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"Viva ed efficace è la parola di Dio" (Ebrei, 4, 12). padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap. Quaresima 2008 alla Casa Pontificia Prima Predica “GESÙ INCOMINCIÒ A PREDICARE” La parola di Dio nella vita di Cristo In vista del Sinodo dei vescovi del prossimo Ottobre, ho pensato di dedicare la predicazione quaresimale di quest’anno al tema della Parola di Dio. Mediteremo successivamente sull’annuncio del vangelo nella vita di Cristo, cioè sul Gesú “che predica”, sull’annuncio nella missione della Chiesa, cioè sul Cristo “predicato”, sulla parola di Dio come mezzo di santificazione personale, la lectio divina, e sul rapporto tra lo Spirito e la Parola, in pratica la lettura spirituale della Bibbia. Iniziamo questa predicazione nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa della Cattedra di san Pietro e questo non è senza significato per il nostro tema. Ci offre anzitutto l’occasione per rendere l’omaggio del nostro affetto e devozione a colui che siede oggi sulla cattedra di Pietro, il Santo Padre Benedetto XVI. Ci ricorda poi quello che lo stesso apostolo Pietro scrive nella sua Seconda Lettera, che, cioè, “nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione” (2 Pt 1, 20) e che perciò ogni interpretazione della parola di Dio deve commisurarsi con la vivente tradizione della Chiesa, la cui interpretazione autentica è affidata al magistero apostolico e, in modo singolare, al magistero petrino. È bello, in una circostanza come questa e nel contesto del dialogo ecumenico attuale, ricordare un noto testo di sant’Ireneo: “Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo … Con questa Chiesa, in ragione della sua origine più eccellente (propter potentiorem principalitatem), deve necessariamente essere d’accordo ogni Chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte –essa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la Tradizione che viene dagli apostoli”1 . Con questo spirito, non senza timore e tremore, mi accingo a presentare le mie riflessioni sul tema vitale della parola di Dio, in presenza del successore di Pietro, vescovo della Chiesa di Roma. 1. La predicazione nella vita di Gesú Dopo il racconto del battesimo di Gesù, 1'evangelista Marco prosegue la sua narrazione dicendo: “Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 14 s.). Matteo scrive più brevemente: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4, 17). Con queste parole inizia il “Vangelo”, inteso come la buona notizia “di” Gesú - cioè recata da Gesù e di cui Gesù è il soggetto -, diversa dalla buona notizia “su” Gesú della successiva predicazione apostolica, in cui Gesú è l’oggetto. 1/24

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"Viva ed efficace è la parola di Dio" (Ebrei, 4, 12).padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap.

Quaresima 2008 alla Casa Pontificia

Prima Predica“GESÙ INCOMINCIÒ A PREDICARE”

La parola di Dio nella vita di Cristo

In vista del Sinodo dei vescovi del prossimo Ottobre, ho pensato di dedicare la predicazione quaresimale di quest’anno al tema della Parola di Dio. Mediteremo successivamente sull’annuncio del vangelo nella vita di Cristo, cioè sul Gesú “che predica”, sull’annuncio nella missione della Chiesa, cioè sul Cristo “predicato”, sulla parola di Dio come mezzo di santificazione personale, la lectio divina, e sul rapporto tra lo Spirito e la Parola, in pratica la lettura spirituale della Bibbia.

Iniziamo questa predicazione nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa della Cattedra di san Pietro e questo non è senza significato per il nostro tema. Ci offre anzitutto l’occasione per rendere l’omaggio del nostro affetto e devozione a colui che siede oggi sulla cattedra di Pietro, il Santo Padre Benedetto XVI. Ci ricorda poi quello che lo stesso apostolo Pietro scrive nella sua Seconda Lettera, che, cioè, “nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione” (2 Pt 1, 20) e che perciò ogni interpretazione della parola di Dio deve commisurarsi con la vivente tradizione della Chiesa, la cui interpretazione autentica è affidata al magistero apostolico e, in modo singolare, al magistero petrino.

È bello, in una circostanza come questa e nel contesto del dialogo ecumenico attuale, ricordare un noto testo di sant’Ireneo: “Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo … Con questa Chiesa, in ragione della sua origine più eccellente (propter potentiorem principalitatem), deve necessariamente essere d’accordo ogni Chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte –essa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la Tradizione che viene dagli apostoli”1.

Con questo spirito, non senza timore e tremore, mi accingo a presentare le mie riflessioni sul tema vitale della parola di Dio, in presenza del successore di Pietro, vescovo della Chiesa di Roma.

1. La predicazione nella vita di GesúDopo il racconto del battesimo di Gesù, 1'evangelista Marco prosegue la sua narrazione dicendo: “Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 14 s.). Matteo scrive più brevemente: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4, 17). Con queste parole inizia il “Vangelo”, inteso come la buona notizia “di” Gesú - cioè recata da Gesù e di cui Gesù è il soggetto -, diversa dalla buona notizia “su” Gesú della successiva predicazione apostolica, in cui Gesú è l’oggetto.

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Si tratta di un evento che occupa un posto ben preciso nel tempo e nello spazio: avviene “in Galilea”, “dopo che Giovanni fu arrestato”. Il verbo usato dagli evangelisti “incominciò a predicare” mette fortemente in rilievo che si tratta di un “inizio”, di un qualcosa di nuovo non solo nella vita di Gesù, ma nella storia stessa della salvezza. La Lettera agli Ebrei esprime così la novità: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Comincia un tempo particolare di salvezza, un kairos nuovo, che si estende per circa due anni e mezzo (dall'autunno del 27, alla primavera del 30 d.C.).

Gesù attribuiva a questa sua attività una tale importanza, da dire di essere stato mandato dal Padre e consacrato con l'unzione dello Spirito proprio per questo, cioè “per annunciare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18). In un'occasione, mentre alcuni volevano trattenerlo, sollecita gli apostoli a partire dicendo loro: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche lì; per questo infatti sono venuto” (Mc 1,38).

La predicazione fa parte dei cosiddetti “misteri della vita di Cristo” ed è come tale che noi ci accostiamo ad esso. Con la parola “mistero” si intende, in questo contesto, un evento della vita di Gesù portatore di un significato salvifico, che come tale viene celebrato dalla Chiesa nella sua liturgia2. Se non esiste una specifica festa liturgica della predicazione di Gesù, è perché essa è ricordata in ogni liturgia della Chiesa. La “liturgia della parola” nella Messa altro non è che 1'attualizzazione liturgica del Gesù che predica. Un testo del Concilio Vaticano II dice: “Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura”3.

Come, nella storia, dopo aver predicato il regno di Dio, Gesù andò a Gerusalemme per offrirsi in sacrificio al Padre, così, nella liturgia, dopo aver nuovamente proclamato la sua parola, Gesù rinnova l'offerta di sé al Padre attraverso l'azione eucaristica. Quando, alla fine del prefazio, diciamo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore: Osanna nell'alto dei cieli”, ci riportiamo idealmente a quel momento in cui Gesù entra in Gerusalemme per celebrarvi la sua Pasqua; lì finisce il tempo della predicazione e inizia il tempo della passione.

La predicazione di Gesù è dunque un “mistero” perché non contiene solo la rivelazione di una dottrina, ma spiega il mistero stesso della persona di Cristo; è essenziale per capire sia ciò che precede - il mistero dell'incarnazione -, sia ciò che segue: il mistero pasquale. Senza la parola di Gesù, essi sarebbero eventi muti. È stata una felice intuizione quella di Giovanni Paolo II di inserire la predicazione del Regno tra i “misteri della luce” da lui aggiunti ai misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi del Rosario, accanto al battesimo di Cristo, le nozze di Cana, la trasfigurazione e l’istituzione dell’Eucaristia.

2. La predicazione di Cristo continua nella ChiesaL'autore dell'epistola agli Ebrei scriveva parecchio tempo dopo la morte di Gesù, dunque molto dopo che Gesù aveva smesso di parlare; eppure dice che Dio ci ha parlato nel Figlio “ultimamente, in questi giorni”. Considera, dunque, i giorni in cui vive come facenti parte dei “giorni di Gesú”. Per questo, poco oltre, citando la parola del salmo: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori”, la applica ai cristiani dicendo: “Guardate fratelli, che non si trovi tra voi qualcuno dal cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente; esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura questo oggi” (cf. Eb 3, 7s.).

Dio parla, dunque, anche oggi nella Chiesa e parla “nel Figlio”. “Dio – si legge nella Dei Verbum – il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito santo, per mezzo del quale la viva voce del vangelo risuona nella chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta la verità e fa risiedere in essi abbondantemente la parola di Cristo” 4.

Ma come e dove possiamo ascoltare questa “sua voce”? La rivelazione divina è chiusa; in un certo

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senso, non ci sono più parole di Dio. Ed ecco che scopriamo un'altra affinità tra Parola ed Eucari-stia. L'Eucaristia è presente in tutta la storia della salvezza: nell'Antico Testamento, come figura (l’agnello pasquale, il sacrificio di Melchisedec, la manna), nel Nuovo Testamento, come evento (la morte e risurrezione di Cristo), nella Chiesa, come sacramento (la Messa).

Il sacrificio di Cristo è finito e concluso sulla croce; in un certo senso, dunque, non ci sono più sacrifici di Cristo; eppure sappiamo che c'è ancora un sacrificio ed è l'unico sacrificio della Croce che si fa presente e operante nel sacrificio eucaristico; l'evento continua nel sacramento, la storia nella liturgia. Una cosa analoga avviene per la parola di Cristo: essa ha cessato di esistere come evento, ma esiste ancora come sacramento.

Nella Bibbia, la parola di Dio (dabar), specie nella forma particolare che assume nei profeti, costituisce sempre un evento; è una parola-evento, cioè una parola che crea una situazione, che attua sempre qualcosa di nuovo nella storia. L'espressione ricorrente: “la parola di Jahvè venne a ...”, potrebbe essere tradotta con: “la parola di Jahvè assunse forma concreta in ...” (in Ezechiele, in Aggeo, in- Zaccaria, ecc.).

Tale tipo di parola-evento si protrae fino a Giovanni Battista; in Luca leggiamo infatti: “Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare..., la parola di Dio scese su (factum est verbum Domini super) Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3, 1 ss.). Dopo questo momento, tale formula scompare del tutto dalla Bibbia e al suo posto ne compare un'altra; non più: “Factum est verbum Domini», ma: “Verbum caro factum est»: la Parola si è fatta carne (Gv 1, 14). L’evento adesso è una persona! Mai si incontra la frase: “la parola di Dio venne su Gesú”, perché egli è la Parola. Alle realizzazioni provvisorie della parola di Dio nei profeti, succede ora la realizzazione piena e definitiva.

Donandoci il Figlio - scrive S. Giovanni della Croce - Dio ci ha detto tutto in una sola volta e non ha più nulla da rivelare. Dio è diventato, in un certo senso, muto, non avendo più nulla da dire 5. Ma bisogna intendersi bene: Dio è diventato muto nel senso che non dice cose nuove rispetto a quello che ha detto in Gesù, ma non nel senso che non parla più; egli dice sempre nuovamente ciò che ha detto una volta in Gesù!

