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VIA PARADISO Rue de Paradis Quando Emma aprì la porta e entrai, rimasi a bocca aperta, incantato. Non avrei potuto trovare più bel nido al mondo per me e Caroline. Copyright Mario Zambetti E-Mail: [email protected] Seconda edizione 2015

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VIA PARADISORue de Paradis

Quando Emma aprì la porta e entrai, rimasi a bocca aperta, incantato.

Non avrei potuto trovare più bel nido al mondo

per me e Caroline.

Copyright Mario ZambettiE-Mail: [email protected]

Seconda edizione 2015

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Dello stesso autorein francese:L’été à Cap Djinet, CIEMI-L’HARMATTAN, Paris, 1987Ami ou de la pureté absolue, 1987 ROMA, le garçon du Château Saint-Ange, 1988 Décrépitude et Beauté, 1989 Les espaces de l’ậme, 1990

in italiano:Le voci di San Nazzaro, 1993L’intima malinconia dell’essere (prima versione), 1993Amici nel cuore di Dio, 1996Dolcezze e Furori, 1998Finché non avrò raggiunto il confluente del fiume, 2001Un oscillare eterno tra paradiso e inferno, 2003ADALGISA, 2004L’intima malinconia dell’essere (versione riveduta), 2005VIA PARADISO, prima edizione, 2007L'ESTATE A CAP DJINET, 2008DALLA STRADA, 2009LA PASSIONE DI MORRISON, 2011I DOLORI DEL GIOVANE DARIO, 2012E LA NAVE VA, 2013KURT COBAIN – Vie di fuga, 2014

Mario Zambetti è nato a Cogno in Valcamonica, Brescia. E’vissuto per più di vent’anni a Parigi dove ha scritto in francese e dato lezioni di lingua. E’stato ordinato sacerdote nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini il 16 dicembre 2000. Attraverso questo suo viaggio interiore, unendosi alla catena ininterrotta di tanti “cercatori” – e prendendosi gioco delle identità preconcette – Mario ci invita non solo a battere il pavé parigino ma, nello spazio dove riti sacri e profani si intrecciano, ci trascina, ancora una volta, alla scoperta di noi stessi. (Liliane Fiori-Astier)

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Indice

I Il mio Versailles 6II Così era lei, nel corpo e nell’anima 17III Maggio 68 28IV L’estenuante attesa 34V Di colpo crollava tutto 38VI Dentro di me tremavo 45VII A via Paradiso 52VIII La lettera 62IX Come a teatro 68X I miei maestri, le mie locomotive 74XI Un assiduo frequentatore della cineteca 83XII Un idolo pietoso 93XIII Eri la mamma di Jean-Marie 99XIV L’incontro con mio padre 104XV Non si vive di sole fughe e ebbrezze 124XVI “Salvaci, Gesù, salvaci” 137XVII Pensava teatro, sognava teatro 153XVIII L’amico Franz 170XIX Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano 188XX Nella metro di nuovo a cantare 194XXI Amori felici, eterni? 212

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Scrivere è un atto d’amorese non è

è solo scrittura. (Jean Cocteau)

Se scrivere è un atto d’amore, leggere esige un amore ancor più grande. Nessuna critica, solo l’amore può farci penetrare giustamente nella solitudine di chi scrive. In questo incontro a distanza, la pagina prende allora la sua forma definitiva, acquista quel significato che, nei suoi risvolti, solo il lettore in cuor suo può cogliere e portare all’infinito.

(Veronica, clarissa cappuccina)

Le parole dissimulanoLe parole corrono

Le parole rassomigliano a bastoni che camminanoPiantale, cresceranno

Guardale ondeggiare come fanno. (Jim Morrison, An American Prayer)

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per tutti i miei cari alunni,ebrei, cristiani, musulmani,

che mi permisero, dopo“l’incidente”,

di vivere uno dei più esaltanti arricchenti

periodi della mia vita.

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IIL MIO VERSAILLES

C’era un abisso tra la realtà e ciò che sognavo

er la prima volta in vita mia avevo trovato un riparo, al sicuro: una camera al 112 bis rue de Rennes, situata

al sesto e ultimo piano senza ascensore. Faceva sì e no otto metri quadri, c’era posto solo per il letto, un tavolino, e un mobiletto con il catino e la brocca d’acqua. Un piccolo vasistas si apriva sui tetti delle case, tetti grigi, d’ardesia: uno squarcio di cielo. Lungo il corridoio c’erano altre camere, certune affittate, altre no, chambres de bonnes un tempo, camere per la servitù, ora per studenti al verde o emigrati come me. Sul pianerottolo c’era il WC alla turca e, in fondo al corridoio, il rubinetto dell’acqua.

P

Mi andava già bene così, perché appena arrivato non so come avrei fatto a trovare anche solo un buco dove alloggiare a Parigi. Ci pensò monsignore, che all’inizio mi aveva ospitato nel suo gran bel appartamento, ma poi, deluso di non ottenere nulla in cambio, per farmi slog-giare, si affrettò a trovarmi quella cameretta presso made-moiselle Duval, una zitella intorno ai settanta, che non lo faceva certo per carità. Lei occupava tutto il secondo

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piano, il piano nobile del palazzo, viveva da sola e di rendita nei suoi 140 metri quadri. In Dordogna possedeva terre e la casa paterna dove si recava in estate. Guardinga, diffidente - ero italiano - senza la raccomandazione e la garanzia di monsignore non mi avrebbe affittato nem-meno uno sgabuzzino, un canile, un sottoscala. Bastava che tardassi un giorno o due a pagarle l’affitto che subito me lo ricordava con un bigliettino che discretamente faceva scivolare sotto la porta. Aveva un’amica, una certa Geltrude, più o meno della stessa età. Si vedevano ogni settimana verso le cinque del pomeriggio per il tè e biscotti secchi. Si erano fatte eredi l’una dell’altra. Quella che fosse morta per prima lasciava il gruzzolo all’altra. Gruzzolo per modo di dire perché tra case, titoli, gioielli e contanti, rappresentava un bel capitale. Capitale che non doveva “assolutamente” essere intaccato. Era la regola. Ma chi delle due sperava di sopravvivere all’altra? So soltanto che una volta mademoiselle Duval, parlando dell’amica - non so se dispiaciuta - e come per non farsi contagiare, a bassa voce mi disse: “Credo che abbia un tumore alla gola, la poveretta”.All’uscita del film di Bertolucci “L’ultimo tango a Parigi”, con Marlon Brando e Maria Schneider, la prude demoi-selle volle sapere il motivo di tanto scalpore. Senza andar troppo per il sottile le raccontai la scena del burro. Lei, guardona a distanza, chiedeva più dettagli. Nell’ascoltarmi socchiudeva gli occhi come una vecchia gatta, immagi-nando chissà come la scena, fintamente oltraggiata.

Per tutto il tempo che rimasi lì non vidi che saltua-riamente le persone, inquilini o proprietari, che abitavano il palazzo. Eccetto uno che stava al quinto piano, pro-prietario come mademoiselle Duval dell’appartamento che

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occupava. Più che vederlo ne scorgevo la sagoma quando salivo le scale. (Qui è bene tener presente che a ogni piano c’era un solo appartamento. E in ognuno, sul lato opposto alla porta, c’era una finestrella ovale con l’inferriata e una tendina che copriva il vetro dall’interno. Siccome dava sulle scale permetteva di vedere chi passava o suonava alla porta).

Fin dal mio arrivo, soprattutto quando, spenta la luce, mi mettevo a letto, sentivo parlottare, grugniti o qualcosa di simile, e miagolii che provenivano dall’ap-partamento di sotto. Lì per lì non ci feci caso. Poi una sera, rincasando, vidi che la finestrella del quinto era aperta e dentro, allo scuro, intravidi una figura, come dire? che assomigliava a un uomo, ma non ne ero sicuro.

Stava lì, immobile, con due occhietti fissi a guar-darmi. Portava addosso qualcosa ch’era come un pelame, forse una vecchia pelliccia tutta sdrucita. Con quei capelli lunghi e la barba irsuta, un volto da cui spuntavano solo gli occhi - sì quegli occhietti fissi che mi guardavano - sembrava un superstite del “Pianeta delle scimmie”. Mi impressionò. Chiesi informazioni a mademoiselle Duval. Mi disse che dopo la morte della madre, ormai novan-tenne, il figlio aveva perso la testa - già prima vacillante - e viveva così, come un animale; ma non era pericoloso, le lettere si accumulavano sotto la porta, tutte bollette, che del resto non pagava mai, essendo proprietario del suo appartamento: alla sua morte glielo avrebbero preso e venduto all’asta.

“E per il mangiare” m’incuriosii, “come faceva?”“La portinaia gli porta su le provviste, più che altro

scatole, cibo per i gatti. Ogni tanto ne mangia uno. E’ la puzza che dà più fastidio. Chissà la sporcizia che c’è là

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dentro! Non apre la porta a nessuno, neppure alla portinaia che gli depone le scatole davanti alla porta.”Non riuscivo a credere che mangiasse i suoi gatti. Come faceva lei a saperlo? Non glielo chiesi. Dissi:

“Non parla mai con nessuno?”“Con nessuno. Salvo con la portinaia, e solo attra-

verso la porta fermata dalla catenella.”“E’ sempre stato così?”“Non come adesso. Da giovane, sì, parlava, non

tanto, ma parlava.”“E cosa diceva?”“Oh, cose strane. Parlava come fanno i poeti.”“Come?”“Con la testa fra le nuvole, non si capiva bene cosa

dicesse, cose vaghe, senza senso. Parlava sempre a voce bassa, come se parlasse a se stesso.”

“E la madre cosa diceva?”“Lo proteggeva…era il suo bambino.”“Ora che la madre non c’è più dev’essere infelice.”“Mah! E’solo matto.”

Non ne parlammo più. Del resto che altro c’era da sapere? C’erano persone così. Che si escludevano. Solitari. Ma con quali pensieri, dentro, nella loro testa, ventiquattro ore su ventiquattro? E cosa voleva dire essere matti? Soltanto matti o matti e infelici?

Quando rientravo tardi sembrava che stesse lì ad aspettarmi. La prima volta il fatto mi sorprese e m’in-quietò, ma poi non ci feci più caso. Mi fermavo un istante, in attesa, in attesa che dicesse qualcosa, ma niente, non succedeva mai niente, neanche una parola. Ci osserva-vamo, mi fissava, lo guardavo, e dopo un po’, sgomento, salivo in camera. Confesso, però, che all’inizio evitavo di

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andare a prendere l’acqua in fondo al corridoio di notte, memore delle mie paure da bambino, quando passavo la notte da solo, con la porta senza serratura che si chiudeva solo con il saliscendi, e con quegli strani rumori sul solaio, topi o chissà cosa, il vento e i diversi scricchiolii. Immaginavo il Malonni, un uomo alto e magro dal volto truce, che abitava in una stanzetta lì accanto sullo stesso pianerottolo; lo immaginavo mentre entrava in cucina con un coltello in mano. Avanzava piano piano senza far rumore, ma lo sentivo respirare, un respiro affannoso, cattivo. Ecco…apriva la porta della camera. Mi avrebbe sorpreso e accoltellato nel sonno se, terrorizzato non mi fossi nascosto sotto il letto per non farmi trovare. Non so come facevo a non piangere, a non urlare. Forse, ecco perché mi aveva tanto impressionato la scena della doccia in “Psyco” di Alfred Hitchcock, quando Antony Perkins, lo psicopatico, appariva improvvisamente da dietro la tenda e accoltellava la donna che stava sotto la doccia. Scena agghiacciante. Con quella musica poi…

Ero riuscito a farmi assumere al Bon Marché, il grande magazzino della rive gauche. All’inizio, giù nel seminterrato a far pacchi, pulire, sistemare la merce, poi, dopo alcuni mesi, come commesso al reparto sport. Minimo garantito, insufficiente, ma con una percentuale sulle vendite. Situazione più interessante, ma bisognava essere svegli. I più furbi, più addentro nel mestiere, ci sapevano fare. Si nascondevano per evitare i clienti di poco conto; appostati dietro un pilastro o i sacchi a pelo in mostra, sapevano valutare al primo colpo d’occhio emmerdeurs e emmerdeuses che venivano solo per una bomboletta di gas

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o delle rustines (toppe per la camera d’aria) in agguato del buon cliente, che riconoscevano al fiuto come cani da caccia ben addestrati, e senz’altro la percentuale sulla vendita di una grossa tenda o di un motore fuoribordo avrebbe pesato sul foglio paga. Competere non era il mio forte. Buttarmi sul “cliente” mi faceva vergognare. Era un po’ come mettersi in concorrenza tra prostitute. Per cui guadagnavo solo di che sopravvivere, sbarcare il lunario; principiante, e per di più straniero, mi toccavano le briciole. Detestavo quel modo di lavorare in competizione con i più svelti, i più rapaci, volpi da magazzino, come i camerieri in certi grandi ristoranti che, per via delle mance, capiscono d’istinto se un cliente ordinerà i piatti più costosi o solo una pizza con una birra. Ce n’era uno, un quarantenne, ch’era un vero avvoltoio, capace di soffiarti il cliente sotto il naso con un sorriso o uno sgambetto.

Ricordo però l’emozione quando percepii il mio primo salario con tanto di foglio paga, e un assegno, mai visto in via mia, con il mio nome sopra e una cifra. Mi sembrava di ricevere un certificato d’esistenza. Da vagabondo diventavo un cittadino à part entière, venivo accolto, riconosciuto. Era una specie di battesimo. Trovavo finalmente un posto nella società, parte di una famiglia, con una mia identità. Avevo portato con me - lo conservo tuttora - un articolo apparso su “BIG”, un settimanale per giovani poi scomparso. In una pagina, con la foto di Johnny Hallyday e notizie che lo riguardavano, c’era anche la mia, sotto, con questo titolo di uguali dimensioni: ORLANDO, PARIGI NO.

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Poi: Si chiama Mario Zambetti, come cantante Orlando

(mi ero fatto chiamare così pensando all’Orlando Furioso dell’Ariosto). Rimasto orfano giovanissimo, ha saputo sempre disimpegnarsi da solo ed affrontare tutte le situa-zioni con una certa sicurezza (non proprio). Cominciò a cantare a 15 anni a Ginevra, dopo aver fatto il mestiere di garzone in un negozio di ferramenta, esibendosi con la chitarra in molti club e nelle improvvisate “caves” della città. A diciott’anni torna in Italia, fa il militare antici-patamente e a Trieste, con un complessino di chitarre elettriche, si esibisce alla RAI. Ultimamente in uno dei tanti concorsi di musica leggera, presentato da Silvio Noto, vince il disco d’argento. Ora, dopo essersi messo in contatto con Migliacci, noto paroliere, e uno dei più grossi “press-agent” nel campo della musica leggera, spera di forzare il successo.

“Se dovesse andar male – ci ha detto – andrò a Parigi in autostop. Giuro che entro pochi mesi diventerò uno dei maggiori personaggi della musica leggera fran-cese. Voglio tanto successo quanta è stata la fame sofferta.”

Che dire? Andò male. Quante volte son salito a piedi per chilometri e chilometri sotto il sole rovente fin su alla villa di Migliacci senza mai trovarlo. E finalmente quando lo trovai, mi ottenne un provino alla RCA. Ma cosa speravo? La nota casa discografica aveva allora cantanti con ben altra grinta e tanto più talento.

