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Associazione Genitori Scuole Cattoliche QUADERNO OTTO UN LASCITO PREZIOSO DI IDEE Un percorso cadenzato da scritti di Paolo VI e dal pensiero lasciatoci in eredità da autorevoli personaggi A cura di Giancarlo Tettamanti

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Associazione Genitori Scuole CattolicheQUADERNO OTTO

UN LASCITO PREZIOSO DI IDEEUn percorso cadenzato da scritti di Paolo VI

e dal pensiero lasciatoci in eredità da autorevoli personaggi

A cura diGiancarlo Tettamanti

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"Se non v'è un ideale perfetto che l'uomo e l'umanitàdevono realizzare nella loro vita con le proprie forze,

questo significa che per queste forze non v'è alcun compito preciso,

e se non v'è un compito preciso,e se non c'è un compito e un fine da raggiungere,

è evidente che non può esservi un movimento in avanti"

Vladimir Sergeevic Solovev

PAOLO VIBrescia 1897 – Roma 1978

Giovanni Battista Montini, già Arcivescovo di Milano, nominato da Pio XII l'1 novembre

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1954, resse la Diocesi Ambrosiana sino al 21 giungo 1963, giorno in cui venne eletto Papa con il nome di Paolo VI. Svolse il suo alto impegno pastorale di Vicario di Cristo sino al 6 agosto 1978, giorno in cui fu chiamato alla Casa del Padre. Venne elevato agli altari il

19 ottobre 2014 da Papa Francesco.

Fu n grande protagonista della storia del Novecento, che attraversò misurandosi con le grandi questioni politiche e sociali, culturali e religiose, tra cui il Concilio Vaticano II, del quale fu chiamato a armonizzarne le conclusioni che in un certo senso cambiarono il volto della Chiesa, e la rivoluzione culturale e gli anni di piombo, che sconvolsero

dolorosamente la convivenza nella nostra comunità.

L'occasione per ricordarlo, o meglio per non dimenticarlo, ci viene dalla lettura di alcuni suoi significativi interventi - che vengono qui riportati quale preambolo di questo

quaderno – dai quali traspare una grande umanità ed una profonda interiorità spirituale, partecipando alla comunità cristiana, e ad ognuno di noi, la gioia e la speranza, pur in un

clima di paure e di angoscie, di delusioni e di speranze, dell'uomo contemporaneo.

1 – Sperare nella gioia

"Affacciandosi al mondo, non prova l'uomo le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino? La gioia esaltante dell'esistenza, della vita, la gioia pacificante della natura e del silenzio. A maggior ragione l'uomo conosce la gioia o la felicità quando la sua anima entra nel possesso di Dio. Ma, come non vedere pure che la gioia è sempre imperfetta, fragile, minacciata?

Quaggiù, la gioia includerà sempre in qualche misura la dolorosa prova della donna nel parto, e un certo abbandono apparente, simile a quello dell'orfano: pianti e lamenti mentre il mondo ostenterà una soddisfazione maligna! Questo paradosso, questa difficoltà di raggiungere la gioia ci sembrano particolarmente acuti oggi.

Le sofferenze, le miserie opprimono, l'uomo non è più sicuro di se stesso, della sua vocazione e del suo destino. Egli ha desacralizzato l'universo e l'umanità. Il valore degli esseri, la speranza non sono più sufficientemente assicurati. Dio gli sembra astratto, inutile: senza che lo sappia esprimere, il silenzio di Dio gli pesa.

Il nostro secolo, a suo modo, fa la dura esperienza del sentimento dell'assenza di Dio e come l'uccellino della santa Teresa di Lisieux gli "sembra di credere che non esista altra cosa all'infuori delle nuvole che l'avvolgono ...".

Questa situazione non può, tuttavia, impedirci di parlare della gioia, di sperare la gioia. E' nel cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia, di sentire il suo canto. Il nostro proposito è precisamente quello di invitarvi alle sorgenti della gioia cristiana.

Nella sua umanità Gesù ha fatto l'esperienza delle nostre gioie; ha conosciuto, apprezzato, esaltato tutta una gamma di gioie umane, di quelle gioie semplici e quotidiane alla portata di tutti. La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il realismo del suo sguardo. Egli ammira gli uccelli del cielo e i gigli del campo.

Egli esalta volentieri la gioia del seminatore e del mietitore, quella del pastore che rirova la sua pecora o della donna che riscopre la dramma perduta, la gioia degli invitati al banchetto, la gioia delle nozze, quella del padre che accoglie il proprio figlio al ritorno di una vita di prodigo e quella della donna che ha appena

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dato alla luce il suo bambino.Per parte sua Gesù stesso manifesta la sua soddisfazione e la sua tenerezza

quando incontra fanciulli che desiderano avvicinarlo, un giovane ricco, fedele e sollecito di fare di più, gli amici che gli aprono la loro casa come Marta, Maria, Lazzaro. La sua felicità ......

Se Gesù irradia una tale pace, una tale sicurezza, una tale allegrezza, una tale disponibilità, è a causa dell'amore ineffabile di cui egli sa di essere amato dal Padre. Questa certezza è inseparabile dalla coscienza di Gesù. E' una presenza che non lo lascia mai solo. E' una conoscenza intima che lo colma: "Il Padre conosce me e io conosco il Padre".

E' uno scambio interessante e totale: "Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie". Una reciproca inabitazione: "Io sono nel Padre e il Padre è in me". A sua volta, il Figlio rende al Padre un amore senza misura: "Io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato ... Per questo il Padre mi ama ...".

Non si tratta per Gesù di una effimera presa di coscienza: è l'eco nella sua coscienza umana dell'amore che egli conosce da sempre come Dio nel seno del Padre: "Tu mi hai amato prima della creazione del mondo".

** Rif. "Gaudete in domino", Esortazione Apostolica, 9 maggio 1975 2 - L'umanità pellegrina nel tempo "Voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello, e fra voi, rappresentanti di Stati sovrani, uno dei popoli più piccoli. Egli non ha alcuna potenza temporale, nè alcuna ambizione di competere con voi; non abbiamo infatti alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare, se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chiedere, quello di potervi servire in ciò che a Noi è dato fare, con disinteresse, con umiltà e amore.

Voi sapete chi siamo; siamo portatori di un messaggio per tutta l'umanità; siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata.

Si, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino, e portiamo con Noi una lunga storia; Noi celebriamo qui l'epilogo d'un faticoso pellegrinaggio in cerca di un colloquio con il mondo intero, da quando Ci è stato comandato: "Andate e portate la buona novella a tutte le genti". Ora siete voi, che rappresentate tutte le genti. Noi abbiamo per voi tutti un messaggio, si, un messaggio felice, da consegnare a ciascuno di voi.

Noi sentiamo di fare Nostra la voce dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando concordia e la pace nel mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero rinnovarle: e di altri vivi ancora, che avanzano nuovi e fidenti, i giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità.

Noi sappiamo che ne avete coscienza. Ascoltate allora la continuazione del Nostro messaggio, la cui logica si può dire costituzionale per la vostra Organizzazione. Esso è rivolto completamente verso l'avvenire: che nessuno, in quanto membro della vostra unione, sia superiore agli altri. Non uno sopra l'altro. E' la formula della eguaglianza. Voi non siete eguali, ma qui vi fate eguali. Può essere per parecchi di voi un atto di grande virtù; consentite che ve lo dica Colui che vi parla, il Rappresentante di una religione, la quale opera la salvezza mediante

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l'umiltà del suo Fondatore Divino. Non si può essere fratelli, se non si è umili. Ed è l'orgoglio, per inevitabile che possa sembrare, che provoca le tensioni e le lotte del prestigio, del predominio, del colonialismo, dell'egoismo; rompe cioè la fratellanza.

Non gli uni contro gli altri, non più, mai più! A questo scopo principalmente è sorta l'Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace!

Il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell'intera umanità. Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno.

Le armi, quelle terribili, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli.

Finchè l'uomo rimane l'essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo; ma voi, coraggiosi e valenti quali siete, state studiando come garantire la sicurezza della vita internazionale senza ricorso alle armi: questo è nobilissimo scopo, questo i Popoli attendono da voi, questo si deve ottenere!".

** Rif. Discorso all'ONU nel ventesimo di fondazione, New York, 4 ottobre 1965

3 - Avere di più per essere

"I popoli della fame si muovono con decisione e interpellano in maniera drammatica i popoli dell'opulenza. Essere affrancati dalla miseria, trovare con più sicurezza la loro sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere una maggiore istruzione; in una parola, fare, conoscere, e avere di più per essere di più: ecco l'aspirazione degli uomini di oggi ....

Perchè un gran numero d'essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio? La dura realtà dell'economia moderna .... Il profitto come motivo essenziale del progresso economico,la concorrenza come legge suprema dell'economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come diritto assoluto, il capitalismo liberale senza freno (corrono) il rischio di accrescere la ricchezza dei ricchi e la potenza dei forti, ribadendo la miseria dei poveri.

Non si condanneranno mai abbastanza simili abusi. La creazione intera è per l'uomo, cui è demandato il compito d'applicare il suo sforzo intelligente nel metterla in valore. Se la terra è fatta per fornire a ciascuno i mezzi per la sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario. Tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati alla regola della giustizia, ch'è inseparabile dalla carità.

"Non è del tuo avere - afferma sant'Ambrogio - che tu fai dono al povero, tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poichè quel che è dato in comune per l'uso di tutti, è ciò che tu ti annetti: la terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi".

Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario? Ma non si tratta soltanto di vincere la fame e neppure di ricacciare indietro la povertà. Si tratta di costruire un mondo in cui ogni uomo, senza esclusioni di razza, di religione, di nazionalità, possa vivere una vita pienamente umana, affrancata dalle servitù che gli vengono dagli uomini e da una natura non

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sufficientemente dominata; un mondo dove la libertà non sia una parola vana e dove il povero Lazzaro possa assidersi alla mensa del ricco.

Ciascuno esamini la sua coscienza, che ha una voce nuova per la nostra epoca. E' egli pronto a sopportare maggiori imposizioni affinchè i poteri pubblici siano messi in grado di intensificare il loro sforzo per lo sviluppo? Ad accettare i doveri connessi all'ospitalità?

I popoli della fame si muovono con decisione e interpellano in maniera drammatica i popoli dell'opulenza. Noi non insisteremo abbastanza sul dovere dell'accoglienza: dovere di solidarietà umana e di carità cristiana.

Ciò anzitutto allo scopo di proteggere i giovani immigrati contro la solitudine, il sentimento d'abbandono, la disperazione ... per difenderli contro la situazione malsana in cui si trovano, che li forza a paragonare l'estrema povertà della loro patria col lusso e lo spreco onde sono spesso circondati.

E ancora: per salvaguardarli dal contagio delle dottrine eversive e dalle tentazioni aggressive cui li espone il ricordo di tanta miseria immeritata. Ma coloro che sono sulla via non staranno mai troppo in guardia contro la tentazione materialista che viene loro dai popoli ricchi, i quali offrono troppo spesso, assieme all'esempio del loro successo nel campo della cultura e della civiltà tecnica, un modello di attività tesa prevalentemente alla conquista della prosperità materiale.

Coloro che sono sulla via devono sapere fare una scelta: criticare ed eliminare i falsi beni che porterebbero con sè un abbassamento dell'ideale umano, accettare i valori sani e benefici per svilupparli, congiuntamente ai loro, secondo il proprio genio particolare".

** Rif. "Populorum Progressio", Enciclica sullo sviluppo dei popoli, 26 marzo 1967

4 - La bellezza come la verità

"Un saluto tutto speciale a voi, cercatori della verità, a voi uomini di pensiero e di scienza, esploratori dell'uomo, dell'universo e della storia, a voi tutti, pellegrini in marcia verso la luce. Noi non potevamo non incontrarvi. Il vostro cammino è il nostro. I vostri pensieri non sono mai estranei ai nostri. Noi siamo gli amici della vostra vocazione di ricercatori, gli alleati delle vostre fatiche, gli ammiratori delle vostre conquiste e, se necessario, i consolatori dei vostri scoraggiamenti e dei vostri insuccessi.

Anche per voi noi abbiamo un messaggio, ed è questo, senza stancarvi, senza disperare mai della verità! Ricordatevi la parola di uno dei vostri grandi amici, S. Agostino: "Cerchiamo con il desiderio di trovare, e troviamo il desiderio di cercare ancora".

Felici coloro che, possedendo la verità, la cercano ancora, per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri. Felici coloro che, non avendola ancora trovata, camminano verso di lei con un cuore sincero; che essi cerchino la luce di domani con la luce di oggi, fino alla pienezza della luce!

Pensare è una grande cosa! Pensare è un dovere! Pensare è una responsabilità! Guai a coloro che oscurano lo spirito con mille artifici che lo deprimono, lo inorgogliscono, lo fanno errare, lo deformano!

Il principio di base degli uomini di scienza è quello di pensare rettamente! Per questo, senza ostacolare i vostri passi, senza abbagliare i vostri sguardi, noi veniamo ad offrirvi la luce della nostra lampada misteriosa: la fede.

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Il Vangelo non si identifica con la scienza e la cultura, è indipendente rispetto ad esse. La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca. Tuttavia la costruzione del Regno, che il Vangelo annunzia, non può non avvalersi degli elementi della scienza e delle culture umane.

Mai forse non è apparsa così evidente come oggi la possibilità di un accordo profondo fra la vera scienza e la vera fede, ancelle l'una e l'altra dell'unica verità. Non impedite questo prezioso incontro! Abbiate fiducia nella fede, questa grande amica dell'intelligenza! Illuminatevi alla sua luce per raggiungere la verità, tutta la verità! Questo è l'augurio.

Ora a voi tutti artisti, che siete gli spiriti della bellezza e che lavorate per essa: poeti e gente di lettere, pittori, scultori, architetti, musicisti, uomini di teatro e cineasti .... La Chiesa ha fatto da tempo alleanza con voi. Voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l'avete aiutata a tradurre il suo divino messaggio nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere avvertibile il mondo invisibile.

Oggi come ieri, la Chiesa ha bisogno di voi e si volge verso di voi. Essa vi dice con la nostra voce: questo mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all'usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell'ammirazione.

E ciò grazie alle vostre mani .......

** Rif. "Evangelii Nunziandi", Esortazione Apostolica sull'evangelizzazione del mondo contemporaneo, 8 dicembre 1975

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Per la profonda esperienza fraterna che in essa si sviluppa,

la comunità cristiana non può non tenderead avere una sua idea ed un suo metodo

di raffronto dei problemi comuni,sia pratici che teorici,

da offrire come sua specifica collaborazionea tutto il resto della società con cui è situata"

Luigi Giussani

r e s e n t a z i o n e

Il "preambolo" di Paolo VI rappresenta la bussola per un impegno di servizio che richiama ciascuno di noi. Soprattutto rappresenta la "bussola" – spesso dimenticata –

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orientata all'obiettivo finale.

"La persona é un tutto, ma non un tutto chiuso: è un tutto aperto; non un piccolo dio senza porte né finestre, o un idolo che non vede, non intende e non parla. Essa tende per natura alla vita sociale e alla comunione. Così è non soltanto a causa dei bisogni e delle indigenze della natura umana, ma anche a causa della radicale generosità iscritta nell'essere stesso della persona, a causa di quella attitudine alle comunicazioni dell'intelligenza e dell'amore, propria dello spirito, che esige di mettersi in relazione con altre persone. La persona umana, quindi, non può essere sola" (Jacques Maritain).

Ma se da un lato l'uomo, proprio per sua natura, cerca la comunità, nella quale potersi immergere e istaurare rapporti e perseguire obiettivi, quella stessa "comunità", che appare come il luogo insostituibile e meraviglioso di accoglienza e di condivisione, diventa, da un altro lato, luogo terribile di mortificazione: diviene spesso il luogo della rivelazione dei limiti dell'uomo e dei suoi egoismi.

"Quando comincio a vivere con altre persone, scopro la mia povertà e le mie debolezze, la mia incapacità di intendermi con alcuni, i miei blocchi, la mia affettività o la mia sessualità turbata, i miei desideri che sembrano insaziabili, le mie frustrazioni, le mie gelosie, i miei odii e le mie voglie di distruggere. Finché ero solo potevo credere di amare tutti; adesso con gli altri, mi rendo conto di quanto sia incapace di amare, di quanto rifiuto la vita degli altri" (Jean Vanier).

La vita d'insieme è quindi la rivelazione penosissima dei limiti, delle debolezze e dei vuoti di ciascuna persona; è la rivelazione spesso inattesa e sgradita delle proprie incapacità a promuovere e a sopportare un progetto di vita comune, di obiettivi comuni, sia esso progetto educativo, sociale, politico o ecclesiale.

Ecco perchè Emmanuel Mounier afferma che "la persona non si realizza che nella comunità"; ecco perché l'arcivescovo di Milano, Card. Carlo Maria Martini, sottolinea come "nessuno ha in mano soluzioni definitive" e come "tutti abbiamo bisogno dell'apporto complementare degli altri".

Da qui un vivere insieme, in un luogo adatto, come il luogo di crescita della persona, dove fede, libertà, responsabilità e giustizia, aiutano anche chi scopre la profonda ferita del proprio essere, ad accettarla, e nel quale, proprio a partire da questa ferita, può cominciare a rinascere.

Una testimonianza ad introduzione

DON ANTONIO VILLA e la sua scuola di Tarcento

Chi è Don Antonio Villa?

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Il terremoto del Friuli – avvenuto il 6 maggio del 1976 – fu una terrificante tragedia, nella quale trovarono la morte quasi mille persone. Alla ricostruzione si mobilitarono molti volontari provenienti dalle più disparate regioni, tra cui Don Antonio Villa, che da Milano, si è assunto sin dalla prima ora, di rispondere alla chiamata di Don Luigi Giussani e di trasferirsi a Tarcento per operare alla rinascita di quella terra. Con la condivisione di amici di Comunione e Liberazione e il sostegno dell'intera popolazione, fondò una scuola gratuita per i bambini delle famiglie friulane terremotate, alla quale diede il nome di "Mons. Camillo De Gaspero". La scuola ha compiuto quest'anno il quarantesimo anniversario di vita, e rappresenta un esempio maturo di solidarietà e di impegno.

Vorrei fare un monumento al lettore (...) per i potenti interrogativi che pone e per offrirgli una piccola consolazione, dal momento che, a meno di un miracolo, non vedrà mai una risposta positiva. Ma anche tu, lettore, devi metterti il cuore in pace. Hai ragione di dire che nel problema della libertà di educazione, l'aspetto economico è questione di giustizia. Ma non ti sei accorto che la parola giustizia, come le parole libertà o parità o sussidiarietà, è andata al macero o nell'oblio anche in campo cristiano?

Per fare una scuola da cattolici, bisogna avere una logica cattolica (che scoperta!). E, quindi, motivazioni "spirituali" cioè, più che concrete; esattamente come sono le leggi della realtà investita, però, dal Dio fatto uomo. Certo che ci vogliono i soldi, e tanti. Ma il problema è nella "logica". Se io dico: i costi della scuola sono tot, gli utenti sono tot, quello diviso questo fa tot (*retta), ecco, questa mi sembra una semplice logica aziendale.

Se io dico che voglio fare una scuola da cattolico (per quel poco che sono, evidentemente) e che costa tanti soldi, io mi devo arrangiare e trovarli. Questa mi sembra una logica più cristiana. Comunque è la logica che a Tarcento abbiamo da quarant'anni e, prima di abbandonarla, siamo disposti a tirare ancora un pò la cinghia.

Ricordo che anche Don Giussani ha fatto un pò di fatica ad accettare il "fatto". Ma, dopo dieci anni, quando si è ben assicurato che non ci sono intrallazzi e che non abbiamo una lira di debito e, soprattutto, che riusciamo a vivere insieme anche un pò matti, è venuto a darci la "medaglietta". Questo ci è bastato per resistere altri trent'anni.

Mi rendo conto che devo giustificare il pessimismo circa la possibilità di cambiamento della situazione. Non è soltanto il nostro monsignor Negri a segnalare l'affievolimento dell'intero educativo nel mondo cattolico. Quarant'anni fa mi sentii dire da sacerdoti che "è immorale dar vita ad una scuola che può provocare difficoltà ad una istituzione dello Stato", e, siccome era la stessa preoccupazione espressa su di noi dall'organo del Partito comunista (11 novembre 1976), mi divenne chiaro che era in atto uno scontro titannico non tra due ideologie, ma tra una libertà e il suo nemico.

Del resto non è stata forse opera di una astuzia satanica il "senza oneri per lo Stato" che, come uno spillo nel pallone, sgonfiò la retorica delle libertà costituzionali? E cosa c'è di tanto diverso nella "concessione" della parità in cambio della totale assimilazione al modello statale, annualmente verificata da ispezioni meticolose condotte da solerti dipendenti attenti solo agli aspetti formali? Una volta accolsi con un senso quasi di riconoscenza l'ispettore e mi affrettai a raccontargli con entusiasmo i modi della nostra conduzione. Mi lasciò parlare per cinque minuti e poi mi disse: "Senta, don Villa, questo a me non interessa nulla, mi mostri i verbali dei consigli di classe".

Devo smetterla per non lasciarmi travolgere dalla tentazione del lamento. Non sarebbe giusto! Abbiamo avuto la grazia di nascere in una Chiesa dove ci è proposta un'esperienza di gioia che, in questo tempo pasquale, ha anche il sapore della Sua vittoria!

Don Antonio Villa – Tarcento, 29 aprile 2016

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"Se vogliamo comprendere nella sua essenza la condizione dell'umanità di oggi,

il grado della sua disperazionee quello delle sue speranze,

dovremo necessariamente innalzarciparecchio rispetto alle caratterizzazioni,

formulazioni e ricette politiche"

Alexandr Solzenicyn

ANTONIO ROSMINI 1797 – 1855

La riflessione sulla libertà "è un passaggio obbligato per ogni coscienza pensante:

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paradossalmente potremmo dire che non accade di trovare uomini che si sentano liberi di non pensare alla libertà, di non cimentarsi con essa, e se pure a diversi livelli di consapevolezza e di elaborazione tecnica, di non appassionarsi ad essa" (Adriano Bausola).Il problema della libertà investe l'uomo nel suo essere persona e nel suo rapporto con la realtà.E' vero che c'è una libertà interiore che comporta la capacità di volere o non volere, di scegliere o di non scegliere, e ancora che l'uomo libero resta tale nonostante gli impedimenti esterni, tuttavia questa libertà se appaga lo spirito umano nella sua intimità, è mutilata e compressa se non è permessa e assecondata nel suo operare nella realtà. Quella realtà controllata dagli uomini organizzati in società, ambito nel quale la persona è chiamata a vivere e ad interagire. Se ad una persona viene impedito di attuare le sue scelte e le sue decisioni, se non può comunicare e confrontare il suo sentire con gli altri, poco conta che essa sia libera: ciò che conta – in ultima analisi – è che ogni persona possa – pur entro certi limiti – essere libera di esercitare nel mondo, nella società, nella comunità, ciò che ha deciso di fare.Ecco che allora la questione "libertà" non rappresenta soltanto un aspetto di natura strettamente personale, ma assume valenza sociale e politica. Da qui, uno dei punti nodali riguarda il pluralismo sociale, culturale, educativo che deve sottendere tutta la questione e che coinvolge interamente le persone singole e le realtà comunitarie.

* Il pluralismo scolastico e istituzionale

In Italia è in atto un vivave costante dibattito su questo tema. Si tratta di un problema in ordine al quale – superando stantie contrapposizioni illogiche – giungere sollecitamente a delle soluzioni capaci di concretizzare quella "libertà" che sola può consentire una maggiore produttività educativa e formativa della scuola nella sua globalità e di tonificarne la funzionalità attraverso meccanismi nuovi: cioé, niente più finanziamenti a pioggia alla scuola ma gestione ed erogazione degli interventi direttamente all'utenza, con completo ampiamento della modalità di scelta della scuola sia da parte delle famiglie che da parte della docenza, il tutto attraverso una concreta e completa autonomia culturale, didattica, dedagogica, organizzativa e gestionale per le scuole tutte, affrancando una molteplicità e differenziata offerta formativa, favorente la libera scelta dei soggetti. Soluzioni che le molteplici e diverse riforme di questi ultimi nanni non hanno voluto concretizzare.Finchè scuole statali e scuole non statali non saranno messe sullo stesso piano dal punto di vista del riconoscimento, del valore, dei principi e della effettiva dignità giuridica ed economica, la scuola italiana risulterà sempre zoppa e la società non pienamentye libera e democratica. Significativa e ancora fortemente valida fatta ai suoi, nel 1918, da Antonio Gramsci: "Noi dobbiamo essere propugnatori della "scuola libera", della scuola lasciata all'iniziativa dei privati e dei Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato".L'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, il principio di sussidiarietà e molte altre autorevoli affermazioni della nostra Costituzione – tra cui i troppo spesso dimenticati artt. 2,29,30,31 – debbono poter rendere possibile che un gruppo di genitori sia messo in grado di usufruire per i loro figli di una scuola che corrisponda pienamente alle esigenze educative e ai significati valoriali in cui credono e in cui intendono educare i propri figli. Essi devono poter trovare soddisfacenti risposte in un tipo di scuola che sia espressione e opera dei soggetti sociali.

La libertà rosminiana

Il tema della libertà in generale e della libertà scolastica in particolare è tema di scottante attualità, ma è anche problema "vecchio" che da sempre ha sollecitato l'attenzione dei cattolici e dei sinceri amatori della libertà. Primo fra tutti Antonio Rosmini: " tema ampiamente presente nella filosofia rosminiana, tema da considerarsi tra i maggiori da lui

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trattati, sollecitato da motivi filosofici, teologici e politici, sentiti e vissuti in forma spesso drammatica, affrontato con toni vibranti e profondi da un pensatore normalmente alieno da slanci e da indulgenze" (Antonino Castagnetta).Egli ebbe ad affrontare il problema della libertà scolastica in uno scritto breve, dal titolo "Libertà di insegnamento", stanpato per la prima volta sul giornale di Torino "Armonia" nel 1854, per poi essere riproposto nel 1883 nel volume "Scritti vari di metodo e di pedagogia" e con titolo originale nel 1912 dalla Tipografia del Senato di Roma.Ne riprendiamo alcuni stralci per evidenziare non soltanto il secolare impegno dei cattolici circa la libertà di insegnamento e di educazione, da coniugarsi con vera responsabilità: "essere libero in tutto lo spazio dell'atto decisionale e di scelta – ebbe a sottolineare – significa rispondere con responsabilità, quella responsabilità che impegna l'uomo nel suo essere a confronto con se stesso e con la realtà", ma anche per sottolineare come la storia non sempre sia maestra, come si continuino a ripetere i medesimi errori, come da sempre le suddette libertà, se non apertamente combattute, sono state fortemente contrastate e, di fatto, rese precarie, se non addirittura negate.

Problema di giustizia e li libertà

La libertà scolastica è un problema che deve vedere i governanti fortemente impegnati. Scrive infatti Antonio Rosmini che "come la giustizia è il primo e il maggiore tra i doveri dei governi civili, così ella reca loro altresì la massima consistenza ed utilità. La giustizia infatti è quella che solo può procacciare al governo la pubblica opinione e il rispetto: gli dà una dignità morale che non può invece dargli la potenza e la forza; lo innalza al di sopra dei partiti, e lo rende atto a reggerli, temperarli e conciliarli. Credo dunque di non ingannarmi dicendo che qualunque questione politica deve essere considerata prima di tutto dal lato della giustizia. (...) E' dunque desiderabile che anche la questione della libertà di insegnamento si esamini spassionatamente sotto questo aspetto principale, specialmente dopo che essa fu riconosciuta e proclamata come un diritto in molte Costituzioni Politiche".E' innegabile che anche in questo nostro tempo la libertà di insegnamento (e di educazione) è problema di giustizia inattuata cui il nostro Stato moderno e democratico deve corrispondere. Ma forse, ancor oggi, nella nostra nazione, non è ben chiaro il concetto di libertà."Fino che questa parola rimarrà indefitita – scrive Rosmini – continuerà ad essere il pomo della discordia. E' tempo d'uscire d'ambagi. La libertà è l'esercizio non impedito dei propri diritti. I diritti sono anteriori alle leggi civili. Il fondamento della tirannia è la dottrina che insegna il contrario.Le leggi civili possono essere giuste, ovvero ingiuste, e in questo caso, con un'altra parola, sono tiranniche. Se le leggi civili non offendono i diritti che sono ad esse precedenti, e si limitano a proteggerne l'esercizio, acciocchè da niun ostacolo essa venga impedito, sono giuste, e il popolo che vive sotto queste leggi è libero. Se le leggi civili, invece, pretendono di essere superiori a quei diritti che esistono prima di esse, pretendono di esserne le fonti, d'esserne le padrone, sono ingiuste, e il popolo che ha un governo fondato sopra una tale teoria, dell'onnipotemza della legge civile, è schiavo".

Il diritto di insegnare e di imparare

La libertà di insegnamento, conseguentemente, va vista come l'esercizio non impedito del diritto di insegnare e di imparare. "Che esiste un diritto di insegnare agli altri e imparare dagli altri – esplicita Rosmini – quest'è facile da domostrarsi". E' diritto che precede la legge civile. Infatti "l'uomo ha diritto di adoperare a fini onesti tutte le potenze dategli dal Creatore. Il Creatore col fornire l'uomo di varie ed utili potenze dimostrò la sua volontà, che le esercitasse a fini onesti, e coll'esercitarle e svolgerle ne accrescesse il vigore e si procacciasse tutti quei vantaggi e beni che esse sono atte a dargli. (...) E quanto sia prezioso l'esercizio e l'uso delle proprie potenze, ognuno può intenderlo, quando consideri che è già un bene in se stesso, e che il mezzo universale con cui si acquistano tutti quanti gli alltri beni".

