VILLA ROMANA DI CASIGNANA - Torre Sant'AntonioL’area archeologica di Contrada Palazzi di Casignana...

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VILLA ROMANA DI CASIGNANA: Ricca di mosaici eccezionali è destinata a divenire un grande motivo di attrazione per il turismo nazionale e internazionale L’area archeologica di Contrada Palazzi di Casignana si estende per circa 10 ettari a monte e a mare della SS.106, e il suo nucleo centrale e monumentale, cui si riferiscono i ruderi oggi visibili, è rappresentato da una grande villa extraurbana, con ambienti termali e residenziali, che costituisce uno dei complessi più importanti di epoca romana dell’Italia Meridionale, e conserva il più vasto nucleo di mosaici finora noto in Calabria. Dal 1998 a oggi il Comune di Casignana, in collaborazione e con la supervisione scientifica della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, ha intrapreso e realizzato una serie di interventi, acquisizione dei terreni, indagini geo-archeologiche, scavo, restauro e opere di vario genere, finalizzati alla scoperta, alla valorizzazione e alla fruizione della Villa di Palazzi, già nota per gli scavi della Soprintendenza Archeologica a partire dagli anni 70. Con l’utilizzo di diversi finanziamenti nazionali ed europei, il Comune ha promosso una serie di campagne di scavo archeologico in estensione che hanno portato alla luce cospicue ed interessanti parti del complesso monumentale ancora sepolte e hanno consentito la scoperta di numerosi ambienti pavimentali a mosaico e a intarsi marmorei. Oltre ai lavori di scavo sono stati eseguiti i restauri dei pavimenti e dei rivestimenti degli ambienti termali della villa. I mosaici di Villa Romana a Casignana La scoperta risale a 47 anni fa. Si stava scavando per la costruzione di un acquedotto quando vennero alla luce i primi elementi del complesso monumentale diventato nel tempo una meravigliosa realtà, grazie all’impegno del Comune di Casignana, della Regione Calabria e della Soprintendenza ai Beni culturali. I risultati ottenuti sono sotto gli occhi di tutti, con il vantaggio indiscusso di aver posto al centro dell’attenzione un sito archeologico di eccellenza, destinato ad aumentare sui 10 ettari limitrofi acquistati dall’Amministrazione comunale, con il contributo della Comunità montana dell’Aspromonte orientale. La necessità di proseguire con indagini sistematiche era stata avvertita sin dal 1968. L’avvedutezza degli amministratori locali ha fatto il resto. Ed eccoci, dunque, ai meravigliosi mosaici, che oggi si possono ammirare, sia pure in parte, in attesa di pronto recupero e restauro definitivo, lungo il percorso reso possibile da piani di interventi mirati, su pedane agevoli e sotto tettoie di protezione. La località in cui si trovano è conosciuta con il nome di Contrada Palazzi, lungo il tratto della strada ferrata e della statale 106, compreso tra Bovalino e Bianco. La villa, alla quale appartengono, ha un nucleo centrale originario del I secolo d.C. Presenta una grande ristrutturazione effettuata nel IV. Rivela infine tracce evidenti di frequentazione fino al VII. I ruderi da ammirare sono imponenti. L’ala residenziale dovette avere aspetti sfarzosi, adatti alla dimora di un personaggio importante, console, magistrato o patrizio, che volle edificare accanto ad essa due impianti termali di uso privato, con pavimenti a mosaico di grande interesse. Uno bellissimo con thiasos ( figure celebranti il culto di un dio) si ammira in un ambiente del frigidarium, nella Sala delle Nereidi delle Terme orientali. L’effetto scenico è dato dall’incastro di tessere marmoree bianche e verdi. Le ninfe marine rappresentate sono quattro, ciascuna in groppa a un animale (toro, leone, tigre e cavallo) con coda a forma di pinna. In un'altra pavimentazione si riconosce nel personaggio centrale Bacco, con accanto un satiro, che ha il compito di sorreggere il dio ebbro. A ovest delle Terme occidentali è posizionata una fontana monumentale con cisterna. I vari ambienti dell’ala abitativa si affacciano su un unico grande spazio, un tempo giardino, abbellito da porticato, aperto sull’ingresso principale. Nel lato mare, tra strada e ferrovia, esistono altre pavimentazioni di notevole pregio. In una sala, utilizzata

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VILLA ROMANA DI CASIGNANA: Ricca di mosaici eccezionali è destinata a divenire un grande motivo di attrazione per il turismo nazionale e internazionale L’area archeologica di Contrada Palazzi di Casignana si estende per circa 10 ettari a monte e a mare della SS.106, e il suo nucleo centrale e monumentale, cui si riferiscono i ruderi oggi visibili, è rappresentato da una grande villa extraurbana, con ambienti termali e residenziali, che costituisce uno dei complessi più importanti di epoca romana dell’Italia Meridionale, e conserva il più vasto nucleo di mosaici finora noto in Calabria. Dal 1998 a oggi il Comune di Casignana, in collaborazione e con la supervisione scientifica della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, ha intrapreso e realizzato una serie di interventi, acquisizione dei terreni, indagini geo-archeologiche, scavo, restauro e opere di vario genere, finalizzati alla scoperta, alla valorizzazione e alla fruizione della Villa di Palazzi, già nota per gli scavi della Soprintendenza Archeologica a partire dagli anni 70. Con l’utilizzo di diversi finanziamenti nazionali ed europei, il Comune ha promosso una serie di campagne di scavo archeologico in estensione che hanno portato alla luce cospicue ed interessanti parti del complesso monumentale ancora sepolte e hanno consentito la scoperta di numerosi ambienti pavimentali a mosaico e a intarsi marmorei. Oltre ai lavori di scavo sono stati eseguiti i restauri dei pavimenti e dei rivestimenti degli ambienti termali della villa.

I mosaici di Villa Romana a Casignana

La scoperta risale a 47 anni fa. Si stava scavando per la costruzione di un acquedotto quando vennero alla luce i primi elementi del complesso monumentale diventato nel tempo una meravigliosa realtà, grazie all’impegno del Comune di Casignana, della Regione Calabria e della Soprintendenza ai Beni culturali. I risultati ottenuti sono sotto gli occhi di tutti, con il vantaggio indiscusso di aver posto al centro dell’attenzione un sito archeologico di eccellenza, destinato ad aumentare sui 10 ettari limitrofi acquistati dall’Amministrazione comunale, con il contributo della Comunità montana dell’Aspromonte orientale. La necessità di proseguire con indagini sistematiche era

stata avvertita sin dal 1968. L’avvedutezza degli amministratori locali ha fatto il resto. Ed eccoci, dunque, ai meravigliosi mosaici, che oggi si possono ammirare, sia pure in parte, in attesa di pronto recupero e restauro definitivo, lungo il percorso reso possibile da piani di interventi mirati, su pedane agevoli e sotto tettoie di protezione. La località in cui si trovano è conosciuta con il nome di Contrada Palazzi, lungo il tratto della strada ferrata e della statale 106, compreso tra Bovalino e Bianco. La villa, alla quale appartengono, ha un nucleo centrale originario del I secolo d.C. Presenta una grande ristrutturazione effettuata nel IV. Rivela infine tracce evidenti di frequentazione fino al VII. I ruderi da ammirare sono imponenti. L’ala residenziale dovette avere aspetti sfarzosi, adatti alla dimora di un personaggio importante, console, magistrato o patrizio, che volle edificare accanto ad essa due impianti termali di uso privato, con pavimenti a mosaico di grande interesse. Uno bellissimo con thiasos ( figure celebranti il culto di un dio) si ammira in un ambiente del frigidarium, nella Sala delle Nereidi delle Terme orientali. L’effetto scenico è dato dall’incastro di tessere marmoree bianche e verdi. Le ninfe marine rappresentate sono quattro, ciascuna in groppa a un animale (toro, leone, tigre e cavallo) con coda a forma di pinna. In un'altra pavimentazione si riconosce nel personaggio centrale Bacco, con accanto un satiro, che ha il compito di sorreggere il dio ebbro. A ovest delle Terme occidentali è posizionata una fontana monumentale con cisterna. I vari ambienti dell’ala abitativa si affacciano su un unico grande spazio, un tempo giardino, abbellito da porticato, aperto sull’ingresso principale. Nel lato mare, tra strada e ferrovia, esistono altre pavimentazioni di notevole pregio. In una sala, utilizzata

per banchetto e detta delle Quattro stagioni, sono raffigurati i volti personificati di autunno, inverno, primavera ed estate in forma allegorica. Mosaici a disegni geometrici caratterizzano aree abitative e di passaggio. Anche il più grande ambiente finora ritrovato, ribattezzato Sala absidata, presenta scene di grande interesse archeologico e artistico. Il sito di Casignana è considerato il più vasto fra quelli scoperti

finora in Calabria. La sua importanza è rilevante in tutta l’Italia meridionale. In origine, l’enorme ed elegante edificio non ebbe la divisione attuale. Forse fu stazione di posta ai margini del collegamento tra Locri e Reggio. Al complesso termale si accedeva attraverso un porticato. Il frigidarium è del III secolo d.C. Ha pianta ottagonale con 4 lati absidati e 2 vasche per la raccolta di acqua fredda. Il calidarium, dotato di impianto di riscaldamento a ipocausto e tubi fittili sulle pareti, è del IV. Ha pianta ottagonale, pavimenti a mosaico costituito di piccole tessere, mentre quello della sala, di forma rettangolare, è formato da lastre di marmo colorate. La grandiosità storica della struttura è indiscutibile. Per rendere fruibile l’area oltre la 106, è stato necessario costruire un

sottopassaggio con il finanziamento della Regione, impegnata anche nelle opere di copertura, scavi e restauro. L’aspetto culturale è diventato di grande respiro con promozione e interventi andati di pari passo. La canalizzazione delle acque segue progetti rigorosi, inalienabili nel recupero totale dei mosaici policromi di 20 ambienti, 4 dei quali figurati. Video-sorveglianza, stazione di monitoraggio delle condizioni micro-climatiche e uffici vari servono a preservare quanto scoperto da eventuali danni umani e temporali. La presenza della Villa mira alla valorizzazione diretta di nuovi itinerari, passando attraverso voci precise dell’area geografica jonica, da considerare non solo sotto il profilo storico e archeologico, ma anche dal punto di vista agro-alimentare. Vitigni autoctoni, ai limiti della Costa dei Gelsomini, danno prodotti unici nel panorama internazionale, con Greco di Bianco e Mantonico posti in primo piano.

CATTOLICA DI STILO

La Cattolica è una chiesa bizantina a pianta centrale di forma quadrata, e si trova alle falde del monte Consolino a Stilo in provincia di Reggio Calabria. Dal 2006 fa parte della lista dei candidati, insieme ad altri 7 siti basiliano-bizantino calabresi, per entrare a far parte dell'elenco UNESCO dei siti Patrimonio_dell'umanità.

Il nome

La denominazione di Cattolica stava ad indicarne la categoria delle "chiese privilegiate" di primo grado, infatti con la nomenclatura impiegata sotto il dominio bizantino nelle province dell'Italia meridionale (soggette al rito greco), la definizione di katholikì spettava solo alle chiese munite di battistero. Cosa che è rimasta fino ad oggi in certe località legate per tradizione a questo titolo, come ad esempio la chiesa Cattolica dei Greci di Reggio Calabria che fu la prima della città.

Storia

Soggetta all'impero di Bisanzio fino all'XI secolo, la Calabria conserva oggi numerose testimonianze dell'arte orientale, la Cattolica ne è un valido esempio.

La Cattolica era la chiesa madre tra le cinque parrocchie del paese, retta da un vicario perpetuo (succeduto al protopapa di epoca bizantina), che aveva diritto di sepoltura al suo interno. Ne sono testimonianza i resti umani rinvenuti in un sepolcro marmoreo con un anello di valore.

L'architettura

La Cattolica di Stilo, è un'architettura bizantina, assimilabile alla tipologia della chiesa a croce greca inscritta in un quadrato, tipica del periodo medio-bizantino. All'interno quattro colonne dividono lo spazio in nove parti, all'incirca di pari dimensioni. Il quadrato centrale e quelli angolari sono coperti da cupole su delle colonne di pari diametro, la cupola centrale è leggermente più alta ed ha un diametro maggiore. Su un lato sono presenti tre absidi.

Questa tipologia è simile a quella delle chiese di San Marco di Rossano e San Giorgio di Pietra Cappa presso San Luca e a quella degli Ottimati di Reggio Calabria, nella sua forma originaria.

Esterno

L'aspetto generale dell'edificio è di forma cubica, realizzato con un particolare intreccio di grossi mattoni uniti tra loro dalla malta. Sulla parte di ponente la costruzione si adagia per lo più sulla roccia nuda, mentre la parte di levante, che termina con tre absidi, poggia il suo peso su tre basi di pietra e di materiale laterizio.

La Cattolica esternamente è quasi priva di decorazioni, a parte le cupolette che ne sono ricche, rivestite di mattonelle quadrate di cotto disposte a losanga, e di due cornici di mattoni disposti a dente di sega lungo l'andamento delle finestre.

Interno

Vista superiore.

Vista panoramica.

La particolare disposizione delle fonti di luce all'interno, mette in risalto lo spazio e conferisce maggiore slancio (mediante un sottile richiamo al meccanismo simbolico della gerarchia e della scala umana). Questa dilatazione dello spazio serviva a mettere in risalto gli affreschi di cui i muri della chiesa erano interamente ricoperti in origine, decorazioni pittoriche dunque a cui era affidato il compito di decontestualizzare la superficie muraria.

Il piccolo ambiente della chiesa è munito di tre absidi sul versante orientale: quella centrale (il bema) conteneva l'altare vero e proprio, quella a nord (il prothesis) accoglieva il rito preparatorio del pane e del

vino, mentre quella a sud (il diakonikon) custodiva gli arredi sacri e serviva per la vestizione dei sacerdoti prima della liturgia.

In particolare sopra l'abside di sinistra è posta una campana (di manifattura locale) del 1577, risalente all'epoca in cui la chiesa fu convertita al rito latino, che raffigura a rilievo una Madonna con Bambino e, limitata da croci, un'iscrizione:

« Verbum Caro Factum Est Anno Domini MCLXXVII Mater Misericordiæ »

Un pezzo di colonna antica nell'abside prothesis, fu adibito a mensa per la conservazione dell'eucarestia, mentre le quattro colonne che sostengono le cupolette, poggiano su basi differenti, recuperate da epoca molto più antica (es. una base ionica capovolta innestata sopra un capitello corinzio rovesciato, o ancora un capitello ionico capovolto).

Sono inoltre presenti all'interno della Cattolica delle iscrizioni in lingua araba, una corrisponde alla shahada, ovvero alla professione di fede:

« La Ila ha Illa Alla h wahdahu" ovvero: "Non c'è Dio all'infuori di Dio solo" che presumibilmente vuol dire: "Non vi è Dio all'infuori del Dio unico »

mentre un'altra recita:

« Lilla hi al Hamdu" ovvero: "Lode a Dio »

Infatti non è da escludere un eventuale uso della Cattolica come oratorio musulmano, come d'altro canto non è da escludere che le colonne possano essere state portate sul posto già incise; comunque gli Arabi, il cui scopo generalmente non era la conquista della regione ma il suo saccheggio, inspiegabilmente non distrussero la piccola chiesa bizantina, ma decisero di innalzarla a propria sede di culto e di preghiera, forse perché attratti dalla sua bellezza, e dal suo particolare posizionamento.

SAN GIOVANNI THERESTIS (MONASTERO ORTODOSSO OGGI COMPLETAMENTE RESTAURATO.) Si trova presso Bivongi, in provincia di Reggio Calabria ed attualmente vi risiede stabilmente una comunità monastica appartenente alla Diocesi Romena Ortodossa d'Italia.

Le origini

La Calabria fu sotto il dominio bizantino sino agli inizi dell'XI secolo, permettendo che la regione conservasse la cultura e la lingua greca e che nel territorio si sviluppasse il cristianesimo di rito bizantino piuttosto che di rito latino. L'Italia meridionale divenne in quei secoli una delle principali mete dei monaci ortodossi provenienti dall'oriente, soprattutto a partire dal VII secolo dopo la lotta degli iconoclasti. In Aspromonte sorsero moltissimi monasteri, soprattutto nella Vallata dell'Amendolea e nella Vallata dello Stilaro e vi furono parecchi santi italogreci.

Proprio nella vallata dello Stilaro visse ed operò nel IX secolo San Giovanni Theristis. Dopo la sua morte la sua fama presso le popolazioni della zona crebbe così tanto che esse lo acclamarono santo e divennero meta di pellegrinaggio i suoi luoghi ed il suo aghiasma (fonte sacra).

L'antico monastero

Nel luogo di questo aghiasma sorse nell'XI secolo un monastero bizantino a lui intitolato. Esso si sviluppò in periodo normanno come uno dei più importanti monasteri basiliani nel Meridione d'Italia e mantenne splendore e ricchezza sino al XV secolo. I suoi monaci erano molto dotti e possedeva una vasta biblioteca e ricchi tesori.

Il monastero cominciò a conoscere in seguito fasi di declino, come tutti i monasteri greci della zona: nel 1457 il Visitatore Apostolico del Papa ne constatava la decadenza.

