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1 STORIA, CULTURA, SOCIETÀ CULTURA, CINEMA, ARTI DELLA RINASCITA di Dino Villatico APPUNTAMENTO A ORA INSOLITA (questa, la nostra, che non avevamo previsto) Si è lungamente abusato della metafora della guerra per questa pandemia che ci ha colti di sorpresa. Ma la metafora è inadeguata. Primo, non c’è un nemico da combattere sul campo, secondo è la situazione stessa dentro cui ci troviamo la nostra guerra, o, più precisamente, la nostra malattia, non qualche condizione esterna. Non eravamo preparati a questa pandemia perché la società che avevamo costruito non la prevedeva. Smantellatele garanzie sociali, privilegiata l’iniziativa privata rispetto a quella statale, ci si è affidati quasi esclusivamente ai meccanismi di mercato. Naturale che le fasce non protette della società, i lavoratori precari, a addirittura al nero, ne restassero sconfitte, schiacciate. Il “buio” medioevo affrontava con più efficienza di noi le situazioni estreme. En passant, il termine quarantena è veneziano, in toscano, e dunque in italiano, si dovrebbe dire quarantina. La lingua è una spia infallibile del pensiero. La mercantile ma non liberista, tutt’altro! - Venezia, così come calcolava nelle perdite i naufragi delle navi con le mercanzie, metteva in conto anche la prevedibilità della morte, e della morte per epidemia. Noi no, noi volevamo una società della vita, della libertà della vita, ma abbiamo costruito la nostra vita sulla morte di almeno l’altra metà del pianeta. Che perciò non ci riguardava. Non ci riguarda. Ma la differenza principale, tra un dopoguerra e l’attuale condizione di sopravvissuti a un’epidemia, sta nella ricostruzione. Il dopoguerra fu tutto un fermento di proposte culturali le più nuove e le più diverse, in tutti i campi, dalla politica alla scienza, dalle arti allo sport. Di questo fermento culturale fece parte anche la scrittura della Costituzione della Repubblica Italiana, l’attuazione di un accordo per la costruzione di eventuali futuri Stati Uniti di Europa, e di un’Europa non solo in pace, ma antifascista: era chiarissimo a tutti e tre i fondatori, De Gasperi, Schumann e Adenauer, un italiano, un francese e un tedesco. C’è un film che rende bene quel clima culturale: Germania, anno zero, di Roberto Rossellini (1948). Un regista italiano che mostra con partecipazione e commozione la catastrofe tedesca. Vengono in mente I Persiani di Eschilo: il greco vincitore o, più esattamente, il greco che ha respinto un’aggressione, ora riflette sul senso della sconfitta degli aggressori, e mette in scena la loro sofferenza. Ma anche in un film come Roma, città aperta, non c’è odio per il tedesco, bensì rifiuto del fascismo, che è un’altra cosa. Anzi s’individua proprio nel fascismo, nell’egoismo nazionale, che si fa prepotenza nazionalistica l’origine della catastrofe. Ci riflettano i rinascenti nazionalismi rinominati sovranismi. La cosa più straordinaria, tuttavia, di quel nuovo cinema, un cinema tutto animato dalla passione civile, fu che le sue radici stavano proprio in una parte della cultura della dittatura sconfitta: in quella corrente ideologica, prima che artistica, che fu Strapaese, corrente sorta però prima del fascismo, agli inizi del Novecento, prima dunque che il

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STORIA, CULTURA, SOCIETÀ

CULTURA, CINEMA, ARTI DELLA RINASCITA

di Dino Villatico

APPUNTAMENTO A ORA INSOLITA

(questa, la nostra, che non avevamo previsto)

