VIAGGIO DE LEUCA

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GUIDA AI LUOGHI, NON LUOGHI E LUOGHI COMUNI DEL SALENTO Si parte dall’analisi del primo documento di poesia in dialetto leccese per tentare di individuarne la struttura che connette. Il poemetto del XVII secolo descrive con precisione lo stato del territorio salentino e quello della cultura del tempo. Da qui l’autore ci conduce a un immediato paragone con la situazione attuale e ne sottolinea alcune incongruenze. In particolare ci si chiede come, da uno stato di diffusa condivisione degli spazi, si sia giunti ad accettare quell’esproprio territoriale che consegue alla trasformazione di un luogo in un nonluogo turistico.

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Luigi Lezzi

VIAGGIO DE LEUCAGuida ai luoghi, nonluoghi e luoghi

comuni del Salento

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© Kurumuny edizioni – 2009

ISBN 978-88-95161-35-8

Edizioni KurumunySede legalevia Palermo,13 73021 – Calimera (Le)Sede operativavia S. Pantaleo, 12 73020 – Martignano (Le)Tel. e Fax 0832 801577

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La pianificazione di un territorio a destinazio-ne turistica è un’operazione rischiosa: le comunitàlocali dovrebbero essere coinvolte sia nel processodecisionale che nelle fasi attuative dei progetti,affinché si tenga conto delle loro esigenze e dei lorodiritti tanto quanto di quelle dei turisti esterni.

Maura Cetti Serbelloni, Il Luogo, Lecce, Pensa 2003

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Indice

9 Prefazione. L’eco del rimosso di Marcello Strazzeri

13 Premesse

Parte primaIl Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano

20 Il testo20 Le edizioni precedenti23 Questa edizione26 Testo traduzione e note88 Dialetto, teatro e viaggio90 La letteratura dialettale

102 Teatro110 Viaggio: tempi e luoghi111 I tempi116 I luoghi120 Strade e sentieri130 L’itinerario del Marciano141 Un riscontro oggi

Parte secondaIl Salento ieri e oggi: da luogo antropologico a nonluogo della surmodernità

148 Differenze e analogie151 La percezione tradizionale dello spazio152 Un esempio: la casa a corte157 La percezione dello spazio in conseguenza del processo

di modernizzazione158 Orientamento e pertinenza individuale dello spazio161 Viaggiare

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163 Il Salento dei nonluoghi164 Il viaggiatore antropologico e il non-viaggiatore167 Orientamento e appaesamento in de Martino

Appendice 170 Tradizione, teatro e viaggio, miti (racconti)

degli anni Settanta

191 Riferimenti bibliografici

193 Sentieri arcaici sulle serre

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PrefazioneL’eco del rimosso

di Marcello Strazzeri*

Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano, riproposto da Luigi Lezziin questa rinnovata edizione che per molti aspetti rivede criticamentequella di Michele Greco del 1935, anche alla luce delle successive pun-tualizzazioni di Mario Marti, Donato Valli e Maria Teresa Romanello, simuove in una prospettiva che, pur partendo dal certo del testo, puntaa individuare il vero: quello che, nella prospettiva che qui mi interessa,riguarda il senso antropologico del viaggio intrapreso dal Marciano, daVanni Passante ed altri amici.

Com’è noto agli esperti del settore, ci troviamo di fronte ad un’ope-ra di letteratura dialettale, il più antico testo poetico in dialetto salenti-no, risalente agli anni a cavallo tra la fine del Seicento e gli inizi delSettecento.

Ma, ripeto, la portata di tale opera va bene al di là della pur rilevan-te valenza storica: quella che la collega ad un filone della letteratura dia-lettale, che va da Il Pentamerone di Giovanni Battista Basile a LaVaiasseide di Giulio Cesare Cortese, ivi compresa l’opera di un altrosalentino, Giuseppe de Dominicis, vissuto tra il 1869 e il 1905, notocome Il Capitano Black.

Quello che emerge subito dal racconto del viaggio fatto dal Marcianoè la costante attenzione rivolta all’itinerario programmato, da SaliceSalentino a Leuca e ritorno, in un arco temporale di quattro giorni, scan-diti nelle seguenti tappe: Salice Salentino, Otranto, Vignacastrisi, Leuca,Cutrofiano, con l’ultima sosta a Nardò per la festa dell’Incoronata.Notevoli, per il significato che assumono nella prospettiva di Lezzi, le sostein altre località fra le quali Martano, i Laghi Alimini, Alessano, Galatina.

