Voci - Numero 1 Anno 1 - Amnesty International in Sicilia

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DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI GENNAIO 2015 NUMERO 1 - ANNO 1 VOCI

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D I A M O V O C E A I D I R I T T I U M A N IGENNAIO 2015 NUMERO 1 - ANNO 1

VOCI

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Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla

Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

COMITATO DI REDAZIONE

Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione

Liliana ManiscalcoResponsabile Regionale di Amnesty International

Daniela ConteResponsabile del

Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla

Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

Ignazio MoriciResponsabile Relazioni Esterne

e Comunicazione di Amnesty International in Sicilia

COLLABORANO

Caterina Altamore, Aurelio Angelini, Clelia Bartoli, Giorgio Beretta,

Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Giovanna

Cernigliaro, Vincenzo Ceruso, Cissé Mouhamed, Coordinamento America

Latina - Amnesty International Sezione Italiana, Marta D’Alia,

Luciana De Grazia, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli,

Javier Gonzalez Diez, Giuseppe Carlo Marino, Maria Grazia Patronaggio, Paolo Pobbiati, Rossella Puccio, Daniela Tomasino,Fulvio Vassallo

Paleologo

VOCICerte volte accade per ragioni meramente dettate dal caso, altre per convinzioni politiche, culturali ideologiche o per il luogo in cui si è nati o si è vissuti. Essere o diventare difensori dei diritti umani è però sempre una condizione che permea l’esistenza di chi vive secondo la convinzione per cui la frase secondo la quale

“tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” deve essere una realtà e non una irraggiungibile utopia.

Non è necessario esperire condizioni estreme di violazione per essere una di queste figure: Amnesty International, con la sua membership, gli attivisti e i gruppi locali ne costituisce ad esempio un’intera comunità.

Difensore dei diritti umani è dunque una persona che, individualmente o insieme ad altre, agisce per promuovere o proteggere i diritti umani. I difensori dei diritti umani (in inglese Human Rights Defenders, acronimo HRD) sono quelle donne e quegli uomini che agiscono altresì in maniera pacifica.

HRD è stato il leggendario Martin Ennals, segretario generale di Amnesty International dal 1968 al 1980, nonchè fondatore di Article 19 e International Alert, ma è molto facile che lo siano semplicemente persone comuni che talvolta incontrano abusi sulla propria strada.

Una di queste è stato per esempio Padre Pino Puglisi, che con la sua educazione ai diritti, naturalmente inscritta nell’ambito della sua missione e vocazione religiosa, è riuscito davvero a danneggiare la cultura mafiosa a Palermo, un altro è il ricercatore Flaviano Bianchini, biologo italiano che ha portato alla luce, nei primi anni del duemila, e denunciato la questione della contaminazione

delle acque del río Tzalá nel dipartimento di San Marcos, in Guatemala, unitamente alla grave violazione dei diritti perpetrata contro le popolazioni che vivevano e vivono ancora in quella zona.

Amnesty International in Sicilia, riconosce il valore delle persone che vivono proteggendo la vita degli altri e per questa ragione dedica loro ogni anno un premio nella settimana in cui cade non solo il 10 dicembre, anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, ma soprattutto il 9 , ricorrenza della Dichiarazione sui diritti e le responsabilità degli individui, dei gruppi e delle istituzioni sociali per promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti.Questa infatti costituisce una pietra miliare nella lotta per una migliore tutela di coloro a rischio di conduzione di attività legittime a favore dei diritti umani, ed è il primo strumento dell’ONU che riconosce l’importanza e la legittimità del lavoro dei difensori dei diritti umani, così come il loro bisogno di avere una protezione migliore.

L’iniziativa si chiama Forum dei difensori dei diritti umani e cresce piano piano negli anni.

Si tratta di una, e mano a mano che il tempo passa, ad oggi ben quattro conferenze premio che hanno come obiettivo quello di portare all’attenzione pubblica le questioni specifiche rispetto alle quali gli e le HRD prescelti nutrono il loro principale interesse, affiancando le loro esposizioni con quelle di esperti di Amnesty International e non.

A Palermo si svolge così il 13 dicembre scorso la conferenza per Stefania Erminia Noce, attivista dei diritti delle donne, femminista convinta, originaria di

[email protected]

-Via Benedetto d’Acquisto 30

90141 Palermo

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Licodia Eubea morta per mano del fidanzato, insieme al nonno che cercava di proteggerla, a dicembre del 2011.

La sua morte non è stata inutile perché la giovane ha contagiato, mentre era in vita, tutto un paese che si è costituito nell’associazione SEN (acronimo del suo nome e cognome) che promuove continue attività contro il femminicidio e la discriminazione di genere, e dopo la sua scomparsa, Serena Maiorana, giovane giornalista autrice di “Quello che resta. La storia di Stefania Noce” dedicato alla biografia della studentessa tragicamente scomparsa.I premi, assegnati a Stefania e Serena, sono affiancati a quello conferito a Rosa Lunetta, una vivace signora di 89 anni che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, a Palermo, apre le porte a uno sparuto gruppuscolo di univesitari e liceali per scrivere lettere di protesta per le violazioni dei diritti umani come indicato su dossier inviati dal Segretariato Internazionale di Londra.In questo modo Rosa Lunetta dava l’avvio ad Amnesty International in Sicilia.

Liliana Maniscalco

- Responsabile Regionale di Amnesty International

EDITORIALE

Ad Agrigento, il 19 Dicembre il Gruppo 283 realizza la conferenza premio che vede come protagonista Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, il dicottenne che perde la vita il 25 settembre 2005 in circostanze misteriose e ripetutamente insabbiate, dopo l’incontro fatale con le volanti Alfa 2 ed Alfa 3 della Polizia di Ferrara. L’iniziativa prevede anche la presentazione dio “Una sola stella nel firmamento. Io e mio figlio Federico Aldrovrandi” un libro di Francesca Avon, edito da Il Saggiatore, che con lucidità al neon racconta fase dopo fase la tragica scomparsa del ragazzo e la reazione dei suoi genitori ad un mondo di provincia omertoso e silenzioso.Presso il polo di Trapani dell’Università degli studi di Palermo, sempre il 19 Dicembre, Amnesty conferisce il premio Human Rights Defenders a Dacia Maraini per la sua opera letteraria permeata di concetti volti alla tutela dei diritti.L’appuntamento costituisce l’occasione per presentare l’ultimo libro della scrittrice

“Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza” e per discutere di

diritti delle donne nel contesto di un corso di tre incontri riservati agli studenti ma con un’apertura alla cittadinanza in occasione dell’appuntamento di chiusura.In gennaio è infine prevista la tappa di Catania. In questo incontro viene presentato il caso di Stefano Cucchi, morto durante un fermo di Polizia a Roma. Premiata la sorella Ilaria e presentata la campagna internazionale di Amnesty contro la tortura.

La convinzione, in base alla quale l’organizzazione ha sviluppato e moltiplicato le iniziative del Forum, è quella che il valore paradigmatico del premio, attraverso il racconto della storia delle persone coinvolte in fatti gravi ma contro i quali si può e deve reagire al fine di non permettere alcuna faglia nel sistema della tutela dei diritti, sia evidente ed inestimabile.

E’ per questo che l’associazione continua a realizzarle, per alimentare un continuo arricchimento delle persone e del proprio territorio nello sviluppo di una cultura sana di reciproco rispetto e protezione.

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Non so se sono la persona più’ adatta a ricordare la nostra compagna di viaggio Elisabetta Campus che ha deciso di lasciarci alle prime luci dello scorso 12 Novembre dalla sua Perugia che per quel giorno ha indossato il suo abito peggiore, il più’ triste. In quei giorni sono capitato in Umbria per lavoro e leggendo il “Corriere dell’Umbria” a lei solo un trafiletto: donna di 54 anni........

Elisabetta non era un trafiletto, era per noi una grande compagna di viaggio, legata ad Amnesty a doppio filo, era una di quelle persone che hanno unito almeno un paio di generazioni di attivisti. Perugia di Amnesty era Elisabetta perché lei ti accoglieva, ti ospitava a casa sua, con lei finivi la serata dopo l’incontro in qualche buon locale Perugino, con lei eri alla Marcia della Pace ad Assisi. Quante volte.....

Ha ricoperto tutti gli incarichi possibili in una piccola realtà’ come l’Umbria molto simile alla mia (le Marche) in cui molti soci e socie se disponibili fanno una gran fatica a tenere accesa quella candela che tutti contribuiamo affinché’ non si spenga mai. Quante volte poi mi parlava di crisi del gruppo, di problemi in circoscrizione. Era sempre partecipe, a volte criticamente costruttiva alla vita della sezione. Forse e’ anche suo il merito di quello che ora Alessandro, Sabrina e gli altri amici e amiche umbri hanno creato. Credo che nel suo nome e nel suo ricordo possiamo andare avanti con più’ forza perché è anche lei che ce lo chiede.

Negli ultimi anni la sua passione per i nativi americani l’ha portata ad avvicinarsi, diventandone responsabile, al Coordinamento Nord America ed Isole Caraibiche e proprio con lei stavamo parlando della sua partecipazione alla formazione che si e’ tenuta a Roma il

22_23 di Novembre. L’avevo quasi convinta a venire, con l’aiuto di Bruno, Stefania, Marco e gli altri del suo coordinamento, niente da fare.

L’ho sentita e ci siamo scritti pochi giorni prima che quel “mostro” che l’aveva già’ portata via completasse l’opera. Non ho il coraggio di rivedere quelle mail, di cancellare

il suo nome dalla rubrica del mio cellulare, non riesco a vedere quella foto su facebook che la ritrae nella nostra manifestazione in tuta arancione (simbolo dell’abito dei prigionieri di Guantanamo) nella nostra manifestazione per la chiusura di quello scempio. Ecco vorrei ricordarla così, impegnata per le sue idee insieme a noi per cambiare un mondo che non ci piace e che sicuramente anche lei ha reso migliore.

Sta a noi portare i suoi sogni a compimento, e se l’avremo fatto lo stesso ora abbiamo un motivo in più: Elisabetta. Ho sentito tante persone nei giorni seguenti quel maledetto 12 Novembre, vecchi e nuovi attivisti: tutti avevano un bel ricordo di Elisabetta. E’ la prima cosa bella che e’ accaduta dopo la sua morte.

Per me Elisabetta era Perugia,

era il suo coordinamento era un’amica. I suoi occhi celesti e la sua espressione mi ricordava, ogni volta che la guardavo, mia sorella che spero ora la riconosca e le faccia compagnia. In tanti ci siamo chiesti che cosa potevamo fare per evitarlo, una di noi se n’è andata e noi? Non ho una risposta su questo ma solo essersi posti certe domande mi fa pensare che tutti quanti desideriamo si un movimento attivo ed efficace per i diritti umani che difendiamo ma anche un posto dove le persone possano al suo interno vivere bene: un movimento così è certamente un bel luogo dove stare.

Elisabetta vive, nei suoi amici, in tutti noi che la ricordiamo ma vive anche grazie ad un albero che fra i partecipanti della formazione per coordinamenti abbiamo deciso di piantare (a Roma) con il suo nome. Mi auguro che un giorno, soprattutto nei giorni tristi o pesanti che la nostra vita vorrà’ riservarci, possa essere un luogo della memoria e del ricordo attraverso il quale ripartire con forza verso il nostro sogno che era anche il suo.

Addio Elisabetta.

Paolo PignocchiComponente del Comitato Direttivo di

Amnesty International Sezione ItalianaResponsabile del Coordinamento Europa di Amnesty International Sezione Italiana

RICORDANDO ELISABETTA

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SOMMARIO

IN QUESTO NUMERO

6 L’Universal Periodic Review sull’Italia di Giuseppe Provenza

11 Il popolo curdo, dalle sue origini all’attualità geopolitica di Mouhamed Cissé

16 Continua la lotta dei popoli nativi per il riconoscimento dei loro diritti di Francesca Cerrina

18 La convenzione di Istanbul, luci ed ombre di Maria Grazia Patronaggio

22 Globalizzazione, crisi occidentale e diritti umani di Vincenzo Fazio

24 L’incognita ISIS di Giuseppe Carlo Marino

28 “Ilconfinesminato” di Daniela Tomasino

29 Buone Notizie di Giuseppe Provenza

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TUTTI I GIORNI

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Amnesty In Sicilia

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di Amnesty International.

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ATTUALITÀ

L’universal Periodic Review (UPR) o Revisione Periodica Universale, viene svolta ogni quattro anni a cura del “Consiglio per i Diritti Umani” delle Nazioni Unite (United Nations Human Rights Council – www.ohchr.org), allo scopo di verificare lo stato dei diritti umani di ognuno dei 193 paesi (ad ottobre 2014) facenti parte dell’ONU.

