Viaggio in Oriente 1832-1833 (Costantinopoli) · collina; e fiancheggiate dai minareti scolpiti a...

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associazione culturale Larici – http://www.larici.it Alphonse de Lamartine Viaggio in Oriente 1832-1833 (Costantinopoli) Souvenirs, impressions, penses et paysages pendant un voyage en Orient, 1832-1833 ou Notes d’un voyageur (Constantinople) 1835 1 1 Traduzione dal francese e note: © associazione culturale Larici. 1

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Alphonse de Lamartine

Viaggio in Oriente 1832-1833(Costantinopoli)

Souvenirs, impressions, pensees et paysages pendant un voyage en Orient, 1832-1833 ou Notes d’un voyageur (Constantinople)

18351

1 Traduzione dal francese e note: © associazione culturale Larici.

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L’impero ottomano nel 1453-1481 (da W.R. Shepherd, The Historical Atlas, 1923).Vi sono indicati molti dei luoghi nominati da Lamartine.

18 MAGGIO 1833

[…] In fondo al golfo non vedo che le stesse colline arrotondate allo stesso livello, senza rocce, senza anse, ne insenature: e Costantinopoli, che il comandante segna a dito, non è che una città bianca e circoscritta sopra un gran colle della costa d’Europa. Valeva la pena venire a cercare un disinganno così lontano? Io non volevo più guardare, tuttavia bordeggiando ci accostavamo sensibilmente; rademmo il castello delle Sette Torri: immenso blocco di costruzione severa e grigia del Medioevo, che fiancheggia sul mare l’angolo delle muraglie greche dell’antica Bisanzio, e arrivammo a ormeggiare sotto le case di Stambul nel mar di Marmara, tra una folla di vascelli e di barche tenute, come la nostra, fuori del porto per la violenza della tramontana. Erano le cinque di sera, il cielo era sereno e il sole sfolgorante; io cominciavo a vincere lo sdegno per Costantinopoli: le mura di cinta di questa parte della città pittorescamente fabbricata sulle rovine di mura antiche e sormontate da giardini, chioschi e casette di legno dipinte di

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rosso, formavano il primo piano del quadro; di sopra, infinite terrazze di case disposte a poggi, inframezzate da chiome d’aranci e da aguzze e nere punte di cipressi; più in alto sette od otto grandi moschee coronavano la collina; e fiancheggiate dai minareti scolpiti a giorno, con le colonnette moresche, alzavano al cielo le loro cupole dorate, che infiammava il riflesso del sole: i muri dipinti di azzurro delle moschee, le coperture di piombo delle cupole che li circondavano, davano loro l’apparenza e la vernice trasparente di monumenti di porcellana. I cipressi secolari accompagnavano queste cupole con le immobili e cupe cime, e le case variopinte facevano brillare la vasta collina di tutti i colori di un giardino in fiore; nessun rumore saliva dalle vie; nessuna grata delle innumerevoli finestre si apriva; nessun movimento manifestava l’abitazione di una così gran moltitudine di uomini: tutto pareva dormisse sotto il cocente sole del giorno; il golfo soltanto, solcato in ogni senso da vele di ogni forma e grandezza, dava segno di vita. Ogni istante vedevamo sboccare dal Corno d’oro (imboccatura del Bosforo), dal vero porto di Costantinopoli, dei vascelli a gonfie vele, che ci passavano accanto fuggendo verso i Dardanelli, ma non potevamo scorgere l’entrata del Bosforo, ne comprenderne la posizione. Pranziamo sul ponte di fronte a questo magico spettacolo: dei caicchi turchi2 vengono a interrogarci e a portarci provvigioni; i battellieri ci dicono che non c’è quasi più peste; mando le mie lettere alla città; alle sette il signor Truqui, console generale di Sardegna3, accompagnato dagli ufficiali della sua legazione, viene a renderci visita e a offrirci ospitalità nella sua casa di Pera, non essendo possibile trovare alloggio nella città recentemente incendiata; la cortese cordialità e l’attrazione che ci ispira dal primo momento il signor Truqui ci spinge ad accettare. Il vento è ancora contrario, i vascelli non possono levare l’ancora stasera: dormiamo a bordo.

Costantinopoli

20 MAGGIO 1833

Alle cinque ero già in piedi sul ponte. Il capitano fa gettare in mare una lancia, scendo con lui e veleggiamo verso l’imboccatura del Bosforo, lungo le mura di Costantinopoli lavate dal mare. Dopo mezz’ora di navigazione, traverso una moltitudine di navi ancorate, tocchiamo le mura del serraglio, che continuano quelle della città e formano, all’estremità della collina che sostiene Stambul4, l’angolo che separa il mar di Marmara dal canale del Bosforo e dal Corno d’oro, come chiamano la gran rada interna di

2 Più propriamente sarebbe “dei marinai di caicchi turchi”. Il caicco, infatti, è la tipica imbarcazione turca a due alberi.

3 Gaëtan Truqui era console generale e cancelliere di Sua Maestà Sarda a Istanbul dal 1828.4 Il nome della città, odierna Istanbul, è stato Costantinopoli fino al 1923. Con Stambul (o

Stamboul) si indicava la città entro le mura.

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Costantinopoli. È là che Dio e l’uomo, la natura e l’arte posero o crearono di concerto il punto di vista più meraviglioso che sguardo umano possa contemplare sulla terra. Proruppi involontariamente in un’esclamazione, e dimenticai per sempre il golfo di Napoli e tutti i suoi incanti5: paragonare qualcosa a questo magnifico e leggiadro insieme sarebbe ingiuriare la creazione.

Le muraglie che sostengono le terrazze circolari degli immensi giardini del gran serraglio erano a pochi passi da noi, alla nostra sinistra, separate dal mare da uno stretto marciapiede di lastroni di pietre, che le onde lavano in continuazione, e dove la perpetua corrente del Bosforo forma delle piccole onde mormoranti e cerulee, come le acque del Rodano a Ginevra. Queste terrazze, che si elevano su lievi pendii fino al palazzo del sultano, di cui traspaiono le cupole dorate attraverso le cime gigantesche dei platani e dei cipressi, sono esse pure piantumate a cipressi e platani smisurati, i cui tronchi soverchiano le mura e i rami, sbucando dai giardini, pendono a picco sul mare le loro chiome a ombreggiare le barche, e spesso i rematori si fermano là apposta. A tratti, questi gruppi d’alberi sono interrotti da palazzi, padiglioni e chioschi, porte scolpite e dorate, che si aprono sul mare, o da batterie di cannoni di rame e di bronzo dalle forme bizzarre e antiquate. Le finestre, con le inferriate, di tali palazzi marittimi appartenenti al serraglio danno sul mare, e attraverso le persiane si vedono luccicare le dorature e le lucentezze delle volte delle stanze. A ogni passo, eleganti fontane moresche, incastrate nelle mura del serraglio, cadono dall’alto dei giardini, e mormorano nelle vasche di marmo, per dissetare i passanti. Alcuni soldati turchi stanno seduti vicino a quelle fonti, e dei cani senza padrone errano lungo l’argine; qualcun altro è seduto entro l’enorme imboccatura dei cannoni. Più la lancia avanzava lungo quelle muraglie e più l’orizzonte ci si dilatava davanti, la costa dell’Asia si avvicinava e l’imboccatura del Bosforo cominciava ad apparire, fra colline di un verde cupo e altre opposte che sembravano vestite di tutti i colori dell’arcobaleno. Là ci fermammo ancora una volta. La ridente costa dell’Asia, non lontana più di un miglio, si delineava alla nostra destra con grandi e alte colline, le cui cime aguzze erano coperte di nere foreste e i pendii di campi circondati da alberi. Le colline erano disseminate di case dipinte di rosso e i bordi dei burroni tappezzati di piante verdi e di sicomori, i cui rami si immergevano nell’acqua. Più lontano, le colline si alzavano ancora, poi declinavano in spiagge verdeggianti e formavano un promontorio sul quale stava una grande città. Era Scutari6 con le grandi caserme bianche, simili a un castello reale, le moschee cinte di minareti risplendenti, le vie e le anse orlate di case, di bazar, di caicchi, all’ombra delle vigne o dei platani, e con la cupa foresta di cipressi che copre la città: attraverso i loro rami brillavano, di un

5 Lamartine visitò per la prima volta Napoli nel 1811, ospite di parenti. Nel marzo 1820 fu nominato ambasciatore di Francia a Napoli, ma rinunciò all’incarico due mesi dopo.

6 Oggi Üsküdar; era un comune soggetto a Istanbul situato nella parte asiatica della città, all’ingresso meridionale del Bosforo.

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lugubre splendore, gli innumerevoli monumenti bianchi dei cimiteri turchi. Al di là dalla punta di Scutari, terminata da un isolotto su cui è una cappella turca che si chiama Sepolcro della Fanciulla, si apriva il Bosforo, che come un fiume sotterraneo pareva fuggire tra le fosche montagne, i cui fianchi rocciosi, le rientranze e le sporgenze, le forre, le foreste si rispondevano dalle due rive, e ai loro piedi si distingueva a perdita d’occhio una serie ininterrotta di villaggi, di flotte all’ancora o alla vela, di porticcioli ombreggiati da alberi, di case sparse e di vasti palazzi con i loro roseti sul mare.

Qualche colpo di remi e arrivammo nel punto preciso del Corno d’oro dove si gode insieme la vista del Bosforo, del mar di Marmara e dell’intero porto, o per dire meglio del mare interno di Costantinopoli. Là ci dimenticammo Marmara, la costa asiatica e il Bosforo per contemplare con una sola occhiata il bacino del Corno d’oro e le sette città poste sui sette colli di Costantinopoli, tutti convergenti verso il braccio di mare che forma quella città unica e incomparabile, che è contemporaneamente città, campagna, mare, porto, riva di fiume, giardini, montagne boscose, valli profonde, oceano di case, sciame di navigli e di strade, laghi tranquilli e incantate solitudini: una vista che un pennello può ritrarre soltanto per parti, e dove ogni colpo di remi porta l’occhio e l’anima a un aspetto, a un’impressione differente.

Veleggiammo verso le colline di Galata e di Pera7; il serraglio si allontanava da noi ma si ingrandiva perche abbracciavamo meglio i vasti contorni delle sue muraglie e la moltitudine delle pendici, degli alberi, dei chioschi, dei suoi palazzi. Basterebbe esso solo a formare una grande città. Il porto si incava sempre più dinanzi a noi; è come un canale tra i pendii delle montagne ricurve che si sviluppa più avanti. Il porto non assomiglia in nulla a un porto, è piuttosto un largo fiume come il Tamigi, fiancheggiato da colline piene di ville e coperto su entrambe le rive da un’interminabile flotta di vascelli ancorati tra le case. Attraversammo quell’incredibile moltitudine di vascelli, alcuni ancorati e altri a vela spiegata, indirizzati verso il Bosforo o il mar Nero o il mar di Marmara. Erano bastimenti di ogni foggia, grandezza e stendardo: dalla barca turca, con la prua slanciata e alzata come il rostro delle galee antiche, fino al vascello a tre ponti, con le fiancate di bronzo sfolgoranti. Gruppi di caicchi turchi, spinti da uno o due rematori in maniche di seta, e barchette, che servono da vetture nelle vie marittime di questa città anfibia, circolano tra quelle masse che si incrociano, si urtano senza rovesciarsi, sgomitano come la folla sulle piazze pubbliche: e stormi di albatros8, simili a bei piccioni bianchi, si levavano dal mare all’accostarsi delle barche per posarsi più lontano o farsi cullare dall’onda. Non provai a contare i vascelli, le navi, i brick, i bastimenti e le barche che dormono o vogano nelle acque del porto di Costantinopoli, dalla foce del Bosforo e dalla

7 Oggi Beyoğlu.8 In francese «alabastros».

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punta del serraglio, fino al sobborgo di Eyüp9 e ai deliziosi valloni delle Acque Dolci10: il Tamigi a Londra non è assolutamente comparabile. Basterà dire che, indipendentemente dalla flotta turca e dalle navi da guerra europee, ancorate in mezzo al canale, le due rive del Corno d’oro ne sono ricoperte in due o tre file per la lunghezza di circa una lega. Non potemmo che intravedere quelle lunghe file di prue volte verso il mare; il nostro sguardo si perdeva verso la fine del golfo che sembrava sprofondare nella terra tra una foresta di alberi. Approdammo ai piedi della città di Pera, non lontano da una superba caserma di bombardieri, le cui terrazze coperte erano ingombre di cannoni e carretti. Una mirabile fontana moresca, costruita in forma di pagoda indiana e il cui marmo scolpito e dipinto con colori vivaci spiccava come un merletto su uno sfondo di seta, versa le sue acque in una piccola piazza, interamente occupata da balle di merci, cavalli, cani randagi e da turchi accoccolati che fumavano all’ombra. I barcaioli dei caicchi erano seduti in gran numero lungo i parapetti dei moli, aspettando i loro padroni o sollecitando i passanti. Sono questi una bella razza d’uomini, il cui vestire accresce la loro bellezza: indossano calzoni bianchi a pieghe molto larghe, fermati da una cintura di seta cremisi a mezza vita e sul capo hanno un piccolo berrettino greco, di lana rossa sormontato da una nappa di seta pendente dietro il capo; il collo e il petto sono nudi, un’ampia camicia di seta cruda con grandi maniche copre braccia e spalle. I loro caicchi sono battelli lunghi da venti a trenta piedi11, e larghi da due a tre piedi, di noce verniciato e lucidi come mogano. La loro prua è aguzza come il ferro di una lancia e taglia il mare come un coltello. La stretta forma dei caicchi li renderebbe pericolosi e scomodi per i Franchi che non vi sono abituati, poiche ad ogni minimo movimento impresso da un piede maldestro si rovesciano: conviene stare coricati sul fondo come fanno i turchi, badando che il peso del corpo sia egualmente diviso fra i due lati della barca. Ce ne sono di diversa grandezza, cosicche possono contenere da uno a quattro od otto passeggeri, ma tutti hanno uguale forma. Nei porti di Costantinopoli se ne contano a migliaia, e senza comprendere quelli che, come le carrozze, sono a disposizione del pubblico a tutte le ore, ogni individuo ne ha uno per proprio uso e i rematori sono i suoi servi. Ciascun uomo che si muove nella città per affari è costretto ad attraversare il mare più volte al giorno.

Uscendo da quella piccola piazza, entrammo nelle stradine sporche e affollate di un bazar di Pera. Escludendo gli abiti, i bazar hanno all’incirca l’aspetto dei dintorni dei mercati delle nostre città: baracche di legno ove si friggono dolci e carni per il popolo, negozi di barbiere, venditori di tabacco, pizzicagnoli, fruttivendoli; c’è una folla frettolosa per le strade di tutti i costumi e di tutte le lingue d’Oriente, e poi c’è l’abbaiare dei numerosi cani che riempiono le piazze e i bazar e si rubano a vicenda gli avanzi gettati

9 In francese «Eyoub».10 Acque Dolci d’Asia o d’Europa sono quelle dei fiumi, che sono percorribili in ogni senso su

piccole imbarcazioni.11 Il piede francese, o piede regio di Parigi, corrisponde a 0,324839 metri.

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dalle porte. Da lì andammo in una strada lunga, stretta e solitaria, salendo un ripido pendio sopra la collina di Pera. Le finestre con le inferriate non lasciavano scorgere nulla dell’interno delle case turche, che sembrano povere e abbandonate. Di tanto in tanto i verdi rami di un cipresso escono dalle muraglie grigie e in rovina e svettano immobili verso un cielo trasparente. Delle colombe bianche e azzurre sono sparse sulle finestre e sui tetti delle case e riempiono le silenziose vie con il loro melanconico tubare. Alla sommità di queste vie si distende il bel sobborgo di Pera, abitato dagli europei, dagli ambasciatori e dai consoli: è un quartiere tutto sommato simile a una povera cittadina delle nostre province. C’erano già alcuni bei palazzi di ambasciatori eretti sulle terrazze inclinate di Galata, ma di essi ora si vedono soltanto colonne a terra, rovine di muri anneriti, giardini crollati: le fiamme dell’incendio hanno divorato ogni cosa. Pera non ha ne carattere, ne originalità, ne bellezza: dalle sue contrade non si vede ne il mare, ne le colline, ne i giardini di Costantinopoli, e bisogna salire in cima ai tetti per godere del magnifico colpo d’occhio che la natura e l’uomo l’hanno circondata.

Il signor Truqui ci accolse come figli, la sua casa è grande, elegante e ben posizionata; egli ha messo tutto a nostra disposizione. Trovammo da lui e intorno a lui gli alloggi più suntuosi, il cibo più squisito, le premure più affettuose dell’amicizia, la convivenza più dolce e amabile, che per noi rimpiazzarono il tappeto o la stuoia del deserto, il pilau12 degli Arabi, l’asprezza e la durezza della vita marittima. Appena sistemati da lui, ricevetti una lettera dall’ammiraglio Roussin, ambasciatore di Francia a Costantinopoli13, in cui ci offriva ospitalità a Therapia14. Questi segni commoventi di interesse e gentilezza, ricevuti da sconosciuti compatrioti a mille leghe dalla patria e nell’isolamento e nelle avversità lasciano una traccia profonda nella memoria del viaggiatore.

21, 22 E 23 MAGGIO

Sbarco dai due brick. Riposo, ricevuto visite dei principali mercanti di Pera. Giornate passate nella cortesia e intimità del signor Truqui e dei suoi amici, Corse a Costantinopoli. Veduta generale della città. Visita all’ambasciatore a Therapia.

23 MAGGIO

Quando si è abbandonata d’un tratto la scena cangiante, tempestosa del mare, la cabina buia e mobile di un bastimento, l’affaticante rollio delle onde, quando si sente il piede fermo su una terra amica, quando si è

12 O pilaf, sistema di cottura del riso. Il termine “pilau” è in lingua persiana.13 Il barone Albin Roussin (1781-1854), ammiraglio della Marina, fu ambasciatore a

Costantinopoli dal 1832 al 1836, poi fu nominato ministro della Marina.14 Odierna Tarabya, sul lato europeo del Bosforo.

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circondati da uomini, libri, ogni agio della vita e si hanno dinanzi campagne e boschi per passeggiare e tutta l’esistenza terrena da ripigliare dopo un lungo disuso, si prova un piacere istintivo e fisico, di cui non se ne può fare a meno: una terra qualunque, anche la più lontana e selvaggia, è come una patria ritrovata. È un effetto che ho provato una ventina di volte, anche per poche ore: una costa sconosciuta e deserta, una roccia protetta dal vento, un arbusto che offre ombra, un raggio di sole che intiepidisce la sabbia dove si è seduti, alcune lucertole che si muovono fra le pietre, gli insetti che ronzano intorno, un uccello spaventato che si avvicina e lancia uno grido d’allarme, tutte queste cose sono nulla per un uomo che sta sulla terra, ma rappresentano un mondo per lo stanco navigatore che scende dai flutti. Ma il brick è là, ondeggiante nel golfo, sul mare in movimento, su cui bisognerà risalire presto. I marinai sono nei cantieri, occupati a far asciugare o a riparare le grandi vele lacerate; la barca, che monta e scompare negli spumeggianti cavalloni formati dalle onde, va e viene di continuo dalla riva al brick, porta provvigioni a terra o acqua fresca al legno, i mozzi lavano le loro camicie di tela colorata, il capitano studia il cielo, aspettando che il vento cambi per richiamare con una cannonata i passeggeri alla loro vita di miseria, di oscurità e di movimento. Per quanto uno abbia fretta d’arrivare, fa in segreto dei voti, affinche il vento contrario non cessi così presto, perche l’evenienza lasci gustare per un giorno ancora quell’intima voluttà che unisce l’uomo alla terra. Si fa amicizia con la costa, con il lembo di erba o di arbusti che si estende fra il mare e le rocce, con la sorgente nascosta sotto le radici di una vecchia quercia, coi licheni, con i piccoli fiori selvatici che il vento agita costantemente tra le fenditure degli scogli, e che non rivedremo mai più. Quando il cannone della nave richiama, quando la bandiera del segnale è issata in punta d’albero e la scialuppa viene a prendervi, quasi si vorrebbe piangere in questo angolo di mondo senza nome, dove si sono distese le membra affaticate. Tante volte ho provato questo innato amore dell’uomo per un ricovero qualunque, solitario, sconosciuto, su una spiaggia deserta.

Ma qui provo due cose contrarie, una dolce e l’altra penosa. Da una parte c’è il piacere di essere sulla terraferma, avere un letto che non casca, un pavimento che non traballa di continuo da un capo all’altro, poter camminare liberamente, aprire o chiudere le finestre quando mi va, senza timore che la spuma entri, avere il piacere di sentire il vento che gioca con le tende e non fa ondeggiare la casa, echeggiare le vele, tentennare gli alberi e correre i marinai sul ponte con i loro passi assordanti. Ancor di più ci sono le amichevoli comunicazioni con l’Europa, i viaggiatori, i mercanti, i giornali, i libri, tutto ciò che mette l’uomo in comunione d’idee e di vita, la partecipazione al movimento generale delle cose e del pensiero, che ci era negato da tanto tempo. E più ancora l’ospitalità calda, attenta, serena, l’amicizia del nostro eccellente ospite Truqui, che sembra così felice di circondarci di tutte le premure, le gentilezze, i sollievi che può offrirci e che noi stessi siamo felici di ricevere. Che uomo eccellente! uomo raro, perche nella mia lunga vita di viaggiatore ho incontrato la stessa ospitalità solo due

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volte. La sua memoria mi sarà dolce e il mio ricordo degli anni di pellegrinaggio e di pensieri sarà sempre sulle coste dell’Asia e dell’Africa, dove la sua fortuna lo condanna a finire i propri giorni15.

