Villa Tarantola

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Vincenzo Cardarelli

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VINCENZO CARDARELLI. VILLA TARANTOLA E ALTRI SCRITTI. PREMIO LETTERARIO STREGA 1948. /:/VILLA TARANTOLA. Fin da ragazzo ho amato le distanze e la solitudine. Uscire dalle porte del mio paese e guardarlo dal di fuori, come qualche cosa di perduto, era uno dei miei pi abituali diletti. Piacere e terrore mi portavano in certi luoghi romiti, sacri alla morte, a cui per non pensavo se non per quel tanto che m'impediva d'inoltrarmi troppo in un cos pauroso reame. Uscito da Porta Clementina, dove comincia la via del cimitero e delle tombe etrusche, la mia evasione, di solito, s'arrestava pochi passi pi in l. Di rado mi spingevo fino a quella strana, disabitatissima villa, chiamata Villa Tarantola, che vede gi il camposanto ed era allora per me un sito misterioso, enigmatico, evocante, nel suo nome, i velenosi ragni che danno il ballo di San Vito. Di l da una siepe di bosso si vedeva, attraverso il cancello, un corretto viale di elci bassi e ombrosi, e gi in fondo una casina moderna e rossiccia, a terrazza, sovrastata dalla ruota metallica d'una pompa a vento. Il piccolo e ombreggiato edificio, somigliante pi a un mulino che a una casa di abitazione, copriva l'orizzonte, che in quel punto vastissimo. Le sue persiane color cenere apparivano costantemente chiuse come il cancello a cui mi affacciavo. N mai mi avvenne di udire voci o scorgere anima viva curiosando l dentro. L'aspetto di questa solitaria villetta era irreprensibile e il terrore o piuttosto stupore che m'inspirava, tutte le volte che io ficcassi il naso fra quelle sbarre, d'una qualit ben nota ai lettori d'Edgardo Poe. Villa Tarantola non che un nome al mio paese: il nome d'una localit sprovvista, per ragioni facili a capirsi, di qualsiasi attrattiva. Pochi sanno o si domandano a chi appartenne in origine e come costui pot avere l'idea di costruirla in una regione cos visibilmente riservata alla morte Perch si chiami villa, dato che non ci abita nessuno. E come si potrebbe abitare da quelle parti? Perch quella siepe civettuola, quel viale, se non servono probabilmente che a mascherare un comune podere? Questo familiarmistero sono arrivato a chiarirlo soltanto qualche anno addietro, ragionando con un vecchio artigiano del mio paese, e ci che ho saputo intorno alle origini di Villa Tarantola, mi ha fatto molto piacere perch dimostra, in fin dei conti, come i miei stupori di fanciullo non fossero del tutto ingiustificati. Non c' mai stato a Tarquinia un pazzo cui sorridesse la prospettiva d'un soggiorno campestre in certi luoghi, a quell'epoca, e nessun ugure, certo, avrebbe autorizzato, in altri tempi, una simile fantasia. Villa Tarantola il portato di una impresa archeologica mal riuscita, il ripiego d'un deluso cercatore d'oro etrusco, che aveva comprato quel campo nella speranza di scoprirvi chiss quale tesoro. Se non che, di gran lunga meno fortunato di altri miei concittadini ai quali avvenne, anche a caso, di fare incontri memorabili nel sottosuolo tarquiniese, imbattendosi, fra l'altro pi d'una volta, in guerrieri armati e dormenti su letti di pietra, che, percossi dall'aria, si dissolvevano in pochi secondi come se fossero offesi da quelle violazioni; pare che il brav'uomo, nel suo magro possedimento, non riuscisse a trovare se non due o tre tombe sac-

cheggiatissime, contenenti alcuni sarcofaghi vuoti, di nenfro, che si vedono ancora oggi allineati lungo il viale che ho detto e sono per avventura quanto di pi vivo e parlante si riscontri nell'inanimata villetta. Da ultimo, poich non gli sarebbe stato facile disfarsi d'una propriet squalificata archeologicamente e di poco pregio dal lato agricolo, decise di servirsene a scopi voluttuari ed estetici. Il cercatore di ntichit etrusche s'improvvis giardiniere come s'era improvvisato archeologo. Dove prima sorgevano tumuli sospetti quanto illusori, fiorivano la lenta ginestra e il tenace asfodelo, in quell'aspro e sassoso terreno che egli aveva manomesso, scassato e stravolto in lungo e in largo, fece nascere non la vigna, che l,non potrebbe attecchire, bens una villetta moderna, all'inglese, tutta pettinata e livellata come un campo di tennis, quasi volesse nascondere le tracce delle sue infruttuose ricerche o vendicarsi della terra che lo aveva ingannato, alterandone il profilo naturale e storico. Ma era fatale che quella tragica terra dovesse rivelarsi, ad ogni modo, pi forte di lui. Il fondatore di Villa Tarantola s'illudeva forse di legare il suo nome a questo monumento di giardinaggio. Ahim, il popolo non tard a dargliene un altro, scritto nei luoghi, nella triste solennit del paesaggio che circonda la inamena villetta; giacch, a parte che su quelle nude alture non si pu immaginare altro giardino se non quello dei morti, i campi argillosi e cocenti della nostra necropoli sono famosi, oltre tutto, per la "Tarntula Apuliae" la quale, nei mesi estivi, li predilige talmente da far pensare che porti nel suo grosso ventre il veleno delle tombe etrusche. Chiunque nato in Maremma conosce vita, morte e miracoli della tarantola, ragno elegiaco e terraiolo, molto meno pericoloso di quel che la fantasia popolare farebbe credere. La sua presenza lamentevole soprattutto perch accusa l'abbandono in cui sono lasciate certe terre. Nella ferace Tarquinia non pu vivere che in una piccolissima parte del suo territorio, fra le deserte rovine della Civita, in mezzo ai sepolcri dei lucumoni, come altrove bazzica le rovine greche, ricercando, in ogni caso, le terre aride e solari del Mezzogiorno, dove incombe il silenzio delle civilt tramontate. E vive rintanata, durante il giorno, in un comodo nido tappezzato di seta e facilmente riconoscibile per via d'un intreccio di seta e pagliuzze che ne protegge l'ingresso. Ma basta zufolare un poco e frugare con un filo di paglia nel suo profondo rifugio percha tarantola venga fuori. A quel doppio solletico l'estroso e musicale insetto, non resiste. Il che farebbe credere che vada a caccia di grilli. E morde l'uomo a caso, L'uomo che costretto a dormire in campagna nella cruenta stagione della trebbiatura e della pressa del fieno, che da noi una vera guerra. Allora inietta un veleno leggero che non fa ballare affatto (questa superstizione ha origine dal fatto che una volta le vittime della tarantola si curavano a suon di cembali, con una danza sfrenata, che poi si chiam tarantella) ma d luogo, in certi casi, a una sorta d'imbambolamento, quale io vidi tanti anni fa, proprio sulla stradetta di cui si discorre, in una giovane campagnola aggredita dal malefico ragno. La portavano alL'ospedale col carretto, e lei stava in piedi l sopra, incantata, trasumanata, bellissima. La sua bianca faccia splendeva come quella di una santa in estasi. Nella luce d'un tramonto d'estate, in quel paesaggio, non potevo fare un incontro

pi commovente e oserei aggiungere significativo, per quel che riguarda gli effetti che pu produrre un ragno abitatore di terre cos macerate e mortifere. Ma la scienza non crede ai misteriosi malori che si attribuiscono alla tarantol. E queste mie non sono che impressioni e fantasie di professore lo Comunque, posto che la tarantola non una favola al mio paese, nessuna forza umana poteva impedire che la borghese villetta, situata nei suoi regni, assumesse ben presto quel colore, quel nome sconcertante, per cui da bambino io non potevo guardarla, n sentirla nominare, senza immaginarmela come la casa delle tarantole. Ero, a dire il vero, alquanto diviso fra il gentile aspetto del sito e l'orrido nome che gli si dava. Ma la sua solitudine quasi paurosa, il suo allarmante silenzio, erano proprio tarantoleschi. L dentro, secondo me, vivevano, senza far rumore, miriadi di tarantole. Da pi di mezzo secolo, abbandonata al proprio destino, vale a dire alle cure d'un giardiniere laborioso e fedele, che sembra custodirla come un monumento e forse abita in quella casma senza che nessuno se ne sia mai accorto, Villa Tarantola vive la sua vita silenziosa ed occulta, conservando inalterato il suo aspetto decoroso e impeccabile, quantunque sia passata, in tutti questi anni, per le mani dei proprietari pi diversi. La sua sorte non cambia. una villa incantata, stregata, come quella fanciulla che incontrai nei suoi pressi. La fitta e sempreverde siepe di bosso che la circonda ne accresce la solitudine, la rende, per cos dire, tutta vegetale e perci pi impressionante. Bassa come , serve a proteggere e anche a nascondere il misterioso dominio assai pi che se fosse cinto da una muraglia. In un paese dove le terre sono limitate da fossi, stradelli, cippi marmorei, muri a secco, fratte spinose, oppure, trattandosi di vigna o di villa, da un alto e nobile muro, la gente non pu che scostarsi da questa insolita, educatissima siepe che non fiorisce e neppure appassisce, che ha l'aria di voler essere confidenziale ed tuttavia cos arcigna, cos puritana; vero simbolo della propriet privata come la intendevano i possidenti del secolo scorso, senza nessuna concessione alla fantasia. C' chi, per renderla un po' allegra e domestica, la chiama scherzosamente "il frattone". Ma non v'illudete. Nessuno la frequenta, nemmeno i ramarri. Eppoi quella non via da idillici indugi. Ben altro ritiro ci aspetta sulla rotabile di Villa Tarantola. cos che il solitario giardino, sopraffatto da troppe altre cose pi grandi, viene ad essere perfettamente escluso dalle nostre consuetudini e dai nostri affetti. Noi non lo nominiamo se non a motivo di riferimento topografico. Nessuna leggenda s' formata intorno ad un sito cos perduto, nelle cui vicinanze accaddero, di tempo in tempo, fatti meravigliosi e tremendi L'enormit di Villa Tarantola consiste appunto nell'essere totalmente priva di vita, di necessit, di ragione. Ma poich in natura non si d vacuo, come dice Leonardo l'inesplicabile villa divenuta un luogo assai strano, quasi sacro. La fantasia popolare l'ha dedicata all'infernale Tarantola ed fuori dubbio che nel disinteresse con cui la si guarda e se ne discorre si nasconde un vago senso d'orrore e di reverenza. Soltanto i frati cappuccini, che hanno fatto di Villa Tarantola una meta delle loro passeggiate serali, possono sorvolare su quel nome orripilante e credo che siano riusciti a famigliarizzarsi un po' con questa singolare vil-

