perché lasciavano il diritto insecondo piano per far emergere gli eventi.Si illudeva che quella non fosse la sua scelta definitiva,che fosse soltanto una fase di passaggio, che avrebbeavuto poi l’occasione di ricominciare daccapo, che co-munque non sarebbe finito dietro a un tavolino a girarescartoffie.Sognava sempre di poter fare ancora mille cose, comequando da ragazzo si sedeva sulla panchina di pietra del-la stazione del paese e lo sguardo si perdeva all’orizzon-te della grande pianura lasciando libera la fantasia dispingersi oltre la percezione del paesaggio per immagi-narlo nei suoi aspetti più segreti e al di fuori dello spazioe del tempo. Amava illudersi, senza cadere però nell’inerzia e nell’ab-battimento di fronte alle contrarietà, perché le sue illu-sioni erano fondate sulla inesauribile fiducia in un avve-nire migliore, che lo induceva a riguardare le difficoltàcome semplici incidenti di percorso, fastidi passeggeri invista di un domani senz’altro luminoso.Con questo spirito era entrato in polizia, come fosse ilservizio militare, un’esperienza da fare prima del passodefinitivo, la vera scelta di vita.Del resto con la laurea in legge non poteva aspirare a nul-la di più avventuroso e operativo che il lavoro del commis-sario di polizia, in effetti per nulla monotono o impiegati-

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zio, fortemente calato nella realtà, dinamico e attraenteper chi come lui amava anche una certa dose di rischio.Mai avrebbe pensato di rimanerne in pochi anni coinvol-to al punto da far sbiadire altre prospettive e da incidereanche sui suoi atteggiamenti, sul modo di rapportarsi aglialtri e alle cose. Sul modo di pensare. Quanto poi questa mutazione fosse profonda e non soloesteriore Guido non lo percepiva nitidamente, come for-se non lo avvertono certi insetti che oltre alla corazzacambiano anche la natura.Ad affascinarlo non era certamente il mestiere dello sbir-ro in sé per sé, ma i problemi dei quali ora doveva occu-parsi a tempo pieno, e cioè il terrorismo rosso: non sitrattava di andare tanto e solamente alla ricerca dell’au-tore di un delitto o di una serie di reati più o meno gravi,cioè di fatti singoli, frutto di spinte criminali di singoli in-dividui, ma di cercare di capire il perché di fenomenicomplessi, strettamente collegati alla evoluzione dellasocietà e alla politica attuali. La scoperta dei responsabi-li di un attentato rimaneva senz’altro importante, ma erasolo la fase finale di un percorso ben più complesso, checonsisteva nell’individuare i componenti di organizzazio-ni clandestine, portatrici di un progetto politico, di capi-re bene da dove venivano, come si muovevano e qualiobiettivi intendevano raggiungere.– Tu hai idee troppo complicate di questi merdaioli – lorimproverava non sempre bonariamente il suo diretto su-periore Vittorio soprannominato il Bimbo, un quaranten-ne dalla forte stazza con l’espressione di pupone peren-nemente imbronciato. – Quasi li giustifichi. Sono soltan-to dei vigliacchi e degli assassini. Noi, per fortuna, nonsiamo né politici, né sociologi, né psicologi. Il nostro

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compito è quello di buttarli in galera, prima che combini-no altri guai.– Cercare di capirne le cause non vuol dire giustificareun fenomeno – ribatteva Guido, – né voler fare i sociolo-gi. Certo a noi tocca arrestarli, ma qui non si può proce-dere con la logica del botta e risposta. I fatti dimostranoche non funziona! Solo ora è stato creato un organismodi polizia che si occupa a tempo pieno di questi proble-mi. Secondo me se non ci organizziamo bene, l’attacco alcuore dello Stato ce lo fanno veramente. Allora bisognaprima di tutto capire; sì, capire anche le cause di questotipo di terrorismo e chi ne sono i fondatori. Certo, nontocca a noi intervenire sulle cause, ma noi possiamo apri-re gli occhi ai nostri politici… Ci vuole una strategia an-titerrorismo a trecentosessanta gradi. L’azione repressivapuò non bastare.– Adesso mi hai scocciato con questi discorsi in politiche-se. Chi sono e da dove vengono ce lo dicono loro stessi –tagliava corto il Bimbo. – Sono comunisti, marxisti-leni-nisti, che provengono dai vari gruppi della sinistra extra-parlamentare: Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Po-tere Operaio. Sono i frutti del Sessantotto, della conte-stazione al sistema! Ma l’origine è alla lunga la stessa: co-munisti.– Vuoi dire che è colpa del Partito comunista se ci sono ibrigatisti?– La famiglia è quella…– Dài! Lo so che lo dici solo per fare polemica e che nonci credi nemmeno tu. Il partito è incazzatissimo coi grup-pettari, perché gli sottraggono consensi tra i giovani. Amaggior ragione con l’Organizzazione, che rischia di spor-care l’immagine che il partito sta cercando di dare di se

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stesso, del comunismo all’italiana che prende sempre piùle distanze dal proprio passato stalinista e anche dal-l’Unione Sovietica di oggi. Che diversi gruppettari e terro-risti possano venire dalle file del partito o del sindacatonon significa proprio nulla, anzi fa risaltare ancora di piùla rottura con il partito e questa rottura risale in effetti,come dici tu, ai tempi della contestazione, che è stata es-senzialmente il rifiuto della politica tradizionale e dei par-titi, ma anche di più e cioè il campo scuola delle lotte perla presa del potere. E mi spiego: le occupazioni dellescuole e delle università, la neutralizzazione dei loro qua-dri di comando hanno dimostrato che la rivoluzione è pos-sibile. Del resto in questi anni gli stimoli per le sinistreestreme di tutto il mondo sono stati molti: la resistenza al-l’imperialismo americano in Vietnam e nell’America Lati-na, i personaggi mitici che la rappresentano…– Allora, invece di fare il filosofo, incomincia a esamina-re gli elenchi dei militanti dei gruppi extraparlamentarisoprattutto di Milano, Torino e Genova per vedere chi èche è sparito, chi si è allontanato da casa per darsi allaclandestinità…– Ma sono centinaia e centinaia di nomi! – Allora trova dentro al Partito comunista qualcuno di-sposto a spifferare. Loro lo sanno chi sono… – aveva ta-gliato corto il Bimbo che dava ormai segni di irritazione.A lui andava molto più a genio un collega di corso di Gui-do, che era in servizio alla squadra mobile, ma che avevaavuto già modo di farsi apprezzare per una operazionecontro alcuni esponenti di un collettivo, scaturita fortu-nosamente da un fermo al termine di una manifestazioneviolenta nel quartiere di San Lorenzo e spacciata peroperazione antiterrorismo.

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I suoi stessi collaboratori gli avevano affibbiato il sopran-nome di conte Dracula per diversi punti di somiglianzacon il vampiro transilvano: il pallore del volto, gli occhileggermente iniettati di sangue, i capelli precocementegrigi, una espressione altezzosa e fredda nella quale si in-travedeva crudeltà. C’era in lui la ricerca spasmodica del-la grande occasione, così che lo si vedeva piombare comeun sinistro volatile ovunque ci fosse casino, non per soc-correre i colleghi ma per acquisire meriti meglio se a lo-ro danno.Dunque, mentre i disordini ancora divampavano a SanLorenzo, il conte Dracula si era fiondato sul posto ed erariuscito ad acciuffare con la sua squadraccia un ragazzocon un paio di bottiglie Molotov nel tascapane. Subitoperquisizione a casa in stile cileno e nella stanza dellanonna paralitica era saltata fuori una vecchia Beretta mi-litare calibro 9 corto e alcuni vecchi numeri di un giorna-le clandestino che alla sua prima uscita aveva dato noti-zia, a suo tempo, della nascita dell’Organizzazione. An-che troppo per incastrare il ragazzo spacciandolo per unterrorista.L’odore di gloria aveva eccitato il conte Dracula, il qua-le aveva subito esteso le perquisizioni a quanti figurava-no nell’agendina del ragazzo, sequestrando quella chenel rapporto alla magistratura veniva definita “documen-tazione eversiva in corso di esame” e cioè volantini ciclo-stilati di collettivi studenteschi, copie di “Lotta Conti-nua”, di “Nuova Resistenza” e di scritti di Toni Negri.Mentre gli altri perquisivano, uno della squadraccia delconte Dracula era andato poi a “grattare la panza” a unacerta sua conoscenza nella zona, un vecchio ricettatore,e aveva appreso che i “putrefatti” andavano spesso nella

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vicina officina di Amleto, meccanico di motorini, che do-veva essere un putrefatto anche lui.Il conte Dracula non aveva perso tempo neppure in que-sto caso ed era volato, ormai in piena notte, a casa di Am-leto. Aveva fatto buttare tutto all’aria e tirare giù dal let-to pistole alla mano anche la moglie e il pupetto di un pa-io d’anni che dormiva fra di loro. Ringo, il bastardino dicasa che aveva osato azzannare il polpaccio di uno deipoliziotti, era stato neutralizzato da un calcio così forteda lasciarlo mezzo morto a terra alle carezze disperatedel pupetto.“Niente cerimonie” aveva detto il conte Dracula. “Que-sti bastardi sono capaci di nascondere un’arma anche trale chiappe di un ragazzino”. Poi avevano preso Amleto ese lo erano portato in officina e sotto il bancone avevanotrovato una decina di fionde di quelle serie con relativomunizionamento e cioè dadi, bulloni e sfere di acciaio deicuscinetti delle macchine. E, dulcis in fundo, qualche ba-rattolo con zolfo, clorato di potassio e altre sostanze “uti-li al confezionamento di ordigni esplosivi”. Ognuna diqueste scoperte era stata festeggiata con energiche pac-che sulla faccia smunta di Amleto.Tutti in galera per “partecipazione ad associazione sov-versiva e banda armata”! C’erano le armi, gli esplosivi, ilvincolo associativo dimostrato dai collegamenti persona-li degli arrestati e dal possesso di “materiale ideologico”della stessa area eversiva. Più chiaro di così! Ma qualebanda armata? L’Organizzazione, naturalmente. Non era-no state trovate copie di quel giornale? – Caro Amleto, sei fottuto – gli aveva detto sadicamenteil conte Dracula in presenza della moglie. – Chi nominicome avvocato? Uno dei vostri, immagino.

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Amleto non aveva risposto. Guardava invece la moglie eil pupetto e si sforzava di non piangere.Il Bimbo avrebbe preferito il conte Dracula anziché Gui-do e una sola ragione lo tratteneva dal sollecitare in tem-pi brevi un ricambio tra i due commissari: il fatto che ilconte Dracula non era certamente in grado di fare quel-le analisi e quelle previsioni sul fenomeno che inveceGuido regolarmente gli forniva, consentendogli di farebella figura col grande capo come se fossero farina delsuo sacco.Guido non se ne rammaricava più di tanto, perché davaper scontato che tutto ciò facesse parte del gioco, aven-do già sperimentato le insidie di quel particolare ambien-te di lavoro e la furbizia di alcuni suoi colleghi.Il nuovo incarico consentiva in effetti a Guido di venireogni giorno in possesso di ogni notizia utile a monitorare ilfenomeno in tutt’Italia e a ricavarne spunti investigativi.Arrivavano infatti sul suo tavolo tutte le segnalazioni pro-venienti dagli uffici politici delle questure sull’attività deigruppi della sinistra extraparlamentare, sulla stampad’area, i documenti diffusi clandestinamente, le indaginiavviate su sospetti brigatisti, le informazioni confidenziali. Arrivò sul tavolo di Guido anche una copia del foglioclandestino sequestrato dal conte Dracula.Era un elemento importante per Guido. Si trattava di un“foglio di lotta” di un collettivo milanese fondato alla finedegli anni Sessanta da una coppia di studenti che prove-nivano dall’Università di Trento e da altri personaggi poiscomparsi per passare molto probabilmente alla clande-stinità. Si sospettava fossero loro i fondatori dell’Organiz-zazione. Il Bimbo definiva l’Università Negativa di Trento una

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chiavica e la più grossa stronzata che la sinistra democri-stiana avesse fatto dopo il centrosinistra, aprendo le por-te dell’università agli ignoranti – cioè a quanti non veni-vano dai licei – e ai terroristi. Nell’intento dei fondatori,l’Istituto di Sociologia di Trento avrebbe dovuto crearenuove professionalità in un settore che, alquanto arretra-to in Italia, si stava rivelando funzionale alla nuova fase disviluppo. Ben presto, però, le cose erano andate per al-tro verso e l’Università di Trento era stata vista come lagrande occasione di riscossa per tanti giovani di famiglieproletarie che erano stati fino ad allora esclusi dai livellisuperiori dell’istruzione.Il collettivo milanese era riuscito in poco tempo a inserir-si bene nelle fabbriche e nelle scuole milanesi e a farsiapprezzare anche da quelli di Potere Operaio e di LottaContinua. Si capiva però che erano su posizioni differen-ti, ma c’era da perdere la testa a capire quali fossero ipunti di divergenza. Vallo a spiegare al Bimbo, che acco-munava tutti nella categoria dei merdaioli!Era stato quel foglio a dare notizia per primo della com-parsa sulla scena politica dell’Organizzazione, che si de-finiva operaia e autonoma, scesa sul terreno della “lottaarmata” da condurre attraverso l’azione partigiana. Siparlava di nuova resistenza. Lotta partigiana, nuova resistenza. Guido ha lo sguardoimmobile e perso di chi è alla faticosa ricerca di qualco-sa che sa esistere ma che non riesce bene a individua-re, di qualcosa che comunque gli appartiene. Il Ru-

spante vorrebbe fargli sapere l’esito di un suo accerta-mento, ma preferisce rinviare per non essere mandatoa cagare.La veste che l’Organizzazione vuole assumere è quella di

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erede della lotta partigiana, pensa Guido. Ma quanti sononella sinistra rivoluzionaria a rispolverare gli ideali dellaResistenza! Ognuno a modo suo poi, ma tutti d’accordonel sostenere che quella ufficiale, della quale si è appro-priata la politica, è una resistenza monca.Anche i Gap, i Gruppi di azione partigiana di Feltrinelli sierano richiamati alla Resistenza scimmiottando la sigladei Gappisti di via Rasella, autori dell’attentato che cau-sò la rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine. Feltrinelli aveva rispolverato quella sigla perché ben siprestava secondo lui a far risaltare la continuità ideale estorica della sua guerra di liberazione rispetto alla Resi-stenza. Il Partito comunista si era stracciato le vesti eaveva accusato i nuovi gappisti di condurre campagneavventuristiche che potevano far solo parte della strate-gia della provocazione.Quale lotta di liberazione voleva poi fare Feltrinelli?Quella contro una classe politica che, giovandosi del re-visionismo dei comunisti di apparato, praticava secondolui la strategia della tensione, anche attraverso le stragidi Stato, per lasciare spazio a manovre golpiste.Poi Feltrinelli era morto mentre tentava di far saltare inaria un traliccio a Segrate, ma intanto era stato il primoa introdurre nel tessuto italiano il germe della politicadelle armi e a praticare la lotta armata.I Gap erano acqua passata. Emergeva invece prepotente-mente l’Organizzazione. “Finora prevalentemente neltriangolo industriale dove più solida è stata la tradizionepartigiana” pensa Guido. “Ma ora eccoli comparire pesan-temente nel Veneto, all’insegna di un antifascismo bece-ro. Non è questa la direzione nella quale vogliono andare.Il progetto è molto più ambizioso: l’attacco al cuore dello

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Stato! Si preparano tempi brutti, se non si riesce a bec-care nessuno”.

III

Da oltre cinque anni di Rina aveva perso le tracce, maGuido non si era ancora rassegnato a considerarla unaesperienza ormai conclusa. Quel lungo periodo di solitudine lo aveva indotto a riflet-tere sul loro rapporto e a comprendere, molto di più diquando si frequentavano, come lei fosse entrata profon-damente nella sua vita. Era stato per lui un processo di innamoramento lento eproditorio, che lo aveva colto da ragazzino sotto le sem-bianze della cotta passeggera, ma poi era cresciuto sen-za che ne avesse quasi coscienza e si era infine manife-stato in tutta la sua forza quando la Rina se ne era an-data.Si accorgeva ora di quanto semplice e bella fosse stata laloro storia, di come fosse stata scandita dalle stagionidella vita nella maniera più antica eppure più desiderabi-le del mondo, nell’abbraccio dei prati, degli alberi, delleacque di quella terra alla quale entrambi si sentivano car-nalmente avvinti, nei loro giochi di un tempo, nei segretirecessi dei fienili odorosi, degli orti, degli angoli più re-moti delle case, nell’ombra dei portici del paese. O neisuoni ovattati e nelle evanescenze delle nebbie che fan-no galoppare la fantasia.Solo ora Guido si rendeva conto con rimpianto di quantofosse stato superficiale, di non aver capito le inquietudi-ni e i sogni della Rina, di non essere stato capace di ri-

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spondere alle sue aspettative, forse di non aver inteso lesue invocazioni di aiuto.Aveva dato per scontato che la Rina fosse ormai legata alui per sempre, che non dovesse fare più nulla per gua-dagnarne la stima e alimentare i sentimenti che li univa-no, come se l’amore, una volta nato, fosse simile a unaquercia che cresce senza bisogno di cure.Mai aveva affrontato sul serio il problema del loro avve-nire e ogni volta che l’argomento era stato sfiorato, le suerisposte erano state vaghe e dilatorie, non perché nonvolesse impegnarsi, ma soltanto perché riteneva prema-turo definire il loro rapporto.La Rina invece aveva un grande bisogno di certezze edera in una fase molto delicata della sua vita. Non le basta-va più incontrarsi ogni tanto con lui per fare all’amore, masentiva forte l’esigenza di parlargli, di confidarsi, di discu-tere di tutto quanto accadeva intorno a loro, di pianifica-re il loro futuro, ma non in termini di casa, tendine, salot-to, elettrodomestici e Fiat Cinquecento, quanto piuttostocome scelta di vita. Anche su questo argomento assolutamente fondamenta-le Guido si era mostrato sempre sfuggente, finché unavolta, messo alle strette, aveva finito per rivelare ideemolto divergenti rispetto a quelle della Rina.Lei partiva da una concezione fortemente critica di quel-la che chiamava la società borghese ed era pervasa daldesiderio di prodigarsi, di battersi magari, per modifica-re quella situazione. Il sistema scolastico, la condizionedella donna, quella degli operai, la politica internaziona-le dell’Italia, gli americani, tutto per lei era impostato sul-lo sfruttamento e la sopraffazione delle classi più debolida parte di una borghesia rapace e imperialista. Aveva

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sempre tra le mani libri e giornali che Guido non avevamai visto e che trasudavano solo nei titoli un marxismonuovo: “Quaderni Rossi”, “Classe Operaia”, “Nuova Uni-tà”, il Libro Rosso di Mao…Lui si irritava a sentire certi discorsi. Gli sembrava che fi-nalmente l’Italia stesse conquistando la sua fetta di be-nessere e che nessuno ne fosse escluso. Bastava sapercogliere le opportunità, averne le capacità.– Ma tu lo sai che questo apparente benessere passa at-traverso lo sfruttamento della classe operaia? Lo sai chela Fiat e le altri grandi industrie del nord si ingrassanosullo sfruttamento di decine di migliaia di meridionalitrapiantati con le famiglie dalla loro terra e mandati allecatene di montaggio. Lo sai che cosa significa stare ottoore al giorno in fabbrica e poi tornare stremati a casa, neipalazzoni miserabili della periferia torinese, per esempio.Lo sai come li chiamano quei quartieri? Le Coree!– A casa loro starebbero molto peggio… – replica Guido inun tono beffardo che fa ancora di più imbufalire la Rina.– Se il sud rimane povero e arretrato non è colpa di chici vive, ma del governo. Perché non hanno portato le in-dustrie al sud, invece di spostare la mano d’opera? Que-sto sì che avrebbe potuto favorirne lo sviluppo. Ma tupensi solo a te stesso, a prenderti la laurea, magari a unposto in banca. Non ti sembra misera una prospettiva delgenere?– Se permetti, io spero di far qualcosa di meglio. Non vo-glio laurearmi solo per avere un pezzo di carta e un po-sto sicuro. Non mi interessano tanto i soldi, quanto un la-voro che mi soddisfi. Non so ancora quale, ma certamen-te non un impiego anonimo, anche se fosse ben pagato.Non mi sembra di essere egoista!

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– Non sarai venale, ma egoista sì, perché sei concentratosolo sul tuo avvenire…– Ma a me gli altri che cosa hanno dato? E a te, che ti pre-occupi tanto per loro? Se hai deciso di impegnarti soprat-tutto per gli altri, perché non ti fai suora, suora missiona-ria magari… Ti ci vedo: suor Gnocchina! – sghignazzaGuido.– Ma che stronzo! Non hai capito proprio niente. Io nonvoglio fare assistenza o carità, io vorrei che ci fosse piùgiustizia sociale e siccome non c’è, vorrei che la genteprendesse coscienza dei propri diritti e imparasse a con-quistarseli.– Per stare tutti come in Russia! Tu hai la testa piena difregnacce. Leggi troppa di quella roba. Io invece ci stobene in Italia. Non vedo grosse ingiustizie. Ho potuto stu-diare senza eccessivi problemi, anche se non sono ricco.Certo che se potessi permettermi il lusso di stare qual-che anno in più senza lavorare, sceglierei una facoltà piùinteressante. Ma questo mi sembra abbastanza normale.Non si può pretendere che tutti abbiano tutto e subito.Mio padre aveva imparato a leggere e a scrivere da un pa-rente contadino che era scappato dal seminario. Poi,quando era già grande, riuscì in qualche modo a prender-si il diploma di quinta elementare. La mamma quantomeno le elementari le ha fatte regolarmente. Io sono al-l’università. Una società che consente progressi del ge-nere non mi sembra una società ingiusta.– Ti accontenti di poco. A noi sono riservati gli avanzi del-la società del benessere. Non te ne accorgi? Di quante co-se si sono dovute privare le nostre famiglie per farci stu-diare? E quei genitori che non l’hanno potuto fare perchéerano appena al limite della sopravvivenza quotidiana?

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Noi siamo stati fortunati per tutta una serie di circostan-ze favorevoli, io per un verso, tu per un altro, ma nessunadi queste circostanze è stata la conseguenza delle politi-che sociali dei nostri governanti. Se fosse stato per loro,tu eri destinato a fare l’operaio specializzato o al massimol’istituto tecnico. È la scuola dei padroni! È uscito da po-co un libro di un prete coraggioso, don Milani, che trattadi questi problemi. Vive in un paesetto sperduto dell’Ap-pennino toscano e lì ha radunato in una sua scuola, senzal’aiuto di nessuno, un gruppo di ragazzini di famiglie con-tadine e operaie che la scuola statale avrebbe emarginatoe alla fine respinto. Il libretto di don Milani è una denun-cia delle profonde ingiustizie del sistema scolastico attua-le, che si basa su una cultura di classe.– Cultura di classe! Ma come parli…? Spiegami che cosavuol dire, se sei capace.– Significa quello che hai studiato tu! Un sapere fossiliz-zato, lontano dai bisogni della gente, utile solo a perpe-tuare privilegi, a selezionare quelli che non se lo trovanogià in casa, quelli che non hanno avuto l’opportunità diapprendere dai genitori nemmeno il linguaggio che que-sto tipo di scuola pretende…C’erano state molte altre discussioni di questo tipo e an-cora più vivaci, specie quando Guido aveva incominciatoa diventare sospettoso. Su certe cose lei rivendicava lamassima libertà e non accettava consigli e ancor menocritiche.Come quando aveva deciso di lasciare le supplenze inuna scuola elementare a poco più di mezz’ora di distan-za da casa, per andarsene a insegnare in un paese vicinoTrento, visto che si era anche messa in testa di iscriversialla facoltà di Sociologia della nuova università.

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Era diventata sempre più chiusa e sfuggente. Quandotornava in paese, spariva per intere giornate. Dicevano diaverla vista qualche volta in città in compagnia di bruttefacce: ragazzi esaltati che si ritrovavano in un apparta-mento per parlare ore e ore di Lenin, di lotta di classe, ri-voluzione e a fare chissà cosa altro…La Generosa era disperata a sentire certe chiacchiere sulconto della nipote e a vederla sempre più distante. Si eraconfidata con Guido e l’aveva scongiurato quasi piangen-do di far ragionare la Rina, di convincerla, magari a forzadi sberle, a mollare certe compagnie, a togliersi dalla te-sta la politica. La Dirce, che aveva il marito nella sezionedel Partito comunista, le aveva detto che anche i compa-gni erano preoccupati dell’aria che tirava in quell’appar-tamento, perché lì dentro non c’erano solo gli sbarbatel-li del movimento studentesco, al massimo capaci di farecasino in piazza, ma gente ben più decisa…Non parliamo poi di Trento: altro che università! “È unbordello”, diceva sempre la Dirce, dove si pensava solo afare occupazioni e a ciavar. Pure la figlia Cleonice vole-va iscriversi, ma le era bastato dare un’occhiata per capi-re come stavano le cose e siccome la Cleonice era una ra-gazza seria e con giudizio l’aveva mollata lì con l’univer-sità di Trento e, con il suo diploma di ragioniera, avevapreferito mettersi subito a lavorare nella fabbrica di ver-nici che un tedesco aveva avviato vicino al paese.Quando si rividero davanti al Castello del Buon Consiglioa Trento, Guido si dovette convincere a malincuore chela Rina non era più quella di un tempo. Si trascurava an-che nel vestire, lei che ci teneva tanto e che aveva unagran cura delle sue cose. La guardava perplesso, avvoltain un cappottaccio beige sovrabbondante, il collo stretto

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in una sciarpa rossa di lana ruvida. Sembrava facesse ditutto per mortificare la sua naturale avvenenza.Quando si baciarono, Guido non ritrovò in lei l’abbando-no dei precedenti incontri. Si sentì improvvisamente adisagio e ridicolo nel suo tre-quarti blu alla marinara, ac-canto alla Cinquecento azzurra con il tettuccio apribile,che fino a poco prima pensava di poter esibire con uncerto orgoglio. Capì che tutto quello che per lui rappre-sentava una conquista, per la Rina non contava niente,anche se salendo in macchina aveva detto: “Accidenti! Ènuova nuova. Puzza ancora di fabbrica”.Era rimasta per un bel po’ in silenzio mentre lui guidava,assorta nei propri pensieri e Guido, che incominciava aindispettirsi, le lanciava occhiate furtive e stava sul pun-to di spararle un incazzato “Si può sapere che hai?”,quando lei, come riscuotendosi dal sonno, gli si era stret-ta al fianco con uno slancio improvviso e appassionatoguardandolo intensamente. Nel suo sguardo Guido per-cepì per la prima volta una sorta di implorazione.I monti della Val di Non erano già imbiancati di neve, mala giornata era tersa e radiosa, mentre si dirigevano ver-so il santuario.– Non mi hai ancora detto perché ci tieni tanto ad anda-re a vedere ‘sto San… come-si-chiama – le aveva doman-dato Guido ormai rinfrancato.– Ci si è sposata una ragazza che ho conosciuto all’uni-versità, una ragazza in gamba. Me lo ha descritto con tan-to entusiasmo che mi è venuta voglia di visitarlo.– Allora non è vero che tutti gli apprendisti sociologi del-l’Università di Trento sono marxisti atei. C’è pure qual-che bigotta!– Tu hai il vizio della dissacrazione. Qui non è questione

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di essere bigotti. È qualcosa di molto più serio e comples-so. Si tratta di dare un senso alla propria vita.Guido dovette ammettere che era valsa la pena di arriva-re fin lì. Aggrappato sulla sommità di una roccia ardita, ilsantuario riportava alla purezza di una fede monasticaalimentata dall’incanto dei luoghi e da quell’intimità delrapporto tra l’uomo e il creato che induce ad alzare losguardo verso il cielo.Salirono la lunga scalinata che conduce fino al piccolobalcone che si apre sulla punta estrema dello sperone diroccia, a strapiombo sulla valle verdeggiante di abeti. Sa-lirono in silenzio, ma in un silenzio che riempiva il cuore,perché mai come allora erano riusciti a comunicare traloro più intensamente senza bisogno di parlare.Si strinsero teneramente mentre sostavano lì sopra assa-porando qualche briciola di infinito.– Portami via – sussurrò la Rina, ma Guido rimase confu-so e la sua risposta fu come al solito incerta e dilatoria.

IV

A Padova gli investigatori sembravano proprio “brancola-re nel buio”, come dicevano le cronache de “Il Gazzetti-no”: insignificanti le scarse testimonianze, la gente trau-matizzata da un fatto spropositato, enorme per una col-lettività dominata ancora da una cultura di tipo tradizio-nale se non addirittura contadina, ad onta dei fermentirivoluzionari del mondo studentesco.Anzi, le assemblee, le occupazioni di istituti scolastici euniversitari, le bandiere rosse sulla “Fusinato”, la casadello studente, stavano provocando nei padovani ben-

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pensanti una sorta di chiusura a riccio, un rifiuto a volerprendere coscienza di quanto stava accadendo e a tenta-re di capire per rifugiarsi ancora di più nella difesa deipropri interessi e delle posizioni conquistate grazie a unaoperosità caparbia e volpina.– Non gliene frega niente di capire, anzi non vogliono,perché questo significherebbe riconoscere le proprie col-pe, ammettere di aver costruito una società fondata sul-l’egoismo, sulla ricerca delle scorciatoie verso il benesse-re. Di merda, insomma. Chi è più furbo va avanti e i fes-si restano indietro, come nelle file al botteghino. Se que-sti sono i princìpi sui quali i padri hanno impostato lapropria vita, che cosa possono fare i figli? Chi ci è taglia-to fa il galoppino come i genitori, gli altri sono destinati arimanere ai margini e allora può capirsi la ribellione, il ri-fiuto di quel sistema, la rabbia. Sì, la rabbia di essere sta-ti traditi!– È vero, – seguitava a riflettere Guido – la stagione degliideali è durata poco – e si accorse di rimpiangere comeun vecchio quei tempi, quasi appartenessero a un lonta-no passato. Avevano già per lui il sapore dei ricordi, ac-compagnati dal rimpianto di giorni felici che non sonopiù, quando ti svegliavi con il sole che ti inondava gli oc-chi e uscivi in strada con l’entusiasmo di vivere, di vede-re gli altri che ti sorridevano, di aspettare dal fornaio cheuscisse la pizza salata ancora bella unta di olio per ad-dentarla con avidità insieme agli amici, mentre in stradagli operai che ribattevano i “sampietrini” con le pesantimazze si fermavano per bere dai fiaschi e addentare an-che loro la ciriola gravida di frittata o di cicoria. La gior-nata ti si prospettava sempre con mille motivi di interes-se, con tante occasioni da cogliere, con tante cose da fa-

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re e la fiducia nell’avvenire. Ti sentivi leggero perché ave-vi il petto gonfio di felicità e in tasca solo dieci lire di car-ta e il fazzoletto. Potevi goderti la gioventù e sperare nelfuturo. Ora invece…La gente camminava guardinga lungo la Riviera Paleoca-pa lanciando occhiate furtive verso la questura. Dinnan-zi al portone bivaccavano numerosi giornalisti tenuti abada da un panciuto appuntato, in attesa di sgraffignarequalche notizia su quella brutta storia.Correva voce che in quelle ore i carabinieri fossero riu-sciti a beccare in Piemonte due pezzi da novanta dell’Or-ganizzazione. Erano andati a finire in bocca ai carabinie-ri dell’antiterrorismo come due polli. Chiaramente unasoffiata.I due si erano dichiarati subito prigionieri politici e dopodi ciò non avevano aperto più bocca.Ma figurarsi se i “formiconi” – così il Ruspante chiamavai carabinieri – non avrebbero trovato ora qualche spuntoper andare avanti. Avranno avuto pure addosso un’agen-dina o qualche altro pezzo di carta! Certo non c’era daaspettarsi che i numeri di telefono fossero scritti in chia-ro, ma decrittarli non era un’impresa impossibile. E an-che loro, alla fine, non erano infallibili… Il Ruspante aveva anche saputo dalla stessa fonte – unmagistrato amico – che i carabinieri erano riusciti a infil-trare qualcuno dentro le BR, forse un frate, vero o falsonon si sa, con trascorsi guerriglieri in America Latina. – Un frate? Ma che cazzo dici? – reagisce Guido, provo-cando un goffo e risentito – Eppure… – da parte del Ru-

spante.In ogni caso, tanto di cappello! Ora avevano in mano ilbandolo della matassa e se sapevano tenere la notizia per

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qualche giorno avrebbero potuto anche arrivare al covo.– Certo che li hanno arrestati, – risponde in tono secca-to il Bimbo dall’altro capo del telefono – lo dicono glistessi terroristi! Non hai letto il volantino che hanno fat-to trovare a Torino qualche ora fa? – prosegue con aria dirimprovero.– E chi me lo dà a me il volantino se sono per la strada enessuno mi avverte che l’hanno diffuso? – risponde pole-micamente Guido.– Spero che tutte queste passeggiate che fai servano aqualcosa… Se sei vicino alla questura te lo posso manda-re con quel nuovo sistema, come si chiama, il telecopier.Intanto ti dico che parlano di un’imboscata tesa dal ser-vizio segreto, attraverso quello che loro chiamano unprovocatore. Adesso stiamo a posto, pure il servizio se-greto! Questa dell’infiltrato è una storia che avevamosentito dire. Sul volantino ne fanno anche il nome. Peròci tengono a precisare che la cattura – e ora ti leggo te-stualmente – “non è avvenuta nel modo più assoluto inseguito alla delazione o defezione di membri della nostraorganizzazione, né quantomeno per opera di infiltrati”,cioè vogliono far capire che frate Leone non è riuscito apenetrare nell’Organizzazione e che la sua azione si èesaurita con la spiata sui movimenti dei due arrestati.Probabilmente quando i due terroristi sono stati arresta-ti stavano andando a incontrare proprio il chiavico diprete.Il telegiornale della sera aveva aperto in tono trionfalisti-co con gli arresti dei terroristi, quasi senza dare alla sigladi apertura il tempo di arrivare alle ultime note.Guido, il Ruspante e Snoopy si scambiano occhiate elo-quenti. Era un bel colpo, ma finiva lì.

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Quando la notizia degli arresti occupa ancora la prima pa-gina dei giornali, una giovane coppia lascia alla chetichel-la l’appartamento ammobiliato che occupava da qualchemese in una palazzina della periferia della industriosa cit-tadina veneta, caricando quattro pesanti valigioni su unaFiat 128 bianca.A una vicina curiosa avevano detto di dover correre a Mi-lano per una disgrazia in famiglia per tornare di lì a qual-che giorno. Ma dopo un mesetto di assenza e di silenzio, ilproprietario dell’appartamento aveva pensato bene di av-vertire il suo amico maresciallo. Non si sa mai, coi tempiche corrono! E i carabinieri si erano messi subito in agita-zione e avevano fatto una serie di domande anche ai vici-ni, ottenendo risposte tranquillizzanti sul conto della cop-pia. Ma i carabinieri non si erano tranquillizzati affatto eavevano fatto forzare la porta: erano rimasti solo i mobili epochi generi alimentari in cucina e nel frigorifero.Gli sposini, i Sartori, non avevano mai fatto sospettare dinulla. Nessuno degli abitanti della palazzina aveva nota-to alcunché di strano o aveva qualcosa da ridire sul loroconto. Tutto normale all’apparenza: lui, un milanese sul-la trentina, dall’aspetto del bravo ragazzo un po’ anoni-mo, che diceva di essere produttore di una fabbrica dimobili per ufficio; lei, forse più giovane, un’insegnante al-le prime armi. Lei pure milanese o giù di lì. Modesta e dipoche pretese anche nel vestire. E dire che così carinacom’era avrebbe potuto mettersi ben in mostra mentreinvece pareva fare di tutto per passare inosservata. Par-tivano ogni giorno alla mattina sul presto per tornare lasera, lei un paio d’ore prima del marito. Visite pochissi-me: due o tre coppie dello stesso genere, che in quell’an-no scarso che loro avevano abitato nella palazzina si era-

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no viste rarissime volte. Gente tranquilla, come gli altriinquilini dello stabile; buongiorno e buonasera, cordialicon tutti, educati, ma anche un pochino chiusi, come sevolessero difendere la propria intimità.Una volta, l’inquilino del piano di sopra, il geometra Tof-foletto, aveva avuto problemi con la lavatrice e avrebbevoluto costatare i danni provocati ai Sartori dalla infiltra-zione d’acqua, ma loro avevano detto subito, lì sulla por-ta, che si trattava di una fesseria e non era necessarioche lui si incomodasse. Eppure non doveva essere pro-prio così, ma il geometra Toffoletto era stato ben felice dicavarsela in quel modo. Magari fossero tutti così accomo-danti!Sì, è vero, di sera si sentiva spesso il ticchettio della mac-china da scrivere. E allora, che cosa c’era di strano? Sivede che i Sartori lavoravano anche a casa.I carabinieri seguitavano a tempestare di domande gli in-quilini. Sul posto erano piombati quelli del reparto ope-rativo e anche Guido, accompagnato dal Ruspante e daSnoopy.