Arrivando a Parigi, un triste febbraio freddo e piovigginoso, mi resi subito conto dell’ardua pazzesca impresa. Del mondo degli artisti ignoravo tutto, gli ingranaggi, le insidie, e anche lì, anzi più che altrove, era

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tanta la concorrenza. E poi insomma, un conto era cantare da dilettante, per quanto bravo, e un altro era diventare un professionista. Ricordo una mia esibizione al “Club dei Poeti”, una sera. Il panico era tale che riuscii appena appena a cantare, come se la voce mi uscisse dalla gola strozzata, con le dita che mi si irrigidivano sulle corde della chitarra. Quella paura, quel panico a poco a poco mi guarì dalla voglia di diventar famoso.

C’era un abisso tra la realtà e ciò che sognavo.Come quando, a quindici anni, rigettato ormai da tutti, avevo lasciato Ginevra per Genova con l’intenzione d’imbarcarmi come mozzo su una nave fino ad Alessandria d’Egitto, e di lì salire il Nilo, su su fino a raggiungere i Masai per farmi adottare da loro, tanto era il mio disgusto per la razza bianca (anche se il peggio doveva ancora accadermi), giunto però al porto - pioveva a dirotto e tirava vento - il mio sogno s’infranse lì, davanti a una vecchia nave arrugginita. Non so come allora, ma poi anche in circostanze ben peggiori, abbia trovato il coraggio per continuare a vivere e non piuttosto il coraggio di morire. Forse perché ero giovane. Sedici anni. Con altri sogni, e quell’istinto che ti porta a vivere, ad attaccarti, avvinghiarti alla vita.

Una volta finito il lavoro scappavano tutti. Mi ritrovavo quindi sempre solo, e triste salivo la rue Saint-Placide fino a casa. All’inizio ci tornavo volentieri nella mia cameretta, ma alla lunga, soprattutto la domenica - che detestavo - cominciò a pesarmi. Avevo cercato di abbellirla, di renderla piacevole, con poster e un piccolo acquario con pesci rossi, una lampada sul tavolino accanto al letto, luci soffuse, una addirittura rossa. Per mia unica

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compagnia una radiolina. Niente telefono naturalmente, neppure pensarci. Lo spazio era così ridotto che anche un nano si sarebbe mosso con difficoltà lì dentro. Per cucinare - oh cose semplici, cibi in scatola più che altro, solo da riscaldare - disponevo di un fornellino da campeggio alimentato da una bomboletta di gas che durava solo poche ore. Giù, dove si portava l’immondizia, avevo trovato un vecchio televisore di legno, come di legno erano un tempo le radio. Svuotato della sua appa-recchiatura era abbastanza grande per metterci sopra il fornello, e all’interno bicchieri, posate, tazze e piatti di plastica che una tendina giallo oro, al posto dello schermo, riparava un po’dalla polvere. Non mi era costato niente. Adattato così, poteva sembrare un piccolo mobile fatto apposta, originale, e persino grazioso. Mi ero procurato anche una caffettiera napoletana, di quelle che si capovolgono. Cosa desiderare di più? Per la doccia, una volta alla settimana, andavo ai bagni pubblici a rue d’Odessa, su a Montparnasse, se no, per lavarmi i capelli facevo scaldare l’acqua in un pentolino e, dopo lo shampoo, lentamente, perché doveva bastare, me la versavo sulla testa piegata nel catino. Per il resto usavo un guanto da bagno - un lusso mi era sembrato allora, qualcosa di raffinato. Ma non ero a Parigi, nella Ville Lumière? Dovevo pur dirozzarmi. E poi, con quello mi pulivo tutto, da capo a piedi.

Una sera, non ricordo per qual motivo, salì da me la portinaia, una brava donna, che faceva altri mestieri altrove. Forse vedova o abbandonata. Una delle camerette in fondo al corridoio era occupata dal figlio handicappato che saliva su soltanto per dormire. Attraverso la porta

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semiaperta, sorpresa del cambiamento, forse per quelle mie luci tenue, i poster, l’acquario e tutto il resto esclamò: “Ma è Versailles!” Mi fece ridere. A parte quei miei, come dire? abbellimenti, piccola com’era, la camera sembrava più alla cella di un convento, alle celle di una volta però. D’inverno il vetro del vasistas si copriva di ghiaccio, e quando al mattino mi alzavo il freddo mi penetrava nelle ossa. D’estate, certi giorni, il caldo era soffocante. Però ero al riparo. E in questo senso, sì, quella cameretta, quel posticino sotto i tetti, per alcuni anni fu il mio Versailles.

La domenica, che come dicevo, detestavo, me ne andavo a esplorare il quartiere. Stavano demolendo la vecchia gare Montparnasse. Ma Saint-Germain-des-Prés era a due passi. E poi il teatro nazionale dell’Odéon, la Sorbona, il quartiere latino, la Senna, Notre-Dame…Quanto camminare, fino a sentirmi parte dei luoghi che andavo via via scoprendo con curiosità. E questo riempiva un po’ la mia solitudine, la addolciva, la accompagnava, la rendeva più sopportabile. Ma ciò che soprattutto la riempì - ora che, finito di vagabondare avevo finalmente un pied-à-terre - fu la lettura, non occasionale come mi era già capitato, e neppure avida come mi succederà più tardi, ma come l’inizio di un gran viaggio, di una stupenda avven-tura.

M’innamorai. Mi innamorai di una lingua che fino allora avevo conosciuto solo in modo infantile, super-ficiale, che a poco a poco però diventò, come dire? qual-cosa di mio, sangue che si aggiungeva al mio sangue, nutrimento, linfa vitale. Ad ogni pagina imparavo nuove parole, che gustavo, facevo mie, sottolineavo e poi notavo

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in ordine alfabetico su un quaderno. Era come scoprire un paese nuovo, che divenne poi una patria, la mia patria. Col bel tempo andavo a leggere fuori. Uno dei miei posti prediletti era il giardino del Lussemburgo, lì a due passi. Mi ci rivedo, sotto un albero, su una panchina. Le sedie, ricordo, erano a pagamento, e allora bisognava aver l’occhio per alzarsi prima che l’addetta si presentasse col blocchetto in mano per riscuotere. Tra i primi libri, o forse era proprio il primo, mi trovai tra le mani le “Rêveries du promeneur solitaire” di Jean-Jacques Rousseau, un tasca-bile che avevo comprato da “Gibert Jeune”a Saint-Michel, più che altro perché attirato dal titolo: così mi sentivo io, un passeggiatore solitario.

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IICOSÌ ERA LEI, NEL CORPO E NELL’ANIMA

“Non lasciartela scappare!”

a zona della tennistica, come quella della sciistica e dell’equitazione, era sul lato opposto al mio: un

reparto molto signorile per persone quasi di un’altra specie, di un altro mondo - pensavo io - un mondo che pur mi attirava. E’ lì che conobbi Caroline, tra racchette, magliette e pantaloncini Lacoste.

L

Caroline…Non so come parlare di lei. Non l’ho mai fatto.

Forse per paura di sporcare un ricordo, il suo ricordo, o forse per pudore, per delicatezza, per non svegliarla dal sonno, proteggerla da ogni profanazione foss’anche con le parole più belle. Per tenerla tutta per me, come un tesoro, un’opera d’arte da sottrarre a sguardi estranei, gelosa-mente, sans partage.

Ora, però, nell’evocare questo periodo della mia vita non posso non parlare di lei, di lei con me. Perché c’era, e come! Guai se non ci fosse stata. Fa parte di quelle persone che nella mia solitudine furono una grazia. Persone attraverso le quali, ora lo so, Dio mi ha portato, amato.

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Caroline non aveva nulla che a prima vista attirasse o eccitasse la fantasia. Non ho nessuna foto di lei, ma è ben più nitida nella mia memoria: viso pulito, capelli neri tagliati corti alla Giovanna d’Arco, senza trucco, “nature” come lo yogurt che, seppi poi, preferiva. Nel viso spic-cavano gli zigomi leggermente sporgenti e coloriti, come una mela. Di media statura, portava quasi sempre una gonna nera, scarpe col tacco basso e, ovviamente, una camicetta bianca con il noto coccodrillo verde. Proprio per questa sua semplicità, quel suo viso pulito mi ispirò subito fiducia.

Non ricordo come cominciò la nostra storia, né cosa dissi io o cosa disse lei la prima volta. Potrei qui inventare qualcosa, come si vede nei film, o come si scrive nei romanzi, sottolineare sguardi, silenzi, mostrare con belle inquadrature i volti dei due, mettere sulle loro labbra frasi che, se avessi un po’di talento, potrei far dir loro, ecc…Ma questo non è un romanzo. Scrivo soltanto come sono andate le cose, senza immaginare altro, così come sono accadute, come le ricordo, come in un diario.

So che a un certo punto andavo a trovarla nel suo reparto, e, quando gli orari coincidevano, partivamo insieme all’ora di pranzo, il più delle volte su alla mensa, e ogni tanto in un bar lì vicino per un panino e un caffè. Il self service era un lusso, una festa, quasi un peccato di gola. Ci capitava, il sabato, di andare alla piscina coperta del “Lutetia”, il grand’Hotel lì a due passi, aperta a tutti. Era un po’come andare al mare, in vacanza, con il vantaggio che mi evitava, la sera, di andar su a far la doccia ai bagni pubblici nella rue d’Odessa.

Svanita la prima impressione, a poco a poco sco-prii che Caroline non era poi così qualunque, anche

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fisicamente. Senza essere bella era graziosa, ma di una graziosità naturale, genuina. Abitava in una località a una cinquantina di chilometri da Parigi. Ogni giorno prendeva il treno che la portava fino alla gare Montparnasse. Viveva con il padre, la madre e la sorella in una specie di cascina, con galline, polli e conigli, l’orto e un po’di terreno. Dal fratello, morto in Algeria in un agguato, (*) aveva ereditato il cavallo, che aveva imparato a montare. Non avrebbe più potuto farne a meno, mi diceva, come di un amico.

Una sua qualità era questa: ascoltava sempre tutti con aria meravigliata, come se scoprisse ogni volta qualcosa di nuovo. E’ così che ascoltava anche me. Forse perché ero italiano, e parlavo con un accento tutto mio, o fors’anche perché, lei così giovane ancora, e timida e riservata non poteva far confronti. Così rimaneva ancor più incantata quando le raccontavo le vicende della mia vita, le avventure, che qua e là coloravo ora in bianco e nero, ora a colori vivaci, come in un film.

“E poi, e poi?” mi incitava, come fanno i bambini. “Com’è andata a finire?”

Una volta però, grave, mi chiese: “E tua madre?” “Cosa, mia madre?”“Non ne parli mai.”

Sorpreso, non sapevo cosa e soprattutto come rispondere, ma poi, come se la cosa riguardasse un altro, tranquil-lamente dissi:

“E’morta. E’ morta ch’ero ancora piccolo, non me la ricordo, non so nemmeno dov’è sepolta.”

(*) L’Algeria, conquistata dai francesi nel 1830, dopo varie insurrezioni e sette anni di guerra, divenne indipendente nel 1962.

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Incredula, disse:“Com’è possibile? Ma tuo padre non…”“Non me ne ha mai parlato” la interruppi, “è come

se non fosse mai esistita.”“Vive ancora tuo padre?”“Non lo so. Comunque anche lui...è come se non

fosse mai esistito” dissi, come di una cosa ormai senza importanza.Un ricordo, per la verità, lo avevo di mia madre, uno solo, una scena muta, questa: mio padre la sta rincorrendo per prenderla a cinghiate mentre io piango, attaccato alla rin-ghiera, spaventato. Come dire queste cose? Caroline mi guardava, allibita. Per sdrammatizzare e rassicurarla, dissi:

“Ma guarda che non ne soffro. Sono cresciuto così, per me è naturale.”Erano discorsi, questi, che non mi piaceva fare. Volevo essere amato per me stesso, per quel che ero, non per com-passione.

Mi stavo affezionando. A poco a poco Caroline mi era diventata indi-

spensabile. Era la ragazza che faceva per me, dolce, ingenua, bambina, ma di questa infanzia permanente, eterna che, per non so quale grazia o miracolo - leggevo non so più dove - rimane inattaccabile nonostante le traversie dell’esistenza.

Ma che amore era il mio? Perché quando si è soli ci si può affezionare anche a una bestia. Sta di fatto che volevo sempre stare con lei, al tal punto che, imprudente, sempre di più disertavo il mio reparto per andarla a trovare. Il “reato” mi valse il mio primo avvertimento, notificato dal capo del personale nel suo ufficio, un tipetto con capelli e baffetti alla Hitler, che attraversava ogni

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tanto il reparto con una mano in tasca e nell’altra delle scartoffie e un’aria così importante e inquisitoria da sfiorare il ridicolo. Bisognava stare attenti, all’occorrenza fare i leccapiedi o giù di lì. Aveva il potere di assumere o di licenziare. Io, poco incline a scodinzolare, incurante me ne infischiavo.

Purtroppo, la domenica, Caroline non usciva mai di casa, doveva tra l’altro badare al cavallo, curarlo. Pulire la stalla. Quanto le piaceva cavalcarlo! Erano sensazioni for-tissime. Si era creato un legame tra lei e l’animale, e non solo tra loro, ma anche con il fratello, che così riviveva. E di certo, pensavo io, proprio per questo non le mancavo. Ma per me la domenica - che già detestavo - non passava mai, era una lunga attesa, quasi un supplizio. E anche quando mi mettevo a leggere, il pensiero di lei si insi-nuava tra le righe, mi distraeva, non riuscivo a concen-trarmi. Come preso tra due amori cercavo di scacciarla dalla mia mente, ma inutilmente. Il pensiero di lei mi annebbiava le pagine.

Una sera, dopo il lavoro, per farle una sorpresa, la invitai a vedere dove abitavo. Ero contento e un po’ anche fiero di farle vedere il mio Versailles. Però, appena entrati nella camera, ansimanti dopo aver fatto tutte quelle scale (settantasei scalini, li avevo contati):

“E’ qui che vivi?” disse, guardandosi attorno.“Non ti piace?”“Sì, ma è così piccolo.”

In piedi occupavamo tutto lo spazio disponibile, non osavo farla sedere sul letto. Sembrava smarrita. Mi pentivo di averla fatta venire. Non sapevo come rimediare. Sconcertato, dissi:

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“Per me da solo è sufficiente, ma non resterò sempre qui. E’ solo per cominciare.” E lì, non so cosa mi prese, forse per vincere il suo smar-rimento, e non considerasse più dov’era, bruscamente la presi tra le braccia e la strinsi forte. Restammo così alcuni istanti, senza una parola. Tremava.

“Hai paura?” dissi.“E’ la prima volta che mi trovo…nella camera di

un ragazzo.” “Non devi aver paura” dissi, staccandomi da lei per

non sembrare troppo intraprendente e non si ingannasse quanto alle mie intenzioni. Poi, per distenderla, fintamente disinvolto:

“Beh, come vedi non c’è posto neanche per una sedia, ma possiamo sederci lo stesso.” Accennai il letto.Ci sedemmo. Lei con la testa bassa, confusa. Dopo alcuni istanti, dissi:

“Sei delusa? Ti aspettavi qualcos’altro?” “Non sono delusa.”

“Cosa c’è allora?” “Sono solo un po’ triste.” “Triste? E perché?”“Come fai a vivere qui?”

Era soltanto triste, triste per me, triste di vedermi vivere in quel buco. Mi ero dunque sbagliato, fatto delle idee. La sua tristezza mi riempì di gioia. Significava qualcosa. Per sollevarla dissi:

“Sto benissimo qui, credimi!” “Come fai a farti da mangiare?”si preoccupò.

Indicai il fornelletto a gas.“E per lavarti?”

