Vittorio Schieroni, Elena Amodeo | Dormi, mio amore

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Vittorio Schieroni Dormi, mio amore Opere di Elena Amodeo

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Ebook ISBN 978-88-6057-196-0 Racconto di Vittorio Schieroni, opere di Elena Amodeo

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Vittorio Schieroni

Dormi, mio amoreOpere di Elena Amodeo

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Vittorio Schieroni

Dormi, mio amore

Opere di Elena Amodeo

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Editore

un progetto di

Traversa dei Ceramisti, 817012 Albissola Marina (SV)Tel. + 39 019 4500659Fax + 39 019 [email protected]

ISBN 978-88-6057-196-0

ResponsabileDiego Santamariacell. 347 [email protected]

Coordinamento editoriale

TestiVittorio Schieroni

OpereElena Amodeo

LayoutElena Borneto

Copyright© Vittorio Schieroni© Elena Amodeo© vanillaedizioni

Nessuna parte di questo ebook può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

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Il presente volume è realizzato in occasione della mostra Dormi, mio amore: Elena Amodeo e Vittorio Schieroni (luglio-settembre 2013, spazio Made4Art, Via Voghera 14, Milano). Il progetto Dormi, mio amore, basato sul dialogo tra la scrittura di Vittorio Schieroni e l’arte di Elena Amodeo, ha preso l’avvio con l’esposizione presso Made4Art, dove le opere dell’artista – tecniche miste su carta di grandi dimensioni, tutte realizzate nel 2013 appo-sitamente per la mostra – sono state esposte con un particolarissimo allestimento in grado di creare due ambienti e due situazioni nei quali il visitatore ha avuto la possibilità di immergersi; insieme ad ogni opera dell’artista altrettanti brani tratti dal racconto omonimo dello scrittore, invito alla riflessione e spunto per l’interpretazione delle opere d’arte. La pubblicazione del racconto di Vittorio Schieroni è una seconda tappa di questo progetto a quattro mani. Dormi, mio amore, testo terminato anch’esso nel 2013 dopo una serie di variazioni e integra-zioni, è stato motivo d’ispirazione per la realizzazione dei lavori di Elena Amodeo, che vengono qui riportati e che mettono in evidenza personaggi e momenti di particolare suggestione per i due autori.

Spazio, comunicazione e servizi per l’arte e la cultura Via Voghera 14 - ingresso da Via Cerano, 20144 Milano

www.made4art.it - [email protected] - t. +39.02.39813872

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Dal tuo cielo blula pioggia vien giù soventema di sotto sempre rimane

un po’ di blu.

Marcel Proust, Dordrecht

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Mr. Snook guardava fuori dalla vetrata, osservava la pioggia che si riversava sulla città, particelle d’acqua stanche e distratte. Sera, le sette e mezza da poco passate, una luce bluastra tra i palazzoni grigi e massicci, una luce giallognola dai lampioni nelle strade e tra le sagome degli alberi. Era in piedi, nel salone del suo ufficio all’ultimo piano di un moderno palazzo del centro di Milano, dalle cui finestre erano visibili quartieri interi, il vetro rigato di gocce sporche. Sembrava così terribilmente tranquillo tutto quel movimento, da lassù in alto, un procedere di-screto, misurato, sotto le grosse nuvole scure che scorrevano sospe-se, serrate. La luminosità liquida che si spegneva nella sera pareva rendere tutto più vivido, quasi ricoperto di smalto. Lontano si poteva scorgere perfino un elegante edificio religioso guarnito di croci, sta-tue, guglie, a ricordare quanto l’arte, la storia e la religione siano importanti in Italia, importanti quasi quanto il denaro, l’esteriorità e il fashion. Questo popolo di cultori dell’apparire avanzava nella pioggia con un certo ordine rassicurante, un ripetersi sempre uguale. Dentro il silenzio immobile del suo ufficio, immerso nel rosso arti-ficiale delle lampade di design, Mr. Snook poteva permettersi di ri-flettere su certe decisioni importanti che avrebbe dovuto prendere in fretta, scelte che avrebbero riguardato la sua vita. La sua e, di riflesso, quella di tutte le persone che gli stavano accanto. Doveva scegliere se farsi ibernare oppure continuare a vivere la sua vita di sempre, pro-seguire il suo cammino in quell’esistenza a cui era ormai fin troppo assuefatto. Farsi ibernare. Non che fosse malato o che altro, non che ci fossero ragioni ben precise, motivazioni degne di reale considerazione. Pen-sava semplicemente che farsi uno o due anni di sonno, di pausa, po-tesse giovare alla sua salute fisica e mentale. Pensava che distaccarsi provvisoriamente dalla realtà potesse essergli utile per capirla meglio in seguito. Per sostenerla con maggior determinazione. Sarebbe stato necessario far presto, risolversi nel più breve tempo possibile: in quel periodo le infornate erano economicamente vantaggiose e non avreb-be nemmeno dovuto farsi inserire in una lista d’attesa. Mr. Snook avrebbe potuto sottrarsi all’estate e al calore di Milano, che, quando

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è agosto ed è vuota, alle anime inquiete rende tutto più difficoltoso. I suoi nonni erano stati previdenti e coraggiosi. Non volevano invec-chiare, ammalarsi e magari rischiare di non morire insieme. Da due anni ormai fluttuavano sospesi in una di quelle capsule che sembra-vano teche piene di acqua azzurra. Erano davvero molto belli mentre i loro capelli bianchi ondeggiavano nel liquido trasparente. Pensava spesso a loro e all’ultima volta che avevano cenato tutti insieme in un ristorante di Brera, alla frase che aveva colto la famiglia di sorpresa. - Cari, quasi ci dimenticavamo di dirvelo. Domani ci facciamo iber-nare. Non è una cosa che ci tratterrà via molto tempo, quattro o cin-que anni al massimo. Forse qualcuno in più. Una vita intera fatta solo di vacanze e feste, di disimpegno e pura vacuità doveva necessariamente aver avuto qualche effetto collate-rale su persone già di natura piuttosto originali e distanti dalla realtà. Un po’ frivoli entrambi, poco avvezzi al lavoro e alle responsabilità, amavano viaggiare, la buona cucina, i safari e le serate mondane; amavano talmente tanto tutte queste cose che per paura di perder-le all’improvviso, secondo il volere di Dio, avevano stabilito di ri-nunciarvi temporaneamente di loro spontanea volontà, di posticipare ogni problema più avanti. Forse, nel frattempo, sarebbe stato trovato qualche nuovo espediente per ritardare il procedere della vecchiaia, per contrastare il decadimento fisico e mentale, forse medici e scien-ziati avrebbero escogitato delle terapie efficaci per curare i mali più dolorosi per l’esistenza dell’essere umano. Negli ultimi tempi erano state numerosissime le persone che avevano deciso di farsi ibernare, per i motivi più disparati. Malati, anziani, portatori di handicap, depressi cronici, anche semplici curiosi; c’era chi desiderava trovare un sistema per pareggiare l’età con il partner e chi provava una tremenda stanchezza fisica o mentale, chi lo faceva per vendetta e chi per amore. Durante i primi anni che seguirono la scoperta dell’ibernazione que-sto nuovo stile di vita vegetativo era stato in grado di calamitare l’at-tenzione di tutti, interessando morbosamente l’opinione pubblica. Se ne parlava in continuazione, al bar e nei talk show, dal parrucchiere e nei comizi elettorali, tanto che farsi ibernare era diventato di moda

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tra le persone abbienti e annoiate, tra la gente dello spettacolo, crean-do diversi casi di emulazione tra le menti più fragili. Un argomento al centro di dibattiti politici e morali, capace di creare profonde divisio-ni all’interno della società. Poi, con il passare del tempo, l’ibernazio-ne era diventata altrettanto rapidamente un dato di fatto, fantascienza tramutata in realtà. In un mondo dove gusti e tendenze nascono e muoiono con sorprendente velocità, anche le cose più improbabili vengono presto assimilate, ogni novità che lascia il passo alla sua evoluzione. Mr. Snook era ancora incerto, non sapeva che fare. Dopo aver acca-rezzato quell’idea per un periodo imprecisato non era ancora riuscito a prendere una decisione. Per sconfiggere la noia avrebbe fatto di tut-to, tutto pur di non dover più comprare quelle cravatte e quei comple-ti tra loro sempre uguali, da indossare in quelle serate tanto ricche di sorrisi luccicanti, di facce sinistre. Gli era diventata quasi insoppor-tabile perfino Marina, la sua fidanzata, erano insieme da quasi dieci anni, una bella ragazza, senza grandi qualità, che il nonno definiva “la Scema”, ma che a mamma piaceva. Marina fidanzata modella. Marina pellicciotto leggero. Marina tailleur bianco con bottoni d’oro. A lei piacevano quelle serate, si trovava sempre a suo agio, affabile e sorridente, piuttosto arguta nelle conversazioni. Una vera donna da salotto. Le macchine scorrevano sull’asfalto bagnato lasciando per qualche istante tracce rosse come lacca, i fanali posteriori a riflettersi sulla strada, traffico troppo lento per creare linee continue. Le guardava dall’alto, senza sorpresa, come se appartenessero a un altro mondo. Aveva circa quarant’anni e nulla gli mancava, aveva una discreta quantità di denaro sul conto in banca, non era di certo stupido, aveva un lavoro invidiabile e una discreta cultura. Una cultura più che ac-cettabile. Una cultura che avrebbe desiderato coltivare ancora di più, se solo gliel’avessero lasciato fare. Era un bell’uomo. Di quelli che piacciono e sanno di piacere. Amministratore delegato della Snook Liquori S.p.A., azienda di cui il padre era Presidente, faceva di cognome Corsini, anche se tutti, per via del nome dell’azienda mai rinnovato, lo chiamavano ami-

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chevolmente “Mr. Snook”. Mr. Snook, proprio come l’ormai mitico fondatore dell’azienda, uno spregiudicato imprenditore americano che agli inizi del secolo scorso aveva creato un piccolo impero: si era prodigato in questa missione con una tale energia da non aver avuto nemmeno il tempo di mettere al mondo una discendenza in grado di portare avanti il risultato di tanto lavoro. Francesco Corsini. Si scostò dalla vetrata per versarsi qualche altro dito di alcolico Sno-ok. Era il suo aperitivo solitario prima della cena. Nell’arco di due giorni, soltanto due giorni, avrebbe preso una deci-sione, ascoltando il parere delle persone a lui più care, valutando tutto ciò che gli avrebbero suggerito, ogni spunto che gli sarebbe sembrato intelligente e saggio. Una decisione irrevocabile, quarantotto ore, né più né meno, senza rimorso. Senza passi indietro. Appoggiò il bicchiere sulla scrivania e indossò l’impermeabile, prese con sé la ventiquattrore, spense le luci. Dalla strada l’enorme vetra-ta rossastra scomparve, lasciando al palazzo un’immagine anonima e silenziosa che si mimetizzava tra mille altre strutture squadrate e verticali. Salutò Margherita, la sua segretaria personale, con un cenno della mano, un sorriso cortese. - Spegne tutto lei, Margherita? - Certo, signore. Arrivederci e buona serata. Se quella ragazza non avesse avuto l’abitudine di sfoggiare vestiti bizzarri, occhiali grossi e spessi, una pettinatura tanto ridicola, sa-rebbe anche potuta sembrare una bella donna, essere quantomeno piacente. Chi può dirlo? Forse nella vita privata era capace di tra-sformarsi in una persona diversa, in carne e ossa. A Milano sembra-no tutti asciutti e compiti, ma nell’intimità spesso rivelano aspetti imprevedibili, talvolta poco coerenti con l’immagine di se stessi che vogliono comunicare all’esterno. Salì sul taxi, dove aleggiava una vecchia colonna sonora, il finestrino a proteggere la musica e il passeggero dal caos esterno proveniente dalla strada, con i clacson, il fastidioso rumore dei motori, le voci, le parole inutili.

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Si fece lasciare direttamente a casa, dove si spogliò, fece una rapida doccia e si cosparse di profumo collo e viso; non un capello fuori posto. Indossò una camicia bianca, un elegante abito scuro, con una cravatta piuttosto vistosa a creare un insolito contrasto, calzò scarpe impeccabilmente lucidate da mani altrui, ed era pronto. Mai dimenti-care chiavi, portafoglio, cellulare, sigarette e pettine da taschino.