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"Se dunque l'uomo mette impedimento all'uso inoffensivo ed onesto delle potenze del suo simile, viola il naturale diritto e lo viola tanto più gravemente quant'è maggiore l'impedimento ch'egli vi pone". Il che dimostra "che c'è effettivamente un diritto alla libertà in generale, cioè il diritto all'esercizio non impedito delle proprie potenze. E che da questo diritto generale discende quello della libertà d'insegnamento, poichè uno dei più nobili e santi usi che si possono fare con le proprie potenze, si è quello di insegnare altrui cose utili e vere, e d'imparare da tutti. Egli è chiaro, che il diritto d'imparare da tutti è correlativo al diritto di insegnare, e che offendendosi il primo si offende anche il secondo, perchè colui che impedisce all'uso di insegnare, impedisce all'altrio d'imparare da lui che insegnerebbe, se ne fosse impedito".E' dunque manifesto che c'è un diritto naturale sacro ed inviolabile alla libertà di insegnamento e di educazione, che il diritto della persona è dato dal fatto di essere nato e non di insegnare e imparare in una scuola gestita dallo Stato, e quindi che nessun Stato può impedire questo diritto se non con una azione ingiusta e coercitiva.

Impedimenti all'esercizio della libertà

In ordine alla libertà di insegnamento e di educazione, nel nostro Paese il relativo esercizio è fortemente condizionato da remore – particolarmente di tipo economico – che ne impediscono di fatto l'attuazione. Molte sono le motivazioni che vengono date a questo condizionamento. Ma oggi come ieri sono giustificazioni immotivate e strumentali: insegnare ed educare non è compito dello Stato. Suo compito è di coordinarne e di provuoverne la realizzazione, affinchè questo esercizio possa essere compiutamente esercitato nei modi e nei tempi corretti, sempre tuttavia con piena libertà di quanti ne hanno titolo. Affermare ciò, e conseguentemente sostenere la necessità che la libertà sia sostenuta da concreta giustizia normativa ed economica, non significa affrontare il problema in termini ideologici, bensì significa sottolineare – per chi ancora non l'ha capito – che si tratta di esigere il rispetto di un diritto universale.Ma anche su questo argomento Rosmini ci aiuta a capire molte cose. Soprattutto a capire come gli anni non abbiano mutato nulla e come certe argomentazioni si rincorrono l'una con l'altra nascondendo di fatto la paura della libertà: particolarmente quando si tratta di libertà educativa e formativa.Scrive infatti Rosmini che "la rivoluzione francese nello stesso tempo che distrusse molti abusi,ebbe per effetto di recare il dispotismo dei Governi civili al più in alto punto, di concentrare in essi tutti i poteri con una assoluta negazione dei limiti morali, e d'insegnar loro a confiscare con molti altri diritti naturali anche quello della libertà di insegnamento. In questo modo i Governi istituiti per la tutela dei diritti di tutti gli uomini, diritti che pre-esistono per natura e per ragione all'istruzione dei civili Governi, divennero i più tremendi nemici di tali diritti, che a sè solo serbarono. Spogliandone intere nazioni. Questa spogliazione scandalosa ed iniqua – sottolinea Rosmini – si poteva da principio essere tollerata dai popoli ingannati e sorpresi da promesse mendaci e da frasi sofisticate ed entusiastiche, come quella che "tutti i cittadini nascono figli della patria, e però devono tutti essere educati dalla lor madre", non può durare tuttavia nello stato della presente civiltà. Laonde non pochi degli uomini più illuminati già deferirono alla pubblica opinione un tant'abuso di potere, ed ogni dì si rende sempre maggiore il numero di coloro che protestano e demandano con coraggio ai Governi la restituzione di questa preziosa libertà perfidamente ad essi usurpata".

Un impegno promozionale da non eludere

Da qui una raccomandazione indiretta a persistere anche oggi nella sollecitazione al rispetto di questo diritto. "Questa minorità crescente – profetizza Rosmini – è destinata senza dubbio a divenire una maggioranza forte, alla quale i Governi civili dovranno, o in buona o in mala grazia, abbandonare quanto tengono al presente di malo acquisito: (...) si studi il problema del diritto speciale d'insegnamento, e si definisca qual parte di questo diritto

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appartenga a ciascuna di quelle persone giuridiche che accampano su di esso qualche pretesa". Ed è ciò che si vorrebbe venisse fatto nel nostro Paese, a partire dal diritto dei genitori e delle famiglie che debbono essere liberi di educare i propri figli secondo proprie convinzioni filosofiche e religiose, e di conseguenza debbono poter sciegliere liberamente, cioè senza condizionamento alcuno, la scuola preferita."I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone nelle quali ripongono maggior confidenza: così Rosmini si schierò dalla parte delle famiglie. "Riguardo alla parte educativa, dovendo essa venir condotta da parte dei genitori, i quali non possono mai commetterla totalmente ad altrui mani, conviene, e che questi deferiscano ragionevolmente, a quelli, e che gli uni e gli altri si mettano in pieno accordo e procedano con una perfetta coerenza ed umiltà". Cioè si costituisca quella comunità educante capace di procedere all'educazione delle giovani generazioni in virtù di un progetto mcondiviso! "Il diritto dei genitori non è una facoltà arbitraria e capricciosa, ma è temperata dalla ragione e dalla morale: è una facoltà di fare del bene ai figlioli, e non di far loro del male. I Governi monopolisti dell'insegnamento, come pure tutti quelli che concedono una libertà di insegnamento di solo nome, inceppando in effetto con innumerevoli formalità e pesi l'esercizio del diritto di insegnare, ledono anche il diritto dei padri di famiglia, a cui impediscono la piena libertà di esercitarlo. Poichè è chiaro che questo rimane tanto più vincolato nella scelta delle scuole e dei maestri, quanto più dal Governo si mettono impedimenti alle scuole e all'esercizio della professione del maestro".

Ancor oggi come ieri

Sembra di sentire la risposta a tante argomentazioni in voga anche ai giorni nostri. Infatti, quante volte abbiamo sentito da certuni argomentare sul pluralismo "nelle" scuole, e giudicare il pluralismo "delle" scuole come fatto di limitatezza culturale? Quante volte abbiamo ascoltato tesi secondo le quali se i genitori fossero liberi di scegliere la scuola dei propri figli, sceglierebbeno studi semplici e licenze facili, e non invece educazione e formazione più coerenti? Quante volte, anche recentemente, abbiamo sentito e letto affermazioni secondo le quali i genitori non sono in grado di scegliere consapevolmente? Si tratta di nargomentazioni che sono offensive della maturità dei cittadini, proclamate da persone, spesso, che amano sostenere la loro fede nel metodo democratico. E' invalsa, purtroppo, l'opinione che i genitori non educano, che le famiglie non esistono, e che quindi la scuola è costretta a supplire alle loro assenze e deficienze. Ma il paradosso sta nel fatto che anche la maggior parte degli insegnanti sono genitori, e anch'essi esposti al rischio dell'incapacità educativa. Se come genitori non sanno educare i loro figli, da insegnanti come possono pretendere di educare i figli degli altri? Evidentemente non si può generalizzare nè in un senso, nè nell'altro: ci sono famiglie educativamente attente, e vi sono insegnanti preparati e formativamente validi. Da qui l'osservazione di Rosmini: "Vi hanno tra noi dottrinari che riconoscono nei padri il diritto di fare istruire i loro figli da persone di loro fiducia, scelte senza impedimento, ma poi aggiungono "che al presente non conviene lasciare questa libertà ai padri di famiglia perchè non ne sanno usare, hanno molti pregiudizi imbevuti nel tempo passato. Conviene dunque per ora privarli di quella libertà, fino che siano formati alle nuove idee della giornata: allora poi gliela concederemo". Quelli che ragionano così – sentenzia Rosmini – sono falsi liberali, ol che è quanto dire non liberali, sono teste inconseguenti, senza princìpi". Quante analogia con gli atteggiamenti e le argomentazioni dell'attuale momento.La martoriata nostra Costituzione

"E' vano sperare – riflette Rosmini – d'ottenere una sincera e piena libertà di insegnamento da codesti nostri dottrinari dell'opportunità, giacchè l'opportunità loro non può venire: e guai alla nazione a cui venisse tale opportunità!". E' questo il dilemma continuo della nostra situazione nazionale. Abbiamo dottrinari che guardano con occhi strabici la nostra Costituzione, la esaltano con opportunismo a parole, ma poi la ignorano nei fatti. Infatti, la

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nostra Costituzione sembra nolto chiara nell'attribuire alle persone e ai genitori il diritto di imparare, di educare e istruire. Riconosce al cittadino la piena dignità e un diritto antecedente a quello dello Stato. Ma tutto ciò non è sufficiente: come una coperta corta, la Costituzione viene tirata da una parte e dall'altra, negando nella sostanza quella libertà di autonoma iniziativa che caratterizza una società democratica. E' ancora Rosmini ad argomentare: "La forma costituzionale del Governo non sarebb'ella messa in pericolo, dicono alcuni, se i padri di famiglia potessero far allevare i loro figli da chi loro ben piacesse". Da qui una amara considerazione: "La forma costituzionale, se non offende la libertà giuridica di nessuno, se rispetta, se tutela i diritti di tutti, sarà amata da tutti: la cosa è naturale, gli uomini amano il bene che godono, e non il male che soffrono. Ma se voi, miei signori costituzionali, vi servite di questa forma di governo per non lasciare al popolo altro che una libertà di nome, e una licenza di fatto, se sotto quella forma non rispettate più o diritti altro che secondo opportunità; se ad una consorteria accordate la libertà di dominare, parte con la forza, parte colle leggi fatte da essa, parte con la frode e con il raggiro, e intanto mettete le manette ai padri di famiglia; se in una parola demandate all'ingiustizia e all'empietà la forza per fondare il sistema costituzionale, come è possibile che voi lo facciate amare questo sistema, e che lo rendiate desiderato? Non seminate voi stessi, così operando, l'odio e l'avversione del medesimo? E non accoglierete quello che avrete seminato? Non siete voi che così confermate, moltiplicate, e in qualche modo giustificate i pregiudizi, anche ingiusti, contro la costituzione dello Stato? Insomma, o credete che la forma costituzionale si deva far amare e stimare da tutti i cittadini concordi spontaneamente, o la volete imporre loro colla forza?

Il diritto ad una scuola libera

I tempi sono cambiati, ma intatti restano i problemi e le inadempienze. Oggi le attese della gente in fatto di educazione sono orientate al desiderio di relazioni più appaganti fondate sulle libere scelte di una persona responsabile di sè e degli altri, aperta al gusto del vivere attraverso una molteplicità di interessi gratuiti, ma capace anche di emettere giudizi sulla società stessa. Ma quel desiderio, nel nostro Paese, non è soddisfatto, anzi, sembra orientato sempre più verso una assimilazione mortificante delle idee e delle prospettive. Alle stesse libertà di educazione e di insegnamento oiccorre dare risposte appropriate, valorizzando le potenzialità e le sinergie della società civile in un quadro di autonomia e di riferimento formativo unitario."Il grado di civiltà di una società – ebbe a puntualizzare il Card. Angelo Scola – si giudica soprattutto a partire dal peso e dalla libertà dati al fattore educativo da parte delle istituzioni che sono chiamate a promuoverlo e a garantirlo" (Angelo Scola)..

LUIGI STURZO1871 – 1959

La scuola e la libertà di insegnamento furono al vertice del pensiero di Luigi Sturzo sempre, fino agli ultimi giorni della vita. La chiamava "il problema numero uno" e lo considerava la

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chiave di volta della società. A fine maggio del 1959 – moriva l'8 agosto successivo – scrisse per l'ennesima volta: "Il monopolio scolastico statalista in Italia ha violato i diritti dei privati ed ha creato una cultura laico-anticattolica come sottocosciente della stessa comcezione umanistica delle attività associate del nostro Paese". "Ad uno Stato accentratore, tendente a regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali, che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private". Parole gravissime che spiegano cosa intendesse per libertà scolastica o d'insegnamento e quali conseguenze dal punto di vista cattolico – che è anche il nostro – fossero derivate dal non averla conquistata. Scrivendone sapeva di "fare scandalo nel mondo laico", ma anche di trovare "critiche nel campo cattolico".

Il problema dell'educazione morale

Come evidenziato da Dario Antiseri, Sturzo ebbe a puntare innanzi tutto la sua attenzione sull'educazione morale dei giovani. "Non si creda che si tratti – egli scrisse nel marzo del 1947 – dell'educazione morale dell'alunno come cosa a parte della sua formazione intellettuale e della pratica conoscenza delle materie scolastiche. Lo sviluppo delle tendenze altruistiche nel moderare l'egoismo innato desta quella simpatia comprensiva che è fondamentale per la piena conoscenza del mondo in cui viviamo, mondo di uomini e di cose, di idee e di fatti, di viventi (animali e piante compresi) e di materia da vivificare. Se nelle scuole si apprendesse non solo il precetto di amare il prossimo come noi stessi, ma il modo con cui influire perché l'attività dell'uomo sia rivolta al maggior profitto comune, allora l'alunno comprenderebbe assai meglio se stesso come uomo, la sua ragion d'essere, il momento storico nel quale egli vive, le prospettive di utilità comune e mezzi per perseguirla effettivamente.

Sta qui la ragione – scrisse Sturzo – per cui è imprescindibile "dare, lungo tutto il periodo educativo, la comprensione storica delle cose". E questo implica la necessità di combattere come pericoloso per l'educazione di un paese civile "il rifiuto della conoscenza storica, del proprio paese e degli altrui, anzi dell'umanità. La società è quel che la storia l'ha fatta; noi siamo quelli che la storia ci ha fatti. Noi siamo piantati nella storia, come l'albero è piantano nella terra". La storia – ebbe ad insistere Sturzo – "ci dà il senso della relatività e della continuità, dell'interdipendenza dei popoli e della loro creatività: ci dice che l'uomo ha superato e vinto gli ostacoli della natura e del vivere insieme; ci fa realizzare il valore della libertà e della moralità; quale sia stata nei secoli la lotta perenne per il bene, che è lotta per le grandi conquiste della civiltà". Non è vero che la storia ci rende pessimisti. La storia – scrisse – ci rende ottimisti "perchè ci mostra le enormi possibilità che gli uomini hanno di intendersi. Chi sa leggere la storia vede che l'odio fra gli uomini è nato dalla paura e l'amore dalla conoscenza reciproca; l'odio dall'egoismo che segrega; e l'amore dall'altruismo che salda i contatti e li rende efficaci".

Le ragioni della libertà scolastica

Un giorno un amico gli chiese quali fossero le sue proposte per riformare la scuola. La sua risposta fu "di aprire le finestre e fare entrare una buona corrente d'aria di libertà, altrimenti vi si morirà asfissiati". Con questa risposta intendeva che il sistema scolastico venisse riformato "senza improvvisazione e con sani criteri didattici e sociali". Per salvare la scuola è necessario, urgente, cambiare rotta; senonché – egli ebbe a annotare nel luglio 1947 – "Il disorientamento persiste e le linee tracciate dagli articoli dagli articoli 27 e 29 della Costituzione (in discussione all'assemblea costituente, poi diveniti gli articoli 33 e 34 del testo costituzionale), invece di fissare una chiara direttiva accettabile, con il loro pesante impaccio legislativo ne aggravarono la crisi".

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A suo avviso, il punto principale era "quello dell'orientamento dell'opinione pubblica verso la libertà scolastica e contro il monopolio di Stato". Tutto ciò nella convinzione che "finché la scuola in Italia non sarà libera, neppure gli italiani saranno liberi. La scuola vera, libera, gioiosa, piena di entusiasmi giovanili, sviluppata in un ambiente adatto, con insegnanti impegnati nella nobile funzione di educatori, non può germogliare nell'atmosfera pesante creata dal monopolio burocratico statale".

E ancora nel febbraio del 1950 – in un articolo dal titolo "Scuola e diplomi" – ebbe ad affrontare la questione dei diplomi, del pezzo di carta, del titolo rilasciato dallo Stato, visto come talismano in grado "di aprire le porte all'impiego stabile. (...) Occorre capovolgere la situazione: sia lo studio, non il diploma ad aprire le porte dell'impiego". Da qui la proposta: "Ogni scuola, quale che sia l'ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della repubblica, ma in nome della propria autorità: sia la scoletta elementare di Pachino o di Tradate, sia l'Università di Padova o di Bologna, il titolo vale la scuola. Se una tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione, anche nell'ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato; se invece è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti". Quindi, in prospettiva "il diritto alla scelta dei professori".

Una battaglia inascoltata

La battaglia di Luigi Sturzo – completa da disamina Dario Antiseri in un articolo dal titolo "Luigi Sturzo difensore della scuola libera" – è stata una battaglia contro il monopolio statale dell'istruzione. E chiare appaiono le ragioni di questa sua battaglia: il monopolio statale dell'istruzione rappresenta un continuo attentato alla libertà; contrasta con le più elementari norma della giustizia sociale; distrugge l'efficienza della scuola.Rileggendo la testimonianza data da queste sottolineature circa la libertà scolastica, siamo portati a raffrontarla con certi esempi dei tempi nostri e a constatare amaramente come le critiche di certi cattolici, non solo non siano scomparse, ma come spesso facciano autentico scandalo. Viene da chiedersi: che concezione hanno della scuola e della sua libertà? Dove è finito quel patrimonio di idee, di passione, di impegno che nemmeno ipotizza compromessi in questioni strategicamente decisive? Cosa direbbe oggi don Sturzo dei tanti ministri della pubblica istruzione e dei tanti cattolici in politica? Quanti sono i cattolici che ritengono fondamentale e primario il problema della libertà di educazione e di insegnamento? E ancora: come comunità cristiana, perché un atteggiamento culturale e pastorale "dimissionario" in ordine alla scuola cattolica? Perchè un impegno socio-politico caratterizzato da disinteresse in ordine alla libertà della scuola e al pluralismo scolastico istituzionale? Perché è continuamente mortificata la responsabilità educativa dei genitori e il loro diritto alla scelta della scuola per i loro figli?

LUIGI EINAUDI1874 – 1961

Quale la logica dell'ordinamento napoleonico? Allo Stato spetta il diritto e il dovere di

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provvedere all'insegnamento. Spetta ad esso e ad esso soltanto perchè lo Stato è il rappresentante della volontà generale. "Il principio di tutta la sovranità – sta scritto nell'articolo primo della dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino premessa alla costituzione del 14 settembre 1791 – risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare alcuna specie d'autorità la quale non emani espressamente dalla nazione". Soltanto lo Stato, emanazione della volontà generale della nazione, può insegnare e delegare ad altri il compito dell'insegnamento.Soltanto lo Stato può, quindi, istituire o riconoscere istituti di insegnamento. Ginnasi, licei, scuole medie in generale, università, istituti universitari, accademie sono creati e riconosciuti dallo Stato. Soltanto una autorità pubblica può garantire la bassevolezza e l'imparzialità dell'insegnamento". (..). E' perfetto in se stesso questo sistema? In una disamina tratta da "Prediche inutili" (Ed. Einaudi -1969), Luigi Einaudi così ebbe ad affrontare il problema della libertà scolastica.

"Non era e non è perfetto il sistema – scrisse – nei luoghi e nei tempi nei quali la scelta dei direttori, presidi e insegnanti fosse o sia fatta ad arbitrio del ministro o di altri ufficiali statali negli stabilimenti pubblici e dei fondatori o proprietari o amministratori degli istituti non statali. Non basta ordinare che gli insegnanti debbano essere forniti di adeguati titoli d'insegnamento e scelti in seguito a pubblico concorso. Se le commissioni esaminatrici sono composte da uomini scelti dal ministro o dal preside della provincia o dal sindaco o dal consiglio comunale o dagli amministratori degli istituti non statali, non esiste garanzia veruna di buona scelta e di indipendenza dal potere politico. Non esiste garanzia se di tutti gli ordine della scuola, da quelle elementari a quelle universitarie, operano sotto un solo comando: uno il programma, uno l'esercito insegnante, ......Il quadro del sistema sarebbe compiuto se, al di fuori di esso o ai suoi margini, non fosse da tempo insorta o se da ultimo non fosse diventata vivissima una controversia rispetto all'uguaglianza di trattamento fra le scuole pubbliche statali e quelle non statali. "Il sistema suppone concorrenza fra le due specie di scuola: chè altrimenti esso non sarebbe volto all'utilità pubblica, ma all'incremento monopolistico dello stato e cioè dei gruppi politici e sociali, i quali sono in un dato momento e luogo signori dello stato. Senza concorrenza non v'è sicurezza che l'insegnamento sia l'ottimo. Importa esistano rivalità, emulazione, concorrenza perchè perizia, ingegno, carattere siano stimolati al bene. Il monopolio, anche dello stato, è sinonimo di stasi, di pigrizia mentale, di prepotere". Come è "possibile, tuttavia, vera emulazione se tanto diseguali sono i punti di partenza e tanto ingiusto il trattamento fatto ai due ordini di scuola? Da un lato la scuola pubblica statale, mantenuta con il danaro di tutti, con le imposte pagate da tutti i cittadini secondo le norme di giustizia accolte nel paese. Al contrario le scuole non statali, non godono di alcun contributo di imposte e deve provvedere da sè all'intero costo dell'insegnamento".Né vale osservare – evidenziò - che nessuno è obbligato a mandare i figli nelle scuole non statali, che ciò vale asserire che i genitori, che non vogliono o non possono assoggettarsi ad oneri diversi e maggiori di quelli gravanti sugli iscritti alle scuole statali, sono forzati ad iscrivere i figli in questa con violenza recata alla loro volontà e al loro diritto di scelta; e soprattutto con il risultato di creare, di fatto, il monopolio statale dell'istruzione, con danno palese per la cosa pubblica, non dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio.

"Ogni uomo ha diritto di insegnare e di affermare che il tale o tal altro suo scolaro ha profittato del suo insegnamento. Giudice della verità della dichiarazione è colui il quale intende giovarsi dei servizi di un altro uomo, sia questi fornito o no di dichiarazioni più o meno autorevoli di idoneaità. Le persone o gli istituti i quali, rilasciando diplomi, fanno dichiarazioni in merito alla dottrina teorica o alla perizia pratica altrui godono di variabilissime reputazioni, hanno autorevolezze disformi l'uno dall'altro". Si va da chi ha aperto una scuola e si è acquistato reputazione di capace o valororo insegnante in questo o quel ramo dello scibile; e un tempo, innanzi al 1860, fiorivano codeste scuole private a opera di uomini, che furono poi segnalati nelle arti, nelle lettere e nelle scienze. Che cosa

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altro – spiegò - erano le "botteghe" di pittori e sciltori riconosciuti poi sommi, se non scuole? Accadde si radunassero taluni venuti in fama di dotti e gli scolari accorressero ad apprendere dalle "letture" di essi i rudimenti del diritto o della medicina o della filosofia. Si insegnò e si apprese innanzi che, attratti dalla fama acquistata da lettori e scolari, intervenissero imperatori e Papi e re a dichiarare l'esistenza di un corpo, detto Università degli Studi, ed a conferire al corpo il diritto di rilasciar diplomi di baccelliere, di maestro o di dottore. Nei conventi degli ordini religiosi convennero uomini dediti alla meditazione ed insegnarono ai giovani chiamati da intima vocazione ad entrare nell'ordine; e i collegi di Oxford e di Cambridge risalgono spesso a questa origine e i membri si dicono fellows o frati e hanno a capo un wanden o padre guardiano. Chi diede loro la facoltà di insegnare e giudicare? Il sovrano poi sanzionò il fatto già accaduto, la fama già riconosciuta; ma la fonte del diritto ad insegnare e dichiarare non era il diploma imperiale o la bolla papale; era invece il riconoscimento pubblico spontaneo di un corpo di facoltà nato dal fatto, e affermato dalla gelosa tutela del buon nome del collegio insegnante.

Il riconoscimento – sentenziò - viene meno e i diplomi perdono valore quando lo spirito di abnegazione dei monaci insegnanti si affievolisce; quando il crescere del reddito dei patrimoni dei corpi insegnanti rende appetibili le cattedre per motivi diversi da quelli scientifici e le cariche si danno a prebendari favoriti o simoniaci. Altre scuole, altri corpi, altri collegi sorgono contro i corpi ribassati o decadenti o corrotti. Esso meglio si dice di "libertà". Ad esso dobbiamo con sforzo continuo ritornare: ritornare perché esso è il metodo eterno di tutti i tempi e di tutti i paesi nei quali più feconda è stata la scuola. "Il metodo di "libertà" si fonda sul principio del tentativo e dell'errore. Trial and error è il motto appropriato alle scuole in cui domina la libertà". Nulla è certo in materia di insegnamento, non sono certi i programmi, non gli ordini degli studi, non è certa nemmeno l'esistenza di alcuna scienza. "Non è certo siano buoni i metodi accolti negli stabilimenti a tipo di libertà, e non è affatto certo che essi conducano sempre al bene. Ma vi ha una differenza fondamentale fra l'uno e l'altro tipo: che quello monopolistico consente i mutamenti solo quando essi sono consacrati da una autorità pubblica; laddove il metodo di libertà riconosce sin dal principio di potere versare nell'errore e auspica che altri tenti di dimostrare l'errore e di scoprire la via buona alla verità".Questa è tutta la differenza tra il totalitarismo e la libertà. Il totalitarismo vive con il monopolio; la libertà vive perchè vuole la discussione fra la libertà e l'errore; sa che, solo attraverso l'errore, si giunge, per tentativi sempre ripresi e mai conchiusi, alla verità.

"Nella vita politica la libertà non è garantita dai sistemi elettorali, dal voto universale o ristretto, dalla proporzionale o dal prevalere della maggioranza del collegio uninominale. Essa esiste sinchè esiste la possibilità della discussione, della critica. Trial and error, possibilità di tentare e di sbagliare; libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi liberi. Così è della scuola". Essa è viva e feconda, sinchè chiunque abbia diritto di dire: gli altri sono in errore e io conosco la via della verità; e apro una scuola mia nella quale insegno che cosa sia la verità e proclamo dottori in quella verità gli scolasri, che a mio giudizio, l'abbiamo appresa. Ma chiunque altro ha ragione di insegnare una verità diversa, un metodo diverso. In ogni tempo, attraverso tentativi ed errori ognora rinnovati abbondanti e ripresi, le nuove generazioni accorreranno di volta in volta alle scuole le quali avranno saputo conquistare reputazione più alta di studi severi e di dottrina sicura.Questa la riflessione sulla scuola e sul'insegnamento, questa è la lezione di Luigi Einaudi.

AGOSTINO GEMELLI1878 – 1959

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Per comprendere la logica di Padre Agostino Gemelli – il Fondatore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore – e per capire il suo pensiero e la sua azione in ordine al problema scuola, occorre tenere presente la possibile e indispensabile distinzione tra teoria della scuola, politica della scuola e pedagogia della scuola.

La teoria della scuola propone e progetta un modello ideale, talora utopico e comunque in termini di dover-essere secondo principi e fini concettualmente verificati e giustificati: essa costituisce la costante, l'idea regolativa del discorso sulla scuola e della scuola, e esprime le sue direttive negli stessi contrasti storici e di fatto che le si possono contrapporre.

La politica della scuola si misura con la realtà, con ciò che appare possibile: spesso deve rinunciare al criterio dell'ottimo, ed accontentarsi del criterio del meglio e magari del minor male (è un aspetto della politica come arte del possibile).

La pedagogia della scuola elabora gli orientamenti relativi alla impostazione dello spirito della scuola in quanto istituto di educazione dell'uomo, della sua partecipazione alla società come comunità di persone e come famiglia civile nello spazio e nel tempo, della sua elevazione alla cultura elaborata dalle generazioni nelle relazioni tra tradizione e innovazione di progresso: la pedagogia della scuola propone contenuti, metodi, programmi dei processi educativi nella scuola. Da qui il progetto e la rivendicazione di una scuola "educante", di un primato dello spirituale, dei valori, dei valori etici, dei valori religiosi del cristianesimo. L'asse di una scuola del genere "doveva e deve poggiare ineludibilmente in una concezione del sapere e della cultura derivata da una concezione del mondo e della vita, dell'uomo e della storia, il più possibile precisa e sostenuta da una particolare filosofia dettata dallo spirito trascendente" (Aldo Agazzi).

Il fine nel campo degli studi – secondo Padre Gemelli – doveva "essere la costruzione di una nuova summa, la quale utilizzasse il materiale offerto dalla scienza e dalla speculazione moderna, e li unificasse e li organizzasse mediante la concezione cristiana del mondo. Si realizzasse, così, una cultura cattolica o almeno dei cattolici che, superando il presunto conflitto tra scienza e fede, promuovesse un serio movimento culturale, rigorosamente scientifico, rivolto a proclamare l'armonia della fede e della ragione.

Un movimento che così operando agisse in promozione e in rivendicazione di spazi della fede nella scuola e nella educazione, di lotta per la fede nella scuola o almeno per le scuole sorte per proporla e accoglierla; ossia, contrapposizione ad una scuola monopolizzata dallo Stato liberale, e in realtà laicista, ad una scuola sè dicente "neutra", ossia areligiosa e anticristiana. Ciò che voleva dirsi, fin dal lontano 1921, battersi per la libertà della scuola in Italia.