Questa pratica ha inizio con la presentazione di una relazione da parte del paese interessato a cui fanno seguito un documento contenente i rilievi mossi dai vari Comitati per i diritti umani dell’ONU, un d o c u m e n t o che riporta osservazioni da parte di altri paesi ed un documento con le osservazioni di alcune Organ i zzaz ion i non governative.

Per l’Italia questi documenti, prodotti fra luglio ed agosto 2014, sono stati discussi il 27 ottobre 2014.

Il testo completo di essi, in inglese, arabo, cinese, russo e spagnolo, è consultabile all’indirizzo: http://www.ohchr.org/EN/HRBodies/UPR/Pages/ITSession20.aspx

Vengono qui riportate le osservazioni più rilevanti, per motivi di spazio, mosse all’Italia dai vari Comitati ONU per i diritti umani, nonché quelle presentate dal Segretariato Internazionale di Amnesty International.

La traduzione in Italiano dell’intero

documento riguardante le osservazioni dei Comitati ONU è consultabile per intero all’indirizzo: h t t p : / / www. amne s t y s i c i l i a .i t / w o r d p r e s s / w p - c o n t e n t /uploads/2014/12/UPR2014-2-IT-osservazioni-comitati.pdf

Il documento elenca innanzitutto i trattati e altri documenti sui diritti umani a cui il paese aderisce, con alcuni commenti al riguardo (punti da 1 a 5).

Seguono alcuni punti (dal 6 al 13) sulla struttura costituzionale e legislativa del paese.

A tal riguardo appaiono particolarmente rilevanti il punto 8 e parte del punto 10:

8) La relatrice speciale sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze ha invitato l’Italia ad adottare una legge specifica sulla violenza contro le donne per affrontare la frammentazione causata dalla interpretazione e attuazione dei codici civile, penale e procedurali. La Relatrice Speciale ha inoltre raccomandato che l’Italia affronti le lacune giuridiche in materia

di custodia dei figli comprese le disposizioni in materia di tutela delle donne che sono vittime di violenza domestica (In seguito alla ratifica della Convenzione di Istanbul è stata varata la L. 119 del 15/10/2013).

10) Il CEDAW (Comitato per l’eliminazione della violenza sulle donne) ha manifestato preoccupazione che il “pacchetto sicurezza” abbia seriamente

impedito alle autorità di i d e n t i f i c a r e adeguatamente potenziali vittime di traffico umano.

I punti dal 14 al 21 riguardano misure istituzionali ed inf rast rut tura l i relative ai Diritti Umani. Particolarmente rilevante appare il punto 16:

16) Il Relatore Speciale sui

diritti umani dei migranti ha raccomandato la creazione di un istituto per i diritti umani nazionale (NHRI) in linea con i Principi di Parigi, assicurando che sia funzionalmente e finanziariamente indipendente dallo Stato, sia investito dell’autorità di indagare tutte le questioni relative ai diritti umani, compresi quelli dei migranti, indipendentemente dal loro status amministrativo. La Relatrice Speciale sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze ha raccomandato che la creazione di una istituzione nazionale indipendente per i diritti umani sia accelerata, con una sezione dedicata ai diritti delle donne.

L’UNIVERSAL PERIODIC REVIEW SULL’ITALIA

Foto - Palais des Nations, Geneva - © United Nations Photo - https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.0/

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ATTUALITÀ

I punti successivi riguardano l’attuazione degli obblighi internazionali sui diritti umani derivanti dai trattati a cui l’Italia aderisce, obblighi classificati per grandi temi, di cui si riportano i più rilevanti.

A. Uguaglianza e non discriminazione

25) Il CEDAW ha invitato l’Italia a mettere in atto una politica globale per porre fine alla rappresentazione delle donne come oggetti sessuali e agli atteggiamenti stereotipati relativi a ruoli e responsabilità delle donne nella società e nella famiglia.

Il CRC (Comitato per i diritti del fanciullo) ha sollevato considerazioni simili.

26) Il CRC ha esortato l’Italia ad eliminare qualsiasi discriminazione residua tra i figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio.

27) Il CERD (Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale) ha esortato l’Italia a garantire che i non cittadini godano di uguale protezione e riconoscimento di fronte alla legge. Il CERD ha raccomandato che l’Italia assicuri che la propria legislazione e la politica non discriminino, come scopo o per effetto, per motivi di razza, di colore, di discendenza o di origine nazionale o etnica.

29) L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha espresso allarme per la rappresentazione negativa dei migranti e dei rom da parte di alcuni media, di alcuni politici e di altre autorità. Ha esortato i politici italiani, i media e i funzionari pubblici ad evitare la denigrazione e gli stereotipi negativi nei confronti di qualsiasi gruppo di persone e a fare una campagna pubblica contro

tale comportamento. Il CERD ha sollevato questioni simili.

B. Diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona 32) Il CERD si è detto profondamente preoccupato per diversi casi di violenza razzista che hanno comportato la distruzione di proprietà e gli omicidi di un certo numero di migranti. Il CERD ha raccomandato che l’Italia garantisca la sicurezza e l’integrità dei non cittadini e dei Rom e dei Sinti, e che faccia in modo che gli autori non godano de jure o de facto di impunità

33) Il WGAD (Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Arbitraria) ha esortato l’Italia a prendere misure straordinarie, come le misure alternative alla detenzione, per por fine alla sovra-carcerazione e per proteggere i diritti dei migranti. Ha inoltre invitato l’Italia a conformarsi alle sue raccomandazioni sulla sovra-carcerazione e alla sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

34) Il WGAD ha manifestato preoccupazione per l’alto numero di detenuti in attesa di giudizio e ha dichiarato che vi sia la necessità di monitorare e correggere l’applicazione sproporzionata della detenzione preventiva nel caso di cittadini stranieri e rom, tra cui minori.

Le leggi 94/2013, 146/2013, 67/2014, 117/2014 hanno introdotto una serie di innovazioni tendenti a ridurre i casi di detenzione e di detenzione preventiva.

37) La Relatrice speciale sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze ha raccomandato che l’Italia promuova forme alternative di detenzione, tra cui gli arresti domiciliari e stabilimenti a bassa sicurezza, per le donne con bambini, tenendo in

debito conto la natura in gran parte non violenta dei crimini per cui sono state incarcerate e l’interesse dei minori

39) Il CEDAW è preoccupato per l’elevato numero di donne uccise dai loro partner o ex partner. Il CEDAW ha esortato l’Italia ad enfatizzare le misure globali per affrontare la violenza contro le donne e per garantire che le vittime abbiano una protezione immediata, compreso l’allontanamento del colpevole da casa. (Vedi al punto 8, L. 119/2013).

40) La Relatrice speciale sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze raccomanda che l’Italia continui ad adottare le misure necessarie, anche finanziarie, per mantenere in efficienza o realizzare nuovi rifugi antiviolenza e/o istituiti per assistere e proteggere le donne vittime di violenza, e che assicuri che i rifugi siano gestiti secondo le norme nazionali e internazionali per i diritti umani e che i meccanismi di responsabilità siano stati messi in atto per monitorare il supporto fornito alle donne vittime di violenza. Ha inoltre sottolineato la necessità di migliorare il coordinamento e lo scambio di informazioni tra la magistratura, la polizia e gli operatori psicosociali e sanitari che si occupano di violenza contro le donne.44) Riguardo alla formazione

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ATTUALITÀ

e capacity-building, la relatrice speciale sulla tratta di persone, in particolare donne e bambini, ha sottolineato la necessità di migliorare in modo coerente il vigente sistema di identificazione e di allocare risorse adeguate per l’intero paese. Essa ha aggiunto che la formazione deve essere fornita alle più importanti agenzie di applicazione della legge, in particolare alla polizia, ai funzionari dell’immigrazione, agli ispettori del lavoro e agli assistenti sociali, e dovrebbe cercare di migliorare la capacità di tali funzionari di identificare le persone vittime di tratta in modo rapido e preciso per indirizzarli ai servizi appropriati, in particolare quando sono stati coinvolti minori.

B. Amministrazione della giustizia e dello Stato di diritto

47) Il CERD ha raccomandato che l’Italia assicuri che le affermazioni di discriminazione razziale siano investigate approfonditamente e soggette a controllo indipendente. Il CERD ha invitato l’Italia a favorire l’assunzione di persone appartenenti a gruppi etnici nella polizia o in altre forze dell’ordine.

D. Diritto alla privacy, il matrimonio e la vita familiare

52) Il CRC è preoccupato del fatto che la Legge n° 94/2009 sulla sicurezza pubblica abbia reso obbligatorio per tutti i non-italiani di mostrare il loro permesso di soggiorno al fine di ottenere registrazioni civili. Ricordando l’accettazione da parte dell’Italia della Raccomandazione N°. 40 della revisione periodica universale (UPR) a mettere in atto la legge n° 91/1992 sulla cittadinanza italiana, il CRC raccomanda che l’Italia garantisca per legge l’obbligo, e faciliti, in pratica, la

registrazione della nascita di tutti i bambini nati e viventi in Italia

E. Libertà di religione o di credo, di espressione, di associazione pacifica, diassemblea, e diritto di partecipare alla vita pubblica e politica

56) L’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura) ha dichiarato che l’Italia non possiede il pluralismo della stampa a causa della concentrazione della proprietà dei mezzi di comunicazione in un piccolo gruppo di persone. Il Relatore Speciale sul diritto alla libertà di opinione e di espressione ha esortato l’Italia a promuovere e proteggere la diversità ed il pluralismo dei media prevenendo la proprietà incrociata dei media stampati e radiotelevisivi. Ha raccomandato che la legge Frattini, n° 215 del 2004, venga modificata per introdurre il principio di incompatibilità tra detenzione per elezione o per ufficio di governo e la proprietà e il controllo di media.

F. Diritto al lavoro e alle giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro

62) Il CEDAW, L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), il Comitato Internazionale di Esperti sulla Applicazione delle Convenzioni e Raccomandazioni, hanno espresso preoccupazioni per la pratica di far firmare al lavoratore una lettera non datata di dimissioni al momento della assunzione, per uso futuro del datore di lavoro. Notando l’elevato numero di dimissioni da parte delle donne di età compresa tra 26 e 35 anni, il comitato di esperti ha invitato l’Italia ad adottare ulteriori misure concrete per affrontare la

questione delle dimissioni senza giusta causa da parte delle donne in gravidanza e madri lavoratrici.

64) Il Relatore Speciale sui diritti umani dei migranti ha chiesto che l’Italia metta pienamente in atto la direttiva dell’Unione Europea sulle sanzioni ai datori di lavoro, anche mediante misure per sanzionare i datori di lavoro italiani che hanno abusato

della vulnerabilità dei migranti. Il CERD ha raccomandato che l’Italia modifichi la propria legislazione per consentire ai migranti privi di documenti di rivendicare diritti derivanti da precedente occupazione e di presentare reclami indipendentemente dallo stato dell’immigrazione.

G. Diritto alla sicurezza sociale e ad un adeguato standard di vita

65) Il CRC ha manifestato profonda preoccupazione per l’alto

Foto (divisa fra le pagine 8 e 9) - Paper Weaving - © Joel Penner - https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/

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ATTUALITÀ

numero di bambini che vivono in povertà e per la concentrazione sproporzionata di povertà infantile nel sud d’Italia

H. Diritto alla salute

68) Il CRC ha preso atto con preoccupazione delle discrepanze nella qualità ed efficienza dell’assistenza sanitaria fra le regioni del sud e del nord

I. Diritto all’istruzione

69) Il CRC ha raccomandato vivamente che l’Italia si astenga da ulteriori tagli di bilancio nel settore dell’istruzione, che introduca meccanismi di sostegno educativo per i bambini di famiglie economicamente svantaggiate, che approvi una legge in materia di accesso alla formazione professionale e che sviluppi programmi per migliorare l’integrazione nelle scuole di bambini stranieri e delle minoranze

J. Persone con disabilità

71) Il CRC ha manifestato preoccupazione perché la disabilità è stata ancora concettualizzata come un “handicap”, piuttosto che affrontarla con l’obiettivo di garantire l’inclusione sociale dei bambini con disabilità. Si raccomanda che l’Italia garantisca un approccio basato sui diritti nei confronti dei bambini con disabilità

K. Minoranze

73) Il CERD si è detto estremamente preoccupato per il censimento che aveva avuto luogo successivamente allo stato di emergenza imposto nel maggio 2008 e il “Decreto Emergenza Nomadi” per quanto riguarda gli insediamenti di comunità nomadi. Il CERD si è preoccupato per le informazioni che, nel corso di tale censimento, erano stati raccolte le impronte digitali e le fotografie dei Rom e Sinti residenti nei campi, compresi i bambini. Il CERD ha fortemente raccomandato che l’Italia informi le comunità interessate che i dati sono stati distrutti e che si asterrà dallo svolgere censimenti di emergenza destinati a gruppi di minoranza. Il CRC ha fatto analoghe raccomandazioni.