Le mostrai il catino.

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“Deve far freddo d’inverno.”“E caldo d’estate” dissi ridendo. Poi, per tastare il

terreno, arrischiai:“Mi manca una cosa sola.” “Che cosa?”“Puoi immaginarlo” dissi, speranzoso, senza guar-

darla. Lei capì, perché disse con voce appena udibile:“Occorre tempo.”

Aveva ragione, occorreva tempo. Ma anch’io prima o poi mi sarei sistemato, avrei avuto una casa, una casa più grande, grande abbastanza per viverci in due, e magari in tre…o anche in quattro. Glielo dissi. Equivaleva un po’ a una domanda di matrimonio. Domanda che, giuro, non avevo preparata, premeditata. Mi era scappata. Però, se mi era scappata, voleva dire che in un angolo del mio cervello l’avevo pensata, vagheggiata. Era comunque prematura, imprudente, folle da parte mia.

“Ci conosciamo ancora così poco” disse debol-mente.Le paratoie aperte, mi buttai:

“Se un giorno mi sposerò” insistetti, “sarà con te o con nessun’altra. Sarai tu la mamma dei miei figli.”Dicevo così e allo stesso tempo me ne volevo. Era come darmi in pasto, scoprirmi, privarmi d’ogni difesa, conse-gnarmi. Ma è così che avevo sempre agito, d’impeto, pazzamente, senza badare alle conseguenze.

“Ti stancheresti di me” disse lei. “Sei talmente più…”

“Più che cosa?” “Più intelligente, non so, più tutto insomma. Chi ti

dice che siamo fatti per vivere insieme? Finiresti per…per annoiarti con me.”

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Insicura, cercava un motivo cui aggrapparsi, per proteg-gersi da una irruzione che le sconvolgeva la vita. Ma anche lei aveva fatto irruzione nella mia, con questa differenza però, ch’ero io il più bisognoso, bisognoso di tutto. A un certo punto, attratta dalla pila di libri posti sul tavolino accanto al letto:

“Ti piace leggere” disse. E prese il libro che stava sopra:

“Yu-ki-o Mi-shi-ma” lesse sillabando, poi: Il Padi-glione d’Oro. Di che cosa parla?” Non era questo che occupava la mia mente in quel momento, però quel suo interesse non mi dispiaceva, anzi! Ma come spiegarle? Mi limitai a dire:

“E’ la storia di un giovane monaco buddista, affa-scinato dalla bellezza, appunto il Padiglione d’Oro del tempio di Rokuonji, a Kyoto, una meraviglia di leggerezza e di grazia. Il giovane monaco ne è talmente affascinato da occupare tutti i suoi pensieri, fino a diventare un’osses-sione, a sentirsene prigioniero. E’ una storia straordinaria, un libro che mi ha affascinato quanto il Padiglione d’Oro ha affascinato quel giovane monaco. La bellezza sta anche nello scrivere, nel riuscire un’opera d’arte, ma è perico-loso.”

“Perché è pericoloso?” “Proprio perché non riesci più a liberartene.”“E se ne è liberato il giovane monaco?”

Presi il libro dalle sue mani, cercai il passaggio tra le ultime pagine che avevo sottolineato:

“Ascolta queste righe” dissi. Poi, immedesiman-domi tutto, mi misi a leggere:

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“Se incroci il tuo antenato, uccidi l’antenato! Se incroci un discepolo di Budda, uccidi il discepolo di Budda! Se incroci tuo padre e tua madre, uccidi tuo padre e tua madre! Se incroci un tuo parente, uccidi il tuo parente! Allora soltanto troverai la Liberazione. Allora soltanto schiverai l’ostacolo delle cose, e sarai libero.”Per la prima volta Caroline si affacciava su un altro mondo, un universo sconosciuto, misterioso. Incuriosita:

“Cosa ha fatto il giovane monaco?” chiese.“Ha ucciso la bellezza, ha incendiato il Padiglione

d’Oro” dissi, ponendo il libro senza aggiungere altro. Rimanemmo silenziosi, lei non so in quali pensieri, io sognando già di passare tutta la mia vita con lei. Non ci saremmo mai annoiati insieme. Quante cose avremmo scoperto, condiviso, vissuto insieme. Tutta una vita non sarebbe bastata. Ogni giorno ci saremmo meravigliati, la sua meraviglia avrebbe fatto la mia meraviglia. L’avrei adorata, sempre. Dopo un po’:

“Io non ho mai letto un libro” disse candidamente come di una colpa. “Dev’essere bello.”Mi commuoveva. Per un istante ebbi l’impressione di trovarmi in tempi remoti, quando la terra era ancora tutta vergine. Così era lei, nel corpo e nell’anima, aperta, disposta a ricevere, ad accogliere. Quel suo “dev’essere bello” lo prometteva. Le presi il viso tra le mani e, fissandola negli occhi:

“Tu non sai quel che vali” dissi. “E’ una come te che io voglio, proprio perché sei come sei, perché tu sei tu, capisci? ”

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Sembrava scossa, rossa in viso. Doveva difendersi, resistere almeno un po’, giustamente. Pensarci. A dician-nove anni non le era mai capitato di trovarsi in una situazione come questa, così nuova, inaspettata. Situa-zione nuova anche per me a ventisei, che pur ne avevo viste tante. Forse ero stato troppo irruente. Ma che fare? Mi riconoscevo in questo mio pazzo agire. Si è come si è, come la vita ci fa. Mentre le tenevo ancora il viso tra le mani, con un fil di voce quasi supplichevole disse soltanto:

“Devo andare, si fa tardi, mi aspettano”. Intuii dal tono della sua voce che non era un sottrarsi, un non affrontare. Aveva bisogno di respirare, lasciare che il suo cuore riprendesse a battere a ritmo regolare. Mi inteneriva. Dove avrei mai trovato una ragazza come lei? L’accompagnai fino alla stazione. Lungo la rue de Rennes nessuno dei due disse una parola. Camminavamo staccati, non osavo passarle il braccio sulle spalle come si fa tra innamorati. Ma non eravamo innamorati, c’era di più. L’avevo posta davanti a qualche cosa che l’aveva turbata, tolta alla sua quiete. E chi ero io? Nessuno. Uno sbandato, uno squattrinato. Per metter su famiglia ci voleva ben altro, non bastava un cuore e una capanna. Pensava a questo? L’amore però, quello vero - mi dicevo io - non faceva calcoli, non aveva bisogno di alleanze, di supporti estranei all’amore stesso, dei soliti commerci. E tuttavia, quando accadeva all’improvviso, l’amore poteva anche spaventare, accecare, come quando si passa dal buio a una luce troppo violenta. Capivo Caroline. Le occorreva tempo per vederci chiaro. Era un rischio. Ma la sua insicurezza non le veniva anche dalla sua umiltà? Non trovo altre parole. Forse esitava perché tutto ciò le

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appariva troppo bello, troppo desiderabile. Le sembrava impossibile che un ragazzo si fosse innamorato di lei. Come se non avesse diritto all’amore, alla felicità. Oppure - questo è l’interrogativo che mi son sempre posto e pongo tuttora - si difendeva perché aveva un presentimento? O già sapeva? Quando tornai a casa, pieno di lei, l’uomo del quinto piano, dietro la sua finestra, sembrava che mi aspettasse.

“Ciao” disse, sorprendendomi. Poi: “E’ la tua ragazza?” mi chiese.

Più che l’indiscrezione mi colpì la sua familiarità: era nuova. Per cui, con altrettanta naturalezza, dissi:

“L’hai vista?”Non ricordavo se gli avevo già dato del tu, ma lì mi venne fuori spontaneo.

“Ho visto la sua faccia, anche se solo di sfuggita” disse.

“Come ti sembra?”Perché sollecitavo il suo parere? Dopo quel ch’era acca-duto sentivo il bisogno di parlare, di confidarmi con qual-cuno, l’avrei fatto con chiunque.

“Non lasciartela scappare!” disse convinto.S’intrometteva nella mia vita. Forse anche lui sentiva il bisogno di parlare con qualcuno, di partecipare a qualcosa. Senza figli, come me non aveva amici. Se lì per lì mi aveva sorpreso, ora però ero contento. Anche perché era ciò che volevo sentirmi dire. Mi rassicurava. Quell’uomo vedeva giusto, come forse sanno vedere soltanto i poeti e i santi, i creduti pazzi.

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IIIMAGGIO 68

Ci si illudeva di cambiare il mondo

na domenica pomeriggio ero andato a fare un giro alle Halles, un quartiere sulla riva destra dove si

trovavano ancora i mercati generali con gli storici padi-glioni che risalivano a Napoleone III, mercati che l’anno dopo, nel 69, sarebbero stati trasferiti a Rungis nel sud della città.

U

Le Halles - il ventre di Parigi - era allora un quartiere molto diverso da quello di oggi: pieno di vera vita, di umanità laboriosa, con i suoi topi, i suoi odori, le sue voci, il suo folklore, i tipici bouchons - bettole - ma anche ristoranti più costosi aperti fino all’alba, dove nottambuli d’ogni pelo si recavano a mangiare la soupe à l’oignon sotto gli occhi di Saint-Eustache, al quale era dedicata la bellissima chiesa accanto, le cui volte sembravano toccare il cielo.

Tornando, verso il Châtelet, prima ancora di attra-versare il ponte, gli occhi cominciarono a bruciarmi, senza però rendermi conto ch’era per l’effetto delle bombe lacri-mogene, ma, arrivato a Saint-Michel, constatai che altre persone tossivano e lacrimavano. Più su un gran baccano,

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un urlare, e gente che correva dalla mia parte per mettersi al riparo. Al riparo da che cosa? mi chiedevo. Man mano che risalivo il boulevard, il disordine aumentava e lo stre-pito si faceva più assordante, tra macchine rovesciate o addirittura bruciate. Stava accadendo qualcosa di grosso. Infatti, giunto al carrefour dell’Odéon, squadroni di poli-ziotti con elmi, scudi e tutto l’armamentario fronteg-giavano un folto gruppo di giovani eccitati che urlavano, scandendo: CRS - SS, CRS - SS. (*)

Passanti casuali, turisti e un capannello di curiosi assistevano alla scena a dispetto del gas che faceva lacrimare. Incuriosito, mi stavo avvicinando a tutto quel tafferuglio, quando si scatenò la carica. E tutti, dimostranti e passanti, me compreso, a scappare inseguiti dai CRS. Quelli che venivano presi, tra urla e insulti, venivano trascinati a manganellate nei cellulari - paniers à salade - che altri studenti, sopraggiunti a rinforzo, per un’altra via assalivano per liberare i compagni.

Era l’inizio del Maggio 68.Ogni giorno era guerriglia. Soprattutto di sera e

durante la notte. Barricate a Saint-Germain, a Odéon o intorno alla Sorbona, a Saint-Michel, all’incrocio di un boulevard.

L’insurrezione.Ch’era nell’aria, covava da tempo, ma scoppiò

all’improvviso come il coperchio di una pentola salta per aria per la troppa pressione. Agli studenti si unì quasi subito la classe operaia, e poi tutta la Francia. Sciopero generale. Cessò ogni attività. Il paese restò paralizzato.

(*) CRS = Compagnie Repubblicane di Sicurezza che venivano assimilati alle SS naziste.

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Viste le nuove condizioni, bisognava organizzarsi. Non fu facile per me, ma arricchente. Così, quasi ogni sera, a due passi da casa, andavo a teatro, oh non per assistere a chissà quale celebre pièce, andavo al teatro nazionale dell’Odéon, occupato dagli studenti, dove tutti potevano salire sul palco per esprimere la loro rivolta, il loro ras-le-bol, il loro basta a una “società di merda”: la contestazione. Che dilagò in tutti i paesi ricchi del mondo.

Mi recavo volentieri all’Odéon, ne avevo fatta un’abitudine, mi sollevava, mi istruivo. Era anche un modo per perfezionare il mio francese, dal linguaggio più erudito al gergo più espressivo dei quartieri popolari, della strada, delle banlieues. Lì trovavo persone d’ogni tipo, gente comune, studenti ovviamente, operai, impiegati, ma anche artisti, scrittori, uomini politici. E sognatori, di cui mi sentivo solidale. Passavo la notte ad ascoltarli, senza mai annoiarmi. Prendevo gusto a vederli “recitare”, avvi-cendarsi su quel palco normalmente riservato ai grandi interpreti dei classici francesi: a Molière non sarebbe dispiaciuto. Quel che contava era poter esprimersi, sfo-garsi. Come un accesso di febbre, necessario. Ci si illu-deva di cambiare il mondo, ripulire la società da cima a fondo. Intuivo che nulla accadeva se non provocato. Bisognava sempre andare a monte per conoscere le cause d’ogni rivolta, d’ogni rabbia, d’ogni “basta”.

Era anche il periodo della sanguinosa e inutile guerra del Vietnam. Sui campus di tutte le università ci si oppose a questa guerra - e non solo negli USA - opposi-zione che esprimevano con le loro canzoni Bob Dylan e Joan Baez, portabandiera di tutta una generazione.

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Nel frattempo De Gaulle, forse sorpreso, o non rendendosi conto di ciò che stava accadendo, si era recato in Romania in visita ufficiale al famigerato Ceauşescu, giustiziato poi nell’89. Toccò a Pompidou prendere in mano la situazione. Dopo alcuni tentativi di domare la rivolta, - ora con le buone ora con le cattive - scelse di lasciare marcire la situazione. Si sarebbero stancati. E infatti fu così.

E mentre in alto loco sindacati e governo negoziavano, il fuoco della rivolta andava spegnendosi. All’Odéon cominciò a venire meno gente, meno curiosi, meno persone entusiaste. Alla Sorbona, imbrattata di graffiti, si batteva la fiacca, era diventata un letamaio, un bordello. Tra gli studenti si erano infiltrati anche balordi, parassiti, teppisti, ultra di dubbia tendenza, di tutto un po’. E…Sex and Love: inevitabile. Il taglio della benzina fu l’ultimo atto che contribuì ad accelerare la fine del movi-mento.

Ma da allora, in tutti i campi, nel bene e nel male, la società non fu più quella di prima.

Come dicevo, quel mese non fu facile per me, anche se arricchente. Lo ricordo come un periodo di passione, preso tra l’euforia e una invincibile inquietudine. Non so se mi buttavo in certe azioni per dimenticare o partecipare a qualcosa di esaltante, d’illusorio. Ero giovane. Più volte mi lanciai anch’io su una barricata, accalorato come tutti quei sognatori, quei rivoluzionari arrabbiati.

Dei “Gavroche”!(*).

(*) Personaggio de “I Miserabili” di Victor Hugo: gamin de Paris railleur, ragazzino beffardo che muore sulle barricate dell’insurrezione del 1832.

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Ma che cosa andavo cercando, sperando? Forse non si trattava del desiderio di compiere chissà quale impresa; lo facevo soprattutto per non pensarci, per riempire un vuoto: Caroline mi mancava.

Infatti fu un mese in cui non ci vedemmo, non ci sentimmo. Anche lei, come me, non aveva il telefono, e la posta non funzionava. Avevo paura che si dimenticasse di me. Una paura folle, non poi così infondata. Lei, mi dicevo, era circondata, amata, viveva con i suoi, aveva il suo cavallo. Che bisogno aveva di me? Forse stava pensando a quella mia irruente dichiarazione, o ci aveva già riflettuto e messo sopra una pietra. Non avrei fatto altro che complicarle la vita, renderla infelice. Uno come me cosa poteva offrirle se non dei sogni? Sogni che prima o poi sarebbero svaniti, come spesso svanisce anche l’amore.