Guido capì che era inutile cercare di farsi dire qualcosain più dai cugini.– Ma quale brigatisti… – cantilenava il giovane capitanodell’antiterrorismo con aria di sufficienza e con ammicca-menti tipicamente siculi, “truffatori sono!”. Ma chi volevaprendere per il culo? Guido decise di tentare altre stradee se ne andò alla ricerca del Ruspante e di Snoopy. Nontardò a trovarli nel bar-trattoria più vicino alla stazionedei carabinieri. Erano a parlottare col maresciallo. Lo vi-dero avvicinarsi e si affrettarono a trangugiare l’ultimo“stuzzichino” di salame e uovo sodo e a scolare il vino.Salutarono affabilmente il maresciallo, che, mentre i due

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poliziotti si allontanavano, si volse in maniera eloquenteverso Guido portandosi con rispetto la mano alla visiera.Questa volta la breccia era stata aperta da Snoopy: il ma-resciallo era sardo come lui, oltretutto della stessa pro-vincia. Il vino aveva contribuito molto, ma a spingere ilmaresciallo ad aprirsi era stato il desiderio di fottere inqualche modo quello stronzetto del capitano dell’antiter-rorismo che l’aveva abbondantemente cazziato, moven-dogli tutta una sfilza di rilievi. – La cosa non finisce qui,maresciallo. Voi avevate a poche centinaia di metri dallacaserma una base terroristica e non vi siete accorti diniente. Voi dormite in piedi! – C’era poco da replicare,purtroppo. Comandi, signor capitano!Sì, il proprietario dell’appartamento aveva dato prezioseindicazioni: il contratto di affitto era stato stipulato dalladonna e lui aveva diligentemente trascritto oltre alle ge-neralità anche gli estremi della carta d’identità, che nonrisultava né rubata, né smarrita. Si chiamava Boni Oriele,nativa e abitante a Pavia, insegnante. Figurava ancoranubile sul documento perché – aveva detto – se l’era fat-to rilasciare prima del matrimonio e loro si erano sposatida poco.Il marito o sedicente tale, il ragionier Sartori, aveva la-sciato un’unica traccia: gli estremi della targa della suaFiat 128 bianca, che erano stati annotati dall’amministra-tore del piccolo condominio. I carabinieri avevano perògià accertato al Pubblico Registro Automobilistico chequei dati corrispondevano alla targa di un autobus dellelinee urbane milanesi.Bisognava fare presto, andare subito a Pavia a vedere chiabitava a quell’indirizzo o incaricare i colleghi della que-stura locale di fare loro l’accertamento. Guido, dopo es-

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sersi consultato col Bimbo, optò per questa seconda so-luzione per guadagnare tempo rispetto all’Arma, anchese non c’era da farsi illusioni: se Oriele Boni faceva partedell’Organizzazione, di certo non la trovavi a casa sua, malì comunque occorreva andare subito per incominciare acapire.Guido si attaccò al primo telefono pubblico e chiamò ilcollega dell’Ufficio Politico della questura per informarlosuccintamente della situazione, pregandolo di volare al-l’indirizzo della Boni e di fargli sapere subito chi vi abita-va. Attenzione però, non si sa mai.– Asti-Trento 09 da Quarto Pavia 21 – gracchiò di lì a unamezz’ora la radio della Giulia di Guido. Era la centraledella questura del luogo che rimbalzava evidentementela chiamata della consorella lombarda. Dopo vari “passo”,“interrogativo, passo” (per fare le domande), si arrivò al“ricevuto, chiudo”: il collega chiedeva a Guido di chia-marlo per telefono.Il Fachiro che era al volante dovette sorbirsi la sua razio-ne di improperi per non essere stato capace di trovare al-l’istante una cabina telefonica. A un’altra sfuriata di volga-rità assortite dovette assistere il Ruspante per il fatto chela gettoniera della cabina sembrava non avere nessuna in-tenzione di vomitare i gettoni in cambio delle monete dacento lire che aveva ricevuto. La situazione venne risoltacon una bestemmia di Guido e due cazzotti assestati dalRuspante che provocarono un rumore quasi bronchialenella gettoniera e la convinsero a stare ai patti.All’indirizzo indicato abitava in effetti la famiglia Boni:due coniugi di mezza età, che gestivano da sempre unnegozio di generi alimentari nella zona. Avevano una fi-glia – Oriele appunto – maestra, nubile, che da qualche

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anno si era trasferita in una località vicino Trento per in-segnare alla scuola elementare. Quando dall’altro capo del filo fu scandito in stridente ac-cento calabro il nome del paesetto trentino e quello del-la scuola, cadde il silenzio.– Guido, mi hai sentito? Sei sempre in linea? Pronto…pronto?– Sì, pronto; che cazzo gridi! Ho capito.– Scusa, non ti sentivo più… Allora, a me i vecchi sem-brano gente per bene…– Anche la figlia, ci puoi giurare, – aggiunse Guido dopouna nuova pausa di silenzio – hai chiesto da quanto tem-po non la vedono? – Il suo tono era cambiato. Sembravaassente.– Certo che gliel’ho chiesto! Da poco più di un mese.

Spesso viene lei, qualche volta vanno loro. Si sentonodue o tre volte a settimana per telefono. Sono molto at-taccati.– È fidanzata?– Dicono che c’è un collega che le fa la corte.– Hai chiesto se ha mai perso la carta d’identità o se glie-l’hanno mai rubata?– Guido, ma mi prendi proprio per un minchione. No, nésmarrita, né rubata, per quanto risulta ai genitori. Chepensi tu? Fa la doppia vita questa Oriele?– Non credo proprio.– Che cosa vuoi dire? Che c’è una brigatista che si spac-cia per Oriele Boni e che ne ha preso le generalità? Macome è venuta in possesso dei suoi dati?– Bravo! Bisogna capire come hanno fatto quelli dell’Or-ganizzazione a impossessarsi dei dati della Boni, compre-si gli estremi della sua carta di identità. Forse questo ci

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aiuterà a risalire alla terrorista. Vado a fare quattro chiac-chiere con la professoressa Boni e spero di arrivare pri-ma dei cugini, come siamo riusciti a fare con i genitori.Le acque abbondanti del Sile scorrevano quiete tra gli ar-gini verdeggianti. La pianura, spogliata delle piantagionirigogliose di mais, era punteggiata da ciuffi di fiori gialli,come grandi margherite. Di tanto in tanto un casolarecontornato da alberi. Più avanti il fiume si allargava fino aformare un piccolo lago da cui si diramavano corsi d’ac-qua minori forse comunicanti con la laguna. Tra i pioppi ei salici rigogliosi si intravedeva un ponte di legno di quel-li che si aprono per far passare le imbarcazioni più gran-di. Gli ricordava un quadro di un impressionista francese.Ancorati alle rive alcuni barchini da pesca dal fondo piat-to. Gli umori umidi dell’imminente autunno erano attra-versati da bagliori smaglianti. Guido ricordò di aver so-gnato quel punto del fiume: era un’alba estiva dalla luceancora incerta, meravigliosamente serena, di quelle domi-nate da vapori e fruscii che la ripresa del giorno cancella.Ormeggiata alla riva una bella imbarcazione a vela, diquelle a due alberi, col vasto ponte e le murate di legnolucido. Loro due erano seduti insieme ad altri su una co-moda panca, in attesa di partire per un viaggio incantevo-le. Ma era già tanto bello trovarsi là in attesa, cullati daisussurri della natura che si risveglia, dallo sciabordio del-le acque, come tutti gli innamorati l’uno perso negli occhidell’altra. Si soffermò sulle immagini di quel sogno fino a provarepena. Si sentiva spossato e ritornare nel paese dalle ca-sette di fata e dai balconi fioriti gli evocava immaginistruggenti squarciate da saette di rabbia, di ribellione alcorso degli eventi. Sopravvenne per qualche attimo la

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speranza assurda che si trattasse di un equivoco; quantevolte era accaduto che per una serie incredibile di coin-cidenze era sembrato che non ci potesse essere una spie-gazione diversa di un fatto e poi invece…La Giulia procedeva ormai veloce sull’autostrada delBrennero. La vista della valle incassata tra le pareti deimonti e attraversata dall’Adige gelido, vorticoso, azzurri-no – o verde dove un’ansa più ampia concedeva una so-sta alle acque – un tempo gli gonfiava il petto di benesse-re e l’ansia di godere appieno di quanto si offriva alla vi-sta si accompagnava al timore di non riuscire a ingozzar-sene fino in fondo: i prati, i frutteti, le guglie dei campa-nili, i castelli fiabeschi e i conventi su in alto, il fascinodell’incontro di culture diverse eppure così complemen-tari che emanava dalle opere dell’uomo.

V

Oriele Boni li aspettava in ansia. I genitori l’avevano in-formata della visita della polizia e delle strane domandesul suo conto. Anche lei non riusciva a comprenderne laragione.L’appartamento era minuscolo ma accogliente; l’arreda-mento in stile locale studiato al millimetro: il tavolo delpiccolo soggiorno con la panchetta ad angolo, le menso-le con i fiori secchi, la madia, la cassapanca, tutto odora-va di pino ed era di un caldo color miele.Oriele Boni era quello che si dice una brava ragazza, dal-la figura piacevole e dai tratti dolci e un po’ banali che nefacevano lo stereotipo della maestra coscienziosa e dellabrava donna di casa. Precocemente matura, era pronta

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per il matrimonio con un ragazzo bravo e tranquillo comelei.Guido preferì darle subito una spiegazione esauriente:qualcuno le aveva sottratto le generalità e ne aveva du-plicato la carta d’identità. Insomma in giro c’era una don-na grosso modo della sua stessa età e delle sue stesse fat-tezze che si spacciava per l’incensurata Oriele Boni.– Oh signour! – esclamò lei – ma chi può essere? E checosa ha fatto?– Che cosa ha fatto non sappiamo ancora bene. Lei può aiu-tarci a capire chi è – la incoraggiò Guido vedendola in uncerto senso più tranquilla una volta compresi i motivi cheavevano portato la polizia a interessarsi di lei. – Immaginidi dover raccontare a un’amica la sua esperienza in questopaese da quando è arrivata, le persone che qui ha conosciu-to e incontrato, l’ambiente di lavoro, il tempo libero…Guido avrebbe potuto arrivare subito al sodo, ma preferìche la cosa venisse fuori da sola. Avrebbe potuto tagliarecorto e farle quella domanda a bruciapelo per avere la ri-sposta che già conosceva.Non dovette aspettare molto. La Rina entrò in scena pre-sto: sì, la Boni aveva legato con la Rina, anche se all’ini-zio quella collega emiliana, che aveva fatto un periodopiuttosto lungo di supplenze, le aveva dato l’impressionedi essere troppo introversa, troppo chiusa, quasi scontro-sa. Poi però, quando erano entrate più in confidenza neera rimasta affascinata. L’aveva anche ospitata per unbreve periodo. Ne parlava con affetto e ammirazione: laRina era dotata di grande sensibilità, altruista, impegna-ta seriamente e non solo per moda come molti. Diversevolte erano state insieme all’Università di Trento non so-lo perché anche lei voleva iscriversi a Sociologia, ma per

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curiosità. Per Rina però non era solo curiosità, lei si acca-lorava, ci soffriva, credeva che fosse necessario fare qual-cosa contro le ingiustizie e le disuguaglianze. Qualche vol-ta era anche intervenuta nei dibattiti, si era fatta notare.Parlava di argomenti difficili, di politica e di società, conmolta competenza. Leggeva molto, soprattutto giornali epubblicazioni di estrema sinistra, gli scritti del Che, diMarcuse, di Mao. Allo stesso tempo però diceva cheavrebbe voluto impegnarsi anche nel volontariato cattoli-co con “Mani tese”. L’importante per lei era non farsi omo-logare – così era solita dire – dalla società borghese, rea-gire, dare il proprio contributo per un mondo più giusto.Era profondamente convinta, calata in quella dimensione.

– La ammiravo e le volevo bene, ma in certi momenti mifaceva paura. La vedevo troppo infatuata.Nei giorni che seguirono gli incidenti di Avola, dove la po-lizia sparò sui braccianti e ne uccise due, la Rina era fu-riosa e volle partecipare alle infuocate assemblee all’uni-versità. Per la Boni il clima si stava troppo riscaldando.Aveva deciso di staccarsi lentamente dall’ambiente di So-ciologia e specie da certi soggetti con i quali la Rina inve-ce si fermava a discutere per ore. Le aveva parlato negliultimi tempi con ammirazione di una certa Mara, anchelei divisa tra volontariato cattolico e impegno rivoluzio-nario. Aveva sposato uno dei leader del movimento stu-dentesco. Il matrimonio era stato dei più tradizionali: co-me due giovani piccolo-borghesi si erano sposati in chie-sa, in un santuario in montagna, ma la cerimonia era sta-ta di tipo tutt’altro che borghese, così semplice invece dariportare al candore francescano. Valli a capire!Che fine aveva fatto la Rina? Aveva lasciato la scuola e il

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paese da un paio d’anni per trasferirsi forse in provinciadi Venezia, dove diceva di aver trovato un lavoro inun’azienda privata. Nonostante le promesse, non si erapiù fatta sentire.– Aveva un ragazzo questa Rina? – chiese a bruciapelo ilRuspante e Guido lo guardò con odio profondo.– Sì, lo aveva, ma non amava parlarne anche se fra noic’era abbastanza confidenza. Mi disse che viveva a Roma.Si vedevano raramente. Un paio di volte deve essere ve-nuto anche a Trento, ma io non l’ho mai visto.Il Ruspante incalzava: secondo la Boni non era soltantoquestione di riservatezza. Il rapporto con il suo ragazzodoveva essere tormentato. Certo non era facile per tipiimpegnati come la Rina trovare il compagno giusto. Ep-pure, dietro quel rigore e le tendenze missionarie, la Ri-na aveva, secondo la Boni, un grande bisogno di affetto.Se avesse trovato l’uomo giusto avrebbe forse mollatocerte idee. La Boni si fermò come se si fosse pentita diessersi lasciata andare su argomenti che riguardavano lavita intima di un’amica alla quale era ancora affezionata.– Sa mica come si chiama questo ragazzo? – proseguì ilRuspante con la bava alla bocca.– La signorina Boni ha già detto che la sua amica nonamava parlarne. Non hai sentito? Figurati se le ha dato legeneralità! Non è vero, signorina?– Si conoscevano fin da bambini… il suo primo e unicoragazzo.– Ma capo, se permette io insisterei… mi sembra impor-tante – azzardò il Ruspante non riuscendo a capacitarsidi come il commissario sorvolasse su un particolare chepoteva essere determinante per dare un volto e un nomea due terroristi.

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– Lascia stare! – ringhiò Guido cercando di contenersidi fronte alla Boni, che appariva ora disorientata e per-plessa.– Perché mi fate tutte queste domande sulla Rina? –chiese con ansia e non ottenendo risposta – Oddio, nonsarà mica lei...?– E perché mai? – la interruppe Guido cercando di con-trollare la sua agitazione. – Mi sembra che stiamo per-dendo troppo tempo su questa Rina. Mi parli invece del-le altre sue colleghe, di ragazze che ha conosciuto in pae-se e a Trento. Non ce n’era nessuna che, come invece la Rina, avesseavuto l’opportunità di ricopiare i dati della carta d’identi-tà della Boni; nessuna che come la Rina fosse scomparsasenza farsi più viva. Mentre la salutava, sembrò a Guido di aver fugato i so-spetti della Boni sulla Rina, di averla convinta che i suoidati potevano essere stati forniti all’Organizzazione da unimpiegato infedele dell’anagrafe o del provveditorato aglistudi.Rimasero muti per diversi minuti mentre si allontanava-no dall’abitazione della Boni alla ricerca di un locale qual-siasi dove cenare alla meglio. Poi il Ruspante non ce lafece più:– Scusi capo, io non ho capito ancora perché non abbia-mo chiesto qualche notizia in più sul ganzo della Rina…– Perché già so chi è.– Allora lei sa anche chi è la Rina, cioè sa già qualcosa inpiù del nome e del cognome. Vuol dire che è una giàschedata…– No, non è schedata. E neppure lui, ma li conosco lostesso.

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Il Ruspante lo fissò con i suoi occhi da cinghiale cheesprimevano, più del solito, diffidenza e ombrosità. Mache significava questa storia? Forse che il capo li avevaconosciuti casualmente prima che diventassero terrori-sti?– Se ce lo dice anche a noi chi sono, visto che lavoriamoinsieme…– Pensiamo a mangiare adesso! – tagliò corto Guido en-trando nella “stube” invasa dal fumo. L’atmosfera era ac-cogliente, ma a loro sembrò di essere entrati in casa d’al-tri. La cameriera era bionda e con il grembiule. Li accol-se con un cortese ma distaccato “prego?”, tra l’austriacoe il veneto.Guido fu sopraffatto da un’ondata di tristezza. Pensava aimomenti felici trascorsi in quei luoghi con la Rina. Glisembrava impossibile che lei si fosse persa fino a quelpunto. O era lui a essersi perso?A parte la morte del padre che l’aveva colpito ancora ra-gazzino, per la prima volta nella sua vita da adulto senti-va di trovarsi di fronte a un fatto inesorabilmente conclu-so. Fino ad allora nulla gli era accaduto che non fosse ri-proponibile o rimediabile. Gli sembrò che non solo quella storia particolare fosse uncapitolo ormai chiuso, ma che si fosse chiusa una stagio-ne della vita del suo Paese. Oppure tutto questo era giàavvenuto da tempo e lui ne prendeva coscienza soloadesso?La gente era uscita dal tunnel della guerra e aveva ricon-quistato la libertà a prezzo di lotte fratricide. Poi si eraubriacata di quella libertà e la vita aveva preso a scorre-re come un fiume impetuoso e la smania di tornare a rea-lizzarsi l’aveva avuta vinta anche sulle profonde ferite

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che il fascismo, la guerra e la lotta di liberazione avevanolasciato nelle coscienze. Quanti avevano perso un fami-liare o avevano comunque sperimentato sulla propriapelle gli orrori di quegli anni – ed erano centinaia di mi-gliaia – erano stati travolti, ancora storditi dal dolore, dal-la più ampia moltitudine che reclamava il diritto di cam-pare, con quella forza che può avere soltanto chi abbia vi-sto in faccia la morte. E questo, bene o male, era capita-to quasi a tutti. Vedove, figli, genitori di soldati morti o dispersi, di vitti-me di bombardamenti, di partigiani torturati e trucidati,di fascisti impiccati, di ebrei sterminati nei campi di con-centramento, gli stessi sopravvissuti all’Olocausto, eranostati risucchiati con tutto il loro sordo dolore nel vorticedella ricostruzione e della corsa al benessere.La convinzione che per questo fossero morti i propri ca-ri e che l’antifascismo e la conquista della democraziarappresentassero valori sacri, su cui per sempre si sareb-be retto il Paese, rendeva loro meno disdicevole il farsidistogliere dal dolore e rimettersi in cammino trascinatidagli altri. Sabatello era tornato dietro al banco della merceria edesibiva ai clienti il numero che gli avevano impresso sulbraccio nel campo di concentramento di Treblinga e sivedeva che pure lui, nonostante tutto, aveva ancora vo-glia di vivere e lo consolava l’idea che anche la moglie e ifigli dal mondo di là fossero contenti di vederlo ancoradietro al banco e qualche volta scherzava con Guido,quando la Annetta lo mandava a comprare le spolette difilo e i bottoni.Il tenente Bartolini era tornato dalla guerra con la facciasfigurata da una scheggia e senza una mano. Guido lo in-

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contrava spesso dal barbiere che lo radeva quasi tutti igiorni superando il disgusto, perché come grande invali-do Bartolini aveva diritto all’accompagnatore e il barbie-re entrava allo stadio gratis insieme a lui.Il padre di Mirella era stato comandante partigiano edera diventato un pezzo grosso del Partito comunista, mamandava la figlia in parrocchia. Andava a comprare leNazionali Esportazione nella tabaccheria di Goffredo cheera stato repubblichino. Si guardavano di traverso, maognuno si faceva i fatti suoi.Il macellaio si era fatto la Studebaker, quella con gli alet-toni e il cambio al volante che era lunga tre Topolino.Il garzone del panettiere, che portava la merce ai clienticon il triciclo a pedali, la domenica si pavoneggiava sulRumi. Molti ormai avevano il frigorifero e la televisione incasa.Abebe Bikila aveva trionfato nella maratona alle Olimpia-di di Roma correndo scalzo come era abituato a fare suglialtopiani etiopici. Tutto il mondo l’aveva visto attraversa-re una città solare e gioiosa: la periferia con le gru e la ter-ra smossa dalle scavatrici, l’architettura agile e genialedegli impianti sportivi, gli antichi monumenti del centro,fino all’arco di Costantino, dove, nell’atmosfera incantatadella sera illuminata dalle fiaccole, l’etiope aveva conclu-so la sua immane fatica con falcate ampie e lievi da airo-ne. Un povero accolto da migliaia di poveri, come lui ge-nerosi fino a farsi scoppiare il cuore per riscattarsi. Eranofestanti perché la sua era anche la loro vittoria. Che cos’era successo poi? In pochi anni quel gioioso di-namismo era diventato una corsa sfrenata e senza rego-le: le gru delle periferie, apparse come manifestazione diuna industriosità sana e portatrici di un benessere equo,

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erano diventate emblema di speculazione, scempio edemarginazione.Gli venne in mente il film di Anna Magnani, “L’onorevoleAngelina”, dove lei, popolana coraggiosa, si mette alla te-sta di un gruppo di senzatetto di Pietralata e li guida al-l’occupazione di un casermone costruito per speculazio-ne da un palazzinaro sostenuto da politici corrotti. La no-torietà rischia di far cadere Angelina nelle lusinghe dellapolitica, ma alla fine saranno la sua genuinità e la solida-rietà delle sue compagne di lotta ad avere il sopravventoe Angelina rifiuta ogni compromesso e torna a combatte-re la sua quotidiana battaglia di madre di famiglia nellaborgata.Nonostante le macchine, l’autostrada del Sole e gli elet-trodomestici, la democrazia aveva progredito ben poco.Il potere era rimasto nelle mani di pochi e la democraziacome ingabbiata e costretta entro canali prefissati ed eradifficile saltare da un canale all’altro: se facevi l’operaiopotevi al massimo sperare che tuo figlio diventasse peri-to tecnico. Guido ripensò alle discussioni con la Rina e dovette rico-noscere che per certe cose aveva ragione lei: anche lacultura rimaneva di classe. Il fascismo era riemerso comeun fiume carsico e i fatti del ‘60 lo avevano dimostrato.Ma aldilà delle manifestazioni più plateali, esisteva un fa-scismo più subdolo annidato dentro i gangli delle istitu-zioni, dentro la stessa Democrazia Cristiana, un qualcosadi profondamente radicato nella borghesia e funzionale aessa. I comunisti, con il loro mastodontico apparato dipartito, sembravano ormai inesorabilmente risucchiatidai giochi della politica e attratti dal miraggio del potere,pronti al compromesso pur di raggiungere lo scopo e so-

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lo una minoranza dei vecchi militanti soffriva per il tradi-mento degli ideali. Ma al di fuori dei partiti una moltitudine di giovani si erasentita tradita e si era organizzata nei movimenti: controil tradizionalismo deteriore e i falsi valori su cui si regge-va la società, dicevano loro. E perciò contro la famigliatradizionale, la scuola, la condizione della donna, il servi-zio militare, la chiesa anch’essa incapace di rinnovarsinonostante i don Milani, i preti operai, papa Giovanni…Se il fascismo aveva rialzato la testa nella indifferenza ge-nerale, era normale che rinascesse un antifascismo mili-tante e non di maniera e che il senso di ribellione susci-tato dalla disillusione si traducesse in una protesta vio-lenta e nello stesso tempo accorata contro i “padri”: seborghesi, arroccati in quello spazio nel quale il fascismosi perpetuava; se “compagni”, ingessati nelle posizioniimposte dai calcoli di partito; se operai, emarginati eschiacciati da un consumismo fondato sullo sfruttamen-to del loro lavoro.Aldo Moro aveva detto in un discorso memorabile che laDemocrazia Cristiana non era un partito di classe, ma unpartito di popolo. Ma quale popolo rappresentavano i de-mocristiani? E le classi non erano dopo tutto un’invenzio-ne vetero-marxista, ma una realtà che potevi toccare an-cora con mano – pensava Guido – sui tram, sui treni deipendolari, davanti ai cancelli delle fabbriche, nei cantie-ri, nei palazzoni squallidi delle periferie; gente dalla fac-cia rassegnata, stanca, vestita di indumenti di poco prez-zo. Ovvero, dall’altra parte, gli industriali, gli imprendito-ri senza scrupoli, una classe politica corrotta e trasversa-le agli affari, con tutti i suoi privilegi.Di che cosa meravigliarsi se i giovani si erano dati alla

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protesta e alla contestazione del sistema? Dopo anni eanni di esaltazione della Resistenza e dell’antifascismo,quei valori non sembravano ora così essenziali a garanti-re la permanenza della democrazia nel Paese. Come si era passati poi dalla contestazione al terrorismo?Che cosa significava strategia della tensione? Era la con-seguenza degli opposti estremismi o qualcosa di moltopiù complesso e mostruoso? E le stragi: piazza Fontana,piazza della Loggia a Brescia e per ultima quella di ago-sto sul treno Italicus tra Firenze e Bologna? Si parlava ditrame, di servizi segreti deviati… Che cosa stava succedendo nel Paese?Su queste cose rifletteva Guido, tenendo tra le mani ilgiornale con gli identikit della misteriosa coppia, che i ca-rabinieri avevano diffuso. Due volti insignificanti: luiavrebbe potuto essere uno dei tanti trentenni che incon-tri per la strada, lei altrettanto anonima, nonostante unacerta durezza d’espressione (ma qui il disegnatore deicarabinieri poteva essersi fatto prendere la mano e aver-ci messo qualcosa di suo). Proprio nulla a che fare con laRina, per fortuna. Vatti a fidare degli identikit! Leggeva l’articolo e scuoteva la testa, mormorando “Caz-zate, ma quante cazzate!” e il Ruspante lo fissava con isuoi occhietti porcini e sospettosi.

VI

– Ciao Guido, che sorpresa! – esclama la Generosa dopoqualche attimo di esitazione con gli occhi fatti subito lu-cidi dalla commozione, – da quanto tempo, da quantotempo… Quasi non ti riconoscevo…

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L’osteria del Suldà non esiste più. Al suo posto c’è il bar-tabaccheria Brennero. Si chiama così perché l’autostradaModena-Brennero passa proprio lì vicino e il paese ne èdiventato un casello importante con tanto di segnaleticae di tabelloni verdi, dove il nome spicca come quello diuna città e nei mesi invernali non c’è notiziario radio sul-la viabilità che non lo nomini, tanto che ormai tutti lo co-noscono, sia pure per la nebbia.L’hanno dovuto lasciare il locale; il Suldà è da qualche an-no sulla sedia a rotelle e la Generosa ha il suo daffare atenergli dietro. Sono rimasti ad abitare lì sopra però, nel-la casa di sempre.I nuovi gestori sono gente del paese, lontani parenti delSuldà e l’insegna in ferro battuto l’hanno lasciata al suoposto per rispetto dei vecchi, accanto al neon azzurro,ma il grappolo d’uva è diventato poco più che una mac-chia nera scolorita dal tempo. I vecchi si sono tenuti anche il pezzetto di terra dietro lacasa, con la pergola, il pollaio e la pista delle bocce, inva-sa ormai dall’erba e con le sponde di legno fradice.La Generosa ha come sempre le mani che profumano disfoglia, perché l’impegno del marito non le basta e a sta-re senza far niente le vengono tanti brutti pensieri e lesale su il magone. Così tutti i giorni prepara lo gnoccofritto per il bar e ogni tanto scende giù a fare due chiac-chiere, la mattina sul tardi quando non c’è gente.Ma i suoi occhi sono velati di tristezza e ha dei momentidi assenza. Si è curvata e come raggrumata. L’Elisa la vie-ne a trovare spesso con Omar, che è ormai un bel ragaz-zino.La Rina, chi la vede più? Fino all’anno scorso si faceva al-meno sentire ogni tanto, racconta la Generosa tirando un

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respiro profondo come se le mancasse l’aria. Poi anche letelefonate erano finite. Prima di sparire aveva detto di vo-ler andare a lavorare fuori, all’estero. Ma chissà se è vero? – L’ultima volta, un paio di mesi fa, si è fatta viva con unalettera che non veniva però da fuori.– Ce l’hai ancora la lettera? – chiede ansioso Guido.– Ma certo che ce l’ho. Vieni, che l’andiamo a prenderenella sua stanza.Il letto, addossato al muro, ha la spalliera di legno, la tra-punta a fiori e i cuscini a colori. Sul tavolino che fa dascrittoio, una cornice con una fotografia piccola e sbiadi-ta di un ragazzo mingherlino a cavallo di una moto sche-letrica, dalle ruote grandi, ma con le gomme ridicolmen-te magre. È in posa su quel trabiccolo, chinato in avanticome fanno i corridori, con lo sguardo ingenuo che spriz-za gioia e orgoglio. È Folletto, il papà della Rina e l’imma-gine ingiallita lascia più intuire che intravedere una vagarassomiglianza tra i due.Sulle pareti un poster dei Nomadi e uno dei Corvi, un grup-po beat emiliano; ma il posto d’onore è riservato al Che.È la stanza di una ragazzetta del popolo, come tante neipaesi e nei quartieri di periferia delle grandi città, conmobili da poco, ma tirati a lucido, tenuti con grande cu-ra, pateticamente inghirlandati dei cuscini, merletti etendine della nonna. Nello scaffale dell’armadio il man-giadischi di plastica colorata, con accanto i trentatré giriancora nelle custodie di carta.Tutto riporta a una Rina adolescente, come le singolaribamboline poggiate su una mensola, fatte con materialiricavati dalle pannocchie di granoturco: la testa e il cor-po con i torsi, i capelli con le barbe, i vestiti in parte conle foglie secche del cartoccio, in parte con avanzi di stof-

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fa. Le bambole di un tempo, quelle che i figli dei contadi-ni si industriavano a mettere insieme per giocarci. La Ri-na aveva imparato a farle dalla Generosa e anche dagrande si divertiva a confezionarle con grande fantasiaper regalarle alle amiche.Quando la Generosa tira fuori dal comodino la lettera,Guido si riscuote e l’afferra quasi con rapacità. È la gra-fia di una persona diversa da chi ha abitato quella stan-za, che stride con le cose che vi sono custodite e con lememorie che evocano. È la grafia nervosa di una donnatormentata. “Cari nonni, anche se non mi sentite più spesso, io vi vo-glio bene come prima. Non state in pena per me. Va tut-to bene. Io sono soddisfatta perché finalmente posso fa-re quello in cui credo. Vi abbraccio forte forte. Pensate avoi e curatevi”. Era firmata “Gnegnola”, il soprannomeche i nonni le avevano dato da bambina; il timbro di par-tenza “Mestre Ferrovia”.La Generosa ha gli occhi umidi e si torce le mani.– Vedi, abbiamo lasciato tutto com’era. È stata semprecosì gelosa delle sue cose… Tu che cosa pensi, Guido?Ritornerà prima che ce ne andiamo all’altro mondo io eGaetano? Hai visto come è ridotto, pover’uomo? – Non avete altri suoi scritti? – chiede Guido eludendo ledomande.– No, lo sai che scriveva molto, ma ha portato tutto via.Ha lasciato solo quei libri lì.È solo qualche romanzo in edizione economica, nulla cherichiami l’impegno politico.– Dimmi la verità, Guido. È successo qualcosa? Perchései qui dopo tanto tempo? Tu sei nella polizia…– No, non è successo niente… almeno per ora. Se doves-

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se chiamarvi per telefono, dille… dille che sono venuto acercarla. Sì, proprio così: è venuto Guido a cercarti.– Mi fai capire che è nei guai…– È inutile che ti racconti storie. Avevi ragione tu quan-do ti preoccupavi perché frequentava brutte compagnie.Ho mancato io. Sono stato uno stupido.– E adesso che cosa si può fare?– Non lo so ancora… Sono per caso già venuti i carabi-nieri a chiedervi qualcosa?– No, ma se mi dici così significa che è ricercata.La Generosa respira sempre più affannosamente e hal’aria disperata.– No, non lo è, ma… Senti, nonna, è una storia difficile daraccontare. Abbi fiducia in me. Io farò di tutto per tenta-re di tirarla fuori e tu mi puoi aiutare. E allora stai beneattenta a quello che ti dico: non ti devi mostrare preoc-cupata in giro. Vi dovete comportare come se andassetutto bene e la Rina avesse trovato un lavoro in Inghilter-ra. Anche quando parlate per telefono non dite mai chela Rina frequentava gente strana e che da diverso temponon dà più notizie. Se dovessero venire i carabinieri fatelo stesso. La lettera la prendo io e se ne arrivano altre,dopo averle lette, chiudetele in una busta e mandateme-le subito all’indirizzo che vi lascio scritto. E… e fate spa-rire il manifesto di Che Guevara.Non si sono accorti che il Suldà si era spinto con la sediaa rotelle fin sulla porta e stava lì ad ascoltare.Guarda Guido con sguardo implorante.– Io lo sapevo, lo sapevo che andava a finire così, chequesti malnati la rovinavano. Che gli venisse un canche-ro! Se potessi ci andrei io a prenderli per il collo, ma ve-di come sono ridotto, dio c…

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La Generosa tenta di calmarlo, ma lui si stizzisce ancoradi più e la manda via, perché vuole parlare da solo a solocon Guido.– So che sei una persona perbene e che mi posso fidaredi te, anche se sei diventato un poliziotto. Io tenevo na-scosta dentro la vecchia stufa di ghisa che è nel magaz-zeno una pistola tedesca, una Walther, sai, quelle dell’ul-tima guerra. Quella pistola ha una storia. Era di Follettoe lui l’aveva affidata alla Elisa poco prima che i fascisti loprendessero. L’ho sempre tenuta come una reliquia. LaRina lo sapeva ma io non avevo mai detto a lei, a nessu-no – nemmeno a mia moglie – dove la tenevo nascosta.Però un giorno la Rina mi vide mentre la tiravo fuori dal-la stufa per ingrassarla e volle che gliela facessi toccare.La teneva in mano e la fissava come a volerci trovare unsegno, una traccia del padre. Guido, sono stato una be-stia! Ho fatto male a tenerla e soprattutto a rimetterla lì.– È sparita!– Sì, è sparita e c’è dell’altro. Quando la Rina faceva lamaestra vicino Trento, ogni tanto tornava a casa percambiare i vestiti e sistemare le sue cose. Una volta, laGenerosa andò a rovistare nel suo borsone, mentre leiera in bagno, per vedere se c’era roba da lavare e trovò…trovò dei fogli con la stella dei terroristi, come quelli chesi vedono ogni tanto sui giornali…– E voi che cosa avete fatto? Le avete detto qualcosa?– Sì, le abbiamo chiesto spiegazioni e lei ha risposto cheli aveva trovati all’università, che ce n’erano tanti in giro.Poi quando le abbiamo raccomandato di far bene e di sta-re attenta ha incominciato a spazientirsi. Dopo qualchegiorno è sparita. Guido, se tu le stavi vicino questo nonsuccedeva!

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VII

La direzione strategica aveva deciso che la compagnaGreta cambiasse aria. Le sarebbe servito anche per cre-scere sotto il profilo politico e militare. Aveva infatti di-mostrato di essere in possesso di tutte le doti necessarieper azioni di maggiore spessore: fede rivoluzionaria, san-gue freddo, riflessi pronti, determinazione, dimestichez-za con le armi. E lo aveva dimostrato sul campo, parteci-pando prima a qualche azione dimostrativa a Milano. Aveva incominciato facendo da palo, mentre i compagniincendiavano con la benzina la macchina di un capettodi una grande azienda. La seconda volta aveva parteci-pato direttamente all’azione senza mostrare alcuna agi-tazione.Valeva la pena metterla alla prova con qualcosa di più se-rio e molto importante per l’Organizzazione in quella fa-se: cioè un esproprio proletario, ossia una rapina. Si era deciso di puntare sulle piccole banche dei paesot-ti della pianura veneta vicini alle località balneari, adagia-ti nel torpore della stagione morta, quando riemergel’origine contadina e paciosa di molti degli albergatori epiccoli imprenditori locali e la vita scorre sonnolenta trale nebbie e i vapori del Cabernet che fermenta nelle can-tine. Ma una rapina è pur sempre una rapina. Nonostante i so-pralluoghi e le osservazioni accurate fatti nelle settimaneprecedenti per preparare il colpo, tu non puoi mai sape-re se la pattuglia di carabinieri che hai visto transitare lìsolo nei giorni del prelievo del contante da parte delleguardie giurate col furgone portavalori, non compaia di-

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sgraziatamente anche in altri momenti, per un accidentequalsiasi. Sono per lo più anziani e troppo satolli per rap-presentare una reale minaccia, ma non si sa mai. Meglioevitare rischi.I quattro o cinque clienti e i tre impiegati rimangono pa-ralizzati dalla paura di fronte alle pistole spianate e alza-no istintivamente le mani, prima ancora che i due rapina-tori con i passamontagna glielo chiedano. Uno tiene a ba-da i clienti, l’altro salta con agilità dietro il bancone e in-giunge al cassiere di vuotare dentro una specie di sportadella spesa i contanti che sono in cassa e di aprire poi lacassaforte, contenente diverse mazzette di banconote.Uno degli impiegati fa per abbassare le mani e il banditoche controlla la situazione gli punta la pistola ingiungen-do in tono freddo e deciso: – Su le mani, ho detto. Sorpresa: la voce è quella di una donna e a guardarla be-ne, sotto il giaccone e i comodi pantaloni, s’intuiscono lefattezze femminili di un corpo snello e vigoroso. “Avevauno sguardo deciso, ma… ma non da delinquente” diràuno dei testimoni.Fuori li aspetta un complice su una Giulia bianca col mo-tore acceso, berretto di lana fino agli occhi e occhiali scu-ri, come un quarto individuo rimasto fuori a fare da palo,che salta a bordo quando le ruote già stridono, dopo es-sersi voltato puntando verso eventuali inseguitori unamitraglietta che teneva nascosta sotto l’impermeabile.A distanza di qualche chilometro c’è, su un bivio lontanodal centro abitato, un casolare abbandonato con una tet-toia fatiscente. I rapinatori, lontani da occhi indiscreti,abbandonano la Giulia e si sbarazzano dei passamonta-gna, dei guanti e dei soprabiti usati durante il colpo; poilei, la compagna Greta, sale su una Ritmo verdina portan-

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dosi appresso la sporta con il bottino, che ricopre di or-taggi, e si allontana da sola. Gli altri vanno in direzioneopposta.L’esproprio frutta appena una decina di milioni; non è ungranché, ma meglio non rischiare di più e seguitare a bat-tere le piccole banche venete ed emiliane.L’Organizzazione ha bisogno di soldi per pagare i fittidelle basi, per procurarsi le armi e gli strumenti neces-sari alla propaganda, per sostenere i compagni detenu-ti, per assicurare la sopravvivenza ai militanti regolari,cioè a quanti erano entrati in clandestinità e avevano la-sciato famiglie e lavoro o per necessità, in quanto ricer-cati dalla polizia, o per scelta e cioè per dedicarsi com-pletamente alla causa.È questo il caso di Greta. Per lei era diventato semprepiù difficile coniugare lavoro e quotidianità con il cre-scente impegno nell’Organizzazione. C’era poi l’eventua-lità, neppure troppo remota, che il suo nome comparissenegli archivi della questura: gli sbirri dell’ufficio politiconon avevano di certo mancato di schedare tutti i fre-quentatori del collettivo dove lei aveva iniziato il suo per-corso rivoluzionario. È anche vero che migliaia di giova-ni come lei erano passati attraverso analoghe esperienze,ma quel collettivo non era una delle tante congreghe cheservivano solo per fare casino a scuola o in piazza. Alcu-ni dei suoi militanti erano passati nel partito armato, sic-ché ormai l’antiguerriglia lo considerava come una dellematrici del terrorismo rosso. Se gli sbirri non c’erano ar-rivati, ci avevano pensato i revisionisti del Partito comu-nista a metterli sulla buona strada.Meglio evitare rischi, aveva pensato Greta ed era passatain clandestinità, assumendo una nuova identità e, all’in-

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terno dell’Organizzazione, quel nome di battaglia: Gretaper i compagni.Era stata la direzione strategica a decidere quale doves-se essere la sua nuova identità e quale altro militante ladovesse affiancare per svolgere il suo ruolo senza desta-re sospetti. Le norme di comportamento prescrivevanoche il combattente rivoluzionario dovesse confondersitra la gente, diluirsi nel brodo della ordinarietà, trasfor-marsi in uno dei tanti uomini o donne della strada, con lesue abitudini piccolo-borghesi, il tran-tran quotidiano diuna esistenza grigia, che non attira curiosità o invidie, maneppure interesse per simpatia. L’anonimato allo statopuro, insomma.Greta non era certo abituata al lusso e non desiderava lavita brillante. Non le costava quindi nulla vivere in quel-la dimensione. L’inizio era stato però duro per altri moti-vi: le dava fastidio, anzi la irritava molto, l’idea di dovervivere a fianco del compagno Dante, un compagno ammi-revole quanto a cultura rivoluzionaria e a capacità orga-nizzative, con il quale non sentiva però di condividerenulla se non la militanza nel partito armato e la fede in-crollabile nella vittoria del proletariato.Le era costato molto lasciare il suo ragazzo, anche se illoro non era stato un rapporto né continuativo, né pro-fondo. O almeno così le sembrava mentre erano ancorainsieme.