Si tratta di un percorso di oltre 200 Km da cui si fa emergere la valen-za antropologica di una narrazione governata da categorie spazio-tem-porali fortemente permeate di un vissuto intrecciato alla vita quotidianadei luoghi, alla loro cultura, al loro immaginario, alle loro credenze.

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Prima di addentrarmi ulteriormente nella presentazione del testo mipreme fare una precisazione sul carattere oggettivamente spettacolare,per così dire teatrale, di tale racconto, le cui considerazioni, dialoghi, bat-tute, canti, sembrano oggettivamente presupporre la presenza di un pub-blico partecipe, attivo, capace di intervenire integrando e commentando.

Ma torniamo alle categorie di tempo e spazio già introdotte per rile-vare quanto e come esse siano caratterizzate da una sorta di mutuaimplicazione e cattura, nel senso che non è possibile percepire il sensodel luogo senza evocarne la temporalità implicita, quella che gli dàidentità nell’ambito della costruzione culturale dei luoghi di cui parlaArjun Appadurai in La modernità in polvere.

Il viaggio è, infatti, guidato non da percorsi ufficiali pre-definiti, madalla capacità di orientamento del Marciano e dei suoi amici e dal suocontinuo riferimento a sentieri, masserie, muretti a secco, cappelle, luo-ghi consacrati dalla tradizione nella memoria collettiva della comunità.

I luoghi parlano, infatti, solo a chi sa intenderli, ne conosce il lin-guaggio, la semiotica diremmo oggi.

È come se, fatte le debite differenze, al soggetto proustiano che ricer-ca Il tempo perduto subentrasse un soggetto sociale capace di far emer-gere l’eco del rimosso, il definitivamente sepolto, che può ri-emergerenella direzione di un futuro possibile fondato su una ristrutturazioneradicale del vissuto spazio temporale.

In questa prospettiva di discorso viene criticamente delineata in que-sto libro la transizione del Salento da luogo antropologico a nonluogodella surmodernità, con riferimenti concreti a quella realtà culturale dicui si descrive, a mo’ di esempio, la casa a corte col suo corredo dipuzzi, uèrti, loggie, pile, scettalòre, cisterne.

Insomma, se è vero quanto dice Marc Augé che un luogo antropo-logico diventa un nonluogo quando da esso si offuscano o cancellanoi segni della memoria che lo caratterizzano, ripercorrere oggi, come faLezzi, gli stessi itinerari effettuati da Marciano, porta a cogliere per inte-ro il processo di omologazione e, dunque, di espropriazione identitariasubita dal Salento.

Non a caso, rileva l’autore, al viaggio inteso secondo i dizionari comeun giro più o meno lungo attraverso luoghi e paesi diversi dal proprio,con soste e permanenze di varia durata, per vedere, conoscere, impara-re e divertirsi è stato sostituito, sull’onda di un processo omologante, un

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viaggio del tipo: sette giorni e cinque notti in vip class inclusa la visitaai musei e l’ingresso in discoteca con l’accompagnamento di una guidalocale.

Lo stesso Ernesto de Martino, peraltro, dopo aver rilevato nei suoiappunti per La fine del mondo che l’orientamento spaziale è alla base diquello generalmente culturale, introduceva la categoria di appaesamentocontrapposta a quella di spaesamento, la prima segnata dalla presenzaindividuale e sociale, la seconda dalla sua pressoché totale scomparsa.

Che fare? L’autore non ha alcuna pretesa risolutiva, ma solo quella disegnalare il problema della disidentificazione dei luoghi nella prospet-tiva di una loro riappropriazione. È questa la condizione per invertire ilprocesso in atto e innescarne un altro che tenga in maggior conto ladignità dei luoghi e quella dei suoi abitanti.