Si è lungamente abusato della metafora della guerra per questa pandemia che ci

ha colti di sorpresa. Ma la metafora è inadeguata. Primo, non c’è un nemico da combattere sul campo, secondo è la situazione stessa dentro cui ci troviamo la nostra guerra, o, più precisamente, la nostra malattia, non qualche condizione esterna. Non eravamo preparati a questa pandemia perché la società che avevamo costruito non la prevedeva. Smantellatele garanzie sociali, privilegiata l’iniziativa privata rispetto a quella statale, ci si è affidati quasi esclusivamente ai meccanismi di mercato. Naturale che le fasce non protette della società, i lavoratori precari, a addirittura al nero, ne restassero sconfitte, schiacciate. Il “buio” medioevo affrontava con più efficienza di noi le situazioni estreme. En passant, il termine quarantena è veneziano, in toscano, e dunque in italiano, si dovrebbe dire quarantina. La lingua è una spia infallibile del pensiero. La mercantile – ma non liberista, tutt’altro! - Venezia, così come calcolava nelle perdite i naufragi delle navi con le mercanzie, metteva in conto anche la prevedibilità della morte, e della morte per epidemia. Noi no, noi volevamo una società della vita, della libertà della vita, ma abbiamo costruito la nostra vita sulla morte di almeno l’altra metà del pianeta. Che perciò non ci riguardava. Non ci riguarda. Ma la differenza principale, tra un dopoguerra e l’attuale condizione di sopravvissuti a un’epidemia, sta nella ricostruzione. Il dopoguerra fu tutto un fermento di proposte culturali le più nuove e le più diverse, in tutti i campi, dalla politica alla scienza, dalle arti allo sport. Di questo fermento culturale fece parte anche la scrittura della Costituzione della Repubblica Italiana, l’attuazione di un accordo per la costruzione di eventuali futuri Stati Uniti di Europa, e di un’Europa non solo in pace, ma antifascista: era chiarissimo a tutti e tre i fondatori, De Gasperi, Schumann e Adenauer, un italiano, un francese e un tedesco. C’è un film che rende bene quel clima culturale: Germania, anno zero, di Roberto Rossellini (1948). Un regista italiano che mostra con partecipazione e commozione la catastrofe tedesca. Vengono in mente I Persiani di Eschilo: il greco vincitore o, più esattamente, il greco che ha respinto un’aggressione, ora riflette sul senso della sconfitta degli aggressori, e mette in scena la loro sofferenza. Ma anche in un film come Roma, città aperta, non c’è odio per il tedesco, bensì rifiuto del fascismo, che è un’altra cosa. Anzi s’individua proprio nel fascismo, nell’egoismo nazionale, che si fa prepotenza nazionalistica l’origine della catastrofe. Ci riflettano i rinascenti nazionalismi rinominati sovranismi.

La cosa più straordinaria, tuttavia, di quel nuovo cinema, un cinema tutto animato dalla passione civile, fu che le sue radici stavano proprio in una parte della cultura della dittatura sconfitta: in quella corrente ideologica, prima che artistica, che fu Strapaese, corrente sorta però prima del fascismo, agli inizi del Novecento, prima dunque che il

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fascismo prendesse il potere, prima, anzi, addirittura, che nascesse un movimento che poi divenne il partito fascista, un’idea di arte e di letteratura che si proponeva come valorizzazione in chiave nazionalistica, e dunque antieuropea, anticosmopolita, della reale realtà italiana, che imponesse come modello culturale ciò che fu poi chiamato italianità (e residui, i rimasugli, le riverberazioni di una simile visione del paese permangono ancora: tutto latte italiano, prodotto esclusivamente italiano, leggiamo nelle etichette di molti prodotti, quasi a garanzia della loro bontà, della loro sicurezza, a differenza dei prodotti non italiani che sarebbero perciò meno affidabili). Papini e Malaparte ne furono in qualche modo gli animatori. Ma il fascismo vi si riconobbe, l’adottò, coniò anzi l’epiteto di Strapaese, se ne fece un fiore all’occhiello. Anche se il fenomeno era di fatto una prosecuzione del Naturalismo francese rivissuto in Italia come verismo, lo si propagandò come invenzione “tutta italiana”. Ma, a dire il vero, il cinema francese, aveva invece già impostato una poetica analoga nel primo dopoguerra: un film come La grande Illusione, di Jean Renoir (1937) se ne può considerare un modello perfetto, anche per l’internazionalità del cast, come in Roma, città aperta.

Ma adesso, in questo secondo dopoguerra, cambia, almeno in Italia, di segno

ideologico. Perde, intanto, rispetto a Strapaese, ogni connotazione antieuropea, per approfondire, invece, come nel cinema francese, la polemica sociale, la contrapposizione tra la retorica ufficiale di facciata e la miseria reale del paese. Non a caso il cinema neorealista fu bersaglio di una certa critica cinematografica, in genere di matrice democristiana, che accusavail neorealismo – questo il nome che assunse il movimento – di mostrare in piazza le “vergogne italiane”. Che è un aggiornamento dell’ideologia fascista che invita a nasconderle, invece, quelle miserie – i panni sporchi si lavano in famiglia – per esaltare al contrario i lati positivi della società italiana. Non a caso, capofila di quest’indirizzo critico fu un uomo politico: Giulio Andreotti. Che non amava il neorealismo. “Il regista – scrive Andreotti – rende un pessimo servizio all’Italia di metà Novecento attraverso una rappresentazione non veritiera. E in ogni caso i panni sporchi si lavano in casa”. Ma non è detto che una subcultura simile sia oggi scomparsa. Ha solo cambiato di segno: promuove un altro tipo di strapaese. L’intelligenza di quegli artisti fu, però, di non buttare l’acqua sporca con il bambino nella vasca, strapaese perché fascista, ma di trarre profitto anche dall’esperienza del realismo incoraggiato dal fascismo, perché individuava nel realismo una lunga tradizione italiana, che va indietro, prima del verismo, a Manzoni, alla novellistica rinascimentale e perfino trecentesca. Ora, però, tra le macerie del dopoguerra, si fa anche, e chiaramente, denuncia del fascismo, della disuguaglianza sociale, si fa insomma protesta antifascista. E’ quanto di più marxiano si possa immaginare. La cultura della classe sconfitta non si butta di fatti alle ortiche. Si sconfigge la classe, ma ci si appropria della sua cultura e la si cambia di segno. Realismo culturale e politico che i marxisti immaginari, i succubi del feticismo ideologico, non capiranno mai. Anche perché le vie percorse dal neorealismo cinematografico condussero a esiti imprevisti. Un film come La terra trema, di Luchino Visconti, del 1948, tratto dai Malavoglia di Verga, dimostra già con matura consapevolezza quanto il neorealismo sia, innanzitutto, uno stile, un modo di girare un film. E’ forse il più bel film neorealista (mi perdonino il Rossellini di Roma città aperta e il De Sica di Ladri di bicicletta) proprio perché innalza a scopo fondamentale del film non la narrazione della vita dei pescatori di Aci Trezza, ma un esercizio di stile. E’ la premessa indispensabile per capire, ad esempio, gli esiti che Michelangelo Antonioni raggiunge nelle ultime inquadrature della Notte e dell’Eclisse: il realismo si fa visione astratta.

