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UNICUSANO Facoltà di Scienze Politiche Appunti di Storia dell’America Latina contemporanea 1

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UNICUSANO

Facoltà di Scienze Politiche

Appunti di

Storia dell’America Latina contemporanea

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1) Introduzione allo studio della Storia dell’America Latina

La Storia dell’America Latina degli ultimi due secoli si inserisce, a pieno titolo,

all’interno della Storia Contemporanea di cui è parte integrante.

Quando si parla di America Latina si intende un concetto storico più che

geografico, in quanto riaffiora alla memoria quell’area del continente americano

dove nel XVI secolo si sviluppò la civiltà iberica, grazie alla colonizzazione dei

regni di Spagna e Portogallo. L’America Latina dunque evoca con sé l’idea stessa di

civiltà. In termini strettamente geografici essa si divide in tre tronconi: il Nord

America, cui appartiene il Messico, il Centro America, di cui fan parte i piccoli paesi

dell’Istmo e caraibici, e infine il Sud America. Nel Mar dei Caraibi e in Sud

America esistono tuttavia territori legati alla civiltà anglosassone, come Belize o

Giamaica, come pure ad altre potenze, come il Suriname, ex colonia olandese. Tali

territori non fanno parte dell’America Latina, anche se le loro storie sono intrecciate

tra loro: è necessario quindi non soffermarsi sul singolo paese, ma tentare di scoprire

il filo che lega il divenire storico delle tante realtà presenti. Si determina così un

rapporto di unità - pluralità. Infatti se questi immensi territori appartengono ad una

medesima civiltà, numerose sono le differenze in essi presenti, come ad esempio

quelle climatiche, etniche, religiose, linguistiche ed economiche. Varia è la geografia

dell’America Latina, anche perché il suo territorio si estende su latitudini molto

diverse. Accanto a fasce tropicali, esistono così ampie zone con climi temperati,

come l’Argentina. Gli aridi e desertici territori compresi tra il Perù, il Cile e il

Messico, poco popolati per le loro stesse caratteristiche naturali, sembrano

contrastare con le terre basse e paludose frequenti tra il Brasile e il Paraguay; inoltre i

grandiosi sistemi montuosi impongono condizioni di vita alle più diverse quote in

Messico, in America Centrale e nei paesi andini. Differente è quindi lo sviluppo

economico di tali territori, e quindi anche quello sociale. Nel Messico e nelle nazioni

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situate sulla dorsale andina esiste una economia basata soprattutto sulla estrazione

dei minerali; le terre bagnate dal Mar dei Caraibi o quelle con i climi subtropicali

sull’Atlantico e sul Pacifico presentano, invece, uno sviluppo economico legato

all’agricoltura, mentre nelle zone costiere esiste una maggior propensione per il

commercio. È interessante notare come questa grande varietà geografica sia presente

anche all’interno dei singoli paesi, fatta eccezione per piccole realtà come l’Uruguay

o El Salvador. L’immensità degli spazi geografici dell’America Latina sembra così

quasi voler dividere quello che al contrario la storia e la civiltà tendono a

congiungere: nuovamente ritorna il rapporto unità- pluralità. Anche la popolazione è

molto eterogenea, il che comporta, ancora una volta, che sotto il principio d’unità

storica imposto dagli imperi iberici, si nascondano realtà umane estremamente

differenti. Molto complesso è descrivere le diverse popolazioni esistenti nel territorio

dell’America Latina: sono ancora valide, tuttavia delle antiche generalizzazioni.

Innanzitutto vi è un’ America indiana, ossia un vasto territorio abitato soprattutto da

una popolazione discendente da quella autoctona che viveva in America ai tempi

delle conquiste spagnole. Il suo fulcro si trova così nelle aree dove esistevano i

grandi imperi precolombiani: nel Messico e in gran parte dell’America centrale, dove

imperavano Aztechi e Maya; nel Perù, in Bolivia, in Ecuador e in alcune propaggini

del Cile e dell’Argentina, dove vivevano gli Incas. Vi è poi un’America bianca dove

la popolazione discende dai colonizzatori iberici e dai grandi flussi migratori che da

metà dell’Ottocento sino al primo conflitto mondiale determinarono un cambiamento

totale in alcune aree. Questa America coincide con l’Argentina, con l’Uruguay e con

gran parte del Cile e del Brasile centro – meridionale. Infine esiste un’America nera,

in tutte quelle terre dove la comparsa di manodopera autoctona per le piantagioni

favorì il commercio degli schiavi dall’Africa, commerciò che durò sino all’Ottocento

inoltrato. Questa America coincide con il bacino caraibico e con i paesi che vi si

affacciano, come pure con le fasce costiere tropicali, come il nord – est del Brasile e

le coste dell’Ecuador e del Perù. Bisogna comunque dire che, come visto, queste

Americhe non hanno dei confini precisi e sovente le varie componenti etniche sono

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presenti un po’ dovunque. Inoltre, tali componenti non sono dei prototipi perfetti, ma

presentano a loro volta, continue differenze. Infine, il popolamento dell’America

Latina è avvenuto quasi sempre a causa di violenti traumi, come le conquiste o la

schiavitù e ciò ha permesso alle differenze etniche di divenire anche rigide barriere

sociali. Questo ampio mosaico umano si presta così a rafforzare il principio

dell’unità, come pure quello della differenza. Favorisce l’unità quando diviene una

sorta di melting pot, ossia una miscela culturale, un insieme umano nuovo ed

originale. Determina invece la frammentazione quando le barriere tra le varie

componenti etniche sono insormontabili. In tal caso allora l’etnia può diventare

etnonazionalismo, ossia una realtà escludente e autosufficiente.

L’origine dell’unificazione di questa vastissima area fu, senza dubbio la conquista

spagnola e portoghese seguita dalla colonizzazione e dalla evangelizzazione, a

cominciare dal secolo XVI. I sovrani imposero infatti il principio di unità che

consisteva appunto nell’appartenenza ad un unico grande impero e nella obbedienza

ad uno stesso sovrano. Questo principio di unità politica era strettamente legato a

quello di unità spirituale: compito degli imperi iberici fu infatti quello di convertire al

cattolicesimo tutti i «pagani» che vivevano sul territorio. Il principale successo di

questo principio unitario risiedeva soprattutto nel ridurre ad un unico termine una

realtà geografica estremamente ampia e nel considerare così l’America Latina una

comunità immaginata, ossia una civiltà con tratti propri e distinti da altre civiltà.

Tuttavia tale unità politica non riuscì a sopravvivere alla caduta dell’impero

spagnolo e portoghese all’inizio del XIX secolo. Ecco quindi la presenza di una

frammentarietà politica nei numerosi Stati che costituiscono l’America Latina, come

pure l’esistenza di mondi spirituali differenti che scalfiscono il desiderio di un’unica

fede. Bisogna a questo punto evidenziare che l’America Latina, eterogenea per

geografia e popolazione, per storia e civiltà è invece parte integrante dell’Occidente.

E ciò non soltanto perché le lingue e la religione che vi predominano sono

occidentali, ma perché della civiltà occidentale e dei suoi corsi e ricorsi storici è stata

sempre protagonista. L’America iberica non fu mai considerata dai sovrani iberici 4

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soltanto un mero bottino da cui attingere, l’America iberica divenne infatti essa stessa

Spagna e Portogallo e così restò per circa tre secoli. Gli imperi che la dominarono vi

proiettarono così non soltanto la propria fame di grandezza, ma anche la propria ansia

civilizzatrice. In tal modo la moderna storia politica, sociale, economica, culturale e

religiosa dell’America Latina è parte di quella più generale dell’Occidente e, più

precisamente, dell’Europa. Questa ultima affermazione risulta molto importante

poiché negli ultimi due secoli l’America Latina ha invertito in qualche modo la sua

rotta incamminandosi verso una sorta di dis-europeizzazione e di progressiva

americanizzazione. D’altro canto è bene sottolineare che l’Europa verso cui si era

avvicinata l’America Latina, era l’Europa latina, ossia l’Europa cattolica in un’epoca

in cui la Riforma protestante stava dividendo la civiltà occidentale.

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2) L’età coloniale

Per circa tre secoli, da quando verso la metà del Cinquecento la conquista divenne

colonizzazione, sino all’inizio dell’Ottocento, l’America Latina fu Europa. In

questo lungo periodo cambiarono molte cose: idee, tecnologie, merci, modi di

scambio, equilibri tra potenze e molto altro ancora. In particolare sorse in quella

parte dell’America una nuova civiltà che aveva come suo momento unificatore la

cattolicità. In termini politici gli imperi iberici, soprattutto quegli degli Asburgo di

Spagna che governarono dal 1516 al 1700, vennero organizzati in modo da lasciare

come eredità un dosaggio ben proporzionato tra frammentazione ed unità,

dosaggio che si basava sul regime pattizio tra il sovrano e suoi Reinos. Tutti i regni

e i vari possedimenti dovevano essere governati allo stesso modo: quelli della

penisola e quelli americani. Il patto naturalmente era non scritto ma frutto della

consuetudine. Esso consisteva, innanzitutto nel riconoscimento della unità

imperiale che aveva come compito primario quello di espandere la cristianità.

Unità politica e religiosa quindi di cui era garante il re, titolare della legge e

protettore della Chiesa. Tuttavia, se la legge del re veniva riconosciuta in segno di

sottomissione al suo legittimo potere, il governo era un’altra cosa: esso si fondava

sugli usi, sui costumi e sui poteri delle élites locali, parti integranti di un impero

unitario dagli altipiani messicani a quelli andini. Esse godevano di piena

autonomia in quanto la struttura delle società iberiche in America si fondava su un

ordine corporativo. Le leggi che regolavano quelle società, come pure le

consuetudini, diedero vita a una società di corpi, ossia una società nella quale i

diritti e i doveri di ogni individuo non erano uguali a quelli di un altro, ma

dipendevano dal corpo sociale a cui appartenevano. E ciò accadeva ai vertici della

società dove i funzionari, il clero, le milizie possedevano i loro numerosi privilegi

e relativi obblighi, sia alla sua base, dove le masse rurali avevano anch’esse

obblighi e diritti. Si trattava così di una società organica, i cui tratti fondamentali

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erano sostanzialmente due: innanzitutto era una società «senza individui», poiché

questi ultimi erano subordinati al tutto, ed inoltre gerarchica, poiché non tutti i

corpi avevano la stessa rilevanza e ciascuno occupava il ruolo che Dio e la natura

gli avevano assegnato. Questo tipo di società era però caratterizzata da numerosi

contrasti poiché fondata su disuguaglianze profonde, ma anche piena di

ambivalenze poiché la sua natura organica lasciava anche ai più oppressi

possibilità di autogoverno una volta compiuti gli obblighi prestabiliti.

Dal punto di vista economico, grazie all’impulso dei grandi imperi iberici,

l’America Latina divenne famosa per l’estrazione dei metalli preziosi. In campo

agricolo essa fece scoprire agli europei il pomodoro, la patata, il tabacco e

l’ananas, mentre a sua volta conobbe e produsse poi il caffè, la canna da zucchero

e il banano. In tal modo l’America Latina divenne periferia d’un centro economico

lontano, un centro, soprattutto quello spagnolo, che cercò di conservare il

monopolio commerciale coi territori americani considerandolo uno strumento di

potenza da salvaguardare ad ogni costo. Col trascorrere del tempo tuttavia, la

potenza iberica, così forte nel ’500, cominciò lentamente a declinare e a perdere

potere dal ’700 in poi. Una caratteristica fondamentale di tale andamento

economico, che perdurò anche nei momenti meno propizi, fu la necessità di un

commercio verso l’esterno, sia per ottenere dall’esportazione delle materie prime

introiti finanziari, sia per dotarsi, attraverso l’importazione, di numerosi beni

fondamentali. A differenza del mercato estero, quello interno fu un mercato

sostanzialmente debole, poiché ostacolato, nel suo sviluppo, dalla complessa

formazione del territorio dell’America Latina e dalla struttura politica dell’impero.

Anche in economia riappaiono gli stessi problemi già evidenziati in campo politico

e religioso: da un lato sono evidenti spinte unitarie, nel senso che le varie aree

condivisero la medesima «sindrome della perifericità», ossia analoghi problemi e

analoghe opportunità, ma anche forze centrifughe, data la tendenza di ogni singolo

paese a legarsi al partner esterno più conveniente, non curandosi, sovente, dei

territori confinanti.7

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Già s’è detto dell’intimo rapporto tra unità politica e unità religiosa, tra cittadino

e fedele, tra sfera temporale e sfera spirituale. Tale unità derivava soprattutto dal

fatto che l’America iberica restò estranea alla Riforma protestante, ossia essa non

visse la spaccatura che si determinò nella cristianità occidentale. Al contrario

divenne terreno della Controriforma, perciò la Chiesa cattolica assunse nei suoi

territori un ruolo chiave: gli ordini da essa emanati divennero così pilastri politici

ed ideologici. Inoltre, come già ricordato, la cattolicità era il principio cardine

dell’unità di un territorio e di una società così ampiamente frammentati in molti

aspetti. Anche l’America Latina ha, in seguito, risentito del fenomeno della

secolarizzazione comune all’intero Occidente, col conseguente distacco tra la sfera

politica e quella religiosa, tuttavia in essa non si è verificata una rottura violenta: il

mito dell’unità politica e spirituale resistette infatti con forza nella sua storia anche

con l’avvento delle società moderne.

Nel ’700, con il ritorno dei Borbone sul trono di Spagna e del marchese di Pombal

alla corte del Portogallo, vennero realizzate numerose riforme che erosero il

regime pattizio che aveva sino ad allora tenuto insieme gli imperi iberici. Queste

riforme toccarono i gangli della vita imperiale in ogni settore. In campo politico

accentrarono i poteri di Madrid e Lisbona, in quello militare accrebbero il potere

dell’esercito regio, in quello religioso favorirono il clero secolare e penalizzarono

quello regolare con la stessa espulsione dei gesuiti, e in quello economico

razionalizzarono e accrebbero gli scambi, accentuando però il divario tra la

madrepatria e le colonie, relegate a semplici fornitrici di materie prime. Gli autori

di queste riforme divennero eroi in patria e nemici nelle colonie: il loro intento era

quello di modernizzare gli imperi centrali e centralizzare l’autorità, per permettere

alla Corona di amministrare meglio i territori coloniali. È in questo periodo che

sorge lo Stato – Nazione, che si affaccia all’orizzonte questa dinamica realtà in via

di sviluppo. Alcuni paesi dell’Amarica Latina cominciarono così a sentirsi traditi e

danneggiati politicamente ed economicamente, e, al loro interno, soprattutto le

elite creole. Esse constatavano infatti una perdita dei loro antichi diritti, come pure 8

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una diminuzione della loro autonomia e del loro potere. A poco a poco si sviluppò

così una sorta di patriottismo destinato col tempo a crescere per il raggiungimento

di una indipendenza politica. Inoltre, anche il panorama economico e demografico

cominciò a mutare. A fianco degli antichi nuclei coloniali ne sorsero molti nuovi e

pulsanti, specie intorno alle città di Caracas e Buenos Aires. Città queste dove il

retaggio ispanico era più tenue, dove il commercio inglese attecchì più

rapidamente e dove più forti furono i moti indipendentisti.

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3) Le Indipendenze dell’America Latina

A scatenare i moti che condussero all’indipendenza l’America Latina furono gli

eventi europei legati soprattutto all’epoca napoleonica. Napoleone, infatti, con le

sue guerre aveva trascinato la Spagna nei conflitti europei e bloccato le

comunicazioni tra la penisola iberica e l’America. Stessa tattica nei confronti del

Portogallo, soprattutto con le invasioni del 1807. Si sviluppò così un lungo

processo storico destinato a cambiare lo scenario del mondo. Gradualmente si

verificò il declino dei grandi imperi cattolici, di riflesso sorsero i moderni Stati –

Nazione europei, si aprirono le porte del Secolo dei lumi in gran parte

dell’America Latina, la quale si allontanò dal vecchio continente e pose le

premesse per la sua americanizzazione. Bisogna tuttavia porre delle differenze tra

il Brasile e l’America ispanica. Infatti, la corte portoghese dei Braganza, protetta

dagli inglesi, riuscì a lasciare Lisbona prima dell’arrivo di Napoleone, così

l’impero portoghese non perse colui che ne garantiva l’unità e la legittimità: il

sovrano. Questi, messosi in salvo a Rio de Janeiro, mantenne il controllo della

colonia brasiliana. Diversa fu la situazione della Spagna. Bonaparte infatti

imprigionò il re Carlo IV e il figlio, Ferdinando VII, ed impose al potere il fratello

Giuseppe. Scompariva così la figura del sovrano che per secoli aveva garantito

l’unità di quell’immenso impero. A Cadice si formò una Junta che rivendicò il

potere in nome del re prigioniero e in tale veste chiese obbedienza ai sudditi

americani; tuttavia la situazione restava complessa. Imprigionato il sovrano

legittimo, chi avrebbe dovuto guidare il regno? E soprattutto con quali diritti?

Giuseppe Bonaparte era considerato un usurpatore e la stessa Junta di Cadice

sembrava non rivestire quella legittimità necessaria. Si era quindi determinato un

clima di incertezza perché si era persa quella unità che solo il sovrano legittimo

poteva restituire. La notizia della prigionia di Ferdinando VII accrebbe in America

Latina tale stato di incertezza. Così, oltre a Cadice, sorsero altre Juntas, sebbene

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solo alcune di queste si consolidarono, come quella di Caracas e di Buenos Aires.

Quella di Cadice venne poi sostituita da un Consejo de Regencia che reclamò

l’obbedienza delle colonie. Queste Giunte dichiararono di assumere il potere in via

transitoria, in nome di Ferdinando VII, fintanto ch’egli non fosse tornato sul trono:

esse non dichiararono mai di separarsi dalla Madrepatria e di abbandonare per

sempre l’impero. Tuttavia cercarono di recuperare la loro autonomia che la

centralizzazione dei Borbone aveva ampiamente diminuito. Così, ad esempio, in

molti casi venne revocato il monopolio commerciale con la Spagna e liberalizzato

il commercio con gli inglesi. Questa prima fase del processo di indipendenza,

durata all’incirca sino alla restaurazione sul trono di Spagna di Ferdinando VII nel

1814, viene chiamata autonomista: poiché l’autonomia e non l’indipendenza era

ciò che desideravano le élites creole che per la prima volta avevano assunto in

potere in America Latina in prima persona. Intanto in Spagna, a Cadice, il Consejo

de Regencia chiamò l’elezione delle Cortes, ossia di una Assemblea

rappresentativa incaricata di redigere una Costituzione. Votata nel 1812, la

Costituzione di Cadice aveva la funzione di creare un potere legittimo in assenza

del sovrano, ma anche di imporre dei limiti al potere assoluto del re, quando questi,

cacciati i francesi, sarebbe ritornato sul trono. Era quindi una costituzione liberale,

e, fatto eccezionale per i tempi, ai dibattiti dell’Assemblea costituente vennero

invitati anche i rappresentanti americani. L’America ispanica visse così la sua

prima esperienza elettorale, anche se i costituenti spagnoli ribadirono il principio

del primato della madrepatria sulle colonie. Bisogna ora chiarire una questione che

divide gli storici in merito all’indipendenza dell’America Latina. Per taluni, i

moti americani che portarono all’indipendenza, furono di natura liberale, ossia

quella ispanoamericana sarebbe stata parte della più ampia ondata rivoluzionaria

che aveva spazzato via l’ancien régime in Francia. Sorgeva, in tal modo, un nuovo

patto sociale e politico che organizzava e delimitava il potere politico e lo

legittimava in nome del popolo sovrano e non più della volontà di Dio. Per altri

storici, invece, i cambiamenti che si stavano realizzando in America Latina erano

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legati alla trasformazione progressiva della Spagna, che da impero cattolico stava

divenendo Stato – Nazione. Con le riforme dei Borbone erano state violate le

antiche libertà delle popolazioni americane, per cui l’indipendenza era da queste

considerata come una reazione contro la modernizzazione imposta dalla Spagna.

