Vita e avventure di Robinson Crusoe

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Daniel De Foe Vita e avventure di Robinson Crusoe www.liberliber.it

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Daniel De Foe

Vita e avventuredi

Robinson Crusoe

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Vita e avventure di Robinson CrusoeAUTORE: De Foe, DanielTRADUTTORE: Barbieri, GaetanoCURATORE: NOTE: In appendice: Memorie biografiche di Daniel DeFoe tratte da Walter Scott.

CODICE ISBN E-BOOK:

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

TRATTO DA: Vita e avventure di Robinson Crusoe /\Daniel De Foe! ; versione dall' inglese di GaetanoBarbieri. - Milano : Vedova di A. F. Stella e Giaco-mo figlio, 1838-39. - 5 v. 16 cm.

CODICE ISBN FONTE: mancante

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 12 maggio 2014

INDICE DI AFFIDABILITA': 1

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0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:Mario Sciubba Caniglia, [email protected]

REVISIONE:Paolo Oliva, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Mario Sciubba Caniglia, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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Indice generale

Volume I........................................................................13IL TRADUTTORE...................................................14I. Primi anni di gioventù...........................................17II. Fuga......................................................................23III. Una tempesta......................................................28IV. Soggiorno a Yarmouth........................................35V. Navigazione alla costa d'Africa............................38VI. Seconda navigazione alla costa d'Africa, schiavitùe fuga dalla schiavitù................................................41VII. Fermata per far acqua........................................51VIII. Continuazione di questa navigazione sino alBrasile.......................................................................61IX. Piantagione di zucchero fatta nel Brasile...........69X. Nuovo viaggio per la costa della Guinea e naufra-gio.............................................................................76XI. Il solo rimasto fra i naviganti.............................86XII. Le zattere...........................................................94XIII. Stanza di ricovero..........................................108XIV. Bilancio fra i beni e i mali..............................115XV. Disposizioni per provvedere ai maggiori comodidella casa edificata..................................................122XVI. Grata sorpresa................................................139XVII. Il tremuoto....................................................143XVIII. Effetti del tremuoto su gli avanzi del vascellonaufragato...............................................................150

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XIX. Malattia..........................................................155XX. Doppia guarigione...........................................163XXI. Nuovi ricolti e produzioni dell'isola..............172XXII. Casa sul lido e casa di villeggiatura.............178XXIII. Seminagione ed altri casalinghi lavori........183XXIV. Pellegrinaggio nell'isola..............................188XXV. Ritorno dal primo viaggio............................194XXVI. Pericoli minacciati alla messe e superati... .200

Volume II....................................................................208XXVII. Nuovi successivi lavori per una seminagionepiù ampia e per fare il pane....................................209XXVIII. La piroga..................................................217XXIX. Quinto anno; novelli arnesi, seconda piroga.................................................................................223XXX. Viaggio marittimo intorno all'isola..............235XXXI. Ritorno dalla parte del frascato e nuove casa-linghe occupazioni..................................................244XXXII. Viaggio per terra alla spiaggia innanzi cuiquasi pericolò la piroga...........................................255XXXIII. Timore di selvaggi sbarcati nell'isola.......259XXXIV. Mezzi di difesa e cautele di previdenza.. .271XXXV. Sospetti avverati........................................277XXXVI. Divisamenti or d'un genere or d'un altrodopo la scoperta fatta..............................................283XXXVII. Scoperta di una caverna..........................297XXXVIII. Sbarco di selvaggi su la costa occidentaledell'isola..................................................................305XXXIX. Naufragio d'un vascello...........................311XL. Viaggio per andar a bordo del vascello naufraga-

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to.............................................................................317XLI. Desiderio sempre più ardente di fuggire dall'iso-la e sogno................................................................325XLII. Fine della mia solitudine...............................335XLIII. Venerdì........................................................343XLIV. Educazione di Venerdì.................................350XLV. Nozioni religiose...........................................360XLVI. Scoperta importante.....................................369XLVII. Cantiere di costruzione...............................377XLVIII. Straordinario avvenimento........................382

Volume III...................................................................396XLIX. Il padre di Venerdì.......................................397L. Banchetto e consiglio di Stato............................403LI. Sbarco inaspettato.............................................414LII. Colloquio co' prigionieri..................................421LIII. Pronostico avverato........................................431LIV. Stratagemma riuscito......................................438LV. Ricuperazione del bastimento..........................445LVI. Partenza dall'isola...........................................454LVII. Arrivo in Inghilterra e partenza per Lisbona.461LVIII. Risposta venuta dal Brasile, e risoluzione ditornare alla patria per terra......................................469LIX. Prodezza di Venerdì.......................................479LX. Venerdì dà lezione di ballo all'orso.................485LXI. Battaglia co' lupi............................................492LXII. Continuazione del viaggio; arrivo in Inghilter-ra.............................................................................499LXIII. Male nell'osso medicato dalla bontà di unamoglie; sciagura non preveduta..............................506

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LXIV. Nuova navigazione intrapresa.....................514LXV. Incendio d'un bastimento..............................524LXVI. Atti di debita umanità e diversione ai Banchidi Terra Nuova........................................................530LXVII. Nuova diversione.......................................539LXVIII. Ritorno nell'isola, ricevimento avuto.......550LXIX. Indispensabile ricapitolazione di antichi eventie di una circostanze omessa....................................560LXX. I coloni spagnuoli, i tre mascalzoni cattivi, idue mascalzoni buoni.............................................566LXXI. Ulteriori attentati dei tre mascalzoni, loro di-sarmamento e sommessione...................................573

Volume IV...................................................................583LXXII. Sbarco di selvaggi......................................584LXXIII. Stato della colonia per tre successivi anni.................................................................................593LXXIV. I tre mascalzoni tornano ad imperversare.598LXXV. Migrazione de' tre mascalzoni e inaspettatoloro ritorno..............................................................605LXXVI. Aumento della colonia e nozze convertite inuna lotteria..............................................................613LXXVII. Fatale acquisto di nuovi schiavi che produ-ce uno sbarco ostile di selvaggi nell'isola...............623LXXVIII. Secondo sbarco di selvaggi più formidabiledel primo.................................................................637LXXIX. Cielo e terra che congiurano contro i selvag-gi; specie di civiltà derivatane a quelli che sopravvi-vono........................................................................646LXXX. Abitazione di Guglielmo Atkins................655

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LXXXI. Digressione su gli Spagnuoli....................660LXXXII. Providenze per la colonia e banchetto diperfetta riconciliazione...........................................667LXXXIII. Il prete cattolico.....................................676LXXXIV. Suggerimenti del prete cattolico lungo lavia...........................................................................683LXXXV. Rimorsi di Guglielmo Atkins..................697LXXXVI. Spionaggio innocente............................709LXXXVII. Duplice conversione.............................717LXXXVIII. Battesimo; nuove nozze e nuove pianta-gioni........................................................................731LXXXIX. Presente di una Bibbia; digressione nonpriva d'interesse; partenza dall'isola.......................742XC. Battaglia marittima, morte e sepoltura di Vener-dì.............................................................................755

Volume V.....................................................................767XCI. Sbarco; spedizione di nuovi coloni e sussidi al-l'isola; partenza dal porto di Tutti i Santi................768XCII. Arrivo a Madagascar; tregua fatta cogli abitan-ti, indi violata per colpa di qualche marinaio.........777XCIII. Curiosità di conoscere il destino del marinaiosmarrito. Atroce fine di quest'uomo; incendio; orridestragi che ne derivarono..........................................785XCIV. Partenza da Madagascar; arrivo a veggente delBengala; ammutinamento che travolge affatto l'ordinedei divisamenti di prima.........................................803XCV. Due viaggi e due ritorni; compera incauta d'unbastimento...............................................................812XCVI. Due altri viaggi, il secondo de' quali alla Chi-

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na. Conseguenza della compera incauta del bastimen-to dopo sei anni.......................................................822XCVII. Vittoria riportata su le cinque scialuppe, arri-vo alla baia di Tonchino..........................................827XCVIII. Sistema difensivo del tutto nuovo; arrivo al-l'isola Formosa........................................................836XCIX. Incontro del vecchio pilota portoghese; arrivoalla Spiaggia di Nang-King....................................845C. Abbandono improvviso della spiaggia di Nang-King; arrivo e alloggiamenti presi a Quinchang.....854CI. Mercanti giapponesi, padri della Missione, basti-mento della disgrazia partito senza i suoi proprietari ecol consenso di essi.................................................863CII. Gite di diporto; digressione su la China; partenzacol mandarino.........................................................873CIII. Incidenti del viaggio per Pekino; arrivo, incon-tro con una carovana di Moscoviti.........................880CIV. Partenza della carovana; gran muraglia dellaChina.......................................................................889CV. Caccia; primi affari co' Tartari; conseguenze delvoler comprare un cammello; combattimento co' Tar-tari Mongoli; arrivo alle frontiere della Moscovia. 896CVI. Descrizione di paesi della Tartaria moscovita;idolatria di que' Tartari; crociata d'un genere singola-re.............................................................................909CVII. Conseguenze della singolare crociata; descri-zione d'altri paesi della Moscovia, arrivo a Tobolsk.................................................................................927CVIII. Soggiorno a Tobolsk; conoscenza fatta con un

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esule moscovita d'alto conto...................................937CIX. Apparecchio della partenza; offerta fatta al prin-cipe russo; come accolta.........................................948CX. Partenza da Tobolsk; ultimo pericolo superato;arrivo a Londra.......................................................958

MEMORIE BIOGRAFICHEDIDANIELE DE FOÈTRATTEDA WALTER SCOTT.................................................970

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VITA E AVVENTURE

DI

ROBINSON CRUSOÈ.

VERSIONE DALL'INGLESE

DI

GAETANO BARBIERI.

VOLUME I.

MILANOVEDOVA DI A.F. STELLA E GIACOMO FIGLIO.

----------1838

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VOLUME I.

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IL TRADUTTORE

Premetter lodi all'opera inglese di cui presento or laversione, sarebbe cosa affatto superflua. Chi non ha let-to almeno una volta in sua gioventù il Robinson Cru-soè? Chi non ricorda volentieri nell'età matura le careimpressioni che ne ritrasse sin dall'infanzia? Non v'èquasi grande autore o filosofo che ove parli dell'uomodella natura o dell'onnipotenza dell'industria umana po-sta alle più dure prove, non citi or Venerdì, or Robinsoncol suo ombrello, or la scranna e le tavole che si fabbri-cava nella deserta sua isola. Si parla di Robinson comequasi si parlerebbe di Cook di Laperouse. Pochi nellageneralità sanno che sia vissuto Daniele di Foè, autoredi questa storia e di altre prose e poesie reputate, di cuidaremo qualche cenno in fine di questa edizione. Tuttis'immaginano di conoscere Robinson Crusoè.

Tanto più ordinaria apparisce una fortuna sì segnalatae durevole della predetta opera che, quando uscì, nonerano molti fuori dall'Inghilterra i quali conoscessero lalingua inglese in cui fu scritta; e tale imperizia trapelada una gran parte dalle versioni che ne sono state datefin qui; pur questa circostanza medesima non ne ha sce-mato lo spaccio.

Ma diminuisce la meraviglia in chi, dotto nell'inglesefavella, sa che la lindura dello stile non è nemmeno ilpregio del testo originale. Ne sono pregio la naturalezza

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delle immagini, l'ingenuità delle descrizioni, l'interessemantenuto costantemente ne' leggitori e queste preroga-tive sono tanto più da apprezzarsi poichè non le fasplender meno la trasandatura abituale dell'autore che, ocredesse dar maggiore verisimiglianza alle cose narrate,o non curasse, o non sapesse far meglio, perchè uomodell'infimo volgo ed educatosi quasi affatto da sè mede-simo, stendeva le sue relazioni come avrebbe tenuto unozibaldone per aiuto della sua memoria soltanto, e comese nessuno avesse dovuto mai leggerlo. Perciò, se nonbastava che ripetesse talvolta le cose raccontate già pocoprima, replicava spesso le stesse frasi in un periodo, glistessi periodi in una frase. In questa parte i traduttoriavrebbero reso miglior servigio a lui e a sè medesimi segli fossero stati alquanto infedeli; e dico a sè medesimiperchè chi non ha innanzi gli occhi il testo inglese, o chinon lo intende, rare volte perdona al traduttore le mendedell'autore.

Tale servigio avrei voluto io rendere a me stesso eagli editori che m'hanno affidato l'incarico di questa ver-sione, e ho fatto il possibile a tal uopo senza per altrorendermi, a mia saputa, colpevole di veruna alterazionedell'originale. Ma i casi delle trasandature dell'indicatogenere da riparare erano sì frequenti che ne avrò forsesfuggita una e sarò caduto in un'altra.

Spero ciò non ostante di avere raggiunto uno scopoche per me è sempre il primo: quello di serbare la chia-rezza del testo e possibilmente la forza dei concetti. Ri-spetto ai termini di marina io non ho mancato di consul-

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tare il reputatissimo vocabolario del chiaro nostro de-funto italiano, il senatore Stratico. Ove ho creduta utilequalche nota non l'ho omessa, giacchè l'autore non ne haposta di sorta alcuna se non quelle che fanno seguito algiornale di Robinson, ed entrano quindi nel corpo dell'o-pera.

Certo la mia fatica è stata maggiore che nol fu nel tra-durre Tom-Jones, gli Ultimi giorni di Pompei e NostraDonna di Parigi. Ma, benchè io non disperi che questamia versione del Robinson regga più che sufficiente-mente al confronto almeno di quante italiane ne son sta-te finor pubblicate in Italia, credo d'operare consigliata-mente se prego nel caso presente il pubblico ad essermigeneroso di compatimento come lo fu in casi diversid'un gentile aggradimento a troppo chiari indizii manife-stato.

GAETANO BARBIERI.

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I. Primi anni di gioventù.

Nacqui dell'anno 1632 nella città di York d'una buonafamiglia, benchè non del paese, perchè mio padre, nati-vo di Brema, da prima venne a mettere stanza ad Hull;poi fattosi un buono stato col traffico e dismesso indi ilcommercio, trasportò la sua dimora a York; nella qualcittà sposò la donna divenuta indi mia madre. Appartie-ne questa alla famiglia Robinson, ottimo casato del pae-se; onde io fui chiamato da poi Robinson Kreutznaer,ma per l'usanza che si ha nell'Inghilterra di svisar le pa-role, siamo or chiamati anzi ci chiamiamo noi stessi, e cisottoscriviamo Crusoe, e i miei compagni mi chiamaro-no sempre così.

Ebbi due fratelli maggiori di me, un de' quali, tenen-te-colonnello in un reggimento di fanteria inglese, servìnella Fiandra, prima sotto gli ordini del famoso colon-nello Lockhart, poi rimase morto nella battaglia accadu-ta presso Dunkerque contro agli Spagnuoli. Che cosa di-venisse dell'altro mio fratello non giunsi a saperlo maipiù di quanto i miei genitori abbiano saputo in appressoche cosa fosse divenuto di me.

Terzo della famiglia, nè essendo io stato educato adalcuna professione, la mia testa cominciò sin di buon'oraad empirsi d'idee fantastiche e girovaghe. Mio padre,uomo già assai vecchio, che mi aveva procurata unadose ragionevole d'istruzione, fin quanto può aspettarsi

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generalmente da un'educazione domestica e dalle scuolepubbliche del paese, mi destinava alla professione lega-le; ma nessuna vita mi garbava fuor quella del marinaio,la quale inclinazione mi portò sì gagliardamente controal volere, anzi ai comandi di mio padre, e contro a tuttele preghiere e persuasioni di mia madre e degli amici,che si sarebbe detto esservi nella mia indole una tal qua-le fatalità, da cui fossi guidato direttamente a quella mi-serabile vita che mi si apparecchiava.

Mio padre, uom grave e saggio, mi avea dati seri edeccellenti consigli per salvarmi da quanto egli presentìessere il mio disegno. Mi chiamò una mattina nella suastanza ove lo confinava la gotta, e lagnatosi caldamentemeco su questo proposito, mi chiese quali motivi, oltread un mero desiderio di andar vagando attorno, io m'a-vessi per abbandonare la mia casa ed il mio nativo pae-se, ove io poteva essere onorevolmente presentato inogni luogo, e mi si mostrava la prospettiva di aumentareil mio stato, l'applicazione e l'industria, e ad un tempo lasicurezza di una vita agiata e piacevole. “Sol per duesorte d'uomini, egli mi diceva, è fatto il cercare innalza-mento e fama per imprese poste fuori della strada comu-ne: per gli spiantati e per coloro ai quali ogni ricchezza,ogni ingrandimento sembrano pochi. Or tu sei troppo aldi sopra o al di sotto di questi; la tua posizione e in unostato mediocre, in quello stato che può chiamarsi il pri-mo nella vita borghese, posizione che una lunga espe-rienza mi ha dimostrata siccome la migliore del mondo,e la meglio adatta all'umana felicità; non esposta alle

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miserie e ai travagli che son retaggio della parte di gene-re umano costretta a procacciarsi il vitto col lavoro delleproprie braccia; e nemmeno agitata dalla superbia, dallusso, dall'ambizione e dall'invidia ond'è infetta la partepiù alta dell'umanità. Puoi argomentare la beatitudine diun tale stato da una cosa sola: dall'essere cioè desso lacondizione invidiata da tutto il resto degli uomini; spes-se volte gli stessi re hanno gemuto sulle triste conse-guenze dell'esser nati a troppo grandi cose, onde moltidi loro si sarebbero augurati vedersi posti nel mezzo deidue estremi, tra l'infimo e il grande. Poi ti ho mai datoaltre prove, altri esempi io medesimo? Ho sempre ri-guardata una tal condizione come la più giusta misuradella vera felicita, e ho pregato costantemente il Signoreche mi tenesse ugualmente lontano dalla povertà e dallaricchezza. Imprimiti ciò bene nella mente, figliuolo.Troverai sempre che le calamità della vita sono distri-buite fra la più alta e la inferior classe del genere uma-no; e che uno stato mediocre, soggetto a minori disgra-zie, non è esposto alle tante vicende cui soggiacciono ipiù grandi o i più piccoli fra gli uomini; chi si contentadella mediocrità, non patisce tante malattie e molestiesia di corpo, sia di mente, quante i grandi, o gl'infimi:quelli consumati dal vivere vizioso, dalla superfluità deipiaceri e dalle medesime loro stravaganze; questi logo-rati da un'improba e continua fatica, dalla mancanza del-le cose necessarie, e da uno scarso ed insufficiente nu-drimento, traggono sopra sè stessi quante infermità ven-gono in conseguenza del sistema loro di vivere. Aggiu-

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gni, la condizione media della vita è fatta per ogni sortadi virtù e per ogni sorta di godimenti; la pace e l'abbon-danza sono ai comandi di quest'aurea mediocrità; latemperanza, la moderazione, la tranquillità, la salute, labuona compagnia, ogni diletto degno di essere desidera-to, vanno necessariamente connessi con lei. Per essa gliuomini trascorrono pacatamente e soavemente la pere-grinazione di questo mondo, e ne escono piacevolmente,non travagliati da fatiche di braccia o di capo, non ven-duti alla schiavitù per accattarsi il giornaliero loro pane,non angustiati da perplessità che tolgono la pace all'ani-ma e il riposo al corpo; non lacerati dalla passione del-l'invidia o dal segreto rodente verme dell'ambizione cheli faccia aspirare a grandi cose; guarda come, posti incircostanze non mai difficili, attraversino la carriera del-la vita gustandone le soavità senza provarne l'amaro,sentendo di esser felici, e imparando da una giornalieraesperienza di essere ogni giorno più. Dunque sii uomo;non precipitarti da te medesimo in un abisso di sventurecontro alle quali la natura e la posizione in cui sei nato,sembrano averti premunito; non sei tu nella necessità dimendicarti il tuo pane. Quanto a me, son disposto a fartidel bene e ad avviarti bellamente in quella strada che tiho già raccomandata come la migliore; laonde se non titroverai veramente agiato e felice nel mondo, ne avran-no avuto unicamente la colpa o una sfortuna non preve-dibile o la tua mala condotta, venute ad impedirti sì lietodestino. Ma non avrò nulla da rimproverare a me stesso,perchè mi sono sdebitato del mio obbligo col farti cauto

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contro a quelle tue risoluzioni che vedo doverti riuscirerovinose. Son prontissimo dunque a far tutto a tuo favo-re, se ti determini a rimanertene in mia casa e ad accet-tare un collocamento quale te l'ho additato; ma altresìnon coopererò mai alle tue disgrazie col darti verunasorta d'incoraggiamento ad andartene. Guarda tuo fratel-lo maggiore al quale avevo fatte le stesse caldissime in-sinuazioni per rattenerlo dal portarsi alle guerre de' Pae-si Bassi; ah! non riuscii a vincere in quel giovinetto l'ar-dente voglia di precipitarsi in mezzo agli eserciti! Chegli accadde? vi rimase ucciso. Ascoltami bene; io certonon cesserò mai dal pregare il Cielo per te; pure m'arri-schierei dirti che se t'avventuri a questa risoluzione in-sensata, Dio non t'accompagnerà con la sua benedizio-ne; e pur troppo per te avrai tutto il campo in appresso apentirti d'aver trascurati i suggerimenti paterni; ma ciòavverrà troppo tardi, e quando non vi sarà più alcunoche possa accorrere in tuo scampo”.

Notai, durante quest'ultima parte del suo discorso, chefu veramente profetica, benchè, io suppongo, quel po-ver'uomo non sapesse egli stesso quanto profetizzasse laverità; notai, dissi, come gli scorressero copiose lagrimeper le guance, allorchè principalmente parlommi delmio fratello rimasto ucciso; così pure allorchè mi disseche avrei avuto campo a pentirmi quando non vi sarebbestato chi mi potesse scampare: in quel momento apparvesi costernato, che troncò di botto il discorso, e mi disse:

‒ “Ho troppo gonfio il cuore per poterti dire altrecose”.

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Fui sinceramente commosso da una tale ammonizio-ne; e da vero come avrebbe potuto essere altrimenti?commosso tanto, che determinai in quel momento dinon pensare più a girare il mondo, ma di mettermi di pièfermo in mia casa come mio padre lo desiderava. Maoimè! pochi giorni si portarono via tutti questi miei pro-positi; ed alla presta, per impedire ogni ulteriore solleci-tazione del padre mio, risolvei di fuggirmi da lui entropoche settimane; pur non feci nè sì sollecitamente nè inquel modo che nell'impeto della mia risoluzione avevadivisato; ma, tratta in disparte mia madre in un momen-to ch'ella mi parve di buon umore più che d'ordinario, ledissi come le mie idee fossero affatto vôlte al desideriodi vedere il mondo. ‒ “Già, io continuai, con tale bramaardentissima in me non potrò mai combinare nessun'al-tra delle cose propostemi; mio padre farebbe meglio aconcedermi il suo assenso, anzichè costringermi ad an-darmene senza averlo ottenuto. Ho già diciotto annicompiuti, età troppo tarda per entrare alunno in una casadi commercio o nello studio di un avvocato; io sono bensicuro che se mi prestassi a ciò, non compirei il terminedel mio alunnato, e fuggirei prima del tempo dal mioprincipale per mettermi in mare. O madre mia! se vole-ste impiegare una vostra parola presso mio padre, affin-chè mi lasciasse una volta soltanto fare un viaggio din-torno al mondo, tornato a casa, ove tal vita non mi con-ferisse, non parlerei più d'andarmene: in tal caso, ve loprometto io, raddoppierei di diligenza, e saprei riguada-gnare il tempo perduto”.

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Ciò pose mia madre nella massima agitazione.‒ “Non vedo, ella disse, come una tal proposta possa

mai venire fatta a tuo padre. Egli sa troppo bene qualisieno i tuoi veri interessi per prestare giammai il suo as-senso ad un partito di tanto tuo scapito; non capisconemmeno come tu possa pensar tuttavia a cose di similnatura dopo il discorso di tuo padre, e dopo sì tenere edamorose espressioni che adoperò teco; perchè io lo soqual discorso ti ha tenuto. Figliuolo caro, se vuoi rovi-narti da te medesimo, non sarò io quella che t'aiuti a far-lo; sta pur sicuro che l'assenso de' tuoi genitori non l'ot-terrai in eterno. Quanto a me, certamente non voglio ilrimorso di aver prestata mano alla tua distruzione, nèche tu abbi mai a dire un giorno: Mia madre acconsenti-va ad una cosa che mio padre disapprovava”.

Benchè mia madre ricusasse far parola di ciò a suomarito, pure, come lo riseppi in appresso, gli riferì tuttoquesto discorso, e mio padre dopo essersene molto co-sternato, le disse mettendo un sospiro:

‒ “Questo ragazzo potrebbe esser felice rimanendo acasa sua; ma se si da a vagare pel mondo, sarà il più mi-serabile uomo fra quanti nacquero su la terra; non possoacconsentire a ciò”.

II. Fuga.

Sol quasi un anno dopo io ruppi il freno del tutto;benchè in questo intervallo avessi continuato a mostrar-

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mi ostinatamente sordo ad ogni proposta di dedicarmi aqualche professione, e benchè frequentemente mi fossiquerelato de' miei genitori per questa loro volontà, sìfermamente dichiarata contro a quanto sapevano essere,com'io diceva, la decisa mia vocazione. Ma trovatomiun giorno ad Hull, ove capitai a caso e in quel momentosenza verun premeditato disegno, incontrai uno de' mieicompagni, che recandosi allora a Londra per mare sopraun vascello del padre suo, mi sollecitò ad accompagnar-lo col solito adescamento degli uomini di mare: col dir-mi cioè, che un tal viaggio non mi sarebbe costato nulla.Non consultai nè mio padre nè mia madre, nè tampocomandai a dir loro una parola di ciò; ma lasciai che lo sa-pessero come il Cielo lo avrebbe voluto, e partii senzachiedere nè la benedizione di Dio, nè quella di mio pa-dre; senza badare a circostanze o conseguenze; e partiiin una trista ora: Iddio lo sa!

Nel primo giorno di settembre del 1651 mi posi a bor-do di un vascello diretto a Londra. Non mai sventure digiovine avventuriere incominciarono, cred'io, più presto,o continuarono più lungo tempo, come le mie. Il vascel-lo era appena uscito dell'Humber1 quando il vento co-minciò a soffiare e l'onde a gonfiarsi nella più spavente-vole guisa. Io che per innanzi non era mai stato in mare,mi trovai in un ineffabile modo travagliato di corpo edavvilito di animo. Allora cominciai seriamente a riflette-re su quanto avevo fatto, e come giustamente io fossi

1 Uno de' maggiori fiumi dell'Inghilterra formato dall'Ouse e dal Trent, frale contee di York e di Lincoln.

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colpito dalla giustizia del Cielo per avere abbandonatocosì malamente la casa di mio padre e posto in non caleogni mio dovere. Tutti i buoni consigli de' miei genitori,le lagrime di mio padre, le preghiere di mia madre, mi sirinfrescarono alla memoria; e la mia coscienza che nonera anche giunta a quell'eccesso d'indurimento, cui per-venne più tardi, mi rinfacciava il disprezzo de' suggeri-menti ricevuti e la violazione de' miei obblighi versoDio e i miei genitori.

Intanto infuriava la procella, e il mare, ove io non miera trovato giammai, divenne altissimo, benchè nonquanto io l'ho veduto molto tempo dopo, e nemmenquanto lo vidi pochi giorni appresso; ma era abbastanzaper atterrire in allora un giovine navigatore come me,chè non sapeva nulla di tali cose. Io m'aspettava cheogni ondata ne avrebbe inghiottiti, e che ogni qualvoltail vascello cadeva, io la pensava così, entro una concavi-tà apertasi tra un cavallone ed un altro, non ci saremmorialzati mai più; in questo spasimo della mia mente feciparecchi voti e risoluzioni che se mai fosse piaciuto aDio di risparmiar la mia vita in quel viaggio, se mai ilmio piede avesse toccato terra, sarei corso direttamentealla casa di mio padre, nè mai più mi sarei imbarcato inuna nave finchè fossi vissuto; ch'io mi sarei d'allora inpoi attenuto ai suggerimenti paterni, nè mi sarei mai piùgettato in simili miserie, come quelle che mi circonda-vano. Allora io vedea pienamente la saggezza delle os-servazioni fattemi dal padre mio sopra uno stato medio-cre di vita; come agiatamente, come piacevolmente egli

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era vissuto per tutti i giorni suoi senza essersi mai espo-sto ad infortuni nè di mare nè di terra. Era risoluto ditornarmene, come il figlio prodigo pentito, alla casa delmio genitore.

Questi saggi e moderati pensieri durarono quanto laprocella, e per dir vero qualche tempo ancora dopo; manel dì successivo quando il vento fu rimesso e il marepiù tranquillo, cominciai ad assuefarmici alquanto me-glio. Nondimeno mi sentiva molto depresso in quelgiorno essendo tuttavia travagliato un poco dal male dimare; ma sul tardi il cielo si era schiarito, il vento cessa-to del tutto, e sopravvenne una bellissima deliziosa sera;il sole tramontò affatto chiaro, e chiaro risurse nella suc-cessiva mattina; e spirando o poco o nessuna sorta divento, ed essendo placido il mare che rifletteva i raggidel sole, tal vista sembrommi la più incantevole che mifosse apparsa giammai.

Avevo dormito bene la notte; or non sentivo più ilmal di mare, e prosperoso di salute andavo contemplan-do con istupore come la marina, sì irritata e terribile nelgiorno innanzi, potesse essere tanto cheta e piacevoledopo sì breve tempo trascorso.

Allora il mio compagno per paura che continuasserole mie buone risoluzioni, perchè era stato lui che m'aveasedotto a fuggire da casa, mi si accostò battendomi ami-chevolmente con una mano la spalla e dicendomi:

‒ “Ebbene, come vi sentite adesso, bell'uomo? Vi sodir io che eravate ben impaurito; non lo eravate, quandosoffiò quel po' d'aria brusca?

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‒ Un po' d'aria brusca, lo dite voi? io gli risposi; fuuna tremenda burrasca.

‒ Una burrasca, impazzite? egli replicò. Chiamatequella una burrasca? Non lo fu niente affatto. Datene unbuon vascello e una bella deriva2, come avevamo, e cipensiamo ben noi a colpi di vento, quale fu questo! Voisiete ancora un nocchiere d'acqua dolce, amico mio, an-diamo; seppelliamo tutto ciò entro un bowl3 di punch.Vedete che bel tempo fa adesso?”

Per accorciare questa trista parte della mia storia, fa-cemmo come tutti i marinai: il punch dirò che fu appa-recchiato, io m'ubbriacai, e negli stravizi di quell'unicanotte affogai tutto il mio pentimento, tutte le mie rifles-sioni su la mia passata condotta, tutti i miei fermi propo-siti per l'avvenire. In una parola, appena il mare fu tor-nato alla sua uniformità di superficie ed alla sua primaplacidezza col cessare della procella, cessò ad un tempolo scompiglio de' miei pensieri; le mie paure di rimanereinghiottito dalle onde furono dimenticate, e, trasportatodalla foga degli abituali miei desiderii, mi scordai affat-to delle promesse e dei voti fatti nel momento dell'ango-scia. Mi sopravvennero, non lo nego, alcuni intervalli diriflessione e di seri pensieri, che a volta a volta m'avreb-bero persuaso a tornarmene addietro; ma io facea prestoa scacciarli come malinconie da non farne caso, ed a fu-

2 Cioè spazio di mare ove non si rischi di trovare scogli coperti.3 Vaso di maiolica e porcellana, entro cui si prepara il punch, e attorno al

quale s'adunano in brigata soprattutto, i marinai traendone con una mestola dimetallo la bevanda che versano ne' loro bicchieri.

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ria di bevere coi compagni, giunsi a rendermi padrone diquesti tetri accessi di demenza, perchè io li chiamavacosì, affinchè non tornassero; di fatto in cinque o seigiorni riportai tal compiuta vittoria su la mia coscienza,qual può desiderarla ogni giovine spensierato che si ri-solva a non voler lasciarsi disturbare da essa.

Pure soggiacqui tuttavia ad un'altra prova che avrebbepotuto farmi ravvedere, perchè la Providenza, come fageneralmente in simili casi, avea risoluto di lasciarmi af-fatto privo di scuse; e da vero, ancorchè non avessi vo-luto ravvisare un salutare avvertimento nella prima, laseconda doveva esser tale, che il peggiore e l'uomo dicuor più duro fra noi, non potea non confessare il peri-colo e ad un tempo la grandezza della divina misericor-dia.

III. Una tempesta.

Nel sesto giorno della nostra navigazione toccavamole spiagge di Yarmouth; chè essendone stato contrario ilvento, e avendo trovato bonaccia facemmo ben pococammino dopo la sofferta burrasca. Qui fummo costrettivenire all'áncora, e vi rimanemmo per sette o otto gior-ni, perchè il vento che spirava da libeccio (sud-west),continuava ad esserci contrario; in questo intervallo ungrande numero di grosse navi, provenienti da Newca-stle, convennero alle medesime spiagge come rifugiocomune, ove ogni naviglio poteva aspettare un vento

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propizio per raggiugnere il Tamigi. Pure non v'era unanecessità che ancorassimo ivi sì lungo tempo, ed avrem-mo potuto entrarvi facendo fronte alla marea se fossestato meno forte il vento, che dopo essere noi rimasti lìquattro o cinque giorni divenne poscia gagliardo oltreogni dire. Ciò non ostante quelle spiagge venendo ri-guardate buone come un porto, ottime essendo le nostreancore e gagliardissimi i loro attrezzi, la nostra brigatanon se ne dava quasi per intesa, e senza sospettar nem-meno il pericolo, impiegava il tempo nel riposo e nell'al-legria ad usanza de' marinai. Ma nell'ottavo giorno, cre-sciuto in guisa straordinaria il vento, tutte le braccia fu-rono all'opera per abbassare i nostri alberi di gabbia, eserrare e difendere tutto all'intorno, affinchè la nostranave potesse restare all'áncora il meglio che fosse possi-bile. Verso mezzogiorno la marea si fece altissima; ilnostro castel di prua pescava l'acqua, la nave riceveva abordo parecchie ondate, e tememmo per due o tre volteche l'áncora arasse terra: per lo che il nostro capitano or-dinò si gettasse l'áncora di soccorso; sì che ci appoggia-vamo su due áncore al davanti di noi, e le nostre gome-ne erano tirate da un capo all'altro.

Allora infierì davvero terribile quanto mai la burra-sca; allora cominciai a leggere la paura e l'avvilimentosu i volti de' medesimi marinai. Il capitano si dava conla massima vigilanza all'opera per preservare la nave;ma mentre, or tornava nella sua camera, or ne venivapassandomi da vicino, potei udirlo quando disse parec-chie volte fra sè medesimo: Dio, abbiateci misericor-

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dia! saremo tutti perduti, tutti morti! e cose simili. Du-rante i primi scompigli io rimaneva istupidito tuttavianella mia camera, posta dinanzi alla paratia4 della gran-de, nè potrei descrivere qual fosse lo stato dell'animomio. Mal sapevo in allora ripetere que' primi atti di pen-timento ch'io avea sì apertamente posto in non cale, econtro cui si era indurito il mio cuore; pensavo che an-che l'orrore della morte fosse passato; che anche questatempesta finirebbe in nulla come la prima; ma quando lostesso capitano venutomi da presso disse egli medesimo,come ho raccontato, che saremmo tutti perduti, non soesprimere quanto orridamente restassi atterrito. Uscitoin fretta della mia camera, guardai al di fuori. Oh! i mieiocchi non si sono mai incontrati in una sì spaventosa ve-duta: il mare si accavallava in montagne che si rompe-vano sopra di noi ad ogni tre o quattro minuti. Quandopotei guardare all'intorno, mi trovai circondato dalla de-solazione per ogni dove; due navi che stavano all'áncorapresso di noi avevano per alleggerirsi di carico, tagliatoi loro alberi rasente la coperta; la nostra ciurma gridavache una nave ancorata un miglio all'incirca dinanzi a noiera sommersa. Due altre navi staccate dalle loro ancorevenivano trasportate alla ventura, e ciò dopo aver perdu-ti tutti i loro alberi. I più piccioli navigli se la scampava-no meglio siccome quelli che erano meno travagliati dalmare; pure ci passarono da presso due o tre di essi va-ganti in balia delle onde con le sole vele di civada espo-

4 Così chiamasi l'andito che serve d'anticamera alla stanza del capitano.

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ste al vento. Verso sera il capitano e il bosmano venneroa proporre al nostro capitano che si tagliasse l'albero ditrinchetto, cosa dalla quale questi grandemente rifuggi-va; nondimeno il bosmano avendo protestato che se ilsuo superiore persisteva nell'opporsi a tale espediente, lanave sarebbe colata a fondo, questi acconsentì; ma poi-chè l'albero di trinchetto fu tagliato, l'albero di maestrarimasto isolato dava tali scosse alla nave che fu forza ta-gliare esso pure, onde il ponte rimase diradato del tutto.

Lascio giudicare a chicchessia in qual condizione mifossi all'aspetto di tutti questi oggetti, io inesperto almare, e che ero rimasto sì spaventato a quanto poteaquasi dirsi un nulla. Pure se in tanta distanza di tempo ioposso ancora raccapezzare i pensieri che mi agitaronoallora, io era dieci volte più inorridito dal pensare al mioprimo pentimento ed alla mia ribalderia di essere tornatodopo di questo alle antiche risoluzioni, che a quello del-la stessa morte; il quale orrore aggiunto allo spaventoprodotto in me dalla burrasca, mi pose in tal deplorabilecondizione che non vi sono parole atte a descriverla. Mail peggio non era anche venuto; la procella imperversavacon tanto furore che i più provetti marinai confessavanodi non averne veduta mai una peggiore. Certo avevamouna buona nave, ma enormemente carica, e si abbassavatanto che i marinai gridavano ad ogni momento: è lì lìper andare per occhio5. Fu mia fortuna per una parte il

5 Andare per occhio presso i marinai italiani, massime veneti, si dice di unanave che afffondi. L'autore inglese qui si è servito di una parola che non era in-tesa nel suo vero senso da Robinson; io le ho sostituita quest'altra che certo un

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non capire che andar per occhio presso i marinai equiva-lesse a sommergersi, cosa che domandai solamente inappresso. Pure la tempesta era sì violenta che vidi, cosanon solita a vedersi di frequente, il capitano, il bosmanoed alcuni altri più esperti del rimanente dei naviganti,gettarsi in orazione, come se si aspettassero ad ogniistante di veder la nave ingoiata dall'onde. Nel mezzodella notte, quasi non avessimo abbastanza disgrazie, unmarinaio calato abbasso per fare delle osservazioni gri-dò forte: Si è aperta una via d'acqua! Un altro gridò:L'acqua è alta quattro piedi sopra la stiva! Allora lebraccia d'ognuno furono chiamate alle trombe. A questocomando mi sentii morire il cuore, e caddi a spalle ad-dietro sul mio letto ove stavo seduto. Ma gli altri venne-ro a scuotermi da quella specie di letargo dicendomi:

‒ “Olà! voi che non eravate buono a far nulla poc'an-zi, sarete almeno buono a tirar su acqua al pari di un al-tro”; alla quale chiamata io mi mossi; e portatomi allatromba lavorai col massimo buon volere. Mentre ciò sistava facendo, il capitano vedendo alcuni leggeri pali-schermi che impotenti a difendersi dalla burrasca e co-stretti ad abbandonarsi in balìa dell'onde non poteronoavvicinarsi a noi per soccorrerci, ordinò si sparasse ilcannone come segnale di disastro. Io, ignorando affattoche cosa questo significasse, rimasi sì sbalordito, chem'immaginai fosse naufragata la nave o avvenuto qual-che altro spaventevole caso. Non vi dico altro: il mio at-

Italiano non comprende in tale significato se non gli viene spiegata o se non èun uomo di mare.

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terrimento fa tale, che caddi svenuto. Poichè quello eraun momento in cui ciascuno faceva abbastanza se pen-sava alla propria vita, non vi fu chi mi badasse o cercas-se che cosa mi fosse avvenuto. Un altro uomo venne inmia vece alla tromba, e spintomi da una banda con uncalcio, mi lasciò lì credendo che fossi morto; ci volle ungran tempo prima ch'io ricuperassi i miei sensi.

Continuammo a lavorare; ma crescendo sempre l'ac-qua nella stiva, tutte le apparenze mostravano che lanave fosse per affondarsi; e se bene il temporale comin-ciasse un poco a rimettersi, non si vedeva una possibilitàche essa stesse a galla quanto tempo bastava per entrarein porto; onde il capitano continuò ad ordinare gli sparisoliti a farsi in tali circostanze per domandare soccorso.Un bastimento leggero che stava all'áncora dinanzi anoi, si arrischiò a spedirci una barca. Non senza gravepericolo questa si avvicinò alla nostra nave; ma nè a noiera possibile il lanciarci a bordo di essa, nè a quella ilvenire rasente al fianco del nostro legno pericolante. Fi-nalmente que' navicellai vogando di tutto cuore, e av-venturando le proprie vite per salvar le nostre, ci furonotanto a tiro che i nostri marinai da star su la poppa getta-rono in mare una corda col segnale galleggiante attacca-to in fondo di essa; poi la filarono a tanta lunghezza chei navicellai della barca opposta, non senza grande faticae pericolo, l'attaccarono ad essa, onde potemmo tirare lanavicella a tanta aderenza con la nostra poppa che neriuscì a tutti il gettarvici entro. Poichè fummo nella bar-ca non conveniva nè ad essi nè a noi il raggiugnere la

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loro nave; quindi ognuno convenne di lasciarla costeg-giare, e di non pensare ad altro che a vogare più che sipotea verso la riva. Il nostro capitano promise loro chese la barca vi si fosse rotta contro, ne avrebbe rifatti idanni al proprietario; così, parte remigando, parte ab-bandonandoci alla marea verso tramontana, la barca ar-rivò di sghembo quasi vicino a Winterton-Ness.

Non era passato un quarto d'ora da che eravamo fuoridella nostra nave, quando la vedemmo affondarsi, e al-lora intesi per la prima volta che cosa volesse dire anda-re per occhio. Devo confessare che mi ero poco accortoallorchè i marinai mi dissero che le sovrastava questopericolo, perchè era sì fuor di me, che quando si dovetteabbandonare la nave, fui gettato nella barca più di quan-to potessi dire d'esserci entrato. Il mio cuore era comemorto, parte per l'atterrimento del presente, parte per lapaura di quanto mi stava tuttavia in prospettiva.

Eravamo in tale stato, ed i navicellai non davano tre-gua al remo per avvicinare la barca alla spiaggia. Ogniqualvolta la barca stessa veniva sollevata dall'onde, po-tevamo vedere e la terra e molta gente affollata per lecontrade, pronta ad aiutarci appena saremmo stati vicini;ma camminavamo ben lentamente verso la spiaggia, nèpotemmo raggiugnerla se non quando, passato il faro diWinterton, essa s'internava a ponente nella dirittura diCromer, la qual giacitura ruppe alcun poco la violenzadel vento. Qui, non senza per altro molta difficoltà cer-tamente, prendemmo terra sani e salvi. Portatici indi conle nostre gambe fino a Yarmouth, quivi fummo accolti

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con una umanità corrispondente alla nostra grande scia-gura, sia dalle magistrature della città che ne fecero as-segnare buoni alloggiamenti, sia dai privati negozianti eproprietari di navi. Quivi pure ci fu somministrato ba-stante danaro per trasportarci a Londra, o tornare addie-tro ad Hull come ne fosse meglio piaciuto.

IV. Soggiorno a Yarmouth.

Se avessi avuto il giudizio di appigliarmi al secondodi tali espedienti e di tornarmene a casa, sarebbe statauna grande fortuna per me; e certo il padre mio, emble-ma della parabola del nostro Salvatore, avrebbe anch'e-gli fatto macellare un grasso vitello al mio arrivo; per-chè il povero uomo avendo udito come la nave entro cuim'ero partito, fosse naufragata dinanzi alle coste di Yar-mouth, gli volle un gran pezzo prima di avere la sicurez-za ch'io non fossi rimasto annegato.

Ma il mio cattivo destino mi trascinava con una perti-nacia cui nulla poteva resistere; e benchè parecchie vol-te sentissi forti richiami fattimi dalla mia ragione e dallepiù calme mie considerazioni, non ebbi forza di arren-dermi a queste voci. Io non so come chiamare (nè so-sterrò che sia questo un preponderante misterioso decre-to) ciò che ne spinge ad essere gli stromenti della pro-pria nostra distruzione, ancorchè essa ne sia manifesta, evi ci precipitiamo entro ad occhi aperti. Certamente nul-l'altro che qualche cosa di simile ad un tale decreto,

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qualche cosa di connesso ad inevitabile sciagura, cui miera impossibile il sottrarmi, può avermi tratto ad ostinar-mi contro ai freddi ragionamenti e alle persuasioni deimiei più raccolti pensieri, e contro a due lezioni tantopotenti, siccome quelle che mi occorsero nel primo miotentativo.

Il mio collega, quegli che dianzi avea tanto contribui-to a confermarmi ne' miei tristi propositi, figlio, comedissi, del capitano, si mostrava anche men coraggioso dime, quando gli parlai la prima volta da che fummo aYarmouth, cioè passati due o tre giorni, perchè nella cit-tà eravamo stati distribuiti in separati quartieri. La primavolta dunque che mi vide, parea d'un fare tutto diverso,e aveva una cera assai malinconica, quando mi chiesecome stessi. Egli era in compagnia di suo padre, al qualedisse chi io fossi, e come avessi impreso questo viaggioin via soltanto di esperimento, e con idea di procederemolto più in là. Il capitano voltosi a me disse con accen-to grave e solenne:

‒ “Il mio giovine, voi dovete lasciar da banda ognipensiere di rimettervi in mare, e ravvisare in quanto vi èavvenuto un pieno e visibile contrassegno, che la vostravocazione non e quella del navigante.

‒ Perchè, signore? gli chiesi; voi non contate più ditornare in mare?

‒ Il mio caso è diverso; tale è la mia professione, equindi anche l'obbligo mio; ma poichè voi avete fattoquesto viaggio in via di prova, dal gusto che ci aveteavuto, potete capire qual ne ritrarrete in appresso se per-

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sistete. Forse la disgrazia che n'è toccata, ci è venuta percagion vostra, come occorse alla nave di Tarso che por-tava Giona. Di grazia, per qual congiuntura vi trovasteimbarcato con noi?”

Raccontatogli allora qualche cosa della mia storia, siabbandonò ad una specie di stravagante collera, quandofinii di parlare.- “Che cosa ho mai fatto io, egli esclamò, perchè mi ve-nisse l'ispirazione di prendermi nella nave un tal misera-bile? Non metterei più il piede in una stessa nave con te,per un migliaio di sterlini”.Questa per altro fu una scappata della sua testa tuttaviaconturbata dal sentimento della perdita fatta, perchè ve-ramente eccedè in tal suo dire tutti i limiti della ragione-volezza e della civiltà. Nondimeno mi parlò in appressocon molto senno e posatezza, esortandomi a cercar nuo-vamente la casa del padre mio, e a non tentare di più laProvidenza, s'io non voleva vedere la mia rovina; pre-tendea riconoscessi in ciò la mano del Cielo, che si chia-riva contro di me.

‒ “Giovine mio, egli concluse, tenetevi ben per sicuroche se non tornate addietro, ovunque andiate, non trove-rete altro che disastri ed afflizioni, finchè i presagi delpadre vostro sieno avverati del tutto”.

Dopo di questo ci separammo; chè ben poche cose iogli risposi: indi nol vidi più. Che strada abbia tenuto inappresso, lo ignoro; quanto a me, avendo un po' di dana-ro nella mia borsa, m'avviai per terra a Londra, e così inquesta città come lungo il cammino ebbi molte lotte con

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me medesimo in ordine al genere di vita che avrei ab-bracciato, sempre perplesso fra il tornare a casa ed il ri-mettermi in mare. Circa il tornare a casa, la vergognarintuzzava sempre quanti migliori pensieri potessero na-scermi in mente, perchè la prima idea ad occorrermi, eraquella della derisione che avrei trovata fra i miei concit-tadini, onde arrossivo non solamente di rivedere mio pa-dre e mia madre, ma qualunque altra persona. Da quelmomento ho fatto più volte una considerazione: come,cioè, sia incoerente ed assurda in generale, l'indole uma-na nell'istituire quei raziocini che dovrebbero guidarci insimili casi; non si ha vergogna della colpa, ma bensì delpentimento; non ci vergognamo di un'azione che ne me-rita giustamente il credito di stolti, ma di un ravvedi-mento che solo potrebbe rimeritarci il nome di saggi.

V. Navigazione alla costa d'Africa.

Rimasi nondimeno qualche tempo in questa incertez-za sul partito al quale mi sarei attenuto; ma l'invincibilecontrarietà a rimpatriare continuava sempre a prevalere;e mentre io m'interteneva in questa discussione con memedesimo, la ricordanza dei precedenti disastri svanivadel tutto, e svanita questa, svanì del pari ogni mia ten-denza al ritorno, onde finalmente dismessane ogni idea,non pensai più che ad intraprendere un viaggio. Quellamalaugurosa manía che mi portò la prima volta fuoridella casa paterna, che spinse la mia mente in un deside-

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rio vago e mal inteso di far fortuna, che s'impossessò dime al segno di rendermi sordo a tutti i buoni consigli,alle preghiere e perfino ai comandi del padre mio, quellastessa malaugurata manía presentò alla mia scelta il piùsgraziato degl'intraprendimenti: mi posi a bordo di unanave destinata alla costa dell'Africa, o, come soglionochiamar ciò gli uomini di mare, ad un viaggio nella Gui-nea.

Fu una grande sventura la mia, che in tutte questespedizioni io non m'imbarcassi mai come soldato di ma-rina. Avrei, per dir vero, sofferto patimento più che co-mune, ma avrei ancora imparati i doveri e gli ufizi d'unmarinaio, ed avrei potuto a suo tempo divenire bosmanoo tenente, se non capitano; ma essendo sempre stato ilmio destino quello di attenermi al peggio, così feci an-che in tale occasione, e trovandomi tuttavia provvedutodi danaro e ben vestito, volli andare a bordo in qualità digentiluomo viaggiatore; con che non ebbi da far nullanella nave, ma non imparai nemmeno nulla.

Avevo avuta la fortuna, fu la prima in mia vita, d'in-contrarmi a Londra in un eccellente compagno; fortunache non occorre sempre a giovani scapestrati e spensie-rati qual m'era io a que' giorni; chè certo il demonio, ge-neralmente parlando, non si scorda di tendere insidie dibuon'ora alla gioventù. La mia prima conoscenza adun-que era stata con un capitano di nave che veniva dallacosta della Guinea e che, avendo avuto ottimo successonel primo viaggio, era risoluto di tornarvi. Egli prese di-letto alla mia conversazione che non era in quel tempo

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affatto disaggradevole, e udito da me che avea voglia divedere il mondo, mi disse:

‒ “Se vi piacesse di venire in mia compagnia, non do-vreste soggiacere a veruna spesa; sareste il mio com-mensale e compagno; e se poteste portare qualche mercecon voi, ne ritrarreste tutti quei vantaggi che può offrireil commercio; e tali forse da vedervi incoraggiato amaggiori cose in appresso”.

Accettata subito la proposta, ed entrato in intrinsicaamicizia col capitano, che era veramente un onesto elealissimo uomo, m'imbarcai con esso portando mecouna piccola paccottiglia che, grazie alla disinteressataonestà dell'amico mio capitano, accrebbi piùttosto con-siderabilmente; perchè avrò portato meco un valore dicirca quaranta sterlini in quelle bagattelle e cianfrusaglieche il capitano stesso mi suggerì di comprare. Questiquaranta sterlini io gli aveva messi insieme mercè l'aiutod'alcuni miei congiunti, co' quali mi mantenevo in corri-spondenza, ed i quali, cred'io, arrivarono ad indurre miopadre, o per lo meno mia madre, a contribuire questasomma per la mia prima prova.

Fu questo il solo viaggio fortunato fra tutte le avven-ture della mia vita, e lo dovei all'integerrima onestà del-l'indicato mio amico, sotto del quale acquistai in oltreuna sufficiente cognizione dei principii della matemati-ca e della nautica: imparai a valutare il corso di unanave, a prender la misura delle altezze, in somma a co-noscere quelle principali cose che non può esimersi dalsapere un marinaio; poichè egli prendeva diletto ad

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istruirmi, com'io ad imparare. In una parola, questoviaggio mi fece ad un tempo marinaio ed esperto nellecose del commercio; onde portai a casa dal mio viaggiocinque libbre e nove once di polve d'oro, che mi frutta-rono in Londra circa trecento sterlini; ma ciò mi empìsempre più la testa di quelle chimere d'ingrandimentoche furono in appresso la mia assoluta rovina. Ciò nonostante anche in questo viaggio ebbi le mie disgrazie,soprattutto quella di essere continuamente malaticcio edi avere sofferta una violenta febbre maligna, prodottadal caldo eccessivo del clima, perchè il nostro principalecommercio si facea sopra una costa che tenea una latitu-dine dai quindici gradi al nord fino alla linea.

VI. Seconda navigazione alla costa d'Africa, schiavitù e fuga dalla schiavitù.

Io m'era già collocato nel novero dei trafficanti per laGuinea, ma, per mia grande calamità, morì presto dopoil suo ritorno il mio capitano, allorchè risolvei di tornaread imprendere lo stesso viaggio. M'imbarcai nella stessanave con chi, essendovi già stato aiutante, ne avea orpreso il comando. Fu questo il più infelice viaggio cheuomo abbia mai fatto, ancorchè per mia buona sorte ionon fossi arrivato a prendere con me cento sterlini deimiei guadagni, e ne avessi lasciati dugento presso la ve-dova del mio amico, che mi si mostrò onestissima. La

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prima delle terribili disgrazie occorsemi in tal viaggio fuquesta.

Mentre la nostra nave prendea via verso le isole Ca-narie, o piuttosto tra queste isole e la spiaggia dell'Afri-ca, venne sorpresa sul far del giorno da un pirata turcodi Salè che a tutte vele spiegate ne dava la caccia. Noiper evitarlo facemmo forza di vele, quante poteano spie-garne i nostri pennoni, o portarne i nostri alberi; ma ve-dendo che il pirata guadagnava via sopra di noi, e neavrebbe certamente raggiunti entro poche ore, ci prepa-rammo a combattere. Noi avevamo dodici cannoni: loscorridore ne aveva diciotto.

A tre ore in circa dopo mezzogiorno ci trovammo sot-to il suo tiro; ma per isbaglio portò l'assalto all'anca an-zichè alla poppa della nostra nave, com'egli si credea;laonde noi puntammo otto dei nostri cannoni da quellabanda, e gli demmo tal fiancata che lo costrinse a fuggi-re dopo avere contraccambiato il nostro fuoco con lamoschetteria di circa duecento uomini ch'egli aveva abordo, senza per altro toccare uno dei nostri perchè cieravamo tutti ben riparati. Dopo di ciò si dispose ad as-salirci di nuovo, come noi a difenderci; ma questa se-conda volta venendo all'arrembaggio su l'altra anca delnostro vascello, vi lanciò sul ponte sessanta uomini cheimmantinente spezzarono le vele, e misero fuor d'uso gliattrezzi della nostra nave. Noi li noiammo con moschet-ti, mezze picche e granate in guisa che per due volte gliscacciammo e schiarimmo il nostro ponte. Ciò nonostante, per far corta questa malaugurata parte della mia

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storia, essendo disalberata affatto la nostra nave e tre de'nostri marinai uccisi, otto gravemente feriti, fummo co-stretti ad arrenderci, e tutti ci vedemmo trasportati aSalè, porto spettante ai Mori.

Il trattamento che trovai quivi non fu tanto spavento-so, quanto io lo aveva temuto; nè fui condotto, come ilrimanente de' nostri, alla corte dell'imperatore, ma tenu-to qual sua propria preda dal capitano del legno corsaroche trovandomi e giovine e snello, e assai adatto alle sueoccorrenze, mi volle suo schiavo. A tal sorprendentecambiamento de' casi miei, al vedere trasformata la miacondizione di mercante in quella di abbietto schiavo, ri-masi come percosso dalla folgore, e rimembrai le paroleprofetiche di mio padre: Tu sarai miserabile, e nonavrai alcuno che corra in tuo scampo, la qual profeziaio credeva avverata ad un punto di cui non potesse im-maginarsi il più tristo; io credea che la mano di Dio miavesse percosso oltre ad ogni possibile limite; io mi ve-dea perduto senza riscatto; ma oimè! ciò non era se nonun preludio della miseria cui soggiacqui in appresso,come apparirà dalla continuazione di questa mia storia.

Poichè il mio padrone mi aveva preso in sua casa, iosperava che m'avrebbe tolto in sua compagnia corseg-giando di nuovo e che, una volta o l'altra, il suo destinosarebbe stato quello di esser fatto prigioniero da qualchenave da guerra portoghese o spagnuola, io vedeva in ciòun raggio di futura mia liberazione. Ma questa mia spe-ranza dovè cessare bentosto, perchè quand'egli si rimisein mare, mi lasciò su la spiaggia per custodirgli il suo

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piccolo giardino, e dedicarmi alle solite fazioni di schia-vo nella sua casa; quando tornò dal suo corseggiare, mipose nella camera del suo legno corsaro per farvi laguardia.

Quivi non meditavo ad altro che alla mia fuga, e almodo di mandarla ad effetto; ma non trovavo un espe-diente che avesse nemmeno la probabilità di riuscita.Nulla si presentava che mostrasse almen ragionevolequesta mia idea; non un solo al quale potessi comunicar-la per indurlo ad imbarcarsi con me; non un compagnodi schiavitù, non un Inglese, non un Irlandese, non unoScozzese; per due anni dunque, se bene mi andassi pa-scendo sovente di tal mia immaginazione, non ebbi maila menoma confortante prospettiva di poterla mettere inpratica.

Dopo circa due anni capitò una singolare circostanzache mi tornò con maggior forza nella mente l'antica ideadi fare uno sforzo per la mia libertà. Il mio padrone daqualche tempo rimaneva in casa più del solito senza farallestire per veruna corsa il suo legno corsaro, la qualcosa, come udii, gli derivava da mancanza di danaro. In-tanto per diportarsi, avea presa l'usanza, due o tre voltela settimana, e più spesso se il tempo era bello, di entra-re nello scappavia del suo legno corsaro, e di recarsi suquelle acque alla pesca. Poichè prendea sempre seco meed un giovine moresco ad uso di rematori, noi lo teneva-mo molto allegro, tanto più ch'io mi mostrai molto de-stro nel pigliare il pesce, onde qualche volta spediva me

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con un Moro suo cugino ed il giovinetto che chiamava-no il Moresco, per provvedere di pesce la sua tavola.

Accadde una volta, che andando a pescare in unamattina fredda, pure tranquilla, si alzò d'improvviso unanebbia sì fitta che, sebbene non fossimo lontani dallaspiaggia una mezza lega, la perdemmo affatto di vista;e, remando senza sapere nè da qual parte nè per dove re-massimo, ci affaticammo inutilmente tutto il giorno e lasuccessiva notte; e quando venne il mattino, trovammoche ci eravamo innoltrati di più nel mare in vece di av-vicinarci alla spiaggia, dalla quale eravamo lontani perlo meno due leghe; pur finalmente la raggiugnemmocon grande stento, e non senza qualche pericolo, perchèil vento comincio a soffiar gagliardamente nella mattina;arrivammo dunque a casa, ma tutti orrendamente affa-mati.

Il nostro padrone, fatto circospetto da questa specie didisgrazia, pensò a cautelarsi meglio per l'avvenire; ondedecise di non andar più alla pesca senza una bussola edalcune vettovaglie. Fermo in questa massima, ed avendoa sua disposizione la scialuppa della nostra nave ingleseche aveva presa, ordinò al suo falegname, che era unoschiavo inglese, di fabbricare nel mezzo di essa una ele-gante stanza, siccome quella di una navicella di diportocon uno spazio dietro di essa per chi governava il timo-ne e tirava le scotte, ed un altro spazio davanti per chiregolava le vele. Egli si giovava d'una di quelle velechiamate spalla di castrato, e l'albero sovrastava allastanza stretta e bassa, che nondimeno conteneva il letto

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per coricarvisi egli ed una o due schiave, una tavola damangiare, e qualche piccola credenza per riporvi fia-schetti di quel liquore che gli fosse piaciuto bere, e so-prattutto la sua provvigione di pane, riso e caffè.

Portatosi di frequente alla pesca su questa scialuppa,egli non ci andò mai senza di me, ch'egli avea ricono-sciuto assai destro nel prendere il pesce. Accadde ch'egliavesse deciso di portarsi su questa barca, così per pesca-re come per altri diporti, in compagnia di due o tre Moriassai riguardati in paese, e ad onor de' quali avea fattistraordinari apparecchi. Mandate pertanto nella notteprecedente a bordo della scialuppa vettovaglie più co-piose del solito, mi comandò di approntare tre moschetticon polvere e pallini, tutti del suo legno corsaro, perchècontavano divertirsi non solo alla pesca, ma anche allacaccia.

Feci prontamente quanto mi era stato comandato, enella mattina seguente assistetti a tutti i servigi che ri-guardavano la mondezza della barca, a far mettere fuoridi essa e banderuola e bandiera di comando, in somma aquanto doveasi per onorar meglio i convitati ospiti. Di lìad un momento arrivò solo a bordo il mio padrone, di-cendomi come agli ospiti da lui aspettati fosse sopravve-nuto tal affare che area mandato a vuoto il loro diverti-mento; soggiunse che ciò non ostante questi suoi amiciavrebbero cenato con lui, onde mi ordinò di andarmenesecondo il solito col Moro e col Moresco a pescare entrola scialuppa, portando a casa il pesce che avrei preso;tutte le quali cose io mi disponeva ad eseguire.

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In quel momento le mie prime idee di libertà misplendettero nel pensiere, perchè io trovava allora diavere una specie di piccola nave ai miei comandi e, poi-chè il mio padrone se ne era andato, mi preparai ad ac-conciarmi non per una pesca, ma per un viaggio, benchèio non sapessi, e nemmeno ci pensassi molto a qual par-te mi sarei vòlto; per me ogni via che mi traesse fuori dilì era la buona.

La mia prima astuzia si fu quella di trovare un prete-sto per mandare il Moro a cercare alcun che per la no-stra sussistenza, mentre saremmo rimasti a bordo; per-chè non dovevamo, gli diss'io, pensare a cibarci dellecose preparate ivi dal nostro padrone. Egli disse che ciòera giusto: in fatti portò un gran canestro di rusk, che eil loro biscotto, e tre orci di acqua fresca. Io sapeva dovestesse la cassa de' liquori del mio padrone, i quali, comeappariva evidentemente dalla fattura dei fiaschetti, era-no una preda fatta su qualche vascello inglese, e la por-tai a bordo intantochè il Moro stava su la spiaggia, fa-cendo credere che fosse stata posta ivi precedentementeper ordine del nostro padrone. Ci portai ancora un granpane di cera che pesava più d'un mezzo quintale, ed unacerta quantità di spago e di filo, un'accetta, un martelloed una sega, le quali cose ci resero grande servigio inappresso, specialmente la cera per far candele. Inventaiun altro inganno, nel quale il Moro cadde parimente conla massima buona fede. Questi si nomava Ismael, che lìveniva chiamato Muley, o vero Moley; così dunque lochiamai ancor io.

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‒ “Moley, gli dissi, son qui a bordo i moschetti delnostro padrone; non potreste voi andar a prendere unpoco di polvere e di pallini? Può darsi che ne accada diammazzare alcune alcamie6 per noi, perchè so che ha la-sciato nel brigantino la sua provista di polvere.

‒ Sì, me andare, e portarvi quel che voi mi dire”.E di fatto portò una grande borsa di cuoio che conte-

neva una libbra e mezzo di polvere, piuttosto più chemeno, e un'altra di pallini che pesavano cinque o sei lib-bre, ed anche alcune palle, mettendo tutto nella scialup-pa. Nel tempo stesso io aveva trovata della polvere spet-tante al mio padrone, con la quale empiei uno de' mag-giori fiaschetti della cassa di liquori che era quasi vuota,versando il liquore che ci rimaneva in un altro fiaschet-to; così provvedute tutte le cose necessarie, salpammodal porto per andar a pescare.

Le guardie del castello poste all'ingresso del porto sa-pevano chi eravamo, onde non badarono a noi; ed erava-mo più d'un miglio lontani dal porto quando ammainam-mo la nostra vela, e ci sedemmo per pescare. Il ventospirava da greco-tramontana (nord-nord-est) il che con-trariava le mie intenzioni, perchè se avesse spirato damezzogiorno, sarei stato sicuro di prendere la costa diSpagna, e di raggiugnere finalmente la baia di Cadice;ma, soffiasse quel vento che voleva soffiare, era presa lamia risoluzione di tirarmi fuori dell'orrido luogo ove mitrovava, e di lasciare la cura del rimanente al destino.

6 Uccelli che sono una specie delle nostre pavoncelle.

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Dopo aver pescato per qualche tempo, e non aver pre-so nulla, perchè quando io aveva i pesci nel mio amo,non voleva tirarneli fuori e lasciarli vedere al Moro, dis-si a costui:

‒ “Qui non facciamo bene, e il nostro padrone nondeve essere servito così; bisogna andar a pescare più allargo”.

Egli non sospettando di nulla, convenne nel la miaopinione, ed essendo alla prora della scialuppa spiegò dinuovo le vele; intanto standomi io al timone spinsi lascialuppa una lega più innanzi, ed allora misi in pannacome se volessi fermarmi a pescare; indi lasciando il ra-gazzo al timone, m'avanzai laddove stava il Moro, edabbassatomi come se avessi voluto cogliere qualchecosa cadutami, lo presi per sorpresa cacciandogli unbraccio fra le gambe, e di netto lo feci saltare dal bordodella scialuppa nel mare. Rialzatosi subito fuori dell'on-da, perchè sapea galleggiare come se fosse stato di su-ghero, quel poveretto mi chiamava e supplicava di ri-prenderlo nella scialuppa, assicurandomi che sarebbestato contento di venire in capo al mondo con me. Nota-va si vigorosamente che m'avrebbe i raggiunto prestissi-mo, perchè spirava un leggerissimo vento. Allora, entra-to io nella stanza mi munii d'uno di quei moschetti edaddirizzandoglielo, dissi:

‒ “Non vi farò alcun male, semprechè vi regoliatecome vi dico. Voi siete abile al nuoto abbastanza perraggiugnere la spiaggia, e il mare è tranquillo. Fatequanto potete per guadagnare il lido, nè vi farò male di

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sorta alcuna; ma se continuate ad accostarvi alla scialup-pa, vi fo saltare in aria il cervello, perchè son risoluto diottenere la mia libertà”.

Dopo le quali parole, egli tornò addietro e nuotò ver-so la spiaggia, nè dubito che non vi arrivasse comoda-mente, perchè, come ho detto, era un ottimo notatore.

Non avrei avuto difficoltà di tenermi meco il Moro, edi gettare in acqua il ragazzo; ma col primo non era dafidarsi, senza correre rischio. Poichè mi fui liberato diesso, mi volsi al fanciullo, di nome Xury cui dissi:

‒ “Xury, se voi volete essermi fedele, io vi farò ungrand'uomo; ma se non vi battete la faccia (ciò equivale-va per lui al giurare per Maometto e per la barba di suopadre) in pegno della vostra fedeltà, vi lancio nel mareanche voi”.

Il fanciullo mi sorrise, e parlò con modi sì innocenti,che non avrei potuto ingannarmi nel credergli quandomi giurò di essermi fedele e di venire in qual si fosseluogo con me.

Fintantochè rimasi a veggente del Moro, che notavaverso la spiaggia, mi tenni bordeggiando come in cercadel vento, affinchè si potesse pensare che volessimo av-viarci verso la foce dello stretto; intenzione che dovevaattribuirci chiunque non ne stimasse affatto privi di giu-dizio; perchè chi mai avrebbe supposto che volessimoveleggiare ad ostro contro alle coste di Barbari affattoselvaggi, donde indubitamente intere popolazioni di Ne-gri sarebbero venute a circondarne co' loro canotti e adistruggerci, e dove, arrivando anche a toccare la spiag-

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gia, non avremmo potuto aspettarci altro che di esseredivorati dalle fiere o da belve di umana razza, più spie-tate ancora di esse.

Ma appena la sera si fece oscura, cangiai direzionegovernando immediatamente al sud-sud-est (un quartod'ostro verso scirocco) piuttosto tenendomi verso questosecondo punto, a fine di guadagnare una spiaggia; e spi-rando una fresca brezza e tranquillissimo essendo ilmare, veleggiai quanto bastava perchè, quando vidi terraalle tre dopo il mezzogiorno del dì successivo, potessicredere di non essere lontano meno di centocinquantamiglia dalla punta meridionale di Salè, affatto al di làdegli stati dell'imperator di Marocco, o sicuramente diqualunque altro principe di que' dintorni; chè non mi siofferse alla vista verun abitante per poter stabilire que-sto punto con certezza.

VII. Fermata per far acqua.

Tuttavia era tanta la mia paura di essere preso daiMori, tanto il terrore di cadere un'altra volta fra le un-ghie di costoro, che non volli prender terra o cercare unaspiaggia o mettermi all'áncora, tanto più che il ventocontinuava ad essere propizio; onde veleggiai in questaguisa per cinque giorni, al qual termine il vento si voltòa ponente. Pensai allora che, quand'anche qualche va-scello fosse uscito per darmi la caccia, il vento contrarione lo avrebbe fatto desistere; quindi arrischiatomi ad av-

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vicinarmi alla costa, gettai l'áncora alla foce di un picco-lo fiume: non seppi come si chiamasse, nè ove scorres-se, e nemmeno sotto qual latitudine, in che paese, fraquali popoli mi trovassi; nè vidi, nè desiderai di vederealcuno. La sola cosa di cui mancavo, era l'acqua dolce.Entrammo in questo seno la sera, determinati, appenafosse notte, di raggiugnere a nuoto la spiaggia e di sco-prire paese; ma non sì tosto dominò il buio per ognidove, udimmo tal frastuono orribile di abbaiamenti, rug-giti, ululati, venuti da bestie selvagge, non sapevamo diquale razza, che il povero ragazzo mio compagno ebbe amorirne di paura, e mi supplicò che non cercassimoquella spiaggia prima del giorno.

‒ “Va bene, Xury, gli diss'io; non anderò adesso; mapotrebbe ben darsi che domani vedessimo uomini nonmeno terribili per noi di questi leoni.

‒ Allora far sentire a questi uomi7 nostri moschetti, ri-spose Xury sorridendo, e farli fuggire”.

Xury aveva imparato a parlare o piuttosto a storpiarela mia lingua dal molto conversare con gli schiavi di no-stra nazione. Contentissimo di vedere sì buono spirito inquesto ragazzo, gli diedi alcun poco del liquore conte-nuto ne' fiaschetti portati via al nostro padrone, per in-fondergli sempre maggiore allegria. In fine dei conti ilconsiglio di Xury era buono, e lo adottai. Ci ancorammo

7 Benchè Xury parli l'inglese, lo parla come può fare un Barbaro. Di fattol'autore per fargli dire men (uomini) gli fa dire mans. Per imitare in qualchemodo questo strafalcione nella nostra lingua ne ho adottato uno udito più volteda qualche persona incolta, che si metteva in mente di parlare il pretto italiano.

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e rimanemmo zitti tutta la notte; dico zitti perchè nondormimmo punto. E chi mai sarebbe stato capace di far-lo? Per due o tre ore continue vedemmo grandi creature(non sapemmo con che nome chiamarle) di molte sortevenir giù alla spiaggia, gettarsi nell'acqua, voltolarvisi eguazzarvi entro, fosse per diporto o per voglia di refri-gerarsi; certo i loro ululati erano sì orridi che non neudimmo mai più dei compagni.

Xury era spaventato non so dir quanto, e da vero nonlo era poco nemmeno io; ma fummo ben più quando ciaccorgemmo di una di quelle formidabili creature chenotava in verso della nostra scialuppa. Non potemmovederla, ma potemmo capire dalla crescente vicinanzadelle sue urla che era una mostruosa, enorme, ferocissi-ma belva. Xury la diceva un lione, e poteva ben esserlosecondo le mie congetture. Questo povero fanciullo misi raccomandava a più non posso di levar l'áncora e par-tirmi di lì.

‒ “No, Xury, gli diss'io; possiamo filare la nostra go-mona col segnale galleggiante attaccato, e andarcene anuoto sul mare portandoci a tanta distanza, che la belvanon possa arrivar sino a noi”.

Ebbi appena detto ciò quando vidi quella creatura d'i-gnota razza accostarsi ad una lontananza non maggioredi due tratti di remo; sorpresa che mi fece rimanere im-barazzato alcun poco; pure corso immediatamente allastanza della scialuppa e trattone il mio moschetto, losparai contro al mostro che, presa immantinente la fuga,tornò ad avviarsi notando alla spiaggia.

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Ma egli è impossibile il descrivere quale orrido stre-pito, quali disperati gridi e ululati corrisposero al fra-stuono e all'eco del mio moschetto; grida e ululati inau-diti cred'io fin allora che rimbombarono così sull'orlodella spiaggia come per tutto l'interno del paese. Ciò miconvinse che non era cosa sana per noi l'andare a terrasu quella costa per tutta la notte, ma il come avventurar-vici poi di giorno diveniva un altro punto di quistionescabroso, perchè il cadere nelle mani di qualche selvag-gio sarebbe stata cosa altrettanto trista, quanto capitartra gli artigli di leoni o di tigri; per lo meno il pericoloda temersi era eguale.

Ma comunque fosse andata la cosa, non potevamo di-spensarci dallo sbarcare d'un modo o dell'altro, perchènon ci rimaneva un boccale d'acqua nella scialuppa:quando e da che parte eseguire lo sbarco, qui stava ladifficoltà.

‒ “Se voi lasciare andar me con orcio a spiaggia, ioveder bene se esservi acqua dolce, e portarvene alcunpoco.

‒ Ma perchè andarci tu, e non piuttosto io, e tu rima-nere nella scialuppa?”

Quel fanciullo mi diede tale affettuosa risposta che laricordai sempre in appresso con tenera gratitudine.

‒ “Se selvaggi uomi venire, mangiar me, tu scapparvia.

‒ Bene, Xury, andremo insieme, e se vengono i sel-vaggi uomi gli ammazzeremo; non mangeranno nessunodi noi due”.

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Ciò detto, diedi al povero Xury un pezzo di pane dirusk e del liquore tolto dalla cassetta de' fiaschetti delmio padrone commemorata poc'anzi; poi tirata la scia-luppa tanto vicino alla spiaggia quanto lo credemmo op-portuno, guadammo sino alla riva non portando altrocon noi, che i nostri moschetti e due orci per empirlid'acqua.

Non mi piacea di perdere di vista la scialuppa perpaura che alcuni canotti di selvaggi scendessero lungo ilfiume; ma il ragazzo scorgendo una valletta lontana cir-ca un miglio dal luogo ove eravamo, si trasse fin là, nèandò guari che il vidi tornare a me correndo come ilvento. Pensai fosse inseguito da qualche uomo, o spa-ventato da qualche fiera, onde gli corsi incontro per aiu-tarlo; ma quando gli fui più vicino, vidi alcun che pen-dergli dalle spalle. Era un piccolo animale da lui uccisocol moschetto, somigliante ad un lepre, salvo il colore ele gambe ch'erano più lunghe. Fummo assai contenti ditale presa, perchè ne fornì di una squisita vivanda; ma lagrande contentezza che facea correre il povero Xury, eraperchè veniva ad annunziarmi che avea trovato acquadolce e non veduti selvaggi uomi.

Per dir vero scoprimmo in appresso, che non avrem-mo avuto bisogno di prenderci tanti fastidi per trovareacqua dolce, perchè un poco al di sopra del seno ovestavamo, ne scorgemmo una sorgente al calare della ma-rea; così pertanto potemmo empire tutti i nostri orci e,acceso il fuoco, facemmo onore al lepre che avevamopredato; indi ci accingemmo a riprendere la nostra navi-

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gazione, senza aver veduto un sol vestigio di creaturaumana in quella parte di paese.

Poichè avevo fatto un precedente viaggio a quella co-sta, compresi ottimamente che le isole Canarie e quelladel Capo Verde non dovevano esserne molto lontane.Ma non avendo meco stromenti per misurare un'altezzao cercare sotto qual latitudine ci trovassimo, ne potendoesattamente sapere, o almeno ricordarmi la latitudinedelle isole or nominate, io non sapeva nemmeno a qualparte volgermi, e dove recarmi al largo per raggiugnerle;altrimente non mi sarebbe stato difficile il ripararmi aduna di tali isole. Ma la mia speranza fu che, tenendomi acosteggiare in quelle acque, arriverei in qualche parteove trafficassero i miei compatriotti, e scontrandomi inqualcuno de' loro vascelli mercantili, vi troverei e buonaaccoglienza ed imbarco.

Dai più precisi calcoli da me istituiti mi risulta, che illuogo ove fui ora, debb'essere un paese giacente fra idominii dell'imperator di Marocco e le terre abitate daiNegri, paese deserto e popolato soltanto di fiere. I Negrilo avevano abbandonato, andando a stanziarsi più versomezzogiorno per paura dei Mori; e i Mori nol credetterodegno di essere abitato a motivo della sua sterilità; e ve-ramente non se ne saranno nemmeno curati atteso il pro-digioso numero di tigri, di leoni, di leopardi e d'altre for-midabili fiere che vi hanno il lor covo; i Mori quindi sene valgono solamente per venirvi a caccia, formandouna specie d'esercito di due o tremila uomini in una vol-ta. Egli è certo che per lo spazio di circa un centinaio di

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miglia non vedemmo su quella costa altro che un deser-to disabitato durante il giorno, nè udimmo se non ululatie ruggiti di feroci belve in tempo di notte.

Una o due volte, facendo giorno, credei vedere il Pic-co di Teneriffa, ch'è il punto più alto delle montagne Te-neriffe nelle Canarie, onde mi prese gran voglia di av-venturarmi a quella parte nella speranza di ripararmi ivi;ma essendomici provato due volte, fui spinto in addietroda contrari venti, oltre all'essere divenuto troppo grossoil mare pel mio piccolo bastimento. Risolvei pertanto diattenermi al mio primo di segno, continuando a costeg-giare.

Dopo aver lasciata questa spiaggia fui costretto benespesso a prendere terra per far acqua; ed una mattinaparticolarmente che era di bonissima ora, ancorammosotto una punta di terra altissima ove cominciando a sa-lir la marea, restammo tranquillamente ad aspettarech'ella ci portasse più in là. Xury, cui gli occhi serviva-no, a quanto sembra, assai meglio che a me, mi chiamòpian piano per dirmi che avremmo fatto molto bene al-lontanandoci da quella spiaggia.

‒ “Guardar là! egli soggiugnea, guardar là spaventosomostro che a fianco di montagna dormir di grossa”.

Girai l'occhio laddove egli m'indicava, e vidi uno spa-ventoso mostro da vero, perchè era un grosso terribileleone che giacea di fianco alla spiaggia al rezzo di unenorme dirupo che gli pendea sopra la testa.

‒ “Xury, gli diss'io, portatevi su la spiaggia ed am-mazzatelo.

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‒ Me ammazzar lui? lui mangiar me in una bocca”; ecol dire in una bocca s'intendeva in un boccone.

Non dissi altro al ragazzo, ma gl'intimai silenzio, etratto a mano il nostro più grande moschetto che portavain circa la carica d'un moschettone, lo caricai con unaquantità di polvere e con due verghe di piombo; indi necaricai un altro a due palle, ed un terzo (dissi già cheavevamo tre moschetti con noi) a pallini. Portate fuoridella stanza queste tre armi, presi la mira meglio che po-tei con la prima per colpire il feroce animale nella testa;ma esso giaceva in tal modo con una gamba sollevata unpoco al di sopra del suo naso che le verghe di piombo locolpirono al di sopra di un ginocchio rompendone l'os-so. La belva trasalì, muggendo alla prima, ma accortasidella sua gamba rotta, ricadde, indi alzatasi su le sue tregambe metteva i più orridi ruggiti che mai potesseroudirsi. Mi fece qualche sorpresa il non averla colpita sula testa; pure fui presto a dar di mano al secondo mo-schetto, e benchè il leone cominciasse a moversi con lesue tre gambe, fui fortunato abbastanza, perchè la miaseconda scarica lo colpisse ove aveva divisato prima,ond'ebbi il piacere di vederlo stramazzato senza dime-narsi più di quanto fa una creatura che combatte con lamorte. Allora Xury, preso coraggio, desiderò gli permet-tessi di venir su la spiaggia.

‒ “Ebbene, gli dissi, venite”.E tosto il ragazzo, lanciatosi in acqua e tenendo in

una mano il terzo moschetto, nuotò con l'altra mano allaspiaggia, ove fattosi ben vicino al moribondo leone e

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portatagli la bocca del moschetto all'orecchio, tornò ascaricarglielo nella testa con che la fiera rimase speditadel tutto.

Questo fu veramente per noi un diporto che non nedava di che nudrirci; ed ero assai contristato d'aver per-dute queste tre cariche di polvere, per ammazzare unabestia che non era di verun uso per me. Ciò non ostanteXury avrebbe voluto aver qualche cosa di essa, ondetornò a bordo chiedendomi che gli dessi l'accetta.

‒ “Da farne che, Xury?‒ Me voler tagliare sua testa”.Nondimeno il povero ragazzo non riuscì in questa im-

presa; giunse per altro a tagliargli una zampa ch'egli siportò seco a bordo, ed era una zampa di mostruosa gran-dezza. Pensai fra me nondimeno che la pelle di quel leo-ne, o d'un modo o dell'altro, avrebbe potuto essere diqualche valore per noi; per lo che mi determinai a por-targliela via se mi riusciva. Ci mettemmo dunque Xuryed io a questo i lavoro; ma Xury si mostrò assai più abi-le di me, perchè io da vero non sapeva come mettermici.Sicuramente questa opera ne portò via l'intera giornata;ma la pelle del leone finalmente l'avemmo, e stesala sultetto della stanza della scialuppa, il sole la seccò in nonpiù di due giorni, sicchè me ne servii in appresso pergiacervi sopra.

Dopo questa fermata costeggiammo di continuo versoostro per dieci o dodici giorni vivendo con grande ri-sparmio delle nostre vettovaglie che cominciavano ascemarsi in notabilissima guisa, nè ci portammo alla

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spiaggia più spesse volte di quanto ne fu necessario percercare acqua dolce. In questa fu mio disegno d'avviar-mi verso il fiume Gambia o il Senegal, vale a dire, sem-pre nelle vicinanze del Capo Verde, ove mi rimanea lasperanza d'incontrarmi in qualche vascello europeo,espettazione che, se fosse andata delusa, io non avevaaltra speranza dinanzi a me se non quella di raggiugnerele isole o di morire fra i Negri.

VIII. Continuazione di questa navigazione sino al Brasile.

Io sapea che quante navi europee veleggiavano o ver-so la costa della Guinea o al Brasile, o vero alle IndieOrientali, toccano il Capo o le menzionate isole; onde,in una parola, il dilemma della mia sorte stava in ciò so-lamente: o avrei incontrato qualche vascello o mi sareb-be stato forza perire. Durato nella mia risoluzione, comedissi, dieci o dodici giorni, cominciai a veder paesi cheerano abitati; in due o tre luoghi presso cui veleggiam-mo, ne accadde osservar gente che stava su la spiaggia aguardarci, e potemmo anche accorgerci ch'erano di car-nagione affatto nera e ignudi del tutto. Mi sentii tentatouna volta ad andar su la spiaggia verso di loro; ma Xury,il miglior consigliere ch'io m'avessi, mi disse:

‒ “Non andare! non andare!”Nondimeno, tiratomi più vicino alla spiaggia per po-

ter parlare ad essi, vidi che su la mia stessa strada corre-

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vano lungo il lido. Notai che non avevano armi con sè,eccetto un di loro il quale portava un piccolo sottile ba-stone che Xury mi disse essere una lancia, aggiugnendoche sapeano tirarla in gran lontananza e prendendo benela mira; per conseguenza mi tenni in distanza, ma parlailoro per cenni come meglio potei, chiedendoli singolar-mente di qualche cosa da mangiare. Essi mi fecero se-gno di fermare la mia scialuppa, e di essere pronti a por-tarmi alcune vivande; laonde, abbassata la punta dellamia vela, mi fermai dov'ero, e due o tre di quegli abitan-ti, postisi a correre per il paese, in meno di mezz'ora tor-narono addietro portando seco due pezzi di carne seccae qualche provvigione di grano del loro paese. Noi nonsapevamo nè di che animale fosse la carne, nè di qualnatura fosse quel grano; pure avevamo tutta la buonavoglia d'accettar queste cose. Ma il come arrivare a taleintento fu il soggetto della prima ed ultima disputa cheavemmo insieme, perchè io non mi sentiva d'arrischiar-mi a por piede su la spiaggia, ed essi avevano altrettantapaura di noi; ma s'attennero ad un espediente sicuro eper una parte e per l'altra, perchè portarono le vettova-glie su la riva e le posero giù, indi se ne andarono e cistettero ad una grande distanza finchè le avessimo tiratea bordo; allora si accostarono di nuovo alla nostra scia-luppa.

Noi femmo loro grandi ringraziamenti per cenni, chènon avevamo altra moneta onde compensarli; ma in quelmomento medesimo ne si offerse un'opportunità di ren-dere ad essi un segnalato servigio; perchè mentre conti-

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nuavamo a fermarci a veggente della spiaggia, sceserodalle montagne due potenti belve,una delle quali, aquanto ne parve, inseguiva l'altra con gran furore versodel mare. Se il maschio inseguisse la femmina, o vero secosì facessero per diporto o rabbia, gli è quanto non sa-premmo dire, come non potremmo dire se un tal casofosse strano o comune colà; ma io direi la prima cosa, eperchè quelle belve rapaci rare volte si lasciano vederefuorchè di notte, e perchè scorgemmo quegli abitantistraordinariamente impauriti, massime le donne. L'uomoche portava la lancia, o dardo o bastoncello che fosse,non fuggì, ma fuggirono tutti gli altri, ancorchè le duefiere, correndo direttamente verso l'acqua, non paresseronell'intenzione vogliose di scagliarsi addosso ad alcunodi que' Negri, ma bensì di gettarsi nel mare, ove si die-dero a notare qua e là come per loro divertimento. Final-mente uno di questi animali cominciava ad avvicinarsialla nostra scialuppa più di quanto mi sarei aspettato;ma mi trovò pronto ai suoi comandi, chè avevo già cari-cato il mio moschetto con ogni possibile celerità, e inti-mato a Xury di fare lo stesso con gli altri due. Appenaun de' due animali mi fu venuto bellamente a tiro, glifeci fuoco addosso e lo colpii nella testa. Si sprofondòtosto nell'acqua, ma uscitone un momento dopo andavadibattendosi da una parte e dall'altra come chi resiste in-vano alla morte; e così era di fatto: esso si sforzava diarrivare immediatamente alla spiaggia, ma tra la sua fe-rita che era mortale e lo strozzamento dell'acqua stessa,morì prima di averla raggiunta.

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Egli è impossibile l'esprimere lo sbalordimento da cuifurono presi que' poveri abitanti al fuoco e al frastuonodel mio moschetto. Alcuni di essi furono lì lì per moriredalla paura, e caddero veramente siccome morti per l'ef-fetto del terrore concepito; ma quando videro l'animale,non dubitarono più che la terribile belva non fosse peritanell'acqua, e poichè si accorsero de' miei segni che li ri-chiamavano alla spiaggia, preso coraggio, ci vennero, ecominciarono a far ricerche per avere in loro potere ilcadavere dell'ucciso animale. Giunto io a scoprirlo dallestrisce del sangue che lordavano l'acqua, coll'aiuto diuna corda gettatagli all'intorno del corpo, e di cui man-dai l'altra estremità ai Negri perchè la tirassero, questi loebbero alla spiaggia. Allora fa riconosciuto che la belvaera un raro leopardo, leggiadramente screziato e d'unpelame ammirabilmente fino. Gli abitanti sollevarono lemani con ammirazione, e fantasticando con che cosamai avessi potuto ammazzarlo.

L'altro animale spaventato dalla vampa del fuoco edallo strepito dello sparo, notò alla spiaggia, e prese cor-rendo la via delle montagne dond'erano usciti entrambi;a quella distanza non potei discernere qual razza d'ani-male esso fosse. Capii presto che i Negri aveano vogliadi cibarsi della carne dell'ucciso leopardo, onde non midispiacque che riconoscessero in ciò un mio presente; equando feci ad essi un segno che poteano impadronirse-ne liberamente, mi rendettero grandi ringraziamenti allaloro maniera. Tosto si misero all'opera di apparecchiar-lo; e benchè non avessero coltello, con un pezzo di le-

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gno ben affilato ne tolsero la pelle con la stessa prestez-za, anzi maggiore, che non avremmo fatto noi co' nostristromenti da taglio. Mi offersero una parte di quella car-ne; offerta ch'io ricusai mostrando di volerla lasciar tuttaa loro; sol mi feci intender per cenni che ne avrei aggra-dita la pelle, il qual mio desiderio secondarono di buo-nissima grazia, portandomi in oltre una copia maggioredi loro vettovaglie che accettai, sebbene non sapessi checosa fossero. In appresso i miei segni furono intesi adavere una certa quantità di acqua dolce, e mi feci capirevoltando uno de' miei otri con la bocca all'ingiù, affin-chè vedessero che aveva bisogno di essere empiuto. Essichiamarono immediatamente alcuno de' loro famigliari,onde comparvero due donne portando un gran vaso diterra, credo io, cotta al sole, che venne deposto, comedianzi le vettovaglie, sul lido, indi mandai Xury su laspiaggia co' miei orci che mi tornarono pieni d'acquadolce tutti e tre. Le donne erano affatto ignude al paridegli uomini.

All'acqua dolce vennero aggiunti e grani e radici, diche cosa ho anche a saperlo; indi preso congedo daimiei benevoli Negri, mi portai innanzi per undici giorniancora senza vedere alcuna vicinanza di spiaggia, finoall'undecimo di questi giorni in cui mi si parò innanziuna terra che sporgeva in fuori per un gran tratto dimare, distante da me quattro o cinque leghe all'incirca; epoichè era tranquillissima l'onda, presi il largo per giun-gere alla punta di quella terra. Finalmente, giratole attor-no ad una distanza di circa due leghe, vidi distintamente

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una costa che facea fronte al mare sul lato opposto; don-de dedussi, come la cosa era certissima, che quella pun-ta fosse il Capo Verde, e stessero ivi le isole che danno aquella punta il nome di Capo delle Isole Verdi. Pur que-ste mi erano sempre ad una grande distanza, nè sapevotroppo qual fosse per me il miglior partito da prendere,perchè se fossi stato sorpreso da un gagliardo colpo divento avrei potuto non raggiugnere nè il Capo nè le sueisole.

Venuto in pensiero per questo dilemma, entrai nellastanza, ove mi posi a sedere, intantochè Xury stava al ti-mone. Tutt'ad un tratto odo il giovinetto che grida:

‒ “Padrone! padrone! un vascello e una vela!”Il povero ragazzo era fuor di sè dallo spavento, imma-

ginandosi non potesse esser altro che qualche legno delsuo padrone mandato per inseguirci: ma io ben sapeache ci eravamo allontanati abbastanza per trovarci fuoridella sua presa. Uscito subito della stanza della scialup-pa, vidi immediatamente non solo il vascello, ma chevascello fosse: esso era di pertinenza portoghese, forsediretto, io pensai nel momento, alla costa di Guinea perfar acquisto di Negri. Nondimeno, osservata la diritturach'esso prendea, fui tosto convinto ch'esso pigliava altravia, e che il suo disegno non era di serrarsi punto allaspiaggia; per la qual cosa presi il largo quanto io potea,risoluto di abboccarmi con que' naviganti, se pur mi erapossibile.

Benchè facessi tutta forza di vele, capii che non misarebbe riuscito di entrar nell'acque di quel vascello, e

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che esso mi sarebbe sparito dalla vista prima ch'io aves-si potato fargli alcun segno; ma poichè io aveva fatti gliultimi sforzi, e cominciava già a disperare, que' navigan-ti mi videro, io penso, co' lor cannocchiali, e compreseroessere il mio legno qualche barca europea, ch'essi sup-posero appartenere ad un vascello pericolato. Accorcia-rono pertanto le vele per darmi campo d'avvicinarmi aloro. Incoraggiato da ciò, ed avendo a bordo la bandieradi chi fu mio padrone, diedi loro il segnale di disastro, esparai un moschetto; entrambe le quali cose essi notaro-no, perchè mi dissero in appresso di aver veduto il fuo-co, ancorchè non avessero udito lo strepito dell'archibu-gio. Dietro questi segnali con tutta la cortesia immagi-nabile misero alla cappa, cioè abbassarono le vele peraspettarmi; onde in capo a circa tre ore potei raggiu-gnerli.

Mi chiesero chi fossi in lingua portoghese, poi spa-gnuola, poi francese, ma io non intendeva alcuna diquelle lingue; finalmente un marinaio scozzese ch'era abordo del vascello, mi volse il discorso, e gli risposi rac-contandogli ch'io era un Inglese fuggito dalla schiavitùde' Mori; allora mi fecero entrar subito a bordo, ove ac-colsero graziosamente me e tutte le cose mie.

È inesprimibile la gioia ch'io provai, ed ognuno me locrederà, al vedermi in tal guisa liberato da una condizio-ne così trista, e ch'io metteva omai per disperata. Offersiimmediatamente quanto io possedeva al capitano del va-scello in ricompensa della mia liberazione; ma egli ge-nerosamente rispose, che non avrebbe ricevuto alcun

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compenso da me, e che quanto io aveva portato a bordo,mi sarebbe consegnato libero d'ogni aggravio, appenaarriveremmo al Brasile.

‒ “Perchè, egli diceva, ho salvata la vostra vita in que'termini onde mi piacerebbe veder salvata la mia; unavolta o l'altra il mio destino può condurmi alla medesi-ma condizione. Oltrechè, se vi privassi di quanto avete,e tanto lunga la strada di qui al Brasile che, giunto là,sareste costretto a morire di fame, ed in tal caso nonavrei fatto altro che salvarvi la vita qui per privarvenelà. No, no, senhor Inglese, voglio condurvi fin là peramor del mio prossimo; e queste cose che vorreste dar-mi, vi gioveranno a procurarvi la vostra sussistenza nelBrasile e nella traversata che dovrete fare per tornarvenea casa”.

E come si mostrò caritatevole in questa offerta, fu al-trettanto giusto nel mantenerla appuntino; perchè ordinòseveramente ai suoi marinai di non toccar nulla di quan-to mi appartenesse, e, presesi in deposito egli stesso lemie robe, mi diede un inventario di tutto, esatto tantoche non erano nemmeno dimenticati i miei tre orci diterra.

Quanto alla mia scialuppa, che era veramente unadelle buone fra quante ve ne fossero, dopo averla consi-derata, mi espresse il desiderio di comprarla per uso delsuo vascello, e mi chiese qual prezzo ne avrei voluto.

‒ “Siete stato si generoso verso di me in ogni rispetto,che non ho coraggio di far io il prezzo della mia scialup-pa, e intorno a ciò mi rimetto interamente a voi.

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‒ Facciamo così, egli soggiunse, vi darò una cedola dibanco per ottanta pezze da otto, che vi saranno pagate alBrasile e, quando la scialuppa sarà arrivata là, se trovatechi vi offra di più, vi abbonerò quel di più”.

Mi offerse inoltre sessanta pezze da otto pel mio ra-gazzo Xury, al che mi rincrescea l'acconsentire, non per-chè mi dispiacesse cedergli quel fanciullo, ma mi sapeamale di vendere la libertà di una povera creatura chem'aveva aiutato con tanta fedeltà a procurarmi la mia.Nondimeno, poichè ebbi esposto al capitano un tal moti-vo di mia renitenza, questi che lo trovò giusto mi propo-se un temperamento, vale a dire di obbligarsi col ragaz-zo a metterlo in libertà dopo dieci anni, semprechè sifosse fatto cristiano; a tal patto, tanto più che Xury disseche sarebbe andato volentieri con lui, lo cedei al capita-no.

Il nostra viaggio al Brasile fu felicissimo, perchè inventi giorni circa arrivammo alla baia di Todos los San-tos (di Tutti i Santi); ed eccomi anche una volta liberatodalle disgrazie e, in questo caso, dalla più miserabile ditutte le condizioni della vita umana. Or non mi rimanevaaltro, che pensare al partito cui mi sarei appigliato.

IX. Piantagione di zucchero fatta nel Brasile.

Non mi ricorderò mai abbastanza del generoso tratta-mento usatomi dal capitano. Oltre al non aver voluto ri-cevere alcun danaro pel mio viaggio al Brasile, mi diede

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venti ducati per la pelle del leopardo, e quaranta perquella del leone che si trovavano nella mia scialuppa,comandando indi che mi fossero puntualmente conse-gnate tutte le cose di mia pertinenza. Quante di questefui contento di vendere, le comprò da me; così accaddeper la cassa di liquori, così per due moschetti e per unaparte del pane di cera, perchè il rimanente di esso loavevo convertito in candele; in una parola di tutto il miocarico ricavai duecento venti ducati, col qual capitaletoccai la spiaggia del Brasile.

Non rimasi qui a lungo senza che il buon capitanom'avesse raccomandato ad un onest'uomo come lui, pos-sessore di un ingenio; chè così chiamasi colà una pianta-gione, e fabbrica di zucchero. Vissuto qualche tempocon questa persona, imparai il modo di piantare e di fab-bricare lo zucchero; e veduto come i piantatori vivesseroe facessero presto ad arricchire, mi determinai, purchèavessi una licenza, di stabilirmi nel paese, e divenirpiantatore ancor io. Nel tempo stesso m'adoperai a cer-car qualche mezzo per farmi arrivare il danaro che m'a-vea lasciato addietro a Londra. Ottenuta dunque unaspecie di lettera di naturalizzazione, acquistai quantoterreno incolto potevo comprare col danaro attuale, for-mando i miei disegni per l'ideata piantagione, disegnine' quali feci entrare anche il danaro ch'io mi prefiggeadi ritirare da Londra.

Avevo per vicino un portoghese di Lisbona, nato peraltro da genitori inglesi, di cognome Wells, che si trova-va nelle mie medesime circostanze. Lo chiamo mio vici-

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no, perchè la sua piantagione era contigua alla mia, everamente vivemmo in buon accordo fra noi. Il mio ca-pitale era poco siccome il suo, e per circa due anni ab-biamo fatto la vita dei piantatori piuttosto per procac-ciarci il vitto, che per altro intento. Ciò non ostante lecose nostre cominciarono a prosperare, e i nostri due po-deri a prendere buon aspetto, di modo che nel terzoanno piantammo un po' di tabacco, e ciascuno di noi ap-parecchiò un ampio spazio di terreno onde piantarvicanne di zucchero per l'anno avvenire; ma tutt'a duemancavamo di chi ci aiutasse, e compresi allora più chemai quanto avessi avuto torto nel separarmi dal miobuon ragazzo Xury.

Ma già sfortunatamente l'aver torto non era un sog-getto di stupore per me che non ne aveva mai fatta unaper il diritto, nè vi era verso ch'io m'attenessi alla stradabuona. Di fatto io mi era messo in una impresa del tuttocontraria alla mia inclinazione, a quella vita di cui mibeavo nella mia fantasia, e per la quale abbandonai lacasa di mio padre, e mi gettai dietro le spalle tutti i suoibuoni suggerimenti; anzi io stava per entrare in quellostato medio, o sia in quel primo stato nella vita borghe-se, com'egli lo chiamava, e quale mi veniva consigliatoda lui; in quello stato che, se mi fossi determinato ad ab-bracciarlo prima, avrei raggiunto standomene a casa miae senza straccarmi a girare il mondo come avevo fatto;onde io soleva dire a me stesso:

‒ “Io potevo avere queste cose medesime nell'Inghil-terra fra i miei amici, senza andar a far cinquemila mi-

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glia di cammino, senza essermi trovato fra selvaggi edestranei, in un deserto ed a tal distanza da non riceverenotizie da veruna parte del mondo che abbia la menomarelazione con me”.

In questo modo io soleva meditare col massimo rin-crescimento su la mia condizione presente. Non avevocon chi conversare, se non a quando a quando col vicinodi cui ho parlato; non potevo eseguire alcun lavoro senon con la fatica delle mie braccia, e mi pareva propriodi vivere come un uomo balestrato su qualche isola de-serta, senz'altra compagnia che quella di sè medesimo.Ma oh! come ciò era giusto, e oh! come tutti gli uominitentati ad augurarsi in vece della loro condizione presen-te altre condizioni peggiori, dovrebbero pensare che ilCielo può costringerli a tal cangiamento, e convincerlicon l'esperienza quanto fossero più felici da prima! Oh!come era giusto, lo ripeto, che il condurre tal vita vera-mente solitaria, qual io me la dipingeva adesso in un'iso-la deserta, fosse retaggio di me, o al segno di metterla aconfronto con quella ch'io viveva in allora, vita che senon me la fossi giocata, mi avrebbe secondo ogni proba-bilità fruttato e ricchezze ed ogni contentezza di cuore!

Può dirsi fino ad un certo segno che tutto era già av-viato per la mia piantagione prima che il mio corteseamico, il capitano del vascello che mi raccolse sul mare,si fosse rimesso in viaggio; perchè la nave di lui, perraddobbarsi e disporsi ad una nuova traversata, rimasequi circa tre mesi; ed allora, avendogli io detto di averlasciato addietro in Londra un piccolo capitale di mia

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ragione, mi diede questo amichevole e sincero consi-glio:

‒ “Senhor Inglese (chè non mi chiamava mai se noncosì), se mi darete lettere ed una carta di procura in for-ma con un ordine a chi e depositario del vostro danaroin Londra, affinchè faccia arrivarlo alla persona ch'io in-dicherò, e convertito in quelle merci che saranno piùconvenevoli a questa piazza, ve ne porterò, piacendo aDio, al mio ritorno in Lisbona il valsente; nondimeno,siccome le cose umane vanno soggette a mutazioni o di-sastri, vi direi di non ordinare una spedizione d'altro va-lore che d'un centinaio di sterlini, metà, come dite, delvostro capitale, e di stare a vedere come la sorte buttasseper la prima volta. Così, s'io torno sano e salvo, voi po-trete ordinare con lo stesso mezzo la spedizione del ri-manente; se le cose andassero male, vi resterebbe sem-pre l'altra metà, su cui fare i vostri conti.»

Trovai troppo salutare ed amichevole questo suggeri-mento per non arrendermi subito ad esso, e di conformi-tà apparecchiai le lettere per quella signora nelle cuimani io aveva lasciato il danaro, e la carta di procurache il capitano portoghese mi consigliò.

Nella lettera che scrissi alla vedova del capitano in-glese, la ragguagliai pienamente di tutte le mie avventu-re, della mia schiavitù, della mia fuga, dell'incontro fattoin mare col capitano portoghese, dell'umano di lui pro-cedere, della condizione in che mi trovavo ora, e di tuttel'altre particolarità necessarie alla spedizione di una par-te del mio danaro. Poichè questo onesto capitano fu a

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Lisbona, trovò il mezzo di alcuni trafficanti inglesi chevi dimoravano, per far tenere non solamente il mio ordi-ne, ma l'intero racconto delle mie avventure ad un nego-ziante di Londra, che presentò di fatto tutte le indicatecarte a quella signora. Essa, oltre allo sborsare la sommarichiestale, inviò del proprio un assai bel regalo al capi-tano portoghese in compenso dell'umanità e delle amo-revolezze usatemi.

Il mercante di Londra, dopo avere convertite le centolire sterline in merci di manifattura inglese, quali glieleaveva indicate il mio amico, le inviò direttamente a Li-sbona, onde il capitano me le portò poi intatte al Brasile.Fra queste (e certo senza ch'io gliene avessi fatto cenno,chè ero troppo giovine per intendermi di tali affari) ave-va avuto cura di far si che si trovasse ogni sorta di stro-menti, ferramenti ed ordigni necessari alla mia pianta-gione, e riconosciuti di grand'uso per me.

Poichè il carico fu arrivato, credei fatta la mia fortu-na, e ne fui veramente attonito dalla gioia. Il mio buonmaggiordomo, il capitano si era perfin giovato dei cin-que sterlini trasmessigli in via di presente dalla vedovadel capitano inglese, per provvedermi un famiglio obbli-gato a sei anni di servigio, e condurmelo senza volereaccettare verun compenso da me, salvo un po' di tabaccoche lo costrinsi a ricevere come ricolto della mia pianta-gione.

Nè qui stava il tutto, perchè il mio danaro essendoconvertito in manifatture inglesi, come panni, drappi,baiette ed altre merci singolarmente desiderate in que'

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paesi, trovai modo di venderle con grande vantaggio;onde potei dire di avere quattro volte più del valore delmio primo capitale, ed ora mi vedevo infinitamente al disopra del mio vicino nel buon inviamento della miapiantagione. Per prima cosa mi comprai uno schiavo ne-gro, e mi procurai un altro famiglio europeo; intendo unaltro oltre quello che il capitano mi condusse da Lisbo-na.

Ma la prosperità è spesse volte l'origine delle più gra-vi disgrazie per chi ne abusa; e ciò fu il caso mio. Nelprossimo anno ebbi straordinaria fortuna nella mia pian-tagione; raccolsi cinquanta grandi rotoli di tabacco sulmio podere, oltre a quelli ch'io aveva obbligati, per pro-curarmi le mie provvigioni annue di casa, ai miei vicini;e questi cinquanta rotoli, ciascuno di peso oltre ad unquintale, vennero da me acconciati e tenuti in serbo pelritorno della flotta da Lisbona. In questo aumento di af-fari e di ricchezze, la mia testa cominciò ad empirsi didivisamenti oltre a quanti ne potessi abbracciare; e vera-mente sta in ciò, il più delle volte, la rovina de' più abilispeculatori. Se mi fossi limitato a mantenermi nella po-sizione cui ero giunto, ora vi sarebbe stato luogo per mea tutte quelle fortune che mi augurava tanto mio padre, epel conseguimento delle quali mi avea si caldamenteraccomandato un genere di vita ritirato e tranquillo; aquelle fortune che egli mi avea con tanta evidenza de-scritte siccome retaggio di uno stato medio fra l'infimo el'eccelso. Ma altri casi mi aspettavano, ed io fui nuova-mente lo sgraziato artefice delle mie proprie sciagure;

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anzi, ad aumento di colpa in me, e ad ingrossare le me-ste considerazioni che mi sarebbe toccato di fare su memedesimo nell'avvenire, tutti questi miei errori derivaro-no da evidente ostinazione in me di secondare la miamania di vagare pel mondo, e di far ciò in aperta con-traddizione con quanto il mio dovere mi avea suggeritoe con le più patenti vie di avvantaggiarmi con una con-dotta di vivere semplice e piacevole, quali la natura e laprovidenza congiuntamente mi aprivano.

Come una volta il non contentarmi della mia sorte mifece fuggire dai miei genitori, così non seppi credermiora abbastanza felice, se non mi commettevo a nuovi ri-schi, se non abbandonavo la felice prospettiva di diveni-re uom ricco e fortunato nella mia nuova piantagione,unicamente per correr dietro ad un audace immoderatodesiderio d'innalzarmi oltre quanto la natura delle coselo permetteva; così io mi precipitai nuovamente nel piùprofondo abisso di miseria entro cui uomo sia cadutogiammai, o forse il solo che possa immaginarsi al mon-do, ove non manchi la vita o la forza di sentirne l'ango-scia.

X. Nuovo viaggio per la costa della Guinea e naufragio.

Per giungere gradatamente ai particolari di questaparte della mia storia, voi dovete immaginarvi che es-sendo or vissuto quattro anni in circa al Brasile, e co-

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minciando a prosperar tanto nella mia piantagione, nonsolamente avevo imparata la lingua portoghese, ma miera stretto in conoscenza ed amicizia co' miei confratellipiantatori, come pure coi trafficanti di San Salvatore,che era il nostro porto. Pertanto ne' discorsi avuti conessi io gli avea frequentemente intertenuti de' miei dueviaggi alla costa di Guinea, del modo di trafficare colàcoi Negri, e della facilità di procacciarsi su quella costa,in vece di merciuole di poco conto, siccome pallottolinebucate, giocherelli, temperini, forbici, accette, pezzi divetro e simili, non solamente polve d'oro, droghe e legnipreziosi di Guinea, denti di elefanti ec., ma Negri ingran numero per servigio del Brasile.

Questi miei amici stavano attentissimi ai miei discorsisu tutti gl'indicati punti, ma principalmente alla parteche riguardava la compra dei Negri, commercio che aque' giorni non solamente non era molto innoltrato8, macomunque lo fosse, veniva fatto da chi soltanto era mu-nito di assientos o patenti dei re della Spagna e del Por-togallo, ed incettato a pregiudizio della generalità, dimodo che pochi Negri venivano comprati, e questi ad unprezzo eccessivo.

Accadde che dopo essere stato una sera di brigata conalcuni di tali trafficanti e piantatori, ed avendo parlatocon essi diffusamente di queste cose, tre di essi venisse-ro nella seguente mattina a trovarmi. Costoro mi disseroche avendo ben pensato su i discorsi da me tenuti loro la

8 Ognun sa che lo fu di troppo nel secolo decimo ottavo, e che, a disonoredell'umanità, non è anche ben tolto nel secolo decimonono.

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scorsa notte, erano lì per farmi una riservata proposta;dopo avermi obbligato con parola d'onore alla maggiorsegretezza, mi narrarono esser loro intenzione di appa-recchiare un vascello per la Guinea; posseder tutti alpari di me delle piantagioni che non difettavano di nullafuorchè di schiavi; non potersi tirare avanti la coltiva-zione degli zuccheri, perchè non era permesso il vende-re in pubblico i Negri quando erano menati al Brasile;non aver eglino bisogno d'altro, che di fare un viaggioper acquistare di questi Negri, condurli di soppiatto allaspiaggia, e ripartirli in comune fra le piantagioni degliarmatori del divisato vascello. In una parola, mi doman-darono s'io acconsentiva ad essere loro scrivano di naveper regolare la parte che si riferiva al traffico sulla costadella Guinea, e mi offrivano in compenso una parteuguale nel ripartimento dei Negri e un'esenzione assolu-ta dal contribuire la mia porzione di capitale.

Questa, convien confessarlo, sarebbe stata una bellaproposta da farsi a chi non avesse avuto da mantenereuna piantagione sua propria, avviata considerabilmentesul prosperare, e dotata di un buon capitale. Ma quanto ame che avevo il mio fondo così bene incamminato e sta-bilito, cui non mancava altro che continuare ancora pertre o quattro anni, come avevo cominciato, e ritirare glialtri miei cento sterlini dall'Inghilterra; un fondo chedopo i suddetti tre o quattro anni e con questa piccolaaggiunta non potea valer meno di tre o quattromila liresterline, e sempre di più andando avanti; per me il pen-sare ad un simile viaggio era la più rea stranezza di cui

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un uomo, posto nelle mie condizioni, si potesse rendercolpevole.

Ma io, nato per essere il distruggitore di me medesi-mo, non potei resistere a tale offerta, più di quanto po-tessi rattenere i miei primi disegni da vagabondo quandoi buoni consigli di mio padre furono perduti per me. Inuna parola, risposi loro che avrei accettata la proposta ditutto cuore, purchè avessero voluto prendersi l'incaricodi vegliare su la mia piantagione durante la mia lonta-nanza, e disporre di essa a tenore degli ordini che dareiprecedentemente pel caso ch'io venissi a naufragare.Obbligatisi a far ciò, autenticarono il dovere assuntosicon convenzioni in iscritto; io feci il mio testamento di-sponendo, in caso di morte, della mia piantagione e deicapitali che vi erano sopra, instituendo mio erede uni-versale il capitano del vascello da cui ebbi salva la vita,come è stato narrato di sopra; obbligandolo per altroquanto alle proprietà indicate nello stesso testamento, adusarne in modo che la metà della rendita rimanesse alui, l'altra metà fosse spedita in Inghilterra.

In somma, io presi ogni possibile cautela per salvare imiei averi, e per mantenere in ordine il mio podere. Seavessi avuto una metà soltanto di questa prudenza nelvegliare al mio proprio interesse e nell'esaminare quantomi conveniva il fare o il non fare, certamente non avreiabbandonato un sì prosperoso stabilimento e tutte leprobabilità di vederlo migliorato sempre di più, percommettermi ad un viaggio connesso con tutti i rischidelle navigazioni, anche senza calcolare i tant'altri moti-

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vi per aspettarmi particolari disgrazie connesse con memedesimo.

Ma io fui affascinato, onde obbedii ciecamente ai det-tati della mia fantasia anzichè a quelli della mia ragione.Per conseguenza, allestito il vascello, fornitone il carico,somministrato tutto quanto era fissato ne' patti dalle par-ti interessate meco in tale viaggio, andai a bordo in tristaora al primo di settembre del 1659, lo stesso giorno incui otto anni addietro fuggii da' miei genitori ad Hull ri-bellandomi alla loro autorità e facendomi giuoco delmio proprio interesse.

Il nostro vascello di circa centoventi tonnellate, porta-va sei cannoni e quattordici uomini, non compreso il ca-pitano, il servo di lui e me. Non avevamo a bordo altrocarico di mercanzie che merci opportune al nostro com-mercio coi Negri, cianfrusaglie soprattutto, come pallot-toline bucate, pezzetti di vetro, specchietti, coltelli, for-bici, accette e altre simili cose.

Nello stesso giorno che venni a bordo, spiegammo levele portandoci verso la parte settentrionale della nostraspiaggia con l'idea di stender bordo verso la costa del-l'Africa. Quando fummo a circa dieci o dodici gradi dilatitudine settentrionale (pare che tal fosse il metodo aquei giorni di far simile traversata), avemmo bellissimegiornate, soltanto eccessivamente calde per tutto il tem-po in cui ci tenemmo da presso alla nostra costa fino almomento che arrivammo all'altura del capo di Sant'Ago-stino; donde mettendoci al largo perdemmo di vista laterra, e governammo come se fossimo diretti all'isola

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Fernando de Noronha e le sue pertinenze, tenendoci anord-est ¼ nord (un quarto di greco verso tramontana) elasciandoci a levante quelle isole. In questa traversatapassammo la linea nel tempo incirca di dodici giorni, ederavamo secondo l'ultima nostra osservazione a 7 gradie 22 minuti di latitudine settentrionale, quando un vio-lento turbine od oragano ci tolse quasi i sensi del tutto.Venuto dal sud-est (scirocco) passato quasi al nord-vest(maestro) si fermò al nord-est (greco), donde infuriavasì tremendamente, che per dodici giorni continui nonpotemmo se non derivare, e fuggendo dinanzi ad essolasciarci trasportare ove il destino e il furore del turbineci spingeva. Non ho bisogno di dire che durante questidodici giorni io m'aspettai ad ogni istante di rimaneresommerso, nè da vero fuvvi alcuno nel vascello che spe-rasse di avere salva la vita.

In tale stato d'angoscia avemmo, oltre al terrore pro-dotto dalla procella, uno de' nostri marinai morto di feb-bre maligna, un altro ed un mozzo portati via da un'on-data. Verso il duodecimo giorno, essendo alquanto ri-messa la burrasca, il capitano, misurata la nostra posi-zione meglio che potè, trovò di essere a circa 11 gradi dilatitudine settentrionale, ma lontano dal capo di Sant'A-gostino per una differenza di 22 gradi di longitudine oc-cidentale; onde a questi conti eravamo arrivati verso lacosta della Guiana, o sia parte settentrionale del Brasile,oltre il fiume delle Amazzoni e verso l'Orenoco, dettocomunemente il Gran Fiume. Principiò quindi a consul-tarmi sul partito da prendersi, perchè il vascello avea

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molte falle, ed era sì mal andato, ch'egli credea ne con-venisse tornare addietro per cercar direttamente la costadel Brasile.

Io fui di parere affatto contrario; e guardando insiemesu la carta della costa marittima dell'America, conchiu-demmo non esservi terra abitata ove avessimo potuto ri-pararci, finchè non avessimo raggiunto l'arcipelago delleisole Caraibe. Risolvemmo pertanto di veleggiare versole Barbade; il che avremmo potuto ottenere facilmente,così almeno speravamo, in una quindicina circa di gior-ni veleggiando al largo per evitare i frangenti del golfo obaia del Messico; mentre ne sarebbe stato impossibilel'eseguire un viaggio alla costa d'Africa senza qualchesoccorso così pel nostro vascello, come per noi.

Con questo proposito cangiammo direzione volgen-doci ad uest ¼ di nord uest (un quarto di maestro) versoponente, a fine di raggiugnere qualcuna delle nostre iso-le inglesi, ove ci confidavamo di trovare assistenza; mail destino avea determinato diversamente, perchè quan-do ci trovammo alla latitudine di 12 gradi e 18 minuti,ne sopravvenne da ponente con lo stesso impeto dellaprima burrasca una seconda, da cui fummo tratti sì fuordella via d'ogni umano consorzio che, ov'anche le vite dinoi tutti si fossero salvate dall'onde, eravamo in pericolodi essere divorati dai selvaggi, anzichè nella possibilitàdi rivedere i nativi nostri paesi.

Ci trovammo in tali strette, e continuava a soffiare ilvento tremendamente, allorchè la mattina di buon'orauno de' nostri marinai gridò ben forte: Terra! ed appena

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fummo corsi fuor della nostra camera nella speranza divedere almeno in qual parte del mondo fossimo, il va-scello urtò contro ad un banco di sabbia. La violenzadella sua fermata fu tanto forte, che il mare gli salì sopracon formidabile violenza, a tal che per un comune istin-to ci ritirammo tutti dietro al castello di poppa, per ripa-rarci dagli immensi sprazzi dell'onde.

Non è cosa facile per chi non siasi trovato in un simi-le caso il descrivere o concepire la costernazione d'uo-mini ridotti a tal punto. Non sapevamo affatto nè dovefossimo, nè su qual terra saremmo trasportati, se in unaisola o in un continente, se in un paese abitato o disabi-tato; e poichè il furore del vento imperversava tuttavia,se bene un poco più mitigato di prima, non avevamogrande speranza di governare il vascello per molti minu-ti senza che andasse in pezzi, semprechè il turbine, ciòche sarebbe stato una specie di miracolo, non voltassead un tratto da un'altra banda. In una parola, noi ci se-demmo guardandoci in faccia gli uni con gli altri, aspet-tando a ciascun momento la morte, e preparandoci tuttidi comune accordo per l'altro mondo, perchè in questoci restava omai poco o nulla da fare per noi. Il nostroconforto del momento, e tutto il conforto che avemmo,si fu che il vascello non era per anche andato in pezzi, eaggiungasi la notizia datane dal capitano, che il ventocominciava a sminuire.

Pure, ancorchè fossimo convinti di questa lieve dimi-nuzione, il vascello si era troppo saldamente fitto entrola sabbia che non ci rimaneva più speranza di rimetterlo

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al mare. In sì spaventosa condizione non avevamo altropartito fuor quello di salvare le nostre vite come meglioavremmo potuto. Prima della burrasca avevamo a poppauna scialuppa, ma sfondatasi contro al timone e infran-tesi le corde che la teneano, andò a sommergersi e ilmare la trascinò lontano da noi. Su questa pertanto nonsi poteva sperare. Ne avevamo un'altra a bordo; ma nonsapevamo bene come lanciarla in mare; pure non vi eraluogo a discutere, perchè ci aspettavamo ad ogni minutoche il vascello si spezzasse, e qualcuno dicea che era giàspezzato.

In tale istante di disperazione l'aiutante del vascellodiè di piglio alla scialuppa, e fattosi aiutare dagli altrimarinai, congiuntamente la fecero saltare dal di sopradell'anca del vascello nell'acqua. Dopo esserci lanciatitutti entro di essa (eravamo rimasti in numero di undici),la lasciammo andare mettendoci alla mercede di Dio edel mare infuriato; perchè, se bene la burrasca fosseconsiderabilmente diminuita, pure il mare andava alto acoprire la spiaggia, e potea ben esser detto den wild zee(mare selvaggio), come gli Olandesi chiamano il marein burrasca.

Allora la nostra posizione si fece sempre più deplora-bile, perchè vedevamo patentemente divenuto sì grossoil mare che la scialuppa non ci potendo tenere, saremmorimasti inevitabilmente annegati. Non vi era il caso diveleggiare perchè non avevamo vele, nè, se ne avessimoavuto, avremmo potuto far nulla con esse. Remigammodunque verso terra, benchè col cuore depresso come uo-

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mini che andassero al patibolo. Comprendevamo bentutti che, appena la scialuppa sarebbe più vicina allaspiaggia, anderebbe in mille pezzi per l'urto del mare.Pure raccomandammo fervorosamente le nostre anime aDio, poi affrettammo con le nostre mani medesime lanostra distruzione, spingendo con troppa gagliardia lascialuppa verso la spiaggia contro cui già la spingeva lostesso vento.

Quale spiaggia si fosse, se scoglio o banco di sabbia,se montagna o pianura, non lo sapevamo. L'unica ombradi speranza che ragionevolmente potea rimanerne, si eraquella d'incontrarci in qualche baia o golfo o foce di fiu-me, entro cui potessimo per gran ventura introdurre lanostra scialuppa, metterla a sotto vento e forse navigarein un'acqua più tranquilla. Ma non v'era alcuna apparen-za di ciò, e quando fummo più vicini alla costa, la terraci si mostrò più spaventosa del mare.

Dopo aver remigato, o piuttosto esserci lasciati tra-sportare dal vento per circa una lega e mezzo, come locongetturammo, una furiosa ondata simile ad una mon-tagna ci corse alle spalle, e ne fece presentire compiuta-mente il colpo di grazia. Ci venne addosso con tal furo-re che, capovolta la scialuppa, ci disgiunse da questacome gli uni dagli altri, dandone appena il tempo didire: Oh Dio! perchè in un momento fummo tutti ingo-iati dalle onde.

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XI. Il solo rimasto fra i naviganti.

Non posso descrivere io medesimo la confusione de'miei pensieri allorchè mi trovai immerso nell'acqua;perchè se bene io sia abilissimo notatore, non potei libe-rarmi dalle onde tanto da prender fiato, finchè l'onda chemi avea condotto, o piuttosto trascinato per lungo trattoverso la spiaggia, non fu tornata addietro, lasciandomiquasi a secco sopra la costa, ma mezzo morto per l'ac-qua che avevo bevuta. Una certa previdenza e le pocheforze rimastemi, mi secondarono abbastanza per levarmiin piede, appena m'accorsi di essere più vicino alla terraferma di quanto mi fossi aspettato, onde mi sforzai dicorrere verso questa con ogni possibile celerità primache un'altra ondata tornasse ad investirmi; ma mi appar-ve subito l'impossibilità di evitar questo sconcio, perchèvedevo il mare corrermi dietro alto come una gran mon-tagna e furioso come un nemico contro al quale io nonavea mezzi per resistere o guerreggiare. Tutti i mieiespedienti allora si riducevano a tenere il fiato, ed alzar-mi su l'acqua se avessi potuto, indi nuotando e serban-domi, fin che ci riusciva, a galla per conservarmi la re-spirazione, veder di condurmi da me medesimo verso laspiaggia. La mia maggior paura si era che l'onda, dal cuiarrivo sarei stato trasportato verso la terra, nel retrogre-dire non mi trascinasse nuovamente seco nel mare.

L'ondata che ritornò ad assalirmi, mi tuffò di bottoentro la sua massa per un'altezza di venti o trenta piedi,

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sì che per lungo tratto mi sentii trasportato violentemen-te e con grande velocità verso la spiaggia. Dal canto miomi aiutai tenendo il fiato per venire a galla, e per avan-zarmi sempre di più al nuoto. Benchè poco mancasseche non mi scoppiasse nel far questo sforzo una vena,pervenni a mio grande conforto con la testa e la manofuori dell'acqua, nella qual posizione benchè io non po-tessi mantenermi più di due secondi, ciò fummi di moltosollievo non tanto pel breve respiro, quanto pel nuovocoraggio che me ne derivò. Rimasi nuovamente copertodall'acqua per un altro buon intervallo, pur non sì lungoch'io non potessi durarla, finchè, accorgendomi che ilfurore di questa ondata andando estinguendosi essa re-trocedeva, feci forza per avvicinarmi di più al lido primache ne tornasse una terza, e toccai di nuovo coi miei pie-di la terra. Dopo essermi fermato pochi momenti per ri-pigliar fiato, mi raccomandai alle calcagne, correndocon quanta forza mi restava verso il lido. Ma nemmenociò valse a liberarmi dal furore del mare, che venuto an-cora ad assalirmi per più di due volte, mi sollevò con leproprie acque, portandomi per altro sempre innanzicome da prima, perchè la riva era piatta del tutto.

L'ultima di queste due volte andò ben poco lontanodall'essermi fatalissima, perchè l'ondata trasportandomi,come dianzi, mi condusse o piuttosto mi battè contro aduna punta di scoglio con tanta veemenza, che toltimi isensi, mi lasciò affatto incapace di aiutarmi da me me-desimo per non perire, sì gagliarda fu la botta che nesoffersi al fianco e alla testa; e certamente, se un'altra

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onda fosse sopravvenuta immediatamente, io rimanevasoffocato senza riparo nell'acqua; ma riavutomi alcunimomenti prima di questo ritorno, e vedendo come iofossi per essere investito ancora dal mare, presi il partitodi attaccarmi forte ad un pezzo dello scoglio, e di tenere,se mi riusciva, il fiato in tale postura, finchè l'onda fossetornata addietro. Questa volta, poichè le acque non era-no tanto alte come in principio, essendo la terra ognorpiù vicina, mi ressi meglio fino all'istante dello sbassarsidell'acqua, per lo che l'ultima ondata, ancorchè mi giun-gesse addosso, non mi sommerse entro di sè, nè mi tra-sportò seco; quindi appena rimasto in libertà di prendereuna corsa, toccai la terra ferma, ove inerpicatomi agliscogli della costa, a mio gran conforto mi trovai sedutosu l'erba, fuor di pericolo e libero affatto dal timore chequivi l'acqua tornasse a sorprendermi.

Raggiunta allora in tutta sicurezza la terra, sollevai gliocchi al cielo ringraziando l'Ente supremo per essersidegnato di farmi salva la vita in tal caso, che pochi mi-nuti prima non dava quasi luogo a qual si fosse speran-za. Credo sia impossibile l'esprimere con adeguati coloriquale sia l'estasi, quale il delirio di gioia d'una creaturache si veda sottratta come per un prodigio al sepolcro;ne mi maraviglio ora se quando e stata decretata la gra-zia di un malfattore, da notificarsegli per altro sol quan-do legato e col capestro al collo sta per ricevere l'ultimascossa, si usa farlo accompagnare da un chirurgo che glilevi sangue all'atto di un tale annunzio, e questo affinchèla sorpresa della gioia non ne scacci gli spiriti vitali dal

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cuore e lo uccida, perchè Si muore di piacer come d'af-fanno.

Con le mani alzate, e la mia esistenza, per così espri-mermi, tutta assorta nella contemplazione del prodigioche m'avea liberato, io camminava qua e là per la spiag-gia facendo mille atti e gesti che mi studierei indarnodescrivere, e meditando su la probabilità che tutti i mieicompagni fossero rimasti vittime delle acque, e che nonvi restasse di quel la brigata altro uomo salvo fuori dime. In fatti non vidi più mai in appresso veruno di essi,nè altro vestigio loro fuor di tre cappelli, un berrettone edue scarpe scompagnate.

Voltati gli occhi al vascello arrenato, che io poteva di-scernere di mezzo a qualche apertura delle alte e tempe-stose onde, e ciò a fatica, tanto era esso lontano, io an-dava meditando fra me: “Gran Dio; è egli possibile ch'ioabbia toccata la spiaggia?”

Confortatomi così in pensando a questo lato favore-vole della presente mia condizione, cominciai indi aguardarmi all'intorno, per vedere in qual sorta di paeseio mi trovassi, e che cosa mi rimanesse a fare in appres-so. Allora sentii tosto deprimersi le mie contentezze,perchè in sostanza era bene spaventoso quel modo dellamia liberazione. Tutto inzuppato d'acqua, non avevopanni per cambiarmi, ne alcuna cosa da mangiare o dabere per ristorarmi; non vedevo dinanzi a me altra pro-spettiva fuor quella di perir di fame o di essere divoratoda qualche fiera. Mi contristava soprattutto il non averearmi per andare a caccia d'animali pel mio sostentamen-

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to o difendermi contra creature di qualunque genere sifossero, che volessero uccidere me per il proprio. Io nonmi trovava indosso null'altro fuor d'un coltello, d'unapipa e d'un po' di tabacco da fumare entro una scatola.Qui consisteva tutta la mia provvista; il quale pensieremi trasse in tanta costernazione che per un pezzo giraiqua e là a guisa di un delirante. Stava per sopraggiu-gnermi la notte, onde cominciai tosto a pensare qual sa-rebbe stato il mio destino, se il paese era abitato da bel-ve carnivore, perchè io ben sapeva essere quella l'ora incui vanno in cerca di loro preda.

Il solo espediente corsomi intanto al pensiere si fu dicercarmi ricovero per la notte col montar sopra un foltofrondoso albero, che vidi in poca distanza da me, simileassai ad un abete, ma spinoso. Nel dì successivo avreipensato al genere di morte ond'io dovessi morire, perchèfin qui io non vedeva alcuna prospettiva di vita. Allonta-natomi circa un mezzo quarto di miglio dalla spiaggiaper vedere se mi riuscisse di abbattermi in un po' d'ac-qua dolce per dissetarmi, ne trovai a mia grande conso-lazione; indi bevuto di questa e postomi in bocca un po'di tabacco per tener lontana la fame, venni all'albero chesalii, cercando poscia di collocarmi sovr'esso in modo dinon cadere se fossi stato preso fortemente dal sonno.Quivi tagliato un ramo corto e grosso, di cui mi feci unaspecie di randello per mia difesa, presi possessione delmio alloggiamento. Estenuato, com'io lo era, dalla fati-ca, non tardai a rimanere profondamente addormentato,onde ebbi un tal sonno tranquillo qual, cred'io, ben po-

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chi lo avrebbero dormito nel caso mio, nè penso che al-cun altro mai si sia trovato ristorato dalla sua dormitaquanto io fui dalla mia in quella occasione.

Allorchè mi svegliai era alto il mattino, bella la gior-nata, depressa tanto la tempesta, che il mare non infuria-va o si gonfiava più come il dì innanzi; ma fu un grandeoggetto per me di sorpresa il vedere come il nostro va-scello, sollevatosi durante la notte dalla sabbia ove gia-ceva, fosse state trasportato dal gonfiarsi della marea etratto ad arrenarsi in poca lontananza dallo scoglio dame menzionato dianzi, e contro al quale lanciato dall'ac-que ebbi sì mala percossa. Non essendo esso più lontanod'un miglio circa dalla spiaggia ov'ero, e sembrandomiche non isbandasse ancora del tutto, concepii un vivodesiderio di potermivi recare a bordo, per salvarne al-meno alcune cose necessarie alla mia sussistenza.

Sceso giù dal mio appartamento, tornai a guardarmiall'intorno, e la prima cosa occorsami fu la povera nostrascialuppa, che sbattuta dal mare e dal vento era venuta astare sopra la spiaggia alla mia diritta in una distanza dicirca due miglia. Camminai finchè potei alla sua dirittu-ra, ma giaceva tra essa e me un braccio d'acqua dellalarghezza quasi di un mezzo miglio. Voltai dunque ad-dietro per allora; che assai più stavami a cuore il tornarea bordo del vascello, ove io sperava raccorre qualchecosa utile al mio sostentamento.

Passava di poco l'ora del mezzogiorno, quando trovaiil mare sì placido e il riflusso in tanta declinazione, chepotei portarmi con le mie gambe alla distanza di un

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quarto di miglio dal vascello, e qui, oh quanto si rinno-vellarono i miei cordogli! perchè qui ebbi il pieno con-vincimento che se fossimo rimasti a bordo, ci saremmotutti salvati. Intendo le nostre vite, perchè avremmo tuttiraggiunta in piena salvezza la spiaggia, nè io mi sareiveduto a tal segno di miseria in questo attuale stato diperfetta solitudine e desolazione; il qual pensiere mi co-strinse a spargere nuove lagrime; ma poichè non vedevorimedio a ciò, risolvei tentare di raggiugnere, se pur fos-se stato possibile, il naufragato vascello. A tal fine spo-gliatomi de' miei panni, perchè il caldo del clima era ec-cessivo, mi posi al nuoto; ma quando io fui presso al va-scello mi offerse una difficoltà anche più grave il nonvedere come avrei potato penetrarne a bordo, perchè es-sendo esso arrenato ed altissimo fuori dell'acqua, non miveniva il destro d'alcuna cosa cui aggrapparmi. Giraidue volte a nuoto intorno ad esso, e sol la seconda volta,chè ben mi maraviglio del non averlo notato di primagiunta, m'accorsi d'un picciolo pezzo di corda che pen-dea dalle catene delle sarte di trinchetto, abbastanza abasso perchè potessi, non per altro senza molta fatica,impadronirmene e giungere, accomandandomi a quello,al castello di prua. Trovai allora il vascello tutto con-quassato e grande quantità d'acqua nella stiva; ma stavapuntellato in tal guisa sopra un banco di fitta sabbia opiuttosto di terra, che mentre la sua poppa rimanea sol-levata su questo suolo, la prora toccava quasi la superfi-cie dell'acqua, onde quanto stava tra le parasarchie dimaestra e la poppa era intatto ed asciutto: perchè potete

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ben immaginarvi che le mie prime indagini si portaronoad avverare lo stato delle provvisioni, rinvenute tuttenon danneggiate punto dall'acqua; e v'immaginerete an-cora che, dispostissimo com'ero a mangiare, corsi innan-zi di far altro al deposito del pane, ove empiei i miei ta-schini di biscotto, e ne mangiava mentre spedivo in unoaltre faccende, perchè tempo da perdere io non ne avea.Trovai parimente nella camera del capitano una quantitàdi rum, del qual liquore mi bevei una buona sorsata, chèda vero avevo bisogno di rinforzarmi lo spirito conquelle belle espettazioni che mi stavano innanzi. Or nonmi mancava altro che una barca, per caricarvi entro lemolte cose ch'io prevedeva mi sarebbero bisognate.

Era inutile il fermarsi a sospirare quello che era im-possibile avere, la quale estremità aguzzò invece il miointelletto nello scandagliare ciò che poteva surrogarsi aquanto mancava. Avevamo nel nostro legno parecchipennoni da rispetto, tre grandi stanghe d'abete ed uno odue alberi di gabbia di riserva. Con questi materiali miposi all'opera, lanciando fuori del bordo i meno pesanti,dopo aver raccomandato ciascuno d'essi con una cordaper rimanerne padrone: ciò fatto e portatomi al fiancoesterno del vascello, tirai a me questi legnami e con unacorda ne legai quattro il meglio che potei ad entrambe leestremità; indi posti in croce sovr'essi due o tre piccolipezzi di assi, vidi come tutto ciò potesse prestarmi otti-mamente l'ufizio di una zattera, ancorchè non atta a por-tar grandi pesi, attesa la leggerezza delle tavole. Alloragiovatomi della sega del carpentiere feci un albero di

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gabbia in tre parti, che aggiunsi alla mia zattera; lavoroche mi costò al certo non poco stento e fatica, ma la spe-ranza di procacciarmi ciò che sarebbe stato necessario almio sostentamento, mi dette animo ad eseguire cose aldi là di quante sarei stato abile a compiere in tutt'altrecircostanze.

XII. Le zattere.

La mia zattera era portata ora a tale stato da poter so-stenere qualunque ragionevole peso; onde i miei pensie-ri successivi furono su le cose di cui l'avrei caricata e sulmodo di preservarle dalla risacca9 del mare; ma su que-sto secondo punto non fermai a lungo le mie considera-zioni. Vi trasportai dunque quante bande e assi mi vennefatto raccogliere e tre casse di marinai, ch'io aveva aper-te forzandone le serrature, votate e calate su la mia zat-tera per empirle indi come feci di vettovaglie, vale adire, pane, riso, tre formaggi d'Olanda, cinque pezzi dicarne secca di castrato (genere d'alimento di cui aveva-mo già fatto grand'uso durante la navigazione), ed unpiccolo rimasuglio di grano d'Europa, trasportato connoi per nudrire alcuni polli che in appresso furono ucci-si. Tra questi grani vi era qualche poco di orzo e di fru-mento, che m'accorsi di poi con mio grande rincresci-mento essere stato mangiato o guastato affatto dai sorci.Circa a liquori, ne trovai cinque casse di fiaschetti tra

9 Grande ondata.

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cui alcuni di cordiali spettanti al capitano, ed in tutto trai venti ed i ventiquattro boccali di rack. Questi gli allo-gai in disparte, e perchè non vi era bisogno di metterlinelle casse, e perchè non ci era nemmeno più posto peressi. Mentre io stava facendo tali cose notai che la ma-rea saliva, placidissima per dir vero, ma ciò non mi tolsela mortificazione di veder galleggiare sovr'essa la miacamicia, la mia camiciuola e il mio giustacuore che avealasciati sopra la sabbia; chè quanto alle mie brache ditela sottile aperte al ginocchio e alle calze le avevo tenu-te. Tal vista ciò non ostante mi fece avvertito di unire in-sieme panni da vestirmi de' quali trovai copia bastante,ma non ne presi meco oltre al bisogno del momento,perchè aveva in mira cose di maggior entità, e soprattut-to il munirmi di stromenti da lavoro per quando sareitornato sopra la spiaggia. Di fatto dopo lunghe ricerchetrovai la cassa del carpentiere più preziosa all'uso mio inquel momento, che nol sarebbe stato un galeone caricod'oro. La misi nella mia zattera senza nemmeno guar-darci entro, perchè conosceva a un di presso tutto ciòche in essa si contenea.

Il mio successivo pensiere fu quello di provvedermid'alcune armi e munizioni. Trovandosi nella grande ca-mera due eccellenti moschetti da caccia e due pistole, diqueste cose primieramente m'impossessai oltre ad alcunifiaschetti di polvere, un sacchetto di pallini e due ruggi-nose spade. Io sapeva che dovevano essere nel vascellotre barili di polvere, benchè ignorassi ove il nostro can-noniere gli avesse collocati; e a furia d'indagini li trovai:

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due de' quali asciutti e buoni, il terzo bagnato. Presi idue primi nella mia zattera insieme con l'armi. Vedendo-mi allora assai ragionevolmente carico cominciai a nonpensare più, che al modo di guadagnare con tutti questiarnesi la spiaggia, perchè, non avendo io nè vela nèremo nè timone, il menomo venticello bastava a manda-re sossopra tutto il mio carico.

Tre cose m'incoraggiavano: primieramente un dolceplacido mare, in secondo luogo la marea che saliva ver-so la spiaggia, e per ultimo il vedere come il più piccio-lo soffio di vento che si fosse alzato, mi ci avrebbe a di-rittura spinto. Pertanto avendo trovati due o tre remi rot-ti che spettavano alla scialuppa, e fra gli stromenti con-tenuti nella cassa del carpentiere due seghe, un'accettaed un martello, con tutta questa provvisione m'affidai almare. Per un miglio all'incirca la mia zattera andava as-sai bene; trovai solamente che nel dirigersi verso il lidosi scostava alcun poco dal luogo ove presi terra la primavolta, la qual circostanza mi fece conoscere esserviqualche braccio di mare che s'internava nella costa,onde concepii la speranza di trovare quivi un seno o unfiume che mi facesse uffizio di porto per isbarcare tuttala mia provigione.

La cosa era come io la immaginava; perchè compar-sami innanzi una piccola apertura di terra, trovai unaforte corrente di marea che s'affrettava a quella volta; ciguidai il meglio che potei la mia zattera per mettermi inmezzo al fiume. Ma qui andai a pericolo di soffrire unsecondo naufragio, il che se mi fosse accaduto, mi

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avrebbe da vero accorato; poichè per la niuna mia co-gnizione di quella costa, la zattera andò ad arrenarsi conuna estremità in un banco di sabbia, mentre con l'altraestremità stava nell'acqua, per lo che mancò quasi unistante che il mio carico sdrucciolasse verso l'estremitàgalleggiante, e cadesse dentro nell'acqua. Feci ogni pos-sibile sforzo per piantarmi con la schiena contro allecasse a fine di tenerle ferme ne' loro luoghi; nè ardiimuovermi da tale postura, ma sempre facendo resistenzaalle casse, mi tenni in essa alla meglio per circa mezz'o-ra, nel qual tempo l'innalzamento dell'acqua mi rimiseun po' più in equilibrio; indi poco dopo, l'acqua innal-zandosi tuttavia, la mia zattera galleggiò nuovamente,onde col mio remo potei spingerla entro il canale, e go-vernando sempre all'insù mi trovai finalmente alla focedi un fiumicello che aveva terra da entrambi i lati, eduna forte corrente o marea che ascendeva. Guardai daentrambi i lati per iscegliere il luogo più opportuno ovesbarcare, non desiderando io di essere trasportato troppoalto lungo il fiume; che mi rimanea la speranza di vede-re una volta o l'altra qualche vascello sul mare. Perciòunicamente risolvetti di collocarmi quanto mai lo poteivicino alla costa.

Finalmente mi riuscì scoprire una piccola calanca alladestra riva del seno, verso la quale con grande stento edifficoltà condussi la mia zattera, e trovatomi sì vicino aterra, ch'io potea toccarla col mio remo, spinsi tosto inquella dirittura la zattera stessa; ma qui ancora tutto ilmio carico corse grave pericolo, perchè quella spiaggia

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avendo una giacitura affatto ripida o piuttosto sdruccio-levole, non vi era luogo a prender terra se non laddoveuna estremità del mio naviglio avrebbe poggiato sì inalto, che l'altra estremità sarebbesi tuffata nell'acqua, edil mio rischio tornava ad essere quello di prima. Tutta lamia virtù stette nell'aspettar tanto che la marea venissealla sua massima altezza, tenendo forte col mio remo,trasformato in áncora, il lato della zattera stessa controalla spiaggia presso ad uno spazio di terra piatta, su cuim'immaginava che sarebbe corsa l'acqua crescente; ecosì avvenne. Appena ebbi trovato abbastanza d'acqua,perchè la mia zattera vi pescasse all'incirca per l'altezzad'un piede, la spinsi su quel pezzo di terra piatta, e quivila legai e ormeggiai, conficcando sul suolo i miei dueremi, vôlti uno da un lato vicino ad una delle estremitàdi essa, l'altro presso all'estremità opposta. Rimasto cosìfintantochè l'acqua con la marea decrescente se ne fosseandata, ebbi salvi e il mio carico e la mia zattera soprala spiaggia.

La mia ultima fazione si fu quella d'investigare il pae-se e di cercare un luogo opportuno per mettervi dimora,ed ove potere assicurare le mie sostanze da quante di-sgrazie mai potessero succedere. Dove io mi fossi nonlo sapevo; non se in un continente o in un'isola; non sein una terra abitata o disabitata; nè se in pericolo o no diessere assalito da belve selvagge. Io vedeva, più lontanoun miglio da me, un monte assai erto ed alto, che pareadominarne alcuni altri posti in continuazione con essodalla banda del settentrione. Presi con me uno de' miei

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moschetti, una delle mie pistole ed un fiaschetto di pol-vere, mi portai così armato alla scoperta della cima diquesto monte, alla quale inerpicatomi con grande pena efatica, conobbi pienamente e con mia grande costerna-zione il mio destino: quello cioè di trovarmi in un'isolaaccerchiata per tutti i versi dal mare senza veruna terrain vista, salvo alcune giogaie di scogli da me lontanissi-mi e due isolette più piccole di questa, che mi giacevanoin una distanza di circa tre leghe a levante.

Trovai parimente che tutta questa mia isola era affattoincolta, e come ebbi buona ragione di credere, non abi-tata fuorchè da fiere, di cui per altro non ne vidi unasola. Notai bensì una grande abbondanza di volatili sen-za conoscerne le specie, e senza poter nemmeno sapere,quando ne ebbi uccisi alcuni, quali fossero buoni per ci-barsene e quali no. Nel tornare addietro tirai ad un gros-so uccello ch'io vidi appollaiato sopra un albero di fian-co ad una grande foresta: credo sia stato il primo mo-schetto sparatosi in quell'isola dopo la creazione delmondo. Non ebbi appena scaricata la mia arma, surse datutte le parti del bosco un'innumerabile quantità di uc-celli di parecchie specie, che empierono l'aria di confusistrilli e grida, ciascuno in conformità delle sue usatenote, niuna delle quali per altro fuvvi ch'io mi ricordassidi avere udita per lo innanzi. Quanto al grosso volatileche ammazzai, lo presi per una specie di falco, perchèsomigliava a questo animale nel colore e nel rostro, manon aveva artigli più del comune degli uccelli: la suacarne non era affatto buona da mangiarsi.

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Pago per allora di tal mia scoperta, e tornatomene allamia zattera, mi diedi all'opera di trasportare il mio cari-co sopra la spiaggia, fazione che mi portò via tutto il ri-manente del giorno. Che cosa far di me nella notte, nonlo sapevo, e nemmeno ove dormire, perchè il giacere sulterreno all'aperto mi faceva paura per la possibilità chequalche fiera venisse a divorarmi, benchè, come lo veri-ficai in appresso, non vi fosse realmente luogo a tali ti-mori.

Ciò non ostante munitomi intorno alla meglio con lecasse e le tavole che aveva trasportate alla spiaggia, mifeci una specie di capanna pel mio alloggio di quellanotte. Quanto al mio nutrimento avvenire, io non sapevaancora in qual modo mi sarei aiutato, se non che io ave-va veduto due o tre animali simili a lepri correr fuoridella foresta ove uccisi il grosso uccello col mio mo-schetto.

Cominciai indi a considerare, che avrei potuto portar-mi meco fuor del vascello una grande quantità di cosesecondo ogni probabilità utili per l'avvenire, e partico-larmente sartiame e vele ed altre minutaglie facili a tra-sportarsi; onde mi determinai di fare un'altra gita, se mifosse possibile, a bordo del vascello; e poichè io vedeacome la prima burrasca che fosse sorta, lo avrebbe ne-cessariamente posto affatto in pezzi, feci proposito dimettere in disparte ogni altra faccenda finchè non avessitirate a casa quante cose potevano ancora aversi dal nau-fragato vascello. Allora chiamai a consiglio, ben inteso,nient'altro che i miei pensieri, per decidere se avessi do-

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vuto valermi nuovamente della mia zattera; ma apparso-mi ciò impraticabile, risolvei d'andarci come prima inun momento di bassa marea; ed abbracciai questo parti-to, spogliandomi per altro prima di uscire della mia ca-panna; laonde io non aveva in dosso se non una camiciatessuta a scacchi, un paio di mutande di tela per brache,e un paio di scarpe ai piedi.

Tornato a bordo del vascello, come la prima volta, mipreparai una seconda zattera, e istrutto dalla precedenteesperienza, nè la feci sì poco maneggevole, nè la caricaitanto, e ciò non ostante vi portai dentro parecchie cose ame utilissime. Visitate, come dianzi, le provvigioni delcarpentiere, trovai due o tre sacchi di chiodi grossi epiccoli, una grande trivella, una dozzina o due di accettee soprattutto uno stromento di vantaggiosissimo uso,una mola. Tutte queste cose io mi procurai, oltre a mol-t'altre che appartenute erano al cannoniere, particolar-mente due o tre raffi di ferro, due barili di palle da mo-schetto, sette moschetti ed un altro da caccia oltre aduna nuova picciola provvista di polvere, ad un ampiosacco di pallini e ad un gran fascio di foglia di piombo;ma questo era sì pesante, che non potei alzarlo per met-terlo su l'orlo del vascello.

Nè contento a ciò, presi quanti vestiti di uomini poteitrovare, una vela di gabbia di trinchetto, un piccolo lettopensile e qualche altro letto; di tutte le quali cose carica-ta la mia seconda zattera, con mia grande consolazioneme le trassi tutte sane e salve alla spiaggia.

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Non era privo di qualche timore, che durante la mialontananza dalla spiaggia le provvigioni da me lasciateivi venissero divorate; ma tornato sul luogo non trovaialcun indizio di visitatori, salvo una specie di gatto sel-vatico seduto sopra una cassa, che appena mi vide com-parire, fuggi ad una piccola distanza, poi fermatosi sipose a sedere con grande compostezza ed aria d'indiffe-renza, acconciandosi come se avesse avuta intenzione difar conoscenza meco. Gli presentai il mio moschetto,ma non ne avendo mai udito sicuramente lo strepito nonmostrò di pigliarsene il menomo fastidio, nè veruna in-tenzione di moversi di dov'era. Allora gettai un pezzettodel mio biscotto, benchè nè fosse questo un buon meto-do per liberarmene, nè la mia provisione fosse lauta alsegno di fare il generoso con essa. Pure volli regalargli,come ho detto, questo pezzo di biscotto, e la bestia ven-ne a cercarlo, lo annasò, lo mangiò; poi convien dire chele piacesse, perchè si mise a guardare come se ne chie-desse dell'altro, ma la congedai non potendo offrirglienedi più. La bestia si ritirò.

Tirato a terra il mio secondo carico, e, dopo esserestato costretto a perdere molto tempo per aprire i barilidi polvere, e a trasportarne in più partite il contenuto,tanto erano pesanti, mi posi tosto all'opera di fabbricar-mi una piccola tenda con la vela ed alcune pertiche dame tagliate a tal fine, e sotto questa condussi ciascuna diquelle cose che sapevo più soggette ad essere guastatedalla pioggia o dal sole; indi misi circolarmente d'intor-no alla tenda tutte le casse ed i barili vuoti, per fortifi-

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carla contr'ogni improvviso assalto o d'uomini o di be-stie.

Fatto ciò, ne riparai l'ingresso con una cassa vuotaposta in piedi, indi afforzai per di dentro questa speciedi uscio con alcune tavole; steso indi per terra uno deiletti, e poste le mie due pistole al suo capezzale e lun-gh'esso il mio moschetto, mi coricai (e fu la prima voltache ciò mi accadesse sopra un letto in quest'isola), edormii un sonno tranquillissimo tutta la notte perchè eraveramente oltremodo stanco e aggravato, e dovevo es-serlo avendo dormito sì poco l'antecedente notte e fati-cato stranamente per tutto il giorno, sia nel procurarmitutte le cose tolte fuori del vascello, sia nel traghettarlealla spiaggia.

Io aveva allora un magazzino di ogni specie di robe,il più grosso, cred'io, che sia mai stato messo insiemeper un sol uomo; pure non ero contento: fintantochè ilvascello la durava in quella postura, io mi pensava indovere di trarne fuori quanto avrei potuto. Di fatto inciascun giorno al farsi della bassa marea andai a bordo,e ne ritrassi sempre or una cosa or l'altra; ma particolar-mente nella terza mia spedizione ne trasportai quanto mifu possibile di sartiame, come pure quante picciole go-mone e funicelle mi capitarono, ed un grosso ritaglio ditela riservato per risarcire ad un bisogno le vele, oltre albarile di polvere umida lasciatovi nella mia prima spedi-zione. In una parola, io portai via tutte le vele dalla pri-ma all'ultima. Unicamente fui costretto a tagliarle inpezzi, e portarne via quante potevo in una volta; che già

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non era sperabile che fossero più di verun uso comevele, ma come tela soltanto.

Ciò che soprattutto mi allegrò, si fu il trovare dopocinque o sei di tali spedizioni, ed allorquando io noncredea potermi aspettar più dal vascello alcuna cosa chefacesse al mio caso, una gran botte di pane, tre bei bari-letti di rum o acquavite, una cassa di zucchero e unabotte di fior di farina; scoperta che mi fece tanto piùestatico perchè io aveva rinunziato ad ogni speranzad'altre vettovaglie che non fossero state guaste dall'ac-qua. Votata tosto la botte del pane, lo feci su partitamen-te con pezzi di vele tagliale a tal uopo, e tutta questaroba io mi portai intatta alla spiaggia.

Nel dì successivo feci un altro viaggio, ed avendo giàspogliato il vascello di tutto quanto potea trasportarsi edessere di uso, cominciai a far man bassa su le gomone, epigliatomi primieramente a quella di tonneggio e taglia-tala in pezzi ch'io fossi buono di movere, ne composidue gomone minori ed una ansiera10; m'impadronii pari-mente di tutti i ferramenti che potei staccare; indi fatti inpezzi il pennone di civada e l'albero di mezzana, mi pro-curai quanti pezzi di legno mi ci voleano per fabbricar-mi una più grande zattera su cui caricare tutti questi pe-santi materiali adunati; poscia m'avviai verso la spiag-gia; ma la mia buona sorte cominciava ora ad abbando-narmi, perchè questa mia grande zattera era sì poco ma-neggevole e fatta grave dal suo carico, che appena entra-

10 Fune che serve a tirar le barche ne' canali della terra lungo le sponde.

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to nella calanca11 d'onde avevo sbarcate tutte le altre miemasserizie, nè potendo io governarla con l'agilità ondeaveva condotte l'altre in buon porto, la mia enorme zat-tera si capovolse, ed io con essa nell'acqua. Non ci fugran male, rispetto a me, per essere io vicinissimo allariva; ma il mio carico andò la maggior parte perduto,principalmente i ferramenti, su cui faceva gran conto peimiei bisogni avvenire. Ciò non ostante al ritirarsi dellamarea ricuperai molto sartiame ed una parte di ferra-menti, benchè ciò mi costasse una infinita fatica, avendoio dovuto, durante questa fazione, rimaner sempre tuffa-to nell'acqua. Dopo di ciò non tralasciai di tornare ognigiorno a bordo del vascello e di portarne pur via quantopotevo.

Erano tredici giorni ch'io mi trovava su questa spiag-gia, e undici le volte ch'io aveva viaggiato a bordo delvascello, nel qual tempo ne ho levato via tutto ciò cheun paio di mani d'uomo è supposto atto a portare; e cre-do bene che avrei pezzo a pezzo portato via l'intero va-scello, se mi avesse secondato la placidezza della sta-gione; ma, mentre io mi allestiva al mio dodicesimoviaggio, sentii alzarsi un vento che, per altro, a mareacalante non mi distolse dal recarmi a bordo anche questavolta; e trasferitomi nella camera del capitano, benchèanche in questa avessi tanto frugato che il fare ulterioriindagini sembrava omai tempo perduto, pure scopersiuno scrignetto con tiratoi in uno de' quali trovai due o

11 Piccolo seno di mare.

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tre rasoi, un paio di lunghe forbici, e dieci o dodici buo-ni coltelli e forchette; in un altro circa trentasei lire ster-line, alcune monete d'Europa, altre del Brasile, alcunequadruple ed altre monete d'oro e d'argento.

Risi fra me stesso alla vista di questo danaro, e ad altavoce esclamai: “Robaccia, a che cosa sei buona? Tu nonmi giovi a nulla, al gran nulla! non compensi l'incomododi levarti da terra; un di questi coltelli val più di tuttoquesto tuo mucchio. Di te non saprei in che modo ser-virmi; dunque resta dove sei, ed affondati co' resti delvascello; tu non sei tal creatura, che meriti le sia salvatala vita”. Nondimeno dopo una seconda riflessione lapresi tutta questa robaccia, e l'avvolsi entro un pezzo ditela da vele.

Io m'apparecchiava a fabbricarmi una nuova zattera,quando vidi annuvolarsi il cielo e nel tempo stesso, fat-tasi sempre più commossa l'aria, un vento freddo comin-ciò a soffiar dalla spiaggia. Capii allora, quanto divenis-se per me inutile il fabbricarmi una zattera, poichè spi-rando il vento dal lido tutto il mio pensiere doveva inquel momento consistere nel cercare di esser via di lìprima dell'alzarsi della marea, altrimenti la spiaggia nonl'avrei raggiunta più mai. Postomi per conseguenza anuotare, attraversai il canale frapposto tra il vascello e ilbanco di sabbia, nè ciò senza le sue buone difficoltà,prodotte in parte dal peso delle cose ch'io mi portavameco, in parte dall'agitazione dell'acque, perchè il ventoincalzando sempre di più, la piena burrasca avea giàpreceduta la grossa marea.

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Ad onta di tutto ciò raggiunsi la mia piccola tenda,sotto la quale mi coricai con tutte le mie sostanze dintor-no a me poste al sicuro. Il turbine infuriò tutta la notte, ela mattina guardando attorno vidi sparita ogni traccia delvascello; novità che mi sovraprese alcun poco, ma micondusse ad un tempo ad una soddisfacente considera-zione; quella cioè di non aver perduto tempo o omessaveruna sorte di diligenza per trarre al lido quante cosedel vascello stesso potevano giovarmi, onde ben pochealtre mi sarebbe rimasto a raccorne se ne avessi avuto iltempo.

Allora cessai affatto di pensare al vascello e alle suepertinenze, o se ci pensai, fu soltanto a que' rimasuglidel suo secondo naufragio che la marea avrebbe potutoportare alla spiaggia, come veramente qualche tempoappresso ce ne vennero diversi frantumi, ma di ben pic-colo uso per me.

XIII. Stanza di ricovero.

In questo momento tutti i miei pensieri si volgevanoad assicurarmi contro ai selvaggi, se qualcuno ne fosseapparso, o contro alle fiere, se pur ve ne erano in questaisola; dubitai molto su la maniera di procacciarmi un si-mile intento e sul genere di abitazione da preferire, seuna caverna sotterranea o una tenda piantata in terra; edin fine mi risolvei per l'una e l'altra cosa; del che nonsarà qui inopportuno il descrivere il modo ed il come.

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Feci presto a comprendere che il luogo in cui mi tro-vavo non era adatto a porvi stanza, particolarmente per-chè situato sopra un terreno basso, paludoso, in vicinan-za del mare, e tale che ne credevo l'atmosfera mal sana;più particolarmente poi per non trovarvisi acqua dolceda presso; mi determinai quindi a cercare un terreno piùsalubre e più convenevole al caso mio.

Postomi a considerare su le molte cose che mi sareb-bero state indispensabili nella mia posizione, trovai es-ser queste primieramente salute e acqua dolce in vici-nanza, come ho già detto; secondo un ricovero controall'ardore del sole, inaccessibile in oltre ad ogni sorta diviventi voraci, fossero questi uomini o bestie; finalmen-te la vista del mare, affinchè se Dio mi avesse mandatoa veggente un vascello, io non perdessi ogni possibilitàdi liberarmi di lì, speranza che io non sapeva risolvermia sbandire dalla mia mente.

Datomi a cercare questo terreno, trovai una piccolapianura posta a fianco di un erto poggio, che la prospet-tava presentando un piano inclinato simile al tetto di unacasa, affinchè nulla che cadesse dalla sommità del mon-te poteva venirmi sopra la testa. In oltre sotto questaspecie di tetto vedevasi praticata una cavità simile ad unpiccolo andito o ingresso della porta di una cantina; maquivi realmente non si trovava nè caverna nè via di sortaalcuna aperta nel piede del monte.

Sul verde spianato posto dinanzi all'accennata cavità,non più largo di circa cento braccia, e presso a poco duevolte altrettanto lungo, io divisai dunque di piantar la

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mia tenda innanzi alla cui porta lo spianato formasseuna specie di giardino; l'estremità di questo spianatoscendeva irregolarmente da tutte le bande a guisa dipendío che toccava il mare. Esso era al nord-nord-west(maestro-ponente) del monte, difeso quindi dal caldo inciascuna giornata finchè il sole venisse all'incirca tra po-nente ed ostro, il che in questi paesi accadea presso l'oradel tramonto.

Prima di piantar la mia tenda descrissi dinanzi all'ac-cennata cavità un semicircolo, il cui diametro da un'e-stremità all'altra teneva una distanza di venti bracciadallo stesso monte.

In questo semicircolo piantai due filari di forti paliconficcandoli nel terreno tanto che prendessero la consi-stenza di veri pilastri, la cui parte più massiccia uscivapresso a cinque piedi e mezzo da terra, terminando inpunta; i due filari distavano circa sei pollici l'uno dall'al-tro.

Pigliati allora i pezzi di gomona apparecchiatimi nelvascello, li collocai un sopra l'altro entro lo spazio la-sciato vuoto dai due filari ch'io empiei sino alla cima;indi piantai nell'interno altri pali alti circa due piedi emezzo, che s'appoggiavano e prestavano uffizio come dicontrafforte alla barriera già fabbricata; barriera sì ga-gliarda che nè uomo nè animale poteva penetrarvi od ol-trepassarla. Ciò costommi grande tempo e fatica, massi-mamente avendo io dovuto tagliar le pertiche ne' boschi,condurle sul luogo e conficcarle nel terreno.

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Non si entrava qui da porta alcuna, ma bensì per mez-zo di una specie di scala con cui si arrivava alla cimadella palizzata, e ch'io dopo essere entrato mi tirava den-tro; mercè i quali espedienti credutomi abbastanza mu-nito e afforzato contro di qualunque assalitore, dormiitranquilli i miei sonni la notte, ciò che non avrei fatto al-trimenti, benchè mi sia accorto in progresso non esservibisogno di tutte queste cautele contro al genere di nemi-ci ch'io paventava.

Entro questo mio castello o fortezza trasportai conimmensa fatica tutte le mie ricchezze, provisioni, muni-zioni e vettovaglie che vi ho già precedentemente de-scritte; poi mi feci un'ampia tenda che a fine di riparar-mi dalle piogge, qui violentissime per un'intera partedell'anno, fabbricai in doppio, composta cioè d'una piùpicciola tenda interna e d'un'altra più forte che le stavadi sopra, il tutto in oltre coperto da una grandissima telacerata ch'io mi era posta a parte nel fare incetta di vele.

Allora cessai per qualche tempo di coricarmi nel pri-mo letto che m'avea portato meco alla spiaggia; e glipreferii un letto pensile che da vero era eccellente, sic-come quello che appartenne in passato all'aiutante delcapitano del vascello.

Sol dopo avere trasportate in questa tenda tutte le mieprovisioni, e quelle prima delle altre che l'umidità poteadanneggiare, chiusi l'ingresso della tenda stessa che finqui era rimasto aperto, e di lì in poi mi giovai per passa-re e ripassare della corta scala che ho nominata.

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Compiuto tutto ciò, cominciai ad aprirmi una via en-tro al dirupo, e trasportando quanta terra e pietre scavainell'interno della mia tenda, le collocai a guisa di unosterrato che innalzò di circa un piede e mezzo il pavi-mento; così venni ad aprirmi dietro la mia fortezza unaspecie di grotta. Mi ci vollero molti stenti e gran tempoprima di aver terminate tutte queste cose, al qual finedovetti trasandarne altre che aveano seriamente occupatii miei pensieri. Non era anche condotto a tutta la suaperfezione il disegno di alzare il pavimento e di farmiuna grotta, quando annuvolatosi orridamente il cielo,cadde un tremendo rovescio di acqua, poi la mia tendafu d'improvviso illuminata da un abbagliante lampo cuisuccedè tosto, come suole accadere, un grande fragoredi tuono. Certo non mi diede tanto fastidio il lampoquanto un pensiere suscitatosi nella mia mente con la ra-pidità del lampo stesso: O mia polvere! gridai. Rimasimezzo morto al pensare come dipendesse da un soffioche la mia polvere fosse distrutta; la mia polvere su cuiaveva fondate tutte le speranze, non solo della mia dife-sa, ma in oltre del mio sostentamento; e la cosa più sin-golare si e che quasi nulla io m'affannava sul pericolo dime medesimo, benchè se la polvere avesse preso fuoco,non avrei saputo mai più che cosa potesse farmi delmale.

Tale impressione fu sì forte nell'animo mio che, ces-sato il temporale, lasciai in disparte tutti gli altri miei la-vori, tutte le mie fabbriche e fortificazioni per darmi apreparare sacchi e casse onde separare la mia polvere e

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tenerne una piccola partita in un luogo esterno, una pic-cola in un altro parimente esterno, affinchè qualunquedisgrazia fosse per succedere, non prendesse fuoco tuttain una volta, e le porzioni di essa fossero segregate inguisa che infiammandosene una non si infiammasse tut-ta la massa. Impiegai poco meno di una quindicina digiorni a terminare questa faccenda; e credo bene che tut-ta tale munizione, del peso in circa di duecento quarantalibbre, non fosse suddivisa in meno di cento parti.Quanto al barile umido, in quello stato non mi facevapaura; onde lo posi nella nuova grotta, che nella miafantasia io chiamava cucina. Il rimanente della polverelo nascosi in buche fatte entro il monte, dopo essermipreso ogni cura perchè l'umido non vi penetrasse e dopoavere contrassegnato accuratamente il luogo di ciascunripostiglio per poter trovare all'uopo le mie munizioni.

Mentre tutte le indicate cose si andavano operando,ogni giorno io usciva almeno una volta della tenda colmio moschetto sia per divertirmi, sia per vedere se miriuscisse uccidere qualche animale buono per nutrimen-to, sia finalmente per rendermi possibilmente praticodelle cose che produceva quel suolo. Alla prima di talisortite fuor della mia fortezza scopersi che nell'isola v'e-rano capre, il che mi diede grande soddisfazione, nondisgiunta per altro da un dispiacere, perchè questi ani-mali erano sì paurosi, sì leggeri e veloci al corso, che di-ventava cosa difficilissima il raggiugnerli; pure non misconfortai, nè mi abbandonò la speranza che una volta ol'altra ne avrei atterrato uno, come ben presto avvenne,

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perchè dopo aver preso un poco di cognizione de' luoghiche frequentavano, concepii il mio stratagemma per ap-postarli. Io aveva notato che se vedevano me nelle valliancorchè fossero sul monte, correvano via spaventatiterribilmente; ma se invece stavano pascolando nellevalli ed io era su le montagne, non parea che s'accorges-sero di me; per donde conclusi che per la collocazionedei loro nervi ottici la vista di questi animali diretta al-l'ingiù non raggiugnesse prontamente gli oggetti posti aldi sopra di essi; per conseguenza mi attenni sempre almetodo di prendere vantaggio su di loro, salendo lamontagna finchè essi restavano a pascolare la valle; ecosì m'accadde frequentemente di far buona caccia. Ilprimo colpo di moschetto sparato fra queste bestie ucci-se una capra che aveva il suo capriuolo poppante sottodi se, il che mi diede assai dispiacere; nè quando gliebbi uccisa la madre il capriuolo si distolse da essa, marimase al suo posto fin ch'io le fossi addosso per pren-derla; nè ciò solo, ma allorchè io me la portai su le spal-le, il capretto mi seguì fino a casa; veduta la qual cosalasciai giù la madre, e presomi quel piccolo animalettofra le braccia lo feci passare al di là della palizzata, conla speranza che lo avrei allevato e addimesticato; manon volea mangiare, onde mi vidi costretto ad uccidereanch'esso e a mangiarlo. E la madre ed il figlio mi man-tennero a carne per un bel pezzo, perchè andavo conmolta parsimonia nel cibarmi, e risparmiava le mie pro-visioni, massimamente il pane, il più ch'io poteva.

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Stabilita ora la mia abitazione vidi cosa di assolutanecessità l'assicurarmi un luogo ove far fuoco e combu-stibili per mantenerlo. Quali espedienti io prendessi a taluopo, come pure in qual modo ampliassi la mia grotta,ne darò un pieno ragguaglio a suo tempo; ma prima mi ènecessario il dire alcune poche particolarità sopra mestesso e le meditazioni da me istituite su la mia vita,che, come ognuno può ben immaginarsi, non furono po-che.

XIV. Bilancio fra i beni e i mali.

La prospettiva che stavami innanzi agli occhi era bentrista; perchè non per mia scelta erravo alla ventura inquesta isola, posta affatto giù di mano dalla via che ave-vamo intrapresa e lontana alcune centinaia di leghe dallescale dell'ordinario commercio di tutto il mondo, ma peresserci stato balzato, come fu detto, da una violenta bur-rasca; onde avevo gran ragione di ravvisare in ciò unadeterminazione del Cielo, il quale avesse deciso che inquesto desolato luogo e in questa lagrimevole guisa ioterminassi la vita mia. Copiose lagrime mi scorreano pelvolto mentre io facea tali considerazioni, e spesse volteho fin chiesto a me stesso, perchè la Providenza potesserovinare a tal ultimo grado le sue creature, e renderle sìassolutamente miserabili, sì prive d'ogni soccorso, sì de-relitte che appena sembrasse ragionevole il ringraziarlaper un tal genere di vita accordato loro.

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Ma alcun che si facea tosto a reprimere nella miamente e a riprovare tali pensieri; e particolarmente ungiorno mentre io passeggiava col mio moschetto in rivadel mare tutto intento coll'animo alle considerazioni delpresente mio stato, parve che la ragione in certo modomi chiamasse a ravvisarlo sotto un altro aspetto. “Èvero, sembravami che questa mi dicesse, voi siete in unaderelitta condizione, è vero; ma ricordatevi un poco qualsia quella degli altri della vostra brigata. Non eravateundici in quella scialuppa? I dieci dove sono? Perchèmo non si sono salvati quelli, e non vi siete perduto voi?Perchè siete stato voi distinto dagli altri? È egli meglioesser qui o là?” E nel dir là accennava col dito il mare.Tutti i mali vanno considerati con quel bene che è, e conquel peggio che potrebbe essere in loro.

Allora ricorrendomi di nuovo alla mente, come iofossi ben provveduto per la mia sussistenza, pensavoqual sarebbe stata la mia condizione se non fosse acca-duto (e ben ve n'era la probabilità di undici mila ad uno)che il nostro vascello si fosse sollevato dal luogo ore ar-renò, e se non fosse stato trasportato sì vicino alla spiag-gia, ch'io avessi avuto il tempo di procacciarmi da essotutto quanto ne trassi; qual sarebbe stato il mio caso secondannato a vivere in quella condizione che mi si of-ferse a prima giunta sopra la spiaggia, privo di tutte lecose necessarie alla vita o di quelle che son necessarie aprovvedersi di queste. “Particolarmente, io diceva adalta voce, benchè non parlassi con altri che con me me-desimo, che cosa avrei io fatto senza un moschetto, sen-

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za munizioni, senza stromenti per imprendere qualchelavoro, senza vestiti, un letto, una tenda o qualche mododi ripararmi?” E tutte queste cose io aveva ora in discre-ta quantità, ed era su la buona via di provedere a mestesso in modo da vivere, facendo senza del moschettoquando la mia munizione sarebbe finita; ora io avevauna sufficiente prospettiva di sussistere senza essenzialibisogni fin ch'io vivea; perchè aveva fatto i miei calcolifin dal principio sul modo di provedere ai casi contingi-bili dell'avvenire, non solo dopo che sarebbe finita lamia munizione, ma quand'anche sarebbero scemate lemie forze o la mia salute.

Confesso che non avevo pensato per nulla alla possi-bilità di veder distrutta in un soffio la mia munizione;intendo di vederla distrutta da un fulmine, da ciò nac-quero i pensieri che mi soprappresero quando tuonò elampeggiò, come poc'anzi osservai.

Ed ora accingendomi alla malinconica relazione diuna scena di vita taciturna, di una tal vita che forse nonse ne udì mai una simile dachè mondo è mondo, io la ri-piglierò dal suo principio, continuandola nel suo ordinedi tempo. Correa dunque il giorno 30 di settembre,quando, nel modo narrato dianzi, posi il piede la primavolta in questa orribile isola; quando il sole essendo pernoi nel suo equinozio d'autunno sovrastava esattamentealla mia testa, perchè dalle osservazioni e dai calcoli cheho istituiti, mi risultò di essere nella latitudine di 9 gradie 22 minuti al nord della linea.

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Dopo essere rimasto quivi circa dieci o dodici giornimi venne in mente che avrei perduto il computo deltempo per mancanza di libri, penne ed inchiostro, e cheavrei persino dimenticati i giorni festivi confondendolicon quelli di lavoro. Perchè ciò non avvenisse, alzai unostipite in forma di croce su la spiaggia ove presi terra laprima volta, e con un coltello scolpii sovr'esso in letteremaiuscole: IO ARRIVAI SU QUESTA SPIAGGIA IL DÌ 30SETTEMBRE 1659. Sui lati dello stesso stipite feci ognigiorno col coltello stesso una tacca che nel settimo gior-no era lunga il doppio, e questa tacca doveva esser purepiù lunga il doppio della precedente al primo giorno diciascun mese; così io tenni il mio calendario o sia regi-stro settimanale, mensile ed annuale del tempo.

Ma accadde che fra le molte cose procacciatemi dalvascello nelle parecchie gite a bordo di esso già menzio-nate, molte ne avessi ritratte di minor valore, benchènon del tutto inutili per me, le quali io trovai solamentequalche tempo dopo frugando entro le casse e partico-larmente penne, inchiostro e carta, oltre ad altre serbatenei ripostigli del capitano, del suo aiutante, del canno-niere e del carpentiere; tra queste tre o quattro compassi,alcuni stromenti matematici, quadranti, cannocchiali,carte e libri di nautica, cose tutte che unii insieme, neavessi o no il bisogno. Trovai ancora tre bellissime bib-bie che faceano parte del mio carico quando abbandonail'Inghilterra e che aveva unite al fardello de' miei arnesi;parimente alcuni libri portoghesi, e tra essi due o tre li-bretti di preci cattoliche, e molti altri che conservai con

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gran cura. Nè tralascerò che avevamo nei nostro vascel-lo un cane e due gatti, su l'eminente storia delle qualibestie mi accade qui il fare alcun cenno. I gatti me liportai entrambi meco nella prima zattera, e quanto alcane saltò fuori del vascello da sè, e venne a cercarmi anuoto fin su la spiaggia il giorno dopo che ci arrivai colmio primo carico. Ebbi in esso un fedel servitore permolti anni. Non mi mancò mai cosa ch'egli fosse buonodi cercarmi, nè compagnia che egli potesse tenermi; re-stava a desiderare che mi parlasse, ma questo non lo po-teva. Tornando dunque al primo discorso, io trovai pen-ne, inchiostro e carta, delle quali cose feci il miglior go-verno possibile; e potrò far vedere, che finchè durommil'inchiostro, tenni i miei registri con la massima esattez-za, il che non potè più avverarsi quando questo mi man-cò; ma per quanti modi mi studiassi, non mi riuscì ilfabbricare inchiostro d'alcuna sorta.

E ciò mi fa ricordare che mi mancavano molte cose amalgrado di tutte quelle che avevo adunate. Una di que-ste fu da principio l'inchiostro; ma mi mancarono poisempre e una pala e una vanga e una zappa per ismoverela terra, ed aghi e spilli e filo. Quanto a vestimenta ditela, di cui pure aveva scarsezza, il caldo m'insegnò pre-sto a poterne far senza con poca fatica.

La mancanza di stromenti per lavorare facea ch'ioprocedessi lentamente nelle mie manifatture, ed era qua-si passato un intero anno prima ch'io avessi finita la pa-lizzata e munita all'intorno la mia abitazione. I pali ostecconi, grevi sì che se fossero stati di più non avrei po-

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tuto levarli, mi portarono via lungo tempo per tagliarlied apparecchiarli ne' boschi, ed in oltre per trasportarli acasa ben da lontano; laonde mi ci voleano talvolta duegiorni fra lavoro e condotta d'un solo di questi, ed un al-tro per conficcarlo nel terreno; al qual fine io mi valsi sule prime d'un pezzo di legno pesante, indi mi ricordai de'rampiconi di ferro che trasportai dal vascello e che rin-venni di fatto; ma benchè mi rendessero un po' men ma-lagevole il piantare dei detti pali, non cessava questa diessere una fatica penosa e tediosissima. Per altro avreidovuto io, qualunque lavoro imprendessi, badare al te-dio che mi potesse costare, io che vedevo d'avere tempoanche d'avanzo? Terminato quel lavoro, tutte le mie fac-cende, almeno secondo le mie prevedenze d'allora, si sa-rebbero ridotte all'andare in giro per l'isola onde procac-ciarmi nudrimento; e tal cosa dal più al meno io la face-va ogni giorno.

Intanto datomi a meditare anche più seriamente lamia condizione e le circostanze tra cui mi vedevo, nestesi uno specificato prospetto, non certo per lasciarlo achi verrebbe dopo di me (poichè secondo ogni probabi-lità non avrei avuto di molti eredi), ma per liberare imiei pensieri dalla giornaliera molestia di affannarsi edaffiggersi su le cose che non aveano verun aspetto di vo-lersi cambiare: e poichè la mia ragione principiava ora apadroneggiare il mio abbattimento d'animo, cercai daessa i possibili conforti col mettere a confronto i maliche mi premeano, i beni che mi restavano per aver comeuna norma a distinguere il caso mio da casi anche peg-

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giori; in somma con un'assoluta imparzialità compilaiun conto di dare e avere tra i miei mali ed i beni che aquesti mano mano contrapponevo.

MALI BENI

Mi vedo gettato sopraun'isola orribile, deserta, sen-za veruna speranza di uscir-ne.

Ma son vivo e non anne-gato, come lo furono tutti glialtri miei compagni del va-scello.

Sono distinto e, può dirsi,separato da tutto il mondonell'essere un miserabile.

Ma sono distinto da tutti imiei compagni del vascellonell'essere stato risparmiato avita; e quegli che mi campòmiracolosamente dalla mortepuò liberarmi da questa con-dizione ove ora mi trovo.

Sono diviso dal genereumano, un solitario, un uombandito dal consorzio degliuomini.

Ma non sono posto a mo-rir di fame in un luogo sterileaffatto che non offra verunmezzo di sostentamento.

Io non ho panni per co-prirmi.

Ma mi trovo sotto un cli-ma caldo, ove se avessi pan-ni, potrei portarli a fatica.

Sono privo di qualunquedifesa o mezzo per resisteread ogni assalto d'uomini o difiere.

Ma sono stato gettato inun'Isola ove non vedo anima-li che possano arrecarmi no-cumento, come vidi nelle co-ste dell'Africa; che ne sareb-

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be di me se fossi colà naufra-gato?

Non trovo un'anima concui cambiare parola, o da cuisperare soccorsi.

Ma Iddio mandò prodigio-samente il vascello naufraga-to in tanta vicinanza dellaspiaggia che ho potuto ritrar-ne quante cose erano neces-sarie o a supplire ai miei bi-sogni o a darmi abilità disupplire ad essi da me mede-simo.

Dalla totalità di questo registro abbiamo una irrefra-gabile testimonianza del non esservi quasi mai una con-dizione sì miserabile di vita, che non vi sia alcun che odi bene positivo o di male negativo per cui non dobbia-mo ringraziare la Providenza.

XV. Disposizioni per provvedere ai maggiori comodi della casa edificata.

Così riconciliatomi alcun poco con la presente miaposizione e tralasciato di scandagliare ad ogn'istante ilmare per vedere se qualche vela spuntasse in fondo al-l'orizzonte, mi diedi a studiare i mezzi di uniformarmimeglio a quel mio genere di vita e di renderlo men disa-giato che per me si potea.

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Ho già detto come la mia abitazione fosse sotto unatenda innalzata a fianco di un monte, circondata da unadoppia forte barriera di stecconi e di gomone; barrierach'io potei oramai chiamare un muro, per averle postoall'intorno dalla parte esterna un parapetto di zolle, gros-so circa due piedi; e qualche tempo dopo, passato credoun anno e mezzo, feci partir da questo muro alcuni tra-vicelli che, coperti di rami d'albero e di quanto potei al-l'uopo mio radunare, divenne una specie di tetto per di-fendere tutto l'edifizio dalle piogge, qui violentissime,com'ebbi ad accorgermene in alcune stagioni dell'anno.

Ho parimente notato che trasportai tutte queste miesostanze, parte entro la palizzata, parte entro la grottascavata nel monte; ma mi conviene ancora osservarecome queste presentassero un sì confuso e disordinatoammasso di cose, che mi portavano via tutto lo spazio,onde non trovavo in mezzo ad esse luogo ove voltarmi.Mi posi pertanto all'opera d'ingrandire la mia grotta sca-vando più in dentro nel monte, il che non mi diede mol-ta fatica, perchè il massiccio di esso, di natura sabbioso,facilmente arrendevasi al mio lavoro; e poichè mi vede-vo perfettamente sicuro dalle fiere, dopo avere scavatonel fianco destro della rupe, mi volsi di nuovo a destracol mio scavamento sinchè mi trovassi affatto al di fuorie della grotta e della palizzata, con che mi procurai un'u-scita fuor della mia fortezza. Ciò mi diede non solamen-te una porta di soccorso, per così esprimermi, che miagevolava il reingresso e l'ingresso così nella palizzata

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come nella grotta, ma un maggiore spazio per allogarvile cose mie.

Ora i miei pensieri si volsero a fabbricarmi diversimobili de' quali io sentiva grandemente la privazione,quella tra l'altre di una tavola e di una scranna, perchèsenza queste due cose io non potea godere de' pochiconforti che avevo in questo mio mondo. Senza una ta-vola come scrivere, come mangiare, come fare agiata-mente molte cose che mi sarebbe tanto piaciuto di fare?Mi accinsi pertanto all'opera. Nè a questo proposito pos-so starmi dall'osservare come essendo la nostra ragionel'origine e la sostanza vera delle scienze matematiche,ciascun uomo può, ove ponderi e misuri ciascuna cosacon la ragione e deduca da questo studio razionali giudi-zi, può col tempo divenire maestro in ciascun'arte mec-canica. Io non avea mai maneggiato uno stromento d'ar-tigiano in mia vita; pure a poco a poco, a furia di fatica,di applicazione e di sforzi fatti sopra me stesso, arrivaifinalmente ad accorgermi che non mi mancava cosa laquale io non fossi stato buono di farmi, massimamentese avessi avuto i necessari stromenti. Pure moltissime nefeci anche senza di questi ed alcune con non altri arnesiche un'accetta e una pialla, che forse non furono maiadoperate a simile uso; ciò per altro non senza un'im-mensa fatica. Per esempio, se mi bisognava un asse, ionon aveva a far altro che abbattere un albero, metterme-lo transversalmente dinanzi, e spianarlo ad entrambe lesuperficie con la mia accetta finchè fosse ridotto all'in-circa alla sottigliezza d'un asse, poi lo rendeva liscio con

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la mia pialla. È ben vero che con questo metodo non po-teva cavare se non un asse da tutto un albero; ma a ciò,come pure all'enorme dispendio di tempo e di fatica chemi ci voleva per fare un asse, io non aveva altro rimediofuorchè la pazienza; d'altronde il mio tempo e la miaopera erano sì a buon mercato che tanto facea per mel'impiegarli in un modo quanto in un altro.

Ciò non ostante la tavola e la scranna che mi fabbri-cai, come ho detto da prima, furono costrutte coi cortipezzi di asse portati via dal vascello su la mia zattera.Alcune altre assi che mi procurai nel modo dianzi indi-cato, mi giovarono a fare ampi scaffali della larghezzadi un piede e mezzo collocati un sopra l'altro lungo unaparete della mia grotta per annicchiarvi tutti i miei arne-si, chiodi e ferramenti, ed in una parola per tenere tuttele cose mie in tal conveniente distanza l'una dall'altra,da non far fatica a trovarle quando ne avevo bisogno.Conficcai alcuni piuoli nel muro del monte per sospen-dervi i miei moschetti e tutti quegli attrezzi atti ad esseretenuti in tal modo; laonde chi avesse veduta la mia grot-ta, gli sarebbe apparsa un magazzino generale di tutte lenecessarie provisioni; ed io di fatto avea ciascuna diesse sotto la mano in tal guisa ch'io poteva altamentecompiacermi di vedere tutte le cose mie in tanto buonordine, e specialmente di vedere dintorno a me tanta ab-bondanza d'oggetti i più necessari.

Fu questo il momento in cui mi nacque il pensiere ditenere un registro de' miei lavori di ciascun giorno; per-chè da vero su le prime io era tanto stravolto, nè solo in

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conseguenza della fatica, ma pel disordine fattosi nellamia mente, che anche il mio giornale sarebbe stato pie-no di memorie confuse; per esempio avrei scritto così:“Ai 30 settembre, dopo avere raggiunta la spiaggia edessere campato dal pericolo di annegarmi, in vece di rin-graziar Dio per la mia liberazione, avendo prima vomi-tato una grande copia d'acqua salata, di cui m'ero em-piuto lo stomaco, e riavutomi alcun poco, corsi su e giùper la spiaggia, contorcendomi le mani e battendomi te-sta e faccia e sclamando nella mia miseria e gridandoforte: Son disperato! son disperato! finchè spossato edebole fui costretto stendermi sul terreno per riposare,ma non ardii prender sonno per la paura dl essere divo-rato”.

Alcuni giorni appresso, e dopo essere stato a bordodel vascello per ritrarne quante cose potei, non avreiavuto testa per fare un giornale meglio che nei primigiorni, perchè non poteva starmi dal salire su la cima diun monticello e di guardar fiso il mare con la speranzadi vedere un qualche vascello. La fantasia mi dipingevauna vela ad una distanza immensa, ed io pascendomi diquesta speranza mi mettevo con gli occhi immobili a ri-schio quasi di perderli; poi mancatami d'un tratto questasperanza, mi buttavo seduto in terra, piangevo come unfanciullo e il mio stato di demenza accresceva la mia de-solazione.

Ma giunto a superare fino ad un certo grado questitravagli, assicuratomi un'abitazione, e messe a posto lemie sostanze, fattomi una tavola e una scranna, arriden-

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domi all'intorno quella poca felicità ch'era sperabile nelcaso mio, principiai a tenere il mio giornale, di cui quivi presento una copia, benchè vi troverete la ripetizionedi alcune particolarità già descritte. Esso non è più lun-go del tempo che durai a scriverlo perchè, mancatomil'inchiostro, dovei dimetterne il pensiere.

30 settembre 1659. Io povero miserabile RobinsonCrusoè naufragato, durante una spaventosa burrasca,dall'impeto delle onde fui gettato a terra in una orribile esfortunata isola che chiamai l'Isola della disperazione.Gli altri miei compagni del vascello rimasero annegati,io poco meno che morto.

Passai tutto il rimanente della giornata nel desolarmisu le tremende circostanze cui mi vidi ridotto, perchè ionon aveva nè cibo, nè casa, nè panni per cambiarmi, nèluogo ove rifuggirmi. In quella disperazione d'ogni soc-corso io non vedeva se non la morte dinanzi a me, o ri-manessi divorato dalle fiere o trucidato dai selvaggi, operissi di fame per mancanza di nutrimento. Al soprag-giugnere della notte dormii sopra un albero per la pauradi essere sorpreso da esseri malefici, fossero uomini sel-vaggi, fossero belve; pure dormii profondamente benchèpiovesse tutta la notte.

1 ottobre. Nella mattina vidi con mio grande stuporeche il vascello sollevatosi con l'alta marea, era stato por-tato sopra un banco di sabbia assai più vicino all'isola, laqual vista fummi di conforto per una parte, perchè ve-dendo il vascello stesso diritto su la sua chiglia nè anda-to in pezzi, concepii la speranza, se il vento cessava, di

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andarvi a bordo e di trarne fuori e nutrimenti ed altrecose necessarie a tenermi in vita anche per qualche tem-po; ma d'altra parte la stessa vista mi rinnovellò il cor-doglio della perdita de' miei compagni che, se non aves-sero abbandonato il vascello, sarebbero riusciti a salvar-si o almeno non sarebbero rimasti annegati, come lo fu-rono; e scampandosi gli uomini avremmo forse potutotutti insieme fabbricare con gli avanzi del legno naufra-gato una scialuppa che ne avrebbe condotti in qualchealtra parte del mondo. Perdei molto tempo di questogiorno in tali perplessità, ma finalmente, vedendo che ilvascello posava quasi affatto su l'asciutta sabbia, me gliavvicinai quanto mi fu possibile; indi superato a nuoto iltratto d'acqua che me ne disgiungeva, vi entrai a bordo.Tutta questa giornata continuò ancora piovendo benchènon facesse vento del tutto.

Dal 1 al 24 detto. Questi giorni furono interamenteimpiegati in viaggi dall'isola al vascello per cavarne fuo-ri tutto quel bisognevole che mi riuscì, trasportandolocoll'ingrossar delle maree sopra zattere. Continuò sem-pre a cadere molt'acqua dal cielo, non senza per altro al-cuni intervalli di buon tempo; ma a quanto sembra eraquella la stagione delle piogge. In uno de' suddetti giorni(fu il 20) mi andò sossopra la mia zattera, e con essa tut-te le provisioni ch'io vi trasportava caddero in mare; maciò mi avvenne in acqua bassa, e le cose cadute essendoassai grevi, le ricuperai quasi affatto a marea calante.

25. Tutto il giorno e la notte durò la pioggia accompa-gnata da folate di vento; fattesi queste più violente, andò

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in pezzi il vascello che non si lasciò più vedere, eccettoalcuni frantumi di esso, e ciò in tempo di bassa marea.Impiegai questa giornata nel coprire, affinchè la pioggianon me le mandasse a male, le mie sostanze.

26. Girai tutto il dì qua e là per la spiaggia in cercad'un luogo ove mettere la mia dimora, premurosissimosempre di guarentirmi dagli assalti d'ogni sorta di nemi-ci viventi. Sceltomi sul far della sera un sito adatto al disotto di un monte, contrassegnai con un semicircolo lospazio del futuro mio accampamento, ch'io divisai forti-ficare all'intorno con uno steccato doppio di pali imbot-tito internamente con pezzi di gomona e munito di zolleal di fuori.

Dal 26 al 30 non perdonai a fatica per trasportare tuttele cose mie nella nuova abitazione, e ciò a malgradoquasi sempre di un'orrida pioggia.

31. Alla mattina andato per l'isola col mio moschettoa fine di procacciarmi nutrimento e di scoprire paese,uccisi una capra il cui capretto mi seguitò sino a casa;ma dovetti ammazzare anche questo perchè non volevamangiare.

1 novembre. Al di sotto del monte, piantai la mia ten-da sotto la quale dormii questa notte la prima volta; latenni larga quanto potei, mercè di stecconi, alle cuiestremità raccomandai il mio letto pensile.

2. Ordinai tutte le mie casse e i miei legnami, com-presi quelli di cui mi era servito a fabbricarmi le zattere,formandone un semicircolo di fortificazione un po' piùin dentro della prima cinta.

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3. Uscito di casa col mio moschetto uccisi due uccellisomiglianti ad anitre salvatiche, veramente eccellenti amangiarsi. Dopo il mezzogiorno mi accinsi all'opera difabbricarmi una tavola.

4. In questa mattina ripartii l'ordine delle operazionidella giornata, il tempo cioè di andare a caccia, quello didormire, quello di ricrearmi. Ogni mattina pertanto, senon piovea, faceva una passeggiata di due o tre ore colmio moschetto; alle undici in circa mi metteva al lavorodella mia tavola; poi mangiavo alla meglio ch'io poteva.Dalle dodici alle due mi coricavo per dormire, così vo-lendolo la stagione eccessivamente calda. Sul far dellasera mi rimettevo di nuovo al lavoro che in tutto questogiorno e nel successivo consistè nel fabbricarmi la miatavola, perchè ero tuttavia un gran tristo artigiano; ben-chè in appresso il tempo e il bisogno mi abbiano resonaturalmente un compiuto maestro d'arti meccaniche,come credo che nel caso mio sarebbe accaduto a qua-lunque altro.

5. Andando attorno col mio moschetto, e in compa-gnia del mio cane, uccisi un gatto salvatico la cui pelleera morbidissima, ma la carne buona a nulla; perchè eramio costume il levare e conservare le pelli di quanti ani-mali ammazzava. Tornando addietro lungo la riva delmare notai molti uccelli acquatici di cui non seppi cono-scere le specie; ben rimasi attonito e poco meno chespaventato al vedere due o tre vitelli marini che, mentreio stava contemplandoli, perchè non sapevo bene se tali

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fossero, guizzarono nel mare e per questa volta mi sisottrassero.

6. Dopo la mia passeggiata della mattina tornai anco-ra al lavoro della mia tavola, che terminai finalmente,ma non mi garbava gran che; pare non andò guari chevidi come correggerne i difetti.

Dal 7 al 12. Col primo di questi cominciò a stabilirsila bella stagione. Venendo fino ad una parte del 12 edeccettuato l'11 che, secondo i miei conti, era una dome-nica, impiegai il tempo nel fabbricarmi una scranna, equanto mi affaccendai per ridurla ad una tollerabile for-ma, senza che mai ne fossi contento! anzi nel farla e ri-farla più d'una volta la misi in pezzi.

Nota. Feci presto a trascurare il registro delle domeni-che, perchè omesso una volta di contrassegnarle con latacca più lunga nel mio stipite, dimenticai in qual giornocadessero12.

13. Piovè tutto questo giorno, il che mi refrigerò oltreogni dire e rinfrescò pure la terra; ma l'acqua venne ac-compagnata da terribili tuoni e lampi che mi feceroun'orrida paura a cagione della mia polvere. Cessato ap-pena il temporale, mi determinai a separarne la provisio-ne nel maggior numero possibile di partite, perchè nonrimanesse tutta in pericolo.

12 Pare veramente che avendo contrassegnata, come ha detto altrove la pri-ma, non gli dovesse costare gran fatica il rimettere in ordine il suo registro; masol tardi, come lo dice in appresso, cominciò ad essere un buon Cristiano, equindi a darsi una certa cura di distinguere i giorni festivi.

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Dal 14 al 16. Passai quindi questi tre giorni facendotante cassette o scatolette quadrate, ciascuna delle qualinon portasse se non una libbra o due al più di polvere;indi posto in ciascuna di esse il suo carico le allogai inripostigli sicuri e lontani quanto mi fu possibile l'unodall'altro. In uno di questi tre giorni uccisi un grande uc-cello di una carne buona a mangiarsi; come si chiamas-se, non l'ho mai saputo.

17. In questo giorno cominciai a scavare dalla miatenda entro la rupe per acquistarmi quel maggiore spa-zio che mi conveniva.

Nota. Per un tale lavoro mi mancavano alcune essen-zialissime cose, vale a dire, una zappa, una vanga, unacarriuola, o almeno un canestro; laonde prima d'accin-germi all'opera pensai al modo di supplire alla mancan-za degl'indicati stromenti. Quanto alla zappa, mi valside' rampiconi di ferro che trovai sufficienti al mio uopo,benchè di soverchio pesanti; ma l'altro stromento, lavanga, era di si inevitabile necessità, che da vero io nonvedeva la possibilità di venire a termine di nulla senzadi esso, nè sapeva a quale degli stromenti che io posse-deva potessi farne fare le veci.

Dal 18 al 22. Nel giorno successivo cercando per leforeste, trovai un albero di quel legno o simile a quel le-gno che gli abitanti del Brasile chiamano per la sua du-rezza legno di ferro. Di questo con grande fatica, e nonsenza rovinar quasi affatto la mia accetta, tagliai un pez-zo, che anche il trasportarmi a casa non mi costò pocadifficoltà, tant'era pesante. L'eccessiva durezza di questo

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legno, e il non avere altra materia di cui valermi, mifece perdere un gran tempo in tale lavoro, il che appari-rà chiaramente ove io dica che a poco a poco lo ridussieffettivamente alla forma di una vanga. Nel manico essasomigliava esattamente le nostre vanghe inglesi, ma laparte piatta non essendo di ferro non poteva durarmilungamente; nondimeno mi servì abbastanza per gli usiai quali dovetti adoperarla; certamente non fuvvi vanga,cred'io, foggiata in questa maniera o costata sì lungotempo per fabbricarla. Non era ancora provveduto abba-stanza, perchè mi mancava un canestro e una carriuola.Un canestro non poteva farmelo in nessuna maniera,perchè io non aveva fin allora intorno a me, o almenonon l'aveva trovata, veruna pianta che, pieghevole comevimini, fosse opportuna a tale lavoro; quanto poi allacarriuola capiva che avrei potuto far tutto fuorchè unaruota, genere di manifatture estraneo affatto alle mie co-gnizioni, ed impresa per conseguenza della quale nonsarei venuto a capo giammai; oltrechè, io non aveva al-cun modo di procurarmi una caviglia di ferro che pas-sando pel centro o asse della ruota stessa la facesse gira-re. A questa idea pertanto io rinunziai; e per portar via laterra ch'io scavava nella grotta, mi feci come una speciedi quei truogoli entro cui i manovali portano la calcinaai muratori. Tal cosa non mi fu tanto difficile quanto ilfabbricarmi una vanga; ciò non ostante e il truogolo e lapala e il tempo speso nello studiare a farmi una carriuolanon mi portarono via meno di quattro giorni; così alme-no credo, eccettuata sempre la passeggiata della mattina

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col mio moschetto, che rare volte io tralasciava e che ra-rissime volte ancora mancava di fruttarmi alcun che damangiare.

23. L'altro mio lavoro riposò finchè non ebbi termina-ti gl'indicati stromenti. In questo giorno ci tornai contutta quella intensione che il tempo e le mie forze mipermisero, onde diciotto interi giorni, cioè fino al 10 delsuccessivo dicembre, furono spesi nel far più larga eprofonda la mia grotta, affinchè tutte le cose mie vi siallogassero comodamente.

Nota. Durante tutto questo tempo io mi adoperai arendere tale grotta o stanza tanto spaziosa, che mi faces-se ufizio di guardaroba o magazzino, di cucina, di tinel-lo e di cantina. Quanto alla camera da letto, non mi di-partii dalla tenda, se non talvolta nelle giornate umide,quando la pioggia cadeva sì fitta ch'io non potea mante-nermici asciutto, il che m'indusse in appresso a copriretutto il mio edifizio posto entro la palizzata con lunghepertiche, che in forma di travicelli si appoggiavano con-tro alla montagna e che riparai con pezzi di vele e larghefoglie d'alberi a guisa di un tetto di stoppia.

10 dicembre. Io cominciava a credere ora che la miagrotta o cantina fosse finita, quando in un subito (con-vien dire ch'io l'avessi tenuta troppo larga) una grandequantità di terra cominciò a dirupare dalla cima e da unlato sì fortemente che n'ebbi grande paura; nè era unapaura senza ragione, perchè se ci rimanevo sotto, nonavevo bisogno mai più d'un becchino. In forza di tale di-sgrazia ebbi un bel lavorare in appresso perchè mi con-

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veniva portar fuori la terra caduta e, ciò che importavapiù, appuntellare la soffitta per assicurarmi che lo stessoinconveniente non tornasse a succedermi.

Dall'11 al 16. A ciò io pensai nel dì appresso, e presidue pali o puntelli, li piantai diritti fino alla cima dellagrotta ponendo due pezzi di asse incrocicchiati su cia-scun d'essi. Ciò fu terminato nel dì successivo; poi pian-tando altri puntelli con assi nella stessa maniera, entrouna settimana circa trovai assicurata la mia soffitta. Ipuntelli collocati in filari mi servirono di altrettanti spar-timenti di quella mia stanza.

Dal 17 al 19. In questi giorni posi scaffali e conficcaichiodi nei puntelli per attaccarvi tutte le cose che si pre-stavano a tal genere di collocamento. Allora cominciai avedere assestate le cose entro il mio domicilio.

20. Trasportato quanto dovea stare nella grotta, midiedi ad accomodare la parte di essa che doveva servir-mi di tinello collocando alcune assi, di cui per dir verocominciava ad avere penuria, e disponendo sovr'esse lemie vettovaglie. Venni così a formarmi una specie di ta-vola da cucina.