STESSA DATA

Tuttavia, godute senza quasi accorgersene queste prime delizie del ritorno a terra, si è tentati di rimpiangere l’incertezza e l’agitazione perpetua della vita di un vascello, perche il pensiero non ha agio di ripiegarsi su se stesso e di scandagliare gli abissi di tristezza che la morte ha scavato nel nostro seno16. Il dolore è sempre presente, ma viene in ogni istante distratto da qualche pensiero che impedisce al suo peso di essere così opprimente: il fragore, il movimento che ci ruota intorno, l’aspetto sempre vario del ponte della nave e del mare, le onde che si gonfiano o si appianano, il vento che torna, monta o scema, le vele della nave che bisogna orientare venti volte al giorno, lo spettacolo delle manovre alle quali bisogna talvolta partecipare durante il cattivo tempo, i mille accidenti di una giornata o di una notte di tempesta, il rollio, le vele spazzate via, i mobili spaccati che rotolano sotto coperta, i colpi sordi e irregolari del mare contro le fragili fiancate della cabina dove si vorrebbe dormire, il passo precipitoso dei marinai sopra la testa, lo schiamazzare dei polli le cui stie attaccate agli alberi vengono inondate dal mare, i canti dei galli che per primi avvisano dell’aurora dopo una notte di tenebre e di burrasca, il fischiare della corda del loche gettata per misurare la via17, l’aspetto strano, sconosciuto, bizzarro, selvatico o grazioso di una costa che ieri neppure si sospettava, e che al levar del sole si rasenta, misurando l’altezza delle montagne, o segnando a dito le sue città e i suoi villaggi, brillanti come mucchi di neve tra il nero degli abeti: tutto ciò occupa più o meno l’anima nostra, solleva un poco il cuore, lascia svaporare il dolore, assopisce il rammarico finche dura il viaggio. Tutto questo dolore ricade con tutto il suo peso sull’anima non appena si tocca la riva e il sonno su un tranquillo letto restituisce all’uomo l’intensità dei suoi sentimenti. Il cuore, non più distratto da cose esterne, si trova di fronte ai propri sentimenti mutilati, ai propri disperati pensieri e al suo futuro lontano! Non si sa come sopportare la vecchia vita, la vita monotona, la vita vacua delle città e della società. Questo è ciò che provo, al punto da desiderare ora un’eterna navigazione, un viaggio senza fine, con tutte le sue incertezze e le sue distrazioni, anche le più penose. È questo che io leggo negli occhi della mia donna, ancor più che nel mio cuore. La sofferenza di un uomo è nulla rispetto a quella di una donna, di una madre.

15 Gaëtan Truqui era stato appena nominato console generale di Sua Maestà Sarda a Tunisi.16 I coniugi Lamartine avevano perso la loro unica figlia pochi mesi prima a Beirut.17 Il loche (o barchetta) era uno un pezzo di legno piatto e leggero a forma di triangolo

isoscele, sulla cui base era applicata una lama di piombo per tenerlo ritto in mare. Ad esso si legava una fune annodata a intervalli regolari che si faceva scorrere man mano che la nave avanzava. Dividendo la lunghezza della fune, data dal numero di nodi, per un tempo determinato (di solito trenta secondi) si otteneva la velocità approssimativa.

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Una donna vive e muore di un solo pensiero, di un solo sentimento: la vita per una donna è una cosa posseduta, la morte è una cosa perduta. Un uomo vive di tutto, bene o male; Dio non lo uccide d’un sol colpo.

24 MAGGIO

Mi circondai di giornali e opuscoli giunti di recente dall’Europa e prodigati dall’ospitalità degli ambasciatori di Francia e Austria. Dopo aver letto tutto il giorno, mi confermo nelle idee che avevo portate dall’Europa. Vedo che i fatti marciano in linea con le previsioni politiche, che l’analogia politica, storica e filosofica assegna al cammino delle cose in questo bel secolo. La Francia sommossa si tranquillizza18, l’Europa inquieta, ma timida, guarda con gelosia e sdegno, ma non osa avvicinarsi, sentendo per un profetico istinto che perderebbe l’equilibrio qualora si muovesse. Io non credetti mai che dalla rivoluzione di luglio potesse nascere la guerra: era necessario che la Francia desse retta a consigli insensati per attaccare, e, se non attaccava la Francia, l’Europa non si sarebbe mai gettata a cuor leggero in un fuoco rivoluzionario, che avrebbe bruciato chiunque avesse voluto spegnerlo. Il governo di luglio si è ben meritato in Francia e in Europa per il solo fatto di aver contenuto l’ardore impaziente e cieco dello spirito bellicoso francese dopo le tre giornate, altrimenti la Francia e l’Europa sarebbero state egualmente perdute. Noi non avevamo eserciti, non spirito pubblico, perche non ce n’è dove non c’è unanimità: la guerra straniera avrebbe trascinato alla guerra civile nel mezzogiorno e nell’occidente francese, soprattutto alla persecuzione e alla spoliazione. Nessun governo avrebbe resistito in Francia allo slancio rivoluzionario del centro; mentre drappelli d’eserciti, improvvisati da un patriottismo senza guida e senza freno, sarebbero andati a farsi divorare sulle nostre frontiere dell’est; il mezzogiorno fino a Lione avrebbe sventolato bandiera bianca; l’occidente fino alla Loira avrebbe risuscitate le guerriglie della Vandea; le popolazioni industriose di Lione, Rouen, Parigi, esacerbate dalla miseria, dove la cessazione del lavoro li avrebbe spinti, si sarebbero riunite verso il centro e in folle indisciplinate avrebbero rotto sopra Parigi e le frontiere, scegliendosi dei capi di un solo giorno e imponendo a essi i loro capricci per piani di campagna. La proprietà, il commercio, l’industria, il credito, tutto sarebbe perito a un tratto; ci sarebbe voluta la violenza per i prestiti e le imposte. Nascosto l’oro, morto il credito, la disperazione avrebbe spinto alla resistenza, e la resistenza al furto, all’omicidio, ai supplizi popolari; una volta entrati nella via del sangue, non ci sarebbe più stata una via d’uscita se non l’anarchia, la dittatura o lo smembramento. Ma tutto ciò sarebbe stato più ancora complicato dai movimenti inaspettati e spontanei in altre parti d’Europa: Spagna, Italia, Polonia, le rive del Reno, il Belgio, avrebbero preso fuoco insieme o uno alla volta; tutta l’Europa sarebbe stata strascinata in una

18 Il riferimento è alla rivoluzione del luglio 1830, quando a Parigi fu rovesciato Carlo X, ultimo sovrano della dinastia dei Borbone, e sostituito da Luigi Filippo.

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oscillazione di insurrezioni e compressioni, che avrebbe cambiato in ogni momento lo stato delle cose. Saremmo entrati, mal preparati, in un’altra guerra dei Trent’anni19. Il genio della civiltà non l’ha voluto, e ciò che doveva essere è stato. Non si combatterà che dopo essersi preparati al combattimento, dopo esser stati riconosciuti, numerati, passati in rassegna, ordinati in battaglia; la lotta sarà regolare, con un risultato preveduto e certo, non più un parapiglia al buio.

Da lontano si vedono le cose meglio, perche i particolari non chiudono lo sguardo e gli oggetti si presentano per grandi masse principali. Ecco perche i profeti e gli oracoli vivevano solitari, staccati dal mondo: erano dei saggi che studiavano le cose nel loro assieme, e il cui giudizio non veniva turbato dalle piccole passioni quotidiane. Bisogna che un uomo politico si allontani spesso dalla scena dove si rappresenta il dramma del suo tempo se vuole giudicarlo e prevederne lo scioglimento. Predire è possibile solo a Dio, ma prevedere è possibile all’uomo.

Spesso mi domando dove andrà questo gran movimento di menti e di fatti che, lasciata la Francia, scuote il mondo intero, e trascina, volente o nolente, ogni cosa nel suo vortice. Non sono di quelli che in tal movimento altro non vedono che il movimento stesso, cioè il tumulto e la confusione delle idee, che credono il mondo morale e politico ridotto alle convulsioni finali, precedenti la morte e il disfacimento. Questo è, evidentemente, un doppio movimento di disfacimento e di riordinamento insieme. Lo spirito creatore edifica via via che il distruttore abbatte, una fede supplisce il vuoto di un’altra, una forma succede all’altra e, dove il passato crolla, dietro le sue rovine appare un futuro ben predisposto; il passaggio è lento e aspro come in ogni transizione in cui le passioni e gli interessi degli uomini devono combattere camminando, in cui le classi sociali e le diverse nazioni procedono a passo ineguale; in cui alcuni vogliono ostinatamente indietreggiare, mentre la moltitudine avanza. C’è confusione, polvere, rovine, oscurità a tratti, ma in certi momenti il vento solleva quella nuvola di polvere che nasconde la strada e la meta, e coloro che stanno sull’altura distinguono il progredire delle colonne, scoprono il terreno del futuro e vedono il giorno appena spuntato rischiarare vasti orizzonti. Io sento dire continuamente intorno a me e anche qui: «Gli uomini non hanno più credenze, tutto è abbandonato alla ragione individuale, non c’è più fede comune in nulla, ne in religione, ne in politica, ne in socievolezza. Le credenze e una fede comune sono la molla delle nazioni e se questa molla si rompe tutto si scompone, c’è un unico mezzo per salvare i popoli: rendere loro le credenze». Rendere le credenze, risuscitare i dogmi popolari morti nella coscienza dei popoli, rifare ciò che il tempo disfece, è parola insensata: è un tentativo di lotta contro la natura e lo spirito delle cose; è un camminare in senso inverso della Provvidenza e dei fatti, che sono le tracce dei suoi passi; non si può giungere a una meta se non procedendo nel verso in cui Dio condusse gli avvenimenti e le idee; il corso del tempo mai

19 La serie di conflitti armati che dilaniarono l’Europa dal 1618 al 1648.

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retrocede, si può dirigersi e dirigere il mondo nell’indomabile sua corrente, ma non arrestarlo ne farlo indietreggiare. Ma è dunque vero che non c’è più lume nell’intelletto dell’uomo, ne credenza comune nello spirito dei popoli, ne fede intima nella coscienza del genere umano? Sono parole che si ripetono senza averle esaminate: non hanno alcun senso. Se il mondo non avesse più un’idea comune, una fede, una credenza, non si agiterebbe tanto: il niente produce niente, mens agitat molem20. Al contrario c’è un’immensa convinzione, una fede fanatica, una speranza confusa ma indefinita, un ardente amore, un simbolo comune, benche non ancora delineato, che spinge, agita, preme, sottrae, condensa, fa gravitare insieme tutte le menti, tutte le coscienze, tutte le forze morali di quest’epoca: queste rivoluzioni, questi trambusti, queste cadute d’imperi, questi movimenti ripetuti e giganteschi di tutti i membri della vecchia Europa, questo rimbombo in America e in Asia, questo impulso sconsiderato e irresistibile che imprime, a dispetto delle volontà individuali, tanta agitazione e tanto accordo alle forze collettive: tutto ciò non è un effetto senza causa; ogni cosa ha un senso, un senso profondo e nascosto, ma un senso evidente per l’occhio del filosofo. Questo senso è proprio ciò che voi vi dolete d’aver perduto, che negate nel mondo di oggi; è un’idea comune, è una convinzione, è una legge sociale, è una verità che, entrata involontariamente in tutti gli spiriti, e anche, a sua insaputa, fra il popolo, si industria a prodursi nei fatti con la forza di una verità divina, cioè con una forza invincibile. Questa fede è la ragione generale, la parola è il suo organo, la stampa è il suo apostolo: essa si diffonde nel mondo con l’infallibilità e l’intensità d’una religione nuova; vuole rifare a sua immagine le religioni, le civiltà, le società, le legislazioni imperfette o alterate dagli errori e dalle ignoranze delle età tenebrose che traversarono; vuole ristabilire, in religione, il Dio uno e perfetto per dogma, la morale eterna per simbolo, l’adorazione e la carità per culto; in politica, l’umanità al di sopra della nazionalità; in legislazione, l’uomo eguale all’uomo, l’uomo fratello dell’uomo; la società come un fraterno scambio di servizi e di reciproci doveri, ordinata e garantita dalla legge, il cristianesimo legiferato!

Essa lo vuole e lo fa. Voi dite ancora che non c’è credenza, non c’è fede comune negli uomini d’oggi. Dopo il cristianesimo, giammai una così grande opera si compì nel mondo con tali deboli mezzi. Una croce e la stampa, ecco i due strumenti dei due più grandi movimenti civilizzatori del mondo.

25 MAGGIO

Stasera, a un chiaro di splendida luna che si riverberava sul mar di Marmara e fin sulle linee violette delle nevi eterne dell’Olimpo, sedetti solo sotto i cipressi della Scala dei Morti21. Questi cipressi, che ombreggiano le

20 “Lo spirito vivifica la materia”, locuzione latina tratta dall’Eneide di Virgilio (VI, 727).21 Il turco iskele viene tradotto in francese con echelle, scala, ma significa “molo”, “pontile”.

La Scala dei Morti era quindi il punto – esterno alle mura di Galata – dove i turchi

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innumerevoli tombe dei musulmani e scendono dalle alture di Pera sino alla riva il mare, sono intercalati da sentieri più o meno ripidi, che salgono dal porto di Costantinopoli alla moschea dei dervisci rotanti22. A quell’ora non passava anima viva, e ci si poteva credere a cento leghe da una popolosa città se i mille rumori della sera, portati dal vento, non fossero venuti a morire tra i rami frementi dei cipressi. Questi suoni, già indeboliti dall’ora avanzata, le canzoni dei marinai sulle navi, i colpi di remi dei caicchi sulle onde, i suoni dei barbari strumenti dei bulgari, i tamburi delle caserme e degli arsenali, le voci delle donne che cantavano per addormentare i bimbi presso le finestre con le inferriate, i lunghi mormorii delle vie popolose e dei bazar di Galata, di tanto in tanto il grido dei muezzin dall’alto dei minareti, o una cannonata, segnale della ritirata, che partendo dalla flotta ferma all’ingresso del Bosforo, ripercossa dalle sonore moschee e dalle colline, veniva a riversarsi nel bacino del Corno d’oro e rimbombare sotto i quieti salici delle Acque Dolci d’Europa, tutti questi rumori, dicevo, si fondevano talvolta in un ronzio sordo e indistinto e formavano come una musica armoniosa, dove il rumore degli uomini e la respirazione soffocata d’una grande città che si addormenta si mescolavano, senza poterli distinguere, con i rumori della natura, il lontano risuonare delle onde e del vento che incurvava le aguzze cime dei cipressi. È una delle impressioni più indefinite e pesanti che un’anima poetica possa sopportare. Tutto si mescola, l’uomo e Dio, la natura e la società, l’agitazione interiore e il melanconico riposo del pensiero. Non si sa se si è più coinvolti da questo grande movimento di esseri animati che gioiscono o soffrono in tale tumulto di voci che si levano, o dalla pace notturna degli elementi che sussurrano ed elevano l’anima al di sopra delle città e degli imperi, nella simpatia della natura e di Dio.

Il serraglio, vasta penisola nereggiante di platani e di cipressi, avanzava fra i due mari sotto i miei occhi. La luna imbiancava i numerosi chioschi e le vecchie muraglie del palazzo di Amurat23 emergevano, come una rupe, dal verde cupo dei platani. Avevo sotto gli occhi e nel pensiero tutto il teatro dei tanti drammi sinistri o gloriosi rappresentati da secoli, drammi che mi passavano innanzi coi loro personaggi e con le loro tracce di sangue e di gloria.

Vedevo un’orda sbucare dal Caucaso, cacciata da quell’istinto di peregrinazione che Dio dà ai popoli conquistatori, come lo diede alle api che escono dal tronco di un albero per costruire nuovi sciami. Vedo la grande figura patriarcale di Othman24 in mezzo alle tende e agli armenti, che

imbarcavano le salme da portare nel cimitero di Scutari, sulla costa asiatica.22 Nota confraternita islamica che pratica la “danza turbinante” come metodo per

raggiungere l’estasi mistica.23 Amurat o Murad I (1326-1389) fu sultano dal 1359 alla morte. Ampliò i confini in Europa,

sottomettendo quasi tutta la zona dei Balcani e costringendo Bisanzio a pagare tributo, e organizzò il corpo militare dei giannizzeri.

24 Othman od Osman I (1258-1326) fu il capostipite della dinastia ottomana e primo sultano dell’impero ottomano. Dinastia e discendenti sono detti “osmanli” (casa di Osman).

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diffonde il suo popolo in Asia Minore, che avanza fino a Bursa25, che muore fra le braccia dei suoi figli, dicendo ad Orhan26: «Muoio senza rimpianti poiche lascio un successore qual tu sei. Vai a propagare la legge divina, il pensiero di Dio, che è venuto a cercarci dalla Mecca al Caucaso, sii caritatevole e clemente come lui, perche è così che i principi attraggono sulla loro nazione le benedizioni di Dio. Non lasciare il mio corpo in questa terra, che non è per noi che un passaggio, ma deponi la mia spoglia mortale in Costantinopoli al posto che io stesso mi destino morendo».

Alcuni anni più tardi, Orhan, figlio di Osman, era accampato a Scutari, su queste stesse colline nereggianti di cipressi. L’imperatore greco Cantacuzeno27, vinto dalla necessità, gli donò la bella figlia Teodora per quinta sposa nel suo serraglio. La giovane principessa, al suono degli strumenti, traversava questo braccio di mare, dove oggi vedo ondeggiare le navi russe, e andava, come vittima, a immolarsi inutilmente per prolungare di pochi giorni la vita dell’impero. Ben presto i figli di Orhan si accostano alla riva, seguiti da alcuni prodi soldati, e in una notte fabbricano tre zattere tenute a galla da vesciche di bue gonfiate di aria, quindi passano lo stretto col favore del buio, trovano le sentinelle greche addormentate. Un giovane paesano, avviandosi sul far del giorno al suo lavoro, incontra degli ottomani smarriti e indica loro l’ingresso di un sotterraneo che conduce all’interno del castello, cosicche i Turchi entrano e possiedono una fortezza in Europa.

Quattro regni dopo, Maometto II28 rispondeva agli ambasciatori greci: «Io non muovo battaglia contro di voi; l’impero di Costantinopoli è limitato dalle sue mura». Ma Costantinopoli stessa, benche così limitata, toglie il sonno al sultano e manda a svegliare il suo visir per dirgli: «Ti chiedo Costantinopoli, con questo pensiero non riesco a prendere sonno: Dio vuole darmi i Romani». Nella sua brutale impazienza, egli lancia il cavallo tra le onde che minacciano di inghiottirlo: «Andiamo, dice ai soldati, il giorno dell’ultimo assalto mi riserbo la città, ma l’oro e le donne sono vostri. Il governo della mia provincia più vasta andrà a chi salirà per primo sui bastioni». Tutta la notte la terra e le acque sono rischiarate da innumerevoli fuochi, che rimpiazzano il giorno, mentre per gli ottomani tarda l’ora della conquista.

Durante l’assedio, sotto la mesta cupola di Santa Sofia, il bravo e sfortunato Costantino29 veniva, l’ultima sua notte, a pregare il Dio dell’impero e a comunicarsi tra le lacrime; al sorgere dell’aurora usciva a cavallo, accompagnato dagli urli e i gemiti della sua famiglia, per andare a morire da eroe sulla breccia della sua capitale: era il 29 maggio 1453.

Alcune ore più tardi, la scure si conficcava nelle porte di Santa Sofia: vecchi, donne, fanciulle, monaci e monache gremivano la vasta basilica, di

25 Bursa (anticamente Prusa) fu la capitale dello Stato ottomano dal 1326 al 1365.26 Orhan I (1284-1359), figlio di Othman, regnò dal 1326.27 Giovanni VI Cantacuzeno (1292-1383) fu imperatore bizantino fino al 1354 quando abdicò

e si ritirò sul Monte Athos dove diventò monaco con il nome di Giosafà Cristodoulo.28 Maometto II o Mehmet II (1432-1481), settimo sultano dell’impero ottomano, a soli 21

anni conquistò Costantinopoli (1453).29 Costantino XI Paleologo (1405-1453), imperatore bizantino dal 1449.

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cui gli atri, le cappelle, le gallerie, i sotterranei, le immense tribune, le cupole e le piatteforme possono contenere la popolazione di un’intera città; un ultimo grido si alzò verso il cielo, come la voce del cristianesimo agonizzante; in pochi istanti sessantamila fra vecchi, donne e fanciulli, senza distinzione di grado, età e sesso, furono legati per coppia, gli uomini con corde, le donne con i loro veli o le cinture, e gettati sui vascelli, portati al campo degli ottomani, insultati, barattati, venduti come bestie. Giammai lamenti simili furono intesi sulle due rive d’Europa e d’Asia; le donne furono separate per sempre dai loro sposi, i fanciulli dalle loro madri, e i Turchi, per strade differenti, spinsero questo bottino vivente da Costantinopoli verso l’interno dell’Asia. A Costantinopoli il saccheggio continuò per otto ore: poi Maometto II entrò da porta San Romano attorniato dai suoi visir, i pascià30 e le guardie. Smontò davanti al portale di Santa Sofia e colpì con lo yatağan31 un soldato che spaccava gli altari. Egli non volle distruggere nulla, trasformò la chiesa in moschea e un muezzin salì la prima volta su quella stessa torre da dove lo sento cantare per chiamare i musulmani alla preghiera e glorificare, sotto altra forma, il Dio che era adorato alla vigilia. Di là Maometto II si volse verso il palazzo deserto degli imperatori greci e recitò, entrando, questi versi persiani: «Il ragno tesse la sua tela nel Palazzo dei Cesari, la civetta ulula sulla torre di Afrasiyab»32.

Il corpo di Costantino fu ritrovato quel giorno stesso sotto cumuli di morti. I giannizzeri33 avevano inteso un greco, magnificamente vestito e in lotta con l’agonia, esclamare: «Non si troverà un cristiano che voglia togliermi la vita?» e gli avevano mozzato la testa. Due aquile ricamate in oro sui suoi calzari e le lacrime di alcuni greci fedeli confermarono che quel guerriero sconosciuto era il prode e infelice Costantino. La sua testa fu esposta, affinche i vinti non ne dubitassero mai la morte, ne sperassero di vederlo ricomparire; poi fu sepolto con gli onori dovuti al trono, all’eroismo e alla morte.

Maometto non abusò della vittoria. La tolleranza religiosa dei Turchi si rivelò già nei suoi primi atti, avendo lasciato ai cristiani le chiese e la libertà del loro culto pubblico, mantenuto il patriarca greco nelle sue funzioni e consegnato egli stesso, seduto sul trono, il pastorale e un cavallo riccamente bardato al monaco Gennadius34. I greci fuggiaschi ripararono in

30 Visir significa “colui che decide” e indica un importante consigliere politico e religioso; il Gran visir aveva il ruolo di Primo ministro e presiedeva il consiglio imperiale. Pascià, o paşa, o pasha, era un titolo onorifico dato dal sultano ai principali funzionari di corte e ai militari che assumevano il governatorato delle province ottomane.

31 Arma bianca simile alla spada, ma con lama ricurva affilata solo sul lato concavo, punta rinforzata e impugnatura con due valve posteriori per migliorare la presa.