Le Cortes, le elezioni e le stesse Costituzioni, in tale ottica, non sarebbero stati

prodotti della moderna sovranità popolare espressa da cittadini dotati di uguali

diritti politici, ma dell’antica architettura corporativa, dove i soggetti dell’ordine

politico e sociale restavano le corporazioni e dove la sovranità risiedeva in ultima

istanza in Dio e nella sua legge. Entrambe queste due teorie sono corrette, poiché

sia pur per strade diverse finiscono per confluire nella reazione a quello che veniva

definito «dominio» spagnolo. Si stava infatti creando un dominio coloniale dove

prima esisteva una coabitazione in un medesimo spazio imperiale. Sia i liberali «in

nuce», sia gli antesignani dei conservatori, criticavano così la nuova politica della

madrepatria; i primi perché la consideravano lontana dal nuovo ordine che essi

volevano far nascere, i secondi perché vedevano distruggere l’antico prestigio e le

antiche autonomie. Caduto l’impero non fu un caso che gli Stati indipendenti si

fondassero sulla Costituzione e la sovranità popolare. Ma non fu un caso neppure

che dietro tali nuove vesti restasse più che mai solida e vitale l’antica società

corporativa.

Sconfitti i francesi e tornato sul trono spagnolo, nel 1814, Ferdinando VII

dichiarò nulla la Costituzione di Cadice e restaurò l’assolutismo, tradendo le

aspettative dei liberali di Spagna e d’America, che perseguitò con accanimento.

Volle così instaurare l’obbedienza al suo potere soprattutto nelle terre dove

maggiormente era stata messa in discussione la sua autorità; così in Venezuela i

rinforzi spagnoli costrinsero alla fuga l’esercito repubblicano di Simón Bolívar,

mentre, nel Rio della Plata, nonostante gli sforzi militari, i creoli locali riuscirono

a proclamare l’indipendenza e a mantenere nelle loro mani un certo potere. Il

conflitto doveva tuttavia protrarsi nel tempo, ossia sino al 1824 con la battaglia di

Ayacucho, seminando morte e distruzione per tutta l’America Latina. Il conflitto, 12

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durante questi lunghi anni, rischiò spesso di trasformarsi da rivoluzione politica per

l’indipendenza dalla Spagna, in guerra sociale tra castas, ossia tra gruppi etnici.

Due condottieri ebbero un ruolo centrale in tali drammatici eventi: Simón Bolívar e

José de San Martín. Il primo guidò alla liberazione le attuali Colombia e

Venezuela, prima di puntare verso l’Ecuador ed il Perù dove le élites creole erano

meno propense a sposare la causa liberale e indipendentista; il secondo liberò il

Cile per puntare anch’egli verso il Perù dove proclamò l’indipendenza senza

tuttavia ottenerne il controllo. Nel 1822 i due Libertadores si incontrarono a

Gauyaquil e riunirono i loro eserciti. Fu un incontro storico sul quale aleggia il

mistero, salvo sulle note differenze tra i due leader in merito al futuro assetto dei

territori da loro liberati. Bolívar era fautore di una confederazione di repubbliche

indipendenti, San Martín propendeva per una soluzione monarchica costituzionale

sotto la Corona di un principe europeo. Quest’ultimo uscì rapidamente di scena,

mentre Bolívar assunse la guida delle operazioni e condusse l’ultimo assalto agli

spagnoli nella sierra peruviana. Tale assalto ottenne il successo desiderato

soprattutto a causa delle profonde spaccature che dividevano l’esercito realista e le

élites creole del Perù. Disorientate dalle notizie sui fatti di Spagna, dove il generale

Riego nella rivolta del 1820 aveva imposto nuovamente a Ferdinando VII la

Costituzione di Cadice, le ultime forze spagnole caddero così anche in Perù.

Fatta eccezione per Cuba e Porto Rico, rimaste temporaneamente alla Spagna,

l’indipendenza dell’America iberica fu un cammino lento ma non lineare. Si trattò

di un processo nel quale presero parte sia coloro che della Spagna temevano la

Restaurazione, sia coloro che temevano la Costituzione. A volte fu violento e

distruttivo, in altri casi breve e indolore. Particolare fu l’indipendenza del Brasile,

avvenuta nel 1822, con lo sdoppiamento della Corona dei Braganza. Infatti

quando Giovanni VI, rientrando a Lisbona su insistenza delle Cortes liberali, lasciò

al figlio Pedro I la reggenza del Brasile, fu istituita una monarchia costituzionale

indipendente. Si trattò così di una indipendenza pacifica che non comportò alcuna

mobilitazione popolare; mentre dall’impero ispanico sorsero numerose

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repubbliche, il Brasile conservò l’unità territoriale sotto la forma monarchica sino

al 1889. Tuttavia, anche nell’America ispanica le cose non andarono ugualmente

per tutti i territori. In Messico, ad esempio, dove l’invasione napoleonica aveva, a

suo tempo, suscitato grandi fermenti politici, era sorta una Junta locale, che però fu

presto sciolta dalla autorità regia. I suoi sostenitori, guidati da padre Miguel

Hidalgo, radunarono un esercito popolare formato da contadini indiani e meticci e

scatenarono guerra contro gli spagnoli. Ma il ricorso alla violenza non fu

sufficiente a sconfiggere l’esercito realista, né l’appello ai contadini indiani risultò

gradito alle élites creole, che temevano una rivolta indiana più del dominio

spagnolo, al quale erano d’altronde assai legate. Fatto sta che gli indipendentisti

furono tenuti a bada dall’esercito spagnolo guidato dall’ufficiale creolo

conservatore Agustín de Iturbide; quando questi seppe che i liberali spagnoli

avevano imposto a Ferdinando VII il ritorno alla Costituzione, si decise a farsi

garante dell’indipendenza messicana sottoscrivendo nel 1822 il Plan de Iguala,

che prevedeva un Messico indipendente, ma deciso a proteggere la Chiesa e ad

avere come sovrano un Borbone. Così il Messico sembrava raggiungere

l’indipendenza per via conservatrice. Tuttavia il piano fallì per le resistenze

spagnole e per la pretesa d’Iturbide di assumere egli stesso il titolo d’imperatore: la

reazione liberale e repubblicana rovesciò così la situazione e instaurò la

Repubblica. Infine in Sud America, le guerre prima e l’abbattimento dell’impero

spagnolo poi, misero le élites liberali americane dinanzi alla dura realtà che lì in

avanti avrebbero dovuto affrontare. Innanzitutto non poterono evitare di valutare

che il concetto di popolo sovrano, tanto invocato, era più immaginario che reale.

Infatti quell’intricato puzzle di indiani e meticci d’ogni genere non era certo un

«popolo». Nemmeno il concetto di popolo virtuoso, presupposto dai liberali e dalle

loro Costituzioni, pareva davvero esistere. Inoltre i leader indipendentisti non

poterono impedire che, scomparso il sovrano, l’intero edificio istituzionale che su

di lui si basava andasse in frantumi. Tanto che da un impero nacquero numerosi

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Stati, a loro volta in preda a violente ostilità tra città e province: tutte libere, tutte

sovrane.

4) L’America Latina tra spinte conservatrici e liberali

I primi decenni dopo l’indipendenza furono caratterizzati da instabilità politica e

stagnazione economica, anche se non con la stessa intensità, data l’eterogeneità dei

territori e della popolazione. L’instabilità politica si manifestò nell’impossibilità

per le nuove autorità di imporre l’ordine e far valere la legge delle loro

Costituzioni sui territori delle nuove nazioni, nella maggior parte dei casi soggetti a

continue lotte tra caudillos: si tornerà più avanti su queste figure. Lo stesso

federalismo, adottato come antitesi al centralismo spagnolo, si rivelò in realtà il

riflesso della manifesta impossibilità di fondare un ordine stabile e della

frammentazione del potere in corso. In campo economico, la produzione e il

commercio risentirono degli effetti distruttivi delle guerre e della rottura dei legami

con la Madrepatria. I nuovi Stati si trovarono così privi delle risorse necessarie per

edificare le loro strutture e per imporre la loro autorità sul territorio nazionale.

Tutto ciò impedì la formazione di una classe dirigente forte ed unita in grado di

guidare il processo di State – building. La scomparsa del principio di unità più

volte ricordato, lasciava il campo ad una pluralità ormai eterogenea e incapace di

ricondursi ad un principio comune. Le idee liberali riuscirono ad erodere il

vecchio ordine organico, ma non riuscirono a fondarne uno nuovo. Inoltre le élites

creole liberali non avevano abbattuto né sradicato la società organica che la

monarchia iberica aveva plasmato per secoli. In tale situazione, sospesa tra un

ordine liberale ancora debole e un ordine corporativo ancora vitale e resistente,

dove la stabilità sembrava possibile solo quando un leader imponeva la propria

autorità, prosperò in questi nuovi Stati l’instabilità politica. La sovranità popolare,

così tanto decantata nelle varie Carte costituzionali, rimase un concetto teorico,

poiché l’autorità politica era nelle mani dei caudillos, ossia capi politici e militari

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in grado di esercitare il potere con la forza su un determinato territorio. Tuttavia, il

fatto che le Costituzioni fossero in gran parte inoperanti non le rese però

insignificanti, poiché attraverso di loro è stato possibile il quadro politico presente

in quegli anni nell’America Latina. Le prime Costituzioni, coeve alle prime

indipendenze, espressero un ottimismo romantico e liberale, talvolta però astratto,

ed avulso dalla realtà. Queste Costituzioni non si limitarono a introdurre libertà

civili individuali e ad abolire taluni retaggi corporativi, come ad esempio la

schiavitù, ma previdero poteri esecutivi deboli, Parlamenti con ampie funzioni,

Stati federali, diritto di voto molte volte esteso. La seconda ondata costituzionale,

durata più o meno dal conseguimento delle indipendenze fino a metà Ottocento,

espresse principi più conservatori e centralisti, richiamandosi alla Costituzione di

Cadice o al modello napoleonico, molto popolare tra i militari. Questa ondata

cercò di fare armonizzare il principio liberale della Costituzione con le tradizioni e

le realtà sociali locali. Queste Costituzioni badarono più all’ordine che alle libertà,

limitarono l’accesso al voto in base al censo e accantonarono l’ambizione di

limitare il potere ecclesiastico: in alcuni casi considerarono la Chiesa un

instrumentum regni. Tuttavia, anche queste Costituzioni non furono più efficaci

delle precedenti, se non per brevi periodi, durante i quali talune aree, come il

Venezuela, il Cile e la vasta provincia di Buenos Aires, vissero periodi di relativa

stabilità. Anche nei Paesi dove furono approvate queste Costituzioni, il potere restò

affidato ai caudillos che lo esercitavano in forma più vicina ai vecchi costumi che

non al nuovo spirito costituzionale. I caudillos si circondavano di una ampia rete di

clientele, alle quali garantivano protezione in cambio dell’obbedienza. In tal modo

la loro autorità sovrastava leggi e norme, essendo, dunque, del tutto arbitraria.

L’indipendenza per l’America Latina non rappresentò quindi un cambiamento

verso un nuovo ordine del tutto positivo, anche se in termini sociali il mutamento

più rilevante fu la lenta scomparsa della schiavitù, dapprima laddove era una realtà

marginale, come in Messico, in Cile, in America Centrale e, solo più tardi dove

risultava essere un aspetto sociale più rilevante. La scomparsa della schiavitù

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avvenne non tanto grazie ai testi costituzionali, quanto ai crescenti ostacoli alla

tratta di schiavi, per la loro scarsa produttività e perché molti di questi vennero

reclutati negli eserciti. La schiavitù resto così soltanto sulle coste caraibiche e nel

Brasile, dove rimase in vigore sino al 1888. Anche per gli indiani, l’indipendenza

procurò dei cambiamenti: si tentò di eliminare i tributi speciali da loro pagati, per

far di loro cittadini eguali e liberi: obiettivo questo che si imbatté in gravi problemi

fiscali, per cui specie in Bolivia e in Perù tali tributi continuarono ad esistere.

Tuttavia il sottrarre gli indiani da un regime sociale opprimente, li lasciò spesso in

balia d’un ancor più acceso sfruttamento; in particolare in Messico, in Guatemala e

nel sud America andino, le comunità indiane continuarono a vivere in uno stato di

totale povertà. In termini strettamente economici la più importante novità, frutto

dell’indipendenza, fu l’introduzione e la diffusione della libertà di commercio

soprattutto con la Gran Bretagna. Pur senza causare un boom commerciale, che

solo la rivoluzione tecnologica nei trasporti rese possibile nella seconda metà

dell’800, spinse l’Inghilterra a ricercare in America Latina nuovi mercati e

materie prime per le proprie industrie e per il consumo della propria popolazione.

Tutto ciò provocò però per l’America Latina da un lato una crisi del mercato

interno, già molto debole, dall’altro aprì la prospettiva di finanziare il bilancio

pubblico, in molti paesi legato soprattutto ai tributi indiani, con le imposte sul

commercio estero. In tale contesto, il ceto sociale che venne favorito fu quello

commerciale, in crescita soprattutto nelle principali città portuali.

Gli echi delle rivoluzione del 1848 nel Vecchio Continente risuonarono anche in

America Latina. Anche sui suoi territori soffiò il vento dei tempi nuovi, vento

foriero di cambiamenti e di mutamenti politici e sociali. Si determinò così una

svolta, diversa da paese a paese, anche se ebbe una matrice comune

nell’integrazione commerciale e finanziaria nei confronti delle maggiori potenze.

Per le elite creole l’indipendenza era rimasta a mezza via: la nuova generazione

liberale di metà secolo rianimò così il progetto di edificare in America delle società

liberali e votate al progresso, società che dovevano rispecchiarsi in quelle più 17

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avanzate dell’Occidente. Bisognava così liberarsi del passato: per i nuovi liberali

occorreva andare oltre usando misure drastiche. Bisognava così lanciare un deciso

attacco al pilastro storico del Vecchio Continente, ossia alla Chiesa cattolica, sia

perché i suoi ingenti beni sottratti alla circolazione della ricchezza

rappresentavano il simbolo del freno verso il progresso, sia per il suo monopolio

sull’ educazione, che intralciava la diffusione delle nuove idee e la nascita di

cittadini fedeli allo Stato. Infine, i nuovi liberali vedevano nella Chiesa e nella sua

dottrina l ’immagine di quella società organica di cui volevano sbarazzarsi. Fu

proprio contro la Chiesa che si acutizzarono i conflitti, a volte contenuti, più spesso

molto cruenti, come in Messico. Tutti questi conflitti portarono allo sgretolamento

di quell’ordine politico tanto importante nell’età coloniale.

Nel 1840 si sciolse la Confederazione Centroamericana nata nel 1823 e dalle sue

rovine sorsero gli Stati di Guatemala, Honduras, Salvador, Nicaragua e Costa Rica.

La grande Colombia di Bolívar sorta nel 1819 si dissolse già nel 1830 e al suo

posto nacque la Colombia, il Venezuela e l’ Ecuador. Il Vicereame del Perù perse

il Cile e la Bolivia. Le Provincie Unite del Rio de la Plata si sgretolarono e

l’Argentina non poté tener legato a sé il Paraguay, né impedire la nascita

dell’Uruguay. I nuovi Stati furono dal primo momento solcati da profonde

spaccature al loro interno. Tutti furono in qualche modo preda di conflitti tra il

Centro e la Periferia, la Costa e l’Altopiano, il Porto e l’Interno, tra città e città. Il

Messico, in particolare, venne dilaniato dal conflitto tra centralisti e federalisti. Le

eccezioni sono rare. La prima, già nota, fu il Brasile, dove l’impero di Pedro I

prima, e ancor più quello di Pedro, II dopo il 1840, garantirono stabilità con la

Costituzione del 1824. Per quanto riguarda l’America ispanica l’eccezione fu

quella del Cile, dove dopo decenni di conflitti, si ebbe un lungo periodo di stabilità

e consolidamento istituzionale. Nel 1831, sotto la ferrea guida di Diego Portales e i

precetti autoritari della Costituzione del 1833, il Cile gettò per primo le basi dello

Stato unitario, basi che sopravvissero alla caduta di quel regime nel 1861.