Da qui l'impegno di Padre Gemelli per una scuola che fosse libera di proporre e di elaborare una propria cultura: "la libertà ci è data ora, ma è tenuta in ceppi, ossia limitata" – ebbe a dire più volte Padre Gemelli in ordine all'Università, al suo impegno e al suo essere cattolica – tuttavia cerchiamo di "esercitare un reale influsso sulla cultura, sulla vita sociale e politica, e sulle professioni in Italia". E tutto ciò grazie alla volontà di resistere alla tentazione di snaturare, causa dure conseguenze, la sua identità per avere maggiore libertà: "Voglio essere libero – diceva – per poter essere me stesso, e senza libertà non posso esserlo; quindi niente libertà scompagnata dall'identità. E' inutile chiedere e volere la libertà, se si è disposti ad alienare la propria identità. La propria identità si potrà proporre ed affermare con saggezza, con spirito aperto alla comprensione, al dialogo con le altre

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identità ed identificazioni culturali o storico-sociali, ma con chiarezza. Così, o l'Università – la scuola – è e resta cattolica, ed a questo fine reclama libertà, oppure non ha senso una battaglia quando si sia disposti a conformarsi, ad alterarsi, ad alienarsi.

Un problema questo che chiaramente si articola nelle due note proposizioni: libertà della scuola – libertà nella scuola. Per Padre Gemelli: libertà dell'Università – libertà nell'Università. Anzi, la prima per la seconda, e non viceversa come oggi molti cattolici vorrebbero. .... La prima costituisce il presupposto di principio, la seconda è intesa a darle sostanza di configurazione posisiva.

"Dalla scuola libera – già nel lontano 1920, sosteneva Padre Gemelli – noi attendiamo, non un'opera politica o settaria, ma tutta una ricostruzione nella legge della fratellanza e dell'amore cristiano, che distrugga quella che sono le cause che mettono in pericolo la nostra civiltà: l'indurimento dei cuori e il dispregio degli esseri umani". Inutile affermare l'attualità di queste parole: siamo nel 2016 e la loro veridicità è palese.

A distanza di molti anni, con la mancanza di libertà della scuola, vi è pure una recrudescenza della violenza, della contraddizione, della prevaricazione, dell'arbitrio. Alla mancata libertà di educare e di educarsi secondo propri principi, è andata sviluppandosi sempre più e sempre peggio una caduta della moralità, della capacità umana di essere tolleranti e civili. Una involuzione che Padre Gemelli aveva individuato e denunciato.

Da qui una profonda ed urgente riflessione sulla necessità di una cultura illuminata dalla fede, rigorosamente rispettosa dell'autonomia propria di ogni procedimento scientifico, ma motivata da una espressione, da una elaborazione, da una incidenza, "tesa a colmare le lacune ed i ritardi accumulati da noi cattolici sul terreno culturale" in questi anni in cui abbiamo dato tutto per scontato. Da qui la grande lezione e la grande testimonianza di Padre Agostino Gemelli, grande protagonista della vita della Chiesa e della società italiana, il cui impegno e la cui azione educativa richiama, ancor oggi, ad uno sguardo sulla situazione culturale e formativa attuale e sulla necessità di "un cattolicesimo davvero lievito vitale per la crescita sociale e civile del nostro Paese, di un cattolicesimo protagonista e impegnato come seme per la società civile" (Lorenzo Ornaghi).

ALCIDE DE GASPERI

1881 - 1954

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Di De Gasperi resta ancora difficile una collocazione che non soffra di fin troppo facili deformazioni e giudizi di parte. Ciò non significa però che non sia lecito riflettere su alcuni elementi e aspetti che fanno avvertire quanto mai attuale la figura dello statista trentino.Attingendo liberamente a ciò che hanno scritto gli studiosi R. Gatti, P. Scoppola e R. Orfei, sulla figura dello statista, e alle loro citazioni (* R. Gatti – De Gasperi: come guardava l’Europa, I diritti della Scuola, Milano 1984; * P. Scoppola – La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna 1977; * R. Orfei – L’occupazione del potere, Longanesi, Milano 1976), appare evidente che l’opera politica degasperiana offre un modello esemplare di un autentico riformismo. Essa è sempre stata indirizzata al rifiuto e al superamento dei due estremi del conservatorismo puro e semplice e del progressismo velleitario e demagogico. Questa impostazione si è riflessa sia nella sua opera all’interno del partito democristiano, sia nella sua azione di governo. Nel primo caso essa si è concretizzata attraverso una “proposta politica”, secondo la definizione di Pietro Scoppola, alternativa sia a quella della destra “vespista” (così chiamata, come è noto, dal nome della sede abituale delle riunioni politiche di quanti ne facevano parte, il “Vespa Club” di Roma), sia a quella della sinistra di Gronchi, dei dossettiani e dei sindacalisti, inclini ad una lettura forse spesso populista e con componenti integraliste del messaggio politico di Maritain.

Nel secondo caso si è realizzata soprattutto mediante una strategia economica che, pur lontana dalle ipotesi di “statalizzazione” della sinistra social-comunista e della CGIL, era indirizzata a coniugare crescita produttiva e giustizia sociale. Le frequenti accuse di spregiudicato ed antipopolare “liberismo” fatte in sede di analisi storiografica alla politica economica degasperiana trascurano e sottovalutano le sue iniziative riformatrici, dalla riforma agraria all’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, al piano INA-Casa, alla riforma fiscale Vanoni del 1951.D’altra parte, già negli appunti preparatori alle Idee ricostruttive per la Democrazia Cristiana, De Gasperi aveva scritto che, mentre “la libertà politica è legata alla libertà economica”, la “democrazia, senza la giustizia sociale, sarebbe una chimera ed una truffa. Accanto a quella che fu detta la democrazia formale, bisogna costruire la democrazia sostanziale, riformare cioè la struttura sociale”. E ancora: “tale costituzione economica di uomini liberi non si crea però con cieco automatismo delle forze in libera gara, come aveva sperato il liberismo classico, ma si forma sotto il vigile controllo dello Stato che deve intervenire a disciplinare le forze libere”.

Il “centrismo” degasperiano fu la traduzione pratica di questa volontà di sottrarsi agli estremismi di destra e di sinistra, mentre il suo “interclassismo” rappresentò il tentativo di raccogliere il maggior numero di forze sociali disponibili intorno ad un disegno di trasformazione realistica e razionale della società italiana del tempo: “Cerchiamo di mediare e di collaborare nell’interesse di tutta la comunità nazionale e del progresso umano”, dirà De Gasperi al Consiglio Nazionale di Fiuggi del luglio 1949. E in un articolo sul “Popolo” del dicembre del 1943, teorizzando il suo centrismo, scriverà che “ lavoriamo in profondità ... non curandoci delle accuse di essere troppo a destra o troppo a sinistra, secondo il linguaggio convenzionale della superata topografia parlamentare. In realtà ogni partito realizzatore sta al centro, fra l’ideale e il raggiungimento, fra l’autonomia personale e l’autorità dello Stato, fra i diritti della libertà e le esigenze della giustizia sociale”.

In questa prospettiva il merito che va ascritto a De Gasperi fu quello di aver saputo realizzare un’azione riformatrice che mentre si impegnava a superare le resistenze degli ambienti conservatori, presenti nel quadro politico generale ma non certo privi di influenza e rappresentanza all’interno dello stesso partito dello scudo crociato, si batteva però anche contro gli slogans facili del classismo, le parole d’ordine semplificatrici del “superamento del capitalismo” in voga nella sinistra, le formule populistiche di un giustizialismo di

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maniera che avevano largo corso ed ampio successo nell’Italia appena uscita dall’esperienza del fascismo. Emblematicamente, in un discorso del luglio 1945 a Milano, De Gasperi aveva attaccato il rivoluzionismo della sinistra affermando che, “poiché ci si richiama sempre alla storia francese, noi diciamo: secondo le nostre concezioni, niente cubismo, niente giacobismo, noi vogliamo la democrazia sul serio ... Noi siamo preoccupati soprattutto di una cosa ... di salvare nel futuro Stato democratico la libertà organica del popolo italiano. Noi temiamo una cosa: di perderla un’altra volta”. E il timore era rivolto in gran parte verso quella “sinistra” da cui “sono partite le due principali rivoluzioni reazionarie degli ultimi vent’anni”. “Noi - concludeva lo statista trentino - invece consideriamo il metodo permanente della democrazia, che è l’antirivoluzione”. Di qui nasceva l’idea della Democrazia Cristiana come “partito nazionale” che “ripudia ogni spirito di reazione e marcia verso le riforme per la giustizia sociale”.

Non andrebbe poi dimenticato il modo stesso in cui De Gasperi intese e visse l’impegno politico: pur nel suo realismo e pragmatismo – che lo induceva a criticare nel suo stesso campo politico quelle “personalità o gruppi cattolici, appassionati verbalmente degli ideali (ma che) dimenticano le difficoltà che ostacolano le realizzazioni” – non perse mai di vista i presupposti ideali dell’azione politica, nella convinzione che la politica è mezzo per la realizzazione dei valori della giustizia e del bene comune e non fine a se stessa, non potere per il potere. Rimasero sempre presenti quali criteri direttivi del suo operare, come più volte egli stesso ribadì richiamandosi alla concezione cristiana della politica, i fondamenti e i limiti morali dell’agire politico, che deve essere servizio per la comunità, non prevaricazione su di essa.

Tutto questo si inquadrava in una visione dei problemi che sfuggiva alle ristrettezze del provincialismo del quale erano ancora prigioniere molte forze politiche del nostro paese dopo l’oscurantismo fascista. Solo questa capacità di pensare in termini sopranazionali spiega il suo impegno europeistico, animato dalla convinzione che le sorti economiche e politiche dell’Italia post-fascista dovevano essere legate a quelle dell’Europa, non solo e non tanto per motivi di opportunità e di utilità pratica, ma per le radici comuni di civiltà esistenti tra le nazioni del vecchio continente, alle quali egli riteneva necessario ritornare per evitare il ripetersi degli errori del periodo nazista, generati innanzitutto dal progressivo oscurarsi della coscienza del valore di queste radici, come più volte De Gasperi stesso ebbe motivo di rilevare.

Affiancato da Sforza, fu il solo uomo politico italiano che comprese l’importanza e il valore intrinseco della prospettiva europeistica e che si batté, accanto a Schumann, Adenauer, Spaak, per l’unità economica europea come premessa per l’unità politica; tutto questo mentre il dibattito politico italiano ristagnava ancora tra il “qualunquismo” paesano di Giannini e il rivoluzionarismo oratorio ed astratto dei partiti “frontisti”. La scelta europeistica era, d’altro canto, una scelta incardinata su quei valori di democrazia e di libertà che, all’inizio degli anni ’50, non erano certezze acquisite, ma conquiste da realizzare in un contesto in cui non tutte le forze politiche del nostro Paese erano, in tema di democrazia, al di sopra di ogni sospetto. Ed era per questo che nel luglio 1950 De Gasperi parlava, in una lettera a Sturzo, della “precarietà del regime democratico” appena costituito e dell’eccessivo ottimismo di quanti credevano già di muoversi “in un mondo di libertà garantita e di democrazia assicurata”. Non andrebbe neppure dimenticato che quando De Gasperi parlava della civiltà democratica e liberale non mancava mai di mettere in rilievo quanto essa dovesse alla tradizione cristiana.

In polemica con Benedetto Croce, che nella sua Storia d’Europa aveva argomentato la estraneità del pensiero e della prassi del cattolicesimo agli ideali della libertà moderna, scriveva nel 1932 a Jacini che “se gli studi ai quali attendo da qualche anno potessero giovare a qualche cosa, essi mi dovrebbero servire proprio a questo: a dimostrare come la perenne vitalità del cristianesimo abbia lievitato, per così dire, tutta la massa delle idee e

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degli sforzi tendenti, lungo tutto il XIX secolo, verso la libertà: come essa ... sia stata molla potente di azione in seno al liberalismo medesimo ... Il che non potevano vedere ... gli uomini che lottavano allora per i diritti della Chiesa; ma ben dobbiamo vederlo oggi ... anche noi cattolici, se non vogliamo attribuire al liberalismo come tale alcune delle sue rivendicazioni più belle, semplici riflessi, inconsapevoli utilizzazioni della grande tradizione cattolica”.

Non fosse altro che per questi ammonimenti che lascia – con il suo riformismo alieno da declamazioni e da toni giacobini, con la sua visione della politica come servizio e non come “mestiere”, con il suo europeismo non certo di maniera – è senz’altro prematuro considerare De Gasperi come una figura da consegnare troppo frettolosamente ai libri di storia; ed è certo che questi ed altri aspetti della eredità politica degasperiana sono più che mai atti a suscitare qualche severo esame di coscienza sia in chi più direttamente rivendica tale eredità, sia in chi se ne proclama avversario.

JACQUES MARITAIN 1882 – 1973

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Un'esigenza che oggi riscontriamo – tanto per fare alcuni esempi – nella necessità dell'uomo di trovare, di elaborare, di promuovere e di gestire direttamente quanto gli interessa per una crescita ed una realizzazione personale e comunitaria, e quindi la necessità di rompere tutte quelle strutture verticalmente concepite per attuare una coerente corresponsabilità ed una autentica partecipazione in ordine ai problemi esistenziali di tutti i giorni, nonchè la necessità incontrovertibile di incontrare nella persona umana il fulcro animatore della società, della collettività, al quale ogni altra struttura deve essere subordinata in un contesto di bene comune – che trova la radice nella libertà e verità – che in ultima analisi è la chiave per aprire le porte ad una sostanziale democrazia.Orbene, Maritain incentrò tutta la sua filosofia nel concetto di "persona umana" come centro assoluto d'interesse avente una dimensione totale – materiale e spirituale – irriducibile, alla quale subordinò le istituzioni e le strutture sociali, per la quale ripudiò ogni forma di statalismo, ed in favore della quale auspicò un decentramento funzionale e una sussidiarietà istituzionale che valorizzassero l'iniziativa spontanea delle persona nelle associazioni e nelle formazioni sociali in cui si articola la comunità

Filosofo di razza e di cultura, chiamato quindi allo stile della sapienza e della scienza, Maritain ebbe ad alzare spesso il suo lamento sulla miseria umana, prorompendo spesso in rimproveri allorchè era ferito dalla stupidità e dagli errori degli uomini. Il suo stile – guardato con occhi chiari – si profila ancor oggi a quello dei profeti, lasciando in eredità una ricca enciclopedia del suo pensiero che affronta ben 150 problemi d'attualità. Egli non si considerava affatto né un sapiente, né un profeta: "Chi sono io dunque .... – scriveva nel 1954 – un filosofo spero. Ma anche una specie di romantico della giustizia .... E anche forse una specie di rabdomante che incolla il suo orecchio alla terra per cogliere il rumore delle sorgenti nascoste e delle germinazioni invisibili. Anche, forse, come ogni cristiano, .... un mendicante del cielo, nelle sembianze di un uomo del secolo,una specie di agente segreto del Re dei Re nei territori del principe di questo mondo, che assume i propri rischi, alla maniera del gatto di Kipling che se ne stava tutto solo".Quali sono i canoni del suo pensiero? Attingendo alla sua opera più importante – Umanesimo integrale – si possono scoprire molti passaggi che riguardano la situazione attuale della nostra società.

** Unità e pluralismo: "La città pluralista moltiplica le libertà: la misura di queste non è uniforme, e varia secondo un principio di proporzionalità. Questa soluzione d'altra parte riconduce l'unità della comunità temporale a ciò che essa è essenzialmente per natura: una semplice comunità d'amicizia" (U.I., p. 205).La questione della coesistenza tra unità e pluralismo è propria ed esclusiva dei sistemi politici democratici. E' invece questione inesistente o sconosciuta nei sistemi di società e nelle istituzioni politiche, sociali e sindacali, dove vi è "chi" si presume dotato d'infallibilità totale, il quale stabilisce per conto di tutti e per ciascuno, la razione quotidiana di pane e di cultura, di benessere o di malessere, di sviluppo o di sottosviluppo, di libertà o di schiavitù, di autonomia o di servile sudditanza. Non possiamo tralasciare in tal senso molti aspetti della nostra società italiana. Da noi si è sviluppato e approvato, nella seconda metà degli anni quaranta, una Costituzione democratica pluralistica, ma subito dopo – e in senso crescente – il principio dichiarato ha assunto con gradualità proporzioni ed aspetti drammatici. La democrazia richiede invece un sistema sociale basato su di un minimo d'uguaglianza giusta, liberamente accettato e necessariamente formalizzato nella legislazione, al fine di garantire quella unità di base su cui si regge il pluralismo. Quel pluralismo economico, culturale, sociale che costituisce un arricchimento della società e deriva esso stesso dalla ricchezza delle singole persone. Non avendo, nel tempo, posto mano, né attenzione al cambiamento del sistema sociale corporativo, ma promuovendo lo sviluppo nell'ambito di questo, il risultato complessivo e politico è il caos e il disordine.

** Unità come valore culturale: " Siccome si capisce bene che è pertanto necessario

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l'accordo interiore dei pensieri e delle volontà per la solidità dell'unità politica, sarà cercata con gli stessi mezzi delle dittature una pseudo unità intellettuale e spirituale" (U.I., p. 192).La cronaca e i risultati dell'attività Costituente italiana ebbero a sollevare l'impressione di un certo lavoro unitario di un prodotto pluralistico – la Costituzione – tra i partiti dell'ormai famoso arco. Tuttavia, con il dogmatismo che vigeva – e che vige tutt'ora – in tutti i settori, con l'autoritarismo che impregnava – e che ancor oggi impregna – la mentalità e il tatticismo inimitabile di abili politici che puntavano – e ancora puntano – ad egemonizzare la cultura e il mondo del lavoro, e la stessa vita politica, l'impresa da elaborare un testo unitario finalizzato al "bene cumune" – fondato su libertà, giustiziza e verità – ebbe a presentarsi sempre più come azione alquanto laboriosa. L'indomani dell'approvazione della Costituzione unitaria e pluralista – ancora recentemente presuntuosamente elogiata come "la più bella del mondo", nonostante la presenza di orpelli contraddittori – importante un'intensa attività legislativa soprattutto circa la vita, la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro, i rapporti civili e sociali, ma con abilità da far invidia al più astuto macchiavellismo, hanno giocato – e ancora gioca - un ruolo primario la furbizia della politica ed una certa stagnante ipocrisia. Senza generalizzare, non fu facile – e nemmeno lo è ora – vedere un uomo politico impegnato in problemi e leggi al di là da quelle della propria corporazione elettorale. I pochi profeti nel deserto sono costretti alla solitudine e coperti dell'infamia d'integralista. Non è provato, ne dimostrabile, che l'unità risultante dall'esperienza di libertà, di solidarietà e di responsabilità, sia impossibile. E' invece spiegabile come non è attuata, né promossa, continuando a conservare il deprecato sistema sociale corporativo, con il quale si giustificano e si coltivano i comportamenti settoriali che astraggono dal "bene comune".

** Uomo integrale: "La persona umana membro della società è parte di questa come di un tutto più grande, ma non secondo tutta sè stessa e secondo tutto ciò che le appartiene. Il centro della sua vita di persona l'attira al di sopra della città temporale, di cui questa vita ha tuttavia bisogno" (U.I., p. 174).E' d'importanza decisiva ciò che l'uomo pensa di se stesso, rispetto alla vita personale che vivrà. Ma è al tempo stesso d'identica importanza ciò che gli uomini di una determinata comunità o società pensano di sé stessi rispetto al modo con il quale organizzano la vita comunitaria e sociale, agli obiettivi che si prefiggono, ai mezzi che impiegano. Tuttavia esiste una dicotomia essenziale: la divisione tra l'uomo-sociale e l'uomo-individuo. L'accentuazione delle singole parti, ha prodotto i dogmi assoluti delle rispettive ideologie e poi delle rispettive culture. Le due società che ne sono derivate hanno espresso – ed esprimono – tali dogmi e i relativi squilibri a danno non soltanto della creatività umana, ma anche della solidarietà e della libertà. Le società attuali non sempre – quasi mai – sono a misura d'uomo. L'uomo non è solo libertà, come non è soltanto creatività e socialità, ma tutto questo va visto, pensato e considerato globalmente. L'umanesimo integrale ha i requisiti per diventare la filosofia dello sviluppo umano, della democrazia aperta alla partecipazione responsabile, all'autopromozione umana. Con esso si risolve la dissociazione interiore dell'uomo, in quanto ristabilisce l'unità di pensiero e d'azione tra la creatività, la libertà, la socialità che caratterizzano l'uomo come soggetto pensante in una unità vivente.

** Uguaglianza giusta: "Sta di fatto che una certa parità d'essenza tra le persone, voglio dire una parità essenziale nella comune condizione di uomini votati alla realizzazione del bene comune, vi sarebbe alla base delle relazioni d'autorità e della gerarchia delle funzioni temporali, si tratti dell'autorità politica o delle altre specie di autorità sociale" (U.I., p. 226).

Quando dalle celebrazioni ufficiali della Costituzione della Repubblica fondata sul lavoro, si passerà ad attuare i punti che tali dovrebbero qualificarli; quando si comprenderà che la lotta continua e la conflittualità permanente sono espressioni irrazionali ed emotive, e mantengono il livello culturale al puro gioco degli istinti materiali, e si procederà ad attualizzare il costrutto di decenni nell'ambito del sistema sociale corporativo, si scoprirà nella mentalità della stragrande maggioranza del popolo italiano che vi è una idea pratica e

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dinamica dell'uguaglianza, diversa da quella statica e diversa dall'idea di giustizia sociale perseguita come interesse strettamente di categoria. Tale idea costruttiva è una degli elementi base della cultura popolare italiana. La sua reale esistenza può rendere attuabile a breve scadenza un sistema sociale adeguato alla democrazia e basato su una uguaglianza minima e giusta. La dignità umana e la sua giusta considerazione sono soggetto di uguaglianza intrinseco di ogni uomo e di ogni famiglia, soggetto che va a realizzare compiutamente se stessi secondo le potenzialità naturali e quindi va a creare un pluralismo effettivo. Purtroppo il falso pluralismo oggi esistente è ricco soltanto di discriminazioni e di emarginazione dei valori fondamentali.

** Esperienza di libertà e di solidarietà: "Il bisogno paradossale di un essere attirato dal nulla a passare al sovrumano, fa sì che non ci sia per l'uomo alcun equilibrio statico, ma solo un equilibrio di tensione e di movimento e che la vita politica che deve tendere ad innalzare il livello di esistenza di un popolo, deve tendere anche ad un certo eroismo, e chiedere molto all'uomo per donargli molto" (U.I., p. 174).Pur costruttivo della contestazione emotiva e del dissenso lacerante, sembra essere il chiedersi perchè e come la cristianità italiana sia in ritardo rispetto al passo richiestole dall'esigenza di sviluppo umano, propria della società in cui essa cristianità è inserita. Se poi all'opera di autopromozione umana la cristianità ha la precisa vocazione del lievito, venendo a mancare ciò, non si avrà alcune fermentazione apparente che si risolverà in una più o meno disastrosa bolla di sapone. La cristianità in quanto Chiesa ha il dovere di fare politica, ma non proprio nel senso di gestione del potere, bensì di vivere pienamente i diversi momenti storici dell'umanità e particolarmente di essere attivamente presente nelle scelte di civiltà. Vi sarà sempre un problema di coerenza tra i valori della fede e della carità e la loro incarnazione specifica nel tempo. Tale coerenza ha un prezzo che va oltre le polemiche attuali, e coinvolge la vita stessa dell'uomo-cristiano e della cristianità. Ma per completare l'opera intrapresa dalla cristianità italiana a favore della democrazia, essa cristianità ha bisogno di prendere sempre più coscienza di un proprio ideale storico concreto e non utopia (astrazione della realtà e avvenire irrealizzabile) e neppure ideologia (insieme di principi e valori assoluti). I contenuti di tale ideale storico sono: la libertà e la solidarietà. Ciò in cui la democrazia ha oggi bisogno, è che essa diventi esperienza di libertà e di solidarietà umana. In quale senso e misura la cristianità può incidere in modo determinante all'avvio e al farsi di questa esperienza democratica? Vivendo l'esperienza propria della Chiesa, che è una esperienza comunitaria, in cui si vivrà il massimo di libertà e di solidarietà, quando la cristianità sposterà la propria attenzione dal potere alla coerenza di vita.

** Presenza: Da non dimenticare ciò che Maritain ebbe a dire con palese rammarico: "Sarebbe assurdo dire che la Chiesa è corrotta, che essa non è più con Gesù Cristo. Condannare la Chiesa vuol dire non poter più credere in Gesù Cristo. Il grande ostacolo al cristianesimo sono i cristiani. In una situazione simile, bisogna raddoppiare la sottomissione interiore, l'attesa e l'amore verso la Chiesa"...... Quando il filosofo della cultura affronta la questione del mondo cristiano, non affronta il capitolo della verità del cristianesimo, ma quello delle responsabilità temporali dei cristiani.

Nella storia molteplici sono le iniziative culturali e legislative volte a sradicare concetti e valori che sono alla base di una sana democrazia. Sentenze e decisioni tese ad accentuare prospettive ideologiche fondate su un sempre più crescente relativismo etico e sociale. Situazioni che hanno coinvolto – e coinvolgono – valori importanti come la vita, la famiglia, l'educazione, la libertà religiosa e la stessa dignità delle persone. Il tutto con la conseguente realizzazione di una società disumana. Basta guardare le tensioni di oggi per capire la grandezza e l'attualità del pensiero maritainiano. Orbene, le considerazioni di Maritain su queste situazioni – venutesi ad accentuarsi sempre più negli ultimi tempi – evidenzia il compito dei credenti a denunciare la deriva culturale ed esistenziale, testimoniando coerentemente il loro "essere" ed il loro "esistere" in una dimensione integrale dell'uomo ed in una tensione all'unità che non è unanimismo, ma originalità attiva e qualificante.

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ARTURO CARLO JEMOLO1891 – 1981

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"I problemi della libertà sorgono e hanno un senso soltanto là dove vi sono uomini liberi, persone che sentano il bisogno di vivere in una società i cui membri abbiano ad un tempo la libertà esteriore e quella dello spirito, che non accettino posizioni dogmatiche, ma siano sempre proclivi a riesaminare i propri punti di vista, a saggiarli con quelli dell'avversario, accettino e desiderino il colloquio. L'uomo libero è quello che si sentirebbe menomato se dovesse vivere in una società dove tutti avessero le stesse idee, dove non esistesse più la molteplicità delle opinioni".

Così ebbe ad esprimersi Arturo Carlo Jemolo, un cristiano e un cittadino coerente, il cui gusto e la cui passione per la libertà egli ha sempre cercato di trasmettere agli altri, particolarmente ai giovani, presentandoli quasi come il contributo al riscatto della dignità umana: il prezzo, cioè, che ogni uomo deve pagare per vedere spalancato il proprio destino alla compartecipazione divina. In questo momento storico, in cui il problema della libertà sta ritornando problema essenziale per l'uomo e per l'intera umanità, ricordare Arturo Carlo Jaemolo può essere significativo ed indicativo di un impegno che non va mai dimenticato e sempre va perseguito.

In tutte le opere di A.C.Jemolo aleggia questa tensione alla libertà. Oltremodo significative e degne di essere ricordate e rilette sono alcune pagine de I problemi pratici della libertà", una pubblicazione che riproduce le lezioni che il giurista era solito proporre al suo corso universitario di diritto ecclesiastico e che, forse, non hanno avuto adeguata rilevanza. Ne riportiamo alcuni stralci.

Circa lo Stato e la società, Jemolo ebbe ad evidenziare che "lo Stato è solo un aspetto della società civile, ma non la esaurisce, come il diritto non esaurisce la serie delle norme che operano in seno a quella società. Lo Stato è una espressione della società civile: solo sporadicamente e in circostanze per lo più transitorie, ha il volto del tutto diverso da quello di tale società (...). L'esperienza ammonisce che ci possono essere libertà riconosciute dalle leggi dello Stato e che la società civile non ammette (...), e casi in cui la pressione dell'opinione pubblica riesce invece a paralizzare le leggi, a consentire il riconoscimento delle libertà che queste negavano".

Se ciò è vero, tuttavia è sempre necessario ed importante avere un forte senso della libertà. E Jemolo sottolineò che "i problemi pratici della libertà hanno come condizione l'esistenza di uomini che abbiano il senso della libertà (...). Il senso della libertà è il senso che deve venire educato (...). In un mondo in cui ci sia una secolare inibizione a discutere certi argomenti, non solo a porre in forse, ma a ricercare il perchè di certi comandi e di certi divieti, persone anche di vivo impegno possono restare completamente insensibili a problemi siffatti (...). In questo senso si può dire che i problemi pratici della libertà, pure trovando la loro soluzione in norme di diritto positivo, e nell'effettivo funzionamento degli organi pubblici, cioè entro ambiti del diritto costituzionale, del diritto amministrativo, della scienza dell'amministrazione, sono più prossimi ai problemi morali che non a quelli giuridici".

E ancora: "Se pure siano ben diverse le due libertà, quella dell'agire e quella del pensare, è fatale che chi vuole limitare molto, in vari ambiti, la libertà dell'azione, sia poi tratto ad offendere quella del pensiero. Libertà fondamentale ed essenziale è dunque quella di poter proclamare, difendere, diffondere le proprie opinioni, e di poter discutere quelle altrui".