3. La parola sacramento che si odeNon ci sono più parole-evento nella Chiesa, ci sono però parole-sacramento. Le parole-sacramento sono le parole di Dio “avvenute” una volta per sempre e raccolte nella Bibbia, che tornano ad essere “realtà attiva” ogni volta che la Chiesa le proclama con autorità e lo Spirito che le ha ispirate torna ad accenderle nel cuore di chi le ascolta. “Egli prenderà del mio e ve lo annuncerà”, dice Gesú dello Spirito Santo (Gv 16,14).

Quando si parla della Parola come “sacramento”, si prende questo termine non nel senso tecnico e ristretto dei “sette sacramenti”, ma nel senso più ampio per cui si parla di Cristo come del “primordiale sacramento del Padre” e della Chiesa come dell'“universale sacramento di salvezza” 6. Tenendo presente la definizione che sant’Agostino da del sacramento come “una parola che si vede” (verbum visibile)7, si è soliti definire, per contrasto, la parola “un sacramento che si ode” (sacramentum audibile).

In ogni sacramento si distingue un segno visibile e la realtà invisibile che è la grazia. La parola che leggiamo nella Bibbia, in se stessa, non è che un segno materiale (come l'acqua e il pane), un insieme di sillabe morte, o, al massimo, una parola del vocabolario umano come le altre; ma intervenendo la fede e l'illuminazione dello Spirito Santo, attraverso tale segno noi entriamo misteriosamente in contatto con la vivente verità e volontà di Dio e ascoltiamo la voce stessa di Cristo.

“Il corpo di Cristo, scrive Bossuet, non è più realmente presente nel sacramento adorabile, di quanto

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la verità di Cristo lo sia nella predicazione evangelica. Nel mistero dell'Eucaristia le specie che vedete sono dei segni, ma ciò che in esse è racchiuso è lo stesso corpo di Cristo; nella Scrittura, le parole che ascoltate sono dei segni, ma il pensiero che vi recano è la verità stessa del Figlio di Dio” .

La sacramentalità della parola di Dio si rivela nel fatto che a volte essa opera manifestamente al di là della comprensione della persona, che può essere limitata e imperfetta, opera quasi per se stessa, ex opere operato, come si dice in teologia.

Quando il profeta Eliseo disse a Naaman il siro, che era andato da lui per essere guarito dalla lebbra, di lavarsi sette volte nel Giordano, questi replicò sdegnato: Forse l'Abana e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque d'Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per essere guarito? (2 Re 5, 12). Naaman aveva ragione: i fiumi della Siria erano senz'altro migliori e più ricchi di acque; eppure, bagnandosi nel Giordano egli fu guarito e la sua carne divenne come quella di un giovinetto, cosa che non sarebbe mai avvenuta se si fosse bagnato nei grandi fiumi del suo paese.

Così è della parola di Dio contenuta nelle Scritture. Tra le genti e anche nella Chiesa vi sono stati e vi saranno libri migliori di alcuni libri della Bibbia, più raffinati letterariamente e più edificanti religiosamente (basti pensare a L'Imitazione di Cristo), e tuttavia nessuno di essi opera come opera il più modesto dei libri ispirati. C'è, nelle parole della Scrittura, qualcosa che agisce al di là di ogni spiegazione umana; esiste una sproporzione evidente tra il segno e la realtà da esso prodotta, che fa pensare, appunto, all'agire dei sacramenti.

Le “acque d'Israele”, che sono le Scritture divinamente ispirate, continuano anche oggi a guarire dalla lebbra dei peccati; finito di leggere il brano evangelico della Messa, la Chiesa invita il ministro a baciare il libro e a dire: “Le parole del Vangelo cancellino i nostri peccati”(per evangelica dicta deleantur nostra delicta). Il potere risanante della parola di Dio è attestato nella stessa Scrittura: “Non li guarì né un'erba né un emolliente, si dice del popolo d’Israele nel deserto, ma la tua parola, o Signore, la quale tutto risana” (Sap 16,12).

L’esperienza lo conferma. Ho sentito una persona rendere questa testimonianza in un programma televisivo al quale prendevo parte. Era un alcolizzato all’ultimo stadio; non resisteva più di due ore senza bere; la famiglia era sull’orlo della disperazione. Lo invitarono con la moglie a un incontro sulla parola di Dio. Lì qualcuno lesse un brano della Scrittura. Una frase lo attraversò come una fiammata di fuoco e sentì che era guarito. In seguito ogni volta che era tentato di bere, correva a riaprire la Bibbia in quel punto e solo al rileggere le parole sentiva la forza ritornare in lui, finché ora era del tutto guarito. Quando volle dire quale era la frase, la voce gli si ruppe dalla commozione. Era la parola del Cantico dei cantici: “ Le tue tenerezze sono più dolci del vino” (Ct 1,2). Queste semplici parole, apparentemente estranee al suo caso, avevano compiuto il miracolo. Un episodio analogo si legge nei Racconti di un pellegrino russo. Ma il caso più celebre è quello di Agostino. Leggendo le parole di Paolo in Romani 13, 11 ss.: “Gettiamo via le opere delle tenebre…Comportiamoci onestamente come in pieno giorno: non fra impurità e licenze”, egli sentì “una luce di serenità” balenargli nel cuore e capì che era guarito dalla schiavitù della carne8.

4. La liturgia della parolaC’è un ambito e un momento nella vita della Chiesa in cui Gesú parla oggi nel modo più solenne e più sicuro ed è la liturgia della parola nella Messa. Nei primordi della Chiesa la liturgia della parola era distaccata dalla liturgia eucaristica. I discepoli, riferiscono gli Atti degli Apostoli, “ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il tempio”; lì ascoltavano la lettura della Bibbia, recitavano i salmi e le preghiera insieme con gli altri ebrei; facevano quello che si fa nella liturgia della parola; quindi si riunivano a parte, nelle loro case, per “spezzare il pane”, cioè per celebrare l’Eucaristia (cf. Atti 2, 43).

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Ben presto però questa prassi divenne impossibile sia per l’ostilità nei loro confronti da parte della comunità ebraica, sia perché ormai le Scritture avevano acquistato per essi un senso nuovo, tutto orientato al Cristo. Fu così che anche l’ascolto della Scrittura si trasferì dal tempio e dalla sinagoga ai luoghi di culto cristiani, divenendo l’attuale liturgia della parola che precede la preghiera eucaristica.

San Giustino, nel II secolo, da una descrizione della celebrazione eucaristica in cui sono ormai presenti tutti gli elementi essenziali della futura Messa. Non solo la liturgia della parola è parte integrante di essa, ma alle letture dell’Antico Testamento si sono affiancare ormai quelle che il santo chiama “le memorie degli apostoli”, cioè i vangeli e le lettere, in pratica il Nuovo Testamento.

Ascoltate nella liturgia, le letture bibliche acquistano un senso nuovo e più forte di quando sono lette in altri contesti. Non hanno tanto lo scopo di conoscere meglio la Bibbia, come quando la si legge a casa o in una scuola biblica, quanto quello di riconoscere colui che si fa presente nello spezzare il pane, di illuminare ogni volta un aspetto particolare del mistero che si sta per ricevere. Questo appare in modo quasi programmatico nell’episodio dei due discepoli di Emmaus: fu ascoltando la spiegazione delle Scritture che il cuore dei discepoli cominciò a sciogliersi, sicché furono poi capaci di riconoscerlo allo spezzare il pane.

Un esempio tra tanti: le letture della XXIX Domenica del tempo ordinario del ciclo B. La prima lettura è un brano sul servo sofferente che si addossa le iniquità del popolo (Is 53, 2-11); la seconda lettura parla di Cristo sommo sacerdote provato in tutto come noi, eccetto il peccato; il brano evangelico parla del Figlio dell’uomo che è venuto a dare la sua vita in riscatto per molti. Insieme questi tre brani mettono in luce un aspetto fondamentale del mistero che si sta per celebrare e ricevere nella liturgia eucaristica.

Nella Messa le parole e gli episodi della Bibbia non sono soltanto narrati, ma rivissuti; la memoria diventa realtà e presenza. Ciò che avvenne “in quel tempo”, avviene “in questo tempo”, “oggi” (hodie) come ama esprimersi la liturgia. Noi non siamo soltanto uditori della parola, ma interlocutori e attori in essa. È a noi, lì presenti, che è rivolta la parola; siamo chiamati a prendere noi il posto dei personaggi evocati.

Anche qui alcuni esempi aiuteranno a capire. Si legge, nella prima lettura, l’episodio di Dio che parla a Mosè dal roveto ardente: noi siamo, nella Messa, davanti al vero roveto ardente…Si legge di Isaia che riceve sulle labbra il carbone ardente che lo purifica per la missione: noi stiamo per ricevere sulle labbra il vero carbone ardente, colui che è venuto a portare il fuoco sulla terra…Ezechiele è invitato a mangiare il rotolo degli oracoli profetici e noi ci apprestiamo a mangiare colui che è la parola stessa fatta carne e fatta pane…

La cosa diventa ancora più chiara se dall’Antico Testamento passiamo al nuovo, dalla prima lettura al brano evangelico. La donna che soffriva di emorragia è sicura di essere guarita se riuscirà a toccare il lembo del mantello di Gesú: che dire di noi che stiamo per toccare ben più che il lembo del suo mantello? Una volta ascoltavo nel vangelo l’episodio di Zaccheo e fui colpito dalla sua “attualità”. Ero io Zaccheo; erano rivolte a me le parole: “Oggi devo venire a casa tua”; era di me che si poteva dire: “È andato ad alloggiare da un peccatore!” ed era a me, dopo averlo ricevuto nella comunione, che Gesú diceva: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”.

Così di ogni singolo episodio evangelico. Come non identificarsi nella Messa con il paralitico a cui Gesú dice: “Ti sono rimessi i tuoi peccati” e “Alzati e va a casa tua”, con Simeone che stringe tra le braccia il Bambino Gesú, con Tommaso che tocca tremante le sue piaghe? Nella celebrazione feriale, il vangelo di oggi, Venerdì della seconda settimana di Quaresima, è la parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21, 33-45): “Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio!”. Ricordo l’effetto di queste parole su di me mentre le ascoltavo una volta piuttosto distrattamente. Quello stesso Figlio stava per essere dato a me nella comunione: ero io preparato a

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riceverlo con il rispetto che il Padre celeste si aspettava?