32 Sono versi del poeta persiano Ferdowsi (935-1020). Afrasiyab (o Afrasiab) era un mitico eroe di Turan (antico nome dell’Asia Centrale), acerrimo nemico dell’Iran.

33 Il corpo militare dei giannizzeri costituiva la fanteria a guardia del sultano ottomano e dei suoi beni.

34 Gennadius Scholarius o Gennadio II (1400-1473 ca.) fu nominato il I giugno 1453 patriarca di Costantinopoli in quanto pubblicamente contrario all’Occidente cattolico. Ciò garantiva a Maometto II la fedeltà dei Greci.

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Italia, dove portarono il gusto delle dispute teologiche, della filosofia e delle lettere. Così la fiamma estinta a Costantinopoli gettò le sue scintille al di là dal Mediterraneo e si ravvivò a Firenze e a Roma. Durante i trent’anni di un regno che fu una continua conquista, Maometto II aggiunse all’impero duecento città e dodici regni. Morì in mezzo ai trionfi e ricevette il titolo di Maometto il Grande. La sua memoria sorvola ancora sugli ultimi anni del popolo che egli trapiantò in Europa, e che fra poco ne riporterà in Asia la tomba. Questo principe aveva il colore di un tataro35, il viso pulito, gli occhi incavati, lo sguardo penetrante e sempre esercitò tutte le virtù e tutti i delitti che la politica gli comandò.

Bayezid II36, il Luigi XI degli Ottomani, fa gettare i suoi figli in mare, ma lui stesso, cacciato dal trono da Selim37, fugge con le donne e i tesori e muore per il veleno propinatogli dal figlio. Selim, per tutta risposta al visir che gli chiedeva dove convenisse collocare le sue tende, lo fa strangolare. Il successore del visir fa la stessa domanda e gli tocca la stessa sorte. Un terzo, senza nulla domandare, fa sistemare le tende ai quattro punti dell’universo, e quando Selim chiede dove sia il campo, gli risponde il visir: «Dappertutto: i tuoi soldati ti seguiranno ovunque tu volgerai le armi». «Ecco, disse il terribile sultano, come si deve servirmi». È lui che conquistò l’Egitto e che, salito su un magnifico trono eretto in riva al Nilo, si fa condurre tutta la razza degli oppressori di quel bel paese, fa massacrare sotto i suoi occhi ventimila mamelucchi38 e gettarne i cadaveri nel fiume. Tutto ciò senza crudeltà personale, ma per quel sentimento di fatalismo che ha chi crede nella propria missione e, per compiacere la volontà di Dio, di cui si sente strumento, guarda il mondo come una sua conquista e gli uomini come polvere dei suoi piedi. Quella stessa mano, intrisa di sangue di tante migliaia di uomini, scriveva versi pieni di rassegnazione, di dolcezza e di filosofia. Esiste ancora il pezzo di marmo bianco su cui scrisse queste sentenze: «Tutto viene da Dio; a suo piacere egli ci dà o ci ricusa quel che gli domandiamo. Se qualcuno sulla terra potesse qualche cosa per se stesso, sarebbe eguale a Dio». E più sotto: «Selim, servitore dei poveri, ha composti e scritti questi versi». Conquistatore della Persia, muore comandando al suo visir dei pii rimborsi alle famiglie persiane rovinate dalla guerra. La sua tomba è collocata a fianco di quella di Maometto II con un orgoglioso epitaffio: «In questo giorno il sultano Selim è passato al regno eterno, lasciando l’impero del mondo a Solimano»39.

35 In francese «tartare», derivato dal latino tartarus, barbaro, termine usato per gli asiatici dagli scrittori sette-ottocenteschi in senso spregiativo. Tataro è la dizione esatta derivata da Tatarlar, nome di popolazioni mongoliche.

36 In francese «Bajazet». Bayezid II (1447-1512) fu sultano dal 1481.37 Selim I (1465-1520) costrinse il padre, Bayezid II, ad abdicare e nel 1512 salì al trono

ottomano dopo aver sterminato i fratelli e ogni possibile successore. 38 Erano gli schiavi al servizio dei califfi abbasidi impiegati nell’amministrazione e

nell’esercito.39 Solimano I (1494–1566), figlio di Selim I, fu sultano dal 1520 portando l’impero ottomano

al massimo fulgore, perciò fu detto “il Magnifico”.

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Da qui vedo brillare fra le cupole delle moschee la scintillante cupola della moschea di Solimano, una delle più belle di Costantinopoli. Egli aveva perduto il primogenito, Maometto, avuto dalla celebre Rosselana40, e questa moschea è una toccante testimonianza del dolore del sultano41. Per onorare la memoria del bambino, egli liberò una folla di schiavi dei due sessi, volendo così associare della simpatia al proprio dolore.

Ben presto i dintorni della moschea diventarono la scena di un terribile dramma. Solimano, eccitato contro Mustafa, un figlio avuto da un’altra donna, fa venire il mufti42, e gli domanda: «Quale pena merita Zair, schiavo di un mercante di questa città che gli ha affidato, causa un viaggio, la sua sposa, i suoi figli, i suoi tesori e Zair gli ha rovinato gli affari, ha tentato di sedurre la moglie e ha calunniato i bambini? Quale pena merita lo schiavo Zair?» «Lo schiavo Zair merita la morte, rispose il mufti, gloria a Dio!»

Solimano, armato di questa risposta, manda Mustafa nel suo campo. Egli arriva accompagnato da Zeangir, un figlio di Rosselana, il quale, anziche partecipare all’odio di sua madre, nutre per Mustafa, suo fratello, la più tenera amicizia. Giunto alla tenda di Solimano, Mustafa viene disarmato. Egli avanza da solo nel primo recinto, dove regnano un cupo silenzio e una totale solitudine. Quattro muti gli si slanciano contro e tentano di strangolarlo. Mustafa si difende ed è sul punto di scappare e chiamare in aiuto l’esercito che l’adora, quando Solimano stesso, che stava guardando la lotta dei muti contro suo figlio, alza un lembo della tenda e lancia loro un’occhiata furibonda. A questo punto i muti ripigliano vigore, e riescono a strozzare il giovane principe, il cui corpo viene esposto sopra un tappeto, davanti alla tenda del sultano. Zeangir muore di disperazione sul corpo del fratello, e l’esercito atterrito contempla l’implacabile vendetta di una donna, cui l’amore ha sottomesso lo sventurato Solimano. Mustafa aveva un figlio di dieci anni: l’ordine della sua morte è richiesto al sultano da Rosselana. Un messaggero segreto è incaricato di eludere la vigilanza della madre del fanciullo. Si immagina un pretesto per condurli in una casa di campagna poco lontano da Bursa. Il giovane sultano precedeva a cavallo la lettiga della principessa. La lettiga si spezza, il principe corre avanti, seguito dall’eunuco incaricato di ucciderlo. Appena entrato in casa, l’eunuco lo ferma sulla soglia e gli presenta il laccio: «Il sultano vuole che moriate all’istante», gli dice. «Quest’ordine mi è sacro come quello di Dio», risponde il fanciullo e presenta la testa al carnefice. La madre arriva e trova il corpo ancora palpitante di suo figlio sulla soglia. L’insensata passione di Solimano per Rosselana riempie il serraglio di molti delitti, mai visti tanti nella reggia di

40 Rosselana (vero nome: Khurrem; 1505-1558 ca.), di origine slava, era molto bella e diventò la favorita di Solimano, al quale dette tre figli (uno dei quali fu Selim II) e sul quale esercitò un grande influsso. È soggetto di numerose leggende.

41 Lamartine si riferisce non alla famosa moschea di Solimano (Süleymaniye Camii) ma alla moschea Şehzade (Şehzade Camii, “moschea del principe”), situata nel distretto di Fatih. Entrambe furono realizzate dall’architetto imperiale Sinān (1489-1588) di origine greca.

42 Esperto delle leggi musulmane.

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Argo43.Le Sette Torri mi ricordano la morte del primo sultano, immolato dai

giannizzeri44. Osman, da loro trascinato in questo castello, cade due giorni dopo sotto i colpi del visir Daud, il quale è in seguito condotto egli pure alle Sette Torri, e strappatogli il turbante, lo fanno bere alla stessa fontana dove si era dissetato Osman, e lo strangolano nella stessa camera in cui egli aveva strangolato il suo signore. Un aga45 dei giannizzeri, uno di quelli che avevano rivolto la mano su Osman, viene abbattuto. Finche non fu abolito quel corpo, quando un ufficiale chiamava il sessantacinquesimo aga, un altro ufficiale rispondeva: «Che la voce di questo aga perisca! Che la voce di questo aga si annienti per sempre!»

I giannizzeri, pentiti dell’assassinio di Osman, depongono Mustafa e vanno a cercare in ginocchio al serraglio un fanciullo di dodici anni per dargli l’impero. Vestito con un abito di tela d’argento e il turbante imperiale in capo, seduto su un trono portatile, il giovane viene alzato sulle spalle da quattro ufficiali dei giannizzeri che lo portano come imperatore in mezzo al suo popolo. Questi fu Amurat IV, degno del trono su cui, avanti negli anni, lo tolsero la ribellione e il pentimento46.

Qui finiscono i giorni di gloria dell’impero ottomano. La legge di Solimano, che ordinava che i figli del sultano restassero prigionieri nel serraglio fra gli eunuchi e le donne, snervò il sangue di Osman e gettò l’impero in preda agli intrighi degli eunuchi e delle rivolte dei giannizzeri. Di tanto in tanto spicca qualche bel carattere, ma è senza forza, perche abituato presto a essere senza volontà. Checche se ne dica in Europa, è evidente che l’impero è morto, e che un eroe non potrebbe che rendergli un’apparenza di vita.

Il serraglio, già abbandonato da Mahmud47, non è più che uno splendido sepolcro, ma la sua storia segreta quanto sarebbe drammatica e commovente se le mura potessero raccontarla!

Una delle più gravi e più dolci figure di questo misterioso dramma è quello dell’infelice Selim48, il quale, deposto e imprigionato nel serraglio per non aver voluto versare il sangue dei suoi nipoti, divenne istitutore dell’odierno sultano, Mahmud. Selim era filosofo e poeta: era stato re, e re

43 Probabile riferimento al mitico Byzas, re di Argo, fondatore di Bisanzio.44 Il complesso delle Sette Torri (o Yedikule) è una fortezza, più volte ricostruita, l’ultima

delle quali da Maometto II. In una torre era la prigione. Nel 1622, il sultano Osman II (anch’egli detto in francese «Othman») fu detronizzato e subì l’esecuzione capitale all’interno della fortezza a opera dei giannizzeri.

45 In francese «ada». Gli aga erano i capitani, o generali, dei giannizzeri, mentre Ada era un’antica provincia mongola tra il Mar Caspio e la Palude Meotide (Mar d’Avov).

46 Amurat o, meglio, Murad IV (1612-1640) fu sultano dell’impero ottomano dal 1623 al quale ridette splendore con energia e autorità. Sul letto di morte ordinò di uccidere il fratello Ibrahim I, ritenendolo incapace, ma l’ordine non fu eseguito e il governo di Ibrahim (dal 1640 al 1648) è ricordato come il peggiore di tutta la storia dell’impero.

47 Mahmud I (1696-1754), sultano dell’impero ottomano dal 1730.48 Selim III (1761-1808), figlio di Mustafa III, fu sultano dell’impero ottomano dal 1789 al

1807, quando una rivolta dei giannizzeri, che seguì la guerra franco-russa che indebolì gli ottomani, lo detronizzò. Gli successe Mustafa IV, che fu ucciso dal fratello Mahmud II (1785-1839), di cui Lamartine parla diffusamente più avanti.

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doveva diventare l’allievo. Durante questa lunga prigionia dei due principi, Mahmud, stizzito per la negligenza di uno schiavo, lo schiaffeggiò: «Ah, Mahmud, gli disse Selim, quando tu sarai passato per la fornace del mondo, non monterai sulle furie così. Quando avrai sofferto quanto me, compatirai le sofferenze altrui, anche quelli di uno schiavo».

La sorte di Selim fu infelice fino all’estremo. Mustafa Bayrakdar49, uno dei suoi fedeli pascià, armato per la causa di Selim, arriva fino a Costantinopoli, e si presenta alle porte del serraglio. Il sultano Mustafa s’addormenta fra le voluttà ed era proprio in quel momento in uno dei suoi chioschi sul Bosforo. I bostangi50 difendono le entrate e il sultano rientra nel serraglio. Mentre Bayrakdar sfondava con l’artiglieria la porta, domandando gli fosse reso il suo padrone Selim, quel principe sfortunato cade sotto il pugnale del kislar-aga51 e dei suoi eunuchi. Il sultano Mustafa fa gettare il cadavere di Selim davanti a Bayrakdar, che gli si precipita sopra e lo copre di lacrime e di baci. Si cerca Mahmud nascosto nel serraglio, temendo che Mustafa abbia ucciso anche l’ultima goccia del sangue di Osman, ma lo trovano infine rimpiattato sotto gli avvolgimenti del tappeto, in un buio cantone del serraglio. Mahmud crede che lo cerchino per sacrificarlo e invece viene posto sul trono, e Bayrakdar si prostra davanti a lui. Le teste dei partigiani di Mustafa sono esposte sulle mura; le sue donne sono cucite in sacchi di cuoio e gettate in mare. Tuttavia, pochi giorni dopo, Costantinopoli diventa un campo di battaglia. I giannizzeri si rivoltano contro Bayrakdar richiedendo per sultano Mustafa, che la clemenza di Mahmud aveva risparmiato. Il serraglio viene assediato e l’incendio divora mezza Stambul. Gli amici di Mahmud gli chiedono la morte di suo padre52 Mustafa, il solo che può salvare il sultano e loro: la sentenza gli resta sulle labbra mentre si copre il capo con uno scialle e si getta su un sofà. Profittano di questo silenzio per strangolare Mustafa. Così Mahmud, rimasto ultimo e unico erede di Osman, diventava inviolabile e sacro per qualunque fazione. Bayrakdar aveva trovato la morte nelle fiamme combattendo intorno al serraglio, e Mahmud cominciò il suo regno53.

La piazza dell’Atmeidan54, che da qui nereggia dietro le bianche mura del serraglio, testimonia il più grande atto del regno di quel principe: l’abolizione dei giannizzeri. Questa misura, che poteva solo ringiovanire e ravvivare l’impero, non produsse che una delle scene più sanguinose e

49 Mustafa Bayrakdar (1775-1808), figlio di un giannizzero, era comandante dell’esercito dal 1806.

50 Le guardie imperiali.51 Titolo dell’eunuco nero, che aveva la supervisione del palazzo del sultano.52 Fratello, non padre. Mustafa IV e Mahmud II erano fratellastri, entrambi figli del sultano

Abdul Hamid I (1774-1789) e cugini di Selim III.53 La morte di Mustafa Bayrakdar è di pochi mesi posteriore alla salita al trono di Mahmud

II. Infatti quest’ultimo lo nominò Gran visir e Bayrakdar, dopo aver fatto assassinare i nemici del sultano, cominciò un’opera di modernizzazione e occidentalizzazione dell’impero. Riformato l’esercito e la marina, stava per riordinare il corpo dei giannizzeri ma Mahmud, temendo un contraccolpo politico, lo fermò. L’arroganza di Bayrakdar provocò comunque un’insurrezione e Bayrakdar morì in un’esplosione.

54 O dell’Ippodromo.

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lugubri che un impero abbia nei suoi annali. Essa è scritta ancora su tutti i monumenti dell’Atmeidan in rovina e nelle tracce delle palle di cannone e degli incendi. Mahmud la preparò da fine politico e la eseguì da eroe. Un accidente determinò l’ultima rivolta.

Avendo un ufficiale egiziano colpito un soldato turco, i giannizzeri rovesciano le loro pentole in segno di sommossa55: il sultano, istruito e pronto a tutto, che stava coi suoi principali consiglieri in un giardino a Beşiktaş56, sul Bosforo, accorre al serraglio e impugna lo stendardo sacro di Maometto. Il mufti e gli ulema57, riuniti intorno allo stendardo, pronunciano l’abolizione dei giannizzeri. Le truppe regolari e i fedeli musulmani si armano e accorrono alla chiamata del sultano, il quale avanza a cavallo alla testa delle truppe del serraglio. I giannizzeri, riuniti sull’Atmeidan, lo rispettano ed egli attraversa più volte la loro calca ammutinata, rischiando mille morti, animato da quel coraggio soprannaturale che ispira una risoluzione decisiva: quel giorno doveva esser l’ultimo della sua vita o il primo della sua liberazione e potenza. I giannizzeri, sordi alla sua voce, si rifiutano di disubbidire ai loro aga; accorrono da tutti i punti della capitale in numero di quarantamila. Le truppe fedeli al sultano, i cannonieri e i bostangi occupano gli sbocchi delle vie vicine all’Ippodromo. Quando il sultano ordina il fuoco, i cannonieri esitano, ma un ufficiale risoluto, Kara-Djehennem58, corre a un cannone, spara una pistolettata sulla miccia e uccide, mitragliandoli, i primi gruppi di giannizzeri. Questi si ritirano; il cannone tira in ogni direzione; il fuoco divora le caserme; migliaia di persone prigioniere in tale angusto spazio periscono sotto le mura crollate, sotto la mitraglia e nelle fiamme: l’esecuzione comincia e non si arresta finche non rimane nemmeno un giannizzero. Centoventimila uomini, nella sola capitale, arruolati in quel corpo, restano preda del furore del popolo e del sultano. Le acque del Bosforo trascinano i loro cadaveri verso il mar di Marmara. I restanti vengono confinati in Asia Minore e muoiono per via: l’impero è liberato. Il sultano, più assoluto di qualunque altro principe, non ha più che degli schiavi obbedienti; può a suo piacere rigenerare l’impero, ma è troppo tardi: il suo genio non è pari all’altezza del suo coraggio. L’ora della rovina dell’impero ottomano è scoccata e assomiglia all’impero greco: Costantinopoli attende nuovi decreti del destino. Vedo da qui la flotta russa, come il campo ondeggiante di Maometto II, stringere ogni giorno di più la città e il porto; distinguo i fuochi dei bivacchi dei Calmucchi sulle colline asiatiche. I Greci ritornano sotto il nome e l’abito dei Russi e la Provvidenza sa il giorno in cui un ultimo assalto, dato da questi alle mura di Costantinopoli, che oggi forma tutto l’impero, coprirà di fuoco e fumo e di rovine questa fulgida città, che sotto i miei occhi dorme il suo ultimo sonno.

Il migliore panorama su Costantinopoli è dall’alto del belvedere costruito

55 “Rovesciar le pentole” è un modo di dire orientale per indicare l’inizio di una rivoluzione.56 In francese «Beschiktasch».57 Gli ulema sono i sapienti musulmani sui temi religiosi.58 Era il capo dell’artiglieria dell’impero ottomano. Il suo nome significa “Inferno nero”.

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dal signor Truqui sopra il tetto della sua casa, ove noi alberghiamo. Il belvedere si affaccia su tutte le colline di Pera, di Galata e sui versanti intorno al porto verso le Acque Dolci. È ciò che vede un’aquila volando sopra Costantinopoli e il suo mare; l’Europa, l’Asia, l’ingresso del Bosforo, il mar di Marmara si guardano in una sola volta; tutta la città è ai vostri piedi. Se si potesse guardare d’un colpo la terra, è da qua che bisognerebbe contemplarla. Ogni volta che la guardo, e lo faccio più volte al giorno e vi passo delle serate intere, non comprendo come mai nessuno dei tanti viaggiatori che hanno visitato Costantinopoli abbia sentito lo stesso bagliore che questa scena dà ai miei occhi e alla mia anima, come nessuno l’abbia descritta. Sarà che la parola non ha ne spazio, ne orizzonte, ne colori, e che il solo linguaggio dell’occhio è la pittura? Ma la stessa pittura non ha reso tutto ciò, solo linee morte, scene tronche, colori senza vita. Non le innumerevoli gradazione e varietà di queste tinte secondo il cielo e l’ora, non l’insieme armonioso e la colossale grandezza delle linee, non i movimenti, le fughe e gli slanci di così diversi orizzonti, non il movimento di queste vele sui tre mari, non il mormorio di vita di tali popolazioni sulle rive, non le cannonate che tuonano partendo dai vascelli, non i padiglioni che si mostrano e si nascondano tra i loro alberi, non la calca dei caicchi, non il riverbero vaporoso delle cupole, delle moschee, dei minareti nel mare: tutto questo dov’è? Proviamoci di nuovo.

Le colline di Galata, di Pera e tre o quattro altre declinano dai miei piedi al mare, coperte di città di differenti colori, le une hanno case dipinte di rosso sangue, le altre di nero con una folla di cupole azzurre che interrompono queste tinte scure; fra ogni cupola si slanciano alcune macchie verdeggianti formate dai platani, i fichi, i cipressi dei giardinetti contigui a ciascuna casa. Alcuni grandi spazi vuoti, tra le case, sono campi coltivati e giardini dove si vedono le donne turche coperte di veli neri che giocano con i loro bambini e le schiave. Stormi di colombi e di piccioni bianchi volano nell’aria blu sopra i giardini e sui tetti, e si distinguono, come fiori bianchi che ondeggiano al vento, dall’azzurro del mare che fa da sfondo. Si distinguono le vie che serpeggiano discendendo verso il mare, come burroni, e più in basso il movimento della gente nei bazar, ravvolta in un velo di fumo leggero e trasparente. Tali città o quartieri di città sono separati gli uni dagli altri da promontori di vegetali coronati di palazzi di legno dipinto e di chioschi di ogni colore, o da gole profonde dove lo sguardo si perde alla base delle colline ove si vedono soltanto la cima aguzza dei cipressi e gli splendenti minareti. Giunto al mare, l’occhio si perde sulla sua superficie blu in mezzo a un dedalo di bastimenti all’ancora o alla vela. I caicchi, come uccelli acquatici che nuotano in gruppo o da soli sul canale, si incrociano in tutti i sensi, andando dall’Europa all’Asia, o da Pera alla punta del serraglio. Alcune grandi navi da guerra passano a vele spiegate, giungendo dal Bosforo, salutando il serraglio con una bordata, il loro fumo li avvolge per un attimo come ali grigie, per poi uscirne con il bianco brillante delle loro tele, e doppiano, apparentemente toccandoli, gli alti cipressi e i possenti platani del grande giardino del sultano, per entrare

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nel mar di Marmara. All’ingresso del Bosforo stanno altre trenta o quaranta navi da guerra: è l’intera flotta del sultano, che con le sue masse immense getta ombra sulle acque verso terra; se ne vedono interamente solo cinque o sei, poiche la collina e gli alberi nascondano le altre, compresi gli alti fianchi, gli alberi e i pennoni, che sembrano intrecciati ai cipressi, formando un viale circolare che si perde verso il fondo del Bosforo. Là le montagne della costa opposta o della riva dell’Asia formano lo sfondo del quadro: esse si innalzano più alte e più verdi di quelle della riva europea, fitti boschi le coronano e scivolano nelle gole che le scavano. Sulle loro groppe, coltivate a giardini, ci sono chioschi solitari, gallerie, villaggi e piccole moschee, attorniati tutti da cortine di alberi ad alto fusto. Le loro anse sono piene di bastimenti, caicchi a remi, piccole barche a vela. La grande città di Scutari si estende ai loro piedi su un ampio slargo, dominata dalle loro cime ombreggianti e cinta di una nera foresta di cipressi. Un fila ininterrotta di barche cariche di soldati asiatici, di cavalli o di agricoltori greci, che portano i loro ortaggi a Costantinopoli, è stazionata tra Scutari e Galata e si apre ogni tanto per lasciare il passo a un’altra fila di navi più grandi che sboccano sul mar di Marmara.