Nell'ottica dell'educazione necessaria del senso della libertà, è importante il riferimento ai giovani, sottoposti a pericolose prospettive: "L'instabilità dell'assetto in cui vivono, l'imprevedibilità del domani, l'incertezza, l'indebolirsi del senso della continuità, della fiducia che figli e nipoti abbiano ad essere simili, che ci siano dei beni e dei valori tali per loro come per noi e che dobbiamo difendere per loro ...... Sono stati d'animo che portano

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allo scetticismo, a ripiegare nel contingente, a trascurare le costruzioni che andranno oltre la nostra vita. Essi non uccidono l'uomo libero, ma rischiano di renderlo inerte; di portarlo a pensare la libertà come un bene che le nuove generazioni più non considerano tale, e per cui non è quindi più il caso di sacrificarsi; ad essere sacerdoti esemplari di una religione che si crede sia ai suoi ultimi giorni ...... Le insidie che l'uomo deve sventare sono le stesse contro cui deve ad ogni momento premunirsi l'uomo che non vuole mai deflettere dalla legge morale. Ogni inquinamento del proprio spirito rende meno atti a combattere la battaglia per la libertà ..... L'educatore metterà in guardia contro questi pericoli, ricorderà quel che debba essere l'uomo libero: tutte le garanzie scritte in carte costituzionali a nulla valgono se non hanno dietro a sè uomini pronti a combattere perchè siano attuate".

Ecco: Jemolo nella sua testimonianza e nel suo insegnamento ci ha trasmesso un importante messaggio di libertà, inteso come analisi concreta dello stesso atto volontario umano. Il suo discorso è altamente propositivo e totalmente comprensivo soltanto per chi abbia fatto esperienza concreta di libertà. Che cosda significa essere liberi? Che cosa vuol dire sentirsi liberi? E cosa significa fare esperienza di libertà?

Quando l'uomo recupera il senso integrale del suo essere, la libertà coincide con la fedeltà ad un impegno che investe le manifestazioni esistenziali tutte dell'uomo. Pertanto – ed è questo il significato ultimo del pensiero di Jemolo – identificandosi la libertà con una conversione integrale dell'uomo con l'amore – "l'amore non raggiunge la sua pienezza, non ottiene la sua dignità, non è pianta che si espande, se non quando è libero" – la responsabilità diviene il parametro per valutare la vocazione dell'uomo e della comunità, entro la quale la libertà è proprio la possibilità di dare realizzazione a tale vocazione.

JEAN GUITTON1901 – 1999

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Jean Guitton ebbe ad affrontare il tema della scuola libera in un articolo – che riportiamo – su Le Figaro, del 14 febbraio 1984.

"Un parlamentare britannico l'altro giorno a Londra mi diceva: Non riesco a comprendere le vostre discussioni sulla scuola libera. La Francia è per me il paese dei diritti dell'uomo e delle libertà. Il vostro Renan scrisse che mai un vecchio allievo dei gesuiti avrebbe battuto un ufficiale prussiano. Ora, se non mi sbaglio, Foch e De Gaulle uscirono dai collegi gesuiti".

Un parlamentare socialista, a Parigi, l'altro giorno mi diceva: Io non so comprendere queste discussioni sulla scuola libera. Esiste forse una polizia libera, una geometria libera, una morale libera? Un paese diviso nei suoi ragazzi è indebolito. Occorre un tronco comune, una scuola unica, con molteplici rami. Il pluralismo suppone l'unità alla sua base. Del resto, ci sono vecchi allievi dei preti che hanno votato le leggi laiche".

"Avendo a lungo riflettuto su questo dramma proprio della Francia – dappertutto altrove, salvo in Urss e nei suoi paesi satelliti, ad eccezione della Polonia, esso non si pone – ho pensato che esso ha la sua causa principale nell'ambiguità di questa piccola parola: "laico". Infatti le parole hanno spesso due significati, due versanti contrari: così la parola "democrazia", la parola "libertà", e anche la parola "amore". La parola "laico" vuol forse dire neutro, aperto a tutto, liberale? O significa "razionalista", ostile al fondamento della fede, vagamente antireligioso? La tolleranza laica non sarebbe in questo caso un'intolleranza che ignora se stessa?

"Allora volendo salvare la scuola laica, che è la mia segreta patria, impedirle di scivolare sul suo versante cattivo, avanza un'idea, paradossale in apparenza, ma vera, che la scuola libera è necessaria per la verginità della scuola laica.

"In primo luogo, poichè essa la stimola proponendole l'esempio di una più retta disciplina, di un morizzonte più pieno di mistero, talvolta di metodi innovativi. Noi vediamo ragazzi musulmani, giudei, atei nelle scuole cattoliche per ricevervi una prima formazione. Vincent Auriol e Giovanni XXIII erano stati allievi dei "fratelli dalle quattro braccia". E, dentro di loro, se ne rallegravano, per il fatto di aver ben appreso il calcolo e l'ortografia. L'esistenza di due tipi di scuola convergenti e non concorrenti, è una garanzia del loro buon funzionamento. Essa obbliga la scuola di Stato a rimanere fedele alla ragione accogliente, aperta e non chiusa, come deve essere l'intelligenza quando è fecondata dall'amore. E' nella diversità delle strade che si realizza la vera unità, l'unità della vita.

"Dico questo per convinzione profonda, non essendo mai passato attraverso una scuola cattolica, essendo debitore dei miei metodi di pensiero alla scuola laica e ai grandi esempi dei miei maestri laici; avendo insegnato tutta la vita nell'università laica; in questi giorni difficili, ho il diritto di portare la mia testimonianza. Guardate le mie mani; esse sono innocenti; io non sono un vecchio allievo dei preti. A differenza dei due illustri umanisti, usciti dai collegi liberi, e che senza dubbio se ne sono rallegrati a voce bassa: Francois Mauriac e Francois Mitterand".

GIOVANNI COLOMBO1902 - 1992

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Come dovrebbe essere, nella concretezza storica del mondo di oggi, lo Stato perché possa propiziare al meglio il benessere della nostra millenaria Nazione, nel cordiale rispetto della sua identità? Sembra essere evidente che la struttura statale debba essere al servizio della realtà nazionale, e non viceversa. Nel cercare una risposta plausibile – ci suggerisce il Card. Giacomo Biffi – ci facciamo aiutare da Giovanni Colombo, il compianto arcivescovo di Milano.

Laicità, democrazia, socialitàNell'attuale sviluppo storico – ebbe a scrivere in occasione dei Discorsi alla Città – "pensiamo ad uno Stato sanamente laico, cioè a uno Stato che nelle scelte fondamentali si ispira ai valori emergenti della natura dell'uomo, senza privilegiare nessuna ideologia e nessuna fede religiosa: democratico, cioè uno Stato che determina la propria legislazione e la propria linea di governo secondo la volontà popolare, espressa da libere elezioni indette a ragionevoli intervalli, e offre al governo della Nazione la reale possibilità di alternanza e di opposizione; sociale, cioè uno Stato che non si limita a garantire i diritti in termini formali, ma si impegna a creare condizioni concrete per cui, chiunque lo voglia, possa esercitare i suoi diritti e partecipare in modo responsabile e solidale al progresso della società. E' doveroso che tale Stato esista. E' doveroso che esca da tutte le sue assenze e latitanze (evidente il richiamo al "principio di sussuduarietà, pur senza citarlo).

La libertà della fede fondamento della laicità"La coscienza di ogni uomo – ebbe a sottolineare – respira nella libertà. Perciò la coscienza esige assolutamente di esprimersi immune da ogni coercizione fisica e morale, sia che provenga da singoli individui, da gruppi sociali, dall'autorità dello Stato, sia che emani da una azione deformatrice, orchestrata dagli strumenti di comunicazione sociale. Di fronte alla fede, non è in condizione di vera e sostanziale lilebrà tanto chi non ha potuto percepire con sufficiente forza e chiarezza la proclamazione della parola di Dio, quanto chi è vittima di subdoli metodi di pressione. Pecca, dunque, contro la libertà dell'atto di fede, tanto il cristiano che, per un malinteso rispetto dell'autonomia altrui, rinunciasse a proclamare il Vangelo in tutti i suoi modi, quanto chi per avangelizzare usasse l'inganno, il ricatto, l'intimidazione, la violenza. Questo comporta altresì che la comunità politica non pretenda di imporre una particolare concezione filosofica o teologica della vita umana e del mondo. Lo Stato moderno non può essere confessionale in nessun senso: non in senso religioso, per esempio cristiano; non in senso materialistico e ateo, e nemmeno in senso laicistico, se per laicismo intendiamo – come spesso è dato di riscontrare di fatto – una particolare concezione del mondo e dell'uomo d'ispirazione immanentistica e illuministica, che nega i valori trascendentali o li confina nel segreto della coscienza individuale. Noi chiediamo allo Stato che non faccia sua nessuna particolare ideologia, che non si identifichi con nessun partito. Altrimenti molti cittadini a motivo della loro scelta religiosa o ideologica o partitica verrebbero costretti a sentirsi stranieri nella loro patria.

Doveri conseguenti alla laicità dello StatoLe conseguenze sono evidenti e toccano tutti, credenti e non credenti, aggregazioni particolari e autorità dello Stato a ogni livello. "Noi non dobbiamo pretendere – ebbe a specificare – di qualificare cristianamente le "convivenze necessarie", quelle, cioè, che l'uomo non può nè scegliere liberamente, nè liberamente abbandonare. E naturalmente nessuno può imporre a noi le stesse "convivenze necessarie" qualificate e gestite in modo contrario ai contenuti della nostra adesione al Vangelo e al Magistero della Chiesa. I cristiani non cercheranno di abbassare a cittadini di secondo grado quelli che non hanno le loro convinzioni, ma non possono essi stessi accettare di scadere a cittadini di seconda classe o di essere emarginati a causa della professione della propria fede. Per la stessa ragione non sarà lecito alle amministrazioni dello Stato e degli enti locali operare discriminazioni di nessun genere: perciò essi non possono nè privilegiare con favoritismi nè privare nessuno dei propri diritti in forza del suo credo religioso, delle sue scelte politiche o

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delle sue opinioni filosofiche. Compito essenziale e irrinunciabile dello Stato è di assicurare ai singoli e ai gruppi la libertà di esistere nella identità culturale prescelta, di proporre agli altri le proprie convinzioni ed educare secondo i propri principi, di far esperienza di vita associata in coerenza alla loro matrice ideale e alle loro tradizioni, sempre nell'ambito del bene comune e nel rispetto delle libertà altrui. Le leggi e i pronunciamenti della pubblica autorità devono esprimersi entro questa area, altrimenti diventerebbero prevaricazioni. La giustizia non è giustizia se non rispetta la libertà, e non solo la libertà meramente formale ma soprattutto quella sostanziale: quella cioè che ci consente di essere come si sceglie di essere, e ci offre la possibilità di vivere e di operare come tale.Affermando tuttavia la giusta e sana laicitò dello Stato, non si vuole affatto asserire che esso debba essere indifferente a qualsiasi norma etica. L'obbligo della verità e della moralità impegna anche lo Stato laico: non già nel senso hegeliano della comunità politica creatrice di valori e di norme morali, ma nel senso che deve conformarsi alle esigenze di verità e di coralità che derivano dalla sua genesi, dalla sua struttura, dalla sua tradizione e dal suo fine.

Piena libertà della comunità cristianaAll'interno dello Stato laico inteso così – ebbe a ribadire – "tutti i singoli cittadini e tutte le legittime aggregazioni devono poter vivere, operare, svilupparsi secondo la loro propria specificità. Il cristiano singolo e le comunità dei credenti sono dunque chiamati a verificare l'originalità e la fecondità della loro fede, ricercando in ogni loro operosità d'ispirarsi al rinnovamento operato da Cristo. In alcuni campi l'esperienza cristiana sarà doverosa e non rinunciabile: pensino per esempio alle varie forme di educazione alla fede e di elaborazione di una cultura ispirata al Vangelo – scuole di ogni ordine e grado, biglioteche, stampa, oratori, associazioni cattoliche, ecc. - e alle varie forme pratiche della carità – aiuto alle famiglie mediante adeguati consultori, aiuto agli anziani, ai malati, ai poveri, ai minorati. Inoltre, nessun settore, nessuna attività, dove sia in gioco qualche valore umano – come l'arte, la cultura, lo sport, il divertimento, ecc. - possono essere esclusi a priori dalle esperienze innovatrici della fede, benchè non sia detto che tali esperienze debbano essere attuate tutte e sempre.

Il cattolicesimo religione storica e patrimonio culturale dell'ItaliaLa storia di una Nazione può essere ulteriormente arricchita, ma non può essere nè cambiata nè ignorata nè contestata come fonte precipua di una ben definita identità. Diversamente c'è il rischio che un popolo si riduca a un'accolita di indiidui: una accolita informe e insegnificante, senza valori radicati e senza pregio agli occhi delle genti. "Il cattolicesimo non è religione di Stato e ciò è incontrovertibile, dal monento che si tratta di uno Stato laico. Ma resta la religione storica della Nazione, e come tale ha largamente contribuito a dare un'anima e un volto propri e singolari alla nostra civiltà, quella civiltà che ha reso famoso e onorato il nome dell'Italia nel mondo. A qualcuno presumibilmente questo non garba; ha tutta la nostra comprensione, ma non possiamo farci niente: ciò che è avvenuto, non si può mutare o rinnegare a piacimento".

GIORGIO LA PIRA1904 – 1977

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Giorgio La Pira svolse negli anni che precedettero l'adozione della Costituzione un ruolo di assoluto rilievo nell'individuazione delle linee costituzionali di fondo che furono portate avanti nel mondo cattolico, in sintesi tre testi fondamentali: "Il diritto come esigenza sociale", "I problemi della persona umana", "Esame di coscienza di fronte alla Costituente".L'interesse che mosse la riflessione filosofica e giuridica di La Pira fu costituito dalla persona umana, che negli orientamenti moderni non è più il centro, sostituita in questo dalla "collettività". Contro tutte quelle concezioni per le quali l'unico valore dell'individuo va desunto dalla società in cui è inserito – concetto fortemente presente nell'attuale cultura – egli ebbe a rivendicare "una autonomia giuridica dell'individuo, che ha fini propri che attraversano e trascendono quelli dell'intero sistema di relazioni sociali nelle quali egli è naturalmente incluso". Sostenne che la persona è qualcosa di per sè stante e di completo, "è un mondo che ha una propria legge ed una propria autonomia". Tale concezione non dimentica affatto il momento della socialità in quanto "l'uomo è sociale perché spirituale. Gli uomini sono sociali perchè costituiscono quasi un unico corpo di cui ciascuno è membro solidale con tutti gli altri – ebbe a scrivere – ma l'essere, l'azione ed il valore della persona umana trascendono tale ordinamento sociale perchè destinati ad un atto personale, interiore, con cui la persona si unisce a Dio".

La Pira ebbe a condurre, quindi, una critica serrata a quella che egli definì "metafisica dell'errore", all'origine delle concezioni il cui esito è quello di subordinare la persona al tutto sociale (quale fosse una cellula dell'organismo) in nome di una "metafisica della verità" in grado di riconoscere, invece, che "l'individuo umano è essere sostanziale, che ha l'essere in sé, indipendentemente del corpo sociale. L'uomo è un mondo che si armonizza con altri mondi", un mondo il cui valoreva oltre l'utilità di questa armonia; la sua perfezione non risiede tanto "nell'adempimento di una funzione socialmente utile quanto nella libera adesione della sua volontà alla legge della bontà e verità che internamente lo sollecita". Se dunque, il valore dell'uomo non è funzionale; non è misurato dalla utilità sociale che egli produce, ma risiede nella sua bellezza e purità interiore, il fine della società non sta nella creazione di un qualunque bene comune, ma di un bonum commune humanum: cioè di quel bene comune in virtù del quale è resa più agevole alla persona umana l'espansione non solo e non tanto della sua vita fisica quanto, piuttosto, della sua vita interiore di intelligenza, di bontà, di libertà. Ne consegue che il vero diritto che deve regolare la vita sociale è quello legittimamente posto per il bene comune.

Questo pensiero di La Pira relativo al significato e al valore della persona, di necessità impegnative, ci permettono di comprendere meglio anche l'attuale momento culturale, segnato da una svalutazione oggettiva e di fatto della persona, per cui sembra giustificata l'ipotesi che sia in crisi non solo la scelta dei mezzi per giungere ad un determinato fine (sia pure quel mezzo onnicomprensivo di ogni altro che è l'organizzazione della vita sociale), bensì il fine stesso, cioè l'ideale di uomo che si vuole realizzare.La concezione ideale di La Pira non fu quindi quella che abbiamo visto affermarsi in questi ultimi anni e da cui è scaturita necessariamente l'espandersi di una mentalità radicale (V. Possenti). Quest'ultima si sviluppa a partire da una visione individualistica carica di una pretesa nei confronti dell'altro individuo o della società e dimentica di ogni armonia non solo nella relazione con l'altro, ma nel suo stesso interno.Dopo aver precisato il significato e il valore della persona, La Pira si pose l'obiettivo di pervenire ad una Costituzione che avesse l'uomo come fine. "E' vero – egli osservò – che ogni costituzione ha lo scopo immediato di determinare gli organi dello Stato, ma ogni costituzione ha un fine, un oggetto al quale deve convergere l'attività dello Stato, e questo fine non può che essere la persona".

Egli sostenne che una costituzione cristianamente ispirata non è quella che riconosce la religione cattolica come religione di Stato, ma quella per cui il suo fine è la persona umana

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quale il cattolicesimo la definisce e la mostra, e dipende dal fatto che le strutture costituzionali siano ordinate a questo fine. Egli ebbe a rivendicare ad una "Costituzione personalistica" la capacità di dare una risposta soddisfacente per tutti, anche per i comunisti e i socialisti che condividono con i cattolici la critica dello Stato borghese capitalista.

"E' buona una costituzione – scrive – che si attaglia al corpo sociale che essa organizza, e lo è soprattutto quando il fine dell'organizzazione giuridica coincide con quello del corpo sociale". Nella costruzione del nuovo Stato la tutela dei diritti sociali deve costituire il presupposto perché la libertà e l'indipendenza della persona siano affettivamente garantite. Significative sono le considerazioni a riguardo dei diritti essenziali della persona umana, che non possono essere pienamente rispettati se non sono riconosciuti i "diritti della comunità familiare, della comunità religiosa, della comunità del lavoro, della comunità educativa, della comunità nazionale, e ne possiede lo status" (principi relativi ai rapporti civili).

Questa concezione per cui dall'individuo si va allo Stato attraverso la mediazione di ordinamenti anteriori, la cui esistenza non può essere dallo Stato disconosciuta, va ad integrare i tradizionali diritti individuali di libertà civile e troverà la significativa codificazione nell'articolo due della Costituzione, là dove si fa esplicito riferimento alle "formazioni sociali", ove si svolge la personalità dell'individuo. In questo modo è stato conferito un solido fondamento al pluralismo. E l'esigenza di questa affermazione è stata tanto più forte data l'esperienza dello Stato totalitario da cui si uscì dopo la seconda guerra mondiale."Ai giuristi le società particolari sono apparse come le vie – vie lunghe, lenti e crudeli – attraverso le quali l'individuo acquista coscienza d'essere persona, diviene persona. Seguendo il processo costitutivo della persona, il giurista scopre che solo nella vita sociale l'esistenza singolare si fa persona" (P. Rescigno).

Giorgio La Pira sostenne che il suo disegno costituzionale non è di parte, che la costituzione che egli ebbe a prospettare è "umana" perché "indaga obiettivamente le struttore dell'uomo" e ribadisce che la "casa costruita secondo il principio cristiano, è una casa fatta per tutti gli uomini di buova volontà, credenti o non credenti, perché fatta per l'uomo". Nello scritto "Il valore della Costituzione Italiana", apparso in Cronache Sociali nel 1948, La Pira espresse un giudizio favorevole proprio per l'accoglienza nella carta fondamentale di quei principi. Del resto il valore e il prestigio della nostra Costituzione non risiede – o comunque non dovrebbe risiedere (in quest'ottica necessaria una riflessione sugli obiettivi revisionali in atto e sui tanti paradossi ed orpelli applicativi) – proprio in questo suo carattere di "casa comune", di costituzione per l'uomo?

EMMANUEL MOUNIER1905 – 1950

"Non siamo nati in uno di quei periodi in cui l'uomo si inserisce in una tradizione salda e

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sicura. Non ci facciamo da soli in un mondo in piena demiurgia": così il filosofo francese Emmanuel Mounier attiva subito la nostra attenzione e curiosità, esprimendo – già oltre settant'anni fa – un giudizio che calza profondamente con la situazione attuale. Un giudizio che dà voce a quel disagio che proviamo nel vivere in un periodo nuovo della storia dell'umanità, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti, nel quale ci troviamo a non sapere più chi siamo o, meglio, ciò che vogliamo.

La crisi culturale europeaMounier ebbe a percepire nettamente la gravità senza precedenti della crisi della cultura europea. Egli ebbe chiara coscienza che la civiltà occidentale si stesse avviando verso il declino. Mounier ebbe la radicale convinzione che la cultura occidentale si fosse irrimediabilmente smarrita. A nulla sarebbero serviti lievi aggiustamenti, dosati ritocchi e piccole riforme. Occorreva una vera rivoluzione. Rifare il "rinascimento" non è dunque solo una metafora: è l'espressione del suo progetto di recuperare l'essenza della persona che si è dissolta nell'invividualismo e nel collettivismo. La civiltà al tramonto è quella "borghese": per Mounier "borghese" non è tanto una classe, quanto uno spirito, una cultura. Il "borghese" è l'uomo che avendo perduto il senso dell'essere, si rifugia nell'avere: diventa allora il prototipo dell'uomo spersonalizzato. Dietro il falso benessere c'è la metafisica della solitudine.

Il personalismo filosofico-pedagogicoLa sua diagnosi fu – ed é spietata e inequivocabile: "non si sa più che cosa è l'uomo e, poichè lo si vede passare oggi attraverso trasformazioni impensate, si è convinti che non ci sia più una natura umana. Per alcuni ciò significa: tutto è possibile all'uomo, e così si ritrovano una speranza; per altri: tutto è permesso all'uomo, e abbandonano ogni freno; per altri ancora: tutto è permesso all'uomo". E' il concretizzarsi della filosofia nichilista del nostro tempo.La grande forza del pensiero di Mounier fu proprio nell'aver saldato il suo modo di filosofare alla presa di coscienza di una crisi di civiltà e di aver osato in prospettiva una nuova civiltà nella sua globalità: "Il nostro compito principale è quella di ritrovare la vera nozione di "uomo".La persona che egli mise come basamento di tutta la sua opera, non è l'individuo, ossia essere di ragione e di astrazione, uomo della dichiarazione dei diritti, tutto dispersione, egoismo, aggressività capricciosa, rivendicazione dell'autocoscienza di sé eretta a sistema essenziale. La persona che Mounier mise in evidenza si oppone all'individuo, in quanto è dominio, scelta, formazione, conquista di sé, realtà concreta, carnale e spirituale, membro vivo di ogni organismo sociale.

La personaIl progetto di Mounier è fondato sulla filosofia della persona. La persona è "il valore totale dell'uomo", è un equilibrio che si dispiega nelle dimensioni dell'incarnazione, della vocazione, della trascendenza, della comunicazione e della comunione. E a sostegno di queste, della libertà.* Incarnazione: è la situazione concreta in quanto entra a far parte della costituzione della persona, che non è mai soggetto disincantato; la persona è solo in quanto situata, solo in quanto legata ad un corpo e, in questo, ad uno spazio, ad un tempo e ad una storia. Quindi nessun spiritualismo o dualismo, poichè l'uomo è un corpo allo stesso titolo che è spirito: tutto intero corpo e tutto intero spirito, di modo che di ogni problema pratico bisogna anzitutto trovare la soluzione sul piano delle infrastrutture biologiche ed economiche, se si vuole che siano vitali le decisioni prese su altri campi.* Vocazione: pur condizionato dalla sua situazione incarnata, l'uomo trascende il suo essere biologico e ne emerge con il sentimento, l'intelligenza e la volontà per aprirsi ai valori, quali la responsabilità, la gioia, la festa, il bello, l'etica, l'amore, la scienza, la religione.* Trascendenza: l'uomo è fatto per essere sorpassato; egli è un cammino aperto al di là dell'adattamento, al di là della morte personale, al di là dell'acquisito e del compiuto.

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* Comunicazione: la persona è sempre aperta e in-relazione con gli altri, è con-essere, non un essere accanto; la relazionalità è un movimento intenzionale che esprime, in ultima istanza, la relazione della persona con l'assoluto.

* Comunione: contrariamente ad una comune e confusa opinione, ciò che per il "personalismo" costituisce l'esperienza fondamentale della persona non è l'originalità, l'affermazione solitaria, la separazione egoistica, ma è la comunione; la persona è per natura una persona diretta verso il mondo, le altre persone e Dio; è un essere "per", un essere"con"; ogni esigenza è una co-esistenza; quasi si potrebbe dire che l'uomo esiste solamente nella misura in cui esiste "per gli altri".* Libertà: tolta la libertà, l'uomo diventa una festuca in balìa dell'universo. Per questo – sostenne Mounier – "vorremmo cogliere la libertà sul fatto, toccarla come si tocca una cosa, o, almeno, provarla come un teorema; stabilire che c'è la libertà nel mondo. Invano: perchè la libertà è affermazione di persona: si vive, non si vede!".La persona è la presenza stessa dell'uomo, la sua ultima caratteristica, e per questo, scrisse Mounier, non è suscettibile di definizione rigorosa. Questa indefinibilità richiede tre esercizi fondamentali per arrivare alla formazione delle persone: meditazione, per la ricerca della proproa vocazione; impegno, adesione ad un'opera che è riconoscimento della propria incarnazione; rinuncia a se stessi, l'iniziazione al dono di sé e alla vita degli altri. Se la persona manca a uno di questi eswercizi essenziali, è condannata all'insuccesso.

La famigliaBenchè una attenta riflessione impedisca qualsiasi eccessiva idealizzazione della famiglia, individuata come istituzione carnale, complicata e difficilmente del tutto sana, che alle volte produce e causa dei suoi squilibri affettivi interni e innumerevoli drammi individuali e collettivi, il "personalismo" vede nella istituzione familiare una acquisizione definitiva, l'ambiente umano migliore per la formazione della persona. Le critiche che Mounier ebbe a rivolgere all'istituzione familiare non erano, e non sono, tuttavia, tese a dissolvere la famiglia, ma a renderla consapevole della sua forza e della sua debolezza. La famiglia rappresenta l'asse centrale del personalismo, per il vigore della sua anima che si rivela nella liberazione delle persone che la costituiscono e nella tensione verso il reciproco compimento di ciascuno."La famiglia – ebbe a sottolineare infatti Mounier – è incarnata come la persona. Essa non è dunque solamente un gruppo occasionale di individui e anche di persone (ciò che potrebbe essere individuato nella unioni di fatto e di individui di uguale sesso, così come nella ipotesi "gender" che sta sconvolgendo i valori naturali e universali). Per sua incarnazione, essa è una certa presenza,dunque una certa avventura offerta, un certo servizio comandato con certi limiti pure domandati a quelle persone. Gli individui devono sacrificare ad essa il loro particolarismo, così come essa deve sacrificare il suo ad un bene più grande. Questa comunità di persone non è né automatica, né infallibile. Essa è, però, un'avventura da correre, un impegno da fecondare. Ma è a condizione di tendervi con ogni sforzo, di irradiare già la grazia, e solo a questa condizione, che la famiglia può essere chiamata società spirituale".

La culturaIl ricupero dell'individualismo e dell'isolamento ad un impegno e ad un servizio comunitario non lo può fare quell'antiliberismo collettivista che impedisce la creatività culturale maturata in libertà, da persone singole o da comunità di persone. In questo falso ricupero, ebbe a denunciare Mounier: "noi ci vediamo espresso lo statalismo culturale che fa della distribuzione della cultura un monopolio dello Stato o una funzione della collettività. Di questo asservimento abbiamo conosciuto (e conosciamo) forme radicali: l'ortodossia di Stato che piega a sè direttamente o indirettamente tutte le attività culturali. E' evidente che la cultura, fino ad un certo livello, può e deve essere aiutata, ma non sopporta di essere tenuta al guinzaglio da alcuno; al livello della creatività, poi, essa ha bisogno di essere sola, quand'anche in questa solitudine il mondo intero rumoreggiasse liberamente. Non c'è cultura che non sia metafisica e personale. Le collettività non creano cultura". Radicata

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nella libertà e nell'inventiva, la cultura non si può né fabbricare né imporre; la si può solo proporre e suscitare, difendendola dalle mille sollecitazioni o costrizioni che cercano di strumentalizzarla. "E' vero che alla creazione è indispensabile un certo sostegno da parte della collettività, ma l'atto creatore sorge sempre da una persona".

L'educazioneLa grande importanza accordata dal personalismo alla educazione e alle istituzioni educative sta nella presa di coscienza che per una città che voglia favorire la crescita della persona, così come per una città che voglia asservire le persone, l'opera essenziale comincia dal risveglio della persona sin dall'infanzia. Il pensiero del filosofo francese rifiuta l'educazione che ignora la persona del fanciullo come tale, che impone un compendio delle visioni dell'adulto e le uguaglianze sociali create dall'adulto; un'educazione che sostituisce la cernita dei caratteri e delle vocazioni con l'autoritario formalismo del sapere."L'educazione – ebbe a sostenere Mounier – non ha per scopo di forgiare il fanciullo al conformismo di un ambiente sociale o di una dottrina di Stato. L'educazione ha la missione di promuovere delle persone capaci di vivere e di impegnarsi come persone". E ancora: "L'educazione non riguarda essenzialmente il cittadino, nè il mestiere, nè la figura sociale. Essa non ha per funzione principale quella di fare dei cittadini coscienti, o dei piccoli uomini di mondo (...). L'attività della persona è libertà e conversione all'unità di un fine e di una fede. Se dunque una educazione fondata sulla persona non può essere totalitaria, cioè materialmente intrinseca e coercitiva, essa non potrà che essere TOTALE". Essa interessa l'uomo intero, tutta la sua concezione e tutto il suo atteggiamento di vita. In questa prospettiva non si può concepire l'educazione in modo neutrale.