Non solo i fatti ma anche le parole del vangelo ascoltate nella Messa acquistano un senso nuovo e più forte. Un giorno d’estate, mi trovavo a celebrare la Messa in un piccolo monastero di clausura. C’era, come brano evangelico, Matteo 12. Non dimenticherò mai l’impressione che mi fecero quelle parole di Gesù: “Ecco, ora qui c’è più di Giona... Ecco ora qui c’è più di Salomone”. Era come se le ascoltassi in quel momento per la prima volta. Capivo che quei due avverbi “ora” e “qui” significavano veramente ora e qui, cioè in quel momento e in quel luogo, non soltanto nel tempo in cui Gesù era sulla terra, tanti secoli fa. Da quel giorno d’estate, quelle parole mi sono diventate care e familiari in un modo nuovo. Spesso, nella Messa, al momento in cui mi genufletto e mi rialzo dopo la consacrazione, mi viene da ripetere dentro di me: “Ecco, ora qui c’è più di Salomone! Ecco, ora qui c’è più di Giona!”

“Voi che siete soliti prendere parte ai divini misteri, diceva Origene ai cristiani del suo tempo, quando ricevete il corpo del Signore lo conservate con ogni cautela e ogni venerazione perché nemmeno una briciola cada a terra, perché nulla si perda del dono consacrato. Siete convinti, giustamente, che sia una colpa lasciarne cadere dei frammenti per trascuratezza. Se per conservare il suo corpo siete tanto cauti - ed è giusto che lo siate -, sappiate che trascurare la parola di Dio non è colpa minore che trascurare il suo corpo” 9.

Tra le tante parole di Dio che ogni giorno ascoltiamo nella Messa o nella Liturgia delle ore, ce n’è quasi sempre una destinata in particolare a noi. Da sola, essa può riempire l’intera nostra giornata e illuminare la nostra preghiera. Si tratta di non lasciarla cadere nel vuoto. Diverse sculture e bassorilievi dell’antico oriente mostrano lo scriba in atto di raccogliere la voce del sovrano che detta o parla: lo si vede tutto attenzione: gambe accavallate, busto eretto, occhi spalancati, orecchi protesi. È l’atteggiamento che in Isaia viene attribuito al Servo del Signore: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati” (Is 50, 4). Così dovremmo essere noi quando viene proclamata la parola di Dio.

Accogliamo dunque come rivolta a noi l’esortazione che che si legge nel Prologo della Regola di san Benedetto: “Aperti i nostri occhi alla luce divina, ascoltiamo con orecchie attente e piene di stupore la voce divina che ogni giorno si rivolge a noi e grida: Oggi, se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore, e ancora: Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese” (Sal 94, 8)” 10.

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1 S. Ireneo, Adv. Haer. III, 2.

2 Cf. S. Agostino, Lettere, 55, 1,2.

3 Sacrosanctum concilium 7.

4 Dei Verbum, 8.

5 Cf. S. Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo II, 22, 4-5.6 Cf. Lumen Gentium, 48.7 S. Agostino, Trattati sul vangelo di Giovanni, 80,3;

8 S. Agostino, Confessioni, VIII,12.

9 Origene, In Exod. hom. XIII, 3.

10 Regole monastiche d’occidente, Qiqajon, Comunità di Bose, 1989, p. 53.

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Seconda predica“DI OGNI PAROLA INUTILE...”Parlare “come con parole di Dio”

1. Dal Gesù che predica al Cristo predicatoNella seconda lettera ai Corinzi - che è, per eccellenza, la lettera dedicata al ministero della predicazione - san Paolo scrive queste parole programmatiche: “Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore!” (2 Cor 4, 5). Agli stessi fedeli di Corinto, in una precedente lettera, aveva scritto: “Noi predichiamo Cristo crocifisso!” (1 Cor 1, 23). Quando l'Apostolo vuole abbracciare con una sola parola il contenuto della predicazione cristiana, questa parola è sempre la persona di Gesù Cristo!

In queste affermazioni Gesù non è visto più - come avveniva nei vangeli - nella sua qualità di annunciatore, ma nella sua qualità di annunciato. Parallelamente, vediamo che l'espressione “Vangelo di Gesù acquista un nuovo significato, senza perdere tuttavia l'antico; dal significato di “lieto annuncio recato da Gesù” (Gesù soggetto!), si passa al significato di “lieto annuncio su Gesù, o riguardante Gesù (Gesù oggetto!).

È questo il significato che la parola vangelo ha nel solenne inizio dell'epistola ai Romani: “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunciare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1, 1-3).

In questa meditazione ci concentriamo su “la Parola di Dio nella missione della Chiesa”. È il tema di cui si occupa il capitolo terzo dei Lineamenta del Sinodo dei vescovi, che ne mette in luce i vari aspetti e ambiti di attuazione secondo il seguente schema:

La missione della Chiesa è proclamare Cristo, la Parola di Dio fatta carne

La Parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo

La Parola di Dio, grazia di comunione tra i cristiani

La Parola di Dio luce per il dialogo interreligioso: a. con il popolo ebraico; b. con i popoli di

altre religioni.

La Parola di Dio fermento delle moderne culture

La Parola di Dio e la storia degli uomini

Io mi limito a trattare un punto particolare e assai ristretto che però, ritengo, influisca sulla qualità e l’efficacia dell’annuncio della Chiesa in tutte le sue espressioni.

2. Parole “inutili” e parole “efficaci”Nel vangelo di Matteo, nel contesto del discorso sulle parole che rivelano il cuore, è riportata una parola di Gesù che ha fatto tremare i lettori del Vangelo di tutti i tempi: “Ma io vi dico che di ogni parola inutile gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio” (Mt 12,36).

È stato sempre difficile spiegare cosa intendesse Gesù per “parola inutile”. Una certa luce ci viene da un altro passo del vangelo di Matteo (7, 15-20), dove ritorna lo stesso tema dell’albero che si riconosce dai frutti e dove tutto il discorso appare rivolto ai falsi profeti: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete...”.

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Se il detto di Gesù ha qualche rapporto con quello sui falsi profeti, allora possiamo forse scoprire cosa significa la parola “inutile. Il termine originale, tradotto con “inutile, è argòn che vuol dire “senza effetto” (a privativo più ergos, opera). Alcune traduzioni moderne, tra cui quella italiana della CEI, rendono il termine con “infondata”, quindi con valore passivo: parola che non ha fondamento: quindi, calunnia. È un tentativo per dare un senso più rassicurante alla minaccia di Gesù. Non c'è nulla di particolarmente inquietante infatti se Gesù dice che di ogni calunnia si deve rendere conto a Dio!

Ma il significato di argòn è piuttosto attivo e vuol dire: parola che non fonda niente, che non produce nulla: quindi, vuota, sterile, senza efficacia 1. In questo senso era più giusta l'antica traduzione della Volgata, verbum otiosum, parola “oziosa, inutile”, che del resto è quella adottata anche oggi nella maggioranza delle traduzioni.

Non è difficile intuire cosa vuol dire Gesù, se confrontiamo questo aggettivo con quello che, nella Bibbia, caratterizza costantemente la parola di Dio: l'aggettivo energes, efficace, che opera, che è seguita sempre da effetto (ergos) (lo stesso aggettivo da cui deriva la parola “energico”). S. Paolo, ad esempio, scrive ai Tessalonicesi che, avendo ricevuta la parola divina della predicazione dall'Apostolo, l'hanno accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale “parola di Dio che opera” (energeitai) in coloro che credono (cf. 1 Ts 2, 13). L'opposizione tra parola di Dio e parola di uomini è presentata qui, implicitamente, come l'opposizione tra la parola “che opera e la parola “che non opera, tra la parola efficace e la parola inefficace e vana.

Anche nell'epistola agli Ebrei troviamo questo concetto dell'efficacia della parola divina: “Viva ed efficace (energes) è la parola di Dio” (Eb 4, 12). Ma è un concetto di lunga data; in Isaia, Dio dichiara che la parola uscita dalla sua bocca non ritorna mai a lui “senza effetto”, senza avere “operato” ciò per cui l'ha mandata (cf. Is 55, 11).

La parola inutile, di cui gli uomini dovranno rendere conto nel giorno del giudizio, non è dunque ogni e qualsiasi parola inutile; è la parola inutile, vuota, pronunciata da colui che dovrebbe invece pronunciare le “energiche” parole di Dio. È, insomma, la parola del falso profeta, che non riceve la parola da Dio e tuttavia induce gli altri a credere che sia parola di Dio. Avviene esattamente il rovescio di ciò che diceva S. Paolo: avendo ricevuta una parola umana, la si prende non per quello che è, ma per quello che non è, e cioè per parola divina. Di ogni parola inutile su Dio, dovrà rendere conto l'uomo!: ecco dunque il senso del grave ammonimento di Gesù.

La parola inutile è la contraffazione della parola di Dio, è il parassita della parola di Dio. Essa si riconosce dai frutti che non produce, perché, per definizione, è sterile, senza efficacia (s'intende, nel bene). Dio “vigila sulla sua parola” (cf. Ger 1, 12), è geloso di essa e non può permettere che l'uomo si appropri del potere divino in essa racchiuso.

Il profeta Geremia ci consente di udire, come all'amplificatore, l’ammonimento che si cela sotto quella parola di Gesù. In esso appare ormai chiaro che è dei falsi profeti che si tratta: “Così dice il Signore degli eserciti: Non ascoltate le parole dei profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno credere cose vane, vi annunciano fantasie del loro cuore, non quanto viene dalla bocca del Signore... Il profeta che ha avuto un sogno racconti il suo sogno, chi ha udito la mia parola annunzi fedelmente la mia parola. Che cosa ha in comune la paglia con il grano? Oracolo del Signore. La mia parola non è forse come il fuoco - oracolo del Signore - e come un martello che spacca la roccia? Perciò, eccomi contro i profeti - oracolo del Signore , i quali si rubano gli uni gli altri le mie parole. Eccomi, contro i profeti - oracolo del Signore” (Ger 23, 16.28-31).

3. Chi sono i falsi profetiMa noi non stiamo qui a fare una disquisizione sui falsi profeti nella Bibbia. Come sempre, è di noi che si parla nella Bibbia ed è a noi che si parla. Quella parola di Gesù non giudica il mondo, ma la Chiesa; il mondo non sarà giudicato sulle parole inutili (tutte le sue parole, nel senso descritto sopra,

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sono parole inutili!), ma sarà giudicato, semmai, per non aver creduto in Gesù (cf. Gv 16, 9). Gli “uomini che dovranno rendere conto di ogni parola inutile sono gli uomini di Chiesa; siamo noi predicatori della parola di Dio.

I “falsi profeti” non sono soltanto coloro che di tanto in tanto spargono eresie; sono anche coloro che “falsificano” la parola di Dio. È Paolo che usa questo termine, traendolo dal linguaggio corrente; alla lettera, esso significa annacquare la Parola, come fanno gli osti fraudolenti, quando allungano con acqua il loro vino (cf. 2 Cor 2, 17; 4, 2). I falsi profeti sono coloro che non presentano la parola di Dio nella sua purezza, ma la diluiscono ed estenuano in mille parole umane che escono dal loro cuore.