Ritornando alla costa europea, ma dall’altro lato del canale del Corno d’oro, la prima cosa che l’occhio incontra, dopo il blu del bacino, è la punta del serraglio. È il sito più maestoso, più variato, magnifico e selvaggio insieme, che pittore possa cercare. La punta del serraglio avanza come un promontorio o come un mantello disteso fra i tre mari, di fronte all’Asia. Esso, partendo dalla porta del serraglio, sul mar di Marmara e terminando al gran chiosco del sultano, di faccia a Pera, può essere di tre quarti di lega di circonferenza: è un triangolo la cui base è il palazzo o lo stesso serraglio, la punta si tuffa nel mare e il suo lato dà sul più grande porto interno o canale di Costantinopoli. Dal punto dove mi trovo, lo si domina per intero. C’è una foresta di alberi giganteschi, i cui tronchi escono, come colonne, dalle mura e dalle terrazze del recinto ed estendono i loro rami sui chioschi, sulle batterie e sui vascelli in mare. Queste foreste, di un verde scuro e lucido, si alternano a prati verdi, aiuole, balaustrate, scale di marmo, cupole d’oro o di piombo, minareti anche più sottili gli alberi delle navi, alle grandi cupole dei palazzi, delle moschee e dei chioschi che circondano questi giardini: è una vista che può essere paragonata a quella offerta dalle terrazze, dai pendii e dal palazzo di Saint Cloud, quando li si guarda dalle rive opposte della Senna o dalle colline di Meudon, ma questi siti campestri sono circondati su tre lati dal mare, e dominati sul quarto lato dalle cupole delle numerose moschee e da un oceano di case e strade che costituiscono la vera Costantinopoli o città di Stambul. La moschea di Santa Sofia, il San Pietro della Roma d’Oriente, alza la sua cupola massiccia e gigantesca al di sopra e vicino alla cerchia delle mura perimetrali del serraglio. Santa Sofia è una collina informe di pietre accumulate e sormontate da una cupola che brilla al sole come un mare di piombo. Più lontano sorgono le moschee più

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moderne di Ahmed, di Bayezid, di Solimano59 che si slanciano nel cielo con i loro minareti intervallati da gallerie moresche e accompagnati da cipressi, il cui fusto è pari a quello dei minareti e il loro scuro fogliame fa da contrasto alla splendente luminosità degli edifici. In cima alla schiacciata collina di Stambul si aprono, fra le mura delle case e i corpi dei minareti, una o due colline antiche annerite dagli incendi e bronzee dal tempo: sono i resti dell’antica Bisanzio, in piedi sul luogo dell’Ippodromo o Atmeidan. Là sono anche i grandi profili dei numerosi palazzi del sultano o dei visir; il Divano, con la Porta che ha dato nome all’impero60, è in questo gruppo di edifici. Più in alto e ritagliata nell’azzurro del cielo, una splendida moschea corona la collina affacciandosi sui due mari: la sua cupola d’oro, colpita dai raggi del sole, sembra riverberare un incendio, e la trasparenza della sua volta e delle sue mura, sormontate da aeree gallerie, le dona l’apparenza di un monumento d’argento o di porcellana bluastra. L’orizzonte su questo lato finisce lì, e lo sguardo scende su altri due grandi colline, ricoperte, senza interruzione, di moschee, palazzi, case dipinte fino al porto, dove il mare diminuisce insensibilmente di larghezza e si perde alla vista sotto gli alberi nel vallone arcadico delle Acque Dolci d’Europa. Se l’occhio rimonta il canale, vaga sopra gli alberi raggruppati al bordo della Scala dei Morti dell’arsenale e sotto le foreste di cipressi che coprono i lati di Costantinopoli; si vede la Torre di Galata, costruita dai Genovesi61, uscire come il pennone di un naviglio, sopra un oceano di tetti di case, e biancheggiare fra Galata e Pera come un enorme piolo fra due città; poi l’occhio torna infine a riposarsi sul tranquillo bacino del Bosforo, incerto fra Europa e Asia. Questo è il materiale del quadro. Ma se aggiungete a questi principali tratti di cui si compone l’immensa cornice che lo circonda e lo stacca dal cielo e dal mare, le linee nere delle montagne d’Asia, i bassi e vaporosi orizzonti del golfo di Nicomedia62, le creste dell’Olimpo di Bursa che appaiono dietro il serraglio, al di là del mar di Marmara, e distendono le loro nevi come nuvole bianche nel firmamento; se voi aggiungete a questo insieme maestoso la grazia e il color indefinito degli innumerevoli particolari; se voi vi immaginate con il pensiero gli effetti variati del cielo, del vento, delle ore del giorno sul mare e sulla città; se voi osservate i vascelli mercantili staccarsi, come voli d’uccelli di mare, dalla cima delle

59 In francese: «d’Achmet, de Bajazet, de Soliman, de Sultanie». La moschea di Ahmed I (sultano dal 1603 al 1617) o di Sultanahmet (cioè Sultan Ahmet) è la Moschea Blu, costruita alla fine del Cinquecento. La moschea di Bayezid II (sultano dal 1481 al 1512) fu eretta nei primi anni del Cinquecento presso le rovine del Foro di Teodosio. La moschea di Solimano fu edificata sul sesto colle nel 1550-1557. Della moschea di «Sultaniè» non si hanno informazioni certe.

60 Il Divano (o Dīwān) era il consiglio supremo dell’impero. La “Porta” era l’accesso al palazzo del Gran visir, il luogo dove il sultano teneva la cerimonia di benvenuto per gli ambasciatori stranieri. Per estensione, con “la Porta” si prese a indicare, soprattutto in Occidente, l’intera città di Costantinopoli o anche l’impero ottomano.

61 Fu costruita nel 1348 da alcuni coloni della Repubblica di Genova come torre di una cinta di fortificazioni.

62 Oggi Izmit.

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nere foreste del serraglio, scendere in mezzo al canale e incunearsi lentamente nel Bosforo formando gruppi sempre nuovi; se i raggi del sole vanno a rasentare le vette degli alberi e dei minareti e a infuocare, come riverberi di un incendio, le rosse mura di Scutari e di Stambul; se il vento, che rinfresca o che rende il mar di Marmara piatto come un lago di piombo fuso, o increspa leggermente le acque del Bosforo, sembra stendere le maglie risplendenti di un’ampia rete d’argento; se il fumo dei battelli a vapore si alza e gira tra le grandi vele tremule dei vascelli o delle fregate del sultano; se la cannonata della preghiera rimbomba, dall’eco prolungata, dal ponte dei bastimenti della flotta fin sotto i cipressi del Campo dei Morti; se gli innumerevoli rumori delle sette città e delle migliaia d’edifizi si levano a sbuffi dalla città e dal mare e vi arrivano, portati dalla brezza, anche dove voi siete; se pensate che questo cielo è quasi sempre così profondo e puro, che questo mare e questi porti naturali sono sempre tranquilli e sicuri, che ogni casa di queste lunghe coste è un’ansa dove in ogni tempo la nave può ancorare sotto le finestre, dove si fabbricano e si varano vascelli a tre ponti sotto l’ombra stessa dei platani della riva; se vi ricordate di essere a Costantinopoli, in questa città regina dell’Europa e dell’Asia, nel punto preciso dove due parti del mondo vennero volta a volta o a combattersi o ad abbracciarsi; se la notte vi sorprende in questa contemplazione di cui l’occhio non è mai sazio; se i fari di Galata, del serraglio, di Scutari e le lampade delle alte poppe dei vascelli si accendono; se le stelle spiccano poco a poco, una alla volta o in gruppi dal blu del firmamento e avvolgono le nere cime della costa dell’Asia, le vette nevose dell’Olimpo, le isole dei Principi nel mar di Marmara, la fosca area del serraglio, le colline di Stambul e i tre mari, come di un velo blu tempestato di perle dove tutta questa natura sembra nuotare; se il chiarore più dolce del firmamento dove sorge la luna nascente lascia abbastanza luce per vedere le grandi masse del quadro ammorbidendo o cancellando dettagli: voi avete il più magnifico e il più delizioso spettacolo che occhio umano possa cogliere, è un’ebbrezza degli sguardi che si comunica al pensiero, è lo spettacolo di cui io godo tutti i giorni e tutte le notti da un mese.

L’ambasciatore di Francia mi aveva proposto di accompagnarlo nella visita che tutti gli ambasciatori arrivati di fresco hanno il diritto di fare a Santa Sofia, così mi trovai alle otto di stamane a una porta di Stambul che dà sul mare, dietro le mura del serraglio. Uno dei principali ufficiali di Sua Altezza ci aspettava sulla riva e ci condusse dapprima nella sua casa, dove aveva fatto apparecchiare la colazione. Molte erano le stanze elegantemente decorate, ma senza altri mobili oltre ai divani, addossati alle finestre che guardano sul mar di Marmara, e alle pipe. La colazione era disposta all’europea; solo i piatti erano nazionali, molti e studiati, ma tutti nuovi per noi. Dopo colazione, le nostre dame andarono a visitare le donne del colonnello turco, chiuse quel giorno in un appartamento inferiore, giacche l’harem, o appartamento delle donne, era quello dove eravamo stati ricevuti. Noi tutti ci eravamo muniti di babbucce di marocchino giallo da

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calzare nella moschea, altrimenti avremmo dovuto togliere gli stivali e camminare scalzi. Entrammo nell’anticorte della moschea di Santa Sofia, in mezzo a un drappello di guardie che allontanavano la folla accorsa a vederci. I volti degli osmanli sembravano preoccupati e infelici, perche gli zelanti musulmani considerano l’introduzione dei cristiani come una profanazione dei loro santuari. Dietro noi fu chiusa la porta della moschea.

La grande basilica di Santa Sofia, fabbricata da Costantino63, è uno dei più vasti edifici che il genio della religione cristiana ha fatto sorgere dalla terra, ma si percepisce, dalla barbarie dell’arte che presiedette a questa massa di pietra, che essa fu l’opera di un tempo di corruzione e decadenza. È la memoria confusa e grossolana di un gusto che non c’è più; è l’abbozzo informe di un’arte che si sperimenta. Il tempio è preceduto da un lungo e largo peristilio coperto e chiuso come quello di San Pietro a Roma. Colonne di granito di prodigiosa elevazione, ma incassate nelle muraglie, separano il vestibolo dall’atrio. Una gran porta apre sull’interno. Il recinto della chiesa è decorato sui lati da superbe colonne di porfido, di granito egiziano e di marmi preziosi, ma questa colonne di grossezza, proporzione e ordini diversi sono in tutta evidenza degli avanzi tolti da altri templi, e qui piazzati senza simmetria e senza gusto, come i barbari costruiscono una casupola con i ruderi di un palazzo. Giganteschi piloni murati grossolanamente, sorreggono un’alta cupola come quella di San Pietro e di effetto almeno altrettanto maestoso. La cupola, un tempo rivestita di mosaici su tutta la volta, fu intonacata quando Maometto II convertì Santa Sofia in moschea. Alcuni calcinacci ora sono caduti e lasciano intravedere l’antica decorazione cristiana. Delle gallerie circolari, addossate a vaste tribune, corrono attorno alla basilica là dove nasce la volta. Da quel punto l’aspetto dell’edificio è bello: vasto, oscuro, senza ornamenti, con le sue volte squarciate e le colonne imbrunite: assomiglia all’interno di un sepolcro colossale, le cui reliquie siano state disperse. Ispira sgomento, silenzio, meditazione sulla instabilità delle opere dell’uomo, il quale fabbrica per delle idee che crede eterne, e poi delle idee successive, con un libro o una sciabola in mano, vengono volta a volta ad abitare o demolire i monumenti. Allo stato attuale, Santa Sofia assomiglia a un gran caravanserraglio di Dio. Ecco le colonne del tempio di Efeso, ecco le immagini degli apostoli con le loro aureole d’oro sotto la volta che guardano le lampade sospese dell’imam64. Uscendo da Santa Sofia andammo a visitare le sette moschee principali di Costantinopoli: sono meno vaste, ma infinitamente più belle. Si capisce che il maomettismo aveva un’arte propria, conforme alla luminosa semplicità della sua idea, quando elevò questi templi semplici, regolari, splendidi senza

63 Le origini più antiche della basilica non sono note. Si suppone che fu eretta da Costantino il Grande e ricostruita dopo un crollo da Costanzo II, ma fu distrutta in un incendio. Nel 415 sorse al suo posto una chiesa voluta da Teodosio II, che bruciò durante la rivolta di Nika, scoppiata nel 532 contro l’imperatore Giustiniano I, il quale decise di ricostruirla più maestosa delle precedenti. Essa fu solennemente inaugurata il 27 dicembre 537: è questa la basilica sopravvissuta fino a noi.

64 In francese «iman».

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ombre per i suoi misteri, senza altari per le sue vittime. Queste moschee si somigliano una all’altra, eccetto che nell’ampiezza e nel colore; sono precedute da grandi corti cinte di chiostri, ove sono le scuole e gli alloggi degli imam. Superbi alberi ombreggiano le corti e numerose fontane diffondono il mormorio e la voluttuosa freschezza delle loro acque. Dei minareti di stupendo lavoro si rizzano come quattro aerei confini ai quattro angoli della moschea, sovrastando le cupole; piccole gallerie circolari, con un parapetto di pietra traforata come un pizzo circondano a diverse altezze il fusto leggero dei minareti: là si piazza, a diverse ore del giorno, il muezzin a gridare l’ora, e chiamare la città al pensiero costante del maomettano, il pensiero di Dio. Un portico aperto sui giardini e le corti, rialzato di alcuni gradini, conduce alla porta del tempio. Questo è un atrio quadrato o rotondo, sormontato da una cupola impostata su eleganti piloni, o belle colonne scanalate, a una delle quali è appoggiato un pulpito. Il fregio è formato da versetti del Corano, scritti sul muro in caratteri ornati, e i muri sono dipinti ad arabeschi. Da un pilastro all’altro traversano la moschea fili di ferro, che sostengono moltissime luci, uova di struzzo sospese65, mazzi di spighe o di fiori. Il pavimento è coperto di stuoie di giunco e di suntuosi tappeti. L’effetto è semplice e grandioso. Non è un tempio dove abita un Dio, è una casa di preghiera e di contemplazione, in cui gli uomini si raccolgono per adorare il Dio unico e universale. Quel che si chiama culto non esiste nella loro religione. Maometto predicò a barbare popolazioni, presso le quali i culti nascondevano il Dio. I riti sono semplici: una festa annuale, delle abluzioni e la preghiera alle cinque divisioni del giorno: è tutto. Non esistono altri dogmi se non la credenza in un Dio creatore e compensatore; le immagini sono abolite, per paura che non tentino la debole immaginazione umana e non convertano la memoria in colpevole adorazione; non ci sono sacerdoti, o almeno ogni fedele può adempiere le funzioni. Il corpo sacerdotale si formò solo più tardi e per corruzione. Ogni qualvolta entrai nelle moschee, trovai pochi turchi accosciati o seduti sui tappeti, pregando con tutti i segni esteriori del fervore e dell’intera estasi dello spirito.

Nella corte della moschea di Bayezid vedo la tomba vuota di Costantino: è un’urna di porfido di prodigiosa grandezza, capace di venti eroi, che è evidentemente dell’epoca greca, forse rubata anch’essa dai templi di Diana a Efeso. I secoli si imprestano i loro templi come le tombe, e se li restituiscono vuoti. Ove giacciono le ossa di Costantino? I Turchi hanno racchiuso il suo sepolcro in un chiosco e non lo lasciano profanare. Le tombe dei Sultani e delle loro famiglie sorgono nei giardini delle moschee da loro erette, sotto chioschi di marmo ombreggiati da alberi e profumati di fiori; zampilli d’acqua mormorano vicino o entro il chiosco e il culto della memoria è immortale tra i musulmani, giacche non sono mai passato davanti a

65 Considerato il germe della Creazione, l’uovo è simbolo di vita e di risurrezione in tutte le religioni. La scelta dello struzzo sembra derivi dal particolare odore emanato dalle uova che tiene lontano ragni e insetti, che in quelle regioni possono essere velenosi.

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queste tombe senza trovare mazzi di fiori freschi, deposti sulla porta o sulle finestre di questi numerosi monumenti.

Percorsi il canale del Bosforo da Costantinopoli all’imboccatura del mar Nero e voglio schizzare qualche tratto di questa natura incantata. Non credevo che il cielo, la terra, il mare, l’uomo potessero generare di concerto scene così incantevoli. Lo specchio trasparente del cielo o del mare può solo vederli e rifletterli per intero. La mia immaginazione li vede e li conserva così, ma la mia memoria non può che guardarli e tracciare pochi dettagli in successione. Si scrivono dunque veduta per veduta, capo per capo, ansa per ansa, colpo di remo per colpo di remo, ma ci vorrebbero degli anni a un pittore per rendere una sola delle rive del Bosforo. Che cosa si può dire in poche parole?

Condotto da quattro rematori arnauti66, in uno di quei lunghi caicchi che fendono il mare come pesci, m’imbarcai alle sette di mattina sotto un cielo puro e un fulgido sole. Un interprete, accucciato nella barca tra me e i rematori, mi indicava nomi e cose. Costeggiammo dapprima la riva, con la sua caserma di artiglieria, della città di Tophane che si eleva a gradoni di case, dipinte come mazzi di fiori, raggruppate intorno alla moschea di marmo e finisce sotto gli alti cipressi del gran Campo dei Morti di Pera che formano una cortina di legno scuro che sembra chiudere le colline di questa costa. Scivolammo traverso una folla di bastimenti all’ancora e di caicchi che riconducevano a Costantinopoli gli ufficiali del serraglio, i ministri e i loro kiaia67, e le famiglie di Armeni richiamati dall’ora al loro banchi. Questi Armeni sono una razza d’uomini superbi, nobilmente e semplicemente vestiti di un turbante nero e una lunga vesta blu annodata al corpo con uno scialle di cachemire bianco; la loro fisionomia è atletica, i tratti intelligenti ma comuni, la carnagione rubiconda, gli occhi cerulei, la barba bionda. Sono gli svizzeri dell’Oriente: laboriosi, pacifici, regolati come loro, ma come loro calcolatori e ingordi, offrendo la loro abilità nei traffici al sultano e ai Turchi; in loro non c’è eroismo o bellicosità, solo il genio del commercio che fanno sotto qualunque padrone. Sono i cristiani che più simpatizzano con i Turchi; essi prosperano ed accumulano le ricchezze trascurate dai Turchi e sfuggite ai Greci e agli Ebrei: qui tutto è in loro mani. Essi sono i dragomanni68 di tutti i pascià e i visir. Le loro donne, i cui lineamenti sono puri ma più delicati, ricordano la calma bellezza delle inglesi o delle montanare svizzere, innamorano a vederle, così come i fanciulli. I caicchi ne sono pieni, essi portano dalle case di campagna dei panieri di fiori disposti sulla prua.

Cominciammo ad aggirare la punta di Tophane e a scivolare all’ombra dei grossi vascelli da guerra della flotta ottomana, galleggianti sulla costa europea: sembra che queste enormi masse domano su un lago. I marinari, vestiti come soldati turchi, di rosso o di blu, stanno negligentemente

66 Erano cosiddetti gli albanesi al servizio degli ottomani.67 Luogotenenti.68 In origine erano gli intermediari tra Franchi e Musulmani.

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appoggiati alle sartie o nuotano intorno alla chiglia. Dei barconi carichi di soldati vanno e vengono dalla terra alle navi, ed eleganti scialuppe, guidate da venti rematori, passano come frecce accanto a noi. L’ammiraglio Tahir Pascià e i suoi ufficiali sono vestiti di una redingote bruna, coperti dai fez, grandi berretti di lana rossa, che calcano sulla fronte e sugli occhi, quasi vergognosi d’aver deposto il nobile e grazioso turbante. Questi uomini hanno l’aria malinconica e rassegnata, fumano lunghe pipe all’ombra. Laggiù c’è una trentina di bastimenti da guerra di bella costruzione e tutti paiono pronti ad alzare la vela, ma non ci sono ne ufficiali, ne marinai, e quella magnifica flotta è nulla più che una decorazione del Bosforo. Mentre il sultano la contempla dal suo chiosco di Beylerbeyi, situato dirimpetto, sulla costa d’Asia, le due o tre fregate d’Ibrahim Pascià69 possiedono in pace il Mediterraneo, e le barche di Samo padroneggiano l’arcipelago. A pochi passi da questi vascelli, sulla riva d’Europa dove mi trovo, scivolo sotto le finestre di uno lungo e magnifico palazzo del sultano, ora disabitato. Assomiglia a un palazzo di anfibi: le onde del Bosforo, per poco che si alzino per il vento, rasentano le finestre e gettano la schiuma negli appartamenti del piano terreno, si cammina con i piedi a mollo nell’acqua; delle porte con inferriate offrono l’ingresso al mare fino alle corti e ai giardini. Là sono le rimesse per i caicchi e i bagni per le sultane, che possono nuotare nel mare aprendo le persiane dei loro salotti. Dietro queste vie marittime, i giardini di arbusti, rose e gigli si elevano su gradoni successivi che reggono terrazze e chioschi dorati. I prati fioriti si perdono nel vasto bosco di querce, allori e platani, che copre i pendii e si alza seguendo le rocce fino in cima della collina. Gli appartamenti del sultano sono aperti e io vedo attraverso le finestre le sontuose modanature dorate dei soffitti, i lampadari di cristallo, i divani e i tendaggi di seta. Gli alloggi dell’harem sono chiusi da spessi reticolati di legno finemente intagliato. Subito dopo questo palazzo comincia una serie ininterrotta di palazzi, case e giardini dei principali favoriti o del pascià o dei ministri del Gran Signore70: tutti dormono verso il mare, come per respirarne la frescura. Le finestre sono aperte; i padroni sono seduti su divani, nelle vaste sale sfolgoranti di oro e di seta, fumano, discorrono, bevono sorbetti e ci guardano passare. Le loro camere si aprono sulle terrazze a gradoni, ridenti di pampini, arbusti e fiori. Numerosi schiavi, in ricchi costumi, stanno generalmente seduti sui gradini dello scalone bagnati dal mare; e i caicchi, con i rematori, sono ai piedi dello scalone, pronti a ricevere e portare i padroni alle loro dimore. Ovunque gli harem formano un’ala un po’ separata, da giardini o cortili, dagli appartamenti degli uomini e sono chiusi da reticolati. Riesco solo a scorgere talvolta la testa di un bel bambino quando egli si aggrappa alle aperture del reticolato, intrecciato con fiori rampicanti, per guardare il mare o il candido braccio di una donna

69 Ibrāhīm Pascià (1789-1848), generale egiziano, era figlio adottivo di Mehmet Ali (1769-1849) che governava l’Egitto.

70 Gran Signore, Gran Turco, Sultano dei Sultani, Sovrano della Casa di Osman, Khan dei Khan indicano tutti l’imperatore ottomano o sultano.

