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I Se questo mondo fosse una festa, non vorrei essere invitato, gra- zie, così penso leggendo i titoli dei giornali in un'edicola, e io di feste me ne intendo. Riprendo a camminare. E ti vedo, da lontano ti vedo, mentre decido di non avvicinarmi. Sono in anticipo, penso. Ho ancora qualche minuto a disposizione e, li userò, per os- servarti, capire o, tentare di farlo, cosa significhi, tu, dall'alto della tua storia, faccia di pietra colorata dal tempo, allora ti osservo, non ti sei ancora accorta di me che sono arrivato girandoti intorno, tu non ti accorgi che mi siedo in un bar, di fronte a te, che ordino una birra, piccola chiara alla spina, grazie, non ti accorgi, scusi, anche un po' di noccioline, così io al cameriere, penso indiano, che serve ai tavoli, me- glio affrontarti a stomaco pieno e con i freni inibitori affievoliti dai po- chi gradi della birra e dal caldo di questa giornata troppo calda per essere primavera. Penso, chissà se la maggior parte delle persone sedute in quel caffé stanno pensando a te, con la mia medesima missione, incontrarti, così penso, allora li osservo, osservo la gente intorno a me, la gente, le persone, il mio prossimo, individui, la massa, piccola e media borghesia, alta borghesia, proletariato, professionisti, studenti, nullatenenti, romanti- ci, cinici, arrivisti, egoisti e altruisti, cantanti, poeti, malfattori, puttane e suore e, suore e puttane, mah. In sintesi dovrebbe essere umanità punto 7

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I

Se questo mondo fosse una festa, non vorrei essere invitato, gra-zie, così penso leggendo i titoli dei giornali in un'edicola, e io di feste me ne intendo.

Riprendo a camminare.E ti vedo, da lontano ti vedo, mentre decido di non avvicinarmi.Sono in anticipo, penso.Ho ancora qualche minuto a disposizione e, li userò, per os-

servarti, capire o, tentare di farlo, cosa significhi, tu, dall'alto della tua storia, faccia di pietra colorata dal tempo, allora ti osservo, non ti sei ancora accorta di me che sono arrivato girandoti intorno, tu non ti accorgi che mi siedo in un bar, di fronte a te, che ordino una birra, piccola chiara alla spina, grazie, non ti accorgi, scusi, anche un po' di noccioline, così io al cameriere, penso indiano, che serve ai tavoli, me-glio affrontarti a stomaco pieno e con i freni inibitori affievoliti dai po-chi gradi della birra e dal caldo di questa giornata troppo calda per essere primavera.

Penso, chissà se la maggior parte delle persone sedute in quel caffé stanno pensando a te, con la mia medesima missione, incontrarti, così penso, allora li osservo, osservo la gente intorno a me, la gente, le persone, il mio prossimo, individui, la massa, piccola e media borghesia, alta borghesia, proletariato, professionisti, studenti, nullatenenti, romanti-ci, cinici, arrivisti, egoisti e altruisti, cantanti, poeti, malfattori, puttane e suore e, suore e puttane, mah.

In sintesi dovrebbe essere umanità punto

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Devo passare il tempo e la birra finisce troppo in fretta, come le persone sedute ai tavolini di questo bar, come le noccioline, scusi, scusi, un'altra piccola chiara per favore, così io al cameriere, forse indiano, che adesso ha solo me da servire, ed iniziamo ad intrattenere un qualcosa molto simile ad una conversazione, si chiama Nonhocapitocome, dice che al suo paese era contadino, plausibile, è arrivato in Italia dopo un lungo viaggio, che gli ho chiesto di non raccontarmi, per favore, e conti-nua, facendo il contadino non riusciva a mantenere la famiglia, ha una moglie e tre figli al suo paese, così mi racconta, tra la pulizia di un tavolo e un altro e, allora è andato in città, anche questa non ho capito quale, si è messo a leggere la mano ai turisti, pratica che gli è stata insegnata dal nonno quando era bambino, ma, siccome i turisti scarseggiavano, anche così non riusciva a far campare nessuno. Il resto è straccio in mano a pu-lire tavolini e, forse, prima ancora sono stati i semafori.

Ci sono cascato, quello che il piccolo forse indiano, si sarebbe aspettato che io facessi, l'ho fatto. Gli ho chiesto di leggermi la mano, con la scusa di altre noccioline.

Sei stato molto male quando eri piccolo, così lui e, adesso sei meglio, è felice per te adesso, ti sposerai e avrai due bambini

Così Nonhocapitocome si alza è continua nelle sue faccende affaccendato, gli chiedo quanto devo per il suo servizio, niente risponde con un cenno della mano.

Non capisco se devo essere contento o no, il fatto che lui ha indo-vinato la prima parte della sua lettura significa che si avvererà anche la seconda o si è buttato quindi non si avvererà niente o quasi. Tutti, da piccoli, in un modo o nell'altro, sono stati molto male, complicazioni di qualche malattia esantematica, tipiche nei bambini, così saprò, oppure quando si è piccoli si fanno sempre dei giochi pericolosi rompendosi le ossa, forse, penso, non si riferiva ad un male fisico, forse pensava ad un'infanzia tribolata, forse ho gli occhi stanchi, locandina di chissà quali acciacchi passati.

Riprendo a guardarti, occupato come sono dalle parole del mio fu-turo acquisito, adesso ti guardo però in un altro modo, ora che conosco ciò che mi accadrà, già mi sembri diversa e penso fatica sprecata, tanto non ti accorgi di me, non ti sei ancora accorta che sono arrivato e

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mi sono seduto qua, non lo farai, come non ti accorgi di nessuno che ti passa davanti, con la sufficienza di chi tanto sa che prima o poi, anche solo per cultura, bisogna passare da te, e tu attendi indifferente, come faccio io in questo bar, aspetto, ancora qualche minuto che devo riempi-re, allora cerco di condividermi nelle facce dei passanti, oh Amore, dio dell'ingenuità, non mi abbandonare, e, penso alle cose che amo di più, l'inizio di Manhattan, le Variazioni Goldberg suonate da Gould, Happy Days, Pessoa, il sorriso dei figli che spero di avere in futuro, Estate, il cu-lo di Moana Pozzi, Sostiene Pereira, Harry ti presento Sally, Don Ca-millo e Peppone.

Dieci, mi devo fermare a dieci, di sicuro ho scordato qualcosa ma non la posso fare troppo lunga, la lista e, mi accorgo che tra le dieci cose che amo non c'è il motivo che mi ha portato qui, oggi, seduto, a bere birra, piccola chiara, sapientemente accompagnata da noccioline salate.

Proviamo con le cose che non amo, anche queste, però, devono essere dieci, sono un giusto, così penso, Holliwood, la politica estera americana, la televisione di oggi, il gossip, la new economy, l'esasperazione, la musica House, il wonder-bra e le mistificazioni in generale, forse questo vale per due, il commercio e, basta, non mi viene in mente nient'altro da non amare, solo che in questo secondo raggruppamento, così sento, se cerco bene, perchè si nasconde, è subdolo, riesco a trovare il motivo che mi ha condotto qua, me come tanti altri, ad incontrare te, che mi farai ombra, sempre di più mentre mi avvicinerò, entrerò, percorrerò la na-vata centrale fino in fondo, attraverserò il tuo transetto, mi lascerò la Cappella di San Brizio a destra e la Cappella Corporale a sinistra e, subi-to dopo, il Coro, dove mi aspetta Padre Nunzio, il parroco che prima di noi ha sposato i genitori della mia futura moglie, loro ci tengono tanto che ci sposi lui, avrete un matrimonio felice come il nostro, sarà di buon auspicio, così dicono, e dopo ha battezzato i loro figli, comunione e cre-sima.

Global Service.

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II

Oggi mi piove dentro, come in tanti altri giorni che ho passato, ma oggi lo posso raccontare.

Quando piove dentro di te è dura, ma se piove anche fuori, alme-no ti senti in armonia con quel tronco di mondo che ti gira intorno, penso.

Oggi piove, mi ricordo. Oggi non piove pioggia ma umidità, così io, umidità che appiccica gli occhi al finestrino, mentre cerco di decifrare le figure che dall'altra parte diventano grottesche. È un gioco e perdo spesso.

Ma oggi piove, così io, oggi io, grottesco, all'interno dell'auto, oggi sono io, con il diluvio che ho dentro e che mi ha mandato a puttane quelle poche certezze che mi sono coltivato in diciotto anni di vita.

Poche certezze. Uniche certezze. Con le orecchie si ascolta e si ri-conosce, con il naso si odora e si riconosce e, continuo, con gli occhi si guarda e si riconosce, con la lingua si gusta e, si riconosce. Queste certezze.

Poche certezze, penso, ma fondamentali, continuo. Con le mani, le dita, tocco e, oggi non mi riconosco, così ricordo. Basta solo un senso in tilt, e ti senti esterno. Non invitato. La festa è due porte più avanti, mi dicono, ma non ci arriverò mai, le gambe sono inchiodate come il tatto, le dita, inchiodate a questo sedile, così sentivo.

Forse è il tempo trascorso da allora, tanto, che si racconta come un sogno da sudare, da mangiato pesante la sera prima. Forse è il tempo, che sicuramente aggiusta, ma qualche pezzo rimane fuori, come quando

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a quindici anni smontavo il motorino e, alla fine, a terra, c'era sempre una vite, una molla, e il motorino perdeva colpi.

Così è il tempo, forse, perde colpi, si distorce, diventa un film, do-ve non sempre mi sento protagonista, più il ricordo è lontano. Ma posso raccontarlo.

Alieno, Non adatto a partecipare.Ci dispiace, ma lei non è adatto a questo lavoro, ci servono perso-

ne capaci di interagire attivamente con l'ambiente in cui vengono inseri-te, così mi sembra di ascoltare, immobile, e continua, non so chi, ma continua, si lei ha delle ottime referenze, è spigliato, conosce bene due lingue, è riconoscibile nel gruppo, ha personalità. Ma, non sente. Non sento.

E la mia vocina che mi sta rifiutando continua, lei non sente, non percepisce. È una pietra. Che si dice dal regno minerale puntointerrogati-vo

Sono una pietra, che però gira vorticosamente e la mia testa con me. Verrò lanciato, forse, come fossi un maglio.

Cerco di fissare lo sguardo e l'attenzione su qualcosa di fisso, ma in questa cazzo di macchina niente è fisso, tutto gira. Non so come Carlo riesca comunque ad andare dritto, penso e, ricordo.

Prima stazione. La quinta è quella dell'ingresso di Sant'Agnese sulla Nomentana e, all'accenno di rallentamento, la fila di patentati al conservatorio inizia a suonare, mandandomi il vomito di traverso.

Carlo fermati, così io, mi viene da vomitare, e continuo, ora. La co-lonna sonora dei clacson delle automobili che ci seguono, mi impedisce di sentirmi.

Non penso siamo ancora fermi quando, finalmente, riesco a dare il meglio che ho da dare. La pioggia che ho dentro.

La pioggia che ho dentro. Faccio in tempo ad aprire gli occhi do-po la tempesta e vedo la mia pioggia mischiarsi alla pioggia degli altri, dissolvenza, creando un numero imprecisato di rigagnoli di pioggia mi-sta a pioggia e biscotti della prima colazione, così io. Tutto è finito, la fi-la di orchestrali dietro di noi è passata, noi anche. Carlo ha accostato, forse senza freccia, forse ha inchiodato dopo il mio avvertimento mi-naccioso di vomito in macchina, forse è per questo che i musicanti

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che ci seguivano erano così incazzati, per non aver avuto il tempo di ri-flettere, capire cosa stava succedendo, la gente ha bisogno di capire, vuo-le il tempo per capire, a volte lo reclama inerme, altre volte lo esige.

O forse avevano solo fretta e un coglione ha deciso di sentirsi ma-le alle otto del mattino, ora di punta per l'ingresso delle scuole e l'apertu-ra degli uffici. Ha deciso di sentirsi male in piena fila all'altezza di Sant'Agnese sulla Nomentana, cullato dal rumore dei tergicristalli che tentano di opporsi alla cecità della pioggia, vomitando davanti l'ingresso di una chiesa.

Poi passa, questo tempo passa, e la fila con lui, e la pioggia con lui, insinuandosi tra i sanpietrini e, come la pioggia, anche il tempo s'insi-nua, opponendosi alla diga creata dal mio evento intestino, e si insinua.

Altre stazioni ci sono state dopo questa, altre fermate, altri clacson e tergicristalli, e pioggia e ombrelli, e bestemmie e, dove cazzo mi fermo, trattieniti se puoi. E sudore, e lacrime come sudore, e come ti senti, e radio-giornali, e semafori rossi, e la festa di questa sera, e incroci bloccati, e lava-vetri divini che, senza posa, continuano a bagnarci, e ti-mori, e incoscienza, e voglia di tornare a casa, e mamma non c'era quando siamo usciti, e solitudine affollata di lamiere e pistoni, e bambini per mano, e nausea.

Altre volte ci siamo fermati, forse due, forse tre, penso oggi, forse l'ultima davanti al Pronto Soccorso, siediti qua, io vado a parcheggiare meglio, così Carlo.

Il dottore scrive nome e cognome, e sono io, indirizzo, è il mio, età diciotto anni, la mia, così lui all'infermiera e, continua.

Anamnesi.C'è un letto libero ad Otorino, lo ricoveriamo, ma posso racconta-

re.Fallo sedere accanto alla ragazza qua fuori, così il camice di cui

non ricordo il volto, dice all'infermiere appoggiato, stanco, sulla sedia a rotelle che mi ha carontato dalla sala d'attesa del Pronto Soccorso, alla sala visita numero ....boh. Vorrei ricordare di più, e, dove non ricordo, invento, così penso, perdendo la percezione della flebile differenza tra inventato e vissuto, sentito e raccontato, visione, visto ed osservato. Co-me una tromba d'aria che raccoglie dal suolo tutto quello che trova,

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lo mischia, lo risbatte a terra nella sua definitiva, nuova collocazione, fi-no all'arrivo degli spazzini dell'anima che lasciano in giro solo poche co-se e, la maggior parte di queste, poco interessanti.

Mi gira la testa.Accanto alla ragazza. Quale ragazza, ne vedo molte, e loro

accanto ad altri uomini, donne, vecchi, tutti in attesa che il ciclone, chia-mato amministrazione sanitaria, ti restituisca il corpo per la definitiva si-stemazione, così io.

Ne vedo tante di ragazze, ora accanto a me, ed io in mezzo a loro, ma dicono che sia solo una, o almeno il camice che ha deciso il mio rico-vero, così avrebbe giurato, ma io ne vedo molte.

Tutte belle.È il male, oppure gli ormoni, che sono un male, penso, se non

puoi dargli un seguito, e continuo a pensare, sono tante e tutte belle.Come sto, sicuramente uno straccio, vestito di corsa, puzzo di vo-

mito, perché di vomito ho parlato, non mi noterà mai e, se mi parlerà, devo girare la testa dall'altra parte, per non anestetizzarla con i fumi del mio ventre, e continuo, voltarmi, girare la testa, solo al pensiero ri-prendo a piovere e, penso, non è il massimo come approccio.

Che sfiga.Diciotto anni, puzzolente, vestito peggio, con una faccia e delle

borse sotto gli occhi, tanto grandi da poterci mettere dentro tutta la mia vita, così io. Per non parlare dei capelli, quelli poi, già allo stato normale sono arruffati, incasinati, non posso nemmeno pensare cosa sembrano ora, se li potessi vedere, quindi almeno sistemare, forse potrei sembrarle almeno simpatico, così, se dovessi incontrarla fuori di qua, potrei dirle ti ricordi di me, sono quello simpatico seduto accanto a te, il giorno in cui ci hanno ricoverati, lei farebbe sicuramente una faccia sorpresa, poi sicu-ramente riderebbe, io le ragazze le faccio ridere spesso, stanno bene con me, dopo la inviterei ad uscire per parlare di come sta ora, di quello che ha passato, se ha avuto paura, questo è impossibile, a diciotto anni non si ha paura, si sta male e basta.

I miei capelli, chissà come mi stanno, mentre lei è bellissima, o co-sì mi sembra, loro sono bellissime.

Sorride, forse mi ha sentito pensare ed ha trovato tutto molto di-vertente, l'ospedale, l'attesa, i malati, io che tento di piacerle, o meglio,

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io che vorrei fare qualcosa per piacerle o sogno di farlo, così io, appoggiando la testa indietro.

Sorride, ma forse è una smorfia di dolore, dimenticavo che non siamo in discoteca, lei non è seduta sul divanetto accanto al mio, sorseggiando un Bellini, sta soffrendo e, se smetto di pensare a lei, si sentirà sicuramente meglio.

Che cazzone. Mi viene da vomitare, ma dovrei inventarmi qualco-sa da tirare fuori.

Sono vuoto.Cos'hai, perché sei qui, così i miei ormoni diventano suoni, musi-

ca, più precisamente. Ormoni, questi maledetti, si ostinano a entrare nei miei sogni, facendomi credere che sta accadendo veramente qualcosa, li odio, così penso, e, continuo ad ascoltare, ora il viso della ragazza seduta fuori la sala visita, accanto alla quale mi sarei dovuto sedere e mi sono seduto, è rivolto verso di me, in attesa, perché sei qui, continua.

Moderata felicità.Scusa, non ti avevo sentita, così io, rivolto a lei, incurante o di-

mentico dell'umore che proviene dalla mia decomposizione intestina, ma sembra non darle pena.

Forse è solo educazione, penso e, continuo, non so cos'ho, sto ma-le, mi gira tutto, anche te, anche se mi fa molto piacere vederti girare intorno, questo lo penso, non lo dico. Ho anche vomitato, non so quante volte, così io, anzi scusa, non devo avere un aspetto piacevole, intendendo con questo anche l'odore, ma non lo dico.

La ragazza seduta accanto al ragazzo, seduto accanto a lei, non sembra fare caso al coacervo di brutture maleodoranti espresso così ma-gistralmente dalla mia persona, come se la sofferenza che l'ha portata fi-no a sedersi accanto a me, ma prima, le avesse ostruito i sensi, almeno la vista e l'olfatto, come spero che le funzioni la chimica dell'epidermide, grazie alla quale, e continuo a sperare, lei si è rivolta a me con elegante interessamento, mentre continua a girarmi intorno insieme con uomini, donne, vecchi, sedie, suppellettili, infermieri, dottori erranti di reparto in reparto, bacilli, mucose espulse, braccia rotte, nasi sanguinanti, astenici, non vorrei essermi dimenticato di qualcuno, nel caso così fosse, non me ne voglia nessuno.

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Sedia a rotelle.Un infermiere prende la sedia a rotelle sulla quale sono seduto e

mi parcheggia di nuovo, questa volta dall'altro lato della ragazza seduta accanto a me. Lo ringrazio, penso, il lato destro della ragazza non ha niente da invidiare al suo lato sinistro, giusto per avere una panoramica completa.

Adesso ti portano al reparto, così Carlo, io torno a casa, ti prendo quello che ti serve, pigiama, pantofole, vestaglia, spazzolino, e torno, conclude.

È nervoso, lo vedo da come si muove.Forse ha paura.Io no, sono solo preoccupato di riempirmi la vista il più possibile

con la ragazza seduta accanto a me, questa volta alla mia sinistra, me la voglio ricordare, così se la dovessi incontrare di nuovo, Roma è piccola in fondo, potrei riconoscerla, in realtà non riconosco mai nessuno, quindi non saluto.

Lei me la voglio ricordare, così penso, sperando più nel fatto che lei si ricordi di me per via della mia faccia così particolare, dicono i miei estimatori, mamma e, forse, qualche altro parente stretto. Sei pronto, co-sì l'infermiere afferrando da dietro, o da tergo, come direbbero adesso i commentatori di calcio, la mia sedia a rotelle e portandomi verso un'usci-ta diversa dall'entrata, dove, così le voci di corridoio, si dice che mi stia aspettando un'ambulanza per portarmi al reparto di Otorino-Laringo-iatria.

È stato tutto così veloce, l'infermiere, mio fratello, tutto, che non sono riuscito a salutare la ragazza seduta prima alla mia destra, poi alla mia sinistra, e così anche lei, non mi ha salutato, nemmeno un imbocca al lupo, niente, penso mentre l'ambulanza parte, accanto a me un infermiere, un altro. Non le ho chiesto nemmeno che cosa avesse, cazzo. Sempre così, perdo l'attimo.

La testa mi gira adesso velocissima, la nausea mi ha riempito fino alla punta dei capelli, vomiterò dentro l'ambulanza, così penso, ma non succede, faccio in tempo a scendere davanti l'edificio dove si trova la mia destinazione e a regalare all'umido asfalto quello che ho di più inti-mo e più puzzolente.

Di nuovo, qualche millilitro di succhi gastrici.

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III

Ombre di consigli mi assediano, ma forse mi è rimasta una canna.Oggi mi laureo.Fra qualche anno capirò che non è il matrimonio il punto di non

ritorno, il momento in cui si cambia vita, così penso.Non è il matrimonio il luogo dell’incertezza, non è il matrimonio

il momento in cui il timore di non conoscere quello che perdi è pari solo al non conoscere quello che forse avrai, così io anni dopo adesso. Che fi-losofo diventerò.

Sorpresa.Il matrimonio è un momento sopravvalutato, indebitato di

aspettative sempre disattese.Ma lo saprò solo domani, oggi lo immagino solamente, ma sul

matrimonio ci tornerò più avanti.E comunque, non è il matrimonio l’unico evento in cui parenti

stretti o amici ti arricchiscono delle loro esperienze, pillole, meglio perle, della loro vita, grazie alle quali ti sentirai sicuramente più preparato ad affrontare quel sincero momento di solitudine che riesci a condividere con una moltitudine infernale di volti appiccicati alla rinfusa a carne so-stenuta da ossa.

Giammai meno solo, di quando sei solo.

Ho scoperto, ma solo più avanti, al termine del mio sonno, che questa tradizione, il consiglio appunto, si ripete ad ogni prima occasione, così continuo a pensare tra un tiro e l'altro.

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Ogni prima di qualsiasi cosa.La prima uscita con una ragazza, la prima scopata, il primo esame,

e prima ancora il giorno prima della maturità, e così via fino alla laurea, al matrimonio e al primo figlio.

A tutto questo, si aggiunge chi, con le tue medesime esperienze, si sente investito di chissà quale compito divino, penso, per il quale si cre-de autorizzato a saperne più di te, non si sa di cosa, ma di più.

Ho imparato inoltre che il primo, come momento, rappresenta so-lamente il vertice della piramide, subito sotto ci sono dei sottoinsiemi di occasioni, e anche queste diventano mete di pellegrinaggio di meno convincenti dispensatori di consigli, e così via fino ad arrivare alla base della piramide, ad appannaggio, però, di meno fortunati, o, come li chia-mo io, dei cosiddetti giornalieri, ovvero personaggi che leggi come si legge un quotidiano, che poi si lasciano mettere via, buoni comunque per accendere il fuoco.

Il vero momento x è la laurea, il grande giorno in cui dovrò sinte-tizzare il mio percorso didattico maturato in otto anni di studi e, non so-lo.

È la laurea, il momento in cui – mi si è spenta la canna – lasci il paradisiaco limbo dell’incoscienza e dei sogni e delle ragazze cercate, a volte trovate, ma il meglio è cercarle, così io, e delle nottate passate camminando dietro a Santa Maria della Pace fino al mattino, e del respi-ro dell’alba sul tavolo da disegno.

Amici già dati, mi hanno mitologicamente parlato di stomaci strillanti e viscere subdole nei momenti subito precedenti la discussione, anzi fin da casa, ricordo, e, ricordo, nulla di tutto questo, a me. Grazie canna, presto riaccesa, anche se non sono sicuro che sia merito tuo, ri-cordo e penso, guardandola, seduto sulla tazza del cesso.

Ore sette, doccia e apertura di finestra.Hai finito amore, così mia madre, non fare tardi oggi, noi siamo

quasi pronti. Non è necessario che voi veniate con me, io vado prima per portare le tavole e fare l’appello, ma non penso di essere il primo a discutere la tesi, voi potete fare con calma, mamma.

Figurati, papà ha gia le chiavi della macchina in mano, mi grida mia madre da dietro la porta del bagno.

Cosa c'è di meglio, dopo una canna, di una doccia rigenerante,

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prima di discutere la tua tesi di laurea.Ena ti ha stirato il vestito, ma quale vestito, così io a mia madre, il

vestito che ti devi mettere. Non mi metterò nessun vestito, pantaloni e camicia, c'è troppo caldo.

Ti metterai il vestito, ti ho preso anche la cravatta.Se non mi metto il vestito, figurati la cravatta.Hai deciso di farmi arrabbiare proprio oggi che si laurea mio figlio.Il tuo figlio che si laurea sono io, e non ti voglio fare arrabbiare, a

te deve interessare che mi laureo, non come sono vestito.Anche quello conta, specialmente quando sarò vecchia, e rivedrò

le fotografie di oggi, come saresti bello in giacca e cravatta.Mamma, per quando sarai vecchia, le fotografie della mia laurea si

saranno sicuramente perse.Io ho fatto, sono pronto, ci vediamo all’università. Carlo e Co-

stanza vengono qui o direttamente là, chiedo.Stanno arrivando, perché non li aspetti, andiamo insieme.Mamma devo andare, ciao.In che aula è, dove ti troviamo.Ci sono attaccati gli elenchi in bacheca, ciao.Chissà se la macchina parte oggi, penso e, tento di accendere.È partita.Serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette sul cruscotto della

mia mini clubman e le tavole, frutto di un intenso mese di lavoro, dietro, scarrozzate da me.

Un mese di lavoro, di intenso lavoro appunto, non tanto mio, quanto della ventina di persone che si sono avvicendate per aiutarmi.

Tutto è nato quando, un mese prima di discutere la mia tesi, ho chiesto al professore di cambiare il mio progetto, visto che il precedente era ormai arrivato in un punto di ristagno progettuale. Se te la senti, pro-vaci, così il mio relatore.

Me la sentivo.Con l'aiuto di una ventina di amici, me la sono sentita.Dalla prima settimana telefonava gente a studio dicendo, so che lì

vi divertite, posso venire a dare una mano anch'io, così dicevano. Alla fi-ne c'erano una ventina di persone che si avvicendavano, tra questi quattro o cinque che facevano chi la facoltà di Lettere, chi Economia e

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Commercio, mi ricordo che c'era anche un avvocato, tutti insieme a pre-parare una tesi di architettura. Io giravo per i tavoli. Marzio si doveva occupare del plastico in creta, ma spesso si finiva con palle di creta attaccate ai muri, e, una sera a settimana, grande festa. Si, perché con Marzio siamo diventati dei veri organizzatori di feste, grandi feste. Dalle prime per il pomeriggio, alla sera. In seguito ci siamo uniti ad altri orga-nizzatori di feste, diventando i più forti elargitori di divertimento sulla piazza. Tutti i locali e localari ci vogliono, ma noi andiamo solo dove ci divertiamo, non è una questione di soldi. Più non è una questione di soldi, più si guadagna, strano.

Le prime feste in notturna le facevamo in un locale che si chiama-va il Casanova, a piazza della Maddalena.

Oggi non esiste più.Vicino al Casanova c'era un bar, le Cornacchie, dove penso, si riu-

nisse tutta Roma prima di andare da qualsiasi altra parte, o in qualsiasi altra festa, la piazza era piena, non ci si muoveva.

Certe sere, quando non c'erano feste, io uscivo da solo, mi muove-vo di casa verso le undici e mezzo e andavo alle Cornacchie, lì incontra-vo tutta Roma e, tutta Roma incontrava me, si spacciavano biglietti per la prossima festa, ci si invitava alla festa a casa di qualcuno a Port'Ercole o Ansedonia, queste ultime quasi sempre a casa di Marcello, in occasio-ne dell’inizio dell'estate o per la fine.

Le feste più belle alle quali ho partecipato, ricordo.Marcello e Luca arrivavano prima per preparare la sangria, alle

otto di sera, prima che la festa iniziasse, erano ubriachi come zucchine.Poeti.

Dopo qualche anno, le Cornacchie non andavano più, così come il Casanova e nella piazza era rimasto solo qualche fedelissimo, romanti-co dei tempi che furono, qualche distratto che non si era accorto del cambio di giro e qualche ritardatario. A Roma funziona così, i locali hanno una vita molto breve, al massimo un paio di stagioni e, poi, il dilu-vio.

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IV

Faccio in tempo a sedermi sul letto, e, senza dovermi sforzare, vo-mito un’altra volta.

È la terza da quando sono entrato nel recinto dell’ospedale.Il reparto di Otorino sembra in ordine, rispetto alle fantasie che in

questi anni mi sono fatto sugli ospedali, è pulito, gli infermieri sono in divisa, divisa da infermiere, impeccabili. Nella mia stanza ci sono sei letti messi di fronte, in batterie da tre, tutti occupati da colleghi con le più fantasiose patologie, setti nasali rotti, o forse si tratta di plastica, non ho ancora indagato, un signore anziano con dei tubi infilati nel naso che rantola rumorosamente.

Questa notte non dormirò, penso.C’è anche un timpano perforato, questo l'ho chiesto durante un

intervallo più lungo tra due conati, il resto potrebbero essere tonsille o adenoidi, o chissà cos'altro, non mi interessa, sono i dirimpettai, altra gente. Insomma, sembra che tutto funzioni qua dentro, mi dico, tutto tranne me, sono riuscito a sporcarmi i pantaloni. L’infermiera è gentile, mi mette un braccio sotto l'ascella destra, con l'altro mi cinge la schiena e, mi solleva, scusami, così lei, siedite più qua, sennò non riesco a pulire, così conclude parcheggiandomi qualche decina di centimetri più a de-stra, verso i cuscini.

Oggi è la giornata dei parcheggi.Mi accascio sopra i cuscini. Stordito. Non ho più niente in corpo e

continuano i conati. Mio fratello non torna, e da un momento all’altro arriverà tutta la famiglia al completo o quasi. Come ti chiami, con voce

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nasale mi chiede il naso rotto, o plasticato ancora non so, del letto accanto al mio, non rispondo, ma lui non se la prende, penso abbia capi-to.

Arriva un altro infermiere, dovrebbe chiamarsi Vittorio o qualcosa del genere, così mi è sembrato sentirlo chiamare dal corridoio, guida spe-ricolato una sedia a rotelle, più con la pancia, particolarmente protesa a sbalzo, che con le mani. La faccia di Vittorio, o di come si chiama, per me rimarrà Vittorio per quel poco di tempo che durerò in questo re-parto, mi sembra buffa e continua a girarmi intorno come se danzasse per ingraziarsi gli dei delle lettighe.

Dai vieni che ti faccio fare un giro, così mi dice mentre ferma e gi-ra la sedia a rotelle verso di me, con piacere, rispondo io sussurrando, e Vittorio continua, ci sono dei dottori che ti vogliono conoscere.

Non so quanto tempo sia passato da quando Carlo è tornato a ca-sa a prendere quello che ha detto che doveva prendere, ancora non è tornato. Che ore sono, non lo so, probabilmente è l'ora esatta in cui c'è più traffico, forse non trova il mio pigiama, o lo spazzolino. Arriverà e non mi trova al parcheggio riservato al diciottenne con le vertigini e vo-mito, numero, numero, non riesco a leggerlo, anche il numero del letto mi gira intorno, forse perché piccolo, ma mi sembra che giri più veloce-mente della faccia di Vittorio, vuole arrivare prima di tutti agli dei della lettiga, oppure il numero ha altri dei da ingraziarsi.

A diciotto anni si è come rocce, dei veri duri, e, io lo sono o lo ero, non lo so, adesso mi sembra di essere solo uno stronzo, un povero stronzo, che vorrebbe accanto a se la mamma, il fratello e una sorella da abbracciare, penso, e se fosse qui, mia sorella appunto, l'abbraccerei talmente forte, chiamando in aiuto tutte le ultime forze che mi sono ri-maste, da farle mancare il fiato.

Voglio una persona da abbracciare, una persona che amo e che mi ami, invece mi tocca essere circondato da personaggi in divisa da infermiere, con, nella migliore delle ipotesi, una paresi facciale che gli di-pinge un sorriso stantio, da distribuire come fosse un volantino.

Forse Carlo ha perso tempo per telefonare a tutti, mamma, papà, sorella, amici e parenti, vicini e lontani.

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Cerco di fermare il mondo che mi gira intorno appoggiando la te-sta lateralmente sulla spalla sinistra, a questo punto non credo più che esistano solo gli dei della lettiga, confido nel dio che protegge i portanti-ni, che lo guardi dal mandarmi a sbattere contro qualcosa, potrei vomita-re sulla pista, non sarebbe corretto.

Sento Vittorio lasciare la presa delle maniglie, continuando a spingere con la pancia, mentre, con le mani, mi afferra la testa sui due lati, le mani sono calde, almeno la sinistra, dell’altra percepisco solo la pressione, e mi tira in su la testa, sei gia stanco, chiede Vittorio.

Così vomito, penso io.Con le mani ancora sul mio volto, arriviamo a metà del corridoio,

sulla sinistra c'è una porta oltre la quale, così dice Vittorio, mi aspetta il dottore.