La scuolaUna scuola che voglia astenersi completamente dall'insegnamento di quelle discipline che formano ad una vita positiva, presuppone l'illusoria concezione che si possa separare senza inganno l'istruzione dalla educazione. "ora la scuola, dopo il grado primario, ha la funzione di insegnare a vivere e non solo ad accumulare esatte o belle maniere di savoir-faire".Da qui il rifliuto, sottolineato da Monier, di ogni regime totalitario della scuola, il quale invece di preparare progressivamente la persona all'uso della libertà e al senso delle sue responsabilità, la sterilisce già in partenza piegando il fanciullo alla cupa abitudine di pensare mediante delega, di agire per parola d'ordine, e di non avere altra ambizione di quella di essere sistemato, tranquillo e considerato in un mondo soddisfatto.Nel fanciullo educazione e formazione, così come nell'adulto ogni influenza, procedono mediante la tutela di una autorità in cui l'insegnamento è progressivamente interiorizzato dal soggetto che la riceve. Quella autorità che è promariamente riconosciuta ai genitori e alla famiglia: ad essi non soltanto l'onere di educare i figli, ma anche la responsabilità di scegliere fini, tempi e mezzi ritenuti necessari alla loro formazione.

Lo StatoPer questa ragione Mou nier ebbe a rifiutare il monopolio da parte dello Stato dell'educazione e della formazione, così come ogni misura che tenda ad assicurare questo monopolio di fatto, anche se esso non è ufficialmente proclamato. Lo Stato personalista non è neutro, è personalista, cioè al servizio della persona. Esso non è una comunità spirituale, una persona collettiva nel senso proprio del termine. Non è al di sopra delle persone. Non è competenza primaria dello Stato l'educazione dei soggetti, perchè lo Stato, di fatto, non rivolge alcuna attenzione alla vita personale come tale. Finchè la persona non è maggiorenne, dipende dalle comunità naturali in cui si trova per la crescita, cioè dalla famiglia e da ogni autorità spirituale che viene riconosciuta dalla famiglia."E' vero – aiuta a capire Mounier – che non si dovrebbe interpretare falsamente la prerogativa della famiglia. Prerogativa della famiglia sullo Stato non vuol dire diritto arbitrario e incondizionato di una manipolazione della famiglia sulla persona del fanciullo. Essa è subordinata in primo luogo al bene del fanciullo, in secondo luogo al bene comune della società. Non deve farci dimenticare l'incompetenza, l'indifferenza e l'egoismo di molte

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famiglie in materia di educazione. Così come neppure possiamo trascurare molte evidenti precarietà e debolezze educative di certa scuola e di certi docenti. Qui lo Stato può e deve intervenire, il tutto nel duplice ruolo sussidiario di protezione della persona e di organizzazione del bene comune". Esso tuttavia resta uno strumento di servizio della società e, solo se necessario può intervenire contro famiglia e scuola, al servizio delle persone.E' e resta strumento artificiale e subordinato, anche se necessario.

La grande attualità del pensiero di Emmanuel MounierInutile evidenziare l'attualità di queste tematiche, da Mounier affrontate in epoche a noi certamente lontane (relativamente) e da noi spesso dimenticate ed irrise. Posizioni queste estremamente precise, unite da una eloquente coerenza di vita, e sostenute da un travaglio interno, da una profonda interiorità. Per il filosofo francese, "una persona è messa alla prova dagli impegni che assume. Un impegno non è una tessera, tesa a far tacere la propria coscienza e liberarsi dei vari doveri del pensiero e dell'azione. E lo sforzo personale che salda il pensiero all'azione per non peccare di incoerenza. Non si chiede al cristiano che di essere se stesso".Egli evidenzia la crisi modernista che anche come cristiani – spesso confusi e tentati dall'evasione in ordine alla propria responsabilità – stiamo attualmente vivendo, e ci richiama tutti alla coerenza con la sollecitazione di Papa Benedetto XVI: "Cristiani, non siate muti"; e con quella di Papa Francesco rivolta ai giovani: "Non abbiate paura di andare controcorrente".

ANTOINE HUMBLET1922 – 2011

Occorre aiutare i Governi ad adeguare le rispettive politiche educative ai principi della libertà di insegnamento enunciati dai diversi strumenti internazionali, quali la Dichiarazione

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Universale dei Diritti dell'Uomo e il Patto relativo ai diritti sociali, economici e culturali.

Nel parlare di autonomia nell'insegnamento – sottolineò Antoine Humblet – è necessario distinguere due aspetti di cui il primo condiziona ampiamente il secondo. Perché si possa parlare di autonomia, innanzi tutto, deve esistere la libertà effettiva di organizzare l'insegnamento. E perchè tale libertà sia davvero effettiva, è necessario che le condizioni finanziarie di esercizio di tale libertà siano uguali per tutti. Una volta acquisita tale libertà finanziaria, si potrà affrontare il secondo aspetto: quello dell'autonomia pedagogica.Ora i Paesi dell'Europa comunitaria sono ben lungi dall'aver acquisito tale autonomia finanziaria. In effetti, se è vero che in quasi tutti i Paesi esiste una pluralità di reti di insegnamento, è altrettanto vero che in taluni di essi permangono delle discriminazioni in termini di finanziamento delle scuole ed ovviamente a vantaggio di quelle gestite dallo Stato; ciò che limita notevolmente, per non dire annulla completamente la libertà di scelta dei genitori.

Chiarì, pertanto, che il primo obiettivo, condizione necessaria ma non sufficiente per una reale autonomia, è quindi quello di assicurare il finanziamento dell'insegnamento in modo uguale per tutti; il principio è effettivamente garantito atrraverso la concessione ad ogni bambino, secondo la sua età, di un sussidio che equivalga ai costi della sua formazione scolastica. Il migliore esempio di concretizzazione di tale principio è il "buono" scolastico: questo può essere d'altronde commisurato alla condizione sociale dell'alunno.

Per quanto riguarda l'applicazione dei sistemi fondati sulla libertà di scelta, si può ricorrere ad una sorta di buono – rilasciato dagli enti pubblici alle famiglie – di un certo valore nominale e di cui potranno servirsi o genitori per pagare un anno di insegnamento al loro figlio in una scuola di loro scelta. Secondo una formula particolare, gli enti pubblici sono autorizzati a rilasciare buoni di valore nominale superiore alle famiglie meno abbienti e con casi di disabilità al loro interno, dando così loro la possibilità di vedere accettate le loro domande nelle scuole.

L'applicazione di un simile sistema, che comporti indiscutibilmente la parità di trattamento fra i cittadini e favorisca la libera scelta dei genitori, non è cosa facile. Ma anche una volta risolto il problema finanziario, i genitori possono esercitare effettivamebte la loro libertà di scelta soltanto se esistono scuole sufficientemente diverse e consone alle loro esigenze personali, sia dal punto di vista pedagogico che ideologico. E qui sorge il problema fondamentale dell'organizzazione dell'insegnamento. Certo, tale autonomia pedagocica avrà i suoi limiti, così come la libertà individuale è limitata dal rispetto dell'interesse pubblico. Spetta al potere politico fissare un certo numero di regole, nonchè una qualifica degli insegnanti sulla base dei loro titoli di studio. Spetta sempre allo Stato e alle istituzioni europee determinare in quali condizioni il diploma rilasciato dalla scuola verrà equiparato, ossia otterrà il valore di diploma ufficiale valido un domani in tutta la Comunità europea (ndr.: ciò non toglie che il valore della scuola si determina sulla capacità e sulla reale formazione dello studente, e non tanto sull'esito di un esame finale riconosciuto dallo Stato, in quanto lo stesso Stato, qualsivoglia sia, è dimostrato che non è in grado di garantirne l'efficacia).

Non dobbiamo farci, però, illusioni: il cammino verso l'autonomia è irto di ostacoli. Innanzitutto, il fatto che la maggioranza – il maggior numero dei cittadini – è conservatrice. Molti si oppongono istintivamente al cambiamento. Le rivoluzioni sono spesso sorte da un rifiuto dell'evoluzione, del cambiamento. Più in particolare, coloro che detengono il potere nel settore dell'educazione si aggrappano alle proprie prerogative. In ogni società, essere padrone della scuola rappresenta un mezzo per consolidare il proprio potere. Anche quando non sono in gioco principi ideologici, controllare i mezzi finanziari destinati all'istruzione e disporre del potere di nomina degli insegnanti e delle direzioni scolatiche, rappresenta un potere che i politici non saranno disposti ad abbandonare tanto facilmente.

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La storia dell'educazione – ebbe ad evidenziare Humblet – ci ha insegnanto che, per ovvie ragioni, i genitori hanno delegato ad altri la propria responsabilità educativa: furono i monaci per primi ad assumersi questa responsabilità. Oggi, in cui tutti dispongono di sufficienti mezzi materiali e di molto tempo libero, i genitori hanno (avrebbero) la possibilità e la capacità di assumersi pienamente le proprie responsabilità educative. Alleati in potenti associazioni, essi devono innanzi tutto, in quanto cittadini ed elettori, esercitare pressioni sui responsabili politici, le assemblee elette ed i governi affinchè le legislazioni vengato adeguate per consentire un'effettiva autonomia nell'insegnamento. Parallelamente, anche nelle strutture e a livello di ogni singola scuola, essi dovranno (dovrebbero) collaborare all'introduzione di nuove metodologie. Le scelte pedagogiche hanno evidentemente più successo se fatte all'interno di ciascuna entità scolastica anzichè imposte da un potere centrale.

E così, a titolo esemplificativo, alcuni interrogativi a cui deve far fronte una scuola, anche quando dipende da un potere centrale:* come affrontare gli insuccessi scolastici? Quali ritmi di apprendimento adottare? Come separare gli insegnamenti teorici da quelli pratici? E ancora: eventualmente come assemblarli? A seconda delle materie insegnate, che dimensione di classe adottare? Quale contenuto dare all'orario tipo di un insegnante, all'interno di regole generali? Quale fressibilità d'orari tollerare? Come migliorare la collaborazione fra insegnanti di uno stesso livello, o di livelli diversi? Che priorità dare alla formazione continua, e secondo quale ritmo? Come garantire la mobilità interna degli insegnanti? Chi potebbe, a titolo provvisorio o parziale, esercitare altre funzioni all'interno della scuola oltre a quelle dell'insegnamento? Come dinamizzare la gestione patrimoniale e finanziaria della scuola? Quale percentuale di bilancio destinare rispettivamente al personale e ai costi di esercizio?* inoltre le scuole autonome, dal canto loro (statali o non statali che siano), associandosi in reti educative, potrebbero delegare a quest'ultime importanti funzioni, come ad esempio: illustrare il progetto pedagogico di ogni scuola e assocurarne il controllo (ispezione ed animazione); assistere le direzioni nella gestione di tipo amministrativo, finanziario o altro: rappresentare le scuole della rete presso i responsabili dell'insegnamento e della formazione; individuare nuove forme di collaborazione all'interno delle singole reti e fra le stesse.

L'accentramento è e resta il principale motivo di persistente malessere sull'insegnamento: costa caro e non soddisfa più nessuno, nè gli studenti, nè i genitori, nè gli insegnanti. La via d'uscita risiede quindi nell'autonomia e nella responsabilizzazione dei diversi partner. Occorrerà lottare a tutti i livelli e su tutti i fronti per ottenere la liberalizzazione dell'insegnamento. E, nel contempo, attraverso una azione continua, mirara e volontaria presso l'opinione pubblica, risvegliare le coscienze e mobilitare gli individui affinché ciascuno assuma pienamente le proprie responsabilità.

Questo il quadro della situazione scolastica in molti Paesi, ed i primis in Italia; questi i suggerimenti per un impegno continuo sollecitato da Antoine Humblet, già presidente dell'OIDEL.

ANGELO MACCHI1923 – 2014

"Il problema dell'impegno per la fede e per la giustizia è oggi divenuto molto sentito e

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diffuso nella coscienza del popolo di Dio. Da qui le tensioni oggi esistenti nel mondo cattolico a proposito del problema della fede e della giustizia": così ebbe a introdurre una sua analisi P. Angelo Macchi SJ.

Complessità e ambivalenza del tema

Sotto l'influsso delle teorie laiciste e in presenza di enormi situazioni di sottosviluppo, di fame, di ignoranza, di sfruttanmento, settori del mondo cattolico, più o meno affascinati anche dal processo e dall'idea della secolarizzazione – constata P. Macchi nella sua disamina - si affidano ad una teoria – e poi agiscono in conseguenza di tale teoria – secondo la quale il compito del cattolico nella società civile sia quello della promozione della giustizia, ritenendo che basti tale promozione per promuovere la stessa fede o almeno per creare le condizioni essenziali, affinchè la fede possa essere difesa e assunta. Da qui derivano gli atteggiamenti e il desiderio di impegnarsi in attività di lavoro totalmente secolarizzate, spesso mimetizzando la loro identità giustificando il tutto alla luce di ciò che si chiama "pre-evangelizzazione", intesa appunto come azione che tende a porre solo le premesse per l'inserimento del processo della fede.

Ponendo il problema in questo modo, le conseguenze che logicamente ne derivano sono, per esempio, quelle secondo le quali, essendo la promozione della giustizia il fine principale dell'azione apostolica, è doveroso affiliarsi con coloro che oggi sono e appaioni impegnati per il raggiungimento dello stesso fine. Così lo sbocco conclusivo della teoria della "pre-evangelizzazione" conduce settori di cattolici a identificarsi con associazioni, con aggregazioni, che, per loro matrice culturale, sono opposte alla fede, e ciò genera un processo di ripensamento di tale teoria. Ma – sottolinea P. Macchi nella sua disamina – può essere chiamata pre-evangelizzazione una azione che rafforza lo spessore ateistico o agnostico delle forze politiche, sindacali e culturali? A questo punto un discorso che volesse svilupparsi sul doppio binario della teoria e della pratica non può non domandarsi che cosa è la fede e che cosa è la giustizia.

La fede, una persona e un messaggio

Soggettivamente intesa – spiega P. Macchi - "la fede è la nostra personale adesione al messaggio della persona di Gesù Cristo. Tutto ciò che parte di questa persona e del suo messaggio, questa è la fede, oggettivamente intesa". Nella storia del popolo di Dio e nella storia della teologia, speculativa e spirituale, si sono riscontrati periodi nei quali l'accento è stato posto primariamente sul messaggio e secondariamente sulla persona, e periodi in cui l'accento è stato posto soprattutto sulla persona e meno sul messaggio. Privilegiare il messaggio sulla persona ha provocato un atteggiamento di carattere intellettualistico, dove la fede veniva principalmente intesa come una somma di verità da credere e meno come una scelta di campo per l'azione in nome di Cristo. Privilegiare la persona sul messaggio ha generato un atteggiamento di azione impegnata in nome di Gesù Cristo, sottovalutando la verità del suo messaggio.

La pienezza operativa della fede – sottolinea - dovrebbe essere sintesi costante dei due aspetti (persona e messaggio). Una scelta fatta per amore, congiunta con la convinta adesione a tutte le verità che Egli ci ha rivelato. Senza questa sintesi, che ognuno deve quotidianamente realizzare quale frutto di amore, è incombente il rischio di separare Gesù Cristo dalla sua Chiesa e addirittura di contrapporre Gesù Cristo, alla cui persona si dice di aderire, alla Chiesa, dalla cui realtà storica di fatto ci si separa. E' questa separazione dei due momenti – Cristo come persona e Cristo come messaggio – che ha dato (ndr. : continua a dare) origine a molti scismi, a molte eresie ufficializzate o consumatesi nel segreto della coscienza. Il tentativo di separare Gesù Cristo dal suo messaggio, Gesù Cristo dalla Chiesa, la fede dalla religione, non è nuovo: risale agli anni della vita pubblica di Gesù, il quale lo ha dovuto affrontare e subire (si veda il discorso fatto da Gesù sul pane di vita, dopo la

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moltiplicazione dei pani e dei pesci). Si domanda P. Macchi: Non si ripete oggi lo stesso fenomeno? Coloro che compiono fughe in avanti, che si collocano nel campo secolarista non dichiarano, spesso, di farlo in nome di Cristo, in cui dicono di credere, ma in polemica con la Chiesa, che qualificano traditrice di Cristo? E lo stesso discorso non vale per l'estremo opposto in nome di un tradizionalismo privo di vita?

Le manifestazioni dell'ingiustizia

La problematica connessa con l'idea e la realtà relativa alla giustizia – evidenzia P. Macchi - è molto complessa. E' più facile concordare su che cosa sia l'ingiustizia, che non intendersi sul concetto di giustizia. Da un lato è piuttosto facile trovarsi d'accordo nel decifrare alcune situazioni come "ingiuste": la dove la gente muore di fame, dove le masse vivono una vita totalmente precaria, priva di igiene, indifesa contro le malattie, senza una decorosa abitazione, vestiti di stracci, esposti alle intemperie del sole bruciante e della pioggia devastante, dove non ci sono opportunità di lavoro, dove si sfrutta il lavoro minorile, o quello delle donne poichè può essere pagato di meno, dove le condizioni della prestazione del lavoro sono gravemente dannose alla salute, dove strati di popolazione sono tenute in uno stato di schiavitù o di minorità giuridica o, ancora, perseguitati a motivo della loro razza, religione, idee politiche o fede religiosa, dove la legge non è fatta valere ugualmente per tutti, .......

Si deve deplorare la condizione di migliaia e migliaia di profughi, e di qualsiasi ceto o popolo che è perseguitato – talvolta in forma istituzionalizzata - per la sua origine razziale o etnica, oppure per ragioni tribali ..... In molte regioni la giustizia viene lesa molto gravemente nei riguardi di coloro che soffrono persecuzione per la fede, oppure sono sottoposti in molti modi e continuamente ad un'azione di oppressiva ateizzazione da parte delle fazioni politiche e dei pubblici poteri, oppure sono privati della libertà religiosa, ..... La giustizia è violata anche dalle antiche e nuove forme di oppressione, che derivano dalle limitazioni dei diritti individuali tanto nella repressione ad opera del potere politico, quanto nella violenza di una privata reazione, fino all'estremo limite delle condizioni elementari dell'integrità personale, ....... e ciò senza contare il crescente disinteresse nei riguardi del diritto alla vita.

Inoltre – sottolinea P. Macchi, richiamando il testo "La giustizia nel mondo", dal Sinodo dei Vescovi 1971, cap. III, n. 4 – "la coscienza del nostro tempo esige la verità nei sistemi di comunicazione sociale, il che include anche il diritto all'immagine oggettiva, che gli stessi mass-media ci offrono, e la possibilità di correggerne le manipolazioni. Si deve pure sottolineare che il diritto, soprattutto dei fanciulli e dei giovani, all'educazione, all'ambiente di vita e ai mezzi di comunicazione moralmente sani, ai nostri giorni è nuovamente messo in pericolo. L'azione delle famiglie nella vita sociale raramente ed in forma insufficiente è riconosciuta dalle istituzioni statali. Nè si deve dimenticare il numero crescente delle persone che spesso vengono trascurate dalla famiglia e dalla comunità: i vecchi, gli orfani, gli ammalati ed ogni altro genere di derelitti". E' nei confronti di questi fenomeni che il messaggio di Gesù Cristo, relativo alle leggi che saranno fatte valere nel giudizio universale, esplica tutta la sua efficacia stimolatrice di azione personale e sociale.

La giustizia come riduzione delle diseguaglianze

Inutile dire che le rivoluzioni dell'era moderna e contemporanea sono state compiute, e vanno compiendosi, all'insegna del motto dell'uguaglianza; e che la tecnicizzazione dell'uguaglianza ha avuto, e ha, illustrissimi uomini di cultura: sia filosofi, sia scienziati dell'economia. Comunque la scienza politica mette sufficientemente in luce come in nessuna società, in nessuna cultura, in nessun assetto politico sociale l'assoluta uguaglianza è stata, ed

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è, anche lontanamente approssimata. E dalla constatazione del fatto, la tentazione di risalire alla formulazione di un principio, che stabilisca la non ottenibilità dell'assoluta uguaglianza, è assai forte. Così le stesse parole di Lenin pronunciate nel 1919: "Ogni richiesta di uguaglianza che va al di là della abolizione delle classi (cioè, delle differenze antropologiche, sociali, culturali, ... ) è un pregiudizio stupido e assurdo".

Per chi ha sensibilità con il pensiero sociale della Chiesa – ricorda P. Macchi – l'approccio al problema dell'uguaglianza è meno cinico e assai più ricco di quello di Lenin. Tuttavia occorre ben distinguere uguaglianza nell' essere della persona e uguaglianza nell' avere, pur essendo pacifico che l'avere una certa quantità di beni è condizione essenziale per l'uguaglianza nell'essere. Orbene per il pensiero sociale cristiano l'uguaglianza nell' essere in tutte le persone è una esigenza morale che i poteri politici e le leggi debbono in tutti i modi garantire. Si tratta in sostanza di quella che gli scienziati politici chiamano "l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge". Uguaglianza di diritti per tutti gli uomini in quanto persone umane, indipendentemente dalla razza, dalla religione, dal sesso, dalla lingia che parlano, ecc...

Questa uguaglianza comporta la soppressione delle discriminazioni, soppressioni, che alle volte può operarsi a livello degli istituti giuridici, ma rimane a livello di comportamento sociale.

Molto più complesso è il problema dell'ingiustizia e della disuguaglianza a riguardo dell' avere. Avere qui è inteso come possesso e godimento di beni economici. Se dovessimo giudicare il sentimento di giustizia delle masse alla luce della virulenza delle lotte che esse conducono, si dovrebbe concludere – evidenzia P. Macchi – che il momento dell'uguaglianza dell'avere è privilegiato rispetto al momento dell'uguaglianza nell'essere. Ciò, ad esempio, a dire che le battaglie per ampliare i diritti politici di partecipazione – che attengono alla sfera dell'essere – esistono, ma sono condotte prevalentemente sul piano della cultura, mentre le battaglie sociali – scioperi, violenze, arbitrii, ecc. - sono fatte sul piano dell'avere.

Faccio presente – chiarisce P. Macchi – che il perseguimento dell'uguaglianza dell'avere posta in questi termini, non può eludere il problema centrale della libertà dei cittadini, essendo ben comprensibile che o a ciascuno viene imposto dall'alto la quantità di beni che deve avere – e in questo caso la libertà generale, politica e sociale e economica dei cittadini viene messa in forte crisi, oppure l'uguaglianza si vuole perseguita in un contesto di libertà generale e allora la possibilità della persistenza di talune diseguaglianze va messa nel conto.

E allora, da questo punto di vista, circa l'impegno dei cristiani nelle realtà temporali e nella società civile in ordine all'eguaglianza degli uomini e delle donne nell'avere, altro non possa essere che una linea di tendenza che cerchi di ridurre quanto più possibile le diseguaglianze che esistono, non di erigere l'uguaglianza come utopia per giustificare macchiavellicamente qualsiasi mezzo, qualsiasi regime, qualsiasi oppressione di libertà in nome di una utopia.

L'unità del popolo di Dio essenziale per il servizio della fede

Il quesito che si pone con drammatica urgenza, nel contesto della nostra società, è il seguente: può essere giudicata vera promozione della giustizia quell'azione la quale per i modi in cui si pone, genera la rottura del corpo ecclesiale, nel corpo mistico di Cristo, nella Chiesa, e lacera l'unità visibile del vincolo della fede? "Amici, con questo quesito non intendo minimamente negare il valore rigeneratore e vivificante del pluralismo nella Chiesa. Il pluralismo delle famiglie religiose, delle forme di spiritualità, delle scuole teologiche, delle esperienze mistiche, delle celebrazioni liturgiche, delle associazioni laicali, ecc... è una formidabile ricchezza della comunità ecclesiale. Ma – sostiene P. Macchi – voglio porre

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l'accento sui limiti del pluralismo nell'ambito della Chiesa e sul valore metodologico della ricerca di unità operativa, nel momento in cui la fede proietta l'azione dei cristiani sul piano delle realtà temporali".

Così il gesuita richiama l'attenzione sull'ambivalenza del pluralismo intraecclesiale. Il suo aspetto positivo e di grande valore è già stato affermato. Ma è legittimo, e compatibile con l'unità esigita dalla fede accettare tutto e qualsiasi cosa? Ritenere che tutte le opinioni siano ugualmente recepibili? Il pluralismo illimitato non è un pericolo di nuove rotture all'interno della Chiesa? Non abbiamo assistito nella storia della Chiesa a rotture di comunione che sono guarite solo dopo secoli, o sono ancora aperte come ferite sanguinanti?Come si può riconoscere i cristiani se il "cristiano" è "non controllato" e ricopre atteggiamenti, giudizi e pratiche contraddittorie? E ancora: Per quanto riguarda la proiezione dell'unità della fede sul piano dell'azione civile, sociale, politica, tesa alla promozione della giustizia, vi pare che sia da accettare con gioia, e come una situazione abituale conforme al dover essere, la divisione tra cristiani, in presenza di una solida e avanzata unità delle forze radicalizzanti, laiciste? Non dovremmo invece – suggerisce – vivere la presente situazione di divisione e di mancanza di consenso con profonda sofferenza, rendendoci disponibili a un dialogo fecondo e umile tra le numerose forze di ispirazione cristiana, tese alla ricerca di una unità operativa anche sul piano delle realtà terrestri?

Padre Angelo Macchi sapeva bene, quando ebbe ad affrontare questi argomenti, di una attualità impressionante, che le domande fatte sono già indicative delle risposte che lui darebbe. Tuttavia ha inteso lasciare le domanda, come si suol dire aperte, affinchè ciascuno maturi la propria risposta e compia la sua scelta di campo, sapendo che si può scegliere sia il campo di coloro i quali preferiscono allontanarsi da Gesù e dalla Sua Chiesa, sia quello di coloro che risposero: "Dove andremo? Solo tu hai parole di vita eterna!".

ANTONIO RIGOBELLO1924 – 2016

Il problema della cultura è divenuto un tema dominante le discussioni a livello giornalistico, in sede politica e anche sul piano ecclesiale. Che cosa possiamo intendere –

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ebbe a chiedersi Antonio Rigobello, professore di storia della filosofia nell'Università di Roma – per cultura e per cultura cattolica? Nel senso più ampio e comune del termine, "cultura" significa un complesso di conoscenze che rendono l'uomo consapevole del mondo in cui vive, sia attraverso l'informazione sul passato, sia mediante un aggiornamento di idee e di prospettive per l'avvenire. Nella sua accezione più ristretta "cultura" è la conoscenza conseguita con rigore critico, ossia rifiutando ogni presupposto a priori e fondando il procedimento conoscitivo sui dati di esperienza e insieme sui principi e sulle strutture della pura ragione. Infine, la cultura come consapevolezza popolare è un plesso organico di giudizi, di criteri di valutazione che affondano le loro radici nella sensibilità e nella tradizione popolari, nel senso immediato della vita, e mantengono con tutto ciò un rapporto costante. (...).

La differenza maggiore con il tipo di cultura, sta all'inizio del processo culturale, nella base da cui si parte. "Se si considera l'uomo – chiarisce Rigobello – vi sono differenze interpretative secondo una diversa concezione dell'uomo. Se si considera l'uomo come pura razionalità e si intende la ragione come un complesso di tecniche logiche, allora l'ideale della pura scientificità ("illuminismo") diventa l'idea centrale di una cultura. Se invece si intende l'uomo come concreta persona, in cui ragione, sentimento, istanze morali hanno un pari valore e si intrecciano nei rapporti tra persona e persona dando luogo ad un popolo – cioè, a una comunità interpersonale depositaria e consapevole di alcuni valori vissuti e sofferti nella propria storia – allora la cultura diventa lo sforzo di chiarire tutto questo contesto per esplicitarne le linee fondamentali, per arricchire la vita presente attraverso una attiva memoria del passato, per sviluppare in nuovi linguaggi (ossia in nuove espressioni di costume, di arte, di comportamenti) il portato della tradizione ("tradizione", dal lativo "tradere", va intesa come il rimandare, il consegnare alle nuove generazioni un patrimonio ideale).

Nella distinzione precisata si possono individuare convergenze tra cultura popolare e cultura umanistica, tra cultura critica e cultura scientifica. "La cultura umanistica ritiene che le "humanae litterae", ossia le espressioni letterarie, artistiche, storiche siano le più indicate a formare l'uomo e a promuovere la sua civiltà; la cultura scientifica ritiene che la struttura della conoscenza scientifica sia il più idoneo strumento per promuovere lo sviluppo umano, e pone la scienza come ideale verso cui muovere per una conoscenza adeguata della realtà e della vita stessa; la cultura tecnica si differenzia da quella scientifica, perchè rivolta alla applicazione pratica delle scoperte scientifiche, piuttosto che non alla conoscenza del mondo. Tuttavia il carattere che la più recente scienza attribuisce al proprio tipo di sapere – sottolinea - porta a far confluire scienza e tecnica in un'unico plesso di schemi teorici rivolti a modificare la realtà fisica".