Il recupero genealogico dell’attualità di un testo come Il viaggio deLeuche dallo spazio di dispersione in cui era depositato si muove inquesta direzione: ha la pretesa di parlare ai soggetti individuali e a quel-li collettivi, ai cittadini e alle istituzioni, a quelli che vivono nel territo-rio e a quelli che lo gestiscono, nel senso della valorizzazione o delladegradazione di ciò che è di tutti: res omnium, non res nullius.

*Preside della Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territoriodell’Università del Salento.

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Premesse

Modi di viaggiare

C’era una volta nel Salento, ma anche altrove, un modo di guardareal territorio molto più rilassato di quello attuale. Chi ci viveva si accon-tentava di conoscere minuziosamente i propri luoghi abituali e di esplo-rare occasionalmente qualche località vicina. Dei luoghi abituali sapevatutto: gli angoli più adatti a questo o a quest’altro tipo di coltura, quel-li con più spessore di terra rossa, quelli infestati irrimediabilmente dallagramigna, dall’erba-pepe o dalla cannazza, o quelli troppo battuti dalvento di tramontana. Mio padre, da ortolano che ogni anno dovevaprendere in affitto un fondo diverso, senza aver mai preso visione diuna cartina geolitologica dell’area circostante la città di Lecce, avevaun’idea chiara e generale anche del suo sottosuolo, della sua consisten-za e della sua stratigrafia. Forse si aiutava con l’esperienza acquisitacome aiutante nelle cave durante la sua adolescenza, oppure curiosan-do negli scavi urbani per le canalizzazioni fognarie. Sta di fatto che,dando uno sguardo ad un campo, riusciva a intuire se sotto c’era delbolo, del cretaccio, una fossa consistente di terra ferrosa o dei cuti cheavrebbero rotto i vomeri e gli attrezzi per sarchiare. Se un dato tipo diterreno era in grado di conservare l’umidità o se ai primi raggi del solesi sarebbe screpolato tutto come avviene negli uadi del deserto. Tuttequeste conoscenze gli erano indispensabili perchè lui coltivava a secco,cioè senza fare affidamento ad altra irrigazione che non fossero le piog-ge (se venivano) e l’umidità notturna e stagionale. Senza questo intimorapporto con il territorio avrebbe buttato via i suoi semi, il suo lavoro equello del suo cavallo e forse io non avrei avuto la possibilità di man-giare.

In occasione di qualche festa grande che comprendeva magari ancheuna fiera del bestiame, oppure per devozione verso qualche santità par-ticolarmente sentita, si spostava dall’area in cui viveva e affrontava, intrainella (un carretto leggero), un viaggio giornaliero.

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Eccezionalmente andava in Calabria, con un gruppo di soci, percomprare più a buon mercato cavalli e pecore da riportare passo passoa Lecce. Questo, naturalmente, era un viaggio che richiedeva diversigiorni, la capacità di orientarsi e di relazionarsi congruamente con lepersone che incontrava.

Sul finire del diciassettesimo secolo un viaggiatore nostrano descris-se in versi (e in dialetto) una sua passeggiata a cavallo da SaliceSalentino fino a Leuca. Dal Viaggio de Leuche si desume un modo diviaggiare sostanzialmente simile a quello che emerge dai raccontiestemporanei di mio padre.

Curiosamente, poi, anche il mio modo di viaggiare in autostop nelcorso degli anni Settanta assomiglia molto più a quello appena descrit-to che non a come si viaggia oggi. I cambiamenti radicali che hannoportato all’attuale concezione del viaggio strettamente connessa con lecategorie di turismo e di mercato, infatti, qui hanno avuto luogo solo apartire dai primi anni Ottanta. Il Salento, dopo aver percorso per unpaio di decenni la via dell’emigrazione, solo allora usciva decisamenteda un’economia tradizionalmente agricola e si avviava ad abbracciarequella basata sul turismo che lo caratterizza ancora oggi.

Così facendo sceglieva anche, più o meno consciamente, di adegua-re l’aspetto del suo territorio alle nuove esigenze e di dotarlo semprepiù di quelle caratteristiche che l’antropologo Marc Augé ha elencatoper definire i nonluoghi. Questi cambiamenti hanno comportato anche,per gli abitanti, un diverso modo di guardare al territorio e hanno con-tribuito a diffondere anche qui quel senso di disorientamento e di spae-samento che caratterizza tutto il mondo occidentale postmoderno.