letta. FINE D'UNA BANDA Nella vecchia banda comunale del mio paese si facevano rispettare i valori. In un suonatore di cornetta o clarino, si lodavano soprattutto certe qualit essenziali e native come, per esempio, la voce, il sentimento, la dolcezza del labbro, che solo alcuni privilegiati potevano vantarsi di possedere. I virtuosi, gli "sminfaroli", erano tenuti in sottordine. A poco a poco molti di costoro, delusi e inviperiti, si allontanarono dal severo istituto, lasciando credere d'aver sofferto chiss quali angherie, e cos nacque non soltanto una nuova banda, ma addirittura un partito, che si chiam "cittadino", il cui primo atto, una volta al potere, fu di sciogliere l'odiatissimo corpo musicale che era stato causa di tanta discordia. Di quest'ultimo io mi trovavo a far parte, in qualit di moccioso suonatore di genis. Da un giorno all'altro dovemmo consegnare strumento e montura, lasciare il Palazzo Vitelleschi, nostra magnifica sede, per ridurci pi tardi, quando la banda comunale fu ricostruita sotto altro titolo, col denaro dei privati, in un semplice magazzino. Allora il Municipio non ebbe pi una banda, ma la citt ne aveva due, che s'azzuffavano financo nell'intonazione degli strumenti, suonando l'una mezzo tono pi su dell'altra. E fu in questo secondo e agitato periodo della vita musicale e pubblica del mio paese che io mi vidi promosso alle superiori armonie del corno. Ma nulla ormai avrebbe potuto consolarmi del convincimento che m'ero fatto, di esser nato sotto cattiva stella. C'era davvero di che avvelenare la esistenza d'un ragazzo a vedere come la lista dei candidati al Consiglio comunale, che noi appoggiavamo, uscisse, da ogni nuova elezione, regolarmente sconfitta. Alla fine di quelle giornate elettorali, cariche di passioni contenute e di speranze dissimulate, la dignit dei vinti era pari, se non superiore, allo strepito dei vincitori, il giubilo si scontrava col lutto, il silenzio contegnoso d'una parte della cittadinanza isolava le dimostrazioni, le fiaccolate della parte avversa, che, sebbene fatte a suon di pifferi, non riuscivano ad essere allegre e non duravano pi d'uno sprazzo di bengala. Tutti poi andavano a letto con la coscienza poco tranquilla, non potendosi immaginare una condizione pi iniqua di quella che s'era determinata al mio paese con queste rivalit elettorali e bandistiche. Iniqua, ma necessaria, poich a tali avvenimenti noi siamo debitori dell'acqua potabile, che fu la grande impresa del partito cittadino o, per meglio dire, L'opera d'un potentissimo conte, capeggiatore della fazione. Di quest'uomo benemerito, il cui nome ormai scolpito in una lapide, non potrei parlare se non con molto rispetto. Era cavaliere di cappa e spada in Vaticano, viveva abitualmente a Roma, e veniva a Tarquinia soltanto per qualche mese dell'anno, in autunno o in primavera, offuscando col numero dei suoi servitori, coi suoi "attacchi" a quattro, a sei, tutti gli altri signori del mio paese, che magari vantavano tradizioni pi illustri, ma non possedevano che una modesta carrozza a due cavalli, con cocchiere in livrea. Non si creda tuttavia ch'egli cercasse, col suo splendore, di mettersi in mo-

stra, essendo anzi un uomo alquanto evasivo e quasi irraggiungibile, un mito, un'istituzione amministrativa pi che una persona. Bens quello era il tono della sua casa. Il conte aveva un figlio, cerimoniere di Corte, e una giovane e bella nuora, dama d'onore della Regina. Dimodoch si potrebbe dire che avesse anticipato di molti anni, da parte sua, L'evento della Conciliazione; e contro una tale potenza c'era poco da fare. Sarebbero bastati i dipendenti del conte, o quelli che abitano all'ombra del suo palazzo, in una festosa parrocchia, detta scherzosamente "il villaggio", ad assicurare il trionfo di un'elezione. Ma il popolo parteggiava per lui. La dispettosa genia dei campagnoli idolatrava quest'uomo, questo malinconico feudatario che, senza far discorsi in pubblico, senza dimostrare ambizioni di sorta, prometteva al nostro paese l'acqua potabile e la spartizione delle terre (quelle del Comune, beninteso), lasciando per di pi aperti alla cittadinanza, per familiare consuetudine, i cancelli d'una sua villa, dove noi andavamo da ragazzi ad ammirare l'albero del pepe, a mangiare le guainelle e le nespole del Giappone. Il clero poi, sotto sotto, soffiava nel fuoco di quel partito che noi chiamavamo "nero" e lo era infatti in tutta l'estensione del termine. Fazione municipale e parrocchiana, politicamente agnostica, quindi ostile alle ideologie liberali dei signori del Circolo, i quali avevano amministrato il Comune per tanti anni, arrivando a mangiarsi, come si diceva comunemente, anche le tavole del teatro. Tale fama purtroppo gravava su coloro che s'erano tassati per mantenere la nostra banda e che noi disperatamente sostenevamo: quasi tutti buoni oratori, umanisti, compositori di acrostici e sonetti per nozze, spiriti faceti, che rappresentavano al mio paese quanto poteva esservi una volta di pi colto, di pi garbato, di pi illuminato, ma a cui si faceva carico d'aver dato fondo al denaro pubblico, oltre che al proprio, sotto la guida d'un uomo terribile, passato in proverbio per la sua scaltrezza e voracit. Era costui l'antico e ormai detronizzato segretario comunale, di professione anche notaio. Conosceva i segreti di tutto il paese e la gente lo odiava forse per questo, attribuendogli un potere diabolico. Il piccolo e vecchio notaro, obeso, pallido, vestito costantemente di nero, in palandrana, aveva una figura da Don Abbondio, con folte sopracciglia irsute e canute che sentivano il cattivo tempo. Non poteva dirsi, in verit, un tipo accostante, n cercava d'esserlo. Viveva rintanato nel suo funebre archivio, in una bella e segretissima casa, gi convento di frati, posta alL'ingresso della citt, in fondo a una piazzetta alberata. A quella porta si bussava soltanto per ragioni testamentarie; e non si apriva se non dopo che una delle sorelle del segretario, naturalmente zitellone, allo stesso modo che il nostro uomo era scapolo, aveva allungato il capo al davanzale come una tartaruga. Il popolo chiamava questo personaggio "il tarlo"; e l'amministrazione comunale impersonata da lui fu sempre detta "L'amministrazione del tarlo". E probabile che il povero segretario non meritasse il soprannome che gli si dava. Ma il fatto che la fazione dove io mi trovai coinvolto all'alba della vita era simboleggiata da quel vorace insetto che, secondo una favoletta nostrana, rosicchi il legno della santa croce e quando arriv ai chiodi si fece scrupolo di continuare. Per la qual cosa noi diciamo anche, di certi atti di generosit ipocrita e tardiva,

che sopravvengono quando il male gi fatto e non pi possibile farne dell'altro: "Lo scrupolo del tarlo". Vi lascio giudicare se potevo essere pi sfortunato nella scelta del mio primo partito. Immaginate l'impopolarit della logora banda alla quale mi onoravo di appartenere, e tutte le sorprese; le riflessioni d'un ragazzo che entra, per cos dire, nella vita in cos poco allegre contingenze. Invano il nostro impareggiabile trombone si faceva tremare la bazza filando, nei concerti in piazza, le angeliche note dei duetti verdiani e donizettiani. La severit, la freddezza, la cattiva disposizione del pubblico nei nostri riguardi, avrebbero scoraggiato la banda di Pianella. Perfino il "miserere" del Trovatore, cavallo di battaglia della nostra cornetta, non oteneva che scarsissimi applausi. Tutto l'entusiasmo del popolino era per le strepitose marcette della "banda nova"; e di noi, che avevamo un passo di marcia pi cadenzato a lento, si diceva che su questo punto non potevamo competere coi nostri rivali e che la nostra banda era buona per gli accompagnamenti funebri e per la processione del Venerd Santo. Si voleva insomma una banda allegra e non musona. Si desideravano suonatori di forza e non di grazia. E fu con questo gusto, di questo passo, che il partito cittadino, in coccarda bianca e azzurra, and al potere, vi si consolid, senza curarsi di ridare al Comune quella banda che aveva sciolta; forse perch il problema non era facile da risolvere, dato che i migliori musicanti rimanevano sempre quelli della "banda vecchia", divenuti ormai veri banditi. I due corpi musicali vissero cos, finch poterono, con l'obolo dei privati. Finch un giorno, tanti anni dopo, davanti al prodigio di quell'acqua che veniva da molto lontano, traverso chilometri e chilometri di tubatura (e tutto il paese in festa si mosse per andarle incontro come se si trattasse della venuta d'un Papa), le due parti si riconciliarono e con ci fu segnata la sorte delle due bande nemiche. Queste infatti, destino un po' ironico per due sodalizi che dovevano essere la personificazione dell'armonia, cessati gli odii partigiani, si videro condannate a sparire, per mancanza di protettori. In tanta universale concordia nessuno adesso pensava pi alle due bande che, d'altra parte, non avrebbero potuto fondersi, a causa di quella differenza di tono che le separava irreparabilmente. Eppoi l'esperienza dimostrava come al mio paese la musica servisse piuttosto a inferocire gli animi che ad ammansirli. Cosicch in definitiva, chi ci and di mezzo, in questa rivoluzione cittadina, fummo noi bandisti. Noi che c'entravamo come i cavoli a merenda. Noi che, ignari del sacro mito d'Orfeo, avevamo fatto della musica un detestabile uso. Noi fummo i veri sconfitti. E cadde, con l'istituzione bandistica, tutto ci ch'essa comporta e significa. Finirono, o divennero un'ombra di quel che furono, le processioni della Settimana Santa, la Fiera di maggio, le feste in genere, i veglioni, le vignate, le ottobrat'e, le serenate. Una strana pace, pi deleteria d'ogni guerra, s'accamp fra le nostre mura, ormai disertate dal genio della musica. Eppure, come ho detto, da queste comunali vicende scatur al mio paese un bene incalcolabile Se oggi chiedi a

uno di Tarquinia come mai le ragazze vengon su cos colorite, al contrario di quel che accadeva una volta, ti risponder additandoti la fontana. E l'acqua, il miracolo dell'acqua che ha moltiplicato la popolazione e fatto rifiorire le guance di quelle giovinette che a tempo mio, in primavera, apparivano tutte un po' estenuate ed anemiche, e andavano a farsi le iniezioni in farmacia, quando non si limitassero, per pudore, a bere qualche ovetto, a mangiare qualche bistecchina e a trangugiare con disgusto un mezzo bicchiere di vino rosso. Accostiamoci dunque alla nostra fontana materna; la quale non detto sia di ieri, perch l'acqua di fonte noi l'abbiamo sempre avuta, sia pure non cos eccellente e copiosa. Beviamo un sorso di quel prezioso elemento che cost tanti sacrifici di cui nessuno pi si ricorda. I vecchi sorridono con indulgenza di queste antiche discordie cittadine e ne parlano come d'un trascorso di giovinezza. MEMORIE Dal mio paese, di sera, si vedono i lumi di Montefiascone, citt particolarmente nota, dalle nostre parti, per il suo seminario e per i suoi piccoli seminaristi vestiti di viola. Molti miei amici d'infanzia, senz'alcuna vocazione per il sacerdozio, portarono quella veste paonazza, a cui per io preferivo la bersaglieresca divisa del collegiale. di Spoleto. Ma il paterno scetticismo didattico e culturale non mi concesse nemmeno la modesta uniforme del convitto di Amelia, dove sospiravo d'entrare, soprattutto in omagggio ai famosissimi fichi di questa citt. Cosicch, se proprio ci tenete a saperlo, io appartengo a quella difficile, ombrosa e variamente stimata categoria di persone che hanno studiato e si sono fatte da s. Di padre in figlio i destini degli uomini si perpetuano. Anche mio padre veniva dal nulla, bench di buona famiglia, finita in malora. Da bambino aveva conosciuto la dura poesia delle strade carreggiabili. E se ne gloriava. Giunto a farsi una modesta posizione in commercio, da spedizioniere prima, poi da esercente, non mostrava nessun desiderio di migliorarla. Viveva chiuso nel suo ceto, nella sua condizione, come in una casta. Tutto il suo orgoglio lo metteva nel vendere merce ottimo a prezzo adeguato, senza curarsi dei concorrenti, nell'imballare i carciofi, gli abbacchi meglio d'un altro, nel saper giudicare a colpo d'occhio quante piante pu contenere un carciofeto, quanto pu valere una vigna. Molte persone infatti, le quali non avevano che soldi, si giovavano del suo ingegno ed egli era ben lieto di porre in comune questo capitale che natura gli aveva dato e che gli permetteva di primeggiare, nelle varie piccole societ commerciali di cui fece parte, senz'averne l'aria e senza correre troppi rischi. In quelle amicali unioni, pure portando il suo contributo di denaro, faceva tutto lui Lavorava per s e per gli altri. E avrebbe potuto sembrare quasi un servo dei propri soci, mentre in realt era il loro ispiratore, un uomo competentissimo nel suo mestiere e quanto mai geloso della sua indipendenza. Per farla corta, mio padre pretendeva ch'io diventassi niente altro che un buon commerciante, alla sua maniera. E non per nulla una delle sue massime che pi frequentemente lo sentivo ripetermi era questa: "Tratta chi pi di te e fagli le spese". Non immaginava fino a qual punto gli somigliassi e come lo avrei purtroppo imitato, ma in campi