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5) La nascita degli Stati moderni in America Latina

Lungo tutta l’epoca compresa tra gli anni ’70 dell’Ottocento e la prima guerra

mondiale si ebbe, in America Latina, una crescita economica ed una certa stabilità

politica, consolidandosi le moderne strutture dello Stato – Nazione. Indubbiamente

il processo di modernizzazione, al quale nessun paese rimase escluso, ebbe tuttavia

intensità diversa da un territorio all’altro: l’Argentina, il Messico, il Cile e il

Brasile si posero in testa a tale processo, il Venezuela e la Colombia restarono, al

contrario, in posizione arretrata, vittime ancora dei vecchi schemi politici dettati

dalla violenza e dal caudillismo. Questo cambiamento politico ed economico

derivò soprattutto dal fatto che i governi, per la prima volta, furono in grado di

imporre la legge sull’intero territorio nazionale. Sorsero così gli Stati moderni

dotati di milizia regolare, e con una amministrazione fiscale, giudiziaria e

scolastica nazionale. Le ferrovie riducevano le distanze spaziali e l’azione

pubblica riuscì ad ampliarsi grazie alla diffusione della carta stampata. Si

determinò così una sorta di occidentalizzazione, sia pur con le peculiarità proprie

della realtà americana. Questo cambiamento in campo economico riuscì a

realizzarsi grazie alla rivoluzione industriale europea e a quella tecnologica che ne

seguì: entrambi posero le premesse per una integrazione dell’America Latina

nell’economia mondiale. In campo politico vi fu una sorta di compromesso tra

liberali e conservatori per il raggiungimento della stabilità politica considerata

determinante per lo sviluppo delle varie aree. Dalla metà dell’Ottocento, dunque,

sino alla fine del primo conflitto mondiale, l’America Latina fu investita da una

forte ondata di globalizzazione. Nelle navi a vapore che percorrevano l’Atlantico

e nei treni che attraversavano i vari paesi dell’America Latina non vi erano solo

merci, ma uomini che lasciavano l’Europa per vivere, lavorare, in quelle nuove 19

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terre. Così nuovi costumi, tradizioni, ideologie giunsero nei vari paesi

dell’America Latina, arricchendo la sua già intrigata trama sociale. Come tutte le

grandi trasformazioni anche queste ebbero luci ed ombre. Per molti storici si

trattava di un nuovo dominio coloniale, un neocolonialismo, che rese dipendente

l’economia locale, soggiogandola ai potentati esteri. Per altri, al contrario,

l’America Latina stava uscendo dalle secche della produzione dell’autoconsumo e

si stava avviando verso la modernizzazione. Guardando oggettivamente la

situazione bisogna dire che se da un lato l’America Latina visse una notevole fase

di crescita economica, dall’altro le sue economie furono indotte a specializzarsi

nella produzione di beni richiesti dal mercato mondiale e ciò incoraggiò la

concentrazione della ricchezza e della proprietà terriera acuendo le già profonde

frammentazioni sociali. Le trasformazioni economiche portarono anche

trasformazioni sociali, le quali furono più rapide nei paesi che s’integrarono

all’economia mondiale. Tutto ciò comportò innanzitutto la crescita demografica

dovuta, in talune regioni, anche dall’arrivo di popolazione europea;

l’inurbamento, particolarmente esteso in Argentina, Cile e Venezuela; la

scolarizzazione, almeno nei centri urbani; lo sviluppo del terziario, per la

proliferazione di nuove professioni ed infine l’industrializzazione, soprattutto in

Brasile, Messico e Argentina. L’America Latina stava così iniziando a

differenziarsi maggiormente in campo sociale soprattutto nei paesi dove

l’immigrazione di massa giunse a scuotere le gerarchie sociali tradizionali. Le

élites cambiarono volto e, a fianco di quelle tradizionali, intrise di spirito

aristocratico, ne sorsero altre ricche di valori borghesi. Anche queste legate, come

le prime, alla proprietà terriera, intesa però non solo quale mero status sociale, ma

come fonte di progresso e di ricchezza. Anche i ceti popolari mutarono, soprattutto

nelle città, ed apparve anche l’immagine di un proletariato sul quale caddero

subito le prime repressioni. Crebbero però soprattutto i ceti medi, spesso meticci o

immigrati, legati al commercio e all’amministrazione pubblica. I regimi politici

che si formarono erano così oligarchici, poiché la partecipazione era limitata e il

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potere politico ed economico restava concentrato in una élite ristretta. L’élite era

quasi sempre bianca e colta, al di là dell’appartenenza ad un partito o ad un altro.

Queste élite mantennero il monopolio del potere politico e quindi furono

politicamente conservatrici, anche se, nel corso del tempo, vi furono mutamenti

che portarono alla liberalizzazione del dibattito politico, all’espansione del

suffragio e a competizioni politiche più combattute che nel passato. La

convergenza tra liberali e conservatori era dunque evidente, sia pur con le varie

contraddizioni esistenti. Sorsero così dei veri patti tra élites che si erano

combattute ai tempi del caudillismo e che ora trovavano opportuno unirsi per

l’interesse politico ed economico. Si ebbe così una convergenza frutto

dell’ideologia di quei regimi legata alla cultura positivista. Nella bandiera

brasiliana furono scritte le parole chiave di tale visione politico–sociale–

economica: Ordine e Progresso. Il positivismo, cultore della ragione e del

progresso, e quindi distante dal culto della fede e dello spirito cari ai conservatori,

concepiva però la società quale un organismo naturale. L’organismo scientista dei

positivisti trovò così un punto di accordo con l’organicismo cattolico dei

conservatori. Di tale società i primi vantavano la conoscenza delle leggi

scientifiche che l’animavano, i secondi il disegno divino che tale società

rispecchiava. L’ideologia positivista, in tal modo, legittimò il patto implicito tra

liberali e conservatori e il progressivo accantonamento dei furenti attacchi dei

primi verso la Chiesa come verso l’esercito, permise che queste due realtà

risultassero preziose alleate per la stabilità politica e sociale. Tuttavia la nascita,

fin da fine ’800, in diverse parti dell’America Latina di nuovi partiti politici e di

numerosi movimenti di lavoratori, spesso anarchici e socialisti, ma anche cattolici,

dal Messico al Cile, dall’argentina a Cuba, fu sintomo delle prime crepe che a poco

a poco stavano indebolendo i regimi liberali. Esaminiamo tre casi specifici.

In Messico vi fu dal 1876 al 1910 un lungo periodo dominato da Porfirio Diaz. In

termini politici fu una lunga autocrazia che impose l’ordine dopo lunghe lotte

civili. Diaz volle pacificare il paese per sfruttare le opportunità del progresso 21

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economico. Per far questo, ricucì i rapporti con la Chiesa e si avvalse del sostegno

dei grandi proprietari terrieri, beneficati dalle terre sottratte alle comunità indiane,

contro le quali egli non esitò ad usare anche la forza. In campo economico il suo

fu un regime modernizzatore, capace di attrarre ingenti investimenti e far crescere

l’economia e gli introiti fiscali. Non a caso si registrò anche un boom

demografico, nonostante i bassi salari inibissero la grande immigrazione. Il

porfiriato, come venne definito tale regime, fu di stampo positivista, tanto che i

suoi intellettuali vennero chiamati los scieníficos; tuttavia, invecchiando Diaz, si

impose il nodo della successione. Essendo la sua una dittatura senza canali

rappresentativi, la crisi assunse forme traumatiche e venne travolta dalla

rivoluzione. Più o meno simile ciò che accadde in Brasile dove il dominio di

Pedro II, contestato dai repubblicani e dai conservatori, durò sino al 1889, quando

il sovrano venne deposto con un colpo di stato militare. Anche il Brasile divenne

una repubblica e i militari ottennero un potere rilevante all’interno del paese.

Sorse la Repubblica Velha destinata a vivere sino al 1930. Retta dalla Costituzione

del 1891, che aveva sancito la nascita di uno Stato federale, quello del Brasile fu

un patto tra oligarchie, in cui le più deboli accettarono la guida delle più forti.

Chiave economica di quel regime, anch’esso intriso di ideologia positivista, fu il

caffè, bene sul quale il Brasile fondò la sua modernizzazione economica, alla

quale diedero grande impulso i capitali inglesi. Di per sé elitista, il regime

brasiliano subì, col tempo, i contraccolpi della sua rapida modernizzazione. Ciò si

manifestò soprattutto con le agitazioni dei lavoratori urbani, con l’insofferenza dei

giovani ufficiali e con l’ascesa di una nuova entità statale, il Rio Grande do Sul,

che finì per scompaginare l’ordine instaurato. Infine l’Argentina. Le trasformazioni

che essa visse in questo periodo furono davvero complesse. Il suo regime politico

trovò espressione nel Partido Autonomista Nacionale. Si registrò un patto tra

oligarchie, in particolare tra le potenti élites della Capitale e quelle dell’intero

paese, che subirono l’egemonia delle prime. Anche in Argentina, dove

l’immigrazione europea fu davvero rilevante, trovò accoglimento la cultura

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positivista che non rinnegò i legami commerciali con la Gran Bretagna. Divenne

così un paese molto ricco con un grande futuro prognosticato. Nel 1912, con la

ley Sáenz Peña, la quale introduceva la segretezza e l’obbligatorietà del voto,

quello argentino parve l’unico regime latinoamericano sul punto di passare, senza

molti traumi, dalla prospettiva liberale a quella democratica.

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6) L’America Latina: dalla fine dell’Ottocento al 1930

La guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna per l’isola di Cuba del 1898, tanto agevole

per i primi e tanto tragica per i secondi, rappresentò una radicale svolta per le

relazioni internazionali dell’America Latina. Con quella guerra crollò

definitivamente quel poco che ancora restava in piedi dell’impero spagnolo in

America (el desastre venne infatti denominata) ma iniziò l’espansione militare e

economica statunitense nella realtà latinoamericana. Washington riconobbe a Cuba

l’indipendenza, ma al prezzo di riservarsi il diritto d’intervento nei suoi affari

interni. Continuando poi con Panama dove, nel 1903, gli Stati Uniti aiutarono gli

irredentisti locali a conseguire l’indipendenza dalla Colombia in cambio della

concessione del diritto a costruirvi un canale interoceanico, inaugurato nel 1914.

Con il tempo l’influenza statunitense si proiettò sul Nicaragua, sulla Repubblica

Dominicana, sul Guatemala, su Haiti, ora con gli investimenti delle multinazionali

agricole e minerarie, ora con la crescita della propaganda culturale, ora con gli

interventi dei marines per riportare ordine ai vari paesi del territorio. La nuova

stagione che si stava aprendo nei rapporti tra Stati Uniti ed America Latina veniva

riassunta, da parte del presidente Theodore Roosevelt, nel 1904 con la ripresa

della dottrina Monroe del 1823. Egli infatti rivendicò per il suo paese il diritto

d’intervento nel resto delle Americhe al fine di garantirvi l’ordine politico e la

prosperità economica, tenendo lontane le potenze europee. In tal modo si poteva

compiere la missione civilizzatrice degli Stati Uniti, la cui volontà era quella di

esportare a tutto il continente i principi contenuti nella costituzione del 1787.

L’America Latina non partecipò al primo conflitto mondiale e non ne fu terreno

di battaglia. Tuttavia la Grande Guerra, almeno indirettamente, mutò alcune realtà

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di quei territori. Innanzitutto cominciò a far suonare i primi campanelli d’allarme

di quei regimi oligarchici e la successiva Grande Depressione, in America Latina,

determinò non solo il crollo del modello economico imperante da decenni, ma

anche una serie di colpi di Stato dove il potere fu assunto dai militari. Così, sia pur

con le dovute differenze, i problemi europei si estesero anche in quelle realtà,

primo tra tutti il passaggio dalla società d’élite alla società di massa, dal

liberalismo delle élites alla democrazia del popolo. Il passaggio alla

modernizzazione dimostrò spesso l’incapacità di allargare le basi sociali, ossia di

costruire il consenso. Si sviluppò così un nazionalismo dietro al quale si poteva

ancora vedere l’antico immaginario organicista pronto a riproporsi per mano

soprattutto dei militari. La crisi dei regimi pre-esistenti non fu tuttavia univoca,

anche perché non tutti caddero, come l’Uruguay e il Cile, dove invece si evolsero

in senso più democratico. In Uruguay, in particolare, la democrazia poggiava

sull’elevato grado di laicità della vita pubblica e sul buon tenore di vita della

popolazione. Figura chiave di tale realtà fu José Batlle y Ordoñez, presidente della

Repubblica uruguayana. Fu lui infatti a premurarsi di ampliare la base sociale dei

due partiti tradizionali, passando precocemente al suffragio universale, poi esteso

dai suoi successori negli anni’20 e’30 anche alle donne. Nel 1905 riconobbe ai

lavoratori urbani il diritto di sciopero e portò avanti una serie di riforme sindacali.

Riforme seguite, nel decennio successivo, dalla riduzione a otto ore della giornata

lavorativa e da una moderna legislazione sociale. Inoltre in Uruguay vennero

introdotte importanti leggi tendenti alla secolarizzazione del paese, tra cui quella

sul divorzio.

In termini politici quello che più erose la stabilità e la legittimità dei vecchi regimi

fu la crescente domanda di democrazia. Chiunque l’invocava, sovente non aveva

chiaro cosa veramente quella parola significasse. Così, forse, è più corretto

affermare che nella maggioranza dei paesi latinoamericani si registrò una crescente

domanda di partecipazione politica. I nuovi ceti, perlopiù ceti medi, diedero vita a

nuovi partiti. In Argentina, ad esempio, sorse l’Unión Civica Radical, e in Perù 25

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l’Alianza Popular Revolucionaria Americana. Si richiedevano elezioni libere e ciò

metteva in crisi le oligarchie dal volto autoritario. La caduta dei regimi liberali,

tuttavia, non spianò la strada alla democrazia rappresentativa, ma ad altri regimi

politici, come, il populismo. In qualche modo, in America Latina si ripetevano gli

stessi eventi propri dell’Europa meridionale. Emblema della medesima domanda di

partecipazione e cambiamento fu il movimento della riforma universitaria, sorto a

Cordoba, in Argentina, nel 1918, nel cui programma vi era la richiesta di

democratizzare l’accesso e il governo delle università. Dopo la rivoluzione

bolscevica del 1917 sorsero anche partiti comunisti, riuniti nel 1929 nella Prima

Conferenza dei partiti comunisti dell’America Latina. Le certezze delle élites

cominciavano così sempre più a vacillare. I regimi oligarchici non erano in grado

di affrontare i moderni conflitti sociali e ideologici. In Messico vi fu addirittura

una rivoluzione tra il 1911 e il 1917. Di tale rivoluzione fu leader Francisco

Madero che sfidò Díaz e chiamò il popolo alla rivolta. Madero fu però travolto dai

dissidi tra rivoluzionari, come Emiliano Zapata, il quale non era disposto a

consegnare le armi fintanto che non fosse stata approvata la riforma agraria. Con

la Costituzione di Querétaro del 1917, la quale accolse alcuni principi liberali

come la libertà individuale e la laicità dello Stato, venne sottolineata la proprietà

della nazione sui beni del sottosuolo e poste le basi per una riforma agraria.

Tornando al primo conflitto mondiale, questo mise fine all’immagine di una

Europa felice, e, soprattutto in campo economico, danneggiò economicamente

l’America Latina. Infatti molte economie latinoamericane si trovarono senza

sbocchi, e ciò favorì la penetrazione finanziaria statunitense al posto di quella

europea. Tuttavia, come detto, la crisi economica fu protagonista del primo

dopoguerra e con essa la scarsità dei beni, l’inflazione, la disoccupazione: tutto ciò

determinò un’ondata di scioperi spesso violenti, repressi con la violenza, tra il

1919 e il 1921. Il clima stava così mutando e quando dieci anni dopo giunsero i

drammatici effetti della crisi economica mondiale, il terreno era ormai fertile per

nuovi sommovimenti politici.26

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7) L’America Latina tra nuovi nazionalismi e instabilità politica

Il nuovo clima politico fu annunciato prima e accompagnato poi dal sorgere di

nuove idee in campo politico, sociale ed economico. Il positivismo cominciò a

subire i primi attacchi nel 1900 quando uscì l’Ariel di José Enrique Rodó, una

sorta di manifesto del nazionalismo e della reazione antimaterialista. Durante l’età

liberale, la tendenza prevalente era stata quella di implementare modelli politici e

culturali provenienti da Occidente. Iniziava, invece, a prevalere l’idea di ricercare

le origini di un nazionalismo, all’interno della storia locale. Si voleva fare la

nazione e forgiare i cittadini, instillando nella popolazione il senso di appartenenza

e destino condivisi. In tale quadro, era rivalutata anche l’America meticcia, sino ad

allora rimasta sempre ai margini. Al posto di esaltare le virtù e le libertà

dell’individuo, si cominciarono a considerare l’essenza e i valori della comunità;

una reazione maturata fin dagli anni ’20 e sfociata in un vero e proprio revival

cattolico, i cui protagonisti, sovente, erano i positivisti convertiti. All’ottimista fede

nel progresso subentrò una ricerca di identità, tanto che da allora si cominciò a

parlare di brasilianidade, di cubanidad, di peruanidad, e così via. Nella

maggioranza dei paesi latinoamericani si cercò così una strada alternativa a quella

indicata dalla cultura positivista.

Parliamo ora di Argentina. Dopo l’introduzione della già ricordata ley Sáenz Peña

del 1912, si aprirono le porte ad un regime democratico, con elezioni a suffragio

universale maschile. Tuttavia anche qui, nel 1930, con un colpo di stato,

l’esperienza democratica venne cancellata, lasciando il passo a forze militari e

conservatrici. Tuttavia la giovane ed imperfetta democrazia argentina cadde anche

per la tendenza del partito maggioritario, quello radicale, a trasformarsi in

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movimento nazionale. In questo contesto, si riversarono poi i tragici effetti della

crisi di Wall Street, cosicché anche l’Argentina vide l’affermazione di regimi

prettamente autoritari. Nel Brasile, oltre agli effetti del crack economico del 1929,

altre cause ne determinarono il declino politico. La prima fu la nascita del nuovo

Stato Rio Grande do Sul, la cui ascesa fece saltare la consueta alternanza tra le

élites di San paolo e Minas Gerais. Proprio da tale Stato, infatti, proveniva

Getúlio Vargas, l’uomo che, sconfitto alle elezioni del 1930, ne denunciò

l’irregolarità e venne poi portato al potere dall’esercito. Il secondo fattore di

instabilità fu il ruolo ricoperto dai militari, i tenentes, i giovani ufficiali che

incarnarono il nuovo clima nazionalista, imponendo la creazione di uno Stato

accentrato. In molte aree i militari furono, dunque, i protagonisti incontrastati di

questo periodo.

L’età del big stick, ossia la politica statunitense di intervento, armato e

diplomatico, negli affari interni delle altre repubbliche americane, inaugurata dal

presidente T. Roosevelt nel primo decennio del 20° sec., sembrò così raggiungere i

scuoi scopi. Alcune volte tali interventi furono brevi, altre durarono molti anni, con

lo scopo di proteggere i cittadini e gli interessi delle aziende statunitensi dal

disordine locale: tra queste ultime soprattutto quelli delle grandi multinazionali,

tra le quali la United Fruit Company. In altre occasioni gli interventi militari,

specialmente sotto Woodrow Wilson, ebbero ambizioni di natura più politica ed

espressero un intento paternalistico e pedagogico. In ogni caso, comunque, essi

cercarono di scalzare gli interessi europei e di valorizzare la civiltà americana:

contribuirono ad alimentare il nazionalismo che, come detto, cominciava a crescere

negli Stati dell’America Latina. L’interventismo degli Stati Uniti accrebbe così il

nazionalismo latinoamericano, il quale trovò nella ingerenza politica di

Washington, e soprattutto nella civiltà che ambiva esportare, il nemico contro il

quale combattere per far valere la propria identità. Tipico esempio di tale

situazione fu il caso del piccolo esercito guidato in Nicaragua contro i marines da

Augusto Sandino, una sorta di Davide nazionalista ucciso nel 1934 dalla Guardia 28

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nazionale messa in piedi dagli Stati Uniti durante la loro occupazione. Il

nazionalismo latinoamericano cominciò così a rifiutare il liberalismo, il

capitalismo, la democrazia rappresentativa, poiché valori legati agli Stati Uniti. In

tal modo rivalutò la civiltà cattolica, basata sul comunitarismo e la democrazia

organica.

Un conflitto particolarmente interessante di questo periodo fu la guerra del Chaco.