L. Migranti, rifugiati e richiedenti asilo

80) Il CERD ha manifestato preoccupazione riguardo alle violazioni delle norme internazionali in materia di protezione dei rifugiati o richiedenti asilo, come dimostrato dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani del 23 febbraio 2012 contro l’Italia in materia di espulsione collettiva di 24 persone. Il CERD ha raccomandato all’Italia di garantire che le condizioni nei centri per i rifugiati e richiedenti asilo corrispondano agli standard

internazionali. L’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) ha fatto una raccomandazione simile.

84) L’UNHCR ha indicato che all’Italia ancora manca un’adeguata procedure multidisciplinare di determinazione dell’età. Il Relatore Speciale sui diritti umani dei migranti ha raccomandato che l’Italia istituisca un meccanismo globale per l’identificazione di minori non accompagnati comprendente non solo gli esami medici, ma anche un approccio psicosociale e culturale, al fine di individuare le migliori misure di protezione specifiche nel migliore interesse di ogni giovane. Il CRC ha raccomandato inoltre che l’Italia introduca una completa legislazione che garantisca assistenza e protezione per i minori non accompagnati.

86) Il CRC ha raccomandato che l’Italia assicuri che ogni minore sotto la sua giurisdizione, sia in alto mare, sia sul suo territorio, che ha cercato di entrare in Italia, abbia avuto diritto ad un esame individuale delle sue condizioni ed abbia avuto accesso rapido alle procedure d’asilo e altre pertinenti procedure nazionali e internazionali di protezione, e di rivedere le sue leggi interne per assicurare che esse vietino l’espulsione di persone di età inferiore a 18 anni, anche per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, ove ci fossero sostanziali motivi per ritenere che vi fosse un rischio reale di danno irreparabile per il minore.

87) Il CRC si è detto preoccupato del fatto che l’Italia non abbia una legge quadro sull’asilo politico. L’UNHCR ha affermato che alla frammentazione del quadro legislativo in materia di asilo corrisponde una ripartizione delle competenze tra le diverse istituzioni, in cui diversi attori

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ATTUALITÀ

spesso funzionano senza un adeguato coordinamento.

Riguardo ai diritti umani in Italia, Amnesty International ha presentato le seguenti osservazioni:

L’Italia non ha messo in atto le raccomandazioni dell’UPR, accettate, di rafforzare l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR). Secondo AI, la capacità dell’UNAR di combattere le discriminazioni è rimasta limitata a causa della sua mancanza di indipendenza nei confronti del governo.L’Italia non ha preso alcuna misura per accrescere la responsabilità della polizia a livello sistemico, nonostante le indagini ed i procedimenti giudiziari relativi agli abusi del G8 di Genova contro i manifestanti ed i numerosi casi di decessi in custodia e maltrattamenti da parte della polizia.Successivamente al primo UPR sull’Italia, la discriminazione nei confronti dei Rom e le violazioni dei loro diritti sono continuate. Lo “stato di emergenza”, dichiarato nel maggio 2008, era rimasto in vigore fino a quando fu condannato dalla magistratura nel novembre

2011, quando il Consiglio di Stato ha stabilito che lo “stato di emergenza” fosse infondato. Il Governo ha impugnato la sentenza, ma nell’aprile 2013 la Corte di Cassazione ha confermato il giudizio del Consiglio di Stato e ha confermato che lo “stato di emergenza” fosse illegale.

In occasione delle elezioni politiche del 2013, Amnesty International ha predisposto un’agenda in 10 punti con cui viene richiesto un impegno del Parlamento in tema di diritti umani.

I 10 punti sono:1. Garantire la trasparenza delle forze di polizia e introdurre il reato di tortura2. Fermare il femminicidio e la violenza contro le donne3. Proteggere i rifugiati, fermare lo sfruttamento e la criminalizzazione dei migranti e sospendere l’applicazione degli accordi con la libia sul controllo dell’immigrazione4. Assicurare condizioni dignitose e rispettose dei diritti umani nelle carceri5. Combattere l’omofobia e la transfobia e garantire tutti i diritti umani alle persone lgbti (lesbiche,

gay, bisessuali, transgender e intersessuate)6. Fermare la discriminazione, gli sgomberi forzati e la segregazione etnica dei rom 7. Creare un’istituzione nazionale indipendente per la protezione dei diritti umani8. Imporre alle aziende italiane il rispetto dei diritti umani9. Lottare contro la pena di morte nel mondo e promuovere i diritti umani nei rapporti con gli altri stati10. Garantire il controllo sul commercio delle armi favorendo l’attuazione del trattato internazionale sul commercio delle armi

Giuseppe Provenza

- Responsabile Gruppo Italia 243 di Amnesty International Sezione Italiana- Membro del Coordinamento Europa di Amnesty International Sezione Italiana

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Per avere una pertinente chiave di lettura del coinvolgimento del popolo nella crisi che scuote la parte settentrionale dell’Iraq, la Siria e la Turchia, è necessario partire dalla conoscenza storica del popolo curdo. In effetti dalla folgorante offensiva dell’ISIS (Islamic State of Iraq and Siria) nel nord dell’Iraq, la questione curda è più che mai di attualità.

Gli storici1 si accordano generalmente ad attribuire ai curdi un’appartenenza al ramo iraniano della grande famiglia del popolo indo-europeo. Tra il 1169 e il 1250 una dinastia curda fondata dal famoso Saladino emerge ed assume la leadership del mondo musulmano per circa un secolo fino all’invasione turco-mongola del XIII secolo. L’impero di Saladino comprendeva oltre la quasi totalità del Kurdistan2, tutta la Siria, l’Egitto e lo Yemen.

Nella secondo metà del XV secolo il Kurdistan inizia a riprendersi dall’effetto delle invasioni turco-mongole e ad assumere la forma di un’entità autonoma , unita dalla sua lingua, la sua cultura e la sua civilizzazione ma politicamente frammentata in una seria di principati.

Già all’inizio del XVI secolo, il Kurdistan diventava una questione centrale delle rivalità tra l’Impero ottomano e la Persia. Da un lato, il nuovo Scià della Persia che ha

imposto lo sciismo come religione di Stato cerca di espanderlo ai suoi vicini. Dall’altro lato, gli ottomani vogliono bloccare la politica espansionista dello Scià , rafforzare le loro frontiere con l’Iran per poter lanciarsi nella conquista dei paesi arabi. Preso tra i due giganti, il popolo curdo politicamente frammentato non aveva nessuna chance di sopravvivere come entità indipendente.

Posto davanti alla scelta di essere un giorno o l’altro annesso dalla Persia o accettare formalmente la supremazia del Sultano ottomano in cambio di una larghissima autonomia, i dirigenti curdi optarono per la seconda soluzione. Pertanto il Kurdistan o più esattamente i numerosi feudi e principati entrarono sotto la protezione ottomana attraverso

la via della diplomazia. Questo statuto particolare assicurò al Kurdistan quasi tre secoli di pace (fino all’inizio del XIX secolo). In effetti, gli ottomani, protetti dalla possente barriera curda di fronte all’Iran potevano concentrare le loro forze su altri fronti. Rimane in ogni caso il fatto che ogni principe era più preoccupato ad occuparsi degli interessi della sua dinastia, per cui le dinamiche familiari e

del clan prevalsero spesso su tutte le altre considerazioni. Perciò decisero di sollevarsi tentando di creare un Kurdistan unificato solo quando all’inizio del XIX secolo l’impero ottomano si ingerì nei loro affari e cercò di porre fine alla loro autonomia.

Dal 1847 al 1881, si susseguirono numerose insurrezione guidate da capi tradizionali, sovente religiosi, per la creazione di uno Stato curdo, insurrezioni che durarono fino alla prima guerra mondiale . Dopo aver annesso uno dopo l’altro i principati curdi, il potere turco s’impegnò ad integrare

l’aristocrazia curda dando generosamente loro dei posti di prestigio. La società curda affrontò la prima guerra mondiale divisa, decapitata e senza un progetto collettivo per il suo futuro. Nel 1915, gli accordi franco-britannici detti Sykes-Picot3 previdero lo smembramento del loro stato. I curdi erano già in conflitto sul futuro della loro nazione: da un

ATTUALITÀ

IL POPOLO CURDO, DALLE SUE ORIGINIALL’ATTUALITÀ GEOPOLITICA

1 Per grande parte del contesto storico, ref. Kendal Nezan, Presidente dell’Istituto curdo di Parigi in, “Un aperçu de l’histoire des kurde,2014.2 Se il termine Kurdistan – letteralmente “paese dei curdi” è regolarmente impiegato, il Kurdistan in quanto Stato unificato alle frontiere internazionalmente riconosciuto non esiste.3 http://www.europe-solidaire.org/IMG/article_PDF/article_a30786.pdf.

Foto - Kurd Kurdistan - © jan Sefti - https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/

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ATTUALITÀ

lato, alcuni, molto permeabili all’ideologia “pan-islamica” del sultano-califfo, vedevano la loro salvezza nello statuto di autonomia culturale e amministrativa nel quadro dell’impero ottomano. Dall’altro lato, gli altri propendevano per il principio delle nazionalità, combattendo per l’indipendenza totale del Kurdistan. La scissione si accentuò nel 1918 all’indomani della sconfitta ottomana di fronte alle potenze alleate. Gli indipendentisti formarono una delegazione per andare alla conferenza di Versailles per presentare le loro rivendicazioni per una nazione curda. La loro azione contribuì alla presa in considerazione per la prima volta, da parte della comunità internazionale , del fatto nazionale curdo. Sebbene il Trattato di Sèvres, concluso il 10 agosto 1920 tra gli alleati tra cui la Francia, gli Stati Uniti e l’impero ottomano raccomandasse alla sezione III (art. 62-64) la creazione su una parte del territorio del Kurdistan di uno Stato curdo, questo trattato non fu mai implementato. L’ala tradizionale del movimento curdo dominato dai capi religiosi siglò un’alleanza con il capo nazionalista turco Mustafa Kemal venuto in Kurdistan a cercare aiuto presso i capi curdi per liberare l’Anatolia occupata. Già a quell’epoca la potenza militare curda era sollecitata tant’è che le prime forze della guerra d’indipendenza della Turchia provenivano di fatto dalle province curde. Fino alla vittoria definitiva sui greci nel 1922, Mustafa Kemal non cessò di promettere la creazione di uno Stato musulmano dei turchi e dei curdi. Il 24 luglio 1923, un nuovo trattato venne firmato tra il governo kemalista d’Ankara e le potenze alleate, annullando il Trattato di Sèvres. Senza apportare nessuna

garanzia alla causa dei diritti dei curdi, si consacrava l’annessione della maggior parte del Kurdistan al nuovo stato turco.

Per ciò che riguarda la questione della provincia curda di Mossul ricchissima di petrolio , Turchi e britannici la rivendicavano mentre la sua popolazione durante une consultazione organizzata dalla Società delle Nazioni si era pronunciata con una proporzione del 7/8 a favore di uno Stato curdo indipendente. Argomentando che lo Stato Iracheno non sarebbe sopravvissuto senza le ricchezze agricole e petrolifere di questa provincia, la Gran Bretagna finì per ottenere il 16 dicembre 1925 dal Consiglio della Società delle Nazioni l’annessione di questi territori curdi all’Iraq che a quel tempo era sotto il suo mandato.

Con gli sfollamenti consecutivi delle guerre (prima e seconda guerra mondiale), i problemi di apolidia diventarono di attualità4. Già dal 1925 il paese dei curdi, conosciuto dal XII secolo sotto il nome di Kurdistan si trovava diviso tra 4 Stati: Turchia, Iran, Iraq e Siria. I curdi sono oggi il più grande popolo apolide del mondo.

A conferma che spesso la storia si ripete, nel contesto dell’offensiva dell’ISIS, dopo le prime sconfitte nelle montagne Sinjar e nella piana di Mossul, le truppe curde, appoggiate dai bombardamenti aerei americani e attraverso l’approvvigionamento di armi da parte degli Stati Uniti e dell’Europa (Francia, Regno-Unito, Germania, Italia e Repubblica Ceca ) i curdi hanno conquistato dei territori persi, come la diga di Mossul e la città d’Amerli.

Come nel passato il loro ruolo rimane fondamentale nella strategia militare delle grandi potenze in gioco. Se nel passato servirono da zona cuscinetto tra l’impero ottomano e persiano oggigiorno la situazione è più complessa. Intanto, oltre alla loro divisione geografica in quattro paesi, i curdi sono divisi anche da un punto di vista religioso. La maggior parte dei curdi è musulmana sunnita

(80%). Il resto della popolazione di confessione musulmana si divide tra lo sciismo e l’alevismo. In Iran, 2/3 seguono il rito sunnito. Questi ultimi rappresentano quindi una doppia minoranza: etnica e religiosa ciò che fa di loro dei bersagli di persecuzioni continue nella Repubblica islamica dell’Iran. I curdi cristiani si dividono tra cattolici, assiri, chaldeani, e siriaci.La divisione geografica, culturale e religiosa oltre che la mancanza

4 http://legal.un.org/avl/pdf/ha/cssp/cssp_f.pdf.