Un processo investe il mondo culturale contemporaneo, ed è quello dell'unificazione delle varie culture in una unica cultura. La convergenza di cultura scientifica e cultura tecnica è un esempio di questo processo di unificazione. La stessa pretesa della cultura critica a ridurre entro le metodologie della ricerca scientifica qualsiasi sfera di realtà e di esperienza è un episodio significativo della tendenza. In questo caso è lo scientismo che regola a livello ideale il processo. La tendenza, tuttavia, si esprime anche a livelli diversi da quelli del sapere scientifico, e talvolta altresì in conflitto con esso. Tali livelli di unificazione sono la dimensione politica, la programmazione economica, la riduzione sociologica. Assistiamo pertanto – "alla politizzazione della cultura, e in parallelo alla politizzazione della scuola: si ritiene che tutto sia politica e che pertanto ogni espressione culturale debba venir finalizzata alla formazione e all'attività politica. (...) La politica è vista anche come una sovrastruttura dell'economia; ne deriva che la riduzione della cultura a politica finisce per essere una riduzione della cultura ad economia". Da qui "l'interpretazione economico-politica della cultura come presa di coscienza che i fenomeni culturali sono espressioni condizionate da appartenenza a classi sociali e si sviluppano secondo una dinamica di conflitti e di assestamenti di classe. La "sociologia della cultura" diventa così il discorso

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generale sul senso della cultura, o, se si vuole, la versione unificante le culture a livello della loro spiegazione attraverso la matrice sociologica di ogni espressione di vita".

"Possiamo chiederci – sottolinea Rigobello – se la natura del cristianesimo, fede religiosa che reca un messaggio di salvezza, possa dar luogo ad una cultura. La questione va affrontata in linea di diritto, perchè in linea di fatto una cultura cristiana è sempre esistita fino dai primi secoli del Cristianesimo". Il problema rientra, come sua parte, in quello più generale dei rapporto tra il cristiano e il mondo. La cultura è anch'essa realtà terrena; può quindi entrare a far parte di quel "mondo" per il quale Gesù "non prega". Come evidenziato, il problema dei cristiani che fanno cultura è una cosa, mentre altra cosa è il problema di una cultura cristiana, di una cultura, cioè, che tragga dal Cristianesimo i suoi elementi qualificanti. Sotto questo aspetto si può notare come, essendo il Cristianesimo una visione del mondo, ne discenda che è possibile organizzare in termini culturali una visione ispirata dal Cristianesimo. Tuttavia "occorre distinguere una cultura cristiana dalle carenze morali che possono sorgere nel cristiano che fa cultura. La cultura infatti può fare insuperbire chi la possiede" ("scientia inflat": S. Paolo, I Cor. 8,2). La esatta impostazione del problema, nel suo profilo etico-ascetico, è stata formulata da S. Bernardo: "Vi sono quelli che vogliono sapere tanto per sapere, e ciò è curiosità; altri, perchè si sappia che loro sanno, e questo è vanità; altri ancora che studiano per rendere il loro sapere per denaro e per onori, ed è cosa turpe. Chi vuole conoscere per propria edificazione, compie una azione prudente; chi infine studia per edificare gli altri, compie opera di carità" ("In Cantica cantinorum Sermo", XXXVI, P.L. 183, 968). (...).

Il problema dei cristiani che fanno cutura è una cosa, mentra altra cosa è il problema di una cultura cristiana, di una cultura, cioè, che tragga dal Cristianesimo i suoi elementi qualificanti. Sotto questo aspetto – sottolinea Rigobello – si può notare come, essendo il Cristianesimo una visione del mondo, ne discenda che è possibile organizzare in termini culturali una visione del mondo ispirata dal Cristianesimo. Affermare, però, che il Cristianesimo può dar vita ad una cutura, è altra cosa dal ridurre il Cristianesimo a cultura. La cultura è sempre connessa con una particolare esperienza storica. Si dà una pluralità di culture in relazione con i diversi periodi cui esse si riferiscono, e con le diverse aree geografiche in cui esse si sviluppano. Ne discende che la cultura è di fatto molteplice a seconda delle situazioni storico-geografiche in cui quella presa di coscienza si effettua. (...)Il problema di una cultura cristiana è oggi quello di guadagnare uno spazio che non la riporti a concezioni di inadeguato temporalismo, ma che allo stesso tempo le assicuri una presenza animatrice e orientatrice.

La situazine odierna è caratterizzata dalla coscienza, da parte dei cattolici italiani, di un certo vuoto di preparazione culturale e soprattutto di una certa capacità di incidenza. La consapevolezza è prodotta dalla constatazione della rapida e capillare espansione di una cultura che si impone, anche al di fuori dei suoi organi ufficiali, nella comune accettazione di linguaggi, di metodi, di prospetyive di ricerca. Non che manchi una profonda connessione tra il popolo italiano, con la sua più elementare e profonda cultura, e la fede cattolica; ciò che manca è la saldatura tra un vasto e profondo passato e la situazione culturale variegata attuale. Nel nostro Paese, centro del Cattolicesimo, la cultura cattolica ha avuto una costante nota di universalità, senza un immediato riferimento alla realtà nazionale. Con tale realtà, essa si trova talvolta in conflitto.

Alla cultura cattolica in Italia si aprono due strade, che corrispondono a due posizioni ecclesiali: o fare un discorso sui limiti delle proposte culturali non cattoliche e proporre unicamente un superamento di fede, oppure ricuperare la "novità" di una originaria cultura di popolo. La prima proposta presuppone una comunità cristiana che non accentua la sua presenza pubblica, ma lavora all'interno del discorso comune; la seconda sottolinea il fatto originario del riconoscimento cristiano e punta sulla sua forza diffusa. La prima proposta non dà per scontato il fatto che esista una cristianità italiana, e si limita a vedere presenti e

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operanti nella comunità nazionale fermenti cristiani; la seconda proposta presuppone invece una cristianità italiana ben definita, galvanizzata attorno ad un ideale storico concreto, portatrice di una propria concezione culturale. In questa seconda proposta si prospetta un'opera di riscoperta delle matrici critiane nella più intima realtà della tradizione popolare italiana, di una loro esplicazione e tematizzazione articolata ed organica, di una loro traduzione in idee forza, in programmi che indichino concrete mete da raggiungere.

Ecco che allora per precisare il proprio compito occorre reperire la propria identità! Si tratta di individuare alcuni temi su cui orientare una ricerca ed un intervento rivolti allapresa di coscienza culturale dei cattolici oggi. A tal fine – suggerisce Armando Rigobello – un settore di ricerca dovrebbe essere quello storico. Tale ricerca storica "dovrebbe investire le vicende dei movimenti cattolici in Italia, ma anche quelle delle esperienze ecclesiali e delle varie siritualità".La ricerca dovrebbe portare ad individuare alcuni nodi essenziali del costume, della mentalità, della sensibilità italiana, che nella visione cristiana della vita trovano una spiegazione, e insieme la possibilità di riprendere una linea di sviluppo che a volte fu forzatamente interrotta (si pensi alla famiglia, alla base popolare, al senso della relatività di ciò che è terreno, e, a livelli più elaborati e generali, a un umanesimo del limite in chiave antilluministica, che potrebbe esemplificarsi in figure che vanno dal Vico a Rosmini, da Sturzo a Capograssi).(...).

Si tratta di linee, proposte dal Docente di di Storia della Filosofia, la cui organica formulazione non può nascere improvvisa o per programmazione "a priori", ma dovrebbe maturarsi in connessione con una sempre più consapevole esperienza e maturtà ecclesiali e con una progressiva crescita spirituale: crescita da realizzare attraverso un impegno serio, rigoroso, costante di ricerca, di analisi, di interpretazione, di sintesi.

PIERO PAJARDI1926 - 1994

L'autore – giurista, magistrato, già supremo dirigente degli uffici giudiziari milanesi,

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Presidente della Corte d'Appello e Presidente di Sezione della Corte di Cassazione di Milano – ebbe ad affrontare il tema dell'autonomia della Magistratura e della sua indipendenza dalla politica e dai partiti. Evidente il tema incandescente dei rapporti tra giudice e politica e l'attualità dell'argomento. Tuttavia il problema non è soltanto di oggi, ma è problema che ha interessato la magistratura anche in anni passati, e la cui posizione – mai chiaramente affrontata - deve essere chiarita.

Riprendendo brevemente la storia dell'affermarsi del principio di indipendenza del giudice come base della sua libertà, Piero Pajardi ebbe a richiamare un intervento di Guido Astuti – giurista di tempra eccezionale, cattolico e fervente membro della Corte Costituzionale - il quale diede atto che le garanzie attuate nel nostro paese, soprattutto con l'autogoverno affidato al Consiglio Superiore della Magistratura, significarono la creazione di un efficace e valido schermo a protezione dell'indipendenza dei giudici contro ogni minaccia dall'esterno e specialmente da parte del potere esecutivo, il quale non disponeva – nè dispone - più di strumenti idonei a condizionarne l'attività con la lusinga di vantaggi di carriera e con il timore di sanzioni disciplinari, e tanto meno di trasferimenti o destinazioni.

Fatta questa premessa, Pajardi ebbe tuttavia a puntualizzare che di fronte alla tendenza alla "politizzazione" delle più diverse attività, in un mondo profondamente agitato da tensioni e conflitti ideologici, politici, sociali, sul piano interno come su quello internazionale, "non si possa avvertire il pericolo che si diffonda anche tra i magistrati atteggiamenti incompatibili con la serena obiettività, cui deve ispirarsi la loro altissima funzione istituzionale". Conseguentemente, precisa, che "l'imparzialità dei giudici ci sembra minacciata non più e non tanto dall'esterno quanto piuttosto dall'interno. La quotidiana esperienza ci ammonisce sulla crescente difficoltà che tutti sentiamo di conservare un puro spirito di libertà e di obiettività di giudizio; è il magistrato singolo come individuo che deve custodire gelosamente la propria indipendenza contro ogni tentazione ideologica o sollecitazione pratica a "parteggiare". Solo se i giudici sapranno rimanere fedeli al loro dovere di ufficio, che è anzitutto dovere di coscienza, sarà possibile evitare una esiziale contaminazione tra giustizia e politica. Contaminazione inammissibile, perché una moderna società democratica non vuole giudici ligi al governo né all'opposizione, ma semplicemente liberi e giusti, imparziali anche nella interpretazione della legge, che deve essere sempre applicata senza pregiudiziali politiche, siano esse retrive o progressiste".Sin qui il parere dell'illustre storico del diritto, il quale ebbe ad armonizzare felicemente la sua estrazione culturale con una presenza e una operatività così attuali nella sua funzione giurisdizionale-costituzionale. Il tema non è nuovo, ma l'invito a ritornarvi, viene – ancor oggi - reiterato da più parti. Troppo spesso la gente, anche una certa ipinione pubblica culturalmente qualificata, non capisce e rimane sconcertata di fronte a certi fenomeni, Si domanda che cosa sono i pretori d'assalto, gli ermellini conservatori e i cosiddetti giudici di sinistra; si insospettisce di fronte al fatto che in un comizio indetto da un partito prenda la parila un magistrato, e gli esempi potrebbero continuare, guardando anche a certe sentenze quantomeno nebulose.

Il discorso – evidenzia Pajardi – sarebbe lungo e complesso, tuttavia sembra necessario fissare dei punti essenziali e abbastanza precisi. Innanzitutto "occorre sgombrare il terreno dall'errore di idolatrare il passato. Purtroppo anche in passato, spesso e malamente i giudici, o certi giudici, hanno fatto della politica, in modi magari meno teatrali e in fondo meno ingenui, ma ugualmente reali e deleteri. Ad esempio, agli occhi e alla sensibilità di noi osservatori degli anni '70, la giurisprudenza italiana, tra il '50 e il '60, si è atteggiata nei confronti della nuova carta costituzionale, in termini di reazione e in fondo di rigetto, riducendo un messaggio fondamentale e rinviandone dannosamente l'applicazione, e in ciò appunto facendo "politica, come ogni qualvolta il giudice sentenzia ciò che ritiene e non ciò che sta all'interno di un sistema verso il quale deve essere osservante".

Certo è – continua Pajardi – che quando noi magistrati riformisti abbiamo proclamato che i

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giudici dovessero uscire dalla loro torre d'avorio, dovessero dimettere un ruolo puramente tecnico, dovessero socializzarsi vivendo all'interno la vita reale del paese e della società nella quale sono inseriti, dovessero in definitiva vivere e qualificarsi come animale "politico", in senso aristotelico, non si intendeva affatto che il giudice dovesse diventare il sostegno esterno o parallelo o peggio il portavoce di un partito o di un movimentopolitico. ....... Riconquistata la libertà, rispetto al potere esecutivo, tradizionale nemico dell'indipendenza del giudice, e così rispetto ai detentori del potere economico e in genere ai potenti, i cosiddetti "padroni", si può rischiare di diventare "servi" di nuovi "padroni", i quali hanno la sola partcolarità di essere stati scelti. Ma i padroni, scelti o imposti, sono sempre padroni".

Non è in gioco la fede politica del giudice che ha il sacrosanto diritto di averne una. Ma essere uomo politico – ebbe a sostenere Pajardi – cioè in definitiva uomo sociale, non significa fare politica attiva, cioè essere mentalmente e ancor più operativamente condizionato da un raggruppamento come centro di potere, di interessi, di valutazioni di parte del bene sociale. ...... "Quando il giudice italiano avrà evitato il pericolo di farsi limitare nella sua libertà dall'esterno attraverso il proprio interno, dovrà instaurarsi un clima nel quale non si avrà più il timore di farsi giudicare, persino per delicato reato ideologico". E questa – ebbe ad affermare – sarà la vera conquista di più sostanziale libertà.

CARLO CALORI1931 - 2006

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Ricordare il rapporto di Don Carlo Calori con l'istituzione scuola è impresa ardua, tanto è ricco e profondo di motivazioni, di giudizi, di riferimenti e di propositi, orientati tutti alla educazione e alla formazione culturale e umana delle giovani generazioni. "L'educazione – diceva – non può essere fine a se stessa, ma una attività per l'attività. Essa ha un contenuto a cui l'attività deve subordinarsi: ha, cioè, l'uomo come soggetto e fine del processo educativo. Metodi, programmi, organizzazione, tecniche educative, tutto questo è senza dubbio importante, ma resta secondario".

Ciò che viene in primo luogo – ebbe ad evidenziare Don Carlo Calori - è la verità di cui è testimone l'educatore, il tipo ideale di vita che domina la sua intelligenza e la sua personalità. Infatti, solo la persona può educare la persona, e l'educazione è un incontro personale tra il "tu" dell'educando e il "tu" dell'educatore, pur se ciò avviene sullo sfondo di un ambiente naturale e sociale. Sollecitato dalla constatazione, come da lui stesso affermato in più di una occasione, che "oggi manca ogni idea dell'uomo e allora si rimedia con la demagogia, si inventano delle funzioni sovrapponibili e interscambiabili. Si dà un'infarinatura di tutto e, nella misura in cui si dà una infarinatura di tutto, si diventa niente! La società si sta disarticolando, perde funzioni, si ammala, sta morendo e allora lo scopo della scuola cattolica è diventare un luogo dove si trovano dei dissidenti: persone che non sono più in sintonia con questa società e si ribellano ad essa".

E' in questa prospettiva che si pongono anche i suoi interventi, nei quali emergono i vari aspetti e le varie condizioni in cui il processo educativo avviene, evidenziando altresì gli aspetti grandi della vita che costringono noi tutti, adulti e giovani, a riflettere e a porsi con positività. Un senso di tristezza lo attanagliava: "Non nascondo un senso profondo di personale sofferenza nel constatare la povertà di valori a cui la gioventù attuale può fare riferimento; e neppure nascondo l'angoscia che mi attanaglia nell'accorgermi che tante persone, con un dinamismo sconcertante vanno mietendo le loro vittime proprio fra i giovani, rovinando il momento presente e ponendo le premesse per una vita futura catastrofica e spregevole".

Sosteneva che l'Istituto da lui fondato - il liceo classico e linguistico G.B.Montini - doveva essere un'isola di cultura dove, avendo una idea nobile dell'uomo – quella che ci ha dato Dio – abbia ad incarnare questa idea. E' a partire da queste considerazioni che ebbe a declinare una educazione possibile nel contesto dell'educazione familiare e dell'insegnamento scolastico, del vivere sociale e dei principi dell'intelligenza pronta, della volontà tenace, della lungimiranza e del coraggio come elementi fondamentali per entrare nella logica del vivere. Sottolineando anche come "lo svuotamento di contenuti e di proposte significative è dato evidente, e come, nel contesto esistenziale odierno, si è andato perdendo il senso del bene, del bello e del vero, ciò che in ultima analisi sostanzia la personalità dell'individuo".

Portare all'attenzione aspetti specifici della situazione culturale e della modalità educativa con cui orientare un cammino di crescita dei giovani, e indirizzando la testimonianza degli adulti, inseriti loro malgrado in un contesto superficiale e frammentato, è stata la sua azione pastorale, educativa e missionaria, tesa a far comprendere che "non si costruirà nessuna società a misura d'uomo se non si addiverà a politiche più opportune, se non si prepareranno strutture educative idonee allo scopo, se prima non si costituiranno nuclei familiari in grado di esprimere un atteggiamento aperto e attivo". Così come giustamente sosteneva che "non si arriverà mai a considerare il problema educativo come primaria emergenza, se non si articoleranno possibilità scolastiche fondate sulla libera iniziativa e sulla libera scelta, dove ognuno potrà sentirsi artefice della propria formazione e della propria crescita morale e spirituale".

Con vigoria sosteneva che tutto ciò è in contrasto con la mentalità privatistica della famiglia e con una concezione statalista della scuola. Alle volte si sentiva uno sconfitto, così come si sentono sconfitti gli idealisti. Ma non mancò mai di sostenere che il tema dominante deve essere teso a richiamare la questione educativa come questione fondamentale, dove la ricerca della verità è impegno "a conoscere se stessi, con umiltà e serenità, ma ad un tempo

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con obiettività e lucidità". Purtroppo l'identità cristiana – ebbe a dire – "sembra non essere più un criterio di giudizio con cui affrontare tutto, e ciò si ripercuote pesantemente, in primis, sull'educazione". E così riprendeva spesso alcuni concetti che sembrano in pò cozzare con la mentalità corrente: la scuola non è un'azienda, i presidi non devono diventare dei managers.

E si chiedeva: qual è il prodotto cui mira la scuola? Per lui la scuola non era, non è, un oggetto misurabile, ma un fine inesauribile. E' un ragazzo che non si perda, che diventi se stesso, che trovi un senso al suo vivere le esperienze personali e sociali: questo è lo scopo della scuola, questo è il suo fine, questo è ciò che la scuola cattolica deve fare e tocca ai cattolici farle in alternativa precisa, in contrapposizione chiara alla cultura effimera e vuota che contraddistingue certa scuola d'oggi. Ma riteneva possibile promuovere ciò soltanto con dei docenti capaci, non di rispondere ai quiz, ma di coinvolgere in questo compito, in maniera non superficiale, le famiglie, i nodi vitali del territorio, gli altri adulti.

Da qui l'importanza aggregativa di persone che si fecero carico di istituire la "sua" scuola, i cui primi passi vennero fatti nell'ambito della comunità cristiana della zona, con l'adesione delle stesse parrocchie. Anche se poi, questa adesione, a causa di una mentalità che si andava sviluppando anche tra i cattolici, venne meno: mentalità – purtroppo ancora presente in molti strati della comunità cristiana – che considerava superflua se non addirittura inutile la scuola cattolica, e il liceo Montini si trovò a sostenere il peso educativo ed economico da solo. Ma questo fatto non scoraggiò don Carlo Calori, e continuò, assieme ai suoi più stretti collaboratori, con rinnovato vigore, facendo suo il motto di don Giovanni Bosco: "Lavoro come se tutto dipendesse da me, sapendo che tutto dipende da Dio".

Sosteneva che un'istruzione, incapace di andare al di là dei contenuti generici, priva di ancoraggi nella conoscenza vera, abdica al suo compito di far ragionare. La scuola deve far ragionare, non solo mostrare: questo è il compito che come cattolici abbiamo, e questa è la sfida che va vinta. "Se le nostre scuole faranno queste cose, la gente ci sceglierà vedendo lo sfascio che c'è fuori. La scuola non deve mettere l'individuo nella condizione di avere un posto di lavoro, ma deve metterlo in condizione di avere una testa che funziona: dopo di che, qualsiasi lavoro faccia, lo saprà fare bene!".

La scuola – diceva - deve stimolare a cercare risposte al senso della vita. Da sempre e ancora adesso ci sono tre domande fondamentali che ogni persona si pone: "Io chi sono? Da dove vengo? Dove vado?. Queste domande, che sono interrogativi esistenziali, sono di importanza decisiva: in quest'ottica, come è possibile pensare alla scuola cattolica come non essenziale, fondamentale e determinante, oggi, nel concreto e nella storia? La scuola cattolica – nella quale il fondamento della religione cattolica è imprescindibile in ogni dibattito sull'uomo e sulla vita – deve avere un progetto di vita soprannaturale da trasmettere attraverso le didattiche specifiche di ogni materia di insegnamento. E richiamava i suoi docenti: "Dobbiamo educare i nostri ragazzi alla verità anche se questa è scomoda. Dobbiamo educarli al senso critico e alla libertà: ma per arrivare alla libertà, occorre avere il coraggio dell'onestà e del sacrificio. Dobbiamo educarli a queste cose!".

Il suo carattere schietto, a volte anche polemico, lo spinse a sottolineare alcuni aspetti che lo irritavano a causa della loro povera consistenza culturale. In ordine alla democraticità presunta dello Stato italiano, non mancò di affermare che "amava troppo la libertà per sopportare a cuor leggero l'essere cittadino di uno Stato che limita la mia libertà e quella dei miei connazionali a suon di leggi, definibili quanto meno ingiuste, perchè non rispettose del diritto naturale e non fondate su piedestalli etici che sono comunemente accettati da ogni uomo di buon senso.

Non mancò di sottolineare come l'iniziativa privata in campo scolastico, l'iniziativa che proviene dalla società civile, sia imprescindibile ai fini di una crescita democratica e civile

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dei giovanissimi cittadini: uno Stato che si arrogasse il diritto di gestione in proprio, monopolistica se non addirittura governativa, delle scuole, definite appunto "statali", di fatto sconfesserebbe la propria conclamata democraticità e asservirebbe una struttura, il cui fine primario deve essere quello della formazione dell'uomo e della sua educazione secondo supposti etici, religiosi ed ideologici, ben precisi e propri dei genitori, i quali, per diritto naturale primi ed unici ed autentici "deputati" ad educare il soggetto in età minore, hanno il diritto di scegliere la scuola per il figlio e demandare ad operatori scolastici il loro diritto-dovere educativo e chiedere loro l'onestà di un impegno formativo e culturale che sia in accordo con i presupposti tecnico-esistenziali a cui i genitori stessi fanno riferimento. "Uno Stato a misura d'uomo – sostenne – può organizzare scuole solo "supplendo" alle carenze istitutive di gruppi di cittadini, e va rifiutata la concezione statalista, che si qui ha impedito, e ancora impera in Italia definendo "privata" la scuola libera non statale. Lo Stato non ha il diritto di gestire le scuole, perchè non ha il diritto di avere scuole sue. Ha il dovere di far sì che tutti possano andare a scuola, alla loro scuola, quella che scelgono loro; deve nascere e affrancarsi il concetto della libertà "di" scuola in uno Stato di diritto, e non in uno Stato equo".

Non trascurò di evidenziare anche un grave errore, a suo parere commesso in occasione della revisione del concordato fra la Santa Sede e l'Italia: pur essendosi fatti più volte protagonisti di pronunciamenti favorevoli alla scuola libera e cattolica, " i Vescovi italiani hanno commesso l'errore politico di difendere – soltanto, se non esclusivamente – il permanere dell'insegnamento della religione cattolica nella scuola di Stato, non rendendosi conto dell'opportunità di proclamare piuttosto, in quel preciso momento e pretendendo che venisse rispettato, il principio del pluralismo istituzionale scolastico", sconfiggendo, così, il concetto di monopolio statale e affermando il diritto di ogni famiglia a scegliere, senza oneri eccedenti le sue reali possibilità economiche, la scuola più opportuna a proseguire e ad integrare l'opera educativa della famiglia stessa. E ciò, pur nel rispetto di una presenza culturale nell'ambito della scuola statale, senza dimenticare tuttavia "l'anacronismo di un'ora di insegnamento confessionale della religione, espletato in un contesto globalmente irreligioso o, quanto meno, areligioso".

Insegnamento della religione cattolica nella scuola statale che è stato poi trascurato, tanto che, ancor oggi, possiamo constatare essere spesso trasformato in semplice approccio di natura psicologica. "Difendendo l'insegnamento della religione cattolica nella scuola di Stato – trascurando di fatto la scuola non statale e conseguentemente la necessaria libertà di scuola – si è commesso il duplice errore di non sostenere il principio dell'univocità educativa e di non affermare con tono adeguatamente inequivocabile l'assoluta sovranità dei genitori nel programmare la linea formativa dei propri figli mediante il diritto di scegliere la scuola cui affidarli".

Infine, don Carlo Calori concepiva la scuola come "comunità educante", cioè luogo in cui convergono contemporaneamente tra componenti: i soggetti dell'educazione, la famiglia che li esprime, il corpo docente che li assume per delega. La scuola, sostenne, "diventa comunità educante quando le tre componenti lavorano con teologie univoche, nel rispetto delle caratteristiche proprie di ogni componente, nell'applicazione dei propri carismi, nel servizio reciproco, nella reciproca disponibilità, nella piena scoperta ed utilizzazione della propria identità". La comunità educante non è una formula, è una vita. Per questo ebbe a sostenere che "la famiglia va educata a scegliere, a coinvolgersi, a non delegare i suoi compiti specifici; i docenti vanno educati e debbono impegnarsi a sapere, a saper dare e dire, a capire, a collaborare; i soggetti d'educazione – gli studenti - vanno stimolati, aiutati, gratificati, corretti". Perchè tutto ciò si realizzi, ebbe ad evidenziare fosse necessario che venissero vinti egoismi, utilitarismi e programmazioni pre-concette, che sempre minano alle fondamenta ogni realtà che voglia essere educante ma che di fatto educante non sarà mai, perchè resa malata d'anemia indemica. Con ciò, evidenziando anche che "se non riusciremo a far vivere le nostre scuole, presto le nostre chiese diventeranno dei silos, dei granai o dei

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garage, perché non ci saranno più fedeli che vanno in chiesa!".

Queste riflessioni di don Carlo Calori sembrano combaciare brutalmente con la realtà attuale. Ricordare il suo impegno, la sua dedizione, il suo amore per i giovani, risulta essere un monito affinché le problematiche educative e formative aiutino convincimenti e operatività concrete.

A p p e n d i c i

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"Vivere senza una fede,senza un patrimonio da difendere,

senza sostenere in una lotta continua la Verità,

non è vivere, ma vivacchiare ....."

Pier Giorgio Frassati

P u n t i f e r m i

PRESENZA E IMPEGNO

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PER UNA SFIDA CULTURALE

La riflessione circa il concretizzarsi di una propostaeducativa-formativa richiede l’individuazione

e l’assimilazione di alcune consapevolezze

* L’esistenza umana è fondamentalmente un “essere se stessi – con gli altri – nel mondo”, nell’orizzonte dell’invito a condividere per sempre con i fratelli la vita in Cristo e la sua dimensione escatologica: la trascendenza della persona esige che la persona appartenga a se stessa, tuttavia non è un soggetto isolato; inserita nella collettività, si forma per mezzo di esse e in esse.

* La formazione è il faticoso cammino di crescita che ogni uomo è chiamato a percorrere a livello individuale (essere se stessi), inter-personale (con gli altri), in rapporto alle cose e alla storia (nel mondo).

* La dimensione della “persona”, nel suo aspetto religioso, è la ricerca del senso ultimo di tutta la realtà, che la coinvolge nella sua integralità: totalità di caratteri – spirito di corpo; intelligenza e sentimento; libertà e affettività; totalità di relazioni – col mondo materiale e col mondo spirituale.

* La persona è chiamata ad essere protagonista della propria storia, della propria formazione, in un processo dinamico di crescita in cui progressivamente aumenta la propria corresponsabilità e diminuisce la responsabilità supplente delle altre persone nei suoi riguardi.

* Al dovere di ogni uomo di essere “se stesso – con gli altri – nel mondo” corrisponde il diritto di ricevere tutti gli aiuti, i mezzi, le proposte, gli stimoli, per poter effettivamente operare il processo di personale maturazione della propria responsabilità.

* L’attività della persona è libertà e conversione all’unità di un fine e di una fede; l’educazione formata sulla persona non potrà essere che totale, interessando essa tutto l’uomo, tutta la sua concezione e tutto il suo atteggiamento di vita; in questa prospettiva non si può concepire l’educazione in modo neutrale.

* La scuola, in questo processo di crescita, diventa un “momento” del lungo cammino che l’uomo deve percorrere sulla strada della sua formazione e della sua realizzazione come “persona”: un cammino che trova nella famiglia il luogo primario di educazione, e che prosegue nella scuola, nella società dove l’uomo è chiamato ad interagire e a giocare interamente la sua “identità”.

* Il “momento scuola” è il luogo dove si elaborano informazioni, dove si produce e si veicola cultura, dove si conosce per poter essere, dove tuttavia l’istruzione è solo un aspetto dell’educazione: tutto deve essere subordinato all’educazione globale della persona.

L e s s i c o

ALCUNE DEFINIZIONI

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Educazione – l’educazione rappresenta la questione centrale della vita di una società e di una civiltà: da essa dipende non tanto il suo futuro, ma il suo stesso presente; per educazione si intende promuovere la crescita della libertà dell’altro dentro una proposta di cammino concreto; essa nasce laddove accade l’incontro di un tu educativo ed un tu educando.

Educazione cristiana – per educazione cristiana si intende la crescita di quella particolare concezione della realtà e della vita che si rifà totalmente a Cristo (centro unico ed insostituibile) e che conseguentemente determina ogni atteggiamento esistenziale della persona.