Può il disorientamento territoriale (la reale perdita della bussola)essere alla base di comportamenti individuali e sociali di natura patolo-gica (schizofrenie e deliri)? A lanciare per primo un segnale di allarmein questo senso è stato Ernesto de Martino, nei suoi appunti per La finedel Mondo; allarme che, come noteremo, oggi non è assolutamenterientrato, ma assume sempre più quegli aspetti apocalittici annunciati epaventati dallo studioso napoletano.

Commenteremo la lettura del Viaggio de Leuche con l’intenzione dicontribuire alla nascita di un’organica antropologia dello spazio comestrumento capace di rendere coscienti delle conseguenze di questomutato rapporto con il territorio e con i cambiamenti che quotidiana-

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mente vengono operati su di esso all’insegna della riqualificazione edell’adeguamento.

La lettura del poemetto, in verità, ci ha portati a soffermarci anche sualtri cambiamenti intervenuti contemporaneamente nel Salento e, primofra tutti, su quello riguardante la lingua. Il dialetto salentino, considera-to fino agli anni Ottanta (alla stregua di tutte le altre parlate regionali)un retaggio del passato da mettere da parte a favore della lingua nazio-nale, è diventato curiosamente, nell’ultimo ventennio, oggetto di unariscoperta giovanile che non perde occasione di sbandierarlo orgoglio-samente. Fanno uso del dialetto i numerosissimi interpreti della “neo-pizzica” (la colonna sonora delle estati turistiche salentine) e sono com-posti in dialetto i testi del raggamuffin locale (con in testa i Sud SoundSystem) e quelli di diversi cabarettisti locali e nazionali (Ciceri e Tria, LaGegia, Andrea Baccassino). Allo scopo di assecondare questa riscoper-ta del dialetto può essere certamente utile il primo documento di poe-sia dialettale, il Viaggio.

Il Viaggio de Leuche

Un pomeriggio tardi, di fine luglio dell’anno 1692 una piccola comi-tiva partiva da Salice Salentino, un paese a una quindicina di chilome-tri a nord di Lecce, con l’intenzione di raggiungere l’estrema punta dellapenisola per partecipare, il primo di agosto, alla festa solenne dellaMadonna te Finimunnu.

Il gruppo era composto da quattro amiconi che viaggiavano a caval-lo e da due inservienti che li seguivano a piedi, per badare alle bestiee per dare una mano in caso di bisogno. Tre erano per certo sacerdoti;uno anzi, anni prima, era stato pure arciprete per sette anni aGuagnano. Si chiamava don Geronimo Marciano, ma tutti lo chiamava-no lu Mommu te Salice e a lui stava bene così. Al momento della par-tenza aveva più o meno sessant’anni, ma si sentiva ancora nel pienodelle sue forze, pronto ad affrontare le fatiche di quel viaggio che, fraandata e ritorno, era più lungo di duecento chilometri!

Partiva con l’intenzione di annotare tutto quello che sarebbe succes-so perché voleva farne un racconto in poesia. Lu Mommu era di estroartistico; nel paese lo sapevano tutti che gli piaceva comporre poesie e

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scenette. Sotto Pasqua le faceva rappresentare ai giovani, nella piazza,con costumi e tutto. Dicevano che, per queste cose, aveva preso dallabuonanima di suo nonno Girolamo, gran sapientone che conoscevatutti i peli della Terra d’Otranto e della sua storia. E infatti c’erano anco-ra, a casa sua, cataste di carte, libri, appunti e descrizioni. Per dire laverità, però, il nipote era diverso dal nonno, perché a lui non piacevapassare per uno scrittore serioso, per uno che usa le parole difficili perfare colpo sugli altri studiosi come lui. Ormai i tempi richiedevano altro.Voleva, si, fare un poema, ma il suo sarebbe stato un poema comico,scritto addirittura in dialetto, con quelle frasi che escono dalla bocca achi non lo conosce proprio l’italiano. A Napoli, la capitale del Regno,altri scrittori stravaganti avevano già cominciato a fare queste cose e iloro componimenti andavano forte in tutte le riunioni di corte.