Dopo la faticosa ricerca di un posteggio, lasciò la macchina poco lontano dal ristorante giapponese, dove già lo aspettavano Marina, la coppia Massimo e Bianca, gli amici Riccardo, Felicita e Simone Cor-netti. Gli amici di sempre, dai tempi del liceo, quelli dell’università, gli stessi che, nel bene e nel male, si era portato dietro per tutta la vita come un dato di fatto. - Ce ne hai messo di tempo, pensavamo che non saresti più venuto. Massimo e Bianca si alzarono a salutarlo, in un vortice di “ciao, ehi ciao, come va, ciao”. Grandi saluti e sorrisi, dispendio di energia. Si tenevano per mano, come sempre da quando si erano fidanzati; da allora avevano preso l’abitudine di sincronizzare i movimenti, le voci, gli sguardi. Felicita era, invece, piuttosto nervosa, perché si era trovata Riccardo come vicino di posto. Anche loro una coppia, in un certo senso, an-che se non dichiarata, non realizzata del tutto: il loro era un rapporto tormentato, un’amicizia amorosa che durava dai tempi dell’universi-tà fatta di confessioni, giochi per sedursi e ingelosirsi, momentanei avvicinamenti, una situazione ambigua che alla fine non sfociava mai in qualcosa di concreto. Marina sorrideva alle gioiose rivelazioni di Bianca, pettegolezzi e aneddoti sul lavoro e il sesso di coppia. Simone Cornetti strattonava il braccio dei vicini di posto con ostentata familiarità, alzava la voce per richiamare l’attenzione e per raccontare le sue solite barzellette, nell’indifferenza generale. Battute stagionate e piuttosto sporche alle quali i suoi amici si sforzavano di ridere. L’atmosfera del ristorante era ovattata, le luci discrete, un grande ac-quario trasparente vicino alla porta d’ingresso, candele un po’ ovun-

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que. Nell’ambiente c’era un piacevole tepore, tale da provocare uno stato di rilassatezza. Chiacchiere e risate sembravano attutite per Mr. Snook, che ogni tanto veniva riportato alla realtà dalla propria com-pagna con una stretta della mano, un “hai sentito, caro? mamma che forza” o qualcosa del genere. Mr. Snook rispondeva la prima cosa che gli veniva in mente e ridac-chiava, ascoltava, certo che ascoltava. Al tavolo rotondo di quel risto-rante arredato all’orientale sentiva tutto molto bene. Ma non gliene importava nulla.Aspettava il momento giusto per farsi avanti.Il tono delle voci aumentava con il diminuire del vino nelle botti-glie, erano diventate un po’ più alte e stridule, i discorsi si facevano più articolati, ma a Mr. Snook non interessava niente di tutte quelle sciocchezze, preso com’era dalla domanda che intendeva rivolgere ai suoi amici, la domanda che aveva quasi vergogna di porre, per una sorta di pudore, cosa ne pensate di… Come arrivare a un simile argomento senza perdere la propria natura-lezza, senza far intuire agli amici le sue vere intenzioni? Non voleva che capissero qualcosa, non voleva alterare la loro capacità di giu-dizio, desiderava conoscere il loro pensiero senza influenze e filtri. Se li immaginava tutti immersi nell’acqua azzurra, in una situazione surreale. Felicita con espressione assente, Massimo e Bianca aggrap-pati l’uno all’altra in una capsula matrimoniale.La conversazione sulla situazione economica che aveva intavolato con Massimo lasciò spazio a qualche battuta politica. Non ora, non era ancora venuto il momento. Le bottiglie non erano state vuotate del tutto, i ragazzi volevano ancora parlare di cose allegre e disimpe-gnate. Non si sarebbero lasciati andare facilmente.Ancora qualche piatto, magari, aspettando l’istante giusto. Nel frat-tempo avrebbe ordinato dell’altro vino bianco per allentare i loro pensieri. Il cameriere servì altre portate. Ma loro non si fermavano. - Che ne pensate del referendum di domenica? - domandò Felicita, sfruttando un attimo in cui tutti erano in silenzio. - Per me sono tutti inutili, tutte prese per il culo. – rispose qualcu-

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no. - Mica vero. Questo referendum è troppo importante per fare finta di niente. Non dobbiamo lasciarlo cadere nel vuoto. Se anche questa volta non saremo capaci di dire la nostra sarà stato tutto vano, ci ri-troveremo tra dieci o vent’anni a pentircene amaramente. Mr. Snook si passò il tovagliolo sulle labbra e intorno alla bocca. - Per quanto mi riguarda, preferisco non fare programmi a lungo ter-mine. - disse - Ora come ora non voglio pensare troppo al futuro. - Già, perché lui è un uomo troppo impegnato. Come se davvero gli interessasse qualcosa al di fuori del suo lavoro. Come se realmente avesse delle idee e delle opinioni sulla vita. Simone Cornetti, era stato lui a parlare. Il buffone di sempre. Tutti sorrisero, anche perché l’affermazione aveva un fondo di verità. Mr. Snook lo guardò con sufficienza ma senza maleducazione, senza renderlo partecipe di tutte le cose che pensava sul suo conto ogni volta che gli capitava di incrociare il suo sguardo. Era sempre lui, Si-mone Cornetti, che lo invitavano ancora a fare? Sempre a strizzarsi il cervello per cercare qualche battutina brillante, rilevare doppi sensi, a ridere a spese degli altri. Rientrava nella categoria di quelle persone invidiose e gelose che passano tutta la vita a punzecchiare chi sta loro vicino per nascondere i propri fallimenti e la propria insoddisfazione. Altro che capsula dall’acqua azzurra e capelli fluttuanti, immagine troppo romantica per un tipo come lui, avrebbe preferito di gran lun-ga vederlo nuotare in quel grande acquario di pesci rossi che stava vicino all’entrata del ristorante. Mr. Snook abbozzò un sorriso. Aveva ben altro da fare che badare a quelle sciocchezze, “lasciamo perdere Simone Cornetti”, mangiava-no, tutti presi dalle loro bacchette: tacevano, non ridacchiavano più. La conversazione si era spenta miseramente, il sushi aveva mono-polizzato l’interesse di tutti. “Bravo sushi” pensò, tutti testa rivolta al piatto, le guance arrossate per le risate e il vino. Era venuto il momento buono, carpe diem, approfittane, carpe sushi, una musica scema in sottofondo, accompagnata da una vocina femminile sempre uguale, ripetitiva all’inverosimile, i ragazzi pensavano ad altro, forse a niente, lo sguardo vacuo, una tabula rasa, qualche sorriso, felicità

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di mangiare. - Cosa ne pensate dell’ibernazione? Era riuscito a catalizzare l’attenzione senza creare dei sospetti. La domanda, posta in maniera apparentemente annoiata, aveva avuto un suono banale, un discorso come gli altri, nemmeno dei più coinvol-genti, in perfetto accordo con la disposizione d’animo dei presenti. Massimo, posando temporaneamente le bacchette, parlò per primo, quasi per fare una cortesia. - Non ho un parere definito sulla faccenda, a dire la verità non saprei bene come risponderti. Da una parte trovo che sia un’invenzione for-midabile. Potenzialmente è in grado di prolungare all’infinito la vita umana. In un certo senso è come ribellarsi alla natura. Tu ti metti lì e ci stai quanto vuoi, ti svegli quando vuoi e nel futuro che preferisci. Esattamente nello stesso stato in cui sei entrato, senza invecchiare, senza implicazioni. Una vera figata. Tuttavia, se ci pensi bene, l’iber-nazione nasconde delle terribili incognite. Si fermò per qualche secondo, giusto il tempo necessario per ficcarsi in bocca un appetitoso sashimi. Mr. Snook sudava impercettibilmente. - Rifletti un momento sul rovescio della medaglia. E se dovessi ri-svegliarti in un mondo che si rivela peggiore di quello che hai la-sciato? Che non sei più capace di riconoscere? Cosa ne sai di ciò che può succedere nel mondo o nella vita dei tuo cari nell’arco di pochi anni, anche solo nel giro di una settimana? Tu sei là come privo di vita, ignaro di tutto, magari ti svegli e le cose non ti vanno più a ge-nio. Che puoi fare in una situazione del genere? Rimetterti a mollo? Se devo dirla tutta, la sola idea mi lascia perplesso, disorientato. È come un incontro al buio: non sai a cosa vai incontro e che ti può succedere. - Noi non lo faremo mai, vero caro? - lo interruppe Bianca - Non lo faremo mai perché ci amiamo troppo. Cosa potremmo farcene di un altro mondo se a noi va bene questo in cui viviamo? Se siamo tanto felici in questa vita sarebbe sciocco cambiarla, non credete? Sarebbe un atto irriconoscente, un insulto a Dio, al destino, o come tu la vuoi vedere. Sarebbe come rifiutare un regalo bellissimo, quasi una be-

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stemmia. Dico cose giuste, amore? Dimmi che sei d’accordo. - Sì, cara. - Preferisco non pensarci. – continuò Bianca - È tutto talmente in-quietante. La sola idea di star lontano dal mio amore mi fa venire letteralmente i brividi. - Cosa c’entra quest’ultima affermazione, sciocchina? Non sai che esistono le capsule matrimoniali? - gridò Simone Cornetti. - Che vuol dire, cretino. Non è la stessa cosa! Sarai pure vicino fisi-camente alla persona che ami, ma non con l’anima. - A me hanno detto che a volte capita di sognare, oppure di percepire qualcosa proveniente dall’esterno della capsula. Mr. Snook, una volta lanciato il sasso e acceso la conversazione a lui tanto cara, ascoltava in silenzio le voci degli amici. - Credo possa anche rivelarsi pericolosa. – commentò improvvisa-mente Marina, gli occhi sbarrati - Ho sentito che un’intera infornata, quando c’è stato un guasto all’impianto, per qualche meccanismo, insomma di preciso non so bene cosa sia successo, so solo che c’è stato uno scambio di liquidi… Le capsule sono state aperte e i corpi di quei poveretti si erano liquefatti, puff, come se ci avessero versato sopra dell’acido. - Proprio disgustoso. - Che idiozia, non è possibile che si siano sciolti. È solo una leggen-da metropolitana. - Anch’io ho sentito una storia simile, a volte succedono cose or-rende. – esclamò Simone Cornetti, prima di scoppiare in una risata nervosa – Quei tizi volevano svegliarsi dopo qualche anno, invece si sono trovati direttamente davanti al Creatore! E non possono nean-che farsi rimborsare. - Non scherzare, Simone, è di cattivo gusto. - riprese la parola Ma-rina – In ogni caso penso che non sia un argomento da affrontare a tavola, con leggerezza. Ti dirò in privato quello che penso, amore mio. Mr. Snook annuì. Il cameriere, nel frattempo, era passato a ritirare i piatti, silenzioso come un’ombra. Riapparve portando il caffè e del liquore speziato.

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- Una volta ci ho pensato seriamente. - tornò sull’argomento Riccar-do – All’ibernazione. Poi mi sono detto “e se vanno male gli affari mentre sono via?”. Insomma, mentre sono immerso là dentro. Cosa faccio, a chi mi rivolgo? Non voglio certo svegliarmi solo per trovare la casa ipotecata o l’auto rubata, la carta di credito bloccata. Gira certa gente, lo sapete benissimo, girano certi squali… - Tu che ne pensi, Felicita? - Mr. Snook la esortò a intervenire, piz-zicandole leggermente un braccio. - Eh? Felicita era rimasta zitta fino a quel momento, sembrava non avere nulla da dire in proposito. Aveva lo sguardo un po’ appannato, smar-rito, forse per colpa di quelle pastiglie. Ma una persona attenta avreb-be potuto intuire il suo pensiero. In fondo a volte basta così poco per capire, per riuscire a mettersi nei panni degli altri. Un po’ di empatia grazie a uno sforzo di volontà, andare oltre il proprio ego e i propri ristretti confini. “Lo farei, tanto che me ne importa? Non ho nessuno. Non ho niente da perdere”. Le persone sole sono spesso convinte di non valere nulla, si stimano così poco importanti da ritenere la loro presenza in qualche modo superflua, quasi che gli altri facciano loro un piacere a trascorrere un po’ di tempo insieme. La solitudine. La re-altà più desolata e avvilente, dove ogni stimolo lascia posto alla ras-segnazione e ogni cosa ha lo stesso valore, in una sorta di trasandata omogeneità. Un mondo autistico dove non solo mancano gli altri, ma non c’è spazio nemmeno per se stessi. - Non lo so, non ho un parere ben preciso… – fu l’unica cosa che seppe dire. - Tu, bella mia, non hai un parere preciso su nulla. Io lo farei di certo, ragazzi miei, senza pensarci neanche un secondo. Vi rendete conto? Dev’essere un’esperienza pazzesca, e poi, grazie a Dio, non ho mica una fidanzata o una moglie a cui dover badare. - Simone Cornetti ar-rossì involontariamente, lasciando suo malgrado trapelare dell’ama-rezza - Sono libero. Del tutto libero e felice della mia libertà. Anzi, credo che già domani inizierò a informarmi su quand’è previsto il prossimo turno di infornate. - Non ho detto di non avere idee. – riprese l’amica, un po’ risenti-

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ta – Sono sicura che a una simile ipotesi non penserei nemmeno un secondo se solo avessi qualcosa di più. Di più dalla vita. Felicita piegò leggermente la testa, verso Riccardo che sorseggiava il caffè senza accorgersi di nulla.Bianca riprese immediatamente la parola, come se si sentisse in do-vere di dire ancora qualcosa. Atteggiò la bocca a disprezzo, prima di appoggiare la mano su quella del fidanzato: - Vero caro, è vero che non lo faremo mai? Una simile fuga dalla realtà non sarebbe da noi, proprio perché abbiamo in programma un futuro da famiglia, da famiglia vera. Non c’è tempo per dormire, c’è da fare e costruire. - Hai ragione. – le rispose Massimo, accompagnando le parole con un deciso cenno col capo, quasi volesse convincersi del tutto di ciò che stava dicendo. La ragazza sorrise soddisfatta. - Ma ora cambiamo argomento, perché vedo che ne siamo rimasti tutti un po’ turbati. Bene, che cosa ne pensate della liposuzione?