VIII

Anche se l’identikit non assomigliava affatto alla Rina,Guido seguitava a temere che fosse lei la misteriosa si-

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gnora Sartori. Si sa che a una donna basta cambiare pet-tinatura e trucco per cambiare aspetto. Troppi erano glielementi che portavano a lei: le idee più volte manifesta-te, il suo percorso politico, la scomparsa da casa, la fre-quentazione a Trento di altri estremisti passati al terrori-smo e, infine, l’opportunità che aveva avuto di imposses-sarsi dei dati della carta di identità della Boni. E poi quel-la pistola scomparsa…Non potevano essere coincidenze. Non c’era da farsi illu-sioni.Solo lui sapeva e aveva il quadro completo di tutti gli in-dizi, ma c’era il rischio che anche altri investigatori riu-scissero a intuire o a fare qualche collegamento. Perquanto riguardava la polizia non c’erano problemi. Era ingrado di percepire per tempo segnali in questo senso.Con i carabinieri la questione era più complessa, ma do-veva sapere a ogni costo quali elementi avessero in ma-no. Prima che fosse troppo tardi.Qualche volta gli sembrava soltanto un brutto sogno. Ela storia aveva per molti versi tutte le caratteristichedell’inverosimile: lui portato dai casi della vita dentro gliapparati antiterrorismo della polizia, in chi va a imbat-tersi attraverso una serie incredibile di circostanze e diincastri degni di un romanzo? In Rina, che pur lontanada anni e inafferrabile, rientrava così nella sua vita. E luila inseguiva disperatamente in un labirinto assurdo, do-ve si smarriva e si sentiva impotente come in quegli in-cubi nei quali i problemi che non hai risolto si ripresen-tano subdolamente nel sonno sotto forma di vicende di-verse ma egualmente tormentose, di percorsi irti diostacoli e di equivoci, dove la soluzione diventa semprepiù lontana nonostante i tuoi sforzi. E ti svegli per la sof-

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ferenza che l’incubo ti provoca, sudato e ansimante, perniente contento che si sia trattato solo di un sogno, per-ché quel sogno ti riporta a un problema reale che ti an-gustia.Ancora più spiacevole, anche se con sentimenti diversi,era per Guido pensare al ragionier Sartori. Nonostantesi fosse vantato col Ruspante, chissà perché, di cono-scere anche lui, in realtà non aveva idea di chi potesseessere e si tormentava nell’immaginarselo in anima ecorpo, nell’ipotizzare i suoi rapporti con la Rina. C’eratra loro anche un rapporto sentimentale? Comunquesia, vivevano insieme come marito e moglie e se era co-sì… Si sentì ridicolmente geloso.Com’era possibile che l’esigenza di una maggiore giusti-zia sociale potesse aver spinto la Rina a unirsi a dei ter-roristi che già si erano sporcati le mani di sangue? E abuttare all’ammasso la sua vita affettiva? Con quali com-piti poi? Sperava ardentemente fossero solo di supporto,ma anche in questo caso lei si sarebbe comunque assun-ta la responsabilità di tutto il resto, dal punto di vista mo-rale e penale. Il Bimbo lo pressava. Voleva risultati, perché nel frattem-po i carabinieri avevano arrestato sempre in Piemonte unaltro brigatista molto importante. C’era stato uno scontroa fuoco e un maresciallo ci aveva lasciato la vita.Guido rabbrividiva al pensiero che anche la Rina potesseessere coinvolta in una sparatoria. Non riusciva a evitareche gli balenassero frequentemente nella mente immagi-ni terribili: Rina con la Walther in pugno che viene abbat-tuta da una raffica di mitra mentre cerca di scappare.Nessuno sa chi sia quella bella ragazza riversa ai bordidella strada. Lui arriva quando già è ricoperta da un telo

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bianco macchiato di sangue; rimane scoperta soltanto lamano calda ancora di vita. La sagoma del suo corpo è giàstata tracciata col gesso sull’asfalto, la pistola è a brevedistanza e tutt’intorno cartellini di plastica con le letteredell’alfabeto e i cerchietti che indicano la posizione deibossoli per le esigenze del sopralluogo. Si china e alza unlembo del lenzuolo. L’hanno colpita alla testa: c’è un gru-mo di sangue tra i capelli, che è abbondantemente cola-to lungo la gota e a terra. È arrivata la polizia mortuaria.Gli ufficiali dei carabinieri confabulano col magistrato ecol medico legale e sì e no la degnano di uno sguardo,mentre i becchini la prendono per le braccia e per legambe e la scaricano dentro una cassa di plastica grigia.Sull’asfalto rimane la linea di contorno della sua figuracon una pozza di sangue all’altezza della testa e un’altralungo la figura. Lo guardano esterrefatti quando dice ches’incarica lui di informare i famigliari. Ma come, lei la co-nosceva? Sì, e allora? Eccola qui la signora Sartori, fa iltenentino siculo dell’antiterrorismo, “‘sta gran bott…”,ma si blocca perché vede il suo sguardo pieno di disprez-zo. Gli spaccherebbe volentieri la faccia, ma riesce a trat-tenersi. Si vede benissimo che anche il colonnello dellaterritoriale nella sua impeccabile divisa nera è orgogliosodel risultato. Ma si controlla e ostenta freddezza militare.Non si fa nemmeno sfiorare dall’orrore di una giovane vi-ta spezzata. Era una terrorista, un nemico e allora cheproblema c’è?Sul tavolo di acciaio dell’obitorio, Rina è ancora copertada un lenzuolo, dal quale spuntano i piedi. A una cavigliahanno legato un cartellino con dei numeri. L’Elisa e laGenerosa si avvicinano piangendo. Un infermiere scopreil volto. Per fortuna è stato pulito e Rina è più bella che

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mai, ma lontana. Rimangono per un po’ scoperte ancheuna spalla e in parte il seno. C’è un foro nella carne chesembra ancora viva, sotto la clavicola, del diametro di po-co superiore a una matita. Spicca sul pallore della pellelevigata. Ma che motivo c’è di tagliarla, di farla a pezzi, difarle oltraggio, soltanto per stabilire quale è stato il col-po mortale?

Guido si riscosse da quelle funeree visioni. Nel corridoiorisuonavano dei passi e le voci del Ruspante e di Snoopy.– Possiamo? – domanda il Ruspante affacciandosi allaporta. Ha l’aria abbacchiata ma sempre sospettosa.Snoopy fa capolino dietro di lui.– Allora? – chiede Guido in maniera brusca. – Che cosaavete combinato?Si parte male, pensa dentro di sé il Ruspante, ricambian-do l’aggressività del capo con un “e va be’!”, accompagna-to da un sospiro profondo che vorrebbe evidenziare ilsuo spirito di sopportazione e da un’occhiata di intesacon il collega. Poi tira fuori dalle tasche diversi fogliettispiegazzati e incomincia a esaminarli per trovare quelligiusti.– Ma è mai possibile girare con le tasche piene di quellasozzeria? Vi ho detto tante volte di usare dei taccuini oun’agenda come faccio io. Vedi che poi ti perdi le cose enon ci capisci più niente…– Capo, qui non siamo mica a Scottlajard – l’inglese delRuspante non è perfetto, – e poi i taccuini li uso quandome li passa l’amministrazione. Comunque non mi sonoperso mai niente –. Sta per incazzarsi, ma poi riprendesubito il controllo di sé:– Allora, se non disturbo, vado avanti. Anche i “cugini”

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sono andati a sentire la Boni. Anzi loro l’hanno propriointerrogata a verbale – Guido deglutì. – La Boni però, difronte a tutte quelle divise e alla carta scritta, è statamolto più… più…– Più che cosa? – interviene Guido indispettito dal fattoche il Ruspante lo vuole chiaramente tenere sulla corda.– Tranquillo, capo. Più… stitica. Non ha nominato quellatale Rina, se è questo che volete sapere. Poi hanno inter-rogato tutte le insegnanti e il personale amministrativodella scuola, bidelli compresi. Pare che non abbiano pun-tato nessuno dopo gli interrogatori, nemmeno quelli oquelle passati nell’istituto come supplenti e poi scompar-si. Si sono però fatti dare le loro generalità e in questoelenco di sette o otto persone figura anche Rina… comesi chiama lei. Tra l’altro, con l’ordine che c’è in quellascuola hanno trovato le schede di ciascuno di loro com-plete di fotografia. Non devono fare neppure la fatica diandarsele a procurare allo schedario delle carte d’identi-tà dei comuni di residenza o altrove. Se la signora Sarto-ri figura nell’elenco, il gioco è fatto. Basta mostrare la suafotografia agli inquilini dello stabile e…– E l’hanno già fatto? – chiede Guido visibilmente agitato.– No, capo. Non mi sembra che credano molto a questapista.– Allora dobbiamo farlo noi. Subito. Però non abbiamo lefoto, anche se io…– e Guido si interrompe.– Anche se voi… almeno una delle foto la potreste avere.Quella di Rina magari…Non c’è bisogno di spiegazioni. Lo sguardo che si scam-biano è eloquente. Il Ruspante si prende la rivincita. Mache cosa credeva il capo? Che lui dormisse? Il Ruspante non riesce però a capire come stiano vera-

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mente le cose: è chiaro che il capo conosce personalmen-te la Rina, ma perché tanti misteri? Che rapporti ci sonostati fra loro? Certamente la vuole proteggere. Ma fino ache punto? Anche nel caso in cui lei fosse veramente unaterrorista? Il capo fa spesso dei discorsi strani, discorsida sociologo, come quando dice che bisognerebbe anda-re alla ricerca delle cause del terrorismo. Sarà anche ve-ro, ma il compito della polizia è quello di arrestare i ter-roristi. Questo il Ruspante sente essere il suo dovere ese quella ragazza è una terrorista lui deve fare di tuttoper buttarla in galera, prima che faccia altri danni e ma-gari la pelle a un poliziotto o a un carabiniere. Insistonotroppo nei loro volantini con gli sbirri dell’antiguerriglia enon è affatto da escludere che stiano effettivamente pen-sando di fare fuori proprio uno dell’antiterrorismo, che siè fatto notare per l’impegno, o che si è messo in mostracon la stampa. Lui no, al Ruspante non lo fregano! Hascelto da sempre un profilo basso, lontano dagli obiettividelle macchine fotografiche e dalle cineprese. A TorreSpaccata, il quartiere popolare alla periferia di Roma do-ve abita con la famiglia, nessuno sa che lui è in polizia;aveva raccomandato anche alla moglie e ai ragazzi di te-nere la bocca chiusa. Che fa papà? Lavora al ministerodei Trasporti. Del resto, da quando erano andati ad abi-tare a Torre Spaccata, nessuno l’aveva visto mai in divi-sa, perché era stato in servizio sempre all’ufficio politico.Appena arruolato, dopo il corso alla scuola di Trieste,l’avevano spedito a Padova, al reparto Celere. Era anco-ra scapolo allora e di tanto in tanto ritornava al paeselloa trovare i genitori e Silvana, che era ormai una donna.Gli piaceva allora pavoneggiarsi con la divisa. Secondo ilpadre, con il diploma di perito tecnico poteva fare qual-

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cosa di meglio. A Silvana andava bene, anche se quelloera un mestiere pericoloso che la faceva stare in ansia. Sierano sposati contenti, per niente spaventati dall’avveni-re che si presentava tutt’altro che facile, specie nei primitempi, quando lei era dovuta restare al paesello, nellasperanza che il marito ottenesse il trasferimento. Luiscappava ogni volta che poteva e si faceva ore e ore ditreno pur di passare mezza giornata con Silvana e portar-le tutto quello che riusciva a risparmiare per mettere sucasa. Ed era gran parte dello stipendio, perché a Padovanon spendeva quasi niente: dormiva in caserma e man-giava alla mensa del reparto. Giusto qualche migliaio dilire per i caffè e le “Nazionali”. Per fortuna la situazionesi era risolta in un paio d’anni e, con la raccomandazionedell’onorevole, il Ruspante aveva avuto il trasferimentoalla Questura di Roma. Non era stato facile trovare casacon i prezzi degli affitti, ma alla fine, grazie a qualche co-noscenza, era saltata fuori l’occasione giusta: due came-re e servizi in un palazzone moderno di un ente pubbli-co. Due stanze andavano giuste giuste per papà, mammae Caterina, nata al paesello e portata nella capitale cheappena sapeva camminare. Ma in arrivo c’era anche Do-menico e allora si sarebbe stati forse un po’ stretti; peròla cucina era abitabile e c’era anche il balcone, semprepieno di sole, dal quale si vedevano i prati e in lontanan-za le montagne azzurrine che facevano pensare al paesel-lo. Quando l’avevano assegnato all’ufficio politico, il Ru-

spante non si era perso d’animo. “Nessuno nasce impa-rato” sentiva dire cameratescamente per incoraggiamen-to dagli anziani della squadretta alla quale l’avevano as-segnato e lui, solido e testardo come un mulo, si era mes-so alle costole del maresciallone esperto per rubare il

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mestiere. All’inizio lo sfottevano un po’ perché, contra-riamente a molti altri colleghi di simili origini agresti chesi erano però rapidamente urbanizzati, lui conservava an-cora quel suo aspetto da contadino vestito a festa, rigido,con lo sguardo sospettoso e sornione. Agli sfottò lui ri-spondeva “Contadino, scarpe grosse e cervello fino” unpo’ per scherzo, ma anche perché si sentiva in fondo or-goglioso della sua origine. La strada l’aveva rapidamente formato: le molte manife-stazioni dei gruppi di estrema sinistra, alle quali interve-niva con la squadretta per osservare e segnalare mano-vre strane ai responsabili del servizio di ordine pubblico,erano esperienze preziose per conoscere nomi, perso-naggi, luoghi di aggregazione e tentare agganci approfit-tando di circostanze favorevoli. Se all’inizio i volantini e igiornali della sinistra rivoluzionaria gli erano sembratiquasi incomprensibili, la pratica l’aveva poi messo in con-dizione di capire al volo la matrice e i significati di ognidocumento d’area. Annotava tutto diligentemente e tut-to immagazzinava gelosamente nel suo testone. La solidaimmagine contadina unita a un ingegno vivace avevanogiocato a suo favore anche nei difficili rapporti con lacontroparte. Non suscitava repulsione od odio come mol-ti dei suoi colleghi e se pure non era possibile ispirare fi-ducia in chi considerava comunque i poliziotti dei nemi-ci di classe, qualche gruppettaro non si sottraeva a unminimo di dialogo con lui e dopo aver sperimentato chenon tirava a fregare, finiva che lo stesse anche a sentirenei momenti più critici e accettasse dal Ruspante consi-gli che mai avrebbe accettato da altri. Non sempre ciòera possibile, ma se si andava allo scontro le molotov e lesassate, o peggio ancora qualche pistolettata, non aveva-

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no come obiettivo il Ruspante. Era sempre un nemico diclasse, ma un nemico corretto.E così con questi sistemi riusciva più degli altri a fiutarel’aria, a capire dove andavano a parare certe situazioni, adacchiappare per tempo la notizia giusta, ad avere qualcheconfidenza, soprattutto approfittando dei momenti in cuila controparte si trovava nei guai: una perquisizione, unfermo, un arresto. Bastava allora una sigaretta, una mez-za parola che dimostrasse assenza di rancore o, meglioancora, un gesto di protezione a fronte delle brutalità al-le quali i duri della squadra si lasciavano talvolta andare,e il gruppettaro rimaneva spiazzato da una pur modestis-sima manifestazione di umanità che mai si sarebbe aspet-tato. Così, specie chi si sentiva mancare la terra sotto ipiedi perché andava in galera per la prima volta, finiva peraccettare anche quel qualcosa in più che lo vincolava poimoralmente al Ruspante: la disponibilità a far arrivare aifamiliari un messaggio tranquillizzante, la promessa di unintervento in suo favore presso il magistrato per un collo-quio o per sollecitare la concessione della libertà provvi-soria. L’abilità stava tutta nel trovare il soggetto giusto perchéla logica dominante era quella dello scontro, unico tipo dirapporto che un vero rivoluzionario potesse istaurarecon gli sbirri. Anche in questo il Ruspante aveva naso.Gli bastava intravedere in quegli occhi di coetanei smar-riti uno spiraglio di resipiscenza. E lì si incuneava, lì fa-ceva breccia con molta abilità per istaurare un rapportoumano, da cui poi avrebbe potuto ricavare delle utilità.Intanto seminava… Non si era mai posto il problema se fosse giusto approfit-tare delle disgrazie e delle debolezze dell’avversario per

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entrare nelle sue difese, perché la sua indole sana e con-tadina lo spingeva istintivamente da una parte a non in-fierire su chi è caduto, dall’altra a non perdere però oc-casioni favorevoli per conseguire un vantaggio, visto chepoi si trattava non di vantaggi personali, ma della sicu-rezza della gente. Umanità e utilitarismo professionale potevano benissimoconvivere nella sua morale di poliziotto furbo ma corret-to, calcolatore ma non cinico. Col trascorrere del tempo, aveva acquisito una esperien-za invidiabile: conosceva la maggior parte dei componen-ti delle formazioni della sinistra rivoluzionaria, di moltiaveva seguito i percorsi e anche le vicende familiari. Sa-peva capire se qualcuno di loro aveva fatto il grande sal-to nelle file del partito armato. Da quelli che aveva soc-corso nel momento del bisogno riceveva notizie utili,mentre qualcun altro gli era grato per averlo fermato intempo.Per questo Guido l’aveva voluto con sé. Nel periodo tra-scorso insieme all’ufficio politico, ne aveva apprezzatonon solo le doti professionali, ma anche la schiettezza.Lui, giovane commissario, si era molto giovato dell’espe-rienza e del buon senso del dipendente, e questi si senti-va appagato dall’essere al tempo stesso guida discreta diun superiore sveglio ma alle prime armi e il suo collabo-ratore preferito.Guido del resto era benvoluto da tutto il personale, per-ché non aveva la puzza sotto il naso.Ne era nato un rapporto ruvido all’apparenza, ma solido,nel quale l’uno aveva dalla sua maggiore esperienza epraticità, l’altro maggiore cultura, capacità di analisi e so-prattutto la voglia di assumersi le responsabilità.

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Nonostante la stima e il reciproco rispetto, accadeva ognitanto che Guido avvertisse come invadenza ciò che il Ru-

spante riteneva invece un diritto e un dovere e cioè quel-lo di propinare costantemente consigli e suggerimenti alsuo capo e di adombrarsi quando aveva la sensazione diessere tenuto all’oscuro di qualcosa. In queste situazioni Guido non riusciva a dissimulare lasua irritazione e ad accompagnare i conseguenti borbot-tii del Ruspante con minacciosi “Ma che cazzo vuoi,adesso?”.E la storia di Rina era esattamente una situazione critica,anzi la più complicata e grave che si fosse mai verificatatra di loro, quella in cui entravano in gioco anche aspettimolto personali e Guido non era disposto a tollerare in-vadenze e curiosità sia per un fatto di pudore, sia perchési rendeva conto di avere la coda di paglia.Dal canto suo il Ruspante era più che mai animato dal-l’intento di evitare che il suo capo finisse nei pasticci eper adempiere alla sua sacrosanta missione si sentiva au-torizzato anche a forzare la mano.

IX

Snoopy, rimasto fino ad allora impassibile con la sua fac-cia da mamutone e con aria sorniona, tira fuori dalle ta-sche della giacca di velluto un mazzetto di foto formatotessera:– Me le ha date il mio paesano. Sono le copie di tutte lefoto delle schede della scuola che i carabinieri hanno se-questrato.Guido le afferra e le scorre febbrilmente fino a fermarsi

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di colpo davanti a quella giusta. Rina ha lo sguardo spen-to e triste. Deve essersela fatta alle macchinette per fo-totessera che si trovano per la strada.È scuro in volto e pare che stia andando alla fucilazionequando suonano alla porta del cavalier Martin, il proprieta-rio dell’appartamento di via Aquileia. Scorre lentamente lefotografie con i suoi occhietti pignoli da filatelico, di tantoin tanto sollevando lo sguardo con aria ammiccante versoGuido. Ma non si capisce perché. Ne trattiene alla fine una:– Ecco, la signora Sartori assomigliava abbastanza a que-sta.– Assomiglia o è lei? – fa brusco il Ruspante.– No, ho detto soltanto che assomiglia, ma nemmenotroppo.Gli altri inquilini sono ancora più timorosi. Guardanofrettolosamente con la speranza di non riconoscere nes-suno.Il geometra Toffoletto vuole garanzie in anticipo: si impe-gna a collaborare e a riconoscere eventualmente la signo-ra Sartori solo a patto di restare anonimo. Scorre con at-tenzione le fotografie e si sofferma più volte su quella in-dicata dal cavalier Martin, ma alla fine, tra profondi so-spiri e convulsi scuotimenti della testa in segno di dinie-go, restituisce la fotografia con un gesto liberatorio. No,non se la sente nemmeno di dire se ci sono delle rasso-miglianze.La foto è quella della Rina.Guido e il Ruspante si guardano perplessi. – Te lo dicevo io che era lei – commenta amaramente

Guido. – È chiaro che l’hanno riconosciuta. Solo che lapaura fa novanta e non se la sentono di dirlo.– Io non sarei così sicuro – replica il Ruspante. – Mi sem-

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bravano sinceri. Se stiamo ai fatti, viene fuori che, su unadecina di testimoni, uno ha notato una semplice rassomi-glianza, l’altro si è solo soffermato su quella foto.– Ma io ho anche altri elementi per credere che invecesia proprio lei.– Capo, su questo punto io non faccio più domande.Guido appare combattuto. Non c’è nessun altro oltre lo-ro due. – So che mi posso fidare di te. Questa Rina la conosco…la conoscevo da ragazzina. Sai, è dello stesso paese dimia madre. Io l’estate la passavo quasi sempre lì. Si gio-cava insieme da bambini…– Ah, ho capito! E ritenete che sia lei non solo per la ras-somiglianza, ma anche perché conosceva la Boni e po-trebbe averne rubato le generalità. Questo già l’avevo ca-pito, ma non basta. Da quanto tempo non la vedete più?– Da tanto – risponde secco Guido e già si è pentito di es-sersi lasciato andare. – Senti… sono cose un po’ perso-nali. Non ho niente da nascondere, ma certe cose prefe-risco tenerle per me.– Capo, io non voglio sapere i fatti vostri. Vorrei soltantodare una mano…– Allora aiutami a cercarla, prima che si cacci ancora dipiù nei guai.– Snoopy ha saputo che i carabinieri hanno identificatol’uomo. Sarebbe un ex Potere Operaio milanese, che faparte però della colonna veneta dell’Organizzazione.Era una lotta contro il tempo, ma Guido non sapeva dadove incominciare. Poi si ricordò di Alvise.

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X

Alvise anarchico libertario, contrabbandiere e forse traf-ficante di opere d’arte, era di origine nobile, ma il ramodell’antica casata veneziana dalla quale discendeva eradecaduto da tempo.Il padre, dato fondo alle ultime sostanze al tavolo da gio-co, un bel giorno aveva preferito mollare tutto sparando-si un colpo in testa con la sua pistola da repubblichinodella X Mas.Alvise, allora poco più che un ragazzino, era stato sve-gliato bruscamente quella brutta mattina come da unoschianto. Avevano poi percepito, ancora nel dormiveglia,un susseguirsi di rumori insoliti, frasi concitate, gridasoffocate, lamenti, il pianto angosciato della madre. Loavevano bloccato sulla porta della sua cameretta, maaveva fatto in tempo a intravedere la polizia che entravae usciva dallo studiolo del padre e la mamma che se nestava seduta lì davanti, la testa tra le mani, con le vicineche la consolavano. Allora si era ribellato alla zia e ai po-liziotti che volevano per forza portarlo fuori e aveva ten-tato a calci e pugni di entrare in quella stanzetta, dove lasera prima il padre lo aveva tenuto abbracciato a lungo egli aveva fatto dei discorsi strani e poi, con le lacrime agliocchi, gli aveva ricordato di come erano stati bene quelgiorno che erano andati a pesca in laguna insieme a ungruppo di amici e alla sera a mangiare nel “cason” del Be-pi il bisato, e cioè l’anguilla, arrostito sulla brace con lapolenta. E lui lo ricordava benissimo e avrebbe volutofarlo altre volte, perché gli era piaciuto molto non solopescare e mangiare il bisato, ma anche vedere il babbo e

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la mamma stretti sulla panca accanto al focolare, allegrie sereni come capitava di rado.La vedova, ancora giovane e piacente, si era presto unitaa un medico divorziato dell’Ospedale S.S. Giovanni e Pao-lo, con il quale da tempo se la intendeva, e Alvise, appe-na terminato il ginnasio, era stato avviato al collegio nava-le Morosini sull’isola di Sant’Elena, come il padre avrebbevoluto.L’impatto con il severo stile militare del collegio era sta-to devastante per Alvise, abituato fino ad allora ad ampimargini di libertà dovuti all’assenza della figura paterna ealla fragile personalità della madre. Sentiva la stessa uni-forme del Morosini come una sopraffazione e quandonelle serate d’inverno doveva rientrare inesorabilmentepuntuale con i compagni al collegio dopo la libera uscita,gli veniva il magone a vedersi come gli altri sotto quelletristi mantelline blu; e dopo il magone gli veniva la rab-bia, il risentimento contro la madre, che chiudendolo lìdentro era come se si fosse voluta sbarazzare di lui. Maperché? Prima che entrasse in collegio, non era lei a sve-gliarlo la mattina scarmigliandogli i capelli per tirarlo giùdal letto, a preparargli la colazione e a guardarselo a lun-go sorridendogli in silenzio?Aveva resistito appena un anno e poi aveva mollato congrande sollievo dei responsabili del collegio, ma con mol-to dispiacere di diversi suoi compagni di corso, che neavevano apprezzato il coraggio non solo di contestare leforme più rigide di disciplina, ma anche la disponibilità aprendere le difese di quanti ne erano vittime.Il ritorno alla scuola pubblica e la riappropriazione delproprio tempo avevano riportato Alvise a contatto con iproblemi reali dei coetanei, che ora vedeva in una luce

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diversa dopo l’esperienza del collegio Morosini, e in quelmondo in fermento fatto di assemblee, occupazioni, cor-tei di protesta, finì per trovarsi a suo agio e scoprire lasua vocazione libertaria.Era diventato un bel ragazzo: la figura alta e snella, la fol-ta “criniera” bionda, gli occhi azzurri che ora scrutavano,ora sembravano perdersi in visioni lontane, facevanostrage di cuori tra le “zecche”, ma anche i compagni ave-vano finito per accettarlo per la generosità e il coraggiodimostrato sul campo.I tratti distinti del volto, incorniciato da una robusta bar-ba, il portamento naturalmente disinvolto e il piglio daavventuriero spiccavano ancora di più calati nella trasan-datezza libertaria della persona e del vestire e l’insolitacombinazione contribuiva a farne un personaggio affasci-nante e a esaltare la sua immagine di ribelle, col risulta-to che la figura di Alvise era diventata emblematica dellasinistra rivoluzionaria veneta.I guai con la giustizia erano incominciati con il fermo peruna incursione contro la sede del Movimento Sociale, av-venuta ai margini di una manifestazione studentesca e daallora il fascicolo di polizia di Alvise era andato crescen-do rapidamente, anche se restava nel vago uno dei puntifondamentali della schedatura e cioè la sua militanza: aquale formazione apparteneva Alvise? Certamente eraun militante della sinistra rivoluzionaria, ma nessuno sa-peva collocarlo con maggiore esattezza dentro quello cheveniva definito dai cronisti il “variegato arcipelago” del-l’eversione rossa.In realtà Alvise non apparteneva a nessun gruppo perchéera insofferente a qualsiasi tipo di inquadramento, di di-sciplina e di impegno, così che l’unica classificazione che

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più gli si addiceva era quella di anarchico libertario, cheevidenziava meglio l’individualità, lo spontaneismo e an-che la precarietà della sua scelta.Non c’era effettivamente da parte sua l’adesione a unaideologia ben definita né una vera fede rivoluzionaria, mapiuttosto il rifiuto della società in quanto tale e cioè co-me una serie infinita di regole, impegni, doveri, obblighi,convenzioni e il discorso valeva non solo per la societàborghese.Una siffatta concezione di vita non poteva che sfociarenel rifiuto non solo di qualsiasi tipo di lavoro subordina-to, ma anche di ogni altra attività che comportasse impe-gno metodico. Alvise così, dopo aver interrotto gli studi,aveva cominciato a frequentare gli ambienti dei contrab-bandieri e dei trafficanti di opere d’arte, trovandoli mol-to attraenti e rispondenti ai propri gusti. La trafila era iniziata con la partecipazione a sbarchi not-turni di cartoni di Malboro e di Muratti Ambassador sul-la spiaggia di punta Sabbioni e l’esperienza lo aveva tan-to esaltato da convincerlo a entrare in quel genere di af-fari. Con il gruzzolo che la famiglia gli aveva accantonatosu un libretto di risparmio si era allora comprato un belbarchino veloce, di quelli che in laguna chiamano caccia-pesca, spinto da un potente motore Evinrude ed era an-dato a stabilirsi alla Giudecca, nella soffitta di un anticoe fatiscente palazzotto che vantava anche una “cavana”,dove Alvise rimetteva il caccia-pesca. Lo stabile sorgevainfatti su un “rio” le cui acque lambivano le fondamentaricoperte fin dove arrivava la marea dal velo di alghe ver-dognole e scivolose. Dall’abbaino con le imposte di legnodella sua soffitta, Alvise dominava il bacino di San Marcoe la Punta della Salute.

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Anche Satana mostrava di gradire quella nuova sistema-zione e in breve tempo si era fatto benvolere dagli abi-tanti del campiello su cui si apriva l’ingresso principaledel palazzo. Sarebbe stato difficile capire di quali incro-ci Satana fosse il prodotto, ma l’effetto, seppure alquan-to distante dai canoni della bellezza canina, era apprez-zabile quanto a simpatia che suscitava di primo acchito:pelo abbondante bianco e nero, testone volpino conorecchie erette, occhi furbi, corporatura massiccia, zam-pe robuste ma cortissime. Tranquillo e riservato, Satanadiventava però una furia quando si sentiva oltraggiatoda qualche suo simile specie di taglia superiore o di raz-za, o quando riteneva che si volesse far del male ad Al-vise. Allora non si faceva alcuno scrupolo di ricorrereanche ai mezzi più proditorii pur di vendicare l’offesa odi sventare il pericolo.Avvenne un giorno che Alvise, ormai ben introdotto an-che nella mala veneziana di un certo livello, rimanesse, atorto o a ragione, coinvolto in una indagine su un trafficodi opere d’arte rubate.Sentì bussare sgarbatamente, che era ancora buio, allaporta della sua soffitta e non ebbe dubbi su chi lo stessesvegliando a quell’ora.– Polizia! Apri subito.– Eh, che furia! Vegno…– e così dicendo afferrò per lacollottola Satana che stava dando i numeri e se lo misesotto il braccio per evitare che si cacciasse nei guai.Danila, confusa e terrorizzata, cacciò la testa fuori dellecoperte invocando mamma.– Tranquilla, Dany. Vedrai che non succederà niente – cer-cò di tranquillizzarla Alvise, ma quando i poliziotti irruppe-ro nella stanza, la prima cosa che fecero fu di far volare le

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coperte nelle quali la ragazza cercava disperatamente direstare avviluppata, lasciando il suo bel corpo caldo e se-minudo alla contemplazione allupata della sbirraglia.– Maresciallo, se si incomincia così voglio l’avvocato – in-tervenne con decisione Alvise e a Danila fu consentito diriavvolgersi nella coperta e di mettersi seduta su una se-dia, dove rimase muta e con gli occhi bassi.Il mandato parlava di “associazione per delinquere fina-lizzata al traffico di opere d’arte di provenienza furtiva” ela perquisizione fu lunga e meticolosa. Il maresciallo Po-lo e i suoi giannizzeri andarono a rovistare anche sotto letegole del tetto. Ma non veniva fuori nulla di quello checercavano. Alvise era tutto meno che un “mona”.Gli sbirri mostravano segni di dispetto. Evidentementeavevano avuto una soffiata che ritenevano precisa e spe-ravano di trovare proprio a casa di Alvise la tela preziosascomparsa qualche settimana prima da una chiesa dellaterraferma.– Mì trafficante de opere d’arte… ma ‘ndemo, mare-

sciallo! Non so gnanca cossa significa – fece Alvisecon aria tra il sornione e lo sfottente.Più tignoso degli altri sembrava il brigadiere Fantin, cheseguitava a rovistare dappertutto e a guardarsi intornonella speranza di individuare nascondigli segreti. Non eradifficile capire che era stato proprio lui ad avere la soffia-ta e se così stavano le cose era anche chiaro per Alvisechi fosse l’infame. Sogghignò dentro di sé.– Ascolta, Alvise: cosa pensate di farci con quella tela? Èarte sacra e quel quadro figura oltretutto sui libri di sto-ria dell’arte. Chi volete che lo compri? Il Patriarca ci ter-rebbe tanto a rivederlo al suo posto. Tu sei un ragazzosveglio e se ci dài una mano…

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Frattanto il brigadiere Fantin andava scartabellando al-cune riviste ammucchiate su una sedia:– Roba anarchica, eh!– Xe proibito anca leggere adesso, sior brigadier?

– Sì, specie se si tratta di roba come questa dove si inse-gna a fare le bottiglie Molotov e le bombe…– Roba che si trova anche sui carrettini.Ma il brigadiere Fantin sembrava ormai gasato. Era pas-sato a ispezionare minuziosamente il piccolo frigorifero,evidentemente ricordando altri suggerimenti avuti dal-l’infame. Altrimenti come ci sarebbe arrivato a trovare itre detonatori che Alvise aveva immersi, avvolti nella sta-gnola, dentro un barattolo di marmellata di ciliege?Le cose si stavano mettendo veramente male per Alvise:con i detonatori in casa, occultati in quel modo, l’arrestoera inevitabile. E questo sembrava essere l’orientamentodegli sbirri, ben lieti di avere un serio pretesto per sbat-tere in galera quel figlio di puttana di contrabbandiereanarchico.– Maresciallo, questo è un terrorista, – sussurrò con ariagrave l’anziano appuntato Cafiero – conviene chiamareanche la “difficile” per guardare bene tutte ‘ste carte e leagendine telefoniche. Loro possono fare collegamenti…almeno dicono…Il maresciallo Polo trovò sensato il suggerimento. Megliochiamarli subito i filosofi della “difficile”, per evitare chepoi facessero le solite polemiche per non essere stati av-vertiti subito di cose che quelli delle squadre mobili nonpotevano capire perché erano capaci solo di fare indagi-ni di bassa macelleria. Ma poi, quando interveniva “la dif-ficile”, quali erano i risultati? Solo aria fritta. Meglio chia-marli però, visto che si trovavano già in zona da qualche

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giorno per indagare ancora proprio su ambienti anarchi-ci del Veneto frequentati a suo tempo da quel matto cheaveva tirato una bomba davanti alla Questura di Milano.Ci volle più di un’ora prima che Guido potesse arrivarecol motoscafo di “pronto intervento”. Valutò la situazio-ne facendosi informare dal personale che aveva operatoe prendendo visione delle carte di contenuto ideologico.Le pubblicazioni anarchiche e il manuale sulla confezio-ne di ordigni esplosivi erano il consueto corredo di ognimilitante d’area, ma i detonatori stavano a dimostrareche Alvise non faceva soltanto teoria. Quel ragazzo perògli ispirava simpatia. Sembrava di buona pasta, diversodagli altri gruppettari, chiusi nel loro astio preconcettoverso tutto e tutti, animati solo da intenti distruttivi. L’at-teggiamento ostentatamente da duro e da ribelle tradivauna sensibilità che lo collocava al di fuori e forse al di so-pra degli ambienti nei quali si era cacciato. Era chiara-mente preoccupato per la ragazza, le teneva un bracciosulle spalle come per proteggerla e le lanciava occhiatedi conforto. Decisamente un personaggio interessante,complesso, da studiare. Forse da sfruttare.– Da quanto tempo è qui la ragazza? – incominciò Guidogiusto per rompere il ghiaccio.– Da ieri sera.– Sì… ma dico: è stata qui altre volte?– Alla polizia che cosa interessa saperlo? È necessario al-le indagini sui traffici di opere d’arte? – rispose polemica-mente Alvise.– A noi dei fatti tuoi non ce ne frega proprio niente – ri-spose Guido senza scomporsi. – Se te l’ho chiesto c’è unmotivo: se risulta che lei era qui occasionalmente puòevitare l’arresto per i detonatori.

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– È arrivata ieri sera. A casa sanno che è andata a Pado-va a fare un esame, ospite di un’amica. Fa medicina. Èuna brava ragazza.

Guido dovette faticare non poco per convincere la squa-dra mobile a non arrestare la Danila per “concorso in de-tenzione di materiale esplodente” e a indicarla nel rap-porto all’autorità giudiziaria soltanto come “occasional-mente” presente a casa di Alvise.Alvise lo salutò stringendogli la mano. Poi, prima chegli mettessero le manette, abbracciò a lungo Danila e labaciò teneramente, sussurrandole di stare tranquilla edi prendersi cura di Satana. La lancia bianco-azzurra“113 Polizia”, nella quale venne calato dagli agenti, siavviò gorgogliando verso le carceri di Santa Maria Mag-giore con il lampeggiante acceso che sciabolava la neb-bia.