Foto (divisa fra le pagine 12 e 13) - Kurdistan Nature, Landscape - © jan Sefti - https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/

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ATTUALITÀ

di una visione politica comune del loro futuro fa del popolo curdo un bersaglio permanente di Stati sotto le cui regole i primi sono costretti a sottostare. Il punto comune sono le persecuzioni che subiscono anche se esse sono di diversa natura da paese a paese. Un sentimento nazionale si è rinforzato per via delle persecuzioni e le repressioni subite: interdizione della pratica della loro lingua5, interdizione di una libera pratica

delle religioni6 e della loro cultura7, impossibilità di godimento del diritto di associazione e di formare un partito politico, un’arabizzazione dei loro villaggi, la creazione di una cintura di popolazione non curda

per frammentarli, deportazione, prigionia. Nell’ Iraq di Saddam Hussein, nel 1988, approfittando di un cessate il fuoco con l’Iran, quest’ultimo decise di colpire duramente i curdi d’Iraq. L’attacco contro la città d’Halabja, nel Kurdistan iracheno, caduta il 15 febbraio 1988 nelle mani dei peshmerga, fu condotto dai MIG e Mirage dell’esercito iracheno. Gli aerei lanciarono dei gas chimici. Il bilancio fu di 5.000

morti. Ali Hassan al-Majid, a capo della missione militare, fu accusato di genocidio e condannato a morte e giustiziato.

A quel tempo però l’occidente era amico dell’Iraq contro il nemico Iran e si rese co-responsabile del massacro, avendo fornito all’Iraq come nel caso della Francia la sua flotta aerea per rispondere ai bisogni dell’esercito iracheno.

In quell’occasione il principio della “Responsability to protect” della comunità internazionale doveva prevalere sugli interessi strategici ed egoistici delle potenze. Nel suo rapporto8, l’ufficio dello Special Adviser sulla Prevenzione del Genocidio dichiara che il dovere di prevenire e bloccare il genocidio e le atrocità di massa riguarda prima i singoli Stati nei quali i cittadini

si trovano, ma che allo stesso tempo la comunità internazionale ha un ruolo che non può essere fermato dall’invocazione della sovranità nazionale da parte dello Stato in questione. I tre pilastri

della responsabilità di proteggere cosi come riportati nel rapporto del 2005 del Summit internazionale delle Nazioni Unite sono: 1) che lo Stato detiene la prima responsabilità, 2) che la comunità internazionale ha la responsabilità di incoraggiare e assistere gli Stati ; 3) che la comunità internazionale ha la responsabilità di usare i mezzi diplomatici, umanitari e altri mezzi per la protezione della popolazione in conformità con il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite9. Il principio della responsabilità di proteggere non è altro che la messa in pratica del primo articolo della Carta delle Nazioni Unite10. I primi interventi di protezione delle popolazioni della comunità internazionale si sono effettuati attraverso la cosiddetta “assistenza umanitaria”11.

Le giurisdizioni internazionali possono essere sollecitate nei casi di crimini gravi. Nel 2013 delle vittime di quell’attacco chimico contro i curdi d’Iraq hanno depositato una denuncia contro ignoti in vista di aprire delle indagini per complicità in un crimine contro l’umanità in Kurdistan. La denuncia riguarda due società francesi e i loro dirigenti, sospettati di aver esportato in Iraq delle attrezzature per la produzione del gas chimico.

Dal 1991 al 2003, il Kurdistan iracheno, protetto dalla copertura aerea garantita dalle Nazioni Unite, ha goduto di una quasi-indipendenza di fatto. Con la nuova costituzione del 2005, i curdi iracheni hanno ottenuto lo status di una larga autonomia

5 http://www.institutkurde.org/info/depeches/cedh-condamnation-de-la-turquie-concernant-la-langue-kurde-4218.html.6 « Affaire Cumhuriyetçi Egitim Ve Kultur Merkezi Vakfi c. Turquie] » (requête n°32093/10), Cour européenne des Droits de l’homme, 2 décembre 2014.7 https://aledh.files.wordpress.com/2008/01/memoire-christelle-hebert.pdf. 8 Secretary general’s 2009 Report (A/63/677) on Implementing the Responsability to Protect ; Outcome Document of the 2005 united Nations World Summit ( A/RES/60/1, para. 138-140)9 Carta delle Nazioni Unite, Capitolo VII 10 Articolo 1.1 della carta delle Nazioni Unite: I fini delle Nazioni Unite sono:1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure collettiveper prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazionidella pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai princìpi della giustizia e del diritto internazionale,la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebberoportare ad una violazione della pace11 http://files.studiperlapace.it/spp_zfiles/docs/arienti.pdf, p.16

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ATTUALITÀ

nello Stato federale. Mentre il caos regna in tutto il resto del paese, il Kurdistan iracheno con Erbil come capitale, è una zona prospera che gode di una relativa eccezionale stabilità. Secondo il Ministero della pianificazione e dell’organizzazione mondiale della migrazione (OIM), il 47 % dei 2 milioni d’iracheni sfollati sono stati accolti nel Kurdistan Iracheno12. Secondo Jacqueline Badcock, Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, il partenariato tra il governo iracheno, il governo regionale curdo e la comunità internazionale è fondamentale13. E quindi il governo regionale curdo nonostante il suo status di autonomia è considerato dalla comunità internazionale come un soggetto giuridico internazionale quasi alla pari di uno Stato che sviluppa il proprio canale diplomatico e i suoi partenariati con le ONG. Dal 1980 il Comitato

Internazionale della Croce Rossa promuove il rispetto del diritto internazionale umanitario in Irak con l’esercito iracheno, le forze peshmergas e le forza di sicurezza del Kurdistan. Il Governo Regionale Curdo è considerato dagli altri come un esempio che dimostra come la soluzione migliore non sia per forza l’indipendenza ma che sia sufficiente un’autonomia effettiva di ogni minoranza nel quadro degli quattro Stati esistenti in vista di un’unione futura.

L’evoluzione della situazione in Siria è molto simile in quanto i curdi , molto meno numerosi che in Iraq, hanno colto l’occasione del caos della guerra per stabilire tre zone autonome nel Nord-Est della Siria con l’accordo tacito di Bashar El-Assad che ha ritirato il suo esercito senza combattere per inviarlo nei fronti più urgenti. Sono i combattenti del Partito dell’Unione Democratica (PYD)

che controllano queste regioni . Questo partito è l’ala siriana del partito dei lavoratori del Kurdistan (il famoso PKK: Partiya Karkerên Kurdistan) soprattutto influente tra i curdi della Turchia e diretto fino al suo arresto da Abdullah Ocalan. Questo legame preoccupa molto la Turchia e gli occidentali.

Infatti, il PKK è classificato come organizzazione terrorista dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, e possiede delle ramificazioni in ogni “Kurdistan”: in Siria con il Partito dell’unione democratico (PYD), in Iran con il partito per una via libera al Kurdistan (PJAK) e in Iraq con il PCKD.

In trent’ anni, più di 45.000 persone sono morte nel conflitto che oppone lo Stato turco ai ribelli curdi del PKK.

La Turchia è stata condannata più volte per le sue violazioni dei diritti

Foto - kurdistan stone houses - © jan Sefti - https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/

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ATTUALITÀ

umani fondamentali nei confronti del popolo curdo come ad esempio per detenzione arbitraria14, per l’uso eccesiva della forza e per l’assenza di inchieste (nei confronti dei curdi)15, per aver praticato delle torture, stupro e trattamenti disumani e degradanti16. L’ONG CETIM ha fatto una denuncia importante elencando le varie violazioni subite dal popolo curdo in Turchia17.

Se le giurisdizioni europee condannano la Turchia per le violazione elencate supra, ciò rimane riduttivo rispetto alle condanne che potrebbe subire se invece di definire i membri del PKK dei terroristi, venissero definiti combattenti ai sensi del diritto internazionale umanitario. In effetti, secondo il diritto internazionale umanitario, le convenzioni di Ginevra si applicano solo nei casi di conflitti armati internazionali e conflitti armati

non internazionali18 escludendo le ribellioni interne e gli atti di terrorismo che nel caso specifico della Turchia riguarderebbero dei ribelli “nazionali“ turchi e quindi una faccenda interna19.

Secondo Widad Akrawi, nella sua conferenza stampa intitolata: “The kurds and international Agreements”20, rifiutarci di definire il conflitto tra il governo turco e la minoranza curda del PKK un conflitto armato non internazionale porta a non assicurare un’adeguata protezione dei civili e un maggiore rispetto della condotta delle ostilità, evitando delle condanne proprio per tale condotta delle ostilità secondo il diritto internazionale umanitario. Lottare per questo riconoscimento dovrebbe essere il cavallo di battaglia di Amnesty internazionale.

Non è più surreale parlare di un Kurdistan unificato.

Paradossalmente, la situazione attuale di conflitto generalizzato e di avanzata dell’ISIS può essere considerata come un’opportunità per i curdi di unirsi con l’indebolimento dell’Iraq e la guerra civile in Siria. Secondo Kendal Nezan, il direttore dell’Istituto curdo di Parigi, “è un momento critico , se la guerra civile tra sunniti e sciiti in Iraq persiste, i curdi non avranno altra scelta che sottrassi a questa situazione”. Ciò significa proclamare l’indipendenza de iure dopo averlo stabilito de facto.Rimane il fatto che le strategie politici tra i vari gruppi curdi sono diverse, come le ambizioni e i rispettivi problemi. In Siria ci sono 17 partiti politici, altri in Iraq, in Siria e in Iran. Il PDK di Barzani (presidente del Governo Regionale del Kurdistan Iracheno) ha dei buoni rapporti con Recep Tayyip Erdogan mentre il PKK è in guerra totale con Ankara. L’UPK è vicino all’Iran. La lotta contro le violazioni che le loro popolazioni subiscono rimane quindi il loro solo punto comune.

14 Aksoy contro Turchia , CrEDH, 18 dicembre 1996, §65-87. Art.5par.3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.15 Gulec c. Turchia , 27 luglio 1998, §§63-83. Violazione dell’art.2 della convenzione.16 Aydin c. Turchia, CrEDH , 25 settembre 1997, §§ 62-88. Violazione dell’art.3 della Convenzione.17 http://www.cetim.ch/fr/interventions_details_print.php?iid=141.18 https://www.icrc.org/fre/assets/files/other/opinion-paper-armed-conflict-fre.pdf19 Art. 2 e 3 comuni alle quattro convenzioni di Ginevra del 1949 e art. 1 del protocollo aggiuntivo alle 4 convenzioni di Ginevra del 1949.20 Widad Akrawi: The Kurds and International Agreements, Press Conference, Brussels, June2.2008.

Foto - Kurdistan - © jan Sefti - https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/

Cissé Mouhamed

- LL.M Diritto Internazionale deiConflittiArmati–GenevaAcademy- Consulente a titolo gratuito del Comune di Palermo per i diritti umani

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AMERICA LATINA

LUOGHI

Il 4 settembre 2014, sono stati uccisi quattro attivisti indigeni appartenenti alla tribù degli ashàninkas nell’Alto Tamaya - Saweto, una piccola comunità nella regione peruviana di Ucayali, al confine col Brasile, immersa nella foresta pluviale. Le loro morti sono considerate una rappresaglia per il loro attivismo contro il disboscamento illegale dilagante della foresta amazzonica e lo sfruttamento da parte dei narcos delle vie fluviali. I quattro erano di ritorno da un viaggio a piedi in Brasile dove si erano incontrati con altri leader indigeni per discutere delle sorti delle loro terre ancestrali. Faceva parte del gruppo anche Edwin Chota, considerato il Chico Mendes peruviano per la sua lotta per la preservazione della foresta amazzonica e che, proprio per questo suo impegno civile e ambientalista, era stato oggetto di crescenti minacce di morte negli ultimi mesi, minacce che aveva regolarmente denunciato alle autorità peruviane, senza ricevere alcuna risposta.