24. È piovuto tutta la notte e tutto il giorno, nè mi sonmosso di casa.

25. È piovuto tutto il giorno.26. Non è piovuto, e la terra più fresca del giorno in-

nanzi ha permesso che si respirasse più agiatamente.27. Uccisi un capretto e ne storpiai un altro che presi

e mi condussi meco per un guinzaglio; giunto a casa fa-sciai e munii di stecche la sua gamba ch'era rotta.

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Nota. ‒ Presi tal cura di esso per farlo vivere; di fattola sua gamba tornò sana e gagliarda come prima, e inforza di essere stato nudrito sì lungo tempo divennemansueto, andò a pascolarsi su la verdura posta dinanzialla porta della mia abitazione, nè volle più andarsenevia. Fu questa la prima volta che mi nacque il pensieredi addimesticare animali, per ritrarne nudrimento quan-do la mia polvere e le mie munizioni sarebbero finite deltutto.

Dal 28 al 31. Gran caldo e non un fiato di brezza,onde non mi mossi di casa fuorchè verso sera per andarin cerca di nudrimento. Impiegai questi giorni a metteresempre in miglior ordine le mie suppellettili.

1 gennaio 1660. Continuò il gran caldo; pure uscii dibuon'ora e sul tardi col mio moschetto riposandomi tuttoil resto della giornata. Nella sera internandomi nelle val-li che giacciono verso il centro dell'isola trovai che viera abbondanza di capre, ma timorose quanto mai e dif-ficili a lasciarsi raggiugnere; pure risolvei di provare seil mio cane potesse arrivare a fermarle.

2. Di conformità lo condussi meco in questo giorno elo lanciai contro alle capre; ma aveva sbagliati i mieiconti perchè queste tennero testa al cane, ond'esso, com-preso ottimamente in qual pericolo si sarebbe posto, nonvolle più avvicinarsi a quegli animali.

3. Cominciai il mio vallo o muro di cinta che divisaifosse ben fitto e gagliardo, non mi abbandonando mai lapaura d'assalti per parte d'uomini o di bestie.

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Nota. Poichè questo muro di cinta fu già descrittodianzi, ho omesso con proposito determinato la parte delmio giornale che lo riguarda; mi basta l'osservare chenon ci andò minor tempo di quello frapposto tra il 3 digennaio e il 14 aprile per eseguirne i lavori, ridurlo atermine e perfezionarlo, ancorchè non avesse un perime-tro d'oltre a venticinque braccia; questo descriveva unasemicirconferenza che partiva da un punto del monte adun altro, distanti fra loro dodici braccia. La porta dellagrotta stava nel centro al di là di tale linea di distanza fraentrambi i punti.

In tutto questo intervallo lavorai indefessamente, ben-chè per molti giorni e talvolta per più settimane di se-guito le piogge me lo impedissero; ma io non mi crede-va mai di essere veramente in sicuro finchè un tal ba-loardo non si sarebbe finito. È appena credibile quantaimmensa fatica mi costassero tutte le operazioni neces-sarie a tal uopo, quella soprattutto di trasportare i palidai boschi e di conficcarli nel terreno; perchè io gli aveascelti molto più grossi di quanto sarebbe stato necessa-rio.

Poichè questo baloardo fu terminate e l'esterno ebbeuna doppia difesa dal terrapieno di zolle innalzato rasen-te ad esso, mi persuasi che chiunque fosse venuto su laspiaggia, si avrebbe immaginato di vedere tutt'altra cosafuorchè un'abitazione; e ben fu ch'io avessi disposte lecose in tal guisa, come si potrà osservare da poi in unanotabilissima circostanza.

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Intanto feci ogni giorno, quando la pioggia non me loimpediva, molti giri andando a caccia per le foreste, nel-le quali passeggiate mi occorsero frequenti scoperte ord'una cosa or dell'altra che mi tornarono vantaggiose;particolarmente mi abbattei in una specie di colombisalvatici che facevano i loro nidi, non come i colombiboscaiuoli negli alberi, ma in certo modo come i dome-stici nelle buche delle roccie; presine alcuni di questiancor giovinetti, cercai di allevarli e addimesticarli e ciriuscii; ma venuti grandi, mi fuggirono tutti; del che fuprobabilmente la prima cagione ch'io non aveva nulla dadar loro a mangiare; ciò non ostante capitai frequente-mente ne' loro nidi, donde trassi i colombi giovani, vi-vanda veramente squisita.

Mentre andava dando opera ora ad un affare casalin-go or ad un altro, m'accorsi come mi mancassero tutta-via molte cose che su le prime pensai sarebbe impossi-bile per me il farmele da me medesimo; e per alcuneebbi ragione: per esempio io non arrivai mai a fabbricar-mi e a cerchiarmi una botte. Avevo bensì dinanzi agliocchi uno o due bariletti come precedentemente osser-vai; ma non giunsi mai alla capacità di farmene uno sulmodello di quelli, ancorchè intorno a ciò impiegassi pa-recchie settimane; non potei nè connetterne i piani nèunirne le doghe una all'altra con tanta saldezza che giun-gessero a contenere l'acqua; a quest'opera dunque io ri-nunciai.

Era per me una grande disgrazia anche di non avercandele. Non appena il giorno imbruniva, il che accade-

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va generalmente verso le sette ore, mi conveniva andar-mene a letto. Mi ricordava allora quel pane di cera ondemi fabbricai candele nella mia spedizione africana; maadesso quel pane non ci era: l'unico rimedio che ci tro-vai fu quello, avendo un giorno ammazzato una capra,di serbarne il grasso; pertanto mi feci un piattello di cre-ta che seccai al sole; indi posto entro esso e il grasso edun lucignolo che mi feci di alcune corde sfilate, me neformai una lampada che mi dava luce fino ad un certosegno, non mai per altro mai limpida e ferma siccomequella di una candela.

XVI. Grata sorpresa.

Nella durata di tutti i descritti lavori mi era occorso,frugando le cose mie, di rinvenire un sacchetto che,come accennai tempo prima, era stato empiuto di granoper nutrire i polli del vascello, non già per questo viag-gio, ma prima, come io suppongo, quando lo stesso va-scello si partì da Lisbona. La picciola quantità di granorimasta nel sacchetto era stata mangiata tutta dai sorci,onde io non ci vidi nulla fuorchè pule di grano e polve.Desideroso di valermi dello stesso sacchetto a qualchealtro uso (credo per metterci della polvere, quando la se-parai in più partite per la paura del lampo, o per non soqual altro fine) ne scuotei fuori le pule in un canto dellamia fortificazione al di sotto del monte.

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Avvenne un pocolino prima della strepitosa pioggiamenzionata dianzi, ch'io mi disfeci di tutta questa robac-cia, non pensando ad altro nè tenendo al certo gran con-to del luogo ove la gettai. Or bene; un mese dopo vidispuntar dalla terra alcuni verdi steli ch'io pensai potesse-ro appartenere a qualche pianta non anche veduta da me.Qual fu la mia sorpresa, il mio compiuto stupore, allor-chè dopo un brevissimo tempo vidi sorgere dieci o dodi-ci spiche di perfetto orzo in erba della medesima speciedel nostro orzo europeo, anzi del nostro orzo inglese!

Egli e impossibile l'esprimere lo sbalordimento, laconfusione de' miei pensieri in tale occasione. Fin qui lemie azioni non si erano regolate sopra verun religiosoprincipio; da vero io aveva ben poche nozioni di religio-ne nella mia testa, ne m'ero avvezzo a riguardare le coseche mi occorrevano se non come un caso, o come so-gliamo dire, non ponderando quel che diciamo, voler diDio, senza poi internarmi altro nei fini della providenzao prendermi pensiere dell'ordine da essa tenuto nel go-vernare gli eventi di questo mondo. Ma dopo aver vedu-to crescere qui l'orzo, sotto un clima ch'io sapeva nonessere atto al grano (e ciò che specialmente io non sape-va si era come il grano fosse venuto qui) ciò mi scossed'una straordinaria maniera. Allora cominciai a supporreche Dio avesse miracolosamente disposto affinchè que-sta biada nascesse senza alcun aiuto di semina e cheavesse predisposto ciò unicamente pel mio sostentamen-to in questa selvaggia isola della sfortuna.

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Tale avvenimento che toccò alquanto il mio cuore mispremette lagrime dagli occhi, onde cominciai a riputar-mi benedetto e beato poichè un tal prodigio di natura amio solo favore avveravasi; e il fatto riusciva tanto piùstravagante per me, perchè osservavo nello stesso tempoin vicinanza alcuni altri steli dispersi lungo il fianco delmonte che apparivano gambi di riso, a me ben noti peraverne veduti crescere nell'Africa quando mi trovai suquella spiaggia.

Non solamente io pensai che quegli steli fossero meridoni mandatimi in soccorso dalla providenza, ma, nondubitando che ve ne fosse una maggior copia nell'isola,mi diedi a percorrerla per tutte le bande ove era già statoaltre volte, e ad indagare per ciascun angolo, sotto cia-scun dirupo per vedere se di queste spiche benefiche vene fossero altrove, ma non ne trovai in nessun'altra par-te. Finalmente tornatomi al pensiere ch'io aveva scossoin quel luogo il sacchetto della provvigione dei polli,principiò a cessare in me la meraviglia; e bisogna loconfessi, la mia religiosa gratitudine alla providenza di-vina s'andò dileguando poichè ebbi scoperto nulla esser-vi in ciò che si togliesse dall'ordinario. Pure, se avessiragionato meglio, io doveva esser grato a questa nonpreveduta ed inaspettata providenza, come se fosse statamiracolosa; perchè fu realmente verso di me un'opera dilei e tale come se quel grano mi fosse venuto dal cielo,l'aver essa preordinato che dieci o dodici grani d'orzo ri-manessero intatti quando i sorci ne avevano distrutto ilrimanente; fu una predestinazione della providenza ch'io

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gettassi quel grano in tal particolare luogo ove essendoprotetto dall'ombra di un'alta rupe potesse immediata-mente spuntare; giacchè se fosse stato gettato altrove inquella stagione dell'anno sarebbe tosto arso e perito.

Raccolsi con grande cura, potete bene esserne certi,quelle spiche d'orzo quando ne fu la stagione, verso ilfine di giugno all'incirca; e messone in serbo tutti i gra-ni, divisai di seminarli un'altra volta nella speranza diaverne col tempo una ricolta sufficiente per provveder-mi di pane. Ma ci vollero quattro anni prima ch'io potes-si far conto su la più piccola quantità di quel grano percibarmene, e ciò ancora con molto risparmio, come lodirò in appresso quando ne verrà l'occasione; perchèandò perduto quasi interamente quello che seminai laprima volta per non avere io côlto il vero tempo e peraverlo consegnato alla terra prima della stagione asciut-ta, onde non venne mai a maturità, almeno in quella co-pia che poteva sperarsi altrimenti; ma di ciò parleremo asuo luogo.

Oltre all'orzo, scopersi, come ho detto, venti o trentasteli di riso che colsi con la stessa premura e che adope-rai nella stessa maniera e col medesimo fine, vale a diredi farmi del pane o piuttosto di ritrarne nudrimento; per-chè trovai modo di cuocerlo senza metterlo al forno,benchè in appresso mi fabbricassi anche un forno. Matorniamo al mio giornale.

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XVII. Il tremuoto.

Dopo avere faticato improbamente tre o quattro mesiper vedere a termine il mio baloardo, lo chiusi ai 14 diaprile; e volli entrarvi non per una porta, ma passando aldi sopra del muro mercè una scala, affinchè al di fuorinon comparisse alcun indizio della mia abitazione.

16. aprile. Terminai la mia scala, mediante la qualesalii alla sommità del baloardo, indi me la tirai dietro la-sciandola tra esso e la palizzata. Io mi avea quindi assi-curata una perfetta clausura; perchè nell'interno avevaspazio abbastanza e nulla potea venire a me dal di fuorisenza scalare il mio baloardo.

Dal 17 al 21. Nel seguente giorno, poichè la scala futerminata, poco mancò che tutte le mie fatiche non an-dassero in una volta sossopra e che non rimanessi mortoio medesimo: ecco in qual modo le cose avvennero.Mentre io stava facendo alcun che nel ricinto frappostotra il baloardo e la palizzata, all'ingresso appunto dellamia grotta, fui spaventato non so dir quanto da un inci-dente il più terribile da vero e il più straordinario, per-chè in un subito io vidi la terra dirupar giù dalla soffittadella mia grotta e dalla cima del monte che sovrastava aimio capo, mentre udivo spaccarsi con orrido fracassodue dei puntelli collocati dianzi nella grotta stessa. Misentii gelare il sangue dall'atterrimento; pure andavotuttavia pensando non essere cagione di ciò se non unnuovo scoscendimento di soffitta della mia cantina,

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come qualche cosa di simile era accaduto dianzi; ondeper timore di rimanerci sepolto sotto, corsi in fretta allascala del mio baloardo, nè quivi credendomi ancora alsicuro saltai al di là di esso aspettandomi da un istanteall'altro che qualche scheggione di dirupo venisse apiombarmi sopra la testa. Non ebbi appena fatto alcunipassi al di fuori, quando m'accorsi che tutto ciò proce-dea da uno spaventoso tremuoto; perchè la terra ove iomi stava traballò per tre volte in intervalli disgiunti diotto minuti l'uno dall'altro con tali violenti scosse cheavrebbero bastato, cred'io, a rovesciare da cima a fondoil più saldo fra quanti edifizi del mondo si potessero im-maginare. Di fatto un gran masso di roccia, distante dame un mezzo miglio all'incirca, precipitò nel mare consì orrendo fracasso che in vita mia non ne ho mai uditol'uguale. Accortomi nello stesso tempo che il mare si eraposto in una straordinaria agitazione, dovetti credere piùforti le scosse nel seno di esso che nell'isola stessa.

Questo spaventoso fenomeno di cui non avevo maiveduto il compagno, nè parlato con altri che fossero statispettatori di simili avvenimenti, mi fece tanta impressio-ne che ne rimasi stupido e poco meno che morto, oltre-chè il tremuoto mi avea sconvolto lo stomaco comeavrebbe potuto farlo l'agitazione del mare. Lo strepitonondimeno dello scheggione di roccia caduto nell'ondemi scosse, ma togliendomi dal mio stato di stupidezzadiede luogo in me ai pensieri i più orridi e spaventosi.Vidi che sarebbe bastato un nulla a far cadere il montesu la mia tenda e le mie sostanze in essa raccolte, a sep-

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pellire tutte queste cose in un colpo; ed ecco che il miospirito tornò una seconda volta ad avvilirsi.

Passata la terza scossa, e non ne avendo udite più al-tre per qualche tempo, incominciai a ripigliare coraggio;pure non ne aveva abbastanza per portarmi al di là delmio baloardo; troppa era la mia paura di rimanere sepol-to vivo! Mi posi a sedere su l'erba con l'animo fortemen-te sconsolato e depresso, nè sapendo a qual partito appi-gliarmi. In tutto questo tempo non mi occorse alla menteil menomo pensiere serio di religione se si eccettui quel-la esclamazione comune: Dio n'abbia misericordia! equando la disgrazia fu cessata se ne andò via con essaanche questo pensiere.

Standomi così seduto sentii che l'aria era oltremodopesante e vidi il cielo annuvolato come se volesse pio-vere; e subito dopo si alzò a poco a poco il vento che inmeno di mezz'ora andò a finire in un turbine spaventoso.Il mare si coperse tutt'ad un tratto di spuma; i suoi ca-valloni s'internavano nella spiaggia; gli alberi, atterratidalle radici; sopravvenne una tremenda burrasca, cheper altro, durata all'incirca tre ore, cominciò a mitigarsi,laonde dopo altre due ore tutto era tornato in calma,dando luogo soltanto ad una fittissima pioggia. In tuttoquesto tempo me ne rimasi seduto su l'erba sempre at-territo e costernato al maggior segno; quando in un subi-to mi soccorse alla mente che que' venti e questa pioggiaessendo stati la conseguenza del tremuoto, non era con-gettura improbabile il dedurne la cessazione del tremuo-to stesso e la ragionevolezza quindi dell'avventurarmi a

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tornarmene un'altra volta nella mia grotta. Ravvivatosicon ciò il mio coraggio, contribuì non poco a persuader-mi la presenza stessa della pioggia. Andai dunque a se-dermi sotto la mia tenda; ma la pioggia era sì violentache minacciava abbattere la tenda stessa, per lo che nonvidi meglio che rintanarmi nella mia grotta, benchè il fa-cessi paurosamente ed assai di mal umore, aspettandomida un momento all'altro che questa mi cadesse sopra latesta. La violenza di un tal fortunale mi costrinse ad unnuovo lavoro: quello di aprire una fossa per traverso allamia fortificazione, siccome scolatoio dell'acqua piovanache altrimenti mi avrebbe inondata l'intera cantina.Dopo essere rimasto in questa per alcun tempo, nè uditapiù veruna scossa di tremuoto, cominciai ad essere piùcalmo; anzi per procurare un ristoro ai miei spiriti, cheda vero ne aveano grande bisogno, ricorsi alla mia cre-denza per prendere una sorsata di rum, con parsimoniaper altro: regola che osservai allora e sempre preveden-do l'istante che non avrei più avuto di questo liquore.Continuò piovendo tutta la notte e gran parte del giornosuccessivo, onde non potei andare attorno nè poco nèassai. Allora a mente più fredda principiai a meditareche cosa mi convenisse meglio, e conclusi che, se l'isolaandava soggetta a tremuoti di simil natura, non c'era perme buon vivere entro una grotta. Pensai quindi a fabbri-carmi una piccola capanna in luogo aperto, circondan-dola ciò non ostante, come avevo fatto qui, di una paliz-zata per difendermi dalle offese di bestie o d'uomini,

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persuasissimo che, restando ov'ero, mi sarebbe accadutouna volta o l'altra di rimanere sotterrato vivo.

Pieno di questi pensieri, divisai di rimovere la miatenda dal sito ove trovavasi, perchè stava proprio sottol'imminente precipizio del monte che, se riceveva un'al-tra scossa della stessa natura, cadeva indubitatamentesovr'essa. Impiegai le due successive giornate (il 19 e il20) a studiare il dove e il come trasferire altrove la miadimora. Il timore di essere subissato in corpo ed in ani-ma m'incalzava tanto che non mi lasciò mai dormirquieto. Pure era quasi uguale a questa paura l'altra di co-ricarmi all'aperto senza nulla che mi difendesse; oltre-chè, quando io mi guardava attorno, quando io vedeaciascuna delle cose mie sì bene assestate e come piace-volmente io mi stessi nascosto e sicuro da ogni altro pe-ricolo esterno, sentiva la massima ripugnanza ad allon-tanarmi di lì. In questo mezzo io considerava ancora chesarebbe occorso un enorme dispendio di tempo per man-dar ad esecuzione un simile divisamento e che mi con-veniva per lo meno contentarmi ad affrontare il rischiodi rimanere ove era tanto che mi fossi fabbricata una op-portuna trinciera e tale da francare il mio traslocamento.Acquetatomi in questa conclusione per un certo tempo,risolvei di mettermi bensì con tutta la sollecitudine all'o-pera di fabbricarmi una trincera con pertiche e gomoneentro un circolo, come dianzi, ma di non trasportarci lamia tenda finchè questa trincera non fosse finita; insomma di tenermi al primo alloggio finchè tutto non

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fosse pronto ed apparecchiato per prenderne un altro.Ciò fu deciso nel giorno 21.

22. In questa successiva mattina principiai a pensare imezzi onde mandare ad esecuzione l'indicato disegno;ma la cosa di cui difettavo molto erano gli stromenti.Avevo per vero dire tre grandi accette e molta copia dipiccole, perchè le avevamo portate con noi per farnetraffico con gli Indiani; ma a furia di tagliare e rimonda-re tante sorte di legnami duri e nodosi erano divenutepiene di tacche e prive affatto di taglio; e se bene avessiuna mola, non potevo girarla nè quindi affilare su d'essai miei ferri comodamente. Ciò mi diede tanti pensieriquanti ne avrebbe dati ad un magistrato il decidere sopraun punto scabrosissimo di politica, o quanti se ne sareb-be presi un giudice prima di sentenziare su la vita o lamorte d'un poveretto. Finalmente inventai una specie diruota che facevo girare sopra d'una cordicella col miopiede, rimanendomi per tal modo le mani in libertà.

Nota. Io non avea mai veduto una mola di tal naturanell'Inghilterra o almeno non mi ero trovato nel caso disapere come fosse fatta, benchè da poi io abbia notatoche tal macchina vi è comunissima; ad onta di ciò la miamola estremamente grande mi riusciva oltremodo pe-sante e malagevole; il solo condurla a perfezione mi ècostato il lavoro di un'intera settimana.

28 e 29. Questi due giorni furono dedicati affatto adaffilare i miei ferri, nel che la mia macchina rotante miservì ottimamente.

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30. Accortomi che il mio pane andava calando a di-smisura, presi tal circostanza in grave considerazione,onde fatta la mia rivista, mi ridussi, non senza gravecordoglio, ad un biscotto al giorno.

XVIII. Effetti del tremuoto su gli avanzi del vascello naufragato.

1 MAGGIO. Nella mattina, mentre stavo guardando ilmare in tempo di bassa marea notai su la spiaggia alcunche di più grosso dell'ordinario e somigliante nella suaforma ad una botte. Accostatomi a questo oggetto, os-servai un piccolo barile e due o tre frantumi del vascellonaufragato portati a riva dall'ultima tempesta; poi vol-tando gli occhi alla parte ove il vascello stesso sparì,vidi i suoi avanzi sporgere fuori dell'acqua più che nolfacevano prima. Esaminato il barile che era già su laspiaggia feci presto a riconoscerlo per un barile di pol-vere che per altro inzuppatasi d'acqua si era ammucchia-ta e divenuta dura al pari d'un sasso. Ciò non ostante laruzzolai più in su la riva per il momento, indi per prati-car nuove indagini mi avvicinai quanto fu possibile albanco di sabbia ove il vascello perì.

Giunto presso al luogo ov'erano gli avanzi del naufra-gio, li trovai stranamente spostati; perchè il castel diprua che dianzi era sepolto nella sabbia si era alzato al-meno sei piedi; mentre la poppa, andata in pezzi e stac-catasi dal rimanente per la violenza dell'acqua poco

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dopo l'ultima indagine che io feci sovr'essa, parea fossestata trabalzata e andata a collocarsi in disparte dal ri-manente. La sabbia si era tanto addossata d'intorno adessa che a bassa marea io mi ci poteva accostare, cam-minando coi miei piedi laddove si trovava prima un am-pio tratto di acqua, che mi obbligava a fare circa unquarto di miglio a nuoto se ci volevo arrivare. La cosami fece stupore alla prima, ma conchiusi tosto esserquesta una conseguenza del tremuoto; e poichè in forzadi tale sconquasso lo scheletro del vascello rimase piùsbandato di prima, arrivavano di giorno in giorno allaspiaggia molte cose che il mare avea poste in libertà, eche i venti e l'acqua mandavano a riva di mano in mano.

Tutto ciò divagò i miei pensieri dal disegno di traslo-care la mia abitazione, onde mi affaccendai soprattutto,massimamente in quel giorno, nel cercare di potermiaprir qualche via entro al corpo del vascello; ma vidiche nulla di tal genere poteva sperarsi, perchè l'internodi esso era pieno zeppo di sabbia. Nondimeno avendoimparato a non disperare più di veruna cosa, divisai dimetterne in pezzi tutto quanto mi fosse riuscito pensan-do che per poche cose che avessi potato trarne mi avreb-bero sempre servito o ad un uso o ad un altro.

3. Dato di mano alla mia sega tagliai per traverso unpezzo di trave ch'io credo tenesse unito alcun che dellaparte superiore del cassero; indi con questo pezzo di le-gno mandai via quanta sabbia potei dalla parte di va-scello che rimaneva più alta; ma ingrossandosi la marea,fui costretto per allora a desistere dal mio lavoro.

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4. Andai alla pesca, ma non presi un sol pesce cheavessi coraggio di mangiare; tantochè io cominciava adessere annoiato del mio diporto, quando nell'atto appun-to di venirmene via, pigliai un giovine delfino. Io mi erafatto una lenza di gomona sfilata, ma mi mancavano gliami; ciò non ostante io pigliava spesso tanto pescequanto potevo aver volontà di mangiarne; seccato tuttoal sole il pesce pigliato, lo mangiavo dopo questa prepa-razione.

5. Giorno impiegato lavorando su gli avanzi del nau-fragio. Fatto in pezzi un altro trave, m'impadronii di tregrandi tavole d'abete che legate insieme feci navigarealla spiaggia appena sopravvenuta la grossa marea.

6. Impiegato nello stesso lavoro; e trattine parecchicatenacci ed altri ferramenti; ottenuti con grande stentoe portati a casa con tanta fatica, che mi trovai stanco davero ed in procinto di abbandonare l'opera.

7. Pure ci tornai ancora, ma non con intenzione di la-vorare. Trovai che il corpo del vascello si era fracassatosotto il proprio peso, perchè le travi ne erano rotte emolti pezzi di esso ne pareano staccati; il fondo dellastiva era si aperto, ch'io ci poteva guardar dentro, maquasi affatto pieno di acqua e di sabbia.

8. Portatomi allo stesso genere di lavoro, presi mecoun rampicone di ferro per disfare il ponte che lasciaiquesta volta libero di acqua e di sabbia. Trattene due ta-vole, portai anche queste al lido con l'aiuto dell'alta ma-rea, e lasciai ove gli aveva portati i rampiconi per valer-mene nel dì successivo.

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9. Tornato all'opera e apertomi strada nell'interno colmio rampicone, sentii parecchie botti, che mossi col fer-ro stesso, ma senza poter levarle di lì; sentii pure un fa-scio di piombo inglese e mi riescì anche di smoverlo,ma era troppo pesante per tirarlo via di dov'era.

Dal 10 al 14. Ognuno di questi giorni fu impiegatonella stessa natura di lavoro, e mi fruttò molti pezzi dilegname, assi o tavole, e due o tre quintali di ferro.

15. Portai meco due accette per provare se potessi ta-gliare un pezzo del fascio di piombo, collocandovi soprail taglio di una di esse e battendola con l'altra; ma sicco-me questa rimaneva per un piede e mezzo nell'acquanon potei imprimerle alcun colpo che facesse effetto.

16. Avea fatto un gran vento tutta la notte onde loscheletro del vascello appariva rotto anche di più dallaforza dell'onde. Ma io era rimasto sì lungo tempo ne' bo-schi onde procacciarmi colombi pel mio nudrimentoche, sopraggiunta la grossa marea, m'impedì in questogiorno di portarmi al consueto lavoro.

17. Vidi alcuni pezzi di vascello che il vento aveaportati su la spiaggia ad una distanza di due miglia dame; a malgrado della qual distanza risolvei di andar avedere che cosa fossero, e trovai un frammento di spero-ne13 ma troppo pesante perchè io potessi trasportarmelomeco.

Dal 18 MAGGIO al 15 GIUGNO. E in questo giorno e ne'successivi sino al 24 di questo mese, il mio lavoro fu

13 Unione di pezzi sporgenti dalla ruota di prua che operano di conservacon gli alberi e l'altre parti del vascello.

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sempre dello stesso genere. Nel giorno 24 giunsi, ben-chè a grande stento, a smovere tante cose col rampico-ne, che alla prima marea crescente galleggiavano parec-chie botti e due casse da marinai; ma il vento soffiandoda terra, nessuna di queste cose pote giungere a riva, ec-cetto alcuni pezzi di legname ed una botte che conteneacarne di porco del Brasile, ma affatto rovinata dall'acquasalsa e dalla sabbia. Continuai in simil lavoro ogni gior-no fino al 15 giugno, tranne le ore necessarie a cercarminudrimento, le quali io facea sempre cadere durante l'al-ta marea per essere in tempo a recarmi al lavoro giorna-liero quando essa calava. In tutto questo tempo ottenni elegnami e tavole e ferramenti, quanti sarebbero bastati acostruire una buona feluca se fossi stato abile a ciò; inpiù volte ed in pezzi spezzati giunsi ancora a procacciar-mi circa un quintale di lastre di piombo.

16. Trasportatomi alla riva del mare, trovai una grossatestuggine, la prima ch'io avessi veduta; e ciò, a quantosembra, fu solamente mia sfortuna, non difetto del luogoo scarsezza quivi di questi animali; perchè se mi fosseoccorso di pigliar terra in un'altra banda dell'isola, neavrei avuto un centinaio per giorno, come ebbi occasio-ne d'accorgermene in appresso; ma forse avrei pagatatroppo caro la mia scoperta.

17. Tal giorno fu impiegato nel cucinare la mia te-stuggine, entro cui trovai sessanta uova; la carne di essafu per me in quel tempo la più saporita e deliziosa cheavessi gustato in mia vita, perchè io non aveva avuta al-

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tra carne che di capre e d'uccelli da che fui gettato inquesto deserto.

XIX. Malattia.

18. Piovve tutto giorno, nè per conseguenza mi mossipunto di casa. Pensai che la pioggia producesse il freddoimprovviso onde mi sentii come agghiacciato: cosa peraltro ch'io sapeva non essere solita sotto questa latitudi-ne.

19. Mi sentii assai male e sempre tormentato da brivi-di come se la stagione fosse stata fredda.

20. Non ho dormito tutta la notte; violento male dicapo e febbre.

21. Malissimo; atterrito quasi a morirne dal pensarealla trista mia condizione di essere ammalato e non ave-re chi mi presti assistenza, ho pregato Dio, ed e stata laprima volta dopo quel la bufera su le acque di Hull; masapevo ben poco quel ch'io mi dicessi, o non ne cono-scevo il perchè: tanto erano confuse tutte le mie idee.

22. Un po' meglio, ma sempre agitato dalle paure cheaccompagnano le malattie.

23. Un'altra volta malissimo; freddo e brividi oltre adun terribile male di capo.

24. Assai meglio.25. Una violentissima febbre; l'accesso di essa mi ha

tenuto sette ore; freddo, poi caldo, indi sudori deprimen-ti.

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26. Meglio; e non avendo carne di cui cibarmi, sonouscito col mio moschetto ad onta di un'estrema debolez-za: pure ho ammazzata una capra che mi son portata acasa con molto stento; arrostitone un pezzo, me ne sonocibato. Ne avrei volentieri fatto uno stufato, come pureavrei voluto procacciarmi con essa un poco di brodo;ma mi mancava una pentola.

27. La febbre tornò ad essere sì violenta, che rimasi inletto tutto il giorno senza mangiare nè bere. Io stava permorire di sete; ma in quello stato di debolezza non ave-va forza per tenermi in piedi tanto da procurarmi unpoco d'acqua. Tornai a pregare il Signore, ma ero in de-lirio; e quand'anche non ci fossi stato, la mia ignoranzaera sì crassa ch'io non sapeva che cosa dovessi dire; so-lamente da starmi giaciuto io esclamava: Dio, volgetevia me! Dio abbiatemi compassione! Dio usatemi miseri-cordia! Credo di non aver fatto altro per due o tre orecontinue sinchè, finito l'accesso della febbre, rimasi ad-dormentato nè mi destai se non tardi nel cuor della not-te. Nello svegliarmi mi sentii alquanto ristorato, benchèdebole e assetato oltre ogni dire; ma non avendo acquain tutta quanta la mia abitazione, fui costretto aver pa-zienza sino a giorno; tornai pertanto ad addormentarmi.Oh qual terribile sogno io feci in questa seconda dormi-ta!

Parevami essere seduto per terra fuori della mia trin-cea, come ci stavo quando si sollevò quella burrasca chevenne dopo il tremuoto; vedevo in lontananza calar giùda un grosso nuvolone nero nero un uomo avvolto in

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una gran vampa di fuoco che scendeva a terra. Sfolgora-va sì tremendamente da tutte le parti che i miei occhinon ci reggevano a fisarsegli incontro; l'aspetto di essoineffabilmente spaventoso è impossibile a descriversicon parole; allorchè si movea, credevo che la terra tra-ballasse come appunto nel giorno del tremuoto, e tuttal'aria sembravami in fiamme. Appena postosi a cammi-nare, veniva alla mia volta brandendo una lunga lancia ospada a due mani destinata ad uccidermi; poi arrivatosopra un'eminenza ed in minore distanza da me, mi par-lò, o vero credei udire una voce sì tremenda che m'ag-ghiacciò d'uno spavento di cui tenterei invano or darviun'idea. Quanto posso dire di ricordarmi son queste pa-role: Dopo aver veduto tutto ciò che hai veduto, non tisei ridotto a penitenza: or morrai! dopo i quali detti miparve vedergli sollevare la brandita arma per darmi mor-te.

Niun leggitore si aspetti ch'io sapessi render conto ame stesso dell'orrore di cui tal visione mi aveva compre-so; intendo dire che ancorchè questa fosse un sogno, lamia mente era di per sè stessa immersa in un delirio, checon quel mio orrore si conformava14; nè è possibile ildescrivere l'impressione che me ne rimase allorchè sve-gliandomi m'avvidi d'avere meramente sognato.

Io non avea per mia disgrazia verun principio di reli-gione, chè quanti me ne aveva instillati l'educazione del

14 I mean, that even while it was a dream, I even dreamed of those horrors .Così il testo. Si vedrà fra poco perchè l'autore faccia dir così al personaggiodella sua storia.

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mio buon padre erano svaniti in conseguenza di un cor-so non interrotto per otto anni di vita licenziosa da mari-naio, e di un costante conversare con compagni scape-strati e dissoluti al massimo grado come lo era io. Io nonmi ricordo di avere avuto in tutto quell'intervallo unpensiere che m'innalzasse a Dio, o mi traesse a scendereentro me stesso per esaminare la mia condotta. Un'asso-luta stupidezza, ugualmente lontana dal desiderio delbene e dalla coscienza del male, mi dominava intera-mente, ond'ero tutto quel che di peggio, di più incallitonella colpa, di più spensierato potesse immaginarsi fra inostri comuni marinai; basti il dire ch'io non aveva al-cun sentimento di timor di Dio nel pericolo, o di gratitu-dine a lui dopo esserne liberato.

Ove si richiami ad esame tutto quanto ho già narratodella mia storia, tal mia perversità sarà sempre più facil-mente creduta, se aggiugnerò una circostanza di più. Inmezzo a tanta varietà di miserie sin qui occorsemi, nonmi nacque mai in pensiere esser tutto ciò opera dellamano di Dio, giusto punitore o dell'insubordinato conte-gno di cui mi resi reo verso mio padre, o delle mie colpepresenti grandi da vero, o in generale di tutto il corsodell'iniqua mia vita. Quando mi gettai corpo morto inquella disperata spedizione alle deserte coste dell'Africasenza pensar più che tanto a ciò che avverrebbe di me,non volsi una sola preghiera a Dio affinchè mi proteg-gesse ovunque fossi per addirizzarmi o mi campasse daipericoli che secondo ogni apparenza mi circondavano,quali erano la voracità delle belve e la crudeltà dei sel-

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vaggi. Senza pensar menomamente a Dio o alla provi-denza, io, a guisa d'un vero animale irragionevole, milasciava guidare unicamente dagl'istinti della natura edai dettati d'un rozzo senso comune, e ciò anche a sten-to. Liberato e accolto nel suo vascello dal capitano por-toghese e trattato da lui con onestà, cortesia e ad un tem-po con caritatevole amorevolezza, l'idea di gratitudinenon mi passò nemmeno per la mente. Naufragato, ridot-to ad ultima estremità, in pericolo d'annegarmi, quandofui gettato in quest'isola, io era lontanissimo dai ricor-darmi le mie colpe e dal riguardare quanto avvenivamicome un giudizio di Dio; non sapeva dir altro che: Sonproprio un povero diavolo sfortunato e nato per esseresempre un miserabile!

Egli è vero che al primo toccar questa spiaggia, equando vidi sommersi i miei compagni, unicamente mesalvo, fui preso da una specie di estasi e da una certaespansione di anima, sentimenti che avrebbero potutocon l'assistenza di Dio condurmi a quelli della gratitudi-ne; ma tutto finiva, com'era cominciato: in un'ebbrezzadi gioia, in un'esultanza di esser vivo, disgiunta da ogniconsiderazione benchè menoma su la bontà segnalatadella mano che mi aveva salvato e prescelto per campar-mi dalla distruzione cui tutti gli altri miei compagni sog-giacquero. Non pensai no ad esaminare per qual fine laprovidenza mi si fosse mostrata tanto misericordiosa; lamia gioia fu quella specie d'allegrezza comune a tutti gliuomini di mare che quando dopo un naufragio si vedonovivi sopra la spiaggia, non hanno miglior premura del-

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l'annegarla entro un bowl di punch; poi dimenticanoogni cosa appena è passato il pericolo: tutta la mia vitaera stata di questo tenore.

Ed anche in appresso, quando non potei essere insen-sibile all'evidente orridezza della mia posizione, di esse-re cioè gettato in sì spaventoso luogo fuori d'ogni con-sorzio del genere umano, senza speranza alcuna d'aiutoo prospettiva di riscatto, non appena vidi una probabilitàdi poter vivere e di non morire dalla fame, ogni senti-mento di costernazione si dileguò dal mio animo; co-minciai ad essere di più lieto umore dandomi ai lavoripiù adatti alla mia salvezza ed al mio mantenimento, etenendo ad una buona distanza da me quel cruccio chedovea derivarmi dal riguardare il mio stato attuale sicco-me una giusta punizione del Cielo; oh! questi pensierimi passavano per il capo ben rare volte.

Il germogliare improvviso del grano, di cui feci men-zione nel mio giornale, produsse su le prime qualchepicciolo effetto su l'animo mio, e cominciava ad eccitar-vi sentimenti di un genere più solenne; ma ciò fin tantoche durò in me la persuasione di alcun che di miracolo-so. Appena questa persuasione fu rimossa, si dileguòl'impressione ch'essa avea fatto nascere, come ho giànotato. Lo stesso dicasi del tremuoto. Benchè non siavicosa nè più terribile in sè stessa nè più immediatamenteatta a volgere le umane menti verso quel potere invisibi-le che solo regola l'universo, pure appena ne fu la paura,se ne andò seco l'impressione ch'esso aveva eccitata sume. Io avea così poco sentimento di Dio e de' suoi giu-

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dizi, molto meno poi del venirmi dalla sua mano le mietribolazioni d'allora, come se mi fossi trovato nella piùprospera condizione di vita che si fosse potuta ideare.

Ma questa volta, quando caddi infermo e l'immaginedelle calamità, della morte, venne grado grado a pormisiinnanzi; quando i miei spiriti principiarono a sentirsi de-pressi sotto il peso di una gagliarda malattia, e la naturafu esausta dalla violenza della febbre, or sì la coscienzarimasta dormigliosa sì lungo tempo principiò a risve-gliarsi; or sì rimproverai me medesimo di avere con lastraordinaria perversità della trascorsa mia vita così evi-dentemente provocata la giustizia di Dio che mi punivacol sottomettermi ad angosce proporzionate soltanto aimiei falli. Furono queste le considerazioni che mi op-pressero nel secondo e nel terzo giorno della mia infer-mità e che, nella violenza così della febbre come de' ri-morsi della mia coscienza, mi trassero alcune parole dipreghiera a Dio. Ma io non posso dire se queste preghie-re fossero l'espressione del mio desiderio di guarire odella mia fiducia nell'ente pregato: erano desse piuttostole voci della paura e dell'angoscia. Confusi erano i mieipensieri; grandi i rimorsi nella mia mente; e il ribrezzodestato dalla sola idea di morire in un sì miserabile statomi facea salire tetri vapori al cervello. Nè in questestrette dell'anima io sapea quali cose profferisse la lin-gua: erano piuttosto esclamazioni del genere di queste:Signore, che miserabile creatura son io! Se vengo adammalarmi, morrò certo per mancanza di soccorsi, eche cosa sarà di me? Allora mi sgorgarono le lagrime

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dagli occhi, e credo poter affermare per un bel pezzo ditempo.

In questo mezzo mi tornarono alla memoria i buonisuggerimenti di mio padre e soprattutto quelle sue predi-zioni da me commemorate sul principio di questa storia:vale a dire che se mi fossi posto su questo pazzo cammi-no, Dio non mi avrebbe benedetto; che avrei avuto tuttoil tempo di gemere per non avere ascoltati i consigli pa-terni quando non avrei alcuno che mi aiutasse a trovareun rimedio, uno scampo. “Ora, io diceva ad alta voce, ipronostici del mio caro padre si sono avverati; la giusti-zia di Dio mi ha colpito, e non ho veruno che mi aiuti omi ascolti. Respinsi la voce della providenza che m'aveamisericordiosamente posto in uno stato di vita ove sareistato felice ed agiato; non volli mai nè vedere da memedesimo nè imparar dai miei genitori la felicità di unsimile stato. Lasciai gli autori de' miei giorni nel cordo-glio che costarono ad essi le mie follie; or son lasciatonel cordoglio che mi costano le conseguenze di esse. Ioricusai il loro aiuto, la loro assistenza, che m'avrebberoportato a buon fine nel mondo, ed appianate tutte le vieper arrivarvi; or mi tocca lottare contro a tribolazioni sìgrandi, che la natura stessa mal regge a sopportarle; ormi vedo privo d'ogni assistenza, d'ogni conforto, d'ogniconsiglio15”. In quel momento esclamai: “Signore, aiuta-

15 Robinson era in questo stato di rimorso, d'angoscia, di confusione quan-do fece il sogno per cui disse poco prima: “Ancorchè questo fosse un sogno, lamia mente era di per sè stessa immersa in un delirio che con quel mio orroreconformava”.

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temi voi, perchè io sono abbandonato sopra la terra!” Fuquesta la prima preghiera, se pure può chiamarsi tale,ch'io avessi pronunziato dopo il corso di lunghi anni.Ma torniamo al nostro giornale.

XX. Doppia guarigione.

28. Ristorato alcun poco dall'aver dormito, e cessataaffatto la febbre, mi alzai, perchè, comunque grandi fos-sero il ribrezzo e l'atterrimento rimasti in me dopo il miosogno, pensai che l'accesso della febbre sarebbe tornatoil dì successivo e che per conseguenza mi conveniva ap-parecchiare alcun che per aiutarmi e sostenermi meglioquando più il male mi opprimerebbe. La mia prima ope-razione si fu d'empiere d'acqua un gran fiasco riquadro,che posi su la tavola in modo da arrivarci con la manoda starmene in letto. Per correggere la natura cruda efebbricosa di quell'acqua la mescolai col quarto circa diuna foglietta di rum. Preso indi un pezzo di carne di ca-pra, lo arrostii su le brage, ne mangiai per altro benpoco. In appresso feci un giro, ma breve, perchè spossa-to oltre modo e col cuore abbattuto così dal sentimentodella miserabile mia condizione come dal timore dellafebbre ch'io m'aspettava alla domane. In quella sera lamia cena fu di tre uova di testuggine cucinate sotto lacenere, o come vengono dette, affogate; e fu questa laprima vivanda su cui, a mia ricordanza, avevo imploratala benedizione divina da che ero al mondo. Finita questa

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cena mi provai a fare una passeggiata, ma mi sentivo sìdebole che potevo a stento portarmi meco il mio mo-schetto; che non sono mai andato attorno senza di esso.In conseguenza, fatto ben poco cammino, mi adagiai sul'erba contemplando il mare che, mite e placidissimo inquell'ora, mi stava rimpetto. Ecco allora quali pensierimi si presentarono.

“Che cosa sono questo mare e questa terra di cui tantaparte ho veduta? Chi gli ha fatti? E che cosa son io e tut-te l'altre creature, mansuete o selvagge, ragionevoli o ir-ragionevoli? Chi ci ha fatti? Sicuramente siamo stati fat-ti da qualche segreto potere che ha fatto e la terra ed ilmare e l'aria ed il firmamento. E chi è questi?”

Ne veniva come di naturale conseguenza: “È Dio cheha fatto tutto. Or bene (seguiva allor da presso l'altraconseguenza sterminatamente più ampia), se Dio e que-gli che ha fatte tutte queste cose, egli è pur quegli che leguida e governa tutte, e tutte si riferiscono a lui; perchèchi aveva il potere di farle tutte dovea del certo avereanche l'altro di condurle e di reggerle; ciò posto, nullaaccade nella vasta sfera delle opere sue senza saputa odisposizione di esso.

“E se nulla accade senza sua saputa, io continuava,egli sa ch'io sono qui e che mi trovo in questa deplorabi-le condizione; e se nulla accade senza disposizione diesso, egli ha adunque voluto tutto quanto or m'intervie-ne”.

E poichè non mi occorreva alla mente alcuna idea chesi opponesse all'esattezza delle precitate conseguenze,

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quella che vi rimase più fortemente si fu dell'essere statinecessariamente disposti da Dio tutti gli avvenimenti aiquali soggiacqui.

“Dunque, io diceva fra me, è il voler di Dio che mi hacondotto in queste sgraziatissime circostanze, perchèegli unicamente ha potestà non solo su me, ma su tuttele cose che succedono in questo mondo. E perchè, pre-stamente io soggiugneva, Dio ha fatto a me tuttoquesto? Che cosa ho fatto io per essere trattato in similmaniera?”

Ma quando io m'internava in sì fatta investigazionesentiva tali rimproveri della mia coscienza quali puòmeritarseli chi profferisce bestemmie; mi sembrò udireuna voce che mi gridasse:

“Sciagurato! domandi ancora che cosa hai fatto? Vól-tati indietro su la tua orribile dissipata vita e domanda ate medesimo che cosa non hai fatto! Domanda perchènon sei stato ben prima d'ora distrutto; perchè non rima-nesti sommerso dinanzi al lido di Yarmouth, o uccisonella zuffa quando il tuo vascello fu predato dal corsarodi Salè, o divorato dalle belve feroci in su la costa d'A-frica, o annegato qui quando tutti i tuoi compagni rima-sero preda dell'onde fuori di te? E chiedi che cos'hai fat-to!”

Rimasi muto, atterrito da tali considerazioni controalle quali non avrei saputo articolare una parola; no,nemmeno una parola e non aveva che rispondere a memedesimo. Levatomi in piedi, tutto avvilito e pensiero-so, me ne tornai alla volta della mia abitazione. Quivi

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scalato giusta il consueto il mio muro di cinta, mi appa-recchiavo per mettermi in letto, ma in quel turbamentomio di pensieri non sentendo alcuna voglia di dormire,mi posi a sedere su la mia scranna dopo avere accesa lamia lucerna perchè principiava a far molto scuro. Poicominciando a darmi grande sgomento il pensiere delnon lontano nuovo accesso di febbre, mi tornò alla me-moria che gli abitanti del Brasile non usano per ognisorta quasi di malattia d'altro rimedio fuor del loro ta-bacco. Io ne aveva in una delle mie casse un vaso dipreparato ed una porzione di verde e non preparato.

Andai ad aprir questa cassa, guidato senza dubbio dalcielo, perchè vi trovai la medicina del mio corpo e dellamia anima. Ne trassi la cosa per cui l'aveva aperta, cioèil tabacco; ed essendovi pure entro que' pochi libri ch'iom'era salvati, ne levai una delle bibbie da me comme-morate dianzi e ch'io non aveva avuto il tempo, o diciammeglio, la voglia di leggere; poi e questa e il tabacco miportai su la tavola. Come dovessi adoperare il tabacco èquanto io nol sapea, nè per vero dire sapeva nemmenose sarebbe stato rimedio opportuno per la mia malattia.Pure lo sperimentai in varie guise, immaginandomi chein una maniera o nell'altra mi avrebbe giovato. E primie-ramente mi misi in bocca e masticai una delle sue foglieche in principio mi portò da vero grande sbalordimentoal cervello trattandosi di tabacco verde, gagliardo ed alquale io non era gran che assuefatto. Un'altra picciolaparte ne misi in infusione per un'ora o due in un poco dirum, prefiggendomi di berne una dose quando sarei per

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coricarmi; per ultimo ne bruciai altra porzione sopra unbragere tenendo il naso sul suo fumo tanto tempo quan-to me lo permisero il calore e la paura di rimanere soffo-cato.

Durante questa operazione io prendeva in mano labibbia che mi feci a leggere; ma la mia testa era troppodisturbata dal fumo del tabacco perchè potessi reggeread una lettura, almeno seguìta. Solamente avendo apertoa caso il volume, m'abbattei tosto in queste parole: Chia-mami nel giorno dell'angoscia, ed io ti aiuterò e mi glo-rificherai: parole adattissime al caso mio e che mi fece-ro, se vogliamo, impressione nel leggerle, ma non tantaquanta in appresso. Le parole Ti libererò in quel mo-mento non aveano, per così esprimermi, un significatoper me: nel mio modo d'intenderla, la mia liberazioneappariva una cosa si lontana da ogni probabilità che po-tevo dire come il popolo d'Israele quando nel deserto glifu promessa carne da mangiare: Può egli Dio apparec-chiarci una mensa qui? Incominciai anch'io a dire: Puòegli Iddio liberarmi da questo luogo? E poichè sol dopoanni splendè qualche speranza di tal genere di liberazio-ne, questa idea d'impossibilità prevalse frequentementesu i miei pensieri; ciò non ostante le parole della bibbianon mancavano di produrre in me una forte impressio-ne, onde tornai spesse volte a pensarci sopra.

L'ora era tarda e il fumo del tabacco, siccome dissi,mi aveva fatto girare tanto la testa che mi sentiva inmolta disposizione di dormire. Lasciai quindi la mia lu-cerna accesa entro la grotta pel caso di qualche bisogno

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che mi sopravvenisse nella notte, indi andai a mettermiin letto. Ma prima di coricarmi feci una cosa che nonavevo mai fatta in mia vita: m'inginocchiai a pregar Dio,affinchè mi mantenesse la promessa fattami di liberar-mi, semprechè fossi ricorso a lui nel giorno della miaangoscia. Finita questa interrotta ed imperfetta preghie-ra, bevetti il rum entro cui aveva messo in infusione iltabacco: bevanda trovata da me sì fiera e nauseosa chepotei a grande stento inghiottirla; poi mi stesi sul letto.Sentii tosto i fumi del rum andarmi con una tremendaviolenza alla testa; ma non andò guari che profonda-mente m'addormentai, nè mi svegliai se non al declinardel sole: secondo i miei computi a tre ore dopo il mez-zogiorno. Ma erano queste le tre ore del dì successivo, oavevo io dormito tutta una notte e tutto il giorno e l'altranotte seguente? Propendo a credere così; altrimenti nonsaprei spiegare a me stesso in qual maniera nel miocomputo dei giorni della settimana ne avessi perdutouno, siccome dovetti accorgermene alcuni anni dopo;perchè se avessi perduto un giorno per avere tagliata eritagliata la stessa linea o tacca, il giorno perduto nonsarebbe stato uno solamente16. Il fatto è che perdei un

16 For if I had lost it by crossing the line, I should have lost more than oneday; così il testo che tutti, a mia saputa, hanno tradotto alla lettera. Se nonm'inganno, l'autore ha supposto che Robinson per massima generale corregges-se, se gli occorreva, lo sbaglio di notare un giorno due volte, col ripassare sulgiorno notato di più il coltello, e farne più profonda la fenditura, indizio per luiche di quella linea non dovesse tenersi conto. Ora se nel caso presente egliavesse per isbaglio fatto il suo taglio sulla stessa linea, col renderla più profon-da, e quindi di nessun valore, perdeva non solo il giorno che non notava, maquello ancora che rimaneva annullato.

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giorno nel mio conto, nè ho mai saputo veramente inche modo. Sia poi stato in una maniera o nell'altra,quando mi svegliai, mi sentii grandemente ristorato e imiei spiriti erano più vivaci e contenti. Alzatomi, trovaimigliorate le mie forze ed anche il mio stomaco perchèavevo fame. In somma non ebbi accesso di febbre nellagiornata, e le variazioni a mano a mano furono semprein meglio. Questo miglioramento apparve nel giorno 29.

30. Fu questo, secondo la regola dell'intermittenza, ilmio giorno buono, onde andai attorno col mio moschet-to, procurando per altro di non far troppo cammino. Uc-cisi due uccelli di mare, somiglianti alcun poco ad ochesalvatiche; me li portai a casa, ma non ebbi fretta di ci-barmene onde mangiai solamente non so quante uova ditestuggine che trovai eccellenti. La sera rinnovai la miamedicina che supposi avermi giovato il dì innanzi, quel-la cioè del tabacco in infusione; solamente non ne presitanto quanto l'altra volta, nè masticai veruna foglia diesso o tenni la mia testa sopra il suo fumo.

1. LUGLIO. Per dir vero in questo giorno non mi sentiitanto bene quanto avrei sperato perchè ebbi un piccoloaccesso di freddo, ma non fu gran cosa.

2. Reiterai la mia medicina in tutte tre le maniere cheaveva praticate prima, ma quanto al tabacco in infusionene raddoppiai la dose.

3. l'accesso febbrile non comparve nè oggi nè più,benchè tardassi alcune settimane prima di ricuperare lemie forze interamente. Intanto ch'io andava riguada-gnandole, i miei pensieri correvano incessantemente su

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quel tratto di scrittura: Ti libererò, mentre l'impossibilitàdella mia liberazione mi stava si fitta nell'animo chetroncava ogni mia speranza di ottenerla giammai. Pureintantochè io stava scoraggiandomi con questi pensieri,un altro me ne occorse alla mente. “Tu ti fisi tanto, iodicevo a me stesso, su la tua liberazione dalla principaledelle disgrazie che non fai caso dell'altra ottenutapoc'anzi”. Allora principiai a farmi una interrogazione dinatura diversa: “Non sei tu stato liberato, ed anche inguisa prodigiosa, dalla tua malattia, dalla più disastrosacondizione in cui ti potessi trovare e che ti dava tantospavento? hai tu mostrato nemmeno d'accorgertene? Haitu fatta la parte tua? Dio ti ha ben liberato, ma tu non lohai glorificato, perchè non hai riguardato ciò come unaliberazione. Non hai nemmeno pensato a mostrarne unsentimento di gratitudine. Come vuoi tu aspettarti unaliberazione più grande?” Questa idea mi toccò forte-mente il cuore e mi prostrai a ringraziar Dio perchè m'a-vea liberato dalla mia malattia.

4. Nella mattina di questo giorno, dato mano alla bib-bia e incominciando dal Nuovo Testamento, impresi aleggerla seriamente e prescrivendo a me medesimo l'ob-bligo di meditarne un buon tratto ciascuna sera e ciascu-na mattina: ciò senza limitarmi a numero di capitoli, matanto a lungo quanto lo esigevano le considerazioni ch'ioera in dovere di fare. Non passò molto tempo, dopo es-sermi io accinto a questo studio, che sentii il mio cuorepiù profondamente e sinceramente compreso della per-versità del mio vivere passato. Si rinnovava in esso l'im-

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pressione del mio sogno e le parole: Dopo aver vedutotutto ciò che hai veduto, non ti sei ridotto a penitenza!seriamente agitavano le mie idee. Io pensava ansiosa-mente a pregar Dio che mi desse il dono di un vero pen-timento, quando la providenza mi condusse in quel me-desimo giorno ad incontrarmi leggendo la santa scritturain quelle parole: Egli è esaltato siccome principe e sal-vatore perchè concede ravvedimento e perdono. Messogiù il sacro volume, con le mani e il cuore sollevati alcielo, in una specie d'estasi di gioia, esclamai ad altavoce: “Gesù, tu figlio di Davide! Gesù, tu esaltato prin-cipe e salvatore, tu dammi ravvedimento!” Fu questa laprima volta in tutta la vita mia che potei dire, nel verosignificato della parola, di avere pregato il Signore; per-chè tal mia preghiera fu fatta con sentimento del miostato, con una vera speranza evangelica fondata su l'in-coraggiamento venutomi dalla parola di Dio. D'allora inpoi posso dire d'aver cominciato a sentire in me la fidu-cia che Dio m'ascolterebbe.

Ora sì principiai a spiegare nel vero loro senso le pa-role dianzi commemorate: Chiamami, ed io ti libererò:senso ben diverso da quello ch'io aveva attribuito loro inaddietro. In quel tempo non era in me idea d'altre cosecui si potesse dar nome di liberazione fuor dell'essere ioliberato dalla mia cattività; perchè, se bene io mi trovas-si in un luogo ampio, quest'isola era del certo una pri-gione per me, nel più tristo significato di tale parola. Maadesso imparai a ravvisare sotto un altro aspetto le cose.Volsi addietro lo sguardo alla mia passata condotta con

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tanto orrore, le mie colpe mi apparvero sì spaventose,che la mia anima non seppe più domandare altra cosa aDio se non la liberazione dal peso dei peccali che la pri-vavano d'ogni conforto. Chè quanto al vivere in solitudi-ne, ciò era un nulla; non pensai nemmeno a pregar Dioper esserne liberato o a fermarmi su tal desiderio; tuttoera di nessuna importanza a confronto dell'altra libera-zione. E aggiungo questo episodio alla mia storia per in-dicare a chiunque la leggerà che, ogni qual volta l'uomoarrivi a scoprire il vero senso delle cose, ravviserà nellaliberazione dalla colpa una beatitudine infinitamentemaggiore dell'essere liberato da qualsivoglia cordoglio.Ma si lasci questo punto per tornare al mio giornale.

XXI. Nuovi ricolti e produzioni dell'isola.

Cominciava ora la mia condizione ad essere, benchènon meno sfortunata pel tenore di vita a cui mi vedevocostretto, più facile in mia sentenza a tollerarsi. Più checon la costante lettura delle sacre carte e con l'abitudinedi pregar Dio volsi i miei pensieri ad oggetti di più altanatura, trovai entro me stesso una copia di conforti de'quali finora io non aveva avuto la menoma idea. Torna-temi ancora la mia salute e le mie forze, diedi opera aprocurarmi ciascuna delle cose ond'io difettava ed a re-golare il corso del mio vivere quanto meglio per me sipoteva.

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Dal 4 al 14. Armato sempre del mio moschetto, im-piegai questo intervallo a far le mie passeggiate, maadagio e com'uomo che andava ricuperando a poco apoco e dopo una severa malattia le sue forze; chè è diffi-cile l'immaginarsi quanto queste fossero depresse ed aqual debolezza io fossi ridotto. Il metodo ch'io avevausato per guarire era nuovo del tutto, nè forse fu maipraticato dianzi per curare una febbre; nè da vero consi-glierò ad alcuno il metterlo in opera dietro al mio esperi-mento; perchè se bene un tal rimedio mi liberasse dal-l'accesso febbrile, contribuì non so dir quanto a debili-tarmi, oltre all'aver portate ne' miei muscoli e nervi fre-quenti convulsioni che mi durarono per qualche tempo.In questa occasione imparai un'altra avvertenza; vale adire come l'andare attorno nelle stagioni piovose fosse lacosa più pericolosa che immaginar si potesse: special-mente se queste piogge andavano accompagnate da tem-porali e turbini, come è quasi sempre di quelle che cado-no ne' mesi asciutti. Trovai di fatto esser queste assai piùnocive delle altre che vengono in settembre e in ottobre.

Erano già più di dieci mesi da che io rimaneva in que-st'isola malaugurosa, ove sembrava che ogni speranza diuscirne mi fosse tolta ed ove io credea fermamente chenessun essere umano avesse mai posto piede. Dopo ave-re assicurata pienamente, a mio avviso, la mia abitazio-ne, nacque in me il desiderio di fare una più ampia inve-stigazione dell'isola per discoprire quali altre produzionida me ignorate finora vi si contenessero.

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15. In questo giorno cominciò la mia indagine. Porta-tomi primieramente alla calanca ove, come ho già ac-cennato, condussi le mie zattere alla spiaggia, m'accorsi,dopo aver camminato due miglia al di sopra di essa chela marea non andava alta di più. Trovai quivi unicamen-te un ruscelletto d'acqua corrente, dolce e buonissima;ma correndo la stagione asciutta era cosa difficile loscoprire acqua in veruna parte di esso, o almeno in guisasensibile. Dalla riva di quel fiumicello notai molte pia-cevoli praterie o savanne17, tutte uniformi e di bell'erbacoperte. Nelle parti più alte di esse in vicinanza dellemontagne (ove, come ognuno può immaginarsi non cor-reva mai l'acqua) rinvenni una grande copia di tabacco icui verdi gagliardi steli crescevano ad una notabile al-tezza, poi diverse altre piante ch'io non conosceva e del-le quali io non sapeva le proprietà, benchè forse avesse-ro virtù loro proprie ignorate da me.

Andai in cerca della radice di cassava, onde gl'Indianinella generalità di questo clima formano pane, ma nonmi riuscì di trovarne. Vidi grandi piante d'aloè di cui pa-rimente ignoravo le proprietà e parecchie canne di zuc-chero ma salvatiche, e per mancanza di coltivazione im-perfette. Contento per ora a queste scoperte, tornai ad-dietro pensando fra me stesso qual metodo potrei adope-rare per conoscere le virtù e prerogative d'ogni frutto epianta che mi venisse fatto scoprire; ma ciò senza venirea nessuna conclusione, perchè in sostanza io aveva fatte

17 Questo nome conviene tanto alle foreste del Canadà quanto alle prateriedi varie parti dell'America.

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sì scarse osservazioni quando ero nel Brasile che cono-sceva ben poco delle piante de' campi, o almeno il pococh'io ne aveva imparato non poteva essermi d'alcun van-taggio nelle mie angustie presenti.

Dal 16 al 18. Nel successivo giorno tenni la stessa viadell'antecedente, ma portandomi un poco più innanziove trovai che il ruscello e le praterie cominciando amancare davano luogo ad una campagna più boscosa diprima. Quivi trovai diversi frutti e particolarmente gran-de abbondanza di poponi sul terreno e di grappoli d'uvasu gli alberi. Su questi di fatto si estendeano le viti, e icopiosi loro racimoli erano in istato di perfetta maturità.Fu questa una sorprendente scoperta che mi empiè digiubilo, benchè andassi assai cauto nel profittarne. L'e-sperienza mi aveva insegnato a mangiarne parcamente,ricordandomi tuttora come, allorchè mi trovai su lespiagge di Barbaria, il cibarsi d'uva fosse cagione dimorte a molti de' nostri Inglesi schiavi colà e per effettodell'uve stesse colpiti da flussi e da febbre. Immaginaiciò non ostante un eccellente modo di avvantaggiarmi ditali grappoli. Consistea questo nel prepararli e seccarlial sole, conservandoli come si conservano le uve sec-che; pensai che sarebbero per me sane e gradevoli, comelo furono a mangiarne quando non si poteva averne difresche.

Passata quivi tutta la sera, non tornai addietro alla miaabitazione: prima notte ch'io passassi fuori di casa. Al-l'imbrunire m'attenni alla mia prima invenzione guada-gnando la cima d'un albero, ove dormii molto bene; indi

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nella successiva mattina procedei innanzi nella mia sco-perta, camminando circa per quattro miglia (come poteiargomentarlo dalla lunghezza della valle ) vôlto semprea tramontana e circondato da una catena di monti così adestra come a sinistra.

Al termine di questo cammino giunsi ad un apertoove parea che la campagna declinasse verso ponente,mentre una piccola sorgente d'acqua dolce che sgorgavadal lato della montagna postami a fianco scorreva nel-l'opposta dirittura, cioè verso levante. Questo tratto dipaese mi apparve ventilato da un'aria sì temperata, sìflorido e rigoglioso, ogni cosa di esso in uno stato di sìcostante verdura, di tal fioritura da primavera, che perpoco non mi credei trasportato in un giardino artifiziale.

Sceso alcun poco lungo la pendice di questa valle sìdeliziosa, la contemplai con una specie di segreta con-tentezza, non disgiunta ciò non ostante da altri molestipensieri. Ma il pensier primo si fa che tutto questo era dimia piena proprietà; ch'io mi trovava re e signore asso-luto di tutto quel paese con ampio diritto di possederlo eche, se avessi potuto trasportarlo, avrei anche potuto er-gerlo in maggiorasco con tutta l'autorità compartita inordine a ciò ad ogni lord possessore di una signoria nel-l'Inghilterra. Vi scopersi copia d'alberi di coco, aranci,limoni, cedri, ma tutti salvatici e ben pochi fruttiferi, al-meno in allora. Pure i limoni verdi da me côlti eranonon solamente buoni al palato, ma sanissimi; onde inappresso, spremuto il loro sugo nell'acqua, ne composiuna bevanda salubre e oltremodo fresca e refrigerante.

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Capii allora che avrei avute faccende abbastanza nel-l'adunare e portarmi a casa tutto questo ricolto; risolveipertanto di adunare una provvigione così di grappolid'uva come di limoni, per esserne fornito all'uopo nell'u-mida stagione ch'io sapeva esser vicina. Per conseguen-za disposi un grande strato di grappoli in un luogo, unminore in un altro; ed in un altro una grande quantità dilimoni e di poponi. Indi toltimi con me pochi d'ognunodi tali frutti, m'avviai verso casa coll'intenzione di torna-re qui un'altra volta portando meco un sacco o quel mez-zo di trasporto che potrei procurarmi per condurmi acasa quanto allora era da levarsi di lì. A norma di ciò,dopo avere impiegati tre giorni in questo viaggio me nevenni a casa (chè d'ora in poi chiamerò così la mia tendae la mia grotta); ma prima ch'io arrivassi, i grappoli d'u-va erano andati a male; l'abbondanza de' grani e il pesodel sugo gli aveva infranti e stritolati si fattamente chenon furono buoni da nulla o ben da poco; quanto ai li-moni, li trovai intatti, ma aveva potuto portarne mecosol pochi.

19. M'avvicinai verso il luogo stesso dopo avermi fat-ti due sacchi per trasportare a casa il mio ricolto; ma ri-masi sorpreso allorchè arrivando vidi il mio strato digrappoli sì abbondanti e belli quando li colsi, tutti spar-pagliati, gualciti, trascinati un qua un là, gran copia diessi addentati o mangiati; d'onde conchiusi esservi inque' dintorni alcuni grossi viventi di selvaggia naturache soli potevano aver fatto ciò, ma che razza di viventifossero io non sapeva immaginarmelo. Vidi pertanto che

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non vi era il caso nè di stendere strati d'uva sol terrenoper seccarla, nè di portarne via i grappoli entro un sacco.Non la prima cosa, perchè la mia provisione sarebbe sta-ta distrutta come lo fu l'altra; non la seconda perchè l'u-va si gualcirebbe entro il sacco. M'applicai ad un altroespediente; raccosi cioè una grande quantità di grappoliattaccandoli ai rami degli alberi e lasciandoli ivi tantoche si stagionassero e seccassero al sole. Circa ai limo-ni, ne portai via tutto quel numero sotto il cui peso fuibuono a reggere.

XXII. Casa sul lido e casa di villeggiatura.

Tornato dal mio viaggio e postomi a meditare congrande soddisfazione su la fertilità della scoperta valle esu l'amenità della sua situazione, più riparata in oltredall'impeto de' turbini e copiosa d'acqua dolce e di le-gna, dovetti conchiuderne che da vero io era venuto astanziarmi nella più trista parte di tutta quell'isola; per lequali considerazioni io cominciava già a divisare di ab-bandonare l'alloggiamento scelto da prima e metterneuno, ben difeso siccome questo, se pure fosse stato pos-sibile, in quella fertile amenissima parte di paese.

Su questo disegno spaziai a lungo con la mia mente,perchè per qualche tempo rimasi innamorato di quellabellezza di situazione per dir vero seducentissima, maguardandoci più da vicino osservai come ora mi trovassiproprio su la riva del mare, ove non era per lo meno im-

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possibile che succedesse alcun che di vantaggioso perme. Di fatto quella stessa mala sorte che qui mi spinseavrebbe potuto condurci a sua volta qualch'altro sgrazia-to; e ancorchè ci fosse poca probabilità che ciò avvenis-se, l'andarmi a rinserrare fra boschi e montagne nel cen-tro dell'isola era un confermare la mia cattività e un ren-dere non solo improbabile, ma impossibile il riscattar-mene; laonde decisi di non dovere risolutamente slog-giare dal luogo ove allora io mi trovava. Ciò non ostanteio era sì invaghito dell'altro che ci passai gran parte delmio tempo in tutto il rimanente del mese di luglio e, sebene fermo nella determinazione già presa di non rimo-vermi dal primo alloggiamento, mi costrussi nella valleuna specie di piccolo frascato che circondai all'intornodella sua trincea di difesa, cioè d'una doppia palizzataalta quanto potei e colma di sterpame nell'intervallo deidue steccati. Entro questo io dormiva con tutta sicurezzale due, le tre notti di seguito, nè vi entravo se non supe-rando con una scala da ritirare in dentro la palizzata,come facevo nella mia antica abitazione: con ciò iom'immaginai di essere venuto ad avere due case, l'unasul lido, l'altra di villeggiatura. Questa nuova costruzio-ne mi tenne in faccende sino al principio del nuovomese.

AGOSTO. Terminata ora la mia nuova fortificazione,cominciavo a godere del frutto dei miei sudori, quandole piogge sopravvenute mi costrinsero a rannicchiarminella casa vecchia; perchè, se bene nella casa nuova,come nell'altra, mi avessi fatta una tenda con un pezzo

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di vela, io non ci avea ciò non ostante la protezione delmonte contro ai temporali, nè la grotta entro cui rinta-narmi ne' casi di piogge più che ordinarie.

1. Col principio di questo mese, come dissi, avevo fi-nito il mio frascato, nè pensavo omai che a godere ditutti questi miei comodi.

3. Oggi trovai secchi a perfezione i grappoli d'uva cheavevo appiccati alle piante, eccellentemente soleggiatied ottimi da vero al gusto. Mi diedi pertanto a spiccarlidagli alberi, e buon per me l'aver fatto così; altrimenti lepiogge che sopraggiunsero me gli avrebbero mandati amale e con essi la migliore mia provvigione del verno,perchè nè ebbi una scorta di dugento grappoli. Appenatolti giù, ne portai una gran parte alla casa vecchia entrola mia grotta; ma principiò dal più al meno ogni giornoa piovere (ciò fu ai 14 agosto) sino alla metà di ottobre;e alle volte con tanta violenza che per parecchi giorninon ho potuto fare un passo fuori della mia grotta.

In questa stagione ebbi la sorpresa di vedermi cre-sciuto in famiglia. Io aveva avuto tempo prima il dispia-cere di perdere una gatta fuggitami di casa o forse mor-ta, come allora pensai. Non me ne ricordavo più, quandoa mio grande stupore me la vidi tornare a casa con tregattini: avvenimento tanto più sorprendente per me per-chè, se bene sul finire d'agosto avessi ammazzato ungatto salvatico, com'io lo chiamava, mi sembrò per altrod'una specie affatto diversa dai gatti europei. Or questigattini apparivano affatto spettanti alla razza de' nostrigatti domestici; e d'altronde i miei due gatti erano fem-

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mine entrambi, onde non ci capivo nulla. Certo è chepoco appresso in vece di avere tre gatti mi trovai sì infe-stato da una popolazione di tali bestie, che fui costrettoa sterminarle, come avrei fatto di cimici o di scorpioni ea tenermele lontane da casa più che potei.

Dal 14 al 26 agosto non fece altro che piovere, ondenon potevo quasi affatto movermi di casa, chè ero dive-nuto paurosissimo di prendere l'umido. Durante questaprigionia principiai a trovarmi alle strette nelle mie vet-tovaglie; ma arrischiatomi un paio di volte ad uscire, laprima ammazzai una capra, la seconda, ai 26 dello stes-so mese, presi una grande testuggine di mare che fu unalautezza per me. I miei pasti erano ora regolati come se-gue: un grappolo d'uva secca per la mia colezione; pelmio pranzo un pezzo di capra o di testuggine arrostita,chè sfortunatamente non aveva alcun recipiente entrocui preparare veruna sorta di lesso o stufato; due o treuova di testuggine per la mia cena.

Nel tempo parimente di tal prigionia cui la pioggia micostringea, impiegai due o tre ore di ciascun giorno nel-l'allargare la mia grotta. In un fianco di questa scavaitanto che venni a riuscire del monte e ad aprirmi unaporta posta fuori della mia trincea per la quale potevaentrare e venir fuora a mio talento. Pure non mi trovaitroppo contento di essermi messo così allo scoperto,perchè di riparato come io viveva in una perfetta chiusu-ra, adesso al contrario io mi trovava più indifeso. Adogni modo non sapevo persuadermi che in quest'isola vi

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fossero viventi da far paura; i più grossi che avessi ve-duti erano capre.

30 settembre. Eccomi ora arrivato all'infausto anni-versario del mio tristo approdare in quest'isola. Contatele tacche del mio stipite, vi trovai di esser rimaso trecen-to sessantacinque giorni. Distinsi questo giorno con unsolenne digiuno, dedicandolo unicamente ad esercizi dipietà, prosternandomi a terra con la più sincera umilia-zione, confessando a Dio le mie colpe, riconoscendo lagiustizia de' suoi giudizi adempiutisi sopra di me, e pre-gandolo ad usarmi misericordia pei meriti di Gesù Cri-sto. Non avendo preso alcuna sorta di refezione per do-dici ore, solo al tramontare del giorno mangiai un pez-zetto di biscotto ed un grappolo d'uva secca, terminandola mia giornata come l'aveva incominciata. In tutto que-sto tempo erano state trascurate da me le domeniche,perchè, priva su le prime d'ogni sentimento di religionela mente mia, io non facea nissuna differenza tra ungiorno e l'altro della settimana. Ma ora tornai a tenere ilregistro dei giorni, siccome avevo divisato su le prime, epartendo dal principio di essere rimasto qui un anno, lodivisi in settimane, notando con un segno suo proprioogni settimo giorno, cioè ogni domenica; benchè trovaiin fin del conto di aver perduto uno o due giorni nel miocalcolo. Poco appresso, essendo cominciato a mancarmil'inchiostro, m'adattai a valermene con maggiore rispar-mio, ed a notare soltanto gli avvenimenti più memorabi-li della mia vita senza continuare un giornale espressa-mente per l'altre cose.

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XXIII. Seminagione ed altri casalinghi lavori.

Imparato ora a conoscere la vicenda regolare dellestagioni piovose ed asciutte, mi diedi a farne un ripartoproporzionato ai bisogni di provvedere alla mia sussi-stenza. Ma mi costò caro il giungere a questo intento, equanto mi apparecchio ora a riferire darà a conoscereuno dei più scoraggianti esperimenti ch'io m'abbia maifatti.

Ho di già narrato come io mettessi in serbo le pochespighe d'orzo e di riso che in guisa tanto maravigliosa ioaveva vedute nascere da sè medesime, come lo credei daprincipio: credo fossero all'incirca trenta quelle del risoe venti l'altre dell'orzo. Ora cessate le piogge, e il solenascente stando alla massima distanza da me nella suaposizione meridionale, credei questo essere il tempo op-portuno per la mia seminagione. Conseguentemente la-vorai meglio che potei con la mia vanga di legno unpezzo di terra che divisi in due parti per seminarvi ilmio grano. Nel far ciò mi venne a caso l'idea di non se-minarlo tutto in una volta, perchè non era ancora ben si-curo che quella fosse l'adatta stagione. Commisi dunqueal terreno due terzi di semina così d'un grano come del-l'altro, tenendone addietro per maggior cautela una por-zioncella di ciascheduna sorta.

Fu un grande conforto per me l'essermi regolato inquesta maniera. Non uno dei grani che seminai alloravenne a buon fine; perchè essendo succeduto alla mia

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seminagione un mese asciutto, nè la terra avendo rice-vuto dalle piogge verun ammollimento che aiutasse ilgermoglio del seme, esso non produsse nulla finchè nontornò la stagione umida, che allora buttò come se fossestato seminato di fresco. Poichè m'accorsi che la miaprima semina non germogliava, subitamente immaginaiche ciò era effetto dell'aridità. Cercai quindi un pezzo diterreno più umido per farvi una seconda prova; e rinve-nutolo in vicinanza del mio nuovo frascato, lo vangai af-fidandogli altra parte della mia semina in febbraio, unpoco prima dell'equinozio di primavera. Questa, dopoessersi imbevuta delle piogge di marzo e d'aprile, spuntòbellamente e mi diede un eccellente ricolto; ma nonavendone seminata che poca porzione, perchè non ardiiprivarmi di tutto il grano che aveva, non ne cavai in findei conti se non una piccola quantità, perchè tutta la miamesse non ammontava a più di un mezzo moggio perciascuna sorta. Nondimeno, grazie a questo esperimen-to, m'impossessai della mia materia, e giunsi a conosce-re esattamente quale fosse il tempo opportuno alla semi-nagione; come pure venni a sapere ch'io poteva calcola-re sopra due seminagioni e due ricolti a ciascun anno.

Intantochè il mio grano andava crescendo feci unapiccola scoperta che mi fu in appresso di molta utilità.Appena cessate le piogge e cominciato a stabilirsi ilbuon tempo, il che accadde all'incirca nel mese di no-vembre, feci una gita alla mia villeggiatura ove, benchènon vi fossi stato da alcuni mesi, trovai tutte le cose nel-l'ordine in cui le avevo lasciate. Il cancello o doppio

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steccato che le avevo messo all'intorno non solamente sitrovava fermo ed intatto, ma i pali che erano stati recisida alcuni alberi di quelle vicinanze, aveano buttato lun-ghi rami, e tanti quanti ne mettono i nostri comuni salcinel primo anno dopo essere stati tagliati a corona: nonsaprei dire come si chiamassero gli alberi donde questipali furono tolti. Rimasi sorpreso, e da vero gratamente,al vedere cresciute queste giovani piante; le potai la-sciandole crescere ad una certa uguaglianza per quantopotei. È appena credibile la bella comparsa ch'esse fece-ro in capo a tre anni; in guisa che, se bene la palizzataformasse un cerchio di circa venticinque braccia di dia-metro, pure i miei alberi (che così dall'ora in poi potevachiamarli) copersero presto tutto il frascato, e formaronouna compiuta ombra, bastante ad alloggiarvi sotto pertutta la stagione asciutta.

Ciò fece che mi risolvessi a tagliare un maggior nu-mero di simili pali, e a fabbricarmi una palizzata egualenel semicircolo posto intorno alla trincea della mia pri-ma abitazione; e questo eseguii piantando tali alberi opali in un doppio filare distante all'incirca otto bracciadalla mia prima fortezza; essi crebbero prontamente,procurando su le prime un bellissimo frascato all'anticamia casa e divenendomi di un'utile difesa in appresso,come farò vedere a sua tempo.

Trovai allora che le stagioni dell'anno poteano gene-ralmente venir divise, non in verno e state come nell'Eu-ropa, ma in stagioni piovose ed asciutte, che general-mente erano queste.

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Metà di febbraioMarzoPrima metà di aprile

Stagione piovosa, essen-do in questo tempo il soleo nell'equinozio o prossi-mo ad esso.

Seconda metà di aprileMaggioGiugnoLuglioPrima metà di agosto

Asciutta, essendo il solea settentrione della linea.

Ultima metà di agostoSettembrePrima metà di ottobre

Piovosa, il sole retroce-dendo dalla linea.

Seconda metà di ottobreNovembreDecembreGennaioPrima metà di febbraio

Asciutta, il sole essendoa mezzogiorno della linea.

Le stagioni piovose duravano talvolta più, talvoltameno secondo la parte donde soffiava il vento.

Dopo avere esperimentate le triste conseguenze del-l'andare attorno quando piovea, ebbi la previdenza di fartali anticipate proviste che ne' tempi cattivi mi salvasse-ro da questo bisogno; poi me ne rimaneva in casa il piùch'io poteva durante i mesi delle piogge. Non mi lasciaimancar lavoro in questo intervallo, che mi tornò anzigiovevole assai, perchè mi diede campo a procurarmiparecchie di quelle cose che mi sarebbe stato impossibi-le il conseguire senza molto dispendio di applicazione edi continuata fatica. Soprattutto io avea tentate molte

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prove per fabbricarmi un canestro; ma tutti i rami ch'iopotea procacciarmi a tale effetto erano sì fragili che nonmi servivano a nulla. Certo io sentiva allora il vantaggiodi essermi dilettato nei giorni di mia fanciullezza a pas-sar le ore nella bottega di un fabbricatore di tali mercan-zie che dimorava nella stessa città ove viveva mio pa-dre: era in quei giorni, come sono in generate tutti i ra-gazzi, e uficiosissimo nel prestargli servigio e attentissi-mo all'andamento del suo lavoro, cui diedi più volte unamano. Io avea pertanto una perfetta conoscenza degl'in-gegni da operarsi per tale manifattura, ma non mi man-cava poco mancandomi i materiali. Stava affliggendomidi ciò, quando mi venne in mente che gli alberi adopera-ti per averne i pali or crescenti della mia palizzata,avrebbero dovuto essere tigliosi quanto i salci ed i vimi-ni dell'Inghilterra. Risoluto di farne l'esperimento finchèi giorni erano asciutti, mi trasferii nel dì successivo aquella ch'io chiamava mia casa di villeggiatura, ove ta-gliati alcuni ramuscelli di tali alberi, li trovai perfetta-mente al mio caso. Laonde nel giorno appresso tornatoquivi con un'accetta, ne tagliai una grande quantità chenon durai fatica a rinvenire, perchè ve ne avea grandecopia. Fattili seccare entro la mia palizzata, li trasportaiindi alla mia grotta, ed impiegai la stagione seguente nelfabbricarmi parecchi canestri ad uso sia di trasportare orterra da un luogo all'altro or provvigioni a casa, sia diconservar queste. Non dirò che fossero estremamenteeleganti, ma servivano al proposito per cui me gli erofatti. D'allora in poi procurai sempre d'averne una scor-

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ta, e quando i primi cominciavano ad essere logori, mene facevo degli altri; principalmente ne fabbricai di benprofondi, perchè mi facessero vece di sacca, entro cuimettere il mio grano quando giugnessi ad averne un ab-bondante ricolto.

Vinta questa difficoltà, mi diedi a fantasticare se vifosse via di provedermi d'altre due cose che mi manca-vano. Primieramente io non avea vasi per contenervi iliquidi fuor di due bariletti quasi affatto colmi di rum,d'alcuni fiaschi di vetro di comune grandezza ed altri ri-quadri per liquori; ma non una sola pentola per bollirvientro qual si fosse cosa, se si eccettui una grande caldaiach'io salvai dal vascello naufragato, ma troppo spaziosaper l'uso ch'io mi prefiggea, di farmi cioè il brodo o dicucinarvi entro uno stufato. Altra cosa che avrei grande-mente desiderata si era una pipa da tabacco; ma questami era impossibile farmela, benchè finalmente trovassiuno stratagemma per supplire anche a tale bisogno. Tut-ta la state o sia la stagione asciutta fu da me impiegatanell'innalzare il mio secondo steccato di pali, ed anchenel fabbricarmi canestri, quando una seconda fazione miportò via più tempo di quanto si potesse immaginarech'io ne avessi d'avanzo.

XXIV. Pellegrinaggio nell'isola.

Dissi dianzi come fosse grande in me la voglia di ve-dere tutta quanta l'isola, e come mi fossi trasferito lungo

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il ruscello fermandomi laddove stabilii la mia casa divilla, donde io aveva un cammino aperto sino al maredall'altra parte. A questa parte io risolvei ora di trasferir-mi. Preso pertanto meco il mio moschetto, un'accetta, ilmio cane ed una maggior quantità di polvere e di pallini,proveduta la mia bisaccia di biscotto e d'uva appassita,cominciai il mio pellegrinaggio. Passata la valle ove sta-va il mio frascato, arrivai a vista del mare a ponente, efacendo una giornata oltre ogni dire serena, scopersiperfettamente una terra: se isola o continente non poteiconoscerlo, ma altissima ed estesa in un'assai grandelontananza da ponente al west-sud-west (ponente-libec-cio), non meno di quindici a venti leghe secondo le miecongetture.

Io non potea determinare a qual paese del mondoquella terra appartenesse; sol non dubitavo che non fos-se una parte dell'America e, secondo i raziocini che isti-tuii, vicina ai dominii spagnuoli. Ma poteva anch'esseretutta quanta abitata da selvaggi, e tale che se vi fossisbarcato, mi sarei veduto a peggior partito che non loero adesso. Mi rassegnai quindi con tranquillo animoalle disposizioni della Providenza ch'io cominciava oraa confessare, ravvisando com'ella ordinasse per il me-glio tutte le cose. In questa considerazione dunque ac-chetai la mia mente senza angustiarmi con inutili votiper trovarmi colà.

Oltrechè, ragionando più a mente fredda, pensai che,se quella terra fosse stata una costa spagnuola, certa-mente avrei veduto, una volta o l'altra, passare o ripassa-

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re qualche vascello di quella nazione; se no, essa erasenza dubbio quella costa inospite situata fra i possedi-menti spagnuoli e il Brasile, i cui abitanti sono la peg-gior razza di tutti i selvaggi; perchè, cannibali o divora-tori d'uomini, certamente non si stanno dall'uccidere edal mangiare gl'infelici naviganti che cadono nelle loromani.

Nel far queste considerazioni io procedeva innanzi apiccole giornate, e trovai come questa parte d'isola ov'e-ro allora fosse più dilettevole di lunga mano che quelladella mia residenza: campi aperti, o savanne, ricchi difiori, di praterie e di bellissime piante. Veduta quivi unagrande quantità di pappagalli, m'invogliai di prenderneuno per addimesticarlo se mi fosse stato possibile, ed in-segnargli a parlarmi. Mi riuscì di fatto, non per altrosenza qualche fatica, di farne con un bastone stramazza-re un novello, che fui presto a cogliere, e mi portai acasa; ma ci vollero alcuni anni prima che potessi farloparlare; pur finalmente giunsi a tanto che profferì fami-gliarmente il mio nome. L'accidente occorsomi al pro-posito di esso, benchè di lieve conto, non sarà privo divezzo quando verrà il momento di raccontarlo.

Di questo mio viaggio fui soddisfatto oltre ogni dire.Trovai nelle terre basse e volpi e lepri, almeno così legiudicai; tanto diverse per altro da tutte le solite in cuim'era altrove abbattuto, che, se bene ne uccidessi molte,non seppi risolvermi ad assaggiarne. D'altra parte io nonavea bisogno di avventurarmi a prove, perchè non man-cavo di nutrimento e per vero dire eccellente, soprattutto

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di capre, colombi e tartarughe. Aggiunti a ciò i mieigrappoli d'uva, il mercato di Leadenhall non potevasomministrare una tavola meglio imbandita della mia,avuto massimamente rispetto al numero dei commensa-li; laonde ancorchè la mia posizione fosse deplorabileanzichè no, io aveva sempre grande motivo di ringrazia-re la Providenza, perchè lontano dall'esser ridotto adestrema penuria, nuotavo nell'abbondanza, nè mi man-cavano nemmeno le delicatezze del vitto.

In tutto questo viaggio il mio cammino non oltrepas-sava mai le due miglia in una stessa dirittura; ma pren-devo tanti giri, or portandomi più innanzi, or tornandoaddietro per vedere quali scoperte vi fossero a farsi, chearrivava sempre sufficientemente stanco al luogo ove iomi prefiggeva di passare la notte. Durante questa o ripo-sava sopra un albero o mi faceva all'intorno uno steccatodi pali piantati in terra; talvolta ancora tra due filari diquesti pali alzati tra un albero ed un altro, affinchè qual-che fiera non s'accostasse a me senza svegliarmi.

Appena giunto alla spiaggia del mare, dovetti accor-germi con dispiacere e stupore che la parte toccatami fi-nora per abitarvi era la più trista dell'isola. Qui di fatto illido era coperto d'uno sterminato numero di testuggini,mentre dall'altra banda non ero arrivato, a trovarne piùdi tre in un anno e mezzo. Quivi pure trovai un'infinitàdi uccelli di moltissime specie, alcune vedute dianzi, al-tre non vedute ancora, tutti ottimi a mangiarsi e di nes-suno de' quali io conosceva i nomi, eccetto i così dettipenguini.

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Avrei potuto prenderne quanti avessi voluto, se nonmi fosse stato a cuore il far grande risparmio della miamunizione, e non avessi pensato piuttosto ad uccidere,se mi riusciva, una capra di che cibarmi per più lungotempo. Ma benchè di tali animali vi fosse quivi abbon-danza, e maggiore che dal mio lato d'isola, pure la diffi-coltà di accostarsi ad essi era anche più grande, perchèessendovi più piano ed uniforme il terreno, mi vedevanopiù presto ch'io non fossi loro addosso per ammazzarli.

Devo confessare che questa banda di paese era piùpiacevole della mia; ciò non ostante non mi venne lamenoma voglia di traslocarmi. Mi era già stabilito nellamia abitazione, mi ci ero affezionato, onde per tutto iltempo che rimasi quivi mi considerai sempre come unuomo in viaggio e fuori di casa propria. Avrò nondime-no camminato lungo la spiaggia per una dozzina credodi miglia, all'ultimo de' quali conficcato in terra un gran-de palo che mi servisse di segnale, presi la determina-zione di tornarmene a casa, e di pigliare per direzioned'un secondo viaggio la parte orientale dell'altra spiag-gia ch'io avrei costeggiato nel mio nuovo giro, finchèfossi arrivato al punto ove lasciai piantalo lo stipite. Diquesto parlerò a luogo e tempo.

Per tornare addietro presi una strada diversa, immagi-nandomi di poter sempre dominare coll'occhio tanta par-te dell'isola, che mentre conseguiva così l'intento di ve-dere maggior estensione di paese, non avrei mai perdutadi vista la dirittura della mia abitazione; ma andò erratoil mio calcolo. Dopo fatte due o tre miglia mi trovai sce-

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so in una valle ampia sì, ma tanto attorniata da colline equeste estremamente boscose, ch'io non aveva altra nor-ma ai miei passi fuor della via percorsa dal sole, e nem-meno questa semprechè non conoscessi la posizione diesso a tal data ora. Per giunta di mia disgrazia accaddeche il tempo si fosse buttato nebbiosissimo ne' tre oquattro giorni da me trascorsi in quella valle, onde, con-tesami la vista del sole, vagai sconfortato alla ventura,finchè finalmente fui costretto cercar di nuovo la spiag-gia e il palo che avevo piantato, e da quel punto ripiglia-re la stessa via dond'ero venuto. Allora me ne tornai acasa a piccolissime giornate, perchè, tanto più che eracaldissima la stagione, il mio moschetto, le mie muni-zioni, l'accetta ed altre cose mi pesavano assai.

Durante il narrato viaggio, il mio cane sorprese unagiovine capretta di cui s'impadronì, e ch'io sottrassi vivadalla sua presa. Mi venne tosto l'inspirazione di condur-mela parimente viva a casa se mi riusciva, chè già dalungo tempo io andava pensando se non sarebbe possi-bile l'avviarmi una razza di capre domestiche che tantosarebbemi venuta all'uopo quando la mia polvere e lemie munizioni fossero finite. Fatto un collare per questabestiuola ed un guinzaglio di spago ch'io non mancavamai di portarmi meco, me la tirai dietro, benchè conqualche stento, fino al mio frascato, ove chiusala, la la-sciai; perchè non vedevo l'ora di essere a casa dondemancavo da un mese.

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XXV. Ritorno dal primo viaggio.

Non valgo ad esprimere la mia soddisfazione al tro-varmi nuovamente nella mia tana e sul mio letticciuolo.Questo piccolo pellegrinaggio privo di stazioni di riposomi era stato si molesto che la mia casa, com'io la chia-mava, avea per me l'aspetto di eccellente dimora cui nonmancasse alcuna sorta di comodi; ed ogni cosa di essami divenne sì deliziosa, che facevo proposito di non im-prendere più mai grandi viaggi, finchè il mio destinom'avesse tenuto in quell'isola.

Qui stetti una settimana per riposarmi e ristorarmi daidisagi della mia lunga peregrinazione. Molto di questotempo fu impiegato nell'importante affare di fabbricareuna gabbia pel mio Poll: tal fu il nome da me imposto almio pappagallo che principiava ora ad essere più dime-stico e a mettersi in perfetta corrispondenza con me.Pensai pure alla mia povera capretta lasciata a stentarenel mio frascato, e che era ben ora per me di andare avisitare per darle almeno di che cibarsi, se non me lafossi tirata, come poi feci a casa. Andai dunque e la tro-vai dove l'aveva lasciata, che già di lì non poteva uscire,ma quasi morta di fame. Tagliate frasche d'alberi o dimacchie, come mi riuscì trovarne, gliele gettai dinanzi;poi pasciuta che fu, la posi al guinzaglio siccome la vol-ta precedente, indi la condussi via. Ma potevo rispar-miare la cautela del guinzaglio, perchè la fame l'avevatanto addimesticata, che mi seguì a guisa d'un cagnoli-

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no. Avendo poi sempre continuato a nutrirla, divenne sìamorosa e gentile che fu in appresso anch'essa nel nu-mero della mia gente di casa, nè avrebbe mai volutostaccarsi da me.

Era or venuta la piovosa stagione dell'equinozio diautunno. Il 30 settembre, giorno del mio arrivo nell'iso-la, fu da me festeggiato con la stessa solennità dell'annoscorso. Correa già il secondo anno da che io mi trovavaquivi, nè avevo migliori prospettive d'uscirne ch'io nonne vedessi nel primo giorno. Impiegai l'intera giornatain umili affettuosi ringraziamenti al Signore per tantiprodigi di misericordia versati su la mia solitudine, pro-digi senza de' quali essa sarebbe stata infinitamente piùmiserabile. I più fervorosi di questi rendimenti di graziesi riferivano all'avermi egli scoperta la possibilità di es-sere anche in questo deserto più felice che non lo sareistato in seno ai godimenti della società ed a tutti i piace-ri del mondo. Egli avea fatti colmi e il vuoto della soli-tudine e la privazione d'ogni consorzio di uomini col co-municare all'anima mia i doni della sua grazia, col soste-nermi, confortarmi, incoraggiarmi a porre ogni fiducianella sua providenza quaggiù, ogni speranza nella suaeterna presenza per l'avvenire.

In questo punto cominciai veramente a sentire quantofosse più felice la vita da me condotta ora, anche ac-compagnata da tutte le sue deplorabilissime circostanze,che non quella perversa, esecrata, abbominevole, vissutain tutto il precedente intervallo de' giorni miei: in questopunto si cangiarono affatto i miei contenti e i miei cruc-

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ci; le mie brame si fecero diverse, le mie affezioni muta-rono di scopo, i miei diletti erano tutt'altro da quel chefurono all'atto del mio primo arrivo, ed anzi per tutto iltempo de' due scorsi anni.

Per l'addietro, s'io mi diportava o per cacciare o periscoprire paese, l'angoscia della mia anima travagliatadalla considerazione di sì misero stato scoppiava in med'improvviso, e mi sentiva lacerare il cuore pensandoalle foreste, alle montagne, ai deserti tra cui andavo va-gando, tra cui era prigioniero, racchiuso dall'eterne sbar-re dell'oceano, in un deserto il più assoluto, senza spe-ranza di riscatto. Nei momenti anche di maggior calmadella mia mente quest'angoscia vi prorompeva a guisad'orrida burrasca, mi costringeva a contorcermi le mani,a piangere come un fanciullo; talvolta essa mi sorpren-deva tra i miei lavori, sì che io mi lasciava cadere sedu-to, e sospirava e guardava fiso la terra per una o due orecontinue: e ciò era anche peggio per me; perchè se aves-si potuto alleviarmi col pianto o dar varco al dolore conle parole, questo sarebbe svanito, o almeno, esausto dalripeterne gli accenti, si sarebbe mitigato.

Ma ora pensieri di una nuova natura mi sollevavano:col leggere ogni giorno la parola divina, io ne applicavai conforti al presente mio stato. Una mattina ch'io mitrovava assai malinconico, apersi la Bibbia al punto diquelle parole: “Non ti lascerò, non ti abbandonerò mai!”Pensai tosto che questi detti fossero vôlti immediata-mente a me; altrimenti mi sarebbero essi occorsi in talguisa, allorchè appunto io stava gemendo su la mia con-

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dizione come chi si crede abbandonato da Dio e dall'uo-mo? “Quand'è così, dunque, diss'io, se Dio non mi ab-bandona, che male può derivarne, o che importa a me,se anche tutto il mondo mi abbandona? D'altronde, setutto il mondo fosse mio, e dovessi perdere il favore e labenedizione di Dio, vi sarebb'egli confronto tra il guada-gno e la perdita?”

Da quel momento io cominciai a concepire col miopensiere, che forse ero più felice in questa solitaria dere-litta posizione, di quanto il sarei forse stato mai in ognialtra relazione con la società, e fermo in tale pensiero iovolea ringraziare il Signore per avermi condotto in que-st'isola. Pure non so dire come ciò fosse: sentii nell'ideastessa qualche cosa che mi ripugnava, onde queste paro-le di ringraziamento non ardii profferirle. “Come puoi tuessere ipocrita, dissi ad alta voce a me medesimo, al se-gno di ringraziar Dio per averti posto in una condizionedalla quale, per quanti sforzi tu faccia alla tua ragioneonde trovartene contento, pregheresti con tutto il cuoredi essere liberato?” Qui mi fermai; ma benchè io nonfossi buono di ringraziar Dio per aver permesso ch'io mitrovassi in quest'isola, gli resi grazie sincere per quelleafflizioni di qualunque genere onde piacque alla suaprovidenza aprirmi gli occhi affinchè vedessi qual fu ilprimo genere di mia vita e piangessi su la mia perversitàe me ne pentissi. D'indi in poi non ho mai aperta o chiu-sa la Bibbia ch'io non ringraziassi il Signore e per avereinspirato a quel mio amico inglese di mettere, senza al-cun ordine mio preventivo, tal divino libro entro le cose

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del mio fardello, e per avermi indi assistito tanto che losalvai dal naufragio.

Così ed in tale disposizione di mente io cominciai ilmio terzo anno; e benchè nel descrivere il secondo ionon abbia recata al leggitore la molestia della minutadescrizione d'ogni mio lavoro, come feci nel primoanno, ciò non ostante egli può generalmente persuadersich'io rimaneva in ozio ben rare volte. Io aveva già ripar-tito regolarmente il mio tempo compatibilmente con legiornaliere faccende dalle quali io non potea dispensar-mi: primieramente i miei doveri verso Dio, e la letturadelle sacre carte, chè io mi teneva in disparte quantotempo bastava perchè seguisse tre volte ogni giorno; insecondo luogo l'andarmene attorno col mio moschettoper procurarmi il vitto, occupazione che generalmenteparlando, e se non pioveva, mi prendea tre ore d'ognimattina; per ultimo l'ordinare, l'allestire, il conservare, ilcucinare gli animali ch'io aveva uccisi o presi pel miosostentamento. Ciò portava via una gran parte dellagiornata, perchè fa d'uopo in oltre considerare che almezzogiorno, quando il sole stava sullo zenit, l'eccessodel caldo era troppo grande per permettere di far nulla;per lo che quattro ore della sera erano tutto il tempo chesi potea supporre dato al lavoro. Tale riparto va soggettoalla eccezione cagionata dall'aver io talvolta permutatele mie ore della caccia e del lavoro, ed essermi, peresempio, posto al lavoro la mattina, essere andato a cac-cia la sera.

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In questo tempo lasciatomi pel lavoro prego si com-puti l'estrema difficoltà ch'esso mi costava: quelle tanteore cioè che, per mancanza di stromenti, di aiuto ed an-che di perizia, io doveva levare degl'intervalli dedicatialle mie manifatture; per esempio, io dovetti impiegarequarantadue giorni onde fabbricarmi una lunga asse dascaffale che mi mancava nella mia grotta; mentre duesegatori forniti de' loro cavalletti e d'una sega, ne avreb-bero cavate fuori sei dello stesso albero in una mezzagiornata.

Ecco in qual modo operai. Enorme era l'albero da ab-battere, se volevo cavarne un'asse della larghezza da meideata; mi bisognarono quindi tre giorni soltanto per at-terrarlo, ed altri due per rimondarlo di tutti i suoi rami eridurlo ad un pezzo di legname da lavoro. A furia di ta-gliare e tagliuzzare da tutti i lati, lo impoverii tanto delleschegge toltene che fu leggero quanto bastava per poter-lo movere. Allora, voltato sopra un fianco il mio tronco,ne piallai da una estremità all'altra la lunghezza superio-re, poi riversatolo su l'altro fianco ripetei la stessa opera-zione su la lunghezza di sotto che diveniva superiore,con che ottenni un asse grossa in circa tre pollici e suffi-cientemente liscia ad entrambe le superficie. Ognunopuò immaginarsi se le mie mani non si affaticarono intal genere di lavoro; ma la pazienza e la buona volontàmi condussero a buon fine in questo come in molti altri.

Mi sono unicamente esteso nella presente descrizioneper dare a conoscere il motivo del molto tempo impie-gato in un lavoro sì piccolo, o sia per dimostrare che

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quanto sarebbe stato una cosa da nulla per chi avesseavuto aiuto di uomini e stromenti, diveniva un immensolavoro e chiedeva un tempo prodigioso per chi operavasolo e col solo sussidio delle proprie braccia. Ciò nonostante col non iscoraggiarmi mai venni a capo di moltecose, anzi di tutte quelle che l'attualità delle mie circo-stanze mi rendea necessario procurarmi, come ne reche-rò tosto una prova evidente.

XXVI. Pericoli minacciati alla messe e superati.

Correvano i mesi di novembre e dicembre quando iostava in espettazione del mio ricolto di grano e di riso. Ilcampo da me lavorato e vangato per queste biade nonera vasto; perchè, come osservai, la mia semenza d'en-trambe non oltrepassava la capacita d'un mezzo moggio,da che aveva perduto un intero ricolto per aver fatta lamia seminagione ne' giorni asciutti; ma questa volta imiei campi promettevano grandemente, allorchè mi ac-côrsi d'improvviso d'essere in un nuovo pericolo di per-dere tutto e minacciato da tanti nemici di varie sorte chepareva quasi impossibile il difendernelo. I principali diquesti nemici erano le capre ed i quadrupedi da me chia-mati lepri, che allettati dal buon sapore della punta delgambo si posero a stare notte e giorno fra le biade e, ap-pena esse spuntavano fuor del terreno, le mangiavano sìvicino ad esso, che non davano loro il tempo di cresceresul proprio stelo.

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Non vidi altro rimedio a ciò fuor quello di circondareil mio campo con una palizzata, opera che mi costògrande pena, e tanto maggiore perchè bisognava termi-narla speditamente. Pure, siccome la mia terra arabile,proporzionata alla mia semenza, non era sì vasta, arrivaia vederla sufficientemente riparata entro il termine dicirca tre settimane, perchè parte con questa difesa, parteammazzando col moschetto alcune di queste bestie du-rante il giorno, parte legando ad un palo dello steccato ilmio cane che co' suoi abbaiamenti le spaventava tutta lanotte, non andò guari ch'esse batterono la ritirata; ondeil mio grano cresciuto gagliardamente e bene venne apresta maturità.

Ma minor rovina di quella che m'aveano minacciata iquadrupedi finchè il mio grano fu in erba, non mi giura-rono i volatili appena questo mise le spiche; perchè ungiorno mentre io passeggiava pel mio campicello pervedere come prosperasse, lo vidi attorniato di uccellinon so dire di quante specie i quali pareva stessero gua-tando l'istante che io ne fossi uscito. Non tardai, perchèaveva sempre meco il mio moschetto a sparpagliarli; maal mio sparo fu contemporaneo il sollevarsi d'un nuvolodegli stessi uccelli da me non veduti dianzi, e che stava-no trastullandosi in mezzo alle spiche.

Questo affare mi toccò al vivo, perchè io prevedeache costoro mi avrebbero divorate in pochi giorni tuttele mie speranze; ch'io sarei stato preso per la fame senzavedermi più mai in circostanza di rinovare nè poco nèassai il mio ricolto; non sapeva a che partito appigliar-

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mi; pure risolvei di non perdonare a fatica, di vegliaregiorno e notte, ove fosse occorso, per non perdere se sipoteva il mio grano. Primieramente andai ad esaminare idanni che gli erano stati fatti a quest'ora, e già trovai chene avevano guastata una buona parte; nondimeno sicco-me le spiche erano tuttavia troppo verdi per essi, la per-dita non era per anche sì grande che quanto m'aveano la-sciato non formasse tuttavia un buon ricolto se avessipotuto salvarlo.

Rimasto lì il tempo di tornare a caricare il mio mo-schetto, indi venutomene via, potei facilmente accorger-mi che i ladri stavano tutti su gli alberi d'intorno a mequasi curando l'istante ch'io fossi lontano; e tal loro in-tenzione fu provata dall'esito, perchè appena ebbi fattialcuni passi come per allontanarmi, non sì tosto credet-tero di non vedermi più che tornarono ad uno ad uno apiombare su la mia messe. Mi sentii provocato a tantaira che non ebbi la pazienza di aspettare che ci fosserotutti, perchè in ogni grano che mi mangiavano io vedea,come suol dirsi, perduta la mia pagnotta; venuto dunqueallo steccato sparai di nuovo, e stesi morti tre di questinemici. Ciò bastava a quanto io mi prefiggea; presi su itre cadaveri, feci con essi come si fa co' più famosi ladridell'Inghilterra: li sospesi dall'alto de' pali dello steccatoper terrore degli altri. Egli è impossibile l'immaginarsiche la cosa avesse così buon effetto come lo ebbe: nonsolamente gli uccelli non tornarono più nel mio campo,ma in poco tempo abbandonarono tutta quella parte del-l'isola, onde finchè stette alzato quello spauracchio non

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nè ho mai più veduti in quelle vicinanze. Vi lascio pen-sare se fui contento di ciò. Verso la fine di dicembreepoca del secondo ricolto in quell'anno, ultimai la mieti-tura del mio grano.

Mi trovai imbarazzato per la mancanza di una falce ofalciuola; pur me ne feci una alla meglio di una vecchiaspaduccia salvata in mezzo ad altre armi dal naufragiodel vascello. Ma siccome in sostanza poi si trattava delricolto di un campo non grandissimo, la mia mietituranon mi diede grande difficoltà; la feci come potei nontagliando via se non le spiche che mi portai a casa entroun grande canestro fabbricato da me e che sgranai amano. In fin del conto trovai che il mio mezzo quarto disemenza m'avea dato due moggia di riso, e più di due emezzo di orzo, sempre secondo un calcolo di congettu-ra, perchè misure io non ne aveva.

Ciò non ostante mi fu questo un grande incoraggia-mento, perchè prevedevo che coll'andar del tempo, Dionon m'avrebbe lasciato mancare il pane. Per altro mi ri-maneva sempre un grand'imbarazzo, perchè io non sape-va in qual modo macinare o sia convertire in farina ilmio grano, nè come rimondar questa farina, ove l'avessiottenuta, e separarla della crusca; in oltre io non sapeacome farne del pane, e ancorchè ciò fosse stato facile,mi mancava il modo di cuocerlo. Queste considerazioniaggiunte al mio desiderio d'ingrandire le mie provisionie di assicurarmi un costante vitto per l'avvenire mi tras-sero nella risoluzione di lasciare intatto questo secondoricolto e di serbarlo tutto per semenza alla prossima sta-

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gione; e d'impiegare intanto l'intero mio studio, le intereore mie di lavoro alla grande impresa di provvedermicosì di biade come di pane.

Potea ben dirsi allora ch'io lavorava per il mio pane.È alquanto maravigliosa al pensarci, e credo che pochiveramente ci abbiano pensato, la straordinaria quantitàdi cose necessarie a provvedere, a produrre, a custodire,a preparare, a fabbricare quest'unica cosa: il pane.

Io che mi vidi ridotto al mero stato di natura, io la ca-pii con mio giornaliero scoraggiamento questa difficol-tà, e la sentii di più in più a ciascun'ora sin da quandoebbi raccolto quel primo pugno di grano che mi surse,come dissi, fuor d'ogni espettazione ed a mia grandesorpresa.

Primieramente io non aveva aratro per volger la terra;non una vanga per vangarla, se non quella ch'io m'erafatta di legno come osservai precedentemente; ma que-sta serviva al mio lavoro come può servire una vanga dilegno, nè fatica o tempo impiegati per fabbricarmela fe-cero sì che mancando del ferro, non si logorasse benpresto, e rendesse i lavori eseguiti con essa e più penosie più imperfetti. Pure mi rassegnai a valermi di ciò cheaveva, e la peggiore riuscita non giunse a disanimarmi.Seminato il grano, io mancava di erpice, ond'ero costret-to a trascinare sul terreno un grosso ramo di albero chelo grattava per così esprimermi in vece di rastrellarlo otritarlo. Mentre il grano andava crescendo o era cresciu-to, osservai già quante cose mi mancavano per custodir-lo, assicurarlo, mieterlo, tirarlo a casa, trebbiarlo (che

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per me era sgranarlo) e preservarlo; poi mi voleva unmulino per macinarlo, un vaglio per separarlo dalla cru-sca, lievito per convertirlo in pane ed un forno per cuo-cerlo; pure io feci senza di tutte queste cose come si ve-drà in appresso. L'avere il grano era già un conforto edun vantaggio inestimabile per me; certo tutte l'altre fati-che che venivano di conseguenza dietro a tale possedi-mento, spaventavano per la difficoltà e molestia connes-se con loro; ma non vi era rimedio. Poi dall'altronde nonravvisavo in ciò una troppa perdita di tempo, perchè,come io lo aveva diviso, una certa parte di esso era ognigiorno assegnata a questi lavori; e poichè avevo decisodi non convertire in pane il mio grano finchè non neavessi raccolta una maggiore quantità, mi restavano tuttii prossimi sei mesi per dedicarmi interamente alle fati-che e agli studi necessari per fabbricarmi tutti gli stro-menti opportuni alle operazioni che ci volevano affinchèil grano raccolto mi fosse di un verace giovamento.

FINE DEL VOLUME PRIMO

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VITA E AVVENTURE

DI

ROBINSON CRUSOÈ.

VERSIONE DALL'INGLESE

DI

GAETANO BARBIERI.

VOLUME II.

MILANOVEDOVA DI A.F. STELLA E GIACOMO FIGLIO.

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Volume II.

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XXVII. Nuovi successivi lavori per una seminagione più ampia e per fare il pane.

Bisognava ora ch'io mi apparecchiassi un maggiorespazio di terreno lavorato perchè avevo grano abbastan-za per seminare una biolca di terra. Prima di accignermia ciò, impiegai almeno una settimana nel fabbricarmiuna nuova vanga, la quale, per dir vero, mi riuscì esconcia e sì pesante, che mi bisognò doppia fatica nelservirmene. Pur la feci esser buona, e seminai il miograno in due campi spianati, più vicini che potei trovarlialla mia abitazione, difesi con una buona palizzata i cuistecconi erano tutti tolti da quegli alberi che avevo pian-tati dianzi, e che sapevo come felicemente crescessero.In capo ad un anno ebbi una buona siepe viva che abbi-sognava ben poco di essere maggiormente munita. Que-sto lavoro mi portò via tre interi mesi, perchè una granparte di esso fu eseguita nella stagione umida, quando ionon poteva andar molto attorno.

Rimasto affatto in casa ne' giorni d'incessante piog-gia, impiegai questi nelle cose ch'io son per descrivere.Noterò intanto che, mentre io stava intento al lavoro, midivertivo parlando col mio pappagallo ed insegnandoglia parlare e a capire quand'io lo chiamava col suo nomePol, che finalmente imparò a profferire schietto anch'es-so: fu questa la prima parola ch'io avessi udita da altravoce fuor della mia dal primo istante del mio soggiorno

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in quell'isola. Non vi crediate per altro che fosse questoil mio principale lavoro; ne era bensì il conforto, perchè,come dissi, io m'era accinto a grandi faccende.

Una di quelle che mi stettero lungamente a cuore si fuil fabbricarmi qualche vaso di terra, cosa di cui tantomancavo, nè sapevo in qual modo provvedermene. Pure,pensando all'estremo caldo del clima, non dubitai di nonpoter trovare una tal sorta di creta onde farne su alla me-glio una pentola che, seccata al sole, fosse dura e forteabbastanza per essere maneggiata e contenere qualun-que cosa non liquida ed atta ad esservi conservata entro.E poichè tal genere di vaso mi era necessario nelle miefaccende relative al grano, alla farina, ec., allora argo-mento principale de' miei pensieri, mi determinai a farquesti vasi ampi quanto mai si poteva ed opportuni,come gli orci, a contenere tutte le cose che vi si volesse-ro racchiudere.

Moverei a compassione o piuttosto a riso il leggitorese gli dicessi in quanti sgraziati modi io m'appigliai perdare alla mia pasta una forma; quali brutte, sgarbatecose ne uscirono! quante di queste si schiacciarono;quante andarono a male, perchè la creta non era abba-stanza salda per sostenere il proprio peso; quante crepa-rono in forza dell'eccessivo calore del sole cui le avevoesposte prima del tempo; quante andarono in pezzi colsolo moverle o prima o dopo di essere seccate; se io glidicessi in somma che dopo immense fatiche per trovarela creta, per cavarla, per mescolarla con sabbia, per por-tarmela a casa, per modellarla, non arrivai su le prime, e

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ci vollero anche due mesi, che a fabbricarmi due orridecosacce di terra cui non ardisco dare il nome di orci.

Pure sconci com'erano questi due vasi, poichè il solegli ebbe seccati e induriti, gli alzai pian piano da terra eli collocai entro due grandi canestri di vimini fatti da mea posta per contenerli e difenderli ad un tempo dal rom-persi; poi siccome tra il vaso e il canestro rimaneva unvano, lo colmai con paglia d'orzo e di riso pensando che,se questi due vasi si mantenevano asciutti, avrebberocontenuto il mio grano e fors'anche la mia farina, quan-do il primo sarebbe macinato.

Benchè i miei disegni m'andassero grandemente falla-ti rispetto agli orci, pure feci con buon successo molt'al-tre più piccole cose, per esempio brocche, piattelli, pi-gnatte, scodelle ed altri arnesi che la mia mano potevapiù facilmente maneggiare, e che il calor del sole ridus-se ad una perfetta durezza.

Ma tutto ciò non avrebbe potuto corrispondere ad unmio grande antico fine, quello di procurarmi una pentoladi terra che contenesse i liquidi e sopportasse il fuoco,virtù che certo non potevano avere i miei vasi. Moltotempo dopo, avendo fatto un gran fuoco per arrostire lamia carne e mentre ne la ritiravo già cucinata, m'accad-de osservare che un rottame de' miei vasi di terra gettatoivi era divenuto duro al pari d'una pietra, e rosso quantouna tegola. Rimasi gradevolmente sorpreso a tal vista,perchè pensai che sicuramente si potea far cuocere tuttoun vaso se era atto a cuocersi un pezzo di esso.

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Questa scoperta portò tutto il mio studio a prepararmiun fuoco entro cui cuocere alcuni de' predetti miei vasi.Certo io non avea veruna nozione di fornaci da pignatta-io, o del metodo d'inverniciar le pignatte col piombo,benchè alcun poco di questo metallo io possedessi. Adogni modo collocate tre grandi brocche e due o tre pen-tole una su l'altra, poi tutta questa colonna sopra unmucchio di cenere, accesi un gran fuoco tutt'all'intorno,e lo continuai con rinovato combustibile conducendo lafiamma in guisa che ogni parte del mio edifizio ne fosseegualmente investita; e ciò fin che vidi i vasi affatto ros-si senza essere menomamente scoppiati. Li lasciai inquesto grado di caldo per circa cinque o sei ore, dopo lequali notai un di questi che, se bene non iscoppiasse, siscioglieva e fondeva.

Ciò derivava dalla sabbia mescolata con la creta che,liquefatta dalla violenza del calore, si sarebbe convertitain cristallo se non avessi lasciato di fare gran fuoco; lodiminuii quindi gradatamente, finchè i vasi cominciaro-no a scemare il loro rosso, e dopo aver vegliato tutta lanotte affinchè il fuoco non cessasse d'improvviso, lamattina ottenni tre buone... non ardisco dir belle pentole,e due altri vasi di terra cotta, come io desiderava; anziun di questi perfettamente inverniciato grazie al lique-farsi della sabbia.

Dopo un tale esperimento non fa d'uopo io dica chenon mi mancò più alcuna sorta di vasi di terra cotta pelmio domestico uso; ma nemmeno posso tacere come leforme di essi non fossero più belle di quelle che potesse-

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ro aspettarsi da un fanciullo quando fa pallottoline colfango, o da una fantesca di villaggio la quale s'accignes-se a fare un pasticcio.

Non mai gioia per una cosa di minore entità in sè me-desima fu uguale alla mia quando m'accorsi di aver fattouna pentola che reggeva al fuoco. Ebbi appena la pa-zienza di lasciarla venir fredda per metterla al fuoco unaseconda volta, ma piena d'acqua, per farvi bollire entroun pezzo di capretto, la qual cosa mi riuscì ammirabil-mente, e ne trassi un ottimo brodo. Peccato che mi man-casse l'orzo e parecchi altri ingredienti per farmi tale mi-nestra quale l'avrei desiderata!

Il mio successivo pensiere fu quello di procurarmi unmortaio di pietra onde stritolare entro di esso il mio gra-no; perchè quanto ad un mulino, sarebbe stato ridicolol'immaginarsi d'arrivare a tanta perfezione d'arte con unpaio di mani. Per supplire a tale bisogno io non sapea davero da qual parte volgermi, perchè, fra tutti i mestieridel mondo, io mi sentiva chiamato a quello del taglia-pietre anche meno che a qualunque altro. Impiegai moltigiorni a trovar fuori un masso grosso abbastanza persopportare uno scavamento interno e divenir così il miomortaio; ma non ne rinvenni eccetto di quelli incastratinel vivo di qualche rupe ch'io non aveva modo di cavarfuori. Oltrechè, non vi erano nell'isola rocce di suffi-ciente durezza, perchè erano tutte di pietra arenosa e fra-gile che o non avrebbero sostenuto il peso di un pesantepestello, o nel rompersi del grano lo avrebbero empiutodi sabbia. Dopo aver quindi consumato un gran tempo

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nella ricerca di un masso acconcio al mio bisogno, nedimisi l'idea. Pensai di volgermi piuttosto ad un grossoceppo di legno ben duro, impresa che del certo mi pre-sentava minori difficoltà. Procuratomi pertanto un ceppotanto grosso quanto le mie forze mi permettevano dimoverlo, lo ritondai esternamente con la mia accetta;indi con l'aiuto del fuoco, nè senza un'immensa fatica,praticai uno scavo dentr'esso nel modo onde gl'Indianidel Brasile si fabbricano i loro canotti. Dopo ciò, mi feciun grande pesante pestello o battitore di legno di ferro; etutto ciò io aveva apparecchiato in espettazione del mioprossimo ricolto, fatto il quale io mi prefiggea di maci-nare, o piuttosto pestare il grano avuto per fabbricarne ilmio pane.

Veniva ora l'altra difficoltà di farmi un vaglio per se-parare la crusca dalla mia farina, senza di che non avreimai più avuto pane. Questa era la cosa più difficile an-che al solo pensarci, perchè io non aveva nulla che so-migliasse a quanto ci sarebbe voluto a tal uopo: intendouna tela opportuna per farci passare la farina. Fu questoun grande intoppo per molti mesi, nè sapeva propriodove dare la testa. Biancheria io non ne avea che nonfosse ridotta ad assoluti cenci: avevo del pelo di capra;nè certo sapeva come si facesse nè a filarlo nè a tesserlo.Finalmente mi sovvenne che fra i panni marinareschisalvati dal naufragio del vascello si trovavano non soquanti fazzoletti da collo di mussolina, onde con alcunidi essi arrivai a farmi tre piccoli vagli sufficienti al pro-

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posito: così ebbi di questi arnesi per più anni. Come fa-cessi in appresso, lo dirò a suo tempo.

L'altra necessità che presentavasi ora era quella dicuocere il pane allorchè avessi avuta la farina, perchè,quanto al farne pasta con lievito, non avendo io di que-sto, era cosa su cui non mi diedi più alcun pensiere: tut-to l'imbarazzo consisteva nell'avere un forno. Finalmen-te per supplire anche a questa mancanza, ecco qual ri-medio inventai. Fabbricati alcuni piatti di terra larghi,ma non profondi, cioè che avessero circa due piedi didiametro ed una profondità non maggiore di nove polli-ci, li feci cuocere al fuoco non meno degli altri vasi, indili posi in disparte. Quando sopravveniva il bisogno dicuocere il pane accendevo il fuoco sul mio focolare cheavevo lastricato con alcuni mattoni riquadri della miafabbrica, benchè io non possa dire che fossero perfetta-mente riquadri.

Appena la legna posta al fuoco era tutta andata in ce-nere e brage, io spargea queste sul focolare, si che lo co-prissero tutto, e ve le lasciava tanto che fosse ben riscal-dato ed egualmente in ogni parte. Spazzate indi le cene-ri, ponevo sopr'esso la mia pagnotta o le mie pagnottech'io copriva col piatto di terra cotta, su la cui superficieconvessa io spargeva ceneri calde, perchè mantenesseroed aggiungessero calore al mio pane. Così, come se fos-si stato padrone del miglior forno del mondo, io cuocevale mie pagnotte di farina d'orzo, ed in breve tempo di-venni sopra mercato un eccellente pasticciere, perchè mifacevo da me stesso le mie focacce e le mie torte di riso;

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non dirò pasticci, perchè avevo bensì da metterci dentrocarne di capra ed uccelli, ma non gli altri ingredienti checi vogliono in un pasticcio.

Non è meraviglia se tutti questi lavori mi portaronovia la maggior parte del terzo anno del mio soggiorno inquest'isola; perchè è da osservarsi che nell'intervallo ditali lavori ebbi anche l'altro della mietitura e di tirarmi acasa il mio ricolto: fazioni che eseguii quando ne fu lastagione alla meglio che potei, collocando cioè le spichene' miei ampi canestri, per isgranarle indi a suo tempo,perchè non aveva nè aia su cui trebbiarle, nè una trebbiaper eseguire con essa la separazione del grano dalla pa-glia.

Ora cresciutami da vero la mia provista di grano, sen-tivo il bisogno d'ingrandire i miei granai; perchè i mieicampicelli m'aveano sì ben fruttato ch'io contava suventi moggia all'incirca d'orzo ed altrettante o più diriso. Risolvei ora di valermi con maggior libertà del miograno, tanto più che la provvista del biscotto m'avevaabbandonato da molto tempo; onde mi feci ad esaminarequanto grano mi sarebbe abbisognato per un interoanno, e se non bastasse per me una sola seminagione an-nuale.

Fatto questo computo, vidi che quaranta moggia d'or-zo e di riso erano molto più di quanto io consumava inun anno, onde stabilii di seminare ogn'anno la stessaquantità che io avea seminata l'anno scorso nella speran-za che ciò mi avrebbe proveduto abbastanza di sussi-stenza per l'avvenire.

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XXVIII. La piroga.

Mentre le predette cose andavano accadendo, non vifarà maraviglia se i miei pensieri corsero più d'una voltaalla terra ch'io m'era già veduta rimpetto dall'altra partedell'isola; durava in me qualche segreto desiderio di po-termi trovare su quella spiaggia, immaginandomi che, seavessi potuto scoprire un continente ed un paese abitato,mi sarebbe finalmente riuscito di trasportarmi più innan-zi, e forse di trovare un qualche mezzo di fuga.

Ma qui io tenea conto delle speranze, non dei perico-li, non della possibilità di cadere in mano di selvaggipeggiori forse, come io aveva ragione di temerlo, deileoni e delle tigri dell'Africa. Io non pensava che, unavolta in loro potere, avrei corso il rischio di mille con-tr'uno d'essere ucciso e probabilmente divorato; perchèaveva udito narrare che gli abitanti della costa de' Cari-bei erano mangiatori d'uomini, e la latitudine ove io sta-va mi diceva di non essere lontano da quella spiaggia.Ma supponendo ancora che non fossero cannibali,avrebbero potuto uccidermi, come avevano ucciso pa-recchi Europei caduti, ancorchè fossero in dieci o venti,nelle loro mani; molto più dovea temer questo io che mivedevo solo, e non potevo opporre se non poca o niunaresistenza; tutte queste cose che avrei dovuto ponderarbene alla prima, e che mi vennero in mente sol dopo,non mi sgomentarono allora; troppo la mia mente era in-gombra dal desiderio di raggiugnere quella spiaggia.

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Io m'augurava in quel punto il mio ragazzo Xury e lalunga scialuppa dalla vela di pelle di montone entro cuinavigai per oltre a mille miglia lungo la costa dell'Afri-ca; ma ciò era inutile. Mi nacque indi l'idea di tornare avisitare quella scialuppa che, come dissi già, fu lanciataa terra per si lungo tratto di spiaggia all'epoca del nostronaufragio. Essa rimaneva all'incirca ove si trovava inprincipio, ma non del tutto, perchè voltata quasi sosso-pra dalla violenza della marea e de' venti, fu spinta con-tro ad un alto cumulo di sabbia del lido, nè, come per loinnanzi, aveva acqua d'intorno a sè. Se avessi avuto chimi desse una mano a racconciarla e lanciarla nuovamen-te nell'acqua, essa sarebbe avrebbe servito benissimo, eavrei potuto con essa tornarmene facilmente addietrofino alle coste del Brasile. Pure avrei dovuto prevedereche tanto mi era possibile il rimetterla così capovolta nelsuo primo stato; quanto il movere da posto l'intera isola;nondimeno portatomi ai boschi e tagliatine legni perleve e arganelli, condussi meco queste cose alla scialup-pa, risoluto di provare che cosa sarei stato buono di fare.Non mi abbandonava la persuasione che se mi fosse riu-scito raddirizzarla e riparare i danni cui era soggiaciuta,sarebbe stata tuttavia una buona scialuppa e tale da po-termi avventurare nel mare sovr'essa.

Certamente non risparmiai fatiche in questo inutile la-voro che mi mandò a male tre o quattro settimane all'in-circa di tempo; finalmente, veduta l'impossibilità di le-varla di lì con la poca forza che avevo, mi diedi a scava-re la sabbia su cui posava, per farla cadere all'ingiù; anzi

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per proteggerne l'ideata caduta disposi cilindri di legnoatti a reggerla e condurla lungo la strada ch'io volea far-le percorrere.

Ma raggiunta questa meta, mi trovai nuovamente ina-bile a moverla, a mettermici sotto, tanto più poi a spin-gerla in acqua, onde finalmente fui costretto ad abban-donar la mia impresa. Pure, anche perdute tutte le spe-ranze ch'io avea riposte nella scialuppa, cresceva in me,anzichè diminuire, il desiderio d'avventurarmi verso laterra comparsami innanzi, e crescea con tanta maggiorforza quanto più impossibile ne apparivano i mezzi.

Finalmente cominciai a fantasticare se non vi fossemodo di fabbricarmi da me un canotto o piroga, qualisanno cavarli da un grosso tronco d'albero i nativi diquesti climi ancorchè senza stromenti, o, potrebbe quasidirsi, senza l'aiuto delle mani. Non solamente io pensavapossibile una tal cosa, ma la ravvisavo facile, e mi com-piaceva che me ne fosse nata l'idea, tanto più ch'io aveaper mandarla ad effetto maggiori comodi di quanti neavessero i Negri o gl'Indiani. Ma non consideravo poi iparticolari svantaggi cui era esposto io assai più degliIndiani: siccome quello di non aver aiuti per varare, al-lorchè fosse costrutto, il mio naviglio, difficoltà ben piùaspra a superarsi per me che nol fosse per essi la man-canza di stromenti; perchè, che cosa mi sarebbe giovatose dopo avere trovato fuori il mio albero, dopo averlocon grande fatica atterrato, dopo aver saputo co' mieistromenti piallare e ridurre l'esterno di esso alla formaacconcia di una scialuppa, dopo averlo reso concavo o

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col fuoco o col mezzo di ferri da taglio, tanto che fosseuna vera scialuppa, se dopo tutto ciò fossi stato costrettoa lasciarla dov'era per non essere buono a lanciarla nel-l'acqua?

Ognuno s'immaginerà che se una tale considerazionemi si fosse affacciata sol menomamente nell'alto di acci-gnermi alla costruzione di questa scialuppa, avrei subitoe prima d'ogn'altra cosa pensato al modo di vararla; maio era si preoccupato dall'idea del mio viaggio che nonpensai una sola volta a questa bagattella: al modo distaccare tal mia scialuppa da terra. E sì, per la naturastessa della cosa, dovevo vedere essermi più facile ilfarle fare quarantacinque miglia di mare quando ci sitrovasse, che quarantacinque braccia di terra per ismo-verla di lì tanto che andasse a galleggiare su l'acqua.

Misi dunque mano a questo lavoro il più pazzo cuisiasi mai accinto un uomo che non sognasse. Io m'ap-plaudiva sul mio disegno senza nemmeno esaminare de-bitamente se fossi abile ad imprenderlo. Non è già chespesse volte, durante il lavoro stesso, non mi si presen-tasse al pensiere la difficoltà di lanciare in acqua il miobastimento; ma imponevo tosto silenzio a tali perplessi-tà con la matta risposta: “Facciamolo prima; mi ripro-metto io che quando sarà fatto, una via o l'altra per get-tarlo in acqua la troverò”.

Non poteva immaginarsi un sistema di operare più bi-slacco, ma il riscaldamento della mia fantasia la vinse emi posi al lavoro. Atterrai un cedro, che dubito se Salo-mone abbia mai avuto il simile per fabbricare il suo

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tempio di Gerusalemme: un albero che alla sua parte in-feriore presso del tronco aveva un diametro di cinquepiedi ed undici pollici, e all'altezza di ventidue piedi,laddove si assottigliava diramandosi, un diametro diquattro piedi ed undici pollici. Infinita fu la fatica chemi ci volle per abbatterlo: basti il dire che venti giorniimpiegai a tagliarlo al piede, e quattordici di più nel ri-mondare delle sue braccia e rami il fusto e la frondosacima di esso; dopo di che mi bisognò un intero mese perfoggiarlo alle debite proporzioni di una scialuppa e ri-durlo ad avere una specie di carena che ne sostenesse adovere il corpo galleggiando su l'acqua. Poi mi vollerocirca tre mesi a traforarne l'interno in guisa che avesse leforme esatte di una scialuppa; in somma scavai il miolegno senza l'aiuto del fuoco ed a furia soltanto di mar-tello e scarpello ed improba fatica, sin che finalmente loebbi ridotto ad essere un'assai elegante piroga e sì spa-ziosa, che avrebbe portati ventisei uomini, e per conse-guenza me col mio carico.

Terminato questo lavoro, ne fui veramente soddisfattooltremodo, perchè la mia scialuppa era di fatto la piùgrandiosa di quanti canotti o piroghe, fatti d'un solo al-bero, avessi mai veduti in mia vita; certo mi costò im-mensi sforzi, ben potete immaginarvelo. Or non mi ri-maneva più che a vararlo, in che se fossi riuscito nondubito che avrei impreso il più strambo ed inverisimileviaggio fra quanti ne furono tentati giammai.

Ah! tutti i miei disegni per varare la mia scialuppa an-darono a vuoto, ancorchè i tentativi fatti a tal fine mi co-

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stassero immensa fatica, e ancorchè non fosse lontanadall'acqua più di cento braccia; ma il maggiore inconve-niente si era che essa stava sopra un'eminenza perpendi-colare alla baia. Pure per vincere questa difficoltà io ri-solsi di scavare la superficie della terra tanto da prepa-rarle un declivo. Mi posi all'opera che non vi so direquanto travaglio mi desse; ma qual havvi aspro travaglioper chi si prefigge a meta la propria liberazione? Oimè!quando questo lavoro fu terminato, quando parea miti-gata la difficoltà, io mi vidi alle stesse strette di prima,perchè non poteva mover da posto il mio canotto più diquanto ci fossi riuscito con l'altra scialuppa.

Misurata allora la distanza del terreno, risolvei di sca-vare un canale per condur l'acqua sul mio naviglio, poi-chè il mio naviglio era renitente ad andare su l'acqua. Orbene; anche questo lavoro lo impresi; ma appena ci fuidentro e feci un calcolo su la profondità da scavarsi, sula larghezza, su le braccia che avrei avuto in mio aiuto, eche non erano più di due, non essendo lì altri che io, sul'ampiezza dell'impresa, vidi che dieci o dodici anni ba-stavano a stento per venirne a capo. La spiaggia era sìalta che la sua sommità superiore avrebbe dovuto esserescavata per una profondità di venti piedi. Anche questaprova pertanto, benchè a malincuore oltre ogni dire, fuicostretto ad abbandonarla.

Oh quanto rammarico io ne sentii! Compresi allora,benchè troppo tardi, quanta sia la stoltezza di comincia-re un lavoro prima di averne calcolata l'importanza e

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misurata rettamente la proporzione tra le nostre forze eil suo compimento.

XXIX. Quinto anno; novelli arnesi, seconda piroga.

Io era alla metà dell'indicato lavoro quando terminavail quarto anno della mia dimora in quest'isola, il cuigiorno anniversario solennizzai con la stessa divozionee con maggiore conforto d'animo che per lo addietro;poichè col costante intenso studio da me dato alla paroladi Dio e con l'aiuto della sua grazia guadagnai cognizio-ni ben diverse da quelle che avevo in principio. Or guar-davo nel vero loro aspetto le cose; considerava il mondocome oggetto remoto col quale non avevo affari di sortaalcuna, dal quale io non aveva nulla da aspettare nè perdir vero da desiderare; in una parola, non aveva che faremenomamente con esso, nè m'importava d'averne. Miparea di guardarlo con quell'occhio, onde forse lo guar-deremo tutti nella vita avvenire: come un luogo cioè oveero vissuto, e donde ero partito, e potevo ben dire comeil padre Abramo al ricco della Scrittura: “Fra me e te èstabilita un'immensa voragine”.

Primieramente io quivi ero lontano da tutte le perver-sità della terra: non quivi le tentazioni della carne, nonle seduzioni dell'occhio, non l'orgoglio della vita. Nonavevo nulla da desiderare, perchè era in mia proprietàtutto ciò di cui potevo godere; io era padrone di una va-

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sta signoria; o, se così mi piaceva, potevo intitolarmi reimperatore di tutto il paese ond'ero entrato in possesso;qui non avevo rivali, non competitori che mi disputasse-ro la sovranità od il comando. Avrei potuto adunar granoda caricarne intere navi, ma non avrei saputo che farne;quindi mi limitai sempre a coltivare il campicello checredei bastante per supplire ai miei bisogni. Erano a miadisposizione quante testuggini avessi volute; ma d'unasola a quando a quando io poteva cibarmi; aveva quantolegname sarebbe bastato a mettere in mare un'armata na-vale, e grappoli d'uva quanti ci volevano per far vinoonde vettovagliarla. Ma sol le cose delle quali potevofar uso avevano un valore per me: io avea quivi ciò cheera sufficiente per nudrirmi e supplire ai miei bisogni; ilresto che mi facea? Se avessi ammazzati più animali diquanti occorrevano alla mia cucina, il cane o i vermi neavrebbero mangiate le carni; se avessi seminato più gra-no di quanto ne bisognava al mio pane, sarebbe andato amale. Perchè abbattere alberi che sarebbero marciti sulterreno? io non poteva far uso di essi se non pel miocombustibile, e di questo ancora non aveva bisogno senon per cucinare le mie vivande.

In una parola, la natura e una ben calcolata esperienzadelle cose mi avevano insegnato che tutti i beni di que-sto mondo non sono beni se non in quanto possiamo far-ne uso noi o goderne nel procurarne l'uso ai nostri simi-li. Il più ingordo ladro del mondo si sarebbe da vero cor-retto da questo brutto vizio se si fosse trovato nel casomio perchè le cose di cui mi vedeva possessore erano

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infinitamente più di quelle ond'io sapessi che farmi. Ionon poteva desiderar altro fuorchè le cose che non ave-vo, e queste comparativamente erano minuzie, benchèveramente m'avrebbero giovato assai. Io teneva, comeho già indicato dianzi, una partitella di monete: tra oro eargento circa trentasei lire sterline. Oh Dio! che robacciaschifosa, malinconica, inutile era questa per me. Spessevolte ho pensato tra me medesimo che avrei dato un pu-gno di esse per alcune pipe di tabacco o per un mulino amano da macinare il mio grano; anzi le avrei date tutteper sei soldi di semenza di carote o rape mandatemi dal-l'Inghilterra, o per un pugnello di piselli e fave o per unfiaschetto d'inchiostro. Stando le cose come stavano, ionon ritraeva il menomo vantaggio o benefizio da quellemonete; giacevano in un cassetto muffate dall'umidodella mia grotta nelle stagioni piovose; e se avessi avutoquel cassetto pieno di diamanti, sarebbe stato lo stesso:non avrei saputo come servirmene in nessuna maniera.

Io aveva or condotta la mia condizione di vita ad unostato ben più piacevole di sua natura che nol fosse daprima e più confortevole così al mio spirito come al miocorpo. Spesse volte sedendomi per prender cibo io rin-graziava e ammirava la mano della divina providenzache m'imbandiva così la mia mensa in mezzo al deserto;io andava imparando a considerare il lato lucido dellamia condizione e più rare volte lo scuro; a contemplarepiù spesso le cose delle quali godevo che l'altre di cuidifettavo; donde mi derivavano frequentemente segreticonforti che non valgo ad esprimere, e che rammento in

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questo luogo soltanto affinchè se ne comprendano quel-le persone di mal umore che non sanno goder bene diquanto Dio ha dato loro, perchè ne appetiscono ingorda-mente altre che non hanno da Dio ricevute. A mio avvi-so tutti i nostri sconforti per le cose di cui manchiamo,scaturiscono dalla nostra ingratitudine per quelle che ab-biamo.

Un'altra considerazione mi riusciva utilissima, e sen-za dubbio lo sarebbe a chiunque cadesse in tali miseriequali furono le mie; ed era questa: il paragonare la miacondizione presente con quella ch'io credea su le primedovesse essere, e anzi sarebbe sicuramente stata tristissi-ma se la providenza del buon Dio non avesse prodigio-samente disposto che il vascello naufragato s'avvicinas-se alla spiaggia ove non solamente potei raggiugnerlo,ma ritrarne in oltre quanto ne ottenni per mio ristoro, esenza di cui mi sarebbero mancati e stromenti per lavo-rare e armi per difendermi e polvere e pallini per pro-cacciarmi il mio nutrimento.

Io impiegava le intere ore, posso dire gli interi giorni,dipingendo co' più energici colori a me stesso come misarebbero andate le cose se non avessi raccolto nulla dalvascello naufragato. Io non mi sarei procacciato alcuncibo fuorchè di pesce e di testuggini, e rispetto a queste,avendo indugiato lungamente prima di trovarle, avreiavuto tutto il tempo di morire di fame; che se anche fos-si vissuto a guisa d'un mero selvaggio, se con qualchestratagemma fossi giunto ad uccidere un quadrupede oun volatile, io non aveva mezzo di scorticarlo o d'aprir-

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lo, di separarne la carne dalle budella; sarei stato co-stretto a rosecchiarlo coi miei denti o a squarciarlo conle mie unghie a guisa di una fiera.

Queste riflessioni mi fecero grandemente sentire labontà della Providenza, e ringraziarla di avermi posto inquesto stato ad onta ancora delle calamità ed amarezzeche lo accompagnavano; e questa riflessione io racco-mando pure a coloro che nel momento del disastro sonosì facili a dire: Havvi afflizione simile alla mia? Pensinoessi in qual più tristo caso si trovino alcuni altri; tristocaso che poteva essere il loro se la Providenza avessevoluto così.

Un'altra considerazione ancora veniva a confortare disperanze la mente mia, e dipendea dal paragonare il miostato presente con quello che avevo meritato e che dove-va quindi aspettarmi dalla mano della Providenza. Ioaveva condotta un'orribile vita affatto priva d'ogni pen-siere, d'ogni timore di Dio. Certo m'aveano fornito dibuone istruzioni mio padre e mia madre; chè non man-carono entrambi per quanto fu in essi d'infondermi dibuon'ora nell'animo e un religioso rispetto verso il Si-gnore, e un conoscimento de' miei doveri e quanto chie-devano da me la natura e il fine per cui era stato creato.Ma, oimè! caduto per tempo nella vita del marinaio, cheè di tutte le vite la più irreligiosa, ancorchè i divini casti-ghi le siano sempre a tutte l'ore presenti; caduto, dissi, dibuon'ora nella vita del marinaio e in compagnia di mari-nai, quanto di principii religiosi rimaneva in me fu can-cellato dai motteggi de' miei compagni, dall'indurirmi

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nel disprezzare i pericoli, dalla presenza della morte chemi divenne abituale; dalla lunga lontananza d'ogni op-portunità di conversare con chi non fosse traviato al paridi me o di udire alcuna cosa che fosse buona o al beneintendesse.

Io andai privo per sì lungo tempo d'ogni buon princi-pio, d'ogni menomo sentimento di quanto io era o diquanto sarei per essere; che non dissi mai o pensai unavolta a dire: Dio, vi ringrazio! in mezzo alle più grandiprove della sua misericordia: tali si furono la mia libera-zione da Salè, il ricovero trovato nel vascello del capita-no portoghese, il mio fortunato collocamento nel Brasi-le, la riscossione fatta dall'Inghilterra; parimente nellemaggiori angosce non mi venne mai in pensiere di vol-germi a lui o di dire soltanto: Dio, abbiate misericordiadi me! in somma di nominare il suo santo nome, se nonera per mescolarlo con giuramenti e bestemmie.

Tremende meditazioni che, come già l'ho osservato, siportavano su la protervia e perversità della mia vita tra-scorsa, travagliarono la mia mente per parecchi mesi; equando voltandomi addietro col pensiere enumeravo isingolari tratti di Providenza che mi protessero sin dalmio arrivo in questo luogo, quando consideravo comeDio non solo mi avesse punito meno di quanto le mieiniquità meritavano, ma mi avesse con tanta esuberanzasoccorso, ciò mi dava grande speranza che il mio penti-mento sarebbe accetto, e che il tesoro della misericordiadivina non fosse ancora esausto per me.

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Con queste considerazioni formai la mia mente nonsolo a rassegnarmi al volere di Dio che avea così dispo-ste le circostanze in cui mi trovavo, ma a ringraziarlosinceramente perchè appunto mi ci trovavo; a vederecom'io, rimasto tuttavia vivo, non avessi di che lamen-tarmi, ove pensassi che non avevo ricevuto un castigoabbastanza proporzionato alle mie colpe; com'io colma-to di tante beneficenze che non avrei mai potuto aspet-tarmi in questo soggiorno, dovessi non dolermi mai delmio stato, ma goderne e ringraziare Dio continuamenteper quel pane giornaliero che solamente una sequela, unprodigioso cumulo di meraviglie poteano procurarmi;come io dovessi considerarmi nudrito per miracolo si-mile a quello che mandò il cibo ad Elia per mezzo deicorvi, anzi per una lunga serie di miracoli; com'io nonpotessi immaginarmi in questa disabitata parte del mon-do un luogo ove potessi essere gettato con mio maggio-re vantaggio; un luogo ove se io non aveva società, cheera un dolore da una banda per me, nemmeno temead'incontrare affamati lupi o furiose tigri o altre fiere cheminacciassero la mia vita; non animali velenosi di cuipotessi cibarmi con mio pregiudizio; non selvaggi chemi trucidassero o divorassero. In una parola, se la miavita era vita di penitenza per un lato, era di misericordiaper l'altro; nè per rendermela una vita di consolazionemancavami altro, che riconoscere la bontà usatami dalSignore e la sollecitudine ch'egli degnava prendersi dime in questo stato. Fattomi un buon nutrimento di tali

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meditazioni, io mi partiva da esse ch'io non era più ma-linconico.

Intanto io avea soggiornato quivi sì lungo tempo chemolte delle cose di cui mi provide il vascello naufraga-to, erano o affatto consumate, o molto danneggiate, o vi-cinissime a finire.

Il mio inchiostro, come notai, volgeva al suo fine daqualche tempo, e me ne rimaneva solo pochissimo cheandava allungando a poco a poco con acqua, divenutoindi sì smorto, che lasciava appena un'apparenza di nerosopra la carta. Finchè mi durò, me ne valsi a registrare igiorni del mese in cui mi accadeva alcun che di notabi-le; e nel fare il computo de' tempi andati potei scorgereuna singolare connessione tra i giorni di ciascun anno e ivari avvenimenti occorsimi, su la quale particolarità delmio registro, se fossi stato superstiziosamente inclinatoa distinguere i giorni fausti dai giorni infausti, avrei avu-to ragione di fermarmi con una grande dose di curiosità.

Primieramente osservai che quel giorno in cui, abban-donati i miei genitori e congiunti, fuggii ad Hull per im-barcarmi, fu un anno dopo lo stesso giorno nel quale fuipreso e fatto schiavo dal corsaro di Salè; lo stesso gior-no dell'anno nel quale mi sottrassi al naufragio su le ac-que di Yarmouth, fu lo stesso d'un anno successivoquando fuggii da Salè entro una scialappa; il giorno del-la mia nascita, il 30 settembre, fu pur quello in cui ebbisalva tanto miracolosamente la vita, ventisei anni dopoquando la burrasca gettommi su questa spiaggia; onde la

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mia vita perversa e la mia vita solitaria cominciaronoentrambe in una stessa data di mese.

La seconda cosa mancatami dopo l'inchiostro fu ilmio pane: intendo il biscotto tratto fuori dal vascello; ecerto ne avevo fatto il massimo risparmio essendomicontentato di mangiarne un pezzo al giorno per oltre adun anno; pure ne rimasi affatto senza, quasi un anno pri-ma ch'io ne cogliessi di quello di mia propria rendita dalmio campo; ed aveva bene di che ringraziar Dio se neaveva di qualche sorta, perchè questo secondo mi venne,come già notai, quasi per un miracolo.

Anche i miei panni cominciavano a scadere tremen-damente. Quanto a biancheria, io non ne avea da lungotempo, eccetto alcune camicie tessute a scacchi ch'iotrovai nelle casse degli altri marinai, e ch'io conservaicon grande cura, perchè per molto tempo dell'anno ionon poteva portare d'altri vestiti che una camicia; ondefu una gran providenza per me l'averne trovate tre doz-zine in circa fra i panni ereditati dal naufragio. Ereditaiveramente ancora parecchie casacche di marinai, maqueste erano troppo pesanti a portarsi. E qui notate chese bene il caldo del clima sia sì violento che non v'è bi-sogno di panni d'alcuna sorta, pure non potei andar nudodel tutto quand'anche tal fosse stata la mia inclinazione,che non lo era, perchè non ho mai saputo adattarminemmeno all'idea di ciò benchè fossi affatto solo. La ra-gione poi per cui non lo potevo, si era la molestia reca-tami dal sole, maggiore se era ignudo che quando unqualche panno mi ricopriva; anzi il gran caldo mi produ-

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cea sovente ampolle nella pelle; con una camicia l'ariastessa producea qualche moto, e facendo sventolare untal vestimento la camicia mi rinfrescava meglio che senon l'avessi avuta. Così pure non potei avvezzarmi adandare col capo scoperto sotto alla sferza del sole: essa èsì terribile in questi luoghi che, se io non era riparato daun cappello o da un berrettone, mi produceva in un subi-to l'emicrania, dalla quale per altro ero libero appena miricoprivo.

Dietro queste considerazioni cominciai a pensare albisogno di dar qualche ordine ai miei cenci, ch'io chia-mava vestiti. Avevo già logorati tutti i miei giustacuori,e mi affaccendavo ora a provare se potessi cavare fuorialcuni saioni dalle casacche da marinaio e da altri mate-riali che avevo; così divenni un sarto o piuttosto un ras-settatore di stracci, chè da vero avrebbe fatto pietà il ve-dermi in questo mestiere. Pure m'ingegnai di fare due otre saioni nuovi, che spero mi durino un bel pezzo.Quanto a brache le mie esperienze furono da vero assaitriste.

Dissi già ch'io era solito conservare le pelli de' qua-drupedi da me uccisi; io le attaccava stese sopra pali af-finchè si seccassero al sole, per la quale operazione al-cune divenivano sì dure che poteano ben servire a poco;ma altre ne trovai di grand'uso. La prima cosa che nefeci, si fu un gran berrettone col pelo volto all'infuori,onde non vi si fermasse la pioggia. Dopo ciò mi feci uncorredo di vestiti tutti di pelle, vale a dire una casaccaed un paio di brache aperte al ginocchio, perchè biso-

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gnava mi riparassero piuttosto dal caldo che dal fresco.È mio obbligo il confessare che questi vestiti erano em-piamente fatti, perchè se ero un cattivo falegname, eroanche un sarto peggiore. Pure quali gli avevo fatti, migiovarono assai, e se veniva a piovere quando andavaattorno, il pelo della mia casacca e del mio berrettone,ricevendo esso l'acqua, facea ch'io me ne tornassi a casaperfettamente asciutto.

Impiegai ancora molto tempo per provvedermi talcosa di cui sentivo un forte bisogno, e che da lungo tem-po io divisava farmi con le mie mani un ombrello. Ioavea già veduto fabbricare di questi arnesi al Brasile,ove sono d'un massimo uso a motivo degli eccessivi ca-lori che regnano colà; nè da vero m'accorgevo che fos-sero niente minori, anzi più gagliardi erano in questaspiaggia più prossima all'equatore; oltrechè, essendo ioobbligato ad essere spesso in giro m'avrebbe giovatomolto per ripararmi così dal caldo come dalle piogge.Non saprei dire quanti disturbi mi diede un tale lavoro, equanto tempo ci volle prima di arrivare a far qualchecosa che avesse garbo d'ombrello; v'è di peggio: allor-chè m'immaginai d'avere finalmente colto nel segno, miconvenne guastarne due o tre perchè non andavano maia mio modo. Quando Dio volle, me ne venne fatto unoche tanto tanto corrispondeva alle mie idee; la maggioredifficoltà ch'io trovassi stava nel farlo tale da poter chiu-derlo. Fino a tenerlo disteso ci arrivavo, ma se non pote-vo e spiegarlo e chiuderlo, non mi serviva più ed io vo-leva che mi servisse. In somma giunto, come ho detto, a

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farmene uno sufficientemente buono al mio scopo, locopersi di pelle col pelo all'infuori; per tal modo paravada me l'acqua a guisa d'una grondaia, e mi difendeva sìefficacemente dal sole che poteva nella stagione più cal-da camminare attorno con maggior conforto di quantoavessi fatto dianzi nella più fresca. Se non avevo biso-gno del mio arnese, me lo ponevo, chiudendolo, sotto ilbraccio.

Così io conduceva assai piacevolmente la vita, aven-do assuefatto perfettamente il mio animo a rassegnarmiai voleri della divina providenza nelle braccia della qua-le io mi era posto interamente. Ciò mi rendeva il viveremigliore che se fossi stato in società; perchè ogni qual-volta mi sentivo tentato ad augurarmela, chiedevo a mestesso se il conversare co' miei propri pensieri e, comespero d'aver potuto dirlo, col medesimo Dio mediante lapreghiera, se questo conversare non valesse meglio deimassimi diletti del consorzio sociale.

Oltre alle narrate cose, non potrei ricordarne altra distraordinaria avvenutami durante questi cinque anni dimio soggiorno nell'isola. Lo stesso fu sempre il mio te-nore di vita, gli stessi come dianzi i luoghi da me abitatio visitati; gli stessi i miei principali lavori di ciascunanno: la piantagione del mio orzo e del mio riso, la col-tivazione delle mie uve, de' quali ricolti io mi tenni inmisura per averne sempre la mia provisione anticipatada un anno all'altro; le stesse mie giornaliere gite allacaccia, non potrei, dissi, citare altre cose straordinariese, dopo la prima inutile prova, non mi avesse continua-

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mente tenuto in faccende il desiderio di fabbricarmi unapiroga che mi potesse servire; intento che finalmente ot-tenni, come pur l'altro di scavare un canale largo sei pie-di, profondo quattro che condusse la nuova navicella inmare per traverso a circa un mezzo miglio. Chè quantoall'altra piroga, smisuratamente enorme quale io l'aveafabbricata senza rifletterci meglio, come avrei dovutofare, anche ammessa la possibilità di vararla; quanto al-l'altra piroga, non essendo io mai stato in grado nè dicondurla nell'acqua, nè di condurre l'acqua contr'essa,fui costretto a lasciarla dov'era, a guisa d'una memoriache m'insegnasse ad essere più saggio una seconda vol-ta; e la seconda volta di fatto, ancorchè non mi riuscissetrovare l'albero adatto al mio disegno, nè una posizionemen lontana di mezzo miglio, come ho detto, dall'acqua,pure vedendo che il lavoro era fino ad un certo gradopossibile, non ne abbandonai mai affatto il pensiere; ebenchè fossero circa due anni dacchè io m'affaticava aduno stesso proposito, non mi dolsi mai della mia faticacon la speranza di aver finalmente un naviglio per met-termi in mare.

XXX. Viaggio marittimo intorno all'isola.

Ancorchè il mio piccolo naviglio fosse terminato, laproporzione di esso non corrispondeva menomamenteall'intento ch'io mi avea prefisso quando lo fabbricai;quello cioè di avventurarmi alla volta della terra ferma

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da me scoperta distante oltre a quaranta miglia dall'iso-la; per conseguenza la picciolezza della mia navicellabastò a farmi mettere da banda questo disegno al qualepiù non pensai. Tal mia navicella nondimeno poteva, aquanto sembrommi, servirmi a girare dintorno all'isola;e questo fu il disegno che sopravvenne all'altro rimastoprivo d'effetto; perchè avendo io già, come dissi altrove,veduta una parte di spiaggia opposta attraversando ilpaese per terra, le scoperte fatte in quel mio piccolo pel-legrinaggio m'invogliarono sempre più di vedere il ri-manente della costa; onde non pensai più che a veleg-giare intorno dell'isola.

A tal fine, per fare tutte le mie cose ponderatamente,adattai un piccolo albero alla mia navicella, formandogliuna vela con alcuni pezzi di vele del vascello naufragatode' quali aveva una buona scorta presso di me. Eseguitetali operazioni, provai questo mio bastimento che vidi inistato di veleggiare assai bene. Allora praticai ai due latidi esso alcuni ripostigli od armadj per collocarvi in sicu-ro dalla pioggia o dagli sprazzi dell'acqua le mie provi-gioni, munizioni o quant'altro occorresse alla divisatacorsa; in oltre scavata nell'interno della barca una lungafenditura che potesse contenere il mio moschetto, la co-persi di una cortina affinchè esso non prendesse l'umido.

Formata una specie di scassa su la poppa, vi conficcaiil mio ombrello a guisa d'un albero di nave: esso, sovra-stando al mio capo, mi difendea come una tenda dall'ar-dore del sole. Dopo questi apparecchi andai facendo aquando a quando piccoli giri sul mare; pur senza sco-

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starmi per allora, o senza almeno scostarmi molto dallamia celletta. Finalmente, ansioso di vedere la circonfe-renza del mio piccolo reame, risolvetti di mettermi incorso, e con questa mira vettovagliai il mio vascello condue dozzine di pani o piuttosto potevo chiamarli focacced'orzo, una delle mie pentole di terra cotta piena di risoabbrustolito, cibo di cui facevo un grandissimo uso, conun fiaschetto di rum, una mezza capra, polvere e palliniaffinchè mi crescessero le vettovaglie stesse, e due dellecasacche che dissi tolte alle casse de' marinai naufragati,una di esse per giacervi sopra, l'altra perchè mi servissedi coperta la notte.

Era il 6 di novembre, e correva l'anno sesto del mioregno o della mia schiavitù, se vi piace meglio così,quando impresi questo viaggio che trovai molto più lun-go di quanto io credeva; perchè se bene l'isola in sè stes-sa non fosse vastissima, pur quando fui al suo latoorientale, m'abbattei in una grande catena di scogli che,parte a fior d'acqua, parte sott'acqua, tenevano circa dueleghe di mare, ed inoltre in un banco di sabbia asciuttache occupava più di una mezza lega, onde era costrettomettermi molto al largo per girare attorno alla punta diquesto ostacolo di scogli e di sabbia.

Al primo scoprirlo fui sul punto di rinunziare al miodivisamento e di retrocedere, non sapendo a quanto trat-to di alto mare mi obbligherebbe, e soprattutto incerto sedopo essere andato troppo avanti avrei potuto tornareaddietro. Gettai quindi l'áncora, chè mi ero fatto una

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specie d'áncora con un grappino rotto, una anch'essodelle eredità del naufragio.

Assicurata così la mia navicella e preso meco il miomoschetto, posi piede su la spiaggia ove arrampicatomisopra una collina che sembrava dominasse la punta dellacatena di scogli, ne misurai ad occhio l'estensione, e de-cisi d'avventurarmi al tragitto.

Nello scandagliare il mare dall'altura dove mi stetti,notai una forte e da vero violentissima corrente che, di-retta a levante, radeva affatto da vicino la punta; e tantopiù accuratamente la esaminai perchè vedevo esserviqualche pericolo che, quando fossi entro di essa, venissitrasportato dalla violenza della medesima in alto maresenza poter di nuovo raggiugnere l'isola; e per dir verose non avessi fatta una tale verificazione sopra l'altura,credo bene che mi sarebbe accaduto così; perchè la miacorrente si andava ad unire con un'altra simile al di làdella punta. Solamente questa seconda era più distantedalla spiaggia, e m'accorsi d'un gagliardo risucchio18 ra-sente la spiaggia; onde io, così pensai, non avrei avuto afar altro che tenermi fuori della prima corrente e guada-gnar tosto il risucchio.

Ciò non ostante io rimasi all'áncora due giorni, perchèil vento assai freddo che spirava ad est-sud-est (levante-scirocco) essendo direttamente contrario alla predettacorrente, accumulava cavalloni d'acqua contro alla pun-ta; onde era cosa mal sicura per me tanto il tenermi ser-

18 Massa d'acque del mare che un ostacolo qualunque ritrae dal loro corsoassoluto.

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rato alla costa a motivo dei frangenti, quanto l'allonta-narmi a motivo della corrente.

Alla mattina del terzo giorno, calmatosi il vento du-rante la notte ed essendo tranquillo il mare, io m'arri-schiai; ma divenni una gran lezione per l'avvenire a tuttii nocchieri ignoranti ed audaci. Perchè non appena fuiarrivato alla punta, non lontano più che la lunghezzadella mia navicella dalla spiaggia, mi trovai in una gran-de profondità d'acque, ed in una corrente simile alla ca-teratta di un mulino. Questa si trascinò seco il mio legnocon tanta violenza, che tutto il mio saper fare non poten-do tenerlo vicino a terra, mi vidi spinto lontano e sem-pre più lontano dal risucchio che mi stava a manca, e sucui erano fondate le mie speranze. Non spirava un fiatodi vento che mi aiutasse, e tutti gli sforzi de' miei reminon facevano nulla. Cominciavo già a darmi come per-duto; poichè essendovi una corrente di qua ed una di làdalla punta, io capiva che a poche leghe di distanza sisarebbero unite; ed allora chi mi salvava? Io non vedevapossibilità di sottrarmi a tale pericolo, nè mi stava in-nanzi altra certezza fuor quella di morire, se non som-merso, perchè il mare era abbastanza tranquillo, certa-mente dalla fame. È ben vero ch'io avea trovata su laspiaggia una tartaruga tanto greve ch'io poteva appenalevarla da terra e da me balzata entro la mia piroga; èben vero che avevo un grand'orcio, cioè una delle miepentole di terra cotta, pieno d'acqua dolce; ma tutto ciòche cosa era quando fossi stato tratto nel vasto oceano,ove ad una distanza per lo meno di mille leghe non avrei

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trovato nè continenti nè isole, in somma spiagge di sortaalcuna?

Allora io vidi come fosse cosa facile agl'imperscruta-bili divini voleri il rendere la più misera condizione delmondo anche più misera. Ora io m'augurava la mia de-solata e solitaria isola come se fosse il più delizioso pae-se dell'universo; ora tutta la felicità che il mio cuore sa-pesse desiderare, era il tornare ad esservi di bel nuovo;stendeva sospirando le mani verso di essa: ”Oh fortuna-to deserto! io esclamava, non ti vedrò mai più! Miseracreatura ch'io sono! Dove son io adesso per andare?”Allora io rampognava a me medesimo la mia ingratitu-dine per essermi querelato del mio deserto; ed ora chenon avrei io dato per essere tuttavia in quel deserto?Così è che non vediamo mai il nostro vero stato, se nonquando ci viene fatto manifesto da uno stato peggiore,nè conosciamo il prezzo di quanto abbiamo se non allorche ci manca. Difficilmente può immaginarsi la coster-nazione che or mi premeva al vedermi strappato dallamia diletta isola (ch'io la chiamava in quel momentocosì) in mezzo alla vastità dell'oceano quasi due leghedistante da essa e disperando affatto di mai più raggiu-gnerla. Ciò non ostante io non perdonava a fatica; le mieforze erano pressochè esauste nel tener la mia navicellaquanto mai io potea vôlta a tramontana, vale a dire ver-so il lato di corrente che guardava il risucchio. Final-mente verso il mezzogiorno, mentre il sole passava sulmeridiano, credei sentirmi rimpetto una lieve brezza chespirava da sud-sud-est (ostro scirocco), brezza che mi

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confortò l'animo alcun poco e specialmente allorchè inuna mezz'ora all'incirca si trasformò in un piacevoleventicello. Intanto per altro stavo ad una spaventosa di-stanza dall'isola, onde la menoma nube o nebbia chefosse sopravvenuta, io era ciò nondimeno perduto, per-chè privo di bussola non avrei mai saputo come gover-nare verso la terra, se l'avessi smarrita di vista; ma con-tinuando il sereno io mi diedi di nuovo a mettere all'or-dine l'albero della mia navicella e a spiegare la vela,mantenendomi quanto io poteva a tramontana per tirar-mi fuori della corrente.

Spiegata appena la vela e già rinforzando di camminoverso questa dirittura la mia piroga, m'accorsi dall'acquapiù chiara che qualche cambiamento era vicino a farsinella corrente; perchè finchè questa fu sì impetuosa,l'acqua era torbida. Di fatto allora soltanto m'accorsi chel'impeto delle ondate andava cedendo; nè tardai dopofatto un mezzo miglio in circa a vedere a levante i ca-valloni del mare che percuotevano alcuni scogli divi-dendo ad un tempo la corrente in due rami. Mentre il piùimpetuoso di questi due rami scorrea più a mezzogiornolasciando gli scogli a nord-est (greco), l'altro tornava ad-dietro respinto dagli scogli stessi, formando un risucchioche retrocedea gagliardemente verso nord-west (mae-stro).

Sol chi immagini il sentimento eccitato dall'annunziodella grazia in coloro che sono già su la fatale scala delloro supplizio, o una liberazione dalle mani d'assassiniin que' miseri che stavano per esserne vittime, o qualsia-

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si insperato conforto in mezzo alla massima estremitàdel pericolo, può congetturare qual fosse la sorpresa del-la mia gioia e con quanta soddisfazione io spingessi lamia navicella entro quel risucchio di salvezza. Spiravaognor più propizio il vento; oh come lieto gli presentaila mia vela! oh come lieto al pieno fiotto m'abbandonai!

Questo mi portò quasi una lega verso terra, ma circadue leghe più a tramontana della corrente che mi aveatrascinato da prima; onde quando fui vicino alla spiag-gia, mi trovai al lato settentrionale dell'isola, vale a direal lato opposto a quello donde io aveva cominciata lamia navigazione.

Poichè ebbi fatto poco più d'una lega col favore diquesto risucchio, esso divenne un'acqua morta che nonpotea più imprimere forza al mio legno. Nondimeno,trovandomi tra due correnti, quella di mezzogiorno chem'avea trascinato, e quella di tramontana che giaceva aduna lega circa dall'altra banda, trovai almeno fra esseun'acqua tranquilla e che non m'opponea resistenza;onde favorendomi tuttavia il vento, potei co' remi gover-nare direttamente verso l'isola, benchè non facendo tan-to cammino come per lo innanzi.

Alle quattro circa della sera men lontano d'una legada terra, mi vidi innanzi la punta sporgente della catenadi scogli che m'avea tratto in sì mal rischio, e che battutadalla corrente diretta a mezzogiorno formava di rimbal-zo un risucchio a tramontana. Lo scopersi assai gagliar-do, ma non in tal direzione che potesse condurmi a po-nente, ove mi bisognava prendere il mio cammino, per-

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chè si volgeva quasi affatto a settentrione. Nondimeno,protetto da una brezza favorevole vi entrai torcendomial nord-west (maestro), e dopo un'ora in circa mi trovaivicino quasi un miglio alla spiaggia, ove placidissimaessendo l'acqua, presto sbarcai.

Posto piede a terra, mi gettai ginocchione ringrazian-do Dio per avermi salvato; e qui feci fermo proposito diabbandonare ogni idea di liberazione che dovesse deri-varmi dalla mia piroga. Ristoratomi indi con alcuna del-le provisioni trasportate meco, riparai la mia navicellapresso la spiaggia in un piccolo seno che io aveva sco-perto sotto alcuni alberi, poi mi vi coricai entro per dor-mire; ch'io non ne poteva più dalla fatica e dai travaglidi tale navigazione.

Il mio grande imbarazzo stava ora su la via donde ri-condurre a casa la mia navicella. Per quella da cui erovenuto avevo corsi troppi pericoli, e sapevo troppo lanatura dei casi che vi s'incontravano per cimentarminuovamente; qual fosse la via di versa da prendere dal-l'altra parte, cioè da ponente, io non lo sapeva, nè d'al-tronde avevo voglia di cercar nuove avventure. Sol lamattina presi la risoluzione di costeggiare la spiaggia,per vedere se vi fosse una baia per lasciare ivi in sicurola mia grande fregata onde venirla poi a ripigliare quan-do me ne fosse occorso il bisogno. Dopo aver costeggia-to per tre miglia all'incirca, mi trovai ad un bel bracciodi mare della lunghezza a un dipresso d'un miglio, che siassottigliava al punto di divenire un picciolo ruscello,ove trovai un convenevolissimo porto e nel quale la mia

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piroga rimarrebbe come in un piccolo arsenale fatto aposta per essa. Lasciatala quivi con tutta la sicurezza, nètoltene fuori per portarle meco altre cose che il mio mo-schetto e l'ombrello, perchè faceva un caldo eccessivo,tornai alla spiaggia per guardare intorno a me e vederdove fossi.

XXXI. Ritorno dalla parte del frascato e nuove casalinghe occupazioni.

M'accorsi di essere lontano sol di poco dal luogo oveera stato prima, allorchè feci il mio pellegrinaggio aquesta spiaggia medesima; mi portai dunque a quellavolta. Fu delizioso il mio viaggio, tanto più a petto deldisastrosissimo ch'io aveva avuto poc'anzi. Non tardai lasera a raggiugnere il mio antico frascato, ove trovai tuttele cose nell'essere stesso in cui le avevo lasciate; nè po-tevo averle lasciate altrimenti per essere questa, comeho detto altrove, la mia casa di villeggiatura.

Attraversata la palizzata e stesomi all'ombra per darriposo alle mie membra che da vero reggevo a fatica,perchè stanchissimo, mi addormentai. Giudicate voi, oleggitori della mia storia, se lo potete, qual dovette esse-re la mia sorpresa, allorchè mi svegliò dal mio sonnouna voce che mi chiamò per nome parecchie volte: Ro-bin, Robin, Robin Crusoè! Povero Robin Crusoè! Dovesiete, Robin Crusoè? Dove siete? Dove siete andato?

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Ero sì profondamente addormentato alla prima, tantom'avea stancato il lavorar dei remi, o pagaie, come ven-gono chiamati in questi luoghi19, per una parte del gior-no e per l'altra il camminare a piedi, che non mi svegliaicompiutamente; ma così tra il sonno e la veglia, pur so-gnando che qualcheduno mi parlasse, e continuando lavoce a ripetere: Robin Crusoè! Robin Crusoè! cominciaifinalmente ad essere un poco più desto. Spaventato su leprime, saltai in piedi nella massima costernazione; maappena ebbi aperti gli occhi, vidi il mio Poll seduto incima alla palizzata. Non potevo più dubitare che chim'avea parlato non fosse desso; perchè appunto in que-sto lamentevole linguaggio io era solito parlargli ed in-segnargli a parlare. Quel povero animaletto, aveva im-parato sì perfettamente che, venutosi a posar sul miodito e col rostro appressato al mio volto gridava: PoveroRobin Crusoe! Dove siete? Dove siete stato? e similicose che gli avevo insegnate.

Nondimeno, ancorchè io sapessi che era il pappagal-lo, e che sicuramente non poteva essere altro, ci volle unbel pezzo prima ch'io arrivassi a ricompormi. Primiera-mente mi facea maraviglia che questo animale fosse ve-nuto qui, nè capivo poi perchè fosse venuto piuttosto quiche in un altro luogo; ma appena fui certo che chi michiamava era il fedele Poll, gli stesi la mano, lo chiamaianch'io pel suo nome; quella cara bestiuola venne a me,si posò sul mio pollice, come era solita fare, e continuò

19 Di fatto i remi degl'Indiani si chiamano pagaie.

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con le sue esclamazioni e domande come se veramentesi rallegrasse al rivedermi; dopo di che me la ricondussiall'antica casa.

Avevo già dismessa, e per qualche tempo, la voglia difar corse sul mare; ed avevo ancora abbastanza occupa-zione per alcuni giorni nel rimanermene tranquillo me-ditando i pericoli cui m'ero esposto. Certo mi sarebbepiaciuto assai tornare ad avere la mia navicella dal latodell'isola ove abitavo; ma non vedeva come fare per ot-tenere tale intento. Alla parte orientale già costeggiata,ben sapevo che non era più via da tentarsi: mi si restrin-geva il cuore e mi si agghiacciava il sangue al solo pen-sarci sopra. Quanto all'altro lato dell'isola, ignoravocome fossero le cose colà; ma se l'impeto della correnteera forte su la spiaggia orientale, come era stato a que-sta, io correva lo stesso rischio di esserne trascinato eportato lontano dall'isola come lo fui l'ultima volta; consì fatte considerazioni pertanto mi contentai a restarme-ne senza la mia navicella, ancorchè fosse stata il fruttodi tanti mesi di fatica impiegati a fabbricarla e d'altret-tanti per metterla in acqua.

Mantenutomi in questa moderazione d'animo per unanno circa, condussi una vita assai pacata, ritirata, soli-taria non ho bisogno di dirvelo; ed essendosi le mie ideeperfettamente conformate al mio stato, e confortato af-fatto dalla mia rassegnazione nelle disposizioni dellaProvidenza, sembrommi di condurre una vita felice intutto e per tutto, se si eccettui l'esser fuori della società.

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Divenni in questo tempo più abile in tutti quegli eser-cizi meccanici, cui m'obbligava dedicarmi la natura deimiei bisogni, e credo che ad un caso avrei potuto diveni-re un eccellente falegname, tanto più ove si consideri lascarsezza degli stromenti che aveva.

Oltre a ciò pervenni ad una inaspettata perfezione nèmiei lavori di terra cotta, in che m'ingegnai sì bene, chearrivai ad eseguirli col soccorso di una ruota: trovatoche mi fu utilissimo a far le cose mie e più facilmente einfinitamente meglio, giacchè riducevo a forme tonde eben proporzionate quelle manifatture che dianzi mette-vano schifo a guardarle. Ma non credo di essere mai sta-to così vanaglorioso della mia abilità o più contentod'alcuna delle mie invenzioni, siccome quando mi sco-persi capace di farmi una pipa da tabacco; e benchè miriuscisse assai sgarbata e sol di terra cotta rossa, cometutte l'altre suppellettili di tal genere della mia fabbrica,pure era sì dura e salda, e conduceva il fumo sì bene,che ne ebbi il massimo dei conforti, perchè era statosempre avvezzo a fumare, e trovavansi delle pipe nelvascello naufragato; ma su le prime non pensai a cercar-ne, perchè non m'immaginavo che vi fosse tabacco nel-l'isola; in appresso, accortomi del tabacco, non rinvennipipe quando andai a rintracciarne.

Anche nella mia arte d'intessere vimini feci grandiprogressi, onde mi procurai in copia quanti canestri mifurono necessari e di quante fogge mi suggeriva la miaimmaginazione; ancorchè non fossero molto eleganti,pure erano tali che si maneggiavano comodamente, e mi

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servivano o per riporvi o per tirare con essi alla mia abi-tazione le cose mie. Per esempio, se fuor di casa io am-mazzava una capra, la sospendevo ad un albero, la scor-ticavo, la rimondavo, la facevo in pezzi, e portavo ciòche era buono a casa mia entro un canestro; così facevod'una testuggine: toltole il guscio, ne traevo fuori leuova e due o tre pezzi di carne, che era quanto bastavaper me, e poste queste cose in un canestro per portarme-le a casa, lasciava indietro il restante. Ampi canestri pa-rimente ricevevano le mie spiche ch'io sempre sgranavaquando erano secche, e rimondate le conservavo in altrigrandi canestri.

Cominciavo ora ad accorgermi che la mia polverescemava notabilmente. Essendo questa una mancanzache mi era impossibile il riparare, mi diedi a pensar se-riamente a qual partito mi sarei appigliato quando nonne avrei avuto più, o sia come avrei fatto per provveder-mi di capre. Nel terzo anno del mio soggiorno nell'isolaio m'era già, come dissi, allegata e addimesticata unagiovine capretta nella speranza di prendere un maschiodella sua razza che la facesse madre; ma non potei maigiungere a questo intento, e la mia capretta intanto di-venne una vecchia capra che per altro non ebbi mai cuo-re di uccidere e che morì sol di vecchiaia.

Io era già all'undicesimo anno del mio soggiorno inquest'isola, e le mie munizioni, come osservai, andandoa finire del tutto, mi diedi a studiare qualche insidia op-portuna ad accalappiare capri in modo di averli vivi nel-le mani: una giovine capra soprattutto era quanto mi ab-

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bisognava. A tal fine posi agguati a queste bestie perprenderne qualcheduna; e credo bene che ci sarei riusci-to se i miei calappi fossero stati di buona qualità; ma ionon avea filo di rame per renderli tali, onde li trovavasempre rotti ed in oltre divorata la pastura postavi peradescare quegli animali. Risolvetti finalmente di prati-carne uno di nuovo genere scavando profonde fosse nelterreno; e ciò feci in diversi luoghi, ove osservai che icapri erano soliti di recarsi al pascolo; su questi fossicollocai graticci, sempre di mia fabbrica, con un grevepeso sovr'essi. Per parecchie volte da prima li sparsi dispiche d'orzo e di riso senza il peso che li facesse di-scendere, e dalle impronte delle zampe di tali bestie po-tei facilmente capire che erano andate di volta in volta amangiare il mio grano. Una notte finalmente collocai ipesi ai loro posti, ma tornato la successiva mattina tro-vai che questi non aveano ceduto, ed il mio grano tutta-via era stato mangiato; la qual cosa da vero mi scorag-giava. Pure feci qualche cangiamento ai miei congegni,e per non darvi la molestia di più minute descrizioni, vidirò che andato una mattina a veder l'effetto delle mieinsidie, trovai in un fosso un vecchio capro d'enormegrossezza ed in un altro tre capretti, un maschio e duefemmine.

Quanto al vecchio caprone io non sapeva come met-termici. Egli appariva sì feroce, che non ardii accostar-megli entro la fossa, intendiamoci accostarmegli per ti-rarlo fuori vivo, che era ciò di cui avevo bisogno. Avreipotuto ucciderlo, ma ciò non faceva il mio caso, nè cor-

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rispondeva al fine che mi prefiggevo. Datagli pertanto lalibertà, fuggì come divenuto pazzo dalla paura. Io nonsapeva allora ciò che imparai in appresso: che la famecioè arriva ad addimesticare un leone. Se avessi lasciatoper tre o quattro giorni entro la buca, senza dargli veru-na sorta di nutrimento, il mio capro, indi gli avessi por-tato prima un po' d'acqua per dissetarsi, poi alcun pocodi grano, sarebbe divenuto mansueto non meno d'uno dique' capretti, perchè sono bestie molto sagaci ed anchetrattabili, quando sono avvezzate a dovere.

Nondimeno in quel momento lo lasciai andare nonvedendo nulla di meglio a farsi; poscia venni ai miei trecapretti che, presili ad uno ad uno, legai tutti ad unostesso guinzaglio, e non senza qualche difficoltà me litrassi a casa.

Ci volle un bel pezzo prima che si adattassero a man-giare; ma quando porsi loro un po' di grano fresco, ciò lisedusse e principiarono a mansuefarsi. Ben vidi allorache se desideravo mangiar carne di capra quando le miemunizioni sarebbero finite, io non aveva altro espedien-te fuor quello di addimesticarne alcuni, con che forse sa-rei giunto ad averne intorno alla mia casa un armento si-mile ad una mandra di pecore. Ma giunto a questo caso,mi convenne separare i domestici dai salvatici, altrimen-ti i primi coll'aumentarsi sarebbero tornati salvatici an-ch'essi. Per assicurarmi una tale separazione io non ave-va altro metodo,se non quello di prepararmi un parcochiuso, ben difeso da una siepe o da una palizzata, affin-

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chè nè i domestici potessero uscirne, nè i salvatici en-trarvi.

Era questa una grande impresa per un sol paio dimani; pur vedendo che ciò era di assoluta necessità, lamia prima cura fu trovar fuori un pezzo di terreno con-veniente, in cui cioè potesse rinvenirsi erba pel loro pa-scolo, acqua perchè si abbeverassero, ed ombra che li ri-parasse dal sole.

Chi s'intende di tali chiusi per animali dirà ch'io ebbiben poco giudizio, non già rispetto al luogo da me sceltoa tal uopo, opportuno certo ai tre additati bisogni, per-chè aveva la sua parte di prateria, o come dicesi nellecolonie occidentali, savanna, andava provveduto di dueo tre rigagnoli, e ad una delle sue estremità d'un foltissi-mo bosco; ma rideranno su la mia previdenza quandodirò loro, ch'io m'accinsi a chiuderlo con una siepe o pa-lizzata lunga all'incirca due miglia. Nè la mia piazza erasì grande quanto alle proporzioni, perchè, se la mia cintafosse stata anche di dieci miglia, avrei avuto tempo ba-stante per far questa siepe; ma non considerai che in tan-ta estensione le mie capre sarebbero divenute salvatichecome se avessi dato ad esse per prigione l'intera isola;onde avrei potuto prepararmi a far la vita del cacciatorecome se non avessi mai avuta abilità di provvedermi ca-pre in altra maniera.

Il mio riparo era principiato e condotto ad una lun-ghezza circa di cinquanta braccia, quando questa consi-derazione mi venne in mente; laonde fermatomi subito,risolvei per allora che il mio luogo chiuso non avesse

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una lunghezza maggiore di cento cinquanta braccia a undipresso, nè una larghezza maggiore di cento; estensio-ne che sarebbe bastata a mantenere quanta greggia aves-si potuto adunare in un ragionevole corso d'anni, e adogni evento sarei sempre stato in tempo di aumentarnelo spazio.

Ciò mi sembrò un operare con qualche prudenza. Oc-corsemi circa tre mesi a riparare con siepe il mio parcolimitato a questa grandezza. Custodii frattanto impasto-iati nel miglior luogo del novello recinto i miei tre ca-pretti, che io solea tenermi vicini il più che mi fosse sta-to possibile per rendermeli famigliari. Spessissimo ionudrivali con le mie proprie mani portando loro o spi-ghe d'orzo o pugnelli di riso. Quando poi fu terminato ilmio parco chiuso, e li lasciai camminar liberi entro diesso, mi seguivano qua e là belandomi dietro per farsidare un poco di grano.

Ciò corrispose al fine ch'io m'era proposto, perchè incapo ad un anno e mezzo ebbi un gregge di circa dodicicapre e capretti, e in poco più di due anni ne avevo qua-rantatrè, senza contare quelli ch'io andava macellandoper uso della mensa. Chiusi indi cinque pezzi separati diterreno ad uso di loro pascolo, entro i quali li feci entra-re con poca fatica per prenderli di lì a norma del biso-gno; poi fabbricai porte che comunicassero tra un parcoe l'altro.

Ma qui non consisteva il tutto; perchè ora non sola-mente aveva carne per nutrirmene a mio piacimento, main oltre latte; cosa alla quale per verità non aveva pensa-

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to nè poco nè assai in principio, e che quando mi vennein mente eccitò in me la più gradevole delle sorprese;onde avviata allora la mia cascina, arrivai ad avere tal-volta uno e due boccali di latte per giorno. E poichè lanatura che provvede di commestibile ogni vivente, gl'in-segna pure ella stessa i modi di prepararselo, io che nonavea mai munta una vacca, molto meno una capra, nèveduto far burro o formaggio, se non da fanciullo affat-to, dopo un grande numero di esperienze e di spropositigiunsi a farmi da me il mio burro e più tardi il mio for-maggio, grazie al sale che mi veniva, può dirsi in mano,bello e preparato dal calore del sole su gli scogli dellaspiaggia; onde di questi cibi non ne fui mai senza in ap-presso. Come il misericordioso Creator nostro sa usareverso le sue creature anche ridotte allo stato in cui si di-rebbero condannate ad ultima perdizione! Come sa ad-dolcire l'amarezza de' suoi più tremendi castighi e darcimotivo di esaltarlo fin tra gli orrori della schiavitù e del-la prigionia! Qual mensa non imbandì egli per me in undeserto, mentre su le prime io non vedeva innanzi a mealtro che pericolo di perire dalla fame!

Sarebbe stata cosa atta ad eccitare il sorriso d'unostoico il vedermi seduto a mensa e dintorno a me la pic-cola mia famiglia; quivi stava mia maestà, principe e si-gnore di tutta l'isola; io aveva tutte le vite dei miei sud-diti al mio assoluto comando; potevo impiccare, acca-rezzare, dar la libertà e toglierla senza avere un sol ri-belle in tutto il mio popolo. Vedere come io pranzavasolo affatto a guisa d'un re! Poll, siccome mio favorito,

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era l'unico cui fosse permesso volgermi la parola. Il miocane, venuto acciaccato e decrepito senza aver mai po-tuto trovare una compagna per moltiplicar la sua razzain quest'isola, mi sedeva sempre a destra; i due gatti,uno da un lato, l'altro dall'altro della tavola, stavanoaspettando a quando a quando un boccone dalla miamano qual contrassegno di speciale favore.

Ma queste non erano le due gatte ch'io m'era portateda principio alla spiaggia; chè quelle già morte furonosotterrate dalla mia mano medesima in vicinanza dellamia abitazione. Una di esse avendo figliato, non so peropera di quale specie di bestia, i presenti gatti erano duecreature di quella discendenza ch'io avea conservate do-mestiche; il restante andato a menar vita vagante e sel-vaggia pei boschi, era anzi arrivato a diventarmi mole-sto; perchè quella genìa avea preso l'uso di entrare spes-se volte in mia casa e di saccheggiarmi, sinchè final-mente costrettomi a salutarla col mio moschetto e adammazzarle una gran parte de' suoi, mi lasciò quieto unavolta. Con tale corteggio e in mezzo a tale abbondanzaio vivea; nè poteva dire di mancare d'alcuna cosa se nondella società; ed anche di questa di qui a qualche tempo,era per averne di troppo.

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XXXII. Viaggio per terra alla spiaggia innanzi cui quasi pericolò la piroga.

Mi pungea sempre, come ho già osservato, un tal qualdesiderio di avere a mia disposizione la mia scialuppaancorchè fossi schifo di correre d'ora in poi più gravi ri-schi sul mare; qualche volta pertanto stavo fantasticandose pur vi fosse qualche modo di tirarmela vicina; altrevolte poi mi rassegnavo a far senza di essa. Ma mi dura-va la strana malinconia di tornare alla nota punta d'isolaove, come ho narrato nel descrivere il mio ultimo viag-gio, salito su d'un'eminenza, esaminai per vedere findove potessi arrischiarmi, la giacitura della spiaggia e lasituazione di quella corrente. Questa malinconia mi an-dava crescendo di giorno in giorno sì che risolvei final-mente di andarmene per terra sin là, tenendo semprel'orlo della spiaggia: così feci. Oh! se qualche abitantedell'Inghilterra si fosse scontrato in tal creatura qual ioappariva allora! Se non moriva dallo spavento si sarebbesenza dubbio smascellato dalle risa; ed io spesse voltestando a contemplar me medesimo non poteva fare altri-menti, immaginandomi di passeggiare in quella forma econ quell'abbigliamento per la contea di York. Permette-temi che vi dia un abbozzo di tal mia figura.

Io aveva un grande, alto, informe berrettone di pelledi capra: una larga falda che ne sporgeva di dietro mi ri-parava il sole ed impediva alla pioggia di cadermi giùper le spalle, nulla essendovi di così pernicioso in questi

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climi come l'acqua piovana che s'introduca tra i panni ela carne.

Il mio abito era una specie di saio di pelle di capra an-ch'esso, i cui lembi mi venivano giù sino alla coscia, edun paio di brache aperte al ginocchio della medesimapelle, che per altro appartenne ad un vecchio caprone, ilcui pelo mi scendea da entrambi i lati sino a mezzagamba formandomi una specie di pantaloni; calze, scar-pe io non ne avea di veruna sorta; nondimeno io m'erafatto un paio di cose, che non so come nominare: chia-miamole borzacchini, che coprendomi il resto dellagamba, si allacciavano da una parte come le uose; mad'una barbarissima forma come, per dir la verità, era dibarbarissima forma tutto il restante del mio abbiglia-mento.

Avevo una grande cintura di pelle, sempre di capra,tenuta unita da due coregge della stessa pelle che presta-vano ufizio di fibbie; ad entrambi i lati le pendeano dauna specie d'anello di fune, come se fossero spada e pu-gnale, una da una parte una dall'altra, una piccola segaed un'accetta. Avevo pure una tracolla non larga quantola cintura, assicurata alle mie spalle nello stesso modoche veniva ad unirsi sotto al mio braccio sinistro e dacui pendeano due borse, già fatte anch'esse di pelle dicapra, una delle quali contenea la mia polvere, l'altra imiei pallini. Dietro a me portavo il mio canestro e su laspalla il mio moschetto, e sollevato al di sopra del capoun tozzo, deforme, enorme ombrello, già della pelle me-desima, ma che, dopo il mio moschetto, era la cosa più

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importante e necessaria che avessi indosso. Quanto alcolore del mio volto non era veramente tanto quel d'unmulatto, quanto si sarebbe potuto aspettare da un uomoche non si curava niente di comparire e che vivea tra inove e i dieci gradi dell'equatore. La mia barba avrebbepotuto naturalmente crescere sino alla lunghezza di unquarto di braccio; ma non mancando io punto nè di rasoinè di forbici, la tenevo affatto corta, salvo quella delmio labbro superiore da me acconciata a foggia d'unampio paio di baffi turcheschi come almeno gli ho vedu-ti portare da alcuni Turchi a Salè, perchè i Mori a diffe-renza dei primi non li portavano. Di questi miei baffi omustacchi non dirò che fossero abbastanza lunghi perattaccarli al mio cappello, ma erano di una lunghezza edi una forma si bastantemente mostruosa, che in Inghil-terra avrebbero fatto paura.

Ma tutto ciò e detto all'incirca; perchè quanto alla miafigura ho avuto sì poche occasioni di contemplarla, chenon ho potuto dedurne nozioni di molta importanza; diquesta pertanto non si parli più, e limitiamoci a dire chetale era il mio aspetto quando impresi il mio nuovoviaggio che durò cinque o sei giorni all'incirca. Cammi-nai in principio lungo la riva dirigendomi al luogo ovela prima volta misi all'áncora la mia piroga per aggrap-parmi agli scogli. Non avendo questa volta la piroga chemi desse fastidio, presi per terra una via più corta, ondegiungere all'altura ov'ero salito dianzi. Di lì postomi aguardare la punta degli scogli sporgenti all'infuori, quel-la punta intorno alla quale fui costretto passare con la

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mia navicella, come già narrai, rimasi attonito al vederela somma assoluta placidezza del mare: non un incre-spamento, non un moto, non una corrente più quivi chein qual si fosse altro luogo. Non sapendo menomamentespiegare a me stesso come ciò avvenisse, risolvei d'im-piegar qualche tempo in osservazione, per vedere se maitutto ciò fosse stato opera della marea; nè andò guariche dovei convincermi donde fosse derivato il tutto. Lamarea venendo da ponente, ed influendo sul corso diqualche torrente ingrossato della spiaggia, potè sola es-sere stata l'origine di quella corrente; e secondo che ilvento soffiava con maggior forza da ponente o da tra-montana, la corrente stessa si sarà portata più vicino allaspiaggia o ne sarà andata più lontana. Di fatto trattenu-tomi in que' dintorni fino a sera, e tornato su la stessaeminenza che il riflusso si era già fatto, vidi di bel nuo-vo la corrente siccome in passato: solamente non radeatanto la punta perchè questa volta ne era lontana di mez-za lega all'incirca; mentre nel caso mio le stava sì dapresso, che trascinò me e la mia piroga in sua compa-gnia: ciò che ora non mi sarebbe accaduto.

Questa osservazione mi persuase ch'io non aveva afar altro che notare i momenti del flusso e del riflussodella marea, e che dietro una tale osservazione non misarebbe stato difficile il ricondurre nuovamente alla miaparte d'isola la piroga; ma quando io m'apparecchiava amandare ad esecuzione questo mio disegno, tale atterri-mento s'impadronì dell'animo mio che, al rimembrareunicamente il pericolo in cui mi trovai, non solo non fui

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più capace d'intertenermi nel primo pensiere, ma presi alcontrario una nuova risoluzione più sicura, se bene piùfaticosa: quella cioè di costruirmi un'altra piroga e cosìaverne due, una per ciascun lato dell'isola.

XXXIII. Timore di selvaggi sbarcati nell'isola.

Permettetemi il farvi osservare che ora io aveva,come posso chiamarle, due abitazioni nell'isola. Una lamia piccola fortificazione o tenda con la sua palizzataall'intorno, protetta dal monte, con una grotta scavatanel monte stesso, la quale in questo intervallo io avevaampliata di separati spartimenti o più piccole grotte co-municanti l'una con l'altra. Una di queste, la più asciuttae vasta che aveva una porta al di là della palizzata, cioèoltre al sito ove la palizzata stessa si univa col monte,era tutta piena di lavori di terra cotta, dei quali ho giàdato conto, e di quattordici o quindici grandi canestridella capacità di cinque o sei moggia ciascuno, entro cuitenevo le mie provvigioni, specialmente il mio grano,parte in spiche tagliate dallo stelo, parte sgranato con lemie mani.

Quanto alla mia palizzata fatta, come sapete, di lun-ghi stecconi o pali, questi erano tutti cresciuti a guisad'alberi, e venuti a tanta grossezza ed estensione di fra-sche, che non v'era a qual si fosse occhio veggente lamenoma apparenza di abitazione dopo di essi.

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Presso a questa mia casa, ma un po' più in dentro nel-l'isola e su terra più bassa giacevano i miei due campich'io manteneva debitamente coltivati e seminati, e chedebitamente mi produceano buoni ricolti alla loro sta-gione. Pel caso poi ch'io volessi seminare maggiorquantità di grano avevo ancora un altro pezzo di terraannesso ai campi indicati.

Inoltre era la mia casa di campagna divenuta anch'es-sa una ragionevole piantagione; perchè primieramente ilmio piccolo frascato, che io lo chiamava così, lo tenevasempre in buon ordine, vale a dire circondato d'una sie-pe rimondata, serbata costantemente alla sua solita al-tezza e proveduta sempre internamente della sua scala.Così pure gli alberi all'intorno che su le prime eranomeri stecconi li vedevo or cresciuti a notabile grandezzae saldezza; io li potava opportunamente affinchè venis-sero forti e rigogliosi, ed estendendosi spargessero sem-pre, come la spargeano di fatto, un'aggradevole ombra.In mezzo a questo frascato io avea la mia tenda stabile:un pezzo di vela stesa sopra pali innalzati ivi a tal uopo,ed ai quali io non lasciava mai mancare riparazioni orinnovellamenti. Sotto di essa io m'era fatto il mio lettocon pelli di quadrupedi uccisi o valendomi d'altre sofficicose; su questo una coltre assai decente per un uomo dimare, da me sottratta al naufragio ed una grande casaccaper coprirmi; quivi era, quando io aveva occasione d'al-lontanarmi dalla mia residenza principale, la mia casa divilleggiatura. Aggiungansi a tutto ciò i parchi chiusi pe'miei armenti, vale a dire per le mie capre; parchi ch'io

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avea muniti e difesi con un incredibile dispendio di fati-che. Perchè tanta fu la mia premura di conservarne fittala siepe di cinta onde i miei armenti non ne saltasserofuori, ch'io l'avea resa più folta col piantar sottili palinuovi tra i primi, e vicinissimi l'uno all'altro; sarebbesidetta una palizzata anzichè una siepe, ed a fatica avrestepotuto introdurre una mano fra le commessure di essa;in somma quando questi nuovi pali furono cresciuti, ilche avvenne nella successiva stagione delle piogge, que-sta siepe era forte al pari e da vero più di una muraglia.

Ciò varrà a provare che non rimasi in ozio, e che nonperdonai a travagli per procurarmi quanto sembromminecessario a trascorrere quivi men disagiata la mia esi-stenza. Nè certo avevo torto nel riguardare nella razzad'animali domestici così allevatami a mia disposizione,un vivaio perenne di carne, latte, burro e formaggio, chenon mi sarebbe più mancato per tutto il tempo del miosoggiorno in quel luogo, quand'anche avessi dovuto ri-manerci altri quarant'anni. Così pure non mi ingannainel credere che l'aver sempre questi animali al mio co-mando dipendeva affatto dal perfezionamento dellosteccato, entro cui venivano custoditi e tenuti raccoltiinsieme. A tal perfezionamento arrivai si bene, chequando i nuovi pali furono divenuti grossi, fui costrettoa diminuire la spessezza della mia siepe schiantandonealcuni.

Quivi avevo in oltre le mie vigne che mi assicuravanoprincipalmente la mia provista d'uva appassita pel ver-no, alla cui preparazione non mancai un istante d'impie-

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gare le mie sollecitudini come alla migliore e più grade-vole oggetto di lusso del giornaliero mio vitto, perchè latrovava medicinale e salubre, nutritiva e rinfrescante almassimo grado.

Poichè questa mia casa di villeggiatura era situata tral'abitazione principale e la parte di spiaggia ove avevolasciato all'áncora il mio piccolo vascello, io soleva farlaluogo di mia stazione nelle gite che imprendevo fre-quentemente per visitarlo. Di fatto ebbi la massima curadi tenere in ottimo ordine e tal mio naviglio e tuttoquanto gli apparteneva. Talvolta ancora mi diportai den-tro esso, ma non mai rischiandomi a lunghi viaggi, anzirimanendo poco più di un tiro di pietra lontano dalla co-sta, tanta era in me la paura che o correnti o colpi divento o altri casi tornassero a mettermi nel pericolo diperdere di vista la terra. Ma fu questa l'epoca in cui misi offerse una scena del tutto nuova nella mia vita.

Accadde un giorno, sul far del meriggio, che, mentreio andava a visitare la mia piroga, fossi oltre ogni crede-re sorpreso dalla veduta impronta d'un ignudo piedeumano manifestamente stampato sopra la sabbia. Rima-si stupefatto come ad un improvviso scrosciare di folgo-re o come alla vista di una soprannaturale apparizione.Mi posi in ascolto, guardai dintorno a me, ma non poteiudire nulla nè veder cosa alcuna; salii sopra una emi-nenza per osservare più da lontano; tornai a trasferirmialla spiaggia, tornai nell'interno, ma fu lo stesso: nonpotei vedere altra impronta fuor quella che avevo vedutadianzi. Venni di nuovo sul medesimo luogo per assicu-

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rarmi se ve nè fossero altre o se anche avessi ceduto aqualche inganno della mia fantasia; ma inganno non cipoteva essere, perchè tornai a vedere fuor d'ogni equivo-co l'impronta delle dita, del calcagno, in somma di cia-scuna parte d'un piede: come ci fosse venuta, nè lo seppiallora nè potei menomamente immaginarlo. Dopo milleincerti pensieri, affatto confuso e divenuto come unuomo fuor di sè stesso, me ne tornai alla mia abitazioneprincipale non sentendo, come si suol dire, la terra sucui camminavo ed ineffabilmente atterrito; guardandomidietro ad ogni due o tre passi, persuaso veder uomini inogni macchia, fra ciascun albero, credendo voce d'uomi-ni ogni strepito che udiva in distanza. Non è possibile ildescrivere sotto quali svariate forme la mia spaventatafantasia mi rappresentasse gli oggetti, quante orride im-magini si dipingessero ad ogni istante nella mia mente,quante stravaganti inenarrabili congetture formasse perconseguenza il mio atterrito pensiere.

Quando fui alla fortezza (chè credo d'allora in poiaver chiamata sempre così la mia prima casa), ci saltaidentro a guisa di uomo inseguito; se ci entrassi giovan-domi della scala che mi era fatta prima, o se per l'apertu-ra da me fatta nel monte a cui dava il nome di porta, nonposso ricordarmelo, e nemmeno potei ricordarmene nel-la mattina immediatamente successiva; perchè non mailepre spaventato fuggì al suo covo, o volpe cacciata sirintanò sotterra con maggior paura di quella che m'ac-compagnò al mio ricovero.

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Non chiusi occhio in tutta la notte; più lontano erodalla scena del mio spavento, maggiori in me si faceanole paure dell'istante. Ciò parrebbe alquanto in contraddi-zione con la nature delle cose, e specialmente con quan-to vediamo succedere nelle creature spaventate; ma ioera posto in tal confusione dalle orride idee concepitesul caso occorsomi che non sapevo formarmi se noncongetture spaventose, ancorchè fossi lontano dal luogodella scena. Talvolta io fantasticava che potesse esserestato il demonio, nè la mia ragione mancava di venirmiin aiuto per tale ipotesi; perchè qual altra cosa potevaessersi portata in forma umana colà? Ov'era il naviglioche avesse potuto condurla? Che impronte si trovavanoivi d'altri piedi? Poi come era possibile che un uomo cifosse venuto? Dall'altra parte, come pensare che il de-monio avesse presa forma umana per portarsi in tal luo-go col solo fine di lasciar l'orma del suo piede dietro disè, e ciò anche senza nessun proposito, giacchè non po-teva esser sicuro che questa impronta io la vedessi; sa-rebbe stato un divertimento stravagante da vero. Il de-monio in fine, anche a questo io pensai, aveva ai suoicomandi una infinità d'altri mezzi per farmi paura senzaquesto della semplice impronta d'un de' suoi piedi. Ol-trechè, risedendo io d'ordinario nell'altro lato dell'isola,non sarebbe mai stato gonzo al segno di lasciare una suaimpronta laddove c'era da scommettere diecimila con-tr'uno che non l'avrei veduta: poi anche nella sabbia, oveil primo sorgere di marea, il più lieve soffio di vento lapoteano cancellare affatto; tutto ciò pareva inconsistente

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con l'ordine delle cose e con le nozioni che ci siamo for-mate intorno all'astuzia del diavolo.

Mi accorsero in copia altre considerazioni simili aqueste ed atte a liberarmi affatto dalla paura che in ciòavesse parte il demonio. Dovei quindi prestamente con-chiuderne che la cosa dovesse attribuirsi a qualche crea-tura anche più pericolosa: vale a dire, bisognava credereche alcuni selvaggi abitanti del continente postomi dirimpetto, tratti fuor di via nelle loro piroghe, o purespinti da correnti e venti contrari, avessero approdatonell'isola; indi si fossero imbarcati di nuovo avendo for-se a schifo il soggiorno di questo deserto, come da verolo avrei avuto io se fossi stato ne' loro panni.