A parte l’operazione per levarmi tonsille e adenoidi, le mie espe-rienze in campo medico si limitano a varicella, scarlattina, orecchioni e, al massimo, qualche bronchite. Oltre al fatto che la malattia mi permette-va di non andare a scuola, era piacevole perché oziavo tutto il giorno nel letto dei miei genitori guardando cartoni animati. Il cuscino di mio pa-dre aveva un odore fortissimo, in quel periodo si tingeva i capelli con una lozione, rinova for men mi sembra di ricordare, che, oltre a macchiare la federa del cuscino, aveva una fragranza che, seppur forte, in quegli anni mi sembrava piacevole, ma, appena entrato nel periodo dell'adole-scenza, mi era diventata disgustosa e me ne rimanevo in camera mia, il mio mondo, come sarebbe diventato da lì a pochi anni, isolandomi sempre di più dal resto della famiglia, prima solo fisicamente, poi non partecipando più, in modo attivo, a feste o discussioni, litigate forse è meglio, a volte anche violente e, queste ultime, se possibile, molto più frequenti delle feste.

Da qualche anno, prima del mio ricovero, mia madre e mio padre hanno iniziato a litigare nel senso totale del termine, e, ogni giorno tornando da scuola, la sensazione, mettendo la chiave nella serratura per aprire la porta di casa, era quella di trovarmi di fronte a chissà quale dis-grazia, botte, sangue, o cose del genere, in verità un evento di questo ti-po, sarebbe capitato molti anni dopo, facevo l'università, così ricorderò, ma è un altro capitolo.

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In realtà il disagio era molto più subdolo, non esplodeva mai in un nemico da combattere, visibile, con nome e cognome, ma ti penetrava, sottopelle, penso e, ricordo, fino ad attaccare gli organi più intimi, i più sensibili ad invasioni di questa specie, fino anche a modificare il patrimo-nio genetico.

Pochi mesi prima di entrare a fare parte dell’esercito dei pazienti, protetti dal dio speranza, i miei amici andarono a parlare con mia madre, erano ormai diversi giorni che il mio interagire col gruppo si limitava ad una leggera flessione in avanti dell'avambraccio che, trascinandosi la ma-no, accennava ad un timido saluto, rivolto indistintamente, così ricordo, all’intera costellazione della via Lattea. Solo i più sensibili riuscivano a percepirlo, per tutti gli altri ero un peso da doversi portare in giro.

Finalmente arriviamo ad una straordinaria scena madre, come so-lo molti anni dopo il cinema statunitense riuscirà a produrre, mia madre in lacrime, da grande attrice quale mi dicono sia stata, mi chiama dal fi-nestrino della macchina, una macchina che allora mi sembrava talmente grande, da intravedere appena mia madre sul lato opposto facendomi cenno di salire, tutto questo davanti ai miei amici.

Oltre al catatonico, ci mancava l'umiliazione.Imbarazzante.Da quel momento, per i successivi, interminabili, quindici minuti,

è stata una pioggia, pioggia, umida e appiccicosa, di giustificazioni, que-ste sono le mie ragioni, così lei, tu non conosci tutta la verità, ora mi de-vi ascoltare, la mia è stata una vita di inferno, non sai la mia, penso, ma non lo dico. Almeno fino ad oggi, una vita di sacrifici e, continua, mi so-no dedicata, annullata per i miei figli, e così via fino a oggi, ora voglio qualcosa per me.

Quando sarà il mio turno, mi domando.Me lo sono chiesto per tutto il tempo del mio sonno.Che tempi quei tempi.I tempi del primo sonno.L'Acropolis il sabato pomeriggio, le prime feste di sera, i Duran

Duran, gli Wham, i Talk Talk.Spesso uscivo la sera con Carlo, Costanza e i loro amici, molti dei

quali sono poi diventati miei amici, mi vestivo con una giacca blu sopra i Jeans, la cravatta e un paio di Clarks.

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Molto fico ricordo, non io, ma il fatto di uscire la sera con ragazzi più grandi di me, eccitante. Purtroppo, mi dicono di aver lisciato per po-chi anni Barry White, immensa lacuna nella mia adolescenza, ma mi sa-rei rifatto abbondantemente, qualche anno più tardi.

Alla fine delle riprese, in quel meraviglioso set che era il mercedes di mia madre, mi era chiara solo una cosa, tutti i problemi derivavano dal fatto che lei non si curava della religione. E si, perché il dio delle mamme che non hanno più figli da crescere, perché anche il minore è, senza rendersene conto, diventato un ragazzo di quasi diciotto anni, indi-pendente, ha anche una fidanzata con cui parla di più che con sua ma-dre, questo dio, il dio del golf appunto, golf come gioco non come indumento, se trascurato, si incazza e, te ne manda di tutti i colori.

Penso si chiami depressione.Con enorme sollievo di tutti, ma solo, sfortunatamente, tardi, mia

madre ha scoperto la religione, fino, era ora, ad adorare il dio del golf, passando per il dio del tennis, quello del burraco, dello yoga, e, senza di-menticare il dio delle associazioni di beneficenza, si è trovata anche ad adorare quella grande fregatura che è il dio delle mamme di ragazze me-ravigliose.

Per un periodo, quello della speranza, l'ho adorato anch'io questo dio, fino a quando non ho capito che un dio, incapace di realizzare i so-gni di uno fra suoi maggiori sostenitori, me, non è un buon dio, e, per fargli un dispetto, mi sono messo ad adorare, con frequenza disarmante, il dio degli adolescenti, l'unico, maestoso, grande, magnanimo, onnipre-sente, comprensivo dio.

Il dio della sega.

Il dottore, ha un cartellino appeso sulla tasca del camice, ma non riesco a leggerlo, quindi non saprò mai come si chiama, inizia a farmi do-mande, riempiendo dei fogli.

Anamnesi, un’altra volta.Nome e cognome , così lui, vediamo, si Claudio Goru, di età di-

ciotto anni, è esatto, così mi chiede mentre nella stanza è entrato un altro medico, una donna, alta, abbastanza magra, mi sembra, per il resto non potrei dire niente, i miei occhi fanno fatica a fermarsi su un qualsia-si particolare. Alla domanda del dottor non saprò mai come si chiama,

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annuisco con la testa, e continua, quando hai iniziato a sentirti male, circa due giorni fa mi è venuta un po' di nausea, così io, ma niente di più. Mi girava un po' la testa, poi, da questa mattina, ho iniziato a vomi-tare, mi viene sempre da vomitare e ho gia rimesso quattro o cinque volte, concludo.

La dottoressa che è entrata da poco, dietro di me, inizia a palparmi con le dita sotto il mento, appoggiando il palmo delle mani sulle mie guance, dev’essere appena arrivata in motorino, penso, ha le mani fredde, o almeno una delle mani, la sinistra, così come con Vitto-rio, della sua mano destra riesco solo a percepire la pressione.

Ti ricordi di avere avuto altre volte giramenti di testa, così il dotto-re, no, così io gli rispondo.

Usi sostanze stupefacenti, continua il dottore.No. Birichino.La dottoressa, mentre il dottore mi fa altre domande, prende un si-

ringone di metallo, lo riempie d’acqua, mi appoggia un catino a forma di fagiolo prima sulla spalla sinistra, è per toglierti il cerume, così la dotto-ressa con voce rassicurante, e mi spara tutto il siringone pieno d’acqua dentro l'orecchio. Ne esce una cosa atroce che, mi hanno spiegato, si chiama tappo di cerume, l'acqua era gelata, poi passa a destra. La dotto-ressa riempie di nuovo il siringone d’acqua, e, con la stessa delicatezza usata per l'orecchio sinistro, mi fa il medesimo trattamento al destro, questa volta non sento la temperatura dell'acqua, ma il risultato è lo stes-so, viene alla luce un'altro tappo di cerume.

Mettiti queste cuffie, Claudio, mi dice, porgendomele, il dottore, e continua, adesso sentirai dei suoni e, vorrebbe continuare, ma, forse per le siringate alle orecchie, vomito ancora, poca roba, quanto basta per interrompere l'esame che mi stanno facendo. Il dottore scrive qualcosa sopra un foglio, come va, te la senti di continuare, mi chiede mentre nel frattempo è entrata un'infermiera per pulire le mie esternazioni intesti-ne, non mi sento bene, così io, mi sono accorto adesso che non riesco a sentire sulla guancia destra la temperatura, continuo, mentre la dottores-sa mi toccava il viso, sentivo la sua mano fredda sulla guancia sinistra, a destra non riuscivo a percepirla e, senza avvertire, la dottoressa mi da un pizzicotto, prima sulla guancia destra, poi sulla guancia sinistra, senti qualcosa di strano, mi chiede la dottoressa. In effetti qualcosa di strano

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l'ho sentita, sulla guancia destra, non ho sentito il pizzico, così io, ma un senso di fastidio, ora mi viene da grattarmi, quasi come le anestesie ai denti, che ti viene da morderti il labbro.

Il dottore continua a prendere appunti sulle mie parole, poi mi di-ce, continuando a scrivere, adesso ritorna a letto, ti riposi un po’, conti-nuiamo più tardi, così mi licenzia, il dottore che non chiamerò mai.Carlo non è ancora tornato, mentre mi accorgo che durante la visita interrotta, hanno distribuito il pranzo.

Non ho fame.Claudio Goru, sei tu, mi dice un infermiere porgendomi una pillo-

la ed un bicchiere d’acqua, e continua, ti chiami come il regista, è mio pa-dre, così io tirando giù la testa dopo aver ingoiato la pillola, ci avrei giurato che eravate parenti, non è un cognome comune, conclude l’infermiere, di dove siete, non mi va di conversare, mi distendo sul letto, non mi levo le scarpe, e rimango in silenzio, penso, se non gli rispondo prima o poi se ne andrà, se non lo fa gli vomito sui piedi, cosa molto probabile.

Nulla di personale.Carlo, finalmente Carlo, poi, mamma, e, riesco ad intravedere in

coda, ma si è lei, Costanza. Mamma, senza un filo di trucco, piange, penso che le faccia bene la mia malattia, almeno per oggi ha un qualche motivo per distrarsi, e saprò col tempo, che avrà di che distrarsi per di-versi mesi. Papà ti manda un bacio enorme, quando te la senti lo chia-miamo in albergo, così mia madre, oggi è a Berlino, ha trovato un posto in aereo solo per domani mattina, se ci sarò domani, dico scherzando, a me piace scherzare, ma mia madre alle mie parole apre le chiuse del ca-nale lacrimale e, in un crescendo di pianto, desta dal sonno il dio della commozione insieme al vecchio del rantolo ed al setto nasale rotto o di plastica, non so, provocando il disappunto dei presenti che, rumo-reggiando, palesano il loro dissenso per un così brutto risveglio dall'intorpidimento del dopo pranzo. Mia madre, com’è nel suo caratte-re, non si è nemmeno accorta di aver disturbato qualcuno.

Tuo padre ha detto, così lei tra un singulto ed un altro, che ha tele-fonato ad un suo carissimo amico, primario di ortopedia alla Quisisana, domani mattina quando sarà tornato, ti farà trasferire in clinica, io doma-ni sarò a scuola, mamma, così le rispondo, con un filo di voce, non ho

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forza, ma nel frattempo, forse alla vista dei piatti vuoti dei miei vicini e dirimpettai, mi è venuto un certo appetito.

Sono sempre stato così, con febbre, mal di stomaco, o qualsiasi altro tipo di malattia, non mi è mai mancato l'appetito, ed è ancora così. Forse perché il mio nome, in un'altra lingua, significa bambino dai grandi occhi figlio del dio lasagna.

Domani tornerò a scuola, ripenso, oggi i mie compagni crede-ranno che ho fatto sega, magari sono a piazza di Spagna o a villa Ada, eppure oggi non avevo interrogazioni, anzi, mi dovevano consegnare le prevendite per la festa di giovedì prossimo al Piper, devo in qualche mo-do avvertire Marzio.

Marzio è il mio socio in affari, noi due insieme vendiamo più pre-vendite degli altri organizzatori.

Carlo, puoi avvertire Marzio che sono qui, lascia perdere Marzio e infilati il pigiama, mi risponde Carlo. Costanza dov’è andata, chiedo, è andata a cercare un dottore per parlargli, è sempre Carlo che mi ri-sponde, mamma non riesce a proferire verbo, troppo occupata a singultare. È seduta sul lato sinistro della sedia riservata al mio letto, ha il gomito sinistro appoggiato sullo schienale della sedia, struttura questa sapientemente adoperata per sostenere la testa, mentre con la mano de-stra, quindi libera, tiene un fazzoletto che, di tanto in tanto, si porta in un non meglio specificato luogo della regione occhio-naso-bocca.

Ho un tempismo eccezionale, mi sono appena cambiato, mi hanno finalmente portato qualcosa da mangiare, e, cosa succede, mi vie-ne da vomitare, il dubbio a questo punto è sostenibile, prima vomito e poi mangio, oppure prima mangio e, forse, poi vomito.

Decido di mangiare.Se hai appetito è buon segno, così Carlo.Non hai capito un cazzo, lo penso ma non gli dico, rosicchiando

la mia fetta biscottata.E continua, forse è una semplice influenza intestinale. Se l'hanno

ricoverato è forse perché sono preoccupati per le vertigini, così mia ma-dre, me l'hai detto tu, Carlo, che ha le vertigini.

È tornata Costanza.Domani mattina gli fanno una TAC, poi lo spostano di reparto,

così Costanza. In quale reparto lo portano, chiede Carlo.

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Neurologia.A Neurologia ci sono i matti, penso, non voglio andare con i

matti, e, mentre continuo a pensare, mia madre ricomincia a piangere.È finita l'ora delle visite, dovete uscire, dice un'infermiera sulla

porta.Così, carico di succo di frutta, baci di mamma e una copia di

Gente, sono pronto ad affrontare la mia prima notte in ospedale, l'ulti-ma in questo reparto, guardando, in ordine, Carlo, Costanza e mamma mentre si allontanano.

Mio padre è a Berlino, sta girando un film in Germania, così ades-so ricordo e ricordo anche altre cose.

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V

Liste alfabetiche. In questo modo le ha chiamate Tony, un ragazzo che faceva servizio d'ordine non mi ricordo in quale locale, credo che si riferisse alle liste degli invitati, scritte in ordine alfabetico. Tony, come la maggior parte dei buttafuori, è un ragazzo basso, calvo, collo taurino, bi-cipiti possenti e, liste alfabetiche.

Non me ne voglia.Ho appena terminato la mia di lista alfabetica, scritta al computer,

aggiungendo a penna i nomi di chi mi ha telefonato all'ultimo. Adesso posso uscire, come tutti i venerdì sera, buttarmi nel traffico delle venti-due sul lungotevere e raggiungere il locale, amici, sconosciuti che ti chia-mano alla porta tentando di non fare la fila, baci e abbracci, hai qualche consumazione, mi fai passare quella ragazza per favore, quella, quella laggiù, ti è avanzata qualche consumazione omaggio, guarda che tette ha quella, sudore, divertimento, baldoria, conoscenze, forse stasera si scopa e, così via, fino alle cinque, quando la musica finisce e ci si spartisce i soldi. Gli stessi soldi che verranno spesi durante il fine settimana portando a cena una ragazza, o meglio partendo con la ragazza.

Ognuno li spende come meglio crede.Tutto questo, penso, mentre sto ascoltando, molti anni dopo, le va-

riazioni Goldberg suonate da Gould.Che sofferenza.

Ciao Mimmo, come stai, così io a Mimmo, un ragazzo di colore che si occupa delle liste. Mimmo, nome italiano di un ragazzo venuto

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dal Senegal, anzi, fuggito dal Senegal e, in tutti gli anni che vivrò fino ad oggi, ancora non mi è capitato di incontrare una persona che regali la stessa allegria di Mimmo. È sposato con una ragazza italiana, ed ha la stessa serenità di colui che ha figli e, li ama.

Tu fratello, tutto bene?Si Mimmo, tutto bene, si è visto qualcuno o siamo solo noi. È arri-

vato Giancarlo, così Mimmo mentre mi accompagna dentro il locale, andiamoci a bere qualcosa. Se iniziamo a bere adesso, come arriviamo ai conti, oppure tu sei pagato da Aldo, ci fate bere come spugne da quando arriviamo, così Aldo fa carta vince carta perde, noi non ci capia-mo più niente e ci frega sui soldi. Mimmo ride, forse è vero, ma è bello vederlo ridere, i suoi denti sono come stelle nella notte di San Lorenzo, e si, anche perché qualcuno gli è caduto.

Giancarlo è gia dentro con in mano un bicchiere di vodka-tonic, lui è così, inizia presto a bere, si interrompe per ballare, così riesce a su-dare tutto l'alcool che si è trangugiato in attesa dell'inizio della festa, poi, intorno alle quattro, lo si rivede muovere gli ultimi passi di danza, con in mano un nuovo bicchiere di vodka-tonic, rigorosamente Absolut vodka, perché è l'unica vodka a non lasciarti un alito cattivo.

Siamo dei teorici, nessuno ci tocchi.Come la vedi questa sera, così io a Giancarlo, bene, ho circa due-

centocinquanta persone in lista e, continua, ho sentito Luca, anche a lui l'ha chiamato tanta gente.

In effetti, in almeno una decina di anni di onesta attività nel setto-re, abbiamo bucato – così si dice quando una festa va male – soltanto un paio di volte, in questo modo sono riuscito a pagarmi l'università, le poche vacanze che mi sono fatto, quando mi restavano soldi dopo aver pagato gli studi, e, nemmeno molto frequenti, vezzi del tipo cena e cine-ma con qualche amica.

La serata è iniziata bene, quasi tutti quelli che mi hanno chiamato sono venuti, e così per i miei colleghi.

Quello che si dice un successo.Il tempo scorre, la musica lo misura, la gente lo sa, sembra non vo-

lerlo perdere e, inizia a ballare da subito, questo per chi vuole ballare, chi vuole rimorchiare inizia a farlo, da subito, chi vuole bere inizia a farlo, da

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subito.Chi vuole fuggire sta lì, le feste servono a questo, ci si arriva dopo

avere chiuso la porta di casa, lasciandosi dietro tutto quello che accade dentro, per alcuni cose belle, per altri cose brutte, per altri ancora cose drammatiche.

Le feste servono a questo, si sta insieme, stretti e sudati, al buio, la musica copre qualsiasi rumore che la nostra anima produce, anche i più molesti, l'alcool infine li annichilisce. Là dentro siamo tutti uguali, tutti sorridenti, è il segreto del nostro successo, il successo nell’essere un ra-gazzo.

Benedetto buio, dio del corteggiamento, tu, che riesci a non farci vedere in faccia.

Benedetta musica, dea delle movenze, tu, che fai i miracoli. La mu-sica fa muovere, alcuni bene, altri male, guarda chi si muove bene, guardati da chi si muove male. Di quest'ultimo gruppo fa parte chi, pas-sandoti vicino, ti regala, in un gesto di estremo altruismo, gomitate in quantità industriale, così è stato.

Benedetta musica, dea delle movenze, anche di quelle scoordinate, tu che di miracoli te ne intendi, è sicuramente grazie a te che, ricevendo una gomitata in mezzo al costato da parte di un fighettino occhialuto, mi hai fatto voltare e, voltandomi, ho visto un viso, purtroppo accanto al fighettino occhialuto al quale stavo per versare il bicchiere di Absolut che avevo in mano, un volto che sicuramente è già appartenuto al mio mondo onirico, lo stesso mondo dove trovano casa la fata turchina e i mostri che da piccolo non ti fanno dormire. Con una piccola differenza, questa volta ho la netta sensazione che questo volto, un giorno indefini-bile, abbia fatto una scappatella fuori dai sogni, senza avvertire nessuno. Sinceramente, adesso che lo guardo meglio, mi viene in mente che, tanto tempo fa, ho pensato di averlo perduto e, adesso, qualcuno l'ha trovato al posto mio.

O sono ancora in tempo.Maledetto buio, dio del corteggiamento, tu, che riesci a non farci

vedere in faccia.Almeno così pensavo.Il bar è più illuminato, Andrea, il barman-pittore, mi sta prepa-

rando un Margarita, il DJ suona gli Incognito, è quasi tutto perfetto,

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ancora non lo so, ma fra qualche minuto diventerà tutto drammatica-mente perfetto.

Mi puoi dare un bicchiere di acqua tonica, così una ragazza appe-na arrivata al bancone.

Finalmente ho capito, grazie bar, dio della luce, adesso il suo volto è tornato nel mio mondo onirico, con una puntatina nel luogo dove ancora si mescola la realtà con la finzione, ma sento di essere vicino alla verità.

Mi ci avvicino ogni istante che passa, sempre di più, con la certezza che anche lei ha capito di appartenere ad una mia vita talmente lontana, da sembrare sogno, almeno in questo locale.

Adesso anche lei si volta verso di me, io ti ho gia visto, forse, dico io e continuo, magari qua dentro. Impossibile, è la prima volta che ci vengo, così lei, mentre io cerco di trovare nel cassetto delle possibilità, cose da dire, che mi permettano di prendere tempo.

Devo capire, sento che sono vicino, ma mi manca ancora qualco-sa, non so cosa, questo è drammatico.

Per fortuna lei è più ostinata di me, conosci per caso, e mi dice un nome e cognome a me sconosciuti, no mi dispiace, ho paura di dire a questo punto una cosa cretina che la faccia scappare via e tornate dal fi-ghettino occhialuto.

Bar, dio della luce, fino a quando non ci si mettono le luci strobo-scopiche a non far vedere più niente, sembra di muoversi all’interno di fotogrammi, adesso il suo volto lo vedo un po' di qua, un po' di la, mi gi-ra intorno.

Benedetta stroboscopica, dea dei ricordi.Illuminazione.L'illuminazione ha le note di Jamiroquai.Non sono amico di nessuno che conosci, così le dico, o almeno

non ci siamo conosciuti per tramite di qualcuno. Probabilmente non ti ri-cordi di me.

Eppure la tua faccia la ricordo, così lei interrompendomi, ma non riesco a capire dove e quando.

Si parla di diversi anni fa, tu eri seduta nel corridoio del Pronto Soccorso dell'Umberto I, io sono quel ragazzo che si era seduto accanto a te e che dopo un po' hanno portato via, così io, adesso ti ricordi

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qualcosa di più, e continuo, mi pare anche di aver scambiato qualche parola, o così mi ricordo che mi sarebbe piaciuto fare.

Ma certo, eri ridotto un cencio, ma cosa ti era successo puntointerrogativo

È lunga da raccontare, se non hai impegni fino al mattino posso iniziare.

Meglio di no, domani devo studiare e il sonno mi sembra un discreto impegno. Adesso scusami torno dai miei amici, ci vediamo.

Non penso che abbia sentito il mio ciao, ma mi ricordo esatta-mente, come se fosse accaduto mezz'ora fa, quello che sentivo quando ero seduto vicino a lei, facevo schifo, la mia paura di dare un’impressio-ne brutta di me, oggi l'ho capito, non era campata in aria.

Fuori il locale c'è un giardino dove si può bere con calma e chiacchierare senza il rumore assordante della musica. A metà serata il giardino è pieno di danzatori stanchi, io sono tra loro, il fighettino occhialuto fa parte dell’esercito dei ballerini in ricarica. Non vedo lei.

Lei, di cui non conosco il nome, non potrò mai sapere con quale lista è entrata, forse è anche entrata con la mia, forse il fighettino occhia-luto è il fratello o peggio il fidanzato, ma se qualcuno lo conoscesse, po-trei arrivare a conoscere il suo nome e, di conseguenza, anche il nome della mia collega d’infortuni.

Maledette liste alfabetiche, quando servite non ci siete mai.Così fino ai conti.

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VI

Il viaggio tra il reparto di Otorino e la neuro è stato abbastanza breve, durato solo un lobotomizzato che, seduto di fronte a me, veniva trasferito a Psichiatria.

Il reparto di Psichiatria è al primo piano della Clinica per Malattie Nervose e Mentali e, nello stesso edificio, al seminterrato, si trova Neu-rologia.

L’essere parzialmente sottoterra, per chi, come me, vede sempre il bicchiere mezzo pieno, è stata l'unica cosa piacevole della notizia sul mio trasferimento, penso. Non ci mischiamo con gli altri. Siamo ghettizzati, ma, con dignità. L'Elite è tutta qua, al seminterrato della Cli-nica per Malattie Nervose e Mentali.

In effetti, come scoprirò tra qualche giorno, è tutto diverso rispetto agli altri reparti, gli orari, i medici, gli infermieri, i portantini, e mi gira ancora di più la testa.

Troppo diverso da quello che mi aspettavo, a volte in modo ecces-sivamente peggiore, così credo, ma una diversità che ho trovato, appena l'ho capita, tra le cose più coinvolgenti di questa vita.

Il reparto di Neurologia ha due ingressi, uno principale, scendendo le scale dall'ingresso centrale della Clinica per Malattie Nervose e Mentali, uno secondario, da dove entra chi, come me, è stato carontato qua, da chissà quale sperduto posto della galassia sanità. Io so-no entrato dalla porta secondaria, dopo avere consegnato il mio compa-gno di viaggio all'ingresso principale, quello bello appunto, di rappresentanza, su strada.

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Alla destra del corridoio d'accesso - dall'ingresso principale sa-rebbe a sinistra - ci sono le camere femminili, l'età media è alta. A metà del primo corridoio, sulla sinistra, parte un altro corridoio dove, sempre sulla sinistra, si apre l'unica stanza maschile, con sei letti, in batterie da tre, è destino. In fondo al secondo corridoio, c'è una porta, dietro quella porta c'è Neurochirurgia. Dicono che i vicini sono simpatici, il rapporto con loro non è male.

Buon vicinato.Eccoci siamo arrivati e la mia felicità di trovarmi in quel luogo,

non tarda a farsi apprezzare. Vomito un'altra volta, e un'altra volta anco-ra, mi è gia capitato prima e dopo la TAC. Sono da solo, la famiglia anco-ra non mi ha raggiunto, papà forse è in aereo, chissà che tempo c'è a Berlino, qua piove, anche oggi come ieri, ma dentro ormai è burrasca, temporale, uragano. Sono solo le nove del mattino e ho gia dato il me-glio di me, escluso la colazione, tre volte.

Al reparto mi prende in consegna la caposala, ha chiamato tua ma-dre, così lei, chiedeva se eri arrivato. Indoviniamo cosa ha risposto, penso.

Le ho detto che saresti arrivato a momenti, così continua, lei viene subito, e conclude.

Subito, se trova qualcuno che la passa a prendere, che dici Clau-dio, dico che mia madre guida raramente e mai per tragitti più lunghi di casa e fioraio sotto casa. Non ti preoccupare, e chi si preoccupa, penso, mi ha detto che veniva con tua sorella.

Non vedo l'ora, penso sarcastico, non per Costanza, mia sorella, la sola che vorrei accanto adesso, ma mia madre no, adesso che ho metabo-lizzato l'evento, mia madre proprio no, lei riuscirebbe a rendere pesante un battesimo, un matrimonio, un compleanno, qualsiasi festa in genere, figuriamoci qua dentro, dove ricoverato in mezzo a matti e affini c'è il suo ultimogenito, amato, caro, quanto indesiderato ultimogenito.

Indesiderato, e continuo, tra diversi anni, non ricordo esattamente in quale occasione, mia madre mi confiderà che sono venuto per sbaglio, non ero stato programmato, insomma, è stato un incidente. Non ri-cordo esattamente quando sarò illuminato da questa rivelazione, ma ri-cordo esattamente che sarà in conferenza stampa, mia madre usa fare così, anche le più piccole stronzate le espone come se stesse in confe-

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renza stampa, da sempre, da quando me la ricordo, e così sarà ancora, forse è nostalgia per le conferenze dei suoi film quando recitava, anzi, ne sono sicuro, così penso, lei ne sente la mancanza, ogni occasione è buona per farcelo capire, dedicarsi a tre figli, crescerli senza mio padre, lui era sempre in giro, è stato un sacrificio, sacrificio è stato rinunciare al cinema, a recitare, alla popolarità, alla bellezza che giorno dopo giorno sfiorisce e, tutto questo per cosa, crescere tre marmocchi, frignanti, esi-genti marmocchi. A volte penso che non ha mai smesso di recitare, anche con noi, in famiglia, lei recita, così fà quando viene a trovarmi in ospedale, piange, il viso emaciato, i suoi gesti sono studiati, come le parole che dice, studiate, da copione, quando parla con i medici poi, è eccezionale, alcuni tra questi, i più grandi, la riconoscono e diventa ma-gnifica, poco importa se suo figlio, il suo figlio più piccolo, è stato da po-co trasferito a Neurologia, lei ritrova il suo pubblico, anche se per pochi minuti, bastano aridi complimenti e si ritrova in passerella e, la vita per lei è una passerella, saluta pubblico, si concede ai fotografi, poi ancora saluti, autografi, e foto e saluti, per scomparire, così penso, inghiottita in sala.

Sono cattivo, forse un po', ma se lo merita, per il semplice motivo che non sono mai riuscito a capire quanto una semplice carezza da parte sua fosse sentita o, al contrario, parte del ruolo di mamma, ed è per que-sto che ho sempre preferito le carezze e, gli abbracci di Costanza, ades-so che sono cresciuto, continuo a pensare, ne sento la mancanza, qua dentro più che mai, voglio sentire il palmo della sua mano calda sulla mia guancia, sulla guancia dove sento e vorrei che rimanesse, la mano, ferma, vorrei poi sentire le sue labbra, umide, posarsi sulla mia fronte, per un gesto tanto semplice quanto irrituale se fatto ad un ragazzo della mia età, un bacio, tanti baci, un gesto semplice appunto, destinato, purtroppo nella maggior parte dei casi, solo ad un pubblico meno adulto e, penso, per certe cose non dovrebbero esserci limiti di età, la sa-cralità delle carezze e dei baci svanisce, come per magia, con la comparsa del primo brufolo, poi più niente, anche piangere dovrebbe di-ventare una pratica diffusa tra gli adulti ed io, adesso che adulto ancora non sono, vorrei piangere, per poi essere accarezzato, consolato, mitighe-rebbe i singulti, e, baciato.

Costanza sbrigati punto

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VII

Ultima festa, fatta.I soldi ci sono, o quasi, si può partire per la vacanza che mi regale-

rà, così saprò anche negli gli anni che seguiranno, la notte più bella della mia vita.

All'inizio eravamo in due a partire, io e Marzio, poi si sa come vanno queste cose, durante le feste estive che organizziamo a Fregene, ci si interroga sull’agognata mèta estiva del resto del mondo, voi dove andate, pensiamo di andare a Vulcano per poi fare un giro per le Eolie, questo rispondevo alla consueta interrogazione pre-estiva, perché quella post-estiva è, voi dove siete stati. La prima domanda imperversa nei me-si di giugno e luglio, con una variante sul tema del tipo, hai pensato a do-ve andare questa estate, mentre la seconda è la regina di settembre, con code ad ottobre e novembre per chi non si è riusciti ad incontrare appe-na tornati.

In effetti in questo periodo io e Marzio siamo una compagnìa ambita, simpatici, caciaroni, insomma con noi ci si diverte e alla fine sia-mo diventati una ventina, tra cui un paio di coppie, un apprendista cantautore, uno yuppies e, Cinghiale, vero nome Andrea, grande suonato-re di contrabbasso, con cui condivido la passione per De Gregari e per il jazz. Tutte le volte che Cinghiale suona in un club, quando mi vede entrare accenna a Straight, No Chaser di Thelonious Monk, il nostro pezzo.

Della vacanza che stiamo per fare a Vulcano, Marzio ne parlerà sempre come della vacanza in barca alle Eolie, forse è anche per questo

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che, dopo qualche anno da questa estate, non lo frequenterò più, così penso, in realtà di barche non ce ne sono, tranne il traghetto che da Na-poli ci porta direttamente a Vulcano, in un viaggio che durerà una notte intera, ma di traghetto si tratta, niente vele, alberi, crocette, winch, ponte in teak, timone, silenzio, onde rotte dalla prua della barca, di traghetto si tratta, puzza di nafta, sudore, folla, poltrone sporche, ponte sporco, ba-gni sporchi, stiva piena di automobili dove non si riesce a passare in mezzo, cornetti o tramezzini in polivinilcloruro, pioggia di umidità, ossa rotte, notte insonne, ma ‘sti cazzi, sono in vacanza e c'è Cinghiale con la chitarra punto

Il traghetto, o bi-albero di Marzio, ha appena lasciato Napoli, so-no le sei del pomeriggio, il sole sembra ancora alto. Le prime ore le pas-so andando in giro per la nave, come fanno gli animali quando vengono portati in un posto nuovo, studio il territorio, sui ponti è un viavai di co-mitive di ragazzi che perderemo nei vari porti che questa nave toccherà prima di Vulcano, l'atmosfera è piacevole, il vento, la confusione della gioventù, perfino il rumore del motore con l’odore nauseabondo dei suoi scarichi sembrano piacevoli e, continuo a girare, pensando, le imma-gini che ci rimangono per più tempo nella memoria sono legate alle va-canze, in qualsiasi età della nostra esistenza, poi ci ricorderemo del giorno del matrimonio, vacanza, della nascita del primo figlio, in realtà vacanza anche quella, insomma, ciò che rimane sono solamente i mo-menti legati alle vacanze o alla spensieratezza in genere, tutto il resto, l'ordinario, è rimosso, cancellato, estorto violentemente alle cellule della memoria, penso e, per questo motivo, mi sforzo di assaporare ogni istante, ogni piccolissimo particolare, tutto, a partire da questa nave puzzolente e carica di astanti del tempo libero, gente svuotata da undici mesi di ordinarietà, nessuno escluso, anche le famiglie, bambini fri-gnanti, padri arrapati da ventenni in calzoncini, sfigati che non tromba-no nemmeno a pagare, con la speranza che questa sia la volta buona, non dico una trombata intera, completa, ma cazzo, almeno un bacio …… pace, andrà meglio il prossimo anno, e così via, mentre continuo a pensare, l'ordinario mascherato, questo è il nemico e, non ce ne rendia-mo conto, abbiamo paura della routine ma non la fuggiamo, ci aggrappia-mo a pseudo-vacanze, della durata di pochi minuti o di qualche ora,

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reality, trasmissioni demenziali, ricchi premi e cotionnes, gratta e vinci, loca-li, lotterie miliardarie, donne patinate, siliconi vari, alcool, droghe, macchine ruggenti, cellulari riflettenti, orologi accecanti e, penso, ci so-no cascato anch'io, basta il mare fino all'orizzonte, la brezza, il tramonto e divento un filosofo, riflettendo sul senso della vita, mi guardo intorno e mi accorgo di essere in buona compagnia, intorno a me facce disperse nei meandri dell’esistenzialismo.