Nel Seicento una banda di briganti creò molte difficoltà al monastero e nel 1662 i monaci lo abbandonarono definitivamente per trasferirsi nel convento più grande di San Giovanni Theristis fuori le mura a Stilo, dove furono portate le reliquie di San Giovanni Theristis e dei Santi asceti Nicola e Ambrogio.

All'inizio dell'800, in seguito alle leggi napoleoniche sui beni ecclesiastici, divenne proprietà del comune di Bivongi. Appartenne poi a diversi proprietari, che lo adattarono all'uso agricolo. Gli eredi dell'ultimo proprietario lo donarono nel 1980 nuovamente al comune di Bivongi.

La rinascita

Monastero lato ristrutturato

Parte del muro antico e parte del muro ristrutturato

Il monastero dismesso nel corso del XVII sec, con il trasferimento dei monaci a Stilo, fu scoperto da Paolo Orsi nel primo decennio del 1900,il quale per la lontananza dal centro urbano e per la mancanza di una comoda viabilità nullà poté fare per salvaguardarlo.Il San Giovanni fu "riscoperto" nel 1965 da Franco Ernesto, allora sindaco di Bivongi, il quale si adoperò affinché il monastero ed il Katholicon fossero conosciuti e salvaguardati. Nel 1990 cominciarono i lavori di ristrutturazione dell'edificio e dell'area per riportarlo ad essere nuovamente un luogo di preghiera per i monaci ortodossi. Nel 1994 cominciarono a vivervi stabilmente i primi monaci athoniti provenienti dal Monte Athos e nel dicembre dello stesso anno il Consiglio Regionale della Calabria dichiarò sacra l'area compresa fra i fiumi Stilaro e Assi per facilitare l'insediamento dei monaci. Il 24 febbraio 1995 il comune di Bivongi consegnò ufficialmente il monastero all'Arcidiocesi Ortodossa d'Italia per un tempo di 99 anni. Questo monastero è il primo in Italia ad essere stato fondato da monaci athoniti provenienti direttamente dall'Athos.

Il 21 marzo 2001 il monastero fu visitato dal Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, che vi riportò una reliquia di San Giovanni Theristis dall'omonima chiesa di Stilo. Nel 2002 sono stati definitivamente ultimati i lavori con il completamento della ricostruzione del katholikon.

Nel 2008 il Consiglio comunale di Bivongi, ha concesso l'uso del Monastero per 99 anni alla Chiesa ortodossa rumena in Italia in seguito alla mancata custodia da parte dei Greci, così come accadde qualche mese prima con il Monastero di Mandanici in Sicilia, tornato nelle mani del Comune che lo aveva concesso.

Il tempio

Ingresso al tempio

Costruita nella seconda metà dell'XI secolo, la basilica costituisce una chiara testimonianza architettonica di transizione dall'epoca bizantina a quella latina. Infatti presenta frammisti tra loro elementi architettonici bizantini e normanni. La basilica si presenta come chiesa bizantina, ma con dimensioni normanne.

Elementi dell'architettura normanna si notano all'intero, nei quattro pilastri angolari chiusi da quattro archi che sorreggono la cupola; quello della navata e quello del presbiterio sono a sesto acuto (gotici). La cupola poggia su una base cubica contornata da due file di denti di sega e diventa, all'altezza delle 4 finestrelle, ottagonale, a causa di quattro nicchiette che smussano gli angoli del cubo. Sul prisma ottagonale s'innesta il cilindro della cupola coperto da una calotta ribassata.

Lo stile bizantino è invece evidente nell'esterno della basilica, nei muri perimetrali costruiti con strati di pietra concia e con cotto alternati, contornati da lesene di mattoni posti di piatto e di coltello che in alto si chiudono ad arco, nelle lesene all'esterno dell'abside che, intersecandosi, formano archi ogivali ed insieme a tutto tondo arieggianti motivi dell'architettura araba. Tracce di affreschi denotano come i muri della basilica siano stati affrescati già dalla sua edificazione e la più notevole di queste raffigura San Giovanni Theristis. Le absidiole esterne e quella principale, gli spioventi delle stesse e dei bracci del transetto, la cupola, con il

tamburo contornato da 16 sottili colonnine a mezzo tondo in cotto, che tutto sovrasta, offrono nell'insieme la visione di una struttura protesa verso l'alto.

L'interno oggi si presenta nuovamente ricco di icone, pitture, affreschi e ammirevoli arredi sacri come l'iconostasi o lo splendido lampadario in oro nella navata centrale, con una grande base di dodici lati, su ognuno dei quali è raffigurato un apostolo.

PAESE MEDIEVALE DI GERACE: La cittadina, che conserva ancora oggi un'impostazione e un fascino medievale, si trova all'interno del Parco

Nazionale dell'Aspromonte. Il centro urbano, in particolare il borgo antico, è ricco di chiese, palazzi d'epoca, e vani, un tempo abitazioni o botteghe, scavati direttamente nella roccia. Vi si possono ammirare un castello ed una cattedrale, entrambi di epoca normanna, oltre a numerose costruzioni di varie epoche e stili architettonici.

(SI PUO’ MANGIARE PRESSO “A SQUELLA” TELEFONO 0964356086)

Gerace (Ièrax, Jèrax in greco-calabro) è un comune italiano di 2.857 abitanti della provincia di Reggio, in Calabria.

Il suo borgo medioevale viene descritto come uno tra i più belli d'Italia.[2]

La cittadina, che conserva ancora oggi un'impostazione e un fascino medievale, si trova all'interno del Parco Nazionale dell'Aspromonte. Il centro urbano, in particolare il borgo antico, è ricco di chiese, palazzi d'epoca, e vani, un tempo abitazioni o botteghe, scavati direttamente nella roccia. Vi si possono ammirare un castello ed una cattedrale, entrambi di epoca normanna, oltre a numerose costruzioni di varie epoche e stili architettonici.

Dalla sua posizione arroccata, Gerace gode di un'ampia e panoramica visuale su gran parte del territorio della Locride.

Geografia

La città è posta su di una rupe, a 470 m. s.l.m., di arenarie mioceniche all'estremità sud-est del lungo tavolato che congiunge le Serre all'Aspromonte e dista circa 10 km dalla costa jonica. L'intero territorio comunale risulta suddiviso in cinque zone urbane:

• Il Castello, • La città, • Il Borghetto, • Il Borgo Maggiore, • La Piana.

Storia

Il suo nome deriva dal greco Ierax, sparviero. La leggenda narra infatti che gli abitanti della costa, in fuga dalle razzie ad opera dei saraceni nel 915, siano stati guidati da uno sparviero verso i monti che dominano la zona di Locri fino al luogo in cui fondarono Gerace. Anche sullo stemma comunale infatti è rappresentato uno sparviero. In realtà sembra che le sue grotte fossero abitate sin dal neolitico.

Nel X secolo la cittadina divenne una roccaforte bizantina, con il nome di Santa Ciriaca, e fu tanto fortificata che resistette ai numerosi attacchi degli arabi. Durante la dominazione normanna, Gerace divenne un principato, e vide sorgere, nella zona più alta della città, uno splendido castello.

Palazzi, piazze e monumenti

Parte dei ruderi del Castello

Veduta esterna della cattedrale, delle due absidi e dell'attigua Porta dei Vescovi

Il portale gotico della chiesa di San Francesco

La chiesa di San Giovannello

La chiesa di San Martino

La ricca storia dell'arte della città può essere letta lungo le sue piazzette, i suoi vicoli, i muri delle sue case e i suoi palazzi storici e dalle numerose chiese monumentali edificate nel corso della sua lunga storia.

I sontuosi palazzi che la abbelliscono sono quasi sempre forniti di portali in pietra lavorata da scalpellini locali. Tra i più importanti vanno menzionati:

• Il settecentesco Palazzo Grimaldi-Serra, ricostruito nell'Ottocento, • Il Palazzo Migliaccio, posto in Piazza del Tocco, • Il nobiliare Palazzo Candida, • Il Palazzo di città, prossimo alla Piazza del Tocco e antica sede dei feudatari locali, • Il Palazzo Arcano, dotato di un imponente portale in pietra, • Il Palazzo De Balzo, munito di feritoie difensive, • La Casa Marvasi, sulla cui facciata si apre una caratteristica bifora catalana.

All'interno dei vicoli si trovano numerosi archi a "volta a giustini", costruiti con una originale tecnica tipica del luogo. La tecnica consisteva nel costruire l'arco facendo una gettata di calce su una struttura di canne intrecciate, allo stesso modo con cui vengono intrecciati i tipici cestini, chiamati "giustini". Delle dodici porte che originariamente si aprivano sulle mura del nucleo storico del paese ne sono sopravvissute soltanto quattro: Porta dei vescovi o della Meridiana, prossima alla Cattedrale-Porta Santa Lucia-Porta Maggiore-Porta del sole. Di particolare importanza è lo spazio pubblico rappresentato da Piazza del Tocco sulla quale hanno affaccio alcuni palazzi nobiliari, tra i quali Palazzo Furci, Palazzo Migliaccio e la casa del Barone Macrì. Nell'antico borgo si trova anche un'antica fontana del 1606 con il relativo acquedotto.

In prossimità del centro abitato sono stati scoperti i resti di una necropoli che è testimone di tre diverse epoche. Gli scavi archeologici che l'hanno interessata hanno riportato alla luce ceramiche del IX secolo a.C., corredi locali e di importazione risalenti al VII secolo a.C. e varie suppellettili di origine greca e italiota risalenti al VII secolo a.C.

Architetture militari

• Il Castello

Edificato probabilmente durante il VII secolo d.C., la sua esistenza è testimoniata già nel X secolo d.C. quando fu devastato insieme alla città dai bizantini. Con la venuta dei normanni, intorno al 1050, fu ristrutturato e fortificato. Nei secoli successivi subì le devastazioni di alcuni catastrofici terremoti. Di esso rimangono una grande torre e poche mura, in parte ricavate dalla roccia e in parte si ergono a picco sui burroni circostanti. Originariamente era dotato di sistemi di canalizzazione delle acque meteoriche, di un grande pozzo, un piccolo oratorio di epoca bizantina, un ponte levatoio sul suo lato orientale, un'ampia

armeria, un cortile interno, del quale rimangono alcuni ruderi del colonnato, e altri locali adibiti alle più svariate funzioni. Nella zona antistante il castello vi è un piazzale, denominato "Baglio", forse dal nome del magistrato che nella piazza emetteva le sentenze.

Architetture religiose

Tra le numerose chiese presenti nella cittadina (dal Liber Visitationis di Athanasio Calcheopoulos - fine XV sec- risultano circa 100) le più preziose ed importanti sono:

• La Cattedrale (il Duomo di Gerace) è un edificio di difficile datazione e mostra chiarissimi segni di rifacimenti e di integrazioni appartenenti a varie epoche. La struttura è divisa in due parti distinte di cui una corrispondente alla cripta e l'altra alla Basilica vera e propria. La cosiddetta cripta "ad oratorium" (le Catacombe) si trova nella parte inferiore dell'edificio ed ha un andamento a T, dove si distinguono chiaramente almeno due fasi: quella ad andamento ovest-est che può essere datata tra il IX e il X secolo e quella ad andamento nord-sud che è certamente coeva al transetto della Basilica superiore che regge. La parte orientale della cripta, ha una terminazione monoabsidata con prothesis e diakonikon in spessore di muro e ha un andamento trinavato con colonne e capitelli di spolio, provenienti da edifici di età romana situati nell'area dell'antica Locri Epizepiri e della stessa Gerace. Il braccio trasverso, che dà all'antica basilichetta, un aspetto a T, è diviso in tre navate da colonne e capitelli anch'essi di spolio e permette la comunicazione dell'antica struttura certamente bizantina, con una serie di grotte probabilmente abitate da monaci italogreci. Tra queste grotte, quella degna di nota, corrisponde alla cappella della Madonna dell'Itria, alla quale si accede tramite un meraviglioso cancello secentesco i ferro battuto realizzato da maestranze provenienti da Serra San Bruno, e che ospita lungo le pareti la serie dei "seggi dei canonici" con decorazioni illustranti epiteti dedicati alla Vergine, in marmo bianco su fondo nero. Sull'altare è la statua marmorea della Madonna di Prestarona, probabilmente legata alla scuola di Tino da Camaino e databile all'inizio del Trecento.

La Basilica superiore è una gigantesca struttura a tre navate divise da 20 colonne di spolio e da due grandi pilastri a T, con ingresso ad ovest e transetto absidato ad est. Il corpo longitudinale riprende forme care all'architettura di origine paleocristiana (la basilica a colonne), pur presentando inedite particolarità, come i pilastri giganteschi posti all'incirca in mezzeria che, lasciando intatta la percezione della grande aula centrale, dividono in due pseudo grandi campate le navatelle laterali, basse e molto buie. Il lungo corpo trinavato si conclude attraverso tre grandi arconi, di cui quello centrale altissimo, nel transetto sporgente e tripartito coperto da volte a botte (sui bracci laterali), e da una cupola a calotta su base ellittica (sul quadrato d'incrocio). Al di là del vano cupolato si apre, in stretta relazione alla navata maggiore, il lungo coro absidato (che riprende le dimensioni della parte orientale della sottostante cripta), mentre, direttamente sui quadrati laterali del transetto si aprono, a nord l'abside originale medievale, a sud, al di là della traccia monumentale dell'altra abside (distrutta già nel XIII secolo), il monumentale cappellone quattrocentesco dedicato al Santissimo Sacramento. Il vano in questione, coperto da una volta a crociera i cui costolonni a sezione complessa ricadono su colonne angolari elegantissime, conclude in maniera monumentale, entro il 1438, grazie alla munificenza di Giovanni e Battista Caracciolo, una serie di lavori già iniziati nella prima metà del Duecento da Federico II di Svevia. che avevano visto la costruzione del sottostante cappellone di San Giuseppe e, probabilmente, di ambienti ad esso connessi lungo il lato meridionale della grande struttura.

• La chiesa di San Francesco è una delle più importanti strutture degli ordini mendicanti dell'Italia Meridionale, ed è databile tra la fine del XIII secolo (così come risulta dalla donazione regia da parte di Carlo II nel 1294) e i primi anni del XIV secolo. La struttura, di dimensioni ragguardevoli ma di forme estremamente semplici, è strettamente legata alle esperienze artistiche non solo francescane ma, principalmente angioine, sottolineanti la necessità di realizzare architetture ecclesiastiche estremamente semplici e, pertanto, denuncianti senza mezzi termini la necessità, da parte della Chiesa cattolica, di ritornare all'integrità del messaggio evangelico. La chiesa è chiaramente divisa in due parti, un'aula rettangolare coperta da un tetto a capriate, illuminata da una serie di finestre a lancetta sui lati lunghi e sul lato corto occidentale, e senza alcuna decorazione architettonica, scultorea o pittorica. Al di là di un arco trionfale archiacuto, si apre ad Oriente il presbiterio quadrangolare, coperto da una volta costolonata ottopartita con colonnine angolari e quindi, oltre la parete diaframma dell'altare maggiore, si trova il volume parallelepipedo del coro quadrangolare, illuminato da tre monofore archiacute di cui quella posta sulla parete orientale altissima e strombata che ospita nella parte inferiore di essa il sarcofago di Nicola Ruffo di Calabria, datato al 1374 e proveniente da botteghe napoletane attive presso la corte angioina.

Degno di nota è il meraviglioso altare barocco in marmo intarsiato, databile agli anni sessanta del Seicento e realizzato per volontà del frate Bonaventura Perna. L'altare, che riprende tematiche e forme legate al Barocco napoletano, è decorato con formelle realizzate con marmi provenienti dalla vicina cava di Prestarona, che riproducono sia elementi fitomorfi che forme zoomorfe e paesaggistiche. La struttura si apre sull'attuale Piazza delle Tre Chiese, realizzata con la distruzione di un orto insistente sull'area dell'antico monastero di San Giovanni Crisostomo, ed è accessibile tramite un grandioso portale a triplice archivolto decorato con losanghe ed elementi fitomorfi, databile al pieno XIV secolo e presumibilmente legato a botteghe siciliane con influenze arabe.

• La chiesetta di San Giovannello: la piccola chiesa in pietra e mattoni, a navata unica, fu edificata tra il X e l'XI secolo. Nel corso della sua lunga storia ha conservato la sua semplice e originaria architettura che si presenta con tetto a campana, campanile a vela sulla cuspide del lato occidentale e ingresso principale sul suo lato sud. Sui suoi prospetti si aprono sette monofore arcate e laterali che consentono un'adeguata illuminazione. Al suo interno si trovano numerose nicchie per Diaconicòn e Prothesis, tracce di mura affrescate e una cisterna per la raccolta delle acque piovane.

• La chiesa di Santa Maria del Mastro: l'attuale edificio, a croce greca, fu costruito nel XVIII secolo nello stesso luogo dove preesisteva l'edificio originale di epoca bizantina. La seicentesca facciata è dominata da un maestoso portale sorretto da colonne su plinti. Tra il portale e il frontale si apre una finestra a lunetta contornata da una ghiera di mattoni. Sulla destra si erge il campanile a sezione quadrata. Adiacente all'ingresso principale si trovano i resti dell'antica abside posizionata ad oriente per come prescritto dal rito bizantino. L'interno, sufficientemente illuminato, presenta preziose decorazioni.