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Ma non fu solo il cinema, comunque, a conoscere una sorprendente stagione

d’invenzione artistica, e di fantasia culturale, sotto il segno del realismo. La letteratura, la pittura, la musica non furono da meno. Basterebbe solo ricordare qualche nome: Pavese, Moravia, Vittorini, Brancati, tra gli scrittori; Guttuso, Fontana, Capogrossi, Burri, tra i pittori; Nono, Berio, Maderna, tra i musicisti (sulla musica, però, andrebbe fatto un discorso a parte: che cos’è il realismo i musica? Arte il cui contenuto è la sua stessa dorma, la musica si abbandonò all’avventura della sperimentazione, e trasse alle estreme conseguenze di una scrittura preordinata da criteri fissi l’invenzione della serie di dodici suoni individuata da Schoenberg, che divenne volontà di prestabilire tutti i parametri della composizione, non solo le altezze, ma anche le durate, i ritmi, i timbri, l’andamento dei tempi). I primi nomi che vengono in mente. Ma ce ne sono molti altri. E, come per il cinema, gli esiti astratti di un Lucio Fontana e di un Burri, in cui la realtà della tela, del materiale prende il sopravvento, o le costruzioni narrative del Gadda della Cognizione del dolore e del Pasticciaccio esondano dagli spalti del realismo per riversarsi in una sorta di disincantata metafisica dell’inappartenenza. Senza dimenticare che già un romanzo come La casa in collina, di Cesare Pavese, 1948, forse il più complesso, inquieto e inquietante romanzo di quegli anni, affondava spietatamente la sua analisi della società italiana mostrandone la spaccatura permanente, ostinata tra anelito di democrazia e mai sopiti rigurgiti autoritari, in mezzo la massa indifferente della maggioranza del paese, che si adegua via via al potente di turno. Troppo pessimistica la visione di Pavese? Temo, invece, che antivedesse, con una lucidità ancora maggiore di quella che più tardi avrebbe avuto un Pasolini, l’arretramento odierno a configurazioni sociali che credevamo superate, anzi addirittura estinte.

Non si assomigliano tra di loro, questi artisti. E qui sta, credo, uno dei principali aspetti di questo periodo, il suo carattere quasi di modello culturale: la grande libertà di ricerca che ciascun artista persegue nei confronti degli altri. Come se la libertà riconquistata del cittadino si traducesse in una sorta di ubriacatura artistica della libertà: che conoscerà ben presto i primi disinganni, esaminerà con sgomento le prime crepe, l’acuirsi dei contrasti sociali, l’allargarsi delle disuguaglianze, come registra amaramente, si è visto, Cesare Pavese. Quasi due decenni dopo Vittorio Sereni, in una raccolta fondamentale d’insuperati versi del disincanto, Gli Strumenti Umani, 1965, lo sconforto ce lo comunica così:

“ Caro – mi dileggia apertamente – caro, con quella faccia di vacanza. E pensi alla città socialista?’ Ha vinto. E già mi sciolgo. ‘Non arriverò a vederla’ le rispondo.” (Appuntamento a ora insolita) Era ormai la fine del dopoguerra. Quest’altro, nostro, dopoguerra che non è

ancora un dopoguerra, anzi forse non è affatto un dopoguerra, ma certamente un dopo – di che cosa, lo sapremo, chi sa, forse nemmeno tra troppo tempo, - quest’altra, diciamo così, sopravvivenza, chi avrà la stessa fantasia, ma soprattutto la stessa forza di raccontarla?