XI

Da “Toni alla rivetta” si poteva stare tranquilli. Guido tro-vò Alvise che lo aspettava appoggiato al bancone, ingan-nando l’attesa con uno “spritz” e “cicchetti” di cozze algratin. Satana, che era sdraiato ai suoi piedi, si drizzò sul-le zampe quando vide il nuovo arrivato andare verso ilpadrone, ma poi, rassicurato dai saluti che i due si scam-biavano, incominciò a scodinzolare.– Come va, commissario? A che devo l’onore…– E tu come te la passi?– A piede libero! – rispose ironico Alvise.– Come è andata a finire la storia dei detonatori e della

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tela dell’Assunta? Quanto tempo ti hanno tenuto dentro?– Nemmeno un mese, commissario. Acqua passata!– Ho letto sui giornali che la tela è stata recuperata dallaMobile e restituita alla chiesa in pompa magna…– Un miracolo dell’Assunta, signor commissario – com-mentò Alvise beffardo.Guido capì che per amor di patria era meglio non soffer-marsi sull’argomento. L’operazione del recupero della te-la aveva suscitato molte perplessità anche nell’opinionepubblica più attenta. Le circostanze in cui sarebbe avve-nuta, così come raccontate in conferenza stampa dal ca-po della squadra mobile, erano sembrate alquanto inve-rosimili: improbabili inseguimenti nella notte, i ladri chesi sbarazzano della refurtiva, nessun arresto, nessuno deiresponsabili identificato.Non era la prima volta che accadeva. Preziose pale di al-tare, quadri di inestimabile valore trafugati e poi miraco-losamente recuperati dalla polizia, sempre senza l’arre-sto di nemmeno uno dei componenti della fantomaticabanda di razziatori di opere d’arte collegati a trafficantiinternazionali. Giravano molte chiacchiere in proposito.Si diceva che la polizia trovasse sempre troppo facilmen-te il confidente giusto per arrivare al recupero e che lesocietà di assicurazione si prestassero di buon grado ascucire sotto banco qualche milioncino per la spiata, purdi recuperare l’opera ed evitare di dover far fronte al benpiù pesante risarcimento del danno. E così erano conten-ti tutti: la polizia, che faceva una brillante operazione, iladri che ricavavano il loro utile rischiando ben poco e leassicurazioni, almeno fin quando non si stancavano distare al gioco. Bastava non tirare troppo la corda.– Alvise, devi darmi una mano.

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– In che modo, commissario?– Sto cercando delle persone.– E chi sono?– Sono due… terroristi, ma non so come si chiamano.– Non capisco…– Mi spiego meglio. Avrai saputo che dalle parti di Pado-va c’era un covo, che venne smobilitato in gran frettaquando in Piemonte furono arrestati due capi dell’Orga-nizzazione. Nel covo abitava una coppia apparentementeinsospettabile. Ma tu queste cose le sai meglio di me. Iosto cercando questa coppia.– Per arrestarli…– Beh, sì. È il mio mestiere. Ma non è questo il punto. Cisono anche altri motivi.– E sarebbero?Guido si era preparato. Alvise era di una decina d’annipiù giovane di lui, ma le sue scelte l’avevano portato aconfrontarsi presto con la vita e con gli altri senza la me-diazione o l’aiuto di alcuno, aggiungendo alla sua notevo-le intelligenza un’esperienza superiore alla sua età e do-tandolo della capacità di cavarsela in qualsiasi situazione.La contestuale frequentazione di ambienti ideologizzati edella malavita l’aveva reso spavaldo, smaliziato, scaltro ediffidente. Sotto questa cortina difensiva indispensabilealla sopravvivenza, rimanevano però la generosità, lagentilezza dei sentimenti e la lealtà proprie della sua na-tura. Non era il tipo al quale si potevano contare balle ofare proposte avventate o miserabili.Guido si rendeva conto che è difficile per un poliziotto al-la ricerca di una soffiata non fare proposte miserabili, malui in quel momento non era né si sentiva lo sbirro alla ri-cerca di un delatore prezzolato, né considerava tale Alvi-

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se, che mai si sarebbe prestato a vendere un compagnoalla polizia per danaro. Occorreva allora convincerlo chel’operazione non era in questi termini.Occorreva giocare anche sulle sue incertezze, sui dubbinei quali egli, come molti altri giovani del movimento, sidibatteva, per tentare di convincerlo che la collaborazio-ne che egli avrebbe offerto, sarebbe servita a evitare chealtri compagni venissero risucchiati in un’avventura sen-za sbocchi e sempre più oscura. – Ti rispondo facendoti io una domanda, se permetti – ri-prese Guido dopo una pausa piuttosto lunga. – Tu appro-vi la lotta armata?– Commissario, lei sa bene che io non ho nulla a che farecon l’Organizzazione o altre cose del genere.– Questo lo so, ma io non ti ho chiesto se fai parte dellabanda o hai contatti con loro. La mia domanda è un’altra:condividi o no l’idea di un’avanguardia armata che trasci-na le masse alla rivoluzione e alla presa del potere?– Io sono convinto che questa è una società di merda, daabbattere, ma sono contrario a ogni forma di militarismo,anche se rivoluzionario. E l’Organizzazione è ormai chiu-sa nel suo militarismo.– E forse ritieni anche che non stiano facendo gli interes-si del proletariato?– Lei sa che noi siamo contrari sia all’impostazione mili-tarista della lotta armata sia all’idea del partito, cioè digruppi elitari che pretendano di interpretare le esigenzedel proletariato e di comandare…– Non saresti il primo a dubitare della linea dell’Organiz-zazione o quantomeno della bontà delle loro valutazioni.Compagni che sbagliano, dice qualcuno…– Quel qualcuno non mi interessa.

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– Che cosa hanno ottenuto quelli dell’Organizzazione?Non ti pare che l’unico risultato raggiunto sia solo un’on-data repressiva che rischia di travolgere anche le diversecomponenti del movimento, primi fra tutti voi anarchiciche siete tra l’altro tornati nel mirino per la bomba allaQuestura di Milano? – seguitò insinuante Guido.– Quella di Milano è un’altra porcata dei servizi segreti. Epoi, commissario, perché lei si preoccupa tanto della re-pressione? È il vostro pane quotidiano, è la vostra ragiond’essere. Mi viene da ridere: lei che si preoccupa del mo-vimento! Ma come, non è sempre la polizia che menamanganellate in piazza quando noi manifestiamo? O chepretende di fare di ogni erba un fascio, denunciando perbanda armata chi fa casino in piazza e chi fa gli omicidi?Guido capì che doveva recuperare in fretta:– La polizia reprime quando si creano le condizioni che lorendono inevitabile, ma non è la polizia che le crea. Allo-ra, prima che altri – diciamo altri – usino noi e voi comestrumenti per portare avanti strane strategie, cerchiamodi fare quello che ci è possibile per neutralizzarle o inter-romperle.– Se parla sul serio vuol dire che lei è uno sbirro… devia-to – e Alvise scoppiò a ridere.– Se permetti, mi sento uno sbirro intelligente.– È una contraddizione in termini! Oppure, c’è da preoc-cuparsi ancora di più – seguitò Alvise ridacchiando.– Alvise, torniamo al dunque. Ti spiego perché vorrei loca-lizzare quei due. Io ho saputo che la donna vorrebbe mol-lare. Non ci crede più. E forse anche lui – mentì Guido. –Su di loro ci sono anche i carabinieri; anzi sono avanti ri-spetto a noi e credo che li abbiano già identificati. Se arri-vano prima loro, la partita è chiusa. Finiranno a marcire in

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galera, se non ci rimetteranno la pelle in uno scontro a fuo-co. Sai, i cugini ci vanno pesanti. Se invece arrivassi primaio, col tuo aiuto, beh, si potrebbero usare dei riguardi…Alvise lo guardò tra il perplesso e il divertito: – Quali ri-guardi, commissario? Una cella matrimoniale con servizi?Quali trattamenti di favore lei può assicurare a due di-sgraziati ricercati come terroristi? E poi come fa a sape-re che stanno per mollare? Allora vuol dire che lei li co-nosce o conosce qualcuno che li ha frequentati di recen-te. E allora perché non si fa aiutare da questo qualcuno?– concluse ritornando serio e diffidente.Guido non aveva molte scelte: o chiudere il discorso ri-nunciando all’idea di servirsi di Alvise, o dargli una spie-gazione plausibile capace di coinvolgerlo. Ma quantoc’era da fidarsi di quel ragazzo, del quale aveva tuttosommato una conoscenza molto superficiale? Bastaval’impressione positiva che gli aveva fatto fin dal primomomento? Forse stava rischiando troppo. Decise di az-zardare senza sbracare del tutto.– Conosco lei, forse.– Come sarebbe a dire forse? Sì o no?Quel ragazzo lo stava mettendo alle corde e provò unasensazione di dispetto. Si impose di restare calmo e indif-ferente.– Ho detto “forse” nel senso che potrei anche sbagliarmie cioè che la donna ricercata non è la persona che io pen-so. Tu capisci che è per questo che faccio il misteriosoanche sul suo nome. Ma se è lei, io vorrei fare di tutto pertirarla fuori… nel migliore dei modi, cioè risparmiandoleil più possibile i traumi e le sofferenze che accompagna-no questo tipo di operazioni, assicurandole il sostegno diun avvocato serio e dei familiari, presentandola ai magi-

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strati in un certo modo… – e stava per aggiungere che loavrebbe fatto per rispetto verso i familiari che conoscevada tempo, di fronte ai quali si era assunto l’impegno mo-rale di salvare la donna, ma si trattenne convinto che unagiustificazione del genere sarebbe suonata ancor più pa-teticamente ridicola e gli avrebbe fatto perdere altri pun-ti nel confronto con Alvise. Sentiva forte la tentazione di gridargli in faccia: – È ladonna che amo! È questo che vuoi sapere? Ti serve pertenermi in pugno, per umiliarmi? Sì, la voglio strappare aogni costo dalle grinfie di quei pazzi allucinati sanguinariche me l’hanno portata via, perché in questi anni che hovissuto senza di lei mi sono seccato come un ramo spez-zato. Che cosa faresti tu al mio posto con la tua Danila?Che cosa vuoi che ti dica ancora: che se mi aiuti a saperedov’è, io – sì, io da solo – farò di tutto per portarmela via,per nasconderla a costo di espatriare tutti e due, anche sequesto significa tradire i miei doveri e violare la legge?Si guardavano negli occhi e a Guido parve di cogliere nel-lo sguardo ceruleo di Alvise non più sospetto e scherno,ma un segnale fugace di immedesimazione.– Ho capito, commissario, – disse dopo un lungo silenzio– se riuscirò a sapere qualcosa, la chiamerò. Ah, mi di-menticavo: saluti dalla Dany.

XII

Da quando si era sposato, il Nane, detto Candela, avevaproprio cambiato registro. Era inutile andarlo a cercarenelle bettole che un tempo frequentava assiduamentecon la compagnia o nei luoghi dove usava prima bighello-

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nare in attesa di rimorchiare qualche turista, nonostanteil suo aspetto allampanato ed esangue. Ora lo potevi trovare soltanto nella trattoria che la fami-glia della moglie Dorina gestiva in laguna, sperduta neldedalo dei canali e degli isolotti, non tanto persa però danon esser diventata nel tempo un richiamo per i villeg-gianti che d’estate affollano gli alberghi e i campeggi dellitorale, grazie all’ottima cucina di specialità di mare e aiprezzi modesti.Nei silenzi e nel torpore invernale, la trattoria non rima-neva inattiva, ma era meta nei fine settimana di unaclientela locale affezionata che amava gustare piatti tra-dizionali e bere altrettanto bene.Nella stagione morta, Nane ritornava a fare di tanto intanto il suo mestiere di contrabbandiere, ma più per in-gannare il tempo che per necessità.– Dime Nane, non mi avevi parlato qualche settimana fadi un lavoretto che ti avevano proposto, una cosa che tidava pensiero?– Come no! È una storia che non me piase.Alvise ricordava bene: Nane si era confidato con lui eaveva accennato vagamente a gente pericolosa e a un ca-rico di armi. Ma la cosa era rimasta lì, perché Nane, for-se pentito di essersi lasciato andare, si era poi chiuso ariccio e Alvise non aveva insistito per saperne di più siaper rispetto dell’amico sia perché la faccenda non lo in-teressava dopotutto più di tanto.Ora invece lo interessava e molto.– Perché non te piase, Nane?– Qui non è questione di qualche cartone di “bionde”, do-ve rischi che la Finanza ti sequestri la merce o al massi-mo la barca. Qui si rischiano anni di galera e forse anche

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la pelle. Sono “ferri”, Alvise, e anche di quelli pesanti, tumi capisci. E dentro c’è gente che fa paura. Pagano bene,ma che vuoi che m’interessi specie ora che ho famiglia e,grazie a Dio, sto anca ben.– Sono quelli della banda del Brenta?– chiese provocato-riamente Alvise, alludendo alla famigerata banda crimi-nale che imperversava tra Mestre e Padova. – Peggio, molto peggio – rispose Nane con aria spaventa-ta e guardandosi istintivamente attorno. – È roba de…

terrorismo! – concluse afflosciandosi sulla sedia.– E allora se ti fa paura, lascia perdere.– Lascia perdere? Magari potessi… – proseguì penosa-mente Nane, scongiurando Alvise di non dire niente anessuno. E poi gli spiegò che doveva ringraziare suo fra-tello Menego, il sindacalista, se si trovava in quella situa-zione. Era stato lui a portargli Alfonso – un compagno fi-dato gli aveva detto – ma ne parlava come se ne avessepaura.– Chi è ‘sto Alfonso?– Alvise, ti supplico, non farmi dire cose…– Lo faccio solo per aiutarti. Guarda, se tu pensi che siapossibile, lo faccio io il lavoro.– Allora non hai capito. Mi hanno incastrato: una voltache ti hanno messo a parte di una storia come questa, tusei dentro. Non hai vie di scampo, perché se ti tiri indie-tro diventi un testimone pericoloso, un rischio troppogrande per loro. Alvise, ‘i me copa se non faccio il lavo-ro! E quando l’avrò fatto sarò ancora di più nella merda.Figurarse se posso dirgli io non posso, però c’è un ami-co che… e via compagnia cantando – argomentava Nanesempre più pallido e, dopo qualche istante di silenzio,proseguì come se parlasse in confessione. – Alfonso è un

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calabrese tosto, sempre muto, anche lui operaio al Pe-trolchimico come mio fratello. Non è che mi ha dettomolto l’unica volta che ci siamo incontrati: si tratta di an-dare sottobordo a una carretta a largo del litorale del Ca-vallino, caricare tre o quattro casse e portarle in terrafer-ma, dove c’è qualcuno che aspetta con un furgone. Quan-do? Lo sa solo lui e me lo dirà all’ultimo momento. Hai ca-pito ora? – proseguì Nane con aria sempre più angoscia-ta. – Non è che mi ha fatto una proposta; mi ha dato unordine e quando io ho provato a trovare scuse mi haguardato con una faccia da farmi cagare addosso.Alvise si rese conto che con un po’ d’intuito e per unoscherzo del destino era andato a mettere il naso doveGuido voleva. Se gli avesse raccontato quello che avevasaputo dal Nane avrebbe messo in mano al commissarioil bandolo di una matassa che poteva portare non solo al-la donna che gli stava tanto a cuore, ma all’intera colon-na veneta dell’Organizzazione. Dagli elementi sia puremolto scarni che Nane gli aveva dato, non potevano es-serci dubbi: Alfonso era uno dell’Organizzazione, ancoranon passato alla clandestinità, ma con un ruolo impor-tante, altrimenti non gli avrebbero affidato una faccendatanto delicata. Chissà che cosa dovevano farci con tuttequelle armi? Alfonso aveva parlato di casse, quindi – de-dusse Alvise – si trattava probabilmente non solo di pi-stole, ma anche di roba più grossa, forse Kalashnikov equalche lancia-granate magari. I tedeschi della RAF liavevano usati in un attentato contro una macchina blin-data. Dove volevano arrivare quei pazzi, si chiedeva Alvi-se. Che avesse ragione Guido?Rischiava di mettersi anche lui in un brutto pasticcio perfare un favore al commissario. E poi perché? Soltanto per

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quel vecchio debito di riconoscenza di quando Guido ave-va tirato fuori dai pasticci la Dany? Forse conveniva di-menticare tutto e farsi gli affari propri.Eppure quel commissario sembrava una persona perbe-ne, diverso, molto diverso dagli altri poliziotti che avevaconosciuto. Ma era pur sempre un poliziotto, per defini-zione un nemico di classe. E lui, Alvise, un rivoluzionario,per definizione nemico giurato del potere e degli appara-ti polizieschi. Perché allora aveva accettato di incontrar-si con un commissario, rischiando di essere scambiatoper delatore? E il Nane? Se avesse raccontato tutto aGuido, sarebbe senz’altro finito in galera.Alvise trascorse notti insonni, passando più volte in ras-segna gli avvenimenti ed esaminando il problema nei suoipiù diversi aspetti. Alla fine aveva dovuto ammettere diessere finito in un cul-de-sac. Non c’erano alternative: otacere come se nulla fosse accaduto e prendere le distan-ze da Guido, o raccontargli tutto.Non sapeva darsi una risposta, né sapeva che cosa avreb-be fatto se Guido l’avesse cercato.

XIII

Si incontrarono di nuovo da Toni alla Rivetta.Ad Alvise sembrava di esserci arrivato automaticamente,cioè a prescindere dalla sua volontà. Dopo che Guido,specie negli ultimi giorni, lo aveva più volte cercato al te-lefono della trattoria, si era convinto che fosse inutile se-guitare a negarsi, ma ora si pentiva di essersi fatto inca-strare.– Vediamoci lo stesso – aveva insistito Guido – anche se

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non hai niente da dirmi. Può essere utile a tutti e due, vi-sto quello che succede.In realtà erano accaduti dei fatti che, se da un lato giusti-ficavano ampiamente l’insistenza del commissario, dal-l’altro inducevano Alvise a stramaledire il momento incui lo aveva incontrato.A incasinare le cose e creargli altra confusione in testa cisi era messa pure la Dany: da tempo lo tampinava perchéla smettesse di vivere in quel modo e riprendesse a stu-diare, sostenendo che la rivoluzione la fanno i proletari,ma a guidarla sono gli intellettuali. – Guai alla penna sen-za fucile, guai al fucile senza penna – gli diceva un po’ persfotterlo la Dany, ripetendo uno slogan della contestazio-ne studentesca. Il padre, il dottor Giorgi, era un medicoconosciuto e stimato, fortemente impegnato nel sociale equando la figlia gli confidò della sua storia con Alvisespiegandogli che tipo fosse, lui non fece salti di gioia, manon la mise neppure sul tragico. La ragazza, rincuorata dalla prima reazione paterna, com-binò di nascosto un incontro tra i due in circostanze chesembrassero occasionali. Al dottor Giorgi quel giovanestrampalato piacque, perché capì che aveva delle qualitàe poteva essere ancora recuperato. Gli sembrò anzi chefosse inconsciamente alla ricerca disperata di aiuto. Biso-gnava soltanto agire con molta accortezza. Non si potevapretendere che, dopo anni di abbandono, Alvise si inte-grasse di colpo in quella società della quale detestava leregole. Occorreva non allarmarlo con prediche e imposi-zioni e fare leva invece su alcuni suoi interessi che pote-vano condurlo verso una normalità possibile, senza im-porgli di rinunciare agli ideali e ai sogni.Del resto, il dottor Giorgi tutto voleva per l’avvenire del-

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la stessa Dany meno che la normalità borghese e cioèun’esistenza banale impostata sulla corsa al guadagno eal lusso. Sperava invece per la figlia un futuro ricco di sti-moli e di soddisfazioni interiori, che lei stessa doveva co-struirsi seguendo le proprie inclinazioni.Per questo lui e Gabriella erano stati sempre molto ac-corti a non condizionare le sue scelte, ritenendo che fos-se compito dei genitori indicare ai figli, soprattutto conl’esempio, i valori su cui impostare l’esistenza e stimola-re in loro la capacità di giudizio e di scelta.Alvise aveva percepito che la famiglia della Dany era di-sposta ad accoglierlo con affetto e se da un lato la pro-spettiva provocava in lui sensazioni piacevolmente indi-stinte, dall’altro lo spaventava, perché temeva di venireavviluppato in una situazione che avrebbe comportato ladefinitiva rinuncia alla propria indipendenza, ai compa-gni del collettivo, agli spinelli, al Nane, a quel mondo di-sordinato e avventuroso al quale era ormai avvezzo. Masotto tali timori ne covava uno più insidioso e inconfessa-to: quello di non essere all’altezza di impegnarsi con laDany, che pure amava.Lei, in stato di beatitudine, andava facendo ogni giornoprogetti per il loro avvenire: se Alvise avesse voluto, il pa-dre gli avrebbe anche trovato un lavoretto, tanto permantenersi agli studi, nell’azienda agricola di un suo ami-co, un tipo di lavoro all’aria aperta e a contatto con gli ani-mali, che gli sarebbe piaciuto senz’altro. Non aveva dettouna volta che avrebbe voluto fare il veterinario? Insiemeavrebbero proseguito gli studi all’università e poi…Dany era una ragazza dolce e forte allo stesso tempo, pie-na di iniziativa e di voglia di fare, desiderosa di rendersiutile. Una compagna seria.

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Guido, nonostante le premesse, sperava molto che Alvi-se fosse in realtà riuscito a raccogliere qualche elementoutile.Si guardarono a lungo, Alvise chiaramente in imbarazzo,ma anche Guido non del tutto a suo agio.– Ti vedo agitato, Alvise.– Chi, io? Sono tranquillo come sempre, commissario.– Hai visto l’ultimo botto dell’Organizzazione? Che cosase ne è detto nei vostri ambienti? – incominciò a chiede-re Guido per entrare in argomento, facendo riferimentoalla clamorosa liberazione da un carcere di massima sicu-rezza del capo storico dell’Organizzazione, quello che in-sieme alla moglie aveva iniziato la sua carriera di rivolu-zionario a Trento. Un commando guidato, si diceva, pro-prio dalla moglie, aveva condotto un’azione da manuale,che aveva ridicolizzato in un colpo solo tutte le forze del-l’ordine e fatto impallidire gli inquilini dei palazzi del po-tere…Mara si presenta tranquilla al portone del carcere con unpacco in mano, dicendo di volerlo consegnare a un dete-nuto. È giorno di colloqui e l’agente, il cui faccione com-pare al di là dello spioncino, non si insospettisce: la gio-vane donna, dagli splendidi occhi verdi, è di aspetto finee delicato. Il secondino apre allora il portone e la gentilesignora, accompagnata da un ometto insignificante, unavolta dentro, si trasforma in una tigre, fredda e circospet-ta, sicura della propria superiorità: tira fuori da sotto ilcappotto un mitra col calcio segato puntandoglielo sullapancia. Altri, entrati al loro seguito, si danno da fare pertagliare i fili del telefono, mentre la Mara, col viatico delpovero agente tenuto sotto mira, riesce a farsi aprire lecancellate più interne fino ad arrivare al corridoio su cui

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si affacciano le celle. Chiama a voce alta il compagno, checompare subito niente affatto sorpreso, come al più nor-male degli appuntamenti. Il commando ripiega senzasparare un colpo e si allontana con il detenuto su duemacchine in attesa davanti al carcere.Guido si stava logorando su questa storia. E se nel com-mando ci fosse stata anche la Rina, magari alla guida diuna delle macchine? Gli ritornò in mente dell’Universitàdi Trento, di quello che gli aveva raccontato la Boni suirapporti che c’erano stati tra Mara e Rina negli anni del-la contestazione, del matrimonio nel santuario alpino…Non riusciva ora a pensare alla Rina senza vederla con unmitra in mano, in mezzo a sparatorie e ammazzamenti,fredda e implacabile, ma fragile, quanto fragile. Anche Alvise pensava all’attacco al carcere di massimasicurezza e alla compagna Mara, eroica, appassionata. Af-fascinato da quella figura, dimenticò per un attimo leproprie riserve sul militarismo brigatista e rispose: – Sono grandi… – Non c’è dubbio che ci sanno fare. Hanno agito con fred-dezza, lucidità… Tanto di cappello da questo punto di vi-sta. Ci hanno ridicolizzato. Io però seguito a credere chel’Organizzazione ha imboccato una strada senza ritorno,che la porterà ad avvitarsi su se stessa, a perdere il con-tatto con la realtà. Se è un fenomeno genuino, si tratta diillusi destinati a sporcarsi sempre di più le mani di san-gue e finire i loro giorni in galera. Inutilmente, anzi otte-nendo l’effetto contrario a quello sperato.– Lei ne è sicuro, commissario? Io vedo invece che l’Or-ganizzazione è in piena espansione. Tra noi del movimen-to molti sono quelli che sono pronti a fare il salto.– Questo non lo metto in dubbio. Ciò che voglio dire è

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che nonostante la crescita del consenso, il progetto dellalotta armata è destinato a fallire. Quanto può durare que-sta storia? Qualche anno ancora? E poi? È demenziale cre-dere che si possa fare oggi la rivoluzione come nel 1917 inRussia. Tu credi veramente che oggi in Italia il proletaria-to sarebbe disposto a seguire un’avanguardia armata?Quanti siete tutti compresi nell’area della sinistra extra-parlamentare, da Lotta Continua agli anarchici come te?Centomila? È al massimo in questa area che l’Organizza-zione trova consensi. Ma si tratta di una piccola fetta del-la società, che crede di interpretare i bisogni delle masse.Non è così. Siete marginali. Verrete tutti insieme inghiot-titi da un sistema dove non ci sono più i presupposti per larivoluzione e la lotta di classe. Di fronte a voi avete una so-cietà che vi respinge e che vi schiaccerà, con gli strumen-ti che le sono propri: sarete sconfitti non solo da un giro divite della repressione, ma prima ancora sul piano politico.Lo farà la gente, la società intera, non solo i borghesi, malo stesso proletariato o ciò che resta di esso.– Perché sarete sconfitti… Che c’entriamo noi anarchicicon l’Organizzazione?– Perché anche voi siete dei pazzi, anzi ancora più pazzidei marxisti-leninisti. Non si può cambiare la società conle bombe…– È da vedere chi le usa veramente le bombe e la violen-za… – replicò indispettito Alvise. – Ma a parte la posizio-ne di noi anarchici – proseguì più calmo, – che cosa si de-ve fare, secondo lei? Subire e basta? Chi è sfruttato deveringraziare i maiali che si ingrassano sempre di più a suodanno? Lui a mangiare sempre polenta e gli altri semprecaviale? Il proletariato deve seguitare, insomma, a pren-derlo sempre nel…?

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– Ti ho detto che, secondo me, non esistono più i presup-posti della lotta di classe, perché ne stanno scomparen-do gli attori. Dove le vedete le masse affamate, pronte aprendere le armi? Quando la gente raggiunge un certobenessere, come sta avvenendo in Italia, non torna piùindietro. Voi direste: diventa vittima del sistema. E dal-l’altra parte, dove sono più i latifondisti che affamano icontadini, i capitalisti che succhiano il sangue degli ope-rai, che sfruttano i bambini e le donne nelle fabbriche onelle miniere? Il capitale, furbescamente, si è umanizza-to, come dicono i vostri stessi pensatori, perché ha capi-to che lo sfruttamento a oltranza del lavoratore è solocontroproducente e così, introducendo benefici, miglio-rie nei processi produttivi e altre cose del genere è riu-scito a disorientare e a frantumare il fronte operaio, astemperarne la voglia di fare la rivoluzione. Gran partedella gente sogna l’America, non l’Unione Sovietica o laCina…– Lei, commissario, non ha la più pallida idea di come vi-va la famiglia di un operaio, di che cosa significhi alzarsiche è ancora buio, perdere ore di sonno e di vita sui tre-ni per andare e tornare dalla fabbrica, uomini e donne,beccarsi un tumore magari in ambienti di lavoro malsani.E questa lei la chiama umanizzazione del capitale? Il pa-drone esiste ancora, anche se ha cambiato vestito. Usastrumenti più raffinati ma egualmente perfidi. Quandonon gli riesce più bene in casa propria, va a sfruttare lamano d’opera nei Paesi dove il proletariato deve ancorasottostare al ricatto per sopravvivere. La gente non nepuò più.– Io non saprò nulla della vita degli operai, ma tu, che tisvegli alle dieci di mattina e non hai mai lavorato, ne sai

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ancora meno. Ma, a parte questo, secondo te per cambia-re le cose bisogna prendere il fucile? Approvi allora il ter-rorismo? – lo punzecchiò ancora Guido.– Io dico che il sistema politico è corrotto e non ha né lavoglia, né la capacità di andare incontro alla gente. Allo-ra qualcuno deve scuotere le coscienze, deve far trema-re i padroni, dare un altolà… Ma per noi il problema è piùampio: non è questo tipo di governo che non va; è lo Sta-to in sé…– Alvise, lascia stare, ti prego, i vostri vaneggiamentianarchici. Ora ti parlo come uomo, non come poliziotto.Effettivamente, nel sistema ci sono troppe cose che nonvanno e che, come dicono i preti, gridano vendetta al co-spetto di Dio. Ci sono poi vecchi conti lasciati in sospe-so… Posso allora arrivare anche a capire i perché di que-sta ondata di violenza che ha investito il Paese e ammet-tere l’esistenza di responsabilità gravi anche da parte dichi ne ha prodotto le cause. Posso anche ammettere cheil terrorismo è una malattia del sistema, una fase transi-toria dello sviluppo della nostra società, ma proprio perquesto va curata per tempo e debellata, prima che pro-duca danni irreparabili. Ora basta, bisogna disinnescarela violenza e l’Organizzazione ne è il frutto più velenoso. Alvise non replicò e rimasero entrambi assorti nei propripensieri per diversi minuti. Poi Guido decise di toccare iltasto affettivo:– Come va con la Dany? – domandò a sorpresa.Alvise dava l’impressione di riemergere lentamente dagrandi profondità. Prima di rispondere, inspirò profonda-mente come se volesse riprendere fiato:– Va bene, va bene – mormorò quasi assente.– Ma tu le vuoi bene veramente alla Dany?

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Alvise si riscosse: non erano più convenevoli. Il commis-sario entrava nei suoi fatti personali ed era andato a toc-care l’argomento più sensibile. Divenne guardingo e pro-vò un senso di irritazione:– Sì, ma che cosa c’entra questo?– Cerca di non cacciarla nei guai – replicò Guido elusiva-mente.– Sarebbe a dire?– Ma perché ti incazzi? Tu già hai beccato diverse denun-ce, sei stato in galera, hai rischiato di coinvolgere anchelei, non lavori, sei anarchico, frequenti la mala. Se noncambi registro, a legarsi a te c’è solo da rimetterci. Sepermetti, volevo darti un consiglio.– La mala, come dice lei, non la frequento più. Le mieidee politiche poi…Guido si accorse che il discorso stava prendendo unapiega favorevole per lui e decise di ricorrere a un’altraprovocazione per capire se Alvise, come gli sembrava,gli nascondesse qualcosa. Si vedeva che aveva perso lasua abituale sicumera e che era combattuto. Si vedevache sotto quella patina da duro c’era un ragazzo smar-rito.– Tutto sommato, voi anarchici siete soltanto dei sogna-tori, capaci soprattutto di farvi male da soli – riprese Gui-do e aggiunse, dopo averlo guardato con ostentata per-plessità – siete isolati, vivete nel vostro mondo. Forse tiho chiesto troppo.Alvise non si rese neppure conto di quello che stava per

dire. Le parole vennero fuori prescindendo dalla sua vo-lontà, amaramente:– Eppure, commissario, anche un disadattato come mepuò venire a sapere qualcosa che voi con tutti i mezzi che

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avete, spie del sindacato comprese, non siete capaci disapere…– Quale sarebbe la grande notizia? – chiese Guido in ma-niera deliberatamente sfottente.– Ci sono delle armi in arrivo.– Armi per l’Organizzazione?– Forse non soltanto per loro.– E tu come lo hai saputo? – chiese Guido abbandonan-do ogni atteggiamento di sufficienza.– Piano, commissario. Io non so nemmeno perché le storaccontando queste cose, anche se capisco perfettamen-te che ne ricaverò solo guai. Prima di raccontarle il restovorrei però delle… garanzie.– Che tipo di garanzie e per chi? Spiegati meglio.– C’è di mezzo un amico, un bravo ragazzo. Lavorava conle bionde, come me. Ma ora ha messo la testa a posto. Siè sposato e aspetta un bambino. È la persona più inno-cua del mondo. Bisogna tenerlo fuori.– Se non mi spieghi bene fin dall’inizio, come faccio adarti delle garanzie per lui. Come entra nella storia?– C’entra perché un tale, che è senz’altro dell’Organizza-zione, gli ha chiesto di trasportare le armi con il motosca-fo, per un breve tratto, sotto costa. Lui deve fare soltan-to questo. Non sa niente di terrorismo. Sta morendo dipaura. – Se è così, lo teniamo fuori. Hai la mia parola.Con evidente sofferenza, Alvise raccontò allora a Guidodi Alfonso, di come aveva agganciato il Nane, della naveche doveva arrivare con le armi.– Alvise, sapevo che non mi avresti deluso. Sono notiziedi eccezionale importanza. C’è da lavorarci sopra, ma i ri-sultati possono essere grandiosi. Ti siamo debitori…

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– Se dice così, mi fa pentire ancora di più di averle rac-contato queste cose. Non so neppure io perché l’ho fat-to. Non voglio nulla, se non garanzie per il Nane. Mi sen-to una spia, un infame.– Non lo sei. Stai salvando delle vite umane…– Ma altre le sto distruggendo.– Si stanno distruggendo da soli. Non devi avere scrupo-li di nessun genere. Stai salvando anche loro da una sor-te peggiore. È quello che spero di fare anch’io con…quella donna.