Una volta salutati gli amici, Mr. Snook e Marina si erano allontanati dal ristorante giapponese per incamminarsi, lui con l’impermeabile e lei avvolta in uno scialle, nell’aria umida della primavera milanese. Aveva da poco smesso di piovere. Si avviarono verso la macchina, a braccetto; per la strada una piccola folla di persone che, come loro, usciva dopo la cena, in direzione di altri locali, in direzione di casa, molti senza una meta precisa. Nell’aria già si sentiva una brezza più pura e frizzante, ricca di pen-sieri che si risvegliano, di idee nuove che si trasmettono da persona a persona. Le giornate si stavano sensibilmente allungando e la notte sembrava meno buia, le luci più intense, ogni suono più nitido. Ener-gia nuova, dei fiori e degli odori che ancora non avevano raggiunto la loro pienezza, ma che già erano in grado di far intuire tutta la forza di vita che di lì a poco avrebbero scatenato. - Voglio andare laggiù. Mi sembra un posto strano, voglio andarci. - Marina indicò una piccola apertura nel muro di un palazzo, dalla qua-

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le fuoriusciva una luce gialla. Proprio sopra il portoncino d’ingresso spiccava un’insegna tutta colorata. Mr. Snook fece pressione su quelle due ante di legno un po’ ma-landate per dare un’occhiata all’interno. Non sembrava poi male, un ambiente spazioso, pieno di gente; per accedervi bisognava scendere alcuni scalini. Entrarono. Al centro del locale, fatto di diversi tavolini circolari disposti in ordi-ne sparso, c’era una grande sfera armillare in tenue movimento, sotti-le e delicata, lungo tutte le pareti una serie di gigantografie dell’uomo vitruviano di Leonardo, a distanza di pochi centimetri l’una dall’al-tra, le mani quasi a toccarsi. Il posto era carino, originale, non si era mai accorto della sua esisten-za. Si sedettero e ordinarono due Snook e soda con ghiaccio tritato, un po’ di succo di limone, il loro cocktail preferito, dal sapore un po’ aspro. - Amore, cosa ti è venuto in mente di tirare fuori un discorso tanto impegnato? - Non so spiegarti. Osservavo quel grande acquario in fondo alla sala e mi sono ricordato che esiste l’ibernazione, che alcune persone che noi conosciamo sono sparite dalla circolazione per farsi ibernare. Tutto qui. Mr. Snook le si fece vicino sistemandosi il nodo della cravatta. Poi continuò: - Ora voglio sentire il tuo parere, dopo tante parole sprecate. Marina prese a giocherellare con la cannuccia che galleggiava lan-guidamente nel bicchiere. Con l’altra mano toccava le goccioline che imperlavano il vetro. - Se proprio ci tieni, ti racconto una cosa. – rispose, puntando i suoi occhi azzurri sul viso del compagno – Quando poco fa ti ho sentito parlare di ibernazione, in modo così inaspettato, ho pensato che fosse venuto il momento di parlar chiaro, una volta per tutte. Ti ricordi di quando ho avuto quel momento di confusione, insomma, qualche mese fa… Quando mi vedevi poco serena, ansiosa, in continua agita-zione? Ebbene, in quel periodo pensavo molto spesso all’ibernazio-ne, ed ero arrivata a una conclusione.

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Marina aveva spostato lo sguardo verso l’altra parete, al di là di un signore dall’aria benevola, sull’occhio di un uomo vitruviano, grosso quasi quanto un pugno; la ragazza tornò a guardare Mr. Snook, con un’espressione indecifrabile. - Ero decisa a farlo. Pensavo che fosse la cosa più giusta da fare, forse l’unica per trovare un po’ di pace. Volevo staccare la spina. - Non me ne hai mai parlato. - la interruppe lui. - Ero confusa. Ma poi è passato, ho dovuto ricredermi. Ho pensato che in realtà non ne valeva la pena, perché ho una vita. Non mi fido dei miei colleghi, della mia famiglia, di chi mi sta vicino. È triste, ma ho sempre paura che mi possano tirare un brutto tiro. Tu te ne stai tranquillo nell’acqua a dormire e loro sono fuori pronti ad appro-fittarsene, non aspettano altro che farti fuori. Non bisogna fidarsi di nessuno, non credi? Mr. Snook taceva. Senza commenti. - La vita è mia e me la gestisco io, mi appartiene interamente. Non voglio condividerla con chi non ha niente a che spartire con me. Ba-stano così poche persone nella vita per essere felici, gli altri non con-tano, sono zero, sono meno che niente. Se dovessi immaginare il mio futuro vorrei che fosse in comune solo con le persone che amo, solo con loro, non voglio nessun altro accanto. Se così non fosse, non varrebbe la pena di stare in questo mondo: solo le persone che ami ti danno la forza di vivere. Ora come ora non voglio fuggire, non voglio essere codarda. Non voglio stare sola. Fu solo all’uscita del locale che finirono per tornare sull’argomento. Era rimasto sospeso tra loro, senza che se ne rendessero conto, pronto a uscire alla prima occasione. Marina sfilò una sigaretta dal pacchetto e la inserì tra le sue belle lab-bra con gesto studiato; il bagliore dell’accendino le illuminò il viso. - Non avrai mica intenzione di farti ibernare? Rise alla sua stessa domanda. - Non ti fiderai davvero di quei macellai? La sua dentatura perfetta luccicava, fresca e sana. D’un tratto, emergendo dall’ombra, un venditore di fiori si accostò a Mr. Snook. Teneva tra le mani un mazzo tutto colorato.

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- Una rosa per la signorina? Mr. Snook era ancora perso nei suoi ragionamenti, si risvegliò di colpo, voltandosi con un movimento brusco. - Perché no? Era tornato sulla terra. Quando accompagnò a casa Marina erano già le due passate. Non si ricordava nemmeno di cosa avessero parlato in seguito, forse perché non gli interessava affatto. Come un freddo computer aveva selezio-nato solo e unicamente le informazioni che potevano servirgli, es-sergli di aiuto per la scelta, cestinando tutti gli argomenti che aveva ritenuto inutili. Marina non gli aveva detto granché, eppure aveva vo-luto parlargli in privato, aprirgli il suo cuore. Lo aveva colpito il suo atteggiamento mentre maneggiava la rosa appena ricevuta in dono, mentre gli sorrideva e gli stringeva la mano. “Pensaci”, aveva detto, prima di sparire dietro il pesante portone del suo palazzo. Marina era stata intuitiva, attenta, era stata in grado di capire tutto. Aveva perfino versato una lacrima alla sola idea che lui potesse farsi ibernare; forse l’aveva versata con vero dolore, non ne era certo, for-se era lui che non la capiva più. Come prevedibile, la ragazza aveva tentato di dissuaderlo, ma senza troppa convinzione. Forse non si rendeva conto di quanto la situazione fosse seria. Forse non riusciva a immaginare quante e quali conseguenze tutto ciò avrebbe potuto avere sulla loro coppia. Forse voleva solo lasciarlo libero di prendere una decisione in maniera completamente serena, senza condiziona-menti esterni. Eppure, - si chiedeva - ama davvero chi si lascia priva-re della persona amata senza lottare, senza una strenua lotta per non lasciarla andare? Ancora una volta non comprendeva del tutto la sua fidanzata, non riusciva a capire se in lei ci fosse vero amore nei suoi confronti. Se Marina fosse realmente fatua come molti la considera-vano o se tutti, lui compreso, avessero sempre sbagliato valutazione. Quale che fosse la risposta giusta, non sembrava il momento più adatto per fare simili ragionamenti, perciò, dopo essersi preparato per la notte, si mise a letto. Spense la luce e si immerse in un sonno molto profondo, senza sogni, quel dormire pesante e irresistibile di chi ha molto fatto e pensato.

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Il mattino seguente Mr. Snook chiamò il centralino della HibernTech, facendosi passare direttamente l’ufficio del Professor Giovanni Ca-lini, il titolare della struttura, per prenotare due anni d’affitto di una capsula singola. L’accordo comprendeva una condizione ben precisa, che il paziente avrebbe potuto ritirarsi quando voleva, anche un minu-to prima di iniziare il trattamento. A volte succedeva, era già capitato che qualcuno ci ripensasse: la gente aveva dei cedimenti improvvisi e perdeva coraggio, quelli del Centro lo sapevano e per questo non erano nuovi a simili clausole. La prenotazione era stata fissata per le diciannove e trenta del giorno seguente. In un certo qual modo si sentiva più sereno. Fece colazione e chiamò Don Carlo, il suo confidente spirituale, un gesuita romano che diceva messa in una piccola chiesa poco lontano da Sant’Ambrogio. Un sa-cerdote, la prima persona che aveva in programma di incontrare nel corso di quella lunga giornata. Passando in silenzio tra i banchi della chiesa percepì un forte pro-fumo d’incenso, di cera per legno, di spazi puliti. Il rumore dei suoi passi risuonava nella penombra; sembrava non esserci anima viva lì dentro, a parte quelle figure di gesso dipinto in muta preghiera. Si fermò davanti a una statua di Gesù, guardandola con aria quasi inter-rogativa. La luce delle candele ne faceva vacillare i contorni. Rima-se in raccoglimento per diversi minuti, osservava le mani e il cuore ardente, poi più in alto, insistendo sui lineamenti del viso. La statua di Cristo lo guardava a sua volta con un timido sorriso, uno sguardo curioso, come se volesse sondare le sue intenzioni. Mr. Snook fece il suo ingresso nel piccolo cortile interno, oltrepas-sando l’arco che separava la sacrestia dal portico, si trovò davanti a una sorta di chiostro. Seduto ai piedi di un albero carico di gemme lo aspettava Don Carlo, sfogliando le pagine di un libro. Appena lo vide arrivare sorrise con simpatia, si levò gli occhialini e, levatosi lui stesso, gli strinse la mano. Subito, avendo intuito lo stato d’incertezza dell’amico, gli chiese se avesse qualche problema e con un gesto della mano lo invitò a se-

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dersi. Davanti alla figura titubante e un po’ ingobbita di Mr. Snook, che non si decideva a spiaccicare parola, Don Carlo assunse un atteggiamento più diretto e risoluto. - Vieni da me solo quando qualcosa ti preoccupa e preme sulla tua coscienza. Parla dunque, senza farti tanti problemi, perché il tempo passa velocemente e purtroppo non ho molti minuti da dedicarti. Scandiva le parole con tranquillità e pacata sicurezza, un lieve accen-to romano nell’intonazione, sfumatura che non aveva mai cercato di correggere. - Sì, Carlo, in effetti c’è qualcosa che mi turba molto. Devo prendere al più presto una decisione importante. Cercherò di parlarti con fran-chezza, sperando che tu possa essermi in qualche modo d’aiuto. Il prete si predispose ad ascoltare, riponendo con cura il libro, che fino a quel momento era rimasto aperto sulle sue ginocchia. Era oltre la quarantina, più vicino ai cinquanta, età che del resto non dimostra-va affatto, i capelli folti e appena brizzolati, la mascella squadrata. Aveva congiunto le mani, come ci si aspetta da un buon prete, sorri-deva cercando di assumere un’espressione d’incoraggiamento. - Bene, devo capire da dove cominciare. Arrivo subito al sodo perché so che sei un uomo che non ha bisogno di inutili giri di parole. Sei sempre stato una persona molto decisa, una qualità che ti ho sempre invidiato. Capisci tutto e subito, non necessiti di un dispendio di pa-role che… - Dunque? - Va bene. Te lo dirò così come mi viene. Ho una mezza idea di farmi ibernare. - No. – lo fermò l’altro, senza dargli modo di poter continuare – Non è possibile, non devi farlo. Ci fu qualche secondo di imbarazzato silenzio, come se una barriera di ghiaccio si fosse improvvisamente innalzata tra di loro. Mr. Snook guardò incerto l’amico, sorpreso per quella improvvisa interruzione, che aveva l’aspetto di una sentenza inappellabile. - Come? - È fuori discussione. Assolutamente. - ribadì Don Carlo.

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- Perché? - osò veloce Mr. Snook. - Perché non puoi farlo. Perché non è concesso, dal momento che è una cosa stupida e immorale, una cosa contro natura. Si tratta di un procedimento dannoso, al fisico e all’anima, ne risentiresti di certo, anzi ne usciresti distrutto. Sicuramente te ne pentiresti per il resto della tua vita. Mr. Snook lo fissava incredulo, ma decise di andare avanti, di ripren-dere la parola prima che il prete potesse in qualche modo fraintender-lo. Giudizi così categorici ancora non ne aveva sentiti. Voleva capire di più, e subito. Forse Don Carlo aveva sondato la sua mente e intuito che quella scelta non avrebbe fatto al caso suo. Che non avrebbe dovuto sprecare tempo prezioso inutilmente. Don Carlo aveva una grande intuizione. Lui capiva tutto, aveva sempre inteso al volo cosa sarebbe stato meglio per Mr. Snook, la cosa giusta da fare, sapeva sempre come dare sollievo a un’anima tormentata dall’inde-cisione. - Carlo, ascoltami, non so davvero più cosa fare. Da tanto tempo vivo in questa incertezza, vengo preso da dubbi terribili, domande a cui non sono capace di dare una risposta. È come se la vita che ho sempre vissuto si fosse inceppata, la vita che pensavo si adattasse a me come un abito fatto su misura. È come se tutto ciò in cui credevo avesse immediatamente perso di significato. La realtà, la mia realtà, non mi risponde più, mi sfugge dalle dita, o forse sono io che cerco di fuggire da lei. Il sacerdote lo scrutava con espressione corrucciata, sembrava tratte-nersi a stento, come se avesse qualcosa di importante da dire e solo l’educazione gli imponesse di tacere. - Sono arrivato a pensare all’ibernazione come a una salvezza, una realtà parallela all’interno della quale niente e nessuno ti può fare del male, dove si è ai margini della concretezza. Un luogo interiore dove aspettare un futuro migliore, recuperare le energie perdute. Forse la pensi diversamente? Forse credi che per un uomo come me, in un simile stato d’animo, non sia la soluzione più adatta? Dimmi cosa stai pensando, spiegami, non ho ancora capito perché mi hai risposto così duramente.