L’uccisione di Edwin Chota e degli altri membri della comunità ashàninkas è purtroppo solo uno degli innumerevoli episodi di violazioni dei diritti umani commessi ai danni delle popolazioni indigene che per giunta, nella maggior parte dei casi, passano sotto silenzio. I popoli nativi di tutto il continente americano continuano infatti a essere vittime di marginalizzazione e discriminazione storica, molti sono costretti a vivere in condizioni di povertà estrema, con bassi livelli di scolarizzazione, ridotta speranza di vita ed elevata mortalità materna e infantile. Il paradosso è che molte di queste comunità risiedono in aree ricche di minerari e risorse naturali, ma di norma non vedono riconosciuti i diritti sulle loro terre, a cominciare dalla facoltà di partecipare alle decisioni che ne comportano uno sfruttamento in nome di interessi privati nazionali e stranieri. Sempre più spesso i territori indigeni vengono infatti occupati per realizzarvi progetti di imprese private e multinazionali che, violando le norme esistenti, portano allo sfruttamento agricolo e idrico del suolo o alla distruzione dell’ecosistema per l’estrazione di risorse minerali e del legno. Tutto ciò avviene con il beneplacito delle autorità locali che, anzi, fanno passare tali iniziative come preziose opportunità per la crescita della ricchezza nazionale. Si è così pericolosamente affermato un clima ostile nei confronti delle comunità indigene che si oppongono a tali progetti di “sviluppo” e che hanno portato i nativi a essere vittime di intimidazioni, aggressioni e omicidi, i loro leader oggetto di procedimenti penali basati su accuse infondate o pretestuose e diverse comunità a essere cacciate dai loro territori o

minacciate di sgombero forzato. La discriminazione e l’esclusione sociale storicamente radicate in molte società latino americane fanno sì che la maggior parte di questi crimini resti impunito. In alcuni casi poi sono le stesse autorità a reprimere con la forza le proteste dei nativi per il riconoscimento dei loro diritti, come in Perù, dove nel giugno del 2009, a Bagua, nella Regione di Amazonas, si sono verificati pesanti scontri tra la polizia e le comunità native locali, che si opponevano a una serie di investimenti privati nelle loro terre voluti dall’allora Presidente Alan García, nei quali sono morte 34 persone tra forze dell’ordine e manifestanti.

Eppure quasi tutti i Paesi latino americani si sono dotati di norme interne, anche a livello costituzionale, che riconoscono i diritti dei popoli indigeni o hanno sottoscritto norme di diritto internazionale in tal senso, come la Convenzione 169 dell’ILO, in vigore dal 1991, e ratificata da 15 Stati della regione, che attualmente costituisce l’accordo internazionale più completo in materia di tutela dei popoli nativi, o la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, adottata dall’Assemblea generale nel 2007 e votata unanimemente da tutti i Paesi latino americani, che, pur non essendo legalmente vincolante, rappresenta un’indubbia evoluzione della normativa e della volontà degli Stati in materia. In particolare, i due documenti sanciscono il principio fondamentale secondo cui i popoli indigeni devono essere consultati ogniqualvolta vengano varate leggi o progetti di sviluppo che abbiano un impatto sulle loro vite. Il dramma

CONTINUA LA LOTTA DEI POPOLI NATIVIPER IL RICONOSCIMENTO DEI LORO DIRITTI

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LUOGHI

AMERICA LATINA

che stanno vivendo i popoli nativi è dunque paradossalmente dovuto al mancato rispetto, in primis da parte dei governi, di norme concepite e adottate proprio per proteggerne i diritti.

Per far fronte a questa situazione, diverse comunità indigene si sono mobilitate e hanno fatto sentire la loro voce, ottenendo dei successi di portata storica.

Nel 2012 la Corte Interamericana dei diritti umani ha emesso una sentenza a favore del popolo kichwa de Sarayaku, condannando lo Stato ecuadoriano per aver autorizzato un progetto estrattivo nel territorio di tale comunità senza il suo consenso previo. La vicenda risale al 2002, quando una compagnia petrolifera aveva occupato parte del territorio dei Sarayaku per realizzare alcune esplorazioni petrolifere che avevano comportato la contaminazione dell’ecosistema e del territorio. La sentenza della Corte, nel riconoscere il diritto dei Sarayaku a essere preventivamente consultati, ha imposto allo Stato ecuadoriano una serie di misure riparatorie, tra cui l’adottare i provvedimenti necessari per regolare il diritto dei popoli indigeni alla consulta e al consenso previo, libero e informato. Sebbene quest’ultimo, così come altri punti della sentenza debbano ancora trovare esecuzione, il 1° ottobre 2014 la comunità Sarayaku ha ricevuto le scuse ufficiali del governo ecuadoriano, un passo di grande importanza nella lotta per l’affermazione dei loro diritti e di quelli di tutte le comunità native.

Parallelamente, ad ottobre 2014 si è conclusa l’azione legale intrapresa dalla comunità Sawhoyamaxa nel 1991 per ottenere la restituzione delle proprie terre, nel nord del Paraguay, di cui si era appropriato l’uomo d’affari e proprietario terriero

Heribert Roedel alla fine degli anni Ottanta, costringendoli a vivere per anni ai bordi della strada. Nel 2006 la Corte Interamericana dei diritti umani aveva condannato lo Stato paraguayano per la violazione dei diritti dei Sawhoyamaxa, sollecitandolo a emanare una legge che restituisse loro 14.404 ettari di terra. Il provvedimento in questione è stato adottato a giugno 2014 e successivamente impugnato da un gruppo di imprese appartenenti a Heribert Roedel. Il 2 ottobre 2014 la Corte suprema del Paraguay, respingendo tale ricorso, ha posto la parola fine alla lotta di questa comunità per il riconoscimento dei propri diritti.

Questi casi di successo sono quindi la chiara dimostrazione di come le cose possano cambiare e di come i popoli indigeni possano vedere riconosciuti i loro diritti individuali e collettivi. Ciò che è finora mancata è la volontà politica di muoversi in questa direzione. E’ pertanto fondamentale, come raccomanda Amnesty International, che i governi della regione adempiano ai loro obblighi, sanciti anche a livello internazionale, in materia di difesa e protezione dei diritti delle popoli ancestrali, adottando innanzitutto le norme che assicurino loro il diritto di essere interpellati e poter

intervenire liberamente, in anticipo e consapevolmente nelle decisioni che li riguardano. Attualmente solo il Perù ha adottato, nel 2011, una legge in questo senso, mentre in Bolivia esiste un progetto di legge su cui si sta dibattendo.

Gli Stati occidentali, dal canto loro, possono e devono contribuire in maniera significativa al processo di affermazione dei diritti dei popoli nativi dal momento che sono le loro imprese a realizzare molti dei progetti di “sviluppo” che incidono sul destino di queste comunità. Un passo importante in questa direzione può essere compiuto attraverso l’adozione della Convenzione 169 dell’ILO che i governi occidentali si ostinano a non voler ratificare sulla base del pretesto, infondato, che sul loro territorio non risiedano popoli nativi, ma che se ratificata comporterebbe l’obbligo per loro di rispettare le norme in materia di consultazione e rappresenterebbe uno forte strumento di pressione sulle imprese occidentali operanti nell’area.

Francesca Cerrinaper il Coordinamento America Latina

- Membro del Coordinamento America Latina di Amnesty International Sezione Italiana- Membro Gruppo Italia 238

Foto - Peru 1999.48 Into the Treetops - © anoldent - https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/

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DONNE

AMNESTY

La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, conosciuta da molte e molti come Convenzione di Istanbul è stata approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011.

La Convenzione è l’ultima di una serie di iniziative intraprese fin dal 1990 dal Consiglio d’Europa per promuovere soluzioni efficaci a favore delle donne che soffrono violenza maschile e che sono richiamate tutte nel preambolo.

Aperta alla firma l’11 maggio del 2011 a Istanbul il trattato è stato firmato da 32 paesi e il 12 marzo 2012 la Turchia è diventata il primo paese a ratificare la Convenzione, seguito dai seguenti paesi nel 2014: Albania, Portogallo, Montenegro, Italia, Bosnia-Erzegovina, Austria, Serbia, Andorra, Danimarca, Francia, Spagna e Svezia.

Gli Stati che hanno ratificato la Convenzione si sono giuridicamente vincolati alle sue disposizioni, una volta entrata in vigore.

La Convenzione di Istanbul è “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza”[7].Le innovazioni apportate dalla

convenzione sono rilevanti e importanti, discendono da una valutazione delle iniziative e dell’attuazione di atti pregressi, e da una valutazione sull’omogeneità delle risposte nazionali alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Risponde alla necessità di norme giuridiche armonizzate per garantire che le vittime beneficino dello stesso livello di protezione in tutta Europa. Il Consiglio d’Europa ha deciso che era necessario stabilire degli standard globali per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica.

Riconosce che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione” e che l’elemento chiave per prevenire la violenza è il raggiungimento reale dell’uguaglianza di genere.

La convenzione riconosce e definisce la violenza di genere, ne elenca le varie forme (la violenza domestica, le molestie sessuali, lo stupro, il matrimonio forzato, i delitti commessi in nome del cosiddetto “onore” e le mutilazioni genitali femminili, gli stupri e violenze sessuali sistematici e diffusi nei casi di conflitti armati tra stati) e soprattutto stabilisce che queste forme di violenza costituiscono una grave violazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze. Riguardo alla violenza domestica afferma che anche gli uomini possono essere vittime di tale forma di violenza ma che questo fenomeno colpisce in modo sproporzionato le donne. E che le donne e le ragazze sono

esposte maggiormente al rischio di subire violenza di genere rispetto agli uomini. Riconosce, altresì, la violenza assistita e cioè che i bambini e le bambine sono vittime di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia.

La struttura dello strumento è basato sulle “quattro P”: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, perseguimento dei colpevoli e politiche integrate e organiche. Inoltre, il trattato stabilisce una serie di delitti caratterizzati da violenza contro le donne che gli Stati dovrebbero includere, se non lo avessero già fatto,nei loro codici penali o in altre forme di legislazione. I reati previsti dalla Convenzione sono: la violenza psicologica, gli atti persecutori - stalking, la violenza fisica la violenza sessuale, compreso lo stupro, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata, le molestie sessuali.

In Italia, la Camera dei Deputati ha approvato all’unanimità la ratifica della convenzione in data 28 maggio 2013 e sempre all’unanimità il Senato ha convertito il testo in legge il 19 giugno 2013. La convenzione però entra in vigore solo il primo agosto del 2014 quando si è raggiunto il numero necessario di ratifiche (10 di cui 8 da parte degli stati membri).

Un atto inevitabile, per lo stato Italiano, la ratifica della convenzione, un atto raccomandato dalla Special Rapporteur delle Nazioni Unite per il contrasto della violenza sulle donne, Rashida Manjoo,che nelle sue osservazioni faceva notare che “Femmicidio e

LA CONVENZIONE DI ISTANBUL, LUCI ED OMBRE

Foto - “Shadow - IMG_1951” - © N i c o l a - https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/

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femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita”.

Rashida Manjoo riconosce all’Italia gli sforzi da parte del Governo, attraverso l’adozione di leggi e politiche, incluso il Piano di Azione Nazionale contro la violenza” del 2011, ma, “questi risultati non hanno però portato a una diminuzione di femminicidi o sono stati tradotti in un miglioramento della condizione di vita delle donne e delle bambine”.

Il Rapporto comprende un’analisi puntuale degli aspetti economici e sociali e politici che ne sono all’origine. Un’analisi puntuale sulle cause e le conseguenze di una politica italiana che fa troppo poco per eliminare le disparità di genere. Nel suo rapporto Rashida include una serie di “raccomandazioni” per l’Italia: una legge specifica sulla violenza alle donne, una struttura governativa che tratti solo la parità e la violenza, ma anche la necessità di finanziare case rifugio e centri antiviolenza. Nel rapporto si raccomanda di puntare su prevenzione, protezione delle vittime e punizione dei colpevoli e su politiche atte “a eliminare gli atteggiamenti stereotipati circa i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia, nella società e nell’ambiente di lavoro”.

Rashida Manjoo riconosce l’esistenza di leggi per proteggere le vittime ma non sono ritenute sufficienti. “L’Onu “raccomanda” di intervenire sulle cause strutturali

della disuguaglianza di genere e della discriminazione” che sono la causa del fenomeno.

Insomma non si può pensare di risolvere il problema della violenza maschile contro le donne e dei femminicidi (estrema conseguenza di questa) come un fenomeno da affrontare soltanto sull’emergenza.Pensare alla violenza di genere come un fenomeno strutturale è l’unico modo per mettere a punto un intervento di reale cambiamento.

Ad un’emergenza si risponde con un intervento emergenziale, ad un fenomeno strutturale con un cambiamento strutturale che a partire della progettazione, attuazione, monitoraggio e valutazione delle politiche e dei programmi in tutti gli ambiti politici, economici e sociali garantisca che donne e uomini possano beneficiare in ugual misura di una uguaglianza sostanziale.

Eppure i governi italiani continuano ad agire e a legiferare sull’emergenza anche dopo l’entrata in vigore della Convenzione di Istanbul.

In questo momento, nonostante le sollecitazioni, non è stata attribuita la delega alle Pari Opportunità. Non si ha una ministra/o per le pari opportunità. Nonostante le leggi italiane, ricordiamo la legge

sugli atti persecutori (n. 38 del 2009) e sul femminicidio (n. 119 del 2013) siano delle ottime leggi, puntano esclusivamente sull’aspetto repressivo-giudiziario che non su altri interventi (sostegno a centri e case rifugio, monitoraggio dl fenomeno, interventi di prevenzione, interventi di politica economica e sul welfare per incidere sull’occupazione delle donne e sul loro inserimento/reinserimento lavorativo, su un serio programma di protezione della vittima che

ne tuteli l’incolumità dalla denuncia in poi). Interventi utili e non meno rilevanti delle pene inflitte per combattere il fenomeno. Ancora una volta la violenza maschile contro le donne viene considerata un problema preminentemente di ordine pubblico e non culturale e sociale.