Un altro della comitiva poi, pure lui prete, si chiamava don VanniPassante ed era l’amico più stretto di don Geronimo. Fra una messa, unaconfessione e una funzione, tutti e due trovavano sempre il tempo diparlare di quest’idea del poema da scrivere in dialetto. E come si scal-davano sulla novità della cosa! Andavano alla ricerca delle parole edelle frasi più efficaci e si compiacevano della sorpresa che avrebberoprodotto una volta stampate su un libro. La cosa li appassionava anco-ra di più quando arrivavano alla fine del boccale di vino che si mette-vano sempre davanti a ogni discussione.

Qualche volta si riunivano con tutta la compagnia pure nella chiesa,e facevano musica a modo loro. Cominciavano suonando certi diverti-menti musicali di un maestro tedesco, che di nome si chiamava GiovanniSebastiano ma di cognome, dicevano loro, faceva proprio Bacco, comeil santo Martino dei Romani. Poi si riempivano il bicchiere col passitodella messa e passavano a cantare le arie contadine di Salice. Alla fine lagiravano sempre a tarantella, si tenevano le sottane con la punta delledita e muovevano i piedi in onore di santo Paolo. Sapevano che il vesco-vo non la approvava quella musica nella chiesa ma, dicevano, quello chestavano facendo era sempre un gesto di-vi-no, perciò non c’era peccato.E poi, comunque, per quanto si lasciassero andare, la loro voce non arri-vava certo fino a Lecce, dove stava il vescovo.

A quel tempo preti e monaci erano quasi tutti malandrini, più deglialtri, perché con la scusa della tonaca che indossavano potevano ancheentrare più in confidenza con le femmine. Quelle sposate si sapevano

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guardare e si fermavano dove volevano; le giovani, invece, era più facileche restassero imbrigliate nei cordoni e nelle stole. La Chiesa sapeva tutto;minacciava scomuniche e sospensioni a divinis, ma la storia continuava.

Ad ogni modo, quel pomeriggio di fine luglio si decisero a partire e,strada facendo, trovarono proprio le cose di cui andavano in cerca.Tavole imbandite per mangiare e bere a laudaddìo e incontri con bellefigliole alle quali rivolgere qualche battuta e qualche occhiata. Inoltre sipresentarono loro tante occasioni per conoscere gente forestiera e perincontrarsi con certi compari che non vedevano da anni. E poi final-mente don Geronimo nipote poté vedere con gli occhi suoi tutti queiluoghi descritti nelle carte di suo nonno: le masserie con i pareti alti, igiardini ombrosi e profumati, le pietre che parlavano del passato, gli oli-veti secolari, i palazzi signorili e le marine col pesce fresco, che quelloè sempre desiderato. Vide interi paesi di grotte abbandonate dove, atempi antichi, i monaci greci avevano abitato e detto pure messa. Epoco ci mancò che cadesse da cavallo su certe carrare strette che sali-vano sulle serre, piene di tante pietre che in tutta la zona di Salice,Guagnano, Campi e San Pancrazio non ne troveresti neanche la cente-sima parte; che lì è tutto cretaccio buono per le vigne.

In tutto il viaggio non si presentò mai l’occasione di dire questo nonvale. Don Geronimo rimaneva sempre a bocca aperta come un bambi-no. La Terra d’Otranto era come un paradiso per lui, tutto era meravi-glioso: le case, la gente, l’odore dei tumi calpestati dai cavalli, le lineespezzate dei muretti di campagna e, oltre, la linea rotonda e azzurra delmare. In ogni nuovo quadro che si presentava davanti ai suoi occhivedeva la mano di Dio! E, in quei momenti, non si chiedeva neanchese si trattava del Dio suo, oppure di qualche altro Dio. Passo dopopasso si sentiva sempre più orgoglioso di vivere in quella terra, eaumentava pure il desiderio di raccontare agli altri l’esistenza di quellebellezze. All’occorrenza, ci avrebbe pensato lui ad aggiungere alle cosequalche poco di sale in più, se serviva.

Fra quello che vide e quello che si figurò, alla fine compose tre canti:uno raccontava la strada fatta da Salice fino a Otranto, un altro daOtranto a Leuca e l’ultimo parlava del ritorno. E poi andò lui stesso arecitarli di persona in tante occasioni. Li compose davvero in dialetto,come aveva pensato, e la cosa suscitava curiosità e allegria nella gente.