• La chiesa del Sacro Cuore: edificio settecentesco con prospetto e portale in stile barocco e cupola a coppo sporgente. Danneggiata dal terremoto del 1783, è stata riedificata nel 1851 grazie all'intervento della Confraternita del Sacro Cuore.

• La chiesa di Santa Maria di Monserrato: costruita nella prima metà del XVII secolo, presenta un caratteristica cupola ad embrici. Al suo interno si trova il sarcofago del latinista Francesco Nicolai ed un'antica statua lignea della Madonna.

• La chiesa di Maria SS del Carmine: l'edificio religioso originariamente fu edificato tra il XVI e il XVII secolo a navata unica. Nel 1908 la struttura è stata arricchita da due navate laterali e da un soffitto a cassettoni.

• La chiesa di San Martino: l'originale edificio fu costruito in età bizantina, l'attuale struttura nasce dalla ricostruzione conseguente al terremoto del 1783. Nelle sue adiacenze si trova una piccola necropoli bizantina.

• La chiesa di Maria SS Addolorata: al suo interno si trovano un organo a canne del 1850, la statua della Madonna Addolorata del 1762, opera dello scultore napoletano Francesco Vittozzi.

• La chiesa di Santa Caterina: edificio a tre navate di epoca normanna, custodisce lungo la navata centrale alcuni ovali del 1753 che raffigurano alcuni Santi.

• La chiesa di San Nicola del Cofino: edificio a tre navate del periodo bizantino-paleocristiano, ha la forma di cesta e si fa risalire al VII-VIII secolo. Durante alcuni scavi sono state ritrovate quindici tombe di tipo basso-medioevale, alcune monete del XV-XVI secolo e una cisterna.

• La chiesa di Santa Maria delle Grazie: edificio annesso al Convento dei Cappuccini, possiede un altare maggiore, due altari in noce posti ai lati di quello principale e un ciborio con decorazioni in madreperla e avorio del 1720 ad opera di fra Ludovico da Pernocari.

MUSEO E SCAVI DELLA ROCCELLETTA DI BORGIA : SCAVI IN UN’AREA ARCHEOLOGICA PROTETTA NEL TEMPO DALLA PRESENZA DI UN GRANDE ULIVETO

Nel territorio del comune di Borgia, poco più a sud di Catanzaro Lido, si estende l’area del Parco archeologico di Scolacium, costituito nel 1982 da parte del Ministero per i Beni Culturali, grazie all'impegno della Soprintendenza Archeologica della Calabria. I ritrovamenti archeologici, rinvenuti sul luogo, sono la testimonianza che trattasi della antica colonia greca di Skylletion che successivamente vide il sorgere della romana Scolacium. Secondo gli studiosi, altri indizi, farebbero pensare all’esistenza del borgo, ancor prima della venuta dei greci. Il parco conserva al suo interno, all’ ombra dei verdi ulivi secolari, antichissime costruzioni di epoca greco-romana, normanna e diversi reperti archeologici di notevole interesse storico-artistico, ceramiche di età remote e

numerose statue acefale. All'ingresso del parco, imponente si erge la Roccelletta di Borgia, basilica dedicata a Santa Maria della Roccella, chiamata anche Roccelletta del vescovo di Squillace. Una costruzione fatta in mattoni rossi, di epoca incerta, poiché diverse sono le fasi di costruzione della stessa, come facilmente si può evincere dall’osservazione della sua composizione, varia e non uniforme. Sono mescolati insieme diversi stili architettonici, quello romanico, bizantino e arabo. Secondo alcuni sarebbe stata edificata dai Normanni tra l'XI e il XII secolo, e probabilmente non venne mai portata a compimento. Nelle murature delle

parti più alte della costruzione, si nota che sono stati riutilizzati materiali edilizi della città romana. All’interno, la costruzione si presenta vuota e priva di opere d’arte, con un’unica e grande navata che ha alla sommità l’abside divisa in tre parti e raggiungibile mediante ampie gradinate. Continuando la piacevole passeggiata all’interno del parco si può ammirare il Teatro Romano, di dimensioni ragguardevoli e di cui sono ben visibili le gradinate, e il vecchio Foro Romano, la piazza pavimentata con grandi mattoni laterizi, la sede del senato, un monumento religioso, una fontana…. L’intera area del parco, che conserva ancora sotto di se la maggior parte della storia di diverse civiltà che si sono succedute nel corso dei secoli,

è un’area ricca, di notevole valore storico culturale e artistico, in grado di offrire molto ad un tipo di turismo socio-culturale che si affianca a quello balneare delle belle coste ancora vergini di Borgia.

SERRA SAN BRUNO CON LA CERTOSA

Le prime abitazioni di quello che sarebbe divenuto il paese furono costruite per ospitare gli operai che lavoravano per i monaci della certosa di Santo Stefano e per l'eremo di Santa Maria per volere del fondatore, San Bruno, il quale aveva ottenuto dal conte normanno Ruggero d'Altavilla il terreno per le sue fondazioni monastiche. San Bruno nato a Colonia (Germania) morto a Serra San Bruno (Italia)

Luoghi di interesse

Chiese

Santuario regionale di Santa Maria del Bosco

Sono presenti sul territorio nove chiese, che testimoniano l'attività delle confraternite locali.

• Chiesa matrice, dedicata al patrono San Biagio. • Chiesa di Maria Santissima dei Sette Dolori o dell'Addolorata • Chiese dedicate a Maria Santissima Assunta, una nel quartiere Terravecchia e una nel quartiere

Spinetto. La storia delle due chiese è caratterizzata da una lunga ed aspra rivalità tra le due rispettive confraternite.

• Chiesa di San Gerolamo • Chiesa di San Rocco • Cosiddetta chiesuledha ("piccola chiesa") • Santuario Regionale di Santa Maria nel Bosco, nel territorio compreso tra la Certosa e l'eremo.

Bosco di Archiforo

Chiesa di San Biagio o Chiesa Matrice

Luoghi di interesse naturalistico

La vera attrattiva di Serra, oltre ai luoghi di San Bruno, sono le bellezze naturali. Il comune è caratterizzato dalla presenza di numerose specie vegetali tra cui le più diffuse sono: il faggio, il castagno e l'abete bianco, con esemplari di piante gigantesche, secolari, che formano un manto forestale molto fitto.

Tra le abetine più belle abbiamo quelle del grande Bosco di Archiforo, e quelle del Bosco di Santa Maria.

Il territorio boschivo, facente parte del Parco naturale regionale delle Serre è attraversato dal "Sentiero Frassati".

La storia di questa Certosa la si può suddividere i quattro periodi:

Dal 1091 al 1193: L’anno di fondazione di questa certosa è il 1090, anno in cui San Bruno giunse in Calabria. Egli aveva gia fondato nel 1084 la grande Chartreuse presso Grenoble in Francia iniziando la storia dell’ordine. Il terreno dove poter edificare la certosa , fu generosamente donato dal conte Ruggero il normanno in località “torre” a circa 850m d’altezza, nel cuore della Calabria “ulteriore”. Questi luoghi erano simili a quelli trovati nel Delfinato (Grenoble). Quindi ideali per la contemplazione divina, la solitudine, il silenzio, elementi questi indispensabili per condurre vite eremitica (desertum) . Fu qui che Bruno fondò l’eremo di Santa Maria del Bosco e poco distante, a 2 km, ove sorge l’attuale certosa, fonda per i conversi il monastero di S. Stefano, ma dopo soli dieci anni domenica 6 ottobre 1101 muore Bruno circondato dai suoi confratelli. Da questo momento in poi la certosa è retta da Lanuino amico e degno successore del santo a cui gli succedono altrettanti uomini ispirati agli insegnamenti brunoniani.

Secondo periodo che va dal 1193 al 1500. Dal 1193 al 1500 l’indirizzo monastico cambia passando dalla regola certosina-eremitica a quella cistercense-cenobitica.

Terzo periodo che va dal 1500 al 1826. Nei primi anni del 1500, esattamente verso l’anno 1505 vengono ritrovate al disotto della chiesa di S. Maria del Bosco i corpi di Bruno e Lanuino che erano stati in quel luogo sepolti ma dei quali a causa delle alterne vicende avvenute nel corso dei secoli, si era persa memoria. Fu un grande evento, le reliquie furono portate in processione il martedì di pentecoste (processione che da allora si svolge ogni anno). Fu a seguito di questi eventi che

nel 1514 papa Leone X a Serra santificò Bruno e richiamo i certosini. Questi con grandi sacrifici ricostruirono il monastero. Inizia così il periodo di maggiore fulgore per la comunità, grazie alle nuove vocazioni all’arricchimento artistico dato dalla realizzazione di opere di pregevole valore artistico. Ma il 7/2/1783 un terribile sisma arrestò tutto ciò distruggendo la certosa irreparabilmente e facendo circa 40.000 vittime in tutta la Calabria. All’interno della certosa avviene un prodigio, i monaci restano tutti illesi. Resti della Certosa cinquecentesca I monaci devono abbandonare i resti della struttura la quale viene spogliata, finché nel 1808 un decreto di G. Napoleone la sopprime.

Quarto periodo che va dal 1826 ad oggi. Nel 1826 il comune di Serra acquista l’edificio per preservarlo dalla rovina assoluta, insieme al busto argenteo con le reliquie di S. Bruno e B. Lanuino. Re Ferdinando II il 21/6/1856 da nuova vita alla certosa con un decreto. Con a capo un priore, ed alcuni certosini provenienti dalla certosa di S.Martino (Napoli) e nonostante i mezzi precari costoro danno vita alla rinascita della comunità e all’inizio dei lenti e faticosi lavori di ricostruzione. La risistemazione durò fino al 13/11/1900 giorno in cui venne consacrata la chiesa. Dove si conservano le reliquie di S. Bruno (all’interno del busto argenteo del santo, posto sull’altare) e del Beato Lanuino. Sull’urna contenente le reliquie vi è una scritta che recita: “in morte quoque non sunt divisi” Della vecchia certosa restano alcune tracce: La sala del capitolo, il refettorio, i ruderi della certosa e del chiostro dei procuratori. Con un imponente fontana granitica del 600, le torri costruite nel 1534 e le mura di cinta oggi, annesso alla certosa tuttora funzionante e pertanto inaccessibile, è stato creato un museo della certosa, che ripercorre attraverso testimonianze le tormentate vicende di questo luogo. La certosa di Serra San Bruno riveste una fondamentale importanza nella storia dell’ordine per i seguenti motivi: fu fondata da San Bruno, è il luogo dove sono tutt’ oggi conservate le spoglie mortali del Santo ed infine ma non ultimo, perché è stata la prima certosa istituita su territorio italiano. In prossimità della certosa prima di giungere alla piccola chiesa di S.Maria del Bosco, troviamo un caratteristico laghetto artificiale, con all’interno la statua di S. Bruno, effigiato in ginocchio e concentrato nel pregare. Il laghetto fu creato dagli abitanti di Serra nel 1645, ciò a testimonianza delle dure penitenze (pregare immerso quasi totalmente nelle acque gelide dei torrenti) a cui si sottoponeva il Santo. Oltre la grande scalinata in pietra che conduce a S.Maria del Bosco, si giunge al “dormitorio” ( cella del Santo ed il luogo della prima sepoltura). Nelle immediate prossimità, possiamo tuffarci in un bosco incontaminato fatto di fitta vegetazione e con alberi di alto fusto (conifere) che come di incanto ci rimanda indietro nel tempo e ci fa respirare quell’atmosfera cara a S. Bruno, allorquando egli si rifugiò in questo “desertum” per isolarsi e contemplare. Nell' ultimo secolo la vita monastica si è svolta regolarmente, nonostante i due conflitti mondiali, i monaci sono riusciti a svolgere le loro attività serenamente. Il 5 ottobre 1985, segnaliamo la visita straordinaria del pontefice Giovanni Paolo II, che alla vigilia della festa di San Bruno volle commemorare il IX Centenario della fondazione dell' ordine certosino.

Attualmente le certose di Serra San Bruno e di Farneta (Lu), sono le uniche case maschili attive in Italia dell'ordine certosino.

SQUILLACE : IL CASTELLO E GLI ORIGINALI PRODOTTI DELLA CERAMICA CALABRESE Squillace è un comune di 3.417 abitanti in provincia di Catanzaro. La Squillace Storica (detta anche Squillace Superiore o Squillace Antica) sorge su tre colli a circa 344 metri s.l.m., i quali sono chiusi da due torrenti, l'Alessi e il Ghetterello. La cittadina è posta in una posizione strategica per il controllo dell'omonimo golfo, sul quale sorgono i quartieri di Squillace Marina (detta anche Squillace Lido o Squillace Scalo) e Fiasco Baldaia.

Le origini

Le origini di Squillace si perdono nel lungo trascorrere del tempo, la leggenda dà ad Ulisse la paternità della città. Il Re itacese in ritorno da Troia approda, dopo una tempesta, in una zona pianeggiante tra il fiume Corace e il fiume Alessi, qui avrà origine Squillace. Altre fonti storiche vedono in Menesteo il fondatore della città. La città prese il nome di Skyllation diventando un importante centro di comunicazione e un porto militare e commerciale di grande importanza. Il suo porto viene perfettamente descritto da Virgilio nell'Eneide: “....Hinc sinus Hercules si vera est fama Tarenti cernitur, attolit se diva Iacinia contra. Caulonisque arces et navifragum Scylaceum...”, “ ... prima ci si scopre il golfo di Taranto, fondata –com'è voce- da Ercole, di fronte a cui si levano il tempio di Lacinia, il promontorio di Caulone e l'antica Squillace, pericoloso porto di navi...”.

La città non riuscì mai ad essere una città autonoma, dipendente prima da Crotone poi presa da Dionigi di Siracusa fu sottoposta a Locri. Alla fine della seconda guerra punica, fu conquistata da Roma e nel sito, dell'antica città greca, venne successivamente dedotta una colonia romana. Tra il 123-122 a.C. la città greca di Skillation diventava la romana Scolacium, il cui nome completo era “Colonia Minervia Nervia Augusta Scolacium”. Scolacium non venne costruita sopra la struttura greca ma accanto: la nuova città si presentava con la forma classica delle città romane con un cardo e un decumano con il foro, le terme, l'anfiteatro, il teatro gli acquedotti e i vari templi. La città perse il suo ruolo di porto militare e commerciale, ma divenne uno snodo fondamentale per la comunicazione viaria; essa diventava unico passo, di semplice accesso, tra la costa ionica e la costa tirrenica. Il passaggio di Spartaco che con 60.000 ribelli saccheggiò il Bruttio, mise a ferro e fuoco Scolacium. La città mise circa un secolo per risollevarsi. Con l'avvento del Cristianesimo a Scolacium la densità cristiana era in continuo aumento tanto da convincere il vescovo di Reggio Calabria di far nascere, nel 71 d.C. , una diocesi. Scolacium cristiana, con il passare degli anni, si consolidò così tanto da diventare guida delle diocesi calabresi.

Cassiodoro e Squillace medioevale

Le coste calabresi, non più difese dalle legioni romane, erano prese d'assalto dai Saraceni costringendo gli abitanti delle coste a ritirarsi sulle colline circostanti; questo accadde anche a Scolacium dove i suoi abitanti fondarono, a 15 km dal mare su una collina di 360 m, Squillace. L'espansione della città, stimolata dalla diocesi, non si fece attendere, facendo rifiorire in Squillace il centro religioso di un tempo, incrementando il turismo grazie al bel clima e al paesaggio sublimare. Squillace ha dato i natali in questo periodo ad un personaggio illustre in tutto il mondo, sicuramente il più illustre nella millenaria vita della "Calabria", Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, l'ultimo dei romani e il primo degli italiani. Cassiodoro, nato nel 485 d.C. a Squillace, è giovanissimo “Conciliarius” del padre, il quale, esercitando allora la prefettura, divenne, forse, il primo maestro nell'arte del governo; sappiamo, infatti, che il suo genitore fu esemplare ed esperto funzionario di re Alarico. Nel 507 entra nelle grazie di Teodorico ed è nominato Questore e Segretario del Re. Viene insignito del titolo di Patrizio; nel 514 è Console. Successivamente seguendo la tradizione di famiglia diventa Corrector del Bruttio e della Lucania. Morto Teodorico l'impegno politico di Cassiodoro non viene certamente rallentato. Amalasunta prima, Atalarico dopo, pongono praticamente nelle mani di Cassiodoro il governo del regno. Nel 552 l'ultimo re goto, Teia, muore a Ravenna, le sue spoglie verranno portate a Costantinopoli ai piedi dell'imperatore Giustiniano che voleva assicurarsi della morte del suo acerrimo nemico.