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Il suo interlocutore si strizzava le mani, le nocche che diventavano bianche e sporgenti. - Carlo, forse pensi che possa essere in grado di risolvere i miei problemi da solo, senza queste scorciatoie. In fondo non avresti tutti i torti. Non potrei che darti ragione se mi dicessi che non è giusto fuggire dalle proprie responsabilità, dai propri doveri. È questo che pensi, amico mio? Don Carlo sorrise, ma sembrava quasi un atto di scherno, carico di compatimento. Osservava Mr. Snook come si guarda un bambino che fino a quel momento ha detto solo sciocchezze senza la minima importanza, vaneggiamenti infantili che non meritano reale conside-razione. - No, mio caro, non è quello. Tu non puoi farti ibernare perché la Chiesa non lo consente, la religione e la morale non lo consentono. Sono sicuro che tu riesca a renderti conto anche da solo di quanto quella pratica sia del tutto innaturale, contraria alla vita, una faccenda da diversi, da persone che non stanno bene con la testa. Non so come sia potuta venirti in mente una cosa simile. Da quanto tempo non frequenti la nostra comunità? - Non so come comportarmi. – continuò Mr. Snook, sentendosi sotto accusa, vagamente umiliato, manco fosse stato scoperto a rubare, a commettere qualcosa di sporco – Non so proprio come comportarmi. Sono molto turbato, devo riuscire a venir fuori da questa situazione. - Questo posso capirlo, ma la tua sofferenza deve necessariamente passare in secondo piano. – rispose Don Carlo, parlando sopra la voce dall’amico - La sofferenza non giustifica il violare una verità, palese e incontrovertibile. Da che mondo è mondo la verità è una e una sola, e questa non è modificabile. Da che mondo è mondo è la Chiesa a dare la verità. - Carlo, è Dio, non la Chiesa, a dare la verità. - Come si può pensare di andarsene di propria volontà da questo mondo, che è così bello e ricco di speranza? – riprese il prete, quasi non avesse nemmeno udito le ultime parole di Mr. Snook - Perché dobbiamo sempre dimostrarci irriconoscenti nei confronti della vita e di Chi ce l’ha donata? La scienza deviata e le fantasie assurde non

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aiutano il cuore, non possono andare incontro ai problemi dell’animo umano. Sono lontane da Dio. Dopo qualche secondo di silenzio, quasi che il sacerdote fosse riu-scito a incantarsi con le proprie stesse parole, riprese a incalzarlo, la voce maggiormente carica di aggressività. - Dì un po’, non vorrai davvero compiere una simile stupidaggine? - No. - mentì Mr. Snook. - Sei sicuro? - Certo. – rispose ancora, con più decisione, sperando vivamente che la menzogna non trapelasse dai suoi occhi – Dev’essere stata solo la debolezza di un momento. Non riusciva a ricambiare lo sguardo dell’amico, sentiva una profon-da vergogna e un umiliante senso di ingiustizia. - Bene. Allora non capisco perché stiamo ancora parlando di una cosa simile. Mr. Snook cercò di riprendere colore in viso e allo stesso tempo di cambiare argomento. La lingua trasportava parole vacue, vani discor-si, ma il cervello correva da altre parti. Lontano dall’uomo che aveva di fronte. Forse Don Carlo non era così umano e profondo come lui aveva sempre pensato. Forse tutta questa capacità d’immedesimarsi negli altri che gli aveva attribuito non era affatto motivata. Nel corso della sua vita Mr. Snook doveva aver fatto qualche errore di valuta-zione, le persone a lui più care e vicine gli erano in fondo sconosciu-te, ne aveva sottovalutate alcune, sovrastimate altre. L’argomento ibernazione non venne mai più in superficie nel corso dell’incontro, come se fosse stato rimosso o non fosse mai stato toc-cato. Trascorse così più di mezzora, forse un’ora, in dialoghi astratti e di poco conto, neanche fossero stati due estranei. Mr. Snook cercò il momento più opportuno per guardare l’orologio e alzarsi. Disse che era venuto il momento di andare, che aveva ancora degli appunta-menti importanti nel corso della giornata. Don Carlo si offrì di ac-compagnarlo fino alla soglia della sacrestia, ma ci fu un cortese di-niego. Si salutarono affettuosamente, ma il prete non si accorse che l’amico non riusciva a guardarlo in faccia.

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Mr. Snook s’incamminò verso il margine del cortile, poco lontano dall’arco si voltò di tre quarti e vide che Don Carlo era tornato a sedersi sotto l’albero ricco di gemme, immobile come una statua, il libro aperto sulle ginocchia; rigiratosi, accelerò il passo e imboccò l’uscita. Passando davanti alla figura di Gesù alzò lo sguardo e disse una pre-ghiera. Lui sì che lo guardava con occhi sinceri e veri, umani, molto più umani di quelle fredde pupille di carne che fino a pochi minuti prima lo avevano osservato con durezza, l’espressione di chi ha già una verità in tasca. Anche se erano solo due blocchetti di gesso dipin-to, percepì un piacevole senso di calore nel petto, di conforto. Ancora un po’ incerto si avviò verso la strada, chiamò un taxi per farsi portare dall’altra parte di Milano, in un quartiere residenziale ai limiti della città, in una zona imprecisata.

Arrivato a destinazione, annusò l’aria, che era fresca e piacevole. Guardava il cielo azzurro, con un gran bel sole piatto e denso piantato nel mezzo. Mr. Snook si trovava davanti a un palazzone molto alto, modernissimo, con una vistosa insegna in cima. Entrò, sperando di non perdersi in quella sorta di labirinto. Un addetto alla sorveglianza gli diede tutte le informazioni di cui aveva bisogno, insieme a una piantina dell’edificio. Nonostante tutto, dovette sforzarsi non poco per riuscire a individuare il percorso più rapido. La porta scorrevole dell’ascensore si aprì con un delicato ronzio, i pannelli si fecero piccoli piccoli, scivolando lentamente ai lati, fino a sparire all’interno del muro. Mr. Snook si fece avanti nell’immenso stanzone dalle tenui luci az-zurre. Subito gli si avvicinò un dipendente della HibernTech in ca-mice bianco e occhialetti dalla montatura trasparente per registrare il nome del visitatore annotandolo su un taccuino plastificato e rigido. Il dottorino lo condusse alla propria scrivania, davanti al computer. - Chi cerca, signore? – chiese con gentilezza affettata. Mr. Snook gli fornì i nomi, insieme a due numeri di matricola.

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L’uomo fece scorrere lo sguardo su una lunga lista apparsa sul moni-tor, poi indicò una certa area dell’enorme ambiente: - Per di là, signore. Reparto G, fila 9, capsula 14, segua i cartelli. Mr. Snook si incamminò, immerso nella luce al neon azzurra, se-guendo la linea gialla tracciata sul pavimento. Guardò distrattamente i margini della pista, che pareva un lungo corridoio: c’erano blocchi di capsule sia a destra che a sinistra, avevano una forma cilindrica e al loro interno si potevano scorgere forme umane, leggermente indi-stinte. Notò una figura maschile attorniata da bollicine e, poco più in là, quella di una ragazzina dai lunghi capelli fluttuanti. Dalla parte opposta, un vecchio signore dall’aria distinta, le mani congiunte. Ac-canto, una giovane donna incinta. Pareva che dormissero. Le capsule erano tutte intorno a lui, in varie file che sembravano per-dersi allo sguardo, man mano che si facevano più lontane; tutte con una scritta sotto, il nome del paziente su un adesivo colorato, e con una cartella clinica che pendeva accanto. Capsule dove la gente ripo-sava da sola o in coppia, vestita o in biancheria intima, una sorta di costume da bagno fornito dal Centro, in una situazione che sembrava sfuggire allo scorrere del tempo. Il rumore delle sue scarpe si faceva udire a ogni passo, scricchiola-vano sulla pavimentazione plastificata. Alcuni visitatori sedevano o si affaccendavano attorno alle capsule. C’era chi leggeva un libro in silenzio e chi parlava a bassa voce, al suo passaggio si voltavano per dargli un’occhiata veloce prima di tornare alle loro occupazioni, alla loro solitaria conversazione. Un’anziana si sforzava di esaminare il vetro con la massima attenzione, doveva probabilmente aver notato una rigaccia sulla parte esterna, forse una macchia: la vide tirar fuori un panno dalla borsetta e iniziare a strofinare la superficie con grande energia. Reparto C, Reparto D, questa è la fila D-5. Ancora un po’ di cammi-no, ma era sulla strada giusta. Incrociò un gruppo di medici in camice bianco, seguiti a breve distanza da qualche giovanotto carico di fasci-coli e di quadernetti colorati. “Reparto F” era riportato sul vistoso cartello a lato di una capsula, la più esterna di quel blocco.

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Affrettò il passo, con una certa ansia di arrivare il più velocemente possibile a quello strano appuntamento. Reparto G, finalmente. La fila giusta era vicina, non doveva fare altro che procedere fino ad arrivare alla numero 9. Oltrepassò tutte quel-le persone, guardandole con una certa stanchezza, gente di tutte le età. Una donna bellissima aveva uno spazio tutto suo, sembrava una creatura uscita dal mito; accanto a lei due gemelli, un maschio e una femmina, dai tratti identici, l’uno lo specchio dell’altra. Di fronte c’era un bambino, così grande quella teca per quella piccola figura: con uno scotch per pacchi qualcuno aveva appiccicato al vetro un orsacchiotto. Delle persone ondeggiavano nel liquido tenendosi per mano o stringendo saldamente un rosario, che si muoveva sospeso. Anche in quell’area, luci al neon azzurre, soffuse e riposanti. Numero 6, 7, 8 e 9. Abbandonò il percorso principale per addentrarsi nella pista della fila 9 e proseguire fino alla capsula desiderata. Mr. Snook si fermò davanti alla teca matrimoniale che conteneva i suoi nonni. I due anziani tenevano le braccia distese lungo fian-chi e sorridevano. Caspita, parevano proprio contenti di essere lì. Li sbirciò da varie angolazioni, tentando di rintracciare un movimento volontario del corpo o espressioni del viso. Non facevano nulla, non facevano altro che sorridere con grande serenità, evidentemente sod-disfatti. Montò sulla piccola scala che fuoriusciva da un cassetto ritagliato nella parte bassa della capsula, per cercare di osservarli da un punto di vista diverso. I nonni si erano agghindati proprio bene per quel lungo soggiorno di riposo: erano entrambi in abito da sera. Non vo-levano di certo sfigurare davanti a parenti e agli altri visitatori, la trascuratezza non era concessa. Avrebbe desiderato vedere il loro sguardo, ma gli occhi erano chiusi, perciò non poteva capire proprio un bel nulla. Fronte distesa, non corrucciata, labbra leggermente socchiuse. Scese dalla scaletta. Rimase fermo qualche minuto, provando a chia-marli col pensiero, poi, deluso, montò di nuovo sul rialzo. In punta di piedi, cercando di raggiungere l’altezza delle loro facce, per sus-surrare piano.

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- Nonna… nonno… nonna, nonno. Si bloccò di scatto: una vecchia signora che proprio in quel momento stava passando da quelle parti si era fermata a guardarlo con curiosi-tà. Mr. Snook le sorrise un po’ imbarazzato, tossicchiò, aspettò che se ne fosse andata per riprendere il suo dialogo a senso unico. - Nonnaaa… nonnooo, allora nonna, nonno. Mi sentite? Se riuscite a udire qualcosa fatemi un cenno con le dita! Nessuna risposta. Riprovò diverse volte, picchiettando sul vetro con le nocche, provan-do a inventarsi ingegnosi espedienti per comunicare con loro. - Se mi sentite arricciate il naso. Se vorreste uscire da lì tirate fuori la lingua. Nonno e Nonna non si muovevano affatto, si limitavano a sorridere e a galleggiare placidamente. Alla fine Mr. Snook si rassegnò e scese dalla scaletta, con un leggero calcio la fece scorrere del tutto nella parte inferiore della capsula. Se non altro sembravano sereni, questo gli bastava, anche se avrebbe preferito saperne di più, ad esempio capire cosa si prova a stare lì dentro, se davvero ne valeva la pena. Rimase ancora qualche minuto a guardarli dormire, poi, proprio come fanno i bambini, sollevò il braccio e aprì la mano, il palmo rivolto verso il vetro; la scosse a destra e sinistra, senza energia. - Ciao, nonni.

Uscì dal Centro d’ibernazione che il sole era ancora alto e forte. D’in-verno il sole iniziava a calare molto presto, ma Mr. Snook, preso com’era dai suoi pensieri, non si era quasi neanche accorto che l’in-verno era ormai finito da tempo, e che pure la primavera stava ormai volgendo al termine. Ripensò a tutti gli appuntamenti che aveva fissato per quella giornata. Ecco che cosa mancava, qualcosa di spinoso. Era venuto il momento di tornare negli uffici della Snook Liquori S.p.A. per dare le dovute disposizioni circa una sua eventuale prolungata assenza, per la qua-le non avrebbe fornito alcuna spiegazione. Il principale vantaggio

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d’essere il figlio del padrone consisteva nel non dover rispondere a nessuno, se non alla propria coscienza. Dal momento che non aveva ancora trovato il tempo per mangiare neanche un boccone, pensò che fosse venuta l’ora di mettere qualco-sa sotto i denti, pur non avendo particolare appetito. Decise di fare un salto alla mensa proprio come un normale dipendente; ordinò una coca e una pizzetta, un tramezzino, che lasciò per metà sul piatto. L’ambiente era abbastanza squallido, fatto di sedie di plastica colo-rata, cibo sintetico, personale poco educato. Si ripromise di impartire le dovute disposizioni per migliorare i servizi offerti dalla mensa, un luogo che sembrava favorire l’alienazione. Alle due e trenta, minuto più minuto meno, prese un caffè alla mac-chinetta, orribile intruglio fatto di polvere e acqua bollente. Nel giro di un attimo fu individuato da un gruppetto di subordinati, che subito lo raggiunsero, servili. Gli andarono appresso tempestandolo di do-mande garbate, di commenti gentili, con quell’atteggiamento con-fidenziale e ostentatamente disinvolto che lui detestava. Parlarono di lavoro, del nuovo drink Lemon Snook che tra poco sarebbe stato lanciato sul mercato. Non li degnò di attenzione e approfittò della prima occasione per sbarazzarsi di loro. Senza perdere altro tempo si diresse verso la sala riunioni, dove aveva convocato alcuni dei massimi vertici dell’azien-da, tra i quali il suo Vice, la severa Responsabile della supervisione, i dirigenti dei vari settori, i consiglieri, tutti amici di famiglia, amici di suo padre, gente di cui si poteva fidare con una certa sicurezza. Esordì rendendo nota ai presenti l’eventualità di una sua prossima assenza, temporanea ma di periodo imprecisato. L’azienda sarebbe dovuta andare avanti come prima, meglio di prima, anche senza di lui. Com’era prevedibile, tutte queste affermazioni suscitarono molte domande, ipotesi, interessamenti da parte loro, domande alle quali rispose in maniera evasiva, senza alcuna volontà di rendere note le proprie intenzioni, cercando unicamente di rassicurarli sulle sue con-dizioni di salute o sulla sua situazione familiare. Mr. Snook fu irremovibile, perché tutti cercavano di capire, di fargli cambiare idea, facevano congetture, e lui non aveva energia sufficien-