XIV

Il piano di lavoro era teoricamente semplice: bisognavaosservare e pedinare Alfonso. Tutti quelli che avrebbe in-contrato sarebbero stati soggetti di interesse: o militantiirregolari come lui, o simpatizzanti dell’Organizzazione opersone, che, seppure estranee, avrebbero potuto forni-re preziose indicazioni. Ma la fase centrale dell’operazio-ne era di arrivare all’“appuntamento strategico”, lo sno-do organizzativo tra irregolari e clandestini, assoluta-mente vitale per la banda, per comunicare, impartire or-dini, ricevere informazioni. Lì finalmente la polizia avreb-be visto in carne e ossa un militante a tempo pieno, unoperativo, seguendo il quale sarebbe arrivata a un covo,e cioè a una base dell’Organizzazione. A questo punto sipoteva decidere se intervenire subito facendo irruzionenel covo o se spingere oltre l’osservazione per arrivare adaltri clandestini e ad altre basi.Teoricamente la soluzione migliore sarebbe stata que-st’ultima, ma Guido sapeva bene che i suoi superiori non

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l’avrebbero mai adottata per diverse ragioni, la più bana-le delle quali era data dalla voglia spasmodica di conse-guire presto successi nella lotta al terrorismo, così comevoleva il governo, e acquisire meriti. Le altre ragioni era-no meno miserabili: a tirarla troppo per le lunghe c’era ilrischio di vedersi fare qualche attentato sotto il naso enessuno ovviamente voleva assumersi una responsabilitàdel genere, oppure che i terroristi si accorgessero di es-sere sotto osservazione e tutta l’operazione fallisse.Guido sapeva bene che un rischio del genere era tutt’al-tro che remoto: loro erano molto guardinghi e adottava-no di prassi mille cautele per seminare eventuali pedina-tori. Potevano adottare se necessario anche misure dicontropedinamento, come nel caso degli appuntamentistrategici, che sapevano essere un momento di forte ri-schio per l’Organizzazione.– Ti do tutti gli uomini e i mezzi che vuoi – gli aveva det-to il Bimbo eccitatissimo una volta informato da Guidodell’insperata svolta. – Se abbiamo un po’ di fortuna, glirompiamo il culo. Ti faccio promuovere, ma… mi racco-mando a te: non tirarla troppo per le lunghe, non essereil solito perfezionista del... piffero.Mai il Bimbo era stato così affettuoso con Guido e lui,pur consapevole che si trattava di attenzioni interessate,si sentiva appagato da tanta falsa considerazione. Avevadimostrato di essere capace, più degli altri, più dei para-culi di professione. Ora tutti lo cercavano e gli correvanoappresso.– Al grande capo non diciamo ancora niente, ti pare Gui-do. Aspettiamo di fare qualche passo avanti. Me lo devidire tu quand’è il momento.In realtà, il Bimbo non aspettò un minuto a raccontare

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tutto al grande gapo, ovviamente alla sua maniera, cioèmettendo subito il cappello sull’operazione: era stato luia indirizzare il giovane collega in quell’area, lui che ave-va avuto informazioni precise che lì ci doveva essere uncovo. Aveva dovuto guidarlo per mano, ma alla fine il gio-vane collega…Guido però, conoscendo bene l’avidità dei suoi superiori,alcune cose se le era tenute gelosamente per sé, in pri-mo luogo il nome della sua fonte. Il Bimbo aveva moltoinsistito per sapere da chi avesse saputo quelle notizie,ma Guido non aveva ceduto, non certo per gelosia di me-stiere, quanto invece per tutelare Alvise. Considerava unimpegno morale mantenere i patti e tenere segreto il lo-ro rapporto. Sapeva bene quale strappo avesse provoca-to nella coscienza del ragazzo quella storia e quanto loavrebbe sconvolto che altri ne venissero a conoscenza oche gli saltassero addosso per saperne di più. Lui, Alvise,rispettato dai compagni del collettivo e considerato unfratello dagli amici filibustieri della laguna, che si scopreessere in realtà un delatore, un infame, un miserabileconfidente della polizia. Gli sarebbe crollato addosso ilmondo. Avrebbe preferito morire.Altra cosa che Guido aveva nascosto al Bimbo era il coin-volgimento del Nane e anche sulla questione del carico diarmi si era tenuto molto sul vago, prospettandola comeeventuale, un sentito dire ancora senza nessun riscontro,un’ipotesi della quale occorreva verificare l’attendibilità.Men che meno aveva fatto alcun accenno alla Rina.Il Bimbo rimase molto contrariato dalle reticenze di Gui-do e, da vecchio sbirro, si accorse che riguardavano nonsolo il confidente ma anche altri aspetti della vicenda,che però non riusciva ad afferrare. Ma capì che, suo mal-

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grado, doveva stare al gioco, salvo poi… Si limitò a dirgli,in un tono tra il paterno e il vagamente minatorio: – At-tento, però. Coi confidenti bisogna fare patti chiari findall’inizio. Il fatto che il tuo dica di non volere niente, mifa pensare male. Stai attento a non farti incastrare. I sospetti del Bimbo aumentarono quando Guido prete-se, con molta fermezza, di gestire l’operazione da solo,con uomini scelti singolarmente da lui. Sospettava cheGuido non volesse tra i piedi altri colleghi non tanto peril timore che si prendessero i meriti delle sue fatiche,quanto che mettessero il naso in faccende che voleva te-nere rigorosamente per sé. Il Bimbo, pur convinto che fosse suo interesse almenoper il momento accordare di fatto a Guido ampia autono-mia d’azione, voleva affidare formalmente il comandodell’operazione a un collega di più provata esperienza,non solo per coprirsi meglio le spalle nel caso le cose nonfossero andate nel verso giusto, ma anche per avere unelemento di sua fiducia che lo informasse puntualmente.Se avesse potuto, avrebbe volentieri scippato l’operazio-ne a Guido per affidarla al conte Dracula, che nel frat-tempo era riuscito a portare all’antiterrorismo. Fu raggiunto un compromesso: Guido avrebbe condottoda solo tutta la fase investigativa, mentre nella fase con-clusiva sarebbe intervenuto il Bimbo in persona conl’unità d’intervento speciale per l’irruzione e gli arresti.Anche in questo caso non potette esimersi da una racco-mandazione nel suo consueto stile: – Sia come vuoi tu;ma, secondo me, avere a fianco, fin dall’inizio, un buoncollega ti sarebbe stato utile. Voglio però essere aggior-nato continuamente.Il problema che Guido doveva affrontare lontano da occhi

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indiscreti era come portare a conclusione l’operazione sal-vando la Rina e il Nane. Sentiva balzargli il cuore in gola alsolo pensiero di vedere comparire la Rina nel bel mezzo diun servizio di appostamento, magari incontrarsi con Alfon-so o uscire guardinga dal covo. Che cosa avrebbe fatto?Avrebbe fatto finta di niente con i suoi uomini, avrebbe in-terrotto il servizio con una scusa, si sarebbe poi appostatoda solo vicino al covo finché non l’avesse vista uscire? E al-lora l’avrebbe affrontata, l’avrebbe indotta a fuggire? Si accorse di venire lentamente trascinato in un gorgo, diessere vittima di una sindrome che lo induceva a fanta-sticare e anche quando s’imponeva di restare lucido, isuoi pensieri, penosamente contorti, finivano per scivo-lare su un crinale melmoso dove il confine fra fantasia erealtà, tra previsione e paura, tra probabile e inverosimi-le sfumava senza che lui se ne avvedesse.Quando usciva da quelle confuse fantasticherie e torna-va in sé, si rendeva conto che il massimo che potesse fa-re era di evitare che l’irruzione finisse tragicamente conuno scontro a fuoco nel quale la Rina poteva rimettercianche la pelle, evitare poi che venisse maltrattata dopol’arresto, starle vicino, consigliarla, intercedere presso imagistrati nella speranza che prendesse le distanze dal-l’Organizzazione, che riconoscesse i propri errori. Le im-putazioni sarebbero state gravissime, le solite: partecipa-zione a banda armata, detenzione e porto abusivo di ar-mi e se poi saltavano fuori elementi che riconducevano afatti specifici, come una pistola che aveva ucciso o ferito,si sarebbero aggiunte accuse più specifiche.Ma come era possibile che la Rina fosse stata presa dauna spirale di violenza tanto assurda? Come era possibi-le che ragazze sensibili, dolci come lei, la Mara e chissà

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quante altre, spinte da motivi ideali in sé giusti, fosserodisponibili anche a uccidere?Altro argomento angoscioso sul quale tornavano conti-nuamente i suoi pensieri erano le possibili reazioni dellaRina. Si chiedeva come lei avrebbe reagito nel rivederlonelle circostanze drammatiche dell’arresto, quali senti-menti avrebbe provato nei suoi confronti dopo il tempoche era trascorso e le vicende attraverso le quali era pas-sata. Per lui, da questo punto di vista era tutto molto sempli-ce: da quando si era lasciato con la Rina, la sua vita sen-timentale era stata pressoché nulla. Nei momenti di esal-tazione viveva la sua condizione come quella farnetican-te di un monaco guerriero, ma quando vedeva i suoi coe-tanei passeggiare abbracciati alle loro donne e si ritrova-va alla sera solo come un cane, si sentiva un povero di-sgraziato e provava compassione per se stesso.Per lei era diverso. Aveva avuto senza dubbio altre espe-rienze. Che cosa restava di lui nei suoi ricordi?E allora tornava a immaginare per l’ennesima volta lascena di quando si sarebbero ritrovati faccia a faccia: leiterrorista, lui sbirro; lei con le mani alzate, gli occhi bas-si, la rabbia della sconfitta, i poliziotti che la strattonava-no; lui arma in pugno, infagottato nel giubbotto antipro-iettile. C’era da aspettarsi che, dopo attimi di smarrimen-to e di sorpresa, la Rina sbottasse in una risata che sareb-be stata per lui peggio di una pistolettata.Su tutto però prevaleva il desiderio di rivederla, un desi-derio travolgente, angoscioso, che occupava totalmente isuoi pensieri.In questo marasma di attese, speranze, sentimenti, si fe-ce strada dentro di lui la paura di non essere nelle condi-

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zioni di spirito adatte a guidare l’operazione, anzi di tro-varsi in una oggettiva condizione di incompatibilità con isuoi doveri. C’era il rischio che gli uomini se ne accorges-sero e, per quanto avesse cercato di selezionarli, potevaesserci sempre quello che, per farsi bello, si sarebbe la-mentato col Bimbo che Guido sembrava avere le ideeconfuse e che li stava facendo girare a vuoto.E in effetti i risultati delle prime indagini non sembrava-no esaltanti.

XV

In fabbrica Alfonso non si agitava più come un tempo, an-che se seguitava a partecipare agli scioperi e a tutte lemanifestazioni di protesta. I compagni di lavoro credeva-no che ciò dipendesse dalle preoccupazioni che gli davala salute del figlio: a cinque anni compiuti, ancora nonspiccicava una parola.Appena finito il turno di lavoro, Alfonso se la filava viae nessuno dei compagni si sentiva di rimproverarlo senon si fermava più a discutere su come proseguire le lo-ro lotte.Il Ruspante e gli altri pedinatori avevano però costatatoche Alfonso non andava a casa, ma girava freneticamen-te per la città e dovevano sudare sette camicie per star-gli dietro senza farsi notare: saliva su un bus e scendevala fermata dopo, salvo riprendere la corsa successiva del-la medesima linea; spesso faceva giri viziosi o ritornavasui propri passi; frequentemente si voltava indietro. Talecomportamento, apparentemente incoerente, aveva datoai pedinatori l’impressione di stare appresso a un matto,

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nonostante Guido e il Ruspante si sforzassero di far ca-pire loro che Alfonso era il soggetto giusto e si muovevacome un vero terrorista, che adottava, come costume,ogni accorgimento per seminare eventuali pedinatori.Oltretutto il Ruspante, seguendo le raccomandazioni diGuido, non aveva spinto a fondo i primi servizi di pedi-namento, perché aveva avuto l’impressione che l’uomofosse troppo guardingo e se lo avessero marcato stret-to c’era il rischio di farsi scoprire e di mandare tutto amonte.Le indagini dunque, in quei primi giorni, non avevano fat-to alcun progresso apparente e già Guido aveva colto se-gnali di insofferenza da parte di un paio di elementi del-la squadra, Mal e Fofò, proprio quelli che il Bimbo, vin-cendo la sua resistenza, aveva voluto includere nell’ope-razione, sostenendo che si trattava di ragazzi svegli e fi-dati. Tutti sapevano invece quali fossero i veri meriti deidue scherani: erano stati per anni gli sciacquini del Bim-

bo, adibiti alle diverse esigenze domestiche della sua nu-merosa famiglia e ancora lo erano occasionalmente, dirincalzo ai nuovi addetti. Per premiarli di tanta dedizionee fedeltà, lui aveva dovuto assecondare alla fine, anchese gli seccava privarsene, la loro pretesa di essere inclu-si nella squadra operativa antiterrorismo nonostante fos-sero spaventosamente ignoranti e non avessero alcunaesperienza specifica. Ma far parte della squadra di élitecomportava vantaggi economici e di carriera e così ilBimbo non aveva potuto esimersi.Forti della benevolenza del capo ed esaltati dai nuovicompiti, Mal e Fofò si comportavano in maniera odiosa-mente burbanzosa e i colleghi, pur detestandoli, li teme-vano, sapendo quanto fossero inclini alla maldicenza e

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dando per scontato che il loro compito principale fosse difare la spia. C’erano già stati da parte loro battute e sorrisetti di suf-ficienza durante i briefing che Guido teneva quotidiana-mente per informarsi dell’andamento dell’indagine e perdecidere che cosa fare l’indomani e lui temeva che l’at-teggiamento disfattista di quei due bulletti potesse di-ventare una complicazione non da poco.Decise di intervenire con fermezza nei loro confronti,ma, nonostante i buoni propositi e i consigli di modera-zione che il Ruspante gli aveva somministrato, lo feceandando sopra le righe. Per la verità, aveva iniziato in to-no abbastanza sereno, ma mentre parlava percepì cheMal e Fofò lo guardavano con sufficienza se non con ariadi sfida, per fargli capire che lui non contava niente perloro.Allora, come gli accadeva sempre più spesso, aveva per-so il lume della ragione: un vulcano era esploso dentro dilui, gli occhi gli si erano appannati mentre le parole, omeglio gli insulti, uscivano urlati dalla bocca prima che lamente li ideasse, senza che potesse fare nulla per fermar-li. Era come se tutto ciò che da tempo gli ribolliva dentronon potesse essere più compresso ed eruttasse propriocome la lava da un vulcano: i suoi conflitti interiori, lapaura di essere impotente a soccorrere la Rina, il pensie-ro dei pericoli ai quali poteva esporre Alvise, la meschi-nità e la perfidia del proprio ambiente di lavoro. Rabbia,frustrazione, paura.Stava ancora ansimando con gli occhi fissi sui due bullet-ti come se li volesse incenerire, che già andava realizzan-do di aver ottenuto l’effetto opposto a quello sperato ecioè di aver dato una prova di debolezza e di aver offer-

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to loro l’occasione di procurargli altri fastidi, ma era trop-po tardi per tornare indietro.Intervenne il Ruspante a portarseli via visibilmente indi-spettiti da quella sfuriata e ansiosi di rivalersi. E in effetti, la telefonata del Bimbo non si fece attendere:– Ciao Guido, come vanno le cose?– È un po’ presto per dirlo.– È passata quasi una settimana. Che cosa gli racconto algrande capo? Ti abbiamo messo a disposizione un bel-l’apparato…– Mi sembra che eravamo d’accordo che si doveva anda-re avanti senza fretta per cercare di ampliare il più pos-sibile l’operazione – rispose Guido cercando di control-larsi.– Speriamo che il tuo confidente non ci abbia raccontatofesserie e che non ci faccia perdere solo tempo e augu-riamoci pure che, mentre noi corriamo appresso ai fanta-smi, quelli dell’Organizzazione non accoppino qualcuno.– Io sono sicuro che le informazioni che ho avuto sonogiuste e che basta avere un po’ di pazienza.– Beh, voglio avere ancora fiducia in te. Andiamo avanti;però, ti prego, cerchiamo di non scoglionare troppo i no-stri uomini, sennò poi ci mollano quando ne abbiamo bi-sogno veramente!Il messaggio di Mal e Fofò era giunto a segno. Guido erasconvolto. Provava una rabbia sorda, fatta di odio e di di-sprezzo, ma le parole del Bimbo, anziché abbatterlo ul-teriormente, ebbero l’effetto di una sferzata, dolorosa mastimolante. Ora aveva un motivo in più di condurre a ter-mine l’operazione: ricacciargli presto in gola quelle paro-le, dimostrargli quanto fosse brutalmente miserabile, ur-largli tutto il proprio disgusto per i suoi metodi.

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Decise di staccare la spina almeno per qualche ora e sene andò a passeggiare per le strade del centro. Avevanoda poco aperto un grande magazzino, dal quale la genteusciva con carrelli carichi di alimentari e oggetti per lacasa. Vi entrò e prese a girare per i banchi. Osservò lemerci esposte e si meravigliò di trovare cose che non co-nosceva o che erano confezionate in maniera per lui as-solutamente nuova e attraente. Si accorse di non averepiù la minima idea di quanto costasse il pane, il latte o lacarne. Vide la gente, intere famiglie con i bambini attac-cati ai carrelli, fare la fila alle casse. Era così spaesato chetrovò difficoltà anche a uscire. Si accorse che gli annierano passati e che molte cose erano cambiate senza chese ne avvedesse.Si stava facendo sera e la gente rientrava a casa. Sentìprofondamente la solitudine. Si era fatto un vanto in pas-sato di non soffrire di solitudine e aveva quasi commise-rato quanti avessero bisogno di avere sempre compagnia.Anche lui ora avvertiva forte il desiderio di stare insiemea qualcuno che non fosse il Ruspante, o Snoopy o altripoliziotti, evadere dall’ambiente di lavoro, dalla dimen-sione totalizzante in cui si era confinato, speculare aquella dei terroristi. Gli tornò in mente la trattoria “Le volpine”, dove era sta-to qualche giorno prima con la squadra. Voleva rivedereLuigina. Si fece coraggio.Nel locale c’era diversa gente, una tavolata di amici ingrande allegria, qualche coppia, tre ragazze che festeg-giavano chissà che cosa.Guido si affacciò titubante, sperando di veder comparirela Luigina. Venne invece una cameriera che già aveva no-tato la volta precedente.

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– Prego, è da solo? Si accomodi qui allora.Percepì gli sguardi e la curiosità degli altri clienti. Vide sestesso come dal di fuori seduto a quel tavolino isolato,terribilmente patetico. Cercò di darsi un tono disinvoltoe gli sembrò di aggravare la situazione. Incrociò per unattimo lo sguardo di una delle ragazze che festeggiavanoe gli parve di leggervi la diffidenza o la perplessità concui la gente è solita guardare i diversi. Ordinò qualcosa ormai rassegnato, ripromettendosi direstare lì lo stretto indispensabile.Poi la Luigina comparve sulla porta della cucina con ilgrembiule bianco. Si passò il dorso della mano sulla fron-te. Era di una bellezza tranquilla, casalinga, graziosa an-che nei panni di cuoca. Si accorse subito di Guido e ri-cambiò con un sorriso timido, appena abbozzato, il suocenno di saluto liberandosi del grembiule.– Solo, stasera?– Capita, ogni tanto.– Che cosa ha preso? Il risotto? Era buono?– Molto.– L’ho fatto io.– Per questo era così buono.Luigina sorrise divertita. Poi rimasero in silenzio, en-trambi in imbarazzo, incapaci di trovare una battuta ouna frase che consentisse loro di fare di quelle fugacibattute l’occasione per conoscersi. Allora lei non trovònulla di meglio da fare per cavarsi d’impaccio che scusar-si frettolosamente e scomparire di nuovo in cucina, ri-chiamata dagli impegni.Quasi tutti gli avventori erano alle ultime battute e ancheGuido stava per chiedere il conto, quando Luigina ricom-parve con il trucco rifatto e con un abitino elegante; lui

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desiderò tanto che attaccasse di nuovo bottone per invi-tarla a sedere al tavolo a fare due chiacchiere. Gli sembròche anche lei lo volesse e che si fosse fatta bella per lui.Poi pensò di illudersi; molto più probabilmente si erapreparata per passare il resto della serata con il suo ra-gazzo. Era impossibile che una ragazza così carina e sim-patica non ne avesse uno.Quando si alzò per andarsene lei si avvicinò sorridente:– Spero che lei verrà ancora a trovarci, magari con i suoiamici.– Lo farò senz’altro, se ci sarà anche lei.– Certo che ci sarò, – rispose Luigina con le guance unpo’ rosse – come tutte le sere per dare una mano ai mieiche gestiscono il locale – concluse con una nota di orgo-glio.Quando si strinsero la mano Guido capì di essersi com-portato come un fesso. Per il resto della serata seguitò asognare la compagnia di Luigina e a rimpiangere di esser-si per tanti anni negato la vita.

XVI

C’era il Ruspante che lo attendeva davanti al cancellodella caserma e aveva l’aria di essere lì da diverso tempo.Avvertì un certo disagio, come quando da ragazzo rien-trava a casa tardi e trovava la madre ancora sveglia adaspettarlo. Poi il disagio si trasformò in irritazione: il Ru-

spante! Sempre presente, sempre al posto giusto, con lasua aria da grillo parlante. Sembrava volesse dirgli “Men-tre tu te la spassavi, io…”.– Avanti, che cosa c’è di tanto urgente?

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– Se disturbo… – reagì il Ruspante in quel tono tra l’of-feso e lo sfottente che mandava in bestia Guido.– Possibile che succede sempre qualcosa appena manco?– Quando mai? Non è successo niente. Solo pensavo vifacesse piacere sapere subito una novità.– E sarebbe?– Alfonso si è incontrato con un tizio, uno scuro di pelle.Sono rimasti a parlare per una buona mezz’ora. Lui eramolto guardingo.– Che vuol dire scuro di pelle? È un negro?– No, meno. Sembra un arabo o qualcosa del genere.– Un arabo? E avete capito chi può essere, come spuntafuori? – chiese Guido ora molto eccitato.– Ancora no. Però lo abbiamo seguito. Abbiamo mollatoAlfonso e filato lui.– Bravi! E dove è andato a finire?– In un negozio di cianfrusaglie arabe: braccialetti, colla-ne, tappeti. È rimasto dentro fino alla chiusura. Forse la-vora lì.– E poi?– Poi si è allontanato con un altro scuro come lui. Sonoandati in una pizzeria vicino piazza Barche, dove hannomangiato insieme ad altri due compari che erano già lì.Il Ruspante proseguì il suo rapporto spiegando, con uncerto disappunto da parte di Guido, che era stato neces-sario interrompere il pedinamento perché gli uomini, cheavevano attaccato alla mattina, non ce la facevano più.Non era stato quindi accertato dove abitasse l’arabo, opresunto tale, che si era incontrato con Alfonso, ma inquella circostanza erano riusciti a fotografarli stando na-scosti dentro “Moby Dick”, lo speciale furgone da osser-vazione, munito di dispositivi che consentivano di scatta-

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re fotografie senza essere visti. Bisognava aspettare peròche la scientifica sviluppasse il rullino.La mente di Guido turbinava. Credeva di aver capito il si-gnificato di quell’incontro e l’indomani, se la sua ipotesifosse stata esatta, ce ne sarebbe stato un altro che gliavrebbe creato un qualche problema pur costituendo laconferma della bontà dell’indagine. Contrariamente aquanto il Ruspante si aspettava, gli disse di concentrarel’attenzione non sull’arabo ma ancora sui movimenti diAlfonso, escludendo però dal servizio Mal e Fofò, cheavrebbe invece fatto bene ad affidare a un sottufficialeesperto per portare a termine gli accertamenti su Musta-

fà – questo ormai era il nome in codice dato allo scono-sciuto. Gli raccomandò poi di avvertirlo subito via radionel caso Alfonso avesse avuto nuovi incontri, perché luivoleva andare a vedere e si sarebbe tenuto in zona nasco-sto sul “Moby Dick”. L’indomani Alfonso viene agganciato al termine del turnodi lavoro. Il Ruspante e la prima squadretta si mettonoin allerta, pronti a seguirne le evoluzioni sui mezzi pub-blici. Infatti, come è sua abitudine, Alfonso si dirige, ap-parentemente tranquillo, verso la fermata dell’autobus,che sta per sopraggiungere già carico di gente. Quandole portiere si spalancano, il primo pedinatore anticipa Al-fonso saltando sul bus. Ma ecco l’imprevisto: all’ultimomomento, Alfonso si sfila dal gruppetto che sta prenden-do d’assalto il mezzo, richiamato da qualcosa. È un tizioin motorino, intabarrato nell’eskimo, che accosta facen-do cenni di saluto. Alfonso salta sul trabiccolo, che si im-mette scoppiettando nel traffico del viale.Il Ruspante e gli altri rimangono di sasso. È lui il primoa riscuotersi: sbatte per terra “l’Unità” che teneva in ma-

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no convinto di mimetizzarsi meglio, mollando nel con-tempo una bestemmia. Poi, sempre imprecando, salta suuna delle macchine di appoggio, ma il motorino è ormaiconfuso nel traffico congestionato della zona industrialenell’orario di chiusura degli stabilimenti e guadagna sem-pre più strada rispetto all’auto-civetta. Stramaledice sestesso per non aver tenuto pronto anche qualche agentein scooter, visto che l’idea gli era venuta, ma poi l’avevaaccantonata per non sembrare esagerato.Guido intanto seguitava a chiedere con insistenza novitàvia radio. E chi aveva il coraggio di dirglielo che se l’era-no perso? Il Ruspante tardava a rispondere nella speran-za di riagganciare in qualche modo quel maledetto moto-rino, ma dopo qualche minuto capì che era inutile resi-stere e si decise a dare una risposta:– Ombra Uno in ascolto. Avanti.– Perché non rispondete? Ci sono problemi?– C’è stato un imprevisto… – trovò infine il coraggio diammettere il Ruspante con una voce rantolante e poispiegò succintamente a Guido quello che era accaduto.Attraverso l’auricolare gli arrivò un moccolo dei peggioriche fosse mai uscito dalla bocca di Guido, come unaschioppettata che lo fece saltare sul sedile dell’Alfa Sud.Seguirono alcuni istanti di silenzio, poi la voce di Guidoritornò a farsi sentire rabbiosa e tagliente.– Ombra Uno, cerchiamo di contare almeno su una bottadi c… cioè sulla fortuna, visto che le capacità sono scar-se. Mettetevi in perlustrazione. Verrò anche io in zonacon un paio di equipaggi. Chiudo. Verso il centro della città il traffico era ancora più caoti-co. Calava, con l’oscurità, una nebbiolina perfida, quasiuna pioggia sottilissima che rendeva ancora più grigia e

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anonima la moltitudine di pendolari che andavano agruppi verso la stazione ferroviaria o quella delle auto-corriere, la gran parte avvolti negli eskimo verde militarefoderati di finto capretto, altri infagottati in giubboni dapoco prezzo, in mano buste di plastica o misere borse ditela, volti di donne e uomini disfatti dalla fatica e dai mia-smi delle ciminiere degli stabilimenti.Per ingannare l’attesa dei mezzi e ripararsi dal freddo an-davano ad affollare i bar della zona con i vetri appannatie l’aria pesante di fumo, di alcol e di vapori umidi, alcuniconcedendosi il ristoro di un latte caldo, di un bicchieredi vino, di un caffè corretto. Altri, che avevano la fortunadi abitare in quartieri meno distanti dalle fabbriche, fen-devano il traffico su motorini di ogni tipo, formando nu-goli disordinati e assordanti. Il contatto con Alfonso era stato perso da quasi mezz’orae Guido non si faceva più illusioni. Decise di fare un ulti-mo tentativo andando a dare un’occhiata nel piazzale do-ve Alfonso prendeva abitualmente la corriera per torna-re a casa.C’era ancora molta gente ammassata sotto le pensiline,rassegnata a pagare quell’ulteriore tributo quotidiano peril posto in fabbrica, stipati sulle corriere o sui treni loca-li, sfiancati da una stanchezza cronica, un po’ assopiti, unpo’ immersi nelle pagine alcuni dell’“Unità”, altri della“Gazzetta dello Sport”; o le donne, grigie come la nebbia,raggrinzite, sempre più simili ai loro compagni di lavoro,perse a fantasticare tra le immagini dei fotoromanzi qua-si furtivamente, come fosse un lusso sconveniente, unafuga dalle proprie responsabilità. E la piacevole immede-simazione nelle trame di amori travolgenti viene ripetu-tamente interrotta da improvvise sensazioni di rimorso:

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gli assilli della quotidianità, i problemi della casa, della fa-miglia, dell’ambiente di lavoro. Luigino ha già la scoliosie avrebbe bisogno di cure e di ginnastica correttiva; lanonna più che un aiuto è diventata un peso; le bollettedella luce sempre più care con il televisore, la lavatrice eil frigo sempre attaccati. E lui questo mese ha portatouna busta paga bella magrolina per gli scioperi. Se non la-vorasse anche lei…Ma dietro la fragilità umana dei singoli, si vedeva la soli-dità della classe operaia, forte dell’esperienza maturatanelle lotte di quegli anni e determinata a difendersi e amigliorare, ma senza avventurismi. L’Organizzazione nonaveva capito che la storia cammina, avanza comunque,anche se qualcuno la vorrebbe fermare o far tornare in-dietro. Spesso c’è qualcosa di cinico e di spietato in que-sto suo avanzare: ti può chiedere anche la vita e poi con-siderarti acqua passata. Ma è sempre così.Sperare che quella gente fosse disposta a imbracciare ilfucile e ad attaccare il palazzo d’inverno era semplice-mente una follia. Erano passati quei tempi, pensava Gui-do. Non c’era in loro la rabbia e la disperazione necessa-rie a scelte estreme. Quella soglia era stata superata daanni di lotte e di conquiste, che avevano formato unapiattaforma sicura sulla quale costruire l’avvenire, senzascosse, senza traumi, senza dover travolgere o distrugge-re nulla, ma aggiungere, completare un percorso già in-trapreso. Che cosa ne pensavano dell’Organizzazione? Quale im-patto avevano su quella gente i loro messaggi e gli atten-tati? Quanti si riconoscevano in quel linguaggio contortoe in quegli slogan ossessivamente ripetitivi?Un dirigente industriale di quelli che si sentono dei pa-

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dreterni o un capetto dei più perfidi ridotto a una puzzadi fronte al tribunale del popolo, sottoposto alla giustiziaproletaria, poi lasciato alla berlina incatenato a un palo,magari vicino alla fabbrica, con al collo il cartello con lastella a cinque punte, queste azioni sì, riscuotevano sen-z’altro consensi. Nessuno aveva il coraggio di manifestar-lo, ma molti se la ridevano sotto i baffi e approvavano. Maera un consenso del tutto estemporaneo, superficiale epersonale, la simpatia che può suscitare una guasconata,un’impresa alla Robin Hood, niente su cui fondare spe-ranze di riscatto né un percorso di lotta comune.Quando invece alzavano il tiro, le cose cambiavano: scat-tavano diffidenze e timori e le prese di distanza dei par-titi e dei sindacati riscuotevano adesioni convinte. Il ter-rorismo veniva percepito per quello che era: una minac-cia agli interessi anche della classe operaia. Solo una esi-gua minoranza di esaltati poteva vagheggiare la lotta ar-mata.Su queste cose andava ragionando tra sé e sé Guido men-tre lo sguardo spaziava sulla folla in movimento, ormaisenza più convinzione. Quando ebbe un sussulto: sotto iportici della piazza gli era parso di intravedere Alfonso.Fece fermare la macchina a conveniente distanza, scesecol cuore in gola e, senza dare spiegazioni, ordinò all’auti-sta di allontanarsi dalla zona. Cercando di controllare l’agi-tazione, si mischiò alla gente che passeggiava sotto i por-tici. Era proprio lui, segaligno, con la sua espressione du-ra e fissa, per niente stemperata dalla fitta barba meridio-nale, la testa come intagliata nel legno, simile a quella deipupi. L’incontro era ancora in corso. Davanti a lui un tipoalto ed esangue, che ascoltava succube e curvo, comestesse ricevendo degli ordini sgraditi o dei rimproveri.

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Guido si compiacque con se stesso. Aveva visto giusto.Provò un brivido quando passò accanto ai due. Si allon-tanò anonimo fra i tanti.Non appena giunto in caserma, dette agli equipaggi l’or-dine di rientrare alla base.Sulla scrivania trovò la relazione del sottufficiale che ave-va incaricato di identificare Mustafà. L’accertamento erastato piuttosto semplice, perché si dava il caso che il ne-gozio di cianfrusaglie arabe fosse frequentato da diversipoliziotti del commissariato di zona. Se dovevi fare unpensierino alla ragazza bastava andare da Alì il libanese,ribattezzato scherzosamente Alì Babà, che con pochemigliaia di lire ti risolveva il problema e ti faceva faresempre bella figura. A qualcuno del commissariato, fre-quentatore più assiduo del negozio, era poi bastato vede-re la foto di Mustafà, scattata durante il pedinamento,per riconoscervi un nipote di Alì, tale Ahmad, palestine-se, studente di medicina all’Università di Padova.Un bravo ragazzo Ahmad, intelligente, molto impegnatoper la causa palestinese, un personaggio notissimo in am-bito studentesco, solito partecipare a convegni e dibatti-ti. I suoi interventi, seppure appassionati, rivelavano unapproccio equilibrato e politicamente evoluto. Si presen-tava come militante dell’Olp, l’Organizzazione per la libe-razione della Palestina.Che cosa stava a significare l’incontro di Ahmad con Al-fonso? Era un tentativo dell’Organizzazione di allacciarerapporti con la guerriglia palestinese, come avevano fat-to i terroristi giapponesi o i tedeschi? Ma se lo scopo fos-se stato questo, Ahmad non sembrava il soggetto piùadatto, perché si presentava come l’espressione dellacomponente intellettuale e politica dell’Olp, la più lonta-

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na dai gruppi che praticavano la guerriglia. Ma l’Olp eraun grande ombrello sotto cui trovavano riparo realtàmolto diverse e talora antitetiche. Occorreva approfondire. La giornata era stata fruttuosa.

XVII

Gli arrivavano sulla cornetta i grugniti del Bimbo, inter-vallati da lunghi silenzi, che denotavano scontento e dif-fidenza. E ne immaginava l’espressione da pupone im-bronciato, innocuo all’apparenza, ma capace di scatena-re all’improvviso un’aggressività e una cattiveria da ippo-potamo, che mai si sarebbe supposta in quelle sembian-ze paciose.Nel riferirgli le novità della giornata, aveva parlato detta-gliatamente dell’incontro di Alfonso con Ahmad, ancheperché il Bimbo ne era senz’altro già stato informato daisuoi giannizzeri, mentre aveva taciuto sul secondo incon-tro, potendo agevolmente farlo, visto che nessuno ne eraal corrente all’infuori di lui. Si sentiva a disagio nel mentire a un superiore e incomin-ciava ad avvertire tutto il peso delle enormi responsabili-tà che si stava assumendo, ma non c’erano alternative.I due incontri avevano per lui un significato ben chiaroed erano strettamente collegati: la questione delle armiera alle battute conclusive. Alfonso aveva avuto dal pale-stinese la conferma che il carico stava per arrivare e siera subito premurato di allertare il Nane. Lui non l’avevamai visto, ma dalla descrizione di Alvise non c’era dubbioche lo spilungone che si era incontrato con Alfonso sottoi portici fosse proprio il Nane.

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Se voleva tutelarlo doveva tenere la notizia ancora persé. Si convinse che non stava venendo meno al propriodovere, né moralmente né professionalmente, se non in-formava subito il superiore di tutti i risvolti delle indagi-ni. Aveva avuto del resto troppe prove della sua scorret-tezza e dell’avidità dei colleghi. Aveva dunque il sacro-santo diritto di difendere il proprio lavoro, assumendosila responsabilità di essere lui a stabilire i tempi e i modidell’operazione per meglio contemperare le diverse esi-genze: arrivare al covo e disarticolare una cellula terrori-stica, intercettare il carico di armi, salvaguardare l’iden-tità e l’incolumità delle sue fonti. Era del resto lui a es-sersi esposto verso di loro e ad aver costruito l’indaginecol solo aiuto del Ruspante e di Snoopy.

E la Rina? A quel pensiero le sue certezze tornavano ascricchiolare. La sua condotta non era viziata alla base daun interesse del tutto personale, cioè di tutelarla, di pro-teggerla in qualche modo? Non era questo il motivo prin-cipale che aveva impresso all’operazione un andamentotortuoso? Tornava allora a ripercorrere tutte le fasi diquella storia. Se non ci fosse stata di mezzo lei, sarebbesenz’altro andata avanti in maniera più spedita e più in li-nea con le regole. Poi si era aggiunto Alvise, un aiuto de-terminante, ma anche un’ulteriore complicazione. In en-trambi i casi, i sentimenti avevano finito per condizionar-lo: il suo rapporto con la Rina e una singolare e inattesaforma di affetto per quel giovane spavaldo, sfortunato efragile, al quale una ragazzina generosa stava schiuden-do prospettive che sembravano essergli ormai precluse. E poi ancora: se era giusto che come diretto responsabi-le dell’indagine si riservasse dei margini di autonomia,doveva anche ammettere che ciò non lo esimeva dall’ob-

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bligo di informare lealmente chi quella responsabilità gliaveva affidato e cioè il Bimbo.Ma si può essere fino in fondo leali con chi non lo è? Isuoi pensieri tornavano allora a ripercorrere un circuitoper sua natura vizioso, perché ritornava su se stesso e apercorrerlo mille volte non avrebbe mai trovato la solu-zione. Bisognava uscire dal circuito con un atto di corag-gio, attraverso una valutazione dei valori in gioco, anchese ciò significava uscire dalle regole. “Oh San Michele arcangelo, condottiero delle angelichemilizie…”, così iniziava la preghiera del poliziotto. Il dipin-to di Guido Reni, che la Polizia aveva adottato come em-blema della propria missione, raffigurava l’arcangelo con laspada in mano trionfante sul demonio, schiacciato sotto isuoi piedi. Sopra il bene, sotto il male. Sopra la luce, sottole tenebre. Nella realtà non sempre le cose erano così sem-plici e chiare… Spesso il confine tra la luce e le tenebrenon era poi così netto. Ci potevano essere ampie zone sfu-mate, di un grigio più o meno intenso, non una linea retta,ma insenature e commistioni, come nell’incontro tra unfiume fangoso e le acque limpide del mare.Ma la decisione presa era quella giusta. Stava rischiandomolto. Aveva percepito la diffidenza del Bimbo. La tele-fonata si era chiusa con quelle pause imbarazzate checontraddistinguono una conversazione reticente e sgra-devole. La cosa più urgente era sapere quando e dove sarebbearrivato il carico e tenersi la notizia il più a lungo possi-bile, nella speranza che nel frattempo Alfonso li avrebbecondotti al covo.E se le sue deduzioni fossero state troppo superficiali e af-frettate? L’unico che poteva dare la certezza che la storia

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stesse andando come lui intuiva era Alvise. Lo doveva con-tattare nuovamente, per sapere che cosa si fossero dettiAlfonso e il Nane e quando sarebbero arrivate le armi. Quando si incontrarono, si rese conto di essere ora per-cepito da Alvise, pur nel rapporto di simpatia che si erastabilito fra loro, come una minaccia ai progetti che sta-va segretamente coltivando con la Dany. Tutto stava an-dando per il verso giusto e lui aveva già rimosso quellastoria e le altre che lo legavano al passato.Gli disse dell’incontro che c’era stato tra Alfonso e il Na-ne. Non fu facile per Guido convincerlo ad andare sottoall’amico. Alla fine però Alvise cedette, convinto forseche dovesse pagare per riconoscenza quell’ultimo tribu-to per meritarsi il futuro.– Io ci vado dal Nane, ma deve essere lui a entrare in ar-gomento.– Andrà così, vedrai. Come si è confidato con te la primavolta, lo farà a maggior ragione ora, che deve affrontarela situazione.– E se mi dice quando e dove arriva la roba, voi che cosafate?– Io, – sottolineò Guido – io, che cosa faccio. Sarò solo ioa decidere. Lascio fare il trasbordo a terra, sul furgone, emi limito a vedere dove va a finire a costo di seguirlo pertutt’Italia. Sarei stupido a intervenire subito. Mi preclu-derei la possibilità di sapere dove andranno a finire le ar-mi e di prendere chi le dovrebbe usare.– Mi dà la sua parola che il Nane resterà fuori? Se gli do-vesse capitare qualche cosa, non… me lo perdonerei.– Non me lo perdonerei neppure io – replicò Guido guar-dandolo negli occhi come per rassicurarlo.Rimasero d’intesa che Alvise avrebbe chiamato Guido a

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un numero di telefono convenuto, subito dopo aver in-contrato il Nane.– E la donna che lei cercava è riuscito a rintracciarla? –gli chiede Alvise mentre si stavano lasciando.– Ancora no.– Mi dispiace – fece Alvise allontanandosi, ed era senz’al-tro sincero.