assai meno generosi di quelli che, con tanta sicurezza, egli sapeva stimare prima che fiorissero. Ecco la ragione vera per cui non volle che studiassi e fece, senz'accorgersene, la mia rovina Giacch io ero nato allo studio, avevo il bacillo della cultura e della letteratura nel sangue. Per conseguenza, quando non trovai pi scuole da frequentare fui un ragazzo perduto, a cui veniva meno il suo naturale alimento. Cercai allora la scuola nella vita, nel mondo. A sedici anni, cio un anno avanti che mio padre morisse, ero gi lontano da lui e dal mio paese. E se ripenso a questi fatti e cerco di ricostruirne le date mi pare impossibile che io abbia cominciato a vivere cos presto. Il tempo che un ragazzo impiega ordinariamente nell'apprendere un'arte o nello studio del latino e del greco io lo trascorsi fra gente adulta, girovagando, impicciandomi di politica. Potrei paragonare la mia adolescenza a quella d'un mozzo, se cedessi un poco alla fantasia. A mio padre tornai soltanto per assisterlo negli ultimi giorni della sua vita, sostenendo senza batter ciglio il sospetto, da parte sua, ch'io approfittassi della sua malattia per salvarmi dalla fame che mi era piaciuto affrontare. La sua morte l'ho scontata prima che avvenisse. Tutte le lacrime di cui potevo disporre le ho versate un giorno che recatomi a visitarlo al Policlinico di Roma, dov'egli era stato sottoposto ad una inutile operazione, lo trovai come un albero secco, mangiato dalle formiche. Appena mi vide gli occhi gli s'inumidirono, ma in quel medesimo istante le sue lacrime tornarono indietro come succhiate da un'immane forza interna. Mi guard, al solito, burberamente, chiedendomi che venivo a fare. C'eran cose urgenti da sbrigare a Tarquinia. Cominciava la mietitura ed egli era fornitore di grascia. Volle che ripartissi in giornata; non manc di ripetermi, pi volte, a proposito di quei quintali di bianco lardo lucchese che avrei dovuto somministrare, la sua consueta raccomandazione "fai perbenino", ed io sarei ripartito, probabilmente, abbastanza tranquillo, se non avesse aggiunto che di l a una quindicina di giorni contava di essere a Tarquinia anche lui. Sapevo, purtroppo, e vedevo che non si sarebbe pi alzato da quel letto. A questo contrasto non potei reggere. Mi tenni appena quanto era necessarlo per sottrarmi alla sua vista. Poi non saprei dire quel che accadde in me. Uscii dall'ospedale piangendo e singhiozzando come un bambino smarrito, e in tale stato salii sul tranve che portava a San Pietro. Per tutto il tragitto piansi disperatamente, pubblicamente, meravigliandomi, di tanto in tanto, che nessuno dei molti passeggeri che si avvicendavano sulla vettura me ne chiedesse la ragione. Forse, poich mi trovavo sul tranve del Policlinico, era facile capirla questa ragione e i buoni romani lasciavano ch'io dessi sfogo al mio dolore. Se no ci sarebbe da credere davvero che Roma sia una citt crudelissima, come sospettai allora vagamente. Quando m'arriv la notizia della morte di mio padre ogni possibilit di soffrirne era ormai esaurita. Presi la via di casa, entrai in camera, e guardandomi un po' nello specchio mi dissi che da quel momento ero solo. Avevo diciassette anni. Cos mi staccai da quel tronco umano che sempre stato

per me, pi che un padre, un forte esempio morale, anche nei suoi non pochi e non lievi errori, nella tremenda integrit del carattere. Dimenticato per qualche tempo, cominci a ridestarsi, via via che la vita si complicava e ingrossava, prima di tutto nei sogni. Per lungo tempo il sogno che facevo su lui fu sempre il medesimo. Tornavo nel luogo dove ho trascorso l'infanzia: il "buffet" della stazione, di cui si discorre nel "Sole a picco". Mio padre, immoto, stava sempre allo stesso posto e mi guardava in silenzio, con un'espressione indicibilmente dolorosa. Ma io non potevo restare. Un treno arrivava. Dovevo ripartire subito. E nulla era pi straziante di questo distacco, di quest'incubo che m'ha perseguitato per anni e anni. Finch ultimamente, qualche anno fa, lo rividi in un sogno bizzarro che non so quanto valga la pena di raccontare. Credo ch'io fossi a Ventimiglia e incontravo mio padre come una persona che s' persa di vista, di cui non s'ha pi notizia da tanto tempo. Era ancora vivo, anzi ringiovanito, in faccende, con una triste aria smemorata, e chiuso in se stesso pi del solito. Giungeva dalla Costa Azzurra, vestito abbastanza bene, ma borghesemente, cio in un modo che non gli si addiceva affatto. A quel che potei capire s'era dato alla letteratura, con molte pretese, ignorando che anch'io facevo lo stesso mestiere. O forse lo sapeva, se non che fra noi due c'era non so quale contrasto. Egli scriveva per il pubblico e non dava nessun peso a quel che potevo scrivere io. Mi fece una compassione enorme, soprattutto perch lo vedevo disorientato e novellino in quest'arte. Per la prima volta mi sentivo superiore a mio padre e decisi, dentro di me, di aiutarlo, con tutte le mie forze, a non perdere le sue illusioni. Adesso la sua ombra non mi visita pi, sembra essersi placata, forse perch io non ho ormai che una memoria assai stanca di queste cose che vo raccontando. Sono venuto a Roma a diciannove anni, con sette lire in tasca, e non avevo altre conoscenze che un avvocato socialista abruzzese, proprietario d'una casa in via Bonella e fratello d'un monsignore che ricopriva un'alta carica in Vaticano. Per vivere, nei primi anni, dovetti fare i mestieri pi vari: addetto a vigilare l'andamento delle sveglie in un deposito d'orologi a via Tor de'Specchi (occupazione non indegna di uno che, pi tardi, si sarebbe presunto un discreto osservatore dei tempi); amanuense nello studio d'un bisbetico avvocato piemontese e socialista anche lui, che non riusc mai ad entrare in Parlamento, nonostante il danaro profuso per tenere in piedi le leghe dei contadini del Tivolese e il mio appoggio oratorio; impiegato nella segreteria della Federazione metallurgica, la quale aveva sede in via Alessandrina, oggi scomparsa, come via Bonella e tante altre strade in quei pressi, nella sontuosa via dell'Impero; contabile, di fatto se non di diritto, in una cooperativa repubblicana di scalpellini o marmorari che si voglia dire, nei cui registri figuravano soprattutto due grosse partite, il Monumento a Vittorio e il Palazzo di Grazia e Giustizia; infine, dopo un congruo periodo di disoccupazione e di mlseria menarrabile, giornalista. Ero a cavallo. Potevo compiacermi del cammino percorso. A ventidue anni abitavo gi in una pensione del pi elegante quartiere

di Roma, quello di Piazza di Spagna, avevo il mio sarto, il mio barbiere, il mio lustrino preferito, frequentavo la Terza Saletta di Aragno e godevo, per di pi, i favori di Forina, Peppino, camerieri ben noti, figure ormai storiche, tavoleggianti di prim'ordine che servivano due uova al piatto su grandi vassoi o guantiere, come si dice al mio paese, d'argento massiccio. Che cosa desiderare di meglio? Questi dunque furono i mestieri che esercitai a Roma in una specie di vita anteriore, al tempo del tranve a cavalli e dei lumi a gas, quando i romani si chiamavano "buoni Quiriti", i consiglieri del Campidoglio "padri coscritti", e don Prospero Colonna, magnifico sindaco di una modesta capitale di cinquecentomila abitanti, veniva detto scherzosamente "don Cerino". PRIMI PASSI Io venni a Roma col vento o, per meglio dire, con la nostalgia dei treni che andavano verso la Citt Eterna o ne portavano l'odore. Nato nel Lazio, in un paese dove si parla un linguaggio molto simile a quello romano, cresciuto per di pi lungo la ferrovia, niente avrebbe potuto impedirmi di correre la mia modesta avventura. La Valigia delle Indie, che io vedevo passare per la deserta maremma una volta la settimana, sfiorava appena la mia fantasia. Questo treno fantasma, uso ad apparire e sparire sul crepuscolo, pi veloce d'un pipistrello, non fermava alla mia stazione. Se no, credo che sarei finito chi sa dove. Ma tutti i diretti, gli omnibus, i misti, e perfino i treni merci che, sostando a Tarquinia pi o meno lungamente, magari isonto per rifornirsi di acqua, riprendevano la loro corsa in direzione dell'Urbe, erano per me un invito a salire. Partiti, li accompagnavo con lo sguardo per tutta la curva del litorale, fin dove scomparivano, lasciando sul loro cammino qualche nuvoletta di fumo bianco, presto dissipata dal vento. Negli anni della puerizia, sentendo ragionare di Roma, dell'Osteria della Cuccagna, ritrovo in quell'epoca dei tarquiniesi residenti nella Capitale, del mirabile ponte apribile di San Paolo, che si chiudeva per lasciar passare il treno, quindi si riapriva, fantasticavo di andarmene fra i Sette Colli, raccogliervi non so quali allori, per tornare poi al mio paese vestito da bersagliere, sopra una macchina volante. Non mi bastavano le piume, volevo anche tornare a volo, in un tempo in cui Dlagrange era di l da venire. Che cosa accendeva in tal modo la mia immaginazione? Certo i calori primaverili e i romanzi di Giulio Verne. Finalmente, a diciannove anni, "riche de mes seuls yeux tranquilles", eccomi nella citt dei miei sogni, portatovi anche un po' , bisogna pur dirlo, dalle mie utopie socialiste, da quel tanto di romantico e randagio che tali utopie contenevano. E ognuno pu immaginare da quali gironi abbia avuto inizio il mio viaggio per l'Urbe. Mi pare d'aver detto quel che desideravo. La via che mi condusse a Roma non quella dell'Universit dell'impiego, degli affari, della fortuna. Io sono della razza dei piccoli migratori interni Sto a Roma per fatalit regionale come un lombardo pu stare a Milano, un emiliano a Bo-