Mi perdevo in congetture, mi torturavo. La lonta-nanza me la rendeva ancor più presente. Immaginavo persino che avesse, là dove abitava, un ragazzo più a posto, meno romantico magari, e meno appassionato, ma più sicuro, e proprio per questo accolto a braccia aperte dalla sua famiglia. Ruminavo così anche quando di giorno andavo a vedere sul posto i danni provocati durante la notte.

A Saint-Germain-des-Prés - dove passavo ogni giorno - c’erano tratti di strada con i pavé divelti. Nessuna auto in sosta per non farsela incendiare. Il Café des deux Magots - ritrovo d’artisti, di poeti e di noti scrittori - rimaneva chiuso. La bella chiesa però, proprio di fronte, era sempre aperta. Vi entravo e, nell’angolo più buio,

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senza vergogna chiedevo al Signore che, se Caroline esi-tava, le accendesse il cuore d’amore per me, e che nessuno me la rubasse. Nonostante i brutti colpi, le delusioni, nel mio più profondo avevo conservato intatta la mia reli-giosità. Qui scaturiva come un tempo. Gemevo e sospi-ravo:

“Non vuoi che mi salvi?” dicevo al Crocifisso. Sembrava un ricatto. Ma non avevo altro.

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IVL’ESTENUANTE ATTESA

Per amore - per qualsiasi amore - allora avrei dato la vita

omenica notte. L’indomani si tornava al lavoro. Infilato nel letto non riuscivo a chiudere occhio.

Accendevo, spegnevo la luce. Guardavo la sveglia ogni minuto. Sembrava che il tempo avesse rallentato la sua corsa o addirittura si fosse fermato. Cercavo di imma-ginare il nostro incontro, ma era come attraverso un vetro appannato, uno specchio cieco che non rifletteva nessuna immagine. Caroline mi sfuggiva. Non c’era. Non la vedevo.

D

Le due. Mi rimanevano ancora sette ore, sette lun-ghissime ore ad aspettare, interminabili. Non ce la facevo più a star lì fermo a girarmi e rigirarmi nel letto. E anche prendere in mano un libro non serviva a niente. Dovevo muovermi, camminare. Così mi alzai, mi vestii e uscii. Percorsi la rue de Rennes fino a Saint-Germain-des-Prés. Raggiunsi Saint-Michel, il lungosenna.

Le strade erano deserte, silenziose. Dopo l’agita-zione, i tafferugli delle notti scorse, a quell’ora la città offriva un altro volto, mi sembrava persino di essere in un

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altro mondo. Dal ponte, illuminata dai fari, Notre-Dame mi apparve bellissima, una costruzione magica, quasi irreale. Rimasi lì a contemplarla, incantato. Se quelle pietre avessero potuto parlare, pensai. Ognuna mi avrebbe raccontato una storia. Tra le più tragiche quella di Esme-ralda e Quasimodo: un amore infelice.

Ma c’erano amori felici? Per non so quale inclinazione o fascino ero portato

a credere che le più belle storie d’amore fossero proprio quelle infelici, storie di amanti che la morte univa per sempre. Morte ch’era la vita eterna, non un morire. Forse non c’era altro amore sulla terra.

Mi venivano in mente le pazzie che avevo com-messo per amore. Mi ci buttavo sempre a capo fitto, perdutamente, con testardaggine, contro ogni buonsenso, fino ad affrontare la morte, persuaso com’ero che senza pazzia non c’era amore. Dio amava gl’innamorati. Lui stesso era innamorato della sua creatura…da morirne. Qualcosa del genere lo avevo provato a tredici anni. Una fiamma che mi bruciava, lacerava dentro.

Tortura e delizia, passione. Per amore - per qualsiasi amore - allora avrei dato la vita.

Ma ecco che, tornando in me, quelle pietre pareva che mi dicessero qualcosa, prima con mormorii e poi con voci sempre più alte, e grida, le grida di tutti gli uomini della terra, un frastuono assordante, ondate che salivano su su a squarciare il cielo. E poi un grido, altissimo, che penetrava fin oltre le stelle. Era il grido di un pazzo, un pazzo d’amore, che gridava la sua sete, il grido dell’Uomo-Dio verso Dio.

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Prima o poi, una notte come questa, avrei portato qui Caroline ad ascoltare quelle pietre. Poi l’avrei condotta nel piccolo giardino dove, di fronte a Notre-Dame, tra gli alberi, si nascondeva Saint-Julien-le-Pauvre, la piccola chiesa che da secoli sfidava il tempo. Ci saremmo seduti su una panchina in quel vialetto che amavo, tra due file d’alberi, appartato e tranquillo, come in un monastero fuori del mondo. E lì, al riparo, nello scorgere la superba cattedrale, ci saremmo commossi, come ci si commuove ogni volta che la bellezza tocca l’uomo, quando l’amore lo inebria, quando nel suo cuore tutto è ancora intatto, quando il desiderio è ancora soltanto una fiamma che arde nell’attesa del suo compimento. Felicità dell’attesa. Momento magico. Vita di desiderio! Se Giulietta e Romeo fossero vissuti, che ne sarebbe stato del loro amore?

Stavo pensando a tutto questo quando apparvero i primi raggi di sole, la città si destava, e le prime auto cominciarono a sfilare. Fra poco tutto avrebbe ripreso come prima, nello strepito, nell’agitazione, nella fatica, nel grigiore delle giornate tutte uguali: métro, boulot, dodo. (*) Niente di eroico. Ma per me sarebbe stata la festa, la fine di quella estenuante attesa.

Alle sette mi avvivai verso la stazione. Giunto lì, c’era già un gran viavai. Si tornava al normale. Anche se un po’ in anticipo mi misi in capo al binario, là dove sapevo che sarebbe dovuta passare per forza.

(*) Slogan popolare per indicare la monotonia delle giornate: métro, nanna, lavoro.

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All’arrivo di ogni treno una fiumana di gente. Ogni tanto, da lontano, mi pareva di vederla tra la folla, ma vista da vicino non le assomigliava neanche. Guardavo di continuo l’orologio. Adesso avevo l’impressione che le ore trascorressero troppo veloci. Cominciavo ad agitarmi. Mancava ormai poco alle nove. Perché non arrivava? Cosa aspettava? Per cercar di calmarmi mi dicevo che forse si era fatta accompagnare da qualcuno in macchina, ma da chi? Non era mai successo. O forse, nel trambusto, con tutta quella gente mi era sfuggita. Lo stesso mi pareva impossibile. Che fosse successo qualcosa? Non stavo più nella pelle.

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VDI COLPO CROLLAVA TUTTO

Il mio era un andare senza ritorno

ccadde così: un mattino mi si presentò un signore: alto, distinto, a prima vista innocuo, che cercava un

lettino pieghevole. Dal tono della voce, però, mi accorsi subito che doveva essere qualcuno incline e avvezzo al comando. Non ammetteva repliche. M’indisponeva, anche perché mi parlava con sufficienza, come a una pezza da piedi. Forse il maggio 68 gli era rimasto sullo stomaco. Magari per lui, studenti, impiegati e lavoratori erano tutti dei sobillatori, dei gauchistes, dei sinistrorsi. Insomma il modello più largo lo “esigeva”. Gli dissi che non era disponibile. Come, non era disponibile! Che andassi a vedere prima di rispondere! Gli ripetei – e lo pregai di credermi, già un po’ seccato – che quel modello era il solo disponibile, che però su ordinazione…“Lei non sa con chi sta parlando!” Era il generale tal dei tali in pensione. Non riuscivo a capire cosa pretendesse. Un trattamento spe-ciale? Che scodinzolassi, gli leccassi le scarpe? Confesso che ho sempre avuto in antipatia se non in avversione questi individui, imbecilli infatuati di sé. Des têtes de con! Di questi tipi ce n’erano a bizzeffe, tipi che magari – alla

A

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moglie o all’amante – erano sottomessi come cagnolini. Fatto sta che il giorno stesso fui convocato dal capo del personale e licenziato seduta stante. Non avendo in mano nessun contratto, ogni ricorso sarebbe stato inutile. E comunque, viste le circostanze, non me ne sarei avvalso.

Iniziò così un periodo nero.Di colpo crollava tutto. Era come se mi venisse a

mancare la terra sotto i piedi, o che la barca facesse acqua da tutte le parti. I pochi soldi che avevo messo da parte sarebbero finiti in poche settimane. Mi chiedevo come avrei fatto a pagare la pigione della camera. Non contavo sulla benevolenza, la carità della mia padrona di casa, mademoiselle Duval. Avara com’era, anche se mi avesse concesso un preavviso, avrei comunque dovuto sloggiare, lasciare il mio Versailles, e mi sarei ritrovato di nuovo in strada senza sapere dove sbattere la testa. Non me la sentivo di ricominciare tutto da capo.

La mia intenzione, lasciando l’Italia, era di recarmi a Londra, dove lì almeno, pur facendo lo sguattero in un ristorante o in un pub avrei imparato l’inglese. Poi invece mi fermai a Parigi.

Il mio non era un viaggiare, un evadere, un andare all’avventura, un on the road, così tanto per fare un’espe-rienza come facevano quelli della beat generation; loro erano compagni, studenti d’università, non erano mai soli, trovavano sempre un porto, un punto di appoggio dove riprendersi e sostare, un parente, degli amici. Erano scrit-tori, poeti in erba, ribelli, sganciati da leggi morali e intel-lettuali: sarebbero diventati famosi.

Il mio era un andare senza ritorno, un andare difficoltoso, terra-terra, senza grandi ideali, senza speciali rivolte, con nell’anima una religiosità intrisa di rimorsi e

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sensi di colpa. Sans grandeur. Così mi pensavo, anche se segretamente aspiravo a tutt’altro, a liberarmi da ogni grettezza, da ogni schiavitù, senza quel coraggio, però, che fa di un individuo un vero uomo, un uomo libero. Sradicato com’ero, cercavo soltanto un punto stabile, un posto dove mettere radici, una casa dove finalmente potermi riposare. Come avevo fatto a crescere, a soprav-vivere senza un padre e una madre, senza una casa? Fare il vagabondo era bello solo nelle canzoni, ne avevo assa-porato tutte le “delizie”, l’insostenibile solitudine. Fin da bambino e poi da ragazzo ero andato incontro a mille disavventure, alle più cocenti delusioni, non l’avrei più sopportato, piuttosto morire, farla finita.

E Caroline in tutto questo? Non si era presentata al lavoro. Non era stata bene.

Le succedeva ogni tanto. Quando lei riprese io ero già stato licenziato da un pezzo. Più volte avevo cercato di scriverle, ma ogni lettera finiva a pezzi. Ciò che le dicevo, rileggendomi, era solo uno sfogo, non aveva più senso, come il mio amore ormai non aveva più senso. Disarmato, mi ritrovavo con meno di niente in mano. Un amore così sarebbe stato come costruire sulla sabbia. Un andare da nessuna parte. Non avrebbe retto. Tutte le dichiarazioni che le avevo fatto, ora mi parevano poco serie, assurde, persino ridicole.

Ma lei ci pensava? Cosa provava? Ogni tanto, di sera, all’uscita dal lavoro, la seguivo

da lontano fin su alla stazione, reprimendo la pazza voglia di andarle incontro, di abbracciarla. Ma per dirle che cosa poi? Per aggrapparmi, cercar consolazioni? Mi vergo-

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gnavo. Era meglio che la lasciassi in pace. Che diritto avevo? Non sarebbe servito a niente. Non potevo ingan-narla, e ancor meno illudermi.

Però com’ero infelice!

Un mattino sentii bussare alla porta. Ero ancora a letto. Guardai la sveglia. Non era mai venuto nessuno a trovarmi, e a quell’ora poi! Forse era il figlio della concierge, o l’amico del piano di sotto. Era successo qualcosa. Andai ad aprire, e…mi venne un colpo, un colpo al cuore: era lei. Sorpreso e confuso di farmi vedere così, assonnato e mezzo nudo, e con l’odore della notte che mi sentivo addosso, non seppi balbettare altro che:

“Cosa fai qui?”Sembrava che avesse commesso un misfatto o comunque qualcosa di sconveniente per esser venuta lì all’improv-viso a un’ora in cui faceva ancora buio.

“Ti ho portato dei croissant” disse, più confusa di me.

“Beh” dissi, “entra.”Stemmo in piedi per alcuni secondi, uno di fronte all’altra, senza guardarci, impacciati. Poi:

“Forse ti disturbo…non avrei dovuto…” disse.“No, no, anzi” dissi, cercando una maglietta da infilarmi. “Siediti pure, preparo il caffè.”

Si sedette in fondo al letto, disfatto e ancora caldo. Non sapevo cosa dire, nella mia mente c’era un accavallarsi di pensieri, di emozioni, mentre il cuore mi batteva forte dentro. Forse anche a lei batteva forte. Versandole il caffè nella tazza, dissi:

“Mi fa piacere che sei venuta. Non me l’aspettavo.”

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“Sarei venuta anche prima, ma non osavo. Come stai?”Come voleva che stessi? Stavo bene, ero ancora vivo. Tra-scorsero dei secondi che mi parvero interminabili. A un tratto, più decisa di me, mi chiese:

“Com’è successo?” Come una giovane madre, una sorella, un’amica voleva sapere. E questo mi stupiva. Allora, mi sedetti accanto, e le raccontai com’erano andate le cose, del “generale”, forse un falso generale, una trappola per buttarmi fuori, sospetto di gauchismo, e per di più straniero. Le raccontai della Sorbona, dell’Odéon, dei disordini, delle notti infuocate, del mio buttarmi sulle barricate. Non le dissi nulla del mio pensare a lei, della mia tristezza. E, per non lasciarmi andare e non aprirmi di più, alla fine dissi:

“Tu, piuttosto, come stai? Ho saputo della tua caduta da cavallo”.

“Non è niente, tutto a posto. Non poteva farmi del male.”

“Chi?”“Il cavallo!” Rise.

L’avrei presa tra le braccia, e magari avrei pianto. L’avrei baciata, spogliata, stesa nel letto ancora caldo del mio corpo…e poi, sarebbe successo l’inevitabile, le avrei rubato la verginità, col risultato che avrei rovinato tutto, sarebbe stato come prenderla a tradimento, l’avrei delusa, le avrei fatto solo pena.

Ma perché era venuta?“Sai” disse, “ho pensato a quello che mi hai detto.”“Che cosa?”“Tutto.”“Tutto che cosa?”

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Sapevo che cosa, ma volevo sentirmelo dire. E lei, amo-revole, me lo disse: accettava di stare con me, di vivere con me, di essere la madre dei miei figli. Era diventata pazza, com’ero stato pazzo, avventato io a dire queste cose. Ora, però, era cambiato tutto. Glielo dissi.

“Per me non è cambiato niente” disse lei, decisa. Non cessava di stupirmi.

“Guarda in faccia la situazione” dissi, “non ho un lavoro, non ho casa, non ho un soldo. Ti ho detto tutte quelle cose in un momento di esaltazione, di follia…”

“E non di amore?” “Sì, di amore” ammisi, cercando di dominarmi.

Perché di amore ne ero pieno, straripavo di amore, morivo di amore.

“E non mi ami più?”Oh se avessi avuto il coraggio di dirle che non la amavo più! Sarebbe finito tutto lì, e non avrei mai saputo, ma avrei mentito, e lei comunque non mi avrebbe creduto.