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te per sostenere quegli sguardi che cercavano d’indovinare qualcosa che non potevano sapere, voci interrogative, sussurri. Non voleva che loro venissero a conoscenza della verità, tanto non avrebbero capito, sarebbe stato solo fiato sprecato. Con ogni probabilità l’avrebbero considerato un uomo che ragiona in maniera diversa dagli altri, quin-di che ragiona male, uno spostato. Le persone che hanno pensieri diversi da quelli degli altri, che si lasciano andare lungo i binari delle loro fantasie, mettono sempre un po’ di paura. A volte fanno sorridere o suscitano frasi e pensieri ironici, spesso mettono a disagio, perché si fa fatica a comprenderle, è più facile definirle pazze o stupide. Per cercare di uscire da questa impasse distribuì ai presenti il questio-nario che aveva preparato per loro. Domande di carattere personale o professionale, sull’attività prestata in azienda, sulle aspirazioni e frustrazioni, alcune ideate per indagare i loro desideri, le ambizioni. In fondo, non aveva mai pensato a loro come a delle persone a tre-centosessanta gradi, degli individui in carne e ossa che non si ridu-cevano solo alle mansioni che potevano svolgere. Era consapevole che li avrebbe stupiti, insospettiti con tutti quei quesiti inaspettati. Li vedeva perplessi, erano disorientati, non afferravano il senso di quella situazione, ma lui voleva andare fino in fondo, conoscere me-glio quelle persone con cui, per così tanto tempo, aveva avuto a che fare, senza mai aver avuto il desiderio di comprendere veramente come erano fatte, di aprirsi a loro. Nel questionario, tra le domande sulla sfera privata, ne spiccava una tra tante: “Ti faresti ibernare? Sì, perché? No, perché?”. - Avanti, ragazzi. Vi prego di essere rapidi, non ho molto tempo. Li osservava attentamente scrivere e ogni tanto si soffermava a os-servare i poster incorniciati e appesi alle pareti, antiche vestigia, tro-fei di vecchie campagne pubblicitarie. Una bionda ossigenata dallo sguardo del tutto privo d’intelligenza che reggeva in mano una botti-glietta colorata, loghi d’impronta futurista o Art déco, un’immagine fotografica in bianco e nero del vero Signor Snook, che fissava dritto davanti a sé con occhi decisi e convincenti, proprio Snook, il fonda-tore dell’azienda ormai asceso alle soglie del mito, l’originale, non una sbiadita copia che si faceva chiamare dagli altri con un nome che

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non gli apparteneva. Nell’attesa che terminassero, il figlio del nuovo padrone si guardava in giro con apparente disinteresse, si alzava per poi sedersi di nuovo, osservava i propri dipendenti come un professore esamina gli alunni intenti a svolgere un compito in classe. Quando, finalmente, tutti i presenti ebbero terminato il proprio com-pitino, ritirò silenziosamente i questionari, raggruppandoli in una montagnetta ordinata. Non perse tempo a ridistribuire ruoli e incarichi ai suoi conoscenti più stretti, prevedibili conferme o inattese modifiche nelle mansioni. Rese ufficiali i cambiamenti: ogni responsabilità dirigenziale sarebbe tornata a suo padre, come un tempo, quando l’azienda era al massi-mo della sua produttività, pur nella consapevolezza che il vecchio signore avrebbe di gran lunga preferito evitare di riprendere in mano le redini di una realtà tanto complessa e gravosa. - Hai già avvisato tuo padre di tutti questi stravolgimenti? – gli chie-se uno dei dirigenti più anziani, con un tono di vago rimprovero nella voce. - Lo farò questa sera stessa. Senza rilasciare altre dichiarazioni, augurò a tutti buon lavoro; con un sorriso amichevole sciolse la riunione. Volle, in ogni caso, scam-biare qualche parola con tutti, uno per uno, quasi fosse ormai certa la sua prolungata assenza. Ci fu un applauso incerto, disordinato e disorientato, a rispecchiare lo stato d’animo di tutta quella gente. Una volta terminato il giro dei saluti, Mr. Snook tornò nel suo ufficio per dare un’occhiata ai questionari. Un po’ turbato, raccolse i documenti più importanti e alcuni oggetti a cui teneva particolarmente e li ficcò nella sua ventiquattrore. Chiuse a chiave i cassetti della sua scrivania, sistemò con cura le fotografie e i soprammobili allineati sulla libreria, si mise in bocca qualche cara-mella alla menta e uscì dall’ufficio. Salutò Margherita, senza trascu-rare le consuete indicazioni sul lavoro da svolgere nei prossimi gior-ni, annullò ogni appuntamento che era stato precedentemente fissato, ma non le disse nient’altro. La segretaria sorrideva ignara di tutto, serena come sempre da dietro quelle lenti spesse spesse, pronta per

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natura ad ascoltare ed eseguire. Chissà perché non le disse nulla. È strano come con certe persone non si riesca a comunicare, nonostante la volontà reciproca di comprendersi e di essere di aiuto. A volte si creano barriere impossibili da superare e hai un groppo in gola che ti frena, un nodo che ti blocca la lingua, facendoti spegnere le parole in un sorriso forzato. Niente è difficile quanto riuscire a esprimersi, così ti capita di non avere nulla da dire proprio quando hai vicino qual-cuno disposto ad ascoltare, ma di scoprire un terribile vuoto se hai bisogno di una presenza amica accanto a te. È tutto tempo sprecato. Quando tornò al parcheggio per recuperare la macchina, il sole era sul punto di spegnersi, le nuvole intorno erano dipinte, striate di gial-lo e arancione; tirava una brezza piuttosto fresca, ma la sensazione sulla pelle era piacevole. Anche la gente in strada sembrava più sere-na, in armonia col mondo e con i propri simili, respirava aria nuova, di primavera e rinnovamento. Di qualcosa che cambia e non torna.

Quella sera Mr. Snook non aveva avuto il tempo per pensare, mentre si radeva davanti allo specchio o infilandosi i calzini, cercando di in-dossare le scarpe lucidate dalla domestica. Non aveva avuto neppure il tempo per gustarsi il suo abituale e solitario aperitivo, perciò andò in cucina, aprì lo sportello del frigorifero e si mise tra le labbra la pri-ma bottiglia di vino bianco aperta che gli si parò davanti, bevendolo direttamente dal collo. Finì di prepararsi con rapidità, gettò i vestiti usati, cravatta compresa, nel cesto dei panni sporchi. Chiavi, porta-foglio, cellulare, sigarette e pettine da taschino: tastò la presenza dei vari oggetti all’interno delle loro tasche di riferimento e si considerò pronto. Uscì a tutta velocità, era già in ritardo. Quando arrivò a casa dei genitori non trovò nessuno, né loro né sua sorella Maria. A volte dimenticava quanto potessero essere ritardatari i membri della propria famiglia, sembravano vivere su un altro pia-neta, seguire ritmi e percorsi mentali del tutto personali, incuranti di ciò che accadeva loro intorno. Si sedette su una poltrona del salotto, ad aspettare, la testa rivolta all’indietro. Avrebbe detto tutto e subito, senza tanti giri di parole.

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Questa volta non avrebbe dovuto nascondere nulla, non ne avrebbe avuto bisogno, perché loro erano la sua famiglia, le persone a lui più vicine e care, le uniche importanti nella vita. Avrebbe dovuto fare molta attenzione a come esporre in modo chiaro le sue intenzioni, per non spaventarli, creare fraintendimenti. Si portò alla bocca un bicchiere di Martini, tanto per rendere più fluidi i propri pensieri. - Dico che è la soluzione migliore. I genitori e Maria lo guardavano attoniti, davanti al piatto di pasta che era stato preparato per cena. Erano rimasti a dir poco stupefatti da quanto era stato loro annunciato. - Lo sapevo, i nonni non avrebbero dovuto farlo. - disse sua madre, rompendo una lunga pausa di silenzio - Lo hanno influenzato loro. - Non mi lascio condizionare tanto facilmente, dovresti saperlo. - Allora dimmi, figliolo, - continuò suo padre simulando un controllo di sé che non possedeva, mentre stringeva il tovagliolo con le mani - cosa ti ha spinto a… volere questo. Farti ibernare. Non sei felice? Maria li guardava parlare, senza dire niente, senza far nulla in parti-colare, limitandosi a portare alla bocca piccole forchettate di macche-roni. Con i suoi grandi occhi neri fissava tutti loro, uno a uno, man mano che prendevano la parola. - Vorrei solo un attimo di pausa, ho bisogno di silenzio e di pace. Forse mi serve un periodo di sonno per rimettere in ordine tutti i miei pensieri. - Stai male? Hai forse da dirci qualcosa? - No, mamma. Si tratta di una decisione mia e solo mia. La donna si soffermava con lo sguardo sulla cravatta del figlio, sul colletto della sua camicia, sembrava che provasse imbarazzo a incro-ciare i suoi occhi. Non voleva o non poteva guardarlo dritto in faccia, quasi provasse timore o imbarazzo, come se avvertisse di aver fallito in qualcosa. - Certo che puoi fare quello che vuoi. Devi fare quello che vuoi. Ma due anni sono tanti, son proprio tanti. – disse nel vuoto, parlando a se stessa. - Due anni non sono un’eternità. - rispose Mr. Snook – Insomma,

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non ho scelto di stare via un secolo. Passano alla svelta. - Senza nemmeno poterti parlare. - Non sarò mica morto. Nessuno riuscì a dire altro, si limitarono a rimanere ognuno all’inter-no dei propri pensieri. - Invece due anni sono tanti. – riprese improvvisamente suo padre – Non si sa mai con certezza quanto può durare quel maledetto trat-tamento, perché tutto dipenderà dalle tue reazioni fisiche e psicologi-che all’ibernazione. Qualora i medici ritenessero opportuno farlo du-rare di più, potrebbero prolungarlo potenzialmente all’infinito, senza nemmeno dover chiedere il tuo parere. Mr. Snook si sentiva un po’ appannato, gli girava la testa, il caldo si faceva sempre più intenso; allontanò da sé il bicchiere di vino. Non sapeva più come comportarsi, iniziava a stare piuttosto scomodo su quella sedia. - E tu lo sai, - continuò il padre – che medici senza scrupoli a volte estendono la durata del trattamento solo e unicamente per questioni di soldi. È già successo. Tutti mangiavano svogliatamente, con grande lentezza, bocconi mi-nuscoli ormai senza sapore. Il cibo pareva aver perso gusto e signifi-cato. Rimasero in questo silenzio pensoso per parecchi minuti. Nes-suno sapeva cosa dire, se fosse il caso di dare un consiglio, un parere, cercare di sbloccare le cose. - Quando ti sveglierai noi potremmo sembrarti dei vecchi. - Forse mi sarò sposata, avrò avuto un figlio. – I nostri compleanni, i natali in famiglia, le vacanze, tutto, ti sarai perso tutto. Nei loro occhi c’era questo pensiero e questa preghiera: non farlo, non è giusto, ripensaci. Questa domanda: ne vale realmente la pena? Gli anni che abbiamo a disposizione per stare vicino alle persone che amiamo sono davvero pochi, così tremendamente pochi che a pensarci viene da sorridere. Rinunciare alla compagnia di chi si ama, rifiutarne l’amore, è il peggior torto che si può fare a se stessi, perché tutto ciò che si lascia indietro è perduto per sempre, non torna più, e l’amore non si può mettere in pausa. Chi ti restituisce quel giorno in

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cui avresti potuto chiedere scusa o scoprire qualcosa di nuovo e vero, l’attimo in cui avresti potuto ottenere quella rivelazione improvvisa, momenti e situazioni da ricordare per sempre, sorprese che non ti saresti mai aspettato di ricevere? A Mr. Snook faceva male la testa. A queste cose non aveva mai pensato veramente, mai fino a quel punto, e la violenza di quelle emozioni lo colpì duramente. Quando quella difficile cena volse finalmente al termine, si scoprì ancora più inquieto. Si sentiva un traditore, un ingrato. Era profondamente tur-bato. Non era mai stato più indeciso. A chi chiedere aiuto? A chi aprire il proprio cuore? Nessuno avrebbe potuto dargli una mano per ottenere una risposta, nessuno tranne la propria coscienza. Quella notte non se la sentiva proprio di tornare a casa, aveva bisogno di riflettere, riordinare, in qualche modo, le idee. Le ore correvano per Mr. Snook, correvano troppo alla svelta perché potesse prendersi il lusso di farsi una bella dormita. Avrebbe riposato un’altra volta: in un caso aveva di fronte oltre due anni di incoscienza assoluta, senza contatti con il mondo reale, nell’altro una notte di lungo, meritato sonno ristoratore, dovuto e necessario compenso prima di gettarsi di nuovo nella vita frenetica a cui era ormai abituato. Girò per i locali notturni dei Navigli, dai pub alla moda a quelli più sordidi ed equivoci, alla ricerca della gente, di gente comune, per-sone da cui imparare qualcosa. Parlare come non aveva fatto mai, soprattutto ascoltare come non aveva fatto mai. C’era chi aveva vo-glia di comunicare e chi non voleva avere a che fare con lui, chi lo allontanava senza rispetto, qualcuno forse lo prendeva per pazzo. Trovò pareri diversi, a volte tra loro contrapposti, tanti quanti sono i cervelli e le sfaccettature della natura umana. C’era chi desiderava ardentemente cambiare la propria vita e chi ambiva all’annullamento di sé, anestetizzarsi, disperdersi, lasciarsi andare in un mare d’oblio. Ma c’era anche chi prendeva la vita in modo più combattivo, con il desiderio di sfidarla, di assaporarla nelle sue sfumature, anche in quelle più aspre: individui da ammirare o compatire, illustri prodotti della forza o dell’incoscienza, secondo i punti di vista. Bevve ancora e si ubriacò, era anche felice, o almeno così gli sembra-