Il falso profeta sono anch’io, ogni volta che non mi fido della “debolezza”, “stoltezza”, povertà e nudità della Parola e la voglio rivestire e stimo il rivestimento più della Parola ed è più il tempo che spendo intorno al rivestimento che quello che spendo intorno alla Parola, standovi davanti in preghiera, adorandola e cominciandola a vivere in me.

Gesù, a Cana di Galilea, trasformò l'acqua in vino, cioè la morta lettera nello Spirito che vivifica (così interpretano spiritualmente il fatto i Padri); i falsi profeti sono coloro che fanno tutto l'opposto e cioè trasformano il vino puro della parola di Dio in acqua che non inebria nessuno, in lettera morta, in vano chiacchiericcio. Essi, sotto sotto, si vergognano del Vangelo (cf. Rm 1, 16) e delle parole di Gesù, perché troppo “dure” per il mondo, o troppo povere e nude per i dotti, e allora cercano di “condirle” con quelle che Geremia chiamava “le fantasie del loro cuore”.

San Paolo scriveva al suo discepolo Timoteo: “Sforzati di presentarti davanti a Dio come... uno scrupoloso dispensatore della parola della verità. Evita le chiacchiere profane, perché esse tendono a far crescere sempre più nell'empietà” (2 Tm 2, 15-16). Le chiacchiere profane sono quelle che non hanno attinenza con il disegno di Dio, che non c'entrano con la missione della Chiesa. Troppe parole umane, troppe parole inutili, troppi discorsi, troppi documenti. Nell'era della comunicazione di massa, la Chiesa rischia di sprofondare anch’essa nella “paglia” delle parole inutili, dette tanto per dire, scritte tanto perché esistono riviste e giornali da riempire.

In questo modo noi offriamo al mondo un ottimo pretesto per rimanere tranquillo nella sua miscredenza e nel suo peccato. Quando ascoltasse l'autentica parola di Dio, non sarebbe tanto facile, per l'incredulo, cavarsela dicendo (come fa spesso, dopo aver ascoltato le nostre prediche): “Parole, parole, parole!”. San Paolo chiama le parole di Dio “le armi della nostra battaglia” e dice che soltanto esse “da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al Cristo” (2 Cor 10, 3-5).

L'umanità è malata di chiasso, diceva il filosofo Kierkegaard; bisogna “indire un digiuno, ma un digiuno di parole; bisogna che qualcuno gridi, come fece un giorno Mosè: “Fa' silenzio e ascolta, Israele” (Dt 27,9). Il Santo Padre ci ha ricordato la necessità di questo digiuno di parole nel suo incontro quaresimale con i parroci di Roma e credo che, come d’abitudine, il suo invito era rivolto alla Chiesa, prima ancora che al mondo.

4. “Gesù non è venuto per dirci frivolezze

Mi hanno sempre colpito queste parole di Péguy:

“Gesù Cristo, bambina mia,

- è la Chiesa che si rivolge ai suoi figli -,

non è venuto per dirci frivolezze...

Non ha fatto il viaggio di scendere sulla terra

Per venire a contarci indovinelli e barzellette.

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Non c'è il tempo di divertirsi...

Lui non ha speso la sua vita...

Per venire a contarci frottole 2.

La preoccupazione di tenere distinta la parola di Dio da ogni altra parola è tale che, mandando i suoi apostoli in missione, Gesù comanda loro di non salutare nessuno per via (cf. Lc 10, 4). Io ho sperimentato a mie spese che talvolta questo comando va preso alla lettera. Il fermarsi a salutare la gente e scambiare convenevoli mentre si sta per iniziare a predicare disperde inevitabilmente la concentrazione sulla parola da annunciare, fa perdere il senso della sua alterità rispetto a ogni discorso umano. È la stessa esigenza che si prova (o si dovrebbe provare) quando ci si sta vestendo per celebrare la Messa.

L’esigenza è ancora più forte quando si tratta del contenuto stesso della predicazione. Nel vangelo di Marco, Gesù cita la parola di Isaia: “Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Is 29, 13); poi aggiunge, rivolto ai farisei e agli scribi: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini... annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7, 7-13).

Quando non si riesce a proporre mai la semplice e nuda parola di Dio, senza farla passare attraverso il filtro di mille distinzioni e precisazioni e aggiunte e spiegazioni, in se stesse anche giuste, ma che estenuano la parola di Dio, si fa la stessa recisa cosa che Gesù rimproverò, quel giorno, ai farisei e agli scribi: si “annulla” la parola di Dio; la si “irretisce”, facendole perdere gran parte della sua forza di penetrazione nel cuore degli uomini.

La parola di Dio non può essere usata per fare discorsi di circostanza, o per ammantare di autorità divina discorsi già fatti e tutti umani. In tempi a noi vicini, si è visto dove porta una tale tendenza. Il Vangelo è stato strumentalizzato per sostenere ogni sorta di progetti umani: dalla lotta di classe alla morte di Dio.

Quando un uditorio è così predeterminato da condizionamenti psicologici, sindacali, politici o passionali, da rendere, in partenza, impossibile non dire ciò che esso si aspetta e non dare ad esso completamente ragione su tutto; quando non c'è alcuna speranza di poter portare gli ascoltatori a quel punto in cui è possibile dire loro: “Convertitevi e credete! , allora è bene non proclamare affatto la parola di Dio perché essa non sia strumentalizzata per fini di parte e, quindi, tradita. È meglio, in altre parole, rinunciare a fare un annuncio vero e proprio, limitandosi, semmai, ad ascoltare, a cercare di capire e prendere parte alle ansie e alle sofferenze della gente, predicando piuttosto con la presenza e con la carità il Vangelo del regno. Gesù, nel vangelo, si mostra attentissimo a non farsi strumentalizzare per fini politici e di parte.

La realtà dell'esperienza e, quindi, la parola umana non è esclusa, evidentemente, dalla predicazione della Chiesa, ma essa deve essere sottomessa alla parola di Dio, a servizio di essa. Come, nell'Eucaristia, è il corpo di Cristo che assimila a sé chi lo mangia, e non viceversa, così, nell'annuncio, deve essere la parola di Dio, che è il principio vitale più forte, a soggiogare ed assimilare a sé la parola umana, e non il contrario. Occorre, perciò, avere il coraggio di partire più spesso, nella trattazione dei problemi dottrinali e disciplinari della Chiesa, dalla parola di Dio, specialmente da quella del Nuovo Testamento, e di rimanere poi legati ad essa, vincolati da essa, sicuri che così si raggiunge molto più sicuramente lo scopo che è quello di scoprire, in ogni questione, qual è la volontà di Dio.

Lo stesso bisogno si avverte nelle comunità religiose. C’è il pericolo che nella formazione data ai giovani e ai novizi, negli esercizi spirituali e in tutto il resto della vita della comunità, si spenda più tempo sugli scritti del proprio fondatore (spesso assai poveri di contenuto) che non sulla parola di Dio.

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4. Parlare come con parole di DioMi rendo conto che questo che sto dicendo può far nascere una obiezione grave. Allora la predicazione della Chiesa dovrà ridursi a una sequenza (o una raffica) di citazioni bibliche, con tanto di indicazione di capitolo e versetto, alla maniera dei Testimoni di Geova e di altri gruppi fondamentalisti? No di certo. Noi siamo eredi di una diversa tradizione. Spiego cosa intendo per rimanere legati alla parola di Dio.

Sempre nella Seconda lettera ai Corinti, san Paolo scrive: “Noi non siamo come quei molti che mercanteggiano (alla lettera: annacquano, falsificano!) la parola di Dio, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo” (2 Cor 2, 17) e san Pietro, nella Prima lettera esorta i cristiani dicendo: “Chi parla, lo faccia come con parole di Dio” (1 Pt 4,11). Cosa vuol dire “parlare in Cristo”, o parlare “come con parole di Dio”? Non vuol dire certo ripetere materialmente e solo le parole pronunciate da Cristo e da Dio nella Scrittura. Vuol dire che l’ispirazione di fondo, il pensiero che “informa” e sorregge tutto il resto deve venire da Dio, non dall’uomo. L’annunciatore deve essere “mosso da Dio” e parlare come in sua presenza.

Ci sono due modi di preparare una predica o un qualsiasi annuncio di fede orale o scritto. Io posso prima sedermi a tavolino e scegliere io stesso la parola da annunciare e il tema da sviluppare, basandomi sulle mie conoscenze, le mie preferenze, ecc., e poi, una volta preparato il discorso, mettermi in ginocchio per chiedere frettolosamente a Dio di benedire quello che ho scritto e dare efficacia alle mie parole. E' già una cosa buona, ma non è la via profetica. Bisogna piuttosto fare il contrario. Prima mettersi in ginocchio e chiedere a Dio qual è la parola che vuole dire; dopo, sedersi a tavolino e utilizzare le proprie conoscenze per dare corpo a quella parola. Questo cambia tutto perché così non è Dio che deve fare sua la mia parola, ma sono io che faccio mia la sua parola.

Bisogna partire dalla certezza di fede che, in ogni circostanza, il Signore risorto ha nel cuore una sua parola che desidera far giungere al suo popolo. E' quella che cambia le cose ed è quella che bisogna scoprire. Ed egli non manca di rivelarla al suo ministro, se umilmente e con insistenza gliela chiede. All'inizio si tratta di un movimento pressoché impercettibile del cuore: una piccola luce che si accende nella mente, una parola della Bibbia che comincia ad attirare l'attenzione e che illumina una situazione.

Davvero “il più piccolo di tutti i semi”, ma in seguito ti accorgi che dentro c'era tutto; c'era un tuono da schiantare i cedri del Libano. Dopo ti metti a tavolino, apri i tuoi libri, consulti i tuoi appunti, consulti i Padri della Chiesa, i maestri, poeti...Ma è ormai tutto un'altra cosa. Non è più la Parola di Dio al servizio della tua cultura, ma la tua cultura al servizio della Parola di Dio.

Origene descrive bene il processo che porta a questa scoperta. Prima di trovare nella Scrittura l'alimento - diceva - occorre sopportare una certa “povertà dei sensi”; l'anima è circondata da oscurità da ogni lato, si imbatte in vie senza uscita. Finché, improvvisamente, dopo laboriosa ricerca e preghiera, ecco che risuona la voce del Verbo e subito qualcosa si illumina; colui che essa cercava le va incontro “saltando sulle montagne e balzando per le colline” (cf. Ct. 2, 8), cioè dischiudendole la mente a ricevere una sua parola forte e luminosa 3. Grande è la gioia che accompagna questo momento. Essa faceva dire a Geremia: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” (Ger 15,16).

Di solito la risposta di Dio arriva sotto forma di una parola della Scrittura che però in quel momento rivela la sua straordinaria pertinenza alla situazione e al problema che si deve trattare, come fosse stata scritta appositamente per essa. A volte non è neppure necessario citare esplicitamente tale parola biblica o commentarla. Basta che essa sia ben presente nella mente di chi parla e informi tutto il suo dire. Facendo così, egli parla, di fatto, “come con parole di Dio”. Questo metodo vale sempre: per i grandi documenti del magistero, come per la lezione che il maestro tiene ai suoi novizi, per la dotta conferenza come per l’umile l’omelia domenicale.