“Troverai lavoro e casa” disse sicura, “non c’è fretta, non dicevi così? So aspettare.” I ruoli si erano capovolti. Ora era lei che osava dichia-rarsi, e mi spronava. Era lei che mi amava di più. Touché! Sì, dovevo reagire, combattere, uscire dal quel mio torpore. Per lei, per noi, per i nostri figli avrei trovato lavoro e casa. E non ci saremmo più lasciati.

Già fantasticavo.

Erano solo le sette. C’era ancora tempo prima delle nove.

“Non sei stanca?” dissi.“Sì, un po’.”

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Mi alzai e l’attirai a me, poi tirai su le coperte, sprimacciai il cuscino.

“Ecco” dissi, “stenditi un po’. Io starò qui a guar-darti.”Obbedì. Ma appena distesa, composta, nel vedermi lì im-palato a guardarla, disse:

“Vieni anche tu.”Non me lo feci dire due volte.

“Non hai paura?”“No.”

Rimanemmo così, abbracciati, fino all’ora in cui si destò per andare al lavoro. Se soltanto si fosse fermato il tempo! Mi risuonarono alla mente le parole di Shakespeare can-tate dai New Trolls: To die, to sleep, may be to dream. Morire, dormire, forse sognare.Amore e morte…erano forse inseparabili.

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VIDENTRO DI ME TREMAVO

Da quei ragazzi dipendeva la mia felicità

opravvivevo grazie a un assegno che mi era giunto inaspettatamente. Non avevo sollecitato nulla, igno-

rando le leggi in caso di licenziamento. Era un sussidio della CNAV (*) che mi avrebbe permesso, pur stringendo la cinghia, di tirare avanti per un anno. Era già un sollievo.

SLa visita inaspettata di Caroline fu come una sfer-

zata, una boccata d’ossigeno, una forza nuova. La prima cosa da fare con più determinazione era trovare un lavoro e poi un “Versailles”, un nido più grande per accogliere Caroline, e metter su famiglia. E come stimolo per riuscirci mi ero promesso di non rivederla finché non avessi raggiunto il mio scopo. Non pensavo che durasse tanto. Infatti durò alcuni mesi a cercare, talvolta anche in situazioni umilianti. Il guaio è che non sapevo far nulla di preciso. Mi proponevo come commesso nei negozi e nei grandi magazzini della riva destra, come garçon in bar e ristoranti, persino come lavapiatti in attesa di trovare una sistemazione migliore. Mi disperavo, dubitavo.

(*) cassa di disoccupazione speciale.

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Quando rientravo la sera dopo una giornata andata a vuoto, o piena solo di vaghe promesse, con il solito “ripassi tra qualche giorno” o “le scriveremo”, mi veniva da piangere, in rivolta contro un mondo che mi appariva ostile, indifferente. Ripensavo con nostalgia al periodo in cui, cantando, bene o male riuscivo a sbarcare il lunario. Forse avevo fatto male a lasciar perdere: era la sola cosa che sapessi fare. Nella metropolitana vedevo sempre qualcuno che cantava e strimpellava la chitarra, certuni erano anche bravi. Di solito si mettevano in due. Se avessi avuto un compagno l’avrei fatto anch’io, da solo mi mancava il coraggio, mi vergognavo. Ma proprio per questo maturò in me l’idea di provare.

Fare le carrozze non me la sentivo. Mi sembrava che fosse più da accattone. Lo facevano anche gli zingari. D’altra parte non era facile trovare dove mettersi. I posti strategici, all’incrocio delle corrispondenze, erano ambi-tissimi, motivo di contese, terreni di caccia riservati, un po’ come i parcheggi d’auto dei ritrovi frequentati dai vip più famosi, come all’Elysée-Matignon, un noto ristorante con night, o certi pezzi di strada battuti dalle prostitute. Consultavo la guida della metropolitana, mi recavo sul posto, ma il più delle volte trovavo sempre qualcuno. Finii lo stesso per scovare un posto dove mettermi a cantare. Canzoni molto varie, in italiano, in francese e in inglese. All’inizio con un tale tremore che mi sarei sprofondato sotto terra. Poi, però, incoraggiato dalle persone che sosta-vano per ascoltarmi, e da qualche applauso, cominciai col sentirmi più sicuro. Piaceva molto una canzone napo-letana: Comme facette màmmeta?, ma anche i primi rock d’Elvis Presley, o anche The house of the rising sun che

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cantavano gli Animals, e, secondo il pubblico che mi trovavo davanti, una mia canzone contro la guerra del Vietnam: “La mort est sur le chemin.” In breve mi accorsi che poteva andar bene anche così, si poteva campare, ma poi, senza nessuna protezione sociale, andando avanti con gli anni? Comunque consacravo a questa attività soltanto due, tre ore al giorno. Per il resto continuavo a cercare un lavoro più serio e sicuro. Un mattino - era un giovedì, poco dopo le otto - risalendo il boulevard di Strasbourg, sulla riva destra, nel decimo arrondissement, al numero 59 vidi una targa con questa scritta: Cours secondaire LITTRÉ (*)6ème à Terminales, A.B.C.D.Enseignement privé laïqueNon so che cosa o chi mi ispirò a varcare il portone. L’androne portava in un piccolo cortile sul quale davano anche un’associazione sionista e una piccola palestra. Spinsi la porta vetrata che immetteva nella scuola con un tal batticuore e già convinto che non sarebbe servito a niente. Mi trovai davanti una signora seduta dietro una scrivania; una signora sulla cinquantina con tanti capelli raccolti dietro la nuca. Si teneva dritta. Aveva un po’ della matrona, della regina, e allo stesso tempo della popolana. Sembrava un po’ a quei ritratti di dame che si vedono nei musei, certi Rubens. Pur occupata al telefono mi fece cenno di prendere posto sulla sedia che le stava di fronte. Aveva una voce squillante, sicura. M’incuteva sogge-zione. Mentre telefonava ogni tanto posava gli occhi su di me come per indovinare il motivo della mia visita o forse, intuendolo, già mi valutava.

(*) Emile Littré, lessicografo (1801-1881). Positivista, discepolo di A. Comte, è l’autore di un monumentale dizionario della lingua francese.

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Quando posò il ricevitore mi sorrise e chiese cosa “monsieur” desiderasse. Imbarazzato non sapevo cosa e come rispondere. Forse non ero vestito adeguatamente per l’occasione. Finii col dire, un po’arrossendo, che cercavo lavoro. Che tipo di lavoro? s’informò. Un lavoro qualsiasi, risposi. Mi chiese che studi avevo fatto, che libri avevo letto, i miei preferiti. Citai alcuni autori che mi venivano in mente, Moravia, Pasolini, Pavese, ma anche Sartre e Camus. Pensavo che il fatto d’essere italiano fosse un handicap, invece no. Adorava l’Italia, le città che aveva visitato, e gl’italiani…che gente simpatica! A quell’ora - erano da poco passate le nove - il colloquio proseguì senza essere disturbati.

Dopo di che si venne al sodo. Non potevo capitare in un momento più favorevole, disse. Aveva appunto bisogno di un “sorvegliante.” Non lo avevo mai fatto? Non importava. Che diamine, avrei imparato, giovane com’ero! Potevo cominciare lunedì.

Tutto questo mi parve così stupefacente che, come di fronte a un prodigio, facevo fatica a crederci, anche perché la direttrice, madame Pons - così si chiamava - non mi aveva richiesto nessun documento, nessun diploma. Mi faceva fiducia, così, solo al vedermi, al mio dire, fidandosi del suo fiuto.

Tuttavia, ciò che forse fece pendere la bilancia in mio favore, fu quando mi chiese dove avevo imparato il francese per esprimermi “si correctement”. Le risposi che continuavo ad impararlo leggendo, alla scuola di buoni autori, con una grammatica e un vocabolario sempre a portata di mano. Questa risposta la toccò particolarmente perché, per l’appunto, sullo stemma della scuola, a forma

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di scudo - che aveva ideato lei - diviso traversalmente in due parti, sotto si vedeva un’ape, e sopra un libro aperto. Come l’ape bottinava i fiori, così lo studente doveva studiare, leggere.

Uscii da quell’incontro come ubriaco, dopato, elet-trizzato, carico di una nuova energia, come se avessi conquistato il più prestigioso dei premi letterari o una medaglia d’oro alle Olimpiadi. Mi sembrava di scoppiare. Tornavo a scuola, non come studente, ma addirittura come “sorvegliante.” D’un balzo passavo dall’altra parte della barricata. Non riuscivo a capacitarmene, a crederci.

Risalii il boulevard Sébastopol eccitato. Dentro di me tutto cantava, mi sembrava di rinascere. Mi venivano le lacrime agli occhi per la contentezza. Persino la città non era più la stessa, mi appariva più bella, accogliente, amica. Mi sarei messo a ballare, a rotolarmi per terra come un cane felice, a urlare alla gente la mia gioia: finalmente mi si apriva una porta. E che porta! Non lo avrei mai nemmeno immaginato.

Quando giunsi sul piazzale di Notre-Dame sentii il bisogno di ringraziare qualcuno, e chi se non il buon Dio, che forse c’entrava per qualcosa nell’opportunità - la chance de ma vie - che mi era appena stata offerta. Non entrai nella cattedrale, mi diressi invece oltre il ponte verso la chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre, là dove più che altrove mi sentivo bene, più vicino al Gesù di un tempo, quando da bambino in lui mi abbandonavo. “Grazie, grazie, grazie” dicevo non solo a lui ma anche alla Madonna e a tutti i santi.

Passata l’euforia, però, più tardi mi sorse un dubbio: se non avesse funzionato? Perché insomma in che

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cosa consisteva fare il sorvegliante? Che ruolo avrei dovuto assumere? Ne sarei stato capace? Ecco perché, pur preso da un incontenibile desiderio, pensai ch’era meglio fare le mie prove prima, e solo dopo, a colpo sicuro, rivedere Caroline. Non volevo illuderla.

Il tempo mi sembrò lungo nell’attesa. Domenica notte non chiusi occhio. Cercavo d’immaginarmi cosa mi aspettava, che tipo di studenti avrei trovato. Non ne avevo la minima idea. Più ci pensavo più annaspavo nel buio.

Lunedì mattina mi presentai alle otto, non dico con quale apprensione. Madame Pons era in ufficio. Mi tese una ventina di fogli ciclostilati sui quali c’era un compito di matematica, per me una nebulosa. Dovevo presentarmi in “seconda”, (2) distribuire i fogli e sorvegliare la classe fino alla fine dell’ora, badando a che nessuno copiasse e nel massimo silenzio. Dovevo insomma fare il cane da guardia. Non ci avevo pensato. Era per me una mansione quasi contro natura o comunque contro la mia natura. Cominciava male. Tuttavia non potevo permettermi di fallire, una tale opportunità non si sarebbe più presentata. “In pista!” mi dissi, come se mi apprestassi a penetrare in una gabbia per affrontare non so quale bestia feroce…da domare.

Entrai in classe - ch’era al primo piano - e mi trovai di fronte una ventina di adolescenti dei due sessi che mi guardarono con curiosità. Non lo sapevo ancora, ma di solito, con quelli della terza, era una delle classi più difficili e indisciplinate. Già l’anno scorso avevano fatto fuori più di un sorvegliante, e un paio di professori avevano dichiarato forfait.

(2) In Francia le classi procedono dalla sesta alla “terminale”, ultimo anno della scuola media superiore equiparabile all’ultimo anno del liceo italiano.

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Ero così preoccupato e emozionato che non pensai neanche a presentarmi - sicuramente madame Pons lo aveva già fatto - per cui, dopo aver salutato con un finto disinvolto “bonjour” feci l’appello, cercando di non stor-piare nessun nome e fissando bene in faccia ciascuno, attento a non fare gaffe, sulla difensiva, controllando ogni mio gesto, ogni mia parola. Io avevo solo due occhi per sostenere il loro sguardo, quaranta erano puntati su di me. Troppo giovane ancora per avere autorità, non portavo neanche gli occhiali. Dall’aspetto mi si poteva prendere per uno studente dell’ultimo anno. Non sarebbe stato facile impormi. Ma dovevo farcela. Da quei ragazzi dipen-deva il mio lavoro, la mia felicità: Caroline. Dentro di me tremavo. Guai se avessero potuto intuirlo! Ero spacciato. Ma, l’istinto di difesa, di conservazione: per me era questione di vita.

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VIIA VIA PARADISO

Mi ci vedevo già con Caroline

rano trascorsi quasi sei mesi dal mio licenziamento. A poco a poco ero entrato a far parte della scuola,

fino a esserne assorbito, a fare tutt’uno, ad amarla, non senza fatica.

EDopo alcune settimane, vinti i primi timori, scrissi

a Caroline, dicendole la mia soddisfazione per aver tro-vato un lavoro che sembrava fatto su misura per me. Amavo i “miei” ragazzi, e ne ero ricambiato, anche se talvolta dovevo mostrare i denti.

Adesso il mio obiettivo era la casa. Certo mi sarebbe piaciuto che Caroline venisse a stare con me a rue de Rennes, nel mio piccolo Versailles, ma da un lato non osavo chiederglielo per non complicarle la vita – per via dei suoi che l’avrebbero contrastata – e dall’altro, come all’inizio con i miei ragazzi, dovevo stare attento a non fare gaffe. Insieme, in uno spazio così ridotto, anche solo per cucinare, lavarsi, andare al gabinetto e con altre persone sul pianerottolo…no, decisamente non poteva andare. Bisognava preparare ogni cosa. Un volta, o anche

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solo pochi mesi fa, mi sarei buttato, ora, più prudente, avevo paura di sbagliare, cosciente della forza ma anche della fragilità dell’amore. Saper attendere era mettersi alla prova. C’erano amanti che aspettavano per anni, certuni una vita: Penelope. Volevo che tutto fosse pronto per accoglierla come una regina. Non pensavo ad altro. Sarebbe stata una sorpresa.

Ora, ecco cosa avvenne. In terza notai subito un ragazzo che, per via della

sua faccia e con quei suoi occhi a mandorla, lo sopranno-minavano il cinese. Si chiamava Jean-Marie. La mamma, Emma, era torinese, il papà, Marcel, vietnamita. Non erano sposati. Jean-Marie, ormai quindicenne, faticava a scuola, per cui la mamma lo aveva iscritto al Cours Littré sperando che lì ricuperasse.

Sentendosi mezzo italiano, per via della madre, simpatizzava con me. Durante la ricreazione veniva a trovarmi, e spontaneamente si confidava, mi raccontava un po’ la sua vita. La scuola, per quanto si sforzasse, non era la sua tazza di tè. Per contro era attratto dalle arti marziali, alla sua età era già un buon karateka con tanto di cintura marrone. Bruce Lee era allora l’idolo di tanti ragazzi che andavano a vedere e rivedere i suoi film. Un po’ ovunque si aprivano club dove si praticavano le arti marziali. C’era un club anche di fronte alla scuola, affolla-tissimo.

Oltre al karaté, anche se confusamente, Jean-Marie era attratto dall’invisibile, dal misterioso, dal religioso, da tutto ciò che toccava lo spirito, la cura dell’anima. Si inter-rogava sul fine dell’uomo, sull’esistenza di Dio. Amava la musica: oltre i Pink Floyd e altri gruppi in voga, anche la

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musica classica. Le ragazze, alla sua età, stuzzicavano la sua fantasia. Di una morettina poi, già un po’ maliziosetta e piuttosto formosa, era innamorato, sapeva che era un’allumeuse, (*) ma gli piaceva, ne era ossessionato, ci pensava di continuo, e prima o poi…Un giorno, la mamma mi telefonò per invitarmi a pranzo.Siccome mi meravigliai:

“Gli parlo spesso di te” disse. “E cosa le dici?”“Tutto, di noi due.” “Cosa vuol dire di noi due?”“Che siamo amici.”