Mare, brezza e tramonto, prendendoli separatamente il danno è piccolo, con il mare si pensa al senso dell’uomo nell'universo, ci si sente insignificanti, la brezza in un luogo aperto porta con se particelle che interagiscono con i nostri neuroni, creando un senso vago di insoddisfa-zione e di desiderio, il tramonto è un amplificatore di quanto di peggio c'è nell’amore, in tutte le sue rappresentazioni e accadimenti. Combinati insieme, mare, brezza e tramonto, sono esplosivi, creando danni che, a volte non si riescono a recuperare nemmeno alla fine della vacanza, ma ci sono, in vacanza e voglio godere di questa nave con il suo bagaglio di puzza e umidità, umidità che appiccica la carne ai pensieri, creando una poltiglia che tra qualche anno chiamerò catarsi, voglio goderne, perché io di vacanze ne ho fatte poche, voglio goderne, penso e, sento, non perché non me le potessi permettere, o meglio, la mia famiglia me le può permettere, ma per il mio maledetto viziaccio dell'indipendenza, e continuo, di solito la prima vacanza senza i genitori è quella del diploma, di solito la prima vacanza senza genitori, quella del diploma appunto, è in Grecia, così i miei amici, quella l'ho saltata, a piè pari perché ero stato molto male l’inverno, l'anno dopo, quella del primo anno all'università, avrei potuto rifarmi se non avessi litigato con mio padre, il regista di culto, al quale non ho più chiesto un soldo, nemmeno per pagarmi l'uni-versità.

Determinato.Qualcuno mi chiama stronzo e, forse gli credo punto

È quasi ora di cena, non so se è proprio ora di cena, per il mio sto-maco è ora di cena.

È ora di cena.Per non farmi irretire dal polivinilcibo che staziona nei due o tre

bar della nave da un paio di settimane, così penso, mi sono munito di pa-

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nini da casa, adesso il sole è basso, tramonto inoltrato, si sente l’umidità che aumenta portata dal vento, ma è piacevole, anche i panini preparati questa mattina sembrano più buoni.

Dopo l'abbondante pasto, insieme a Cinghiale ci appartiamo in un angolo del ponte più alto della nave, seduti a terra, è buio, lui ha la chi-tarra, io leggo e la serata in barca verso le Eolie inizia bene.

Cinghiale parte a strimpellare, farfugliando canzoni che, insieme al rumore di questa nave, mi cullano e mi concentrano.

Suona bene Cinghiale che, a dispetto del soprannome, è una perso-na deliziosa, lo frega il fisico, di qualche chilo sopra il limite che si po-trebbe permettere, ma in scala con il contrabbasso, il suo strumento, per il resto è eccezionale, il classico tipo che ti mette serenità, parla a basso volume e lentamente, è un grande ascoltatore lui, tra i migliori, forse è la sua dote più grande, penso e, io lo sono diventato grazie a lui.

Cinghiale dice che ascoltare, nella vita, è fondamentale, così dice e così continua il suo pensiero, la verità è formata da infinite e minuscole particelle, sparse per il mondo e tra la gente, più particelle riesci a mette-re insieme nella vita, più ti avvicini alla verità, e continua, se ascolti chi ti sta vicino e, stai attento, in un colpo solo riesci a fare tue le particelle di verità che, chi ti parla, è a sua volta riuscito a riconoscere e recuperare, mettendole insieme fino a quel momento e, conclude, per questo è importante ascoltare, con attenzione.

Mi raccomando, con attenzione.Con l'esperienza, potrò constatare che il contrabbassista filosofo

ha ragione, anche se, a volte, i vecchi usano un detto, quando raggiungi la verità – o l'esperienza, non ricordo – questa non ti serve più, e questo non sono riuscito ancora a riscontrarlo. Per tutte queste qualità, Cinghia-le, attira a se un numero rilevante di persone, ragazze soprattutto che, per sua sfortuna, nella maggior parte dei casi, si fermano all’amicizia senza andare oltre.

Anche questa sera, ormai quasi notte, intorno a lui, a noi, si è formata una discreta comitiva, di sconosciuti e non solo, è arrivato anche Marzio, si inizia a cantare, io smetto di leggere e, canto, fino a notte inoltrata, mentre il sonno, vedendoci così presi dalle nostre cose, il buio, il mare percepito, la brezza notturna, la poesia di quest'ora, ri-nuncia a impadronirsi di noi e dei nostri sogni, permettendoci così di far

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diventare sogno, per i ricordi che verranno, questo momento. Tre ra-gazze di Napoli si sono unite a noi, non ricordo quando esattamente ma adesso cantiamo insieme, una di loro ha una voce meravigliosa, canta piano, come se non volesse disturbare ciò che sentiamo e canta, il mare è il suo elemento, si capisce, come fosse una sirena, Cinghiale inizia ad arpeggiare, riconosco le prime note, qualsiasi rumore zittisce, come se il frastuono del mondo e di questa nave, avesse coscienza della magia che si sta per compiere e la rispettasse, Cinghiale continua ad arpeggiare, il si-lenzio si è impadronito delle nostre corde vocali, Cinghiale suona come non ha mai suonato, è Pino Daniele, è Napule è, la ragazza inizia a canta-re, piano, piano ma la sentirò per tanti anni ancora, piano, annichilendo tutto il brutto di questa vita .....

Napule è mille culureNapule è mille paure,………………….

Il resto della vacanza sarà poca cosa, umiliata dal sapore di questa notte, di questa voce, un sapore che per molto tempo mi rimarrà nella bocca, nelle orecchie, negli occhi e sulla pelle, penetrandola, fino ad arri-vare ai polmoni, fegato, pancia, intestino, testa e, cuore, invadendo infi-ne tutti gli angoli, anche i più remoti, dell'anima, dove rimarrà, in un coacervo di sogni e lacrime punto

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VIII

La liturgia mattutina delle pulizie si è appena conclusa. Di solito, durante questo avvenimento, me ne rimango seduto sulla sedia a rotelle in corridoio, aspettando con pazienza che il rito si compia e che mi venga rifatto il letto. Mi accorgo che è tutto finito quando, accanto a me, passano in processione gli inservienti armati di secchi, detersivi e spazzo-loni e, subito dopo, inizia il giro delle visite. Oggi c'è qualcosa di diverso, il capo reparto, insieme a Domenico, tra i migliori specializzandi di Neu-rologia, seguono il corteo dei pulitori che, passando davanti a me, si diri-ge verso il reparto femminile. Il capo reparto col suo giovane quasi collega, fanno tappa bloccando il mio mezzo di locomozione a braccia.

Ciao, mi dicono saltellandomi di fronte come fossero impossessati da chissà quale dio dei camici, ma non lo fanno, sono solo i miei occhi che, muovendosi all’impazzata, fanno danzare tutto quello che mi circonda.

Ciao, rispondo.Dobbiamo dirti una cosa, così il duo con lo stetoscopio. A questo

punto la mia faccia deve somigliare a una di quelle che ti chiede di chiu-dere al più presto un discorso, dove la fine non sarà sicuramente niente di buono, infatti continuano così, è necessario farti un esame, uno di quelli un po' fastidiosi, questo dice Domenico prima di lasciare il testi-mone del discorso al suo capo, si, è un po' doloroso ma, come dicevo, è necessario.

Di quale, tra gli esami un po' dolorosi, si tratta.Puntura lombare, dobbiamo farti una puntura lombare.

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Avevo sentito parlare di questo esame durante i primi giorni del mio ricovero, alcuni pazienti di Neurologia l’avevano fatto e, nessuno ne parlava bene.

Di cosa si tratta esattamente, chiedo.Il dottore mi risponde sovrapponendosi all’ultima parola della mia

domanda, come se avesse fretta di continuare, o come se si aspettasse la mia domanda, si tratta di una puntura sulla colonna vertebrale, per estrarre il liquido che si trova all’interno, e continua, analizzandolo si po-trebbe capire cos'hai.

Mentre la coppia di arcangeli parla, il giro delle visite è iniziato, partendo dalla camera dove si trova il mio letto.

Che fanno, iniziano senza di me?Facci sapere quando vuoi farlo, così Mimmo.Quando andrebbe fatto?Prima possibile, te l'ho detto.Facciamolo adesso, così io.Adesso, chiede il dottore come se avesse capito tra un mese.Adesso, si.In un attimo il giro delle visite si è interrotto, spostandosi al re-

parto femminile. Gli infermieri sono stati messi all'erta e la voce di una puntura lombare al ragazzo di diciotto anni s'è impadronita dei corridoi, come qualcosa narrato nelle Sacre Scritture.

Il letto accanto al mio ospita un vecchio paralitico di novant’anni, non so esattamente di cosa soffra, non l'ho mai sentito parlare, emette solo versi, so soltanto che la notte non ci fa dormire, inizia a strillare co-me un indemoniato quando sono circa le tre, la smette un’ora dopo, ma ormai il sonno è andato.

Il nervoso novantenne non parla, emette versi, ma ho capito che sa scrivere. Appena rientro in camera vedo, appoggiato sul cuscino del mio letto appena rifatto, un biglietto.

Fatti coraggio, ti farà un po’ male, ma è per il tuo bene. Stai tranquillo, Dio ti benedica

La calligrafia è incerta, mi guardo intorno ma vedo solo il para-

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litico che mi osserva, mentre con suoni gutturali mi indica il biglietto che tengo tra le dita. I suoi occhi adesso li guardo, sono azzurri e piccoli, sono profondi e sereni.

Mi sento tranquillo, adesso sono pronto.È arrivata la squadra al completo, medici infermieri, carnefici e ta-

baccai, postini e prostitute, prime avvisaglie di un delirio che durerà per qualche ora.

Non potrai alzarti subito, potrebbe venirti mal di testa, così la dottoressa e, partiamo.

Sono rannicchiato in posizione fetale, disteso su un lato, la Capo-sala mi tiene fermo stringendomi la testa sulle ginocchia.

Diamo inizio alle danze.

Non mi sono alzato dal letto per un po' di tempo, mi sarebbe po-tuto venire un forte mal di testa.

La notte, l’anziano strillone dorme sonni tranquilli e gli altri con lui.

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IX

È ormai tradizione incontrarsi la domenica pomeriggio al Parna-so. Incontrarsi lì non aggiunge niente di particolare rispetto a quanto accaduto la sera prima, o le domeniche precedenti, o le sere prima delle domeniche precedenti, ma si usa così, e più non domandare. Sperare che accada qualcosa di nuovo sarebbe troppo, anche per i più ottimisti, le persone sono sempre le stesse, i loro vestiti non sono da meno, il luo-go è sempre lo stesso, gli argomenti di conversazione anche.

Noi, gli organizzatori di feste, si va lì, oltre a fare pubbliche rela-zioni per le prossime feste, anche per sentire i commenti sull'evento della sera prima o del venerdì.

Oggi sembra diverso, così sento, e fra qualche minuto avrò la certezza della bontà del mio sentire, l'atmosfera è diversa, ma solo per me. Tra tutti noto subito il fighettino con gli occhiali che stava con la ra-gazza dell'ospedale la sera che l'ho incontrata nel locale, non dovrebbe essere difficile sapere duepunti se è un suo amico, oppure se è, malaugu-ratamente, il suo ragazzo. Devo soltanto vedere con chi parla, capire se conosco le persone con cui il fighettino con gli occhiali parla, se le cono-sco, le informazioni che mi servono non dovrebbero essere di difficile reperimento, se non le dovessi conoscere, dovrei osservare con chi que-ste persone, a loro volta parlano, e così a cascata, fino a quando, con un po' di fortuna, arrivare all’anelata verità, con la speranza che nel frattempo non sia diventato troppo vecchio. Un lavoro certosino, da fa-re con pazienza.

Sono gia stanco, solo a pensarci, penso.

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La mia indagine al momento non ha portato niente di positivo, è strano, ma non conosco nessuno in quel giro, eppure erano venuti ad una mia festa. Potrei chiedere a qualche amico, ma mi esporrei troppo, non si fa.

Il Parnaso si è riempito e, mi sento a disagio, sono in confusione, parlo con gli amici senza guardarli in faccia, giro la testa nervosamente, gli occhi la seguono in modo disordinato, mi chiedono di andare al cine-ma e poi a mangiare una pizza, o viceversa non so, anche questa è una consuetudine della domenica sera, pizza e cinema.

Riesco comunque a proferire qualche verbo sulla serata di ieri, do-vrebbe essere piaciuta, da quello che capisco in questo momento.

Ciao Claudio, così una voce alle mie spalle, ed è Letizia.Ne sono innamorato da sempre, di Letizia appunto, dal primo

giorno in cui l’ho incontrata all’università, lei non lo sa, o forse lo sa, penso e, forse anche lei è da sempre innamorata di me.

Presunzione.Serve anche quella nella vita, a piccole dosi.Cosa fai qui, non sei tipo da questi posti, così io e concludo, stai

preparando l'esame di storia e vieni a perdere tempo in questi luoghi dell'assenza. Li chiamo così, luoghi dell'assenza e, se c’è qualcosa, viene, da ognuno, sapientemente celato. Venivano qui alcuni amici e ho deciso di staccare gli occhi dai libri per qualche ora, così Letizia, poi pensavo che forse avrei trovato anche te, ti ho cercato un po', e infatti ci sei.

Detto così sembra brutto, mi annoveri tra quei dozzinali che si muovono con la massa.

Cosa c'entra, io lo so che lo fai per lavoro.Mi ama.È da qualche minuto che parlo con lei e mi accorgo che gli stessi

minuti sono quelli che ho passato senza cercare l'amica, o la fidanzata, o la sorella, ancora meglio, del fighettino con gli occhiali e, mi piace.

In realtà Letizia meriterebbe un capitolo a parte, lei era lì, in mezzo ad un gruppetto di amici, in fondo all’aula, vicino alla cattedra e rideva, io ero appena entrato nella stessa aula e, per tutto il tempo della lezione, è rimasta appiccicata ai miei occhi e per molto tempo ancora, fi-no alla lezione successiva, mi è rimasta in mente.

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Oggi è uguale a quelle lezioni, sarà uguale ancora per molto tempo, almeno fino al giorno in cui questi ricordi prenderanno forma, diventando file nel mio computer.

La breve parentesi alla mia investigazione si è chiusa, Letizia è tornata a studiare, non ha voluto che l’accompagnassi, ormai è tardi, il fi-ghettino con gli occhiali mi sembra di non vederlo più.

Pizza e cinema, o viceversa, magari si è incontrato con la ragazza dell'ospedale, si erano dati appuntamento qua ed io non me ne sono accorto.

Santa Letizia.Avrei potuto attaccare discorso invitandola alla prossima festa, ti

ricordi, sono il ragazzo con cui hai chiacchierato quella certa sera, in quel certo locale. Cazzo, perché dovrebbe ricordarsene, c'erano un mi-gliaio di persone e non penso che abbia parlato solo con me.

Ma io ero l’organizzatore.Claudio sei un cretino, penso.No, l'avrei solamente invitata alla prossima festa, se lei si fosse ri-

cordata di me, in caso contrario gli argomenti non mi mancano.Sono ormai rimaste una trentina di persone, trentuno con me,

pizza e cinema, così succederà, trentuno persone e pizza e cinema, oltre a quelli già partiti, con la sola speranza che i cinema siano diversi e che si usino le pizzerie sparse sul territorio comunale, in parti uguali.

Tra qualche ora, saprò che non sempre le speranze disattese pro-vocano delusioni, anzi, saprò che incontrare qualcuno che si è visto alcu-ne ore prima, quando vai in posti dove speri di non incontrare nessuno che conosci, almeno per quella sera, può dare luogo ad eccitazione, spe-cialmente se questi personaggi si accompagnano a ragazze partico-larmente carine, che hai conosciuto tanto tempo prima, in circostanze che non avresti mai immaginato.

Così sarà, tra qualche ora, dopo il cinema, in pizzeria, in fondo alla sala, seduta in un tavolo da sei, non proprio accanto al fighettino con gli occhiali, quindi potrebbe essere un'amica, o la sorella, oppure, se fossi pessimista, una coppia consumata.

Perché fasciarsi la testa prima di rompersela, arrovellarsi il cervello

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sul tipo di rapporto che hanno quei due, la conosco, mi informo e valu-to, invece no, devo sempre prima impazzire a cercare di capire, anzi, di prevedere, quando sarebbe molto più facile vivere e, vedere come va a fi-nire.

È sempre stato così.Quando incontro una ragazza che mi piace, e lei mi sorride, inizio

a pensare a quale immaginifica rivelazione si nasconda dietro quel sorri-so, forse lo ha fatto per cortesia, o riflesso condizionato nel salutare, fi-no ad arrivare a paresi facciali o varie ed eventuali. Che io le possa essere simpatico, quindi ottimo inizio per costruire ogni tipo di relazio-ne, non lo prendo assolutamente in considerazione. Questa cattiva abitu-dine, crescendo, sono riuscito a carontarla in tutti gli aspetti della vita che mi coinvolgono, prendendo in esame solo le ipotesi più assurde, sul perché degli accadimenti che mi girano intorno. Parlando con i miei ami-ci, ho saputo di non essere l'unico a farsi queste pippe mentali, è sicura-mente un'abitudine diffusa.

Problema generazionale, forse.Un mio professore di Storia all'università, un grande professore, ci

raccontava di essere diventato famoso scrivendo dell'ovvio, lui parlava della storia raccontando le sue ovvietà, evitando la costruzione di congegni più o meno ben funzionanti.

Il risultato di questo assurdo e macchinoso modo di pensare, il mio, è la costituzione preconcetta di gradi di vincolo inesistenti che, inconsapevolmente, riescono a costringerci in perimetri definiti, forse questo può dare sicurezza, ma annichilisce ogni tentativo innato di libera costruzione delle proprie esistenze.

Problema sociale, sicuro, ma ci sto lavorando sopra, almeno con me.

Adesso la ragazza dell’ospedale mi vede e mi sorride, dal suo tavo-lo in fondo alla sala, io rispondo con un altro sorriso e con un accenno di saluto con la mano, lei usa la sua mano nel medesimo modo. Ho il tempo di notare che, accanto a lei, è seduto un ragazzo che conosco, il ri-svolto peggiore che poteva avere questa storia, lei è la ragazza di uno che conosco. Come non detto, sono ricaduto, come al solito, nel tranello delle conclusioni affrettate.

Io non mi avvicino, lei non si alza e, vado al mio tavolo, non sono

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mai stato una persona invadente.A questo punto, me la gioco tutta, dico ai miei amici di avere

scordato una cosa in macchina ed esco dalla pizzeria, adesso, forse, lei potrebbe fare lo stesso, sarebbe un grande segno.

Che deficiente.Alla macchina ci arrivo veramente, continuando a pensare quanto

sono stupido, tanto è parcheggiata vicino, abbastanza da metterci poco, ma non abbastanza da tenere sotto controllo la zona.

Sono minuti che sembrano eterni, cerco di fare tutto lentamente per allontanare il più possibile il momento della delusione che proverò, tornando in pizzeria, vedendola ancora seduta al suo tavolo da sei in fondo alla sala.

In effetti, perché dovrebbe uscire, abbiamo scambiato solo poche parole, anche confuse, in mezzo ad una bolgia dantesca e poi mi sembra di avere capito che si erano seduti da un po' di tempo, che scusa avrebbe trovato per uscire fuori, senza fare insospettire il suo presunto fidanzato e mio conoscente.

Si avvicina il momento cruciale della serata, sto per svoltare l'ango-lo dietro al quale c'è la pizzeria, mi accorgo di essere nervoso, chissà perché e, ancora pochi passi, penso.

Il buio.L'attimo che precede un evento tanto atteso, è un attimo di buio,

un momento in cui tutto si cancella, il prima, il dopo, non esiste più niente, solo quell'attimo persevera la sua esistenza, all'infinito, così sembra, e la speranza che si realizzi il tuo desiderio alimenta questa esi-stenza, è colpa sua se quest'istante dura in eterno, almeno fino a quando non dovrai, dovrò, fare i conti con la realtà di quanto è accaduto o che sta per accadere, così è, subito dopo il buio, svoltato l'angolo, fare i conti con la realtà, a volte piacevole, quando si avvera ciò che speri, al contra-rio, quando la speranza viene elusa.

Lei parla con il suo cellulare fuori la porta della pizzeria, durante i pochi passi che mi dividono da lei, ho il tempo per formulare un’altra speranza, che finisca la telefonata al mio arrivo.

Chi vive sperando, muore disperato.Ciao, così lei mentre le passavo davanti, scusami ti ho vista al tele-

fono e non volevo disturbarti.

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È bello essere disperato, penso.Che ci fai qui, così io stupido, cosa ci può fare in pizzeria, mangia-

re una pizza no. Sono venuta a mangiare una pizza con alcuni amici, sia-mo stati al cinema prima, è evidente, le rispondo, scusa per la domanda cretina, non ti preoccupare, siamo in pizzeria, non ad un simposio sui modelli semiotici, così conclude.

Non ti ho più vista al locale, le chiedo con distacco, ho dovuto preparare un esame, l'hai dato l’esame, le richiedo con un po' più d'inte-resse, si, l'ho dato, quindi adesso puoi venire, non so se parto per il fine settimana, se non dovessi partire vieni, magari proseguiamo la chiacchie-rata dell'altra volta, così io ancora più interessato, è stato un crescendo.

Magari, conclude.In questo modo ci siamo salutati, tornando rispettivamente ai pro-

pri tavoli, non le ho chiesto nemmeno come si chiama, cazzo, sono ca-duto sui fondamentali delle pubbliche relazioni.

Dall'ingresso della pizzeria al mio tavolo, avrei potuto arrovellarmi sul perché fosse uscita, ma non l'ho fatto, mi piace concludere la serata pensando ad un desiderio realizzato, per le delusioni c'è tempo domani, adesso mi devo dedicare ad un'altra speranza, vederla alla prossima festa.

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X

Sono il re del vomito.In stato di coscienza ho contato fino a dieci volte in un solo

giorno, i risultati non si sono fatti attendere.Solo una settimana di vacanza a Neurologia, seminterrato, e sono

dimagrito dodici chili, non riesco a mangiare, non trattengo niente, le forze non ne parliamo, ogni tanto mando giù un succo di frutta.

I dottori mi rivoltano come un pedalino, ieri ho fatto un esame a Psichiatria, si chiama Potenziali Evocati, ti mettono degli elettrodi, tipo spilli molto piccoli, anche dentro l'occhio e scaricano tensioni quasi inavvertibili, tu devi guardare fisso al centro di uno schermo un punto rosso in mezzo ad una scacchiera in movimento, non so bene che cosa possano capire da questo esame, capiranno forse che sto male, non ci vuole molto, mi sento da schifo, non riesco a stare in piedi, mi gira la te-sta, mi prendono dei singhiozzi a raffica fino a quando mi si blocca il diaframma e non riesco più a respirare, si sblocca solo deglutendo, non ho più sensibilità in metà del corpo, non penso che abbiano capito qualcosa, oppure hanno capito tutto ma io non lo so, so soltanto che quando mia madre viene a trovarmi, ha gli occhi lucidi e so anche che mio padre ha temporaneamente interrotto le lavorazioni del film che sta girando in Germania.

Appena entrato in questo luogo di gestita sofferenza, quando i sintomi che mi stavano colpendo non erano ancora diventati violenti, ho chiesto a mio padre un libro da leggere, lui era tornato da Berlino e alla mia richiesta ha risposto portandomi i Sepolcri, io mi sono messo a ride-

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re, trattenendo le ultime forze che avevo in corpo e che mi avrebbero abbandonato dopo pochi minuti, non per salutarlo, muovermi, mangiare o chissà cosa, ma per ridere, forte, così mi hanno raccontato.

Mio padre era così, è così, lo sarà sempre, non capisce mai le situa-zioni, sono sicuro che non si è messo a cercare un libro adatto, ha solo preso il primo che gli è capitato tra le mani, I Sepolcri appunto.

È una fotografia, o meglio una cartolina, un uomo seduto dietro una scrivania, per tutto il giorno e per tutti i giorni che si trattiene a casa, poi parte, a girare film chissà dove e rimane fuori anche per interi mesi. Mi sentirò dire che devo capirlo, lui è fatto così, me lo dirà Costanza, lei è fatta così, capisce tutti prima di capire se stessa, forse è anche per que-sto che da qualche anno va in analisi e ci rimarrà per diverso tempo e, continuerà a dirmi, è il suo modo di amare, di essere vicino alle persone che ama, che ama penso, alle persone che gli sono capitate e con le quali condivide l’esistenza e, condivide, parola grossa, non c'è mai, non c'era e non ci sarà. Cara Costanza, tu sei mia sorella, l'unica persona che da sempre, nei momenti più difficili, mi avrebbe fatto bene abbracciare, co-sì, senza dire niente, solo abbracciarti, anche adesso che sto qua dentro, tra le righe di un libro di patologia clinica, mi fa bene anche solo immagi-nare di abbracciarti, sognare di farlo, cara Costanza, ma che cazzo dici, dirai, io non devo capire, indagare, supporre, pensare e, sperare, sperare che chi non mi accarezza mi ama lo stesso, Costanza, voglio essere toccato, detto, pensato, accarezzato, da chi mi ama e, da chi io amo, perdonami e tu mi perdonerai perché lo fai con tutti, ma ho necessità di rapporti elementari, mi piacerebbe sentire che mio padre mi ama, attra-verso quello che mi può trasmettere un suo abbraccio, non supporlo.

Un bambino, così quando lo ero e quando ne avevo bisogno, non deve supporre, un bambino deve sentire, il bambino, cara Costanza, sente con la pelle gli abbracci, le carezze, sente con le proprie mani le mani del padre quando gliele prende per attraversare la strada, sente con gli occhi, quando vede il sorriso del padre che è solo per lui quel sorriso, dio della psicanalisi, non ti credo, non ti ho mai creduto e, non ti crede-rò mai, un bambino sente con le orecchie, quanto il padre dice ti voglio bene. I sensi esistono e voglio usarli, non voglio interpretarli, voglio anche che vengano usati verso di me, voglio che qualcuno mi prenda la mano, mi accarezzi la guancia, mi sorrida, mi dica ti voglio bene, mi sia

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vicino quando avrò una delusione, quando dovrò prendere una decisio-ne e, quando io dovrò amare, lo farò con tutto il corpo, con tutti i sensi che il mio corpo mi mette e metterà a disposizione.

Cara costanza, voglio utilizzare il linguaggio dei sentimenti in mo-do elementare, il più semplice possibile, ti amo vuol dire ti amo, ti odio vuol dire ti odio e così via e non voglio cambiare punto

Pensare all'amore, mentre si vomita, come sto facendo in questo istante, lo trovo divertente, come diventa divertente cercare di capire se il vomito è conseguente al pensiero dell'amore, oppure ci penso perché vomito e sto male. Succhi gastrici, deità intestine, lasciatemi capire dalla vostra configurazione una volta all'aria aperta, così come si fa per legge-re il futuro attraverso i fondi di caffè, come mi suggerite di pormi nei confronti di questo sentimento che ancora non ho compreso, prima che gli inservienti dell'hotel neurologico, con la loro solerzia, vi destinino ad altra e, non meglio specificata sede, vi prego, abbiamo poco tempo, sento gia le voci degli uomini scopa fuori, in corridoio, insieme alle urla della caposala che, come tutte le mattine, in questo modo così morbido, impartisce ordini a tutti, anche ai medici, forse lo fa perché sennò nessu-no le darebbe retta e la sua voce, della caposala appunto, questa mattina si è arricchita di un tintinnio strano, come lo sbattere di scodelle, non so, abbiamo poco tempo, vi prego, le forze stanno per abbandonarmi e, vo-mito, nuovamente.

Adesso il tintinnio strano lo sento più vicino, sempre accompa-gnato dalle urla di Edda Clara detta Eddaclara, la caposala, anche quelle le sento più vicine, fino a quando, finalmente, mi appare dalla porta della camera, e, grazie alle ultime forze rimaste che ho sapientemente de-stinato al senso della vista, il tintinnio adesso ha nome e cognome, anche soprannome, provocato dalla percussione di un cucchiaino, o forchetta, sulle pareti di una tazza, di quelle per fare colazione, non di quelle che danno in ospedale, di quelle da casa, cucchiaino mosso vorti-cosamente da una mano, attaccata ad un braccio, attaccato, come suppo-nevo, a Eddaclara, la caposala e, come saprò tra qualche istante, lo strano e ancora ignoto contenuto della scodella abilmente armeggiata da lei, è proprio destinato a me. Ciao Claudio, così lei, è arrivata la colazio-ne, mentre dagli occhi trasferisco le ultime forze al verbo, lo so ma non sono riuscito a mangiare niente, scusi.

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È arrivata la colazione significa che la tua è questa, e mi mostra lo strano contenuto della tazza, te l'ho portata io la tua colazione, conclude poggiando la tazza sul mio comodino, aiuta a sollevarmi mettendomi un braccio dietro la schiena, delicatamente come, sentendo le sue urla nel corridoio, non avrei mai pensato che potesse fare, sempre delicatamente mi mette a sedere su un lato del letto, io non ho più forza, nemmeno per parlare, mentre la caposala mi muove, mi accarezza i capelli e, deli-catamente, mi aiuta ad appoggiare la testa sul suo grembo, prendendola con entrambe le mani, muovendosi lentamente, con una mano riprende la tazza, mentre con l'altra continua ad accarezzarmi i capelli e, la guancia, è calda, questo non lo sento ma ne sono comunque sicuro, ades-so non strilla più, con nessuno, si dedica solo a me, il suo braccio sini-stro mi cinge la spalla, mi abbraccia e, mi sorregge, con la mano tiene la tazza, con la destra mi porge un cucchiaino con cui mi imbocca punto

Tutto questo accadrà per tante mattine, non so quante.

Mi addormenterò con la speranza che la mattina seguente si ripeta il rituale della mia colazione, le sue urla nel corridoio, il tintinnio, la mia testa sul suo grembo morbido, mentre mi accarezza i capelli e, mi imbocca, dentro la tazza un uovo fresco che, tutti i giorni, prima di veni-re al lavoro, la caposala va a prendere da un contadino vicino casa sua, si alza prima per passare dal contadino, arrivata in ospedale, organizza il la-voro a tutti mentre mi prepara la colazione sbattendo l'uovo con un po' di zucchero, l'unica cosa che riesco a mangiare e, come dice Eddaclara, la caposala, mi tira su.

La colazione non la vomito, fanculo alle deità intestine.La colazione non la vomito, almeno nell'immediato, cosa che acca-

de con tutto quello, solido e liquido, che mando giù durante la giornata, giornata che ormai passo a vomitare, ad orientarmi, a non sentirmi, a non vedermi, a dimenticare, a non percepire, a non sognare, a desidera-re, questo non mi ha mai abbandonato nella vita, passata e futura, a non dormire, a non stare sveglio, a non preoccuparmi, a non parlare.

Aspetto i miei amici, ma non vengono, adoro i miei amici, ma non vengono lo stesso, sento l'odore di Costanza accanto a me, qualche volta quello di mamma e, aspetto, che la tempesta passi, che mi cresca la

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barba, che si sposi Costanza, che ritorni Giordana e lasci quel coglione di Marco, il giorno dopo il mio ricovero mi sono venuti a trovare insie-me, non mi hanno detto che si sono fidanzati ma io l'ho capito e saprò che non mi sbaglio, aspetto Marzio che mi porta i biglietti delle feste, aspetto le feste e, altre Giordana se non lei, così sarà, aspetto, quanto sa-rà necessario, adesso sono stanco.

Aspetto il riposo.

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XI

Ho davanti agli occhi il viso di Letizia, chino sopra un foglio di carta lucida, intenta a farsi venire in mente un'idea per un progetto, lo stesso mio progetto, il nostro progetto, stiamo facendo un concorso insieme.

Adesso ci mentiamo dicendo che siamo solo amici, grandi amici, i rispettivi migliori amici, ma non è stato sempre così, non sarà sempre co-sì, spero, ci sto lavorando sopra.

L'ho conosciuta, Letizia, al corso di geometria all'università, non era la più carina in aula, ma a me era quella che piaceva di più punto Le ho dato il tormento per sei mesi prima di farle decidere di uscire con me, così ricordo, mentre l'idea per il nostro progetto stenta ad arrivare, mi sento quasi in colpa, lei china stoicamente sui fogli a lavorare, io a guardarla e, a pensare, a lei. Ho una mia teoria su questo, in realtà lei non sta lavorando, ha solo paura di alzare lo sguardo e incontrare il mio che la osserva.