Cultura – la cultura non è tanto il possesso di una quantità di strumenti, ma si condensa in nun modo di sentire la vita, di rappresentarla, di organizzarla, di ordinarla in modo promozionale e rispettoso di tutti; è l’impegno dell’uomo con il proprio destino, il tentativo di rispondere alla grande domanda di senso e di significato che lo caratterizza in quanto essere dotato di coscienza e di responsabilità (cioè di libertà).

Giovani – i giovani, nel processo educativo non vanno assecondati, ma accompagnati lungo il cammino educativo, mediante un rapporto fondato su una proposta adulta con la quale lealmente e liberamente confrontarsi.

Adulti – gli adulti educatori sono chiamati ad interpretare il compito educativo non come un ruolo, ma come espressione di un rapporto fra persone, nel quale attivare una comunicazione di sé, della propria esperienza e del proprio rapportarsi alla realtà.

Libertà – il rapporto adulto-ragazzo, educatore-educando, esige due libertà in azione: esso poggia sulla libertà di entrambi; soltanto così l’educatore accompagnerà l’educando ad essere un attore sempre più libero e creativo sulla scena del mondo; la libertà è il presoppusto della responsabilità.

Famiglia – la famiglia, la cui responsabilità educativa è primordiale ed inalienabile, anche nella scuola, non viene meno: essa è istituzione fondamentale nella strutturazione della personalità dei figli e del loro essere un domani nel mondo e nella storia.

Scuola – la scuola è il luogo dove si realizzano le aspirazioni storiche fondamentali e le esigenze essenziali del fatto educativo: è infatti attraverso la scuola che trovano concretezza realizzativa aspirazioni di libertà e di uguaglianza (libertà dalle dipendenze culturali e uguaglianza nell’acquisizione delle opportunità espressive e vocazionali).

Scuola Cattolica – la scuola cattolica è l’ambito che si riferisce ad una intenzione educativa da svolgere in un progetto che si attua in una trama di rapporti qualificati dalla Fede, mediante i quali la Fede stessa diventa criterio per incontrare la realtà e saperla giudicare.

Comunità educante – la “comunità educante” è rappresentata da un ambito adulto che riconosce come vocazione l’educazione svolta in ogni suo aspetto e aggregandosi pone in atto un luogo educativo innanzi tutto per gli adulti stessi che, in quanto lo è per loro, diventa educativo – cioè motivante e personalizzante nel lavoro culturale – per i giovani.

Patto scolastico - il “patto scolastico” tra famiglia e scuola (e non tra Stato e scuole) rappresenta la relazione di scambio che consolida il nesso famiglia-scuola, in cui il rapporto tra le due entità è contraddistinto da diritti e doveri reciproci da ciascuna liberamente contratti e perseguiti.

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Sussidiarietà – il principio di sussidiarietà è quel principio in base al quale tutte le attività di servizio della persona sono prioritariamente da esercitarsi da parte di quelle formazioni sociali alle quali originariamente la persona appartiene; con ciò viene esplicitamente riconosciuta l’anteriorità della persona umana e dei suoi fini rispetto alla società e allo Stato, con la considerazione che la persona umana stessa si sviluppa e si perfeziona attraverso l’appartenenza organica a successive comunità sociali, tra cui la prima, innegabilmente, la famiglia; da qui una sussidiarietà che “in verticale” vede lo Stato sussidiario verso tutte le agenzie educative e di socializzazione, e “in orizzontale” vede le varie agenzie educative (tra cui famiglia e scuola) sussidiarie tra loro, e a loro volta sussidiarie nei riguardi della persona del figlio e dell’alunno/studente.

Competenze – per competenze si intende l’acquisizione degli elementi cognitivi in grado di codificare gli aspetti che caratterizzano la società e le strutture culturali, scientifiche ed economiche; in parole più semplici, le competenze corrispondono alle capacità potenziali della singola persona e dicono ciò che ognuno è effettivamente in grado di pensare, di fare e agire in situazioni, di fronte ai problemi come essi si presentano.

Orientamento - l’orientamento rappresenta il momento importante per lo studente perché con esso viene aiutato a scoprire attitudini, tensioni e prospettive personali, assumendosi gradatamente la responsabilità delle conseguenti scelte.

Associazione – l’associazione (qualunque essa sia) è il luogo di sintesi delle attese e delle proposte di quanti (genitori, studenti, ecc…) insieme hanno intravisto possibilità concrete di promozione educativa e formativa; l’associarsi è mettere insieme problemi, speranze, attese, propositi, proposte, …. e insieme tendere al loro superamento e alla loro realizzazione.

Autonomia – “Autonomia” significa possibilità di un soggetto di determinare – entro certi limiti – con propria decisione il proprio comportamento; entro certi limiti: quindi autonomia non significa “autonomismo”, ma impegno in un contesto che tenga conto del sistema cui si appartiene; in questo senso, l’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione, istruzione mirati allo sviluppo della persona umana.

Valutazione – La valutazione determina un giudizio – positivo o negativo – sul comportamento e sugli apprendimenti di ciascun studente, nonché delle stesse istituzioni sia a livello di ciascuna singola scuola, che a livello più generale di sistema scolastico: quindi si sviluppa in valutazione interna, e cioè la valutazione della singola scuola, del gruppo classe e di ogni studente, legata tuttavia al funzionamento e all’organizzazione complessiva della scuola, e in valutazione esterna o nazionale, condotta dall’INVALSI, che riguarda e valuta gli aspetti istituzionali, organizzativi e strutturali del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione.

Curricoli – I corricoli riguardano gli obiettivi generali del processo formativo e gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni/studenti: da qui le finalità generali del servizio prestato dalle scuole e i contenuti (sapere e saper fare) che devono essere assicurati da ogni istituzione scolastica; da qui il compito specifico delle scuole e dei docenti che deve essere teso a trasformare gli obiettivi specifici in apprendimento.

Profilo – Il profilo educativo precisa ciò che ciascun alunno deve sapere (le conoscenze disciplinari e interdisciplinari) e fare (le abilità operative e professionali) per essere l’uomo e il cittadino in questa nostra società; esso tende a suggerire il percorso che porti lo studente/alunno ad acquisire una propria identità.

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Identità – L’identità rappresenta il giusto svolgimento della propria dimensione culturale, cioè il modo con cui la persona, seppur aiutata dalle conoscenze e dagli strumenti culturali che le sono stati offerti, si pone di fronte agli altri e alla realtà, e con capacità critica, la guarda, l’affronta, vi aderisce o tende ad una sua modificazione.

Decentramento – Decentramento significa delegare, da parte dello Stato, proprie competenze agli organi periferici (Regioni, Province, Comuni). Resta comunque lo Stato a determinare gli orientamenti normativi ed operativi.

Federalismo – Per “federalismo” si intende l’attribuzione di competenze specifiche agli organi statuali periferici (Regioni, Province, Comuni); tali organi possono legiferare e procedere per autonoma decisione, nell’ambito tuttavia di alcune competenze che restano prerogativa dello Stato a garanzia di una operatività unitaria su tutto il territorio nazionale.

PE (Progetto educativo) - Il Progetto educativo riguarda una progettualità educativa e formativa che trova nella scuola soltanto un momento, poiché esso ha un “prima” e un “dopo” il momento scolastico (per la scuola cattolica il riferimento è la visione cristiana della vita, per la scuola statale il riferimento è la Costituzione); sul PE viene ad attuarsi un patto fra la scuola che lo propone e la famiglia (studente e genitori) che lo accetta e vi aderisce.

POF (Piano dell’Offerta Formativa) – Il Piano dell’offerta formativa costituisce il frutto della attualizzazione del progetto educativo all’interno della concretezza storica del momento formativo scolastico; sul POF si concretizza, di fatto e nel rispetto delle specifiche responsabilità, l’azione convergente di tutte le componenti (docenti, genitori, studenti) che insieme progettano il percorso formativo teso a percorrere il cammino verso la formazione integrale della persona.

Pubblico/privato – E’ pubblico tutto ciò che viene offerto al servizio della comunità nella prospettiva di una realizzazione del bene comune (da qui scuola statale e scuola paritaria hanno entrambe funzione pubblica, quindi sono istituzioni pubbliche); è privato tutto ciò che tende alla realizzazione di progetti orientati al proprio bene, al soddisfacimento delle proprie personali attese.

Territorio – Quando si parla di “territorio” si intendono le persone che su una determinata superficie operano: non sono le regioni o le istituzioni soggette ad una particolare giurisdizione, ma appunto le persone singole ed associate che a quella giurisdizione appartengono (la scuola, quindi, si dice aperta al territorio perché ha rapporti con quanti sul territorio vivono ed operano).

Antropologia – L’antropologia è la scienza che studia l’uomo come entità biologica: quindi l’uomo in tutti i suoi fattori, carne-cuore-sentimenti; cioè nella sua globale struttura e nella sua peculiarità vocazionale ed esistenziale.

Corresponsabilità (partecipazione) - Dalla “partecipazione” alla “corresponsabilità”: due termini ricchi di significato. “Partecipazione” significa “prender parte, aver parte” e richiama ad uno spazio concesso, dato. “Corresponsabilità” significa e richiama più specificatamente ad una “responsabilità insieme ad altri”. Due termini che non si elidono l’uno con l’altro, ma si integrano.

A t t u a l i t à d i s i s t e m a

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IL SISTEMA SCOLASTICO ITALIANO

Il “sistema scolastico italiano” è caratterizzato dalla presenza di diverse opzioni formative: la scuola pubblica statale che rappresenta la grande maggioranza di presenza sul territorio; la scuola non statale gestita da Enti e da privati, laici e cattolici, nonché da iniziative comunali e provinciali; la scuola paterna, caratterizzata da un insegnamento familiare soggetto a riconoscimento attraverso un esame di fine anno presso scuole pubbliche.

La scuola non statale, in virtù della Legge 62/2000, viene catalogata in “paritaria” e “privata”: la “paritaria” risponde ai requisiti richiesti dalla legge che con essi si vede riconosciuta la funzione pubblica e l’inserimento, quindi, nel sistema pubblico dell’istruzione: la “privata”, invece, non avendo ritenuto di chiedere la “parità”, resta tale e i corsi da lei attivati possono essere riconosciuti soltanto previo esame dei soggetti frequentanti presso scuole pubbliche.

L’intero sistema formativo italiano è composto dalla scuola prescolare dell’infanzia (non obbligatoria sino a tre anni, con sezioni primavera anticipanti l’inserimento a 2 anni e mezzo), dalla scuola primaria (ex elementare di 5 anni), della scuola secondaria di primo grado (ex media di tre anni), della scuola secondaria di secondo grado (scuola superiore di 5 anni) e della scuola di indirizzo professionale (di tre e/o più anni); la scuola superiore dovrebbe essere caratterizzata dalla “pari dignità” dei due canali di indirizzo tecnico-liceale e di indirizzo professionale (pari dignità sulla quale vigono ancora disfunzioni promozionali ed organizzative).

Guardando la composizione del “sistema nazionale di istruzione” evidente appare il diritto non solo alla libertà di iniziativa scolastica e di proposta educativo-formativa, ma soprattutto il diritto alla “libertà di scelta” da parte della persona (e della sua famiglia) dei tempi, fini e mezzi mediante i quali conseguire la propria personalità e ciò nell’ottica anche delle norme vigenti, costituzionali ed internazionali, richiedenti l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, sociale ed economica senza condizionamento alcuno.

Tra le norme attualmente in vigore vanno registrati l’ “obbligo scolastico” sino a 16 anni e il diritto-dovere alla formazione sino a diciotto anni o quantomeno sino al conseguimento di un diploma: in virtù di tali norme, deve essere riconosciuta ed attuata la “gratuità” della scuola. E’ infatti compito pubblico rendere effettivo per tutti, su un piano di sostanziale uguaglianza (equità) tale diritto; non è possibile persistere nella limitazione di tale libertà mantenendo ragioni di disparità economica; il finanziamento pubblico – e cioè l’uso del denaro di tutti i contribuenti, frutto delle imposizioni fiscali a carico di tutti i cittadini indistintamente – deve essere rimesso a favore dei cittadini tutti, indipendentemente dalla titolarità gestionale della scuola, oggetto della libera scelta degli stessi.

Ipotesi di finanziamento

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STRUMENTI DI FINANZIAMENTODELLA SCUOLA NON STATALE PARITARIA

Buono scuola – In un sistema di totale parità scolastica, il buono-scuola – sostenuto dall’Agesc sin dalla sua costituzione - è il sistema più razionale. Il buono è una sorta di assegno personale (virtuale) riservato ad ogni ragazzo o ragazza che si trovi in età scolare. Il buono – consegnato alla famiglia – viene versato presso la scuola prescelta. Resta allo Stato stabilire l’importo del buono-scuola, secondo i vari tipi e gradi di istruzione, che grava sul Bilancio del Ministero della Pubblica Istruzione. L’entità del “buono” dovrebbe rappresentare la giusta ri-distribuzione di quanto lo Stato raccoglie mediante l’imposizione fiscale e mette a disposizione per l’istruzione: l’importo va rapportato al numero degli alunni che frequentano la scuola, e rapportato al costo medio sostenuto dallo Stato per ciascun alunno/studente delle scuole statali. Il buono riconosce e privilegia il diritto primario della famiglia in ordine alla scelta dell’istruzione e dell’educazione, nonché dei mezzi per conseguirli tra cui appunto la scuola. Il “buono” resta lo strumento capace di superare l’inciso del ”senza oneri per lo Stato” essendo destinato alla persona dell’alunno/studente e non alla scuola (in quest’ottica significativa la sentenza della Corte Costituzionale n° 454/1994).

Detrazione d’imposta (Credito d’imposta o Deduzione d’imposta) - Esso prevede per le famiglie degli alunni delle scuole non statali paritarie la possibilità di dedurre le spese scolastiche (retta e/o quant’altro) dalle imposte dovute allo Stato, sulla base di un costo medio equivalente a quanto lo Stato spende per ciascun alunno frequentante le scuole statali. Questo strumento - adottato dall’Agesc sin dal 1997 in quanto strumento identificabile sostanzialmente in un buono-scuola” e modalità operativamente più snella – è lo strumento più efficacemente applicabile perché automatico sulla dichiarazione dei redditi. Ovviamente, per quanto concerne i lavoratori dipendenti, dovranno essere interessati i sostituti d’imposta perché abbiano – così come per le esenzioni già previste – a calcolare il rimborso delle spese scolastiche mediante rate mensili, e ciò per evitare un esborso previo che potrebbe mettere in difficoltà le famiglie meno abbienti.

Convenzioni – Sulla base di parametri e indicatori di qualità (comunque ipotizzabili per qualsivoglia strumento di sostegno economico e identificabili dall’Ente di valutazione nazionale) è riconosciuta dallo Stato alla scuola non statale paritaria una cifra forfaittaria a sostegno del servizio offerto. E’ modello seguito per le convenzioni praticate a favore delle scuole materne autonome. La “convenzione” dovrebbe coprire l’intera spesa scolastica sostenuta dall’istituto, il quale non potrebbe più richiedere rette alle famiglie per quanto riguarda la parte didattica curriculare. Per ovviare ai pericoli dati dal perpetuarsi di assistenzialismo, statalizzazione e deresponsabilizzazione, nonché dalle mutevoli (e spesso ingiuste) scelte del legislatore e dell’amministrazione pubblica (con il rimettere in discussione tutto ogni qual volta mutano le maggioranze) è necessaria una “legge quadro nazionale” che abbia a normare, della scuola non statale paritaria, il suo diritto al sostegno economico per il servizio prestato.

Pagamento dei docenti – Lo Stato si accollerebbe la spesa degli stipendi dei docenti delle scuole non statali paritarie. Questo sistema non garantisce la totale parità di trattamento economico, tuttavia, essendo la spesa del personale docente (e non docente) la spesa più rilevante, potrebbe essere soluzione praticabile, purché, nell’ambito della normativa nazionale precisa, sia evitato il pericolo della “statalizzazione” della scuola non statale paritaria mediante l’obbligo (sempre latente) di assunzione del personale secondo un’unica

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graduatoria. I docenti, proprio per il rispetto dell’identità culturale e formativa della scuola, devono poter scegliere liberamente dove insegnare mantenendo inalterati e totalmente rispettati i propri diritti acquisiti e, contemporaneamente, la scuola non statale paritaria deve poter altrettanto liberamente scegliere i propri collaboratori mediante chiamata nominativa diretta a salvaguardia della propria identità. Come per le convenzioni, anche per questo strumento vige il pericolo del “senza oneri per lo Stato”, essendo finanziamento indirizzato direttamente alle scuole.

Detassazione o defiscalizzazione – Lo Stato, con questo sistema, andrebbe a permettere al cittadino che sceglie una scuola non statale paritaria, di detrarre dall’imponibile fiscale quanto speso per la retta di iscrizione di frequenza. Si tratterebbe di un sistema fortemente “iniquo” poiché, non soltanto richiederebbe un esborso previo da parte delle famiglie, con grave mortificazione di quelle economicamente più deboli, ma verrebbe a riconoscere un rimborso soltanto parziale (cioè una quota parte della spesa, in virtù dell’aliquota di tassazione). E’ questa soluzione osteggiata da tutte le organizzazioni cattoliche operanti nella scuola e comunque soluzione da rifiutare categoricamente.

Quota capitarla – Questo strumento prevede il sostegno – seppur con modalità diversificate – del percorso di formazione scolastica e professionale degli alunni sino all’età di 18 anni. Con questo sistema è previsto anche il sostegno economico per coloro che da adulti proseguono il percorso di formazione ricorrente. Strumento che comunque è ancora da articolare e quantificare.

PS/ L’Agesc – da sempre - ritiene che lo strumento del “buono scuola” e della “detrazione d’imposta” siano, oggi, gli strumenti meglio applicabili: comunque sarà il legislatore ad identificare lo strumento per il sostegno della scuola paritaria, l’importante che la decisione non sia decisione provvisoria, ma sostanzialmente precisa e definitiva. Si tratta di identificare una legge quadro che determini una volta per tutte il fatto che anche la scuola paritaria è scuola pubblica e che coloro che la scelgono hanno il diritto di essere sostenuti come sono sostenuti coloro che scelgono la scuola statale. Il percorso può essere graduale , tuttavia dovrà essere scevro da deliberazioni mutevoli delle diverse finanziarie. Il percorso deve essere certo: all’Agesc resterà il compito di valutarne il risultato.

RIFERIMENTI NORMATIVI INTERNAZIONALI(da rispettare)

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Molte sono le normative che il nostro sistema di istruzione e di formazione dovrebbe rispettare: ne riportiamo alcune significative.

Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, emanata dall’ONU nel dicembre del 1948, e successivamente accettata dalla Repubblica Italiana all’atto della sua ammissione alle Nazioni Unite il 15 dicembre 1955: “art. XCXVI – 1) Ogni individuo ha diritto all’istruzione: L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali … L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa a portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito; 3) I genitori hanno il diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.Questa “Dichiarazione” rappresenta la radice e il riferimento principale di tutte le altre successive normative.

Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 5 agosto 1955, n° 848, nonché al successivo “Protocollo addizionale” alla stessa Convenzione, firmata a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificata dalla Repubblica Italiana il 13 dicembre 1957: “art. 2 – Lo Stato nell’esercizio della funzione che si assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, rispetterà il diritto dei genitori a che sia assicurata un’educazione ed un insegnamento conformi alle loro convinzioni religiose e filosofiche”.

Dichiarazione dei diritti del fanciullo, approvata dall’ONU il 20 novembre 1959: Il fanciullo ha diritto ad un’istruzione che deve essere gratuita e obbligatoria almeno ai livelli elementari ….(l’obbligatorietà comporta anche la gratuità). L’interesse superiore del fanciullo deve essere la guida di coloro che hanno la responsabilità della sua educazione e del suo orientamento; questa responsabilità ricade in primo luogo sui genitori …” (art. 7).

Convenzione Internazionale dei Diritti Culturali, Sociale ed Economici, nella quale, all’art. 13.3 detta: “Gli Stati firmatari della convenzione sono tenuti a rispettare la libertà dei genitori ….. nella scelta delle scuole per i propri figli, anche se diverse da quelle istituite dalle pubbliche autorità, purché in conformità a standards minimi stabiliti o approvati dallo Stato (…)”.

Convenzione internazionale contro la discriminazione nel campo dell’educazione, adottata dalla XI Conferenza Generale dell’Unesco a Parigi il 14 dicembre 1960, la quale detta, agli artt. 4 e 5, l’uguaglianza di possibilità e di trattamento nel campo dell’istruzione e il rispetto della libertà dei genitori a scegliere per i propri figli istituzioni diverse da quelle gestite dalle pubbliche autorità.

Risoluzione del Parlamento Europeo sulla libera scelta scolastica, approvata il 14 marzo 1984, nella quale all’art. 7 riconosce “il diritto dei genitori di scegliere per i propri figli una scuola in cui questi ricevano l’istruzione desiderata” e detta che “in virtù del diritto che è stato loro riconosciuto spetta ai genitori decidere in merito alla scelta per i loro figli” e che “compito dello Stato è di consentire la presenza degli istituti di insegnamento pubblico e privato all’uopo necessari”, inoltre all’art. 9 sottolinea che “il diritto alla libertà di insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adempimento dei loro obblighi in condizioni uguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti, senza discriminazioni nei confronti dei gestori, dei genitori, degli alunni e del personale”. Inoltre la suddetta “Risoluzione”, nelle misure attuative, cap.II art. 3,

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detta testualmente: “La Commissione della Comunità Europea, in caso di fondato sospetto di violazione del diritto di libertà di insegnamento e di istruzione, avvia le procedure applicabili nei casi di violazione dei diritti fondamentali e dei principi generali della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, riconosciuti dalla Comunità”.

Convenzione sui diritti del fanciullo, approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991, n° 176, che, tra l’altro, detta: all’art. 27 – “Gli Stati adottano adeguati provvedimenti per aiutare i genitori ed altre persone aventi la custodia del fanciullo di attuare il diritto dello stesso al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale”; all’art. 28 – “Gli Stati riconoscono il diritto del fanciullo all’educazione e … al fine di garantire tale diritto … adottano misure adeguate come la gratuità dell’insegnamento e l’offerta di sovvenzioni finanziarie in caso di necessità”; all’art. 29 – “Gli Stati convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità … di inculcare al fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, …”.

Trattato di Maastricht, approvato a Bruxelles nel 1992, che attraverso le coordinate dettate dal “Piano Delors” chiede di “istituire un assegno o un capitale formazione per ciascun avente diritto, muovendo da una ridistribuzione delle risorse pubbliche”, e indica che “ogni settore pubblico e settore privato abbiano ad unire i loro sforzi per creare in ciascun Stato membro le basi di un vero diritto all’istruzione”.

A chiarire maggiormente la necessità di una libertà autentica e concreta di insegnamento, di educazione e di apprendimento, e dell’urgenza di uniformare i sistemi scolastici della Comunità Europea, c’è anche la “Sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea”- sentenza Schwarz / causa C-76-05 dell’11 settembre 2007– che detta il diritto dei cittadini comunitari di far studiare i propri figli in istituti scolastici privati di altri Stati membri, ottenendo le stesse agevolazioni fiscali previste per chi frequenta scuole private in patria. Si tratta di un diritto che rientra nella libera prestazione dei servizi, che non può essere ostacolato dalla legislazione nazionale.

La sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea, a Strasburgo in data 10 ottobre 2012. colla quale ha deliberato in ordine alla libertà di educazione e al riconoscimwnto del diritto di scelta della scuola.

P r o p o s t e

PROMUOVERE UNA NUOVA EDUCAZIONEDalle prospettive dello Stato al punto di vista dei cittadini

Lo Stato ha il dovere di rispettare quelli che sono i diritti che precedono lo Stato. Bisogna

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che torniamo a riflettere sul fatto che lo Stato non viene prima della persona umana, ma dopo di essa, ed è in funzione della persona umana. Dobbiamo riflettere perché questo è il principio fondamentale sul quale si fonda anche la libertà della scuola. Se questa idea non è ben fondata, noi ci lasciamo trascinare fatalmente verso i totalitarismi di StatoInfatti, lo Stato non esclude l’esistenza della scuola non statale, ancorché paritaria, ma le impone di uniformarsi completamente al modello della scuola statale, banalizzandone la piena libertà, cioè l’autonomia educativa e formativa, sancita per legge e dettata costituzionalmente.

Da qui il vero obiettivo risulta essere quello di una autentica “scuola libera”. Una scuola – da chiunque gestita, statale o non statale che sia – alla quale viene riconosciuta una autentica e completa autonomia, nei confronti della quale lo Stato assume, una funzione di promozione e di sostegno (ideale e finanziaria, ridistribuendo equamente le imposte da lui stesso raccolte), ma una funzione chiaramente sussidiaria, capace di riconoscere ai propri cittadini la doverosa libertà di proposta istituzionale, nonché gestionale, culturale, programmatica, didattica e organizzativa. In parole più semplici, uno Stato che guarda all’iniziativa della società civile, e interviene solo laddove tale iniziativa viene meno.

Alcune premesse

Ogni persona è chiamata ad essere protagonista principale della propria storia, della propria formazione, in un processo in cui la propria “corresponsabilità” aumenta e diminuisce la responsabilità “supplente” delle altre persone nei suoi riguardi. Il compito primario di maturazione di questa corresponsabilità nei riguardi dei figli, spetta alla famiglia, la quale tuttavia viene lasciata sola, dimenticata, mentre la famiglia necessita di un sostegno sussidiario che ne faccia crescere la capacità educativa e formativa, per diventare artefice di quel umanesimo familiare di cui la società italiana ha urgente bisogno e del quale sembra non rendersene conto. Essere a servizio di un recupero e di uno sviluppo della responsabilità educativa e formativa della famiglia è quindi l’impegno più necessario ed estremamente urgente nei confronti della società.

A sostenere il compito della famiglia, è chiamata la “scuola”. La scuola è strumento per il fine educativo e formativo e non per fini, occupazionali o politici. Occorre oggi un progetto di scuola che porti benefici a tutto il sistema scolastico italiano e quindi a tutte le famiglie. Da qui gli interventi dello Stato devono essere finalizzati a creare le condizioni per cui ogni singolo cittadino e ogni formazione sociale realizzi i propri scopi legittimi. Occorre rimuovere tutto ciò che nella scuola non ha nulla a che fare con l’educazione. In quest’ottica si costruisce una “scuola libera”, cioè attenta al bisogno della persona umana nel suo contesto familiare e sociale. Una scuola che sia un’esperienza viva, in grado di opporsi, nel cuore dei giovani, all’invasione del nulla. Da ciò la necessità della libertà di scuola e di una effettiva libertà di scelta educativa, traguardi ineludibili alla realizzazione del bene comune.All’origine vi sono i doveri e i diritti dei cittadini in ordine all’istruzione e all’educazione. In quest’ottica, l’educazione scolastica non può assolutamente prescindere dall’educazione familiare. Ecco perché è dalla famiglia che occorre partire. Occorre riconoscere a tutte le famiglie il diritto e il dovere di esigere una coerenza di fondo tra i valori culturali in cui ciascuno crede, e quelli trasmessi dalla scuola. Ma ciò può realizzarsi solo con la possibilità di scelta libera della scuola.

Ipotesi di un progetto di scuola

Se vogliamo veramente far uscire la società e la famiglia da una situazione di subordinazione, se vogliamo smantellare lo statalismo burocratico e chiuso in sé stesso, se vogliamo una scuola che sappia ritornare educativa ed efficiente insieme, che dalle parole e dalle promesse si passi ai fatti e quindi a normative che tengano conto di quanto le famiglie

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chiedono - di recuperare oltre che sul deficit economico – che penalizza tutta la scuola – anche, se non soprattutto, sul deficit di libertà e di qualità. Occorre considerare alcuni passaggi possibili ed efficaci, implicanti un corretto pluralismo culturale ed istituzionale:

* equiparare tutte le scuole operanti sul territorio. La promozione di una proposta educativa scolastica è sempre tesa al conseguimento del bene comune. Essa si offre alla comunità e si pone come possibilità di rispondere concretamente ai bisogni educativi/formativi delle persone, sia singole che associate. Ne consegue la necessità per tutte di vedersi riconosciuta pari dignità ed egualitaria considerazione fiscale. Purtroppo, forse per una carente considerazione e/o per una pretestuosa ingerenza, il riconoscimento di questa presenza pluralistica, nel quadro culturale e politico attuale, sembra impresa difficile se non impossibile. Si predilige un certo tipo di scuola demonizzando le altre, spesso con imposizioni e controlli coercitivi e discriminatori. Senza interventi normativi che identificano nella sua interezza e una compresenza istituzionale variegata, e ne rispettano la dignità, viene mortificato nella sua sostanziale composizione lo stesso sistema nazionale di istruzione.

* concretizzare una reale autonomia. Va consolidata l’autonomia sotto il profilo pedagogico-didattico, programmatico-culturale, organizzativo-finanziario, istituzionale-gestionale, ciò significa riconoscere la possibilità ad ogni singola unità scolastica di determinare con propria decisione il proprio comportamento, teso a garantire una maggiore e più reale rispondenza alle esigenze ed ai bisogni concreti che di volta in volta si vanno delineando nella comunità. Significa, quindi, sostenere l’iniziativa dei cittadini, singoli e associati, nello svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.