Nonostante fossi dall’altra parte della barricata e con una decina d’anni di differenza, Jean-Marie mi aveva adottato, catturato: ero un amico, il suo amico. Impossibile difen-dermi. Mi riconoscevo in quella sua ingenuità, in quella sua freschezza, doni – stavo per dire virtù – che appar-tengono all’infanzia del cuore. Così ero io alla sua età. Ma a ben vedere, in fondo in fondo, nonostante le delusioni, ero rimasto lo stesso.Abitavano presso la place de la République, un bell’appar-tamento all’ultimo piano che avevano rinnovato con gusto. Nel salotto – che faceva anche da sala da pranzo – la gran tavola di legno massiccio, le sedie, la credenza cappuc-cina, l’angoliera si accordavano armoniosamente con le travi a vista. Posto su una colonna faceva bella figura un Budda dall’enigmatico sorriso. Sulle pareti, oltre ai quadri, notai una vetrina con tante pietre semipreziose, quarzo d’ogni specie, ametiste, avventurine, citrine, e fossili e rose di Gerico.

(*) Da “allumer”: accendere. Ragazza provocante, civettuola.

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Emma m’incantò. La trovai bella, espansiva, subito familiare: non

alta, di tipo mediterraneo. Il sorriso, un po’ infantile, le illuminava il volto e comunicava serenità. Marcel, invece, dava l’impressione d’un uomo piuttosto chiuso, di poche parole, impenetrabile, forse un po’ timido. Due caratteri opposti. Ma, dato che gli estremi si attirano, giovanissimi si erano innamorati e messi subito insieme.

La tavola era stata preparata come per un giorno di festa, le stoviglie delle grandi occasioni erano poste su tovagliette di paglia. Emma aveva cucinato una paella straordinaria – per me une première – con pesce, cozze nella loro conchiglia, scampi, certi gamberoni rossi, e altri frutti di mare. Il gran piatto ovale in mezzo alla tavola profumava ed era bello da vedersi. Con noi tutti intorno la scena avrebbe fatto pensare a un quadro di Caravaggio. Marcel, ch’era al mio fianco, cominciò a versare il vino nei calici – tranne che per Jean-Marie che beveva solo bibite: “E’un riesling d’Alsazia, che si sposa bene con la paella” disse da intenditore.

Ero emozionato. Per la prima volta, a Parigi, ero ospite di una famiglia. Durante il pranzo, dopo i primi approcci, Emma volle sapere del figlio a scuola. Me l’aspettavo. Ci teneva che arrivasse fino al Bac (*), ormai considerato il minimo indispensabile per trovare un qual-siasi lavoro. Purtroppo Jean-Marie aveva accumulato un bel ritardo, non gli era mai piaciuto andare a scuola, viveva tra le nuvole in un mondo tutto suo, passava ore chiuso in camera a ascoltare musica, a sognare chissà che cosa. Pochi vivevano d’arte o di sport, il karaté non l’avrebbe certo fatto vivere.

(*) Baccalauréat: titolo equiparato al diploma italiano di maturità.55

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Era così preoccupata che l’anno scorso lo aveva portato persino da uno psicologo, e lui, per un certo tempo, ci era anche andato, ma senza nessun risultato. Contava molto sul Cours Littré. La direttrice le aveva fatto buona impres-sione.

“E poi” disse speranzosa, “non è mai capitato che Jean-Marie facesse amicizia con un sorvegliante.”

Le pareva buon segno.Mentre la madre parlava, Jean-Marie mi guardava

come per dire: non badarci, lascia perdere. Chissà quante volte aveva sentito questi discorsi. Ma come capivo sua madre! Magari avessi avuto io una mamma così! Marcel, per contro, ch’era intervenuto solo ogni tanto, mi era parso più distaccato, e stranamente quasi rassegnato, più portato a lasciare che il figlio facesse ciò che voleva. Il karaté? Perché no? Jean-Marie non era ancora che un ragazzo. Comunque, più realista e senza illusioni, si era reso conto che il figlio non era tagliato per gli studi. Alla fine del pranzo, col caffè, sollevata da ciò che più le premeva, Emma volle sapere come mai mi trovavo a Parigi, se pensavo rimanerci, se avevo trovato facilmente dove alloggiare, se mi ero sistemato bene. Giovanissima, lei aveva tribolato tanto appena arrivata, non le era stato facile trovare un alloggio decente e a prezzi ragionevoli. Ce n’erano che approfittavano, soprattutto con i più sprov-veduti, i sans papiers, i clandestini che incappavano nei marchands de sommeil. (*) Quando le dissi del mio piccolo Versailles:

“E’un miracolo!” esclamò, senza che io capissi subito perché diceva così.

(*) Mercanti di sonno: strozzini che affittano luoghi indecenti, scantinati dove ammucchiano dei poveri cristi in cerca di un posto dove dormire.

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Loro, mi spiegò, tenevano una piccola agenzia immobiliare nel diciassettesimo. Si erano specializzati nella compravendita di case, appartamenti e camere che rinnovavano e poi affittavano o rivendevano. Marcel era architetto. Avevano appena finito di rinnovare un mono-locale, una mansarda a rue de Paradis, a due passi dalla scuola, molto carina, adorable, un vero bijou. Ecco il miracolo: sembrava fatta per me. Era certa che mi sarebbe piaciuta. Potevamo fare un salto e andarla a vedere quel pomeriggio stesso. Non riuscivo a crederci. Quanto Marcel era riservato, tanto Emma era vivace e donna d’azione.

Si era ormai giunti a fine novembre, ma eccezio-nalmente la giornata era soleggiata, e verso le tre l’aria era quasi tiepida. Ci andammo a piedi, non era lontano. Rue de Paradis, come scoprii, era una bella via stretta alla quale ci si poteva arrivare imboccando da una parte la rue Bleue, e dall’altra la rue de la Fidélité, conosciuta per i suoi negozi, uno dopo l’altro, dove brillava il cristallo, baccarat, Saint-Louis…

Al numero 37 un portone verde si apriva su un androne con la scala A sulla destra, e la scala B in fondo al cortile. Passando, Marcel mi fece notare le due acacie, ora senza foglie, ma che con la bella stagione – “vedrai che meraviglia!” – fiorivano e spandevano nell’aria il loro profumo. Salimmo per la scala B fino al quarto e ultimo piano: era stretta, e fra il terzo e il quarto si stringeva ancor di più. La costruzione della casa risaliva a prima di Flaubert. Infatti, in un suo libro: “L’Education senti-mentale”, del 1869, proprio al 37 rue de Paradis, lo scrittore colloca lì uno dei suoi personaggi di cui non ricordo il nome, un artigiano, mi sembra.

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Quando Emma aprì la porta – che non era più larga che la porta delle celle nei conventi di un tempo – e entrai, rimasi a bocca aperta, incantato. Non avrei potuto trovare più bel nido al mondo per me e Caroline. In confronto alla cameretta dove stavo, anche se solo di una ventina di metri quadri, la mansarda mi parve immensa, ma soprat-tutto, sì, veramente adorabile, un bijou. Me ne innamorai subito. Se l’avessi vista prima del restauro mi sarei spa-ventato. Qui era morta una signora novantenne. Il figlio, un banchiere, non sapendo che fare di quel buco, se ne sbarazzò immediatamente. All’origine era composta di due stanzette. Marcel ne fece un unico locale, che la gran trave trasversale e un mobile biblioteca separavano in due. Da una parte, appena entrati, c’era il blocco-cucina con frigorifero, una mini sala da bagno “da favola” con le piastrelle blu, e un tavolo con quattro sedie, dall’altra il salottino-camera da letto, con un largo armadio a muro, molto capiente, e un caminetto sormontato da una cappa tra il verde e il canarino; il muro intorno al caminetto era intonacato col gesso, con quattro nicchie o cavità che potevano servire per vari usi secondo i gusti. La moquette, marrone, ricopriva tutto il pavimento. La luce passava attraverso i due abbaini, uno da una parte e uno dall’altra. Di fronte c’era il palazzo che dava sulla via.

“Qui” mi disse Marcel, “non si sente il traffico della strada. Sembra di essere in campagna, e tuttavia si è a due passi dai gran boulevard.”

Guardavo tutto estasiato: era veramente un angolo di paradiso. Mi ci vedevo già con Caroline. Nell’eccita-zione, come un innamorato, non mi chiesi neanche quanto mi sarebbe costato. E quando Emma me lo disse, e nono-stante mi venisse incontro, per me era ancora troppo caro.

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Accettai lo stesso. Non potevo mancare una simile occa-sione. Se necessario, il sabato e la domenica sarei sceso di nuovo nel métro a cantare. Volevo che per Natale fosse tutto pronto per accogliere la mia Caroline. Ero sempre più convinto che tutto quello che mi accadeva non era dovuto soltanto al caso.

Alcuni giorni dopo cominciai a sgombrare.“Dove vai?” mi fermò di sorpresa il mio vicino del

quinto piano mentre scendevo le scale con un borsone in mano. Non mi ero accorto della sua presenza, un po’ perché assorto nei miei pensieri, un po’ perché, come al solito, si teneva quasi al buio dietro l’inferriata del suo finestrino.

“Ho trovato casa” dissi. “Ah, te ne vai.”

Sembrava smarrito. Poi:“Dove hai trovato casa?”“A rue de Paradis.”“Che bello, rue de Paradis!” disse come sognando.

“Prima o poi doveva arrivare. Non potevi rimanere sempre qui. E’giusto così. Ma – aggiunse con voce tremula e quasi lamentosa – te ne andavi senza salutarmi?”

“Andrò via soltanto tra qualche giorno.”“Mi mancherai…mi facevi compagnia.”“Non ci siamo mai detti granché” dissi, posando il

borsone per terra.“Basta una presenza tante volte.”

Sì, certo, bastava una presenza tante volte, però…soli, sempre soli…Rimasi lì impappinato, incapace di trovare una parola, una parola buona, per dir che cosa poi? Fu lui a dirmi:

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“Ti ho sempre fatto paura, vero?”“All’inizio un po’, ma poi anzi…anche tu mi facevi

compagnia. Sapevo che c’eri, ti sentivo, e mi bastava.”D’un tratto mi resi conto che non sapevo neppure come si chiamava, con delicatezza glielo chiesi, scusandomi di non averlo fatto prima.

“Mi chiamo Ange” disse, quasi vergognoso.“Che bel nome!” dissi, meravigliato. “Oh, mi stava bene da bambino…ora…”“Ti sta bene anche adesso” protestai per rassicu-

rarlo. Tirò fuori un fazzolettone o qualcosa di simile, si soffiò il naso. Piangeva.

“Perché piangi?” dissi stupidamente. “Non sto piangendo, è che ogni tanto mi bruciano

gli occhi.”Non gli bruciavano gli occhi, piangeva davvero. Non sapevo come consolarlo.

“E Caroline?” si riprese lui per primo.“Verrà a stare con me.”“Sono contento. Mi farai sapere.”“Ti verremo a trovare…e appena nato il primo

bambino verremo a fartelo vedere.”“Promesso?”“Promesso.”

Scendendo le scale, improvvisamente, mi sentii carico della sua pena: offuscava la mia felicità. Non c’è gioia che non susciti un pianto, come non c’è dolore che non pro-vochi una gioia. Tutto si teneva a questo mondo. Mi venne in mente Théodore Monod, il vecchio uomo del deserto, che citava questa frase di un poeta inglese:

“Chi coglie un fiore, disturba una stella.”

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Sì, sarei andato a trovarlo con Caroline, e ogni tanto gli avrei anche scritto. Sapevo quanto anche soltanto una car-tolina poteva sollevare chi viveva da solo e non aveva più nessuno. C’erano persone che vivevano nell’attesa di una lettera che non arrivava mai. Nella cassetta non trovavano che fatture, bollette, pubblicità…e mai qualcuno che si ricordasse di loro.

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VIIILA LETTERA

Perché non accorreva?

on avevo granché da portar via, per cui non ci misi molto a sistemarmi. Non mi pareva vero di aver

trovato una casa così bella. Naturalmente feci alcune compere: gli indispensabili utensili da cucina, le tendine ai finestrini in sintonia con la carta a fiori color pastello, e altre cosette utili, ma anche alcune piante verdi, due “pouf” marocchini, la statua di gesso della Venere di Milo e il busto di Beethoven che posi nelle cavità a lato del caminetto con i faretti per illuminarli, e persino una rete per la pesca, decorativa, che posi là dove il muro, ora abbattuto, separava le due stanzette. E, immancabile, una riproduzione del Cristo di Arnold Sachs, che appesi al di sopra del caminetto. L’insieme dava un senso di grande intimità. Avevo pensato anche all’incenso, in bastoncini, per profumare l’ambiente di sentori mistici orientali.

N

Cercavo di immaginare Caroline quando avrebbe varcato la soglia della porta. Sarebbe rimasta a bocca aperta, incantata, come lo ero stato io entrandovi la prima volta. Così, quando mi sembrò che fosse tutto pronto, le scrissi un biglietto, oh poche parole. Certo avrei potuto

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andarla a trovare al Bon Marché, ma non me la sentivo di tornare là dove ingiustamente mi avevano buttato fuori. Mancavano ormai pochi giorni al Natale. Lo avremmo passato insieme.

“Coucou, c’est moi!” le scrivevo scherzosamente. “La nostra casa è pronta. Quando vedrai il nido che ti ho preparato - anche se per te non sarà facile lasciare i tuoi - volerai qui senza troppi rimpianti. Ti aspetto.”Ma preso da uno scrupolo, per non pressarla, perché non si sentisse l’acqua alla gola, aggiungevo:

“Però, se non puoi subito, scrivimi per farmi sapere quando potrai venire. Quanto al cavallo non lo abbandonerai. Andrai a curarlo e a cavalcarlo ogni volta che lo desidererai. Cara, tesoro mio bello, dolcezza della mia vita, quando penso che ti avrò qui con me per sempre, impazzisco di gioia. Non tardare, ti amo.”

Passai le giornate che seguirono ad aspettare la sua risposta, sperando però che venisse all’improvviso come aveva già fatto una volta prima di recarsi al lavoro. Più l’attesa si prolungava più languivo, mi spazientivo. Dopo sei giorni, secondo i miei calcoli, avrebbe già dovuto rispondere o farsi viva. Cominciavo ad agitarmi, a farmi cattivo sangue. Che ci avesse ripensato? Che idea! Perché ci avrebbe ripensato? Cosa aspettava allora? Perché non accorreva? Forse un disguido, un ritardo, uno sciopero alla posta. Macché sciopero! Mi informai: funzionava tutto normalmente. O forse la mia lettera era andata persa, non le era stata recapitata. Pensai persino che i genitori non gliela avessero consegnata.

Farneticavo. All’ottavo giorno non stavo più nella pelle. Dopo la

scuola tornavo subito a casa, sperando di vederla arrivare.

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Come una bestia in gabbia andavo avanti e indietro, non riuscivo a star fermo, sempre più inquieto, coi nervi a pezzi, in preda ai pensieri più incongrui. All’alba o in piena notte, mi sembrava persino di sentir bussare alla porta, e la mattina speravo di trovare una sua lettera nella cassetta. L’attesa - senza il telefono per poter comunicare - si faceva sempre più angosciosa, estenuante. Non ce la facevo più ad aspettare, per cui decisi di andarla a trovare al Bon Marché. Ma il mattino di quel sabato, nell’aprire la cassetta, trovai finalmente la lettera tanto desiderata. Me la strinsi sul petto. Per leggerla, e gustare più intimamente la mia gioia, tornai su in casa. Tremavo nell’aprirla, ansioso e nel contempo felice. Solo quando estrassi il foglio dalla busta mi resi conto ch’era la lettera che le avevo inviato io. Nell’agitazione non ci avevo fatto caso. Sulla busta qualcuno aveva scritto:“Rinvio al mittente”, e queste pa-role, lapidarie: “Persona deceduta”.