Mentre pensavo a ciò m'andavo rallegrando fra me eme su la mia fortuna di non essermi trovato in que' din-torni al momento del loro sbarco, o del non aver essi ve-duta la mia piroga donde avrebbero preso indizio chequalcheduno abitava in quest'isola e sarebbero forse ve-nuti a cercarmi. Ma ben tosto quali terribili idee strazia-rono la mia immaginazione quando pensai che potevanobenissimo aver veduta la mia piroga, e conosciuto quin-di che l'isola era abitata; nel qual caso io potea certo daun momento all'altro aspettarmeli qui in maggior nume-ro per divorarmi; e quand'anche fosse avvenuto che nonmi trovassero, avrebbero distrutti i miei campi, si sareb-bero portati seco le mie capre domestiche, ed io sarei ri-masto qui a morire di fame.

Così la mia paura sbandì da me ogni religiosa speran-za, ogni primiera fiducia riposta in Dio, ancorchè, per

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vero dire, fondata sopra esperienze maravigliose, e sì ione avevo avute dalla sua bontà. Quasi come se quellamano che mi avea miracolosamente nudrito sin qui nonavesse potuto salvare quelle provisioni che la sua mise-ricordia aveva apparecchiate per me, io dava dell'infin-gardo a me stesso per non avere seminato nello scorsoanno più grano di quanto potesse bastarmi al ricolto diuna successiva stagione, per non avere calcolato la pos-sibilità di un caso che m'impedisse di tirare in granaio lamesse tuttavia in erba. Tal rimprovero io credetti d'aver-melo fatto sì giustamente, che decisi prepararmi perl'avvenire un ricolto per due o tre anni successivi: così,che che avvenisse, non sarei almeno perito per mancan-za di pane.

Quale strano scacchiere della Providenza è la vita del-l'uomo! o da quali svariate secrete molle vengono trattiqua e la i nostri desiderii a seconda delle circostanze delmomento! Oggi amiamo quello che odieremo domani;oggi cerchiamo quello che eviteremo domani; oggi bra-miamo quello che domani ci farà paura, anzi ci farà tre-mare alla sola idea della sua possibilità. Io ne fui in que-sta circostanza il più visibile esempio, perchè io che nonavevo altro rammarico fuor quello di credermi per sem-pre sbandito dalla società, dell'essere solo, confinatodall'immensità dell'oceano ed escluso da ogni consorziocol genere umano, condannato a quella ch'io chiamavavita morta; io che mi riguardava com'uomo che il Cielonon reputasse degno di essere annoverato fra i viventi odi mostrarsi in mezzo all'altre sue creature; io che, se

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avessi potuto vedere un solo individuo della mia specie,mi sarei creduto rinato da morte a vita, e avrei ravvisatoin ciò, dopo il salvamento dell'anima mia, la maggiorbenedizione che potesse essermi da Dio compartita: io,dissi, tremava ora al solo timore di vedere un uomo; sa-rei stato in procinto di sprofondarmi sotterra dalla pauraalla sola ombra d'un uomo, alla sola apparenza di unpiede umano che avesse calcata la sabbia di quest'isola.

Tale è la via ineguale dell'umana vita: la qual veritàmi fu argomento a parecchie singolari meditazioni inappresso, poichè mi sentii alquanto rinvenuto dalla miaprima sorpresa. Tornato dunque meglio in me stesso,pensai essere questo lo stato di vita che l'infinita saggez-za e providenza di Dio aveva prestabilito per me; nonpoter io, come non mi era dato il prevedere i fini che talsaggezza di Dio aveva avuti in tutto quanto mi era oc-corso, nemmeno disputarne l'indubitabil diritto compar-titogli dalla sua qualità di creatore; il diritto di governar-mi qual sua creatura e far di me ciò che gli fosse assolu-tamente piaciuto; nè l'altro diritto, poichè ero tal suacreatura che lo aveva offeso, di condannarmi a tal penaquale la sua sovrana giustizia avesse giudicata più con-venevole; essere per conseguenza mio debito il sotto-mettermi rassegnato agli effetti dell'ira sua, da che io l'a-vea concitata peccando contro di lui. Indi pensai checome Dio, non solamente giusto, ma onnipotente, aveatrovato opportuno il punirmi e l'affliggermi, potevaugualmente liberarmi; che, se ciò non era ne' suoi altidecreti, diveniva mio indispensabile obbligo il rasse-

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gnarmi assolutamente ed interamente ai suoi santi vole-ri; e che d'altra parte avevo anche l'obbligo di sperare inlui, di pregarlo e di starmene tranquillamente ad aspetta-re i decreti e le disposizioni della giornaliera sua provi-denza.

Tali pensieri mi tennero per molte ore e giornate, anziposso dire per settimane e mesi; nè in questa circostanzatacerò fin d'ora qual sia stato una volta l'effetto di questemie meditazioni. Una mattina di buon'ora, giacendo sulmio letto e ingombra sempre la mente mia dell'idea de'pericoli onde ero minacciato, se si avveravano i miei ti-mori concepiti intorno ai selvaggi, l'animo mio si trova-va in uno stato di massimo avvilimento, allorchè mi tor-narono alla memoria quelle parole della santa Scrittura:Chiamami nel giorno dell'angoscia, ed io ti aiuterò e miglorificherai. Dopo di che, alzatomi dal letto, con animopiù contento, non solamente sentii il mio cuore più lieto,ma vi scese tale inspirazione e forza, che mi trasse apregare fervorosamente per la mia liberazione il Signo-re. Terminata la mia preghiera, presa fra le mani edaperta la Bibbia per leggerla, le prime parole che mi sioffersero furono queste: Confidati nel Signore Iddio, esta di buon animo; egli darà forza al tuo cuore; confi-dati dico, nel Signore Iddio! Egli è impossibile l'espri-mere il conforto che me ne derivò. Risposi con un rin-graziamento alla parola del Signore; rispettosamente ri-posi il sacro Libro; non fui più malinconico, almeno in-torno a ciò.

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In mezzo a questi pensieri, timori e considerazioni mivenne un dì nella mente che tutto ciò non fosse statonulla più di una chimera che mi avessi fabbricata da memedesimo, e che la impronta veduta poteva essere statafatta dal mio piede, quando dalla mia piroga tornai su laspiaggia. Tale idea mi confortò alquanto, e cominciai apersuadermi che il tutto fosse stato una mera illusione,nè aver colà camminato altro piede fuori del mio. Per-chè non poteva io nel venire dalla piroga avere tenuto lostesso sentiere che tenni in appresso per andarci? Pensa-va poi anche ch'io non poteva dir con certezza qualestrada avessi battuta, e quale non battuta, e che se in finde' conti, l'orma che mi avea spaventato era quella delmio stesso piede, io facea la figura di que' matti che siprovano a fabbricare storie di spettri e di apparizioni,poi finiscono avendone paura eglino stessi più di tuttigli altri.

Ciò fece ch'io cominciassi a prendere un po' di corag-gio e a trarmi fuori alcun poco, perchè io non m'eramosso dalla mia fortezza per tre continui giorni e notti,al segno di rimanere quasi affamato per mancanza diprovigioni. Io aveva poco o nulla in casa, se si eccettui-no alcune focacce d'orzo e un po' d'acqua. Pensai allorache le mie capre aveano bisogno di essere munte, opera-zione che soleva essere il mio divertimento della sera, eche per essere state trascurata in questi giorni metteva ingrande scompiglio e travaglio quelle povere creature; infatti alcune di esse rimasero o in tutto o quasi del tuttoprive di latte. Francheggiato quindi dalla persuasione

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nata in me che l'impronte veduta fosse stata quella delmio piede soltanto, e d'aver proprio avuto paura dellamia ombra, principiai ad andare attorno, e mi resi allacasa di villeggiatura per mungere le mie capre. Ma chim'avesse veduto con che paura vi andai, quante volte mivoltai per guardar dietro me, come io facea presto diquando in quando a metter giù il mio canestro per esserepiù spedito ad una fuga; chi mi avesse veduto così,avrebbe pensato che feroci rimorsi di coscienza mi tra-vagliassero, o che fossi fresco d'un'orribile paura, e sisarebbe appigliato al vero nella seconda di tali supposi-zioni. Nondimeno poichè fui andato laggiù due o tregiorni senza mai veder nulla, principiai ad esser piùfranco e a pensar veramente che il tutto fosse stato lavo-ro della mia immaginazione. Pure per rimanere piena-mente convinto sentivo che mi bisognava tornare dinuovo alla spiaggia, e rivedere l'impronta di quel piede,e misurarla col mio, ed accertarmi che vi fosse tal simi-litudine o congruenza da dedurne che propriamente quelvestigio era stato lasciato da me. Ma primieramente nelrecarmi al luogo di questo mio nuovo esperimento po-tetti da altre osservazioni comprendere che nel venir viadalla mia piroga io non poteva assolutamente esserepassato per quel punto di spiaggia o in quella vicinanza;in secondo luogo, quando mi feci a misurare quell'im-pronta col mio piede, trovai questo men largo d'assaidell'impronta medesima. Entrambe le narrate particolari-tà m'ingombrarono la mente di nuove paure, e diederotal forte scossa alle mie fibre che sentii per tutto il corpo

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il freddo e i brividi della febbre; onde me ne tornai acasa col pieno fatale convincimento che un uomo o piùuomini fossero sbarcati su quella spiaggia, o ancora chel'isola li contenesse tuttavia, e che mi potessero sorpren-dere alla sprovvista: a qual partito appigliarmi per lamia sicurezza, io non lo sapea.

XXXIV. Mezzi di difesa e cautele di previdenza.

Oh quali ridicoli propositi fanno gli uomini nell'istan-te della paura! Questa li priva dell'uso medesimo di que'mezzi di soccorso che loro addita la ragione. Il primoespediente ch'io mi prefiggea era quello di demolire imiei parchi chiusi e mandar tutte le mie capre a viverenuovamente selvaggia vita nella foresta per timore chese i nemici le trovavano, facessero più frequenti scorre-rie nell'isola per l'avidita d'altra simile preda. Ne venivadi naturale conseguenza che avrei anche sovvertiti i mieidue campi di biade affinchè gli scorridori non trovasseroqui un allettamento a portarsi sovente in questo luogo;avrei pure atterrati il mio frascato e la tenda annessaviaffinchè non vedessero alcun vestigio d'abitazione chegli incitasse a scandagliare più oltre onde scoprire chiquivi abitasse.

Furono questi i soggetti delle mie considerazioni laprima notte del mio ritorno a casa, mentre la mia menteera ancor tutta piena de' timori che m'avevano invaso, etuttavia incapace d'istituire ragionamenti. Così accade

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che il timore del pericolo atterrisce diecimila volte piùdel pericolo stesso quando lo abbiamo dinanzi agli oc-chi, e che troviamo il peso dell'angoscia più greve delmale stesso su cui ci angosciamo; e il peggio per me siera trovarmi privo di quel sollievo l'uso del quale mi erasì utile nelle mie afflizioni, la rassegnazione. Io rassomi-gliava a Saule il quale si querelava non che i Filistei glifossero addosso, ma che Dio lo avesse abbandonato; chènon ero or capace di raccogliere il mio spirito al segnod'invocar Dio nella mia desolazione, di mettermi fra lebraccia della sua providenza come avevo fatto dianzi,pregandolo che mi proteggesse e salvasse; il che seavessi fatto, almeno avrei sopportata di miglior animoquesta nuova calamità, e forse l'avrei affrontata conmaggiore risoluzione.

Questa confusione delle mie idee mi tenne desto tuttanotte; ma sul far del mattino rimasi addormentato, ed inconseguenza delle agitazioni della mia mente essendostanche ed esauste affatto le forze mie dormii profondis-simamente, onde svegliatomi, l'animo mio si trovò assaipiù calmo che dianzi. Avendo or principiato a ragionarecon mente più sedata su le cose occorse, conclusi dopoavere molto discusso tra me e me che quest'isola cosìpiacevole e ferace, nè più lontana di quanto aveva vedu-to da un continente, non era così interamente abbando-nata com'io me l'era immaginata; che, se bene non vifossero abitatori che vivessero in essa, pur qualche voltapotevano approdarvi navigli venuti dall'opposta spiaggiao a disegno o forse spinti soltanto da qualche evento di

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mare; ch'io, per altro, or vissuto quivi quindici anni, nonm'era fin qui incontrato nemmen con l'ombra d'un solodi tali individui; che se qualche volta fossero spinti inquest'isola, probabilmente ne sarebbero partite più pre-sto che avessero potuto, poichè vedevo che non avevanomai pensato a mettervi stabile dimora; che il maggiorpericolo da temersi per me potea derivare da uno sbarcoaccidentale di qualche naviglio sbandato dal continente icui nocchieri secondo ogni verisimiglianza, se qui ap-prodavano, il faceano contro lor voglia, onde ne sareb-bero anche usciti con la massima speditezza; che rarevolte ci sarebbero rimasti di notte tempo per paura dinon avere il favore della marea e della luce del giornonel tornare addietro; ch'io pertanto non aveva a far altroche procurarmi qualche sicuro ricovero pel caso in cuim'accorgessi d'un qualche sbarco di selvaggi nell'isola.

Ora cominciò da vero a rincrescermi d'avere scavatauna grotta sì ampia, che rese indispensabile una portadonde si usciva, come dissi, al di là del luogo ove la miafortificazione raggiugnea la montagna. Pertanto dopomature considerazioni, risolvei fabbricarmi una secondafortificazione semicircolare siccome la prima, ad una di-stanza da questa corrispondente esattamente al puntoove circa dodici anni prima aveva innalzati due filari dialberi; e poichè questi erano stati piantati fitti oltre ognidire, ebbi bisogno sol di pochi pali da conficcare fra essiper aver presto ai miei comandi tal nuova cinta di forti-ficazione, che fosse gagliarda e resistentissima. Cosìvenni ad avere due baloardi, l'esterno de' quali rinforzai

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in oltre con tronchi di legno, vecchie gomone e tuttequelle cose che credei più atte a munirlo meglio; ci la-sciai soltanto sette piccole feritoie non più larghe diquanto bastava perchè ci passasse il mio braccio. Indidalla parte interna ne ingrossai il terrapieno di circa die-ci piedi a furia di trasportarci terra della mia grotta, e dibatterlo camminandovi sopra. In appresso pensai a farpassare per entro alle sette feritoie i sette moschetti cheho già detto di aver salvati dal naufragio, e in quel casodivenuti miei cannoni per cui fabbricai una specie dicarrette onde collocarveli; così io potea dar fuoco a tuttisette nel tempo d'un minuto. Molti faticosissimi mesiimpiegai nel terminare tal seconda fortezza, nè mai micredei sicuro finchè non l'ebbi finita.

Dopo ciò copersi tutto il terreno esterno, ad una gran-de estensione per tutti i versi, di pali di quel legno simileal salcio ch'io trovai sì durevole ed atto a crescere. Cre-do d'averne piantati circa ventimila lasciando per altroun ragionevole spazio tra essi e il mio baloardo, perconservarmi uno spazio vuoto donde io potessi scoprirei nemici e dove essi non avessero protezione dall'ombraper venir sotto al muro senza esser veduti da me e co-gliermi alla sprovvista.

Così in due anni di tempo io ebbi dinanzi alla miaabitazione una folta boscaglia, divenuta poscia in capoad altri cinque o sei una sterminata foresta, cotanto fittach'uomo non poteva attraversare nè immaginarsi qualcosa stesse al di là di essa, e molto meno credere che vifosse un'abitazione. Quanto al modo di entrarvi ed uscir-

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ne, perchè non ci avevo lasciato veruna porta, me loprocurai mediante due scale a mano. Con la più corta diesse io saliva il monte da una parte men alta; colà io col-locava la scala più lunga che mi menasse nell'interno inguisa che quando l'una e l'altra erano tirate dentro, nonuomo vivente poteva scalare la palizzata senza farsi delmale, e quand'anche l'avesse scalata gli rimaneva sem-pre da scalar l'altra più interna per giungere sino a me.

Così io aveva adottati tutti que' provvedimenti che lasaggezza umana potea suggerirmi per la mia propria sal-vezza. Apparirà in appresso che non furono adottati sen-za fondamento, ancorchè fino a quel punto io non preve-dessi maggiori pericoli di que' soli che additavami lamia paura.

Nel tempo delle indicate operazioni io non trasandavacertamente gli altri miei affari, nè soprattutto quello delmio piccolo armento di capre, che non solo erano un ec-cellente scorta pel giornaliero mio vitto, e cominciavanoa bastarmi senza costringermi a consumare le mie muni-zioni; ma mi dispensavano dalla fatica di andare allacaccia di animali salvatici. Ora mi rincresceva ugual-mente l'idea di perdere gli utili che mi derivavano daquesta greggia, e l'altra di dovermene allevar una dinuovo.

Dopo avere pensato a ciò lungamente mi occorseroalla mente sol due espedienti; l'uno, di trovare un conve-niente luogo ove scavarmi una grotta sotterranea e con-dur quivi le mie capre tutte le notti; l'altro di fortificaredue o tre pezzi di terra remoti l'uno dall'altro e il più

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possibilmente nascosti, in ciascun de' quali avrei con-dotta una dozzina all'incirca di capre; e ciò affinchè sefosse occorsa qualche sventura alla generalità del mioarmento mi rimanesse sempre di che rinovarlo in brevetempo e con poco fastidio. Tale ultimo disegno, benchèper mandarlo ad effetto esigesse molto tempo e fatica,sembrommi il più ragionevole.

Fermo in tale proposito, ed impiegati alcuni giorni neltrovar fuori gli angoli più remoti dell'isola, m'avvenned'adocchiarne uno veramente segregato quanto mai iopoteva desiderarlo: un pezzo di terra umida posto inmezzo a profondi e folti boschi, a quegli stessi ove,come osservai dianzi, mi accadde quasi di smarrirmi nelvolere, durante il mio primo viaggio, tornare a casa dal-la parte orientale dell'isola. Quivi dunque io trovai unbell'aperto, circondato da boschi, quasi un parco chiusofatto dalla natura; questo almeno non mi costava tantafatica, quanta me ne diede la formazione degli altri par-chi.

Accintomi tosto all'opera su questo pezzo di terra, inmeno d'un mese io lo ebbi sì ben munito all'intorno cheil mio armento o branco (chiamatelo poi come volete dicapre selvatiche, che per altro non lo erano più tanto)poteva starci con bastante sicurezza. Senz'altra dilazionepertanto io ci condussi dieci capre femmine e due capri;poi quando vi furono continuai a perfezionar la mia sie-pe finchè vidi questi animali in sicurezza come quellidegli altri parchi; il qual lavoro nondimeno, essendome-

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lo preso più comodo, mi portò via un tempo tanto mag-giore.

XXXV. Sospetti avverati.

A tutte queste fatiche io m'assoggettava veramenteper le paure eccitate in me dalla impronta d'un pieded'uomo; che finora io non avea veduto alcuno avvicinar-si all'isola. Ciò non ostante la sola paura, come dissi, miavea già fatto passar due anni d'una vita assai più scon-fortata della precedente: cosa che s'immaginerà chiun-que sappia che cosa voglia dire vivere sotto le strettedella paura. Nè qui tacerò, benchè con mio grave ram-marico io lo dica, che tal disordine della mia mente pro-dusse di ben tristi effetti su la parte religiosa de' mieipensieri; perchè la tema, il terrore di cader nelle mani diselvaggi e cannibali pesava tanto sul mio spirito che rarevolte io mi trovava nella debita disposizione per volger-lo al mio creatore, o almeno io non faceva ciò con quel-la posata calma e rassegnazione d'animo ch'io era solitosentire in me nel tempo andato. Io pregava Dio com'uo-mo oppresso dal peso di una grande afflizione e coster-nazione, com'uomo cinto di pericoli d'ogni intorno e chesi aspettava ogni notte di essere ucciso, ogni mattina diessere divorato. Posso dire dietro l'esperimento fattonesu me stesso: che una disposizione pacifica, grata, lieta,affettuosa, è molto più propria alla preghiera che quellad'un animo scompigliato ed atterrito. Sotto lo spavento

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di una sovrastante disgrazia un uomo non è meglio pro-clive alla preghiera di quanto sia alla penitenza in tempodi malattia, perchè i mali del primo genere travaglianola mente, i secondi il corpo ed in ciò gli sconforti dellamente ne prostrano al pari, e molto più di quelli del cor-po; perchè il pregar Dio e un atto della mente e non delcorpo.

Ma per procedere innanzi, dopo avere così posto insicuro una parte del mio armento, io andava girando at-torno per tutta l'isola a cercare altro luogo remoto ovecollocare un secondo deposito, allorchè volgendomi piùche non avessi fatto sin allora verso la punta occidentaledi quella terra e guardando sul mare, credei vedervi gal-leggiare a grande distanza una piroga. Io avea trovato,per vero dire, uno o due cannocchiali nelle casse de' ma-rinai salvate dal naufragio, ma non gli avevo con me, ed'altronde l'oggetto mi stava in tanta lontananza che nonpotei formare veruna precisa congettura, benchè io te-nessi fisi in essa i miei occhi quanto poteva lungo pote-va arrivare la loro vista. Fosse o non fosse una piroga,nol so; ma nel discendere dall'altura donde m'apparve,non potei più veder nulla nè pensai altro; unicamentefeci proposito di non andar più attorno senza un cannoc-chiale con me. Dal piè dell'altura trasferitomi ad unaestremità dell'isola, ove per dir vero io non era mai statodianzi, dovetti tosto convincermi che il vedere un'ormadi piede umano non era in quella terra una cosa tantostravagante come io l'avea giudicata; che anzi senza unospeciale decreto di providenza, per cui la tempesta mi

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lanciò su la parte di spiaggia ove i selvaggi non capita-vano mai, mi sarei facilmente avveduto nulla esservi dipiù frequente siccome piroghe venute dalla terra princi-pale, ogni qualvolta occorrea loro di essersi innoltrateun po' troppo nel mare, e di dover cercare un porto inquesta parte dell'isola. Accadea pure che spesse volte iselvaggi scontrandosi e combattendo insieme dalle loropiroghe, la parte dei vincitori, se avea fatti prigionieri, liconducesse sopra la spiaggia, ove secondo le orride lorocostumanze, essendo tutti cannibali, gli uccidevano e limangiavano; del che a suo tempo.

Venuto, come dissi, dal piè dell'altura al lido verso lapunta sud-west (libeccio) dell'isola, oh come rimasi atto-nito, esterrefatto! Qual fu il mio orrore al vedere laspiaggia cospersa di teschi e mani e piedi d'uomini edaltre ossa umane! Crebbe il mio terrore al vedere un luo-go ov'era stato fatto un gran fuoco ed un cerchio stam-pato su l'arena simile alla lizza d'un combattimento digalli, intorno a cui, io suppongo quegli sgraziati selvag-gi erano stati seduti all'inumano pasto de' corpi dei lorosimili.

Rimasi sì attonito all'orrida vista, che non pensai piùal pericolo di me stesso per un lungo tratto di tempo.Tutti i miei timori erano soffocati dal pensare a tanto ec-cesso d'inumana infernale brutalità, dall'orrore di tantadepravazione della natura dell'uomo. Di questa deprava-zione aveva udito parlare più volte, ma non mi stettemai dinanzi gli occhi siccome in tale momento; il miostomaco ne fu rivoltato; ero sul punto di svenire quando

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la natura permise che un vomito di straordinaria violen-za lo alleviasse; mi sentii alcun poco ristorato, benchènon fossi capace di rimanere ivi un istante di più; rag-giunsi con la maggiore speditezza possibile la mia altu-ra, e di lì m'affrettai alla volta della fortezza.

Appena mi vidi alcun poco lontano da quella partedell'isola, mi fermai un istante per riavermi dal mio stor-dimento, e rinvenuto alquanto volsi uno sguardo al cielocol massimo fervore dell'anima mia e con gli occhiinondati di lagrime. Ringraziai Dio d'avermi fatto nasce-re in tal parte del mondo ove ero affatto segregato dacosì orribili creature; lo ringraziai perchè, comunque ioavessi giudicata miserabilissima la presente mia condi-zione, mi fu largo di tanti ristori per sopportarla ch'ioavea tuttavia più motivi di esserne lieto che di dolerme-ne; soprattutto gli resi grazie perchè anche in questo de-plorabile stato mi avea concesso il conforto del ricono-scimento di lui e della speranza delle sue benedizioni,felicità più che equivalente a tutte le calamità che avevosofferte o che fossi per soffrire.

Compreso di tali sentimenti di gratitudine, me ne tor-nai alla mia fortificazione ove, rispetto alla mia sicurez-za, principiai ad essere confortato più che nol fossi statogiammai; e ciò per aver notato che quegli sciagurati nonvenivano mai a quest'isola in cerca di quanto vi avreb-bero potuto trovare; forse non desiderosi, non bisognosi,non persuasi dell'esistenza d'alcuna cosa che potesseloro aggradire: furono, non ne dubito, parecchie voltene' luoghi più boscosi di essa, nè vi trovarono nulla che

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facesse al loro proposito. Pensavo che ero qui omai daquasi diciotto anni prima di vedere il menomo vestigiodi creatura umana, e che avrei potuto viverne altri di-ciotto affatto ignorato, come lo ero ora, quando mai nonmi scoprissi ad essi io medesimo, il che certo non mipoteva occorrere; perchè anzi la mia unica premura sta-va nel tenermi affatto nascosto nel mio confino, sempre-chè non mi si presentasse una razza di creature miglioridei cannibali per darmi a conoscere ad esse. Ciò nonostante tal si era l'orrore impresso in me dagli sgraziati,di cui parlavo ora, e dall'inumana loro usanza di divorar-si gli uni con gli altri, che continuai pensieroso e malin-conico a tenermi chiuso entro il mio circolo per circadue altri anni: quando dico il mio circolo, intendo le mietre piantagioni, la fortezza cioè, la mia casa di villeggia-tura, o sia il mio frascato e il mio parco chiuso ne' bo-schi. Nè pensai a profittare altrimenti di quest'ultimoche siccome d'un chiuso delle mie capre; perchè l'avver-sione inspiratami dalla natura contro a quelle creatureinfernali era tanta che paventavo la vista loro siccomequella dello stesso demonio. Per tutto questo tempo nonmi venne più voglia di visitare la mia piroga; ma piutto-sto pensai al modo di fabbricarmene un'altra, chè nonpotevo adattarmi nemmeno all'idea di provarmi a farfare il giro dell'isola alla piroga attuale per condurla dal-la mia parte: troppo avevo paura d'incontrarmi sul marein qualcuna di quelle fiere, ne' cui artigli, se fossi cadu-to, non sapevo qual fine m'avrei fatto.

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Ciò non ostante il tempo e la soddisfazione che miderivava dal non essere in pericolo di venire scoperto dacostoro cominciò a dissipare le mie inquietudini in ordi-ne a ciò; onde a poco a poco il tenore di mia vita tornòregolato come dianzi, con l'unica differenza ch'io usavamaggiori cautele, e mi guardava meglio attorno affinchèper caso non mi vedessero. Soprattutto andai più cautonello sparare il mio moschetto, perchè se mai qualcunodi loro si fosse trovato nell'isola non ne avesse udito lostrepito. Che buon consiglio per tanto fu il mio l'allevar-mi una razza di capre domestiche! perchè mi dispensavadall'andar più a caccia pe' boschi o dallo scaricare la miaarma da fuoco contro a verun animale. Di fatto, se dopodi ciò ne ho avuto qualcuno in mio potere, me lo procac-ciai con trappole e trabocchelli, come avevo già fatto al-tra volta; laonde per due anni in appresso credo di nonavere sparato il mio moschetto una sola volta, se benenon andassi mai attorno senza di esso. Facevo anzi dipiù: avendo salvate tre pistole dal vascello, anche que-ste, o almeno due, le portava sempre con me assicurateentro la mia cintura di pelle di capra. Affilai pure unagrande spadaccia, salvata come le pistole, facendomiuna cintura per sospenderle anche quest'arma; laondequando andavo in giro ero veramente alcun che di for-midabile da contemplarsi se aggiugnete al mio primo ri-tratto la particolarità delle due pistole e della grandesquarcina pendente da una cintura al mio fianco, ma pri-va di fodero.

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Così andarono, come ho detto, le cose per qualchetempo, onde se si eccettui la molestia delle indicate cau-tele, io poteva dire di essere tornato alla prima calma, alplacido antico tenore del viver mio. Tutto ciò intendevaa manifestarmi sempre più quanto fosse lontana dall'es-sere deplorabile la mia condizione posta a confronto conquella di alcuni altri, anzi con la mia stessa ove fossestato nella volontà del Signore il versare sovr'essa ama-rezze ben molto maggiori. Ciò portommi a considerarecome pochi sarebbero nel mondo coloro che si dolesserodel proprio stato se lo paragonassero piuttosto con quel-lo di chi sta peggio di loro, onde ringraziar Dio, anzichènon far mai altro che paragonarlo con la posizione di chista meglio per fornire di pretesto i loro lamenti e la loroincontentabilità.

XXXVI. Divisamenti or d'un genere or d'un altrodopo la scoperta fatta.

Poichè nell'attuale mia condizione non erano real-mente molti i bisogni di cui dovessi inquietarmi, credoda vero che lo spavento datomi da quegli sgraziati sel-vaggi, e le cure presemi per non cadere nelle loro maniavessero reso alquanto ottuso l'acume del mio ingegnoinventivo nel crearmi nuovi comodi della vita. Avevoquindi lasciato andar a male un bel disegno, su cui unavolta si era tanto lambiccato il mio cervello: il provarecioè se avessi potuto frangere qualche poco del mio

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orzo e farmi della birra. Era questo, per vero dire, unpensiere un po' strambo, e più d'una volta mi son derisoda me medesimo per la goffaggine d'averlo concepito.Dovevo ben vedere ad una prima occhiata come dellecose necessarie a fabbricare la birra me ne mancasserotante in quest'isola, che mi sarebbe stato impossibile disupplire a tal uopo. Primieramente mi mancavano bottiper conservarla, suppellettile che, come notai altrove,non ho mai potuto arrivare a mettere insieme, ad onta digiorni, di settimane, di mesi impiegati in prove a talfine, ma sempre indarno. In secondo luogo io non avevalupoli per far che la mia birra durasse, non lievito perfarla fermentare, non pentola o vaso a proposito per far-la bollire; pure con tutte queste deficienze, io credo co-stantemente che senza le paure e i terrori eccitati in medalla possibilità di uno sbarco di selvaggi, mi sarei postoa questa impresa, e forse ne sarei giunto a termine; per-chè di rado dismisi lavori senza averli compiuti, quandouna volta mi fosse saltato in testa il ghiribizzo di comin-ciarli. Ma la mia immaginazione aveva ora presa tut-t'un'altra via; perchè notte e giorno non ero buono dipensare ad altro che se potessi uccidere qualcuni di que'mostri in mezzo alle spietate, sanguinose lor gozzovigliee strappare dall'unghie loro la vittima che qui conduces-sero per divorarla. Diverrebbe infinitamente più volumi-nosa di quanto la ho ideata quest'opera, se volessi quidar conto di tanti divisamenti che feci nascere, o piutto-sto covai nella mia testa, sempre intesi a distruggere co-storo, o se non altro, a spaventarli tanto che non pensas-

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sero mai più a venir qui. Ma tutti questi erano aborti;niuno di tali disegni poteva avverarsi, finchè fossi statoqui io solo per mandarlo ad effetto. Che cosa un uomopoteva fare contro essi, che sarebbero forse stati in ventio trenta uniti insieme, che co' loro dardi o con le lorofrecce miravano giusto al segno, come avrei potuto fario col mio moschetto.

Talvolta mi nacque l'idea di scavare una buca sotto alluogo intorno a cui s'adunavano per far la loro cucina,ed introdurvi cinque o sei libbre di polvere, che mentreessi accendevano il fuoco, sarebbesi naturalmente in-fiammata, ed avrebbe fatto saltare all'aria tutto quanto lestava in vicinanza. Ma, oltrechè non me la sentivo trop-po di consumare dietro a costoro tanta della mia polvereridotta or solamente alla misura di un barile, io non po-teva assicurarmi che lo scoppio di essa avvenisse subita-neo al segno di colpirli all'impensata, e non piuttosto discottare ad essi le orecchie: il che certamente gli avreb-be spaventati, ma non sarebbe forse stato bastante a farliallontanare definitivamente di lì.

Lasciato pertanto in disparte questo disegno, mi veni-va in mente l'altro di trovare un qualche convenevoleluogo, ove mettermi all'imboscata co' miei tre moschetticarichi il doppio del solito e, in mezzo all'orrida loro ce-rimonia di sangue, spararli sovr'essi: nel qual momentosarei stato sicuro di ucciderne o ferirne probabilmentedue o tre ad ogni scatto d'arme; poscia lanciandomi sucostoro con le mie tre pistole e la mia spada, non dubita-va che, quand'anche fossero stati in venti, gli avrei tutti

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ammazzati. Questa idea mi allettò per alcune settimane;ed ero sì pieno di essa che, affacciandomisi fin ne' mieisonni, spesse volte io credea precipitarmi su que' barbarianche dormendo. Andai sì avanti con questa mia imma-ginazione, che m'adoperai per parecchi giorni all'indagi-ne di qualche sito opportuno per pormi in una specie dipreventivo aguato, e curare l'istante del loro arrivo; ondemi portai più volte sul luogo stesso che mi era divenutoora assai famigliare. E mentre io non nudriva altri pen-sieri che quelli di punire e passare a fil di spada unaventina o una trentina di costoro, io chiamava passare afil di spada la carneficina da me immaginata, fomentavail mio astio l'orrore inspiratomi dalle atroci impronte la-sciate su quello spazio di terreno dagli sgraziati malan-drini che si divoravano l'uno con l'altro. Io trovai final-mente nel fianco del monte un sito ove fui certo di po-termene rimanere ben riparato ad aspettare, finchè ve-dessi giugnere qualcuna delle loro piroghe; poi di lì, an-che prima che arrivassero alla spiaggia, trasferirmi, nonveduto, in mezzo ad alcuni gruppi d'alberi, uno de' qualiaveva una cavità ampia abbastanza per nascondermi in-teramente. Da questa io potea con tutto mio agio osser-vare ogni loro atto di sangue, e prendere ben la mira del-le loro teste quando sarebbero così strettamente adunati,che mi sarebbe quasi impossibile di mancare il mio col-po, o il mancarlo fosse per lo meno un ferirne tre o quat-tro al primo sparo. Questa dunque io stabilii che fosse lascena della mia impresa, e di conformità allestii due ar-chibusi e il mio solito moschetto da caccia. Caricai i due

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archibusi con un paio di verghe di piombo e quattro ocinque palle del calibro all'incirca di quelle da pistola; ilmoschetto da caccia con un pugno di pallini de' piùgrossi. Caricai parimente le mie pistole ciascuna conquattro palle. Così armato e provveduto di munizioneper una seconda e terza carica io m'accingeva al compi-mento del mio disegno.

Dopo averne così steso il disegno e, nella mia imma-ginazione, già messolo in pratica, non mancavo ognimattina di portarmi su la cima della collina distante dal-la mia fortificazione fra le tre e le quattro miglia, per ve-dere se scoprissi in mare qualche piroga che s'accostasseall'isola o s'avviasse alla volta di essa; ma cominciai astancarmi di sì molesta fazione dopo avere per due o tremesi fatta costantemente questa mia guardia ed esseresempre tornato addietro deluso nella mia espettazione;perchè in tutto l'indicato tempo non vi fu la menoma ap-parenza non solo di navigli vicini o avviati verso laspiaggia, ma nemmeno d'altri che galleggiassero nel-l'immensità dell'oceano, fin dove potè portarsi la mia vi-sta armata anche di cannocchiali in tutte le direzioni.

Finchè durarono le mie giornaliere gite alla collinaper arrivare alla desiderata scoperta, durò parimente l'e-nergia del mio divisamento, e l'animo mio sembrò sem-pre dispostissimo per tutto questo tempo a tal sanguino-lenta opera qual si era l'uccisione di venti o trenta ignudiselvaggi per una colpa su la cui gravezza la mia menteavea consultato soltanto il primo impeto di sdegno su-scitato in essa dall'orrore ch'io concepii per la snaturata

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usanza degli abitatori di quella contrada; i quali per al-tro, pensai una volta, se privi di ogn'altra guida fuor del-le abbominevoli e viziate loro passioni, pur vengono tol-lerati dalla Providenza, sembra ch'ella permettesse ciògiusta i fini della sua saggezza nell'ordinare il mondo.Questi sgraziati sono abbandonati a sè stessi, e forse lofurono da alcuni secoli nel commettere tali orrori; adot-tano per tradizione atroci costumanze in cui soltanto gliavranno tratti uno sfrenato stato di natura, la mancanzadi lumi venuti dal cielo, l'invincibile preponderanza diqualche infernale depravazione. Ed ora che, come dissi,cominciava ad annoiarmi di queste inutili corse ch'ioaveva fatte sì lungamente, e spinte sì innanzi per tantemattine, anche il mio modo di vedere su l'azione da medivisata cominciò a cangiarsi. Mi diedi allora con mentepiù fredda e tranquilla a considerare qual fosse l'impresacui stava io per accingermi; quale autorità o chiamataavessi io per ergermi in giudice e punitore di tanti uomi-ni, quantunque colpevoli, poichè il cielo aveva giudicatoa proposito di tollerarli per tanti secoli e lasciarli impu-niti, o, com'era più probabile, farli gli uni contro agli al-tri gli esecutori degl'imperscrutabili suoi giudizi? Checolpa aveano veramente questi uomini verso di me, eche diritto avevo io di frammettermi nelle sanguinoseguerre a morte che gli uni agli altri moveansi? Spessevolte io chiedeva a me medesimo: So io forse qual giu-dizio lo stesso Dio ha profferito in tal caso? Egli è certoche quegli sciagurati non fanno ciò per commettere undelitto; non operano a malgrado dei rimorsi della pro-

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pria coscienza o ad onta di un lume celeste che rimpro-veri ad essi la loro azione; non sanno di commettere unpeccato; quindi lo commettono senza credere di provo-care lo sdegno divino, come accade a noi in molta partedelle colpe nelle quali cadiamo. Essi non pensano mag-gior delitto l'uccidere un prigioniero fatto in guerra piùdi quanto ci facciamo scrupolo noi di macellare un bue;non di mangiar carne umana più che non faccia racca-priccio a noi il mangiar quella di castrato.

Poichè ebbi maturata un poco questa materia, ne ven-ne di necessaria conseguenza l'aver io conosciuto cheero dal torto, e che quegli uomini non erano assassininel senso in cui io gli aveva condannati; nè più di quan-to sieno que' Cristiani che spesse volte uccidono i pri-gionieri fatti in battaglia, o di quanto sieno in molti casicoloro che passano a fil di spada un esercito di nemicisenza accordar loro quartiere, ancorchè, sottomettendo-si, abbiano abbassato le armi20. In appresso io pensaiche, quantunque fosse brutale e spietata l'usanza che sifaceano buona gli uni con gli altri, quella di divorarsi avicenda, questa non mi pregiudicava in nessuna manie-ra: essi non m'aveano fatto ingiuria di sorta alcuna. Cer-to se avessero attentato alla mia vita, o se avessi vedutocosa indispensabile alla mia immediata salvezza l'assa-lirli, ci sarebbe stato alcun che da dire in difesa di talemio atto; ma siccome io era tuttavia fuori delle loromani, nè essi aveano realmente alcuna cognizione di

20 L'autore scriveva nel 1719. Forse nel 1838 non avrebbe scritto così.

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me, nè per conseguenza alcun disegno sopra di me, sa-rebbe stata un'ingiustizia per parte mia l'avventarmiloro. Altrimenti avrei giustificata la condotta degli Spa-gnuoli in ordine a tutte le atrocità che praticarono nel-l'America, ove distrussero milioni di quegli abitanti, iquali, benchè fossero idolatri e barbari, e contassero piùdi un rito sanguinolento ed atroce, siccome quelle di sa-grificare umane vittime ai loro idoli, pure rispetto agliSpagnuoli erano una popolazione affatto innocente. Perciò l'averli esterminati vien ravvisata ai nostri giornicosa abbominevole ed esecranda fino dagli stessi Spagnuoli, e da tutte l'altre nazioni cristiane dell'Europa siebbe per un vero macello, per un atto di crudeltà orridoe contro natura, imperdonabile al tribunale di Dio e aquello degli uomini; atto, per cui lo stesso nome di Spa-gnuolo è stato avuto siccome spaventoso e terribile adogni popolo dotato di umanità e di cristiana commisera-zione; atto, per cui le terre della Spagna furono giudica-te produrre in eminente grado uomini privi d'ogni prin-cipio di fraterna tenerezza, di viscere di compassioneverso gl'infelici e di tutti que' sentimenti che contraddi-stinguono gli animi generosi.

Tali considerazioni posero una pausa ed una specie difermata al mio disegno, da cui cominciai a poco a pocoa desistere, sinchè finalmente io conclusi che era statoun mal proposito il mio quello di assalire i selvaggi, eche non s'aspettava a me il cercare di scontrarmi conessi, semprechè non fossero i primi ad assalirmi. Questocaso cercai possibilmente di evitare d'allora in poi, per-

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chè se eglino m'avessero scoperto, e mi fossero venuticontro, avrei saputo quel che mi era lecito senza manca-re al dovere.

D'altronde, osservai pensandoci meglio che il divisa-mento da me concepito nel calore della passione non eraun buon mezzo per liberarmi da loro, ma bensì un mez-zo il più diretto di ruina e di distruzione per me. Di fat-to, ogni qualvolta non fossi stato sicuro di uccidere nonsolo tutti quelli che si fossero trovati su la spiaggia in undato tempo, ma gli altri ancora che ci potessero venireda poi, sarebbe bastato un sol fuggiasco di essi per rac-contare ai suoi compatriotti quanto era accaduto, perchètornassero ad approdare a migliaia per vendicare la mor-te de' loro confratelli, ed io solo avrei portata su me unadistruzione certa, da cui finora io non mi vedea minac-ciato menomamente. Tutto calcolato, conchiusi che, nèsecondo i principii dell'umanità, nè secondo quelli dellapolitica, io doveva d'una maniera o d'un'altra darmi bri-ghe per mandare ad effetto il mio precedente disegno;anzi darmene con tutti i possibili modi a fine di rimane-re celato ai selvaggi, e di non permettere che il menomosegnale desse loro a congetturare che vivessero nell'iso-la creature viventi d'umana forma. Unitisi in ciò i riguar-di della religione con quelli della prudenza umana, fuiora convinto sotto più d'un aspetto ch'io era affatto giùdella buona strada quando ideavo i miei sanguinariespedienti di distruzione contra ad innocenti creature:intendo innocenti rispetto a me. Quanto alle colpe, dicui si rendeano colpevoli gli uni verso degli altri, io non

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avera niente che fare con loro; erano colpe nazionali, edio dovea lasciare che le punisse la giustizia di chi primogoverna le nazioni, e conosce quali nazionali castighi sicompetano a colpe nazionali; di chi sa per quelle vie chemeglio piacciono alla sua divina saggezza, emanare sen-tenze esemplari su coloro le colpe de' quali portaronopubblico scandalo.

Queste cose or mi apparivano sì chiaramente, che nonvi era maggiore soddisfazione per me del pensare allabontà di Dio, poichè con la sua grazia m'avea tenutolontano dall'accingermi ad un'azione ch'io vedeva oracon tanta chiarezza che sarebbe stata criminosa non mendi quella d'un abbietto assassino se l'avessi commessa.Prostratomi quindi, resi umili grazie al Signore che miavea così liberato da un delitto di sangue; supplicandofervorosamente la protezione della divina sua providen-za così per non cadere nelle mani del barbari, come pernon commettere mai le mie mani su loro ogni qualvoltala necessità di difendere la mia vita non divenisse perme una potente voce del cielo che a far questo m'inco-raggiasse.

In tale disposizione d'animo io mi mantenni per circaun anno successivo: sì lontano dal desiderare un'occa-sione per assalire quegli sgraziati, che in tutto questotempo non mi portai una sola volta su la collina periscoprire se vi fosse qualcuno di loro a veggente dellaspiaggia o se vi fosse sceso; e ciò per non esser tentato arinnovare alcuno dei miei antichi disegni contro di essi,o provocato ad assalirli da qualche istantanea opportuni-

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tà che si offrisse da sè medesima. La sola gita ch'io feci,fu da oggetto di levare la mia piroga ch'io avea lasciatoal lato opposto, e condurla all'estremità orientale dell'i-sola; quivi io la feci entrare in un piccolo seno protettoda alti scogli ove io capiva che per timore delle correntii selvaggi non oserebbero, o almeno per qual si vogliamotivo non vorrebbero penetrare co' loro canotti. Entrola mia navicella io trasportai quante cose spettanti adessa vi avevo lasciate, ancorchè non necessarie pel sem-plice motivo di condurla fin lì: di tal natura erano un al-bero ed una vela ch'io avea costrutti per essa; un non soche simile ad un'áncora, ma che, per dir vero, non pote-vo chiamare nè grappino nè áncora, benchè fosse il me-glio ch'io sapessi fare in tal genere; e tutto ciò io allonta-nai di dov'era, affinchè non rimanesse il più piccolo in-dizio ad una scoperta, o qualsivoglia apparenza di piro-ga o di abitazione umana nell'isola.

Oltre a queste cautele io mi tenni, siccome ho detto,più ritirato che mai e rare volte uscii fuori del mio na-scondiglio, se non fu per motivo delle indispensabilimie giornaliere occupazioni: quelle cioè di mungere lemie capre e di governare il picciolo armento rinserratonel centro di una foresta sì affatto posta dall'altra partedell'isola, che non temeva quivi alcuna sorte di pericolo.Perchè egli e certo che que' selvaggi da cui veniva tal-volta visitato questo paese, non vi sbarcarono con l'in-tenzione di procacciarsi nulla da esso, onde non vagava-no mai lontano dalla costa; nè dubito che da quando ilmio timore d'incontrarli mi avea reso più cauto, non sie-

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no tornati alla spiaggia altrettante volte quante ci eranovenuti prima. Certamente io non poteva pensare senzaun certo orrore a ciò che sarebbe divenuta la mia condi-zione, se mi fossi scontrato in essi e m'avessero scopertoallor quando, pressochè nudo e disarmato, se si eccettuiun moschetto carico spesse volte di soli pallini, io cam-minava per ogni dove, andava attorno, scandagliavaogni pertugio dell'isola per vedere che cosa di conformeai miei bisogni avrei potuto procacciarmi. Come sareirimasto orridamente sorpreso se quando scopersi l'im-pronta di un piede umano avessi veduto invece quindicio venti selvaggi, se gli avessi trovati in atto d'inseguir-mi, chè certo, attesa la velocità del loro correre, mi sa-rebbe stato impossibile il sottrarmi da loro! Tali consi-derazioni deprimevano tanto la mia anima, travagliava-no tanto la mia mente che non poteva ricuperarla abba-stanza presto per pensare al partito cui mi sarei appiglia-to in tal caso. Certo mi sarei trovato inabile ad ogni resi-stenza per mancanza non solo di forza fisica, ma di for-za morale onde pensare al modo di tirarmi d'impaccio:forza morale molto minore di quella che avrei avuta oradopo aver tanto meditato su i pericoli che mi sovrasta-vano e dopo essermici tanto apparecchiato. Da verodopo avere meditato seriamente su tali cose io divenivamalinconico oltre ogni dire, e questa tristezza mi duravaun bel pezzo; ma finalmente io ne troncava il corso colvolgermi a ringraziare la divina Providenza che dopoavermi liberato da tanti rischi latenti, mi tenne anchelontano da quelle disgrazie donde io non avrei avuto

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modo di liberarmi da me medesimo perchè privo d'ognimenoma previdenza che mi sovrastassero o d'ogni me-noma supposizione della loro possibilità.

Le quali cose rinfrescavano alla mia mente un'osser-vazione ch'io avea già fatta sin da quando principiai ascoprire le misericordiose disposizioni del cielo in mez-zo ai pericoli entro cui ci avvolgiamo nel corso di nostravita: il prodigio cioè onde siamo preservati dalla sventu-ra quando anche non ci accorgiamo punto di esservi,come allorchè ci troviamo in quello che chiamiamo sta-to di titubazione, allorchè siamo nel dubbio se ne con-venga attenerci a questa o a quella strada, o anzi allor-chè il nostro raziocinio, o la nostra inclinazione, o forsel'andamento naturale della cosa ne addita la prima delledue strade; e ciò non ostante una strana impressione, eche non comprendiamo nè donde scaturisca nè da qualforza venga prodotta nella nostra mente, ci spinge sul'altra; e dopo vediamo chiaramente a cose finite che, seavessimo seguita la via che anche secondo i nostri me-desimi computi appariva da preferirsi, saremmo statiinevitabilmente perduti. Dietro queste considerazioni emolt'altre della stessa natura, io mi formai una regola:che quando cioè io sentiva certi secreti istinti od impulsia fare o non fare una cosa o a seguire una via piuttostoche l'altra, io non mi mostrava mai renitente alla voce ditali misteriosi dettati, benchè non conoscessi altra ragio-ne al mio operare fuor di questi istinti od impulsi pre-ponderanti su la mia mente. Potrei citare molti esempi dibuoni successi derivatimi da tale condotta in tutto il cor-

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so di mia vita, ma specialmente nella seconda parte diquella che ho trascorsa in quest'isola sfortunata, indipen-dentemente da tutti que' casi di cui avrei potuto accor-germi, se avessi vedute le cose con gli stessi occhi ondeora le vedo. Ma a divenir saggi non e mai troppo tardiper noi; nè io posso se non suggerire ad ogn'uomo rifles-sivo la cui vita vada accompagnata da casi straordinarial pari o anche meno de' miei, il parere di non trascuraretali segreti cenni della Providenza, qualunque poi sial'intelligenza invisibile da cui derivano. Non è questo unpunto ch'io imprenda a discutere, nè che fossi probabil-mente atto a comprendere; ma certamente sta qui unaprova di un consorzio spirituale, di una segreta comuni-cazione tra l'intelligenza corporea ed una intelligenza in-corporea, e prova tale cui sarà mai sempre impossibile ilresistere; ed io avrò l'opportunità di offrirne molti nota-bilissimi esempi nel rimanente del mio soggiorno inquest'isola malaugurata.

XXXVII. Scoperta di una caverna.

Credo che il leggitore non farà le maraviglie se glidico che queste ansie, questi costanti pericoli tra cui vi-vevo, e il genere di cure alle quali dovea or dedicarmi,posero un termine a tutti i miei trovati, a tutte le indu-strie da me fin qui praticate, onde procurarmi maggioriagi e comodi per l'avvenire. La mia salvezza mi stava orpiù a cuore dello stesso mio nutrimento. Non m'arri-

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schiavo a piantare un chiodo o ad abbattere un ramod'albero per paura di far tale strepito che fosse udito;molto meno, per lo stesso motivo, a sparare un moschet-to; soprattutto io era di mala voglia oltre ogni dire nel-l'accendere ogni sorta di fuoco paventando che il fumo,visibile a grandi distanze nell'ora del giorno, arrivasse asvelarmi. Trasportai quindi quella parte di mie manifat-ture che abbisognavano di fuoco, come la fabbrica dipentole e pipe di terra cotta, alla nuova stanza sceltamiper un'appendice della mia greggia nel mezzo de' bo-schi, ove dopo esserci stato non so quante volte, scoper-si con ineffabile gioia una caverna sotterranea, scavataaffatto dalla natura, estesissima, e dentro la quale, osoaffermarlo, non avrebbe avuto il coraggio di avventurar-si verun selvaggio che fosse venuto alla bocca di essa,nè da vero verun altr'uomo fuor di chi avesse avuto ne-cessità, come me, di procurarsi un luogo sicuro di ritira-ta.

La bocca di tale caverna sottostava ad un enorme di-rupo, al cui piede, per mero caso direi, se non avessiavuto sì copiosi motivi per attribuire tutto quanto mi an-dava occorrendo alla Providenza, io me ne stava taglian-do alcuni rami d'alberi per far carbone. E qui prima diandare innanzi mi e d'uopo fermarmi per indicare i mo-tivi che m'inducevano a tal nuovo lavoro.

Stretto dalla paura dianzi accennata di eccitar fumoall'intorno della mia abitazione e ad un tempo dalla im-possibilità di sostentarmi senza cuocere il mio pane, farbollire il mio brodo e simili cose, presi l'espediente di

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bruciare in questo luogo, come avevo veduto praticarsinell'Inghilterra, una certa quantità di legna, sinchè fossearsicciata o sia pervenuta allo stato di carbone asciutto;indi ammorzato il fuoco, conservava il carbone per por-tarmelo a casa, e sbrigare quelle faccende domestichealle quali era indispensabile il fuoco, e ciò senza perico-lo di alzar fumo. Ma di questo si parlerà più estesamentea suo tempo.

Mentre pertanto io stava tagliando rami in questo luo-go vidi dietro ad una fitta macchia una specie di cavità.Curioso di esaminarla, entrai non senza fatica per labocca della cavità stessa che trovai fin nella sua origineassai ampia, cioè bastante perchè ci stessi in piedi io eforse un altro in mia compagnia; ma sono costretto aconfessarvi di esserne uscito più presto che non v'entrai,appena guardando più addentro, vidi due grand'occhifiammeggianti di qualche creatura vivente, se del diavo-lo o d'un uomo, è quanto non seppi su l'istante, perchè lapallida luce che veniva dalla bocca della caverna incon-trandosi in essi e riflettendosi, li facea scintillare comedue stelle. Pure dopo una certa pausa ricuperando alcunpoco di spirito, cominciai a darmi le mille volte del mat-to e a pensare che chi avea paura di vedere il diavolonon era fatto per vivere venti anni solo in un'isola, e chein quella caverna da vero non poteva esservi nessunacosa più spaventosa di me. E qui preso nuovamente co-raggio, afferrai un tizzo acceso, poi con questa fiaccolatornai a spingermi innanzi; ma fatti appena tre passi ilmio atterrimento divenne anche più forte di prima, per-

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chè udii un alto gemito come d'uomo in angoscia, cuitenne dietro uno strepito interrotto, qual di parole non fi-nite, indi subito un secondo gemito non men profondodel primo. Diedi addietro colpito da tal sorpresa di terro-re per cui mi vennero i sudori freddi, e mi si addirizza-rono i capelli in tal guisa che se avessi avuto il mio ber-rettone in testa non vorrei giurare che non ne fosse salta-to via. Pure tornatomi a fare animo alla meglio e confor-tatomi alcun poco in pensando che l'onnipotenza e lapresenza di Dio erano per ogni dove e sarebbero bastatea proteggermi, tornai a portarmi innanzi finchè alla lucedel mio tizzone ardente che mi tenevo alquanto solleva-to al di sopra del capo, vidi steso per terra un enorme,formidabile vecchio caprone che stava, come suol dirsi,facendo il suo testamento, perchè lottava con la morte, everamente moriva per decrepitezza. Io lo mossi un po-chino per vedere se potevo farlo stare su le sue zampe,ed esso si provò a sollevarsi da quella postura, ma nonci riuscì. Allora pensai fra me stesso che facea moltobene a star lì, perchè come avea spaventato me, avrebbedel certo fatta la stessa paura a qualche selvaggio corag-gioso abbastanza per introdursi ivi finchè quell'animaleavea tuttavia un fiato di vita.

Riavuto finalmente da' miei timori, principiai a guar-darmi dintorno, e sembrommi che la caverna fosse assaipiccola, vale a dire poco più di dodici piedi, ma privad'ogni sorta di forma, nè tonda nè riquadra, onde vedea-si che nel costruirla non s'era adoperata altra mano fuordi quella sola della natura. Osservai parimente un canto

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di essa che andava più in là, ma sì basso che mi obbligòa mettermi carpone per introdurmici, nè potei compren-dere ove andasse a riuscire. Non avendo pertanto unacandela con me differii ulteriori scandagli ad un'altravolta, risoluto per altro di tornar quivi nel dì successivo,munito di candele e d'un acciarino che mi ero fatto conun cattivo focone di moschetto.

Pertanto nel giorno successivo ci tornai provveduto disei grosse candele della mia fabbrica, perchè ne facevoora di eccellenti con sego di capra; solamente mi era dif-ficile il fornirle di lucignolo, al qual fine io mi giovavatalvolta di cenci o di corda sfilala e talvolta ancora digambi d'erba salvatica somigliante all'ortica. Giunto alsito più basso e messomi carpone, come già dissi che bi-sognava fare per camminar ivi, m'innoltrai circa diecibraccia: nel che mi parve di dare una prova di coraggioassai bella, pensando che io non sapea nè ove quell'aper-tura si dirigesse, nè che cosa ci fosse al di là di essa. Su-perata questa stretta mi trovai sotto una specie di vôltapiù alta, distante, cred'io, da terra venti piedi dal più almeno; nè poteva ammirarsi, ardisco dirlo, una più splen-dida vista in tutta l'isola, siccome la presentavano giran-do gli occhi da tutti i lati le pareti e la vôlta di quellagrotta o caverna che riflettevano cento mila raggi di lucedalle mie due sole candele. Se l'origine di tali splendorivenisse da diamanti o altre preziose gemme, o piuttostoda lamine d'oro, come propendo a crederlo, non seppidefinirlo. Certamente il luogo ove mi trovai, era il piùdelizioso speco che si potesse sperare, benchè immerso

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affatto nelle tenebre; liscio ed asciutto erane il pavimen-to, coperto di piccioli ciottoli di ghiaia staccati l'uno dal-l'altro, pur fitti in modo da non permettere il passaggio arettili nauseosi e venefici; niuna sorta di umidità stillavadalle pareti o dalla vôlta; tutta la difficoltà consistea nel-l'ingresso, ed era questo un vantaggio per me che anda-va appunto in traccia d'un luogo di sicurezza e d'un asilodi simil genere. Di fatto grandemente rallegratomi dellamia scoperta, venni senza indugio nella risoluzione ditrasportar quivi alcune fra le cose che m'aveano fatto piùdesideroso di un tale rifugio. Furono tra queste il miomagazzino della polvere e le mie armi da fuoco, cioèdue moschetti da caccia, perchè ne avevo tre in tutto etre archibusi de' quali ne possedevo otto; e ne lasciai solcinque nella mia fortezza sempre allestiti come pezzi dicannone nell'interno della mia seconda palizzata ed attiad essere trasportati in caso di una spedizione.

In questa traslocazione della mia armeria mi accaddedi aprire quel barile di polvere raccolto dal mare, e cheavea preso l'acqua. Trovai che questa era sol penetratatre o quattro pollici all'incirca entro la polvere, onde datutti i lati avea formata una pasta che, venuta dura, salvòdal guastarsi la rimanente, siccome mandorla serbata en-tro il suo guscio, e n'ebbi pertanto presso a sessanta lib-bre di eccellente polvere che stava nel centro della bot-te; scoperta fortunatissima per me in quel tempo. Me latrasportai tutta nel mio sotterraneo, non ne lasciando senon due o tre libbre nella fortezza per timore d'una sor-

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presa di qualunque maniera; vi portai parimente tutto ilpiombo che avevo destinato a far palle.

Io mi figurai allora d'essere uno di quei giganti che sidicea vivessero nelle caverne e negli spechi delle rupi,ove nessuno potesse giungere sino ad essi; perchè erapersuaso che, se cinquecento selvaggi si fossero accintia darmi la caccia, non m'avrebbero, finchè rimanessi quientro, ritrovato; o trovandomi ancora non si sarebberoarrischiati ad assalirmi nel mio riparo. Il caprone decre-pito ch'io avea trovato moribondo, morì alla bocca dellacaverna nel dì successivo alla scoperta da me fatta. Rav-visai cosa molto più comoda lo scavar quivi una granbuca per seppellirvelo che il trarlo fuori di dov'era. Po-sto che l'ebbi entro la fossa, la copersi ben bene di terraper risparmiare fastidii al mio naso.

Correva ora il ventesimo terzo anno da che dimoravoin quest'isola, tanto assuefattomi ad essa e alla manieradi viverci, che, se avessi avuta la certezza che i selvagginon sarebbero mai venuti a sturbarmi, ben volentieri misarei preso a patto di passarvi il rimanente de' miei gior-ni sino all'ultimo momento in cui mi trascinassi da memedesimo a morire, come il vecchio caprone, entro lamia caverna. Io era parimente pervenuto ad assicurarmialcuni divagamenti e ricreazioni che mi facevano passargran parte del mio tempo molto meglio che per l'addie-tro. Il primo di questi fu, come ho già notato, l'ammae-strare il mio Pol, che giunse a parlare sì famigliarmentee a staccare con tanta chiarezza le sillabe, che mi davada vero una grande contentezza, perchè non credo che

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un augello sia mai giunto a cianciare con maggioreschiettezza; egli convisse meco non meno di ventiseianni. Quanto sia vissuto da poi non lo so, benchè io sap-pia che nel Brasile la vita dei pappagalli dura un centi-naio d'anni. Anche il mio cane fummi un caro ed amoro-so compagno per non meno di sedici anni, in capo aiquali morì di sola vecchiezza. Quanto ai miei gattini,moltiplicarono, come notai, a tal grado che fui prestocostretto a dar loro la caccia per impedirli dal divorarme e tutto il mio sostentamento; ma finalmente quandole due vecchie gatte condotte con me furono morte, edopo avere per qualche tempo data la caccia ai loro ere-di senza mai permettere che avessero tavola comunemeco, si rintanarono ne' boschi ove divennero salvatici,salvo due o tre gattine favorite che mi mantenni dome-stiche e i cui parti, quando ne avevano, annegavo sem-pre; queste faceano parte della mia famiglia. Inoltre mivenivano sempre attorno due o tre capretti domesticich'io aveva avvezzati a ricevere il cibo dalle mie mani.Avea pure due altri pappagalli che parlavano assai bene,e dicevano anch'essi Robin Crusoè; ma non mai così ag-giustatamente come il mio primo; nè per vero dire io miera mai per essi preso le cure che mi diedi col primo. Iom'era anche avvezzato diversi uccelli acquatici di cuinon conoscevo i nomi, ed ai quali avevo tagliate le alinel prenderli su la spiaggia. I sottili pali ch'io avevapiantati dinanzi alla mia fortezza erano cresciuti al gra-do di formare un bel folto boschetto; questi uccelli vive-vano svolazzando fra que' bassi arbusti e vi faceano i

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loro nidi, che era una delizia per me. In somma, come loho notato altra volta, io avrei cominciato propriamente adirmi un uomo contento, se avessi potuto guarentirmidal timore dei selvaggi.

Ma altrimenti era decretato dal cielo, nè tornerà inuti-le per chiunque s'abbatterà a leggere la presente mia sto-ria, il dedurne una adeguata osservazione. Quante voltenel corso di nostra vita quel male da cui più cerchiamoschermirci e che, quando ne siamo percossi, ci sembraterribile oltre ogni dire diviene il vero mezzo o l'originedella nostra liberazione e il solo aiuto che può sollevarcidi nuovo dalla calamità in cui siamo caduti! Potrei citarmolti esempi in conferma tal verità per tutto il corso del-la mia pressochè incredibile vita: ma niuna parte di essane offre di così notevoli come gli ultimi anni della miasolitaria residenza in quest'isola.

XXXVIII. Sbarco di selvaggi su la costa occidentale dell'isola.

Era sopravvenuto il decembre, ed io compiva, comegià dissi, il mio anno ventesimo terzo; con tale stagionedel solstizio meridionale, perchè iemale non posso chia-marlo, coincideva pur quella del mio ricolto che doman-dava affatto la mia presenza all'intorno dei campi. Unamattina di bonissima ora, prima dello spuntare dell'albafui sorpreso al vedere la luce di un qualche fuoco accesosopra la spiaggia ad una distanza di circa due miglia da

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me verso l'estremità dell'isola, dove avevo osservato cheerano sbarcati dianzi alcuni selvaggi; ma non dall'altraparte, bensì, per mia grande desolazione, dalla mia.

Fu sì tremenda la sorpresa prodotta in me da tal vista,che, fermatomi entro il bosco posto innanzi all'ultimamia palizzata, non ardii procedere oltre; pur nemmenoqui avevo pace in pensando che que' selvaggi nel girareper l'isola avessero trovato la mia messe o in piede omietuta, o alcuno de' miei lavori e miglioramenti dondeavrebbero subitamente conchiuso che qualcuno abitavaqui, nè sarebbero mai stati contenti finchè non mi aves-sero scoperto. Ridotto a questi estremi tornai a rintanar-mi nella mia fortificazione, tirandomi la mia scala ad-dietro con me, non senza prima aver dato tutta quell'ap-parenza selvaggia e conforme allo stato di natura, comepotei meglio, al terreno situato tra il bosco e la secondapalizzata.

Quando fui dentro mi posi in istato di difesa. Caricaila mia artiglieria, come io chiamava i miei moschettipiantati contro alla mia nuova fortificazione, e tutte lemie pistole, risoluto di difendermi sino all'ultimo fiato.Non dimenticai nel tempo stesso di raccomandarmi allaprotezione divina e di pregare fervorosamente il Signoreche mi liberasse dalle mani dei barbari. Continuai a ri-manere in tale postura circa due ore, in capo alle qualicominciai ad impazientirmi oltre misura per non sapernulla di quanto accadeva al di fuori; ma io non avea spieda mandare alla scoperta. Dopo essere restato qualchetempo di più in tale perplessità, e meditando che cosa si

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potesse fare nel caso mio, non fui buono di durarla aduna pazienza più lunga e di rimanere per maggior tempoall'oscuro delle cose. Posata quindi la mia scala al latodel monte su cui stava uno spianato, come già dissi, visalii, poi tiratami da presso la mia scala, me ne valsi persalire la cima del monte; indi livellato il mio cannoc-chiale, che avea preso meco a tal fine, mi gettai bocconea terra e cominciai a riguardare sul luogo dianzi notato.Vidi tosto non esservi meno di nove selvaggi ignudi, se-duti attorno ad un piccolo fuoco che avevano acceso,non certo a fine di scaldarsi, chè non ne aveano bisognoper essere una stagione caldissima, ma, come supposi,per allestire uno de' barbari loro pasti di carne umanache si erano portata con sè, se viva o morta non poteicapirlo.

Avevano rimorchiate alla spiaggia le due piroghe cheli condussero, ed essendo quella l'ora del riflusso, aspet-tavano, a quanto congetturai, il ritorno del flusso per an-darsene via nuovamente. Non è cosa facile l'immaginar-si la costernazione in cui mi pose tal vista, specialmenteosservando che erano venuti dal mio lato dell'isola ed inoltre in tanta vicinanza alla mia abitazione. Ma quandoconsiderai che il loro arrivo accadea sempre colla cor-rente del riflusso, cominciai a starmene col cuor piùtranquillo su i casi avvenire; perchè dissi a me stesso:“Ogni qual volta nessun di coloro sia sbarcato prima delflusso, in questo mezzo potrò andarmene attorno in tuttasicurezza;” la quale osservazione fece sì che in appresso

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mi portai con animo più tranquillo ai lavori del miocampo, quando vedeva il tempo propizio per andarci.

La cosa andò com'io me l'avea immaginata, perchèappena la marea si diresse all'occidente, li vidi tutti rag-giugner la loro piroga e dar di remi o di pagaie, come sidice in questi paesi. Ho dimenticato notare che duranteun'ora o anche più prima della partenza fecero una delleloro danze, come potei accorgermene dalle loro posturee gesti che mi mostrava il mio cannocchiale. Le mie mi-nute osservazioni mi fecero bensì scorgere che coloro,privi d'ogni vestito, erano ignudi come Dio li avea fatti,ma non giunsi a distinguere il sesso di nessuno di essi.

Appena vedutili imbarcati e partiti, mi posi due mo-schetti su le spalle, due pistole nella mia cintura ed afianco il mio spadone privo di fodero, indi con quantaspeditezza potei, ne andai su la collina donde gli avevoveduti la prima volta. Giunto colà, nè vi fui in meno didue ore, perchè, carico d'armi com'ero, non potevo af-frettare il passo, vidi che tre altre piroghe di selvaggi vierano state, e che in quel momento solcavano a tuttoremo il mare per tornarsene al continente. Fu questa unavista spaventosa per me, principalmente allorchè trasfe-ritomi alla spiaggia, trovai le orrende vestigia dell'inu-mana fazione, cui avevano dato opera prima di partire: ilsangue cioè, le ossa e i brani di carne umana rosecchiatie divorati da quegli scellerati nella barbara loro gozzovi-glia.

Mi comprese di tanta ira un tale spettacolo che tornaia meditare la distruzione di costoro, qualunque fosse il

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numero de' primi che avrei veduti capitar su la spiaggia.Mi parve per altro che tali visite di selvaggi non fosseromolto frequenti, perchè stetti circa quindici mesi primache ne capitassero altri; e dico così, perchè non sola-mente non vidi nessuno di tale genìa, ma nemmeno ve-run'orma sul terreno m'indicò che ve ne fosse stato qual-cuno in tutto questo intervallo. Certamente nelle stagio-ni piovose costoro non vanno attorno, o almeno non im-prendono viaggi troppo lontani. Tuttavia dopo averliavuti in tanta vicinanza l'ultima volta, me la passai sem-pre male d'allora in poi, non m'abbandonando più lapaura che m'arrivassero d'improvviso alle spalle; dondeprendo motivo d'osservare, come un male che si aspettasia più crudele ancora di un male che si soffre, special-mente quando non avete alcuna ragione che vi liberi dalvostro giusto timore.

Trascorsi per me tutti questi giorni in micidiali pen-sieri, impiegai la maggior parte delle mie ore, che benpotevano essere dedicate ad uso migliore, nello studiarmodi d'investirli e lanciarmi sovra essi la prima voltache sarebbero sbarcati, massimamente se fossero statidivisi, come erano non ha guari; nè pensava affatto che,quand'anche fossi riuscito ad accopparne una parte, sup-poniamo una decina o una dozzina, mi sarebbe stato ne-cessario nel dì successivo, o dopo una settimana, o dopoun mese, sterminarne un'altra banda, poi un'altra e cosìall'infinito, di modo che in ultimo de' conti non sarei sta-to meno un assassino io di quanto eglino fossero canni-bali, e forse sarei stato anche più colpevole di loro.

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Io passai dunque tutto questo tempo in una grande an-sia e perplessità aspettandomi da un dì all'altro di cadernelle mani di quella spietata razza; onde se talora m'arri-schiavo ad andare attorno, nol facevo se non con tutte lecautele immaginabili. Or sì m'avvidi, e non senza avernegrande conforto, qual fortuna fosse stata per me l'esser-mi allevata una greggia di capre domestiche; perchè ionon ardiva per nessun conto sparare il mio moschetto,principalmente da quel lato d'isola ove sapevo esser piùsoliti a sbarcare i selvaggi, e ciò per la paura di metterliin trambusto. Chè non dubitavo già che non fuggisserodopo il primo sparo, ma era ben sicuro che in pochigiorni gli avrei avuti di ritorno alla spiaggia forse conduecento o trecento piroghe; e se questo accadeva, sape-vo ancora qual sorte dovessi aspettarmi. Pure io passaiun anno e tre mesi, come dissi, prima di tornare a vedereselvaggi. Può ben darsi che in tale tempo ne sieno venu-ti, ma o non si fermarono o non li vidi; pure sol nelmese di maggio, o poco dopo, secondo i miei computi, enel ventesimo quarto anno del mio soggiorno nell'isolaebbi uno stranissimo scontro con essi, che descriverò asuo luogo.

Grande fu, già lo dissi, l'agitazione della mia mentedurante quei quindici o sedici mesi: dormivo inquieto;facevo sempre orridi sogni, dai quali spesse volte mi de-stavo d'improvviso, e preso da brividi d'atterrimento; nèpiù tranquilla era la mia mente durante il giorno. Quantevolte io sognava di uccider selvaggi, quante volte anche

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dormendo istituivo raziocini su la giustizia di ucciderli!Ma qui mi è d'uopo fare una digressione.

XXXIX. Naufragio d'un vascello.

Correva il giorno 16 maggio, almeno a quanto addita-va il mio povero calendario di legno, su cui non trala-sciavo giorno di fare i miei segni; correa, dissi, questogiorno, quando sollevossi un fiero temporale che ac-compagnato da tuoni e lampi durò tutta quella giornata,cui successe una notte parimente tempestosissima. Sta-vo leggendo la mia Bibbia, nè mi ricordo a qual punto diessa mi assalissero gravissimi pensieri su l'attuale miacondizione, quando mi sorprese un fragore di cannonesparato, come non ne dubitai, da gente che stava sulmare. Fu questa veramente una sorpresa di una naturaaffatto diversa da quante me ne erano occorse fin qui, etale che diede un andamento del tutto nuovo ai mieipensieri.

Saltato su in tutta la possibile fretta, applicai in un at-timo la mia scala alla parte del monte dond'era solito sa-lire e discendere, e trattala con me, fui su la vetta nelpunto che una vampa di luce mi avvisò d'un secondosparo di cannone, il cui strepito in meno di un mezzominuto secondo fu da me udito. Dalla direzione del ru-more compresi tosto venir esso da quella parte di mareove fui con la mia piroga trascinato dalla corrente. Pen-sai subitamente dover questo essere il segnale mandato

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da qualche vascello pericolante che, veleggiando di con-serto con altri legni o vascelli, or situati in distanza daesso, li chiedesse con questo mezzo in suo soccorso. Lamia mente fu pronta abbastanza per riflettere nell'istanteche, se bene io non fossi in istato di portare aiuto a que'naviganti, potevo riceverne da essi. Raccolta quindiquanta legna avevo a tiro, e fattone una grande catasta,piantai un bel fuoco su la montagna. Era ben secca la le-gna, onde la vampa splendeva liberamente, e, ancorchèsoffiasse gagliardo il vento, la mia catasta continuò adardere bene al segno di farmi credere che, se si trovava-no uomini nel vascello, ne avrebbero necessariamenteveduto il fuoco. Nè dubito che nol vedessero, perchè,appena la vampa incominciò a divenire alta, udii unnuovo sparo di cannone, poi un altro, tutti dalla medesi-ma banda. Curai il mio fuoco tutta la notte fino allospuntare dell'alba; poi quando fu innoltrato il giorno eben chiaro l'aere, vidi alcun che in grande distanza gal-leggiar sul mare a levante affatto dell'isola; ma se fosseun vascello o avanzo di esso, non potei discernere ciònemmeno col mio cannocchiale, tanto era grande la lon-tananza, e l'atmosfera nebbiosa, almeno sul mare.

Dopo avere contemplato ripetutamente questo ogget-to in tutta la giornata, m'accorsi finalmente che non simovea di sorta alcuna, donde congetturai nell'istante chefosse un vascello postosi all'áncora. Ansiosissimo, comepotete immaginarvelo, di verificare la cosa, mi presimeco il mio moschetto e voltomi al mezzogiorno dell'i-sola, m'affrettai verso la direzione di quegli scogli pres-

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so cui tempo prima la corrente m'avea trascinato lontanodalla spiaggia. Salito su la sommità ove esaminai quellaparte di mare altra volta, potei, essendo giorno affattosereno, vedere distintamente e con mio grave cordoglioi frantumi d'un vascello gettato di notte tempo contro aquegli scogli nascosti ne' quali m'abbattei con la mia pi-roga; quegli scogli stessi che, rompendo la violenza del-la corrente e formando una specie di controcorrente o diriflusso, mi camparono dalla più disperata, deplorabilecondizione in cui mi sia mai trovato in mia vita.

Così accade talvolta che quanto è occasione di salvez-za ad un uomo, sia di perdizione ad un altro; perchèsembra che quei naviganti non sapendo ove si fossero, egli scogli essendo affatto coperti, sieno stati nella notteportati sovr'essi dalla furia del vento spirante ad est-nor-d-est (greco-levante). Se avessero veduto l'isola, il chenon mi parea da supporsi, avrebbero cercato di ripararsialla spiaggia mediante la loro scialuppa; ciò nondimenogli spari di cannone fatti da essi per chieder soccorso,massime dopo aver veduto, siccome io m'immaginai, ilmio fuoco, mi facevano pensare or una cosa, or l'altra.Primieramente supposi che, alla vista del segnale datoda me, si fossero gettati veramente nella loro scialuppa eingegnati di salvarsi alla spiaggia, ma che il flutto trop-po grosso ne gli avesse respinti. Poi mi veniva in menteche in quel momento non avessero più la loro scialuppa,il che poteva essere avvenuto in più d'un modo: partico-larmente se le ondate battendo sul loro vascello avesserocostretti i naviganti, come talvolta avviene, ad allegge-

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rirlo col mettere in pezzi la scialuppa e gettarla in acquacon le proprie mani. Qualche altra volta m'inducevo acredere che avendo essi altri legni o vascelli in compa-gnia, questi, uditi i segnali di disastro, avessero raccoltie condotti via seco i pericolanti marinai. Poteva anchedarsi, io fantasticava fra me stesso, che, postisi in marecon la scialuppa, e trascinati dalla corrente entro cui cor-si io tanto rischio in passato, fossero stati trasportati nelgrande oceano, ove non potessero più aspettarsi chestenti e sciagure, e quella forse di essere ridotti dallafame all'orrida condizione di mangiarsi l'un l'altro.

Poichè queste non erano tull'al più se non congetture,nello stato mio io non aveva a far meglio del contempla-re la miseria di quegl'infelici e compassionarli, cosa cheproduceva per altro un buon effetto su me: il porgermiun motivo di rendere vie più e vie più grazie al Signoreche nella desolata mia posizione m'avea sì ampiamenteprovveduto di soccorsi e di conforti; che fra le vite degliindividui di due vascelli naufragati in questa remota par-te di mondo avea risparmiata unicamente la mia. Quiancora ebbi una nuova ragione per osservare come siacosa rarissima che la providenza di Dio ne lasci spro-fondare in una condizione di vita sì abbietta, sì misera-bile da non vedere in essa una particolarità o vero un'al-tra, di cui dobbiamo essere grati al Signore; in una con-dizione sì deplorabile da non lasciarci scernere il con-fronto di condizioni deplorabili anche di più. Tal fu cer-to quella de' naviganti di cui si parla ora, e la salvezzade' quali è sì problematica che non so vedere una suppo-

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sizione per crederla, fuor di una sola possibilità (e sareb-be piuttosto un desiderio o una speranza) che fosserostati cioè raccolti da un vascello venuto in lor compa-gnia; e ciò era da vero una mera possibilità, perchè nonm'accorsi del menomo segno che desse apparenza diciò.

Non ho bastante eloquenza per esprimere quale stranaansia di desiderii io sentissi nella mia anima a tale vista,ansia che si disfogava talvolta con queste parole: “Oh!vi fosse stata in quel vascello una o due creature, anzibastava una sola salva, che avesse trovato un rifugiopresso di me! Avrei avuto un compagno, un mio simileche mi avrebbe parlato, col quale potrei conversare!” Intutto il tempo della solitaria mia vita non ho mai sentitoun sì fervido, un sì forte desiderio della società de' mieisimili, e un sì profondo cordoglio perchè ne mancava.

Havvi certe molle segrete de' nostri affetti che, quan-do son poste in azione da qualche oggetto presente o, senon presente, reso tale dalla forza dell'immaginazione,traggono la nostra anima in un sì violento orgasmo, lacomprendono sì fortemente, che l'assenza dell'oggettostesso ne diviene un male insoffribile: erano di tal naturagli ardenti miei desiderii, perchè un uomo solo si fossesalvato. Credo di aver ripetuto queste parole: Oh ne fos-se stato almeno uno! un migliaio di volte; e nel ripeter-le, tanto mi sentivo eccitato dal fervore ond'ero preso, lemie mani si stringevano tanto l'una nell'altra, le mie ditane premevano con tanta forza le palme, che se qualchecosa di fragile fosse stato tra esse, involontariamente lo

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avrebbero stritolato; i miei denti si stringevano, si serra-vano sì forte che mi era impossibile il separarne la filasuperiore dall'inferiore.

Lascio ai naturalisti lo spiegar queste cose e il come eil donde succedano: quanto poteva io si era il descrivereun fatto che rese attonito me ancora quando m'accadde,benchè non sapessi da che procedea. Esso fu indubitata-mente l'effetto di ardenti desiderii e di energiche ideeche, improntatesi nella mia mente, le mostravano alpunto della realtà qual conforto mi avrebbe arrecato ilconversare con uno soltanto de' Cristiani miei simili. Maciò non doveva essere: il destino di questo tale, o di me,o d'entrambi non lo volea; perchè fino all'ultimo annodel mio soggiorno nell'isola non seppi mai se qualcunodi que' naufraghi si fosse salvato o no, e solamente, al-cuni giorni dopo, ebbi l'afflizione di vedere il cadaveredi un giovanetto annegato che l'acque portarono su lapunta estrema di spiaggia presso cui avvenne il naufra-gio. Non aveva egli altre vesti fuor d'un saione da mari-naio, d'un paio di brache di tela aperte al ginocchio, d'u-na camicia di color turchino, ma nulla che mi guidasse acongetturare di qual nazione fosse. Non teneva altro ne'suoi taschini che due ducati ed una pipa, la seconda del-le quali cose avea per me un valore dieci volte maggioredella prima.

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XL. Viaggio per andar a bordo del vascello naufragato.

Regnava in mare la calma, ed io sentiva una forteispirazione d'avventurarmi su la mia piroga sino al va-scello naufragato, non dubitando di non trovare a bordodi esso qualche cosa che avrebbe potuto essermi utile.Pure questa considerazione non mi stimolava tantoquanto la possibilità di trovarvi qualche creatura viventeper salvarne non solamente la vita, ma per ritrarre in ap-presso dalla sua compagnia il massimo dei conforti cheio mi sapessi immaginare; il qual pensiere mi si attaccòal cuore sì fortemente, che non avevo più quiete nè gior-no nè notte se non m'arrischiavo su la mia navicella allaspedizione or divisata. Affidato pertanto il rimanentealla providenza di Dio, pensai che questa affissazionefosse troppo forte nella mia mente perchè la potessi resi-stere; che essa dovea senza dubbio essere l'impulso diqualche intelligenza invisibile; che sarei stato colpevolese non le avessi obbedito.

Avvalorato dalla forza di tale impressione, tornai fret-tolosamente alla mia fortezza, ove apparecchiai quantecose mi occorrevano pel viaggio ideato: una certa quan-tità di pane, un gran fiasco d'acqua dolce, una bussolaper dirigere la mia navigazione, un fiaschetto di rum,chè me ne rimaneva in serbo un'abbondante provvista,ed un canestro di uva appassita; con le quali cose venutoalla mia piroga, la vuotai dell'acqua sotto cui la tenevo

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nascosta ad ogni sguardo vivente, la misi a galla, vi posientro tutto il mio carico, indi andai a casa di nuovo perprenderne dell'altro. Questo secondo carico consistè inun grande sacco di riso, il mio ombrello da tenermi al disopra del capo, un altro gran fiasco di acqua dolce, circadue dozzine di piccole pagnotte o focacce d'orzo, cheera più di quanta pane avevo portato la prima volta, inun fiasco di latte di capra ed in un formaggio: tutte lepredette cose, non senza grande fatica e sudori, traspor-tai nella mia piroga e, pregato Dio che proteggesse ilmio cammino, mi posi in via e remigai radendo la spiag-gia, sinchè finalmente fui alla punta dell'isola a nord-est(greco). Essendo questo il momento di lanciarmi entrol'oceano, principiai ad essere tra il sì e il no di correre untale rischio. Contemplate le due rapide correnti che co-stantemente tagliano le onde in una data distanza fraloro ad entrambi i lati della spiaggia, il sapere che eranostate per me sì formidabili, la rimembranza del pericoloin cui mi ero trovato per l'addietro, fecero che comin-ciasse a mancarmi il coraggio. Prevedevo che ogni qualvolta venissi portato entro l'una o l'altra delle due cor-renti, sarei stato spinto per un bel tratto nell'alto mare, eforse di nuovo fuor del tiro o della vista dell'isola: nelqual caso qualunque lieve brezza che si fosse levata ba-stava, tanto piccola era la mia navicella, a perdermi sen-za riparo.

Questi pensieri mi disanimavano tanto, che io era giàper rinunziare alla mia impresa; ed avendo tirata la miapiroga entro una caletta della spiaggia, ne uscii andan-

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domi a sedere sopra un piccolo rialzo di terra, grande-mente pensieroso e perplesso tra la paura e il desideriosu quel che farei. Mentre stavo così meditando, m'accor-si che la marea saliva verso la spiaggia, onde la mia an-data diveniva impraticabile per molte ore. Dietro taleconsiderazione, mi occorse subito alla mente l'idea diandarmi a collocare su la più alta eminenza che mi fosseriuscito trovare, e vedere, se potevo, qual direzioneprendessero le ondate delle correnti quando la marea ve-niva verso la spiaggia, e ciò per assicurarmi se mentre larapidità di esse mi porterebbe in alto mare per una via,non potrei sperare che la stessa rapidità mi conducesse acasa per una via diversa. Concepito appena un tale divi-samento, i miei occhi si portarono sopra una picciolacollina che dominava sufficientemente il mare da en-trambi i lati, e da cui vedevo chiaramente le direzionidella marea e quali mi sarebbero state favorevoli pertornare addietro. Scopersi allora che, come la correntedel riflusso usciva della punta meridionale dell'isola,così quella del flusso rientrava nella spiaggia dal latosettentrionale; donde argomentai che se mi fossi tenutoa tramontana nel mio ritorno, io poteva riuscire abba-stanza nella mia impresa.

Incoraggiato da tale osservazione, risolvei di metter-mi in mare nella successiva mattina col favore della pri-ma marea; onde riposatomi la notte nella piroga, copertoda quella grande casacca, di cui ho già fatto parola altravolta, mi posi in via. Su le prime navigai alcun poco te-nendomi affatto a tramontana, finchè sentissi il vantag-

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gio della corrente che, situata a levante, mi trasportavaad una grande distanza, benchè non con tanta violenzacome avea fatto dianzi quella a mezzogiorno che m'aveatolto ogni abilità di governare la piroga. Avendo quindipotuto padroneggiare a dovere il mio remo, m'avviai adirittura e di gran corsa verso il vascello naufragato, cuipervenni in meno di due ore.

Fu ben tristo lo spettacolo che si offerse alla mia vi-sta. Il vascello che giudicai spagnuolo dal modo dellasua costruzione, era serrato, inchiavato fra due scogli;tutta la poppa e l'anca di esso fatte in pezzi dalla furiadelle ondate; e attesa la violenza onde il castello di pruaavea battuto contra gli scogli, l'albero di maestra e queldi trinchetto erano troncati alla superficie stessa del va-scello; il bompresso invece era rimaso intatto, e tali ap-parivano ancora lo sperone e la tolda. Quando gli fui af-fatto da presso, mi comparve sovr'esso un cane che, alvedermi giungere si diede ad abbaiare e ad urlare; maappena lo chiamai, saltò in acqua per venire sino a me.Lo raccolsi nella mia piroga quasi morto dalla fame edalla sete. Datagli una delle mie pagnotte, se la divoròcome un lupo affamato che fosse rimasto a stentarequindici giorni in mezzo alla neve. Allora diedi a quellapovera bestia alcun poco d'acqua dolce che, se lo avessilasciato bere a sua discrezione, lo avrebbe fatto crepare.

Dopo ciò andai a bordo, e la prima vista che mi sipresentò fu quella di due uomini i quali, annegatisi nellacucina del castel di prua, si teneano strettamente abbrac-ciati l'uno con l'altro. Congetturai, come veramente era

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assai probabile, che quando il legno urtò contro allo sco-glio i cavalloni suscitati e sollevati dalla burrasca agrande altezza, continuatamente percuotessero il vascel-lo con tanto impeto, che quegli infelici non potendo re-sistere, restarono finalmente soffocati sotto l'acqua. Fuordel cane, niun altro essere vivente era rimasto nel basti-mento e nemmeno cose per quanto potei vedere, chenon fossero state guastate dall'acqua. Vi erano veramen-te alcune botti, non seppi se di vino o d'acquavite, chestarano sepolte nella stiva e che potei vedere in quel mo-mento di bassa marea; ma erano di mole troppo enormeperchè m'addimesticassi con esse. Osservai pure diversecasse che pensai appartenute a qualcuno di que' marinai:ne tolsi due nella mia piroga senza esaminarne il conte-nuto. Se il vascello si fosse infranto contro allo scogliocon la poppa, rimanendone intatta la prora, credo che misarebbe stata d'un grand'utile questa spedizione, perchèda quanto rinvenni in appresso nelle due casse ebbi luo-go di credere che quel bastimento avesse a bordo digrandi ricchezze. Se lo deduco dalla direzione verso cuigovernava, dovea venire da Buenos-Ayres o dal Rio dela Plata nella parte meridionale dell'America oltre alBrasile ed avviarsi verso l'Avana nel golfo del Messico,e forse era destinato per la Spagna. Portava, non ne du-bito, immensi tesori con sè, ma inutili in quel momentoad ognuno. Che cosa divenisse de' viaggiatori, allora nolseppi.

Oltre a quelle casse trovai un bariletto che potea con-tenere circa ottanta boccali, e che trasportai con non

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poca fatica nella mia navicella. Trovai pure nella cameradel capitano parecchi moschetti e un grande fiasco, en-tro cui saranno state quattro libbre circa di polvere.Quanto ai moschetti io non ne aveva bisogno e li lasciailì; ben presi meco il fiasco di polvere. Pigliai parimenteuna paletta da fuoco, una molla, di cui avevo estremobisogno, e due picciole caldaie di rame, una cioccolat-tiera ed una graticola; col qual carico e col cane me nevenni via, giacchè la marea cominciava anch'essa aprendere la direzione del mio soggiorno. Nella stessasera ad un'ora circa di notte raggiunsi l'isola, stanco espossato all'ultimo segno. Riposatomi la notte entro lapiroga, risolvei, giunto il mattino, di collocare tutti imiei nuovi acquisti nella mia caverna, e di non traspor-tarli altrimente alla mia fortificazione. Dopo essermi ri-storato alquanto, portai il mio carico su la spiaggia, co-minciando tosto ad esaminarlo parte per parte. Trovaiche il liquore contenuto nel bariletto era una specie dirum, ma non di quella qualità come ne avevamo al Bra-sile: in una parola, non valea nulla. Ma quando fui adaprire le casse, ci rinvenni molte cose di grand'uso perme: per esempio, una bella cantinetta di elegantissimifiaschetti pieni di rosogli eccellenti. I fiaschetti, checonteneano circa tre boccali ciascuno, erano guernitid'argento; vi erano in oltre quattro vasi di giulebbe, duede' quali sì ben serrati dal loro coperchio, che l'acquasalsa non ne avea danneggiato contenuto, da me trovatodi eccellente sapore; gli altri due erano affatto andati amale. Mi capitarono parimente, e molto a proposito per

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me, alcune camicie in assai buono stato e circa una doz-zina e mezzo di fazzoletti tra bianchi, da sudore e dacollo e di colore, opportunissimi i primi per rinfrescarmie rasciugarmi il volto quando faceva più caldo. Poi ve-nuto al fondo della prima cassa, vi trovai tre grandi sac-chetti di ducati che conteneano, fra tutti e tre, mille ecento monete all'incirca. In uno di essi vi erano in oltrefatti su in una carta sei doppioni ed alcune piccole ver-ghe d'oro: credo che pesassero insieme circa una libbra.Alcuni vestiti di poco valore stavano nella seconda: amotivo delle cose contenutevi potea credersi del secon-do cannoniere, ancorchè non ci fosse polvere, eccettodue libbre di polverino conservato in tre piccoli fia-schetti, a fine, come io supposi, di caricarne ad un casogli schioppi da caccia. Nella totalità questo viaggio mifruttò ben poche cose che potessero essermi di qualcheuso. Perchè circa al danaro, io non ne avea bisogno d'al-cuna sorta: tanto mi giovava quanto il fango che stavamisotto ai piedi, e lo avrei volentieri dato tutto per tre oquattro paia di scarpe e calze inglesi, delle quali cose iosentiva grandemente la mancanza, ancorchè da moltianni dovessi essere avvezzo a farne senza. Veramente iomi era impossessato di due paia di scarpe, delle qualiscalzai i due uomini che trovai annegati nella prima vi-sita al legno naufragato, ed in oltre d'altre due paia cheerano in una delle due casse, e che mi sarebbero capitateopportunissime, se fossero state comode ed atte a servir-sene come le nostre scarpe inglesi, e non piuttosto ciòche chiamiamo scarpini. In questa cassa trovai circa una

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cinquantina di reali da otto, ma non d'oro; par certo chefosse appartenuta ad un individuo più povero del pro-prietario dell'altra; forse anche ad un'ordinanza di qual-che ufficiale. Ad onta del niun uso onde erami questodanaro, lo trasportai nella mia caverna, e ve lo tenni inserbo, come avevo fatto con quello che levai dal mioprimo naufragato vascello. Ma fu una grande disgrazia,come ho detto dianzi, che la prora e non la poppa diquesto secondo legno mi fosse stata accessibile; perchèparmi certo che vi avrei trovato danaro per caricarneben parecchie volte la mia piroga e per trasportarlo daquesta alla mia caverna ove sarebbe rimasto tanto tempoin sicuro, che, pensavo io, quand'anche un'improvvisaoccasione mi si fosse offerta per fuggire in Inghilterrasenza di esso, m'avrebbe aspettato lì fino mai che fossitornato indietro a riprenderlo.

Condotti ora a terra e posti in sicuro i miei nuovi ac-quisti, me ne tornai alla mia piroga che feci costeggiarelavorando di remo o di pagaia la spiaggia, sintantochèla ebbi ridotta al suo antico porto, ove la lasciai riposa-re; indi m'avviai con la possibile sollecitudine alla miavecchia abitazione, giunto alla quale trovai tutte le coseintatte e tranquille.

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XLI. Desiderio sempre più ardente di fuggire dall'isola e sogno.

Cominciai ora a riposarmi, a vivere secondo il miovecchio stile, a prendermi cura de' miei domestici affari;e, a dir vero, per un certo tempo me la passai bene abba-stanza, se non che era divenuto assai più vigilante di pri-ma, mi tenevo in guardia più frequentemente nè andavopiù tanto attorno; e se qualche volta mi diportai conmaggiore libertà, il feci sempre verso la parte orientaledell'isola, ove io ero sufficientemente sicuro che i sel-vaggi non capiterebbero mai ed ove io potea trasferirmisenza il bisogno di tante cautele o di tanto carico d'armie di munizioni, quanto ne portava sempre con me quan-do mi volgevo ad altre parti.

In tale condizione io vissi più di due altri anni all'in-circa, ma in tutto questo tempo la mia sgraziata testa,che ho sempre scoperto essere destinata a fare la miseriadel resto del mio corpo, fu ingombra e piena di disegni emacchinamenti su le probabilità che mai mi potesserooccorrere di fuggir da quest'isola. Talvolta era lì per im-prendere un secondo viaggio al vascello naufragato, an-corchè la mia ragione mi dicesse nulla esser rimastocolà che francasse i rischi di simile gita. E quando medi-tavo una navigazione e quando un'altra, e credo da veroche se avessi avuta la scialuppa, entro cui partii da Salè,mi sarei commesso al mare: per andar dove non lo sape-vo.

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Io sono stato in tutti i casi della mia vita una grandelezione per coloro che si sentono percossi da quella ma-lattia generale della specie umana, malattia donde, aquanto so io, procede una metà delle loro sventure:quella cioè di non esser paghi della condizione ove Dioe la natura li collocò, perchè, per non tornare addietro sula primitiva mia condizione e su gli eccellenti avvisi delpadre mio (nell'oppormi ai quali stette, come possochiamarlo, il mio peccato originale), i miei successivierrori d'un genere stesso furono le vie per cui venni almio attuale misero stato. Certamente se quella providen-za da cui riconobbi il mio sì felice collocamento di pian-tatore al Brasile, mi avesse arriso al segno che, limitatone' miei desiderii, mi fossi contentato di far gradatamen-te la scala de' miei progressi, avrei potuto, in tutto l'in-tervallo del mio languire in quest'isola, essermi fatto unde' più ragguardevoli possessori di piantagioni in quellacontrada; anzi vado persuaso che, se ai miglioramenti difortuna da me conseguiti nel breve tempo di mia rima-nenza colà si fossero aggiunti que' maggiori che avreiprobabilmente ottenuti rimanendovi, possederei a que-st'ora un patrimonio del valore di cento mila moidori21.E che bisogno aveva io di abbandonare una fortuna giàstabilita, una piantagione ben provveduta, e andava di-venendo ogni dì più, per andarmi a mettere soprastanted'un vascello destinato alla Guinea a procacciarvi deiNegri? Il tempo e la pazienza non avrebbero forse au-

21 Moneta portoghese che al tempo in circa della prima pubblicazione diquesta storia (1719) equivaleva in Londra a 27 scellini.

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mentata di tanto la domestica nostra ricchezza, cheavremmo potuto senza moverci dalla porta di casa no-stra comprarceli da coloro la cui professione sta in simi-le traffico? E vero che gli avremmo pagati un poco piùcaro; ma questa più grave spesa non compensava ellal'immenso pericolo corso per risparmiarla? Ma, tal è ilfatale destino delle giovani teste: la riflessione su la fol-lia di un'impresa è soltanto il frutto della pratica di moltianni e di un'esperienza a caro prezzo acquistata; tal fuallora di me. E tuttavia l'errore avea piantate sì profonderadici nel mio carattere che non potendo adattarmi allapresente mia condizione, la mia vita era un continuofantasticare su i modi di fuggire di qui; e, affinchè iopossa con maggiore soddisfacimento del leggitore man-dare a termine la rimanente parte di questa mia storia,non sarà inopportuno ch'io gli presenti qui alcuni cennidelle prime idee da me concepite su tal pazzo divisa-mento di fuga e de' modi e de' fondamenti di quantooperai per mandarlo ad effetto.

Avete a figurarvi che, dopo il mio ultimo viaggio alluogo del vascello naufragato, dopo condotta alla suacala e assicurata, secondo il solito, sott'acqua la mia fre-gata, io m'era ritirato entro la mia fortezza ove tornavo afare la vita di prima. Io possedea veramente più ricchez-ze che non ne ebbi in passato; ma non per questo ero piùricco; perchè non potevo usarne più di quanto ne usasse-ro gl'Indiani del Perù prima che gli Spagnuoli fosseroapprodati in quella contrada.

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In una notte della piovosa stagione di marzo, corren-do l'anno ventesimo quarto da che posi piede la primavolta in quest'isola della solitudine, io giacea nel mioletto, o letticciuolo pensile, ma svegliato; perchè, sebene in ottimo stato di salute, senza sentire dolore od in-comodo, o disagio di corpo, e nemmeno di mente piùche d'ordinario, non potei in tutta la notte chiudere gliocchi: cioè prendere tal sonno che a tutto rigore di ter-mine fosse un dormire.

Egli è impossibile l'enumerare lo sterminato numerodi pensieri che mi girarono per tutti i labirinti del cervel-lo e della memoria nel durare di quella notte. Ripassai incompendio o, per così esprimermi, in iscorcio tutta lastoria della mia vita sino al momento del mio arrivo inquesto deserto, ed anche una parte di essa da che ci fui.Nel meditare le cose occorsemi dal primo momento cheil mio destino mi ci balzò, instituivo un parallelo tra lafelice mia posizione nei primi anni che vi soggiornai, ela vita d'angosce, di travagli e paure che vi ho vissuta finda quando vidi un'impronta di piede umano sopra l'are-na. Nè credeva io già che i selvaggi non avessero fre-quentata quest'isola, e che parecchie centinaia di essinon vi fossero sbarcate anche prima ch'io mi fossi ac-corto di loro. Ma finchè, non gli avendo mai veduti, ionon poteva concepirne il menomo timore, vivevo perfet-tamente col cuore tranquillo su ciò, ancorchè il mio pe-ricolo fosse lo stesso, ed ero felice come se realmentenon mi fosse mai sovrastato. Ciò somministrava allamia mente molta copia di salutari riflessioni, e questa

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singolarmente su l'infinita bontà di quella providenzache nel suo governo del genere umano ha posti alla vistae cognizione dell'uomo tali opportuni limiti, per cuicamminando egli in mezzo a migliaia di pericoli, l'a-spetto de' quali se gli apparisse com'è, ne travaglierebbela mente e ne deprimerebbe gli spiriti, si mantiene sere-no e tranquillo sol perchè gli eventi delle cose rimango-no celati al suo sguardo, e non sospetta i rischi dai qualiè circondato.

Poichè questi pensieri mi ebbero intertenuto per qual-che tempo, cominciai a pensar seriamente al reale peri-colo fra cui m'aggirai per tanti anni in questa medesimaisola, all'intrepida sicurezza onde me ne andava attornocon ogni possibile tranquillità, intantochè null'altro forseche un giogo di monte, o un grand'albero, o l'avvicinarsidella notte, si erano frapposti fra me e la più atroce cala-mità: quella di cadere nelle mani di cannibali che si sa-rebbero impadroniti di me con la stessa intenzioneond'io mi piglierei un tortore o una capra, nè dell'ucci-dermi e divorarmi si sarebbero fatto uno scrupolo mag-giore di quanto io ne abbia nel dar morte ad una tartaru-ga o ad un piccione, e cibarmene. Calunnierei me mede-simo se dicessi di non essere stato sinceramente e debi-tamente grato al mio grande Salvatore divino, dalla cuispeciale protezione io riconobbi con cuore umiliatocome mi fossero venuti tanti scampi a me ignoti, e senzade' quali sarei sicuramente caduto fra l'ugne di barbariche non sentivano misericordia.

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Poichè questa meditazione fu terminata, altri pensierisi suscitarono per qualche tempo nella mia mente su lanatura di quegli sgraziati selvaggi e sul perchè il saggioregolatore di tutte le cose avesse permesso che creaturefatte a sua similitudine nutrissero pricipi di tanta inuma-nità: anzi di una crudeltà che eccedeva i limiti della bru-talità stessa, siccome è l'appetito di divorarsi fra loro.Ma siccome ciò in quel momento non andava a termina-re in veruna utile considerazione, mi volsi ad investigarein qual parte del mondo quegli sciagurati vivessero?quanto lontana fosse la costa donde si partivano? perchèsi avventurassero in tanta distanza fuori delle case loro?che sorta di navigli avessero? E perchè non avrei io po-tuto dare tal ordine e sesto alle cose mie, da potere an-darli a trovare, com'essi venivano a trovar la mia isola?

Io non mi dava poi il menomo fastidio di pensarecome l'avrei fatta quando fossi sbarcato colà; che cosasarebbe divenuto di me se fossi caduto nelle mani de'selvaggi, o come mi sarei salvato da loro se m'avesseroassalito; a niuna di tali cose io pensava, e nemmenocome mi sarebbe stato possibile il raggiugnere la costa enon essere assalito da qualcheduno di costoro senza nes-suna probabilità di scampo per me. O ponendo ancorache non fossi caduto in loro potere, io non pensava ovemi sarei vólto per vettovagliarmi, o a qual parte avreiaddirizzato il mio cammino: nessuna di queste cose, tor-no a dirlo, occorse alla mia mente tutta assorta nel divi-samento di tragittare con la mia scialuppa al continenteche avevo veduto. Io considerava la presente mia condi-

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zione come la più miserabile che potesse esservi, e talech'io non poteva incontrarmi, salvo la morte, in nulla dipiù tristo; che ponendo piede su la spiaggia del conti-nente, avrei forse potuto trovare qualche soccorso, o te-nermi costeggiando, come mi accadde lungo la spiaggiaafricana, finchè fossi giunto in qualche paese abitatodonde sperare alcuna sorta di aiuto. Soprattutto, io dice-va a me stesso, avrei potuto abbattermi in qualche va-scello cristiano che mi raccogliesse; e a peggio andaresarei morto, il che avrebbe troncato di un tratto il corsodelle mie sciagure. Vi prego notare come tutte questeidee fossero prodotte in me da un delirio di mente, da unanimo inquieto, e ridotto quasi ad ultima disperazionedalla protratta continuazione del turbamento e dell'ango-scia che nacque in me sin d'allora che a bordo del va-scello naufragato vidi defraudate su l'atto più prossimodell'avverarsi le mie speranze di ottenere quanto avevosospirato da sì lungo tempo; di rinvenire cioè qualchecreatura con cui cambiare parola, di ricever qualche no-tizia sul luogo ove mi vedevo confinato, e probabilimezzi di liberazione. Io era tutto immerso, tutto agitatofra questi pensieri; ogni mia precedente calma, fondatasul rassegnarmi ai voleri della providenza e su l'aspetta-re l'esito delle disposizioni del cielo, sembrava per allo-ra sospesa; nè io aveva la forza di volgermi ad altri pen-sieri che non fossero il divisamento di un tragitto nelcontinente, idea impossessatasi di me con tanta forza etanto impeto di desiderio, ch'io era divenuto impotente aresisterle.

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Poichè tali considerazioni ebbero tenuto per due o piùore agitati i miei pensieri con tanta violenza che pose inuno stato d'assoluta effervescenza il mio sangue, e mifece battere i polsi come sotto l'impeto della febbre, (etutto ciò per mero effetto dell'ardore che investì la miamente al solo fissarsi su questi oggetti), la spossatezza el'esaurimento delle mie forze fisiche, le quali finalmentecedettero alla natura, m'immersero in un profondissimosonno. Potrebbe credersi che i miei sogni portasserol'impronta delle cose pensate; ma nè di queste sognai nèdi null'altro che a queste si riferisse.

Sognai in vece di essere una mattina uscito della miafortezza secondo il solito e d'avere vedute alla spiaggiadue piroghe ed undici selvaggi che ne sbarcarono. Co-storo si traevano seco un altro di loro razza che si appa-recchiavano a macellare per indi cibarsene; quando inun subito la vittima, spiccato un salto, si diede per salva-re la propria vita alla fuga. Credei vederla correre nelmio folto boschetto posto innanzi alla mia fortificazioneper nascondervisi entro. Io, notando che l'uomo era solo,nè accorgendomi che alcuno lo inseguisse da quellabanda, me gli mostrai, sempre in sogno, e sorridendo alui gli feci coraggio. Egli allora mi s'inginocchiò innanzicome se mi pregasse a proteggerlo; per lo che gli additaila mia scala a mano, feci che la salisse, me lo condussimeco nella mia grotta, e appena credei d'aver fatto l'ac-quisto di quest'uomo, dissi a me stesso: “Ora posso consicurezza avventurarmi alla volta del continente, perchèquesto buon diavolo mi servirà in qualità di piloto, e mi

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suggerirà come contenermi, ove andare per vettovaglie eove non andare per paura di essere divorato; quali sienoi luoghi da essere impunemente cercati, quali da essereindispensabilmente evitati”.

Io istituiva tale ragionamento, allorchè mi svegliai,dominato da una sì ineffabile impressione di gioia aquesta prospettiva di liberazione offertami dal mio so-gno, che lo scompiglio fattosi nel mio animo quando,tornato in me, mi accorsi di avere meramente sognato,vi produsse un'impressione ugualmente straordinaria,ma in senso inverso, gettandomi nel più profondo abbat-timento.

Ciò non fece nondimeno ch'io non venissi a questaconclusione: vale a dire che la sola via di riscatto per meconsistea nell'impadronirmi di un selvaggio, se fossestato possibile. E se vi era tale possibilità io non poteacontare se non sopra uno di que' prigionieri che, condan-nato ad essere mangiato, venisse condotto su questaspiaggia al macello. Ma a questi pensieri andava sempreunita quella grande difficoltà che non sarei cioè mai riu-scito in ciò senza assalire un'intera carovana di costoroed ucciderli tutti: impresa, non solo da disperata e chepoteva andare a mal termine; ma tale che d'altra parte midava grandi scrupoli su la legalità del tentarla. Il miocuore abbrividiva sempre all'idea di spargere tanto san-gue umano, ancorchè io lo facessi per la liberazione dime medesimo. Non ho bisogno di ripetere gli argomentiche mi s'offrivano per rattenermi dal cercare un similecimento, perchè erano tuttavia gli stessi di prima; e ben-

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chè nella condizione attuale avessi anche migliori ragio-ni per confutarli, vale a dire che que' selvaggi erano ne-mici della mia vita; che m'avrebbero divorato, se loavessero potuto; che stava per me nel massimo grado ildiritto della propria salvezza riservato a ciascun vivente,se mi liberavo da una vita di continua morte e, per solamia salvezza assaliva costoro considerandoli come incontinuo procinto di assalirmi, e sì fatte altre ragioni, adonta di tutti questi argomenti che favorivano il secondopartito, pure l'idea di versare il sangue de' miei similianche per la mia liberazione mi appariva terribile, nèseppi per un gran pezzo adattarmici. Pure per ultimo,dopo molte interne lotte e dopo grandi perplessità, per-chè tutti gli anzidetti argomenti pro e contro si fecerolunga guerra nella mia mente, il prevalente fervido desi-derio della mia liberazione ebbe causa vinta su tutti glialtri riguardi; onde risolvei finalmente di procacciarmi aqual si fosse costo uno di que' selvaggi. Or non mi resta-va più che studiare al come riuscirci; e questa da veroera cosa difficile da decidersi. Ma siccome io non poteastabilire il modo di più probabile intento, mi determinaisenza pensare ad altro di mettermi alla vedetta, per co-gliere il momento di qualche loro sbarco, fermo quantoal rimanente nella risoluzione di lasciare il governo deltutto alla sorte, e d'appigliarmi a quegli espedienti chel'opportunità additasse come i migliori; andassero poicome volessero andare le cose.

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XLII. Fine della mia solitudine.

Confermato l'animo in questa risoluzione, mi posi inaguato più sovente che fummi possibile, e tanto soventeche da vero cominciavo ad esserne infinitamente anno-iato; perchè era più d'un anno e mezzo ch'io facea que-sta vita, e che mi trasportavo quasi ogni giorno e al latooccidentale dell'isola e a quello posto tra mezzogiorno eponente, per vedere se comparivano scialuppe, senzache una ne capitasse. Ciò mi sconfortava assai, e comin-ciava a disturbarmi grandemente, benchè in questo casoio non potessi dire, come avrei potuto dirlo qualche tem-po prima, che tale sconcio spuntava l'ardore del mio de-siderio alla cosa; chè anzi maggiori indugi s'interponea-no, più fortemente io ne anelava il conseguimento. Inuna parola, non fui mai per l'addietro così sollecito dinon vedere i selvaggi e di schivare ogni occasione di es-sere veduto da loro, come io ora desiderava ansiosamen-te di trovarmici addosso. Anzi in mia fantasia mi figura-va essere tanta in me l'abilità necessaria ad addimestica-re un selvaggio, anche i due, i tre, se fossi riuscito adaverli, che me li sarei fatti schiavi, gli avrei condotti afar quanto avessi additato loro di fare, e tolto loro ognipotere di arrecarmi in verun tempo del male. Era lungotempo da che io mi beava di tal prospettiva in lontanan-za, ma nulla occorreva ciò non ostante che l'avvicinasse;tutte le mie macchinazioni, i miei disegni andavano a fi-

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nire in nulla, perchè per lungo tempo i selvaggi nons'accostarono a me.

Dopo un anno e mezzo che m'era intertenuto in tuttiquesti divisamenti, andati tutti in fumo per mancanzasempre di un'occasione atta a mandarli ad effetto, fuisorpreso una mattina di buon'ora al vedere non meno dicinque scialuppe tutte insieme, rasente la spiaggia delmio lato d'isola; la loro ciurma che vi stava entro, eragià tutta sbarcata e lontana dalla mia vista. Il numero diquesti ospiti sconcertava ogni mio calcolo; perchè ve-dendo ch'erano tanti, e, sapendo esser soliti venire aquattro, a sei, qualche volta anche più in una scialuppa,non potevo combinare nessuna congettura su questo nu-mero straordinario, e molto meno ideare il partito coiappigliarmi per assalire venti o trenta uomini in una vol-ta; laonde me ne stetti per qualche tempo quatto quattoentro la mia fortezza assai scoraggiato e perplesso. Purfinalmente mi collocai in tutta quell'attitudine d'assaltocui m'ero già predisposto, e mi trovavo già presto allabattaglia se alcun che fosse avvenuto. Dopo avere aspet-tato un bel pezzo con l'orecchio attento al menomo stre-pito che facessero, preso finalmente da impazienza, po-sai i miei moschetti a piè della mia scala, e mi portai sa-lendo in due volte, giusta il mio consueto, su la cima delmonte, ove ebbi la cautela di tenermi in tal guisa che, latesta non isporgendo mai fuor dei dirupi, coloro non po-tessero veder me di sorta alcuna. Quivi coll'aiuto delmio cannocchiale mi accorsi che questi miei forestieri innumero non meno di trenta, avevano acceso fuoco e ap-

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parecchiato delle vivande. Come le avessero cucinate,nè che cosa avessero cucinato, è quanto non capii; soche ballavano tutti attorno a questo fuoco, facendo millesconcie smorfie da barbari pari loro, ch'io sarei da veroimbarazzato a descrivere.

Mentre stavo guardandoli così col mio cannocchiale,vidi due miserabili trascinati fuori delle scialuppe, oveerano stati lasciati, e che ora venivano portati alla spiag-gia per essere macellati. Un di questi sgraziati lo vidicadere in un subito stramazzato, a quanto supposi, da unrandello o scure di legno, perchè tale è la loro usanza;poi due o tre altri gli furono addosso per isventrarlo,squartarlo, indi cucinarlo, intanto che l'altra vittima erastata lasciata da sè, finchè i beccai fossero lesti a farle lostesso servigio. Allora questo sciagurato vedutosi unpoco in libertà, perchè non era legato, e per un istinto dinatura che la speranza della vita rendea più possente, sidistolse tutt'ad un tratto da' suoi carnefici, e datosi a cor-rere con incredibile velocità lungo il lido, mi venne inverso, cioè verso la parte di spiaggia ov'era posta la miaabitazione. Ebbi un tremendo spavento, lo confesso,quando lo vidi prendere simil cammino, e soprattuttoquando mi parve di vedere che il restante di quella ma-snada si facesse ad inseguirlo. Certo io doveva aspettar-mi che una parte del mio sogno fosse per avverarsi, per-chè quell'infelice non potea fare di meno di ripararsi nelmio bosco; ma da vero non aveva gran che da far contosu l'altra parte del sogno stesso, o sperare che i selvagginon lo inseguissero fin lì per riprenderselo. Nondimeno

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tenni il mio posto e cominciai a ripigliare un po' di co-raggio, quando m'avvidi che non più di tre uomini glicorrevano dietro; e sempre più mi rinfrancai notandocome li superasse oltre ogni dire nella celerità della cor-sa, e guadagnasse sempre nuovo terreno dinanzi ad essi.“Se la dura così, io diceva fra me, per una mezz'ora, èsalvo e se ne ride di tutti”.

Fra essi e il mio castello stava quella specie di baia dame commemorata più d'una volta nel principio della miastoria, e notabile perchè mi giovò allo sbarco del caricoportato via dal naufragato vascello; onde io vidi piena-mente, che il misero fuggitivo non poteva esimersi o daltraversarla notando, o dall'esservi preso entro. Ma appe-na giuntovi, senza trovarsi punto imbarazzato si gettònell'acqua e in un batter d'occhio toccò l'altra riva, ove sidiede nuovamente a correre con la massima velocità egagliardia. Quando i tre che lo inseguivano furono allaprima sponda della baia, bisogna dire che due soli se lasentissero di tentare il guado, perchè il terzo diede unaocchiata ai compagni, poi senza far altro, se ne tornò ad-dietro pian piano; il che fu un gran bene per lui come ilfatto in appresso dimostrò.

Osservai in tanto che i due abili al nuoto ci metteanonel traversar la baia due volte più tempo di quanto ce neaveva messo il fuggiasco che a quell'ora era già racco-mandato alle proprie gambe assai bene.

Adesso sì mi tornava caldamente e in guisa invincibi-le la mia prediletta idea di procacciarmi un servo e forseun compagno o aiutante; adesso sì, dicevo a me stesso,

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che ne era arrivato il tempo; adesso mi credei l'uomochiamato dalla Providenza a salvare la vita di quella po-vera creatura. Scesa tosto con ogni possibile prestezza lamia scala per prendermi i due moschetti che, come hoosservato dianzi, stavano al piede della medesima, e ri-salitala con uguale rapidità, tornai alla cima del monte,donde calai pigliando una scorciatoia verso la marina,sinchè mi trovassi tra coloro che inseguivano e l'insegui-to. A questo che fuggiva a più non posso, gridai sì forteda farlo voltare addietro; ma in quel primo istante gli fa-cevo forse altrettanta paura io quanta i suoi due persecu-tori. Nondimeno non mi stetti dal fargli cenno con lamano che tornasse addietro; poi nel tempo stesso a queldi costoro che primo si offerse diedi col calcio del miomoschetto tal botta che restò tramortito. Volevo astener-mi dal far fuoco per non essere udito dagli altri, benchèa quella distanza ciò non fosse sì facile; tanto più che lanatura della posizione avrebbe impedito ad essi di vede-re il fumo, e per conseguenza di far congetture sul luogodonde fosse venuto il frastuono. Poichè ebbi stramazza-to quel primo, l'altro si fermò come spaventato, nè ioperdei tempo a corrergli in verso; ma quando gli fui piùvicino, accortomi che era provveduto di arco e di freccee che s'apparecchiava a scagliarmene una, mi vidi nellanecessità di prevenirlo con un saluto del mio moschetto,il che feci stendendolo morto sul colpo.

Il povero inseguito arrestò, per dir vero, la sua fugaquando vide atterrati e morti, com'egli crede, tutt'e due isuoi nemici; ma aveva avuta si mala paura del fuoco e

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dello strepito del mio moschetto che rimase piantato lìsenza andare nè avanti nè indietro, se bene sembrassepiuttosto inclinato a darsi nuovamente alla fuga. Tornaiad animarlo con la voce e co' cenni, che facilmente inte-se, e fece anzi lentamente alcuni passi in avanti, ma poisi fermò di nuovo; poi qualche altro passo avanti, poiuna nuova fermata e potei accorgermi ch'egli tremavacome se si vedesse già preso e nell'atto di far la fine de'suoi due persecutori. Un'altra volta gli dissi a cennid'avvicinarsi a me, dandogli quanti segnali d'incoraggia-mento per me si potea, sì che egli veniva, s'accostava es'accostava sempre un po' più, inginocchiandosi ad ognidieci o dodici passi, onde manifestarmi la sua gratitudi-ne, perchè lo avevo sottratto alla morte. Finalmente mifu da presso del tutto, ed allora prosternatosi di bel nuo-vo, baciò la terra, e presomi un de' miei piedi se lo posesopra la testa, con che s'intendea giurarmi che sarebbestato mio schiavo per sempre. Alzatolo da terra, lo acca-rezzai, e gli feci animo meglio che seppi.

Ma non eravamo ancora nè lui nè io fuor dell'impac-cio, perchè m'accorsi che il selvaggio da me atterrato,non morto, come pensai, ma soltanto sbalordito dallaviolenza della percossa, cominciava a riaversi; la qualcosa feci notare al mio protetto, indicandogli a cenni chequel suo nemico era tuttora vivo. Su di ciò egli mi dissealcune parole, le quali, benchè non intendessi punto, mifurono gratissime, siccome il primo suono di voce uma-na che, eccetto la mia, avessi udito da ventidue e piùanni. Ma non v'era tempo a simili considerazioni; il sel-

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vaggio da me stramazzato rinveniva sì bene che era giàseduto sul terreno, e m'avvidi come l'altro selvaggio,ch'io tutelava, tornasse nel primo spavento. Veduto ciòaddirizzai l'altro mio moschetto all'uom seduto per rime-diare al primo colpo mancato; ma il mio selvaggio, checosì or lo chiamerò, mi chiese per segni gli prestassi lasciabola, ch'egli mi vedea pendere senza fodero dallacintura. Gli condiscesi, nè la ebbe appena, che corse alnemico, e con un colpo gli tronco sì netto il capo dalcollo che non credo avrebbe fatto nè più presto nè me-glio il più abile fra i patentati carnefici; la qual cosa miparve straordinaria in un uomo ch'io avea ragione di cre-dere non avesse mai vedute in sua vita sciabole, trannele loro che sono di legno. Ciò non ostante sembra, comeimparai in appresso, che queste spade di legno sieno af-filate, fornite di contrappeso e fabbricate con un legnofitto al punto di far saltare e testa e braccia con un solcolpo. Compiuta questa impresa, tornò a me tutto gau-dioso del suo trionfo, e portatami la spada con una ab-bondanza di gesti, che certamente non intesi, me la poseinnanzi insieme con la testa del suo nemico.

La cosa di cui egli era stupito e curioso oltre ognidire, era il modo onde fossi riuscito ad uccidere l'altroIndiano in tanta distanza, onde accennandolo mi fececapire alla meglio il suo desiderio ch'io lo lasciassi an-dare a verificare presso l'ucciso come stesse la cosa, edio alla meglio gli feci capire che gliene davo la permis-sione. Quando gli fu vicino rimase com'uomo sbalorditoguardando il cadavere, voltandolo prima su un fianco,

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indi sull'altro, contemplando la ferita che la palla avevafatto, che sembra lo avesse colpito esattamente nel pet-to, onde non si vide al di fuori gran copia di sangue, per-chè diffuso tutto nell'interno. Raccolti l'arco e le freccedell'ucciso, tornossene addietro. Non trovando io cosaopportuna il rimaner oltre in quel luogo, gli feci segnodi seguitarmi non senza studiarmi di dargli a compren-dere, sempre a cenni, come gli altri selvaggi potesserovenire dietro a quelli che erano morti.

Entrò tanto nella mia osservazione, che m'indicò lasua idea di seppellire que' cadaveri nella sabbia, affin-chè non fossero veduti dal rimanente della masnada,idea che approvai. Postosi all'opera, in men che io noldico, avea scavata nella sabbia una buca ampia abba-stanza per sotterrare il primo de' due morti, indi ve lotrasse dentro, datosi ogni cura di ricoprirlo; lo stessofece con l'altro cadavere, nè credo che tutta questa fazio-ne durasse più d'un quarto d'ora.

Richiamatolo allora, lo condussi, non già alla mia for-tezza, ma a dirittura alla mia caverna situata all'altro latodell'isola, così non lasciai verificare quella parte del miosogno che gli assegnava per ricovero il mio boschetto.Quivi gli diedi, perchè si cibasse, e pane ed un grappolod'uva ed acqua da bere, di cui avea grande necessità pelmolto correre che avea fatto.

Ristoratolo in tal guisa, gli accennai che andasse a ri-posarsi, mostrandogli in un luogo della caverna unostrato di paglia di riso con sopra una coperta: letto su cuipiù d'una volta era giaciuto io medesimo; così quella po-

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vera creatura coricatasi cercò di prendere un poco disonno.

Egli era un bel pezzo di giovinotto, gentile d'aspetto,perfettamente ben complesso, di membratura gagliardae regolare, non troppo tarchiato, alto e di belle propor-zioni, dell'età, ai miei conti, di ventisei anni all'incirca.Avea tutte quelle qualità che determinano una buona fi-sonomia, non feroce o torva, pur virile sembianza e do-tata ad un tempo di tutta la grazia e piacevolezza di unafaccia europea, massimamente quando ridea. Lunga enera erane la capellatura, non crespa a guisa di lana;spaziosa ed alta la fronte; vivacissima e scintillante l'a-cutezza delle sue pupille. Il colore della sua carnagionenon era affatto nero, ma bronzino, non per altro di quelbronzino che è piuttosto un gialliccio brutto e schifoso,e che suol essere proprio de' nativi del Brasile e dellaVirginia e d'altri popoli dell'America, ma una specie dilucente color d'oliva carico, che aveva in sè stesso nonso qual cosa d'aggradevole che non sarebbe sì facile ildescrivere. Rotondo e pienotto il volto; naso piccolo, nèschiacciato siccome quello de' Negri; bocca ben fatta,tenui labbra, bei denti ben ordinati e bianchi come l'avo-rio.

XLIII. Venerdì.

Poichè questo mio pupillo ebbe sonnecchiato più chedormito per una mezz'ora, abbandonò il suo pagliericcio

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per venirmi a cercare fuor della caverna; perchè io eraandato a mungere le capre che, come sa il leggitore, te-neva in un chiuso a poca distanza di lì. Scopertomi ap-pena, mi corse in verso, tornò a gettarsi per terra dinanzia me, rinnovando i suoi grotteschi gesti, e facendoned'ogni fatta per assicurarmi in tutti i possibili modi dellasua gratitudine. Tra l'altre cose stese la faccia per terrarasente un de' miei piedi e, come avea fatto prima, sipose l'altro mio piede sopra la testa, affacendandosi adarmi tutte le immaginabili dimostrazioni di suggezio-ne, servitù e sommessione, e a farmi capire che avrebbevoluto servirmi per tutta l'intera sua vita. In molte coseio lo intesi, nè trascurai dal canto mio alcun modo per-chè comprendesse come fossi contento dell'acquisto cheavevo fatto in lui.

In poco tempo cominciai a parlare con esso e ad inse-gnargli a parlare con me, e per prima cosa gli lasciai co-noscere che il suo nome sarebbe Venerdì, poichè corren-do un venerdì quando gli salvai la vita, volli che il suonome proprio ne fosse il ricordo. Gl'insegnai pure a direpadrone, gli dichiarai il nome con cui mi chiamava io;lo addestrai a profferire sì e no, e ad intendere la forza diquesti monosillabi. Versatogli una certa quantità di latteentro una scodella di terra, mi feci prima vedere a berneio e v'intinsi del pane; poi data che gli ebbi una focacciaseguì il mio esempio, e così inzuppata se la mangiò tuttaadditandomi che la trovava una buonissima cosa.

Rimasto con lui tutta quella notte, appena fu giorno,gl'intimai di seguirmi facendogli comprendere che gli

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avrei dati panni per coprirsi, di che parve allegrarsigrandemente, perchè era ignudo come il Signore lo ave-va fatto. Arrivati al luogo ove furono sepolti quei dueselvaggi il dì innanzi, fu egli il primo ad indicarmene ilsito e a mostrarmi certi segnali da lui fatti per ricono-scerlo, prontissimo secondo i cenni che mi fece, a disot-terrare i due sepolti e a mangiarseli. A tale proposta mo-stratomi in collera non so dir quanto, gli espressi l'orroredestatosi in me col far come se mi si movesse il vomitoall'idea sola di ciò, poi con la mano gl'intimai di proce-dere innanzi; nel che mi obbedì tosto con la massimasommessione. Lo condussi indi su la cima del monteperchè vedesse se i suoi nemici erano andati; qui trattofuori il mio cannocchiale mi diedi a guardare ancor io, eravvisai pienamente il luogo ov'erano stati il dì prima iselvaggi, ma non rimaneva più il menomo vestigio diessi o delle loro piroghe, donde appariva pienamenteche fossero partiti lasciandosi addietro i due loro com-pagni, e senza curarsi punto di venirli a cercare.

Ma non contento a questa ragionevole congettura, edessendomi ora cresciuto il coraggio e per conseguenzala curiosità, presi meco il mio uomo Venerdì, cui posinelle mani la mia sciabola e agli omeri l'arco e le frecce(nel trattar le quali armi lo trovai in appresso destrissi-mo), ed in oltre gli feci portare un moschetto per me edue altri ne presi io medesimo; poi ci avviammo al luo-go ove quegli sciagurati gozzovigliarono, perchè eramia mente ora il procacciarmi più distinte nozioni so-vr'essi. Arrivato colà, tutto il sangue mi si gelò nelle

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vene, e il cuore mi si aggruppò all'orrore della vista chesi offerse al mio sguardo. Coperto per ogni dove d'ossaumane era quel campo; il terreno imbevuto di sangue;sparso qua e la di grossi pezzi di carne umana, quali ar-rostiti, quali abbrustoliti, per metà mangiati, per metàmasticati: vidi in somma tutti i segnali del fero pastoche coloro aveano fatto quivi dopo una vittoria riportatasu i loro nemici: tre teschi, cinque mani, le ossa di tre oquattro gambe e piedi e brani in copia di corpi squartati,in ordine a che Venerdì m'informò per cenno, comequattro fossero stati i prigionieri condotti quivi, tre de'quali mangiati, e eccetto lui, e qui accennava sè stesso,che senza di me sarebbe stato il quarto; come fosse av-venuta una grande battaglia tra coloro che poi rimaserovincitori, ed un re vicino di cui parea che Venerdì fossesuddito; come essendo stato fatto grande numero di pri-gionieri quelli che se ne impadronirono li conducesseroa mano a mano in diversi luoghi per farne banchetto,siccome accadde ai tre più sgraziati dei quattro condottilì il giorno innanzi.

Ordinai allora a Venerdì che raccogliesse tutti que'crani, ossami e pezzi di carne, nè facesse un gran muc-chio e accendesse un gran fuoco sovr'esso da mantener-visi finchè fossero ridotti in cenere. M'accórsi come lagola di Venerdì morisse dietro a que' pezzi di carne, per-chè la natura di cannibale gli rimanea tuttavia; ma io gliavevo già scoperto tanto orrore alla sola idea di ciò, alsolo menomo indizio di vederla, concepiva ch'io lessi talsuo interno sentimento nella sua fisionomia, non ne'

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suoi cenni: non ardì farne perchè avevo trovato modo didargli a capire che alla prima manifestazione di tal natu-ra lo avrei ucciso.

Eseguite le predette cose, venni addietro conducendo-lo alla mia fortezza, ove mi posi a lavorare per lui; e pri-ma di tutto gli diedi un paio di brache tolte fuori dallacassa del povero cannoniere, che è stata altrove comme-morata fra le suppellettili del vascello naufragato: pocafattura ci volle perchè gli andassero bene. In appressogli feci (per quanto me lo permise la mia abilità, che al-lora ero divenuto un tollerabile sartore) una casacca dipelle di capra, oltre ad un berrettone di pelle di lepre chegli era assai adatto alla testa e sufficientemente elegante.Così per allora si trovò vestito che non c'era male, e pa-reva insuperbirsi d'essere presso a poco abbigliato comeil suo padrone. Egli è vero che su le prime stava assaimale entro a' suoi panni: il portar le brache non gli con-feriva gran che, e le maniche della casacca gli davanofastidio alle spalle e alle ascelle; ma coll'allentarle unpoco ove si dolea che gli faceano male e coll'uso si as-suefece a tutte queste cose assai bene.

Visitata indi la mia stanza da letto, cominciai a pensa-re ove lo avrei alloggiato e per fare tutto il meglio chepoteva a suo pro senza mio incomodo, gli formai unapicciola capanna nel vano fra le mie due fortificazioni,al di dentro dell'interna, al di fuori dell'esterna. E poichèquivi era un ingresso alla mia grotta, fabbricai una bus-sola munita d'un un uscio di tavole collocandola in quel-l'andito un po' in dentro; e fatto sì che l'uscio si aprisse

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dalla parte interna e lo teneva sbarrato tutta la notte, ti-randomi anche la mia scala: per tal modo Venerdì nonpoteva penetrare oltre la cinta del mio primo muro senzafar tanto strepito che m'avrebbe svegliato. Tal mia inter-na circonvallazione aveva ora una perfetta soffitta for-mata di lunghi pali e da cui tutta la mia tenda era coper-ta. Andando questa ad appoggiarsi alla spalla del monteera attraversata da rami che faceano vece di assicelle in-trecciate di paglie di riso, forti come le canne palustri.Circa poi a quell'apertura per dove si entrava e donde siusciva mediante la scala a mano, io aveva posto unaspecie di porta a trabocchello, affinchè chi avesse tenta-to aprirla dal di fuori, fosse invece caduto giù facendogrande fracasso: quanto alle armi io le ritirava tutte dallamia banda durante la notte.

Per altro non tardai ad accorgermi che di tante cauteleio non aveva bisogno, perchè uomo al mondo non ebbeun servo più fedele, amoroso e leale di quanto lo fu perme Venerdì. Disinteressato, docile, incapace di macchi-nazioni, tutto dedito a me, si teneva legato dai sentimen-ti come lo è un figlio ad un padre; e ardisco dire che inqualunque occasione avrebbe sagrificata la propria vitaper salvare la mia, della qual devozione mi diede tantetestimonianze che postomi fuor d'ogni sospetto, non tar-dai a convincermi come fosse inutile ogni guarentigiache rispetto a lui io cercassi alla mia sicurezza.

Ciò mi diede spesse volte motivo di fare, non senzagrande mia meraviglia, una osservazione: vale a dire,che se bene fosse piaciuto a Dio nelle viste della sua

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providenza e nel governo delle opere di sua mano il la-sciar tanta parte di sue creature incapaci di far quel buonuso del proprio intelletto cui le prerogative delle animeloro erano adatte, pure avea compartite anche a queste lemedesime facoltà, le stesse affezioni, i medesimi senti-menti d'amorevolezza; come pure uguali passioni nel ri-sentirsi delle ingiurie, ugual senso di gratitudine, di sin-cerità, di fedeltà, tutta in somma quell'attitudine per fareil bene e comprendere il bene ricevuto, delle quali ciaveva fornito; in guisa che quando gli piace offrire an-che a questi occasioni di mettere in pratica tali facoltàsono pronti, anzi più pronti di noi nell'applicarle al rettouso per cui ne furono presentati. Ciò mi rendea talvoltagrandemente malinconico quando mi si dava il caso dipensare al poco buon uso che di questa capacità faccia-mo noi illuminati dalla grande fiaccola d'ogni sapere,dallo spirito del Signore e dalla conoscenza delle sueparole aggiunta al nostro intelletto; nè sapeva compren-dere perchè Dio avesse tenuta celata questa salutare co-noscenza a tanti milioni d'uomini, i quali, se devo giudi-carlo da quel selvaggio, ne avrebbero tratto miglior frut-to che noi nol facciamo.

Queste considerazioni, lo confesso, mi portavano ta-lora troppo lontano, perchè il mio discutere su i motividella sovrana Providenza, e quasi un accusarne la giusti-zia distributiva che, nascondendo la luce ad alcuni e ri-velandola ad altri, pretendeva gli stessi doveri dai se-condi e dai primi; ma la finivo presto imponendo un fre-no ai miei audaci pensieri concludendo così: “Primiera-

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mente non sappiamo qual luce abbia data ai secondi, nèin forza di qual legge vengano condannati; e poichè Dioè necessariamente e per essenza infinitamente santo egiusto, non potrebbe spiegarsi un decreto che gli allon-tanasse eternamente dalla sua presenza se non si ammet-tesse aver essi peccato contro a quella luce che, comedice la Scrittura, doveva essere una legge per essi e aquelle regole per cui le coscienze loro dovevano cono-scere il giusto indipendentemente dalla divina rivelazio-ne. In secondo luogo ci vediam ridotti al silenzio, ovepensiamo che essendo tutti noi creta nelle mani dal va-saio, niun vaso ha il diritto di chiedergli: Perchè mi haiformato così?” Ma torniamo al mio nuovo compagno.

XLIV. Educazione di Venerdì.

Lieto oltremodo di questo mio nuovo compagno, l'af-fare della mia vita era divenuto insegnargli tutto ciò chefosse atto a renderlo destro e soccorrevole; ma soprattut-to a farlo parlare ed intendermi quando io parlava. Egliera da vero la miglior pasta di scolaro che ci sia statamai, e singolarmente di sì buon umore, d'una diligenzatanto costante, sì contento quando arrivava a capirmi o afarsi capire da me, che mi facevo una vera festa d'i-struirlo. Ora la mia vita cominciava a divenire sì piace-vole che principiavo a dire: “Se potessi assicurarmi chenon ci venissero più selvaggi, non m'importerebbe nulladi partire da quest'isola sinchè vivo!”

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Dopo due o tre giorni ch'ero tornato nella mia fortez-za, pensai che al fine di svogliare affatto Venerdì degliorridi suoi appetiti di cannibale, avrei dovuto fargli as-saggiare carni diverse da quelle cui fatalissimamente erastato avvezzato. Una mattina pertanto lo condussi mecoai boschi. Ci andavo veramente con l'intenzione di am-mazzare un capretto della mia greggia e portarmelo acasa per cucinarlo; ma camminando vidi una capra sal-vatica che stava all'ombra con a lato i suoi due capretti.Feci fermare Venerdì: “Alto là! gli diss'io, non ti move-re!” e immediatamente presa la mira e sparato il mio ar-chibugio, stesi morto uno dei due capretti. Quel poveroselvaggio che dianzi m'avea veduto, veramente in di-stanza, uccidere il selvaggio suo nemico, ma non seppeo non potè immaginare come ciò fosse avvenuto, or ri-mase immerso in una più penosa sorpresa. Tremava, eraconvulso, mandava occhiate sì smarrite che credei ve-derlo svenire. Senza guardare il capretto nè accorgersich'io lo aveva ucciso, si levò la sua casacca per vederese lo avessi ferito. Egli pensò, come non tardai ad avve-dermene, che io avessi voluto ucciderlo, perchè venne aprostrarmisi innanzi e a dirmi, abbracciandomi le ginoc-chia, una quantità di cose che non potevo intendere, mail significato delle quali era facile capirlo, si riduceva asupplicazioni perchè non lo ammazzassi.

Trovai presto la via di convincerlo che non gli volevofare del male, perchè presolo per una mano gli sorrisi,ed accennando il capretto ucciso dianzi, gli dissi checorresse a prenderlo e me lo portasse; le quali cose men-

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tre egli eseguiva, e intantochè stava facendo le meravi-glie e cercando di capire come mai quell'animale fosserimasto morto, io caricai il mio moschetto di nuovo. Dilì a poco mi capitò a tiro un grande uccello che credeiun falco appollaiato su un albero. Allora chiamatominuovamente da presso Venerdì per dargli in qualchemodo a capire che cosa volessi fare, presi la mira al sup-posto falco che si trovò poi essere un pappagallo: ciònon fa nulla. Volsi dunque nel tempo stesso l'attenzionedi Venerdì sul mio schioppo, su l'uccello e sul terrenoche gli stava sotto, perchè notasse il luogo ove io divisa-va che cadesse la preda, su me che mi prefiggevo d'ucci-dere quel volatile sparando la mia arma; poi la sparai fa-cendogli subito osservare come l'effetto avesse piena-mente corrisposto alle mie predizioni. Rimase sbigottitouna seconda volta a malgrado di tutto quello che gli ave-vo detto; e m'accorsi che il suo sbalordimento era tantopiù grande, perchè non m'avendo veduto introdurre lacarica entro al moschetto, s'immaginò che quest'ordignoavesse in se stesso una virtù di distruzione, e potessequindi a suo grado uccidere uomini, quadrupedi, volati-li, così da vicino come da lontano; terrore nato in lui chevi volle del tempo assai prima che se ne liberasse, e cre-do bene che, se lo avessi lasciato fare, avrebbe adoratome e il mio schioppo come due divinità. Quanto alloschioppo, si guardò ben dal toccarlo per molti dì succes-sivi. Unicamente quando si credea solo gli parlava,come se lo schioppo avesse potuto rispondergli, e seppi

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da poi dal medesimo Venerdì che que' borbottamentierano preghiere di non ammazzarlo.

Poichè questo primo terrore fu alcun poco sedato, glicomandai di andare a prendere il pappagallo ucciso, laqual cosa egli fece; ma indugiò alcun poco a portarmelo,perchè quell'uccello non essendo morto del tutto svolaz-zo un bel tratto lontano dal sito ove cadde; ciò nonostante giunse a trovarlo. Mentre aspettavo che tornassecon la preda, io, già accortomi dei falsi giudizi fermatida Venerdì intorno allo schioppo, profittai di quest'inter-vallo per ricaricarlo senza essere veduto da lui onde tro-varmi lesto al primo tiro che capitasse; ma niun altro sene presentò lungo la via nel nostro tornare a casa. Arri-vatovi, la sera stessa scorticai il mio capretto e lo feci inquarti meglio che seppi; indi avendo una pentola oppor-tuna all'uopo misi a bollire una parte di quella carne chemi diede, per dir vero, un brodo squisito. Dopo aver co-minciato a mangiar io un poco di questo lesso o stufatoche fosse, ne diedi al mio galantuomo, che lo aggradì egustò grandemente. Sol gli parve una stravaganza il ve-dermi salarlo prima d'accostarmelo alla bocca; e per far-mi comprendere che il sale non era cosa buona da man-giare se ne mise un pochino in bocca, poi si diede a spu-tare e sputare e a far tutti i moti che derivano dalla nau-sea; e terminò la sua azione mimica risciaquandosi lefauci con acqua fresca. Dal canto mio feci la mia azionemimica per provargli il contrario, perchè mi posi in boc-ca un pezzetto di carne non salala, e sputai anch'io e ri-sputai e ripetei l'altre sue smorfie; ma non ci fu verso di

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farlo venir dalla mia, se non dopo molto tempo, e sem-pre con gran parsimonia.

Dopo avergli fatto gustare il lesso ed il brodo volli ildì appresso regalarlo di un arrosto di capretto, al qualfine ne attaccai un quarto ad una funicella sospesa sulfocolare, come ho veduto praticar al popolo presso di-verse nazioni europee, piantando due pali in piedi, uno aciascun lato del fuoco ed uno per traverso appoggiato sula cima di essi. Dal trave orizzontale pendea la carneche si facea volgere per tutti i versi: ingegno che Vener-dì ammirò assaissimo. Ma ben più ammirò l'arrostoquando fu ad assaggiarlo perchè, per esprimermi comegli solleticasse il palato, fece tanti gesti e discorsi allasua maniera che non arrivai a capirne uno. Finalmentepotei capirlo a discrezione, e ne fui soddisfattissimo.Quel che volea soprattutto farmi comprendere, era, ched'allora in poi la carne umana non gli avrebbe fatto golamenomamente.

Nel giorno appresso lo misi all'opera di tritare il gra-no e di vagliar la farina nel modo ch'io praticava, e cheho già spiegato dianzi. Nè egli fu tardo a comprenderequel che dovea fare, massimamente quando seppe a qualfine intendeva un tale lavoro: cioè a fare il pane; perchèdopo avergli additato il suo ufizio del momento, mi la-sciai vedere a fare e a cuocere il mio pane io medesimo.Non andò guari che Venerdì fu capace di far tutta questabisogna da sè come avrei potuto farla io.

Principiai ora a considerare che, avendo due boccheda alimentare in vece di una, bisognava disporre un

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campo più vasto pel mio ricolto e seminare una maggiorquantità di grano ch'io non solea. Sceltomi pertanto unpiù largo compartimento di terreno, cominciai a munirlodi ripari come avevo praticato con gli altri miei campi,alla qual opera Venerdì si prestò non solamente di buonavoglia e con gagliardia, ma con sincerissima alacrità,poichè gliene ebbi dimostrato lo scopo: quello cioè difar nascere maggior copia di grano affinchè, avendoloora meco, ci fosse abbastanza per far vivere lui e me. Laqual ragione parve che egli intendesse benissimo, per-chè mi diede a comprendere come, a quanto sembrava-gli, io avessi più brighe per lui che per me stesso, nè do-ver io mai pensare ad altro che ad insegnargli le cose dafare, affinchè egli si mettesse all'opera con energia sem-pre crescente.

Fu questo il più lieto anno di tutta la vita da me tra-scorsa in quest'isola. Venerdì cominciava a parlare pres-sochè bene e ad intendere i nomi di quasi tutte le cose sucui m'accadeva parlargli o di tutti i luoghi ove m'occor-reva spedirlo. Trovava anzi tanto diletto nel farmi udireil suo cicaleccio che finalmente principiai a sciogliereun poco ancor io la mia lingua divenutami tarda da veroper mancanza d'ogni occasione di parlare, se non era ta-lora con me medesimo. Oltre al piacere di conversare,altra singolare soddisfazione io trovai nell'indole di quelbuon diavolo stesso con cui conversavo. La sua sempli-ce nè menomamente simulata onestà, mi appariva piùevidente ogni giorno, onde cominciai realmente ad

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amarlo, ed egli, dal canto suo, credo mi amasse più diquanto avesse mai potuto amare veruna cosa in sua vita.

Mi venne l'idea d'indagare se gli rimaneva tuttaviaveruna inclinazione pel suo paese nativo; onde, avendo-lo già istrutto nella mia lingua quanto bastava perchè ri-spondesse alla mia interrogazione, gli chiesi se la nazio-ne alla quale apparteneva, riportava mai vittoria nellebattaglie. Sorrise egli nel rispondermi.

‒ “Sì! sì! nostro sempre star vantaggio”. La qual ri-sposta diede origine fra noi al seguente dialogo.

‒ “Ma se vostro sempre star vantaggio, come è statache v'hanno fatto prigioniere?

‒ Mia nazione batter tutti!‒ Come batter tutti? Se vi hanno preso, il battuto fo-

ste voi.‒ Più uomi (parea che fosse stato il suo maestro di

lingua Xury) di loro che nostri trovarsi ove essere statome; e loro aver preso uno, due, tre, me. Ma mia nazioneaverne presi due, tre, e mille e poi mille.

‒ Ma perchè dunque quelli della vostra banda che fuvincitrice non vennero a riscattar voi?

‒ Nemici che aver preso uno, due, tre e me esser corsiin canotti e portati in canotti anche noi; mia nazione al-lora non aver canotti.

‒ E che cosa fa, Venerdì, la vostra nazione con gli uo-mini che prende? Se li porta via e li mangia, come han-no fatto i vostri nemici?

‒ Sì; mia nazione mangiar uomi, mangiarli tutti.‒ Dove li trasportano?

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‒ Lì... là... dove piacer loro.‒ Vengono mai qui?‒ Sì, sì, venir qui, venire anche in altri luoghi.‒ Qui, vi siete trovato con essi?‒ Sì, essermi trovato”; in questa mi accennò il nord-

west (maestro) dell'isola che sembra fosse la parte con-sueta del loro sbarco.

Da ciò compresi che il mio servo Venerdì si era trova-to fra que' selvaggi che venivano nella parte più lontanadi spiaggia per que' conviti imbanditi di carne umana,de' quali egli rischiò questa volta di essere una pietanza.Qualche tempo dopo essendomi fatto coraggio a trasfe-rirmi seco a quel lato di littorale, riconobbe ottimamenteil sito, e mi disse che vi era stato una volta in certa epo-ca che vi si mangiarono venti uomini, due donne e unragazzo, e i venti uomini me gl'indicò disponendo ventipietre in fila e accennandomi che le contassi.

Mi è piaciuto commemorare questa particolarità dacui son tratto ad additarne una, che fu in appresso di piùalta importanza nella mia vita, perchè dopo questo dia-logo avuto con Venerdì, gli chiesi quanto fosse distantedal continente l'isola in cui ci trovavamo, e se era maiaccaduto che le scialuppe de' selvaggi fossero naufraga-te nel fare il tragetto che disgiunge una spiaggia dall'al-tra. Risposemi ciò non esser mai avvenuto, e trovarsi anon grande distanza dal lido una corrente ed un ventoche hanno, sembra, una direzione costante la mattina eduna costante direzione opposta la sera.

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Pensai su le prime che ciò derivasse dall'alternarsidell'alta e bassa marea, ma venni in appresso a conosce-re come fosse l'effetto del flusso e riflusso del possentefiume Orenoco, nel cui golfo, il seppi da poi, la nostraisola era situata, onde la grande terra ch'io aveva vedutotempo prima a ponente e a nord-west (maestro) fu l'isoladella Trinità giacente alla punta settentrionale della focedel predetto fiume. Feci a Venerdì mille interrogazioniintorno a quelle terre, ai loro abitanti, ai tratti di mareche le attorniavano, alla natura delle spiagge, alle nazio-ni che confinavano con esse, ed egli mi disse con la piùaperta ingenuità quanto sapea. Volevo anche conoscere inomi di quelle genti, ma non giunsi a trargliene di boccaaltri fuor di questo: Carib, donde compresi facilmenteparlar esso dei Caraibi, collocati dalle nostre carte geo-grafiche in quella parte d'America che si estende dallabocca dell'Orenoco alla Guiana e più oltre fino a SantaMarta. Aggiunse che per un gran tratto al di là dellaluna (s'intendea la parte del tramonto della luna chedebbe essere il ponente de' suoi paesi) vivevano uominibianchi dalla barba, e nel dire così mostrava col dito imiei mustacchi, di cui dianzi ho fatto menzione; mi nar-rò pure che questi dalla barba avevano ammazzati moltiuomi, donde capii che alludeva agli Spagnuoli, le cuicrudeltà diffusesi su l'intera America erano passate pertradizione di padri in figli.

Chiestogli se mi sapea dire come avrei potuto fare atrasportarmi dalla nostr'isola fin dov'erano gli uomi dal-la barba, mi rispose:

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‒ “Sì, sì, potere con canotto due volte”.Non intendendo che cosa volesse dire con questo suo

canotto due volte, me lo feci spiegare, e non senza gran-de difficoltà arrivai a comprendere che s'intendeva unabarca ampia come due canotti; la qual parte del discorsodi Venerdì cominciò ad andarmi molto a sangue, onded'allora in poi non m'abbandonò più la speranza che unavolta o l'altra sarei riuscito a fuggire da quest'isola e chequel povero selvaggio poteva aiutarmi ad ottenere un in-tento così sospirato.

XLV. Nozioni religiose.

Durante tutto il tempo da che Venerdì era con me, eda che avea cominciato a parlarmi ed intendermi, nonmancai d'adoperarmi ad infondere nell'animo di lui iprincipî della vera religione. Una volta gli domandai chilo avesse fatto; ma il poveretto mi frantese del tutto, im-maginandosi che la mia inchiesta si riferisse a suo pa-dre. Presolo per un altro verso gli domandai chi avessefatto il mare, la terra su cui camminiamo, i monti e leforeste. Mi nominò un vecchio Benamuchee, vissutoprima d'ogni cosa; ma di questo gran personaggio nonseppe dirmi altro, se non che era vecchio.

‒ “Star molto vecchio, continuava Venerdì, più dimare e terra, più di luna e stelle”.

Gli domandai allora come fosse che questo vecchiopersonaggio, avendo fatto tutte le cose, tutte le cose non

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lo adorassero. Qui composta gravità, il mio Venerdì mirispose con un fare di massima dabbenaggine.

‒ “Tutte cose dirgli O!‒ E tutti coloro che muoiono nel vostro paese vanno

in qualche luogo dopo la morte?‒ Sì, andar tutti a stare con Benamuchee.‒ E quelli che i vostri mangiano ci vanno anche loro?‒ Andare anche loro”.Qui cominciai ad instillargli cognizioni sul vero Dio,

insegnandogli come il grande architetto dell'universo vi-vesse lassù (e così dicendo gli additava il ciclo); comefosse onnipossente e potesse fare ogni cosa per noi, dareogni cosa a noi, pretendere ogni cosa da noi: così a gradia gradi apriva gli occhi al mio idiota. Egli m'ascoltavacon grande attenzione, e gli piacque il sapere che GesùCristo era stato mandato fra noi per redimerci e l'impa-rare la nostra maniera di far orazione e il sentire che Diopuò udirci anche da stare in cielo.

‒ “Se vostro Dio, mi disse un giorno, udir voi da staredi là dal sole, esser dunque Dio più grande di nostro Be-namuchee che vivere poco lontano da noi e pure nonudir noi se noi non andare trovar lui per parlargli sugrandi montagne, perchè lui non si mover di là”.

Chiesi un giorno a Venerdì se fosse mai andato a par-largli.

‒ “No, giovani non andarci; andarci solamente vec-chi, i nostri Oowokakee”.

Fattami spiegare questa parola, intesi che costoro era-no i suoi sacerdoti, una specie di clero, quelli che anda-

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vano a dire O (cioè a far orazione), e che, calati dallealte montagne, venivano a riportare al popolo i detti diBenamuchee. Ciò mi diede motivo a notare che certogenere d'astuzie è stabilito anche tra i più ciechi ed igno-ranti pagani della terra; e che la politica di mantenerenella venerazione de' popoli il clero col fare della reli-gione un mistero non e riservata alla Chiesa romana, maprobabilmente è di tutti i culti del mondo, anche fra legenti più brutali e selvagge22.

Sforzatomi di far comprendere a Venerdì la frode de'suoi Oowokakee, gli dissi tosto come il vanto che costo-ro si davano di portarsi su le montagne a dir O al lorodio Benamuchee fosse una impostura; e come le risposteriportale da essi ne fossero una anche maggiore. Chè secostoro tornavano con qualche risposta, o se colà avea-no parlato con qualcheduno, il dialogo non poteva esse-re avvenuto se non con qualche spirito maligno. Qui en-trai seco in un lungo discorso intorno al demonio, allasua origine, alla sua ribellione contra Dio, all'odio suoverso l'uomo e al motivo di tale odio, alla sua usanza dicercare i luoghi bui della terra per farsi quivi adorare in-vece di Dio, e come Dio; ai molti stratagemmi finalmen-te posti in opera da costui per deludere e trarre a perdi-zione il genere umano. Gli spiegai i segreti accessi chesa procurarsi per entro ai labirinti delle nostre passioni o

22 Presso queste anzi potrebbe venire all'uopo tale politica che l'autore del-la presente storia, protestante, attribuisce alla Chiesa romana. S'egli fosse statocattolico, avrebbe saputo che la Chiesa romana non ha altri misteri fuor quelliche sono per tutti i credenti; i misteri della fede.

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affezioni, e la sua abilità di acconciare a queste le insi-die che tende, arrivando persino a far sì che noi divenia-mo i tentatori di noi medesimi, e che la nostra rovina siaun'opera di nostra scelta.

Ma trovai che non era altrettanto facile l'imprimerenella sua mente rette nozioni intorno al diavolo, quantolo fu l'istruirlo su l'esistenza di Dio. La natura veniva insoccorso di tutte le mie argomentazioni, finchè mi limi-tai a fargli sentire la necessità di una grande prima ca-gione, di una potenza regolatrice e governatrice del tut-to, di una segreta direttrice providenza, e la giustizia ditributare omaggio a chi ne aveva creati. Ma niuna cosadi tale genere si mostrava nello stabilire la nozione diuno spirito malvagio, della sua origine ed essenza, dellasua natura e soprattutto della sua inclinazione a fare ilmale ed a trascinare nel mal fare anche noi. Laonde ilmio povero Venerdì con una domanda naturalissima eaffatto innocente mi pose una volta in tale imbarazzoch'io non seppi quasi come cavarmene per rispondergli.Dopo avergli parlato un gran pezzo dell'onnipotenza diDio, della sua avversione al peccato, avversione che faessere lo stesso Dio un fuoco struggitore degli arteficid'iniquità; dopo avergli spiegato che questo Dio, comeci avea creati tutti, poteva annichilarne tutti in un istan-te: dopo tali cose ero venuto a dirgli in qual modo il de-monio nemico di Dio si stanziasse ne' cuori degli uomi-ni, e praticasse ogni sua malizia ed abilità per disfare ibuoni disegni della Providenza rovinando il regno diCristo su questa terra, e cose simili.

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‒ “Ma voi dire, Venerdì m'interruppe, che Dio esseresì grande, sì forte! non esser lui più forte, più potente didiavolo?

‒ Sì, Venerdì; Iddio e più forte del demonio; e perquesto preghiamo Dio di metterlo sotto ai nostri piedi edi farci abili così a resistere alle sue tentazioni come arintuzzare i suoi dardi.

‒ Ma se Dio star più forte e potente di diavolo, perchènon ammazzar diavolo e così far finire sua cattivezza?”

Oh come rimasi corto a questa domanda! perchè infin de' conti, se bene fossi in quel tempo uomo provetto,ero un giovanissimo dottore e male in gambe per far laparte di casista o d'abbattitore di difficoltà. Da vero su leprime non sapevo che cosa dirgli, onde per pigliar tem-po mostrai di non averlo capito, e mi feci ripetere ciòche aveva detto; ma troppo ansioso egli era di una rispo-sta per dimenticarsi della fattami interrogazione, ondecon le stesse sconnesse parole la rinnovò. Intanto io m'e-ra riavuto alquanto dalla mia sorpresa, onde gli dissi:

‒ “Dio si riserva all'ultimo di punirlo con severità in-finitamente maggiore, quando nel dì del giudizio lo cac-cerà nell'estremo fondo del baratro infernale per ardervieternamente”.

La mia risposta non garbò a Venerdì, che tornò all'as-salto ripetendo le mie parole:

‒ “Riservarsi all'ultimo! Me non capire. Perchè nonammazzarlo adesso? non forse gran cattivo abbastanzaper ammazzarlo?

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‒ Tanto sarebbe, risposi, se mi chiedeste perchè nonammazzar voi e me, quando lo offendiamo col commet-tere cattive azioni. Ci risparmia per darne luogo a pen-tirci e a meritare il perdono”.

Venerdì ci pensò sopra, indi soggiunse con cara inge-nuità:

‒ “Ho capito. Dunque voi, io, diavolo, tutti cattivi,tutti risparmiati e pentiti, tutti perdonati?”

Questa volta poi mi vidi battuto giù di sella più chemai; ed ebbi da ciò un convincimento che le mere no-zioni naturali, se bene guidino le creature ragionevoli aconoscere Dio e a venerarne e adorarne la suprema esi-stenza, dimostrataci dalla nostra esistenza medesima,pur niuna cosa fuor della divina rivelazione può darneun'adeguata idea di Gesù Cristo e della redenzione chene ha procurata qual mediatore del nuovo patto e qualeinterceditore nostro a piè del trono dell'Eterno. Null'al-tro, lo ripeto, che una rivelazione venuta dal cielo puòstampare tali nozioni nell'anime nostre: e per conse-guenza il Vangelo, intendo la parola di Dio e lo spiritodi Dio, promesso siccome guida e santificatore del suopopolo, sono al tutto i necessari istruttori delle mentiumane nella salutare nozione di Dio e ne' mezzi dellasalvazione delle anime.

Feci pertanto finir questo dialogo fra me ed il mioservo coll'alzarmi in fretta adducendo una premura direcarmi altrove natami in quel momento. Indi, fingendopure una commissione per mandar ben lontano anchelui, mi diedi intanto a pregar Dio con fervore, perchè mi

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desse abilità d'istruir rettamente quel povero idiota, eperchè il cuore di esso con l'assistenza del divino spiritoricevesse la luce della conoscenza di Dio fatto uomo, esi riconciliasse col suo creatore. Quanto a me che comu-nicava la parola santa all'idiota, pregavo il Signore ad il-luminarmi quanto bastasse, affinchè la coscienza delmio discepolo rimanesse convinta, gli occhi di lui siaprissero e la sua anima fosse salva. Quando fu di ritor-no entrai seco in un lungo discorso su la redenzione delSalvatore del mondo, e su quella dottrina predicata dalcielo che si riferisce al pentimento delle colpe e alla fi-ducia nella misericordia di Gesù Cristo. Allora gli spie-gai, meglio che ne fui capace, per qual motivo il nostrosanto Redentore nel venire al mondo non vestisse la na-tura degli angeli, ma quella de' figli di Abramo; e comeper questo motivo, gli angeli caduti non avessero nel ri-scatto; come il figliuol di Dio fosse sceso in terra unica-mente per lo smarrito gregge d'Israele, e cose simili.

Io avea, Dio lo sa, più zelo che conoscenza ne' metodida me adottati per l'istruzione di quella povera creatura;e mi è forza confessare (e verrà in tale sentenza chiun-que sia mosso ad operare dagli stessi principii) che nelloschiarire le cose al mio scolaro, io realmente mi addot-trinai in molte, le quali o non sapevo o non avevo pon-derate abbastanza in addietro, ma occorsimi naturalmen-te all'intelletto nelle investigazioni praticate per l'inse-gnamento del povero selvaggio; onde alle indagini di talnatura mi affezionai oltre quanto le avessi amate giam-mai. In somma, sia o no divenuto migliore per opera

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mia quello sfortunato, certo ho grande motivo di ringra-ziare la celeste providenza che me lo inviò. I miei cor-dogli da quell'istante divennero più leggieri; la mia abi-tazione mi si rese oltremodo cara; e quando pensava chequesto solitario confine mi fu non solo un impulso avolgere gli sguardi al cielo io medesimo e a cercare conaffetto la mano che mi ci aveva condotto, ma era perrendermi con l'aiuto di Dio uno stromento atto a faresalva la vita e, a quanto sembrommi, l'anima di un pove-ro selvaggio ed a condurlo su la via della religione e de-gl'insegnamenti della cristiana dottrina e dell'adorazionedi Gesù Cristo in cui è la vita eterna: quando io pensavaa tutto ciò, una segreta gioia comprendeva ogni partedella mia anima; e una tale idea frequentemente mi èstata soggetto di consolazione sino al termine del mioesilio in questo luogo: esilio ch'io aveva sì spesso ri-guardato come la più spaventosa fra quante sventureavessero mai potuto avvenirmi.

In questo spirito di gratitudine al cielo io terminai ilrimanente della mia relegazione, e le conversazioni oc-corse per intere ore fra me e Venerdì resero i tre anniche vivemmo qui insieme compiutamente felici, se com-piuta felicità può sperarsi in questo sublunare pianeta.Quel povero selvaggio era adesso un buon Cristiano,anzi molto migliore di me, benchè io abbia motivo disperare, e Dio mi faccia dire la verità, che fossimo en-trambi egualmente penitenti, egualmente confortati erassicurati dalla natura del nostro pentimento. Qui ave-vamo per leggerli i divini volumi, nè lo spirito del Si-

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gnore era per istruirci più lontano da noi che nol sarebbestato nell'Inghilterra. Il mio principale studio nel leggerea Venerdì la sacra Scrittura si fu quello di spiegargli me-glio che poteva il significato di quanto gli leggevo; edegli dal canto suo con le sue serie interrogazioni e curio-sità mi rendea, come ho già detto, più istrutto nelle sacrecarte, che nol sarei mai stato, se avessi fatta da me soloquesta lettura.

Intorno a ciò non posso rimanermi dall'osservareun'altra cosa; ed è quanto debba riguardarsi come un'in-finita ed ineffabile felicità che le nozioni relative a Dio ealla salvazione dell'anima sieno spiegate si pianamente esì facili ad imprimersi nella mente e ad intendersi nelVangelo. La sua sola lettura ha bastato a farmi sì accortode' miei cristiani doveri, che mi ha condotto direttamen-te su la via del pentimento de' miei peccati e, non mistaccando mai con la mente dall'idea del Salvatore dellavita ed anima mia, ad una stabile riforma pratica e aduna sommessione assoluta ai divini comandamenti: eciò senza l'aiuto d'alcun repetitore o maestro, intendoumano. Questa medesima piana istruzione attinta ai san-ti Libri valse tanto ad illuminare quel povero selvaggio,che ho conosciuti in mia vita ben pochi cristiani degni distargli a petto.

Quanto a tutte le dispute, controversie e dissensioni eguerre nate nel mondo in materia di religione, sia percavilli che riguardassero la dottrina, sia su le massimedel governo ecclesiastico, erano cose inutili affatto pernoi e, se non erro, lo sono state al rimanente del genere

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umano. Noi avevamo la guida del paradiso la più sicura,e avevamo, per nostra gran ventura, il confortevole lumedello spirito di Dio che, istruendone con la sua parola edirigendoci su le vie del vero, trovava in noi discepolidocili e volonterosi di riceverne i santi insegnamenti. Eda vero non so vedere di qual menomo vantaggio sareb-be stata a noi, quand'anche avessimo potuto conseguirla,una più ampia nozione di controversi punti religiosi chehanno portata tanta confusione sopra la terra. Ma tornia-mo a ripigliare il filo di questa storia, disponendo ordi-natamente gli avvenimenti che restano a dirsi.

XLVI. Scoperta importante.

Poichè Venerdì ed io fummo entrati in maggiore in-trinsichezza, ed egli potè intendere quasi tutto ciò ch'iogli dicea e parlarmi speditamente, ancorchè con una sin-tassi bastarda, nella mia lingua gli raccontai la mia sto-ria o almeno la parte di essa che si riferiva al mio arrivoin quest'isola, a modo onde ci vissi, e al tempo che ci ri-manevo. Iniziato per me nel mistero, chè fin allora neera stato uno per lui della polvere, delle palle e del mo-schetto, gl'insegnai a sparare quest'arma. Presentatolod'un coltello, del qual dono fu oltremodo contento glifeci inoltre una cintura donde pendeva una guaina similea quella entro cui siam soliti custodire i nostri coltelli dacaccia; ma non avendo io poi un'arma di tal natura, glidiedi invece un segolo che fu utile a lui in più d'un caso

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per la propria difesa, in molti altri gli giovò anche me-glio di un coltello da caccia.

Gli descrissi i paesi dell'Europa, e singolarmente l'In-ghilterra donde io procedea, e le usanze nostre di viveree il modo di comportarci così verso il Dio unico cheadoriamo come gli uni rispetto agli altri e il nostro traf-fico marittimo esteso a tutte le parti del mondo. Nel daread esso un'idea del vascello su cui feci naufragio, gli ac-cennai, come potevasi in quella distanza, il luogo ovearrenò; ma, andato in pezzi da tanto tempo, non ne rima-nea più vestigio. Potei bensì mostrargli i frantumi diquella scialuppa che senza averci potuto condurre a sal-vamento era stata trasportata dalla burrasca sopra laspiaggia e che tutte le mie forze non furono buone dismovere. Veduta quella scialuppa, Venerdì stette medita-bondo e senza dir nulla per qualche tempo; onde chie-stogli finalmente a che cosa pensasse, mi rispose:

‒ “Me veder cosa simile a cosa venuta stare con miagente”.

Mi ci volle un pezzo a capirlo; ma finalmente, fattolospiegar meglio, intesi che una scialuppa simile a quellaera venuta a stare su la spiaggia del suo paese, cioè,come disse in appresso, vi era stata portata dall'impetodi una burrasca. In quel momento m'immaginai chequalche nave europea essendo naufragata presso quellacosta, se ne fosse staccata una scialuppa, gettata indi dalfuror delle ondate sopra la spiaggia; ma fui sì duro d'in-telletto da non venirmi una sola volta in mente ch'essacontenesse uomini sottrattisi al naufragio. Molto meno

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pensai alla nazione cui la scialuppa appartenesse, e milimitai soltanto a chiedere una descrizione di essa: de-scrizione che il mio Venerdì mi fece, se vogliamo, conqualche garbo; ma il momento in cui si conciliò tuttal'attenzione mia fu quando aggiunse con certo interessa-mento:

‒ “Noi aver salvati uomi bianchi da annegarsi.‒ Come! gli chiesi, vi erano uomi bianchi nella scia-

luppa?‒ Si, barca piena d'uomi bianchi.‒ Quanti erano?”Venerdì ne contò su le dita diciassette.‒ “E che cosa e avvenuto di loro?‒ Loro vivere; stare con mia gente”.Ciò suscitò nuovi pensieri nella mia mente; credei

cioè appartener tali uomini al vascello naufragato a veg-gente della mia isola com'ero solito chiamarla io; mi fi-gurai che quando il vascello fu battuto contro allo sco-glio e videro irreparabile la loro perdita, si fossero getta-ti nella scialuppa, approdando a qualunque rischio inquella terra selvaggia. Qui le mie indagini si fecero piùminute, onde tornai a domandare che cosa fosse avvenu-to di essi. Venerdì mi assicurò di nuovo che viveano tut-tavia; aggiunse che rimaneano colà da quattro anni; chei selvaggi li lasciavano in pace, ed anzi li fornivano divettovaglie.

‒ “Ma come può darsi, gli domandai, che i vostri nongli abbiano uccisi e mangiati?

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‒ Oh no! star pace fra nostri e quelli; nostri mangiarsolo fatti battersi in guerra”. S'intendea dire: “I nostrimangiano soltanto chi fa ad essi la guerra e rimane vintoe prigioniero”.

Era trascorso qualche tempo quando trovatomi su lacima del monte alla parte orientale dell'isola, là donde,come ho detto, in tempo sereno aveva scoperto il conti-nente di America, Venerdì (era serena anche quella gior-nata) guardò con ansietà verso la stessa parte, poi si die-de a saltare e a ballare, indi a chiamarmi, perchè ero inqualche distanza da lui.

‒ “Che cosa è stato? gli chiesi.‒ Oh che contentezza! esclamò. Oh che gioia! Guar-

dar là mio paese! mia nazione!”Uno straordinario sentimento di esultanza gli si leg-

geva in quel momento sul volto; le pupille sue scintilla-vano, e tutto l'aspetto di lui manifestava tale stravaganteentusiasmo che parea mosso da un'ardente brama di es-sere nuovamente nel proprio paese. La qual cosa mi die-de tanto da pensare, che su le prime non feci così buonviso come in passato al mio servo. Non dubitai in quelmomento che se Venerdì fosse tornato addietro fra isuoi, avrebbe posto in dimenticanza non solamente lasua religione, ma quante obbligazioni mi professava, eforse sarebbe andato più in là: avrebbe scoperto (furonoqueste allora le mie paure) ai suoi compatriotti il mio ri-covero, e, tornato addietro con un centinaio o due diessi, e costoro avrebbero fatto allegro pasto delle miecarni come usavano co' nemici presi in guerra. Quale in-

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giuria io faceva a quella povera onestissima creatura! ene fui ben dolente in appresso; ma per un po' di tempo imiei timori si rincalzarono, onde per alcune settimanestetti più circospetto con esso, nè me gli mostrai così fa-migliare ed affabile come in addietro; nel che fui vera-mente dal torto. Quel buon giovine, pieno di sensibilità,non avea mai concepito un pensiere che non s'accordas-se co' principii e del cristianesimo da lui abbracciato edella sua amorevole gratitudine, come con piena miasoddisfazione ne fui certo da poi.

Finchè i miei ingiusti timori durarono, potete ben cre-dere che non mi stetti dallo scalzarlo ogni giorno pertrargli qualche cosa di bocca in conferma de' miei so-spetti. Ma lo trovai sì ingenuo, sì leale in quanto mi di-ceva e rispondeva, che non trovai la menoma cosa atta anudrirli; laonde, con tutte le mie cattive preoccupazioni,tornò a guadagnarsi interamente il mio affetto; nè egli siera accorto menomamente del mio turbamento, nè perconseguenza io potei supporre che cercasse insidiosa-mente d'addormentarmi.

Camminavamo un giorno su lo stesso monte, ma es-sendo coperta di nebbia la parte che guardava il mare,non potevamo vedere il continente.

‒ “Venerdì, gli dissi, non v'augurate mai di rivedere ilvostro paese, la vostra nazione?

‒ Sì; me augurar tornarli a vedere!‒ Che cosa poi vorreste far là? Tornare selvaggio!

mangiar carne umana! essere di nuovo un barbaro comefoste altra volta!”

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Mi volse un'occhiata in cui leggeasi la costernazionedel suo animo; crollò la testa, poi disse:

‒ «No, no, Venerdì insegnar loro vivere bene, col ti-mor di Dio, e mangiar pane di farina, carne di capra, lat-te; uomi non più!

‒ In questo caso ammazzeranno voi”.Mi diede una grave occhiata e soggiunse:‒ “No, no; non ammazzar me; piacer imparare”.Intendea dire con ciò, che amavano di essere ammae-

strati; in prova di che soggiunse, che aveano già impara-te molte cose dagli uomi dalla barba venuti nella scia-luppa. Allora gli chiesi, se voleva tornare alla sua patria.Sorrise nel rispondere:

‒ “Me non saper nuotare tanto lontano!‒ Fabbricherò una scialuppa per voi.‒ Me andar là se voi venire con me.‒ Io andar là! mi mangerebbero a prima giunta.‒ No, no; me fare loro non mangiar voi; me fare loro

amar grande voi”.S'intendeva dire che gli avrebbe informati del modo

onde avevo uccisi i suoi nemici e gli avevo salvata lavita. Qui mi raccontò alla meglio tutte le ospitalità che isuoi compatriotti avevano usate agli uomi bianchi, oagli uomi dalla barba (che in uno di questi due modi so-lea chiamarli) spinti alla loro spiaggia dalla burrasca.

D'allora in poi, lo confesso, non m'abbandonò più latentazione di arrischiarmi a questa traversata, e veder diraggiugnere gli uomi dalla barba ch'io non dubitava piùnon fossero Spagnuoli o Portoghesi. Mi sembrava ben

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certo che, conseguito simile intento e trovatomi una vol-ta sul continente e in buona compagnia, qualche espe-diente di liberazione non sarebbe stato per me tanto dif-ficile ad immaginarsi, quanto in un'isola ov'ero solo eprivo d'aiuti, lontano quaranta miglia dalla terra ferma.Dopo alcuni giorni pertanto presi nuovamente ad inve-stigare Venerdì in via di discorso col dirgli che volevofornirlo d'una barca per tornarsene co' suoi compatriotti.Di conformità a tale profferta lo condussi all'altra estre-mità dell'isola, ove stava sott'acqua quella mia così dettafregata, e fattala venire a galla, gliela mostrai, e vi entraidentro in sua compagnia. M'accorsi allora della moltasua destrezza nel governare una barca, destrezza da verosuperiore alla mia. Qui gli dissi:

‒ “Ebbene, Venerdì, volete tornarvene al vostro pae-se?”

Fece occhi instupiditi a tale proposta, e credo fosseperchè quella navicella gli sembrava troppo piccola peruna traversata sì lunga. In fatti gli soggiunsi che ne ave-vo una più ampia; e nel giorno successivo lo condussiladdove giacea la prima barca che fabbricai senza riusci-re a vararla. Questa gli parve grande abbastanza; ma c'e-ra un altro guaio: rimasta quivi da ventitrè o ventiquat-tro anni, e non me ne essendo io preso veruna cura, ilsole l'avea sconnessa e inaridita sì, che potea quasi dirsiandata a male. Venerdì ciò non ostante m'assicurò chequel la barca potea portare grande quantità di pane, dibeveri e di cibori, parole del suo dizionario.

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In somma io era allora sì fermo nel mio divisamentodi portarmi con lui al continente, che gli dissi:

‒ “Con questa no, ma una simile a questa la fabbri-cheremo e dentro essa ve ne tornerete a casa”.

Non rispose una parola, ma si fece serio e malinconi-co. Gli chiesi che cosa avesse, ed egli chiese a me:

‒ “Per che cosa in collera con Venerdì? Che cosaavervi fatto?

‒ Io non sono niente in collera con voi.‒ Non in collera! non in collera! Perchè dunque voler

mandare Venerdì a suo paese?‒ Ma non vi auguravate voi stesso di esserci?‒ Sì, augurare esserci tutt'e due; non augurare Venerdì

là e padrone qui!»In una parola non voleva intenderla di partire senza di

me.‒ “Io andar là, Venerdì! a far che?‒ A far che? mi rispose con la massima vivacità. A far

bene grande! A far buoni e mansueti uomi selvaggi! Afar loro conoscere Dio, pregar Dio e vivere vita nuova!

‒ Oh Dio! Venerdì, tu non sai quel che tu dica. Nonsono nulla meglio d'un ignorante io medesimo.

‒ Mai più! Voi aver insegnato me il bene; insegnare ilbene loro!

‒ No, no, Venerdì; andrete senza di me; lasciatemi vi-vere qui solo, come ho fatto in passato”.

Rimase confuso non si può dir quanto all'udire questadichiarazione; poi tratto a mano un de' coltelli ch'era so-lito portare, me lo presentò.

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‒ “Che cosa ho a farmi di questo coltello? gli chiedo.‒ Ammazzar Venerdì!‒ Perchè ammazzarlo? soggiunsi.‒ Perchè volerlo mandar via? ripetè con forza. Am-

mazzare Venerdì, sì! mandar via Venerdì, no!”Con tanta veracità di sentimento diceva queste cose,

che gli vidi gli occhi molli di pianto. In fine scopersi sìpienamente e l'affezione di quel poveretto per me e laferma risoluzione di non lasciarmi, che lo assicurai e al-lora e più volte appresso del mio stabile proposito dinon privarmi di lui, fintantochè fosse rimasto volentiericon me.

XLVII. Cantiere di costruzione.

A conti fatti, s'io per una parte ravvisava in tutto il te-nore dei discorsi di Venerdì una salda affezione per me euna intenzione la più risoluta di non lasciarmi, vedevoper l'altra come il desiderio di rivedere il suo nativo pae-se si fondasse sopra un ardente amore di patria o su lasperanza del bene ch'io potessi fare ai suoi compatriotti:impresa per la quale nè mi sentivo in me medesimo lenozioni opportune a tentarla nè la menoma vocazione.Pure la fortissima tentazione, come ho già detto, di av-venturarmi ad una fuga trovava un incentivo troppo pos-sente nei diciassette naufraghi o spagnuoli o portoghesidi cui parlommi il medesimo Venerdì. Per conseguenza,senza frapporre indugi, mi diedi a cercare in compagnia

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di Venerdì un albero atto a farne una piroga o canottoacconcio al viaggio divisato.

Certamente vi erano nell'isola alberi quanti sarebberobastati ad allestire una piccola flotta non di piroghe ocanotti, ma anche di vascelli di linea; ma ciò che ebbiprincipalmente in mira si fu d'averne uno ben vicino almare per poterlo lanciare in acqua appena costrutto, enon rinovare lo sconcio occorsomi un'altra volta. Final-mente Venerdì adocchiò l'albero a proposito, chè Vener-dì s'intendea meglio di me su la qualità di legnami piùadatti a tali lavori. Non saprei nemmen oggi determinarla famiglia di piante cui apparteneva l'albero che atter-rammo: somigliava molto a quello che chiamiamo fu-stic, o partecipava della natura di questo e del legno diNicaragua cui s'avvicinava ancora nel colore e nell'odo-re. Il parere di Venerdì sarebbe stato di renderlo concavoad uso di barca mediante il fuoco, ma fattigli vedere glistromenti opportuni a conseguire la stessa meta con mi-glior garbo, gl'insegnai adoperarli, e devo lodarmi in ciòdel suo profitto e della sua agilità di mano. Dopo unmese d'improba fatica avevamo terminata la nostra bar-ca che era da vero assai elegante. Questo comparvemassimamente, poichè co' nostri segoli che gli mostraicome volevano essere usati, l'avemmo ridotta esterna-mente alla perfetta forma di navicella. Ciò non ostantedovemmo in appresso impiegare una buona quindicinadi giorni per far sì che sopra cilindri di legno ruzzolassea palmo a palmo sino alla superficie dell'acqua; ma

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quando ci fu, essa avrebbe trasportato comodissima-mente una ventina di persone.

A malgrado della sua ampiezza rimasi attonito al ve-dere con qual disinvoltura o prestezza il mio Venerdì lagovernava, la voltava per ogni verso, la spingeva colremo. Gli chiesi pertanto se voleva e se dovevamo arri-schiarci sovr'essa.

‒ “Sì, rispose, potere e volere, anche se soffiar ventogrande”.

Nondimeno io aveva nell'animo un ulteriore divisa-mento ch'egli non conosceva: ed era quello di provve-derla d'albero e vela e di un'áncora e d'una gomona.Quanto all'albero non mi costava fatica il procacciarme-lo: aveva già posto l'occhio sopra un bel cipresso giovi-ne, ben diritto, non distante di lì, perchè di simili pianteabbondava quell'isola. Detto a Venerdì di atterrarlo,gl'insegnai ancora il modo di foggiarlo convenientemen-te al mio scopo. Circa alla vela me ne presi tutto l'incari-co io. Sapevo bene d'avere una bastante scorta di velevecchie o piuttosto di pezzi di vele; ma essendo statepresso di me da ventisei anni, nè essendomi preso alcunpensiere di custodirle debitamente, perchè non m'imma-ginavo mai che mi venisse il destro di valermene nèpoco nè assai, teneva per fermo che fossero affatto in-fracidite; e molte di esse da vero lo erano. Pur ne trovaidue pezzi che avevano tuttavia assai buona cera, e conquesti postomi all'opera, non senza grande fatica e dan-do sgarbati puntacci, come potete credere, per mancanzad'aghi da cucire, finalmente riuscii a fare una brutta co-

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saccia triangolare, simile a quelle vele che chiamansi inInghilterra spalle di castrato, e che si fermano al piedecon un po' di colla e con uno sprocco alla cima: di talivele sono proveduti i nostri scappavia, ed io sapea ma-neggiarle perchè ne aveva di simili la barca entro cuifuggii di Barbaria, siccome ho narrato nel principio del-la mia storia.

Impiegai presso a due mesi in quest'ultimo lavoro,vale a dire nell'adattare il mio albero e le mie vele; per-chè lo volli finito di tutto punto, e vi aggiunsi un piccolopuntello ed una specie di controvela pei casi in cui nefosse occorso di navigar controvento e, ciò che era tuttodire, attaccai un timone alla poppa. Io era certo il piùgoffo di quanti mai furono fabbricatori di navigli; pureconoscendo l'utilità, anzi la necessità di un tale lavoro,mi ci misi tanto con tutta l'anima che finalmente in qual-che modo mi cavai d'impaccio; benchè pensando allevite che mi è costato il fare e disfare, credo mi ci sia vo-luta più fatica in ciò che nel fabbricare l'intera barca.

Compiute tutte le predette cose mi restava ad ammae-strare il mio Venerdì su quanto concerneva il governodella mia barca; perchè, quantunque sapesse regolare as-sai bene un canotto col remo, non conosceva nulla di ciòche riguardava timone o vela; ed anzi rimase stupidoquando vide me che faceva voltare la scialuppa col soc-corso del timone e la spalla di castrato gonfiarsi e mo-versi a seconda delle variazioni del nostro veleggiare.Nondimeno con un poco di pratica lo ridussi ad addime-sticarsi con queste nozioni, sì che divenne un esperto

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uomo di mare tranne il sapersi valere della bussola: sul'uso di essa ben poche cose potei far entrare nella suatesta. Pure, siccome vi erano poche nuvole in volta, erare volte o quasi mai il cielo si copriva di nebbie inquelle parti, il bisogno della bussola non era grande,perchè si lasciavano sempre vedere le stelle in tutta lanotte, e la spiaggia per tutto il giorno, eccetto nella sta-gione delle piogge, durante la quale niuno si curavad'andare attorno nè per terra nè per mare.

Cominciava ora il ventesimosettimo anno della miarelegazione, se bene, per dir vero, i tre ultimi da cheavevo questa buona creatura con me, dovrebbero levarsifuori del conto, perchè grazie a Venerdì la natura delmio soggiorno su queste spiagge era divenuto di tutt'al-tro genere. Celebrai l'anniversario del giorno in cui v'ar-rivai con gli stessi sentimenti di gratitudine alla divinamisericordia come in passato; ma le cagioni di tale miagratitudine erano pur di tanto accresciute in tal circo-stanza, poichè avevo questi nuovi testimoni presenti del-la cura che la providenza si era presa di me, oltre allasperanza che mi confortava di una imminente indubita-bile liberazione, chè questa idea mi si era improntatacon tanta forza nella mente, ch'io tenea per fermo di nonrimanere un altr'anno in quest'isola. Ciò non ostante nontrascurai il solito governo delle mie cose domestiche;non il lavoro della terra, non le piantagioni, non il mu-nirla di siepi, non la vendemmia; feci in somma tutte lecose mie, siccome negli anni addietro.

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Arrivata intanto la stagione piovosa, mi trattenni incasa più dell'usato. Ormeggiammo con quanta sicurezzapotemmo la nostra nuova fregata, traendola in quellapicciola baia donde, come ho già narrato, sbarcai le miezattere nel tornare addietro dal vascello naufragato. Ri-morchiatala su la spiaggia col soccorso dell'alta marea,ordinai al mio Venerdì di scavare una piccola darsena,ampia abbastanza per contenerla, e inclinata quanto erad'uopo per tornarla a mettere in mare; calata la marea, lariparammo con un buon argine per tenerne fuori l'acquae mantenerla asciutta quando il grosso fiotto sarebbetornato. Per difenderla poi dalla pioggia adunammo ungrande fascio di rami d'albero, de' quali le facemmo uncoperchio fitto come il tetto di una casa. Indi così dispo-ste le cose, aspettammo i mesi di novembre e decembrenei quali divisava tentar la mia impresa.

XLVIII. Straordinario avvenimento.

Mentre la bella stagione cominciava a mostrarsi e conessa ad ingagliardire i divisamenti della mia andata, ione faceva i preparativi ogni giorno; e per prima cosa an-davo mettendo in disparte una certa quantità di provisio-ni che dovevano essere le vettovaglie del nostro viaggio.M'affaccendavo una mattina a qualcuna di tali cose,quando, chiamato a me Venerdì, gli dissi d'andare allaspiaggia per vedere se gli riuscisse trovare una testuggi-ne o tartaruga, cibo che non ne mancava mai, una volta

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almeno per settimana, e del quale eravamo ghiottissimi,sia per le uova, sia per la carne di questo animale. Ve-nerdì non era rimasto via lungo tempo, quando tornò ad-dietro tutto ansante, e, scalato il piccolo muro della miafortezza, corse a me che i suoi piedi non toccavano ter-ra.

‒ “Ah padrone! padrone! Gran disgrazia! gran disgra-zia! egli sclamava.

‒ Che è stato, Venerdì?‒ Ah! laggiù venuti uno, due, tre canotti, uno, due, tre

canotti venuti là”.A questo suo modo di dire io credei che i canotti fos-

sero sei, ma in appresso mi persuasi che erano tre sola-mente.

‒ “E per questo, Venerdì? Non vi spaventate!”Io cercava d'incoraggiarlo alla meglio; ma vedevo che

il poveretto era atterrito tremendissima guisa, perchènull'altro eragli saltato in testa, se non che quella gentefosse venuta per cercar lui e farlo in quarti e mangiarlo.Il povero diavolo era sì fuori di sè dallo spavento ch'iosapeva appena che cosa dirgli o fare per lui. Procurai diconsolarlo come potei, dicendogli ch'io non era in minorpericolo di esso e che, se l'intenzione di coloro era tale,avrebbero mangiato me come lui.

‒ “Ma, continuai, qui bisogna risolversi a combatterli.Vi batterete, Venerdì?

‒ Me saper sparare. Ma esser venuti in grandi molti!‒ Che fa questo? ripresi a dire. I nostri moschetti spa-

venteranno quelli che non potremo uccidere”.

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Gli chiesi poscia se, come ero risoluto io a difenderlui, egli fosse pronto a difender me, e a far quanto glicomanderei.

“Me morire quando voi comandarmi morire,padrone”.

Andato a cercare il mio rum, chè avevo fatto granderisparmio di questa provista, glie ne feci bere alquantesorsate, dopo di che gli dissi di pigliare i due schioppida caccia che portavamo sempre con noi, e che caricaidi pallini grossi come quelli che si mettono nelle pistole.Presi in oltre con me quattro altri moschetti, caricando-ne ciascuno con verghe di piombo e pallini e due pistoleche portavano ognuna due palle. Attaccatami, secondo ilsolito, alla cintura la mia spada senza fodero, diedi a Ve-nerdì il suo segolo. Preparate in tal modo le cose mie,salii, munito del mio cannocchiale, il pendio della mon-tagna per vedere di scoprir qualche cosa, e vidi subitotre canotti all'áncora: ventuno selvaggi e tre loro prigio-neri su la spiaggia. I primi pareano tutti affaccendati ne'preparativi d'un solenne banchetto, di cui le carni di que'tre sgraziati doveano fornire l'imbandigione: cosa che faaddirizzare i capelli al dirla, pur consuetissima fra que'barbari. Notai parimente che erano sbarcati non nel luo-go donde Venerdì prese la fuga, ma più vicino alla notacaletta, ove la spiaggia era più bassa e coperta da unaselva che si stendea sino al mare. Tutto compreso del-l'orrore che l'intraprendimento scellerato di costoro do-veva destare in me, tornai a trovare Venerdì, a cui dissila mia risoluzione di piombare addosso a coloro e am-

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mazzarli quanti erano; poi gli chiesi se m'avrebbe aiuta-to. Mandata or via la paura, e rallegrati e rinfrancati al-quanto i suoi spiriti dal rum bevuto, mi ripetè con fer-mezza quanto mi avea detto poco prima:

‒ “Me morire quando voi comandarmi morire, padro-ne”.

In quell'accesso di furore presi le armi che aveva cari-cate, e che ci spartimmo fra noi. Posi tre moschetti su lespalle a Venerdì, e gli diedi una pistola da mettersi allacintura; l'altra pistola e gli altri tre schioppi me li tenniio, e così armati c'incamminammo. Postomi in tasca unpiccolo fiaschetto di rum, feci portare a Venerdì una bi-saccia piena di polvere e di pallini e verghe di piombo,ordinandogli di starmi sempre vicino e di non moversi osparare o fare alcuna cosa, s'io non gliela comandava, edintanto di non dire una parola. In questo arredo presiuna giravolta per evitare la caletta e guadagnare la selvaonde mettermi in posizione di avere a tiro costoro primadi esserne scoperto: cosa che col mio cannocchiale rav-visai di facile riuscita.

Ma lungo il cammino, ridestatisi nella mia mente gliantichi pensieri, cominciò ad affievolirsi in me la presarisoluzione. Nè credeste già che mi sgomentassi del nu-mero; essendo ignudi e disarmati que' miserabili, certa-mente il vantaggio contr'essi era dalla parte mia, e lo sa-rebbe stato quando anche mi fossi trovato solo. Tutt'al-tro era il motivo della mia perplessità. Qual diritto, qualmotivo, e molto meno qual necessità mi spingeva ad im-brattare le mie mani nel sangue, ad assalire un popolo

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che nè mi avea offeso, nè avea manifestata veruna inten-zione di offendermi? di un popolo che rispetto a me erainnocente, e i cui barbari usi erano una sua disgraziasoltanto, un contrassegno dell'abbandono di Dio che in-sieme all'altre nazioni di quella parte di globo gli ha la-sciati in preda alla loro stupidezza, alla loro inumanità,ma che non ha chiamato me a giudicarne le azioni, mol-to meno a farmi esecutore della sua giustizia? Ben que-sto Dio avrebbe saputo, quando lo avesse trovato oppor-tuno, castigar quelle genti siccome popolo, e per delittinazionali esercitare una nazionale vendetta; ma questonon era affar mio. Poteva, egli è vero, essere scusabileVenerdì, chiarito nemico ed in istato di guerra con queldato popolo, onde l'assalirlo era un atto legittimo dalcanto suo; ma per parte mia io non avea veruna di que-ste scuse da addurre. Tutto le indicate considerazionim'incalzarono con tal forza lungo la strada che risolveipormi soltanto in vicinanza di que' selvaggi per osserva-re la barbara loro festa, poi comportarmi siccome Diom'avrebbe inspirato, ma di non frammettermi come atto-re, semprechè non mi si offrisse tal circostanza ch'ioravvisassi in essa una chiamata di Dio.

Con questo proposito entrai nella selva usando lamassima cautela, serbando il più perfetto silenzio e se-guendo sempre le pedate mie Venerdì. Camminai tantoche giunsi al lembo del bosco, onde mi separava soltan-to dai selvaggi una punta di esso. Qui chiamai pianopiano Venerdì, al quale, additato un grande albero cheformava appunto l'estremità della selva, gli dissi di tra-

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sferirsi fin là, poi di venirmi a dire se aveva potuto sco-prire che cosa coloro stessero facendo. Mi obbedì; nètardò a tornare addietro per riferirmi di avere ben vedutoil tutto: che quegli sgraziati stavano attorno al fuocomangiando la carne d'uno dei loro prigionieri, e che unaltro di questi stava legato su la sabbia in poca distanzada loro nello sciagurato aspettamento di essere anch'eglimacellato a sua volta, al che sentii infiammarsi tutta disdegno l'anima mia. Aggiunse non essere questa vittimadi sua nazione, ma uno degli uomi dalla barba spintidalla burrasca nel suo paese dalla scialuppa europea.Quale orrore m'investì all'udir nominato un uomo euro-peo! Trasportatomi io stesso dietro all'albero per indaga-re col mio cannocchiale ciò che succedea, vidi perfetta-mente un uomo di carnagione bianca che giacea su lasponda del mare, legato i piedi e le mani con funi dicanne palustri o alcun che di simile, un uomo veramenteeuropeo come indicavano i suoi stessi panni.

Eravi un altro albero, e dietro ad esso un boschettoche più del primo albero era vicino di cinquanta bracciaall'incirca ai selvaggi. M'accorsi d'un piccolo viottoloselvoso donde avrei potuto andare inosservato fin là edessere distante un mezzo tiro di schioppo da que' mani-goldi. Frenata la mia rabbia, che certo era pervenuta almassimo grado, tenni quella via ombrosa finchè giunsial secondo albero; quivi guadagnata una piccola emi-nenza, poteva discernere pienamente ogni cosa ad unadistanza di ottanta braccia.

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Non c'era un istante da perdere, perchè diciannove diquegli orribili malandrini seduti alla rinfusa e tutti strettil'un presso l'altro, avevano allora mandati due dei loro,perchè macellassero il povero Cristiano, e lo riportasse-ro probabilmente a quarti a quarti al loro fuoco. Già idue beccai s'erano chinati per disciogliere dalle pastoie ipiedi di quello sfortunato. Mi volsi a Venerdì.

‒ “Adesso, Venerdì, fa quello che ti dirò.‒ Star pronto, padrone!‒ E fa esattamente quello che mi vedrai fare. Bada di

non mancare in nulla!”Ciò detto posi a terra lo schioppo da caccia e uno de'

miei archibusi; Venerdì fece lo stesso co' propri: conl'altro archibuso drizzai la mira ai selvaggi e dissi a Ve-nerdì d'imitarmi.

‒ “Sei pronto?‒ Sì, padrone! ‒ Dunque fuoco su i selvaggi”; e nel

medesimo tempo sparai ancor io.Venerdì avea presa la mira assai meglio di me, perchè

nella parte verso cui sparò uccise due uomini e nè ferìtre altri; dalla mia banda ne uccisi sol uno e nè ferii due.Vi giuro che coloro si trovarono in una tremenda coster-nazione; e tutti quelli che non rimasero feriti, saltaronoin piedi, nè sapevano da qual parte correre o per dovefuggire, perchè ignoravano donde la loro distruzione ve-nisse. Venerdì non mi levava gli occhi d'addosso per sta-re a vedere, com'io gli avevo ordinato, quel che facevo.In fatti, appena sparato la prima volta, misi a terra l'ar-

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chibuso, e presi su lo schioppo da caccia; e Venerdì lostesso; posi il dito al grilletto; lui pure.

‒ “Siete lesto, Venerdì?‒ Sì, padrone.‒ Sparate, in nome di Dio!”Nel dir ciò feci fuoco nuovamente su quella sbalordi-

ta marmaglia, e fece fuoco Venerdì; e siccome questavolta le nostre armi erano sol cariche di pallini, vedem-mo cadere sol due selvaggi, ma tanti furono i feriti checorrevano attorno mugghiando e urlando come matti,tutti imbrodolati di sangue, e molti di essi sì gravementeferiti, che non tardarono a cadere benchè non morti deltutto.

‒ “Adesso, Venerdì, diss'io mettendo giù l'armi scari-cate, e prendendo il moschetto carico tuttavia, adessoseguitemi:” il che egli fece con molta dose di coraggio.

Allora, saltato fuori del bosco, mi mostrai; e Venerdìsempre dietro a me. Appena mi accòrsi d'esser veduto,mi diedi a gridare con quanto fiato avevo e Venerdì an-che lui; poi correndo forte quanto potei, nè poteva mol-tissimo con tante armi addosso, andai a dirittura in versoalla povera vittima giacente come dissi presso al lido trail mare ed il luogo ove i suoi carnefici stavano seduti. Idue macellai che stavano appunto in procinto di spedirequell'infelice quando feci fuoco la prima volta, lo lascia-rono presi da un grande spavento; poi, corsi al mare, sal-tarono dentro un canotto, ove si rifuggirono tre altri de'loro compagni. Voltomi a Venerdì, gli dissi di correre efar fuoco sopra costoro. Mi capì subito, e prese una cor-

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sa di circa quaranta braccia per averli più a tiro; sparòcontr'essi, e credei gli avesse uccisi tutti, perchè li vidicadere in mucchio entro alla barca; ma notai poco dopoche due di questi si rialzarono: due altri certo gli uccise,e ferì sì bene il terzo che rimase come morto in fondo alcanotto.

Mentre il mio Venerdì facea fuoco su questo, io, trattoa mano il mio coltello da caccia, tagliava i legami chestringevano lo sfortunato paziente. Dopo averlo sciolto,lo alzai da terra e gli chiesi in lingua portoghese chi fos-se. Christianus, mi rispose; ma era sì debole ed estenua-to, che poteva appena parlare o reggersi su le sue gam-be. Toltomi di tasca il mio fiaschetto di rum, gliene die-di alcun poco pregandolo a cenni che ne bevesse; e cosìfece e mangiò un pezzo di pane che parimente gli offer-si. Gli chiesi allora di qual paese fosse: mi rispose cheera spagnuolo; ed essendosi alquanto riavuto, mi diedetutti i possibili contrassegni della gratitudine che mi pro-fessava per la sua liberazione.

‒ “Senor, gli dissi accozzando insieme quelle pocheparole spagnuole che seppi, avremo tempo di parlare;ma or bisogna pensare a combattere: se vi è rimasta an-cora qualche forza, tenete questa pistola e questa spadae datevi attorno.»

Prese quell'armi ringraziandomi, e appena l'ebbebrandite, quasi avessero infuso in lui un vigore novello,corse in cerca de' suoi assassini. Scagliatosi con furiasovr'essi, nè taglio a pezzi due in men che nol dico; per-chè, per dar luogo alla verità tutta intera, que' poveri

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sgraziati erano si orridamente atterriti dallo strepito del-le nostre armi da fuoco, che cadeano per mero sbalordi-mento e paura; nè per cercare uno scampo avevanomaggior virtù, che per resistere ai nostri moschetti. Talesi fu il caso di que' cinque su cui Venerdì tirò entro alcanotto; poichè se tre di quelli caddero pel colpo ricevu-to, gli altri due caddero dalla paura.

Mi tenni in mano il mio moschetto senza spararlo,perchè bramava di averne lesti altri caricati di nuovo,tanto più che la mia spada e la mia pistola le avevo dateallo Spagnuolo. Laonde, chiamato a me Venerdì, gli dis-si di correre a piè dell'albero donde avea fatto fuoco laprima volta, e di portarmi l'archibuso e lo schioppo dacaccia, che, senza tornarli a caricare, vi avevo lasciati; ilche egli eseguì con grande prestezza. Allora, datogli ilmio moschetto, mi assisi per caricare le altre armi; e dis-si così al mio servo come allo Spagnuolo di venirle acercare da me quando ne abbisognavano. Mentre io sta-va adoperandomi in ciò, nacque un accanito conflitto tralo Spagnuolo ed un selvaggio che gli menava colpi conuna enorme spada di legno: quella spada stessa che loavrebbe fatto in quarti se io non fossi stato in tempo a li-berarlo. Lo Spagnuolo, uomo dotato di valore e corag-gio oltre a quanto può immaginarsi, aveva a malgradodella propria debolezza, tenuto per un bel pezzo in ri-spetto l'Indiano, cui fece due ragguardevoli ferite soprala testa; ma costui, mascalzone gagliardo ed intrepido,serratosegli alla vita, giunse ad atterrarlo, poichè vera-mente le forze lo abbandonavano: stava strappandogli di

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mano la spada. Lo Spagnuolo da uomo accorto glielaabbandonò, e fu ad un tempo lesto a trarsi dalla cinturala pistola, che, scaricata su l'Indiano, gli trapassò il pet-to, sì che lo avea steso morto su l'erba prima che io, cor-so in aiuto di chi dianzi era soggiacente, potessi arrivar-gli vicino.