Presuntuoso, lo sono spesso ultimamente.Una volta, mentre mi aiutava a disegnare per un mio esame di pro-

gettazione, qualche tempo dopo la nostra breve, platonica e innocua parentesi amorosa, mi disse, con la testa sempre china sul foglio e senza alzare lo sguardo, sai, così iniziò a dire, mi potrei anche innamorare di te, mi potrei essere forse innamorata di te, quest'ultima frase sottovoce, dicendola con la speranza che io non la sentissi, come se le fosse uscita per sbaglio da una vibrazione incontrollata delle corde vocali, gesto invo-lontario, come involontario è l'istinto, lo stesso istinto che elabora una

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immagine che la coda dell'occhio ha registrato, della quale non ti sei accorto e che ti fa sterzare all’ultimo momento, evitando così di investi-re una vecchietta sulle strisce pedonali, lo stesso istinto che a volte ti salva la vita, altre volte hai il terrore che ti salvi la vita, questo lei sentiva, così penso mentre ricordo, come ricordo invece di averla sentita, quella frase, articolata con un filo di voce, mi spiace per te cara, ma ho sentito quello che hai detto, così pensavo e, quello che è detto è detto ormai, po-che parole attese con pazienza e speranza, da lungo tempo, ma ormai erano dette, così mi alzai dal tavolo dove stavo disegnando, mi misi die-tro di lei, lei sempre con il capo chino sopra il tavolo, come oggi, senza avere interrotto neppure per un attimo la trama del disegno che stava fa-cendo, facendo per me, le misi una mano sopra la sua spalla, o almeno così avrei voluto fare quando decisi di muovere il braccio dove la mano destinata a toccarla era attaccata, non ricordo di averla nemmeno sfio-rata, vattene via, mi urlò sempre china sul foglio e senza interrompere la sua opera.

Impietrito, mi ritirai verso il mio lavoro, mentre continuo a guardarla, lei, sempre sul foglio da disegno, tira linee, dritte, curve, poi le cancella e, riparte, altre linee, dritte e curve, idee in nuce, alle quali subi-to dopo rinuncia nuovamente e, altre linee, sembra non essere a suo agio, è vero che non ha mai saputo disegnare, per lei schizzare un'idea per un progetto è stato sempre un po' difficile, ma adesso questo non c'entra, sono sempre più convinto che si è accorta che la sto guardando, la nostra storia è sempre stata così, è una storia di imbarazzi, di baci strappati per sbaglio, fino ad un certo punto, così penso, io non li do mai per sbaglio, è una storia di strofinamenti in stato di ebbrezza, di sentirsi al telefono per ore intere, di essere gelosi dei rispettivi compa-gni, insomma, è una storia di normale, tranquilla, serena e, impostora amicizia, tra un ragazzo e una ragazza.

Impostora certo, falsa e millantatrice amicizia, ma chi vogliamo prendere in giro, quale amicizia, sono sicuro che tra un uomo e una donna possa esserci amicizia, dovrebbe, potrebbe, penso, ma di certo questo non è il caso, anche adesso, mentre guardo la sua testa china so-pra i disegni fatti, cancellati e rifatti almeno una trentina di volte da quando ci siamo seduti questa mattina, anche adesso, non penso certo a quanto sarebbe bello passare il tempo insieme, a lei, parlando di

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architettura, di libri, di cinema o, stare zitti, anche adesso, l'unica cosa che riesco a pensare di Letizia è che mi piacerebbe approfondire la cono-scenza dei suoi, stupendi, piccoli, seni bianchi, perlustrare i suoi capezzo-li come farebbe una sonda su Marte, le terrei le mani, si, le terrei anche le mani, ma solo mentre le bacio l'ombellico, per scendere sempre più in basso e sentire così, la stretta delle sue mani che aumenta sempre di più, mentre con le mie labbra le percorro la pancia fino all'inguine per non fermarmi ancora.

È amicizia questa.Certo.Lei lo sa, mi ascolta i pensieri, anche in questo momento mi sta

ascoltando, per questo non solleva la testa dal tavolo, la sto imba-razzando, mi ascolta mentre penso e, si imbarazza, questo penso, ne so-no convinto e si imbarazza solo perché, continuo a pensare, sono riuscito a leggere i suoi desideri, sapientemente mal celati, bramosi di es-sere scoperti, per questo non solleva la testa e mi guarda, lei si lascia leggere, come fosse il libro dei sogni, dei miei sogni, ne sono sempre più convinto e, continuo a guardarla.

Come tutte le convinzioni che si rispettano, anche questa è desti-nata ad essere tradita, Letizia alza lo sguardo e, mi guarda negli occhi, penso, mi ha ascoltato veramente, posa la matita, a cosa pensi, così lei.

Rimango in silenzio, per un attimo, sperando di non aver mosso lo sguardo, a cosa pensi punto

A cosa penso, a niente penso, penso e, dico, ti ricordi quando ti ho raccontato del concorso che ho fatto con Sartoris, te l'ho raccontato dai, bene, e continuo, appena arrivati a casa sua in Svizzera, ci aprì lui, aveva novantaquattro anni, ci disse che la notte non aveva dormito, noi pensammo che ci avrebbe fatto tornare l'indomani, sai a novantaquattro anni, invece continuò dicendo e specificando che non aveva dormito perché, prima di mettere la matita sul foglio, doveva immaginare lo spa-zio che voleva progettare.

Letizia continua a guardarmi senza parlare, i suoi occhi mi chiedo-no di più, mi sento in imbarazzo e in colpa, come il bambino scoperto con il dito dentro il barattolo della nutella, ma continuo, a questo pensa-vo, alle parole di Sartoris, le uniche che mi abbiano insegnato qualcosa, così io a Letizia.

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Allora parliamone, prima di metterci a disegnare, così Letizia a me.Di cosa parliamo, le chiedo.Come di cosa parliamo, di quello che vogliamo fare per questo

progetto parliamo. Se io faccio una cosa, tu ne pensi un'altra, è inutile la-vorare insieme.

È utile, penso, mi dispiacerebbe non averti accanto, come mi è dispiaciuto non averti accanto nei giorni in cui non ti ho avuta accanto, continuo a pensare, e di questo progetto non me ne importa niente, co-me non mi importa di quando mi parli del ragazzo con cui esci, come non mi importa dei tuoi altalenanti stati di umore che mi irretiscono in una accozzaglia di voluttà ingestibili, questo penso.

Parliamo del progetto, dico, anche se adesso è un po' tardi, devo incontrarmi a pranzo con gli altri per la festa di sabato, ci vieni, così chie-do a Letizia.

Non lo so, avevamo intenzione di andare in Toscana, mi ero di-menticata della tua festa, pensavo ci potessi venire anche tu.

Con chi vai.I soliti che porto anche alle tue feste.Se non venite non sarà la stessa festa.Se non vengo io, non sarà la stessa festa.Letizia si aspetta adesso che, al suo sorriso, le risponda con un

sorriso complice ma non lo faccio.Acido coglione.Se non vengo con voi, non sarà la stessa Toscana.Forse, ci potresti sempre raggiungere domenica, così pranziamo

insieme.

Io penso che lei potrebbe rinunciare al suo fine settimana in To-scana, venire alla mia festa, così da farmi capire non so bene cosa, forse quello che voglio capire, passare insieme la sera, insieme a diverse centi-naia di persone e, vissero felici e contenti, infine io rinuncerò al fine settimana, lei non verrà alla festa, anche perché alle altre feste dove è ve-nuta, io non l'ho filata molto, sempre per questo vizio di non cedere chissà quale parte fondamentale di me, io non cedo, lei non cede, non cediamo e, non ci vedremo.

Altri due giorni persi.

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Se lei partisse dal mio stesso, marcio, presupposto emotivo, non arriveremmo mai da nessuna parte, insieme, così penso mentre la saluto, ci salutiamo e ci lasciamo in balìa dei rispettivi fine settimana.

Questo non mi consola.Non mi consola nemmeno l'idea che forse, sabato alla festa, verrà

la ragazza del pronto soccorso, sempre accompagnata dal fighettino con gli occhiali, sempre senza sapere il suo nome, così penso in macchina, andando verso il centro, dove ho appuntamento con Marzio e il proprie-tario del locale della festa di sabato, pranzeremo in un ristorante vicino a piazza delle Coppelle, ma non riesco a pensare ad altro.

Penso che in realtà Letizia la subisco, da quando l'ho conosciuta, la subisco, subisco i suoi umori, stati d'animo, che non mi fanno essere ciò che sono quando mi sta vicino, se a questo, ci mettiamo che anche io sono abbastanza complicato, la frittata è fatta, cucinata, portata in tavo-la, mangiata e, digerita.

Il pranzo con Marzio e gli altri, in realtà, come al solito, è stato so-lo una scusa per cazzeggiare, a parte piccoli dettagli sulla prossima festa, non si è deciso niente di rilevante, ma ci devo essere, almeno fisica-mente, oggi in particolare la mia capacità di concentrazione su quello che mi accade intorno è prossima al nulla, dentro di me, per tutta la du-rata del pranzo, mi sono scoperto a decidere tra Letizia e la ragazza del pronto soccorso, come se tutte e due stessero facendo salti mortali per accaparrarsi il posto migliore nel mio cuore e, nei miei pensieri, tutto questo lo sto facendo da solo, come si fa per il primo amore, da solo, sto facendo un film e, come fa mio padre, lo sto sceneggiando, girando, montando, tutto da solo.

Forte.Forse ho sbagliato mestiere, un altro errore, dovevo seguire le

orme del regista di culto, avrei avuto anche un canale preferenziale, non tanto per mio padre, quanto per il nome, continuo a pensare, invece faccio l’architetto, scelta che mi ha portato a conoscere Letizia, come, se avessi fatto il regista, forse avrei conosciuto un’altra Letizia, forse miglio-re, più diretta, più leggibile, forse.

Pigro.Alternando i miei pensieri al cellulare che squilla, ai semafori, al

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traffico, mi dirigo verso studio, la scusa è duepunti tornare a lavorare al concorso, così ho detto a Letizia che avrei fatto dopo il pranzo e, ancora cellulare, persone da mettere in lista, semafori, lavavetri, lungotevere e, vetrine di negozi, motorini che ti tagliano la strada, come faccio io di so-lito, ancora traffico e lungotevere, passando accanto al cantiere eterno dell'Ara Pacis, poi giù per i sottopassi, clacson frignanti, e, architetture improbabili che mi accompagnano durante il ritorno, cornice di un de-serto che, qualcuno chiama città, percorsa da ammassi di cellule con scarpe, calzini e cravatte, belle giacche e ammiccanti accessori, gente zeppa di droghe di tutti i tipi, quando non sono quelle chimiche, ci sono quelle elettroniche o meccaniche, attraverso le quali si raggiunge il nirva-na dell’ultimo modello di telefonino, videogioco e, macchine sempre più performanti, facendoci sentire parte di un mondo che invece, proprio per questo ci separa, ogni pezzo di silicio prodotto ci divide, ogni pezzo di silicio prodotto e assemblato, comprato, ci allontana dalla comunità, fino ad una distanza siderale che non potremo più ripercorrere a ritroso e, sono ancora semafori rossi, visi spenti di chi pensa ai cazzi suoi, poca gente nel traffico, dentro le auto, anche le più belle, sembra felice, nemmeno i palazzi sembrano felici di essere stati costruiti, progettati, se potessero parlare questo direbbero, come dicono tante persone che non volevano nascere, non l’ho chiesto io di venire al mondo, così dicono, palazzi che dobbiamo subire, ma che ci importa, torno a casa e mi sparo il campionato alla play-station e, ancora traffico, cazzo, cellulare che suo-na, tanti nomi, sarà una gran festa, solo nomi, uno fra tutti, ciao 'Zia, co-sì io a Letizia, dove sei.

Sono a casa ma sto uscendo.Dove vai di bello.Devo accompagnare mia madre da nonna.Io sto tornando a studio, spero di riuscire a tirare fuori qualcosa di

buono per il concorso.Se vuoi posso raggiungerti nel tardo pomeriggio, poi ceniamo

insieme, se non hai programmi.Veramente volevo andare al cinema questa sera.Con chi.Non lo so, ancora non ho sentito nessuno.Ti accontenti di me.

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Se non ho niente di meglio ......Ma che vuoi vedere.Lisbon story.Bene.Allora a più tardi, e concludo, ma cosa mi volevi dire, è vero, scu-

sa, così Letizia, volevo dirti che sabato veniamo, non andiamo più fuori, i nomi per la lista te li do quando ci vediamo.

A dopo.Sante parole.Sotto studio c’è Marzio che, come spesso capita, si è scordato le

chiavi da qualche parte, mi aspetta da un po’ di tempo, è tornato in mo-torino.

Ti ricordi di questa sera vero, mi dice.Che dobbiamo fare questa sera.Andiamo tutti al locale dove lavora Sandro, saremo una decina.Sandro è un nostro, mio e di Marzio appunto, amico d’infanzia, la-

vora alle luci in un locale all’Olgiata, dove fanno spogliarelli, per oggi è in programma lo spettacolo di una nota pornostar italiana, all’idea di andarci, quando lo abbiamo deciso, ero abbastanza stimolato, anche perché non sono mai stato in un locale così e, non ci andrò in futuro, fi-no ad oggi, così so.

Fra qualche ora viene Letizia, ci mettiamo un po’ a lavorare per il concorso, poi volevamo andare ad un cinema, mi sono completamente dimenticato di questa sera.

Sei il solito rincoglionito.A che ora è l’appuntamento, chiedo a Marzio, ci vediamo alle undi-

ci e mezzo a piazza dei Giuochi Delfici, così lui.Faccio in tempo, ci andiamo a mangiare una pizza poi l’accompagno a casa e arrivo, adesso la chiamo.

Che palle che fai con questa Letizia, e nemmeno te la scopi, così Marzio.

Letizia dopo un po’ arriva, questa volta riusciamo a produrre qualcosa lavorando insieme, un’idea è uscita fuori da queste testoline de-concentrate.

La cena è stata come tutte le nostre cene da soli, una bottiglia di vi-

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no in due, risate, le racconto di come continuerò la serata, poi qualche silenzio, io tratto male lei, 'Zia tratta male me, ormai ci sono abituato, ma dopo qualche minuto, senza rendercene conto, le nostre mani si cercano, diventano una sola e, continuiamo a parlare, senza farci caso, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, anche accompa-gnandola a casa, dalla macchina al suo portone, lei ha tenuto la sua ma-no stretta alla mia, dentro la tasca del mio impermeabile, la sua testa appoggiata al mio braccio e, si cammina, sotto casa poi, bacio sulla guancia lato bocca e, via di corsa.

Mi arriva un messaggio sul telefonino, divertiti con le donnine, ‘Zia.

Appuntamento alle undici e mezza a piazza dei Giuochi Delfici, sono le undici e un quarto, ce la posso fare e, con soli cinque minuti di ritardo, ce la faccio.

Gli altri sono tutti arrivati, mancavo solo io, casualmente, sembra una sfilata di impermeabili, bavero alzato ovviamente, aria losca di chi sta per fare qualcosa che non si deve fare e, si parte.

Arrivati al locale, due di noi entrano per contrattare il prezzo, ci dobbiamo sbrigare lo spettacolo sta per iniziare, chi rimane fuori, come me ad esempio, essendo questa una zona di avventori delle nostre feste, si allontana dall’ingresso del locale, con un occhio alla porta per vedere se i nostri negoziatori tornano con notizie incoraggianti, così è, la trattativa ha portato ad un prezzo forfetario di settantacinquemilalire a persona.

L’idea era di mandare tutte le ragazze da Giancarlo, il più losco tra i nostri individui, la sua ragazza si trovava in vacanza in Abruzzo e, in queste situazioni, ragazze seminude a grappoli, fidanzata lontana, di-venta uno spettacolo, già dalla prima ballerina, le sue mani diventano mille, cucendole addosso un vestito di carne che non permette, a noi guardoni, di goderci lo spettacolo delle sue nudità, così per tutta la sera.

Al ritorno, in macchina di Giancarlo, lo spettacolo continua con la telefonata della sua fidanzata, macchè divertito, così lui, un senso di sporco, depravazione, squallore, non ti puoi immaginare, e conclude, anch’io ti amo.

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Sono le tre del mattino, ho ripreso la mia macchina, non ho voglia di andare a casa, vorrei andare a bere qualcosa passeggiando poi per il centro, Roma di notte è una poesia, i vicoli di Roma la notte sono poe-sia, ma sono solo e da solo non mi va, penso, mentre mi arriva un mes-saggio sul cellulare, forse è Marzio.

Non è Marzio, è Letizia ancora sveglia.Com’erano le donnine, mi chiede.Sode.Vaffanculo punto

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XII

L’uomo ricoverato è uno strano essere, ancora oggi oggetto di studio da parte della comunità scientifica. Come tutte le altre varianti della spe-cie, tra le quali ricordiamo l’uomo innamorato, l’uomo impiegato, l’uomo vendito-re, l’uomo televisivo, per citarne solo alcune, ma la lista sarebbe lunghissima, nasce normale, anzi, le ultime ricerche pubblicate sulle rivi-ste specializzate, parlano di un unico ceppo batterico iniziale, in seguito, crescendo, questi organismi, se sottoposti a determinate condizioni ambientali, modificano la loro struttura per configurarsi nelle diverse va-rianti che sono state fino ad oggi catalogate e riconosciute. Come l’ambiente possa influire sulla genetica di questi batteri, ancora non è chiaro, ci sono delle ipotesi ma niente di scientifico, non è chiaro neanche come sia possibile il ritorno, da parte di questi, ad una situazio-ne ante-trasformazione, come in alcuni casi si è verificato.

Ma torniamo al nostro uomo ricoverato, una caratteristica che lo accomuna ad altre varianti della sua specie, è quella che lui non vive di ri-cordi, ma di sensazioni, non appena si completa la sua trasformazione, i suoi non sono più ricordi, solo sensazioni, percezioni di ricordi che, l’uo-mo ricoverato, scambia sovente per ricordi e, su questi, fonda gli eventi più importanti della sua futura esistenza continuando, inconsapevolmente, a prendere sensazioni per ricordi. Bisogna dire che tutto questo avviene anche in altri organismi, con una differenza, negli altri è stato scoperto che i ricordi vengono trasformati in sensazioni appunto, in un processo abbastanza lungo, da un elemento di cui, sempre questi altri organismi, sono in gran parte costituiti, il tempo.

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Attraverso il tempo, tutto ciò che nasce come ricordo, si tra-sforma in sensazione, o, come è stato detto durante un convegno ad Aquisgrana, percezione di ricordo. Questo processo, come ho gia detto, nell’uomo ricoverato avviene contemporaneamente alla sua trasformazione strutturale.

In altre varianti della specie, avvengono processi simili tra loro ma con effetti differenti, ad esempio nell’uomo innamorato, la trasformazione dei ricordi crea un impazzimento delle cellule che costituiscono l’organi-smo stesso, queste iniziano a muoversi disordinatamente in tutte le dire-zioni, fenomeno chiamato, in un recentissimo articolo, entropia emozionale o teoria del caos sentimentale.

Drammatico.Ancora non lo so, ma saprò che il mio organismo è destinato a

passare attraverso alcune tra queste modificazioni, a volte in modo re-pentino e violento, così saprò, altre in modo quasi inavvertibile.

La mia trasformazione in uomo ricoverato è stata violenta, l’ho avvertita mentre si realizzava, ho sentito e, sento, diventare sensazione tutto ciò che sarebbe stato ricordo.

Quello che vivo, da quando mi trovo qua dentro, non sarà mai ri-cordo ma percezione di esso e, tale dovrà essere per me, con tutto quello che ne fa parte, corridoi, camici, infermieri e portantini, e medici-ne, e bagni inospitali, visite, speranza di uscire presto, amici, parenti, pioggia, ancora pioggia, piatti insipidi, vomito, la caposala con il suo uo-vo sbattuto per la mia colazione, gli infermieri del reparto di Neurochi-rurgia, adiacente a Neurologia, il mio reparto, che la sera mi vengono a prendere di nascosto per farmi vedere le partite nella loro televisione, a colori.

La televisione a Neurologia è in bianco e nero.Apprezzo la buona volontà, ci vado a vedere le partite, ma non ve-

do niente, vedo solo un televisore che mi gira intorno come un satellite e malati come satelliti e infermieri come satelliti e gamberoni ai ferri, tanti gamberoni, polposi, gustosi, tutti intorno, sono disteso in un letto di gamberoni ai ferri che però non posso mangiare perché vomito, vomi-to tutto, tranne l’uovo sbattuto della mattina al sapore di grembo della caposala. Posso solo sognare, volti giovani, probabilmente amici, che mi parlano, poi se ne vanno, infermieri che mi parlano, mi raccontano, poi

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se ne vanno, apprezzo il tentativo, e Carlo, e Costanza, e mamma e, pa-pà, mi parlano, poi se ne vanno, apprezzo il tentativo ma se ne vanno tutti, anche i medici, mi guardano, mi scrutano, mi studiano, parlano tra loro e se ne vanno, mi girano intorno e se ne vanno, tutto mi gira intorno, in una danza disordinata fatta di gesti, oggetti e, lamenti, i miei lamenti che sento dentro anche se non emetto suoni, i lamenti dei miei colleghi, lamenti sindacali dei portantini, infermieri, visitatori, lamenti dei parenti ai quali i medici non dicono nulla, il cibo fa schifo, a saperlo riuscendo a mandare giù qualcosa.

Lamenti.Poi cambia tutto.Arriva Eddaclara per la colazione, il suo grembo diventa il mio

mondo, un mondo morbido, accogliente, sicuro, la sua mano che mi accarezza lo difenderà questo mondo, sensazioni appunto, meglio di mille ricordi, di qualsiasi ricordo, la prima comunione, la prima fi-danzata, la prima volta che ho fatto l’amore, questi sono ricordi, le sensa-zioni sono amore, di chi le causa, anche inconsciamente, voglio costruirci la mia casa sulle sensazioni, dalle fondamenta al tetto e, se que-sto significa stare male per sempre, sono pronto, non mi schioderò da qui nemmeno a cannonate, non cambierei mai il ricordo di una carezza con la sensazione che ti da il gesto eterno di una mano sconosciuta, quando ti avvolge il viso, poggiandolo sul suo grembo.

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XIII

La serata è iniziata uguale a tutte le altre, il saluto ai ragazzi dello staff, al proprietario, ci sono i miei colleghi organizzatori, i primi ospiti, il DJ, le chiamate alla porta per fare entrare chi non vuole fare la fila, la fi-la, il locale che si riempie, la musica che parte, il primo bicchiere di vod-ka-tonic, altri saluti, gente non in lista che ti chiama all’ultimo momento, odore di fumo, primo di un coacervo d’odori che diventeranno sempre più insistenti, gente attesa non ancora arrivata, ed altra gente, sempre di-versa da quella che ti aspetti.

La musica parte piano e, piano, s’inizia a ballare.Fuori, il locale è pieno, i ragazzi alle liste stanno impazzendo, la

musica sale di tono, adesso anche il locale è pieno.Un altro successo.Almeno così sembra, dalle persone presenti, ci sono tutti, tranne

Letizia, lei non arriverà, i suoi amici hanno deciso di dedicarsi a chissà quali altre attività ludiche, lasciandola sola e lei da sola non viene.

Non so in quali condizioni, vista l’ora che sicuramente farò, ma ci vedremo domani mattina, devo andarla a prendere alle nove a casa, così mi ha detto, chiesto, domani alle nove, orario che non riesce a nascondere una volontà sadica.

Marzio balla, Giancarlo beve, così fanno un po’ tutti. Pochi parla-no, ma stento a credere che si ascoltino.

Per una assurda alchimia, tra tutte queste persone, sono riuscito a percepire due fari, puntati verso di me, si avvicinano, sono intensi e, ormai inaspettati, si aprono un varco tra la gente, sono pro-

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fondi.Sono occhi, a guarnire un volto, assente da troppe feste, anche il

corpo, appendice di quegli occhi, si fa largo tra la gente, non per ballare, così mi sembra e si avvicina, sempre di più.

Dovrei salutarla, io per primo, forse, è vicino a me, invece lo fa lei.Ciao Claudio, così strilla per farsi sentire, ciao, le rispondo – che

fantasia – e continuo, perché tu sai il mio nome e io non conosco il tuo.È facile, mi dice, basta sapere chi sono gli organizzatori di questa

sera, gli altri li conosco, bene o male, per esclusione rimani tu, Claudio.Ma io continuo a non sapere il tuo, però, questa cosa mi mette a

disagio, vogliamo risolverlo il problema, oppure hai altri progetti.Non so, ci bevo sopra, poi vediamo.Bene, dico io e, con un sorriso scemo, la lascio andare.A questo punto ho due possibilità, o lei stava andando al bar, e io

mi sono trovato tra lei ed il bar, oppure voleva che io l’accompagnassi a bere qualcosa. Se fosse vera la prima, pace, ma se per caso, la seconda ipotesi fosse quella giusta, sarei veramente un imbecille, solo per non da-re soddisfazione o, come si dice, per tirarmela.

Sono un imbecille.Ma la festa continua, io giro, parlo, e non la vedo.La festa continua e sta per terminare, esco fuori per salutare gli

amici che se ne vanno e per prendere un po’ d’aria, bevendo un vodka-tonic e fumando una sigaretta.

Com’è andata la serata, così mi dice la ragazza del pronto soccorso. Anche lei era fuori, probabilmente ha avuto la mia stessa idea, ma molti minuti prima, non l’ho più vista dentro il locale ormai da un po’ di tempo, pensavo che se ne fosse andata.

Penso bene, le rispondo, il locale è stato sempre pieno.Dovrei trovare qualcosa di interessante da dire ma mi sento neuro-

logicamente sterile, sono sicuro che anche se riuscissi a fare uscire dalla mia bocca qualche frase articolata, questa sarebbe una cazzata.

Anche la rima.Mi butto.Come ti è andato poi l’esame, le chiedo.Quale esame?L’ultima volta che ci siamo incontrati, in pizzeria, mi sembra di ri-

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cordare che stavi preparando un esame.È andato bene, sono contenta perché con lo stesso professore ci

vorrei fare la tesi. Cavolo ti ricordi tutto però, bisogna stare attenti a co-me si parla con te.

Non è vero, mi ricordo solo le cose che mi interessano – mi sono lanciato, ma non troppo –.

Ti sei ricordato anche dove ci siamo incontrati la prima volta, io non ci sarei mai riuscita.

Sento che la conversazione diventa interessante, la speranza è che non la portino via, speranza vana vista l’ora.

In realtà, più che un ricordo è stata un'illuminazione, anche perché alcuni particolari di quell’esperienza li ho rimossi, come pensavo di avere rimosso te.

Adesso sono io che ricordo qualcosa, la prima volta che ci siamo visti, anzi la seconda, quando mi hai riconosciuta, ti avevo chiesto perché eri in ospedale e non mi hai voluto rispondere.

Non è vero che non ti ho voluto rispondere, ti ho solo detto che si trattava di una storia lunga, te l’avrei raccontata se tu avessi avuto la notte a disposizione.

È impossibile parlare con uno che si ricorda anche le virgole.Me l’hai fatto ricordare tu.Forse è stata un’altra illuminazione.Forse.Mi sbagliavo, la conversazione si mette male, non durerà molto,

così sento, sta per liquidarmi.È obbligatorio raccontarmi il motivo della tua presenza al pronto

soccorso quel giorno, ridotto un cencio, tutto in una notte, oppure pos-siamo farlo a puntate, così da riuscire a dormire qualche ora?

Colpo di scena, non tutto è perduto, penso.Possiamo iniziare, vedere come va, che ora facciamo e, per l’occa-

sione mi potresti anche dire il tuo nome.Può essere, mi dice la ragazza del pronto soccorso sorridendo.Sei con la macchina, le chiedo.No, sono qui con degli amici.Se hai pazienza per un quarto d’ora, potremmo andare via e fare

due passi in centro, ti prometto di riportarti a casa in un'ora decente.

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Sono le tre, la decenza è andata a dormire qualche ora fa, così conclude la ragazza del pronto soccorso ed io capisco che non chiuderò il locale questa sera. L’eccitazione che provo per avere l’opportunità di parlare con lei con calma e serenità, per più di dieci minuti, si mescola alla paura di dire cazzate e farla fuggire.

Dai Claudio, forza Claudio.

In macchina lei parla, io anche, senza dire niente, tranne le informazioni di rito come, che università fai, varie ed eventuali.

La serata è fresca, anzi, ormai la mattina è fresca, sono le tre e mezzo e, stiamo camminando lungo via del Pellegrino, la gente per stra-da è praticamente inesistente, in questa atmosfera, le vie di Roma di-ventano meravigliose, sparisce l’odore di smog del giorno, il silenzio diventa il padrone degli angoli più nascosti, l’unico rumore che si perce-pisce, oltre ai nostri passi sui sanpietrini, è quello dei miei pensieri che corrono all’impazzata, da anfratti remoti della mia memoria per raccontarle cosa mi aveva ridotto un cencio quando ci siamo incontrati al Pronto Soccorso, a luoghi illuminati a giorno per cercare di non di-menticare ogni singolo istante di questa sera.

Mi viene in mente una canzone di Dalla.

È la sera dei miracoli fai attenzionequalcuno nei vicoli di Romacon la bocca fa a pezzi una canzone…………..

L’atmosfera è la stessa ed è magica, le luci, i pensieri, il silenzio, le nostre parole, la brezza leggera che ti penetra la pelle, poche macchine che senti passare in lontananza, il rumore dei passi di una coppia che ti viene incontro e ti lascia alle spalle.

Lei vicino.È difficile trovare un posto dove bere qualcosa a quest’ora, le di-

co, perché hai ancora voglia di bere, così lei e conclude, camminiamo dai, che fa bene.

Attraversiamo corso Vittorio Emanuele, passiamo davanti ad una libreria con le vetrine illuminate, ci fermiamo a dare un occhiata agli

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ultimi libri usciti.Un giorno ci sarò anch’io.Sei uno scrittore.Non ancora.Hai scritto qualcosa, insomma, scrivi.Non ancora, ma scriverò, per il momento leggo, così le rispondo

mentre lei mi guarda incuriosita, in realtà mi piacerebbe, mi piacerebbe diventare uno scrittore, essere uno scrittore.

Di cosa scriveresti.Narrativa, storie o, come le chiamo io, viaggi da fermo.Diventare scrittore è da qualche anno il mio sogno e, mentre le

racconto di questo sogno, mi accorgo, mi sembra, che lei è più interes-sata, adesso mi guarda cercando di centrare i miei occhi con i suoi, anche quando io guardo la vetrina della libreria, lei mi sta guardando, co-sì le dico il perché voglio scrivere, voglia di essere un altro, e, mentre lo dico, mi accorgo di non essere originale, bene o male è lo stesso motivo di tutti quelli che vorrebbero diventare scrittori, un altro, tanti altri, così correggo il tiro cercando qualcosa di meno banale, vorrei fermare i ri-cordi, ho paura di perderli, e continuo, ed è lo stesso motivo che mi fa leggere tanto, con una piccola differenza, quando leggi e ti immedesimi nei ricordi altrui, diventi l’autore di questi, ma sono ricordi che qualcuno a confezionato per il personaggio che li leggerà, così dico, ma non penso di avere rimediato alla banalità dell’inizio, penso e, continuo, quando scrivi invece, ma oggi lo posso solo immaginare, sei tu il creato-re di quella fabbrica di memorie che è il tuo personaggio e che, fino a quando non hai finito, non conosci ancora e, forse, non lo conoscerai nemmeno dopo. Il tuo personaggio nasce, cresce, parola dopo parola, impara a stare in mezzo agli altri personaggi, s’innamora, sta male, ride, è felice, piange, vince, perde, fino a quando, ma anche questo posso solo immaginarlo, arrivi ad un punto, fondamentale, dove non ti rendi conto se il personaggio che hai creato è alla tua mercé, oppure sei tu ad es-serne sottomesso.

Accompagnati dalle nostre ombre, ci dirigiamo, senza dirlo, verso via dei Coronari, continuando a parlare di libri, anche lei legge molto, io le chiedo quali autori preferisce, tra questi solo uno appartiene alla mia biblioteca e, io le dico quali autori leggo, e continuo, ma tu sei una di

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quelle che fa le orecchie alle pagine quando smetti di leggere, oppure usi il segnalibro, segnalibro mi risponde e continua, le orecchie le faccio so-lo per ricordarmi che in quella pagina c’è scritto qualcosa che mi interes-sa.

Non fai prima a sottolineare.Il gioco è li, se sottolineassi mi ricorderei cosa ho sottolineato,

quindi il concetto o la frase che mi ha interessata, invece, se trovo qualcosa di interessante mentre leggo, faccio la classica orecchia, dando-mi un aiuto però, l’orecchia in alto, se quello che mi interessa si trova nella prima metà della pagina, orecchia in basso se nella seconda, poi, quando il libro l’ho finito lo rimetto a posto, dopo un po’ di tempo, ri-prendo lo stesso libro, rileggo le pagine segnate e cerco di ritrovare le parti che mi hanno attratta la prima volta.

Questo vuol dire che ti ricordi tutto quello che leggi.No, ho detto che cerco di ritrovare, non sempre mi succede e,

quando accade non lo saprò mai, perché non mi ricordo, appunto, quello che mi ha interessata la prima volta.

Allora perché lo fai.Mi diverte il fatto che tutte le emozioni della lettura, di un film, e,

forse di tutto in generale, sono legate allo stato d’animo del momento in cui le vivi.