La legge sullo stalking è una buona legge ed è stata utile per quelle

associazioni di donne e per le avvocate che con loro collaborano ai fini di un perseguimento dello stalker e una migliore protezione della vittima. La legge più recente 119/2013 inasprisce le pene e tranquillizza tutti e tutte sapere che i trasgressori abbiamo pene esemplari, ma tutto questo non basta.

Femminicidio, violenza sessuale, violenza di genere, stalking sono aspetti di un unico fenomeno. Occorrerebbe un testo unico organico che raccolga ed armonizzi gli strumenti legislativi esistenti e ne dia un’adeguata copertura finanziaria in modo da permettere una adeguata e reale applicazione. Occorrerebbe un soggetto istituzionale che coordini gli interventi sulla violenza, non solo in concomitanza con l’elaborazione

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del Piano Nazionale contro la violenza ma in forma stabile e continuativa.

E qui occorre introdurre un altro elemento di riflessione. Il ruolo delle associazioni di donne che da 20 anni in Italia lottano contro il fenomeno della violenza maschile contro le donne e che rappresentano per questo motivo una risorsa indispensabile e da valorizzare.

Sugli interventi legislativi adottati e succitati, le associazioni di donne che storicamente con i loro servizi si occupano del tema della violenza di genere e sono riunite in un associazione nazionale dal nome D.I.Re. Donne In Rete contro la violenza, sono intervenute e hanno detto la loro rimanendo inascoltate. Le associazioni sono intervenute sia singolarmente sia condividendo i numerosi comunicati e appelli.

La convenzione di Istanbul riconosce in più di un articolo l’importanza delle organizzazioni che si occupano del tema della

violenza maschile contro le donne. In particolare all’art. 9 “Le Parti riconoscono, incoraggiano e sostengono a tutti i livelli il lavoro delle ONG pertinenti e delle associazioni della società civile attive nella lotta alla violenza contro le donne e instaurano un’efficace cooperazione con tali organizzazioni.”

Tale ruolo è stato spesso messo in evidenza da chi si occupa del tema e da più voci è stato richiesto un loro contributo nell’elaborazione degli strumenti giuridici posti in essere dallo stato Italiano.

Il nuovo Piano nazionale antiviolenza, in uscita in questi giorni, ha previsto il confronto tra tutti gli attori necessari, compreso D.i.Re, che ha partecipato ai gruppi di lavoro per l’elaborazione dello stesso. Da un comunicato della stessa associazione emerge che il ruolo è stato marginale e non valorizzante tant’è che in una lettera aperta al Presidente del Consiglio, al Capo Dipartimento del DPO, al presidente della Conferenza Stato

Regione e ai Ministeri competenti, l’associazione nazionale D.i.Re, denuncia un percorso discontinuo e poco lineare, “è mancato un chiaro indirizzo politico ed è stato spesso faticoso e difficile per i differenti approcci e soprattutto per il tipo di interventi proposti per contrastare la violenza contro le donne. Non vi è stato un vero processo partecipato nella elaborazione dei documenti e dei loro contenuti, come richiesto anche dalla Convenzione di Istanbul (art. 7 e 9), per cui l’obiettivo di condividere un percorso di analisi e di programmazione per lo sviluppo del nuovo Piano di Azione contro la violenza alle donne non può dirsi raggiunto. Evidenziamo che i risultati finali espressi nei vari documenti non sono per noi né soddisfacenti né condivisibili”. Il comunicato ribadisce la necessità di “una metodologia progettuale ed integrata tra tutti i servizi e le agenzie, che permetta alle donne vittime di violenza la massima libertà di scelta sul percorso da intraprendere e consideri prioritaria la loro protezione e quella dei minori coinvolti, non disgiunta

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dalla costruzione del loro nuovo progetto di vita”.Viene ribadito che “Gli interventi efficaci contro la violenza alle donne necessitano, invece, di politiche globali e coordinate, di un approccio integrato e di sistema che preveda un percorso centrato sulla donna, di un coinvolgimento in primo luogo dei centri antiviolenza, quali luoghi privilegiati dell’accoglienza e di forti reti territoriali e nazionali orientate ad un approccio di genere”.

In un altro comunicato della stessa associazione apprendiamo una presa di distanza dalle scelte del governo. Si tratta del documento sottoposto all’intesa della Conferenza Unificata Stato regioni che definisce le caratteristiche e il funzionamento dei centri antiviolenza e prescrive i requisiti strutturali e organizzativi per poter accedere ai finanziamenti previsti dalla legge 119/2013 a partire dal 2015. “Un’intesa che cancellerà un patrimonio qualificato di esperienze e di saperi acquisiti da oltre venti anni dai Centri Antiviolenza. Si disconoscono le specificità che caratterizzano il lavoro delle donne nei Centri antiviolenza e le competenze acquisite dalle operatrici dei centri”. I criteri contenuti nel documento del Governo disconoscono la connotazione politico-culturale dei centri antiviolenza, che hanno come obiettivo fondamentale storicamente espresso quello di promuovere sul territorio la trasformazione dell’impianto culturale da cui si genera la violenza parallelamente all’offrire accoglienza e supporto alle donne che hanno subito violenza.

Da una parte le Istituzioni governative accolgono la raccomandazione di concertare le politiche con chi di questo tema si occupa da anni ma dall’altra gli spunti, le riflessioni, i suggerimenti competenti non vengono accolti

nei documenti e nelle scelte. Non si riconosce e non si valorizza nei fatti l’esperienza maturata dagli anni 70 da queste associazioni e prevalgono logiche diverse, logiche che puntano alla mera distribuzione di fondi per favorire la nascita di luoghi e meri servizi lontani dal riconoscere la natura e l’origine del fenomeno e di conseguenza distanti dalla possibilità di affrontare il fenomeno.

Invece gli elementi imprescindibili da cui partire per redigere un Piano nazionale contro la violenza verso le donne erano stati già evidenziati in occasione del precedente Piano di Azione nazionale nel 2011:

“il principio che le donne vittime di violenza sono soggetti di diritto e quindi le politiche devono rispondere ai bisogni qualificati che le donne esprimono; il riconoscimento dell’associazione nazionale D.i.Re quale interlocutrice competente e rappresentativa sui temi che riguardano la violenza alle donne e dei Centri Antiviolenza quali luoghi specializzati nell’accoglienza e ospitalità delle donne che hanno subito violenza, e dei loro figli/e, prevedendo il loro rafforzamento e sostegno finanziario; l’esplicitazione nel Piano delle responsabilità, degli organismi di gestione, dei tempi delle azioni, dei finanziamenti, delle modalitàdi monitoraggio e di valutazione; la trasversalità degli interventi proposti, rispetto alle aree: sociale, sanitaria, legislativa, giudiziaria; la matrice interministeriale, di chi gestisce le politiche delle aree sopra descritte, con regia DPO; la caratterizzazione quale intervento di sistema, che prevedesse tre aree programmazione: nazionale, regionale, locale.

Non rimane che rilevare e sottolineare una distanza tra gli obiettivi del governo e quello delle associazioni che su questo lavorano.

Le misure finora adottate in Italia sono frammentarie e settoriali, inadeguate a contrastare la violenza maschile contro le donne e sono ben lontane dal dare attuazione alla Convenzione di Istanbul.

Maria Grazia Patronaggio

- Consigliera del direttivo dell’Associazione “Le Onde“

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DIRITTI ECONOMICI E SOCIALI

MONDO

In una recente pubblicazione dell’economista francese Thomas Piketty “ Il capitale nel XXI secolo” -considerata dal premio nobel per l’economia P. Krugman “un’opera superba che cambierà il modo in cui pensiamo la società e ci occupiamo di economia” – porta alla ribalta una nuova forma di conflittualità che caratterizza l’epoca in cui viviamo e cioè il prevalere dei pochi soggetti che posseggono elevati patrimoni sulla stragrande maggioranza di tutte le altre classi sociali

La spiegazione di tale stato di cose sarebbe da ricercare nel fatto che il tasso di redditività del capitale si mantiene, specialmente nei periodi di stagnazione o di crisi, al di sopra del tasso di crescita del reddito nazionale.

All’origine delle moderne forme di squilibrio economico sociale, specie nel mondo occidentale, vi sarebbe appunto la capacità di coloro che posseggono ricchezza

di procurarsi rendimenti dei loro patrimoni molto più elevati del tasso di crescita del reddito nazionale. Si vengono così a creare , specialmente a partire dagli anni 70 del secolo scorso, forme di concentrazione della ricchezza che genera disuguaglianze e squilibri che sono la causa più profonda del malessere sociale avvertito nel mondo occidentale e non soltanto in esso.

La preziosa ricostruzione di statistiche sulla ricchezza e sul reddito nazionale di quasi tutti i paesi del mondo, a partire dal 1700 fino ad arrivare al 2012 condotta dal Piketty costituisce certamente, non soltanto per economisti, ma per tutti coloro che si occupano di problemi politici e sociali, una fonte inestimabile per approfondimenti non soltanto per fini analitici, ma anche per la ricerca di possibili via d’uscita d’una crisi, come quella che stiamo vivendo che, non soltanto non ha precedenti nella storia,

ma che sembra sfidare qualsiasi logica di politica economica finora conosciuta.

E’ noto, infatti, e lo ricordava recentemente anche il Governatore della Banca Europea M. Draghi, che la politica monetaria, da sola, non è sufficiente a superare le difficoltà che stiamo vivendo.

D’altra parte, le cosiddette politiche strutturali (flessibilità del mercato del lavoro, riqualificazione della spesa pubblica, incentivazione dei processi innovativi e diffusione della conoscenza, privatizzazioni, riforma della pubblica amministrazione, della giustizia,ecc.) a parte i tempi lunghi richiesti per esplicare la loro efficacia, pur dovendosi riconoscere la loro utilità, anzi la loro necessità, certamente appaiono impari rispetto agli effetti sempre più devastanti prodotti da una crisi occupazionale che, ampliandosi e cronicizzandosi nel tempo a dispetto di tutti i

GLOBALIZZAZIONE,CRISI OCCIDENTALE E DIRITTI UMANI

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DIRITTI ECONOMICI E SOCIALI

MONDO

provvedimenti annunziati, rischia di mettere in forse la stessa funzionalità dell’intera economia occidentale.

Probabilmente non sono neppure efficaci i provvedimenti basati sulla redistribuzione della ricchezza auspicati dallo stesso Piketty attraverso il ricorso allo strumento fiscale.

Allora, cosa fare?

Di fronte a problemi di così grande portata occorre prendere lo spunto dai problemi della concentrazione della ricchezza, spostando però lo sguardo sui problemi del lavoro e soprattutto sui diritti umani che vengono negati quando non si pone l’accento sul fondamentale aspetto della vita umana costituito appunto dal lavoro.

Il riferimento al tema d’attualità costituito dall’art. 18 diventa allora non è al riguardo risibile perché è molto seria in assoluto la domanda su che senso ha licenziare senza giusta causa. Ma il problema andrebbe affrontato cercando di definire dal punto di vista economico- giuridico quali sono, nelle diverse circostanze congiunturali o strutturali, le cause che possono giustificare il licenziamento e come far fronte non solo a livello individuale, ma per l’intero sistema economico, ai problemi che si presentano in tali circostanze.

Ma la questione del lavoro, o meglio, della disoccupazione di cui stiamo parlando ha una portata molto più ampia ed ha origine, specialmente negli ultimi due decenni e non soltanto, (la crisi finanziaria del 2007 ne costituisce solo un aggravante) nella perdita di competitività di quel comparto manufatturiero formato da piccole o micro imprese o anche da grandi

imprese in cui il costo del lavoro è una componente importante del costo complessivo di produzione, direttamente o attraverso l’indotto, che non poteva e non può reggere la competizione internazionale perché esposto alla concorrenza non soltanto dei bassi salari delle economie emergenti, ma anche perché oppresso dai pesi insostenibili di pressioni tributarie ingiustificate dalla quantità e qualità dei servizi pubblici offerti, da normative e procedure non sempre giustificabili in nome della difesa dell’ambiente, della salute, della legalità, ecc., ecc., ecc.

Certamente, i processi di globalizzazione guidati dalla ipermobilità del capitalismo occidentale hanno prodotto benefici occupazionali in molti paesi emergenti. Ma a parte ogni considerazione sulla negazione di tanti diritti dei lavoratori in questi paesi (di cui, ovviamente, la democrazia e la civiltà occidentale non ritiene di doversi occupare in nome del principio della libera circolazione del capitale e delle imprese, oltre che dei beni e servizi) ci si chiede se è logico e alla lunga sostenibile un sistema economico globale nel quale una parte del mondo produce ed una parte consuma senza produrre ?