Venerdì, che in questo momento non aveva altri mieiordini da eseguire, si diede ad inseguire i fuggiaschi connon altr'arma che il suo segolo, col quale spacciò e que'tre già menzionati che caddero feriti sin da principio etutti quelli in cui s'abbattè. Intanto lo Spagnuolo essendovenuto a cercarmi per un moschetto, gli diedi uno de'miei schioppi da caccia col quale, inseguiti due selvag-gi, li ferì entrambi; ma poichè non era nè poteva nellostato suo essere agile al corso, questi si ripararono nellaselva, ove Venerdì fu loro addosso ammazzandone uno.L'altro nondimeno più svelto del mio servo riuscì a sot-trarsegli, e, gettatosi nel mare, potè raggiugnere gagliar-damente nuotando que' suoi compagni che si erano sal-vati nel canotto. Questi tre, con un ferito che non sa-pemmo se fosse morto o no, erano tutto quanto in nume-ro di ventuno individui si era salvato dalle nostre mani.Ecco il calcolo.

3 uccisi al nostro primo fuoco fatto dall'albero,2 al secondo fuoco,2 da Venerdì nel canotto,2 dei primi feriti, indi uccisi anch'essi da Venerdì,1 da Venerdì nella selva,3 dallo Spagnuolo,

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4 trovati qua e là morti delle loro ferite o uccisi daVenerdì che gl'inseguì nella selva,

4 fuggiti nel canotto un de' quali ferito se non morto.21 in tutto.

FINE DEL VOLUME SECONDO

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VITA E AVVENTURE

DI

ROBINSON CRUSOÈ.

VERSIONE DALL'INGLESE

DI

GAETANO BARBIERI.

VOLUME III.

MILANOVEDOVA DI A.F. STELLA E GIACOMO FIGLIO.

----------1838

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Volume III.

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XLIX. Il padre di Venerdì.

Coloro che erano nel canotto lavoravano di remi atutto andare per mettersi fuori del nostro tiro, e, benchèVenerdì avesse fatto due o tre volte fuoco sovr'essi, nonm'avvidi che ne colpisse alcuno. Egli mi consigliava im-padronirmi d'uno de' canotti vuoti, rimasti all'áncora, edinseguire i fuggiaschi. Per dir vero m'inquietava l'ideache costoro, se li lasciavo tornare a casa, portassero lanotizia di quanto era avvenuto ai loro compatriotti, iquali probabilmente sarebbero venuti alla volta di que-st'isola con dugento o trecento delle loro barche, e per laforza del numero ne avrebbero senza pietà divorati.Laonde, abbracciato il suggerimento di Venerdì, corsi aduno di que' canotti e saltatovi dentro, imposi a Venerdìdi seguirmi. Ma quando vi fui, rimasi sorpreso al trovar-vi un'altra povera creatura, legata piè e mani, come loSpagnuolo, e destinata al macello al pari di esso. Questoinfelice quasi morto dallo spavento era ben lontano dalfigurarsi le cose avvenute su la spiaggia, ove con la suavista non arrivava. Tanto strettamente lo aveano legatosupino dal collo alle calcagne, che gli restava appenaun'ombra di vitalità.

Immantinente tagliai i ceppi di giunco ond'era avvin-to, e volevo aiutarlo ad alzarsi, ma egli non era buononè di parlare nè di stare su le sue gambe: sol disperata-mente gemeva immaginandosi, a quanto sembrò, che gli

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venissero tolti i lacci a solo fine di trucidarlo. Fattosi in-nanzi Venerdì, gli ordinai di parlargli e informarlo dellasua liberazione. Nel tempo stesso tratto a mano il fia-schetto di rum gli dissi di farne bere qualche sorso aquell'infelice. Questo ristoro, e molto più la notizia dellasua salvezza, tanto lo confortavano che potè mettersi asedere nella barca. Ma appena Venerdì lo udì parlare, egli guardò in faccia, fu un singolare spettacolo il vederecome lo baciasse, lo abbracciasse, lo accarezzasse.Esclamava, ridea, mettea grida, gli saltava attorno, bal-lava, cantava; indi tornò a gridare, si contorcea le mani,si batteva il volto ed il capo; poi di bel nuovo gli saltavae cantava attorno: si sarebbe detto che fosse impazzito.Corse un bel tratto di tempo prima che Venerdì potesseparlarmi o spiegarmi il motivo di quanto facea. Maquando fu tornato in sè tesso, eccitò ben più cari senti-menti in me (e chi non gli avrebbe eccitati?) col dirmiche quegli era suo padre. Non mi è cosa agevole l'espri-mere quanto mi commovesse l'estasi di filiale affettoonde fu compreso quel povero selvaggio alla vistadell'autor de' suoi giorni, al sentimento della sua libera-zione; nè da vero saprei descrivere la metà delle strava-ganze che questa estasi gli suggerì. Usciva di barca, citornava non so dir quante volte; entrando, volea sederglida presso, si scopriva il petto e applicava per molti mi-nuti la testa del padre al proprio cuore per riscaldarla;indi gli prendea le braccia e le gambe intirizzite, asside-rate dalla legatura, e ci fiatava sopra e le fregava con lesue mani. Accortomi allora del motivo di ciò, gli diedi

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un poco di rum del mio fiaschetto perchè lo adoperassein tali fregagioni, il che recò grande giovamento al po-vero vecchio.

Questo incidente mandò a vuoto il disegno d'insegui-re il canotto de' fuggiaschi, chè gli avevamo omai fuoridi vista; ma fu pel nostro meglio, perchè due ore dopo eprima che avessero potuto fare un quarto del loro cam-mino si alzò un vento fierissimo che continuò con lastessa violenza tutta la notte, e poichè soffiava dal nord-west (maestro), vale a dire contr'essi, non è a credersiche la loro barca gli resistesse, nè che raggiugnesseropiù mai la costa nativa.

Ma tornando a Venerdì, egli era sì affaccendato intor-no a suo padre che non ebbi cuore di stoglierlo da sì lo-devole cura per qualche tempo. Dopo avergli dato agio aqueste espansioni filiali del suo cuore, lo chiamai. Eglivenne saltando, ridendo, che non potea stare, come suoldirsi, ne' propri panni dalla contentezza. Chiestogli seavea dato un poco di pane a suo padre, crollò il capo nelrispondermi.

‒ “No! (e qui accennava sè stesso) sgraziato cane cheaver mangiato tutto per sè!”

Trattami d'un sacchetto che avevo portato meco persimili occorrenze una focaccia, nel tempo stesso diedi aVenerdì un poco di rum per lui; ma ricusato gustarne,volle serbar tutto per suo padre, al quale portò parimenteuna manata d'uva appassita di cui mi ero posto due o tregrappoli nel sacco stesso. Appena ebbe recate questecose al liberato prigioniero, lo vidi saltar di nuovo fuori

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e correr via a rotta di collo come se avesse il diavolo ad-dosso. Benchè lo conoscessi già famoso per la prestezzadel correre, questa volta si tolse tanto dall'ordinario chein un batter d'occhio nol vidi più. Ebbi un bel gridare,un bel chiamarlo addietro; era tutt'uno. Sol dopo unquarto d'ora ricomparì; ma non veniva di sì buon passocom'era andato; perchè, quando mi fu più vicino m'ac-corsi di qualche cosa ch'egli portava fra le mani. In som-ma,egli era corso fino a casa per portar una gran broccad'acqua fresca a suo padre e di più prese due focacce perme. Ricevuto il pane lasciai che compiesse la sua operadi carità filiale, non senza per altro rinfrescarmi le faucicon quell'acqua, perchè assetato ancor io la mia parte.Questo giovò a ristorar il padre di Venerdì più di tutto ilrum e de' cordiali che gli somministrai, perchè veramen-te quel poveretto si moriva di sete.

Poichè questi ebbe bevuto, chiesi a Venerdì se vi fos-se rimasta altra acqua, e udita la risposta sua affermativagli dissi di andarne a prendere pel povero Spagnuolo as-setato non meno del padre di lui e ridotto ad uno statomassimo di debolezza. Con le membra assiderate e fattegonfie dalle legature giacea su la zolla all'ombra d'un al-bero. Diedi a lui pure una delle due focacce portatemida Venerdì; ma sol quando vide venir questo con l'ac-qua, si sollevò seduto su l'erba e cominciò a mangiar digusto il suo pane cui aggiunsi una porzione d'uva appas-sita. Mi guardò dandomi tutti que' contrassegni d'affet-tuosa gratitudine ch'uomo può dimostrare; ma era sìstanco, si era tanto affaticato nella battaglia, che non

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potè rizzarsi su i propri piedi: ci si provò due o tre volte,senza riuscirci tanto questi erano gonfi e gli facevanomale; onde lo persuasi a rimanere seduto mentre ordina-vo intanto a Venerdì che gli bagnasse e fregasse le giun-ture con un poco di rum come avea fatto con suo padre.

Io andava considerando questo povero amoroso figlioche non lasciava passar forse un minuto senza girare ilcapo al canotto per vedere se suo padre era sempre se-duto allo stesso posto ov'egli lo avea lasciato. Ed unavolta, non vedendolo più, balzò di lì senza profferire unaparola, poi corse alla barca con tanta prestezza che nonparea toccasse la terra co' piedi; ma giunto là e vedutoche suo padre si era unicamente steso con tutto il corposu la barca per dar qualche sollievo alle stanche mem-bra, tornò subito presso di noi. Allora dissi allo Spa-gnuolo, di permetter a Venerdì che lo aiutasse alla me-glio per accompagnarlo al canotto donde lo avrebbe tra-ghettato sino alla mia abitazione ov'io sarei stato il suoinfermiere. E tosto Venerdì, da gagliardo giovinotto qualera, se lo prese su le spalle e condottolo alla barca loposò dilicatamente su la sponda del canotto coi piedivolti verso la parte interna e portatolo di peso, lo adagiòpresso padre. Allora uscito di nuovo del canotto staccòquesto dalla riva, poi tornatovi entro remò rasente laspiaggia con più prestezza di quanta ne poteva mettereio nel camminare. Così li condusse salvi entrambi nellanostra casetta ove lasciatili tornò addietro per pigliarel'altro canotto. Passandomi davanti gli chiesi ove corres-se. Mi rispose:

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‒ “A far più nostre barche”.Correa come il vento, chè certo non ho mai veduto

uomo o cavallo a galoppare più di lui; e l'altra barchettafu nella darsena quasi prima ch'io giugnessi alla riva perterra. Traghettatomi alla sponda opposta si portò ad aiu-tare i nostri due ospiti per uscire del canotto; ma nè l'u-no nè l'altro erano al caso di camminare, onde il poveroVenerdì non sapeva che cappello mettersi.

Pensai tosto al rimedio, e, fatto dir loro da Venerdìche si ponessero seduti su l'erba, ed avessero pazienzafinchè tornassimo, lo condussi meco, nè tardai a mettereinsieme una specie di carriuola a mano, entro cui li ti-rammo fino alla cinta esterna del mio castello o fortez-za.

Ma quando fummo lì, eravamo a peggior condizionedi prima, perchè era impossibile il farli passare di sopradel muro, e io non voleva risolutamente farvi una brec-cia. Anche qui mi diedi a pensare; e, tra Venerdì e me, inmeno di due ore di tempo avevamo piantata una tenda,da vero assai elegante, composta di pezzi di vele e co-perta di rami d'alberi. Stava questa nello spianato ester-no della nostra fortezza tra essa e il boschetto di giovanipiante ch'io m'avea fatto recentemente; qui alla megliocomposi due letti delle cose che avevo: cioè di paglia diriso e di due coperte, la prima perchè vi giacessero so-pra, la seconda perchè vi stessero sotto in ciascun letto.

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L. Banchetto e consiglio di Stato.

La mia isola adesso era popolata, ed io mi reputavaricco di sudditi, onde una delle comiche idee che soven-te mi passò per la testa, si fa quella di paragonarmi adun re. Prima di tutto l'intera isola mi apparteneva in as-soluta proprietà, ed avevo un indubitabile diritto di do-minio sovr'essa. In secondo luogo il mio popolo mi erapienamente subordinato; io ne era assoluto signore e le-gislatore. Ciascun suddito m'andava debitore della liber-tà, e ciascuno avrebbe di buon grado sagrificata per me,se fosse stato d'uopo, la propria vita. Era in oltre unacosa degna di esser notata che fra tre sudditi su cui siestendeva il mio impero, ciascuno professava una reli-gione diversa: il mio servo Venerdì era protestante, suopadre pagano e in oltre cannibale, lo Spagnuolo un papi-sta; io per altro concedeva piena libertà di coscienza intutto il mio regno. Ma sia detto ciò di passaggio.

Appena ebbi provveduti di ricovero e di letto i prigio-nieri da me liberati, cominciai a pensare al loro mangia-re; onde la prima mia cura fu quella di ordinare a Vener-dì che, preso dal mio ovile un capretto d'un anno, nè deltutto da latte nè affatto caprone, lo macellasse. Intanto-chè io ne tagliava i quarti di dietro facendoli in minoripezzi, comandai a Venerdì di formarne il nostro lesso edarrosto, il che mi fornì, ve ne do parola io, un eccellentebanchetto; e poichè tutta questa cucina era stata fattafuori di casa, chè sotto al coperchio interno del mio tetto

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non accendevo mai fuoco, portai tale imbandigione sot-to la nuova tenda, ove avendo preparata una tavola pergli ospiti, mi assisi ad essa ancor io, e pranzando in lorocompagnia cercai di fare alla meglio i convenevoli dellamensa e di tenerli lieti. Venerdì era il mio interprete,massime con suo padre; ma da vero ce n'era bisogno an-che con lo Spagnuolo che s'era avvezzato a parlare per-fettamente la lingua de' selvaggi.

Poichè avemmo pranzato, o piuttosto cenato, ordinaia Venerdì di andare sopra una delle nostre barche a rac-cogliere i moschetti e l'altre armi da fuoco che avevamolasciate sul campo di battaglia. Poi nella successiva mat-tina lo mandai a seppellire i cadaveri de' selvaggi che,esposti tuttavia al sole, avrebbero infettata l'aria. Cosìpure gli ordinai di sotterrare gli orridi avanzi del barbaroloro banchetto, cosa che non avrei avuto stomaco di fario, e da vero se fossi andato colà mi sarebbe mancato ilcoraggio sin di guardarli. Ma Venerdì eseguì sì puntual-mente i miei comandi, che quando tornai colà, non avreiquasi ravvisato più il sito, se non me lo avesse indicatoquella punta di bosco donde si cominciò a far fuoco.

Allora cominciai ad entrare in qualche conferenza co'due miei nuovi sudditi: e per prima cosa, col mezzo delmio dragomanno Venerdì, chiesi al padre di lui che cosapensasse su la fuga de' quattro selvaggi, e se vi fosse atemere che tornassero con una forza troppo esorbitanteper poter resistere loro. La sua opinione principale erache i selvaggi del canotto non avessero potuto cavarselanetti dal turbine, tanto più ch'esso continuò ad imperver-

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sare l'intera notte; che doveano per conseguenza esseretutti annegati; e, se mai la burrasca gli avesse spinti aqualche lontana spiaggia meridionale, pensava che l'an-negamento naufragando o l'esser mangiati approdandonon poteva loro mancare. Che cosa poi avrebbero fattose per un prodigio fossero arrivati sani al nativo loropaese, il padre di Venerdì non lo sapea troppo. Ciò nonostante gli pareva dovessero essere pel modo onde furo-no assaliti e pel fragore dell'armi da fuoco sì tremenda-mente spaventati, che avrebbero probabilmente raccon-tato ai loro di casa di essere stati ridotti a sì mal partitodal tuono e dal fulmine, non dalla mano dell'uomo.Avranno raccontato, così egli continuava a ragionare,che i due uomini comparsi loro (io e Venerdì) erano spi-riti celesti o diavoli venuti in terra per distruggerli, nonuomini armati. Lui aver udito (così l'interprete Venerdìmi spiegava i detti del padre) quando dirsi l'uno all'altroin lor linguaggio: Impossibile ad uomo vomitar fuoco,parlar tuono, ammazzare in lontananza, senza mano al-zare.

E quel selvaggio sapea quel che diceva, perchè comemi fu noto da poi, i selvaggi di quella nazione non s'arri-schiarono più mai a metter piede in questi luoghi. I fug-giaschi del canotto veramente giunsero a casa tutti quat-tro, ma raccontarono ai loro compatriotti che chiunqueapprodasse a quest'isola incantata potea far conto d'esse-re sterminato dal fuoco del cielo. Questa particolarità ionon la sapeva allora; onde vissi in grandi paure per unbel pezzo, e mi tenni sempre all'erta con tutto il mio

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esercito. È vero che eravamo soli quattro, ma contro adun centinaio di coloro avrei avuto il coraggio di cimen-tarmi in campo aperto a tutte l'ore.

Non andò guari per altro che, non vedendosi più com-parire canotti, i miei timori si dissiparono. Ripigliai allo-ra i miei primi divisamenti d'un viaggio al continente,tanto più che il padre di Venerdì mi assicurava che, semi ci risolvevo, potevo ripromettermi dai suoi buoni ufi-zi e relazioni un buono accoglimento presso i suoi. Maportarono in me certa perplessità alcuni serii discorsifattimi dallo Spagnuolo, il quale mi raccontò essere benvero che sedici tra' suoi concittadini e Portoghesi ripara-tisi dopo un naufragio a quella costa vivevano in paceco' nativi, ma che d'altronde la faceano magra assai permancanza delle cose di prima necessità; in somma chevivevano quasi per miracolo.

Interrogato da me su i particolari del suo viaggio, miraccontò come avesse formato parte de' naviganti d'unvascello spagnuolo che veniva dal Rio la Plata per con-dursi all'Avana onde lasciare ivi il loro carico, consi-stente principalmente in pellami o argento, e riportarnequelle merci pregiate in Europa in cui si sarebbero ab-battuti; come avessero preso a bordo cinque marinaiportoghesi salvatisi da un altro naufragio; come cinquede' loro fossero rimasi annegati quando il loro vascelloperì; come campati in mezzo ad infiniti pericoli e traver-sie fossero arrivati quasi morti di fame ad una costa dicannibali, ove si aspettavano a ciascun istante di esseredivorati. Mi raccontò che avevano seco alcune armi, ma

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di nessun uso, perchè mancavano di palle e di polvereche l'acqua del mare avea fatta andar a male tutta, eccet-to una piccolissima partita, di cui si giovarono ne' primigiorni del loro sbarco per procacciarsi da vivere.

Interrogato da me come credea che sarebbe andata afinire per que' suoi compagni di naufragio, e se nonaveano mai ideato fra loro verun disegno di fuga, mi ri-spose che avevano avute su di ciò molte consulte; mache, privi d'un vascello, di stromenti per fabbricarselo edi provisioni d'ogni sorta, i loro consigli si concludeva-no sempre in pianti e disperazioni.

Gli chiesi allora come gli parea che verrebbe accoltauna mia proposta intesa alla comune liberazione, la qua-le, secondo me, sarebbesi ottenuta meglio se fossero sta-ti tutti su questa spiaggia. Ma ad un tempo gli esposicon franchezza la mia paura che si portassero male conme, e mi tradissero se mi fossi posto troppo alla ciecanelle loro mani; perchè la gratitudine non e la virtù piùinerente alla natura dell'uomo, che non sempre misuratanto le proprie azioni su i benefizi avuti quanto su quel-li che aspetta ancora. Non gli tacqui che sarebbe statacosa ben dolorosa per me, se dopo essermi fatto stro-mento di loro salvezza, mi avessero reso lor prigionieroe condotto nella Nuova Spagna, ove un Inglese, o caso onecessità vel portasse, era sicuro di essere sagrificato.Da vero avrei preferito l'essere consegnato ai selvaggi edivorato vivo da questi al cadere nelle spietate unghiedei famigli dell'Inquisizione e di quel barbaro tribunale.Del resto poi e prescindendo da questo timore, io era

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persuaso che se gli avessi avuti tutti nella mia isola, conl'aiuto di tante braccia non mi sarebbe stato difficile ilcostruire un naviglio ampio abbastanza per trasportarnequanti eravamo o alle rive meridionali del Brasile o alleisole e coste settentrionali della Nuova Spagna.

‒ “Ma, replicai, non vorrei che, quando avessi postol'armi nelle loro mani, il mio guiderdone fosse condurmiper forza fra i miei nemici, esserne maltrattato e veder-mi ad un più tristo caso di prima.

‒ La loro condizione e sì miserabile, e la sentono tan-to, mi rispos'egli col massimo candore e con tutta inge-nuità, che inorridirebbero, credo io, all'idea di pagard'ingratitudine un uomo adoperatosi per la loro salvezza.Se lo approvate, anderò a trovarli in compagnia del vec-chio selvaggio; spiegherò ad essi le cose, poi tornerò quicon la loro risposta; ma sol dopo avermi fatto dare so-lenne parola che si metteranno sotto i vostri ordini, rico-noscendovi per loro capitano e comandante; e vogliogiurino sul santissimo sacramento e su i santi Vangeli diesservi fedeli e di venire con voi in quel paese cristianoove vorrete andare, non in verun altro, e di lasciarsi re-golare affatto dalla vostra volontà sinchè sieno sbarcatisani e salvi a quella terra che additerete; del patto chefaranno con voi, mi renderò sicurtà io medesimo. Anzisarò il primo a darvi giuramento che non mi staccheròmai dal vostro fianco per tutta la vita, semprechè voinon disponiate diversamente. Se mai avvenisse che imiei compagni vi mancassero di fede, difenderò i vostridiritti sinchè mi resterà nelle vene una stilla di sangue.

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Ma non nascerà un tal caso, perchè que' compagni sonotutti gente ben nata ed onesta; oltrechè, ridotti dal primoall'ultimo, alla più spaventosa miseria, privi d'armi,pressochè ignudi, morti di fame e abbandonati alla di-screzione ed alla carità di selvaggi, fuor d'ogni speranzadi rivedere più mai la patria loro, potete bene star certoche, se fate tanto d'accingervi a salvarli, viveranno emoriranno per voi”.

Assicurato da queste promesse mi risolvei d'intra-prendere, se era possibile, la loro liberazione e di man-dare lo Spagnuolo e il vecchio selvaggio a trattare conessi. Ma quando tutte le cose furono allestite per questapartenza, lo Spagnuolo mise in campo un'obbiezione incui ebbi campo di ravvisare non solamente la sua previ-denza, ma ammirarne tanto la lealtà, che dovetti vera-mente chiamarmi soddisfatto di lui. Laonde, a normadello stesso suggerimento avutone, m'indussi a differirealmeno d'un mezzo anno l'esecuzione del disegno adot-tato a favore de' suoi compagni. Ecco qual fu la naturadi questo suggerimento.

Durante un mese circa ch'egli era rimasto meco, gliavevo lasciato vedere in qual modo con l'aiuto del cielomi fossi ingegnato di supplire ai bisogni della mia sussi-stenza. Sapea quindi in guisa da non dubitarne quantoriso avessi in granaio: provigione che, quantunque piùche sufficiente per me, ci voleva la più stretta economiaperchè bastasse per la mia famiglia or cresciuta al nu-mero di quattro individui. Tanto meno essa avrebbe ba-stato ai suoi compagni, chè al suo dire ne viveano tutta-

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via sedici, se fossero capitati tutti ad un tratto. Meno poice n'era abbastanza per vettovagliare un vascello se neavessimo fabbricato uno per veleggiare a quale si fossestabilimento di colonie cristiane in America. Egli dun-que mi disse parergli miglior consiglio s'io permettevach'egli e Venerdì e il padre di Venerdì lavorassero e col-tivassero uno spazio maggiore, e vi seminassero quantamaggior copia di grano si fosse potuta risparmiare; poisi aspettasse la stagione di un altro ricolto affinchè inuovi ospiti non capitassero prima che ci fossimo benprovveduti a riceverli.

“Altrimenti, egli diceva, il bisogno potrebbe divenirper essi un fomite di mal umore, nè si starebbero dalpensare in proprio cuore che un tal modo di liberazionefosse stato per essi un torli da un male per farli cadere inun altro. Sapete come i figli d'Israele, ancorchè conten-tissimi su le prime della loro fuga dall'Egitto, in appres-so si ribellassero contro allo stesso Dio che gli avea li-berati, quando mancarono di pane nel deserto.»

La sua antiveggenza era sì a tempo, il suo consigliocotanto saggio, che non potei non abbracciarlo e non es-serne grato alla candidezza dell'animo di chi mi pose taliavvertenze dinanzi agli occhi. Ci demmo dunque tuttiquattro a vangare indefessamente e fin quanto gli stro-menti di legno, ond'eravamo forniti, ce lo permisero. Inun mese circa di tempo avevamo già preparato e disso-dato tanto terreno, quanto ci volea per seminarci ventimoggia d'orzo e sedici orci di riso: tutto quel grano insomma che potemmo risparmiar da semenza. E da vero

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ce ne rimase appena pel nostro vitto giornaliero in tutti isei mesi che dovemmo aspettare il nuovo ricolto; dicosei mesi computando entro essi il tempo della semenzamessa in disparte, perchè non è da immaginarsi che sot-to questi climi ella rimanga in terra sì lungo tempo.

Adesso aveva società quanta potea bastarmi, ed era-vamo in sufficiente numero per mandar via ogni pauradi selvaggi quando non ne fosse sbarcata una masnadaben grande; laonde giravamo in lungo ed in largo l'isolasecondo le occorrenze che ci capitavano. Siccome poil'idea del nostro prossimo viaggio stava nella mente ditutti, era impossibile che quella dei mezzi d'intrapren-derlo sfuggisse un momento dalla mia. Laonde, contras-segnati parecchi alberi che mi sembrarono al caso mio,mandai Venerdì e suo padre ad abbatterli; pregai indi loSpagnuolo che avevo messo a parte de' miei divisamen-ti, a vegliare e dirigere il loro lavoro. Dopo aver mostra-to ad essi, non senza incredibile disagio, come fossi riu-scito a ridurre un grosso albero in semplici assi, dissiloro di fare lo stesso; nè andò guari che erano venuti acapo di farmene circa una dozzina di buona quercia lar-ghe quasi due piedi, lunghe trentacinque braccia e gros-se fra i due ed i quattro pollici: vi lascio immaginare chetremenda fatica un tal lavoro costasse.

Nello stesso tempo m'adoperai più che potei ad au-mentare il mio ovile di capre domestiche; al qual fine iomandava attorno un dì lo Spagnuolo e il padre di Vener-dì, un altro andava io con Venerdì (perchè ci davamo lamuta): diligenza che ci fruttò una ventina circa di ca-

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pretti di più da allevare col restante della greggia; per-chè non ammazzavamo mai col moschetto una caprache non procurassimo di salvare i suoi lattanti.

Soprattutto, giunta la stagione della mia vendemmia,feci mettere a seccare al sole sì prodigiosa quantità d'u-va, che se fossimo stati ad Alicante ove si fa tanto spac-cio di zibibbo, avremmo, cred'io, potato empirne sessan-ta o ottanta barili. Queste uve che col nostro pane for-mavano la maggior parte del nostro cibo, erano, ve neaccerto io, un buon mangiare e salubre, perchè nutrisco-no quanto mai.

Venuto il tempo della mietitura, il nostro ricolto era inbuono stato: non dirò il più abbondante ch'io m'abbiafatto nell'isola, ma bastante per corrispondere alle miemire; perchè di ventidue moggia d'orzo che avevamo se-minate, nè tirammo a casa e trebbiammo duecento venticirca; e lo stesso in proporzione si dica del riso: provi-sione oltre al bisogno del nostro sostentamentoquand'anche in quel punto avessi avuti i sedici Spagnuo-li sopra la spiaggia; o bastantissima, se fossimo stati le-sti per imbarcarci a vettovagliare il nostro legno percondurci in qualunque parte del mondo, intendo dell'A-merica. Poichè avemmo così posto a coperto il nostro ri-colto, ci ponemmo a fabbricare molta copia d'arnesi divimini: vale a dire canestri entro cui custodirlo. Per talsorta di lavoro lo Spagnuolo mostrava molta destrezza evocazione, anzi spesse volte mi rimproverava per nonavere tratto alcun pro da tale genere di manifattura perfarne parapetti e ripari; ma io non ne vedeva il bisogno.

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Trovatomi ora ricco di provvigioni per tutti gli ospitiche aspettavo, permisi allo Spagnuolo di trasferirsi nelcontinente per vedere che cosa si potesse combinare co'sedici che s'era lasciati addietro. Ma gl'ingiunsi stretta-mente di non condurre con sè verun individuo che si ri-tirasse dal prestar giuramento, alla presenza di lui e delvecchio selvaggio, di non recare ingiuria alla persona dicui cercavano l'isola: chè sarebbe stato da vero un con-traccambiare barbaramente chi avea viscere sì umaneper mandarli a prendere a fine di salvarli. Dovevano dipiù giurare di sostenerne sempre le parti e difenderloanzi contra ogni attentato d'insubordinazione per partede' colleghi; di assoggettarsi dovunque andassero ai suoicomandi. Spiegai in oltre la mia intenzione che tutto ciòfosse posto in iscritto e autenticato dalla loro firma.Come poi avrebbero potuto secondarmi in ciò mentrenon dovevo ignorare che non avevano nè penne nè in-chiostro, fu una obbiezione che in quel momento nonvenne in mente nè a me nè allo Spagnuolo. Muniti diqueste istruzioni, così egli come il vecchio padre di Ve-nerdì salparono entro uno di quei canotti ove si può bendire che erano venuti (o meglio condotti perchè non sipoteano movere) per essere divorati dai selvaggi. Diedia ciascuno de' due un moschetto provveduto della suarotella23 e circa otto cariche di polvere e di palle, delle

23 Ai primi archibusi cui si dava fuoco con la miccia, succedettero quelliche si sparavano col far girare contro alla pietra una rotella applicata sul cartel-lo o piastra dell'arma. Convien credere che tal seconda sorta d'archibusi fossetuttavia in uso nel 1713, epoca in cui questa storia fu scritta, benchè pubblicatasoltanto nel 1719.

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quali cose raccomandai a ciascun di loro far grande par-simonia, e non valersene se non in casi d'urgenza.

Ben cari mi riuscirono tutti questi apparecchi da mepraticati per la mia liberazione, siccome i primi di talgenere cui avessi dato opera da ventisette anni e giornich'io dimorava quivi. Diedi ai miei due viaggiatori tantaquantità di pane e d'uva secca che bastasse per loro tuttoil tempo dell'andata e del ritorno, e sufficiente al rima-nente della carovana che doveano condurre, per ottogiorni all'incirca. Augurato loro un buon viaggio, li vidipartire, non senza aver preso accordo con essi sul segna-le che avrebbero dovuto far sventolare al loro ritorno,affinchè io li riconoscessi ad una certa distanza primache toccassero la spiaggia. Salparono con vento favore-vole in tempo di plenilunio, secondo i miei calcoli in ot-tobre; ma un esatto registro dei giorni, dopo averlo per-duto, non ho potuto raccapezzarlo mai più. Dirò in oltreche nemmeno il conto degli anni lo avea tenuto con talprecisione da poter essere certo che andasse bene; ma inappresso ebbi modo di verificarlo, e vidi che in quest'ul-tima parte non avevo sbagliato.

LI. Sbarco inaspettato.

Non era meno di otto giorni da che aspettava l'arrivodi questi ospiti, quando occorse un accidente strano e sìfuor d'ogni previdenza, che forse non ce ne ha mai fattoconoscere l'eguale la storia. Me ne stavo una mattina

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profondamente addormentato nel mio letto pensile, al-lorchè venne di tutta corsa Venerdì a destarmi gridandocon quanti polmoni aveva:

‒ “Padrone! padrone! quelli venire!”Saltai su e senza prevedere alcuna sorta di pericoli,

mi vestii in fretta, attraversai il mio boschetto che intan-to era salito al grado di folta selva; e non pensando,come dissi, a pericoli ero venuto senz'armi, cosa insolitain me. Qual non fu la mia sorpresa allorchè vôlti gli oc-chi al mare vidi tosto alla distanza circa di una lega emezzo una barca che con una di quelle vele chiamatespalla di castrato e protetta da favorevole vento si diri-geva alla spiaggia, e notai subito che non parea venissedal punto ove il continente giacea, ma da rimpetto lapunta più meridionale dell'isola. Vedute le quali cose,chiamai Venerdì ordinandogli di tenersi celato, perchèquelli là non erano la gente aspettata da noi, nè poteva-mo sapere se fossero amici o nemici.

Andato immantinente a prendere il mio cannocchialeper vedere che cosa dovessi pensare di coloro, e trattafuori la mia scala a mano, salii la cima del monte, comesolevo ogni qual volta occorreva cosa che mi mettessein sospetto, perchè da quell'eminenza io dominava a miomodo gli oggetti, senza timore di essere scoperto. Situa-tomi appena su quella sommità, potei perfettamente di-scernere un vascello all'áncora distante circa due leghe emezzo da me, ma non più d'una e mezzo dal sud-est(scirocco) della spiaggia. Secondo le mie osservazioni,

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il vascello doveva essere inglese e uno scappavia pari-mente inglese la barca.

Non so esprimere il genere di confusione in cui mitrovai. Per una parte il contento di vedere una nave, eduna nave ch'io aveva ragione di credere fornita di mieipropri concittadini e per conseguenza amici, era tantoche non mi sento capace di descriverlo; ma d'altra partecerti sinistri presentimenti che non so spiegare dondevenissero, mi giravano in capo, e mi diceano di stare al-l'erta. Prima di tutto andavo ruminando in mia testa,qual razza di faccende potesse condurre una nave ingle-se in questa parte del mondo, ove, nè andando nè tor-nando, gl'Inglesi non avevano alcuna sorta di traffico.Sapevo d'altronde non essere occorse burrasche o altridisastri di mare che li costringessero a cercar quivi unriparo; dalle quali cose argomentava che se erano Ingle-si, probabilmente non erano qui con buon disegno, e chevalea meglio per me il continuare nella vita di prima delcadere in mano di ladri o d'assassini.

Ch'uom non disprezzi tali segreti cenni o presenti-menti che gli vengono dati allorchè tutti i calcoli dellasua ragione gli dicono che non v'è realtà di pericolo datemersi. Sono essi (e pochi, cred'io, che abbiano fattaqualche osservazione su le cose, me lo negheranno),sono essi certe manifestazioni del mondo invisibile deri-vate a noi da un consorzio degli spiriti, non ne è lecito ildubitarne. E se queste intendono a salvarci dai mali chene sovrastano, perchè non le supporremo noi venute daqualche ente amico (o sia l'ente supremo, o qualche es-

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sere a lui subordinato, ciò non fa nulla) e comunicateciper nostro bene?

L'evento attuale mi confermò pienamente l'aggiusta-tezza di questo ragionamento; perchè se non m'avesseroposto in guardia questi segreti avvertimenti, venisseropoi di dove venissero, sarei stato inevitabilmente perdu-to ed in condizione ben più trista di prima, come sietesubito per convincervene.

Non rimasi lungo tempo su quella cima prima di ve-dere la barca avvicinarsi al lido come in cerca di unacala ove gettar l'áncora, e donde effettuare uno sbarco.Fortunatamente non era venuta innanzi abbastanza chechi vi stava entro s'accorgesse della darsena ch'io m'erapoco prima costrutta pel mio navilio; onde cercò spiag-gia un miglio e mezzo lontano da me; altrimenti ne avreiavuta alla porta di casa, come si suol dire, la ciurma chem'avrebbe smantellato il mio castello e svaligiato deltutto. Sbarcati che furono, compresi ottimamente cheerano Inglesi, almeno la maggior parte, perchè distinsifra coloro uno o due Olandesi, ma ciò conta poco. Con-tai che erano undici in tutto, tre de' quali disarmati e, aquanto sembrommi in quel momento, legati e, che,quando quattro o cinque della banda furono saltati a ter-ra, tirarono fuori della barca i tre che ho indicati in con-dizione di prigionieri. Uno di questi tre facea gesti dipreghiera, di dolore, di una disperazione fin sorprenden-te; gli altri due, a quanto potei discernere, sollevavanotalvolta le mani al cielo, e parevano afflitti sì, ma non algrado delprimo. Non so dirvi qual fosse la confusione

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delle mie idee a simile vista; nè capivo il significato ditutto ciò. Venerdì si credea di capirlo, perchè mi si volsetosto esclamando:

‒ “Ah padrone! voi vedere che uomi inglesi mangiarprigionieri come uomi selvaggi!

‒ Oibò, Venerdì! V'immaginereste forse che quelli làvolessero mangiare gli uomini caduti in loro potere?

‒ Sì; volerli mangiare.‒ No, gli risposi. Ho ben paura che li vogliano assas-

sinare; ma state certo che non li mangeranno”.In tutto questo tempo non mi ero dato alcun pensiere

per indovinare lo stato reale delle cose: non facevo altroche tremare, inorridito alla vista di quello spettacolo, easpettandomi da un istante all'altro che i tre prigionierivenissero trucidati. Anzi una volta vedendo uno de' ma-landrini alzare il braccio armato di lungo stilo o spadasopra uno di que' tre poveretti, e credendo che non indu-gerebbe un minuto a vibrare il colpo, mi si congelò ilsangue di raccapriccio in tutte le vene. Ben m'auguravodi cuore in quel punto lo Spagnuolo e il vecchio selvag-gio andatosene in sua compagnia, o di trovar qualchevia per giungere inosservato alla distanza di un tiro dischioppo da quel luogo e liberare le povere vittime; per-chè notai che i mascalzoni non avevano armi da fuococon loro; ma il caso presente mi suggeriva alla mente al-tri espedienti.

Dopo i brutali modi usati da que' cialtroni ai lor pri-gionieri, notai che si sparpagliarono attorno, come seavessero intenzione di visitare il paese, e che gli altri tre

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rimasero in libertà d'andare ove avessero voluto. Ciònon ostante restavano seduti su lo stesso luogo medita-bondi e con tutti i più manifesti segni della disperazione.Ciò ricordavami il primo istante del mio naufragio suquesto lido: onde cominciai a riflettere sopra me stesso;a ricordarmi come anch'io mi fossi dato per perduto;come girassi gli occhi stralunati all'intorno; quali tre-mende paure m'incalzassero; come quella di essere di-vorato dalle fiere mi facesse scegliere a stanza un alberoper tutta una notte.

Que' poveri sfortunati, io pensava, sono nel mio casod'allora. Io certo non potea menomamente immaginarmiche il soccorso della Providenza mi verrebbe da quel ca-davere di naufragata nave donde trassi, poichè i venti ela marea lo ebbero spinto più vicino alla costa, e il miosostentamento e i conforti di quella mia vita per sì lungotempo. Così, io diceva fra me, quelli là non sanno quan-ta certezza abbiano della loro liberazione, come sia adessi vicina, come realmente si trovino in una condizionedi salvezza, mentre appunto si credono irremissibilmen-te perduti e il caso loro disperato. Tanto poco vediamodinanzi a noi su questa terra, e tanta ragione abbiamo diessere grati al padrone dell'universo perchè non lasciamai sì compiutamente derelitte le sue creature che nellecircostanze anche le più triste non abbiano alcun cheonde ringraziarlo e talvolta sieno più vicine di quanto selo figurano al porto di loro salvezza; anzi di frequentesono condotte a questo porto da quelle circostanze me-

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desime che pareano fatte per trascinarle alla disperazio-ne.

È a sapersi che l'alta marea era appunto al suo colmoquando costoro sbarcarono nella mia isola, onde mentreor si sbandavano per vedere in che razza di paese fosse-ro venuti, lasciarono inavvedutamente calar tanto il fiot-to che venne a secco la barca entro cui doveano rimet-tersi in viaggio. Aveano posti in questa, perchè gli avvi-sassero dell'ora di ripartire, due dei loro che, come vennia conoscere più tardi, avendo bevuto un pocolino piùd'acquavite che non bisognava, profondamente s'addor-mentarono. Uno d'essi nondimeno svegliatosi più prestodell'altro, non tardò a vedere che la sua barca era troppoarrenata perchè potesse smoverla da sè solo, onde si die-de a chiamare i suoi sbandati compagni che corsero to-sto alla barca. Ma ci voleva altro che la forza di tuttiloro per metterla di nuovo a galla: quel fondo era sì mel-moso, che la barca stava piuttosto che nell'acqua, affon-data in una specie di sabbia mobile. Veduto ciò, da verimarinai, gente la meno antiveggente che siavi su la ter-ra, non ci pensarono più, e si diedero un'altra volta a va-gare per l'isola. Ne udii un di questi che nell'uscire dibarca diceva al suo vicino:

‒ “Stia lì! Che te ne pare Giacomo? Galleggerà al ri-torno dell'alta marea”. Le quali parole mi confermarononella prima supposizione fatta intorno alla patria di que'galantuomini.

In tutto questo tempo ebbi tanta cura di tenermi na-scosto che non ardii scostarmi dal mio castello (e quanto

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ringraziava Dio che fosse così ben munito!) per unamaggior distanza della via da farsi per salire al mio os-servatorio o faro. Sicuro che non vi volendo meno didieci ore prima che, col tornare della grossa marea, que'miei ospiti potessero metter di nuovo a galla la loro bar-ca, nel qual tempo sarebbe venuta la sera, mi prefissid'aspettare quell'ora per vedere con maggior libertà epiù da vicino i loro movimenti ed ascoltarne i propositise ne teneano. Intanto mi apparecchiavo ad una batta-glia, come avevo fatto altra volta, con la differenza chesapendo dovere aver che fare con altri nemici, posi inciò maggiore cautela. Ordinato parimente d'armarsi aVenerdì che era divenuto, grazie ai miei insegnamenti,un eccellente bersagliere, gli diedi tre archibusi, pren-dendomi per me due moschetti da caccia. V'accerto chevestito della mia formidabile casacca di pelle di capra,coperto il capo del mio berrettone che vi ho già descrit-to, con la spada senza fodero che mi pendeva dal fianco,due pistole alla cintura, un moschetto per spalla, facevoveramente una figura tremenda.

LII. Colloquio co' prigionieri.

Io divisava dunque, come ho detto, di non rischiarnulla prima dell'imbrunire, ma alle due circa dopo ilmezzogiorno, avendo perduti affatto di vista i miei ga-lantuomini che si erano internati vagando nel folto delleboscaglie, dal caldo eccessivo dell'ora argomentai che si

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fossero sdraiati per dormire. Que' tre poveri sgraziati,angosciati troppo dalla condizione in cui si trovavanoper poter prendere sonno di sorta alcuna, cercavano ciònon ostante una specie di riposo seduti all'ombra di ungrand'albero lontano a un dipresso un quarto di miglioda me, e fuor di vista, sembrommi, agli autori della lorosventura. Su tal fondamento risolvei di mostrarmi adessi, onde conoscere una volta lo stato delle cose. M'in-camminai tosto nella figura che vi ho descritta, seguen-domi ad una buona distanza Venerdì armato come me,ma non quanto me in lampante aspetto di spettro. Feci ilpossibile per accostarmi loro senza che mi vedesseroprima di udirmi parlare, e quando mi credei abbastanzavicino, gridai loro ad alla voce e in lingua spagnuola:

‒ “Nobili signori, chi siete?”Balzati subito in piè allo strepito che feci, li rese dieci

volte più sbalorditi il cattivo stampo della mia figura.Non mi risposero nulla del tutto, ma credei vedere inessi la disposizione di battersela di lì, quando dissi loroin inglese:

‒ “Gentiluomini, non vi smarrite al vedermi. Forse vista vicino un amico, quando meno ve lo aspettavate.

‒ Bisognerebbe ben dire che ci fosse mandato diretta-mente dal cielo, disse gravemente uno dei tre facendomidi cappello, perchè la nostra condizione è oltre ogni li-mite della possibilità d'aiuto umano.

‒ Mio signore, risposi, tutti i soccorsi vengono dalcielo; ma io non conosco i casi vostri; vorrei che colraccontarmeli mi poneste in grado di aiutarvi. Certo le

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apparenze mostrano che soggiaciate a gravi sventure. Iovi ho veduti sbarcare, e quando sembrava supplicaste gliuomini brutali che vi avevan in loro potere, notai che undi coloro teneva un'arma sollevata in atto d'uccidervi”.

Il pover'uomo col volto tutto bagnato di lagrime, eguardandomi attonito, mi domandò:

― “Sto io parlando a Dio o ad un uomo? Siete voi unuomo o un angelo?

‒ Non vi mettete di queste idee, gli risposi. Se Dioavesse mandato un angelo per soccorrervi, quest'angelosarebbe in migliori panni e meglio armato che non mivedete; pure sbandite da voi la paura, sono un uomo, unInglese disposto ad assistervi: vedete che ho unicamenteun servo; ma abbiamo armi e munizione. Sol raccontate-ne liberamente in che cosa possiamo giovarvi: il casovostro quale?

‒ Il nostro caso, signore, è troppo lungo per poterlonarrare per esteso, finchè i nostri assassini rimangono intanta vicinanza di noi; ma per dir tutto in poco, io eracapitano di quel bastimento là: la mia ciurma mi si am-mutinò contro; a stento prevalse il partito di non ucci-dermi, e finalmente mi hanno lanciato su questa spiag-gia abbandonata, in compagnia dei due che vedete: l'und'essi era il mio aiutante, l'altro un passeggiero. Qui nonaspettavamo altro che la morte, perchè credevamo que-sto luogo disabitato, e tuttavia non sappiamo che cosapensarne.

‒ Dove sono adesso, chies'io, que' cialtroni che v'han-no trattato così?

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‒ Stanno giaciuti là in fondo, e m'accennò con lamano una folta boscaglia. Mi trema il cuore per la paurache v'abbiano veduto o udito parlare; in tal caso non laschiviamo di essere ammazzati tutti.

‒ Hanno essi armi da fuoco con loro?‒ Sol due archibusi, un de' quali lo lasciarono nello

scappavia.‒ Va bene, gli dissi allora. Lasciate a me la cura del

rimanente. Vedo che sono ancora tutti addormentati, nèvuol essere cosa difficile l'accopparli tutti. Ma non sa-rebbe meglio se ci limitassimo a farli nostriprigionieri?”

Mi disse come in quella masnada vi fossero due ma-scalzoni ai quali non era cosa priva di pericolo l'usarcompassione; ma quanto agli altri non dubitava che assi-curandosi di loro non si facessero tornare al dovere. In-terrogatolo chi fossero i due indegni di misericordia, mirispose che in quella distanza non li sapeva discernere;ma che, qualunque spedizione io avessi creduto dirigere,egli si metteva affatto sotto i miei ordini.

‒ “Com'è così, soggiunsi, ritiriamoci in luogo ovenon possano nè vederci nè udirci, a fine di non destarli,e lì prenderemo altre risoluzioni”.

Prestatosi di tutto buon grado al mio suggerimento,tornò indietro meco fino ad un sito ove la foltezza deglialberi a tutti que' cialtroni ci nascondea.

‒ “Badatemi, signore, così allora gli parlai. Se com-prometto me stesso per la vostra salvezza, siete voi di-sposto a fare due patti con me?”

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Non aspettò ch'io gli spiegassi la natura di questi pattiper rispondermi che egli e il suo vascello, se veniva ri-cuperato, si sarebbero posti interamente ed in ogni cosasotto i miei comandi e la mia direzione; e che se il basti-mento non si fosse potuto riavere, egli era pronto a vive-re con me e a morire per me in qualunque parte delmondo avessi voluto mandarlo. Lo stesso promisero glialtri due.

‒ “Va bene, diss'io; i miei due patti son questi. Pri-mieramente, finchè rimarrete qui non v'arrogherete maiveruna autorità, e se metto armi in vostra mano le rasse-gnerete ad ogni mio volere, nè le adoprerete mai in pre-giudizio di me o di chi dipende da me in quest'isola, ovedurante il vostro soggiorno in essa vi lascerete governa-re da me; in secondo luogo che se il vostro vascello ve-nisse ad essere ricuperato, trasporterete sovr'esso me edil mio servitore franchi da spesa”.

Egli mi diede quante sicurezze l'astuzia o la buonafede umana può immaginare per convincermi che avreb-be mantenuti tali patti da lui trovati ragionevoli oltreogni dire, e che per giunta in tutte le occasioni e finchèfosse rimasto al mondo, m'avrebbe provato di riconosce-re come mio dono la propria vita.

‒ “Or bene dunque, diss'io: eccovi tre moschetti conpolvere e palle per voi; ditemi adesso, che cosa credetemeglio a farsi”.

Rinovatemi tutte quelle manifestazioni di gratitudineond'era capace, si mostrò risoluto a regolarsi in tutto eper tutto col mio parere. Dopo avergli rappresentata la

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gravità del rischio che stavamo per affrontare, gli dissicreder io il miglior d'ogni partito quello di far fuoco inmassa sovr'essi mentre dormivano; che se poi non rima-neano tutti uccisi alla prima scarica, e i sopravvissuti of-frissero di sottomettersi, avremmo potuto a questi usarecompassione; ma che intanto bisognava mettersi nellemani della Providenza per l'esito del primo colpo.

Mi rispose con molta moderazione che, se avesse po-tuto farne di meno, egli avrebbe veramente rifuggitodall'ucciderli; ma che se avessimo lasciato fuggire que'due incorreggibili, ribaldi dianzi accennatimi siccomegli autori della congiura, costoro, senza dubbio, tornati abordo del vascello, avrebbero ricondotta addietro l'interaciurma per distruggerne tutti.

‒ “In tal caso, soggiunsi, la necessità e l'autenticazio-ne legale del mio consiglio, perchè e questa la sola viadi salvare le nostre vite”.

Pure vedendo durare in lui la ritrosia allo spargimentodel sangue, gli dissi d'innoltrarsi co' suoi compagni e diprendere gli espedienti che allora sarebbergli sembrati ipiù adatti.

In mezzo a questo discorso udimmo qualcuno di colo-ro dar segno di esser desto, nè andò guari ne vedemmodue camminare. Chiesi al capitano se fossero quelli icapi della congiura, mi rispose di no.

‒ “Bene, dissi allora, quelli là potete lasciarli fuggire;pare che la Providenza gli abbia svegliati a fine di sal-varli. Ora, se gli altri vi sfuggono, è colpa vostra”.

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Eccitato da queste parole prese su un dei moschettiche gli avevo dati, e postasi una pistola nella cintura earmati con gli altri due moschetti i suoi due compagni,s'avviò insieme con essi che lo precedevano d'alcunipassi. Un po' di romore fatto da questi svegliò uno diquegli sgraziati, il quale saltato in piedi e voltatosi aguardar chi veniva, gridò agli altri perchè si destassero.Ma allora era troppo tardi, perchè il suo grido fu con-temporaneo al fuoco fatto su loro da due moschetti, chèil capitano non senza consiglio tenne in ozio la propriaarma. I suoi compagni avendo riconosciuti i due princi-pali capi della trama ne presero si aggiustatamente lamira che un di loro rimase morto di botta, l'altro grave-mente ferito potè rizzarsi in piedi urlando e chiedendoaiuto al rimanente della banda. Ma il capitano gli fu ad-dosso dicendogli che non era più in tempo di chiedereaiuto agli uomini; dimandasse piuttosto a Dio il perdonodella commessa ribalderia; ciò detto, col calcio delloschioppo gli assettò tal colpo che non parlò più. Lì ne ri-manevano tre altri, un de' quali leggermente ferito.

In questo mezzo era arrivato io e, quando costoro sela videro sì brutta, e capirono inutile ogni resistenza, sidiedero ad implorare mercede. Il capitano promise di ri-sparmiare le loro vite, semprechè gli avessero data unasicurezza di detestare il tradimento di cui si erano fatticolpevoli, e giurassero di prestargli fedele assistenza nelricuperare il suo bastimento e nel ricondurlo alla Giam-maica donde era partito. Costoro gli fecero quante pro-messe poteva desiderare, ed egli si prestò volentieri a

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crederle e a fare loro grazia della vita, al qual perdono ionon ostai: sol misi la clausola che dovessero aver legatipiedi e mani finchè rimarrebbero nell'isola.

Intanto io mandava Venerdì coll'aiutante del capitanoladdove era lo scappavia con ordine d'impossessarsene edi sguarnirlo di remi e vele, com'essi fecero. In questostesso tempo i due uomini saltati in piedi prima dell'as-salto e, che per loro buona fortuna si erano scostati incompagnia di un terzo dalla brigata, eccitati dal frastuo-no de' moschetti tornavano addietro. All'accorgersi cheil capitano dianzi loro prigioniere, era divenuto il loroconquistatore, si sottomisero eglino pure ad esser legati,onde fu compiuta la nostra vittoria.

Rimaneva ora che il capitano ed io ci facessimo lascambievole comunicazione delle nostre avventure. Pri-mo io a raccontargli tutta quanta la mia storia, m'ascoltòcon un'attenzione che confinava coll'estasi, massime al-l'udire in qual portentosa maniera mi trovai provvedutodi munizioni e di vettovaglie. E da vero, perchè la miavita è un'intera raccolta di maraviglie, chi non sarebberimasto compreso di stupore com'egli lo fu? Ma quandofu al momento di trasportare dai miei casi ai propri dilui le sue riflessioni, quando pensò che la mia salvezzapareva quasi preordinata per operare la sua, gli sgorga-rono copiose lagrime dagli occhi, nè fu più buono perun pezzo a dire una parola.

Quando finalmente non avemmo più nulla a raccon-tarci de' nostri avvenimenti, condussi lui e i suoi compa-gni nelle mie stanze ove gl'introdussi per l'ingresso

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dond'era solito venir fuori, cioè dal tetto, e quivi li risto-rai con quelle provisioni che mi trovavo avere, additan-do loro ad un tempo tutte le industrie da me immaginateper sostentarmi durante la mia lunga, ben lunga dimorain quest'isola. Quanto mostrai, quanto spiegai a questimiei ospiti, li rendea stupefatti. Il capitano soprattuttonon la finiva mai d'ammirare la mia fortificazione e l'in-gegno di nasconderla ad ogni umano sguardo, medianteuna piantagione d'alberi che ebbero venti buoni anni percrescere, e che col favore del clima cresciuti più rapida-mente di quanto lo avrebbero fatto nell'Inghilterra, avea-no formato un bosco piuttosto rispettabile ed inaccessi-bile da tutti i lati fuor di quello ove io m'era riservatoper mio uso un ingresso tortuoso, che per tutt'altri sareb-be stato un labirinto. Non gli tacqui che se bene fossequi la mia rocca signorile, avevo ancora, come i princi-pi, la mia casa di villeggiatura, ove io potea ritirarmi adun'occorrenza, e che gli avrei fatta vedere a suo tempo.

‒ “Ma per ora, soggiunsi, non dobbiamo intertenercid'altro che del modo di ricuperare il vostro bastimento.

‒ Gli è quanto desidererei ancor io, qui soggiunse.Ma per arrivare a questo intento non so da vero che cap-pello mettermi. In quel bastimento là, vedete! vi stannoventisei mariuoli, i quali dopo essersi impacciati in que-sta maladetta congiura, sanno benissimo di venir consi-derati dalla legge siccome rei di delitto capitale, onde ladisperazione li farà ostinati nel condurre a termine ilmale che hanno principiato. Capiscono troppo bene che,se si lasciano soggiogare, gli aspetta la forca o in Inghil-

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terra o nella prima colonia inglese ove si approdasse.Non è dunque sano partito per noi, che siamo sì in po-chi, quello di assalirli”.

Mi diedi per qualche tempo a pensare su questo di-scorso che trovai sensatissimo; ma d'altra parte bisogna-va risolversi a qualche cosa: fosse poi studiare un'astu-zia per sorprendere i nemici a bordo del bastimento, overo impedire che coloro facessero uno sbarco nell'isolae ne trucidassero tutti. E quest'ultima idea ne chiamòun'altra alla mia mente.

‒ “Mentre stiamo qui non facendo nulla, diss'io al ca-pitano, la ciurma del vostro vascello, maravigliata dinon veder tornare i compagni, manderà una nuova ban-da con l'altra scialuppa del bastimento alla spiaggia.Questa nuova banda probabilmente sarà meglio armatadella prima e troppo forte da poterle resistere.

‒ Avete ragione” il capitano mi rispondeva.Gli dissi intanto che la prima cosa da farsi era quella

di sguarnire e rendere inabile a galleggiare la scialuppache avevano condotto qui i primi arrivati, affinchè glialtri del bastimento non potessero più portarsela via.Detto fatto! Venuti alla scialuppa ne levammo l'armi chev'erano state lasciate entro, e quant'altre minutaglie vi ri-trovammo; cioè un fiaschetto d'acquavite, uno di rum,una piccola provisione di biscotto, un fiaschetto di pol-vere, un gran pane di zucchero del peso di cinque libbre,avvolto in un pezzo di canovaccio, tutte cose capitate inbuon punto per me, massime l'acquavite e lo zucchero,di cui non vedeva da molti anni il vestigio. I remi, l'al-

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bero, la vela, il timone erano già stati levati via prima,come è detto altrove. Portato tutto ciò alla spiaggiaaprimmo un gran buco nel fondo della scialuppa accioc-chè se fossero venuti in tal forza da non aver noi migliorriparo del tenerci nascosti, non riacquistassero almenoquella barca. Veramente, per dir le cose come sono, lamia fiducia di ricuperare il bastimento non era grandis-sima, mentre per altra parte, se l'avessi almeno vinta inciò che gli usurpatori del vascello se ne fossero andatisenza riprendere il piccolo legno di cui si tratta, non du-bitava punto ch'entr'esso avessimo potuto trasportarciall'isole Sotto-Vento, nel quale tragitto avremmo trovatiin via i nostri amici spagnuoli de' quali al certo non m'e-ro scordato.

LIII. Pronostico avverato.

Dopo avere con molta fatica tirata la scialappa a tantaaltezza di spiaggia, che la più grossa marea non avrebbepotuto rimetterla all'acqua, ed assicurati che il foro fat-tole nel fondo fosse ampio abbastanza da non poterlo ri-stuccare così su due piedi, ci eravamo seduti su l'erbapensando a quello che ci sarebbe ora tornato meglio difare. Non andò guari che udimmo uno sparo di cannonesul vascello, e gli vedemmo alzare il segnale che intima-va alla scialuppa di tornare a bordo; ma la scialuppa cer-to non si moveva, e quelli del bastimento ripeterono glispari di cannone e i segnali. Finalmente quando furono

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convinti che tutti i loro spari e segnali erano infruttuosi,e che la scialuppa non si movea, vedemmo col soccorsodel mio cannocchiale che aveano, com'io lo avea prono-sticato, lanciata in mare una seconda scialuppa, la qualeveniva inverso alla nostra spiaggia di tutta corsa. Quan-do questa ci fu più da vicino, potemmo discernere chenon vi stavano entro meno di dieci uomini, e che costo-ro questa volta si erano muniti d'armi assai a dovere.

Poichè il vascello non era più lontano di circa due le-ghe dalla spiaggia, li vedemmo perfettamente dal primomomento in cui si avviarono, e se ne poterono fin di-scernere i volti, perchè la marea avendoli portati un po'più del dovere al levante della dirittura che avea presa loscappavia, remarono rasente la spiaggia per effettuare illoro sbarco nello stesso sito ove gli altri lo aveano fatto.Il capitano dunque potè darmi esatto conto degl'indivi-dui che s'avanzavano e dei loro caratteri; tre de' quali,secondo lui piuttosto buoni diavolacci, s'erano lasciatitrascinare nella congiura dalla prepotenza degli altri. Maquanto al guardastiva24 che pareva il capo di quella spe-dizione, e al resto di ciurma della seconda scialuppa, meli dipinse per fior di cialtroni e fatti accaniti dalla dispe-razione a persistere nella scellerata impresa già inco-minciata. A questo punto non mi dissimulò quanta pauraavesse che fossimo troppo pochi contro di loro.

‒ “Ma, caro mio, gli risposi sorridendo, uomini ridottialle nostre circostanze devono passar sopra a qualunque

24 Uficiale marinaio che ha cura del sartiame, delle ancore e di tutti gli at-trezzi che a queste appartengono.

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paura. Poichè non v'è immaginabile condizione umanache non sembri migliore di quella in cui ci troviamo ora,sia vita, sia morte, la conseguenza de' tentativi che sia-mo per intraprendere, sarà sempre una liberazione. Perparte mia almeno ... Ve l'ho già contata la mia vita. Vipare che sia sparsa di rose? Vi pare che non meriti l'in-comodo di essere rischiata per cambiarla in uno statomeno cattivo. Ma dov'e andata a stare, mio capitano,quella vostra fiducia che vi aveva sollevato lo spiritomomenti fa, la fiducia ch'io fossi stato preservato dalcielo per operare ora la vostra salvezza? Non mi perdotanto d'animo io. Guardate! in tutto questo apparato dicose io ne vedo una soltanto che mi dà dispiacere.

‒ Ed è?‒ Che in tutta quella ciurma vi sieno tre o quattro

buoni diavolacci, come avete detto voi, che sarebbero dasalvare. Io vorrei in vece che sol tutta la schiuma di ca-naglia del vostro vascello fosse là in quella scialuppa, edirei che la Providenza divina gli ha cerniti dal restanteper darceli tutti nelle mani. Perchè, contate bene su ciò:ognun di loro che approderà a questa spiaggia è cosa no-stra e da noi dipenderà il concedergli la vita o dargli lamorte secondo i suoi portamenti”.

Nel dir queste parole innalzai tanto la voce, feci unacera sì allegra, che gl'infusi una parte del mio coraggio;onde procedemmo più vigorosamente entrambi a darque' provvedimenti ch'erano propri di quell'istante.

Fin dal momento che comparve la seconda scialuppastaccatasi dal bastimento, pensammo a separare i prigio-

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nieri, e rispetto a ciò veramente disponemmo con sicu-rezza le cose. Due di costoro, de' quali il capitano si fi-dava men che degli altri li mandai, scortati da Venerdì eda uno de' miei liberati ospiti, alla mia caverna ove era-no in bastante lontananza e fuor del caso di esser uditi escoperti o di trovar la via d'uscire da que' boschi, se fos-sero giunti a liberarsi da sè medesimi. Furono lasciati le-gati in quel fondo, ma non privi di provisione, oltrechèfu promesso loro, che se continuavano a mantenersitranquilli, sarebbero posti in libertà fra un giorno o due,ma ad un tempo vennero minacciati che, sol che si fos-sero provati a tentare una fuga, sarebbero stati messi amorte irremissibilmente. Promisero a quanto apparve dibuona fede che avrebbero sopportato con rassegnazioneil loro confino; anzi si mostrarono grati a Venerdì che litrattò con dolcezza, e lasciò loro e provisioni e luce,cioè candele quali noi ce le eravamo fatte per un ulterio-re conforto. C'era per noi una sicurezza di più; credette-ro che Venerdì stesse continuamente all'ingresso dellacaverna per fare ad essi la guardia.

Gli altri prigionieri furono trattati meglio. A due diquesti per verità si lasciarono legate le braccia perchè ilcapitano non si rischiava ancora a fidarsi interamente diloro; ma, presi gli altri due al mio servigio dietro racco-mandazione del capitano medesimo, ebbi per buono ilsolenne loro giuramento di esserci fedeli in vita ed inmorte. Computati i tre miei onesti ospiti, eravamo setteuomini armati; nè dubitai che non fossimo capaci di far

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fronte ai dieci, tanto più che sapevo dal capitano stessoesservi fra i dieci tre individui non di mala indole.

Appena giunti laddove era approdata l'altra scialuppa,i nuovi arrivati presero terra tirandosi dietro a rimorchiola propria, il che vidi con molto piacere; perchè avevoavuto grande timore che la mettessero piuttosto all'ánco-ra in qualche distanza dal lido lasciandovi entro alcuniuomini che la guardassero e togliendoci così il modod'impadronircene. Toccata la spiaggia, fu lor prima curail correre tutti all'altra scialuppa, e si diede facilmente aconoscere il loro stupore al trovarla sguernita affatto econ un gran buco nel fondo, com'è già stato detto.

Dopo aver meditato alcun poco su ciò, misero non soquanti potentissimi gridi, adoperandovi tutta la forza de'loro polmoni per provare a farsi udire dai loro compa-gni. Allora serratisi tutti in circolo, spararono i loro mo-schetti, e certo ne udimmo il fragore noi, e lo ripetè ognieco delle selve all'intorno; ma fu tutt'uno per loro. Nè iprigionieri della caverna poteano sentirli, nè quelli cheavevamo in custodia noi, ancorchè li sentissero bastan-temente, si attentarono a dar veruna risposta. Sbalestrati,fatti attoniti oltre ogni dire da questo incidente, come losapemmo da loro stessi più tardi, presero la risoluzionedi tornare a bordo del loro vascello e narrare che i lorocompagni erano stati tutti trucidati e smantellata la scia-luppa. In fatti, lanciata tosto nuovamente all'acqua lapropria, ci saltarono tutti a bordo.

Rimase ben sorpreso e sconcertato il capitano a tal vi-sta, perchè nemmen'egli dubitò che costoro tornerebbero

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un'altra volta a bordo del vascello, e che tutti di concertomettendo per perduti i loro compagni darebbero altrovele vele; la qual cosa gli rincresceva assai, perchè lo pri-vava delle speranze testè concepite di riavere il suo ba-stimento. Non andò guari che dovette affliggersi per tut-t'altro motivo.

Si erano scostati ben poco dalla riva quando li ve-demmo tornare alla spiaggia, ma con un nuovo proposi-to che sembrò avessero combinato fra loro da stare inbarca: quello cioè di lasciare tre uomini in custodia dellascialuppa, intantochè girerebbero attorno al paese in cer-ca degli smarriti compagni. Fu questo un grave sconcer-to per noi, perchè adesso non sapevamo più che farne, eil poterci anche impadronire de' sette uomini sbarcatinon era un vantaggio per noi se ci lasciavamo sfuggirela scialuppa; e certo i tre uomini posti a guardarla nonavrebbero mancato in tal caso di portarsi a bordo del va-scello, che avrebbe salpato e date le vele, e addio nostresperanze di ricuperarlo più mai! Pure non avevamo altrorimedio fuor dell'aspettare e vedere qual suggerimentoci potesse venire dall'esito delle cose o in una maniera onell'altra.

Poichè i sette uomini furono sbarcati, i tre lasciati nel-la scialuppa la spinsero ad una buona distanza dallaspiaggia, e colà gettarono l'áncora per aspettare i com-pagni. Quanto ai tre della barca, ne parea dunque toltaogni speranza di raggiugnerli.

Quelli della spiaggia, tenendosi in serrato drappello,si avanzavano verso l'altura del piccolo poggio sotto cui

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giacea la mia abitazione, onde li vedevamo pienamente,benchè eglino non potessero veder noi. Noi avremmodesiderato, o che ci venissero a tiro tanto da far fuocosovr'essi, o che andassero più lontani per lasciarci spa-zio più aperto. Giunti alla cresta della collina da cui po-teano dominare con l'occhio un gran tratto di boschi evalli posti al nord-est (greco), e che formano la parte piùbassa dell'isola, si diedero a gridare ed urlare fino al se-gno di non poterne più. Ma non volendo a quanto sem-brava arrischiare di allontanarsi troppo nè dalla spiaggianè gli uni dagli altri, si posero a sedere sotto un alberoper prendere in nuova considerazione le cose. Se aves-sero stimato bene di portarsi a quell'ombra per dormire,come avea fatto la prima banda, ci avrebbero reso un belservigio, ma troppo erano pieni di paura per avventurar-si a dormire, ancorchè finora non sapessero qual fosse ilpericolo che dovevano temere.

Il capitano mi fece una proposta molto giudiziosa. Glisembrava cosa assai probabile che costoro avrebberotornato a sparare i loro moschetti per veder pure di farsiudire dai compagni. Egli consigliava dunque di esserpronti, se accadea questa scarica generate, a fare unasortita d'assalto sovressi. Presi così alla sprovvista si sa-rebbero certamente arresi, ed avremmo per parte nostraevitato ogni spargimento di sangue. Mi piacque la pro-posta, semprechè per altro ci fossimo trovati in vicinan-za bastante per poterli assalire prima che tornassero acaricare i loro moschetti. Ma il caso preveduto dal capi-

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tano non s'avverò, e noi rimanemmo lungo tempo anco-ra senza sapere che cosa risolvere.

Finalmente dissi agli amici ch'io non credeva ci fossenulla da fare sino alla notte; e che, se in quell'ora nonfossero tornati alla scialuppa, avremmo forse potuto tro-var modo di metterci tra loro e la spiaggia, e inventarechi sa? qualche astuzia, per far sì che i tre della scialup-pa ci venissero anch'essi.

LIV. Stratagemma riuscito.

Era un bel pezzo che aspettavamo, e non senza gran-de impazienza e rincrescimento, che si levassero di lì,quando finalmente li vedemmo tutti dopo una lungaconsulta saltare in piedi e avviarsi alla volta del mare.Parea gl'investisse sì tremendamente il timore de' peri-coli del luogo ove stavano, da non dover essi prenderealtra risoluzione che quella di tornare nuovamente a bor-do del vascello, di dare per perduti i compagni, dietro laqual notizia il bastimento avrebbe continuato il suoviaggio.

Io almeno, appena li vidi volgersi al mare, credei, ec'indovinai, che stanchi di questa inutile e paurosa ricer-ca, non ne volesser saper altro e si disponessero a batter-sela. Detto ciò al capitano, fu presto ad impressionarse-ne anche lui e ad esserne costernato come di cosa chegli troncava di botto ogni concepita speranza; ma, senzasmarrirmi per questo, divisai tantosto per farli tornare

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addietro uno stratagemma che andò a colpire perfetta-mente nel segno.

Diedi le mie istruzioni a Venerdì e all'aiutante del ca-pitano di portarsi verso la piccola calanca di ponentepresso al luogo ove i selvaggi sbarcarono quando Vener-dì fu riscattato da morte; troverebbero una picciola altu-ra distante un mezzo miglio circa di lì.

‒ “Salitela, dissi loro, e di là mettetevi a gridare conquanta voce avete e tanto che i malandrini possano udir-vi. Appena costoro vi risponderanno, voi ripetete le vo-stre grida. Stabilita questa corrispondenza di voci lacontinuerete senza lasciarvi vedere e nel tempo stessoprenderete tal giravolta che li conduca ben in dentro nel-l'isola e in mezzo ai boschi più che è possibile; poi perquegli scorciatoi che vi additerò tornerete a trovarci”.

Il tutto fu adempiuto a norma delle mie intenzioni, e inostri mariuoli stavano appunto per entrare nella scia-luppa, quando Venerdì e l'aiutante si diedero a mettere iloro gridi. Gli udirono coloro, e contraccambiandoli co-minciarono a correre lungo la spiaggia verso la partedonde le voci venivano, e corsero fintantochè furonod'improvviso fermati dalla calanca che, essendo altal'acqua, non potevano attraversare con le loro gambe.Allora gridarono a quei della scialuppa che li venisseroa traghettare com'io me l'era immaginato. La scialuppavenne, ed entrati che vi furono, notai come innoltratasiun buon tratto nella calanca, si fosse introdotta in unbraccio d'acqua entro terra che presentava una specie diporto. Usciti allora della scialuppa presero seco uno de'

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tre uomini posti a guardarla, e lasciatine in essa due soli,la legarono al tronco di un picciolo albero della spiag-gia; e qui propriamente io li voleva!

Lasciato che Venerdì e l'aiutante del capitano conti-nuassero la loro bisogna a norma delle mie prescrizioni,e portatici gatton gattone fino al lembo della calanca,sorprendemmo le due sole guardie rimaste alla scialup-pa, una di esse che vi stava entro, l'altra giacente soprala spiaggia. Il secondo cialtrone tra il sonno e la vegliavoleva saltare in piede, ma il capitano che mi precedeanon gliene diede il tempo, gli fu addosso, e lo finì. Poigridò all'altro della scialuppa che si arrendesse o eramorto.

Non ci volevano grandi argomenti a persuader ciò adun uomo che si vedea solo contra cinque, e aveva dinan-zi agli occhi il suo compagno accoppato; oltrechè costui(anch'egli si chiamava Robinson) era un di quei tre indi-catimi dal capitano che s'era messo piuttosto a malin-cuore nella congiura; onde ne riuscì agevole non sola-mente l'indurlo a cedere, ma farne in appresso un nostrofedele partigiano.

In questo mezzo Venerdì e l'aiutante del capitano con-dussero sì bene gli affari loro che a furia di gridare e difarsi rispondere aveano di bosco in bosco, di collina incollina tirati que' galantuomini tanto in dentro dell'isola,che gli aveano orrendamente straccati. Poi quando sicredettero certi che coloro non sarebbero più stati intempo di tornare addietro alla scialuppa prima di notte,li piantarono là; che anche i nostri erano stanchi discre-

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tamente, come dovemmo accorgercene, quando tornaro-no ad unirsi con noi.

Ora non ci restava altro a fare che aspettar l'ora brunaper piombar loro addosso e lavorare al sicuro anche conessi. Corsero parecchie ore da che Venerdì era tornatodalla sua spedizione prima ch'eglino risolvessero d'av-viarsi per raggiugnere la scialuppa; e molto prima che cifossero, udimmo un di loro più innoltrati degli altri gri-dare ad essi che s'affrettassero, e questi rispondere dinon potere correr di più, dolendosi d'essere storpi e rifi-niti dai disagi sofferti prima: notizia consolantissima pernoi.

Finalmente arrivarono alla scialuppa. È impossibile adirsi qual fosse la confusione di costoro quando, trovatala scialuppa arrenata alla spiaggia pel calare della ma-rea, s'accorsero de' due compagni spariti. Arrivaronofino a noi le lor voci, quando si diceano l'uno all'altrocon flebile accento ch'erano capitati in un'isola incanta-ta; che o era abitata da uomini e questi gli avrebbero tru-cidati quanti erano; o da demoni e spiriti, e questi gliavrebbero portati via e divorati. Gridarono di nuovochiamando pe' loro nomi i due compagni che doveanofar guardia alla scialuppa; ma nessuna risposta. Pocodopo a debole lume di crepuscolo potemmo vederli cor-rere attorno, far tutte le contorsioni della disperazione,talvolta entrar nella scialuppa per prendere alcun po' diriposo, poi tornare ancor su la spiaggia e girare attorno edi nuovo entrare nella scialuppa, poi fuori: che cosa sifacessero non lo sapeano.

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I miei avrebbero voluto ch'io permettessi loro dipiombare d'improvviso su que' bricconi e coglierli tuttiin una volta. Io invece desiderava assalirli con qualchevantaggio, afine di risparmiarli, o almeno ucciderne ilminor numero che potessi; soprattutto poi mi stava acuore di non rischiare la vita de' nostri, perchè coloroerano ben armati. Per ciò solo risolvei d'aspettare perveder se si disgregassero alcun poco; e intanto, a fine dinon perderne nessuno, feci avanzare la mia imboscata.Nel tempo stesso dissi al capitano e a Venerdì di andarecarpone il ventre ben rasente terra, quatti in modo dinon essere nè veduti nè uditi, e di averli a tiro il più chepotevano prima di arrischiarsi a far fuoco.

Non erano rimasti in tal postura da quadrupedi lungotempo, quando il guardastiva, che fu un de' maggiori ca-porioni dell'ammutinamento, e che or mostravasi il piùavvilito e scoraggiato di tutti gli altri, veniva, senza im-maginarselo al certo, inverso ad essi con due suoi com-pagni. Il capitano uditolo parlare e quindi conosciutolo,era si ansioso d'impadronirsi di questo ribaldo ch'ebbe astento la pazienza d'aspettare d'averlo più vicino per es-sere sicuro del suo colpo; perchè fin allora udivano lavoce di costoro, non li vedeano; pur questa pazienza laebbe, e quando i mascalzoni furono a tiro di schioppo, ilcapitano e Venerdì rizzatisi su le proprie gambe spararo-no. Il guardastiva rimase morto in botta; l'altro, attraver-sato il corpo da una palla, gli cadde vicino, nè morì cheun'ora o due dopo; il terzo prese la fuga.

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Appena udito il frastuono della moschetteria, mi feciinnanzi con l'intero mio esercito ch'era adesso compostodi otto uomini: di me, generalissimo; di Venerdì, mioluogotenente generale; del capitano e de' suoi due com-pagni; de' tre prigionieri di guerra, di cui lo stesso capi-tano si fidò tanto, che diedi loro delle armi. Così andam-mo inverso a costoro: già da vero facea tanto scuro, chenon potevano accorgersi del nostro numero. Allora dissiall'uomo che trovammo solo nella scialuppa di chiamarliper nome e di provare se poteva tirarli a parlamento econ ciò forse ad una capitolazione: tentativo che riuscìsecondo i miei desiderii. Ma io ben m'avvedeva comenella condizione in cui si trovavano in quel momento imiei galantuomini, non dovea parer vero ad essi di potercapitolare. Robinson dunque (vi ho detto che si nomina-va così) gridò a tutta voce:

‒ “Tommaso Smith! Tommaso Smith!‒ Questo qua è Robinson? chiese Tommaso Smith,

chè bisogna conoscesse tosto l'altro alla voce.‒ Propriamente io. Ma per amor di Dio! Tommaso

Smith, mettete giù l'armi e arrendetevi, o siete tutti mor-ti.

‒ A chi arrenderci? Ove sono questi ai quali dobbia-mo arrenderci?

‒ Sono qui, rispose Robinson. Qui il nostro capitanoin fronte a cinquanta uomini sta facendovi la caccia dadue ore. Il guardastiva è rimasto ucciso; Guglielmo Fryè ferito; io prigioniero, e se non v'arrendete siete perdu-ti.

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‒ Ci daranno dunque quartiere? Tommaso Smith do-mandò. In tal caso ci arrenderemo.

‒ Andrò e sentirò... semprechè mi promettiate di ar-rendervi”.

E di fatto venne e ne fece proposta al capitano che ri-spose forte egli stesso:

‒ “Voi, Tommaso Smith, voi conoscete la mia voce;se deponete l'armi subitamente e vi sottomettete, avretesalve le vite tutti, eccetto Guglielmo Atkins”.

Guglielmo Atkins che era lì gridò tosto:‒ “Per l'amor di Dio, capitano, datemi quartiere! Che

cosa ho fatto io peggio degli altri? Sono stati tutti colpe-voli come me”.

La qual cosa, per parentesi, non era vera; perchè sem-bra fosse Guglielmo Atkins il primo ad impadronirsi delcapitano quando comincio la ribellione, e quello ancorache si comporto più tristamente verso di lui col legarnele mani e volgergli male parole. Ciò non ostante il capi-tano gli disse che doveva metter giù l'armi a discrezionee fidarsi nella misericordia del governatore; con ches'intendeva indicar me, perchè ognuno lì mi chiamavagovernatore.

In una parola, tutti misero giù l'armi, e supplicaronoper le loro vite. Io mandai l'uomo che avea parlamentatocon essi e due altri, che li legarono tutti. Allora il miogrande esercito di cinquanta uomini, che si riducevanoad otto (compresi, notate! i due prigionieri) andò ad im-padronirsi degli uomini legati e della scialuppa. Io solo

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per allora mi tenni celato in disparte con uno de' miei, eciò per ragioni di stato.

LV. Ricuperazione del bastimento.

I nostri pensieri or dovevano volgersi al rassettamen-to della scialuppa sguarnita ed alla ricuperazione del va-scello.

Il capitano intanto ebbe tempo di parlare a costoro, dirinfacciare ad essi la ribalderia e l'infamia del loro divi-samento che, senza dubbio, gli avrebbe in fin del contocondotti d'abisso in abisso, di miseria in miseria, e pro-babilmente al patibolo.

Mostratisi tutti pentiti da vero, non facevano altro chesupplicare per le proprie vite; intorno a che rispose loro:

‒ “Non siete miei prigionieri, ma bensì del governato-re dell'isola. Voi v'immaginaste d'avermi gettato in unaspiaggia ignuda e deserta; ma è piaciuto a Dio che capi-taste invece in un'isola abitata, il cui governatore per so-prappiù è un Inglese. Potrebbe farvi impiccar tutti, se lovolesse; ma poichè vi ha dato quartiere, suppongo che vimanderà in Inghilterra, ove avrete che fare co' tribunali,e sarete trattati come lo comporterà la giustizia. Da que-sta disposizione è eccettuato Guglielmo Atkins al qualedevo dire per parte dello stesso governatore di preparar-si alla morte, perchè sarà impiccalo domani mattina”.

Benchè tutto ciò fosse meramente una finta del capi-tano, ebb'essa quel miglior effetto che si potesse deside-

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rare. Atkins gettatosegli ai piedi, lo supplicò ad interce-dere per lui dal governatore che gli concedesse in donola vita; gli altri fecero gli stessi atti e supplicazioni pernon essere mandati nell'Inghilterra.

In questo mezzo mi nacque il pensiere che il tempodella nostra liberazione fosse veramente venuto e chenon sarebbe difficile l'indurre que' bricconi caduti in no-stro potere a divenire i migliori e più spontanei nostricooperatori nella ricuperazione del bastimento. Tenuto-mi sempre in disparte e all'oscuro, perchè non vedesseroche razza di governatore avevano, chiamai a me il capi-tano; ma feci tal voce come se lo chiamassi da una gran-de distanza, ed intanto un de' miei che per mio ordine sifingeva più vicino, replicò la mia chiamata:

‒ “Signor capitano, il signor governatore domanda divoi.

‒ Dite a sua eccellenza, che vengo subito”, fu presto arispondere il capitano: cosa che li mantenne sempre piùperfettamente nel loro inganno, perchè si persuasero cheil governatore fosse in certa distanza co' suoi cinquantauomini.

Non appena questi mi fu da presso, gli partecipai ildisegno da me concepito per ricuperare il vascello, dise-gno che gli andò a sangue non vi so dir quanto, onde ri-solvè mandarlo ad effetto nella seguente mattina. Maper mettere in ciò più arte e meglio assicurarci del buonsuccesso, gli dissi che bisognava separare i prigionieri, eche per conseguenza andasse a prender Atkins e due diquelli da lui conosciuti per più tristi e li mandasse alla

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caverna co' prigionieri della prima muta. Ebbero l'inca-rico di tale esecuzione Venerdì e i due compagni del ca-pitano. Questi tre pertanto vennero condotti nella caver-na, come se fosse la prigione loro assegnata, e da veroera un tristo malauguroso carcere, massime per uominiridotti alla loro posizione. Ordinai che gli altri fosserocondotti a quella ch'io chiamava mia casa di villeggiatu-ra e che vi ho già ampiamente descritta; e poichè questaera munita di palizzata ed essi legati, lo trovai un luogod'arresto bastantemente sicuro, tanto più che a fare imatti ci doveano pensare anche loro.

Nella successiva mattina feci che il capitano andassea negoziare con questi ultimi; in una parola a scanda-gliarli per venirmi a riferire in appresso se c'era da fidar-si o no nella loro cooperazione per ripigliare di sorpresail bastimento. Di fatto egli parlò loro dell'infame azionefatta contro di lui e del tristo stato a cui questa gli avevacondotti; perchè, se bene il governatore avesse dato adessi quartiere in quanto spettava al fatto presente, se ve-nivano spediti in catena nell'Inghilterra, non la schivava-no di morire impiccati. Qui soggiunse che se gli avesse-ro voluto prestare l'opera loro nel così giusto tentativo diricuperare il vascello, avrebbe fatto tanto d'ottenere dalgovernatore la promessa del loro perdono.

Ognuno può congetturare come una simil propostavenisse accolta da uomini che si trovavano in tal casosiccome il loro: gettatisigli a' piedi, promisero co' piùenergici giuramenti che gli sarebbero fedeli sino allospargimento dell'ultima stilla del loro sangue, che avreb-

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bero eternamente riconosciuta la propria vita da lui, tuttipronti a seguirlo in capo al mondo, a riguardarlo comeloro padre sinchè fossero vissuti.

‒ “Bene, disse il capitano, andrò a far noti al governa-tore questi vostri propositi e vedrò se mi riesce indurload acconsentire”.

Effettivamente, datomi conto delle disposizioni sco-perte in essi, soggiunse che veramente credea sincere lepromesse di costoro.

‒ “Ad ogni modo, io gli dissi, per essere più sicuri,fate così. Tornate a trovarli e dite loro che, se bene,come devono vederlo, voi non manchiate d'uomini, purvolete sceglier cinque di essi e servirvene per assisterealla vostra impresa; ma che intanto il governatore ter-rebbe i due primi loro compagni e i tre ultimi mandatinelle carceri del castello (che erano poi la mia caverna)siccome ostaggi della fedeltà degli altri cinque, alla qua-le se questi mancassero, i cinque ostaggi sarebbero im-piccati per il collo a cinque forche del porto, e lasciati làfinchè fossero morti”.

Oh! ciò parve loro una grande severità, quando il ca-pitano andò a sostenere questa parte con essi, e furonoconvinti che questo governatore non burlava. Pure nonrestava ad essi miglior partito dell'accettare un tal patto;e divenne ora un affar serio ugualmente pel capitano epei cinque ostaggi il persuadere ai cinque della spedizio-ne che si guardassero dal mancare alla data fede.

Ecco qual era l'ammontare delle nostre forze per que-sta spedizione:

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1. Il capitano, il suo aiutante e il passeggiero;2. Due prigionieri della prima banda, da me posti in

libertà e forniti d'armi dietro la descrizione del loro ca-rattere fattami dal capitano;

3. Gli altri due che aveva finora tenuti in ceppi nelmio frascato, ma or lasciati liberi per intercessione delcapitano.

4. I cinque posti in libertà ultimamente; che in tuttoformavano una forza di dodici uomini, non compresi icinque tenuti siccome ostaggi nella caverna.

Chiesi al capitano s'egli credea d'avventurarsi conquesta gente all'arrembaggio del vascello; perchè quantoa me e al servo mio Venerdì, non pensai ne convenisse ilmoverci dall'isola ove ne rimanevano sette uomini daguardare. Era ben bastante briga per noi il tenerli di-sgiunti e provedere al giornaliero lor vitto; quanto aicinque della caverna, trovai opportuno il lasciarli legati.Venerdì per altro andava a visitarli due volte per giornoe a somministrar loro quanto ad essi poteva occorrere; ele provisioni le facevo portare dagli altri due ad una cer-ta distanza, ove Venerdì veniva a levarle.

Quando mi mostrai ai due primi ostaggi, era meco ilcapitano che mi annunziò loro come l'impiegato cheavea l'ordine del governatore di vegliare sovr'essi. Ag-giunse essere volontà di sua eccellenza che non andasse-ro in verun luogo senza mia licenza; che se lo avesserofatto, sarebbero stati condotti nel castello e messi in cep-pi. Così dunque non mi essendo mai mostrato ad essicome governatore, mi credevano un'altra persona, e ad

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ogni occasione tiravo a mano il governatore, il castello,la sua guarnigione.

Il capitano non era più rattenuto da altri indugi fuorquello di allestire le due scialuppe, ristuccare cioè il fo-rame fatto nell'una, entrambe guarnirle e fornirle d'uo-mini. Postine quattro nella prima, ne diede il comando aquel de' suoi due compagni che era passeggiero nel va-scello, egli col suo aiutante e cinque altri uomini entra-rono nell'altro, e spedirono sì bene le loro faccende chea mezzanotte in circa erano nell'acque del bastimento.Appena gli furono a portata di voce, Robinson, giustal'ordine avuto dal capitano, ne salutò i marinai e dissecome avesse ricondotta la scialuppa e la gente della pri-ma spedizione, ma che ci era voluto gran tempo primadi rinvenirli, ed altre ciance simili atte a tenerli a badafinchè fossero al fianco del bastimento. Il capitano e ilsuo aiutante primi a saltarvi entro, accopparono imman-tinente co' calci de' moschetti il secondo aiutante ed ilcarpentiere; poi ben secondati da tutti quelli del loro se-guito, si assicurarono del ponte e del cassero; indi si die-dero a chiudere i boccaporti, perchè quelli che erano nelfondo del vascello non potessero salire. Intanto l'altrascialuppa e la sua ciurma entrata dalla parte delle catenedelle sarte, s'impadronì del castello di prua e della pic-cola boccaporta che metteva nella cucina, facendo lorprigionieri tre uomini ivi trovati.

Così disposte ed assicurate le cose tutte sul ponte, ilcapitano ordinò all'aiutante di prender seco tre uomini eforzare la camera del consiglio (round-gouse) ove stava

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il ribelle capitano apparecchiandosi alla difesa. Costui,pigliate quant'armi da fuoco gli capitarono fra le mani ledistribuì a due uomini e ad un mozzo che erano nellastanza; poi quando l'aiutante accompagnato dalla suabanda ne spalancò la porta, fece arditamente fuoco inmezzo agli assalitori; onde una palla di moschetto neferì due e ruppe un braccio all'aiutante, ma non uccisenessuno. Questi nondimeno, mal concio come era, e gri-dando per nuovi rinforzi, andò innanzi e scaricata unapistola sul nuovo capitano, la palla gli entrò per la boccae gli uscì fuor d'un orecchio sì bene, che d'allora in poinon ha parlato mai più. Veduto ciò, tutti gli altri s'arrese-ro ed il vascello tornò al primo padrone senza che altrevite venissero compromesse.

Nè andò guari che il capitano comandò si sparasserosette cannoni, segnale convenuto meco per farmi arriva-re la notizia del buon successo. Io, senza andare a lettoin quella sera, stetti seduto su la spiaggia in espettazionedi questo segnale, e vi lascio pensare se non mi giunsegradito.

Dopo di ciò andai a coricarmi, ed essendo stata quellauna giornata di grande fatica per me, dormii profondis-simamente tutta la notte, finchè sul far del giorno nonmi svegliò un colpo di cannone che allora mi fece qual-che sorpresa. Saltato già dal letto, udivo gridare: Gover-natore! governatore! e riconobbi tosto la voce del capi-tano che mi chiamava dalla cima del monte della miafortezza. Salitovi tosto anch'io, egli mi abbracciava ad-ditandomi il bastimento.

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‒ “Mio amico e liberatore, egli dicea, è il vostro va-scello, perchè è tutto vostro, e vostri siam noi e vostroquanto ad esso appartiene”.

Mi voltai a guardare il bastimento che galleggiava aduna distanza poco più d'un mezzo miglio dalla spiaggia;perchè appena il capitano ne fu tornato padrone diede levele, ed essendo propizio il vento, lo fece venire all'án-cora di fronte alla bocca della piccola darsena a voinota; poi postosi entro il suo scappavia venne col favoredell'alta marea sino alla famosa calanca, ove feci capouna volta con le mie zattere, perlochè mi sbarcò, puòdirsi, dinanzi alla porta.

Poco mancò non cadessi in deliquio alla beata sorpre-sa di vedere or posta sì evidentemente nelle mie mani lamia liberazione, spianate tutte le difficoltà ed un ampiobastimento a mia disposizione per andarmene ove mifosse piaciuto. Su le prime, e per qualche tempo non fuibuono di dire una parola, e, tenendomi egli fra le suebraccia, mi ci reggeva di peso, altrimenti sarei caduto.Accortosi di quella mia specie di svenimento, si trassetosto di tasca una boccetta di acqua cordiale che s'eraportata seco ad ogni buon fine, e me ne fece bere alcunesorsate. Sedutomi indi su l'erba, ancorchè queste m'a-vessero tornato in me stesso, stetti un bel pezzo senzapotergli parlare.

In tanto quel pover'uomo estatico anch'egli, se bened'un'estasi non sì forte come la mia, si giovò d'ogni sortad'espressioni ed atti amichevoli per ricomporre i mieispiriti e la mia ragione; ma tanta piena di gioia inonda-

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vami il petto che spiriti e ragione vi si perdeano. Final-mente la mia esultanza trovò uno sfogo nel pianto ed al-lora solamente riacquistai la parola. Venuta quindi lamia volta di abbracciarlo e ringraziarlo qual mio libera-tore, parlammo e ci rallegrammo l'uno con l'altro. Glidissi com'io ravvisassi in lui l'uomo inviato dal cielo inmio scampo, perchè la totalità di queste avventure appa-riva una catena non interrotta di miracoli. Stava in esseuna patente prova di quella segreta mano della Provi-denza che governa il mondo, ed una evidente dimostra-zione del come l'occhio dell'Onnipotente possa cercarestromenti di salvezza nel più remoto angolo della terra emandarli, ovunque gli piaccia, in soccorso d'un infelice.Nè certo dimenticai in tale occasione di sollevare il miocuore pieno di gratitudine al cielo. Chi avrebbe nel casomio potuto starsi dal ringraziare colui che non solamen-te aveva provveduto con modi miracolosi al mio sosten-tamento in mezzo ad un deserto e nella più desolata del-le umane condizioni, ma dal quale, dobbiamo convenir-ne, può unicamente scaturire ogni liberazione?

Dopo alcuni discorsi seguìti fra noi, mi disse d'avermimenato alcune cose per ristorarmi, quali potea sommini-strare il suo bastimento, e fin dove era sperabile che neavesse risparmiate la depredazione dei malandrini stati-ne per sì lungo tempo i padroni. Allora gridò forte aquelli dello scappavia, ordinando loro di portare il dona-tivo destinato al governatore, e da vero era tal donativo,come se io non avessi dovuto salpare di lì in sua compa-gnia, ma piuttosto continuare a dimorarvi tuttavia. Con-

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sistea questo presente primieramente in una cassa diboccette d'acque cordiali, sei fiaschi della capacità didue boccali l'uno di vino di Malaga, due libbre di eccel-lente tabacco, dodici bei pezzi di manzo e sei di maialesalato, un sacco di legumi e un quintale circa di biscotto.Mi portò in oltre una cassa di zucchero, un'altra di fiordi farina, un canestro pieno di limoni, due fiaschi d'agrodi cedro e quantità d'altre cose. Ma ciò che mi riuscìmille volte più accetto, fu il dono di sei belle camicenuove, con altrettante bellissime cravatte, di due paia diguanti, d'un paio di scarpe, d'un cappello, di un paio dicalze, oltre ad un suo abito compito ch'egli avea portatoben rare volte: in una parola mi vestì da capo a piedi.Non potea farmi più bel regalo, nè che mi capitasse piùa proposito; pur volete ridere? Non ho mai provata invita mia una sensazione così aspra, così incomoda, cosìdisgustosa, come il mettermi indosso questi abbiglia-menti dopo tant'anni trascorsi, che me ne faceano parerequesta la prima volta.

LVI. Partenza dall'isola.

Terminato ch'ebbi di fare i miei dovuti ringraziamen-ti, e portati che furono nella mia stanza quegli squisitiregali, cominciammo a consigliarci su quanto ne conve-nisse fare dei nostri prigionieri; ed era bene un punto de-gno di essere ponderato: se ne tornasse cioè il pigliarcicostoro con noi, massime due di loro che il capitano sa-

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peva essere incorreggibili al massimo grado e capacissi-mi di recidiva.

‒ “Son tali cialtroni, egli dicea, che benefizio nongiova a vincerli. Poi, quand'anche volessi condurli viameco, nol potrei se non tenendoli in ceppi per conse-gnarli siccome malfattori al tribunale della prima colo-nia inglese ove ne occorrerebbe approdare”.

Io vedea quanto fosse crucciosa questa idea al capita-no, onde gli dissi:

‒ “Se lo giudicaste opportuno, cercherei io d'indurrecostoro a chiedervi come una grazia la permissione dirimanere nell'isola.

‒ Gliela concederei di tutto cuore, rispose il capitano.‒ Bene, manderò a chiamarli e parlerò loro in vostro

nome”.Comandai dunque a Venerdì e ai due ostaggi posti ora

in libertà (poichè i loro colleghi aveano mantenuta laloro promessa) di andare alla caverna e, trattine fuori idue prigionieri, condurli legati com'erano alla mia casadi villeggiatura ove gli avrebbero custoditi finch'io fossigiunto per decidere del loro destino.

Comparvi di fatto dopo qualche tempo, vestito de'miei nuovi abiti e salutato di bel nuovo col titolo di go-vernatore. Era meco il capitano, e tutti essendo conve-nuti, rimostrai a costoro come fossi pienamente infor-mato della ribalda condotta tenuta da essi col lor capita-no, del modo ond'erano fuggiti sul vascello rapitogli edegli ulteriori ladronecci e piraterie cui si stavano appa-recchiando, se la Providenza non gli avesse fatti cadere

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negli stessi loro trabocchetti e in que' precipizi ch'essiavevano scavati per altri. Narrai loro come per operamia e sotto la mia direzione il bastimento fosse stato ri-cuperato.

‒ “Esso e la all'áncora, continuai, come vedrete frapoco, e vedrete ancora quel vostro nuovo capitano im-piccato ad un braccio di pennone in premio della suascelleraggine. Quanto a voi, mi resta a sapere che cosapossiate addurre in vostra discolpa, affinchè non vi con-danni come scorridori côlti sul fatto, e non vi sentenziicon quell'autorità di cui non dubiterete certo ch'io nonsia investito”.

Un di coloro rispose a nome degli altri, di non averead allegare a comune scampo altro che una circostanza:la promessa fatta ad essi dal capitano di aver salve leloro vite, e che su tale fondamento imploravano la miacarità.

‒ “La mia carità! Qual carità vi posso usar io che stoper partire da quest'isola con tutta la mia gente, e misono già accordato qui col capitano per essere trasporta-lo in Inghilterra nel suo vascello? Il capitano poi nonpotrebbe condurvi altro che in ferri per essere processaticome ribelli e ladri di un bastimento: ciò, lo capite davoi medesimi, vi condurrebbe in dirittura alla forca. Davero non vedo quale speranza di meglio poteste conce-pire, semprechè non fosse vostra mente l'aspettare il vo-stro destino in quest'isola. Se desideraste ciò, io, poichèho avuta la permissione di abbandonarla, propenderei a

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lasciarvici vivi, se credete di trovar qui un rifugio abba-stanza sicuro”.

Mostratisi grati oltre modo a tale proposta, disseroche preferivano il rischio di rimaner quivi alla sicurezzadi essere impiccati se erano menati nell'Inghilterra. Mitenni a questa risposta. Ma il capitano fe' mostra di op-porre obbiezioni, come se non credesse essergli lecito illasciarli qui; ed io per sostenere la mia parte finsi di cor-rucciarmi seco.

‒ “In fine sono miei prigionieri e non vostri. Questogrande favore l'ho già offerto loro; non mi ritratto più, edevo valere io quanto la mia parola. Se voi non ve lasentite di acconsentire a ciò, io intanto li lascio libericome erano quando li presi. Non vi piace così? Li ripi-glierete se vi riuscirà d'agguantarli”.

Mi diedero contrassegni di gratitudine non vi so dirquanti, ed io, perchè i fatti corrispondessero ai detti, or-dinai che fossero sciolti.

‒ «Tornate, dissi loro, ai boschi donde veniste; vi la-scerò alcune armi da fuoco, qualche poco di munizioneed alcune istruzioni per viver bene in avvenire, se ci tro-vate meglio il vostro conto”.

Indi m'accinsi ai preparativi opportuni per entrare abordo del vascello; ma poichè questi m'avrebbero porta-ta via tutta la notte, pregai il capitano a precedermi colà,e ripigliare intanto tutti i suoi diritti sul bastimento.

‒ “Domani vi compiacerete di mandare una delle vo-stre scialuppe. E non vi scordate (gli dissi all'orecchio)di fare impiccare il più presto ad un braccio di pennone

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il cadavere del capitano ribelle, affinchè costoro lo ve-dano”.

Partito il capitano, feci in appresso venire nel mio ap-partamento i miei graziati ai quali tenni una grave allo-cuzione analoga alle loro circostanze.

‒ “Credo, dissi loro tra l'altre cose, che vi siate appi-gliati al partito più salutare. Vedete quella cosa là? (e ac-cennai il cadavere del capitano ribelle, che già pendeada un braccio di pennone del vascello). Non vi sarebbetoccato niente di meglio”.

Dichiarato che ebbero tutti la ferma intenzione in cuierano di rimanere, promisi loro di farli istruiti di tuttaquanta la storia della mia vita in quest'isola, onde neavessero una norma per procurarsi un vivere agiato an-cor essi. Di conformità ne cominciai il racconto dall'i-stante del naufragio che qui mi balzò. Mostrai loro lemie fortificazioni e gl'informai sul modo di fabbricarmiil pane, di seminare il mio grano, di fare la mia vendem-mia, in una parola su quanto era ad essi necessario perpassarsela comodamente. Raccontai pure la storia deisettanta Spagnuoli di cui dovevano aspettarsi l'arrivo epe' quali lasciai loro una lettera, facendomi promettereche sarebbero vissuti in buon accordo con essi. Ove tro-vai, mi si potrebbe domandare l'inchiostro? Lo ebbi dalcapitano che ne avea portato seco dallo scappavia, e simaravigliò molto come non avessi mai trovato modo difabbricarmene con carbone o altra sostanza poichè erovenuto a capo di tante altre cose assai più difficili.

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Lasciai loro la mia armeria; vale a dire cinque archi-busi, tre moschetti da caccia e tre spade, e circa un bari-le e mezzo di polvere ch'io m'era risparmiata, perchèdopo un anno o due ne usai ben poca e non ne sprecai disorta alcuna.

Descrissi loro il modo ond'io governava la mia greg-gia e ingrassava e mungeva le mie capre e mi fabbricavaburro e formaggio; in somma non lasciai che ignorasse-ro la menoma circostanza della mia storia.

Promisi i miei buoni ufizi presso del capitano, affin-chè lasciasse loro altri due barili di polvere e alcuni le-gumi, dalla semina e coltivazione de' quali avrebberotratto grande profitto; anzi, per parte mia, li regalai diquel sacco portatomi dal capitano perchè me ne cibassi,consigliandoli, in vece di mangiarli, a commetterli alterreno tanto d'avviarsene una entrata.

Adempiute tutte le quali cose, li lasciai nel dì succes-sivo, e venni a bordo del vascello. Ci preparammo a sal-pare, ma non levammo l'áncora in quella notte. Allamattina di buon'ora due dei cinque uomini lasciati su l'i-sola, vennero a nuoto sin sotto l'anca del nostro vascel-lo; e quivi lamentandosi nella più commovente guisa delmal trattamento che loro usavano gli altri tre, supplica-vano di essere presi a bordo.

‒ “Adesso se torniamo addietro ci accoppano. Rice-vetene a bordo anche a patto di farci impiccar voi”, gri-davano quegli sgraziati.

Il capitano respingea la loro preghiera allegando ilmotivo di non potere far nulla indipendentemente da

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me. Ciò non ostante dopo alcune difficoltà, e dietro lapromessa loro di mutar vita, vennero accolti. È vero chenon tardarono in appresso a farsi mandare all'argano25;ma dopo questa punizione si ammansarono e divennerogalantuomini e bonissimi diavoli.

Non devo omettere che prima di spiegare le vele tor-nai alla spiaggia su lo scappavia entro cui il capitanomandò agli esuli le cose ch'io aveva ad essi promesse.Anzi egli fece aggiungere a queste largizioni le casse e ipanni di loro pertinenza. Io in oltre gl'incoraggiai col-l'assicurarli che, se mi fosse possibile mandar qualchevascello a levarli di lì, non gli avrei dimenticati.

Nel prender questo congedo dall'isola, portai mecosiccome una specie di reliquia, il mio berrettone di pelledi capra, il mio ombrello ed uno de' miei pappagalli.Devo aggiugnere che non avevo dimenticato di prendermeco le monete tolte dai due bastimenti naufragati,quello cioè che mi portò sotto l'isola e il vascello spa-gnuolo. Le prime dal lungo non servirsene si erano ap-pannate e divenute rugginose al segno che l'argento nonpotè essere riconosciuto per argento, se non dopo esserestato lungamente strofinato e maneggiato.

Così abbandonai l'isola ai 19 decembre (come me nefecero certo i registri del vascello) nell'anno 1686, dopoesservi dimorato ventotto anni, due mesi e diciannovegiorni. Da questa seconda cattività fui liberato nel dì an-

25 Punizione marinaresca che consiste nel mettere il delinquente su l'arga-no del castello di prua per essere ferzato o battuto col cordino.

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niversario di quello che mi salvò dalla prima, quandofuggii entro uno scappavia dalle mani dei Mori di Salè.

Dopo una lunga navigazione su questo vascello, posiil piede su le rive dell'Inghilterra agli 11 giugno del1687, donde era stato lontano trentacinque anni.

LVII. Arrivo in Inghilterra e partenza per Lisbona.

Giunto nell'Inghilterra io era straniero in mezzo aimiei, come se non ci fossi mai stato. La mia fedele mag-giordoma e benefattrice nelle cui mani avevo depositatoil mio danaro, vivea tuttavia, ma era stata percossa dagravi sventure. Vedova una seconda volta, i suoi affariandavano male assai. Per parte mia la liberai d'ogni mo-lesto pensiere circa la somma di cui m'andava debitrice,assicurandola ch'io non aveva intenzione di recarle di-sturbo; ma che al contrario, grato alle prime prove date-mi di sua affezione ed onestà, l'avrei sollevata sin dovelo comportava lo stato mio; che per altro, a dire la veri-tà, in quel momento non mi permetteva di fare grancosa. Ciò non ostante la assicurai che non mi sarei maidimenticato delle sue antecedenti cordialità; nè me nedimenticai certo quando mi trovai in grado di soccorrer-la, come si vedrà a suo luogo.Trasferitomi indi nellacontea di York, trovai morti mio fratello e mia madre; insomma estinta l'intera mia famiglia, eccetto due sorellee due figli d'uno de' miei fratelli. Essendo io stato credu-

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to morto per sì lungo tempo, nulla vi rimaneva della miaparte; in guisa che, non potendo qui far conto su nulla,lo scarso danaro portatomi meco poteva aiutarmi benpoco a stabilirmi nel mondo.

Ma mi avvenni in un tratto di gratitudine, cui, per dirvero, non mi sarei aspettato giammai. Il padrone del ba-stimento ch'io riuscii sì fortunatamente a salvare, fece aiproprietari delle mercanzie contenutevi un sì bel raccon-to del modo ond'io campai e il carico e il vascello e levite degl'innocenti minacciate con esso da estremo ri-schio, che quella società volle vedermi, e non contenta aringraziarmi nel più cortese modo, mi attestò a spese co-muni la sua gratitudine con un presente di circa duecen-to sterlini.

A malgrado di questo inaspettato soccorso, le piùponderate considerazioni su le circostanze della mia vitami dimostravano ch'io avea tuttavia ben pochi modi perfare una discreta figura nella società. Risolvei pertantodi trasferirmi a Lisbona per veder di raccogliere qualchecontezza su la mia piantagione del Brasile e di sapereche cosa fosse avvenuto di quel mio socio, il quale do-veva, secondo me, darmi per morto da ben molti anni.Con tale mira m'imbarcai per Lisbona, ove giunsi nelsuccessivo aprile in compagnia del mio servo Venerdì,che, seguendomi omai in tutti i viaggi, mi diede ognorprove della più rara onestà e fedeltà.

Quivi, dopo alcune ricerche, trovai con mia grandesoddisfazione quel mio vecchio amico, quel capitanoche mi raccolse nel suo vascello quando affrontava il

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mare su d'un palischermo fuggendo dalle coste dell'Afri-ca. Ora invecchiato d'assai, aveva rinunziato ad ogni na-vigazione e ceduto il proprio bastimento a suo figlioche, non più giovinetto nemmeno lui, facea tuttavia ilsuo traffico nel Brasile. Dopo tant'anni egli non mi rav-visava più, e per verità avrei stentato a ravvisarlo ancorio; ma appena gli ebbi pronunziato il mio nome si ricor-dò tosto di tutto.

Dopo quelle scambievoli espressioni di cordialità chela nostra antica amicizia esigea, mi feci a domandargli,potete ben crederlo, quali notizie sapesse darmi su lamia piantagione e il mio socio.

‒ “Son circa nove anni, il vecchio capitano mi rispo-se, che non vado al Brasile: posso nondimeno assicurar-vi che, quando ne venni via l'ultima volta, il vostro socioviveva ancora; i vostri fidecommissari sì, quelli che ave-vate delegati a tenere d'occhio la vostra parte, son mortitutt'e due. Ciò non ostante credo che potrete veder netta-mente il conto de' miglioramenti della piantagione, per-chè il procuratore fiscale lo levò fin quando, su la gene-rale persuasione che foste naufragato e rimasto mortonel mare, andò a possesso della vostra parte, salvo il re-stituirvela se si scoprisse che foste vivo e veniste a re-clamarla.

‒ Ma aveva fatto testamento...‒ Va benissimo, permettetemi di proseguire, e a suo

tempo parleremo anche di ciò. Il procuratore fiscaledunque andò a possesso della vostra parte, applicandoneun terzo al re, gli altri due terzi al convento di Sant'Ago-

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stino, perchè fossero impiegati in benefizio dei poveri enella conversione degl'Indiani alla fede cattolica. Se peraltro comparirete per reclamare le vostre sostanze, nondubito punto che non vi vengano restituite, salvo quellerendite annuali od avanzi progressivi che sono già statidistribuiti in opere di pietà: su quelli non dovete piùcontarci. Una cosa su cui potete star con l'animo in pace,si è che l'intendente del demanio per la parte di renditeche toccava al re, il provveditore del convento per l'altredue parti, ciascun di questi dal canto suo si è dato ognidebita cura affinchè il vostro socio gli desse ogni anno ilfedel conto delle rendite della piantagione e gli sborsas-se, come e stato fatto, la parte che gli perveniva.

‒ Sapete a un dipresso a che monti ora la rendita dellapiantagione? Non vorrei fosse tale che non mi francassel'incomodo d'una mia comparsa sul luogo; oltrechè, chisa quante obbiezioni mi si moveranno per non lasciarmiandare a possesso della mia metà?

‒ Il grado di miglioramento cui sia arrivato il fondonon ve lo potrei dire con precisione: so per altro che ilvostro socio è divenuto straordinariamente ricco su lasola meta di rendita a lui competente. In oltre, se mi ri-cordo bene, mi fu detto che il terzo del re, passato nellemani non so se d'un altro convento o di qualche pia isti-tuzione, fruttava a un dipresso dugento moidori. Circapoi ad obbiezioni per tornare a possesso del vostro, mipare fuor di dubbio che non ne incontrerete, tanto piùche vive il vostro socio per attestare il vostro diritto, e

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d'altronde il vostro nome è iscritto nel registro di popo-lazione di quel paese”.

A mio maggiore conforto aggiunse, che gli eredi de'miei fidecommissari erano persone da bene e ricchissi-me; onde non solo m'avrebbero assistito negli atti dafarsi per la ricuperazione delle mie sostanze, ma aveva-no del mio nelle mani una ragguardevole somma, for-mata dalla metà delle rendite della mia piantagione per-cette dai padri loro prima del trapasso, onde, come si èdetto, i diritti su tali proprietà vennero ceduti a nuoviusufruttuari. Quando avvenne un tal cambiamento eranotrascorsi, egli mi disse, circa dodici anni. Mi mostraipiuttosto angustiato di ciò.

‒ “Ma come, tornai a domandargli, i fidecommissarihanno potuto permettere che si disponesse in tal guisadelle cose mie, s'io aveva fatto testamento e lasciato voierede universale sotto certi patti? Vi e forse ignoto?

‒ No; quanto dite è vero. Ma siccome non vi eranoprove della vostra morte, io non poteva fare i miei atti inqualità di esecutore testamentario, finchè non si aveanonotizie certe che non foste più in vita. Io poi non aveanessuna voglia d'impacciarmi in un affare tanto remoto.Feci per altro registrare il vostro testamento, nè omisi leopportune proteste, onde se mai si avesse la sicurezzadella vostra morte o della vostra vita, essere sempre intempo di ricuperare o per voi o per me i vostri averi.Avrei istituito mandatario a tale uopo mio figlio chetraffica ora nel Brasile. Ma, qui il vecchio soggiunse, suquesto proposito ho a dirvi un'altra novità che forse non

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vi piacerà tanto, ed è che, credendovi morto come tutticredeano, il vostro socio ed i vostri fidecommissari ven-nero meco in nome vostro ad un accomodamento, ed hoincassata io una somma corrispondente alle rendite deisei o otto prim'anni. Essendoci state in quel tempo gran-di spese per fabbricare una casa di raffineria e per com-prare schiavi, quelle rendite non ammontavano certoalla somma cui salirono più tardi; ma vi darò un contoesatto di quanto ho percepito in tutto, e del modo in cuine ho disposto”.

E di fatto in termine a pochi giorni questo vecchioamico mi presentò il conto delle rendite della mia pian-tagione ne' primi sei anni sottoscritto dal mio socio e daidue commissari. Queste gli erano state pagate in generi,vale a dire tabacco in rotoli, zucchero in casse oltre aduna partita di rum, di melassa (residuo di zucchero raffi-nato) e simili produzioni derivate dalla fabbrica dellozucchero. Da tal conto mi apparve come le rendite s'au-mentassero notabilmente d'anno in anno, e che se inprincipio erano state tenui, ciò doveva attribuirsi alleprime spese piuttosto forti. Ciò non ostante il mio buoncapitano confessò d'andarmi debitore di quattrocentosettanta moidori d'oro oltre al valore di sessanta casse dizucchero, e di quindici doppi rotoli di tabacco, le qualimercanzie avea perdute insieme con la nave che le por-tava per un naufragio cui quel poveretto soggiacque neltornare a Lisbona undici anni dopo la mia partenza. Quimi raccontò come si trovasse costretto a valersi del mio

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danaro, per riparare i sofferti danni e comperarsi unaparte di proprietà in altro vascello mercantile.

‒ “Ciò non ostante, mio vecchio amico, egli proseguì,tanto che torni mio figlio, non vi lascerò mancare di ciòche possa occorrere ai vostri bisogni dell'istante. Appenaritornerà, sarete soddisfatto d'ogni vostro avere”. E ciòdicendo traeva a mano una vecchia borsa e mi offersecento sessanta moidori d'oro, e presentatemi in oltre lecarte che autenticavano i diritti di lui e di suo figlio, cia-scuno su un quarto del vascello mercantile salpato per ilBrasile, volea farmi la cessione di tutti questi diritti.

Mi commoveva troppo l'onestà d'un sì eccellente ga-lantuomo, perchè fossi capace di comportar ciò. Semprestavami in mente la gratitudine ch'io gli dovea per quan-to aveva operato a mio pro; mi ricordavo e il giorno incui me vagante e derelitto sul mare raccolse nel suo va-scello, e i tratti di generosità che mi usò da poi in ognioccasione, e sopratutto la sua fedele nè mai smentitaamicizia; onde rattenendomi a fatica dal piangere, glichiesi se le sue circostanze presenti gli permettevano dispropriarsi di tale somma.

‒ “Non vi dirò, egli mi rispose, che il farne senza nonpossa mettermi in qualche strettezza, ma è danaro vo-stro, e voi ora ne abbisognate anche più di me”.

Quante cose dicea quel buon uomo spiravano tantarettitudine, tanta cordialità, che sempre più mi rendeva-no difficile il non versar lagrime. In somma accettaicento dei moidori offertimi, e fattomi dare calamaio epenna, gliene feci la ricevuta. Nel restituirgli il restante

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lo assicurai che, se fossi tornato a possesso della miapiantagione, avrei considerati come un debito verso dilui anche i cento moidori allora accettati; e così vera-mente feci da poi.

‒ “Quanto alle carte, continuai, che provano i dirittivostri e di vostro figlio sul vascello mercantile, di cui miparlate, non voglio nè manco toccarle. Se mai venissi innuova penuria di danaro, so che siete onesto abbastanzaper non lasciarmici. Ma ove questo caso non avvenga ese arrivo a ricuperare il mio, come mi fate sperare, nonvoglio mai più un soldo, che è un soldo da voi”.

Esaurito che fu questo punto il mio capitano mi offer-se la sua assistenza nel procedere agli atti di cui faceamestieri per ricuperare le sostanze mie nel Brasile, edavendogli io risposto che contavo trasferirmi colà inpersona, egli soggiunse:

‒ “Fate come credete; pure se non voleste il fastidiodi questo viaggio, avete mezzi bastanti per assicurarvi idiritti vostri da quelle parti e per ricuperare il godimentodelle vostre rendite senza movervi di qui”.

Mi lasciai dunque regolare da lui. In quel momentoappunto stavano sul Tago molti bastimenti destinati pelBrasile; ond'egli per prima cosa fece iscrivere il mionome ad un pubblico registro, mediante un suo giuratoattestato che autenticava essere io vivo e quell'identicapersona da cui fu comprata da prima la piantagione. Aquesto documento munito della debita legalità per mandi notaio egli mi fece unire una lettera di procura ad un

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mercante del Brasile suo corrispondente al quale accom-pagnò tali carte con una lettera sua propria.

Poi mi sollecitò a rimanere con lui in espettazione diuna risposta.

LVIII. Risposta venuta dal Brasile, e risoluzione di tornare alla patria per terra.

A niun mandato di procura fu mai fatto più onore cheal mio. In meno di sette mesi ricevei dagli eredi de' mieifidecommissari: dei trafficanti per conto de' quali avevoimpresa quella sgraziatissima spedizione, un grosso pli-co che racchiudeva i seguenti documenti e lettere:

I. Un conto corrente della rendita del mio podere opiantagione dall'anno in cui i defunti miei fidecommis-sari vennero ad un bilancio col capitano portoghese: fuun decorso di sei anni. Ne apparivano mille cento set-tantaquattro moidori a mio credito.

II. Il conto d'altri quattro anni, tempo che i predetti fi-decommissari percepirono la mia porzione di rendite,prima che il governo ne reclamasse l'amministrazionecome di proprietà spettante ad un individuo che non sitrovava e morto civilmente secondo il modo loro di dire.In questo secondo bilancio per l'accresciutosi valore delfondo, risultò a mio favore una somma di diciannovemila quattrocento quarantasei crusados, circa tremiladugento quaranta moidori.

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III. Una lettera del priore del convento di Sant'Agosti-no che avea ricolte quelle rendite per quattordici annicirca; ma non v'essendo da far conto su la parte già di-sposta per l'ospitale, lo stesso priore dichiarò con lamassima onestà rimanergli tuttavia di non distribuito ot-tocento settantadue moidori, che egli riconosceva dovutia me. Nella parte del re non mi fu rifuso nulla.

IV. Una lettera per ultimo del mio socio, il quale sicongratulava che fossi tuttora vivo, e mi spediva il rag-guaglio dei miglioramenti del podere e della presentesua rendita annuale; ragguaglio in cui mi descrisse mi-nutamente lo scompartimento di ciascuna pertica qua-drata o biolca e de' piantamenti fatti in ognuno e del nu-mero degli schiavi che ci stavano sopra. Avea poi fatteventidue croci su la carta, quali indizi delle avemmarierecitate alla santissima Vergine in ringraziamento delprospero mio ritorno. Dopo avermi eccitato di tutto cuo-re a recarmi sul luogo e a riprendere in persona il pos-sesso de' miei beni, mi chiedeva in quali mani, s'io nonfossi andato, io volea che fossero passate le mie rendite.Aggiunse mille cordiali offerte per parte sua e della suafamiglia, inviandomi in dono sette belle pelli di leopar-do portategli, a quanto sembra, da qualche altro vascelloch'egli avea spedito nell'Africa e che fece più buon viag-gio di quello ov'io m'imbarcai. Mi presentò inoltre dicinque casse di confetti e di cento piastre d'oro non co-niate, un po' men larghe per altro d'un moidoro.

Nello stesso bastimento che mi portò questi donativi,i miei fidecommissari m'inviarono duecento casse di

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zucchero, ottocento rotoli di tabacco e il residuo del mioavere in belle monete d'oro.

Potei ben dire allora che l'ultima parte della storia diGiobbe era stata migliore del suo principio. Egli è im-possibile dare un'idea delle palpitazioni del mio cuore,allorchè mi vidi circondato da tanta ricchezza; perchè,siccome i bastimenti che procedono dal Brasile salpanodi conserva, una stessa spedizione mi portava le lettere ele merci e l'oro: tutte cose che erano sul Tago prima chemi fossero ricapitate le lettere. In somma impallidii, misentivo come venir male, e se il vecchio capitano nonfacea presto ad andarmi a prendere un cordiale, credoche l'eccesso di quell'improvvisa gioia m'avrebbe so-prappreso al segno di restar morto lì. Durai alcune ore inquello stato di convulsione; non vi dico altro: bisognòmandare a chiamare un medico che, conosciuto in parteil motivo della mia infermità, mi consigliò una levata disangue; e credo da vero che senza quello sfogo dato aimiei spiriti sarebbe stata finita per me.

Io mi trovava tutto ad un tratto padrone di circa cin-que mila sterlini e d'una signoria, che ben potevo chia-marla così, nel Brasile che rendea circa mille sterlinil'anno, assicurata quanto possa esserlo qualunque domi-nio di terreni nell'Inghilterra: in una parola ero in unacondizione che sapevo appena capire, e che mi metteasin nell'impaccio sul modo di profittarne.

Il più premuroso pensiere per me si fu quello di ri-compensare il mio antico benefattore, il mio buon vec-chio capitano, primo ad usarmi carità nelle mie angustie,

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cortese con me nel principio, onesto sino alla fine. Fat-tegli vedere tutte le ricchezze che mi erano state spedite,gli dissi come, dopo la providenza del cielo che disponedi tutte le cose, fosse egli solo al quale io andava debito-re di tutto ciò; dipendere ora affatto da me il compensar-lo, e che avrei adempiuto centuplicatamente quest'obbli-go. Primieramente adunque gli restituii i cento moidorisborsatimi poco dianzi come sapete; mandato indi achiamare un notaio, gli feci stendere un atto solenne chescioglieva nel più ampio e valido modo il mio amico deldebito da lui confessato di quattrocento settanta moido-ri. In appresso, ordinai allo stesso notaio di stendere unatto di procura, in forza del quale il capitano fosse auto-rizzato a riscuotere ogni anno per me la mia parte direndite della piantagione, con ordine al mio socio di fareogn'anno i conti con lui e di spedirgli ogn'anno le som-me risultanti di mia ragione giovandosi del solito tragit-to de' bastimenti del Brasile a Lisbona; finalmente,come clausola dell'atto stesso, gli assicurai su que' fondicento moidori annuali sua vita naturale durante, e, mortolui, cinquanta a suo figlio finchè fosse vissuto. Ecco inqual guisa cercai compensarlo.

Mi diedi ora a meditare sul sistema di vivere cheavrei adottato per l'avvenire, e sul modo d'impiegare icapitali che la Providenza m'aveva posti fra le mani. Eda vero mi giravano pel capo più moleste cure che nonme ne dava il mio muto soggiorno nell'isola, ove nonavevo bisogni maggiori delle cose nè più cose dei biso-gni che aveva. Qui mi pesava addosso la mia stessa ric-

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chezza e, quel che era peggio, non sapeva ove metterlaal sicuro. Qui non avevo una grotta o cantina ove collo-carla senza bisogno di chiavi o di chiavistelli, e lasciarlaa giacere ed irrugginire prima che destasse la gola dichicchessia. Certamente il mio buon capitano era onestoe il rifugio unico ch'io m'avessi, ma mi faceano paura isuoi anni.

Pareva inoltre che i miei interessi mi chiamassero alBrasile. Ma come pensare ad imprendere questo viaggiod'oltremare prima di avere assestati i miei affari nel con-tinente, e senza lasciare in sicure mani il mio danaro. Mivenne anche in mente la vedova di quel precedente mioamico di Londra ch'io aveva sperimentata onesta, e cheanche in tale occasione lo sarebbe stata con me, ma at-tempata anch'essa, inoltre povera, e da quanto sapevoangustiata piuttosto dai debiti. In somma, non vedevomiglior espediente del prendere la via d'Inghilterra colmio danaro con me.

Lasciai nondimeno trascorrere alcuni mesi primad'appigliarmi ad un partito. Intanto, poichè aveva giàprovata pienamente la mia gratitudine al mio vecchiocapitano che si mostrò soddisfattissimo di me, cominciaia pensare alla mia povera vedova il cui marito, primadel capitano portoghese, fu anch'egli mio benefattore, efu ella stessa, fin che il potè, mia eccellente maggiordo-ma ed amministratrice. Cercai dunque un banchiere diLisbona affinchè incaricasse il suo corrispondente diLondra non solamente di farle tenere un centinaio disterlini a mio nome, ma procurar di trovarla e parlarle

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per consolarla nella sua povertà e renderla certa cheavrei fatto di più per lei se fossi vissuto.

Nello stesso tempo mandai alle mie sorelle, che vive-vano fuori di Londra, cento sterlini per cadauna: nonpuò dirsi che fossero in uno stato d'indigenza, ma nem-meno in bellissime condizioni, una di loro essendo ri-masta vedova, l'altra avendo un marito che non si com-portava con lei come sarebbe stato suo obbligo.

Pur, malgrado tutte queste mie relazioni e conoscen-ze, io non potea metter la mano su la persona cui affida-re i miei capitali se avessi voluto andare al Brasile e la-sciarli col cuore quieto a Lisbona. Ciò mi teneva in unagrande perplessità.

Mi nacque una volta l'idea di portarmi al Brasile, ove,come raccontai, aveva già ottenute lettere di naturaliz-zazione, e di vedere se mi fosse convenuto stabilirmicolà; ma alcuni scrupoli di coscienza fondati su la diver-sità del culto mi distolsero per insensibili gradi dal farlo.È vero che nel momento non fu questo il principaleostacolo; ed e anche vero che nella mia prima dimoracolà non mi ero fatto scrupolo di professare agli occhidel paese il cattolicismo26. Ma da allora a questa parte sierano grandemente riformati i miei pensieri e io rifuggi-vo da ogni genere di finzione.

Pure devo confessare che allora non fu questa, comeho detto, la principale difficoltà occorsami alla mente, eche la massima fu il non sapere, durante questa prova

26 Tutti già sanno che l'autore di questa storia era protestante, e che fecetale il suo protagonista.

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che avessi fatta, a chi lasciare in custodia il mio danaro.Mi risolvei finalmente a portarlo meco nell'Inghilterra.

Ma prima di tutto volli profittare dell'occasione di va-scelli all'áncora sul Tago che stavano in procinto di sal-pare alla volta del Brasile per dare adeguate risposte achi di là m'avea spediti sì cortesi e fedeli ragguagli su lostato delle cose mie.

Scrissi primieramente al priore del convento di San-t'Agostino, ringraziandolo del modo ond'erasi comporta-to rispetto a me. Quanto all'avanzo degli ottocento set-tanta moidori di mia ragione rimastogli tuttavia nellemani, lo pregai ad applicarne cinquecento al monasterodistribuendo gli altri trecento settanta ai poveri con quelriparto che gli sarebbe sembrato più opportuno. Nonmancai di pregare que' buoni Padri a non dimenticarminelle loro orazioni, e cose simili.

L'altra lettera fu ai miei fidecommissari, per accertarlidi tutta la gratitudine eccitata in me del retto ed onestoloro procedere. Non pensai ad assegnar loro veruna re-tribuzione, perchè la loro ricchezza li mettea troppo al disopra d'ogni bisogno.

Scrissi per ultimo al mio socio rendendo giustizia allasua industria che avea migliorato di tanto il valore dellapiantagione e alla rettitudine de' conti presentati per lespese di raffineria. Gli diedi in appresso le mie istruzio-ni sul modo ond'io desiderava disponesse della mia par-te di rendite avvenire in accordo con le facoltà che ave-va compartite al vecchio mio capitano, al quale lo pregaispedire direttamente tutto quanto fosse di mia pertinen-

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za finchè non ricevesse da me norme diverse. Lo assicu-rai pure essere mia intenzione non solo di andarlo a tro-vare, ma di stabilirmi al Brasile per tutto il restante dellamia vita. Aggiunsi a ciò un presente di tessuti di seta difabbrica italiana per la moglie di lui e le sue figlie; chè ilfiglio del capitano m'aveva informato averne esso due.Unii a tale donativo due pezze di panno inglese del mi-gliore che potei procacciarmi in Lisbona, cinque altre dirascia soppannata nera e alcuni merletti di Fiandra dimolto valore.

Così assestati i miei affari e vendute le mie mercanzieche convertii in buone cedole di banco, non mi rimane-va altra perplessità fuor quella della via che avrei tenutaper tornarmene in Inghilterra. M'era accostumato,cred'io, bastantemente al mare; pure sentiva uno stranocontraggenio a ripatriare per quella via; e benchè nonsapessi spiegarne a me stesso il motivo, questa avversio-ne mi crebbe sì forte, che due volte avevo imbarcate lemie bagaglie per partire, poi cangiai di pensiere nonuna, ma due o tre volte.

È vero che fui sfortunatissimo ne' miei viaggi maritti-mi, e questa poteva esser stata una delle cagioni dellamia esitanza; pure non trascurate mai i forti impulsi del-la vostra anima in casi di simil natura. I due vascellimercantili ch'io avea prescelti pel mio tragitto, e, dicoprescelti, perchè a bordo di uno erano state poste le mierobe, quanto all'altro, aveva già stipulati i miei patti colcapitano: ebbene questi due vascelli ebbero cattivo fine;l'un d'essi fu preso dagli Algerini, l'altro naufragò alla

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punta Start presso Torbay, nè si salvarono se non tre na-viganti; tutti gli altri annegarono. Voi vedete qual bellasorte m'aspettava o su l'uno o su l'altro di que' due basti-menti.

Così tribolato ne' miei pensieri, il mio vecchio noc-chiero cui non ne ascondeva mai uno, mi consigliò cal-damente a non andare per mare; voleva in vece ch'io mirecassi per terra alla Corogna e di lì, attraversato il lito-rale della baia di Biscaglia, alla Rocella dond'era facile esicuro il viaggio sempre per terra sino a Parigi, indi aCalais e a Dover; o vero che, trasferitomi a dirittura aMadrid, continuassi il mio viaggio attraversando tutta laFrancia.

In una parola, io era sì mal impressionato contro alviaggiare per mare, eccetto l'inevitabile tragitto da Ca-lais a Dover, ch'io risolvei di andare tutto il mio ritornoin patria per terra: modo di viaggiare che, non essendoio pressato da una gran fretta, nè avendo bisogno dicrucciarmi per la maggiore spesa, era anche più dilette-vole. E per aumentare questa piacevolezza, il mio capi-tano mi presentò un giovine inglese figlio di un traffi-cante di Lisbona, che era desideroso di fare il viaggio inmia compagnia; dopo di che inducemmo ad essere dibrigata con noi due altri negozianti inglesi e due giovanigentiluomini portoghesi, il secondo de' quali veniva so-lamente a Parigi: in tutto sei padroni e cinque servitori,perchè i due negozianti e i due Portoghesi si contentaro-no d'un servo per ogni due a fine di spendere meno.Quanta a me presi al mio servigio durante il viaggio un

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piloto inglese, oltre al mio fedele Venerdì troppo estra-nio agli usi d'Europa per poter sostenere da solo questaparte lungo il cammino.

Così partimmo da Lisbona. Montata su buoni cavallie ben armata la nostra compagnia, formavamo una pic-cola squadra, di cui ebbi l'onore di essere nominato ca-pitano, e perchè più vecchio e perchè avevo, a differen-za degli altri, ai miei comandi due servi, oltrechè in so-stanza io era l'attor principale di quella spedizione.

LIX. Prodezza di Venerdì.

Come non vi ho annoiato con verun giornale de' mieiviaggi marittimi, così vi risparmierò la molestia di qual-siasi giornale dei miei viaggi per terra; pure non possotralasciare alcune avventure che ne occorsero in questanoiosa e difficile traversata.

Giunti a Madrid ed essendo la Spagna un paese affat-to nuovo per ciascuno di noi, avremmo voluto fermarvi-ci qualche tempo per vedere quella corte e quanto eraquivi meritevole d'osservazione; ma incamminandosi alsuo finire la state, ci affrettammo a partire di lì verso lametà di ottobre. Arrivati ai confini della Navarra, fum-mo scoraggiati nelle diverse città che incontravamo lun-go il cammino, dai racconti della sterminata copia dineve caduta su le montagne che guardano la Francia,motivo per cui più d'un viaggiatore si era veduto costret-

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to a tornare addietro a Pamplona dopo avere tentato in-darno, e ad estremo pericolo, di superare que' passi.

Venuti a Pamplona, trovammo che la cosa era pro-priamente come ce l'avevano raccontata. A me poi av-vezzatomi a climi ardenti ed a paesi ove poteva a faticaportare vestiti di sorta alcuna, quel freddo sembrava in-sopportabile. Nè da vero era cosa men penosa che sor-prendente il venir via, sol dieci giorni prima, dalla Ca-stiglia Vecchia, ove l'atmosfera è non solamente tempe-rata, ma caldissima, e trovarsi d'improvviso esposti aiventi de' Pirenei sì acuti, sì orridamente freddi, sì intol-lerabili, che n'avevano resi assiderati e condotti a temeredi perdere le dita delle mani e dei piedi.

Il povero Venerdì si trovò sgomentato da vero quandovide i monti tutti coperti di neve e sentì in tutta l'esten-sione del termine il rigore del freddo: lui che non avevamai veduto neve, nè patito freddo in sua vita. Non vidirò altro se non che, quando fummo a Pamplona conti-nuava a nevicare con tanta violenza e sì incessantementeche quegli abitanti ne dicevano esser venuto il vernoprima del tempo; quelle strade, perverse sempre, eranodivenute allora impraticabili affatto. In una parola, lenevi in alcuni luoghi erano sì alte, che non si poteva an-dare avanti, oltrechè non essendo indurite dal gelo,come accade ne' paesi settentrionali, chi voleva traver-sarle, nol facea senza pericolo di rimanere ad ogni passosepolto vivo sotto di esse.

Fermatici non meno di venti giorni a Pamplona, e ve-duto come il verno avanzasse nè apparisse la menoma

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probabilità che divenisse più mite, perchè faceva in tuttal'Europa il più inclemente verno che a memoria d'uomi-ni si fosso mai conosciuto, proposi che ce ne andassimoa Fontarabia, e quivi prendessimo un imbarco per Bor-dò: si trattava in fine d'un piccolo tragitto. Ma mentreciò stavasi discutendo, arrivarono quattro gentiluominiche, essendo stati arrestati per la perversità de' camminidal lato francese, siccome noi lo eravamo alla frontieraspagnuola, ne raccontarono come li avesse tratti d'im-paccio una guida in cui si abbatterono. Questa guida, aldir loro, attraversata la campagna su l'estremità dellaLinguadoca, gli avea condotti su le montagne per talisentieri che non si trovarono gran che incomodati dallaneve; e, capitati anche talvolta in siti ove ne fosse copiapiù straordinaria, il gelo l'avea renduta salda abbastanzaper reggere essi e i loro cavalli.

Mandammo tosto in cerca di questo individuo, il qua-le venuto a noi, ne disse che si prendeva l'assunto dicondurci su la medesima via senza che ne riuscisse d'in-tralcio la neve, semprechè fossimo bastantemente armatiper difenderci dalle bestie selvagge.

‒ “Perchè, egli soggiugneva, in questi tempi accadefrequentemente che alcuni lupi si facciano vedere al pie-de delle montagne, e li rende feroci la mancanza di nu-trimento quando la terra e tutta coperta, com'è ora, dallaneve”.

Nel rispondere che per fare un ricevimento qual con-venivasi a quelle fameliche creature eravamo preparatiabbastanza, gli domandammo poi s'egli ci avrebbe potu-

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to guarentire da un'altra specie di lupi a due gambe, daiquali c'era ben più di che temere, massime, come ne era-vamo stati informati, dal lato de' monti della Francia.Poichè ne ebbe accertati non esserci luogo a paure di talnatura su la strada per ove divisava condurci, non avem-mo più difficoltà di seguirlo, come fecero parimente al-tri dodici gentiluomini, parte francesi, parte spagnuoli,che co' loro servi si erano provati, lo abbiamo già detto,a valicare que' monti, e furono costretti tornare addietro.

Di fatto partimmo da Pamplona in compagnia dellanostra guida il giorno 13 di novembre. Mi fece, lo con-fesso, qualche meraviglia il vedere che costui, in vece dicondurci più innanzi, nè fece ripigliare la strada cheavevamo fatta nel venir via da Madrid. Ciò durò per untratto di venti miglia, poi venuti ad una pianura, ci tro-vammo di nuovo sotto un clima temperato ed in un belpaese ove non si facea vedere la neve. Ma tutt'ad un trat-to voltando a sinistra, ci trovammo alle montagne perun'altra strada. Quivi, ancorchè per dir vero, ci si mo-strassero dirupi e precipizi da atterrire il nostro condut-tore ciò non ostante ne fece pigliare tante giravolte, tan-te vie di scanso, ci guidò per tanti meandri, che oltrepas-sammo quasi senza avvedercene e senza essere incomo-dati dalla neve, la parte più alta di que' monti; onde inun subito ci si mostrarono le deliziose e fertili provincedella Linguadoca e della Guascogna tutte verdi e fioren-ti. Le vedevamo, ma, se si ha a dire la verità, ad una bel-la distanza da noi, e ce ne restava ancora della cattivaprima di esserci.

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In fatti non tardò il cruccio per noi di veder nevicaretutto un giorno e una notte neve sì fitta che ne costrinsea fermarci. Ma il nostro conduttore ne dicea che stessi-mo di buon animo, e che presto saremmo fuori d'ognitravaglio. Effettivamente ci accorgevamo ogni giorno diandare alla bassa e di procedere sempre più verso il set-tentrione. Continuando a fidarci dunque nella guida pro-seguivamo il nostro viaggio.

Due ore circa prima di sera il conduttore nel prece-derci s'era alquanto scostato da noi, onde lo avevamoperduto di vista, allorchè sbucarono dal folto di una con-tigua selva tre enormi lupi, e dietro ad essi un orso. Duedi questi lupi investirono la guida e buon per lei che nonci era andata avanti di tanto, poichè certo sarebbe statadivorata prima che potessimo correre in suo aiuto. Unodi quegli animali s'era attaccato al cavallo; l'altro assalseil cavaliere con tal violenza ch'egli non avendo tempo oprontezza di spirito bastanti per trarre a mano una pisto-la, si mise a strillare e chiamare aiuto con quanta voceaveva. Dissi tosto a Venerdì che mi cavalcava da presso,di correre innanzi e vedere cosa fosse.

Venerdì corse, e appena fu a veggente dell'uomo as-saltato, lo udii gridare con una voce non men forte delleurla di quel poveretto: Ah padrone! ah padrone! ma nonsi fermò per questo il gagliardo, e afferrata una pistola eportatosi faccia a faccia col lupo che già stava per ad-dentare la testa della sua vittima, lo stese morto d'unbotto.

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Fortuna pel nostro povero conduttore l'avere avuto ilsoccorso di Venerdì, che, avvezzo ad aver che fare consimili creature nel suo paese, non ebbe paura di affron-tare corpo a corpo la belva quando l'ammazzò come ab-biamo detto. Tutt'altri di noi le avrebbe fatto fuoco ad-dosso ad una maggiore distanza col rischio di fallare illupo e forse anche di colpire l'uomo alla cui difesa ac-correa.

Vi dico io che v'era quanto bastava per atterrire unuomo più coraggioso di me. E da vero tutta la nostra bri-gata si spaventò quando insieme col romore della pistolasparata da Venerdì udimmo da entrambi i lati un orridoululato di lupi: frastuono che ripetuto da ogn'eco dellemontagne, ne fece credere d'avere intorno un numerosterminato di quelle fiere; nè forse erano tanto pocheche non avessimo motivo di avere paura. Nondimenopoichè Venerdì ebbe ucciso il lupo che minacciava a di-rittura l'uomo, l'altro che s'era attaccato al cavallo, la-sciata immantinente la sua presa, si diede a fuggire sen-za avergli fatto male veruno, perchè per buona sorte isuoi denti ansiosi prima di tutto di sbramarsi su la testadel corridore venivano rintuzzati dalle borchie della bri-glia.

Fu ben peggio per l'uomo, poichè la famelica belva loavea già morsicato due volte, una in un braccio, l'altraun po' di sopra al ginocchio, e benchè avesse oppostaqualche difesa, stava per essere buttato giù di sella dalloscompiglio stesso del suo cavallo, quando sopraggiunseVenerdì a liberarlo.

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Potete immaginarvi che al romore della pistola di Ve-nerdì tutti affrettammo il passo quanto nel permettea ladifficoltà al certo grande di quel cammino per vederecome stessero le cose. Appena fummo fuor degli alberiche ne toglievano dianzi la vista, scorgemmo perfetta-mente la natura del caso, e come Venerdì fosse riuscito acampare da morte il nostro povero conduttore, benchèl'oscurità dell'ora non ne lasciasse nel momento discer-nere qual razza di bestia egli avesse uccisa.

LX. Venerdì dà lezione di ballo all'orso.

Ma non fuvvi mai lotta condotta con tanto ardimento,nè in così sorprendente guisa, siccome quella accadutatra Venerdì e l'orso venuto, come avvertimmo, dietro ailupi; caso, che se bene su le prime ne desse e pensieri epaura pel lottatore uomo, divenne in appresso il maggio-re degli spassi immaginabili per tutti noi.

Se l'orso è per una parte una tozza e pesante bestia in-capace nella sveltezza del correre di competere col lupoche è agile e leggiero, ha per l'altra due particolari quali-tà che sono la norma d'ogni sua azione. Primieramentequanto agli uomini (che non sono la consueta naturalesua preda se non lo stimola un'eccessiva fame, ciò chepoteva, per vero dire, essere il caso or che la terra eracoperta affatto di neve), quanto agli uomini, dissi, eglinon suole assalirli se non sono essi i primi, onde se noncercate briga con lui, egli non ne cerca con voi. Ma bi-

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sogna essere molto civile verso di esso e cedergli lamano diritta, perchè è un gentiluomo puntiglioso all'e-stremo, nè vuole rimoversi d'un passo dal suo cammino,nemmen per un principe; anzi se ne avete veramentepaura, la più sana per voi, se lo incontrate, e di voltarestrada e prendere un'altra direzione, perchè se vi ferma-te, e s'accorge che gli fissiate gli occhi addosso, pigliaquesto per un affronto. Che se poi moveste alcun che, equesto alcun che, sebbene più sottile d'un vostro dito,giungesse a colpirlo, crede che abbiate voluto villaneg-giarlo, e lascia tutte l'altre sue faccende per ottenere invia cavalleresca una soddisfazione da voi: è questa laprima delle sue qualità. L'altra poi è che, oltraggiato unavolta, non ve la perdona mai più, non vi lascia più nènotte nè giorno, vi circuisce finchè vi abbia raggiunto,finchè non si sia vendicato.

Venerdì avea già salvata la vita al nostro conduttore,quando gli fummo da presso, e stava aiutandolo a smon-tar da cavallo, perchè era malconcio dalle morsicature ein uno dalla paura avuta, allorchè vedemmo spuntare dalbosco l'orso, ed era uno de' più enormemente grossich'io m'abbia veduti. Noi rimanemmo alquanto sconcer-tati a tal vista, ma non Venerdì nel cui aspetto si leggeafacilmente l'intrepidezza, anzi l'ilarità.

‒ “Oh! oh! oh! gridò egli, accennando tre volte coldito la fiera. Padrone, lasciar me fare! Me voler far co-noscenza con lui! me voler darvi bel ridere!”

Tanta giocondità del gagliardo mi parea fuor di pro-posito e mi sorprese.

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‒ “Pezzo di matto, gli dissi, ti mangia in un boccone!‒ Mangiar me in boccone! me in boccone! ripete Ve-

nerdì. Me mangiar lui! me dar a voi bel ridere. Voi tuttistar fermi qui! Me dare a voi bel ridere!”

Sedutosi tosto per terra, e levatisi gli stivali, cui sosti-tuì un paio di scarpini che avea con sè, consegnò il suocavallo all'altro mio servo; poi si diede a correre a tuttegambe.

L'orso se ne andava adagio adagio per la sua via,come chi pensa a tutt'altro che ad aver quistioni con al-cuno, intantochè Venerdì gli fu in qualche vicinanza, elo chiamò, come se l'orso avesse potuto rispondergli.

‒ “Te ascoltare! te ascoltare! dicea Venerdì, me volereparlare con te!”

Seguivamo Venerdì ad una certa distanza, ma poteva-mo veder tutto, perchè scesi ora dalle montagne che pro-spettano la Guascogna, eravamo entrati in una vasta pia-nura sparsa sì d'alberi qua e là, ma che lasciava moltivani tra un albero e l'altro. Venerdì che codiava, comedicemmo, l'orso, gli arriva a tiro, e levato un gran sassoda terra glielo gettò sì, che lo colpì nella testa; ma nongli fece più male che se lo avesse scagliato contro aduna muraglia. Ciò era nondimeno quanto da Venerdì sicercava, perchè il furfante era sì scevro di paura, che de-siderava appunto farsi correr dietro dall'orso e, mostrara noi bel ridere, com'egli chiamava ciò. Appena l'orsoha sentito il colpo, e veduto da chi gli veniva, si volta esi dà a seguire l'assalitore facendo passi diabolicamentelunghi, e dimenandosi in tal singolar guisa come se fos-

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se stato un maestro di cavallerizza che avesse volutomettere al mezzo galoppo un cavallo. Venerdì si pose acorrere nella nostra dirittura, come se, spaventato, venis-se a chiederci aiuto. Noi di fatto ci determinammo tutti afar fuoco su l'orso e liberare il mio servitore, benchè, adir vero, io avessi non poca stizza contro di esso, perchèera lui che ci mandava l'orso addosso coll'averlo sviatodalla sua strada, mentre quell'animale se n'andava tran-quillamente pe' fatti suoi; e gli perdonavo tanto meno,perchè dopo aver tratti noi per bel diletto suo nell'im-paccio, si metteva a fuggire. Anzi gli gridai:

‒ “Sgraziato! È questo il tuo mostrarci bel ridere?Vieni qui, e monta a cavallo. Faremo fuoco tutti di con-serva su la fiera”.

Ode le mie parole Venerdì, e grida forte a sua volta:‒ “Non far fuoco! non far fuoco! Voi aver da avere

molto ridere!”Indi l'agil gagliardo che nel correre faceva due passi

per ognuno dell'orso, prende in un subito una dirittura difianco e adocchiata una bella quercia atta al suo scopo,ne fa cenno di tenergli dietro; poi raddoppiando il passogiunge al piede dell'albero. Quivi, posato a terra pacata-mente il suo moschetto, lo salisce ad un'altezza di cin-que o sei braccia. L'orso non tarda a raggiugnere l'albe-ro; noi procedevamo tenendoci a qualche distanza versoil teatro dell'azione. L'animale per prima cosa si fermò apiè dell'albero, fiutò il moschetto, poi lasciatolo lì, s'ag-grappò all'albero, arrampicandosi ad usanza di un gatto,benchè fosse sì sterminatamente greve. Rimasi sbalordi-

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to di questa pazzia, io la pensava tale, del mio servitore,e su l'onor mio non ci trovava finora niente da ridere. Insomma, quando vedemmo che l'orso saliva l'albero, ca-valcammo tutti a quella volta.

Poichè fummo arrivati all'albero, Venerdì si era so-speso alla sottile estremità di un grosso ramo della quer-cia, e l'orso aggrappato ad essa avea fatto metà camminoper raggiugnerlo. Tostochè l'orso fu pervenuto alla partepiù sottile dell'albero, Venerdì si volse a noi esclaman-do:

‒ “Voi star a vedere! Me insegnar orso ballare!”E si diede a far salti e a scuotere l'albero. L'orso prin-

cipiò a traballare e a non andare più innanzi, bensì a vol-tarsi per vedere se poteva tornare addietro, e qui da veroridemmo di tutto cuore. Ma Venerdì non la voleva finitaa sì buon mercato per l'orso. Quando vide la bestia cosìperplessa tornò a parlarle come se questa intendesse lalingua umana.

‒ “Perchè non venire avanti? Da bravo, camerata, ve-nire avanti!”

Anzi per far coraggio all'orso dismise di saltare e disquassar l'albero. Come appunto se l'orso avesse intesele parole di Venerdì, tornava ad avanzarsi un pocolino, eVenerdì a saltare e squassar l'albero, e l'orso a fermarsi ead esser perplesso. Credemmo allora giunto il bel mo-mento di accoppare la fiera, onde gridammo a Venerdìdi star quieto, perchè volevamo far fuoco su l'orso. MaVenerdì si diede fervorosamente a gridare:

‒ “Per carità non tirare! Ma tirare adesso allora”.

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E per lui adesso allora voleva dire adesso adesso27.In somma per far corta la storia, Venerdì saltò tanto e icorrispondenti atti dell'orso furono tanto grotteschi, cheavemmo campo a ridere per un bel pezzo; ma nessunos'immaginava ancora che cosa il nostro direttore del bal-lo si fosse messo in testa di fare; perchè su le prime pen-sammo ch'egli avesse soltanto l'intenzione di far fare uncapitombolo all'orso; ma vedemmo che la bestia eratroppo scaltra per dargli un tal gusto, e benchè si guar-dasse dal salire tant'alto da non potersi reggere sotto loscotimento dell'albero, ci si attaccava per altro moltobene co' suoi unghioni, e con le sterminate sue zampe,onde non capivamo come sarebbe andata a finire e qualfosse in sostanza la moralità della commedia. Ma bentosto Venerdì ci trasse da questa incertezza, perchè ve-dendo che l'orso s'andava attaccando all'albero ma nonsi lasciava persuadere ad avvicinarsi di più, allora disseall'orso:

‒ “Ah ben bene! Voi non voler venir avanti, io andarea basso. Voi non voler venire da me, io venire da voi”.

Dopo di che portatosi all'estrema punta del ramo lad-dove poteva farlo piegare col proprio peso vi si attaccò,e lasciandosi bellamente calar giù finchè fosse vicino aterra abbastanza per ispiccare un salto, eccolo su duepiedi e presso al suo moschetto di cui si munì, ma la-sciandolo tuttavia ozioso.

27 Anche nel testo inglese lo sproposito di Venerdì è dire by and then chesignificherebbe adesso allora (cioè non significherebbe nulla in questo caso)in vece di by and by che significa propriamente adesso adesso.

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‒ “Orsù dunque, Venerdì, gli diss'io, che cosa state afare adesso? Perchè non gli tirate?

‒ Non ancora; adesso allora, ripetè; me non ammaz-zare lui adesso, me fermarmi qui; me darvi sempre piùbel ridere”.

E veramente fu di parola, come ora sentirete. Poichèl'orso vide che il nemico aveva abbandonata la sua posi-zione, scese dal ramo cui già s'era abbrancato, ma congrande cautela e guardandosi dietro ad ogni passo escendendo sempre a ritroso. Poichè fu al principio delfusto dell'albero non dimise il suo metodo di camminareall'indietro e aggrappandosi con gli unghioni alla cortec-cia e mettendo bel bello una zampa dopo l'altra: pren-dendosi proprio tutti i suoi comodi. Nel bel momento incui poggiava la prima zampa di dietro sul terreno, Ve-nerdì, fattosegli ben sotto e postogli la canna delloschioppo all'orecchio lo stese morto di botto. Poi il fur-fante si volta verso noi per vedere se ridevamo, e lettanenegli occhi la nostra soddisfazione, si diede sbardellata-mente a ridere anch'egli; poi esclamò:

‒ “Così noi ammazzar orsi in nostri paesi.‒ Così? io replicai. Ma se non avete moschetti!‒ Non aver moschetti, ma sparar frecce grandi lun-

ghe”.Fu questo un divertimento non cattivo per noi; ma

eravamo tuttavia in paese deserto, e il nostro conduttorestava assai male, onde non ben sapevamo a qual partitoappigliarci. Gli ululati de' lupi di que' dintorni mi rintro-navano sempre all'orecchio, e veramente se si eccettuino

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i ruggiti delle fiere da me uditi alla costa dell'Africa e dicui ho già dato conto altrove, non ho mai sentito fra-stuono che m'abbia compreso più gagliardamente d'or-rore.

LXI. Battaglia co' lupi.

Queste circostanze e l'avvicinarsi della notte non cilasciavano tempo d'avanzo; altrimenti avremmo fatto amodo di Venerdì, il quale voleva si levasse la pelle al-l'orso che veramente meritava di essere conservata; mane conveniva fare circa tre leghe e il nostro conduttoreci mettea fretta; laonde lasciato l'orso morto dov'era,continuammo il nostro cammino.

La terra era tuttavia coperta di neve, benchè non sìfitta e pericolosa come nelle montagne; ed i lupi, lo sa-pemmo più tardi, spinti dalla fame, erano calati nella fo-resta e nella pianura per cercarsi alimento, facendogrande guasto ne' villaggi ove sorpresero le case de'contadini, divorarono i loro armenti e cavalli e qualchecreatura umana pur anche. Ci toccava passare da un tri-sto luogo perchè il nostro conduttore ne disse che, sepure i lupi erano scesi in quelle campagne, gli avremmotrovati ivi. Era questo luogo una piccola pianura circon-data di boschi da tutti i lati, che metteva entro una angu-sta gola, donde dovevamo passare per uscire della fore-sta, che ci avrebbe di poi condotti al villaggio ove dove-vamo pernottare.

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Prima di arrivare al tristo sito indicatoci dovevamoentrare in un bosco, ove ci trovammo mezz'ora prima disera; poco dopo il tramonto eravamo nella pianura. Niu-na cosa notabile ne era occorsa nella prima selva; e lasola cosa che ci accadesse nella piccola pianura si fu ilvedere, non più in là d'un quarto di miglio, cinque gran-di lupi attraversare la strada correndo con grande pre-stezza l'un dietro l'altro come ad una preda che avesserogià in mira. Essi non badarono a noi, e ben presto non livedemmo più.

Quindi il nostro conduttore che, noteremo qui per pa-rentesi, era un solennissimo poltrone, ne avvertì di met-terci su le difese perchè, a quanto credea, saremmo statipoco a vederne degli altri. Noi di fatto allestimmo i no-stri moschetti; ma il fatto è che non ci occorsero lupi pertutta la traversata del bosco che era lunga circa una mez-za lega. Bensì entrati nella pianura, non avemmo penu-ria di queste inamabili creature; ed il primo oggetto chene ferì la vista, fu una dozzina di essi affaccendati a suc-chiar l'ossa, non diremo a mangiar le carni chè non ce nerestavano più, d'un povero cavallo che aveano sbranato.

Non credemmo a proposito disturbare il loro banchet-to, nè i lupi s'accorsero di noi. Venerdì veramente avreb-be voluto che gli permettessi di far qui prove del suo va-lore; ma io m'opposi risolutamente: capivo bene cheavremmo forse avute più faccende di quanto c'immagi-navamo. Nè eravamo ancor giunti a metà della pianuraquando cominciammo ad udire a sinistra del bosco spa-ventosissimi ululati di lupi, poi un momento appresso ne

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vedemmo un centinaio che venivano difilato inverso ecome in colonne d'esercito guidate da abili condottieri.Da vero la vedevo mal incamminata, nè sapevo troppocome mettermici per ricevere questi nemici; pure miparve che il meglio fosse l'ordinarci tutti in linea serrata;e così facemmo in un subito. Indi, affinchè non passassetroppo tempo tra uno sparo ed un altro, ordinai a quellidella mia comitiva che un solo d'ogni due sparasse il suoarchibuso, mentre gli altri che non lo avrebbero sparatosi terrebbero pronti ad una seconda scarica, se i lupicontinuavano a venire innanzi contro di noi; e che chi loavea sparato, in vece di pensare a ricaricarlo subito, fa-cesse fuoco con l'una poi con l'altra delle sue pistole.Così, fra una metà e l'altra, avevamo sei continue scari-che a nostra disposizione, perchè non v'era in quella bri-gata chi non fosse proveduto di un moschetto e di duepistole. Pure nel momento non abbisognammo di tanto,perchè dopo la prima scarica il nemico fece una pienafermata, tanto lo strepito e il fuoco lo intimorirono.Quattro lupi colpiti nella testa stramazzarono, altri fug-girono feriti e grondanti sangue, come potemmo accor-gercene dall'orme che lasciarono su la neve. Ma non tut-ti fuggirono, onde vidi non esser questa una ritiratacompiuta. Ricordatomi allora di avere udito raccontareche i più feroci animali rimanevano spaventati da un ga-gliardo frastuono di voci umane, dissi ai miei compagnidi mettersi a gridare con quanti polmoni aveano. Nontrovai fallace la ricetta, perchè dopo ciò i lupi principia-rono a ritirarsi e a voltare addietro. Comandai tosto una

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seconda scarica che, posti al galoppo i fuggitivi, li co-strinse a rintanarsi nella foresta.

Ciò ne diede agio a caricare di nuovo le nostre armi,cosa che per non perdere tempo eseguimmo continuan-do il nostro cammino in avanti. Ma appena ciò fatto,mentre ci affrettavamo sempre di più per essere prestofuori d'impaccio, udimmo un tremendo fracasso nellastessa foresta, sempre a manca, veramente in distanza danoi, ma su la via che dovevamo percorrere.

Cominciava ad imbrunire perchè s'avvicinava la nottea far la nostra condizione più trista, e lo strepito cresceasempre di più, quando ci accorgemmo che derivava tut-tavia da ululati di quelle diaboliche creature. In un subi-to ne vedemmo tre branchi, uno a sinistra, l'altro a de-stra, il terzo a fronte di noi, sì che potevamo dire d'esse-re accerchiati dai lupi. Pure, come non si mostravano inquel punto disposti ad assalirci, proseguimmo il cammi-no con tutta la velocità che potemmo imprimere ai no-stri cavalli, poca per dir vero e ridotta al mezzo trottoper quelle perversissime strade. Così arrivammo a veg-gente dell'ingresso di una selva posta su l'estremità dellapianura che ci toccava attraversare per giungere alla no-stra meta. D'improvviso da un altro vano di bosco udim-mo il romore di uno sparo di moschetto, e guardando daquella parte vedemmo correre come il vento e a brigliasciolta un cavallo inseguito da sedici o diciassette lupi.Per dir vero il corridore li precedeva d'una certa distan-za, ma pareva impossibile che nol raggiugnessero, e difatto il raggiunsero.

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Ma entrati appena nella selva, ci si parò innanzi agliocchi uno spettacolo ben più tremendo. Trovammo glischeletri d'un altro cavallo e di due uomini divorati daquelle fameliche belve. Uno di quegli infelici dovevaessere senza dubbio quello da cui venne lo sparo d'armada fuoco udito dianzi, perchè un moschetto gli posava interra da presso, il cranio e la parte superiore del corpo diquel misero erano affatto scarnati.

Compresi d'orrore a tal vista, non sapevamo a qualpartito appigliarci; ma le creature che ne giravano attor-no in cerca di preda ci fecero ben tosto risolvere, e credoda vero che non erano in men di trecento. Fu nostragrande ventura che, non propriamente all'ingresso delbosco ma un poco più in là vi fosse una quantità di le-gname da lavoro fatto d'alberi atterrati di quella selva elasciato ivi per essere trasportato. Condussi per mezzo aquesta specie di fortezza il mio piccolo esercito, e posti-ci in linea dietro ad un lungo enorme pancone, che ciserviva come d'un parapetto, dissi a tutti di smontare, eformato un triangolo di cui le nostre persone erano i lati,tenevamo entro la sua area i nostri cavalli.

Ci trovammo ben contenti di aver fatto così; perchènon fuvvi mai impeto più furioso di quello onde ci assa-lirono que' predatori. Con una specie di ruggito saltaro-no sul pancone che era, come dissi, il nostro parapetto,quasi già sicuri d'aver trovata la loro pastura; e l'aviditàdei malandrini parea soprattutto stimolata dalla vista deicavalli cui facevamo ala. Ordinai tosto alla mia brigatadi far fuoco sovr'essi tenendo la stessa regola di poco

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dianzi. La mira fu sì ben presa, che alla prima scaricagià molti lupi caddero morti; ma qui v'era la necessitàdel fuoco continuo; perchè que' diavoli venivano difronte, e quelli di dietro incalzavano quelli davanti.

Dopo una seconda scarica ne parve che si fermasseroalquanto, e speravo che avrebbero battuta la ritirata; mafu la fermata sol d'un istante, chè altri lupi sopravvenne-ro a spingerli innanzi. Facemmo altre due volte fuoco sud'essi con le nostre pistole; e credo che in quattro scari-che ne ammazzassimo diciassette, e ne storpiassimo al-trettanti; ma i maladetti tornavano sempre.

Mi rincrescea l'affrettarmi troppo a consumare la miamunizione; onde chiamato il mio servitore, non già Ve-nerdì (affaccendato allora in opera di maggiore momen-to, perchè con la massima destrezza aveva caricato ilproprio moschetto ed il mio mentre stava dando questedisposizioni), chiamai, dissi, l'altro servitore, ordinando-gli di spargere sul pancone tanta polvere da formareun'ampia lista che ne tenesse l'intera lunghezza. Tantoegli fece, ed ebbe appena il tempo di ritirarsi di lì, che ilupi tornavano e alcuni di essi saltarono sul pancone. Al-lora con una pistola carica di sola polvere diedi fuoco aquella striscia. Rimastine abbrustoliti quelli che eranosul pancone, sei o sette di essi caddero; ma i più balzatidalla paura e dal bruciore del fuoco spiccarono un saltoentro la nostra trincea ove facemmo presto a spacciarli. Ilupi di fuori spaventati da tale vampa improvvisa che ilbuio della notte già sopraggiunto rendea più spaventosa,indietreggiarono un poco. Feci sparar tosto in una volta

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su loro le pistole che ne rimanevano tuttavia cariche, poimettemmo di conserto un grand'urlo dopo il quale volta-rono finalmente le code. Femmo tosto una sortita soprauna ventina circa di essi, prostesi sul terreno e lottanticon la morte che loro affrettarono le nostre armi da ta-glio. E da ciò ancora ottenemmo un nuovo vantaggioperchè gli ululati mossi da questi morenti e uditi dai lorocompagni gli atterrirono con tanta efficacia che final-mente non vedemmo più altri di quella esecrata genia.

Tra prima e dopo ne avremo fatti morti ben sessanta,e ne avremmo ammazzati assai più a luce di giorno. Di-radato in tal guisa il campo della battaglia, procedemmoinnanzi, perchè ci restava ancora da fare un lega circa dicammino. Lungo la strada continuammo ad udire dimezzo ai boschi ululati di lupi, e qualche volta ancoracredemmo vederne alcuni, ma poichè la neve ci abbar-bagliava la vista, non avremmo potuto asserirlo con cer-tezza. Dopo un'ora a un dipresso di cammino, arrivati alborgo ove dovevamo pernottare, ne trovammo tutti gliabitanti su la difesa. La notte antecedente, a quanto nerisultò, i lupi ed alcuni orsi avendo fatta una scorrerianel villaggio, posero quei terrazzani in tale spavento,che li costrinse a far guardia e di notte e di giorno persalvare le loro greggie ed anche sè stessi.

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LXII. Continuazione del viaggio; arrivo in Inghilterra.

Nella successiva mattina il nostro conduttore stavaassai male per le morsicature del giorno innanzi, dondegli derivavono tumori che venivano a suppurazione.Fummo perciò costretti lasciarlo e provvederne un altroche ci accompagnò sino a Tolosa. Quivi trovammo edolce clima e belli e fertili paesi, nè più orsi nè più lupinè più molestie di simil natura. Quando raccontammo lanostra istoria ai Tolosani, udimmo nulla esservi di piùsolito ad avvenire in quella immensa foresta al piededelle montagne, massime per tutto il tempo che la terrarimane coperta dalle nevi. Poi ci chiesero qual razza diguida avevamo tirata fuori che si rischiasse a condurcisu quella strada in così rigida stagione. “Pare un miraco-lo, ne diceano, che non siate stati tutti divorati”. E nonmeno ne biasimarono quando intesero quel nostro mododi difesa tra i legnami da lavoro allorchè, smontati dainostri cavalli facemmo questi riparo de' nostri corpi.“Ma sapete che v'era da scommettere cinquanta contr'u-no che sareste stati tutti distrutti? Non v'è pei lupi pastu-ra più prelibata dei cavalli, e la loro vista li rende furiosiad un segno di cui non c'è idea. Senza questa vistaavrebbero forse avuto paura d'un moschetto. Ma rabbio-si dalla fame com'erano, e vedendosi a tiro un cibo sìdelizioso, non s'accorsero di pericolo. Ringraziate il vo-stro fuoco continuato e finalmente lo stratagemma della

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traccia di polvere che li persuase; ma avete corso un belrischio d'essere sbranati. Era men male se vi contentava-te di rimanere a cavallo e di far fuoco su i lupi stando insella. Finchè il cavallo fa tutto un animale coll'uomo,non lo prendono tanto per cavallo. Piuttosto, se volevatesmontare, dovevate lasciar andare i cavalli, che ai lupinon sarebbe parso vero di correre dietro a quella preda,nè avrebbero più pensato a voi altri che ve ne sareste an-dati innanzi con sicurezza, tanto più che eravate armatid'archibusi”.

Quanto a me, so certo di non aver mai avuta una sìmaladetta paura come quando mi vidi venir inverse tre-cento di que' diavoli mugghiando e a bocche spalancate.Non avendo un sito per rifuggirmi, io mi dava già peruomo perduto, e vivaddio! non traverserò quelle monta-gne una seconda volta. Sto piuttosto a patto di far milleleghe per mare con la certezza di una tempesta per setti-mana.

Non ho molto da raccontare di non comune sul viag-gio che feci per traverso alla Francia, nè potrei su quelpaese esporre maggiori particolarità di quante ne hannoraccolte altri viaggiatori collocati in una posizione mi-gliore della mia per farne incetta. Da Tolosa mi recai aParigi; poi senza fermarmi gran fatto passai a Calais e dilì subito a Dover, ove arrivai ai 14 gennaio dopo averepresa per viaggiare la più perversa stagione dell'anno.

Ero per allora alla meta de' miei viaggi, ed in brevetempo avevo ritirati presso di me i capitali recentementericuperati. Le cedole di banco ch'io m'era portate meco,

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mi vennero pagate al giusto ragguaglio del cambio checorreva in quel tempo.

Il primo confidente, il mio consigliere privato, vale adire quella buona attempata vedova che già v'ho fattaconoscere, tutta gratitudine pel danaro da me speditolein dono da Lisbona, non trovava fatiche troppo gravosese le impiegava per me; e di tal mia fiducia in lei dovettiben trovarmi contento per la sicurezza che ne ridondò atutto quanto mi apparteneva. Dal principio sino al fine estata per me una grande origine di felicità la non maismentita integerrima rettitudine di quella buona signora.

* Mi era anzi saltato il pensiere di lasciare in custodiadi lei i miei capitali e portarmi a Lisbona e di lì al Brasi-le per mettere stabile dimora colà; ma alcuni scrupoli re-ligiosi avendomi distolto da simile idea, mi determinaidi rimanere in patria e alienare se mi riusciva la miapiantagione del Brasile *.28

Scrissi pertanto tal mia intenzione al mio vecchio ca-pitano di Lisbona che, fatta la profferta di questo acqui-sto agli eredi de' miei fidecommissari dimoranti al Bra-sile, la trovò accettata. Essi inviarono ad un loro corri-spondente del Brasile trentatrè mila monete da otto, va-lore della mia parte di quel possedimento.

28 Il paragrafo posto fra due asterischi non trovasi ne' due testi originaliche ho dinanzi agli occhi, pur leggesi in altri originali; qualche traduttore,come a cagion d'esempio il signor Borel, non l'ha omesso. Appartenga vera-mente al corpo primitivo dell'opera o sia stato intruso in appresso (che nonsembrami), connette sì bene con quanto precede e viene dopo, che per lo menonon ho dato verun danno al restante coll'introdurlo accompagnato da questanota.

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Mandarono pure al mio vecchio amico di Lisbona, equesti a me, l'atto di vendita che autenticai con la miafirma. Mi spedì pure in cedole di banco la somma ditrentadue mila ottocento monete da otto, ritenendosi,perchè gl'ingiunsi espressamente di far così, l'equivalen-te della rendita di cento moidori per lui sua vita naturaledurante, e di cinquanta, morto lui, per suo figlio, renditache gli avevo assicurata, come fu detto, su la piantagio-ne medesima.

Così terminava la prima parte di una vita tutta di stra-ne venture, di una vita che parve un giuoco di scacchidella Providenza, di una vita sparsa di tal varietà che ilmondo ben rare volte potrà additare la sua compagna, diuna vita principiata mattamente, ma condotta a terminecon maggiore felicità di quanta mai ogn'incidente diessa mi avesse dato luogo a sperare.

Ognuno s'immaginerebbe che in questo stato di com-piuta fortuna mi fosse passata la voglia di correre nuovirischi e venture; e così sarebbe avvenuto, se altre circo-stanze non fossero occorsi. Ma avvezzo com'ero allavita vagante, privo di famiglia, nè avendo, benchè ricco,contratte nuove relazioni, anche dopo aver venduta lamia piantagione del Brasile, non sapeva levarmi dallatesta quella contrada nè domare in me la mania di com-mettermi ai venti; soprattutto non sapevo resistere alprepotente desiderio di rivedere la mia isola e di saperese i miei poveri Spagnuoli ci aveano posto dimora.Lamia buona amica, la vedova che conoscete, metteva tut-to il fervore a dissuadermene, e ci riuscì tanto che per

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circa sett'anni la vinse ch'io non imprendessi altri viaggi.In quell'intervallo mi assunsi la tutela di due nipoti, figlid'uno de' miei fratelli (del maggiore che avea qualchecosa del proprio), uno lo allevai come un piccolo genti-luomo, e per giunta al suo stato, gli feci un patrimoniodel mio che gli sarebbe toccato quando fossi morto. Posil'altro in educazione sotto un capitano di vascello, e ac-cortomi dopo cinque anni ch'era un affettuoso, gagliar-do, intraprendente giovinetto, gli comperai un buon va-scello mercantile, mandandolo a cercare fortuna sulmare. Chi avrebbe detto che in appresso questo medesi-mo giovinetto m'avrebbe invogliato, quand'ero già vec-chio, di correre rischi novelli?

Nello stesso tempo io aveva dato in parte un metodoal mio vivere; perchè prima di tutto mi ammogliai, nècon mio svantaggio, nè avendo mai avuto motivo dipentirmene. Ebbi tre figli, due maschi e una femmina.Ma mi morì la moglie, e il mio nipote capitano di va-scello tornando a casa con prospero successo dopo unviaggio fatto nella Spagna, un po' per la mia naturalepropensione ad andare attorno, un po' con la sua impor-tunità, mi fece condiscendere ad entrare qual privato ne-goziante nel suo vascello destinato per l'Indie Orientali.Ciò accadde nell'anno 1694.

In questo viaggio visitai la mia nuova colonia nell'i-sola, vidi gli Spagnuoli miei successori nell'abitarla,seppi l'intera storia delle loro vite e de' mascalzoni chelasciai colà; seppi come costoro avessero su le prime in-sultati que' poveri Spagnuoli, come si fossero in appres-

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so accordati, poi disaccordati, uniti e disuniti, come fi-nalmente avessero costretti que' pazienti Spagnuoli a ve-nire alle cattive con loro tanto che gli ebbero fra lemani; come usassero umanamente con questi prigionie-ri: una storia che, internandocisi, non è meno copiosa divarietà e di maravigliosi accidenti della mia storia me-desima: soprattutto nella parte che riguarda le loro batta-glie coi Caraibi, i quali più d'una volta approdarono nel-l'isola stessa, e l'impresa tentata da cinque di que' colonisul continente, donde condussero prigionieri undici uo-mini e cinque donne. Di fatto nel momento del mio arri-vo io trovai da una ventina di piccoli ragazzi nell'isola.

Rimastovi a un di presso venti giorni, quando nè par-tii, lasciai a quegli abitanti un sussidio di tutte le cosepiù necessarie alla vita, particolarmente in armi, polve-re, pallini, panni, stromenti, e un fabbro ferraio e un fa-legname ch'io avea a tal fine condotti meco dall'Inghil-terra.

In oltre ripartii le terre fra loro, riservandone a mel'intero diretto dominio; ma il mio comparto fu tale, chenessuno nè restò disgustato; perchè cercai di contentarealla meglio i desideri d'ognuno di essi. Sol dopo aver as-sestate le cose in tal guisa, e d'essermi fatto promettereche non abbandonerebbero l'isola, salpai di lì.

Approdato indi al Brasile comprai una filuca che cari-ca di nuovi coloni spedii nella mia isola. Oltre ad altrisoccorsi, vi posi dentro sette donne tali quali mi parveroatte così a far da serve come a divenir mogli di chi leavesse volute in tal qualità. Quanto agli Inglesi, promisi

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di spedir loro alcune donne dall'Inghilterra ed un buoncarico di stromenti rurali, se avessero voluto darsi all'a-gricoltura, promessa che in appresso non potei mantene-re. Quelli fra essi che si erano mostrati per lungo tempobricconi, dopo essere stati domati, e poichè riconobberoanch'essi una proprietà a parte da custodire, erano davero divenuti galantuomini e gente di proposito. Mandaipur loro dal Brasile cinque vacche, tre delle quali pre-gne, alcune pecore e porci, razze che trovai grandemen-te moltiplicate quando rividi l'isola la terza volta.

Ma tutte le cose ora epilogate e il racconto dei trecen-to Caraibi che invasero quella costa e ne posero a saccole piantagioni, delle due battaglie che i miei isolani so-stennero contro di essi, della prima disfatta che sofferse-ro con perdita d'uno dei loro, dell'orrida burrasca che di-strusse tutti i canotti di que' selvaggi, onde gl'invasoriaffamati perirono quasi tutti, ed i coloni liberatisi di co-storo ricuperarono e reintegrarono gli antichi possedi-menti ove vivono anche oggidì, tutte queste cose, dissi,ed altri nuovi maravigliosi incidenti occorsimi nell'inter-vallo d'altri dieci anni, formeranno l'argomento di tuttoquanto mi rimane a narrare dopo questo mio secondo ri-torno nell'Inghilterra.

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LXIII. Male nell'osso medicato dalla bontà di una moglie; sciagura non preveduta.

Quel triviale proverbio usato in tante occasioni nel-l'Inghilterra: Mal nell'osso, incurabile, non si è mai veri-ficato maggiormente che nella storia della mia vita.Ognuno si sarebbe immaginato che dopo trentacinqueanni d'angosce, dopo una sequela di varie calamità percui ben pochi uomini, se pur ve ne furon mai, sono pas-sati; dopo sett'anni trascorsi nell'abbondanza di tutte lecose, venuto già vecchio e avendo sperimentate, bisognacerto convenirne, tutte le possibili condizioni della vitadi un privato, dopo tutto ciò ognuno si sarebbe immagi-nato che la mania de' viaggi manifestatasi in me, comeraccontai, con tanta violenza sin dal primo istante cheentrai nel mondo, fosse omai domata; che la parte vola-tile del mio cervello fosse svanita o almeno condensataabbastanza, perchè a sessanta anni prevalesse in me ilgusto di restarmene a casa e rinunziassi finalmente adogni idea di rischiare per l'avvenire e le mie sostanze ela mia vita.

Per pensar così v'era di più: i soliti allettamenti deiventurieri erano tolti da me. Io non aveva bisogno difare una fortuna; nulla di cui andare in cerca. Se avessiguadagnati dieci mila sterlini non sarei stato ricco mag-giormente, perchè aveva già quanto bastava per me eper coloro cui dovevo trasmettere le mie sostanze. Que-sto mio stato si aumentava ogni giorno, perchè poca es-

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sendo la mia famiglia, non avrei saputo spendere l'interamia rendita, semprechè non mi fossi voluto mettere inquello sfarzo che appartiene ai grandi, attorniarmi cioèdi numerosi servi, tenere un ricco traino di cavalli, vive-re in continue feste, allegrie e simili cose di cui non ave-vo nozione e per le quali non mi sentivo inclinato. Inconclusione, non c'era nulla di meglio a fare per me del-lo starmene tranquillo, del godermi in pace i guadagnida me fatti e del vederli aumentare ogni giorno nellemie mani.

Ma tutte le predette considerazioni, non producevanoeffetto su me o almeno non abbastanza perchè resistessialla permanente stravagante bramosia d'andare attorno,malattia cronica da cui m'era impossibile il liberarmi.Soprattutto la voglia di rivedere la mia nuova piantagio-ne nell'isola e la colonia che vi lasciai mi girava per latesta continuamente. Erano questi i miei sogni di tutta lanotte, le mie immaginazioni della intera giornata. Lamia fantasia si era fissata sì gagliardamente e tenace-mente su ciò, che io ne parlava dormendo; che nulla po-tendo rimoverla dalla mia mente, si cacciava con violen-za in tutti i miei discorsi quando vegliavo al punto di di-venire stucchevole, perchè io non sapeva mai tirare amano, mai toccare altro cantino: mi rendevo indiscreto emolesto ai circostanti, e ben lo sentiva io medesimo.

Ho spesse volte udito dire da persone di retto discer-nimento che tutto quanto si racconta nel mondo su glispettri e le apparizioni è dovuto alla forza delle immagi-nazioni umane e ai possenti effetti della fantasia su le

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menti; e che nulla havvi quaggiù di corrispondente inrealtà alle apparizioni di spiriti, a fantasmi che cammini-no e cose simili; che il solo affissarsi appassionatamenteche fanno gli uomini sui discorsi avuti con gli amici lorodefunti finchè viveano, li rappresenta ad essi come realia tal punto per cui in forza di qualche straordinaria cir-costanza giungono a persuadersi di vedere questi trapas-sati, di parlare con loro, di udirne le risposte, mentre inrealtà nulla havvi di vero che l'ombra della cosa foggiatadai vapori dei loro cervelli, allorchè effettivamente nonvedono nulla.

Quanto a me nemmeno a quest'ora so dire29 se cosedel genere delle apparizioni di spiriti e d'individui checamminino dopo esser morti, abbiano una reale esisten-za o se quanto ne viene raccontato di simil natura siasoltanto effetto di vapori e di alienazione delle umanefantasie. Ma posso bene accertare che la mia immagina-zione, fossero poi vapori, o chiamateli come volete, mitravagliava sì fortemente, mi trasportava al segno di cre-dermi sul luogo, nella mia antica fortificazione, all'om-bra di quegli stessi alberi. Io vedeva il mio vecchio spa-gnuolo, il padre di Venerdì e i ribaldi scorridori da melasciati nell'isola. Anzi io parlava con essi, li guardavaaccigliato, come se stessero dinanzi a me, ed ero perfet-tamente desto; e ciò andava sì oltre, ch'io stesso atterrivadi queste immagini a me create dalla mia fantasia. Unavolta, in una di queste mie visioni o sogni, se così vi

29 Il lettore non perderà certamente di vista che il protagonista di questastoria viveva nel secolo decimosettimo

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piace nominarli, io mi compresi con tal verace energia,della quale non potete formarvi un concetto, di tutto l'or-rore che poteva destarsi in me al racconto fattomi dalloSpagnuolo o dal padre di Venerdì d'una ribalderia dique' tre mascalzoni. Costoro, mi si diceva (e ciascunmio personaggio era presente), aveano tentato l'eccidiodi tutti gli Spagnuoli, posto fuoco alle provisioni ch'essiaveano portate seco per affamarli. Io realmente non ave-va mai udito nulla di ciò; niuna di tali cose era mai stataautenticata da qualche fatto che fosse a mia notizia; purtutto questo si era scolpito sì fortemente nella mia im-maginazione, era sì verace per me, che quando più tardividi coloro, non sapevo persuadermi che tutto ciò nonfosse, che tutto ciò non dovesse essere accaduto. Oh!come nell'atto della visione che vi racconto, diedi fuoriall'udire la querela degli Spagnuoli, come feci presto afar condurre i rei al mio tribunale, a processarli, ad ordi-nare che fossero impiccati. Che cosa di reale vi fosse intutto ciò, si vedrà a suo tempo. Certamente, o queste im-maginazioni si fossero così disposte nella mia mente, oin quell'estasi un segreto consorzio di spiriti ce le avesseinfitte, vi era, lo ripeto, una gran parte di vero; non dicod'una verità specificata e letterale, ma generalissima nel-la sostanza; perchè effettivamente le scelleraggini, laperfida condotta di que' cialtroni induriti nella iniquitàera stata tale, avea tanto oltrepassato il limite d'ogni miadescrizione, quella mia specie di sogno collimava tantocol fatto, che se in appresso avessi usato severità concoloro, cioè se gli avessi fatti impiccare, avrei operato

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rettamente, nè sarei stato condannabile al cospetto diDio o a quello degli uomini. Ma si torni alla mia storia.

In questa specie di temperatura d'animo passai diversianni. Io non sapea che cosa fosse goder la vita, che cosafosse l'avere ore piacevoli, lieti divagamenti fuor quelliche avevano in se stessi qualche correlazione con l'ideatiranna de' miei pensieri. Mia moglie che mi leggeva in-teramente nell'animo, così parlommi sul serio una notte.

‒ “Io vi credo dominato da qualche segreto impulsodella Providenza che v'abbia predestinato ad imprenderenuovi viaggi, nè vedo altra cosa che vi rattenga da ciòfuor de' legami in cui vi stringe lo stato di padre e so-prattutto quello di buon marito. È vero che non potreireggere all'idea di separarmi da voi; sono per altro certaqual sarebbe, se venissi a mancare io, la prima delle vo-stre risoluzioni. Non vorrei, se i turbamenti cui soggiaceil vostro animo fossero, come sembra, il segnale di unadeterminazione venuta dall'alto, esserne io unicamenteun ostacolo all'adempimento; laonde se giudicaste op-portuno, se credeste bene di ....”

Qui si fermò. La pose in iscompiglio il modo concen-trato ond'io stava ascoltando le sue parole.

‒ “Perchè non proseguite, diss'io, perchè non termina-te il discorso che cominciaste?”

M'accorsi allora dalle lagrime che le spuntavano sulciglio, quanto fosse gonfio il suo cuore.

‒ “Parlate, allora soggiunsi, mia cara. Desiderate for-se ch'io vada via?

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‒ Tutt'altro! ella rispose con affettuosissimo accento.Sono ben lontana dal concepire un tal desiderio; ma sevoi aveste deliberato di partire, piuttosto che essere unostacolo alle vostre determinazioni, verrei con voi, per-chè, se bene mi sembri una risoluzione molto fuor ditempo ai vostri anni, pure se la cosa avesse ad esser così(e qui nuovamente si diede a piangere), io non vorreiabbandonarvi. Se l'inspirazione vi viene dal cielo, dove-te seguirla: è vano il resisterle. Ma se il cielo prescrive avoi come un dovere il partire, rende ad un tempo un do-ver mio l'accompagnarvi, o altrimenti disporrà le cose iomodo che in me non troviate un inciampo”.

Questo affezionato contegno della mia compagna miriscosse alcun poco dal mio delirio, onde principiai apensare meglio ai casi miei. Sedata alquanto la mia sma-nia di vagare pel mondo, mi diedi a far pacatamentequeste considerazioni. “Che bisogno ho io con ses-sant'anni su la groppa e dopo una vita tutta di fastidi e dipatimenti terminata in sì bella e comoda maniera, chebisogno ho di comprarmi nuovi rischi e di cacciarminuovamente nella vita del venturiere, buona solamentepei giovani e per gli spiantati?”

Oltre a queste considerazioni, pensai ai miei obblighiverso la moglie, un figlio già nato e quello che nasce-rebbe, perchè ell'era incinta. Meditai come avessi giàtutto quello che il mondo potea darmi, nè esservi un per-chè io pescassi pericoli per amor del guadagno; declinarle mie forze col crescer degli anni, e dover io pensare acongedarmi dalle ricchezze accumulate anzichè ad au-

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mentarle. Quanto alla possibilità di un impulso celesteche mi obbligasse a tentar nuovi viaggi, mia moglie ve-ramente lo avea detto, ma questo comando del cielo ionon sapeva vederlo. Così dopo molte riflessioni e lottecon la mia immaginazione, fattomi forza per ragionare amente fredda e fuor d'ogni preoccupazione, che è quan-to, cred'io, in simili casi ciascuno dovrebbe fare, riusciifinalmente a domare la mia fantasia. Mi acchetai a que-gli argomenti che meglio calzavano ad un posato razio-cinio, e che mi forniva in abbondanza la presente miacondizione.

Soprattutto, come espediente più efficace al mio fine,risolvei distrarmi con altre cose, e darmi a tali occupa-zioni che mi tenessero tanto legato il pensiere da nonpoter correre a fantasticherie dell'antico genere, perchèosservai che queste mi assalivano principalmentequand'era ozioso e non aveva nulla da fare, almeno diqualche momento. Con questo proposito comperai unpiccolo podere nel territorio di Bedford, ove decisi diandare io stesso a mettere stanza. Quivi era una piccolacasa conveniente ad abitarvi, e circondata di campi chetrovai atti a ricevere grandi miglioramenti. Ciò s'afface-va sotto molti rispetti alla mia grandissima inclinazionegrandemente propensa alla coltura, al governo, al pian-tamento e miglioramento dei terreni; e, ciò che era piùda calcolarsi, essendo quel podere in una provincia mol-to mediterranea, io era fuor dell'occasione di conversarecon uomini di mare, e di pensare a cose che si riferisseroalle remote parti del mondo.

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In una parola, andai ad abitare sul mio fondo; e, stabi-lita quivi la mia famiglia, mi provvidi d'aratri ed erpici,di carra di varie fogge, di cavalli, di bestiame grosso eminuto; poi datomi seriamente all'opera, non passò unmezz'anno ch'io era divenuto uno schietto gentiluomocampagnuolo: non pensavo più che a dirigere i miei fa-migli, a far coltivare la terra, a mettere siepi, a far pian-tamenti e simili lavori rurali; onde mi parea di vivere lapiù felice vita che la natura potesse additare, o cui po-tesse ripararsi un uomo battuto non interrottamente dalledisgrazie.

Io fittaiuolo de' miei propri terreni non avevo affittida pagare, non patti che mi vincolassero: io potevo co-struire o abbattere a mio piacimento; gli alberi ch'iopiantava mi appartenevano; i miglioramenti ch'io facevaandavano alla mia famiglia; abbandonata ogni idea divagare attorno, la vita non avea sconforti per me in que-sto mondo. Da vero io credeva ora di godere quel mediostato della vita che il padre mio raccomandavami contanto fervore: specie di celeste vita somigliante a quelladescritta dal poeta in ordine alla vita campestre:

Scevra di vizi, di rimorso e affanni,Ai disagi non è vecchiezza in preda,Non gioventude a seducenti inganni.

Ma in mezzo a tanta felicita, un colpo non prevedutodel destino venne a confondermi tutto ad un tratto, nèsolamente mi fece una ferita inevitabile ed incurabile,ma con le sue conseguenze mi fe' ricadere nelle mie an-tiche propensioni a vagare pel mondo: male, come ho

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detto, che io aveva nell'osso. Questo ritornò ad abbran-carmi, e, siccome la recidiva d'una violenta malattia,piombò su me con tale irrestibile forza, che niun'altraimpressione me ne poteva omai liberare. Questo colpofu la morte di mia moglie.

Non mi prefiggo qui di comporre un'elegia ad onoredi essa, non di descrivere il carattere delle sue particola-ri virtù, non di far la corte al bel sesso col tesserle un'o-razione funebre. Essa era, in una parola, il perno di tuttii miei affari, il centro di tutte le mie imprese; la pruden-za di lei era il solo regolatore che mi manteneva in quelfortunato equilibrio a me sì necessario per non ricaderenegli stravaganti e rovinosi disegni fra cui la mia menteondeggiava. Ella valeva a governare i miei fantasticighiribizzi meglio di quanto avessero potuto le lagrime diuna madre, le istruzioni paterne, i consigli d'un amico ola facoltà della mia ragione. Io che mi tenea fortunatonel lasciarmi vincere dalle sue lagrime, nell'arrendermialle sue preghiere, non vi so dire a qual grado mi trovas-si derelitto e sbalestrato sopra la terra dopo averla per-duta.

LXIV. Nuova navigazione intrapresa.

Poichè mia moglie non era più, mi pareva una strava-ganza il mondo che stavami attorno. Al veder che io erastraniero in esso come fui nel Brasile la prima volta chevi approdai, che io era solo (se si eccettui l'aver gente

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che mi servisse) come fui nella mia isola, non sapevo nèche cosa pensare nè che cosa fare. Guardava all'intornodi me; vedevo gente affaccendata: in che cosa? Parte la-vorando per accattarsi il pane, parte scialacquando ilproprio, ora immersa in vergognose sregolatezze, ora in-tenta a procacciarsi vani diletti: infelici gli uni e gli altri,perchè fuggiva dinanzi a loro il fine che si prefiggevano.Gli spensierati, fatti stracchi dai medesimi loro vizi, s'af-faticano per far cumulo d'affanni e di pentimenti; gli uo-mini dediti al lavoro si sbracciano all'intorno di quelpane che mantiene in essi le forze vitali per tornarsi asbracciare, posti in una giornaliera altalena d'angosce evivendo per lavorare e lavorando per vivere, come se ilpane giornaliero fosse il solo fine di una vita stentata, eduna vita stentata il solo mezzo di procacciarsi il panegiornaliero.

Ciò tornommi a mente la vita ch'io conducea nel mioregno, allorchè in quel la deserta isola io non faceva na-scere più d'una data quantità di grano, perchè non me nebisognava di più; non allevavo una maggior copia di ca-pre, perchè del superfluo di esse non avrei saputo chefarmi, intantochè il mio danaro, stando a prendere laruggine in un tiratoio, ebbe pur rare volte l'onore d'unmio sguardo nel corso di venti anni.

Se da tutte queste considerazioni avessi tratto un de-bito costrutto e tal quale la religione e la ragione me loavevano additato, avrei saputo cercare alcun che di su-periore ai godimenti terreni siccome meta ad una pienafelicità; avrei veduto lucidissimamente esservi del certo

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qualche cosa in cui sta la ragione della vita, qualchecosa di più alto ordine di tutte l'altre, che vuol essereposseduta o al cui possesso almeno dobbiamo aspiraredi qua dal sepolcro.

Ma la mia saggia consigliera più non viveva; io eraqual nave priva di nocchiero che corre a solo grado de'venti; i miei pensieri si gettavano perdutamente negliantichi vaneggiamenti; la mia mente era affatto voltaalla mania di cercar venture su i mari; tutti i piacevoliinnocenti diletti per cui mi erano dianzi unico scopo diaffezione il mio podere, le mie gregge, la mia campestrefamiglia, tutto ciò era divenuto un nulla per me: tali de-lizie non mi davano maggior gusto di quanto la musicane possa dare ad un uomo privo d'udito, o la squisitezzade' cibi a chi ha perduto il senso del palato. In sommami determinai di lasciar andare il governo domestico e ilmio rustico fondo e di tornarmene a Londra come feci dilì a pochi mesi.

Venuto a Londra, io non mi sentiva nelle mie pieghemeglio di prima. Questo soggiorno non mi accomodava,io non aveva quivi nessuna sorta d'occupazione: nessu-na, fuorchè vagare qua e là siccome quegli sfaccendatidi cui suol dirsi che sono affatto inutili nella creazionedi Dio, e pei quali non importa un quarto di soldo ai lorosimili se sieno vivi o se sieno morti30. Era questo fra tut-

30 Un concetto affatto simile, benchè con frasi diverse e in un caso affattodiverso, fu espresso trentasette anni prima della pubblicazione di quest'operada Racine quando comparve per la prima volta su le scene il Bajazet.

L'imbecille Ibrahim, sans craindre sa naissance,Traîne au fond du serrail une éternelle enfance;

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ti i casi di vita quella che più avessi in avversione, io ac-costumato sempre ad una vita operosa, onde ripeteva so-vente a me stesso: “Lo stato del non far nulla è la massi-ma fra le umane degradazioni”. E da vero io mi credevapiù decorosamente impiegato quando spesi ventiseigiorni a farmi un pancone d'abete.

Principiava or l'anno 1693 quando quel mio nipote,ch'io posi, come vi narrai, su la carriera marittima colfarlo capitano di un vascello, tornò da un breve viaggiofatto a Bilbao, che fu il suo primo. Recatosi tosto da me,mi raccontò come alcuni negozianti gli avessero fatta laproposta di trasferirsi per conto delle loro case alle IndieOrientali o alla Cina.

‒ “Adesso, zio, egli soggiunse, se volete imbarcarvicon me, m'obbligo condurvi alla vostra antica abitazio-ne, nella vostra isola; perchè toccheremo le coste delBrasile”.

Nulla può dimostrar meglio l'esistenza di un mondoinvisibile e di una vita avvenire siccome la coincidenzadelle seconde cause con quelle idee che ci formammonel più recondito segreto de' nostri pensieri senza comu-nicarle ad uomo vivente.

Mio nipote non sapeva nulla che m'avesse nuovamen-te invaso la mia frenesia di viaggiare il mondo, nè io sa-pea certo che cosa si fosse prefisso dirmi, quando inquella stessa mattina prima ch'egli mi capitasse, dopoessere, in mezzo ad una grande confusione d'idee, corso

Indigne également de vivre et de mourir,Il s'abbandonne aux mains qui daignent le nourrir.

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per tutti i versi sopra i miei casi, ero venuto nella risolu-zione di recarmi a Lisbona onde consultarmi ivi col miovecchio capitano, e, se la cosa era ragionevole e pratica-bile, visitare di nuovo la mia isola e vedere che cosa fos-se avvenuto de' miei sudditi. Avevo già in testa mia di-sposte le mie fila per popolare quel luogo, conducendo-vi novelli abitanti, per procurarmi una patente di posses-so e che so altro, quando nel bello di tali miei divisa-menti arrivò mio nipote facendomi la proposta che vi hogià raccontata.

Lasciai succedere una breve pausa a quella inchiesta,poi fisatolo in faccia, gli dissi:

‒ “Gli è stato il diavolo che v'ha data la sgraziatacommissione di venirmi a tentare in questa maniera?”

Mio nipote rimase sbalordito, e su le prime anchespaventato da tal mio contegno, ma non tardando ad ac-corgersi che la sua proposta mi avea tutt'altro che disgu-stato, si fece animo e proseguì.

‒ “Diletto zio, io sperava non avervi fatta una sgrazia-ta proposta, nè mi sembrò una temerità il credere chepotreste rivedere con piacere la nuova colonia su cui re-gnaste una volta con miglior successo di quanto n'abbia-no avuto molti de' vostri fratelli monarchi sopra la ter-ra31”.

31 Poichè Robinson Crusoè si fa nato del 1632, avrà avuto diciassette anniquando fu decapitato (1649) l'infelice Carlo II, e poichè nel tempo della scenapresente correva l'anno 1693, sarà stato nel 1688 spettatore dell'espulsione del-l'ultimo degli Stuardi, di Giacomo II sul cui trono salì Guglielmo d'Orange;laonde questo scherzo del nipote di Robinson non era in allora uno sconvene-vole sarcasmo, ma la rimembranza di una fatale storica verità.

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Per venire alle corte, la proposta di mio nipote colli-mava tanto col mio carattere, o per dir meglio con la fre-nesia cui soggiacevo, e della quale ho già tanto parlato,che in poche parole gli dissi:

‒ “Fate il vostro accordo co' vostri negozianti, e ver-rò; ma non vi prometto di andar più in là della mia isola.

‒ Come, signore? Non avrete, cred'io, gran voglia diessere piantato là un'altra volta.

‒ Ma non potete, replicai, prendermi con voi nuova-mente nel tornare addietro?

‒ Ciò non e possibile. I miei commettenti non mi per-metterebbero mai ch'io tornassi addietro da quella partecon un vascello carico di merci del più alto valore; oltre-chè, allungherei di un mese e forse di tre o di quattro ilmio viaggio. Vi è di più, caro zio: quando vi avessi la-sciato, potrebbe occorrermi tal disgrazia, che mi impe-disse ogni ritorno, ed in simile caso vi trovereste ridottoalla condizione medesima di una volta”.

Non vi era un'obbiezione più ragionevole di questa;ma di comune accordo trovammo un rimedio: fu quellodi portare a bordo del vascello tutti i pezzi d'un piccolobastimento e di condurre con noi non so quanti carpen-tieri per connetterne i pezzi, quando sarei nell'isola e ditornare in pochi giorni il bastimento in istato di affronta-re i flutti.

Non rimasi lungo tempo in forse. Per una parte l'insi-stenza di mio nipote aggiugneasi con tanta efficacia aquanto era la mia passione predominante, che niunacosa potea mettervi ostacolo; per l'altra, essendo morta

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mia moglie, non avevo altri attinenti dotati di discerni-mento che potessero persuadermi a fare o non fare unacosa fuor della mia buona amica: la vedova a voi nota.Questa del certo combattè a lungo con me per indurmi aconsiderare i miei anni, gli agi di cui godevo in mia pa-tria, il nessun bisogno d'espormi ai pericoli di una sìlunga traversata: a pensar soprattutto ai miei teneri figli.Ma fu per lei tempo perduto. Era in me indomabile ildesiderio d'imprendere questo viaggio.

‒ “Vi è, le dicevo, alcun che di tanto straordinarionelle impressioni da cui sono determinato alla presenterisoluzione, che mi parrebbe di resistere ai decreti dellaProvidenza; crederei commettere un altentato contr'essase rimanessi a casa”.

All'udir ciò quella timorata donna desistè dalle fervi-de sue rimostranze, e, quel che è più, si unì meco nonsolo aiutandomi nelle disposizioni che doveano precede-re la mia partenza, ma ancora nell'assistere ai miei affaridomestici pel tempo che sarei rimasto lontano e nelprovvedere all'educazione dei miei figli.

Coerentemente alle indicate cose, feci il mio testa-mento e, ordinato quanto riguardava i miei possedimen-ti, ne fidai l'amministrazione in mani tanto sicure da po-ter vivere tranquillo che, qualunque disgrazia mi intrav-venisse, i diritti de' miei figli non sarebbero mai statipregiudicati e troverebbero sempre giustizia. Quantoalla loro educazione, ne lasciai tutto il pensiere alla miavedova assicurandole un convenevole assegnamento incompenso delle sue cure; e ben ella se lo meritò, perchè

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non fuvvi madre che s'incaricasse con più amore di talebisogna, nè che meglio la comprendesse. Poichè ella vi-vea quando tornai, io vissi parimente per provarle la miagratitudine.

Ai 5 gennaio del 1694 mio nipote era già lesto a sal-pare; ond'io col mio servo Venerdì mi recai a bordo nelporto di Down, dopo aver fatto venire colà, oltre ai pez-zi del piccolo bastimento mentovato dianzi, un caricoveramente considerabile d'ogni specie di cose che giudi-cai opportune per la mia colonia a fine soprattutto diportarle sollievo se l'avessi trovala in condizione menbuona.

Primieramente condussi meco diversi operai, dei qua-li io mi prefiggeva fare altrettanti abitanti dell'isola, o al-meno artigiani che lavorassero per conto mio finchè fos-si ivi rimasto: in somma, quanto al lasciarli colà o ricon-durmeli altrove, mi sarei regolato a norma di quantoavrebbero desiderato. Soprattutto mi ero provveduto didue carpentieri, d'un fabbro ferraio e d'un ometto assaidisinvolto ed ingegnoso, bottaio di professione, ma chead un bisogno diveniva un perfetto artista meccanico;abile a farvi, se lo desideravate, ruote, molinelli per ma-cinare a mano una discreta quantità di grano, buon torni-tore, buon vasaio: tutto quello che potea fabbricarsi conlegno o terra lo fabbrica; onde noi lo chiamavamo il no-stro fa tutto. Aveva pur meco un sartore che si era offer-to qual passeggiere a mio nipote, ma che in appresso ac-consentì rimanere nella nostra piantagione; e trovammoanche in lui un buon omaccio che ci rese veri servigi in

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molte occasioni, ed abile anch'esso in fare cose postefuori della sua professione per quel gran motivo che lanecessità insegna all'uomo tutti i mestieri.