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quando apre o chiude una persiana.I palazzi e le case sono tutti di legno, ma lavorati molto riccamente con

cornicioni, gallerie, balaustrate innumerevoli, e tutti sono immersi nell’ombra di grandi alberi, piante rampicanti, boschetti di gelsomini e rose. Tutti sono bagnati dalla corrente del Bosforo e hanno cortili dove l’acqua del mare penetra e si reintegra, e dove si riparano i caicchi.

Il Bosforo è così profondo che voghiamo vicinissimi alla terra per inspirare il profumo dei fiori e far godere, a noi e ai rematori, l’ombra degli alberi. Le navi più grosse corrono anch’esse rasenti alla riva, tanto che spesso un pennone di un brick o di un vascello si impiglia fra i rami di una pianta o nei tralicci di una vite o anche nelle persiane di una finestra trascinando via rami o pezzi di case. Queste case sono separate le une dalle altre soltanto da gruppi d’alberi posti su alcuni corpi sporgenti o in qualche angolo roccioso coperto di muschio ed edera, che scendono dalle colline e si prolungano di qualche metro in mare. Di tanto in tanto, c’è un’ansa più profonda e più incavata tra due colline separate dal letto vuoto di un torrente o di un ruscello. Allora un villaggio si stende sulle piane rive di questi golfi, con le belle fontane moresche, la moschea dalla cupola d’oro o azzurra e il leggero minareto che confonde la sua cima con quella dei platani. Le casette dipinte si ergono ad anfiteatro sulle due coste e sul fondo, con le loro facciate e i loro chioschi di mille colori, mentre in cima alle colline stanno grandi ville fiancheggiate da giardini terrazzati e gruppi di abeti frondosi. A piedi di queste ville è una spiaggia o un argine di granito, largo solo pochi passi. Le spiagge sono piantumate a sicomori, vigne, gelsomini e formano dei pergolati fino al mare, dove i caicchi si riparano. Là sono all’ancora numerose imbarcazioni usate per il commercio internazionale e si trovano di fronte ai magazzini stessi dell’armatore, e spesso il ponte delle barche e le finestre della casa dell’armatore sono unite da un ponte. Una moltitudine di fanciulli e di venditori di legumi, datteri e frutta circola sugli argini: è il bazar del villaggio e del Bosforo. Dei marinai di ogni abito e lingua stanno raggruppati in mezzo agli osmanli, che fumano accosciati sui loro tappeti, presso la fontana, attorno ai platani. Alcune vedute dei villaggi di Lucerna o di Interlaken possono dare un’idea della grazia e del pittoresco che caratterizzano le baie del Bosforo. È impossibile non fermarsi a rimirare un momento questi porti, città, villaggi del primo tratto di costa europea, lungo circa due o tre leghe. Questi panorami si fanno più vari procedendo per il canale, dove il paesaggio assume un carattere più campestre per la maggior altezza delle colline e l’addensarsi delle foreste. Qui non parlo che della costa d’Europa, poiche dell’asiatica, molto più bella, ne parlerò al ritorno, ma non bisogna dimenticare, per farsene un’immagine esatta, che essa è solo a poche remate da me, che navigando si è spesso più vicini all’una o all’altra per tenersi in mezzo alla corrente dove il canale si restringe e si incurva, e che le stesse scene che dipingo in Europa deliziano lo sguardo ogni volta che si posa sulla costa asiatica. Ma, ritornando alla riva che sto descrivendo, segue un luogo dove il Bosforo s’incunea come un largo e rapido fiume tra due promontori rocciosi

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che scendono a picco dalle montagne da cui partono; il canale che si forma sembra chiuso ma poi d’un tratto, man mano che si avanza e voltando il capo europeo, si allarga in un lago che porta alle due città di Therapia e di Büyükada71. Sui due promontori rocciosi, ricoperti di alberi e fitti cespugli, sorgono delle fortificazioni in rovina e delle enormi torri bianche nel fine stile del Medioevo, quello dei famosi castelli d’Europa e dell’Asia, dove Maometto II assediò e minacciò per lungo tempo Costantinopoli prima di penetrarvi. Le fortificazioni si alzano, come due fantasmi bianchi, in mezzo al nero dei pini e dei cipressi, come per fermare l’accesso a chi proviene dai due mari. Le loro torri e torrette sospese sui vascelli a vele spiegate, i lunghi rami di edera pendenti, come mantelli di guerrieri, sui muri semidiroccati, le rocce grigie che li supportano, i cui angoli escono dalla foresta che le avviluppa, le grandi ombre che arrivano sull’acqua ne fanno uno dei punti più caratteristici del Bosforo. È là che il Bosforo perde il suo aspetto esclusivamente grazioso, per assumerne uno fra il grazioso e il sublime. Cimiteri turchi sono sparsi ai loro piedi e i turbanti scolpiti in marmo bianco emergono qua e là dai cespi di fogliame bagnati dai flutti. Felici i turchi! Essi riposano sempre nei siti da loro prediletti, all’ombra dell’arbusto che amavano, in riva alla corrente, il cui mormorio li deliziava, visitati dalle colombe che essi, da vivi, nutrivano, imbalsamati dai fiori da loro piantati! Se non possiedono la terra durante la vita, la possiedono dopo la morte, e non si abbandonano i resti di coloro che si sono amati in quelle strade dove l’orrore respinge il culto e la pietà dei ricordi.

Oltre i castelli, il Bosforo si allarga, le montagne dell’Europa e dell’Asia si alzano più aspre e deserte; solo le rive del mare sono disseminate qui e là di casette bianche e di piccole moschee rustiche posate su qualche rialto presso una fontana o sotto un platano. Il villaggio di Therapia, dove abitano gli ambasciatori di Francia e di Inghilterra, costeggia la riva un po’ più lontano; le alte foreste che lo dominano gettano la loro ombra sulle terrazze e i prati dei due palazzi; piccole valli serpeggianti fra le rocce segnano i limiti delle due potenze. Due fregate, inglese e francese, ancorate nel canale in faccia a ciascun palazzo, non aspettano che un cenno degli ambasciatori per portare alle flotte del Mediterraneo i messaggi di guerra o di pace. Büyükada, bella città in fondo al golfo formato dal Bosforo nel punto in cui si piega per perdersi nel mar Nero, si presenta come una cortina di palazzi e ville sulle pendici di due montagne scure. Una bella riva separa i giardini e le case dal mare. La flotta russa, composta di cinque vascelli, tre fregate e due battelli a vapore, sta innanzi alle terrazze del palazzo della Russia e forma una città sulle acque, di fronte alle deliziose ombre di Büyükada. Le barchette che trasportano gli ordini da un vascello all’altro; le imbarcazioni che vanno a recuperare l’acqua per le fontane o portano i malati sul lido; i panfili dei giovani ufficiali, che lottano come cavalli da corsa, le cui vele, curvate dal vento, si infradiciano nelle onde; i colpi di cannone che risuonano nelle profondità delle vallate asiatiche annunciando le nuove navi

71 In francese «Buyukdere».

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che sboccano dal mar Nero; un campo russo sistemato sui pendii bruciati della montagna dei Giganti72 di fronte alla flotta; i bei prati di Büyükada, sulla sinistra, con il meraviglioso gruppo di platani, di cui uno solo ombreggerebbe un intero reggimento; le magnifiche foreste dei palazzi di Russia e Austria, che dentellano la cima delle colline; una moltitudine di case eleganti e ornate di balconi che si affacciano sulle spiagge e le loro rose e i loro lillà scendono come festoni dai davanzali; gli armeni con i loro figli, che continuamente arrivano o partono sui loro caicchi ricolmi di rami e fiori; il braccio del Bosforo più scuro e più stretto che si comincia a scoprire, esteso verso l’orizzonte nebuloso del mar Nero; altre catene montuose, interamente sguarnite di villaggi e case, che si alzano fino alle nuvole con le loro nere foreste, come temibili confini, tra le burrasche del mare e la magnifica serenità dei mari di Costantinopoli; due castelli fortificati, uno di fronte all’altro, su ciascuna costa, che coronano con le loro batterie, le loro torri e le loro merlature le avanzate alture dei due scuri promontori; poi, infine, una doppia linea di rocce chiazzate di foreste che va a morire nelle acque blu del mar Nero: ecco il colpo d’occhio su Büyükada. Aggiungete il perpetuo passaggio di una fila di vascelli che vengono a Costantinopoli o escono dal canale, secondo che il vento soffi da nord o da sud; questi vascelli sono qualche volta così numerosi che un giorno, ritornando nel mio caicco, ne contai circa duecento in meno di un’ora. Essi navigano per gruppi, come gli uccelli che migrano per il clima; se il vento varia, corrono velocemente da una riva all’altra, virando sotto le finestre o gli alberi dell’Asia o dell’Europa; se la brezza rinfresca si ancorano in una delle innumerevoli insenature oppure alla punta del piccolo capo del Bosforo; si coprono di nuovo di vele un momento dopo. Ogni minuto, il paesaggio, vivificato e modificato da questi gruppi di bastimenti alla vela o all’ancora e per le diverse posizioni che essi assumono lungo la terra, cambia d’aspetto e fa del Bosforo un caleidoscopio meraviglioso.

Arrivato a Büyükada, presi albergo in una bella casa sulla riva, offertaci questa pure dal signor Truqui, dove passeremo d’estate.

STESSA DATA

Sembra che, dopo la descrizione di questo tratto del Bosforo, la natura non possa più superarsi e che nessun paesaggio possa sorpassare quello di cui i miei occhi si sono riempiti. Ma tornando questa sera a Costantinopoli lungo la costa dell’Asia, ho trovata quest’ultima mille volte più bella della costa europea. La costa d’Asia quasi nulla deve all’uomo, è tutta opera della natura. Non ci sono ne Büyükada, ne Therapia, ne palazzi di ambasciatori, ne ville di armeni e di franchi; non ci sono che montagne separate da gole e

72 In francese “la montagne du Geant”. Sono così denominati diversi massicci in Europa e in Asia (nella Turchia asiatica corrispondono alla catena montuosa del Tauro), caratterizzati tutti dall’altezza e dalle forti pendenze. Un’antica leggenda che le accomuna racconta che furono plasmate dai Titani agli albori del mondo.

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piccoli valloni tappezzati di prati che crescono alla base delle rocce, ruscelli serpeggianti, spumosi torrenti, foreste sospese sui pendii che scendono fino ai numerosi golfi della costa: una varietà di forme, di tinte, di fogliame e di vegetazione che il pennello di un pittore di paesaggi non potrebbe neppure inventare. Ci sono alcune casette isolate di barcaioli o di giardinieri turchi sparpagliate sulle spiagge, o poste sul colmo d’una collina selvosa, o raggruppate sul pendio delle rupi dove la corrente si frange in onde blu come il cielo della notte; alcune vele bianche di pescatori che entrano nelle profonde insenature e che si vedono scivolare da un platano all’altro, come una tela asciutta che le lavandaie ripiegano; innumerevoli stormi di uccelli bianchi, che stanno asciugandosi sul lembo dei prati; delle aquile che dall’alto delle montagne planano sul mare; baie misteriose interamente racchiuse da massi e tronchi d’albero giganteschi, i cui rami carichi di nuvole di foglie si incurvano sulle onde e formano dei pergolati sul mare dove i caicchi si riparano. Uno o due villaggi nascosti nell’ombra di queste baie, con i giardini sugli spazi verdi retrostanti e gruppi di alberi ai piedi delle rocce, con le loro barche che dondolano sulle dolci onde presso la loro porta, con nugoli di colombi sul loro tetto, le donne e i bambini alle finestre, i vecchi seduti sotto il platano alla base del minareto, i lavoratori che tornano dai campi nei loro caicchi, altri che riempiono le barche di fasci verdi di mirto o di erica in fiore per farli seccare e bruciare durante l’inverno… Nascosti, i caicchi, dietro i mucchi di vegetazione rampicante, che debordano e s’inzuppano nell’acqua, non si vede ne la barca ne il rematore, e si crede di vedere un brandello di spiaggia che la corrente ha separato dalla terra e che galleggiando a caso nel mare, con il suo fogliame verde e i suoi fiori ancora profumati. La sponda offre questo panorama fino al castello di Maometto II, il quale, anche su questo lato, sembra chiudere il Bosforo come un lago svizzero. Poi la natura cambia aspetto: i crinali delle colline diventano meno aspri e le loro strette valli si fanno più dolci; i villaggi asiatici si stendono più ricchi e affollati; le Acque Dolci d’Asia, come chiamano una piccola e affascinante valle ombreggiata da alberi e cosparsa di chioschi e fontane moresche, appaiono alla vista; un gran numero di vetture di Costantinopoli, specie di gabbie di legno dorato sopra quattro ruote trascinate da due buoi, sono sparse sui prati dove escono le donne turche velate, che a gruppi siedono sotto gli alberi o in riva al mare con i figli e le schiave nere; più lontano siedono drappelli di uomini fumando la pipa o bevendo caffè. La varietà di colori dei vestiti degli uomini e dei fanciulli e il colore bruno dell’uniforme velo delle donne formano sotto questi alberi il mosaico più bizzarro di tinte che incanti l’occhio. I buoi e i bufali da stalla ruminano nelle praterie; cavalli arabi bardati in seta e oro scalpitano vicino ai caicchi, che approdano in folla pieni di armene e di ebree che senza velo si siedono sull’erba alla sponda del ruscello, formando una catena di donne e fanciulle in abiti e atteggiamenti diversi, alcune di rara bellezza, rilevata anche dalla varietà delle acconciature e dei vestiti. Là vidi spesso un gran numero di donne turche degli harem senza velo: sono quasi tutte di statura piccola, molto pallide, con occhi tristi e aspetto gracile e malaticcio.

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In generale, il clima di Costantinopoli, malgrado tutte le condizioni di apparente salubrità, mi pare malsano, ne le donne meritano quel vanto di bellezza che godono, solo le armene e alle giudee mi sono apparse belle. Ma quanta differenza ancora tra queste e le arabe, e più ancora all’indescrivibile fascino delle greche di Siria e dell’Asia Minore! Un po’ più in là, in riva al Bosforo, si eleva il magnifico palazzo nuovo, abitato ora dal Gran Signore. Beylerbeyi è un edificio di gusto italiano, mescolato a reminiscenze indiane e moresche: un immenso aggregato di case a più piani, con ali e giardini interni, grandi platee di rose innaffiate da getti d’acqua si stendono dietro ai fabbricati, fra la montagna e il palazzo, una stretta lastricata di granito separa le finestre dal mare. Passai lentamente sotto il palazzo, dove sotto il marmo e l’oro vegliano tante cure e tanti sgomenti, e scorsi il Gran Signore seduto su un divano in un chiosco sul mare: Ahmet Pascià, uno dei giovani suoi favoriti, gli stava in piedi di fianco. Il sultano, visto il nostro abito europeo, ci additò ad Ahmet Pascià come per domandargli chi fossimo. Io salutai all’orientale il padrone dell’Asia e lui mi rese graziosamente il saluto. Tutte le persiane erano aperte, lasciando intravedere le sontuose decorazioni di questo magnifico e delizioso palazzo. L’ala abitata dalle donne, ossia l’harem, era chiusa: essa è immensa, ma io ignoro il numero di donne che vi abitano. Alla porta del palazzo sul mare stavano due caicchi, con ventiquattro rematori ciascuno, dorati e degni del più squisito gusto europeo e della magnificenza orientale. La prua di uno di essi, che sporge almeno venticinque piedi, era formata da un cigno d’oro con le ali spiegate, che sembrava strascinare la barca d’oro sulle onde; un padiglione di seta retto da colonne d’oro formava la poppa, e ricchi scialli di cachemire componevano il sedile per il sultano. La prua dell’altro caicco era una freccia d’oro impennata, che pareva volesse scoccare dall’arco sul mare. Mi fermai per molto tempo, fuori della vista del sultano, a contemplare i giardini e il palazzo: ogni cosa pare disposta con perfetto gusto. Non conosco reggia in Europa che offra tanta magnificenza e incanto, tutto sembra uscito dalle mani di un artista per purezza e splendore. I tetti dei palazzi sono coperti di balaustrate dorate e i comignoli, che in Europa deturpano le linee di tutti gli edifici pubblici, sono colonne dorate e scanalate, i cui eleganti capitelli aggiungono decorazione a questa dimora. Mi piace questo principe, che ha passato l’infanzia nell’oscurità delle prigioni del serraglio dove fu minacciato ogni giorno di morte, educato nella sventura dal saggio e sfortunato Selim e buttato sul trono dopo la morte di suo fratello, che ha covato per quindici anni nel silenzio il pensiero di affrancare l’impero e di restaurare l’islamismo distruggendo i giannizzeri, eseguendo ciò con l’eroismo e la calma della fatalità, sfidando continuamente il suo popolo per rigenerarlo; ardito e impassibile nel pericolo; dolce e misericordioso quando può consultare il suo cuore, ma senza appoggio intorno a se, senza strumenti per eseguire il bene che medita; mal conosciuto dal suo popolo, tradito dal pascià, rovinato dai vicini, abbandonato dalla fortuna, senza la quale l’uomo non può nulla; che assiste in piedi alla rovina del proprio trono e imperio; che si abbandona infine a se stesso; che si affretta a usare nelle voluttà del Bosforo la sua

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porzione d’esistenza e l’ombra della sua sovranità. Uomo di buoni desideri e dritta volontà, ma uomo di genio insufficiente e di troppo fievole volontà, simile in questo a quell’ultimo fra gli imperatori greci di cui egli occupa il seggio e di cui pare che rappresenti il destino; degno di un altro popolo e di un miglior tempo, e capace almeno di morire da eroe. Una giorno fu un grande uomo. La storia non ha pagine da comparare a quella della distruzione dei giannizzeri: è la rivoluzione più fortemente meditata ed eroicamente compiuta, di cui io conosca esempio. Mahmud firmò questa pagina, ma perche essa è unica? Il più difficile era fatto, i tiranni dell’impero abbattuto, non ci voleva che volontà e progresso per vivificare l’impero civilizzandolo, ma Mahmud s’è fermato. Sarà che il genio è più raro ancora dell’eroismo?

Dopo il palazzo di Beylerbeyi, la costa dell’Asia torna boscosa e solitaria fino a Scutari, che brilla, come un giardino di rose, all’estremità di un capo, all’entrata del mar di Marmara. Dirimpetto, si presenta la punta verdeggiante del serraglio, e fra la costa d’Europa, coronata dalle tre sue città dipinte, e la costa di Stambul, sfolgorante di cupole e minareti, si apre l’immenso porto di Costantinopoli, dove le navi, ancorate sulle due rive, non lasciano che un largo passaggio ai caicchi. Io scivolo, attraverso questo labirinto di edifici, come la gondola veneziana sotto l’ombra dei palazzi, e sbarco presso la Scala dei Morti, sotto un viale di cipressi.

29 MAGGIO

Stamattina un giovane costantinopolitano mi portò al mercato degli schiavi.

Traversate le lunghe strade di Stambul, costeggiamo le mura del vecchio serraglio, e passato per numerosi magnifici bazar ingombri di immensa folla di compratori e mercanti, siamo saliti, per strette vie, fino a una piazza fangosa sulla quale si apre la porta di un altro bazar. Grazie all’abito turco che portavamo e il parlare della mia guida, ci hanno lasciato entrare nel mercato di uomini. Quanto c’è stato bisogno di tempo e di successive rivelazioni alla ragione dell’uomo prima che la forza cessasse di essere un diritto ai suoi occhi e la schiavitù diventasse un delitto e una bestemmia al suo intelletto! Quale progresso! e quanti non ne promette! Quante cose, di cui ora non siamo scandalizzati e che saranno imperdonabili delitti agli occhi dei nostri discendenti! A ciò pensavo entrando nel bazar, ove si vende la vita, l’anima, il corpo, la libertà altrui, al modo che noi vendiamo il bue o il cavallo, e dove si crede di essere legittimi proprietari di ciò che così è stato comprato! Quante legittimità di questa natura, di cui non ci rendiamo conto! Eppure son tali, perche non si può domandare all’uomo più di quello che egli sa. Le sue convinzioni sono sue verità, non ne possiede altre. Dio solo le ha tutte per se, e a noi le distribuisce a misura delle nostre intelligenze progressive.