A questo punto si presentano due scenari.

Il primo: lasciare proseguire le tendenze attuali, solo in piccola

parte correggibili con le politiche strutturali cui si è fatto cenno in precedenza per i tempi lunghi richiesti, la loro limitata efficacia rispetto ai tempi e alla dimensione che assumono i livelli di disoccupazione, a parte le difficoltà operative inevitabili in sede di attuazione. Tali provvedimenti appaiono quindi insufficienti, seppure necessari.

Peraltro, per l’Occidente, se lo scenario resta questo,si profila un futuro sempre più contrastato dalla supremazia dei paesi dell’estremo oriente o, peggio, dagli attacchi fondamentalisti

Il secondo scenario: ritrovare una globalizzazione diversa basata su programmi di investimenti comuni che coinvolgono Europa, compresa la Russia, Stati Uniti e Cina volti a realizzare, a favore dei paesi non ancora emergenti, quelle infrastrutture necessarie (risorse idriche, istruzione, energia, sanità,ecc.) per creare ambienti idonei a coinvolgere l’occupazione locale in funzione dei bisogni locali, tra cui in primo luogo la sussistenza e l’istruzione, armi fondamentali per combattere il fondamentalismo criminale e, nello stesso tempo, per dare al capitale, alle tecnologie e alla disoccupazione occidentale occasioni di lavoro capaci di generare una nuova crescita umana basata su un’economia della pace perché garantisce occasioni di lavoro globali e sostenibili nel lungo periodo veramente rispondenti alla dignità umana.

Vincenzo Fazio

- Professore ordinario di economia applicata, già preside della Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Palermo

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L’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e al-Sham), spesso abbreviato in IS, è un “ordinamento giuridico islamista”, non riconosciuto ma resistente ed offensivo per forza propria, di cui i media e i commentatori presumono di sapere tutto (organizzazione, propositi, fini, tattiche, operazioni militari) mentre è più vero che − per motivi che qui si tenterà di mettere il luce − tanto se ne è turbati quanto invero se ne ignorano o se ne occultano le verità. Il giudizio che trova tutti concordi in Occidente è che si tratta di un’entità assimilabile a un demone inaspettato che ha fatto irruzione nella contemporaneità , a sfida di ogni idea di ragione e di civiltà: un fatto la cui evidenza risulta senza ombra di dubbio dalla rappresentazione terroristica che esso stesso di sé predilige trasmettere al mondo, con quei proclami enfatici e deliranti, con quegli scempi spettacolari di monumenti d’arte e simboli antichi

(accusati di blasfemia) della stessa storia musulmana e, soprattutto, con quelle esecuzioni di ostaggi innocenti, con quegli sgozzamenti ben più orripilanti in crudeltà di quel che, per l’esecuzione di una pena di morte, accadeva anche dalle nostre parti in tempi lontani non ancora adusi al rigore “gentile” e umanitario della ghigliottina.

Il mondo cosiddetto civile (che sarebbe il nostro), con l’imprevista nascita dell’Isis e con la correlativa auto proclamazione di un Califfato (ben fuori dei tempi a noi familiari segnati dalla ragione laica e dal progresso) si è trovato a fronteggiare di colpo qualcosa di simile a una sorprendente regressione nelle più oscure caligini della convenzionale rappresentazione del Medioevo. Tanto che ancora si fatica a ritenere che l’evento sia davvero credibile e reale. Ma se ne conoscono con ampiezza, e impressionano, proprio gli sviluppi

organizzativi già assestatisi in efficienti e moderne forme statuali, e le abbondanti risorse economiche acquisite in gran parte tramite una forzosa appropriazione di riserve petrolifere, mentre la proclamazione di un Califfato (3 gennaio 2014) in tempi tanto lontani dall’egira e dall’età della successiva espansione imperiale dell’Islam, per un verso solleva una laica incredulità mista ad irrisione, per un altro verso inquieta come una malefica bizzarria di cui non è dato prevedere le future conseguenze.

Intanto, tra le prime gravi conseguenze, si evidenzia, ben più che un semplice rafforzamento, l’organico assestamento del terrorismo in una ben definita dimensione territoriale protesa ad allargarsi ulteriormente con poteri che non avrebbero potuto costituirsi, né sopravvivere , senza fruire di una loro radicata

L’INCOGNITA ISISCHE COSA NON SI RIESCE O NON SI VUOLE CAPIRE (O SI OCCULTA) SULL’ISIS, SULLA SUA GUERRA,

SUL SUO INCREDIBILE CALIFFATO

Foto - Can the US actually defeat ISIS? the limits of “limited war” - © Day Donaldson - https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/

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base di consenso. Della dinamica recente nell’area medio-orientale che ha dato corso ad un’instabile e competitiva “alleanza” tra l’apparato dell’Isis e il cosiddetto Fronte al Nusha (branca siriana di quel che resta di Al Qaida dopo l’eliminazione di Osama Bin Laden) non si ignorano i passaggi; così come è noto che tra i due rispettivi grandi capi, Abu Bakr Baghdadi (l’autoproclamato califfo) e Ayman al-Zawahiri (capo di Al Qaida), intercorrono rapporti infidi segnati da reciproci sospetti: persino per gli eredi di Bin Laden sceicco del terrore, i militanti dell’Isis sono troppo fanatici e “estremisti” per godere di piena fiducia e confidenza. Li tiene insieme comunque – con una comune aspirazione a “purificare” il costume e la prassi dell’ Islam, ancorandoli all’ortodossia della sharia e purgandoli dagli effetti di una crescente “modern i zzaz ione” − una condivisa i n t e r p r e t a z i o n e offensiva della jihad come lotta agli eretici e agli “infedeli”. Per loro, mentre gli “infedeli” sono naturalmente quelli di sempre (e cioè i non musulmani, sia cristiani che di altre fedi), gli “eretici” sono tutti gli estranei alla presunta ortodossia sunnita e, in particolare gli sciiti, sia quelli del principale ed ufficiale Stato sciita (ovvero l’Iran), sia gli altri al potere in Siria con Bashar al-Assad o in Iraq con il governo fantoccio filoamericano degli Haydar al-Abadi e Fu’ad Ma’sum (appena succeduti all’ineffabile Jawad al-Maliki ed altri simili arnesi della Cia), e naturalmente anche i musulmani turchi, da secoli considerati “corruttori” della pura tradizione arabo-islamica. Al più alto livello del suo sanguinario

impegno contro il nemico, l’Isis colloca quella singolare nazione senza Stato e senza certo territorio che è la nazione curda (frantumata e sparsa tra Siria, Iraq, Afghanistan e Turchia) detestata perché tanto giudicata “eretica” e inaffidabile nelle sue larghe componenti musulmane (di matrice non araba, ma ottomana) , quanto evidentemente “infedele” nelle sue componenti di tradizione culturale autoctona sul tracciato di un singolare sincretismo islamico-cristiano alle cui origini antichissime c’è il messaggio religioso, pacifico e tollerante, del mitico Zarathustra.

L’autoproclamato Califfato − così come si erge contro le centrali del potere sciita, dall’Iran (che resta per ora ai margini del territorio occupato dall’Isis come il principale e il più potente dei suoi nemici) alla Siria di Assad e all’Iraq sottoposto ad un infelice tentativo di controllo americano − è alleato di Al Qaida e della “resistenza” talebana in Afghanistan contro il sedicente regime “democratico” a sovranità limitata già formalmente guidato dal corrotto Hamid Karzai e oggi dall’antropologo ed economista Ashraf Ghani, laureato alla Columbia University di New York. E, nel confronto mortale con la popolazione curda impegnata in una disperata

lotta per la sopravvivenza, sta perseguendo obiettivi di sterminio particolarmente nei confronti della combattiva minoranza costituita dai cosiddetti “miscredenti” yazidi. Nel complesso, quella che potrebbe dirsi in generale una guerra di religione sulla quale il Califfato tenta di fondare la sua esclusiva “legittimità islamica”, assume i caratteri specifici di una vera e propria guerra civile interna al mondo musulmano; una guerra stigmatizzata, e talvolta formalmente condannata, dal cosiddetto “Islam moderato” e, in particolare, dalle componenti

diffuse della sua diaspora nei Paesi europei. Va da sé che entrare nel groviglio degli accadimenti del mondo islamico esposto alla jihad dell’Isis è per le diplomazie e per i commentatori occidentali un’impresa molto ardua che rende difficile tener ferme le idee e più ancora gli orientamenti e i giudizi. Ad improprio compenso di siffatte difficoltà,

basta avere la pazienza di seguire passo dopo passo la cronaca di quanto si sta sviluppando nell’area medio-orientale per avere l’impressione di conoscere almeno quel che basta conoscere. Ma capire il senso autentico di quel che con lsis sta accadendo − al di là del mero cumularsi dei fatti ad altri fatti nel corso delle vicende che ne evidenziano gli orrori − è ben altra cosa.

I più desiderosi di informazioni abbondanti e dettagliate possono ricorrere al libro appena uscito con Feltrinelli in edizione italiana dell’antropologa ed economista Loretta Napoleoni (Isis. Lo Stato islamico del terrore). Anche se il

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sottotitolo promette di spiegare “chi sono e cosa vogliono le milizie islamiche che minacciano il mondo”, in realtà, a parte la calligrafica descrizione del fenomeno, il libro spiega ben poco e, direi, quasi niente. Certo non trascura del tutto di mettere in luce, per accenni e con cautela, sia le illusioni coltivatesi in Occidente circa la buona sorte dei processi più o meno artificialmente attivati (se non addirittura fomentati) con le cosiddette “primavere arabe”, sia le colpevoli responsabilità e gli errori delle politiche delle cosiddette “democrazie” (specie degli Usa) nell’area, prima e dopo il fatale 11 settembre delle Twin Towers. Ben più che errori, potremmo più apertamente riconoscere, vere e proprie dissennatezze ovvero pseudomachiavellismi simili a quelli di un potere che scegliesse di affidarsi a un “male” ritenuto minore per avere ragione di un altro ritenuto maggiore: così, la strumentale utilizzazione della Al Qaida di Osama Bin Laden nella guerriglia anticomunista e antisovietica in Afghanistan; così, le spericolate e controproducenti alleanze con forze di fanatismo islamista in Libia per abbattere Gheddafi; così, più recentemente, il conclamato appoggio politico, diplomatico e militare, in nome di una “rivoluzione democratica” da attuare in Siria, ai ribelli mobilitati contro il regime di Assad, di fatto alimentando le stesse forze che poi, per loro conto, con un’evidente eterogenesi dei fini, avrebbero costituito proprio questo terrificante, indomabile Isis. Appunto, con le sue “milizie islamiche che minacciano il mondo”. Di esse, dei loro capi, della loro organizzazione statuale e delle loro rilevanti risorse, e dei loro obiettivi a breve termine, la Napoleoni sa dirci molto. Niente però – ripeto – sui contenuti ideologici e sulla progettualità

(questa si inevitabilmente “laica” a dispetto del suo confezionamento “religioso”) di un’azione che sempre più appare rivolta non soltanto ai musulmani ma al mondo intero, pure in tempi che , lo si voglia o no, non sono più quelli del profeta Maometto.

Una qualche strategia, ancorata a una “visione del mondo” compatibile con quel che oggi il mondo è diventato, il Califfato (per quanto ad una sensibilità occidentale possa apparire un assurdo e quasi ridicolo anacronismo) deve pure avercela. E, infatti, ce l’ha certamente, a tal punto che all’Isis affluiscono (sembra in misura crescente) fedelissimi militanti di formazione e cultura occidentale, già cittadini delle nostre metropoli, nostri “figli” e nostri commensali di gusti e di costumi, in vario modo “volontari” e “convertiti”, comunque, a quanto pare, convinti di aver trovato una buona causa per la quale combattere. E gli sgozzatori chiamati alle più crude e crudeli recitazioni del terrore nelle televisioni sono normalmente inglesi, americani, francesi (ne avremo anche di italiani?).

Non è da credersi che tali lugubri

e fanatici boia, a loro modo terribilmente “scenografici”, facciano consistere la loro voglia di “cambiare il mondo” soltanto in un sadico esercizio da tagliagola. Qualcosa in mente, qualcosa di terribilmente “ideale” e idealistico (se si vuole, di utopico e di profetico) è certo che in mente ce l’hanno e li induce a ritenersi al di sopra delle normali misure del “bene” e del “male”, a pensarsi come “rivoluzionari”. E’ appunto quel “qualcosa” ciò che pare largamente sfuggire ai cronisti, agli analisti e ai commentatori occidentali. Ma, a pensarci bene, è più credibile che non se ne voglia assumere conoscenza; che lo si rimuova per eludere il processo di autocritica (un vero e proprio “esame di coscienza” dell’Occidente) al quale l’esigenza di scoprirlo nella sua verità costringerebbe.