logna, un toscano a Firenze, e cos via. Se fossi nato altrove che nel Lazio la mia vita si sarebbe svolta certamente, con maggiore o minor successo non so, in tutt'altro capoluogo. La mia residenza nell'Urbe non ha niente di ambizioso: un fatto naturale e pacifico. Una simile persuasione mi conforta quando penso di aver trascorso, starei per dire provvisoriamente, la maggior parte della mia esistenza in una citt non mia, lungi dal mio paese nativo, in una condizione che, per quanto le mie parole possano sembrare esagerate, ha tutto il sapore di un esilio. Ma torniamo alle memorie. duro il cammino d'un giovane che, oltre a farsi una cultura, deve provvedere, possibilmente, a non morire di fame. In questa non comune situazione mi trovai a Roma nei primi anni. Stimer sempre un miracolo esser riuscito a cavarmela. Ma la vita piena di risorse e la fortuna assiste chi non nato per lasciarsi schiacciare. Per dare un'idea degli espedienti a cui talvolta necessario appigliarsi, narrer brevemente una felice avventura capitatami in un tempo che, privo di lavoro, avevo perso da alcuni mesi la memoria del letto e della tavola apparecchiata. Passando un giorno davanti a un'agenzia di collocamento mi fermai a leggere, pi per curiosit che per altro, gli annunci contenuti in una tabella appesa fuori dell'uscio e vidi che si cercava un professore di pedagogia disposto a scrivere una tesi per una diplomanda del Magistero femminile. Deciso, entrai nell'ufficio. Chiesi l'indirizzo della studentessa che aveva pubblicato quell'annuncio e mi presentai a lei e a sua madre in un arnese indescrivibile, con una barba ispida e lunga di non so quanti giorni, spacciandomi, ahim, per quel che non ero. Le due donne, senza far caso al mio aspetto, che forse giudicarono conveniente a un povero dottore in pedagogia, certo laureato da poco, mi accolsero come un salvatore. Il tempo degli esami stringeva, l'urgenza era grande da ambo le parti, e non ci fu difficile intenderci su tutto. La tesi aveva per tema "Il naturalismo in pedagogia", doveva consistere in non meno di duecento pagine dattiloscritte ed essere consegnata entro quindici giorni al pi tardi. Accettai con entusiasmo queste condizioni. Infine si venne al compenso, e mi si offrirono duecento lire, cifra sbalorditiva in quegli anni, per uno che si trovasse nelle mie congiunture. Un paio di giorni dopo consegnavo il primo capitolo, ricevendo un anticipo che mi serv a rivestirmi e a trasformarmi da capo a piedi. Quando tornai per consegnare il secondo capitolo, a cui segu un nuovo anticipo, mi vergognavo un po' di farmi vedere con la faccia rasata e quegli abiti lustri e fiammanti ch'erano un'aperta confessione della mia miseria. Tuttavia n la madre n la figlia, due timide perugine, fecero il pi piccolo rilievo sul prodigioso cambiamento del professore. Seguitarono insomma, senza dubbio per delicatezza, a fingere di non accorgersi delle mie apparenze. Se non che alla fine di quella spaventosa fatica, in virt di quegli acconti che mi venivano benevolmente concessi, via via che la tesi usciva dal mio cervello in tumulto, si era operata in me una metamorfosi faustiana. E niente di pi naturale che fra il dottore improvvisato e l'impreparata discente sorgesse un

amoruccio, presto interrotto dalla partenza di colei che io avevo sospinta nella carriera dell'insegnamento, prestandole il mio magistrale soccorso anche nelle tesine orali. Almanaccai questa tesi nella sala di lettura della biblioteca Vittorio Emanuele, di cui ero a quei tempi zelante frequentatore, saccheggiando un famoso testo francese di storia della pedagogia, ma traducendolo, sunteggiandolo e parafrasandolo ad ogni passo, ossia cercando di esprimere con parole mie quel che leggevo e venivo a conoscere per la prima volta, non senza mescolarvi tutte le considerazioni e fantasie che la calda lettura poteva suggerirmi, specie nel capitolo su Rousseau, scritto con la testa in fiamme. Non credo sia stato un lavoro inutile, neppure dal lato della mia formazione. Un'altra fatica del genere, bench meno speculativa, avevo sostenuto pochi mesi prima, scrivendo, in brevissimo tempo, quasi tutto un libro, di cui per fui l'estensore pi che l'autore e che non porta naturalmente il mio nome. Trattava di questioni economiche e sindacali, con uno spirito che allora si diceva riformista o collaborazionista. Un autorevole professore di economia, leggendo questo libercolo, and in brodo di giuggiole e gli dedic un lungo ed entusiastico articolo sopra un grande giornale. L'unica recensione favorevole e senza riserve che io abbia ottenuto nella mia vita, per quel tanto che la detta opera pu appartenermi. Incredibile, strapazzosa, fu la mia fecondit giovanile. Tra i ventidue e i ventiquattro anni, redattore di un giornale quotidiano, mi feci conoscere come uno dei pi fertili imbrattacarte che si siano mai scatenati in una redazione. In quel tempo avrei voluto vedere qualcuno che osasse rimproverarmi la mia pigrizia. Ero tipo da scrivere due articoli in un giorno, sei colonne di cronaca su due avvenimenti diversi, in uno stesso numero. Non mi contentavo di eseguire con diligenza il lavoro che m'era stato assegnato. Facevo di tutto, strafacevo, suonando spesso, come ebbe a dire giustamente Eduardo Boutet, critico drammatico del quotidiano in questione, "Malbrough s'en va-t en guerre" con le trombe del Giudizio Universale. Il pi umile fatto di cronaca nera diventava per me un ottimo pretesto a divagazioni politiche, filosofiche, teologiche. E ricordo che, a proposito del delitto commesso dal cameriere d'un grande albergo, il quale aveva ucciso un suo compagno di lavoro per gelosia delle preferenze che il direttore gli dimostrava, scrissi uno dei miei soliti pezzi, dove la narrazione del fatto era sommersa in un mare di considerazioni, e lo intitolai pacificamente: Caino e Abele. Sotto il romantico titolo di "Gocce di sangue" avevo instaurato in cronaca una fiorita rubrica per i ferimenti e perpetravo, di tanto in tanto, delle "Malinconie romane", firmandole, a capriccio, con diversi pseudonimi, alcuni dei quali, i pi costanti, erano Simonetto, Calandrino, Caliban. Non so come non mi venne mai in mente di firmarmi Ariele. Non mi sentivo un angelo, nemmeno a quell'et. Eppoi lavoravo per un giornale a fosche tinte. Ma il bello

che queste divagazioni, alquanto incorporee, malinconiche soprattutto per il modo come erano scritte, non passavano inosservate. C'era gi chi mi diceva: Ti leggo, ti seguo. Cominciavo a provare il perturbante piacere delle congratulazioni. Un giorno il mio redattore capo, con affettuoso compiacimento, mi rifer che l'onorevole Fradeletto aveva molto appreZZato non so che frase o immagine d'una mia cronaca e se la era trascritta nel taccuino. Un altro giorno mi sentii lodare come scrittore aulico e latineggiante ed io pensai, molto seriamente, che chi nasce a Tarquinia il latino ce lo deve avere nel sangue; giacch inutile ripetere che in quella acerba et non avrei potuto vantare altre cognizioni linguistiche se non quelle ricevute, per dirla con Dante, dalla poppa della balia, ossia dalla parlata del mio paese. Purtroppo non ne facevo alcun uso e il mio modello di stile e di lingua era piuttosto Paolo Valera. Motivo per cui, nonostante che un articolo su Ibsen, scritto negli ultimi tempi del mio noviziato giornalistico, mi abbia valso l'attenzione di Emilio Cecchi e questo memorabile complimento del mio direttore: "Bellissimo quel tuo articolo. Non ci ho capito niente, ma bellissimo", mi affretto a concludere la mia poco pietosa esumazione dicendo che le sole cose possibili uscite dalla mia penna, in quello stravagante periodo di entusiastica attivit pubblicistica e letteraria, furono forse i miei resoconti parlamentari o di comizi, banchetti e congressi di ogni genere; a cominciare da un congresso di filosofi che tenne occupate le cronache per qualche settimana e che, per il luogo in cui si svolse (una famosa biblioteca dedicata alle donne di servizio) mi apr le porte d'un curioso mondo, filantropico, femministico, estetizzante, che meriterebbe di essere descritto. - Avevo in quel tempo una straordinaria facolt di ritenere il pensiero altrui e di trascriverlo con la velocit e l'esattezza d'uno stenografo. Come da bambino sapevo leggere meglio di qualunque altro della mia classe, cos da giovane avrei potuto sostenere una gara col pi provetto resocontista d'Italia. Ero nato cancelliere o amanuense, come volete Non si trattava, in sostanza, che d'una certa capacit di attenzione e di memoria e stimo di potermela attribuire senza offendere la modestia. la sola virt che io allora possedessi, in grado piuttosto eminente. Ma nessuno se ne accorse. L avvenire che il giornalismo mi prometteva era quello dell'articolista: mestiere difficile, che non ho ancora appreso. E due anni e mezzo di quel lavoro dannato dovevano finalmente fiaccare la mia resistentissima fibra, gi abbastanza provata dalle sofferenze patite, riducendomi sopra una tavola operatoria, dalla quale mi alzai trasformato e impoverito. Lasciando il Policlinico, dopo una degenza di quindici giorni, preceduta da una lunga malattia trascorsa, in una primavera tormentosa, un po' sul mio letto, un po' in una casa di salute, ero un altro. Nella stessa corsia dove mio padre era morto, forse sulla stessa tavola dov'egli sub un'operazione inutilmente e da cui si vedeva, giacendo, la cupola di San Pietro, avevo smarrito, rinnovandomi, gran parte del mio furore nativo. Con questa non lieve, ma forse provvidenziale caduta, si chiudevano i miei primi quattro anni di vita romana e addirittura la mia giovent.

Sopraggiungeva il 1911 Anno fatidico, cinquantenario della nostra Unit nazionale. Molte cose accaddero in quelL'anno. Fra l'altro, nell'estate del 1911, il mio giornale, che era, per chi non l'avesse ancora capito, "L'Avanti!", si trasfer a Milano. Io avevo facolt di seguirlo. Nel caso contrario mi sarei dovuto contentare d'una modesta indennit limitata alle risorse di un'amministraZione in rovina. Scelsi l'indennit. E ne approfittai per cambiare strada, per interrompere una carriera intrapresa con troppo impeto. Fu allora che lasciai Roma una prima volta e me ne andai a Firenze, a ricominciare la mia vita da capo, fra i pragmatisti, gl'idealisti, i socratici, i tomisti e i teosofi del caff Paskowski. ANNI DI GIOVENTU' I primi quattro anni della mia residenza a Roma formano un ciclo assai ben concluso e felice nella mia vita, nonostante le mie misere condizioni economiche e le strane occupazioni a cui dovetti piegarmi. Furono anni di giovent, incommensurabili e pieni di vicende. Posso dire di non averli sprecati. In quei quattro anni conobbi il mondo e specialmente Roma in tutti i suoi aspetti, dai pi bassi ai pi alti. Fui occupato e disoccupato, intento allo studio e dedito ai pi sbrigliati divertimenti. Passavo da una condizione all'akra sentendo che tutto era prowisorio e guardavo il mondo come si guarda il paesaggio in ferrovia. Non era possibile umiliarmi in quel tempo. Andavo per la mia strada e sarebbe stato difficile influire sul mio destino. Io fui la delusione di tutte le belle anime che avrebbero voluto mettermi sulla buona via, non avendo fretta di arrivare a niente, non sapendo neppure io a che cosa mirassi. Ricordo un periodo lunghissimo trascorso intorno al Colosseo, senza mai uscire da quelle parti dove avevo ufficio, casa, trattoria e qualche vaga attrattiva amorosa. Fu allora che, sui prati dell'Orto Botanico, feci la mia prima lettura di Shakespeare nella traduzione del Rusconi: una lettura che ripresi pi tardi, in una ottima e scrupolosa traduzione francese, e tenne occupato il mio spirito per un paio d'anni. Ragione per cui probabile che io conosca Shakespeare abbastanza, per quel tanto che un poeta pu essere conosciuto mediante una traduzione. In quell'epoca scrissi anche una commedia intitolata: "Per diverse vie". Come l'ebbi sottoposta ad un capocomico, L'uomo del mestiere cap a fiuto quanto poco valesse la pena di leggere quel copione. Si limit dunque a prendere atto del titolo e restitu il lavoro spiritosamente, dicendo: "Per diverse vie... Lui faccia la sua, io faccio la mia". Questa commedia l'ho smarrita, insieme con una lunga novella e un dialogo filosofico scritto in tempi ormai pi maturi, da cui scaturirono alcune pagine del mio primo libro. Lo avevo intitolato "L'ultima lezione dello scettico", ed era forse niente altro che un risentimento dell'"Apologia di Socrate" e del "Fedone". Di tutto ci che posso avere scritto in quel guazzabuglio lirico-fisolofico rimangono le pagine che ho dette, alcuni versetti coi quali si apre il mio libro di poesie ("La speranza nelL'opera ecc.") e una frase inedita che mi si vorr permettere di salvare dal provvidenziale naufragio: "Lasciate che