Questo significa che se tu, adesso, stai passeggiando con me, prati-camente uno sconosciuto, alle quattro del mattino, tra i vicoli di Roma, deserti e poco illuminati, lo devo allo stato d’animo che avevi quando mi hai incontrato, che culo.

Non è proprio così, ma ti ci sei avvicinato.Adesso ci sediamo sopra alcuni gradini in travertino davanti una

porticina in legno a via della Vetrina, mentre continuiamo a raccontarci di noi, se per la narrativa abbiamo poco o niente in comune, con la musi-ca c’è la vera sorpresa. Tranne il jazz, lei possiede la maggior parte dei dischi che ho anch’io, adora Gould, ama Silvestri, passando per Nyman, io le racconto che mi piacerebbe scrivere una canzone di Neffa e cantarla insieme a lui durante un suo concerto, lei mi dice che non si è mai divertita come al suo concerto.

Così proseguiamo, mentre senza rendercene conto, la luce dell’alba è ormai alle nostre spalle, portandosi dietro un crescendo di ru-

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mori e di profumi, come quelli prodotti da un piccolo bar a via dell’Orso dove ci fermiamo a fare colazione, ultima tappa prima di ri-portarla a casa, in un'ora decente.

Non mi ha detto come si chiama ma mi ha detto tante altre cose, mi ha detto perché si trovava al pronto soccorso quella mattina, quando c’ero anch’io, mi ha detto che lei non stava male, sarei stata male dopo, così mi ha detto, per molto tempo e penso di non essere ancora guarita da quel male che non ho avuto, e continuava a raccontare, ero andata ad accompagnare mia madre, l’avrebbero ricoverata quel giorno per l’ulti-ma volta, aveva un tumore al cervello con metastasi ovunque, soffriva tantissimo, lei ora non soffre più, da tanto tempo non soffre più, mentre io soffro ancora, per colpa di quel suo male, soffro ancora, il dolore è costante anche se non ci faccio caso, è un’assenza che percepisco in ogni istante della mia giornata, specie nei momenti in cui vorrei abbracciarla come facevo da bambina, e lei mi abbracciava e mi baciava, lo ha fatto fi-no al giorno in cui è morta, poi il dolore per la sua assenza diventa fisico quando la rivedo in qualche fotografia, o quando apro il suo armadio per indossare un suo vestito, quando esco indossando un suo vestito, mi sembra di uscire insieme a lei, così andiamo a bere una cosa, poi a balla-re e, lei è con me.

Mentre continuava a raccontarmi della madre, rimanevo in si-lenzio, ero annichilito dal suo dolore ma non ero triste, non potevo, perché lei non lo era, il suo dolore non era più tristezza, era gioia nell’andare avanti, in attesa del futuro, come un bambino aspetta la mattina del giorno di Natale per scartare i regali e la sua gioia era uguale alla mia anche se con un altro dolore, a differenza della ragazza del pronto soccorso, io ho vissuto dolori altrui, le urla di sua madre mi sve-gliavano la mattina, per i primi giorni del mio ricovero a Neurologia, e quando non l’ho più sentita, in mente mi è passato di tutto, tranne che a quel silenzio, grazie al quale tutti i ricoverati delle corsie femminili e ma-schili riuscivano a riposare per qualche minuto in più, corrispondeva il frastuono assordante di sentimenti spezzati dal dolore di una giovane ra-gazza, seduta al Pronto Soccorso, qualche giorno prima, con accanto un cretino fatto di vomito che continuava a fissarla.

Dolori altrui, come quello di Simone, nel letto accanto al paraliti-co, nel suo caso il dolore era diventato il mio, perché lui non lo provava,

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non aveva gambe né braccia e non provava dolore, era felice, spe-cialmente quando la madre lo veniva a trovare e giocavano a carte. Simo-ne non parlava, ma attraverso i suoi occhi, la madre riusciva a capire quali carte scartare e, tante altre cose riusciva a capire di Simone, e lui era felice, era felice quando io raccontavo una barzelletta e lo sentivo ri-dere, era felice quando l’Inter vinceva, era dell’Inter come me, era felice quando sorgeva il sole, rideva sempre la mattina, perché sapeva che la mamma sarebbe arrivata presto ed era felice quando lei lo lasciava la se-ra, perché si sarebbe addormentato con il suo viso negli occhi, un viso che avrebbe ritrovato il mattino seguente.

Vivevo i dolori altrui, da quei giorni, solo da quei giorni, ho ini-ziato a vivere i dolori altrui, i miei erano diventati benzina per andare avanti, nel miglior modo possibile.

Fino al mattino, abbiamo camminato fino al mattino e, parlato, la luce si era intromessa nel nostro momento senza che ce ne rendessimo conto e, torno a casa, da solo in macchina, mi sforzo di non pensare alle ore appena trascorse con ….. con, cazzo, ancora non so come si chiama la ragazza del pronto soccorso, ma non ci penso, questa notte è un qua-dro, meglio, una fotografia, da guardare quando ne avrò bisogno, insie-me a quelle dei carnevali passati, dei compleanni, delle vacanze, con la speranza di riuscire a riempire un album intero di notti come questa.

Sono le otto, devo passare a prendere Letizia alle nove, non sono sicuro di riuscire a lavorare per il concorso oggi, dopo la notte passata in bianco, per così dire, ma non posso rimandare, s’incazzerebbe come una iena e lo finirebbe da sola, il concorso, così penso e, ne sono sicuro.

Al citofono mi risponde lei, sali, così mi dice.Non sei ancora pronta.I miei non ci sono, non sono riuscita a svegliarmi ma ci metto po-

co, dai vieni su.Sono appena uscita dalla doccia, mi dice aprendo la porta, non ha

l’accappatoio, indossa una camicia troppo grande per essere sua, forse è del padre, non abbastanza grande da celarmi le sue gambe che riesco a vedere nell’attimo prima di salutarla, come riesco a vedere una goccia d’acqua liberata dai capelli bagnati, la goccia cammina, assecondando il

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suo corpo, dalla spalla scende e, prima di nascondersi sotto la camicia, passa in mezzo ai due piccoli seni lasciati parzialmente in vista, mi imma-gino il tragitto della goccia e, la rivedo proseguire la sua frenetica corsa all’interno della coscia, non ha le mutandine, così penso.

Aspettami in salone, o vuoi un caffé.Un caffé lo gradirei, così io e continuo, ho dormito poco questa

notte.Allora te lo preparo, andiamo in cucina.Aspettiamo che il caffé esca, in piedi, Letizia si appoggia alla mia

spalla, oggi non ho tanta voglia di lavorare, mi dice, non sai io, penso, mi appoggio con il braccio sul tavolo passandolo dietro la sua schiena, la mia mano sfiora il suo fianco, da lì a cingerle la vita è una conseguenza naturale, un movimento automatico e, accidentale, la mia mano, adesso, è poggiata sul suo fianco, così mi conferma che è nuda sotto la camicia, oggi non siamo più amici, sento mentre inizio a stringerla e, Letizia mi asseconda, permette alla mia mano imbarazzata di perlustrarle il fianco, scoprendo le sue gambe alla mia immaginazione, Kimbo, dio del caffé, dammi un segno, e la mano si sposta, dal fianco all’inguine, al ventre, poi di nuovo sul fianco e, riparte, alzando di poco la camicia facendola così gonfiare davanti, quanto basta per intravedere il capezzolo, e conti-nua a muoversi, la mia mano, lei sa esattamente cosa fare mentre io, incredulo e basito, rimango vittima dell’equivoco dei gesti, normali tra due amanti, strani tra due amici che vedono questi momenti con le stes-se aspettative dei sogni, quasi mai condivisi, per questo sogni rimangono o, desideri, invocazioni, come in tanti altri momenti ci sono stati tra di noi, senza mai oltrepassare il, sempre troppo vicino, confine della ragio-nevolezza. Oggi non funziona così, oggi non siamo amici, oggi Letizia non parla, ascolta il caffé che tarda ad uscire, ascolta la mia mano che si affretta a sognare prima che il risveglio interrompa tutto, la mia mano, unica parte di un corpo che sento paralizzato ed è lei che mi parla, mi racconta quello che succede, come fosse una partita di calcio, adesso si sposta di nuovo, un dito riesce a penetrare sotto la camicia, tra un botto-ne ed un altro e sente la pelle, me ne parla, è una pelle musicale che si tende al contatto con quella del mio dito, ma non lo scaccia, lo accompa-gna, verso l’ombellico, che scopre ancora umido dalla doccia di pochi minuti prima, adesso si ritira insieme alla mano da cui, purtroppo, non si

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può separare e, insieme a lei, si dedica ora alla schiena fino al suo limite meridionale, inizio di un sedere che si rivela arrotondato e, morbido, de-gna fine di una schiena disegnata e, audace inizio di due gambe lunghe, snelle.

Letizia partecipa ai mie movimenti chiudendo gli occhi, voltandosi verso di me fino ad appoggiare il suo seno destro sulla parte sinistra del mio torace, lo sento, il suo viso è tra la mia spalla e la testa, mi annusa il collo, per lei gli odori sono importanti, hai ancora addosso l’odore della notte, così lei, adesso la mia mano non è più sola, l’altra la sostiene acca-rezzandole il collo, il tutto accompagnato da una musica, piena, calda e disordinata, come un borbottio di note naturali e non armoniche, che la-sciano disattesa la curiosità di gesti bramosi, amaro risveglio, il caffé si brucia, così io a Letizia, mentre lei, lentamente, si allontana da me per andare a prendere le tazzine, zucchero, cucchiaino, insomma tutto il ne-cessario per gustarsi l’anelato prodotto di una Moka da due tazze.

Non è un sogno, accade, tutto, non solo a me, anche a lei, che mi viene di fronte, poggiando le tazzine piene sul tavolo, appoggia il suo ventre sul mio, le sue braccia sulle mie braccia e, le sue labbra sempre più vicine alle mie, vicine, talmente vicine che i nostri respiri non riesco-no più ad allontanarsi da noi, sento i suoi seni spingere su di me, io, ancora occupato dalla notte appena trascorsa, ancora occupato dall’acca-dere di un evento desiderato, a stento percepisco le sue labbra, non rie-sco a goderne ma la stringo a me, come farebbe un bambino con il suo palloncino per non farlo volare via punto

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XIV

Oggi c’è il sole, così capisco guardando fuori, ed è forse la prima volta, da quando spendo il mio tempo in questo letto da forzato del ripo-so, oggi c’è il sole ed è l’unica differenza rispetto ai giorni scorsi, per il resto virgola calma piatta.

Continuo a non trattenere niente di quello che mangio, tranne, sempre, la mia colazione, preparata, sbattuta, dalle amorevoli mani di Eddaclara, la caposala, e qualche succo di frutta alla pesca, per dire, su cinque succhi, tre ritornano alla luce sottoforma di amena bevanda shake-rata al gusto di succhi gastrici.

Ho iniziato a bere succhi di frutta per deglutire e farmi passare co-sì il blocco del diaframma a seguito degli spasmi diaframmatici, prima questa operazione riuscivo a portarla felicemente a termine deglutendo solo saliva, adesso la saliva ha bisogno di essere aiutata in qualche modo, da sola non arriva nemmeno all’altezza di quello che un giorno fu il luo-go delle tonsille per definizione e, così fino a sera.

Così fino a sera, per tutti i minuti che occorrono per arrivarci, pas-sando per secondi, attimi e frazioni di questi. Imparo, qua dentro, a calcolare il tempo, contarlo, osservarlo, studiarlo, prima da lontano, poi sempre più vicino, fino ad una distanza così prossima ad esso, da riusci-re quasi a percepirne la struttura e, ad averne rispetto.

Forse i giorni che trascorrerò in ospedale non saranno sufficienti a farmi capire in modo esaustivo la reale costruzione del tempo, una teo-ria di momenti che si susseguono linearmente, come i punti di una retta sopra la quale mi sento in equilibrio, precario equilibrio, comunque in

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equilibrio, per questo lo rispetto, il tempo, merita rispetto, se lo prendi in giro, lui, se ne accorge.

S’incazza.E sono problemi.Se, come me, ci stai sopra, al tempo appunto, in equilibrio preca-

rio, in un attimo, in un momento, ti butta giù e ti ritrovi per terra.In questo luogo catartico sto imparando a rispettare il tempo, il

tempo che sembra non passare mai, svolgendosi senza sosta tra pulizie, visite, pasti vomitati, parenti, ancora dottori, analisi, prove, forse miglio-ramenti o, peggioramenti, cena con purea di patate, o brodaglie sinteti-che, per non appesantire il sonno, riposini, vertigini, singhiozzi, così ogni giorno, almeno per questi primi giorni, con piccole varianti di poco conto e, così, lascio che il tempo passi, lui, complice silenzioso di una malattia improvvisa e, cazzo, non ci voleva.

Non sanno cosa fare, i medici, così sperano, bombardandomi di medicine, che io guarisca, li osservo nei loro gesti rituali, gesti avvolti da camici immacolati, come se la malattia non avesse macchie o, se le ha, lo-ro sono i portatori sani del detersivo che le distrugge, salvando i delicati, penso mentre osservo, passano il tempo ad ordinarmi bibite a base di cortisone che, gli infermieri mi sostituiscono senza posa, io le bevo per via endovenosa ma non mi sento meglio, continuo a non mangiare ma, sogno, di gamberoni alla piastra, filetti ai ferri, patatine fritte, bucatini all’amatriciana, tutto in una sola notte, ogni notte, i gamberoni sono tanti, rosa, dolci, morbidi, mi aggrediscono, sono circondato, loro salgo-no sul letto, sono talmente tanti che dentro il materasso non c’e la lana, o le molle, ci sono i gamberoni alla piastra e, ne sento il profumo, sono caldi ma incazzati, quando mi sembra di soccombere ai gamberoni, mi viene in aiuto un filetto ai ferri, alto, rosso, poi chiama rinforzi, da solo non ce la può fare contro tutti quei gamberoni, allora arrivano altri fi-letti, alcuni ai ferri, altri al pepe verde, poi arrivano i contorni, patatine fritte, cicoria ripassata in padella, io sono il campo di battaglia, sopra di me si sta compiendo una pagina di storia, il generale, comandante in capo dell’esercito rosaceo, ordina alle sue truppe di riordinare le fila, disponendosi in una determinata formazione che non capisco, mentre vedo uno stinco di maiale, comandante delle forze sanguigne, risponde-

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re di conseguenza, e lo fa con una violenza disumana, i dessert ne sono schifati.

Sul campo di battaglia, ovvero su di me, scorrono litri di vino, ros-so, bianco.

Scorgo, in lontananza, truppe di primi piatti avvicinarsi, non rie-sco a capire a quale esercito appartengano, ma sono in ritardo o, forse, così penso, è tutta una strategia per disorientare il nemico, chiunque es-so sia.

All’improvviso accade una cosa strana, quando le formazioni che da notti si stanno fronteggiando con una ferocia inaudita sono ormai allo stremo delle forze, i primi piatti irrompono nella battaglia e, capisco che non stanno con nessuno, adesso li vedo, si tratta di linguine allo sco-glio, bucatini all’amatriciana e, la fanteria composta da una meravigliosa carbonara, così fino al mattino, per riprendere la prossima notte, quando il massacro si ripeterà.

Al momento non ci sono né vinti né vincitori.Mi diranno, quando rientrerò in possesso delle mie facoltà mentali

e renderò di pubblico dominio il mio mondo onirico, che la causa delle mie notti violente era il cortisone, mah, io adesso mi sveglio stanco, spossato e, inappetente, con un unico vero sogno da sognare, questa volta ad occhi aperti, quello della mia colazione, un semplice uovo fre-sco, sbattuto con dello zucchero, preparato da Eddaclara, già la sento, come tutte le mattine, urlare a destra e a sinistra, con tutti, mentre, con la tazza in mano, mi prepara il momento più bello della giornata, dura un momento non di più, ma è l’unica occasione in cui non mi sento un funambolo del tempo, ci sto sopra, comodo, saldo.

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XV

È sconveniente non sentirsi in armonia con ciò che ti circonda, co-me se io girassi ad una velocità diversa da tutto il resto, poco importa se più veloce o più lenta. Diversa.

Mi è capitato altre volte, e altre volte mi capiterà.Appena uscito dall’ospedale, a diciotto anni, non pensavo allo

scampato pericolo, a quello che sarebbe potuto accadere se fosse andata diversamente, a diciotto anni non si pensa alla morte, e basta.

Pensavo solamente a reintegrarmi con i mie amici e, non era facile.Loro non si svegliavano con le urla di una donna, malata termina-

le di cancro al cervello, non dormivano nella stessa stanza con un uomo di trent’anni malato di Morbo di Parkinson, ricordo, ed altre cose, altri esami, e dottori, e infermieri, rumori, lamenti e risa, e visite di parenti e amici a tutte le ore del giorno.

Insomma, non si può dire che non ci ho provato, i primi tempi uscivamo insieme, mi portavano in giro, locali, feste di amici, ma niente, il dio dell’austerità mi aveva irretito.

Prima di essere ricoverato, l’unica cosa che volevo realmente era rendermi indipendente dalla mia famiglia, il prima possibile, non volevo fare lo stesso lavoro di mio padre, e nemmeno che lui intervenisse sul mio futuro, sfruttando la sua posizione di autorevole intellettuale.

Mi iscrissi ad un istituto tecnico, per geometri. Essere geometra mi avrebbe permesso di trovare facilmente lavoro, almeno così pensavo, fino a quel momento, il momento in cui ho acquistato consapevolezza.

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Non esiste nella vita di un uomo, momento peggiore di quando si acquista consapevolezza, è tremendo capire che tutto quello al quale aspiravi fino a pochi minuti prima, in realtà non conta niente. Non l’ho capito subito, non si capisce subito, così ricordo, e ricordo anche che nel momento in cui mi sono sentito inadeguato a tutto quello che mi circondava, ho passato un anno chiuso in camera mia, con l’unico sco-po, e mèta, di capire.

Ho iniziato a leggere, più saggi che narrativa, poi ad ascoltare mu-sica, quella che non avevo mai voluto ascoltare, quella di mio padre, dal jazz alla classica, solo che a differenza del grande regista, non ascoltavo la sinfonica, solo concerti, più intimi.Il cinema, quello si, quello era lo stesso che guardava lui, adesso lo capi-vo.

Un giorno, girovagando tra gli scaffali di una libreria, mi è capitato tra le mani un libro, Il Soccombente, di Bernard, grazie a questo libro ho conosciuto Gould, ed è stata subito un’altra musica.

Adesso iniziavo a capire, continuando a ricordare, e la prima cosa che mi è diventata chiara in mente, è stata che in un mese, tanto è du-rato il mio ricovero, sono invecchiato, non dico maturato, ma invecchiato, con cognizione di causa lo dico, e i vecchi si sa, parlano un’altra lingua.

Devo assolutamente trovare qualcuno che parli la mia lingua.Così è stato.È bastato trovare qualcuno della mia età, ascoltarlo, prima di parla-

re e, ascoltarlo di nuovo, solo così sono riuscito a capire che la velocità era giusta, per quello che ero diventato.

I problemi sono nati quando la mia età anagrafica ha tentato, vio-lentemente, di riprendersi il suo spazio.

Giustissimo, penso.Ho tentato di parlarle, ma non ha voluto sentire ragioni, come

dargli torto, poverina, a vent’anni il fisico vive in sincrono con l’età ana-grafica appunto.

Dopo avere resistito per qualche mese, ho dovuto cedere, mi sono messo a fare quello che di solito i ventenni combinano, ma con la consa-pevolezza di colui che è appena tornato da un lungo viaggio nel mondo dei vecchi, e credo che questo si possa chiamare maturità, coscienza di

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se e degli altri, con lo sguardo del bambino.Ho sempre pensato di essere riuscito, finalmente, a trovare il se-

greto della pietra filosofale, fino a quando i tre elementi che mi compongono, età anagrafica, fisico e coscienza, non hanno smesso di gi-rare in modo armonico, con conseguente blocco dell’ingranaggio che avevo faticosamente messo in piedi.

Oggi, durante le feste che organizzo, sento di non trovarmi più a mio agio con tutto quello che mi circonda, di nuovo, amici, ballo, diverti-mento e, così via, è una sensazione che conosco bene, credevo solo di averla superata, essermela lasciata alle spalle, invece, bentornata co-scienza.

Si, perché sono sicuro che è colpa sua, è lei che, messa da parte, si riaffaccia prepotentemente nella mia vita, volendo essere di nuovo la protagonista, la diva.

Maledetta consapevolezza.Passo tutta la serata, da un po’ di tempo ormai, a parlare con un

amico, il mio migliore amico, e continuerà ad esserlo ancora, così saprò, e lo facciamo come due disadattati, distanti da tutto il resto.

Forse è arrivato il momento di smetterla con le feste, fare tardi e baldorie varie, vodka, baci e abbracci, liste alfabetiche, tutti amici e, sorri-si, ballo, sudore.

Rumore.Il rumore che si riesce a generare per non sentire se stessi, mi

guardo allo specchio, mi parlo ma non mi sento, allora urlo, continuo a non sentirmi, le mie parole sono coperte da tutto ciò che faccio, per quanto strillo, non riesco a sentirmi. Conosco, parola per parola, tutto quello che sto dicendo, ma non mi sento.

Dio del padiglione auricolare, aiutami.Mi viene un dubbio, ma se io non riesco a sentire me stesso

stando così vicino, forse anche gli altri non mi sentono, allora urlo anco-ra di più, mi sembra di non avere limiti al volume che posso raggiungere e, vado avanti, prima o poi qualcuno mi sentirà, inizio a parlare male di tutto quello che posso e che credo, le persone sono più attente alle brutte cose che si dicono che alle belle, al bando i baci sulla guancia da chi non conosco, i saluti, i sorrisi, i pettegolezzi, le isole dei famosi dove

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tra le poche cose che si può portare non c’è mai il cervello, le disgrazie altrui, di cui si ciba il pessimista, lacrime d’avanspettacolo, sei la donna della mia vita ma non mi sento pronto, non ti merito, e bugie in genere, meno tasse, più servizi, democrazie da esportazione, bombe intelligenti, bombe al silicone, giganti di carta, le mode e i modaioli, mentre strillo più forte, davanti allo specchio e, continuo a non sentirmi.

Parola, dea del verbo, fa che almeno io possa sentirmi.Riesco a capirmi leggendo il labiale.Dovrei fare come farà Marzio, lui riuscirà a muoversi nella melma

di questi oscuri personaggi che popolano il mondo della notte e, purtroppo, anche quello del giorno, lavorando per loro, per locali e loca-lari, e diventerà insopportabile. Fra qualche anno, dopo avere interrotto la nostra frequentazione, lo incontrerò diverse volte, ad ogni nostro incontro mi vomiterà addosso frasi sconnesse, su racconti più o meno veri di suoi lavori, chiudendo con duepunti l’ultima fatica. Senza chie-dermi come sto, come non te lo chiede nessuno, anche se le parole sono quelle, ma il volto di chi pronuncia quelle due parole, come stai, significa sbrigati a darmi questa cazzo di risposta che ho voglia di parlare di me.

Ecco, adesso il mio specchio si è appannato, anche lui si è rotto le palle di sentirmi e me lo fa capire.

Ha ragione Thomas, un ragazzo austriaco conosciuto quando lavo-ravo per un architetto in centro, lui sostiene che se dieci persone cammi-nano nella direzione giusta mentre un miliardo di altre persone camminano nella direzione contraria, i dieci sono destinati a soccombe-re, l’unica salvezza per loro è quella di convincere l’altro miliardo a cambiare direzione, poi chiudeva così, tu capisci bene che è impossibile, quindi sono i dieci della direzione giusta che, probabilmente cambie-ranno direzione, passando il resto della vita a darsi giustificazioni per la scelta fatta.

Una ricaduta, così è, come quando sono stato dimesso dalla Prima Clinica per Malattie Nervose e Mentali, reparto di Neurologia, con una differenza, a diciotto anni è più difficile sintetizzare tutto quello che ti accade, allora si fanno delle cose, tante cose, penso, in modo schizofreni-co però, io mi ero chiuso, avevo deciso di non fare esperienze, mi basta-va quella appena passata, allora mi buttavo, tappandomi il naso, in quelle dei miei amici, più grandi, ero diventato un grande ascoltatore, e nei li-

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bri, vivevo attraverso i libri, vivevo delle loro esperienze, mi nutrivo con le loro esperienze, era bello e, per niente faticoso.

Libri e amici.Anzi, posso dire solo amici, perchè i libri sono diventati i migliori,

tra gli amici che ho.Anche oggi, a distanza di molte vite da quel momento, il rumore

del reparto di Neurologia non mi abbandona, ha iniziato a sovrapporsi a tutti i rumori della mia vita, prima in modo discreto, poi sempre più forte, da non farmi sentire nient’altro. L’ultima festa che ho fatto, l’altro ieri, mi sembrava uno di quei programmi della televisione dove, a co-mando, si ride, si applaude, ci si alza e si balla, insomma, ci si diverte, a comando e, il comando in questo caso è la porta di casa che si chiude dietro di te, tu inizi, chiudendo la porta, a ridere, applaudire, insomma a, divertirti.

Sono dovuto andare via prima della chiusura, molto prima della chiusura, la festa era iniziata da poco. C’è un piccolo ristorante in centro, l’ho conosciuto un po’ di tempo fa, ero con Letizia, in una delle nostre tante passeggiate serali, c’era un uomo alla porta, la faccia simpatica, abbiamo iniziato a parlare, così, senza dire niente e, in mezzo al niente, c’erano anche cose intime. È abbastanza facile parlare della propria intimi-tà con degli sconosciuti, più facile che con gli amici, così penso, siamo entrati e abbiamo fatto le due di notte bevendo vino, vini, accompagnati con formaggi diversi. Da quella sera, prima di tornare a casa quando uscivo con Letizia, si faceva sempre un salto da loro, così, solo per addormentarsi più sereni.

Così ho fatto appena uscito dal locale, l'altra sera, mi sono diretto in centro, stavano chiudendo il ristorante, non era tardi per una discote-ca ma per un ristorante si, hanno comunque abbassato le serrande, noi dentro a, bere e parlare, come se fossimo amici di vecchia data.

I rumori del mio reparto erano spariti, così come i rumori di ri-sate, applausi, insomma divertimento, potevo tornare a casa.

La strada è lunga, mi devo mettere delle scarpe comode, penso.

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XVI

Sono due giorni che sto meglio. Stare meglio significa vomitare di meno e, forse, meno vertigini. La diretta conseguenza del mio migliora-mento è il ritorno nella mia vita del dimenticato appetito, ho fame, mangio con avidità, anche il cibo dell’ospedale, perché oltre al rinforzino mattutino preparato da Eddaclara, mia madre mi fa preparare da Ena, la nostra governante, pietanze su misura per me, dal primo al dolce, dal co-niglio alla zuppa inglese, passando per melanzane alla parmigiana, risotti ai funghi porcini, varie ed eventuali. Ora, tenendo presente che Ena vie-ne dal Salvador, che mia madre non sa cucinare, che il cibo che mi porta-no da casa non è, come si può dire, ottimo, penso che, in verità, è proprio mia madre a mettersi ai fornelli, con indegni risultati, così penso, e il fatto che, sempre mia madre, mi spaccia il tutto come opera di Ena, la porta a pensare che io mangi tutto con molto più desiderio, cosa che invece non accade, consideriamo inoltre che provengo da alme-no una settimana, dieci giorni, non so bene, di digiuno forzato e di vomi-to altrettanto forzato e involontario, che il mio stomaco si è disabituato a trattare con estranei che non siano l’uovo sbattuto la mattina con zucchero, che ho i succhi gastrici incazzati come iene, non penso, così penso, ed è facilmente intuibile, che tutte queste prelibatezze mi faccia-no bene, così, questo accade, vengono ridistribuite tra Pippo l’infermie-re, Maria l’infermiera anziana, lei prende senza chiedere, mia madre pensa che sia cleptomane, qualche ricoverato con stomaco di ferro e, specializzandi fuori sede. Io mi accontento, lo trovo buonissimo - mia nonna diceva che la fame è buona - meglio dei pasti dell’ospedale, carne

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insipida, patate lesse, sempre insipide, brodini di dado ed altre cose dello stesso tipo di quelle appena nominate. Prescindendo dal sapore, forma esteriore, ingredienti, ogni cosa che mangio entra solido e, lo restituisco, con meno frequenza dei giorni passati, in una forma molecolare prossi-ma allo stato liquido, così è.

Un altro aspetto fondamentale del sentirmi meglio, con una forma fisica più prossima alla minima attività celebrale piuttosto che allo stato vegetativo, è il poter di nuovo rendermi conto di quello che mi accade intorno, quasi partecipando, non allarghiamoci, rimango ancora solo un osservatore esterno, ma i miei neuroni hanno smesso di litigare riprendendo a collaborare tra loro e, partecipare è bello, come mi ha insegnato Simone, lui, fermo, in un letto, un tronco con una testa attaccata, senza arti, non parla, una testa meravigliosa attaccata a quel maledetto tronco, una testa che ride quando arriva la mamma, la mattina presto, prima delle pulizie, una testa meravigliosa che ha un unico modo per comunicare, gli occhi, ma quegli occhi sono letteratura, poesia, una testa meravigliosa tifosa dell’Inter, una testa meravigliosa che rimpiccioli-sce la mia, sempre di più, fino a trasformarla in uno stato informe da persona normale, che balla la sera nei locali, che ha una fidanzata, aveva, adesso Giordana sta con un mio amico. Da persona normale, che studia, che va al cinema, che comunica, come può, attraverso l’uso della parola, che va a correre a Villa Ada, correre a Villa Ada nelle mattine di prima-vera è bellissimo, che in futuro avrà una macchina e un motorino, mentre Simone è una testa meravigliosa che sa ridere e fa ridere con la sua serenità, e ride, gli basta che ci sia la mamma e, lui ride, è felice del suo mondo, così capisco, la mamma è il suo mondo e, basta, lui ride, co-me ieri ad esempio, era di turno Pippo, il nostro Pippo, il più simpatico tra gli infermieri, il Pippo che appena ricoverato mi portava a Neurochi-rurgia a vedere le partite con la loro televisione, a colori, il Pippo che ie-ri, mentre rifacevano i letti, ha preso Maria, la pensionanda, l’ha messa sul letto e, appena ha fatto il gesto di salirle sopra, lei ha alzato le gambe lasciando vedere tutto, calze, mutandoni, sottoveste, insomma, tutto ciò che di più intimo Maria possiede, di fronte a questo spettacolo, io, non riuscivo a capire se i conati di vomito fossero causati dalla mia patologia o, dalle immagini che si stavano impressionando sulla mia retina, il tutto guarnito con le risate di Simone, piene, musicali.

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Serene.Sono un paio di giorni che mi sento meglio, l’ho gia detto, lo so,

ma ne sono euforico quindi lo ripeto, questo mi da la possibilità di prendere la mia sedia a rotelle, messa a disposizione dal Servizio Sanita-rio Nazionale, per andare a conoscere un po’ tutto, a partire dai miei compagni di sofferenza, le donne, non conosco niente del braccio dedi-cato alle donne, non conosco niente dei locali igienici, bagni, fino a l’altro ieri ho fatto con la padella, la stanza dove stazionano i medici di turno e i paramedici, insomma, mi faccio un giro. Nel girone femminile non c’è niente di interessante, l’età media è molto alta e, tranne la donna che ci svegliava all’alba di tutte le mattine strillando, malata terminale di tumore al cervello come ho saputo in seguito, la maggior parte di loro sono signore anziane, ex mogli, ex madri, ex nonne, depositate qua da famigliari pigri, cambio aria.

La stanza dei medici è un locale piccolo con un armadio, un la-vandino, una scrivania e una lettiga per far riposare chi è di turno, anche questo poco interessante, prossima tappa i bagni. Se non fosse per Anto-nio, giovane cinquantenne ricoverato da poco per esaurimento nervoso che, stancamente mi ostacola, sarei già arrivato ai bagni, ciao, così io, il suo fiacco ciao ha la pretesa di essere una risposta al mio saluto, come stai, continuo e, penso rispondendomi, come uno che non ha voglia di parlare visto che, oltre a sollevare le spalle, non dà altri segni di vita neu-rologica ma io, imperterrito, continuo, l’hai vista la partita della Juve ieri, così chiedo, è juventino, non l’ha detto era scritto nelle sue note caratte-riali, scusa, non ho sentito, come hai detto, niente, non hai detto niente, mi hai scansato e te ne sei andato girandomi intorno, spalancandomi co-sì la strada per i servizi igienici del reparto di Neurologia, belli, come in albergo, mi ricordano un viaggio fatto a New York, io ero piccolo, aveva-mo accompagnato mio padre alla presentazione di un suo film, il bagno dell’albergo dove eravamo ospitati era più grande del nostro soggiorno o, così mi sembrava, quando si è piccoli tutto sembra più grande, pro-prio uguale ai bagni dell’edificio della Prima Clinica per Malattie Nervo-se e Mentali del Policlinico Umberto I di Roma. Uguali.