Cassiodoro

Cassiodoro dovette partire in esilio verso la nuova capitale del mondo, Costantinopoli, dove accentuò il suo pensiero politico che sperava in una unione tra la cultura pagana e cristiana, tra la civiltà occidentale e orientale. Giustiniano nel 554 riuscì ad annettere, all'Impero Romano d'Oriente, l'Italia, che però mantenne gran parte della giurisdizione preesistente; si riscontra sicuramente la mano di Cassiodoro in questa scelta; per riuscire ad unire due mondi c'era bisogno di alcuni compromessi, e dell'assenza di uso di armi. Cassiodoro, però, si rese conto che era solo una utopia la proposta di unire le tradizioni Barbare con quelle Romane. Il nuovo equilibrio, dettato dalle armi bizantine, mise completamente fine all'illusione in cui Cassiodoro aveva lavorato tutta la vita. Così egli decide di ritirarsi dall'attività politica e decide di tornare in Italia; la sua nuova sede sarà la terra d'origine della sua famiglia: Scolacium. Il calabrese tornato nella sua terra natia è deciso a consacrare le sue energie alla pietà e allo studio. Verso l'anno 555, presso alcuni vivai fonda il Monastero di Vivario. Se nello sforzo politico di conciliazione e integrazione fra popolo romano e mondo goto aveva lanciato il coraggioso appello: “Audiat uterque populus quod amamus”, d'ora in poi dal Vivarium diffonderà lo stesso messaggio, però rivolgendosi non alla cerchia ristretta di due popoli, ma all'umanità intera: il suo ideale è diventato più nobile e universale quanto più la cultura è superiore alla politica e lo spirito alla materia. Cassiodoro non sarà più il ministro di un Re, un servitore dello Stato, un governatore o un diplomatico: diventerà ministro di un'altra potenza che ha per missione il dominio dello spirito, il santuario della coscienza, la difesa della verità per dirigere l'uomo al fine supremo per cui è stato creato. Lo squillacese capisce che non è l'integrazione tra Roma e i barbari che permetterà alla romanità di sopravvivere, ma la fusione della romanità con la Chiesa di Cristo; dall'armonizzazione della cultura profana con quella religiosa. Il Vivarium è una specie di “urbs religiosa” nella quale, sotto la guida di due superiori religiosi, oltre all'ideale della vita contemplativa, si cerca un'efficace conciliazione della scienza sacra con la profana. Viene lasciata ai monaci la maggiore libertà nella preghiera e nella scelta degli interessi. In questo famoso cenobio Cassiodoro informava i suoi monaci alla pietà con continui esercizi religiosi ed allo studio delle lettere e delle scienze sacre e profane, pur procurando di trasmetterle ai posteri col magistero dell'insegnamento e col fare trascrivere codici dai calligrafi. Vi raccolse perciò i tesori della sapienza degli antichi, ed istituì una accademia di studi divini ed umani, simili a quella che ai giorni nostri, prende il nome di Università. L'ideale enciclopedico romano divenne cristiano: nasce così l'esigenza di una biblioteca che fu, per quei tempi estremamente completa, pagana e cristiana, latina e greca. La biblioteca era ricca di codici pregevolissimi, molto ben divisa e disposta secondo le varie scienze. Anzitutto c'era la Sacra Scrittura, accanto ad essa vi erano i 22 libri della Antichità Giudaica e centinaia di altri libri che trattavano di religione. La struttura fu arricchita di molti libri che trattavano di cosmografia, c'erano le opere di Giulio Oratore di Macellino Illirico, il famoso codice di Tolomeo. Seguivano le opere di filosofia e di agraria perché i monaci diventassero intelligenti agricoltori: sono ricordati i trattati di Marziale, di Columella e di Emiliano. Per i monaci addetti alle cure mediche vi erano opere di Ippocrate di Aurelio Celio, la Terapeutica di Galeno, l'Erbario di Dioscoride. Non potevano sicuramente mancare le opere di Aristotele con la traduzione di Boezio. Dalle esigenze culturali e spirituali della comunità del Vivariense nasce la ricchissima produzione letteraria di Cassiodoro negli ultimi decenni della sua vita e trattasi di almeno 9 delle 13 o più opere da lui scritte. Grazie a Cassiodoro possiamo conoscere come poteva essere la Squillace del tempo: ”Squillace la prima tra le città dei Brutti; che si crede fondata da Ulisse il distruttore di Troia... è posta nel golfo dell'Adriatico... sta come un grappolo d'uva sospeso ai colli; né si solleva in alto con erta malagevole, se non per osservare con piacere i campi verdeggianti e la cerulea superficie del mare…. Guarda il sole quando

spunta sull'orizzonte, senza bisogno che l'aurora lo annunci; giacché non appena vibra i suoi primi raggi, tosto mostra tutto il suo luminoso disco. Essa mira Febo che si rallegra di riflettere colà la chiarezza della sua luce; di che superando la stessa Rodi, con più di ragione può appellarsi la patria del sole...”.

Nascita e caduta del Principato di Squillace

La Posizione Strategica di Squillace continuava ad essere nel mirino degli Arabi; essa subiva ripetute incursioni ed anzi per un certo periodo fu dominata da essi,che ne fecero una temibile base militare. Dopo il breve dominio Arabo la città cadde sotto l'egemonia Normanna. La sua funzione strategica militare, già riconosciuta dai greci, fu riconosciuta anche dai Normanni che nel 1044 vi costruirono un forte castello, trasformando in contea il munito insediamento. Nel periodo normanno, con la signoria di Ruggero,[3] Squillace passa prima a Roberto d'Angiò e poi ai conti Monfort, poi per circa centocinquanta anni la città fu signoreggiata dai Marzano. Da contea nel 1485 la città divenne principato di cui Federico I di Napoli (Aragona) ne fu re. Squillace, poi, grazie al matrimonio tra la figlia di re Federico e Goffredo Borgia, passa sotto la casata dei Borgia di Casa Candia. La cittadina sperava che con l'avvento dei Borgia de Candia la città potesse tornare a splendere di luce propria; non fu cosi, nel 1630 un terremoto colpisce Squillace e le città vicine,nel 1648 una incursione Saracena ne accelera la crisi demografica e la decadenza. Dopo gli avvenimenti della prima meta del 1600, i Borgia abbandonarono Squillace verso una lenta desolazione, infatti, nel piano di ricostruzione della città il castello, che dominava la zona, venne ristrutturato in maniera poco raccomandabile, preferendovi la costruzione di un carcere. I Borgia che governeranno sino al 1730, impegnati a Roma, lasciarono Squillace alla famiglia dei De Gregorio che la tennero sino al 1802. Il principato venne ridotto a marchesato e con l'avvento di pestilenze e di nuovi terremoti, si ebbe il degrado assoluto della città. Nel 1783, sotto l'impeto di un nuovo grande terremoto, Squillace vide crollare suo castello e le sue mura; crollava miseramente l'intera struttura feudale di un vecchio mondo in via di estinzione. Squillace, questa volta, non riuscì a risollevarsi andando ormai sempre più in rovina.

Le idee risorgimentali a Squillace. I fratelli Pepe e Damiano Assanti

Guglielmo Pepe

Con l'avvento di Napoleone, Squillace divenne il centro direttivo per i paesi vicini, Stalettì, Borgia, Girifalco, Amaroni e Sant'Elia. Caduto l'impero Francese, il sud d'Italia tornò, grazie al Congresso di Vienna, sotto la giurisdizione Borbonica, Squillace perse ogni diritto sui paesi vicini, restava legato solo il paesino di Amaroni. I moti del '20-'21, che sconvolgevano l'Europa, trovarono in varie città della Calabria ionica molti sostenitori, tra cui Squillace. In Squillace le idee risorgimentali trovano la loro massima espressioni in 3 illustri personaggi che contribuiranno all'unità d'Italia: il gen. Guglielmo Pepe, il gen. Florestano Pepe e Damiano Assanti. Guglielmo Pepe già a sedici anni si fece notare come valoroso combattente e difensore di ideali patriottici forse pari a quelli dei Mazzini e dei Garibaldi. Il gen. Pepe si getta in una lotta armata contro gli austriaci a Marengo con la legione Italica. Dopo un breve ritorno a Squillace si pone contro i Borboni ma viene arrestato e condannato a vita nella Fossa del Marittimo, dove però rimane solo tre anni. La cacciata dei Borboni lo vede bonopartista (ufficiale d'ordinanza di Gioacchino Murat) e con la restaurazione borbonica, fidando del revisionismo costituzionale di re Ferdinando II, accetta la carica di comandante dell'esercito del Regno delle due Sicilie. Nel 1848 ritorna a Napoli, dopo un altro esilio a Londra, dove è incaricato dal Re di Napoli di un comando militare; Guglielmo Pepe disobbedisce agli ordini superiori per correre in difesa di Venezia seguito, dal fratello Florestano e da Damiano Assanti. Guglielmo Pepe tornato a Napoli viene esiliato in Francia, poi va a Torino dove muore nel 1855. Al posto del generale Pepe, nel ruolo di difensore di una patria che ancora non c'è, succedette Damiano Assanti che, distintosi già a Venezia, nel

1859 partecipa alla campagna militare per l'unità d'Italia. Damiano Assanti partecipò anche alla spedizione dei Mille che gli valse la nomina, da parte di Garibaldi, a generale Comandante della divisione Cosenza. Nella Campagna del '60-61 Assanti dà il nome alla I Brigata in cui era stata incorporata la Divisione Stocco divenuta dopo il 21 novembre 1860 la IV Risorgimento. Importante anche il suo contributo politico. Deputato in quattro legislature, dal 1873 ricopri anche la carica di senatore. Indulgendo all'aneddottica ricordiamo il suo duello con il giornalista Suller che aveva denigrato il comportamento dei meridionali a Venezia: gli fracassò la testa con un colpo di pistola.

Squillace oggi

Squillace Storica è divisa in altri quartieri più piccoli, tra i quali spiccano il centro storico (la zona più importante della città dal punto di vista culturale ed amministrativo), e la Squillace Nuova, quartiere di recente costruzione che si espande da Viale fuori le porte fino alla C.da Micciulla. Oltre ai quartieri sopra citati ve ne sono altri più piccoli di aspetto rurale. Nel centro storico sono inoltre presenti molteplici monumenti e chiese, il Duomo, il Castello Normanno, il palazzo del Municipio e il centro del Folklore. Un ampio lavoro di restauro ha reso al castello quell'imponenza persa da tempo, rendendo Piazza Castello un luogo importante per i turisti che possono finalmente godere della meravigliosa veduta.

Squillace vanta un riconoscimento speciale da parte del Ministero dello Sviluppo Economico che consente ai ceramisti squillacesi di applicare il marchio DOC sulle proprie ceramiche. Caratteristica che la rende unica in Calabria e che fa della ceramica uno dei suoi simboli. Feste e tradizioni sono ritornate in auge nella città antica grazie alle associazioni presenti sul territorio e grazie all'impegno e alla partecipazione di cittadini volenterosi. Tra le manifestazioni più sentite si ricorda il Palio del Principato, la Cavalcata dei Magi, Castello in festa, Il presepe vivente.

Squillace Lido

Alba a Squillace lido

Negli ultimi trenta anni si è visto sviluppare lungo le spiagge della città antica un centro balneare in rapida espansione, che vede nella stagione estiva aumentare di quasi il doppio i suoi residenti. Conosciuto prima con il nome di Squillace Scalo, per via dello scalo della stazione di Squillace, ora viene comunemente riconosciuto come Squillace Lido, o Marina.

Il nucleo storico si è formato lungo la via che collega la Strada Statale 106, all'altezza con il quadrivio che porta alla Squillace antica, fino alla strada che giunge al mare. Negli anni 40-50 gli Squillacesi scendevano a mare, e alcuni di loro prendevano possesso della spiaggia o delle zone circostante costruendo della "capanne o casupole di legno e paglia" i cosiddetti paghjari. Alcuni di questi villeggianti estivi hanno deciso di prendere dimora fissa, formando il primo nucleo della futura frazione.

Intorno agli anni 70 Squillace Lido ha avuto un primo grande impulso di crescita dovuto alla realizzazione del gradevole lungomare e di un abbozzo di piano edilizio. La costruzione della chiesa di San Nicola Vescovo ha sancito anche la volontà di voler creare un nucleo stabile e residente in grado di poter soddisfare la spiritualità della popolazione.

Negli ultimi anni l'arrivo a Squillace Marina non solo di squillacesi ma di cittadini di altri comuni limitrofi e non, ha dato un secondo forte impulso alla sua crescita. La costruzione di lidi estivi, di ristoranti e di piccoli negozietti dove si può trovare di tutto, rende un servizio non solo alla frazione ma all'intero comune.

La crescita del turismo è stato infine motore e spinta per l'apertura di agriturismi e villaggi turistici. Oggi i cittadini di Squillace sono quasi equamente divisi tra chi vive nel centro storico e chi invece vive nelle frazioni; ricordiamo oltre che Squillace Lido, la frazione della Gebbiola e di Fiasco Baldaia.

Palazzi e chiese

• Il Castello Normanno • La Cattedrale di Squillace, dedicata all'Assunta • Palazzo Vescovile • Ponte del Diavolo • Chiesa di San Pietro Apostolo • Chiesa dell'Immacolata o San Nicola delle Donne(sconsacrata) • Chiesa di San Matteo o di Ogni Santi • Chiesa di San Giorgio • Santuario Madonna del Ponte • Chiesetta della Madonna della Catena (sconsacrata) • Chiesetta Gotica di Santa Maria della Pietà (sconsacrata) • Monastero di Santa Chiara (distrutto dal terremoto) • Palazzo Pepe (oggi sede del Municipio) • secondo Palazzo Pepe (con Affresco sul portico, con stemma della famiglia Pepe) • Palazzo Palmisani • Palazzo Baldaya • Palazzo Maida-Chillà • Finestra Bifora di origine gotica lungo via Antico Senato • Portali lungo corso Guglielmo Pepe • Chiesa San Nicola Vescovo in Squillace Lido • 7 conventi (3 maschili e 4 femminili) andati tutti distrutti

Piazze e vie principali

• Piazza Castello • Piazza Risorgimento • Piazza Duomo • Corso Guglielmo Pepe • Via Damiano Assanti • Viale Cassiodoro • Via Fuori le Porte • Via Florestano Pepe • Via Antico Senato • Via Roma • Via Santa Chiara • Via dei Normanni • Via dei Feaci • Via dei Fenici • Piazza San Nicola • Lungomare Ulisse • Lungomare Odisseo • Via Laerte

Diocesi di Squillace

Duomo visto da Borgo Tirone.

La diocesi di Squillace è tra le più antiche dell'Italia meridionale. La tradizione ne fa risalire la nascita all'evo apostolico: primo vescovo sarebbe stato Giovanni, ordinato dal primo vescovo di Reggio Stefano di Nicea, oppure Fantino, discepolo di papa Lino, il successore di San Pietro.[5] Comunque, il primo vescovo di cui ne sia noto il nome è Gaudenzio, vissuto a metà del V secolo. Nel VI secolo, a Squillace nacquero le prime istituzioni monastiche occidentali grazie a Cassiodoro il quale, tra il 540 e il 550, fece costruire due cenobi, il "Castellense" e il "Vivariense". In questo stesso periodo il vescovo Zaccheo sostenne coraggiosamente papa Vigilio a Costantinopoli contro la violenza di Giustiniano dimostrando fra l'altro la comunione della chiesa di Squillace con quella di Roma[6].

La diocesi di Squillace, come peraltro tutte quelle dell'Italia meridionale e della Sicilia, continuò a dipendere spiritualmente da Roma anche dopo l'inserimento di queste regioni nell'impero bizantino con la Prammatica Sanzione del 554. Nel 776, tuttavia, Leone III Isaurico le staccò da Roma e le sottomise Patriarcato di Costantinopoli; la Notitia I della Diatiposi di Leone VI di Bisanzio (ossia il catalogo di tutte le chiese sottoposte al patriarcato bizantino) enumerava pertanto la diocesi di Squillace fra quelle di rito greco suffraganee di Reggio.[7] Dei tre secoli in cui Squillace fu una diocesi greca non abbiamo quasi nessun documento e ignoriamo i nomi dei vescovi, tranne uno (Demetrio, vivente nell'870). Nello stesso periodo tuttavia la diocesi di Squillace si arricchì dei monaci basiliani i quali crearono una straordinaria fioritura di monasteri fra cui quello di San Giovanni Theristis a Bivongi.[8][9] Sempre allo stesso periodo la tradizione data l'arrivo delle reliquie di Sant'Agazio, patrono della diocesi, e di San Gregorio Taumaturgo, patrono di Stalettì.

Squillace fu retta da un vescovo di rito greco (Teodoro Mesymerio), ancora un trentennio dopo la conquista normanna della Calabria e con questa il ripristino del rito latino e il ritorno alla giurisdizione di Roma. La latinizzazione avvenne comunque con lentezza. Primo vescovo di rito latino fu Giovanni de Niceforo, decano della diocesi di Mileto (1096). Nell'atto di costituzione del 1096 la diocesi di Squillace, i cui confini vennero fissati da Ruggiero dai fiumi Alarum et Crocleam,[5] era formata dalle seguenti località: Squillace, Taverna, Stilo, Antistilo, Santa Caterina dello Ionio, Badolato, Satriano, Castel di Cuccolo, Castel di Mainardo, Meta di Lomata, Rocca di Catenziaro, Tiriolo, Catenziaro, Salìa, Barbaro, Simmiri e vari casali.[10]

La serie dei vescovi di Squillace è stata ininterrotta, tranne un breve periodo di vacanza per l'ostilità di Federico II il quale nel 1236 usurpò la diocesi; dopo la morte dell'imperatore (1250), papa Innocenzo IV non confermò il canonico di Reggio, Benvenuto, e il 6 ottobre 1254 trasferì a Squillace il vescovo di Martirano Tommaso, O.Cist.