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va, senza ragione. Si slacciò la cravatta per lasciarsi alle spalle il peso di tanta superficialità, si unì a una piccola comitiva di sconosciuti che faceva festa su un barcone del Naviglio Pavese. In cerca di sempre nuovo casino si dirigeva ridendo e parlando a se stesso verso nuovi locali. Con la bottiglia tra le mani si appoggiava ai muri dei palazzi, a tratti barcollava, dimentico di sé e inebriato dai suoi assurdi pen-sieri. Fu in un vicolo deserto e buio che Mr. Snook si rese conto che doveva andarsene a casa, ritrovare il senno, lo capì improvvisamente, senza bisogno d’altro che di poche parole lasciate da uno sconosciuto. Nel vicoletto aveva trovato un uomo accasciato sul marciapiede, an-che lui con una bottiglia tra le mani; era avvolto in coperte e panni sporchi, carta di giornale, un barbone. Mr. Snook lo guardò come avrebbe potuto guardare un alieno, poi sorridendo si mise a pestare i piedi per terra. - Vieni con me, - gli disse - alzati che andiamo a fare festa. L’uomo aprì gli occhi per guardarlo, assonnato. - Muoviti, alzati, è ancora presto! Il clochard non reagiva di fronte a quegli incitamenti da ubriaco. Il suo sguardo, che una volta doveva essere stato ricco d’intelligenza, era offuscato. Mr. Snook sorrideva senza senso, si fissavano come due esseri prove-nienti da dimensioni parallele inconciliabili. Dopo qualche secondo il barbone ruppe il silenzio, per lasciar uscire una voce roca, che sembrava salire dalle profondità della terra. - E dove vuoi che vada? - Andiamo a bere un bicchiere in un bar qua dietro, vuoi? L’uomo tirò su col naso, tossì e si girò dall’altra parte, voltandogli le spalle, avvolgendosi nei suoi stracci: - Vattene e lasciami dormire. Credi che io abbia voglia di festeggia-re? Mr. Snook avvertì su di sé tutto il peso di quella lunga nottata, im-provvisamente, scoprendosi di colpo sobrio, svuotato, sentendosi più stupido che mai. Rimase lì per un tempo imprecisato, come inebetito, a guardare quel corpo immobile, finché non vide altro che una massa

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informe e scura, poi si voltò e scivolò via.

Aveva sempre amato molto una fiaba dei fratelli Grimm, una storia che tutti conoscono, ma che per lui aveva assunto nel corso degli anni un significato speciale. Da piccolo chiedeva a sua madre nuovi dettagli, ogni volta che lei gliela raccontava, particolari che la donna inventava sul momento o che lui stesso andava a creare con la sua immaginazione, una volta rimasto solo nel suo letto, la luce del co-modino ancora accesa, metà camera nel buio più completo. La fiaba che Mr. Snook amava tanto era Rosaspina, dal nome della povera fanciulla condannata a vivere un sonno secolare in seguito alla male-dizione di una fata invidiosa e offesa. Il piccolo Mr. Snook se ne stava per ore a immaginare quel castello nascosto da fittissimi cespugli di rovi, nel quale tutti gli abitanti dor-mivano un sonno impenetrabile, in una totale paralisi di tempo e di spazio. Come statue riposavano il re e la regina, la corte e la servitù, tutti ancora immersi nella situazione in cui erano stati sospesi al re-alizzarsi della maledizione, dormivano anche gli animali, perfino le mosche, dormiva perfino il fuoco. Lo affascinava l’idea di quegli spa-zi immensi e vuoti, pieni, in realtà, di figure umane apparentemente congelate, come fossero dei manichini. Poteva perfino immaginare il rumore dei suoi passi, del suo respiro nelle ricche stanze dove tutto era immobile da decenni, forse secoli, stanze piene di silenzio. Era per lui consolante immaginare quelle persone preservate dallo scorrere del tempo, protette, vive in eterno, il solo pensiero era ca-pace di trasmettergli una sensazione di serenità e speranza. Voleva pensare che sarebbe stata così l’eternità dopo la vita, il Paradiso, un luogo dove riposare per sempre con le persone a lui care, per sempre. Cosa c’era di più bello da desiderare, se non un regno fatto di statica pace, di asettico silenzio, un mondo senza traumi e imprevisti, imma-colato, sterilizzato, in perpetua attesa? Non si stupì, pertanto, quando si rese conto di sognare, di trovarsi nel castello avvolto dalle spine, aggirandosi nei saloni vuoti, apparente-mente privi di qualsiasi forma di vita: non era altro che una rielabo-

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razione di quella situazione innaturale già tante volte immaginata nel corso della vita. Vedeva pavimenti di marmo, mobili di legno massiccio, arazzi, stof-fe, una rappresentazione ideale, quasi un allestimento scenico, un in-terno medievale e rinascimentale insieme, frutto della sua fantasia. In quel lento vagare non incontrava persone, ma quadri, dipinti a ogni parete, ritratti di uomini e donne di ogni età ed epoca di appartenen-za, c’erano anche persone in abiti contemporanei, che creavano un curioso contrasto con l’arredamento e il contesto. In alcune stanze gli occhi di quegli strani ospiti erano aperti e fissavano statici dei punti imprecisati dall’altra parte dell’ambiente, sguardi intensi, pungenti, ricchi di vita; in altre sale, al contrario, le palpebre dei personaggi ritratti erano chiuse, nella totale dimenticanza, nella sola contempla-zione di se stessi. Tutte queste figure erano accomunate da qualcosa di impalpabile, dalla capacità di suscitare un’impressione ambigua, di presenza e assenza insieme. Aveva già visto tutto questo, in qual-che incubo lontano, chissà, forse da bambino. Mr. Snook si sorprese, invece, quando si vide improvvisamente sca-gliato verso l’alto da una forza indicibile e sovrannaturale, che fece mutare completamente la scenografia del sogno. Questa energia lo proiettava sempre più in alto, tanto da fargli perdere ogni equilibrio, immerso in un nulla fatto di sola aria, per un tempo imprecisato, se-condi, ore, forse anni. Poi, altrettanto improvvisamente, tutto di sé iniziò a tremare e si sentì trascinato verso il basso, con una sensazio-ne di eccitazione senza paura, di adrenalina e attesa nei confronti di qualcosa d’ignoto. Man mano che scendeva poteva rendersi conto della sterminata va-stità del mare, l’oceano che gli si parava davanti era una tavola blu senza inizio né fine, omogenea, interminabile, tale da celare spazi solo lontanamente immaginabili, una distesa così ampia da essere più grande di qualsiasi oceano esistente. L’impatto con la superficie non provocò dolore, come si sarebbe aspettato, e di colpo si trovò immerso in un liquido denso e sala-to, piacevole al contatto con la pelle. Nell’assenza di ogni forma di vita, senza che si potessero individuare fondale e pareti rocciose, non

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c’erano punti di riferimento che potessero fornirgli delle coordinate per potersi in qualche modo orientare. La luce si faceva sempre più fioca a ogni momento, lasciando intuire il progressivo immergersi nelle profondità. Poteva respirare senza difficoltà anche sott’acqua, provava una gran-de pace interiore e un senso di intima soddisfazione, almeno fino a quando intravide il relitto. Sembrava essere appoggiata a qualcosa, forse un rilievo del terreno che la sosteneva, eppure non si riusciva a intravedere nient’altro che quella nave di metallo arrugginito e incrostato di alghe, una nave molto grande, che gli richiamava alla memoria certe immagini del re-litto della Bismarck oppure di quello del Titanic. La visione di quella sagoma stilizzata, le cui aperture – oblò, porte e squarci – sembra-vano dare sul nulla, nient’altro che buio, gli aveva trasmesso una leggera inquietudine, ma anche una sensazione di curiosità, come se una forza sconosciuta lo attraesse inesorabilmente, spingendolo ver-so l’interno come un richiamo. Nemmeno sforzando la vista, nemmeno con il progressivo appros-simarsi alla murata della nave c’era speranza di poter vedere qual-cosa di ciò che stava al di là di quei varchi nello scafo, solo il blu che diventava gradualmente nero. Si avvicinò sempre di più a una porta comparsa quasi per caso, attratto, guidato da questa forza in grado di calamitarlo. Una volta oltrepassata la soglia si ritrovò nel buio più completo, mentre già si affievoliva ogni percezione, ogni senso andava ad annebbiarsi. Torpore senza inquietudine, né ango-scia, né dubbio, un ventre materno accogliente e riposante. L’ultima sensazione che riuscì ad avvertire prima del completo annullarsi fu di vaghe presenze accanto a sé, come se qualcuno gli si fosse accostato con discrezione, sagome delicate provenienti da un’altra realtà, poi il sogno si tramutò in un’assenza di tutto.

Il giorno lo trovò abbandonato sul divano, avvolto da un senso di disagio e di nausea. Si alzò con grande fatica, facendo leva su se stesso, o quel che era rimasto di lui dopo la sbronza, le tempie che

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gli martellavano. Doveva aver dormito due o tre ore, forse qualcosa in più, poi la sveglia aveva trillato implacabile, indifferente alla sua difficile condizione. Non c’era tempo per dormire, un paio di aspirine e un caffè forte per cercare di riprendersi. Non appena si sentì nelle condizioni di potersi reggere senza barcol-lare si diede una pulita, preparandosi per raggiungere Michele Garne-ri, un caro amico dai tempi del liceo, che ora dirigeva un istituto per persone con problemi mentali. L’appuntamento era stato fissato per le otto, ed erano già le dieci passate. Quando Mr. Snook entrò nell’ufficio dell’amico, lo trovò seduto alla scrivania intento a esaminare una cartella clinica, con un lieve sot-tofondo di musica classica. Lo vide togliere gli occhiali sottili, per guardarlo con un’espressione beffarda che sembrava dire “non sei cambiato affatto”. Mr. Snook si tastò il mento, per poi sistemarsi alla bell’e meglio il colletto della camicia. Doveva avere una gran brutta cera. - Quando la vedrai dovrai stare ben attento a non farle domande troppo dirette, non dovrai insistere quando lei cercherà di cambiare argomento e dovrai fare di tutto per non inquietarla. Dovrai stare molto attento. Mr. Snook annuì, deciso. - Da quanto tempo si trova qui dentro? - Tre anni. – rispose Garneri – Dal momento dell’incidente. - Michele, dimmi come devo comportarmi. - Si chiama Anna. Falle credere che sei un amico, un parente. Qual-cuno con cui ha avuto a che fare molto tempo fa. Prendi questo pu-pazzo, me lo sono fatto dare dalla sua infermiera. Questo la tranquil-lizzerà. Mr. Snook stava già dirigendosi verso la porta, quando Garneri lo chiamò indietro, facendogli cenno di avvicinarsi. - Non stare a guardarla troppo insistentemente in volto, sai, per via dei suoi occhi. Ti accorgerai subito che non si distinguono più le pu-pille. Non soffermarti a guardarli per troppo tempo, sforzati di fare finta di niente. Da quando la capsula ha avuto quel problema, i suoi occhi hanno preso quel colore intenso e uniforme.

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- Mi segua, signor Corsini. - lo guidò l’infermiera, precedendolo lungo il corridoio. Mr. Snook entrò nel rigoglioso giardino, una parte del quale era stata coperta con un grande telo verde, al di sotto erano stati disposti dei tavoli e delle sedie, qualche panchina. Sparsi qua e là come fossili, alcuni pazienti. L’infermiera gli fece cenno di proseguire, indicandogli una persona. Se ne rimase ai margini della struttura, vagamente imbronciata, le braccia conserte. Tra le numerose figure, spiccava quella di una ragazza vestita di bian-co; se ne stava seduta su una sedia, la testa rivolta verso il basso, i capelli che le scendevano lisci lungo la schiena e le spalle. Mr. Snook si avvicinò e, quando finalmente le fu accanto, la vide alzare la testa e posargli sopra il suo sguardo blu. Per qualche secondo non fu capace di fare altro che ricambiare quello sguardo, che lo paralizzava, disorientava, facendogli dimenticare il perché di quella visita. I suoi occhi erano di un colore intenso, total-mente inespressivi eppure nel contempo inspiegabilmente carichi di significato. Era uno sguardo magnetico nella sua vacuità e nella sua inquietante stravaganza. Per un attimo avvertì il desiderio di fuggi-re, poi Mr. Snook parve ricordarsi ciò che gli aveva detto Garneri, si sforzò di riprendersi e di sorridere. La ragazza lo guardava fisso, seguendo attentamente i suoi movimenti; lui prese una sedia e le si sedette di fronte, allungandole il pupazzo. La vide prendere delicatamente il gattino grigio, per qualche intermi-nabile secondo lo tenne stretto tra le mani, giocandoci appena. - Anna, ti ricordi di me? Ci siamo conosciuti tanto tempo fa. Riesci a ricordare? Anna era tornata a rivolgere la testa verso il basso, continuava a gio-care col gattino. Mr. Snook si rese conto che lei non lo stava ascoltando affatto e cercò di richiamare la sua attenzione toccandole con delicatezza il braccio. Si avvicinò per sussurrarle qualcosa all’orecchio. A un certo punto la ragazza alzò nuovamente quello sguardo blu su di lui. Si dispose a osservarlo con attenzione, come se si fosse accorta di