venga l'ora della passione e vedrete come il genio lucido e ragionativo". Io capitai a Roma troppo tardi, sulla fine di un'epoca. Il carnevale romano tramontava fra le scoppole che ricevevano al Corso, il Gioved grasso e Marted grasso, tutti coloro che si lasciavano cogliere in bombetta. I nuovi tempi urgevano. E fu un miracolo se potei conoscere certi aspetti di questa citt, destinati a sparire con le prime demolizioni, coi primi slarghi, abbellimenti e spostamenti del 1911. Ricordo via del Tritone strettissima e trafficatissima, il Traforo ancora sgocciolante, essendo stato aperto al pubblico un anno avanti la mia venuta nell'Urbe, e via Nazionale, dal Traforo in su, alberata, coi sedili fra un albero e l'altro. Dove ora sorge la Galleria di Piazza Colonna c'era un grande spiazzo ghiaioso, con una celebre osteria per forcstieri, gi in fondo. E proprio in uno dei primi giorni che stavo a Roma, verso la mezzanotte, vidi uscire da quella osteria uno strano personaggio con un cappellaccio all'Ernani, inferraiolato come Amleto nella scena del cimitero. Alto, diritto, maestoso, percorreva, in direzione di San Claudio, L'immenso sterrato solitario, in penombra, ed io, dal marciapiedi del Corso, lo vedevo incedere come su un palcoscenico. A un tratto una donna elegantissima, di alta statura, uscita anch'essa dalla taverna, lo raggiunse e lo schiaffeggi. Ma l'uomo dal mantello seguit a camminare impassibile, senza neppure volgere lo sguardo alla sua schiaffeggiatrice. Il mio eroe cadde di colpo nella mia stima e non si pi rialzato. Pi tardi potei identificarlo. Era Gordon Craig, famoso scenografo inglese, di gusto preraffaellita. E colei che lo aveva percosso, anzi demolito ai miei occhi di provinciale appena inurbato, credo fosse Isadora Duncan, sua amante. Mi era toccato probabilmente di assistere ad una scena di gelosia, dovuta al vino di Frascati, che gli stranieri usano bere senza prudenza come se fosse birra. Ma ne derivai un'impressione cos sgradevole, per via di quegli abiti onde lo schiaffeggiato s'ammantava, che non ho mai potuto prendere sul serio Gordon Craig, n la sua scenografia, neppure quando ebbi tra le mani una raccolta dei suoi poco esemplari bozzetti. Ho sempre visto in lui un uomo che portava un mantello abusivamente. Di tipi che vestivano come Gordon Craig ce n'erano a bizzeffe nella Roma di quei tempi. S'incontravano specialmente a Piazza di Spagna, via del Babuino, via Margutta, Piazza del Popolo. E non stonavano affatto in quella cornice settecentesca e neoclassica, in quel quartiere gi detto fiammingo, ben noto per i suoi "studi" di artista, le sue botteghe di antiquari, le fioraie ciociare, e due vecchie modelle incartapecorite, coi capelli di stoppa, che lo hanno bazzicato e direi quasi caratterizzato per lungo evo. Fra le pitture polverose del Caff Greco e i busti del Pincio si potevano vedere, negli anni della mia giovinezza, le ultime basette, gli ultimi collettoni e cappelloni dell'Ottocento. Cominciarono a diradarsi alla fine del 1911, mentre il loro secolo moriva, con un po' di ritardo, nelle esposizioni di Valle Giulia. Ma ora qui voglio ricordare, di quegli stessi anni, un personaggio pi serio e caratteristico. Fu la mia

prima guida per le vie di Roma, colui che m'insegn a distinguere i diversi stili e le epoche dell'architettura delL'Urbe. A lui devo le mie prime cognizioni in materia. Era uno dei pi sollazzevoli frequentatori della Terza Saletta di Aragno e i suoi amici lo dicevano scherzando "la foca sapiente", essendo egli di pelle olivastra, grasso, trasudante olio come una foca o un leone marino, e capace di recitarvl a memoria interi canti dell'"Eneide", di snocciolare per ordine cronologico i nomi di tutti i Papi. Soffriva d'insonnia. Motivo per cui lo s'incontrava nelle ore migliori, nelle ore delle confidenze. Capitava in Terza Saletta, di sera, quando su quei divani di velluto giallooro non rimanevano che alcuni giovani un po' lontani dalla sua cerchia, ed io L'accompagnavo talvolta all'"Umberto", celebre ristorante romano, oggi scomparso, dov'egli cenava, per solito, dopo la mezzanotte. Uomo di grandi amori e di grandi fobie. Bastava nominargli Corrado Ricci per vederlo andare in bestia. Non so perch odiasse tanto Corrado Ricci. Era stato, anni prima, funzionario alle Belle Arti, quindi "epurato" per scarso rendimento, in seguito a una storica inchiesta fatta sul personale della Minerva, e pu darsi che attribuisse al proprio ex-direttore quella piccola disgrazia o vergogna che pesava sulla sua incolpevole vita di figlio di famiglia ormai quarantenne. Abbastanza ricco, ma di figura tutt'altro che vantaggiosa, fuorch nelle proporzioni, trascurato nel vestire, precocemente calvo, con una gran barba corvina e fitta, che poi mi pare si togliesse, con gli occhi sempre un po' rossi, da fratacchione uso alle veglie, sentiva di non poter piacere alle bramatissime donne. Questo era, in sostanza, il suo dramma, il motivo segreto di tutta la sua inquietudine e della sua buffa e dolorosa esistenza, ci che lo indusse infine a diventare, pi che amico, protettore, paladino d'un altro frequentatore della Terza Saletta che poteva dirsi, per i suoi felici rapporti col bel sesso, il contrario assoluto di lui: un uomo di mondo, elegantone, un po' equivoco, e fortunato con le donne. Guai a chi gli toccasse questo amico del cuore che non aveva alcun rapporto con la cultura e per il quale non avrebbe esitato anche a battersi in duello. Stimo questo esempio di amicizia bellissimo. Mi piace creder vera la voce che si diffuse a suo tempo: cio che la persona di cui ho parlato lasciasse, morendo, tutte le sue sostanze a questo suo diversissimo sozio. Ricorder sempre con affetto il bizzarro erudito che coonest con la sua dottrina la lunga esperienza che io avevo gi fatta di Roma, negli anni in cui la mia sola casa era la citt stessa, questa reggia favolosa che i Papi costruirono a consolazione dei derelitti. Penso talvolta a tutte le famiglie di cui sono stato inquilino, io che non ho famiglia. una materia scottantissima. Ci sarebbe da scrivere un romanzo. Va bene che, in fondo, io non ho conosciuto se non famiglie d'affittacamere, oppure talmente disordinate ed incaute da ammettere con facilit persone estranee nel loro seno. Ma non detto che

siano le meno cristiane e neppure le meno interessanti per quel che concerne la vita domestica. Fatto sta che a questo proposito credo di saperne pi io che molti padri di famiglia. E mi sono scoperto strane attitudini alla vita casalinga. Ho gustato per lunghi periodi, specie in paesi lontani, in luoghi di villeggiatura, tutti i piaceri e gli svantaggi d'una tale vita, pur essendo il perfetto contrario di quel che si dice un amico di casa. Sono passato in mezzo a una quantit di famiglie come uno straniero, un pellegrino o, se volete, un vagabondo, lasciando per sui miei passi, se l'amor proprio non m'inganna, quasi sempre dei buoni ricordi. Le mie padrone di casa, quando io sar morto, potranno testimoniare della mia discrezione e delle mie fatiche. E qualcuna vi dir che nel momento in cui mi licenziavo da lei scoppi in lacrime, dopo avermi trattato malissimo per tutto il tempo della mia dimora. Un'altra potrebbe parlarvi del mio disgraziato amore verso una delle sue giovanissime figlie; e la pi antica di tutte, quella che rammento come un sogno, nella luce conventuale d'una vecchia casa di Roma, delle legnate che le somministrava suo padre, per essersi, come dire?, invaghita del suo imberbe inquilino ch'era lontanissimo dal sospettarlo e dal rendersi ragione, per conseguenza, di quelle busse cos frequenti. Una sola delle mie tante padrone di casa potrebbe raccontarvi, se fosse ancora al mondo, un doloroso episodio che non torna a mio onore. Ero allora molto giovane, stavo a Roma da poco tempo, e abitavo nelle vicinanze della stazione, presso una signora calabrese, vedova e con un solo figlio, impiegato e poeta. Dormivo in un camerino che riceveva luce e fumo dalla cucina. Il giovane poeta, uso a rincasare molto tardi, si tratteneva spesso in cucina, prima d'andare a letto, per farsi la barba. Girando la chiavetta della luce elettrica illuminava di necessit la mia stanza. Onde io, non ancora addormentato, aprivo gli occhi, e mentre lui si radeva, davanti a uno specchietto appeso alla cappa del camino, mi perdevo a immaginare le sue serate, le sue splendide serate nella Roma di quegli anni, tutta risonante di successi letterari e teatrali. Perch questo poeta io lo conoscevo gi di nome, anzi di pseudonimo, e potete figurarvi la mia meraviglia nel trovarmi sotto il suo tetto, la considerazione e il rispetto che avevo per lui. Eppure, se fossi stato un po' meno sulle nuvole, avrei dovuto capire che la sua vita non era cos felice come io fantasticavo. Fra l'altro mi sarei accorto, dalla sua faccia scavata e terrea, ch'egli era condannato da un male che non perdona. Infatti, due o tre settimane dopo il mio ingresso in casa sua, col sopraggiungere dell'autunno, L'idoleggiato poeta, a cui non mi legavano che le mie ingenue fantasticherie, si allett per non pi rialzarsi. Io lo sentivo tossire di l dalla fragile parete che separava le nnstre due camere. E quei colpi di tosse, a poco a poco, invece di muovermi a compassione o, per meglio dire, insieme con la compassione che non potevo non avere per quel giovane sventurato, fecero nascere in me un sentimento di rancore profondo verso la casa che mi ospitava Pensavo con terrore e ribrezzo alla eventualit che la