XVIII

Ora tutto lasciava supporre, secondo Guido, che Alfonsodovesse riferire a qualche altro elemento dell’organizza-zione più importante di lui che le armi stavano per arri-vare ed era da escludere che una notizia così delicata po-tesse essere comunicata per telefono, strumento al qua-le loro ricorrevano del resto il meno possibile e, in ognicaso, adottando il massimo della cautela.C’era dunque da attendersi a brevissima scadenza un in-contro di Alfonso con un clandestino, probabilmente giàfissato da tempo secondo certe scadenze e con modalitàconcordate. Era la fase più delicata dell’operazione, quel-la risolutiva, che Guido aspettava con ansia. Un passo fal-so avrebbe compromesso tutto.Il Ruspante resta perplesso quando vede Alfonso, al-l’uscita dello stabilimento, fermarsi all’edicola e compra-re “la Repubblica” e “La Settimana Enigmistica”, comenon era mai successo prima.Ha fretta e sembra più guardingo del solito. Sull’autobusl’agente Zanon si accorge che Alfonso lo osserva furtiva-mente. Lui seguita a leggere “Diabolik”, cercando di ri-manere indifferente, ma il cuore gli batte forte. Eviden-

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temente qualcosa non convince Alfonso. Il poliziotto pas-sa mentalmente in rassegna il proprio aspetto, l’atteggia-mento e gli indumenti che indossa e gli sembra di nonavere, come sempre, nulla di sospetto e di essere perfet-tamente intonato all’ambiente: un giovane operaio, fra itanti altri stipati sull’autobus. Che cosa c’è ora di diversorispetto alle altre volte in cui si erano incrociati su quel-la linea? Ma Alfonso seguita a fissarlo e anzi sembra stiafacendo in modo di andargli il più vicino possibile, appro-fittando della ressa. Arriva a contatto di gomito, anzi lopreme sul fianco destro. Zanon ha un attimo di panico:realizza improvvisamente che cos’è che ha attirato l’at-tenzione di Alfonso. Come mai è stato tanto fesso da nonpensarci prima? I baffi! Si è tagliato i baffi! Evidentemen-te Alfonso ricordava la sua fisionomia marcata dai baffirossicci da vikingo, che sommati alla criniera ricciuta del-lo stesso colore e agli occhi cerulei lo caratterizzavanomolto. Era stato il Ruspante a convincerlo a tagliarseli,per essere meno vistoso, più anonimo. Ma avevano sba-gliato. Alfonso aveva memorizzato quella immagine di luie l’avrebbe passivamente registrata come le altre volte segli fosse ricomparsa tale e quale. Ora invece aveva nota-to qualcosa di diverso, ma probabilmente non riuscivaancora a mettere a fuoco che cosa c’era che non lo con-vinceva e si stava scervellando per capirlo.Era scattato tuttavia in lui un campanello d’allarme.Una frenata dell’autobus e Alfonso si aggrappa al poli-ziotto come per non perdere l’equilibrio e lo fa piazzan-dogli entrambe le mani sui fianchi. Zanon capisce che losta palpando per verificare se porta la pistola alla cinta.Per fortuna lui la tiene ben protetta in tutt’altra parte delcorpo, alla caviglia, così come Guido aveva imposto a tut-

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ti i pedinatori, dotandoli di piccoli revolver Smith & Wes-son e di particolari fondine adatte allo scopo. La toppatadi Alfonso gli restituisce sicurezza ed è lui questa volta afissarlo con uno sguardo tra l’interrogativo e l’irritato,che ha l’effetto di fugare i sospetti.Ma per Zanon è venuto il momento di sfilarsi. Rimanesull’autobus quando Alfonso scende alla fermata. Non c’èbisogno di fare alcun cenno alla Lucia. Lei non aveva per-so una battuta ed era sgattaiolata giù dall’autobus perproseguire il pedinamento. Neppure il più smaliziato deiterroristi avrebbe potuto sospettare che in quella tren-tenne grassoccia e dall’aria innocua, con in mano una bu-sta del supermercato piena di generi alimentari, si na-scondesse un’assistente della polizia femminile prestataall’antiterrorismo insieme ad altre colleghe.All’agitazione dei giorni precedenti era subentrato inGuido uno stato di calma accettazione dell’inevitabile,come davanti ai professori quando hai deciso di soste-nere un esame. Ora però non rischiava soltanto la boc-ciatura. Nella prova che lo attendeva e che aveva a lun-go inseguito, si giocava molto di più: il senso della suavita sentimentale e professionale. La paura di fallirec’era sempre, ma non lo condizionava più. Bastava ri-cacciarla indietro quando cercava di tornare per ag-ghiacciarti. Costatò con soddisfazione che era venutafuori in lui, a sorpresa, una dote che non gli era abitua-le, diversa anche dallo stato d’animo dell’esame: unafreddezza che non era indifferenza o disponibilità ad ac-cettare qualunque esito, ma lucidità, capacità di analiz-zare la situazione e trovare le risposte adeguate. Fidu-cia in se stesso.Si allungò sulla poltrona dell’ufficio che gli avevano mes-

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so a disposizione nella caserma, nella penombra appenarischiarata dal lume da tavolo dello scrittoio, fumando aboccate lente e profonde l’ennesima MS. Dalla ricetra-smittente Prodel, piazzata sulla étagère accanto al pe-sante telefono in bachelite nera, partiva di tanto in tantoqualche fruscio. Sui bordi del tavolino della macchina dascrivere c’erano segni di bruciatura di cicche dimentica-te lì accese da quanti, negli anni, avevano pestato sui ta-sti della vecchia Olivetti. Due bandiere infisse su piedi-stalli di ottone ossidato a fianco della scrivania, una coni colori nazionali e l’altra cremisi con le insegne della po-lizia, apparivano in quell’ambiente muffo pateticamentesussiegose, come un soprammobile pretenzioso in unacasa scalcinata. Il volto del presidente Leone occhieggia-va tra le bandiere, mentre il centro della parete alle spal-le della scrivania era occupato dalla immagine di un vigo-roso san Michele arcangelo che infilza il drago e, al di so-pra, da un crocifisso con attaccato chissà da quanti anniun rametto di olivo rinsecchito.Si sentì pervadere da una sensazione di piacevole rilassa-mento, al punto da appisolarsi nonostante i tentativi diresistere. Nello stato di dormiveglia si meravigliava dinon volere opporsi più energicamente al sonno ma unastrana indulgenza verso se stesso vinceva il senso di ri-morso che pure covava nelle pieghe della coscienza. Unottimismo insolito faceva balenare prospettive favorevo-li. Ma sì, tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ce l’avreb-be fatta a tirare fuori la Rina e a gestire l’operazione co-me lui voleva, senza inguaiare Alvise e il Nane e senza in-dispettire il Bimbo. Venne scosso dallo stato di sopore dal gracchiare della ri-cetrasmittente:

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– Centrale da Ombra Uno – insisteva con una certa con-citazione il Ruspante.– Avanti, Centrale in ascolto – rispose Guido afferrandoil microfono con la mano tremante. Era di nuovo teso, manella misura giusta.– C’è stato l’incontro. Stanno parlando. Camminanoavanti e indietro e si guardano intorno.– Chi è l’altro? – chiese Guido al colmo dell’eccitazione.– È nuovo.Guido avrebbe voluto chiedere di più, ma si trattenne pernon distrarre troppo i pedinatori e per non correre rischidi essere intercettato.Anche il Ruspante avrebbe voluto dire di più, ma nonlo fece per gli stessi motivi e per un’altra ragione anco-ra: evitare di far saltare Guido dalla sedia per qualcosache poi avrebbe potuto dimostrarsi infondata, niente dipiù che una sua impressione. Sì, perché quel tizio cheparlottava con Alfonso gli ricordava qualcuno. La lam-padina gli si era accesa appena l’aveva visto avvicinarsialla piazzetta dove lo stava aspettando Alfonso. Avevaun aspetto insignificante, innocuo, anonimo, del tuttodiverso da quello che un terrorista ha nell’immaginariocollettivo, l’aspetto di un impiegatuccio, di un contabi-le. Ma certo! Il ragionier Sartori. Corrispondeva perfet-tamente all’identikit che i carabinieri avevano fatto delsedicente piazzista di mobili per ufficio che insieme al-la sua compagna aveva smobilitato il covo nella cittadi-na veneta. I conti tornavano. Aveva anche lui in manoun paio di giornali. Toh, “la Repubblica” e “La Settima-na Enigmistica”, come Alfonso! Ora il Ruspante capiva:era un segnale di riconoscimento. Evidentemente i duenon si conoscevano ed erano ricorsi a un espediente fis-

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sato nelle regole di comportamento dell’Organizzazio-ne, che dovevano prevedere anche i luoghi e le scaden-ze degli incontri.– Mando “Moby Dick” per fotografarli – riprese Guido. –Rimanga sul posto solo uno e ben defilato. Gli altri si di-sperdano nei pressi, pronti a pedalare quello nuovo nonappena si separano. Ce la fate, interrogativo?– Positivo. Era chiaro che questa volta bisognava spingere il pedina-mento fino in fondo. Ma Guido aveva messo in campo i mi-gliori e tutto faceva sperare che sarebbero riusciti a segui-re lo sconosciuto fino alla sua tana, senza farsi notare.Era di nuovo in uno stato di forte tensione: sentiva di es-sere prossimo a una sorta di resa dei conti con se stesso,sul piano professionale e umano. Il tempo scorreva insopportabilmente lento. La tentazio-ne di chiamare via radio il Ruspante per sapere comestesse andando il pedinamento era molto forte, ma riuscìa trattenersi per evitare di distrarlo o magari di farsi in-tercettare da qualcuno che volesse curiosare nella fre-quenza che gli era stata riservata.Non poteva far altro che aspettare e pregare che tuttoandasse per il verso giusto.Sentiva di tanto in tanto il Ruspante scambiare dei mes-saggi convenzionali con gli uomini e con le ragazze dellapolizia femminile che si alternavano nel pedinamento. Glisembrava tranquillo e questo gli provocava vampate dipiacere. Poi seguivano lunghe pause di silenzio e l’ango-scia tornava a fare di nuovo capolino, ma lui riusciva a ri-cacciarla indietro perché era sicuro di essere dalla partedel giusto.Ma perché non chiamavano più? Si sorprese a inveire

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contro l’intera squadra a voce alta e il fiele in bocca, conuna rabbia irrazionale, quasi bestiale. Si vergognò e ri-prese il controllo di se stesso.– Centrale da Ombra Uno.Finalmente! Si gettò sul microfono per rispondere cheera in ascolto e attese il messaggio del Ruspante con lostesso stato d’animo con cui si attende la pronuncia diuna sentenza.La comunicazione fu molto breve: – Capo, è andata!Rimase per qualche istante come paralizzato in quellastanza buia e squallida. Poi sentì il petto gonfiarsi co-me un pallone. Strinse i pugni, gli occhi e i denti pertentare di contenere quella pressione, che però salì sufino a sfiatare prima in un lamento di crescente inten-sità e poi a erompere in una serie di singhiozzi che losquassarono da capo a piedi. Si sciolse infine in un lun-go pianto.Il Ruspante intanto seguitava a sollecitare per radio il“ricevuto”.– Ricevuto… bravi! – riuscì ad articolare Guido con ungrande sforzo. – Ora rientrate.Andò nella toilette e si guardò nello specchio scrostato.Era stravolto e aveva gli occhi arrossati dalla stanchezzae dal fumo. Non voleva mostrarsi così ai suoi uomini. Almalconcio rubinetto del lavandino grigiastro era attacca-to un tubo di gomma che finiva all’imbocco del cesso al-la turca incrostato di macchie scure e giallastre. Lo sciac-quone a catena con la manopola di ceramica sudicia ave-va l’aria di non funzionare più da molto tempo e il tubosuppliva evidentemente a quella carenza. Una scopasmazzata appoggiata lì accanto faceva supporre un utiliz-zo diverso da quello usuale.

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Staccò il tubo dal rubinetto e si sciacquò alla meglio lafaccia con l’acqua fredda che scendeva incerta, asciugan-dosi poi con il fazzoletto.Sentì un rimbombo di passi e un vociare allegro in avvi-cinamento, scandito da risate e da battute. La squadraera raggiante. Lo coinvolsero in un abbraccio collettivocome fanno i giocatori dopo aver segnato un goal soffer-to e decisivo. Si sentì immensamente bene e padronedella situazione.Adesso era assolutamente necessario non precipitare lecose.

XIX

L’appartamento era in una palazzina della periferia, qua-si certamente al terzo piano, dove i poliziotti avevano vi-sto accendersi la luce poco dopo che il Ragioniere (or-mai lo chiamavano così) era entrato nel portone e avevaimboccato le scale. Evidentemente era il primo a rincasa-re, non essendo ipotizzabile che non ci fosse anche lacompagna, con la quale era scappato dal covo scopertonella non lontana cittadina veneta.Adesso era affare suo. Doveva appostarsi lì vicino e con-trollare chi entrava e usciva dallo stabile. Immaginava giàdi vederla la Rina, venire fuori a testa bassa da quel por-tone, dimessa nel vestire come l’aveva vista le ultime vol-te, e guardinga. Chissà com’era diventata? Era passatoqualche anno…Si fece accompagnare subito dal Ruspante a vedere lapalazzina. Ormai era notte e le luci delle finestre eranotutte spente. Lei poteva essere lì, dietro le tapparelle del

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terzo piano, che dormiva con quel canchero. Sentì il san-gue rimescolarsi.Si poteva anche risalire al proprietario dell’appartamen-to per accertare a chi l’avesse affittato, ma questo avreb-be richiesto tempo, mentre lui voleva sapere subito, cioèla mattina dopo, se la Rina c’era o no, appostandosi neipressi del portone. Avrebbe voluto essere solo in quelmomento, per non manifestare ad altri il suo stato d’ani-mo e le sue reazioni specie nel caso in cui se la fosse tro-vata effettivamente davanti, ma dovette convincersi chela presenza del Ruspante era indispensabile. Da solo, in-fatti, avrebbe potuto verificare esclusivamente se i suoisospetti fossero fondati come temeva e cioè accertare lapresenza della Rina, qualora lei fosse uscita di casa. Seinvece la compagna del Ragioniere fosse stata una don-na diversa, lui da solo avrebbe potuto anche non notarlaed era bene che comunque la vedesse anche il suo colla-boratore. Del resto non aveva ancora visto nemmeno ilRagioniere e non sarebbe di certo bastata la descrizionedel Ruspante a farglielo individuare con certezza.La zona non si prestava a un appostamento: il portone af-facciava direttamente sulla strada e di fronte, dall’altrolato, c’erano un negozio di alimentari, un tabaccaio e unpiccolo bar che poteva contenere al massimo sette od ot-to persone in piedi, senza la possibilità quindi di sostarese non per una consumazione veloce. – Dobbiamo parcheggiare qui davanti la “Moby Dick”, lìin quel piazzaletto – disse Guido guardandosi intorno pervalutare bene l’angolo visuale. – Domani mattina alle cin-que e mezza ci facciamo portare qui da Snoopy. Poi luise ne va e ci viene a riprendere quando lo chiamiamo perradio.

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– Domani mattina? – annotò costernato il Ruspante. –Fra qualche ora, vorrà dire. È quasi l’una! Nonostante la stanchezza che gli penetrava fin dentro leossa, Guido stentava a prendere sonno. Al Bimbo nonaveva ancora detto niente, ma non poteva tirare la cordaancora a lungo. Al massimo nel pomeriggio doveva purdirglielo che aveva localizzato il covo. Sperava di averenella mattinata il riscontro che cercava. E se la coppia,per un motivo qualsiasi, non fosse uscita di casa quelgiorno? O fosse uscito solo il Ragioniere? Quando ci simette la sfiga… Ma no, sarebbero usciti senz’altro e mol-to probabilmente insieme. In ogni caso avrebbe cercatodi convincere il Bimbo a fare ancora un paio di giorni diosservazione. Poi l’irruzione l’avrebbe fatta lui stesso conil Ruspante e altri tre ragazzi freddi ed equilibrati che giàaveva selezionato. Però prima occorreva dare un’occhia-ta alla porta dell’appartamento per vedere se c’erano ser-rature di sicurezza o blindature da far saltare. In queimomenti avrebbero dovuto agire con grande rapidità percoglierli di sorpresa, nel sonno, ed evitare così sparato-rie. Per questo voleva farla lui l’irruzione, senza quellidell’unità speciale di intervento, le teste di cuoio nostra-ne. Meglio evitare! Doveva mantenere a tutti i costi il controllo dell’opera-zione in quei giorni e dopo, perché le cose andassero co-me aveva programmato. Alfonso era bene lasciarlo fuoriper il momento. Avrebbe costituito il bandolo della ma-tassa per far progredire l’indagine e sarebbe stato inte-ressante vedere come si sarebbe comportato dopo la sco-perta del covo e quali evoluzioni avrebbe avuto la faccen-da delle armi. Lo stesso discorso valeva per Ahmad.

Dopo averne accertato l’identità, Guido non ci aveva la-

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vorato più sopra, ritenendo al momento più utile concen-trare tutte le risorse su Alfonso e poi sul Ragioniere.Qualcun altro però lo aveva fatto. Ahmad non se ne eraminimamente accorto, ma in quei giorni i suoi movimen-ti erano attentamente spiati. Non lo avevano nemmenolontanamente insospettito due tipi con le tute da operaie la cassetta degli attrezzi che sembravano aspettarequalcuno nei pressi della rampa del garage del palazzonedi corso del Popolo dove abitava. Niente di più normale.Quando era uscito dal garage con la sua vecchia e sgan-gherata NSU Prinz erano ancora lì, ma lui li aveva sì e nonotati.Il sonno lo colse nel bel mezzo delle elucubrazioni sul let-to metallico da ospedale dove lo avevano sistemato, asse-gnandogli per una forma di riguardo una stanza dell’in-fermeria, l’unica singola disponibile della caserma, dota-ta perfino di lavabo.Lo svegliò alle cinque la telefonata del Ruspante nel belmezzo di un sogno. Si sciacquò alla meglio e si vestì infretta nell’umidità appiccicosa di quella cella, ripensandoal sogno: era andato al paese a trovare la Generosa perchiederle della Rina e la vecchia l’aveva accolto sorriden-te e l’aveva portato davanti alla porta della stanza dellaragazza, aprendola lentamente con aria ammiccante. Sulletto era seduta una donna, immobile con le mani appog-giate sulle ginocchia. Lui la vedeva di profilo, ma non erala Rina. Aveva la faccia terrea e i capelli grigi raccolti sul-la nuca. Sul vestito scuro spiccava un colletto di pizzo in-giallito. Volse lentamente la testa verso di loro e Guido vi-de con orrore che le orbite erano vuote.– Eccola la tua Rina, Guido – mugolava la vecchia. – È datanto che ti aspetta. Abbracciala, Guido, abbracciala!

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Ma anche la camera non era quella della Rina o non lo erapiù. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Sem-brava piuttosto una stanza della caserma, con la brandae il comodino metallico. Come la sua. No, adesso capiva:era il covo! Ma come aveva fatto la Generosa ad arrivarefin lì?Rabbrividì pensando al sogno e si precipitò per le scalecome per sfuggire all’angoscia che seguitava a dargli an-che da sveglio, raggiungendo di corsa il cortile, immersonel buio e in una nebbiolina che preannunciava i primiumidi tepori della primavera.I furgoni e i camion della Celere, schierati in perfetto or-dine, formavano una massa grigio-verde che evocava im-magini cilene. Snoopy era al volante di “Moby Dick” e aveva già avvia-to il motore che mandava dal tubo di scappamento nuvo-le di fumo bianco. Il Ruspante era in attesa appoggiato alfinestrino. – Sistemiamoci subito dietro, – disse Guido – così nondovremo fare manovre che potrebbero dare nell’occhioproprio davanti all’obiettivo. – Poi rivolto a Snoopy: – Tuallora, arrivato sul posto, parcheggi come ti abbiamospiegato, scendi tranquillamente dal mezzo, chiudi e tene vai. Ci vieni a riprendere alle dieci. Resta in zona pe-rò e se vedi che è possibile farlo senza attirare l’attenzio-ne di nessuno, ogni tanto dài un’occhiata... insomma,guardaci le spalle! Non si sa mai. In ogni caso teniamociin contatto con le radio, ma usiamole solo in caso diemergenza.Quando arrivarono di fronte alla palazzina albeggiava e lagente si era già messa in movimento. Snoopy: parcheg-giò in maniera che dai punti di osservazione del vano di

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carico del furgone si potesse vedere bene il portone del-lo stabile. In effetti Guido e il Ruspante potevano agevol-mente tenerlo sotto controllo attraverso il lunotto poste-riore del furgone dotato di vetro trasparente solo dall’in-terno verso l’esterno, standosene seduti su una specie dipanchetta ancorata sul pianale di carico. Il vano di osser-vazione aveva blindature artigianali e anche il vetro dellunotto veniva spacciato per antiproiettile.Dovettero aspettare fin dopo le sette prima di veder usci-re il Ragioniere.– Eccolo! – bisbigliò il Ruspante a Guido stringendogli ilbraccio. Un essere insignificante, mingherlino e scialbo,che al massimo poteva ispirare antipatia. Corrispondevain effetti abbastanza all’identikit del ragionier Sartori.Aveva l’aria livida del frustrato. Un terrorista per frustra-zione, incline per natura solo a colpire alle spalle. Comepoteva la Rina perdersi con gente del genere? Il Ragio-

niere se ne stava andando a prendere l’autobus da solo.Di lei nemmeno l’ombra.Uscirono poco dopo di lui due giovani donne, ma né l’unané l’altra assomigliava nemmeno vagamente alla Rina opoteva far sospettare di essere la sua compagna. La pri-ma infatti saltò sulla moto del suo ganzo che l’aspettavarombando sotto casa e faceva di tutto per mettersi in mo-stra. L’altra, una racchia vivace e simpatica, era entratanel baretto, dove doveva essere da sempre popolarissimaa giudicare dall’accoglienza dei presenti. Dopo una buona mezz’ora comparve una terza donna, suiventicinque anni, dal fisico asciutto e atletico, capellibiondi a caschetto, jeans, scarpe basse, casacca a fiori euna capace borsa di tela a tracolla. Un tipo forte e dina-mico, senz’altro di una femminilità attraente, nonostante

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si penalizzasse nell’abbigliamento e nella cura della per-sona. Non l’aspettava nessuno. Prima di dirigersi verso la ferma-ta dell’autobus, si fermò un attimo sul portone e si guardòintorno in maniera apparentemente disinvolta. Si capivaperò che quegli occhi di ghiaccio avevano fotografato inpochi istanti la situazione. Guido e il Ruspante si scambia-rono un’occhiata significativa. Alla vista della ragazza ave-vano avuto tutti e due la stessa reazione: quella era la per-sona giusta. Ma mentre Guido tirava un sospiro di sollievovedendo che non si trattava della Rina, il Ruspante loguardava furtivamente per averne la conferma scrutando-ne le reazioni. Non sembrava tradire particolari emozioni.Mentre la osservava ferma in attesa dell’autobus vigile eguardinga, Guido vi trovò nella figura e nelle linee dellatesta e del collo una certa somiglianza con la Rina, maquelli della sconosciuta erano tratti duri, lontani dallefattezze morbide ed eleganti della Rina. Sospirò. Per scrupolo decisero di restare ancora in osservazionefino all’ora convenuta, ma dalla palazzina ormai uscivanoed entravano solo persone anziane. Nella cabina l’aria co-minciava a diventare pesante perché il sole batteva suuna fiancata del furgone e l’impianto di aria condizionatanon funzionava più di tanto. Quando sentirono Snoopy

aprire la portiera e sedersi al posto di guida, trassero unsospiro di sollievo.– Era quella la Rina, capo? – si decise il Ruspante a chie-dere a Guido una volta in caserma, pur sapendo che loavrebbe indispettito. Ma proprio non ce la faceva più atrattenere la domanda.– No, non era lei – il tono era meno stizzito del previsto.– E allora possiamo fare l’irruzione anche domani mattina.

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– E chi ti dice che dentro l’appartamento non ci sia altragente? Abbiamo fatto poco più di quattro ore di osserva-zione. Secondo me, bisogna proseguire per avere la cer-tezza che lì dentro non c’è nessun altro.– Con i capoccioni come vi regolate?Guido rimase per un po’ in silenzio, meditabondo. Al suocollaboratore non aveva ancora parlato del Nane e del ca-rico di armi. Decise di farlo allora e al termine del suostringato racconto, il Ruspante, vinta la sensazione di di-spetto che lo aveva preso nell’apprendere cose che nonsapeva e che si riteneva invece in diritto di sapere, sen-tenziò serio serio inarcando le sopracciglia cespugliose:– È rischioso, ma bisogna aspettare. Il problema è farlocapire ai superiori.

XX

Il Bimbo manifestò sorpresa e grande contentezza quan-do Guido lo informò che il covo era stato localizzato. Erasenz’altro su di giri e Guido ebbe la sensazione che in re-altà già lo sapesse. Mal e Fofò dovevano averlo informa-to fin dalla sera precedente. Si rese conto di rischiaremolto per quella quindicina di ore di ritardo. Tentò dimetterci una pezza:– Ieri sera tardi avevamo già localizzato la palazzina,ma prima di darti la notizia volevo capire chi altro cifosse nel covo. Stamattina presto abbiamo fatto un po’di osservazione e forse abbiamo identificato anche ladonna. Dovrebbe essere la coppia che scappò dalla ba-se scoperta dai carabinieri. Gli identikit sembranocoincidere.

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– Io sarò lì domani per organizzare l’irruzione con l’unitàspeciale…– Ti volevo dire – lo interruppe Guido, – che sarebbe me-glio fare ancora un paio di giorni di osservazione. Po-tremmo beccare qualcun altro che frequenta il covo.– Io sarò lì domani, come ti ho detto, – il tono era diven-tato tagliente e minatorio – e l’irruzione la faremo all’al-ba di dopodomani. Nel frattempo osserva quanto ti pare,ma se scappano sono cazzi tuoi. È chiaro?Poi, riconquistata la calma, riprese: – Hai visto che cosaè successo in Piemonte? – e raccontò che quella mattinac’era stata una sparatoria tra carabinieri e terroristi inuna cascina isolata dove tenevano sequestrato il figlio diun industriale.– Sembra che i carabinieri siano andati lì a fare un control-lo di routine, senza adottare precauzioni. Evidentementenon si aspettavano di trovare quello che hanno trovato. In-somma c’è stata una brutta sparatoria. Pare che i terroristiabbiano tirato anche delle bombe a mano mentre scappa-vano. Un carabiniere è morto e uno è ferito gravemente.Però sono riusciti a stenderne uno, una donna. Dicono chepotrebbe essere quella zoccola della Mara, la moglie di...– Non l’hanno ancora identificata? – chiese con affannoGuido.– Non ancora. O forse non lo dicono. Dovrebbe esseresenz’altro lei, e il marito, come al solito, l’ha fatta franca. – Chi erano gli altri? Hanno arrestato qualcuno? – insi-stette Guido cercando di non tradire la sua emozione.– Non si sa. I carabinieri sono molto abbottonati. L’ostag-gio dovrebbe essere salvo. Che mazzo che tiene! – con-cluse il Bimbo alla napoletana, lasciando Guido in attesamentre sbrigava col suo maresciallo tuttofare le quotidia-

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ne faccende private. Poi riprese il colloquio: – Scusami,ma bisogna pensare anche a queste cose. Tu te ne fottiperché sei scapolo. Torniamo a noi: hai visto che belvesono questi figli di zoccola. Ma noi non ci facciamo fotte-re. Ecco perché io voglio impiegare l’unità speciale perl’irruzione. Al minimo segnale di reazione, li stendiamotutti! Tu stai attento oggi e domani. Non esporre inutil-mente il personale.– Io spero che non ci sia bisogno di stendere nessuno –replicò Guido polemicamente senza riuscire a trattener-si, – e mi auguro che non siano proprio i nostri supermana creare casini…– Senti Guido, adesso mi hai scassato ‘o cazzo. Già haifatto una cosa gravissima a non avvertirmi subito del co-vo. Poi a suo tempo mi spiegherai perché e spero tantoper te che le tue spiegazioni siano convincenti. Ma ades-so basta. Stai attento a come ti muovi, se no ti metto tut-to in conto.Non c’era molto da replicare. Guido capì di essere sottoschiaffo. Doveva stare ancora più attento a muoversi, senon voleva finire nei guai. Intanto era chiaro che il Bim-

bo si apprestava ad appropriarsi dell’operazione per rica-varne il massimo dei meriti per se stesso. Ma per Guidoquesto era ormai l’ultimo dei pensieri e dopotutto lo da-va per scontato. Ora bisognava soltanto cercare di nonfarsi estromettere e di non perdere completamente ilcontrollo dell’operazione. Si sorprese a provare per la prima volta un senso di irri-tazione al pensiero della Rina. Se rischiava di finire neiguai era per colpa sua. Tutta la sua azione era stata con-dizionata dal desiderio di salvarla a ogni costo, anche ri-schiando di infrangere le regole. Si riaffacciò in lui il dub-

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bio di aver creato nella sua mente una storia immagina-ria che affondava le radici nell’adolescenza e che nullaaveva a che fare con la vita reale. Forse si era attribuitouna missione ponendone artificiosamente i presupposti.Si chiese se la responsabilità del declino del rapporto conla Rina fosse dipesa dalla sua incapacità di alimentarlo edifenderlo, come da qualche anno si stava rimproveran-do, o non piuttosto da altre cause. Perché non ammette-re che forse tra loro non era mai nato un amore vero eprofondo e che il riaccendersi di quel suo interesse ver-so di lei dipendeva dalla solitudine nella quale era piom-bato? Anche in questo la figura della Rina aveva avuto ilsuo peso e l’aveva condizionato nella ricerca di un rap-porto più maturo. La Rina evocava in lui il ricordo di tem-pi felici, dei primi turbamenti amorosi in quella terra-ma-dre, pronta ad accoglierlo e a proteggerlo. Difficile sosti-tuirla.Forse era rimasto profondamente immaturo.Aveva avuto la riprova che la compagna del Ragioniere

non era la Rina. Non lo era stata nel covo smobilitatoqualche mese prima e non lo era adesso nella nuova ba-se. La misteriosa terrorista era sempre la stessa: la Tede-

sca (così l’avevano battezzata i suoi collaboratori) e cioèla ragazza che era uscita quella mattina dopo il Ragio-

niere, la stessa che prima si spacciava per la professo-ressa Oriele Boni. Era stato questo nome a indurlo in errore, a pensare cioèche solo la Rina potesse essersene appropriata grazie alrapporto di amicizia che aveva intrattenuto con la Boni,quando insegnavano nella stessa scuola.Aveva tratto delle conclusioni affrettate. Ed era stranoche l’evidenza dei fatti, anziché rallegrarlo, quasi lo con-

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trariasse, al punto da tentare fino all’ultimo di negarel’evidenza. Si sentì avvampare. Doveva rivedere tutto.Lui, dunque, si era messo in testa che la Rina fosse unaterrorista sulla base di presupposti, il più serio dei qualisi dimostrava ora infondato. Aveva rincorso affannosa-mente in quei mesi un fantasma, si era sentito investitodella missione di salvatore sulla base di sue elucubrazio-ni pateticamente astruse: non solo la Rina non invocavaaiuto, ma forse non era mai stata nemmeno in pericolo.E aveva fatto tutto ciò spinto dalla passione. Ma qualepassione? Un ripescaggio di infatuazioni adolescenziali,un parto della sua fantasia… E adesso?Un fatto rimaneva e non era parto della sua fantasia: Ri-na era scomparsa nel nulla da un paio d’anni. Era vero ono che prima di scomparire frequentava ambienti daiquali erano usciti dei terroristi? Che a Trento si era di-stinta per attivismo e che aveva frequentato la Mara, unaragazza di buona famiglia, perbene come lei, religiosa ol-tretutto, che era tra i fondatori di una banda armata? Ma-ra che era morta adesso con il mitra in mano, per unascelta di vita, per un ideale di giustizia traviato dalle logi-che spietate che gli estremismi portano con sé, ma ancheper difendere ancora una volta il suo uomo. Si ricordò deitimori della Generosa. Anche lei pensava che la Rina po-tesse aver fatto il salto nel buio.Se non era la compagna del Ragioniere, nulla escludevache facesse egualmente parte dell’organizzazione e chemagari si trovasse quella mattina insieme alla Mara e fos-se riuscita a scappare.Doveva trovare la forza di uscire da quel labirinto nelquale si intrecciavano percorsi incompatibili: sentimenti

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e doveri, desideri e realtà e tutto era condizionato da lei. La prima sonora smentita ai suoi sospetti era servita afargli mettere di nuovo i piedi per terra. Si sentiva ora ingrado di riprendere il suo lavoro con maggiore serenità,senza farsi condizionare da una immagine della cui irre-altà cominciava a prendere coscienza: la Rina che avevafino ad allora inseguito era una sua creazione, era l’idea-lizzazione di un ricordo.Si riscosse. Stava sprecando del tempo prezioso. Ora do-veva concentrarsi su Ahmad e la faccenda delle armi.

XXI

Secondo le informazioni che il Bimbo aveva avuto dalMossad, Ahmad era un personaggio ben noto. Apparte-neva a un gruppo palestinese in rotta con Arafat, di im-pronta marxista, sospettato di tenere contatti anche conorganizzazioni terroristiche europee, specie tedesche.Gli israeliani tenevano a rimarcare che il contrasto erapiù di facciata che di sostanza e che comunque quelgruppo faceva parte dell’Organizzazione per la Liberazio-ne della Palestina, di cui Arafat era presidente.Il Bimbo era d’accordo: Arafat era un “chiavico”, un ter-rorista fottuto, e l’Italia doveva stare ben attenta ad ap-poggiarlo. Chi c’era dietro la strage di atleti israeliani al-le Olimpiadi di Monaco o quella all’aeroporto di Fiumici-no? Sempre Arafat! C’erano state accese discussioni tra lui e Guido quandoArafat era comparso alle Nazioni Unite brandendo in unamano il mitra e nell’altra un ramoscello di ulivo. Per ilBimbo quel gesto rimarcava tutta l’ambiguità del perso-

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naggio; per Guido era invece una svolta positiva e quelmitra voleva soltanto sottolineare simbolicamente all’opi-nione pubblica il diritto del popolo palestinese di difen-dersi e di non rinunciare alla lotta di liberazione.Di fronte agli atteggiamenti decisamente filo-sionisti delsuperiore, Guido finiva anche lui per polemizzare eschierarsi con i palestinesi, ma dentro di sé ammettevache era difficile tracciare una linea di demarcazione traragioni e torti così come tra terrorismo e lotte di libera-zione, specie nella questione arabo-israeliana, dove en-trambi i contendenti avevano tante ragioni da vendere etante colpe da farsi perdonare.Ahmad ci stava bene in Italia, anche se pensava semprealla sua gente ammassata nelle casupole dei campi pro-fughi, tra i viottoli polverosi e i rigagnoli di liquami, e in-sieme alla nostalgia provava quasi un senso di colpa peri vantaggi che quella nuova esistenza gli procurava.Quando era in Giordania, la famiglia godeva di un certobenessere, ma poi erano dovuti scappare, abbandonaretutto e rifugiarsi in Libano dove potevano contare sul-l’aiuto dei parenti. Anche se allora era poco più che unragazzo, si era distinto nella resistenza alla feroce repres-sione scatenata da re Hussein e aveva fatto una notevoleesperienza di guerriglia. Il Fronte ne era compiaciuto ene avrebbe tenuto conto al momento opportuno, anchein segno di riconoscenza per il sacrificio di Hani, il mag-giore dei suoi fratelli che era morto combattendo per lacausa.E il momento venne quando Ahmad, terminate le scuoleanche grazie agli aiuti dei parenti che avevano in Libanoun commercio di tessuti, aveva deciso di fare l’universi-tà. Il Fronte stabilì di dislocarlo in Italia, dove c’era mol-

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to da fare sul piano politico e serviva comunque un ele-mento fidato da mobilitare in caso di necessità. Il giova-ne aveva tutti i requisiti necessari: la fedeltà alla causa,l’intelligenza, la furbizia, la preparazione politica e milita-re per aver seguito nella valle della Bekaa corsi di indot-trinamento e di addestramento. Ma più di ogni altra cosapoteva vantare l’esperienza di combattente nel tragicosettembre nero giordano.L’occasione di impegnarlo in una operazione delicata eraalla fine arrivata: il Fronte, dopo incontri segreti avuti aParigi con il responsabile di una insospettabile associazio-ne culturale italo-francese, si era impegnato a fornire ar-mi all’Organizzazione e alla consorella tedesca. Il caricosarebbe arrivato dal Libano con la motonave “Amal” cheavrebbe sostato per una notte al largo di Venezia, in atte-sa che un capace motoscafo venisse a trasbordarlo in ter-raferma. Si trattava di due missili terra-aria, alcuni lancia-granate e bazooka, una trentina di Kalashnikov con rela-tivo munizionamento, tre casse di bombe a mano, un di-screto quantitativo di esplosivo Semtex e di detonatori. Il compito di Ahmad era quello di organizzare con gli ita-liani il trasbordo del carico dalla motonave e farlo poiproseguire con un furgone verso un luogo sicuro. Le in-tese erano che il carico dovesse essere diviso in tre par-ti: una agli italiani, una ai tedeschi, mentre la terza, checomprendeva i due missili, doveva essere tenuta dall’Or-ganizzazione a disposizione del Fronte.Ahmad sperava di essere stato mobilitato non soltanto perorganizzare il trasporto delle armi, ma anche per usarlecontro qualche obiettivo israeliano in Europa, magari unasinagoga o un aereo dell’El-Al, visto che c’erano anche imissili. Si era dunque messo alacremente al lavoro.

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Il Ragioniere viene svegliato bruscamente da uno schian-to e ha l’impressione che nella stanza abbia fatto irruzioneuna mandria di bufali. Poi si rende conto che non può es-sere così, perché i bufali non sarebbero mai riusciti a sali-re le scale. Lo stato di confusione dura pochi istanti e ap-pena mette a fuoco la situazione cade ancora di più nel pa-nico: è accaduto quello che temeva, la polizia li ha beccatie lui può anche rimetterci la pelle. Gli eventi e i pensieri siinseguono freneticamente: un fascio di luce, lui e Greta

che vengono scaraventati via dal letto e sbattuti per terraa faccia all’ingiù, energumeni in tuta scura col giubbottoantiproiettile e il volto coperto che li tengono schiacciatisul pavimento con le pistole puntate contro la testa, altrienergumeni che fanno volare materassi, coperte e cuscini.Greta guarda la sua pistola infilata in una ciabatta a po-chi centimetri da lei. L’energumeno che la tiene a bada sene accorge e sta per mollarle un calcio in testa col suopesante anfibio. Guido fa appena in tempo a bloccarlo.Non ci sono più rischi. La situazione è sotto controllo.Entrano allora il Bimbo e il conte Dracula che si ferma-no per un attimo a contemplare la scena con la spocchiadei generali vittoriosi sul campo di battaglia e si muovo-no poi con studiata solennità verso i due arrestati lan-ciando occhiate colme di sadico disprezzo per far inten-dere ancora meglio di avere in mano il loro destino e ildominio assoluto dei loro corpi. Entrano, subito dopo, altri tre o quattro uomini in bor-ghese che incominciano a frugare metodicamente in gi-ro. Saltano fuori pistole, due mitragliette, alcune bombea mano, passamontagna, parrucche, volantini, una mon-

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tagna di appunti riguardanti l’Organizzazione, schedatu-re di potenziali vittime e alcune mazzette di banconotechiaramente provenienti da rapine in banca.Greta è mezza nuda. Ha un bel corpo e il suo energume-no pensa bene di palparsi oscenamente tra le gambe difronte a lei e di dirle, lanciando occhiate di scherno ver-so il Ragioniere: – Ti piacerebbe eh…, altro che quellamezza sega.– Smettila o ti faccio rapporto – gli sibila Guido livido.Il Bimbo osserva divertito, poi prende da parte Guido:– Così ridai coraggio a queste due merde e mortifichi inostri ragazzi. Devono sentirsi persi! Ma che cosa ti fregade ‘sta zoccola. Chissà quanti ne ha presi…– Certi sistemi mi fanno schifo. Adesso faccio interveni-re la polizia femminile. La donna deve essere affidata aloro.Il Bimbo è furioso: – Eccolo il garantista. Perché? Loro leregole le rispettano? Ti ricordo che sono degli assassini.Hanno ammazzato un carabiniere l’altro ieri. Lo sai che tidico? Se ti togli dai coglioni è meglio.– E io ti ricordo che qui ci sei arrivato perché ti ci ho por-tato io.– Beh, non diamo spettacolo davanti ai nostri uomini. Iconti li facciamo dopo – taglia corto il Bimbo notandoche il personale tende le orecchie incuriosito. Poi rivoltoagli arrestati: – Volete dire almeno come vi chiamate?– Mi dichiaro prigioniero politico – trova la forza di pro-clamare il Ragioniere.– Ho capito. Tu hai bisogno di un po’ di… persuasione.Adesso ce ne andiamo a scambiare due chiacchiere in unposticino tranquillo – fa il Bimbo in tono grevemente iro-nico.