Tutti ridevano, bevevano alla sua salute e gli battevano pure le mani.

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Parte Prima

Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano

Quando accumuliamo religiosamente le testimonianze e idocumenti del passato, in effetti, stiamo cercando di decifrareciò che siamo alla luce di ciò non siamo più.

M. Augé

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Il testo

È il più antico testo poetico in dialetto salentino finora in nostro pos-sesso. Risale agli anni a cavallo fra il 1600 e il 1700 e dunque ha all’in-circa 300 anni. Le notizie relative a questo scritto e al suo autore si devo-no ai curatori delle edizioni critiche del testo e agli studiosi di letteratu-ra e di dialettologia che negli anni se ne sono occupati.

Le edizioni precedenti

In ordine di tempo, la prima edizione a stampa del poemetto la tro-viamo nel volume che raccoglie l’annata 1935 della rivista bimestrale diArti, Scienze e Lettere «Rinascenza Salentina», diretta da Nicola Vacca. Ladobbiamo a Michele Greco responsabile, allora, della Civica Biblioteca“Marco Gatti” di Manduria, cittadina situata fra Taranto e Lecce.Ricoprendo tale incarico, egli dice ebbe «la ventura di rintracciare unacopia manoscritta del poemetto posseduta da Giuseppe Pacelli», l’erudi-to manduriano vissuto tra il 1764 e il 1811 che fin da giovane aveva ini-ziato a raccogliere e a trascrivere una grande quantità di materiali lette-rari salentini o, comunque, riguardanti il Salento. Il testo che MicheleGreco rintracciò non era un autografo dell’autore ed era stato redatto damano ignota, diversa anche da quella del Pacelli. Purtroppo, se ne lagnalo stesso Michele Greco, «è da considerarsi una copia, abbastanza erra-ta e trascurata, dell’autografo del Marciano – che presenta – difformitàe irregolarità della grafia – e addirittura – alterazioni del testo tanto darenderlo, in molti punti, oscurissimo e di difficile interpretazione».

Ridottissime risultano, in quest’articolo, le informazioni sull’autore,quasi tutte desunte dallo stesso testo.

Né queste informazioni diventano più consistenti quando, nel 1954,il testo viene pubblicato, con variazioni minime, dal linguista OronzoParlangeli, in appendice al volume Ottocento poetico dialettale salenti-no curato da Ribelle Roberti per l’editrice Pajano di Galatina.

In questa appendice, aperta dall’intestazione Raccolta di testi dialet-tali salentini, si tralascia espressamente di entrare in merito alle proble-matiche relative ai vari testi pubblicati e dei quali si intende offrire solo

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una panoramica cronologica e una prima antologia. Il Viaggio delMarciano risulta introdotto da poche righe nelle quali è evidenziata lasua maggiore importanza rispetto agli altri documenti riportati «perché lalingua nel quale esso è scritto si rivela profondamente vicina al dialettoche nel Salento doveva essere parlato sulla fine del XVII secolo». Se neriporta il testo in maniera scarna, senza traduzione e senza fornire alcu-na nota circa l’interpretazione delle sue parti oscure, pur segnalate dalprecedente editore. Altrettanto indefinita resta la figura dell’autore e delcontesto nel quale si verifica la composizione, per le cui notizie ilParlangeli rimanda interamente alle poche righe riportate dal Greco.

Nel 1956 l’emerito dialettologo tedesco Gerhard Rohlfs pubblica ilprimo volume del suo Vocabolario dei dialetti salentini nel quale tieneaccuratamente conto anche di tutte le voci che compaiono nel poemet-to del Marciano rilevando anche, nelle note introduttive, che l’edizionedel Greco alla quale egli si rifà, contiene “molti errori di stampa”.

Trent’anni dopo si occupa del Viaggio Maria Teresa Romanello, asse-gnando al documento il posto che merita nel panorama della produzio-ne letteraria dialettale del XVIII secolo. Ella vi individua, infatti, il primoinstaurarsi di un modello letterario che troverà conferma e continuazio-ne nella successiva produzione dialettale salentina fino alle soglie delNovecento. Il suo volume Per la storia linguistica del Salento (Edizionidell’Orso, Alessandria 1986) raccoglie e mette a confronto tutti i testidialettali fioriti nel Settecento in questo “estremo lembo della Penisola”.Si citano, accanto al Viaggio de Leuche, la commedia La Rassa a bute, ilcomponimento satirico La Iuneide, o sia Lecce strafurmata, la farsapastorale Nniccu Furcedda accanto ad altri testi coevi di minore esten-sione.