Il mio carico, per quanto posso ricordarmi, perchènon tenni un conto di tutti i minuti particolari, consiste-va in una scorta di biancherie e di panni leggieri quantasarebbe bastata, secondo i miei calcoli, a provedere di-scretamente di vestimenti i miei Spagnuoli che m'aspet-tava di trovare colà. Se non m'inganno, tra guanti, scar-pe, cappelli e simili cose che si vogliono cambiare piùspesso, oltre ad alcuni letti, attrezzi da letto, masseriziedomestiche, particolarmente arnesi da cucina, siccomepentole, caldaie, rame, peltro, circa a cento libbre di fer-ramenta, chiodi, stromenti d'ogni specie, catenacci, ram-pini, gangheri ed altro che sembravami all'uopo di que'miei sudditi, spesi più di dugento sterlini.

Aveva meco parimente un centinaio d'armi da fuocoportatili in archibusi e moschetti, oltre a più paia di pi-stole, ed una notabile quantità di munizioni per ogni ca-libro, da tre in quattro tonnellate di piombo e due canno-ni di bronzo. Anzi, non sapendo per quanto tempo sareirimasto o a quali estremità avrei dovuto provvedere,presi meco un centinaio di barili di polvere e armi da ta-glio e ferri di picche e alabarde: per finirla, avevamo unampio magazzino di ogni genere di mercanzie. Di piùfeci che mio nipote mettesse nel cassero del vascellodue cannoni oltre a quelli che gli bisognavano, a fine dilasciarli colà a misura dell'occorrenza. Io volea che, arri-vati sul luogo, potessimo essere in grado di fabbricare

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un forte e munirlo contra ogni sorta di nemici. E da veroal mio primo comparire nell'isola, ebbi motivo di crede-re che di tutta questa roba non se ne fosse portata ditroppo e che ne vorrebbe anche dell'altra, come si vedrànel progresso di questa storia.

Non ebbi in questo viaggio la stessa mala sorte cuiera avvezzo in addietro, onde avrò forse minori occasio-ni d'interrompere il lettore, ansioso probabilmente diudire come poi si fossero poste le cose nella mia colo-nia. Tuttavia al primo spiegare delle nostre vele si uniro-no tali sinistri casi e contrarietà di venti, che resero ilnostra viaggio più lungo di quanto lo avrei immaginatoda prima. Anzi, io che non aveva mai fatto altro viaggio,il cui successo corrispondesse ai disegni pe' quali fuconcepito fuor del primo alla Guinea, cominciavo già acredere che mi si apparecchiasse la solita mala sorte, eche il mio destino fosse: Non contentarmi mai alla terraed essere sempre sfortunato sul mare.

I venti contrari che ci spinsero verso tramontana neobbligarono a gettar l'áncora a Galway nell'Irlanda ovegli stessi venti ci tennero imprigionati ventidue giorni.Nondimeno in mezzo alla disgrazia avemmo la soddi-sfazione che i viveri in quel paese fossero a bonissimomercato e abbondanti; laonde in tutto l'intervallo di que-sta nostra dimora non solamente non toccammo mai levettovaglie del vascello, ma le crescemmo. Quivi com-prai parecchi porcelli giovani e due vacche co' loro vi-telli, animali ch'io contava di lasciare, se riusciva ad una

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felice traversata, nella mia isola; ma accaddero altre cir-costanze per cui dovetti disporre di essi altrimenti.

LXV. Incendio d'un bastimento.

Nel giorno 3 di febbraio spiegammo le vele dall'Irlan-da accompagnati da un vento assai favorevole che nedurò per alcuni giorni.

Presso al finire dello stesso mese, fu, se la memoriami tradisce, ai 25, quando il nostro aiutante, che era al-lora di guardia, entrato nella camera rotonda32, venne araccontarci di aver veduta una vampa in distanza ed udi-to uno sparo di cannone che non doveva essere stato ilprimo, perchè il contromastro gli aveva detto di avernesentito un altro. Usciti tutti di lì, ci trasportammo sulcassero ove ci fermammo un pochino senza veramenteudire nulla. Di lì a non so quanti minuti vedemmo noipure uno straordinario chiarore che giudicammo doves-se procedere da qualche terribile incendio in lontananza.Consultata la nostra stima33, convenimmo tutti nel direche non poteva esservi terra in quel la direzione dondesi manifestava la luce d'un incendio, almeno non ci po-teva essere fuorchè ad una distanza di cinquecento le-ghe, perchè il chiarore veniva da west-nord-west (mae-stro ponente). Concludemmo quindi che derivasse da

32 Camera serbata nelle navi alle adunanze dello stato maggiore di marina.33 Registro de' computi giornalieri che mediante la bussola s'istituiscono

per misurare le distanze percorse da un dì all'altro dal bastimento.

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qualche bastimento cui si fosse appiccato il fuoco; anzidal frastuono di cannoni udito un momento prima, s'ar-gomentò che il legno incendiato non avesse ad esseremolto lontano da noi. Governando tosto alla volta delrimbombo udito, non tardammo ad accorgerci che piùavanzavamo, più vasto appariva l'incendio, se bene fa-cendo una nebbia foltissima non potessimo discernereper qualche tempo altra cosa che questa vampa. Nondi-meno dopo aver veleggiato circa mezz'ora, avendo ilvento per noi, ancorchè non gagliardissimo, e dissipan-dosi alquanto la nebbia, scorgemmo pienamente ungrande vascello tutto in fiamme nel mezzo del mare.

Potete credere che, se bene mi fossero ignoti affattogli uomini percossi da tale disgrazia, ne rimasi commos-so al massimo segno. Allora mi tornarono a mente gliantichi miei casi e lo stato in cui era quando il capitanoportoghese mi diede rifugio nel suo vascello; ma pensaiad un tempo a qual condizione, anche più deplorabiledella mia d'allora, dovessero vedersi quelle povere crea-ture se il loro vascello non aveva accompagnamento dialtri bastimenti con sè. Ordinai pertanto immediatamen-te che fossero sparati cinque cannoni un dopo l'altro perfare accorti, se pure era possibile, quegli sfortunati cheera non distante da loro un soccorso e d'infondere inloro maggior coraggio a far di tutto per salvarsi su leloro scialuppe; perchè, quantunque vedessimo le fiam-me del loro bastimento, eglino essendo notte non pote-vano distinguere nulla di quanto si riferiva al nostro.

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Rimanemmo per qualche tempo in panna derivando34

unicamente a seconda delle variate obbliquità di motodel vascello che ardea; quando tutt'ad un tratto, con no-stra grande atterrimento, benchè dovessimo aspettarci aquesto, il vascello che ardea saltò in aria. Immantinente,o per dir meglio, nello spazio di pochi minuti, tutto ilfuoco fu spento, cioè il rimanente del vascello affondò.Fu da vero una vista tremenda e dolorosa, pensando aque' poveri naviganti ch'io conclusi dover essere rimastitutti distrutti in compagnia della nave o andar vagandoper l'oceano in balía de' venti e nel massimo dell'ango-scia: qual delle due cose fosse io non poteva capirlo perle tenebre che dominavano tuttavia. Intanto, per dare aque' miseri la maggiore assistenza che fosse possibile,feci sospendere a tutti i punti del vascello ove ciò fupraticabile e finchè nè avemmo, de' fanali accesi, ordi-nando si sparasse il cannone durante l'intera notte perdar loro, se pur si era in tempo, a conoscere che avevanoun vascello in non molta distanza.

Alle otto a un dipresso della mattina scoprimmo co'nostri cannocchiali due scialuppe del bastimento arso sìstivate entrambe di gente che affondavano quasi affattonell'acqua. Esse andavano a forza di remi perchè co-strette a navigar controvento, e ci accorgemmo che

34 Un bastimento è in panna quando una metà delle sue vele è spiegata alvento, l'altra metà a collo dell'albero; onde il vascello spinto da due forze con-trarie si move sì poco che sembra non andare nè innanzi nè addietro. Se in que-sto stato declina, ancorchè tenuemente dalla sua via primitiva, si dice che deri-va.

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aveano veduto il nostra vascello, e che facevano tutto ilpossibile per essere vedute da noi.

Per fare saper loro che questo intento lo avevano otte-nuto, e per eccitarli a venire a bordo issammo subito labandiera in derno35, affrettando nello stesso tempo allalor volta il nostra cammino. Raggiunte in meno di mez-z'ora le due scialuppe, ricevemmo a bordo quanti vi sta-vano entro. Non erano meno di sessantaquattro fra uo-mini, donne e ragazzi, perchè in quel vascello si trova-vano di molti passeggieri.

Non tardammo a sapere esser questo un bastimentomercantile francese che cercava di ripatriare venendo daQuebec, città capitale del Basso Canadà. Il capitano nefece un lungo racconto della sventura occorsa al suo va-scello. Il fuoco, da prima per una negligenza del timo-niere, s'era appiccato alla timoneria. Gli è vero che co-stui, avendo fatto presto a gridare aiuto, ognuno credè ilfuoco spento; ma non si tardò a conoscere come alcunestrisce del primo fuoco fossero penetrate in tali punti delvascello, che ogni sforzo riusciva difficilissimo a smor-zarle del tutto. Internatesi poco appresso tra le coste e ifasciami, arrivarono nella stiva padroneggiando tutta lasolerzia e abilità posta in opera da quegl'infelici per im-pedire il disastro.

35 Issare la bandiera in derno, vuol dire serrare e piegare la bandiera incima dell'albero, sì che penda dall'asta senza potere sventolare. Questo è il se-gnale che si dà tanto dai bastimenti pericolanti per chiamare soccorso, quantoda quelli che li vedono in pericolo per offrire questo soccorso.

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Non rimaneva ad essi migliore scampo dell'abbando-narsi alle loro lancie che per buona sorte erano ampieabbastanza. Consistevano queste in uno scappavia, unagrande scialuppa, ed una specie di schifo che fu loro digiovamento soltanto perchè poterono allogarvi qualcheprovvisione d'acqua dolce ed alcune vettovaglie, poichèsi videro al sicuro dal restar vittime dell'incendio. Perdir vero, ancorchè si fossero gettati in queste barchette,poca era in essi la speranza di vivere, redendosi tantolontani da ogni isola o continente. Unicamente sottrattisidal più urgente pericolo, quello di esser bruciati vivi,non vedevano impossibile, e qui videro giusto, che qual-che vascello si trovasse navigando in quelle acque e liraccogliesse. Avendo eglino potuto prendere con sè vele,remi e una bussola, si allestivano a fare ogni immagina-bile sforzo per giungere ai Banchi di Terra Nuova, chèpareva a ciò secondarli un buon vento che soffiava dasud-est ¼ est (¼ levante verso scirocco). Le loro vetto-vaglie e l'acqua dolce erano nella quantità che, rispar-miandole al limite di non morir di fame e di sete, basta-va per tenerli vivi dodici giorni, nel qual tempo se lacontrarietà della stagione e de' venti non si opponeano,il capitano lasciava ad essi sperare che arriverebberoagl'indicati Banchi, ove probabilmente avrebbero presoalcun poco di pesce buono per sostenerli, finchè avesse-ro raggiunta una spiaggia. Ma quante contingibilità sta-vano in tutti gli additati casi contro di loro! tempeste cheli facessero affondare; le piogge e il freddo di quel climasettentrionale che ne facesse ammortire e intirizzare le

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membra; venti contrari che impedendo loro di progredi-re, li costringessero a morire affamati. In somma le pro-babilità contrarie erano tante, che parea ci volesse unmiracolo per uscirne netti.

Si trovavano in questo state di abbattimento e presti adarsi alla disperazione quando, come mi narrava con lelagrime agli occhi quel capitano, quando li sorpreseun'improvvisa gioia all'udire uno sparo di cannone, cuiquattro altri ne succedettero: furono i cinque spari undopo l'altro da me ordinati al primo chiarore d'incendioche scôrsi. Questi spari li rincorarono e li fecero certi,ed era bene stata questa la mia intenzione, che era pocolontano di lì un vascello disposto a soccorrerli. In questacertezza calarono le vele, poichè, quel medesimo suonoche li rassicurava venendo per essi contro marea, risol-vettero di stare in panna fino alla successiva mattina.Qualche tempo appresso, non udendo più spari di can-none, ne fecero essi tre di moschetto a qualche notabileintervallo tra l'uno e l'altro; ma quello stesso vento cheera contro marea per essi impedì a noi tutte le volte d'u-dir lo strepito de' loro archibusi.

Qualche tempo dopo, li sorprese ben più gradevol-mente il vedere i nostri fanali e l'udire prolungati pertutta la notte gli spari de' nostri cannoni secondo i prov-vedimenti ch'io aveva dati e che ho già descritti. Alloraposero all'opera i remi per imboccare co' venti le lorovele, affinchè più presto potessimo vederli e raggiugner-li, tanto che finalmente con ineffabile esultanza potero-no accorgersi che gli avevamo veduti.

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LXVI. Atti di debita umanità e diversione ai Banchi di Terra Nuova.

Mi è impossibile il dipingere i diversi gesti, le straneestasi, le varie posizioni cui quei miseri da noi riscattatiatteggiaronsi per esprimerne la gioia de' loro cuori aduna tanto inaspettata liberazione. Il dolore e la paura sidescrivono facilmente: sospiri, lagrime, gemiti e ben po-chi moti di testa e di mani formano la somma delle va-rietà di queste sensazioni; ma in un eccesso, in un tra-boccamento improvviso di gioia si rinvengono le strava-ganze a migliaia. Qui vedevo alcuni immersi nel pianto,altri che infuriavano e si stracciavano i capelli come sefossero nelle più tremende ambasce della disperazione;v'era chi spalancando occhi stralunati sembrava preso dafrenesia, e chi correa su e giù pel vascello battendo ipiedi e contorcendosi le mani. Ve n'avea di quelli cheballavano, di quelli che cantavano, molti che ridevano,molti che urlavano; alcuni affatto muti e non abili aprofferire un accento, altri ammalati e che vomitavano,o prossimi a svenire; i meno furono quelli che si feceroil segno della croce e ringraziarono Dio.

Non intendo far torto nè a questi nè a quelli. Senzadubbio molti fra essi ve n'ebbe che ringraziarono in ap-presso chi si doveva ringraziare, ma la prima esultanzafu sì gagliarda ne' loro petti, che non sapeano signoreg-giarla. Dominati pressochè tutti da una specie di delirio,

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di frenesia, furono pur pochi quelli che seppero mante-nersi composti e dignitosi nella loro gioia.

Forse della scena che mi stava dinanzi agli occhi bi-sognava attribuire molta parte alla nazione cui ne appar-tenevano gli attori: intendo dire che erano Francesi, ilcui carattere, in questa sentenza tutti convengono, è piùleggiero, più appassionato, più focoso, lo spirito più ae-reo di quanto si ravvisi in ogn'altra nazione. Io non sonoabbastanza filosofo per determinare il motivo di ciò.Certo non ho mai veduta dianzi veruna cosa che potessevenire a petto di questa. Le frenesie del povero Venerdì,del mio fedele selvaggio, allorchè trovò suo padre nellapiroga, erano quanto le si avvicinava di più; un poco an-cora la gioia del capitano di filuca e de' suoi due compa-gni per me liberati dai due mascalzoni che li gettaronosu la spiaggia della mia isola; ma nè le pazzie di Venerdìnè quant'altre ne ho veduto fare in mia vita venivano alparagone di quelle che mi toccò vedere in tale occasio-ne.

Una cosa da notarsi anche più si era che tutte questestravaganze non si manifestavano in guise sì diverse indiverse persone soltanto, ma ogni sorta di varietà si mo-strava a sua volta entro una breve successione di mo-menti in una stessa e medesima persona. Avreste vedutotal uomo in quest'istante mutolo e con cera la più sbalor-dita e confusa mettersi tutt'ad un tratto a ballare e a can-tare come un saltimbanco; poco appresso strapparsi i ca-pelli, squarciarsi le vesti e pestarle co' piedi; di lì ad unmomento prorompere in un dirotto pianto, indi star

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male, svenire e ridursi a tale stato che se non gli fostecorso in aiuto, sarebbe morto. Nè tal cosa la vedevamoaccadere soltanto ad uno o a due, a dieci o anche a venti,ma a quasi lutti della brigata salvatasi a bordo del nostrovascello: onde, se ben mi ricordo, il nostro chirurgo fucostretto levar sangue ad una trentina circa di essi.

Vi erano fra gli altri due preti, un giovine, l'altro at-tempato e, ciò che v'ha di più singolare, chi mostròmeno giudizio fu il vecchio. Appena messo il piede abordo del nostro bastimento, stramazzò sul tavolato, cheognuno lo avrebbe detto morto: non potevate scorgere inlui il menomo segno di vita. Il nostro chirurgo, unico inmezzo a noi che non lo credesse morto da vero, dopoavergli apprestati quanti rimedî credè opportuni a farlorinvenire, finalmente ricorse a quello di aprirgli la venaad un braccio che egli avea prima debitamente fregato estrofinato, per richiamarvi quanto mai si poteva il calo-re. Il sangue che su le prime usciva a lente goccie, prin-cipiò indi a sgorgare liberamente, e tre minuti appressoil prete aperse gli occhi; dopo un quarto d'ora parlava,stava meglio; di lì a poco era perfettamente rimesso. Ri-stagnato il sangue, camminava attorno, ne raccontava distare benissimo. Prese una sorsata di cordiale offertaglidal chirurgo; in una parola, era un uomo riavuto del tut-to. Passato un quarto d'ora, si dovette correre in cercadel chirurgo (che stava traendo sangue ad una Francesesvenuta) per dirgli che il prete si era buttato matto deltutto. A quanto apparve egli avea principiato a meditaresul portentoso cangiamento che lo avea tratto in un subi-

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to da morte a vita, la qual considerazione nel primoistante lo trasportò in un'estasi di gioia; di lì a poco lacircolazione dei suoi spiriti vitali essendosi fatta più vio-lenta e sproporzionata con quella del suo sangue, questosi accese, gli produsse una gagliarda febbre. Se lo aves-sero portalo all'ospedale dei pazzi niun uomo in quelpunto vi sarebbe stato meglio annicchiato di lui. Il chi-rurgo, non volendo avventurarsi a fargli un'altra cacciatadi sangue, gli diede un rimedio per sopirlo e conciliargliil sonno: rimedio che fece effetto perchè il nostro pretenella successiva mattina si svegliò sano affatto di mentee di corpo.

Il prete giovine, più abile nel dominare le proprieemozioni, mostrò in sè stesso il vero esempio d'unamente retta e giudiziosa. Al suo primo entrare a bordo,prosternò a terra la faccia in atto di render grazie dellasua liberazione al Signore; dalla quale opera sfortunata-mente e fuor di tempo lo distogliemmo. Che volete?realmente lo credemmo preso da uno svenimento; maegli mi parlò con calma, ringraziandomi e dicendomicome stesse in quel tempo adempiendo i propri debitiverso il Signore che lo avea salvato; che nondimeno,soddisfatto a tale obbligo col suo Creatore, non avrebbeomessi verso di me gli ufizi che mi pervenivano.

Afflittissimo d'averlo disturbato, non solamente lo la-sciai quieto, ma feci che altri non lo interrompesseronelle sue orazioni. Rimasto in quella postura tre minuti,o poco più, dopo che ve l'ebbi lasciato, venne a cercarmicome avea promesso di farlo. Con accento grave ed in

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un affettuoso, e con le lagrime agli occhi ringraziò meperchè con l'aiuto di Dio avevo restituito lui e tante mi-serabili creature alla vita.

‒ “Io non vi stimolerò, gli risposi, a ringraziar Diopiuttosto che me, perchè vedo che la prima cosa l'avetegià eseguita. Circa a me, circa a quanto abbiamo fattonoi, non fu più di quello che la natura e l'umanità detta-no a tutti gli uomini, anzi tocca a noi ringraziar Dio checi ha benedetti al segno di essere stromenti della sua mi-sericordia verso un sì grande numero di sue creature”.

Dopo di che, il giovine sacerdote datosi a conversareco' suoi compatriotti molto s'adoperò a sedarne gli ani-mi. Persuadeva, pregava, ammoniva, argomentava conessi, e fece ogni possibile per contenerli entro i limitidella ragione; con alcuni riuscì, benchè i più rimanesse-ro ancora per un pezzo fuori di senno.

Non ho potuto starmi dal consegnare al mio scrittotali particolarità che potranno forse per coloro cui cadràun dì fra le mani tornare utili a governare le stravaganzedelle proprie emozioni; perchè se un eccesso di gioiapuò tenere uomini per sì lungo tempo fuor de' limiti del-la ragione, a quali stravaganze non ci condurranno l'ira,la rabbia, la sete della vendetta? Io stesso veramente daquesto caso ritrassi una scuola: quella cioè che non pos-siamo mai troppo far la guardia alle nostra passioni, pro-cedano esse dalla gioia e dalla felicità o dalle ambasce edall'ira.

Fummo alquanto disturbati da queste stranezze d'unagran parte de' nostri ospiti pel primo giorno; ma poichè

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ebbero avuto letti, sostentamento e ristori quali potevaoffrir loro il nostro vascello; poichè ebbero fatta unasontuosa dormita, e ciò avvenne ai più, perchè erano ve-ramente affaticati dal disagio e dalla paura, dopo ciò ap-parvero una tutt'altra gente nel dì successivo.

Non vi fu sorta di civiltà o buona grazia ch'eglinoomettessero per mostrarci la loro gratitudine: già si sache per indole i Francesi danno principalmente negli ec-cessi anche da questo bel lato. Il capitano del bastimentoincendiato e uno de' due preti vennero a cercare me e ilmio nipote il dì appresso. Il capitano soprattutto deside-rava sapere quali fossero intorno a loro le nostre inten-zioni, ma prima d'ogni altro discorso ne manifestaronoentrambi il loro dispiacere perchè avendo noi salvato adessi le vite, ben poco rimaneva loro per mostrarci unacorrispondente gratitudine.

‒ “Potemmo per buona sorte, ne diceva il capitano,preservare, sottraendole in fretta alle fiamme, alcunemonete e cose di valore nelle nostre scialuppe. Se voleteaccettarle, abbiamo commissione di offrirvele tutte; solbrameremmo di essere, lungo il vostro cammino, posti aterra su qualche spiaggia, ove ne sia possibile trovareun'occasione per tornare alla nostra patria”.

Mio nipote stava lì lì per prenderli in parola, accettan-do le monete e le cose preziose offerte: avrebbe poi piùtardi pensato a quel che si potea fare per loro; ma fuipresto a dargli la voce. Sapeva ben io che cosa volessedire l'essere buttato a terra senza danari in un estraniopaese; e se il capitano portoghese mi avesse salvato così

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prendendosi poi in prezzo della sua buon'opera tuttoquello che aveva, mi sarebbe poi convenuto morire difame, o divenire schiavo nel Brasile come lo era stato inBarbaria, con la sola differenza che non sarei statoschiavo di un Maomettano; ma forse un Portoghese nonè migliore padrone di un Turco, se in certi casi non èpeggiore. Così pertanto parlai al capitano francese:

‒ «Vi abbiamo, è vero, salvati nel momento del vo-stro disastro; ma gli era un nostro dovere il far questo, edesidereremmo noi pure di trovare chi ci liberasse sefossimo in caso simile o in altra crudele estremità. Ab-biamo fatto per voi sol quel tanto che voi avreste fattoper noi a parti e circostanze cambiate. Ma vi abbiamoaccolti per salvarvi, non per saccheggiarvi; e la sarebbeuna grande barbarie il portarvi via quel che avete cam-pato dalle fiamme, poi gettarvi in una spiaggia e piantar-vi là; tanto sarebbe il salvarvi prima da morte, poi l'ucci-dervi noi medesimi, camparvi da morire annegati, poifarvi morire affamati. Oh no! no! non permetterò che lamenoma delle vostre proprietà vi sia tolta. Quanto almettervi a terra su qualche spiaggia, la è questa vera-mente una grande difficoltà per noi, perchè il nostro va-scello ha l'obbligo di veleggiare alle Indie Orientali; ebenchè ci siamo distolti un bel pezzo dalla nostra viagovernando verso ponente, per venirvi in aiuto, direttiforse dal cielo che ha voluta la vostra salvezza, non perquesto n'è lecito cangiare per voi di nostro arbitrio la di-rezione del viaggio prescrittone: nè il capitano, mio ni-pote, può assumersi un simil rischio co' padroni del cari-

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co di questo bastimento; perchè il suo contratto di no-leggio l'obbliga a continuare direttamente e senza inter-ruzione il suo viaggio alla volta del Brasile. Tutto quan-to vedo potersi fare per voi si è mettervi su la via d'in-contrarvi in altro bastimento che torni dall'Indie Orien-tali, e cercarvi, se è possibile, sovr'essi un tragitto aqualche parte dell'Inghilterra o della Francia”.

La prima parte della mia proposta era sì generosa ecortese rispetto a loro, che non poteano di meno d'esser-mene grati, ma li pose nella massima costernazione,massime i passeggieri, l'udire che non poteano evitare diessere trasportati all'Indie Orientali. Si fecero quindi asupplicarmi affinchè, essendo io già deviato assai versoponente, prima ancora d'incontrarli, facessi tanto di con-tinuare la stessa direzione fino ai Banchi di Terra Nuo-va, ove probabilmente potrebbero abbattersi in qualchebastimento o schifo, che avrebbero noleggiato per farsitrasportare nuovamente al Canada, donde venivano.

Parvemi sì ragionevole tal loro inchiesta che mi sentiitosto propenso a secondarla. Considerai in oltre che co-stringere tutte quelle povere creature a venire con noisino alle Indie Orientali sarebbe stato non solamente unaintollerabile asprezza esercitata sovr'esse; ma un com-promettere tremendamente la nostra navigazione, perchèci avrebbero mangiate tutte le vettovaglie. Pensai peròche il condiscendere ai loro desideri non era un mancareal nostro contratto di noleggio, ma bensì un arrendersiad una necessità derivata da un incidente che non poten-do essere preveduta da niuno, niuno potea farne colpa di

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averle obbedito. Certamente tutte le leggi divine edumane ne proibivano di negar rifugio a quelle due scia-luppe cariche di miserabili che ridotti erano ad una con-dizione sì disperata. Dopo ciò la natura stessa della cosavolea che e per amor nostro e per amor loro li tragettas-simo in una spiaggia, fosse poi una od un'altra, per com-piere nel miglior modo l'opera della loro salvezza. Ac-consentii pertanto che li condurremmo a Terra Nuova,semprechè i venti e la stagione lo permettessero; altri-menti, nè essendovi altro rimedio, gli avremmo traspor-tati alla Martinica nell'Indie Orientali.

Ancorchè il tempo fosse buono, il vento, che spiravagagliardo da levante, continuò lunga pezza a mantenersilo stesso tra nord-est e sud-est (tra greco e scirocco).Ciò fece perdere parecchie occasioni di rimandare inFrancia i nostri imbarcati, perchè incontrammo vera-mente più d'un bastimento diretto per l'Europa, e traquesti uno francese procedente da San Cristoforo: mal'additata contrarietà di venti gli avea costretti ad indu-giar tanto costeggiando, che non s'arrischiarono a pren-dere a bordo i nostri passeggieri per paura di mancare diviveri così per sè medesimi come per essi; onde fummoobbligati a tirare innanzi.

Passata quasi una settimana dopo di ciò fummo aiBanchi di Terra Nuova, ove, per accorciare questo epi-sodio, mettemmo i nostri Francesi a bordo di una filucache noleggiammo su quelle acque con patto di sbarcarlialla costa e di ricondurli indi in Francia se riuscivano avettovagliarla. Dai Francesi che si fermarono su quella

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spiaggia devo eccettuare il giovine sacerdote menziona-to poco fa, che avendo udito come fossimo diretti all'In-die Orientali, ne pregò di poter venire in nostra compa-gnia e di essere lasciato a terra su la costa di Coroman-del, inchiesta ch'io secondai di tutto buon grado, perchèaveva preso ad amare, non vi so dir quanto, quest'uomo,e ben ebbi di che esser contento di ciò, come vedrete asuo luogo. Mi conviene pure eccettuare quattro piloti,che volontari entrarono nella nostra ciurma, e per dire laverità acquistammo in loro de' buoni marinai.

LXVII. Nuova diversione.

D'allora in poi presa la nostra direzione verso l'IndieOccidentali a sud ¼ sud-est (¼ di ostro verso scirocco)viaggiammo per venti giorni all'incirca, e talvolta conpoco o nulla di vento, quando ne occorse altro argomen-to opportuno a tenere in esercizio la nostra umanità, enon meno deplorabile del precedente.

Ai 19 di marzo del 1694, eravamo a' 27 gradi 3 minu-ti di latitudine settentrionale, allorchè ci accorgemmod'una vela volta verso noi nella direzione di sud-est ¼est (¼ di scirocco verso levante), nè tardammo a scopri-re un grosso bastimento che correva alla nostra voltasenza che ne sapessimo congetturare il perchè; ma nonappena ci fu più vicino, vedemmo che aveva perdutol'albero di gabbia di maestra, quel di trinchetto e quel dibompresso. Presto udimmo lo sparo di cannone che è

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segnale di disastro. Il tempo mantenendosi bello e spintida una forte brezza di nord-nord-west (maestro-tramon-tana), non tardammo ad essere in grado di parlare conchi ne chiedeva soccorso.

Sapemmo allora come quel bastimento in procinto disalpare dalla Barbada per tornare a casa, e già in rada,pochi giorni prima di dar le vele fosse stato tratto fuoridel porto da una forte burrasca, mentre il capitano e ilprimo aiutante erano andati alla spiaggia. Il caso per dirvero esce sì poco dalla sfera de' casi ordinari, che toltolo smarrimento prodotto dalla tempesta, non avrebbeimpedito ad abili marinai di ricondurre in porto il lor le-gno. Il fatto sta che stettero nove settimane alla venturasul mare, quando, sedata la prima burrasca, ne soprag-giunse loro una più fiera che li disalberò nel modo so-praindicato. Si lusingavano d'avere a veggente le isoleLucaie, ma un gagliardo vento di nord-nord-west (mae-stro-tramontana) lo stesso che spirava in quel punto, gliavea trasportati al sud-est (a scirocco). Non avendo altrevele per governare la nave fuor della grande e d'una spe-cie di vela riquadra che adattarono ad un albero di ri-spetto posto in vece di quel di bompresso perduto, nonpoterono andare all'orza resa col vento36, onde si sforza-vano alla meglio di governare verso le Canarie.

Ma il peggio di tutto si era che in aggiunta ai patiti di-sagi morivano di fame per mancanza di provisioni: panee carne erano affatto spariti; non ne avevano un'oncia in

36 Andare all'orza resa col vento significa dirigere con ogni possibile esat-tezza il vascello verso il punto d'origine del vento che spira.

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tutto il bastimento; e ciò durava da undici giorni. L'uni-co conforto che rimaneva loro consistea nel non essereancora finita la loro acqua dolce, e l'aver tuttavia unmezzo barile di fior di farina. Restava pur loro una suffi-ciente copia di zucchero, benchè la parte di esso lavora-ta e confettata se l'avessero mangiata per intero; restava-no pur loro sette barili di rum.

Avevano a bordo un giovine, la madre di lui e la fan-tesca, tutt'e tre passeggieri, i quali, pensando che il va-scello fosse lesto a salpare, sfortunatamente si recaronoa bordo la sera stessa in cui cominciò la burrasca. Que-st'infelici si trovavano in condizione tremendamentepeggiore di tutti gli altri, essendo già state consumatetutte le loro provisioni; nè i marinai ridotti a non averepiù nemmeno il necessario per sè stessi, sentivano com-passione, potete starne certi, di quegli sgraziati la cuiposizione era più deplorabile di quanto si possa descri-verlo.

Avrei forse ignorata questa parte di storia se, essendobello il tempo e il vento rimesso, la mia curiosità non miavesse spinto a bordo di quel vascello. Il secondo aiu-tante, che allora facea le veci di capitano, entrato pre-ventivamente nel nostro bastimento mi aveva informatodi questi tre passeggieri che occupavano la stanza de' fo-restieri ridotti a tal condizione da far pietà ai sassi.

‒ “Anzi, egli disse, credo sieno morti, perchè non odoparlar di loro nè poco nè assai da circa due giorni, ed ionon ho avuto il coraggio di chiederne conto, perchè pri-vo d'ogni mezzo per aiutarli”.

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Ci demmo tutti all'opera per soccorrere, il meglio cheper noi si potea, quella carovana di sfortunati; nel cheprevalsi tanto su l'animo di mio nipote, che gli avremmovettovagliati, quand'anche a tal fine ne fosse convenuto,per non restare sprovveduti noi stessi, allungare la no-stra corsa portandoci alla Virginia o ad altre spiagge del-l'America: ma non vi fu bisogno di ciò.

Or per altro que' meschini si trovarono in uno spaven-to di nuovo genere: la paura di mangiar troppo anche diquel poco che fu ad essi somministrato. L'aiutante in se-condo, allora comandante di quel disgraziato vascello,avea condotti sei di sua gente nella scialuppa su cui ven-ne a trovarci; ma que' poveri sgraziati parevano verischeletri, ed erano sì rifiniti che non so come facessero anon lasciarsi portar via dai lor remi. Lo stesso aiutanteaveva la trista cera di chi non ne può più dalla fame;chè, com'egli dichiarava, non s'era avanzato nulla per sea pregiudizio dei suoi piloti, e d'ogni morsello che fumangiato, avea fatto parte eguale con essi.

Per conseguenza nel tempo stesso ch'io gli porgea diche cibarsi, cosa che feci subito, come potete ben crede-re, lo avvertivo d'andar guardingo nella stessa necessitadi sfamarsi. Di fatto non avea mangiato tre bocconi checominciò a sentirsi male e come a svenire; dovette quin-di tralasciare per un poco finchè il nostro chirurgo glidiede certa pozione atta a servirgli e di rimedio e di ri-storo alla fame; dopo di che stette meglio. In questomezzo non dimenticai gli uomini della scialuppa; ordi-nai vi si portassero nutrimenti che quelle povere affama-

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tissime creature divoravano, più che mangiarli. Trasfor-matisi, può dirsi, in veri lupi, non erano padroni di sèmedesimi; due anzi di questi mangiarono con tanta in-gordigia che nella mattina seguente v'era a temere per leloro vite.

La vista dell'angoscia di que' miei simili mi commos-se al massimo grado, tanto più che mi raffigurava il ter-ribile quadro del mio primo arrivo nella mia isola, oveio non vedeva un tozzo di pane da mettermi alla bocca,nè la menoma speranza ragionevole di procacciarmene,oltre al timore che d'ora in ora incalzavami di divenireio stesso il pasto d'altri viventi.

Intantochè l'aiutante mi andava narrando la trista con-dizione dei suoi compagni lasciati nel vascello, io nonpotea levarmi di mente la storia di quelle tre poverecreature derelitte che stavano nella stanza de' forestieri:quella madre cioè, quel figlio, quella donna di servigio,de' quali l'aiutante stesso non sapea nuove da due o tregiorni, e che, a sua confessione medesima, erano statitrascurati affatto atteso lo stremo cui si trovavano ridottieglino stessi e tutti coloro che avrebbero potuto prender-sene pensiere. Dalla totalità di quel racconto io ben ca-piva che non aveano ricevuto cibo di sorta, e che perconseguenza doveano giacer morti o agonizzanti sul ta-volato della loro stanza.

Mentre pertanto io aveva a bordo l'aiutante, che veni-va allora chiamato capitano, e i suoi uomini intenti a ri-storarsi, non dimenticai la turba affamata che aveano la-sciata a bordo del loro vascello; onde ordinai una scia-

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luppa su cui il mio aiutante e dodici dei miei trasportas-sero colà un sacco di pane e cinque o sei pezzi di carneper farne lesso e brodo. Il nostro chirurgo avvertì gli uo-mini incaricati di tale spedizione che non si movesserodalla cucina mentre la carne bolliva e impedissero a que'famelici di mangiarla cruda o di tirarla fuori della pento-la prima che fosse cotta bene, ed anche allora di distri-buirla per testa a poco per volta. Con tal previdenza sal-vò quegl'infelici; altrimenti si sarebbero uccisi da sè me-desimi con lo stesso nudrimento inviato loro per tenerliin vita.

Nello stesso tempo incaricai il mio aiutante di recarsinella grande stanza della forasteria, per vedere in qualestato si trovassero quei tre poveri passeggieri, e dar loro,se viveano tuttavia, quanti soccorsi fossero più acconcial loro caso. Intanto il chirurgo gli diede una boccia pie-na di quella pozione che avea giovato all'uficiale venutoa bordo del mio bastimento e che, amministrata gradata-mente, non dubitava non fosse efficace anche per queipoveretti, se pure erano in vita.

Ma non fui contento a ciò. Aveva grande voglia,come ho detto prima, di recarmi io stesso su quella sce-na di desolazione, che certo co' miei occhi medesimi mene avrei formato un concetto più di quanto me lo potes-sero presentare le altrui relazioni. Presomi quindi incompagnia il comandante di quel vascello, mi ci portaidi lì a poco in persona.

Trovai a bordo quella povera ciurma quasi in istato disollevazione per voler tirare la carne dalle pentole prima

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che fosse cotta. Per buona sorte il mio aiutante esattonell'adempiere gli ordini avuti da me, mise di sentinellaall'uscio della cucina un uomo di polso, che dopo averecercato colle buone di persuadere que' famelici ad averepazienza, li tenne fuori dell'uscio per forza. Nondimenofece ammollare nel brodo alcune fette di pane, cibo chei marinai soprattutto chiamano brewis; e ne distribuì unaper cadauno, onde si rinforzassero lo stomaco, dimo-strando loro ad un tempo come soltanto per loro benefosse costretto a fornirli di cibo a poco per volta. Tuttele sue cure ciò non ostante sarebbero state al vento, setardavamo ancora a mostrarci io ed il loro comandante ei loro uficiali. Se, parte con belle parole, parte con la mi-naccia di un digiuno anche più lungo, non li riducevamoal dovere, credo che entrati per forza in cucina, avrebbe-ro strappala la carne fuor dei fornelli; perchè ogni elo-quenza ha poca forza con pancie vuote. Pure arrivammoa sedarli, li nudrimmo adagio adagio e cautamente allaprima; indi demmo loro un po' di cibo; finalmente ne sa-tollammo i ventri e stettero bene abbastanza.

Ma la sventura de' poveri passeggieri che stavano nel-la forasteria era bene di diverso genere, ed oltrepassavadi gran lunga quella di tutti gli altri, perchè non appenail rimanente di que' naviganti fu ridotto a mancare delbisognevole per sè, egli è troppo vero che fece lieveconto de' primi e finalmente affatto li trascurò. La pove-ra madre, donna, a quanto mi venne riferito, dotata diquanti pregi derivano da ingegno naturale e da buonaeducazione, negò ogni cosa a sè stessa per far vivere il

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figlio con tanta affezione, che poi soggiacque pienamen-te alle sue privazioni. Giacente, quando entrammo nellastanza, sul pavimento e con le spalle appoggiate su laparete, con le mani raccomandate alle braccia di due se-die accostate l'una all'altra fra cui si stava col capo af-fondato entro le spalle, somigliava assai più ad un cada-vere che a creatura vivente. Il mio aiutante le dissequanto potè per rincorarla e farla rivivere, mentre cerca-va introdurle in bocca un cucchiaio di cordiale. Maaperse le labbra, sollevò una mano; intendea le paroledel mio aiutante, essa non poteva parlare, dicea per cen-ni essere troppo tardi, additava in alto di raccomandarloil figliolo, parea dicesse: “Deh! non l'abbandonate!”Commosso non men di me a tal vista il mio aiutante, pursi sforzava di farle prendere alcune sorsate della pozioneapprestatale; diceva anzi d'esserci riuscito per due o trecucchiai; ma temo lo sperasse più di quanto ciò fossevero. Realmente fu troppo tardi, ed ella morì in quellanotte medesima.

Il giovinetto serbato in vita a prezzo dei giorni di unacosì tenera madre, non era giunto ad uno stato sì estre-mo, pur giaceva assiderato sopra un letto della foraste-ria, dando ben pochi segni di vita. Teneva in bocca unmezzo guanto, di cui s'avea mangiata l'altra metà; pureessendo più giovine e avendo più vitalità della madre,cominciò a riaversi sensibilmente dopo alcune cucchia-iate di cordiale che il mio aiutante pervenne a fargli in-ghiottire. Per altro qualche tempo dopo avendogli am-ministrato del cordiale stesso in dosi, a quanto parve,

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più abbondanti del dovere, era tornato a star male e le ri-mise.

Non fu dimenticata nemmeno la povera fantesca. Ste-sa sul tavolato a fianco della padrona, somigliava a per-sona che colpita da un tocco d'apoplessia stesse lottandocon la morte. Attratta in tutte le membra, s'aggrappavacon una mano al fusto d'una scranna e tenealo strettocon tanta forza, che ci volle della fatica a farglielo ab-bandonare. Si tenea l'altro braccio sopra la testa, i suoipiedi stretti insieme premevano il piè d'una tavola; insomma, ancorchè viva tuttavia, era in preda a tutte leagonie della morte.

La povera creatura non era solamente così malconciadalla fame e spaventata dall'idea di morire, ma, come nefu raccontato da poi, straziavale tuttavia il cuore l'idead'aver veduta per due o tre giorni agonizzante la sua pa-drona che allora non era più e ch'ella amava in guisastraordinaria.

Non sapevamo di quali farne con quella povera giovi-netta; perchè quando il nostro chirurgo, uomo fornito dimolto sapere ed esperienza, mercè le più assidue cure, laebbe restituita alla vita, ebbe un bel che fare per resti-tuirla alla ragione. La poverella rimase pazza per moltotempo, come si vedrà a suo luogo.

Chiunque leggerà queste memorie è pregato a consi-derare, che le visite fatte in mare non sono come unagita in villeggiatura ove potete fermarvi una settimana eanche due. Ne piacea bensì l'aiutare que' poveri sfortu-nati, ma non ce la sentivamo d'indugiare per essi. Certa-

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mente quel comandante avrebbe desiderato che veleg-giassimo di conserva con lui per alcuni giorni; ma le no-stre vele non s'affacevano a stare al passo con un vascel-lo disalberato. Ciò non ostante il comandante avendonechiesta assistenza nel rimettere un albero di maestra euna specie d'albero di gabbia in vece di quel di fortunasostituito all'altro, di cui li privò la burrasca, consentim-mo a rimanere con lui altri tre o quattro giorni. Indi, ce-dutigli cinque barili di manzo salato, uno di carne dimaiale, due botti di biscotto ed una certa quantità di le-gumi, di fior di farina e quante altre cose potemmo di-sporre per essi, poi ricevute in contraccambio tre botti dizucchero, alquanto rum ed alcune quadruple ci separam-mo. Soltanto prendemmo a bordo con noi dietro le vi-vissime istanze che ce ne fecero, il figlio della morta si-gnora, la cameriera e le cose che a questi spettavano.

Questo nostro nuovo compagno di viaggio avea di-ciassette anni all'incirca, amabile giovinetto, ottimamen-te educato, pieno di cuore e oltre ogni dire addoloratoper la perdita della madre: pochi mesi prima, a quantosembrò, eragli morto il padre alla Barbada. Egli aveapregato il chirurgo di parlarmi, affinchè lo levassi daquel bastimento, di mezzo a quei cialtroni, si esprimevacosì, che gli avevano ammazzata la madre. Se vogliamo,erano dessi che l'avevano uccisa, indirettamente inten-diamoci. Certo potevano fare alcuni risparmi su la partedel sostentamento d'ognuno per non lasciar morire distento quella povera vedova derelitta, nè avrebbero fattoniente più che compiere un dovere di umanità e di giu-

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stizia, serbandola in vita; ma la fame non conosce nèamici nè parenti, non giustizia, non diritto, ed e per con-seguenza priva di carità e di rimorsi.

Il chirurgo gli rimostrò come noi fossimo per impren-dere un lungo viaggio e come il venire con noi lo allon-tanerebbe da tutti i suoi amici, e potrebbe forse metterloin condizioni non men disastrose di quelle in cui lo tro-vammo, cioè di morire di fame in terra straniera.

‒ “Non penso al luogo dove anderò, rispondeva ilgiovinetto, purchè io sia liberato da questa tremenda ca-naglia in mezzo alla quale mi trovo. Il vostro capitano (equi egli intendeva parlare di me, perchè quanto a mionipote non lo conoscea punto) mi ha salvata la vita; fi-guratevi se vorrà mai il mio male! Quella giovinetta sonsicuro che, se ricupererà i suoi sensi, troverete in lei unabuona creatura e non ingrata alle carità che le avrete fat-te. Deh! prendetene con voi, e conduceteci dove volete”.

Il chirurgo mi rappresentò il caso in una maniera sìcommovente, che non seppi dire di no. Li prendemmodunque a bordo con le cose loro, eccetto undici botti dizucchero che non potevano essere spostate di dov'erano.Ma, poichè il giovine avea per esse una polizza di cari-co, feci che il comandante la firmasse, obbligandosi, ap-pena arrivato a Bristol, di cercare certo signor Roggersnegoziante di quella città, e di rimettergli una lettera chescrissi io unitamente alle indicate mercanzie appartenen-ti alla vedova morta testè. Suppongo che niuna di talicose sia stata eseguita, perchè non ho mai più saputoche quel bastimento sia giunto a Bristol, e probabilissi-

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mamente avrà fatto naufragio. Era sì mal in essere quan-do ci separammo e sì lontano da ogni terra, che credobastasse la menoma mezza burrasca a farlo affondare.Faceva acqua e stava male di stiva, fin da quando lo in-contrai.

LXVIII. Ritorno nell'isola, ricevimento avuto.

Eccomi già sotto la latitudine di 4 gradi dopo un viag-gio sufficientemente buono, benchè su le prime contra-riato dai venti. Ma ho voluto risparmiare al lettore lemolestie connesse con le descrizioni di piccoli incidentiderivati dai cambiamenti dell'aria e della stagione e disimili minuti particolari occorsimi in questo intervallo;onde accorciando la mia storia per amore delle cose chevengono dopo, gli notifico che giunsi alla mia anticaabitazione, alla mia isola, nel giorno 10 aprile 1695.

Durai qualche fatica a riconoscerla, perchè quandovenendo la prima volta dal Brasile, mi ci spinse la tem-pesta, e quando ne ripartii ciò fu dalle spiagge meridio-nali e orientali della medesima. Questa volta costeggian-do tra questa e il continente, nè avendo alcuna carta to-pografica di questi luoghi, non potei capire che quellafosse la mia isola o almeno, per certo se fosse o non fos-se.

Vagammo quindi un bel pezzo alla ventura ed a veg-gente della spiaggia di parecchie isole giacenti alla focedel grande fiume Orenoco senza che mi si presentasse

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mai quella ch'io ricercava. Solamente nel costeggiarquelle rive venni in chiaro d'un grave abbaglio in cui eroprecedentemente caduto: quello cioè di prendere per uncontinente quanto era soltanto una lunga isola o piutto-sto catena d'isole che si estendeano da un lato all'altrodelle bocche del grande fiume. In tale occasione vidipure come i selvaggi che sbarcavano sì spesso nella miaisola, non fossero propriamente i così detti Caraibi, sebene per altro isolani e selvaggi all'incirca della stessarazza che, soggiornando nella parte un poco più vicinoad essa, talvolta vi capitavano a differenza degli altri.

In somma io visitai diverse di quelle isole senza ve-run costrutto, alcune le vidi abitate, altre no; trovai inuna di esse alcuni Spagnuoli che credei su le prime visoggiornassero, ma parlando con loro scopersi che ave-vano un palischermo ad una calanca poco distante; cheerano venuti quivi in cerca di sale e per pescare conchi-glie fin dall'isola della Trinità cui appartenevano e gia-cente in una maggiore distanza al settentrione fra i 10 egli 11 gradi di latitudine.

Così governando di costa in costa, talvolta col miobastimento, talvolta con la scialuppa del vascello incen-diato, che i suoi proprietari mi avevano ceduta di tuttobuon grado e che trovai conveniente al caso mio, arrivaicon buona fortuna al lato meridionale della mia isola.Allora sì ravvisai presto alla cera la terra del mio reame,nè tardai a condur la mia scialuppa all'áncora a quellafamosa darsena che era in poca distanza dalla mia anticafortezza,

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Dal bel primo istante che riconobbi ove fossi, avevofatto venire a me Venerdì domandandogli:

‒ “Ebbene, Venerdì, capite ove siate ora?”Egli guardò attorno alcun poco, poi datosi d'improv-

viso il battere le mani, esclamò:‒ “Oh sì! Sì! me capire. Lì! Lì!” e col dito accennava

l'antica mia abitazione, e si mise a ballare ed a capriola-re da matto; anzi ebbi un bel che fare a rattenerlo dallospiccare un salto in mare per raggiugnere a nuoto la no-stra casa d'una volta.

‒ “Or ditemi, Venerdì, gli domandai, credete voi checi troveremo più qualcheduno o no? sperate voi di rive-dere vostro padre?”

Alla prima inchiesta stava lì come un insensato senzarispondermi nulla, ma appena gli ebbi nominato suo pa-dre, vidi la costernazione e l'abbattimento pingersi negliocchi di quella povera affezionata creatura, e una pienadi lagrima che ne sgorgò ad inondarle la faccia,

‒ “Che cos'è stato, Venerdì? Vi dà forse fastidio lapossibilità di rivedere vostro padre?

‒ No, no! egli rispose crollando il capo, Me non ve-derlo più! me non tornare a vederlo mai più!

‒ Perchè poi? Come sapete voi questa cosa?‒ Oh no! no! Lui star morto da lungo tempo, da lungo

tempo! lui star molto vecchio!‒ Dunque, Venerdì; non lo sapete. E quanto ad altre

persone credete che ne troveremo qui?”Colui aveva, a quanto parve, migliori occhi de' miei,

perchè accennando la collina che sovrastava all'antica

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nostra casa, benchè ne fossimo d'una buona mezza legadistanti, si mise a gridare:

‒ “Sì, sì, noi vedere, noi vedere molti uomi là.., là..,là...”

Egli diceva noi vedere, ma io aveva un bel guardare,non riuscii a vedere nessuno, nemmeno valendomi delmio cannocchiale, e ciò, io suppongo, per non avere pre-sa la giusta mira del sito additatomi da Venerdì, perchècostui aveva ragione, come mi apparve dalle informa-zioni prese nel dì successivo; e dove Venerdì indicava vierano proprio sei uomini convenuti insieme a guardare ilnostro vascello di cui non sapevano che cosa pensare.

Non appena Venerdì mi ebbe detto che vedea gente,feci spiegare la bandiera inglese ordinando tre spari dicannone per darci a conoscere amici; nè passò un quartod'ora appresso che vedemmo alzarsi un fumo dal latodella darsena. Fatta allestir tosto la scialuppa del vascel-lo, su la quale alzai bandiera bianca in segno delle mieintenzioni pacifiche, mi avviai direttamente entr'essaalla spiaggia, presomi in compagnia Venerdì e quel gio-vine religioso menzionato dianzi e già da me informatoe della storia della mia residenza in quest'isola e delmodo onde ci campai e d'ogni particolarità relativa tantoalla mia persona quanto a coloro che vi lasciai nel par-tirne: fu anzi il racconto di tali particolarità che lo invo-gliò di far questo viaggio in mia compagnia. Avevamoin oltre nella scialuppa sedici nomini armati di tuttopunto pel caso che trovassimo l'isola abitata da gente

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non di nostra conoscenza: ma il fatto mostrommi da poiche non abbisognavamo di prendere armi con noi.

Poichè navigavamo nel tempo del flusso, remammodirettamente alla darsena che era tuttavia alta marea. Ilprimo uomo da me adocchiato fu lo Spagnuolo al qualeavevo salvato la vita, e i cui lineamenti potei perfetta-mente discernere: il suo vestire lo descriverò un'altravolta. Io veramente ordinai che niuno si portasse allaspiaggia prima di me, ma non ci fu verso di far restareVenerdì nella scialuppa, perchè questo buono amorosis-simo figliuolo avea scernuto suo padre più in là delloSpagnuolo e de' suoi compagni, e ad una distanza ovecerto la mia vista non arrivava.

Non sì tosto fu su la spiaggia che corse a suo padrecon la prestezza di una freccia scoccata dall'arco: avreb-be cavate le lagrime anche di chi fosse stato più alienodall'intenerirsi il vedere i primi impeti della gioia diquell'ottimo figlio appena fu faccia a faccia del suo ge-nitore. Come lo abbracciava, lo baciava, gli accarezzavail volto! Lo sollevò di peso per metterlo a sedere sopraun tronco d'albero; quivi assisosi presso di lui, lo fisò, locontemplò per un quarto d'ora, come si rimarrebbe acontemplare una rara pittura; poi buttatosi boccone perterra gli accarezzava le gambe e le baciava, poi tornavain piedi nuovamente a contemplarlo: lo avreste detto im-pazzito. Ma nel dì successivo sarebbe stato un matto ri-dere il vedere la piena della tenerezza filiale di quell'ot-tima creatura prendere un altro andamento. Nella matti-na passeggiava su e giù lungo la spiaggia per parecchie

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ore conducendosi per mano suo padre come se fosse sta-to la sua innamorata; lo avreste veduto ogni momentocorrere alla scialuppa per trarne or questa or quella cosada regalarnelo, quando un pezzetto di zucchero, quandoun bicchierino d'acquavite, talvolta una focaccia, semprealcun che di buono. Nel dopo pranzo le sue bizzarre ma-nifestazioni d'amore erano d'un altro stampo, perchèadagiato il vecchio su l'erboso terreno, gli ballava attor-no e facea mille lazzi grotteschi e in tutto questo temponon si saziava di parlargli e raccontargli la storia or d'u-no, or d'un altro de' suoi viaggi, e di quanto gli era acca-duto pel mondo a fine di divagarlo. Vi dico io che se lastessa affezione dei figli verso i lor genitori si rinvenissenel nostro mondo cristiano, non ci sarebbe quasi biso-gno del quarto comandamento del decalogo. Ma quest'èuna mera digressione, e torno alle particolarità del miosbarco.

Sarebbe lungo al grado della superfluità uno specifi-cato racconto di tutte le cerimonie ed atti cortesi ondem'accolsero gli Spagnuoli. Vi ho già detto come il primod'essi ch'io riconobbi fosse pur quello al quale avevosalvata la vita. Venne in verso alla mia scialuppa accom-pagnato da uno de' suoi che portava anch'egli la bandie-ra di pace; ma non solo non mi riconobbe da principio,ma nemmeno gli era nata la menoma idea che chi veleg-giava alla sua isola fossi io, finchè non fui io stesso ilprimo a rompere il silenzio.

‒ “Signore, gli chiesi in portoghese, non mi conosce-te?”

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Udita appena la mia voce, non profferì un accento,ma consegnato il proprio moschetto a chi facea la partedi suo aiutante di campo, spalancò le braccia dicendo al-cune parole spagnuole che non arrivai a capir bene, ven-ne innanzi, abbracciommi strettamente; allora parlò:

‒ “È imperdonabile la mia colpa di non avere ravvisa-to a dirittura quel volto che fu per me un giorno il voltod'un angelo sceso dal cielo per salvarmi la vita". E quimi disse un mondo di quelle belle frasi che ad uno Spa-gnuolo ben educato non mancano mai; poi additatomiall'individuo che lo accompagnava, gli ordinò d'andar achiamare tutti gli altri suoi camerati.

Chiestomi indi se volevo trasferirmi seco all'anticamia abitazione, di cui m'avrebbe tornato a mettere nuo-vamente in possesso, mi manifestò il suo rincrescimentoperchè ci avrei trovato ben miseri miglioramenti fatti dalui e dalla sua gente nel tempo di mia lontananza. Con-sentii pertanto ad andarmene con lui. Ma, oh Dio! ionon potea raccapezzare il mio vecchio soggiorno piùche non l'avrei fatto se non ci fossi stato giammai. Ave-vano piantati tanti nuovi alberi, aveano dato a questi untale collocamento, erano sì fitti e intralciati fra loro, ave-vano in oltre avuto dieci anni di tempo per crescere a sìenorme grossezza che, per venire alle corte, il luogo eradivenuto inaccessibile fuorchè per chi conoscea certi an-dirivieni e viottoli ciechi che potea trovare sol chi gliaveva in quella maniera disposti. Gli domandai, com'eranaturale, quale strana necessità gli avesse indotti a tantecautele di fortificazione.

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‒ “Vedrete, signore, mi rispose che non ne era poco ilbisogno, poichè vi avrò raccontato come abbiamo passa-ta la nostra vita dal giorno in cui arrivammo tutti in que-st'isola, massime dopo la sfortuna di trovare che voi neeravate partito. Certo non potevo non sentire un conten-to per la vostra felicità al sapere che vi eravate imbarca-to in un buon bastimento e tal quale ve lo potevate au-gurare. Certo per lungo tempo durò in me vivissima lasperanza che una volta o l'altra vi avrei riveduto; pur velo confesso, non mi è mai accaduta in mia vita niunasorpresa desolante in uno, e che m'abbia posto in piùfiero scompiglio come il tornare nell'isola e sentire chenon ci eravate più. Quanto ai tre barbari (così egli lichiamava) che vi lasciaste addietro, oh! avrò a contarve-ne delle belle. Sentirete una lunga storia. Tutti, vedete!avremmo creduto di star meglio co' selvaggi che conloro, se non ci avesse confortato il pensiere che erano inpochi. Se fossero stati più, saremmo già da un bel pezzoin purgatorio (e qui si fece il segno della croce). Pertan-to io spero, mio signore, che non v'avrete a male quandovi racconterò che per amore della nostra salvezza ci ve-demmo astretti a disarmarli e a porli in uno stato dischiavitù, perchè coloro non si contentavano mica difarla moderatamente da padroni su noi: volevano dive-nire i nostri assassini.

‒ V'assicuro, gli risposi, che quanto mi dite lo avevatemuto fieramente ancor io, e nulla mi ha dato maggiordisturbo del partire di qui prima che voi foste tornatoaddietro. Se ci era io, per prima cosa vi avrei conferito il

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possesso dell'isola, posti coloro sotto il vostro dominioed in quello stato di suggezione che ben meritavano.Poichè lo avete fatto voi altri, ne ho ben piacere, e sonolontanissimo dal farvene una colpa. Sapevo già che era-no fior di cialtroni, anime senza legge nè fede, e capacidi commettere ogni sorta d'iniquità”.

Mentre io parlava in tal guisa tornò l'aiutante del mioSpagnuolo conducendo seco undici altri individui. Dallafoggia del loro vestire sarebbe stato difficile il dedurrela nazione cui appartenevano; ma ben presto chi gli aveamandati a chiamare schiarì ogni cosa ad essi ed a me,cui si volse primieramente additandomeli.

‒ “Questi, mio signore, sono alcuni fra i gentiluominiche vanno debitori a voi delle proprie vite”. Voltatosiindi agli altri accennò ugualmente me spiegando lorochi io fossi. S'avanzarono tutti uno alla volta con un por-tamento non da marinai o gente volgare, ma propria-mente come s'eglino fossero inviati di una ragguardevo-le corporazione, io un monarca o un grande conquistato-re. I loro modi furono oltre ogni dire gentili e cortesi, espiravano tal quale maschia e maestosa gravità che li fa-cea bene comparire. Avevano in somma sì belle maniereche m'imbarazzavano sul come rispondere a tante corte-sie, molto più sul come adeguatamente contraccambiar-le.

La storia del loro arrivo e de' loro casi nell'isola dache io ne era lontano, è sì notabile, sì ricca d'incidenticollegati con la prima parte della mia relazione, che nonposso non assumermi il piacevole incarico di trasmetter-

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ne i particolari alla lettura di chi verrà dopo di me; tantopiù volentieri perchè le cose narrate prima agevolanol'intelligenza di quelle che vengono dopo.

LXIX. Indispensabile ricapitolazione di antichi eventi e di una circostanze omessa.

Non imbarazzerò il racconto di tal parte di storia colfarlo in prima persona: ciò che mi obbligherebbe a ripe-tere le dieci mila volte: Egli disse, io dissi, egli mi nar-rava, io gli narrai, ecc.; ma cercherò di raccogliere sto-ricamente i fatti cavandoli con l'aiuto della mia memoriada quanto mi fu riferito, e da quanto mi accadde nelconversare con gli abitanti dell'isola e nell'esaminarne lanuova condizione.

Per adempir ciò succintamente e con quanta maggiorchiarezza sarammi possibile, mi fa d'uopo tornare addie-tro su le circostanze in cui lasciai l'isola stessa, e in cuisi trovavano i personaggi de' quali è mio debito il favel-lare. E primieramente mi è necessario il ripetere come iospedissi il padre di Venerdì e lo Spagnuolo (da me sot-tratti entrambi agli artigli de' selvaggi) al continente, o aquella terra almeno ch'io aveva per un continente, entroun ampio palischermo a fine di cercare gli Spagnuoli la-sciatisi addietro, e non solo a soccorrerli quanto al pre-sente ma presevarli da una calamità simile a quella dicui rischiarono essere vittime i miei due messi, concer-

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tando insieme tale via onde in comune ci adoperassimoalla nostra liberazione, se pure era possibile.

Mentre io mandava in tale spedizione i due accennatiindividui, io non aveva la menoma apparenza, nemmenoun'ombra di speranza di potere operare la mia liberazio-ne da me solo, più di quanto l'avessi vent'anni addietro;molto meno mi era possibile il prevedere ciò che avven-ne poichè furono partiti: vale a dire l'arrivo d'un basti-mento inglese che mi trasportasse lontano da quellaspiaggia. Laonde non potè essere appunto se non gran-dissima la sorpresa di que' poveretti quando, tornandoaddietro, non solo non mi trovarono più nell'isola, ma cividero invece tre estrani già impadronitisi di ciò ch'iom'era lasciato addietro, e che altrimenti sarebbe ad essiappartenuto.

Le prime informazioni, come è a credersi, da mechieste allo Spagnuolo, terminati i cerimoniali di ricevi-mento, concernevano lui e i suoi compagni. Volevo midesse conto del suo viaggio fatto sul gran palischermoinsieme col padre di Venerdì per indurre questi compa-gni a venire nella mia isola. Quanto alla traversata fattaper trovarli mi disse non essergli accaduto nulla di sin-golare o meritevole di racconto perchè fu protetta da unmare tranquillo e da favorevoli venti.

‒ “Quanto ai miei compatriotti (mi disse il mio Spa-gnuolo, loro caporione, e a quanto sembra riconosciutoda essi per lor capitano poichè quello del vascello nau-fragato fu morto) potete credere se non furono esultantial rivedermi; tanto più maravigliati perchè mi sapeano

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caduto fra l'unghie de' selvaggi che non ci parea dubbionon avessero divorato me come fecero del restante de'loro prigionieri. Quando poi seppero la storia della mialiberazione e il modo ond'ero stato proveduto per tra-sportarli di lì, lo credettero un sogno; e la loro sorpresafu alcun che di simile a quella de' fratelli di Giuseppequando questi narrò loro chi egli fosse e la storia dellasua esaltazione alla corte di Faraone. Ma allorchè mo-strai ad essi le armi, la polvere, la munizione, le vettova-glie portate meco per la loro traversata, rinvennero in sè,ciascuno prese la sua parte di gioia alla comune salvez-za, e s'allestirono immantinente a venir via meco”.

La prima loro faccenda fu procurarsi canotti o piro-ghe; nè in ciò si credettero tanto obbligati a tenersi fra ilimiti dell'onesto che non gabbassero i selvaggi loroospiti cui chiesero in prestito due grandi canotti o piro-ghe col dar loro ad intendere di valersene per andare acaccia o a diporto. Su questi partirono nella successivamattina. Non pare che avessero indugi per non far pre-sto: senza suppellettili, senza fardelli, senza vettovaglieche gl'ingombrassero, tutto quanto possedevano al mon-do lo avevano indosso.

Impiegarono tre settimane in tutto a questa traversata,nel quale intervallo, sfortunato per essi, ve l'ho già detto,mi capitò l'occasione di fuggire e tirarmi fuori dell'isola,lasciandovi i tre più sfrontati, feroci, sfrenati, sgraziaticialtroni fra quanti mai un galantuomo possa augurarsidi non incontrare: ben sel seppero, potete starne sicuri,

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per un bel pezzo que' poveri Spagnuoli che li trovaronolì.

La sola cosa per il diritto che fecero quei mariuoli fuquando gli Spagnuoli approdarono, perchè a norma de-gli ordini che avevo dati, consegnarono loro la mia lette-ra e le previsioni da me lasciate per essi. E rimisero loroparimente la lunga lista d'istruzioni che io avea stese perla migliore loro sussistenza avvenire, vale a dire i meto-di particolari ch'io aveva adottati onde governar quiviogni parte della mia vita; come facevo a cuocermi ilpane, ad allevare le mie capre, a fare le mie semine e lemie vendemmie, a fabbricarmi la mie pentole: in unaparola, tutti i precetti scritti da me li consegnarono ainuovi arrivati, due de' quali conoscevano ottimamentel'Inglese; nè per dire la verità, in quel momento ricusa-rono nemmeno d'accomodarsi con gli Spagnuoli; laondeper qualche poco di tempo andarono insieme d'accordo.Ammessi senza distinzione nella stessa casa o grotta,principiarono vivendo in buona comunanza gli uni congli altri ; il capitano spagnuolo e il padre di Venerdì, cheaveano profittato dal vedere com'io governassi le cosedomestiche, avevano tutta la parte amministrativa diquella comunità. Bisogna per altro dire che i tre Inglesinon se la sapeano d'altro che di vagabondare per l'isolatutta la santa giornata, ammazzar pappagalli, prender te-stuggini e venire la sera a mangiar la cena che gli Spa-gnuoli avevano apparecchiata per essi.

Anche così si sarebbero contentati gli Spagnuoli sequegli altri gli avessero solamente lasciati in pace; ma

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era questa la cosa di cui non si sentivano capaci costoroche, simili al cane dell'ortolano, non volevano mangiarloro nè lasciare che altri mangiassero. Pure le loro diffe-renze su le prime furono di lieve momento, nè merite-rebbero nemmeno una commemorazione se non fosserofinalmente degenerate in aperta guerra: guerra comin-ciata con tutta la villania e l'arroganza ch'uom possa im-maginarsi, senza ragione o provocazione di sorta alcuna,contro a tutti i principii della natura e fin del buon sen-so. È vero che tutta questa storia la seppi su le prime perbocca degli Spagnuoli, ma quando in appresso ebbi adesaminare gli accusati medesimi, costoro non sepperonegarmene una parola.

Ma prima ch'io venga a narrare queste particolarità,mi fa d'uopo riparare una dimenticanza occorsami nelprimo racconto: quella cioè di notare un accidente avve-nuto partendomi dall'isola quando appunto nella filuca,ove entrai a bordo, ero per far levare l'áncora e spiegarele vele. L'avvenimento fu una lieve rissa nata fra i mari-nai, ch'io temei andasse a finire in un secondo ammuti-namento, ed eccone il motivo. Tale rissa andava un pòtroppo alla lunga, quando il capitano, chiamato in aiutoil proprio coraggio e fattosi seguire da tutti quelli chenon aveano parte alla lite, la dissipò con la forza e fecemetter in prigione ed ai ceppi i provocatori del disordi-ne. È a sapersi che costoro non s'erano frammessi perpoco nella precedente sommossa, e che in questa occa-sione si lasciarono sfuggire alcune parole piuttosto equi-voche; onde il capitano li minacciò una seconda volta di

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condurli così prigione in Inghilterra, ove sarebbero statiimpiccati come capi di tumulto e partecipi dell'antece-dente ribalderia.

Questa minaccia che per dir vero il capitano non ave-va intenzione di mandare ad effetto, mise in costernazio-ne quant'altri piloti sapevano in propria coscienza di nonavere nette le loro partite; onde costoro si ficcarono incapo che il capitano avesse bensì date ad essi buone pa-role; ma sol per tirarseli seco sino al primo porto inglesee colà farli mettere prigione e assoggettare ad un proces-so.

L'aiutante ch'ebbe sentore del sospetto nato in costo-ro, venne a farcene avvertiti. Il capitano per conseguen-za pregò me (che quella ciurma aveva in concetto diqualche cosa di grande) a scendere a basso e volerliaringare, assicurando tutti che, ove si fossero ben com-portati durante il rimanente del viaggio, ogni antico lorfallo era già perdonato e dimenticato. Andai di fatto, es'acchetarono su la mia parola d'onore, tanto più chem'adoperai efficacemente affinchè i due uomini posti aiceppi, venissero sciolti e ottenessero la loro grazia.

Questo subuglio nondimeno, e un poco ancora il ven-to che era piuttosto morto, ci tennero all'áncora tuttaquella notte. Alla mattina ci accorgemmo che i due ma-riuoli liberati dai ceppi, dopo aver rubato un moschettoper cadauno, altre armi e polvere e munizione, di cuinon sapemmo nel momento fare il conto, e impadroniti-si dello scappavia non per anche tirato a bordo, se neeran'iti a raggiungere i tre mariuoli loro confratelli rima-

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sti nell'isola. Appena scopertasi questa nuova furfanteriadi que' ribaldi, non tardammo a mandar dietro loro unascialuppa con entro dodici nomini e l'aiutante. Ma questinon poterono rinvenire nè i due fuggitivi, nè i tre cial-troni che, veduti avvicinarsi i nostri alla spiaggia, s'ap-piattarono nel più folto dei boschi, Era venuto all'aiutan-te il pensiere di prendersi una soddisfazione contro a co-storo col distruggere le piantagioni e bruciar tutte le do-mestiche loro suppellettili e vettovaglie, poi lasciarli lìche si tirassero come poteano d'imbarazzo. Ma nonavendo ordini su di ciò, non ne fece altro, e lasciate tuttele cose come trovate le avea, ricuperò soltanto lo scap-pavia, poi se ne tornò a bordo senza i due ladri.

Intanto ecco l'isola popolata da cinque uomini. Ma itre primi cialtroni superavano tanto in ribalderia i duesopraggiunti che, dopo essere vissuti due o tre giornicon questi li misero fuori di casa abbandonandoli allaventura. Non volendo indi avere nulla di comune conessi, ostinaronsi per un pezzo a non somministrar loroalcuna sorta di sussistenza: notate che gli Spagnuoli nonerano per anche arrivati.

LXX. I coloni spagnuoli, i tre mascalzoni cattivi, idue mascalzoni buoni.

Poichè gli Spagnuoli furono approdati, le cose princi-piarono ad avviarsi men male. Certo avrebbero volutopersuadere quelle bestiacce dei tre mascalzoni peggiori

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a prendersi seco nuovamente i due compatriotti; ma nonci fu verso d'indurli, com'essi dicevano, a formar tuttauna famiglia. Così quegli altri due poveri diavoli si vi-dero costretti a far le loro faccende da loro. Trovatoquindi che sol l'industria e la fatica potevano aiutarli avivere men tristamente, andarono a piantarsi le loro ten-de sul lato settentrionale dell'isola, ma tenendosi versoponente per esser meglio fuori del pericolo di scontrarsico' selvaggi che per solito sbarcavano alle parti piùorientali della spiaggia.

Quivi si fabbricarono due capanne, una ove alloggiareeglino stessi, l'altra per servire loro di magazzino, entrocui riporre le loro provisioni; e poichè gli Spagnuoli lifornirono di alcune semenze di grano e specialmente dique' legnami che ad essi lasciai, principiarono a coltiva-re la terra, seminare far ripari di siepi, giusta il modelloda me trasmesso ai miei successori, onde principiavanoa passarsela discretamente.

Il primo loro ricolto venne bene, e ancorchè avesseromesso a coltura un piccolo pezzo dì terreno, perchè nonavevano avuto il tempo di prepararne di più, nondimenofu bastante a provederli di pane e d'altri commestibili,oltrechè un di questi essendo stato capo cuoco del va-scello, era abilissimo nel far zuppe, torte e tali mangiariquali il riso, il latte e le poche carni che si poteva pro-cacciare glie lo permettevano.

Si trovavano in tal prosperante condizione, quando ungiorno gli altri tre cialtroni privi d'ogni umano sentimen-to fin verso questi che aveano la patria comune con essi,

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capitarono a svillaneggiarli, così per bel diletto e a bra-veggiarli con dire:

‒ “Siamo noi i padroni dell'isola. Il governatore (in-tendeano parlare di me) ne ha conferito a noi il posses-so, nè v'è altri che abbia diritti sovr'essa. Voi dunquenon potete fabbricare sul nostro terreno se non ne pagatel'affitto.

‒ Venite avanti e accomodatevi, dissero gli altri cre-dendo tutto una burla. Vedrete le belle abitazioni che cisiamo fabbricate, e fisserete l'affitto voi stessi; e (ag-giunse un di questi) poichè siete voi i signori di questoterritorio, vogliamo sperare che se ci fabbrichiamo soprae ci facciamo dei miglioramenti, ne accorderete, come igran signori costumano, una lunga investitura. Se vi pia-ce fate venire un notaio che ne stenda lo scritto.

‒ Corpo del demonio! gridò un di costoro le cui be-stemmie non si limitarono qui; vi faremo vedere se bur-liamo”; e recatosi più in là ove que' poveri sgraziati ave-vano acceso il fuoco per prepararsi un po' di cibo, e pre-so un tizzone infiammato lo posò bellamente contro illato esterno della capanna, che in pochi minuti sarebbebruciata, se un dei due ingiuriati non fosse corso fuori infretta scagliandosi sul briccone che cacciò via. Indi al-lontanato con un piede il tizzone, spense il fuoco nonper altro senza qualche difficoltà.

Il mascalzone cattivo al vedersi scacciato via in quelmodo dal mascalzone buono (chè qui comincia la distin-zione fra i buoni e i cattivi mascalzoni) fu preso da tantarabbia che tornò di lì ad un momento armato di bastone;

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poi gli misurò tal colpo che se l'altro non era pronto apararlo e a fuggire in casa, avea finito di vivere. Il suocamerata vedendosela brutta per sè e pel compagno, ac-corse, e di lì ad un istante entrambi erano fuor della ca-panna armati d'un moschetto per cadauno. Quel dei dueche corse dianzi il pericolo di quella mala botta, atterròil ribaldo provocatore col calcio del suo archibuso, e ciòprima che i due altri venissero ad aiutare costui. Appenaquesti comparvero, i due buoni presentando a tutti e trele bocche de' loro moschetti, li fecero stare addietro.

I cattivi avevano eglino pure armi da fuoco con sè;ma un de' due buoni, più coraggioso ancora del suocompagno e fatto disperato dal proprio pericolo, gridò aiprimi assalitori che se movevano una mano erano morti,intimando loro col più fermo ardimento che cedessero learmi. Non le cedettero per vero dire, ma vedendo l'av-versario sì risoluto, tutti e tre credettero migliore consi-glio il venire a parlamento, a norma del quale acconsen-tirono di portarsi a casa il lor terzo ferito, che da veroparea malconcio dalla percossa avuta col calcio del mo-schetto.

Per altro i due buoni fecero male a non profittare delvantaggio avuto e a non disarmare effettivamente, poi-chè ne avevano il destro, i tre cattivi. Si contentarono alrecarsi subito presso gli Spagnuoli e raccontar loro levillanie che avevano sofferte. Doveano ben immaginarsiche que' tristi avrebbero studiate tutte le vie per vendi-carsi, e di fatto d'allora in poi non passò giorno che nondessero potenti indizi di questa malvagia intenzione.

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Non ingrosserò questa parte di storia con la descrizio-ne di tutte le ribalderie di minor conto che i tre cialtronicommisero a danno degli altri due. Figuratevi che anda-vano a pestar co' piedi i lor ricolti in erba, oltre a l'avereammazzati loro tre giovani capretti ed una capra cheque' poveretti avevano addimesticata per avviarsi unagreggia; in somma li tribolarono tanto di notte e di gior-no, ne fecero di tante fatte, che ridussero gli altri due atal disperazione per cui finalmente presero la determina-zione di venire a battaglia con essi alla prima opportuni-tà che loro ne capitasse.

E per trovarla più presto risolvettero trasferirsi al ca-stello (così veniva denominata la mia antica abitazione)ove i tre cialtroni convivevano tuttavia con gli Spagnuo-li, quivi sfidarli, pregando gli Spagnuoli ad esser testi-moni della tenzone. Così fecero all'alba di una data mat-tina, e giunti al luogo divisato chiamarono gl'Inglesi pe'loro nomi, ed interrogati da uno di quegli Spagnuoli sulmotivo della loro venuta, risposero che aveano qualchecosa da dire ai tre Inglesi.

Era avvenuto nel giorno innanzi che uno Spagnuologirando pe' boschi incontrasse un de' due Inglesi, deno-minati per distinguerli dagli altri tre, i buoni, e che que-sti gli raccontasse la storia lamentevole d'ogni barbarosopruso praticato contro lui ed il suo compagno dagl'ini-qui loro compatriotti e delle piante schiantate e dellemessi mandate a male e delle capre uccise, per ultimodella distruzione di tutti i mezzi di lor sussistenza opera-ta da costoro. Laonde, quando la sera gli abitanti del ca-

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stello furono ridotti a casa e stavano cenando, uno Spa-gnuolo si prese la libertà di far rimostranze, ma conbuona maniera, ai tre su le crudeltà da essi esercitateverso compatriotti che non facean loro male veruno.

‒ “Poveretti! dicea lo Spagnuolo, s'erano messi su labuona strada di vivere con le proprie fatiche , e avevanosparsi di bei sudori per avviare bene le cose loro.

‒ Che cosa sono venuti a far qui? disse con arroganzaun degl'inglesi: sbarcarono a questa spiaggia senza li-cenza; nè possono qui fabbricar case o far piantagioni;non lavorano sul loro.

‒ Per altro, signor Inglese, soggiunse con pacatezza loSpagnuolo, non è giusto che muoiano di fame”.

L'Inglese col più brutto fare del più sboccato fra i ma-rinai sclamò:

‒ “Oh! crepino un poco e vadano al diavolo! Qui nondevono nè piantare nè fabbricare.

‒ Ma che cosa hanno dunque da fare? chiese lo Spa-gnuolo.

‒ Che Dio li fulmini! sclamò un altro di quegli uomi-ni brutali. Lavorare e servirci come nostri schiavi.

‒ Ma perchè pretendere questo da loro? replicò loSpagnuolo. Voi non gli avete comprati col vostro dana-ro; non avete diritto di considerarli come schiavi.

‒ Vivadio! l'isola è nostra, Il governatore l'ha data anoi, e niuno ha che far qui fuori che noi, e per il ... (quifece un giuramento da fare addirizzare i capelli) andere-mo e brucieremo le case che hanno piantate, nessuno hada fabbricare su la terra che è nostra.

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‒ A questi conti, soggiunse sorridendo lo Spagnuolo,saremmo vostri schiavi anche noi.

‒ Anche voi altri! disse il briccone. La non è ancorafinita”; e nel dir questo mescolò tra l'una e l'altra delledue frasi tre o quattro orrende bestemmie.

Lo Spagnuolo contentatosi ad un tal ghigno che di-cea: Mi fate pietà, non rispose altro.

Nondimeno, e comunque moderata fosse la predicafatta dallo Spaguuolo, questa pose l'inferno in corpo aque' cialtroni, un dei quali saltato in piede, credo fossecolui dei tre che si nomava Guglielmo Atkins, disse aquello che avea parlato sino allora:

‒ “Vieni, Giacomo, andiamo, non giova cozzarsi piùcon questi galantuomini. La loro fortezza la demoliremoper Dio! Nessuno ha da piantar colonia sul nostro domi-nio”.

Detto ciò, vennero via tutti e tre di conserva, ciascunoarmatosi d'un archibuso, d'una pistola e d'una spada; ebrontolarono fra loro alcuni insolenti propositi su ciòche avrebbero fato a suo tempo agli Spagnuoli, i quali aquanto sembra non intesero sì bene tali brontolamenti danotarne ogni minuta particolarità, e sol capirono in ge-nerale che consistevano in minacce contro essi perchèavevano presa la parte de' due Inglesi men tristi.

Ove andassero, come impiegassero il rimanente delloro tempo in quella notte nol seppero; parve che vagas-sero un bel pezzo attorno finchè stanchi andassero a ri-posarsi in quella ch'io chiamava mia casa di villeggiatu-ra, e ivi s'addormentassero. Il caso fu questo. Costoro,

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come in appresso lo confessarono eglino stessi, aveanorisoluto d'indugiare fino a mezzanotte, e colto l'istanteche quei due poveri sgraziati fossero immersi nel sonno,dar fuoco alle loro abitazioni, entro cui sarebbero rima-sti o bruciati, se vi rimanevano, o trucidati dagli asse-dianti se ne uscivano.

Poichè la malvagità lascia di rado dormire della gros-sa, fu un caso stravagante che questa volta non tenessedesti i tre mascalzoni.

Pure nella presente circostanza accadde che anche idue Inglesi avversari avessero essi pure in volta, comeho già detto, una macchinazione, benchè di più onestogenere che non è il bruciare e l'assassinare; onde fortu-natamente per tutti erano in piedi e partiti dalle loro abi-tazioni, quando i tre sanguinolenti sicari vi giunsero.

LXXI. Ulteriori attentati dei tre mascalzoni, loro disarmamento e sommessione.

Giunti i tre scellerati alle case dei due che chiamiamobuoni e, trovatele abbandonate, Atkins, che a quantosembra era il caporione, gridò ai suoi camerati:

‒ “Brutte novità! Vedi, Giacomo? il nido è qui, ma gliuccelli, che il cielo li maledica! sono volati via”.

Stettero un poco pensando qual motivo potessero ave-re avuto d'uscire di casa sì presto, poi s'immaginaronoche gli Spagnuoli li avessero avvertiti delle contese oc-corse la sera innanzi. In questa persuasione si pigliarono

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per la mano giurando l'uno all'altro di prendersi una so-lenne vendetta degli Spagnuoli. Poichè ebbero strettoquesto orrido patto di sangue fra loro, si diedero primadi tutto a sfogare la propria rabbia su le case de' poveridiavoli che ne erano partiti. Non le bruciarono, ma le di-roccarono, le spiantarono sì fattamente che non ne restòcongiunto un pezzo con l'altro, non un pilastro in piede.Lasciarono appena sul terreno un segno che indicasseove le case erano prima. Fattene in tocchi le domestichesuppellettili, le dispersero qua e là a tanta distanza cheque' poveretti quando credettero di tornare a casa, netrovarono degli avanzi un miglio prima di essere sulluogo. Eseguita questa bella faccenda, schiantaronoquanti giovani piante quegli sfortunati si erano avviate;mandarono alla malora i ricinti che s'erano fatti per cu-stodirvi il lor piccolo armento o le poche lor messi; inuna parola misero a sacco, smantellarono tutto in talguisa che un'orda di Tartari non potea far loro di peggio.

In questo mezzo, i padroni dell'abitazione diroccataandavano appunto in cerca di loro per battersi secoovunque gli avessero incontrati, ancorchè fossero duecontro a tre, e certo se ciò fosse avvenuto, vi sarebbestato un sanguinosissimo combattimento; perchè perrendere agli uni e agli altri la dovuta giustizia, erano tut-ti gagliardi de' più risoluti.

Ma la Providenza si prese del tenerli separati maggiorcura che questi non se ne dessero per raggiugnersi: per-chè mentre cercavano di codiarsi a vicenda, quando i treerano là, i due erano qui; quando i due tornarono addie-

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tro per trovare i tre, questi erano già venuti di nuovo allavecchia loro abitazione. Qual fosse in appresso la con-dotta dei tre e dei due, faremo presto a vederlo. I tregiunti a casa furibondi, ansanti e imbestialiti di più, dal-la stessa scellerata fatica che s'erano data, raccontaronoin via di millanteria e di beffa la lor bella impresa, ed undi costoro fattosi faccia a faccia d'uno Spagnuolo, comeun ragazzo che ne invitasse un altro a bagordare, gli pre-se con la mano il cappello che gli fece girar su la testa aguisa di trottola, poi guardatolo in cagnesco, disse:

‒ “E anche voi, signor bell'umorino di uno Spagnuo-lo, vi concieremo con la stessa salsa se non guarite daivostri grilli”.

Lo Spagnuolo che se bene uom pacato e pieno di ci-viltà, era valoroso quanto si possa esserlo e forte e ner-boruto, si fermò a guardarlo un tantino, indi non avendoin mano arme di sorta alcuna, con passo grave gli fu ad-dosso, e gli misurò tal pugno che lo stramazzò a terra,come un bue percosso dalla mazza del macellaio; allaqual vista uno degli altri due cialtroni non meno arditodel primo, sparò tosto una pistola contro allo Spagnuolo.Fortunatamente fallò il colpo, perchè la palla di questo,anzichè attraversare il corpo dell'uomo preso di mira, neandò a radere i capelli e gli scalfì soltanto la punta diun'orecchia. Questa nondimeno fece molto sangue, laon-de lo Spagnuolo credendosi più gravemente ferito diquello che lo fu in realtà, divenne un pò più acceso diprima, perchè finora avea fatte le cose sue con perfettis-sima calma. Ma adesso risoluto di finirla colse da terra

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il moschetto dell'uomo stramazzato, ed era in atto dispararlo inverso al suo feritore, quando tutti gli altriSpagnuoli che erano nella grotta, saltarono fuori gridan-dogli di fermarsi; poi scagliatisi su i tre cialtroni gli ar-restarono togliendo loro le armi.

Quando, così disarmati, s'accorsero d'essersi inimicatigli Spagnuoli non meno de' loro compatriotti, comincia-rono a farsi mansueti mansueti e a dir belle parole aquesti per riavere le loro armi. Ma gli Spagnuoli consi-derando che la rissa era tuttavia viva fra le due parti in-glesi, e che la meglio era d'impedire loro di ammazzarsil'une con l'altre, promisero bensì ai medesimi di non farmale ad essi di sorta alcuna, aggiugnendo anzi che, se sifossero comportati pacatamente per l'avvenire, nullaamavano meglio dell'aiutarli e di vivere seco in buon ac-cordo come in passato, ma che non giudicavano oppor-tuno il restituire loro le armi finchè li vedeano risoluti difar male con esse ai propri concittadini che in oltre egli-no aveano minacciato di far loro schiavi.

Que' malvagi non erano in istato d'intender ragione nèdi operar con ragione; ma vedendosi negate le armi, an-darono via farneticando, bestemmiando all'aria comeveri matti. Gli Spagnuoli, i quali si rideano di tali mi-nacce, intimarono loro che si guardassero bene dal reca-re il menomo danno alle greggie o alle piantagioni del-l'isola; perchè in tal caso sarebbero stati uccisi a guisa difiere ovunque venissero sorpresi, e cadendo vivi nelleloro mani, irremissibilmente impiccati. Questo non gio-

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vò certo a calmarli, ma partendo arrabbiati di lì giurava-no e sacramentavano come furie dell'inferno.

Appena partiti questi, i due Inglesi della parte contra-ria tornarono addietro anch'essi pieni di collera e di rab-bia, benchè d'un'altra natura; perchè venendo allora dalpovero loro podere che aveano trovato così smantellatoe distrutto, è facile il concepire che non era leggera laloro stizza. Ebbero poco tempo per raccontare i casi loroagli Spagnuoli, tanta era in questi l'ansietà di sfogarsi sui propri; e parea veramente cosa strana a capirsi che treuomini, braveggiandone diciannove, se la passassero sìimpunemente.

Ma gli Spagnuoli non ci badavano, tanto più cheavendoli disarmati, faceano poco conto delle loro mi-nacce. Non così i due Inglesi che volevano prendersiuna vendetta su costoro, qualunque fatica e sagrifiziocostasse loro il raggiugnerli. Qui pure s'intromisero gliSpagnuoli rimostrando a questi come avendo già disar-mati i loro nemici, non potessero più permettere allaparte contraria d'inseguirli con armi da fuoco e probabil-mente ucciderli.

‒ “Noi ciò nonostante disse il grave Spagnuolo rico-nosciuto qual governatore dagli altri, procureremo difarvi avere giustizia se rimettete la cosa nelle nostremani. Perchè non v'ha dubbio che torneranno a trovarci,appena sarà data giù un poco la loro pazzia. E come fa-rebbero altrimenti? Non sanno come campare senza lanostra assistenza. Vi promettiamo che non faremo pacecon essi se non vi danno una piena soddisfazione. A

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questo patto speriamo che anche voi ci prometterete dinon usare violenza contr'essi, semprechè non vi costrin-gesse a ciò una provata necessità di difendervi”.

S'arresero, benchè a stento e con grande ripugnanza idue Inglesi, ma gli Spagnuoli protestavano che faceanosol per tenerli lontani dallo spargere sangue e per conse-guire finalmente l'intento che tutte le differenze venisse-ro una volta appianate.

‒ “Qui, diceano gli Spagnuoli, non siamo in tanti, ec'è bastante posto per tutti nell'isola. Sarebbe un peccatoche non ci vivessimo tutti da buoni amici”.

Finalmente que' due Inglesi acconsentirono di buonagrazia ad aspettare l'esito delle cose vivendo per alcunigiorni con gli Spagnuoli, giacchè la loro abitazione eradistrutta.

Passati circa cinque giorni, i tre mariuoli stanchi divagare attorno e pressochè morti di fame, perchè eranovissuti quasi di sole uova di testuggine in tutto questointervallo, vennero al bosco di circonvallazione dellafortezza, ove trovarono il mio Spagnuolo, governatore,devo averlo detto, dell'isola, che passeggiava in compa-gnia d'altri due verso la piccola darsena. Presentatisi alui con modi i più umili, i più sommessi, lo supplicaronoper essere ricevuti un'altra volta in seno di quella fami-glia. Vennero accolti con molta civiltà dagli Spagnuoli.

‒ “Ma cari voi, disse il mio Spagnuolo, vi siete com-portati in un modo sì contrario ad ogni legge della natu-ra, sia co' vostri concittadini, sia con noi, che non pos-siamo passare ad una conclusione senza consultare i due

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Inglesi e gli altri miei compatriotti; nondimeno andere-mo a trovarli, discuteremo questo punto, e fra mezz'orasaprete qualche risposta”.

Figuratevi se que' supplicanti si trovavano alle strette!Per questa mezz'ora che dovevano aspettare la rispostadomandarono che intanto si mandasse loro un poco dipane, il che fu fatto. Anzi per giunta al pane ebbero unbel pezzo di carne di capra ed un pappagallo fatto a les-so, che si divorarono con un'avidità proporzionata allatremenda loro fame.

Dopo la mezz'ora di consulta chiamati innanzi al con-sesso, si discutè a lungo, perchè i loro compatriotti gliaccusavano e della distruzione portata su i loro campi edello stabilito divisamento d'ucciderli; le quali cose gliaccusati non negarono: già i fatti parlavano da sè stessi.Finalmente gli Spagnuoli entrati compromissari fra ledue parti, come avevano obbligati i due Inglesi a nonvenire ad atti contro agli altri tre finchè erano inabili adifendersi e disarmati, così costrinsero i tre a rifabbrica-re le due case atterrate, l'una d'ugual dimensione, l'altradi maggior dimensione della prima, a munire di nuovo icampi donde aveano sterpate le siepi, a piantare altri al-beri in luogo di quelli che aveano schiantati, a lavorarenuovamente il terreno ove aveano distrutta la messe inerba, in somma a rimettere tutte le cose nello stato diprima fin dove potevasi; perchè tutto non era possibile;la stagione della semina trascorsa, il danno d'aspettare iltempo necessario ad aver le siepi e gli alberi cresciutierano cose irreparabili.

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Or bene; accettarono tutte le indicate condizioni, epoichè gli Spagnuoli aveano copia di previsioni per so-stentarli in tutto questo intervallo e non ne furono avari,ogni cosa tornò all'ordine, e quell'intera società comin-ciò per qualche tempo a passarsela bene e di buon'armo-nia. Solamente non vi fu verso di ottenere dai tre chemettessero anch'essi la loro parte di lavoro, se non asbalzi, e quando ne saltava ad essi la voglia. Ciò nonostante gli Spagunoli dissero loro buonamente che pur-chè vivessero d'accordo e amichevolmente insieme edavessero a cuore il bene dell'intera piantagione, si con-tenterebbero di lavorare per loro e di lasciarli andare aspasso e far vita d'oziosi come volevano. Vissuti così unmese o due in buona fratellanza gli Spagnuoli restituiro-no loro l'armi un'altra volta e, come in addietro, condi-scesero ad averli per compagni in tutti i loro diporti.

FINE DEL VOLUME TERZO

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VITA E AVVENTURE

DI

ROBINSON CRUSOÈ.

VERSIONE DALL'INGLESE

DI

GAETANO BARBIERI.

VOLUME IV.

MILANOVEDOVA DI A.F. STELLA E GIACOMO FIGLIO.

----------1839

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Volume IV.

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LXXII. Sbarco di selvaggi.

Non era scorsa una settimana da che i tre Inglesi catti-vi aveano riavute l'armi e la piena loro libertà, allor-quando da vere ingratissime creature tornarono da caponell'essere arroganti ed inquieti. Ma d'improvviso so-pravvenne tale incidente che ponendo a repentaglio lasalvezza e dei buoni e dei cattivi, obbligò tutti indistin-tamente a lasciare in disparte i privati risentimenti perpensare soltanto a difendere le proprie vite.

Accadde una notte che il governatore spagnuolo(chiamo così, come sapete, l'uomo ch'ebbe da me salvala vita e che gli altri veramente riguardavano per lorocapo e condottiero), accadde dunque che quest'uomo inquella notte si sentiva addosso una certa inquietudineper cui non c'era via che potesse dormire. Stava bene disalute, com'egli mi raccontò, ma i suoi pensieri erano ol-tremodo agitati. Non sapeva immaginarsi in sua mentealtro che uomini affaccendati nell'ammazzarsi gli unicon gli altri; e sì era perfettamente desto, nè potea trovarsonno, come vi ho detto. Stette così un bel pezzo, quan-do finalmente, crescendo sempre in lui l'inquietudine,prese il partito di alzarsi. Essendo in tanti, giaceano so-pra pelli di capra stese sopra que' pagliericci che eranoriusciti a farsi da sè stessi; non sopra letti pensili da ma-rinai, come potei fare io ch'ero solo; quella gente perconseguenza non avea per levarsi dal letto a far altro che

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saltare in piedi, e mettersi, se pur se gli erano levati, unsaione e le scarpe. Vedete che erano presto lesti per an-dar dove ne veniva loro il talento. Si portò dunque aguardar di fuori il nostro governatore; ma facendo scurovide ben poco o nulla; oltrechè gli alberi che avevopiantati erano, come ho notato, cresciunti a tal segno diimpedire ogni vista di là dal bosco. Egli pertanto nonvide altro che le stelle del cielo, perchè faceva sereno,nè udì strepito di sorta alcuna. Tornò quindi a coricarsi,ma era tut'uno. Non c'era rimedio per lui di dormire od'acconciarsi a nulla che avesse una somiglianza colsonno. La sua testa era immersa nell'angoscia, e non nesapeva il perchè.

Poichè alzandosi, uscendo, andando, tornando nonpotè di meno di non far qualche strepito, uno della bri-gata svegliatosi gli diede il chi v'ha là. Il governatoredatosi a conoscere spiegò a questo la natura delle in-quietudini che lo premevano.

‒ “Dite da vero? soggiunse l'altro Spagnuolo. Nonson mica cose queste da trasandare, ve lo dico io! Sicu-ramente cova qualche guaio dintorno a noi . . . Aspetta-te! Dove sono gl'Inglesi?

‒ Oh a dormire! il governatore rispose. Da quel latolà per questa volta siamo sicuri”.

A quanto sembra gli Spagnuoli avevano preso posses-so della stanza principale, tenendo sempre nell'ora deldormire segregati da loro, dopo l'ultimo sconcio avvenu-to, i tre Inglesi.

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‒ “Dunque, tornò a ripetere lo Spagnuolo, vedo delmale per aria, chè io credo proprio che ci sia, e parlo peresperienza, fra le nostr'anime imprigionate nel nostrocorpo e fra gli spiriti incorporei ed abitanti d'un mondoinvisibile certa scambievolezza ed intelligenza; l'inquie-tudine senza perchè, di cui mi parlate, è certo un ami-chevole avviso venutone da questi secondi esseri per no-stro utile se sappiamo cavarne profitto. Venite, e andia-mo a scandagliare attorno. Se non troviamo nulla chegiustifichi tal vostra inquietudine, vi conterò poi unastoriella che vi convincerà su la realtà di quanto ho af-fermato”.

Uscirono dunque col proposito di recarsi su la som-mità del monte ov'ero solito d'andar io; ma eglino essen-do forti ed in grossa compagnia non soli come me, nonpraticavano le mie cautele di salirci con una scala amano, poi di tirarmela meco per ascendere sul secondopiano di quell'altura. Indifferentemente, e senza altri ri-guardi, se n'andavano per traverso alla foresta, quandorimasero d'improvviso sorpresi al vedere una luce comedi fuoco in pochissima distanza da essi e all'udire voci,non d'uno o due, ma di una moltitudine d'uomini.

Ogni qual volta io m'accorgeva di selvaggi sbarcatinell'isola la mia costante cura fu sempre quella di far inmodo non s'accorgessero che il paese fosse abitato. Equando capitò l'occasione che s'avvidero di qualchecosa, ciò derivò sempre da qualche avvenimento sì effi-cace che chi fuggiva potea ben dar poco conto di quantoaveva veduto. Io faceva ben presto a sottrarmi alla vista

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di chi non rimanea morto, onde di chi possa essere an-dato a raccontare d'avermi veduto, non ci sono stati chealtro quei tre selvaggi salvatisi entro il canotto nell'ulti-mo nostro scontro, ed in ordine ai quali ebbi, lo dissigià, grande paura non tornassero a casa e conducesseromolti dei loro compatriotti nell'isola.

Se per la voce fatta precorrere da que' tre or menzio-nati i selvaggi fossero questa volta venuti in tanto nume-ro, o se a caso e senza nessuna preventiva cognizione,per cercar campo ad una delle sanguinolente loro spedi-zioni, è quanto gli Spagnuoli non poterono, com'è sem-brato, comprendere. Comunque fosse la cosa, certamen-te la premura degli Spagnuoli avrebbe dovuto esserquella di tenersi nascosti, anche di darsi per non in tesidi nulla, ma non mai di far capire ai selvaggi che il luo-go era abitato; semprechè non fossero riusciti a piombarloro addosso con tanta gagliardia che un solo di essi nontornasse a casa; il che soltanto sarebbe stato possibile sesi fossero collocati fra essi e le loro piroghe. Ma talprontezza di raziocinio non ebbero; la qual mancanza fucagione loro di rovina per lungo tempo.

Niuno dubiterà che il governatore e il suo compagno,sorpresi a tal vista, non tornassero immediatamente aicompagni per partecipar loro l'imminente pericolo chesovrastava all'intera brigata, come non dubiterà del subi-taneo atterrimento onde furono tutti compresi; ma fu im-possibile il persuadere ai medesimi il rimaner chiusi do-v'erano, sì che molti di loro corsero fuori per vederecome le cose stessero.

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Finchè la notte durò, poterono per alcune ore distin-guere sufficientemente questi formidabili ospiti al lumedi tre fuochi che costoro avevano accesi in una certa di-stanza gli uni dagli altri; ma che cosa facessero non locapirono, come, per vero dire, non sapevano che cosadovessero fare essi dal proprio lato; perchè primiera-mente il numero de' nemici era grande; in secondo luo-go non convenivano tutti in uno stesso sito, ma divisi inpiù drappelli, tenevano diversi punti della spiaggia.

Non fu poca la costernazione degli Spagnuoli a tal vi-sta, tanto più che vedendo quella ciurma trascorrere alladistesa tutta la pianura si aspettavano senza fallo che, apiù presto o più tardi, alcun di costoro lor capitasse ad-dosso o a casa, o s'abbattesse in qualche luogo atto adargli indizio che l'isola era abitata. Stavano ancora ingrande inquietudine e paura pel loro armento di capre, lacui distruzione sarebbe stata niente meno d'una sentenzache li condannasse a morire di fame; laonde la prima ri-soluzione che presero fu quella di spedire, prima chespuntasse il giorno, tre nomini, due spagnuoli, uno in-glese, affinchè traessero alla gran valle ov'era la cavernatutto il gregge e anche dentro la caverna stessa se facead'uopo, o se avessero veduto i selvaggi uniti insieme tut-ti in un corpo e a qualche distanza dalle loro piroghe.

Erano già determinati ad assalirli, quando anche fos-sero stati un centinaio; ma questo intento non era spera-bile, perchè alcune bande di costoro stavano disgiunteper ben due miglia dall'altre; anzi, come si venne a sco-prire in appresso, appartenevano a due nazioni diverse.

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Dopo aver pensato un gran pezzo sul partito da pren-dersi, dopo essersi stillati il cervello nel meditare la na-tura del caso, risolvettero finalmente di spedire, finchèduravano le tenebre, il vecchio selvaggio padre di Ve-nerdì, affinchè spiasse e scoprisse quanto potea racco-gliere intorno a coloro: il perchè fossero venuti, che in-tenzioni avessero e simili cose. Presto il vecchio ad as-sumere tale incarico, s'avviò pressochè ignudo, come loerano quegli altri, a quella dirittura. Dopo essere statovia una o due ore, tornò riferendo come gli fosse riusci-to di non esser scoperto da nessuno degli sbarcati; for-mar questi due bande, ciascuna spettante ad una di duenazioni in guerra l'una contro all'altra. Esse, dopo unagrande battaglia avuta insieme su la terra principale con-ducevano, l'una senza sapere dell'altra, diversi prigionie-ri fatti durante il combattimento in una stessa isola perdivorarseli e starsene allegramente. Ma il caso di essersiabbattute in un medesimo luogo avea tolta loro ogni vo-glia di ridere; tanto si odiavano a morte che lo speditoesploratore si aspettava, poichè erano sì vicine, vederlea battaglia allo spuntare dell'alba. Niun indizio per altrogli dinotava che sapessero abitata l'isola. Aveva appenaterminato il suo racconto, quando allo straordinario stre-pito alzato dai selvaggi si venne a capire che i due pic-coli eserciti aveano già attaccata una sanguinosissimazuffa.

Il padre di Venerdì pose in opera quanta rettorica ave-va per indurre gli abitanti dell'isola a starsi ben rannic-chiati in casa e a non lasciarsi vedere. Da ciò dipendeva

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al suo dire la salvezza comune di tutti ; non c'era biso-gno d'altro che di silenzio e di pazienza. “I selvaggi, eglidicea, si scanneranno un pezzo a vicenda, poi i soprav-vissuti se la batteranno”; e dicea puramente la verità.Ma come farla intendere a quelle teste, massimamenteagl'Inglesi, la curiosità de' quali fu tanto superiore adogni riguardo di prudenza che vollero correre a vederela battaglia co' propri occhi. Se vogliamo, usarono in ciòdi qualche cautela: cioè non si posero all'aperto, nè invicinanza della loro abitazione, ma s'internarono ne' bo-schi. donde potevano contemplare a tutto loro agio lazuffa e non essere veduti, così credevano: ma sembraveramente che i selvaggi li vedessero, come apparirà inappresso.

Furiosa fu la battaglia e (se ho da credere agl'Inglesi,un de' quali parlava dietro quanto diceva d'aver veduto)alcuni di que' selvaggi erano gente dotata di grande va-lore, d'indomabile coraggio e di sommo accorgimentonell'arte della guerra. Il combattimento, mi narraronogl'Inglesi, durò due ore senza che potesse capirsi da qualparte la vittoria inclinasse; ma in termine a queste dueore, la schiera che combattea più vicino all'abitazione,de' nostri, cominciò ad apparire più debole, e dopo unaltro poco alcuni di que' combattenti si diedero allafuga. Questo avvenimento pose i nostri nella massimacosternazione, perchè temettero che qualcuno de' fuggi-tivi cercando rifugio nella selva piantata dinnazi allafortificazione, la scoprisse, senza averne al certo la vo-lontà, ai suoi persecutori, i quali sarebbero per conse-

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guenza venuti ugualmente a cercarli quivi. In vista diciò risolvettero di tenersi armati al di dentro dell'ultimacirconvallazione; poi, al primo accorgersi di selvaggivenuti nel bosco esterno, di fare una sortita e di uccider-li tutti affinchè, se era possibile, non restasse un di loroper portar le notizie di quanto aveva veduto fuori dell'i-sola. Divisarono ad un tempo che gli uomini uccisi losarebbero o dalle loro spade o dai calci de' loro archibu-gi, affinchè lo strepito degli spari di nessun'arma da fuo-co non mettesse in trambusto i lontani.

Le cose accaddero come se le erano immaginate. Trefuggitivi dell'esercito sbaragliato, dopo avere attraversa-ta quella ch'io chiamava mia darsena, corsero diretta-mente al luogo indicato, non perchè sapessero menoma-mente dove andassero, ma come chi cerca di salvare lavita si rifugge in un bosco. I nostri avevano avuto avvi-so di ciò dall'esploratore tenuto attorno alla vedetta, ilquale a questo avviso ne aggiunse un altro che riuscì atutti gratissimo: va le a dire che i vincitori o non inse-guivano i fuggiaschi o non si erano accorti qual via que-sti avessero presa. Per la qual cosa il governatore spa-gnuolo, uomo pieno di sentimenti d'umanità, non accon-sentì che a que' tre fuggitivi si desse la morte. Unica-mente, mandati tre de' suoi dalla parte della sommitàdella montagna ordinò loro di circuirli, prenderli allespalle e farli prigionieri, il che venne eseguito.

Il rimanente de' vinti salvatosi ne' loro canotti si com-mise al mare. I vincitori che, o non gl'inseguirono o benpoco il fecero, si aggrupparono insieme mettendo due

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possentissimi ululati che supponemmo un segnale digioia per la riportata vittoria. Così terminata la battaglianello stesso giorno, a tre ore a un dipresso dopo il mez-zodì, anche i secondi s'imbarcarono ne' loro canotti.Laonde gli Spagnuoli ebbero libero nuovamente per sèla loro isola; i loro timori si dissiparono; per varii anniappresso non videro più selvaggi.

Appena partiti questi, gli Spagnuoli uscirono di tanaper andar ad esaminare il campo di battaglia ove trova-rono trentadue morti all'incirca, quali trapassati da lun-ghe freccie di cui alcune stavano tuttavia infitte ne' lorocorpi, quali, e saranno stati sedici o diciassette, finiti acolpi di sciabole di legno. Sparso vedevasi il campod'archi e d'un numero maggiore di frecce. Di stravaganteforma erano le sciabole, cosacce grandi, mal manegge-voli, e ben si capiva dover essere stati uomini straordi-nariamente gagliardi coloro che le adoperavano. Moltifra gli sgraziati che quest'armi distrussero non erano piùche un miscuglio di brani, e sarebbesi detta una fricas-sea di cervelli di braccia e di gambe; tanto appariva evi-dente l'accanimento e il furore di costoro nel battersi.Un sol uomo non si rinvenne che non fosse morto deltutto, perchè ciascuno di que' formidabili duellanti o in-dugiava tanto che il suo nemico fosse definitivamentetolto di vita o si trasportava seco i feriti che tuttavia ago-nizzavano.

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LXXIII. Stato della colonia per tre successivi anni.

Questa liberazione rese più mansueti per qualchetempo i nostri Inglesi. Gli avea compresi d'orrore tuttoquanto aveano veduto, e la prospettiva che tutto ciò pre-sentava atterrivali: soprattutto l'idea di potere un dì ol'altro cader tra gli artigli di tali viventi che non sola-mente gli avrebbero uccisi come nemici, ma come cosabuona a mangiarsi, ed avrebbero per conseguenza usatocon essi nella stessa guisa onde usiamo noi con le nostregreggie. Eglino stessi mi confessarono che il pensiere diessere mangiati a modo di castrati o di buoi, ancorchèfosse a credersi che tal disgrazia non interverrebbe lorose non dopo morti, ingombrarono le loro menti d'un sif-fatto terrore che per molte settimane non ravvisavanopiù sè in sè medesimi. Ciò, come dissi, addimesticò i trebrutali Inglesi de' quali ho parlato più volte onde per unbel pezzo divennero trattabili e si prestarono sufficiente-mente alla comune bisogna della società; piantarono, se-minarono, Diedero l'opera loro nel fare i ricolti: in som-ma si erano fatti quasi originari della terra nella qualevivevano. Ma passato qualche tempo, tornarono da capocol farne delle loro, motivo per cui si videro ad un brut-to repentaglio.

Furono dessi che fecero prigionieri i tre selvaggi fug-gitivi da me commemorati poco fa, e poichè questi era-no bei pezzi di giovinotti vigorosi, gli adoperaronocome servi avvezzandoli a lavorate per essi; e questi tut-

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ta l'opera che può da uomini schiavi prestarsi, la presta-rono sufficientemente. Ma i loro padroni non si regola-rono come feci io col servo mio Venerdì, partendo dalprincipio di compier l'opera mia di beneficenza dopoavere salvata la vita ad un uomo. Non instillarono loro,nè certo il poteano, veruna massima di morale, moltomeno di religione; nessuna di civiltà, niuna cura ebberodi affezionarseli con le buone maniere anche quandov'era il caso di correggerli. Distribuivano ad essi il ciboogni giorno a proporzione dei lavori e solo in lavori ab-bietti gli adoperavano. In ciò la sbagliarono, tanto piùche non poterono mai contare d'avere in questi servi de-gli uomini amorosi e pronti a battersi per essi come fuper me Venerdì, attaccato sempre alla mia persona quan-to mai la carne può esserlo all'osso.

Tornando adesso agli affari domestici, essendo or tuttidiventati buoni amici, perchè la comunanza del perico-lo, come notai, gli avea riconciliati, cominciarono a pen-sar seriamente alle generali circostanze dell'intera colo-nia. La prima cosa offertasi alla loro considerazione fuquesta: se, avendo eglino osservato che gli sbarchi de'selvaggi accadeano soprattutto su quel lato d'isola e chein maggior distanza e in più spartata situazione vi eraterreno ugualmente ed anzi a vista d'occhio più acconcioal modo loro di vivere, se fosse convenuto un trasloca-mento d'abitazione in altra parte ove fossero meglio as-sicurate non solo la personale loro salvezza ma quelladegli armenti e delle biade; secondo oggetto che nellasua importanza si confondeva col primo.

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Ciò non ostante dopo una lunga discussione concluse-ro di continuare ad abitare dove erano, perchè, non du-bitando eglino una volta o l'altra di non udir notizie delloro governatore (era io questo tale), si figuravano anco-ra che, se avessi mandato qualcuno a cercarli, lo avreicertamente addirizzato laddove stavano adesso; mentre,se le persone da me spedite avessero trovato spianato illuogo, ne avrebbero concluso che fossero stati tutti ucci-si, andati in fumo; nella quale supposizione sarebbe an-che andato in fumo ogni soccorso che si potesse sperareda quella sgraziata colonia.

Solamente rispetto ai campi da lavoro e ai chiusi de-gli armenti convennero su le prime di trasportarli affattonella valle ov'era la mia caverna, situazione adatta adentrambi gli oggetti, e che veramente offriva terreno ba-stante per l'una e l'altra delle due cose. Nondimeno,dopo una seconda riflessione, cambiarono in parte anchequesto divisamento col decidere di mandare unicamenteuna porzione di greggia nell'indicata valle e di fare inquesta una parte soltanto de' loro piantamenti e semine.Così, dicevano essi, se una porzione fosse stata distrutta,ne sarebbe stata salva un'altra porzione. Ebbero per lorofortuna un altro giudizio: quello cioè di tener sempre na-scosto ai tre selvaggi, fatti recentemente prigionieri, cheaveano posta questa nuova piantagione nella valle, e chevi stesse nessuna parte d'armento; molto meno gl'infor-marono della caverna che si serbavano ad un caso di ne-cessità come un luogo sicuro di rifugio. Anzi in questa

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trasportarono i due barili di polvere che mandai loro nelvenir via di lì.

Quanto all'abitazione dunque risolvettero di non can-giarla. Soltanto, convinti or pienamente che ogni lorosalvezza dipendeva affatto dal tenersi ben celati, noncontenti alla mia cinta di fortificazione e al bosco ondein appresso l'avevo circondata, cercarono di nasconderequesto luogo anche di più. A tal fine come io avevapiantati alberi (o piuttosto pali che col tempo mi diven-nero alberi) per un bel tratto di distanza dall'ingressodella mia abitazione, così eglino fecero affatto boscodallo spazio ove finivano gli alberi posti da me sino alpiccolo porto ove, come ho già narrato mettevo all'ánco-ra la mia flotta, non lasciando vuoto nemmeno quel po'di terreno non abbandonato mai del tutto dall'alta mareanel suo ritirarsi, laonde non si vedeva all'intorno il me-nomo indizio di terreno che offrisse la possibilità di unosbarco. Que' pali d'altronde, come ve ne informai sin daprima, facevano presto a metter frasca, ed i coloni sierano fatto uno studio di sceglierne dei più alti e grossidi quelli da me posti in opera. Tra la prestezza di queglialberi nell'ingrandire e la sollecitudine de' piantatori dimetterli ben serrati l'un presso l'altro, non passarono treo quattro anni che non lasciavano spazio di sorta alcunaalla vista onde giungere per traverso ad essi, nè poco nèassai, nell'interno della fortezza cui faceano riparo. Se siaggiunga che gli alberi da me piantati prima erano arri-vati alla grossezza di una coscia umana, e che tra questierano stati messi, ma fitti oltre ogni dire, altri pali più

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corti che ingrossarono essi pure, si capirà facilmentecome ciò formasse una specie di muraglione della spes-sezza di un quarto di miglio, muraglione che era quasiimpossibile il superare per chi non avesse condotto consè un piccolo esercito per atterrarlo: v'assicuro io che unbotolo il più pigmeo della sua razza avrebbe stentato apassarci per mezzo.

Ma tutto non finiva qui; perchè aveano fatto lo stessonel rimanente spazio che tenea la destra e la sinistra etutt'all'intorno e fino al piede della collina sovrastantealla fortezza, non riserbando nemmeno a sè stessi unavia per uscire, fuor quella della scala a mano che appog-giavano ad un fianco del monte, poi saliti al primo spia-nato se ne valevano nuovamente per giungere alla som-mità. Ritirata in dentro la scala, nessuno non provedutod'ali, o senza aiuto di magia, arrivava sino ad essi. Ciòera stato immaginato ottimamente, nè fu meno del biso-gno come ne fecero l'esperienza più tardi. La qual cosavalse a convincermi sempre più che, come la prudenzaumana si fonda su le leggi della Providenza, così ha laProvidenza stessa per direttrice de' propri atti, e se neascoltassimo ben attentamente la voce, eviteremmo, nonne dubito punto, la massima parte di que' disastri cui pernostra sola negligenza vanno soggette le nostre vite. Maquesto in via di digressione e torniamo alla nostra storia.

Due anni dopo gli avvenimenti narrati, i miei coloni,vissuti in perfetto accordo fra loro, non ricevettero piùvisite dai selvaggi. Ebbero, per vero dire, una mattina talmala paura che li pose nella massima costernazione;

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perchè alcuni Spagnuoli portatisi di buon mattino al latoo piuttosto all'estremità meridionale dell'isola (a quellaparte fin dove non avevo mai avuto il coraggio d'innol-trarmi io per timore di essere scoperto), rimasero sorpre-si al vedere circa una ventina di canotti indiani che s'av-vicinavano alla spiaggia. Fatto buon uso, ve ne accertoio, delle proprie gambe per correre a casa, portarono lospavento tra i loro compagni che restarono chiusi incasa tutto quel giorno ed il successivo, uscendo soltantodi notte per fare le loro osservazioni. Ma ebbero la buo-na sorte di essersi ingannati, perchè, qualunque sia statoallora il disegno dei selvaggi, certo non approdarono al-l'isola, e si volsero a tutt'altra parte.

LXXIV. I tre mascalzoni tornano ad imperversare.

Fuvvi ora un nuovo soggetto di rissa coi tre Inglesi.Un di costoro, il più inquieto di tutti, adiratosi con unode' tre schiavi (un di que' tre selvaggi fuggitivi che gl'In-glesi, come dissi altrove, aveano preso al loro servizio)perchè non faceva esattamente quanto il padrone gliavea comandato o si mostrava forse indocile nel prestar-si alle sue istruzioni, si trasse un segolo dalla cintura,non per farlo ravvedere intimorendolo, ma a diritturaper ammazzarlo. S'abbattè ivi uno Spagnuolo che videquando il cialtrone, mirando alla testa del poveretto, locolpì in vece col segolo su la spalla, ma sì spietatamenteche ne credè troncato il braccio. Raccomandatosi tosto

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perchè il ribaldo non finisse quella misera creatura, sipose fra essa e lui onde impedire di peggio. Inferocitosempre di più lo sgraziato, levò la sua arma su lo Spa-gnuolo, giurandosi pronto a fargli lo stesso servigio chevolea fare al selvaggio. Accortosene in tempo lo Spa-gnuolo, schivò il colpo con la pala che tenea fra le mani,perchè stavano allora tutti intenti ai lavori della campa-gna, indi riuscì a stramazzare quell'uomo brutale.

Accorse tosto in aiuto del suo compagno un altro In-glese che buttò per terra lo Spagnuolo. Com'è naturale,s'affrettarono a difendere l'uomo di lor nazione due Spa-gnuoli; indi il terzo Inglese piombò addosso a questi.Niuno in tale mischia aveva armi da fuoco o d'altro ge-nere che non fossero stromenti d'agricoltura, eccetto ilprimo Inglese che lavorava di segolo, ed il terzo soprav-venuto che, armato d'un mio stocco irrugginito mise amal partito i due Spagnuoli e li ferì entrambi.

Fu una faccenda che pose nel massimo sconquassol'intera famiglia, ed essendo allora giunti molti Spa-gnuoli in aiuto dei loro furono finalmente fatti prigionie-ri i tre Inglesi. Si cominciò indi a pensare che cosa sidovesse far di costoro. Aveano sì spesso disturbata lacomunità; erano sì furiosi, sì irragionevoli e d'altrondetanto disutili, che non si sapea come farla con uominitanto ribaldi, ed i quali contavano sì poco il far male ailoro simili che da vero era un mal vivere con essi.

Lo Spagnuolo, che sosteneva ivi gli ufizi di governa-tore, disse schietto a costoro che, se fossero stati del suostesso paese, gli avrebbe fatti senz'altre cerimonie im-

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piccare, perchè tutte le leggi e tutti i governi erano isti-tuiti per la salvezza della società, e chiunque portava pe-ricolo alla società ne doveva essere estirpato; ma che es-sendo inglesi, e andando egli debitore della propria vitae liberazione alla generosità di un Inglese, voleva usareloro ogni possibile indulgenza, e conferiva quindi ailoro compatriotti (que' due che passavano per buoni)l'arbitrio di giudicarli.

Un di questi due levatosi in piedi pregò per essere, luie il suo compagno, dispensati da tale incarico.

‒ “Perchè diss'egli, se stesse a noi il sentenziarli, nonpotremmo far altro che mandarli alla forca”.

E qui raccontò come Guglielmo Atkins uno dei tre ri-baldi avesse fatta ai suoi compatriotti la proposta diunirsi insieme e accoppare tutti gli Spagnuoli mentrefossero addormentati.

All'udire questa bagattella il governatore spagnuolo sivolse a Guglielmo Atkins:

‒ “Come, signor Guglielmo Atkins? Volevate dunqueaccopparci tutti? Che cosa avete da rispondere a questaaccusa?”

L'impudente mascalzone lungi dal negare il fatto,anzi disse:

‒ “Voglio essere dannato se non ci riusciamo primache la sia finita.

‒ Bravo, signor Atkins! soggiunse il governatore. Eche male vi abbiamo fatto perchè ci vogliate morti? Eche cosa ci guadagnereste coll'ammazzarci? Or ditemi,che dobbiamo dunque far noi per impedirvi di scannar-

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ci? Dobbiamo lasciarci ammazzar da voi, o ammazzarvoi? Perchè metterci a questa stringente alternativa, si-gnor Atkins?”

E nel dir così lo Spagnuolo sorrideva, e serbava lamassima calma. Il signor Atkins al vedere come lo Spa-gnuolo prendesse la cosa in ridere, era montato in talrabbia che, se tre non lo avessero tenuto, e non fossestato disarmato, era da credersi si sarebbe avventato algovernatore, e lo avrebbe ucciso in mezzo all'intera bri-gata.

Questo disperato matto gli obbligò da vero tutti a me-ditare sul serio il partito da prendersi. I due Inglesi, buo-ni e lo Spagnuolo che campò da morte il povero selvag-gio, erano d'avviso si dovesse impiccare uno di que tresgraziati per servire d'esempio agli altri, e impiccare apreferenza colui che avea tentato due volte di commette-re un omicidio col suo segolo. Anzi vi era motivo di cre-dere che, rispetto al selvaggio, l'omicidio non fosse statounicamente tentato, perchè questo povero diavolo era sìmalconcio dalla ferita ricevuta che dava ben poche spe-ranze di vita. Ma il governatore spagnuolo fu di parerecontrario.

‒ “No, egli disse; fu un Inglese l'uomo che ha salvatele vite di tutti noi; nè acconsentirò mai che un Inglesesia mandato alla morte quand'anche avesse uccisa lametà dei nostri. Vi dirò di più: se avesse ferito a morteme stesso, e mi restasse il tempo di parlare, le ultimemie parole prima di morire sarebbero quelle del suo per-dono”.

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Questa sentenza fu sostenuta con termini tanto positi-vi dal governatore che non vi fu luogo ad opposizione.D'altronde i partiti più misericordiosi, ove sieno peroraticon tanta energia, sono sì atti a prevalere su gli animi,che tutti vennero nel parere del governatore. Bisognònondimeno pensare alle maniere onde impedire a que'tre sciagurati di fare il male che avevano divisato; per-chè tutti sentivano, e il governatore esso pure, la neces-sità di adottare provedimenti atti a salvare la società daipericoli che la minacciavano.

Fu questo il soggetto di una lunga discussione, dopola quale fu stabilito:

Che i tre colpevoli rimanessero disarmati, nè si la-sciassero loro o moschetti, o polvere, o palle, o stocchi oaltra sorta d'armi.

Che fossero espulsi dalla società, liberi per altro an-dar a vivere laddove, e come avessero voluto, purchèniuno della società che li bandiva, o spagnuolo o Ingle-se, conversasse con essi, parlasse loro o avesse con loroverun genere di consorzio.

Proibito loro d'innoltrarsi fino ad un prefisso raggiodi distanza dal luogo ove abitavano gli altri.

Che se poi si fossero arrischiati a commettere qualun-que sorta di disordini, come depredazioni, incendii, omi-cidii, guasti di campi, di plantagioni, di edifizi, siepi, ogreggia spettanti alla società, sarebbero stati irremissi-bilmente uccisi e trattati come fiere, ovunque fosserostati colti.

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Il governatore, uomo di viscere umanissime, dopoprofferita una tale sentenza, si fermò un poco a pensarcisopra, poi voltosi ai due Inglesi buoni, disse:

‒ “Aspettate! bisogna considerare che ci vorrà un belpezzo prima che possano da loro far nascere grano e al-levarsi una greggia. Non è poi giusto che muoiano difame e conviene vettovagliarli”.

Fece pertanto aggiungere alla sentenza che si desseloro una quantità di biade proporzionata, sia pel loro nu-drimento, sia per la loro seminagione, al bisogno di ottomesi avvenire, nel qual tempo era a supporsi che sareb-bero in caso di provedersi da sè medesimi; che allo stes-so fine si potessero portare via sei capre madri per mun-gerle, quattro capri, sei capretti. Furono parimente ac-cordati a costoro stromenti pei lavori della campagna,consistenti in sei accette, un pennato, una sega e similiattrezzi, col patto per altro di non averli in loro proprie-tà, finchè non avessero giurato solennemente di non va-lersi di essi a pregiudizio di veruno Spagnuolo o lorocompatriotto.

Così disfattasi di costoro quella comunità, lasciò ches'ingegnassero a trarsi d'impaccio come avrebbero potu-to da se medesimi. Essi partirono con le ciere accigliatee malcontente di chi non vorrebbe nè andare nè rimane-re; ma qui non c'era rimedio. Partirono dunque dando aconoscere l'intenzione di cercare un luogo ove collocarsistabilmente; nè gli altri omisero provederli di diversecose, eccetto che d'armi.

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Di lì a quattro o cinque giorni tornarono, a lasciarsivedere per chiedere alcune vettovaglie, nella qual circo-stanza raccontarono al governatore ove avessero pianta-te le loro tende con l'idea di mettere ivi la propria abita-zione e piantagione, luogo convenientissimo, per dirvero, e situato in una delle più remote parti dell'isola,molto più in là a greco (nord-est) da quel punto di terrache la providenza mi permise raggiugnere quando fuitrasportato in alto mare, Dio solo sa dove, in quel mattomio tentativo di far costeggiando il giro di tutta l'isola.

Quivi si fabbricarono due capanne non prive di garbo,modellandosi su la mia prima abitazione il che riuscìloro tanto più agevole perchè il sito da essi prescelto eraprotetto da un lato dal fianco d'un monte e già prevedutod'alberi dai tre altri lati, onde col piantarne de' nuovi po-teano facilmente celarsi ad ogni sguardo, semprechè unonon si fosse fatto un espressissimo studio di scoprire laloro dimora. Avendo essi chieste alcune pelli secche dicapra per farsene letti e coperte, le ottennero, oltre a di-verse accette e stromenti d'agricoltura, di cui gli altri co-loni poterono spropriarsi, dietro sempre la parola forma-le data dai proscritti che non se ne sarebbero valsi a di-sturbare la quiete o a danneggiare le piantagioni deglialtri. Ebbero pure e legumi e orzo e riso da seminare, insomma quanto mancava loro, fuorchè armi da offesa omunizioni.

Vissuti in questa segregata condizione sei mesi all'in-circa, furono fortunati nel primo loro ricolto, benchè, at-teso la poca area di terra che aveano posta a coltura, non

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comparisse di soverchio abbondante. E da vero, doven-do essi creare affatto di nuovo la loro piantagione, nonavevano una piccola briga su le spalle. Quando poi ven-nero al punto di fabbricarsi da sè e tavole e pentole estoviglie di simil natura, si videro del tutto fuor del loroelemento, onde non vennero a capo d'alcuno di tali lavo-ri. Anzi, sopraggiunta la stagione delle piogge, per nonavere un luogo ove mantenere asciutto il grano, corserogrande pericolo che andasse a male, emergente che lipose in grave costernazione; laonde si raccomandaronoagli Spagnuoli che volessero aiutarli nello scavare unagrotta nel monte da cui erano spalleggiati. Acconsentiro-no questi di tutto buon grado, nè passarono quattro gior-ni che aveano terminata per quegli sgraziati una grottaampia abbastanza per custodirvi e riparar dalla pioggiail grano e quant'altre cose volevano. Ad ogni modo que-sta grotta era una gran meschina cosa almeno a parago-ne della mia, soprattutto dopo che gli Spagnuoli l'avea-no grandemente ampliata e fatti dentro essa appartimen-ti novelli.

LXXV. Migrazione de' tre mascalzoni e inaspettato loro ritorno.

Trascorsi nove mesi dopo questa separazione, i trefurfanti furono presi da una nuova fantasia che, pergiunta alle prime bricconate commesse dianzi, non soloportò bastantemente disgrazia ad essi, ma poco mancò

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non fosse la rovina dell'intera colonia. Cominciati, sem-bra, a stancarsi della vita affaticata che conduceano, nèsperando di migliorare così la propria condizione, saltòa costoro il ghiribizzo d'intraprendere un viaggio a quelcontinente donde approdavano i selvaggi nell'isola, eprovare se fosse ad essi riuscito l'impadronirsi d'alcunide' prigionieri fatti da que' nativi, indi condurseli a casaper incaricarli poscia della parte più gravosa delle lorofatiche.

Il disegno non potea dirsi cattivo se si fossero tenutientro questi limiti; ma coloro non facevano o non pensa-vano cosa in cui non fosse alcun che di tristo o nel divi-samento o nell'esito; e, se mi è lecito il profferire qui lamia opinione, viveano propriamente sotto l'influsso del-la maledizione celeste. Di fatto, se non ammettessimouna manifesta maledizione che castigasse i manifesti de-litti, come altrimenti potremmo conciliare gli eventi conla divina giustizia? Fu del certo un'apparente punizionedei loro precedenti atti di ammutinamento e di pirateriaquella che li trasse allo stato in cui si trovavano.

Nè contenti a non mostrare il menomo rimorso per leantiche colpe, aggiunsero ribalderie a ribalderie, sicco-me fu l'orrida crudeltà di percuotere con un'accetta quelpovero schiavo non reo d'altro che di non aver eseguitoa dovere, o forse non inteso il comando datogli, e per-cuoterlo in modo da lasciarlo storpio per tutta la vita inun luogo ove non si trovavano nè medici nè chirurgi chepotessero curarlo; e il peggio si era che fu questo, quan-to all'intenzione, un vero assassinio, come lo era stato il

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disegno pattuito in appresso fra loro di trucidare a san-gue freddo tutti gli Spagnuoli mentre dormivano.

Ma lasciamo da banda le osservazioni torniamo allanostra storia. I tre furfanti per mettere in opera il loro di-segno ricorsero ad un sutterfugio; onde venuti una mat-tina all'abitazione degli Spagnuoli, chiesero coi modi ipiù umili di essere ascoltati. Secondata di tutto cuore da-gli Spagnuoli la loro inchiesta, ecco le cose che espose-ro:

‒ “Da vero non possiamo durarla alla vita che faccia-mo. Noi non siamo abili al lavoro abbastanza per procu-rarci da noi le cose di cui manchiamo e, privi d'aiuto,prevediamo che un dì o l'altro morremo di fame. Se voivoleste lasciarci uno de' vostri canotti, entro cui potessi-mo imbarcarci e fornirci armi e munizioni proporzionateal bisogno della nostra difesa, noi imprenderemmo unviaggio al continente per cercare ivi se ne riuscisse diavere più buona fortuna. Così anche voi sareste liberidalla molestia di farci novelle sovvenzioni di viveri”.

Certamente non pareva una disgrazia agli Spagnuoliil liberarsi da questi galantuomini; pure, onesti com'era-no, non si stettero dal fare ad essi rimostranze, tutte inte-se al miglior loro interesse.

‒ “Figliuoli, voi volete correre in braccio alla vostradistruzione. Nel paese ove vi prefiggete di andare, ab-biamo passati troppi disastri per potervi pronosticare,senza spirito di profezia, che ci morrete o affamati oscannati. Pensate bene ai casi vostri.

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‒ Qui già, replicarono audacemente i mascalzoni,morremmo di fame sicuramente perchè non abbiamo nèforza nè volontà di lavorare. Il peggio che possa acca-derne è morir di fame anche dove anderemo. Se poi ciammazzano, la morte fa finire tutte le disgrazie. Noi nonabbiamo nè donne nè ragazzi che ci piangano dietro. Insomma (soggiunsero rincalzando con insistenza la loroinchiesta), se acconsentite alla nostra domanda, bene; seno, anderemo anche se non ci date armi.

‒ Quando poi siate così risoluti d'andarvene, soggiun-sero gli Spagnuoli con la massima cortesia, non permet-teremo che partiate ignudi ed in istato da non potervi di-fendere. E benchè d'armi da fuoco non ne abbiamo trop-pe nemmeno per noi, nondimeno vi daremo due mo-schetti ed una pistola, cui aggiugneremo una spada piat-ta e a ciascuno di voi una scure, che è quanto dovrebbebastarvi”.

In una parola costoro accettarono l'offerta. Gli Spa-gnuoli fecero cuocere per essi tanto pane quanto baste-rebbe per un mese, li providero di carne di capra perquel tempo che potea mantenersi fresca, di un gran pa-niere di zibibbo, di un vasto recipiente d'acqua dolce ol-tre ad un capretto vivo; indi i tre Inglesi arditamente siavventurarono sopra un canotto ad una traversata diquaranta miglia a un dipresso di mare.

Il canotto era sì ampio che avrebbe servito a traspor-tare quindici o venti nomini; troppo grosso anzi per es-sere governato da tre soli uomini. Nondimeno aveanoper sè buon vento e alta marea, onde i presagi del viag-

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gio apparvero felici abbastanza. D'un lungo palo si era-no formato l'albero, ed una vela con quattro pelli di ca-pra secca, non so se cucite o connesse insieme con strin-ghe. Si mostrarono bastantemente allegri nell'andarsene,e gli Spagnuoli dissero loro ben volentieri buon viaggio;nè nessuno dell'isola si aspettava di tornarli a vederemai più.

Gli Spagnuoli andavano spesse volte facendo consi-derazioni, or fra loro or co' due Inglesi buoni rimasti ad-dietro, su la vita piacevole e tranquilla che si conduceada che quegl'inquieti cialtroni se ne erano andati, perchèche questi tornassero addietro era la cosa la più lontanadi tutte dalla loro immaginazione. Pure a voi! dopo ven-tidue giorni d'assenza un de' due Inglesi rimasti che erafuori ai lavori della sua piantagione, vede in distanza ve-nirsi in verso tre stranieri armati.

Corso addietro in fretta, come se avesse veduto il dia-volo, l'Inglese si presentò tutto spaventato ed attonito algovernatore spagnuolo.

‒ “È finita, gli disse, per noi, perchè ho veduto trestranieri sbarcati nell'isola; non so poi dire chi sieno.

‒ Come sarebbe a dire? rispose dopo una breve pausail governatore. Non sapete chi sieno? sicuramente sel-vaggi.

‒ No, no; uomini vestiti ed armati come noi.‒ Di che cosa dunque vi prendete fastidio? soggiunse

lo Spagnuolo. Se non sono selvaggi, bisogna credereche sieno amici. Evvi sopra la terra nazione cristiana

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che nel caso nostro non volesse farci del bene anzichèdel male?”

Mentre s'intertenevano in tale discussione arrivaronoi tre noti viaggiatori che, fermatisi fuor del bosco pianta-to recentemente, si diedero a chiamar per nome gli altricoloni. Riconosciutene tosto le voci ogni stupore dellaprima natura cessò, ma un altro di diverso genere ne su-bentrava, Come andava questa faccenda? Qual motivoaveva indotti costoro a tornare indietro?

Non passò molto prima che fossero introdotti e richie-sti dove fossero andati, che cosa avessero fatto? Un diloro diede in poche parole il compiuto ragguaglio di tut-ta questa spedizione.

In due giorni o poco meno furono a veggente dellaterra che cercavano; ma accortisi che i nativi posti inagitazione dalla loro comparsa, preparavano archi e dar-di per combatterli, non ardirono approdare, e veleggia-rono per sei o sette ore verso tramontana, finchè giuntiad una grande imboccatura si avvidero che quanto dastare nella nostra isola prendevano per un continente eraun'altra isola. Appena entrati in questo canale videro unanuova isola a mano destra, a tramontana, e parecchie al-tre a ponente. Risoluti di approdare ad ogni costo aqualche spiaggia, si trassero ad una di quelle isole piùoccidentali, ove effettuato coraggiosamente il loro sbar-co, trovarono una popolazione assai cortese e sociabilis-sima, perchè li regalò tosto di molte radici e di un pocodi pesce secco. Anzi le donne, non men degli uomini, siaffrettavano ad andare in traccia di cose buone a cibar-

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sene e a portarle di lontano su le proprie teste agli ap-prodati stranieri.

Questi rimasero colà quattro giorni, durante i quali,informatisi siccome meglio il potevano per segni su lenazioni che abitavano qua e là in quelle spiagge, udiro-no come parecchie feroci e terribili genti vivessero daper tutto in que' dintorni, gente che, come que' selvaggifecero capire a cenni, mangiavano gli uomini. Essi noper altro che diedero a comprendere di non mangiar maiuomini o donne, fuorchè presi in guerra; allora sì, con-fessarono che faceano grande gozzoviglia e mangiavanoi loro prigionieri.

Gl'Inglesi chiesero quando sarebbe che farebbero unbanchetto di simil natura. I selvaggi risposero che ciòsarebbe avvenuto di qui a due lune, accennando la lunae con le dita il numero due; che il loro gran re aveva al-lora duecento prigionieri da lui fatti in guerra, e ch'essinudrivano perchè fossero ben grassi al momento delprossimo banchetto. Gl'Inglesi mostrarono forte deside-rio di vedere quegli sgraziati; curiosità che fu frantesadagl'isolani, i quali credettero che gli stranieri bramasse-ro averne non so quanti per portarseli via seco e man-giarseli. Come intesero dunque risposero additando laparte del tramonto e la parte del nascer del sole. Ciò vo-lea dire che nella successiva mattina avrebbero portatiloro alquanti di questi prigionieri. Di fatto la mattinatratti fuori del loro chiuso undici uomini e cinque donne,ne fecero presente agl'Inglesi affinchè se li portasseroseco nel viaggio, nella stessa maniera onde noi condur-

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remmo al porto d'una città mercantile un branco di vac-che e di buoi per vettovagliare un bastimento.

Comunque brutali e disumani si fossero mostrati ver-so i loro compagni que' tre malandrini, i loro stomachi atal vista si rivoltarono. Ma in tal caso non sapeano trop-po a qual partito appigliarsi. Ricusare i prigionieri sa-rebbe stato il più alto affronto che potesse farsi alla sel-vaggissima cortesia di que' donatori; mostrarsi grati aldono nella maniera che questi s'immagnavano, no viva-dio! In fine dopo qualche discussione decisero di accet-tare il dono e offrire in contraccambio ai selvaggi un'ac-cetta, una chiave frusta, un temperino, sei o sette palleda moschetti, delle quali cose, benchè non ne conosces-sero l'uso, i presentati mostrarono compiacersi assaissi-mo; laonde legate le mani di quelle povere creature, letrascinarono nel canotto dei nostri navigatori, che si vi-dero alla necessità di salpare alla presta. Perchè certo, seavessero indugiato, niente niente, coloro da cui venivaun così nobile donativo si sarebbero aspettati che i trestranieri si mettessero a fargli onore col macellare due otre di quegli animali uomini e convitando in oltre i do-natori al banchetto.

Si congedarono dunque dai selvaggi abbondando conessi di tutti quegli atti di rispetto e di ringraziamento chepossano praticarsi fra due bande d'individui nessuna del-le quali è buona d'intendere una sola parola che vengapronunziata dall'altra. Dato indi vela, tornarono addietrodirigendosi alla prima isola che vedeano. Quivi sbarcati,

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misero in libertà otto di que' prigionieri, perchè tutti albisogno loro erano troppi.

Durante il viaggio, s'ingegnarono di porsi in qualchecomunicazione co' prigionieri conservati, ma era impos-sibile il fare capire ad essi veruna cosa. Quanto venissedetto o somministrato loro o fatto per loro, quegl'infelicilo aveano per un apparecchio di morte. Prima di tuttogl'Inglesi gli sciolsero; le povere creature si diedero adurlare, massimamente le donne, come se già si sentisse-ro il coltello alla gola. Veniva dato ad essi del cibo? Eralo stesso: ciò si facea, secondo loro, per paura che sma-grissero troppo e divenissero men atti al proposito di cu-cinarli. Qualcuno di essi si vedea guardato con qualche,occhio di parzialità? Si scandagliava qual di loro fossepiù grasso per farlo primo nel macellarlo. Ogni giorno sivedeano trattati anche meglio e più affabilmente, ognigiorno s'aspettavano sempre più di divenire l'imbandi-gione del pranzo o della cena dei novelli loro padroni.

Qui stava l'intero sunto del viaggio di que' tre naviga-tori.

LXXVI. Aumento della colonia e nozze convertitein una lotteria.

Udita questa pressochè incredibile storia o giornale diviaggio, gli Spagnuoli chiesero agl'Inglesi ove fossequesta nuova loro famiglia?

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‒ “L'abbiamo sbarcata, fu risposto loro, su questaspiaggia e allogata in una delle nostre capanne, anzi sia-mo venuti qui a chiedervi per essa de' viveri”.

Gli Spagnuoli e i due Inglesi, in somma l'intera colo-nia prese la risoluzione di portarsi colà e di vedere co'propri occhi questi prigionieri. In tale gita fu di brigataanche il padre di Venerdì.

Giunti nella capanna videro i prigionieri tutti seduti incircolo affatto ignudi e con le mani legate: cautela chepresero i loro padroni dopo averli sbarcati, per pauranon corressero di nuovo alla barca tentando una fuga. Vierano primieramente tre uomini, vigorosi, di piacevolifisonomie, ben formati, di gagliarda e regolare membra-tura, di anni fra i trenta ed i trentacinque; cinque donnedue delle quali non al di sotto del trent'anni non al di so-pra dei quaranta; due altre non oltrepassavano i venti-quattro o i venticinque, la quinta una giovinetta avve-nente e alta di statura che avrà avuto all'incirca sedici odiciassette anni. Nessuna di tali donne era priva di vez-zo, così di forme come di fattezze; il colore soltanto neera abbronzato. Due di esse, se fossero state perfetta-mente bianche, avrebbero avuto credito di belle nellastessa Londra, perchè d'aspetto vago oltre ogni dire e dimodestissimo portamento. Ciò apparve specialmentequando in appresso furono vestite e abbigliate.... almenosi adoperava il verbo abbigliare. Figuratevi, per renderegiustizia alla verità, che vestiti e che abbigliamenti madi ciò parleremo di poi.

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Tal vista, potete credermelo, fu alquanto penosa ainostri Spagnuoli, uomini, i quali per dare un'acconciaidea de' loro caratteri, univano al pregio di un tempera-mento calmo e posato e del migliore umore ch'io abbiamai ravvisato in verun altro sopra la terra, il pregio diuna grande modestia, come ne sarete tosto convinti. Fupenosa ad essi, come ho detto, la vista di tre uomini ecinque donne tutti nudi come gli avea fatti Domeneddio,legati e posti nella più orrida circostanza che per la natu-ra umana possa essere immaginata: l'aspettarsi cioè daun istante all'altro di essere trascinati di lì, d'avere sfra-cellate da una mazzata le cervella, di venire trattati aduso di vitelli che si macellano per farne pietanze.

La prima cosa cui pensarono que' visitatori fu incari-care il vecchio Indiano, padre di Venerdì, d'accostarsi aiprigionieri e vedere primieramente se gli riuscisse cono-scerne alcuno, poi se capiva almeno il loro linguaggio.Prestatosi a ciò il vecchio, li scandagliò accuratamentein faccia, ma già non ne conobbe nessuno; e circa al lin-guaggio niuno di essi intese una parola detta o un cennofatto da lui, eccetto una delle cinque donne. Questo ciònon ostante bastava al fine che si prefiggevano: vale adire di far comprendere a quegli sfortunati che erano ca-pitati in mano a Cristiani, i quali inorridivano all'idea dimangiare uomini o donne, e che quindi poteano stareben certi di non essere uccisi. Assicurati di ciò que' po-veretti, manifestarono la propria gioia con sì matti gesti,con tanti svariati modi, che sarebbe impresa ardua il de-

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scriverli, tanto più che, a quanto parea, ciascuno di loroapparteneva ad una nazione diversa.

In appresso fu intimato alla donna che facea l'ufiziod'interprete di sentire da' suoi compagni se sarebberostati contenti di servire e lavorare per coloro da cui furo-no condotti via col fine di salvarne le vite; saputa la qualproposta, tutti si diedero a ballare, poi presa chi unacosa, chi l'altra, la prima che capitava alle mani se la po-neano sulle spalle per far comprendere la buona volontàche aveano di lavorare.

Il governatore, prevedendo che questa giunta di don-ne alla colonia potrebbe ben presto essere seguita da in-convenienti e divenire cagione di risse e forse di spargi-menti d'umano sangue, chiese ai tre da cui erano stateportate nell'isola, che cosa divisassero fare di esse, cioèse intendevano di tenersele come fantesche o come mo-gli.

‒ “E l'uno e l'altro, rispose con molta audacia e pre-stezza un de' tre Inglesi.

‒ Va bene, soggiunse col suo sangue freddo il gover-natore. Non sarò io quello che ponga restrizioni alle vo-stre volontà, e in quanto a ciò siete padroni di voi mede-simi; ma per allontanare ogni disordine o soggetto diquerele tra voi, per questa sola ragione che mi sembragiustissima, desidero, una cosa, ed è che se uno di voipiglia una di queste donne in qualità e di serva e di mo-glie, come voi dite, ne pigli una solamente, e poichè l'a-vrà presa, nessun altro abbia che fare con lei; perchè, sebene io non abbia diritto di dar moglie a nessuno di voi,

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trovo per altro ragionevolissimo, finchè rimanete qui,che la donna sia mantenuta da chi se l'ha scelta e ne di-venga moglie, ripeto finchè state qui; e che tutti gli altrila lascino stare”.

Il proposito del governatore apparve sì retto e sensatoche tutti senza opporre la menoma obbiezione conven-nero in esso.

Allora gl'Inglesi chiesero agli Spagnuoli se nessun diloro avesse intenzione di prendere una di queste donneper sè. Tutti risposero ad una voce.

‒ “Alcuni di noi hanno già nella Spagna la loro mo-glie, e chi non la ha non aggradirebbe una moglie chenon fosse cristiana”.

Ciascuno di loro pertanto protestò unanimente di nonsaper che farsi di quelle donne: esempio tale di virtù chenon ne ho mai veduto un simile ne' miei viaggi. Quantoagli Inglesi, per venire alle corte, ognuno dei cinque siprese per moglie una delle cinque donne: per mogliecioè temporanea; laonde tanto i tre Inglesi reprobi quan-to i due denominati buoni adottarono un sistema di vitaspartato da quello degli Spagnuoli. Questi e il padre diVenerdì continuarono a vivere nella mia antica abitazio-ne, grandemente ampliata nell'interno da che abbando-nai l'isola la prima volta. Vivevano con essi anche i treservi fatti prigionieri nell'ultima battaglia de' selvaggi.Questi spedivano la parte principale del servigio dellacolonia, faceano la cucina per tutti e prestavano l'operaloro come poteano e secondo l'urgenza de' casi il chie-dea.

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Ma il maraviglioso di questa storia sta nel vederecome que' cinque individui, dal più al meno, di sì malaindole, sì mal accompagnati fra loro, s'accordassero cir-ca a queste donne, e come non avvenisse che a due allavolta s'incapricciassero d'una donna stessa, tanto più ovesi noti che due o tre di esse erano incomparabilmentepiù avvenenti delle altre. Qui nondimeno conviene ag-giugnere per amor di giustizia che presero l'ottimo deltemperamenti onde non avere a tal proposito liti fra loro.Poste le cinque donne da sè sole in una delle loro capan-ne, si trasferirono tutti nell'altra, ove fecero che la sortedecidesse chi doveva essere il primo a scegliere.

Quel d'essi favorito dalla fortuna trasferitosi alla ca-panna ove rimanevano ignude quelle povere creature, necondusse fuori quella che fu da lui preferita. Cosa singo-lare! Egli scelse quella che veniva riputata per la piùvecchia e disavvenente di quelle cinque, il che mised'assai buon umore gli altri e fece ridere anche i graviSpagnuoli; pure il furfante l'avea pensata meglio di tuttiperchè considerò che, così nel matrimonio come in mol-t'altri affari della vita, la cosa su cui si possa maggior-mente contare è la disposizione alla solerzia e al lavoro.Di fatto la compagna che egli preferì si mostrò migliordonna da casa di tutte l'altre.

Appena quelle povere donne si videro schierate in talguisa e condotte via ad una ad una, le assalse nuova-mente il terrore della lor posizione, perchè infallibil-mente credettero per sè imminente l'istante di essere di-vorate. Laonde quando un secondo marito arrivò per

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portarsi via una di loro, tutte l'altre proruppero in lamen-tosi gemiti attaccandosi alla compagna e congedandosida essa con tali segni di desolazione e d'affetto cheavrebbero mosso a pietà il più indurito cuore del mondo,nè ci sarebbe stato verso di farle persuase che non veni-vano tratte allora allora al macello, se finalmente gl'In-glesi non si fossero raccomandati al padre di Venerdì, ilquale arrivò una volta a capacitarle che non al macello,ma andavano a nozze.

Terminata questa la cerimonia e dissipata alcun pocola paura di quelle sfortunate, gl'Inglesi s'accinsero adun'opera che diveniva allor necessaria, ed in cui gli aiu-tarono gli Spagnuoli: all'innalzamento di altrettante ten-de o capanne per l'alloggiameuto separato di cadauno,perchè quelle due che avevano prima, erano ingombre,stivate di attrezzi stoviglie e provisioni. Tutto ciò fu ese-guito nel giro di poche ore. I tre mascalzoni tristi aveanopiantate le loro baracche in qualche maggiore distanzadal quartiere spagnuolo, i due galantuomini un po' piùvicino; e quelli e questi per altro su la spiaggia setten-trionale. Pertanto rimanendo eglino separati come loerano prima, la mia isola divenne popolata in tre luoghi;e fu origine, se mi è lecito l'esprimermi così, di tre cittàche cominciavano ad edificarsi.

E qui fu da notare una di quelle contraddizioni chespesse volte si vedono su questa terra; quali saggi fini siabbia la providenza divina nel permetterle, nol sapreidire. Ai due furfanti migliori toccarono le due peggiorimogli; quegli altri tre, che era un trattarli umanamente

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l'impiccarli, buoni da nulla, nè nati al mondo, a quantoparea, per essere utili a sè medesimi o agli altri, ebberotre mogli abili, diligenti, solerti e ingegnose. Non cre-diate già che le due mogli de' primi fossero cattive quan-to ad indole o temperamento, perchè tutte cinque eranopiene di buona volontà, tranquille, docili, sottomesse,piuttosto schiave che mogli; ma intendo dire che in duenon si scorgeano nè la capacità nè l'accorgimento nèl'industria, molto meno quella cura di esterna mondezzache scernevate nell'altre.

Una seconda osservazione io devo fare ad onore delladiligenza e solerzia d'una parte di quegl'Inglesi e a di-sdoro della infingarda, negligente, sfaccendata indoledell'altra; ed è che (ebbi occasione di avvedermene nelportarmi ad esaminare ciascun miglioramento, pianta-gione e côlto di ognuna delle due piccole colonie) i duedella prima superavano senza confronto i due della se-conda. Certo avevano entrambi posto a coltura tantospazio di terreno quanto era proporzionato al grano dicui ciascuno abbisognava, e in ciò seguivano la mia re-gola, che è pur quella della natura, la quale insegna diper sè stessa non esservi un proposito di far una seminapiù vasta del grano che si può smaltire; ma la differenzadelle arature, dei piantamenti, delle siepi e d'altre similiopere si vedeva in un batter d'occhio.

I due galantuomini aveano piantato un numero sì ster-minato di giovani arbuscelli intorno alle loro baraccheche, quando arrivavate sul luogo, non vedevate altro chebosco. Laonde, se bene abbiano avuta due volte la di-

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sgrazia di vedere le loro piantagioni distrutte, una daglistessi loro compatriotti, l'altra dal nemico, come si dirà asuo luogo, le rimisero di nuovo e tutto in breve tempo sivedea prosperare e fiorire intorno alle loro abitazioninon meno di prima. Aveano piantate in bell'ordine di fi-lari le viti e sì bene distribuito il loro vigneto che ne ot-tenevano grappoli da stare a petto con le vendemmie delpiù ammaestrato vignaiuolo; e sì non aveano mai vedutofare di tali cose. S'ingegnarono anche da sè stessi di tro-var fuori un nascondiglio opportuno nella più fitta partede' boschi, ove, benchè non avessero una caverna natu-rale, come n'ebbi la sorte io, non perdonando a fatichese la scavarono con le proprie braccia e tale che dentroquesta, allorchè avvenne l'infortunio che dovrò descri-vere, assicurarono le mogli e i loro fanciulli in guisa chenon vennero scoperti giammai. Col piantare indi innu-merabili pali di quel legno che, come ho detto altrove,crescea sì presto, resero il bosco impenetrabile, eccettoalcuni luoghi ove si arrampicavano per uscirne fuoriprocedendo indi per sentieri praticati da loro e da loroconosciuti.

Quanto ai cialtroni, come fin qui avevo ragione dicontinuarli a chiamare, benchè dopo il loro matrimoniosi fossero mansuefatti d'assai a petto di quel che eranoprima, nè si mostrassero più sì rissosi, pure un certocompagno di perversa mente non gli abbandonava mai:la loro infingardaggine. Egli è vero che seminavano gra-no e faceano siepi ancor essi; ma le parole di Salomonenon si verificarono mai meglio siccome in coloro: “Io

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visitai la vigna dell'infingardo, e la trovai tutta ingombradi spine”, perchè quando gli Spagnuoli si portaron sulcampo dello loro messi, in molti luoghi non poteano ve-dere le spiche, tanto le mal'erbe le nascondeano; qua e làle siepi avevano buchi dond'erano passate le capre sal-vatiche che andavano a mangiarsi il loro grano; qua e là,se vogliamo, si notava che aveano riparati a caso questibuchi con cespugli morti, ma era proprio, come si suoidire, un serrare la stalla rubati i buoi. Al contrario quan-do gli Spagnuoli stessi praticarono un'ispezione su la co-lonia degli altri due, l'industria e il buon successo si mo-stravano in persona in tutte le loro opere; non un'erbacattiva si scorgea per mezzo a tutte le biade o un solopertugio nelle loro siepi; essi aveano verificato il pro-verbio inverso di Salomone che leggesi in altro luogodelle sacre carte: “La mano diligente fa l'uomo ricco;”perchè tutte le cose di essi prosperavano e godeano del-l'abbondanza al di dentro e al di fuori; possedeano piùcopioso armento domestico degli altri, maggiori suppel-lettili ed attrezzi in casa, maggiori diletti e divagamentifuori di casa.

Egli è vero che le mogli dei tre pigri si adoperavanocon molta abilità fra le pareti domestiche, avendo anziimparato a far cucina da uno degli altri due Inglesi, che,come fu racconto, era cuoco a bordo del bastimento dacui disertò; preparavano un mangiare e appetitoso emondo ai loro mariti; mentre i due solerti non trovaronoverso, i poveretti, d'indurre le loro mogli a saperne diciò. Ma che fa? quello dei due mariti ch'era stato cuoco

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faceva per esse. Quanto poi ai mariti delle tre brave mo-gli oziavano attorno, andavano in cerca d'uova di tarta-ruga, prendeano pesci ed uccelli: tutto fuorchè lavorare,e ne traevano quel frutto che può sperarsi dall'infingar-daggine. I diligenti vivevano bene e piacevolmente; glioziosi se la cavavano male e meschinamente. Così èsempre andata, cred'io, da per tutto.

LXXVII. Fatale acquisto di nuovi schiavi che produce uno sbarco ostile di selvaggi nell'isola.

Mi accade or descrivere una scena diversa da tuttequelle occorse per l'addietro così a me come alla nuovacolonia. Ecco precisamente qual ne fu l'origine e la con-seguenza.

Una mattina di buon'ora furono veduti approdare allaspiaggia cinque o sei canotti d'Indiani o Selvaggi, chia-mateli come volete, nè fin qui v'era luogo a dubitare chenon venissero, secondo il solito per fare un de lor solitiorrendi banchetti di prigionieri. Ma un tale avvenimentoera divenuto cosa ordinaria per gli Spagnuoli ed Inglesiche non poteano più farsene caso, come avvenne a me laprima volta; tanto più perchè istruiti dall'esperienza chenon dovevano in tali occasioni prendersi altra sollecitu-dine fuor quella di tenersi ben celati. In fatti, se faceanotanto di non essere veduti dai selvaggi, questi, terminata

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la loro operazione se ne andavano quietamente, ignariaffatto com'erano che l'isola fosse abitata. In conseguen-za, quando si davano simili sbarchi non avevano a faraltro che darne per tempo la notizia alle tre divisionidella colonia, non mostrarsi, e appiattare unicamente inluogo opportuno una sentinella che gli avvertisse quan-do i selvaggi aveano nuovamente salpato.

Ciò senza dubbio era stato pensato ottimamente; maquesta volta sopravvenne tal disgrazia che rese inutilitutte queste previdenze, e poco mancò non fosse cagio-ne d'esterminio all'intera colonia. Poichè i canotti de'selvaggi se ne furono andati, gli Spagnuoli si diedero aspiare attorno, e alcuni di loro si recarono sul luogo oveerano stati i selvaggi, per semplice curiosità di veder checosa costoro avessero fatto. Quivi con grande stuporetrovarono tre selvaggi che lasciati addietro dai compa-gni, dormivano della grossa su l'erba. S'immaginaronoquindi, o che ingozzatisi da vere bestie dell'orrido loropasto, si fossero così profondamente addormentati e resiincapaci di muoversi, o che, avendo vagato alla venturape' boschi non avessero raggiunto a tempo d'imbarcarsicon essa il resto della brigata.

A tal vista gli Spagnuoli non rimasero meno sorpresiche imbarazzati sul modo di contenersi. Il governatoreche si trovò a caso con essi, consultato su questo propo-sito, rispose candidamente di non saperlo nemmen lui.Se si trattava di farli schiavi, ne aveano di già abbastan-za; accopparli non v'era un di loro cui questo espedientenon ripugnasse. “Non potevamo in ordine a ciò, mi di-

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ceva il governatore spagnuolo, nemmeno pensarci aspargere un sangue in sostanza innocente, perchè, cheingiuria aveano fatta a noi quelle povere creature? Avea-no forse invase le nostre proprietà? Che motivo di do-glianza ci aveano dato per torre ad essi la vita?” E quimi piace il rendere una giustizia a quegli Spagnuoli. Cheche possa dirsi delle crudeltà che quelli di lor gente han-no esercitate nel Messico e nel Perù, in nessun paese mison mai incontrato in uomini di qualsivoglia nazioneche fossero sott'ogni aspetto così modesti, temperanti,virtuosi, d'indole piacevole e cortese come que' miei set-tanta spagnuoli; di crudeltà non ce n'era il vestigio nelloro carattere: non d'austerità che sentisse d'inumano;non di barbara rozezza, non di disposizione ai rancori; etuttavia ognun d'essi andava dotato di grande coraggio evalore. Questa rara placidezza di temperamento la die-dero a vedere soprattutto nel sopportare con pazienza leintollerabili maniere dei tre Inglesi mascalzoni. Nel pre-sente caso dei selvaggi immersi nel sonno la rettitudinedi questa buona gente non si smentì.

Dopo essersi consigliati a vicenda, decisero su le pri-me di lasciar quieti que' poveri diavoli e di pazientare,se si potea, fintantochè se ne fossero partiti. Ma il go-vernatore, risovvenutosi che non aveano canotto, pensòche, se si lasciavano vagare per l'isola, si scoprirebbe fi-nalmente essere questa abitata, il che sarebbe stato laruina della colonia; dietro la quale considerazione, tor-nati addietro di bel nuovo, e veduto che i tre selvaggidormivano tuttavia, risolvettero destarli e farli prigionie-

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ri: così seguì. Quei poveri sgraziati rimasero oltre ognidire attoniti al trovarsi presi e legati, onde si rinnovellòla scena medesima delle cinque donne che temevanod'essere uccise e divorate; quella genia, a quanto sembrasi figura che tutti i popoli del mondo facciano com'essa,e si dilettino di mangiar carne umana; ma erano già libe-rati da questa paura quando vennero condotti via di lì.

Per lor buona sorte gli Spagnuoli non li trassero seconel loro castello: intendo la mia abitazione appoggiata almonte. Condottili su le prime nel frascato, divenuto lagrande fattoria della colonia, la principale stalla cioèdelle capre da latte, il maggior campo delle semine, fu-rono in appresso trasportati di lì all'abitazione dei dueInglesi.

Qui vennero posti al lavoro benchè, per dir vero, nonavessero un gran da fare. Fosse negligenza nel custodir-li, o persuasione che costoro non vedessero nel momen-to di potere stare meglio di così, un d'essi prese la fugaper traverso ai boschi, nè si riuscì per allora ad avere piùnotizia di lui.

Due o tre settimane dopo vi furono buone ragioni percredere che costui avesse trovato modo di tornare a casasua imbarcandosi in altri canotti di selvaggi che, sbarca-ti nell'isola per uno de' lor consueti banchetti, vi si fer-marono due giorni: idea che gli atterrì tutti oltre ognidire. Ne conchiusero, e da vero non senza fondamento,che, se colui arrivava sano e salvo fra i suoi compatriot-ti, non avrebbe mancato di far noto ad essi come vi fos-sero abitanti nell'isola, e, quel che è peggio, quanto fos-

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sero e pochi e deboli di forze, perchè quel selvaggio,come ho osservato dianzi, non essendo stato mai con-dotto nella mia fortezza (e fu gran fortuna) non sapevanè il giusto numero degli abitanti, nè dove la maggiorparte vivesse, nè avea mai veduto il fuoco o udito losparo d'alcun moschetto; molto meno gli si erano fatticonoscere i luoghi di ritirata siccome la nota cavernadella valle, o quella che si scavarono recentemente i dueInglesi, e simili cose.

La prima prova che quest'uom fatale era andato acontar tutto, o almeno quanto poteva contare, si fu duemesi appresso la comparsa di sei canotti, i quali, carichiognuno di sei, sette e anche dieci selvaggi, remavanoalla volta della spiaggia settentrionale dell'isola che nonsoleano mai cercare in passato e, un'ora dopo il levar delsole, sbarcarono ad un miglio di distanza dalla casa deidue Inglesi ov'era stato tenuto il fuggiasco.

Se tutta la colonia si fosse trovata in un luogo, comeil governatore spagnuolo notava, il male non sarebbestato sì grave, perchè un solo di que' selvaggi non si sa-rebbe salvato; ma il caso era ben diverso, perchè si trat-tava nient'altro che di due uomini contro a cinquanta. Lafortuna che ebbero questi due poveri Inglesi fu quella diaver veduti i selvaggi un'ora prima del loro sbarco, e nefu un'altra che, essendo sbarcati in distanza d'un migliodalla loro abitazione, ci voleva un po' di tempo avantiche ci arrivassero. La cosa cui prima pensarono i due In-glesi si fu legare i due schiavi non fuggiti con l'altro. Difatto aveano troppo giusto motivo di temere un tradi-

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mento. Comandarono quindi agli altri due de' tre selvag-gi venuti in compagnia delle cinque donne, e della fe-deltà de' quali, a quanto sembrava, avevano prove, dicondurre e i due schiavi in ceppi e le loro mogli e di tra-sportare quanto poteva essere traslocato nel ritiro che sierano, come ne ho fatta menzione dianzi, assicurato ne'boschi, con l'istruzione di tener colà, avvinti i piedi e lemani sino a nuovi ordini, i due selvaggi sospetti.

In secondo luogo veduti i selvaggi non solamentesbarcati, ma in atto d'avviarsi verso le loro case, atterra-rono le palizzate entro cui venivano custodite le capredomestiche e le sbandarono tutte con la speranza chevagando queste alla libera per le foreste, i selvaggi legiudicassero capre salvatiche; ma il cialtrone che li con-dusse era troppo scaltro e troppo bene raccontò ad essitutte le cose affinchè senza divagarsi si portassero a di-rittura sui luoghi abitati da uomini.

Poichè i due poveri spaventati Inglesi ebbero in talmodo poste in sicuro le mogli e le sostanze atte ad esse-re trasportate, si valsero del terzo schiavo venuto con lecinque selvagge, che per un favorevole caso si trovò lì,per mandarlo con tutta speditezza ad avvertire gli Spa-gnuoli del pericolo sovrastante all'intera colonia e do-mandarli in aiuto. In questo mezzo, prese quante armi emunizioni potevano, si ritirarono verso la parte di boscoove avevano messe in salvo le loro mogli, tenendosinondimeno a tal distanza donde vedere possibilmentequale via prenderebbero i selvaggi.

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Non erano andati lontani gran che quando da un'altu-ra poterono scernere il piccolo esercito nemico avviarsia dirittura verso le loro case, e pochi momenti dopo eb-bero lo straziante cordoglio di vedere in cenere e questee tutte le cose che vi aveano lasciate: perdita gravissimaper essi ed irreparabile almeno di lì a qualche tempo.Rimasero fermi in quel posto quanto bastò per accorger-si che i selvaggi, a modo di feroci belve, sparpagliava-no, dilatavano le loro devastazioni in cerca di preda perogni dove e soprattutto delle case degli altri coloni, dellacui esistenza nell'isola si capiva che erano pienamenteinformati.

A tal vista i due Inglesi temettero di non essere più si-curi nella situazione che aveano presa, attesa la verisi-miglianza che quelle fiere quivi ancora estendessero lescorrerie, e poichè in quel momento potevano venire ingrossa masnada, giudicarono ritirarsi un miglio più in là.Così col dar tempo a costoro di disperdersi avrebberoavuto che fare con un minor numero d'assalitori alla vol-ta: tal previdenza fu giustificata dall'esito.

La seconda posizione che presero fu all'ingresso dellaparte più folta de' boschi, laddove trovarono un vecchiotronco d'albero incavato ed ampio abbastanza perchè cisi appiattassero tutt'e due, come fecero, con mente di re-golarsi secondo il porterebbe l'occasione. Nè andò guariche mostraronsi due selvaggi, i quali correvano appuntoa quella dirittura come se fossero informati di quel na-scondiglio, e avessero deliberata intenzione di portarsi lìad assalirli. In poca distanza ne venivano dietro loro al-

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tri tre, poi cinque che tenevano tutti la stessa strada. Ol-tre a questi, i due Inglesi nascosti ne videro sette o ottoche correvano da un'altra banda a guisa di veri cacciato-ri che battano tutta la campagna in traccia di salvaggiu-me.

Qui nacque ne' poveri nostri rifuggiti una grande per-plessità sul mantenere quella posizione o fuggire; madopo una brevissima consulta tenuta insieme pensaronoche, se lasciavano andar tanto innanzi i selvaggi, questagenia finalmente, prima che arrivasse lo sperato soccor-so degli Spagnuoli, avrebbe potuto scoprire l'ultimo lorrifugio nei boschi nel qual caso tutto era perduto peressi. Risolvettero pertanto di star lì di piè fermo e, seavessero capito d'aver che fare con troppi per combatter-li in una volta, sarebbero saliti su la cima d'un albero didove finchè duravano loro le munizioni non dubitavanodi non sapersi con le loro armi da fuoco (cosa che man-cava agli assalitori) difendere, quand'anche tutti i sel-vaggi sbarcati che ammontavano ad un dipresso a cin-quanta fossero venuti per assaltarli.

Convenuti in ciò, la seconda loro disamina fu se do-vessero far fuoco a dirittura su i primi due, o vero aspet-tare gli altri tre in guisa di separare, atterrati i tre dimezzo, i due primi dai cinque ultimi; e a questo partitorisolvettero attenersi, semprechè i due primi non gliavessero scoperti ed obbligati quindi a difendersi, Maquesti due anzi li confermarono nell'ideato disegno coldeviare alquanto verso l'altra parte del bosco; non così itre e gli altri cinque che correano difilato verso l'albero

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come se andassero a posta fatta. Veduto ciò gl'Inglesidecisero di mirare i primi in linea; e poichè avevanoideato di tirare uno alla volta, chi sa, così ragionarono,che non basti il primo colpo a stramazzarli? A tal finepertanto il primo che dovea sparare, mise tre o quattropallini nel suo moschetto e, poichè lo forniva d'un eccel-lente feritoia un pertugio del tronco, prese la sua miraaspettando che i tre galantuomi fossero ad una distanzadi trenta braccia dall'albero per essere sicuro di non fal-lare il colpo.

Intantochè gl'Inglesi stavano in questa aspettazione, ei tre selvaggi venivano innanzi, entrambi ravvisaronoperfettamente in un di costoro il fuggiasco, autore di tut-to il malanno, onde giurarono di far di tutto per non la-sciarlo fuggire quand'anche avessero dovuto spararetutt'a due di seguito. Il secondo pertanto stette prontocol suo moschetto affinchè se costui non cadeva al pri-mo colpo, il successivo non gli mancasse. Ma il primoInglese fu troppo buon bersagliere per fallire la mira;laonde mentre il disertore veniva un pocolino dietroall'altro ma in linea con esso, quegli ne colse due a dirit-tura. L'uomo davanti ci restò in botta perchè ferito nellatesta, l'altro cadde trafitto da una palla, ma non mortoancora del tutto; il terzo sofferse una scalfittura in unomero fattagli forse dalla stessa palla che attraversò ilcorpo del secondo, Quest'ultimo, che ebbe una paura piùtremenda del male sofferto, si diede sconciamente a mu-golare.

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I cinque che seguivano i tre in maggior lontananza ifermarono di botto, men per essersi accorti del pericoloche atterriti dal fracasso, orrido veramente non tanto insè stesso quanto perchè fu moltiplicato e da ogni ecoche lo riportava da un luogo ad un altro, e dal sollevarsiche fecero da tutte le bande gli augelli strillando ciascu-no nel metro proprio alla sua specie, come accadde allorquando sparai il primo moschetto di cui probabilmentesi era udito il fragore nell'isola.

Nondimeno, tornate di nuovo in quiete tutte le cose,nè sapendo essi che cosa questo si fosse, vennero avantisenza prendersi altro fastidio, finchè giunsero sul luogoove giacevano i loro compagni mal conci da vero. Qui,quelle povere creature, non s'immaginando mai di esseresotto al tiro della stessa disgrazia, si posero immediata-mente a cianciar e a chiedere, com'era da supporsi, con-to del fatto a quello dei tre lievemente ferito. È anche ra-gionevole il supporre che questi gli risponde se attri-buendo ad un lampo e ad un immediato fulmine deglidei l'esterminio dei due e la propria ferita. Dico ragione-vole, perchè è certo che non aveano veduto nessunuomo presso di loro; che non aveano mai udito in vitaloro sparo di moschetti nè sentito parlarne, e neppuresospettata la possibile esistenza di veruna cosa atta aduccidere uomini in distanza col mezzo di polvere accesae di palle. Niuno dubiterà che, se avessero saputo alcunche di ciò, non sarebbero rimasti lì melensi melensi acontemplare la sorte de' loro compagni senza avere alcu-na paura per sè medesimi.

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Ai nostri due uomini, com'eglino stessi me lo confes-sarono da poi, rincresceva il vedersi alla necessità di uc-cidere tante povere creature degne di sempre maggiorcompassione perchè non conoscevano il pericolo in cuis'erano poste. Ciò non ostante, essendo questo il solomodo definitivo di liberarsene, e il primo de' due Inglesiavendo già tornato a caricare la sua arma, si determina-rono a far fuoco sovr'essi tutt'a due in una volta, e, presaciascuno una mira convenuta fra loro fecero fuoco diconserva su que' miseri, di cui quattro caddero o morti, aquanto pareva, o gravemente feriti; il quinto, benchènon ferito, stramazzò insieme con gli altri, il che lasciòcredere agl'Inglesi di averli ammazzati tutti.

Tal persuasione fe' sì che uscissero arditamente fuordel loro buco d'albero prima di avere ricaricati i mo-schetti, e fu un passo falso. In fatti, giunti sul luogo, ri-masero alquanto scompigliati all'accorgersi che degliuomini atterrati in due volte non ne erano vivi meno diquattro, e fra questi due leggermente feriti ed uno nonferito nè poco nè assai. Ciò li costrinse a far lavorare icalci de' loro moschetti su quegli sgraziati. E primo adessere spacciato fu il disertore che era stato la vera ori-gine della presente sciagura; gli tenne dietro un altro, fe-rito solamente in un ginocchio. In somma li levaronotutti fuori di stento, eccetto soltanto l'ultimo che nonavea riportate ferite di sorta alcuna, il quale, buttatosiginocchione, si raccomandava a mani giunte e mettendocompassionevoli gemiti accompagnati da gesti, segni eparole, che nessuno certo intendea affinchè gli fosse la-

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sciata la vita. Mossi a pietà gl'Inglesi gli fecero cenno disedere a piè d'un albero lì vicino, indi uno di essi con,un pezzo di corda, che si trovò a caso in tasca, lo legòcolle mani di dietro all'albero stesso.

Abbandonatolo ivi, si accinsero con quanta speditez-za potevano ad inseguire i due selvaggi che si lasciaronoandare innanzi alla prima per paura che questi, con l'aiu-to anche di altri loro compagni: trovassero la strada don-de si arrivava al segreto asilo dei boschi ove gl'Inglesiaveano poste in sicuro e mogli e sostanze. Quanto a que'due selvaggi giunsero una volta a vederli, ma in troppadistanza; pure ebbero il conforto d'accorgersi che attra-versavano una valle posta rimpetto al mare, strada affat-to contraria a quella del ricovero che dava maggior sog-getto di timori a chi gl'inseguiva. Paghi per allora di ciòtornarono alla pianta ove aveano lasciato il lor prigio-niero, liberato, com'essi supposero, da qualche suo com-pagno, perchè invece di lui trovarono solamente i pezzidella corda che lo legò a' piedi dell'albero.

Qui si vedevano in gravi angustie siccome prima, nonsapendo nè da qual parte voltare, nè in quanta distanza,nè in qual numero fosse il nemico. Risolvettero pertantodi recarsi laddove erano le loro mogli per vedere se fos-se accaduta in quel lato d'isola veruna disgrazia e perconfortar queste donne, atterrite da vero anch'esse, per-chè, se bene gli assalitori fossero loro compatriotti, nonne aveano minor paura, e forse più perchè conoscevanomeglio il loro fare.

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Quivi arrivati, s'avvidero bensì che i selvaggi eranostati nel bosco e vicinissimi alla nuova grotta, ma senzatrovarla. In fatti, come si è detto, la rendeva inaccessibi-le la foltezza degli alberi piantatile attorno, e potea sco-prirla soltanto chi avesse avuta una guida pratica delsito, genere d'aiuto che a coloro mancava. Mentre s'in-tertenevano ivi i due Inglesi, s'allargò loro il cuore ve-dendosi venire in aiuto sette Spagnuoli; perchè gli altridieci, i loro servi, il vecchio Venerdì, intendo il padre diVenerdì, si erano portati in corpo d'esercito a difendereil frascato e il grano e gli armenti che vi si custodivano,pel caso che mai i selvaggi penetrassero fin là; ma lascorreria di costoro non si dilatò a questo segno. Coisette Spagnuoli venivano e uno dei tre selvaggi fatti pri-gionieri, come si disse, più anticamente e l'altro ancorache, mani e piè legati, gl'Inglesi si erano lasciati addie-tro. Ecco come sembra che la cosa fosse. Gli Spagnuoli,veduto lungo la strada l'eccidio dei sette selvaggi sciol-sero l'ottavo e lo condussero seco fin qui, ove per altrosi trovò espediente di legarlo di nuovo per lo stessoprincipio ond'erano stati assoggettati alla medesima con-dizione i due compagni del selvaggio che con tanto dan-no della colonia aveva presa la fuga.

I prigionieri principiavano ora a divenire d'aggravioai coloni che, avendo in oltre sì grave motivo di temerela loro fuga, furono sul punto di risolversi ad ucciderlitutti, come espediente dettato dall'imperiosa necessità diconservare sè stessi. Ma il governatore spagnuolo nolcomportò, limitatosi per il momento ad ordinare che

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fossero posti fuori de' piedi di tutti col mandarli alla miaantica caverna, e custodirli, e nudrirli entr'essa con dueSpagnuoli di guardia. Ciò eseguito, rimasero colà manie piè legati in tutta quella notte,

L'arrivo degli Spagnuoli infuse tanto coraggio ne' dueInglesi che non se la sentirono più di rimanere tuttaviainoperosi; laonde presi con sè cinque di questi Spagnuo-li, armati di quattro moschetti, di una pistola e di nodosibastoni a due punte si posero in traccia di nuovi selvag-gi. Giunti primieramente al piè dell'albero ove i setteerano rimasti morti, fu facile il capire che altri selvaggisi erano portati ivi dai segnali del tentativo fatto da que-sti per trasportare i lor morti: due di que' cadaveri essen-do lontani per un tratto di strada dagli altri, si vedea losforzo fatto, poi dismesso, a fine di trascinarseli seco.Dal piede dell'albero il drappello di Spagnuoli ed Inglesisi trasferì alla picciola altura donde i secondi erano ri-masti a contemplare lo sciagurato incendio delle lorocase, di cui con loro rammarico vedevano tuttavia ilfumo; ma nemmeno qui trovarono selvaggi di sorta al-cuna. Risolvettero allora di portarsi avanti, benchè conogni cautela possibile, nella devastata piantagione; maun po' prima d'esservi arrivati, e giunti in prospetto dellaspiaggia del mare, videro in modo da non dubitarne tuttii selvaggi imbarcati su i loro canotti ed in procinto disalpare Si mostrarono da prima mal contenti di essertroppo lontani da costoro per dar loro il saluto della par-tenza con una salva di moschetti carichi a palle; ma infin de' conti si consolarono d'esserne liberati.

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Quanto ai poveri Inglesi; or rovinati per la secondavolta, e che vedeano andato in fumo affatto il frutto del-le proprie fatiche, tutti gli altri della colonia s'accordaro-no nell'aiutarli a riedificare le loro case e nel fornirli d'o-gni necessario per sostentarsi. Fino i tre loro compatriotiche non avevano mai mostrata la menoma vocazione difarne una di bene; appena seppero la disgrazia (è a no-tarsi che vivendo questi più a levante, e quindi in mag-gior lontananza dagli altri, la seppero soltanto a cosa ter-minata), vennero ad offrire la loro assistenza, e vera-mente la prestarono amichevolmente per parecchi gior-ni; così per fabbricar di nuovo le case, come per quantofu di mestieri. Per conseguenza non passò gran tempoche i due Inglesi industriosi erano tornati in gamba.

Passati due giorni ebbero un'altra soddisfazione, quel-la di vedere tre de' canotti partiti costretti a tenersi co-steggiando alla spiaggia, e in maggior distanza due sel-vaggi annegati; dond'ebbero motivo di pensare che, sor-presi da una burrasca lungo il cammino, alcuni di essiavessero naufragato. In fatti dalla parte di mare tenutada essi soffiò un gagliardo vento tutta la notte.

LXXVIII. Secondo sbarco di selvaggi più formidabile del primo.

Se per una parte era a credersi che la burrasca avessecondotti a mal termine alcuni dei fugati selvaggi, v'eraper l'altra luogo a temere che rimanesse un bastante nu-

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mero di costoro per andare ad informare i propri compa-triotti e di quanto aveano tentato, e di quanto ad essi eraoccorso per eccitarli ad una seconda impresa di simil dinatura, spalleggiata da una forza d'uomini cui non si po-tesse resistere; perchè già, quanto al numero degli abi-tanti dell'isola co' quali combatterebbero, al di là dellepoche cose intese dal disertore selvaggio, poteano sape-re ben poco di più; e costui essendo già stato ucciso nonera più in caso certo di ratificare con la propria boccaciò che aveva affermato.

Erano trascorsi cinque o sei mesi dopo il narrato av-venimento senza che i coloni avessero più contezze diselvaggi, onde i primi principiarono a sperare che costo-ro o si fossero rassegnati al primo mal esito o avesserorinunziato all'espettazione di averne un migliore, quan-do d'improvviso si videro invasi da una flotta compostadi non meno di ventotto canotti pieni di selvaggi armatid'archi e di frecce, di clave, di spade di legno e simili or-digni da guerra; apparecchio sì formidabile, che posenel massimo trambusto quell'intera piccola popolazione.

Poichè costoro avevano effettuato il loro sbarco disera e nella parte più orientale dell'isola, i coloni ebberotutta la notte per consultarsi fra loro sul partito più op-portuno ad adottarsi. E primieramente videro che se daltenersi ben celati dipendeva la sola loro salvezza in pas-sato, ciò si avverava tanto più ora che il numero dei ne-mici era sì sterminato. Tornarono dunque ad atterrare lecase fabbricate di nuovo dai due poveri Inglesi, traspor-tando i loro armenti nella mia vecchia caverna; che ben

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s'immaginavano che, appena giorno, i selvaggi sarebbe-ro venuti in quel campo a rinovare la caccia antica, an-corchè questa volta fossero sbarcati due leghe lontano dilì. In secondo luogo, trasportarono nello stesso nascon-diglio gli armenti custoditi in quella che io chiamavamia casa di villeggiatura, appartenente allora agli Spa-gnuoli: in somma fecero sparire quanto poteano ogni in-dizio atto a dar sospetto che vi fossero abitanti nell'isola;poi la mattina di buon'ora si posero in agguato con tuttala loro forza nella piantagione de' due Inglesi, aspettan-do quivi che i nemici arrivassero.

Come aveano congetturato, accadde. I nuovi invasori,lasciati i canotti alla spiaggia orientale dell'isola, s'av-viarono luogo la costa alla volta dell'alloggiamento scel-to dai coloni in numero di duecento cinquanta circacome ad occhio si potè giudicare. L'esercito colonialeera piccino da vero, e per maggiore disgrazia non arma-to nemmeno a proporzione del suo piccolo numero. Ilsuo ammontare era in circa il seguente.

17 Spagnuoli 5 Inglesi 1 Il vecchio Venerdì, o sia il padre di Venerdì 3 Schiavi: quelli presi in compagnia delle donne

selvagge, e che diedero prove della maggior fedeltà

3 Altri schiavi che viveano con gli Spagnuoli.29. Per armare tutta questa gente vi erano :11 Archibusi

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5 Pistole 3 Schioppi da caccia 5 Moschetti: quelli che tolsi ai marinai ammutinati

e da me ridotti a soggezione prima della mia partenza dall'isola

2 Spade 3 Vecchie alabarde.29. Nessuno degli schiavi ebbe moschetto o arma da fuo-

co: ciascuno ricevè o un'alabarda o una specie di basto-ne a due punte, ad ognuna delle quali era legato un acu-to chiodo ed un'azza a fianco; d'un'azza parimente fuprovveduto ogn'altro combattente. Non vi fu modo d'im-pedire a due di quelle donne il mettersi in linea di batta-glia. Armatesi queste di archi e frecce che gli Spagnuoliraccolsero nell'ultima battaglia avvenuta fra selvaggi eselvaggi da me precedentemente descritta, ebbero an-ch'esse un'azza per cadauna.

Il governatore spagnuolo, di cui ho parlato le tantevolte, comandava l'intero esercito; sotto di lui Gugliel-mo Atkins cui, se bene uom da temersi per la sua ma-riuoleria, non si potea negare il pregio d'un indomabilcoraggio. I selvaggi venivano innanzi come leoni, e permaggiore calamità dei coloni, questi secondi non aveva-no per sè il vantaggio della posizione. Solamente Gu-glielmo Atkins, utilissimo, siccome ho detto, in similicasi, fu collocato con sei uomini dietro una fitta siepa-glia, a guisa di posto avanzato e con istruzione di lasciarpassare la prima fila nemica, di far fuoco su quella di

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mezzo; poi, ciò eseguito, di eseguire la sua ritirata conogni prestezza possibile, girando attorno al bosco e ve-nendo a porsi dietro agli Spagnuoli, il cui agguato veni-va protetto da un folto gruppo d'alberi posti dinanzi aloro.

Quando i selvaggi furono sotto il tiro, si sparpagliava-no in branchi da tulle le bande senza nessun principiod'ordine. Guglielmo Atkins ne lasciò passare circa unacinquantina, poi veduti venire in folla gli altri, ordinò atre de' suoi compagni di sparare i loro archibusi carichicon sei o sette palle del calibro delle più grosse da pisto-la. Quanti selvaggi uccidessero o ferissero, nol seppero;ma la costernazione e lo stupore nato fra questi non èatto a descriversi: rimasero atterriti non si può dir quan-to all'udire un sì spaventoso rimbombo e al vedere tantidei loro quali uccisi, quali storpiati, senza capire dondele botte venissero. In mezzo a questo loro sbalordimen-to, Guglielmo Atkins ordinò agli altri tre una secondascarica sul più fitto di quella bordaglia, poi una terza aiprimi che in men d'un minuto aveano tornato a caricarele loro armi.

Se, a norma degli ordini che avea ricevuti, GuglielmoAtkins si fosse ritirato dopo la prima scarica, o se il ri-manente del piccolo esercito gli fosse stato da pressoper fare un fuoco continuo, i selvaggi sarebbero stati po-sti allora allora in una rotta la più compiuta, perchè ilterrore nato fra essi derivava principalmente dal credersipercossi dalla folgore del cielo, e dal non vedere da chealtro potesse procedere la loro strage. Ma alcuni fra i

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selvaggi situati più in lontananza, accortisi che il fuocoveniva dalla terra, presero alle spalle i fulminanti. Egli èvero che Atkins fece fuoco anche su loro per due o trevolte, e ne ammazzò circa una ventina, ritirandosi indi ilpiù presto alla meglio che potè; ma, oltre all'essere feritoegli stesso con uno de' suoi, un Inglese rimase mortosotto le frecce selvagge, come vi rimasero più tardi unoSpagnuolo e uno degli schiavi indiani che veniva incompagnia delle donne guerriere. Non può dirsi quantofosse valoroso questo povero schiavo, e come si battesseda disperato: prima di cader morto aveva ucciso di pro-pria mano cinque selvaggi senza avere altre armi fuord'un bastone a due punte e d'un'azza.

Ridotto a tale stremo il posto avanzato, ferito Atkins emorti due altri, si ritirò ad un'altura del bosco, e anchegli Spagnuoli dopo tre scariche su quelle masnade furo-no costretti fare lo stesso, perchè il numero di costoroera sì sterminato, e combatteano tanto ad ultimo sangue,che quantunque avessero più di cinquanta morti ed al-trettanti feriti dei loro, venivano faccia a faccia ai colo-ni, sfidando il pericolo e scoccando un nugolo di strali;e si notò che gli stessi feriti, se non erano resi inabili af-fatto a combattere, erano resi più feroci dalle stesse loroferite, e combattevano con più indomita gagliardia.

I coloni nel ritirarsi lasciaronsi addietro lo Spagnuoloe l'Inglese rimasti morti. Giunti i nemici ove giacevanoquesti cadaveri, tornarono, per così esprimermi, ad am-mazzarli nella più maladetta maniera, perchè da veri sel-vaggi che erano, si valsero de' loro bastoni e spade di le-

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gno per fracassarne le braccia e le teste. Poichè s'accor-sero che i nostri si erano ritirati, non pare che pensasse-ro ad inseguirli, perchè si posero in circolo mandandodue volte quel grido che sembra essere per costoro il se-gnale di riportata vittoria; ma poco appresso ebbero ilrammarico di vedere parecchi dei loro feriti cadere emorire unicamente in forza del sangue che perdevano, eche non aveano l'abilità di ristagnare.

Poiche il governatore spagnuolo ebbe raccolto tutto ilsuo piccolo esercito sopra un'eminenza, Atkins, benchèferito, avrebbe voluto che si marciasse di nuovo, e si fa-cesse in una volta fuoco sovr'essi; ma il governatore glifece questa osservazione :

‒ “Signer Atkins, voi vedete come i feriti di quellagente combattono. Non è egli meglio aver pazienza sinoa domani mattina? Tutti que' feriti medesimi saranno as-siderati, fatti mansueti dalle ferite stesse; molti infiac-chiti dal grande sangue perduto. Avremo che fare con unminor numero di nemici”.

II consiglio era buono, ma Atkins con lieto viso rispo-se:

‒ “Voi dite bene, signore; ma domani sarò nel caso dique' feriti ancor io, e perciò vorrei andare a combattere,finchè ho tuttavia il sangue caldo.

‒ Non vi mettete pensiere di ciò, signor Atkins, sog-giunse il governatore. Voi vi siete comportato da valoro-so, e avete fatta bene la vostra parte: faremo la parte no-stra per voi ove non possiate esserci; ma io giudico me-glio l'aspettare a domani mattina”.

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Cosi di fatto erasi risoluto; ma il bel chiaro di luna diquella notte avendo resi accorti gli assaliti dell'enormetrambusto in cui erano gli aggressori, affaccendati tuttiattorno ai loro morti e feriti, e il fracasso stesso che ve-niva dal campo ove s'erano trasferiti per dormire indi-cando quanto costoro fossero scompigliati, si cangiò diproposito. Fu dunque deciso di piombar loro addosso inquella notte medesima, specialmente ove si fosse offertaun'opportunità di far ciò d'improvviso, e quando menoquella gente ci aspettava. L'opportunità capitò, perchèuno degl'Inglesi nella cui piantagione incominciò la bat-taglia, fece fare una giravolta ai compagni tra i boschi ela spiaggia occidentale, poi una subitanea voltata versola parte meridionale, onde si trovarono vicini al luogoove la massa de' selvaggi era più folta, prima che questiavessero avuto tempo di vederli o sentirli arrivare. Ottocoloni allora sparando in una volta nel bel mezzo diquella ciurma, ne fecero un macello, poi mezzo minutodopo altri otto vi fecero piovere addosso tal grandine dipallini che da vero non vi fu scarsezza di feriti o di mor-ti, e tutto ciò mentre quegli sgraziati non capivano daqual parte venisse il flagello, nè sapevano a qual partesalvarsi.

Tornati a caricare speditamente i loro moschetti, i co-loni si divisero in tre corpi con intenzione di far fuocotutti in una volta e da tre lati su l'inimico. Ciascuno ditali corpi era composto d'otto persone, vale a dire venti-due uomini e le due donne che combatteano da dispera-te. Le armi da fuoco vennero ripartite ugualmente fra

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questi tre battaglioni, come pure le alabarde e i bastoni.Si avrebbe voluto far restare addietro le donne, ma que-ste si protestarono risolute a morire in compagnia de'loro mariti. Così ordinato quel piccolo esercito, sbucaro-no fuor degli alberi affrontando da tutte le bande il ne-mico, e mettendo alte grida finchè i lor polmoni glielpermetteano.

Non per ciò i selvaggi si sbandarono, ma crebbe an-cora la lor confusione all'udire queste grida che partiva-no da tre lati in una volta. Si capì che non si sarebberoristati dall'accettar la battaglia se avessero veduto il ne-mico, perchè appena questo fu in maggior vicinanza diloro, vennero scagliate diverse freccie, una delle qualiferì il povero vecchio Venerdì, ma non mortalmente. Icoloni per altro non lasciarono ad essi gran tempo, per-chè fecero fuoco sopra loro tre volte, poi ci piombaronoaddosso co' calci de' moschetti, con le spade, co' bastonia due punte, tanto che finalmente que' miseri sbaragliati,mettendo tremende grida, si diedero a fuggire da tutte leparti e come meglio poteano per salvare le proprie vite.

I coloni erano perfino stanchi di questa strage, avendogià in due combattimenti uccisi cent'ottanta nemici al-l'incirca. I loro avanzi , tratti fuor di se dalla paura, cor-revano alla matta per traverso ai boschi e su i poggi contutta quella speditezza che il terrore infondeva in essi, eche dall'agilità delle loro gambe era permessa; e, poichèi coloni non si diedero grande pensiere d'inseguirli, po-terono finalmente raccogliersi alla spiaggia, ove eranosbarcati, e dove stavano aspettandoli i loro canotti.

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LXXIX. Cielo e terra che congiurano contro i selvaggi; specie di civiltà derivatane a quelli che sopravvivono.

La sfortuna di que' miseri non finiva qui. Un tremen-do turbine levatosi dal mare la sera stessa rendeva adessi quella via di fuga impossibile; anzi la burrasca es-sendo continuata tutta la notte, l'alta marea e i tempesto-si cavalloni staccando i loro canotti, li trasportarono atanta altezza sopra la spiaggia, che ci voleva infinitotempo e fatica per rimetterli al mare, oltrechè alcuni diquesti erano andati in pezzi o urtando la riva o battendo-si l'un contra l'altro.

Benchè lieti della riportata vittoria, i coloni pensaronopoco in quella notte a dormire, e dopo essersi ristoratialla meglio, risolvettero portarsi a quella parte ove s'era-no rifuggiti i selvaggi, e vedere come costoro si mette-vano. Ciò li trasse necessariamente a ripassare dal luogoove principiò la battaglia, e ove giaceano parecchie diquelle povere creature non morte del tutto, ma postefuor d'ogni possibilità di riaversi; vista disaggradevolequanto mai per animi generosi, perchè il vero grand'uo-mo, se bene astretto dalla fatal legge di guerra a distrug-gere il nemico, non s'allegra della sua calamità. Quinondimeno non ci fu il caso di dar ordini intorno a ciò,perchè gli stessi selvaggi schiavi dei coloni con le loroazze levarono di stento quegl'infelici.

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Finalmente giunsero alla spiaggia, ove trovavasi quelmiserabilissimo rimasuglio d'esercito selvaggio che, aquanto appariva, si riduceva tuttavia ad un centinaioall'incirca d'uomini. La postura di quasi tutti quegli sgra-ziati era questa: seduti in modo che si toccavano con leginocchia la bocca, e le ginocchia reggeano loro la testache si teneano fra le mani.

Poichè i coloni furono lontani da loro due tiri dischioppo, il governatore spagnuolo ordinò si facessefuoco, ma mettendo sol polvere negli archibusi a fineunicamente di paventarli. Il suo scopo era di capire dalviso che costoro farebbero in appresso a quanti piedid'acqua trovavasi (vale a dire se fossero tuttavia in vo-glia di battersi o disanimati e scoraggiati del tutto), poiregolarsi in conformità dell'uno o dell'altro di questi duecasi. Lo stratagemma riuscì. perchè appena i selvaggiebbero udito lo strepito della prima archibugiata e vedu-to il fuoco della seconda saltarono in piedi, sopraffattidalla più fiera costernazione che si possa immaginare, eintantochè i coloni si avanzavano rapidamcnte alla lorovolta questi si diedero a strillare; poi, messa una specienuova di urlo parlato che nessuno aveva mai udito, eche nessuno al certo potè capire, fuggirono sbandata-mente su i monti e per la campagna.

Su le prime i coloni si sarebbero augurati che il ventofosse stato tranquillo abbastanza onde permettere a que'molesti ospiti l'imbarcarsi; ma non pensavano che ciòpoteva essere per costoro un'occasione di tornare in tan-to numero da non potere ad essi resistere, o se non altro

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in tanti e sì di frequente da mettere a mal partito ed affa-mar la colonia. Guglielmo Atkins che, a malgrado dellasua ferita, veniva sempre con gli altri, si mostrò in que-sto caso il miglior consigliere di tutti. Il suo avviso si fudi cogliere il vantaggio che si offriva ponendosi fra essie i loro canotti togliendo così a costoro la possibilità ditornare più mai ad infestare quell'isola.

Fu ventilato a lungo questo partito che trovò opposi-zione per parte d'alcuni i quali temeano, se si lasciavanoque' miserabili vagar pe' boschi e condurre una vita dadisperati, vedersi astretti a dar loro la caccia come ad al-trettante fiere.

‒ “Non potremmo più, diceano, badare quietamentealle nostre faccende; vedremmo continuamente saccheg-giati i nostri campi, distrutti i nostri armenti, in sommasaremmo ridotti ad una vita di perpetua tribolazione.

‒ È ben meno male, soggiunse Guglielmo Atkins, l'a-ver che fare con cento uomini che con cento nazioni. Si-curo che, se ci risolviamo a distruggere le barche, dob-biamo anche essere preparati a distruggere i padroni del-le barche o ad essere distrutti noi”.

E tante ne disse per dimostrare la necessità di venire atale espediente che per ultimo, accordatisi tutti nel suoparere, si pose subito la mano all'opera di distruggere icanotti. Adunata quindi una quantità di sterpi secchid'alberi morti, si provarono i diversi coloni ad appiccareil fuoco ai canotti, ma questi erano sì bagnati che nonvolevano abbruciare. Ciò non ostante il fuoco ne lavoròsì bene la parte superiore che li rese inabili a prestare

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più mai il servigio di barche. Quando gl'Indiani si avvi-dero di quello che si stava facendo, alcuni di essi salta-rono fuori de' boschi e avvicinatisi quanto bastava peressere veduti e uditi dai coloni, s'inginocchiarono gri-dando: Oa, oa, Uara mokoa! parole, come potete imma-ginarvi, che nessuno giunse a capire; bensì i compassio-nevoli gesti e le gemebonde note davano facilmente acomprendere che supplicavano affinchè si risparmiasse-ro i loro legni: pareva anzi che promettessero di andar-sene via dall'isola e di non tornarci mai più.

Ma in quel momento erano troppo convinti i coloniche l'unica via di salvare sè stessi e l'intero loro stabili-mento consistea nell'impedire a que' selvaggi ogni ritor-no alle case loro. Ciascuno credea vedere che se un solodi quella genia andava a raccontare la storia delle coseoccorse al suo paese, la colonia era irremissibilmenteperduta. Laonde fatta conoscere ai selvaggi che non po-teano sperare alcuna sorta di misericordia, i coloni con-tinuarono la loro fazione sopra i canotti distruggendotutti quelli che la burrasca avea precedentemente rispar-miati. Alla qual vista i selvaggi, messo un orribile ulula-to ripetuto da ogni eco delle selve, si diedero a trascor-rere da forsennati tutta quanta l'isola, e da vero i colonistessi si trovarono imbarazzati sul partito da pigliarsi peril primo con quei disperati.

Notate che gli Spagnuoli con tutta la lor prudenza nonpensarono, mentre riducevano a tal miserabile stremoquegl'infelici, alla convenienza di porre buone sentinellealle piantagioni perchè, se bene avessero messi in salvo

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gli armenti, nè gl'Indiani arrivassero a scoprire i princi-pali ricoveri degli Spagnuoli, intendo la mia antica for-tezza appoggiata al monte e la caverna della valle, tro-varono nondimeno il mio frascato ove mandarono tuttoalla malora, e siepi e piante, calpestarono il grano inerba e stracciarono giù dalle viti, gualcirono i grappoliche cominciavano allora a maturare: recarono in sommaun danno incalcolabile allo stabilimento senza vantag-giare di un quattrino eglino stessi.

Benchè ciascuno de' nostri fosse abile in ogni occa-sione a battersi con costoro, pure non erano in istato dipoterli inseguire o sia di dare ad essi la caccia sul pianoe sul monte; perchè se i coloni trovavano un di essi solo,questi era troppo svelto di gamba per involarsi, e d'al-tronde un colono non s'arrischiava d'andar attorno soloper paura d'essere investito da un branco di que' selvag-gi. Fortunatamente i secondi non avevano più armi: lorrimanevano sì gli archi, ma non una sola freccia nè ordi-gni per fabbricarla; erano parimente sproveduti di qual-sivoglia arma da punta o da taglio.

Certo l'estremità cui si vedeano ridotti i selvaggi eragrande e da vero deplorabile; ma nemmeno la condizio-ne dei coloni in quel momento potea dirsi bella. Ancor-chè questi avessero preservati dalla devastazione i lornascondigli, le provisioni non celate, i nuovi ricolti era-no distrutti: onde non sapeano come farla, nè da cheparte voltarsi. L'unica loro áncora del momento consi-stea nella greggia riparata alla caverna della valle, nelpoco grano che crescea nella stessa valle e nella pianta-

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gione di Guglielmo Atkins e de' suoi colleghi or ridottiad un solo, perchè un d'essi fu l'Inglese cui una frecciaselvaggia trapassò le tempia con tanta aggiustatezza chenon parlò più. È cosa notabile essere stato costui quelcialtrone medesimo che percosse a morte con un'accettaquel povero schiavo selvaggio, poi volea fare lo stessoservigio agli Spagnuoli.