Gli assestamenti degli Stati – Nazione, dai confini spesso incerti, ebbero un ruolo

chiave nella crescente tensione che dagli anni ’20 caratterizzò i rapporti tra

Bolivia e Paraguay. Benché formalmente la guerra fosse dovuta alla competizione

di due grandi imprese petrolifere straniere sul territorio contestato tra i due paesi, a

farla esplodere fu soprattutto la frustrazione boliviana per il fallimentare esito dei

negoziati per lo sbocco al Pacifico, che indusse così il Governo ad aprirsi uno

spazio verso l’Atlantico attraverso il sistema fluviale del Paraguay. La guerra,

sorta nel 1932, si concluse con l’armistizio di Buenos Aires del 1935, che fruttò

al ministro degli Esteri argentino il premio Nobel per la Pace, al Paraguay il

riconoscimento della sovranità sul territorio (tre quarti del Chaco Boreale) e alla

Bolivia una nuova umiliazione. La guerra determinò la morte di oltre 100.000

persone. Dopo il conflitto, in Bolivia, vi fu una crisi istituzionale: il presidente

Salamanca, già dalla fine del 1934, era stato sostituito dal suo vice Sorzano per

volontà dei militari. Anni dopo si scoprì che nella porzione di territorio passato

alla Bolivia vi erano sensibili ricchezze di gas naturale e petrolio. Nel 2009 Evo

Morales, presidente della Bolivia e Fernando Lugo, presidente del Paraguay

firmarono un accordo per stabilire, con migliore certezza, il confine tra i due Stati:

erano passati oltre 70 anni dalla fine della guerra.

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8) Crisi democratica e instabilità sociale

Il crollo della borsa di Wall Street, nell’ottobre del 1929, portò, come detto, delle

ripercussioni anche in America Latina. Si trattò di effetti immediati e visibili, ma

anche di più lunga portata, destinati ad incidere sulla struttura stessa del modello di

sviluppo della regione. I primi si manifestarono con il repentino crollo del prezzo

delle materie prime esportate, crollo che causò nell’area latinoamericana una

drastica riduzione delle entrate e del valore delle esportazioni: tutto ciò provocò dei

negativi effetti a catena nei diversi paesi dell’America Latina. Inoltre, i bilanci

pubblici di quasi tutti i paesi latinoamericani evidenziavano la profonda sofferenza

delle economie locali. I governi furono così costretti a tagliare le spese, a bloccare

gli investimenti pubblici, mentre i militari prendevano il potere con la forza.

Tuttavia, a metà degli anni ’30, le economie di buona parte dei paesi si

risollevarono. Diversamente accadde per il modello di sviluppo: la crisi del 1929

infatti diede un colpo letale al modello basato soprattutto sulle esportazioni e creò

le condizioni per un suo accantonamento. Si crearono così mercati protetti da

barriere doganali, si ricorse a misure protezionistiche e si abbandonò il liberalismo

dei tempi passati. L’intervento dello Stato aumentò sempre più e anche la tendenza

a investire maggiormente sul settore industriale rispetto a quello commerciale,

soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, quando il nuovo tracollo degli

scambi oceanici dette maggior impulso alla produzione locale. Si trattava di

fabbricazione di beni di vasto consumo, la cui produzione non richiedeva moderne

tecnologie e grandi capitali: alimenti, indumenti, calzature. Tutto ciò non

eliminava comunque il grande peso che ancora le esportazioni di materie prime

davano alle economie nazionali.

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Anche l’immigrazione gradualmente diminuì, dopo che per decenni aveva

sconvolto il panorama demografico locale. Tuttavia, allo scoppio della guerra

civile in Spagna, un grande numero di rifugiati repubblicani, spesso artisti ed

intellettuali, trovarono accoglienza in America Latina, soprattutto nel Messico. La

popolazione comunque continuava ad aumentare, con una media del 2% annuo

negli anni ’30, grazie all’elevato tasso di natalità e alla riduzione di quello di

mortalità, soprattutto per il miglioramento delle condizioni sanitarie nelle città e

per la quasi scomparsa di alcune malattie endemiche, come il colera.

Non cessò invece il fenomeno dell’inurbamento, in quanto masse di popolazione

rurale continuarono a lasciare le campagne per raggiungere le città, dove, tuttavia,

non era facile trovare lavoro nelle nascenti fabbriche. I maggiori centri urbani non

sempre riuscivano a far fronte a tali flussi migratori con i necessari servizi; così si

formarono agglomerati di baracche e casupole, alle quale ogni paese dette un nome

che più gli parve conveniente: villas, favelas, ranchos. Restavano comunque

marcate le differenze da paese a paese: in Argentina, Cile e Uruguay la

popolazione urbana superava già il 30%, mentre in Messico, Perù, Brasile e

Colombia non raggiungeva il 15%. Indubbiamente, il tasso d’alfabetizzazione era

più elevato tra la popolazione urbana che tra quella rurale, dove l’analfabetismo

dominava. In linea generale, però, ancora in questo periodo, la maggior parte della

popolazione continuava a vivere nelle campagne e sempre dalla campagna

dipendeva gran parte dell’attività produttiva dei vari paesi.

Nonostante la rivoluzione messicana e la riforma agraria di cui si è già detto, il

problema della terra e della sua pessima distribuzione era al centro dell’attenzione

dei governi. L’ambiente agricolo era, inoltre, ancora legato ad un profilo quanto

mai arcaico, nel quale dominava l’autoconsumo e dilagava la miseria, dove il

mercato interno era molto sterile e dove la maggioranza della popolazione non

possedeva la terra o non ne aveva a sufficienza. Dal 1919 iniziarono ,così, anche in

America Latina, numerosi scioperi, a conferma che il moderno conflitto di classe

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stava sbarcando anche in quelle terre. Crebbe così il peso dei sindacati, che

intensificarono le mobilitazioni per ottenere la giornata lavorativa di 8 ore e

l’introduzione di un sistema previdenziale in caso d’incidenti o malattie. Il

padronato era però poco propenso al negoziato, continuando ad attribuire la

responsabilità di quei conflitti alla perniciosa suggestione delle influenze esterne.

Cominciarono, tuttavia, sin d’allora a prefigurarsi le varie correnti sindacali, a

cominciare dal sindacato di classe, nel quale socialisti e comunisti ebbero la

meglio sul declinante anarchismo e nel 1938 conversero nella Confederación de

Trabajadores de América Latina, un organismo collaterale alle forze antifasciste e

facente capo alla figura carismatica del messicano Vicente Lombardo Toledano. Vi

erano poi i sindacati cattolici molto potenti per la capacità di attrarre consensi

servendosi della dottrina sociale dei Pontefici, come ad esempio della enciclica

Rerum Novarum di Leone XIII: questi rappresentavano una terza via tra

comunismo e capitalismo. I sindacati cattolici condannavano così l’individualismo

sfrenato, riprendendo i modelli di Franco in Spagna e Salazar in Portogallo.

Come l’ Europa, anche l’America Latina, agli inizi degli anni ’30 fu teatro della

crisi della democrazia rappresentativa che, in realtà, aveva mosso appena i primi

passi in questo contesto. Nel clima dell’epoca, segnato dalla partecipazione delle

masse nella vita politica e dal diffondersi del conflitto sociale, prevalsero modelli

politici e ideologie indifferenti o avverse alla democrazia liberale e alle istituzioni

dello Stato di diritto. Se, infatti, da un lato le spinte verso la democratizzazione,

emerse già in precedenza, continuarono a svilupparsi ed anzi ad intensificarsi,

dall’altro trovarono sempre meno sbocco all’interno delle istituzioni

rappresentative. Se si era rilevata ardua l’integrazione politica dei nuovi ceti medi,

spesso bianchi e alfabetizzati, oltre che socialmente moderati, diveniva molto

complessa e, in qualche modo impossibile, l’integrazione dei ceti popolari, spesso

indiani o neri, spesso analfabeti e con idee radicali o rivoluzionarie. Si richiedeva

così soprattutto una democrazia organica, invocata dai leader populisti,

insofferente verso le mediazioni e le istituzioni della democrazia rappresentativa. 32

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In poche realtà vi fu l’implementazione di una democrazia liberale: Cile, Uruguay,

Costa Rica, dove, tra l’altro, si resse non esente da pericoli continui. In Perù e

Bolivia la spinta democratica venne arrestata da brusche reazioni autoritarie. In

Messico, Argentina e Brasile venne assorbita nei regimi populisti, regimi che alla

crescente domanda di democrazia risposero con motivazioni nazionalistiche,

voltando così le spalle al vecchio liberalismo. Questi regimi organizzarono così le

masse, includendole nei nuovi ordini sociali, ma con una guida politica intollerante

al pluralismo.

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8) L’America Latina tra regimi autoritari e populismi

Non ovunque, ma comunque nella maggior parte dei paesi, si imposero, in questo

contesto, le Forze Armate: sia attraverso colpi di Stato, come in Argentina,

Brasile e Perù, sia in generale per le funzioni politiche che assunsero, come in

Venezuela, dopo la dittatura di Jan Vincente Gómez. Militari al potere ve ne erano

sempre stati, ma lungi dall’essere come caudillos in divisa, i militari di adesso

erano membri di istituzioni professionali, organizzate e relativamente disciplinate.

Nei tempi passati, inoltre, avevano governato come civili, ora rivendicavano il

proprio status militare e la propria appartenenza alle Forze Armate. Il ruolo degli

eserciti, quindi, si accrebbe in tutta l’America Latina e, nei paesi in preda a

profondi conflitti, le Forze Armate surrogarono con la forza delle armi la

debolezza delle istituzioni rappresentative. Le istituzioni militari, con la

coscrizione obbligatoria, inserivano al loro interno giovani d’ogni classe e

provincia e si ergevano così a organi «democratici», non sempre contro il popolo. I

militari cominciarono a sentire il dovere di prendere le redini del governo e di

guidare la modernizzazione nazionale, sottraendo il potere a delle élites ormai

inaffidabili e incapaci. La loro funzione poteva anche essere considerata tutelare, in

quanto in quelle società così profondamente frantumate, questi tesero ad imporre

una unità politica intesa come armonia tra ceti e classi e una unità spirituale come

adesione all’identità eterna della nazione. La democrazia da loro espressa era

quindi la «democrazia funzionale», dove la rappresentanza veniva espressa non

attraverso i partiti e le mediazioni politiche, ma direttamente attraverso i corpi

sociali, ossia i sindacati, le professioni, le università, la chiesa, ecc. I loro

interventi erano a volte conservatori, altri riformisti, in quanto sovente cercavano

di riportare l’ordine e l’unità, ma anche a promuovere lo sviluppo e l’integrazione 34

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delle masse e riportare all’armonia l’organismo sociale: i militari furono, in questo

senso, il più potente veicolo della reazione organicistica.

Negli anni ’30 cominciò a diffondersi in America Latina, a cominciare dal Brasile

e dal Messico e poi, dopo il 1945, dall’Argentina, il fenomeno del populismo. I

populismi furono regimi fondati su ampie basi popolari, delle quali ottennero il

consenso e guidarono l’integrazione politica con vari modelli di redistribuzione

della ricchezza. La nuova centralità assunta dallo Stato e la necessità di ampliare il

mercato interno crearono le condizioni di una importante, benché transitoria

convergenza d’interessi tra produttori e lavoratori, uniti nella prospettiva di

accrescere il consumo e la produzione, cercando di sottrarre il potere avuto sino a

quel momento dall’economia delle esportazioni. Il populismo avrebbe così creato

una sorta di fronte nazionalista, e, anche se diverso da caso a caso, in campo

politico non dimostrò mai di avere una concezione liberale della democrazia. La

democrazia doveva infatti appartenere non alla sfera politica ma all’ambito delle

relazioni sociali. La più vera delle democrazie era quindi quella che tendeva alla

giustizia sociale. Il popolo era per i populisti una comunità coesa ed omogenea,

unita da una storia e da un destino comune, ed al popolo i regimi populisti

dedicarono la loro maggior attenzione cercando di “salvarlo” da nemici interni ed

esterni, che minacciavano la sua unità, la sua intrinseca purezza ed innocenza.

Nemici della oligarchia liberale, del comunismo ateo e dell’imperialismo

anglosassone, i populisti ricercavano un leader carismatico capace di dialogare col

popolo direttamente, senza le mediazioni e le istituzioni politiche. Animati da un

forte afflato religioso, questi anteponevano la fede alla ragione, la volontà alla

razionalità, la politica all’economia, attuando politiche economiche e sociali spesso

molto dispendiose e popolari nell’immediato, ma non sostenibili nel tempo.

Inoltre, in loro sovente si poteva ravvisare ambivalenza di comportamento. Per un

verso furono, infatti, grandi e popolari canali d’integrazione e nazionalizzazione

delle masse, ma per farlo ricorsero a una ideologia e a pratiche autoritarie,

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apertamente ostili al pluralismo, in nome dell’unità politica e dottrinale del

popolo.

Negli anni ’30, l’arrivo alla Casa Bianca di Franklin Delano Roosevelt determinò

dei cambiamenti nelle relazioni tra Stati Uniti e America Latina. Cominciò infatti

la politica, definita dallo stesso presidente di «Buon Vicinato», la quale si basava

su due principi fondamentali: il non intervento, rivendicato a gran voce dai paesi

dell’America Latina, e il multilateralismo, inteso come disponibilità a relazionarsi

con questi su un piano di uguaglianza nel quadro di istituzioni panamericane. Le

ragioni di tale cambiamento derivavano soprattutto dalla consapevolezza che i

frequenti ricorsi alla forza avevano portato i popoli dell’America Latina a detestare

Washington e la sua politica interventista. Così gli Stati Uniti rinunciarono

all’emendamento Platt, che avrebbe loro consentito di intervenire a Cuba e

ritirarono le loro truppe dai paesi nei quali ancora si trovavano. Inoltre la politica

del Big Stick non aveva dato i risultati sperati ed era diventata sempre più

dispendiosa. Non da ultimo, la crisi del 1929 aveva indotto gli Stati Uniti a

intensificare gli sforzi per fare dell’America Latina una regione sulla quale

estendere la propria sfera d’influenza economica. Anche perché l’influenza

europea su questi territori, dalla prima guerra mondiale si stava sempre più

riducendo. Roosevelt quindi si servì, per attuare il principio del «Buon Vicinato»,

molto più della politica che delle armi, come pure del dialogo al posto della

violenza. Tutto ciò consentì agli Stati Uniti di gettare le basi per la creazione di una

comunità panamericana, della quale furono riflesso le numerose assemblee che a

partire dagli anni’30 riunirono insieme tutti i paesi americani e nelle quali venne

ribadito il principio, così caro alla popolazione dell’America Latina, del non

intervento negli affari altrui. Il panamericanismo si ispirava d’altronde ai principi

della democrazia politica e del libero mercato e, in qualche modo, cercava di

contrastare le nascenti correnti nazionalistiche. Roosevelt incontrò, tuttavia, molte

difficoltà nella attuazione di tale sua politica. Innanzitutto vi erano tendenze

protezionistiche e dirigiste, che si stavano imponendo nei paesi dell’America 36

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Latina. Tali tendenze, se per un verso erano in auge anche negli Stati Uniti con

l’implementazione del New Deal, d’altro canto discordavano con la filosofia

economica liberista, perorata dagli stessi Stati Uniti. Lo stesso accadeva in campo

strettamente politico, in quanto la Casa Bianca rinunciò, di fatto, alla diffusione del

liberalismo e della democrazia restando fedele al suo non interventismo, tanto da

essere accusata di trattare proficui rapporti con le dittature che si affermarono

dopo il 1930 nel continente. Tuttavia, dopo il revisionismo hitleriano in Europa, la

priorità degli Stati Uniti divenne la sicurezza e non più l’economia. Soprattutto

dopo l’attacco a Pearl Harbour del 1941, cercarono di assicurarsi l’unanime

sostegno politico latinoamericano alla causa degli Alleati. Guadagnarono c il

consenso del Messico come pure del Brasile di Vargas. Maggiori difficoltà le

incontrarono in Argentina, paese che voleva rimanere neutrale soprattutto per non

mettere a repentaglio i suoi commerci e per la grande presenza sul suo territorio di

immigrati italiani. Inoltre, l’élite politica argentina si riteneva investita della

leadership tra le nazioni latine d’America e quindi non voleva sottostare

all’egemonia statunitense. Il colpo di Stato del giugno 1943, portò in Argentina un

governo militare intriso di nazionalismo, vicino ai fascismi europei deciso a farsi

portavoce della civiltà ispanica e cattolica in contrapposizione a quella protestante

e anglosassone degli Stati Uniti. In tal modo il paese restò solo a riconoscere le

potenze dell’Asse fino al gennaio 1944, e fu l’ultimo a dichiarare loro guerra nel

marzo 1945, quando le ostilità erano quasi terminate.

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10) Il secondo dopoguerra in America Latina

La seconda guerra mondiale non influenzò, più di tanto, i paesi dell’America

Latina. Ad eccezione dei soldati brasiliani caduti in Europa e dei piloti messicani

schierati sul Pacifico, i paesi latinoamericani non presero parte direttamente al

conflitto. Tuttavia, dopo la vittoria dei paesi alleati, soprattutto verso la metà degli

anni ’40, in tutta l’America Latina si diffuse un’ondata di democratizzazione

senza precedenti. Gli Stati Uniti erano quindi usciti dal conflitto con una indiscussa

egemonia sul continente, che si manifestava con la stampa, la radio, l’industria

cinematografica: i valori del liberalismo si diffondevano così anche in America

Latina. L’alleanza tra Stati Uniti e Unione Sovietica e le alleanze che in molti paesi

erano sorte, perfino nel governo, tra i partiti e i movimenti comunisti e quelli

borghesi, determinò che in alcune aree, come in Brasile ed in Cile, i partiti

comunisti e i sindacati uscissero dalla clandestinità e si ponessero visibilmente

nella lotta contro il fascismo. Se ancora nel 1944 vi erano solo quattro governi

dalle credenziali democratiche e cioè Cile, Uruguay, Costa Rica, e Colombia, dopo

pochi anni questi si moltiplicarono, lasciando sole le dittature ancora presenti in

Nicaragua e nella Repubblica Dominicana. Persino in Argentina, il regime militare

dovette liberalizzarsi ed indire elezioni, dalle quali uscì vittorioso Juan Domingo

Perón. La democratizzazione fu anche un fenomeno sociale che si espresse con

frequenti agitazioni operaie e con una crescita esponenziale degli iscritti ai

sindacati. Nell’arco di pochissimo tempo tutto ciò, tuttavia, si registrò un nuovo

cambiamento, già a partire dalla fine degli anni ’40: dal Perù e dal Venezuela ai

vari paesi dell’America Centrale, la brezza democratica si affievolì. Salvo in Costa

Rica, dove ancora ressero con vigore le istituzioni democratiche, nelle altre parti

dell’America Latina vennero applicate dure misure nei confronti dei partiti e dei 38

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sindacati comunisti. Cuba, nel 1952, con Fulgencio Batista, vide metter fine alla

sua esperienza democratica. Le organizzazioni sindacali, in tal modo, vennero

sottoposte a severe restrizioni legislative e sovente, perdendo la loro autonomia,

vennero legate ai nuovi regimi. La prima causa di questo crollo subitaneo ed

improvviso della visione democratica fu, per molti, la guerra fredda. Tuttavia tale

risposta rischia di attribuire troppo peso a fattori esterni alla regione e di trascurare

quelli endogeni. Indubbiamente con la guerra fredda si determinò lo scontro tra le

ideologie delle due grandi potenze che portò ad una reazione le forze dell’America

latina, ma, al di là di tale considerazione, diversi furono i fattori di questo

cambiamento di rotta. Innanzitutto la fragile cultura democratica della regione a

tutti i livelli della scala sociale; in secondo luogo le istituzioni rappresentative,

chiamate a metabolizzare la domanda di partecipazione, erano molto deboli. In

terzo luogo, si registrò la reazione sociale dei ceti medi e borghesi, impauriti di

fronte al radicalismo plebeo del popolo. Dei populismi classici dell’America

Latina, ossia di quelli sorti durante la transizione alla società di massa e alla civiltà

industriale, tra gli anni ’30 e gli anni ’50, indubbiamente il peronismo argentino fu

l’esempio più chiaro. Perón era un militare di carriera che riuscì a salire al potere,

per la prima volta, già nel giugno del 1943. Il suo regime esprimeva un viscerale

nazionalismo, un governo autoritario e la volontà di rinnegare il liberalismo.