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Noi tutti abbiamo fatto l'esperienza di quanto può fare una sola parola di Dio profondamente creduta e vissuta prima da chi la pronuncia e talvolta perfino a sua insaputa; spesso si deve constatare che, tra tante altre parole, è stata quella che ha toccato il cuore e ha condotto più d'un ascoltatore al confessionale.

Dopo aver indicato le condizioni dell’annuncio cristiano (parlare di Cristo, con sincerità, come mossi da Dio e sotto il suo sguardo) l'Apostolo si domandava: “E chi è all'altezza di questo compito?” (2 Cor 2, 16). Nessuno, è chiaro, è all'altezza. Portiamo questo tesoro in vasi di creta (Ib 4, 7). Possiamo però pregare e dire: Signore, abbi pietà di questo povero vaso di creta che deve portare il tesoro della tua parola; preservaci dal pronunciare parole inutili quando parliamo di te; facci sperimentare una volta il gusto della tua parola perché la sappiamo distinguere da ogni altra e perché ogni altra parola ci sembri insipida. Diffondi, come hai promesso, la fame nel paese, “non fame di pane, né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore” (Am 8,11).

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Terza predica

“ACCOGLIETE LA PAROLA”La parola di Dio, come cammino di santificazione personale

1. La lectio divinaIn questa meditazione riflettiamo sulla parola di Dio come cammino di santificazione personale. I Lineamenta redatti in preparazione al Sinodo dei vescovi (Ottobre 2008) ne trattano in un paragrafo del capitolo II, dedicato a “la parola di Dio nella vita del credente”.

Si tratta di un tema quanto mai caro alla tradizione spirituale della Chiesa. “La parola di Dio - diceva S. Ambrogio - è la sostanza vitale della nostra anima; essa la alimenta, la pasce e la governa; non c'è altra cosa che possa far vivere l'anima dell'uomo, all'infuori della parola di Dio” 1. “Nella parola di Dio - aggiunge la Dei Verbum - è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell'anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale” 2.

“È necessario – scriveva Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte - che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta e plasma l’esistenza” 3. Sul tema si è espresso anche il Santo Padre Benedetto XVI- in occasione del Convegno internazionale sulla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa: “L’assidua lettura della sacra Scrittura accompagnata dalla preghiera realizza quell’intimo colloquio in cui, leggendo, si ascolta Dio che parla e, pregando, gli si risponde con fiduciosa apertura del cuore” 4.

Con le riflessioni che seguono mi inserisco in questa ricca tradizione, partendo da ciò che su questo punto ci dice la stessa Scrittura. Nella lettera di san Giacomo leggiamo questo testo sulla parola di Dio:

Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature. Lo sapete, fratelli miei carissimi: sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira... Perciò, deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s'è osservato, se ne va, e subito dimentica com'era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla (Gc 1, 18-25).

2. Accogliere la parolaDal testo di Giacomo ricaviamo uno schema di lectio divina fatto di tre tappe o operazioni successive: accogliere la parola, meditare la parola, mettere in pratica la parola.

La prima tappa è dunque l'ascolto della Parola: “Accogliete con docilità la Parola che è stata seminata in voi”. Questa prima tappa abbraccia tutte le forme e i modi con cui il cristiano viene in contatto con la parola di Dio: ascolto della Parola nella liturgia, facilitato ormai dall'uso della lingua volgare e dalla sapiente scelta dei testi distribuiti lungo l'anno; poi, scuole bibliche, sussidi scritti e, insostituibile, la lettura personale della Bibbia nella propria casa. Per chi è chiamato a insegnare agli altri, a tutto ciò si aggiunge lo studio sistematico della Bibbia: esegesi, critica testuale, teologia biblica, studio delle lingue originali.

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In questa fase bisogna guardarsi da due pericoli. Il primo è quello di fermarsi a questo primo stadio e di trasformare la lettura personale della parola di Dio in una lettura “impersonale”. Questo pericolo è molto forte oggi, soprattutto nei luoghi di formazione accademica.

San Giacomo paragona la lettura della parola di Dio a un guardarsi nello specchio; ma, osserva Kierkegaard, chi si limita a studiare le fonti, le varianti, i generi letterari della Bibbia, senza fare altro, somiglia a uno che passa tutto il tempo a guardare lo specchio – esaminandone accuratamente la forma, il materiale, lo stile, l’epoca -, senza mai guardarsi nello specchio. Per lui lo specchio non assolve la propria funzione. La parola di Dio è stata data perché tu la metta in pratica e non perché tu ti eserciti nell'esegesi delle sue oscurità. C'è una “inflazione di ermeneutica” e, quel che è peggio, si crede che la cosa più seria, riguardo alla Bibbia, sia l'ermeneutica, non la pratica 5.

Lo studio critico della parola di Dio è indispensabile e non si è mai abbastanza grati a coloro che spendono la vita per spianare la strada a una sempre migliore comprensione del testo sacro, ma esso non esaurisce da solo il senso delle Scritture; è necessario, ma non sufficiente.

L’altro pericolo è il fondamentalismo: il prendere tutto quello che si legge nella Bibbia alla lettera, senza alcuna mediazione ermeneutica. Questo secondo rischio è molto meno innocuo di quanto possa sembrare a prima vista e l’attuale dibattito su creazionismo ed evoluzionismo ne è la drammatica riprova.

Quelli che difendono la lettura letterale della Genesi (il mondo creato qualche migliaio di anni fa, in sei giorni, così come è ora) recano un danno immenso alla fede. “I giovani cresciuti in famiglie e in chiese che insistono in questa forma di creazionismo - ha scritto lo scienziato credente Francis Collins, direttore del progetto che ha portato alla scoperta del genoma umano - presto o tardi scoprono la schiacciante evidenza scientifica in favore di un universo assai più vecchio e la connessione tra loro di tutte le creature viventi per il processo di evoluzione e di selezione naturale. Quale terribile e inutile scelta si trovano davanti!...Non c’è da meravigliarsi se molti di questi giovani voltano le spalle alla fede, concludendo di non potere credere in un Dio che chiede loro di rigettare ciò che la scienza insegna loro con tanta evidenza intorno all’universo naturale” 6.

Solo apparentemente i due eccessi, dell’ipercriticismo e del fondamentalismo, sono opposti: essi hanno in comune il fatto di fermarsi alla lettera, trascurando lo Spirito.

3. Contemplare la ParolaLa seconda tappa suggerita da san Giacomo consiste nel “fissare lo sguardo” sulla parola, nello stare a lungo davanti allo specchio, insomma nella meditazione o contemplazione della Parola. I Padri usavano a questo riguardo le immagini del masticare e del ruminare. “La lettura - scrive Guigo II, il teorico della lectio divina - offre alla bocca un cibo sostanzioso, la meditazione lo mastica e lo frantuma”7. “Quando uno richiama alla memoria le cose udite e dolcemente le ripensa in cuor suo, diventa simile al ruminante”, dice Agostino 8.

L'anima che si guarda nello specchio della Parola impara a conoscere “com'è”, impara a conoscere se stessa, scopre la sua difformità dall'immagine di Dio e dall'immagine di Cristo. “Io non cerco la mia gloria”, dice Gesù (Gv 8, 50): ecco, lo specchio è davanti a te e subito vedi quanto sei lontano da Gesù; “Beati i poveri di spirito”: lo specchio è di nuovo davanti a te e subito ti scopri pieno ancora di attaccamenti e pieno di cose superflue; “la carità è paziente...” e ti accorgi di quanto tu sei impaziente, invidioso, interessato.

Più che “scrutare la Scrittura” (cf. Gv 5, 39), si tratta di lasciarsi scrutare dalla Scrittura. La parola di Dio, dice la Lettera agli Ebrei, “penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4, 12-13). La preghiera migliore con cui iniziare il momento della contemplazione della Parola è ripetere con il salmista:

“Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,

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provami e conosci i miei pensieri:

vedi se percorro una via di menzogna

e guidami sulla via della vita” (Sal 139).

Ma nello specchio della Parola, noi non vediamo soltanto noi stessi; vediamo il volto di Dio; meglio, vediamo il cuore di Dio. La Scrittura, dice san Gregorio Magno, è “una lettera di Dio onnipotente alla sua creatura; in essa si impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio” 9. Anche per Dio vale il detto di Gesù: “La bocca parla dalla pienezza del cuore” (Mt 12, 34); Dio ci ha parlato, nella Scrittura, di ciò che riempie il suo cuore e ciò che riempie il suo cuore è l'amore.

La contemplazione della Parola ci procura in tal modo le due conoscenze più importanti per avanzare sulla strada della vera sapienza: la conoscenza di sé e la conoscenza di Dio. “Che io conosca me e che io conosca te, noverim me, noverim te - diceva a Dio sant’Agostino –; che io conosca me per umiliarmi e che io conosca te per amarti”.

Un esempio straordinario di questa duplice conoscenza, di sé e di Dio, che si ottiene dalla parola di Dio è la lettera alla chiesa di Laodicea nell’Apocalisse che vale la pena meditare ogni tanto, specie in questo tempo di Quaresima (cf. Ap 3, 14-20). Il Risorto mette a nudo anzitutto la reale situazione del fedele tipico di questa comunità: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”. Impressionante il contrasto tra quello che questo fedele pensa di sé e quello che di lui pensa Dio: “Tu dici: ‘Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla’; non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”.

Una pagina di una durezza insolita, che però viene immediatamente ribaltata da una delle descrizioni in assoluto più toccanti dell’amore di Dio: “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. Una immagine che rivela il suo significato realistico e non solo metaforico, se letta, come suggerisce il testo, pensando al banchetto eucaristico.

Oltre che per verificare lo stato personale della nostra anima, questa pagina dell’Apocalisse ci può servire per mettere a nudo la situazione spirituale di gran parte della società moderna davanti a Dio. È come una di quelle foto a raggi infrarossi scattate da un satellite artificiale che rivelano un panorama tutto diverso da quello abituale, osservato alla luce naturale.

Anche questo nostro mondo, forte delle sue conquiste scientifiche e tecnologiche (come i laodiceni lo erano delle loro fortune commerciali), si sente soddisfatto, ricco, senza bisogno di nessuno, neppure di Dio. È necessario che qualcuno gli faccia conoscere la vera diagnosi del suo stato: “Tu non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”. Ha bisogno che qualcuno gli gridi, come fa il bambino nella favola di Andersen: “Il re è nudo!” Ma per amore e con amore, come fa il Risorto con i laodiceni.

La parola di Dio assicura a ogni anima che lo vuole una fondamentale, e in sé infallibile, direzione spirituale. C’è una direzione spirituale, per così dire, ordinaria e quotidiana che consiste nello scoprire cosa Dio vuole nelle diverse situazioni in cui l'uomo, di solito, viene a trovarsi nella vita. Una tale direzione è assicurata dalla meditazione della parola di Dio accompagnata dall'unzione interiore dello Spirito che traduce la parola in buona “ispirazione” e la buona ispirazione in risoluzione pratica. È ciò che esprime il versetto del salmo tanto caro agli amanti della Parola: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 119,105).