Non so dire cosa provai in quel momento. Fu come ricevere una mazzata in testa, terribile. Mi si offuscò la vista. Come, persona deceduta? Era sicuramente un errore, un brutto scherzo. Avevo già provato quello stordimento, la sensazione di sentirmi mancare la terra sotto i piedi, di precipitare nel vuoto, senza un appiglio cui aggrapparmi. E’una sensazione spaventosa, un inferno. Da bambino poi, quando mi succedeva, avrei voluto gridare e chiedere aiuto, ma l’angoscia era tale che le grida mi si bloccavano in gola: muto, nessun suono usciva più dalla mia bocca.

Per un po’ rimasi come intontito, allo stesso tempo presente e assente, dentro e fuori di me, tramortito. Poi, bruscamente, come svegliandomi di soprassalto, mi buttai giù per le scale e, a “Poissonnière”, mi precipitai nella metropolitana, che mai mi sembrò così lenta ad avanzare.

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Arrivato al Bon Marché, anche la scala mobile che portava al secondo piano – già ingombra di gente che ostruiva il passaggio – mi parve lentissima.

Al reparto tennis non vidi o non volli vedere che al posto di Caroline c’era un’altra ragazza, vidi soltanto che lei non c’era. Probabilmente era solo in ritardo. Chiesi di lei al signore che aggiustava le racchette. Quando lavo-ravo lì a fianco, quel signore, un brav’uomo che avrebbe potuto essere mio padre, ogni volta che mi incontrava mi salutava sempre affettuosamente con un “ça va, mon kiki?” Sapeva che c’era del tenero e anche di più tra me e Caroline. Mi guardò incerto, imbarazzato, poi:

“Non lo sai?”“Cosa non so?”

Esitò alcuni secondi, poi, come per attutire lo choc, e farmi meno male, disse piano:

“Caroline…non c’è più.”“Come, non c’è più?” dissi, smarrito. E come per

aggrapparmi anche solo a un filo, e far sì che non fosse vero:

“E’impossibile!” supplicai. Mi risuonano ancora oggi le sue parole:

“Courage, mon kiki, courage.”Che altro avrebbe potuto dire? Coraggio, piccolo mio, coraggio. Caroline era morta. Spericolata, o troppo fiduciosa, era stata sbalzata da cavallo – come le era già successo – ma questa volta la caduta le era stata fatale. Aveva picchiato la testa contro una pietra…Non aveva sofferto, era morta sul colpo. Non volevo crederci. Rifiutavo di credere che il cavallo le avesse fatto del male. Non poteva fargliene, mi diceva.

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Stavo facendo un brutto sogno, era solo un incubo. E nell’incubo mi vedevo piangere, scappare via per non far vedere che piangevo. Prima o poi mi sarei svegliato, e l’avrei vista arrivare, magari come una volta, con i croissant.

O era stato tutto un bel sogno prima? Passai alcuni giorni come inebetito. Non riuscivo

più a distinguere tra il sogno e la realtà, la notte soprat-tutto, nel dormiveglia, quando i pensieri si fanno più confusi e la solitudine insopportabile, quando la paura diventa più vorace – la paura di vivere, perché la vita non è più che un buco nero spaventoso, un baratro. Si vorrebbe allora diventar pazzi per perdere ogni cognizione, la coscienza d’esser vivi, pur soffrendo come soffrono i neonati o gli animali, che non sanno di soffrire.

Ma la realtà finisce sempre per raggiungerci. La morte di Caroline, quando ci penso, era già stata

segnata da un concatenamento di fatti, legata alla guerra d’Algeria, alla morte del fratello, al cavallo che lui le lasciava. La sua vita finiva così, su una pietra, posta lì nel punto preciso dove avrebbe sbattuto la testa. Fatalità, destino, o che altro? Su quella pietra mi sembrava che finisse la mia, dopo aver tanto sognato, a due passi dalla felicità.

Crollava di nuovo tutto. Non era giusto. Provavo rancore, rabbia, dolore.

Che m’importava più della casa? Senza di lei sarebbe stata un inferno. E per un certo tempo lo fu, come io mi sentii all’inferno. Me la presi con Dio, la Madonna e tutti i santi. Li odiai. Imprecai. E anche l’Amico di un tempo, quel Gesù…se ne fregava.

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Per settimane e settimane mi trascinai come uno zombi, senza più nessun interesse, in bilico tra l’istinto di conservazione e l’attrattiva della morte, senza neanche il soccorso, l’abbrutimento dell’alcol, senza la libertà, il coraggio di infrangere una legge che permette, ribel-landosi, di farla finita. Ma forse non ero che un vigliacco.

Dopo la scuola non mi affrettavo più a rientrare. Quella mansarda mi faceva orrore. Girovagavo fino a tardi per ritardare il momento in cui mi sarei ritrovato solo in quel mio paradiso vuoto, senz’anima, dove avrei risentito ancor più crudelmente la trafittura della solitudine.

Occorsero mesi per attutire lo choc iniziale, e altri mesi prima che Caroline prendesse il posto giusto - che le spettava - nella mia vita. Era necessario mettere a fuoco la sua immagine, che via via apparve sempre più nitida, segretamente presente in me, prima nel dolore e poi trionfante.

Coll’andar del tempo si è portati a dimenticare e persino a non amare più, perché amare significa soffrire. Non così per me. Coll’andar del tempo Caroline è rimasta intatta, amante, presenza viva. E più mi avvicino al gran salto, più sono convinto che la morte, quando si ama veramente, non è la bara dell’amore, ma la sua permanenza, la sua eternità.

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IXCOME A TEATRO

Talvolta uscivo dalla classe stremato

rrivato a questo punto non so come andare avanti, come evocare quel periodo in cui la scuola, a poco a

poco, mi trasse dalla noia, da un torpore mortale, diventò non solo lo scopo della mia vita, ma vita tout court. Mia ancora di salvezza, sostituì l’amore. Dandomi salvava me. E proprio per questo – ora me ne rendo conto – vissi uno dei periodi più fecondi e felici della mia vita.

A

L’anno seguente – oltre ai compiti che già mi incombevano – la direttrice mi affidò un corso d’italiano come seconda e terza lingua, e, alla fine di quello stesso anno - essendo mancata la professoressa, madame Nouet - anche un corso d’inglese: all’inizio, per principianti, e poi anche nelle classi superiori. Per questo, durante tutta l’estate, frequentai dei corsi intensivi alla Berlitz School. La sera, ero così imbottito della lingua di Shakespeare, che dentro di me parlavo, discutevo, sognavo in inglese. Più che autori inglesi, però, presi a leggere gli americani, Steinbeck, Dos Passos, Hemingway, Jack London – appassionante quel suo “Martin Eden”, il libro preferito di

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Edith Piaf – ma ascoltavo anche le canzoni dei più noti cantautori anglo-americani, come Dylan, Donovan, e frequentavo i cinema dove si davano film in versione ori-ginale inglese. Tuttavia è insegnando che ho imparato di più. Dovevo dimostrare di essere all’altezza e persino più bravo di certi prof con tanto di laurea.

Mi piaceva insegnare. Lo facevo con passione, mosso dal desiderio di

trasmettere, anche al meno dotato, l’amore della materia che insegnavo. Ovviamente era l’italiano che attecchiva, accattivava di più, forse perché io stesso lo facevo con più passione, soprattutto quando, dopo i primi tre anni, gli alunni arrivavano in “Terminale”, l’anno dell’esame di stato al quale bisognava portare almeno una quindicina di brani, che sceglievo tra le opere che avevo letto o leggevo appositamente, trovando il libro di testo piuttosto obsoleto e noioso. Nella lista c’era anche il Cantico delle Creature di san Francesco, e un episodio dell’inferno di Dante: il conte Ugolino, con quell“ambo le mani per dolor mi morsi” e il discusso “poscia più che il dolor poté il digiuno”.

Come a teatro, prestavo la mia voce all’infelice conte imprigionato, mordendomi veramente le mani come l’avrebbe fatto un Gassman, un Benigni o un Gérard Depardieu. Il testo si prestava alla più svariata interpre-tazione, che permetteva al “recitante” di passare dal tono grave all’implorante, dal pietoso al disperato, dal gemente al rabbioso, come nell’invettiva contro Pisa per aver condannato i figli a morir di fame insieme al padre accusato di tradimento. Tenere desta l’attenzione degli alunni richiedeva un gran dispendio di energie, ma dovevo e così mi piaceva fare per non annoiarli. Talvolta uscivo

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dalla classe stremato, come un cantante dopo un concerto, o come un pugile dopo un incontro di boxe, perché non sempre i ragazzi erano ben disposti e tranquilli. Più che un lavoro, un mestiere, avevo intuito che insegnare non è solo una vocazione, è un’arte.

Fu quello il periodo in cui, mai come allora, lessi tanti autori italiani. Tra i contemporanei non mancavano alcuni miei preferiti: Moravia, Elsa Morante, Pratolini, Malaparte, Soldati, Bassani, Papini, Buzzati, Carlo e Primo Levi, Gramsci, Pasolini, Silone, Quasimodo, Saba, Sandro Penna, e Pavese che allora stavo leggendo per intero. Certe sue pagine, come le ultime del suo diario – Il mestiere di vivere – mi avevano sconvolto. Mi applicavo a abbordare i temi più diversi, alcuni su richiesta degli alunni, temi quali l’amicizia, l’amore, la solitudine, il razzismo, la bellezza.

Il tema della morte saltò fuori a proposito del suicidio di Pavese. Morte ch’egli vedeva come un baratro, ma anche: “prima di perdersi in se stessa” scriveva Alfonso Gatto, “come un punto di partenza, la vocazione perduta di un incontro con gli dèi”.

Sulla stessa scia proseguivo con “Il deserto dei Tartari”, quando Giovanni Drogo, dopo un lungo viaggio a cavallo, giunto finalmente alla fortezza Bastiani, si addormenta nella terza ridotta. E’ al principio della sua vita, ancor pieno delle immagini di un mondo felice. Nel sonno egli sogna e sorride come fanno i bambini:

Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo. Pagina straordinaria di Buzzati nel descrivere l’irrepa-rabile fuga del tempo, la fine della vita: spaventava. Non

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così appariva la morte a Francesco, che lodava il Signore per sora nostra morte corporale, ch’era un andare verso il Creatore, la vera vita. Qui si apriva il discorso sull’esi-stenza di Dio, sull’aldilà.

Entusiasmanti furono alcune pagine di Giovanni Papini, tratte da “Un uomo finito”. Si discuteva in aula, talvolta anche animatamente. Il mio desiderio non era tanto di convincere, ma che ad ogni lezione scoprissero qualcosa di nuovo che li sorprendesse, li provocasse, qualcosa che li commuovesse, suscitasse in loro degli interrogativi, gli interrogativi che contano. Posso dire che ho amato tanto gli autori che proponevo quanto gli alunni ai quali insegnavo.

Quando i ragazzi, senza affrettarsi, uscivano dalla classe pensosi, voleva dire ch’erano stati attenti, non avevo parlato a vuoto. Tuttavia non sempre ci riuscivo. E allora, lungi dal volergliene, me la prendevo soltanto con me stesso: qualcosa non aveva funzionato, non ero stato bravo, li avevo rotti. La colpa era solo mia. Non mi è mai passato per la mente di punire con le solite inutili ore supplementari di presenza a scuola. Punire significava rinunciare, arrendersi, capitolare.

Una volta portai i ragazzi a vedere “Cronaca familiare”, un film di Zurlini, con Marcello Mastroianni e Jacques Perrin, tratto dall’opera di Vasco Pratolini. In classe leggemmo quasi tutto il libro, ma scelsi di sotto-lineare i passi in cui il più giovane, poco prima di morire nel letto di un ospedale, parla così al fratello maggiore:

“…Non aver mai nessuno con cui espandersi, nessuno che ti sappia capire e che ti aiuti a farti coraggio.”

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“A un certo momento basta una carezza. Ecco, questa carezza, io non l’ho mai ricevuta. E mia moglie è sempre stata chiusa, non mi è mai riuscito di parlare con lei. Capisci cosa voglio dire quando dico parlare?”

“Io vivo notte e giorno per quest’ora che tu vieni. Non ti vergogni mica se ci vedono che ci baciamo? Ho tanto bisogno d’affetto…Mi sono sempre sentito solo. Mai però come ora.”

“Ho pensato alla mamma tutta la notte ed ho scoperto perché mi sono sentito sempre solo nella mia vita. Mi è mancata lei. Lei viva, tutta la mia vita sarebbe stata diversa…”

Queste parole mi toccavano nel più vivo. Anche la mia vita sarebbe stata diversa se fosse vissuta mia madre. Ma fors’anche se fosse vissuto Enea. La scena descritta da Pratolini mi ricordava quando andavo a trovarlo all’ospe-dale dopo il suo incidente. Si svolgeva tutto nello stesso modo, quasi con le stesse parole. Dopo lo choc iniziale, a poco a poco Enea sembrò riprendersi, rassegnarsi, ma poi, improvvisamente, preferì andarsene piuttosto che vivere dimezzato, senza gambe, e essere d’impiccio alla mamma.

Il rimorso che provai allora! Forse - mi accusavo - non gli avevo voluto bene abbastanza per costringerlo a vivere. Ci si sente sempre un po’ colpevoli dopo questi distacchi, lacerati dentro. E ci si chiede, come Vasco, se abbiamo minimamente intuito la “spiritualità” della persona amata mentre era ancora in vita. E in qualche modo si cerca una consolazione scrivendo, ma non c’è espiazione. Fui tentato di raggiungerlo: era il solo amico che avevo.

Come volergliene? Alla lunga, che vita avrebbe fatto?

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Raccontando tutto questo mi scoprivo, condivi-devo, ma è così che toccavo i miei alunni senza aver l’aria di impartire lezioni. I testi allora prendevano più corpo - non erano solo letteratura - si incarnavano, diventavano vita, vita vissuta, pane che li nutriva, sangue che si aggiungeva al loro sangue.

I miei alunni…Dico “miei”, come un padre direbbe i “miei figli”,

un amico i “miei amici”. Li rivedo uno per uno, come in tante foto, alcune sfocate, altre limpidissime. Come dimenticarli? Li ho amati tutti, quelli di origine italiana come quelli provenienti dal Magreb, dall’Africa nera, ebrei, musulmani, cristiani. Anche i più difficili, i meno vogliosi di andare a scuola, i contestatori: ce n’erano. Segretamente ero dalla loro parte.

Con Caroline, non so se mi sarei dato tanto.

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XI MIEI MAESTRI, LE MIE LOCOMOTIVE

Con gli amici è come su un campo di calcio…

o rivisto Joe una sola volta dopo che ebbe conseguito il bac. Non so come sia potuto avvenire.

A poco a poco ci si perde di vista, presi da altro e da altri, e così, senza neanche accorgercene, ci si dimentica, si perdono le tracce l’uno dell’altro. Ci si seppellisce. Ma poi, chissà come, magari dopo anni e anni, il ricordo che credevamo smarrito risale a galla, si fa prepotente, come certa musica che sempre più viva ci risuona dentro. Si vorrebbe allora tornare indietro per rifare il cammino e ricominciare dal punto in cui c’è stata la rottura, per riprendere, cucire lo strappo. A partire da quando, ci si chiede, e perché ci si è persi?