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lui solo in quel momento, per la prima volta da quando era arrivato. - Sì, certo che mi ricordo. - rispose. Era impossibile che potesse ricordarsi di qualcuno che non aveva mai conosciuto, ma a volte il pensiero corre lontano e poteva anche darsi che in qualche recondito spazio della sua mente danneggiata fosse tornato in superficie il ricordo di qualche sbiadita figura. La ragazza sembrò per un attimo affondare nel suo mondo interiore, farfugliava parole senza senso apparente. Le chiese come stava, accorgendosi subito della stupidità della do-manda. Anna sorrise, ma non rispose. - Sei qui per domandarmi qualcosa, per farmi stare male. Non è vero? Sembrava aver in qualche modo riacquistato parte della lucidità per-duta. - Sono venuto perché ti voglio chiedere una cosa. Anna, devi aiu-tarmi. Per favore, spiegami che cosa hai provato quando si è rotta la capsula, per me è molto importante. - Va bene, se ti fa piacere. La ragazza pareva non badare realmente a quanto ascoltava e a quan-to diceva, sembrava rivolgersi più a se stessa che a un interlocutore in carne e ossa. Mr. Snook non riusciva a nascondere l’imbarazzo di trovarsi in una situazione tanto spinosa. In fondo al cuore desiderava terminare al più presto una conversazione così delicata e andarsene, anche solo per sottrarsi al controllo di quell’infermiera che lo guardava attenta da lontano, quasi a fargli intuire che la sua era una presenza indesi-derata. Si sentiva in un certo qual modo colpevole, colpevole perché era pronto a correre il rischio di risvegliare in lei ricordi di paura e dolore. Per il suo egoismo. Per la sua incoscienza. Gli sembrava di compie-re un’azione ignobile, di violare l’interiorità di una creatura che già troppo aveva sofferto e che era stata segnata per sempre da un’espe-rienza terribile. Gli pareva di compiere un sacrilegio, eppure coglieva a fondo tutta l’importanza di quell’incontro. Il tempo a disposizione

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era ormai quasi scaduto, senza che fosse riuscito a dare soluzione ai suoi dubbi. Lui doveva sapere, doveva avere piena coscienza di tutti gli aspetti, positivi e negativi, che potevano celarsi dietro una decisione di quella portata, soprattutto dei rischi a cui sarebbe andato incontro. Rendersi pienamente conto del prezzo che bisogna pagare per le proprie scelte, dei pericoli che non si possono trascurare quan-do si decide di andare fino in fondo. - Tanto freddo, era come se stessi dormendo nuda in mezzo al ghiac-cio, come se qualcuno riversasse su di me un gelo incredibile. – fu la risposta, e le parole le morirono in gola. - Continua, continua a ricordare. La ragazza sembrava in trance. - Tanto freddo e delle luci che apparivano davanti a me. Non riuscivo a respirare bene, era come se avessi dell’acqua nei polmoni. - ridac-chiò. - E poi? – Mr. Snook la esortò ad andare avanti. - Sentivo la presenza di tanta gente là fuori e un gran movimento, erano loro con il camice bianco che si affannavano intorno a me. Ed era come se il livello dell’acqua in cui ero immersa scendesse piano, pianissimo, quasi impercettibilmente. Parlava con lentezza e poi si fermava, come se dovesse dispensare ciò che diceva con il contagocce, ma ogni frase pareva a Mr. Snook una rivelazione e lui provava a percepire e ricreare, a vivere su di sé le emozioni che aveva provato lei. Nonostante i suoi sforzi non ci riusciva del tutto. - Mi stavo risvegliando: le prime sensazioni furono di una grande, infinita dolcezza. In quel momento, non so perché, mi tornarono alla mente le parole che aveva detto il mio ragazzo, quel giorno, prima di lasciarmi entrare nella capsula. “Dormi, mio amore” aveva detto, “dormi e vedrai che andrà tutto bene”. Anna chinò lentamente la testa, ancora di più, lasciando che una cioc-ca dei suoi lunghi capelli le ricadesse sul viso. - Poi venne il dolore, ed era un dolore fortissimo, che partiva da qui, dalle viscere. Era come nascere una seconda volta, un secondo do-lorosissimo parto. Era come se fossi tutta impregnata di quell’acqua,

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nemmeno fossi una spugna. Mr. Snook dovette afferrarle la mano per scuoterla da un apparente torpore: in realtà, ciò che l’aveva assalita così improvvisamente non era semplice spossatezza, ottundimento, ma una fortissima scarica di emozioni. Ricordi che riaffioravano. Gli occhi di Anna, che per la loro omogeneità non tradivano emozioni, erano velati di una sottile patina liquida, qualcosa simile a lacrime. - Perché l’ho fatto? Perché mi sono lasciata convincere? Avrebbero potuto trovare un modo diverso per curarmi. La ragazza ebbe un tremito. Inspirò profondamente, come se le man-casse l’aria. - Io amavo la vita. Io amo la vita. L’amo con tutte le mie forze. Non riuscirò mai a comprendere le persone che non sanno riconoscere quanto è bella la vita. La sua bellezza è impura, ricca d’ombre e sfu-mature: non è fatta solo di luce, di calore, è imbevuta del dolore e della nostra sofferenza, della nostra stanchezza. Ma forse proprio per questo è così bella e degna d’amore, perché è reale, complessa, non finge di essere quello che non è e non ti dà promesse. Ma loro non mi hanno lasciata stare e mi hanno messa sott’acqua. Anna sembrava sempre più agitata, le mani stringevano con forza l’orlo del vestito, mentre il tremore era aumentato, il respiro sempre più irregolare. - Là dentro ho visto un colore sconosciuto, sai, un nuovo colore che non avevo mai immaginato. Mr. Snook le stringeva la mano, per cercare di tranquillizzarla, ma la situazione sembrava sfuggire al suo controllo. - Un colore sconosciuto? Anna, cosa vuoi dire, di che colore parli? - Non era un colore naturale, non l’avevo mai visto prima di quel momento, un colore nuovo. Fremeva, si divincolava, emetteva tenui singhiozzi. - Era un colore mai visto, voi non l’avete mai visto. Solo io l’ho visto e non posso nemmeno descriverlo – disse, gridando le ultime parole. Gettò lontano il pupazzetto e prese a torcersi nervosamente i capelli. - È il colore della mia mente, è il suo colore. È nero, no è giallo, forse

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tutti e due insieme. Mr. Snook non sapeva che fare, si voltò per cercare aiuto e intanto continuava a serrarle la mano, nel tentativo di calmarla. - Anna, - la chiamava - Anna, cerca di farti forza. Ma lei non percepiva più nulla dall’esterno, si riferiva solo a se stes-sa. Sembrava parlare alla sua coscienza, ai suoi fantasmi, o pregare. Alle sue spalle, Mr. Snook udì dei passi affrettarsi nella loro direzio-ne. - Mi vogliono punire, mi hanno fatto vedere quel colore e continuo a vederlo anche adesso. Non c’è mai pace. Anna si alzò dalla sedia, rovesciandola indietro. L’infermiera afferrò per le spalle la povera ragazza, cercando di im-mobilizzarla. La donna girò la testa verso Mr. Snook e, senza nem-meno guardarlo, gli parlò aspramente. - Se ne vada, ha visto che ha fatto? Vada via e la lasci in pace. Vada via! La donna faticava a tenere ferma la paziente, che sembrava dar sfogo a tutte le sue forze e alle sue paure; solo l’intervento di altri infermieri riuscì a frenare l’impeto di quell’improvviso cedimento nervoso. Mr. Snook non sapeva far altro che starsene lì, stupido e inutile, a osservare quella scena; improvvisamente corse via, tra gli sguardi at-toniti o indifferenti degli altri degenti. Udiva le voci concitate e i ru-mori di lotta, tutto il caos che aveva lasciato dietro di sé: diminuivano progressivamente d’intensità man mano che si allontanava, ma nella sua testa continuavano a rimbombare senza sosta né variazioni. Passando davanti alla porta dell’ufficio di Garneri si sentì impallidi-re, non aveva rispettato appieno le indicazioni dell’amico, era consa-pevole di aver provocato nuovo dolore in una persona già annientata. Si sentiva come un ladro che ha rubato qualcosa di prezioso e che sta per essere smascherato, svergognato pubblicamente. Tirò dritto, accelerando il passo. Quando fu a due passi dall’uscita la signorina all’accettazione gli augurò buona giornata, sorridendo amabilmente. Mr. Snook ricam-biò con un cortese cenno col capo, pieno di imbarazzo, continuava a sentirsi un vero stronzo.

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Tornando dalla clinica, Mr. Snook non riusciva a staccarsi dai propri pensieri, ancora turbato dalla visione di quella ragazza in preda ai suoi vaneggiamenti, testimonianza di un pericolo concreto, di una sorte che sarebbe potuta capitare a chiunque, anche a lui, qualora avesse deciso di portar avanti il suo proposito. Era così immerso nel-le proprie riflessioni che nemmeno si accorse di aver imboccato un percorso a lui sconosciuto. Nonostante si trattasse di una strada piuttosto ampia, ci camminava poca gente, forse per la mancanza di negozi, bar e locali. Una strada di passaggio, come tante altre. Attaccata al muro di un palazzo, in-cassata in una rientranza, si scorgeva a malapena una strana massa di colori. - Passa qua dentro, prego. La voce proveniva dal tendone. Mr. Snook si fermò, risvegliato improvvisamente dai propri ragio-namenti, sbirciò attraverso l’apertura, da dove fuoriusciva una luce giallastra. Senza pensarci su troppo decise di scostare i pesanti drappi per dare un’occhiata all’interno. Nel tendone odore di fumo e d’in-censo, molto calore, il ronzio di un ventilatore, strani tappeti; in fondo alla piccola stanza fatta di stoffe e veli, in parte strappati o rattoppati, c’era una donna vestita in modo strano, portava indumenti orienta-leggianti, che in linea del tutto teorica sarebbero dovuti sembrare di gusto gitano, ma che in realtà non dovevano essere altro che semplici vestiti di Carnevale. Era una donnina minuta, dall’aria trasandata, i capelli raccolti sopra la testa, aveva un paio di orecchini ipersvilup-pati dalla forma ovoidale che le penzolavano ai lati. - Dice a me, signora? - Vieni qua, ragazzo, siediti su questa seggiola. Ho la risposta per tut-ti i tuoi problemi, vuoi salute, denaro? Problemi d’amore, no siediti qui, tu vuoi parlare d’amore e io ti risponderò gratis. - Ma io non ho nulla da chiedere. Piuttosto, come si è accorta che qualcuno stava passando proprio qui fuori? - Io vedo tutto, caro, a volte con la mia sfera, oppure posso sbirciare

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attraverso i buchi di questa tenda. Tu hai la faccia preoccupata, ma maga Alcina risponde a tutto, a tutto risponde maga Alcina. Gratis, perché mi stai simpatico. Mr. Snook abbozzò un sorriso. - Stia pur certa che non le darò un centesimo. Lasci stare, ai tarocchi, al pendolo e a quelle stupidaggini non credo affatto. La donna gesticolava, talvolta alzava gli occhi al cielo assumendo un’aria carica di mistero e concentrazione. Dopo aver preso in mano un mazzo di tarocchi si mise a sbatterli uno dopo l’altro sul tavolo, con una certa energia. Le carte cadevano coperte sulla tovaglia, l’in-sieme andava assumendo una forma vagamente geometrica. - Tesoro, lascia fare a me. Tu non devi dire niente, io ti darò le rispo-ste che stai cercando, perché mi stai molto, molto simpatico. Eccone un’altra. Mr. Snook la osservava divertito, la lasciava fare con un misto di rassegnazione e curiosità. La vide toccare ogni singola carta, per poi girarle una dopo l’altra, mentre non cessava di sussurrare tra sé frasi incomprensibili, accompagnando alle parole improvvisi cambi d’espressione, strabuzzava gli occhi e storceva la bocca, tutto per cercare di entusiasmare il proprio cliente. - Guarda qui, La Papessa. Il Carro. Tesoro, qualunque dilemma tu abbia da risolvere si tratta proprio di una faccenda complicata. Che roba, lascia vedere, lascia girare. Il gioco era in un certo qual modo divertente. Quella donna sembrava davvero entusiasmarsi per ciò che diceva, era una grande improvvi-satrice, si capiva che stava inventando ogni cosa di sana pianta. Le espressioni del viso e i movimenti teatrali, in compenso, ripagavano del tempo perduto. - Ragazzo mio, signor? - Snook, tutti mi chiamano così. - Signor Snook, - continuò - questo è Il Matto, una carta strana. Caro mio, che vaticinio, maga Alcina si accorge di tutto. Vedo, vedo un dubbio, acqua, persona che non vuole lasciarti andare, tanta solitudi-ne. Non fare cazzate, bello mio, tu vuoi dimenticare, ma commetti un grave errore, io credo. Siamo nella vita reale, te ne sei accorto? La-

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scia perdere strani pensieri, niente paranoie, è ora di decidere, sai? Di colpo la donna sbatté entrambe le mani sul tavolo, facendo sob-balzare tutti gli oggetti che vi erano sopra appoggiati. - A meno che tu non abbia un dolore così intenso da non poter resi-stere, tanto tenace da non poter più accettare di condurre la tua vita come hai fatto fino a questo momento. Un dolore che si chiama noia. O che si chiama insoddisfazione. Farai la cosa giusta. Aveva preso in mano due o tre carte, le esibiva davanti agli occhi di Mr. Snook, fissandolo intensamente, quasi che da sole bastassero a dare una risposta. - Si può sentirsi poveri quando si ha tutto, soli tra mille persone. La vita perde colore, perdersi, perdere ogni riferimento. C’è bisogno di silenzio per ritrovare la strada. Sospensione per recuperare le forze. Fermarsi per riconoscersi. Fermati allora. Forse è questo ciò di cui hai bisogno, forse è davvero questo. Grazie tesoro. Ho finito, sono venti euro.Finalmente la maga parve rilassarsi di colpo, sorrise dolcemente ten-dendo una mano tutta anelli e braccialetti, pura bigiotteria. Mr. Snook borbottò qualcosa, estrasse i soldi dal portafoglio, con un certo fastidio li allungò alla donna. Lei afferrò al volo la banconota con un gesto rapido e calcolato. - Accetto l’omaggio. – ridacchiò soddisfatta, facendo piccoli inchini col capo. Quando lo vide dirigersi verso l’uscita cercò di fermarlo per dirgli qualcos’altro, ma lui era già preso da altri pensieri, da altre sensa-zioni. - Ciao bello, torna presto. Quella ciarlatana aveva detto una marea di sciocchezze e certamente tirato a indovinare tutto quanto, eppure era stata capace di turbarlo. Come aveva potuto intuire certe cose, avvicinarsi tanto alla sua situa-zione? Non riusciva a spiegarselo. La maga era riuscita a essere più esplicita di tante persone che fino a quel momento avevano cercato di consigliarlo, influenzarlo, era stata meno incomprensibile di loro, più diretta. Forse proprio perché non lo conosceva affatto. Forse aveva letto qualcosa nei suoi occhi, per dire quelle cose.