Bagni piccoli e angusti, corridoi sofferenti, visi svuotati, corpi cari-caturali, vestaglie dei giorni di festa, pantofole nuove di mercato, pigiami cinesi, lamenti, improbabili parenti, come la figlia di Antonio, unica

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donna sotto i vent’anni a frequentare questi luoghi, e poi, medici allegri, infermieri allegri, sorridenti, felici di trovarsi qui, con te, ti parlano, ti ascoltano, ti aiutano, ti curano. Tutto questo è il mio reparto, dove si permettono le visite a qualsiasi ora del giorno, perché, come dice Edda Clara la caposala, questo è già un luogo di sofferenza, e questo, per quanto è possibile, cerchiamo di farlo dimenticare al paziente, e oggi, che sono passati due giorni dall’inizio del mio miglioramento, anche io sarò oggetto di questo trattamento, i medici mi hanno permesso di rice-vere visite oltre a quelle dei familiari stretti che, detto tra me e me, avrei evitato volentieri, tranne Costanza. Oggi sono venuti in ordine, Marzio, mi ha lasciato dei biglietti per una festa la prossima settimana da distri-buire agli amici che mi verranno a trovare, Barbara e Serena, due amiche di Monteverde, Giordana e il mio caro amico, suo nuovo fidanzato do-po di me, loro ancora non me lo hanno detto, temendo una ripercussio-ne sul mio cagionevole stato di salute, ma io l’ho capito. Poi è arrivata Costanza, con il suo nuovo fidanzato, il migliore amico del suo analista, di Costanza appunto, come saprò in futuro, questo significa che lei usa-va uscire con il suo analista, erano amici, così penso, si fa, non credo, non penso, ma adesso c’è Costanza, accanto a me, oggi, con chi non importa, ne posso godere, oggi, sono due giorni che mi sento meglio, questo basta.

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XVII

Il telefono, di nuovo il telefono, prima era Marzio per una festa da fare a Sutri, nella villa con bosco di un nostro conoscente, a quanto sembra faremo una festa in un bosco, divertente, adesso invece è …… Letizia.

Ciao Claudio.Ciao Letizia.Come stai Claudio.Bene Letizia, e tu.Anche io, grazie.Ci davamo anche del lei.No, questo no, non mi sembra ……… amore.Ciao scema.Senti, ho una notizia fichissima, un amico dei miei ha comprato

una casa nuova, mi ha chiesto se mi potevo occupare del progetto, lo facciamo insieme.

È una domanda, oppure hai già deciso.Cretino. Dai è bello, sono duecentoquaranta metri di casa, ai

Parioli, ci divertiamo.Va bene allora.Possiamo andarci anche oggi, ho le chiavi.Mi ha appena chiamato Marzio, ci dobbiamo vedere a pranzo

per una festa a Sutri.Vediamoci dopo pranzo, alle tre, tre e mezza.A dopo, mandami l’indirizzo con un SMS. Click.

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Dal pranzo con Marzio è venuto fuori che, la festa nel bosco sarà bellissima, saremo in otto ad organizzarla, il DJ sarà nel bosco anche lui e, lì si ballerà, continuo, adesso operazione appartamento, direzione Parioli, mentre arrivo vedo Letizia che mi aspetta, seduta ad un tavolo in un bar, mi siedo vicino a lei per un caffé e si parte.

Letizia è emozionata, in ascensore mi tiene la mano, è il suo pri-mo, vero incarico da quando si è laureata, da quando ha passato l’esame di stato, si volta e mi bacia sulle labbra.

Ah l’emozione.L’appartamento dell’amico dei genitori di ‘Zia è veramente

grande, disposto come ormai non si usa più, ma grande, doppio ingres-so, lungo corridoio centrale, stanze a destra e sinistra, così vedo e, vede anche Letizia, in silenzio, ancora per poco, ti piace, così lei, io non ri-spondo, giro la testa da una parte all’altra, in verità mi piace, sarà un bel lavoro, ma non voglio fare l’euforico, prendo tempo, è bello, penso e di-co, Letizia mi lascia la mano che dall’ascensore ha sempre tenuto nella sua e inizia a girare per le stanze vuote e ingiallite della casa, hai visto quant’è grande, così lei un’altra volta.

Si, è bello.La cucina la spostiamo, la mettiamo al posto della prima camera,

questo muro lo buttiamo giù così viene un salone gigantesco, e conti-nua, queste due camere sono per i bambini, segue una serie consistente di spostamenti, modifiche, rivestimenti in un modo, no, in un altro, poi gli impianti, filodiffusione in tutte le stanze, telefono, computer, poche luci, non ci piace la luce artificiale, così, alternando propositi architetto-nici ad un rilievo dettagliato dei locali, oltre a baci e strusciamenti vari, siamo di nuovo in strada.

Il progetto per la nuova casa dell’amico dei genitori di Letizia và avanti, discretamente, le prime idee sono piaciute molto, anche perché l’enfasi messa da Letizia nel raccontarle, è pari solo all’enfasi che avrebbe nel parlare della sua futura casa, questo sembra, ed è un aspetto piacevole di come affronta il lavoro che, così penso, se da una parte ti porta ad appassionarti alle cose che fai, dall’altra rischia di farti prendere delle immense delusioni, spero ne tenga conto ma, è fatta così, inutile dirglielo, è inutile dirle che sarebbe meglio, per lei, prendere le cose con

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l’opportuno distacco, quale immonda sciocchezza, me ne rendo conto mentre la penso, opportuno, cosa significa, è forse una misura, qual è la misura di opportuno, è un limite, un confine, dov’è segnato, non c’è in nessuna carta, devi essere più distaccato nelle cose che fai, questo lo sento dire da sempre, è il consiglio più venduto, confezionato da millenni di esperienza di un’umanità che ripete, sempre da millenni, gli stessi errori, perché io dovrei essere diverso puntointerrogativo Consigli, ombre di consigli mi assediano perdio, ma non voglio soccombere e, non succederà, brava ‘Zia, buttati con tutta l’anima in quello che fai e tocchi, pensi e, provi, fino a farti male poi, di nuovo, altri errori, altri li-miti inopportuni da superare, insegnami come fare, come quando mi hai detto che vuoi essere un libro aperto, senza niente tra le righe, semplice, come una favola per bambini dove la morale è chiara come il sorriso di Simone, mio vicino di letto in ospedale, un libro aperto per tutti coloro che vogliono leggerti, insegnami, come faccio ad appassionarmi al pro-getto della casa dell’amico dei tuoi genitori come fosse la mia, queste so-no le camere dei bambini, due, un maschio è una femmina, la cucina, con un tavolo per fare colazione tutti insieme la mattina, un salone, grande, dove, se ci andrà, concepiremo il primo figlio ascoltando Kind of Blue e dove concepiremo il secondo, dopo che il primo si sarà addormentato, una camera da letto enorme, per non darsi fastidio la-sciando le mutande per terra, poi i bagni, per ultimo, ma servono sempre, insegnami se vorrò, se non sarà un subirti come, sento, a volte accade e, mi fa paura, così non ci penso.

E continuo ad essere distaccato, seguendo alla lettera un consiglio bugiardo, non è casa mia, non è nemmeno casa tua, Letizia, anche se l’idea non ti lascia indifferente, ti conosco, così penso, ti brillano gli occhi quando parli delle camere dei bambini, già li vedi, strillanti, rincorrersi per le stanze della casa dell’amico dei tuoi genitori, poi litiga-re, per chi possiede il diritto di proprietà sul trenino, scordato in un angolo remoto del cumulo dei giochi e ritrovato dalla donna di servizio, li vedi, smocciolanti e allegri come solo i bambini sanno essere.

Così è, ed è il lato migliore del suo carattere, di Letizia appunto, quello che trasforma i sogni in realtà, i suoi sogni nella sua realtà, creando, a tutti coloro che si imbattono nel suo mondo onirico, un opportuno distacco, frutto di paure ataviche.

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La telefonata di Marzio mi arriva appena rientrato a studio, Giancarlo ha avuto un incidente in motorino, questo mi dice, l’hanno portato all’Umberto I, mi passa a prendere tra venti minuti per andare da lui. Non mi è sembrato preoccupato, forse non è niente di grave ma nemmeno lui lo sa. Avverto Letizia, doveva ripassare a prendermi per andare in un posto, non mi ha voluto dire dove, una sorpresa, così lei, mi è sembrata un po’ dispiaciuta quando le ho detto che sarei andato con Marzio da Giancarlo all’Umberto I.

Avevo diciotto anni l’ultima volta che sono stato al Policlinico, l’esterno sempre fatiscente, come me lo ricordavo, si vedono qua e là ponteggi allestiti, segni evidenti di una minuscola volontà di sistemazio-ne, inutile conseguenza di una pianificazione sterile, è in questi luoghi che, il dott. New, dio della concupiscenza, nasce, cresce e, si nutre senza ritegno, così penso mentre ci dirigiamo verso il Pronto Soccorso, perché da lì sarà passato, sicuro. Il Pronto Soccorso è cambiato rispetto a come lo ricordavo io, tutto, rispetto a quello che mi ricordo, in realtà l’unica co-sa che ho quasi chiara nella mente è la ragazza del pronto soccorso che, non ho più visto alle mie feste, ogni tanto mi sono incrociato con il fi-ghettino con gli occhiali, lei non c’era mai, non sono più riuscito a sape-re il suo nome, chi la metteva in lista alle feste, niente, così penso mentre troviamo Giancarlo, fermo in un corridoio in attesa del referto, ha una gamba ingessata e tre punti sopra l’occhio e, un poco alla volta, in questo corridoio, la mia mente mi lancia segnali confortanti, Carlo mi ha accompagnato, era nervoso, poi, la ragazza del pronto soccorso, e ancora, la donna al reparto che urlava di dolore, mamma della ragazza del pronto soccorso, gli infermieri, i medici, ne sento nostalgia, l’amore che ho conosciuto qua dentro …., anzi, conosco l’amore grazie alle persone che ho conosciuto qua dentro, così ricordo mentre arriva la so-rella di Giancarlo e, continuo a pensare, vorrei trovare il modo per non dimenticare, solo così, la prossima volta che mi capiterà di incontrarlo, l’amore o qualsiasi altra cosa sia, lo saprò riconoscere e, riconoscere chi me lo offre, riconoscere quando lo provo, lo sento e, lo vivo.

Ciao ‘Zia, Giancarlo sta bene, no, una macchina non si è fermata allo stop e lui gli è andato addosso, adesso sta bene, non si nota la diffe-renza, è rincoglionito come al solito, così a Letizia che mi ha telefonato mentre uscivamo dal Pronto Soccorso.

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Malinconia.Malinconica anche Letizia, per motivi differenti penso, oggi mi vo-

leva vedere, non mi ha detto il motivo, sorpresa, forse, mi piacciono le sorprese, più farle che riceverle in verità, nel fare regali o sorprese, pro-vo un appagamento profondo del mio Es, lui si sente soddisfatto, così, come quando ho conosciuto Letizia, il primo anno di università, mi sembra, mi sono presentato a casa sua con un mazzo di fiori, cosa bana-le, certo, lo so, ma diventa sorpresa quando l’altra persona non se l’aspetta e, lei, non se l’aspettava, sapevo che i genitori non c’erano, era metà pomeriggio, passavo dalle parti di casa sua, in realtà ci sono partito da casa mia ma, a lei non l’ho detto, Letizia è scesa non mi ha fatto sali-re, così ho capito che forse non era sola, i suoi occhi, però, dicevano un’altra cosa, mi parlavano di stupore, felice, mi dicevano sali, ci prendia-mo un Tea, poi ci andiamo a mangiare una cosa insieme e, magari un ci-nema, questo mi dicevano, le stesse cose che mi dicono oggi, insieme a tante altre cose che, col tempo, si sono aggiunte e, quando gli occhi parlano, l’importante è avere cuore per ascoltarli, come, così ricordo, la mamma di Simone.

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XVIII

Meraviglia.Continuo a stare sempre meglio.No, la meraviglia non è perché mi sento meglio, che si traduce, in

termini pratici, nello scorrazzare con il mio potente mezzo, sedia a ro-telle, per i corridoi del reparto, mangiare con appetito, ricevere visite, vie-tate fino a qualche giorno fa, parlare, dormire e, sognare, poi Marzio, con i suoi biglietti per le prossime feste, da distribuire a chi mi viene a trovare, ne ho il comodino pieno, mamma con i suoi singulti. No, la me-raviglia non è per tutto questo o per tutto ciò che il mio stare meglio può significare, la meraviglia è per il fatto che i medici, ad oggi, ancora non hanno capito niente di quello che mi è successo, passando da una quindicina di vomitate al giorno, con conseguente dimagrimento di una dozzina di chili in una settimana, vertigini, parestesie varie, danza dell’occhio, degli occhi. Mi hanno fatto di tutto, riempito di esami e di medicine ad ampio spettro, per arrivare alla condizione attuale di sei o sette vomitate giornaliere, ma almeno riesco a mandare giù qualche boccone, con un conseguente miglioramento del tono muscolare e dell’umore, cosa questa fondamentale per un buon decorso ospedaliero, ma, decorso di cosa, è questo che non si capisce, i medici hanno assisti-to alla mia parabola sanitaria come spettatori, svuotati da qualsiasi nozio-ne patologica. Si, impegnare si sono impegnati, non lo posso negare, con scarsi risultati però, come saprò appena mi dimetteranno, così mi di-ranno, sono passato dal tumore alla sclerosi a placche, attraversando pa-gine intere di trattati di patologia clinica ma niente, appena fatta una

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diagnosi e ordinato il relativo esame, questo avrebbe smentito l'ipotesi di partenza, e così si ripete tutto, passando dal via, questo mi diranno anche se ho capito qualcosa di simile.

I medici mi dicono, adesso che stai meglio possiamo approfondire alcuni esami, e approfondiamo, così io, non vedo l’ora, anche perché, il risveglio del sopito, mai domo, attaccamento alla vita, mi porta ad avere una discreta fretta di uscire da qua, fretta che però devo gestire, in quanto il resto dei sintomi sono rimasti, tutti, alcuni migliorati, ma rima-sti, il nistagmo agli occhi è migliorato, il vomito è migliorato, l’umore è migliorato, la forza anche. Il resto, tutto come prima, penso, mentre os-servo una splendida giornata di sole di fine autunno, consumarsi dietro le finestre, fuori ci sono due infermieri in pausa che si fumano una siga-retta, qualche civile in attesa di visitare i parenti, forse, un cane, si, un ca-ne, un’ambulanza parcheggiata, una lettiga vuota, un paio di oleandri secchi.

Sono in attesa.L’aspetto peggiore dello stare meglio è l’attesa, ingannare il tempo

in attesa, di cosa, di uscire, passando per altri esami mentre il recupero delle forze coincide con la presa coscienza delle cose che accadono, lo scorrere dei momenti che, prescindendo da te che sei rinchiuso qua dentro, comunque passano e, tu non partecipi, in una giornata di sole, come questa, la percezione del tempo che scorre, e con il tempo tutti co-loro che partecipano a questo scorrere, aumenta, come aumenta la rabbia per esserne escluso, ieri ho anche giocato a briscola con Antonio, il malato di depressione, o esaurimento nervoso, non l’ho capito.

E ho perso.Decido di uscire e, nel mio piccolo, partecipare, vicino a me passa

Domenico, lo specializzando calabrese in Neurologia, lo chiedo a lui se posso uscire, insieme ai due infermieri, il cane e i parenti, di chi non so, Domenico decide di accompagnarmi, così si mette alla guida della mia sedia a rotelle e si esce, il sole è caldo, tanto da rendere questa giornata di novembre tiepida, si sta bene, così io a Domenico.

È una bellissima giornata, mi risponde.Sembra bella anche qua dentro, sopra questa sedia, e continuo,

forse tu che sei del mestiere ne sai qualcosa, ma s’è capito cosa ho, gli chiedo.

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Ancora no.E per cosa mi stanno curando.Non ti stanno curando, ti stanno dando delle medicine per contra-

stare i sintomi di quello che hai.C’è possibilità di saperlo nel breve periodo, ho dei progetti per il

futuro e, penso mentre do libero sfogo al mio verbo, che non potevo usare una locuzione più infelice di quella che mi è appena uscita, ho dei progetti per il futuro, che cazzata, in un luogo dove la maggior parte di coloro che entrano, ha solo la speranza di un futuro, nella migliore delle ipotesi.

E Domenico mi risponde, sorvolando sulla mia incoscienza di ra-gazzo fortunato.

È previsto per te un esame che dovrebbe darci qualche risposta, era previsto già da tempo, ma si può fare adesso che ti senti meglio.

Di cosa si tratta, così io a Domenico.Si chiama Risonanza Magnetica Nucleare, il nome sembra un po’

strano ma non è niente di particolare, è tipo la TAC, che tu hai già fatto, mi pare.

Sembra anche a me e, per quando sarebbe prevista, continuo nelle domande.

Non lo so, non c’è qua al Policlinico, la dovrai fare a Marino, do-vrebbero averti messo in lista, hai diciotto anni, passerai davanti ad altri più anziani, penso che sarà tra pochi giorni. L’età ti aiuta.

L’età mi aiuta, penso e, continuerò a pensarlo ancora tante volte in futuro, è un concetto semplice, banale se vogliamo, ma non ci avevo mai pensato, a mia discolpa dico che non è facile pensare ad un’età mentre la si vive, si dà per scontata, oppure così è solo per i diciottenni e dintorni.

Altre cose mi racconta Domenico, sotto questo caldo sole di no-vembre, mi racconta che è un fuori sede, già lo sapevo, mi racconta che si sta specializzando sul Morbo di Parkinson, mi racconta che gli piace il calcio, è del Milan, mi racconta che da due mesi non è più fidanzato, mi racconta che è il caso di rientrare, stanno per portare il pranzo.

Io mi racconto che Domenico è una brava persona, è difficile tro-varne di cattive qua dentro punto

Stranamente oggi non ho ancora ricevuto visite, gli amici vengono

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nel pomeriggio, ma la mattina, di solito, mia madre c’è sempre, poco ma-le, vuol dire che riesco a gustarmi in santa pace il brodo di dado, il mio preferito, zucchine lesse e una mela cotta, oggi mangio sul tavolino della stanza, seduto su una sedia, una vera sedia.

Edonista.E il pranzo scorre e, come il pranzo, quei minuti leggeri della dige-

stione, fatti di veglia, sogni, sogni che si mescolano a veglia, pascoli sterminati di letti occupati da pazienti stanchi, tutto un brulicare di carrelli che tornano alla stalla con il loro carico di stoviglie sporche, di medici neanche l’ombra, di mamme si, la mia che, senza smentirsi, si conferma l’Essere con il peggiore tempismo che io conosca, mi stavo per addormentare, cosa che anche i miei colleghi stanno tentando di fa-re, forse loro ci riusciranno, a parte un breve saluto mia madre si dirige subito da me. Scuasami se non sono venuta questa mattina, così mi dice, figurati, penso ma non lo dico, e continua, visto che ti senti meglio ho pensato di andare dal parrucchiere, sono tre settimane che non ci vado, con tutto quello che è successo, ma adesso sono qui, e questo è l’importante, così le dico.

Senti mamma, sai niente di questo esame che mi devono fare, così le chiedo.

Quale esame, mi risponde chiedendomi.Risonanza Magnetica Nucleare.Si si, dovresti farlo la prossima settimana, ce lo confermano doma-

ni o dopodomani.Me ne ha parlato Domenico, lui dice che vista l’età me lo faranno

fare d’urgenza.Non lo so, se ne è occupato un amico di papà, primario in un

ospedale a Torino.L’età aiuta, meglio se incoraggiata, penso, da una personalità

influente nell’ambiente, bene e, continuo a pensare, anzi, meglio di no, non voglio pensare.

Pensa, così mia madre, che il Primario di Neurologia, dove sei rico-verato tu, non scende mai in reparto, l’amico di papà l’ha chiamato e lui ti ha visitato, dormivi quasi, non te ne sei nemmeno accorto, ma lui ti ha visitato.

Le brillano gli occhi, mentre parla del Primario di Neurologia,

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le brillano gli occhi, è soddisfatta si vede, fiera, anche se in ospedale, non in clinica, il Primario mi ha visitato, non penso sia cambiato niente dopo la sua visita, non penso che abbia capito cosa ho, nemmeno perché sto meglio, ma lei è soddisfatta, io un po’ meno, penso, forse perché sono ancora un immaturo sotto le spoglie di un diciottenne mo-derno, disincantato, indipendente, ma sarei più soddisfatto se il Primario del reparto di Neurologia, scendesse sovente a visitar malati.

Dovrebbe essere il suo lavoro.Il mio lavoro è fare il malato, il suo è visitarmi, con Domenico

intendiamoci, ma dovrebbe visitarmi lui. Sono un ottimista, mi piace pensare che sto meglio perché il Primario di Neurologia mi ha visto solo di sfuggita, grazie. Altre notizie dall’esterno, così io a mia madre, inconsapevole del fiume di notizie che stava per inondare i miei condotti uditivi.

Papà ha chiamato, ha chiesto come stavi, chiama tutti i giorni, due volte al giorno, lunedì torna da Berlino e si ferma una settimana.

Il mio lavoro è fare il malato, il suo lavoro, di papà appunto, è fare il papà, oltre che il regista, grande regista, di culto e, un papà normalmente chiama per sapere come sta suo figlio, ricoverato non si sa per cosa, al reparto di Neurologia del Policlinico Umberto I, è normale, non mi sembra una notizia eccezionale, penso, parlami di come gli sta andando il film, continuo a pensare, questa sarebbe una notizia degna di essere conversata. Cattivo, forse, un po’, ma mi piacerebbe averlo accanto.

Mia madre tenta di raccontarmi qualche altra succulenta notizia, la interrompo subito con una tempestiva vomitata, temevo non arrivasse più.

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XIX

Giancarlo è una star, la sua gamba rotta è diventata l’attrazione principale delle nostre feste, così all’ultima, se ne stava lì, fermo, seduto sul divano a sorseggiare vodka-tonic e ricevere visite, c’era la fila per andarlo a salutare, lui come un Papa il giorno delle udienze, l’ho raccontato a Letizia, ma lei non si è meravigliata, fa parte del suo perso-naggio mi ha detto, Giancarlo è così, primadonna, e ha aggiunto, come Marzio, così ha aggiunto, gratuito come commento, non me l’aspettavo, forse vero, non l’ho mai visto sotto questo aspetto, Marzio. È strano co-sa può fare una pulce nell’orecchio, certe cose, alle quali non avresti mai pensato, irrompono nella tua mente e, come uno stillicidio, si scavano una strada, fino a diventare vere. Certo, Letizia non è una persona che parla per parlare, come fanno in tanti, lei ci pensa a quello che dice, penso e, questo mi fa pensare, ma è finita così, non ne ha più parlato, ma io ho continuato a pensarci, facendo nella mia mente quello che mio padre fa per vivere, i film, come spesso mi accade e, così fino a quando mi sono visto con ‘Zia, speravo che lei riprendesse l’argomento, ne vole-vo sapere di più di quello che pensava, invece niente, solo quel come Marzio, che dalla mattina mi girava in testa, niente di più, perché ‘Zia già non ci pensava più, ormai pensava solo ad una nuova casa che doveva-mo andare a vedere, piccolina, così lei, questa è piccola mi ha detto appe-na ci siamo incontrati, una casa alla quale, io pensavo in un modo, Letizia in un altro, io pensavo che sarebbe diventata, come quella più grande ai Parioli, oggetto del nostro fare progettuale, questo pensavo, pensavo anche che, una volta entrati, ‘Zia mi avrebbe parlato dei proprie-

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tari, dei figli che avevano o che avrebbero voluto avere, di come gli sa-rebbe piaciuta la cucina, grande, piccola, angolo cottura, il bagno poi, va-sca da bagno o doccia, filosofie diverse, penso, la razza umana si divide in due categorie, vascari o docciari e, da lì si capisce tutto, anche l’arre-do, pensavo mi dicesse anche qualcosa sull’arredo, minimalista, mo-derno o, chissà cos’altro, questo pensavo andando a vedere l’appartamento più piccolo rispetto a quello dell’amico dei genitori di Le-tizia, ti piace, mi ha chiesto appena entrati, poi, tutto come il primo, stes-si commenti, stesse idee di distribuzione o quasi, le proporzioni erano effettivamente diverse, ma poi, tutto come per l’altro, niente di strano.

Mi sbagliavo.Il progetto era solo a parole, era più che altro un progetto di vita,

in un attimo, dal piccolo appartamento, mi ritrovo qua, all’Ikea, girone infernale scartato anche da Dante, in mezzo ad un’orda di dannati dell’arredare, mariti puniti per contrappasso costretti, la sera, a montarsi camerette intere, piuttosto che tavoli, sedie e librerie, passando per cuci-ne, lampade e, cucire tappeti, no, questo no, ci manca poco però, ed eccomi tra divani, lumi, letti e poltrone, di questo si trattava, non di un piccolo progetto per un piccolo appartamento, non del secondo cliente di Letizia.

Era un film, questa è la verità.Non posso dire di essere dispiaciuto all’idea di condividere una ca-

sa con Letizia, come posso dire di essere eccitato a trovarmi in questo luogo carico di tensioni emotive, un letto Mandal o un letto Aneboda, sedia Henriksdal o sedia Fritz. Mi piace pensare a come sarà la nostra ca-mera, la cucina, il salone, il bagno, l’armadio, quello no, ce lo regalerà il padre di ‘Zia, mio suocero, in un altro negozio, la suocera di Letizia, invece, ci regalerà il divano, sempre in un altro negozio.

Per fortuna il piccolo appartamento dove andremo a vivere, non è ammobiliato, dopo avere visto la nostra futura casa, dopo avere cono-sciuto il vero obbiettivo del nostro sopralluogo al piccolo appartamento, ne abbiamo visitati altri, l’annuncio diceva “ammobiliato”, che, tradotto nella lingua corrente degli arredatori, significa una cucina in stile tirolese, quando non in formica anni settanta, armadi sgangherati sempre in formica anni settanta, alla formica anni settanta non si sottraggono nemmeno tavoli, sedie, credenze, scarpiere e bagni, insomma, il bi-loca-

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le ammobiliato era, a tutti gli effetti, il magazzino del marito, o moglie a seconda dei casi, della padrona di casa, dove venivano stipati i vecchi mobili della suocera in fin di vita, che poi, una volta morta, venivano dis-messi con le lacrime agli occhi e frasi del tipo, in quel comodino ci mettevo le bambole, o le macchinine, dipende sempre dal caso. Il ri-sultato di questa demenziale usanza è quello di far passare della sozzeria, nemmeno vintage, come elementi qualificanti dell’appartamento, distruggendo così la vena creativa che chiunque ha nell’arredare la pro-pria casa e aumentando il prezzo dell’affitto.

Devo ammettere che Letizia ha i miei stessi gusti in fatto di arreda-mento, a conferma di quelli in fatto di progettazione, questo mi lascia pensare in positivo al futuro, le basi sono buone per iniziare una convi-venza, così penso e concludo, chissà se basta.

No, non mi dispiace condividere la stessa casa con Letizia, per chissà quanto tempo poi, questa è una incognita, penso, come non mi dispiace pensare di condividere con lei il dentifricio, lasciato da lei sempre senza tappo, perché lei è così, lo so, non mi dispiace nemmeno condividere con lei i cassetti dell’armadio lasciati aperti, da lei appunto, dove, sicuramente sbatterò le ginocchia, e, non sono per niente dispiaciu-to nel pensare di condividere con lei anche gli sportelli, anche questi lasciati rigorosamente aperti, dei pensili della cucina, dove, altrettanto si-curamente, sbatterò le corna, come si dice a Roma, così penso e, sarà, perché Letizia è così, oltre a tante altre cose, meravigliose e, altre un po’ meno, lei è così, sfido chiunque ad interpretarla.

Questa è la convivenza, sarà la convivenza, dentifrici lasciati aperti, promiscuità di spazzolini e, come diceva una nostra tata, peto li-bero sotto le lenzuola, questo no, spero, per il resto sarà così, penso, ba-gno occupato, tapparelle alzate o tapparelle abbassate.

Paura del vuoto.Sono curioso di sapere se anche lei riflette delle stesse mie consi-

derazioni, elementari certo, sulla convivenza, non credo, visto il tra-sporto con cui affronta questo salto, la pazienza nel cercare l’appartamento, senza dirmi niente di quello che stava facendo, la cura che mette anche nei più piccoli particolari, il tutto per raggiungere un’armonia d’insieme senza pari, l’appartamento deve essere distribuito in un certo, preciso, modo, deve trovarsi vicino a certi, precisi, posti da

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raggiungere a piedi, volendo, deve essere in un palazzo con determinate e, precise, caratteristiche, estetiche ed umane di vicinato, proprio come quelle del palazzo dove si trova il piccolo appartamento.

Palazzetto in realtà.È un piccolo edifico di quattro piani a Monteverde Vecchio, tra

villa Pamphili e villa Sciarra, penso sia stato in passato un villino, poi fra-zionato, rende di più, ci sono quattro appartamenti e, da quanto ho capi-to, sono tutti della stessa misura.

Stranamente, per soli quattro appartamenti, c’è anche un portiere fisso, anche lui, ovviamente, fa parte della ricerca maniacale del particola-re e, non è male, appena mi ha visto arrivare in motorino, che cade a pezzi, mi ha subito proposto un set di ricambi, originali, gli chiedo, qua-si, così mi risponde. Quando ci conosceremo meglio, così saprò, mi pro-porrà in ordine, sempre pezzi di ricambio per il motorino, occasionissime di sterei, macchine fotografiche digitali, lettori DVD ed elettronica in genere, scommesse calcistiche, elettorali e, meteorologiche, tutto ciò coperto da un impeccabile divisa con berretto. Altri inquilini mi diranno che è un tipo affidabile, gli lasciano le chiavi di casa durante le vacanze estive, mi immagino così, orge itineranti di casa in casa.

Dopo aver declinato gli inviti del portiere per pezzi di ricambio quasi originali per il mio motorino, finalmente salgo a casa, è ancora vuota, anche da Letizia, mi raggiungerà più tardi, ci sono solo una rete ed un materasso per dormire che andranno via appena arriverà il letto, ordinato all’Ikea, insieme alla cucina e ad accessori vari, e uno stereo, il mio, portato qua insieme ai libri, CD, vecchi vinili e cassette che ho ini-ziato a tirare fuori, ammucchiandoli nella camera dove andrà il salone. I primi ad essere stati liberati dall’imballaggio in cartone, sono stati i CD, alcuni dei quali non sentivo da una vita, così decido di farmi fare compa-gnia, aspettando Letizia, da Miles Davis, il suo ultimo disco registrato, poi i libri, ritrovo Hesse, lettura giovanile, il mio Bernard, Marias, Guare-schi, mentre li tiro fuori dalle scatole provo ad aprirli, ne rileggo alcune pagine, i passaggi sottolineati e, continuo a rileggere, sono un plebeo dell’aspirazione perchè cerco di realizzare, per molto tempo mi sono sentito così, per molto tempo ho creduto di essere così, prima di rendermi conto di essere così e, ho cercato di realizzare, anche quello che non va-leva la pena di essere realizzato, e continuo a farlo, cercando,

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per quanto posso, di realizzare e, sento, più passa il tempo, più mi rima-ne difficile.

Penso, mentre continuo a tirare fuori i libri posandoli sul pavi-mento, non abbiamo ancora le librerie, che forse mi trovo qui, aspettando Letizia, per quello strano istinto a realizzare, tipico dell’età adulta, così penso, non tutti hanno la fortuna di possederlo, chi lo pos-siede non può fare a meno di rappresentarlo, così si laurea, si sposa, ha dei figli, li crescerà, andranno a scuola, si laureeranno, si sposeranno, avranno dei figli che, saranno nipoti per il capostipite dei realizzatori, penso e, così via, di realizzatore in realizzatore, fino a quando la macchi-na non s’incepperà grazie ad un nobile dell’aspirazione, che sognavo es-sere io, fino a quando ho iniziato a realizzare, laureandomi e, adesso sono qui, all’alba di una convivenza non ancora realizzata, forse saranno figli, amore, viaggi, vacanze, pappe, pannolini, comunioni, nipotini, così penso, e penso anche cosa non sarà, forse, adulterio, sarà mai possibile che io non andrò più con un’altra donna mentre starò con ‘Zia, è strano ma dovrebbe essere così, è ancora più strano dal momento che i primi tempi della storia con Letizia, ormai non solo nella mia mente, io cerca-vo tra la folla delle mie feste, un fighettino con gli occhiali accompa-gnato dalla ragazza del pronto soccorso, il fighettino l’ho continuato a vedere, la ragazza, mai più, forse ha saputo che mi ero fidanzato e, sentendosi perduta, si è suicidata.

Poco probabile.Più probabile, invece, lei si è fidanzata, con un ragazzo che non

ama i locali, e i fine settimana parte e, meglio, si è sposata e adesso vive a Milano, o Bari.

Il fighettino con gli occhiali era suo cugino, o, il suo migliore ami-co dall’età delle elementari, da sempre innamorato di lei, in un certo senso come me e Letizia, ma con esiti più sfortunati dei miei.

Così sarà, io per sempre con Letizia, così dovrebbe essere se fossi un realizzatore, per convinzione, se fossi un realizzatore appunto, ma ancora sogno di non esserlo, sogno di essere un plebeo dell’aspirazione mentre cerco di realizzare una convivenza, assecondando Letizia che, con perizia certosina, questa convivenza la sta realizzando, così penso e, mi vedo in futuro a pensare con commozione ai balli fino alle quattro del mattino, alle passeggiate notturne tra i vicoli di Roma, io e Marzio, la

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primadonna, dopo una serata passata a distribuire inviti per la prossima festa, penso a musica che ti spacca le orecchie e i pensieri, all’acid jazz, alla disco, ai baci all’ombra di Jamiroquai, poi penso a Letizia all’universi-tà, alle mille Letizie dei locali che non vedrò più, alla ricerca di due occhi, possibilmente attaccati al volto della ragazza del pronto soccorso nel buio di un vodka-tonic, penso ai vodka-tonic, ai mille amici, a mille altre cose ancora e, continuo a pensare, sarà come smettere di fumare, ogni tanto, dopo il caffé, ti riviene voglia di una sigaretta, ci pensi ma, ormai sei disintossicato, qualche secondo e queste idee ti passano, vanno via insieme alla tristezza di una vita che ormai non sembra più mia, un’altra vita, come tante altre vite che, nel caos, sono la mia, quella pre-sente che, quando diventerà un’altra vita anche lei, entrerà a pieno diritto nelle altre vite della mia vita che sarà.