* qualificare e professionalizzare l'azione dei docenti, e quindi promuovere il loro libero accesso all’insegnamento. Va rivalutato il ruolo professionale dei docenti, così come va incentivata la loro preparazione all’insegnamento che – senza tuttavia generalizzare – offre spesso esempi di inefficienza e di incapacità pedagogica. Serve anche una adeguata incentivazione economica sulla base della qualità del servizio offerto e del merito, il tutto – nel quadro di una efficace autonomia gestionale – mediante la libertà di scelta da parte delle singole scuole di quanti sono in grado di portare avanti al meglio l’insegnamento: si tratta, questa, di una condizione irrinunciabile capace, insieme alla prerogativa di poter contare su un corpo docente stabile con cui instaurare una responsabile continuità didattica, di ridare dignità alla professione docente, purtroppo compressa e scaduta nella considerazione generale.

* implementare la valutazione interna (ed esterna) delle singole scuole. Con un attenta valutazione, tutti i soggetti sono chiamati ad essere compartecipi attivi nella proposta e nel controllo, non riducendo il campo d’azione della scuola alla mera istruzione, ma attivando l’istituzione in una organizzazione al cui interno operano soggetti portatori di proprie concezioni in ordine ai processi formativi ed educativi. La valutazione deve poter rappresentare la presenza di una continua verifica, oltre che dei processi di apprendimento degli alunni, anche dell’efficacia del lavoro dell’insegnante che deve considerare ogni alunno come persona, cioè soggetto di educazione, vestendosi dei panni dell’educatore e non soltanto del tecnico dell’istruzione. Valutazione che coinvolge anche i genitori, chiamati a valutare i modi ed i comportamenti dei figli al fine di aiutarli a capire il valore del cammino loro richiesto di preparazione alla vita. Da qui una valutazione interna da parte di tutte le scuole al fine di rimotivare continuamente con intelligenza la qualità del proprio servizio, e, quindi, di offrirsi alla scelta oculata dell’utenza.

* consolidare libertà di educazione e di scelta delle famiglie. Su questo versante ci sono inadempienze politiche, ma anche lacune culturali, disattenzioni sociali e anche un certo disinteresse ecclesiale. Va ripristinata la volontà collettiva di affrontare il sostegno

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economico. Da qui la predisposizione del finanziamento pubblico (cioè con il denaro dei contribuenti) per tutte le scuole, in attuazione dell’equipollenza di trattamento dalla Costituzione prevista. Infatti l’istruzione è, oltre che diritto individuale, anche un “bene pubblico”, che va tutelato e sostenuto, attivando modalità economiche equitative nei riguardi di ciascun cittadino. E’ urgente analizzare e risolvere il problema costituzionale – riconosciuto a parole, ma negato nei fatti – del diritto formativo delle persone e del dovere di educare e di istruire dei genitori e delle famiglie.

* predisporre una equa modalità di finanziamento di tutte le scuole, pur diversamente gestite. Come già accennato, il diritto all’apprendimento, all’educazione, all’istruzione appartiene alla persona, così come il dovere di istruire e di educare i figli è primariamente dei genitori e della famiglia. E’ attraverso tale diritto/dovere della persona e della famiglia – e non della scuola – che va previsto ed esplicitato il sostegno economico. In quest’ottica, a nostro parere, lo strumento è e resta il buono-scuola a copertura degli oneri di frequenza scolastica. Questa possibilità è da sempre insita nella Costituzione – si vedano gli artt. 2,30,31 - e può essere – nella sua articolazione – erogata direttamente alle famiglie o mediante il riconoscimento del buono alla scuola scelta dalla famiglia o spendibili attraverso la deduzione d’imposta, modalità snella e efficace nella sua attuazione. Con esso, studenti e famiglie continuerebbero, infatti, a scegliere l’offerta formativa non per mancanza di alternativa, ma per fiducia e in libertà, perché convinti che quel ambito istituzionale (reso autonomo) corrisponde alle loro attese e ai loro bisogni educativi-formativi.

* modificare l’art. 33 della Costituzione. Se è vero – come detta il primo comma – che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, molti dei commi susseguenti risultano essere palesemente in contrasto. Se ne deduce che questo articolo deve essere rivisto: lo Stato non può dare “autonomia” alle scuole e riconoscere “libertà” ai propri cittadini, obbligandoli, però, a fare ciò che lui vuole. E ciò partendo dal fatto che compito dello Stato non è quello di gestire le scuole, ma soltanto quello di regolare, promuovere, sostenere, controllare ciò che emerge nella comunità, intervenendo solo laddove viene meno l’iniziativa. Da qui il compito sussidiario dello Stato. Il sistema di istruzione non va costruito a partire dagli interessi governativi e dagli assetti istituzionali e organizzativi della pubblica amministrazione, bensì a partire dai diritti dei cittadini singoli e associati. Il tutto nell’ottica di un pur graduale processo di de-statalizzazione e con la consapevolezza che la cultura e la scuola non si fondano sullo Stato, ma sulla libertà.

Conclusione

Occorre rivedere il rapporto “Stato-cultura” e “Stato-società” e riguardare il significato vero da attribuire all’educazione, all’apprendimento, all’insegnamento, alla scuola – che non può essere governativa – e allo stesso concetto di libertà. Così come vanno qualificate le ragioni riguardanti famiglia e scuola, e rivalutate come rapporti “etico-sociali”, quei rapporti vanificati dall’anomalo e iniquo “..... senza oneri per lo Stato”. Certo la funzione dello Stato va rispettata (funzione che ripetiamo è sussidiaria), ma il permanere dell’impronta statalista in questi fattori educativi/formativi, di cui è ricca la storia, e la sempre crescente invadenza dello Stato nelle prerogative altrui, ci disturbano. Ecco: nel proporre questo progetto di scuola, non nascondiamo che nella sua realizzazione vada sostenuto da una pur adeguata modulazione che preveda parametri snelli di riferimento, utili ad orientare i vari principi ed i vari interessi di rilievo in questo campo (diritti, doveri, responsabilità, moralità, trasparenza) necessariamente coniugati fra loro. Il tutto però teso alla costruzione vera, e non ipotetica, del bene comune in una società democratica, pluralista, solidale e più giusta. Soprattutto per una “scuola libera”, in una società “libera”! Non una scuola per tutti, ma una scuola di tutti!

"Due cose mancano alla scuola in Italia: libertà e mezzi; ma i mezzi senza libertà sarebbero sciupati, mentre con la libertà si riuscirebbe a trovare anche i mezzi"

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Luigi Sturzo

Giancarlo Frare Vice Presidente Nazionale AGESC

Associazione Genitori Scuole Cattoliche

Relatore: Giancarlo Frare. Intervento al WORKSHOP “PROMOTING A NEW EDUCATION – Moving from the prospective of the State to the citizens' point of view” - Convegno ECR – Conservatori e riformisti europei – Roma 8 settembre 2016

Correlatori: * Prof. Alfred Fernandez PhD Philosophy, University of Complutense di Madrid e Direttore Generale OIDEL – International Organization on the Right to Education and Freedom to Education – Ginevra * On. Andrew Lewer, ingleseModeratore * On. Remo Sernagiotto

PS – Testo messo a disposizione anche in francese e inglese

L’AGESC E LA SCUOLA DEL FUTUROAUTONOMIA E QUALITA’

L’autonomia scolastica segna nel sistema il passaggio a nuove categorie di riferimento: dalla

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generalità alla specificità, dall’uniformità alla singolarità, dalla quantità alla qualità, dalla dimensione nazionale alla dimensione locale. L’autonomia va vista come idea regolativa di tutto il sistema formativo: essa interessa questioni di natura pedagogico-didattica, di natura finanziaria-organizzativa, di natura culturale ed organizzativa, di natura programmatica ed istituzionale.

In quest’ottica, si intrecciano molti problemi presenti nell’intero sistema formativo: dal rapporto statale-non statale, ancora condizionato da remore di carattere culturale, all’alternativa accentramento-decentramento-autonomia, alternativa ancora incompiuta e favorente una sorta di decentramento che impedisce lo sviluppo dell’iniziativa e la responsabilità dei corpi intermedi; dagli intoppi di una burocrazia imperante e mortificante, ad una mancata e necessaria razionalizzazione dei costi e degli investimenti, razionalizzazione data dalla necessità di combattere la molteplicità degli sprechi; dalla promozione e valorizzazione delle figure professionali, alla concretizzazione di una libertà educativa e formativa che riconosca le priorità delle responsabilità personali e la funzione sussidiaria ed integrativa dell’istituzione scuola; da un giusto equilibrio tra istituzioni e poteri diversi, gruppi e persone, ad una continuità educativa verticale e orizzontale capace di raccordarsi con il territorio e con le presenze culturali e produttive in esso presenti .

Affinché l’autonomia divenga concreto processo promozionale di consenso e di credibilità - che le ultime indagini evidenziano essere divenuti fortemente precari - sembra urgente che il sistema scolastico nazionale abbia ad attivare e/o completare compiutamente riforme funzionali e pertinenti. Da qui alcuni obiettivi, che l’Agesc ritiene di evidenziare, tesi a consolidare l’autonomia nel sistema nazionale di istruzione e formazione nel nostro Paese:

la promozione della scuola pubblica, così intesa dalla stessa legge 62/2000 in vigore, che riconosce essere il sistema scolastico nazionale costituito dalle scuole statali e da quelle paritarie: attenzione che deve orientarsi in direzione di una concreta libertà di educazione, attivando – nel quadro costituzionale di una istruzione obbligatoria e gratuita – interventi economici e strutturali che consentano l’esercizio della libertà di scelta scolastica mediante il sostegno di una pluralità di offerta educativa e formativa;

la promozione ed il rafforzamento della partecipazione delle famiglie al processo educativo, in una dimensione solidale di corale responsabilità educativa, condivisa con i docenti; in questo senso, inderogabile l’attivazione e il sostegno di tutti quegli strumenti – quali i tempi di apprendimento, il lavoro di coordinamento, le modalità di confronto e di verifica – che consentano una completa e positiva sinergia tra tutte le componenti della scuola, e che aiutino la valutazione personale e comunitaria ponendo al centro l’alunno-studente;

l’attivazione di piani di studio personalizzati, orientati alla flessibilità e all’autonomia, con quantità limitata di ore settimanali, puntando più sulla qualità che sulla quantità degli apprendimenti;

l’attivazione di un sistema di valutazione centrale, di supporto alle scuole e di verifica del loro operato: un sistema sganciato dal Ministero e fondato su criteri di valutazione validi per tutto il territorio, teso ad avere giudizi omogenei sulla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento nel nostro Paese, il tutto non disgiunto da un sistema di valutazione di primo livello proprio delle singole scuole;

il riconoscimento della pari dignità dei percorsi formativi dati dalla scuola e dalla formazione professionale, e ciò in risposta al bisogno educativo e formativo della

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persona, quel bisogno che si caratterizza nella acquisizione di una propria personale “identità”, il tutto nel quadro di quei diritti formativi ed educativi che rappresentano per ogni persona la possibilità di accedere ai servizi per accrescere il proprio valore culturale ed esperienziale in corrispondenza con le proprie caratteristiche e volontà;

la promozione di una pluralità di offerte formative ordinamentali: la libertà di scelta degli studenti e delle loro famiglie deve potersi esercitare in riferimento all’offerta formativa tra le varie scuole (statali o paritarie che siano, tutte facenti parte del sistema nazionale di istruzione); da qui la promozione di una autentica possibilità di scelta con la rimozione di tutti i condizionamenti di carattere culturale, programmatico, gestionale, organizzativo ed economico;

la rivalutazione della professionalità dei docenti, evidenziante il loro ruolo professionale e articolando una adeguata incentivazione economica sulla base della qualità del servizio offerto e del merito, il tutto mediante anche la libertà di scelta da parte delle singole scuole di quanti sono in grado di portare avanti al meglio l’insegnamento: si tratta di una condizione irrinunciabile capace, insieme alla prerogativa di poter contare su un corpo docente stabile con cui instaurare una responsabile continuità didattica, di ridare dignità alla professione docente e di attivare una concreta autonomia gestionale da parte delle scuole tutte;

la riforma degli organi collegiali, con l’obiettivo di adeguare la funzione della scuola ai principi di autonomia delle istituzioni scolastiche e di sussidiarietà di queste nei confronti della persona dello studente e della sua famiglia; si tratta di uno strumento, questo, in grado di corresponsabilizzare – mediante spazi di dialogo e di confronto – le componenti tutte della scuola proprio per quel compito sinergico e corale di promozione personale e comunitaria che è lo scopo precipuo del fare scuola;

l’abolizione del valore legale del titolo di studio, abolizione che contribuirebbe all’innalzamento dei livelli di apprendimento e valorizzerebbe la qualità e la serietà delle scuole.

L’autonomia deve rispondere, non tanto ad un bisogno di razionalizzazione, ma ad un bisogno di significato. La cultura è ordine, e non anarchia: essa è una struttura di referenza cognitiva e un modello comportamentale trasmesso da una generazione all’altra. In parole più semplici, possiamo definire “autonoma” una scuola che ha la possibilità concreta di organizzare liberamente il servizio educativo, certamente all’interno di alcuni vincoli, pochi ed essenziali, fissati dallo Stato, ma altrettanto liberamente in proposizione di quel bene comune che è frutto della reale risposta ai bisogni educativi-formativi delle giovani generazioni: bisogni che vengono espressi dalle persone, e che non possono essere indicati da nessun Stato, nemmeno da quello più attento e lungimirante. In quest’ottica è alle famiglie, all’utenza, che spetta il diritto di giudizio sulla valenza della scuola e della qualità del servizio.

Va evidenziato come l’attuazione del pieno diritto alla libertà di educazione riconosciuta ai soggetti che ne sono detentori – in primis ai genitori e alle famiglie – presenta innegabili vantaggi:

* può mettere in moto la forza pedagogica creativa della pluralità dei corpi intermedi che già normalmente agiscono e si confrontano nel paese;

* può finalmente consentire una autonomia scolastica non formale ma che si eserciti sulle materie, sui programmi, e ancor più sulla cura dei soggetti che è il fondamento di ogni

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educazione;

* può raccogliere la sfida di elaborare, con molta maggiore efficacia, una cultura di sintesi, capace di esaltare tutte le diversità; una simile scuola potrà meglio inserirsi nel processo di “meticciato” di civiltà per orientarlo positivamente;

* permette una sana emulazione e confronto tra scuole, all’interno delle condizioni minime fissate e controllate dallo Stato, per eliminare le situazioni carenti, migliorare la qualità del sistema, fare un uso adeguato delle risorse economiche e realizzare l’eccellenza;

* accelera l’inevitabile processo di integrazione con altri sistemi scolastici europei e non solo, eliminando l’anomalia che caratterizza il nostro sistema nazionale di istruzione che identifica la scuola pubblica con la scuola di stato, emarginando il grande contributo dato al bene comune anche dalle scuole paritarie.

Lo Stato e gli Enti Locali – attraverso una concreta autonomia - possono aiutare le famiglie e gli enti intermedi a divenire consapevoli dei propri diritti e delle proprie responsabilità, e pertanto smettere di continuare a sostituirsi ad essi considerandoli come eternamente incapaci e bisognosi di tutela. In quest’ottica autonomista, il diritto all’educazione e alla formazione verrebbe riconosciuto a tutti i soggetti – persone e istituzioni - in grado di simili intraprese scolastiche veramente pubbliche, cioè al servizio di tutti. Qualunque scuola libera (statale o paritaria che sia), in virtù dell’autonomia ad essa riconosciuta, dovrà e potrà essere scuola di ciascuno e di tutti, scuola veramente pubblica, contribuendo con capacità e responsabilità al perseguimento del bene comune “istruzione”.

La scuola, per noi, è espressione di una comunità viva di persone che in una unità sempre ricercata vivono, come esperienza,

un complesso di valori affidati loro dalla storia, dalla tradizione, capaci di dilatare l’orizzonte della vita e di approfondirne il gusto”

( A.Ge.S.C.)

A f o r i s m i

ALCUNI SIGNIFICATIVI RIFERIMENTI

Benedetto XVI – “Si parla di una grande “emergenza educativa”, della crescente difficoltà che si incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un

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netto comportamento, difficoltà che coinvolge sia la scuola sia la famiglia e si può dire ogni altro organismo che si prefigga scopi educativi. Possiamo aggiungere che si tratta di una emergenza inevitabile: in una società e in una cultura che troppo spesso fanno del relativismo il proprio credo, viene a mancare la luce della verità e si finisce per dubitare della bontà della vita e della validità dei rapporti e degli impegni che la costituiscono”.

Margherite Lenà – “L’educazione è come il dono della vita: innanzi tutto un’opera di amore. Proprio come il mettere al mondo un bambino non è riducibile alla sola logica della ragione, così non si educa assumendo innanzitutto la logica dei principi e dei programmi. L’atto educativo non è possibile se non è permeato di quella fiducia che supera sempre le sue stesse premesse per avventurarsi nell’ignoto, rischiare il presente, investire nell’avvenire. L’atto di educare non è solo un compito specialistico, che compete alla logica istituzionale e tecnicista della società: compete e innanzitutto alla logica dell’amore …..”.

Giovanni Paolo II - “Il diritto-dovere educativo dei genitori si qualifica come essenziale, connesso com’è con la trasmissione della vita umana; come originale e primario rispetto al compito educativo di altri, per l’unità del rapporto di amore che sussiste tra genitori e figli; come insostituibile ed inalienabile, e che pertanto non può essere totalmente delegato ad altri, né da altri usurpato”.

Angelo Scola – “La libertà di educazione misura la natura democratica e popolare di una società. Di conseguenza giudica anche la capacità dello Stato di svolgere la sua funzione di promotore e garante di una società civile in cui le persone e tutti i corpi intermedi – anzitutto genitori e famiglie – in piena libertà possano esercitare, tra gli altri, il diritto fondamentale primario di istruzione e di insegnamento”.

Angelo Bagnasco – “Non esiste pedagogia senza antropologia. Come possiamo educare la persona se non sappiamo chi è la persona? La questione antropologica sta alla base non soltanto del progetto, del compito educativo, ma del contesto globale che stiamo vivendo sul piano storico. E’ la questione che porta a chiederci: chi è la persona umana? Chi è l’uomo? quali le sue dimensioni di vita?”.

Camillo Ruini – “L’appropriazione del patrimonio culturale non può dar luogo ad una profonda assimilazione se non coinvolge l’identità personale alle questioni collegate al senso della vita. Un sapere educativo che concorra alla crescita personale non può prescindere da essa senza rimanere inefficace per la stessa crescita culturale”.

Luigi Negri – “La cultura è fonte di libertà, è il contenuto di una testimonianza. Lo statalismo si batte su una concezione globale nella questione educativa”.

Alessandro Maggiolini – “Parlare di scuola cattolica non significa porre alcuni principi dogmatici indimostrabili razionalmente, da cui cavare una visione della persona e della società. La sana laicità proposta dal cristianesimo rispetta pienamente le esigenze della ragione. Anzi, le salva, le provoca e le promuove”.Jean Guitton – “L’uomo, quale essere pensante, non può fare a meno di cercare il vero. Ciò, specialmente oggi, comporta convivere con un conflitto permanente tra la ricerca della verità e il rispetto delle coscienze. I pensatori (gli educatori) non possono esimersi da certe responsabilità, come quella appunto di parlare dell’essenziale”.

Giorgio Bocca – “La testimonianza dell’essere adulto passa proprio attraverso la capacità di generare alla vita umana e culturale nuovi uomini; da ciò discende il diritto-dovere alla loro crescita, senza dimenticare quella sostanziale libertà che connota ciascun uomo in quanto tale”.

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Aldo Moro – “La libertà paritaria va configurata come un pari diritto della scuola non statale e di quella statale a conseguire la più alta qualificazione quale partecipazione di ogni libera iniziativa scolastica alla pienezza educativa e formativa riconosciuta alle scuole da parte e per conto della collettività. Guardando, quindi, all’intrinseco valore della legge costituzionale e al valore obiettivo dei principi in essa riconosciuti, non si può intendere la parità come una specie di assimilazione o parificazione della scuola non statale a quella statale”.

Luigi Sturzo – “Per noi lo Stato è la società organizzata politicamente per raggiungere i fini specifici. Esso non sopprime, non annulla, non crea diritti naturali dell’uomo, della famiglia, della classe, dei comuni e delle religioni; soltanto li riconosce, li tutela, li coordina, nei limiti della propria funzione politica. Per noi lo Stato non è il primo etico, non crea l’etica: la traduce in legge e le dà forza sociale. Per noi lo Stato non è la libertà, non è al di sopra della libertà, la riconosce e ne coordina e ne limita l’uso, perché essa non degeneri in licenza”.

Giuseppe Bertagna – “L’educazione non è mai soltanto sapere, e nemmeno soltanto tecnica: essa ha bisogno di teoria e di tecnica che si trasformino in saggezza, cioè nella capacità di fare i conti, di agire bene, come si deve, in situazioni, nelle circostanze date. E poiché le situazioni e le circostanze date cambiano ogni momento, saggezza è l’essere sempre vigili dinanzi alle cose, aderire alla novità che ogni esperienza porta con sé”.

Luigi Pati – “E’ urgente promuovere forme di reale partecipazione, che coinvolgano la base familiare nella organizzazione della vita della scuola, sino al punto di considerare che l’intervento educativo di quest’ultima non si compia senza il leale, fattivo, permanente coinvolgimento della famiglia. In tale prospettiva, va attribuito un potere reale alla famiglia nel procedere quotidiano della vita della scuola; ciò non già per asserire questa a quella, ma per dare consistenza alla presenza dei genitori, e ciò senza ledere le competenze dei docenti. Si tratta di definire sempre meglio l’identità della scuola e della famiglia all’interno del rapporto di cooperazione: in quest’ottica vanno indicati i piani e le modalità concrete in ordine ai quali promuovere collaborazione e corresponsabilità”.

Gaetano Salvemini – “Io vorrei essere pienamente libero di mandare i miei figli a studiare dove meglio mi aggrada. Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole, anche se in esse i miei figli saranno educati male”.

Giovanni Paolo I – "Mi auguro che certe parole penetrino nell’animo delle persone e diventino prima convinzione, poi decisione, e finalmente azione. Non basta, infatti, la libertà di educare: occorre educare alla libertà!”.

Charles Peguy - "Fare una rivoluzione non è fomentare contro una situazione di fatto, ma preparare delle realtà nuove e delle reali novità: fare del reale e fare del nuovo".

Alexandr Solzenicyin - "La chiave della nostra liberazione, una chiave che abbiamo trascurato e che pure è tanto semplice e accessibile: il rifiuto di partecipare personalmente alla menzogna. Anche se la menzogna ricopre ogni cosa, anche se domina dappertutto, su un punto siamo inflessibili: che non domini per colpa nostra".

Primo Levi - Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da un solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifica, anche contro i volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri e lo incoraggi.

Gaetano Salvemini - La scuola laica è una scuola indipendente. Essa può avere un utile campo di tentativi e di esperimenti pedagogici a patto di essere lasciata del tutto libera. Dalla concorrenza delle s cuole non statali le scuole statali (pubbliche) – purchè siano spinte dalla

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concorrenza a migliorare, e non pretendano neghittosamente eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa - hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere.

Salvatore Valitutti - Ancora oggi la legislazione scolastica in Itaia è legislazione dello Stato. Trattasi di una legislazione che ha soltanto i limiti che essa stessa si è posta e si pone. Poche altre scuole al mondo sono così analiticamente regolamentate, per così dire ab extra, per l'intervento diretto del potere legislativo dello Stato, e perciò per mezzo di leggi statali. La scuola non statale, dovendo essere conforme a quella statale, è, anch'essa, disciplinata dalla legge dello Stato che disciplina la scuola statale. Perciò il Ministero governa praticamente anche sulle scuole non statali

Albert Einstein - Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste alcuna autorità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalla risata degli Dei.

Friedric A. Von Hayel – Le conoscenze sono disperse tra milioni e milioni di uomini. La conoscenza è necessariamente fallibile e parziale. Da qui un processo di esplorazione in cui gli individui cercano nuove opportunità che, a volte scoperte, possono essere usate anche da altri.

Paul Claudel - Il democratico è un individuo flessibile e tollerante e che sa che il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza; e che non cesserà mai di ammonire i suoi simili sul fatto che quando l'uomo tenta di immaginare il paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno.

Ludwig von Miles - A stabiire ciò che ha da essere prodotto non sono gli imprenditori, nè gli agricoltori, nè i capitalisti, ma i consumatori. Ne consegue che non è lo Stato, nè la politica, a stabilire ciò che ha da essere insegnato, ma l'utenza.

John Stuart Mill - Una educazione di Stato generalizzata non è altro che un sistema per modellare gli uomini tutti uguali; e poichè il modello è quello gradito al potere dominante, quanto più è efficiente e ha successo, tanto maggiore è il dispotismo che instaura sulla mente, e che per tendenza naturale porta a quello del corpo.

Luigi Giussani – Attraverso la proclamazione dei valori comuni il potere, più o meno lentamente, ma sempre in maniera violenta, omologa e pianifica tutti. Da qui la tragedia del nostro tempo: La perdita della libertà di coscienza da parte di interi popoli.

Benjamin Disraeli - Ovunque esista quello che viene chiamato governo paternalistico, là si trova anche l'istruzione di Stato. Si è scoperto che il modo migliore di assicurarsi l'obbedienza automatica è quello di iniziare la tirannia fin dal giardino dell'infanzia.

Beltrand Russel - Lo Stato è giustificato nella sua insistenza perchè i bambini vengano istruiti, ma non è giustificato nel pretendere che la loro istruzione proceda su un piano uniforme. L'educazione, e la vita delle menti in generale, è una faccenda nella quale l'iniziativa individuale è la cosa più necessaria.

Augusto Monti - Per noi l'attività di un individuo, di una persona o ente, che non abbia di mira solamente l'interesse particolare e personale, ma che miri al bene degli altri, al bene dei molti, è una attività pubblica, è già una attività dello Stato. Per la scuola la questione importante non è se essa sia dello Stato o d'una confessione, ma se essa sia una buona o una vera scuola.

Giuseppe Lazzati - Bisogna che torniamo a riflettere sul fatto che lo Stato non è un "prius" ma un "posterius". Non viene prima della persona umana, ma dopo, ed è in funzione della

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persona umana. E' strano che ci siano cattolici che non capiscano queste cose.

Kahlil Gibran - L'insegnante davvero saggio non ti offre di entrare nella casa della sua saggezza, ma ti conduce alla soglia della tua mente.

Carlo Maria Martini – La scuola costituisce una risorsa prioritaria della Nazione. La qualità della scuola è specchio della maturità del Paese. E' perciò di fondamentale importanza che su tutto prevalga l'oggettiva considerazione del vero, concreto, integrale bene del soggetto cui è finalizzato il servizio scolastico, cioè la persona dell'allievo.

Robert Musil - Idealità e morale sono i mezzi migliori per colmare il gran buco che si chiama anima.

Fèdor Dostoevskij - Ogni morale trae la sua origine dalla religione, perché la religione è soltanto la formula della morale.

Winston Churchill – Un uomo fa ciò che deve nonostante le conseguenze personali, gli ostacoli e i pericoli e le pressioni, e questo è la base di tutta la morale umana.

Karl Popper – Alcuni tipi assai importanti di tradizione sono propri di un luogo, e non possono essere facilmente trapiantati. Sono beni preziosi, ed è difficile ristabilirli una volta perduti.

Giovanni XXIII - Cos'é la tradizione? E' il progresso che è stato fatto ieri, come il progresso che dobbiamo fare oggi costituirà la tradizione di domani.

Gilbert Keith Chesterton – La tradizione non significa che i vivi sono morti, ma che i morti sono vivi.

Plutarco - Il maestro non è uno che riempie un sacco, ma accende le fiamme.

Alessandro D'Avenia – In quest'epoca si parla tanto di adolescenti, ma si parla poco con gli adolescenti. Parlare con un adolescente non è articolare un elenco di "devi" o "dovresti", ma partecipare alla loro vita, scegliendo volta per volta la giusta distanza.

Amii Stewart - I giovani di oggi sono esattamente come eravamo noi alla loro età. Siamo noi adulti che dobbiamo dare l'esempio, insegnare l'amore, la forza di combattere, l'orgoglio di essere come siamo, siamo noi che dobbiamo comunicare a loro la nostra fede in Dio. Se si sono allontanati da Dio, la colpa è anche nostra. Ma possiamo e dobbiamo correggere questo errore, perché in questo momento non stiamo lasciando loro una eredità di cui essere fieri.

Giovannino Guareschi – In un mondo carico d'odio, la gente sogna di poter vivere lottando, si, ma in modo che gli uomini, pur rimanendo avversari fierissimi, non diventino nemici. E, all'ultimo momento, la passione sia vinta dal buon senso, e l'ultima parola, in ogni conflitto, sia quella della coscienza.

S o m m a r i o

PAOLO VI - Protagonista della storia del Novecento

Presentazione

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Testimonianza

1 Antonio Rosmini 1797 – 1855 2 Luigi Sturzo 1871 - 19593 Luigi Einaudi 1874 – 19614 Agostino Gemelli 1878 – 19595 Alcide De Gasperi 1881 - 19546 Jacques Maritain 1882 - 19737 Arturo Carlo Jemolo 1891 - 19818 Jean Guitton 1901 - 19999 Giovanni Colombo 1902 – 199210 Giorgio La Pira 1904 – 197711 Emmanuel Mounier 1905 - 195012 Antoine Humblet 1922 - 201113 Angelo Macchi 1923 – 201413 Antonio Rigobello 1924 - 201614 Piero Pajardi 1926 - 199415 Carlo Calori 1931 – 2006

Appendici

* Punti fermi - Presenza e impegno per una sfida culturale* Lessico - Alcune definizioni* Attualità di sistema – Il sistema scolastico italiano Ipotesi di finanziamento Riferimenti nirmativi internazionali* Proposte - Promuovere una nuova educazione - L'Agesc e la scuola del futuro

Aforismi

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°Gennaio 2017