Pensandoci sopra vidi che il loro caso era più strin-gente di quanti mai ne fossero occorsi a me dopo la pri-ma scoperta dei grani d'orzo e di riso e d'avere trovato ilmodo così di seminarli come di condurne il ricolto amaturità e di educarmi un armento domestico, perchèque' poveri coloni avevano, a differenza di me, centolupi, può dirsi, alle spalle che divoravano quante coseloro capitavano, e lupi difficili a lasciarsi prendere.

Ponderate le circostanze in cui si vedevano que' mieiisolani, conclusero, non esservi migliore partito per essidel confinare questi lupi nella più interna parte dell'isolaverso libeccio (sud-west ), affinchè, se altri selvaggi ve-nivano a sbarcare, non si vedessero gli uni cogli altri;poi dar loro la caccia ogni giorno, noiarli, uccidernequanti poteano, finchè ne fosse ridotto il numero; e sefinalmente coll'andar del tempo arrivassero a mansue-farli e condurli ad un'ombra di ragione, fornirli di grano,insegnar ad essi il modo di seminare e di vivere su lagiornaliera loro fatica.

Per raggiungere un tale scopo, si posero ad incalzarlisì da vicino e a spaventarli tanto col fuoco degli archi-busi, che in pochi giorni, se un colono non arrivava

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sempre col tiro del suo moschetto a stendere morto unIndiano, lo vedea cadere semivivo dalla paura; onde at-territi in guisa così tremenda, si involavano i più e piùalla vista de' nostri, i quali instancabili nell'inseguirli eriuscendo ogni giorno ad ucciderne o ferirne qualcuno lifecero rintanare nel più folto de' boschi e ne' burroni,ove si vedeano ridotti all'ultima miseria per mancanza dinudrimento. Molti in fatti di quegli sventurati furonorinvenuti nel boschi morti non di ferite ma dalla fame.

Tale spettacolo ammollì i cuori de' coloni, che si mos-sero a compassione, e il cuore soprattutto del governato-re spagnuolo, l'uom d'animo il più nobile e generosoch'io mi abbia mai conosciuto in mia vita. Propose que-sti si procurasse, se era possibile, di prendere vivo unodi que' selvaggi, e veder di condurlo a comprendere leintenzioni de' coloni quanto bastasse per mandarlo sic-come interprete ai suoi compagni, e tentare di ridurli atali patti su cui si potesse contare e conciliabili con lasalvezza delle lor vite e la sicurezza per parte dei nostridi non essere più molestati.

Ci volle qualche tempo prima di ottenere questo in-tento, ma finalmente un di costoro, debole e mezzo mor-to dalla fame, fu sorpreso ne' boschi e fatto prigioniero.Si mostrò da prima lunatico, chè non volea saperne nèdi mangiare nè di bere, ma a forza d'usargli buone ma-niere, di offrirgli cibo e di non recargli veruna ingiuria,divenne mansueto e rinvenne in sè stesso. Condotto a luiil vecchio Venerdì, questi gli parlò spesse volte e giunsea persuaderlo delle buone intenzioni dei coloni verso i

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suoi compatriotti, come questi avrebbero non solamenterisparmiate le vite, ma assegnato ad essi un luogo dell'i-sola in cui vivere, semprechè promettessero di rimanerentro i loro confini e di non andare fuori di essi a dannoe pregiudizio degli altri; in tal caso avrebbero grano daseminare, e da cui ritrarre la loro sussistenza avvenire;che intanto per la presente sarebbero stati proveduti dipane. Il vecchio Venerdì dunque gli disse d'andare ad in-formare di tali cose i suoi compatriotti e di sentire checosa gli rispondevano, assicurandolo ad un tempo che senon si arrendevano a tali proposte, sarebbero stati tuttiirremissibilmente sterminati.

Que' poveri diavoli, umiliati affatto e ridotti al nume-ro di circa trentasette, non si fecero pregare ad accettarla proposta, e per prima cosa chiesero che si desse loroda mangiare. Udito il quale messaggio, dodici Spagnuo-li e due Inglesi ben armati in compagnia de' tre schiaviindiani e del vecchio Venerdì, si trasferirono laddoveerano questi selvaggi. I tre schiavi indiani portavanomolta copia di pane, alcune focaccie di riso bollito sec-cate al sole e tre capre vive. Qui fu intimato ai medesimidi portarsi al piede d'una collina ove sedutisi, mangiaro-no le vettovaglie recate loro dando segni d'indicibilegratitudine, poi furono fedeli alla parola oltre quantomai si fosse potuto immaginare; perchè, se non era perchiedere viveri o istruzioni, non uscivano una sola voltadei loro confini, entro i quali vivevano quando giunsinell'isola e andai a vederli.

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Vennero ammaestrati sul modo di seminare il grano;di fare il pane, di allevarsi capre domestiche e di mun-gerle. Mancava ad essi l'avere donne per divenire prestouna nazione. Il confine assegnato loro era un braccio diterra ricinto d'alti dirupi alle spalle e inclinato verso ilmare che gli stava rimpetto sul lato dell'isola posto tramezzogiorno e levante. Avevano un bastante spazio diterreno e buono e fertile da coltivare: largo all'incirca unmiglio mezzo; lungo tre o quattro.

Gli Spagnuoli insegnarono loro a fabbricarsi vanghedi legno come quelle che mi era fatte io con le miemani, e li regalarono di dodici azze e tre o quattro col-telli. Qui conducevano una vita di creature le più docilied innocenti di cui siasi mai udito parlare.

Dopo ciò la colonia godè d'una perfetta tranquillità,immune d'ogni timore rispetto ai selvaggi che le eranovicini, sino al tempo in cui tornai a visitarla il che fudopo due anni. Non dirò già che a quando a quando al-cuni canotti d'Indiani non approdassero ivi per qualcunode' trionfali orridi loro banchetti; ma, essendo di diversenazioni, e forse non avendo mai udito parlare di quelliche erano sbarcati nella stessa isola prima di essi, nonfecero niuna ricerca dei loro compatriotti; e se avesseropraticata qualche indagine a tale oggetto, sarebbe stataper essi cosa ben difficile lo scoprirli.

Così io credo aver dato un pieno ragguaglio di quantoaccadde nell'isola, delle cose almeno più degne di com-memorazione, fino all'istante del mio ritorno, Gl'Indianio selvaggi furono in guisa maravigliosa condotti a civil-

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tà dai coloni che gli andavano sovente a visitare, maproibivano ai primi sotto pena di morte il restituire que-ste visite, tanta paura avevano di vedere una secondavolta posto a soqquadro il loro stabilimento.

Una cosa notabilissima si è che i coloni, avendo inse-gnato agl'Indiani il modo di fare lavori di vimini, gliscolari superarono di gran lunga i maestri; perchè feceroun mondo di belle manifatture in tal genere, soprattuttoogni sorta di panieri vagli gabbie da uccelli, portabic-chieri, ed anche sedie, sgabelli, letti grandi e piccoli, emille altre vaghe cose: ogni qual volta si mettevano inquesti lavori, davano a vedere un acutissimo ingegno.

LXXX. Abitazione di Guglielmo Atkins.

Il mio arrivo fu un conforto anche per que' selvaggiperchè li fornii di coltelli, forbici, vanghe, zappe, pale ed'ogn'altra cosa di simil natura che non aveano certa-mente. Con l'aiuto di questi stromenti arrivarono final-mente a fabbricarsi le loro capanne, che avrebbero potu-to chiamarsi case, tant'erano eleganti, intarsiate o intrec-ciate intorno alla sommità con manifatture di vimini; la-voro di straordinario ingegno, d'un gusto per dir verobizzarro, ma che offriva in oltre un ottimo riparo controal caldo e ad ogni sorta d'insetti. I coloni ne rimaserotanto rapiti che invitarono presso loro i selvaggi stessi,affinchè facessero di simili case per essi. Quella ch'io

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vidi nell'andare a visitare le due colonie degl'Inglesi,aveva in distanza l'apparenza d'un vasto alveare.

Guglielmo Atkins (indugiò un pezzo per vero dire) di-venuto finalmente un buon diavolo, quieto, utile ed in-dustrioso, si era fabbricata quasi da sè un'abitazione fog-giata in tal guisa che non credo se ne sia mai veduta unacompagna. In forma di rotonda avea di fuori una circon-ferenza di centoventi passi, e gli ho misurati io con lemie gambe; le pareti esterne di essa parevano le facceappunto d'un paniere, composte di trentadue assi qua-drangolari alte circa sette piedi. Nel bel mezzo di questoricinto vedevate sorgere un'altra rotonda il cui circuitonon oltrepassava i ventidue passi, ma di più salda co-struzione, e che avea per base un ottagono e a ciascunodegli otto angoli un forte pilastro. Su la sommità di essal'architetto avea poste grosse armature connesse insiemecon sottili caviglie, da cui partivano otto travi, le qualiandavano ad unirsi in una piramide graziosissima, ve neaccerto io, che formava il tetto di questa seconda casa; etutto ciò era stato fatto senza aiuto di chiodi e, al più alpiù, con quelli che Atkins s'era fabbricati alla meglio,valendosi di vecchi ferramenti da me lasciati nell'isola.E, per render giustizia al vero, costui diede prove d'inge-gno ben al di là del comune in cose di cui certamentenon era obbligato ad intendersi: per esempio, d'un paiodi soffietti si fece una fucina; si fabbricò da sè il carbonepel suo lavoro; un rampicone di ferro si trasformò perlui in una discreta incudine. Quante cose arrivò a fare inquesta conformità e specialmente uncini, chiavistelli,

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anelli donde farli passare, arpioni! Ma torniamo a parla-re della sua abitazione. Dopo avere piantato questo co-perchio della sua tenda interna, pose fra un trave e l'altrodella piramide ornamenti di vimini, cui diede consisten-za con paglia di riso, ingegnosamente adattata; poi allasommità di questa le fece ombrella d'un'ampia foglia dicerto albero dell'isola; co' quali ingegni rese la fabbricaasciutta come se fosse stata difesa da tegole, o piatta la-vagna. Quanto ai lavori di vimini, veramente egli miconfessò di andarne debitore all'opera dei selvaggi.

La circonferenza esterna formava una specie di galle-ria attorno alla seconda rotonda, e lunghe travi che parti-vano dai trentadue angoli della prima, andandosi ad uni-re alla cima dei pilastri interni ad una distanza di ventipiedi all'incirca, lasciavano tra una facciata e l'altra unvano che era una specie di passeggio della larghezzaquasi di venti piedi.

La parete della casa interna era apparata come quelledelle logge: di lavori cioè di vimini, ma d'un genere piùdilicato. Essa era divisa in sei stanze terrene, ciascunadelle quali aveva due porte, una che comunicava conl'ingresso principale della casa stessa e ne prospettaval'andito interno; l'altra mettea nella loggia da cui era cir-condata la casa medesima, e andava ad imbeccare unaterza porta, perchè anche la galleria era corrispondente-mente ripartita in sei uguali stanze che offrivano non so-lamente luoghi di ritiro, ma di ripostiglio per gli usi in-terni della famiglia. Siccome poi questi sei spazii nontenevano tutta quanta la galleria esterna, le altre stanze

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di essa erano ripartite con tal ordine che entrando per laporta principale, uno stretto corridoio vi portava a dirit-tura all'ingresso principale del padiglione; ma da en-trambi i lati vi era ancora un tramezzo lavorato essopure a vimini con una porta a ciascun lato che vi condu-ceva prima in un vasto stanzone o granaio, largo ventipiedi e lungo quasi trenta, indi in una altra stanza un po'meno lunga. Per tal modo la galleria esterna avea diecistanze, sei per recarsi agli appartamenti interni, e servi-vano di gabinetti o dispense alle stanze interne corri-spondenti: e quattro magazzini o guardarobe, chiamatelipoi come volete, comunicanti fra loro a due a due, e chemetteano da ciascun lato all'andito principale del padi-glione interno.

Una tal opera d'architettura a rabeschi di vimini, unacasa o tenda composta con tanto garbo, molto meno unafabbrica ideata così, non si è, cred'io, mai più veduta nelmondo. In questo grande alveare abitavano tre famiglie,cioè Guglielmo Atkins e il suo compagno, perchè il ter-zo era morto; ma ne viveva la vedova con tre creature, epotea dirsi quattro perchè era incinta quando le morì ilmarito. I due sopravvissuti non si ristavano di metterla aparte d'ogni sostanza, intendo del grano, del latte, dell'u-va, in somma di tutti i ricolti della piantagione, o dellecapre salvatiche che uccidevano alla caccia o di qualchetartaruga côlta lungo la spiaggia; era una comunità che,in fin dei conti, non se la passava male, benchè gli uo-mini di essa non amassero le fatiche della coltivazionedei campi quanto i due Inglesi dell'altra colonia.

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Una sola cosa non posso tacere, ed è che quanto a re-ligione non m'accôrsi che ve ne fosse nemmeno l'ombrafra quella gente. Certo spesse volte si faceano sovvenirel'uno all'altro che c'è un Dio, perchè all'usanza degli uo-mini di mare giuravano nel suo nome; ma niente di più.Nè per essere divenute mogli di cristiani, chiamati alme-no così, ne sapeano meglio le povere ignoranti loro mo-gli selvagge; gli è naturale che, se erano tanto addietronel conoscer Dio i loro mariti, non potevano entrar conesse in discorsi che lo riguardassero o parlar di nulla chesi riferisse a religione.

Il solo miglioramento intellettuale che posso dire ave-re esse portato dal convivere con questi uomini, è statoquello d'imparare assai intelligibilmente l'inglese, e mol-ti de' loro ragazzi, circa venti fra tutti, furono ammae-strati a sciogliere la prima volta la lingua con questoidioma: una sintassi un po' stiracchiata, per vero dire,chè già le frasi non le connettevano con infinita leggia-dria nemmeno le loro madri. Non v'era alcuno di questiragazzi che passasse i sette anni al momento del mio ar-rivo nell'isola, cosa assai credibile perchè non correamolto più di sette anni da che gl'Inglesi s'accoppiaronocon quelle cinque gentildonne selvagge, tutte (notate)feconde, perchè non ve n'era una che, dal più almeno,non avesse figli. Credo che la donna toccata al cuocofosse incinta del sesto figlio; del resto buone madri difamiglia; quiete, laboriose, modeste e morigerate, pro-clivi a prestarsi aiuto le une coll'altre, subordinate oltreogni credere ai loro padroni, chè a parlar giusto non si

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potevano chiamare mariti: mancava ad esse soltantol'essere istruite nel cristianesimo e il divenire legittimemogli; entrambi i quali intenti raggiunsero col mezzomio, o certo in conseguenza della visita da me fatta aque' paesi.

LXXXI. Digressione su gli Spagnuoli.

Dopo avere così offerto un racconto su le cose dellacolonia in generale e alcun che di più speciale su i mieicinque rompicolli inglesi, gli è giusto ch'io dica purequalche cosa su gli Spagnuoli che formavano il corpoprincipale dell'intera famiglia e la storia de' quali non èpriva d'incidenti piuttosto notabili

Ebbi lunghi discorsi con essi su i particolari che lorooccorsero quando vissero fra i selvaggi. Mi confessaro-no ingenuamente che non aveano grandi cose a dire sul'industria o saggezza con cui si contennero durante queltempo: essersi veduti in tale stato di miseria, di dereli-zione e abbiezione che, quando anche ci fossero statimezzi per loro di liberarsene, si erano abbandonati inpreda alla disperazione, si sentivano acciaccati al segnodi non sapersi immaginare miglior fine del morire difame.

Un di loro, uom grave e giudizioso, mi disse che, insua sentenza, avevano avuto gran torto, nel darsi perperduti in tal modo; che gli uomini di proposito non de-vono mai darla vinta così alla sciagura, ma sempre appi-

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gliarsi a que' soccorsi che somministra la ragione, siaper sopportare i mali presenti, sia per pensare ad unoscampo avvenire. “Non v'ha nel mondo, egli mi dicea,più stolto ed insulso affanno di quello che portandosisoltanto su le cose passate, impossibili ad essere rese di-verse da quelle che furono e generalmente parlando irre-parabili, non si riferisce piuttosto all'avvenire e che, sen-za pensare possibili combinazioni di un futuro scampo,accresce l'afflizione anzichè suggerire un rimedio vale-vole a dissiparla”. In ordine a che egli citò un adagiospagnuolo che ho tradotto così in altra lingua: Nella tri-bolazione il tribolarsi è doppia tribolazione.

Ad appoggio del suo dire trasse a mano i piccioli mi-glioramenti di condizione che io mi era procurati nellamia solitudine; la mia indefessa solerzia, così egli lachiamava; solerzia, la cui mercè, in circostanze assaipeggiori in principio delle loro, resi la mia sorte millevolte più felice che nol fosse la loro anche adesso tro-vandosi tutti insieme. Qui fece un elogio agl'Inglesi, chesecondo lui, in mezzo alle disgrazie si perdeano meno dicoraggio d'ogn'altra nazione con cui s'era incontrato, “Imiei sfortunati concittadini, indi soggiunse, e i Porto-ghesi son la gente del mondo men fatta per lottare con lasventura; il loro primo passo, quando i comuni sforziper allontanarla tornano vani, è mettersi disperati, sog-giacere sotto di essa, e morire senza avere sollevati unavolta i loro pensieri alla ricerca della via per liberarsene.

Non mancai di rispondere che il caso mio era infinita-mente diverso dal loro; ch'essi erano stati gettati in una

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spiaggia ove mancavano di tutte le cose di prima neces-sità e affatto di sostentamento.

‒ “È vero, dissi, che avevo lo svantaggio e lo sconfor-to di trovarmi solo; ma i soccorsi mandatimi dalla Pro-videnza, quando inaspettatamente gli avanzi del basti-mento naufragato vennero portati dal mare alla spiaggia,furono tali che avrebbero incoraggiata qualunque crea-tura del mondo a profittarne siccome io feci.

‒ Signore, mi rispose lo Spagnuolo, se noi poveriSpagnuoli fossimo stati nel caso vostro, non ci saremmoprocacciati da quel bastimento la metà delle cose che netraeste voi; anzi non avremmo mai avuto il giudiziod'improvvisare una zattera per trasportarle o l'abilità dicondurla alla spiaggia senza aiuto di vela; molto menopoi avremmo fatto se ognuno di noi si fosse trovatosolo.

‒ Sia; ma fatemi grazia di dare un taglio al vostrocomplimento e di raccontarmi la vostra storia dopo chearrivaste alla spiaggia ove prendeste terra.

‒ Eh! signore, sbarcammo in un paese abitato da unapopolazione priva di provisioni per sè medesima. E sì,se i nostri avessero avuto tanto ingegno di rimettersi inmare, avremmo trovata un'isola un po' più lontana, riccadi viveri e priva d'abitanti: la cosa era propriamente,come vi dico; perchè gli Spagnuoli della Trinità, avendoavuto frequenti occasioni di sbarcarvi, l'avevano empiu-ta per più riprese di capre e di porci che si moltiplicaro-no sterminatamente, oltrechè vi era abbondanza d'uccel-li aquatici. Vedete che non saremmo mancati di carne; di

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pane sì, ma dove ci fermammo non avevamo nè unacosa nè l'altra; in vece di pane dovevamo contentarci dipoche erbe e radici delle quali non sappiamo nemmenoil nome, cibi di niuna sostanza, e che gli abitanti nesomministravano anche con molta parsimonia. Già nonci poteano dare di meglio, semprechè non ci fossimobuttati cannibali e adattati a mangiar carne umana, che èla pietanza favorita di quel paese”.

Qui mi raccontò di quante fatte ne avessero tentateper instillare qualche principio di civiltà ai selvaggi co'quali vivevano, e invogliarli di abitudini più ragionevolinel loro modo di vivere, ma tutto invano.

‒ “Anzi coloro, così lo Spagnuolo, ci rimproveravanoquesta cosa come una colpa. Tocca bene a voi, ci facea-no capire, che venite qui implorando assistenza a dareistruzioni a quelli che vi nudriscono. Secondo essi, nonv'era chi potesse ammaestrare quegli uomini senza deiquali non può vivere”.

Mi narrò in appresso le amare estremità cui si videroridotti: nient'altro che quella di star talvolta più giornisenza mangiare del tutto; perchè quell'isola era abitatadai selvaggi più indolenti della loro razza e per conse-guenza, come era naturale il credere, men proveduti del-le cose necessarie alla vita di quanto il fossero altri sel-vaggi che vivevano in paesi posti sotto il medesimo cli-ma. Notò per altro essere i primi molto men voraci edingordi di quelli che aveano maggior copia di viveri aloro disposizione.

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‒ “Noi ciò non ostante, contiunò lo Spagnuolo, nonpotemmo fuorchè riguardare una manifesta prova dellabontà e saggezza di quella providenza che governa lecose di questo mondo nel non esserci lasciati indurre daque' patimenti e dall'orribile sterilità della contrada acercar luogo ove vivere meglio. Ci saremmo tolti fuor dimano al soccorso che ci venne per mezzo vostro. Ma neabbiamo sofferte di quelle! Basta vi dica che gl'isolanico' quali vivevamo, ci pretendevano ausiliari nelle loroguerre. Pazienza, se avendo, come ne avevamo, armi dafuoco con noi, non ci fosse occorsa la disgrazia di per-dere tutte le nostre munizioni! Avremmo potuto nonsolo essere utili ai nostri ospiti, ma fatto paura a loro eai loro nemici in una volta. Così costretti senza polverenè palle ad andare alla guerra con que' nostri amabilifeudatari, eravamo in peggiore condizione di essi, per-chè non avevamo, come loro, archi, dardi, nè di quelliche ci avessero dati avremmo saputo servirci. Non pote-vamo dunque far altro che star quieti alla pioggia dellefreccie del nemico sintantochè gli fossimo faccia a fac-cia; chè qualche volta gli abbiamo condotto tutto il no-stro piccolo esercito in fronte, e ci siamo ingegnati dan-neggiarlo con le alabarde e le baionette degli schioppi;ma con tutto ciò, investiti dal numero, eravamo semprein pericolo di restar morti sotto le freccie indiane. Tro-vammo per ultimo l'espediente di fabbricarci grandi scu-di di legno da noi coperti con pelli di bestie selvaggeche non sapevamo nemmeno come si chiamassero. Cosìalmeno ci difendevamo dalle loro armi da lancio. Ma ad

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onta di ciò correvamo sempre de' grossi rischi, nè fu unabagattella quando cinque di noi furono stramazzati daicolpi delle loro clave”.

Alludeva qui alla battaglia in cui fu fatto prigionierolo Spagnuolo che salvai, come sapete, dall'essere divo-rato nella mia isola. Alla prima credettero che fosse sta-to ucciso; ma poichè in appresso lo seppero prigioniero,ne provarono un inesprimibile cordoglio, e avrebbero dibuon grado rischiate le loro vite per riscattarlo dal dive-nir pasto de' barbari.

Stramazzati così i cinque, gli altri, come mi dissero,gli Spagnuoli corsero a proteggerli co' loro corpi com-battendo finchè si fossero riavuti tutti, eccetto quelloche credevano morto, e che rimase poi prigioniero. Allo-ra serratisi in linea con le alabarde e le baionette in can-na si apersero via per traverso ad un esercito di mille epiù selvaggi; e, atterrando tutto quanto impacciava adessi la strada, riportarono vittoria su l'inimico, ma congrande loro rammarico perchè fu a costo della perditadel loro compagno che i selvaggi, scoprendolo vivo sitrasportarono via con altri, come già precedentementenarrai.

Con qual energia d'affettuoso sentimento mi descris-sero la sorpresa di gioia da essi provata al ritorno delloro amico e compagno di sventure che pensavano divo-rato da fiere della peggior razza: dai selvaggi! Quantopiù grande in essi fu lo stupore al racconto che fece lorodella sua commissione, e al sapere che viveva un cristia-

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no in terra ad essi vicina, e di più un cristiano che avevaabilità e buon volere di giovare alla loro liberazione!

Mi dissero come li facesse attoniti la vita dei sussidiiche ad essi io aveva spediti e soprattutto la comparsadelle pagnotte, cosa che non aveano più veduta dopo illoro arrivo in quel paese della disperazione. Oh quantevolte si fecero il segno della croce, e le benedisserocome pane mandato dal cielo! Come si sentivano rina-scere all'assaggiar queste pagnotte e gli altri cibi di cuiper mio mezzo si videro proveduti! Dopo tutto ciòavrebbero voluto dirmi qualche cosa della gioia che gliinvase all'aspetto della barca e de' piloti ancorati colàper trasportarli presso la persona e nel luogo donde lorvenivano sì inaspettati conforti; ma qui espressioni man-carono loro, perchè la natura di tal contentezza essendostata tale che li condusse pressochè ad impazzire, nontrovavano termini proporzionati a descriverla attesi glistravaganti effetti prodotti in loro da tal piena d'esultan-za, che abbisognava di uno sfogo fuor d'ogni ordinario.‒ “Chi di noi, mi raccontavano, si trasse matto per qual-che tempo; in chi la gioia prendeva un andamento, inchi l'altro; alcuni diedero in uno scoppio di lagrime, adaltri venne male, qualcheduno cadde come morto deltutto”.

Nun so dirvi quanta impressione mi facesse questaparticolarità che mi tornò a mente e l'estasi di Venerdìquando tornò suo padre, e quella di que' poveri navigan-ti cui diedi ricovero quand'ebbero il lor vascello incen-diato, e la gioia del capitano del bastimento quando per

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opera mia si vide tornato a vita e libertà nel deserto oveaspettavasi di morire, e la gioia di me medesimo allor-chè, dopo ventott'anni di cattività, trovai un buon basti-mento pronto per ricondurmi al mio paese nativo. Poteteimmaginarvi se tutte queste precedenze non mi reserosempre più commosso al racconto di que' poveri sventu-rati.

LXXXII. Providenze per la colonia e banchetto diperfetta riconciliazione.

Dopo aver dato pienamente questo specchio dello sta-to delle cose che trovai quivi, mi spetta ora l'incarico didescrivere i principali provedimenti che diedi a favoredi questi abitanti e la condizione in cui li lasciai. Eraloro opinione, ed anche mia, che per l'avvenire non sa-rebbero più stati inquietati dai selvaggi e che, figurando-si anche il peggio, avrebbero potuto sterminarli se fosse-ro venuti in forza doppia di quella de' precedenti. Su talpunto adunque non c'era di che pigliarsi fastidio.

Entrai pertanto in un serio discorso con lo Spagnuoloda me denominato il governatore su quanto concernea lafutura loro dimora nell'isola. Già io non mi era portatoivi con l'idea di condurre via di lì alcuno di essi, e quan-do lo avessi fatto per qualcheduno, sarebbe stata un'in-giustizia in verso degli altri che forse l'avrebbero malsentita di rimanere allorchè la loro forza fosse diminui-ta. D'altronde, io dissi loro in chiari termini che la mia

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intenzione era stata, non di levarli di lì, ma di migliorarela loro sorte perchè vi si stabilissero: in prova di cheraccontai ai medesimi come avessi trasportato con mediverse maniere di sussidi efficaci a farli star bene; esse-re io abbondantemente fornito di quanto sarebbe statonecessario così alla loro sussistenza come alla loro dife-sa, ed avere in oltre condotte le tali e le tali persone conme a fine così di far nuove reclute alla colonia comeperchè fossero utili agl'indispensabili bisogni della colo-nia stessa, e, professando ciascun di questi arti meccani-che, la mantenessero proveduta d'ogni cosa necessaria dicui difettò fin allora.

Mentre io parlava così, erano tutti convenuti intorno ame e Spagnuoli ed Inglesi, e prima di somministrareloro i sussidi che aveva portati meco, gl'interrogai unoper uno affinchè mi dicessero se avevano affatto dimen-ticati e coperti, come si suol dire, d'una pietra sepolcralei primi astii, e se si sarebbero toccati scambievolmentela mano e promessi a vicenda una stretta amicizia edunione d'interessi, tanto che non nascessero più risse omale intelligenze fra loro.

Fu primo a rispondermi con esuberanza di lealtà ebuon umore Guglielmo Atkins:

‒ “Abbiamo avute tutti bastanti traversie per far giu-dizio e bastante numero di nemici dal di fuori per dive-nire tutti amici al di dentro. Dal canto mio, starei a pattodi vivere e morire con questi compagni. E son sì lontanodall'avere cattivi disegni verso gli Spagnuoli, che con-fesso non m'aver essi fatto nulla più di quanto il mio

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cattivo temperamento rendea necessario; io anzi ne' pan-ni loro avrei fatto peggio. Se volete (qui si volgeva ame) son pronto a chiederli di perdono pei tratti brutali eda vero matto che ho praticati verso di essi, nè desideromeglio del vivere con loro ne' termini di una piena ami-cizia e di fare tutto quanto dipende da me per convincer-li di ciò. Circa al tornare nell'Inghilterra non mi curo dirivederla da qui a venti anni”.

Gli Spagnuoli non si stettero dal dichiarare, che sealla prima disarmarono Guglielmo Atkins e i suoi duecompagni, gli aveva astretti a ciò la strana condotta deimedesimi, come ne aveano già fatte le anticipate prote-ste che mi ricordarono in conferma della necessità chegli spinse.

‒ “Ma poichè, soggiugneano, Guglielmo Atkins si ècomportato sì valorosamente nella grande battaglia cheabbiamo sostenuta co' selvaggi ed in altre successive oc-casioni; poichè si è mostrato sì fedele e affezionato al-l'interesse comune di tutti noi, dimentichiamo ogni cosapassata, e giudichiamo che debba essere fornito d'armi eproveduto di quanto gli bisogna al pari di tutti noi”.

E dell'essere soddisfatti di lui gli diedero una evidenteprova col conferirgli il comando in secondo dopo il go-vernatore; anzi per dimostrare sempre più la confidenzache avevano presa in lui e ne' suoi compagni, dichiara-rono essersela essi meritati per tutte quelle vie onde gliuomini d'onore s'acquistano la pubblica fede; accolseroindi di tutto cuore questa occasione per farmi certo che

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d'allora in poi non avrebbero mai avuti interessi separatigli uni dagli altri.

Dietro queste leali dichiarazioni, si convenne di au-tenticarle pranzando tutti in compagnia nel dì appresso,e fu veramente uno splendido banchetto. Feci venire sula spiaggia per apparecchiarlo il capo cuoco del nostrobastimento ed il suo aiutante, ai quali diede una mano ilvecchio cuoco in secondo che, come sapete, avevamonell'isola. Così pure ordinai si portassero a terra sei pez-zi di manzo, quattro di porco salati tolti dalle nostre pro-visioni marittime; ne trassi pure due vasi da punch congl'ingredienti per farlo, oltre a dieci fiaschetti di clarettodi Bordò ed altrettanti di birra inglese, cose che i colonispagnuoli ed inglesi non assaggiavano da tanti e tant'an-ni, onde non vi starò a dire se le aggradirono. Gli Spa-gnuoli aggiunsero del proprio cinque capretti che venne-ro arrostiti tutti interi e tre de'quali, mantenuti caldi conogni cura, furono spediti ai marinai affinchè essi godes-sero delle nostre vivande fresche a bordo, mentre noi interra facevamo onore alle loro carni salate.

Dopo questo banchetto condito della più innocentegioia, trassi a mano la provista di merci che avevo por-tate meco e, affinchè non nascessero dispute fra i coloninel ripartirsele, gli avvertii che ce n'era abbastanza pertutti, pregandoli quindi a fare parti eguali delle robestesse, ben inteso dopo che sarebbero state poste in ope-ra. Per prima cosa distribuii tanta tela quanta bastava afare per ognuno di loro quattro camicie, portate indi alnumero di sei ad inchiesta degli Spagnuoli: conforti ine-

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narrabili per quella povera gente che si era, per cosìdire, dimenticato l'uso di questi arredi, e che non sapeapiù che cosa fosse portarne in dosso. Aggiunsi que' leg-gieri tessuti Inglesi di cui v'ho parlato prima, perchèognuno se ne facesse una specie di zimarra, genere divestimento che per la freschezza e scioltezza sua giudi-cai più confacevole al calore del clima. Ordinai ad untempo che quando quelle zimarre fossero fruste venisse-ro rinovate secondo il bisogno di chi le portava. Aggiun-si in proporzione calze, scarpe, cappelli e simili minutecose.

Non vi so descrivere la contentezza che si leggea su ivolti di quelle creature, piene di gratitudine alla curach'io m'era presa di loro e di gioia al vedersi così beneprovedute. Chiamatomi ad una voce il loro padre, sog-giunsero che, essendo in sì rimota parte del mondo sicu-ri d'un corrispondente qual era io, non s'accorgerebberopiù di vivere in un deserto, e tutti spontaneamente si ob-bligherebbero meco a non abbandonare mai l'isola senzail mio assenso.

Allora presentai loro gli artefici che m'ero trasportatiin mia compagnia, il sartore, il ferraio, i due carpentierie specialmente quel mio ometto da tutti i mestieri, intor-no al quale non potevano immaginarsi eglino stessi lecose in cui sarebbe stato ad essi utile il suo servigio. Ilsartore per dare una prova del suo interessamento perloro si mise subito con mia licenza a tagliare la tela ch'ioavea portata ed a fare una camicia ad ognuno: primo suolavoro nell'isola e servigio anche più rilevante, perchè

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ammaestrò le donne a cucire, rattoppar panni, in sommaa trattare l'ago, al qual fine le facea star presenti mentreegli tagliava e cuciva le camicie de' loro mariti e di tuttigli uomini della colonia.

Circa ai carpentieri ho poco bisogno di dire quantogiovassero. Il primo saggio che diedero di loro abilità aque' riguardanti fu mettere in mostra tutti gli sbozzi dilavoro di legname ch'io avea portati con me (robacciainforme di cui non avreste dato un quattrino) ingentilirlie in certa guisa animarli conformandoli a tavole, tavoli-ni, sgabelli, credenze, scaffali, tutte in fine quelle sup-pellettili di cui la colonia mancava.

Ma per mostrare ad essi come la natura faccia gli ar-tefici da sè stessa condussi i carpentieri alla casa fatta apaniere, com'io la chiamava, di Guglielmo Atkins, econfessarono entrambi di non aver mai veduto per l'ad-dietro un simile esempio di naturale ingegno, nè unafabbrica nel suo genere sì regolare e disinvolta, onde undi loro, dopo averci pensato un pochino, mi si voltò ad-ditandomi l'edificatore della casa.

‒ “Quest'uomo non ha bisogno di noi: non avete a faraltro che dargli stromenti”.

Allora misi in vista tutto l'arsenale de' miei stromentidando a ciascuno una zappa, una pala e un rastrello, per-chè d'aratri o vomeri non ne avevamo con noi; e in cia-scuna divisione feci che si trovasse una vanga, un raffio,un'accetta e una sega, ordinando che qualunque voltaquesti arnesi si rompessero o logorassero ne venisserosomministrati d'altri dal magazzino generale dello stabi-

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limento. Quanto poi a chiodi grandi e piccoli, arpioni,martelli, scarpelli, coltelli, forbici e simili lavori di ferrodi cui potevano abbisognare, n'ebbero senza contarli fin-chè ne domandarono; chè già nessuno volea chiederneoltre al suo bisogno, e sarebbe stata una pazzia troppoassurda il volerli sprecare senza costrutto; per l'uso poidel ferraio lasciai una scorta di ferro non lavorato.

Il magazzino di polvere e l'armeria da me assicurataloro fu tale e sì profusa che non dovettero se non alle-grarsene. Basti il dire che d'allora in poi ognuno potèandare attorno, come faceva io, con un moschetto perspalla, se ne veniva il bisogno; laonde si trovavano inistato di combattere con buon esito contro a mille sel-vaggi ogni qual volta avessero il vantaggio della posi-zione, e questo vantaggio certo non se lo sarebbero la-sciato sfuggire a norma de' casi.

Condussi meco a terra quel giovine la cui madre eramorta di fame nel secondo degli sfortunati bastimenti dame incontrati nel viaggio, ed anche la cameriera. Eraquesta una giovine tanto saggia, ben allevata, piena direligione e fornita di sì dolci maniere, che ognuno le di-ceva una buona parola. Dovea, se si ha a dire la verità,essersela passata piuttosto male nel nostro bastimentoove non c'erano altre donne che lei; pure si rassegnò atale molestia di buona grazia.

Dopo essere rimasti ella e il suo giovine padrone al-cun poco nella mia isola, e veduto come tutte le cose vierano in buon ordine ed in istato di prosperare sempre dipiù, considerando inoltre che non avevano affari nelle

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Indie Orientali, nè un motivo che gli spingesse ad im-prendere un sì lungo viaggio, mi chiesero di poter rima-nere quivi e di essere ammessi a far parte, com'essi dice-vano, della mia famiglia, alla quale domanda acconsen-tii immediatamente. Venne per conseguenza assegnatoloro un pezzo di terra ov'ebbero tre tende lavorate a vi-mini siccome la stanza di Atkins, presso la quale venne-ro innalzate. Furono ideate in modo le predette tendeche ciascuna delle laterali era la loro separata stanza daletto, quella di mezzo una specie di guardaroba per ri-porvi le cose di ciascun d'essi e nella quale l'uno e l'altraconvenivano pe' giornalieri lor pasti.

Quivi trasferirono le loro dimore anche gli altri dueInglesi, con che la mia isola venne ad essere compostadi due colonie e nulla più: quella cioè degli Spagnuoliche col vecchio Venerdì e co' primi tre servi dimoravanonella mia fortezza protetta dal monte, sarebbesi detta lametropoli: quivi avevano estesi ed ampliati tanto i lorolavori, così nell'interno come al di fuori, che, se bene ri-manessero celati ad ogni sguardo, vivevano assai al lar-go. Non si è mai dato l'esempio di una tal piccola cittàin mezzo ai boschi, tanto recondita che mille nomini, locredo fermamente, avrebbero voluto durarla un mese gi-rando l'isola, e (semprechè non fossero stati avvertitidell'esistenza d'un tal nascondiglio, o non lo avesserocercato con deliberato proposito) non sarebbero giunti ascoprirlo. Gli alberi, già ve l'ho raccontato, erano sì fol-ti, piantati in tanta vicinanza l'uno dell'altro, sì presti nelcrescere, s'intrecciavano tanto fra loro che avrebbe biso-

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gnato atterrarli per accorgersi dell'abitazione cui faceanoriparo; chè quanto ai due angusti ingressi per cui si per-veniva nell'interno, non era sì facile l'indovinarli.

Un di essi era su l'orlo dell'acqua dal lato della picco-la darsena e lontano più di duecento braccia dal luogo,l'altro conveniva superarlo in due tempi con una scala amano, come ho già detto più volte. Notate di più che sulmonte ove si poteva aver questo ingresso, era stata pian-tata, anche lì, una foltissima selva (larga più d'una bifol-ca) d'alberi, che v'è noto come crescessero rapidamentee s'intrecciassero insieme; e l'unico passaggio donde sipotesse pervenire al sito ove si potea porre la scala, eraun impercettibile vallo fra due di questi alberi.

L'altra colonia era quella di Guglielmo Atkins, orcomposta di quattro famiglie di Inglesi (cinque con lavedova di quello che morì in guerra) e de' loro figli edelle donne loro, dal giovine venuto con me e della ca-meriera, alla quale fu dato marito prima che io partissidall'isola. Aggiugnete i due carpentieri il sartore e il fer-raio, tutti individui utilissimi alla colonia, ma quest'ulti-mo più necessario di tutti, come armaiuolo per tenercura de' moschetti, fondamento principale della comunesicurezza. Non ci scordiamo per ultimo il mio famoso fatutto, che contava, lui solo, per venti uomini, a tanti me-stieri era adatto, e che oltre all'essere pieno d'ingegnorallegrava ognuno con la sua giocondità. Prima ch'io ab-bandonassi l'isola, gli demmo per moglie la giovane dicui si è fatta menzione poc'anzi.

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LXXXIII. Il prete cattolico.

Poichè si è parlato ora di matrimonio, ciò mi trae na-turalmente (e non si tarderà a vederne il perchè) a dirqualche cosa intorno all'ecclesiastico francese ch'io rac-colsi a bordo insieme con l'altre vittime dell'incendio dellor bastimento. Egli è vero che questi era cattolico ro-mano37; onde spiacerò forse ai miei leggitori protestantiinterpolando a questa mia storia ricordanze onorevoli adun uomo, che dovrei forse presentare sotto aspetto e co-lori men vantaggiosi a chi professa il mio culto, perchèera in primo luogo papista, in secondo luogo prete papi-sta, per ultimo prete papista francese, ma la giustiziam'obbliga a non celare il suo nobile carattere. Ravvisaiin lui un grave, moderato, pio, religiosissimo personag-gio, esatto nell'adempimento dei doveri della vita, dota-to della più estesa carità verso il prossimo, esemplarepuò dirsi in tutte l'opere sue. Chi potrà darmi torto se ap-prezzai i meriti d'un tal uomo, ancorchè professasseprincipii religiosi diversi in parte dai miei, ancorchè, inmia sentenza e in sentenza di una gran parte de' mieileggitori inglesi, in ordine a ciò s'ingannasse?

Fin dal primo momento che principiai a conversarecon lui, e fu appena s'appigliò al partito di venir mecoall'Indie Orientali, ebbi grande motivo di dilettarmi dellasua compagnia, perchè traendo a mano soggetti di reli-

37 È già noto che tale non era il personaggio principale di questa storia, nèl'autore di essa: cosa che fa d'uopo non perdere di vista nel corso di questo ca-pitolo e del successivo.

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gione, ecco in qual modo sensato e cortese ad un temposi esprimeva con me.

‒ “Signore, voi non solamente siete, dopo Dio (e quisi faceva il segno della croce) il salvatore della mia vita,ma datomi luogo nel vostro bastimento, avete avuta l'i-nestimabile cortesia di ammettermici siccome uno divostra famiglia e di darmi un adito a parlarvi con fran-chezza e col cuor su le labbra. Ora, mio signore, voi ve-dete dal mio abito qual sia la mia professione di fede, edal conoscervi inglese devo argomentare qual sia la vo-stra. Posso bensì credermi in obbligo, anzi lo sono, diadoperarmi in ogni occasione con tutte le mie forze alloscopo di condurre il maggior numero possibile d'animea ravvisare il vero ed abbracciare il cattolicismo; ma tro-vandomi qui per effetto di una vostra condiscendenza edentrato nella vostra famiglia, i riguardi della giustizianon meno che quelli della civiltà e della buona educa-zione mi costringono a dipendere dai vostri comandi; nèquindi mi piglierò la libertà d'istituire veruna discussio-ne su que' punti religiosi in cui non andiamo d'accordoal di là di quanto ve ne mostraste mai desideroso voistesso.

‒ Son tanto moderati ed onesti questi vostri propositi,gli risposi, che non posso non esservene grato. Egli èvero, apparteniamo ad una classe d'uomini che voi chia-mate eretici, ma non sarete voi il primo Cattolico colquale mi fossi intertenuto senza cadere in isconvenevo-lezze o senza portare le discussioni ad un punto che di-venissero troppo calde. Voi non sarete trattato con mino-

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ri riguardi per essere d'opinione diversa dalla nostra, e ciregoleremo sempre in modo che, se negli scambievoliragionamenti si venisse a qualche proposito men grade-vole o ad una parte o all'altra, non ne sia mai nostra lacolpa.

‒ Son persuaso, egli soggiunse, che i nostri parlari an-dranno sempre disgiunti da tal genere di dispute, perchènon è mio stile il tirare a mano punti di religione nelconversare, e mi farò un piacevole studio di ravvisare invoi piuttosto un gentiluomo amabile in compagnia, cheun dogmatico. Qualunque volta soltanto desideraste voistesso intertenervi in quistioni di tal natura, non mi rista-rei dal secondarvi, e in tal caso spero che mi concedere-ste la libertà di difendere le mie opinioni quali potesseroparervi; ma, ve lo ripeto, semprechè non ci concorressela vostra volontà e permissione, non entrerò mai io pri-mo in tali propositi. Certo nel mio interno non desisteròmai da quanto credo mio uficio di sacerdote e di buonCristiano per impetrare da Dio ogni prosperità al vostrobastimento e a quanto vi si contiene; e spero bene che,quantunque non vi associereste forse alle mie preghiere,mi sarà lecito il pregare Dio per voi, cosa che farò sem-pre quando ve ne sarà l'occasione”.

Tale era lo stile delle nostre conversazioni; tale il suocontegno in cui si scorgeva non solamente l'uomo corte-se e nobilmente educato, ma, se non presumo troppo delmio discernimento, l'uomo dotato d'un finissimo razioci-nio e credo anche l'uom dotto.

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Interessantissimo fu il racconto ch'egli mi fece dellastoria della sua vita e de' molti straordinari eventi, dellemolte avventure occorsegli ne' pochi anni da che giravail mondo: tra le quali la più singolare riguardava il pre-sente viaggio in cui ebbe la mala sorte d'imbarcarsi disbarcar cinque volte senza mai raggiugnere il paese oveerano destinati i vascelli che lo avevano a bordo. Imbar-catosi con l'intenzione di recarsi alla Martinica, in unbastimento che veleggiava alla volta di San Malò, le for-tune del mare danneggiarono tanto quel legno che lo co-strinsero ripararsi alla foce del Tago, e mettere a terra lesue mercanzie e i suoi passeggieri a Lisbona. Trovatoquivi un vascello portoghese pronto a salpare per Made-ra, e credendo che giunto in questo porto non gli sareb-be difficile il procacciarsi un imbarco per la Martinica,vi entrò; ma il capitano, marinaio piuttosto mal pratico,sbagliò i conti della sua stima, e approdò invece a Fyal,ove, per dir vero, accadde a questo capitano di venderbene il suo carico che era grano. Ma in grazia di questoabbandonata l'idea di portarsi a Madera, divisò cercareinvece l'isola di May per farvi una grossa prevista disale e trasferirsi con questo nuovo carico a Terra Nuova,Il povero prete francese, avuto di grazia d'andare doveandava quel bastimento, ebbe, se vogliamo, un ottimo,viaggio sino ai Banchi della pesca. Quivi incontratosi inun legno francese destinato per Quebec sul fiume delCanadà, e di lì alla Martinica, per portarvi provigioni,sperò finalmente aver trovato l'opportunità di effettuarequesto viaggio sospirato sì lungo tempo, ma giunto a

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Quebec, morì il capitano del bastimento che non potèandare più avanti. S'imbarcò dunque per tornare in Fran-cia in quel vascello che poi prese fuoco... Questa storiagià la sapete, e sapete come fosse imbarcato con noi perl'Indie orientali. Cosi egli ebbe disgrazia in cinque viag-gi, tutti fatti può dirsi in un viaggio solo, oltre agli altricasi intervenutigli, e che avrò motivo di accennare.

Ma per non rendere la mia digressione più lunga conla storia d'altri uomini torno alla mia propria: a quantoconcerne cioè gli affari dell'isola. Il buon sacerdote ven-ne a cercarmi una mattina perchè alloggiò sempre vicinoa me nel tempo di questo mio soggiorno, e mi trovò ap-punto su l'atto di andare a visitare la colonia degli Ingle-si nella più remota parte dell'isola, siccome vi è noto.

‒ “Son due o tre giorni, mi disse in assai grave aspet-to, che desidero un'occasione d'intertenermi con void'alcuni oggetti su cui spero non vi dispiacerà l'ascoltar-mi, perchè, credo, che collimino con la generalità dellevostre brame intese affatto alla prosperità della vostracolonia e al fine ancora di vederla più che non lo è stataforse finora, almeno io penso così, nella via delle bene-dizioni di Dio.

‒ Come, signore! (me gli volsi un po' bruscamenteperchè quest'ultima parte del suo discorso m'avea fattoalquanto, lo confesso, saltare la mosca al naso) come, si-gnore, potete voi dire che non siamo nella via delle be-nedizioni di Dio, dopo sì visibili assistenze e prodigioseliberazioni che abbiamo vedute qui co' nostri occhi edelle quali vi ho fatto un così lungo racconto?

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‒ Se aveste avuto la compiacenza di lasciarmi finire(diss'egli con grande modestia e prontezza ad un tempo)avreste capito che non c'era qui nessun motivo di acci-gliarvi, molto meno di farmi il torto d'attribuirmi l'ideadi negare le prodigiose assistenze e liberazioni divine dicui mi parlate. Penso ottimamente di voi, e credo perconseguenza che voi siate su questa via delle celesti be-nedizioni, e che i vostri disegni sieno eccellenti, e cheanderanno a buon termine. Ma benchè, signor mio, que-sta cosa sia vera oltre ogni possibile quanto a voi, visono tra la vostra gente alcuni le cui azioni non sono sula strada della rettitudine, e ben sapete che nella storiade' figli d'Israele, un solo Acano nel campo bastò a farritirare la benedizione di Dio da tutti gli altri e ad armar-ne la mano punitrice su trentasei individui non complicidelle colpe del reo, i quali ciò non ostante percossi dalladivina vendetta, portarono il peso di tale castigo.

‒ Dio mio! (esclamai commosso grandemente da unsimile discorso) voi mi citate un fatto verissimo, e vedotanto candore nel vostro discorso, e lo trovo sì religiosodi sua natura che mi pento d'averlo interrotto. Vi pregodunque continuarlo. Unicamente, poichè prevedo chenon sarà sì breve, e dovendo io trasferirmi ora a veder lepiantagioni inglesi, mi fareste un piacere se venendocon me lo proseguiste lungo la strada.

‒ Tanto più volentieri vi accompagnerò, perchè ci re-chiamo appunto su la scena delle cose di cui bramo in-tertenervi”.

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Facemmo dunque insieme questa gita, durante la qua-le lo pregai a dirmi francamente tutto quello che aveva araccontarmi.

LXXXIV. Suggerimenti del prete cattolico lungo la via.

‒ “Dunque, signore, cominciò il prete, concedetemi dipremettere alcune cose che saranno siccome il fonda-mento di quanto mi prefiggo dirvi. Possiamo benissimovoi ed io non differire nelle massime generali anche nonaccordandoci praticamente in qualche opinione partico-lare. Primieramente differiamo in alcuni punti del dog-ma, ed è una grande sfortuna nel caso presente, come lodimostrerò in appresso; ma ciò non toglie il nostro co-mune accordo nell'esistenza di certi principii, come sa-rebbe a dire che v'è un Dio; che questo Dio, avendocidate certe determinate regole per servirlo e obbedirgli,noi non dobbiamo offenderlo volontariamente e a nostrasaputa, sia col trascurare le cose da lui comandante, siacol far quelle che espressamente egli ha proibite. Passipure quanta differenza si vuole tra le nostre religioni,siamo tutt'a due ad una nel riconoscere che le benedizio-ni di Dio non potranno piovere su chi audacemente netrasgredisce i comandi, e che ogni buon Cristiano deesentire una grave afflizione se v'è gente posta sotto lasua tutela che viva in una totale dimenticanza di Dio edella sua legge. Non vale la qualità di protestanti ne' vo-

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stri subordinati, comunque d'altronde io la pensi su ciò;non vale questa qualità a far sì ch'io non mi affligga perl'anime loro, e ch'io non m'adoperi, se ciò dipende dame, affinchè stiano lontani più che è possibile dallo sta-to di ribellione verso il lor creatore, specialmente se midate licenza di toccare un tale argomento.

‒ Vi confesso che finora non capisco a che tenda ilvostro discorso; pure vi do facoltà di dire quel che vole-te, e vi ringrazio anzi della premura che vi prendete pernoi. Vi prego dunque a spiegarmi le particolarità chehanno incorsa la vostra riprensione, affinchè, come Gio-suè, per non dipartirmi dalla vostra parabola, io possaallontanare quanto v'ha di maladetto da noi.

‒ Ebbene, signore, profitterò della libertà che mi con-cedete. Sono tre le cose che, se non erro, si oppongonoai vostri sforzi per chiamare le benedizioni del cielo suquesta colonia, e che m'allegrerei molto di vedere ri-mosse per amore e di voi e di tutti. Mi riprometto anziche verrete affatto dalla mia poichè ve le avrò indicate;specialmente perchè non dubito di non farvi convintoche ciascuno di questi sconci può con grande facilità evostro massimo soddisfacimento essere riparato. Primie-ramente, signore, voi avete qui quattro Inglesi che vivo-no con donne prese fra i selvaggi, che se le tengono inqualità di mogli, che da tutte hanno avuto figli, benchènon sieno state sposate in alcun modo determinato e le-gale, siccome comandano le divine leggi e le umane, equindi a senso delle une e delle altre sono in uno stato

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permanente di fornicazione, se non d'adulterio. So bene,signore, mi risponderete, che non c'era ecclesiastico nècattolico nè non cattolico nell'isola per celebrare la ceri-monia delle nozze; nè penna o inchiostro o carta ondestipulare un contratto di matrimonio e farlo sottoscriveredai contraenti. So ancora quanto vi è stato detto dal go-vernatore spagnuolo: vale a dire il patto che obbligò icompagni di queste donne a sceglierle con una data re-gola ed a vivere spartatamente con la donna scelta; maquesto è anche ben lontano dall'essere un matrimonio;qui non c'è per parte delle donne nessuna sorta di con-senso che le qualifichi mogli; il consenso fu unicamentefra gli uomini per allontanare da loro ogni cagione dirisse. Signore l'essenza del sacramento del matrimonio(egli parlava da prete romano38) consiste non solo nelmutuo consenso delle parti che promettono riguardarsiscambievolmente siccome moglie e marito, ma nel for-male e legale obbligo inerente al contratto e che costrin-ge l'uomo e la donna a riconoscersi sempre legati insie-me in questa maniera: l'uomo ad astenersi in ogni tempoda tutt'altra donna, a non contrarre altre nozze finchèvive la moglie presente, e in qualunque occasione a pro-vedere, fin dove la sua possibilità lo comporta, di so-stentamento la moglie ed i figli; e le donne dal cantoloro, mutatis mutandis, soggiacciono agli obblighi stes-si. Guardate, signore! Questi uomini, se ne viene ad essiil talento, o se loro ne capita l'occasione, piantano lì le

38 E Robinson da protestante. Vedi la precedente nota.

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mogli, sconoscono i propri figli, li lasciano morire difame, si pigliano altre donne, e le sposano mentre le pri-me sono ancora viventi. E vi pare (nel dir così s'infervo-rò fortemente) che con questa licenza sfrenata di viveresi onori Dio? E potete immaginarvi, comunque buonisieno in sè stessi ed intesi sinceramente a buon fine i vo-stri sforzi a pro di questa colonia, che la benedizione diDio li coroni sintantochè permettete a costoro, che orsono, può dirsi, vostri sudditi, perchè posti sotto il vo-stro governo e dominio, il vivere in uno stato di manife-sto adulterio?”

Confesso che mi fece una forte impressione la cosa insè stessa, ma molto più i vigorosi argomenti posti inopera dal mio interlocutore per dimostrarla; perchè, sebene non vi fosse verun ecclesiastico nell'isola, pure unformale contratto, consentito dalle parti alla presenza ditestimoni e confermato da qualche segno riconosciutoobbligatorio dai contraenti, non fosse stato altro che unastipa rotta, onde costringere gli uomini a riconoscere inogni occasione quelle donne per loro mogli, a non ab-bandonare mai nè queste nè i loro figli, e a porre sottosimili vincoli le donne, tutto ciò sarebbe stato almeno unmatrimonio legale agli occhi di Dio; e fu una grave tra-scuranza il prescinderne. Ma per parte mia credei spac-ciarmela presto col mio giovine prete.

‒ “Considerate, gli dissi, che ciò accadde mentre ionon era qui. Son tanti anni da che quegli uomini vivonocon quelle donne che, se fosse anche un adulterio, non

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c'è più rimedio. Come volete che non sia fatto quelloche è fatto?

‒ Signore, degnatevi d'avere pazienza, soggiunse ilprete che non volle menarmela buona. Finchè dite che lacosa essendo seguita nel tempo della vostra assenza voinon potete essere imputato di quella parte di colpa aveteragione; ma ve ne supplico, non vi lusingate di non es-sere tuttavia sotto il più stretto obbligo di far finire loscandalo. Come potete sperare, ammettendo ancora cheil passato stia a carico di chi si vuole, come potete spe-rare che tutte le colpe dell'avvenire non pesino affatto sula vostra coscienza? Perchè egli è certo che il porre untermine al disordine è cosa in vostra mano, e che nessu-no lo può fuori di voi”.

Io fui sì duro d'intelletto in quel momento che non lointesi a dovere. Io mi figurava che con le parole far fini-re lo scandalo volesse dirmi: “Dovete rompere questoconsorzio, non permettere che quegli uomini continuinoa vivere con quelle donne”, che sarebbe stato un dirmi:“Mettete in confusione tutta quanta l'isola”. Gli fecidunque rimostranze in conformità, ed egli parve assaimaravigliato ch'io lo avessi tanto franteso,

‒ “No, mio signore; non intendo consigliarvi che se-pariate quelle creature; ma bensì che le teniate d'ora inpoi unite in un legittimo ed effettivo vincolo coniugale.E poichè il mio cerimoniale per congiungerli in matri-monio potrebbe non accomodarvi, benchè valido anchesecondo le vostre leggi, vi è lecito adoperare que' mezzidi cui qui potete disporre per rendere un matrimonio le-

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gale agli occhi di Dio e degli uomini; vale a dire me-diante un contratto firmato dall'uomo e dalla donna e daitestimoni presenti, matrimonio che verrà riconosciutoregolare da tutti i codici dell'Europa”.

Rimasi attonito al vedere una pietà sì verace, uno zeloche partiva tanto dal cuore, oltre all'ammirazione desta-tasi in me allo scorgere in lui una così insolita imparzia-lità ne' discorsi che si riferivano alla sua chiesa, e unatanto sincera sollecitudine per la salvezza di persone checonosceva appena, e con le quali non aveva alcuna sortadi relazione; ed era certo un interessarsi alla loro salvez-za il toglierle dal trasgredire i comandamenti di Dio; insomma un tanto esempio di virtuosa carità non l'ho mairinvenuto altrove. Dopo essermi impressi ben nellamente tutti i suoi suggerimenti, e quanto mi disse sulmatrimonio fatto con una scrittura, ch'io pure sapea po-ter essere valido, ricapitolai il tutto e gli dissi:

‒ “Ravviso giuste e altrettanto cortesi dalla parte vo-stra le osservazioni che mi avete fatte. Parlerò con que-sti individui appena giunto alla loro abitazione; nonvedo anzi un motivo per cui possano avere difficoltà diessere sposati tutti da voi, e capisco benissimo che an-che nel mio paese un tal matrimonio si avrebbe per lega-le ed autentico, come se fosse seguito col ministero diqualcuno del nostro clero”.

Come la cosa andasse poi a terminarsi lo narrerò piùtardi.

‒ “Or ve ne supplico, soggiunsi, ditemi la secondadelle cose che vi danno dispiacere, riconoscendomi in-

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tanto debitore a voi d'immensa gratitudine per avermifatto notare la prima rinovandovene i miei più vivi rin-graziamenti.

‒ Ebbene; anche su questa seconda cosa vi parleròcon la stessa franchezza e ingenuità e spero accogliereteil mio dire in buona parte come avete fatto rispetto al-l'altra. Benchè quegl'Inglesi vostri sudditi (quel buonprete gli andava chiamando così) sieno vissuti circa set-te anni con quelle donne, abbiano insegnato loro a parla-re l'inglese ed anche a leggerlo, benchè le donne stessesieno, a quanto ho potuto discernere, dotate di sufficien-te intendimento e capaci d'istruzione, pure i così dettiloro mariti non hanno pensato finora ad ammaestrarle innulla che riguardi la religione cristiana, in nulla, in nullaaffatto! Quelle poverette non sanno nemmeno che ci siaun Dio, nè che bisogni adorarlo, nè in qual modo vadaadorato e servito; non le hanno fatte accorte che la loroidolatria o adorazione a che cosa, non lo sanno tampocoesse, è falsa ed assurda. È questa una negligenza imper-donabile e tale che Dio ne potrebbe domandare ad essi ilpiù stretto conto e fors'anche strappar dalle loro mani ilfrutto delle loro fatiche (oh quanto affetto e fervore met-teva nel dir tali cose!). Io son persuaso che, se questi uo-mini vivessero nei barbari paesi donde hanno levatequelle donne, i selvaggi si darebbero per farli idolatri,per condurli ad adorare il demonio, maggiori pensieri diquanti al certo se ne presero questi Inglesi per istruire leloro donne nella conoscenza del vero Dio. Badatemi, si-gnore. Benchè io non professi il vostro culto, nè voi il

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mio; pure non vi so esprimere il contento che avrei sequelle schiave del demonio e suddite del suo regno im-parassero almeno i principii più generali del cristianesi-mo; se arrivassero se non altro ad udire parlare di Dio,d'un Redentore, della risurrezione e d'una vita avvenire.Queste cose le crediamo pur tutti! almeno sarebbero piùvicine ad entrar nel grembo della vera chiesa di quelloche ci sieno adesso professando in pubblico l'idolatria el'adorazione del demonio”.

Qui noti potei più rattenermi; me lo strinsi al petto, loabbracciai con effusione di tenerezza.

‒ “Oh! quanto io sono stato lontano, esclamai, dall'in-tendere i doveri più essenziali d'un Cristiano e dall'ama-re sì estesamente l'interesse della chiesa cristiana e del-l'anime degli uomini di tutta la terra! Appena ho capitoche cosa voglia dire, che obblighi porti con sè l'esserCristiano!

‒ Non dite così, caro signore; le cose addietro non av-vennero per vostra colpa.

‒ No; ma perchè non me le presi a cuore al pari divoi?

‒ Non è ancor troppo tardi, egli soggiunse. Non v'af-frettate tanto a condannarvi da voi medesimo.

‒ Ma che cosa posso farci io? Vedete che sto per par-tire!

‒ Mi date la permissione che parli di ciò a que' poveriuomini?

‒ Si, con tutto il cuore; e gli obbligherò a prestar tuttal'attenzione a quanto sarete per dir loro.

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‒ In quanto a questo, diss'egli, lasciamo operare lamisericordia di Dio. Quanto a voi, non pensate ad altroche a continuar loro la vostra assistenza, ad incoraggiar-li, ad istruirli, e poichè mi accordate questa permissione,non dubito con l'aiuto di Dio di non condurre quelle po-vere ignoranti creature sotto il grande pallio della cri-stianità, e cìò anche prima della vostra partenza.

‒ Non solo vi do questa permissione, ma la accompa-gno con mille rendimenti di grazie”.

Quanto accadde in ordine a ciò si collega col terzopunto delle cose riprovevoli che or lo pregai fervorosa-mente a schiarirmi.

‒ “Veramente, egli mi disse, è alcun che della stessanatura, e continuerò, se me lo permettete, a parlare conla stessa espansione d'animo e sincerità di prima. Si trat-ta ora di que' poveri selvaggi che sono, posso dire, vostrisudditi di conquista. Vi è una massima, signore, che è, odovrebbe essere adottata da tutti i Cristiani, a qualunquechiesa o supposta chiesa appartengano; ed è quella dipropagare la fede cristiana con tutti i possibili mezzi edin tutte le occasioni possibili. Fondata su questo princi-pio, la nostra chiesa manda missionari nella Persia, nel-l'India e nella China; e quelli del nostro clero anche col-locati ne' più alti gradi, imprendono volontari i più ri-schiosi viaggi, s'adattano a dimorare con estremo peri-colo fra uomini barbari e sanguinolenti col solo fined'insegnar loro a conoscere il vero Dio, e d'indurli adabbracciare il cristianesimo. Voi qui, signore, avete taleopportunità di condurre dall'idolatria alla conoscenza di

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Dio trentasei o trentasette poveri selvaggi che io noncomprendo, ve lo confesso, come vi siate lasciata sfug-gire questa occasione di fare un'opera buona per cui sa-rebbe un tempo preziosamente impiegato l'intera vitad'un uomo”.

Rimasi mutolo all'udire questo rimprovero, nè trovaiuna parola per rispondere. Mi stava innanzi lo spirito delverace zelo di un Cristiano pel suo Dio e per la sua reli-gione (ch'io qui non faceva distinzione nel genere diparticolari principii professati), ed io per l'addietro nonaveva mai avuto nel mio cuore un sentimento di questanatura, e credo forse che non ci avrei mai pensato. Io ri-guardava que' selvaggi semplicemente come schiavi, ese avessimo avuto in che farli lavorare gli avremmo trat-tati in tal qualità, o saremmo stati ben contenti di farlitrasportare in qual si fosse parte del mondo; perchè tuttol'affar nostro era spacciarci di loro e avremmo avuto lamassima soddisfazione di saperli in qualunque remotacontrada purchè non vedessero più mai la nativa. Maquesta volta, lo ripeto, mi pose in tanto imbarazzo untale discorso che non seppi qual cosa rispondere. Si ac-côrse alcun poco di questo stato. dell'animo mio il buonprete, onde mi disse affettuosamente:

‒ “Signore, mi spiacerebbe se vi avessi offeso inqualche maniera.

‒ No, no; non m'offendo con altri, gli risposi, che conme stesso; ma non vi so or descrivere in quale stato diconfusione si trovi il mio spirito non tanto al riflettereche non ho mai posto mente alle cose che mi dite ades-

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so, quanto al pensare che non mi resta più il tempo di ri-parare la mia ommissione. Le circostanze che mi strin-gono in questo momento voi le sapete. Mi vedo obbliga-to al viaggio dell'Indie Orientali in un bastimento am-mannito da una società di negozianti verso de' qualicommetterei una patente ingiustizia se lo tenessi qui inozio su l'áncora consumando le vettovaglie e i salari deimarinai a scapito de' proprietari. Egli è vero che ho perpatto la permissione di fermarmi su questa spiaggia do-dici giorni ed anche otto di più, purchè paghi tre liresterline per ogni giornata che lascio trascorrere oltre alledodici. Tredici ne sono trascorse. Capite come io sia af-fatto fuor del caso d'accingermi alla missione che miproponete, quando mai non lasciassi andare il bastimen-to senza di me; ed in tal caso se questo vascello che nonne ha d'altri in compagnia pericolasse, tornerei nelle me-desime strette tra cui mi vidi alla prima, e dalle quali fuiliberato per un vero miracolo”.

Confessava anch'egli ch'io era ad un arduo partito; manon si stava dal farmi comprendere con belle maniereche metteva su la mia coscienza la soluzione di questoproblema: se il far la beatitudine di trentasette animenon valeva il rischio di quanto un uomo ha su la terra?Io poi, devo dirlo, mi mostrai men tenero di cuore di lui,onde me gli voltai.

‒ “Certo, mio signore, la è una bella cosa farsi lo stro-mento della conversione di trentasette eretici; ma voisiete un ecclesiastico e chiamato espressamente e natu-ralmente dal vostro ufizio a tal genere di sante opere.

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Come va che non vi offerite voi per tale incarico in vecedi stimolar me?”

All'udir questo mi guardò in faccia, e poichè cammi-navamo l'uno a fianco dell'altro mi fermò facendomi uninchino.

‒ “Ringrazio con tutto il cuore Dio e voi, mio signore,per vedermi sì evidentemente chiamato ad un'opera tan-to caritatevole. Se dunque le vostre circostanze vi ren-dono difficil cosa l'assumervi un tale incarico, e lo cre-dete ben affidato a me, eccomi pronto, e ravviso una fe-lice ricompensa a tutti i rischi e travagli che ho soffertiin quest'interrotto malaugoroso viaggio, l'essermi final-mente capitata fra le mani un'impresa tanto gloriosa”.

Io gli leggeva su le sembianze una specie di estasimentre parlava così; i suoi occhi scintillavano come fuo-co, gli splendeva il volto, il suo colore andava e venivacome se fosse stato per cadere in deliquio. Rimasi taci-turno per qualche tempo, tanta fu in me la meraviglia divedere un personaggio fornito d'un sì verace zelo e tra-sportato da questo zelo oltre a tutti i consueti limiti ser-bati dagli ecclesiastici non solo della sua comunione,ma di qualunque altra si voglia. Dopo avere meditato aciò alcuni minuti mi voltai chiedendogli:

‒ “Ma dite proprio da vero? E volete per un semplicetentativo a favore di quei poveri selvaggi, tentativo chenon sapete nemmeno se vi riuscirà a buon termine, arri-schiarvi a rimanere abbandonato forse per tutta la vita inquest'isola?

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‒ Che cosa v'intendete voi con la parola rischiare? misi volse con vivacità. Di grazia, per qual motivo credetevoi ch'io mi sia contentato di fare il viaggio dell'IndieOrientali nel vostro bastimento?

‒ Veramente non lo so. Forse per predicare a quegl'in-diani?

‒ Senza dubbio, l'ho fatto per questo. E non pensateche se giugnessi a convertire questi trentasette selvaggialla fede di Gesù Cristo, avrei impiegato assai bene ilmio tempo quand'anche non dovessi più uscire di qui?Anzi non è infinitamente impiegato meglio a salvar tan-te anime che se si trattasse della mia vita o di quella divent'altri miei pari? Sì, mio signore, non cesserei più dalringraziare il Signore Iddio e la sua madre santissima, searrivassi ad essere in qualche menoma parte il fortunatostromento della salvezza di quelle povere creature,quand'anche non dovessi giammai portare il piede fuordi quest'isola nè giammai rivedere il mio nativo paese.Per altro, se vi degnate affidarmi quest'incarico, cosach'io riguarderò come un segnalato favore, e farà ch'ionon mi scordi di voi nelle mie preghiere al Signore fin-chè avrò vita, se ciò succede, devo prima di tutto do-mandarvi caldamente una grazia.

‒ Ed è?‒ Che permettiate al vostro Venerdì di rimanere meco

qual mio interprete ed assistente presso que' poveretti.Vedete che, se non ho chi m'aiuti, nè io posso parlare adessi nè essi a me”.

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Il solo udirmi fatta una simile inchiesta mi pose innon poca agitazione, perchè assolutamente io non me lasentiva di staccarmi da Venerdì, e ciò per più d'un moti-vo. Primieramente, egli era stato il compagno de' mieiviaggi, nè solamente io me lo tenea caro per la sua fe-deltà, ma in oltre per un'affezione sincera che non pote-va essere spinta più in là; anzi io era risoluto di benefi-carlo considerabilmente se mi sopravviveva, come sem-brava probabile. Poi io ben sapea d'averlo allevato nellafede protestante: sarebbe stato un confonderlo il voler-gliene or fare adottare un'altra. Già, finchè tenea gli oc-chi aperti, non avrebbe mai voluto persuadersi che il suopadrone fosse un eretico e andasse per conseguenzadannato; poi sapeva io se quel povero idiota, imbarazza-to dai nuovi insegnamenti, non finirebbe col non creder-ne vero nessuno e tornare all'antica idolatria? In questifrangenti del mio spirito mi nacque finalmente l'idea diun temperamento, e lo udirete tosto.

Già prima di tutto feci capire al mio prete che perqual si fosse cosa non avrei saputo risolvermi a lasciarein abbandono il mio Venerdì, ancorchè si trattassed'un'opera sì buona e dal mio buon consigliere apprez-zata più della sua vita; d'altronde essere io persuaso chequesto servo non consentirebbe mai a separarsi da me.Soggiunsi che lo sforzare la sua volontà sarebbe statauna manifesta ingiustizia; tanto più che gli avevo pro-messo di non licenziarlo mai, com'egli si era solenne-mente obbligato a non abbandonarmi se per forza non locacciavo via.

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‒ “Ma come farò dunque io, dicea costernatissimoquel povero ecclesiastico, ad accostarmi a quegli sfortu-nati senza intendere io una parola di quanto mi diranno,essi una sola delle parole che dirò loro?”

Rimossi pertanto questa difficoltà col dirgli che il pa-dre di Venerdì aveva imparato lo spagnuolo, della quallingua era sufficientemente pratico anche il mio missio-nario, onde proposi questo per l'interprete da lui brama-to. Si mostrò allor soddisfatto, nè vi sarebbe più statomezzo di persuaderlo a non rimanere nell'isola e a di-storlo dalla santa impresa cui anelava; ma la providenzadiede un altro non meno fortunato andamento a questidisegni.

Or narrerò in qual modo facessi onore alle prime suerimostranze.

LXXXV. Rimorsi di Guglielmo Atkins.

Giunto alle case dei coloni inglesi gli adunai tutti in-sieme d'intorno a me, e preso argomento dalle cose cheavevo fatte per essi, e per cui mi si mostravano affettuo-samente grati (il leggitore già sa la precedente sommini-strazione di quanto poteva essere ad essi necessario amigliorare la lor condizione), preso argomento da ciò,introdussi il discorso su la vita scandalo a che conducea-no, giunta anche a notizia del degno ecclesiastico miocompagno di viaggio, le cui osservazioni intorno a ciòripetei loro parte per parte. Dopo aver dato a capire ai

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medesimi quanto una tal condotta fosse riprensibile e in-degna d'un uomo cristiano, gli interrogai se fossero am-mogliati o celibi.

Dalle categoriche loro risposte seppi che due di essierano vedovi, i tre altri celibi o scapoli.

‒ “E con che coscienza, loro dissi, vi siete prese incasa quelle donne, fate tutto un letto con esse, le chia-mate mogli, le avete rese madri di tanti ragazzi, senzapensare mai a farle vostre mogli legittime?”

Mi diedero la risposta cui m'aspettavo: vale a dire nonesservi nell'isola un prete che gli sposasse; aver già ac-cordato il governatore medesimo che se le pigliassero inqualità di mogli; star le cose in termini tali che si consi-deravano ammogliati legittimamente come per manod'un parroco e con tutte le cerimonie solite a praticarsinei matrimoni.

‒ “Certo, risposi, innanzi a Dio siete ammogliati, eavete obbligo di coscienza di tenervi quelle donne permogli. Povere creature, derelitte, prive d'amici e di ri-sorse, come farebbero ad aiutarsi da sè medesime? Ovepertanto non mi diate una sicurezza delle vostre onesteintenzioni , non farò più nulla per voi, e penserò invecea prendermi cura delle vostre mogli e dei vostri figliuoli.E quanto a voi aggiungo che, se non mi date parola disposare quelle sfortunate, non permetterò più che viviatecon esse come se fossero mogli. È cosa troppo scandalo-sa agli occhi degli uomini e peccaminosa a quelli diDio, che non vi benedirà se continuate cosi”.

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Vennero tutti al punto ov'io li desiderava; e Gugliel-mo Atkins parlò quasi sempre per tutti.

‒ “Noi le amiamo, costui rispose, le nostre donne,come se fossero nate ne' nostri paesi, nè vorremmo ab-bandonarle a qualunque costo. Abbiamo troppi motivi dicrederle e oneste e savie, e vediamo che fin dove giungela loro abilità, non risparmiano fatiche per noi e pei no-stri figli, come potrebbe fare qualunque brava donna dacasa. Guardate! (e qui si fece a parlarmi in disparte) sevenissero a dirmi di levarmi qui, di ricondurmi in In-ghilterra e di farmi capitano del miglior bastimento daguerra di tutta una flotta, non anderei, semprechè nonmi fosse permesso di portarmi meco la mia moglie imiei figli; e se ci è un prete nel vostro bastimento che civoglia sposare, non desidero di meglio”.

Qui proprio io lo voleva. L'ecclesiastico in quel mo-mento non si trovava meco, ma era andato poco lontano.A fine di scandagliare meglio il mio galantuomo me lotirai in disparte anch'io e gli dissi.

‒ “Qui il prete lo abbiamo, Se parlate sinceramente,io vi fo sposo domani mattina. Vi do tempo di pensarci ed'intendervi anche cogli altri.

‒ Per la parte mia, rispose Guglielmo Atkins, non hobisogno d'intendermi con nessuno, perchè sono prontis-simo a fare quanto mi dite, e ci ho un gran gusto che visia questo prete con voi; nondimeno credo che anche glialtri saranno del mio parere”.

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Gli raccontai che il prete mio amico era un Francese,e che non parlava l'Inglese; ma soggiunsi che gli avreifatto da interprete.

Per fortuna non istette a domandarmi se fosse papistao protestante, cosa che, a dir la verità, mi faceva un po'di paura. In questa intelligenza ci separammo; io rag-giunsi il mio ecclesiastico; Guglielmo Atkins andò aparlare co' suoi compagni. Io non aveva piacere che ilprete francese si lasciasse veder da costoro finchè lecose non fossero mature, gli riferii intanto le risposteche avevo avute. Non ero ancora fuori del loro stabili-mento che corsero tutti da me per dirmi che aveano giàpensato all'aggiustatezza di quanto avevano udito dirsida parte mia; si protestarono contentissimi ch'io avessiun sacerdote in mia compagnia, ben lontani dall'idea disepararsi dalle loro donne ripeterono ad una che aveva-no sol mire oneste quando le scelsero per loro compa-gne. Diedi dunque ad essi un convegno in casa mia perla successiva mattina. Ebbero intanto il tempo di rendernota alle donne stesse la loro intenzione di farle sposelegittime, e di dar loro a capire che cosa fosse matrimo-nio secondo la legge, e come questo non solo giovassead impedire gli scandali, ma a far sicure le mogli mede-sime che per qualunque cosa succedesse non sarebberomai abbandonate.

Le donne capirono in bene tutte le cose, e ne furonosoddisfattissime, come aveano da vero tutta la ragionedi esserlo, e contente anch'esse che avessi condotto inmia compagnia chi poteva adempiere questa formalità,

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Gli uomini non mancarono di trovarsi tutti insieme dame nella seguente mattina. Io aveva già in serbo il mioprete; e benchè non fosse vestito nè da prete inglese, chènon poteva esserlo, nè veramente da prete francese, purela sua zimarra, essendo nera e serrata ai fianchi da uncingolo, non avea male l'aria d'un sacerdote. Circa alladifferenza della lingua, io doveva essere, come dissi, ilsuo interprete.

Avrebbero già bastato a farlo ravvisare per un eccle-siastico la dignità del suo portamento e la ritrosia chemostrò ad unire in matrimonio uomini cristiani con don-ne non battezzate, e che non professavano il cristianesi-mo. Ciò accrebbe in appresso la venerazione per lui ne'miei visitatori, ma fece, se ho a dirlo un po' di paura ame su le prime. Temevo che i suoi scrupoli andasserotanto in là da non venire in fin dei conti a capo di nulla.In fatti per quante glie ne sapessi dire, onde vincere lesue difficoltà, mi tenea testa, modestamente sì, ma confermezza. Finalmente disse con risoluzione che questenozze non le avrebbe fatte se prima non si fosse intesobene con gli uomini e con le donne. Non avrei volutoquesta clausola per timore sempre che si guastassero lefaccende; pure mi toccò acconsentire e il feci volentieriper la sicurezza che avevo del suo buon volere e dellasincerità delle sue rette intenzioni .

Presentatolo dunque ai miei Inglesi il discorso chefece loro all'incirca fu questo:

‒ “Qui il signore dell'isola mi ha già dato contezzadelle vostre circostanze e de' presenti vostri disegni. Per

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parte mia ho tutta l'intenzione di adempire questa partedel mio ministero e di sposarvi, a norma de' vostri desi-derii; ma prima di venire a ciò, bisogna che mi permet-tiate il farvi alcuni discorsi. Certo, e a giudizio degli uo-mini anche i più imparziali e secondo tutte le sociali leg-gi, voi siete finora vissuti in uno stato di manifesta for-nicazione, ed è verissimo che un tale scandalo può sol-tanto essere tolto, o sposando le donne con le quali ave-te prevaricato, o separandovi affatto da esse. Ma qui na-scono alcune difficoltà per parte delle leggi che regola-no i matrimoni fra i Cristiani, difficoltà tali che non mitengono niente quieto. Mi spiego. Posso io sposare unuomo che professa il cristianesimo con una selvaggia,con una idolatra, con un'eretica, in somma con una don-na non battezzata? E quanto alle donne di cui si trattaora, non vedo che abbiamo tempo abbastanza per inge-gnarci di farle abili ad entrare nel grembo della cristiani-tà, o sia a far che credano in Cristo, di cui ho gran pauranon abbiano mai udita una parola, requisito indispensa-bile perchè si possa, essendo elleno adulte, amministraread esse il battesimo. Figliuoli cari, scusate, ma dubitomolto sul quanto siate cristiani voi stessi, sul quanto co-nosciate Dio e le leggi; e se non m'inganno, quelle pove-re donne devono aver ricevute ben poche istruzioni davoi su questo particolare. Se dunque non mi promettetedi far tutti gli sforzi che dipendono da voi per indurre levostre mogli a farsi cristiane, e se non le istruite, findove potete, nella cognizione e credenza del Dio che leha create, nell'adorazione di Gesù Cristo che le ha re-

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dente, io non ho facoltà di unire in matrimonio uominicristiani con donne pagane. Ciò non s'accorderebbe nèco' miei principii di Cristiano, nè con la legge di Dio cheespressamente me lo divieta”.

Ascoltarono attentissimamente tutte queste cose cheio a mano a mano spiegava loro tenendomi quanto sape-vo alla lettera, e soltanto aggiugnevo del mio (ma erofedele nell'avvertirli delle aggiunte), aggiugnevo delmio quanto mi sembrava più opportuno a convincerliche il prete aveva ragione, e ch'io la pensava affatto nel-la stessa maniera. Mi risposero di comune accordo esse-re verissimo tutto quanto il degno ecclesiastico avevadetto, essere pur troppo cattivi Cristiani eglino stessi chenon avevano mai detta una mezza parola di religionealle loro mogli.

‒ “E come potremmo farlo, magnifico signore? sog-giugneva Guglielmo Atkins. Noi! noi che non sappiamonulla di religione noi stessi? Poi, un'altra! se andassimoa parlare di Dio e di Gesù Cristo, d'inferno e di paradisoalle nostre donne, ci riderebbero in faccia, ci dimande-rebbero che cosa è che crediamo noi? E se rispondessi-mo ad esse che tutte queste cose le crediamo, quella de'buoni che vanno in paradiso e de' cattivi che aspetta l'in-ferno, ci saprebbero domandare: E voi dove vi figurated'essere aspettati, voi che credete tutte queste belle cosee siete tanto cialtroni? e in quest'ultima parte direbberotroppo la verità. Sapete voi, mio signore, che sarebbe unfarle schifo della religione al primo udirne parlare? Bi-

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sogna che abbia qualche religione egli stesso chi si vuo-le dar l'aria di predicarla agli altri.

‒ Guglielmo Atkins, ho paura che ci sia troppa veritàin questo vostro discorso; pure non potete dire a vostramoglie ch'ella è nell'errore? che vi è un Dio e una reli-gione migliore della sua religione e delle sue divinità?che queste sono idoli incapaci di udire e di parlare? chevi è un grand'ente creatore di tutte le cose, il quale puòdistruggere con un atto di sua volontà tutte le cose cheha fatte, rimuneratore de' buoni e punitor de' malvagidal quale in fin del conto saremo giudicati su le opereche avremo fatte quaggiù? Voi non siete sì ignorante chela natura stessa non vi possa suggerire quanto questecose sieno vere; anzi vedo che le capite vere, e me necompiaccio.

‒ Le capisco vere, mio signore; ma con che faccia an-derò a dirle a mia moglie che ha tanto in mano da ri-spondermi che sono false.

‒ Come! ha tanto in mano? gli ripetei. Che cosa v'in-tendete dire?

‒ M'intendo dire che mi risponderà non potervi esserequesto Dio sì giusto rimuneratore e punitore, poichèvede che a quest'ora non sono stato punito nè mandato acasa del diavolo, io sì mala creatura come mi conosce lastessa mia moglie sia verso lei, sia verso tutti. L'essereio tollerato in vita, (sarebbe capacissima, sapete! d'af-facciarmi questa ragione) diverrebbe a' suoi occhi unacontraddizione continua tra le parole di bene che le di-cessi e i miei fatti, tutti un peggiore dell'altro.

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‒ Basta! basta, Atkins! m'atterrite all'idea che diciatetroppo la verità”. Di tutto questo dialogo informai il pre-te che stava ansioso di conoscerne i risultamenti.

‒ “Oh! ditegli, esclamò, ditegli che v'è tal cosa atta afarlo divenire per sua moglie il miglior consigliere diquanti se ne possano immaginare, e questa cosa è il pen-timento; perchè non vi sono in tutta la terra migliorimaestri de' peccatori pentiti da vero. Non gli manca al-tro che pentirsi e sarà sempre meglio al caso d'istruire lasua compagna. Allora potrà dirle non solamente che vi èun Dio giusto rimuneratore delle opere buone e punitoredelle cattive, ma in oltre che questo Dio è il Dio dellemisericordie, quel Dio d'infinita bontà e pazienza nell'a-spettare a ravvedimento coloro che lo offendono, quelDio che anela il momento di far grazia, e che non vuolela morte del peccatore, ma bensì il suo ritorno alla vita;che tollera spesse volte i malvagi per lungo tempo, e tal-volta ancora si riserva a punirli il giorno del giudizio fi-nale39; una manifestissima prova dell'esistenza di Dio edi vita avvenire stare appunto in ciò: nel vedersi dei giu-sti che non ricevono il loro compenso, degli scellerati

39 Questo che potrebbe chiamarsi aggiornamento della divina sentenzadopo la morte, un Cattolico non lo crede. Pure vi sono stati Cattolici che, con-fondendo il senso mistico col senso letterale d'alcuni tratti di san Paolo e dellepreci pei defunti, portarono intorno a ciò un'opinione, condannata per altro dal-la chiesa in più d'un concilio, quali quello di Firenze nel secolo decimoquinto el'altro di Trento nel decimosesto. Può darsi che il Cattolico posto or su la scenada Robinson fosse uno di questi tali, e me ne persuaderebbe il vedere dal capi-tolo successivo che san Paolo è il santo padre prediletto di questo prete france-se. Aggiungasi che i Protestanti anche di buona fede non si hanno pe' relatori ipiù autentici dei discorsi tenuti da un Cattolico.

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che non soggiacciono al meritato castigo prima di esserenel mondo di là. Una tal riflessione francheggierà il no-stro convertito nell'insegnare a sua moglie la dottrinadella risurrezione e del giudizio universale. Si pentaegli, e diventerà un eccellente predicatore di penitenza asua moglie”.

Ripetei questo discorso a Guglielmo Atkins che rima-se mestamente concentrato in sè stesso nell'ascoltarlo, esu la cui fisonomia si potea scorgere facilmente quantostraordinaria impressione tal discorso facesse nella suaanima. Finalmente non fu più capace di lasciarmi andareal termine del mio dire.

‒ “Tutte queste cose le so, mio signore, e molt'altreancora, ma non avrò la sfrontatezza di dirle a mia mo-glie, finchè il Signore ed io vediamo come sto in miacoscienza. E la stessa mia moglie può portare una irre-fragabile testimonianza contro di me che sono semprevissuto come se non avessi mai udito parlare nè di Dionè d'una vita avvenire, nè d'alcun'altra cosa di questafatta. Circa poi al venire io a penitenza, oh Dio! (quimise un profondo sospiro, e posso dire d'avergli vedutigli occhi inumiditi da una lagrima!) quanto a ciò tutto èfinito per me!

‒ Finito! Atkins, che cosa t'intendi con questo finito?‒ M'intendo io troppo! rispose. Oh sì, intendo quello

che dico! Intendo che è troppo tardi, e la cosa è troppovera!”.

Ripetei parola per parola al sacerdote le cose or detteda Atkins. Quel sant'uomo (mi sia lecito il chiamarlo

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così perchè, qualunque fosse la sua opinione in materiadi fede, certamente portava un grande amore alle animedegli altri uomini, ed è cosa ardua a credersi che non neportasse altrettanto all'anima propria), quell'uomo cari-tatevole dunque non potè starsi dal piangere; poi ricom-postosi, mi disse:

‒ “Provate un po' a chiedergli se ha piacere che siatroppo tardi, o se invece ne è dolente e s'augurerebbeche la cosa fosse altrimenti”.

Tal quale mi fu detta riportai questa interrogazione adAtkins, che con abbondanza di passione mi rispose:

‒ “E come vorreste che mi piacesse uno stato di cosein cui vedo certissima l'eterna mia dannazione? Ben lon-tano ch'io n'abbia piacere, credo che una volta o l'altraciò mi condurrà ad un ultimo precipizio.

‒ Vale a dire?‒ Credo che una volta o l'altra mi taglierò le canne

della gola per porre un termine ai terrori fra cui m'avvol-go”.

Quando raccontai tale risposta al prete francese, crol-lò il capo e vidi nel volto di lui la commozione della suaanima. Tutt'in un tratto mi si volse con queste parole:

‒ “Se siamo a questo caso possiamo fargli sicurtà chenon è troppo tardi. Nostro Signor Gesù Cristo gli conce-derà la grazia del pentimento. Spiegategliela questacosa, ve ne prego, domandategli come, se è vero chenon c'è uomo sopra la terra il quale non possa essere sal-vato da Gesù Cristo e per cui i meriti della sua divinapassione non sieno un mezzo di grazia, come, se ciò è

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vero, può essere mai troppo tardi a profittare della suaceleste misericordia? domandategli se si crede tanto bra-vo da far peccati al di là della sfera di questa misericor-dia? Ditegli, ve ne prego, anche questo: che può benevenir tempo in cui la clemenza di Dio; provocata e stan-ca dall'ostinazione del peccatore, non voglia più ascol-tarlo; ma per gli uomini non è mai troppo tardi il do-mandare mercede a Dio. Aggiugnete che noi, ministri eservi di questo Dio, abbiamo l'obbligo in tutti i tempi dipredicare in nome di Gesù Cristo la sua misericordia aquanti si pentono di vero cuore, che dunque per pentirsinon è mai troppo tardi”.

Tradussi questi detti ad Atkins che ne sembrò assaipenetrato nell'ascoltarli; pure nel momento, come seavesse voluto troncare il discorso, disse che desideravapartire per conferire d'alcune cose con la propria moglie.Quando si fu ritirato parlammo agli altri.

M'accôrsi che erano tutti stupidamente ignoranti nellecose di religione, come lo era io quando andai a vagarepel mondo fuggendo da mio padre. Pure non vi fu alcundi loro che si mostrasse ritroso ad ascoltarci, e tutti pro-misero sul serio che avrebbero parlato di ciò con le lorodonne e fatto ogni sforzo per indurle a divenire Cristia-ne.

Il prete sorrise quando gli riferii quest'ultima risposta;stette un pezzetto senza dir nulla, poi dando un crollo dicapo che gli era abituale, soggiunse:

‒ “Siam servi di Cristo, nè possiamo fare più in làd'esercitare e d'istruire; e quando gli uomini si sottomet-

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tono, ascoltano di buon grado le nostre riprensioni epromettono di uniformarsi ai nostri suggerimenti, tuttoquello che possiamo fare sta qui: nel contentarci dellaloro buona volontà. Per altro vi dico io che, per quantecose abbiate udite contro all'uomo che nominate Gu-glielmo Atkins, io lo credo il più sincero di questi nostriconvertiti; io ve lo do per un vero penitente. Non dispe-ro certo degli altri. Ma questi si mostra veramente colpi-to dal sentimento della sua vita passata, e non dubitoche quando parlerà di religione a sua moglie, effettiva-mente ne parlerà a sè medesimo. Non sarebbe il primoche nell'ammaestrare gli altri si fosse posto sul buonsentiere lui. Conosco uno che avendo scarsissime cogni-zioni di religione, ed anzi conducendo una vita deprava-ta e cattiva al massimo grado, si pose in capo di conver-tire un Ebreo: divenne un buon Cristiano egli stesso. Sequel povero Atkins comincia solo una volta a parlare sulserio di religione a sua moglie, scommetterei la mia vitache le prediche le fa ad un tempo a sè stesso; che ne ca-viamo un perfetto penitente, e chi sa che cosa dimeglio?”

LXXXVI. Spionaggio innocente.

Malgrado la minor fede avutasi dal mio prete nellasincerità della conversione degli altri Inglesi, pure aven-dogli questi promesso di fare ogni possibile per indurre

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a divenire cristiane le proprie donne che tosto fecerocomparire, benedì la loro unione con esse.

Ma Guglielmo Atkins non era ancor tornato, nè perconseguenza vedevamo nemmeno sua moglie. L'eccle-siastico, dopo avere aspettato un poco, ebbe curiosità disapere ove mai fosse andato questo Atkins.

‒ “Vi prego, signore, disse voltosi a me, andiamo fuo-ri a fare un giro per questo vostro labirinto e guardiamoattorno. Scommetterei qualche cosa di bello che o dauna parte o dall'altra troviamo Guglielmo Atkins parlan-do sul serio con sua moglie, e ingegnandosi d'insegnarlealcun che di religione”.

Cominciavo ad essere anch'io del suo avviso; ondeuscito in sua compagnia, lo condussi per un sentierenoto a me solo e laddove gli alberi erano sì fitti, che illoro intreccio di frasche impediva l'esser veduti e rende-va impenetrabile agli occhi altrui più l'interno che l'e-sterno medesimo della selva. Giunti al lembo di essa, fuiio il primo a scorgere Guglielmo Atkins e la sua abbron-zata compagna seduti all'ombra d'un macchione ed im-mersi in serii discorsi. Fermatomi tosto e fatto venire ilprete con me gli additai il luogo ov'erano allora quelledue creature, che stemmo contemplando un bel pezzocon la più curiosa attenzione. Notammo l'uomo che s'in-fervorava accennando col dito alla sua vicina il sole, iquattro lati del firmamento, poi sbassandosi per indicarela terra, indi volgendosi in largo verso il mare, finalmen-te additando sè stesso, lei, gli alberi e il bosco.

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‒ “Ora vedete, mi disse il mio sacerdote, che le mieparole hanno fatto frutto; quell'uomo predica a sua mo-glie. Guardatelo adesso; le insegna che il nostro Dio hafatto lui, lei, il cielo, la terra, il mare, i boschi, gli alberi,tutte le cose.

‒ Mi pare di sì”, gli risposi.Subito dopo, vedemmo Guglielmo Atkins saltare in

piedi, buttarsi ginocchione, sollevare al cielo le mani.Ne parve che dicesse qualche cosa; ma gli stavamo trop-po lontani per arrivare ad udirlo. Non continuò a rima-nere in quella postura un mezzo minuto; ma rialzatosi esedutosi di nuovo presso la donna sua, tornava a parlar-le. Vedemmo che la donna gli prestava grande attenzio-ne, ma se anche ella parlasse è quanto non potemmo di-stinguere. Nel tempo che Atkins rimase ginocchionevidi sgorgar le lagrime su le guance del mio prete, e rat-tenni a stento le mie; ma fu un gran dispiacere per noi ilnon essere in tal vicinanza da capire che cosa si dicesse-ro scambievolmente. Pure non ardivamo accostarci dipiù per la paura di di turbarli ; quindi risolvemmo di re-star lì per vedere sino alla fine questo dialogo in pitturache, se bene muto, parlava forte abbastanza senza il soc-corso della voce. Le stava vicino, come ho detto serran-dosi addosso a lei e parlandole e riparlandole con fervo-re e due o tre volte, come potemmo accorgercene, ab-bracciandola e baciandola tenerissimamente; un'altravolta gli vedemmo trarre a mano il suo fazzoletto, ra-sciugarsi gli occhi, e tornarla a baciare in atto straordi-nariamente affettuoso. Dopo parecchie di queste varia-

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zioni, lo vedemmo in un subito saltar nuovamente inpiede e aiutarla a rialzarsi; poi la condusse per mano aduna distanza di due o tre passi, ove entrambi s'inginoc-chiarono tenendosi in tale guisa per due minuti all'incir-ca.

Il mio amico non potè durarla più a lungo senzaesclamare:

‒ “San Paolo! san Paolo! vedeteli che fannoorazione!”

Ebbi una mala paura che Atkins lo avesse udito, ondelo supplicai per l'amor di Dio a contenersi, tanto che po-tessimo vedere il fine di questa scena, per me, lo confes-so la più commovente di quante io abbia gustate in miavita. Fece dunque per un pezzo forza a sè stesso, ma congrande stento, tanto lo rapiva in estasi la contentezza dipensare che quella povera pagana era per abbracciare lafede di Cristo. Or piangeva, ora alzava le mani al cielo esi facea segni di croce; tal altra profferiva sotto vocegiaculatorie di ringraziamento al Signore, che facea ve-dere così miracolosamente coronate d'un buon successole nostre fatiche; talvolta parlava con sè stesso tantosommessamente ch'io medesimo non potea capire checosa dicesse: erano parole or in latino, ora in francese;due o tre volte interrompendole le sue lagrime, non lepotea pronunziare di sorta alcuna.

Tornai a pregarlo che si calmasse onde potessimo conpiù precisione e pienamente seguir sino al termine ilcorso di questa scena che non era ancora finita. Perchèquando il marito e la moglie non furono più genuflessi,

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osservammo che il primo si pose a ragionare caldamentecon la seconda, dai moti della quale (come sarebbe statoil sollevare ripetutamente le mani al cielo, il porsi lamano sul petto, e simili altri gesti propri di chi ascolta esente fortemente) appariva quanto fosse commossa dallecose che le venivano dette. Ciò era durato un mezzoquarto d'ora all'incirca, quando s'incamminarono versouna parte più lontana, nè li potemmo più vedere da staredove eravamo.

Colsi questo intervallo per discorrerla col mio compa-gno, cui prima di tutto manifestai la contentezza eccitatain me dalle cose di cui eravamo stati testimoni di vista.

‒ “E sappiate bene, soggiunsi, che io non son de' piùfacili a fidarmi d'un tal genere di conversioni, ma questala comincio a credere sincerissima così nell'uomo comenella donna, per quanto ignoranti sian essi; nè disperoomai che il principio non venga coronato da un esito an-cor più felice. Chi sa che l'istruzione e l'esempio loronon operino efficacemente su qualcuno degli altri?

‒ Su qualcuno, voi dite? replicò tosto voltandosi ame. Dite su tutti. Potete avere per cosa certa che se que-sti due selvaggi... (li chiamo cosi perchè stando alla vo-stra relazione, il marito fu poco men selvaggio della mo-glie) se que' due selvaggi arrivano ad abbracciare il cri-stianesimo, non sono più quieti finchè non hanno con-vertiti tutti gli altri, perchè la vera religione è comunica-tiva, e chi una volta è Cristiano non si lascia più', se lopuò, alcun pagano dietro di sè”.

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Confessai che era un principio cristianissimo il pen-sarla così, e che ciò era una prova in lui di un vero zeloreligioso ad un tempo e d'un animo generoso.

‒ “Ma, amico mio, qui aggiunsi, mi date voi la per-missione di confessarvi su questo proposito una cosa,che non giungo a comprendere?

‒ Qual è?‒ Non ho certo la menoma obbiezione da fare a que-

sta affettuosa sollecitudine che vi prendete per toglieretutti quegli sfortunati dalle tenebre del paganesimo econdurli alla luce della religione di Cristo. Ma che con-forto ne avete voi se la donna abbraccia la fede di suomarito? Secondo voi son sempre esclusi del grembo del-la chiesa cattolica, senza di che non può esservi salva-zione; non gli avete per conseguenza in minor conto dieretici e, per altre ragioni non meno simili nell'effetto,dannati al pari dei pagani.

‒ Signore; egli mi rispose con esuberante ingenuità,sono cattolico, sono un prete dell'ordine di San Benedet-to, e come tale adotto tutti i principii della chiesa roma-na; pure, nè dico ciò per farvi un complimento o per unriguardo alle mie circostanze e alle cortesie che mi aveteusate, quando penso a voi altri che vi chiamate prote-stanti, nol fo senza un certo spirito di carità. Non ardiscoaffermare, benchè sia questa in generale l'opinione de'miei confratelli, che voi non possiate salvarvi40. Io non

40 Poichè l'opinione del prete cattolico è, come si vede dal progresso diquesto stesso suo discorso, che tutti i Protestanti possano con opere buone me-ritarsi da Dio la grazia di essere illuminati e chiamati nel grembo della chiesa

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m'intendo di limitare la misericordia divina al segno dicredere ch'egli non possa condurvi sotto il pallio dellasua chiesa per impercettibili vie; e spero che voi altri ab-biate per noi la medesima carità. Prego ogni giorno que-sto Dio affinchè vi faccia rientrare nel seno della suachiesa, valendosi di quei mezzi che alla sua infinita anti-veggenza sembreranno i migliori. Intanto mi concedere-te sicuramente che spetta appunto alla mia qualità di sa-cerdote e di cattolico romano il fare distinzione fra unprotestante e un pagano; tra l'uomo che invoca GesùCristo, benchè in una guisa che non credo si accordi conla vera fede, e col selvaggio o barbaro che non conoscenè Dio nè Cristo nè Redentore. Se non avete la fortunad'essere ammessi nel seno della cattolica chiesa, siete al-meno più vicini ad entrarvi di colui che non sa nulla nèdi Dio nè di chiesa. M'allegro perciò quando vedo quelpover uomo, che voi mi dite essere stato un malvagio epoco meno d'un assassino, prostrarsi per pregar GesùCristo...., noi supponiamo almeno che si sia inginoc-chiato con questo fine.... benchè non pienamente illumi-nato dalla sua grazia; e me ne allegro perchè spero cheDio, da cui credo che proceda quanto attoniti or contem-pliamo, gli toccherà il cuore e lo promoverà a suo tempoad una compiuta cognizione del vero. E se Dio può tan-to che quest'uomo istruisca e converta a lui quella pove-

cattolica, fa torto ai suoi confratelli nel dipingerli in generale d'avviso diverso.La sua eccezione doveva escludere sol quelli che non conoscono il vero spiritodella carità cristiana. È per altro fatalmente vero che questi tali ai suoi giornierano molti.

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ra ignorante selvaggia di sua moglie, ho a credere ch'e-gli respinga da sè l'autore di un'opera così santa? E nonho forse motivi di sentir compiacenza e tanto maggiorequanto più vedo una creatura avvicinarsi alla cognizionedel vero Dio, se bene non sia giunta nel grembo dellachiesa cattolica tutt'ad un tratto e in quel punto che avreidesiderato io? Lascio poi alla bontà dello stesso Dio lacura di perfezionare la sua opera nel tempo e per quellevie che nella sua alta saggezza giudicherà più espedien-ti. Da vero sarebbe una festa per me se tutti i selvaggidell'America fossero condotti a pregare Dio, come quel-la povera donna, ancorchè tutti divenissero protestanti:sempre meglio che se rimanessero pagani o idolatri!Crederei fermamente che chi ha compartita loro questaluce si degnerebbe illuminarli di più con un raggio dellaceleste sua grazia e condurli sotto il manto della verachiesa, quando lo giudicherebbe opportuno”.

Mentre mi comprendeano di ammirazione e stuporel'indole ingenua e il candor di animo di quel pio papista,la possanza dei suoi ragionamenti mi convinceva; ondepensai allora che, se quel suo carattere fosse comune ne'suoi confratelli, saremmo tutti cattolici cristiani, qualun-que fosse la professione che ci riunisse, perchè lo spiritodi carità diverrebbe sì operoso in tutti che ben presto nesaremmo guidati quanti siamo su i retti principii; e poi-chè egli credea che tale spirito di carità varrebbe a ren-derne tutti cristiani cattolici, gli dissi io pure per partemia:

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‒ “Ed io credo che se tutti i membri della vostra chie-sa possedessero la vostra moderazione, voi altri Cattoli-ci sareste tutti protestanti a quest'ora41”.

Questo punto fu lasciato da parte, perchè su tali mate-rie non ci allungammo mai nelle dispute. Benchè nonpotei starmi dal fargli un'altra osservazione.

‒ “Amico mio, gli dissi, augurerei certo a tutto il cle-ro romano una moderazione pari alla vostra, e tanta cari-tà quanta ne date a conoscere; ma devo ben dirvi che seandaste a predicare queste vostre dottrine nell'Italia onella Spagna vi metterebbero all'inquisizione42.

‒ Può darsi, egli rispose. Non cerco che cosa farebbe-ro nella Spagna o nell'Italia. So bene che non sarebberomigliori cristiani per questa severità, e che non crederòmai eretico chi abbonda nell'amare il suo prossimo”.

LXXXVII. Duplice conversione.

Poichè Guglielmo Atkins e sua moglie ci furono fuoridi vista, non avevamo altro da far lì, onde venimmo ad-dietro; ma li trovammo di nuovo che stavano innanzialla mia abitazione aspettando di essere chiamati. Vedu-to questo, domandai al mio prete se dovessimo dir loro

41 Già anche un Turco crede di fare il più bello de' complimenti ad un Cri-stiano col dirgli: “Meritereste proprio di essere nato turco”.

42 E in Francia in quei giorni non c'era forse lo stesso pericolo? Almeno daqualche vecchio suo contemporaneo Robinson poteva aver saputo il suppliziodella marescialla d'Ancre, azione non atta del certo a provare la carità cristianao la dottrina di que' teologhi francesi che ne dovettero essere cooperatori.

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o no d'averli veduti in mezzo alle macchie. Egli fu d'av-viso per il no; tornarne meglio il parlar prima ad Atkinse vedere come si metteva. Chiamato indi lui solo e, sen-za che ci fossero presenti altri fuori di noi, principiaicosì il nostro interrogatorio.

ROBINSON. Guglielmo Atkins, fatemi il piacere di dir-mi qual fu la prima vostra educazione. Vostro padre chiera?

ATKINS. Un uomo migliore di quello che arriverò maiad esser io, mio signore. Mio padre era un ecclesiastico.

ROBINSON. Che educazione vi diede?ATKINS. Egli avrebbe voluto ammaestrarmi debita-

mente; ma io mi misi sotto i piedi tutto: educazione,istruzioni, ammonizioni, da enorme bestia qual ero.

ROBINSON. Veramente, lo dice anche Salomone, chechi disprezza le ammonizioni è un uomo brutale.

ATKINS. Sì , mio buon signore, fui proprio questo bru-tale. Per l'amor di Dio, non mi parlate di queste cose.Dio! Dio! Lo ammazzai io il mio povero padre.

IL PRETE FRANCESE. Un parricidio!Il povero prete divenne pallido pallido, quando Atkins

diede in questa esclamazione, perchè io gli andava spie-gando parola per parola ogni detto di questo, e parveche prendesse la cosa troppo alla lettera.

ROBINSON, al prete. No, amico; io la intendo diversa-mente. Guglielmo Atkins, spiegatevi. Voi non uccidestevostro padre, non lo uccideste con le vostre mani?

ATKINS. No, signore, non gli troncai il collo, ma tron-cai il corso della sua felicità e gli ho accorciata la vita.

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Ho straziato il suo cuore contraccambiando con la piùsnaturata ingratitudine i più teneri e affezionati tratta-menti che abbia mai saputo usare un padre, che un figlioabbia mai potuto ricevere,

ROBINSON. Ascoltatemi, Atkins, non vi ho fatta questadomanda per estorcere una tal confessione da voi. Intor-no a ciò prego Dio che vi conceda la grazia d'un penti-mento verace, e vi perdoni questa e altre colpe; ma ilfine della mia interrogazione è stato tutt'altro. Benchènon siate fornito di molta dottrina, si vede nondimenoche non siete ignorante, come alcuni altri nel conoscereil vero bene, e che in materia di nozioni religiose neavete molte al di là di quanto le abbiate poste in pratica.Per ciò vi domandavo ...

ATKINS. Ancorchè, signore, voi non abbiate cercato distrappar dal mio labbro la confessione che vi ho fatta in-torno a mio padre, me l'avrebbe estorta la mia coscien-za; e ogni qual volta riandiamo col pensiere la nostravita passata, i delitti commessi contra amorosi genitorisono le prime crudeli idee che ne trafiggono; e la feritache vibrano è più profonda, l'oppressione che lascianonell'animo è più greve di quanto il siano la puntura, ilpeso d'ogn'altra colpa.

ROBINSON. O Atkins, voi toccate una corda troppo di-licata, troppo sensibile al mio cuore perchè io possa sop-portarne il suono.

ATKINS. Voi, mio signore, non potete sentir questacorda. Ardisco dire che di tali cose non potete intender-vene.

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ROBINSON. Sì, Atkins, che me ne intendo! Ogni spiag-gia, ogni colle, posso anzi dire ciascun albero di quest'i-sola è testimonio delle angosce provate dalla mia animaper la ingratitudine, pe' mali trattamenti da me usati adun buono, ad un tenero padre, ad un padre, Atkins, affat-to simile al vostro, se sto alla descrizione che me neavete data; ed io uccisi mio padre, come voi il vostro;pure, povero me! credo che il mio pentimento sia digran lunga inferiore al vostro.

Avrei parlato più a lungo se me ne avesse lasciata laforza il dolore; ma il pentimento di quel pover uomo miparve tanto più sincero del mio, che, vergognandomene,stavo per troncare il discorso e ritirarmi. Oh! come ri-masi sorpreso da ciò che egli disse! Allora pensai, anzi-chè adoperarmi ad instruire e convertir lui, di avere in-vece trovato in lui inaspettatamente e in guisa prodigio-sa un istruttore, un missionario eccellente. Tutti questimiei pensieri spiegai al mio buon ecclesiastico, che, nonpotendo capire in sè per la gioia e la commozione ond'e-ra compreso, si volse a me:

‒ “Non ve lo dicevo che, quando quest'uomo sarebbeconvertito, farebbe il predicatore a tutti noi? Vi giuro ioche se viene da vero a penitenza, qui non c'è più bisognodi me; fa cristiani tutti quelli che non lo sono nell'isola”.

Allora ricompostomi alquanto, tornai al mio interro-gatorio con Atkins.

ROBINSON. Com'è stata, Atkins, che questo forte e giu-stissimo sentimento si è destato in voi sol da poco inqua?

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ATKINS. Signore, voi m'avete messo in un lavoro chemi ha piantata una freccia nell'anima. Ho parlato di Dioe di religione con mia moglie, come voi desideravate,per far d'essa una Cristiana. Or bene, è stata lei in veceche mi hai fatta una tal predica di cui non mi scorderòpiù fin che vivo.

ROBINSON. No, no; non è vostra moglie che vi ha pre-dicato; ma mentre tiravate a mano argomenti religiosiper persuadere lei, la vostra coscienza li ritorcea sopradi voi.

ATKINS. Così è, mio signore; e con tal forza che non lepotevo resistere.

ROBINSON. Di grazia, ditene alcun che dei discorsi se-guiti tra voi e vostra moglie. Qualche cosa già me l'im-magino; ciò non ostante . . .

ATKINS. Signore, mi sarebbe difficile il darvene unpreciso ragguaglio. Certo mi stanno sì fitti nella memo-ria che non potrei scordarli; ma non ho lingua per espri-merli. Una cosa che posso dirvi si è questa: comunquequella povera donna abbia parlato, e benchè io non siabuono di ripeterne i discorsi, ho risoluto di ammendarmie di riformare la mia vita.

ROBINSON. Va bene; pur diteci almeno com'è princi-piata la cosa. Il caso è stato straordinario, questo è certo;e bisogna da vero che sia una gran predicatrice eloquen-te se ha prodotto tanto effetto su voi.

ATKINS. Vi dirò: le ho parlato prima di tutto della na-tura delle nostre leggi sul matrimonio; poi le ho spiegatoi motivi da cui sono necessitati l'uomo e la donna ad as-

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soggettarsi a tali patti che non possano rompere nè l'unonè l'altro; le ho detto che, altrimenti, nè l'ordine nè lagiustizia si manterrebbero, gli uomini fuggirebbero dalleloro mogli; abbandonerebbero le loro creature, nasce-rebbero mescolanze disordinate tra uomini e donne: lefamiglie non si conserverebbero nè vi sarebbe più unaregola per le successioni e le eredità.

ROBINSON. Voi parlaste come un valente giureconsul-to, Atkins. Ma poteste farle capire ciò che riguarda leeredità e le famiglie? Queste cose non si conoscono fra iselvaggi che si sposano insieme comunque siasi, senzabadare a parentela, a nodi di sangue di qualsiasi genere,o a famiglia; nemmeno se fratelli e sorelle, anzi comem'hanno detto, il padre non si fa scrupolo di sposare lafiglia, il figlio la madre.

ATKINS. Credo, signore, che v'abbiano male informa-to, perchè mia moglie mi ha assicurato del contrario, edetto anzi che avrebbero orrore di ciò. Forse ne' casi diparentele più lontane non ci guardano tanto come fac-ciamo noi; ma ella mi giura che non si toccano gli unigli altri nei casi delle strette parentele da voi additate.

ROBINSON. E che cosa rispose su la proposta di farlamoglie legittima lei?

ATKINS. L'aggradì sommamente, e disse che in questorispetto le nostre usanze sono molto migliori di quelledel suo paese.

ROBINSON. Ma le spiegaste bene che cosa sia il matri-monio ?

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ATKINS. Sì, mio signore, e qui si entrò a discorrere direligione; perchè avendole io chiesto se consentiva diessere sposata secondo il nostro rito, ella mi domandòche cosa intendessi dire. Le risposi che il matrimonioera stato istituito da Dio; e qui ebbi con lei il più stranodialogo che siasi mai tenuto al mondo tra moglie e mari-to.

Trascrissi questo dialogo su le tracce della ripetizioneche me ne fece Guglielmo Atkins.

LA MOGLIE. Istituito da Dio! Come! Esservi un dio invostro paese?

ATKINS. Sì, mia cara; Dio è in tutti i paesi.LA MOGLIE. In mio paese non c'è vostro dio; quello di

mio paese è gran vecchio Benamuckee.ATKINS. Figliuola, io sono un cattivissimo maestro per

darvi a capire che cosa è Dio; ma è lui che ha fatto ilcielo, la terra e il mare e tutto le cose che si contengonoin essi.

LA MOGLIE. Terra no fatta da lui. Tutta terra, no sicu-ro; mio paese non fatto da lui. (A questo sproposito Gu-glielmo Atkins non potè starsi dal ridere.) Non ridere!Perchè mi guardi in burla? Qui non vedo buon ridere io.(La poveretta non avea torto perchè su le prime suo ma-rito non parlava tanto sul serio siccome lei.)

ATKINS. Hai ragione; d'ora in avanti, mia cara, non ri-derò.

LA MOGLIE. Perchè dici che fatto tutto da tuo Dio?ATKINS. Sì, la mia creatura; il nostro Dio ha fatto l'in-

tero mondo, te, me e le cose; perchè egli è l'unico vero

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Dio, e non vi è altro Dio fuori di lui che vive in eternonei cieli,

LA MOGLIE. Perchè non dirmelo tanto prima?ATKINS. Il tuo rimprovero è pur troppo giusto; ma ho

sempre fatta vita cattiva, e non solo ho dimenticato didarti contezza delle cose che dovevi sapere, ma sonovissuto senza Dio, come se non vi fosse, e vivessi solosu questa terra.

LA MOGLIE. Come! c'è gran Dio in tuo paese, e nonconosci lui? Non dici O a lui? Non fai cose buone perlui? Questo non possibile.

ATKINS. Non dovrebbe esserlo; pure l'uomo è sì per-verso che vive come se Dio non fosse nel cielo, e nonavesse nessun potere sopra la terra.

LA MOGLIE. Ma perchè Dio lascia te fare così? Perchènon obbliga te far buona vita?

ATKINS. La colpa è tutta mia.LA MOGLIE. Ma mi dici tuo Dio grande, grandissimo,

che può tanto; che può dunque fare morto chi lui vuole.Perchè non far morto te che non servi lui, che non diciO a lui che non sei buon uomo?

ATKINS. Hai ragione; dovrebbe farmi cader morto, edovrei aspettarmelo per tutte le mie iniquità; non diciche troppo la verità, ma è un Dio misericordioso, e nonci tratta a misura de' nostri demeriti.

LA MOGLIE. E te non mai ringraziar lui?ATKINS. No, sciagurato ch'io fui! Non ringraziai Dio

per la sua misericordia più di quanto lo abbia temuto perla sua possanza.

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LA MOGLIE. Dunque tuo dio non dio; me non crederetutto questo potere in lui; non fa morto te che dai disgu-sti a lui.

ATKINS. Dio! dio! la mia sgraziata vita è quella cherattiene questa povera donna dal credere in te! oh ilgrande scellerato ch'io sono! Tremenda verità! La vitaorribile dei cristiani impedisce la conversione degl'infe-deli.

LA MOGLIE. Vuoi me credere un gran Dio lassù (e quila donna accennava il cielo) e te non far niente bene,anzi tutto male. Può saperlo? saper quello fai?

ATKINS. Sì, sì; sa e vede ogni cosa, ci ode parlare;vede quello che facciamo, sa quello che pensiamo anchequando non diciamo nulla.

LA MOGLIE. Come! ascolta tue maledizioni, tuoi giura-menti da disperato? ode te quando dai, anima a diavolo?

ATKINS. Sì, sì; ode tutto questo.LA MOGLIE. Dove sta dunque gran potere detto da te.ATKINS. Egli è misericordioso; ecco quanto ti posso

dire intorno a ciò. Questo anzi ci dimostra ch'egli è unvero Dio; egli è Dio, non uomo, mia cara, e per questasola ragione non siamo inceneriti dal fuoco del cielo.

Qui Guglielmo Atkins ci narrò l'orrore che assalse lasua mente quando si vide alla necessità di spiegare, in sìchiari termini alla donna sua che Dio vede, ascolta, co-nosce i più intimi segreti del cuore, e che ciò non ostan-te egli, Atkins, aveva ardito commettere tutte le nefandi-tà di cui era colpevole.

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LA MOGLIE. Misericordioso! Ma che cosa intendi contuo misericordioso?

ATKINS. Ch'egli è il padre, il creator nostro, che hacompassione di noi e ci risparmia.

LA MOGLIE. Ma non fa mai cader morti cattivi! non vamai in collera con cattivi! non buono lui, o suo saperfare non molto.

ATKINS. Nè una cosa nè l'altra, mia cara. Egli è infini-tamente buono e infinitamente grande, ed ha anche l'abi-lità di punire; e qualche volta per far manifesto che ègiusto, e che chi lo offende non va impunito, dà segnivisibili dell'ira sua sterminando i peccatori e dando terri-bili esempi; molti furono colpiti nell'atto medesimo delpeccato.

LA MOGLIE. E poi non far morto te! Forse promesso ate non far morto te; un patto fra voi; tu far brutte cosesino che vuoi, lui con te andare no in collera; in colleracon altri sì.

ATKINS. Niente di questo; i miei peccati son tutti l'ef-fetto d'una presunzione fondata temerariamente su lasua bontà, e sarebbe infinitamente giusto se facessepiombar su me la sua folgore come ha fatto con altri.

LA MOGLIE. Bene; e per non far morto te, per non averfatto morto te, che cosa dici a lui? Te se non altro ringra-ziar lui?

ATKINS. Sono un ingrato, un cuor di tigre, questo sì èvero.

LA MOGLIE. Perchè dunque non fatto te più buono? Tepur dire essere fatto da lui?

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ATKINS. Egli ha fatto me come ha fatto tutto il mondo.Son io che mi sono sformato da me medesimo, io che hoabusato della sua bontà, io, io divenuto per opera mial'abbominevole scellerato che sono.

LA MOGLIE. Fa conoscere me a questo Dio; io non faròandare in collera lui; io non farò brutte cose, io.

Qui Guglielmo Atkins ne raccontò che si sentì in gui-sa straordinaria serrare il cuore all'udire quella poveraidiota creatura che desiderava essere ammaestrata nellaconoscenza di Dio e al pensare che un perverso come luinon era capace di dirle una parola a sesto su questo Dio,mentre la sgraziata vita che avea condotta doveva quasifarle parere sin cosa ragionevole il non crederlo; anzi ladonna non si era stata dianzi dal dirgli che non poteapersuadersi dell'esistenza di questo Dio, perchè l'uomomalvagio che le stava innazi non era stato distrutto.

ATKINS. Mia cara, tu vuoi dire ch'io lo faccia conosce-re a te questo Dio, non te a lui, perchè egli ti conosce, esa ciascun pensiere che ti passa nella mente e nel cuore.

LA MOGLIE. Come! quello che dico adesso a te tuoDio sa? Sa me desiderare conoscer lui. Come far me perconoscere chi ha fatta me?

ATKINS. Povera creatura! egli deve insegnartelo; ionon lo posso. Lo pregherò che t'insegni a conoscerlo, emi perdoni, poichè son troppo indegno d'ammaestrarti.

Il povero convertito ci narrò su questo propositocome fosse in uno stato di vera agonia allo scorgere nel-la donna il desiderio di conoscere Dio e d'avere in ciòper maestro il marito. L'agonia fu sì grande che, lascia-

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tosi cader ginocchione alla presenza di lei pregò Dio adilluminar la mente di sua moglie con la salutare dottrinadi Gesù Cristo; lo pregò perchè gli perdonasse le suecolpe e tollerasse ch'egli divenisse stromento, benchè in-degno, ad istruirla ne' principii della religione. Finita lasua preghiera, tornò a sedere presso la moglie e il dialo-go continuò. Questa parte di narrazione corrisponde almomento in cui lo vedemmo inginocchiarsi e sollevarele mani al cielo.

LA MOGLIE. Per far che inginocchiato? Per che cosaalzate mani in su? Che aver detto? Con chi detto? Cheroba essere stata questa ?

ATKINS. Mia cara, mi sono prostrato in segno dellasommessione a chi mi creò, Gli ho detto O, per espri-mermi all'usanza di voi altri, e come fate voi altri colvostro idolo Benamuckee; in somma ho pregato il vero,il mio Dio, il Dio di tutti.

LA MOGLIE. E perchè detto O a lui?ATKINS. Onde voglia aprirti gli occhi e rischiararti

l'intelletto; affinchè tu possa conoscerlo e farti degna diessere ascoltata da lui.

LA MOGLIE. Anche questo in poter di lui?ATKINS. Sì, in poter di lui; può far tutto, mia cara.LA MOGLIE. E udite ora da tuo Dio cose dette da te a

lui?ATKINS. Sì; ci ha comandato di pregarlo, e ne ha pro-

messo di ascoltarci.LA MOGLIE. Comandato di pregar lui? Quando? come?

Dunque te avere udito parlar lui?

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ATKINS. No, noi non possiamo udirlo parlare, ma si èrivelato a noi in più maniere.

Qui il povero Atkins si trovò in un grande imbarazzoper farle capire che Dio si è rivelato con la sua parola, ein che consistesse questa parola; pur finalmente si spie-gò alla meglio.

ATKINS. Dio primieramente parlò ad alcuni santi uo-mini ne' tempi antichi, anche con parole distinte venutedal cielo; Dio ha infuso in que' santi uomini il suo spiri-to; e que' santi uomini scrissero le sue leggi in un libro.

LA MOGLIE. Me non capire. Dove questo libro?ATKINS. Ah! Mia povera creatura, pur troppo non lo

ho questo libro; spero per altro una volta o l'altra di pro-curarmelo e di leggerlo in tua compagnia. (Qui l'abbrac-ciò con inenarrabile tenerezza e con altrettanto rammari-co per non avere lì pronta una Bibbia.)

LA MOGLIE. Ma in che modo fai a me conoscere averequegli uomini scritta parola di Dio?

ATKINS. Dalla regola stessa che lo ha fatto a noi cono-scere per un Dio.

LA MOGLIE. Che regola? non intendo tua ragione.ATKINS. La ragione è che in questa regola, in questi

comandamenti di Dio non si contiene cosa la quale nonsia buona, retta, santa e non intesa a renderci perfetta-mente buoni ed altrettanto felici; nè v'è un suo precettoche non ne comandi l'astenerci da tutto quanto è male insè stesso e nelle sue conseguenze.

LA MOGLIE. Me voler avere gran gusto di saper regola,di conoscere regole. Lui, tuo Dio, far far bene tutte cose

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a me! Lui far sempre buone cose per me! Lui ascoltarmidire O a lui, come te poco fa! Lui far me buona se mebramare esserlo! lui aver compassione di me! Non farmimorta se cattiva. Te aver fatto persuasa me lui esseregran Dio! Me volere con te dire O a lui!

A questo punto il nostro convertito non potè più ratte-nersi; saltò in piedi; le diede mano ad alzarsi, la fece in-ginocchiare con lui, pregò il Signore che scendesse colsuo spirito ad istruirla; si raccomandò in oltre alla divinaprovidenza affinchè quella povera donna arrivasse adavere, un dì o l'altro, se pur fosse stato possibile, unaBibbia. Fu questa l'occasione in cui gli avevamo vedutiprendersì scambievolmente per mano ed inginocchiarsi.

Seguirono quindi altri discorsi fra loro troppo prolissiper essere trascritti. Il più concludente per parte dalladonna fu la promessa che si fece dare da suo marito.

‒ “Poichè confessi da te stesso tua vita essere statacattiva, cialtrona vita, di tua parola, me voler tua parola!te finire di provocar lui, corregger te, non far più andarein collera lui; se no lui far te morto, me restar sola; sen-za chi me insegni conoscer meglio lui, se no.... questacosa avermela insegnata te... te morto, diventar te mise-rabile come miserabili tutti cattivi”.

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LXXXVIII. Battesimo; nuove nozze e nuove piantagioni.

Fu questo un avvenimento straordinario e che fecegrande impressione sul giovine ecclesiastico e su me;ma particolarmente sul primo che al sentimento dellameraviglia univa un'afflizione inenarrabile per non sape-re l'inglese almeno quanto sarebbe bastato per farsi in-tendere dalla donna, e difficilmente l'avrebbe capita an-che sapendolo, perchè nella sua sintassi ella non legavatroppo le frasi. Indi mi si volse con questi detti:

‒ “Ci sono altre cose da fare con quella donna primadi sposarla con Atkins”.

Io non lo intesi in principio; ma poi mi spiegò che bi-sognava per prima cosa battezzarla. In ciò convenni to-sto, e dissi anzi che disponevo a tal fine immantinente lecose.

‒ “No, mio signore, egli soggiunse, fermatevi. Ben-chè io non desideri meglio del vedere battezzata quellapovera creatura, non posso starmi dal notare una cosa:ed è che Atkins, suo marito, l'ha bensì condotta per unavia prodigiosa a desiderare di vivere nella religione delvero Dio; l'ha anche istruita su la possanza, la giustizia,la misericordia di questo Ente supremo. Ora vorrei sape-re da lui, se le ha detto nessuna cosa di Gesù Cristo, sal-vatore del mondo; della fede che deve aversi in esso,della redenzione operata da lui, dello Spirito Santo, del-

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la risurrezione, del giudizio finale, dell'inferno e del pa-radiso”.

Chiamato a me Atkins di nuovo, gli feci la stessa in-terrogazione; ma lo sfortunato proruppe in tal pianto chestette alcuni istanti prima di poter rispondermi quantoudirete ora:

‒ “Mio signore, le ho detto qualche cosa anche su ciòma sono stato fin qui una sì perversa creatura, la co-scienza mi rimprovera tanto la mia vita scellerata che, seentravo più addentro nello spiegarle le verità della reli-gione, temevo non si minorasse in lei la fede a questecose dovuta, temevo di fargliele disprezzare, anzichècredere. Ma sono troppo sicuro della buona disposizionedi mia moglie a ben accogliere tutte le suddette dottrine;e se mi fate la carità di parlare con lei, avrete, spero, lasoddisfazione d'accorgervi, come quanto ho fatto fin oraper metterla sul buon sentiero non sia andato perduto”.

A seconda di ciò feci venire la donna, ponendomi perinterprete io tra lei ed il prete, e pregando questo a prin-cipiare il discorso. V'assicuro io che una tal predica nonsi è mai udita da un prete papista in questi ultimi secolidel cristianesimo, nè mi stetti dal dirgli ch'egli avea tuttolo zelo, la scienza, la sincerità d'un cristiano, scevri de-gli errori d'un cattolico romano, ed era tal ecclesiasticoquali furono i vescovi di Roma prima che la chiesa ro-mana avesse chiamata a sè la sovranità su le coscienzedegli uomini43. In una parola, condusse quell'ottima don-

43 Robinson protestante non sarebbe stato, come ognun vede, in caratterese avesse parlato diversamente.

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na ad abbracciare la dottrina di Cristo e della redenzionenon solamente con la meraviglia e lo stupore dati a ve-dere quand'ebbe le prime nozioni d'un Dio, ma conemozione e con gioia, e lasciando scorgere una intelli-genza eminente al segno di non potersene quasi formareidea, non che decriverla. Domandò di esser battezzata elo fu.

Mentre il mio ecclesiastico si accigneva a tal sacracerimonia, lo pregai ad usare qualche cautela onde pos-sibilmente non si capisse appartenere egli alla chiesa ro-mana, e ciò per timore delle sinistre conseguenze chesarebbero derivate dall'introdurre diversità di opinioninella religione in cui stavamo per istruire altri uomini.

‒ “Prima di tutto, mi rispose, qui non ho una chiesaconsacrata, nè quanto occorrerebbe per ufiziare co' ritiromani. Fidatevi dunque in me, e condurrò le cose inmodo che, se voi non mi sapeste già cattolico romano,non ve ne accorgereste nemmeno adesso44”.

Come disse fece; perchè pronunziate da sè sol pocheparole in latino ch'io non intesi versò un bacino pienod'acqua sul capo della donna, indi pronunziò ad altavoce ed in francese le note parole della formola del bat-tesimo. Le impose il nome di Maria, come ne pregò ilmarito, a cui riguardo fui padrino della neofita. Diede

44 Non credo a dir vero che con tale condiscendenza il nostro prete france-se si fosse fatto un merito nè con la Chiesa romana d'allora nè con quella de 'nostri giorni. Ma qui traduco, non discuto casi di coscienza. Poi è naturale chel'autore di questa storia si stampasse un prete romano a suo modo.

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indi la benedizione in latino; ma Atkins non s'avvide sefosse latino o francese, e per allora non ci badò.

Compiuto il battesimo gli unimmo in legittimo matri-monio; poi spedita anche questa faccenda, il mio eccle-siastico con vera unzione di carità, volse questi accentiad Atkins :

‒ “Ora, figliuolo mio; devo raccomandarvi non solodi perseverare nelle buone disposizioni in cui siete, madi provare che il vostro convincimento è sincero coll'e-mendarvi. Sarebbe inutile per voi l'esservi pentito dellecolpe se non le abbandonaste. Voi vedete qual onore viha compartito il Signore Iddio col rendervi stromentodella conversione di vostra moglie alla fede cristiana;badate di non far torto a questa sua grazia, nel qual casovedreste la pagana migliore cristiana di voi; la selvaggiaconvertita, e lo stromento della redenzione gettato via”.

Dopo mill'altre cose sagge e affettuose dette ad en-trambi, li raccomandò alla misericordia di Dio e benedìnuovamente: chè già non cessai una volta di ripetere adessi in francese quant'egli avea detto; così furono com-piuti entrambi i riti, nè credo di aver passato in mia vitaun giorno sì contento e piacevole come fu questo.

Ma il mio ecclesiastico non voleva che tutto stessequi; i suoi pensieri si fisavano sempre su la conversionedei trentasette selvaggi, per imprendere la quale sarebberimasto di tutto buon grado nell'isola. Io nondimeno lopersuasi di due cose: primieramente che una tale impre-sa non era praticabile per sè stessa in secondo luogo glifeci vedere come nel partirmi dall'isola avrei potuto dare

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tale sesto alle cose, che, anche assente, egli ne sarebbestato contento; ma di ciò parleremo più tardi.

Condotti così ad un buon punto gli affari dell'isola, iomi disponeva a tornare a bordo del mio legno quandovenne a cercarmi quel giovine ch'io avea raccolto dalbastimento la cui ciurma moriva di fame; spiegandomila sua contentezza per aver inteso essere con me un ec-clesiastico del quale m'ero prevalso per unire in matri-monio uomini cristiani con donne selvagge.

‒ “Vengo adesso, proseguì, a proporvi, prima che vene andiate di qui, un matrimonio che non dovrebbe di-spiacervi fra due Cristiani”.

Credei subito gli fosse venuto in mente di sposare lagiovine che era stata cameriera di sua madre, onde prin-cipiai col dargli de' consigli.

‒ “Figliuolo gli dicevo, non saltate dentro così a pièpari in questo negozio, spinto forse a ciò dalle circostan-ze della vostra solitudine. Pensate che avete in questomondo una sostanza piuttosto considerabile e de' buoniamici, come lo ho saputo da voi e dalla stessa vostra ca-meriera. Ma questa cameriera in fine non è altro che unadonna di servizio, povera in oltre e sproporzionata alcaso vostro anche rispetto agli anni, perchè essa ne haventisei o ventisette, e voi siete fra i diciassette e i di-ciotto. È cosa probabilissima che un dì o l'altro, median-te la mia assistenza diate un addio a questo deserto perrivedere nuovamente la patria vostra. Allora, c'è dascommettere mille contr'uno che vi trovereste pentito

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della vostra scelta, e il rammarico che ne avreste farebbel'infelicità di due creature ad un tempo”.

Non mi lasciò andare avanti nel dire e m'interruppesorridendo e con gentilissimi modi.

‒ “Signore, scusate, vi siete sbagliato, nelle vostrecongetture, e nessuno de' pensieri che m'attribuite, mipassò mai per la testa. Mi consolate per altro spiegando-mi con tanto candore la buona intenzione di restituircientrambi alla nostra patria, e v'assicuro che nulla m'a-vrebbe suscitata l'idea di fermarmi qui, se la navigazio-ne che imprendete non fosse sì eccedentemente lunga epericolosa; e non mi rendesse sempre più lontana la pro-babilità di raggiugnere tutti quanti i miei amici. La solacosa di cui vi prego è d'accordarmi una piccola proprietànel paese ove rimango, e uno o due servi e i pochi at-trezzi che le vanno indispensabilmente connessi. Cosìpotrei stabilirmici qual piantatore in espettazione dell'i-stante in cui rivediate l'Inghilterra donde mi riscatterete:so bene che giunto colà non vi scorderete di me. Intantoio vi darò alcune lettere pe' miei amici di Londra ai qua-li voglio raccontare tutto il bene che mi avete fatto e inche parte del mondo e in che circostanze or mi trovi.Quando tal vostra promessa del mio riscatto arrivi adavverarsi, tutta la piantagione che m'avrete accordata,tutti i miglioramenti che avrò fatti sovr'essa, a qualun-que somma ne ammonti il valore, saranno affatto di vo-stra proprietà”.

Il qual discorso lo trovai fatto con molto garbo, avutomassimamente riguardo alla giovinezza di chi lo teneva,

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e m'andò più a sangue, perchè n'ebbi una positiva cer-tezza che il matrimonio di cui parlava non si riferiva adesso. Lo accertai che, se fossi vissuto tanto di rivederesano e salvo l'Inghilterra mi sarei data tutta la possibilepremura di ricapitare le sue lettere e di adoperarmi effi-cacemente a suo pro; chè certo non avrei dimenticato inquali circostanze or lo lasciavo.

Ciò non ostante durava in me la curiosità, di saperechi fosse lo sposo, curiosità ch'egli tosto appagò, onderimasi gratamente sorpreso quando gli udii nominarequel mio ometto da tutti i mestieri, perchè a mio giudi-zio non si poteva immaginare un matrimonio combinatopiù adattamente. Il carattere del marito lo ho già altrovedipinto; quanto alla fidanzata, essa era una giovane one-stissima, modesta, un vero specchio di religione e sa-viezza, oltre a molta dose di squisito discernimento aduna sufficiente avvenenza della persona e ad un modod'esprimersi piacevole ed acconcio, non mai scevro didecenza e di grazia. Non ritrosa a parlare ogni qual voltaveniva richiesta, non entrava arrogantemente nelle coseche non le spettavano; solerte, industriosa, utile donnada casa avrebbe potuto da vero esserlo per tutta l'isola,tanto bene sapea governarsi sott'ogni rispetto.

Con sì lieti angurii pertanto le nozze furono celebratein quel medesimo giorno. Io che fui, per così esprimer-mi, il padre della sposa, giacchè la presentai all'altare,stimai convenevole l'assegnarle anche una dote; consistèquesta in una bell'area di terreno perchè essa e il maritosuo vi avviassero una piantagione. Anzi tale dotazione e

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la domanda fattami dal giovine gentiluomo, affinchè gliassegnassi una proprietà nell'isola, mi suggerì l'idea diripartire tutta proporzionalmente fra i coloni l'isola stes-sa affinchè non nascessero in appresso fra loro contesedi luogo.

Affidai la cura di un tale riparto a Guglielmo Atkins,divenuto dopo la sua riforma di vita, vero galantuomo ebuon massaio, pio, religioso, e sincero convertito, alme-no da quanto mi diede fondamento per dirlo e crederlotale. Nel far le parti si regolò con tanta equità, e tanto in-contrò la soddisfazione di tutti che domandarono ad unavoce di vedere autenticato da un solenne atto sottoscrittodi mio pugno il riparto ideato da Atkins. Prestatomi allor desiderio feci stendere una scrittura che, firmata dame e contrassegnata dal mio suggello, consegnai posciaai coloni. Oltre al rimanere stabiliti con essa i confini elo spazio delle piantagioni, fu concepita in modo checiascun colono ne ritraesse per sè e suoi eredi la proprie-tà del fondo assegnatogli e di quanti miglioramenti viavrebbe praticati per l'avvenire. Mi riserbai la proprietàdel rimanente dell'isola ed una certa onoranza annualesu le singole piantagioni, da sborsarsi ad ogni inchiestao mia o di chi si presentasse a mio nome con la copiaautentica di quello scritto. Tale onoranza per altro nondovea cominciare a decorrere sin di lì ad undici anni.

Quanto al governo e alle leggi cui si sarebbero sotto-messi per l'avvenire, dissi loro, non vederne io miglioridi quelle che avrebbero saputo darsi da sè medesimi se-condo i casi; soltanto mi feci promettere che si amereb-

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bero sempre e viverebbero di buon accordo e in talescambievole benevolenza qual dee sussistere fra buonivicini. Così io m'apparecchiava a congedarmi da loro.

Una cosa soltanto non volli omettere, e fu il farli av-vertiti che essendo allora costituiti in una specie di con-federazione fra loro, e per conseguenza cresciuti d'affari,non tornava il lasciare in un cantone spartato dell'isolatrentasette Indiani indipendenti, e da vero inoperosi,perchè se si eccettui il procurarsi sostentamento, nel cheriuscivano assai difficilmente da sè stessi e senza la cari-tà dei coloni, non avevano del rimanente da fare il grannulla. Consigliai pertanto al governatore spagnuolo ditrasferirsi presso di loro in compagnia del padre di Ve-nerdì, e di proporre ad essi il partito di separarsi nell'unoo nell'altro di questi due modi: o formando altrettantepiantagioni, o entrando nelle diverse famiglie de' colonipresso le quali si sarebbero guadagnato il vitto in qualitàdi servi, non mai per altro di schiavi; perchè non vollipermettere che nessuno di essi fosse ridotto in istato dischiavitù con la forza. La loro libertà entrava negli arti-coli della capitolazione con cui s'arresero, e questo arti-colo non doveva essere violato giammai.

Costoro accolsero di tutto buon grado tale proposta;in conseguenza assegnammo spazi di terreno a quelli fraloro che vollero mettere piantagioni, ma furono soli treo quattro che si attennero a tal partito; i rimanenti entra-rono, chi in una famiglia, chi nell'altra de' nostri pianta-tori. Laonde la mia colonia potè dirsi stabilita nel modoche vengo a spiegare.

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Gli Spagnuoli rimasti in possesso della mia primitivaabitazione, diremo la città capitale, si estendeano con leloro piantagioni sino alla riva del fiumicello che mettevaalla picciola darsena da me le tante volte descritta, nonche alla mia casa di villeggiatura, e più in la a propor-zione de' maggiori spazi di terreno che coltivarono, matenendosi sempre a levante. Gl'Inglesi vivevano al nord-est (greco) laddove Guglielmo Atkins e i suoi due com-pagni si stabilirono, e vennero innanzi sino ad ostro esud-west (libeccio) al di qua degli stabilimenti spagnuo-li. A ciascuna piantagione andava connessa una grandegiunta di terra oziosa, affinchè i piantatori potesserometterla a lavoro, se ne veniva loro il talento o il biso-gno, onde non vi fu mai occasione di venire a contrastiper mancanza di spazio. Tutta l'estremità orientale dell'i-sola rimase disabitata, affinchè, se alcune masnade diselvaggi fossero sbarcate su la spiaggia per celebrarviun de' lor soliti nefandi conviti, potessero andare e veni-re a loro voglia. Se non inquietavano nessuno dell'isola,nessuno dell'isola li disturbava; nè v'ha dubbio che colo-ro non sieno anche in appresso scesi su la spiaggia, inditornati via nuovamente, perchè d'allora in poi non ho piùudito che i piantatori abbiano sofferti assalti o disturbida quella genía.

Or mi ricordai della promessa che avevo fatta al mioprete cattolico cui mi volsi in questa maniera:

‒ “Vi dissi che forse avrei avviata l'opera della con-versione dei selvaggi in modo da esserne contento voise anche venite via dall'isola, come spero, in mia com-

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pagnia: siamo a tiro. Or che ho ripartiti, come vedete,tutti i selvaggi tra famiglie cristiane, se ciascun indivi-duo di esse fa la parte sua col selvaggio o coi selvaggiche gli toccano, non dubito che non raggiungiamo l'in-tento.

‒ Se ciascuno fa la parte sua! ripetè l'ecclesiastico.Qui sta il punto. Ma come fate ad assicurarvi che questasua parte ognuno la faccia?

‒ Li manderemo a chiamare tutti insieme o vero an-che anderemo a trovarli uno per uno.

‒ “La seconda idea mi garba meglio” soggiunse ilprete.

Ci ripartimmo pertanto questo lavoro; egli parlò agliSpagnuoli, tutti papisti, io agl'Inglesi, tutti protestanti, eciascuno dal canto nostro non mancò di raccomandarecaldamente questa buona impresa e soprattutto ci fa-cemmo promettere da tutti di non far mai nelle loroesortazioni ai selvaggi veruna distinzione fra i papisti e iprotestanti45, e di limitarsi a dar loro generali nozioni suDio e Gesù Cristo Salvatore del mondo. A tanto si obbli-garono gli Spagnuoli e gl'Inglesi.

45 Robinson avrà ottenuto ciò facilmente da que' suoi Inglesi che erano ad-dietro fin nella fede protestante; ma non è verisimile che il prete cattolico fossegiunto a persuadere questo contegno a Spagnuoli zelantissirni del cattolicismoromano, nè d'altronde avrebbe potuto nemmeno provarcisi senza tradire il pro-prio ministero. Ma il prete cattolico romano di questa storia è meramente crea-tura della fantasia dell'autore protestante.

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LXXXIX. Presente di una Bibbia; digressione non priva d'interesse; partenza dall'isola.

Giunto che fui alla casa di Guglielmo Atkins (mi sialecito chiamarla casa, benchè non credo si siano mai ve-duti al mondo fuori di questa circostanza lavori foggiatia guisa di canestri che abbiano nome di casa), seppi perprima cosa che la giovine da me encomiata poco fa e lamoglie di Atkins erano divenute intrinsiche amiche,laonde la prima di esse, persona, come ho detto, dotatadi grande prudenza e pietà, perfezionò il lavoro che lostesso Atkins aveva incominciato. In fatti, benchè nonfossero scorsi più di quattro giorni dopo la conversionedella selvaggia, questa nuova battezzata era divenuta talbuona cristiana che rare volte trovansi cristiani similiconversando con tutto il mondo.

Nella mattina precedente a questa mia visita mi eravenuto in mente che tra le cose necessarie distribuite eprima e dopo ai miei coloni, non avevo pensato a lasciarloro una Bibbia; nel che mi mostrai bene più malavver-vertito rispetto a loro che nol fu a mio riguardo quellamia buona amica, quella vedova inglese quando nel far-mi giugnere da Lisbona un carico del valore di centosterlini v'introdusse tre Bibbie e un libro delle preghiere.Da vero la carità di tale ottima donna fu più estesa nellesue conseguenze, di quanto se lo fosse immaginato ellastessa, perchè il suo donativo servì al conforto e all'i-

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struzione d'individui che ne profittarono assai meglio dime.

Io m'era dunque presa con me una di queste Bibbienel venire alla casa di Guglielmo Atkins, e fu alloraquando mi raccontò con eccesso di gioia l'amicizia in-trinsica che avevano contratta insieme la nuova battez-zata e la giovine inglese. Gli chiesi se in quel momentoerano insieme; mi rispose di sì. Entrato pertanto in com-pagnia di lui, le trovai di fatto che stavano discorrendolaseriamente fra loro.

‒ “Ah mio signore! disse Atkins, quando Iddio hapeccatori da richiamare a sè o estranei da ricevere nelsuo grembo, non gli manca mai un apostolo; mia moglieha fatto acquisto d'un nuovo maestro. Io capiva benequanto fossi immeritevole e incapace; questa giovinel'ha mandata il cielo; ella basta alla conversione di unaintera isola di selvaggi”.

Divenuta rossa quella buona creatura si alzava per an-darsene, ma io la pregai a fermarsi.

‒ “Voi avete per le mani, le dissi, un santo lavoro, espero che Dio vi benedirà col farvelo riuscire in bene”.

Parlammo insieme alcun poco, indi avendo veduto,benchè non lo domandassi, che non si trovavano lì attor-no libri di sorta alcuna, mi posi le mani in tasca e tratta-ne fuori la Bibbia, mi volsi ad Atkins.

‒ “Vi ho condotto qui, amico, un assistente che dianziforse non avevate”. Il poveretto rimase sì sopraffattodalla gioia alla vista del mio donativo che per qualchetempo non fu buono di dire una parola; finalmente ria-

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vutosi, prese il sacro volume con entrambe le mani, ecosì si voltò verso la moglie:

‒ “Non te lo dissi, Maria, che il nostro Dio, anche dastare lassù avrebbe udite le nostre parole. È questo il li-bro che lo pregai di mandarmi quando c'inginocchiam-mo tutt'a due fra le boscaglie. Iddio ne ha ascoltati e ciba mandato il libro”.

Nel dir queste cose, lo traevano tanto fuor di sè e lacontentezza del dono ricevuto e la gratitudine verso ildonatore che gli scorrevano le lagrime per la facciacome ad un fanciullo che pianga.

Restò attonita la selvaggia fatta cristiana e lo dovea,perchè corse in un equivoco che non isfuggì a nessunodi noi. Ella credea fermamente che quel libro fosse in-viato dal cielo dietro la supplica di suo marito. Egli èvero che la previdenza lo aveva effettivamente mandatoe che, intendendo la cosa in questo senso, la donna nonavrebbe creduta una falsità. Certo, a quanto mi parve,non sarebbe stato difficile il confermare per allora quel-la semplice creatura nella persuasione che fosse venutoespressamente un messaggiero dall'alto per portare quellibro a suo marito; ma si lavorava ad un'opera troppo se-ria per imbrattarla con illusioni, onde dissi alla nuovaistruttrice:

‒ “Sarebbe un grave fallo il nostro se profittassimodello stato intellettuale di questa nuova convertita, nonancora istrutta pienamente di tutte le cose, per darle adivedere il falso. Vi prego dunque farle capire come siaun modo figurato di dire l'affermare che Dio risponde

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alle nostre suppliche, ogni qual volta nel corso della suaprovidenza conduce le cose ad un fine analogo ai votiespressi nelle preghiere che gli facciamo; ma le insegne-rete ancora che non dobbiamo aspettarci queste risposteper vie miracolose e poste fuori dell'ordine della natura;ed è anche questa una grazia della providenza medesi-ma”.

Ciò fece in appresso l'amica della selvaggia, ondev'assicuro io che non c'entrò inganno di niuna maniera.Avrei creduta la più abbominevole delle colpe il solotollerarlo. Ma la sorpresa di Atkins è difficile a descri-versi, e nemmen qui c'era inganno sicuramente. Potreb-be giurarsi non esservi mai stato uomo al mondo gratoad un servigio prestatogli come lo fu egli per quella Bib-bia, nè uomo che siasi allegrato tanto d'una Bibbia perun motivo migliore. Benchè questo Guglielmo Atkinsfosse ne' tempi addietro un verissimo rompicollo, un di-sperato, un furioso, un malvagio di prima riga, egli fuciò non ostante una lezione permanente per chi ha figlida educare; e la lezione è: che per quanto apparisca ca-parbio, insensibile alle ammonizioni un ragazzo, il pa-dre non dee lasciarsi cascare le braccia e disperare delbuon successo de' propri sforzi; perchè, se mai Dio arri-va nella sua provida bontà a toccare la coscienza di que-sto ragazzo divenuto adulto, la forza della prima educa-zione ritorna, la primitiva istruzione de' genitori non èperduta; se ben sia stata per molti e molti anni lasciatada banda, una volta o l'altra ne sentiranno il benefico ef-fetto. Cosi accadde con quel povero uomo. Ancorchè

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ignorantissimo e divenuto affatto digiuno delle cristianedottrine, trovò, avendo che fare con una persona assaipiù ignorante di lui, che quella menoma parte degl'inse-gnamenti del suo buon padre non cancellatasi mai affat-to dalla sua memoria e opportunamente tornatavi gli fugiovevole.

‒ “Fra le cose de' miei prim'anni ricorsemi alla mente,mi diceva Atkins, vi fu tutto ciò he ho udito dal mio po-vero padre su l'inestimabile valore della Bibbia, su iconforti e le benedizioni da essa versati su le famiglie,su i popoli, su gl'individui; ma di tanti pregi d'un tal li-bro non mi sono per mia disgrazia accorto sino al mo-mento in cui, posto al caso d'istruir pagani, selvaggi ebarbari, ho dovuto sentire che mi mancava l'oracoloscritto della nostra fede”.

Anche, la novella sposa dell'uomo da tutti i mestierifu contenta di trovarsi lì una Bibbia, benchè, a dir vero,ne possedesse un esemplare ella ed un altro il suo giovi-ne padrone; ma questi libri non erano fin allora statisbarcati.

Ora, poichè ho narrate tante cose su i meriti di questagiovine, non posso starmi dall'aggiugnere una storia chesi riferisce a lei ed in parte a me, e che contiene alcunche di notabile assai ed istruttivo.

Ho già raccontato a quali estremità questa poveracreatura si vedesse ridotta allorchè la sua padrona con-sunta dalla fame morì a bordo dello sfortunato basti-mento popolato d'individui, tutti, come ne ho data la de-scrizione, sul punto di morire affamati. Ho detto pari-

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mente come la signora, il figlio di lei e questa camerierafossero stati trattati peggio degli altri nella distribuzionedei viveri di cui finalmente furono lasciati del tutto sen-za; onde la signora perì, i due altri provarono in più ca-ratterizzata guisa gli stenti ultimi della fame. Un giornoch'io stava discorrendo con questa cameriera su tal ge-nere d'orribile angoscia cui essa e il suo giovine padroneandarono soggetti, le domandai se mi saprebbe descrive-re la natura degli spasimi che sofferse e i sintomi che simostrano a mano a mano nel progresso di tale calamità.“Credo di poterlo” ella mi rispose e mi fece con moltachiarezza la relazione che siete per leggere,

‒ “Erano già alcuni dì che la facevamo assai male ne'nostri pasti, e soffrivamo fami tremende. Venne final-mente quello in cui non ne fu dato nutrimento di sortaalcuna, se si eccettui un po' di zucchero e di vino mesco-lato con acqua. Nel primo giorno di questo totale digiu-no mi sentii certo vuoto e nausea allo stomaco; poi, ve-nendo la notte, una grande voglia di sbadigliare e dormi-re. Postami in letto nella grande stanza della forestaria,dormii circa tre ore, e mi trovai alquanto ristorata nellosvegliarmi; forse fu perchè prima d'andare a letto avevobevuto un bicchiere di vino. Dopo essere rimasta veglia-ta tre ore, verso le cinque della mattina il vuoto e la mo-lestia dello stomaco si fecero sentire più gagliardamenteonde tornai a coricarmi, ma senza potere prendere sonnodel tutto perchè ero da vero spossata ed inferma. Cosìcontinuai tutto il secondo giorno fra stravaganti alterna-

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tive, prodotte or dal senso della fame, or dalla nauseadello stomaco, talvolta da impeti di vomito.

“Alla seconda notte mi toccò parimente d'andare aletto con questo digiuno, sol rotto da una tazza d'acqua.Addormentatami, sognai di trovarmi alla Barbada inmezzo ad un mercato zeppo di cose atte a mangiarsi,d'averne fatta provista d'alcune, poi d'essermi posta a ta-vola e d'aver mangiato con grande appetito. Mi parved'aver con ciò satollato il mio stomaco come chi vengavia da un pranzo lautissimo; ma svegliatami, qual ful'oppressione del mio spirito all'accorgermi ch'io prova-va più che mai le angosce della fame! Bevei l'ultimobicchiere di vino che mi restava mettendovi entro un po'di zucchero e sperando che quanto v'è di sostanzioso inquesta droga mi tenesse luogo di nutrimento; ma non es-sendo nel mio stomaco alcuna sostanza su cui gli organidella digestione potessero esercitare l'ufizio loro, l'effet-to derivato dal vino fu sollevarmi disgustosi vapori dallostomaco e portarmeli alla testa, onde io rimasi per qual-che tempo, così m'hanno detto, stupida, insensata ecome ubbriaca.

“Nella mattina del terzo giorno, dopo aver passata lanotte fra sogni strambi, confusi e sconnessi e sonnec-chiato più che dormito, mi svegliai rabbiosa e fatta fu-rente dalla fame. Il delirio del mio furore famelico eratale che, se fossi stata una madre e avessi avuto a cantoil mio bambino, non giurerei, semprechè questa consi-derazione non m'avesse tornata padrona del mio intellet-to, non giurerei di non aver potuto divenire capace di un

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matricidio. Durò tre ore tal mia frenesia, nel qual tempodiedi due volte in pazzie che non ne fa di minori qualun-que poveretto rinchiuso nel Bedlam (l'ospitale deipazzi), come mi raccontò il mio giovine padrone comepotete sentirvelo confermare da lui.

“In uno di questi accessi di demenza caddi battendola faccia contro di un angolo del letticciuolo della miapadrona con tanta violenza che mi fece sanguinare ilnaso.

Veduto ciò, il mozzo di camera mi portò un picciolobacino, entro cui, sedutami sul tavolato, lasciai pioveremolta copia di sangue, dal che, come accade dopo un sa-lasso, fu abbattuta la violenza della mia febbre e scema-to anche in qualche parte l'ardor vorace della mia fame;per allora ricuperai la ragione. Poi mi riassalsero le nau-see; mi provai a vomitare, ma non potei rigettar nullaperchè nulla eravi nel mio stomaco. Dopo avere perdutoil sangue per qualche tempo, caddi in tal deliquio che micredettero morta; ma rinvenuta ben tosto, sentii ne' mieiintestini un'angoscia che mi è difficile lo spiegare, nonsimile ai dolori colici ma una straziante convulsione chela fame eccitava in essi; verso notte si sedò alquanto,convertendosi in un'ardente voglia di tale o tal altrocibo, simile, io suppongo, alle voglie delle donne incin-te.

“Bevei un'altra tazza d'acqua inzuccherata, ma il miostomaco ebbe a schifo lo zucchero e la rigettò immanti-nente; ne presi indi un'altra d'acqua semplice, e questa laritenni. Mi posi in letto pregando di cuore il buon Dio

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che mi chiamasse ad un mondo migliore traendomi daquesti stenti. Acchetato l'animo mio in tale speranzadormii alcun poco; indi svegliatami, credei di morire al-lora spraffatta e rifinita dai vapori che esalano da unostomaco vuoto. Raccomandai la mia anima a Dio, e sequalcuno m'avesse gettata in mare, l'avrei avuta per unacarità.

“In tutto il descritto tempo la mia padrona stava cori-cata vicino a me, moribonda anch'essa, come ben dove-vo immaginarmelo, ma fornita di maggior pazienza chenon ne aveva io nel sopportare la sua disgrazia. Ella die-de l'ultimo tozzo di pane rimastole al mio giovine pa-drone, a suo figlio, che non voleva accettarlo; ma ella locostrinse a mangiarlo: fu questo, io penso, che gli salvòla vita.

“Sul far del mattino m'addormentai nuovamente, eallo svegliarmi fui sorpresa da un impeto di pianto, cuisuccedè un secondo accesso di famelica frenesia. Tornaidunque nel mio vorace furore e in una condizione sem-pre più orrida che per lo innanzi; se la mia padrona sifosse in quel momento trovata morta, son certa che, adonta del mio tenerissimo amor per essa, avrei mangiatoun brano delle sue carni con quell'appetito e indifferenzaonde si mangia ogn'altra carne atta a mangiarsi. Una odue volte fui in procinto di portarmi via coi denti la car-ne delle mie braccia. Finalmente, avvedutami del bacinoove stava il sangue sgorgatomi dal naso il dì innanzi, vicorsi precipitosa e trangugiai quel sangue alla presta econ ingorda avidità come se mi fossi maravigliata ch'al-

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tri non m'avessero prevenuta e temessi che qualcuno ve-nisse a portarmi via tal genere di pietanza. Ne inorridiiin appresso; pur ciò valse a sedare alquanto gl'impetidella mia fame; indi bevuta un'altra tazza d'acqua, misentii calma e ristorata per alcune ore.

“Queste cose erano avvenute nel quarto giorno in cuistetti men male fin verso la notte. Allora nel giro di treore provai una dopo l'altra tutte quelle dolorose sensa-zioni cui ero soggiaciuta dianzi; vale a dire il parossi-smo della febbre, il sonnecchiare, i dolori strazianti del-lo stomaco, poi la voracità, di nuovo la nausea, la frene-sia, il pianto e la voracità un'altra volta, e così in ciascunquarto d'ora: orrida vicenda che stremò le mie forze ol-tre ogni misura; mi gettai finalmente sul letto senz'altroconforto che la speranza di non esser viva nella succes-siva mattina.

“In tutta questa notte non presi sonno; perchè la miafame si era trasformata in una colica tormentosa prodot-ta dall'aria che in vece del cibo avea trovata la viane'miei intestini. In tale stato penai fino a giorno, allor-chè sorpresero i pianti e la disperazione del mio giovinepadrone, il quale veniva a dirmi che sua madre era mor-ta. Mi alzai un poco a sedere sul letto, perchè la mia de-bolezza non mi permetteva d'alzarmi; vidi per altro chela mia padrona vivea tuttavia, benchè desse soltanto te-nuissimi segni di vita.

“Le nuove convulsioni derivale in appresso al miostomaco da questa continuata mancanza d'ogni alimen-to, furono tali che non valgo a descriverle. Gli spasimi,

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le angosce della fame che provai possono soltanto esse-re paragonate con l'agonia della morte. Io era in tal posi-zione quando udii i piloti che stavano sul piano superio-re alla mia stanza gridare: Una vela! una vela! e urlare efar salti come se fossero impazziti.

“Io non era buona d'alzarmi dal mio letto, e moltomeno la mia padrona, e il figlio di lei si trovava sì rifini-to ch'io credea stesse morendo; nessuno di noi potè dun-que aprir l'uscio della stanza, nè per conseguenza l'acco-gliere alcun che sul motivo da cui procedea tutto questosconquasso. Erano già due giorni che non avevamo ve-runa relazione con la ciurma del vascello, niuno dellaquale si lasciò più vedere dopo averci detto che non ave-vano più un morsello di sostentamento nemmen per sèstessi. Anzi in questi due giorni pensarono, come me lohanno raccontato da poi, che tutt'a tre fossimo morti.Tale era il caso nostro quando ne foste mandato dal cie-lo a salvare quelle vite di noi che potevano ancora essersalvate. In quale stato ci trovaste lo sapete al pari e an-che meglio di me”.

Tal fu la relazione di quella giovine; pittura la piùprecisa degli stenti della fame portata all'ultimo grado;la qual disgrazia, in mezzo a tutte le mie traversie, nonmi essendo mai capitata, confesso che fu un raccontoper me interessantissimo. Tanto più propendo a credernei particolari, chè una gran parte di essi mi era stata rac-contata precedentemente dal giovine padrone della mianarratrice; non per altro, bisogna dirlo, sempre conugual nitidezza, e ne è chiaro il perchè. Gli pesava trop-

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po l'idea d'avere forse avuta salva la vita a costo deigiorni della sua buona madre; la povera cameriera alcontrario non poteva avere ritegno rispetto alla sua pa-drona; perchè, bene essendo dotata di una complessionepiù robusta di questa donna attempata e in oltre assai ca-gionevole, potesse lottare più a lungo con la fame, purefu ridotta agli estremi un po' più presto di questa stessapadrona, che si serbò fino all'ultimo (ed era da compati-re poichè lo faceva pel figlio) un morsello di pane senzafarne parte ad una sì amorosa servente. Non v'ha dubbioche, ammessa la verità del caso qui raccontato, se il no-stro vascello, o qualchedun altro, non fosse stato con-dotto da una grazia speciale della providenza a scontrar-si in que' poveri sgraziati, fra pochi giorni sarebbero sta-ti tutti morti, quando mai non si fossero sbramata lafame col mangiarsi a vicenda. E ciò ancora gli avrebbetenuti in vita ben poco, perchè erano lontani cinquecen-to leghe da qualunque terra e posti fuor d'ogni possibili-tà di un soccorso che non fosse miracoloso, come fu ap-punto un vero prodigio l'abbattersi in noi. Ma si lasciquesta digressione, e si torni alle disposizioni che lasciaiper la mia colonia da cui mi partivo.

Vi ho parlato de' pezzi d'un palischermo da connetter-si insieme unicamente per farne un legno atto a mettersiin mare, portati meco fin quando salpai dall'Inghilterra,con l'intenzione di farne un presente alla mia colonia. Orbene; non solo non glieli feci vedere, ma non lasciai nèmanco che ne sospettassero l'esistenza, e ve ne dico ilperchè. Trovai, almeno al primo momento del mio sbar-

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co, tali semi di divisione fra loro, ch'io vidi pienamentecome sarebbe stata una cattiva politica per parte mia ilmettere in mano di essi questo sussidio che gli avrebbestimolati, al menomo piccol disgusto che sorgesse fraloro, a separarsi e ad andarsene via gli uni dagli altri;forse anche a darsi alla vita di pirati e trasformar la miaisola in un covo di ladroni anzichè essere una piantagio-ne di morigerati e religiosi coltivatori, come io aveva in-tenzione di renderla. Per lo stesso principio non dissiloro nulla nè de' due pezzi di cannone che avevo portatomeco, nè del soprappiù de' due cannoni corti fatti, pren-dere a bordo da mio nipote. Pensai d'avere fatto abba-stanza col porre quegli abitanti in istato di sostenere unaguerra difensiva contro a qualunque invasore senza darloro un incentivo ad imprendere guerre offensive o a va-gare attorno, facendosi assalitori degli altri. Mi serbaipertanto i palischermi e i cannoni per giovarli in altramaniera, come sarà detto a suo luogo.

Terminato or quanto io m'era prefisso di ultimare nel-l'isola, e sicuro di lasciarli tutti in una buona posizioneed in uno florido stato, mi recai a bordo del mio basti-mento ai 6 di maggio dopo essere stato con essi venti-cinque giorni; e poichè li vedevo tutti risoluti a rimanerenell'isola finchè io non venissi a levarneli, promisi lorodi provederli, appena giunto al Brasile, di nuovi soccorsialla prima opportunità che me ne capiterebbe; e soprat-tutto di spedire a quella mia colonia alcune diverse spe-cie d'armenti, come pecore, animali porcini e buoi.Quanto alle due vacche e ai vitelli che avevo portati

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meco dall'Inghilterra, gl'indugi avuti nel nostro viaggione costrinsero a macellarli per mancanza di fieno ondenudrirli.

Nel dì successivo pertanto spiegammo le vele, dandoil saluto della partenza ai coloni con cinque spari di can-none. In ventidue giorni circa arrivammo alla baia diTutti i Santi nel Brasile; e il solo incidente notabile oc-corsone durante quella traversata è quello che m'accingoora a narrare.

XC. Battaglia marittima, morte e sepoltura di Venerdì.

Tre giorni a un dipresso dopo aver salpato, ci sentim-mo rubare il vento46, mentre una rapida corrente traspor-tandoci ad est-nord-est (greco levante) verso quantosembronne un golfo o baia, ci deviava alquanto dal no-stro cammino, ed una volta o due i nostri piloti gridaro-no: “Terra a levante!” ma se fossero isole o un continen-te non potevamo assolutamente capirlo, nè per il mo-mento arrivammo a saperlo. Sol nel terzo giorno sul fardella sera, essendo bonaccia e placida l'aria vedemmo ilmare in prossimità della terra coperto da alcun che dinerissimo. Non avendo noi saputo sin di lì a qualchetempo, spiegare che cosa fosse, la curiosità portò il no-stro primo aiutante ad alzarsi su le sarchie di maestra e,

46 Espressione adoperata dagli uomini di mare quando o qualche terra o al-tri bastimenti tolgono forza alla brezza che favoriva la navigazione.

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guardato col suo cannocchiale, si diede a gridare chec'era un'armata. Non potendo immaginarmi che cosaegli chiamasse armata, gli feci un poco di brusca ciera.

‒ “Non ve la prendete con me, signore egli mi disse.Io non posso fare che quella là non sia un'armata, anziuna flotta; e non si tratta meno che di mille canotti. Ve-nite qui e vi convincerete anche voi che lavorano di pa-gaie a tutt'andare, e si avanzano, senza perder tempo,correndo verso di noi”.

Rimasi da vero un po' sbalestrato da questa notizia,nè il fu meno di me mio nipote, il capitano, che avevaudite raccontare storie tremende de' selvaggi di questeparti, nè essendo mai stato precedentemente in quelmare, non sapeva a qual partito appigliarsi, onde gridòdue o tre volte: “Siam per essere divorati tutti”. Io me-desimo, lo confesso, notando che il vento ci mancava ela corrente ne spingeva sempre più innanzi, me la vede-va assai brutta. Ciò non ostante feci coraggio agli altriordinando che il bastimento fosse messo all'áncora ap-pena saremmo in vicinanza bastante per conoscere seeravamo in caso di cimentarsi con quella genia.

Continuava la bonaccia, onde coloro ci si avvicinava-no di tutta corsa. Feci dunque gettar l'áncora e serrare levele.

‒ “La sola cosa da temersi per noi con costoro è, dis-si, che ci vengano ad appiccar fuoco al bastimento. Met-tete dunque all'acque le vostre scialuppe e legatele fortee strettamente l'una a prora, l'altra a poppa, poi ponete-

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vici dentro in buon numero e ben armati, aspettando ivil'esito di questa faccenda”.

Diedi un tal ordine affinchè gli uomini delle scialuppefossero pronti con lenzuola e secchi d'acqua ad estingue-re ogni fuoco che que' cialtroni si sforzassero di attacca-re ai fianchi esterni del vascello.

In tal postura gli aspettammo nè tardarono ad essercia veggente. Non credo che più orrida vista siasi mai of-ferta ad occhi di Cristiani, ancorchè il mio primo aiutan-te avesse preso un forte granchio sul numero de' canottiche faceva ascendere a mille. Quando ci furono da pres-so ne contammo soltanto cento ventisei all'incirca, alcu-ni carichi di sedici o diciassette uomini; alcuni pochi necontenevano un numero anche maggiore; i meno formi-dabili ne avevano sei o sette.

Venutici più vicino, parvero compresi di stupore esbalorditi ad una vista indubitatamente nuova per essi,nè sapevano alla prima, ne siamo venuti in cognizionepiù tardi, come mettercisi con noi. Pure vennero avanticon grande audacia nell'intenzione, a quanto giudicam-mo, d'investire da tutte le bande il bastimento, per il cheordinammo ai nostri uomini delle scialuppe di non la-sciarli tanto accostare. Quest'ordine appunto condussead uno scontro che avremmo voluto sfuggire; perchècinque o sei di que' canotti vennero tanto rasente ad unascialuppa che i nostri marinai fecero ad essi con la manoil seguo di ritirarsi. Lo intesero il cenno e in fatti si riti-rarono, ma a questa ritirata furono contemporanee cin-quanta frecce all'incirca venute dai loro canotti sul no-

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stro bastimento dalle quali rimase gravemente ferito undegli uomini della scialuppa. Pure ordinai che non si fa-cesse fuoco di sorta alcuna sovr'essi; invece trasportam-mo diversi panconi d'abete nella scialuppa ove il nostrocarpentiere alzò un'armatura, specie di parapetto che ri-parasse chi vi stava entro dai dardi de' selvaggi se costo-ro tornavano ancora a scoccarne.

Circa mezz'ora dopo, si portarono tutti in massa versola poppa del nostro bastimento, ed in tanta vicinanza chepotevamo facilmente distinguerli l'uno dall'altro, benchènon potessimo immaginare qual fosse il fine di quellaguerresca loro operazione; onde non durai fatica a capi-re esser costoro della razza de' miei antichi amici: diquei selvaggi coi quali m'ero già avvezzato a cimentar-mi nella mia isola. Di lì a poco si allargarono alquantoper venire a mettersi faccia a faccia col destro fianco delnostro bastimento, il che eseguirono in pochi minuti. Cierano venuti sì da presso che potevano udirci parlare.Allora mi raccomandai alla nostra gente di tenersi benappiattata per paura che ne mandassero nuove frecce,ordinando intanto ai cannonieri di tenersi lesti.

Questa facilità di udire gli uni gli altri le nostre vocimi suggerì l'idea di mandar Venerdì sul ponte affinchèparlando loro forte nel suo linguaggio nativo vedesse disapere che cosa volevano. Così feci e Venerdì mi secon-dò. Intendessero o non intendessero le parole di Venerdì,è quanto non seppi; so che appena le ebbero udite, sei dique' mascalzoni fecero un voltafaccia ciascun d'essi mo-strandogli il suo bel di Roma, nudo come Dio lo avea

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fatto, quasi gli dicesse nello stile del più infimo facchinodella nostra plebe: Baciami questo. Fosse tale l'usanzade' lor cartelli di disfida, o un mero atto di disprezzo, oun segnale dato agli altri compagni, non ve lo dirò. Soche nello stesso momento Venerdì ne gridò che stavanoper iscoccare i lor archi, e in mal punto per lui, poverosfortunato! perchè volarono sul ponte trecento selvaggefrecce, tre delle quali, a mio ineffabile cordoglio, steseromorto quello specchio de' servitori, unico de' nostri chefosse in vista a que' barbari; tre sole lo trapassarono ben-chè tre altre gli passassero vicinissime; tanto eran que'mascalzoni bersaglieri mal pratici!

Fui preso da tanta ira al vedere questo barbaro finedel mio fedele servo ed amico, che fatti tosto caricarecinque cannoni a mitraglia e quattro a palla diedi loro talfiancata di cui non ebbero mai l'idea in loro vita, ve nedo parola. Non erano lontani da noi più di un mezzotratto di gomena, quando sparammo; i nostri cannonieripresero sì bene la loro mira che tre o quattro canotti fu-rono mandati sott'acqua dal primo colpo, come avemmoragione di crederlo.

Certo non avrei preso come un'offesa grave l'attosconcio che fecero in risposta al mio messaggio, perchènon potevo sapere se quanto è la massima delle villaniepresso di noi sia tale anche fra essi, nè per ciò mi sareipresa altra soddisfazione fuor quella di fare scaricare suloro quattro o cinque cannoni carichi di sola polvere, ilche avrebbe bastato a spaventarli. Ma poichè i bricconiaveano scagliato un nugolo di frecce su noi con tutto il

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furore di cui erano capaci, e soprattutto steso morto ilmio Venerdì ch'io tanto amava ed apprezzava, e che tan-to veramente lo meritava, non serbai più misure, nè so-lamente mi credei giustificato agli occhi di Dio e degliuomini, ma sarei stato contento se avessi potuto manda-re a fondo ciascuno di que' canotti e sapere tutta quellacanaglia annegata.

Non o dirvi nè quanti n'abbia fatti morti, nè quanti fe-riti quella fiancata, ma certo non fu mai veduta tantamoltitudine immersa in tanto spavento e sconquasso.Tredici o quattordici de' loro canotti furono spaccati eposti affatto fuor d'essere, onde quelli che, standovi en-tro, ebbero salva la vita, si gettarono a nuoto; tutti gli al-tri i cui canotti rimasero, divenuti affatto pazzi dallapaura, si diedero alla fuga con ogni prestezza possibile,prendendosi ben poco fastidio per soccorrere que' lorocompagni che non aveano più barca. Suppongo quindiche la maggior parte di questi sia andata distrutta. Un'o-ra dopo spariti tutti gli altri selvaggi, vedemmo nuotartuttavia per salvar la vita un di que' poveri sgraziati, chefu raccolto dai nostri.

Certo la mitraglia de' nostri cannoni deve avere ucci-sa o ferita una grande quantità di costoro; ma di lì apoco non sapemmo più che ne fosse avvenuto. Fuggiva-no sì disperatamente che, dopo tre ore in circa, non ve-demmo più di tre o quattro canotti sbandati , nè potem-mo sapere mai più qual via avessero presa gli altri; per-chè alzatasi in quella stessa sera una favorevole brezza,

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sciogliemmo l'áncora e veleggiammo alla volta del Bra-sile.

Veramente avevamo fatto, come dissi, un prigioniere,ma costui era stato preso da tal tetra manìa che non vo-leva nè parlare, nè mangiare, onde credevamo che aves-se deciso di lasciarsi morire di fame. Trovai per altrouna via di curarlo, perchè, fattolo prendere e metterenella scialuppa, gli fu dato a credere per mio ordine chesi volea gettarlo nel mare e lasciarlo là dov'era stato tro-vato se non si risolveva a parlare. Nemmeno per questone volle sapere, in guisa che lo gettarono effettivamentenell'acqua. Saltò fuori e postosi a seguirli, perchè si te-neva a galla al pari di sughero, li chiamò in sua lingua,benchè niuno, ve lo immaginate, non ne intendesse unaparola. Lo tornarono pertanto il raccogliere, e d'allora inpoi divenne più trattabile nè vi fu più bisogno di fargliprendere un bagno di mare.

Spiegammo dunque nuovamente le vele, siccome dis-si; ma io era il più sconsolato fra i viventi per la perditadel mio Venerdì. Avrei voluto tornare addietro alla miaIsola per prendere al mio servigio uno di que' selvaggilasciativi; ma ciò non fu possibile, onde continuammo ilnostro cammino.

Quanto al prigioniero che avevamo ci volle un granpezzo prima d'arrivare a fargli intendere veruna cosa;pure coll'andar del tempo i nostri gl'insegnarono unpoco d'inglese, e si potè cambiare qualche parola conlui. Allora gli si domandò da che paese venisse ma nesapemmo altrettanto. Il suo linguaggio era un certo gar-

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buglio tutto gutturale perchè parlava in gola d'una ma-niera sì affogata, sì stramba, che non si capiva quasi maiper il diritto che cosa volesse dire. Era passato in dettofra noi che quei della sua razza dovevano poter parlarecomodamente anche con una sbarra in bocca, perchènon ci accorgevamo che avesse bisogno di denti di lin-gua, di labbra o di palato; faceva uscire della sua golaaperta le parole, come vengono fuori le note da un cornoda caccia. Qualche tempo dopo per altro, quando loavemmo perfezionato un pochino (figuratevi che perfe-zione!) nell'inglese ci disse che andavano co' suoi re fa-reé grandeé battaglia. All'udire che questi re erano inpiù, gli chiedemmo quanti re fossero. Ne rispose cheerano cinque nazioneé, (chè a fargli distinguere il singo-lare dal plurale non ci siamo riusciti), e che andavanotutti uniti contro a due nazioneé. Chiestogli perchè fos-sero venuti contro di noi, ne rispose:

‒ “Per fareé gran meraviglia vedereé”. È cosa da no-tarsi che tutti que' nativi, come ancora quelli dell'Africa,mettono sempre in fine di parola due e dove ne va unasola, e mettono un accento su l'e aggiunta, come fareé,vedereé. Non gli potemmo mai levare questo vizio, estentai bene a liberarne il povero Venerdì, benchè final-mente ci riuscissi.

E or che torno a nominare quell'ottima creatura, sentoil bisogno di licenziarmi da lui. Povero onesto Venerdì.Noi gli demmo sepoltura con ogni possibile decenza esolennità, ponendolo entro una cassa e gettandolo inmare. Ordinai undici tiri di cannone ad onore della sua

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memoria. Così terminò la vita del servitore più grato,più fedele, più onesto ed affezionato ch'uomo abbia avu-to mai su la terra.

Il vento ci continuò favorevole fino al Brasile, oveprendemmo terra dopo dodici giorni di navigazione, inuna latitudine di cinque gradi ad ostro della Linea, per-chè approdammo alla terra posta più al nord-est (greco)di tutta quella parte d'America.

FINE DEL VOLUME QUARTO

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VITA E AVVENTURE

DI

ROBINSON CRUSOÈ.

VERSIONE DALL'INGLESE

DI

GAETANO BARBIERI.

VOLUME V.

MILANOVEDOVA DI A.F. STELLA E GIACOMO FIGLIO.

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Volume V.

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XCI. Sbarco; spedizione di nuovi coloni e sussidi all'isola; partenza dal porto di Tutti i Santi.

Tenutici per quattro giorni a veggente della spiaggia aSud-est ¼ d'est (¼ di levante verso scirocco), ci volgem-mo indi costeggiando al capo di Sant'Agostino, e in tregiorni ci trovammo all'ancora nella baia di Tutti i Santi,antico teatro della mia prima liberazione e donde vennivia co' miei danari e con la mia trista fortuna.

Non mai vascello approdato a questo porto ebbe mi-nori negozii di quelli che ne aveva io; e ciò non ostanteci furono mille difficoltà da superare prima d'avere lamenoma comunicazione con gli abitanti di terra. Nè ilmio vecchio socio che vivea tuttavia, e faceva grande fi-gura in paese, nè le due famiglie de' miei fidecommissa-ri, nè la ricordanza del miracoloso mio salvamento nel-l'isola: tutto ciò non valeva ad ottenermi questo favore.Solamente il mio antico socio, ricordatosi ch'io avea re-gati cinquecento moidori al priore del convento di San-t'Agostino e duecento settantadue ai poveri, si recò aquel monastero ove interessò il priore d'allora a cercard'ottenere dal governatore una licenza personale. Fu difatto accordata a me, al capitano e ad un altro, oltre adotto marinai, la permissione di sbarcare, ma sotto pattodi non portare con noi veruna sorta di merci per farnetraffico con gli abitanti dell'interno, nè di condurre in

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nostra compagnia verun individuo non munito di tale li-cenza.

La proibizione di sbarcare mercanzie era sì stretta,che incontrai difficoltà estreme per mettere a terra treballe di merci inglesi, presente ch'io avea destinato almio vecchio socio: consisteano queste in pezze di pannosopraffino, trine di Fiandra e tele d'Olanda.

Era un uomo generoso e di cuore aperto questo anticomio socio, benchè, come me, egli avesse principiato dal-l'esser povero; laonde, se bene non avesse sospettatamenomamente la mia intenzione di fargli un donativo,m'avea spedito a bordo un presente di provisioni fre-sche, vino e canditi per un valore circa di trenta moidori,oltre ad una certa quantità di tabacco e tre o quattro me-daglie di fino oro; ma gli stetti a livello col mio donoche già vi ho descritto. Gli regalai in oltre merci dellastessa natura delle prime, che saranno costate cento ster-lini, per altri usi; dopo di che mi feci a pregarlo dellasua assistenza nel far asseverare la scialuppa che, comesapete, avevo portata meco dall'Inghilterra, e dentro laquale io contava spedire sussidi alla mia colonia.

Compiacentissimo ai miei desiderii, chiamò a taluopo operai, onde la scialuppa fu all'ordine in pochissi-mi giorni. Già i pezzi, come narrai, erano tutti fabbricatiné si trattava più che di connetterli. A chi dovea gover-narla diedi le istruzioni opportune affinchè trovasse l'i-sola, e la trovò effettivamente, come lo seppi da poi dalsuddetto mio socio.

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Mentre facevo caricarla delle provisioni promesse aicoloni, un de' nostri marinai mi chiese la licenza di par-tire entro essa e stabilirsi nell'isola, mediante una mialettera al governatore spagnuolo, affinchè gli assegnasseun sufficiente spazio di terreno per avviare una pianta-gione, e lo fornisse d'alcuni vestiti e stromenti atti al-l'uopo; nel che diceva d'intendersene per essere già statopiantatore nel Meryland e avvezzo nelle sue corse adaver che fare coi selvaggi. Incoraggiai quel povero dia-volo col condiscendere alle sue brame, raccomandando-lo al governatore spagnuolo, perchè lo mettesse a paricondizione degli altri isolani nel fornirlo delle cose ne-cessarie al lavoro e alla vita; anzi gli diedi in compa-gnia, come suo servo, quel selvaggio che avevamo fattoultimamente prigioniero di guerra.

Mentre stavamo mettendo all'ordine la scialuppa, ilmio vecchio socio mi narrò di un piantatore del Brasiledi sua conoscenza che era caduto in disgrazia della chie-sa.

‒ “Non ne so, mi disse, il motivo, ma in mia coscien-za l'ho per un eretico marcio, tanto è vero che si tienenascosto per paura dell'inquisizione; nondimeno il pove-retto ha moglie e due figlie, onde sarei ben contento sepotessi valermi di questa opportunità per farlo fuggire,semprechè gli voleste permettere di giovarsene col fargliassegnare uno spazio di terreno nella vostra isola. Dalcanto mio gli darei qualche cosa per cominciare, giac-che i famigli dell'inquisizione non gli hanno lasciato al-tro che poche misere masserizie di casa e due schiavi; e,

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se bene detesti i suoi principii, non mi piacerebbe nem-meno vederlo caduto in quelle mani, e per infallibileconseguenza bruciato vivo.”

Prestatomi tosto alla sua brama, unii al mio marinaioinglese quest'infelice, e posi in sicuro lui, sua moglie ele sue figlie a bordo del nostro bastimento, tanto che lascialuppa fosse stata lesta per mettersi in mare. Nellostesso tempo furono portate a bordo le cose sue che ven-nero trasferite nella stessa scialuppa, quando fu fuor del-la baia.

Il nostro marinaio ci ebbe gran gusto di avere questocompagno. In fatti s'accordavano bene insieme: ugual-mente provveduti di attrezzi e di capitali, ma niente dipiù che per cominciare, come ho già detto. Nondimenoportarono seco, e ciò valea più di tutto, alcune canne dizucchero e il bisognevole per avviarne una piantagione:genere di coltivamento che l'un d'essi, cioè il Portoghe-se, conosceva perfettamente.

Fra i sussidi caricati nella scialuppa per essere portatiai coloni, vi erano tre vacche lattanti e cinque vitelli, cir-ca ventidue porci, tre troie pregne, due cavalle ed unostallone. Secondo la promessa datane agli Spagnuoli in-dussi tre donne portoghesi a far parte della carovana,raccomandando al governatore, che venissero ben tratta-te e si desse loro un marito. Avrei potuto procurarne dipiù, ma pensai che il povero profugo avea due figlie, ed'altronde gli Spagnuoli privi di moglie non erano più dicinque; tutti gli altri aveano le proprie mogli, benchè indiverso paese.

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Tutto questo carico arrivò salvo nell'isola, e fu, comepotete credere, ben accetto ai miei antichi abitanti che,con tal nuova giunta, erano cresciuti al numero di ses-santasei o settanta, senza contare i ragazzi di cui c'eraabbondanza. Tornato in Inghilterra ricevei per la via diLisbona lettere da tutti, e m'affretto, non senza un per-chè, a farne adesso la ricevuta.

Mi congedo ora dalla mia isola e d'ogni sorta di di-scorsi che la riguardino; onde chi legge questa nuovaparte delle mie memorie farà bene se ne distoglie affattoil pensiere, apparecchiandosi piuttosto a leggere le follied'un vecchio non istrutto dalle proprie disgrazie, moltomeno da quelle degli altri, a mettersi in caso che nongliene avvenissero più; d'un vecchio cui quarant'anni dicalamità e di miserie non bastarono per far giudizio;d'un vecchio che non saziarono le prosperità venuteglifuori d'ogni espettazione, come nol rese saggio una seriedi sciagure prive d'esempio.

Avevo tanto un perchè io di cercare le Indie orientaliquanta ne ha un uomo che goda la piena sua libertà diandare alle prigioni di Newgate e pregare il carceriereche lo chiuda in compagnia degli altri prigionieri, e lofaccia stentare di fame lì dentro. Se mi fossi provveduto,partendo dall'Inghilterra, d'un piccolo vascello per an-darmene dirittamente alla mia isola; se, come feci colvascello di mio nipote, lo avessi caricato di quanto pote-va essere necessario a quella piantagione e a quegli abi-tanti; se mi fossi procurata una patente dal mio governoper assicurarmi una proprietà sotto la sola protezione

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dell'Inghilterra; se vi avessi portato e munizioni e can-noni, condotta con me una carovana d'uomini e di servi,se me ne fossi impossessato, fortificandola, a nome del-la Gran Brettagna e rendendola più popolosa, come nonmi sarebbe stato difficile; se stabilitomi quivi, avessispedito indietro il bastimento carico di riso, e a ciò ba-stavano sei mesi di tempo, e commesso ai miei corri-spondenti il ritorno del bastimento stesso fornito di nuo-ve inglesi proviste; se avessi fatte tutte queste cose sen-za andare più in là, sarebbe stato operare almeno colsenso comune. Ma lo spirito del vagabondare si era tan-to incarnato in me che tutti questi vantaggi io li contavaper nulla. Ebbi bensì la vanità di essere il protettore del-la popolazione che avevo collocato colà, di comportarmicon essa in certa guisa alta e maestosa come un anticopatriarcale monarca, di provederne ai bisogni, come sefossi stato il padre dell'intera famiglia e il signore dellapiantagione; ma non mi venne in mente nè poco nè assaidi porre ivi uno stabilimento in nome di qualsiasi gover-no o nazione, o di riconoscere un principe o di mettere ilpaese sotto la sovranità di un re più che d'un altro. Anzinon pensai tampoco a dar un nome a quella terra: la la-sciai tal quale l'avevo trovata, pertinenza di nessuno, equel popolo indipendente da qualunque suggezione o di-sciplina fuor quella di me. Ed io ancora, benchè avessisu quella gente la preponderanza di un padre e di un be-nefattore, non avevo autorità o potere di decidere o dicomandare più in là delle cose alle quali il buon voleredi quella comunità acconsentiva. Pure anche entro que-

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sti limiti, se ci fossi stato, la cosa poteva correre. Ma no,che non feci così. Andato a vagare lontano da quei po-veretti, non tornai più a vederli; le ultime notizie cheebbi di loro mi vennero col mezzo del mio antico socioche mi scrisse (benchè la sua lettera la ricevessi soltantoa Londra molti anni dopo da che fu spedita), mi scrissecome avesse mandata un'altra scialuppa all'isola; e miscrisse pure che quei miei coloni se la passavano assaimale, e che erano grandemente stanchi di restar lì confi-nati; che Guglielmo Atkins era morto; che cinque Spa-gnuoli avevano abbandonata l'isola; che, se bene nonfossero noiati gran che dai selvaggi, pure avevano avutecon costoro diverse scaramucce; che per ultimo mi ri-cordavano fervidamente la mia promessa di levarli di lì,e di fare in modo che rivedessero prima di morire la pa-tria loro.

Ma io andava propriamente a caccia della fenice! Chidesidera sapere altre cose di me, si contenti seguirmi inuna nuova varietà di follie, amarezze e stravaganti av-venture, di mezzo alle quali nondimeno può scorgersipienamente la giustizia della providenza; può scorgersicome il cielo possa, satollando la nostra insaziabilità, farsi che le cose da noi più sospirate divengano la nostratribolazione, e convertire in arma di castigo tutto quantopensavamo dovesse divenirne sorgente di massima feli-cità.

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47 Alludo, così parlando, alla bramosia ardente cheavevo fin da giovinetto di vagare pel mondo. Come fuevidente sino d'allora che tal furore dovea perpetuarsi inme per mio castigo! In qual modo poi, per quali circo-stanze ciò si avverasse, qual ne fosse la conclusione, ècosa facile a descriversi con tutte le particolarità che levanno connesse; ma i fini segreti della providenza, al-lorchè permette che siamo così precipitati nel torrentede' nostri smodati desiderii, possono soltanto esserecompresi da chi sa prestar l'orecchio alle voci di questaprovidenza e dedurne religiose conseguenze su la giusti-zia di Dio e i propri errori.

* Badi l'uom saggio a non fidarsi tanto nella forza delsuo ingegno ch'egli si creda capace di scegliere di suatesta la condizione propria di vita. L'uomo è una creatu-ra di vista corta che non vede molto lontano dinanzi asè, e poichè le sue inclinazioni particolari e passioni nonsono i migliori suoi amici, divengono queste spesse vol-te i suoi più fatali consiglieri.

Ch'io avessi affari o no nell'Indie Orientali, il viaggiolo impresi. Non è tempo ora di far comenti su la ragio-nevolezza o la pazzia della mia condotta, ma di progre-dire nella mia storia. Io m'era imbarcato per questo viag-gio, e questo viaggio volevo effettuarlo.

47 Il testo inglese di questo e del successivo paragrafo notati con asteriscosi trova in alcune edizioni e in altre no; ond'è che alcuni traduttori, tra i quali lasignora Tastu, ne hanno omessa la versione giudicandoli, a quanto sembra, pa-ragrafi intrusi. Non vedendo ch'essi turbino in nulla l'ordine logico della storia,e che nemmeno sieno fuor di luogo o incoerenti con le massime spiegate dal-l'autore, gli ho posti limitandomi alla presente nota di schiarimento.

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Aggiugnerò soltanto una parola o due sul mio onestoprete papista. Comunque possa essere poco caritatevolel'opinione che i Cattolici romani hanno di noi, e in gene-rate di tutti gli eretici, chè con tal predicato i Cattoliciromani ne chiamano, io credo veramente che quest'uo-mo fosse un vero Cristiano, pieno di zelo e d'amore pertutti i suoi simili; rispettoso al segno che non gli udiiquasi mai invocare alcuno de' santi della sua chiesa, tan-ta era la paura in lui di ferirmi a puro scapito nelle miereligiose opinioni. Del rimanente io non ho mai avuto ilmenomo dubbio su la sincerità e pia rettitudine delle sueintenzioni. Sono anzi fermamente persuaso che, se tuttigli altri missionari della chiesa romana in ciò lo imitas-sero, li vedremmo visitare anche i poveri barbari dellaTartaria e della Lapponia, fra i quali non possono spera-re verun profitto temporale, in vece di cercare soltantoavidamente le più ubertose contrade pagane come laPersia, l'India, la China, che lor promettono più ampiamesse terrena. Se così non fosse non dovremmo fare lemeraviglie che sieno persino arrivati ad introdurre fra isanti del calendario romano il chinese Confucio48.

Ma ciò in via di parentesi.

48 Non v'è Cattolico romano, e credo anche non romano, il quale non sap-pia esser questa una solennissima menzogna che qualche nemico della chiesaromana avrà data ad intendere all'autor protestante. Può darsi che qualche mis-sionario, o ignorante o prevaricatore (perchè l'uomo è sempre uomo) sia cadutoin una tanto assurda goffaggine, e può anche darsi, che nel cercare di diffonde-re la fede tra i barbari, abbia consultati bassi interessi personali a preferenza diquelli della sua religiosa missione; ma non si dirà, ne sarà mai stato detto chechi si fosse comportato in tal guisa operasse secondo il vero spirito della chiesae non fosse stato anzi disapprovato.

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Occorsagli l'opportunità di un bastimento che salpavaper Lisbona, il mio buon ecclesiastico s'accommiatò dame per profittarne.

‒ “Già il mio destino, egli disse, è quello di non finiremai nessuno dei viaggi ch'io intrapresi”.

Qual fortuna sarebbe stata la mia, se me ne fossi an-dato con lui; ma era troppo tardi a quell'ora. Il cielo di-spone tutte le cose per il meglio. Se fossi partito in suacompagnia non avrei avuto tanti motivi di ringraziare ladivina bontà, nè il lettore avrebbe mai udita quest'ultimaparte dei viaggi e delle avventure di Robinson Crusoe.Qui dunque cesso dal fare esclamazioni su me medesi-mo, e ripiglio il filo della mia storia.

XCII. Arrivo a Madagascar; tregua fatta cogli abitanti, indi violata per colpa di qualche marinaio.

Dal Brasile attraversammo a dirittura il mare Atlanti-co per portarci al capo di Buona Speranza. II viaggio fudiscretamente buono; la navigazione generalmente di-retta al sud-est (scirocco); a quando a quando burraschee venti contrari; ma le mie disgrazie per mare erano fini-te: le mie tribolazioni e croci avvenire m'aspettavano sula spiaggia, segno manifesto che la terra non men delmare può esserne ministra dei divini flagelli.

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Poichè era un viaggio di commercio quello che ave-vamo intrapreso, si trovava a bordo con noi uno scriva-no, il quale dovea, dopo il nostro arrivo al Capo, regola-re le vie e le stazioni del bastimento in tal guisa che anorma del nostro contratto di noleggio non ci potessimofermare più di un tal dato numero di giorni a ciascunporto dove approdavamo. Questo non era affar mio;onde non mi ci frammettevo nè poco nè assai, lasciandoche il suddetto scrivano e mio nipote aggiustassero suciò le partite come giudicavano meglio a proposito.

Non fermatici al Capo più di quanto fosse necessarioper far provista d'acqua dolce, ci ponemmo alla megliosu la via della costa di Coromandel; e dico alla meglio,perchè eravamo stati informati che un vascello da guerrafrancese armato di cinquanta cannoni e due grosse navimercantili aveano presa la via dell'Indie. Sapendo io chein quel momento non eravamo in pace con la Francia,ciò mi metteva in qualche timore. Il fatto è per altro chequel navilio andò per la sua strada, e noi non ne udimmopiù nuova.

Non istarò a tormentare il leggitore con tediose de-scrizioni di ciascun paese, cui si passò da presso, digiornali del nostro viaggio, di variazioni de' rombi dellabussola, di latitudini, o dei venti di commercio49. Basti

49 Tradewinds; così propriamente sono chiamati que' venti su cui si regola-no maggiormente le navigazioni dei trafficanti marittimi. Si distinguono questiprincipalmente in alisei che regnano costantemente da greco a levante in certispazi di mare, massime nell'oceano occidentale fra i tropici, ed in monsoni,venti regolari e periodici che ne' mari dell'India spirano sei mesi da una parte esei dalla parte contraria.

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ch'io nomi le contrade ed i porti ove ci fermammo: ilprimo di questi si fu l'isola di Madagascar.

Quegli abitanti, avuti generalmente in concetto di fe-roci e traditori, sono ben proveduti d'archi e di frecce e,nel trattare queste armi, destri oltre ogni credere; pureper alcun tempo ce la passammo piuttosto bene con essi,nè potemmo dolerci che non si comportassero con moltaciviltà verso di noi. Per poche merciuole di piccolo va-lore, come forbici, coltelli e simili cose, ci portarono un-dici grassi buoi di mezzana proporzione che in parte ser-virono al nostro vitto giornaliero, in parte furono salatiper l'uso dell'avvenire.

Poichè per fornirci di vettovaglie dovemmo rimanereper qualche tempo su l'áncora a veggente di quellaspiaggia, io che sono stato sempre eccessivamente cu-rioso di frugare tutti gli angoli di una contrada ove cápi-to, mi portai a terra più spesso che lo potei. Una di que-ste volte fu di sera, allorchè insieme con altri, staccatauna delle nostre scialuppe dal bastimento, venni a terradalla parte orientale dell'isola. Vedemmo allora gli abi-tanti, che erano ivi in gran numero, affollarsi ad una cer-ta distanza intorno a noi per contemplarci. Credevamosapere (e, se altro non accadea , l'esito avrebbe provatoche non c'ingannavamo), credevamo sapere che conquei nativi il segnale di tregua, anzi d'amicizia, se veni-va accettato, fosse il piantare tre rami in terra, e che laprova di questa accettazione consistesse in altri tre ramipiantati reciprocamente da essi. Tal genere di treguaportava ciò non ostante una clausola generalmente co-

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nosciuta fra noi: ed era che nessuna delle parti oltrepas-sasse lo spazio frapposto tra i rami infitti in terra da cia-scuna. Questo spazio era una specie di terreno neutrale esacro, ove deposti, i nativi presso i rami dalla loro ban-da, gli archi e le frecce, gli stranieri , presso i rami dellabanda propria, le loro armi offensive, venivano avanti egli uni e gli altri disarmati in questa piazza, che era unvero mercato ove si potea liberamente conversare, com-prare e vendere, in somma negoziare. Se per altro avestecommessa ivi qualche violenza contro ai nativi, questicorrevano ad impossessarsi di nuovo delle loro armi, ela tregua era spirata nell'atto.

Noi dunque, che nella sera di cui vi parlo eravamo inun numero maggiore del solito, avevamo adempiutaquesta formalità tagliando tre rami da un albero, poiconficcandoli in terra, e ci vedemmo corrisposti conmolti contrassegni di civiltà e d'amicizia. Essi ci porta-rono diverse qualità di viveri a noi pagati al solito conalcune delle merciuole che avevamo con noi. Anche leloro donne ci portarono latte e radici, e molte di quellecose che meglio ne aggradivano; tutto in fine andavatranquillamente, onde i nostri si fecero con rami d'alberouna specie di tenda o baracca per coricarvisi sotto du-rante la notte.

Non mi ricordo qual ne fosse il motivo, ma so chenon me la sentii di rimanere lì a dormire con gli altri; e,poichè la nostra scialuppa era all'ancora non più lontanod'un tiro di frombola dalla spiaggia, chiamai uno dei dueuomini che erano stati lasciati in custodia di essa e, fatti

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raccogliere alcuni rami per ripararci anche noi, tornaicoll'uomo chiamato a me nella barca, ove, stesa nel belmezzo di essa la vela e fattomi il mio casotto di frasche,passai gran parte della notte dormendo.

Erano poco più di due ore dopo la mezzanotte quandoudimmo dalla spiaggia un tremendo frastuono e le gridadegli uomini rimastivi che si raccomandavano di avvici-narci a loro con la scialuppa, perchè stavano sul puntodi essere trucidati. Nello tesso tempo si fece sentire losparo di cinque moschetti, chè cinque appunto ne avea-no portati con sè: sparo che fu ripetuto tre altre volte,perchè sembra che i nativi di quelle contrade non sienosì facili a spaventarsi del fuoco degli archibusi, cometrovai che erano i selvaggi dell'America coi quali ebbiche fare. Io non capiva affatto donde tutto ciò procedes-se. Ad ogni modo, scossomi tosto dal sonno, ordinai difar condurre la barca rasente la spiaggia, e presi tre mo-schetti che avevo a bordo, decisi di sbarcare in aiuto de'nostri.

Ma questi aveano troppa fretta per aspettare che fossi-mo sotto la spiaggia con la scialuppa. Corsi al lido, ap-pena la videro in moto, si gettarono in mare per raggiu-gnerla quanto più presto poteano, vedendosi inseguiti danon meno di tre in quattro centinaia di nativi. I nostrierano undici; cinque moschetti erano in tutto le princi-pali loro armi. Aveano, se vogliamo, alcune pistole esciabole; ma quest'ultime potevano giovarli ben poco intale frangente.

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Di nove che avevamo lasciati sul lido ne raccogliem-mo sol sette, e questi a grande stento, perchè tre di loroerano gravemente feriti; e fuvvi di peggio che, mentrestavamo intenti a far entrare i nostri notatori nella scia-luppa, eravamo in pericolo maggiore di quello corso daessi sopra la spiaggia; perchè il nemico mandava addos-so alla scialuppa stessa tal nugolo di frecce che avemmoper grazia speciale il poterla riparare con le panche e treo quattro piane d'abete per un caso fortunatissimo trova-tesi in essa. Nè ciò ne avrebbe giovato se fosse spuntatal'alba, giacchè la menoma parte del nostro corpo che co-loro avessero distinta, erano troppo infallibili bersaglieriper non colpirci. Un picciol chiaro di luna ne fece di-scernere che si apparecchiavano appunto a darci un sa-luto di frecce quando, avendo unite lì tutte le nostrearmi da fuoco, mandammo ad essi tal fiancata che po-temmo accorgerci dalle loro grida, come ne avesse feritimolti. Ciò non ostante si tennero tutti su la spiaggia inordine di battaglia, aspettando il nascere dell'aurora, ilche credo facessero per poterci a quel lume prenderemeglio di mira.