Il mercato degli schiavi è un ampio cortile scoperchiato e attorniato da un portico sormontato da un tetto. Sotto questo portico, circondato verso corte

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da un muro alto fino al petto, si aprono delle porte che danno nelle camere dove i mercanti tengono gli schiavi, e che restano aperte affinche i clienti possano vedere, passeggiando, gli schiavi. Uomini e donne, che non portano il velo, sono tenuti in stanze separate. Oltre agli schiavi chiusi in queste basse camere, ce ne sono molti gruppi nella galleria, sotto il portico e nella corte. Abbiamo cominciato ad aggirarci tra questi ultimi. Il gruppo più notevole era formato da dodici o quindici fanciulle abissine, addossate una all’altra come antiche cariatidi che sorreggono sulle teste un vaso; esse formavano un circolo con i volti rivolti agli spettatori. Quei visi erano in generale di gran bellezza: occhi a mandorla, naso aquilino, labbra sottili, contorno ovale e delicato delle guance, lunghi capelli neri e lucenti come ali di corvo. L’espressione triste, meditabonda e languida della fisionomia rende le abissine, nonostante il color rame, una delle razze femminili più ammirevoli; alte ed esili di taglia, come i fusti delle palme del loro bel paese, e atteggiano graziosamente le braccia. Queste fanciulle non avevano per vestito che una lunga camicia di tela grossolana e giallognola e portavano alle gambe cerchietti di perle di vetro azzurro. Accosciate sui talloni, immobili, con la testa appoggiata al dorso delle mani o sulle ginocchia, ci guardavano con occhi molto dolci e tristi, come quelli della capra o dell’agnello che la paesana trascina per la corda e mercanteggia alle fiere dei nostri villaggi. Talvolta si dicevano una parola e sorridevano. Una recava un bambino tra le braccia e piangeva perche il mercante voleva venderlo senza di lei a un rivenditore di ragazzi. Poco lontano da quel gruppo, c’erano sette od otto negri, fra gli otto e i dodici anni, vestiti benino e apparentemente robusti e in salute, che si trastullavano con un gioco d’Oriente a sassolini, che si combinano in differenti modi entro piccole buche scavate nella sabbia73; intanto che i mercanti e rivenditori giravano intorno ai ragazzi, prendendo ora l’uno ora l’altro per il braccio, esaminandolo con attenzione da capo a piedi, palpandolo, facendogli mostrare i denti, per conoscerne l’età e la salute; dopo di che il ragazzo, distratto un momento dai suoi giochi, si affrettava a tornarvi. Passai quindi sotto i portici coperti, affollati di schiavi e compratori. I turchi che fanno questo commercio, superbamente vestiti di pellicce imbottite, con una lunga pipa in mano, passeggiavano fra i gruppi, con un viso inquieto e preoccupato, spiando con occhio geloso il minimo sguardo gettato all’interno dei loro magazzini di uomini e donne, ma credendoci arabi o egiziani non osarono interderci l’ingresso alle camere. Venditori ambulanti di dolcetti e frutta secca percorrevano la galleria, vendendo agli schiavi qualche mangereccia. Io feci scivolare molte piastre nella mano di uno di quei venditori, affinche distribuisse il suo cesto a uno stuolo di fanciulli negri, che se lo divorarono.

Distinsi una povera negra di diciotto o vent’anni, notevolmente bella, ma d’una bellezza dura e scontenta. Sedeva sopra un banco della galleria, col viso scoperto e riccamente vestita, fra una dozzina di altre negre cenciose,

73 È il mancala.

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esposte in vendita a poco prezzo, e reggeva sulle ginocchia un bellissimo bambino di tre o quattro anni, magnificamente vestito anch’esso. Questo fanciullo, mulatto, aveva i lineamenti più nobili, la bocca più graziosa, gli occhi più intelligenti e fieri che sia possibile immaginare. Giocai con lui e gli diedi dei dolcetti e dei confetti, ma sua madre, strappadoglieli di mano, li buttò stizzosamente per terra. Ella teneva il viso abbassato e piangeva; io credetti che fosse per paura di essere venduta separatamente dal figlio, e, toccato della sua sventura, pregai il signor Morlach, la mia guida, di comprarla col bambino per mio conto: non avrei separato mai madre e figlio. Ci rivolgemmo al sensale che conosceva Morlach e che cominciò a trattare con il proprietario della bella schiava e del bambino. In un primo momento, il proprietario sembrava deciso a venderli e la donna si mise a piangere più forte stringendosi al collo il figlio. Ma la trattativa, quando sembrò andare in porto nonostante l’alto prezzo richiesto, non era che una finzione e il mercante ci confessò che la donna era la schiava di un ricco turco, di cui il bambino era figlio, ma essendo lei di carattere troppo fiero e indomabile all’interno dell’harem, era stata portata al bazar, con l’ordine segreto di non venderla, per correggerla e umiliarla. Quando un turco non è contento, la minaccia più comune, spesso attuata, è di mandare la donna al bazar. Seguitammo poi per un gran numero di camere, ciascuna con quattro o cinque donne quasi tutte nere e brutte, ma in apparenza sane: la maggioranza sembrava indifferente alla propria situazione, anzi esse sollecitavano i compratori, conversavano e ridevano fra loro, criticavano coloro che le mercanteggiavano. Una o due piangevano, si nascondevano in un cantone e a gran malincuore ritornavano a mettersi in vista o a sedersi insieme alle altre. Ne vedemmo condurre via molte, che se ne andavano contente con il turco compratore, prendendo il loro piccolo fagotto e coprendosi il viso con i veli bianchi. Fummo testimoni di due o tre atti di misericordia, che la carità cristiana invidierebbe a quella dei buoni musulmani. Alcuni turchi comprarono delle vecchie schiave ributtate dalla casa dei padroni per l’età e le malattie. Domandammo: a che mai potevano essere utili quelle povere donne? Per piacere a Dio, ci rispose il sensale, e la guida Morlach mi spiegò che molti musulmani mandavano a comprare al mercato dei poveri schiavi infermi da nutrire per carità nelle loro case. Lo spirito di Dio non abbandona mai gli uomini.

Le ultime camere che visitammo erano socchiuse, e battibeccammo un po’ per poter entrare. In ciascuna non c’era che una schiava, custodita da una donna: erano giovani e belle circasse appena arrivate dal loro paese. Vestivano di bianco e possedevano un’eleganza e una civetteria notevole. I loro bei lineamenti non mostravano ne dispiacere ne meraviglia, ma una sdegnosa indifferenza. Queste belle schiave bianche della Georgia e della Circassia74 sono diventate estremamente rare dopo che le greche non popolano più i serragli e la Russia ne ha interdetto il commercio. Tuttavia le famiglie georgiane allevano sempre le loro figlie per questo vergognoso

74 Regione storica del Caucaso.

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mercato, le quali sono condotte via di contrabbando dai sensali. Ognuna di queste belle creature vale fino a dodici o ventimila piastre (da tre a cinquemila franchi), mentre le negre di bellezza ordinaria non si vendono che a cinque o seicento franchi, e le più belle da mille a milleduecento, ma in Arabia e in Siria se ne potrebbero avere per cinque o seicento piastre, vale a dire da centocinquanta a duecento franchi. Una fra quelle georgiane era di una bellezza perfetta: lineamenti delicati e sensibili, occhi dolci e pensosi, pelle di bianchezza e splendore meravigliosi. Ma la fisionomia delle donne di quel paese è lontana assai dall’incanto e dalla purezza delle arabe: si sente il settentrione nelle loro figure. Ella fu venduta, sotto i nostri occhi, per l’harem di un giovane pascià di Costantinopoli. Uscimmo col cuore straziato e gli occhi umidi da questa scena, che si rinnova ogni giorno e a ogni ora nelle città d’Oriente, e tornammo meditabondi al bazar di Stambul. Ecco che cosa sono le legislazioni immobili! Esse consacrano le barbarie dei secoli, e danno diritto di legittimità e di antichità a qualunque delitto. I fanatici del passato sono colpevoli e funesti all’umanità non meno che i fanatici dell’avvenire. Quelli immolano gli uomini alla loro ignoranza e ai loro ricordi, questi alle speranze e alla precipitazione. Se l’uomo facesse, pensasse, credesse ciò che facevano, pensavano, credevano i suoi padri, il genere umano sarebbe ancora nel feticismo e nella schiavitù. La ragione è il sole dell’umanità; è l’infallibile e perpetua rivelazione delle leggi divine applicabili alle società. Per seguirla conviene camminare, sotto pena di restare nel male e nelle tenebre, ma non conviene precorrerla, sotto pena di cadere nei precipizi. Comprendere il passato senza rimpiangerlo, tollerare il presente migliorandolo, sperare l’avvenire preparandolo, questa è la legge degli uomini saggi e delle istituzioni benefiche. Il peccato contro lo Spirito Santo è questa lotta di certuni contro il miglioramento delle cose, e l’egoistico e stupido sforzo per ritenere indietro il mondo morale e sociale, che Dio e la natura spingono continuamente innanzi. Il passato è il sepolcro dell’umanità trascorsa; bisogna rispettarlo, ma non chiudersi in esso e volervi vivere.

I grandi bazar di differenti merci, e principalmente quello delle droghe, sono lunghe ed ampie gallerie a volta, con marciapiedi e botteghe piene di ogni sorta di oggetti: armi, finimenti per cavalli, bigiotteria, commestibili, pellami, scialli delle Indie e della Persia, stoffe dell’Europa, tappeti di Damasco e di Caramania75, essenze e profumi di Costantinopoli, narghilè e pipe di ogni forma e magnificenza, ambra e coralli lavorati alla maniera orientale per fumare il tumbach76, banchi di tabacco sminuzzato o piegato come fogli di carta gialla, negozi di dolci appetitosi per forma e varietà; bei magazzini di confetturieri con un’incredibile varietà di confetti, frutta candita e zuccherini di ogni genere, drogherie da dove esala un profumo che impregna tutti i bazar, mantelli arabi tessuti d’oro e di pelo di capra, veli di donna ricamati con lustrini d’argento e d’oro: in mezzo a tutto ciò una folla

75 Provincia interna della Turchia asiatica.76 Foglie di arnica essiccate.

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immensa, che si rinnova senza sosta, di turchi a piedi, con la pipa in bocca o in mano seguiti da schiavi, di donne velate accompagnate da negre con dei bei piccini al collo, di pascià a cavallo che a piccolo passo traversano la folla accalcata e silenziosa, di carrozze turche, chiuse con graticci dorati e condotte al passo da cocchieri dalla lunga barba bianca, ricolme di donne, che di tanto in tanto si fermano per comperare alle botteghe de merciai: così si mostrano tutti questi bazar. Allineati in fila coprirebbero molte leghe di lunghezza e, poiche attraversandoli bisogna continuamente spingersi e i giudei vi si recano a vendere le vesti degli appestati, sono il veicolo più efficace del contagio. La peste è scoppiata in questi giorni a Pera con cinque o sei morti, per cui attraversammo con inquietudine questa folla, che domani può decimarsi.

18 GIUGNO

Giorni passati nella nostra solitudine di Büyükada, avendo sotto gli occhi il Bosforo e il mar Nero; studio, letture. Alla sera corse in caicco a Costantinopoli, a Belgrado e nelle incomparabili sue foreste, alla costa d’Asia, all’imboccatura dell’Eusino77, alla valle delle rose, situata dietro le montagne di Büyükada. Torno sovente in questa deliziosa valle irrigata da una fonte, dove i turchi vengono a inebriarsi d’acqua, di fresco, del profumo delle rose, e dei canti del bulbul o usignolo. Sulla fontana sorgono cinque alberi immensi, alla cui ombra è un caffè fatto di frasche; al di là la valle, stringendosi, conduce a un pendio dove due laghetti artificiali, creati con l’acqua che esce dalla fontana, dormono sotto le ampie volte dei platani. La sera gli armeni vi siedono con le loro famiglie e cenano. Gruppi deliziosi stanno intorno ai tronchi con le ragazze che danzano insieme: sono i piaceri decenti e silenziosi degli orientali. Si vede che l’intimo pensiero gode in se stesso: essi sentono la natura meglio di noi. In nessun altro luogo l’albero e la fonte hanno adoratori più sinceri, e c’è simpatia profonda tra le loro anime e le bellezze della terra, del mare e del cielo. Quando torno la sera da Costantinopoli in caicco e costeggio la riva d’Europa, al chiaro di luna, c’è una catena, lunga una lega, di donne, ragazze e bambini seduti silenziosi in gruppi sull’orlo della lastricata di granito, o sui parapetti dei giardini, passando ore deliziose a contemplare il mare, i boschi, la luna, e a respirare la calma notturna. Il nostro popolo non sente più nulla di queste naturali voluttà, esso ha logorato le sue sensazioni, perciò ha bisogno di piaceri fittizi e solo il vizio lo può commuovere. Per esso, la natura parla in modo troppo alto per essere compresa e adorata se non dai visionari e dai poeti. Miserabili ai quali la voce di Dio nelle sue opere, la natura, l’amore, la contemplazione silenziosa sono sufficienti.

A Büyükada e a Therapia trovo molte persone di mia conoscenza fra i russi e i diplomatici: il conte Orlov; il signor Butenev, ambasciatore della Russia a Costantinopoli e uomo di fascino e morale, filosofo e uomo di

77 Ponto Eusino era l’antico nome greco al Mar Nero.

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stato; il barone Stürmer, internunzio d’Austria, che mi ricolma di bontà78. Sono questi i nuovi politici europei. Ora il punto importante sta qui: i Russi accampati in Asia ed ancorati sotto le nostre finestre, si ritireranno? Io non ne dubito. Non si ha fretta di pigliare una preda che non può sfuggire. Il conte Orlov mi fece leggere ieri una missiva dell’imperatore Nicola, il cui senso era: «Mio caro Orlov, quando la Provvidenza collocò un uomo a capo di quaranta milioni di uomini, lo fece perche egli desse, dal più alto luogo al mondo, esempio della probità e della fedeltà alla sua parola. Quest’uomo sono io. Voglio essere degno della missione ricevuta da Dio. Appena spianate le difficoltà tra Ibrahim e il Gran Signore, non attendete un giorno, riconducetemi la mia flotta e il mio esercito»79.

Ecco un linguaggio nobile davvero, una situazione ben afferrata, una generosità feconda. Costantinopoli non può scappare e la necessità vi ricondurrà i Russi, che la probità politica ne allontana un momento.

20 GIUGNO

Qui conobbi un uomo amabile e distinto, uno di quelli più forti della loro sventura e che sfruttano l’onda, destinata ad affogarli, per tornare a riva: il signor Calosso, un ufficiale piemontese. Compromesso come tanti altri suoi compagni, nella velleità della rivoluzione militare del Piemonte nel 1820, proscritto come altri, senza asilo ne simpatie in altro luogo, venne in Turchia. Si presentò al sultano per formare la cavalleria, gli entrò in gran favore diventandone l’ispiratore militare. Probo, abile e riservato, egli seppe amministrare tale favore che poteva essergli pericoloso ed esporlo troppo all’invidia, e la sua modestia e cordialità piacquero ai pascià della Corte e ai ministri del Divano: si fece amici dappertutto e seppe conservarli come li aveva acquistati. Il sultano lo elevò in dignità senza chiedergli di abiurare la patria ne il culto. Ora è chiamato Rustem bey da tutti i turchi, per i Franchi è un compatriota cortese80. A me offrì tutto ciò che la sua familiarità con il

78 Aleksej Fëdorovič Orlov (Orloff) (1786-1861), uomo politico russo, già ambasciatore a Costantinopoli, nel 1833 negoziò con i Turchi il Trattato di Unkiar-Skelessi (1833). Apollinarij Petrovič Butenev (Boutanieff) (1787-1866), ambasciatore e ministro plenipotenziario della Russia presso la Porta fino al 1842. Bartholomäus Stürmer (de Sturmer) (1787-1863), nativo di Costantinopoli, diventò diplomatico e statista austriaco nominato ufficialmente internunzio d’Austria a Costantinopoli nel 1834, carica che tenne fino al 1850.

79 Si fa riferimento al periodo che portò al Trattato di Unkiar-Skelessi (o Hünkiar-Iskelesi). L’Egitto di Mehmet Ali si rivoltò contro il sultano per strappargli il controllo della Siria e suo figlio, Ibrahim, sconfisse i Turchi, occupò la Siria e marciò verso Costantinopoli. Le potenze internazionali, soprattutto i Russi, sostennero i Turchi nel timore che l’Egitto potesse sconvolgere gli equilibri dell’area balcanica e del Mediterraneo orientale. Con il trattato di Kuhtaya, Mehmet Ali ottenne il controllo della Siria in cambio della formale sottomissione al sultano. A sua volta, come contropartita, lo zar fece firmare ai Turchi il Trattato di Unkiar-Skelessi (1833) che di fatto poneva l’impero ottomano sotto la protezione della Russia e garantiva che per otto anni lo Stretto dei Dardanelli venisse chiuso, in caso di conflitto, alle navi da guerra straniere ostili alla Russia.

80 Giovanni Timoteo Calosso nacque a Chivasso nel 1789 e nel 1806 si arruolò nell’esercito

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Divano poteva ottenere: l’accesso ovunque, l’amicizia di alcuni ufficiali, tutte le informazioni richieste e, tramite suo, potei vedere in lungo e in largo il serraglio, anche là dove nessuno pote entrare dopo lady Worthley Montague81. Cercheremo domani di penetrare in quello spazio misterioso, che non conosce nemmeno lui, ma dove ha ufficiali amici che ci guideranno.

Cominciammo dal far visita a Namuk Pascià, uno dei giovani favoriti del Gran Signore, che mi aveva invitato a colazione nella sua caserma di Scutari e mi aveva messo a disposizione i suoi cavalli per visitare le montagne d’Asia. Namuk Pascià era quel giorno di servizio al palazzo del sultano a Beylerbeyi sulle rive del Bosforo. Ivi sbarcati, grazie al grado e il favore di Rustem bey ci lasciarono passare le porte ed esaminare i dintorni della dimora del Gran Signore. Il sultano si disponeva ad andare alla piccola moschea di un villaggio europeo al di là dal Bosforo, di fronte a Beylerbeyi; i suoi caicchi superbamente addobbati stavano legati lungo l’argine del palazzo, e i suoi stupendi cavalli arabi erano tenuti pronti nella corte dai palafrenieri82, perche il sultano li montasse nel traversare i giardini. Entrammo in un’ala del palazzo, divisa dal corpo principale, ove dimorano i pascià, gli ufficiali di servizio e lo stato maggiore del palazzo. Traversammo alcune ampie sale, per le quali circolava una folla di militari, di impiegati, di schiavi; ogni cosa era in movimento come in un ministero o in una reggia d’Europa in giorno di cerimonia. L’interno di questo palazzo non aveva magnifici addobbi: divani, tappeti, muri affrescati e specchi erano il solo ornamento. L’abbandono dei turchi dei loro costumi orientali, il turbante, la pelliccia, i pantaloni larghi, la cintura e il caffettano d’oro, per uno squallido vestire europeo, mal tagliato e peggio indossato, ha tramutato l’aspetto grave e solenne di questo popolo in una meschina parodia dei Franchi. La stella di diamante che brilla sul petto dei pascià e dei visir è l’unica decorazione che li distingue e che ricorda l’antica loro magnificenza. Fummo condotti attraverso molte sale piene di gente, fino a un piccolo salone affacciato sui giardini esterni del palazzo del Gran Signore. Là ci raggiunse Namuk Pascià, sedette con noi, ci fece portare pipa e rinfreschi, ci presentò molti giovani pascià che come lui avevano il favore del padrone. Dei colonnelli di Nisam83 o delle truppe regolari della Guardia, si unirono a noi e parteciparono alla conversazione. Namuk Pascià, recentemente tornato dalla sua ambasciata a Pietroburgo, parlava spedito il francese, aveva le maniere,

francese, dove stette fino al 1815 quando passò nell’esercito sardo prendendo parte ai moti italiani del 1821. Esiliato, peregrinò fino al 1827 quando, appena giunto a Costantinopoli, fu prescelto dal sultano come capo-istruttore della cavalleria col nome di Rustem āghā fino al dicembre dell’anno successivo quando fu elevato alla dignità di bey. Non si conosce la data della sua morte.

81 Mary Wortley Montagu (1689-1762), moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, dove stette dal 1716 al 1718, raccontò gli usi e costumi orientali in forma di minuziose lettere, pubblicate postume col titolo Turkish Embassy Letters.

82 In francese «saïs», ma sarebbe «sayis». Saïs è sia nome proprio di persona che il nome greco della città egiziana di Sa el Haggar.