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– Capo, se permetti, con la signora vorrei parlare io… –salta su il Conte Dracula ammiccando alle spalle di Gui-do.I due arrestati vengono fatti vestire alla meglio sotto stret-to controllo, ammanettati dietro la schiena e bendati.Il Ragioniere trema e cerca di gridare quando lo trasci-nano per le scale, ma un violento pugno nello stomaco glifa mancare il fiato. Poi una grossa mano guantata gli tap-pa brutalmente la bocca e il naso fino quasi a soffocarlo.Sente l’urina inondargli i pantaloni e scorrere calda lun-go le gambe, mentre lo caricano su un furgone con i ve-tri oscurati. Greta appare molto più padrona di sé, quasi sprezzante.Il suo “Mi dichiaro prigioniero politico” non è un espe-diente difensivo, ma una barriera insormontabile tra lei el’antiguerriglia. Eppure Guido vorrebbe tentare di infran-gerla. Quando poco prima è intervenuto per evitare cheprendesse un calcio in testa, la ragazza lo ha fissato perun attimo e nel suo sguardo Guido ha intravisto un bar-lume se non di riconoscenza quanto meno di apprezza-mento, proprio come un soldato caduto prigioniero cheesige il rispetto delle convenzioni internazionali.La pistola che teneva a portata di mano infilata nella cia-batta è una Walther del periodo bellico, come quella cheil Suldà, il nonno della Rina, teneva nascosta nella vec-chia stufa.Vorrebbe starle accanto nel furgone dove la stanno rin-chiudendo per tentare da subito di aprire una piccolabreccia, evitandole più pesanti oltraggi fisici e morali, co-me se fosse la Rina, perché Greta e la Rina sono come lastessa persona. Ma il Conte Dracula si è già appiccicato alle costole del-

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la ragazza e c’è da giurare che non la mollerà, perché èuna preda che lo eccita.

Il Bimbo e il conte Dracula erano arrivati a sorpresa conventiquattrore di anticipo all’aeroporto Marco Polo su unaereo messo a disposizione dall’Aeronautica Militare, in-sieme agli uomini dell’unità speciale. Erano piombati nel piazzale della caserma con un corteodi auto, accolti con tutti gli onori dallo stesso questore.Se l’operazione fosse andata bene sarebbe stata ancheper lui l’occasione per una promozione e tutti sapevanoquale influenza avesse Il Bimbo sui capi del dipartimen-to della pubblica sicurezza tanto nell’esaltare un collega,quanto nello stroncarlo. – Vi aspettavo per domani. Come mai avete anticipato? –aveva esordito Guido quando si erano radunati nell’ufficio.– Ti sconvolge la cosa? – aveva replicato con durezza ilBimbo – Abbiamo deciso di anticipare l’operazione a do-mani mattina. Punto e basta.Da Roma erano sopraggiunti nel frattempo numerosi al-tri poliziotti con automezzi di ogni tipo, compresa lafiammante Alfetta metallizzata riservata al Bimbo. Guidonon riusciva a capire a che cosa servisse tutta quella for-za. Aveva curiosato un po’ con il Ruspante e Snoopy, manessuno sapeva niente di preciso, se non che il questoree il Bimbo avevano deciso di accompagnare l’operazioneprincipale con una serie di perquisizioni e di fermi a ca-rico di simpatizzanti dell’Organizzazione.C’era stata una cena in uno dei ristoranti migliori dellazona, ma Guido aveva trovato la scusa di non sentirsi be-ne di stomaco. Dopotutto non era nemmeno una scusa.

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Già prima dell’arrivo di Greta e il Ragioniere, nelle ca-mere di sicurezza della caserma sono stati portati Alfon-so, il Nane, suo fratello il sindacalista e tre giovani pale-stinesi, tutti in isolamento e guardati a vista.Guido non crede ai propri occhi, pensa che si tratti di unbrutto sogno. Tra poco si sarebbe svegliato e avrebbe co-statato che si era trattato solo di un incubo. Non riesce aconnettere. Non può ammettere che i suoi colleghi sianostati così miserabili da nascondergli che avevano decisodi andare a prendere anche Alfonso e gli altri. Ma poi, co-me avrebbero fatto a individuare Nane e suo fratello selui non ne aveva mai parlato con nessuno? E i tre palesti-nesi che cosa c’entrano? Forse sono legati ad Ahmad, maperché lui non c’è?Si precipita nella stanza dove si è sistemato il Bimbo:– Mi spieghi che cosa sta succedendo? – gli grida fissan-dolo con gli occhi fuori dalle orbite e i pugni serrati.– C’è qualcosa che non va? – replica il Bimbo simulandomeraviglia in modo provocatoriamente esagerato. – Sia-mo andati a beccare qualche altro pezzo di merda. Tuttoqui.– Ma ti rendi conto dei guai che state combinando? Sta-te stroncando un’indagine che poteva portare molto piùin là. Mi dici che cosa ci fai adesso con questi fermati?– Beh, incominciamo a dire che gli elementi per incastra-re Alfonso me li hai dati tu stesso. Ci sono le relazioni deituoi pedinatori e le fotografie che dimostrano il suo col-legamento con il Ragioniere, gli appuntamenti strategi-ci con modalità che solo i militanti dell’Organizzazionepossono conoscere. Devo farti i miei complimenti; hai la-vorato bene. Quanto ai due fratelli – il sindacalista e ilcontrabbandiere – se permetti, ci sono arrivato anch’io.

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Se avessi dovuto aspettare che ti decidessi a dirmelo tu,sarei stato fresco! È bastato mettere sotto controllo unpaio di telefoni: quello di Alfonso prima di tutto e poiquello del sindacalista. Peccato che ci ha detto un po’male e non siamo riusciti a beccare subito il palestinesepiù importante, quell’Ahmad famoso. Dev’essergli suc-cesso un incidente, purtroppo – fa il Bimbo sospirando eassumendo un’espressione costernata, – ma abbiamoportato i suoi amici che ci spiegheranno tutto.Il Bimbo gongola e gode nel vedere Guido stravolto. Vuo-le stravincere: – Amico mio, tu credevi veramente di farmi fesso? Ma do-ve volevi arrivare? Forse è il caso che lo spieghi anche aimagistrati, così possiamo capire tutti meglio da che par-te stai.È come se qualcuno con un telecomando avesse fattobrillare dell’esplosivo dentro di lui. La testa viene investi-ta dall’onda d’urto e gli occhi folgorati da potenti flashsparati a brevissima distanza.La scrivania vola addosso al Bimbo che cade pesante-mente dalla poltrona e finisce a terra incastrato tra imobili. Ha il volto paonazzo e grida come un’aquila,mentre cerca di liberarsi da quel groviglio e di rimetter-si in piedi.Nella stanza irrompono Mal e Fofò, che sostavano fuoridalla porta a disposizione del capo. Bloccano a fatica Gui-do mentre sta per partire di nuovo all’attacco e si affret-tano poi a soccorrere con trepidazione il superiore.– Ti sei fottuto con le tue mani, stronzo! – sibila con vo-ce rotta, ansimando e spolverandosi la giacca con le ma-ni. Rivoli di sudore gli scendono dalle tempie.Guido è pallidissimo e lo guarda con odio. Rimane immo-

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bile per qualche secondo al centro della stanza e poi si al-lontana sbattendo la porta.

XXIII

Ahmad non ha trascorso la notte nel monolocale che di-vide con altri tre “fratelli”. La Elvira se l’è portato nel suoconfortevole appartamentino. È affamata di sesso e quelbel ragazzo bruno ed esotico, che ha agganciato qualchegiorno prima, sembra avere le caratteristiche per stra-pazzarla tutta la notte come lei desidera. Altro che il pap-pamolla del fidanzato che pensa solo a bere e a guardarela televisione! Nemmeno si era accorto qualche settima-na prima che, mentre cenavano in pizzeria, lei non riusci-va a staccare gli occhi dal palestinese. Ahmad si sveglia presto perché, come fa quasi tutte lemattine, deve andare all’università a Padova. Scivola viadal letto sfilandosi delicatamente da sotto la coscia e ilbraccio di Elvira, che dorme a bocca aperta. Quando escedal bagno, la trova sveglia, distesa su un fianco, nuda. Poilei si mette seduta sulla sponda e lo abbraccia alla vita.Vorrebbe ricominciare, ma Ahmad non ne può più. Primadi lasciarla deve soggiacere a un lungo, vorace bacio epromettere che la chiamerà in serata.Il garage pubblico dove tiene la sua NSU Prinz di secon-da mano è vicino, a metà strada tra la sua abitazione equella dell’Elvira.Il motorino di avviamento gracchia come di consueto, fa-cendo ancheggiare la vettura, che si avvia penosamentecome un asino con un fardello troppo pesante. La benzi-na è quasi al minimo e Ahmad si fruga le tasche alla ri-

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cerca delle mille lire per il rifornimento. Mentre fa mano-vra per uscire dal garage ripensa alla nottata con Elvira.Safiya proverebbe un gran dispiacere se venisse a cono-scenza di certe cose e non lo perdonerebbe. Si sentonospesso per telefono e si scrivono. Sarà lei sua moglie. Famanovra per uscire dal garage e imbocca accelerando laripida rampa, la supera e si immette sulla strada dopoaver dato un’occhiata a sinistra per vedere se soprag-giungono altre auto. Fa appena in tempo a scorgere inlontananza davanti al palazzo dove abita un paio di mac-chine della polizia, quando accade qualcosa di assoluta-mente incomprensibile: un lampo e un boato terrificante,forse l’esplosione delle condutture del gas, oppure loscoppio del serbatoio della benzina. La macchina deveessere distrutta. Che guaio! Per fortuna, gli sembra dinon aver riportato lesioni serie nonostante la botta. Oraperò deve uscire in qualche modo. Oh mamma, le gambenon le sente più. Non gli fanno male, semplicemente nonle sente più. Prova una gran spossatezza e ha dei brivididi freddo. Chissà perché gli vengono in mente i versettidel Corano che gli facevano ripetere da bambino. Ora rie-sce a scorgere qualcosa in mezzo al fumo. Oh, le suegambe! Che cosa è successo alle sue gambe? Vede un am-masso di carne sanguinolenta da cui spuntano scheggegiallastre. Oh Allah clemente e misericordioso, sono lesue ossa. Ora è chiaro: gli hanno trappolato la macchina!Non pensava che quei maledetti potessero arrivare fin lì.Non avverte dolore, solo un gran freddo e delle fitte al to-race. Deve avvertire subito i suoi. Deve avvertire anche ilFronte.Qualcuno sta armeggiando intorno a lui. Non riesce a ve-dere bene. La vista gli si sta appannando. Ma come ha

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fatto Safiya ad arrivare così presto, perché rimane lì im-palata e non lo soccorre? È tutto così strano. C’è ancheHani, suo fratello maggiore. Non lo ricordava così alto ebello. “Hani, guarda le mie povere gambe”. E Hani gli ar-ruffa i capelli con le mani, come da bambino e sorride:“Ahmad, fratello mio, non avere paura. Ti ricordi comemi avevano ridotto? Guardami ora. Tra poco sarà così an-che per te”.

XXIV

Il Ragioniere, dopo un giorno e una notte di interroga-tori da parte del Bimbo e dei suoi specialisti, è crollato.Si è lasciato andare e ha promesso agli sbirri di collabo-rare.Li porterà l’indomani in un luogo dove dovrebbe incon-trare Marcel, un insospettabile al centro di trame inter-nazionali.Gli hanno portato del caffellatte con del pane. Fa fatica amasticare e a deglutire. Ha bisogno solo di riflettere. Lohanno fatto distendere su una branda con le braccia di-stese lungo i fianchi e i polsi incatenati ai longheroni del-la rete metallica.Il Bimbo gli ha garantito che la sua collaborazione, oltrea riscattarlo sotto il profilo morale, comporterà notevolibenefici: la famiglia verrà economicamente assistita etrasferita subito in un’altra città per sottrarla alle vendet-te dell’Organizzazione; anche i magistrati lo guarderannocon occhio di riguardo; gli sarà evitato il carcere di mas-sima sicurezza e verrà collocato in un istituto di penatranquillo, il più possibile vicino alla famiglia. Si tratta di

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stare in carcere qualche annetto e poi la vita ricomincia.Tutte le disgrazie non vengono per nuocere!Il Ragioniere è confuso e spossato. Gli sembra di flut-tuare. Quella prospettiva inattesa lo spiazza. L’idea diuscire dal vicolo cieco in cui è finito gli pare un’ancora disalvezza.Non odia più il Bimbo per quello che è e per quanto lo hafatto patire. Ora gli è grato per l’umanità che sta dimo-strando.Dopo tanto tempo prova un senso di rimorso per la mo-glie e il figlio che ha abbandonati quando si è dato allaclandestinità per inseguire un sogno che ora gli pare fol-le. L’hanno portato nella parte più interna della caserma, inun locale angusto che doveva essere stato la guardioladella vecchia officina ora in disuso, per condurre l’inter-rogatorio lontano da orecchie e occhi indiscreti.Cade in un sonno profondo e quando si risveglia per lefitte che sente alle braccia ha l’impressione di ripiomba-re in un incubo ancora peggiore di quelli che lo hanno in-calzato mentre dormiva. Adesso però ha la mente più lu-cida, non avverte più lo smarrimento di prima.La consapevolezza del tradimento gli si para davanti co-me una immagine agghiacciante. Prova disgusto verso sestesso. Come può rinnegare una scelta di vita che ha fat-to con tanta determinazione, fino al punto da convincer-si e da convincere i compagni che sarebbe stato capaceanche di farsi ammazzare pur di non tradire quegli idea-li? Balle! È bastato poco per far crollare la sua fede rivo-luzionaria e per fargli riscoprire i doveri familiari. Non hadiritto nemmeno di riappropriarsi del ruolo di padre difamiglia. È semplicemente un fallito totale.

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Annaspa, gli manca il respiro. Poi uno spiraglio. Forse c’èil sistema di riparare e di uscire da questa situazione. Èvero: ha dato all’antiguerriglia una informazione che po-trebbe arrecare un danno gravissimo all’Organizzazione,aprire uno squarcio che nemmeno lui sa dove possa por-tare, ma può riparare. Basterebbe far arrivare ai compa-gni la notizia del suo arresto. Gli sbirri non hanno fattotrapelare nulla dell’operazione, allettati dalle prospetti-ve, che lui aveva fatto balenare, di arrivare al livello su-periore dell’Organizzazione, ai grandi manovratori chetessono la tela del terrorismo internazionale. Quattro agenti in divisa stazionano davanti alla porta del-la guardiola. Di tanto in tanto gli lanciano un’occhiata incagnesco, mentre parlottano e scherzano tra loro. Sistanno annoiando. Li osserva e si convince che ce la farà.– Agente, devo andare in bagno. – Poi vedendo lo sguar-do perplesso del più anziano: – Devo solo pisciare.I quattro poliziotti si consultano scambiandosi tacite oc-chiate. Dentro la guardiola c’è un cesso, separato dal re-sto dell’ambiente da un leggero tramezzo. Sembranoconvinti che non ci siano rischi. Sono in quattro e ciascu-no di loro sarebbe in grado da solo di stritolarlo. Quando gli liberano le braccia, rimane seduto sulla spon-da della branda a massaggiarsi i polsi doloranti e lividi.– Allora, ti muovi o no?– Mi gira la testa – fa il Ragioniere alzandosi lentamen-te e dirigendosi traballante verso il cesso. Poi, mentre sisbottona i pantaloni, si gira con fare imbarazzato versol’agente che gli sta alle spalle.– Hai paura che ti guardo il pistolino? – sghignazza – Nonsono mica un cula come te!Davanti a lui c’è una specchiera sporca e spaccata. È

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questione di un attimo. Parte con una violenta testata. Lospecchio cade in pezzi e mentre sul volto appaiono le pri-me gocce di sangue lui ha già afferrato una scheggia conla quale infierisce sul suo polso. Lo squarcio è orribile. Ilsangue zampilla subito a fiotti. Gli agenti gli sono addos-so furibondi. Quando lo fanno accorrere lì, il Bimbo è fuori di sé. Ca-pisce che il suo piano sta miseramente fallendo. Chiamad’urgenza il medico della caserma, ma la ferita è troppograve. Non può che bloccare alla meglio l’emorragia. Nonpuò né è in grado di suturare una ferita così profonda,che deve aver interessato dei vasi importanti. Se non vo-gliono trovarsi un morto in casa è necessario spedire su-bito l’arrestato al pronto soccorso dell’ospedale.Il Bimbo bestemmia. Ormai è fatta: sa benissimo che nonappena l’ambulanza arriverà al pronto soccorso i cronistidi nera piomberanno lì come falchi. Quello stramaledet-to verme se l’è giocato: con la sua faccia da moribondoavrebbe sussurrato al primo medico o infermiere che glisi fosse avvicinato quelle tre micidiali parole: sono prigio-niero politico. E di lì a poco l’Organizzazione avrebbe sa-puto tutto e adottato ogni possibile contromisura.

XXV

Gli amici del Nane e la moglie Dorina, incinta da poco,avevano aspettato a lungo davanti alle carceri in attesache portassero gli arrestati. Poi se n’erano andati, perchéarrivavano in massa giornalisti e fotografi. Alvise perònon c’era.Nel telegiornale avevano detto che l’antiterrorismo era

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riuscito a neutralizzare una cellula di una organizzazioneterroristica internazionale appena in tempo, cioè pocoprima che passasse all’azione assassinando uomini di go-verno e attaccando obiettivi istituzionali. Il Nane, il fra-tello sindacalista e Alfonso erano pezzi importanti del-l’Organizzazione, in collegamento con terroristi tedeschi,francesi e palestinesi. Anche tre di questi ultimi eranostati arrestati, ma il più pericoloso era morto per l’esplo-sione accidentale di un ordigno che stava trasportandosulla sua autovettura. Erano in Italia da diverso tempo esembravano innocui studenti universitari.Il Bimbo, nella lunga intervista che gli era stata dedicatanel telegiornale, aveva sottolineato l’altissima professio-nalità degli investigatori dell’antiterrorismo e degli uomi-ni dell’unità speciale di intervento, che avevano condot-to un’operazione molto rischiosa senza spargimento disangue e nel pieno rispetto dei diritti degli arrestati. Ave-va sostenuto che le circostanze in cui era morto Ahmaderano la riprova della grande pericolosità e dei collega-menti internazionali dell’Organizzazione. Richiesto dal-l’intervistatore a chi fosse destinato l’ordigno che Ahmadstava trasportando, il Bimbo, facendo la faccia di chi lasa lunga, aveva detto che purtroppo il segreto istruttoriogli impediva di svelare altri particolari, ma che si trattavain ogni caso di un obiettivo di grande rilevanza nazionalee internazionale.Il servizio era stato completato dalle immagini della vet-tura del palestinese dilaniata dall’esplosione, delle chiaz-ze di sangue da lui lasciate sull’asfalto, dei numerosi foriprodotti sulle macchine e sulle vetrine circostanti dallebiglie di acciaio che componevano l’ordigno micidiale.Della vittima era comparsa una foto tratta dal permesso

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di soggiorno; degli altri, immagini girate nel cortile dellacaserma, dove il Bimbo aveva organizzato per i suoi ami-ci giornalisti venuti da Roma una sceneggiata mentre ve-nivano caricati sui furgoni blindati da poliziotti dall’ariaspavalda come se stessero per essere portati in carcere:Alfonso impassibile, il Nane distrutto e incredulo, il fra-tello che tentava di nascondersi il volto con la giacca pog-giata tra le braccia ammanettate, contrastato sadicamen-te da uno degli agenti; i tre palestinesi simili ad automi.

L’avevano sentito abbaiare disperatamente nel cuore del-la notte. Poi i primi ad alzarsi lo avevano visto sporgersidal finestrino del bagno, con la testa infilata tra le gratefin quasi a strangolarsi e finalmente avevano capito cheera il caso di chiamare il 113. I pompieri erano entrati dalla finestra dell’abbaino, din-nanzi alla quale Alvise rimaneva spesso per ore a vagarecon lo sguardo al cielo attraversato dai gabbiani, sulle ac-que della laguna e sui profili della città: le guglie dei cam-panili, le cupole fastose, lo sfavillare degli ori della puntadella Salute, i merletti di palazzo Ducale, i tetti, gli intimirecessi delle mansarde, la lunga striscia verde pastello deigiardini di Sant’Elena, fino alle propaggini dell’arsenale. Quando nella sua vita era entrata la Dany, ci stavano in-sieme nell’abbaino, stretti su una panchetta di legno cheAlvise aveva sistemato davanti alla finestra, impegnati inun dialogo fitto: pensieri, sensazioni e sogni che non eranecessario tradurre in parole. Satana, mugolando a testa bassa e lanciando occhiateche strappavano l’anima, li condusse verso la camera daletto.Alvise era seduto, riverso sullo scrittoio, con la testa im-

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mersa in una chiazza di sangue già in parte rappreso, ilbraccio destro penzoloni. In terra una pistola; sul tavolo lefoto del padre e della Dany, un koala di peluche che lei gliaveva regalato. E poi due biglietti con la sua scrittura disor-dinata: – Dany, perdonami. Mi hai fatto toccare il cielo,

ma anche a te io ho fatto solo del male. Prega il Nane

di perdonarmi anche lui. Prenditi cura di Satana. – A

mia madre. Si vede che era destino. Faccio la stessa fi-

ne di papà. Ho voluto tanto bene a tutti e due ed ero fe-

lice quando vi vedevo insieme, come quella volta al ca-

son del Bepi. Ti ricordi? Stai vicina alla Dany.

XXVI

Contro Guido avevano fatto barriera. Gli ordini che ilBimbo aveva impartito alla truppa erano chiari: quel pez-zo di merda doveva essere tagliato fuori dal resto dell’in-dagine e non doveva assolutamente avere contatti con gliarrestati, che erano rimasti nella caserma sotto il control-lo della polizia. Il Bimbo infatti, volgendo a suo favorel’incidente del Ragioniere, era riuscito a convincere imagistrati che ragioni di sicurezza consigliavano di nonmandare subito gli arrestati nelle carceri mandamentali.Le attenzioni dei colleghi di Guido erano ovviamente tut-te concentrate su Greta, Alfonso, Nane e suo fratello nel-la speranza di indurli a “cantare” con le buone o con lecattive. Per la verità, i primi interrogatori tosti li avevanoriservati ai tre palestinesi, ma poi avevano mollato, di-cendo che non c’entravano niente né con l’Organizzazio-ne, né con l’attività di Ahmad, anche se dormivano nellostesso appartamento. Secondo loro erano soltanto tre

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coglioni, che Ahmad si era scelto per darsi una copertu-ra da studente. Stranamente gli israeliani, prima così so-lerti e collaborativi, da quando il giovane era saltato inaria non si erano fatti più né vedere né sentire, ma anchequesto era stato interpretato dal Bimbo come la provache quei tre beduini non contavano un cazzo. O almenoquesta era la versione che voleva accreditare. L’attenzione su di loro da parte degli scagnozzi del Bim-

bo si era comunque allentata e i tre palestinesi sembra-vano ormai destinati a farsi un paio d’anni di galera pri-ma che qualche magistrato si accorgesse che non esiste-va nulla a loro carico e si decidesse a scarcerarli quandotutti avevano dimenticato che gli inquirenti li avevanodefiniti pericolosissimi terroristi internazionali. La pena per la morte di Alvise aveva scavato un solco an-cora più profondo tra Guido e i colleghi che avevano pre-so in mano l’inchiesta. Erano per lui giorni di profondosconforto, durante i quali tendeva a isolarsi nonostante ilRuspante e Snoopy facessero di tutto per tirarlo su. Poiera intervenuto anche Nicola.Nicola era l’ultimo arrivato alla “squadra politica” dellaquestura; un ragazzone atletico, ma dai tratti fini e losguardo acuto e allo stesso tempo tenero che denotavasensibilità e intelligenza. Veniva da Trani ed era ancorafresco di studi e di servizio militare. Da ragazzo sveglioaveva subito capito come stavano le cose e per questo al-l’istintiva simpatia per Guido si era poi aggiunta ammira-zione per la sua competenza e, dopo la rottura con ilBimbo, una convinta solidarietà. Stava dalla sua parte.A Nicola era stato affidato il compito di esaminare quelliche in gergo si chiamano i reperti e cioè le cose seque-strate nel covo: armi, documenti di identità falsificati,

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targhe contraffatte, carte di circolazione di autovetture,volantini, scritti e agendine. Si era buttato a capofitto inquesto lavoro, con il desiderio di tenerne al corrente Gui-do nella convinzione che solo lui sarebbe stato in gradodi cogliere collegamenti e spunti per portare avanti l’in-dagine e solo lui avrebbe potuto dargli indicazioni su co-me condurre la sua analisi.Nonostante gli ordini e le minacce del Bimbo, Nicola te-neva dunque riservatamente al corrente Guido dei suoiprogressi.– Quelle che mi incuriosiscono di più sono le agendine. Inomi sono chiaramente di battaglia o di copertura e i nu-meri di telefono in codice. Così come sono scritti o nontrovano riscontro o portano fuori strada. Allora vuol direche si riferiscono tutti a militanti dell’organizzazione o asimpatizzanti. Oppure che contengono dati che in chiaropotrebbero consentire l’identificazione di chi possiedel’agendina magari perché si riferiscono ai suoi familiari oad altre persone utili a ricostruire la sua storia. Se sco-priamo presto la chiave possiamo dare un’altra bella maz-zata –, concluse Nicola con la sua decisa inflessione pu-gliese.– A chi li avete dati da decrittare? – chiese Guido.– Ci sto provando io con Carmen.– Con tua moglie?!– Lei è laureata in matematica. Lo sai? Centodieci e lode.E adesso non tiene che fare, perché il provveditorato an-cora non le ha dato la cattedra.– Ma, ti prego, lasciate stare. Bisogna darli al servizio se-greto, alle barbe finte. Ci sono quelli della marina milita-re. È il loro mestiere.– Tu dici? – concluse Nicola arrossendo.

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– Ma certo. Anzi, approfitta per mollargli anche le agen-dine di Ahmad che sono scritte in arabo. E anche quelledegli altri tre palestinesi. Non si sa mai. Chissà che dal-l’incrocio delle agendine non venga fuori qualche sorpre-sa.Nicola si grattò la testa: – Secondo te, lo possiamo fare dinostra iniziativa noi della questura o dovremmo passaretutto al Bimbo?– Se passate la mano al Bimbo vi castrate da soli. Deviconvincere il tuo capo ad agire direttamente. E subito.Del resto responsabili dell’inchiesta davanti alla magi-stratura siete voi.– Beh, tu l’hai visto il mio capo. Mi sembra che si fotta dipaura davanti al Bimbo – commentò Nicola perplesso.– E allora gioca d’anticipo. Va’ da quel sostituto giovaneche sta lavorando al caso, il dottor Ferri, e fatti autorizza-re ad avvalerti dei servizi segreti per decrittare i numeri.– Vedi l’esperienza… Io non ci avrei mai pensato.– Mi vuoi prendere per il culo, eh! – disse Guido sorriden-do e mollandogli una pacca sul collo.Rimasero per un po’ in silenzio. Poi Nicola si alzò perprendere qualcosa nell’armadio dei reperti.– Questa è l’agendina di Greta. Ci sono segnati gli appun-tamenti strategici e altre annotazioni che fanno quasisempre riferimento a “N”, come se fosse un capo. Se poivai alla lettera N della rubrica telefonica – aggiunse mo-strando a Guido l’agendina – trovi come primo nome Na-

dia e accanto un numero telefonico di molte cifre, evi-dentemente straniero. Nella riga sotto, come vedi, c’eraun altro numero telefonico riferito sempre a Nadia cheè stato però accuratamente cancellato a penna.Guido osservò la macchia scura in controluce:

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– Se la scientifica fa le cose perbene, viene fuori quelloche c’è scritto sotto. La cancellatura è stata fatta con uninchiostro diverso. Dovrebbe essere più facile dissolverlae far riaffiorare il numero.– Maestro, stasera t’invito a casa mia. Carmen fa le orec-chiette con le cime di rapa.

XXVII

Il dottor Sabato Festa del gabinetto regionale di poliziascientifica, soprannominato Bialetti, ricordava in effettimolto da vicino l’omino baffuto e serioso della famosacaffettiera.Quando infilò la testa nell’ufficio di Nicola e rimase peralcuni istanti a fissare con i suoi occhietti da faina lui eGuido, si capiva chiaramente che aveva un asso nella ma-nica e sbottava dalla voglia di calarlo. Ma c’era tutto un rituale da osservare.– Carissimi, come va la vita? Vi vedo pensierosi.– Ciao Sabatino, quali belle novità ci porti? Ci vieni a di-re che con i tuoi acidi hai bruciato l’agendina che abbia-mo fatto l’errore di affidarti? – chiese scherzosamenteNicola.– Beh, perché ti meravigli? Non dite sempre che la scien-tifica non è capace di combinare un cazzo?– Speravo che almeno una volta…– E hai fatto bene a sperare! – gridò trionfante il dottorFesta con un acuto imprevedibile, sbattendo sulla scriva-nia una grossa cartella di pelle ed estraendone con modibruschi un fascicoletto grigio con le intestazioni del suoufficio. – Guardate qui, sapientoni.

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Dopo una lunga premessa con la descrizione del repertoe dei procedimenti chimici usati per raggiungere lo sco-po, il fascicolo conteneva una sequenza di fotografie inbianco e nero, l’ultima delle quali mostrava il risultatoconseguito: la cancellatura era ridotta a un alone da cuitraspariva abbastanza nitidamente il numero che era sta-to cancellato.Si trattava di un numero criptato come tutti gli altri, madi nove cifre.– Se c’è anche il prefisso, come è probabile, – disse Guidoragionando tra sé e sé – potrebbe essere di una piccola cit-tà di provincia, dove i numeri sono ancora di cinque cifre.Ma a che punto sono le barbe finte con la decrittazione?– Poco fa mi hanno telefonato. Dovrebbero aver conclu-so e hanno promesso che in giornata ci portano i risulta-ti – rispose Nicola.– Speriamo bene… – concluse Guido.– Che cosa vuoi dire?– Sai, loro non è che si limitano a fare quello che gli ab-biamo chiesto. Cercheranno senz’altro di ficcare il nasoin questo affare, soprattutto perché l’agendina e la rubri-ca di Ahmad e dei palestinesi possono portare a informa-zioni utili ai loro impicci.– Cioè? – incalzò incuriosito Nicola.– I loro fini possono non coincidere con i nostri.– O Madonna, mica proteggeranno i terroristi! – esclamòprovocatoriamente Nicola ridendo.– Non fare l’ingenuo. Voglio dire che per difendere quel-li che loro ritengono i nostri interessi nazionali, potreb-bero per esempio utilizzare le nostre informazioni comemerce di scambio con gli israeliani o con gli arabi. Biso-gna tenere conto poi che una parte degli spioni è filo-

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israeliana, ma altri sono filo-palestinesi. Insomma, po-trebbero nasconderci delle cose o usarle per i loro fini.Per loro l’arresto di un terrorista può diventare seconda-rio rispetto ad altre esigenze di difesa.– C’è da sperare che facciano scelte oculate. Non so se imilitari…– Lascia stare Nicola, se no rischi di passare anche tu persovversivo. E poi il discorso diventerebbe troppo compli-cato – concluse Guido.

Le barbe finte non avevano dovuto faticare un granchéper trovare la chiave. L’artificio adottato da Greta era ab-bastanza semplice: aveva aumentato di una progressionefissa di unità le prime tre cifre di ciascun numero, men-tre per le restanti l’operazione era stata inversa, cioè disottrazione. Per verificare l’esattezza della loro ipotesi, iservizi segreti dicevano di aver cercato i riscontri ai pre-fissi telefonici di ciascuno dei numeri annotati: mentreprima non avevano alcun senso, una volta decrittati ri-spondevano perfettamente a quelli della rete nazionale einternazionale. La chiave era racchiusa in una specie di formuletta cheera facilissimo applicare e trattenere a mente.

Non appena decrittato il numero cancellato da Greta,Guido trasalì. Il prefisso lo portava lì dove non avrebbevoluto. Cercò di stare calmo e di ragionare: poteva esse-re una semplice coincidenza assolutamente irrilevante.Un prefisso dopo tutto non significava nulla, perché po-teva associarsi a decine di migliaia di numeri telefonici.Perché proprio a quello?– Cos’hai, Guido? Ti vedo strano – chiese Nicola.

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– ‘Sto numero mi ricorda qualcosa. Ma posso pure sba-gliarmi. Qui ci vuole il Ruspante che segna tutto. Anche il Ruspante trasalì a suo modo davanti a quel nu-mero di telefono e cioè fece una smorfia strana con labocca inarcando contemporaneamente le sopracciglia.Poi, riconquistata la necessaria freddezza, tirò fuori dal-la tasca della giacca l’inseparabile mucchietto di carte eincominciò a esaminarle meticolosamente mormorando:– Calma e gesso.Dopo qualche minuto si bloccò su un foglietto e guardòfisso Guido:– Capo, abbiamo avuto la stessa idea. È il telefono diOriele Boni, la collega della famosa Rina.– Di chi? – chiese incuriosito Nicola. Poi, accortosi cheGuido stava fulminando con lo sguardo il Ruspante, sog-giunse subito con disagio: – Non è che lo voglio sapereper forza. Se non me lo potete dire, io non è che me laprendo a male.– Scusami Nicola, – reagì Guido chiaramente in imbaraz-zo – è una storia un po’ lunga da raccontare, che mi coin-volge anche sotto il profilo personale.Le sorprese non erano finite: l’altro numero che figuravaaccanto al nome Nadia era con prefisso internazionalesiriano. Su di esso, come su altre utenze internazionali,gli spioni non si erano limitati al lavoro di decrittazione,ma avevano fatto anche delle verifiche. Secondo i loroaccertamenti, si trattava di un numero dell’azienda deitelefoni di Stato di Damasco, forse semplicemente di unacabina pubblica.L’esame delle agendine proseguiva ora febbrilmente econ metodo. L’ufficio di Nicola era diventato una cameraa gas con il contributo determinante delle Nazionali del

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Ruspante. Decisero di prendere come base la rubrica diGreta e di confrontarla con quelle degli altri arrestati edi Ahmad, che gli spioni avevano trascritto dall’arabo.Guido, sollecitato da una specie di premonizione, si get-tò su quest’ultima. Trovò ben presto la conferma ai suoinuovi sospetti: lo stesso numero di Damasco che figura-va nella rubrica di Greta sotto il nome Nadia comparivaanche in quella di Ahmad accanto al nome Aisha. Nadia e Aisha dunque dovevano essere nomi di batta-glia usati dalla stessa persona. Se a questi elementi si ag-giungeva l’altro e cioè che nella rubrica di Greta era sta-to segnato a suo tempo come recapito di Nadia il telefo-no della Boni, era da ritenere molto probabile che la don-na del mistero fosse la Rina.Guido sentiva gravare su di sé lo sguardo inquisitore e ladisapprovazione del Ruspante e per la prima volta nonprovò rancore. Prese serenamente atto che il Ruspante

era il suo grillo parlante. E adesso ci si aggiungeva ancheNicola. Come poteva seguitare a fare il misterioso condue soggetti di quel genere, che mai l’avrebbero tradito,che ricambiavano i suoi silenzi e la sua scontrosità conuna devozione rara?E poi non ce la faceva più a tenersi tutto dentro. Era ar-rivato il momento di confidarsi, di trovare un aiuto e unconforto su una questione che aveva assunto contornismisurati.In quel labirinto ossessivo, l’immagine della Rina, che luisi ostinava a inseguire e a vagheggiare, si deformavagrottescamente come una bambola di cera lambita da va-pori caldi, per assumere poi le sembianze gelide ed estra-nee di un cadavere in disfacimento.Che cosa significava quel numero siriano? Degli spioni

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non c’era da fidarsi: non era possibile che fosse quello diuna cabina telefonica. Anche Nicola pensava che fosseuna risposta di comodo data dai Servizi segreti siriani eaccettata passivamente dall’intelligence italiana per nonguastare i rapporti e turbare chissà quali equilibri.Guido, Nicola e il Ruspante si scambiarono un’occhiataeloquente: si stava aprendo uno spiraglio che poteva por-tare a fare luce sulla vera natura dell’Organizzazione.