Ridotti a sì tristo partito, non sapevamo nemmenocome fare a levar l'áncora e spiegare le vele, perchè tut-to ciò ne avrebbe obbligati a mostrarci nella parte piùalta della scialuppa, ed era tanto facile a coloro lo sten-dere morto ognun de' nostri uomini con una frecciataquanto sarebbe stato per noi il far con pallini d'un mo-schetto lo stesso servigio ad un uccello fermo sopra unafrasca. Demmo allora il segnale di disastro al bastimen-

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to. Ancorchè questo fosse all'áncora una lega lontano danoi, pure mio nipote, il capitano, che aveva udito il no-stro fuoco e scoperto con un cannocchiale in quali stret-te fossimo, e veduto in oltre il nostro fuoco addirizzatoalla costa, capì ottimamente di che si trattasse. Laonde,levata l'áncora con tutta speditezza, si avvicinò tantoalla spiaggia, quanto poteva avventurarsi con un grossobastimento; poi ne mandò in aiuto l'altra scialuppa ar-mata da dieci uomini.

Appena la vedemmo accostarsi, le gridammo di nonvenir troppo vicino spiegandole a qual condizione ci tro-vassimo noi. Nondimeno fecero un buon tratto di marealla nostra volta; indi un di que' piloti, presa la puntad'un cavo e date tali disposizioni per cui la scialuppa disoccorso stesse affatto coperta dalla nostra agli occhidell'inimico, saltò in acqua e venne nuotando a trovarci.Quivi attaccò il cavo della sua scialuppa alla nostra, in-tantochè noi facemmo scorrere quanto cavo potemmodella nostra áncora, onde, lasciandoci addietro l'áncorastessa, potessimo essere rimorchiati dalla barca soccor-ritrice e trovarci fuor del tiro delle frecce, da cui ci sal-vammo in questo mezzo tenendoci ben nascosti dietro alparapetto che ci eravamo fabbricati. Questa fazione riu-scì a buon termine.

Posti così in sicuro nella seconda scialuppa, la giram-mo in modo da non impedire la vista della spiaggia albastimento, che scorse, costeggiando la costa, quanto fud'uopo per mettere il suo fianco rimpetto ai nemici. Al-lora mio nipote, fatto mettere nei cannoni, oltre alle pal-

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le e mitraglia e chiodi e simili galanterie, mandò ad essitale saluto, che ne fece, vi dico io, un esterminio da do-ver essi ricordarsene per un pezzo.

Entrati finalmente tutti nel bastimento e posti fuor dipericolo, avemmo tempo d'esaminare qual fosse statal'origine di tal inconveniente. Anzi mi spinse a questaindagine lo scrivano, il quale essendo stato altre volte daquelle parti, mi assicurò che gli abitanti dell'isola nonavrebbero mai violata, dopo averla pattuita, una tregua,senza credersi stimolati a ciò in qualche modo dai no-stri. In fin del conto venimmo a sapere come una vec-chia capitata nel terreno neutrale per venderci latte aves-se condotta con se una giovine che portava in oltre radi-ci ed erbe a quel mercato; e che, mentre la vecchia (semadre o no della giovine niuno potè dirlo) stava contrat-tando pel suo latte, uno de' nostri si permise sconcie li-bertà con la giovine; che la vecchia, accortasi di questo,ne menò grande strepito; che ciò non ostante il pilotonon volle abbandonare la sua presa, anzi favorito dall'o-ra oscura si trasse con se la giovine nel folto della selva,sì che la vecchia più non la vedendo, fu costretta partiresenza di lei. Quella vecchia pertanto, non potemmo im-maginarci altro, andò a mettere in fermento, narrandoleil caso occorsole alla popolazione che in tre o quattroore riuscì a mettere insieme quella formidabile banda dicombattenti, da cui fu gran prodigio se non rimanemmotutti ammazzati.

Un de' nostri cadde trafitto da una lancia al principiodell'assalto nell'atto stesso di uscire fuori della tenda di

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verdura che s'erano fabbricata. Gli altri si salvarono allameglio, eccetto il mariuolo che diede origine allo scon-cio e che pagò a caro costo i favori della negra sua bella,come vedremo; ma per allora non potemmo scoprire checosa fosse accaduto di lui.

A malgrado del vento che spirava propizio per la par-tenza, ci fermammo due giorni in quella situazione dan-do segnali per vedere se il piloto ne corrispondeva, emandando per lo stesso fine la scialuppa a costeggiaresu e giù parecchie leghe di spiaggia; ma tutto invano.Gia ci vedevamo obbligali a dismettere ogni ricerca:così avessimo fatto! perchè se il male cadea soltanto so-pra colui, sarebbe stata la minore delle perdite.

XCIII. Curiosità di conoscere il destino del marinaio smarrito. Atroce fine di quest'uomo;incendio; orride stragi che ne derivarono.

Io per altro non poteva aver pace, se non mi rischiavouna seconda volta su la spiaggia per cercare di procurar-mi qualche contezza sul piloto rimasto nell'isola. Nellasera che diveniva la terza dopo la strage fatta degl'isola-ni, questa curiosità crebbe fortissima in me. Volevo co-noscere, a qualunque costo, la natura del danno recato aquella popolazione, e come stessero su la costa indianale cose. Risolutamente pertanto mi accinsi all'opera conalcuni de' nostri nell'ora buia, per timore d'un secondo

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assalto de' nativi. Ma dovevo almeno cautelarmi affin-chè fossero obbligati a dipendere dal mio comandoquelli che mi seguivano, prima d'avventurarmi ad un'im-presa tanto pericolosa e divenuta in appresso, senzach'io ne avessi l'intenzione, tanto malvagia.

Toltimi in compagnia venti de' più gagliardi del basti-mento, oltre allo scrivano, il nostro sbarco fu effettuatodue ore prima della mezzanotte nel luogo stesso, ovegl'Indiani si erano nella precedente notte schierati in bat-taglia. Io avea scelto questo luogo di sbarco siccome ilpiù acconcio ai disegni che principalmente mi condusse-ro quivi e che ho già accennati: sapere cioè se gl'Indianiavevano abbandonato il campo della battaglia, e lasciatedietro di sè vestigia del danno portato loro dalla nostraartiglieria. Pensai in oltre, che se ne fosse riuscito d'im-padronirci di due o tre di costoro, avremmo forse potutoriavere in via di cambio il nostro piloto.

Scesi a terra senza strepito, ci dividemmo in duesquadre, l'una delle quali era comandata dal nostro guar-dastiva, l'altra da me. Non avendo udito nè veduto muo-versi a quell'ora nessuna creatura umana dell'isola, ciavviammo a dirittura in due corpi, ad una certa distanzal'uno dall'altro, verso il luogo che fu teatro della primaostilità; ma essendo assai oscura la notte nulla vedem-mo, sinchè il guardastiva, condottiero della secondasquadra, non intoppò cadendo sopra un cadavere.

Ciò indusse la squadra stessa ad una fermata; perchè,argomentando da tal circostanza che si trovava sul luogocercato, il guardastiva stimò opportuno l'aspettare che la

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mia squadra si unisse alla sua, come accadde. Giudi-cammo espediente l'indugiare ivi sino all'alzarsi dellaluna che, secondo i nostri conti, non poteva tardarenemmeno di un'ora, per potere più facilmente discernereil genere di strage prodotto dalle nostre armi. Contam-mo fino a trenta cadaveri, due soli de' quali non lo eranodel tutto, perchè durava in essi qualche estremo segno divita. Chi aveva un braccio, chi una gamba, chi la testada un'altra parte; i feriti non morti gli avevano, a quantosupponemmo, trasportati seco i loro compagni.

Allorchè sembrommi che tutte le possibili nostre in-dagini fossero esaurite, io mi disponeva per tornare abordo, quando il guardastiva e quelli della sua squadrami fecero conoscere la loro determinata intenzione diandare a far una visita alla città degl'Indiani ove s'imma-ginavano che dimorassero que' cani, così li chiamavano,ed ove trovandoli aveano ferma speranza di un buonbottino. Mi sollecitavano ad essere di brigata con loro,aggiungendo la probabilità di rinvenire quivi TommasoJeffrey, che tale era il nome del marinaio smarrito.

Se m'avessero chiesto licenza di andare per una spe-dizione di tal natura, so bene che cosa avrei risposto,perchè avrei ordinate a costoro di tornar subito a bordo,vedendo troppo che non era questo un rischio da affron-tarsi per noi: per noi mallevadori d'un vascello mercanti-le e del suo carico e dell'ultimazione d'un viaggio, fon-data in gran parte su le vite de' nostri marinai. Ma poi-chè m'aveano spiegato un risoluto volere, e mi chiede-vano unicamente in lor compagnia, questa si fu la sola

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cosa cui potei asseverantemente ricusar di prestarmi;onde, levatomi dalla zolla ove stava allora seduto, fecil'atto di tornarmene alla mia scialuppa. Uno o due dique' mariuoli cominciarono ad importunarmi, ma vedu-tomi persistere nella mia negativa, un d'essi disse bron-tolando fra i denti:

‒ “In fine non siamo sotto al suo comando, e voglia-mo andare. Vieni tu, Giacomo? (si volse allor risoluto aduno de' miei): io conosco uno che va, e sono io.

‒ Ancor io, rispose Giacomo.‒ Anch'io” disse un altro, poi un altro, e, per farla fi-

nita, mi piantarono tutti eccetto un solo, che persuasi ioa non andare, e il mozzo che non era venuto a terra connoi.

Quest'uomo solo pertanto e lo scrivano tornarono ad-dietro meco nella scialuppa, ove promisi agli altri di ri-manere per prendermi cura di quelli che sopravvivereb-bero a sì matta spedizione, chè io certo non mancai didipingerla ad essi siccome tale.

‒ “M'aspetto, conclusi, che molti di voi vogliano cor-rere la sorte di Tommaso Jeffrey.

‒ Eh! non abbiamo di queste paure noi, e, quant'èvero Iddio, torneremo indietro tutti sani e salvi”, e similialtri propositi spensierati da uomini appunto di mare.

Ebbi un bel pregarli e dir loro:‒ “Figliuoli, pensate che le vostre vite in questo mo-

mento non sono vostre: sono, fino ad un certo segno,parte integrante del viaggio. Se pericolate voi altri, può

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pericolare anche il bastimento per mancanza del vostroaiuto, e dovreste renderne conto agli uomini e a Dio”.

Tanto sarebbe stato se avessi parlato all'albero dimaestra. S'erano incapricciati pazzamente di questa spe-dizione. Unicamente mi diedero buone parole, mi prega-rono a non essere in collera con loro, mi promisero chesenza fallo tra un'ora al più tardi sarebbero tornati addie-tro: al dir loro, la città degl'Indiani non era lontana unmezzo miglio, benchè vedessero poi in effetto che dopofatte due miglia non ci erano per anco arrivati.

In somma, fecero a proprio modo. Conviene per altrorendere una giustizia a costoro che, se bene questa spe-dizione loro fosse tale che solo ad un vero matto poteasatar in mente d'intraprenderla, vi si portarono con ani-mo coraggioso e guerriero. Ben difesa la persona, cia-scuno di essi aveva un archibugio con baionetta in can-na ed una pistola; alcuni in oltre portavano larghi, enor-mi coltelli, altri draghinasse; il guardastiva e due altri sierano anche provveduti di scuri. Aggiugnete che si por-tavano seco tredici granate. Non mai in questo mondodiabolica impresa fu condotta a termine da più gagliardicampioni ne più armati di tutto punto.

Per dir vero su le prime il disegno de' malandrini erameno orrido di quanto il divenne poi in effetto: pensava-no soltanto a far bottino, mossi da una potentissima spe-ranza di trovare in quel paese molt'oro; ma un caso cuinon s'aspettavano eglino stessi mise il fuoco della ven-detta ne' loro petti; indi si trasformarono tutti in altret-tanti demoni.

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Capitati in alcune case d'Indiani da essi prese in prin-cipio per la città, che era un mezzo miglio più oltre,s'accorsero presto non esser queste case più di dodici otredici, il che li mise in grande imbarazzo, perchè nonsapevano, nè dove fosse la vera città nè a quanto ne am-montassero le abitazioni. Consigliatisi quindi fra lorosul partito cui appigliarsi, rimasero per qualche temposenza risolvere nulla; perchè, se piombavano addosso aquegl'Indiani addormentati, è certo che potevano farneun macello o impadronirsi di quasi tutti; ma nell'oscuritàdella notte, sol rischiarata da un debole chiaro di luna,v'era da scommettere dieci contr'uno, che qualcuno sa-rebbe fuggito lor dalle mani; e se un solo fuggiva, corre-va certamente a svegliare gli abitanti della città, e si era-no tirati addosso un intero esercito. Per altra parte, seandavano avanti lasciando dormire quei che dormivano,non sapeano da qual parte voltarsi per trovar la città; purgiudicarono questo il consiglio migliore, onde risolvet-tero di non molestare gli uomini immersi nel sonno, e dicercar la città alla ventura e come potevano.

Dopo fatto un po' di cammino s'abbatterono in unavacca legata ad un albero, il che suggerì a costoro ilpensiere di farsi di questa bestia una guida, ed ecco qualfu il loro ragionamento: “La vacca deve appartenere aqualche cittadino, o la città sia più innanzi, o ce la siamolasciata addietro. Se la sleghiamo, vedremo che stradaprende. Se torna addietro, già la vacca non parla, e sia-mo nell'imbroglio come prima; ma se va avanti, la se-guiremo”. Tagliarono adunque la corda che era fatta di

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giunchi intrecciati, ed ecco che la vacca andò avantiprendendo la via della città, ed essi a seguire la vacca.

Questa città, come poscia narrarono, consisteva a undipresso in duecento case o capanne, entro alcune dellequali convivevano unite diverse famiglie. Ivi trovaronotutto nel silenzio e in quella sicurezza che il sonno con-cilia a chi dorme. Qui, tenuto nuovamente consiglio, de-cisero che si dividerebbero in tre corpi; che ciascunuomo d'essi si piglierebbe l'assunto di appiccare il fuocoa tre case in tre punti della città; che appostati gl'indivi-dui che naturalmente farebbero per fuggire dalle case in-cendiate, s'impadronirebbero a a mano a mano di essi, eli legherebbero; se resistevano, non c'è bisogno di do-mandare come gl'incendiari si sarebbero regolati, e que-sto bel servigio lo avrebbero reso, una dopo l'altra, a tut-te le case per poi saccheggiarsele in santa pace. Ma pri-ma di dar mano all'opera pensarono di girare le strade diquella città o borgo che fosse, per conoscerne la dimen-sione, e vedere se potea pronosticarsi un buon esito aldisegno che aveano concepito.

Così fecero, e presero la disperata risoluzione di man-dare ad effetto il nero loro divisamento. Mentre stavanoin ciò animandosi scambievolmente, udirono chiamarsiforte da tre de' loro compagni andati un po' più avantidegli altri, i quali esclamavano: “È trovato TommasoJeffrey!”. Corsero tutti in grande fretta sul luogo, ove vi-dero la salma ignuda di quel povero sgraziato impiccatoper un braccio ad un albero con le canne della gola ta-gliate.

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Presso a quell'albero appunto stava una casa indianaabitata da sedici o diciassette caporioni della contrada,di quelli stessi che avevano avuta maggior parte nellarecente battaglia, e due o tre feriti dalla mitraglia del ba-stimento. I nostri poterono accorgersene, come s'accor-sero, che erano svegliati, e che parlavano tra loro; ma ilpreciso numero nol seppero distinguere.

La vista del trucidato compagno gli accese di tantofurore, che si giurarono l'uno all'altro di farne orrendavendetta, e di non dar quartiere di sorta alcuna a quantiIndiani capitassero lor nelle mani. Poi vennero tosto aifatti, nè sì inconsideratamente come dalla rabbia che in-vadea costoro poteva aspettarsi.

Il primo loro pensiere fu quello di procurarsi buonematerie incendiarie; ma presto s'avvidero che non biso-gnava faticar molto nè andar lontano per questa ricerca.Quelle case erano basse la maggior parte e coperte datetti di stoppia e di giunchi abbondantissimi nel paese.Fabbricatisi alla presta non so quanti di quelli che gl'In-glesi chiamano wildfire (fuoco salvatico), panetti di pol-vere inumidita e impastata sul palmo della mano, incen-diarono col soccorso di questi la città in quattro parti, esoprattutto l'indicata casa di caporioni indiani che nons'erano coricati.

Appena il fuoco cominciò a spandersi manifestamen-te, quelle povere spaventale creature si davano a correreper salvare le loro vite; ma questo tentativo li rendea piùpresto convinti dell'inesorabile fatalità del loro destino,

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perchè alla porta trovavano uomini spietati che li respin-gevano entro le fiamme.

II guardastiva ne ammazzò due o tre con la scure allaporta della casa principale, donde per altro cercaronouscire più tardi per essere quella più spaziosa; ma eccoin qual modo il barbaro guardastiva li costrinse a mo-strarsi. Senza prendersi lui il fastidio di entrar nellacasa, lanciò una granata tra que' poveretti che alla primagli atterrì solamente. Ma quando scoppiò, fece tale stra-ge fra essi, che gridavano come anime dannate, e quelliche si trovavano nella parte più aperta dell'abitazione,rimasero uccisi, eccetto due o tre: e furono quelli che af-facciatisi alla porta trovarono la morte per mano delguardastiva e d'altri due che li finirono con le loro baio-nette in canna. Costoro spedivano quant'altri se ne pre-sentavano nella stessa maniera.

Vi era poi nella medesima casa un appartamento, ovedimoravano il principe, o re, o come meglio chiamavasi,e i suoi cortigiani. Questi sgraziati furono costretti a starlì al lento fuoco, sinchè finalmente, precipitando il tetto,rimasero soffocati tra le infiammate rovine.

Per tutto questo tempo i nostri ebbero l'avvertenza dinon sparare un moschetto per non destare i proprietaridelle case fin allora intatte prima del tempo in cui avreb-bero potuto assicurarsi di loro. Ma il fuoco principiòtanto a distendersi che già operava da sè; anzi i furfantiebbero di grazia raccogliersi in un solo corpo, perchè lecase essendo tutte d'una materia grandemente combusti-bile, non poteano più aprirsi strada tra l'una e l'altra;

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onde non rimase loro a far altro che costeggiare l'incen-dio per esser pronti, se alcuni o fuggivano fuor delleabitazioni che ardevano, o lo spavento li traeva fuori diquelle che non ardevano, ad accopparli. S'incoraggiava-no all'orrida fazione, gridando gli uni con gli altri: “Ri-cordatevi di Tommaso Jeffrey!”

Mentre queste cose seguivano, io me ne stava, poteteimmaginarvelo, assai malinconico nella mia scialuppa; ela malinconia crebbe in me al vedere le fiamme che ingrazia della notte sembrava mi fossero da presso. Intan-to mio nipote, il capitano, che avevo lasciato sul basti-mento, fu destato dalla sua ciurma e, veduto quell'incen-dio, entrò egli pure in gravi perplessità non sapendo dache procedesse, o in qual pericolo fossero i suoi; e mag-giore fu la sua inquietudine quando udì lo sparo dei mo-schetti, chè i nostri malandrini, quando si credettero bensicuri del fatto loro, principiarono a lavorare con l'armida fuoco. Mille angosciosi pensieri opprimevano la suamente su la sorte mia e dello scrivano, onde finalmente,se bene non avesse uomini d'avanzo pel bisogno dellasua navigazione, pure, non sapendo a quali strette ci po-tessimo trovare, fe' lanciare in acqua un'altra scialuppa,e venne a trovarmi scortato da tredici uomini.

Sorpreso al maggior segno nel veder lo scrivano e mecon soli due individui nella prima scialuppa, certo si ral-legrò nel sentire che a noi non era intravenuto nulla dimale; ma durava in lui la stessa ansietà di sapere comestessero le cose, perchè il frastuono continuava e lafiamma crescea. Volea ch'io ne lo informassi, nè io sa-

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pea dirgliene di più. L'impaziente sua curiosità divennein ciò tanto forte, che sarebbe stato impossibile a verunuomo della terra il sedarla. Voleva risolutamente sapere,che cosa si facesse su la spiaggia, si affannava pe' suoiuomini; per farla corta dichiarò di volere accorrere inaiuto della sua gente che che dovesse succedere.

Gli ripetei le stesse rimostranze che aveva fatte agliuomini andati prima, vale a dire su i riguardi dovuti allasalvezza del bastimento, al pericolo di non terminare ilnostro viaggio, all'interesse de' proprietari del carico concui ci eravamo obbligati, e simili cose.

‒ “Piuttosto, soggiunsi, mi trasferirò io con due uomi-ni su la spiaggia per vedere di scoprire ad una certa di-stanza qualche cosa di quanto or succede, poi verrò a ri-ferirvelo”.

II parlare a mio nipote fu tutt'uno di quello col qualeavevo voluto dissuadere il guardastiva e gli uomini, checolui instigò. Solamente sospirava i dieci uomini ches'era lasciati addietro nel bastimento.

‒ “Non posso reggere, diceva, all'idea che la mia gen-te soggiaccia, per averla io lasciata mancar di soccorsi.Vadano in malora il bastimento, il viaggio, la mia vita,tutto, ma li voglio salvare”. E fu questa l'ultima sua de-cisione.

Non potei esimermi dall'accompagnarlo più di quantofui capace di persuaderlo a non arrischiarsi a tale impre-sa. Anzi egli ordinò che due uomini della sua scialuppa,andando alla volta del bastimento, ne levassero altri do-dici uomini e li conducessero lì entro la stessa scialuppa.

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Giunti che furono, sei vennero lasciati per far la guardiaalla prima scialuppa e alla seconda rimessa all'áncora, inguisa che non rimaneano più di sedici uomini nel basti-mento; perchè in tutti eravamo su le prime sessantacin-que, e or mancavano i due che furono origine di tuttoquesto scompiglio.

Postici in cammino potete credere che non sentivamola terra sotto i nostri piedi, e guidati dalla vampa dell'in-cendio non dovemmo titubare, onde arrivammo a dirit-tura al teatro di quel disastro. Se dianzi ne avea fatti at-toniti lo strepito degli archibusi e delle granate, or ciempieva d'orrore un frastuono d'altra natura: i gemiti diquella misera popolazione. Devo confessare che non eromai stato presente al saccheggio di una città o alla presaper assalto di una fortezza. Avevo bensì udito dire cheOliviero Cromwell nell'impadronirsi di Drogheda, cittàdell'Irlanda, avea sterminato uomini, donne e fanciulli,come avevo letto che il conte di Tilly nel saccheggio diMagdeburgo fece trucidare ventiduemila individui d'en-trambi i sessi; ma non ebbi mai idea prima d'allora di si-mile atrocità: onde mi e impossibile il descriverla, e ildescrivere soprattutto l'abbrividire che ne feci io nonmeno di mio nipote e dello scrivano. Pure andammoavanti; tanto che giugnemmo innanzi alla città fattasiimpenetrabile, perchè tutte le contrade ne erano padro-neggiate dal fuoco.

Il primo oggetto che ne si presentò furono le rovine diuna casa o capanna, o piuttosto le ceneri, perchè l'edifi-zio era affatto consunto; e innanzi ad essa visibilissimi

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alla luce del fuoco giaceano quattro donne e tre uominiuccisi e, come ne sembrò, un'altra o altre due creaturespiranti in mezzo ai vortici delle fiamme. In somma, ve-demmo tali vestigia d'un furore del tutto barbaro e postofuor d'ogni confine della natura umana, che ne divenivaimpossibile il credere autori di tanto misfatto i nostri uo-mini; o, se lo erano stati, giudicavamo ciascun d'essimeritevole del più atroce supplizio.

Ma qui non consisteva il tutto: in maggior distanzavedemmo aumentarsi la fiamma dinanzi a noi e da quel-la parte ne venivano ululati crescenti col crescere del-l'incendio. Non vi so dire quanto rimanessimo attoniti.Facemmo alcuni passi di più; e ne fece attoniti il correrein verso a noi di tre donne ignude che pareva avesserol'ali e, dietro ad esse, sedici o diciassette uomini nativi,presi da uguale costernazione, inseguiti tutti alle spalleda tre di que' nostri macellai inglesi, i quali vedendo dinon poter più raggiugnere quegl'infelici fecero fuoco fraessi; e un di questi cadde morto dalle loro palle sotto ainostr'occhi. Non appena gli altri fuggitivi ci videro, cre-dettero esser noi pure loro nemici e venuti lì con inten-zione non diversa da quella de' lor persecutori; onde mi-sero le più disperate grida, massimamente le donne, duedelle quali caddero per terra, già morte dallo spavento.

Mi si serrò il cuore, mi si agghiacciò il sangue al ve-der ciò, e credo che se i tre Inglesi, da cui erano insegui-ti quegli sfortunati, venivano innanzi di più, avrei fattofar fuoco sovr'essi da chi mi accompagnava. Cercammodunque un qualche modo di dar da capire ai fuggenti

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che non volevamo far loro alcun male. Immantinenteavvicinatisi a noi, si gittarono in ginocchio, prorompen-do in dolenti preghiere perchè li salvassimo, la qual cosasi diede a comprendere loro, essere appunto ciò che cer-cavamo di fare. Poichè ne furono intesi, si aggrupparonoalla rinfusa seguendoci, come se si ponessero sotto ilmanto della nostra protezione.

Raccolsi intorno a me gli uomini della mia squadra aiquali comandai d'astenersi dal torcere un capello a veru-no di quegli Indiani, poi di cercare qualcuno de' nostrimariuoli, chiedere ad essi qual diavolo fosse saltato loronel corpo, e che razza di disegno avessero, poi di farlidismettere, se non volevano prima del giorno vedersi in-vestiti da un centinaio di migliaia di nativi.

Dato quest'ordine, mi staccai dalla mia squadra, te-nendo sol due uomini meco nel recarmi in mezzo a que'poveri fuggiaschi, e allora mi toccò vedere il più com-passionevole spettacolo. Alcuni di essi avevano i piediterribilmente arrostiti dal lungo camminar su le bragenel dover correre a tra verso del fuoco; altri le mani ab-bruciate; una donna caduta nel centro della fiamma ri-mase deformata prima di giungere a riscattarsi; due o treuomini portavano su le spalle e su le cosce le tacche fat-te dalle sciabole dei nostri carnefici che gl'inseguivano;un altro finalmente che aveva il corpo trapassato da unapalla finì di vivere in quell'istante.

Avrei voluto intendere da essi qual cosa avesse datomoto a tutto questo sconquasso. Ma, oltrechè non capi-vo una parola di quello che mi rispondevano, credei

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comprendere dai loro cenni che non lo sapevano nem-meno essi. L'animo mio era sì atterrito d'un così infameattentato che non potei starmi dal tornare addietro dov'e-rano mio nipote e gli altri della nostra brigata, risolutis-simo di entrare nel bel mezzo della città a malgrado delfuoco e di tutto ciò che potesse accadere. Giunto colà,comunicai ad essi il mio divisamento, e comandai a'miei di seguirmi. Ma in quel momento vedemmo spun-tar di lontano quattro dei nostri malandrini, in fronte deiquali veniva il guardastiva, intenti a correre su le salmedelle morte loro vittime, tutti coperti di sangue e di ce-nere, e non sazi ancora d'ammazzar loro simili. Alloraquelli della mia gente cominciarono a chiamarli conquanta voce avevano, e un de' nostri si sfiatò tanto chefece capire a coloro chi fossimo, onde vennero a noi.

Appena il guardastiva ci fu da presso, mise un'escla-mazione di trionfo, perchè in sua testa venivamo ad aiu-tarlo; poi senza lasciarmi parlare si volse a mio nipote.

‒ “Capitano, nobile capitano, son ben contento di ve-dervi qui. Abbiamo ora un rinforzo per meglio sbizzar-rirci su questi cani dell'inferno. Vo' ucciderne tanti quan-ti capelli il povero Tommaso avea su la testa: abbiamogiurato di non ne risparmiare nessuno. Vogliamo estir-pare dalla terra tutta quant'è questa maladetta nazione”.

E benchè sfiatato dalle sue scellerate fatiche, avrebbecontinuato a parlare di questo stile senza lasciare il tem-po a noi di rispondere. Ma finalmente, perduta io la pa-zienza, alzai tanto la voce che copersi la sua.

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‒ “Ah cuor di tigre! esclamai. Che cosa state facendo!Non voglio che si dia più la menoma molestia a nessunodi questi infelici, pena la morte! V'intimo, se v'importadella vostra vita, di tenere in freno il vostro braccio e distar quieto; altrimenti siete morto di fatto.

‒ Signore, colui rispose, sapete voi che cosa state orafacendo voi stesso, o che cosa que' cialtroni hanno fatto.Se vi bisogna una ragione di quello che abbiamo fattonoi, venite qui”; e mi mostrò quel povero suo cameratache pendeva da un albero col collo tagliato.

Confesso che tal vista crucciò me pure, nè so in altritempi fin dove un tale cruccio m'avrebbe spinto. Mapensai che avevano portato troppo al di là il loro sde-gno, e mi feci venire a mente le parole di Giacobbe aisuoi figli, Simone e Levi: Maladetta la loro ira perchèfu feroce! maladetti gli effetti di essa perchè furono cru-deli!

Allora sì ebbi una matassa intrigata e superiore al miopotere di svolgerla; perchè, quando gli uomini che ave-vo sotto il mio comando in quella spedizione, videro lostesso miserando spettacolo, come lo vidi io, avevo giàun bel che fare per rattenerli dall'unirsi con gli altri. Mavi fu di peggio; lo stesso mio nipote, lasciatosi dominareda un medesimo sentimento, mi disse, e in loro presen-za:

‒ “Mi rattiene la sola paura che i miei vengano so-praffatti da un troppo numero di questi scellerati isolani;ma per coloro che abbiamo qui alla mano, poichè si

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sono resi colpevoli d'un assassinio, devono essere tratta-li come assassini, e un solo di loro non dee restar vivo”.

Non ci voleva altro. Subitamente otto dei miei anda-rono ad unirsi al guardastiva e alla sua ciurma per aiu-tarli a terminare quest'opera di distruzione. Io, vedendoallora l'affare portato a tal punto che era fuori affattodelle mie facoltà l'impedirlo, mi tolsi di lì pensieroso emalinconico, perchè non mi sentiva capace di comporta-re l'aspetto di tanto scempio, molto meno di udire i ge-miti e gli ululati delle povere novelle vittime che ca-drebbero nelle mani di que' furiosi.

Non potei avere altri compagni nella mia ritirata, chelo scrivano e due uomini che vennero con me alla scia-luppa. Fu una grande spensierataggine la mia, devo dir-lo, l'avventurarmi con sì misera scorta a tornare addie-tro, perchè cominciando quasi a far giorno, e la spaven-tosa voce di questa scorreria essendosi già divulgata perla contrada, quaranta nativi armati di lance e d'archi sta-vano già nel piccolo villaggio composto delle dodici otredici case menzionate dianzi. Per mero caso le evitai,onde giunsi senza incidenti sinistri all'estremità dellaspiaggia, donde mi aspettava nel mare la mia scialuppa.Quando v'entrai, essendosi affatto schiarito il giorno,tornai tosto con essa a bordo del bastimento, poi la rimi-si addietro perchè assistesse in qual si fosse occorrenzaai rimasti.

Durante il mio ritorno alla scialuppa aveva notato cheil fuoco era spento del tutto e minorato il tumulto; soldopo una mezz'ora udii uno sparo d'armi da fuoco, e

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vidi un gran fumo. Seppi da poi come i nostri fosseropiombati addosso ai quaranta uomini del piccolo villag-gio lungo la via, stendendone morti in quello sparo sedi-ci o diciassette e incendiando le case, senza per altro uc-cidere donne o fanciulli.

Quando gli uomini della scialuppa, che rimandaidopo essere tornato a bordo, toccavano la costa, comin-ciavano a comparire su la spiaggia i nostri che venivanoa poco a poco e non in due corpi come allorchè partiro-no, ma sbandati di qua e di là in tal guisa che una picco-la forza d'uomini risoluti avrebbe bastato a distruggerli.Per loro buona sorte, la paura che avevano ispirata s'eradiffusa tanto per la contrada, e gl'Indiani erano rimasti sìsbalorditi, che un centinaio di loro sarebbe fuggito,cred'io, alla sola vista di quattro o cinque de' nostri. Intutta la durata di questo terribile evento non fuvvi alcu-na bella difesa da notarsi per parte degli Indiani; tra l'at-terrimento recato dall'incendio e la novità niente aspet-tata di quell'assalto al buio, furono sopraffatti al segnodi non sapere da che parte voltarsi. Se fuggivano di quiincontravano una squadra di nemici, se di là, ne trovava-no un'altra e da tutti i lati la morte; laonde nessuno de'nostri riportò il menomo danno, eccetto due che s'eranofatto male da sè medesimi, uno dislogandosi una gamba,l'altro scottandosi seriamente una mano.

Mi durava tuttavia la stizza contra mio nipote, contratutti per vero dire, ma più specialmente contra lui, per-chè a mio avviso aveva mancato al suo dovere di capita-no di nave, e nel mettere così a repentaglio un carico di

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cui si era fatto mallevadore, e nell'aver gettato fuoco an-zichè acqua su la cieca rabbia della sua gente ostinatasiin un'impresa tanto sanguinolenta e crudele. Alle rimo-stranze che glie ne feci, rispose con molto rispetto:

‒ “Che volete? Al vedere il cadavere di quel poveromio piloto trucidato in sì crudele e barbaro modo, nonsono stato padrone di me medesimo, nè potei domare lamia ira. Capisco che, come comandante di un bastimen-to, non avrei dovuto regolarmi così; ma come uomo,quello spettacolo mi commosse, e non lo potei sopporta-re”.

Quanto agli altri, non erano miei subordinali nè poconè molto; e lo sapevano anche troppo. In fatti non si pre-sero nessun fastidio dell'avermi dato disgusto.

XCIV. Partenza da Madagascar; arrivo a veggente del Bengala; ammutinamento che travolge affatto l'ordine dei divisamenti di prima.

Nel dì successivo sciogliemmo le vele, nè udimmopiù mai notizie della costa che abbandonammo. I nostrimarinai discordavano fra loro sul numero degl'Indianirimasti uccisi; ma, secondo il più ammissibile computo,avranno, tutt'insieme, uccisi e distrutti col fuoco circacentocinquanta tra uomini, donne e fanciulli, senza la-sciare in piede una sola casa. Quanto al povero Tomma-

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so Jeffrey, morto tanto che la sua testa era quasi staccataaffatto dal collo, non gli avrebbero reso nessun servigiocol torlo di dov'era. Unicamente lo tirarono giù dall'al-bero, donde pendea per un braccio.

Comunque i nostri marinai decantassero per giustaquesta loro prodezza, io negava che fosse tale, e d'allorain poi dissi costantemente che Dio non avrebbe benedet-to quel viaggio perchè mi pareva che il sangue sparso inquella notte si solleverebbe sempre a rimproverarli d'unassassinio; essere verissimo che gl'Indiani avevano ucci-so Tommaso Jeffrey; ma che il Jeffrey dovea venir ri-sguardato primo aggressore, come quello che avea in-franta la tregua e violata, o certo cercato di sedurre unagiovine del paese venuta fra essi con fini innocenti enella buona fede di una pubblica capitolazione.

Poco dopo si tornò, stando a bordo ad agitare questacausa, e il guardastiva s'ostinava a sostenerla come glipiaceva d'intenderla. “Sembra, egli dicea, che siamo sta-ti noi i primi a violar quella tregua; ma non è vero. Laprincipiarono i nativi stessi la notte, scagliando freccesu noi e ammazzando i nostri senza veruna sorta di pro-vocazione. Se per conseguenza eravamo in diritto di di-fenderci in allora contr'essi, eravamo anche in appressodi farci giustizia con mezzi straordinari da noi medesi-mi. Se il povero nostro compagno, che non è più, si aveapresa una piccola libertà con quella ragazza, non eraquesta una ragione per condannarlo a morte e ad unamorte sì barbara. Noi non abbiamo fatto niente meno delgiusto e di quanto le leggi divine permettono di fare

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contra gli assassini”. E così andavano menandosela buo-na fra loro.

Si sarebbe almeno potuto credere che questo avveni-mento avrebbe bastato a renderli cauti d'allora in poi nelcercare le spiagge e nell'intricarsi con pagani e con bar-bari; ma egli è impossibile il far saggi gli uomini se nonè a loro costo, e pare che l'esperienza non frutti mai adessi, fuorchè in proporzione dell'averla pagata caro.

Eravamo allora destinati pel Golfo Persico e di lì allacosta di Coromandel; dovevamo toccare sol di sfuggitaSurate; ma il principal disegno dello scrivano era quellodi fermarsi alla baia del Bengala; ove, se gli falliva ilnegozio per cui era spedito, sarebbe passato alla China,donde poi tornerebbe alla costa venendo a casa.

La prima disgrazia che ne accadde fu nel Golfo Persi-co, ove cinque de' nostri, arrischiatosi ad andar su laspiaggia dal lato arabo del golfo, si trovarono d'improv-viso investiti dagli Arabi, e furono tutti uccisi o condottiin ischiavitù; il resto dei piloti che condussero la scia-luppa, non fu da tanto da liberarli, anzi fu fortunato sepotè raggiugnere di nuovo la barca.

Su di ciò mi diedi a porre innanzi agli occhi de' mieimarinai, come questa fosse una giusta retribuzione delcielo all'azione precedentemente commessa. Il guarda-stiva se la prese assai calda, e mi disse:

‒ “Voi largheggiate tanto nelle vostre censure, checredo non abbiate nemmeno un testo di Scrittura per ap-poggiarle”.

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Qui mi citò un passo dell'evangelista Luca, là ovequesti dice al capo XIII, versetto quarto, come il Salva-tore abbia dato a comprendere che gli uomini su cui ro-vinò addosso la torre di Siloè, non erano più colpevolidei Galilei. Poi il testo citato lo condusse a dirmi, e quida vero mi ridusse al silenzio:

‒ “Nessuno dei cinque uomini perduti ora nella costaaraba venne su la spiaggia ove accadde l'assassinio diMadagascar”, e calcò su la voce assassinio, perchè eraquesta la parola ch'io usava sempre in tal caso, e che glifacea perdere la pazienza.

Ma le mie frequenti prediche fatte loro su quest'argo-mento ebbero conseguenze peggiori di quanto io m'a-spettava; perchè un giorno, venuto a me il guardastivache era stato capo, come sapete, di quella scelleratissimaimpresa, con ciera brusca così mi parlò:

‒ “Mi pare che questo avvenimento di Madagascar lotiriate a mano troppo spesso. Le vostre riflessioni intor-no ad esso sono ingiuste affatto, ed hanno stancato tuttinoi e me in particolare. Voi in fine non siete nulla piùd'un passaggiere su questo bastimento, ne avete verunasorta di comando sovr'esso o d'interesse nel viaggio chefa, onde non siamo obbligati a tollerare i continui vostrisermoni. Sappiamo noi se non coviate in vostra testaqualche cattivo disegno? e quello fors'anche d'intentarneun processo, quando saremo tornati nell'Inghilterra? Sepertanto non vi risolvete a farla finita su questo punto, ea non vi prendere più uficiosi fastidii intorno a me o allecose che mi riguardano, mi licenzio dal bastimento; per-

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chè, vi parlo schietto, finchè rimanete in nostra compa-gnia, qui non ci fa buona aria per voi”.

Lo ascoltai con pazienza sintantochè avesse finito,poi gli risposi:

‒ “Non vi nego di essermi perseverantemente oppostoall'assassinio di Madagascar, chè lo chiamerò semprecosì, e di avere in tutte le occasioni detto liberamente ilmio sentimento intorno ad esso, benchè non alludessipiù a voi, che a tutti quanti ebbero parte in quella spedi-zione. Ch'io non abbia verun comando sul bastimento,ciò è vero; nè in fatti mi son mai arrogato l'esercizio diverun atto d'autorità. Solamente ho detto liberamente ilmio avviso su le cose che ne concerneano tutti in comu-ne. S'io abbia poi o no un interesse in questo viaggio,questa non è faccenda vostra. Posso per altro dirvi, chefra i proprietari del bastimento sono uno de' maggiori, eche in tal qualità ho diritto di parlare anche più di quan-to io l'abbia fatto sinora, nè mi crederei in obbligo direnderne conto a voi o a nessun altro”; e qui veramentecominciava a venirmi la mosca al naso. Mi fece alloraun breve risposta, e credei tutto finito.

Veleggiavamo in quel tempo alla costa del Bengala,ed io voglioso di vedere la città, entrai nella scialuppadel bastimento in compagnia dello scrivano. Allorchèverso sera io disponea le cose per tornare a bordo, vennea cercarmi uno degli uomini venuti nella scialuppa, ilquale mi tenne questo stravagante discorso:

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‒ “Se contate di tornare a bordo, vengo a risparmiarvil'incomodo della strada perchè la nostra gente ha ordinedi non ricevervi nella scialuppa.

Figuratevi se non rimasi stupefatto all'udirmi fare cosìtra capo e collo quel complimento asinesco! Chiesi dun-que a costui:

‒ “Chi v'ha ordinato di venirmi a dar questa nuova?‒ Il padrone della scialuppa, mi rispose costui.‒ Bene bene ( non cambiai con quel mariuolo altre

parole che queste); ditegli che m'avete recata la sua am-basciata, e che non v'ho risposto nulla”.

Mi capitò subito lo scrivano cui raccontai questa isto-ria , aggiugnendo:

‒ “Prevedo qualche diavoleria nel bastimento. Voglia-te, mio caro, prender subito un canotto indiano, recarvi-ci con ogni possibile speditezza a bordo e informar mionipote di questo affare”.

Avrei potuto risparmiare un tale messaggio, chè pri-ma ch'io parlassi allo scrivano da stare a terra, era giàsucceduto a bordo quel che doveva succedere; perchèdal primo momento ch'io fui entrato nella scialuppa pervenire alla spiaggia, il guardastiva, il carpentiere e tuttigli altri sottuficiali portatisi dal capitano non gli disseronient'altro che questo:

‒ “È ben fatto che il signor Robinson sia andato a ter-ra di sua buona volontà; così ci ha risparmiato il dispia-cere d'usargli una violenza, altrimente se non vi andavaegli per amore, lo avremmo obbligato ad andarvi perforza. Siamo dunque venuti per pregarvi ad osservare

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che ci siamo imbarcati per servire sotto di voi, e questoobbligo lo adempiremo volentieri e con fedeltà. Ma se ilsignor Robinson non fa la grazia di sgombrare dal basti-mento, e se voi, capitano, non lo costringete a far que-sto, sgombriamo dal bastimento noi, perchè assoluta-mente non vogliamo viaggiare in sua compagnia; e que-sto che dico io, lo dicono tutti”.

Nel profferire la parola tutti si voltò all'albero di mae-stra, segnale a quanto sembrò convenuto con gli altri,perchè questa parola tutti eccheggiò per le bocche del-l'intera schiamazzante ciurma, raccoltasi nello stessoluogo in un attimo.

Mio nipote, il capitano, era uomo dotato d'una grandeprontezza di mente e di spirito, onde, sebbene rimanessecertamente sorpreso all'udire propositi tanto insubordi-nati, capì che quello non era pur troppo il caso di pren-dere con calore le cose. Rispose loro pacatamente che ciavrebbe pensato sopra, ma che non potea pigliare veru-na risoluzione senza avere prima parlato con me. E quiintrodusse alcuni argomenti, affinchè capissero da sestessi più di quanto lo diceva egli, l'ingiustizia e l'irra-gionevolezza di un tale procedere. Ma non ci fu verso disvolgerli: tutti giuravano, tutti si davano la mano, in fac-cia di lui, giurando e tornando a giurare.

‒ “Andiamo tutti alla spiaggia, se il signor Robinsontorna a bordo una sola volta”.

La necessità di lasciarsi dar la legge dai subordinati èsempre una pillola dura ad inghiottirsi: tanto più era permio nipote, in quanto sapea quante obbligazioni m'aves-

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se; e non sapea, quel che era peggio, in qual modo l'a-vrei intesa. Tenne a costoro un secondo discorso in cuicampeggiavano la forza della ragione e la cortesia.

‒ “Ascoltatemi, figliuoli. Mio zio è uno de' principaliproprietari del bastimento. In buona giustizia io nonposso cacciarlo fuori di casa sua; sarebbe proprio un tirouguale a quello che fece quel sinistramente famoso pira-ta Kidd che, eccitata una sedizione nel vascello, ne sbar-cò il vero proprietario sopra una spiaggia deserta, poicontinuò in un legno non suo il viaggio senza di lui. Manon pensate voi che, qualunque fosse il vascello diversoda questo ove prendeste servigio, tornati in Inghilterra...nella vostra patria conterete pure di tornarci un dì o l'al-tro... colà quest'azione potrebbe costarvi caro? Quanto ame, il mio dovere è quello di lasciar piuttosto andar amale il vascello e il viaggio intrapreso, che dare al si-gnor Robinson un tanto disgusto. Quanto a voi, servitevipure come volete. Ciò non ostante anderò alla spiaggia eparlerò con mio zio. Signor guardastiva, venite anchevoi in mia compagnia. Chi sa? forse potrete intendervimeglio e accomodare le cose”.

Fiato perduto! Quel cialtroni rigettarono ogni propo-sta; non volevano aver che fare con me di nessuna sorta.Lui a bordo, noi alla spiaggia! era l'antifona che ripete-vano. Mio nipote dunque venne alla spiaggia per rag-guagliarmi di tutto pochi minuti dopo l'ambasciata spe-ditami dal padrone della scialuppa.

Non mi parve vero, lo confesso, di vederlo; perchèque' pronostici stessi per cui spedivo lo scrivano a bor-

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do, non mi lasciavano senza paura che que' mascalzonisi assicurassero della persona stessa del capitano, poidessero le vele, lasciandomi sprovveduto in questa re-motissima contrada e privo d'ogni mezzo per aiutarmi.Allora sì, sarei stato in più trista condizione che nol fuirimasto solo nella deserta mia isola. Ma per mia buonasorte non portarono le cose fin là. Poichè mio nipote miebbe raccontati uno per uno i discorsi fattigli da' sedi-ziosi, i giuramenti che tutti, tutti, dandosi scambievol-mente la mano , profferirono di non volermi più a bor-do, o di voler eglino stessi abbandonare il bastimento,gli dissi:

‒ “Non vi state ad affliggere punto di ciò. Io rimarròin questa spiaggia. Unicamente vi prego a mandarmi quii miei arredi, e provvedermi d'una sufficiente somma didanaro. Del resto penserò io a tornarmene solo in Inghil-terra alla meglio che potrò”.

Fu un'aspra ferita al cuore di mio nipote; ma non v'eraaltro rimedio, e con venne rassegnarsi. Tornò dunque abordo del bastimento, ove rese noto ai marinai che suozio avea ceduto alla loro importunità, e mandava a leva-re il suo bagaglio dal bastimento. La sedizione fa termi-nata in poche ore; coloro tornarono all'antica obbedien-za; io stetti qui meditando il partito a cui appigliarmi.

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XCV. Due viaggi e due ritorni; compera incauta d'un bastimento.

Io mi trovava or solo nella più remota parte del mon-do, chè ben potevo chiamarla così per esser io nient'altroche di circa tremila leghe di mare più lontano dall'In-ghilterra che nol fossi stando nella mia isola. Egli è veroche di qui avrei potuto, attraversando i paesi del GranMogol, trasferirmi per terra a Surate e di lì imbarcarmi,tornando sul golfo Persico per Bassora; poi prendendola via delle carovane per mezzo ai deserti dell'Arabiagiungere ad Aleppo e ad Alessandretta donde postominuovamente in mare, sarei approdato in Italia, nè vi sa-rebbe stata più difficoltà per trasportarmi in Francia, infine a casa: bagattella di viaggio che comprendeva unbuon diametro e più del globo.

Poteva anche prendere un altro temperamento: aspet-tare l'arrivo di qualche bastimento inglese che da Achinvenisse al Bengala per recarsi all'isola di Sumatra, e so-pra un d'essi imbarcarmi per l'Inghilterra. Ma essendo ioarrivato qui senza veruna relazione con la compagniadelle Indie Orientali, mi sarebbe stato difficile, non mu-nito di una licenza della compagnia stessa, l'aver postoin uno di tali vascelli, o ci sarebbe almeno voluto unospeciale favore o de' loro capitani o dei fattori degli sta-bilimenti, e a ciascuno di questi signori io era personaestrania del tutto.

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Da star qui ebbi il cruccio di vedere spiegar le vele almio bastimento senza di me; sorta di amarezza che po-chi uomini della mia sfera, cred'io, avranno provatagiammai; se non fu qualche passeggiero imbarcatosi in-cautamente in un legno di pirati e piantato sopra unaspiaggia per non essersi saputo adattare alle maniere vil-lane de' suoi mascalzoni compagni. E, per dir vero, untal caso era il cugino germano del mio, tranne la soladifferenza che mio nipote mi lasciò due servi, o piutto-sto un compagno ed un servo; il primo uno scritturaledel dispensiere del bastimento ch'egli indusse a rimane-re in mia compagnia, l'altro un servitore suo proprio.

Con questi, io mi presi un buon alloggio in casa d'unaInglese che avea per ospiti diversi negozianti, alcunifrancesi, due italiani, credo ebrei, ed uno mio compa-triotto: nè posso dire che me la passassi male. Affinchèpoi non mi tacciate di essere stato precipitoso nelle mierisoluzioni, vi racconterò che stetti ivi nove mesi semprepensando al partito che adotterei. Io aveva con me merciinglesi d'un considerabil valore, ed una somma rispetta-bile di danaro; perchè mio nipote (ed ecco l'importantedifferenza tra il caso mio e quello di un povero galan-tuomo abbandonato da corsari sopra una costa) mi som-ministrò mille quadruple, oltre ad una vistosa credenzia-le pei casi che mi potessero intravvenire, e affinchè nonmi trovassi mai a nessuna sorta di strettezze.

Feci subito un traffico vantaggioso di questi miei ca-pitali e, com'io me lo era prefisso sin da principio, liconvertii in bellissimi diamanti, che erano il genere di

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ricchezza più accomodato alle mie circostanze, perchèpotevo sempre portarmi i miei averi con me.

Dopo tal lunga dimora e dopo molte proposte fattemipel mio ritorno in Inghilterra, nessuna delle quali per al-tro mi andava a versi, venne una mattina trovarmi il ne-goziante inglese mio compagno d'ospizio col quale ioavea stretto più intima conoscenza.

‒ “Compatriota, ho da comunicarvi un disegno checome quadra a me, dee, se non m'inganno, quadrare an-che a voi, quando lo avrete ponderato ben bene. Noi sia-mo situati qui, voi per accidente, io per mia scelta, inuna parte di mondo sterminatamente lontana dalla no-stra patria comune; è per altro questo un paese ove, perchi s'intenda, come voi ed io di commercio e d'affari sipossono far danari a bizzeffe. Se volete sposare un mi-gliaio delle vostre lire sterline con un migliaio delle mie,noi noleggiamo benissimo un vascello mercantile: il pri-mo che ci vada a genio; voi ne sarete capitano, io l'am-ministratore del traffico, e imprenderemo un viaggio dicommercio alla China. In fatti che cosa stiamo a far qui?Tutto l'universo è in moto; tutte le cose girano in tondo.Ogni creazione di Dio, corpi celesti e terrestri, tutto gira,tutto è operoso. Resteremo noi soli con le mani alla cin-tola. Non v'è nell'universo d'altri infingardi che gli uo-mini. Vogliamo noi pure essere in quel novero?”

M'aggredì questa proposta tanto più pel buon volereda cui la vedevo animata, e per lo stile ingenuo ed ami-chevole onde mi venne fatta. Non vi dirò mica che lecircostanze di quella mia esistenza, libera e sconnessa

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da ogn'altra relazione sociale, mi rendesse più ad atto altraffico che a qualunque altra sorta di professione, per-chè il commercio era cosa posta fuori del mio elemento;ma non era altrettanto cosa fuori del mio elemento l'an-dare attorno; onde qualunque proposta intesa a farmi ve-dere qualche parte di mondo che non avessi vedutagiammai, non me la lasciavo certo sfuggire.

Corse nondimeno qualche tempo prima di trovare unbastimento che facesse al nostro caso, e quando ancoralo avemmo fermato, non era sì facile il trovare marinaiinglesi, almeno quanti faceano di mestieri per regolare ilviaggio e comandare ai piloti che li avremmo potutomettere insieme. Pure alla lunga arrivammo ad assicu-rarci un luogotenente, un guardastiva, un cannoniere,tutti tre inglesi; un carpentiere e tre gabbieri di trinchet-to olandesi. Così potemmo far sufficientemente l'affarnostro, ancorchè fossero indiani gli altri piloti di cui do-vemmo contentarci.

Sono tanti i viaggiatori da cui fu scritta la storia delleloro corse, che da vero sarebbe assai poco vezzo l'udireda me un lungo racconto su i paesi ove andammo e su iloro abitanti. Lascio ch'altri si piglino questa briga, e semai i miei leggitori fossero bramosi di tali nozioni, li ri-metto a que' giornali di viaggiatori inglesi, molti de'quali vedo già pubblicati e di cui vengono promessenuove pubblicazioni ogni giorno. Basta per me il dirviche in questa traversata ci fermammo ad Achin, poi nel-l'isola di Sumatra; che di là ci siamo trasportati a Siam,ove cambiammo alcune delle nostre mercanzie con op-

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pio ed arrack, la prima delle quali cose era grandementeapprezzata dai Chinesi che in quel tempo ne difettavano.In fine ci portammo a Suskan; onde, come vedete, fa-cemmo un bel viaggio in cui impiegammo più di ottomesi in capo de' quali rivedemmo il Bengala, ove mitrovai soddisfattissimo della mia corsa.

Mi accadde notare che i nostri Inglesi i maraviglianoperchè gli impiegati che la compagnia spedisce nelle In-die, e i mercanti che negoziano in questi paesi fanno sìimmensa fortuna e tornano talvolta a casa con con ses-santa o settanta mila sterlini guadagnati in un solo viag-gio. Cesserà la sorpresa, o piuttosto si vedrà che non ven'è alcun motivo, quando si pensi agl'innumerabili portie piazze di libero commercio che sono colà, e tanto piùse si rifletta che in que' porti e piazze cui approdano va-scelli inglesi, son tante le domande delle produzioni de-gli altri paesi che non possono mai mancare occasioni dicontrattarle con altre mercanzie o di venderle a danarocontante.

In sostanza il nostro viaggio non poteva essere statomigliore, ed io aveva guadagnato e molto danaro e taleperspicacia sul modo di guadagnarne di più che, seavessi avuto venti anni di meno, mi sarebbe venuta latentazione di rimanere in quella contrada, nè mi biso-gnava altro per fare la mia fortuna. Ma qual seduzionepoteva mai essere questa per me che non aspettavo più isessant'anni, che ero ricco abbastanza, e andavo girandoattorno ben più per appagare la mia irrequieta brama digirare il mondo che spinto dalla voglia di tesoreggiare?

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L'ho chiamata irrequieta brama ed è proprio il giustoepiteto che le compete. Se ero a casa mi sentivo ansiosodi andare per il mondo, se per il mondo di tornare acasa. Che cosa era per me, come ho detto, il guadagno?Avevo più del mio bisogno; a che affannarmi per farenuovo danaro? Per ciò il guadagno ottenuto non mi di-veniva un gran fomite ad imprendere nuove speculazio-ni. In fatti io non m'accorgea che questo viaggio miavesse fruttato niuna sorta di progresso, perchè essendotornato nello stesso luogo donde partii, mi pareva lostesso che essere tornato a casa. Il mio occhio, che poteaparagonarsi a quello di cui parla Salomone, non era maisazio di aver veduto; era sempre più sitibondo di tra-scorrere più vasto orizzonte e di trovar cose nuove. Iomi trovava in una parte di globo che non avevo vedutagiammai, e in quella parte singolarmente di cui mi erastato parlato di più; ero deciso di terminar di vedere tut-to quanto vi fosse mai da vedere, e di poter dire un gior-no d'aver visitato tutto quel mondo che meritava di esse-re contemplato.

Ma il mio compagno viaggiatore ed io portavamo suciò opinioni diverse; non dico ciò per lodare la mia, chèla sua in realtà era più giusta e certamente più conface-vole al fine della vita di un trafficante, il quale quando siavventura in un viaggio si prefigge un unico scopo: farpiù danaro che può. Questo novello amico si tenea stret-tamente alla sostanza della cosa; onde sarebbe stato con-tento di far la vita d'un cavallo da vettura: innanzi, ad-dietro ma fermarsi sempre agli stessi stallatici, purchè ci

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avesse trovato, com'egli lo chiamava, il suo conto. Io alcontrario la pensava più da spensierato ragazzaccio chenon vorrebbe mai vedere la stessa cosa due volte.

Nè ciò soltanto: mi sentivo una singolar ansietà d'av-vicinarmi a casa mia, e nondimeno fantasticavo le vie lepiù inacconcie, le più stravaganti per ritornarvi. Mentreio stava consigliandomi su ciò con la mia testa venne atrovarmi il mio amico che pescava sempre nuovi negozi,e mi propose un viaggio alle Molucche per riportare acasa un carico di garofano da provedersi a Manilla o inque' dintorni; piazze veramente ove trafficavano gliOlandesi, ma isole in gran parte appartenenti agli Spa-gnuoli. Noi ciò non ostante non andammo s'in là e ci li-mitammo ad alcune altre ov'essi non aveano che farecome Batavia, Ceylan e simili.

Non ci volle molto per disporci a tale viaggio; il mag-gior tempo perduto dal mio compagno fu nell'indurmiad accompagnarlo in una traversata che non mi pareagrande abbastanza. Ma in fin del conto non se ne pre-sentando allora d'altre alla mia mente, e trovando che ilmoversi in qualche modo (tanto più che si trattava d'untraffico d'un utile grande, e potea dirsi sicuro) era assaimeglio del restar fermi, per me principalmente cui taleimmobilità appariva la condizione più misera della vita,consentii ad unirmi con l'amico. Postici dunque imman-tinente in viaggio, fummo a Borneo e ad altre isole dicui non so ricordarmi i nomi. Entro cinque mesi all'in-circa eravamo già a casa, ove vendemmo le nostre dro-ghe, consistenti soprattutto in garofano ed in alcuni noci

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moscate ai trafficanti persiani che se le portarono conloro nel golfo. Ci guadagnammo il cinque per uno; vi la-scio dire se incassammo danari. Il qual conto mentre sifacea tra l'amico e me, questi mi si voltò con un sorrisod'amichevole ironia che alludeva all'indolente mio tem-peramento.

‒ “Ah! non va ben così? non è mo meglio far di que-sti viaggi, che star qui a passeggiare come uomini sfac-cendati e perdere il tempo a contemplare la stupidezza el'ignoranza di questi pagani?

‒ Dite la verità, amico mio, gli risposi; anzi comincioa convertirmi ai principii del trafficante. Ma, aggiunsi,ho l'onore di dirvi che non sapete fin dove io possa an-dare col mio zelo di convertito. Se arrivo una volta avincere la mia svogliatezza per gli affari e ad imbarcar-mi di buon cuore quale trafficante, vecchio qual mi ve-dete, vi tiro qua, là, per tutte le parti del mondo sino alsegno di straccarvi; perchè se giungo a mettermici den-tro con calore non vi lascio più quieto”.

Ma per non essere prolisso su questa nuova mia voca-zione, vi dirò come poco dopo arrivasse al Bengala unbastimento olandese proveniente da Batavia, non di fog-gia europea, ma di quelli quivi detti costeggiatori, cheportava circa duecento tonnellate. I marinai, così costo-ro davano a credere, avano sofferte tante malattie che ilcapitano si trovò sproveduto di braccia per commettersinuovamente al mare, e poichè avea, così appariva, fattodanari abbastanza, o per altre sue ragioni, volea tornarein Europa, fece divulgare la sua intenzione di vendere il

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bastimento. Venutomi ciò all'orecchio prima che il mionuovo socio ne fosse informato, venni a trovarlo dicen-dogli la cosa e manifestando l'idea che avrei avuta dicomprare quel bastimento.

‒ “È veramente un po' troppo grosso, mi rispose.Nondimeno compriamolo”.

Di fatto lo comprammo, e, intesici col capitano, nesborsammo il prezzo e ne prendemmo possesso. Ciò fat-to, venimmo in determinazione di tenere con noi gli uo-mini del bastimento stesso aggiugnendoli a quelli chegià avevamo. Ma in un subito, e appena ebbero ricevuto,non già i loro salari; ma la propria parte del danaro danoi sborsato pel bastimento (questo lo sapemmo più tar-di) non si lasciarono più trovare. Dopo averli cercati unbel pezzo, ci fu detto finalmente che tutti insieme eranopartiti per terra alla volta di Agra, città capitale del GranMogol donde divisavano trasferirsi a Surate e di lì im-barcarsi sul golfo Persico.

Lo credereste? mi auguravo d'essere andato con loro,e nulla da lungo tempo m'aveva inquietato tanto quantol'aver perduta l'occasione di eseguire un viaggio ch'io mifigurava, fatto in tal compagnia, e sicuro e dilettevolissi-mo per me, tanto più che s'accordava col mio predilettodisegno di vedere paesi sempre più nuovi e portarmi dipiù verso casa. Ma pochi dì appresso, ebbi altrettantomotivo di consolarmi quando venni a sapere che schiu-ma di furfante mi fossi augurato in mia compagnia. Lastoria di costoro era questa. Colui che chiamavano capi-tano, non lo era in sostanza, ma unicamente il cannonie-

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re del bastimento. In un viaggio di traffico vennero assa-liti da taluni Malesi che uccisero il capitano e tre de'suoi ufiziali. Undici sopravvissuti presero la risoluzionedi fuggir via col bastimento stesso e venirlo a vendere alBengala dopo aver lasciati a tradimento su la spiaggiacinque ufiziali; così fecero.

Ma in fine, qualunque fosse il modo onde coloro sierano fatti padroni del bastimento, noi lo acquistammoonestamente, così almeno ne parve; benchè pensandocimeglio, io debba confessare che non guardammo entroalle cose con tutta la dovuta esattezza, perchè non civenne mai in mente di esaminare i marinai che probabil-mente si sarebbero imbrogliati nelle loro risposte e con-traddetti gli uni con gli altri, onde il mio compagno o ioavremmo avuto qualche motivo di sospettarli. In sommacredemmo ciecamente al mostratoci contratto preceden-te d'acquisto fattone da un Emmanuele Clostershoven, oaltro nome, che non mi ricordo (già suppongo finto an-che questo), e che era il nome con cui facea chiamarsi ilvenditore del bastimento. Noi non potevamo dargli unamentita, e, non sospettando mai la sostanza di questoimbroglio, concludemmo il contratto.

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XCVI. Due altri viaggi, il secondo de' quali alla China. Conseguenza della compera incauta del bastimento dopo sei anni.

Raccolti dopo di ciò alcuni altri piloti inglesi e olan-desi, ci determinammo ad un secondo viaggio verso ilsud-est (scirocco) vale a dire tra l'isole Filippine e leMolucche per comprare garofano e altre droghe. Solle-cito di non ingrossare col racconto di bagattelle questaparte della mia storia a scapito delle cose più interessan-ti che vengono dopo, m'affretto a dire che trascorsi seianni in questa contrada, tutti impiegati dal primo all'ulti-mo andando innanzi, indietro, di porto in porto, semprecon ottima fortuna, ed era ora il sesto quando divisam-mo, il mio socio ed io, d'imprendere sul bastimentodianzi commemorato un viaggio alla China, ma prima aSiam per fare una compra di riso.

Durante questo viaggio fummo costretti lungo tempodai venti contrari a bordeggiare le isole dello stretto diMalacca; poi appena ci vedemmo fuori da quel difficiletratto di mare, ci accorgemmo che il nostro legno aveasofferta una falla o via d'acqua, ma per quanto ci stu-diassimo non fummo capaci di trovare ove fosse ondeturarla. Obbligati da ciò a cercare un qualche porto, ilmio socio, pratico di que' paesi assai più di me, diressealla volta del gran fiume Camboia il capitano del basti-mento; perchè avete a sapere ch'io nominai a questa ca-

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rica l'inglese luogotenente Jompson, non avendo volutoprendermi su le mie spalle una tale malleveria.

Quel fiume giace al lato settentrionale del grande gol-fo o baia che conduce a Siam. Mentre indugiavamo qui-vi, e scendevamo spesso alla spiaggia per provederci dinuovi viveri, in una di tali fermate venne a trovarmi unInglese, cannoniere, giusta quanto appariva, a bordo diuna nave mercantile della Compagnia dell'Indie Orienta-li, postasi all'áncora in quelle acque medesime o sotto oin vicinanza della stessa città di Camboia; e così mi par-lò nella nativa mia lingua:

‒ “Signore, voi siete estranio per me, come io lo sonoper voi; ma ho tal cosa a comunicarvi che vi riguardaben da vicino”.

Stetti a guardarlo un pezzetto perchè mi parea d'averveduto altra volta quella figura, ma m'ingannai. Final-mente gli risposi:

‒ “Se la cosa riguarda propriamente me e non voi,qual ragione vi spinge a venirmela a dire?

‒ Il vedervi in un imminente pericolo che da quantoposso arguire non conoscete voi stesso.

‒ Non so di esser minacciato da altri pericoli, io sog-giunsi, fuor quello di una falla fattasi nel mio bastimen-to senza che finora possiamo scoprire ove sia.

‒ O falla o non falla, o scoprirla o non discoprirla,spero bene che avrete il giudizio di non lasciarvi trovareall'áncora presso questa spiaggia, appena v'avrò dettoquello che ho intenzione di dirvi. Non sapete voi, signormio, che la città di Camboia non è distante più di quin-

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dici leghe dal fiume del suo nome ove siamo? Sapetevoi in oltre che cinque leghe lontano da qui sono all'án-cora due grosse navi mercantili inglesi e tre olandesi?

‒ Ebbene; che fa questo per me?‒ Da vero non capisco, signore, come un uomo che ha

tali matasse da distrigare quali le avete voi, venga in unporto senza prima informarsi qual sorta di legni vi stia-no all'áncora, e pensare se sia in caso di cimentarsi conessi. Perchè suppongo non v'immaginiate certo in forzecapaci di resistere alle navi che vi ho nominate”.

Vi confesso che mi divertiva assai questo discorsolungi dal metterrni nessuna sorta di paura, perchè noncapivo nemmeno che razza d'immaginazioni si fosse fic-cate nella testa chi lo tenea. Me gli voltai corto con que-ste parole:

‒ “Caro il mio galantuomo, se non fate grazia di spie-garvi più chiaramente, io non so da vero che pericolim'abbia a temere da vascelli inglesi o olandesi. Nonsono un contrabbandiere io. Dunque che cosa hanno afarmi?”

Mi guardò con occhio mezzo corrucciato e mezzo fe-stevole; poi conchiuse sorridendo:

‒ “Ebbene, signore, se vi tenete in tutta questa sicu-rezza, siete padrone di provare. Mi spiace che il vostrodestino sia d'accecarvi al segno di non accettare un pare-re da amico. Per altro assicuratevi che, se non vi ponetein mare speditamente, vi vedrete con la prossima mareaassalito da cinque scialuppe, piene d'uomini ben armati,e se vi agguantano, rischiate forse d'essere impiccato

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come pirata, e se lo meritaste sì o no lo esaminerannodopo. Avrei sperato, signore, di vedermi ricevuto meglioquando vi presto un servigio di tanta importanza.

‒ Non si dirà mai ch'io mi mostri ingrato a nessunasorta di servizio, nè verso chi cerca d'usarmi cortesia.Ma il mio intelletto non arriva a capire che gl'individuidi cui parlate, possano avere intenzione di trattarmi inquesta maniera. Pure, poichè m'accertate che non hotempo da perdere e che vi è in aria qualche odioso dise-gno contro di me, corro subito a bordo e salpo o chiusao non chiusa la falla, semprechè per altro nel secondocaso possiamo tenerci in mare. Ma voi mi lascerete par-tire affatto all'oscuro sul motivo di questa faccenda?Non mi darete almeno qualche schiarimento maggiore?

‒ “Io non posso dirvi altro che una parte di tale storia;nondimeno ho qui con me un piloto olandese, che indur-rei, me ne persuado, a dirvi il restante, se non ci fosse sìpoco tempo ad indugi. Ma il compendio di quel che pos-so dirvi io, benchè suppongo che ne siate voi medesimoabbastanza informato, sta qui: Voi foste col bastimentosu cui vi trovate ora a Sumatra; il capitano bastimentostesso e tre de' suoi vennero trucidati dai Malesi; voi, oqualcuno di quelli che erano a bordo in vostra compa-gnia fuggirono, e voi altri fuggiste col legno non vostroe vi buttaste a fare i corsari. Quest'è in succinto la storia,e come corsari, se non vi date attorno, sarete presi tutti,ve ne accerto, e giustiziati senza metterei su né olio nésale, perchè l'uso dei legni mercantili, lo sapete, è quello

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di non far lunghi processi ai pirati se giungono ad averlinelle mani.

‒ Adesso parlate un volgare schietto, gli dissi, e ve nesono obbligato; e benchè io non sappia d'aver fatta alcu-na delle cose che mi attribuite, e benchè questo basti-mento mi sia venuto di buon acquisto, pure vedendo chemi si prepara un tal complimento, come me ne accertatevoi, le cui intenzioni sembranmi oneste, mi terrò all'erta.

‒ Per amor di Dio, signore non parlate di tenervi al-l'erta; la più bella cautela sta nel mettersi fuor di perico-lo. Se vi preme la vostra vita e quella di tutti i vostri uo-mini, salpate subito all'alzarsi della marea; e poichèavrete avuto tutto il tempo d'una marea a vostro vantag-gio, voi sarete già in alto mare con un vantaggio di duebuone ore su le scialuppe che dovranno aspettare un'al-tra marea per mettersi in moto senza contare che avreb-bero a far venti miglia per raggiungervi, e allora sarestegià in alto mare, nè ardirebbero darvi la caccia per esse-re appunto scialuppe e non grossi bastimenti, massimesoffiando, come fa oggi, un vento gagliardo.

‒ Da vero m'avete data una grande prova di buoncuore. Che posso io fare per compensarvene?

‒ Signore, voi non potete avere tutta questa voglia dicompensarmi, perchè non avete un pieno convincimentodella veracità del mio avviso. Per altro vi farò una pro-posta. Io avanzo diciannove mesi di paga dal capitanodel bastimento su cui entrai di servizio nel venir via dal-l'Inghilterra; l'Olandese che è meco ne avanza sette. Sevi sentite di abbonarceli noi vi seguiamo nel vostro

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viaggio. Ove altro non vi succeda, noi non domandiamodi più. Se poi arrivate a convincervi d'andar debitore anoi della vostra vita e della salvezza del bastimento e ditutta la vostra gente, ci rimettiamo alla vostra discrezio-ne”.

Acconsentii subito, e mi recai a bordo con questi duenuovi marinai.

XCVII. Vittoria riportata su le cinque scialuppe, arrivo alla baia di Tonchino.

Io m'apparecchiava a salire sul bastimento, che già ilmio socio mi gridava tutto festoso dal cassero:

‒ “Oh! Oh! l'abbiamo turata, l'abbiamo turata la falla!‒ L'avete turata? gli dissi appena gli fui da presso.

Ringraziato Dio! ma fate subito levar l'áncora.‒ Levar l'áncora! Che cosa vi salta in mente? Che ne-

gozio è questo?‒ A parte per ora le interrogazioni. Mettete tutte le no-

stre braccia all'opera e leviamo l'áncora: non c'è un mi-nuto da perdere”.

Immaginatevi se non rimase stupito. Ciò nondimeno,comunicai questa mia improvvisa risoluzione al capita-no che fece subito levar l'áncora, onde benchè la mareanon fosse anche salita abbastanza, ne aiutò una buonabrezza di terra, e spiegammo le vele. Allora, tratto conme il mio socio nella nostra stanza delle deliberazioni,gli contai la faccenda, di cui gli dissero il rimanente i

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due nuovi marinai che feci essere lì presenti ancor essi.Il racconto di questi impiegò tanto tempo che quandoera finito entrò un piloto tutto scalmanato gridando:

‒ “Ci danno la caccia!‒ La caccia a noi! esclamai, Chi?‒ Cinque scialuppe cariche d'uomini.‒ Pare che nel racconto di costoro ci sia qualche cosa

di vero, dissi fra me”.Chiamatimi poscia intorno a me tutti i miei marinai,

notificai loro quali disegni fossero stati formati a dannodel nostro bastimento, e come si volesse prenderei su amodo d'altrettanti scorridori; poi chiesi loro se eranopronti a difendere noi e sè stessi. Tutti furono ad una nelrispondere col migliore animo del mondo che volevanovivere e morire con noi. Interrogai in appresso il capita-no su la miglior maniera di condursi nel venire a batta-glia con queste scialuppe, chè già ero risoluto di difen-dermi ad ultimo sangue. Mi consigliò per prima cosa te-nerle lontane da noi finchè si fosse potuto con buonefiancate di mitraglia, salutarle incessantemente coi no-stri moschetti se si accostavano al segno di bordeggiareil bastimento, e ridotti anche al caso di non poterlo al-lontanare di più, trincerarci al di là delle nostre paratie;perchè probabilmente chi ne inseguiva non avea portatientro le scialuppe gli stromenti adatti ad atterrar le trin-cee.

Intanto fu ordinato al cannoniere di allestire due pezzidi cannone da trasportare secondo il caso qua e là nell'e-sterno delle trincee stesse per la difesa de' ponti carican-

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doli di palle da moschetto, di mitraglia e di quanti fran-tumi di ferro gli capitassero alla mano. Così ben appa-recchiati a riceverli, prendevamo sempre più il largo conun vento abbastanza propizio, ma vedevamo ad un tem-po in distanza le scialuppe, che erano ampie assai, cor-rere su la nostra dirittura a tutta forza di vele.

Due di quelle barche (co' nostri cannocchiali le ave-vamo ravvisate per inglesi), preso il vento su l'altre tantoche una distanza di due leghe le separava da esse, veni-vano di gran corsa verso di noi con tutta la buona volon-tà, a quanto parea, di assalirci. Sparammo un cannonecarico di sola polvere per intimare loro il fermarsi e fa-cemmo sventolare ad un tempo la bandiera parlamenta-ria; ma quelle non si prendendo nessun fastidio di ciò,proseguivano il proprio loro cammino dello stesso teno-re, onde quando ci furono a tiro, ritirammo la bandierabianca sostituendole la rossa, poi le salutammo con unafiancata di mitraglia. Ciò non ostante ci vennero sì dapresso che potevamo far udir loro le nostre parole colmezzo di una tromba marina, cui ricorremmo di fattoper avvertirli che, se non tornavano addietro, ci avrebbe-ro avuto poco gusto.

Era tutt'uno. Ci si accostarono sempre di più metten-do ogni loro studio per arrivarci sotto poppa e tentar l'ar-rembaggio su l'anca. Veduto allora come la durasseronella risoluzione di farci del male, fidati sempre nellaforza delle scialuppe che le seguivano, feci mettere inpanna il bastimento in modo che vennero appunto ad in-contrare la fiancata di cinque de' nostri cannoni, un de'

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quali portò via la poppa della barca più addietro, di cuila ciurma fu necessitata calar le vele e correr tutta su laprora per impedire al legno di andare a fondo. Ma ve-dendo intanto che la barca più avanti seguitava a correr-ci in verso, ci allestimmo a fare fuoco contra lei sola.

Mentre questi fatti accadeano, una delle tre barche ri-maste addietro, più avanzata nondimeno dell'altre due,si affrettò in soccorso della consorella disalberata, e ve-demmo quando ne riceveva la ciurma che non potea piùstarci entro. Prima di far fuoco su la prima barca checontinuava sempre, come dissi, a correrci in verso, lachiamammo una altra volta a parlamento, offrendole tre-gua; tanto che si schiarissero i motivi per cui l'avevacontro di noi. Ma non diede veruna risposta, e l'aveva-mo omai sotto poppa. Allora il nostro cannoniere, che lasapea veramente lunga nel suo mestiere, trasse innanzi isuoi due cannoni da caccia e la salutò con la mitraglia;ma fallitogli il colpo, la ciurma si diede a gridare e adagitar le berrette in aria di trionfo, e la barca avanti! Nonsi perdè d'animo il cannoniere e presto a caricar di nuo-vo i suoi due cannoni, le mandò un secondo saluto che,per dir vero, lasciò intatta la barca, ma dalle lamentosegrida degli uomini della ciurma potemmo facilmente ac-corgerci che non era stata inefficace per essi. Noi, senzabadare a ciò, voltammo il fianco del bastimento allascialuppa, e scaricatile addosso tre altri cannoni la ve-demmo andar quasi affatto in pezzi: soprattutto il timo-ne ed una parte di poppa erano saltati in aria; laonde ca-

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lata tosto la vela, anche quella ciurma si trovò a cattivis-simo partito.

Per dare il resto del loro avere a quegli sgraziati, ac-cadde che il cannoniere sparasse di nuovo i suoi duecannoni sovr'essi. In qual parte della scialuppa avessecolpito, non avremmo saputo dirlo, ma la vedemmo af-fondarsi e alcuni de' suoi uomini cercare di salvarsi nuo-tando. Fatto subitamente lanciare in acqua il nostroscappavia, che ci tenevamo sempre lì pronto, ordinai adalcuni de' nostri di andare a raccogliere entro esso quan-ti poteano di que' miseri caduti in acqua, per salvarlidall'annegarsi; poi di tornare con questi prigionieri abordo del bastimento, ma di far presto perchè vedevamoil resto delle scialuppe che cominciavano anch'esse a ve-nire avanti. I nostri che entrati nello scappavia, esegui-rono appuntino un tale ordine, raccolsero tre nemici,anzi un d'essi nel punto che stava per annegarsi, onde civolle un bel pezzo prima d'averlo fatto rinvenire. Appe-na furono tornati a bordo, demmo con ogni massimaspeditezza le vele, ed eravamo già in alto mare quandoci accorgemmo che le tre altre scialuppe venute in soc-corso della prima aveano stimato bene desistere dal dar-ne la caccia.

Liberato così da un pericolo che, se bene non arrivas-si ancora a capirne il vero motivo pur sembrava più gra-ve assai di quanto me lo fossi immaginato, risolvei can-giar direzione al nostro viaggio, in guisa che nessunopotesse scorgere ove divisassimo portarci. Ci tenemmopertanto alla parte più orientale di mare, posta affatto

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fuor della via ordinaria de' bastimenti europei o destinatiper la China o per qualunque altra contrada compresanella scala del commercio d'Europa.

In questo mezzo, ci facemmo ad interrogare i duemarinari, affinchè ci spiegassero una volta come stessela faccenda di questa persecuzione, e finalmente il mari-naio olandese ci svelò tutto il segreto col dirne primiera-mente, e questo già lo sapevamo, che il furfante da cuiavevamo comprato il bastimento, era nient'altro che unladro fuggito via con esso. Ci disse il nome (ora non melo ricordo) del capitano, che ne era il vero padrone, uc-ciso a tradimento non meno di tre de' suoi dai nativi del-la costa di Malacca. L'Olandese che mi raccontava que-ste particolarità era stato insieme con altri quattro ab-bandonato dai ladri del bastimento su la spiaggia di Ma-lacca, ove vagarono disperatamente pei boschi per qual-che tempo. Egli singolarmente, l'Olandese, si salvòcome per miracolo, perchè vedendo una scialuppa man-data alla spiaggia stessa per provedere acqua dolce daun vascello olandese destinato per la China, non ardìcerto uscir delle selve onde accostarsele, per timore diessere veduto dai Malesi essendo di giorno; ma aspettatala notte, raggiunse a nuoto la scialuppa stessa che erapartita poco prima, e ne fu ricevuto. Così scampato, sirecò in appresso a Batavia ove capitarono due compagnidel ladro venditore del bastimento, disertati da lui inquel suo viaggio ad Agra che per un momento invidiai.Costoro sparsero attorno che il bastimento era stato ven-duto al Bengala, e fin qui dissero la verità, ma fecero

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poi questa bella frangia al loro racconto: che era cioèstato venduto ad una masnada di pirati, i quali andavanocorseggiando i mari sovr'essi e a quell'ora avevano giàpredati un legno inglese e due olandesi carichi di tesori.

Vedete che bagattella d'impostura! Ma ancorchè fossetale, come rifletteva ottimamente il mio socio, se fossi-mo caduti nelle mani di trafficanti inglesi o olandesi chene tenevano in sì buon concetto, avremmo avuto un bel

volerci difendere con gente risoluta a non darci quar-tiere. Considerando principalmente che i nostri accusa-tori sarebbero stati i nostri giudici, non ci era speranzaper noi. Non potevamo aspettarci miglior trattamento diuna sentenza che l'ira avrebbe dettato, il più indomitorancore eseguita. Il mio socio pertanto era d'avviso chetornassimo a dirittura senza toccar porti di sorta alcunaal Bengala donde eravamo partiti. Colà avremmo potutodare buon conto delle nostre persone, colà provare doveeravamo quando il bastimento approdò in quel porto, dachi e come lo comprammo, e simili cose; e, ciò che piùsi dovea valutare, se ci fossimo veduti alla necessità diportare la causa dinanzi al tribunale, questo sarebbe sta-to composto di nostri legali giudici, che era una sicurez-za per noi di non essere impiccati prima e giudicatidopo.

Per qualche tempo fui d'uno stesso parere col mio so-cio; ma dopo averci pensato un po' più seriamente glidissi:

‒ “Amico caro, non è cosa sana per noi il tornare inquesta maniera al Bengala, tanto più che siamo al di qua

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dello stretto di Malacca. Se si danno la voce gli uni congli altri, e vedete che se la danno siam certi che gliOlandesi a Batavia e gl'Inglesi da per tutto ci faranno laposta. Se ci pigliassero nell'atto di una corsa che avreb-be apparenza di fuga, ci saremmo condannati da noi me-desimi, nè ci vorrebbe migliore prova perchè fossimospediti senz'altra formalità”.

Consultai anche il marinaio inglese che la pensavanello stesso modo. L'idea d'un tale pericolo mise in nonpoco disturbo il mio socio e il rimanente della compa-gnia. In fine, risolvemmo di procedere verso la costa diTonchino e di lì alla China seguendo sempre il nostroprimo disegno, le speculazioni di traffico, e intanto tro-vare una via o l'altra di disfarci di questo malaugurosobastimento, poi tornare addietro con qualche legno diuna di quelle contrade, il primo che ne capitasse. Fuquesto ravvisato di comune accordo il migliore espe-diente per la nostra sicurezza. Veleggiammo pertantoalla volta del nord-nord-est (greco tramontana) tenendo-ci per altro un po' più a levante e fuor della via solita delcommercio.

Nè il tener questa strada andò disgiunto da inconve-nienti per noi, perchè in tale distanza dalla spiaggia sof-fiavano più gagliardamente a nostro danno i monsoniche venivano da levante e da est-nord-est (greco levan-te), onde indugiammo assai di più il nostro viaggio, ol-trechè eravamo assai mal proveduti di viveri per unacorsa sì lunga. Il peggio poi si era la paura che i vascelliinglesi e olandesi, le cui scialuppe ci avevano inseguiti e

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alcuni de' quali erano destinati pei luoghi ai quali ci av-viavamo, vi arrivassero prima di noi, o anche senza diciò, che qualche altro vascello di lor nazione diretto allaChina, informato precedentemente da essi del delittoond'eravamo a torto imputati, venisse a darne vigorosa-mente la caccia.

Devo confessare che lo sconvolgimento della miamente fu estremo, e che pensando al pericolo corso nelsalvarci dalle scialuppe dei nostri ultimi persecutori, hoveduta la mia condizione più orrida di tutte quelle in cuimi sono trovato nel tempo della mia vita passata; per-chè, per gravi cose che mi fossero succedute, non mi eraoccorso giammai di essere inseguito siccome un ladro.In fatti non mi sono mai permesse azioni da meritarmi ititoli d'uom mal onesto o ingannatore, molto meno que-st'ultimo di ladro. Solamente sono stato nemico di memedesimo, o, per parlare adeguatamente, non lo sonostato di altri che di me medesimo. Ebbi dunque ragionese mi credei ridotto al più tristo dei casi immaginabili;perchè, se bene innocentissimo, io non trovava una viaper far comparire la mia innocenza, e chi mi dava lacaccia s'intendeva darla ad un delinquente della più de-testabile razza.

Intanto ogni mia sollecitudine non poteva essere altrache di fuggire, benchè non sapessi da quale banda, o inqual porto, o piazza potessimo ripararci. Al vedermi cosìcosternato, il mio socio, benchè su le prime avesse fattauna ciera più smarrita della mia, principiò a farmi corag-gio e, descrivendomi diversi porti della costa cui erava-

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mo diretti, pensò essere la meglio per noi il fermarci aquella di Cochinchina o nella baia di Tonchino, donde cisaremmo poscia trasferiti a Macao, città posseduta unavolta dai Portoghesi, e residenza tuttavia di parecchiefamiglie europee, frequentata soprattutto dai missionariche la faceano loro stazione prima di trasferirsi alla Chi-na.

Quivi dunque risolvemmo portarci, e dopo una navi-gazione tediosa, irregolare e fatta più molesta dallastrettezza delle provisioni una mattina finalmente di bo-nissima ora ci trovammo a veggente della costa cercata.

XCVIII. Sistema difensivo del tutto nuovo; arrivo all'isola Formosa.

Fatti accorti dalle passate circostanze e dal rischio chene sarebbe sovrastato se non fossimo stati lesti a fuggi-re, giudicammo opportuno gettar l'áncora all'ingresso diun piccolo fiume, nondimeno profondo abbastanza al-l'uopo nostro, per vedere se ne riusciva, o per terra, omandando a costeggiare il nostro scappavia, scoprirequali bastimenti e di qual nazione fossero in que' dintor-ni, cautela alla quale dovemmo da vero la nostra salvez-za. Perchè, se bene non avessimo veduto alla prima al-cun naviglio europeo ancorato alla baia di Tonchino,nella successiva mattina vi entrarono due vascelli olan-desi; ed un terzo, senza bandiera spiegata, ma che ciònon ostante credemmo parimente olandese, diretto su la

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via della China ci passò parallelo ad una distanza di cir-ca due leghe; poi dopo il mezzogiorno gli succedetterodue grossi legni inglesi che tenevano la medesima dirit-tura; laonde ci vedevamo in mezzo a nemici da tutte leparti.

La terra quivi era abitata da gente selvaggia e barba-ra; da una popolazione di ladri per genio e per mestiere;e benchè non avessimo gran bisogno di cercarli e, fuoridel caso di qualche provista, evitassimo ogni occasionedi aver che fare con loro, a grande stento ci salvammodal riceverne insolenze di varie sorte. Il fiume, piccolocome ho detto, era lontano sol poche leghe dall'ultimaestremità settentrionale del paese. Quando il nostroscappavia scoperse costeggiando che legni nemici necircondavano d'ogni banda avea tenuto il nord-est (gre-co) verso la punta di terra che apre la grande baia diTonchino. Gli abitanti che vi ho dipinti per la gente piùinospita di tutta la costa, non aveano di fatto consorziocon nessun'altra di quelle popolazioni, e il lor commer-cio era unicamente di pesce e derrate del genere piùgrossolano. Se ebbi motivo di chiamarli barbari al di so-pra di tutti i loro vicini, lo vedrete presto quando vi avròdetta una sola delle loro usanze; ed era che, se un basti-mento correa la sfortuna di naufragare innanzi alla lorospiaggia, non contenti d'impadronirsi del legno naufra-gato, faceano prigionieri o schiavi gli uomini che vi tro-vavano entro. Di tale cortesia non tardammo ad avere unluminoso saggio che sono or per narrare.

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Vi ho già raccontato come il nostro bastimento avessepresa una falla, come non ci riuscisse trovarne la sede, ecome ciò non onstante fossimo arrivati fortunatamente aturarla nel punto che stavamo per essere presi dai va-scelli olandesi ed inglesi ancorati nella baia di Siam.Non per questo ne parve che il bastimento fosse in talbuon assetto qual lo avremmo desiderato; onde divisam-mo profittare del nostro indispensabile indugio a quellaspiaggia per tirarlo a terra, levarne via le cose che eranoa bordo e rimondarne il fondo per giungere finalmente ascoprire ove la falla o le falle fossero. Alleggeritolo per-tanto in tale guisa e trasportati tutti i cannoni e quantopotea moversi da una banda, ci provammo a condurlosul lido; ma pensandoci meglio giudicammo di eseguirela nostra operazione lasciandolo in acqua, perchè il trat-to di spiaggia ove lo avremmo posto a secco, non cisembrava opportuno e d'altro più adatto non lo vedeva-mo.

Gli abitanti che non aveano mai veduto nulla di simi-le accorsero alla spiaggia per contemplarci, e poichè ilnostro bastimento era inclinato alla riva e nella posizio-ne in cui stanno i vascelli messi alla banda, nè coloroaccorgendosi de' nostri uomini che stavano al di là delfianco del bastimento stesso lavorando alla carena sopraarmature e su le scialuppe, ne conchiusero tosto che illegno era naufragato, e avea preso quel collocamento ra-sente la spiaggia. Bastò così per costoro. In due o tre oredi tempo vennero a circondarne con dieci o dodici bar-coni che contenevano quale otto, quale dieci uomini,

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con l'intenzione, senza dubbio, di entrare a bordo e sac-cheggiare il vascello; e se v'avessero trovato qualcuno dinoi, condurlo schiavo al loro re, o governatore che sichiamasse, perchè intorno a ciò non ne abbiamo mai sa-puto nulla.

Venuti presso al bastimento e postisi a girargli attor-no, ne trovarono tutti intenti all'opera che si eseguiva al-lora alla parte esterna della carena e del fianco di navi-glio posto verso il mare lavandolo, spalmandolo, calafa-tandolo, compiendo in somma tutte le operazioni analo-ghe al caso e ben note a chiunque s'intende di marineria.Rimasero contemplandoci per qualche tempo, e noi era-vamo alquanto sorpresi perchè non potevamo immagi-narci qual disegno gli avesse condotti ivi. Ad ogni buonfine volemmo metterci al sicuro. Alcuni di noi entrarononel bastimento ed altri mandarono giù a quelli dellescialuppe armi e munizioni, affinchè si potessero difen-dere se ne fosse venuto il bisogno. Vedemmo poi chenon ci era mai stato sì grande, perchè que' mascalzoni,dopo una consulta fra loro che durò meno d'un quartod'ora, convennero, sembra nel sentenziare naufragato ilnostro bastimento. Secondo loro, eravamo tutti all'operaper salvarlo, o se non altro per salvare le nostre vite colsoccorso delle scialuppe; anzi al vederci trasportare inesse i moschetti giudicarono che cercassimo mettere insalvo ciò che potevamo delle nostre mercanzie. Dietroqueste congetture, ebbero per dato incontrastabile chenoi spettavamo ad essi per diritto di buona cattura, e to-sto ci vennero in verso, come in linea di battaglia.

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I nostri, al veder tanta gente, cominciarono a spaven-tarsi, chè veramente non eravamo nella più bella posi-zione, onde si diedero a gridar forte per sapere che cosadove vano fare. Comandai tosto ai lavoranti delle arma-ture di atterrarle, a quelli della scialuppe di abbandonar-le e di venir tutti a bordo. Intanto que' pochi che vi era-no già s'adoperarono con quanta forza e braccia avevanoper raddirizzare il bastimento. Ma nè i lavoranti alle ar-mature nè quelli della scialuppa poterono eseguire gliordini ricevuti prima che i Cochinchinesi lor fossero ad-dosso; e già due barconi di barbari, investita la scialup-pa, si accingevano ad impadronirsi di chi ci stava entro.

Il primo de' nostri che agguantarono fu un Inglese,pezzo d'uomo nerboruto e gagliardo, il quale avendo unmoschetto in mano, con mia grande sorpresa, non se neservì punto e anzi lo mise a basso, ch'io gli diedi delmatto in mio cuore; ma non tardai a vedere che sapeva ilfatto suo meglio di quanto io glielo avessi potuto inse-gnare. Abbrancato con quanta forza aveva un de' suoipagani aggressori, sel trasse dentro con una forza da leo-ne nella scialuppa ove tiratolo per le orecchie gli fe' bat-ter la testa sì spietatamente contro al parapetto della bar-ca che non la sollevò mai più. Intanto un Olandese chegli era da presso, preso su il moschetto, lavorò sì benecol calcio di esso che stramazzò cinque di que' barbarimentre si provavano ad entrare nella scialuppa. Ma chevalea tutto ciò per resistere a trenta o quaranta uominiche, impaividi perchè ignari del loro pericolo, venivanogià all'arrembaggio di una scialuppa difesa da cinque

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uomini in tutto. Un incidente che ne fece rider non poco,diede ai nostri una compiuta vittoria.

Il nostro carpentiere che si apparecchiava a spalmareil fianco esterno del bastimento e ad incatramare lecommessure che avea calafatate per chiudere le falle,aveva dinanzi a sè due caldaie portategli appunto alloranella scialuppa, una piena di pece bollente, l'altra d'olionudrito di ragia, cera e simili sostanze usate da quellidella sua professione, Nel tempo stesso l'aiutante delcarpentiere teneva in mano una grande mestola con cuiforniva di tale materia gli operai intesi a questo lavoro.Il secondo che stava alle scotte d'avanti nel giusto mo-mento che due nemici faceano per entrare nella scialup-pa, non mancò subito di salutarli, battezzandoli con lamestola ben piena di quella bollente liquida mercanziada cui furono sì tremendamente scottati e pelati, tantopiù per essere mezzo ignudi, che entrambi saltarono pre-cipitosamente nell'acqua gridando dal bruciore e mug-ghiando come veri buoi.

‒ “Bravo! bravo, Giacomo! così il carpentiere chevide la faccenda gridò al suo garzone. Dispensane loroanche un poco di questa broda”. Indi fattosi innanzi eglistesso e preso un di quegli spazzatoi ed intintolo nellacaldaia della pece bollente, tra lui e il garzone feceropiovere tal copiosa aspersione di quel liquido infernalesu le tre barche che di quanti uomini vi erano non ve nefu un solo che non si desse a fuggire guadando arso,scottato, atterrito e mettendo grida e strillamenti ch'ionon credo aver mai udita una musica di tale natura; per-

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chè è cosa notabile che se bene il dolore faccia gridaretutti gli uomini della terra, ciascun popolo, come ha unalingua, ha un grido suo proprio. Non saprei indicarequesta musica con un nome migliore e più adeguato alsuono ch'essa rendea come chiamandola un ululato; per-chè non ho idee d'altri lamenti che le si possano parago-nare fuor degli ululati appunto de' lupi che mi posero insì brutte strette nella foresta delle frontiere della Lingua-doca.

Non mi sono mai compiaciuto maggiormente di unavittoria in mia vita, e ciò non solo perchè fu tanto menoaspettata quanto più era imminente il pericolo, ma per-chè fu guadagnata senza spargimento di sangue se si ec-cettui quel primo che un de' miei gagliardi accoppò colsolo aiuto delle proprie mani, e di questo ancora ebbigran dispiacere. Mi sapea male l'uccidere que' poverisgraziati selvaggi, ancorchè ciò fosse in mia difesa, per-chè capivo che si erano posti in una spedizione da essicreduta giusta, e che non aveano testa per intender me-glio le cose. Oltrechè, se bene pensassi cosa giusta l'uc-ciderli perchè necessaria (nè vi è nulla di necessario innatura che non sia giusto), pure mi sembrava una granmala vita l'essere sempre obbligati ad uccidere creaturenostre simili per salvare noi stessi. E da vero ancheadesso la penso così: quante moleste sofferenze non pre-ferirei all'espediente di toglier la vita ad un uomo, ben-chè m'abbia oltraggiato! e credo che chiunque conosca ilprezzo della vita di un uomo, converrà, se ci riflette se-riamente, nel mio parere.

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Ma per tornare alla mia storia, in tutto questo inter-vallo, il mio socio ed io con l'opera de' marinai rimasti abordo fummo destri quanto bastò per raddirizzare quasidel tutto il bastimento, e per rimettere tutti i cannoni alloro posto; anzi il cannoniere voleva che ordinassi agliuomini della scialuppa di tirarla in disparte perchè bra-mosissimo di mandare una fiancata ai fuggitivi Cochin-chinesi,

‒ “Guardatevene bene! Esclamai; abbiamo qui il no-stro carpentiere che può far bene i nostri affari senza l'a-iuto de' vostri cannoni”.

In fatti ordinai fosse messa al fuoco un'altra caldaia dipece, ispezione che affidai al cuoco del bastimento; manon ce ne fu di bisogno; perchè il nemico fu tanto per-suaso dal saluto fattogli nel primo assalto, che non ardìtentarne un secondo. Oltrechè, alcuni di questi assalitoritenutisi in lontananza, al vedere la nostra nave raddiriz-zata e galleggiante avranno, supponemmo, conosciutol'abbaglio preso, e abbandonata una spedizione che delcerto non tornò ad essi come se l'erano immaginata.

Così usciti di questa gaia battaglia, e poichè avevamodue giorni prima portato a bordo alquanto riso, una pro-visione sufficiente di pane e di radici e circa sedici por-ci, stimammo opportuno il non rimanere ivi più a lungoe l'andarcene ad ogni costo; perchè temevamo non sal-tasse il dì seguente a quei cialtroni la tentazione di tor-nare in tanto numero alla loro impresa da non bastar for-se più per tenerli lontani la nostra pece. Poste adunque

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tutte le nostre cose a bordo la sera medesima, nella suc-cessiva mattina eravamo pronti a salpare.

Durante la notte, avevamo gettata l'áncora a qualchedistanza dalla spiaggia, onde stemmo meglio col cuorequieto trovandoci in tal posizione che, se il nemico sifosse presentato, era buona così per combattere comeper salpare. Terminate dunque tutte le riparazioni chedoveano farsi al bastimento, ed essendoci assicurati chetutte le falle erano turate, mettemmo alla vela. Avremmoveramente voluto portarci anche una volta nella baia diTonchino, perchè non sapevamo null'altro dei due va-scelli olandesi che v'erano entrati; ma non lo osammoperchè avevamo veduto, pochi momenti prima, altri va-scelli che colà, a quanto ne parve, si dirigeano. Pren-demmo dunque la via dell'isola Formosa con tanta pauradi essere veduti da qualche vascello mercantile inglese oolandese, quanta ne ha nelle acque del Mediterraneo unvascello mercantile inglese o olandese di venire scoper-to da un vascello algerino.

Date così le vele, tenemmo il nord-est (greco) comese volessimo andare a Manilla o a qualche altro paesedell'isole Filippine, e ciò per non incontrarci con alcunvascello europeo; poscia dirigemmo le vele a tramonta-na sinchè fummo alla latitudine di 22,°,30,°. Allora tra-sferitici a dirittura all'isola Formosa vi gettammo l'ánco-ra per provvederci ivi di acqua dolce e di fresche vetto-vaglie: cose tutte somministrateci di buon cuore da que-gl'isolani che, cortesissimi e civili nelle loro maniere,usarono con noi la massima onestà e puntualità e ne'

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contratti e nelle domande; il che non si trova così facil-mente fra altre popolazioni, ed è dovuto ai resti di cri-stianesimo predicato colà da un missionario olandeseprotestante. Si ha in ciò una prova di quanto ho osserva-to più volte: che la religione cristiana cioè abbelliscesempre e riforma i costumi de' popoli fra cui ne sonoascoltati gl'insegnamenti, o n'abbiano tratto profitto o noper la salute delle loro anime.

XCIX. Incontro del vecchio pilota portoghese; arrivo alla Spiaggia di Nang-King.

Dall'isola Formosa continuammo la nostra navigazio-ne verso tramontana, tenendoci sempre alla stessa di-stanza di prima, finchè non avemmo oltrepassati tuttique' porti della China ove per solito approdano legni eu-ropei, chè avevamo risoluto di far ogni possibile per noncadere a qualunque costo in poter loro, specialmente inquel tratto di mare, la qual cosa, in circostanze tali comevi ho descritte le nostre, sarebbe stata l'estrema rovina ditutti noi.

Arrivati già al trentesimo grado di latitudine, divisam-mo prender terra al primo porto di commercio in cui sa-remmo capitati; e mentre, per far ciò, andavamo tenen-doci non più di due leghe distanti della costa, ne venneincontro dalla spiaggia una barca governata da un vec-chio piloto portoghese che, dalla costruzione del nostrobastimento avendone ravvisati per Europei, fece quel

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tratto di mare coll'espresso fine di offrirne i suoi servigi.Contentissimi di tal sua esibizione, lo ricevemmo subitoa bordo. Egli, senza nemmeno chiederci ove volessimoandare, licenziò, mandandola addietro, la sua navicella.

Al veder ciò dubitai sì poco della buona disposizionedi quest'uomo a condurci dove avremmo voluto, che gliparlai subito di guidarne a Nang-King, parte la più set-tentrionale della costa chinese. Il vecchio mi rispose:

‒ “Oh! so benissimo dov'è il golfo di Nang-King. Ma(e qui sorrise) che cosa volete andare a far là?

‒ Oh bella! risposi. Esitare in gran parte il nostro cari-co d'oppio, e provederci in vece di merci chinesi: tele dibambagia, sete crude, tè, sete lavorate e simili cose; poitornarcene là donde siamo venuti. Questo vogliamo.

‒ Ma perchè non andar piuttosto a Macao! Lì nonmancherà un ottimo spaccio al vostro oppio, e col vostrodanaro potrete procacciarvi tutte le grazie di Dio dellaChina così a buon mercato come a Nang-King”.

Avevo un bel dirgli che il viaggio proposto da lui nonci accomodava. S'era ostinato a volerei mandare a Ma-cao, e nessuno potea levargli ciò dalla testa. Finalmenteadoprai seco questa ragione.

‒ “Ascoltate, figliuolo. Siamo trafficanti, è vero, masiamo ancora gentiluomini, e ne è venuta la volontà divedere la grande città di Pekino e la famosa arte del mo-narca della China.

‒ Oh bene! il nostro vecchio soggiunse. Andate dun-que a Ningpo. Imboccate la foce del fiume che mette nelmare e, fatte cinque leghe, siete nel gran canale. Questo

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gran canale è un fiume navigabile che passa per mezzoal cuor della China, ne attraversa tutti i fiumi, anche di-versi considerabili montagne con l'aiuto di cateratte, edessendo lungo circa cento settanta leghe, vi conduce di-ritto diritto alla città di Pekino.

‒ Va bene, signor Portoghese, ma questa non è ora lanostra faccenda. La gran quistione è se possiate condur-ci alla città di Nang-King, chè di lì poi anderemo a Peki-no.

- Per poterlo lo posso benissimo. C'è giusto andatopoco fa un gran bastimento olandese”.

Questa novità mi scompigliò alquanto, perchè un ba-stimento olandese era il nostro spauracchio d'allora, eavremmo preferito incontrarci nel demonio, semprechènon si fosse presentato in forme troppo spaventose. Undi que' legni e la distruzione di tutti noi erano la stessacosa a' nostr'occhi. Sapevamo troppo che in questi marifrequentavano sul vascelli d'alta portata e di una forzasuperiore di gran lunga alla nostra. Bisogna dire che ilvecchio s'accorgesse dell'imbarazzo e mal umore nati inme all'udir la parola bastimento olandese.

‒ “Ma, signore, questo non vi dee dare nessun fasti-dio. Voi non avete a temer nulla da un bastimento olan-dese. Gli Olandesi, ch'io mi sappia, non solo ora inguerra con la vostra nazione.

‒ No, diss'io; è vero quanto dite. Ma o io quali libertàsi possano prendere quando sono in tanta distanza dallagiurisdizione del loro paese?

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‒ Di che libertà parlate? (il mio vecchio piloto non midava tregua) non siete mica pirati. Di che cosa voleteavere paura? Non se la prenderanno contro a pacifici ne-gozianti. Statene sicuro”.

Se mi restò nel mio corpo qualche po' di sangue chenon mi salisse alla faccia all'udire la parola pirati, con-vien pensare che qualche ostruzione lo facesse stagnarenei vasi ove circola. Certo la mia confusione fu al di làdi quanto si possa immaginare, nè riuscii a dominarlatanto che il vecchio non se ne avvedesse.

‒ “Signore, mi disse, credo accorgermi che i miei di-scorsi vi abbiano conturbato alcun poco. Calmatevi puree prendete qual via vi piace, contando sempre su tutti gliaiuti e i servigi che possono dipendere da me.

‒ Non vi nego, gli dissi, che ero già alquanto perples-so su la direzione da darsi al mio viaggio, e che la miaperplessità si è fatta maggiore all'udire quanto dicesteintorno ai pirati. Spero che non ce ne sieno in questimari. Sarei ad un tristo partito se dovessi cimentarmicon loro. Le nostre forze, voi lo vedete, son poche e ilnostro bastimento è debolmente armato.

‒ Signore, egli soggiunse, di ciò non abbiate paura.Da quindici anni in qua non ho mai udito da queste ban-de parlar di legni corsari, fuor d'uno che fu veduto, miraccontano, circa un mese fa nella baia di Siam; ma po-tete stare in pace perchè è andato dalla parte di mezzo-giorno. D'altronde quel bastimento non è nè d'una granforza nè fatto per corseggiare. Apparteneva ad un priva-to che lo comprò per mero uso di traffico, ma la sgrazia-

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ta ciurma che ne era a bordo lo fece divenire corsarofuggendo con esso quando il suo proprietario ed alcunidella sua gente furono trucidati all'isola di Sumatra, opoco lontano di lì.

‒ Come! esclamai mostrando che tutto mi giungessenuovo. Uccisero il lor capitano?

‒ No, non ho detto che lo uccidessero essi. Per altro sicrede generalmente che, quando fuggirono, lo conse-gnassero a tradimento nelle mani de' Malesi, e fors'an-che instigarono eglino stessi i Malesi ad ucciderlo.

‒ In questo caso, diss'io, meritano la morte ugualmen-te come se lo avessero ucciso di propria mano.

‒ Perdinci! se sela meritano! soggiunse il vecchio, el'avranno sicuramente se si abbattono in qualche vascel-lo inglese o olandese. I bastimenti delle due nazioni sisono accordati insieme di non dar quartiere a quellaciurma se capita loro fra le mani.

‒ Ma come volete, gli chiesi, che ciò succeda: se quellegno corsaro è fuori adesso da questi mari? almeno loavete detto.

‒ Lo dicono; ma la sola cosa certa è che fu veduto unmese fa, come v'ho raccontato, nella baia di Siam all'im-boccatura del fiume Camboia, ove lo scopersero alcuniOlandesi appartenuti prima a quel bastimento e che icialtroni fuggendo piantarono su la spiaggia. Mancòpoco che non cadesse nelle mani d'alcuni negozianti an-corati nello stesso fiume, perchè furono spedite dellescialuppe a dargli la caccia; anzi se le due davanti fosse-ro state secondate dall'altre, ci cadea sicuramente. Ma

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sol due essendo arrivate a tiro di raggiugnerlo, il corsarovirò di bordo, fece fuoco sovr'esse e le sconquassò pri-ma che le altre arrivassero. Allora postosi in alto mare,le scialuppe non danneggiate non poterono più tenerglidietro, e quello fuggì. Ma in quell'occasione delinearonoi segnali del bastimento con tanta esattezza che non pos-sono mancar di conoscerlo ovunque lo incontrino; e seciò accade, hanno giurato di non dar quartiere nè a co-mandante nè a comandati, e d'impiccarli quanti sono adun braccio di pennone.

‒ Come! esclamai. Li giustizieranno o a torto o a ra-gione? Gl'impiccheranno prima, e li giudicherannodopo?

‒ Signore, non c'è bisogno di grandi formalità conbricconi di quella fatta. Legarli uno alla schiena dell'al-tro e mandarli a stare in fondo del mare sarebbe poco aconfronto di quello che hanno meritato”.

Il mio vecchio nè potea andar fuori del bastimentosenza che io lo sapessi, nè stando lì farmi del male, ondegli tenni il discorso che or sentirete.

‒ “Or bene, signor Portoghese, è questo appunto ilmotivo per cui desidero che mi conduciate a Nang-King, e non ho nessuna voglia di cangiar direzione percercare nè il vostro Macao nè verun porto ove sieno so-liti bazzicare navigli olandesi o inglesi. Dovete sapereche questi signori capitani, olandesi o inglesi che sieno,gli ho per un branco di spensierati, d'insolenti, di teme-rari, che non sanno dove stia di casa la giustizia nè com-portarsi secondo veruna legge o di Dio o della natura.

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Fatti boriosi dal comandare ad uno straccio di legnomercantile senza conoscere nemmeno i limiti del loropotere, non avrebbero difficoltà di farla da assassini perpunire un creduto ladro, e di commettere a mano salvavillanie contra un povero accusato senza prendersi l'in-comodo di verificare nei debiti modi se lo sia a torto o aragione. Ma forse viverò tanto che basti per chiamarli adun rendiconto di tal loro procedere, e far che imparinocome la giustizia vada eseguita, che imparino a mal lorocosto quanto sia azione da sconsigliati il trattare da de-linquente un uomo prima d'avere verificato il delitto, es'egli sia quel tale che lo ha commesso”.

Raccontatogli quindi come il nostro bastimento fossequello stesso che fu assalito in conseguenza delle dispo-sizioni date da essi, gli feci un'esatta esposizione dellascaramuccia avuta con le scialuppe e dello stile di batta-glia bislacco e codardo che quelle adoprarono. Gli nar-rai da capo a fondo la storia della compera da me fattadel bastimento e del servigio resomi dall'Olandese cheavevo a bordo. Gli dissi ad un tempo le ragioni ch'ioaveva per creder veri e il fatto del primo proprietario delbastimento assassinato dai Malesi e l'altro della fuga diquella parte di ciurma che s'appropriò il bastimento.“Ma è una fola, aggiunsi, fabbricata dalla fantasia de' si-gnori capitani inglesi e olandesi il dire che quegli uomi-ni ancorchè meritevoli per ciò di castigo, si sieno buttatial mestiere di pirati; e quei signori dovevano ben beneverificare le cose com'erano prima di avventurarsi ad as-salirne e obbligarci ad una inevitabile resistenza. Essi e

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non noi renderanno un dì conto agli uomini e a Dio delsangue di quegli sciagurati che abbiamo uccisi per la ne-cessità di difenderci”.

Il vecchio Portoghese rimase attonito, sbalordito atale racconto.

‒ “Avete non una, ma mille ragioni esclamò, se voletecavarvela da questi mari, e ove vogliate dar retta ad unmio parere, giunti alla China venderete questo bastimen-to, chè non vi sarà difficile, e là ne comprerete, o ve nefarete fabbricare un altro. È vero che sarà d'una costru-zione inferiore, ma sempre quel che basterà a ricondurrevoi e le vostre mercanzie al Bengala, o in qualunque al-tro paese vogliate andare.

‒ Figuratevi, gli risposi, se non seguirei volentieri ilvostro suggerimento al primo porto ove trovassi un altrobastimento adatto al mio viaggio ed un avventore per di-sfarmi di quello che ho!

‒ In quanto a questo (non mi lasciò nemmeno conti-nuare il discorso) troverete avventori a bizzeffe a Nang-King, e uno dei così detti giunchi chinesi vi servirà ameraviglia anche per tornare addietro. M'impegno io ditrovarvi il compratore ed il venditore.

‒ Va bene, soggiunsi; ma c'è sempre una difficoltà.Poichè mi dite che questo bastimento è tanto conosciu-to, potrei tenendomi al vostro suggerimento, mettere inun brutto imbroglio il povero galantuomo che ne fosse ilcompratore, ed esporlo a farsi ammazzare quando menose l'aspettasse; perchè a que' signori basta trovare il va-scello per sentenziare colpevoli gli uomini che ci sono

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dentro; voi lo vedete che non sono molto sottili nel fardistinzioni, e da questa matta loro logica può essere so-praffatto e messo a morte il più innocente uomo dellaterra.

‒ Lasciate fare a me; troverò un espediente per andarcontro anche a questa disgrazia. Li conosco io tutti que-sti capitani di cui stiamo parlando, e li vedo tutte le vol-te che passano da queste parti. Dirò loro le parole chevanno dette, e arriverò a farli persuasi che sono dalla par-te del torto. Spiegherò ad essi come non sia vero primadi tutto che i rapitori di questo bastimento si sieno maidati a far la vita di corsari; poi, quel che è più, che i ra-pitori non sono i possessori presenti del bastimento, pas-sato or nelle mani d'onesti galantuomini che innocente-mente lo comprarono per uso del loro traffico. Son per-suaso che mi crederanno, o almeno anderanno più guar-dinghi e, se non altro, non prenderanno le cose con tantocaldo per l'avvenire.

50 ‒ Ottimamente gli dissi; e mi fareste il piacere diportar loro un'ambasciata a mio nome.

* ‒ Volentieri, purchè me la diate per iscritto, affinchèla sappiano venuta da voi e non credano che me la in-venti”.

* Arresomi alla sua inchiesta, scrissi su i pretesi moti-vi dell'ingiusto e crudele aggravio che mi veniva fatto

50 Tutta la parte contrassegnata con asterischi non trovasi in diverse edizio-ni inglesi, anzi molti la credono bensì dell'autore, ma da lui indicata nel suomanoscritto come da omettersi, e non omessa per sola svista di qualche tipo-grafo. Certo non giova nè all'interesse nè all'intelligenza del rimanente di que-sta storia; ma nel secondo rispetto non le dà pregiudizio e per ciò l'ho tradotta.

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un lungo discorso di cui fu la conclusione il dichiarare aquei signori comandanti che avevano commessa un'azio-ne indegna, e che, se mai si fossero lasciati vedere nel-l'Inghilterra, ed io vissuto tanto da saperlo e trovarmicinello stesso tempo, me l'avrebbero pagata cara, sempre-chè le leggi della mia patria non fossero andate, durantela mia assenza, in disuso.

* Il mio vecchio piloto dopo letto e riletto quel miomanifesto, mi chiese se ero pronto a sostenere quanto inesso affermai.

* ‒ “Finchè mi rimarrà qualche cosa al mondo, gli ri-sposi, lo sosterrò, e sono convinto che presto o tardi misarà data buona soddisfazione”.

* Ma non venne il caso d'inviare con questo messag-gio il portoghese pilota perchè non tornò più addietro.

Mentre si tenevano fra noi questi propositi, il nostrolegno procedeva verso la spiaggia di Nang-King, pressocui dopo tredici giorni di navigazione all'incirca gettam-mo l'áncora alla punta sud-west (libeccio) di quel grandegolfo.

C. Abbandono improvviso della spiaggia di Nang-King; arrivo e alloggiamenti presi a Quinchang.

Appena gettate l'ancore venni per un caso ben fortu-nato a sapere che due vascelli olandesi erano capitati

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nello stesso golfo molto tempo prima di me. Non ci vo-leva altro per cader tutti nelle loro mani ed esser rovina-ti. Corso ad avvisar tosto del pericolo il mio socio, nonlo trovai turbato meno di me, ma avrebbe voluto metter-si in salvo su la spiaggia a qualunque costo. Io poi nonme la sentiva d'abbandonarmi ad una risoluzione sì di-sperata; chiesi pertanto al piloto portoghese, se cono-scesse in que' dintorni qualche cala o seno ove andar amettere l'ancora e concludere segretamente il negoziodella vendita del vascello con qualche Chinese senza es-sere esposti alle persecuzioni dell'inimico. Mi disse que-sti che, se avessi voluto retrocedere una quarantina di le-ghe ad ostro, avrei trovato un piccolo porto, detto Quin-chang, ove per solito prendevano terra i padri della mis-sione nel venir da Macao per progredire nell'insegna-mento del cristianesimo ai Chinesi, e dove non eranomai entrati navigli europei.

‒ “Se assicurate, mi disse, il vostro bastimento inquelle acque, avete tutto il tempo di pensare ai casi vo-stri e a quello che vi torni meglio da stare in terra. Certonon è una piazza di commercio, fuorchè in date stagionidell'anno che v'è una specie di piccola fiera ove concor-rono i mercanti giapponesi per comprare mercanzie del-la China”.

Convenimmo tutti nel partito di tornare addietro e tra-sferirci nel luogo che il Portoghese mi aveva additato. Ioforse ne profferisco male il nome proprio, come noncredo lo profferisse a dovere il mio piloto. Certo i mer-canti giapponesi e chinesi con cui mi trovai di lì a poco

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in corrispondenza d'affari pronunziavano questo nomein una maniera diversa da lui; ma questa maniera nonposso ricordarmela perchè il libretto ove scrissi e ilnome di quel paese e di molti altri, e ch'io mi portavasempre in tasca ebbe le parole corrose dall'acqua caden-dovi entro, cosa che dovrò narrare in appresso. Conti-nuerò dunque a nominarlo Quinchang come faceva ilmio Portoghese.

Poichè eravamo tutti d'accordo nella massima di an-dare a questo Quinchang, levammo l'áncora nel dì suc-cessivo senza esserci portati alla spiaggia se non duevolte per provederci d'acqua dolce. In entrambe questeoccasioni gli abitanti del paese mostratisi civilissimi connoi ne portarono in copia cose per vendercele, intendocommestibili, come erbaggi, radici, tè, riso, alcuni uc-celli, ma nulla senza pagarlo.

Grazie ai venti contrari ci vollero cinque giorni primad'arrivare all'altro porto che fu veramente di tutta nostrasoddisfazione. Oh! come fui contento, come ringraziaiDio quando calcai col mio piede la spiaggia. Allora ilmio socio ed io facemmo voto che, se riuscivamo a di-sporre di noi e delle cose nostre in un qualche modo cheanche non ci avesse appagati, mai più saremmo entratiin quel bastimento della disgrazia. E veramente devoconfessare che fra le tante circostanze della vita in cuimi sono abbattuto, non ne ho mai trovata una sì compiu-tamente miserabile come l'essere in una continua paura.È pur vero quel detto delle sacre pagine: La paura del-l'uomo tende insidie all'uomo. Il vivere con la paura ad-

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dosso è una vita di morte; la mente nostra ne è tanto op-pressa che non ammette alcuna sorta di consolazioni.

Nè le insidie della paura mancarono certo di operaresu la nostra fantasia coll'ingrossare ai suoi occhi gli stes-si pericoli esistenti. In fatti avevamo poi tutto questogran motivo di rappresentarci i capitani inglesi e olande-si come uomini affatto irragionevoli e incapaci di distin-guere tra galantuomini e furfanti, tra una storia impasta-ta di bugie e coniata a solo fine d'ingannare, ed una veragenuina relazione di tutto il nostro viaggio, del generedelle nostre spedizioni e dei nostri divisamenti? Perchèmille modi avevamo da convincere qualunque creaturadotata di ragione che non eravamo pirati: la natura dellemercanzie che tenevamo a bordo, l'indole della nostranavigazione, la franchezza con cui per l'addietro ci era-vamo fatti vedere ad entrare in questo e in quel porto, ilnostro tratto, la poca forza che avevamo, il piccolo nu-mero d'uomini, le poche armi, la scarsezza delle muni-zioni, la cortezza delle vettovaglie, tutte queste coseavrebbero convinto qualunque uomo che non eravamopirati. L'oppio e tutte l'altre mercanzie di cui era caricoil nostro bastimento, non mostravano ad evidenza cheeravamo stati al Bengala? gli Olandesi i quali, si diceva,aveano presi tutti i nomi de' ladri, avrebbero fatto prestoa vedere che eravamo una mescolanza d'Inglesi, di Por-toghesi e d'Indiani e che avevamo a bordo due soliOlandesi. Queste e molt'altre particolarità avrebbero for-zato l'intelletto de' comandanti nelle cui mani fossimocaduti a ravvisare che non eravamo pirati.

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Ma la paura, questa cieca inutile passione lavorò perun altro verso su noi generando una convulsione nei no-stri cervelli e sconvolgendo i nostri intendimenti; la pau-ra sostituì alla ragione l'immaginazione per fabbricare ainostri occhi mille orribili cose, niuna delle quali proba-bilmente si sarebbe avverata giammai. Supponevamoprimieramente, e questo per verità ci era stato detto, ec-cessivo il furore concetto contro di noi dai marinai abordo dei vascelli inglesi e olandesi, ma specialmenteolandesi, credendoci pirati, e tanto più dopo una speciedi conferma venutane ad essi dall'aver noi battute le loroscialuppe indi presa la fuga; e credevamo che in forza diquesto furore si pensassero dispensati dall'esaminare severamente fossimo pirati o no, e prontissimi per conse-guenza a giudicarci, come suol dirsi, in via straordinariasenza darne campo a difenderci. Consideravamo in oltreparlar sì forte ai loro occhi le apparenze in nostro dannoche proprio non avessero bisogno d'investigazioni mag-giori per condannarci. A buon conto il vascello su cuieravamo, era senza dubbio lo stesso che fu rubato, e di-versi de' loro marinai lo conoscevano perchè ci eranostati. Appena avemmo sentore nel fiume Camboia chesarebbero venuti ad esaminarci più da presso i saluti fat-ti alle loro scialuppe, come ho già detto, e la successivafuga non erano sicuramente prove in nostro vantaggio.In somma dovevano crederci così fermamente piraticome noi sapevamo fermamente il contrario. E quantevolte ho detto fra me e me di non sapere se non avessiprese le circostanze medesime per evidenze nel caso in-

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verso e ove mi fossi trovato io ne' loro panni! Chi sa senemmeno io mi sarei fatto scrupolo di tagliare a pezzitutta la loro ciurma non credendo o forse non riflettendoalle giustificazioni che avrebbero potuto allegare.

Ma fosse a ragione o a torto, so che nostri timori era-no stati questi, ed il mio socio ed io non passammo qua-si una notte senza sognare capestro e braccia di pennoni,vale a dire forche. Ora dormendo ci parea di combatteree di essere presi, ora di uccidere e di essere uccisi. Mi ri-cordo una volta la furia in cui mi posi avendo fantastica-to in sogno che gli Olandesi erano venuti all'arrembag-gio del nostro bastimento; non vi dico altro; diedi allaparete della mia stanza del bastimento un pugno tantoviolento che mi svegliai con le giunture rotte e la carnedella mano lacera e grondante sangue.

Un altro timore mi crucciava: ed erano gli strazi cuine avrebbero potuto assoggettare se cadevamo nelle loromani. Allora mi correva alle mente la storia d'Amboi-na51, e vedevo gli Olandesi applicarci alla tortura comeaveano praticato con alcuni nostri concittadini nella loroisola; vedevo alcuni dei nostri marinai ridotti dallo spa-simo de' tormenti a confessare delitti che non avevanocommessi mai, o dichiarare sè stessi e noi altrettanti pi-rati. Così i nostri persecutori ci avrebbero messi a mortecon un'apparenza di giustizia, e potea ben tentarli a farquesto la sete d'impadronirsi del nostro bastimento e del

51 Isola la più grande delle Molucche, e spettante agli Olandesi

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suo carico, che tutto insieme ammontava ad un valore diquattro a cinque migliaia di sterlini.

Erano questi i pensieri che aveano tormentato megiorno e notte, ed anche il mio socio; nè consideravamoche i capitani de' bastimenti non avevano autorità pervenire a simili eccessi, onde se ci fossimo resi lor pri-gionieri, non potevano arrischiarsi ad applicarci alla tor-tura o a farne morire senza esporsi a renderne strettoconto ai loro governi tornando a casa. Questa riflessio-ne, se vogliamo, non poteva essere d'un grandissimoconforto per noi; perchè quando ci avessero spediti, chevantaggio ne derivava a noi se venivano chiesti dai lorogoverni a render conto dell'atto commesso? O ammaz-zati una volta, qual consolazione potevamo più avernese i nostri uccisori venivano puniti tornando a casa ?

Non posso qui istarmi dal dar conto delle meditazioniche istituii su le immense variazioni delle particolarimie circostanze. Qual amaro pensiere era per me quellodi avere consumati quarant'anni in una vita di continuetribolazioni, di essermi veduto finalmente a quel portocui non v'ha uomo che non agogni, al porto cioè dellaquiete e della ricchezza, e ciò non ostante gettato volon-tario e per mia sola scelta in angustie di nuovo genere;soprattutto com'era per me angosciosa l'idea d'essermisalvato da tali ti pericoli in tempo di mia gioventù, e tro-varmi su l'orlo di venire impiccato negli anni della vec-chiezza, in sì lontana contrada, e in pena d'un delitto checerto non mi ha mai tentato nè pure sognando e chemolto meno ho commesso giammai.

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A queste meditazioni talvolta altre di religione ne era-no succedute. Avrò pensato che, dovendo ravvisare ne'miei infausti avvenimenti i decreti della Providenza, eramio obbligo l'adorarli e guardarli sotto un aspetto diver-so; perchè, anche innocente rispetto agli uomini, oh!quanto ero lontano dall'esserlo agli occhi del mio Crea-tore! Dovetti far l'esame della mia coscienza e indagarequali altre colpe mi fossero state più abituali in mia vita,e tali appunto che trovassero il giusto lor contraccambioin questo castigo della providenza cui era mio debitosottomettermi, come avrei dovuto rassegnarmi ad unnaufragio se fosse piaciuto a Dio il percuotermi con taledisastro.

Talvolta ancora si risvegliava in me qualche cosa delmio naturale coraggio; mi sentivo inspirato a vigoroserisoluzioni. “No, non voglio essere preso per vedermiposto alla tortura da un branco di cialtroni che a sanguefreddo si beano de' tormenti dei loro simili”. Avrei ama-to meglio cader tra l'ugne de' selvaggi se bene con lacertezza di divenir loro pasto quando m'avessero preso,che in quello di costoro capaci di satollare su me il lorofurore con mille sorte d'inumani strazi e supplizi. Nelcaso d'aver che fare con selvaggi io era pur sempre de-terminato ad affrontare combattendo la morte fino all'ul-timo respiro; perchè non lo sarei stato ugualmente alme-no all'idea di cadere fra gli artigli di carnefici sin piùatroci di coloro che m'avrebbero divorato? Giacchè iselvaggi, vuol resa loro questa giustizia, non mangiava-no un uomo prima d'ucciderlo e d'essere sicuri che fosse

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morto; ma i presenti nemici si sarebber presi mille cru-deli spassi sul corpo mio prima che fossi spirato. Quan-do prevalevano in me tali pensieri, entravo in una verafrenesia; mi bolliva il sangue; stralunavo gli occhi; cre-devo essere nell'atto della battaglia; giuravo di non ac-cettare mai patti dai miei persecutori, e che finalmente,quando fossi al punto di non potere più resistere, fareisaltare in aria il bastimento e quanto vi stava entro pernon lasciare a coloro alcun bottino di cui potessero me-nar vanto.

Quanto più grave fu il peso delle nostre angosce sutale argomento finchè rimanemmo sul mare, altrettantopiù dolce fu il conforto che provammo al trovarci soprala spiaggia. Il mio socio mi raccontò un singolare suosogno. Egli avea su le spalle un carico pesantissimo daportare sopra una montagna; sentiva che gli mancavanoa tutt'andare le forze per reggerci sotto, quando arrivò ilpilota portoghese che lo alleggerì di tal soma prenden-dosela sugli omeri egli stesso; allora la montagna sparì esi vide innanzi una pianura tutta liscia, tutta amenissima.Il sogno divenne realtà, perchè ci sentivamo veramentecom'uomini cui fosse tolto dalle spalle un peso il piùenorme. Per parte mia potevo dire non dalle spalle, madal cuore essermi stato levato questo peso che assoluta-mente non ero capace di sopportare più a lungo. En-trambi, come ho già detto, facemmo giuramento di nonmetter piede più mai in quel bastimento della disgrazia.

Non appena fummo su la spiaggia, il vecchio piloto,divenuto già nostro amico, ci trovò un quartiere, e per le

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nostre mercanzie un magazzino che all'incirca facevanotutto un alloggio. Consisteva questo in una casetta o ca-panna cui ne andava annessa una alquanto più estesafabbricata tutta di canne e munita all'intorno parimentedi canile, ma più grosse per tenere addietro i ladri de'quali non pareva che in quel paese vi fosse carestia. For-tunatamente que' magistrati ne concedettero una piccolaguardia, onde avevamo in sentinella alla nostra porta unsoldato che portava una specie di alabarda o di mezzapicca, ed al quale davamo ogni giorno una misura diriso ed una piccola moneta del valore di tre soldi. Conciò riuscimmo ad avere sicure le nostre robe.

CI. Mercanti giapponesi, padri della Missione, bastimento della disgrazia partito senza i suoi proprietari e col consenso di essi.

La fiera solita a tenersi in quel paese era finita daqualche tempo; pure trovammo tuttavia all'áncora nelfiume tre o quattro giunchi, due de' quali giapponesicontenevano mercanzie comprate alla China, e non era-no anche partiti perchè i mercanti del Giappone, pro-prietari o noleggiatori de' medesimi, rimanevano ancorasu la spiaggia.

Il primo servigio che ne rese il pilota portoghese, fuquello di metterci in relazione con tre missionari cattoli-ci romani venuti e restati ivi qualche tempo per conver-

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tire quegli abitanti alla fede; non ci parve che ritraesserogran frutto della loro fatica, e fecero, se pur ne fecero,de' ben meschini cristiani; ma questo non era affarmio52. Uno degli indicati preti, nominato padre Simone,era francese, l'altro portoghese, genovese il terzo. Ma ilpadre Simone era di modi cortesi, disinvolti e di piace-volissima compagnia; gli altri due si mostravano più ri-servati, più rigidi ed austeri, e più seriamente affaccen-dati nell'opera loro, intendo nel cercare occasioni perentrare in discorso ed insinuarsi fra gli abitanti. Spessevolte abbiamo pranzato in loro compagnia. Benchèquanto essi chiamano conversione dei Chinesi al cristia-nesimo sia sì lontano dall'essere la vera conversione deipagani alla religione di Cristo53, chè insegnano loro amala pena a profferirne il nome, oltre ad alcune precialla Madonna e al suo figliuolo in una lingua non intesadagli ammaestrati e a farsi il segno della croce; pure nonpuò negarsi che questi predicatori della religione, dettimissionari, sono mossi da zelo della più ferma carità e,persuasi di far salve quell'anime, si fanno stromenti tut-t'altro che neghittosi a tal uopo; anzi con questa mira af-frontano non solamente i travagli d'un sì lungo viaggio ein tanti barbari luoghi, ma spesse volte e la morte e i piùaspri tormenti sofferti volentieri per amore della buon'o-pera cui sonosi accinti.

52 Nè poteva esserlo. Un protestante non si ha per giudice competente sutale argomento.

53 Qui pure mi riporto alla precedente nota.

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Ma tornando alla mia storia, questo missionario fran-cese, questo padre Simone si apparecchiava in forzad'un ordine avuto, sembra dal capo delle missioni, alviaggio di Pekino, regal sede dell'imperatore chinese, nèaspettava se non l'arrivo d'un altro ecclesiastico cheavea ricevuto l'ordine di raggiugnerlo partendosi da Ma-cao e di andare in sua compagnia. Non v'era quasi voltain cui ci trovassimo insieme ch'egli non m'invitasse adimprendere questo viaggio con lui, e non mi promettes-se di farmi veder tutte le splendenti rarità di quel potenteimpero e soprattutto “Una città, egli mi diceva, che lavostra Londra e la mia Parigi messe insieme non arriva-no ad agguagliare”. Parlava della città di Pekino che, loconfesso, è grandissima ed infinitamente popolata. Masiccome io guardava queste cose con occhio diverso daquello degli altri uomini, così mi riservo pronunziare suquesto particolare in poche parole la mia opinione quan-do nel dar conto de' miei viaggi sul territorio chinese mene occorrerà il proposito.

Per ora rimango col mio frate o missionario. Un gior-no che il mio socio ed io pranzavamo con lui, ed erava-mo tutti di bonissimo umore, lasciai capire che non sareistato lontano dall'imprendere quel viaggio in sua com-pagnia. Non ci volle altro. Non vi fu genere d'argomentie fervorose istanze con cui non mi stringesse a risolver-mi.

‒ “Come mai, padre Simone, gli disse il mio socio,potete desiderare tanto la nostra compagnia? Sapete

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pure che siamo eretici; non potete per conseguenza nèamarci nè aver gran vocazione a stare con noi.

‒ Oh! rispose il padre Simone. Non è mica detto checol tempo non diveniate buoni Cattolici. Veramente ilmio affare in questi paesi è quello di convertire i pagani;ma chi sa che non arrivi a convertire anche voi?

‒ Da vero? saltai su io. A questi conti, padre mio, ave-te intenzione di farci la predica finchè dura la strada.

‒ Oh! non ho mai avuta l'intenzione di noiare nessu-no. La nostra religione non ci spoglia dei principii dellacreanza. Poi noi altri facciamo qui come una congregadi compatriotti; e lo siamo rispetto al paese ove ci tro-viamo. Se voi siete Ugonotto ed io Cattolico, non ces-siamo in fin dei conti dall'essere tutt'a due Cristiani. Senon altro siam tutti persone ben nate e possiamo conver-sare senza esserci scambievolmente molesti”.

Aggradii moltissimo tal parte del suo discorso, che mitornò in mente il mio prete da cui mi separai al Brasile,benchè questo padre Simone quanto a principii stessed'un bel pezzo al di sotto del primo. Non intendo già chevi fosse nulla di riprovevole in essi, ma non vedevo inlui tutto quel capitale di cristiano zelo, di soda pietà, disincero affetto alla religione che avevo ammirati nel miobuon ecclesiastico.

Ma stacchiamoci per un poco dal padre Simone ben-chè egli non si staccasse quasi quasi mai da noi nè dallostimolarci a far il viaggio di Pekino in sua compagnia.Avevamo prima da pensare a qualche altra cosa: nien-t'altro che a dar disposizioni relative a quel malauguroso

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bastimento e alle nostre mercanzie, e principiavamoanzi a vederci imbarazzati su i partiti da prendere perchèla piazza ove ci trovavamo, era di pochissimo e quasinessun commercio; onde una volta fui lì lì per correre ilrischio d'imbarcarmi sul fiume Kilam, e d'andare a ter-minare i nostri negozi a Nang-King. Ma sembrava ades-so che la previdenza, più visibilmente che mai, almenocredei così, prendesse a proteggere i nostri affari, a talsegno, che da questo momento cominciai a pigliaremaggiore coraggio e a sperare di sciogliermi o d'unamaniera o dell'altra dai viluppi tra cui mi angustiavo, erestituirmi nuovamente alla mia patria, se bene non ve-dessi menomamente per quale via. Ecco dunque in qualmodo cominciò a schiarirsi alcun poco l'orizzonte che cistava dinanzi.

Il primo raggio del suo favore si fu che il nostro vec-chio pilota portoghese ci condusse un mercante giappo-nese; venuto per informarsi su la natura delle nostremercanzie. Questi primieramente comprò tutto il nostrooppio ad un prezzo vantaggiosissimo per noi che fu pa-gato parte con oro di peso, parte in moneta del paese oin piccole verghe, di cui ciascuna pesava tra le dieci e leundici once. Mentre stavamo contrattando per l'oppio,mi nacque in testa l'idea che il Giapponese avrebbe an-che potuto comprare il nostro bastimento, onde dissi al-l'interprete di fargliene la proposta. Il Giapponese sistrinse nelle spalle e non se ne parlò oltre; ma pochigiorni appresso tornò a trovarmi con uno di quei missio-nari che gli facea da dragomanno, e così mi parlò:

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‒ “Questo negoziante è per farvi una proposta. Se nonaderì di venire a contratto pel vostro bastimento quandogli parlaste di ciò, fu perche avea comprata tanta mer-canzia da voi che non gli rimaneva danaro quanto ba-stasse a pagarlo. Se non dimeno vi contentate di lasciareal governo dello stesso bastimento i medesimi uominiche ci erano prima, egli lo noleggierà per andare alGiappone; giunto ivi manderà gli stessi uomini con unnuovo carico alle isole Filippine, pagandone ad essi ilnolo prima che salpino dal Giappone; e quando torne-ranno addietro comprerà il bastimento”.

A proporzione dell'udire io questa proposta s'andavaridestando nel mio cervello la mania del mio vagabon-dare, onde non potei starmi dal concepire un ardente de-siderio di andare con lui, indi dal Giappone alle Filippi-ne e dalle Filippine ai mari australi.

‒ “Avreste difficoltà, gli chiesi, sempre valendomidell'interprete missionario, a prenderci nel vascello sinoall'isole Filippine, e a metterci in libertà ivi?

‒ No, mi fece rispondere, perchè mi priverei delmodo di far ricondurre il mio carico al Giappone. Se vo-lete tornare addietro col carico stesso, al Giappone sì,posso mettervi in libertà”.

Lo credereste? io stava già per abbracciare il partitoed andarmene; ma il mio socio che avea più giudizio dime, arrivò a dissuadermene rappresentandomi così i pe-ricoli di que' mari come gli altri da temersi per parte de-gli uomini, perchè i Giapponesi sono un popolo bugiar-

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do, crudele e traditore, e peggiori ancora dei Giapponesigli Spagnuoli delle Filippine.

Ma per condurre questo lungo giro di affari ad unaconclusione, non potevamo risolver nulla senza consul-tare il capitano del bastimento medesimo e i marinai persapere se se la sentivano d'andare al Giappone. Mentreio stava adoperandomi in ciò, quel giovine che mio ni-pote lasciò venir meco qual compagno de' miei viaggi,così mi parlò:

‒ “Da vero questo sarebbe stato un gran bel viaggio, etale che mostrava una prospettiva di vantaggiosissimiaffari. L'avrei pur fatto volentieri in vostra compagnia!Vi dirò di più. Se persistendo nel non voler farlo voi, nedeste la permissione a me, io m'imbarcherei o come ne-goziante o in quella qualità che mi comandaste d'assu-mere. Se torno mai in Inghilterra e se, com'è da augurar-si, vi trovo là in vita, vi darò un fedel conto de' mieiguadagni che sarebbero altrettanto i vostri, intorno a chelascerei fare le parti a voi”.

Realmente mi rincresceva il separarmi da questocompagno. Ma pensando alla prospettiva degli utili cheeffettivamente si mostravano vistosi, e conoscendolo ungiovine capace di condur bene un affare al pari di chic-chessia, propendevo a condiscendergli. Pure mi presi iltempo di consultare il mio socio, promettendogli una ri-sposta pel dì successivo. Ne parlai dunque col mio so-cio, il quale fece la più generosa delle profferte.

‒ “Voi già sapete, egli disse, che quel bastimento èstato di mal augurio per noi, e che abbiamo risoluto en-

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trambi di non ci metter piede mai più. Se il vostro di-spensiere (egli chiamava sempre così questo giovine)vuole avventurarvisi entro, io gliene cedo mezza la miaparte di proprietà, e s'ingegni egli meglio che può. Se citorniamo ad incontrare vivi nell'Inghilterra, e s'egli hafatto buoni affari, la metà degli utili di nolo del basti-mento saranno per noi, l'altra metà sarà sua”.

Se il mio socio, non obbligato a tanti riguardi versoquel giovine quanti ne doveva avere io, gli fece una si-mile offerta, io al certo non poteva fargliene una minore;e tutta la compagnia di que' naviganti essendo contentad'andare con lui, lo costituimmo proprietario del basti-mento per una metà, ricevendo da lui una scrittura conla quale si obbligava a darci conto dell'altra metà. Cosìprese la via del Giappone. Il mercante giapponese glidiede prove in appresso della massima onestà e cortesia,perchè e gli permise di venir su la spiaggia, facoltà chegeneralmente non si accordava più agli Europei, e glipagò puntualissimamente il pattuito nolo. Speditolo indialle Filippine con porcellane della China e del Giappo-ne, e con in compagnia uno scrivano giapponese, il gio-vine tornò addietro portando garofano e droghe in grancopia ed anche merci europee che si era procacciate traf-ficando con gli Spagnuoli delle Filippine. In questa nuo-va venuta al Giappone fu soddisfatto con esuberantelautezza del nolo del bastimento che, dopo avergli servi-to al secondo viaggio, egli non volle più vendere. IlGiapponese allora avendogli affidato mercanzie per pro-prio conto, con queste e qualche danaro e droghe com-

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prate del suo, il nostro giovine tornò a cercare gli Spa-gnuoli delle Manille fra cui vendè eccellentemente ilsuo carico. Fattesi quivi ottime relazioni, ottenne il pri-vilegio di franchigia pel suo vascello che il governatoredi Manilla noleggiò da lui per farsi trasportare ad Aca-pulco in America. Giunto col governatore stesso alla co-sta del Messico, ne ebbe la licenza di sbarcare colà, e diviaggiare nell'interno di quell'impero e di restituirsi entro una nave spagnuola con tutti i suoi uomini nell'Euro-pa. Ebbe fortunatissimo il viaggio anche ad Acapulco,ove vendè il suo bastimento. Di lì, avuti gli opportunipassaporti a tal fine, si recò per terra a Porto Bello, don-de s'ingegnò tanto, il come non ve lo saprei dire, cheraggiunse con tutti i suoi tesori la Giammaica. In som-ma, dopo una peregrinazione di otto anni rivide smisu-ratamente ricco la patria sua, cose di cui avrò motivo diriparlarvi a suo tempo. Intanto ritorno agli affari checoncernevano il mio socio e me nella spiaggia dove era-vamo.

In procinto ora d'accommiatarci dal bastimento e daicompagni lasciativi, non ci scordammo di pensare alpremio da darsi ai due uomini cui avevamo l'obbligazio-ne d'essere stati sì a tempo avvertiti del grave pericoloche ne minacciava nell'acque della Camboia. Il servigiocertamente fu segnalato, ed aveano ben meritato da noi,benchè, se si vuol dire la verità, erano una bella coppiadi furfanti ancor essi. In fatti eglino pure alla prima ciaveano creduti pirati e scorridori entro un bastimentoche non ci appartenesse; e ciò non ostante dispostissimi

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a farsi pirati anche loro in nostra compagnia, venivano ascoprirci i disegni macchinati contro di noi; anzi und'essi con le successive sue confessioni non ci lasciò piùdubbiosi su i fini da cui fu mosso: quelli cioè di rapinarepiù a suo bell'agio. Non importa, il servigio lo avevamoricevuto; era nostro debito rimunerarlo, e avevo impe-gnata ad essi la mia gratitudine. Pagati dunque loro glistipendii di cui si dissero in credito col comandante divascello che in realtà aveano tradito, aggiunsi a questiuna buona somma d'oro che li fece contentissimi. In ol-tre li nominai cannonieri nel bastimento, chè chi lo fudianzi era stato promosso al grado di aiutante in secon-do e di provveditore; l'Olandese divenne guardastiva.Entrambi se n'allegrarono assai, e provarono con buoniservigi la soddisfazione sentita; perchè in realtà abilimarinai e intrepidi gagliardi lo erano tutt'a due.

CII. Gite di diporto; digressione su la China; partenza col mandarino.

Eravamo dunque a terra sopra una spiaggia della Chi-na. Se mi parea di essere bandito, di essere segregatoper una distanza infinita dalla mia nativa contrada stan-do al Bengala, ove mi si offrivano parecchi mezzi di tor-nare a casa co' miei danari, vi lascio dire che cosa mi fi-guravo ora che me n'ero allontanato d'un migliaio di le-ghe di più e affatto privo di modi e fin delle apparenzed'una possibilità di ritorno. Ogni nostra speranza si ridu-

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ceva al sapere che di lì a quattro mesi sarebbesi apertauna seconda fiera nel paese ove eravamo. In quell'occa-sione avremmo potuto fare acquisto d'ogni sorta di ma-nifatture della China, e forse trovare qualche giunco ovascello chinese, venuto da Tonchino, che fosse da ven-dere e che trasportasse noi e le nostre mercanzie ovemeglio avessimo desiderato. Tranquillo su tale idea, chègià di meglio non si presentava, risolvei dunque diaspettare qui questa fiera. Trovavo in ciò un altro van-taggio. Siccome adesso nè vascelli inglesi nè olandesipotevano più farci paura, diveniva un argomento di con-solazione per me la possibilità che un d'essi capitandoqui, ne avessimo forse l'opportunità di imbarcarvi noi ele nostre merci e trasportarci in qualche contrada dell'In-dia, almeno non tanto lontana da casa nostra. Dietro tut-te queste considerazioni, risoluti di fermarci qui quattromesi fino al tempo della fiera, pensammo ad impiegarliin tre o quattro gite di diporto.

Primieramente passammo dieci giorni a Nang-Kingcittà veramente degna di esser veduta. Colà si dice cheessa abbia un milione di abitanti: regolarmente edificata,ha strade affatto diritte che si attraversano in linea rettafra loro, ciò che non contribuisce poco ad abbellirne l'a-spetto, ma se vengo ad istituire qualche sorta di confron-to fra i miserabili abitanti di quella contrada e i popolinostri, son costretto confessare essere ben poche le coseche meritino nemmeno l'onore di una citazione per so-stenere un tal paragone: non le fabbriche, non le manie-re del vivere, non il governo, non la religione, non quel-

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la che i Chinesi chiamano loro gloria. Importa bene l'os-servare che ogni qual volta facciamo le meraviglie su lagrandezza, le ricchezze, il fasto, le cerimonie, il gover-no, le manifatture, il commercio, la condotta della popo-lazione chinese, non siamo già indotti a ciò perchè talicose possano eccitare la sorpresa o da vero essere degnesol d'un'occhiata; ma perchè, avendo una verace nozionedella barbarie, della goffaggine, dell'ignoranza che pre-valgono in quella parte di mondo, non ci aspettavamonemmeno tanto.

Ove non si parta da questo principio, che cosa sonomai i loro edifizi a petto de' palazzi e delle reggie d'Eu-ropa? Che cosa è il loro traffico avvicinandolo col com-mercio universale dell'Inghilterra, dell'Olanda, dellaFrancia e della Spagna? Che le loro città per chi conoscel'abbondanza, la forza, la giocondità, i ricchi ornati, l'in-finita varietà delle nostre? Che i loro porti coperti unica-mente di poveri giunchi, che sono tutto il loro naviglio;a chi vede le nostre armate navali, le nostre flotte mer-cantili, le nostre poderose navi di linea? La nostra solaLondra ha più commercio della metà di tutto quel cosìdetto celeste impero; un vascello da guerra di ottantacannoni inglese, olandese o francese basterebbe a batter-si con tutta intera quasi la forza navale spettante allaChina. Ho dunque ragione di ripetere che tutta questavantata grandezza, ricchezza e possanza (notate in oltreche è minore in sé stessa di quanto è esagerata da alcuniracconti che ce ne vengono fatti) può unicamente sor-prenderci, perchè da una barbara nazione di pagani,

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poco manca a poterli chiamare selvaggi, doveva aspet-tarsi anche molto di meno.

Del resto, tutta la forza militare di quell'impero, an-corchè sia tale che può mettere in campo due milionid'uomini, non sarebbe buona se non a rovinare l'interopaese e ridurre a morir di fame i combattenti, ov'essa siprovasse ad assalire una fortezza della Fiandra o a bat-tersi con un esercito disciplinato. Una buona squadra dicorazzieri tedeschi o di dragoni francesi tiene testa a tut-ta la cavalleria della China; un milione d'uomini di fan-teria chinese non può cimentarsi con un corpo di fante-ria europea ordinato in battaglia, purchè questo si troviin tal posizione da non essere preso in mezzo, quand'an-che la proporzione di numero fra i primi e i secondi su-perasse quella di venti ad uno; anzi arrischio dire chetrentamila fantaccini e diecimila uomini a cavallo tede-schi o inglesi, ben adoperati, potrebbero distruggere af-fatto la forza militare dei Chinesi.

Lo stesso dicasi quanto a piazze fortificate e allascienza di assalirle o difenderle. Non ve n'ha una solanella China che potesse durarla un mese contra le batte-rie e l'assalto di un esercito europeo, mentre tutti glieserciti chinesi messi insieme non arriverebbero a pren-dere in dieci anni di tempo una città forte come Dunker-que, semprechè fosse vettovagliata al segno di non esse-re stretta dalla fame. Hanno armi da fuoco, è vero, masono mal destri ed esitanti nell'adoperarle, oltrechè laloro polvere ha poca forza. Sono privi di disciplina iloro eserciti, mal pratici nell'assalire, disordinati nel riti-

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rarsi; anzi confesso che quando tornai a casa rimasi stu-pito, non vi so dir quanto, all'udire le maravigliose coseche i miei concittadini divulgavano intorno ai Chinesi,perchè da quanto ho veduto io, mi sembrano uno spre-gevole sordido branco di schiavi soggetti ad un governosol fatto per comandare a simile gente. Se una distanzasterminatamente grande non separasse Pekino da Moscae dall'impero dei Moscoviti, popoli barbari e fino ad uncerto segno mal governati come i Chinesi54, lo czar mo-scovita potrebbe facilmente snidarli dal loro paese e farla conquista di tutta la China con una sola battaglia.Anzi se il presente czar, che dicono su la via del pro-gresso, avesse adottalo questo sistema in vece di assalirei bellicosi Svedesi perfezionati nell'arte della guerra alpari di lui, egli diveniva (semprechè le potenze europeenon avessero invidiato o interrotto il corso de' suoi buo-ni successi) imperatore della China, e non si faceva bat-tere a Narva dal re di Svezia e da un esercito inferioresei volte al suo.

Quanto a vigore interno, grandezza, navigazione,commercio, amministrazione pubblica e privata, i Chi-nesi sono immensamente indietro comparativamente

54 È ben vero che, quando Robinson scrivea, questo tratto della sua storia,era già salito sul trono degli czar chi gettò le basi della civiltà russa: civiltà pe-raltro che, anche a' dì nostri, non si estende infinitamente al di là delle duegrandi metropoli. Ma oltrechè gli effetti d'un nuovo, ardito, grande sistema, in-teso ad ingentilire una nazione di barbari, possono, generalmente parlando, es-sere scorti dai soli posteri, quello czar Pietro Alexiowitz, che fu sconfitto aNarva nell'ultimo anno del secolo in cui vivea l'autore della presente storia,non era per anche il fondatore di Pietroburgo, il trionfatore di Pultava, il legi-slatore della Russia, in somma Pietro il Grande.

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agli Europei. Dite lo stesso intorno all'istruzione e alleloro nozioni scientifiche. Sono zotici, o dotati di menteben corta, benchè abbiano globi o sfere ed una infarina-tura di matematica: e notate esser questa la cosa chesanno di più al mondo. Ciò non ostante possedono scar-sissime cognizioni sul movimento de' corpi celesti; illoro volgo poi è sì stupido, sì bestialmente ignorante cheguardate qual bella spiegazione dava ad un'eclissi sola-re! Essa accadde secondo lui perchè un gran drago ave-va assalito il sole e voleva portarselo via; tutti correvanoper il paese con tamburi e caldaie facendo il più atrocefrastuono onde far paura al mostro assalitore del grandepianeta, che gli avreste detti affaccendati a far entrareuno sciame d'api nell'alveare.

È questa la sola digressione di tal natura che mi sonfatta lecita nel racconto de' miei viaggi, nè me ne per-metterò d'altre simili. Non sono affar mio, nè entranonel disegno della mia opera. Io mi sono unicamente pre-fisso di narrare le avventure accadute a me nel corso diuna vita errante che non ha esempio, e tal che niuno for-se di chi verrà dopo me ne udirà la compagna. Pertantod'ora in poi dirò pochissime cose delle città importanti,dei deserti, dei tanti popoli fra cui mi tocca ancora attra-versare, ove non sieno particolarità che si riferiscanoalla mia storia propria o sì connesse cogli avvenimentioccorsimi che l'amore di chiarezza renda indispensabileil memorarle.

Io mi trovava ora, secondo i miei calcoli, nel cuoredella China, sotto i trenta gradi a un dipresso della linea,

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perchè eravamo già ritornati da Nang-King. Veramenteavevo voglia di vedere la città di Pekino e perchè neavevo udito dir tante cose e per l'insistenza del padre Si-mone che in ordine a ciò non ne dava mai tregua. Final-mente il tempo di portarvisi era venuto per lui, essendogià arrivato da Macao l'altro missionario che dovea fareil viaggio in sua compagnia. Diveniva dunque necessa-rio che ci risolvessimo una volta o per il sì o per il no.Su questo mi riportai affatto al mio socio, lasciandolo inperfetta libertà di decidere.

Ci allestivamo dunque per questo viaggio, quando necapitò una buona occasione per farlo meglio; perchè ot-tenemmo la permissione di far parte del corteggio d'unodi que' mandarini, specie di vicerè o magistrati principa-li delle province ove risiedono, che portano seco nume-roso treno allorchè si movono, che camminano con granfasto, e ricevendo straordinari omaggi dalle popolazioniper mezzo alle quali passano. Anzi questi omaggi le im-poveriscono grandemente, perchè obbligate a vettova-gliare lui e tutto il suo seguito. La era per altro una cosasingolare: come annessi a questo seguito, ricevevamonoi pure il mantenimento per noi e pe' nostri cavalli da-gli abitanti del paese che lo somministravano gratis; manon crediate mica che lo ricevessimo gratis noi: doveva-mo pagar tutto al prezzo corrente del mercato nelle manidell'intendente del mandarino che ne portava puntualis-simamente la lista de' prezzi, e veniva a raccogliere ilcorrispondente danaro. Pertanto l'essere compresi nelcorteggio del mandarino era certamente un onore per

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noi, ma non un grande favore ch'egli ne compartisse;perchè si trattava di cosa notabilmente vantaggiosa perlui, ove si consideri che vi era con noi un'altra trentinadi viaggiatori posti nella nostra medesima condizione, eprotetti alla stessa usanza di noi. Il paese dunque fornivale provisioni gratuite per tutti noi, e il mandarino inta-scava il loro prezzo che a tutti noi faceva sborsare.

CIII. Incidenti del viaggio per Pekino; arrivo, incontro con una carovana di Moscoviti.

Venticinque giorni furono impiegati nel viaggio a Pe-kino per mezzo ad una contrada infinitamente popolosa,ma, a quanto parvemi, malissimo coltivata. Benchè ven-ga tanto decantata l'industria di quegli abitanti, la loroeconomia, il lor governo domestico fanno pietà, il teno-re del lor vivere è miserabile, lo dico tale rispetto a noi,non ad essi perchè que' poveretti non ne conoscono unomigliore. Anzi l'eccessivo orgoglio de' medesimi, supe-rato soltanto in alcuni dalla povertà, è un accrescimentoa quanto chiamo loro miseria, onde sono costretto cre-dere che gl'ignudi selvaggi dell'America conducano unavita assai più felice della classe infima dei Chinesi, per-chè i primi, non avendo nulla, non desiderano nemmenonulla. Vedete i secondi superbi e audaci, mentre sononella generalità meri cenciosi e pitocchi. Della loroostentazione non ve ne potrei poi dire abbastanza. Perpoco che il possano, si fanno servire da una moltitudine

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di famigli o di schiavi, pompa ridicola al maggior se-gno, siccome lo è il disprezzo in cui tengono il rimanen-te dell'universo.

Devo dire che il viaggiare pei deserti inospiti dellaGran Tartaria m'allettò più in appresso che l'aggirarmifra questi paesi, ancorchè le strade ne sieno buone, benmantenute e comode per chi vi cammina. Ma nulla m'in-fastidiva più del vedere tanta imperiosa audace superbiadi quella genìa accompagnata da altrettanta dose di cras-sa ignoranza e stupidezza, se bene talvolta il padre Si-mone ed io ce ne siamo ancor divertiti.

Per esempio, capitati in vicinanza di una villa situataa dieci leghe circa dopo Nang-King spettante ad un gen-tiluomo campagnuolo, come lo chiamava il padre Simo-ne, avemmo prima di tutto l'alto onore di fare a cavallodue miglia in compagnia del padrone della casa stessa.Avea costui il portamento di un perfetto don Chisciotte,tanto era un miscuglio di boria e di povertà. Vestiva unabito adattissimo ad uno scaramuccia o ad un pagliac-cio: una zimarra di sudicia tela di bambagia da cui pen-zolavano due maniche, tutta frange per la vetustà e pie-na di buchi da tutte le bande; stava sotto di essa una ca-miciuola di taffettà unta e bisunta, che parea quella di unvero beccaio, onde sua signoria chinese avrebbe servitobenissimo di modello ad un artista per rappresentarquell'animale che i pittori cattolici sogliono mettere a'piedi di sant'Antonio. Cavalcava una rôzza magra, zop-picante, affamata, la quale, oltre allo scudiscio con cui ilcavaliere le lavorava la testa, avea bisogno di due schia-

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vi a piedi che le prestassero lo stesso servigio alla codaper farla andare. Così ci veniva a fianco, seguito da dic-ci o dodici schiavi, nel portarsi dalla città alla sua villeg-giatura da cui eravamo distanti non più di una mezzalega. Si camminava adagio come potete credere; maquando fummo ad un certo punto questa caricatura digentiluomo ne precedè.

Poichè la brigata del mandarino si fermò un'ora a undipresso nel villaggio per ristorarsi, profittammo dell'in-dugio per andare a visitare questo alto personaggio nellasua delizia campestre, vera specie d'ortaccio. Lo tro-vammo in un piccolo angolo rimpetto alla porta di casache stava facendo il suo pasto; ma gli piaceva essere ve-duto anche in tale atto, e ne fu detto che più lo avremmoguardato, più gli saremmo dati nel genio. Sedea sotto unalbero, simile alquanto alla palma, che gli riparava effet-tivamente il capo dal sole di mezzogiorno, e cui sovra-stava un ampio ombrello postovi col fine di rendere piùmagico l'effetto di quella vista. Sdraiato di peso, perchèera un omaccio greve e corpulento, sopra un seggiolonea bracciuoli, due schiave lo servivano a mensa, oltre adue altre, una delle quali imboccava con cucchiaio il suosire, l'altra teneva il tondo con una mano e con l'altraspazzava via le briciole che cadevano su la camiciuola ela barba di sua signoria.

*Quel bestione avrebbe credulo digradarsi se avesseadoperate le proprie mani in tutti quegli atti famigliariche i monarchi ed i re preferiscono fare da sè per nonessere toccati dalle ruvide dita del loro servidorame.

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Pensai allora alle torture che la vanità procura agli uo-mini, e quanto un orgoglio sì mal inteso debba esser mo-lesto a chi ha due dita di senso comune.*55

Lasciata al povero sciocco la soddisfazione di bearsi,credendo che stessimo ammirando la sua pompa, mentreinvece ne eccitava a compassione e disprezzo, prose-guimmo il nostro viaggio. Sol prima di partire, il padreSimone ebbe la curiosità d'informarsi quali prelibati cibicomponessero il pasto di quella specie di principe cam-pagnuolo, ed anzi gli fu compartita la grazia di assag-giarne. Tutto consisteva in una vivanda di riso bollitocon entro molli spicchi d'aglio e un sacchetto pieno dipepe verde e un'altra pianta indigena di que' paesi similealquanto al nostro zenzero, ma che sa di muschio e piz-zica come la senapa. A tutto ciò andava unito un pezzet-tino di castrato magro, bollito anch'esso col riso. Eccovila totalità dell'imbandigione della chinese sua signoria,di cui stavano aspettando gli ordini quattro o cinque ser-vi in distanza, ed aspettando anche, supponemmo, ilmomento del loro pasto che per lo meno non sarà statopiù lauto di quello del loro padrone.

Quanto al mandarino con cui facevamo questo viag-gio, egli veniva rispettato come un re, sempre circonda-to dai suoi gentiluomini e servito con sì sfarzosa etichet-ta che non abbiamo potuto vederne la faccia, fuorchè indistanza. Una cosa che notai si fu non esservi in tutto ilsuo traino un cavallo rispetto a cui un nostro cavallo da

55 Il tratto contraddistinto con due asterischi non si legge in diverse edizio-ni inglesi di questa storia.

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carretta o da basto non avesse avuta più bella apparenza.Egli è vero che non potevamo giudicar ciò con pienissi-ma cognizione di causa perchè tanti arredi e gualdrappecoprivano quelle bestie che a mala pena potevamo di-scernerne le teste e le zampe allorchè camminavano.

Io mi sentiva adesso alleggerito il cuore, ed essendocessate tutte le angosciose perplessità di cui vi ho giàdato conto, potei gustar meglio quanto fuvvi di piacevo-le in questa traversata, durante la quale non mi accaddenulla di sinistro se si eccettui l'essermi, nel passare oguadare un fiumicello caduto sotto me un cavallo, chemi fece, come si suol dire, acquistare la cittadinanza delpaese, cioè andare lungo disteso in acqua, senza nondi-meno farmi altro danno fuor quello d'inzupparmi dallatesta ai piedi, poichè il torrente non era molto profondo.Rammemoro una tale minuzia, perchè fu in quell'occa-sione che mi si guastò il mio libretto da tasca ove, comel'ho accennato qualche tempo prima, io notava i nomide' luoghi e abitanti che mi sarebbe occorso in appressocommemorare. Non avendo io fatto attenzione alla pagi-na cui l'umidità fece prendere la muffa, se ne dileguaro-no le parole al segno di non potere essere mai più lette;donde mi è venuto il dispiacere di non poter citare alcu-ne stazioni del presente mio viaggio.

Finalmente arrivammo a Pekino. Io non avea presacon me altra persona di mio servigio che il giovine la-sciatomi a tal fine da mio nipote il capitano allorchè cidovemmo separare, il qual giovine veramente mi si mo-strò attento e fedele. Nemmeno il mio socio aveva altri

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che lo servisse fuor d'un suo parente. Entrambi nondi-meno ci assumemmo le spese del viaggio pel vecchiopilota portoghese che desiderò vedere la corte della Chi-na, e che ci fece da interprete, perchè conosceva la lin-gua chinese, e parlava anche il francese e un poco l'in-glese. E da vero questo vecchio ne fu utile in ciò e incose di maggior importanza, come subito lo udirete.

Non era passata una settimana da che eravamo a Pe-kino, quando venne a trovarmi tutto ridente:

‒ “Ho, diss'egli, da raccontarvi una cosa che dee farvistar molto allegro.

‒ Farmi star molto allegro! replicai. Che cosa sarà? Inquesto paese non conosco nulla che possa darmi grandeallegrezza o tristezza.

‒ Sì, sì: allegro voi e malinconico me.‒ E perchè nel caso malinconico voi?‒ Perchè mi avete fatto fare un viaggio di venticinque

giornate sin qui in vostra compagnia, e mi lascerete tor-nare indietro solo. Come farò io, povero diavolo! a rag-giugnere un'altra volta il mio porto senza un vascello,senza un cavallo, senza pecunia?” perchè danaro nonparea lo sapesse dire, e andava giuocando di latino isuoi discorsi per farci stare più allegri.

In somma mi raccontò come si trovasse a Pekino unagrande carovana di negozianti moscoviti e polacchi, chesi disponeva entro quattro o cinque settimane a partireper terra alla volta della Moscovia.

‒ “Son ben sicuro, soggiunse, che profitterete di que-sta occasione, e mi lascerete tornare addietro solo”.

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È inutile il dirvi se rimasi gratamente sorpreso da talbuona notizia; lo rimasi tanto che per qualche temponon fui buono di mettere insieme una parola per rispon-dere a chi me la portò. Finalmente mi volsi a lui.

‒ “Come sapete questa cosa? Chi ve l'ha detta? Sietepoi sicuro che sia vera?

‒ Sì, rispose. Stamane, dietro la strada, ho incontratoun antico mio conoscente, un Armeno, che fa parte dellacarovana di cui vi ho parlato. Venuto ultimamente daAstracan, divisava trasferirsi a Tonchino, ove lo conobbila prima volta; ma poi, cangiato di proposito, ha risolutoseguire il viaggio della carovana sino a Mosca e di lìraggiugnere di nuovo Astracan per acqua sul Wolga.

‒ Or bene, gli dissi, non v'inquieti la paura di doverrestare addietro solo. Se mi appiglio al mezzo che miproponete per rivedere l'Inghilterra, sarà colpa vostra sesiete costretto ritornare a Macao”.

Cercato indi il mio socio per vedere che cosa ne con-venisse di fare, e raccontategli le nuove che mi diede ilpiloto, gli chiesi se un viaggio di tal sorta gli potrebbeconvenire.

‒ “Per parte mia, mi rispose, non ho difficoltà di farquello che farete voi. I miei affari al Bengala gli ho giàassestati e lasciati in buone mani; onde avendo già fattivoi ed io vantaggiosi negozi da queste parti, ove ne rie-sca di convertire i nostri guadagni in tante partite di setacruda e lavorata della China che meritino l'incomodo ditrasportarlo non mi parrebbe vero di rivedere la mia pa-

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tria, perchè di lì potrei poscia tornare al Bengala co' va-scelli della compagnia dell'Indie”.

Trovatici d'accordo su questo punto, divisammo, se ilpilota portoghese acconsentiva venire con noi, di spesar-lo sino a Mosca, o anche in Inghilterra se così gli pia-cea; nè da vero ci saremmo mostrati eccedentemente ge-nerosi e non avessimo fatto altro per lui, perchè i servigiche ne avea prestati valeano molto di più. Avemmo inesso un buon pilota sul mare ed un ottimo sensale soprala spiaggia: la sola sua mediazione presso i mercantigiapponesi ne avea fatto intascare di belle centinaia disterlini. Consultatici dunque a vicenda su questo punto edesiderosi di dargli una maggiore gratificazione, che infine adempivamo con ciò un dovere di giustizia e nientedi più, desiderosi ancora di averlo con noi, com'uomoche ne diveniva in tutte le occasioni sì necessario, risol-vemmo regalargli fra tutt'a due tanto oro monetato quan-to equivalesse ad una somma circa di cento settantacin-que sterlini, oltre al sostenere le spese del viaggio cosìper lui come pel suo cavallo, eccetto quelle del trasportodelle proprie sue mercanzie. Combinate insieme questerisoluzioni, lo facemmo venire a noi per renderglielenote.

‒ “Vi siete lamentato, gli dissi, su la possibilità chenoi, partendo di qui, vi lasciassimo tornare addietrosolo. Vi dico mo adesso che non resterete addietro deltutto e che se ci risolviamo a tornare in Europa con lacarovana, nol faremo senza domandarvi in nostra com-

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pagnia. Vi abbiamo dunque chiamato per sentire su diciò le vostre intenzioni.

‒ “È un lungo viaggio, disse il nostro vecchio crollan-do il capo; ed io non ho nè pecunia per arrivare sin là,nè pecunia per mantenermici quando ci sono.

‒ Questo è quello che c'immaginavamo, io soggiunsi,e per ciò abbiamo deciso di darvi un attestato della no-stra gratitudine pei servigi che ne avete resi ed anchedella soddisfazione che proviamo nell'avervi con noi”.

Qui gli raccontai qual somma gli avessimo assegnata,affinchè la potesse mettere in traffico come avremmofatto noi co' propri nostri danari.

‒ “Quanto, continuai, alle spese del viaggio se accon-sentite di venire con noi, vi metteremo franco di esse,salvo il caso di morte o disgrazie non prevedibili, inMoscovia o in Inghilterra. Voi dovrete pensare unica-mente a pagare il trasporto delle mercanzie che acqui-sterete.

‒ Con le signorie loro, il pover uomo esclamò, vengoin capo al mondo!” e si vedea proprio che gongolavadalla gioia.

Ci allestimmo dunque pel nostro viaggio. Ma accaddea noi quanto s'avverò per gli altri mercanti della carova-na. Avevamo tutti tante cose da disporre che, in vece dicinque settimane, ci vollero quattro mesi e alcuni giorniprima che tutti i nostri affari fossero a sesto.

In questo intervallo, il mio socio e il vecchio pilotatornarono a Quinchang per esitare alcune mercanzie cheavevamo depositate in quel magazzino. Io, in compa-

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gnia di un negoziante chinese di cui avevo fatto cono-scenza a Nang-King e venuto per affari propri a Pekino,tornai a Nang-King, ove comprai novanta pezze di finodamasco, alcune tessute d'oro, che potei far essere a Pe-kino quando appunto vi arrivava il mio socio reduce daQuinchang. Oltre a ciò, comprammo dugento pezze didrappo di seta di varie qualità, una grande partita di setacruda ed altre merci che, unite a quelle portate dal difuori, formavano un carico equivalente al valore di circatremilacinquecento sterlini. Queste mercanzie, e di piùuna provista di tè, di tela di bambagia, e di noci moscatee di garofani per un carico di tre cammelli, ci costrinse-ro ad allestire diciotto di queste bestie, non compresequelle che dovevano servire al nostro trasporto. Aggiun-ti due o tre cavalli da cavalcare, due che ci portavanodietro le vettovaglie, gli animali che impiegammo furo-no ventisei tra cammelli e cavalli.

CIV. Partenza della carovana; gran muraglia della China.

Principiava il febbraio quando abbandonavamo Peki-no. Grande era la carovana e, a quanto posso ricordarmia un dipresso, composta di un numero di cammelli e ca-valli fra i trecento o quattrocento e di centoventi uominiarmati di tutto punto e preparati a qualunque evento; chèle carovane orientali sono sottoposte agli assalti così de-gli Arabi come dei Tartari; benchè i secondi non sieno

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propriamente da temersi quanto i primi, nè sì barbari nelcaso che rimangano vittoriosi.

Gli uomini appartenevano a separate nazioni; il nu-mero maggiore per altro era formato da una sessantinadi trafficanti e abitanti di Mosca, benchè alcuni fra que-sti spettassero alla Livonia. Fu un inesprimibile contentoper noi il trovarvi cinque Scozzesi che avevano in oltrela ciera d'uomini grandemente pratici nei negozi e facol-tosi.

Dopo una giornata di viaggio le guide, che erano cin-que, chiamarono al gran consiglio, così lo denominava-no essi, tutti gl'individui di riguardo e i mercanti, vale adire tutti quelli della carovana, eccetto i servi.

In questo gran consiglio ciascuno depositò una certaquantità di danaro per formar quella che chiamavasimassa comune, donde levavasi l'occorrevole per farescorta di foraggi lungo la strada prima d'arrivare laddo-ve fosse impossibile il provederne, per la paga delle gui-de, per procurare rinforzi di cavalli, se fossero occorsi, esimili cose. Si passò indi a quanto dicevasi organizzareil viaggio. Ciò consisteva nel nominare capitani e uficia-li che ci comandassero in caso d'un assalto, dessero laparola d'ordine, e distribuissero a ciascuno la sua fazio-ne. Una tal previdenza era tutt'altro che inutile, come lovedremo a suo tempo.

La strada in quel tratto di paese è popolata oltre ognidire e piena di vasai e temperatori di terra, di queglioperai cioè che preparano la terra della contrada ai lavo-ri della conosciuta porcellana della China. Mentre cam-

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minavo tra questo popolo, venne a me il nostro vecchiopiloto che n'avea sempre qualcuna a dirci per farne ride-re, e ghignava egli pure.

‒ “Voglio mostrarvi la più grande rarità di tutto il pae-se, tanto che finalmente, dopo tutti gli spregi che avetedetto di questa povera China, possiate dire una volta:Ho veduto qualche rosa di raro che non si vede altroche qui”.

Poi dopo avermi messo in curiosità, il vecchio ma-riuolo si faceva pregare per dirmi che cosa fosse. Parlòfinalmente.

‒ “Una casa d'un gentiluomo tutta fabbricata di mer-canzia della China.

‒ Oh bella! esclamai. Di che cosa altro devono fabbri-care una casa i Chinesi?

‒ Intendo di ciò che voi, signori Inglesi, chiamatemercanzia della China, e negli altri paesi del mondo sichiama porcellana56.

‒ Può darsi, gli risposi ridendo anch'io. Quanto ègrande? Se sta in una cassa da poterne caricare un cam-mello, cercheremo di comprarla.

56 È vero in fatti che la parola inglese ware indicando mercanzia, Chinaware significa mercanzia della China; ed è anche vero che cercando in un di-zionario la parola inglese corrispondente a porcellana trovate china ware. Magl'Inglesi, parlando e scrivendo, se vogliono indicare semplicemente porcella-na, si contentano a valersi della sola parola china. Il piloto portoghese sarà an-dato a pescare in un qualche dizionario questo giuoco di parole, che, per dirvero, non è un'arguzia peregrina, e che quando potesse esserlo, lo sarebbe sol-tanto riportandola in lingua inglese.

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‒ Da caricarne un cammello! gridò il pilota alzando lemani. Ci sta dentro nient'altro che una famiglia di trentapersone”.

Entratami allora, lo confesso, la curiosità di vederequesta casa, ci andai; ma conobbi non essere altro in so-stanza che una casa di legno una di quelle che chiamia-mo in Inghilterra case composte d'assi a stucco. Qui so-lamente lo stucco era, come diceva il mio pilota, mer-canzia della China, cioè la terra di cui si fa la porcella-na. La parte esterna su cui il sole batteva, era veramenteabbagliante, e faceva ottima vista essendo perfettamentebianca e dipinta. qua e là di figure azzurre come i granvasi azzurri di porcellana della China di cui siamo sì va-ghi nell'Inghilterra; tutto l'edifizio avea tal saldezzacome se fosse stato di terra cotta. Quanto alle pareti in-terne in vece d'essere coperte di legno intarsiato andava-no coperte di piccole lastre pitturate, di quelle cui gl'In-glesi danno il nome di galley tiles57, tutte di finissimaporcellana, come finissime ne erano le figure splendentid'una stupenda varietà di colori e d'oro con essi. Più la-stre ci volevano a contenere una sola figura, ma eranoconnesse con tanta arte e la mastice formata della stessaterra le teneva sì bene avvicinate fra loro, che difficil-mente ne avreste scoperte le commessure. I pavimentidelle stanze erano della medesima composizione, maduri come i nostri lastrichi di mattoni; lustri e puliti, nonper altro colorati, fuorchè in alcune specie di gabinetti il

57 Certe piastre d'una specie di maiolica da cui vanno coperte per amore dimondezza, e più di sicurezza, le cucine de' bastimenti.

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cui pavimento era fatto con le stesse lastre che copriva-no le pareti; gli ornati dell'intera casa tutti della stessamateria; notabile il cielo delle stanze per essere nera esplendente la porcellana che ne vestiva la concavità.Questa casa dunque di mercanzia della China meritavadi essere contemplata e, se non me lo avesse impeditol'orario del mio viaggio, mi sarei fermato ad esaminarnele particolarità alcuni giorni. Coperte erano, mi fu detto,della stessa materia in fondo e ai lati le fontane e le va-sche da pesci; fabbricate di terra da porcellana colla lestatue disposte in filari ne' giardini.

È questa una delle singolarità della contrada in cui,bisogna confessarlo, i Chinesi sono eminenti: ma losono ancora altrettanto nel millantarsene. Mi racconta-rono sì incredibili cose su i prodigi di tali loro manifat-ture, che giudicherei tempo perduto pei leggitori e perme il ripeterle. Vi basti questa: mi voleano far credereche un artefice avesse fabbricato un bastimento con sar-tiame, alberi, vele, tutti in somma gli attrezzi di porcel-lana, buono per trasportare cinquanta uomini.

Se m'avessero detto di averlo anche varato e fatto en-tr'esso un viaggio al Giappone, non mi sarei sentito ca-pace di tacere; ma poichè non andarono tanto in là, micontentai di battezzarli in mio cuore, mi si passi questaparola, per solennissimi spacconacci; sorrisi e non dissialtro.

La curiosità destatami da quel singolare edifizio mifece restare indietro dalla carovana un paio d'ore, colpaper cui il conduttore mi tassò di tre scellini aggiugnendo

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che se ciò mi fosse accaduto a tre giornate di camminodi là della Grande Muraglia, come mi era accaduto a tregiornate di qua, sarei stato condannato a pagare quattrovolte altrettanta somma, e m'impose in oltre la legge difare una pubblica scusa nel primo giorno di gran consi-glio. Promisi di conformarmi meglio alle regole d'allorain poi; e, se devo dire la verità, capii in appresso comequesta stretta osservanza, intesa a tenerci tutti raccoltiinsieme, fosse indispensabile alla comune nostra salvez-za.

Passati altri due giorni, arrivammo alla Grande Mura-glia eretta dai Chinesi per munirsi contro alle invasionidei Tartari: opera veramente grande, che si estende peraltro con una inutilità di prolungamento ad una catena dimontagne i cui dirupi e precipizii sono sì insuperabiliche il nemico non potrebbe passarli, nè raggiugnerneinerpicandosi la cima; chè, se lo potesse, nemmeno laGrande Muraglia lo terrebbe addietro. Ne dissero chequesta immensa difesa è lunga mille miglia mentre lacontrada ch'essa dee proteggere, misurata in linea retta,nè calcolandone le giravolte, non ha una lunghezzamaggiore di cinquecento miglia. Alta all'incirca quattrotese, ne ha in alcuni luoghi altrettante di grossezza.

Mi fermai pressochè un'ora (nè qui vi fu il caso di tra-sgredire ordini perchè altrettanto tempo ci volle ai com-pagni della carovana per essere fuori della porta di quel-l'enorme cancello), mi fermai, dissi, pressochè un'ora adesaminare il grande edifizio per tutti i lati da vicino e inlontananza fin dove i miei occhi arrivavano. Una guida

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chinese che m'aveva esaltata la Grande Muraglia comela prima meraviglia del mondo, si mostrò desiderosa diudire intorno ad essa la mia opinione.

‒ “È ottima, risposi, per tener addietro i Tartari”.La qual risposta costui non intese pel suo vero verso,

onde la ebbe per un complimento; ma il mio vecchio pi-lota sì, la intese e si diede a ghignare; poi venne a dirmi:

‒ Signor Inglese, il vostro linguaggio è di due colori.‒ Di due colori? Che cosa v'intendete di dire?‒ Che il vostro linguaggio par bianco guardandolo da

un lato e nero guardandolo dall'altro; scoperto per unverso, coperto per l'altro. Agli orecchi di quel buon Chi-nese dite che quel muraglione è buono per tenere addie-tro i Tartari; ai miei che non è buono ad altro che per te-nere addietro Tartari. Vi intendo io, sapete, signor Ingle-se! v'intendo io, ma il signor Chinese v'ha inteso alla suamaniera.

‒ In fatti, signor Portoghese” gli dissi io, “credete voiche questa muraglia resisterebbe ad un esercito de' no-stri paesi preveduto d'un buon treno d'artiglieria, o a duecompagnie di minatori europei? Non avrebbero bisognodi batterla nemmeno dieci giorni per farci una brecciadonde entrasse un esercito in linea di battaglia, o perfarla saltare in aria, sì a dovere che non ce ne restassepiù il vestigio.

‒ È ben quello che pensavo io”.Il Chinese era nelle spine per la voglia di sapere che

cosa avessi detto al mio pilota; ma io non permisi a que-sto di ripeterglielo, se non passati pochi giorni, perchè

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allora saremmo stati quasi fuori del suo paese, ed eglinon avrebbe tardato molto a separarsi da noi. In fattiquando arrivò il tempo che seppe tal mio discorso, sibuttò muto per tutto il rimanente del viaggio, nè impor-tunò più i nostri orecchi con le meraviglie della sua Chi-na.

CV. Caccia; primi affari co' Tartari; conseguenzedel voler comprare un cammello; combattimento co' Tartari Mongoli; arrivo alle frontiere della Moscovia.

Appena fummo fuori da questa gigantesca ineziachiamata muraglione, nè dissimile dal vallum Pictorum(bastione dei Pitti) fabbricato dai Romani e tanto famo-so nella Nortumberlandia, cominciammo a trovare scar-so di popolazioni il paese, perchè qui i Chinesi eranoper lo più costretti a confinarsi nelle città e piazze fortionde non essere esposti alle invasioni e depredazioni de'Tartari che, andando in grandi corpi al saccheggio,avrebbero trovato all'aperta campagna una ben deboleresistenza per parte di quegl'inermi abitanti.

Qui subito si principiò a sentire la necessità di tenersiben raccolti in carovana durante il viaggio perchè ve-demmo diverse bande di Tartari che vagabondavano at-torno. Quando per altro fui giunto a scorgerli più distin-tamente, seppi sempre meno persuadermi che l'impero

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chinese potesse temere di essere conquistato da sì spre-gevoli cialtroni, orde di selvaggia canaglia che non samantenere alcuna sorte di ordine, nè intende disciplina ometodo di combattere. I loro cavalli, vere carogne maladdestrate, non sono buoni a nulla. Di tutte queste coseci accorgemmo al primo scontrarli, e ciò fu appena en-trammo nella parte più selvaggia della contrada.

In quel giorno stesso il nostro conduttore diede la per-missione a sedici de' nostri di andare a caccia, e che bel-la caccia era quella! una caccia di pecore. Pure poteachiamarsi caccia perchè non mi è mai toccato vedereanimali di tale razza più selvaggi e veloci nel correre.Unicamente non corrono per lungo tempo, onde siete si-curi del buon esito della vostra spedizione quando vi cimettete, perchè si mostrano sempre a trenta o quarantain un branco e, da vere pecore, fuggono tutti insieme.

Durante questo genere strano di caccia, il caso volleche incontrassimo una quarantina di Tartari. Se andasse-ro a caccia di pecore, come facevamo noi, o fossero incerca d'un'altra sorta di preda, non lo sapevamo. Certo,non sì tosto ne videro, un di coloro diede fiato ad unaspecie di corno d'un tal aspro suono che, non avendonemai udito il compagno ed io, per parentesi, non ho nes-suna smania di udirlo una seconda volta, supponemmociò fosse per chiamare intorno a sè i loro amici; e indo-vinammo, perchè in meno di dieci minuti comparve adun miglio in circa di distanza un'altra masnada di qua-ranta o cinquanta di costoro: ma, quando si mostrarono,la faccenda era già finita come udirete.

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Uno degli Scozzesi trafficanti a Mosca trovatosi acaso con noi, appena udì lo squillo del corno, ne dissenon aver noi altro a fare che assalirli tosto e senza per-dere tempo; indi schieratici in linea di battaglia, ne chie-se se tutti fossimo ben risoluti. Udito che eravamo tuttiprontissimi a seguirlo, cavalcò incontro a costoro chestavano guardandoci, uniti in un mucchio, disordinati enon presentando alcuna fronte di difesa. Accortisi cheavanzavamo, scoccarono i loro strali, che per buona sor-te non arrivarono sino a noi. Sembra ch'essi sbagliasseronon la mira, ma la distanza, perchè le loro frecce cadde-ro tutte in poca distanza da noi; del resto, erano statescagliate con tal giusta mira che, se fossimo stati più in-nanzi di venti braccia, molti de' nostri sarebbero rimastiferiti se non uccisi.

Ci fermammo immantinente e, ad onta della distanzapiuttosto notabile che ci separava dai nemici; facemmofuoco mandando su loro il contraccambio delle freccescagliate contro di noi in palle di piombo; poi seguimmodi gran galoppo la via stessa della nostra scarica perpiombar loro addosso con le sciabole, chè così ne aveaconsigliati il nostro Scozzese. Era un semplice nego-ziante; pure in questa occasione sì comportò con tantovalore ed energia, e, aggiungasi, sangue freddo, che nonho mai conosciuto un uomo più atto di lui a comandareun'azione guerresca. Poichè gli avemmo al tiro delle no-stre pistole le scaricammo in faccia ad essi, e sguainam-mo tosto le sciabole; ma non vi fu il bisogno di adope-rarle, perchè si diedero tutti a fuggire nella massima im-

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maginabile confusione. Trovammo soltanto qualche re-sistenza alla nostra diritta, ove tre della masnada si era-no fermati facendo segni affinchè si raccogliessero in-torno di loro i fuggitivi armati di certe specie di scimi-tarre e d'archi che pendevano dai loro dorsi. Il valentenostro comandante, senza domandare a niuno di noi chelo seguisse, si mise al galoppo per correre su i tre, un de'quali egli balzò d'arcione col calcio del suo moschetto, ene stese morto un altro con un colpo di pistola; il terzofuggì. Così terminò la battaglia; ma ne occorse intantouna disgrazia: la fuga delle pecore prese alla caccia.Non avemmo un solo d'ucciso o che avesse solamentesofferta una scalfittura. Non andò così pei Tartari cheebbero cinque uomini morti, quanti feriti non lo sapem-mo; ma ben sapemmo un'altra cosa, e fu che il drappellomostratosi alla distanza d'un miglio, spaventato dallostrepito de' nostri archibusi, fuggì, nè si arrischiò più ci-mentarsi con noi.

Finora eravamo sempre nel dominio chinese, onde iTartari non si mostravano così ardimentosi come li tro-vammo di poi. Dopo cinque giorni circa di cammino en-trammo in un deserto sterminatamente grande e selvag-gio ove ne convenne far tre giorni di cammino portan-doci addietro la nostra acqua in otri di pelle e stando acampo l'intera notte come odo si pratichi ne' deserti del-l'Arabia.

Chiesto alle nostre guide chi dominasse su questa or-rida contrada, mi fu detto essere quella una terra di fron-tiera che avrebbe potuto chiamarsi Terra di nessuno. Fa-

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cea propriamente parte del Gran Karakathay o Gran Tar-taria, benchè venisse riguardata pertinenza dell'Imperochinese, il quale per altro non si prendeva alcuna curaper tenerlo netto da invasioni di ladri; onde quel desertoveniva considerato siccome il tratto più tristo del nostrocammino, quantunque avessimo da passare solitudinianche più vaste.

Nell'attraversare questa, che a me parve certamenteassai spaventosa, vedemmo due o tre volte alcune picco-le bande di Tartari che per altro tiravano diritto per laloro via nè parea concepissero disegni a nostro danno;onde li trattammo come diceva un tale che avrebbe fattose incontrava il diavolo: “S'egli non ha nulla da dire ame, io non ho nulla da dire a lui”, li lasciammo andare.

Una volta ciò non ostante un branco di costoro venu-toci in maggior vicinanza si mise di piè fermo a guar-darci. Se lo facessero con intenzione di scandagliarne odi assalirne, non capivamo; ad ogni buon fine, quandogli avemmo oltrepassati in qualche distanza, compo-nemmo una retroguardia di quaranta uomini e ci tenem-mo pronti a ricevere costoro lasciando intanto procedereinnanzi per un mezzo miglio la carovana. Ma di lì ad unpoco que' galantuomini se ne andarono da un'altra parte.Vollero soltanto darci il saluto della partenza scoccando-ne cinque frecce, una delle quali, ferito un nostro caval-lo, lo rese inabile affatto al servigio; laonde nel succes-sivo giorno dovemmo abbandonare lì quella povera be-stia, necessitosa orrendamente d'un maniscalco. Forseavranno lanciate altre frecce che non arrivarono sino a

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noi, ma dopo quelle cinque non vedemmo più nè freccenè Tartari.

Camminammo circa un mese dopo il narrato avveni-mento tenendo strade non buone come le precedenti, an-corchè poste tuttavia negli stati dell'imperatore dellaChina, e che si riducevano per lo più a villaggi, alcunidei quali erano fortificati per timore delle invasioni deiTartari. Giunti ad uno di questi villaggi posto in distanzadi due giornate e mezzo della città di Naum, mi vennevoglia di comprare un cammello. Di questi animali edanche di cavalli, come Dio li manda, da vendere, c'èquivi abbondanza, atteso il bisogno che spesso hanno dirinovarli le carovane passando di lì. Un Chinese, al qua-le comunicai tal mio desiderio, si offerse di andare lui aprovedermi il mio cammello. Io da vero matto, e volen-do usare maggior cortesia, me gli esibii per compagno.Si trattava d'un luogo non più di due miglia lontano dalvillaggio ove cammelli e cavalli stavano al pascolo sottocustodia.

Per amore di varietà feci la strada a piedi in compa-gnia del mi vecchio pilota e del Chinese. Arrivati al luo-go, vedemmo una bassa terra paludosa, simile ad unparco, cinta d'un muro che era fatto di sassi ammucchia-ti senza gesso o calcina. Ne custodiva l'ingresso un pic-colo corpo di sentinelle chinesi. Scelto il mio cammelloe convenuti sul prezzo, me ne venni via. Il Chinese miconduceva il cammello, quando fummo sorpresi all'im-provviso da cinque Tartari a cavallo. Due di que' malan-drini, affrontato il conduttore del cammello, gliel tolsero

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intanto che i tre altri vennero arditamente per investirme e il vecchio pilota, giacchè ci vedevano disarmati. Ionon aveva in fatti altr'arma che la mia spada, debole di-fesa contro di tre uomini a cavallo. Nondimeno quandoil primo di costoro mi vide sguainarla, divenne perples-so e si fece addietro, perchè ve li do per solenni codardi;il secondo arrivatomi addosso di scanso mi lasciò anda-re sì violenta botta su la lesta che la sentii solamente piùtardi, allorchè rinvenuto in me, non sapeva più nè di checosa si trattasse nè dove fossi, trovandomi lungo distesoper terra.

Ma la providenza, quando meno lo pensate, conducele cose in modo che vi libera dai pericoli i men prevedu-ti. Il mio vecchio pilota, quel degno Portoghese, la cuibuona voglia per me non fu mai in difetto, aveva in ta-sca una pistola, ch'io nol sapeva, e nol sapevano nem-meno i Tartari, chè, se lo avessero saputo, non ci assali-vano: i vigliacchi son sempre coraggiosissimi ove noncredono ci sia pericolo. Il mio vecchio pilota dunque ve-dendomi stramazzato andò con cuore ardito incontro alcialtrone che m'avea messo in quella postura, e tenendola pistola in una mano, dell'altra traendolo con gran ga-gliardia verso di sè, perchè colui era a cavallo, gli scari-cò la sua arma su la testa, sì che cadde a terra morto.

Corso allora, incontro a colui che era divenuto per-plesso, come vi dissi, prima che gli venisse voglia di ve-nire avanti di nuovo, gli menò un colpo di scimitarra,chè questa non si staccava mai dal fianco suo. Mancò,per dir vero, l'uomo, ma andò a percuotere il cavallo con

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un colpo sì netto che gli portò via netto un orecchio e unlato della faccia. La povera bestia, fatta furiosa dalla fe-rita, non era più capace di lasciarsi governare dal suocavaliere, benchè il briccone si tenesse in sella assaibene. Essa si diede a fuggire portando il Tartaro affattofuori di tiro al pilota; finalmente a qualche distanza al-zatasi su le zampe di dietro, gettato giù d'arcione chi lacavalcava, gli cascò addosso.

Intanto il povero Chinese, cui era stato portato via ilcammello, veniva avanti, ma non aveva armi con sè. Ciònon ostante, veduto il Tartaro stramazzato e il cavalloche gli stava sopra, corse a lui e, afferrata una enormearma che gli pendea dal fianco per sua disgrazia, ed era,non propriamente una scure, ma qualche cosa di simile,gliela strappò di dosso, e tanto s'industriò che gli fecesaltar via il cervello.

Ma il mio vecchio non avea per anche aggiustati iconti col terzo Tartaro; e vedendo che non fuggiva,come egli ci si aspettava, e che nemmeno veniva avantiper combattere, come poteva temerlo, ma che rimanevali come un palo, si mise quatto quatto a caricar di nuovola sua pistola. Avvedutosene allora il Tartaro, si diedealla fuga lasciando al pilota, mio vero campione, comelo chiamai in appresso, una compiuta vittoria.

In questo mezzo, io andava riavendomi. Credei daprima d'essermi svegliato da un placidissimo sonno. Ma,come vi ho raccontato dianzi, non capivo dove mi fossi,perchè mi trovassi sdraiato per terra, in somma in chemodo stesse quella faccenda. Pochi momenti appresso,

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sentii del dolore, benchè non sapessi dove. Portatomiuna mano al capo, la ritrassi insanguinata; compresi ovemi dolesse e in un subito, tornatami affatto la mia me-moria, tutte le precedenti circostanze mi furono nuova-mente presenti.

Balzato immantinente in piedi, afferrai la mia spada,ma non vedevo più nemici. Trovai un Tartaro morto edun cavallo vivo che gli stava quietissimamente da canto.Guardando più oltre, si mostrò al mio sguardo il miocampione e liberatore, andato allora ad osservare checosa aveva fatto il Chinese che tornava addietro con lasua scure fra le mani. Al vedermi in piede, quel poverouomo che m'aveva temuto ucciso, corse ad abbracciarmicon eccesso di contentezza. Vedendo sgocciolare il miosangue volle visitare ove fosse la mia ferita; ma non eragran cosa: era piuttosto un'ammaccatura derivata daquel maladetto pugno, ma che non portò gravi conse-guenze; in fatti di lì a due o tre giorni fui perfettamenteguarito.

Con tutta la nostra vittoria per altro non feci un gran-de guadagno: acquistai un cavallo e perdei un cammel-lo. Un fatto singolare poi si fu quello che, tornati al vil-laggio, il Chinese armò la pretensione ch'io pagassi ilcammello. La non mi pareva giusta, e dovemmo entram-bi comparire davanti ad un giudice di pace chinese. Perdare a questo giudice il suo avere, si comportò con gran-de discernimento ed imparzialità. Dopo averne uditi l'u-no e l'altro, domandò gravemente al Chinese che era ve-nuto con me per comprare il cavallo:

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‒ “Al servizio di chi siete voi?‒ Di nessuno, rispose il Chinese, Andai con questo

straniero, e accennava me.‒ A requisizione di chi andaste? tornò a domandare il

giudice.‒ A requisizione dello straniero stesso, rispose il Chi-

nese.‒ Dunque, pronunziò il giudice, in quel tempo siete

stato servitore dello straniero, e poichè il cammello fuconsegnato al servitore dello straniero, s'intende conse-gnato a lui e conviene che lo straniero lo paghi”.

La cosa, lo confesso, mi parve sì chiara che non tro-vai una parola da replicare, ed ammirando una conse-guenza sì ben dedotta da un giusto ragionamento e laprecisione con cui fu stabilito, pagai di buon grado ilcammello e mandai per comprarne un altro. Notate peraltro che non andai io in persona. Ci ebbi troppo pocogusto alla prima.

La città di Naum è nelle frontiere dell'Impero chine-se; la dicono fortificata, e per questi luoghi lo è; perchèm'arrischio affermare che tutti insieme i Tartari del Ka-rakathay, e credo bene che ammontino ad alcuni milioni,non giungerebbero ad atterrarne le mura con le lorofrecce e i loro archi; ma uno che volesse sostenerla con-tra un forte assalto d'artiglieria si farebbe ridere in facciada chi lo udisse.

Ci mancavano, come ho detto, circa due giorni primadi arrivarvi, quando a ciascuna stazione della stradamaestra vennero spediti messaggeri a tutti i viandanti

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per avvertirli che si fermassero finchè fosse pronta unaguardia da mandar loro onde scortarli, perchè un corpoinsolito di Tartari Mongoli, che facevano diecimila uo-mini in tutto, si era fatto vedere trenta miglia al di làdella città.

Notizia veramente tutt'altro che graziosa per viaggia-tori; nondimeno fu un pensiere molto cortese che il go-vernatore si prese per noi e ci confortammo al sapereche avremmo avuta una guardia in nostra difesa. Di fat-to due giorni dopo arrivarono a noi dugento soldati spe-ditine da una guarnigione della China che ne stava a si-nistra ed altri trecento dalla città di Naum. I trecento cimarciavano in fronte, i dugento alla retroguardia, le gui-de a ciascun lato de' nostri cammelli, la carovana nelmezzo. Così ordinati e ben preparati alla battaglia, cicredemmo buoni di tener testa a diecimila Tartari Mon-goli; ma nel dì successivo quando comparvero, vedem-mo che la cosa avrebbe potuto andare ben altrimenti.

Era una mattina di buon'ora allorchè, venendo via dauna piccola città detta Changu, ci trovammo ad un pic-colo fiume che conveniva traghettare in barca. Se i Tar-tari avessero avute due dita d'intelligenza, doveano sce-gliere il momento che eravamo imbarcati per assalirci,perchè la nostra retroguardia era lontana da noi, ma quinon si mostrarono. Bensì dopo tre ore di viaggio, entratiche fummo in un deserto della lunghezza d'oltre a quin-dici o sedici miglia, un nugolo di polvere sollevatosi infaccia noi ne avvertì che starebbero poco a capitare i ne-

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mici: e stettero poco da vero, perchè ci venivano incon-tro di gran galoppo.

I Chinesi che ci marciavano in fronte, e che parevanoaltrettanti gradassi il dì innanzi, principiavano a sbigot-tirsi, poichè si guardavano spesso alle spalle, segno nonequivoco in un soldato che ha voglia di battersela. Comela pensava io, la pensava anche il mio vecchio pilota,che venutomi da presso, mi disse:

‒ “Signor Inglese, que' conigli hanno bisogno di esse-re animati; se no, ci rovineranno quanti siamo. Vedo ioche, se i Tartari arrivano, non faranno resistenza di sortaalcuna.

‒ È quello che prevedo io pure, gli risposi. Ma comesi fa?

‒ Come si fa? ripetè. Fate avanzar cento de' nostri uo-mini, che, cinquanta per parte ne fiancheggino l'ale, e incompagnia di ardimentosi prenderanno coraggio ancoressi. Senza ciò, quella gente là volta casacca”.

Cavalcai tosto innanzi per comunicare un tal disegnoal nostro conduttore che lo approvò pienamente. A nor-ma di ciò, cinquanta di noi si portarono all'ala destra,cinquanta alla sinistra della vanguardia chinese, intanto-chè il rimanente formava una linea di riserva. Così cam-minammo lasciando che i dugento Chinesi della retro-guardia facessero un corpo da sè in guardia de' cammel-li: solamente in un caso di bisogno cento di loro sareb-bero venuti a rinforzare gli ultimi cinquanta nostri uomi-ni.

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In Somma i Tartari vennero; e in che numero venne-ro! Quanti, non potemmo contarli; ma se non erano piùdi diecimila, non erano meno a quel che ne parve. Unasola divisione di essi si fece avanti a scandagliare la no-stra posizione correndo di fronte verso la nostra linea.Poichè gli avemmo a tiro di schioppo, il conduttore or-dinò alle due ale di avanzarsi e dar loro un saluto di ar-chibugiate da entrambi i lati; il che venne eseguito. Fe-cero tosto un movimento retrogrado per andare, suppon-go, ad informare i loro compagni dell'accoglienza cheaveano trovato. Ma bisogna dire che questo complimen-to gli avesse fatti sazii, perchè si fermarono in un batterd'occhio; stettero qualche tempo a deliberare; poi fattauna voltata di fronte a sinistra, dimisero il loro disegno,nè ci diedero più che fare; cosa ottima nelle nostre cir-costanze, perchè da vero eravamo ben pochi per battercicontra tanta gente.

Giunti due giorni appresso alla città di Naun o Naum,ringraziammo debitamente quel governatore per la sol-lecitudine avuta a nostro riguardo, e posta insieme franoi una somma di circa cento corone, la distribuimmo aisoldati che ne aveva spediti. Ci fermammo quivi tuttauna giornata.