83 Uno dei visir del sultano.

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studiate dai Russi, di un elegante diplomatico europeo, e mi parve spiritoso e fino. Khalil Pascià, allora capitan-pascià che poi sposò la figlia del sultano, parla anch’egli bene il francese. Ahmet Pascià è un altro giovane ed elegante osmanli che somiglia a un europeo. Nel palazzo nulla richiamava una corte asiatica, se non gli schiavi neri, gli eunuchi, le finestre con le inferriate degli harem, le belle ombre e le cerulee acque del Bosforo, sulle quali cascavano i nostri sguardi quando vagavano sui giardini. Parlammo con discrezione e franchezza dello stato dei negoziati tra Egitto, Europa e Turchia, dei progressi fatti e da fare dai Turchi nella tattica, nella legislazione e nella politica delle diverse potenze, relativamente alla Turchia. Niente nei nostri discorsi avrebbe indicato che discorrevamo di quelli che si chiamano barbari con dei barbari, e che l’orecchio dello stesso Gran Signore, di questa ombra di Allah, poteva esser ferito dal mormorio dei nostri ragionamenti. Essi non sarebbero stati ne meno intimi, ne meno profondi, ne meno elegantemente sostenuti a Londra o a Vienna. Questi giovani, bramosi di cognizioni e di progressi, parlavano della loro situazione e di se stessi con nobile modestia. Avvicinandosi l’ora della preghiera, ci congedammo per primi dai nostri ospiti, rimandando a un altro momento la richiesta di essere presentati al sultano. Namuk Pascià ci affidò a un colonnello della Guardia imperiale, e lo incaricò di dirigerci e introdurci nel gran cortile della moschea, dove il sultano sarebbe passato. Passammo il Bosforo e fummo portati sulla gradinata che dà alla porta della piccola moschea. Dopo pochi minuti sentimmo rimbombare i cannoni della flotta e dei castelli, i quali annunciano alla capitale, ogni venerdì, che il sultano va alla moschea, e vedemmo i due caicchi imperiali spiccare dalla costa d’Asia e fendere il Bosforo come saette. Nessuno sfoggio di cavalli o di cocchi può paragonarsi al lusso orientale di questi caicchi dorati, le cui prue sporgono, come aquile d’oro, venti piedi avanti, mentre i ventiquattro rematori alzando e abbassando a un colpo i lunghi remi, imitano il battere di due grandi ali, sollevando ogni volta un velo di spuma che avvolge i fianchi del caicco. Poi vedemmo il padiglione di seta, oro e piume, le cui tende ripiegate lasciano vedere il Gran Signore seduto sopra un trono di cachemire, con a piedi i pascià e gli ammiragli. Toccata riva, egli balzò fuori con leggerezza, appoggiando le mani sull’aquila di Ahmet e di Namuk Pascià. La musica della sua guardia, raccolta davanti a noi sulla piazza della moschea, proruppe dalle fanfare, ed egli avanzò rapidamente fra due ali di ufficiali e spettatori. Mahmud è un uomo di quarantacinque anni, statura media ma andamento elegante e nobile, dolci occhi blu, tinta bruna, bocca graziosa ed espressiva; barba nera lucida come ebano che gli scende folta sul petto: è, quest’ultimo, l’unico resto della moda nazionale, che egli abbia conservato, perche per il rimanente, tranne per il cappello, potrebbe essere scambiato per europeo. Portava pantaloni e stivali, una redingote bruna con il colletto ricamato con diamanti, un berrettino di lana rossa sormontato da una ghianda di pietre preziose. La sua camminata era a strappi e lo sguardo inquieto, segno che qualcosa di grave lo preoccupava non poco. Parlava con forza e commozione ai pascià che lo accompagnavano; quando fu vicino a

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noi, presso la porta, rallentò il passo e ci gettò un’occhiata benevola; inclinò leggermente il capo, comandò a Namuk Pascià di prendere la supplica che una turca velata gli tendeva ed entrò nella moschea. Non vi restò che venti minuti e durante quel tempo la banda militare eseguì pezzi d’opera di Mozart e di Rossini. Uscì poi col viso più aperto e sereno, salutò a destra e sinistra, si avviò gravemente al mare e, sorridendo, balzò nella sua barca, che in un batter d’occhi fu sulla riva asiatica, e lo vedemmo entrare nei giardini di Beylerbeyi. Non si può guardare Mahmud senza esserne toccati e far voti segreti per un principe i cui lineamenti rivelano una maschia vigoria e una profonda sensibilità. Ma ahimè! questi voti ricascano sul cuore quando si pensa al fosco avvenire che l’attende. Se fosse un vero grand’uomo, cambierebbe il suo destino, e vincerebbe la fatalità che l’avvolge. C’è tempo ancora: finche un popolo non è morto, c’è in esso, c’è nella sua religione e nella sua nazionalità un principio d’energia e di risurrezione che un genio abile e forte può fecondare, sommuovere, rigenerare, e condurre a una gloriosa trasformazione; ma Mahmud non è un grand’uomo che per il cuore. Intrepido a combattere e morire, la molla della sua volontà si fiacca quando bisogna operare e regnare. Qualunque sarà la sua sorte84, la storia lo compiangerà e onorerà. Egli ha tentato grandi cose: comprese che il suo popolo suo sarebbe morto se non lo trasformava, e diede di falce sui rami morti. Se non è capace di dare il succo e la vita a ciò che resta del tronco sano e vigoroso, la colpa è sua? Io penso di sì. Quel che restava da fare era un nulla rispetto alla distruzione dei giannizzeri: niente opponeva resistenza in Turchia e l’Europa timida e cieca lo favoriva con la sua vigliacca inerzia. Dei bei momenti sono stati perduti e gli anni sono passati. L’audace Ibrahim volse a suo favore l’impopolarità del sultano. La Russia fu accettata come protettrice: e questa protezione vergognosa d’un nemico naturale contro lo schiavo ribellato indignò l’islamismo. A Mahmud non resta altro che il suo coraggio personale. Attorniato da cortigiani e traditori, una sommossa può rovesciarlo dal trono e gettare l’impero in un’anarchia finale. La Turchia è attaccata alla vita di Mahmud; lui e l’impero finiranno lo stesso giorno. Grande e fatale destino di un principe che strascina con se le due più belle metà dell’Europa e dell’Asia!

21 GIUGNO

Alle undici approdammo alla scala del vecchio serraglio ed entrammo nelle vie che lo recingono. Passando, visitai il Divano della Porta, un vasto palazzo dove risiede il Gran visir e si discute la politica dell’impero: è notevole soltanto per l’impressione delle scene di cui questo luogo fu il teatro, nulla nel carattere dell’edificio ne ricorda i drammi sanguinosi. È un gran palazzo in legno dipinto, con una scala esterna, coperto da una gronda tagliata a festoni a modo di India e Cina; le sale sono nude, con stuoie in terra. Di là scendemmo nella piazza, dove la spaventevole porta del

84 Mahmud II morì di tubercolosi nel 1839.

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serraglio si aperse tante volte per vomitare le teste insanguinate dei visir o anche dei sultani. Noi la passammo senza ostacolo potendo chiunque entrare nella prima corte del serraglio, la quale, piantumata di begli alberi, scende sulla sinistra verso una magnifica zecca moderna, senza alcun carattere orientale. Gli armeni, responsabili della moneta, ci ricevettero e apersero le cassette dov’erano chiusi i gioielli che fanno fabbricare pel serraglio: una pioggia di perle e diamanti, ricchezze povere, che rovinano un impero! Quando uno Stato si civilizza, queste rappresentazioni ideali della ricchezza si cambiano in ricchezza reale e produttiva, terreni e credito. Vi resto poco: entriamo nell’ultima corte del serraglio, inaccessibile a tutti eccetto gli impiegati del serraglio e gli ambasciatori nel giorno che vengono ricevuti. È cinta da molte ali di palazzi, da chioschi, separati gli uni dagli altri, dagli alloggi degli eunuchi, delle guardie, degli schiavi. Fontane e alberi diffondono fresco e ombra. Giunti alla terza porta, i soldati di guardia sotto la volta si rifiutarono ostinatamente di lasciarci entrare. Per quanto Rustem bey si fosse fatto riconoscere dall’ufficiale turco che comandava, il quale oppose la sua consegna e gli disse che ci avrebbe rimesso la testa se mi lasciava passare. Mortificati tornavamo indietro, quando ci si accostò il kesnedar, o gran tesoriere, che tornando dalla zecca, entrava nel serraglio dove alloggia. Amico di Rustem bey, l’avvicinò e, informato della causa del nostro impaccio, ci disse di seguirlo e ci introdusse senza alcuna difficoltà nella corte degli icoglan85. Questa corte, meno vasta della prima, è composta da molti palazzotti a forma di chioschi, con tetti molto bassi, che sporgono sette od otto piedi, sostenuti da colonnette o pilastrini moreschi di legno intagliato e variopinto. Le corti e i giardini, irregolarmente formati negli interstizi dei chioschi distribuiti, sono irregolarmente disseminati di alberi bellissimi e molto vecchi, i cui rami ricascano sopra gli edifici avvolgendo tetti e terrazze. L’ala destra di queste fabbriche è per le cucine, immense, di cui i numerosi camini e i muri esterni affumicati denunciano la destinazione. Per farsi un’idea della grandezza di questa edificio, basti sapere che il sultano dà da mangiare a tutte le persone addette alla corte e al palazzo, ossia ad almeno diecimila commensali ogni giorno. Poco più avanti delle cucine, è un bel palazzotto cinto da una galleria o portico al piano terreno, dove stanno gli icoglan, o paggi del serraglio, e dove il Gran Signore fa allevare e istruire i figli delle famiglie della sua corte e i giovani schiavi destinati agli impieghi del serraglio o dell’impero. Questo palazzo, dove un tempo vi abitavano gli stessi sultani, è decorato, dentro e fuori, con una profusione di intagli, di sculture e di rilievi dorati, non senza buon gusto. I soffitti sono anch’essi ricchi, quanto quelli dei più bei palazzi d’Italia e di Francia, e i pavimenti sono a mosaico. È ripartito in più sale di grandezza quasi eguale, ingombre a destra e a sinistra di nicchie e di sedili in legno intagliato, tipo gli stalli, meglio lavorati, dei cori delle nostre antiche cattedrali. Ognuna di queste sale è la camera di un icoglan e ha sul fondo

85 L’icoglan, dal turco iç oğlan, è un giovane ufficiale della guardia del palazzo del sultano, detto anche “paggio”.

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una pedana, dove egli ripiega cuscini e tappeti e dove appende o chiude i vestiti in un baule di legno dorato. Sopra questi stalli scorre una specie di tribuna, sporgente, ornata e decorata, e divisa al modo stesso, che chiude altrettante sedie quante la sala sottostante. Tutto è illuminato da cupole e piccole finestre poste alla sommità dell’edificio. I giovani icoglan, che erano tutti vecchi allievi di Rustem bey, lo ricevettero con una viva dimostrazione di gioia e d’affetto, come un padre per lungo tempo atteso. Il buon cuore di questi ragazzi lo toccò fino alle lagrime, e io stesso era commosso da questi segni così spontanei e franchi d’affetto e riconoscenza: gli stringevano la mano, baciavano le falde della sua palandrana.

«Rustem bey! Rustem bey!» gridavano gli uni agli altri, e tutti gli correvano incontro palpitanti, arrossendo per l’emozione e il piacere. «Perche ci avete abbandonato per così tanto tempo?» soggiungevano. «Voi siete nostro padre, languiamo senza di voi. Tutto quello che sappiamo lo dobbiamo a voi. Allah e il sultano vi mandarono per farci uomini, mentre non eravamo che schiavi e figli di schiavi. Il nome degli Osmanli era un’ingiuria, uno scherno in Europa: ora sapremo difenderlo e onorarlo. Ma dite al sultano che vi rimandi qui, noi non studiamo più, ci struggiamo di tedio e di tristezza». Cinque o sei giovani, d’aspetto dolce, franco, intelligente e pregevole, ci presero per mano, guidandoci dappertutto. Quindi ci ricondussero nella sala di ricreazione, che è un chiosco cinto di fontane, che sgorgano dai muri in vasche di marmo; dei divani sono disposti intorno; una scala, nascosta nello spessore del muro, conduce agli uffici, dove molti schiavi, agli ordini degli icoglan, tengono sempre pronto il fuoco per le pipe, il caffè, i gelati, l’acqua e il ghiaccio. C’è ogni sorta di giochi e molti si divertivano agli scacchi. Ci fecero portare sorbetti e gelati, e coricati sul divano discorremmo a lungo dei loro studi e dei progressi, della politica europea, del destino dell’impero. Ne parlavano a meraviglia, fremevano di indignazione per il loro stato attuale, e facevano voti per i successi del sultano nelle innovazioni intraprese. Non ho mai visto un tale ardore per la rigenerazione di un paese, quanto quello che infiammava gli occhi e le parole di questi giovani: i giovani italiani, quando si parla di indipendenza e di lumi, non palpitano come costoro. Le loro figura irraggiano mentre parliamo con loro. I più anziani potevano avere venti-ventidue anni, i più giovani dodici o tredici. Eccetto l’ospizio militare degli orfani della marina a Greenwich, non ho mai veduto persone più ammirabili di alcuni fra questi ragazzi. Non volevano più lasciarci partire e ci accompagnarono fin dov’era loro permesso, in tutti i giardini, le corti e i chioschi intorno. Uno o due di loro erano in lacrime al momento di lasciare Rustem bey. Intanto il kesnedar aveva dato ordine agli eunuchi ed ai guardiani dei giardini e dei palazzi di lasciarci girare ovunque desiderassimo. In fondo alla corte, un po’ più in là del palazzo degli icoglan, un altro grande edificio ci chiudeva la vista e il passaggio ed era quello ove abitano gli stessi sultani: esso è recitato, come i chioschi e i palazzi appena visitati, da una galleria formata dall’aggetto dei tetti, sopra la quale si aprono le innumerevoli porte e finestre degli alloggi. Il palazzo non ha che il piano terreno. Entrammo nelle grandi sale che

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servono da vestibolo e danno accesso a varie camere; il vestibolo ha forma regolare, ma è un labirinto con pilastri che sorreggono tetti e soffitti e creano vasti androni circolari di servizio agli alloggi. Pilastri, solai, muri, tutto è di legno dipinto e scolpito con ornamenti moreschi. Le porte delle camere imperiali erano aperte; ne vedemmo molte ed erano tutte abbastanza simili tra loro per disposizione e decorazione dei soffitti a stucchi e dorature. Delle cupole di legno o di marmo, arabescate e traforate, dei divani spaziosi e bassi presso le pareti, nessun altro mobile ne sedile, soltanto tappeti, stuoie e cuscini. Le finestre, alte mezzo piede dal pavimento, erano aperte e si affacciano sulle corti, sulle gallerie e sui giardini: è tutto. Dal lato opposto a quello per il quale eravamo entrati, domina una piattaforma a terrazza di pietra, pavimentata con lastre di marmo. Un bel chiosco, dove il sultano riceve gli ambasciatori, è separato dal palazzo di alcune tese86, elevato alcuni piedi sopra la piattaforma e somigliante a una cappelletta moresca. Un divano lo riempie, delle finestre circolari lo circondano: il panorama di Costantinopoli, del porto, del mar di Marmara e del Bosforo che vi si gode è libero e stupendo. Fontane di marmo sgorgano sotto la galleria aperta fra questo chiosco e il palazzo, che è una deliziosa passeggiata: gli arbusti e le rose dei piccoli giardini che coprono i terrazzini inferiori si arrampicano sulle balaustre e ricoprono il palazzo. Alcuni pannelli, di marmo o di legno, sono sospesi alle pareti e rappresentano vedute della Mecca e di Medina che guardai con curiosità: sono come piani senza prospettiva, perfettamente conformi a ciò che Ali bey87 riferisce della Mecca, della Kaaba e della disposizione dei diversi monumenti sacri della città santa: ciò prova che questo viaggiatore li vide realmente. Infatti, quello che racconta sulla galleria circolare che circonda l’area delle diverse moschee è attestato da questi pannelli. Si vede anche questo portico che ricorda quello di San Pietro a Roma.

Seguendo la piattaforma del palazzo a sinistra, si arriva, per uno stretto balcone sostenuto da un’alta terrazza, all’harem o palazzo delle sultane. Era chiuso, ne vi restava che un piccolo numero di odalische. Non ci avvicinammo a questo luogo interdetto alla vista; vedemmo solamente le finestre con le inferriate e i deliziosi balconi anch’essi chiusi da tralicci e persiane intrecciate di fiori, dove le donne passano le giornate a contemplare i giardini, la città e il mare. Attorno a noi era una moltitudine di aiuole circondate da muri di marmo irrorati con getti d’acqua, e coltivate con cura e simmetria con tutti i tipi di fiori profumati e con arbusti. Questi giardini, ai quali si accede scendendo delle scale, comunicano tra loro e hanno talvolta degli eleganti chioschi dove le donne e i bambini dell’harem passeggiano e godono la natura.

Eravamo giunti dove il serraglio comincia a ridiscendere verso il porto e il

86 Al tempo di questo scritto, la tesa francese era pari a 2 metri.87 Ali Bey al-Abbasi, forse identificato in Domingo Badia y Leblich (1766-1818), era un

esploratore spagnolo che fu testimone della conquista della Mecca nel 1807 e descrisse il Nord Africa e la Turchia.

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mar di Marmara. È il posto più elevato di questo sito unico al mondo e da lì l’occhio domina tutte le colline e i mari di Costantinopoli: ci fermammo a lungo per goderne. È l’inverso della vista che ho descritto dall’alto del belvedere di Pera. Nel tempo che eravamo sulla terrazza del palazzo, era suonata l’ora del pasto, così vedemmo passare un gran numero di schiavi che portavano sul capo dei grandi vassoi di stagno con i pasti degli ufficiali, degli impiegati, degli eunuchi e delle donne del serraglio. Assistemmo a molti di questi pasti, consistenti in pilau, volatili, cubè (pallottole di riso e carne tritata arrostita entro un pampino), gallette di pane e una brocca d’acqua. Dovunque lo schiavo si imbatteva nel padrone, lì apparecchiava, a volte in un angolo di una stanza del palazzo, a volte sulla terrazza coperta, a volte nei giardini sotto gli alberi vicino a un getto d’acqua.

Il kesnedar venne a cercarci e ci condusse nel chiosco dove alloggia, di fronte al tesoro del serraglio. Questo tesoro, dove si sono seppellite le incalcolabili ricchezze dalla creazione dell’impero in poi, è una gran fabbrica di pietra, preceduta da un portico aperto. L’edificio è ben poco elevato da terra; basse sono le porte e le camere sotterranee. Grandi bauli di legno dipinti di rosso contengono monete d’oro e d’argento, da cui si toglie ogni anno una certa somma per le occorrenze dell’impero. Non domandammo di entrare, ma dicono che, oltre ai contanti, racchiuda mucchi di perle e diamanti88; cosa verosimile, attesa l’usanza dei sultani di deporne sempre, e non trarne che nelle massime necessità dello Stato. Ma essendo il valore delle pietre meramente convenzionale, se il Gran Signore volesse venderle, ne diminuirebbe il prezzo per la profusione che spargerebbe in commercio, cosicche questa risorsa che pare immensa per le sue finanze, è quasi nulla.

Il kesnedar, persona schietta e spiritosa, mi introdusse nel suo appartamento. Vi trovai, per la prima volta in Turchia, un po’ del lusso e delle comodità francesi: i divani erano alti e coperti di cuscini di seta, c’erano tavoli e scansie di legno intorno alla camera, su cui stavano registri, libri, carte geografiche e un mappamondo. Ci offrì dei dolci e parlammo delle arti e delle scienze d’Europa, paragonandole allo stato delle cognizioni umane nell’impero ottomano. Il kesnedar mi apparve piuttosto istruito e spregiudicato quanto un europeo. Capiva tutto: desiderava il successo di Mahmud nei suoi tentativi di miglioramento, ma, essendo vecchio e avendo passato la vita in impieghi confidenziali nel serraglio sotto quattro sultani, non mostrava grandi speranze e se ne rassegnava filosoficamente. Conduceva una vita solitaria e tranquilla nel fondo del serraglio abbandonato. Mi interrogò a lungo su tutto: filosofia, religione, poesia, fede in Europa, regimi nei diversi stati, sia monarchici che repubblicani, politica, tattica, e tutto egli esaminò con una rettitudine di mente, una tempestività e un senso di riflessione che mi mostrarono a sufficienza che avevo a che fare con uno degli uomini più illustri dell’impero. Mi portò una palla e il mappamondo e volle che gli spiegassi il movimento dei corpi celesti e le divisioni della terra. Prese nota di tutto e sembrava contento. Mi pregò di

88 Oggi visionabili nel museo del Palazzo Topkapi.

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accettare di cenare con lui e di trascorrere là la notte. Con gran difficoltà resistemmo alle sue suppliche, e non potei esimermi dal dire che mia moglie e i miei amici si sarebbero molto preoccupati non vedendomi tornare. Mi disse: «In effetti voi siete il primo franco che sia mai entrato e questa è una ragione per cui siete trattati da amico. Il sultano è grande e Allah è per tutti!» Ci accompagnò fino alle scalinate interne che scendevano dalla piattaforma del palazzo del sultano, attraverso il dedalo dei giardinetti dell’harem, di cui ho già parlato, e ci affidò alla cura di un capo dei bostangi, che ci portò, di chiosco in chiosco, di aiuola in aiuola, tutte coperte di fiori e cosparse di fontane, fino alla porta di un’alta muraglia che separa i palazzi interni del serraglio dai grandi giardini esterni. Là ci trovammo ai piedi di enormi platani che si elevano a più di cento piedi d’altezza contro i muri e i balconi dell’harem. Questi alberi formano una foresta e dei gruppi intervallati da prati verdi, più lontano ci sono alberi da frutto e grandi orti coltivati da schiavi negri, che hanno le loro capanne sotto gli alberi, e irrigati da ruscelli. Poco lontano dall’harem è un antico e magnifico palazzo di Bayezid abbandonato ai gufi e alle lucertole: è di pietra e di una mirabile architettura araba. Lo si restaurerebbe facilmente e varrebbe più di tutto il serraglio, ma la tradizione lo dice popolato di maligni spiriti e giammai un osmanlo vi penetrerebbe. Appena soli, passai sotto uno o due archi sotterranei di questo bel palazzo, ingombro di detriti e pietre. Potei vedere i muri e le scale e mi sembrarono egregiamente lavorati. Da lì, vicino a una delle porte delle mura del serraglio, tornammo indietro, sempre sotto un bosco di platani, sicomori e cipressi tra i più grandi che abbia mai visto, e facemmo il giro dei giardini esterni.

Giungemmo in riva al mar di Marmara, ove sono due o tre palazzi stupendi, abitati dai sultani in estate, i cui alloggi danno sulla corrente del canale e sono rinfrescati di continuo dalla brezza. Più in là, su colline erbose si trovano piccole moschee, chioschi e vasche d’acqua dai bordi di marmo e ombreggiati da alberi giganteschi. Ci sedemmo tra i fiori e i getti d’acqua mormoranti, con le alte mura del serraglio dietro di noi e, davanti, un erboso pendio che finiva in mare. Tra il mare e noi c’era una cortina di cipressi e di platani, che circondano le mura di cinta, attraverso la quale apparivano i flutti del mar di Marmara, le isole dei principi, i vascelli alla vela, Scutari imporporata dai raggi del sole al tramonto, le cime dorate delle montagne dei Giganti e quelle nevose dei monti di Frigia: un quadro divino. Tale è l’interno di questa misteriosa dimora, la più bella del mondo: teatro di tanti drammi sanguinosi, dove l’impero ottomano nacque e crebbe, ma dove non vuole morire, giacche Mahmud, uccisi i giannizzeri, non l’abita più. Uomo di costumi dolci e voluttuosi, lo ripugnano queste macchie di sangue del suo regno. Fors’anche non vi si trova sicuro in mezzo alla fanatica popolazione di Stambul, e preferisce avere un piede sull’Asia e uno sulla flotta, nei trenta palazzi delle rive del Bosforo. La caratteristica generale di questa mirabile dimora non è la grandezza, ne la comodità, ne la magnificenza, essendo tanti padiglioni di legno dorati e traforati, ma rispecchia il carattere del popolo turco: intelligenza e amore della natura.