Verso la fine del XVI secolo il territorio della diocesi di Squillace fu teatro di numerosi episodi di contestazione religiosa e/o politica il più noto dei quali fu la congiura di Tommaso Campanella nel 1599. Una testimonianza indiretta ne è la nomina a vescovo di Squillace, avvenuta il 13 agosto 1601, del vicario generale dei domenicani Paolo Isaresi della Mirandola, dopo una serie di vescovi appartenenti alla famiglia Sirleto.[11]

LOCRI

"... Locri Epizefiri fondata, sotto la guida di Euanthes, poco tempo dopo la fondazione di Crotone e

Siracusa... Abitarono tre o quattro anni presso Capo Zefirio, poi spostarono la loro polis con

l'aiuto di Siracusani e Tarantini. Laddove i Locresi stabilirono il loro accampamento, là c'è una

fonte Locria..."

Strabone

Contrada Marasà

La zona archeologica di contrada Marasà si trova alle spalle del Museo Nazionale di Locri Epizefiri ed è caratterizzata dalla presenza di un grande santuario del quale, ancora oggi, possono essere apprezzate tutte le componenti principali: il temenos (lo spazio sacro recintato e consacrato alla divinità nella quale sorgevano tutte le strutture adibite al culto); gli altari ed il tempio. Il primo studio sistematico dell'area risale alla fine del XIX secolo e venne operato da Paolo Orsi. In seguito l'area venne ulteriormente studiata e la zona di scavo costantemente ampliata; ciò nonostante i confini originari del temenos non sono ancora stati individuati.

Dagli studi fatti si è potuto apprendere che il santuario venne costituito, probabilmente, verso la metà del VII sec. a.C. (quindi non molto tempo dopo la fondazione della polis). Dello splendido tempio ionico che lo caratterizzava, purtroppo ci sono pervenuti pochissimi resti (in particolare la base occidentale del basamento) soprattutto a causa della sistematica asportazione, operata nel XIX secolo, dei blocchi di calcare (riutilizzati nella costruzione di strutture moderne) che ne costituivano il basamento. Tale asportazione permise, però, all'Orsi di studiare i resti del tempio arcaico che, altrimenti, sarebbero rimaste coperte dalla struttura del tempio ionico.

IL TEMPIO

Il tempio arcaico, realizzato in blocchi di arenaria, risale alla fine del VII secolo a.C. ed era costituito da una cella allungata con pronao che complessivamente misurava 22 metri in lunghezza ed 8 metri circa in larghezza. Contemporanee ad esso sono altre strutture rinvenute all'interno del temenos tra le quali vanno segnalati due basamenti sui quali, probabilmente, sorgevano gli altari arcaici.

Verso la metà del VI sec. a.C. il tempio venne modificato. Questa volta per le strutture murarie vennero utilizzati blocchi di calcare e la cella assunse la tipica struttura arcaica con il cosiddetto "pieno in asse", ossia la presenza di una fila di colonne (in legno) lungo l'asse centrale che dividevano l'ambiente in due navate. Dinanzi al pronao ed alle spalle della cella vennero erette due file di quattro colonne ciascuna ed il tutto venne circondato da una peristasi facendo assumere al tempio la forma di esastilo-periptero con il lato

lungo di 35,5 metri (sul quale probabilmente sorgevano 14 colonne) ed il lato breve di 17 metri.

Nella prima metà del V sec. a.C. il tempio subì una nuova trasformazione, questa volta più radicale. La struttura originaria venne, infatti, abbattuta e si diede inizio alla costruzione di una tipologia di tempio totalmente diversa con un orientamento modificato rispetto all'edificio precedente. Il nuovo tempio, le cui dimensioni erano maggiori di quelle del tempio arcaico (45,5 metri per il lato lungo, con 17 colonne, e 19 metri per il lato breve) venne realizzato in stile ionico mediante l'utilizzo di blocchi di calcare di ottima qualità, probabilmente fatti arrivare da Siracusa. Anch'esso era esastilo-periptero e la peristasi circondava una cella con pronao ed opistodomo.

In quello che era il punto centrale della cella del tempio ionico si possono ancora oggi osservare i resti di un bothros le cui pareti esterne si pensa fossero rivestite dal cosiddetto "Trono Ludovisi".

IL BOTHROS

Al tempio ionico, ed in particolare alla sua fronte occidentale, appartenevano le sculture in marmo dei Dioscuri che, insieme ad una statua acefala di una Nereide riportata alla luce alcuni anni prima, era posto o come decorazione acroteriale o all'interno del triangolo del frontone. Contemporaneamente al tempio ionico ed a circa 15 metri dalla sua fronte orientale, venne eretto un grande altare delle dimensioni di 12,80 x 2,60 metri circa, realizzato con lo stesso materiale utilizzato per la costruzione del tempio ionico.

Nonostante gli studi approfonditi che sono stati dedicati all'area sacra ed al tempio in particolare, non si è ancora in grado di stabilire a quale divinità esso fosse consacrato. L'ipotesi principale indica Afrodite sulla base dell'importanza che il suo culto aveva presso gli antichi Locresi e per via del rinvenimento di alcuni manufatti votivi, in terracotta, ad essa dedicati. Altre ipotesi, invece, indicano Zeus (per via del ritrovamento di alcune terrecotte che lo raffigurano) oppure i Dioscuri (dato il rinvenimento nell'area del gruppo marmoreo di cui si è detto in precedenza).

Centocamere

Lo scavo condotto a Centocamere, iniziato nel 1950 da G. Oliverio, ha consentito di accertare le principali caratteristiche dell'impianto urbanistico della colonia, che dai dati stratigrafici più antichi si può datare alla fine del VII secolo a.C., al momento della fondazione della polis.

È stato messo in luce l'impianto regolare della città greca costituito da isolati stretti e allungati che occupavano tutta la zona pianeggiante sino ai delle colline. Gli isolati, di m. 27 x 110, sono delimitati da grandi strade parallele alla costa larghe 14 m (plateiai), che si incrociano ortogonalmente a state più piccole di 4 m. (stenopoi).

Le strade non avevano una vera e propria pavimentazione ma erano formate da strati di terra battuta, ghiaia e frammenti di ceramica per facilitare il drenaggio delle acque.

Le case erano costruite con le fondazioni in ciottoli a secco e elevato in mattone crudo, con copertura in tegole e coppi. Erano composte da più vani coperti intorno ad un'area scoperta, spesso in posizione centrale. La superficie dei lotti varia da 120 mq. ad un massimo di 250 mq. circa.

La parte più vicina alle mura degli isolati scavati è occupata dal quartiere produttivo, risalente alla metà del IV secolo a.C., dove gli isolati non rispettano la scansione regolare, ma hanno forme irregolari.

Qui sono state messe in luce diverse fornaci , di cui la maggiore ha un diametro di m.3,80, e probabilmente serviva per la cottura dei laterizi, datata alla metà del IV - inizio III secolo a.C.

All'interno di un isolato adiacente vi sono i resti di una follonica, composta da tre vasche circolari comunicanti, che veniva utilizzata per tingere le stoffe.

Molti sono i materiali rinvenuti negli scavi di Centocamere e conservati nel Museo Nazionale di Locri Epizefiri.

Sempre nell'area di Centocamere, Immediatamente a ridosso delle mura di cinta della città, è stata messa in luce la vasta Stoà ad U.

Il Museo Nazionale di Locri Epizefiri

La visita agli scavi di Locri Epizefiri inizia con il Museo Archeologico Nazionale di Locri Epizefiri, progettato da G. De Franciscis ed inaugurato nel 1971, che rappresenta una valida introduzione, come testimonia la sua ubicazione immediatamente all'esterno dell'abitato antico.

L'attuale allestimento segue un criterio topografico, con i reperti raggruppati per sito di rinvenimento e si propone di dare al visitatore uno spaccato della vita quotidiana degli antichi locresi, con la presentazione dei reperti dell'abitato e le più aggiornate conoscenze sul mondo sacrale della polis attraverso le recenti scoperte dei santuari locresi. Il Museo offre quindi nuove chiavi di lettura del mondo umano e divino di una delle capitali della Magna Grecia. Appena entrati nell'area del Museo si è già immersi nella città antica; nel giardino antistante sono infatti visibili i resti di strutture di età ellenistica.

All'ingresso del portico sono esposti due grossi frammenti in calcare appartenenti al famoso tempio ionico di Marasà, un sarcofago romano in marmo di un illustre magistrato del municipium locrese: Caius Ottavianus Crescens , e la parte superiore di un'edicola funeraria (naiskos) ellenistica (IV-III sec. a.C.), proveniente dalla necropoli di contrada Faraone, rinvenuta da Paolo Orsi

La visita al primo piano del Museo si apre con la sezione dedicata alle necropoli greche di Parapezza e Lucifero, situate a Nord-Est della città antica, dove il tipo di sepoltura più frequente era l'inumazione, in alcuni casi i bambini molto piccoli o i resti del rogo delle incinerazioni venivano deposti dentro anfore o hydriai (contenitori per trasportare l'acqua con tre manici), di cui alcuni esemplari del VI sec. a.C., sia d'importazione che di produzione locale, rinvenuti nella necropoli di Parapezza, sono esposti a lato della scala.

Della necropoli di Lucifero, indagata da P.Orsi che, negli anni dal 1910 al 1915, mise in luce più di 1600 tombe, attestando un uso ininterrotto del sepolcreto dalla fine dell'VIII sino agli inizi del II sec. a.C., sono esposti alcuni corredi. Di particolare rilevanza sono le arule, altarini domestici in terracotta con la fronte decorata a rilievo, che si rinvengono molto frequentemente tanto nell'abitato che nelle necropoli, dove venivano usate per compiere i sacrifici al momento della sepoltura o come segnacolo della tomba.

I corredi maschili sono composti per lo più da vasi legati al banchetto: coppe (kylikes), tazze (skyphoi), brocche, boccali e crateri, che venivano utilizzati per miscelare il vino con aromi e miele.

Magnifico l'esemplare di cratere a campana a figure rosse (380-360 a.C.), attribuito al cosiddetto “Pittore di Locri”. Tipici dei corredi femminili e probabilmente di produzione locale sono gli specchi in bronzo, rinvenuti in notevole quantità nella necropoli di Lucifero.

Nella seconda sala sono esposti i materiali provenienti dal celebre santuario di Persefone alla Mannella, definito da Diodoro Siculo "il più famoso tra i santuari dell'Italia meridionale", identificato ed esplorato da P.Orsi negli anni tra il 1908 e il 1911 nel vallone ai piedi della collina della Mannella, immediatamente al di fuori del perimetro delle mura urbane. Nella terza sala sono esposte le testimonianze provenienti da importanti aree sacre dedicate ad Afrodite ed Adone, dislocate all'estero delle mura, lungo il tratto affacciato verso il mare: l'area di Marasà Sud e la Stoà a U.

Nelle sale 4 e 5 vi è un'ampia panoramica sui rinvenimenti dei quartieri abitativo-artigianali di Centocamere, posti all'interno delle mura. Lo scavo condotto a Centocamere, iniziato nel 1950 da G. Oliverio, ha consentito di accertare le principali caratteristiche dell'impianto urbanistico della città antica e molti aspetti della vita quotidiana degli antichi locresi. Nella sala 6 sono esposti i materiali di molti importanti santuari locresi, differenti fra di loro sia per le divinità venerate che per la loro collocazione topografica: il Thesmophorion di contrada Parapezza; l'area sacra di Zeus Saettante; il santuario di Marasà; il santuario delle Ninfe di Grotta Caruso.

La grande vetrina della sala 7 presenta nella prima sezione i materiali provenienti da un pozzo rinvenuto in contrada Cusemi nel 1970, stracolmo di materiali risalenti al periodo ellenistico; la seconda parte è dedicata ai rinvenimenti del teatro (scoperto nel 1940 da P.E.Arias); la terza sezione propone interessantissimi materiali scoperti nel 1993 in uno scavo eseguito nell'area della famosa teca di pietra che conteneva le tabelle bronzee iscritte dell'archivio del Santuario di Zeus Olimpio; l'ultima parte della vetrina è occupata da alcuni frammenti della decorazione architettonica del tempio dorico di Marafioti: indagato da Paolo Orsi nel 1911, quando ormai la spoliazione dei resti dell'alzato era stata radicale.

Usciti dal Museo si è immediatamente immersi nella città antica di Locri Epizefiri.

Contrada Parapezza: Il Santuario di Demetra Thesmophòros

Seguendo il percorso di un sentiero in terra battuta ci si trova immediatamente al di fuori della città antica e si passa all'interno del santuario dedicato a Demetra Thesmophòros , la madre di Persefone, dove sono

stati rinvenuti più di 100 depositi votivi, un sacello, un altare di cenere e un recinto con un piccolo altare per le offerte, appartenenti ad un orizzonte cronologico che va dal VI secolo a.C. alla fine del III secolo a.C., con diverse fasi di frequentazione.

La prima fase di frequentazione del santuario si colloca dalla metà del VI all'inizio del V secolo a.C. ed è caratterizzata da un recinto (témenos) tangente le fortificazioni della città, costituito da muri in grossi blocchi, che circondano un'area di m. 50 x 80, all'interno del quale, vi erano grandi deposizioni di materiali votivi in fosse, in alcuni casi foderate e ricoperte da lastre di tegole o ciottoli, mentre, allo stato attuale delle conoscenze, non è stato possibile identificare nessun edificio sacro.

All'inizio del V secolo a.C. viene costruito un piccolo edificio sacro (m. 7.65 x 9.20), un sacello , con ingresso ad est; addossate ai muri perimetrali, sia all'interno che all'esterno, vi sono basse banchine intonacate sulle quali venivano esposte le offerte votive donate alla dea dalle fedeli.

Davanti all'ingresso del sacello, ad est, vi è l'altare di cenere (eschàra), il centro della vita del santuario, il luogo del sacrificio, dove arde il fuoco su cui si bruciano le parti degli animali riservate a Demetra e si arrostiscono quelle per i banchetti rituali. È costituito quindi dal cumulo di cenere e di ossi bruciati che resta dopo il sacrificio e racchiude le offerte votive più significative per la dea. All'interno di questa struttura si trovano deposizioni di ceramica (soprattutto coppette, kotylai ), semplici deposizioni di gruppi di foglie in metallo (100 in ferro, 1 in bronzo e 12 in argento).

A poco meno di 8 metri a nord del sacello viene costruito un edificio rettangolare allungato, il cosiddetto Edificio B (m. 14 x 5), un portico (stoà ) con orientamento completamente differente rispetto alle altre strutture e con molte fasi costruttive, legate probabilmente a diverse funzioni.

Verso la metà del IV secolo a.C., in occasione della ristrutturazione della cinta muraria di Locri Epizefiri, il santuario subisce un rinnovamento radicale. In tutta l'area il piano di calpestio viene innalzato di 30 centimetri circa, il sacello e la stoà vengono ricostruiti e si realizzano nuove strutture cultuali: un recinto con un nuovo altare, un grande deposito circolare e un pozzo sacro. Il sacello viene completamente rinnovato, le sue fondazioni sono rialzate e al suo interno vengono realizzate nuove banchine e un piccolo vano, forse per custodire le offerte più preziose. Testimonianza delle celebrazioni di rifondazione del santuario è la presenza a ridosso dei muri nord e sud del sacello e in tre lati dell'altare di deposizioni di oltre 1000 coppette impilate (kotylai), disposte in file parallele.

A ridosso delle mura, protetto dall'imponente torre angolare, nella seconda metà del IV secolo a.C. viene costruito un piccolo recinto, con all'interno un singolare altare e quattro depositi votivi. L'altare era costituito da una cassa di tegole dalla quale emergevano quattro tubi destinati alle libagioni rituali, che venivano effettuate per mezzo delle coppette (kotylai) e dei vasetti miniaturistici (hydriskai ) rinvenute in un deposito attiguo (deposito E).

Intorno alla fine del IV sec. a.C., tra il recinto e l'altare di cenere , viene edificato un grande deposito votivo circolare,di m 6.50 di diametro, delimitato da blocchi e con una copertura di ciottoli piatti, che conteneva numeroso materiale votivo, fra cui vasetti miniaturistici (hydriskai) e coppette (kotylai) impilate.

Verso la metà del IV sec. a.C. nello spazio dietro il sacello viene realizzata un'area sopraelevata, costituita da un lastricato in ciottoli su cui poggiano due grossi blocchi circolari di pietra, il più grande di questi, munito di prese per il sollevamento, nascondeva un pozzo sacro, profondo m. 1,80, con imboccatura in pietra e ghiere in terracotta. All'interno del pozzo sono stati rinvenuti resti di sacrifici (ossa e bruciato) insieme a piccole brocche (olpai) e vasi per olio (askòi).

Il lastricato che circondava il pozzo sacro, probabilmente la cavità in cui venivano lasciati a putrefare i maialini (megaron), fungeva anche da spazio per i sacrifici, come dimostra la diffusa presenza di coppette (kotylai) impilate, vasetti miniaturistici (hydriskai) e fossette piene di cenere e carboni.

1. Le torri e le mura

Un tragitto brevissimo porta il visitatore di fronte alle fondamenta di una torre quadrangolare. Il basamento oggi protetto da una tettoia è relativo ad un poderoso torrione quadrangolare, costruito in età ellenistica (IV - III secolo a.C.) a difesa dell'angolo fra il tratto di mura parallelo alla costa ed il tratto che sale verso le colline, proteggendo il lato settentrionale della città.