La Romanello non riporta integralmente il testo del Viaggio, né se neoccupa in termini critici, lasciando così insoluti tutti i dubbi interpreta-tivi espressi dal Greco nella sua prima edizione e anzi confermando,nelle citazioni, alcune grossolane sviste del copista denunciate dalRohlfs come “errori di stampa”.

Quando a interessarsene è Mario Marti, nel volume riguardante ilSettecento della sua Letteratura Dialettale Salentina (Galatina, Congedo

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1994), vengono messe sensibilmente più a fuoco tanto la figura dell’au-tore, quanto altri particolari del componimento, come le circostanze delViaggio stesso.

Don Geronimo Marciano, nome all’anagrafe de Lu Mommu de Saliceindicato dal copista come autore del poemetto, risulta essere nipote del-l’erudito salentino Gerolamo Marciano (vissuto fra il 1571 e il 1628), notoper il suo Descrizione, origini e successi della Provincia di Otranto, pub-blicato a Napoli molto tempo dopo la sua morte, nel 1855. Risulta altre-sì nato nel 1632 a Maruggio, in provincia di Taranto, da Luca Marciano,di professione medico, e da Isabella Manaro, originaria di SaliceSalentino. È questo il paese che l’autore elegge come propria patria tantoda farsi chiamare, appunto, Lu Mommu de Salice. Qui infatti la sua fami-glia si trasferì presto in seguito alla morte del capofamiglia.

Dalle ricerche del Marti sappiamo inoltre che don Geronimo fu arci-prete per circa otto anni a Guagnano, località a qualche chilometro daSalice, e che visse l’ultimo periodo della sua vita a Casalenèu, cioè aManduria, dove morì il 28 febbraio del 1714. Come risulta esplicitamen-te dalla dedica che apre il componimento, qui egli godette, come altriartisti e letterati suoi contemporanei, della tutela del mecenate donMichele Imperiale, principe di Francavilla e marchese di Oria.

Quella del Marti è una rigorosa edizione critica che non solo si pre-occupa di riportare integralmente il testo, ma aggiunge anche le oppor-tune proposte di modifica e di integrazione alla trascrizione del mano-scritto pubblicata per la prima volta dal Greco e mai messa in discus-sione.

Marti presenta, naturalmente, anche una puntuale traduzione che,nel rispetto della lettera, restituisce senza soluzione quei punti oscuridenunciati dalle altre edizioni e, anzi, ne addita di nuovi. A volte lacausa di questi costrutti oscuri viene attribuita ad “arditi metaforismi lin-guistici”; altre volte si avverte il tentativo di risolverli ricorrendo a pos-sibili sviste dell’anonimo copista.

Un altro accenno alla personalità dell’autore, soffermandosi soprat-tutto sul peso che ebbe il suo poemetto nella produzione poetica suc-cessiva, lo fa Donato Valli quando si occupa degli inizi della letteraturadialettale nel Salento, nella sua Storia della poesia popolare nel Salentopubblicata a Galatina per l’editore Congedo nel 2003.

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Questa edizione

L’edizione che qui presentiamo non ha pretese critiche né filologi-che; basa le sue conclusioni sugli studi precedenti testè citati e, pervolersi soffermare in modo particolare sul contenuto dell’opera, si ripro-pone di risolvere a tutti i costi i dubbi interpretativi finora avvertiti esegnalati. A tale scopo non ha esitato a fare ricorso anche all’intuizioneche, notoriamente, non è ammessa a chi persegue con rigore una meto-dologia prettamente filologica o critica. Volendo analizzare il contenutodell’opera, avevamo bisogno di un testo scorrevole, libero dai singhioz-zi interpretativi a cui obbliga un approccio rigorosamente scientifico. Lenostre soluzioni, naturalmente, tengono conto delle questioni riguar-danti l’aspetto formale del manoscritto ma si concedono anche la liber-tà di interpretare a senso quei passaggi oscuri che, per essere sciolti,avrebbero bisogno di maggiori verifiche in una tradizione linguistica dicui, ahinoi!, abbiamo pochi altri documenti scritti. Il senso generale deltesto, d’altra parte, ritrova concordi tutti gli editori precedenti, che silimitano ad interpretare in maniera diversa solo alcune probabili svistedel copista oppure la natura di alcuni suoi vezzi grafici che danno luogoall’incertezza circa la natura di alcune vocali, ad una punteggiaturaapprossimativa e a tentennamenti sia nell’accentazione che nella nota-zione delle maiuscole.