Dapprima fu segretario al Lavoro, poi ministro della Guerra e, infine,

vicepresidente della Repubblica. Era considerato l’uomo forte del regime, l’uomo

contro il quale l’opposizione reclamava libere elezioni e gli Stati Uniti

consideravano l’emulo dei fascismi. Venne così incarcerato, ma dopo che il 17

ottobre 1945 una grande manifestazione popolare ne chiese la liberazione, tornò in

politica e si presentò alle elezioni che vinse col 56% dei voti nel febbraio 1946,

anno in cui nacque il suo regime, a capo del quale venne rieletto nel 1951 e che

durò sino al 1955, quando un colpo di Stato militare lo depose costringendolo

all’esilio. Il peronismo, ideal-tipo dei populismi, nacque e rimase come un grande

movimento popolare, il cui nucleo più attivo fu la classe operaia. Essendo

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soprattutto un movimento nazionale e non un partito di classe o ideologico, tese a

inglobare in sé settori assai eterogenei. Anche conservatori e radicali entrarono

nelle sue fila, membri delle élites provinciali o della borghesia urbana,

professionisti ed imprenditori. Indubbiamente favorì la distribuzione della

ricchezza, sia facendo aumentare il potere d’acquisto dei salari, sia garantendo

crediti molto agevolati all’industria nazionale. Non a caso, mentre la prima

presidenza di Perón si ispirò ai dogmi dei diritti dei lavoratori, la seconda si ispirò

invece a quelli della produzione. I pilastri della politica peroniana in campo

economico furono lo Stato e l’industria e, la principale modalità per applicarli, fu

la pianificazione. Tale politica aveva però necessità di nazionalizzazioni. Molto

rilevante fu anche il tentativo di proteggere il mercato interno, di stimolare la

crescita attraverso gli strumenti del credito e della spesa pubblica, di prendere

possesso delle infrastrutture chiave, nonché l’emanciparsi da potenze straniere.

Inizialmente, così, le condizioni di vita dei ceti popolari migliorarono, ma già nel

1950 la politica fiscale peronista fece evidenziare alcune crepe. Finito il boom

economico, la bassa produttività e l’abnorme crescita dell’apparato statale

determinarono una forte crisi economica, già dal 1949. Quando, a cominciare dal

1950, vi furono due anni di grande siccità, l’economia argentina si trovò in

ginocchio. In termini politici il regime di Perón fu ibrido, come del resto era tipico

di tutti i populismi. Ibrido perché, pur essendo giunto al potere per via popolare, e

confermatosi più volte allo stesso modo, governò in modo autoritario. Un

autoritarismo popolare, o una tirannia della maggioranza, che però cercò in tutti i

modi di assicurarsi la piena adesione anche di Chiesa e Forze Armate. Non divenne

mai un regime totalitario, anche se ebbe la tendenza a concentrare i poteri e ad

incidere, con la sua ideologia, ogni ambito sociale. Perón stesso chiamò la sua

ideologia justicialismo, essendo a suo giudizio premessa della sovranità politica, di

indipendenza economica e di giustizia sociale, i suoi tre cardini. Tale dottrina ebbe

l’ambizione di ergersi a Terza Posizione, sia sul piano interno che internazionale,

tra l’Occidente liberale e l’Oriente comunista. Si dichiarò così ostile sia

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all’individualismo che al collettivismo, alla civiltà protestante e a quella atea,

pensando di ritornare ad una civiltà intrisa di valori comunitari, figli della civiltà

cattolica. Egli voleva creare una comunidad organizada, nella quale il popolo fosse

unito ed organizzato: unito politicamente e spiritualmente nel peronismo. In tal

modo, Perón diveniva capo carismatico ed indiscusso, autorizzato alla rielezione

dopo la riforma costituzionale del 1949. Il suo fu definito un regime bicefalo,

poiché al suo fianco, non meno potente e forse più popolare, figurò, sino alla sua

precoce morte nel 1952, la moglie Eva, la quale è entrata nel mito e nella

devozione nei panni di una vergine pagana, madre dei diseredati per i quali

“sacrificò” la propria vita. Eva ebbe un potente potere politico, dando vita al

partito peronista femminile, col quale canalizzò il voto delle donne nella

Fondazione Eva Perón. Spesso la sua attività politica ed economica non determinò

effetti positivi, poiché pesò in gran parte sull’erario pubblico e su esazioni imposte

a imprese e lavoratori. Tuttavia, Eva Perón ebbe una immensa popolarità e con lei

il peronismo sferrò un grave colpo ai suoi nemici. Del peronismo ella incarnò

l’anima più popolare, capace di infiammare le folle, ma nel contempo anche

l’anima più totalitaria, quella che riducendo in cenere ogni forma di mediazione

politica lo isolò dalla sua iniziale popolarità. Dopo la sua morte, la pretesa di fare

del justicialismo una sorta di religione politica, sfociò in un conflitto con la Chiesa

cattolica, sentitasi tradita da quel movimento in cui aveva intravisto la volontà di

collaborazione. Un conflitto che condusse Perón ad eliminare tutti i vantaggi

attribuiti alla Chiesa e ad introdurre alcune misure ad essa contrarie, come il

divorzio. La causa della Chiesa trovò così sostegno nelle Forze Armate, le quali

rovesciarono Perón con un colpo di Stato nel 1955, senza tuttavia riportare la pace

nel paese diviso tra peronisti ed anti-peronisti.

Dal 1948 assunse la guida della Commissione Economica per l’America Latina

delle Nazioni Unite (Cepal) l’economista argentino Raúl Prebisch: si gettarono

così le basi teoriche del modello ISI, cioè del modello di sviluppo basato

sull’industrializzazione per sostituzione delle importazioni, teoria che nel 1960 41

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prese il nome di teoria della dipendenza. Una teoria per la quale la struttura degli

scambi internazionali era causa di diseguaglianza tra il centro e la periferia del

sistema economico mondiale. Ciò non significava che l’industria diveniva il settore

trainante in ogni paese, poiché questa poté gettare le sue radici specialmente nei

paesi che in passato avevano avuto un migliore sviluppo economico, come Brasile,

Argentina, Cile e Messico. Comunque quasi tutti i paesi latinoamericani, a metà

anni ’50, registrarono una sensibile industrializzazione. A tale sviluppo

contribuirono gli USA, già durante la guerra al fine di incentivare la produzione di

materie prime strategiche a fini militari. Così in Brasile, nel 1946, precisamente a

Volta Redonda, aprì i battenti la prima impresa siderurgica. L’Argentina che,

come detto, rimase neutrale nel secondo conflitto mondiale pressoché per tutta la

sua durata, venne esclusa dagli investimenti e dai trasferimenti tecnologici

statunitensi durante l’età peronista, ossia sino al 1955. L’attività agricola della

maggior parte dei paesi latinoamericani era a sua volta afflitta da una pessima

distribuzione della terra, concentrata nei latifondi. Non si attuò sostanzialmente in

nessun paese la «rivoluzione agricola», per migliorare le condizioni di vita delle

campagne e rispondere alle esigenze della popolazione, la quale tese sempre di

più a insediarsi nelle città. Queste ultime, col trascorrere del tempo, assunsero i

tipici caratteri delle metropoli e divennero sede di contraddizioni sociali. Anche

nel dopoguerra, quindi, la crescita economica dell’America Latina rimase legata

alla esportazione di materie prime, spesso agricole, che fornirono ai governi le

risorse per promuovere lo sviluppo dell’industria, sovente protetta da elevate

barriere doganali.

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11) L’America Latina nei primi anni della guerra fredda

Durante gli anni successivi alla seconda guerra mondiale i cambiamenti sociali, nei

vari paesi, assunsero sempre più un carattere frenetico. L’ America Latina subì

una vera trasformazione delle sue caratteristiche sociali, che contribuirono poi a

dar vita ai grandi conflitti e alle enormi tensioni degli anni ’60 e ’70. Il dato che

colpisce di più è quello della popolazione, la quale crebbe a ritmi sostenuti: nel

1940 l’America Latina contava 126 milioni di persone, e nel 1960 addirittura 209.

Indubbiamente l’ondata migratoria ripresa in Argentina e soprattutto in

Venezuela, per il boom dell’industria petrolifera, concorse a tale aumento di

popolazione. Aumento che si ebbe anche dove l’immigrazione cresceva meno

della media, come in Messico, in America Centrale, in Brasile e nell’area andina.

La crescita della popolazione era legata anche al crollo degli alti tassi di mortalità e

all’aumento di quelli di natalità, molto vicini a quelli dei paesi in via di sviluppo.

Crebbe così la speranza di vita della popolazione, nonostante le campagne, per i

motivi già esposti, non potessero assorbire l’enorme massa dei giovani lavoratori, e

nelle città l’industria non crescesse in modo proporzionale ai bisogni. Aumentò,

inoltre, il divario tra campagna e città, anche se solo una piccola parte della

popolazione urbana trovò lavoro nelle fabbriche, mentre la maggior parte era

impegnata in lavori umili e poco produttivi. Del resto anche nelle città la qualità

della vita restò mediocre per la mancanza di servizi, quali reti fognarie ed idriche,

adeguate ad una popolazione numerosa. La crescita economica, quindi, con

l’inurbamento e l’industrializzazione riportò in superficie le antiche distinzioni di

quelle società così eterogenee. Gran parte della popolazione inurbata e rimasta ai

margini della cittadinanza sociale era indiana o afroamericana, meticcia o mulatta.

Così, i ceti medi furono quelli che maggiormente temettero gli effetti di questa 43

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repentina crescita della società di massa. Indubbiamente vi fu anche una

trasformazione culturale ed ideologica. Bisogna tuttavia considerare che, se da un

lato si registrarono nuove problematiche socio-economiche, legate ad antichi

problemi mai risolti come quello dell’integrazione e nazionalizzazione delle masse,

allo stesso modo, in termini ideologici, la nota dominante dell’epoca fu il

nazionalismo, che divenne un richiamo obbligatorio e un collante tra idee un

tempo parse agli antipodi, come appunto socialismo e nazionalismo.

Anche in America Latina imperversarono le lotte tra democrazia liberale e

comunismo, ma con il chiaro intento di declinare e legittimare quelle ideologie in

termini nazionali. Ecco allora sorgere, in tale prospettiva, un socialismo nazionale,

un cattolicesimo latinoamericano, un modello di sviluppo adatto alla regione e alle

sue peculiarità. Altra grande problematica da considerare nel panorama del

dopoguerra fu la questione sociale, legata, come accennato, al coinvolgimento

delle masse, le quali, in molti contesti, ricorsero ad un sostrato ideologico molto

antico, quello organicista, che rivelò così la sua grande vitalità. Si completò così il

declino del liberalismo, che confermò in America Latina, come del resto, in gran

parte d’Europa, il suo fallimento. E ciò accadeva anche se l’area latinoamericana

gravitava sempre più nella sfera degli stati Uniti. La tradizione liberale e

democratica era, dunque, ormai residuale, sebbene i cosiddetti liberali cattolici

ispirati dal filosofo Jacques Maritain e orientati in America Latina dal brasiliano

Alceu Amoroso Lima diedero vita in Cile, nel 1957, alla Democrazia Cristiana.

Le correnti marxiste, pur beneficate dal prestigio dell’Unione Sovietica

all’indomani della guerra, raramente raggiunsero, nelle elezioni, la soglia del 10%.

Così, i comunisti cercarono di iniziare un dialogo con i populisti, così come

accadde nel peronismo argentino o nella rivoluzione boliviana del 1952. Ma in

America Latina si realizzò un ulteriore connubio, quello tra cattolici e marxisti tra

il 1960 e il 1970. A dominare il panorama ideologico dell’epoca fu, tuttavia,

ancora il populismo. Molti leader e governi si rifecero, durante questi anni, a tale

tendenza politica benché non tutti creassero poi, per varie ragioni, un nucleo del 44

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tutto coevo col vero populismo. Molti gli esempi: da Carlos Ibañez in Cile a

Getúlio Vargas in Brasile, da Velasco Ibarra in Ecuador al generale Rojas Pinilla

in Colombia, da Victor Paz Estenssoro in Bolivia alla prima fase del governo del

generale Odría in Perù. Il prototipo di tali regimi, quello che ambì a elaborarne una

ideologia coerente fu, come visto il peronismo argentino e la sua dottrina

justicialista. Per tale dottrina, il populismo era in realtà la via latina alla

democrazia e alla giustizia sociale. Una via estranea e avversa al comunismo, ma

anche al capitalismo, e alla democrazia liberale del mondo protestante

anglosassone. Una terza via cattolica, dunque, poiché cattolica era la più profonda

fibra della civiltà latinoamericana.

In tale contesto storico, in America Latina, aumentò l’influenza degli Stati Uniti:

l’Europa era divenuta così un socio minore, mentre l’Unione Sovietica non era in

grado di pesare sui destini di quell’area remota. Panamericanismo, portato avanti

soprattutto da Harry Truman e anticomunismo con Dwight Eisenhower, furono

dunque i cardini della politica latinoamericana degli Stati Uniti. Per quanto

concerne il panamericanismo le sue tappe furono essenzialmente tre. La prima si

ebbe nel 1945, quando l’Atto di Chapultepec sancì i principi generali della nuova

comunità emisferica: l’uguaglianza giuridica tra tutti gli Stati, il non intervento

negli affari altrui, la sicurezza comune. La seconda fu nel 1947, quando a Rio de

Janeiro le nazioni americane sottoscrissero il Trattato Interamericano di

Assistenza Reciproca (Tiar), un patto militare basato sul principio che un attacco

ad uno Stato membro avrebbe giustificato una reazione di tutti gli altri. Tale patto

legittimò la tutela militare degli Stati Uniti contro ogni eventuale minaccia

comunista. La terza tappa fu, infine, nel 1948, sancita dalla fondazione

dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), con cui il sistema

interamericano assunse la sua definitiva veste istituzionale. In America Latina il

comunismo non era tuttavia ritenuto una minaccia imminente; la reazione contro di

esso si presentava sotto forma di minaccia non tanto ad un nemico esterno, quanto

interno, un nemico, o presunto tale, politico ed ideologico. Molti partiti comunisti 45

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furono messi fuori legge o sottoposti a severi controlli, mentre molti paesi

dell’America Latina ruppero i rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica,

specialmente dopo la politica del roll back, cioè della «cacciata indietro» del

comunismo portata avanti da Eisenhower. Sia sul fronte militare, ove la Casa

Bianca firmò numerosi patti bilaterali con i governi latinoamericani, sia su quello

politico, dove sempre la Casa Bianca non lesinò il ricorso alla covert action, ossia

all’impiego indiretto della forza per sbarazzarsi di governi vicini al comunismo,

come quello guatemalteco di Jacobo Arbenz del 1954, il comunismo veniva

combattuto anche per rafforzare l’egemonia statunitense. Bisogna tuttavia

affermare che tale egemonia incontrò molti ostacoli, anche perché l’America

Latina non si limitò a fare da spettatrice in tale nuovo contesto ma, grazie anche

all’ideologia populista che, come detto, aveva ampiamente attecchito nel suo

territorio, essa conservò profonde radici ispano-cattoliche, in contrasto con il

dettato statunitense. E ciò anche per la grande frustrazione causata ovunque, in

America Latina, dagli scarsi aiuti finanziari che gli Stati Uniti riservarono nel

dopoguerra, mentre tanti ne dispensarono all’Europa. Un esempio chiaro fu

l’Argentina di Perón: caduto l’uomo che per anni incarnò il simbolo del potere,

non scomparvero gli spettri che il suo governo aveva sollevato a Washington.

Sorsero così governi anti–Usa, come in Bolivia e in Guatemala, in Perù e in

Venezuela. Senza dimenticare Cuba, dove, il 1° gennaio 1959 scoppiò la

rivoluzione.

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12) Gli anni ’60-’70 in America Latina

Dalla rivoluzione cubana del 1959 a quella sandinista in Nicaragua venti anni

dopo, l’America Latina visse una lunga stagione rivoluzionaria. La rivoluzione

socialista, ma nazionale, la invocarono anche i riformisti per sottolineare come

anche loro desiderassero smuovere l’ordine esistente. A cominciare dal cileno

Eduardo Frei, che, nel 1964, assunse il governo, annunciando la Revolución en

Libertad. Ancora una volta, le nuove strutture istituzionali non parvero, nella

maggior parte dei casi, adeguate a fornire delle risposte concrete alle esigenze delle

popolazioni. Le forze nazionaliste aspiravano a creare comunità coese ed

armoniche; in tale prospettiva la democrazia diveniva un concetto sociale, a

prescindere dalla forma politica che lo Stato avrebbe assunto. Le forze

nazionaliste, dunque, si ripromettevano di sanare le profonde divisioni esistenti

non con gli strumenti della democrazia parlamentare, ma con la forza della

violenza rivoluzionaria, attraverso una sorta di catarsi religiosa.