E sento.Sento già nel caos di altre vite, Giancarlo, Marzio e tanti altri, le fe-

ste, i locali, i proprietari dei locali, i bar, i balli, gli esami all’università, gli amici dell’università, le nottate a disegnare, a studiare, le feste ad Ansedo-nia, i fine settimana all’Argentario, al Circeo, la Grecia con Marzio, cercando una stanza appena scesi dal Traghetto, Ponza, i bagni in notturna e la Sardegna, la notte per Vulcano, i privilegi della gioventù, i privi-legi e, la gioventù, delicatamente, come solo la gioventù sa fare. Un solo attimo, l’attimo in cui ti dicono che sei diventato dottore in architettura, un attimo consapevole che, inconsapevolmente, ti spara nel futuro di mi-lioni di anni luce, un attimo leggero come solo la gioventù sa essere, e senza farti rendere conto di niente non è più gioventù, è ricerca di rea-lizzazione di tutte le aspirazioni della gioventù, penso, questo è. E nel momento in cui ti rendi conto di essere diventato un plebeo dell’aspira-zione e cerchi di realizzare, è troppo tardi, sei già, irrimediabilmente, uscito dal tempo in cui si fa incetta di aspirazioni, anche le più assurde, non importa, purché siano aspirazioni, è la gioventù appunto e ti ritrovi a sognarla in un’altra forma di aspirazione, più concentrata, matura, consapevole, perché come sei consapevole che tutte le aspirazioni della gioventù ti puoi permettere di sognare di realizzarle, sei anche consape-vole che tutte le aspirazioni alla gioventù che hai quando ti ritrovi matu-ro, non ti puoi sognare di realizzarle, finito tutto, ci devi rinunciare, ti rifugi in altre aspirazioni, plebeo di un plebeo. Aspirazioni da grande,

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allora i sogni realizzati di aspirazioni giovanili si mescolano a delusioni di sogni infranti da uomo maturo, confine indistinto dell’essere e del vorrei, del sono, del sarò e, non voglio ricordare cosa sono stato per non rischiare di rifiutare cosa sarò, brindi, con una bottiglia fredda di Dom in mano, ai privilegi della maturità, sapendo che, mentre pronunci queste parole, trovarli sarà difficile, ed è l’unica aspirazione che ti puoi sognare di realizzare da grande.

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Tra una processione di amici e una di parenti, mi arriva la notizia che domani sarà il grande giorno della Risonanza, sono tutti un po’ ecci-tati, iniziando dalla mia famiglia fino ai medici che, non riuscendo a dia-gnosticarmi niente, ripongono nella tecnologia avanzata tutte le loro speranze, così il tempo passa, con Costanza e il suo nuovo fidanzato, con Carlo, Marzio e i biglietti per una festa sabato pomeriggio, sono pre-vendite, devo venderle a sedicimila lire l’una, mille lire sono per noi co-me sempre, guadagno di più qua dentro, senza stressarmi, che quando andavo in giro per comitive a venderle. Poi arrivano i primi amici, senza orario, fuori orario, meraviglioso, vengono a trovarmi, ad informarsi co-me sto, a darmi notizie della scuola, dei professori che chiedono di me, a raccontarmi aneddoti, a prendere le prevendite per la prossima festa, penso, forse vengono solo per quello e, questo pensiero mi accompagne-rà per tutto il tempo della mia folgorante carriera nei locali di Roma, quanti amici avrei se non organizzassi feste, probabilmente solo un paio di meno, mi è sempre piaciuto circondarmi di persone e, così mi piacerà fino a quando non mi sveglierò da questo sonno, la trovo un'ottima me-dicina alla mia famiglia, come se fosse un anti-dolorifico, una sorta di aspirina emotiva, così sarà per tutto il tempo del mio sonno, così saprò, dopo mi sveglierò, e il sogno del mio sonno dei miei primi anni divente-rà esperienza, preziosa, vitale, mia. Il rischio sarà ricadere nel sonno, con altri sogni da sognare, indifferenti a ciò che mi accadrà intorno ed io sa-rò indifferente ancora, per tutta la durata del mio prossimo sonno, così sarà se accadrà, può accadere, il sonno ti prende quando non te l’aspetti,

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così è accaduto per la mia adolescenza, e la veglia diventa sogno, non ci puoi fare niente, ti avvolge, irretisce, il sonno, e vivi, o ti sembra di farlo, in una notte perenne fino a quando non riuscirai a svegliarti di nuovo, come capirò in futuro che mi è successo qua dentro, ma io non voglio più dormire, dovrò stare attento, il colpo di sonno è la cosa peggiore per una persona che vive, non ti rendi più conto della strada che stai percorrendo, di chi hai seduto accanto, e diventi un pericolo per te e per loro, chi ti sta accanto appunto, così il tempo passa.

Il sonno, percepito da chiunque come la panacea di tutti i mali, è in realtà la culla di tutti i mali del mondo, penso, aspettando la risonanza.

Parlo, scherzo, rido e, viaggio da fermo, aspettando la risonanza.Questa mattina, durante il giro delle visite, non mi hanno nemme-

no visitato, tanto domani farò la risonanza, come stai, mi ha chiesto il medico, bene, così io, hai dormito bene questa notte, mi chiede approssi-mandosi a cambiare paziente, benissimo, ma gia non mi ascoltava più. Anche il monitoraggio della mia condizione fisica si è molto allentato, tanto domani farò la risonanza, nel frattempo sono arrivati Giordana con il suo nuovo fidanzato, io devo sapere che sono solo amici, così mi hanno detto, anzi, così mi hanno lasciato intendere, questa cosa mi fa un po' incazzare, usarmi questo garbo come se fossi un malato terminale, o come fa chi si sente in colpa, così mia madre quando sono stato ricove-rato, ti prometto che non litigherò più con papà, mi ha detto, come se esistesse un rapporto causa ed effetto, almeno diretto, con quello che mi è capitato.

Ti prometto che non litigherò più con papà, così mia madre, co-me se fosse vero e, il futuro mi darà ragione, una volta passata la paura, tornerà tutto come prima, l’assenza di mio padre e, quando c’è, i litigi che scandiscono il tempo delle nostre giornate che, per me, si tra-durranno nel maggior tempo possibile lontano da casa, per Costanza in una psicoanalisi senza fine, per Carlo in un matrimonio affrettato, per papà i film all’estero e, per mamma, fino alla conoscenza del dio del golf, il tormento a tutti coloro che si troverà davanti, senza stare a sotti-lizzare su ceto sociale, ricchezza, cultura o chissà cos’altro, mero tormento, dal panettiere al parrucchiere, dagli amici cineasti, scrittori, medici e consorti di medici, anzi, consorti in generale, ai tassisti, pas-sando per passanti, commessi e camerieri, rovinando partite di Burraco,

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nessuna amica vorrà più giocare con lei, cene meravigliose al sapore di astio e, non mi viene in mente nient’altro, sono esausto, mentre Giorda-na e il mio caro amico, suo nuovo celato fidanzato, mi parlano di quanto gli manco, anche ai professori, a tutti ma a loro in particolare, sono commosso mentre spero in una vomitata che possa far capire il mio pia-cere a trovarmeli davanti in questo momento, che invece non arriva, così continuano, tecnicamente non si può parlare di adulterio, di corna, non stavamo più insieme da un paio di mesi, ma avevo buone possibilità di ri-conquistarla, la piccola Giordana. Così trascorrerà un’ora, con i loro chiacchiericci e i miei svogliati ascolti, così è trascorsa un’ora. Un’ora in meno verso la Risonanza Magnetica Nucleare, un’ora in meno verso la notte, l’unico sonno che aspetto con impazienza, l’unico sogno che desi-dero, il sogno che, quando è finito, non sogni che si avveri, un sogno ti-mido, quello della notte, discreto, non invadente come quello del sonno diurno, un sogno importuno che, senza soluzione di continuità, ti tormenta per giorni interi, a volte per anni, i più sfortunati per un’intera vita, un sogno tanto arrogante quanto necessario, come necessario è il respiro, il battito del cuore, il battito di ciglia, la stretta di mano e, il contatto in genere, la parola, la vista, il tatto, l’amicizia, profonda o su-perficiale, è lo stesso e, ciao Marzio sei tornato, con altri biglietti ri-stampati, come necessaria è la musica, ingrediente fondamentale di tutti i sogni, i libri, mio padre, Costanza che, per liberarsi dal sogno di una fa-miglia è finita in analisi, la più grande sognatrice che abbia mai conosciu-to, campionessa mondiale di sogni.

Costanza mi è necessaria per sognare, e, forse, quando sarò grande, l’aiuterò a tornare a sognare, così penso mentre Marzio mi salu-ta e va via di nuovo.

Con Marzio vanno via anche le altre visite che riceverò oggi, sono stanco, vomito, sempre meno ma continuo a vomitare, decido di stare male, così, chi verrà, se ne andrà, presto.

Il mio taxi con la scritta al contrario mi viene a prendere di buon’ora, non ho fatto nemmeno colazione, dietro di noi una processio-ne di familiari, modello nozze, con me, in taxi, Costanza.

La strada è lunga e l’orario non aiuta.Guardo Costanza e ripenso ai sogni, lei sognava di andare a vivere

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a Lisbona, aveva conosciuto un suonatore di chitarra portoghese, chi-tarra classica, non ricordo se si era innamorata del chitarrista perchè già innamorata di Lisbona, o si era innamorata di Lisbona di conseguenza al chitarrista portoghese, in ogni modo non ho mai capito questa sua pas-sione per Lisbona, la capirò fra molti anni, quando diventerà anche una mia passione, non sogno ma passione, non conoscerò nessuna chitarri-sta portoghese, mi ricordo che inizierà tutto con un film, Sostiene Perei-ra, poi con il libro, Sostiene Pereira, il Libro, poi con un viaggio premio a Lisbona, in seguito sarà un altro film, Lisbon Story, infine saranno i Ma-dredeus, che mi aiuteranno a sostituire sogni irrealizzabili con sogni ancora da cercare di realizzare.

Tra un semaforo e un altro.Costanza in cuor suo continua a sognare, clandestinamente, glielo

leggo negli occhi, è parte del suo essere, sognare, e penso, nelle mie ri-flessioni sui sogni non c’è mia madre, forse lei ha smesso di sognare quando ha lasciato la carriera cinematografica per dedicarsi alla famiglia, eppure mi viene da pensare che gli unici veri sogni realizzabili di un adulto dovrebbero essere i figli, o qualcosa del genere. Lei non sogna, per me, nelle mie riflessioni, non sogna, forse è sveglia, forse il suo sonno è terminato nel momento in cui ha messo su famiglia, è l’unica sveglia tra noi tutti, grande scoperta, mi devo ricordare di chiederle co-me si vive il mondo in questo stato di non sonno.

Mi ricorderò di questo viaggio verso la Risonanza, ho scoperto una cosa in più su mia madre, ho scoperto una cosa su mia madre.

Ho scoperto quanto le è costato rinunciare e mi sento in colpa.Tra un semaforo e un altro passiamo, senza rispettare il rosso,

abbiamo la sirena, sono un malato urgente.Il viaggio termina con una brusca fermata davanti all’ingresso del

Pronto Soccorso, così, finalmente, sono stato carontato nel luogo dove avverrà il mio battesimo alla diagnostica nucleare. Il posto non è molto diverso dal Policlinico, forse un po’ più in ordine, l’affollamento è il me-desimo. L’altoparlante parla spesso, richiamando all’ordine medici, para-medici e manutentori, l’infermiera Elisa al reparto maternità, e ripete, l’infermiera Elisa al reparto maternità, o chissà quale altro reparto, si capisce poco, il manutentore Giacomo dovrebbe rimettere a posto gli altoparlanti grazie, il malato Claudio, ripeto, il malato Claudio non capi-

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sce cosa diciamo, mentre lo sistemano su una sedia a rotelle, l’infermiere Umberto dal malato Claudio, ripeto, l’infermiere Umberto dal malato Claudio, deve essere trasferito nella stanza della risonanza e, se il manu-tentore Giacomo si sbriga, ripeto, se il manutentore Giacomo si sbriga a riparare l’altoparlante, forse l’infermiere Umberto riuscirà a capire che deve andare al Pronto Soccorso e farsi carico del malato Claudio per portarlo a fare la risonanza. È almeno mezz’ora che sono parcheggiato qui.

Il resto dei processionari si deve essere inceppato qualche semafo-ro dietro di noi, ancora devono arrivare, la mamma Lucia, ripeto, la mamma Lucia è pregata di recarsi al più presto dal figlio Claudio, grazie.

Finalmente siamo tutti, finalmente l’infermiere Umberto, co-munque si chiami, si è ricordato di me e, finalmente, facendosi largo tra gli astanti, mi dirige con padronanza del mezzo verso l’agognato esame, una stanza enorme, pulita, con al centro un marchingegno tipo Spazio 1999, un cilindro d’acciaio con un lettino telescopico sopra il quale, penso, dovrò mettermi io.

Non capisco se è per colpa della tensione, ma ho un po’ di nau-sea, ho anche paura che mi prenda una botta di singulti a raffica quando mi troverò all’interno della macchina, così chiedo se è possibile fare entrare qualcuno con me.

È possibile.Costanza mi accompagna all’interno della stanza, mentre il dotto-

re mi sistema sopra il lettino bloccandomi la testa per non farla muove-re, e mi dice qualcosa, forse per tranquillizzarmi ma non capisco cosa mi stia dicendo, non l’ascolto, lei si sistema dietro il cilindro, così mi tie-ne d’occhio, in realtà c’è una telecamera ed un microfono, così mi hanno detto, non mi importa, mi sento più sicuro con Costanza dietro di me, dove rimarrà, in piedi per tutta la durata dell’esame, circa tre quarti d'o-ra, ogni tanto mi chiede come và, io alzo il pollice della mano destra ma sono teso, ho paura di singhiozzare, poi di vomitare e ho la testa bloccata, non la posso muovere, se vomitassi adesso mi strozzerei, allora deglutisco, freneticamente, deglutisco saliva che non ho più. Sento il ru-more della macchina, trac trac trac, Costanza continua a chiedermi come mi sento, è più preoccupata di me, s’è possibile, io alzo sempre il pollice della mano destra e, il tempo non passa, non ci sono i secondi a

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scandirlo, solo trac trac trac, e saliva ricomposta e paura di singhiozzi, ancora Costanza, ancora pollici alzati, ancora trac trac trac, fino alla fine, fino a quando il lettino non si anima di nuovo, riportando alla luce un volto bianco, come mi dicono che ho, e adesso posso vomitare senza paura di strozzarmi, Costanza fa il giro del mostro tecnologico e mi raggiunge, mi tiene la mano e mi accarezza la fronte mentre mi liberano dal lettino, la guardo negli occhi, sono lucidi, preoccupati dove forse mancano i sogni, ma non l’amore per me, così vedo, sono esausto, ti abbraccio Costanza, anche se non lo faccio e, rimarrò tra le tue braccia per tutto il giorno, sognando di farlo anche nei giorni che seguiranno.

Fuori la stanza della Risonanza c’è eccitazione, Carlo scherza e di-ce frasi sconnesse, forse sono battute che dovrebbero far ridere, mamma è al telefono con papà, ancora non è tornato, ci parlo anch’io ma con un filo di voce, mi tranquillizza, intanto il falegname Giuseppe, ripeto, il falegname Giuseppe è desiderato a Ginecologia, l’usciere Pie-tro, ripeto, l’usciere Pietro deve riconsegnare le chiavi in portineria, mentre guadagniamo l’uscita.

Il mio taxi sfreccia sulla strada del ritorno, io dormo, Costanza mi tiene la mano.

In ospedale riesco ad arrivare in tempo per il pranzo, vomitando subito dopo, è giusto, sono stato graziato dal dio dei succhi gastrici du-rante la risonanza, è giusto che adesso vomiti, per oggi niente visite.

Non so con esattezza quanto tempo sia passato, credo pochi giorni e sono pronte le mie immagini, il Capo Reparto viene da me agi-tandole come un trofeo, adesso sappiamo precisamente cos’hai, adesso sapete cos’ho, penso, ma non lo dico, lui me le mette davanti senza dire niente, io indico un punto sulla lastra, un punto sotto il cervello, ho que-sto, così io, il dottore mi guarda, poi guarda la lastra, poi di nuovo me, la partita a tennis dura qualche minuto, è esatto, così lui, i suoi occhi mi chiedono come ho fatto a capirlo, non lo so come ho fatto, ne ero sicu-ro e basta, è un'angioma, mi dice, cos'è un tumore, gli chiedo interrompendolo, no, così mi risponde, sono delle vene messe a casaccio.

Come mi è venuto.Probabilmente ce l’hai da sempre, dalla nascita, è congenito.Allora cos’è successo, chiedo.

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È uscito un po’ di sangue, i sintomi che hai e che hai avuto sono causati dal sangue fuoriuscito che ti ha compresso i centri nervosi.

Adesso sto meglio però.Il dottore continua spiegandomi il motivo del mio miglioramento,

mi dice anche che dovrò fare un altro esame per capire quanto è grande questo coso, angioma, dovrò fare un'Angiografia, che, detto così non dice niente, quando poi mi spiega come si svolge mi assale la tristezza, ormai vedevo la luce, pensavo che con la risonanza sarebbe finita la lista degli esami da fare, invece non è così, serve l'Angiografia per capire come intervenire.

E si farà, con un tubo, catetere, che dall'inguine mi arriverà fino al necessario, dentro mi inietteranno un liquido che mi farà venire mal di testa, per evitarlo dovrò stare sdraiato fino al giorno dopo, e sull’inguine mi posizioneranno un favoloso sacchetto di sabbia, pesante, per evitare che mi esca sangue, in confronto anche la puntura lombare mi sembrerà poca cosa. Il giorno dell'Angiografia, nel pomeriggio, mi verranno a tro-vare due amiche, lo stesso giorno mi sistemeranno un aggeggio per mo-nitorarmi il cuore e le mie amiche, così saprò, andranno a dire in giro che mi hanno visto in fin di vita, con mille cavi attaccati addosso come i film americani, questo mi diranno, perchè io di quel giorno mi ricorderò poco, niente.

Tutto passa, anche quest'ultimo esame passa, adesso, scoperta la natura del mio male, alla fine niente di ché, si passa al circo delle terapie.

Come si cura la cosa.Ogni medico ha una sua idea, si inizia con l’asportazione chirurgi-

ca, poi si passa alla radioterapia, al laser, agli Sciamani, alla medicina alternativa, alle preghiere, ai santi guaritori e, chi più ne ha più ne metta, così è, io nel frattempo mi sento meglio, vomito sempre di meno, una o due volte al giorno, mi sembra che sia anche tornata la sensibilità dove era venuta meno, vacanza, anche lei ne ha diritto, così, forse, in futuro mi funzionerà meglio di prima, anche gli occhi adesso mi danno meno fastidio. Ho ripreso volentieri a ricevere visite, sono contento di vedere gli amici, solo che adesso, dopo pochi minuti mi annoio ma non ho più la scusa del vomito, così dopo il primo quarto d’ora di piacere, subentra un tempo lunghissimo di insofferenza alle notizie, tempo che, mentendo, l’orologio dichiarerà di circa tre quarti d’ora. Anche mio pa-

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dre è tornato, si è preso un’altra settimana di vacanza dalle lavorazioni del film, dice che è quasi finito e che tutti si sono sempre informati sulla mia salute, voglio vedere, cazzo, il figlio del regista, mi sembra il mini-mo, potevano venire a trovarmi.

Sono stanco, vorrei leggere un libro ma non I Sepolcri, un libro come uno di quelli che uscirà tra qualche anno, Benni, si, un libro di Ste-fano Benni forse adesso lo leggerei volentieri, cosa quasi impossibile questa, da quando mi sento meglio è un continuo di visite, ed ascolterei anche della musica, anche questa come quella che ascolterò tra qualche anno, adesso, per dirne una, accompagnerei Benni con Monk, si, mi fa-rebbe piacere, ma adesso è presto, succederà solo tra qualche anno e so-lo tra qualche anno potrò leggere tutti i libri che voglio e ascoltare tutta la musica che voglio, non perchè adesso non lo possa fare, ma solo perchè adesso non la capisco, anche se sono cresciuto tra libri, musica, film, non li capisco, riesco a capire solo una cosa, riesco a desiderare so-lo una cosa, dio delle ragazze carine, amata sega, forse perchè il fisico ha ripreso a funzionarmi, forse è la primavera, impossibile, siamo in au-tunno, forse gli ormoni che, sopiti dal male, hanno ripreso ad agitarsi, re-clamando il posto nella mia vita che gli è stato consegnato per diritto divino, così penso, forse, sono un po’ confuso.

Adesso, finalmente, dormo.

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XXI

Io e Letizia ci sposiamo, così io a mio padre.Quando gliel’ho detto non mi è sembrato né particolarmente feli-

ce, né particolarmente infelice né, particolarmente niente, quando, mi ha risposto, eppure mi sarei aspettato, visto la sua esperienza matrimoniale non delle più felici e, considerando che è un uomo abbastanza di mondo, un altro tipo di reazione come, ma chi ve lo fa fare, non state bene così, oppure, è meglio continuare a convivere, ci sono meno rotture di scato-le, o ancora, la nostra esperienza familiare ti avrebbe dovuto insegnare che il matrimonio è una grande cazzata, ti piace una ragazza, così sempre lui nel mio immaginario, ti ci metti insieme, ci vai a convivere e, se funziona continuate, fate dei figli e cosissia, se non funziona, amici co-me prima.

Sintetico.Invece è stato ancora più sintetico duepunti quando, così mi ha

chiesto, evitando qualsiasi fianco a miei, eventuali, ripensamenti. E si, perché io sul matrimonio la penso come avrei pensato che la pensasse anche mio padre, perché sposarsi, così ho detto a ‘Zia.

Mia madre è calabrese, sai ……..Tua madre è un’artista, vissuta a Parigi per vent’anni, trapiantata a

Roma da quaranta e, dovrebbe ……..Il fattore Calabria è più forte del fattore artistico o globale, e sono

ormai diversi mesi che ogni volta che mi incontra mi chiede se ci sposia-mo, non la sopporto più.

Oppure sei tu che ……..

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Oppure sei tu, oppure sei tu, ma che t’importa, non stiamo bene.Ci devo ancora pensare.A queste mie parole, ‘Zia ha iniziato a menarmi e, abbiamo fatto

l’amore. I suoi metodi di persuasione sono eccezionali, almeno con me, così me la sposo, quando, rispondendo a mio padre, non lo so, non abbiamo ancora deciso, preferiremmo in autunno, quando cadono le fo-glie, in una piccola chiesa di campagna.

In chiesa, l’ho pronunciato io questo pensiero, autonomamente, stento a credermi, non abbiamo mai parlato di dove in effetti, né di co-me, fino a quando ho sentito pronunciare da me la parola chiesa, ho sempre pensato che mi sarei sposato civilmente, così penso, invece a mio padre ho detto chiesa, una chiesa di campagna, piccola, raccolta, spoglia, come gli alberi in autunno appunto. E il ricevimento, cazzo, a questo non ho mai pensato, come sono sicuro che ci penserà mia madre insieme alla sua consuocera, artista e nobildonna calabrese, dai modi co-smopoliti ma dalla cultura tradizionale, come se il matrimonio fosse il lo-ro, penso, così sceglieranno il luogo, le portate, bomboniere e chissà cos’altro.

Quando, in autunno, così a mio padre, certo di un suo mero inte-resse d’ufficio, invece mi sbagliavo, alla parola autunno gli si sono illumi-nati gli occhi, deformazione professionale per una immagine della scena che solo ai registi può venire in mente, ed era così, se non ti dispiace vengo con te a vedere la chiesa, così mio padre, dicendo chiesa ma vole-va dire location, e così sarà, verrà a vedere la chiesa e, la chiesa è scelta.

Una piccola chiesa di campagna vicino Roma, con annesso un piccolo convento, un orto, un piccolo spaccio dove i piccoli fratini arro-tondano vendendo i vari piccoli prodotti delle loro piccole fatiche quoti-diane.

Carini.Abbiamo fatto i conti senza l’oste, così saprò.Trovata la chiesa si deve decidere per tutto il resto, subito, poco

importa se mancano ancora sette mesi all’evento. Si è passati da uno scontato niente addobbi, fregandosene delle ire di mia madre, ad un, il fotografo sarà il mio fotografo di scena, così mio padre. Non si deve ce-lebrare il matrimonio del figlio più piccolo del famoso regista, ma il suo prossimo film.

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Il fotografo di scena di mio padre è un certo Alfonso non ricordo il resto, comunque il figlio del produttore di mio padre, l’ho incontrato un paio di volte quando sono andato a trovare mio padre durante le ri-prese di un film che stava girando a Siena, mi pare, comunque in Tosca-na, faccia da cazzo e, l’idea che lui, Alfonso non ricordo il resto, debba essere il fotografo del mio matrimonio, mi fa girare un po’ le scatole, ovviamente sono l’unico, la mamma è felice per la scelta del fotografo, poi vedremo le bomboniere, cataring e location per il rinfresco, anche ‘Zia è contenta e sua madre, artista e nobildonna giramondo calabrese, pure, così il comitato organizzativo delle nozze composto da, in ordine, mia madre, ‘Zia, la madre di ‘Zia, artista e nobildonna calabrese in declino e rompiballe, e, incredibilmente mio padre, ha organizzato una cena per questa sera, tutti insieme ovviamente, ci sarà anche il fotografo Alfonso non ricordo il resto, per mettere appunto tutti i dettagli.

Ripeto, mancano sette mesi.Sette mesi di un lungo ed estenuante cammino, da quelle che sono

le premesse.Letizia passerà a casa verso le sette, io faccio in tempo ad andare a

studio, non ho da lavorare, voglio solo stare un po’ da solo e scrivere, ho iniziato a scrivere, mi sono anche iscritto ad un corso di scrittura creati-va, voglio scrivere, voglio indossare mille vite, fare mille matrimoni, fare mille figli, anche se, su quest’ultimo aspetto, mi ricordo un articolo di Kundera dove scriveva che in letteratura i protagonisti delle storie rara-mente hanno figli o, se li hanno, se ne parla ai margini della storia.

Vorrei essere medico, barbone, manager, commerciante, assassino, vorrei essere padre, vorrei essere figlio, non come lo sono veramente, vorrei essere madre, marito, amante, giornalista, presidente, vorrei essere scrittore e, poterlo raccontare.

Quando ho detto a mio padre della mia volontà di iniziare a scrive-re mi ha risposto, bene, così lui, prova anche con dei soggetti per il cine-ma. Ho tentano di immaginarmi la scena, io e mio padre che lavoriamo a stretto giro, l’idea non mi entusiasma affatto ma lo vorrei scrivere, in un libro, solo che, al pensiero della cena di questa sera, non mi esce niente dalla testa, riesco solo ad ascoltare musica, seduto sull’unica poltrona del mio studio, guardando le finestre del decimo piano del pa-lazzo di fronte e, immagino, ad ogni finestra corrisponde una madre, un

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figlio, un marito, un’amicizia tradita, un primo amore infranto, famiglie felici, famiglie distrutte, libri da studiare malvolentieri, canne o sigarette da fumare nel bagno, odori di broccoli, arrosti, pasta al sugo, preparativi per uscite serali, sorrisi, pianti, la finisci con quel telefono, devi tornare entro l’una, scuse arrampicate per uscire con l’amante, nonni in fin di vi-ta, nonni morti in guerra, telegiornali e, guerre, catastrofi ambientali, menzogne, lacrime di gioia, bambini appena nati e storie che si ripetono, mai uguali, mille libri da scrivere, mille libri che si scrivono quotidiana-mente, dietro le finestre al decimo piano del palazzo di fronte, libri che si leggeranno nell’affollata solitudine di un palazzo di quattordici piani, ma se fossero due piani sarebbe uguale, con buongiorno e buonasera sui pianerottoli, davanti la porta dell’ascensore, porte di casa chiuse, porte socchiuse per ascoltare il vicino che rientra tardi la notte, porte sbattute uscendo e, porte sbattute entrando.

Letizia sta per tornare a casa, devo sbrigarmi.La trovo sotto la doccia, entro anch’io e, va come deve andare,

tarderemo qualche minuto, siamo o non siamo noi gli ospiti d’onore della serata, possiamo permetterci di ritardare, come fanno le prime-donne alle feste, come facciamo io e Marzio, grandi organizzatori, prime-donne, quando andiamo alle feste organizzate da altri, lo so, è stupido, ma è così, alcune volte, per ritardare di proposito, siamo rimasti in macchina ad aspettare l’ora giusta per entrare. Cretini, vero.

Sotto casa dei miei genitori Letizia si aggiusta i capelli, forse è nervosa, così penso, cosa si aggiusta, sono cortissimi e, si guarda sullo specchietto retrovisore, si aggiusta i capelli e si guarda allo specchio, nel frattempo al ritardo della doccia si deve sommare il ritardo dovuto a Le-tizia che, a tutti i costi, si è voluta fermare a comprare una pianta per mia madre, sua suocera, sua futura suocera, poco importa se mia madre non ha il cosiddetto pollice verde, le piante riescono a durarle meno di un giorno, solo lei ci riesce, così adesso siamo in forte ritardo, più di un’ora ed io ho fame. Chissà cosa avrà cucinato Ena, perché Ena, così chiede ‘Zia, mi ha detto tua madre che mi sarebbe piaciuto quello che mi avrebbe cucinato, pensavo che lo facesse lei, esatto, le rispondo, quello che ti avrebbe cucinato, non ti a detto chi, mia madre quando Ena non c’è prende tutto in rosticceria o, va al ristorante.

Pensa che ogni volta che ho mangiato a casa dei tuoi, ho sempre

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creduto che avesse cucinato tua madre, così conclude ‘Zia.Si sale.Appena entrati dentro casa noto subito qualcosa che non mi qua-

dra, qualcosa che potrebbe avere il potere di disturbarmi la serata, c’è più gente di quella che mi aspettavo, o gente diversa, ma non riesco a capire, allora controllo, c’è mia madre, con un filo di trucco che gestico-la vistosamente, c’è Costanza senza fidanzato ma lo sapevo, ci sono i ge-nitori di ‘Zia, c’è Carlo, c’è anche mio padre, ma guarda, c’è, fondamentale, il fotografo di scena Alfonso Nonricordoilrestofacciada-cazzo, fino a qui tutto normale, poi c’è, finalmente con un nome, pre-sentata da mio padre, lei è Claudia, così lui, la compagna di Alfonso, Alfonso Nonricordoilrestofacciadacazzo penso io ma non lo dico, oltre ad essere la sua compagna è anche la sua assistente, così sempre mio pa-dre. E lei è Claudia, penso, Claudia Prontosoccorso, la compagna di, vabbè abbiamo capito che Nonmièsimpatico, alla fine si chiama come me, chissà che mi pensavo, anche se in realtà non ho mai fatto ipotesi sul suo nome, di certo non avrei mai pensato a Claudia, forse un'Anita, oppure un'Emma, o Alice, si, forse Alice le sarebbe stato meglio, come le sarebbe stato meglio un altro accompagnatore vicino, uno come me ad esempio, non bellissimo ma affascinante, dotato di una spiccata personalità, senso dell’umorismo, immensa modestia e, se questo non dovesse bastare, sono anche abbastanza ricco, di famiglia non di mio, grazie al regista di culto, certo non come il figlio del produttore del regi-sta di culto, ma mi difendo.