Una volta predicavo una missione in Australia. L’ultimo giorno venne a trovarmi un uomo, un emigrato italiano che lavorava lì. Mi disse: “Padre, io ho un problema serio: ho un ragazzo di 11 anni che non è ancora battezzato. Il fatto è che mia moglie si è fatta testimone di Geova e non vuol sentir parlare di battesimo nella Chiesa cattolica. Se lo battezzo, ci sarà una crisi, se non lo battezzo

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non mi sento tranquillo perché quando ci sposammo eravamo entrambi cattolici e abbiamo promesso di educare nella fede i nostri figli. Che devo fare?”. Gli dissi: “Lasciami riflettere questa notte, torna domani mattina e vedremo cosa fare”. L’indomani quest’uomo mi viene incontro visibilmente rasserenato e mi dice: “Padre, ho trovato la soluzione. Ieri sera, tornato a casa, ho pregato per un po’, poi ho aperto a caso la Bibbia. Mi è venuto il passo dove Abramo porta il figlio Isacco all’immolazione e ho visto che quando Abramo porta il figlio Isacco all’immolazione non dice niente a sua moglie”. Era un discernimento esegeticamente perfetto. Battezzai io stesso il ragazzo e fu una momento di grande gioia per tutti.

Questo di aprire la Bibbia a caso è una cosa delicata, che va fatta con discrezione, in un clima di fede e non prima di aver a lungo pregato. Non si può tuttavia ignorare che, a queste condizioni, esso ha dato spesso frutti meravigliosi ed è stato praticato anche dai santi. Di Francesco d’Assisi si legge, nelle fonti, che scoprì il genere di vita a cui Dio lo chiamava aprendo tre volte a caso, “dopo aver pregato devotamente”, il libro dei vangeli “disposti ad attuare il primo consiglio che si offrisse loro” 10. Agostino interpretò la parole “Tolle lege”, prendi e leggi, che udì da una casa vicina, come un ordine divino di aprire il libro delle Lettere di Paolo e di leggere il versetto che per primo gli si fosse presentato allo sguardo 11.

Ci sono state anime che si sono fatte sante con l'unico direttore spirituale che è la parola di Dio. “Nel Vangelo - ha scritto santa Teresa di Lisieux - trovo tutto il necessario per la mia povera anima. Scopro sempre in esso luci nuove, significati nascosti e misteriosi. Capisco e so per esperienza che “il regno di Dio è dentro di noi”(cf. Lc 17, 21). Gesù non ha bisogno di libri né di dottori per istruire le anime; lui, il Dottore dei dottori, insegna senza rumore di parole” 12. Fu attraverso una parola di Dio, leggendo uno dopo l’altro i capitoli 12 e 13 della Prima Corinzi, che la santa scoprì la sua vocazione profonda ed esclamò giubilante: “Nel corpo mistico di Cristo io sarò il cuore che ama!”

La Bibbia ci offre un’immagine plastica che riassume tutto quello che si è detto sul meditare la parola: quella del libro mangiato che si legge in Ezechiele:

“Io guardai ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto all'interno e all'esterno e vi erano scritti lamenti, pianti e guai. Mi disse: “Figlio dell'uomo, mangia questo rotolo, poi va' e parla alla casa d'Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell'uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele (Ez 2, 9-3, 3; cf. anche Ap 12,10).

C'è una differenza enorme tra il libro semplicemente letto o studiato e il libro ingoiato. Nel secondo caso, la Parola diventa davvero, come diceva sant’Ambrogio, “la sostanza della nostra anima”, quello che informa i pensieri, plasma il linguaggio, determina le azioni, crea l’uomo “spirituale”. La Parola ingoiata è una Parola “assimilata” dall'uomo, sebbene si tratti di una assimilazione passiva (come nel caso dell'Eucaristia), cioè di un “essere assimilato” dalla Parola, soggiogato e vinto da essa, che è il principio vitale più forte.

Nella contemplazione della parola abbiamo un modello dolcissimo, Maria; ella serbava tutte queste cose (alla lettera: queste parole) meditandole nel suo cuore (Lc 2, 19). In lei la metafora del libro ingoiato è diventata realtà anche fisica. La Parola le ha letteralmente “riempito le viscere”.

4. Fare la ParolaArriviamo così alla terza fase del cammino proposto dall’apostolo Giacomo, quella su cui l’apostolo insiste di più: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola…, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica…; chi la mette in pratica, troverà la sua felicità nel praticarla”. È anche la cosa che più sta a cuore a Gesù: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8, 21). Senza questo “fare la Parola”, tutto resta illusione, costruzione sulla sabbia. Non si può neppure dire di aver compreso la parola perché, come scrive san Gregorio Magno, la

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parola di Dio si capisce veramente solo quando si comincia a praticarla13 .

Questa terza tappa consiste, in pratica, nell’obbedire alla parola. Il termine greco usato nel Nuovo Testamento per designare l’obbedienza (hypakouein) tradotto letteralmente, significa “dare ascolto”, nel senso di eseguire quello che si è ascoltato. “Il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito”, si lamenta Dio nella Bibbia (Sal 81,12).

Appena si prova a ricercare, attraverso il Nuovo Testamento, in che cosa consiste il dovere dell’obbedienza, si fa una scoperta sorprendente e cioè che l’obbedienza è vista quasi sempre come obbedienza alla parola di Dio. San Paolo parla di obbedienza all’insegnamento (Rm 6, 17), di obbedienza al Vangelo (Rm 10, 16; 2 Ts 1, 8), di obbedienza alla verità (Gal 5, 7), di obbedienza a Cristo (2 Cor 10, 5). Troviamo lo stesso linguaggio anche altrove: gli Atti degli Apostoli parlano di obbedienza alla fede (At 6, 7), la Prima lettera di Pietro parla di obbedienza a Cristo (1 Pt 1, 2) e di obbedienza alla verità (1 Pt 1, 22).

L’obbedienza stessa di Gesù si esercita soprattutto attraverso l’obbedienza alle parole scritte. Nell’episodio delle tentazioni del deserto, l’obbedienza di Gesù consiste nel richiamare le parole di Dio e attenersi a esse: “Sta scritto!” La sua obbedienza si esercita, in modo particolare, sulle parole che sono scritte di lui e per lui “nella legge, nei profeti e nei salmi” e che egli, come uomo, scopre a mano a mano che avanza nella comprensione e nel compimento della sua missione. Quando vogliono opporsi alla sua cattura, Gesù dice: “Ma come allora si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” (Mt 26, 54). La vita di Gesù è come guidata da una scia luminosa che gli altri non vedono e che è formata dalle parole scritte per lui; egli desume dalle Scritture il “si deve” (dei) che regge tutta la sua vita.

Le parole di Dio, sotto l’azione attuale dello Spirito, diventano espressione della vivente volontà di Dio per me, in un dato momento. Un piccolo esempio aiuterà a capire. In una circostanza mi accorsi che in comunità qualcuno aveva preso per errore un oggetto a mio uso. Mi accingevo a farlo notare e a chiedere che mi fosse ritornato, quando mi imbattei per caso (ma forse non era veramente per caso) con la parola di Gesú che dice: “Da' a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo” (Lc 6, 30). Compresi che quella parola non si applicava universalmente e in tutti i casi, ma che certamente si applicava a me in quel momento. Si trattava di obbedire alla parola.

L’obbedienza alla parola di Dio è l’obbedienza che possiamo fare sempre. Di obbedienze a ordini e autorità visibili, capita di farne solo ogni tanto, tre o quattro volte in tutto nella vita, se si tratta di obbedienze serie; ma di obbedienze alla parola di Dio ce ne può essere una ogni momento. È anche l’obbedienza che possiamo fare tutti, sudditi e superiori, chierici e laici. I laici non hanno, nella Chiesa, un superiore cui obbedire – almeno non nel senso con cui ce l’hanno i religiosi e i chierici –; hanno però, in compenso, un “Signore” cui obbedire! Hanno la sua parola!

Terminiamo questa nostra meditazione facendo nostra la preghiera che S. Agostino eleva a Dio, nelle sue Confessioni, per ottenere la comprensione della parola di Dio: “Siano le tue Scritture le mie caste delizie; ch'io non m'inganni su di esse, né inganni gli altri con esse... Volgi la tua attenzione sulla mia anima e ascolta chi grida dall'abisso... Concedimi tempo per meditare sui segreti della tua legge, non chiuderla a chi bussa… Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce un piacere superiore a tutti gli altri. Dammi ciò che amo... Non abbandonare questo tuo filo d'erba assetato... Si aprano i recessi delle tue parole, a cui busso... Ti scongiuro per il Signore nostro Gesù Cristo... in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2, 3). Quei tesori io cerco nei tuoi libri” 14.

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1 S. Ambrogio, Exp. Ps. 118, 7,7 (PL 15, 1350).

2 Dei Verbum, 21.

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3 Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 39).

4 Benedetto XVI, in AAS 97, 2005, p. 957).

5 S. Kierkegaard, Per l’esame di se stessi. La Lattera di Giacomo, 1,22, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, pp. 909 ss.

6 F. Collins, Le language of God, Free Press 2006, pp. 177 s.

7 Guigo II, Lettera sulla vita contemplativa (Scala claustralium), 3, in Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, Edizioni Paoline, 1986, p.22.

8 S. Agostino, Enarr. in Ps. 46, 1 (CCL 38, 529).

9 S. Gregorio Magno, Registr. Epist. IV, 31 (PL 77, 706).

10 Celano, Vita Seconda, X, 15

11 S. Agostino, Confessioni, 8, 12.

12 S. Teresa diLisieux, Manoscritto A, n. 236.

13 S. Gregorio Magno, Su Ezechiele, I, 10, 31 (CCL 142, p. 159).

14 S. Agostino, Conf. XI, 2, 3-4.

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Quarta predica“LA LETTERA UCCIDE, LO SPIRITO DA' VITA”

La lettura spirituale della Bibbia

1. La Scrittura divinamente ispirataNella seconda lettera a Timoteo è contenuta la celebre affermazione: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio” (2 Tm 3, 16). L'espressione che viene tradotta con “ispirata da Dio”, o “divinamente ispirata”, nella lingua originale, è una parola unica, theopneustos, che contiene insieme i due vocaboli di Dio (Theos) e di Spirito (Pneuma). Tale parola ha due significati fondamentali: uno molto noto e un altro invece abitualmente trascurato, sebbene non meno importante del primo.

Il significato più noto è quello passivo, messo in luce in tutte le traduzioni moderne: la Scrittura è “ispirata da Dio”. Un altro passo del Nuovo Testamento spiega così questo significato: “Mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini (i profeti) da parte di Dio” (2 Pt 1, 21). È, insomma, la dottrina classica dell'ispirazione divina della Scrittura, quella che proclamiamo come articolo di fede nel Credo, quando diciamo che lo Spirito Santo “ha parlato per mezzo dei profeti”.