La rivoluzione cubana del 1959 finì per aprire in America Latina una nuova

stagione. Gradualmente, in quasi tutti i paesi, crollarono i governi dittatoriali: solo

alcuni piccoli ed arretrati Stati come Paraguay, Haiti, Nicaragua e Salvador videro

sopravvivere i pre-esistenti governi autoritari. Caddero anche antiche e solide

democrazie come quelle del Cile e dell’Uruguay. Tutto ciò fu il frutto di grandi

mobilitazioni e lotte sociali, delle quali furono protagonisti studenti e lavoratori

urbani, operai e, in taluni casi, anche i contadini. Proprio rurali furono infatti le

prime guerriglie, che si ispirarono a Cuba, dove era stata elaborata la dottrina del

fuoco guerrigliero da Ernesto «Che» Guevara, il rivoluzionario medico argentino,

compagno di Fidel Castro. Sorte dove i movimenti populisti non avevano trovato

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sbocchi, quelle guerriglie fallirono però ovunque: in Guatemala e in Perù, in

Venezuela, in Bolivia, dove nel 1967 venne ucciso lo stesso Guevara. Solo in

Nicaragua si crearono, negli anni ’70, le condizioni per il successo, quando la

dittatura della famiglia Somoza finì per isolarsi dagli alleati interni e da quelli

esterni, fino a cadere sotto i colpi del vasto fronte oppositore guidato dai sandinisti

nel 1979. Sempre negli anni ’70, con la graduale scomparsa dei movimenti armati

di tipo rurale, se ne affermarono degli altri. Alcuni si svilupparono dalle ceneri dei

vecchi movimenti populisti e proiettati contro i regimi militari, come i Montoneros

argentini. Oppure sorsero perché disillusi dal riformismo dei partiti tradizionali,

come i Tupamaros uruguayani. In molti casi, i populismi seppero mantenere,

tuttavia, saldo il potere, con una miscela di marxismo e nazionalismo,

autoritarismo politico e democrazia sociale. In Argentina, ad esempio, nel 1973, si

registrò persino il ritorno al potere di Perón, che però morì l’anno seguente.

In Cile, già nel 1970, Salvador Allende otteneva la vittoria elettorale sostenuto da

una coalizione di partiti marxisti e radicali. Accanto, però, al peculiare caso cileno

si registrarono, sempre in quegli anni, i successi di numerosi populismi militari,

intrisi di nazionalismo e fautori dell’integrazione sociale delle masse. Esempi

evidenti furono quelli del Perù, dove il generale Velasco Alvarado attuò

importanti riforme agrarie, e di Panama con il generale Omar Torrijos, il quale si

pose come prioritario scopo quello di riottenere la sovranità sul Canale e sulla

ricchezza che esso produceva.

Emblematica fu, come detto, la rivoluzione cubana del 1° gennaio 1959, dopo che

il paese era stato, dal 1952, sotto la dittatura di Fulgencio Batista, amico degli

USA. In un contesto politico ed economico estremamente complesso, la figura

carismatica di Fidel Castro ebbe un effetto dirompente. Le principali tappe che

portarono alla rivoluzione del 1959 furono dunque legate al suo nome: il fallito

assalto alla caserma Moncada nel 1953, la successiva fondazione del Movimento

26 luglio, la spedizione del Granma nel novembre 1956, la creazione di un fuoco

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guerrigliero sulla Sierra Maestra dove assieme agli altri barbudos, tra i quali lo

stesso Guevara, furono gettate le fondamenta del successo militare ed insieme del

nuovo ordine rivoluzionario. Tuttavia, alla vittoria della rivoluzione contribuirono

anche altre forze e fattori, specie l’estrema polarizzazione causata dal governo

autoritario di Batista e dalla sua brutale violenza. Castro, dopo una prima fase di

governo moderato, imboccò il cammino della rivoluzione sociale e

dell’antimperialismo militante, accantonando l’impegno di implementare la

democrazia parlamentare e la Costituzione del 1940. La rivoluzione adottò così

modelli economici, sociali e politici legati ai principi del marxismo-leninismo e

Fidel Castro si avvicinò all’Unione Sovietica, dopo la tentata invasione

patrocinata nell’aprile 1961 dagli Stati Uniti nella Baia dei Porci. In campo

economico, il governo rivoluzionario procedette ad una nazionalizzazione delle

industrie e dei servizi e alla realizzazione di una radicale riforma agraria. Tali

progetti non diedero, però, i risultati desiderati, causa anche l’embargo

statunitense: Cuba dovette così integrarsi al Comecon e affidarsi alle sovvenzioni

sovietiche. In campo sociale, la rivoluzione si mosse in una direzione egualitaria

sia nella politica salariale e occupazionale, sia nello sforzo di migliorare e

universalizzare l’accesso all’educazione pubblica e ai servizi sanitari. Dinanzi alla

necessità di far funzionare la macchina dello Stato e dell’economia, gli organismi

del cosiddetto «potere popolare» persero la spontaneità iniziale per diventare

organi attraverso i quali si ramificavano il potere e il controllo sociale del partito

comunista di Cuba, l’unico ammesso. La rivoluzione cubana assunse così i tratti

dei regimi socialisti a partito unico. Lo sancì la Costituzione del 1976 ed anche la

riforma costituzionale del 2002, che definì irreversibile la strada socialista

imboccata. Tuttavia, la rivoluzione cubana, nonostante i tratti socialisti, non perse

mai del tutto la sua matrice populista originaria.

Negli anni ’60 e ’70, l’America Latina visse, come accennato, un lungo periodo

di conflitti sociali con costanti interventi militari. Vi fu, inoltre, una crescita del

sub-proletariato, estraneo, in gran parte, alla vita delle istituzioni politiche. Negli 49

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stessi anni, si registrò, inoltre, una diminuzione del tasso di analfabetismo, dovuto

alla crescita della popolazione studentesca.

Si svilupparono, inoltre, due movimenti sociali di grande importanza: l’indianismo

e il femminismo. Il primo era legato alla popolazione d’origine precolombiana, che

ebbe il suo sviluppo soprattutto in Bolivia. Il secondo rappresentò, invece,

l’esigenza politica ed intellettuale delle donne dei ceti medi, al fine di rivendicare i

propri diritti, dopo anni di silenzio.

In campo economico nell’ America Latina di questo periodo si sviluppò la

corrente strutturalista e la dottrina del cosiddetto desarrollismo, una teoria che

ispirò molti governi, tra cui quello di Juscelino Kubitschek in Brasile tra il 1956 e

il 1961, o quello di Arturo Frondizi in Argentina tra il 1958 e il 1962. Questa teoria

era stata fatta propria dall’Associazione Latinoamericana del Libero Commercio

(Alalc) e dal Mercato Comune Centroamericano (Mcca), sorti entrambi nel 1960.

Anche tale teoria si fondava sullo sviluppo dell’industria, sul ruolo motore dello

Stato, sulla protezione ed espansione del mercato interno. Ma a differenza del

modello precedente ISI, che aveva fatto della distribuzione della ricchezza il fulcro

della propria ideologia, il desarrollismo individuava nello sviluppo il proprio

obiettivo politico e la fonte della sua legittimità. Non subordinava più l’economia

alla politica e professava le virtù della tecnocrazia. Tipico esempio di tale visione

fu l’indirizzo seguito dal presidente Kubitschek e dall’architetto Oscar Niemeyer

per costruire Brasilia, in base a criteri di razionalità e funzionalità. Brasilia divenne

nel 1960 la nuova capitale del Brasile, collocata nel cuore del suo territorio ed

elevata a simbolo di proiezione verso l’interno e non più verso l’esterno della sua

vita nazionale. Molto forte fu, riguardo a tale visione, la critica marxista, che

imputava al desarrolismo di rimanere nel campo dell’economia capitalista; ciò del

resto era vero, dal momento che il desarrollismo si proponeva di sfruttare al

meglio le opportunità del mercato mondiale. A quella marxista si affiancava la

critica nazionalista che lo accusava di replicare i lineamenti dello sviluppo

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occidentale e di fungere da strumento di perpetuazione del dominio imperialista.

Altra dottrina economica, sorta a metà degli anni ’60, fu quella della dipendenza,

alla quale aderirono tutte le correnti rivoluzionarie dell’epoca. Tale teoria assunse

diverse declinazioni, alcune più legate alla tradizione marxista classica, altre più

eclettiche e reminiscenti dello strutturalismo. Un indirizzo, sin dall’inizio, si elevò

sopra gli altri, quello di coniugare marxismo e nazionalismo, e d’instradare lo

sviluppo dell’America Latina nell’orizzonte del socialismo. Così, i suoi teorici

condussero battaglie con gli intellettuali di altre scuole. Con i liberali, di cui

condannarono la teoria dei vantaggi comparativi, perché inibiva

l’industrializzazione della regione; con i teorici della modernizzazione che aveva

ispirato l’Alleanza per il Progresso. Giunti alla conclusione che il socialismo fosse

l’unica via da percorrere, i teorici della dipendenza non furono capaci però di

chiarire come arrivarvi, e quale forma di socialismo prendere in considerazione.

Perciò il loro pensiero si prestò sia ad esiti utopistici, sia a numerose

volgarizzazioni.

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13) Marxismo e nazionalismo in America Latina tra il ’60 e il ’70

Negli anni ’60 e ’70, l’America Latina venne lacerata dalla cosiddetta guerra civile

ideologica. In termini generali, la nota più comune fu, per i rivoluzionari di

quell’epoca, il richiamo al marxismo. Ad un marxismo «latinoamericanizzato»,

sulla scia aperta anni prima da José Carlos Mariátegui e basato poi sull’opera di

Antonio Gramsci. Ma nella ricerca d’una via nazionale al socialismo, i marxisti

dell’America Latina fecero propri taluni tratti della tradizione nazionalista. Si

determinò così una miscela tra marxismo e nazionalismo, che rappresentò

l’essenza dell’universo ideale latinoamericano. Veniva così condannata la

democrazia liberale, perché formale, e rivalutata la democrazia sostanziale, frutto

della eguaglianza imposta dalla rivoluzione. L’ordine sociale veniva così concepito

come una totalità, come un insieme, superiore alle sue parti, ossia gli individui, i

quali quindi erano sacrificati in nome di questo più alto valore. Tipico, in tal

senso, fu il guevarismo, ossia la corrente marxista ispirata a Guevara, la quale

attecchì molto nella regione. Quello che più distinse questa visione dall’ortodossia

marxista non furono i suoi cardini: la socializzazione dei mezzi di produzione, la

pianificazione economica, la dittatura del proletariato, l’antimperialismo. Tali

elementi Guevara condivise e professò, ma aggiunse un richiamo a etica e volontà,

quali motori primi della rivoluzione. Tutto ciò fece di lui l’apostolo dell’«uomo

nuovo». Il suo pensiero non era molto diverso da quello, emendato dal peccato e

dalla schiavitù delle passioni, caro alla tradizione cristiana. Tanto che proprio

Guevara e il sacrificio che egli fece della sua vita divennero il simbolo di questa

unione tra cattolici e marxisti. Un incontro insito, del resto, tra marxismo e

nazionalismo, di cui il cattolicesimo era il più solido baluardo ideale. La Chiesa e il

cattolicesimo in America Latina, tra gli anni’60 e ’80, vennero scossi da profonde

crisi e traumi. A causarli contribuirono vari elementi, tra i quali la secolarizzazione

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che portava la Curia Romana a ripensare ai propri metodi d’apostolato e alle

relazioni con i diversi ceti sociali, e, non da ultimo, la gerarchia ecclesiastica. A

catalizzare i cambiamenti già in corso giunse poi il Concilio Vaticano II, che si

svolse a Roma tra il 1962 e il 1965, il quale fu, per i paesi latinoamericani, un

poderoso detonatore. Chiuso il Concilio, buona parte del clero latinoamericano

confluì nell’onda del rinnovamento da esso introdotta, cercando di spezzare la

resistenza delle gerarchie ecclesiastiche. Come in Europa, molti sacerdoti e laici

seguirono la prospettiva classista e la critica sociale apprese nelle fabbriche, dove

svolgevano l’apostolato e dove la voce della Chiesa “ufficiale” sembrava sempre

più lontana. Non mancarono casi nei quali si trovò un fertile terreno ove unire

questa ondata di cambiamento della Chiesa con il marxismo. Un caso estremo fu

quello del sacerdote colombiano Camillo Torres, ucciso in un combattimento nel

1966. Nacque così la teologia della Liberazione, dove la contestazione dell’ordine

sociale e la condanna del capitalismo si fecero più dure, il ricorso alla critica

marxista più aperto e il legame tra teologia e prassi più organico. Meno attenzione

il clero latinoamericano rivolse verso altri frutti dell’aggiornamento conciliare,

come quelli riguardanti la libertà religiosa, l’ecumenismo e la democrazia politica,

quelli cioè che tendevano ad aprire il dialogo tra Chiesa e mondo moderno.

Nel 1961 il presidente John Fitzgerald Kennedy lanciò un ambizioso progetto di

cooperazione con l’America Latina: l’Alleanza per il Progresso, simbolicamente

presentata come un Piano Marshall per la regione. Le ragioni che portarono il

presidente degli Stati Uniti a lanciare tale progetto furono molteplici. Di certo la

prima fu quella imposta dalla guerra fredda di prevenire la nascita di «nuove

Cube», ossia di regimi comunisti sul territorio. Kennedy intravvedeva anche la

necessità di dare vita ad un piano di finanziamenti e di riforme sociali capaci di

rigenerare non solo l’America Latina, ma anche gli Stati Uniti. Lo spirito

dell’Alleanza era quello che informava la teoria della modernizzazione ed ebbe

come principale esponente Walt Whitman Rostow. Una teoria che si proponeva di

stimolare la crescita economica dei paesi latinoamericani. Era questo un approccio 53

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criticato dai teorici della dipendenza, per i quali la struttura stessa dei rapporti tra

centro e periferia impediva a quest’ultima di replicarne la via percorsa. L’Alleanza

per il Progresso consisteva in un cospicuo pacchetto di aiuti e investimenti

economici, pari a 20 miliardi di dollari, da erogare in un decennio. Ciò che si

voleva stimolare era soprattutto la riforma agraria e fiscale, nonché ingenti spese

pubbliche in campo sanitario ed educativo per ridurre il gap sociale esistente nelle

società latinoamericane. Inoltre, si voleva ottenere una crescita media del 2,5%

annuo per gli anni ’60 e migliorare, in modo sostanziale e qualificato, i più

importanti indicatori sociali. Ma il Piano fallì per molti motivi. Uno tra questi fu la

morte di Kennedy e il subentro alla Casa Bianca di Lyndon Baines Johnson nel

1963. In realtà qualche risultato venne riportato in campo sanitario e scolastico,

ma la crescita economica non fu così rapida come volevano le aspettative. In

quanto alle riforme agrarie e fiscali, i tentativi di realizzarle si scontrarono contro

le resistenze dei potentati locali e l’inefficienza dei governi latinoamericani. Inoltre

i ceti medi non agirono come i teorici della modernizzazione avevano auspicato,

poiché impauriti dalla mobilitazione della classe operaia e dalla crescita del sub-

proletariato; neppure la democrazia politica si estese, bensì lasciò, come visto, ben

presto spazio allo sviluppo di regimi autoritari. L’Alleanza fallì inoltre perché i

fondi predisposti non erano commisurati alle ambizioni e furono impiegati

soprattutto per saldare i vecchi debiti degli Stati. Il parallelo, inoltre, col Piano

Marshall era, per molti, fuorviante, non essendo possibile ripetere quel che era

accaduto in Europa, dove i paesi coinvolti avevano già sperimentato la democrazia

e l’industrializzazione. Nel 1964 con la dottrina Mann, gli USA cominciarono a

dare priorità, per la regione latinoamericana, all’anticomunismo e alla crescita

economica piuttosto che alla democrazia politica e alle riforme sociali.

Esaminiamo ora il caso del Cile. Nel settembre 1970 il socialista Salvador

Allende venne eletto presidente a capo di una coalizione di partiti, definiti Unidad

Popular, soprattutto marxisti, ma anche «borghesi». Per la prima volta nasceva un

governo marxista per via elettorale, che voleva affermare il socialismo con metodi 54

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democratici. Il successo di Allende impaurì ben presto gli Stati Uniti. Richard

Nixon, giunto alla Casa Bianca nel 1969, fu sin dall’inizio deciso a porre fine

all’esperimento socialista. Alla vigilia delle elezioni del 1970 il partito di Frei non

ebbe il sostegno dei cattolici più radicali: Allende, tuttavia, vinse con appena il

36,3% dei voti e dunque senza maggioranza in Parlamento. Il suo governo agì

come altri governi socialisti. Oltre a nazionalizzare il rame, la risorsa chiave del

paese, attuò una radicale politica agraria, prese il controllo di numerose industrie e

nazionalizzò il sistema finanziario. Impresse così una sferzata all’economia,

usando il credito e la spesa pubblica, come pure sostenne le rivendicazioni

salariali dei lavoratori. Gli Stati Uniti nel 1970 fecero il possibile per far saltare il

governo di Allende, sia per via costituzionale, sia ricorrendo a violenza segreta.

Tuttavia fallirono, non avendo trovato sostegno nella Democrazia Cristiana locale

e nelle Forze Armate cilene, che restarono fedeli alla Costituzione. In seguito, la

Casa Bianca adottò una politica di boicottaggio del governo di Allende e di

sostegno finanziario ai suoi oppositori. La politica del Cile di quel periodo stimolò.

nel primo anno. la crescita ma si dimostrò poi insostenibile: lievitò l’inflazione e il

governo dovette importare sempre più beni per soddisfare la domanda cresciuta

troppo in fretta; la bilancia commerciale e la solvenza finanziaria del Cile

crollarono. Inoltre la coalizione di Allende cominciò ad apparire molto divisa tra

quanti premevano per la transizione al socialismo e quanti ritenevano necessario

procedere per via legale, senza esporsi ad una violenta reazione. La destra

conservatrice e il centro, prima divisi, unirono così i loro voti in Parlamento

ritenendo che il governo stesse violando la Costituzione, portando il Cile verso il

comunismo. Ciò permise il golpe l’11 settembre 1973, con il quale il generale

Augusto Pinochet prese il potere instaurando una lunga dittatura.

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14) Dal marxismo al neoliberismo

Dopo i venti rivoluzionari, a metà degli anni ’70 iniziarono, in America Latina,

quelli della controrivoluzione. In molti paesi, i controrivoluzionari ritennero,

infatti, che il solo modo per arrestare la rivoluzione fosse il ricorso ad una

soluzione drastica e definitiva. Vi erano innanzitutto delle autocrazie

personalistiche, come quelle della famiglia Somoza in Nicaragua e del generale

Alfredo Stroessner in Paraguay che affrontarono il cambiamento sociale usando

sia la repressione, ma anche una certa dose di paternalismo. In molti paesi si

rafforzò il ruolo delle Forze Armate per assicurare tranquillità e sviluppo. In

questo periodo si succedettero numerosi golpe e le diverse fazioni militari si

alternarono al potere: in Bolivia, ad esempio, dove gli ufficiali conservatori

rovesciarono nel 1971 il generale populista Juan José Torres e imposero una

dittatura, o, in Perù, dove nel 1975 gli ufficiali moderati scalzarono i populisti di

Velasco Alvarado. In Messico, al contrario, il regime che ruotava intorno al

Partido Revolucionario Institucional, restava al potere senza sostegno militare e

affrontava le nuove sfide sociali, da un lato con la repressione, e dall’altro

recuperando i suoi elementi populisti. In Argentina, in Brasile, in Cile e in

Uruguay si scatenò, invece, un nuovo autoritarismo fondato su di un forte apparato

burocratico. Governi democratici restarono in Costa Rica e in Colombia e

Venezuela, sia pure, in questi due ultimi casi, in forma imperfetta.