La torre, a pianta quadrata di circa 9,60 metri dilato, fu realizzata in posizione avanzata rispetto all'angolo, in modo da agevolarne l'uso come postazione di catapulte o altre macchine di lancio. Quel che si conserva sono le fondazioni, costituite da quattro filari di blocchi di arenaria locale, analoghi a quelli utilizzati per la costruzione dell'intera cinta difensiva.

La Cinta Muraria Il percorso della cinta muraria locrese è stato ricostruito pressoché in tutto il suo sviluppo di km 7.5 circa; l'elevato doveva essere in parte in pietra, in parte in mattone crudo; poderosa la struttura, di una larghezza compresa tra i m 2,5 e 2,8. Le mura racchiudono la città antica che si distribuisce in forma rettangolare allungata, nella parte pianeggiante del sito, per poi salire sulle tre colline (Castellace, Abadessa e Mannella), su un'area urbana di circa 230 ettari, con andamento NordOvest/Sud-Est , dalle colline al mare. La costruzione delle mura fu iniziata nella seconda metà del VI secolo a.C., forse in concomitanza con la realizzazione dell'impianto urbanistico, e per lungo tempo esse ebbero una prevalente funzione di limite dell'area urbana come attesta la presenza di importanti strutture a ridosso o a breve distanza dal lato esterno del circuito. Dopo la metà del IV secolo a.C. e soprattutto nei primi decenni del III secolo a.C. le aumentate necessità di difesa resero indispensabili molti lavori di rafforzamento delle mura, con ispessimento della cortina, rettifica di tratti, e costruzione di grosse torri per ospitare catapulte e macchine da guerra utili a respingere eventuali attacchi.

Passando sulle mura attraverso un ponticello in legno si possono apprezzare le fortificazioni e una porta di accesso alla città, difesa da un imponente torrione circolare, appoggiato alle mura in età ellenistica (la cosiddetta torre di Parapezza).

La Porta In questo settore del tratto settentrionale delle mura, sin dall'età arcaica fu lasciato aperto un varco di accesso all'area urbana e al limitrofo santuario di Marasà. Il varco fu monumentalizzato da una porta larga circa 3 m., di cui si conservano gli stipiti in blocchi di calcare, disposti su un asse leggermente obliquo rispetto alla linea delle mura. Tale posizione è dovuta al fatto che, mentre le mura furono tracciate senza rispettare l'orientamento dell'impianto urbanistico, la porta fu sistemata seguendo l'orientamento di una delle grandi strade (pia telai) del reticolo viario locrese, che qui sfociava mettendo in collegamento il quartiere di Centocamere con i settori extraurbani a Nord della città e le necropoli delle contrade Parapezza e Lucifero.

La Torre ellittica A monte della porta si conserva il basamento di un grosso torrione difensivo a pianta ellittica, connesso al lato esterno delle mura da un breve tratto rettilineo, per una sporgenza totale di 14,50 m. circa. Tale torre, costruita in occasione dei lavori di rafforzamento delle mura condotti in età ellenistica (IV-III secolo a.C.), aveva la funzione di proteggere il lato sinistro della porta, in modo da permettere ai difensori schierati sulla torre di colpire sul fianco destro, non protetto dallo scudo imbracciato con la sinistra, chi tentava di assalire la porta. Interessante notare come nella tabella bronzea n. 12 dell'archivio del santuario di Zeus Olimpio, sotto la registrazione di un prestito concesso dal santuario stesso alla città per far fronte alle spese per il restauro delle mura, sia tracciato un piccolo disegno interpretato come la pianta di una torre a pianta ellittica del tutto simile a questa.

La scala Sempre all'età ellenistica risale la scala in blocchi di arenaria, posta lungo il lato interno delle mura, cui fu addossata perpendicolarmente in modo da permettere l'accesso, forse anche con partì superiori della scala in legno, al cammino di ronda delle mura e della torre, forse coronato da merli o da feritoie, della cui presenza tuttavia non abbiamo elementi certi. L'altezza della torre non è ricostruibile con sicurezza, ma presumibilmente non era inferiore a 4 o 5 metri.

La Teca dell'archivio di Zeus Olimpio

Ad un centinaio di metri dal teatro vi è un monumento di grandissima importanza: la teca, che conteneva le tabelle in bronzo (conservate al Museo Nazionale di Reggio Calabria) dell'archivio del Santuario di Zeus Olimpio, risalenti al IV - III secolo a.C., attraverso le quali è stato possibile ricostruire uno spaccato della vita di una città greca in età ellenistica.

La teca era circondata da quattro fosse quadrangolari scavate nel banco di arenaria all'interno delle quali erano grossi pithoi per contenere le derrate alimentari. Sono stati inoltre rinvenuti degli scarichi di materiali con terrecotte architettoniche, che hanno fatto pensare all'esistenza di un qualche edificio.

Sembra da escludersi l'appartenenza della teca al santuario di Casa Marafioti per la presenza del muro di terrazzamento, che pare fungesse anche da temenos (recinto) del santuario soprastante.

Il Santuario di casa Marafioti

In posizione elevata, in un punto dominante il lato Nord della città vi è il Santuario di casa Marafioti. Il tempio dorico fu costruito nell'ultimo quarto del VI secolo a.C. e subì una ristrutturazione del tetto verso la fine del V secolo a.C., ma è attestata la frequentazione sino alla fine del III- inizio II secolo a.C.

Il santuario era delimitato a valle da un grosso muro di contenimento stessa sorte toccò ai resti del tempio, peraltro scarsissimi, su cui oggi insiste una casa ottocentesca.

Furono recuperati un gran numero di frammenti di terrecotte architettoniche appartenenti ad un rifacimento del tetto di V secolo a.C., insieme ad un cavaliere sostenuto da una sfinge in terracotta, conservati nel Museo di Reggio Calabria.

MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE

A Reggio Calabria si trova il Museo Archeologico Nazionale, famoso non solo per gli oggetti di valore che ospita ma anche perché collocato nel magnifico edificio realizzato dall' architetto Marcello Picentini. La sua architettura totalmente votata alla modernità, la sua facciata ornata con le riproduzioni delle monete greche e la sua ubicazione in Piazza De Nava - una delle piazze centrali della città - ne fanno un vero e proprio gioiello monumentale nazionale, che si contraddistingue soprattutto per gli spazi espositivi accoglienti, ariosi e ben illuminati.

Durante gli anni il museo ha subito notevoli trasformazioni strutturali e organizzative, che lo hanno reso, al giorno d'oggi, rilflesso dell'incontro fra passato e presente, simbolo di storia e di arte ed espressione dello splendore non soltanto della rigogliosa e mitica Magna Grecia, ma della magnificenza dei famosi Bronzi di Riace, che dopo essere stati salvati dalle acque del Mar Ionio furono esposti nella sezione di archeologia subaquea, allestita nel 1981, con l'intento di dargli la massima visibilità.

Il viaggio nel passato comincia con la sezione dedicata alla Preistoria e Protostoria, che ricostruisce oltretutto parte dell'antica storia calabrese, per avventurarsi in seguito tra le colonie della Magna Grecia, riportate alla luce attraverso i numerosi reperti archeologici, che è possibile ammirare nei piani ad esse dedicate. Inoltrandosi poi nel settore Alto Tirreno Cosentino, non si potrà certo fare a meno di apprezzare i pezzi unici e inimitabili relativi alla necropoli di San Brancato e dei suoi abitanti. Mentre la Sezione Epigrafica offre la solennità di molte iscrizioni onorarie, la Sezione Numismatica è ricca di monete antiche, di valore inestimabile. Infine, nella Sezione Subaquea, si possono contemplare i rinomati Bronzi di Porticello e soprattutto gli imponenti Bronzi di Riace, che dall'alto del loro piedistallo decantano la perfezione dei loro corpi e allo stesso tempo la maestosità della loro scoperta.

CAULONIA

Sulle origini di Caulonia, per molto tempo gli studiosi hanno avuto dei pareri discordanti, dovuti al retaggio di un errore storico sull' attibuzione del nome, risalente al 1863. Per tanto tempo si era pensato che Caulonia fosse il nome italianizzato dell'antica città magno-greca Kaulon, e che quindi l'attuale cittadina traesse origini dirette dall' antica colonia, anticamente distrutta e ricostruita. In seguito all'approfondimento di recenti studi e ricerche, ma soprattutto grazie alle campagne di scavi nel territorio, condotte da Paolo Orsi che hanno portato al ritrovamento di reperti e ruderi archeologici, si è potuto finalmente fare un pò di chiarezza sulla etimologia di Caulonia.. All'epoca della colonizzazione ellenica - che iniziò a partire dall' ottavo secolo a.C. - Locri Epizefiri (attuale Locri e Portigliola) e Kaulon (attuale Monasterace), fondata successivamente da Crotone (come scrive la dott.ssa Maria Teresa Iannelli) sono le città che condizioneranno le vicende storiche del territorio limitrofo soggetto alla loro influenza. Di fatto sono tuttora incerti i limiti territoriali tra le due colonie ed ancora non è stato stbilito con certezza se il territorio relativo adell'odierna Caulonia era sotto l'influenza dei Locresi o dei Cauloniati. La grandezza e la preminenza dell'antica Kaulon nella magna grecia è confermata anche dal

fatto che a partire dal VI sec. a.C. , essa fu una delle prime colonie a coniare delle splenide monete, particolare che testimonia il suo potere economico insieme alla raggiunta autonomia, visto che tra l'altro la città possedeva certamente un porto, di cui non conosciamo però l'esatta ubicazione. Dalle fonti storiche emerge che dopo ultima distruzione dell' importante colonia greca Kaulon, avvenuta nel 200 a.C. ad opera dei romani, la città non venne più ricostruita e col tempo le rovine delle mura e delle possenti torre, furono sommerse da detriti e fango. Gli abitanti, sopravvisuti alla distruzione della città si rifugiarono nei dintorni dell'entroterra, ripopolando le alture che fornivano certamente una maggiore protezione e la possibilità di preventire per tempo le probabili incursioni di popoli d'oltre mare che sbarcavano sulle coste del sud Italia. Non dimentichiamo infatti che dopo il predominio ellenico e romano, le popolazioni del nostro territorio dovettero affrontare anche l'invasione turca. In definitiva, dopo la distruzione il nome di Kaulon, svanì per molti secoli.

Una passeggiata al centro storico di Caulonia è un'esperienza senz'altro più significativa di qualunque altra cosa possa leggersi o scriversi sul suo patrimonio artistico. Vi si può cogliere un denso apparato stratigrafico, tra muri antichi e attuali, con una profonda percezione dello spirito del luogo come teatro del paesaggio. II centro storico sorge su uno sperone roccioso a circa 300 metri s.l.m. e fino al 1860 era denominato Castelvetere (Castrum vetus =vecchio castello), di cui rimangono pochi ruderi, ma che contribuiscono a mantenere ancora oggi un' immagine di caulonia simile ad una roccaforte

• (per approfondire) >>vedi sezione storia

Sono invece ancora visibili quattro porte medievali della cinta muraria, ormai inglobate nel tessuto urbano: Porta Sant'Antonio o del Salvatore, in arenaria; Porta Pusterla, collegata alle mura del castello, in pietra e

mattoni; Porta Amusa, la porta degli orti e della strada lungo il fiume Amusa; Porta Allaro, la più piccola, in pietra e mattoni, rivolta verso la costa sulla via del fiume Allaro e sulla sua foce. (Maria Teresa Campisi) Dal punto di vista religioso Castelvetere si distingueva per un rilevante numero di chiese, che oggi (quelle rimaste, grazie agli interventi di restauro), arrichiscono il un prezioso patrimonio storico-artistico del paese. Oltre alle chiese, alcuni palazzi signorili, con portali, corti interne, ricchi giardini e preziosi arredi, sono davvero di pregiata fattura artistica, indicando il benessere socio-economico che Castelvetere aveva raggiunto intorno al '700. Tra le ville private più importanti ricordiamo l'elegante Villa Campisi, circondata da giardini e chiostri di notevole interesse non solo dal punto di vista architettonico ma anche botanico e officinale. La via più importante del centro storico è intitolata a Vincenzo Niutta (dotto illustre castelveterino dell'800) mentre le piazze storielle di Piazza Mese, Piazza Seggio e Piazza Baglio, corrispondevano rispettivamente

al centro religioso, politico e commerciale del paese. Tra i bei portali del centro storico ve ne sono alcuni in arenaria chiara tendente all'ocra e altri, singolarissimi, in arenaria rossa, come quello dell'ex chiesa di San Leo. L'arenaria è una roccia locale di origine sedimentaria che ha l'aspetto di miriadi di granuli di sabbia cementati fra loro, molto diffusa nell'antichità. Difatti la ritroviamo soprattutto negli edifici religiosi o reimpiegata nel tessuto urbano, sparso un po' ovunque nella stratigrafia dei muri in pietra. II materiale doveva provenire da qualche cava locale oggi scomparsa. In effetti l'arenaria la ritroviamo non solo al centro storico ma anche in alcuni esempi di stipiti, architravi, bocche di pietra per la fuoriuscita dell'acqua dei vecchi mulini nell'entroterra cauloniese, segno che era abbastanza diffusa e che è stata utilizzata anche in epoche più recenti. Numerosissimi poi sono anche i portali settecenteschi in granito locale bianco, molto ben lavorati e riccamente decorati, secondo il gusto artistico dell'epoca e la bravura degli scalpellini di maestranza serrese. Tutti questi elementi uniti collegati dalle strade (con lastricati o ciottoli in pietra) che in molti punti costeggiano le antiche chiese, le piazze, gli antichi Palazzi (che si affacciano con i loro imponenti e maestosi

portali), e si intrecciano con tanti vicoli stretti (vinedi ), fanno del centro storico un borgo di collina estremamente affascinante. Purtroppo, il fenomento dell' emigrazione, soprattutto giovanile, ed il trasferimento di molti abitanti nella vicina frazione Marina, ha determinato nell'ultimo ventennio, un sensibile "spopolamento" della cittadina. In estate, e un pò meno a Natale, con il rientro delle persone che ritornano per le vacanze, il paese si ripopola, rianimando tutto il centro urbano che un tempo era un vero e proprio centro di aggregazione sociale, politico e culturale. In tali periodi si organizzano convegni, manifestazioni, sagre, e feste, che contribuiscono ad aggregare i cittadini del paese e delle frazioni, ma soprattutto ad attirare tanti turisti, che possono ammirare quanto di positivo, dal punto di vista culturale, storico, artistico e gastronomico, il paese può offrire. Ricordiamo ad esempio l'evento di Tarantella Power (oggi Kaulonia tarantella festival) che da un decennio, alla fine di agosto riesce a richiamare nel piccolo borgo, migliaia di persone provenienti da ogni parte d' Italia, grazie anche all'organizzazione di corsi e seminari sul tipico ballo tradizionale calabrese, a cura dell'aministrazione comunale.

ROSSANO

La città di Rossano si trova nella fascia orientale della piana di Sibari tra la Sila e la costa ionica. Il territorio comprende anche parte delle alture che precedono la Sila e il comune fa parte della Comunità montana Sila Greca e ne ospita la sede.

Il territorio comprende terreni di diversa origine geologica, con caratteristiche differenti (rocce, argille, sabbie), alle quali corrispondono diversi tipi di flora. Dal punto di vista paesaggistico dominano le culture arboree (uliveti, agrumeti e frutteti). In zone prossime alla costa sono inoltre presenti pioppeti. Esistono nel territorio due alberi di quercia monumentali (una farnia e una Quercus virgiliana).

Storia

Rossano trae il suo nome dal greco "rusion" (che salva) e "acron" (promontorio, altura) da cui derivano le versioni medioevali “Ruskia” o “Ruskiané” o “Rusiànon”; dal nome della famiglia romana alla quale potrebbe essere stato affidato il governo del “Castrum” e che avrebbe dato il nome di “Roscianum” al centro urbano. Si presume sia stato fondato dagli Enotri intorno al XI secolo a.C.,passò sotto il controllo magno-greco (VII-II secolo a.C.) e successivamente divenne l'avamposto romano nel controllo della Piana di Sibari e nell'infruttuoso tentativo di conquista dei territori montuosi della Sila, allora occupati dai Bruzi. Nel II sec. l'imperatore Adriano vi costruì un porto capace di accogliere 300 navi. Tra il 540 ed il 1059 Rossano visse una fase di grande splendore sociale, artistico e culturale sotto il dominio dei Bizantini: la sua posizione strategica la rese appetibile meta di conquista da parte di numerosi invasori (Visigoti, Longobardi, Saraceni) ma non fu mai espugnata. Importante centro politico-amministrativo nonché capitale dei possedimenti dell'Impero di Bisanzio, in qualità di centro militare nel 951-952 fu sede dello Stratego e si guadagnò il titolo, ancor oggi in uso, de "La Bizantina". Le numerose testimonianze artistiche ed architettoniche di quel periodo le valsero inoltre l'appellativo di "Ravenna del Sud".

Nei secoli successivi passò prima sotto il dominio dei Normanni (1059 – 1190) e poi degli Svevi (1190 - 1266) conservandosi città regia e quindi libera Università, fino alla politica di infeudazione seguita dagli Angioini (1266 - 1442), e poi dagli Aragonesi (1442 – 1504) e dagli Spagnoli (1504 - 1714), quindi proseguita sotto il viceregno austriaco (1714 – 1738) e con i Borbone (1738 – 1860). Ne furono feudatarie le famiglie Ruffo, Marzano, Sforza di Milano, Aldobrandini e per ultimi i Borghese di Roma,per successione di Olimpia Aldobrandini principessa di Rossano,e vi rimasero tali fino alla fine della feudalità (1806 nel Regno di Napoli ); Bona Sforza d'Aragona, Regina di Polonia e Granduchessa di Lituania, dal 1524, in successione di sua madre Isabella, fu anche Principessa di Rossano e Duchessa di Bari.