Possiamo rappresentarci con immagini umane questo evento in sé misterioso dell'ispirazione: Dio “tocca” con il suo dito divino - cioè con la sua vivente energia che è lo Spirito Santo - quel punto recondito, dove lo spirito umano si apre all'infinito e da lì quel tocco - in sé semplicissimo e istantaneo come è Dio che lo produce - si diffonde come una vibrazione sonora in tutte le facoltà dell'uomo -volontà, intelligenza, fantasia, cuore -, traducendosi in concetti, immagini, parole.

Il risultato che, in tal modo, si ottiene è una realtà teandrica, cioè pienamente divina e pienamente umana: le due cose intimamente fuse, anche se non “confuse”. Il magistero della Chiesa - encicliche “Providentissimus Deus” di Leone XIII e “Divino afflante Spiritu” di Pio XII - ci dice che i due dati, divino e umano, si sono mantenuti intatti. Dio è l'autore principale perché assume la responsabilità di ciò che è scritto, determinandone il contenuto con l'azione del suo Spirito; tuttavia lo scrittore sacro è anch'esso autore, nel senso pieno della parola, perché ha collaborato intrinsecamente a questa azione, mediante una normale attività umana, di cui Dio si è servito come di uno strumento. Dio - dicevano i Padri - è come il musicista che, toccandole, fa vibrare le corde della lira; il suono è tutto opera del musicista, ma esso non esisterebbe senza le corde della lira.

Di quest'opera meravigliosa di Dio è messo in luce, di solito, quasi solo un effetto: l'inerranza biblica, cioè il fatto che la Bibbia non contiene nessun errore, se intendiamo correttamente l’“errore” come assenza di una verità possibile umanamente, in un determinato contesto culturale, tenendo conto del genere letterario impiegato, e, quindi, esigibile da parte di chi scrive. Ma l'ispirazione biblica fonda molto di più che la semplice inerranza della parola di Dio (che è qualcosa di negativo); fonda, positivamente, la sua inesauribilità, la sua forza e vitalità divina e quella che Agostino chiamava la mira profunditas, la meravigliosa profondità 1.

Così siamo preparati a scoprire ormai l'altro significato dell'ispirazione biblica. Per sé, grammaticalmente, il participio theopneustos è attivo, non passivo. La stessa tradizione ha saputo cogliere in certi momenti questo significato attivo. La Scrittura, diceva S. Ambrogio, è theopneustos non solo perché è “ispirata da Dio”, ma anche perché è “spirante Dio”, perché spira Dio! 2

Parlando della creazione, sant’Agostino dice che Dio non fece le cose e poi se ne andò, ma che esse “venute da lui, restano in lui” 3. Così è delle parole di Dio: venute da Dio, esse restano in lui e lui in esse. Dopo aver dettato la Scrittura, lo Spirito Santo si è come racchiuso in essa, la abita e la anima

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senza posa con il suo soffio divino. Heidegger ha detto che “la parola è la casa dell’Essere”, noi possiamo dire che la Parola (con la lettera maiuscola) è la casa dello Spirito.

La costituzione conciliare “Dei Verbum” raccoglie anch'essa questo filone della tradizione quando dice che “le sacre Scritture ispirate da Dio (ispirazione passiva!) e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo” (ispirazione attiva!) 4.

2. Docetismo ed ebionismo biblicoMa ora dobbiamo toccare il problema più delicato: come accostare le Scritture in modo che esse “liberino” davvero per noi lo Spirito che contengono? Ho detto che la Scrittura è una realtà teandrica, cioè divino-umana. Ora la legge di ogni realtà teandrica (come sono, per esempio, Cristo e la Chiesa) è che non si può scoprire in essa il divino, se non passando attraverso l'umano. Non si può scoprire in Cristo la divinità, se non attraverso la sua concreta umanità.

Quelli che, nell'antichità, pretesero fare diversamente caddero nel docetismo. Disprezzando, di Cristo, il corpo e i contrassegni umani come semplici “apparenze” (dokein), smarrirono anche la sua realtà profonda e, al posto di un Dio vivente fatto uomo, si ritrovarono in mano una loro distorta idea di Dio. Allo stesso modo, non si può, nella Scrittura, scoprire lo Spirito, se non passando attraverso la lettera, cioè attraverso il concreto rivestimento umano che la parola di Dio ha assunto nei diversi libri e autori ispirati. Non si può scoprire in esse il significato divino, se non partendo dal significato umano, quello inteso dall'autore umano, Isaia, Geremia, Luca, Paolo ecc. In ciò trova la sua piena giustificazione l'immenso sforzo di studio e di ricerca che circonda il libro della Scrittura.

Ma questo non è il solo pericolo che corre l’esegesi biblica. Di fronte alla persona di Gesù non c'era solo il pericolo del docetismo, cioè di trascurare l'umano; c'era anche il pericolo di fermarsi ad esso, di non vedere in lui che l'umano e di non scoprire la dimensione divina di Figlio di Dio. C'era, insomma, il pericolo dell'ebionismo. Per gli ebioniti (che erano dei giudeo-cristiani), Gesù era, sì, un grande profeta, il più grande profeta, se si vuole, ma non di più. I Padri li chiamarono “ebioniti” (da ebionim, i poveri) per dire che erano poveri di fede.

Così avviene anche per la Scrittura. Esiste un ebionismo biblico, cioè la tendenza a fermarsi alla lettera, considerando la Bibbia un libro eccellente, il più eccellente dei libri umani, se si vuole, ma un libro solo umano. Purtroppo, noi viviamo il rischio di ridurre la Scrittura a una sola dimensione. La rottura dell'equilibrio, oggi, non è verso il docetismo, ma è verso 1'ebionismo.

La Bibbia viene spiegata da molti studiosi volutamente con il solo metodo storico-critico. Non parlo degli studiosi non credenti, per i quali ciò è normale, ma di studiosi che si professano credenti. La secolarizzazione del sacro in nessun caso si è rivelata tanto acuta, come nella secolarizzazione del Libro sacro. Ora, pretendere di comprendere esaurientemente la Scrittura, studiandola con il solo strumento dell'analisi storico-filologica è come pretendere di scoprire il mistero della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, basandosi su un'analisi chimica dell'ostia consacrata! L'analisi storico-critica, anche quando dovesse essere spinta al massimo della perfezione, non rappresenta, in realtà, che il primo gradino della conoscenza della Bibbia, quello riguardante la lettera.

Gesù afferma solennemente nel Vangelo che Abramo “vide il suo giorno” (cf. Gv 8, 56), che Mosè aveva “scritto di lui” (cf. Gv 5, 46), che Isaia “vide la sua gloria e parlò di lui” (cf. Gv 12, 41), che i profeti e i salmi e tutte le Scritture parlano di lui (cf. Lc 24, 27.44; Gv 5, 39), ma oggigiorno una certa esegesi scientifica esita a parlare di Cristo, non lo scorge praticamente più in nessun passo dell'Antico Testamento, o, almeno, ha paura di dire che ve lo scorge, per tema di squalificarsi “scientificamente”.

L'inconveniente più serio di una certa esegesi esclusivamente scientifica è che essa cambia completamente il rapporto tra l'esegeta e la parola di Dio. La Bibbia diventa un oggetto di studio

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che il professore deve “padroneggiare” e davanti al quale, come si addice a ogni uomo di scienza, deve rimanere “neutrale”. Ma in questo caso unico non è permesso rimanere “neutrali” e non è dato di “dominare” la materia; bisogna piuttosto lasciarsi dominare da essa. Dire di uno studioso della Scrittura che egli “padroneggia” la parola di Dio, a pensarci bene, è dire quasi una bestemmia.

La conseguenza di tutto ciò è il chiudersi e il “ripiegarsi” della Scrittura su se stessa; essa torna ad essere il libro “sigillato”, il libro “velato”, perché - dice S. Paolo - quel velo viene “eliminato in Cristo”, quando c'è “la conversione al Signore”, cioè quando si riconosce, nelle pagine della Scrittura, Cristo (cf. 2 Cor 3, 15-16). Avviene, della Bibbia, come di certe piante sensibilissime che serrano le loro foglie, appena sono toccate da corpi estranei, o come di certe conchiglie che serrano le loro valve per proteggere la perla che hanno dentro. La perla della Scrittura è Cristo.

Non si spiegano altrimenti le tante crisi di fede di studiosi della Bibbia. Quando ci si chiede il perché della povertà e aridità spirituale che regnano in alcuni seminari e luoghi di formazione, non si tarda a scoprire che una delle cause principali è il modo con cui è insegnata in essi la Scrittura. La Chiesa è vissuta e vive di lettura spirituale della Bibbia; troncato questo canale che alimenta la vita di pietà, lo zelo, la fede, allora tutto inaridisce e langue. Non si capisce più la liturgia che è tutta costruita su un uso spirituale della Scrittura, oppure la si vive come un momento staccato dalla vera formazione personale e smentito da quello che si è imparato il giorno prima in classe.

3. Lo Spirito dà la vitaUn segno di grande speranza è che l’esigenza di una lettura spirituale e di fede della Scrittura comincia ormai ad essere avvertita proprio da alcuni eminenti esegeti. Uno di essi ha scritto: “È urgente che quanti studiano e interpretano la Scrittura si interessino di nuovo all'esegesi dei Padri, per riscoprire, al di là dei loro metodi, lo spirito che li animava, l'anima profonda che ispirava la loro esegesi; alla loro scuola dobbiamo imparare a interpretare la Scrittura, non solo dal punto di vista storico e critico, ma parimenti nella Chiesa e per la Chiesa” (I. de la Potterie). Il P.H. de Lubac, nella sua monumentale storia dell'esegesi medievale, ha messo in luce la coerenza, la solidità e la straordinaria fecondità dell'esegesi spirituale praticata dai Padri antichi e medievali.

Ma bisogna dire che i Padri non fanno, in questo campo, che applicare (con gli strumenti imperfetti che avevano a disposizione) il puro e semplice insegnamento del Nuovo Testamento; non sono, in altre parole, gli iniziatori, ma i continuatori di una tradizione che ha avuto tra i fondatori Giovanni, Paolo e lo stesso Gesù. Costoro, non solo hanno praticato tutto il tempo una lettura spirituale delle Scritture, cioè una lettura in riferimento a Cristo, ma hanno anche dato la giustificazione di tale lettura, dichiarando che tutte le Scritture parlano di Cristo (cf. Gv 5, 39), che in esse era già “lo Spirito di Cristo” che era all'opera e si esprimeva attraverso i profeti (cf. 1 Pt 1, 11), che tutto, nell'Antico Testamento, è detto “per allegoria”, cioè in riferimento alla Chiesa (cf. Gal 4, 24), o “per ammonimento nostro” (1 Cor 10, 11).