madre dell'infelice mettesse nel mio letto i lenzuoli del figlio. L'aria del mio camerino, gi cos poco sana, la sentivo ormai infetta, irrespirabile. Mi consideravo tradito. E tutto il mio segreto malanimo si riversava su quella povera donna che m'aveva ricevuto nel proprio domicilio, ben conoscendo le condizioni del suo figliolo. Ma se lasciassi credere ch'io fossi dominato da una semplice e fredda preoccupazione d'ordine igienico darei un'idea molto piatta e meschina del mio stato d'animo. Davanti a quella brutta avventura che m'era capitata si ridestava in me un antico, infantile orrore verso certe forme di malattia. Ero ancora fresco di campagna. Credo che io debba essere perdonato per quel che ho detto e dir in seguito. La giovent spesso egoista e crudele senza saperlo. Io non avevo allora altro bene che la salute e lo difendevo oscuramente, irrigidendomi di fronte al male, con la incoscienza propria di quell'et. Nondimeno mai mi pass per la testa di cambiar casa. E questa una contraddizione che non saprei spiegare neppure con la povert; giacch, volendo, avrei potuto procacciarmi le poche lire che mi occorrevano per lasciare il mio non raccomandabile alloggio e cercarmene un altro. Perch rimasi? Forse per pigrizia, imbarazzo, rassegnazione? Oppure fu un motivo pi nobile, come chi dicesse delicatezza, che mi viet di sottolineare troppo apertamente, con la mia diserzione improvvisa, la sciagura di quella casa? Certo che rimasi; e niente lasciai trapelare dei miei sentimenti, che soltanto una madre meridionale poteva intuire. Un odio silenzioso e tremendo si stabil fra me e lei, specialmente da parte sua. Evitavamo di vederci, di parlarci. E in queste condizioni, ahim, il tempo seguit a correre senza che io trovassi la forza e il momento di bussare alla camera dell'infermo per fargli una visita. Non per timore di avvicinarmi a lui (L'aria sua la resplraVO gi abbastanza) ma per quell'oscuro stato di disgrazia in cui ero caduto. Di giorno in giorno i rapporti tra me e sua madre si facevano pi cupi. E con quale animo sarei andato al suo capezzale? Inoltre, bisogna pur dirlo, lo non ero e non mi sentivo l dentro che un misero e passeggero inquilino. Vedevo, assistevo, soffrivo quella tragedia da estraneo, fra le pareti del mio stambugio che non mi avrebbe permesso di trastullarmi in casa durante il giorno, quand'anche lo avessi potuto e desiderato. Passavo perci le mie giornate fra il lavoro, la biblioteca, i caff, i teatri, affrettandomi, la mattina, ad abbandonare il mio triste covo prestissimo, per non tornarvi che a sera tarda, soltanto per coricarmi. Questa era, del resto, la vita doverosa d'un subinquilino a Roma, in quegli anni. Vita furtiva, evasiva, e un po' maledetta, che pareva esente da ogni obbligo di carit e di religione. Stare in casa il meno possibile era il primo dovere d'un poveraccio che abitasse una camera in subaffitto. Spesso fra lui e i suoi appigionanti non esisteva nemmeno la consuetudine del saluto. Ecco dunque in che modo, poco pi che ventenne, sbalestrato, ignaro delle convenzioni sociali, non supponendo di avere verso chi mi alloggiava altri impegni fuorch di pagare la pigione, potei commettere il grave errore di cui mi accuso e che, d'altra parte, scontai caramente. Giacch una mattina la mia piccola e scarna padrona di casa, veden-

domi sbucare dal camerino e avviarmi come un ladro verso l'uscita, mi ferm sul corridoio coi pi acerbi rimproveri. Stava ritta in mezzo alla cucina e, senza fare un passo per avvicinarmi, deplorava ad alta voce la mia mancata visita al figlio, ma con un tono che diceva come quel rimprovero, cos giustificato, non fosse, in realt, che un pretesto. Non di una semplice infrazione alle buone e caritatevoli usanze quella madre si doleva, ma di tutto ci che le nascondevo e che lei aveva benissimo indovinato e lungamente sofferto in silenzio. Le sue veementi parole erano un'appassionata reazione al mio tacito cruccio, alle mie ragioni inammissibili, all'inconcepibile idea che io potessi non curarmi che della mia salute e avere persino qualche obbiezione da fare mentre suo figlio moriva. Un'immensa piet inteneriva la sua voce, nominando la sua creatura. Ergendosi di fronte a me con tutta la forza e la maest del suo dolore materno, la disgraziata vedova, costretta ad affittare un piccolo vano del suo modestissimo appartamento, sembrava, direi quasi, reclamare il diritto di avere un figlio malato e il dovere da parte mia di una solidariet che in quell'et selvaggia non potevo concederle. Le nostre due posizioni erano orribilmente scoperte. E mentre questa indescrivibile scena accadeva, il giovane tossiva nella sua stanza ed io lo sentivo ormai cos lontano, cos poco esigente, cos estraneo a quel dibattito orrendo, che mi sarei messo a piangere se mai avessi avuto, in vita mia, le lacrime facili. Non ricordo come fin questo scontro inatteso. Credo per che lo sopportassi in silenzio. E di l a poco me ne andai da quella casa; non prima tuttavia d'aver riconosciuto il mio torto, chiesto perdono all'affranta donna, e fatta la mia triste visita al figlio. Me ne andai. Ma non per le ragioni che si potrebbero immaginare. La verit che, rimasto a un tratto disoccupato, fosse provvidenza o castigo, non ero pi in condizione da permettermi il lusso d'un camerino. S'inizi allora un periodo che, per circa un'annata, non sapendo come sfamarmi, dove dormire, potei respirare, sia di giorno che di notte, un'aria fin troppo libera e pura. Ho avuto padrone di casa un po' dappertutto: a Roma, a Milano, a Venezia, a San Remo, sul lago di Como, a Lugano. Senza contare le proprietarie di trattoria o di pensione con le quali sono stato a contatto. Soggiorni, per lo pi, brevi ma intensi, confidenziali, e qualche volta assai felici come quell'estate che trascorsi in un paesucolo sopra Cernobbio, presso una famiglia il cui capo era a Londra a fare il cuoco. Intorno a me non c'erano che donne e bambini, tutti affezionati e servizievoli, salvo il pi piccino che non voleva riconoscermi della nidiata e col quale ebbi subito uno scontro fierissimo. Il paese dove abitavo non un paese, ma un gruppo di case posto sulla via del Bisbino. Vede il lago dall'alto, fronteggia una montagna nuda e orrida, detta l'Inferno, e sovrasta quell'albergo per miliardari che Villa d'Este. Come io capitassi a Cernobbio sarebbe un po' difficile dire. Ci andai sulle tracce di una bellissima ragazza straniera, conosciuta a San Remo l'inverno precedente ma soltanto di vista, la quale, all'inizio della primavera, aveva lasciato il suo lussuoso albergo sanremese, per trasferirsi a Villa d'Este. Non avendo nessuna

speranza e quasi direi nessun desiderio di avvicinare questa creatura straordinaria, usa a trascorrere la sua splendida e malinconica esistenza in luoghi come quelli che ho nominati, mi contentai di seguirla, con tutta la discrezione che il caso richiedeva, e fissai la mia dimora in un sito da cui potessi vederla almeno col cannocchiale. Sono cose che si leggono, senza buttar via il libro, nei romanzi. Non capisco perch non dovrebbero succedere nella realt. Questa fanciulla stupenda che mi vide per due intere stagioni sui suoi passi, da una stazione climatica all'altra, e che poi torn a incontrarmi a San Remo, senza mai fare una mossa villana, una risata, un gesto d'impazienza, uno dei pi squisiti ricordi della mia vita, un ricordo consegnato alla poesia, giacch uno sfogo poetico, in tali circostanze, non poteva mancare, e qualcuno forse conosce un mio componimento in prosa ritmata, che s'intitola "Polacca" dove appunto, con la vaga intenzione d'ispirarmi alle "polonaises" di Chopin, cercai di dipingere la figura, il passo e il trasparente carattere di questa indimenticabile sconosciuta. Ma il bello che una volta a Cernobbio la persi quasi di vista. Nel grande albergo del lago di Como ella si era sepolta ormai come in un chiostro. Poi and a San Pellegrino, a Salsomaggiore, ed io fui talmente distanziato dalle sue abitudini che se penso a quell'estate le prime cose che mi vengono alla mente non riguardano lei, bens il paesaggio, le persone in mezzo alle quali vissi per alcuni mesi, come in famiglia, e soprattutto la mia padrona di casa, creatura di nessuna avvenenza. Anche di costei ho gi parlato, ma in una lirica paginetta che ho perfino esclusa dalla ristampa d'un mio vecchio libro, e ora vorrei tornare a discorrerne un po' pi distesamente e alla buona. Era una donna di media statura ed et, magrissima, brutta, sdentata, ma singolarmente estrosa e vispa. Non credo che prima di me avesse ospitato altre persone in quella sua bianca villetta nuova nuova e sonora, che forse era il frutto dei guadagni di suo marito e che, occultando la vista del panorama ad un suo vicino, aveva creato fra lei e quest'ultimo una situazione abbastanza fastidiosa. Tanto che anch'io, innocentissimo, fui perseguitato dall'astio di quel possidente a cui avevano tolto il diletto di poter guardare non so che punto del paesaggio dalla sua finestra. Ma tralasciamo certi particolari. Atteniamoci alla mia piacevole appigionante, la quale era degna di considerazione per diversi motivi. Donna di casa perfetta, moglie d'un cuoco, sapeva improvvisare su due piedi una piccola cena gustosissima, facendo ballare le patate sulla padella con un'arte incomparabile, e lavorava dalla mattina alla sera come un'ape operaia. Con tutto ci le rimaneva tempo a sufficienza per osservare quel che si dice il creato, le vicende meteorologiche e stagionali, alla maniera contadinesca, e non gettava mai gli occhi sul lago, sui monti, senza dirne qualcuna delle sue. L'estate procedeva spietata, senza il conforto di un po' di pioggia. Schiudendo un tantino la porta sulla terrazza, a mezzogiorno, si vedeva il lago, glU sotto, bollire, in un'aria fumida e rossa, come la pegola dantesca. La notte, in camera, non si riusciva a tirare il fiato. E per tutta quella stagione la mia fantastica padrona di casa non fece che vagheggiare temporali e piovaschi. Sentiva la pioggia nel vento che passava, la vedeva nelle

acque del lago che, secondo lei, erano cresciute (n so come facesse ad accorgersene a tanta distanza) in una nuvola nera che si posasse sulla luna. Certe sere, illusa da uno di questi segni, si metteva ad aspettare lo scroscio alla finestra come un'innamorata. Eccola a un tratto serrare porte e vetri quasi che da un momento all'altro la tempesta dovesse scardinare la casa. Poi di l a poco sospirava: " passata". Oppure, in tono rassegnato e nostalgico: "Vuol dire che va a piovere su in Val d'Intelvi. Deve aver piovuto su in Val d'Intelvi". Questo nome beato risuonava spesso al mio orecchio e a poco a poco io finii per immaginarmi Val d'Intelvi come un luogo ideale, perpetuamente rugiadoso e fiorito. I miraggi e le nostalgie della brava massaia perseguitata dall'afa mi si comunicavano. Ma una notte si scaten finalmente dalle nostre parti un vero diluvio. Alla mattina l'aria era ventilata e freschissima, il cielo netto, squillante. E udii la mia donna, che venuta alla finestra, per non so quale faccenda, notava allegramente: "I monti si sono avvicinati". Si arriv cos ai primi di agosto, quando l'estate, specie in Lombardia, accenna a declinare. Allora, una sera, inginocchiandosi davanti al fuoco per prepararmi la solita cena, se ne usc in questa bellissima osservazione: "Ma dio, gi si conosce che le giornate si cominciano a scorciare". Aveva il dono di esprimersi questa donna. Parlava a scatti, a sussulti, con una invidiabile propriet di linguaggio e una fantasia che non saprei definire altrimenti se non settentrionale e romantica. Degna di una ballata di Burcher quest'immagine che le scapp un giorno di bocca, sentendo correre, su e gi per le scale, il suo irrequieto bambino, calzato di zoccoli: "Quando si muove lui pare J'Anticristo a cavallo". In genere per non si esprimeva per immagini, ma con parole semplicissime che ricevevano tono e valore dal grande impeto con cui le pronunciava. Quelle parole, senza che lei se ne avvedesse, le costavano molto. Il suo fragile corpo appariva tutto squassato dal suo tempestoso discorrere. Era difficile competere con lei nel litigio. Poteva diventare facilmente una furia. Allora i gesti pi strambi e demoniaci gareggiavano con le parole. Credo che avesse pure qualche facolt medianica, perch un giorno, mentre me ne stavo in camera, occupato a buttar gi alcune annotazioni sopra di le-i, ronzava fuori delL'uscio, avendo intuito, non so come, L'oggetto del mio lavoro N a credere che fra me e lei potessero correre dei sensi amorosi. Almeno io non me ne accorsi Ma il fatto che, a poco a poco aveva finito per interessarsi del proprio inquilino ed io non mi stancavo di studiarla come un entomologo pu studiare una farfalla. La curiosit che destava in me era del tutto letteraria, etnica, filologica. E fu cos che, osservando il suo carattere, mi parve di capire meglio Manzoni, i suoi personaggi e le sommosse ch'egli descrive. Era insomma un buon campione della razza lombarda, anzi comacina: razza ch'io non m'attenter di definire, ma che certo assai vivace, risentita e perfino talvolta, specialmente nelle campagne, un po' spiritata. Certe sere splendeva sul lago una luna da Sabba classico. Allora, con una mezza bottiglia di Barbera in corpo, io