La guarnigione di Naum può veramente chiamarsitale, perchè non conta meno di novecento soldati; e laragione di questo si era che da prima le frontiere dellaMoscovia erano più vicine di quanto lo sieno state dapoi a quelle della China. I Moscoviti aveano già abban-donato un tratto di terra dell'estensione circa di dugento

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miglia che giace a ponente di Naum trovandola desolataaffatto e di nessun utile; soprattutto per essere in tal lon-tananza che non tornava lo spedirvi un corpo di soldate-sca per difenderla. Di fatto ci rimaneva ancora un viag-gio di due mila miglia prima di giungere quella parte didominio moscovito che può propriamente chiamarsiMoscovia.

In appresso varcammo parecchi grandi fiumi e duespaventosi deserti; uno de' quali ci tenne in cammino ol-tre a sedici giorni, e potea chiamarsi, come un altro at-traversato dianzi: Terra di nessuno. Ai 13 d'aprile ci tro-vammo alle frontiere dei dominii moscoviti. Credo chela prima città, o fortezza (chiamatela poi come volete)spettante al czar nella quale ci abbattemmo, si chiamas-se Arguna, perchè giace alla riva occidentale del fiumeArguna.

CVI. Descrizione di paesi della Tartaria moscovita; idolatria di que' Tartari; crociata d'un genere singolare.

Non potei non sentire un'infinita contentezza d'esserearrivato, sì presto in terra, come io la chiamava di Cri-stiani, o posta se non altro sotto il governo di Cristiani.Perchè, se bene i Moscoviti, a mio avviso, non sienomeritevoli di questo nome pretendono per altro esser talie lo sono alla loro maniera. Certamente, non vi sarà

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uomo che viaggi il mondo, come ho fatto io, e che abbiaqualche forza d'intelletto, cui non accada considerarequal fortuna sia il vedersi trasferito in tal parte dellostesso mondo ove il nome di Dio e d'un Redentore siaconosciuto, venerato e adorato; e non laddove i popoliabbandonati dal cielo ad assurde illusioni adorino il de-monio, si prostrino a tronchi e macigni; faccia oggetti diun culto dovuto alla sola divinità mostri e animali d'orri-de forme, statue o immagini di mostri, o gli elementi.Non v'era stata dianzi una città attraversata da me chenon adorasse sin l'opere fatte dalla mano medesima de'suoi abitanti. Or finalmente eravamo in un luogo oveun'apparenza almeno di cristianesimo si mostrava; ove ipiegava il ginocchio a Gesù Cristo; ove , ignoranti o no isuoi adoratori, la cristiana religione veniva professata, ilnome del vero Dio invocato e onorato. Respiravo e corsia far partecipe di tal mia esultanza il degno Scozzese, dicui vi dissi che avevo fatta la conoscenza.

‒ “Sia lodato Dio! gli dicevo, prendendolo per lamano, siamo una volta in mezzo a Cristiani”.

Ma il mio Scozzese mi rispose sorridendo:‒ “Non v'affrettate tanto a rallegrarvi, compatriotto.

Questi Moscoviti non sono altro che una stramba razzadi Cristiani, e se si eccettui la parola, non vedrete alcunasostanza di cristianesimo se non dopo qualche mese diviaggio.

‒ Sia pure, rispose, ma meglio sempre che il pagane-simo e l'adorazione del demonio.

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‒ Ed io ho l'onore di dirvi, soggiunse egli, che se nelevate le guarnigioni e pochi abitanti delle città postelungo la strada, tutto il resto del paese per una lunghez-za di più di mille miglia è abitato da gente più trista edignorante dei pagani”; e così fu di fatto.

Eravamo or capitati nel più vasto tratto di continenteche, se m'intendo alcun poco di geografia, possa trovarsiin veruna parte del globo. Dodicimila miglia almeno ciseparavano dal mare a levante; due mila dall'estremitàdel Baltico, a ponente; circa tremila se, lasciato quelmare, seguivamo la direzione di ponente, fino al canaleche disgiunge la Francia dall'Inghilterra, eravamo lonta-ni cinquemila buone miglia dal mare Persiano o dell'In-die, e circa ottomila dal mar Glaciale. Anzi se dovessi-mo star su la fede d'alcuni geografi, dal nord-est (greco)sino al polo non vi sarebbe nessun mare, ma un conti-nente che anderebbe ad unirsi con l'America, Dio sa inqual parte. Io per altro potrei addurre alcune ragioni, percui penso essere questo un errore58.

Entrati negli stati moscoviti, un buon pezzo prima diarrivare ad alcuna città di qualche conseguenza le coseche ci apparvero più da notarsi furono:

Primieramente, diversi fiumi che corrono tutti a le-vante. Come lo rilevai dalle carte che alcuni della nostracarovana avevano con loro, appariva chiaramente che ipredetti fiumi andavano a versarsi nel gran fiume Ya-

58 E che fosse un errore lo provò la scoperta dello stretto di Bering; maquesto avvenne tra il 1740 e il 1741, e la storia di Robinson Crusoè era pubbli-cata prima del 1720.

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mour o Gamour, il quale poi in forza del naturale suocorso deve andare a gettarsi nel mare Orientale o oceanoChinese. Quanto a certa storia che fa turar questo fiumeda giunchi di gigantesco calibro, di tre piedi circa cioèdi grossezza e di trenta di lunghezza, mi sia permesso ildire che non la credo un bel niente. Non è navigato per-chè non vi è nessuna sorta di commercio da quella ban-da, e perchè i Tartari, ai quali soltanto appartiene, nonavendo altra sollecitudine fuor quella de' loro armentinon v'è stato a mia saputa nessuno che abbia avuta lacuriosità o di portarsi alla foce dello stesso fiume conbarche, o di venirne con bastimenti almeno, ripeto, aquanto so io. Una cosa certa si è che correndo a levanteper una latitudine di circa cinquanta gradi, in quella lati-tudine stessa trova un oceano ove scaricar le sue acque.Colà dunque siamo sicuri di un mare.

Alcune leghe a settentrione del Yamour vi sono alcuniconsiderabili fiumi che, come questo a levante, corronoa settentrione e vanno tutti ad unire le loro acque nelgran fiume Tartaro, così detto dalle popolazioni setten-trionali de' Mongoli Tartari, primi Tartari della terra, aldir de' Chinesi, e che in sentenza de' nostri geografi,sono i Gog e Magog commemorati dalla Scrittura. Tuttiquesti fiumi, come molt'altri di cui dovrò parlare, cor-rendo a settentrione, fanno una evidente prova che l'o-ceano settentrionale ricigne la terra da quella parte. Nonsembra dunque ragionevole menomamente l'immaginarecolà un prolungamento di continente che si congiungaall'America; quanto equivarrebbe al dire che non v'è co-

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municazione tra i mari, settentrionale e orientale. Ma sutale argomento non m'interterrò oltre, fu l'osservazioneche mi occorse allora, e per conseguenza le ho dato luo-go in questa parte della mia storia.

Dal fiume Arguna proseguito il nostro viaggio como-damente e a piccole giornate, dovemmo professarci gratialle cure che si è prese il sovrano della Moscovia d'in-nalzar città e castella più che ha potuto ove i suoi soldatistessero di guarnigione: alcun che di simile alle stazionidi soldati che i Romani mettevano nelle più remote con-trade del loro impero (alcune delle quali, come ho letto,nella Bretagna) per la sicurezza del commercio e per glialloggiamenti de' viaggiatori.

E tal somiglianza diveniva maggiore perchè, se benein queste stazioni o città vi fossero guarnigioni e gover-natori russi che professavano il cristianesimo, gli abitan-ti erano veri pagani; sagrificavano agl'idoli, adoravano ilsole, la luna, gli altri pianeti e tutte le costellazioni; nèciò solamente, ma fra tutti i pagani ed eretici in cui misono incontrato erano i più barbari, se si eccettui chenon mangiavano gli uomini come i selvaggi dell'Ameri-ca praticavano.

Avemmo i primi esempi di ciò entrando negli Statimoscoviti tra Arguna e una città abitata da Tartari e Rus-si congiuntamente detta Nortzionsky, per giungere allaquale dovemmo attraversare un continuo deserto o bo-sco che ci tenne più di venti giorni in cammino. In unvillaggio situato in poca distanza dall'ultima delle indi-cate piazze mi prese la curiosità di andare a vedere l'u-

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sanza di vivere di quegli abitanti, brutale e abbominevo-le oltre quanto uom possa immaginare. Correa per essi,io suppongo, la celebrazione di un grande sagrifizio inquel giorno; perchè era stato innalzato sopra un vecchiotronco d'albero un idolo di legno spaventoso come il de-monio, o certamente come la più orribile manifattura,che si possa ideare per raffigurare il demonio. Il voltodel brutto fantoccio non somigliava a quello di alcunacreatura vedutasi mai su la terra. Aveva orecchie grossee lunghe come le corna di un caprone; occhi larghi comela moneta di uno scudo; naso ricurvo come un corno d'a-riete; bocca riquadra e spalancata siccome quella d'unleone, orribili denti adunchi come altrettanti becchi dipappagallo. Vestito nella più sordida maniera che vi pos-siate figurare; la sua zimarra era di pelli di pecora con lalana al di fuori; il berrettone alla tartara elle gli stava sulcapo, si vedeva trapassato da due enormi corna, spor-genti fuori di esso; alto circa otto piedi, ma privo di pièe gambe e d'ogni sorta di proporzione nelle sue parti.

Avvicinatomi a questo spauracchio da uccelli espostofuor del villaggio, vi trovai sedici o diciassette individui,se uomini o donne non ve lo posso dire, perchè nelmodo di vestirsi non facevano distinzione fra un sesso el'altro, tutti lunghi distesi col ventre all'ingiù intorno aquel formidabile ceppo di informe legno. Tanto si mo-veano quanto se fossero stati pezzi di tronco al pari dellaloro divinità: in fatti da prima li avevo creduto tali; ma,quando mi ebbero più da presso, misero tutti insieme unululato da cani arrabbiati e fuggirono via come stizziti

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contro di me che avevo profanati i loro riti, Un poco piùlontano dall'idolo, dinanzi alla porta di una baracca o ca-panna tutta fatta di pelli di pecora e di vacca secche sta-vano tre macellai: così io gli aveva giudicati al vedereche aveano enormi coltellacci nelle mani; nel mezzodella tenda giaceano tre pecore ed un vitello ucciso. Era-no questi, senza dubbio, i sagrifizii portati a quell'insen-sato tronco d'un idolo; i tre macellai, i sacerdoti che ufi-ziavano l'altare: que' diciassette sciocconi che vidi pro-sternati, i devoti venuti a porgere gli olocausti e a fareorazione dinanzi a quel pedale.

Confesso di essere stato più mosso a nausea da quellabrutale stupidezza onde costoro erano tratti ad adorareuna sconcia befana, che io nol sia mai stato da verun'al-tra cosa in mia vita. Vedere la più gloriosa e perfetta frale creature di Dio, alla quale egli ha compartiti privilegial di sopra di tutte le opere di sua mano, ch'egli ha dota-ta d'un'anima ragionevole e colmata di tutte le facoltàintellettuali, opportune perché ella onori il suo Fattore,ed egli si compiaccia d'averla fatta; vederla avvilita e di-gradata al segno di prosternasi dinanzi ad uno schifosonulla, ad un oggetto immaginarie che i suoi stessi goffiadoratori hanno fabbricato, ornato di fetidi stracci emesso a posto con le proprie mani! Pensare come ciò siaeffetto di mera ignoranza, condotta ad una divozione in-fernale dal demonio stesso che, invidiando al suo crea-tore l'omaggio e la devozione delle sue creature, le haingannate al punto di spingerle a tali orrende cose di cuidiremmo abbrividita la stessa natura!

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Ma a qual pro tutti i miei atti di sorpresa e le mie ri-flessioni? La cosa era cosi; io la vedeva dinanzi ai mieiocchi, era inutile il maravigliarsene nè v'era luogo achiamarla impossibile. Convertitisi tutti i miei stupori inrabbia, mi scagliai contro al simulacro o mostro, dategliquel nome che volete, e con la mia spada gli feci talesquarcio al berrettone che lo spaccai in due; un altro de-gli uomini venuti meco attaccatosi alla vesta di pelle dipecora che lo copriva, gliela strappò di dosso, ed ecco inun subito alzarsi orridi ululati per tutto il villaggio. Era-no i mugolamenti di due o trecento di que' villani tutti inprocinto di corrermi addosso. Non mi parve vero di po-ter battermela di lì, perchè ci accorgemmo in lontananzache alcuni erano armati d'archi e di frecce; io per altroda quel momento feci proposito di tornarli a visitare.

La nostra carovana dovea pernottare tre giornate nellacittà, lontana quattro miglia circa dal luogo or descritto;e ciò per provedersi di cavalli de' quali cominciava amancare, perché alcuni de' nostri erano fatti storpi o di-venuti rôzze di nessun uso per la perversità delle stradee massime per la lunga traversata dell'ultimo de' desertiin cui ci abbattemmo. Mi rimaneva pertanto il tempo ba-stante per eseguire il disegno ch'io aveva ideato nel par-tirmi dal teatro di quella sacrilega adorazione.

Lo comunicai prima al mercante scozzese di Mosca avoi già noto e del cui valore avevo bastanti caparre.Raccontategli tutte le cose da me vedute ed espressoglilo sdegno ond'ero compreso al pensare che la naturaumana potesse essere degenerata a tal grado, soggiunsi:

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‒ “Se potessi avere quattro o cinque uomini ben ar-mati che mi accompagnassero, m'assumerei l'incaricod'andar a distruggere quel nefando idolo e di far capire aquella marmaglia che esso non è buono d'aiutarsi da sé,per conseguenza non degno di essere adorato o pregato,molto meno che gli si offrano sagrifizi.

‒ Il vostro zelo può essere lodevolissimo, mi risposesorridendo il mio Scozzese. Ma che cosa vi prefiggete difare?

‒ Che cosa? ripetei. Vendicare l'onore di Dio oltrag-giato da questa adorazione del diavolo.

‒ Ma come volete vendicare l'onore di Dio, notò quelmercante, se quella genia non è buona di comprendereche cosa v'intendiate con ciò, semprechè non aveste l'a-bilità di parlarle e di farvi capire? Sapete che cosa ciguadagnerete? che vi faranno la guerra e sarete battuto:ve ne do parola io, perchè sono una genía di disperati,massime ove si tratti di difendere la loro idolatria.

‒ Non potremmo, diss'io, far la nostra faccenda segre-tamente al buio, poi lasciar giù uno scritto in loro linguache spiegasse ad essi i motivi e le ragioni della nostracondotta ?

‒ Uno scritto! Se mettete insieme cinque delle loronazioni, non ci trovate un uomo che sappia scrivere unalettera o leggerne una parola.

‒ Maladetta ignoranza! Esclamai. Pure mi sento ungrande prurito di mandare ad esecuzione questo divisa-mento. Forse la natura farà con essi le veci del mio scrit-

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to conducendoli a dedurre dall'evidenza stessa del fattoquanto bestiale sia la loro adorazione.

‒ Ascoltatemi, signore conchiuse il mercante; se ilvostro zelo vi spinge sì caldamente a mettervi in questaimpresa, potete servirvi. Bisogna per altro ch'io vi faccianotare un'altra cosa. Queste nazioni selvagge sono as-soggettate sol della forza al dominio del czar di Mosco-via, e se fate questo, c'è da scommettere dieci contr'unoche un migliaio di coloro si porterà a Nortziousky perchiedere una soddisfazione al governatore; e se questi lanegasse loro, ci sarebbe ancora da scommettere diccicontr'uno che si ribellerebbero. Avreste fatto nascere inquesti paesi una nuova guerra con tutti i Tartari”.

Questa osservazione, lo confesso, sedò per un pochi-no di tempo i pensieri che mi bollivano per la testa; maessi tornavano sempre su lo stesso cantino, e tutta lagiornata m'andai lambiccando il cervello a studiare sepur vi fosse qualche possibilità di mandare ad effetto ilmio disegno. Verso sera il mio Scozzese, incontratomi acaso al passeggio fuor delle mura della città, tornò aparlarmi.

‒ “V'ho un po' distolto dal pio disegno, di cui m'ave-vate parlato in giornata. Se ho a dirvela, me ne sono tro-vato alquanto pentito; perchè nell'abborrire l'idolatrianon la cedo a voi.

‒ Vi dirò; me ne avete distolto alcun poco circa almodo dell'esecuzione. Non crediate per altro di averme-lo cacciato fuor della testa. E credo che arriverò a met-terlo in pratica prima di abbandonare questa piazza,

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quand'anche il governatore, per dare una soddisfazione aquegl'idolatri, dovesse consegnarmi nelle loro mani.

‒ Che cosa dite? Dio ve ne guardi dall'essere conse-gnato nelle mani d'un tal branco di mostri! Non credonemmeno che il governatore lo farebbe. Sarebbe lo stes-so che mandarvi ad essere trucidato.

‒ E che cosa credete che mi farebbero?‒ Ve lo dico subito narrandovi come aggiustarono per

le feste un povero Russo che andò a pungerli nella lororeligione, come faceste voi, e che presero prigionierodopo averlo storpiato con una freccia affinchè non po-tesse fuggire. Primieramente lo spogliarono de' suoipanni finchè fosse nudo del tutto; poi lo collocarono benassicurato su la cima del loro idolo mostro; gli si poseroin un grande circolo attorno a tiro d'arco; indi gli lancia-rono tante frecce quante se ne poterono conficcar nelsuo corpo. Finita una tale operazione bruciarono lui e lefrecce ond'era fittamente attorniato, e fu questo il sagri-fizio con cui placarono il loro idolo.

‒ Ed era lo stesso idolo? gli domandai.‒ Si; lo stesso.‒ A questo proposito, soggiunsi vi conterò una storiel-

la”.Qui mi feci a dirgli come i nostri a Madagascar aves-

sero arso e saccheggiato un intero villaggio, non perdo-nando nè ad uomini nè a donne nè a fanciulli sol perchèquegli abitanti avevano ucciso uno di nostra gente: sto-ria che vi ho già raccontata.

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‒ “Avremmo maggior ragione, soggiunsi di trattarcosì questo intero villaggio”.

Dopo avere ascoltato attentamente il mio racconto,quando fui giunto a questa conclusione, mi disse:

‒ “Voi prendete un grosso equivoco. Non furono gliabitanti di questo villaggio quelli che trattarono sì bar-baramente un Cristiano; il villaggio di cui vi parlo io, èlontano circa un centinaio di miglia di qui, l'idolo sì, è lostesso, perché lo portano in processione per tutto il pae-se.

‒ In questo caso, diss'io, bisogna castigare l'idolo; e locastigherò io se questa notte son vivo”.

In somma al vedermi tanto risoluto, anche lo Scozze-se principiò a gustare il mio disegno, e finì col dirmi chenon mi lascerebbe andar solo e che sarebbe venuto conme.

‒ “Voglio per altro, soggiunse, procurarmi prima lacompagnia d'un mio compatriotto che verrà sicuramentecon noi. È famoso anche lui per zelo religioso, e tale chenon potreste augurarvi un migliore ausiliario nel far laguerra a cose tanto diaboliche”.

Mi condusse dunque questo suo compagno, scozzeseanch'esso, ch'egli chiamava capitano Richardson ed alquale avea dato un pieno ragguaglio delle cose ch'ioaveva vedute e di quelle ch'io avea divisate. Convenim-mo che saremmo stati soli noi tre in questa spedizione.Veramente io proposi anche al mio socio d'entrarci; mala sua risposta fu:

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‒ “Ad un estremo caso, e quando veramente vedessi ilbisogno di correre in vostra difesa, contate su me. Maquesta è un'impresa affatto fuori della mia sfera”.

Rimanemmo dunque nel proposito di andare noi tre(o posso dir quattro, perché presi meco quel mio giovineservo che già conoscete), serbando il più stretto segretocon chicchessia. L'ora dell'esecuzione fu stabilita versola mezzanotte.

Ciò non ostante, dopo averci pensato meglio, trovam-mo cosa più opportuna il differire ogni cosa sino allaprossima notte, perchè dovendo la carovana partirsi daquella città nella seguente mattina, ci figurammo chequand'anche al governatore fosse venuto il talento dichiedere una soddisfazione per cose avvenute la notte,non lo avrebbe potuto più, una volta che fossimo statifuori della sua giurisdizione.

Il mercante scozzese, altrettanto fermo in una risolu-zione poichè l'avea stabilita quanto abile nel mandarlaad effetto, mi portò una vesta o zimarra di pelle di peco-ra simile a quelle portate dai Tartari, un arco ed una pro-visione di frecce: gli stessi allestimenti avea fatti per sèe pel suo compatriotto, e ciò affinchè se qualche Tartaroci vedea, non potesse determinare chi fossimo.

Tutta la parte di notte che precedè la spedizione fuimpiegata nell'impastare insieme materie combustibili,come acquavite, polvere, e quante cose di tal natura nepoterono capitare alle mani; indi quando fu l'ora, presacon noi molta copia di pece entro una pentola di discretagrandezza, ci mettemmo in cammino,

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Arrivati sul luogo verso le undici, trovammo che gliabitanti non avevano il menomo sospetto di pericolo so-vrastante al loro idolo. La notte era assai buia; pure laluna ci rischiarò abbastanza per vedere che l'idolo stavatuttavia al suo stesso posto di prima. Pareva che fosserotutti a dormire. Solamente nella grande capanna o barac-ca ove trovai dianzi i tre sacerdoti che avevo presi permacellai, vedemmo un lume e, accostatici alla porta,udimmo voci: potevano essere cinque o sei persone cheparlavano. Giudicammo pertanto che, se avessimo datofuoco all'idolo, costoro sarebbero saltati fuori e corsi persalvarlo dalla distruzione che gli avevamo giurata; e ilcome cavarcela da questa gente non lo sapevamo trop-po.

La prima cosa che ne venne in mente si fu portar vial'idolo con noi ed appiccargli il fuoco ad una certa di-stanza; ma quando fummo per metterei all'opera lo tro-vammo troppo pesante per l'ideato trasporto. Eravamodunque nell'imbroglio siccome prima. L'altro Scozzeseponeva il partito d'attaccare il fuoco alla baracca de' sa-cerdoti e d'accoppar uno per uno gl'individui che face-vano per venir fuori. Ma in questo non potei accordarmicon lui. Mi facea male l'idea d'uccidere uomini, se ciò sipotea risparmiare.

‒ “Bene dunque, disse il primo mercante scozzese. Vidirò io quello che dobbiamo fare, proverei a farli prigio-nieri, e, con le mani legati, farli star presenti all'abbru-ciamento del loro idolo”.

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Per ventura eravamo preveduti d'una sufficiente quan-tità di cordicelle che ci servivano a tenere legate insiemele nostre macchinette incendiarie. Risolvemmo pertantodi sbrigare innanzi tutto l'affare co' sacerdoti, facendo ilminore strepito che fosse possibile. La nostra primaoperazione dunque fu quella di picchiare alla porta, don-de uscì tosto uno de' macellai sacerdoti. Immediatamen-te ce ne impadronimmo, e , tenendogli chiusa la bocca elegategli di dietro le mani, lo conducemmo dinanzi all'i-dolo. Qui gli legammo anche i piedi e gli congegnammouna sbarra tra una mascella e l'altra onde non potesseparlare, poi lo lasciammo lì per terra.

Due de' nostri intanto guardavano la porta della ba-racca in espettazione d'un altro di costoro che venisseper vedere che cosa ci fosse di nuovo. Erano tuttavia inquesta espettazione quando ci fummo uniti nuovamentedinanzi alla porta stessa, perchè non si vedeva uscirenessuno. Allora tornammo a picchiar dolcemente, e to-sto comparvero altri due, cui femmo lo stesso servigioche avevamo fatto al primo; ma fummo obbligati ad an-dar tutti co' nuovi prigionieri per legarli in terra dinanziall'idolo in qualche distanza l'uno dall'altro. Tornati ad-dietro, trovammo due altri venuti fuori della porta, edopo di loro un terzo tra dentro e fuori dell'uscio. Fum-mo presti nell'agguantare e legare i primi due; il terzocorse in fretta entro la baracca gridando. Il mio mercan-te scozzese lo inseguì dentro la porta, e tratta a manouna composizione che avevamo fabbricata, atta soltantoa far fumo e puzzo, le diede fuoco, poi la gettò fra quelli

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che erano entro. Intanto, l'altro Scozzese e il mio servosi presero l'assunto di condurre i due uomini già legati, eattaccati in oltre per le braccia l'uno all'altro, laddoveerano i lor compagni, praticando ad essi le stesse ceri-monie che ai primi, e lasciandoli lì a vedere se il loroidolo veniva sì o no ad aiutarli; indi si affrettarono, araggiungerci.

Poichè la fetida mistura da noi gettata entro la barac-ca la ebbe empiuta di tanto fumo che que' poveri diavolirimasti ne erano soffocati, vi gettammo una secondacomposizione che avevamo portato con noi entro unsacchetto di pelle, e che fiammeggiava al pari di unacandela. Seguitane la luce, vedemmo non rimanere piùnella baracca che quattro individui recatisi ivi, comesupponemmo per qualcuno de' diabolici loro sagrifizii.Erano quasi morti dallo spavento: certo li vedemmo stu-pidi, tremanti e incapaci in oltre di parlare perchè ilfumo li soffocava.

In una parola, c'impossessammo anche di questi le-gandoli come avevamo fatto con gli altri e senza alcunasorta di strepito. Dovevo dire che li traemmo fuori dellabaracca prima di legarli, perché quel fumo non ci garba-va più di quanto garbasse a loro. Conducemmo anchequesti nella maniera degli altri dinanzi all'idolo che in-verniciammo tutto da cima a fondo, non meno del suopaludamento, con pece ed altre droghe prese con noi,consistenti soprattutto in cera impastata con zolfo; poigli empiemmo gli occhi, le orecchie e il naso di polvere;collocammo in oltre un buon razzo nel suo berrettone;

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in somma gli mettemmo addosso tutto l'arsenale dellematerie combustibili che avevamo portate lì. Non ave-vamo più bisogno di cercar altro che qualche cosa all'in-torno che aiutasse più speditamente l'incendio. Il mioScozzese, ricordatosi allora di avere veduto entro la ba-racca un mucchio di seccumi, non so più dirvi se strameo sterpi, vi corse di nuovo insieme col suo compagno ri-tornandone con due bracciate di questa roba. Dopo diciò prendemmo i nostri prigionieri, slegammo ad essi ipiedi, li liberammo della sbarra che avevano in bocca,indi schieratili dinanzi al mostruoso loro idolo, gli dem-mo fuoco da tutte le bande.

Stemmo lì un quarto d'ora circa aspettando che scop-piasse la polvere da noi posta in tutti i buchi della testadell'idolo; e quando fummo persuasi che lo scoppio loavesse fesso, sfigurato, in somma ridotto ad essere sol-tanto un informe tronco arrostito, che la fiamma postagliintorno non avrebbe tardato a convertire in bragia, co-minciavamo a pensare d'andarcene. Lo Scozzese si op-pose.

‒ “Non capite, egli dicea, che se ci scostiamo di qui,que' poveri forsennati si lanciano nel fuoco e brucianoin compagnia del loro idolo?”

Trattenuti da questa considerazione, ci fermammofinchè l'alimento della fiamma postagli intorno mancas-se, indi venimmo via e li lasciammo.

Terminata così la nostra spedizione, tornammo a mo-strarci ai nostri compagni della carovana che erano tuttiaffaccendati ne' preparativi di mettersi in viaggio, nè

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venne in mente a nessuno di essi che non avessimo pas-sata la notte coricati ne' nostri letti, com'era da supporsidi viaggiatori che doveano prepararsi a nuovi disagi d'unlungo e faticoso cammino.

CVII. Conseguenze della singolare crociata; descrizione d'altri paesi della Moscovia, arrivo a Tobolsk.

L'affare della nostra spedizione non andò a terminarecome ce lo eravamo immaginati. Avevamo già abbando-nata quella stazione, quando in quella stessa mattina,come sapemmo più tardi, un grande numero d'abitantidella campagna si era presentato alle porte della cittàchiedendo nella più arrogante maniera una soddisfazio-ne al governatore russo per gl'insulti fatti ai loro sacer-doti e al loro gran Cham Chi-Thaungu (tale era il nomedel loro idolo). Grande si fu la costernazione dei cittadi-ni perché, al dir di questi, i Tartari non erano in meno ditrentamila. Il governatore mandò loro de' messaggeri percalmarli e farli certi che non sapea nulla di tutto ciò;un'anima sola della sua guarnigione non essere uscitadella città in quella notte; non poter dunque procederedai suoi soldati lo sconcio; che se per altro gli avesserodato conoscere l'autore del misfatto, sarebbe stato esem-plarmente punito.

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Gli fecero alteramente rispondere: tutta quella contra-da avere in altissima venerazione il gran Cham Chi-Thaungu che abitava nel sole; non poter dunque altrifuor di qualche miscredente Cristiano avere ardito di farviolenza alla sua immagine: essere pertanto risoluti d'in-timar guerra al colpevole e a tutti i Russi che erano, sog-giugnevano, altrettanti miscredenti e Cristiani.

Il governatore prendea le cose con pazienza, chè glisarebbe rincresciuto romperla coi Tartari o il potere es-sere imputato d'aver dati motivi ad una guerra, perchè ilczar gli avea strettamente ordinato di comportarsi conmansuetudine e cortesia verso i popoli conquistati; laon-de il governatore diede, agli ammutinati quante buoneparole potè. Finalmente fece dir loro che una carovanaera partita per la Russia in quella stessa mattina, e cheforse l'ingiuria di cui si lagnavano era stata commessada un individuo della carovana stessa; che per conse-guenza se si fossero voluti acchetare a ciò, le avrebbemandato dietro a fine di schiarire la cosa.

Parvero un po' più contenti. A norma di ciò, il gover-natore ne spedì un messaggio dandone pieno ragguagliodello stato delle cose, ed insinuandoci, se mai fosse veroche un individuo della nostra carovana avesse fatto ciò,a fuggire alla presta: poi, o ci fosse o non ci fosse questoindividuo, in tutti i modi a far gamba, chè sarebbe statacosa più sana per noi. Egli intanto, il governatore, con-durrebbe per le belle i Tartari finchè potrebbe.

Certo il governatore non poteva dal canto suo com-portarsi con maggior cortesia; pure quando il messaggio

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arrivò alla carovana, non si trovò uno fra noi che sapes-se nulla di questo avvenimento; e quelli che lo sapeanoda vero erano que' tali su cui cadeva meno qualunquesorta di sospetto. Ad ogni modo, il conduttore della ca-rovana non perdè tempo nel profittare del suggerimentodel governatore, onde camminammo due giorni e duenotti senza alcuna notabile pausa, finchè ci fermammoad un villaggio detto Ploto. Qui pure non ci credendoabbastanza sicuri, facemmo una breve pausa affrettan-doci alla volta di Jarawena, altra fra le colonie del czardi Moscovia, ove c'immaginavamo che saremmo stati fi-nalmente fuori di pericolo.

Ma nel secondo giorno della nostra partenza da Ploto,un nugolo di polve veduto in grande distanza dietro dinoi indusse qualcuno de' nostri a pensare che fossimoinseguiti. Entrati in un vasto deserto, camminavamopresso un grande lago, detto Schaks Oser, quando ve-demmo comparire un numeroso corpo di cavalleria asettentrione del lago stesso di cui ci tenevamo a ponen-te. Poi osservammo che anche il corpo di cavalleria ven-ne a ponente supponendo che non avremmo deviato daquella dirittura. Per buona sorte avevamo presa la partedell'ostro, onde, dopo due giorni, il temuto corpo di ca-valleria ci era sparito affatto di vista; perchè questo,pensando sempre che gli marciassimo davanti, seguì lastessa strada finchè arrivò all'Udda, che veramente inter-nandosi verso settentrione diviene un fiume considerabi-le, ma che dove ne toccò valicarlo era angusto e di facileguado.

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Nel terzo giorno, i galantuomini che ne tenevano die-tro, o avessero riconosciuto il loro abbaglio o ottenutepiù giuste informazioni intorno a noi, ne vennero in ver-so di gran galoppo sul far della sera. Avevamo per no-stra buona sorte adocchiato un luogo opportunissimoper accamparvi la notte, chè già, trovandoci in un deser-to, lungo oltre a cinquecento miglia ancorchè fossimosoltanto sul principio di esso, non avevamo speranza dicittà ove alloggiare; e la sola su cui potevamo far conto,la città di Jarawena, ci obbligava per raggiugnerla a duegiorni di viaggio. Il deserto ciò non ostante abbondavaquivi di boschetti e fiumicelli che andavano tutti a scari-carsi nel gran fiume Udda. In un vano di que' boschi,piccoli sì ma folti, piantammo pertanto le nostre tendeper quella notte, non dubitando nondimeno di non ve-derci assaliti nella successiva mattina.

Non v'erano altri, fuor di quattro fra noi, che sapesse-ro perchè ne inseguissero. Ma poichè è stile dei TartariMongoli l'andare attorno in truppe per quel deserto, lecarovane che vi si abbattono, son solite a trincerarsi cosìcontr'essi come contro a possibili squadre di ladri. Nonera dunque novità il vedersi inseguiti.

Ma in quella notte, più che in ogn'altra de' nostri viag-gi, sortimmo un vantaggiosissimo campo. Giacendoquesto fra due boschi, avevamo un fiumicello in fronte,sì che non potevamo essere circondati, nè temere assaltifuorchè sul davanti o alle spalle. C'ingegnammo in oltredi fortificare quanto mai fosse possibile la nostra frontecol mettere dinanzi a noi i nostri bagagli e cammelli e

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cavalli, tutti in una linea alla sponda del fiumicello. Al-cuni alberi che abbattemmo, ci formarono una trinceraalle spalle.

Quivi dunque ci preparavamo il nostro accampamen-to per la notte; ma i nemici furono a visitarci prima chene avessimo terminate le fortificazioni. Non venneronondimeno ad usanza di ladri, come ci saremmo aspet-tati; ma inviarono tre araldi per chiederci la consegna dicoloro de' nostri che aveano fatto villania ai loro sacer-doti e bruciato il loro gran dio Cham Chi- Thaungu, per-ché, come di ragione, dovevano essere bruciati ancoressi. Fatto ciò, soggiugnevano i messaggeri, se ne sareb-bero andati senza recarci altro danno; in caso diverso, ciavrebbero distrutti quanti eravamo.

I nostri si fecero smorti smorti all'udire quest'amba-sciata, e si guardavano tutti per leggere l'uno sulla facciadell'altro chi fosse l'autor del malanno. Ma, Nessuno!Nessuno! era la parola di tutti. Il conduttore della caro-vana mandò a rispondere di potere assicurare che nessu-no del nostro campo era reo del fatto ond'essi doleansi;essere noi pacifici trafficanti che viaggiavamo unica-mente pe' nostri negozi; non aver noi fatto male né aloro nè a verun altro.

‒ “Andate dunque, concludea, più lontano a cercare inemici che v'hanno ingiuriati; noi non siamo quelli. Fa-tene il piacere di non ci sturbare, altrimenti ne ridurretealla necessità di difenderci”.

Ben lontano che si contentassero a questa risposta, al-l'alba della successiva mattina corsero in grossi drappel-

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li per investire il nostro campo; ma trovandone sì van-taggiosamente situati, non ardirono fare scopo d'assaltoaltra linea fuor quella del fiumicello che ci stava in fac-cia, su la cui riva si fermarono ciò non ostante in tal nu-mero che il solo vederli ci mise da vero non poca malin-conia; perché chi fra noi portava questo numero menalto lo faceva ascendere a diecimila.

Dopo essersi fermati per un poco a contemplarci, mi-sero un grand'urlo; poi fecero piovere un nembo di frec-ce sul nostro campo. Fortunatamente ci eravamo benmessi al coperto sotto il riparo de' nostri bagagli, ondenon mi ricordo che un solo di noi ricevesse una scalfit-tura.

Qualche tempo dopo, vedutili piegarsi alquanto su lala nostra diritta, ce gli aspettavamo alle spalle, quandoun astuto mariuolo che era in carovana con noi, un Co-sacco di Jarawena al servigio dei Moscoviti, accostatosial nostro conduttore gli disse:

‒ “Se volete vi mando tutta quella gente a Siheilka”.Era Siheilka una città situata in una distanza a dir

poco di quattro o cinque giornate di viaggio dal nostrocampo verso destra e piuttosto dietro di noi. Ciò detto,costui prende il suo arco e le sue frecce, salta a cavallo,galoppa verso la parte opposta al fiumicello, come seavesse intenzione di tornare alla città, di Nertsinskay;poi fa una giravolta portandosi in retta linea al campode' Tartari e fingendosi spedito espressamente a trovarliper dar loro una notizia: in sostanza contar loro una fila-strocca. Stando al suo detto i malandrini che aveano

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bruciato il gran Cham Chi-Thaungu si erano portati aSiheilka con una carovana di miscredenti (chè costorogià per miscredenti intendevano i Cristiani), e che cierano andati per bruciare il dio Schal-Isar, divinità deiTonghesi, come aveano praticato col dio precedente.

Siccome questo furfante era in sostanza un Tartaroanche lui, e parlava perfettamente la lingua dei Tartari,architettò la sua frottola con tanta maestria che i merlotticui la spacciò, la presero per buona valuta, diedero unavoltata di cavalli e tutti di gran galoppo s'avviarono ver-so Siheilka posta in quella bagattella di distanza che viho detto un momento fa. In meno di tre ore gli avevamoperduti affatto di vista, nè udimmo più se fossero andatio no a Siheilka.

Liberati così da un brutto pericolo, ci portammo a Ja-rawena ove stanziava una guarnigione di Moscoviti, edove ci fermammo cinque giorni, perchè la carovana,veramente estenuata dai disagi delle faticose corse so-stenute, dopo la partenza da Nertsinskay, aveva bisognodi rifarsi delle notti perdute senza dormire.

Partiti da questa città, ne toccò attraversare un orridodeserto che ci tenne in cammino ventitrè giorni. Primadi affrontarlo ci eravamo proveduti di tende onde acco-modarci alla meglio la notte; e il conduttore della caro-vana comprò sedici carriaggi o carri del paese per tra-sportare la nostra acqua e provisioni e per servirci ad untempo di trincea ciascuna notte intorno ai nostri piccolicampi: di modo che, se comparivano Tartari, ove non

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fossero stati in un numero veramente sterminato, nonpotevano farci male.

Ognuno s'immaginerà che, dopo questa sì lunga tra-versata, avemmo gran bisogno di riposo, perchè in tuttoil superato deserto non vedemmo nè case nè alberi, enemmeno cespugli benchè ci trovassimo in copia cac-ciatori di zibellini, tutti Tartari della Mongolia, di cuiquel deserto fa parte. Costoro assaltano di frequente lepiccole carovane; ma, benchè ne incontrassimo molti,non li vedemmo mai uniti insieme in un numero da farcipaura.

Dopo il deserto, trovammo una contrada assai ben po-polata, copiosa cioè di città e castella fondate dal czar,che vi ha poste guarnigioni di stazione per proteggere lecarovane e difenderle contro ai Tartari, genia che, senzauna tale previdenza, renderebbe assai pericoloso il viag-giare in queste parti; anzi sua maestà russa ha emanati sìprecisi ordini per la sicurezza delle carovane e dei nego-zianti che ogni qual volta corre la voce di Tartari che in-festino il paese, vengono sempre spediti dalle guarnigio-ni opportuni drappelli che scortino di stazione in stazio-ne i viaggiatori. In fatti il governatore di Admskoy, alquale ebbi occasione di fare una visita col mezzo delmio mercante scozzese che era in relazione con lui, neofferse, ove mai prevedessimo qualche pericolo di lì allaprossima stazione, una guardia di cinquanta uomini.

Io avea creduto per lungo tempo che, più ci saremmoavvicinati all'Europa, più vi avremmo trovate buone abi-tazioni e abitanti che fossero meno addietro ne' progres-

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si della civiltà; ma vidi essermi ingannato in entrambequeste mie supposizioni. Ci rimaneva tuttavia da attra-versare il paese de' Tonghesi, ove rinvenni gli stessi se-gnali di paganesimo e di barbarie che mi fecero ribrezzonelle precedenti contrade. Solamente i Tonghesi, con-quistati più saldamente dai Moscoviti, non sono tantopericolosi; ma quanto a rozzezza di modi e ad idolatria,non v'ha popolazione al mondo che li superi. Vestiti tuttidi pelli di bestie, queste stesse pelli sono il riparo delleloro trabacche; non distinguete una donna da un uomonè alla minore asprezza de' lineamenti nè alla diversitàdel vestire. Nel verno, quando tutta la campagna è co-perta dalla neve, vivono sotterra entro caverne che co-municano l'una coll'altra.

Se i Tartari avevano il loro Cham Chi-Thaungu per unintero villaggio o contrada, trovai che costoro hanno unidolo per ciascuna capanna o caverna. Adorano in oltrele stelle, il sole, l'acqua, la neve, in somma tutto quelloche non capiscono, e le cose che capiscono sono ben po-che; ogni elemento pertanto tutto ciò che si tolga unpoco dall'ordinario riceve sacrifizio da loro.

Ma ho detto di non volermi diffondere in descrizionidi popoli e di paesi ove queste non si rannodino con lastoria mia propria. Nulla mi accadde di singolare nel tra-versare tutta questa contrada cui attribuisco una lun-ghezza almeno di quattrocento miglia, la metà dellequali forma un altro deserto che ci costò dodici giorni difaticoso viaggio, perchè sfornito anch'esso di case e di

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alberi onde anche qui ne toccò portarci dietro le nostreprovisioni e l'acqua non meno del pane.

Poichè fummo fuori del deserto, camminammo altridue giorni, finchè fummo a Janezay, città moscovita si-tuata sul gran fiume Janezay che, mi fu detto, divideal'Europa dall'Asia,59 *benchè in ciò tutti i geografi nons'accordino. Non fa nulla; la cosa certa si è che questofiume termina a levante nell'antica Siberia, provinciaoggidì dello sterminato dominio russo e grande essa solacome tutto l'impero germanico preso insieme*.

Osservai che quivi parimente l'ignoranza e il pagane-simo continuavano a prevalere, eccetto tra le guarnigio-ni moscovite. Tutto il paese posto tra i fiumi Oby e Ja-nezey è affatto pagano, e gli abitanti sono selvaggi alpari de' Tartari più remoti, anzi per quanto io so, al parid'ogn'altra nazione dell'Asia, o dell'America. Dirò dipiù: ho trovato che que' poveri pagani non sono nè piùdirozzati nè più vicini a farsi cristiani per essere postisotto un governo moscovita: cosa che non mancai didire ai governatori co' quali ebbi il motivo di conversa-re. Questi stessi mi davano ragione, ma soggiugnevano:

‒ “Questo non è affare che dipenda da noi. Se al czarpremesse di convertire i suoi sudditi tartari, tonghesi edella Siberia, dovrebbe mandare fra questi popoli degliecclesiastici, non de' soldati. Ma (qui mi diedero unaprova di sincerità maggiore ch'io non m'aspettava) al no-

59 Qui pure il tratto contrassegnato da due asterischi non si trova in diverseedizioni inglesi.

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stro monarca sta più a cuore, crediamo, il farsi de' suddi-ti che dei Cristiani”.

Nell'estensione frapposta tra il Janezey e il grand'Obyvedemmo terreni incolti e spopolati; in sè stesso per al-tro il paese sarebbe fertile e piacevole. Tutta la contradaè abitata da pagani se si eccettuino quegli abitanti che vimanda la Russia; perché è questo il paese (intendo ledue rive dell'Oby) ove sono esiliati que' Moscoviti che,essendo giudicati rei, non vengono condannati a morte,o, se condannati a morte, ottengono grazia della vita. Laposizione geografica di questa terra d'esilio è tale che,come dovrò dirlo in appresso, è impossibile per essi l'u-scirne.

Nulla ho a dire d'importante su i miei affari particola-ri fino al momento del mio arrivo a Tobolsk , città capi-tale della Siberia, ove mi fermai qualche tempo per leragioni che m'accingo a descrivere.

CVIII. Soggiorno a Tobolsk; conoscenza fatta con un esule moscovita d'alto conto.

Correvano allora sette mesi circa da che eravamo inviaggio, e veniva il verno a gran passi. Per prima cosatenemmo consiglio fra noi, il mio socio ed io, sul partitoche (non essendoci prefissa qual meta del nostro pelle-grinaggio Mosca, ma Londra) ne convenisse meglio ab-bracciare. Ci fu parlato di slitte e di renne che attaccatea queste slitte, ci avrebbero fatti viaggiare sopra la neve

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nel cuore del verno; e veramente si posseggono colà talimodi di trasporto incredibili all'udirli descrivere, cherendono i Russi, soliti nelle loro corse su le slitte a nondistinguere il dì dalla notte, più viaggiatori nella stagio-ne de' ghiacci che nella state, perchè la neve indurita,coprendo in quel tempo l'intera faccia della natura epoggi e monti e fiumi e laghi, presenta una superficie li-scia e dura siccome pietra su cui si corre liberamentesenza pensare agli abissi che le stanno di sotto.

Ma non m'accadde d'intraprendere un viaggio di talnatura nel verno. Io avea bisogno, come ho detto, di cer-car l'Inghilterra non la Moscovia, il qual primo scopo iopoteva raggiugnere in uno di questi due modi: o andar-mene con la carovana finchè fossi a Jaroslaw e di lì, te-nendomi a ponente di Narva, attraversare il golfo di Fin-landia per rendermi a Danzica ove avrei esitate le miemerci della China con grande vantaggio; o vero, lasciarela carovana ad una piccola città situata sul Dwina, don-de mi bastavano sei soli giorni di viaggio d'acqua pertrasferirmi ad Arcangelo. Giunto che fossi a questo por-to, non mi sarebbe mai mancato l'imbarco per l'Inghil-terra o per l'Olanda o per Amburgo.

Ma imprendere o l'uno o l'altro di questi due viaggidurante il verno non mi conveniva. Già a Danzica non cidovevo pensare, perchè essendo gelato in allora il marBaltico, tutte le vie per acqua mi sarebbero state disdettenel disgiungermi dalla carovana, e il camminar per terrain que' paesi è cosa anche men sicura che il trovarsi fra iTartari Mongoli. Col portarmi ad Arcangelo in ottobre,

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avrei trovato vuoto affatto di bastimenti quel porto; e glistessi trafficanti che vi dimorano la state, appena hannoveduto salpare i vascelli mercantili, cercano il più meri-dionale soggiorno di Mosca. Non ci avrei dunque trova-to altro che freddo eccessivo con minori modi di riparar-mene, carestia di viveri e la molestia di rimanere in unacittà deserta tutto quanto l'inverno. Fatti pertanto tuttiquesti conti, vidi che la la meglio era per me il lasciarandare la carovana e provedermi per passare la freddastagione a Tobolsk in Siberia sotto la latitudine circa disessanta gradi. Qui almeno avevo la sicurezza di trecose: copia di que' viveri che somministra il paese, stan-za calda e combustibili per serbarmela sempre tale, otti-ma compagnia.

In che clima ero adesso diverso dalla diletta mia isolaove non sentii mai freddo che quando ebbi la febbre, edove al contrario stentavo a portare ogni sorta di panni indosso nè accesi mai fuoco se non fu, e anche all'ariaaperta, per cucinarmi il mio cibo! Adesso mi riparavanoil corpo tre buone camiciuole e sovr'esse tre zimarre chemi scendevano alle calcagna, con le maniche abbottona-te quasi sino alle dita, e tutt'e tre foderate di pellicciaperchè mi tenessero sufficientemente caldo.

Quanto all'avere un appartamento ben riscaldato, hosempre avuta avversione, lo confesso, al metodo de' no-stri Inglesi che aprono un cammino in ciascuna stanza60,

60 Il lettore si ricorda sicuramente che Robinson viveva nel secolo decimosettimo, e che anche nel decimo ottavo continuò per qualche tempo a non co-noscersi bene il modo di riscaldar le stanze nemmeno ne' paesi ove vi sarebbe

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onde, appena il fuoco è finito, l'aere intorno è semprefreddo come lo dà il clima al di fuori. Io mi regolai me-glio: preso un appartamento in una buona casa della cit-tà, feci fabbricare un cammino solo a guisa d'un forno, ecome una specie di stufa, nel centro delle sei stanze checomponevano l'appartamento stesso. La canna di questounico cammino mandava il fumo fuori da una parte; l'u-scio d'introduzione nell'appartamento era da tutt'altrabanda. Così tutte le sei camere si mantenevano caldeegualmente senza che si vedesse fuoco, come si praticanegli stabilimenti per bagni dell'Inghilterra. Finchè sta-vamo in casa avevamo un clima uguale, e uguale lo ser-bavamo da per tutto comunque fosse perverso al di fuo-ri, nè mai veniva ad incomodarci il fumo.

La cosa più maravigliosa di tutte si era il poter trovarebuona compagnia in contrada così barbara come questa,che è una delle più settentrionali dell'Europa, posta invicinanza dell'Oceano Glaciale e sotto una latitudine dipochi gradi diversa da quella della Nuova Zembla. Maessendo questo il paese ove, come osservai dianzi, ven-gono confinati tutti i rei di stato della Moscovia, ne deri-vava che Tobolsk fosse zeppa di nobili, di gentiluomini,

stato più bisogno di saperlo. Le stufe certo furono grandemente usate nel tem-po degli antichi Romani; ma rispetto ai moderni, i dizionari delle origini fran-cese e italiano ne accertano che furono praticate ben tardi in Germania e inFrancia, e l'arte qui era stata sì addietro che sotto il regno di Luigi XIV non sisapea come far nascere il frutto dell'ananas. L'Italia sì, benchè non avesse tantobisogno di stufe atteso il suo clima, nè le usasse ne' tempi andati più vicini anoi siccome adesso, ne aveva di stupende fino nel secolo decimosesto, comepuò vedersi da qualche lettera del Bembo.

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di soldati e di cortigiani di Mosca. Qui convenivano e ilfamoso principe di Gallitzin e il vecchio generale Robo-stiski e parecchi personaggi d'alto conto d'entrambi isessi. Grazie al mio mercante scozzese, dal quale nondi-meno mi separai a Tobolsk, avevo fatto conoscenza conpiù d'uno di questi signori, e da essi, in quelle seratequivi sì lunghe del verno, ricevei molte visite che mi re-sero piacevole la mia permanenza.

Io stava conversando col principe di ***61 un de' mi-nistri di stato del czar di Moscovia, quando la natura deldiscorso mi fornì l'occasione di trarre in campo le cosemie; ma ciò fu dopo ch'egli m'ebbe esaltato la grandez-za, la magnificenza, l'estensione de' dominii e l'assolutopotere dell'imperatore di Russia.

‒ “Io fui, così gl'interruppi il suo dire, un sovrano piùgrande e potente che nol sia mai stato il vostro czar diMoscovia, benchè non di un dominio tanto esteso nè diuna popolazione sì numerosa”.

Spalancò gli occhi su me quel russo magnate, alquan-to sorpreso ed imbarazzato a comprendere che cosa in-tendessi dire.

‒ “Signor principe, gli dissi, cesserà il vostro stupore,quando vi avrò raccontato che primieramente ho un po-tere assoluto su le vite e le sostanze di tutti i miei suddi-

61 È a credersi che il principe qui innominato sia lo stesso principe di Gal-litzin citato da Robinson un momento prima. Molte somiglianze che si vedran-no fra poco in altra mia nota, col Basilio Gallitzin della storia, contemporaneodi Robinson o sia dell'autore di questa vita, m'inducono in tale opinione e spie-gherebbero ancora la circospezione dell'autore stesso nel non additare in guisatroppo aperta un alto personaggio allora vivente.

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ti, e che, a malgrado di tal mio assoluto potere, non cen'è un di loro il quale non sia affezionato al mio governoo alla mia persona in tutti quanti i miei dominii.

‒ Da vero mi soggiunse il magnate crollando il capo,voi siete arrivato più in là del czar di Moscovia.

– Le terre del mio regno, continuai, sono tutte di miaproprietà, e tutti quelli che vi stanno sopra, non sola-mente sono i miei vassalli, ma volontari vassalli; tutti sibatterebbero per me fino all'ultima stilla del loro sangue,nè vi è despota, perchè mi confesso tale, che sia tantoamato e tanto temuto ad un tempo dai propri sudditi”.

Dopo averlo divertito alcun poco con questi indovi-nelli che si riferivano al mio governo, gli spiegai final-mente in lungo ed in largo la storia della mia vita nell'i-sola e del modo onde governai la popolazione postasisotto il mio comando tal quale ve l'ho specificata in que-ste mie memorie. Tutto il mio uditorio la gustò non vi sodir quanto, ma il principe più degli altri, che mi tennequesto discorso:

‒ “In fatti la vera grandezza consiste nell'essere pa-droni di noi medesimi. Così mi vedessi (e qui mise unsospiro) in uno stato di vita siccome il vostro, e nonm'augurerei cangiarlo per essere czar di Moscovia! Hotrovata più felicità in questo ritiro, ai vostri occhi terrad'esilio, che non ne trovassi mai nella più alta autoritàcui pervenni un giorno alla corte del czar mio padrone.Il sommo dell'umana saggezza sta nell'attemperare il no-stro animo al livello delle nostre circostanze, nel crearciuna calma interna sotto l'urto de' più tremendi turbini

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esterni. Ne' primi momenti che venni qui, io mi strappa-va i capelli dal capo, mi squarciava le vesti, come hannofatto altri innanzi di me; ma un poco il tempo, un pocola riflessione, mi condussero a portar lo sguardo dentrome stesso e alle cose che mi stanno intorno ed a quelleposte fuori di me. Oh! se la mente dell'uomo si traesse,basterebbe una volta, a meditare da vero lo stato univer-sale della vita, e quanto poco il mondo contribuisca allasua vera felicità, saprebbe presto formarsi una felicità dasè stesso, pienamente adatta alla propria soddisfazione econforme ai propri migliori fini e desiderii con ben pocobisogno d'aiuto dal mondo. Aria per respirare, quantocibo basta a sostenere la vita, panni per ripararsi dalfreddo, libertà di moversi per conservar la salute: qui statutto quanto il mondo può darci per far compiuta la no-stra felicità. Certamente, la grandezza, l'autorità, le ric-chezze e i piaceri di cui godemmo su questa terra, ebbe-ro in sè medesimi il loro lato gradevole per noi; ma tuttequeste cose appagarono soprattutto le più ignobili dellenostre inclinazioni, l'ambizione, l'orgoglio, l'avarizia, lavanagloria, la sensualità; tutte cose che essendo il pro-dotto della più spregevole parte della natura umana, fu-rono colpevoli in sè medesime e racchiusero in sè mede-sime i semi di ogni maniera di delitti; ma niuna di que-ste può essere in affinità o divenire origine d'alcuna diquelle virtù che ne caratterizzano uomini saggi, o diquelle grazie che ci fanno ravvisare cristiani. Per me, solquando mi vidi spogliato di queste sognate felicità cheandarono congiunte alla piena possanza di darmi in

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balía ad ogni viziosa inclinazione, allora soltanto poteiguardarle a tutto mio agio nel lor tristo verso ed accor-germi di tutte le brutture da cui sono contaminate. Allo-ra potei convincermi che la sola virtù ha forza di renderel'uomo e saggio e ricco e grande, e di mantenerlo su lavia che guida a più alta beatitudine in uno stato avveni-re. Circa allo stato presente, ci troviamo più beati nelnostro esilio di quanto il sieno i nostri nemici nel pienogodimento di quella ricchezza, di quella possanza che cisiamo lasciate addietro. Nè crediate, signore, trasfuse inme queste massime dalla sola necessità delle mie circo-stanze che vi parranno calamitose e miserabili. No! Seconosco qualche cosa di quel che sento io medesimo, vigiuro che non tornerei addietro, quand'anche il czar miosignore mi richiamasse per reintegrarmi in tutta la miaantica grandezza. Credo tanto impossibile ch'io tornassiindietro, quanto lo sarebbe che la mia anima, liberata ungiorno da questa prigione del suo corpo, e tratta a gusta-re lo stato di gloria promessone dopo la vita, volessetornare nel carcere di carne e di sangue entro cui adessoè rinchiusa, e abbandonare il cielo per avvolgersi nuova-mente nel loto e ne' delitti degli affari di questa terra”.

Nel dir queste cose tanto vedevasi animata e raggian-te la fisonomia di chi le profferiva, vi ponea questi tantofervore e calore che non potea menomamente dubitarsinon fossero la sincerissima espressione dell'intimo suosentimento.

‒ “Signore, gli dissi, v'ho ben raccontato che avevoconsiderato me stesso come una specie di monarca in

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quell'antica mia posizione di cui vi ho già dato raggua-glio; ma voi ... io riguardo voi non solamente come unmonarca, ma come un grande conquistatore, perchè ave-te riportato vittoria su l'esorbitanza de' vostri desiderii,avete riacquistato il dominio di voi medesimo; e coluiche sa assoggettare sì bene il proprio volere al governodella ragione, è più grande del conquistatore di una cit-tà. Pure, eccellenza, potrei io prendermi la libertà di far-vi un'interrogazione?

‒ V'ascolto di tutto cuore.‒ Se vi si aprisse un mezzo di scampo non vorreste

almeno afferrarlo per liberarvi da questo esilio?”.‒ Afferrarlo! ripetè il principe. Voi mi fate una do-

manda che è sottile, e che esige alcune giuste e serie di-stinzioni per darle una risposta sincera. Cercherò dun-que di cavarla dal fondo della mia anima questa rispo-sta. Nessuna delle cose ch'io conosco al mondo mi fa-rebbe movere un passo per liberarmi dal presente statodi esilio fuor d'una di queste due: l'una il piacere di vi-vere con la mia famiglia; l'altra, un clima alquanto piùmite. Del resto, vi giuro che il ritorno alle pompe dellacorte, la gloria, la possanza, le brillanti faccende d'unministro di stato, la ricchezza, la giocondità ed i piacerid'un cortigiano, non solo tutte queste cose son divenuteun nulla per me, ma supponete che nel momento in cuiparliamo il czar mio padrone mi promettesse di restituir-mi tutto quanto mi ha tolto, vi giuro, se pur so qualchecosa di quello che dico, che non abbandonerei questa

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solitudine, questi deserti, questi laghi di ghiaccio per lareggia di Mosca.

‒ Ma, eccellenza, soggiunsi, mi sembra non vi sienostati tolti soltanto i piaceri della corte, la possanza, l'au-torità, la ricchezza di cui godevate da prima; ma, se nonm'inganno, devono mancarvi ancora alcuni comodi indi-spensabili della vita. Le vostre signorie forse confiscate,i preziosi arredi delle vostre case dati al saccheggio, gliscarsi mezzi che vi vengono lasciati qui pel vostro so-stentamento, non si conformano, io credo, alle solite esi-genze della vostra vita.

‒ Vi pare così, perchè mi guardate come uno de' vo-stri lòrdi, o come un principe, chè veramente lo sono;ma consideratemi ora soltanto come un uomo, come unacreatura umana niente distinta da un'altra qualunque.Come tale, non manco di nulla, semprechè non venga-no a visitarmi malattie, o disgrazie che producano im-perfezioni negli organi del mio corpo. Ma per venire piùalle corte, voi vedete quì il nostro sistema di vita. Inquesto paese, siamo cinque d'un grado distinto: viviamoin un perfetto ritiro come bisogna che vivano gli esiliati.Dal naufragio delle nostre ricchezze qualche poca cosal'abbiam riscattato; ciò ne dispensa dalla necessità asso-luta di andare a caccia per procurarci il cibo giornaliero;ma anche i poveri soldati, nostri compagni d'esilio, chenon hanno come noi questo vantaggio, vivono nellastessa abbondanza in cui viviamo noi, perchè s'aiutanocoll'andare a caccia pe' boschi; le volpi e i zibellini presiin un mese li fanno vivere un intero anno; e poichè i

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meri bisogni della vita non sono sì estesi, ce la passiamosufficientemente tutti. Voi vedete che è tolta di mezzoanche questa obbiezione”.

Non fluirei più se volessi qui ripetere tutti i particolaridi tale intertenimento con quell'uomo veramente grande.Fu questo uno dei più gradevoli dialoghi ch'io abbia maiavuti in mia vita, durante il quale quel mio interlocutorediede sempre a vedere quanto la sua mente fosse inspi-rata da una eminente saggezza, quanto il suo disprezzodel mondo fosse reale e tal quale lo aveva espresso, equal si mantenne sino all'ultimo, come apparirà da quan-to io dovrò narrare fra poco.

Passai quivi otto mesi di un verno il più spietato, ilpiù atroce, cred'io di quanti se ne possano immaginare.Il freddo fu sì intenso ch'io non potea nemmeno guardardi fuori se non era imbacuccato entro pellicce e con unamaschera di pelliccia al volto o piuttosto cappuccio cheaveva tre buchi, uno perchè respirassi, due altri perchèci vedessi. Per tre mesi, a quanto mi ricordo, la lucediurna o passava di poco le cinque ore, o sei ne erano lamassima durata; pure la neve giacente immobile su laterra e il tempo serbatosi sereno fecero sì che non fossi-mo mai affatto nelle tenebre. I nostri cavalli venivanomantenuti, o piuttosto affamati, sotterra; e quanto ai ser-vi, che dovemmo prendere a nolo qui per assistere a noie alle bestie, ogni tanto avevamo che fare per liberaredal gelo le dita intormentite delle loro mani e de' loropiedi; altrimenti sarebbero ad essi cadute.

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Egli è vero che in casa ci mantenevamo ben caldi ser-bando sempre chiuse tutte le porte espressamente angu-ste, come espressamente doppie erano tutte le vetratedelle finestre. Il nostro cibo principale consisteva in car-ne di daino affumicata e apparecchiata a suo tempo, pe-sci seccati d'ogni sorta e alcuni pezzi di carne fresca dicastrato e di bufalo che riusciva per noi uno squisitomangiare. Tutta la scorta delle provisioni veniva prepa-rata e ben condizionata nella state; la nostra bevanda eraacqua corretta con l'aqua vitæ in vece di esserlo col vinostillato62, e per un pezzo coll'idromele, che era eccellen-te in cambio del vino stillato. I cacciatori, soliti ad af-frontare tutte le stagioni, ci portavano sovente del sal-vaggiume, e qualche volta della carne d'orso, pietanza,di cui veramente non eravamo ghiotti gran che. Aveva-mo una buona provigione di tè per presentarne gli amiciche v'ho antecedentemente indicati; e, tutte le cose bi-lanciate, ce la passavamo assai bene e lietamente.

CIX. Apparecchio della partenza; offerta fatta al principe russo; come accolta.

Era venuto il marzo, mese in cui le giornate principia-no ad allungarsi notabilmente e ad essere almen tollera-bile la stagione. Gli altri viaggiatori pertanto comincia-vano ad allestire le loro slitte per correre su la neve e

62 Pei popoli molto settentrionali la parola latina aqua vitæ corrispondeallo spirito dei grani fermentati, e il vino stillato alla nostra acquavite.

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tutte le cose necessarie alla partenza; ma il mio divisa-mento essendo stabilito, come dissi, per Arcangelo, nonper la Moscovia o per traverso al Baltico, non mi mossipunto. Sapevo benissimo come i bastimenti che daspiagge meridionali cercano quella parte di mondo, nonsalpino prima del maggio o del giugno; laonde, quandomi fossi trovato ad Arcangelo sul principio d'agosto, cisarei sempre stato in tempo per incontrarmi in vascellipronti a dar vela. Per questo, non m'affrettai come gli al-tri; anzi io avea veduti molti, e posso dire tutti quelli cheviaggiavano per motivo di traffico, partiti prima di me.Par che questi ogn'anno cerchino di qui la Moscovia pervendere colà le loro pellicce, e provedervisi delle cosenecessarie a fornire le loro botteghe; alcuni di loro siportavano anche col medesimo scopo ad Arcangelo; ma,siccome questi dovevano non solo andare, ma tornareaddietro, e la strada da farsi era più lunga di ottocentomiglia, aveano tutti lasciato Tobolsk prima di me.

In maggio dunque cominciai ad allestire il mio baga-glio, nella quale occasione andavo facendo a me stessoun quesito della seguente natura: “Tutta questa genteconfinata dal czar di Moscovia in Siberia, quando è quiper altro, viene lasciata in libertà d'andare dove vuole.Perchè mo nessun di loro non pensa ad avviarsi versoqualche altra parte del mondo che non sia Russia, e cheloro torni più comoda almeno di questa Siberia?” Io nonsapeva assolutamente vedere quale ostacolo ne gli impe-disse. Ma il mio stupore fu subito dissipato appena en-

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trai su questo argomento coll'alto personaggio di cui hofatta menzione testè.

‒ “Considerate prima di tutto, egli mi disse, la giaci-tura del luogo, poi la condizione in cui siamo, e in cui èspecialmente la più parte degl'individui qui mandati inesilio; e vedrete che ci chiudono in questo vastissimocarcere impedimenti più forti delle sbarre e dei catenac-ci. A settentrione un oceano non navigabile su cui nonveleggiarono mai bastimenti, su cui una sola barchettanon ha mai galleggiato; da ogn'altra parte converrebbe,a chi tentasse una fuga, l'attraversare nient'altro che piùdi mille miglia di dominio tutto russo e per vie non pra-ticabili di sorta alcuna, eccetto le strade maestre, apertedal governo e che passano tutte per città guardate dapresidio russo. Non potremmo dunque né passare perqueste strade senza essere scoperti, nè trovare di che vi-vere prendendone altre. Vedete come sia cosa da non cipensare nemmeno”.

Ridotto di botto al silenzio da tale spiegazione, capiiche questi infelici si trovavano in una prigione priva d'o-gni speranza d'uscita per essi come se fossero stati in-chiavati nel castello di Mosca. Pure mi nacque l'idea chepotrei io essere uno stromento di sicura liberazione aquel personaggio cotanto degno, ed a questa idea si unìin me la ferma volontà di tentarne la prova a costo diqualunque rischio mio personale. Colsi dunque una seral'opportunità di fargli la mia proposta e di spiegargli imodi facili che avevo per trasportarlo fuori di qui.

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‒ “Guardate bene, io gli dicea. In questo paese voinon siete sotto la vigilanza di nessuno; io non vado aMosca, ma ad Arcangelo, e il mio viaggio sarà fatto conseguito d'uomini e di cammelli, in somma con un accom-pagnamento di carovana; non ho quindi l'obbligo di farle mie pause nelle stazioni militari del deserto, e possomettermi a campo la notte ove mi piace. Non ne è dun-que difficile l'arrivare senza interruzioni al porto d'Ar-cangelo, ove vi metterò tosto al sicuro a bordo d'un ba-stimento inglese entro cui vi condurrò sano e salvo conme. Quanto al vostro sostentamento, me ne incarico io,finchè, prendendo miglior piega le cose vostre, possiateaiutarvi da voi medesimo”.

Egli mi stette attentamente ascoltando e guardandomicon fisonomia commossa per tutto il tempo che gli par-lai; anzi dal suo volto potei accorgermi che le mie paro-le avevano messo in un massimo trambusto il suo spiri-to, perchè cangiava spesso di colore, gli si facevano ac-cesi gli occhi, gli palpitava il cuore, a quanto almeno ar-gomentai dall'esterne apparenze, né fu capace di rispon-dermi subito quand'ebbi finito, chè ci volle una piccolapausa prima che, strettomi fra le braccia, così mi parlas-se:

‒ “Oh come siamo indifese, come infelici noi creatureumane, se perfino i più grandi atti d'amichevole benevo-lenza divengono insidie per noi, e ne traggono ad esserei tentatori gli uni degli altri! Mio caro amico, la vostraofferta è tanto incera, racchiude in sè stessa tanto di cor-tesia, tanto di disinteresse, è sì intesa al mio vantaggio

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che conoscerei ben poco il mondo se non ne fossi so-praffatto e compreso ad un tempo della gratitudine chevi devo. Ma di grazia, credevate o no che io fossi since-ro in quanto vi ho dello sì spesse volte sul mio disprezzodel mondo? Credevate o no ch'io vi parlassi dal fondodella mia anima, allorchè vi assicuravo di avere ottenutoqui quel grado di felicità che mi ha fatto superiore a tut-to quanto il mondo può darmi? Credevate dicessi unabugia nel protestare che non sarei tornato indietro nem-meno se mi sentissi richiamato alla corte per esservi tut-to quello che fui dianzi, per godervi nuovamente di tuttii favori del czar mio padrone? Non mi credevate in quelpunto un onest'uomo, mio caro amico? O m'avreste maigiudicato un ipocrita millantatore?”

Qui si fermò, come se volesse aspettare che cosa gliavrei saputo dire; ma non tardai poco dopo a capire lacagione di questa pausa. Il suo spirito era stato messo intal fermento dai miei detti, seguiva tal lotta nel suo grancuore che non gli permise andare innanzi nel suo discor-so. Confesso che mi resero attonito e le sue parole el'uomo da cui erano profferite. Usai alcuni argomentiper sollecitarlo a ricuperare la sua libertà, e questo tragli altri:

‒ “Siete obbligato a ravvisare nella mia proposta unastrada apertavi dalla providenza che antivede e predi-spone tutti gli eventi, dovete riguardarla come una chia-mata del cielo diretta a rendervi anche migliore ed utileai vostri simili.

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‒ Chi vi assicura, signore, egli mi rispose (chè nell'in-tervallo delle mie argomentazioni egli era tornato piùpadrone di sè medesimo), chi vi assicura che quanto voidite chiamata dal cielo, non sia invece, senza che voimedesimo vel pensiate, un'instigazione di tutt'altra natu-ra, diretta a mostrarmi sotto le apparenze della felicitàciò che fosse un'insidia in sè stessa ordita con seducenticolori per trascinarmi ad ultimo precipizio? Qui son li-bero dalla tentazione di risalire alla mia antica miserabilgrandezza. Dove mi condurreste non sarei sicuro chetutti i semi dell'orgoglio, dell'ambizione, della cupidigiae della sensualità ... rimangono sempre questi semi nellanatura dell'uomo ... non sarei sicuro che non ripullulas-sero in me, che non prendessero radice, in somma nonmi sprofondassero. Ed in allora, il fortunato prigioniereche or vedete padrone della libertà della sua anima, di-verrebbe lo sciagurato schiavo de' propri sensi in mezzoalla pienezza della personale sua libertà. Caro signore,lasciatemi rimanere in questa benedetta terra d'esilio ovesono bandito dai delitti della vita, anziché persuadermi aseguire una larva di libertà a rischio di perdere la libertàdella mia ragione, e quel porto di beatitudine che or mista a veggente, ma che altrimenti potrei, ne ho paura,smarrire di vista. Sono di carne, sapete? sono un uomo,meramente un uomo! ho passioni, ho affezioni che po-trebbero di leggieri farmi tracollare e subissare al pari

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d'ogn'altro uomo. Deh! non siate in una volta il mioamico e il mio tentatore!63”

Se fui sorpreso la prima volta, or rimasi mutolo affat-to, né ardii più dire una parola, contentatomi a contem-plarlo e ad ammirare da vero quanto io vedea. La lottainterna dell'animo di lui era sì potente che, ad onta dellagiornata estremamente fredda, lo mise in un violento su-dore. Vedendolo divenuto affatto incapace di dare sfogodi parole ai propri pensieri, gli dissi io queste sole:

‒ “Pensateci ancora tra voi e voi; tornerò a trovarvi”,poi mi ritirai nel mio appartamento.

Due ore dopo, udito qualcuno alla mia porta o vicinoad essa, mi alzavo per vedere chi fosse; ma chi l'avevaaperta era già entrato, e fu lo stesso principe, che mi dis-se:

‒ “Mio caro amico, voi m'avevate quasi fatto vacilla-re, ma mi sono tenuto in piede. Non v'abbiate a male se

63 Il Moscovita che parla cosi è affatto affatto il principe Basilio di Galli-tzin dipintoci dalla storia per uno de' più rinomati uomini di stato e diplomaticidel secolo decimo settimo, benchè sia morto d'ottant'anni nel primo periodo deldecimottavo. La Russia gli dà merito d'una gran parte delle riforme utili alla ci-viltà di quella contrada operate da Pietro il Grande. Promotore di una corri-spondenza fra le corti d'Europa ridotta a sistema, fu autore del così detto tratta-to di pace perpetua che fu concluso nel 1686. Fu vicerè di Casan e di Astracan,e guardasigilli di Pietro il Grande. Smisuratamente ambizioso e per conseguen-za smisuratamente avido di ricchezze, cadde per la prima di queste pecche insospetto al monarca che lo spogliò di tutti gli onori e d'ogni sostanza confinan-dolo nel 1689 a Tobolsk in Siberia. Si mostrò più grande nel rassegnarsi all'av-versa fortuna che nol fu in mezzo allo splendor delle corti. Il czar mitigò in ap-presso la sua pena col permettergli di vivere in una sua terra presso Mosca chelo stesso czar gli restituì. Profittò di tal grazia col ritirarsi in un chiostro ovefinì i suoi giorni nel 1713.

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non accolgo la vostra offerta: v'assicuro che ciò non èperchè io non senta quanto sia stata generosa per partevostra, ed anzi vengo a farvene i miei più sinceri ringra-ziamenti; ma spero di avere riportata intera vittoria sume medesimo.

‒ Ed io spero, eccellenza, di vedervi finalmente per-suaso che non dovete resistere ad una chiamata del cie-lo.

‒ Signore, egli disse, se fosse stata veramente chia-mata del cielo, una onnipotenza eguale avrebbe operatosu me perchè mi arrendessi; ma io spero ed anzi sonopienamente persuaso di obbedire al cielo nel non accet-tare quanto m'offriste, onde nel separarmi da voi ho al-meno l'infinito conforto che mi lasciate qui onest'uomose bene non libero dalla mia schiavitù”.

Qui non mi restava a far meglio che acchetarmi e pro-testargli che non m'avea mosso altro fine fuor d'una sin-cera brama di essergli utile. Abbracciatomi cordialissi-mamente, mi assicurò d'una gratitudine che non gli sa-rebbe uscita mai della mente. Aggiunse ai ringraziamen-ti un dono di stupende pelli zibelline; presente tropposontuoso da vero perchè non fossi renitente oltre modoad accettarlo da un uomo posto nelle sue circostanze.Feci di tutto per dispensarmene, ma capii che una mag-giore insistenza nel mio rifiuto lo avrebbe offeso.

Nella successiva mattina spedii anch'io a sua eccel-lenza un mio servo con un piccolo presente che consi-steva in tè, due pezze di damasco della China e quattropiccole verghe di oro del Giappone d'un peso che non

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oltrepassava in tutto sei once all'incirca, ma di un valoremolto al di sotto delle pelli zibelline, delle quali, quandofui a Londra, mi furono sborsati a un dipresso dugentosterlini. Accettò il tè, una pezza di damasco ed una dellequattro verghe d'oro che portava una fina impronta diconio giapponese. Seppi indi più tardi che, senza la rari-tà del conio, non avrebbe accettata nemmeno questa. Fuimpossibile in appresso il fargli ricevere altro. Pel servostesso mi mandò a dire che desiderava parlarmi.

Andato da lui, udii dirmi:‒ “Voi sapete che la vostra proposta è stata considera-

ta sotto tutti gli aspetti fra noi; e spero che non vorreterinovarmi sollecitazioni, che sarebbero inutili su questoargomento. Ma poichè faceste un'offerta sì generosa ame, vi domando se avreste la cortesia di farne una simi-le ad un'altra persona che vi nominerò, e che mi sta mol-to a cuore.

‒ “Non vi dirò, eccellenza, che sarei inclinato a fareper un altro altrettanto quanto per voi che tengo in sìparticolare considerazione, e per cui mi sarebbe stata sìgrande gioia l'essere uno stromento di scampo. Nondi-meno degnatevi nominare questa persona e vi risponde-rò”.

Mi disse trattarsi del suo proprio figlio, il quale, sebene non lo avesse veduto da che era in esilio, sapea cheviveva nella stessa condizione di lui su l'altra riva del-l'Oby ad una distanza d'oltre a duecento miglia. Egliavea modo di farlo venir qui se avessi acconsentito allasua inchiesta.

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Non esitai a dirgli un sì non disgiunto da alcune ceri-monie intese a fargli comprendere che, avendo veduto dinon potere prevalere su lui, gli avrei almeno provato ilmio rispetto col prendermi interessamento pel figlio suo,oltre ad altre cose che sarebbe tedioso ora il ripetere.

Nel dì successivo, egli mandò pel suo figlio, il quale,venti giorni appresso, arrivò in compagnia del messag-gero, conducendo seco sei o sette cavalli carichi di pel-licce di un grandissimo valore. I servi condussero i ca-valli in città, lasciando fuori in qualche lontananza ilgiovine principe fino alla notte in cui entrò incognito nelnostro appartamento. Il padre me lo presentò; pigliam-mo concerti insieme sul modo del nostro viaggio e sututte le cose da apparecchiarsi per esso.

Io avea fatto acquisto di una grande quantità di zibel-lini, di pelli di volpe nera, d'ermellini e simili altre pel-liccerie contrattate con alcune delle merci portatemimeco dalla China, e specialmente con noci moscate par-tite di garofano, delle quali droghe vendei qui la mag-gior parte, ed il restante indi ad Arcangelo, ove ebbi mi-gliori patti che non gli avrei avuti a Londra. Il mio socioche capì in aria questo maggior vantaggio, e la cui voca-zione al traffico era maggiore assai della mia, si lodògrandemente del nostro soggiorno a Tobolsk pei buoninegozii che quivi ci capitarono.

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CX. Partenza da Tobolsk; ultimo pericolo superato; arrivo a Londra.

Era il principio di giugno quando abbandonai questaremota piazza: una città, cred'io, di cui si parla ben poconel mondo, e da vero sì giù d'ogni strada del commercio,che non vedo un motivo per cui se ne dovesse parlaremolto. Eravamo ora ridotti ad una piccolissima carova-na, non avendo con noi altro che trentadue tra cavalli ecammelli in tutto, bestie che passavano tutte per mie,benchè il mio socio fosse il proprietario d'undici di esse.Era anche naturale ch'io avessi maggior numero di serviche non ne ebbi per l'avanti. Il giovine principe si davaper mio maggiordomo; per che razza di personaggio poipassasi io non lo so, nè mi presi alcun fastidio di cercar-lo. Dovemmo qui attraversare il peggiore e più vasto de-serto che nell'intero nostro viaggio ne sia mai capitato.Lo chiamo il peggiore, perchè in alcuni luoghi la stradaera incavernata del tutto, in altri piena d'alti e bassi dafar paura; il meglio che credevamo poterne dire stavanel non doversi temere lung'essa masnade di Tartari oscorridori, i quali non venivano mai a questo lato dell'O-by, o vero ci venivano ben rare volte; ma su ciò ancoravedemmo da poi di aver fatto male il nostro conto.

Il nobile giovine mio compagno avea seco un fedeleservo, nativo della Siberia, e per conseguenza praticissi-mo del paese, il quale ci conducea per vie giù di mano sìche scansavamo di entrare nè principali borghi o città

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poste su la strada maestra, quali erano Tumen, Soloy,Kamskoi e parecchi altri; perchè le guarnigioni mosco-vite, stanziate in esse, tengono di vista con la più assi-dua e stretta curiosità i viaggiatori per paura non s'a-sconda fra loro qualche esiliato d'alto conto che tentifuggire di lì in Moscovia. Ma grazie a questo tempera-mento che ci tenea sempre fuori delle stazioni militari,l'intero nostro viaggio faceasi per un deserto ove erava-mo obbligati la notte ad accampare e coricarci sotto lenostre tende, mentre avremmo potuto trovare tutti i no-stri comodi ne' paesi murali che erano lungo la stradamaestra. Di questa nostra molestia s'angustiava tanto ilgiovine principe che, se avessimo dato retta alla sua vo-lontà, non ci saremmo mai coricati all'aperto ogni qualvolta c'erano stazioni per dormir meglio, ed egli solo,andando ad accamparsi col suo servo nelle foreste, ciavrebbe poi raggiunti nella mattina in luoghi convenuti.

Eravamo già entrati in Europa avendo passato il fiu-me Kama, che in quella parte è il confine tra questa el'Asia. La prima cttà europea che s'incontri, è detta So-loy Kamskoi che equivale a Grande città sul fiumeKama; e qui veramente credevamo di trovare un sensibi-le cambiamento nelle costumanze della popolazione, manon tardammo ad accorgerci di avere preso un abbaglioanche in ciò. Dovevamo attraversare un vasto desertoche, se bene in alcuni luoghi sia lungo presso a settecen-to miglia, laddove lo dovevamo passar noi non avevamoa farne più di dugento prima di essere fuori da quell'orri-da solitudine. Quando finalmente l'avemmo superata,

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scorgemmo ben poca differenza fra gli abitanti di quellacontrada e quelli della Tartaria Mongolia. Gli abitantinella generalità sono pagani e poco meglio dei selvaggidell'America; le loro case ed i borghi pieni d'idoli; ilmodo del vivere affatto barbaro, eccetto nelle città o ne'villaggi vicini a queste ove si professa il cristianesimo,come là lo chiamano, della chiesa greca; ma la religioneè sì mescolata con resti d'antica superstizione che la di-stinguete a stento dalla negromanzia o dalla magia.

Nell'attraversar dunque l'indicata foresta, e quandogià ci figurammo, come v'ho detto, di essere fuori datutti i pericoli, ci vedevamo proprio sul punto di essereassaltati, spogliati e forse uccisi da una masnada di la-droni. Di qual paese fossero ho ancor da saperlo; maposso dirvi che erano tutti a cavallo, armati d'archi e difreccie, ed in numero di quarantacinque all'incirca. Arri-vati ad una distanza di due tiri di schioppo da noi, sen-z'altri preamboli ne accerchiarono stando sempre a ca-vallo, e per due volte ci guardarono in atto di prenderele loro misure. Finalmente andarono tutti a mettersi dipiè fermo su la strada donde dovevamo passar noi. Ve-duta la qual cosa, ci schierammo in linea davanti ai no-stri cammelli, piccola linea perché eravamo sedici uomi-ni in tutto. Fermatici in tal posizione, incaricammo quel-l'uom di Siberia, quel servo del giovine principe, di an-dare a scandagliare chi costoro fossero: temperamentosoprattutto desiderato dal suo padrone in cui non erapoca la paura che fosse stato spedito dalla Siberia uncorpo di soldatesca per inseguirlo. Questo nostro esplo-

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ratore, spiegata bandiera pacifica, s'accostò ad essi dipiù e fece per venire a parlamento con loro. Ma ebbe unbell'adoperare tutte le lingue, o piuttosto ogni dialetto dilingua di quelle contrade, era tuttuno. Non so se si fa-cesse intendere; so certo che non capì una parola diquanto coloro dicevano, e so ancora che, dopo molti se-gni fattigli perchè si ritirasse se non volea vederselabrutta, il nostro messo tornò addietro informato dellecose come lo era prima d'andar a fare la sua scoperta.Unicamente ci disse che agli abiti li credeva una bandao di Tartari Calmucchi o di Circassi, dei quali dovevaesserne una maggiore quantità nel gran deserto, ancor-chè niun d'essi fosse mai stato veduto spingersi tantoavanti verso il settentrione. Non era questa una grandeconsolazione per noi; ma che farci?

Avevamo a mano sinistra, alla distanza circa d'unquarto di miglio, un boschetto che faceva orlo alla stra-da. Immediatamente disposi che, sceltolo per nostro ri-paro, ci fortificassimo come lo potremmo meglio den-tr'esso; perchè primieramente considerai che gli alberidella piccola selva ci avrebbero fin ad un certo segnoprotetti contro alle frecce dei nemici; in secondo luogoche lì non potevano far impeto in massa su noi; taleespediente, per dar lode alla verità, mi fu suggerito dalmio vecchio pilota portoghese che aveva in sè questaeccellente prerogativa di essere tanto più presto a darbuoni consigli quanto ad infondere coraggio col proprioesempio allorchè si presentava il pericolo.

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Avanzatici dunque con quanta speditezza potemmo,si arrivò al piccolo bosco, chè i Tartari o i ladri (non sa-pevamo con qual nome chiamarli) essendo rimasti fermial loro posto, non ce lo impedirono. Lì giunti, trovammoa nostra grande soddisfazione essere pantanoso quelsuolo e reso tale da una sorgente che formava, scorren-do, in un fiumicello e andava a raggiugnerne un altro inpiccola distanza: erano in somma e l'uno e l'altro l'origi-ne d'un rilevante fiume che otteneva poi il nome diWirtska. Gli alberi che facevano ombra alla sorgentenon erano più di duecento, ma di grosso fusto e sì vicinigli uni agli altri che ci faceano sicuri dagli assalti dellacavalleria. Se pertanto il nemico voleva affrontarne conqualche efficacia bisognava che venisse a piedi.

Mentre stavamo lì aspettando che cosa questi nemicifarebbero, e non vedevamo che andassero nè avanti nèindietro, il mio Portoghese, fattosi aiutare dal resto dellanostra gente, tagliò parecchi rami d'albero, e congegnan-doli per traverso tra una pianta e l'altra venne a fabbrica-re una specie di trincea.

Mancavano circa due ore alla notte quando i malan-drini ne vennero in verso, e vedemmo, benchè non ce nefossimo accorti nel tempo del loro indugio, che durantequesto erano stati rinforzati da alcuni altri di lor genía,perchè adesso sicuramente ammontavano ad ottanta fracui ne parve scorgere alcune donne.

Vennero innanzi tanto che furono ad un mezzo tiro dischioppo dalla nostra selva. Allora sparammo un mo-schetto carico di sola polvere; poi chiesto in lingua russa

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che cosa volessero da noi, intimammo loro che si ritiras-sero. I bricconi, invece, si spinsero con raddoppiato fu-rore addosso al bosco non sospettando della trincea danoi architettata che impedì loro l'entrarvi. Il mio vecchiopiloto, divenuto allora nostro capitano e ufiziale del ge-nio, ci avea raccomandato di non far fuoco su costoro,finchè non gli avessimo tiro di pistola ond'essere megliosicuri di prender bene la nostra mira e di stenderne mor-to qualcuno. Aspettavamo quindi per far lavorare i no-stri moschetti la sua parola di comando che egli differìfinchè i mascalzoni non furono più lontani della lun-ghezza di due picche da noi. La mira fu presa sì a dove-re che quattordici di coloro caddero morti, e parecchi de'lor cavalli furono feriti; perchè ciascuno di noi avea po-ste nel suo archibuso due o tre palle per lo meno.

Sorpresi in una guisa sì spaventosa dal nostro fuoco,si ritirarono imediatamente da noi per un tratto di bencento passi. Poichè gli avemmo a questa distanza, sal-tammo fuori per impadronirci di quattro o cinque de'loro cavalli i cui cavalieri, supponemmo, erano rimastiuccisi. Andati indi a vedere i cadaveri dei morti, giudi-cammo effettivamente Tartari i nostri assalitori, benchénon sapessimo comprendere per qual motivo, essendotali, avessero spinta la loro scorreria ad una lontananzainsolita per essi.

Dopo un'ora in circa si mossero coll'intenzione di unsecondo assalto, e veramente fecero un giro attorno alnostro riparo onde scandagliare il miglior punto peraprire la breccia; ma, vedendoci così ben preparati a ri-

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ceverli, tornarono addietro una seconda volta. Noi risol-vemmo di non levare le tende di lì per quella notte.

Dormimmo poco, potete credermelo, impiegando lamaggior parte di quelle ore notturne nel fortificarci dipiù, nel munire di trincee tutti gl'ingressi della selva, nelfar buona guardia. Sospiravamo il crepuscolo della mat-tina per vedere come si mettessero le cose, ma quandogiunse ce ne mostrò da vero di mal accette. Il nemico,lunge dall'essere scoraggiato pel ricevimento che gli fa-cemmo, cresciuto grandemente di numero, aveva alzatoundici o dodici tende o baracche con l'intenzione, parea,di assediarci: questo piccolo campo piantato nell'apertapianura non era più di tre quarti di miglio lontano danoi.

Tale scoperta da vero ne sconcertò; ed io, lo confesso,mi diedi per perduto con tutte le mie mercanzie; nonm'addolorava tanto il secondo danno, benché sarebbestato del certo rilevantissimo, quanto la paura di caderenelle mani di que' barbari alla fine del mio viaggio,dopo aver superati tanti ostacoli e pericoli, e in vista,potea dirsi, del porto di mia salvezza. Non vi starò a de-scrivere come il mio socio arrabbiasse; dichiarava che laperdita delle sue merci sarebbe stata l'ultima di lui rovi-na, che volea morire battendosi anziché affamato, e chevolea difendersi ad ultimo sangue.

Tale pure era l'intenzione del figlio del principe russo,giovine veramente d'altissimo cuore; tal l'opinione delvaloroso mio pilota portoghese che sosteneva esser no-stro il vantaggio della posizione per fare un'ottima resi-

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stenza; così ci passò la giornata disentendo su quelloche ne conveniva eseguire. Ma poco prima del far dellasera, ci accorgemmo che il numero de' nemici s'era an-cora accresciuto, nè potevamo congetturare quale neavremmo trovato il nuovo aumento nella successivamattina.

Domandai dunque ad alcuni degli uomini che aveva-mo condotti con noi da Tobolsk se non vi sarebbe stataqualche via recondita donde avessimo potuto sottrarcidurante la notte, e ritirarci forse in qualche borgo o pro-curarci aiuto di gente. L'uom di Siberia, servitore delgiovine principe, mi rispose che, se avessimo voluto ap-pigliarci al partito di una fuga senza combattere, neavrebbe condotti sopra una strada volta a settentrionenella dirittura del fiume Petrou, alla quale attenendocinon v'era a dubitare che non avessimo, durante la notte,trovato uno scampo senza che i Tartari se ne fossero ac-corti menomamente.

‒ “Ma, aggiunse poi, sua eccellenza ha detto che nonvuol ritirarsi; dunque anch'io voglio restare qui a batter-mi.

‒ Voi fraintendete, gli dissi, il vostro padrone. Egli èfornito di troppa saggezza per non avventurarsi a com-battere per solo amor di combattere. Ch'egli abbia co-raggio, lo so già da quel che ha mostrato in altre occa-sioni, ma ha ancora bastante giudizio per riservarsi soload un'estrema inevitabile necessità il repentaglio di met-tere in battaglia diciassette o diciotto uomini contra cen-to e, se egli crederà possibile per noi una fuga in questa

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notte, non ci rimarrà a far altro che tentarla. Diteci dun-que …

‒ Ma io non dico nulla se non me ne dà la licenzalui”, insisteva questo fedele quanto ignorante servitore.

La licenza di lui fu ottenuta, e noi ci accingemmo se-gretamente a questo tentativo.

Primieramente, appena fattosi buio, accendemmo ungran fuoco nel nostro piccolo campo praticando le indu-strie opportune perchè la fiamma vi si mantenesse tuttala notte onde i Tartari ci credessero sempre lì. Poi appe-na principiarono a vedersi le stelle (chè prima di ciò ilnostro conduttore non volea moversi), avendo già prece-dentemente allestiti i nostri cammelli e cavalli, seguim-mo la nostra guida che dal canto suo aveva per guida lastella polare.

Dopo due ore di faticosissimo cammino, cominciò avedercisi meglio; non che prima fossimo assolutamentenelle tenebre, ma essendosi alzata la luna, ci vedevamochiaro fin più del bisogno. Alle sei della mattina, aveva-mo fatte circa trenta miglia, rovinando, per dir vero, af-fatto i nostri cavalli. Allora trovammo un villaggio rus-so, nomato Kermaziuskoy ove ci riposammo, nè udim-mo più parlare di Tartari Calmucchi in quel giorno.

Due ore circa prima della notte, tornati a metterci incammino, viaggiammo sino alle otto della successivamattina senza avere a lottare con una strada così perver-sa come quella che avevamo fatta prima. Alle sette, ave-vamo già passato un fiumicello dello Kirtza, e un'oradopo eravamo arrivati ad un grosso borgo abitato da

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Russi che veniva chiamato Ozomoys. Quivi udimmocome parecchie bande di Calmucchi avessero fatta unascorreria nel deserto, ma udimmo del pari, a mio grandeconforto, che noi, giunti a quella stazione, eravamo af-fatto fuor di pericolo. Qui fummo obbligati a provedercidi cavalli freschi ed avendo un sufficiente bisogno di ri-poso, qui rimanemmo cinque giorni. Il mio socio ed ioci accordammo di regalare dieci doppie all'onesto nativodella Siberia che ne fu guida.

Dopo altri cinque giorni di cammino, arrivammo aVeuslima posta sul fiume Wirtzogda prima che vada agettarsi nel Dwina, dove fortunatamente eravamo vicinial termine de' nostri viaggi per terra; perchè il fiume es-sendo qui navigabile metteva in sette giorni ad Arcange-lo. Da Veuslima arrivammo a Lawrenskoy ai 3 di luglio.Quivi provedutici di due barche da trasporto e di unalancia per andarvi a bordo, c'imbarcammo il 7; ai 18 citrovammo sani e salvi ad Arcangelo dopo un anno, cin-que mesi e tre giorni di viaggio, compresi gli otto mesiche ci fermammo a Tobolsk .

Ne fu mestieri fermarci sei settimane ad Arcangeloper aspettare l'arrivo dei bastimenti; ed avremmo indu-giato di più, se un vascello amburghese non fosse entra-to in porto un mese più presto del navilio dell'Inghilterrae se, dopo averci pensato un poco, non avessimo vedutala possibilità di un migliore spaccio delle nostre mercan-zie ad Amburgo che a Londra. Tutti pertanto c'imbar-cammo su quel vascello, a bordo del quale essendomifatto precedere da tutte le mie mercanzie, era naturalis-

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sima cosa che mi facessi precedere anche dal mio mag-giordomo. Colà il mio giovine principe potè tenersi na-scosto più a suo bell'agio, nè più mai tornò a terra pertutto il tempo che c'intertenemmo ad Arcangelo: cautelatroppo importante per lui a motivo della difficoltà chequalcuno dei molti negozianti di Mosca sbarcati quivinon lo avesse riconosciuto e scoperto.

Demmo le vele da Arcangelo ai 20 agosto del medesi-mo anno, e dopo un viaggio non istraordinariamentecattivo, toccammo l'Elba ai 18 di settembre. Quivi ilmio socio ed io trafficammo ottimamente tutte le nostremercanzie, tanto quelle della China quanto i zibellinidella Siberia. Divisone fra noi l'intero ricavato, la miaparte fu di tremilaquattrocentosettantacinquc sterlini, di-ciassette soldi e tre danari, oltre a circa seicento, valoredi diamanti che avevo acquistati al Brasile.

Qui il nobile giovine moscovita accommiatatosi dame, s'imbarcò su l'Elba a fine di trasferirsi a Vienna,perchè avea risoluto d'implorare protezione da quellacorte e mettersi in corrispondenza con quegli antichiamici di suo padre che vivevano tuttavia. Non partì cer-to di lì senza darmi segnalate dimostrazioni di gratitudi-ne e pel servizio reso a lui e per tutte le cordialità da meusate a suo padre.

Per venire ad una conclusione, dopo essere dimoratoquattro mesi a un dipresso ad Amburgo mi resi per terraall'Aia, donde imbarcatomi in un pacchebotto arrivai ai10 gennaio del 1705 a Londra, dalla qual metropoli ioera stato lontano dieci anni e nove mesi. Qui ho risoluto

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d'allestirmi ad un viaggio più lungo di tutti quelli che honarrati, dopo aver condotta per settantadue anni una vitapiena d'infinite variazioni ed imparato sufficientementea valutare i beni del vivere ritirato e qual beatitudine siaper l'uomo il terminare in pace i suoi giorni64.

FINE.

64 E qui il narratore si scorda d'una promessa fattane: quella cioè di rag-guagliar della fortuna fatta da quel suo compagno ch'egli imbarcò sul basti-mento della disgrazia, come pure lascia nel desiderio di sapere che cosa sia av-venuto di suo nipote da cui si separò al Bengala. Come queste omissioni e tra-sandature sieno affar di sistema per questo storico, lo vedremo nella vita del-l'autore della storia stessa che diamo qui appresso.

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MEMORIE BIOGRAFICHEDI

DANIELE DE FOÈTRATTE

DA WALTER SCOTT.65

(Forse fra tutte le opere o istruttive o dilettevoli non hav-vene alcuna d'autore inglese, che sia stata più generalmenteletta e più universalmente ammirata come la Vita e avventu-re di Robinson Crusoè. È difficile il definire in che consistail prestigio per cui gl'individui d'ogni classe e d'inclinazionile più disparate ne rimangono inebbriati; ma egli è certo chela maggiorità dei leggitori di questo libro si ricorderà comesia stato desso un fra i primi libri che ha eccitato l'interesse el'allettamento di lor giovinezza, e come, anche in età piùadulta e nella maturità del loro intelletto, abbiano sentito col-legarsi tuttavia con Robinson Crusoè tal sentimento che èproprio ed omogeneo a quel periodo della vita in cui tutto ènuovo, in cui tutte le prospettive si mostrano più incantevoli,

65 Tutta questa vita è tradotta dall'opera di Walter Scott intitolata: Biogra-phical memoir of eminent novelists (Memorie biografiche di eminenti novel-lieri, Vita di Daniele de Foe). Questa prima parte contrassegnata da parentesiin principio della prima linea e al fine di quella ove termina, non è propria-mente dello Scott, il quale nella seconda parte, effettivamente sua e non con-traddistinta egualmente, dichiara esserne autore il suo chiaro amico defunto,Giovanni Ballantyne.

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tutti gli oggetti più luminosi, ancorchè l'esperienza del pas-sato sembrasse fatta per renderli più foschi e sbiadati.

Quest'opera pubblicata la prima volta nell'aprile del 1719,ricevè sin d'allora, come ognuno può immaginarsi, il più fa-vorevole accoglimento. Ella è una singolarità affatto partico-lare che l'autore di essa, dopo avere trascorsa tanta parte disua vita, or fra gli strepiti e i pericoli della politica, or fra leamare realtà della prigionia e delle pene abbia consacrato ilpendío de' suoi anni ad un'opera siccome questa; fenomenocui possiamo unicamente trovare una spiegazione immagi-nando che quel cuore affaticato, toltosi dalla società e dallesue istituzioni venutegli a schifo, cercasse un sollievo nel di-pingere la felicità in tale stato di solitudine qual egli lo haassegnato al suo eroe. Che che ne sia, la società gli dee gran-demente per averla arricchita d'un lavoro che d'una guisatanto piacevole e semplice giustifica i decreti della providen-za e fa divenire norma durevole della più utile morale unastoria interessante e deliziosa.

Daniele de Foè nacque a Londra nel 1663 da un macellaiodella parrocchia di San Gile, conosciuto per Giacomo Foè.Molte discussioni di cui risparmieremo la noia ai nostri leg-gitori, furono eccitate dalla curiosità di sapere il motivo percui Daniele aggiunse di proprio arbitrio la particella de alsuo cognome. Noi propendiamo a convenire con uno dei cri-tici che portarono le loro indagini su ciò. Questi ne incolpa ilrossore sentito di tal sua bassa origine da Daniele, il quale sisarà creduto con quest'aggiunta di prestare un suono che sen-ta meglio di dignità normanna al nome del suo casato. Cosìegli come la sua famiglia erano dissenzienti; non sembra peraltro che i suoi principii fossero tanto rigidi quanto la suasetta gli avrebbe pretesi, perchè nella prefazione alla sua

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opera More Reformation! (Anche Riforma!) così si duoled'alcuni dissenzienti: «Mi fanno aver detto sul serio che laforca e la galera sarebbero le pene adatte a chi frequenta leconventicole; e si dimenticano che in tal caso avrei avvoltoin questo anatema non solo me stesso, ma mio padre e miamoglie e sei innocenti miei figli.»

L'educazione del de Foè fu limitata anzichè no, cosa dadeplorarsi tanto più perchè in molti casi ha date prove d'unostraordinario genio compartitogli dalla natura. Mandato dasuo padre nell'accademia dissenziente di Newington-Greenin età di dodici anni, ne passò quattro circa in quello stabili-mento sotto le lezioni del signor Morton; ed in ciò sembraconsistere tutta l'istruzione che gli fu data. Tornato a casa,pare che il suo genio non s'acconciando molto ai brani dicarne ed ai ferri del mestiere di suo padre, questi gli facesseimprendere una professione diversa; qual fosse non possia-mo dirlo con precisione, perchè in ordine a ciò il de Foè fuassai riservato. Quando il Tutchin66 gli appone a disonorel'essere stato novizio nella bottega d'un calzettaio, egli ri-sponde nel maggio del 1705 che non «fu mai nè calzettaionè novizio, ma un uomo addetto al commercio67.»

Questa professione per altro, qual che si fosse, non occu-pò un lungo periodo della sua gioventù, perchè nel 1685,avendo allora ventidue anni, prese l'armi qual partigiano delduca di Monmouth68. Nella sconfitta che distrusse questa fa-

66 L'editore dell'Osservatore, nemico implacabile del de Foe così in politi-ca come in letteratura. (Nota di Walter Scott)

67 Salvocondotto che diede forse alla propria coscienza per questa appa-rente bugia, perchè prestare opera a far calze non è farle. (Nota di WalterScott.)

68 Giacomo di Monmouth, figlio naturale di Carlo II, illustre guerriero,che mortogli il padre, portò l'armi contro il fratello di questo, Giacomo II,

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zione, Daniele ebbe la fortuna di sfuggire impunito in mezzoalla turba de' delinquenti di più alto conto. Nondimeno, inetà più avanzata e quando una tal confessione ebbe cessatodi esser pericolosa, si gloriò d'avere fatto parte di quella im-presa nel suo Appeal to Honour and Justice (Appello all'o-nore e alla giustizia) nella qual opera dà conto della sua con-dotta ne' pubblici affari.

Tre anni dopo (nel 1688) Daniele de Foè venne ammessonel ceto mercantile di Londra. Ciò fu allor quando dopo es-sersi mostrato in ogni circostanza sì zelante partigiano dellarivoluzione, ebbe la gioia d'essere spettatore del rilevante av-venimento che portò lo stadolder d'Olanda sul trono degliStuardi. L'Oldmixon nel secondo volume delle sue opere af-ferma che in un banchetto dato ai 29 ottobre del 1689, dallord maggiore al re Guglielmo «Daniele de Foè fece la suabriosa comparsa in splendida divisa tra i cavalieri comandatida lord Peterborough per accompagnare il re e la regina daWhiteall alle case di Mansion House.» Con tutto il suo cava-lierato per altro e a malgrado della sua penna consacratasicon tanta fermezza alla causa del re Guglielmo, il nostro Da-niele non arrivò a farsi conoscere da questo monarca di fred-da tempera. «Dovea contentarsi (così il suo nemico Tutchin)al suo umile mestiere di calzettaio in Freemans-yard, Corn-hill, e veder saggiamente che la corte può far senza trattatipolitici, mentre i cittadini non possono far senza calzette.»

Intanto con quella trista fortuna che è l'indivisibile com-pagna degli uomini di genio, ogni qual volta coltivano le fa-coltà del loro ingegno a scapito di quel senso comune sì ne-cessario per mantenersi con certo credito in mezzo a questomondo, che è il mondo di tutti i giorni, gli affari del de Foè

succedutogli nel regno, e che preso, fu decapitato in Londra ai 25 luglio 1685.

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andavano di male in peggio; perdeva il tempo che avrebbedovuto impiegare nella sua bottega occupandolo per coltiva-re il suo spirito nelle amene lettere fra dotti uomini, e arrivònel 1692 alla necessità di nascondersi ai suoi creditori. Unodi costoro più irritabile degli altri e men riguardoso per leamene lettere portò un'istanza perchè si procedesse contro diDaniele per fallimento. Fortunatamente pel nostro autore fumessa in tacere per le cure di que' medesimi, verso i qualiera maggiore il suo debito, onde una transazione venne ac-cettata. Mercè gli sforzi di una solerzia instancabile, nonsolo adempiè puntualmente i patti di questa transazione: ma,venuti di poi in angustia alcuni di que' creditori che gli ave-vano usata simile facilità, soddisfece per intero quanto adessi dovea. Imprese indi una fabbrica di tegole in riva al Ta-migi, presso Tilbury, ma con poco felice successo, onde isuoi nemici ebbero a dire «Che dissimile dagli Egiziani iquali cercavano tegole senza loto impagliato, imitava gliEbrei nel procurarsele senza pagare i suoi operai.» Congiun-tamente alla fabbricazione delle tegole, il nostro autore, sti-molato da una mente operosa e dalle imbrogliate sue circo-stanze, macchinò mille altri divisamenti ch'egli chiamavaproposte. Quanti fogli di carta imbrattò di calcoli su la mo-neta inglese! quante proposte fece e di banchi per ciascunacontea e di casse di risparmio! Ci fu anche una proposta, madebolmente sostenuta (potete crederlo) per istituire una com-missione liquidatrice degli stati dei falliti; un'altra a soccorsodei poveri; la finì per ultimo pubblicando un lungo saggiogenerale su le proposte.

A que' giorni all'incirca, nel 1693, gl'incessanti sforzi delde Foè, arrivarono a far sì che la corte si accorgesse un po-chettino di lui, perchè fu nominato ragioniere negli ufizi del-

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la tassa su i vetri. Ma qui ancora ebbe che fare con la sua di-sdetta. Nel 1699 fu abolita la tassa, e perdè l'impiego.

Giunse finalmente l'istante in cui il sole del regale favorearrise alle espettazioni del nostro autore. «Sul finire circa del1699 (è lo stesso de Foè che parla) fu pubblicato un orridolibello in detestabili versi: lo avea scritto un Tutchin (il suocapitale nemico come si è notato), non vi dico altro; era inti-tolato: I Forestieri. L'autore di un tale libello si scaglia pri-ma su la persona del re, poi su la nazione olandese, e final-mente, dopo avere rinfacciati a sua maestà sì fatti delitti, cheil suo peggior nemico non avrebbe potuto immaginarselisenza inorridire, li riassume tutti nell'odiosa parola di fore-stiere. Questa nefandità di libro fe' venirmi una tal piena dibile, che il mio bisogno di sfogarla diede origine ad una miabagattella, la quale non avrei mai sperato che sortisse un ag-gradimento sì generale.»

La bagattella, cui qui allude il de Foè, fu il suo Vero gen-tiluomo inglese, satira in versi opposta all'altra I Forestieri, escritta in difesa del re Guglielmo e degli Olandesi; lavoro dicui fu senza esempio lo spaccio e proporzionato il compensoche l'autore ne ritrasse. Ammesso in oltre all'onore di un'u-dienza concessagli dal re, divenne con ardore sempre piùcrescente il partigiano della corte. In questo componimentola satira era robusta, maschia, potente. Come levava la pelleai tory inglesi pel loro irragionevole astio contro ai forestie-ri! astio tanto più irragionevole per non essere i primi nullameglio di uno screziato miscuglio di tante nazioni diversechiamate poi in massa Inghilterra. I versi, se vogliamo, sonoaspri e stonati, perchè non pare che il de Foè sia mai statodotato d'orecchio per la melodia nè del verso nè della prosa;pure, benchè manchino di quella larga sonora armonia del

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Dryden, vi si scorgono spesso le vigorose espressioni e quel-la felice connessione di pensieri che non potrebbe arrossiredi appropriarsela l'autore dell'Assalonne e Achitofel69, ancor-chè la totalità dello stile sia piuttosto foggiata su quello del-l'Hall, dell'Oldham e de' più antichi autori di satire. Son no-tissimi i quattro primi versi, il cui significato è il seguente:«Laddove Dio destina l'innalzamento d'una casa ov'esserpregato, il diavolo ci fabbrica sempre la sua cappella; e,guardandoci ben bene troverete, che la seconda ha un'af-fluenza maggiore di divoti70.»

Alla pubblicazione del Vero gentiluomo inglese succedet-tero due altri componimenti, uno sul potere originario delpopolo inglese, l'altro per provare la possibile consistenzacontemporanea di un esercito stabile istituito col consensodel parlamento e della libertà inglese. Ma non è nostra menteseguire il de Foè lungo lo stadio delle sue opere politiche,onde contenti ad indicar quelle che si riferirono più da vici-no alla posizione e agli affari di lui, passeremo all'epoca del-la morte del re Guglielmo, che accadde agli 8 di marzo del1702.

Poichè l'avvenimento della regina Anna71 al trono divenneuna reintegrazione della dinastia degli Stuardi, verso cui ledottrine politiche e la condotta del de Foè ebbero particolari

69 Una fra le più encomiate tragedie dello stesso Dryden.70 Wherever God erects a house of prayer;

The devil always builds a chapel there;And't will be found, upon examination,The later has the largest congregation.

71 Anna di Danimarca, figlia primogenita di Giacomo II, e per conseguen-za Stuarda, era sorella di Maria II, moglie del re Guglielmo, di cui qui si par-la, morta di vaiuolo nel 1694. Alla morte di Guglielmo fu chiamata quest'Annaal trono dell'Inghilterra.

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demeriti, il nostro autore fu presto ridotto, come dianzi, a vi-vere soltanto delle rendite del proprio ingegno; e ciò forsefortunatamente pel mondo! Perchè vi è troppo di verità inquel grido universale contro alla trascuratezza degli autoriviventi, contro a quella specie d'infingardaggine, che suoleessere la compagna del genio, e che la sola presenza dellanecessità può scuotere o rendere operosa. Se il re Guglielmofosse vissuto, probabilmente il mondo non avrebbe gustatala delizia delle Avventure di Robinson Crusoè.

O avesse ravvisata il de Foè nelle opere politiche la mercetipografica di maggiore spaccio, o si sentisse, come Macbe-th, «spinto sì innanzi che, non potendo guardar oltre, il tor-nare addietro gli riuscisse penoso non men del tragitto72»(che è quanto non sapremmo decidere) certamente egli s'ar-rischiò a pubblicare di nuovo una sua opera satirica intitola-ta: The shortest Way with the Dissenters, (La più spiccia co'dissenzienti), oltre ad altre opere che si ebbero per veri libel-li dalle comuni. Portatasi contro alla prima di queste pubbli-cazioni un'istanza contr'esso alla camera, questa decretò che:

«Riconosciutosi che La più spiccia co' dissenzienti è unlibro pieno di false e calunniose osservazioni contro al parla-mento, libro pubblicato con intenzione di eccitare una som-mossa, fosse abbruciato per mano del Carnefice della comu-ne in New-Palace-Yard (cortile di Palazzo nuovo).»

Compilatosi allora un tremendo catalogo delle colpe poli-tiche del nostro infelice autore, tutte vennero poste in solen-ne mostra a fine di perderlo. «Egli era stato, fu detto, il favo-rito e il panegirista di Guglielmo, avea combattuto pel Mon-mouth e si era ribellato a Giacomo; sostenute le rivoluzioni e

72 Stept in so far, that should I wade no more,Returning were as tedious as go o' er.

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difese le pretensioni del popolo, calunniata, vilipesa, oltrag-giata la totalità de' tory, capi dei comuni; nè contento a tuttociò, pubblicato di nuovo il più oltraggioso de' suoi libelli.»

Con tal flagello che gli sovrastava, il de Foè fu costrettocercare uno scampo nel nascondersi, mentre il potea tantomeno, grazie ad una taglia che dava i più caratterizzati se-gnali della sua persona promulgata dai segretari della cameranel gennaio del 1703, della qual taglia fu questo il tenore.

«San Giacomo, 10 gennaio 1702-3. ‒ Stantechè Danielede Foè, altrimenti de Foè, è imputato d'avere scritto un libel-lo diffamatorio e sedizioso intitolato: La più spiccia co' dis-senzienti ‒ Costui è un uomo sparuto, di mezzana statura, etàquarant'anni in circa, carnagione bruna, capellatura nera,porta parrucca, naso aquilino, mento aguzzo, occhi grigi, unneo assai visibile su la bocca. ‒ Chiunque scoprirà il dettoDaniele de Foè a qualcuno de' principali segretari di suamaestà, o a qualche giudice di pace della prefata maestà sua,affinchè cada nelle mani della giustizia, conseguirà un com-penso di cinquanta sterlini che sua maestà ha ordinato glisieno sborsati immediatamente dietro la fatta manifestazio-ne.»

Poco dopo fu preso, condannato ad una multa, alla berlinaed alla prigionia, «Così, dice lo stesso de Foè, fui rovinatouna seconda volta, perchè in questo affare ho perduti tremilatrecento sterlini all'incirca.»

Nella prigione di Newgate, impiegò il suo tempo a cor-reggere per darla alle stampe una raccolta di sue opere chevenne pubblicata entro l'anno medesimo. Fra queste ne intro-dusse una nuova, un'ode alla berlina, con cui sì di recenteavea fatto conoscenza contro sua voglia. Per ciò il Pope lomise ad insultante raffronto col suo rivale Tutchin in due

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versi, il cui significato è il seguente: «Sordo, senza avvilirsi,stava su l'alto del palco scenico il de Foè; intanto il Tutchininfamato da costui rimanea da basso nella platea73.»

Il suo inno o ode alla berlina scritto in versi jambici tra-sandati ed aspri, come il Vero gentiluomo inglese, e come,per essere giusti, tutta la poesia di Daniele de Foè, ha il veronerbo della satira energica ed efficace; e noi c'ingannerem-mo a partito se quattro versi della stessa ode non valsero aritorcere su i persecutori del de Foè tutta l'infamia della penacui questi veniva assoggettato. Sono essi, benchè disadorninello stile, sul fare del prode antico cavaliere Lovelace. Ilsentimento n'è questo: «Le mura di pietra non fanno una pri-gione, nè le sbarre di ferro una gabbia; l'anime rese serenedall'innocenza, hanno tutto ciò per un pacifico eremo74.»

L'ode principia da un'interiezione di saluto al palco delsuo castigo, cui dice poscia: «Gli uomini che sono uomini,non possono in te ravvisare una pena, e si ridono di tutto iltuo insulso apparato. Il pubblico disprezzo, questo nuovovocabolo mal applicato all'ignominia, ove non è delitto, è unnome vuoto; una vana immagine fatta per tenere a bada ilgenere umano, ma che non atterrisce mai una mente saggia edi costante proposito. La virtù sprezza il dileggio umano, ela calunnia è ornamento dell'innocenza. Fatta più sublime suquesto tuo sgabello, quali prospettive non contempla ella ne'destini dell'avvenire! Oh! quanto le mire imperscrutabili del-la providenza sono diverse da quelle de' limitati sensi del-

73 Earless on high stood unabash'd de Foe.Aud Tutckin in Flagrant from the scenes below.

74 Stone walls do not a prison make,Nor iron bars a cage;

Mind innocent and quiet takeThat for a hermitage.

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l'uomo! Di qui i cittadini errori, de' quali gli stolti hannopaura, su i quali fondano le loro espettazioni i malvagi75.»

Ognun vede come qui per uomo che è uomo il de Foè in-tenda l'uomo innocente, pel quale tutte queste sentenze sonvere e sacrosante. Egli poi, il de Foè, dovea credersi o per lomeno mostrar di credersi tale nel corso della sua ode. Ma ilrimanente della sua vita ne trae a pensare che veramente fos-se di buona fede, oltrechè ne' miseri tempi delle discordie in-testine, non è cosa la più facile il discernere gl'innocenti daicolpevoli, gl'ingannati dai mestatori.

Nè pago a questo sgradevole argomento d'inno, un altrone intitolò pure alla forca.

Ma l'oggetto principale cui l'autore volse allor la sua men-te fu l'istituire un giornale periodico col titolo di Rivista. Co-minciatane la pubblicazione ai 19 febbraio 1704, continuaro-no ad uscirne due numeri in-4. ciascuna settimana fino almarzo del 1705, nel qual tempo cresciuti di mole i numeri,se ne distribuivano tre per settimana (nei giorni di martedì,giovedì e sabbato) pubblicazione che, durata fino al maggio1713, formò in tutto nove grossi volumi. Daniele de Foè era

75 Men, that are men, can in thee feel no pain,And all thy insignificance disdain.Contempt, that false new word for shame,Is vithout crime an empty name;A shadow to amuse mankind.

But never frights the wise or well-fix'd mind;Virtue despises human scorn,And scandals innocence adorn.Exalted on thy stool of state,

Vhat prospect do I see of future fate!How the inscrutables of providenceDiffer from our contracted sense!Hereby the errors of the town,That fools look out, and knaves look on!

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il solo che ci scrivesse. In quest'opera avete notizie interne estraniere, articoli relativi al commercio ed alla politica; ma,avendo l'autore ben preveduta la poca probabilità di renderpopolare un giornale ove non sia dilettevole, vi sono trattatidiversi altri argomenti; d'amore, per esempio, di matrimonio,di poesia, di lingua e dei gusti o costumanze prevalenti aque' giorni; questa parte formava un ramo da sè col titolo diScandal Club76. Non parvero a quella mente operosa un ba-stante incarico questi lavori. Il de Foè era tuttavia confinatoa Newgate nel 1704 quando pubblicò la Tempesta o sia unaraccolta de' più notabili casi e fenomeni avvenuti nella tre-menda burrasca che nel 26 novembre 1703 disastrò le costedell'Inghilterra, e portò tanto eccidio e rovina ai bastimentied ai marinai del reale navilio. Ne credasi che quest'opera siauna semplice pittura di disgrazie, perchè il de Foè con la suasolita felice vena ne trasse motivo e di religiosi insegnamentie di considerazioni su le vie imperscrutabili della providen-za.

Era vicino il termine dell'anno 1704, allorchè il nostro au-tore, ridotto ad estrema inopia, come lo dice egli stesso, eprivo d'amici nelle carceri di Newgate, avea quasi perdutaogni speranza di liberazione. Accadde allora che sir RobertoHervey segretario di stato in quel tempo, nè mai conosciuto

76 A tradurre propriamente questo titolo alla lettera vorrebbe forse direScotto di maldicenza, perchè scandal fra i suoi significati ha pur quello di mal-dicenza, e club tanto vuol dire una società quanto la quota che ciascun indivi-duo di essa contribuisce per tenerla avviata secondo i fini della società stessa.Fra noi pure si chiama Cronaca scandalosa ogni sunto verbale o scritto dellevoci raccolte dalla maldicenza dei diversi luoghi d'unione. Io credo per altroche lo Scandal Club del giornale istituito dal de Foè, sia quanto chiamasi par-te critica de' moderni nostri giornali, la qual parte critica, se vogliamo, è avolta a volta, e letterariamente parlando, scandalosa un pochino più del biso-gno e oltre i limiti dell'urbanità.

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precedentemente di persona da Daniele de Foè, pure spedis-se a questo un'ambasciata a voce chiedendogli che cosa po-trebbe fare per lui. Il de Foè gli mandò, come niuno può du-bitarne, una consentanea risposta, dietro la quale il ministrocolse una opportunità per far presente alla regina il miserostato e i non meritati patimenti del prigioniero. NondimenoAnna non diede sul momento ordini per metterlo in libertà.Unicamente informatasi delle circostanze di sua famiglia,mandò col mezzo del lord Godolphin una considerabilesomma alla moglie del de Foè. In appresso poi valendosidello stesso lord, spedì al nostro autore la somma necessariaa pagar la sua multa e quindi a riacquistare la sua libertà, conche si guadagnò un suddito eternamente affezionato ai suoiinteressi. Liberato da Newgate negli ultimi giorni del 1704,si ritirò immediatamente con la sua famiglia a Bury-sant-Ed-mondo. Pure non gli fu concesso goder quella quiete che va-gheggiava da tanto tempo. I librai, i novelli scrittori e certibegl'ingegni disseminavano attorno la voce ch'egli s'era sot-tratto dalle mani della giustizia compromettendo chi gli ave-va fatto sicurtà a questo fine. Sprezzati i rancori di costoro,ripreso il corso di sue letterarie fatiche, i primi frutti di que-ste furono un Inno alla Vittoria e una Duplice salutazione alduca di Marlborough delle quali due poesie gli furono forni-ti i soggetti dalle gloriose imprese di questo generale.

Il nostro autore continuò per molti anni la sua Rivista enuove pubblicazioni di opuscoli politici, nel qual tempo nonandò immune da inquietudini, e spesse volte da pericoli, mala sicurezza derivatagli dall'appartenere al ceto de' trafficantidi Londra, unita a molta risoluzione d'animo e personale co-raggio, lo francheggiò ad affrontare ed abbattere le macchi-nazioni de' suoi nemici. Si stenterà a credere al dì d'oggi che,

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mentre i suoi affari lo tenevano in viaggio nelle parti occi-dentali dell'Inghilterra, sia stata ordita una trama per portarlovia e mandarlo in qualità di soldato all'esercito; parrà al dìd'oggi impossibile che i giudici di que' paesi, nel fervore delloro zelo di parte, abbiano presa la determinazione di farloarrestare qual vagabondo; sembrerà anche men verisimileche sia stato côlto il momento di questa sua assenza da Lon-dra per intavolare contro di lui un processo per debiti finti dachi volea perderlo. Pur tutte queste particolarità son narratedal de Foè nella sua Rivista, nè abbiamo inteso mai che sie-no state contraddette; cosa che certamente sarebbe avvenutase il de Foè avesse pubblicato un tal genere di falsità.

Verso il 1706 emerse tale occorrenza governativa per cui italenti del nostro autore furono giudicati in singolar guisaopportuni. Il gabinetto della regina Anna abbisognava di unapersona dotata di estese cognizioni su gli affari e il commer-cio, d'ingegno pronto e di modi insinuanti per recarsi nellaScozia onde promovere il grande divisamento dell'unione de'due regni. Il lord Godolphin pose l'occhio sul de Foè, nèandò guari che il presentò alla regina dalla quale il nostroDaniele ebbe graziosa accoglienza. In pochi giorni vennespedito ad Edimburgo. La particolare natura delle sue istru-zioni non fu mai fatta pubblica, ancorchè fosse riconosciutocolà in un carattere quasi diplomatico. Quanto ai variati edinteressanti particolari del suo incarico, poichè occuperebbe-ro qui uno spazio esteso oltre ai limiti che ci siamo prefissiin questa biografia, rimettiamo i nostri leggitori alla Storiadell'Unione del medesimo de Foè.

Non sembra che il nostro autore trovasse grande favorenella Scozia, ancorchè stando là abbia pubblicato la sua Ca-ledonia, poema scritto ad onore di quella nazione. Egli rac-

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conta d'averne scappate delle belle «grazie, dic'egli, alla miaprudenza e alla provvidenza divina.» Nè, per dir vero, è dastupire che, essendo quasi l'intera Scozia contraria affatto al-l'unione, un personaggio vestito del carattere di Daniele deFoè, mandato per promovere con tutti i mezzi diretti e indi-retti questa stessa unione, venisse quivi guardato in cagnescoed esposto anche al pericolo di essere assassinato. In somma,l'atto dell'unione fu accettato in gennaio del 1707 dal parla-mento scozzese, e nel febbraio immediatamente successivoil de Foè era in Londra scrivendo la storia di questo grandetrattato che di due nazioni ne faceva una sola. Si crede che iservizi del de Foè sieno stati rimunerati mediante una pen-sione fattagli dalla regina Anna.

Durante il torbido periodo che venne appresso e fino allaconclusione della guerra ultimata col trattato di Utrecht, il deFoè, fatto più saggio dall'esperienza, visse giorni tranquilli aNewengto pubblicando la sua Rivista, ancorchè nell'adem-piere questo incarico non andasse esente da contenziose op-posizioni e maldicenze che per altro vigorosamente respinsee ritorse su gli aggressori. Ma nel cangiamento delle cosepolitiche che privò del potere prima sir Roberto Hervey poiil lord Godolphin, sembra cessasse al de Foè la pensione chericevea dal tesoro, onde fu costretto come prima a trarsid'impaccio su la via d'autore generico per guadagnarsi il suosostentamento. Le politiche agitazioni gli somministravano isuoi argomenti; ma per sua disgrazia i tory e i giacobiti d'al-lora erano sì fatti uomini che prendeano le cose troppo allalettera, onde i suoi scherzi furono frantesi ed egli arrestato econdotto nuovamente alla sua antica abitazione, grazie a di-versi razzi lanciati per ridere e con un'importanza patente-

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mente ironica, ma che vennero riguardati siccome macchineincendiarie.

Gli opuscoli di cui gli fu fatto un delitto erano due; il tito-lo dell'uno: Che cosa accadrebbe se arrivasse il pretenden-te? quello dell'altro: Che cosa se la regina morisse? «Nullapuò esservi di più chiaro dell'intenzione di questi due titoli:»dicea l'accusato. Fu uno scherzo ideato per far capitare i libriannunziati con essi nelle mani di coloro che furono gabbatidai giacobiti. La sua spiegazione non bastò; fu processato,sentenziato colpevole, condannato ad una multa di ottocentosterlini, mandato nuovamente a Newgate e costretto dismet-tere la pubblicazione della Rivista. Fu da notarsi allora unasingolare particolarità: la stanza assegnatagli nelle carceri diNewgate era la stessa ove la prima idea dello stesso giornalefu concepita nove anni prima.

Dopo essere rimasto pochi mesi prigione, ne uscì liberoper un ordine spedito dalla regina nel novembre del 1713.

Ancorchè con questo modo di liberazione l'innocenza del-le sue intenzioni, se non potè dirsi stabilita, venisse ammes-sa, non fu fatto nulla per lui, onde la morte della regina av-venuta poco dopo nel luglio del 1714 lo lasciò privo d'ogniscudo contra gli assalti de' suoi astuti nemici. «Non appena,egli dice, fu morta la regina e riconosciuto il diritto al tronodel nuovo re77, la rabbia degli uomini si scatenò tanto orrida-

77 Giorgio di Brunswick, elettore di Hannover, figlio di un pronipote diGiacomo I. Lo portò al trono la fazione dei whig. Certo non sembra che le in-tenzioni della regina Anna fossero per questo successore, e si contavano qua-rantacinque principi che armavano titoli ereditari più forti de' suoi alla coro-na. Per ciò il suo avvenimento al trono non fu scevro di guerre civili per l'In-ghilterra. Ad ogni modo la politica di questo sovrano, e la prosperità che ilsuo governo portò su gl'Inglesi dissiparono le turbolenze e convalidarono iltrono nella sua famiglia tuttavia regnante nella Gran Bretagna.

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mente contro di me che mi mancano le espressioni per trat-teggiarla e, benchè io non abbia dopo quell'epoca fatale,scritto veruna cosa, a molti e molti scritti è stato apposto ilmio nome, che soggiace ora all'insulto di risposte fatte aquanto io non ho detto mai.» Fu questo il più tetro periododella vita del nostro autore. Perduto ogni genere di pensione,qualunque ella fosse, obbligato a non andar avanti nella suaRivista, quante cose si arrischiasse a pubblicare venivano ac-colte con sospetto, circondato da ogni banda da cabale, insi-die ed oltraggi. Sotto il peso di sì ingiusti patimenti declinòpresto la sua salute, pure il vigor dell'animo gli rimanevatanto che risolvè sostenere in solenne guisa l'innocenza disua condotta e risarcire la digradata sua fama. A tal fine pub-blicò il suo Appello all'onore ed alla giustizia, ove nel fron-tespizio del libro osava chiamare i suoi giudici i suoi peg-giori nemici per essere l'opera stessa il veritiero reso contodella sua condotta ne' pubblici affari. Ivi si contengono ilragguaglio e la difesa del suo contegno politico sin dal prin-cipio e la più dolorosa narrazione de' suoi patimenti; ma nel-l'accignersi a trattare questo argomento non avea misurateabbastanza le morali sue forze. Quando passava in rassegnail molto che avea fatto, e il come ne fu compensato, quantoavea meritato e la gravezza de' sofferti cordogli, l'ardentespirito di Daniele de Foè tramortì all'aspetto di tale pittura;un colpo d'apoplessia lo sopraggiunse prima che avessecompiuta l'opera. Venne ciò non ostante pubblicata qual erada' suoi amici, e sembra che gli utili ricavati dal venderlasieno stati in allora la sola sorgente del suo sostentamento.Qui termina il periodo dello stadio politico del nostro autore.

Ricuperata la salute, ricuperò anche la mente, ma concangiato registro. Fu questa la volta che il leggere la storia di

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Selkirk gli suggerì il primo concetto del Robinson Crusoè;donde fu poi che alcuni avvisarono a contrastare all'autoredel Robinson il merito dell'originalità. Ma realmente si vedecome la storia di Selkirk, pubblicata pochi anni prima diquella di Robinson, ne' Viaggi intorno al mondo di RuggeroWordon, possa aver somministrato al nostro autore sì poco aldi là dell'ignuda idea d'un uomo posto solo in un'isola disabi-tata, che diviene cosa affatto di niun momento l'aver tolto ilprimo cenno di una grande orditura d'immaginazione o dalcaso di Selkirk, o da tant'altre storie simili di cui abbiamoabbondanza.

Lo spaccio del Robinson fu rapido ed esteso come già loabbiamo detto, e proporzionati i vantaggi che n'ebbe l'autore.Ebbero un bell'assalire per tutti i versi quest'opera gli antichiavversari del de Foè. Gli scritti de' quali sono andati da lun-go tempo in obblío co' nomi de' loro autori; ma Daniele deFoè, che aveva il pubblico dalla sua, li sfidò tutti quanti,onde nello stesso anno pubblicò un secondo volume con unuguale buon successo: tanto con salda barca e gonfie veleprecorse il vento78. Solleticato dalla speranza di più ampiguadagni, e sembratogli inesausto il tema del Crusoè, pocodopo pubblicò la sua opera intitolata: Serie meditazioni du-rante la vita di Robinson Crusoe e sua visione del mondoangelico; visione e meditazioni che furono ben accolte a que'giorni, ma che a dì nostri non si cercano più.

Col ritorno dell'amica fortuna, la salute del nostro anticoautore si riebbe di più e il vigore della sua mente ringiovanì.Pubblicò nel 1720 la Vita e le piraterie del capitano Single-ton, e avendo trovato, almeno sembra, cosa più sicura e in

78 With steady bark and flowing sailHe ran before the wind.

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un più proficua il dilettare il pubblico che il riformarlo, con-tinuò, salvo poche variazioni, in tal genere di lavori il rima-nente della sua vita.

Le successive sue opere della stessa natura, a ciascunadelle quali va unito un notabile grado di popolarità, benchèniuna d'esse agguagli in fama il Robinson Crusoe, furono ilFilosofo muto, la Storia di Duncano Compbell, Notabile vitadel colonnello Jack, La bella fortunata, Nuovo viaggio in-torno al mondo.

Or ci congederemo dal nostro autore che morì nel 1731 inetà di sessantotto anni a Londra, a Cripplegate, lasciando intollerabili circostanze la sua numerosa famiglia.

Che Daniele de Foè fosse un uomo dotato di potente intel-letto e vivida immaginazione, apparisce manifestamente dal-le sue opere; ch'egli possedesse un temperamento acceso, uncoraggio determinato, un instancabile spirito intraprendente,è cosa fatta certa dallo svariato tenor del suo vivere. Che chepossa pensarsi di quella temerità e mancanza di previdenzache gli impacciò sì sovente e sparse d'amarezze il corso dellasua vita, non sarà mai questa una ragione per torgli la lodeche si è meritata per rettitudine, sincerità e fermezza di ca-rattere, tante in lui, anzi maggiori di quante se ne potevanoaspettare da un autore di cose politiche che scrivea pel suopane giornaliero; e si noti che il suo protettore Hervey negliultimi anni fece diffalta alla parte cui il de Foè si mantennefedele. Come autore del Robinson Crusoe, la sua fama pro-mette esser durevole quanto la lingua in cui fu scritto.79)

79 E potrebbe aggiungersi senza timore di errare: Quante le lingue in cuifu tradotto.

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Fin qui le notizie che su la vita di Daniele de Foè ha rac-colte il compianto mio amico; ma crederei commettereun'ingiustizia verso l'autore del Robinson Crusoe se non m'a-doprassi, almen brevemente, a dar conto di quella popolarità,per cui, soprattutto nella più eminente delle sue opere, Da-niele de Foè non ha avuto scrittore che lo superi.

Qui in primo luogo ne accade osservare come sorprenden-te fosse la fertilità dell'ingegno del nostro autore. Scrisse perogni sorta d'occasione e sopra ogni sorta di soggetto, benchè,secondo tutte le apparenze, avesse ben poco tempo onde di-sporre i soggetti che avea per le mani e per trattare i quali sivalea dell'immensa scorta che si era adunata nella sua me-moria sia per le letture fin dai primi anni intraprese, sia rac-cogliendo quanti cenni potè in società senza che un solo diquesti cenni, a quanto sembrò, andasse perduto per lui. Uncompiuto catalogo delle opere del de Foè, ad onta di tutti glisforzi del defunto Giorgio Chalmers, non si è mai potuto ot-tenere finora, e fin di que' libri che si sa fuor d'ogni dubbioessere stati scritti da lui, una perfetta raccolta non sono fino-ra arrivati a mettere insieme i più solerti bibliomani. So perparte mia il lungo tempo impiegato per procurarmi il poemadi questo autore intitolato la Caledonia, senza riuscire a ve-derne nè manco un esemplare. La precedente memoria bio-grafica non dà conto neppure della metà di tutte le opere delde Foè, in mezzo alle quali, anche alle più scadenti, vi èsempre qualche cosa che le fa ravvisare per lavori d'un uomostraordinario. Non può pertanto dubitarsi ch'egli non fossedotato di una poderosa memoria donde ritraeva quei materia-li che con una non meno copiosa vena d'immaginazione or-dinava sopra un telaio tutto suo proprio, ed a cui forniva eglistesso que' doviziosi rabeschi che ne formano realmente il

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più prezioso valore. Certamente il de Foè non fa sfoggio inessi di molta cognizione delle classiche dottrine, nè appari-sce che gli studi di lui fatti nel seminario di Newington loabbiano reso molto profondo nella scienza degli antichi idio-mi. Il suo linguaggio è mero inglese, semplice spesse volteal punto della trivialità, ma sempre sì lucido ed improntanteche la sua stessa trivialità ha virtù, come lo dimostreremoben tosto, di dare la figura di veri o di probabili ai fatti nar-rati, ai sentimenti concitati da lui.

Quando non si versarono su la politica i principali studidel de Foe, lo trassero a quel popolare genere narrativo cheforma il diletto de' fanciulli e delle persone di più basso ceto:racconti di viaggiatori che, visitando remotissime contrade,scopersero nuove terre ed estranie nazioni, di pirati e buca-nieri80 che, mercè d'avventure da disperati corse su l'oceano,acquistarono sterminate ricchezze. Il suo soggiorno a Lime-house presso al Tamigi gli avrà fatto far conoscenza con que'rozzi uomini di mare mezzo armatori, mezzo scorridori, eudire il racconto delle loro spedizioni; quindi col fare e co'sentimenti de' medesimi si sarà intimamente addimesticato.Da un passo della sua Rivista, di sui sfortunatamente non miviene più a mano la citazione, si vede essere egli stato in re-lazione col Dampierre, uomo di mare, la cui dotta perizia ele nozioni letterarie trovaronsi ben di rado accoppiate in in-dividui della sua professione, massime in que' ruvidi figlidell'oceano, i quali, non sapendo che si fosse pace al di làdella Linea, erano per gli Spagnuoli dell'America meridiona-

80 Poco diversi dai filibustieri, ed in genere da tutti i pirati. Le scorreriede' bucanieri erano fatte quasi unicamente su i mari dell'America spagnuola eWalter Scott ne dice ben tosto il motivo per cui questi venivano riguardaticome un po' meno ignobili degli altri pirati.

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le ciò ch'è il bracco alla lepre, e benchè contraddistinti per ladenominazione alquanto più mite di bucanieri, valevano benpoco meglio dei propriamente detti pirati. Ma il governo in-glese, è cosa ben conosciuta, non si prendea gran pensiere disterminare tal classe d'avventurieri, finchè limitavano allaSpagna e all'Olanda le loro depredazioni, e rare volte li mo-lestava, se, tornati dalla lor vita di scorridori, si metteanoquieti e venivano a godere in patria i lor guadagni di mal ac-quisto.

Il coraggio di cotesti uomini, i portentosi rischi che af-frontarono, quelli cui si sottrassero quasi per miracolo, le ro-mantiche contrade che attraversarono ebbero, sembra, un in-finito vezzo pel nostro de Foè, che ha scritti diversi libri sutale argomento, ognun de' quali, oltre all'essere piacevole, ènotabile per la maestria, onde vi si vede tratteggiato il verocarattere del bucaniere. Sono di tal genere il Nuovo viaggiointorno al mondo; Viaggi e piraterie del capitano Singleton,e a questa classe propriamente appartiene l'ultima parte delRobinson Crusoè. Della estesa perizia del de Foè su quantoappartiene in generale alla nautica non potrà dubitare chiun-que osservi che non si dà mai il caso in cui applichi fuor ditempo una frase marittima, o mostri ignorar nulla di quantos'aspetta al carattere del personaggio posto in azione dallasua penna. Le osservazioni sul commercio, che si frammet-tono con la massima spontaneità ai ragguagli fatti su i paesistranieri, son tali quali dovevamo naturalmente aspettarceleda colui che lunghi studi sopra ogni ramo di traffico feceroabile a scrivere le due opere intitolate: Informazioni sulcommercio, il Trafficante inglese; opere da cui si scorgequanto gli fossero famigliari le contrade straniere, le loroproduzioni, le costumanze, i sistemi di governo, e quanto in

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somma rendesse cosa facile o malagevole il negoziare conesse. Donde siamo indotti a concludere che il Pellegrino diPurchas, I Viaggi dell'Hackluyt e l'altre antiche autorità sie-no state consultate da lui con non minor solerzia della curio-sità con cui si fece ad ascoltare le testimonianze del suo ami-co Dampierre, del Wafer e d'altri che scorsero i mari australicome armatori, lo fossero per conto proprio, o, come usavasiallora, per commissione.

Il Shyloch fa una distinzione fra ladri di terra e ladri dimare. Ancorchè il nostro autore si sia trovato principalmentein vicinanza co' secondi, non può dirsi per altro che mancas-se affatto di nozioni su le pratiche e le furberie de' primi. Etemiamo bene non voglia attribuirsi alle sue lunghe e ripetu-te prigionie l'opportunità ch'egli ebbe di addottrinarsi nei se-greti de' ladri e de' mendicanti, nelle loro arti per ispogliare igalantuomini, per nascondersi, per sottrarsi alla giustizia.Ma comunque egli siasi procacciate tali nozioni su la vitadella canaglia, certo egli le possedeva nel più lato senso, e sene valse con felice applicazione a comporre certi suoi ro-manzi nello stile detto dagli Spagnuoli gusto picaresco, incui non fuvvi chi si mostrasse maggior maestro di lui. Que-sta classe di favolose narrazioni può venir denominata ro-manzi di mariuoleria, perchè ne sono argomento le avventu-re de' ladri, dei rompicolli, de' vagabondi e de' giuntatori,non escluse le bagasce e le cortigiane. Il gusto miglioratodella presente età ha giustamente proscritta quest'abbiettaspecie d'opere dilettevoli, le quali in oltre sembrano fatte aposta per produrre infiniti danni fra le inferiori classi dellasocietà, siccome quelle che presentano in aspetto comico, otalvolta anche eroico, que' delitti e vizi, cui già le classi stes-se sono anche troppo per natura inclinate. Ciò non pertanto

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queste stravaganti e invereconde scene descritte dal de Foèpossono acconciamente essere paragonate co' quadri deglizingari del pittore spegnuolo Morillo sì giustamente ammira-ti, perchè, quanto a verità di concetto e spirito di esecuzione,sono indubitati capolavori, comunque laido e vile sia l'origi-nale donde vengono tolti. A tal maniera di romanzi del deFoè appartengono la Storia del colonnello Jack, che ottenneimmensa voga popolare presso l'infime classi; la Moll Flan-ders, mezzana di prostituzioni e prostituta; Mistris CristianaDavis, detta la Mamma Ross; la Rossana, cortigiana di piùalto conto. Su tutti gl'indicati romanzi si scorgono profondeimpronte di genio che è poi anche più caratterizzato nell'ulti-mo. Ma dalla inverecondia delle cose narrate, dai vizi e dallatrivialità degli attori il leggitore prova tal effetto qual lo pro-durrebbero in un bene educato giovine le seduzioni di lasci-va femmina che non arrossisse di provocarlo a scene di li-bertinaggio; potrebbe divertirlo la cosa, ma si vergognerebbed'essersene divertito. Così noi, benchè potremmo raccoglieredi questi picareschi romanzi una buona dose di diletto, pas-siamo innanzi, come faremmo scontrandoci in persone, conle quali si potesse d'altronde conversar volentieri, ma i cuimodi e caratteri non fossero affatto quelli di chi è avvezzo avivere nella buona società.

Una terza specie di componimenti ai quali l'operoso robu-sto genio del nostro autore mostrossi adattissimo, furono iracconti de' grandi sconquassi delle nazioni, o li producessela guerra, o la peste, o la tempesta. I racconti di simili flagel-li, sono tali che, quand'anche fossero sol discretamente ese-guiti, fermano l'attenzione: immaginatevi se, con l'improntadi realtà che il de Foè sapea dar sì bene alle cose da lui nar-rate, non fecero addirizzare i capelli, arricciar la pelle. In co-

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tal guisa furono scritte le Memorie d'un uficiale di cavalle-ria, che spesse volte vennero lette e citate come l'opera d'unpersonaggio reale. Nato egli stesso quasi subito dopo la rein-tegrazione degli Stuardi, il de Foè debbe aver conosciutimolti tra coloro che si trovarono mischiati nelle civili tempe-ste del 1642-6, epoca cui le Memorie d'un uficiale di caval-leria si riferiscono. Egli debb'esser vissuto fra loro in quelperiodo dell'età sua (noi non sappiamo figurarci che avesseun maggior numero d'anni) quando i fanciulli s'attaccanoalle ginocchia di coloro che possono ad essi narrare le im-prese e i pericoli corsi in lor gioventù. Non è ancora per que-gl'imberbi ascoltatori il tempo che le passioni e il desideriodi spingersi innanzi nel corso della vita abbiano prodotto uneffetto nelle lor menti; la sola curiosità li fa uditori volonte-rosi de' cimenti affrontati da altri su quel teatro, ov'eglinostessi non sono entrati per anco. Certo le Memorie d'un ufi-ciale di cavalleria sono state arricchite di alcuni di tali aned-doti atti ad infiammare l'operosa, possente immaginazionedel de Foè e ad accennarle i colori sotto cui il suo soggettodoveva essere presentato.

Il parallelo fra la soldatesca del celebre Tilly e quella del-l'illustre Gustavo Adolfo è una pittura condotta con tal minu-ta verità che sareste tentato a crederla sol possibile per chi nefosse stato testimonio di vista. Ma il genio del de Foè ne hafatto vedere in questo e in quel caso com'egli sappia compiu-tamente padroneggiare i caratteri che imprende a descrivere.

Ecco in qual modo la cavalleria del Tilly viene dipinta:«Io che avea veduto l'esercito del Tilly e i suoi vecchi sol-

dati, avvezzi e agguerriti a tutte le stagioni, sì disciplinati edesatti in tutte le loro mosse, di un coraggio le tante volte spe-rimentato, non poteva contemplare l'esercito sassone senza

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una tal quale specie d'angoscia nata dal pensare con chi que-sto dovea cimentarsi. Ruvidi e burberi i soldati del Tilly, por-tavano l'impronta del più ardimentoso coraggio nelle lor fac-cie solcate da cicatrici e ferite; le loro armadure mostravanole ammaccature fatte dalle palle di archibugio e la rugginedei tempestosi verni. Notai i loro panni sempre brutti di fan-go e l'armi loro sempre monde e lucenti. Avvezzi ad accam-pare all'aperto, dormivano al gelo e alla pioggia; i cavalli ga-gliardi e ardimentosi al pari de' cavalieri, ben istrutti ne' loroesercizi, i soldati sapevano sì esattamente quanto avevano afare che l'ordine generale bastava per ciascun d'essi; ognisoldato comune era atto a comandare, le loro voltate, marcie,contromarcie, generali fazioni di guerra, venivano adempiutecon tal buon ordine e prestezza che le distinte parole del co-mando divenivano quasi inutili per essi; imbaldanziti dallevittorie sapevano appena che cosa fosse il dare addietro.»

Ecco ora qual felice antitesi la disciplina di GustavoAdolfo presenta a quella del suo nemico.

«Allorchè vidi i soldati svedesi, l'esatta loro disciplina e ilbuon ordine, la modestia e affabilità dei loro uficiali, il rego-lato vivere della soldatesca, credei quasi che quel campo fos-se una bene amministrata città; l'infima fra le contadine conle sue merci che portava al mercato, passava ivi con altret-tanta sicurezza quanta ne avrebbe avuta per le contrade diVienna. Ivi non vedevate reggimenti di baldracche, come viaccadeva nell'altro campo; ivi non una donna che il propostodella milizia non avesse riconosciuta per moglie d'un solda-to; e tali donne eran necessarie per lavare la biancheria, tene-re conto dei panni dei militari, allestire il loro vitto.

«I soldati erano ben vestiti, ma non con isfarzo, fornitid'eccellenti armi e solleciti oltre ogni dire di tenerle pulite; e

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benchè non mi sembrassero cosi terribili come quelli del Til-ly al vederli la prima volta, pure la comparsa che fecero allo-ra ai miei occhi, unita a quanto ne aveva udito narrare prece-dentemente, mi condusse nella persuasione che sarebberostati invincibili; la disciplina, l'ordine delle lor marcie, de'loro accampamenti ed esercizi erano eccellenti, e tali chenon poteano vedersi in altri eserciti fuor quello del re di Sve-zia, perchè l'abilità, il retto discernimento, la vigilanza diquel monarca aveva portato un vistoso miglioramento nei re-golamenti militari che allora erano in uso.»

Allor quando scoppiò nell'Inghilterra la grande ribellione,in cui il supposto autore di queste memorie si trovò compro-messo, e per conseguenza ne parla, questo breve tratto vi dàun quadro delle miserande calamità congiunte con una guer-ra intestina, quadro più compiuto che non ve lo presentereb-be un intero volume di considerazioni su l'argomento mede-simo.

«Io era allora, per una grazia speciale del re, chiamato aiconsigli di guerra essendo assente ed infermo mio padre, ecominciai fin da quel tempo a meditare quali fossero i realifondamenti di questa guerra e a prevedere, quel che è più, ilfatal esito ch'essa poteva sortire. Ho detto cominciai, perchènon posso dire d'aver mai prima di questo momento avutaun'opinione su ciò, benchè fossi stato abbastanza avvezzo avedere e spargimenti di sangue ed esterminio di popolazionie saccheggio di città e devastazione di campagne; ma senti-vo depresso il mio spirito da una insolita tristezza segreta,una tristezza che non vi so esprimere, al riflettere che questiatti si commettevano nel mio nativo paese. Mi doleva all'ani-ma, anche nella sconfitta de' nostri nemici, il vederne la stra-ge, e in mezzo alla stessa battaglia l'udire un uomo doman-

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dar quartiere in inglese mi moveva a tal compassione comese uno dei nostri fosse in quella medesima circostanza; equando udivo un soldato gridare: Oh Dio! son ferito, guarda-va dietro di me per vedere chi della nostra banda fosse sog-giaciuto. Qui mi vedevo sempre esposto a tagliare il collo diqualche mio amico e da vero anche di qualche mio parente.Alcuni de' miei antichi camerati e fratelli d'armi nelle guerredella Germania, erano alcuni con noi, altri contra, secondoche il caso li portava ad avere, o no, opinioni religiose co-muni con noi. Quanto a me, devo confessare che non avevogran religione in allora; pur pensavo che, se la religione fos-se stata praticata da entrambi i lati, avrebbe finito col render-ci tutti amici.»

La Storia della gran peste di Londra spetta a tal classe dicomponimento che tiene il mezzo tra il romanzo e la storia.Certamente il de Foè impinguò la sua opera di quante tradi-zioni potè leggere su quel flagello e di quante potè raccoglie-re da chi ne fu spettatore. Il soggetto è orrido al punto di ge-nerare fastidio; pure se Daniele de Foè non fosse stato l'auto-re del Robinson, sarebbe bastato ad assicurargli l'immortalitàil genio che dispiegò così nella Gran Peste, come nelle Me-morie dell'uficiale di cavalleria. Quest'orrido flagello chenel linguaggio della scrittura può essere denominata la Pe-stilenza che cammina colle tenebre, la distruzione che mietein pieno meriggio, fu veramente un soggetto adatto ad unpennello così verace siccome quello del de Foè. La sordidaverità delle pitture è spinta al segno di farne abbrividire.

È cosa da stupire come al de Foè così tenero di soggettid'un carattere popolare sia sfuggito il grande incendio diLondra, argomento sì degno di esercitare la pittoresca suaimmaginazione. Nondimeno possiamo appena dolercene

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perchè, oltre ai versi del Dryden nell'Annus mirabilis, dueracconti lasciatine da due contemporanei, Evetyn e Pepyshanno tratteggiata quella calamità in tutto il formidabile suosplendore.

La grande tempesta che nel 20 novembre del 1703 passò,giusta la frase dell'Addisson, su la pallida Bretagna, fu côltadal de Foè come un soggetto opportuno alle prove del suopoter descrittivo. Ma l'opera da lui pubblicata sotto questo ti-tolo, si compone in gran parte di lettere venutegli dalla cam-pagna e meschini idilli, perchè il de Foè fu solamente poetain prosa; or simile mercanzia, buona unicamente a far su li-bri come Dio vuole, non dà al genio dell'autore quel risaltoche dai precedenti suoi lavori gli è derivato.

Una quarta specie di componimenti per cui questo autoreproteiforme mostrò una forte predilezione, furono quelli cuiprestavano argomento la teurgia, la magia, le apparizioni dispiriti, la demonologia e ogni genere di scienze occulte. Il deFoè si ferma con tanta tenerezza su tali soggetti che ne lasciapoco a dubitare se non abbia creduto egli stesso qualchecosa di somigliante ad una immediata comunicazione tra gliabitanti del nostro mondo e quelli dell'altro che abiteremoper l'avvenire. Egli è soprattutto innamorato de' segreti pre-sentimenti, di certe impressioni misteriose, e presagi dellabuona fortuna e della disgrazia che abbiano bensì originenella nostra mente, ma che tuttavia le vengano impressi daqualche cagione esterna, indipendente dal corso naturale del-lo nostre riflessioni. Forse gli atti stessi della sua vita si fon-davano su queste supposte inspirazioni, perchè il seguentepasso ha troppe coincidenze con la sua storia, ancorchè nonpretendiamo giudicare se lo metta in bocca d'altri, o se vo-

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glia far capire sul serio che parla di sè medesimo; quanto ame, propenderei alla seconda di tali opinioni.

«Conosco uno il quale, essendosi fatta una regola di obbe-dir sempre a tal sorta di cenni taciti, mi dichiarò che, ogniqual volta si attenne a questa guida, non gli accadde mai diandar giù di strada. Si trovava egli nel singolare caso di es-sere caduto in disgrazia del governo e condotto ad un tempodinanzi al tribunale regio, ove era stato portato il voto de'giurati che, dichiarandolo in istato d'accusa, non gli avrebbenemmeno lasciata libera la persona se non avesse trovatiamici che si facessero mallevadori per lui. Correvano alloratempi assai ardui per la setta politica che da questo tapino siprofessava; onde sempre meno avea coraggio di affrontar lasentenza col comparire ad una chiamata del tribunale, e si te-neva celato mettendo insieme il danaro che ci sarebbe volutoper non compromettere le sue sicurtà e compensarle d'ognidanno di borsa che avessero sofferto per cagion sua. Figura-tevi se non si trovava in angustia! Vie d'uscir del regno nonne vedea; e ciò ancora lo avrebbe costretto ad abbandonarela famiglia, i figli e gli affari che aveva in Londra: sarebbestato peggio per lui; non sapeva in somma che cappello met-tersi. Tutti i suoi amici lo consigliavano a non darsi nellemani della legge che, se bene la colpa imputatagli non fossecapitale, quanto male potea farsi ad un uomo glielo farebbe-ro. Era ridotto a queste estremità, quando una mattina nellosvegliarsi, ora in cui tutta la prospettiva delle sue sventuregli si tornava a presentare alla memoria, sentì scosse gagliar-damente le fibre del suo cervello come da una voce che glidicesse: Scrivete loro una lettera; questa sensazione fu in luisì distinta che la dovè necessariamente, come ha confessato

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in appresso, credere venuta da una voce esterna; ma fin quiammetteva la possibilità di non averla realmente udita.

«Ciò non ostante, questa voce gli ripeteva le stesse parolea tutte l'ore del giorno, sinchè finalmente, passeggiando pen-sieroso e mesto per la sua stanza ove si teneva celato, la me-desima voce tornò ad incalzarlo sì che rispose: A chi scrive-re? e udì di rimbalzo la stessa voce che gli disse tosto: Scri-vete ai giudici. E questo suono continuò ad inseguirlo perparecchi giorni, tanto che per finirla trasse a mano e penna ecarta ed inchiostro, e si assise ad un tavolino. Qui poi nonsapeva una parola di quello che avesse a scrivere; ma dabi-tur in hac hora, le parole non gli mancarono. La sua mentesi sentì ad un tratto inspirata, e le parole gli correvano allapenna da sè, in tal modo che se ne compiaceva egli stesso edivenne pieno di speranze d'un buon successo.

«La lettera riuscì sì robusta negli argomenti, si pateticanella sua eloquenza, sì commovente e persuasiva che, appe-na il giudice l'ebbe letta, mandò a dirgli stesse pur di buonanimo; si sarebbe fatto di tutto per mitigare la sua calamità,nè si sarebbe cessato dall'opera finchè il processo non fossestato messo in tacere, ed egli, il ricorrente, restituito alla li-bertà ed in seno di sua famiglia.» (Visione del mondo angeli-co di Robinson Crusoè).

Comunque la pensasse in realtà su questi mistici soggettiil de Foè, non v'ha dubbio che la sua fantasia fu vaga oltreogni dire di stanziarsi sovr'essi; e, o fosse per gusto proprio,o giudicasse tal genere di lavori meglio fatto per conciliarsiun maggior numero di leggitori, una gran parte delle sueopere popolari si aggira su visitazioni soprannaturali. Cosìegli scrisse un saggio su la storia e la realtà delle apparizio-ni; o sia un ragguaglio di quello che sono e di quello che non

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sono; del donde vengano e del donde non vengano, del comesi distinguano le apparizioni de' buoni spiriti da quelle deicattivi e del come dobbiamo comportarci rispetto ad esse.Questo Saggio su le apparizioni fu pubblicato in appressocome se ne fosse autore uno del cognome Morton. Nellastessa maniera, supponendone autore un Giovanni Beaumontscudiere, il de Foè scrisse: Un trattato su gli spiriti, le appa-rizioni, la negromanzia ed altre pratiche magiche, oltre adun ragguaglio su i genii ed altri spiriti famigliari. In entram-be le predette opere i ragionamenti del de Foè (se pure è le-cito chiamarli ragionamenti) apparterrebbero al sistema pla-tonico del dottore Enrico More, ma non sono coerenti nè conquesti nè con sè stessi. Ad ogni modo, gli esempi, o in altritermini le storie di magie e spettri onde ci ha presentati l'au-tore sono ben narrati o, per parlare più giusto, ben architetta-ti, e sempre con quell'aria di verace buona fede che niunoseppe mai sostenere costantemente com'egli fece. A tal clas-se di opere vuol essere aggiunta la Vita di Duncano maliar-do e dicitore della buona ventura: un mariuolo che si davaper sordo e muto, e pretendea di far conoscere l'avvenire aisuoi neofiti. La rinomanza di costui fu sì grande a que' tempiche il de Foè pensò gli avrebbe fruttato maggiore spaccio iltitolo del libro che il libro stesso; cui ne aggiunse indi un al-tro intitolato la Spia del maliardo; perchè costretto dalle suecircostanze a pescar fuori quegli argomenti che fossero nelmomento più popolari, il de Foè li prescegliea del genere diquelli che aveano meglio conseguito il più generale aggradi-mento. Così non solamente scrisse una seconda parte delRobinson Crusoè81 inferiore di gran lunga alla prima di que-

81 Tutto ciò che nella presente versione si riferisce alle avventure di Ro-binson, poichè fu partito la prima volta della sua isola.

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sto inimitabile romanzo, ma mise un terzo banco-nota fonda-to su la popolarità che le precedenti due parti gli avevano ac-quistata un'opera di genere mistico della quale Robinson pa-rimente era l'eroe; opera che da vero sembrò il non plus ul-tra dello schiccherar libri: Serie riflessioni annesse alla vitadi Robinson Crusoe con aggiunta la sua visione del mondoangelico. La totalità dell'opera è una unione di considerazio-ni sopra soggetti morali triti abbastanza, e benchè la vita so-litaria di Robinson v'entri per qualche cosa, e vi si dia un'oc-chiata a traguardo alla sua memorabile isola, contiene del re-sto ben poche osservazioni che non fosse buono a farle unbottegaio di Charing-Cross. Così la più doviziosa sorgente digenio rimase esausta, e il più copioso fiume di invenzioneinaridito e ridotto al suo fondigliuolo.

Oltre a queste tre specie di favole, in ciascuna delle qualiDaniele di Foè apparve sempre un autore di fecondissimavena, la sua instancabile penna si volse ancora a soggetti fi-losofici, descrittivi, morali, ed a quanto concerneva l'econo-mia della vita, la statistica e la storia. Scrisse i Viaggi nellaBretagna settentrionale e meridionale, ed una Storia dellaChiesa di Scozia dalla ristorazione alla rivoluzione; il cuipregio, a dir vero, non fu l'esattezza. Anzi nessun'opera stori-ca del de Foè vale gran che se si eccettui forse la Storia del-l'Unione che per altro non è nulla più d'un arido giornaledelle cose avvenute nel parlamento della Scozia in quellamemorabile epoca. E sì, avrebbe avuto in ciò i materiali diun'interessante novella se volea farla; ma scrivendo sotto laprotezione del ministro Harley, impose freni al proprio ge-nio, fors'anche per evitare il rischio di dar motivi di disgustoall'irritabile nazione scozzese. Fra i suoi numerosi opuscoli

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politici il più interessante è forse la Storia de' memoriali82

che, Scritta con grande forza di sarcasmo, pone in un aspettocomico e giocoso questo modo di comunicazioni tra il popo-lo ed il potere supremo. Tutti sono obbligati a ricordarsi lastoria di Riccardo Cromwell che, abbandonando il palazzodi Whitehall, suo poc'anzi, si raccomandò s'avesse cura diuna grande cassa entro la quale si contenevano, egli dice, levite e le sostanze dell'Inghilterra, cioè memoriali in cui veni-vano offerte a sostegno del secondo protettore le vite e le so-stanze di coloro che or lo vedeano tolto con la massima in-differenza dalla sede del governo.

Ma i soggetti politici trattati dal de Foè non sono lo scopodelle nostre considerazioni, nè lo potrebbero generalmenteessere. Questo autore universale, la cui mente immaginava ela penna eseguiva, ha scritto tante opere ed opuscoli di talgenere che sarebbe una spaventosa fatica il raccoglierne i ti-toli. Laonde nella sola sua qualità d'autore di romanzi e no-velle ci prefiggiamo portare sovr'esso le nostre indagini.

E quindi volendo avventurare alcune poche considerazio-ni principalmente sul Robinson Crusoè, ne giova prima ditutto l'esaminare qual sia il particolare prestigio onde non so-lamente questo capolavoro, ma tutti i componimenti del deFoè di tal genere ne rapiscono al segno d'inspirare un'assolu-ta renitenza ad abbandonare il libro appena ne abbiamo inco-minciata la lettura, ed un vezzo non solito generalmente asentirsi nello scorrere opere d'argomento favoloso: il vezzodi ponderare ogni sentenza e frase di ciascuna pagina anzi-

82 Adresses. Qui memoriale come in inglese address e in francese adresseequivalgono a quelle comunicazioni che i parlamenti e le corporazioni di unostato fanno al sovrano, sieno poi domande, rimostranze, suppliche, offerte, overo anche atti di congratulazione.

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chè contentarsi a cogliere quella sola parte del racconto chepuò bastare ad intenderne la conclusione.

Non può essere la bellezza dello stile ciò che costringa intal guisa l'attenzione del leggitore; perchè lo stile del nostroautore, quantunque spesse volte poderoso, è piuttosto fattotale dall'interesse inerente ad una data posizione che dall'artedello scrittore. La lingua, generalmente parlando, è alla buo-na e trasandata, umile e rasente terra, quasi sempre quelladell'infime classi della società. Nè tampoco il prestigio puòdipendere dal carattere degl'incidenti; perchè se bene questinel Robinson Crusoe abbiano molta vaghezza, nella Storiadella Peste son ributtanti e poco men che tali in que' raccontile cui scene seguono fra la gente più abbietta. Pure noi, simi-li al Pistol del Shakspeare quando mangia il suo lardo, conti-nuiamo brontolando ma leggendo il volume sinchè sia finito,mentre sonnecchiamo sopra molti soggetti assai più elegantitrattati da scrittori che padroneggiano la lingua di gran lungadi più. Nè può dirsi nemmeno che l'artificiosa condotta dellastoria ne inspiri tutto questo interesse. Il de Foè, a quantosembra, ha scritto con troppa rapidità per portare il menomostudio su ciò; gl'incidenti vi si trovano ammucchiati insiemecome mattoni scaricati da un carro, ed hanno quasi altrettan-ta connessione gli uni con gli altri; sono scene che si tengo-no dietro, e nulla più, ma senza veruna scambievole dipen-denza. Non sono, siccome quelle d'un dramma regolare, con-nesse fra loro per un regolare principio, una continuazione,una conclusione; somigliano piuttosto ad intagli uniti insie-me nella cassetta d'un rivendugliolo che non hanno fra sèmaggior relazione dell'esser tutti chiusi in un medesimo ri-postiglio, nè altra vicendevole obbligazione fuor quella dellegaccio che li tiene uniti.

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A qual cagione dunque dobbiamo attribuire quel generalevezzo che va unito ai romanzi del de Foè? Crediamo poterrispondere che si debbe attribuir soprattutto ad una maestria,nè agguagliata nè emulata sinora, la cui mercè il nostro auto-re dà un'apparenza di realtà alle cose che viene narrando.Nel de Foè fino i difetti dello stile, fin la trivialità del lin-guaggio, fin la ruvidezza nell'espressione de' concetti, indi-zio di quanto chiamasi crassa Minerva, appariscono intesi aconciliargli fede, ed a far credere tanto più ch'egli dica la ve-rità quanto minore supponiamo in lui l'abilità di palliarla o dialterarla. Questo principio è quasi semplice al segno che par-rebbe non abbisognasse di schiarimento; pure include in sèstesso un'apparenza di paradosso, come ne parrebbe uno chela storia83 a [84proporzione dell'essere meglio narrata acqui-stasse una meno intensa attenzione; ma cerchiamone le pro-ve nella vita comune. Se incontriamo per la strada un amicoche ne racconti un fatto di non ordinario interesse, un di que'fatti che non accadono tutti i giorni, la nostra opinione sul

83 Quanto alla storia propriamente tale, sarebbe appunto un paradosso,anzi una falsa asserzione. Il vero, il saggio lettore di una storia la legge conl'occhio del critico; è un giudice che ascolta l'informazione, e la confronta congli allegati per assicurarsi se è vera, non vuole dunque, o non desidera, oltre aquesta fatica anche l'incomodo di ascoltare un mal ordinato e mal elaboratoracconto. Ma nella lettura di un romanzo, sappiamo di leggere una [cosa nonvera; che nondimeno per amore del nostro diletto siam disposti a credere taledurante la nostra lettura. Per non essere dunque defraudati del nostro scopoche cosa ne abbisogna? Prima di tutto la verisimiglianza che in questo casotien luogo di ogni allegato, e questa verisimiglianza ingagliardisce se il narra-tore possiede quelle qualità che, senza il bisogno d'istituire processi, rendonopiù credibile nella vita comune la cosa da lui narrata come ottimamente osser-va qui il signor Walter Scott.

84 La parte tra parentesi quadre riproduce l’edizione di Gaetano Nobile Li-braio-Tipografo, Napoli 1942, essendo l’originale cartaceo utilizzato deteriora-to in queste pagine [nota per l’edizione elettronica Manuzio].

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crederlo o non crederlo è dominata grandemente dal caratte-re del narratore: s'egli è bello spirito e vago di mettere nelpunto più prominente la parte comica della storia, ci ricor-diamo ch'egli è d'umore allegro, e con questo principio dia-mo qualche grano di tara alla sua leggenda85. Supponiamoora che il narratore sia d'un carattere sentimentale ed entu-siastico, zeppo d'idee romanzesche, e proveduto a dovizia difrasi per esprimerle; voi ascoltate la sua storia con quellaspecie di sospetto che vi fa dire tra voi e voi: È troppo benpresentata per esser creduta; può darsi che nella totalità cisia qualcosa di reale, ma coperto dai ricami che ci ha fattiquesto mio galantuomo. Ma se il fatto medesimo vien rac-contato da un uomo di dozzinale discernimento e praticosufficientemente delle cose del mondo, le stesse minuzie dicui carica la sua storia, inserendoci dentro cose che non cihanno che far nulla fuor dell'essere state contemporanee alfatto narrato, queste superfluità appunto sembrano guarentirela verità di quanto egli afferma; ed in allora se si frammetto-no alla sua esposizione o scoppi di riso, o manifestazionid'interna emozione, questi divengono altrettanti mallevadoriausiliari della sua buona fede; perchè appunto gli accessi digiocondità o di sensibilità son fuori del suo fare ordinario.Venuta dalla bocca di un tal uomo, credete una cosa che,narrata in tutt'altra guisa, avreste avuta per una frottola; cosìil Benedetto di certa commedia è persuaso che la Beatrice loami perchè glielo ha detto un uomo dalla barba bianca.

Nella testimonianza portata da un tale individuo sopra unsoggetto generalmente interessante per tutti scorgiamo d'or-

85 Non è che anche in tal caso non ci divertiamo, ma ci ha divertito più ilnarratore, che la leggenda; ciò potrebbe forse dirsi de' romanzi del Voltaire edel Diderot.

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dinario qualche punto che accerta la presenza di lui al fattoaccaduto, ed alcune espressioni sol proprie di chi abbia ve-dute o udite le cose delle quali parla. Coloro che hanno l'abi-tudine d'intervenire alle sessioni giudiziarie criminali, duran-te l'interrogatorio de' testimoni, odono frequentemente nonsolo da uomini e donne di giudizio, ma da gente bislacca eda spensierati ragazzi alcune particolarità impressionanti delgenere della seguente. Un orrido assassinio era stato com-messo a danno d'un tale che lo stesso assassino avea, sottocolore d'amicizia, invitato in sua casa. L'uccisore e la vittimasi trovavano soli in una stanza, quando il primo, compiuto ildelitto, si affrettò a cangiarsi di panni ed a fuggire di casaprima di essere colto sul fatto. Una fanciulla di dodici o tre-dici anni depose che stava giocando nell'estrema parte diquell'abitazione, quando udì l'accusato correre precipitosa-mente giù dalle scale ed inciampare su la soglia; e che anzirimase spaventata dallo strepito udito. Le fu domandato se siricordasse che altre volte le avessero fatto paura uomini nelcorrere giù dalle scale. Ella rispose di no, ma che nemmenole era mai accaduto di udire uno strepito di quella fatta.

Un poeta, dotato anche della più fervida fantasia, avrebbedifficilmente osato attribuire un effetto così importante alladisperata precipitosa fuga di un delinquente che cerca di sot-trarsi alle mani della giustizia; e avremmo forse dubitato del-la possibilità di questo effetto noi stessi se lo avessimo lettoin una novella. Quanta forza di credibilità non acquista nar-rato dalla fanciulla stessa che ne rimase atterrita!

Egli è ben vero, nè può dubitarsene, che un autore presce-gliendo questo singolare stile di narrazione, lo fa in tal qualmodo a proprio rischio. Nello spogliarsi degli artifizi dellanarrazione, abbandona ancora le grazie della lingua; onde gli

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accadrà comparire talvolta prolisso, tal altra confuso edoscuro, ancorchè la sua narrazione non manchi qua e là displendore; nel che la sua storia potrà somigliare ad alcunivecchi borghi cattolici del continente, ove, in tempo di notte,le strade, generalmente parlando, sono buie, eccetto alcunipunti privilegiati ove si mantengono lampade accese innanzia qualche santuario; mentre la narrazione regolarmente ordi-nata può paragonarsi ad un borgo d'un villaggio inglese chenella stessa ora mostra lo stesso grado di luce da per tuttosenza eccezione di luogo, se non facesse per raro caso questaeccezione o l'abitazione del giusdicente o la finestra dellospeziale che presentassero un lume più caratterizzato. E cer-tamente questa maniera di stile sarebbe l'ultima da adottarsiper uno scrittore mediocre, perchè, se bene sia possibile chela mediocrità d'un lavoro rimanga celata a più d'un occhiosotto i colori d'un bello scrivere, questa comparisce in tuttala nativa sua scipidezza se vuol vestire i panni della sempli-cità. Oltrechè, questo genere particolare di stile domanda chel'autore possegga il segreto del re Fadlallah: quello di trasmi-grare da un corpo in un altro, impadronendosi di tutte quellequalità che rinviene nell'anima del corpo vestito di recente emantenendo, ciò non ostante, tutto l'antico tatto e discerni-mento del corpo antico per regolarle.

Riesce talvolta in ciò quell'autore il quale trasformandosievidentemente in un personaggio immaginario, adotta nelloscrivere que' sentimenti e falsi giudizi che in questo suo fin-to personaggio ha supposti. Che cosa sarebbe la storia del vi-cario di Vakefield se non fosse raccontata dal più umano edin un dal più degno fra quanti pedagoghi portarono sottanaecclesiastica, dal vicario medesimo? Che sarebbero i più in-teressanti e simpatici ed in uno più comici tratti del Castello

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Rackrent, se narrati da chi fosse stato men riguardoso alla di-gnità gentilizia di quell'immortale Thady, che mentre nelladinastia che si proponea celebrare non trovava un solo indi-viduo perfettamente giusto, era poi nel più desolante de-gl'imbarazzi se capitava in quelli della cui perfetta perversitànon potea dubitare egli stesso? Anche il Proposto di villag-gio del signor Galt, e più ancora gli Annali della Parrocchiascritti da questo reverendo, potrebbero essere citati fra leopere spettanti a tal classe. Lo stesso Wordsworth, in uno de'suoi più attraenti poemi, ha assunto il personaggio d'unuomo di mare venuto a ritirarsi stabilmente in campagna.

Tutti questi nondimeno sono caratteri di mascherate; men-tre crediamo che nei racconti del de Foe, il carattere dellamaschera sia il naturale carattere dell'uomo postosi in ma-schera. Il nobile Ufiziale di cavalleria, per esempio, parla adun dipresso la stessa sorta di linguaggio che è tenuto da Ro-binson Crusoe, e poco più di questo dà a vedersi pratico del-la società; la differenza sta in ciò che l'ufiziale di cavalleriaha modelli di granatieri dintorno a sè, Robinson di marinai.Dubito molto se il de Foe avesse potuto cangiare il suo stilefamigliare, il suo ripetersi, le sue perifrasi con altre maniereo più triviali o più eleganti. Teniamo quasi per fermo che ilsuo scrivere fu connesso con la naturale sua indole e conl'andamento ordinario de' suoi pensieri e delle sue espressio-ni, e che, come scrittore, non fu tanto felice vestendo caratte-ri accattati quanto lo fu dando carriera al suo proprio.

Un tal punto merita d'essere chiarito più da vicino, il chene trae a far particolare menzione d'un breve opuscolo del deFoe, intitolato: «La vera storia dell'apparizione di una mi-striss Veal fattasi vedere un giorno dopo la sua morte ad unamistriss Bargrave, abitante a Canterbury, nel giorno 8 set-

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tembre del 1705, la quale apparizione raccomanda la letturadell'opera del Drelincort intitolata: Scudo del Cristiano con-tro alle paure della morte.» Questo opuscolo è degno d'esse-re menzionato così per la singolarità della sua origine e perla poca o niuna nozione che se ne ha oggidì a malgrado dellasua grande popolarità, come soprattutto perchè è un saggiode' più segnalati dell'arte posseduta dall'autore nell'accredita-re le più improbabili leggende con la sua maniera speciosa eseria di raccontarle.

Un intraprendente libraio si era arrischiato pubblicare conle stampe un gran numero di esemplari di un'opera del reve-rendo Carlo Drelincourt, ministro della chiesa calvinista aParigi, trasportata in idioma inglese dal signor d'Assigny coltitolo: Scudo del Cristiano contro alle paure della morte conparecchie regole per prepararsi a morir bene. Comunquecerta sia la morte, non è questa fatalmente una prospettivache renda grandemente ansioso il pubblico di contemplarla,onde il libro del Drelincourt, non cercato da chicchessia, ri-maneva un capitale morto nella bottega dell'editore. In que-st'angustia, il povero tipografo si volse al de Foe per vederese avesse modo di dare un di que' passaporti che si cono-sceano sì bene nel mondo letterario d'allora, come si cono-scono sì bene in quello d'oggidì, onde riscuotere la sua gia-cente mercanzia da quel letargo cui sembrava averla condan-nata la non curanza del pubblico.

L'ardito genio del de Foe immaginò un congegno che, perla sicurezza dell'inventore nelle proprie forze, sfidava persi-no la valentia di quel Puff, personaggio della commedia ilCritico. Perchè a chi altro fuor di lui sarebbe saltato in men-te di suscitare uno spettro per farsi mallevadore della risurre-zione di un cadavere d'opera teologica? Voi avete qui, nello

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stile di un'informazione di fatto, di quel che chiamasi pro-cesso verbale, un tal racconto che dice nella più patente gui-sa quanto potea compromettersi di sè medesimo chi lo ideò.L'estensione è fatta «da un gentiluomo, giudice di pace aMaidstone, contea di Kent: un intelligentissimo personag-gio!» Di più «essa è attestata da una circospetta, giudiziosagentildonna che soggiorna a poche porte di distanza dallacasa ove abita mistriss Bargrave, quella che ha avuta la vi-sione.» Essa è parente del giudice, il quale sa che questa suacorrispondente ha troppo discernimento per non lasciarsi so-praffare da una fandonia; dal canto suo la parente assicura inprecisi termini il giudice «che quanto a quella sua informa-zione, è nè più nè meno la pura reale verità, il riassunto diquanto ha udito ella medesima di prima mano, dalla boccastessa di mistriss Bargrave, donna a lei notissima, che nonaveva alcun interesse o motivo per raccontar questa istoria,molto meno poi per fabbricarsela e dire una bugia, cosa chesarebbe in aperta contraddizione coll'intero corso della vitadella narratrice originale, ben nota per saviezza e pietà.» Ilpiù pertinace scetticismo non saprebbe come resistere a que-sto triplice concorso di testimonianze, architettato con tantogiudizio: il giudice che certifica il discernimento della circo-spetta intelligente gentildonna sua parente, la parente che sifa mallevadrice della veracità di mistriss Bargrave. E quiammira, gentil leggitore, l'aurea semplicità di que' giorni. Sela visita di mistriss Veal alla sua amica avveniva al dì d'oggi,i nostri editori di stampe periodiche si sarebbero passata lavoce; sette o otto dei docili loro agenti si portavano di volo aKington, a Canterbury, e Douvres, al Kamtschatka, se occor-reva; ponevano in mille imbarazzi il giudice, non la finivanopiù di esaminare mistriss Bargrave, la mettevano a confronto

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con la circospetta intelligente gentildonna parente del giudi-ce, disotterravano mistriss Veal, faceano il diavolo per arri-vare al fondo di questa istoria. Ma ai nostri giorni si dubita es'indaga; i nostri buoni maggiori faceano le meraviglie e cre-devano86.

Prima che la storia incominci, la intelligente gentildonna(non il giudice di pace che tiene questa relazione da lei, suaparente) si dà qualche pensiere per le obbiezioni che contrala veracità di tale storia promossero gli amici del fratello dimistriss Veal, i quali vedono in questo racconto una macchiaportata su l'intera famiglia Veal, e fanno di tutto per metterloin derisione e screditarlo. Veramente, si confessa ivi con am-mirabile imparzialità, il signor Veal ha sentimenti troppo no-bili per supporre che mistriss Bargrave si sia inventata leiqueste storia: la maldicenza in persona non potrebbe conce-pire un tale sospetto, benchè non sia mancato un bugiardo,notissimo in paese, che si desse attorno per farlo nascere; masul fine di questa informazione si vede come rimanesse so-lennemente scornato costui. Non v'è stata una sola personadi credito cui sia venuto in mente di fare un torto di simil na-tura a mistriss Bargrave, e lo stesso signor Veal, più interes-sato di tutti nella cosa, ha unicamente supposto che mistrissBargrave ridotta quasi a perdere la ragione dai cattivi tratta-menti di un brutale marito, in un momento di delirio, abbiacreduto vedere ciò che dice d'aver veduto. Ognuno scorgequant'arti si celi in queste premesse medesime. L'avere ac-

86 Fortuna ai nostri giorni per l'ottimo eccellente nostro Lorenzo Sonzo-gno che la luna è un po' più giù di mano del Kamtschatka! La scoperta degliabitatori di quel pianeta, simile allo Spettro di mistriss Veal, così nell'ingegnodell'orditura come nella verità della cosa narrata, gli rimanea capital mortonel suo fondaco, più irremissibilmente dello Scudo del Cristiano contro allepaure della morte del reverendo Drelincourt.

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clamato il miracolo, come noto e creduto generalmente datutti, senza eccezione di sorta alcuna, non avrebbe contentatigli scettici tanto quanto l'avere premesso che fu impugnato el'aver lanciato a proposito un cenno su i caratteri di coloroche lo impugnarono o su l'interesse che ebbero nel non vo-lerlo vero. Veniamo ora al fatto.

Mistriss Bargrave e mistriss Veal, intrinsiche amiche sindall'infanzia, si erano giurate serbarsi l'una all'altra tali finoalla morte. Nondimeno, allorchè il fratello di mistriss Veal fufatto collettore delle tasse a Douwres, vi fu una tal qual ces-sazione di questa amicizia «senza per altro, dice la narratri-ce, alcuna positiva doglianza nè per una parte nè per l'altra.»Mistriss Bargrave partita da Canterbury era venuta a stabilir-si in una casa di villaggio sua propria, e stava seduta pensan-do alle domestiche sue ristrettezze, quando, allo scoccar del-le dodici del mattino, la sorprese l'inaspettata visita di mi-striss Veal. La visitatrice in abito da cavalcare dicea d'accin-gersi ad un viaggio lontano; la qual cosa ne darebbe a crede-re che gli spiriti (perchè il fatto provò in appresso che questamistriss Veal era soltanto l'anima di lei) abbiano a far moltocammino prima d'arrivare al luogo della loro destinazione, eche quelli almeno delle donne abbiano una pragmatica di ve-stito indicato per simile traslocazione. Mistriss Bargravefece per baciare la sua visitatrice che corrispose, ma in modoche le labbra dell'una non toccarono quelle dell'altra; ciò chene rammenta la visita che fu fatta alla sua innamorata dallospettro di certo amante cui si riferiscono queste parole di unagraziosa ballata scozzese. «Potrei entrare io nella stanza deltuo riposo? Non sono un abitatore della terra. Io baciare letue rosee labbra? Non sarebbero lunghi i tuoi giorni87.» Inco-

87 Vhy should come within bower?

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minciarono allora quel cicaleccio che è solito fra donne dimezza età e della loro condizione. I discorsi di mistriss Vealricordarono le antiche loro conversazioni e le letture fatte incompagnia. Probabilmente l'esperienza avutane di fresco in-dusse mistriss Veal a parlare su la morte e su i libri che ave-vano trattato questo argomento; e qui pronunziò ex cathedra,cose di tutta competenza del personaggio d'un trapassato,che «il libro del Drelincourt su la morte era il migliore fraquanti ne erano stati scritti su lo stesso soggetto.» Ella com-memorò ancora l'opera di un dottore Sherlock, due libriolandesi voltati in inglese, e molt'altri «ma il Drelincourt hasu la morte e su la vita avvenire nozioni più chiare di tutticoloro che tirarono a mano sì fatto argomento.» Allora do-mandò il libro (ci fa veramente meraviglia che non citasse nèl'edizione nè i tipi), e si diede a comentarlo con eloquenza edeffusione di cuore. Fu pur memorato con approvazione diquesto spettro dilettante di critica un libro ascetico del dottorKenrick, il qual libro, non v'ha dubbio, stava prendendo lapolve negli scaffali di qualche tipografo protetto dalla visio-ne visitatrice. Si parlò pure d'un poema su l'Amicizia d'un si-gnor Norris: dubito per altro che, se ci facessimo a cercarequesto poema, quantunque l'abbia onorato delle sue lodi unospettro, perderemmo tempo e fatica, come accadde al Corel-li88 quando si lambiccava il cervello per tornarsi a memoriail motivo d'una sonata che gli aveva insegnata in sogno il de-monio. Subito dopo, supponiamo per un resto d'antiche abi-tudini, lo spettro domandò una tazza di tè; ma (bisogna dire

I am no earthly man.And should kiss thy rosy lips?

Thy days would not be long!88 Arcangelo Corelli di Fusignano celebre maestro di musica italiana mor-

to a Bologna nel 1713.]

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che s'accorgesse tosto d'esser saltato fuor di carattere) ritrat-tò la sua domanda ricordandosi che il signor Bargrave aveala gentile usanza di fracassare quante chicchere avesse vedu-te presso sua moglie. Infatti l'atto di tale bibita sarebbe statacosa stravagante e ridicola niente meno che se, nel Don Gio-vanni, la statua del commendatore, non contenta di avere ac-cettato l'invito a cena del dissoluto, avesse masticato e dige-rito con le sue mascelle e il suo stomaco marmorei una fettadi manzo alla graticola. Il dialogo divenne indi d'una menoseria natura, e tale che facea capire come, anche dopo il tra-passo dalla vita alla morte, rimanga alcun che di vivo nellacura ch'hanno delle forme e dell'abbigliamento le donne. Ladonna spettro chiese a mistriss Bargrave, se non la trovasseassai smunta in faccia; come potete credere, mistriss Bargra-ve le fe' invece un complimento su la sua ottima ciera.

Mistriss Bargrave andava lodando la gonnella dello spet-tro; e mistriss Veal, come quasi in contrassegno dell'anticafamigliarità perfettamente ristabilita, le confidò che in quellagonnella si era fatto uno sconcio, e che fu rattoppato. La in-formò pure d'un altro segreto: le disse d'una pensione annuadi dieci sterlini fattale da un signor Bretton. In tale occasio-ne, le pregò scrivere al signor Veal suo fratello (dal qualefuggì di soppiatto) a chi dovea dare certi orecchini da corrot-to che la sorella si era lasciati addietro partendo; nel gabinet-to degli orecchini doveva esservi una borsa di monete d'oro.Mostrò qualche desiderio di vedere la figlia di mistriss Bar-grave, che andò subito a cercarla in una stanza contigua; ma,quando questa buona donna tornò addietro, la visitatrice nonsi trovava più lì. Uscita di] quella casa, era andata su la stra-da rimpetto al mercato delle bestie, che si teneva in quel vil-laggio ogni sabbato; e notate che correva appunto un sabbato

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in quella giornata. La visitatrice si scusò allegando una pre-mura, di vedere la sua cugina Watson (questa fu veramenteuna bugiuola uficiosa per parte dello spettro), e, serbatosempre il suo carattere di mortalità, voltò ad una cantonata,nè fu più veduta.

Poi arrivò la notizia che mistriss Veal era morta il dì in-nanzi prima del mezzogiorno. «Ma, esclama mistriss Bargra-ve, sono ben certa io che sabbato restò con me circa dueore». Qui giunge il capitano Watson, e giura che mistrissVeal era già morta venerdì. Si viene all'esame di tutte le mi-nute particolarità, nè fu di poco peso lo sconcio della gon-nella di seta. Mistriss Watson fu costretta a dire: «È propriomistriss Veal la persona con cui avete parlato, mistriss Bar-grave; perchè lo sconcio della gonnella non lo sapevamo al-tri fuor di mistriss Veal e di me che le diedi una mano a ri-sarcirla, ed è affatto affatto la gonnella che voi avete descrit-ta.» Qui entra in campo il racconto de' vani sforzi tentati periscreditare il prodigio. Ma lo stesso fratello, il signor Veal hadovuto confessare d'aver trovata la borsa delle monete d'oro,con la sola differenza che non era propriamente nel gabinet-to ma altrove; qui poi abbiamo tutti i cicalecci dei io dico, iopenso, quella lì dice e simili, soliti in sì fatti quistionabilicasi a nascere, soprattutto in un villaggio.

Tolta fuori, come l'abbiamo fatto noi, dalle sue cuciturequesta leggenda, può del certo apparir troppo ridicola perchèci si sia nemmeno badato. Ma leggetela, come l'ha posta in-sieme il de Foè, e converrete che, se la cosa avesse potutoesser vera, sarebbe stata divulgata, nè più nè meno, nelmodo ond'egli l'ha resa pubblica. L'avere attemperato il mi-rabile di una visita soprannaturale al linguaggio delle classimedie o volgari le dà un'aria di verisimiglianza in mezzo alla

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sua stessa impossibilità. La conversazione tra la sorella d'uncollettore delle tasse ed una cucitrice non doveva esser quel-lo tra Bruto e il suo mal genio; e le circostanze della gonnel-la sconciata, delle chicchere rotte e questi soliti argomenti didialogo fra le persone di basso ceto, ognun penserebbe chesarebbero l'ultime a presentarsi alla mente dell'inventor d'u-na favola per farle entrare in una supposta conversazione trauna morta e una viva. In somma, nell'informazione fabbrica-ta dal de Foè tutto è specificato con tal nitidezza che, se ilfatto non fosse impossibile o almeno sterminatamente im-probabile, questa leggenda non potrebbe non avere per ap-poggio il massimo dell'evidenza.

L'effetto ne fu maraviglioso oltre ogni dire. L'opera delDrelincourt su la Morte, autenticata da un individuo che po-tea parlare per esperienza, ebbe uno spaccio superiore adogni immaginazione. Gli esemplari di tale opera si eranodianzi ammassati nella bottega dell'editore come mucchi dipalle da cannone in un campo. Allora attraversarono la cittàper tutti i versi, come lanciate dalle bocche dell'artiglieria, eil motivo per cui fu suscitata dalla tomba mistriss Veal rag-giunse compiutamente il suo intento.

Un tale accorgimento di cercar nello scrivere tutta la pos-sibile esattezza del vero ha quasi in ciascun caso una virtùtutta sua propria. Così ammiriamo le pitture di alcuni artistifiamminghi, nelle quali, benchè i soggetti dipinti sieno tri-viali, schifosi e fin tali che non vorremmo certo nè studiarlinè vederli da vicino in natura, pure la maestria con cui nevengono presentati dal pittore compartisce ad essi, quandosono imitati su la tela, un vezzo di cui non solo manca, ma èl'assoluta antitesi l'originale. D'altra parte poi, se questa atti-tudine a rendere la perfetta, specificata, ignuda verità viene

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applicata ad oggetti che ansiosamente desideriamo vederenella propria loro forma e sotto i propri loro colori, provia-mo un doppio genere di diletto: quello che deriva dalla mae-stria dell'artista e l'altro prodotto dalla nostra simpatia al sog-getto rappresentato. Lo stile di probabilità onde il de Foè ve-stì i suoi racconti fu forse mal impiegato, o piuttosto manda-to a male in alcuni dei dipinti che s'avvisò presentare; nè ar-riverà mai a raccomandarne i soggetti della Moll Flanders edel Colonnello Jack; mentre la stessa maestria su la delizio-sa storia di Robinson Crusoe ha tal luce d'inimitabile veritàche non avremmo giammai creduto possibile il vederla con-giunta con una posizione simile a quella da lui assegnata alsuo eroe. Tutti gl'impalcamenti e macchine soliti a mettersiin opera dai compositori di storie finte si vedono accurata-mente respinti dal de Foè. I primi incidenti della sua novellache, nelle solite opere d'invenzione, vengono per lo più mes-si innanzi come caviglie cui s'attacchi in appresso la fine,sono appena toccati in principio, poi lasciati andare sì che liperdiamo affatto di vista. Non udiamo per esempio dir piùuna parola di quel fratello primogenito di Robinson che dallaprima pagina della sua storia sappiamo essere entrato colon-nello nel reggimento dragoni Lockard e che, in tutt'altro ro-manzo, avremmo certo veduto comparir su la scena primadella conclusione89. Tutto ad un tratto, e per sempre, si sot-trae dai nostri sguardi quel tanto simpatico Xury, e tutte leprimitive avventure del nostro viaggiatore si dileguano di-nanzi a noi per non essere più richiamate alla nostra memo-ria nel successivo tratto di storia. Il padre di Robinson, quel

89 Vedi in questo stesso volume la nota posta alla pagina 273, ultima dellaVita e avventure di Robinson Crusoè [nota 64 in questa edizione elettronicaManuzio].

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buon vecchio negoziante di Hull, tutti gli altri personaggiche ebbero parte operosa nel dramma in principio, sparisco-no dal palco scenico e non se ne ha più notizia. Non è questosicuramente lo stile degli ordinari romanzi, i cui autori, perquanto sia lussureggiante la loro invenzione, non si accom-miatano volentieri dalle creature della propria fantasia senon ne hanno prima ricavato qualche servigio sopra la scena;per altro nella vita comune accade ben di rado che i cono-scenti avuti negli anni primi della giovinezza abbiano unaparte operante nei nostri casi dell'età più adulta.

Il nostro amico Robinson in appresso, e dopo diverse tra-vagliose vicende della sua vagabonda, irrequieta vita, vientratto finalmente nella deserta sua isola ove, solo essereumano che l'abitasse, divenne un esempio di quanto possonofare le forze di un individuo della nostra schiatta abbandona-to a sè stesso. Qui l'autore ha con maravigliosa esattezza fat-to fare e pensare al suo personaggio tutto ciò che necessaria-mente dovea pensare e fare un uomo posto nella medesimacondizione.

Il patetico non è generalmente il forte del de Foè; non eradi una tempera eccessivamente sensibile la sua mente. Se ar-riva qualche punto di tal genere, arriva non chiamato; locreano le circostanze, non ne va in traccia l'autore. Ne è unesempio l'eccesso di quell'ansia sì naturale nell'uomo, quellacioè che gli fa anelare la compagnia de' suoi simili; questapiena della sua impazienza si manifesta quando è a bordodel bastimento spagnuolo arrenato. Le esclamazioni che ri-pete cadendo in una specie di agonia: «Oh! ci fosse almenoun uomo di salvo! oh non ce ne fosse altro che uno!» appar-tengono al più alto grado del patetico. Sono pure commo-venti le dolorose considerazioni cui s'abbandona quando, nel

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suo arrischiato tentativo di fare per acqua il giro della interaisola, si vede in pericolo di rimanere sommerso.

Nello stesso modo possiamo notare che il genio del deFoè non si avvicinò di molto al grande o al terribile. Le bat-taglie che è sì tenero di descrivere vengono raccontate conl'indifferenza di un vecchio bucaniere e forse nello stessomodo onde le udì narrate dai loro attori. Anche le sue crea-zioni fantastiche sono generalmente come que' folletti di co-mune razza che non portano seco gran che di soprannaturaleterrore; pur l'impronta del piede ignudo su la sabbia e l'atter-rimento che a Robinson ne derivò, non mancano di lasciareuna profonda impressione nell'animo del leggitore.

La posizione in cui è supposto il suo eroe, è favorevolissi-ma a quel fare che ravvisiamo nel de Foè: la premura di te-ner dietro a tutte le minuzie. Era naturale che Robinson Cru-soè, così collocato, sentisse l'impressione di ogni varietà an-che minima degli avvenimenti della giornata; nè il de Foèera di tale indole che desse volentieri passata alle cose senzaprenderne nota. Allorchè, dopo aver parlato di due scarpegettate dalle onde sopra la spiaggia, aggiunge che eranoscompagnate, noi sentiamo quanto questa particolarità do-vesse essere importante per quel povero solitario.

L'aiuto che può avere ritratto il de Foè dalla storia del Sel-kirk, si ridurrebbe, ove ciò fosse, a ben poca cosa. Ma non ènemmen certo ch'egli abbia tolto il primo originale impulsodel suo lavoro da questo romito dell'isola Juan Fernandez;perchè la pratica di abbandonare su la spiaggia di un desertoi marinai sediziosi e di turbolento carattere, era sì generalefra i bucanieri che inventarono per questo castigo una deno-minazione particolare: marooning a man, cioè trattare unuomo come uno schiavo marone, perchè il castigo di questi

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schiavi, se non se ne potea trarre miglior partito, era tal ge-nere di esilio e confino. Forse il de Foè ha tratte dai viaggi diWoodes Rogers la particolarità delle due capanne, l'addime-sticamento delle capre, il vestirsi delle loro pelli; fors'anchele rape di Alessandro Selkirk gli avranno suggeriti i granid'orzo di Robinson Crusoè. Pure questi stessi incidenti sonocondotti, impinguati, resi sì interessanti dalle aggiunte, chela nuda loro esistenza, così facile a rinvenirsi per ogni dove,non può far pregiudizio al diritto d'originalità dell'autore delCrusoe. Nella totalità infatti, l'ingegno di Robinson è posto asì moltiplicati ed ardui esperimenti, i suoi conforti sono au-mentati di tanto, la sua solitudine sì diversificata, l'indole deisuoi pensieri e delle sue occupazioni esposte con tal copia enitidezza, che l'intera sua storia abbraccia una serie d'investi-gazioni su l'umana natura ben al di là di quante potea farnenascere il caso del Selkirk il quale, mancando dei soccorsi estromenti forniti dai legni naufragati a Robinson, ricade inuna specie di stato selvaggio, che poteva dar ben poco cam-po al dispiegarsi dell'immaginazione. Bensì può notarsi cheil de Foè avrà conosciuto della storia del Selkirk tanto quan-to dovea bastargli a sapere come le tempestose passioni diquest'uomo fossero state frenate e domate dal lungo periododella sua solitudine, il che fece che dall'essere un marinaioaccattabrighe e dissoluto, dall'essere una specie di Gugliel-mo Atkins, fosse divenuto, e n'avea ben donde, un uomo as-sennato, temperante e religioso. Le vie per cui i sentimentimorali e religiosi di Robinson Crusoè si destarono e furonomessi ad atto, presentano tratti interessantissimi di quest'o-pera.

Di mezzo a questi cenni posti senza un determinato ordi-ne può apparire come in tutti i suoi romanzi il de Foè abbia

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fatto grande sfarzo di narrare cose che dipendeano da fortu-nati incidenti ed eventualità, a spiegare i quali trovandosi persolito un po' imbarazzato, per solito ancora ricorreva al defi-nirli decreti della providenza. Ciò si accoppia con la fededelle spirituali comunicazioni fatte per via d'interni presenti-menti, fede da cui, come vedemmo, il nostro de Foè si la-sciava trasportare volentieri anzichè no. E veramente strani emeravigliosi incidenti occorrono di frequente nella naturaumana; e, quando gli ascoltiamo raccontare, c'interessiamoad essi non solo per la naturale tendenza delle nostre mentiallo straordinario ed al maraviglioso, ma anche per la dispo-sizione insita in noi di aver per vere quelle circostanze che,appunto per la poca loro probabilità, sembrano difficili adinventarsi. Vuol anche osservarsi come in questi incidenti siaposto quel genere di buona fortuna che ognuno si augurereb-be, perchè venuta senza fatica e nel momento in cui se n'a-vea più di bisogno; è per conseguenza una tal qual fonte dipiacere l'udirsene rammentare la possibilità anche in un fa-voloso racconto.

La continuazione della storia di Robinson Crusoè, poichèha acquistato un compagno nel suo servo Venerdì, è men fi-losofica di quella parte intesa a chiamare le nostre menti ver-so gli sforzi che può tentare un derelitto solitario per procac-ciarsi quanti conforti sono sperabili nella malinconica suaposizione e verso tutte le naturali osservazioni che gli ven-gono suggerite dal progresso del suo intelletto fatto più inge-gnoso dalla sventura. Nondimeno il carattere di Venerdì èestremamente piacevole, e tutta la successiva storia e quelladel bastimento la cui ciurma si ribellò producono alto inte-resse. Qui, per dir vero, le memorie di Robinson Crusoeavrebbero dovuto finire. Quanto vien dopo, benchè vi si con-

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tengano tratti che svelano il genio dell'autore, non è, comeopera, d'un carattere più elevato delle Memorie del capitanoSingleton o degli altri viaggi immaginati dal de Foè.

Difficilmente si troverà un'opera tanto popolare quanto ilRobinson Crusoe. La leggono con avidità i giovinetti; nècredo esservi una metà di essi tanto vuota d'immaginazioneche non siasi fabbricata in sua testa una solitaria isola, nonfosse altro che un cantuccio del collegio, per farla ivi da Ro-binson Crusoè. Per molti questo romanzo ha deciso del loroavvenire facendoli vogliosi di dedicarsi alla navigazione.Que' giovani ingegni sono men colpiti dalle asprezze dellaposizione in cui si trova l'anacoreta navigatore, che non sisentano animati dai prodigiosi sforzi da esso fatti per supe-rarle; e Robinson Crusoe porta la stessa impressione su glispiriti fervidi e coraggiosi della giovinezza che il Libro de'Martiri opererebbe su la mente d'un giovine divoto, o il Ca-lendario delle Carceri di Newgate sopra un accolito di Bri-dewell; e l'una e l'altra specie di studenti sono assai meno at-territi dalle tremende conclusioni d'entrambi i libri, che ani-mati da una certa simpatia pei santi o per gli scorridori, se-condo che gli uni o gli altri sono i personaggi principali dellibro letto. Nè una seconda lettura del Robinson Crusoe fattain età più adulta diminuirà le prime impressioni della giovi-nezza. Le combinazioni di tale storia sono tali che ciascunola può applicare a sè stesso; ed essendo essa possibile di suapropria natura, la squisita arte del narratore l'ha resa altret-tanto probabile quanto interessante. Ha in oltre il merito diquella specie di elaborate pitture che, guardate e tornate aguardare, offrono sempre nuovo diletto.

Nè l'ammirazione tributata a quest'opera rimase confinatanella sola Inghilterra, se bene Robinson Crusoè col suo grez-

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zo ma retto discernimento, co' suoi medesimi pregiudizii,con la sua indomita risoluzione di non lasciarsi opprimeredalle avversità che sembravano maggiori d'ogni sforzo persuperarle, presenti, più che altra cosa, in sè stesso un noncattivo modello del vero gentiluomo inglese. Il furore d'imi-tare un'opera tanto popolare parve s'aumentasse al grado del-la frenesia; e per uno stravolgimento d'intelletto men solito atal razza di servum pecus, gl'imitatori non si studiarono giàdi applicare il far dello stile narrativo di Daniele de Foè aqualche caso o posizione di diversa natura, ma tutti afferra-rono e posero in caricatura il navigatore naufragato e la de-serta sua isola. Si è fatto il calcolo che in quarant'anni dopola pubblicazione dell'opera originale, non sono saltati fuorimeno di quarant'uno Robinson bastardi, oltre a quindici altreimitazioni con titolo diverso. Tanta è la voga in cui crebbetale romanzo che persino (e questa non sarà forse agli occhidi qualcheduno una grande raccomandazione) l'antisocialefilosofo Rousseau non permette al suo Emilio altri libri fuoridel Robinson Crusoe. In una parola, è altrettanto improbabi-le che quest'opera perda la sua celebrità, quant'è inverisimileche un'altra della stessa natura l'agguagli nell'eccellenza.

FINE DEI CENNI BIOGRAFICI.

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