In concreto, si rimuove il fatto poco contestabile che l’idea stessa di “rivoluzione” − per almeno due secoli consegnata ai progressi della ragione laica che ha costruito e alimentato i processi storici della democrazia in Occidente dalla rivoluzione francese alla rivoluzione d’ottobre − si è convertita nel farneticante

Foto - Apache and Sea Hawk joint fire exercise [Image 3 of 24] - © DVIDSHUB - https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/

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STORIA

MONDO

orientamento a prescegliere come strada per il “cambiamento rivoluzionario” paradossalmente la stessa negazione assoluta della modernità, l’”antimodernità radicale”, coincidente con il recupero e il rilancio integralistico di antiche fedi religiose, con il loro antico portato di cultura, valori e modelli organici (la sharia), di cui la progressiva secolarizzazione” nel tessuto delle società dominate dal libertinismo diffuso e dall’edonismo del modello di vita capitalistico mette in forse la sopravvivenza. Non a caso i nemici che l’Isis intende combattere, ben più che gli “infedeli” (cioè i non musulmani), sono gli stessi musulmani cosiddetti “moderati” che hanno deliberatamente accettato, o soltanto passivamente subiscono, i processi di integrazione ovvero di normalizzazione nel sistema occidentale e, più in generale, nell’intero sistema della globalizzazione capitalistica.

Posta in questi termini, la “guerra santa” dell’Isis , nei suoi aspetti di guerra civile dell’Islam, è una guerra rivolta sia contro i “corruttori” dell’slam (cioè contro gli Stati, le dinastie e i potentati arabi che, a partire dalla gestione delle risorse petrolifere, fanno parte del sistema di interessi e affari dell’”impero americano”), sia contro i “corrotti” che in pratica altri non sarebbero se non i musulmani ritenuti vittime del processo di integrazione occidentalista, ovvero i cosiddetti “musulmani moderati”. Mentre nei suoi contestuali aspetti di guerra di religione − volgendosi perentoriamente contro la “religione del denaro” stigmatizzata come l’anima del sistema capitalistico (il “grande Satana”!) − concretizza oggettivamente una vocazione, (per quanto generica, elementare, irrazionale e anacronistica nella sua forma antimoderna di integralismo religioso) che potrebbe dirsi

un’impropria vocazione anti-imperialistica, accreditandosi come il nuovo anti-imperialismo postmoderno, addirittura come l’unico anti-imperialismo oggi possibile, una volta venuto meno quello occidentale, di formazione e tradizione laica (sul lungo filo che dall’illuminismo aveva condotto alla storia politica del marxismo) espressosi e a lungo perseguito nel secolo scorso contro l’”impero americano” con l’esperienza del comunismo, conclusasi in modo fallimentare con la “vittoria” del capitalismo e il crollo dell’Urss , al termine della guerra fredda. Il che ne spiega il fascino, ben meno che sorprendente, vistosamente demoniaco, che esercita su elementi inquieti e ribelli, per lo più giovani, dello stesso Occidente che siano comunque alla ricerca di una radicale via di fuga dal “pensiero unico” della globalizzazione capitalistica e dalla sua “democrazia” di cui avvertono la falsa coscienza e verificano, talvolta drammaticamente, le ingiustizie e le oppressioni sempre meno occultabili sotto la maschera di un presuntuoso, “imperiale” trionfo di civiltà e di progresso

civile.Con il loro stesso accesso esasperatamente impietoso all’estremismo terroristico della jihad, questi fanatici ribelli evidenziano le terribili conseguenze di un ribaltamento nell’irrazionale pseudoreligioso, e nel puro e semplice nichilismo, delle istanze rivoluzionarie laiche che la stretta neoimperialistica della globalizzazione ha castrato

e reso ormai quasi proibitive nelle aree del mondo sulle quali l’egemonia dei poteri capitalistici, dopo il 1989, si è affermata con la maggiore presa totalitaria. Nel contempo, l’Isis riesce a raccogliere e a strutturare in un’entità dotata di territorio, di governo e di preoccupante forza militare masse rilevanti sottrattesi (anche per le contraddizioni, gli insuccessi e i reiterati errori della leadership imperiale americana) alla presa totalizzante e totalitaria di tale egemonia, per quanto lasci ancora nel vago, consegnandola alle suggestioni mitiche e alla vuota utopia di un ineffabile Califfato, la progettazione del futuro da opporre alla globalizzazione capitalistica.

Ma questo basta, forse, a creare nella scena mondiale le condizioni di un conflitto tra mondo globalizzato e resistenza antiglobalizzazione che hanno già indotto papa Francesco a intravedere le premesse di una nuova , una terza, guerra mondiale. Quale che siano gli sviluppi, per adesso imprevedibili, di quanto sta accadendo, resta il fatto che i nostri politici, e i nostri analisti e commentatori, si ostinano a non vedere o a far finta di non vedere (ad elusione di ogni seppur minimo impegno di critica al sistema egemone di cui fanno parte) che la cosiddetta “vittoria” storica del capitalismo nella guerra fredda del secolo scorso si è di fatto concretizzata in un vero e proprio disastro storico di cui il nuovo secolo sta pagando le imponderabili, assai inquietanti conseguenze.

Foto - Twin-Explosion in southeastern Kobane on 8th October 2014 - © Karl-Ludwig Poggemann - https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/

Giuseppe Carlo Marino

- Docente di Storia Contemporanea dell’Università degli Studi di Palermo e dell’Università Kore di Enna

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LIBRI

BIBLIOTECA

In un’Italia in cui secondo il rapporto Freedom of the Press, dell’istituto di ricerca statunitense Freedom House e secondo il rapporto di Reporters sans frontières, la stampa è solo “parzialmente libera”, a causa di pesanti influenze della politica e dell’economia, alcuni giornalisti riescono ancora a distinguersi per il rigore e la passione con cui affrontano argomenti importanti e crudeli come le guerre.

Tra questi sicuramente Tamara Ferrari, giornalista di Vanity Fair, inviata di guerra in Siria, Sud Sudan, Iraq, Bosnia, Afganistan, Libia, Angola.

Tamara ha raccontato come giornalista guerre che hanno provocato, negli ultimi anni, quasi 3 milioni di morti, e un numero spaventoso di feriti, rifugiati, persone la cui vita è rimasta segnata per sempre.

Proprio per quest’impegno, unito alla capacità di affrontare temi quali la tortura, la violenza, la migrazione dei popoli in fuga dalla guerra, nel 2014 Ferrari ha vinto il premio Arte Pentafoglio ed il premio Giornalisti del Mediterraneo.

La guerra è la vera protagonista del suo libro “Il confine sminato”, pubblicato dalle Edizioni Spartaco, che è stato presentato a Palermo il 30 ottobre presso la Bottega dei Sapori e dei Saperi della Legalità di Libera, in un evento organizzato da Amnesty International Sicilia – Centro di Documentazione Peter Benenson e Arcigay Palermo. Un volume che raccoglie alcune storie che la giornalista non ha potuto raccontare nei sui reportage, ma che

meritavano di essere raccontate. Il confine sminato conduce il lettore nei teatri di guerra di Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Sud Sudan, Bosnia ed Erzegovina attraverso la storia vera di Davide Campisi, un militare italiano addetto allo sminamento, ovvero alla bonifica del terreno dalle mine antiuomo, messe al bando da 138 Paesi dal Trattato di Ottawa, del 1997, ma ancora largamente utilizzate in tutto il mondo.

Il libro segue il maresciallo Campisi e la sua storia, e contemporaneamente narra la storia delle vittime silenziose delle guerre, delle pulizie etniche, delle stragi di civili, dei campi di rifugiati che hanno caratterizzato le guerre della fine del XX ed inizio del XXI secolo.

Sono le storie di Homa e Makema, due bimbe consumate da stenti e malaria in un campo di rifugiati in Sudan. Di Midia,scappata dalla Siria. Di Zuhur, padre di una studentessa saltata in aria su un pullman finito nel mirino dei terroristi. Di Mariam e dei suoi fratelli e sorelle, che volevano giocare con un oggetto dai colori vivaci: una mina farfalla. Di Ahmet e dei cinque ragazzi della sua famiglia, arruolati in fazioni

contrapposte. Un libro corale secondo cui “Sulla linea spessa del dolore, là dove è passato il vento della follia umana, svanisce il confine che distingue razze, culture, religioni.”

Un libro agile, veloce, che narra lo strazio della guerra senza indugiare in facili pietismi, ma che colpisce il lettore più di un saggio freddo e distaccato, un “lavoro che non parla semplicemente di

scontri armati, né dei motivi geopolitici che stanno alla base di ogni conflitto e neppure delle operazioni dei militari italiani in missione all’estero, ma un libro sulle conseguenze, sui drammi che colpiscono chi la guerra la subisce, donne e uomini semplici che spesso non riescono nemmeno a darsi una giustificazione per quello che sta accadendo, e bambini la cui unica colpa

è essere nati nel posto sbagliato”.

Foto - P005192 - © Department of Foreign Affairs and Trade, Australian Government - https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/

Daniela Tomasino

- Formatrice e Progettista- Consigliera nazionale di Arcigay- Attivista di Amnesty International

“IL CONFINE SMINATO”

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IRAN

L’irano-britannica Ghoncheh Ghavami, di 25 anni, era stata arrestata in Iran il 20 giugno 2014 mentre cercava di entrare allo stadio per assistere alla partita di volley Iran-Italia. L’Iran, infatti, ha bandito le donne dalla pallavolo dal 2012.

In un primo tempo rilasciata su cauzione, era stata nuovamente arrestata poiché, secondo le autorità, in seguito all’esame del suo cellulare, erano emersi legami con l’opposizione che avevano portato all’accusa di propaganda contro il governo.

Il 23 novembre 2014, in seguito alla grande mobilitazione dell’opinione pubblica, e in particolare del mondo del volley, Ghoncheh è stata rilasciata su cauzione. Tuttavia, non essendo stata prosciolta, la sua vicenda giudiziaria non si è conclusa. Non può infatti lasciare l’Iran.

nel 2002. A Guantanamo Bay rimangono 142 detenuti, per 73 dei quali è stato già deciso

il rilascio.

USATra il 20 e il 21 novembre 2014 sei detenuti di Guantánamo sono stati rilasciati e trasferiti o rimpatriati. Si tratta di Muhamed Murdi Issa al Zahrani (cittadino dell’Arabia Saudita, rimpatriato); Hisham Sliti (tunisino, trasferito in Slovacchia); Salam Mohammad Al Thabbi, Abdel Ghanim Hakim e Abdul Khaled al Baldani (yemeniti trasferiti in Georgia) e Hussain Almerfedi (yemenita, trasferito in Slovacchia). Nel 2014 sono stati 13 i prigionieri rilasciati dal centro di detenzione aperto

USAIl 19 novembre 2014 Ricky Johnson, condannato a morte in Ohio per un omicidio nel 1975, è stato prosciolto da

ogni accusa.

Si è trattato del 148esimo condannato a morte prosciolto dal 1973, il settimo dell’Ohio

e il quinto del 2014.

International che ne chiedeva la liberazione (raccolte nel corso della campagna “Write for Rights” 2013), Jabeur era stato graziato dal Presidente

tunisino nel marzo 2014.

Tuttavia in aprile era stato nuovamente arrestato e condannato ad otto mesi e mezzo di carcere per oltraggio

a pubblico ufficiale.

Finalmente, in seguito ad una nuova azione urgente di Amnesty International, Jabeur è stato nuovamente graziato dal Presidente tunisino, ed il 14 ottobre 2014 è stato rilasciato.

TUNISIAIl tunisino Jabeur Mejri nel marzo 2012 era stato condannato nel suo paese a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato su facebook messaggi ritenuti offensivi per l’Islam e il profeta Maometto.

In seguito all’invio di migliaia di firme sulla petizione di Amnesty

EGITTOIYoussef Farid Youssef, di 23 anni, e Hamza Issa, di 20, nel 2013 lasciarono la Siria per sfuggire alla crisi del loro paese e si rifugiarono a Gaza, dove

restarono per circa un anno.

In seguito all’operazione israeliana “Margine di protezione”, il 9 agosto 2014 fuggirono anche da Gaza, ed entrarono in Egitto, dove furono arrestati dalle autorità egiziane insieme ad altre 13 profughi.

Erano destinati al rimpatrio in Siria, ma l’azione urgente lanciata da Amnesty International ha avuto successo e si è ottenuto, nell’ottobre 2014, il loro insediamento in

Europa.

Youssef Farid Youssef si è detto grato per l’azione di Amnesty International e ha ringraziato i suoi membri per il loro aiuto e

sostegno.

BUONE NOTIZIE

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@amnestysicilia#Write4Rights

#prigionierodicoscienza

“Per cortesia, ringrazia tutte le persone di Amnesty International che hanno preso

parte alla settimana d’azione” Vladimir Akimenkov