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Quest’istinto per i bei siti, i mari sfolgoranti, le ombre, le fonti, gli orizzonti immensi, limitati dalle cime innevate delle montagne, è l’istinto predominante di questa popolazione, in cui si ravvisa la memoria di un popolo pastore e agricoltore, che ama richiamare la propria origine e i cui gusti sono semplici ed istintivi. Tale popolo collocò il palazzo dei suoi padroni, il capo della città imperiale, sul pendio della più bella collina che abbia l’impero e forse tutto il mondo. Questo palazzo non ha ne il lusso interiore, ne le misteriose voluttà di un palazzo d’Europa, ma solo vasti giardini, dove liberi ed eterni crescono gli alberi come in una foresta vergine, dove le acque mormorano, dove tubano le colombe; le camere forate di finestre sempre aperte, le terrazze librate sopra i giardini e sul mare, i chioschi coi reticolati dove i sultani, seduti dietro le persiane, possono godere e la solitudine e l’incantevole aspetto del Bosforo. Così è dappertutto in Turchia. Padrone e popolo, grandi e piccoli, non hanno che un bisogno, che un sentimento, nella scelta e nella distribuzione delle loro dimore: far gioire gli occhi sulla vista di un bell’orizzonte, oppure, se la situazione e la povertà delle loro case non lo permette, avere almeno un albero, degli uccelli, un montone, delle colombe in un angolo di terra attorno alla loro casupola. Perciò, dovunque è un sito elevato, sublime e grazioso collocano una moschea, un santone, una capanna. Non c’è un sito del Bosforo, un colle, un golfo ridente della costa d’Asia e d’Europa dove un pascià o un visir non abbia fabbricato una villa e un giardino. Sedersi all’ombra, di fronte a un magnifico orizzonte, sotto bei rami frondosi, una fontana vicino, la campagna o il mare sotto gli occhi, e là passare le ore e i giorni nell’inerzia di una contemplazione vaga e inarticolata, tale è la vita del musulmano; ciò spiega la scelta e la disposizione delle loro dimore e anche perche questo popolo rimanga inattivo e silenzioso finche le passioni non lo sollevino, e gli rendano il natio vigore, che lascia dormire dentro se stesso senza però perderlo mai. Non è loquace come l’arabo, non fa gran conto dei piaceri dell’amor proprio e della società, quelli della natura gli sono sufficienti: egli sogna, medita e prega. È un popolo di filosofi, che trae ogni cosa dalla natura e rapporta tutto a Dio. Dio è continuamente nel suo pensiero e nella sua bocca, non come un’idea sterile, ma come una realtà palpabile, evidente, pratica. La sua virtù è la perpetua adorazione della volontà divina, il suo dogma la fatalità. Con questa fede si conquista il mondo, e lo si perde con la stessa facilità, con la stessa calma.

Usciti dalla porta che dà sul porto, entro nel bel chiosco sull’argine, dove il Sultano viene a sedersi quando le sue flotte, partendo o tornando da una spedizione, salutano il loro signore.

22 GIUGNO

Due miei amici mi lasciano e partono per l’Europa; io resto solo a Büyükada con la mia donna e il signor Capmas.

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25 GIUGNO

Passati due giorni a Belgrado, villaggio in mezzo all’omonima foresta, a quattro leghe da Costantinopoli: è una foresta immensa di querce, che copre alcune colline situate fra il Bosforo e il mar di Marmara, a pari distanza fra i due, e si prolunga quasi ininterrotta sino ai Balcani. È un sito assai selvaggio e tanto grazioso quanto nessun bosco d’Inghilterra, con il suo bel villaggio greco costruito in un largo vallone in mezzo alla foresta, prati arcadici, un fiume che scorre sotto le querce, magnifici laghi artificiali scavati nel bacino delle alte colline per alimentare le fontane di Costantinopoli. Ricevemmo ospitalità dai signori Aleon, banchieri francesi a Costantinopoli da generazioni che hanno una deliziosa villa a Büyükada e un casino di caccia nel villaggio di Belgrado. È una bella famiglia, dove l’eleganza dei costumi, l’elevazione dei sentimenti, la cultura e lo spirito sono associati alla grazia e alla semplicità affettuosa dell’Oriente. A Costantinopoli trovo un’altra compagnia francese nel signor Salzani, fratello del mio banchiere a Smirne, uomo buono, di cuore e di spirito, che ci tratta come amici e connazionali. In generale la società franca a Costantinopoli, composta di ufficiali, ambasciate, consolati, famiglie di dragomanni e di negozianti d’ogni nazione europea, è molto superiore alla fama che gode. Costituita in piccole città, essa ha di queste i difetti, i pettegolezzi, le gelosie irritanti, ma ha probità, istruzione, eleganza, ospitalità graziosa e cordiale per ogni straniero. Sono informati sull’Europa come a Vienna e Parigi; partecipano fortemente al movimento vitale che agita l’Occidente; ci sono uomini di merito, e donne graziose e di elevate virtù. Ho visto qualche circolo a Pera, a Therapia e a Büyükada, che avrebbe potuto far credere di trovarsi in una delle più belle sale delle maggiori città d’Europa, quando non si fossero gettati gli occhi sul Bosforo, o sul Corno d’oro, a piedi dei giardini, tra il fogliame.

29 GIUGNO

Corsa alle Acque Dolci d’Europa. In fondo al porto di Costantinopoli, le colline di Eyüp e quelle su cui sono Pera e Galata, si avvicinano insensibilmente, non lasciando che un braccio di mare fra le due rive. A sinistra si distende il sobborgo di Eyüp con la sua moschea, dove i sultani, quando salgono al trono, vanno a cingere la spada di Maometto, sacra di sangue, consacrazione della forza, religione del dispotismo musulmano89. La

89 La moschea di Eyüp è ritenuta, dopo la Mecca e Gerusalemme, il terzo luogo sacro ai pellegrini islamici, perche vi è sepolto il portabandiera e braccio destro del profeta Maometto, Eyüp-ül-Ensârî-Halit Bin Zeyd, ucciso durante il primo assedio di Costantinopoli da parte degli Arabi nel 669. Durante la conquista della città (1453), si racconta che Mahmud II sognò il luogo dove era stato sepolto Eyüp e, in effetti, fu trovata la tomba, sopra la quale fu costruita la moschea. Qui, ogni volta che saliva al trono un sultano, si svolgeva la cerimonia del conferimento della spada e il nuovo eletto si cingeva della spada di Osman, simbolo del califfato.

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moschea sovrasta graziosamente le case dipinte del sobborgo, e la cima dei suoi minareti si confonde all’orizzonte con le alte muraglie greche diroccate di Costantinopoli. In riva al canale, un bel palazzo delle sultane è lambito dalle onde, al cui livello sono le finestre, mentre le folte chiome degli alberi del giardino dominano il tetto e si riflettono nel mare. Di là il mare non è più che un fiume tra due tappeti erbosi e tra colline, giardini e selve. Alcuni pastori bulgari suonano la zampogna, seduti sulle rocce, custodendo branchi di cavalli e di capre. Infine il fiume non è più che un ruscello, di cui i remi dei caicchi toccano le due rive, e dove radici di superbi olmi, crescendo tra esse, impacciano la navigazione. Un’ampia prateria ombreggiata da platani si estende a destra, mentre a sinistra sono dossi boscosi e verdeggianti; in fondo l’occhio si perde fra colonnati vasti e irregolari di alberi, che ombreggiano il ruscello e serpeggiano con esso. Così finisce il bel porto di Costantinopoli, così finisce il vasto, bello e tempestoso Mediterraneo. Vi arenate in un’ansa ombrosa, in fondo a un golfo di vegetazione, sopra un banco d’erba e di fiori, lontano dal rumore e dal movimento del mare e della città. Oh, quanto finirebbe bene una vita d’uomo che terminasse così! Tale esito Dio conceda ai miei amici che oggi si affannano e brillano nella mischia cittadina! Silenzio dopo il fragore, dolce oscurità dopo il gran giorno, riposo dopo l’agitazione: un nido di ombra e solitudine per riflettere sulla vita passata e morire in pace e in amicizia con la natura e gli uomini. Per quanto mi riguarda, io più non faccio voti, neanche di chiedere questo: la mia solitudine non sarà ne così bella, ne così dolce.

Smontato dal caicco, seguii il ruscello fino a un chiosco che biancheggia tra gli alberi. A ogni tronco vedo un gruppo di donne turche e armene, attorniate da bei bambini che giocano sull’erba, prendere il loro pasto all’ombra. Dei cavalli dalle selle superbamente bardate, e degli arabà, carrozze di Costantinopoli tirate da buoi, stanno disperse sul prato. Il chiosco è preceduto e circondato da un canale e da specchi d’acqua, dove nuotano i cigni. I giardini sono piccoli, ma tutto il tappeto erboso è un giardino. In questo luogo va spesso d’estate l’attuale sultano, perche piaceva alla sua odalisca favorita. L’amore aveva trovato posto nel suo cuore dopo la carneficina dell’Atmeidan e, tra le sensualità dell’harem, la bella odalisca morì qui. Da allora Mahmud ha abbandonato questo bel luogo, ma spesso, si dice, va a visitare la tomba dell’odalisca. Giornata passata in fondo alla vallata, all’ombra degli alberi. Versi scritti a V…

3 LUGLIO

Mi sono imbarcato stamattina per Costantinopoli, ho risalito il Bosforo, sono entrato nel mar di Marmara e, dopo aver seguite per due ore le mura esterne che separano Stambul da questo mare, sono sceso ai piedi del castello delle Sette Torri. Non avevamo ne teskeré90, ne guida. I soldati turchi, dopo molte difficoltà, ci lasciarono entrare nella prima corte di quel

90 Passaporto.

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castello di sangue, dove i sultani detronizzati erano trascinati dalla plebaglia e aspettavano la morte, che non tarda mai quando il popolo è insieme giudice e boia. Sei o sette teste d’imperatori decapitati ruzzolarono per i gradini di questa scala; migliaia di teste meno illustri coprirono i merli di questa torre. Il guardiano si rifiuta di farci entrare, ma poi va a chiedere ordini al comandante del castello. Nel frattempo, si socchiude la porta di una sala bassa e a volta nella torre orientale. Faccio qualche passo, sento un ruggito che fa vibrare la volta e mi trovo faccia a faccia con un superbo leone incatenato che si slancia sopra un bel levriero che mi seguiva e che a malapena riesce a scappare e a rifugiarsi tra le mie gambe. Mi ritrassi e chiusi la porta. Il guardiano venne a dirci che ci avrebbe rimesso la testa se noi avessimo proceduto oltre, perciò uscii da una porta delle antiche mura che scende nella campagna. Le mura di Costantinopoli nascono al castello delle Sette Torri, sul mar di Marmara, e si stendono fino alla sommità delle colline che coprono il sobborgo di Eyüp verso l’estremità del porto, alle Acque Dolci d’Europa, cingendo così tutta l’antica città degli imperatori greci, e la città di Stambul degli imperatori turchi dal solo lato del triangolo non protetto dal mare. Da questo lato niente proteggerebbe la città, se non i pendii insensibili delle sue colline che muoiono in una bella piana coltivata.

Là fu eretto la triplice fila di mura che respinse tanti assalti, e dietro la quale il miserabile impero greco si credette a lungo sicuro. Quelle mirabili mura sussistono tuttora e sono, dopo il Partenone e Baalbek, le più maestose rovine che attestino il posto di un impero. Stamattina le ho seguite all’esterno. Si tratta di terrazzamenti in pietra, da cinquanta a sessanta piedi d’altezza, e talvolta da quindici a venti piedi di larghezza, rivestiti di pietra da taglio di un bel colore grigio chiaro e spesso interamente bianco, e appena lavorato con lo scalpello. Sono separati da fossati, ricolmi di detriti e rigogliosi vegetali, dove gli alberi e i rampicanti hanno messo radici da secoli, forniscono uno specchio impenetrabile. C’è una foresta vergine di trenta o quaranta piedi di larghezza, piena di nidi di uccelli e abitata da rettili. A volte essa nasconde completamente le pareti laterali e le torri quadrate che la fiancheggiavano oppure non permette di vedere che i crinali elevati. Sovente la muraglia riappare in tutta l’altezza e riverbera, con un bagliore dorato, i raggi del sole. È merlata e in alto, dalle brecce di tutte le forme, scende la vegetazione come nei canaloni di montagna, e va a confondersi con quella dei fossati, e la vite e l’edera formano cordoni, capitelli e volute. Qua e là dentro le torri, tra le pietre e la polvere, fa capolino un platano o un cipresso che intreccia le proprie radici attraverso le fessure del piedistallo. Il peso dei rami e delle foglie, l’aria e il vento, che continuamente spira sugli alberi, fanno inclinare i loro tronchi verso mezzogiorno, cosicche essi pendono come alberi sradicati con il loro gran carico di nidi e di uccelli. Ogni tre o quattrocento metri troviamo una delle torri accoppiate, una magnifica costruzione, con le enormi volte di una porta o di un arco antico tra le torri. La maggior parte di queste porte sono oggi murate e la vegetazione, che ha invaso tutto, muri, porte, mura merlate, torrette, forma in ogni recesso i più bizzarri e begli accoppiamenti

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con le rovine e le opere dell’uomo. Ci sono fasci di edera che scendono dalla sommità delle torri, come pieghe di un ampio mantello; ci sono le liane che formano dei ponti verdi che si inarcano per cinquanta piedi da un arco all’altro; ci sono tappeti di violacciocche disseminati sui muri perpendicolari che il vento fa oscillare senza sosta come ondate di fiori; ci sono migliaia di arbusti formanti degli spazi punteggiati di foglie e di colori diversi. Da là escono nuvole di uccelli quando si lancia un sasso contro quel muro verde o nel profondo delle macchie che sono alla loro base. Abbiamo visto anche un numero notevole di aquile che là trovano rifugio, vivono nelle torri, volano tutto il giorno al sole sopra i nidi, nutrono i piccoli e così via.

LUGLIO

Sempre la stessa vita solitaria a Büyükada, e la sera sul mare e nella valle delle rose. Visite del signor Truqui tutte le settimane. Solo i cuori buoni posseggono la virtù che consola, Dio ha dato loro una cosa unica che è miracolosa per le ferite incurabile del cuore: la simpatia.

Ieri il conte Orlov, comandante della flotta e dell’esercito russo e ambasciatore straordinario della Russia presso la Porta, ha celebrato il suo successo e la sua partenza con una festa militare sul Bosforo dedicata al sultano. I giardini dell’ambasciata russa a Büyükada coprono i pendii boscosi di una montagna che chiude il golfo, e di cui il mare bagna la base. Dalle terrazze del palazzo si gode la vista del Bosforo nel suo doppio corso verso Costantinopoli e verso il mar Nero. Tutto il giorno il cannone della flotta russa, ancorata a piedi dei giardini, davanti alle nostre finestre, ha rimbombato ogni minuto, e gli alberi pavesati si confondevano con la verdura delle grandi piante delle due rive. Sin dal mattino il mare fu coperto di piccole barche e caicchi, che portavano da Costantinopoli quindici o ventimila spettatori, i quali si sparsero nei chioschi, sulle praterie, per le rocce dei dintorni. Molti restarono nei caicchi, che pieni di donne giudee, turche e armene, vestite di colori sgargianti, ondeggiavano come mazzi di fiori qua e là sul mare. Il campo russo, sul pendio della montagna del Gigante, a mezza lega lontano dalla flotta, spicca con le sue tende bianche e azzurre sopra la cupa vegetazione e gli arsi pendii della montagna. La sera, i giardini dell’ambasciata russa erano illuminati con migliaia di lampade appese a tutti i rami di quei boschi. I vascelli, illuminati anch’essi sugli alberi, i pennoni, le sartie, somigliavano a navi da fuoco il cui incendio fa esplodere le batterie. Le loro fiancate vomitavano torrenti di lampi, e l’accampamento delle truppe da sbarco, rischiarato da grandi falò sulle cime e le eminenze delle montagne d’Asia, si rifletteva in tracce luminose nel mare, e spandeva i chiarori di un incendio sull’immenso lido del Bosforo. Il Gran Signore arrivò, in questa splendida notte, sopra una barca a vapore per godere lo spettacolo sotto le terrazze del palazzo di Russia. Si mostrò sopra coperta, circondato dai visir e dai pascià favoriti, ma rimase discosto avendo mandato il Gran visir a partecipare alla cena del conte Orlov. Immense tavole, disposte sotto i lunghi filari di platani, e altre, nascoste in

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tutti i boschetti dei giardini, erano coperte d’oro e d’argento, riflettendo il chiarore delle piante illuminate. All’ora più buia, poco dopo il levarsi della luna, un fuoco d’artificio, portato sull’acque in zattere, in mezzo al Bosforo e a uguale distanza dai tre mari, fu lanciato e sparse una luce sanguigna sulle montagne, sulla flotta e sull’innumerevole folla di spettatori che affollava i caicchi. Mai sguardo d’uomo potrà cogliere uno spettacolo migliore: sembrava che la notte avesse squarciato la volta del cielo mostrando l’angolo di un mondo incantato, con gli elementi, le montagne, i mari e i cieli di forma e colori sconosciuti, e migliaia d’ombre vaporose e fuggitive ondeggianti sopra onde di luce e di fuoco. Poi tutto fu silenzio e notte. I lampioni, come spenti dal vento, disparvero da tutti gli appigli e dagli alberi delle navi estinti; la luna spuntò da un vallone sopra le montagne diffondendo la propria luce più dolce e mostrò, come su uno sfondo di perle, le enormi masse nere e gli spettri sezionati degli alberi, dei pennoni e delle sartie delle navi. Il sovrano ripartì sul suo brick a vapore, la cui colonna di fumo restò appesa sul mare, e scomparve in silenzio come un’ombra venuta ad assistere alla rovina dell’impero.

Non era Sardanapalo, che col suo rogo illuminava le rovine del trono crollato91. Era l’assassinio d’un impero traballante, costretto a chiedere ai suoi nemici appoggio e protezione contro uno schiavo ribellatosi e obbligato ad assistere alla loro gloria e alla propria umiliazione. Che cosa potevano pensare i vecchi osmanli vedendo le luci del campo dei barbari cristiani, e le faville dei loro fuochi di gioia scoppiettare sulle montagne sacre dell’Asia, ricascare sulla cupola delle moschee e riflettersi fino sulle mura dell’antico serraglio? Che cosa pensava Mahmud stesso sotto l’affettato sorriso delle sue labbra? Quale serpente gli rodeva il cuore? Ah! Egli aveva dentro qualcosa di così profondamente triste da spezzargli il cuore e che, secondo me, avrebbe dovuto bastare a rendergli l’eroismo per i rimorsi. E c’era anche un non so che di consolante per il pensiero del filosofo che riconosce la Provvidenza e ama gli uomini. Era questo andamento del tempo e delle cose che faceva cadere in rovina un impero immenso, ostacolo all’incivilimento di mezzo Oriente, e che passo passo riconduceva verso questi bei paesi razze d’uomini meno logorate, dominazioni più umane e religioni più progressive.

LUGLIO

Oggi pranzai dal barone Stürmer con il principe reale di Baviera92, che è tornato dalla Grecia e si ferma alcun giorni a Costantinopoli. Questo giovane principe, avido d’istruzione, e abbastanza assennato per dimenticare in apparenza il trono che l’attende, cerca di trattenersi con uomini che non

91 Lo scrittore latino Ampelio (III o IV secolo) scrisse che Sardanapalo, ultimo re degli Assiri (VII secolo a.C.), perse il trono a causa degli eccessivi piaceri e della lussuria, quindi si avvelenò e appiccò il fuoco al proprio palazzo tra le cui fiamme morì. Tuttavia gli storici sono propensi a credere che esistessero due Sardanapolo, il lussurioso e l’incendiario.

92 Massimiliano II (1811-1864), re di Baviera dal 1848.

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hanno interesse ad adularlo e forma se stesso ascoltandoli. Egli discorre bene. «Il re mio fratello93, mi disse, esita ancora sulla scelta della città capitale. Desidererei sentire il vostro parere». «La città capitale della Grecia, risposi, è data dalla natura stessa dell’evento che la ricostruì. La Grecia è una risurrezione: quando si risuscita conviene rinascere con la propria forma e il proprio nome, con la propria individualità completa. Atene con le sue rovine e memorie è segno della rinascita della Grecia. Conviene quindi che essa rinasca ad Atene, o essa non sarà più ciò che è oggi, – un povero volgo disperso sulle rupi del Peloponneso e delle isole».

LUGLIO

La flotta e l’esercito dei Russi partono. Ora sanno la via e hanno abituato gli occhi dei Turchi a vederli. Il Bosforo rimane deserto e inanimato.

I miei cavalli arabi arrivano dall’Asia Minore. Tedmor, il più bello e focoso, è morto in Magnesia, quasi al termine del percorso. I palafrenieri l’hanno pianto e ancora piangono raccontando la sua fine. Esso era stato ammirato in tutte le città della Caramania che aveva attraversato. Gli altri cavalli sono così gracili e affaticati che avrebbero bisogno di un mese di riposo per poter fare il viaggio dalla Turchia europea alla Germania. Così vendo i due più belli al signor Butanev per l’imperatore di Russia, e gli altri tre a persone di Costantinopoli. Rimpiangerò sempre Tedmor e Saida.

Mi sono appena accordato con i turchi di Stambul e di Eyüp, proprietari di carrozze che portano le donne nelle strade di Costantinopoli, mi noleggiano cinque arabà, ciascuno tirato da quattro cavalli, per condurre a Belgrado94, in venticinque giorni di marcia, me, la mia donna, il signor Capmas, i domestici e i bagagli. Affitto due tatari per guidare la carovana, dei moukres95, ossia i conduttori di muli, per trasportare i letti, la cucina, le scatole di libri eccetera, e infine sei cavalli da sella per noi, se le strade non permetteranno di usare gli arabà. Il costo di tutto ciò è di circa quattromila franchi. Verrà anche un eccellente interprete con noi. La partenza è fissata per il 23 luglio.

23 LUGLIO

Partito stanotte alle due da Costantinopoli. I cavalli e gli equipaggi ci aspettano nel sobborgo di Eyüp, presso un piccola piazza non lontano da una fontana ombreggiata da platani e vicino ai un caffè turco. Una piccola folla si raduna per salutarci, ma senza insultarci ne rubarci: la probità è una virtù sulle strade della Turchia, ma è meno comune nei palazzi. I turchi, seduti sotto gli alberi fuori del caffè, e i bambini ci aiutano a caricare gli

93 Ottone I di Grecia (1815-1867), principe di Baviera e primo re di Grecia nel 1832, ai sensi della convenzione di Londra.

94 Belgrado, ora capitale della Serbia, era allora sotto il dominio della Casa d’Asburgo.95 In francese.

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arabà e i cavalli, a raccogliere qualche oggetto o a segnalare una dimenticanza.

Ci mettiamo in marcia, a cavallo, al levar del sole, traversando le lunghe vie solitarie e montuose che vanno dal sobborgo di Eyüp alle muraglie greche di Stambul. Usciamo dalle mura sopra un’altura nuda e deserta, dominata da una superba caserma. […]

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