Da parte nostra, per tentare di risolvere con una certa coerenza i pas-saggi dubbi, abbiamo messo a frutto, oltre alla nostra personale compe-tenza di parlanti dialettofoni, anche i risultati del confronto con la com-petenza più accreditata di numerose persone anziane originarie del-l’area leccese e salicese. Abbiamo sottoposto alla loro attenzione la let-tura del testo e abbiamo tenuto in debito conto le considerazioni chene emergevano. Questa verifica ha portato in diversi casi a delle solu-zioni illuminanti che, per il fatto di essere dettate dal buon senso deiparlanti più che da complessi ragionamenti di natura dotta e filologica,appaiono ragionevolmente plausibili e coerenti con le intenzioni del-l’autore.

Nel commento al testo abbiamo, comunque, dato sempre atto dellanatura delle nostre proposte esegetiche affidandone, in ogni caso, l’ac-cettazione definitiva ai linguisti e agli specialisti.

Il nostro lavoro di interpretazione è stato integrato anche dai dati di

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natura extralinguistica raccolti nel corso di un’accurata indagine sul ter-ritorio, effettuata ripercorrendo passo per passo l’intero itinerario descrit-to nel Viaggio. Questa ricerca, condotta alla lettera sul campo, ha richie-sto anche la consultazione di materiali extraletterari, come la cartografiastorica, il Servizio Interattivo Territoriale (SIT), messo in rete dallaProvincia di Lecce e le carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare(I.G.M.). È risultata altresì utile la consultazione di altri testi che, diretta-mente o indirettamente, forniscono notizie utili per una verosimile rico-struzione della viabilità antica del Salento e di altri dati riguardanti il ter-ritorio. Seguendo il cammino descritto dal Marciano ci siamo soffermatinelle località nominate. In vari punti del percorso abbiamo confrontato inostri pareri anche con coloro che, per motivi diversi, si dichiarano inte-ressati alla memoria, al dialetto o alle questioni riguardanti i cambiamen-ti del territorio. Allo scopo di verificare la natura di alcune osservazionidel Marciano abbiamo tentato, per di più, di trovarci nei vari luoghi nellastagione e nelle ore corrispondenti al suo passaggio.

Riporteremo più avanti, dettagliatamente, il resoconto di questanostra esperienza di viaggio che ci ha permesso la puntuale ricostruzio-ne di alcuni particolari del poemetto.

Per la traduzione in italiano abbiamo cercato uno stile scorrevole econsono al linguaggio attuale, che volgesse i versi di un dialetto arcai-co e obsoleto in una prosa il più possibile piana, tanto dal punto di vistalessicale che del costrutto. Per ottenere questo scopo ci siamo talvoltaconcessa qualche libertà, sforzandoci comunque di non aggiungere nes-sun concetto che non fosse già presente (in modo esplicito o implicito)nel testo dialettale.

Le note che abbiamo apposto al testo sono molto numerose e, peralcuni, possono risultare anche ridondanti. Ciascuno ne faccia un usorelativo alla propria competenza del dialetto e della cultura salentini, esia disposto a tollerare il carattere pleonastico di talune osservazioni chesi propongono comunque lo scopo di rendere comprensibile il testodialettale anche a chi ha poca esperienza di questo idioma.

Nel chiarire il significato dei termini si è sempre fatto riferimento,naturalmente, agli studi del Rohlfs e, in particolare, al suo Vocabolariodei dialetti salentini (Congedo 1976) al quale si rimanda per ogni dub-bio lessicale non sufficientemente chiarito.

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