Il primo e più longevo autoritarismo si formò in Brasile già nel 1964 e durò sino al

1985. In Argentina un primo regime autoritario si instaurò nel 1966 col generale

Juan Carlos Onganía, ma non riuscì a consolidarsi per l’opposizione e per le

divisioni militari. Perón, come detto, vinse le elezioni e tornò trionfalmente in

patria. Tuttavia, le anime diverse del peronismo si scontrarono fra loro e la terza

moglie del leader, Isabel Martínez de Perón, rimasta al potere dopo la morte del

marito, non fu in grado di governarle. Nel 1976 il potere cadde nelle mani delle

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Forze Armate, le quali fecero terra bruciata dell’opposizione, ma crollarono nel

1982, a causa soprattutto della sconfitta nella guerra delle Falkland – Malvinas.

L’Uruguay subì nel 1973 un colpo di Stato che diede vita a un regime militare

durato fino al 1985; stessa cosa accadde nel Cile, dove un regime autoritario si

impose sino al 1989. Questo nuovo autoritarismo era dunque legato alle Forze

Armate, che divennero tutrici della coesione politica e dell’unità ideologica della

comunità nazionale. Queste volevano riportare, in quelle terre, l’equilibrio, a loro

avviso sradicato soprattutto dal comunismo: in tal modo il loro bersaglio prioritario

fu proprio la miscela tra comunismo e nazionalismo, cresciuta col tempo in

America Latina. Non a caso i paesi in cui si insediarono, erano anche quelli dove

più forti erano state le radici del populismo, come Argentina e Brasile. Inoltre

cercarono si smantellare i vecchi modelli economici, sposando la visione del

neoliberismo. Il loro modello in campo economico era, quindi, aperto al mercato

mondiale e favore agli scambi commerciali internazionali. Sia pur con le dovute

differenze, tutti i paesi dell’America Latina cercarono ora di smantellare la politica

economica dei populismi e di imporre un governo dell’economia finalizzato allo

sviluppo. Perciò diedero molto potere ai tecnocrati, uomini formatisi nelle

maggiori accademie statunitensi, al fine di attuare questo decollo dell’economia.

In tale quadro, l’industria ebbe un ruolo determinante, una industria integrata, non

più soggetta all’importazione di beni, capitali e tecnologie, ma capace di

assicurare l’intero ciclo produttivo dei prodotti vitali per il mercato. Inoltre sempre

i militari fecero affidamento sul capitale privato nazionale, ma soprattutto su quello

estero, che si sforzarono di attirare e di indurre ad investimenti produttivi. A livello

politico, in tutti i paesi, continuava la sfiducia verso la democrazia politica. Così vi

fu la chiusura di parlamenti e partiti, la censura della stampa, la repressione

dell’opposizione e il controllo dei sindacati. La base sociale su cui tali nuovi

regimi potevano contare erano le forze borghesi e i possidenti, ma anche vasti

strati dei settori sociali intermedi e di un nuovo ceto intellettuale, di formazione

tecnocratica. Il decollo industriale si ebbe soprattutto in Messico e Brasile, paesi

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che a metà del XX secolo concentravano il 42% della produzione industriale

latinoamericana ed a metà degli anni ’70 ne riunivano già il 60%. In Cile ed

Argentina, invece, il passaggio ad una nuova fase dell’industrializzazione incontrò

forti contrasti. Il modello liberista, infatti, in Argentina fallì e le lotte intestine

nelle Forze Armate ne limitarono gli effetti producendo enormi costi sociali; in

Cile, al contrario, tale modello fu introdotto e perseguito con la mano di ferro dei

militari. Nel Cile, dal 1973 al 1989, si ebbe la dittatura militare del generale

Augusto Pinochet. In campo economico egli si affidò alle ricette economiche

liberiste dei tecnocrati cresciuti alla scuola di Milton Friedman, i cosiddetti

Chicago Boys. Bisognava liquidare l’apparato dirigista e protezionista

consolidatosi negli anni passati ed avviarsi ad una liberalizzazione capace di dare

sviluppo all’economia. In campo politico si sarebbe così passati ad una democrazia

protetta, sotto la tutela delle Forze Armate. Così il regime cileno applicò le tipiche

ricette economiche liberiste, sia pur in forma blanda. Ridusse il peso dello Stato

nell’economia con massicce privatizzazioni, aprì il mercato nazionale al

commercio estero, liberalizzò il mercato finanziario e deregolamentò quello del

lavoro. La recessione dei primi anni, portò il tasso di disoccupazione oltre il 15%

e, quella causata dal crollo del sistema finanziario agli inizi degli anni ’80, fu

molto più grave. Di fronte a tale complessa situazione, molte proteste vennero

represse nel sangue. Tuttavia, accanto alle critiche, vennero elaborati molti giudizi

a favore di tale politica. Per molti, questa gettò le basi della lunga crescita

economica cilena dalla metà degli anni ’80 in poi. E i governi democratici

subentrati poi, pur cercando di attenuarne i più intollerabili effetti sociali, non ne

demolirono i cardini. Indubbiamente l’economia in Cile divenne più articolata e

con una base industriale molto vasta. Permise, così, la crescita di una classe

imprenditoriale robusta, spesso beneficiata dal regime. Tanto che, pur sconfitto nel

plebiscito del 1989, indetto in base alla Costituzione redatta dal suo regime otto

anni prima, il generale Pinochet lasciò la presidenza col sostegno del 43% dei

cileni: una percentuale molto elevata dopo 15 anni di dittatura.

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15) L’America Latina e la politica di sicurezza nazionale

La maggior parte dei regimi militari iniziò con l’adottare, in forma più o meno

ufficiale, la Dottrina della Sicurezza Nazionale, Dsn. Una dottrina elevata a dogma

nelle accademie dei maggiori paesi, spesso considerata come un trapianto, ossia

come frutto del massiccio indottrinamento degli eserciti latinoamericani nelle

scuole militari statunitensi. In tal modo, l’influenza professionale e ideologica

esercitata sulle Forze Armate dell’America Latina da quelle degli Stati Uniti fu

ingente, capace di scalzare quella europea. La Dsn fu, così, molto ben accolta

poiché conteneva dei valori e delle idee molto vicine alla mentalità dei paesi

latinoamericani, come l’anticomunismo e le funzioni riconosciute alle Forze

Armate nella tutela dell’identità e dell’unità della nazione. Era una dottrina tipica

della guerra fredda, muoveva, infatti, dal presupposto che il mondo era diviso in

blocchi, dei quali quello occidentale, al quale apparteneva l’America Latina,

rappresentava il mondo libero, minacciato da un nemico totalitario. Stabilito ciò, la

Dsn definiva i tratti fondamentali della nazione, che voleva proteggere, e quelli

della civiltà entro la quale voleva che essa restasse. L’una e l’altra si

condensavano nella nozione di Occidente cristiano, in nome del quale quei regimi

intesero legittimarsi. La nazione, che doveva essere protetta, era un organismo

dotato di un’essenza, la cristianità, e votato all’unità con l’Occidente. Il grande

nemico da eliminare era il comunismo, che si presentava però sotto varie forme:

così la repressione non conosceva limiti precisi e tendeva ad estendersi a macchia

d’olio, colpendo soprattutto gli ambienti intellettuali. La Dsn, portando avanti il

ben noto principio di sicurezza, era contraria a divisioni politiche, considerate un

limite allo sviluppo politico e sociale, oltre che economico. Furono questi i

decenni nei quali gli Stati Uniti fecero maggiormente sentire la loro presenza in

America Latina con interventi politici, economici, diplomatici e militari, come già

nel 1965 nella Repubblica Dominicana, quando il presidente Johnson inviò 18.000

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marines con l’obiettivo formale di risolvere le contrapposizioni e riportare la pace

ma, in realtà, al fine di instaurare un regime filo–americano. Di rilevanza furono

anche le già menzionate operazioni segrete contro Cuba, culminate con l’embargo

economico e l’espulsione, decisa nel 1962, di Cuba dall’Organizzazione degli Stati

Americani. Il vero obiettivo era quello di eliminare il più possibile la presenza

sovietica nella regione. Tutto ciò fece sorgere in America Latina un forte vento

anti-imperialista. Come aveva notato già il presidente Kennedy, l’America Latina

rappresentava per la Casa Bianca l’area «più pericolosa del mondo»: da ciò la

prospettiva quasi sempre aggressiva degli USA verso la regione latinoamericana. Il

crescente impiego della forza, per combattere il comunismo e per mettere le Forze

Armate in condizione di farlo, fu, insieme agli aiuti economici, il secondo pilastro

dell’Alleanza per il Progresso degli anni ’60. Le Forze Armate erano così chiamate

ad intervenire non contro eventuali attacchi esterni, ma a tutelare la sicurezza

interna. Il nemico, d’accordo con la Dottrina della Sicurezza Nazionale, era perciò

un nemico interno. La controrivoluzione diventava allora la principale funzione

degli eserciti latinoamericani. Dal 1962 l’aiuto militare degli Stati Uniti alle Forze

Armate latinoamericane crebbe a ritmi sostenuti. Vi furono corsi dove gli ufficiali

latinoamericani erano istruiti alla guerra irregolare, alla guerriglia e all’azione

civica. Del resto, la già ricordata Dottrina Mann indicava nell’anticomunismo la

priorità assoluta della politica statunitense. Tuttavia il grande disegno di Kennedy,

già ampiamente ricordato, dimostrò la sua debolezza, incapace di conciliare

egemonia e democrazia e costretto a venire a patti, o addirittura prediligere, in

nome della sicurezza, i regimi militari. Sotto l’amministrazione Nixon, venne

elaborato il rapporto di Nelson Rockfeller, che sottolineò come gli Stati Uniti non

potessero imporre ai paesi latinoamericani istituzioni democratiche e che i militari

erano gli unici in grado di ottenere ordine, progresso e lealtà in tali realtà.

Un cambiamento della politica statunitense si ebbe con Jimmy Carter nel 1976.

Come gli altri presidenti democratici, egli cercò di riaffermare la leadership

politica e morale degli Stati Uniti nell’emisfero, predicandovi la democrazia. 60

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Carter si trovava, però, di fronte ad una realtà complessa. Negli USA, l’esito della

guerra in Vietnam, lo scandalo Watergate, la crisi petrolifera avevano indebolito il

prestigio del paese; in America Latina, salvo in alcune aree dell’America Centrale,

non sussisteva più la minaccia comunista, ma persisteva la repressione e la

violenza militare. Come sfidare, allora, l’Unione Sovietica sul terreno della

libertà, dei diritti umani e della democrazia se gli stesi Stati Uniti non riuscivano a

far trionfare quei valori nel loro seno? Carter tentò un timido disgelo verso Cuba,

una apertura verso i rivoluzionari giunti al potere in Nicaragua nel 1979 e

soprattutto firmò, nel 1977, degli accordi col presidente panamense Omar Torrijos

che prevedevano il ritorno del Canale sotto la sovranità di Panama nel 1999.

Inoltre, Carter cercò di porre al centro della sua politica il rispetto dei diritti umani

e minacciò sanzioni nei confronti di quei regimi che avessero continuato a violarli.

La sua politica, tuttavia, non ebbe successo; ben presto finì nel mirino dei

repubblicani e della corrente neoconservatrice che si stava formando negli USA.

In America Latina continuarono ancora scontri sanguinari. Un esempio fu il Cile,

dove con Pinochet sorsero campi di concentramento per prigionieri politici e si

registrarono migliaia di condanne a morte sancite da tribunali militari. Tutto ciò ne

determinò l’isolamento internazionale e il crescente distacco della Chiesa cattolica.

In Argentina, i militari presero il potere nel 1976. I militari argentini, a differenza

del Cile, ricorsero, in modo massiccio, alla repressione clandestina, al prelievo

degli oppositori politici nottetempo dalle loro abitazioni, rinchiusi poi in luoghi di

detenzione segreti e poi uccisi: i cosiddetti desaparecidos. Finché l’azzardo di

ridare vigore e popolarità al regime, occupando nel 1982 le isole Malvinas, sotto

la sovranità britannica ma da sempre rivendicate dall’Argentina, non si rivelò

fatale al regime stesso.

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16) Gli anni ’80 in America Latina

Negli anni ’80 si ripresentò in America Latina la possibilità di instaurare quella

democrazia politica che in passato era fallita. In questo periodo parvero, per la

prima volta, sia pur in modi e in forme diverse da paese a paese, riunirsi diversi

fattori in grado di agevolare la riuscita della democrazia politica stessa. La nuova

società civile reclamava, infatti, partecipazione e democrazia, cosciente della loro

importanza. Ad esempio, l’Ecuador, con nuove elezioni, nel 1979, scelse il suo

nuovo presidente e, dieci anni dopo, il Cile fece la stessa cosa con Patricio

Aylwin. Nel 1980 il Perù elesse Fernando Belaúnde, mentre nel 1983, in

Argentina, prese il potere Raúl Alfonsín, dopo la disfatta militare nella guerre delle

Falkand – Malvinas. Queste infatti, come detto, erano sotto la sovranità inglese dal

183,3 anche se rivendicate da sempre dagli argentini. La guerra combattuta tra

Inghilterra e Argentina, a causa dell’occupazione militare che quest’ultima fece del

territorio, durò 74 giorni e costò la vita di circa 900 persone, il 70% argentine. In

quella occasione il governo degli Stati Uniti, con Reagan, non fu neutrale, ma

appoggiò gli inglesi. Alfonsín, candidato radicale, si guadagnò la stima della

maggioranza degli argentini, soprattutto per la sua volontà di rompere con il

passato e perché fu tra i pochi dirigenti politici a prendere per tempo le distanze

dal regime peronista.

Nel 1985, in Brasile, si registrò la vittoria di Tancredo Neves; anche nel Messico si

aprirono le prime crepe nel dominio del Pri. Bisogna comunque affermare che la

transizione alla democrazia non seguì vie rivoluzionarie e che quindi i militari non

se ne andarono dal potere in seguito a nuovi colpi di Stato. In molti casi i militari

conservarono un ruolo di rilievo, all’interno dei regimi democratici. Ad esempio in

Brasile e in Cile, dove la transizione verso la democrazia vide la partecipazione

delle Forze Armate. Anche in Uruguay, dove la sconfitta subita dal governo 62

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militare aprì la strada alla democrazia nel 1985, non impedì allo stesso governo di

negoziare con i partiti tradizionali le condizioni della transizione e di garantirsi

l’immunità per i crimini commessi.

La situazione economia degli anni ’80 fu per l’America Latina estremamente

critica, tanto che quel periodo venne definito perdido. Il prodotto medio per

abitante era minore di quello di dieci anni prima e il debito era cresciuto a

dismisura. Nel Messico, nel 1982 esplose una grave crisi, quando il governo

annunciò di non essere più in grado di pagare il debito estero e adottò una drastica

svalutazione della moneta. Nel 1989, in Argentina, l’inflazione divenne iper-

inflazione; paesi come il Brasile, il Perù, la Bolivia e il Nicaragua registrarono le

stesse problematiche. Ciò comportò una massiccia fuga di capitali all’estero ed una

involuzione industriale. L’intervento del Fondo Monetario Internazionale

determinò bruschi tagli alla spesa pubblica per riportare in equilibrio i bilanci,

come pure politiche monetarie restrittive per contenete l’inflazione. Il governo

statunitense di George Bush intervenne con il cosiddetto Piano Brady del 1989,

dal nome del segretario al Tesoro degli Stati Uniti; tale Piano prendeva atto che la

maggior parte dei paesi dell’America Latina non era in grado di pagare il debito

nei termini previsti. Il Piano conteneva così un pacchetto di misure, volte a ridurlo

e teso ad incoraggiare le riforme economiche dei paesi beneficiari. Al Piano, che

nel complesso ebbe risultati positivi, aderirono i maggiori e più indebitati paesi

della regione.

Mentre l’autoritarismo e la violenza politica andavano gradualmente scemando

in molti paesi dell’America Latina, non così accadde, sempre negli anni ’80,

nell’America Centrale, a parte il caso di Costa Rica, dove la democrazia politica

era piuttosto solida. La più lunga e sanguinosa guerra civile fu in Guatemala, dove

tra il 1960 e il 1999 le vittime raggiunsero il numero di oltre 200.000, causate, al

90%, dai massacri dell’esercito e delle squadre paramilitari. Più breve, ma

altrettanto brutale, fu la guerra civile scoppiata negli anni’80 in Salvador. Quando,

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all’indomani del successo rivoluzionario nel vicino Nicaragua, il Salvador divenne

per i militari locali e l’amministrazione statunitense la nuova trincea del continente

prima, e del rovesciamento poi, di quella che essi giudicavano la sfida comunista.

In Nicaragua venne eletto presidente nel 1984 Daniel Ortega, osteggiato dagli Stati

Uniti, che usarono ogni mezzo pur di piegare il suo governo: embargo economico e

soprattutto il finanziamento di un esercito controrivoluzionario, i contras, alla

frontiera del paese. Grave crisi si verificò anche in Guatemala, dove il governo

nato con le elezioni del 1986 fu soggetto a enormi pressioni militari ed evitò di

investigare sulle violazioni dei diritti umani. In Salvador, la situazione restò critica

sino agli inizi degli anni ’90. In Nicaragua gli sforzi diplomatici del dialogo tra

governo e contras, condussero alle elezioni del 1990: nel paese, l’influenza

statunitense e il tracollo economico causarono la disfatta sandinista e la vittoria

elettorale di Violeta Chamorro, candidata dell’opposizione, con il cui successo si

chiusero gli scontri armati.

Con Reagan, insediatosi nel 1981, vi fu un inasprimento nei confronti dei regimi

filo–sovietici. Tanto Carter si era sforzato di regionalizzare i conflitti locali,

quanto Reagan fece il possibile per globalizzarli. Così fu col Nicaragua, contro il

quale il suo governo si scagliò anche con mezzi illegali, così con il Salvador e con

la piccola Grenada, un’isola caraibica dove Reagan inviò nel 1983 i marines a

deporre un regime troppo filo cubano. La politica statunitense venne ben espressa

da Jeane Kirkpatrick, ambasciatrice presso le Nazioni Unite. Ella distingueva i

regimi in autoritari e totalitari, i primi «recuperabili», i secondi «irrecuperabili».

Tra i secondi vi erano i regimo comunisti, compresi Cuba e Nicaragua, che non

avevano alcuna voglia di diventare vere democrazie, a differenza dei primi, verso i

quali la Casa Bianca doveva tenere una politica ferma, ma amichevole. Nel 1985 lo

stesso Reagan enunciò una dottrina, secondo la quale gli Stati Uniti si

impegnavano a sostenere chiunque nel mondo combattesse l’aggressione

comunista. Molti paesi latinoamericani ritenevano tale dottrina inadeguata, poiché

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eludeva le radici sociali ed economiche della crisi in corso e perché legittimava

l’intervento degli Stati Uniti nell’area.