Alla fine del XVIII secolo, Rossano entrò a far parte della breve esperienza della Repubblica Napoletana (1799) e durante il decennio francese (1806 - 1815),abolita la feudalità, ebbe un crescita politica e sociale, pregiudicata, però, dal devastante terremoto del 1836. Già sotto il decennio divenne Capoluogo di Distretto (28 Comuni), sede di Sottointendenza, Capoluogo di Circondario e sede del Giusticente; con l'unità fu sede di Tribunale 1865, di Corte d’Assise 1875 e del Distretto Militare e dal 1894 al 1926 sede di Sotto-Prefettura. Ancora nella seconda metà dell’800, fu centro di numerosi circoli culturali e produsse vari giornali e periodici; nel 1876 fu inaugurato il tronco ferroviario Jonico e, dopo qualche anno, beneficiò della prima illuminazione elettrica e delle prime centrali termoelettriche della Calabria.

Nel '900 Rossano ha vissuto tutte le vicende che hanno caratterizzato la vita politica e sociale del Meridione ed in definitiva dell'Italia intera: la Resistenza e le lotte di Liberazione, l’emigrazione, la ricostruzione della vita civile e democratica ed infine l'aspettativa del benessere sociale e materiale.

Monumenti e luoghi d'interesse

Pagina del Codex Purpureus Rossanensis

Oltre ai numerosi palazzi gentilizi disseminati in numerose proprietà private, nel Centro Storico di Rossano è possibile visitare:

• La Cattedrale di Maria Santissima Achiropita: eretta nell'XI secolo, con successivi interventi nel XVIII e XIX, è il principale monumento architettonico della città, con pianta a tre navate e tre absidi. La torre campanaria e la fonte battesimale risalgono al XIV secolo mentre gli altri decori datano tra il XVII e il XVIII secolo. La chiesa è famosa per l'antica immagine della Madonna Acheropita, ossia non dipinta da mano umana, di datazione probabile tra il 580 la prima metà dell'VIII secolo.

All'interno della sacrestia nel 1879 fu ritrovato il famoso "Codex Purpureus Rossanensis", evangeliario greco del V-VI secolo di origine mediorientale (Antiochia di Siria), portato a Rossano

probabilmente da qualche monaco in fuga dall'oriente durante l'invasione degli arabi (secc. IX-X) e composto di 188 fogli di pergamena contenenti i Vangeli di Matteo e Marco ed una lettera di Eusebio a Carpiano. Il manoscritto, mutilo ed anonimo, indubbiamente la testimonianza più rappresentativa e preziosa di Rossano "la Bizantina", riporta testi vergati in oro ed argento ed è impreziosito da 15 miniature che illustrano i momenti più significativi della vita e della predicazione di Gesù[3].

• L'Oratorio di S. Marco (IX-X secolo): originariamente dedicato a Sant'Anastasia, è il monumento più antico della città ed una delle chiese bizantine meglio conservate d'Italia. Fu costruito su iniziativa di San Nilo come luogo di ritiro ascetico per i monaci eremiti che vivevano negli antichi insediamenti rupestri sottostanti. Si tratta di un edificio in stile bizantino con pianta a croce greca, caratterizzato da cinque cupole a tamburo e dall'abside, che conserva inoltre tracce di un antico affresco della Madonna del Bambino.

• La Chiesa di S. Bernardino (XV secolo): in stile tardo-gotico, fu la prima chiesa Cattolica della città ed ospita il sepolcro di Oliverio di Somma (1536) con la statua del defunto ed un Crocifisso ligneo del XVII secolo.

• La Chiesa della Panaghìa (X secolo): così denominata in onore di "Maria Tutta Santa", è un altro esempio di architettura religiosa bizantina nel cui abside si conservano tracce di almeno due fasi pittoriche, con un affresco più antico raffigurante San Basilio ed un frammento del XIV secolo che ritrae San Giovanni Crisostomo.

• La Chiesa di San Francesco di Paola (tardo XVI secolo): con un portale rinascimentale ed un chiostro.

• La Chiesa di Santa Chiara (XVI secolo): voluta dalla Principessa Bona Sforza. • Il Museo della liquirizia

Nei dintorni invece si trovano:

• L'Abbazia di Santa Maria del Patire (XI-XII secolo): immersa nel verde delle colline, conserva splendidi pavimenti a mosaici arabeggianti, l'abside in stile normanno ed un antico portale ligneo. Fu fondata dal monaco e sacerdote San Bartolomeo di Simeri verso il 1095 sulle rovine di un oratorio[4]

• La Torre Stellata (XVI secolo): anche nota come Torre Sant'Angelo, è un antico edificio militare fatto fortificare da Bona Sforza tra il 1543 ed il 1564, all'interno del cui complesso mercantile si trova un ottimo esempio di fondaco perfettamente conservato.

Museo della liquirizia

Tutti i giorni è possibile visitare il Museo e seguire il ciclo produttivo dalla radice alla liquirizia. Le visite, gratuite, sono guidate e vanno prenotate telefonando al numero 0983 511 219 o scrivendo a: [email protected] Orari fino al 30 giugno: Dalle 9:30 alle 12:00 Dalle 15:00 alle 17:00 Orari fino al 15 settembre: 10:00; 11:00; 12:00

La Liquirizia di Calabria rappresenta uno dei prodotti maggiormente richiesto dal Mercato.

Proprio in questa regione nasce un’azienda che rappresenta il leader della produzione della Liquirizia, la ditta Amarelli, fondata da Giorgio Amarelli. Proprio a quest’ultimo, nel territorio di Rossano Calabro, è intitolato il Museo della Liquirizia, ove è possibile riassaporare la storia della Calabria raccontata dalla Liquirizia. Apre i battenti nel 2001 e da subito premiato del premio Guggenheim de Il Sole 24 Ore. All’interno del museo è possibile inoltre conoscere la storia della Famiglia Amarelli attraverso mezzi di trasporto, documenti e oggetti di uso quotidiano.

I MEGALITI DI NARDODIPACE

Nelle Serre Calabresi: il mistero del Popolo del Mare

Nei pressi di Nardodipace, comune montano vicino a Serra San Bruno, sono state ritrovate costruzioni megalitiche che si ergono in cima ad un pianoro, vicino alla vetta più alta delle Serre. Si sostiene che questi megaliti siano appartenuti all’antica civiltà pelasgica, databile tra l’età del bronzo e quella del ferro, e che il sito rappresenti, considerata la quota, un luogo di culto.

I Pelasgi, Popolo del Mare, che venivano da molto lontano, a parere dello studioso Domenico Raso, si sono attestati nella piccola enclave delle Serre Joniche dal VII millennio a.C. alla metà del II millennio a.C.. La loro identità è stata via via svelata dagli apporti epigrafici di prescrittura pelasgica, ritrovati a Biblo, in Libia, in Toscana, a Glozel sul Massiccio Centrale della Francia, in Scandinavia e sulle coste atlantiche canadesi.

L’enclave pelasgica delle Serre joniche calabresi non nasce tutta in una volta. Il trasferimento in massa dei Pelasgi d’Egitto, in seguito ad una

immensa catastrofe naturale, e quello parziale dei Pelasgi di Siria verso le coste joniche catanzaresi e vibonesi, è avvenuto verso la metà del VI millennio a.C. I punti frequentati dai Pelasgi furono inizialmente l’antica insenatura-porto di Squillace, l’antica insenatura di Focà-Marina di Caulonia e la retrostante montana Città della Porta, oggi Nardodipace.

SANTA SEVERINA

Il territorio di Santa Severina (in particolare i siti di Serre d'Altilia, Monte Fuscaldo, insieme a molti altri), durante le età del bronzo e del ferro, era abitato da popolazioni indigene appartenenti forse al ceppo degli Enotri, come peraltro supposto in base alle ricerche (fine degli anni'70 del XX secolo) del Gruppo Archeologico Krotoniate e di P. Attianese e confermato dalle indagini condotte a partire dagli anni '80 dall'archeologo Domenico Marino .Sulla collina Serre della frazione Altilia, già all'inizio degli anni '80, furono individuati alcuni lembi di un insediamento di origine italica e tracce di una necropoli dell'età del ferro. Alla metà degli anni '90 si deve la scoperta di un insediamento databile all'età del bronzo finale grazie al vasto programma di ricerca archeologica sviluppato nel territorio di Crotone. Queste ricerche hanno permesso di riconoscere un vasto "magazzino" di pithoi dell'età del bronzo finale: sono stati catalogati resti di oltre 60 enormi contenitori, prova indiscutibile della coltivazione dell'olivo e dell'accumulo di olio da parte delle comunità enotrie. Più di recente la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, tra il 2006 ed il 2008, ha realizzato tre saggi di scavo. Le attività hanno permesso di confermare l'esistenza di strutture abitative che risalgono al tardo IV-III secolo a.C. Alcune tracce rimandano al periodo protostorico.

Attualmente, in tutta l'area, sono in corso approfondite indagini topografiche archeologiche, finalizzate alla realizzazione della "Carta archeologica" dell'intero territorio comunale.

Anticamente nota forse come Siberene, dopo essere stata presumibilmente un abitato greco-italico e poi romano, fino al 1074 appartenne ai Bizantini. Fu successivamente governata dai Normanni e successivamente dagli Angioini e dai Borboni.

Monumenti

Il battistero

Costituisce l'unico battistero bizantino pervenuto ai nostri giorni ancora sostanzialmente integro. L'architettura di questo gioiello deriva dagli edifici a pianta centrale che trovano riferimento nel mausoleo di Santa Costanza a Roma. Il battistero bizantino ha, infatti, una forma circolare con quattro appendici, con affreschi risalenti al X-XII secolo

La cattedrale

La cattedrale ha un impianto a croce latina a tre navate. Risalente al XIII secolo, anch'essa ha subito vari cambiamenti nel corso della sua storia, tant'è che dell'antica struttura è rimasto solo il portale, ma la più sostanziale è stata quella del XVII secolo.

San Nicola / Santo Ponte

Nel 2010 la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria ha riportato alla luce un ampio settore di abitato rupestre, con numerose abitazioni in grotta artificiale, ed una chiesa (con vano ipogeo sottostante) già segnalata da Paolo Orsi.

Il Monastero della Madonna della Calabria

Dopo il 1100 sorse nella frazione Altilia il santuario mariano di riferimento dell'intera regione Calabria. Sostenuto originariamente dai Normanni, era posto sotto la diretta tutela dell'imperatore Federico II di Svevia. Tra la metà del 1500 e gli esordi del 1600 abati commendatari del Monastero furono i Barracco. A Tiberio Barracco si deve la conservazione dei documenti d'archivio antichi di Calabromaria, fatti trascrivere nel 1581 presso pubblico notaio: una copia del manoscritto è custodita presso l'Archivio Storico di Napoli. Ciò che restava del complesso di Calabromaria fu trasformato in palazzo baronale della famiglia Barracco all'inizio del XIX sec. Oggi è in parte di proprietà comunale ed in parte occupato da abitazioni private. Ricerche archeologiche condotte nel 2010 hanno evidenziato lo stato di degrado e di totale trasformazione di alcune cavità artificiali esistenti (almeno tre) sul fronte della scarpata antistante il palazzo Barracco. I materiali rinvenuti non sono comunque anteriori al XIX secolo a testimoniare che l'edificazione del palazzo

baronale ha fatalmente compromesso anche la conservazione delle aree adiacenti. Nel 2011 il Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Provincie di CS, CZ e KR , Giuseppe Stolfi, ha affermato che il complesso monumentale del Palazzo Barracco (ex Monastero di Calabromaria) si segnala per la densità storica, la continuità d'uso e la sostanziale conservazione delle strutture” [2].

Il Castello Normanno

"Santa Severina è ora superba di un vecchio castello, coperto di edera verdeggiante e di vergognosa parietaria… Sotto quelle mura, narra la storia, rintuzzò e infranse l'orgoglio di invitte schiere, che, gloriose erano passate attraverso l'Italia. Roberto il Guiscardo l'assediò invano… fu vinta solo dal tradimento di un Ruggiero, ma il castello ebbe fama di inespugnabile. Ora l'ala distruttrice del tempo è passata irriverente anche sul forte maniero: per gli antri oscuri, per gli umidi e neri sotterranei, gelida…si aggira la solitudine; e sulle rocche, sulle torri, sui baluardi, sui merli, che ancora sfidano la furia della tempesta, fin giù sui barbacani, che, curvi sostengono la immane mole, crescono i licheni e s'intrecciano i rovi, su' quali, a frotte, si posano le cornacchie, che nidificano tra i crepacci e nei buchi di quelle mura vetuste, donde, a primavera, parte e si sente da lontano, mesto, il lamento del passero solitario.

Dalla costa dirupata anche ora il castello medioevale lancia le sue torri in alto, e domina la cittadina ed i colli circostanti; e, quando in questo secolo per ben due volte il terremoto distrusse paesi e città e Santa Severina fu grandemente danneggiata, il vasto edificio e le sue antiche fortificazioni non ebbero a soffrire che una lieve fessura che ancora si vede."

Questa pittoresca pagina del De Giacomo, che scriveva alla fine del XIX secolo, ci offre una descrizione del degrado in cui versava il castello in quel periodo prima dell'acquisto, nel 1905, da parte del Comune.

Sulle vicende del monumento dopo l'abbandono dei Grutther, conseguente alla legge napoleonica che decretava la fine del regime feudale, c'è un buco nero di un secolo che solo la conoscenza e lo studio dei documenti dell'archivio comunale, purtroppo ancora da riordinare e catalogare, potranno chiarire. Abbiamo accennato al fatto che dagli inizi degli anni '30 il castello ospitò il Ginnasio-Convitto e che fu grande il merito di quei dirigenti che salvarono il monumento da ulteriore degrado in modo da consegnarlo ai restauratori in buono stato di conservazione.

I lavori iniziati nel 1991, sono culminati nella cerimonia di riconsegna tenutasi il 23 maggio 1998. Sette anni che hanno visto all'opera numerosi e qualificati tecnici delle due Soprintendenze (quella Archeologica e quella per i Beni Culturali) che, confrontandosi e qualche volta scontrandosi, hanno condotto a termine il restauro nel migliore dei modi.

Era auspicabile che, al termine delle complesse operazioni che hanno riportato il castello all'antico splendore, si producesse uno studio che, ripercorrendo le varie fasi del restauro, ci disvelasse finalmente i punti oscuri che avevano impedito una lettura completa e scientificamente valida dell'intera struttura. La stampa dell'opera in due volumi, uno a cura della sezione archeologica e l'altro della sezione dei beni culturali, segna un punto fisso e qualificato per chi voglia approfondire lo studio del castello.

Riteniamo, di conseguenza, che l'addentrarci in una complessa descrizione dei piedritti, delle bertesche, delle troniere, dei beccatelli,dei rivellini, ecc. o riportare le complesse fasi e procedure del restauro, potrebbe interessare un ristrettissimo numero di lettori che, per i loro approfondimenti, dispongomo di strumenti ben più validi, costituiti dalle opere già citate.

A noi interessa spremere da quegli studi il succo: i tratti essenziali delle diverse fasi architettoniche che hanno riguardato il castello, per verificare la coincidenza di esse con il divenire storico ed artistico della nostra città.

I numerosi studiosi che nel passato si erano interessati a questo monumento avevano ipotizzata, pur senza averne alcuna prova documentale, la preesistenza, come primo insediamento, di un castello bizantino. Noi scrivevamo nel 1986: "Se ne attribuisce la fondazione a Roberto il Guiscardo ma tutti concordano sulla preesistenza di un'antica arce bizantina prima, durante e dopo l'occupazione araba."

Alla luce di quanto è emerso dagli scavi, possiamo oggi concordare con Lopetrone che, prima ancora che diventasse l'arce bizantina, "doveva esservi sul sito l'acropoli della città, circondata da muraglie di sbarramento, riservata agli eletti e, all'accorrenza, usata anche da altre genti che popolavano tutto l'acrocoro, dimorando in case di murature (ceto agiato) ed in ampli grottoni artificiali, capanni ed altri tuguri, scavati e/o parzialmente murati (plebe)".

Nel II volume dell'opera sul Castello dianzi citata, a cura della sezione di Archeologia, si legge: "Gli scavi hanno accertato sporadiche presenze riferibili all'età greca e brettia (IV-III sec. a. C.)" e, più oltre: "La prima importante scoperta effettuata nel corso degli scavi è stata quella di rintracciare dalla parte dell'area esterna dell'ex Cinema (area D) tracce della presenza degli Arabi.".

Possiamo quindi ipotizzare con ragionevole approssimazione che l'acrocoro su cui sorse poi il castello, ospitò nell'epoca di Siberene-Severiana i primi nuclei di quelle antiche popolazioni che scelsero quella rocca come loro primo insediamento, dal quale dominavano le vallate circostanti. E' scontato che gli Arabi durante la loro dominazione (840-885/86) fecero di questa arce la base del loro comando militare ed amministrativo.