Dire, perciò, lettura “spirituale” della Bibbia non significa dire lettura edificante, mistica, soggettiva, o, peggio ancora, fantasiosa, in opposizione alla lettura scientifica che sarebbe, invece, oggettiva. Essa, al contrario, è la lettura più oggettiva che ci sia perché si basa sullo Spirito di Dio, non sullo spirito dell'uomo. La lettura soggettiva della Scrittura (quella basata sul libero esame) ha dilagato proprio quando si è abbandonato la lettura spirituale e là dove tale lettura è stata più chiaramente abbandonata.

La lettura spirituale è dunque qualcosa di ben preciso e oggettivo; è la lettura fatta sotto la guida, o alla luce, dello Spirito Santo che ha ispirato la Scrittura. Essa si basa su un evento storico e cioè sull'atto redentore di Cristo che, con la sua morte e risurrezione, compie il disegno di salvezza, realizza tutte le figure e le profezie, svela tutti i misteri nascosti e offre la vera chiave di lettura dell'intera Bibbia. L’Apocalisse esprime tutto ciò con l’immagine dell’Agnello immolato che prende in mano il libro e ne rompe i sette sigilli (cf. Ap. 5, 1ss.)

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Chi volesse, dopo di lui, continuare a leggere la Scrittura prescindendo da questo atto, somiglierebbe a uno che continuasse a leggere uno spartito musicale in chiave di “fa”, dopo che il compositore ha introdotto nel brano la chiave di “sol”: ogni singola nota darebbe, a quel punto, un suono falso e stonato. Ora, il Nuovo Testamento chiama la chiave nuova “lo Spirito”, mentre definisce la chiave vecchia “la lettera”, dicendo che la lettera uccide, ma lo Spirito dà la vita (2 Cor 3, 6).

Contrapporre tra di loro “lettera” e “Spirito” non significa contrapporre tra di loro Antico e Nuovo Testamento, quasi che il primo rappresenti solo la lettera e il secondo solo lo Spirito. Significa piuttosto contrapporre tra di loro due modi diversi di leggere sia l'Antico che il Nuovo Testamento: il modo che prescinde da Cristo e il modo che giudica, invece, tutto alla luce di Cristo. Per questo, la Chiesa può valorizzare l'uno e l'altro Testamento, perché entrambi le parlano di Cristo.

4. Ciò che lo Spirito dice alla ChiesaLa lettura spirituale non riguarda soltanto l'Antico Testamento; in un senso diverso riguarda anche il Nuovo Testamento; anch'esso dev'essere letto spiritualmente. Leggere spiritualmente il Nuovo Testamento significa leggerlo alla luce dello Spirito Santo donato a Pentecoste alla Chiesa per condurla a tutta quanta la verità, cioè alla piena comprensione e attuazione del Vangelo.

Gesù ha spiegato egli stesso, in anticipo, il rapporto tra la sua parola e lo Spirito che egli avrebbe inviato (anche se non dobbiamo pensare che lo abbia fatto necessariamente nei termini precisi che usa, a questo riguardo, il vangelo di Giovanni). Lo Spirito - si legge in Giovanni - “insegnerà e farà ricordare” tutto ciò che Gesù ha detto (cf. Gv 14, 25 s.), cioè lo farà comprendere a fondo, in tutte le sue implicazioni. Egli “non parlerà da se stesso”, cioè non dirà cose nuove rispetto a quelle dette da Gesù, ma - come dice Gesù stesso - prenderà del mio e ve lo rivelerà (Gv 16, 13-15).

In ciò è dato vedere come la lettura spirituale integra e oltrepassa la lettura scientifica. La lettura scientifica conosce una sola direzione che è quella della storia; spiega infatti ciò che viene dopo, alla luce di ciò che viene prima; spiega il Nuovo Testamento alla luce dell'Antico che lo precede, e spiega la Chiesa alla luce del Nuovo Testamento. Buona parte dello sforzo critico intorno alla Scrittura consiste nell'illustrare le dottrine del Vangelo alla luce delle tradizioni veterotestamentarie, dell'esegesi rabbinica ecc.; consiste, insomma, nella ricerca delle fonti (Su questo principio è basato il Kittel e tanti altri sussidi biblici).

La lettura spirituale riconosce in pieno la validità di questa direzione di ricerca, ma ad essa ne aggiunge un'altra inversa. Essa consiste nello spiegare ciò che viene prima alla luce di ciò che viene dopo, la profezia alla luce della realizzazione, l'Antico Testamento alla luce del Nuovo e il Nuovo Testamento alla luce della Tradizione della Chiesa. In ciò la lettura spirituale della Bibbia trova una singolare conferma nel principio ermeneutico di Gadamer della “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte), secondo cui per capire un testo bisogna tener conto degli effetti che esso ha prodotto nella storia, inserendosi in questa storia e dialogando con essa 5.

Solo dopo che Dio ha realizzato il suo piano, si capisce pienamente il senso di ciò che lo ha preparato e prefigurato. Se ogni albero, come dice Gesù, si riconosce dai suoi frutti, anche la parola di Dio non si può conoscere appieno, prima di aver visto i frutti che ha prodotto. Studiare la Scrittura alla luce della Tradizione è un po' come conoscere l'albero dai suoi frutti. Per questo Origene diceva che “il senso spirituale è quello che lo Spirito dà alla Chiesa”6. Esso si identifica con la lettura ecclesiale o addirittura con la Tradizione stessa, se intendiamo per Tradizione non solo le dichiarazioni solenni del magistero (che riguardano, del resto, pochissimi testi biblici), ma anche l'esperienza di dottrina e di santità in cui la parola di Dio si è come nuovamente incarnata e “spiegata” nel corso dei secoli, per opera dello Spirito Santo.

Quello che occorre non è dunque una lettura spirituale che prenda il posto dell'attuale esegesi scientifica, con un ritorno meccanico all'esegesi dei Padri; è piuttosto una nuova lettura spirituale

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corrispondente all'enorme progresso registrato dallo studio della “lettera”. Una lettura, insomma, che abbia l'afflato e la fede dei Padri e, nello stesso tempo, la consistenza e la serietà dell'attuale scienza biblica.

5. Lo Spirito che soffia dai quattro ventiDavanti alla distesa di ossa aride, il profeta Ezechiele udì la domanda: “Potranno queste ossa rivivere?” (Ez 37, 3). La stessa domanda ci poniamo noi oggi: potrà 1'esegesi, inaridita dal lungo eccesso di filologismo, ritrovare lo slancio e la vita che ebbe in altri momenti della storia della Chiesa? Il Padre de Lubac, dopo aver studiato la lunga storia dell'esegesi cristiana, conclude piuttosto mestamente, dicendo che mancano a noi moderni le condizioni per poter risuscitare una lettura spirituale come quella dei Padri; ci manca quella fede piena di slancio, quel senso della pienezza e dell'unità che avevano essi, per cui voler imitare oggi la loro audacia sarebbe un esporsi quasi alla profanazione, mancandoci lo spirito da cui procedevano quelle cose 7.

Tuttavia, egli non chiude del tutto la porta alla speranza e dice che “se si vuole ritrovare qualcosa di quel che fu nei primi secoli della Chiesa l'interpretazione spirituale delle Scritture, bisogna riprodurre anzitutto un movimento spirituale”8. A distanza di qualche decennio, e con il Concilio Vaticano II di mezzo, a me sembra di riscontrare, in queste ultime parole, una profezia. Quel “movimento spirituale” e quello “slancio” hanno cominciato a riprodursi, ma non perché degli uomini l'avessero programmato o previsto, ma perché lo Spirito si è messo a soffiare di nuovo, inaspettatamente, dai quattro venti sulle ossa aride. Contemporaneamente alla ricomparsa dei carismi, si assiste al ricomparire anche della lettura spirituale della Bibbia ed è, anche questo, un frutto, dei più squisiti, dello Spirito.

Partecipando a incontri biblici e di preghiera, resto stupito nell'ascoltare, a volte, riflessioni sulla parola di Dio del tutto analoghe a quelle che facevano a loro tempo Origene, Agostino o Gregorio Magno, anche se in un linguaggio più semplice. Le parole sul tempio, sulla “tenda di David”, su Gerusalemme distrutta e riedificata dopo l'esilio, vengono applicate, con tutta semplicità e pertinenza, alla Chiesa, a Maria, alla propria comunità o alla propria vita personale. Ciò che si narra dei personaggi dell'Antico Testamento induce a pensare, per analogia o per antitesi, a Gesù e ciò che si narra di Gesù viene applicato e attualizzato in riferimento alla Chiesa e al singolo credente.

Molte perplessità nei confronti della lettura spirituale della Bibbia nascono dal non tener conto della distinzione tra spiegazione e applicazione. Nella lettura spirituale, più che pretendere di spiegare il testo, attribuendogli un senso estraneo all’intenzione dell’autore sacro, si tratta, in genere, di applicare o attualizzare il testo. È ciò che vediamo in atto già nel Nuovo Testamento nei confronti delle parole di Gesú. A volte si nota che, di una stessa parabola di Cristo, vengono fatte applicazioni diverse nei sinottici, a seconda dei bisogni e dei problemi della comunità per cui ognuno scrive.

Le applicazioni dei Padri e quelle di oggi non hanno evidentemente il carattere canonico di queste applicazioni originarie, ma il processo che porta ad esse è lo stesso e si basa sul fatto che le parole di Dio non sono parole morte, “da conservare sott’olio”, direbbe Péguy; sono parole “vive” e “attive”, capaci di sprigionare sensi e virtualità nascosti, in risposta a domande e situazioni nuove. È una conseguenza di quella che ho chiamato la “ispirazione attiva” della Scrittura, cioè del fatto che essa non è solo “ispirata dallo Spirito”, ma “spira” anche lo Spirito e lo spira in continuazione, se letta con fede. “La Scrittura, ha detto san Gregorio Magno, cum legentibus crescit, cresce con coloro che la leggono”9. Cresce, rimanendo intatta.

Termino con una preghiera che ho sentito fare una volta da una donna, dopo che era stato letto l'episodio di Elia che, salendo al cielo, lascia a Eliseo due terzi del suo spirito. È un esempio di lettura spirituale nel senso che ho appena spiegato: “Grazie, Gesù, che salendo al cielo non ci hai lasciato soltanto due terzi del tuo Spirito, ma tutto il tuo Spirito! Grazie che non l'hai lasciato a un unico discepolo, ma a tutti gli uomini! “.

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1 Testi in H. de Lubac, Histoire de l’exégése médiévale, I,1, Paris,Aubier 1959, pp. 119 ss.

2 S. Ambrogio, De Spiritu Sancto, III, 112.

3 S. Agostino, Conf . IV, 12, 18.

4 Dei Verbum, 21.

5 cf. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tbingen 1960.

6 Origene, In Lev. hom. V, 5.

7 H. de Lubac, Exégèse médiévale, II, 2, p. 79.

8 H. de Lubac, Storia e spirito, Roma 1971, p. 587.

9 S. Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, 20,1 (CC 143A, p. 1003).

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