Nel 1983 era intanto nato il Grupo de Contadora, formato da Colombia, Messico,

Panama e Venezuela, cui due anni dopo diedero il loro sostegno i grandi paesi

dell’America del Sud, tornati alla democrazia. I paesi dell’America Latina

volevano così, «in famiglia», risolvere le crisi della loro regione. Uno sforzo che si

scontrò con l’ostilità degli Stati Uniti, ma che ottenne un grande risultato nella

firma degli accordi di pace raggiunti, dai presidenti dell’America Centrale, nel

1987. Il presidente del Costa Rica, Oscar Arias ottenne, per questo, il premio

Nobel per la Pace. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, quando il

presidente americano George Bush si insediò alla Casa Bianca, il clima

dell’America Latina era mutato e pareva meno conflittuale. A parte il caso di

Panama, dove nel 1989 sbarcarono 20.000 marines per deporre e catturare il

generale Manuel Noriega, che ostacolava lo sviluppo economico e democratico e

proteggeva i traffici di droga. L’avvento della democrazia in America Latina, o,

per alcuni paesi, il suo ritorno, esigeva non tanto un ordine giusto in nome di

qualche ideologia redentrice, ma elezioni trasparenti e giustizia per i crimini delle

dittature contro i diritti umani. Parve così aprirsi una nuova stagione basata sul

diritto, sulla libertà, la tolleranza, il pluralismo, non scevra tuttavia da problemi e

difficoltà. Un caso sintomatico fu quello dell’Argentina, dove Raúl Alfonsín si

trovò schiacciato tra la reazione militare e quella sindacale. La stessa cosa accadde

in Brasile, paese nel quale la Costituzione, approvata nel 1988, permise l’elezione

diretta a suffragio universale del presidente, ma risultò comunque troppo rigida per

stimolare efficaci riforme economiche e sociali. Il Venezuela e la Colombia, già

negli anni’70, spiccavano come oasi di democrazia rappresentativa. Quando però

negli anni ’80 la regione si avviò verso la democrazia, le pecche di entrambe

divennero più evidenti. La violenza si scatenò così su queste realtà. In Colombia,

in particolare, il narcotraffico trovò degli sviluppi preoccupanti. I bruschi

saliscendi del prezzo internazionale del petrolio dettero un colpo brutale alla tenuta 65

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del sistema politico venezuelano. In Venezuela, nel 1989, il presidente Pérez

adottò un piano di austerità ed una violenta repressione, il caracazo, costata più di

300 morti.

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17) Gli anni ’90 in America Latina

Negli anni ’90 vi fu in America Latina, a cominciare dal Cile, una svolta liberista.

Si svilupparono così riforme strutturali tali da modificare le basi stesse del sistema

produttivo e finanziario dei paesi della regione, per aprire le economie locali alla

competizione internazionale ed obbligarle a divenire più efficienti ed innovative e

accrescere così il ruolo del capitale privato a spese di quello dello Stato. Per

raggiungere tali obiettivi, i governi ricorsero a massicci piani di privatizzazioni

d’imprese pubbliche, alla liberalizzazione di settori strategici e perciò preclusi al

capitale privato e alla riduzione delle barriere commerciali. Così, il prodotto pro

capite crebbe in media dell’ 1,6% annuo. Anche l’ America Latina poté entrare

nell’epoca della globalizzazione, soprattutto con il boom delle esportazioni. Gli

anni ’90 sono spesso ricordati come l’età del Washington Consensus, ossia

un’epoca di armonia tra il governo degli Stati Uniti e i grandi organismi finanziari

internazionali, tutti decisi ad imprimere una brusca accelerazione alla

liberalizzazione dei mercati latinoamericani. Si procedette, in altri termini, a dar

vita ad uno Stato minimo, col risultato di imputare alle politiche che ne scaturirono

l’aggravamento della povertà e delle disuguaglianze dell’America Latina. D’altra

parte, la crescita economica non risolse il problema delle disuguaglianze sociali

che, al contrario, rimasero o, addirittura, peggiorarono, salvo in Uruguay, dove

crescita economica e distribuzione del reddito camminarono in sintonia. A Cuba,

invece, le differenze sociali rimasero minori più che negli altri paesi, ma si

associarono, in quegli anni, ad una forte riduzione del reddito pro capite. Sorsero

così, in tutti i paesi, numerosi movimenti sociali, molto diversi tra loro, che

cercarono comunque un dialogo: nel 2001 nacque a Porto Alegre il Forum Sociale

Mondiale, basato sull’antiliberalismo e foriero di ideali comunitari. L’indianismo

fu un altro valore da questo condiviso. Già dagli anni ’90, peraltro, le divisioni

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etniche, in America Latina, produssero una serie di conflitti sociali, anche di

rilievo. Nel 1994, ad esempio, in Chiapas, nel Messico meridionale, l’Esercito

Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln) annunciò di aver imbracciato le armi

contro lo Stato. In quello stesso anno, infatti, era sorto il North American Free

Trade Agreement (NAFTA), tra Canada, Stati Uniti e Messico. Il NAFTA era la più

vasta zona di libero commercio al mondo; molti i suoi lati positivi, specie la

capacità di aumentare la mole del commercio tra i paesi partner, ma anche molti i

suoi lati negativi, soprattutto per il settore agricolo, dove contribuì a danneggiare la

popolazione meno abbiente. In Chiapas, infatti, la maggioranza della popolazione

era indiana e dedita alla agricoltura, ma priva di terra propria: si chiedevano così,

in primis, la riforma agraria e una più ampia autonomia. L’esercito di ridotte

dimensioni, composto in gran parte da contadini indiani, era guidato da Marcos, un

intellettuale divenuto celebre per le sue abili tecniche comunicative. La guerriglia

durò poco e causò circa 150 vittime. Nel 1996 l’Ezln e il governo messicano

firmarono degli accordi di pace, sul cui mancato rispetto da parte delle élites locali

e dell’esercito, cominciarono a sorgere tensioni, che indussero i guerriglieri a

dichiarare unilateralmente l’autonomia di taluni municipi. Nonostante un nuovo

accordo nel 2000, sempre tra governo e Ezln, il conflitto non si concluse ma si

prolungò, sia pur in forma molto limitata.

Era comunque evidente che la democrazia stesse gettando radici profonde

soprattutto nei paesi che l’avevano già a lungo sperimentata, come l’Uruguay e il

Cile, ma anche in altri paesi come il Brasile e il Messico, nei quali, riuscì ad

essere implementata. Meno incoraggiante era la situazione in America Centrale e

nell’area andina, dove vari fattori rallentarono la sua sperimentazione. In Messico,

nel 2000, venne eletto alla presidenza Vicente Fox, esponente del Partido Acción

Nacional, di matrice cattolica e da tempo portavoce dei ceti produttivi; in Brasile,

nel 2002, venne eletto presidente l’ex sindacalista Inácio Lula da Silva, che mutò

l’impostazione economica del paese. In Brasile, infatti, prima di Lula, era al potere

Fernando Henrique Cardoso, fautore dell’ introduzione di riforme economiche 68

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liberali e di misure politiche idonee a far crescere la giovane democrazia del

paese. Il Perù e l’Argentina furono dei casi particolarmente interessanti. Nel

1990 venne eletto alla presidenza peruviana Alberto Fujimori, mentre in

Argentina, nel 1989, era salito al potere Carlos Menem. Entrambi condussero

campagne elettorali all’insegna del populismo ma poi, giunti al potere,

cambiarono rotta ed introdussero dei piani di riforme economiche di stampo

liberista. In particolare Fujimori combatté con ogni mezzo Sendero Luminoso, il

movimento guerrigliero passato nel frattempo al terrorismo urbano e inviso a gran

parte dei peruviani. Dopo averlo annientato, si sentì abbastanza forte da attuare un

drastico piano di riforme economiche neoliberali, che prima causò una recessione,

ma poi stimolò una sostenuta crescita. Egli continuò così la sua politica nel 1995,

quando fu rieletto con il 65% dei voti e nel 2000 quando, però, il clima era ormai

cambiato per molti motivi, sicché la recessione, giunta ad azzoppare i risultati del

suo modello economico, ne sancì la caduta e l’incriminazione. La figura di Menem

non fu molto lontana, come detto, da quella di Fujimori. Anche egli, una volta al

potere, basò la sua politica sulla stabilità economica, che riuscì a restaurare dopo la

drammatica stagione della iper-inflazione; inoltre impose la parità valutaria tra il

peso e il dollaro. Forte del consenso ottenuto, governò scavalcando il Parlamento:

tuttavia, nel 1999, anche Menem, come dirigente storico del peronismo, uscì di

scena. Nel 2001 l’Argentina visse un duro tracollo economico, dovuto alla crisi

finanziaria asiatica, alla rivalutazione del dollaro, e non da ultimo alla parità che

era stata stabilita tra dollaro e peso. Già nel 2000, era iniziata la fuga di banche e

imprese dal debito argentino. Il governo di Buenos Aires introdusse perciò il

corralito, una misura estrema, con la quale limitava in modo drastico l’accesso dei

cittadini ai conti correnti. Si verificò così una crisi politica, dal momento che le

proteste di tutti i ceti sociali causarono la caduta del governo guidato da Fernando

De la Rúa e, anche una crisi sociale, stimolata dalla cessazione dei pagamenti e

dalla svalutazione della moneta. La crisi finanziaria fece lievitare al 25%, in pochi

mesi, il tasso di disoccupazione e portò sotto la linea di povertà circa la metà della

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popolazione argentina. La crisi fu, tuttavia, presente anche in altri paesi come in

Ecuador, Bolivia e Colombia. Quest’ultima, in particolare, era anche danneggiata

dalla presenza del narcotraffico. In Venezuela, la crisi finanziaria e le rivolte

militari misero in ginocchio i partiti tradizionali, creando le condizioni per la

vittoria elettorale di Hugo Chávez nel 1998, il quale, forte d’un vasto seguito

popolare, annunciò di volere creare un regime rivoluzionario, e non nascose la sua

avversione per la democrazia rappresentativa, dimostrandosi così aperto al fascino

del nazionalismo e del socialismo. A Cuba, la caduta del muro e quindi il crollo

dell’Unione Sovietica obbligarono Fidel Castro a prendere importanti

contromisure per la sopravvivenza. Il periodo che si aprì nell’isola è stato definito

«speciale»; durante quest’ultimo vennero introdotte molte riforme economiche

senza intaccare le fondamenta del regime politico a partito unico. Clinton indurì

l’embargo, dopo l’abbattimento di due aerei con cui il regime cubano intese

stroncare l’attività di un gruppo anticastrista di Miami, impegnato a prelevare in

mare gli esuli in fuga dall’isola. Castro però, sul finire del decennio, riuscì a

risollevarsi. L’economia del paese, infatti, si stava lievemente stabilizzando. Le

varie crisi politiche riportarono in auge l’antiliberalismo in molti paesi, come il

Venezuela, col quale Castro ritrovò la naturale sintonia. La visita di papa

Giovanni Paolo II nel 1998, a Cuba, contribuì a interrompere molte tensioni e

favorì l’ingresso di cattolici nel partito.

Nel 1992, giunto alla Casa Bianca, Bill Clinton, non impresse cambiamenti alla

politica latinoamericana di Bush. Terminata la guerra fredda, l’America Latina non

rappresentava più la priorità per l’amministrazione statunitense; gli USA si

attennero, così, a una politica orientata alla promozione della democrazia e delle

riforme economiche di mercato in America Latina. La Casa Bianca, dunque, diede

vita ad una forma di collaborazione con i maggiori paesi dell’area latinoamericana.

Tipico esempio di ciò fu il caso di Haiti, dove il golpe che vi depose il presidente

eletto, spinse gli USA a sostenere una risoluzione di condanna del Consiglio di

Sicurezza delle Nazioni Unite e, su suo mandato, ad approntare una spedizione 70

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militare, che indusse i militari, impadronitisi del potere sull’isola, a farsi da parte.

L’attenzione della Casa Bianca si rivolse anche verso la Colombia, paese devastato

dal narcotraffico, da cui partiva la cocaina smerciata nelle città degli Stati Uniti.

Nel 1998 venne, così, eletto presidente Andrès Pastrana, uomo nel quale

l’amministrazione Clinton riponeva molta fiducia. Venne così elaborato il Plan

Colombia, che prevedeva robusti aiuti statunitensi al paese destinati, in gran parte,

a combattere proprio il narcotraffico.

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18) L’America Latina nel nuovo secolo

L’America Latina, nel primo decennio del XXI secolo, presenta un aspetto inedito:

ad eccezione di Cuba, tutti i paesi dell’area hanno regimi democratici e la loro

democrazia è rappresentativa. Vi è stata quindi una volontà della regione di

accostarsi di nuovo al mondo occidentale. Nonostante ciò, si sono evidenziate

alcune oscillazioni, come in Honduras, dove nel 2009 le Forze Armate hanno

deposto il presidente, che tentava di scavalcare i limiti costituzionali del suo

potere. Prima che, verso la fine del decennio, si proiettasse in America Latina

l’ombra della crisi, capace di colpire l’economia globale, la situazione economica

era positiva e foriera di buone speranze.

A fianco delle democrazie più consolidate, come Uruguay, Cile, Costa Rica, vi

sono quelle un po’ più instabili, come Brasile, Messico e Argentina, che comunque

seguono il modello democratico. La prima decade del XXI secolo è stata

caratterizzata da una svolta a sinistra, intesa come sinistra riformista, i cui suoi

tratti chiave sono la democrazia rappresentativa, la cultura politica pluralista, la

ricerca dell’equità sociale, il pragmatismo volto alla conquista dei ceti medi e una

politica estera aperta e multilaterale. I rappresentanti di tale corrente come Silva in

Brasile, Michelle Bachelet in Cile, Tabaré Vázquez in Uruguay e Alan García in

Perù sono diventati più moderati al governo, di quanto non lo fossero

all’opposizione e non vogliono mutare l’assetto istituzionale ereditato. Accanto a

tale sinistra, vi è, però, anche quella populista, cresciuta in contesti di crisi politica

e profonde fratture sociali. Essa esprime un linguaggio rivoluzionario e, pur

adeguandosi alle procedure formali della democrazia liberale, aspira a mutarle con

un modello nel quale il popolo, inteso quale comunità omogenea per storia, etnia,

condizione sociale, trovi riscatto e protezione. All’economia di mercato preferisce

il dirigismo e, sul piano internazionale, ha una visione anti-americana. È stata così 72

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creata l’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América (Alba), un

organismo di cooperazione politica ed economica, sorto nel 2004 da un accordo

tra Hugo Chávez e Fidel Castro, al quale poi hanno aderito i governi di Bolivia,

Ecuador e Nicaragua.

Sino al 2008, l’economia dei paesi dell’America Latina ha registrato una

sensibile crescita, con tassi medi di circa il 6% annuo, pari al doppio del trend

storico. Si è verificata, così, la forte crescita dei capitali esteri, il boom delle borse

locali e il rafforzamento delle valute latinoamericane. Molti paesi si sono

guadagnati prestigio e credibilità per gli investitori, come ad esempio il Cile. Per

alcuni economisti, la crescita economica dell’America Latina, in questo primo

decennio del XXI secolo, sarebbe da attribuirsi soprattutto a fattori interni e al

maggior pragmatismo dei suoi paesi. Per altri, al contrario, la crescita economica è

stata la conseguenza di fattori esterni, come la crescita mondiale, i prezzi elevati

delle materi prime, le condizioni finanziarie propizie. Acquista importanza, in

questo discorso, anche la Cina, divenuta un partner economico rilevante, senza

scalzare, ovviamente, gli Stati Uniti. Sia per le materie prime, sia per le fonti di

investimento, specie in campo energetico, la Cina è divenuta un partner strategico

dei paesi latinoamericani. Sul fronte sociale, la situazione dell’America Latina ha

riscontrato, in questi ultimi anni, un notevole miglioramento. La percentuale di

popolazione povera si è ridotta circa al 10%, benché rimanga abissale il divario tra

paesi benestanti, come il Cile, e quelli poveri come l’Honduras. Esistono ancora

alti tassi di disoccupazione specialmente giovanile, come pure alta è l’escalation di

violenza in zone come il Messico, la Colombia e il Venezuela. Sono anche

aumentati le rapine e i rapimenti soprattutto nell’America Centrale, tanto che in

molti paesi spicca, in vetta all’agenda politica, il problema della sicurezza. In

campo religioso, vi è stato un notevole cambiamento: da continente cattolico, che

aveva fatto dell’unanimità religiosa un fattore chiave della sua identità, l’America

Latina è divenuto un continente dove vige un sostanziale pluralismo religioso. Il

cattolicesimo resta comunque la religione prevalente, alla quale dicono di 73

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appartenere il 70- 80 % della popolazione, ma senza quel monopolio che

possedeva in passato. Nuovi culti, come quello protestante, e lo stesso sviluppo

della secolarizzazione, hanno messo in discussione gli insegnamenti delle

gerarchie ecclesiastiche. A livello di cooperazione continentale, vi sono paesi

molto legati agli USA, come il Messico, o gli Stati dell’America Centrale e

dell’area caraibica. Non si registra, ancora oggi, un organismo capace di

raggruppare tutti i paesi dell’America Latina. Esiste il Mercosur, il più ambizioso

sforzo di integrazione mai tentato in Sud America. Il Mercosur è il Mercato

Comune del Sud nato nel 1991 con il Trattato di Asuncion, per eliminare le

barriere commerciali e dar vita ad uno sviluppo economico. Il Mercosur ha

stimolato gli scambi commerciali, favorendone l’incremento, ma in quasi vent’anni

di vita non si può dire che abbia all’attivo un bilancio rilevante. Nel 1969 era, del

resto, già stata fondata e la Comunità Andina, quale forma di integrazione

regionale soprattutto di carattere economico e finanziario. Nel secondo decennio

del XXI secolo restano comunque influenti in America Latina gli USA, anche se in

forma ridotta rispetto al passato.

Già dal 2001, col presidente George Bush junior, il peso della Casa Bianca

nell’area latinoamericana è diminuito. Si è registrata, ad esempio, la ferma

contrarietà della maggioranza dei paesi latinoamericani alla decisione unilaterale

presa nel 2003 dall’amministrazione statunitense di sferrare l’attacco all’Iraq di

Saddam Hussein. Rapporti tesi, del resto, si ebbero già nel 2002 in Venezuela,

quando il governo Bush si affrettò a riconoscere le autorità che avevano appena

deposto il regime di Hugo Chávez. Tutto ciò, non impedì alla Casa Bianca di

consolidare i propri rapporti con taluni governi come il Brasile di Lula e la

Colombia. La elezione del 2008 di Barack Obama, seppur gradita alle opinioni

pubbliche latinoamericane, non ha suscitato particolari aspettative. Ormai la

globalizzazione ha, infatti, ampliato gli orizzonti dell’America Latina,

permettendo una ampia collaborazione con altri partner, quali l’Unione Europea, la

Russia, o la Cina. In questi ultimi anni, l’America Latina stenta a far sentire la 74

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propria voce in modo univoco e a farsi percepire quale area coesa nella difesa di

interessi comuni. Tra i paesi della regione, solo il Brasile ed in parte il Messico

possiedono il potenziale per essere riconosciuti protagonisti delle relazioni

internazionali.

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