Nel giro di pochi minuti tutti i partecipanti alla cena sapevano che io è Claudia ci conoscevamo, tralasciando la storia del pronto soccorso, lei veniva alle mie feste, da un po’ di tempo non l’ho più vista, e ho anche capito il perché, capita spesso a quelli che frequentano i locali, li vedi per un periodo fissi alle tue serate, sicuramente fissi alle serate di tutti i giorni della settimana, li vedi ballare sommariamente fino alla chiu-sura del locale, a volte anche ubriachi, poi fanno delle apparizioni spora-diche con una frequenza di circa una volta al mese, forse una ogni due mesi, è meglio, in quel momento capisci che si sono fidanzati e, la loro unione dura felice fino a quando la frequenza con cui si fanno vedere la sera non aumenta, allora il rapporto si sta un po’ raffreddando, fino a quando non inizia tutto da capo, sono di nuovo single, tu lo capisci e ti

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ci metti a parlare, a loro piace parlare e raccontare di quanto era stronza quella stronza o, al maschile, stronzo quello stronzo, non fa differenza, meglio se con un bicchiere di superalcolico in mano. Insomma la fre-quenza con cui si esce la sera diventa il gradiente per misurare la felicità di coppia, così penso, e così è stato anche per Claudia. Adesso sono cattivo o, come si dice in gergo, sto rosicando, in effetti Claudia non è mai stata una grande frequentatrice di locali, di più il fighettino con gli occhiali che, a questo punto, non era il suo ragazzo, lei veniva ogni tanto e, quando l’aspettavo raramente si faceva vedere, così come non è mai venuta la domenica pomeriggio al Parnaso. Tutto questo fa di lei una ra-gazza diversa dalle altre, con una macchia, il suo fidanzato, mio prossi-mo fotografo di nozze, penso e, pensando, è quasi pronta la cena. Mia madre fa gli onori di casa in modo egregio, parla con la sua collega, la mamma di ‘Zia, del vestito, degli addobbi della chiesa, che non ci sa-ranno, ripeto, non ci saranno, di dove fare il pranzo, o la cena, ancora non hanno deciso, trova anche il tempo per aiutare Ena a portare degli stuzzichini, mio padre parla di lavoro con Alfonso Nonricordoilresto-eccetera, mio suocero è seduto su una poltrona da quando è arrivato sfo-gliando un libro sui film di mio padre, Letizia è accanto a lui, seduta sul bracciolo della poltrona, guarda il libro col padre, io, io mi giro intorno, guardo le fotografie, la casa che non mi sembra più quella dove ho vissu-to fino a ventisette anni, quando sono andato a vivere da solo. Quando ho detto a mia madre che sarei andato a vivere con 'Zia, si è disperata, l’ultimo figlio casalingo se ne andava, così rimaneva da sola con mio pa-dre. Dopo pochi giorni sono ritornato a casa dei miei genitori per prendere dei libri in camera, mi sono accorto che mia madre si era trasfe-rita, non dormiva più con suo marito ma in camera mia, nella mia ex ca-mera e i libri che avevo lasciato si erano trasferiti in una scatola in cantina, quando vuoi puoi tornare, amore, così lei, e dove dormo, dormi con me, non lo hai mai fatto quando eri piccolo.

Così è mia madre.Cerco Claudia, non è in mezzo a noi, forse è rinsavita e sta

cercando tracce di me per casa, foto di quando ero piccolo, la mia came-ra, ormai persa per sempre, inghiottita dall’oceano mamma come Atlantide, forse cerca i miei libri, quelli di cui le ho parlato la notte della passeggiata per i vicoli di Roma, forse cerca i miei dischi. Tracce di me,

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penso.Forse è solo andata in bagno.Così la rivedo, mentre mia madre annuncia che tra cinque minuti

sarà pronto, possiamo accomodarci in sala da pranzo dove, in bella mo-stra, c’è un quadro di mia suocera, quadro che, mia suocera appunto, ha voluto regalare ai miei genitori lo scorso Natale e, fino la settimana scorsa non c’era. Bel lavoro, mamma.

Diplomazia.Ruffianeria puntointerrogativo

Come spesso accade a tavola, i discorsi si alternano presto con ru-mori mandibolari, e ognuno fa del suo meglio per ostentarli discreta-mente. I rumori mandibolari li preferisco a quelli verbali, penso, specialmente quando questi producono concetti come quelli di Alfonso Nonricordoilrestofacciadì, parlando della musica che mia madre ha scelto come colonna sonora di questo evento, Mozart, è scontato e pre-vedibile, così lui parlando di Mozart, lasciando attoniti i presenti, anche mia madre, notoriamente un'intellettuale da fiera, rimane basita alle paro-le di Alfonso Eccetera, se non altro per le nozioni acquisite per induzio-ne da illustri esponenti del mondo musicale, e non finisce qui, Wenders non esisterebbe senza Antonioni, questo forse è vero, e tante altre cose dice Alfonso Eccetera ma io mi sforzo a chiudere i canali uditivi e, altre portate, altre parole, altri masticamenti e, finalmente, il matrimonio. Ini-ziamo a parlare del matrimonio, non l’avrei mai pensato, ma parlare del mio matrimonio rappresenta la fine di un incubo, un incubo iniziato con Mozart e finito con Mina è sopravvalutata. Che a parlare del mio matri-monio siano le stesse persone che hanno dato vita all’incubo di questa serata, è un altro discorso. Così ho scoperto duepunti che la chiesetta di campagna, con molte probabilità, se ne và a farsi benedire, si parla di un prete ad Orvieto, si parla del Duomo di Orvieto, e continuano, che la nostra cerimonia sarà soggetta alle rigidissime restrizioni della regia di mio padre e, nulla possono gli attori, che mia suocera, futura suocera, ha un’idea per il menù, idea condivisa totalmente dalla moglie del regista, co-sì si continua percorrendo le tortuose strade che portano ai migliori luo-ghi per il banchetto, ipotesi su liste di nozze, viaggio di nozze e, invitati, terminando con sarà il momento più bello della vostra vita, frase che apre

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scenari imprevisti sul proseguimento della discussione, tra il secondo e i contorni, si passa così da miraggi di matrimonio ai momenti più belli delle nostre esistenze, c’è chi parla della nascita dei propri figli, chi parla di quando ha incontrato Claudia, inutile dire chi è, chi parla di un pre-mio ricevuto. Io mi limito a raccontare di una notte passata sul ponte di una nave che mi avrebbe portato all’isola di Vulcano, così vedo, intorno a me, facce smarrite, tranne una, mio padre, è la prima volta che lo rico-nosco complice e, comprensivo, poi, l’illuminazione, una persona, sempre Eccetera, commentando il mio racconto, dice una parola, niente, in effetti la notte più bella della mia vita è niente, rispetto alle esperienze dei commensali, io non lo sapevo ed è quello che mi mancava per capi-re, lo sentivo, lo percepivo ma non lo sapevo.

Il niente.Mentre mi viene in mente un ragazzo conosciuto tanti anni fa,

quando pensavo di averlo dimenticato.Quella notte è stata la più bella della mia vita perché mi sono

riempito di niente, questo mi è accaduto e, questo mi accadrà negli anni che sarò, mi sono riempito e mi riempirò di niente. Col niente ci si riempie, col tanto non ci si sazia mai.

Oggi sono più fortunato di all’ora, oggi mi è chiaro, mi guarderò intorno ogni giorno e, penso, non sono l’unico a riempirsi di niente, so-lo che gli altri, come me fino a un attimo fa, e continuo a pensare, anco-ra non ne sono consapevoli, così non sono mai sazi e cercano il tanto.Saziarsi di niente sarebbe la forza di tutti, chi ha tanto lo sa, per questo, chi ha tanto, ti bombarda col tanto, vuole che nessuno si senta mai sa-zio, perché chi ha fame diventa stupido e, da stupido vive, si muove, pensa, parla, ama e, si relaziona. Ci bombardano con tanto di tutto, il tanto è una droga, dovrebbero nascere delle associazioni del tipo, tantisti anonimi, che aiuta chi ormai non può più fare a meno del tanto puntoMio padre continua a guardarmi come non mi ricordo che mi ha mai guardato, come se in me vedesse un’altra persona, un altro figlio, un fi-glio che, forse, vede le cose come le vede lui, penso e, continuo a pensa-re, mi guarda come se in me si riconoscesse, e lo riconosco, mi guarda come virgola avrei voluto che mi avesse sempre guardato e, così sarà fi-no alla fine di questa cena.

Piacere di conoscerti, papà.

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In macchina, tornando a casa, non si parla della cena, nessun commento, Letizia è solo contenta, vuole due figli, un maschio ed una femmina.

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XXII

Ho quasi smesso di vomitare, vedo un po’ meglio, anche il formi-colio alla parte destra del corpo si è ridotto, riacquisto peso, lentamente, ma è comunque un buon risultato. I dottori dicono che è uscito un po’ di sangue da questa cosa che ho in testa, ed è colpa del sangue che, comprimendo i centri nervosi, mi ha creato tutti i disturbi che ho avuto. Adesso, sempre i medici, stanno studiando in quale modo liberarmi da questa cosa che ho da quando sono nato, parlano di radioterapia, o forse è laser-terapia, non ho capito bene, poco importa, comunque niente di chirurgico, studiano il mio caso.

Nel frattempo Simone se n’è andato, questa mattina, con la ma-dre, era felice e mi ha sorriso, per tanto tempo mi ha sorriso e, era felice anche se sapeva che tra meno di quattro mesi ritornerà, così sarà ancora per chissà quanto tempo, forse per tutto il tempo della sua breve vita, co-sì pensavo mentre lui continuava a guardarmi, forse si aspettava che gli sorridessi anch’io, ma non ci sono riuscito, avrei voluto farlo, ho pensato di farlo, ma si sorride quando si è felici e, io non lo ero, non potevo esse-re felice pensando a me fuori di qua, quando rivedrò gli amici, andremo a ballare, a bere, fare sega a scuola, andrò a comprare i regali per Natale ubriacandomi di luci e vetrine, giocherò a calcetto, amerò mille Giorda-na, andrò in vacanza e dormirò in spiaggia, verrò svegliato dai caldi raggi del sole della Grecia o della Spagna, o di chissà quale altro posto, avrò il privilegio di fare tante cazzate, farò tante altre cose, tante quante sono quelle che non potrà fare Simone, a lui è riservato, come unico pia-cere, l’amore cosmico della madre e se lo fa bastare, questo gli basta per

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essere felice, una cosa che io ho sotto gli occhi, e a mia disposizione, da quando sono nato e che non sono riuscito mai a farmi bastare.

Non potevo salutarlo con un sorriso, non ero abbastanza felice.L’ho invidiato.Si, l’ho detto, vedendolo così felice di niente, ho provato una cosa

che non conoscevo prima, un sentimento nuovo, invidia della peggiore specie, così penso e, non gli ho sorriso, continuo ad invidiarlo, continue-rò ad invidiarlo fino a quando non riuscirò a vivere come lui, se ci riusci-rò, lo invidierò fino a quando non riuscirò a provare quello che prova lui nel vedere la madre, fino a quando non imparerò anch’io a parlare con gli occhi, con la pelle e, ad ascoltare. Fino a quando non imparerò ad es-sere felice, solo allora non lo invidierò più, solo allora potrò sorridergli, penso.

Simone se n’è andato e io giro per il reparto in attesa del verdetto dei medici su quale terapia sia la più idonea per me, ne è nato un mercato clandestino di scommesse, la laser-terapia è la più gettonata, alcuni puntano sull’eventualità che io non venga toccato, in ogni modo le scommesse si dovranno chiudere questa sera, è probabile che durante il giro di visite di domani, il dottore se ne esca con il risultato sulla tera-pia migliore. Anche a casa c’è fermento, mamma dice che mio padre ha iniziato a telefonare a tutti i medici, primari ovviamente, che conosce, è stato chiesto anche un parere al veterinario un giorno che mia madre si è trovata dal parrucchiere con la di lui moglie seduta accanto, in realtà sa-rebbe più preciso dire, che il parere è della moglie del veterinario, oppu-re che il veterinario ha parlato per bocca della sua consorte che, come un oracolo, le ha sparse, le parole del veterinario appunto, per casa mia come frumento per le galline, da quel momento sono nati i dubbi, non su una terapia, ma su tutte le eventuali terapie alle quali io potrei essere sottoposto, ognuna presenta dei rischi, dei problemi, nessuna va bene per Claudio.

Si accettano consigli, uno in più che male può fare.Così passo il tempo, parlo con gli altri malati, quando questi non

sono in piena crisi di Parkinson, oppure quando un barlume di lucidità si fa strada tra i percorsi tortuosi di un esaurimento nervoso e, ancora, tra un’ischemia transitoria e un’altra, mi dedico a più costruttivi discorsi calcistici con infermieri e dottori specializzandi, questi ultimi per la

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maggior parte fuori sede quindi, purtroppo, milanisti o juventini.Così passo il tempo, senza più esami da fare per una diagnosi

ormai certa e con una voglia di uscire che non mi fa pensare ad altro, anche le visite dei miei amici, vedendomi prossimo all’uscita, si sono ra-refatte e, così passo il tempo.

Così trascorro le mie giornate, da quando sto meglio, fino ad oggi, giorno in cui mi verrà comunicato quanto deciso per il mio futuro e, co-sì è, domani mi prenderanno la mira per la laser-terapia che verrà esegui-ta sempre al Policlinico. Lo sconcerto è generale, è stata una decisione che, così voci di corridoio, non ha trovato parere unanime tra i medici interpellati. Mia madre inizia a vagheggiare di alti contatti nel mondo me-dico per ulteriori consulti, mio padre stranamente le dà ragione, il resto sono parole sparse un po’ come accade durante i campionati del mondo di calcio, diventano tutti commissari tecnici, in questo caso sono di-ventati tutti dottori, così penso e, continuo a pensare, l’unico rimasto ai margini di questa decisione sono io, dando per scontato, da tutti, che l’unico a non poter decidere per il mio meglio sono sempre io, nessuno è venuto da me a dirmi, Claudio la situazione è questa, questi sono i pro e i contro, se non ti curi succede questo e, se ti curi ti puo succedere que-st’altro, invece niente di tutto ciò, conosco per sommi capi la questione che mi riguarda attraverso parole vaganti per il reparto.

Nell’incertezza, mi prendono la mira.Prendere la mira significa che mi fanno dei segni sulla pelle con

un pennarellone nero, segni che comprendono solo loro e che mi fanno sembrare come un indiano in partenza per una battaglia, dipinto sotto l’effetto di chissà quali sostanze stupefacenti, penso e, così torno in re-parto, tutto disegnato, pronto per farmi sparare.

Lo saprò solo domani, giorno d’inizio della mia terapia, ma le inge-renze dei miei genitori porteranno, come risultato, l’annullamento della laser-terapia.

Così continuo a passare il tempo.I dottori mi dicono che, una volta uscito, dovrò evitare sbalzi di

pressione, affaticamenti e similari, insomma tutto quello che mi po-trebbe causare di nuovo una fuoriuscita di sangue, questo significa nell’ordine duepunti evitare stress emotivi come interrogazioni, in que-

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sto caso il consiglio del medico è di lasciare la scuola per quest’anno, evi-tare stress termici che potrebbero causare repentine dilatazioni o re-stringimenti delle vene, in questo caso il consiglio del medico è quello di uscire nelle ore del giorno in cui la differenza di temperatura tra l’interno e l’esterno è minore, ma la cosa peggiore da evitare, mai detta dai medici, perché compresa nei primi due casi secondo loro, è quella di evitare la masturbazione. Niente pippe Claudio, così un dottore mi ha ri-sposto alla mia domanda specifica e, penso, se non mi è concessa la ma-sturbazione, non mi è concesso nemmeno fare l’amore, il problema non è nell’immediato, visto che Giordana questo tipo di attività, pare la svolga ormai con un altro, ma quanto tempo durerà questo stato di ago-nica lucidità.

Saprò che durerà ben poco, infatti dopo il primo mese di libertà, passato ad osservare rigidamente tutte le prescrizioni dettate dai medici, passerò subito ai fatti, in fondo per una sega cosa mi potrà succedere, così penserò nella solitudine del bagno adiacente la mia camera da letto, e così sarà, tolto il primo dente il resto è una passeggiata, inizierò a fare sempre più tardi il pomeriggio, fino alla prima uscita serale, da quel mo-mento tornerà tutto come prima, tranne la scuola, quella sarà una prati-ca un po’ più complicata , dopo il mio ritiro il Preside non vorrà più riaccettarmi a scuola perché, così lui, non riuscirai a prepararti suffi-cientemente per gli esami di maturità. Sarò costretto a scrivere una lette-ra al Ministero dell’Istruzione, raccontando il mio caso. Solo così riuscirò a farmi riammettere a scuola e a non buttare l’anno, ma tutto questo lo saprò quando sarò uscito dall’ospedale, per il momento così passo il tempo, imparando a viaggiare da fermo, uscendo da qua con la mente prima di portarmi appresso il corpo e, vado lontano, incontro gente, amici e sconosciuti, luoghi visti e luoghi mai visitati.

Viaggi da fermo, sono come i depliant turistici che sfogli con l’obbiettivo di visitare quei luoghi descritti con foto e parole ammiccanti, con un'unica differenza, i viaggi da fermo mi permettono di arrivare nei luoghi delle emozioni, gli unici luoghi che vale la pena raggiungere.

Claudio, c’è il direttore di reparto che ti vuole vedere, così la capo-sala, mettendomi a sedere sulla sedia a rotelle e, penso, è il grande giorno oggi, il giorno delle mie dimissioni, mi vuole parlare per ricapito-

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lare quello che ho avuto e per dirmi quello che potrò o non potrò fare, così continuo a pensare, forse mi chiama oggi per farmi uscire domani e così pensano anche i miei compagni di corsia che mi dicono, dai che esci, così dicono, al mio passaggio trionfale sulla sedia a rotelle, come fosse un carro regale al rientro da una campagna di conquista, dai che esci, penso.

La caposala mi staziona in un ufficio al piano del reparto, adesso arriva il dottore, mi saluta e se ne và, in effetti il dottore arriva, dopo circa un quarto d’ora, ma con una coda di sei studenti, il paziente ha un bla, bla, bla, così il dottore ripete, con precisione, quanto mi sento dire da un mese, alla compagine di lecchini, suppongo, e inizia una trafila insostenibile di osservazione del fondo oculare, del nistagmo, di prove di equilibrio, descrizione dei vari sintomi accusati durante l’evoluzione della malattia e, spiegazioni, un’occhiata alla Risonanza Magnetica Nu-cleare, altri sguardi al paziente, io, che penso, cazzo, volevo uscire invece non se ne parla, è solo una fiera di quattro stronzi, sei, magari racco-mandati, che devono preparare un esame su chissà quali patologie, così, dopo quasi due ore di rotture di palle e adulazioni al dottore, mi riporta-no in corsia, l’umore è pessimo, ad aspettarmi trovo mia madre che, ma-lamente, tenta di tranquillizzarmi dicendo che ha parlato con il primario e, forse, mi dimetteranno tra pochi giorni, nel frattempo mi aggiorna sulla ricerca di un centro specializzato in laser-terapia nel mondo.

Addirittura.Le mie fotografie magnetiche nucleari, viaggiano in lungo e in

largo per il globo, dagli Stati Uniti al Sud Africa, dalla Francia, Germa-nia, Inghilterra, Russia, al Canada, dove sembra ci sia il centro migliore al mondo per questo tipo di pratiche, ma ancora niente di niente. Così passo il tempo.

E il tempo passa, in reparto, tra giornali, chiacchiere, amici, fami-glia, e passeggiate in cortile, scherzi tra gli infermieri e pettegolezzi da corridoio, ma oggi è un giorno speciale, oggi mi hanno detto che, visto il mio miglioramento, domenica avrò un giorno di permesso, potrò tornare a casa a pranzo, già fervono i preparativi. Ena ha studiato il me-nù, mia madre andrà a fare la spesa, il resto della famiglia ha precettato parenti ed amici per l’evento. I giornalisti non sono invitati.

Arriva Carlo a prendermi, è quasi l’ora del pranzo, il suo viso è

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molto più rilassato rispetto al giorno in cui mi hanno ricoverato, anche la sua guida sembra meno nervosa.

Oggi non piove, il traffico scorre, penso a quanto era diverso quel giorno, una vita fa, sembra, un’altra vita, penso e, guardo fuori del fine-strino con il naso appiccicato al vetro, le persone per strada mi sembra-no altre persone rispetto a quelle che mi sono lasciato fuori quando sono entrato in ospedale, o almeno mi sembrano diverse, eppure è tutto uguale, i lavavetri, i semafori, i clacson ai semafori, le facce disadattate degli automobilisti, vecchi che attraversano la strada lentamente, ragazze che attraversano velocemente rischiando di perdersi un tacco in mezzo alla via, poi ogni tanto esce il sole e, quando succede, il mondo al quale partecipavo mi sembra ancora più diverso, ci sono dei colori che mi sembra di non avere mai notato, abbasso il finestrino, altre allo smog rie-sco a sentire le voci delle persone per strada, le avevo dimenticate, rumo-re fra i rumori, ma voci, penso, voci che, se non ci sei abituato, diventano musica, come musica diventano i cantieri stradali, il traffico che, sempre di più, ci inghiotte sulla strada di casa, una casa che non ri-cordavo così lontana, una lontananza che mi scopre impaziente. Voglio respirare come se mi trovassi in un campo sterminato di margherite, tra le margherite c’è Simone, mi sorride, adesso sorrido anch’io, ma lui non può vedermi, come non mi vede Carlo che mi chiede come mi sento, be-ne forse, penso ma non lo dico, mentre continuo la mia incursione nel mondo tra altri semafori, gente con i primi regali per l’ormai prossimo Natale, meglio portarsi avanti con il lavoro, penso e, continuo a sorride-re, il mio respiro sta appannando il vetro ritirato su, il mondo si sfoca, come quello che provo adesso, come se non avessi voglia di tornare a ca-sa, mi piacerebbe scendere dalla macchina e continuare a piedi, passare questa giornata di libertà camminando, vorrei presentarmi alla gente, ciao, io sono Claudio, così farei e, continuerei, mi spiegate come funzio-na qua fuori, sono nuovo, penso, eppure sono passati solo trenta giorni, o quasi, sono pochi per dimenticare tutto, così sento, com’è possibile, non capisco, penso e osservo, tra fazzoletti di carta tirati in macchina da un venditore ambulante e una magnifica ragazza che attraversa la strada, mentre Carlo guida, ascoltando la radio. È tutto diverso.

Vedo tutto diverso.In un tempo durato un delirio, siamo arrivati a casa, c’è tanta

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gente ad aspettarmi, alcuni li vedo per la prima volta come i genitori del fidanzato di Costanza, c’è mamma, c’è papà che parte di nuovo questa sera, sarà lui a riportarmi in ospedale. C’è tanta gente, la confusione non mi permette di salutare Costanza come vorrei, allora lo immagino, imma-gino di abbracciarla, forte e, a lungo, anzi, vorrei passare la giornata abbracciato a lei, e poi camminare, parlare, ogni tanto abbracciarla di nuovo, le racconterei di quello che sto provando, le parlerei di come non riconosco niente, di come vedo tutto come se fosse la prima volta e, lei mi ascolterebbe, in silenzio, ma capirebbe, perché lei capisce, dopo po-trei tornare in ospedale, invece saluto gente mai vista, sopra un tavolino in salone, mia madre ha radunato tutte le mie foto, facendolo diventare un altarino, mancano le candele.

Ena ha preparato un pranzo che andrebbe bene per una trattoria dei Castelli, tutto molto buono, ma sono stanco, mi vado a riposare nella mia stanza, è ancora presto.

Il riposo è durato quanto basta per non volere andare via, anche se in camera, appena entrato, non ho toccato un oggetto, aperto un cas-setto, come se farlo significava invadere uno spazio altrui, ma è la mia ca-mera, cazzo, ci voglio restare. Andiamo Claudio, così mio padre, dobbiamo rientrare, e inizia la fiera dei saluti, alcuni commossi, Co-stanza mi abbraccia.

Così passo il tempo, in taxi, perché mio padre và direttamente all’aeroporto, mi racconta di come stanno andando le riprese del film, mi racconta di come è la Germania, Berlino, il muro ha ancora un po’ di tempo prima di cadere, così saprò, e io guardo fuori, è buio e il buio crea un’altra prospettiva, se all’andata mi sembrava tutto diverso rispetto al mondo che frequentavo prima del mio ricovero, a quest’ora lo è anco-ra di più, ci sono le luci, il traffico, i motorini che passano da tutte le parti, ci sono più ragazzi per strada. Diverso.

Mio padre lo saluto davanti la porta del reparto, senza accorgerse-ne mi lascia la sua mano appoggiata sulla mia guancia per qualche se-condo, non tanti, quanti mi saranno sufficienti per addormentarmi serenamente, i miei colleghi mi chiedono come è andata, io inizio il racconto, ma sono un po’ stanco rinviando il resto a domani, così mi metto a letto e, mi addormento, con la mano di mio padre punto

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Così passo il tempo, ricordandomi del pranzo di ieri, tempo che non passa mai, da quando mi hanno detto, questa mattina durante le visi-te, che mercoledì uscirò, non in permesso, definitivamente, con una no-vità, non verrò toccato da nessuno in nessuna parte del mondo, è arrivata la risposta dal Canada, la loro attrezzatura, per quanto sofisti-cata, non garantirebbe con assoluta certezza che non verranno toccati i centri nervosi, quindi, in conclusione, ci sono nato e me lo tengo, dovrò solo fare un po’ di attenzione, specialmente per il primo anno, poi, co-munque, sono sconsigliati alcool, sigarette, ore piccole ed eccessi vari.

Non hanno parlato di sesso.Far passare un tempo che non ne vuole sentire parlare di passare,

è un’impresa estenuante, mi aiuta Marzio, mi ha portato i biglietti per un’altra festa sabato prossimo, io non ci sarò, penso, così mi manda un po’ di amici a prenderli in ospedale, e piuttosto che di un po’ di amici si può parlare di una processione, tutti con l’augurio di rivedermi presto e, così passo il tempo, fino a questa mattina, mattina di un giorno che non vorrei dimenticare, mattina che mi vede vestito con abiti civili prima della colazione, quindi prima delle visite, quindi molte ore prima della mia uscita.

Questa volta a prendermi ci sono tutti tranne mio padre, si svolgo-no le pratiche di rito, si raccolgono le ultime cose, si svuota il comodino e, dimenticavo, i saluti, ci sono tutti i mei compagni di corsia, ci sono gli infermieri, c’è qualche signora del reparto femminile che nel frattempo ho conosciuto, ci sono i medici e, c’è la caposala, Edda Clara, mi da un bacio, si alza per farlo, è molto bassa, mi accarezza, il suo uovo sbattuto ancora mi sazia, ancora mi nutrirà per tanto tempo.

In macchina guardo fuori, il naso sempre appiccicato al vetro del finestrino, osservo cose nuove.

Adesso il tempo passa.

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XXIII

Ti vedo, da lontano ti vedo e, non mi muovo. Non sono più in anticipo, così penso, anzi, al contrario, ho qualche minuto di ritardo, ma ordino un’altra piccola chiara, senza noccioline questa volta. Padre Nunzio non sarà ancora arrivato, spero e, se anche fosse, mi aspetterà ancora un po’, aspetterà tutto il tempo che occorre, per una volta lascio che il tempo mi rincorra e non il contrario, come spesso mi è accaduto, penso e, continuo ad osservarti, bevendo birra, con il cameriere credo indiano che ogni tanto passa da me a chiedermi se ho bisogno di qualco-sa, in questo momento non ha più clienti da servire, anzi, non si è più fermato nessuno da quando mi ha letto la mano, come se i turisti che va-gano davanti i miei occhi, aspettano che l’oracolo mi dica qualche altra parola, prima di sedersi, ma lui ha finito, quello che doveva dire l’ha detto.

Il mio ritardo aumenta ad ogni sorso di birra, e con il mio, anche quello di Alfonso Eccetera, il mio fotografo di nozze, lui deve accompa-gnarmi per dare un’occhiata alla location, la luce, gli angoli più suggestivi, insomma, deve dare uno sguardo a tutto, per poi relazionare, insieme ad un dettagliato servizio fotografico, a mio padre che poi penserà alla re-gia dell’evento e, penso, sarà una regia di una precisione maniacale, com’è suo solito fare, almeno a quanto si narra nell’ambiente. Esistono diversi racconti mitologici sul modo di lavorare di mio padre, lui dice che sono tutte cazzate, ma alcuni sostengono, specialmente gli attori che ha diretto, che è solo grazie al suo perfezionismo che riesce a raggiunge-re certi risultati, cura tutto nei minimi particolari.

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Un malato.Credo che una percentuale di tutto ciò che facciamo deve, al

contrario, essere donata al caso, al caso destinata, è il caso che lo recla-ma, come se fosse un sacrificio al dio della creatività, un momento in cui l’ordine delle cose deve farsi da parte e lasciare il posto all’invenzione, al disordine congenito dell’uomo, l’ordine deve essere sacrificato, si deve immolare per permetterci di andare avanti, di creare, di migliorare, così credo, l’ho sempre pensato e me lo stavo dimenticando, vale la pena pensare ogni tanto, pensare, cose nuove, cose vecchie, in questo caso si chiamano ricordi. Vale la pena pensare, ricordare, non dimenticare, che non è la stessa cosa di ricordare, pensare, pensare ti fa svegliare dal sonno, altrimenti si chiamerebbe sognare, serve, ma è un’altra cosa.

Il sonno non ti permette di percepire il mondo come è in realtà.Pensare, e, devo pensarci ogni volta che mi capita, non lo devo di-

menticare, il sonno non ti fa capire chi sei, sognare ti fa capire dove vorresti arrivare, pensare ti fa capire chi sei e come raggiungere la méta del sogno, sognare da sveglio sarebbe l’ideale, alternare sogni a pensieri, pensare ai sogni, usare il pensiero per realizzare i sogni, penso, mentre continuo a guardarti seduto, bevendo birra, continuo a pensare, io ho mai sognato tutto questo puntointerrogativo certo, ma non adesso, ho anche pensato di realizzare tutto questo, ma non adesso, l’ho sognato tanti anni fa, sorridendo, insieme a tante altre cose che avrei voluto fare nella mia vita, tanti anni fa l’ho sognato al termine del mio primo sonno, poi mi sono riaddormentato, poco tempo fa l’ho pensato, ma non me ne sono accorto, stavo sognando.

Smetto di pensare per vedere Claudia che si avvicina, non credevo che venisse anche lei, oggi, ma certo, è l’assistente di Alfonso Nonri-cordoilrestofacciadacazzo, dove và uno và l’altra, così la saluto, lei si scu-sa per il ritardo, la rassicuro, sono anch’io in ritardo, in realtà sono arrivato in anticipo, ma ho deciso di bere qualcosa prima di incontrare Padre Nunzio, così il tempo è passato, Claudia si siede accanto a me, ordina una coca cola, finalmente il cameriere penso indiano smette di lu-strare i tavolini per un altro incarico di rara fiducia, le nostre ordinazio-ni, per me basta birra, forse è meglio. È tanto che non ci vediamo, così io per rompere il ghiaccio, che originale, veramente ci siamo visti a casa dei tuoi genitori poche settimane fa, mi dice, intendevo prima di allora,

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non sei più venuta alle mie feste, così continuo evitando di accennare alle mie teorie psico-sociologiche su frequenza di uscite serali e fidanza-menti, è da molto che state insieme puntointerrogativo

L’ho conosciuto a casa di un’amica, siamo usciti per qualche giorno, e ci siamo messi insieme subito dopo.

Colpo di fulmine.Colpo di fulmine, così mi conferma Claudia, mentre ci portano la

coca cola a lei e, noccioline a me, libera iniziativa del mio amico penso indiano, e continua, dopo un po’ che stavamo insieme siamo partiti, abbiamo fatto un viaggio in America Latina, siamo rimasti fuori per circa quattro mesi, così Claudia anticipando le mie domande, tornati a casa siamo andati a vivere insieme.

E si, un colpo di fulmine, anche se non capisco come ci si possa far fulminare da Alfonso Eccetera, se fossi maligno penserei al suo conto in banca, ma non sono maligno e, l’ho pensato lo stesso, sono un rosicone, così occupo la mente mangiando noccioline e guardando Clau-dia dissetarsi con la sua coca cola, quando si dice il caso, mi dice Clau-dia, quale caso, rispondo io mentre lei continua, dal pronto soccorso al tuo matrimonio, è un caso, strano vero, così continua, ma io non l’ascolto più, penso al caso, è vero, è un caso, penso, come è un caso che io abbia perso tempo in questo bar, questo è il momento di sacrificare l’ordine al caos, è il momento dell’invenzione.

È il momento di ascoltarmi.Allora la interrompo, una volta ho fatto l’amore con una ragazza,

senza toccarla, così le parlo, è durato una notte intera, parlando, ridendo, camminando, quella notte ho imparato a conoscere il suo respiro, il ru-more dei suoi passi, che avrei riconosciuto tra i milioni di passi che mi circondano, l’odore dei suoi pensieri tra miliardi di altri odori, la musica dei suoi occhi, la più melodica tra quelle che ho mai ascoltato, i suoi capelli, i suoi capelli poi …….. Tutto in una notte. La notte è importante, non è inquinata dai rumori del giorno, rumori fatti di ansie da appuntamenti mancati, traffico, smog, telefonate, colazioni, lavoro, ancora telefonate, e traffico, tutto questo nella notte non c’è, mancano i colori, sennò sarebbe perfetta, come perfette sono le notti che ho vissu-to, due duepunti la prima, sopra un traghetto per Vulcano, mi ha inse-gnato a vivere aspirando ai sogni, senza averne paura, la seconda,

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passeggiando con te, mi ha insegnato come provare a realizzare queste aspirazioni, nella prima ho sognato, nella seconda ho pensato a come realizzare il sogno della prima, lei mi guarda, non penso stia capendo quello che dico o, forse non crede a quello che dico, con Padre Nunzio che a quest’ora sta aspettando me e Alfonso il fotografo, e continuo, anche io quando non ci siamo visti, ho fatto delle cose, tante cose, troppe per essere raccontate seduti ad un tavolo di un bar, Claudia mi guarda, ma non parla, ci vorrebbe una notte intera, passeggiando per i vi-coli di Roma, per raccontarti tutte le cose che ho fatto e quelle che non farò, è un caso, incontrare prima te di Alfonso, che sta arrivando, lo ve-do arrivare velocemente, è in ritardo, come tutti, tranne me, io non sono più in ritardo, non si è in ritardo per un appuntamento che non si ha.

Alfonso sta arrivando, così dico a Claudia prima di salutarla e, concludo, me lo saluti tu, io me ne vado.

Mi allontano, lasciandomi alle spalle un luogo che non volevo.Volevo una chiesa piccola, spoglia, in campagna.

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