mi divertivo a erudire la mia rozza e insonne ospite intorno ad alcune diaboliche facezie del "Faust". E bisognava sentirla e vederla ridere. Con quell'unico dente in bocca, pareva proprio una Forcide, una delle tre figlie di Forco, rimaste a guardia della reggia degli Atridi, dopo il compimento dei fati: le quali possedevano, fra tutte, un solo dente e se lo scambiavano a vicenda. Eppure quest'amabile strega, di grembo angusto e apparentemente infecondo, si ornava, come ho detto, di una quantit di figli, e se il suo uomo non fosse stato a Londra avrebbe continuato ad essere non meno prolifica che laboriosa e intenta a seguire il tempo, i fenomeni cosmici, umani e sociali, tale essendo la sua prodiga e operosa natura. Da una quindicina d'anni ormai, stanco di vagabondaggi e di nuove esperienze domestiche, abito in un quartiere moderno di Roma, poco lontano dal centro. Il Tevere separa il mio domicilio dai luoghi che sono solito frequentare di giorno e segna, per cos dire, il limite fra me e il mondo. Una distanza minima in apparenza, ma in realt incalcolabile. Coloro che abitano ai confini estremi dell'Urbe, in vista dei Colli albani o del Soratte, i nababbi dei Quartieri Alti, non avranno mai quel senso di allontanamento e distacco dagli affari cittadini che, per il fatto di dover attraversare un fiume, posso avere io ogni sera, tornando a casa. Tutti sanno che cosa vuol dire un fiume, specialmente in citt: le distanze che crea, le differenze che serve a stabilire fra un luogo e l'altro. Ogni sera, tornando a casa, io ho il senso di varcare una frontiera, di rientrare quasi nei miei domini. Credo che niente s'accordi meglio coi pensieri e con lo stato d'animo d'un uomo che torna, un po' stanco, al suo domicilio, o ne esce agguerrito, quanto il dover passare un corso d'acqua. Lo dice anche lo stornello romano: "Ve d la bona sera e passo ponte". Questo uno dei principali motivi per cui a me piace e mi diverte abitare in Prati. Il ponte che percorro abitualmente quello che ha sostituito l'antico traghetto di via Ripetta, da cui si scorge di notte, in tempi normali, il faro dai tre colori che splende sulla vetta del Gianicolo: bellissimo saluto all'inizio del pi pittoresco, del pi trafficato fra i ponti romani moderni. Tale passaggio dilettevole appunto perch trafficato. La gente che vi s'incrocia sui marciapiedi va lesta, senza tuttavia rimaner sorda alla preghiera del mendicante che proprio a questo varco ti aspetta per farti pagare il pedaggio; poich, a parte che a Roma ben di rado si nega un obolo a chi lo chiede, le persone che attraversano un ponte sono singolarmente disposte alla carit. Su questo ch'io dico, in certi giorni d'inverno, con tramontane fortissime, si possono vedere eleganti signore frettolose arrestarsi, togliersi il guanto con cura e cercare a lungo nella borsetta una sperduta monetina da regalare a un cieco, a una madre implorante. Sono spettacoli che non disdicono alla caritatevole Roma, avventure che capitano sui ponti Quel senso di vuoto, da cui siamo colti l sopra, ci richiama, si direbbe, alla precariet della vita La vista del fiume ci dismemora, ci alleggerisce. E guai a noi se cedessimo alla tentazione di affacciarci su quelle acque che gorgogliano con-

tro i piloni, si inabissano sotto i nostri piedi, per tornare di l dal ponte, a fluire tranquille, ineluttabili. A forza di guardare l'abisso, dice Nietzsche, finirai per cadere nell'abisso. Ah, com' incredibilmente attirante seguire il corso d'un fiume, sdraiarsi con la fantasia nel suo letto! Forse per questo le persone che rimangono troppo a lungo affacciate ad un ponte destano sospetti. Occorre andar lesti nella divertente e vertiginosa atmosfera fluviale. Poco pi gi, verso San Pietro, le sensazioni che d il Tevere sono indubbiamente pi ricche, le sue sponde pi ridenti il paesaggio pi illustre. Ma l la natura sopraffatta dal costume, dalla storia. Passando di notte per Ponte Sant'Angelo non puoi far a meno di pensare a Marozia, ai Crescenzi, a Ottone III, al Giubileo dantesco, a Cesare Borgia, e magari a quel povero babbeo del cardinal Vitelleschi, mio celebre concittadino, il quale, da vicario del Papa, capitano della Chiesa, terrore del popolaccio romano e dei baroni laziali e marchigiani, fin a un tratto prigioniero in Castello, per un inganno tesogli dal castellano sul ponte levatoio, mentre marciava alla testa d'un esercito di quattromila fanti e duemila cavalli. Vedete quanti ricordi, quali pensieri, pu suscitare, nel fuggevole transito, uno di quei ponti religiosi e monumentali della vecchia Roma, che fanno di tutto per nascondere la loro essenza e l'infido elemento che scorre l sotto. In Prati invece il Tevere non ha storia. E un fiume come tutti gli altri, un fiume da canottieri, scortato da grandi alberi frondosi e queruli, sorvolato spesso, in pieno inverno, da nuvoli altissimi di stornelli, e non porta se non messaggi del tempo che fa sui monti. Guardandolo di sfuggita non nel senso della deriva, ma controcorrente, io penso alla valle tiberina, alle belle campagne umbre, ai pascoli che l'almo fiume lambisce nel suo percorso. E a quel modo che le sue acque argillose, ombrate di verde, mi ricordano costantemente la terra etrusca, le sue catastrofiche piene mi rallegrano come la visita di qualche mio compaesano. Quel po' di contatto che, vivendo in citt, riesco a mantenere con la natura, con le stagioni, con le mie proprie origini, lo devo insomma a questo modestissimo ponte che sono costretto ad attraversare due volte al giorno. In esso per me il simbolo del passaggio e della distanza. Tanto che, a volte, indipendentemente dal sole e dai venti che lo flagellano, mi sembra che tutta la fatica del mio cammino consista nel sorpassare quel breve tratto e prendo un autobus o una carrozzella soltanto per andare da un capo all'altro. Quando io esco di casa e vado verso la societ, verso il mondo, il Tevere , ai miei occhi, una specie d'Acheronte, da pensarci due volte prima di varcarlo, ma al ritorno, di notte, un vero Lete. Giunto all'altra riva non ho pi memoria di quel che mi sono lasciato alle spalle e niente di spiacevole potrebbe pi capitarmi, se non fosse uno strano incontro, che faccio regolarmente, col guardiano d'un grande negozio di mercerie situato sul mio cammino. Ci vediamo da anni e anni e costui non s' ancora convinto, si direbbe, che io non sono un ladro, anche se ho l'abitudine di rincasare ad ore piccole. Lo trovo quasi sempre seduto e

sonnecchiante nel vano d'un ingresso del negozio: quello d'angolo, che d su una via trasversale, poco illuminata. Ma basta che mi veda o senta i miei passi perch si alzi battendo i piedi sul selciato come un cavallo che aombra e faccia la sua brava ispezione alle numerose vetrine del popolare magazzino e anche alle saracinesche di qualche bottega pi su; la qual cosa gli permette di pedinarmi per un buon tratto senza che io abbia motivo di risentirmi o di protestare. Il buon guardiano fa il suo dovere. Chi potrebbe impedirglielo? Ma per quale singolare associazione d'idee si rammenti del suo dovere quando passo io, un mistero che vorrei chiarire. Intanto chiaro ch'egli si giova di me come d'una sveglia. Il brav'uomo approfitta del mio passaggio, per controllare le sue vetrine, allo stesso modo che le massaie di Konigsberg, scusate il richiamo forse un po' orgoglioso e non del tutto appropriato, aspettavano il ritorno di Kant dalla sua passeggiata mattinale per buttar gi la minestra. E questo accade immancabilmente. E una persecuzione, un incubo notturno a cui potrei sfuggire soltanto sobbarcandomi a sacrifici maggiori, cio a condizione di cambiar itinerario, passando per un ponte che non mi garba affatto oppure per una triste via alberata e sbagliatissima, dove non si vede mai nessuno e che io evito di notte come di giorno. Inutile dire che preferisco l'incontro col povero guardiano occhialuto, che non riesco a odiare, nonostante me ne dia, da tanto tempo, cos fondato argomento. Sul portone di casa m'imbatto, di solito, in un altro personaggio che s'interessa di me senza darlo a vedere e sta in agguato del mio ritorno per motivi assai pi familiari e comprensibili. Questo personaggio non possiede le chiavi del suo paradiso. E il gatto del mio cortile, un vecchio gatto forastico e ciondolone, con una grossa faccia baffuta da Gatto Mammone. Venne tempo fa dalla Toscana, col nuovo portiere, e si subito meravigliosamente acclimatato attorno a quell'aiuola che fiorisce in mezzo al cortile, della quale ha fatto la sua giungla. Non ho intenzione d'indugiarmi a lungo sopra le sue malefatte notturne e diurne. Mi limiter a dire che tutti i disordini, tutti i rumori sospetti che, trascorsa una certa ora possono allarmare la quiete di questo decoroso e vigilatissimo fabbricato, dandovi la sensazione pi certa che la notte, qua dentro, cominciata, sono da attribuire alla sua irrequieta e demoniaca presenza. E lui che funesta le mie lunghe veglie d'inverno coi suoi amori dannati, che mi fa trovare, al mio ritorno in casa, il secchio delle immondezze scoperchiato e rovesciato sulla soglia, che tresca fra i vasi allineati su un muro, sotto la mia finestra, facendone cadere sempre qualcuno e fuggendo, in quell'atto, spaventato. Spesso, purtroppo, mentre sono gi nel cortile e sto per raggiungere un porto sicuro, il colpevole e diffidente animale, sbucando non si sa chi dove, mi taglia la strada alla voltata, o si fa cogliere a frugare in qualche secchio, su un pianerottolo, la qual cosa lo induce a svignarsela catastroficamente, saettando fra le mie gambe, gi per le scale, con una di quelle formidabili fughe che fanno venire la pelle d'oca a chi ha la disgrazia di suscitarle.