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Una volta uscito dal tendone, quell’ambiente impregnato di calore, d’odore di chiuso e aromi orientali, di pensieri gravosi, Mr. Snook avvertì di colpo tutto il carico della stanchezza, una sensazione di peso sulle sue spalle, più mentale che fisico. Man mano che tornava verso strade più battute, il rumore del traffico, il vociare della gente, i clacson si facevano sempre più intensi in tutta la loro fastidiosa presenza, rendendolo insofferente a quel caos che gli sembrava in-sostenibile. Guardava di sfuggita tutta quella gente che gli fluiva intorno e cer-cava di riflettere su di loro, su se stesso, cercava di capire, immede-simarsi. Chissà cosa pensavano, per cosa soffrivano, come amavano tutte quelle persone. Chissà cosa doveva passare loro per la testa in quel preciso momento, quali idee, preoccupazioni, desideri. Che cosa avrebbero fatto loro al posto suo? Una madre con un bambino in braccio, una coppia di fidanzati, un distinto signore dall’aria ricca e spavalda, un giovane sportivo che faceva jogging: loro di certo non avrebbero scelto di farsi ibernare, così colmi d’energia positiva, di aspettative, senza ombra di dubbio non avrebbero mai voluto rinunciare alla loro felice situazione. Ma questi altri, invece? Questa vecchia signora fragile come carta, quella donna in carrozzella, il mendicante là all’angolo, chissà quante altre persone che gli passavano accanto erano state ferite dalla vita. Loro certamente avevano dei validi motivi per desiderare di ritrarsi dalla realtà. Oppure le cose potevano essere diverse, forse era lui che non aveva capito niente. Le cose forse non sono così semplici come sembrano: forse la gioia e la serenità non arrivano per forza insieme all’amore, alla ricchezza e alla salute, forse si può essere felici anche nelle situazioni apparente-mente più problematiche e infelici quando si ha tutto. E lui, cosa aveva capito di tutto questo? Cosa pensava lui? Pensava qualcosa? In tutti questi anni. Lungo tutto questo tempo. Tra errori e superficialità. Nella tranquillità apparente di una vita lasciata scorre-re, senza riflettere su niente e nessuno. Mr. Snook affrettò il passo, come per evitare di doversi mischiare a

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tutte quelle anime. Ne percepiva sempre più densa la sostanza, inizia-va a sentirsi soffocare. Fino a qualche ora prima non avrebbe saputo darsi una risposta. Den-tro oppure oltre la realtà, dentro il mondo o al di fuori di esso. Di che cosa stiamo forse parlando, se non di questo? Aveva finalmente capito. Seguire la propria natura, il modo in cui si è fatti al di là delle apparenze, delle sovrastrutture. Si trova la forza per andare avanti dove meno la si cerca, misurandosi con la realtà o creandosene una propria, parallela, una realtà interiore. Forse più bella e unica. Immergersi nella vita, con le sue regole dolci e amare, immergersi nella propria esistenza, con i suoi fantasmi e i suoi sogni, mondo privato per pochi eletti, intimo. Ciascuno reagisce a modo suo, non c’è coraggio o viltà da giudicare, sono solo percorsi diversi, scelte ugualmente degne di rispetto. Ormai rimaneva ben poco tempo a sua disposizione: mancavano solo poche ore allo scadere del tempo che si era concesso. Era finalmente venuto il momento di prendere in mano la propria vita, aveva preso la sua decisione.

Le impressioni erano state registrate, assimilate, avevano finalmente partorito una risultato. Si sentiva stanco, terribilmente stanco, erano stati due giorni frenetici, di riflessioni e tormenti, incontri, due giorni decisivi per la sua vita e per quella delle persone che gli volevano bene. Era stremato, ma finalmente tutto si era fatto più chiaro. Ancora non sapeva come fosse riuscito a prendere una decisione dopo essersi trovato faccia a faccia con persone tanto diverse, dopo aver ascoltato pareri tanto discordi tra loro. “Bene Mr. Snook,” sussurrò tra sé e sé “è ora di tornare indietro, a casa, è giunto il momento di fare quello che ritieni più giusto, più opportuno per te stesso”. A casa trovò Marina. Era sdraiata sul divano, doveva essersi assopita mentre stava aspettando il suo rientro. Mr. Snook rimase a guardarla dormire, un braccio intorno a un cuscino, un po’ accigliata, l’aria di chi si è abbandonato al sonno senza quasi rendersene conto. Era

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molto bella, come sempre. Si sedette accanto a lei e le prese delica-tamente la mano. Marina si svegliò e rimase in silenzio a ricambiare il suo sguardo. Aveva un’espressione seria, non facilmente definibile, ma consape-vole. Chissà come mai l’aveva sempre considerata una ragazza fatua e priva di carattere, una persona estremamente bella ma senza spes-sore. - Cosa devo fare? – le chiese. - Hai già deciso? - No. – mentì Mr. Snook, fissando un punto a caso nel salotto. Parlarono di cose banali, senza importanza, forse per non dover spre-care quei preziosi momenti in un’atmosfera opprimente. Mr. Snook sentiva la stanchezza prendere piede, a poco a poco offu-scava la sua coscienza; in breve tempo si ritrovò in uno stato di calma e torpore, come quando la febbre intorbida i sensi. Si addormentò con la testa appoggiata sul suo seno, lei lo accarezza-va come fosse un bambino. - Riposa tranquillo. Dormi, amore mio, che va tutto bene. Dormi, mio amore. Non ti preoccupare di nulla. Ma lui già non udiva più nulla. Si ritrovarono nella stessa situazione di prima, ma a parti invertite: l’una a osservare l’altro dormire, la ragazza immersa nei propri pensieri, a guardare con occhi diversi la persona con cui aveva diviso e con cui divideva la propria esistenza. Lui non sentiva, non sognava, su quel morbido cuscino fatto di carne. Non si accorse nemmeno quando Marina cercò di aiutarlo a sdraiarsi, prima di alzarsi e uscire dalla stanza. Era rimasta sulla soglia ancora qualche secondo prima di chiudere piano la porta dietro di sé. Mr. Snook riprese conoscenza dopo poco tempo, a fatica, ancora intontito controllava con lo sguardo che tutti i mobili e gli oggetti della stanza fossero al loro posto, accorgendosi che la sera era quasi arrivata e che la luce filtrava dalla finestra un po’ più fioca di prima. Andò in cucina a prendere del ghiaccio, aveva bisogno di ritornare in piena forma. Se ne tornò in salotto con un bicchiere di aperitivo Snook. Aveva fatto la sua scelta, era come se il suo cervello avesse deciso per lui,

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grazie a qualche strano meccanismo mentale. E allora perché si sen-tiva tanto inquieto? Guardò l’orologio: mancava poco più di un’ora alle sette e mezza, l’orario che aveva concordato per procedere con il trattamento di ibernazione. Alla HibernTech i preparativi erano già sicuramente iniziati, gli addetti ad attivare i macchinari, a controllare tutti i com-ponenti della capsula, i fluidi che iniziavano a scorrere nei tubi. Che cos’hai ancora da fare, Mr. Snook? Si appoggiò al bordo della finestra e chiuse gli occhi, questa volta non per stanchezza. Bevve un altro goccio del suo cocktail lasciando che il calore si sprigionasse dal bicchiere alle labbra e dalle labbra alla sua mente. Nessuno avrebbe dovuto giudicare le sue decisioni, criticare una scelta di vita, gli altri potevano solo limitarsi a donare le loro opinioni, pareri, in fondo, senza alcuna rilevanza. Mi fanno sorridere tutte le persone del mondo. Ogni uomo vive la propria vita condizionato dalle parole degli altri, da ciò che gli altri dicono di lui, dalle loro sentenze. A volte non ci fermiamo a riflette-re nemmeno un attimo sui nostri comportamenti, su dove ci stanno portando, per quale strada, a quali condizioni, eppure giudichiamo tutto ciò che fanno i nostri simili con grande sicurezza. Non ci sfor-ziamo di capire se tutto ciò che sta intorno a noi abbia ancora valore o meno, se la realtà in cui viviamo sia degna di essere vissuta o meriti di essere cambiata. Critichiamo gli altri, ma mai noi stessi, senza mai porci le domande fondamentali, senza mai stabilire se è meglio stare o andare. In quella situazione, tu cosa faresti? Ognuno ha il diritto di vivere la propria vita come vuole. Nessuno avrà mai tanta autorità per poterti dire che hai sbagliato la tua scelta, caro Mr. Snook, nessuno dovrebbe azzardarsi a giudicare lo stile di vita degli altri. Sicuramente Dio ha ogni prerogativa, ma l’uomo non ha questo diritto sugli altri, è imperfetto e sbaglia troppo spesso. Mr. Snook teneva ancora le palpebre chiuse, come per caricarsi di nuove energie. Lasciò il bicchiere vuoto sul tavolino accanto alla fi-nestra, vicino ad alcune vecchie fotografie. Sapeva che erano lì, a pochi centimetri dalla sua mano. Sorrise nel ripensare a quei visi pla-

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stificati che lo fissavano dalle loro cornici, fotografie osservate mille e mille volte. Si portò la mano alla bocca e aprì gli occhi.

Mr. Snook mise un piede sul pavimento gommoso della piattaforma. Sentiva dell’aria fresca andargli contro, scorreva leggera sfiorando il suo corpo. Un rumore lo circondava, ronzio sempre uguale basso e pacato. Con le mani toccò il lucido e splendente vetro della capsula. Tutto si fece ovattato. Il bip-bip che proveniva dall’esterno si fece sempre più lieve, così come diventarono tenui fino a sparire tutti gli altri suoni che fino a poco prima era riuscito ad avvertire dall’interno della sua gabbia trasparente. Nell’aria una luce azzurra e un vapore che diventava sempre più denso. Una goccia blu sulla sua mano.

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Vittorio Schieroni (Pavia, 1982), co-fondatore di Made4Art, dopo la maturità classica, si è laureato in comunicazione e specializzato in mercati dell’arte presso la Libera Universi-tà di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. Attualmente presta la sua attività anche come responsabile press per la galleria d’arte contemporanea Amy-d Arte Spazio di Milano, si occupa dei contatti con le gallerie per la fiera internazionale d’arte contemporanea Step09 (La Fabbrica del Vapore, Milano), è membro del Ce.st.art. ‒ Centro studi sull’economia dell’Arte, è redattore della testata d’arte e cultura EosArte. Ha avuto diverse esperienze negli ambiti della comunicazione e dell’organizzazione di eventi, curato mostre in spazi pubblici e privati, è stato docente di Corsi di alta formazione sul mercato dell’arte, giurato per premi di pittura. Si ricordano, tra le altre, le collabora-zioni professionali con l’Università IULM e l’ABI ‒ Associazione Bancaria Italiana, il mensile ViviLombardia. Ha realizzato articoli giornalistici, testi critici in occasione di mostre, raccolte di poesie (si cita il volume Il giardino delle sfingi, 2003) e romanzi (Stella Marina Corona di Spine, 2005).

Vittorio Schieroni [email protected] mobile +39.339.2202749

Elena Amodeo (Milano, 1983), co-fondatrice di Made4Art, dopo aver conseguito la ma-turità presso il Liceo Artistico Statale di Brera con indirizzo grafico-pubblicitario, si è laureata a Milano in “Scienze dei Beni culturali” presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e in “Arti, patrimoni e mercati” presso l’Università IULM. Da sempre appassionata di storia dell’arte, di economia dell’arte e di ogni disciplina re-lativa alla creatività, Elena Amodeo affianca alla sua attività professionale un’intensa at-tività artistica, di graphic design, di studio e di messa in pratica di tecniche pittoriche tradizionali e sperimentali. In qualità di esperto d’arte lavora e ha lavorato nell’ambito dell’art advisory, della curatela e dell’organizzazione di mostre ed eventi presso istituzio-ni e gallerie italiane, fra le quali Gruppo Montepaschi – servizio Art Banking e Galleria Zonca&Zonca. Ha ricoperto il ruolo di docente in Corsi di alta formazione sul mercato dell’arte, partecipando inoltre a conferenze e seminari presso atenei e istituzioni pubbli-che e private. Dal 2009 ha esposto in collettive e allestito mostre personali in Italia e all’estero. Attual-mente è membro del Ce.St.Art. ‒ Centro Studi sull’Economia dell’Arte, collabora con l’Azienda vitivinicola Quercialuce, per la quale ha realizzato una serie di etichette d’auto-re, e con lo studio di architettura e di design ElevenStudio.

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Ebook pubblicato nel mese di luglio 2013 a cura di vanillaedizioni.

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