Con la riconquista di Santa Severina da parte di Niceforo Foca il sito riprende vita e diventa un Kastron, con strutture militari ed un complesso di edifici religiosi.

Gli scavi hanno evidenziato, e sono visibili nella parete esterna del Museo sulla sinistra di chi entra nel castello, la base affrescata di un primo edificio ecclesiale.Sulla destra di chi entra nell'atrio a botte del mastio sono affiorati, come rileva il Cuteri, altri muri affrescati di un ambiente la cui pianta di metri 5 x 10 si colloca

di fronte alla necropoli, quasi certamente coeva , scoperta anch'essa dagli scavi e visibile nell'mbiente di sinistra per chi entra nel detto atrio. Lo studio del Cuteri lascia irrisolto il problema della datazione di quel sito per cui rimane senza una risposta definitiva la domanda: il Kastron, del quale emergono elementi significativi, è sorto prima o dopo l'occupazione araba? Non si riesce a far luce analizzando la croce reliquario proveniente dall'area della necropoli perché essa viene assegnata dal Cuteri all'VIII-IX secolo e quindi, teoricamente, il reperto può anche essere datato al periodo immediatamente successivo alla scacciata degli arabi.

Cuteri colloca le costruzioni di questi edifici bizantini alla fine del IX secolo, quando, con la nascita della metropolia, "La notevole diffusione dei culti si riflette anche nella costruzione di numerosi e più modesti edifici, siano essi chiese o monasteri".

Trovano comunque pieno conforto tutte le precedenti ipotesi sull'esistenza di un'arce bizantina che precedette l'occupazione normanna.

Abbiamo visto, nella parte storica di questo lavoro, che dal Malaterra al Chandelon, al Pontieri ed a tutti quelli che hanno scritto dell'occupazione di Santa Severina da parte di Abelardo prima e di Roberto e Ruggero d'Altavilla dopo, è ben documentata la presenza normanna nella nostra città e quindi il loro insediamento nel punto strategico di essa costituito dal castello.

" Le evidenze relative a tutto il periodo normanno sono venute alla luce in due settori di scavo : il primo sottostante l'area dell'attuale mastio, il secondo situato all'esterno del fossato sud, nel settore della fortezza cinquecentesca contenente la scuderia e la cappella."

Aggiunge, al riguardo, Marilisa Morrone: "I maggiori dati stratigrafici provengono proprio dagli strati di distruzione del precedente abitato e del complesso chiesa-necropoli situati al centro di essi." E' in quest'area che i Normanni costruirono il torrione centrale del sistema difensivo con una base muraria dello spessore di circa tre metri che in parte è stata messa in luce. Altri importanti brandelli murari sono emersi nel sottosuolo dell'ex scuderia e nell'area antistante ad essa dove è stata evidenziata la struttura di un ambiente, forse rimasto incompiuto, che dovette servire da officina per la fusione di una campana. In questa zona è stato rinvenuto un tarì aureo di Roberto il Guiscardo esposto nel Museo del castello. I passaggi successivi, nell'evoluzione architettonica del complesso castellense, per come risultano dall'indagine scientifica sulle strutture, hanno evidenziato la presenza di costruzioni sveve così descritte da Pasquale Lopetrone: "Le reliquie della torre tonda antica, quella della torre tagliata, quella della torre dell'antica chiocciola e quelle relative alle merlature quadrangolari, afferenti alla terza fase, con molta probabilità risalgono all'ultimo periodo della dominazione sveva."

Dall'analisi successiva di Lopetrone risulta che " Non vi è alcun dubbio che i nuovi torrioni cilindrici posti agli angoli salienti del mastio risalgono al periodo angioino ai cui regnanti va riconosciuto il potenziamento…" Questi risultati devono essere considerati assolutamente rivoluzionari, se raffrontati a tutte le precedenti ipotesi che si sono succedute nel corso di quasi mezzo millennio.

Le nostre perplessità, in merito alla esistenza a Santa Severina di un "Maschio Angioino", ipotesi emergente dallo studio di Lopetrone e degli altri esperti che mostrano di averne condivisa la diagnosi, non mirano, né possono, per l'assoluta nostra incapacità di misurarci con una materia estranea alla nostra preparazione specifica, ad infirmare minimamente i risultati di quelle indagini.

Noi diciamo solo che la storiografia di tanti secoli aveva inequivocabilmente assegnata l'intera ristrutturazione del castello ad Andrea Carafa.

E' evidente che, alla luce dei risultati dei restauri bisognerà o azzerare tutte le precedenti letture della struttura del castello di Santa Severina o tentare di trovare una ricostruzione che concilii le nuove tesi con le precedenti ipotesi, insinuando, perlomeno, dei dubbi che andranno approfonditi con ulteriori studi. E i dubbi esistono per chi, come noi, cerca di trovare una rispondenza fra i risultati emersi e tutto ciò che scrissero e documentarono fino al 1998 studiosi impegnati e qualificati sul monumento che stiamo analizzando. Bernardo, dopo aver accennato ai grandi mezzi ed agli ottimi ingegneri di cui disponeva il Carafa, assegna a

costui tutte le costruzioni difensive. Cita il documento del 1521 che descrive molte opere apportate al castro: muri, fossati, bastioni per bombarde ed altre armi di difesa :"In primis dicta civitas Sanctae Severinae cum eius castro et fortellinis, muro, fossatis, et vallatis cum bombardis et aliis munitionibus, variis atiglieriis et armis ad defensionem castri predicti necessariis".

Il documento del 1623 è ancora più esplicito perché afferma che "quel castello fu fatto dall'Ill.mo Conte Carafa in tempi che fu luogotenente del Regno di Napoli".

Muovendo da questi dati Bernardo svolge un lungo ragionamento ipotizzando che il mastio sia stato edificato dopo la costruzione di tutte quelle opere difensive, collocandone l'inizio della edificazione probabilmente "negli ultimi anni del pacifico governo di Andrea Carafa" ed attribuendone la conclusione al nipote Galeoto. La tesi del Bernardo viene perfettamente condivisa da Francesca Martorano, ricercatrice in Conservazione di beni architettonici e capo tecnico della Soprintendenza archeologica di Reggio Calabria. Ella scrive: "…Ciò ha fatto supporre che la sua costruzione (del mastio) sia più tarda, legata ad un periodo di pace e di benessere economico. I presupposti per l'edificazione del mastio ricorrono nel periodo di dominio di Galeotto Carafa, nipote di Andrea, che, come attesta un'iscrizione, fece costruire nel 1535 un belvedere fra i due bastioni del lato orientale. Il mastio aveva quindi una funzione residenziale che mantenne anche nei secoli successivi".

Risparmiamo al lettore il lungo elenco di storici e studiosi che hanno attribuito al Carafa la costruzione del castello: i loro pareri possono essere facilmente disattesi per la mancanza di scientificità e le loro troppo generiche e ripetitive affermazioni.

Ma non possiamo non citare , per l'autorevolezza degli autori, quanto si legge nel volume di AA.VV. (Tutti docenti di Architettura nell'Università Di Reggio Calabria) "Per un Atlante della Calabria": "Il nucleo centrale è probabilmente normanno, eretto, forse sui resti di un castello bizantino. Il mastio quadrato con quattro torri cilindriche angolari è caratterizzato da cinture murali e baluardi a scaglioni, torrette speronate ed altre opere difensive realizzate durante l'ampliamento e la sistemazione militare di Andrea Carafa Conte di Santa Severina dal 1496.

Né possiamo sottacere il giudizio di Mirella Mafrici, autrice di diecine di studi sui castelli e sulle fortificazioni del Meridione, che, al riguardo, scrive: "Al tempo del Carafa, luogotenente generale del regno durante l'assenza del vicerè don Carlo Lannoy, è databile la ricostruzione (su quello antico già edificato dai Normanni) del castello di S. Severina."

I nostri dubbi si infittiscono se si considerano alcuni elementi che possono interessare chi ha in animo di approfondire il problema.Ci sembra, intanto, che non si possa prescindere dal fatto che il mastio venne edificato su precedenti e rozze costruzioni che gli svevo-angioini avevano impiantato al centro dell'intera struttura e le cui tracce sono inequivocabilmente emerse dai lavori di restauro. Se questo può e deve essere univocamente accettato, bisogna trovare un aggancio storico che giustifichi la costruzione-ristrutturazione dell'intero mastio ad opera degli Angioini.

Ma a questo punto insorgono alcune considerazioni : Non esiste un solo documento che avvalori questa tesi. Bisogna tener conto dell'importanza dell'opera che presuppone un largo impiego di mezzi, una notevole durata per realizzarla e, conseguentemente, un forte e diretto interesse a dotare la struttura castellense di un impianto che doveva servire al committente ed ai suoi successori. Scrive Lopetrone: "Dall'ammodernamento-revisione globale, operato dagli Angioini, ne scaturì, dal vecchio castello di Santa Severina, una roccaforte di rara bellezza e sontuosità, con toni architettonici elevati alla pari delle più importanti roccaforti europee costruite in tale periodo".

Lo stesso autore deve però ammettere che "In assenza di fonti documentarie certe, appare assai difficile stabilire il nome del committente o quello dell'architetto che insieme progettarono e fecero realizzare il magnifico edificio militare".

Le notizie storicamente certe di cui disponiamo ci informano che, con diploma del 1266, Carlo I d'Angiò dispose che la città, con i suoi casali, venisse incorporata nelle terre del demanio, arrivando a precluderne ogni futura possibilità di infeudazione.

Le successive assegnazioni in feudo a Pessino di Villary e la cessione di costui a Pietro Ruffo ci dicono che costoro, in effetti, non esercitarono mai l'effettivo possesso.

E, d'altra parte, anche Carlo II aveva emesso un diploma che sottraeva al Ruffo ed al Villary il possesso del feudo, riconfermando Santa Severina città demaniale.

In un editto del 1346 di Giovanna I la città figura ancora nell'elenco delle terre demaniali. Lopetrone, nella ricerca di un possibile committente, indica, nel suo secondo studio dopo il completamento dei restauri, in Nicolò Ruffo il solo che, per disponibilità di mezzi, avrebbe potuto realizzare un'opera tanto importante. Chi vuole rendersi conto dell'inattendibilità di tale attribuzione, legga il testo di Giuseppe Caridi che può definirsi la saga dei Ruffo, ripercorrendo l'autore le vicende dell'intera Casata ma, soprattutto lo studio di Vincenzo Ruffo sugli antenati Pietro e Nicolò. La loro vita e le loro opere sono narrate in centinaia di pagine e vengono utilizzate tutte le fonti storiche esistenti, compresi i ricchi archivi dei Ruffo. In tale trattazione non esiste un solo accenno che possa suffragare la tesi della edificazione di un'opera così complessa ed importante. I rinvenimenti numismatici, riferibili al periodo angioino nell'area della intera struttura castellense, ci dicono che "è assente completamente la monetazione angioina di Napoli". Anche nell'elenco da noi reso della collezione donata al Museo diocesano non v'è traccia, nell'intero comprensorio della nostra città, di monete angioine mentre abbondano quelle normanne e quelle sveve (come succede anche per i ritrovamenti nel castello). Questo è un fatto di grande importanza perché non si può pensare che di un'opera tanto significativa non ci sia pervenuto un solo reperto!

Tutte le date graffite sui muri sia delle strutture esterne che nell'interno del mastio sono posteriori al 1500. Riteniamo l'argomento meritevole di riscontro e di approfondimento che, vagliando i vari elementi da noi resi e, ovviamente, gli studi che li precedono, giunga ad una conferma o alla confutazione di quanto è sostenuto dai restauratori del castello.

E' opinione generale che furono i Grutther a trasformare il mastio, venute meno le necessità di difesa dalle incursioni dei pirati , in dimora signorile. Fino al '600 i feudatari non abitavano i castelli ma, quasi tutti dimoravano a Napoli presso la cui corte sperperavano le loro sostanze. Giorgio Leone, nel suo pregevole studio , ci invita a considerare che l'ammodernamento del mastio ebbe inizio con la Famiglia Sculco, basandosi su due ragioni che appaiono assolutamente plausibili:

gli Sculco furono i primi feudatari a stabilire con la città un rapporto nuovo e più intenso come dimostra l'acquisizione di una cappella nella chiesa di S.Antonio che ospita la lapide tombale di Carlo Sculco;

"La lettura dell'Apprezzo del 1687 è utilissima per cogliere gli aspetti più salienti di questa nuova definizione architettonica-abitativa che venne data al castello".

Bisogna difatti tener presente che, all'epoca dell'Apprezzo, i Grutther non avevano ancora acquisito il feudo, che si aggiudicarono all'asta nel 1691.

A loro, comunque, bisogna attribuire la sistemazione definitiva del piano nobile che oggi ammiriamo e che probabilmente fu utilizzato, almeno periodicamente, come residenza. Essi modificarono i vani, ricavandone sale e saloni che coprirono con volte a schifo che fecero decorare con raffigurazioni pittoriche riportate dai recenti restauri all'antico splendore, e con mobili di gran pregio dei quali purtroppo nulla è rimasto. Riteniamo, senza far torto ai lettori, di poterci risparmiare una descrizione particolareggiata dei diversi ambienti, sia perché essi sono stati egregiamente illustrati nei due volumi cui abbiamo fatto riferimento, editi dalla Rubbettino, sia perché in ogni stanza è posto un pannello descrittivo dell'ambiente. Questo vale anche per la sale museali che espongono reperti provenienti dal circondario (in massima parte da noi donati) e dagli scavi del castello.

A destra di chi entra dall'ingresso principale si accede alle sale che ospitano il Centro Documentazioni Castelli e Fortificazioni della Calabria con numerosi pannelli esplicativi.

L'intera struttura si sviluppa su di un'area di circa diecimila mq., ma la zona della "difesa merlata della ronda bassa", visibile per chi sale in paese sopra la strada a picco della scarpata, è rimasta purtroppo da ripulire e restaurare e del progetto che ne prevedeva la sistemazione più non si parla.

Per avere un'idea del fascino che suscita il castello, basta riflettere sul dato, fornitoci dai giovani della Cooperativa Aristippo che ne curano la gestione, delle 50.000 presenze di turisti che annualmente lo visitano Scrivevamo in un nostro precedente lavoro: "Necropoli, affreschi di complessi ecclesiali, fornaci, camini, silos, cisterne, e monete ed utensili e terraglie e palle di bombarde e tutto quanto consentiva la vita nel Castello, la sua storia che è poi quella dell'intero paese nell'arco di tanti secoli, sono venuti alla luce per consentire, finalmente, una lettura aggiornata,anche se forse non definitiva, del Monumento restaurato in tutto il suo splendore".

IL CASTELLO ARAGONESE DI LE CASTELLA

Tra i castelli più suggestivi della Calabria, il castello aragonese di Le Castella è divenuto nel tempo il simbolo del turismo culturale nella regione. Ubicata su un piccolo lembo di terra prospiciente la splendida Costa dei Saraceni nella frazione Le Castella del comune di Isola Capo Rizzuto, la splendida fortezza di Le Castella è ciò che rimane di una vasta area che doveva costituire un vero e proprio villaggio dotato di cinta muraria. Le ultime indagini archeologiche hanno infatti evidenziato la presenza nei fondali adiacenti il castello aragonese di blocchi architettonici di epoca ellenistica, lasciando intuire che tutta l'area di Le Castella doveva essere una volta molto più allungata verso il mare. La fortezza non ospitò mai la nobiltà del luogo, ma servì sempre da ricovero per i soldati impegnati contro gli attacchi provenienti dal mare dagli invasori di turno. La torre cilindrica che svetta centralmente all'interno della fortezza è di chiara derivazione angioina e ne testimonia l'impianto originario che dovrebbe risalire al XIV secolo. La torre angioina è caratterizzata da una splendida scala a chiocciola in pietra che ne collega i tre piani. Verso la fine del XV secolo la fortezza di Le Castella passò in mano aragonese. Nel 1496 il re Federico d'Aragona la consegna al conte Andrea Carafa che tra il 1510 ed il 1526 fa edificare possenti bastioni quadrangolari speronati al fine di aumentare la capacità difensiva del castello. Quelle degli angioni ed aragonesi sono le modifiche più importanti del castello, oggi ben visibili grazie ad una paziente opera di restauro. Gli scavi archeologici effettuati all'interno della fortezza di Le Castella, hanno evidenziato differenti stratificazioni storiche e architettoniche con sovrapposizione di diverse fasi edilizie. Sul lato est della fortezza è emerso un muro lungo quaranta metri fatto a blocchi di calcare e piccoli riquadri in pietra disposti a scacchiera, simile per tecnica edilizia al muro ellenistico di Velia. Dal castello si gode una splendida visuale sul mar Ionio e sulle acque della Riserva Marina di Capo Rizzuto. La fortezza di Le Castella si colloca oggi in un contesto ambientale di elevato pregio naturalistico, circondato dalla Riserva Marina di Capo Rizzuto, istituita nel 1991. In una delle stanze della fortezza è possibile osservare i fondali dell’Area Marina Protetta in tempo reale grazie a delle telecamere subacque posizionate a 10 metri di profondità. L'intera zona di Capo Rizzuto si posiziona al centro della bellissima Costa dei Saraceni, interessata da una frequentazione turistica tra le più elevate della Calabria, sia per il valore paesaggistico ed ambientale delle coste, sia per la ricchezza di risorse culturali ed archeologiche.