XXVIII

All’aeroporto di Damasco era ad attenderli una macchinadelle “barbe finte” italiane. Dopo aver cercato di scorag-giare in tutti i modi la missione, avevano preferito far buonviso a cattiva sorte assicurando che avrebbero assistito,per quanto possibile, Guido e Nicola nelle loro indagini. Anche a Roma le resistenze alla loro missione erano sta-te forti, con argomenti che oscillavano tra il richiamo du-ro e il compatimento, come si fa con i ragazzini quandonon capiscono che si stanno cacciando in mezzo ai guai.Ma alla fine il grande capo aveva dovuto cedere perché,come commentava astiosamente il Bimbo, a dare unamano a quei due rompicoglioni ci si era messo anche ildottor Ferri, il giovane sostituto procuratore, che, inva-sato peggio di loro, riponeva grande fiducia in Guido eNicola.Il magistrato aveva in mano non solo l’inchiesta sull’inte-ra operazione ma anche uno stralcio, un fottutissimostralcio aperto in seguito alle denunce per maltrattamen-ti e torture presentate dagli avvocati del Ragioniere, diGreta e di Alfonso. E la faccenda dava non poco fastidio

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al Bimbo e ai suoi superiori, non perché temessero chele denunce avrebbero potuto trovare un qualche riscon-tro, ma solo per i prevedibili attacchi agli uomini dell’an-titerrorismo da parte dei molti “garantisti del… piffero”che figuravano tra le fila dei partiti di opposizione e daparte della stampa d’area.Quel canchero del “compagno Ferri” – così ormai venivachiamato il magistrato dal Bimbo e dai suoi fidi – invecedi stoppare subito certe smanie con una bella incrimina-zione per calunnia a carico dei denuncianti, pareva ci go-desse a tenere aperto il fascicolo processuale e a far ca-pire che l’avvio di una vera e propria inchiesta era inevi-tabile, anzi doveroso.– Signori miei, – andava ripetendo il Bimbo in tutti gliambienti che contano – adesso potete capire perché ètanto difficile combattere il terrorismo in questo Paese.Ma io vi giuro che se uno dei miei uomini dovesse esserechiamato da quel signorino a rispondere di certe infamie,io armo uno di quei casini… Poi vedremo chi è dalla par-te nostra e chi appoggia invece i terroristi.E si affannava a spiegare che “il compagno Ferri” nonaveva capito niente. Il denunciare torture faceva parte diuna strategia ben precisa, concordata preventivamentedai militanti dell’Organizzazione con i loro legali, per evi-tare che qualcuno, una volta catturato e messo di frontealle proprie responsabilità, vuotasse il sacco durante gliinterrogatori. Era il tentativo estremo di impedire allapolizia di ricondurre alla ragione degli individui in fin deiconti psicologicamente fragili, facendo loro toccare conmano l’assurdità e l’orrore di certe scelte. Ma quali tortu-re! Nel caso del Ragioniere e degli altri era stato solo ilcrollo psicologico di chi tocca con mano il fallimento del-

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la propria esistenza e si rende conto che a collaborarecon la giustizia si può ricavarne solo vantaggi. – Ma allora, visto che i tre avevano deciso di collaborareper una specie di crisi di coscienza, come mai hanno det-to poi di essere stati torturati? – obiettava qualcuno.– Ma è chiaro, – rispondeva senza esitazioni il Bimbo, co-me se fosse la cosa più ovvia del mondo – per salvare lafaccia di fronte all’Organizzazione!Le argomentazioni del Bimbo, anche se non del tuttocoerenti, suscitavano una profonda impressione nei suoiautorevoli interlocutori perché riportavano il problemasu un terreno pratico: se le forze antiterrorismo, dopotanti sacrifici e tanti rischi, dovevano essere anche per-seguitate e difendersi da accuse ridicole e assurde per unmalinteso garantismo a vantaggio di terroristi assassini,chi se la sarebbe più sentita di impegnarsi su un frontetanto rischioso? E allora chi avrebbe più difeso la collet-tività e le istituzioni da una minaccia tanto grave?E gli autorevoli interlocutori del Bimbo, un po’ stupefat-ti e un po’ preoccupati, non potevano che annuire e so-spirare.Il conte Dracula dava man forte al Bimbo in questa cam-pagna di difesa dell’immagine del “corpo”, deciso a pro-seguire l’indagine nella convinzione di portare, prima opoi, al Bimbo la testa di Guido su un piatto d’argento, co-me era solito dire. Ma nonostante il suo accanimento nonera riuscito nemmeno e dare un nome alla compagna

Nadia, della quale gli aveva parlato un pentito, definen-dola un membro importante dell’Organizzazione disloca-to in Siria per tenere i collegamenti con i fronti palesti-nesi. Ma il pentito non sapeva molto di più se non cheNadia, secondo quanto gli avevano riferito, era una ra-

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gazza avvenente, che portava sempre con sé, con orgo-glio, una vecchia Walther, appartenuta a un parente par-tigiano caduto durante la Resistenza; che, infine, eramolto legata a Greta. Il conte Dracula, pungolato dal Bimbo, si era infognatoallora in una ricerca spasmodica fra tutti i parenti dei ca-duti della Resistenza, ma alla fine aveva dovuto gettare laspugna di fronte a una mole gigantesca di dati che si in-crociavano come in una incontrollabile reazione a catena.

Il Bimbo si era così dovuto consolare bisbigliando algrande capo che c’era solo da sperare che Guido e Nico-la non combinassero qualche casino serio. Non aveva pe-rò trascurato di raccomandare a un amico fidato tra lebarbe finte di seguire la missione e di tenerlo costante-mente informato. E per non sbagliare aveva fatto arriva-re una voce anche agli israeliani, che si erano mostratimolto sensibili all’argomento. Secondo informazioni cheloro avevano, pareva che la Siria ospitasse la centraledell’Organizzazione e che anche il famigerato Sciacallo

vivesse indisturbato a Damasco.Guido e Nicola erano quindi partiti con un DC9 della Mid-dle East Airways accompagnati dagli accidenti del Bim-

bo e dal salvacondotto delle barbe finte, che contavanosu una stazione a Beirut competente in diversi dei Paesilimitrofi, tra cui la Siria. Nonostante in Libano imperversasse la guerra civile trale diverse fazioni, le barbe finte ritennero più prudenteportare Guido e Nicola a Beirut e sistemarli in uno deipochi alberghi rimasti in piedi nella parte est della città,quella sotto il controllo delle forze cristiano-maronite. Lazona ovest, in mano musulmana e palestinese, era anco-

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ra più disastrata e insicura. In mezzo, la frontiera della li-nea verde. Era sorprendente costatare come nonostante i pericoli ele devastazioni della guerra, la gente seguitasse a muo-versi come se nulla fosse per le strade intasate di traffi-co e costellate di voragini, fra i frequenti check-point del-l’esercito e i carri armati a presidio dei punti nevralgici.Mezzi militari di ogni tipo circolavano per la città con gliedifici pubblici protetti da cavalli di frisia e da enormiblocchi di cemento attraverso i quali le auto erano co-strette a incunearsi con difficili manovre e quindi fermar-si per i controlli. Ciò per scongiurare che i miliziani sciitidi Hezbollah sferrassero altri attacchi suicidi con macchi-ne o furgoni imbottiti di esplosivo e lanciati a gran velo-cità contro l’obiettivo.Quando si ritirarono in albergo dopo la prima giornatadi incontri, Guido e Nicola avevano entrambi la nettasensazione di non aver concluso nulla. Era chiaro che iloro interlocutori della polizia e del Mukabarat, cioè delservizio segreto, non si sognavano nemmeno lontana-mente di collaborare. Li avevano fatti parlare fingendodi ascoltarli con interesse, ma le risposte erano statevaghe e dilatorie. Su un punto solo avevano dato una ri-sposta netta: quel numero di Damasco corrispondevaeffettivamente a una linea della società dei telefoni e laconclusione da trarre traspariva dai loro sorrisetti disufficienza. Come a dire: “Lasciate stare. Non abbiamonessuna intenzione di farvi sapere gli affari nostri. Nonavete la più pallida idea di che cosa succeda qui. Torna-tevene a casa ché è meglio”.– Che cosa facciamo adesso? – chiese Nicola con l’ariasconsolata.

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– Forse non ci resta che andare domani mattina a parla-re col nostro ambasciatore. Credo che non servirà a mol-to, ma perlomeno anche il ministero degli Esteri dovràregistrare che non abbiamo avuto alcuna collaborazione.Quello che mi rode è che abbiamo la soluzione di tantimisteri a portata di mano… potremmo finalmente capi-re, e invece… Effettivamente sono stato un fesso. Mi so-no illuso. Ti pare che permetterebbero a due modesticommissari di polizia di scoperchiare la fogna.– Uno sfizio me lo devi far togliere, Guido. Fammi prova-re a fare quel numero.Sentirono squillare a lungo. Poi qualcuno rispose in ara-bo con voce sgraziata.Nicola, con il suo inglese approssimativo, chiese:– Parlo con l’hotel Semiramis? – No, lei ha sbagliato. Questa è la compagnia dei telefoni.Chi le ha dato questo numero? – replicò l’interlocutore inun inglese altrettanto arrangiato.– Me lo hanno dato all’agenzia turistica. Sarebbe tantogentile da darmi lei il numero giusto?– Questo non è l’elenco abbonati. Buona sera – conclusebruscamente l’arabo.

Guido aveva orecchiato: – Ti aspettavi una risposta diver-sa? I nostri amici del Mukabarat li avranno messi in allar-me subito.Rimasero a lungo in silenzio. Poi Guido, come a conclu-sione delle sue riflessioni, disse:– Nicola, è meglio che dormiamo tutti e due nella stessastanza e a turno.– Tu pensi addirittura che…– È meglio essere prudenti. Mi sono accorto che qualcu-

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no ha rovistato nella mia valigia. Avevo lasciato dei se-gni… Chissà cosa credevano di trovare!

Quando uscirono dall’albergo sopraggiunse prontamenteun taxi. L’autista, un giovane dall’aspetto sveglio e accat-tivante, spalancò le portiere e si mosse in maniera cosìabile da indurli a sedersi sul sedile posteriore del mezzocome se non vi potessero essere alternative.Stavano per reagire insospettiti da tanta decisione, quan-do il giovane, che era già partito ad andatura sostenuta,si girò verso di loro con aria complice:– Mi chiamo Yussef. Tranquilli, sono un amico – disse infrancese porgendo nello stesso tempo a Guido una bustarigonfia, come se contenesse un piccolo oggetto. L’aprìcon cautela e quando vide il contenuto gli sembrò che ilsangue gli friggesse fino alla punta dei capelli come il citra-to. Si trovò tra le mani un portachiavi con un buffo scoiat-tolo. Lo strinse e lo scoiattolo gonfiò le gote emettendo undebole squittio, come tanti anni prima quando lo vinse altiro a segno alla fiera del paese e lo regalò alla Rina.Si abbandonò con la testa sullo schienale spaventosa-mente pallido, tanto che Nicola lo guardò chiedendo pre-occupato: – Tutto bene, Guido?Appena le lacrime glielo consentirono lesse il bigliettoche accompagnava l’oggetto: – Affidatevi a Yussef. Vi porterà subito all’aeroporto di Da-masco. Lasciate i bagagli in albergo e partite col volo perZurigo. Tieni sempre Ciccio con te come ho fatto finora io.

Due giorni dopo, quando fu chiaro che Guido non sareb-be più tornato in quell’albergo, la stanza già da lui occu-pata fu visitata da due torvi figuri, che lo stesso diretto-

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re si premurò di accompagnare al piano, scacciando ner-vosamente il personale di servizio.I due figuri entrarono da soli nella camera, mentre il di-rettore era rigorosamente restato a piantonare la porta,e ne uscirono dopo circa una decina di minuti, con qual-cosa avvolto in un sacchetto di plastica dell’albergo. Quando in serata il ricco gioielliere iracheno Abdul Zu-hair andò ad alloggiare in quella stessa stanza, poté but-tarsi sul letto, al termine di un’intensa giornata di frut-tuosi affari, senza saltare in aria.

XXIX

Al suo ritorno in questura, Nicola era stato accolto dal-la maggior parte dei colleghi con attestazioni di stimaper i rischi che aveva corso, ma anche dai commentisarcastici dei più invidiosi per l’apparente inutilità del-la missione. Si era svegliato a fatica quella mattina, perché la notteera rientrato più tardi del solito per occuparsi di alcuni“espropri proletari”. Carmen l’aveva atteso come sempre,crollando di tanto in tanto dal sonno, per risvegliarsi bru-scamente con l’animo in pena fino a quando non lo ave-va sentito aprire la porta ed entrare in casa. Si scambia-rono un bacio.La mattina lo svegliò alla solita ora con un sorriso e uncaffè.– Ti vedo pensieroso, Nico’. C’è qualcosa che non va?– No, Carmen. Tutto a posto. Tu come ti senti?– Bene, Nico’, quando ci sei tu.– Allora, quanto manca?

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– Meno di un mese, Nico’.– Allora siamo d’accordo. Lo chiamiamo Manfredi.Rimasero per un po’ a fantasticare sul loro futuro e a pre-gustare la gioia della nascita del loro primo figlio. Poi Ni-cola si fece ancora pensieroso:– Sai, ieri sera mi ha telefonato Guido.– Uh! E come sta?– Sta bene, ma è solo come un cane. Gli ho detto di sta-re attento. Sai, a Roma, in quel casino…– Povero Guido. Ma stai attento pure tu, Nico’. Chi ve loha fatto fare a scegliere un lavoro così rischioso. Fattitrasferire all’Amministrativa – disse Carmen con sguardoimplorante.– Lo sai che morirei di noia, Carmen. Non stare preoccu-pata. Qui la situazione è più tranquilla e figurati se i ter-roristi pensano proprio a me – concluse Nicola sorriden-do. Un bacio ancora, prima di infilarsi l’impermeabile e diassicurarsi la pistola alla cintola. Carmen lo vide dalla finestra dirigersi col suo passo sicu-ro verso la Fiat 131 che avevano comprato di secondamano. Pensò che non lo avrebbe potuto amare di più. Aspettarono che fosse intento a mettere in moto la mac-china, perché avesse le mani impegnate e non fosse ingrado di reagire. La donna dal volto livido sparò per pri-ma estraendo la mitraglietta dal lungo soprabito. Carmensentì una sequenza di colpi attutiti e lontani, come in unincubo agghiacciante. Poi il colpo secco e forte della pi-stola di Nicola. La macchina fece un balzo e si spense,mentre lui si accasciava sui sedili.

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XXX

Guido non riusciva a darsi pace per la tragica fine di Ni-cola e se ne sentiva in certo senso responsabile per aver-lo coinvolto in indagini rischiose. In quello stato d’animo sentì forte il bisogno di tornarenella Bassa. Voleva riflettere, fare il punto di situazionedella propria esistenza rivedendo quei luoghi dove tuttoaveva avuto inizio.

Rimase a guardare sbigottito il portoncino chiuso e lespesse imposte grigie tappate sulle finestre, chiedendosise per caso non avesse fatto confusione e fosse andato afinire in un altro posto. Già nell’entrare in paese aveva sentito che i denti sottilie aguzzi della nostalgia stavano affondando dentro di lui.La scritta – Cicli Artar – che aveva acceso i suoi sogni diragazzino, era ormai illeggibile e sul muro del laboratorioabbandonato ne restavano tracce appena percettibili.Il bar-tabaccheria Brennero, un tempo l’osteria del Suldà,era stato rimodernato e doveva essere ancora una voltapassato di mano.Gli avventori lo guardavano incuriositi e perplessi. Quan-do si decise a chiedere, la donna dietro il bancone e unuomo di mezza età intento a sfogliare l’“Avanti” si scam-biarono un’occhiata imbarazzata. Poi la donna prese l’ini-ziativa:– Mi dispiace. Credevo sapesse. Il povero Suldà è mortoda qualche anno. Era malato da tempo...– E la Generosa? – chiese Guido con gli occhi lucidi nonappena riuscì a vincere la commozione.– Lei, poverina, è al ricovero – rispose la barista in tono

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di grande commiserazione e poi, temendo che Guido nonavesse capito bene, – alla casa di riposo, insomma. Dopola morte del marito ha avuto un tracollo spaventoso inpoco tempo. Non ha più nessuno qui in paese. Le figliesono andate tutte e due via. Hanno le loro famiglie e i lo-ro impegni. La vita è fatta così adesso, non è più comeuna volta!Attraverso la finestra della parete di fondo del bar, Guidogettò lo sguardo sul pergolato retrostante l’osteria delSuldà, dove per la prima volta lui e la Rina si erano trova-ti soli, uno accanto all’altra, accovacciati davanti al polla-io e alle gabbie dei conigli, lei con le ginocchia con le cro-ste che spuntavano da sotto il vestitino leggero. Erano ri-masti così per un bel po’, nel silenzio di un pomeriggioestivo con l’aria mossa soltanto dal frinire delle cicale. La nebbia gelata ricopriva la pergola, le piante, la tettoiacon i vecchi arnesi, simile a un telo pietosamente stesosulle cose di una persona cara che non c’è più, per man-tenerle il più a lungo possibile come sono state lasciate,non solo per rispetto, ma nell’illusione che le possa farpiacere e magari torni a rivederle e toccarle nel buio enei lunghi silenzi della notte.Risuonarono nella mente di Guido ma come un’eco lon-tanissima e attutita, gli schiamazzi, le risate, le battutedegli avventori dell’osteria, le risposte allegre della Gene-rosa, i tonfi dei pugni che si abbattevano sui tavolini nel-le interminabili accanite partite di scopone. L’aria pregnadell’umore del lambrusco e del fumo dei mezzi toscani.

Non la riconosceva quasi più la Generosa, abbandonatasulla sedia a rotelle, con una coperta scozzese sulle gi-nocchia e una mantellina grigia sulle spalle, fra gli altri

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vecchi, soprattutto donne, chi con la testa ciondoloni ap-parentemente addormentato, chi intento a sbocconcella-re un biscotto, chi a piagnucolare. Occhi fissi nel vuoto,assenti rispetto all’ambiente circostante, rivolti altrove ainseguire chissà quali pensieri persi nel tempo e nellospazio; o sguardi ansiosi da cane abbandonato alla ricer-ca disperata di un padrone, attenti a cogliere il benchéminimo segnale di semplice attenzione per implorare af-fetto e sperare nel miracolo. – Vedi Generosa chi ti è venuto a trovare… – disse la ba-dante in camice bianco.– Eeeh… – fece lei in tono lamentoso, girando meccani-camente gli occhi.– Lo conosci questo signore?Lo sguardo della Generosa si posò su Guido senza mani-festare alcuna reazione. – E allora chi è? È il tuo fidanzato e non ce lo vuoi dire,vero? – sghignazzò la donna. Di nuovo un “Eeeh” prolungato.– Ma guardala la civetta come se lo sgolosa! – proseguì labadante ammiccando maliziosamente verso di lui e poiverso le colleghe.Guido provò un senso di fastidio per quelle gratuite tri-vialità.– Ah brutta birbacciona! Adesso ho capito che cosa guar-di: i cioccolatini!Guido sentì stringersi il cuore. Era vero. La Generosaguardava la scatola dei cioccolatini che lui teneva tra lemani e quando fece il gesto di porgergliela allungò avida-mente le mani.Era quasi Natale e nello stanzone dove gli anziani stavanoraccolti, l’albero con le lucine intermittenti, un presepio ar-

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rangiato e i festoni da poco prezzo non ce la facevano pro-prio a consolarli. Anzi sembrava che facessero spiccare an-cora di più per contrasto la loro solitudine. Una beffa!Guido tornò a scrutare negli occhi chiari e velati dellaGenerosa nella speranza di cogliervi qualche barlume dilucidità.– Da quanto tempo è in queste condizioni? – chiese a unagrassona che sembrava essere la caposala.– Da diversi mesi. È andata peggiorando rapidamente.– Secondo lei è cosciente?– Sempre meno.– Viene qualcuno a trovarla? – insistette Guido.– Per lo più i vecchi clienti dell’osteria che gestiva in pae-se insieme al marito; ogni tanto le figlie che ora vivonolontano, in città. Ma lei chi è, che vuol sapere tutte que-ste cose? – chiese infine circospetta la caposala.Davanti a una delle finestre dello stanzone, un vecchiet-to con un sovrabbondante maglione da ragazzo e un ber-retto con il paraorecchie, ticchettava debolmente con ledita ritorte e irrigidite dall’artrite sui vetri appannati perconquistare l’attenzione di un gattone rugginoso sedutosul davanzale. Si strusciò miagolando contro il vetro perimplorare di essere ammesso al calduccio e il vecchioguardò astiosamente sconsolato la caposala.– Giovannino, guai a te se lo fai entrare. Lo sai che nonvoglio. – Poi, rivolta verso Guido: – L’altro giorno abbia-mo trovato sporco e peli dappertutto… Ma lei non mi haancora risposto. È anche lei un parente della Generosa?– No, sono solo un conoscente. Con la nipote si giocavainsieme da bambini.– Allora lei abitava in paese… – provò ad argomentare in-curiosita la donna.

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– Non proprio. Venivo d’estate a trovare i miei parenti.– Posso sapere chi sono i suoi parenti? – incalzò. – Sa, an-che se non sono del posto, ormai conosco un po’ tutti.– Sono le Sughèri.– Ah, la Zoraide e la Nilde! Vengono anche loro ogni tan-to a trovare la Generosa e altri ospiti della casa. Che bra-ve donne! Oggi non ce n’è più così.La Generosa era intenta a scartare il terzo o quarto cioc-colatino, quando l’infermiera sguaiata cacciò un urlo:– Guarda come ti sei combinata, sporcacciona. Lo sai chei dolci ti fanno male… – sentenziò togliendole di mano lascatola e passandole senza grazia un fazzoletto di cartasulla bocca e le mani. – Ti do la tua pupazzetta, così staibuona – e così dicendo tirò fuori da una borsa sdrucita chela Generosa teneva al fianco una buffa bambolina di pezza.Guido sentì che gli occhi gli si inumidivano ancora senzapoter fare niente per evitarlo. La bambolina gli sembravauna di quelle che faceva la Rina. Avrebbe voluto vederlameglio, ma ormai la Generosa se la stringeva tra le manicon avidità. E poi che senso aveva accertare se fosse ef-fettivamente quella? Non c’era il rischio di tornare indie-tro e ripiombare in fondo al cunicolo dal quale cercava diuscire? Si trovava nella condizione di rievocare quei ri-cordi senza che invadessero il presente e riprendesseroil sopravvento su di lui?Ma allora perché era andato fin lì dopo tanto tempo?Adesso la caposala aveva voglia di attaccare bottone e sisarebbe spinta a esplorare parentele e a spettegolare al-l’infinito se Guido non avesse tagliato corto. Non vedeval’ora di fuggire. Baciò la fragile testa della Generosa e siallontanò in fretta, mentre nelle orecchie gli risuonava ilsuo lamentoso “Eeeeh”.

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Il cortile della casa della Zoraide ospitava ora un capacemagazzino di materiale elettrico. L’orto, gli alberi, il poz-zo con la pompa dell’acqua, gli archi, le scale e le mura dimattoni rossi da cui provenivano una volta sussurri di vi-te vissute, erano scomparsi, cancellati per sempre dalnuovo fabbricato anonimo. Sul confinante terreno unavolta occupato dal casolare dei nonni paterni della Rinaera sorta una banca e Guido dovette chiudere gli occhiper ricostruire nella memoria i luoghi e le cose di un tem-po, per rivedersi lì con gli altri ragazzini del paese, con labambina dalle treccine bionde e dagli occhi che lo incan-tavano. Adesso era la Zoraide a mandare avanti la baracca con lasua sartoria. Dante era ormai in pensione e la Tecla si di-videva nell’accudire entrambi. Guido era loro profonda-mente affezionato, ma ora non vedeva l’ora di distaccar-sene. Mancava poco al tramonto e quel paio d’ore di luceche ancora restavano le voleva tutte per sé.Si diresse quasi furtivamente e a capo chino verso lapiazza, cercando di evitare i rari passanti. Sentiva impe-rioso il bisogno di parlare con se stesso e con i luoghi. Si fermò davanti alle lapidi dei partigiani. Non era più ilsacrario che conosceva, il luogo della memoria e dei va-lori. Le scritte delle epigrafi erano ormai sbavate e avreb-bero avuto bisogno di un restauro. Anche i nomi di Fol-letto e degli altri caduti erano scarsamente decifrabili. Quando arrivò al ponte sulla Fiuma stava ormai calandol’oscurità e la luce dei lampioni a mala pena riusciva afendere la nebbia e ad arrivare a terra. L’acqua ferma egrigia del canale, gli alti argini, il fitto canneto che neguarniva le rive, i pioppi, sfumavano nelle foschie dellaserata invernale.

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La paura di dover prendere atto che una parte della suavita era inesorabilmente trascorsa lo aveva tenuto relega-to per anni in un suo mondo illusorio dove si perpetuava-no sensazioni e sentimenti della giovinezza. Era tornato allora per seppellire i ricordi? No, non voleva né poteva sbarazzarsene, ma soltantosfuggire al loro dominio. Voleva che restassero al loro po-sto, in uno scrigno prezioso, ma che non condizionasse-ro più la sua vita con l’amaro sapore del rimpianto, ma lailluminassero.Sentì sciogliersi il groppo che gli gravava da anni nel pet-to. Ci stava riuscendo. Aveva incontrato Lucilla e sentivache col suo aiuto avrebbe potuto uscire da quella condi-zione assurda. Capì di amarla.

XXXI

Le legano le mani dietro la schiena, poi li vede che le fic-cano una matassa di garza nella bocca e gliela tappanocon del nastro gommato fino quasi a soffocarla. La ben-dano.La portano fuori dall’orribile tana dove l’avevano tenutaper un tempo che non era stata in grado di valutare. Lefanno salire alcuni gradini tenendola sottobraccio. Ecco,incomincia ad avvertire nelle narici l’aria fresca dell’alba.Sente di essere finalmente all’aperto. Inspira dal naso conavidità, alza il volto verso il cielo per offrirsi agli umori delgiorno che nasce. Prova brividi di piacere. Vorrebbe poteringhiottire quanta più aria possibile. Ma che bisogno c’eradi tapparle la bocca? Sente cinguettare un merlo e le sem-bra la melodia più bella che abbia mai ascoltato.

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La caricano su un furgone e ritornano l’oscurità e il tan-fo dei suoi aguzzini.Lei si lascia fare tutto, come se quella lì, imbavagliata e le-gata, fosse un’altra. E sa che l’altra non ha via di scampo:ha tradito, e la legge dell’Organizzazione è inesorabile. Èormai un mostro agonizzante che divora se stesso. La Ri-na conosce perfettamente tutti i momenti di quel rito ag-ghiacciante, per averlo anche lei approvato con la convin-zione e l’orgoglio di esercitare la giustizia proletaria.Ma la Rina non è più quella: è tornata al paese a ballarecon Guido sulla pedana di legno tra i festoni e le lampa-dine colorate. Lei ama la vita, ha orrore della violenza etutto il suo essere si ribella all’idea che in nome di unprincipio qualsiasi o di una qualsiasi giustizia si possasomministrare la morte e violare freddamente l’essenzasacra, misteriosa e profonda dell’animo umano, infieren-do sul corpo indifeso, fino a spegnervi la vita. La Rina si è resa conto del suo tragico errore: ha sentitola sua anima schiantarsi, ma ha capito finalmente gli in-ganni delle ideologie e il cinismo della storia; prova unaprofonda pietà per l’altra che stanno avviando al luogodell’esecuzione e aspetta che Guido la venga a portarevia da quella situazione assurda.Lo vede correre disperatamente su un fuoristrada versoil luogo maledetto, perduto tra le alture libanesi, insiemeai suoi uomini. Respira affannosamente, sa che è questio-ne di minuti. Ma ecco che Guido e i suoi si trovano all’im-provviso in un piccolo e assurdo paese deserto, con le ca-se di un bianco accecante, viuzze, scale, archi e specchicon cornici dorate. Il fuoristrada fa fatica a manovrare traquei vicoli, rischia di rimanervi intrappolato.Le case assumono l’aspetto di tombe e gli specchi diven-

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tano ritratti di defunti. Bisogna che Guido esca a tutti icosti da quell’incantesimo, ma una grande pietra angola-re impedisce alla macchina di fare manovra per imbocca-re la direzione giusta. Lo invoca perché faccia presto.

L’hanno fatta sedere per terra con le gambe distese e laschiena appoggiata contro un muro di pietra. Avverte ilchiarore e le languide carezze dei primi raggi di sole. Af-fonda le unghie nella sabbia e preme con forza la schie-na contro le pietre per godere quanto più può della subli-me materialità della terra. Sente i primi colpi e il tempoinfinitesimo che i proiettili impiegano a raggiungerle ilpetto si dilata prodigiosamente per accogliere le immagi-ni più dolci di tutta la sua vita. Ora anche per lei, comeper suo papà, tutto è improvvisamente chiaro e tantosemplice da lasciarla stupefatta. È ormai Libera, sì, libera di correre incontro a Folletto, digettarsi tra le sue braccia e affondare il viso sul suo pet-to, tra i suoi panni, fino a sentire finalmente quell’odoreche aveva sempre sognato.

Pensa che quando Guido giungerà sul posto troverà ab-bandonato tra i rifiuti un orribile, macabro manichino,addossato con le spalle a un muretto diroccato, la testareclinata e appeso al collo un cartello con la scritta “Mor-te ai traditori”.

Libera detta Rina, alias la compagna Nadia per l’Orga-nizzazione e Aisha per i fratelli del Fronte. Qualche ter-rorista pentito seppe soltanto dire che se ne erano persele tracce tra la Siria e il Libano. Per l’Interpol rimase lati-tante irreperibile.

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ANCORA IN PIAZZA SAN GIOVANNI

A chiusura del telegiornale regionale, le telecamere ave-vano fatto le ultime carrellate su piazza San Giovanni permostrare capannelli di ragazzi che resistevano a oltranzaancora in vena di fare cagnara, agitando ormai stanca-mente qualche bandiera, mentre i furgoncini a spazzolerotanti della nettezza urbana avevano preso a scorrazza-re in lungo e in largo e gli operai si affannavano a smon-tare il palco.Quelle bandiere non gli dicevano più niente, gli sembra-vano un’accozzaglia di simboli e colori che ne rendevanoambigua l’identità. Anche la più intelligibile, e cioè quel-la rossa con il volto del Che, calata in quel contesto, suo-nava falsa o patetica, né più né meno di un gadget dabancarella.Avrebbe voluto che Lucilla fosse restata accanto a lui perconfidarle queste sue impressioni, ma la sentì indaffara-ta a confabulare con Titti. I suoi pensieri finirono ancora una volta per scivolareverso i ricordi. Si rivide ragazzo, seduto sulla panchina dipietra tra le aiuole della stazione ferroviaria del paesedella Bassa a fantasticare con la faccia rivolta al sole lan-guente, in una dimensione beata fatta di tepore umido, ditrilli di rondini che volavano rasoterra, delle voci dellamadre e delle altre donne che chiacchieravano sedutenel giardinetto della zia Nilde, con le rose, i gerani, le pe-tunie dai colori tenui e i gatti, stesi come stracci bagnatisulla terra tiepida.Per molti, troppi anni si era perso senza rendersenenemmeno conto.

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E allora che ne era stato di quel ragazzino che aspettavala notte di san Lorenzo per contare le stelle cadenti, so-gnare e augurare ogni bene possibile alle persone care?

Un giorno disse scherzosamente a Lucilla che lui viaggia-va molto di più di quanto apparisse, perché spesso, sen-za che lei se ne accorgesse, si infilava furtivamente sul“treno col fumo”, che lo portava lontanissimo in pochiistanti e poi lo riportava da lei altrettanto rapidamente econ tanta voglia in più di riabbracciarla.Diceva in parte la verità. Erano i suoi viaggi nei ricordi,che non consistevano in una fuga dalla realtà, quantopiuttosto in un espediente per esservi dentro con tuttose stesso, allacciando il presente al passato.E al ritorno da ogni viaggio, non vedeva l’ora di raccon-tarle tutto, con un entusiasmo esagerato, come i bambi-ni, che si affannano a ostentare a chi gli va a genio tutti iloro giocattoli. Amava raccontare a Lucilla, divertendola e lusingandola,che un giorno il “treno col fumo” si fermò a una stazionenuova che aveva segretamente sognato e lui la vide saliresperando ardentemente che entrasse nel suo scomparti-mento. Nel paesaggio si accesero mille colori quando leifinalmente entrò e lo guardò in silenzio in un modo tra iltimoroso e il desideroso, meravigliosamente animale.Il treno allora invertì la marcia e lui non si rese conto diquanto tempo fosse passato prima che si fermasse altredue volte, perché era troppo perso in lei. Salirono primaNanù e poi Titti, spaesati nei loro vestitini un po’ ridicolie impacciati tra Orsi Rosa, pappagallini, gatti Ciccio e al-tri pacchetti buffi. Da allora avevano viaggiato tutti insie-me verso mete e itinerari comuni.

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Sullo schermo del televisore scorrevano ormai stanca-mente i titoli di coda del servizio da piazza San Giovanni.Si mise di nuovo in viaggio. Riuscì ad afferrare con un certo sforzo l’album delle foto-grafie che era sul tavolinetto e volle rivedere quella delpadre Peppino accanto al camion, magro, con la facciascavata e i capelli arruffati, un paio di braghe abbondan-ti e sgualcite, una camicia chiara con le maniche rimboc-cate, delle scarpacce impolverate, sullo sfondo quasi afri-cano di Littoria in costruzione. Fieramente appoggiato a quel trabiccolo che sembravaun residuato della prima guerra mondiale, Peppino tradi-va nello sguardo e in un mezzo sorriso spavaldo tutto ilsuo orgoglio. Chissà quanti sacrifici aveva dovuto fare,ma ora quel camion era suo. Sentiva di poter affrontarela vita e mettere su famiglia. Probabilmente quella fotose l’era fatta per impressionare l’Annetta quando eranoancora fidanzati.Sì, le donne e gli uomini del Novecento erano facile pre-da delle illusioni, sempre pronti a farsi ingannare, vittimedegli ideali, capaci di sacrifici estremi come tutti gli eroi.Cantavano “Illusione, dolce chimera sei tu…” o “Vogliovivere così, col sole in fronte”. Poi la testa incominciò a girargli come su una giostra. Sì, una giostra come quella che lo affascinava da bambi-no. Si ricordò di quando, a Gardaland, ne aveva trovatauna quasi eguale e c’era voluto salire. Non aveva resisti-to alla tentazione e vi aveva trascinato Lucilla, che un po’si vergognava, per girare abbracciato a lei sulle note dol-ci di un valzer, accanto a Titti che lanciava occhiate ecci-tatissime con i capelli al vento e Nanù, rigido sul cavallo,fortemente compreso nel ruolo di condottiero.

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Ora la giostra girava accompagnata dal valzer di Strauss“Sul bel Danubio blu”, lo stesso motivo del carillon che ave-va comprato a Vienna tanti anni prima, quando c’era anda-to in viaggio con la Annetta. La sera, in albergo (non neaveva mai dimenticato il nome: si chiamava Wandl ed eravicino Stephans Platz), Guido aveva a lungo maneggiato erimirato il cofanetto di legno intarsiato con l’immagine delduomo e poi aveva caricato il carillon per riascoltare il val-zer insieme alla Annetta, che si era messa ad accompagna-re le note con un leggero movimento della testa. Erano tut-ti e due contenti come bambini e lui sentì che il cofanettoe quella melodia lo avrebbero accompagnato per sempre. Se lo teneva da allora sulla scrivania e anche se il carillonaveva smesso da tempo di funzionare, a lui bastava guar-darlo per sentire ancora le note del bel Danubio blu e ri-tornare all’albergo Wandl.

Ripensò poi al viaggio che aveva fatto di recente con Lu-cilla e i ragazzi, sulla macchina nuova, loro quattro, a ve-locità moderata, in giornate serene e con scarso traffico,attraverso l’Italia. E ancora quando erano andati in vapo-retto a Burano solcando dolcemente la laguna verso ca-sette colorate, immersi in una miscellanea vaporosa dicielo-acqua-aria col sole che li accarezzava. E la sera daZanella a Ca’ Savio a mangiare il risotto e l’anguilla arro-sto con la polenta bianca, e a dire fesserie; o la mattina afare colazione seduti sotto il porticato, tra i vecchi checiacolano e le rondini che vanno e vengono dai nidi nelsottotetto dove ritornano miracolosamente ogni primave-ra, da sempre, come se tutto fluisse restando immutabile.

La giostra, sollecitata dal crescendo dei ritmi, piroettava

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sempre più vivacemente, proprio come fanno i ballerinidi valzer. Sfrecciavano davanti ai suoi occhi come in unapellicola cinematografica le immagini della sua vita e del-le persone care.Ora girava troppo forte per lui.Era arrivato il tempo di scendere. Si lasciò allora andare all’indietro sul bordo della giostratenendosi aggrappato al corrimano come faceva da ra-gazzo per saltare giù dal tram ancora in movimento pri-ma della fermata sul Lungotevere vicino al chioschettodelle grattachecche. Quando arrivò a terra spinto inavanti dalla forza d’inerzia, fu costretto a fare qualchepasso di corsa per evitare di cadere, ma dopo qualche at-timo di capogiro si sentì sicuro e andò con lo sguardo al-la ricerca di Lucilla e dei ragazzi. Gli sfilarono davanti agitando le mani in segno di saluto,come alla partenza del treno. Non appena scomparvero alla sua vista, sentì una penanel cuore profonda e totale, come mai aveva provato. Quando li vide ricomparire al giro successivo, gli sembròche fosse passata un’eternità. Riemerse, rapidamente esenza sforzo, dall’orrido in cui era precipitato. Ora avverti-va una sensazione di benessere di una intensità del tuttonuova. Sentì fischiettare Voglio vivere così. Si voltò e si ac-corse che alle sue spalle c’erano Peppino e la Annetta, an-che loro sereni e sorridenti. Si riabbracciarono. Poi si mise-ro di nuovo a guardare la giostra che girava, lui nel mezzoche li teneva stretti, come mai aveva potuto fare prima.

A piazza San Giovanni passò un furgoncino che portava igiornali alle edicole, mentre il primo bar alzava la saraci-nesca. Come ogni mattina.

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BIBLIOGRAFIA

Sull’attentato a Togliatti e sulla vittoria di Bartali al Giro di Francia hoconsultato:“La Gazzetta del Mezzogiorno” – Finestra sulla storia (http.www.la-gazzettadelmezzogiorno.it) e i seguenti altri siti Internet: www.crono-logia.it; www.inclasse.it; www.intermarx.it; www.sportpro.it. Sul linciaggio di Donato Carretta: www.ancr.to.it; www.luchinoviscon-ti.net Sulle mondine, oltre ai racconti sentiti da alcune donne che avevanofatto in gioventù quel mestiere, ho consultato: http:/freeeweb.supera-va.com/mondine.freeweb/lavoro.htn.Sulle Brigate Rosse, oltre ai ricordi diretti e alle esperienze vissute, hoconsultato:http://www.brigaterosse.org/brigaterosse/documentihttp://www.bibliotecamarxista.org;Nanni Balestrini e Primo Moroni, L’orda d’oro – 1968 - 1977: la gran-de ondata rivoluzionaria e creativa politica ed esistenziale, SugarcoEdizioni; Giovanni Fasanella e Alberto Franceschini, Che cosa sono le BR. Le ra-dici, la nascita, la storia, il presente, ed. BUR

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Ringraziamenti

Il mio ringraziamento sentito per avermi invogliato a scrivere va all’amicoAnnibale Paloscia, con il quale ho vissuto molti degli eventi degli “anni dipiombo”, lui da giornalista, io da poliziotto. A Simona Mammano la mia gratitudine per la maniera partecipe in cui haseguito la pubblicazione.

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Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

A piazza San Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

Stile Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

L’Organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77

Ancora in piazza San Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 260

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267

Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269

INDICE

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NELLA STESSA COLLANA

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VOGLIO VIVERE COSÌdi ANSOINO ANDREASSI

Collana diretta da SIMONA MAMMANO e ANTONELLA BECCARIAProgetto grafico ANYONE!Impaginazione ROBERTA ROSSI

© 2009 Stampa Alternativa/Nuovi EquilibriCasella postale 97 – 01100 Viterbo fax 0761.352751e-mail: [email protected]

ISBN 978-88-6222-115-3Finito di stampare nel mese di gennaio 2010

presso la tipografia IACOBELLI srl via Catania 8 – 00040 Pavona (Roma)

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