Con tutto ci io e lui siamo amici, senza dimostrarcelo troppo, alla maniera gattesca. Abbiamo, com' facile intendere, alcune cose in comune. Entrambi abituati a vegliare di notte e a dormire il giorno, ci si scontra in quelle ore quando l'addormentato e spettrale edificio sembra non avere altri abitatori che noi due. Come avremmo potuto, alla lunga, rimanere indifferenti l'uno all'altro, non venire, diciamo cos, a un compromesso? E una sera che pioveva e io rincasavo pi tardi del solito capii chiaramente come questo gattaccio, apparso da poco nel mio cortile, m'avesse gi fiutato, si fosse reso conto appieno del ritmo della mia esistenza e nutrisse nei miei riguardi persino un certo affetto, forse in omaggio alla regolarit delle mie abitudini e al mio felino attaccamento ai luoghi. Se ne stava al riparo, accucciato, sulla soglia d'una bottega, a un passo da casa mia. L per l non lo riconobbi e m'avvicinai per accarezzarlo. Allora egli apr la bocca, e fu con un senso di piacevole sorpresa e ribrezzo che io vidi rilucere, nelL'oscurit e nella pioggia, due bellissime fauci color rosa. M'affrettai a ritirar la mano temendo che volesse mordermi. Invece se ne usc in un gnaulo inatteso, indefinibile, che era un vero e proprio rimprovero. Non so se mi sbaglio, ma ebbi l'impressione che mi rimproverasse d'esser tornato cos tardi, come se fra me e lui esistesse non so che tacita intesa. Rimasto chiuso fuori, esposto all'acqua, elemento odiosissimo per un gatto, a quanto si pu giudicare, stava l ad aspettarmi. Infatti, appena mi mossi verso il portone, salt gi dalla soglia, mi segu come un cagnolino e approfitt del mio ingresso per rientrare nei suoi possedimenti. Quasi ogni notte accadono cose del genere. Sia che lo tormenti il desiderio d'entrare o d'uscire, spesso e volentieri, tornando a casa, lo trovo sul portone o dietro. Io gli do il passo naturalmente. Come uno che capisce a fondo i motivi di queste sue capricciose e polemiche voglie, cerco di venirgli in aiuto con la massima discrezione, con tutta l'accortezza che necessaria per non insospettirlo, essendo assai difficile, come sapete, rendere un servizio a una bestia e in particolar modo a un gatto. Ed egli mi ripaga qualche volta, nell'atto in cui, riconquistato il suo caro cortile, s'avvia, con dissimulata impazienza, verso l'arboreo nascondiglio, rispondendo al mio richiamo con una regale alzatina di coda. Qui tutto. Eccovi presentato l'unico inquilino di questo gran casamento col quale sia riuscito a fare amicizia. L'immenso edificio dove abito conosciuto da tutti i vetturini romani col nome di "palazzo delle colonne" o "palazzo dell'Avvocatura Erariale". E incredibile come questa seconda prerogativa s'imponga ai botticellari dell'Urbe e come la mia importanza, la mia autorit siano assicurate dal momento che salgo in carrozza e do l'indirizzo del mio domicilio. L'Avvocatura Erariale s' trasferita altrove da un pezzo, lasciando il posto a un centinaio circa di famiglie che hanno cominciato a farsi notare soltanto da quando s' diffusa la radio. Del resto, devo riconoscere che gli attacchi della radio alla mia

solitudine sono tanto insolenti quanto svogliati, fuggevoli e poco persuasi; e non si pu immaginare, in complesso, un cortile pi taciturno, pi ordinato, pi inanimato di questo. Poco discosto dal centro d'una grande e rumorosa metropoli, in uno dei quartieri pi popolari di Roma, il cortile in questione, forse a motivo delle sue austere tradizioni giuridiche, l'albergo del sonno, un luogo incantato o, se volete, la reggia del cattivo umore. Di quando in quando, per qualche notte, si ode il frignare d'un neonato, ma lo scandalo subito soffocato, prima che io faccia in tempo a preoccuparmene. Il nastro bianco alla maniglia del portone, il portone chiuso a met, sono i soli avvenimenti che mi ricordano la vita e la morte qui dentro. E mi domando come sia possibile nascere e morire senza emettere un grido. Inutilmente ho cercato di spiare gli amori, le gioie, le tragedie dei miei coinquilini. In tanti anni di dimora in questo cortile non sono riuscito a scoprire un segreto. I miei stessi padroni di casa, che dormono muro a muro con la mia camera, dnno prova d'una discrezione disumana. Non solo non russano, ma evitano, direi quasi, di respirare. La loro discrezione tale che, data la mia condizione di subinquilino, io vivo in mezzo a loro in una solitudine irrimediabile, circondato da un vuoto pneumatico Il mio ritorno in famiglia, una qualunque sortita dalla mia stanza, sono sottolineati da luci che si spengono, da porte che sbattono, da voci che si abbassano, da conversazioni che s'interrompono. E il bello che tutte queste cose mi piacciono, mi convengono, corrispondono esattamente, oltre che alla mia stessa maniera di comportarmi verso i miei ospiti, all'idea niente affatto edonistica, anzi un po' penitenziale e fratesca, che io ho del domicilio. Non per niente abito qui da tanto tempo. Vuol dire che mi ci trovo bene. E la mia sola preoccupazione di non morirci, ossia di non dare alle persone che hanno la bont di ospitarmi l'estremo disturbo. Anni addietro colei che una strana deficienza della nostra lingua mi costringe a chiamare la mia padrona, rimase incinta. Durante questo periodo, a un certo punto, per non so quale orgoglioso pudore, cominci a farsi vedere sempre meno, finch scomparve addirittura. Della sua presenza nell'appartamento non avevo pi ormai che percezioni auditive. E fu cos che in una mattina d'inverno, mentre i minuti passavano senza che io avvertissi i soliti rumori della sua levata, in un silenzio grave ed enorme, venne al mondo una bambina, che ha trovato nel suo regno una porta chiusa, una regione inviolabile e uno strano personaggio di cui credo non si sia resa ancora ben conto. Questa bambina spuntata come il grano sotto la neve ed io la sentii nascere, in quel silenzio straordinario, in quell'altissimo e muto stupore che si era impossessato di tutta la casa. /:/ASTRID OVVERO TEMPORALE D'ESTATE. In una malinconica estate del dopoguerra, mentre in Italia infierivano gli scioperi e incombeva perfino un sospetto di colera, partii da Milano, una mattina, per recarmi in un paesino del lago di Como, dove mi proponevo di trascorrere alcuni mesi in operoso raccoglimento. Avevo ri-

mandato quella partenza all'infinito, secondo il mio solito, e adesso che mi ci ero deciso capitai proprio, manco a dirlo, in un giorno di sciopero. Sicch, alla stazione Nord, mi tocc di salire su un trenino pilotato da studenti, dove tutti viaggiavano senza biglietto. A Como una pi ingrata sorpresa mi aspettava: lo sciopero si estendeva ai battelli. Non era del tutto naturale quel senso di infinito riposo auditivo da Cui fui subito colto arrivando in vista delle verdi e tranquillissime acque del Lario, nelle prime ore del pomeriggio. Vi si aggiungeva qualche cosa d'insolito, vorrei dire una morte apparente, che non tardai a spiegarmi vedendo il lago nettamente sgombro d'imbarcazioni. Come proseguire il cammino che ora mi premeva di portare a termine al pi presto? Per il paese a cui ero diretto, situato a un dipresso nei luoghi dei "Promessi Sposi", un autobus partiva alle otto di sera. Non ebbi pazienza di aspettarlo. Noleggiai un motoscafo, che qualcuno venne ad offrirmi, e filai per via d'acqua. In piedi, col vento in faccia, nell'ora pi dorata del giorno estivo, filai davanti alle stalue della Villa Carlotta e ad altre innumerevoli ville in fiore e paesaggi assolati e bellissimi, che si succedevano velocissimamente. Alle otto di sera, mentre avrei dovuto partire da Como, io mi compiacevo d'essere gi a cena, sulla terrazza di quell'albergo che avevo scelto a caso, ma non potevo non scegliere, perch, oltre ad essere d'aspetto modesto quale a me conveniva, sta a due passi dalla caletta e fu il primo a venirmi incontro. E bene chiarire che il destino mi condusse in quell'albero. Se no la mia storia non arrivo, parrebbe non avere alcun rapporto con l'episodio in questione. Ma chi pu dire quando, come nasce un a-*** Il modesto albergo dove io m'ero affrettato a deporre le mie pesanti valige, pesanti soprattutto perch contenevano se non altro, per spiegarsi le cifre inverosimili a cui arrivava il conto della settimana. Il proprietario di questa locanda era un terribile uomo inquartato e sanguigno, uso ad esercitare la sua professione in modo assolutamente perentorio. Sia che i magri affari dell'annata l'avessero inasprito o ch'egli manifestasse, nel suo comportamento, la propria indole, il fatto che trattava i clienti come degli ostaggi, sottoponendoli a vere taglie di guerra. Avido, industrioso, attivissimo, faceva tutto lui. Cominciava con l'andare alla pesca delle trote, per procacciarsi gratuitamente quel cibo che poi bisognava pagar caro in ragione delle sue fatiche e della gloria stessa che vantava nel porgerlo, come frutto della sua valentia di tiratore di fiocina, che a sentir lui non c'era l'eguale in tutto il paese ed esigeva, per conseguenza, un soprappi di riconoscimento. Eccolo in cucina, portare in tavola, sorvegliar l'andamento delle camere. Quasi quasi avrebbe rifatto anche i letti, se la dignit e la decenza non lo avessero costretto, per quest'ufficio, a servirsi d'una cameriera nostalgica, la quale veniva da Milano ogni anno a far la stagione e voleva essere comandata con molta cautela, potendosi ferire facilmente. Un piccolo aiuto il laborioso esercente lo riceveva pure, o almeno avrebbe dovuto riceverlo da una sua figliola giovanissima: un pezzo di ragazza tarchiata e maschia, ma con la testa piccola in proporzione del

corpo e la frangetta dei capelli sulla fronte, come una donna di Renoir; che camminava buttando i piedi molto avanti e mettendo in mostra, a cagione della corta gonnella, in grande uso a quei tempi, due polpacci mirabili. Non priva, per dirla con Manzoni, "di quella grazia un po' guerriera delle nostre contadine". Ma solo in rapporto al fisico; giacch, in quanto al carattere, la bella comacina era assai pi sgarbata che forastica. Si capiva che il servire a tavola non le andava a genio. Aveva delle malinconie da signorina borghese, in aperto contrasto col suo aspetto robusto e villereccio, e appena sbrigate, in fretta e di malavoglia, le sue faccende, correva a rincantucciarsi, in sala da pranzo o sulla terrazza, col romanzo in mano. La chiamer Angelina. Il romanzo ch'ella divorava in quei giorni era "Mit" di Virgilio Brocchi. Angelina aveva poca simpatia per me, che usava qualificare, in mia assenza, genericamente e con poco riguardo, "il giornalista". Me ne accorsi fin dalla prima sera, durante la cena, grazie alla sua dispettosa e sfuggente maniera di servirmi. Tutte le sue garbatezze, le sue nostalgie, andavano a quel tavolo dirimpetto, gaiamente ornato da ben quattro ragazze forestiere, vivacissime, vestite coi colori pi festosi che l'estate pu suggerire; le quali ridevano, si alzavano ad ogni momento, sotto l'occhio indulgente d'una donnetta, apparentemente fatta di miele e di giulebbe, molto meticolosa e lenta nel mangiare, che poi seppi essere la madre di due di quelle fanciulle e moglie d'un console norvegese residente a Parigi. Il rimanente della clientela si riduceva a due coniugi inglesi di mezza et, seduti ad un tavolo alla mia destra. Persone abbastanza nobili, a giudicare dall'aspetto; che tuttavia se non fossero esistite sarebbe stato lo stesso, tanto poco si poteva supporre di entrare in dimestichezza con questi due commensali. Nelle mie vicende amorose non ebbero alcuna parte e se li ricordo soltanto per dare un'idea delL'ambiente in cui queste vicende fiorirono. L'uomo appariva giovane