H

C’est la vie, uno potrebbe dire. C’est la vie, un corno!

Joe Jabès. Jabès era il nome anche di un buon poeta.Quando facevo scuola andavo spesso a casa di Joe, dove conobbi tutta una banda di giovani ebrei provenienti chi dall’Egitto, chi dal Marocco o dalla Tunisia, tutto un

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mondo finallora a me sconosciuto, che mi fece ricredere circa le solite dicerie basate su pregiudizi e il latente anti-semitismo. Il venerdì sera mi ritrovavo a tavola con tutta la famiglia, c’era lì il nonno che andavano a prendere a Montmartre – un signore taciturno che, data l’età, doveva averne viste tante – e poi il padre, la madre che asso-migliava a Dalida, Joe e Dico, il fratello minore che allora aveva dodici anni.

Una estate andai persino in vacanza con loro che avevano affittato un appartamento à Juan-les-Pins, un appartamento sempre affollato, aperto a tutti gli amici. Era un continuo viavai. Insomma ci fu un periodo in cui ero uno di loro. E con loro partecipavo alle feste religiose, al Kippùr (*) io che da tempo, non senza ragione, avevo smesso di andare in chiesa. Preti e religiosi mi avevano fin troppo deluso, disgustato.

Ricordo che, in questa ricorrenza, per tutta la giornata, fino a sera, ci si asteneva non solo da ogni attività, ma persino di far uso di un fiammifero o di un accendino. Al calar del sole ci si recava alla sinagoga. Ricordo che a un certo punto, dopo varie letture e pre-ghiere, per gruppi di cinque o sei – come fanno i giocatori di rugby prima di buttarsi nella mischia – ci si metteva sotto una tela che raffigurava la tenda del deserto. E final-mente, dopo la benedizione del rabbino, si tornava a casa dove iniziava la festa, come fanno ogni sera i musulmani durante il Ramadan.

(*) Giorno della espiazione. Il 10 del settimo mese, 5 giorni prima della festa delle Capanne, era il giorno solenne, “il gran giorno” dell’espiazione e della confessione dei peccati. Era prescritto un severo digiuno e il riposo sabatico. Quando ancora esisteva il Tempio, officiava il Sommo Sacerdote con semplici vesti sacerdotali di lino, e, unico caso in tutto l’anno, entrava nel Santissimo.

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Ho qui sotto gli occhi una foto in cui mi vedo con Joe e Nancy. Eravamo al “Voom-Voom” di Juan-les-Pins, un locale dove imperversavano i Titanic poi scomparsi. Sulla foto Joe è esattamente come lo ricordo: capelli castani, lisci, lunghi fino alla nuca, il naso prominente – ebreo – nel viso allungato, e due occhi che sapevano vedere, guardare. Stupefacente era la sua somiglianza con il giovane Dustin Hoffman nel film “LITTLE BIG MAN”. E Nancy. Dolcissima, piuttosto paffutella, sempre sorri-dente, capelli neri ricciuti, tipica donna mediterranea. Sulla foto anch’io, come Joe, ho capelli lunghi, com’era la moda allora, ondulati, biondo-rossi, tra il rame e l’oro. Al collo porto una catenina con appesa, insieme alla croce, la stella di Davide che mi avevano regalata.

L’ultima volta che ho visto Joe è stato per puro caso. Uscivo dalla chiesa di St.Laurent quando mi sono imbattuto nel fratello Dico, un giovanotto ormai sui vent’anni. Se non fosse stato lui a venir verso di me, non so se lo avrei riconosciuto.

“Da dove salti fuori?” ha esclamato Joe, sorpreso, quando mi ha sentito al telefono.

Ora abitava a Enghien-les-Bains, vicino al lago: una casa con giardino, e un salotto così bello e spazioso che mi ha lasciato a bocca aperta. Ma con tutto questo era poi felice? Il padre, che ogni domenica perdeva somme enormi alle corse dei cavalli, era deceduto improvvisamente. Ancora giovane. La morte del padre lo aveva molto addolorato e, per un certo tempo, svuotato. Appena incontrati, in mac-china – niente meno che una BMW – evocando il padre, mi disse:

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“La vita è una gran divoratrice. La morte mi fa paura, non per se stessa, ma perché quando ti viene a mancare una persona cara, ti fa sentire ogni volta più solo…E quando anch’io morirò, mi toccherà lasciare le persone che amo, che a loro volta si sentiranno più sole. Qui sta lo strazio, la spaccatura. La morte è sempre assassina.”Anni prima, quand’era ancora ragazzo, non mi avrebbe mai fatto questo discorso.

La famiglia di Joe era vissuta in Egitto. Ebrei che, di padre in figlio, avevano conservato la nazionalità italiana pur non avendo mai messo piede in Italia. Situazione che risaliva a più generazioni. La mamma di Joe mi fece conoscere l’Egitto, il Cairo, con la sua gente, le sue strade affollate, ebrei e musulmani che prima di Nasser vivevano in santa pace. Una sera andai con tutta la famiglia all’Olympia, il tempio della canzone a Parigi, per vedere e sentire Om Kalsoum, la più grande cantante del mondo arabo – una leggenda – la cui voce possedeva infinite incredibili vibrazioni. Anche senza capire ciò che cantava ne rimasi affascinato.

Con i Jabès, scoprivo tutto un ambiente, un mondo, e per un certo tempo vissi affacciato su Gerusalemme e le piramidi d’Egitto. Non era raro che in casa parlassero arabo. Dopo la diaspora, nessun popolo poteva dirsi come gli ebrei cittadini del mondo. Mi piaceva che i miei amici fossero di origine, nazionalità, religione diverse. Anni dopo, a Franz, il mio caro amico martinicano, ogni tanto dicevo:

“Sai che non vedo che sei nero?”E lui:

“Nemmeno io vedo che sei bianco.”

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Per festeggiare il nostro ritrovarci Joe mi invitò al ristorante, un ristorante francese, chic et cher. Scherzando, un po’ frimeur, baldanzoso, mi disse che quel ristorante era la sua mensa e ordinò una bottiglia di champagne che il cameriere si premurava di versarci nei bicchieri appena vuoti, estraendo la bottiglia dai cubetti di ghiaccio nel secchio argentato. Durante il pranzo non fece altro che parlare, lui che a scuola, ma anche a casa, era così poco loquace. Sui trent’anni ormai, sposato con la sua Nancy, e con due belle bambine. Si era messo in proprio – come ogni buon ebreo – e gli affari, una piccola ditta d’infor-matica, sembrava girar bene. Sapevo delle invidie che per questo suscitavano e suscitano da sempre gli ebrei, ma che diavolo! tra loro sono solidali, si aiutano, si spalleggiano – come i cristiani non fanno tra di loro, nemmeno tra famigliari – e poi sono inventivi, creativi, lavorano, lavorano, osano, sanno correre dei rischi. E’giusto che riescano, prosperino. A Parigi c’è tutto un quartiere ebreo, con i suoi negozi, chiamato il sentier, che va dalla Porte St.Denis fino a Chậtelet. Tanti di loro erano dei pieds noirs – come venivano chiamati – che dovettero lasciare l’Algeria, la Tunisia o il Marocco al momento dell’indi-pendenza. Tornati su, non è stato facile ricominciare tutto daccapo. Diciamo che contribuiscono non poco a far funzionare il commercio, e…non sono così avari come si dice, sanno spendere, giocare, divertirsi, insomma sanno vivere.

Joe, dopo aver parlato del suo lavoro, della famiglia, di Nancy e delle bambine, cambiò improvvi-samente discorso, un discorso che mi meravigliò, come se volesse tornare alla sua gioventù, a ciò in cui aveva sempre sperato, creduto, come per fare un bilancio:

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“Sai, Mario” disse, “penso spesso a quel tempo in cui, a scuola, vivevo spensierato. Non me ne rendevo conto. Era il tempo degli amici.”Fece una pausa. Poi:

“Non si può vivere senza amici. L’amicizia è necessaria, insostituibile, va oltre tutto. Quando si è giovani si confonde il cameratismo con l’amicizia; non è perché si esce, si beve, si gioca a carte e si scherza insieme che si è amici. Non è facile voler bene. L’amicizia sta qui, nella testa, e qui, nel cuore. Amare una donna, amare i propri figli, padre, madre, fratelli e sorelle è naturale, ma amare qualcuno che scegli senz’altro interesse che un puro attaccamento, ecco cos’è l’amicizia. Bisogna essere forti per questo. Con gli amici è come su un campo di calcio, possiedi il pallone, guardi a destra, guardi a sinistra, ti guardi alle spalle, e trovi sempre qualcuno a cui passare il pallone, sennò finisci col perderlo, col ritrovarti solo, capisci, Mario?”

Sì, capivo. Joe aveva sempre avuto il senso dell’amicizia. La casa, quando abitava à Villiers-le-Bel, era sempre piena di amici, anche se non tutti erano veri amici, ma questo non gl’importava. Era generoso, la casa era sempre aperta a tutti. E la mamma ci stava, era così anche lei, generosa. Dissi:

“E adesso, con il tuo lavoro, la tua famiglia…” “Ne ho sempre bisogno, anche Nancy è cresciuta

così. Ci piace essere circondati da amici. Certo mi fa male quando un amico mi tradisce, succede…”

“E quando succede?”“L’importante è aver dato, senza calcoli, forse lo

faccio per egoismo, ma non riesco a far diversamente.”

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Mi piaceva sentirlo parlare così, mi faceva sentire meno solo. Disse:

“Non si è mai soli quando si va verso gli altri. Ricordo bene le tue lezioni. L’amicizia era uno dei tuoi temi preferiti. Tra i libri che ci avevi consigliato di leggere ho conservato L’amico ritrovato di Fred Uhlman. Siamo stati anche a vedere il film, ti ricordi?”Sì, mi ricordavo di quell’amicizia – fonte della più grande felicità e della più grande disperazione – tra un giovane ebreo figlio di un medico e un giovane aristocratico tedesco al tempo in cui la Germania era ormai prossima alla più grande tragedia della storia: il nazismo. Il giovane ebreo a un certo punto si credette tradito, ma poi, dopo tanti anni, ritrovò inaspettatamente l’amico: fucilato per aver complottato contro il Führer. Una storia vera che toccò profondamente Joe.

“Ma dì un po’, – fui tentato di metterlo alla prova – in classe, vi avevo consigliato anche un altro piccolo libro al quale io tenevo molto, te ne ricordi?”

“Come no?” reagì come se fosse ancora a scuola. “Vuoi parlare delle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke. Ho conservato anche quello. Sono i miei due libri di chevet, sempre sul comodino, a portata di mano. Ogni tanto ne apro uno a caso. Mi fanno bene. Piacciono anche a Nancy. Quando saranno in grado di leggere li passerò anche alle mie bambine.”

“E la Bibbia, ti succede di leggerla?”Gli chiedevo questo perché sapevo che non era propria-mente un praticante anche se attaccato a certe tradizioni, come pure Gluckstein, il suo ex professore di filosofia, lui addirittura ateo, amatissimo però dai suoi alunni per la sua onestà e l’amore alla materia che insegnava.

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“Per un ebreo” disse, “è il libro per eccellenza, ma è già più difficile. Ti confesso che mi succede di aprirla raramente. Quand’ero piccolo veniva a casa il rabbino a spiegarcela. Da fidanzato, con Nancy, leggevo di continuo il Cantico dei Cantici.” Sorrise: “Questo ci faceva inna-morare ancora di più.”

Ero così preso dai nostri discorsi che non ricordo altro, né del posto dove mi trovavo, né del cibo, né se c’era gente intorno a noi. Rivedo solo il cameriere che ogni tanto si avvicinava per versarci da bere. Avevo ritrovato Joe. Era al centro della mia attenzione. Ne spiavo ogni sorriso, ogni gesto, ogni sguardo. Le brevi pause di silenzio dicevano l’indicibile, le emozioni, ciò che dentro rimaneva inespresso. Joe, certo più maturo, era rimasto nostalgicamente lo stesso, fedele a quel che era, non traviato dal benessere, dal denaro, non intaccato dalle brutture del mondo, dalle combines che pur doveva fron-teggiare. A un certo punto, fissandomi negli occhi quasi con tenerezza – ma forse per qualcosa c’entrava lo champagne – disse:

“A scuola eri per me come una locomotiva. Senza di te non ce l’avrei mai fatta.”

Caro Joe! Anch’io non ce l’avrei mai fatta senza di te e tutti i tuoi compagni. Siete stati voi a trascinarmi, a portarmi, a darmi tanto: voi siete stati i miei maestri, le mie locomotive.

Quando lasciai Joe, sotto un cielo di piombo, lungo i boulevard ingombri di macchine, un accavallarsi di pensieri mi attraversò la mente. Ripensando a ciò che mi aveva detto sulla morte, mi venne in mente Caroline,

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Enea, Adalgisa: come non accorgersi che a un essere caro che muore abbiamo dato così poco, e così poco mani-festato il nostro amore, per le nostre trascuratezze, i nostri capricci, le nostre viltà, il nostro egoismo?Bisognava morire per essere amati? Inutile piagnucolare allora, i morti se ne infischiano delle nostre lacrime, del nostro amore. Troppo tardi. Per quanto mi sembrava di aver amato, mi sentii un po’ mascalzone.

Non ho più rivisto Joe. Non riesco a spiegarmelo. Forse perché si era fatto strada, apparteneva economicamente a un altro mondo, non avrei mai potuto ricambiarlo. Comunque, per questa o un’altra ragione, non erano buone ragioni.

Ma poi, cosa vale una presenza o un’assenza?Tante volte non si è mai tanto presenti quanto

nell’assenza. Solo quando una persona cessa di mancare è cancellata dalla memoria, solo allora è veramente morta, non esiste più. E’così anche con Dio, se manca è già presente. Diversamente è come morto.

E Joe improvvisamente mi manca.Perché volerlo ritrovare? E Nancy…Forse voglio solo ritrovare quel tempo in cui i miei capelli splendevano come oro.

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XIUN ASSIDUO FREQUENTATORE

DELLA CINETECA“Avremmo potuto incontrarci sulle barricate”

ean-Pierre è uno di quelli che, come Jean-Marie, rivedo ogni anno quando vado a Parigi. Era nella

stessa classe di Joe, ma non erano amici tra di loro. Ora vive su una “barca” lungo la Senna, a una cinquantina di chilometri dalla città.

JUn cinquantenne, ormai. Fa il tassista di notte. Vive con una donna che non mi ha mai presentato. “Bruttina” mi ha detto Jeanine, la mamma, rimasta vedova vent’anni fa (mi sembra ieri), con quel figlio, un artista, un sognatore, sempre al verde e pieno di debiti.

Arrivò un lunedì mattina che l’anno scolastico era già cominciato da più di un mese. Capelli lunghi, con jeans e un giubbotto di pelle usati, già in ritardo per la lezione delle nove. Si scusò appena. Madame Pons, ch’era seduta alla scrivania di fronte alla mia, si alzò e lo accompagnò nella sua classe. Attraversando l’ufficio mi guardò di sbieco, non proprio con simpatia.

“E’ un ragazzo che bisognerà tener d’occhio” mi disse la direttrice quando tornò in ufficio. “La mamma mi

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ha supplicato di prenderlo. E’ la sua ultima chance. E’già stato scacciato da diversi licei per assenteismo, insof-ferenza alla disciplina. Ragazzo intelligente ma ribelle, e quando studia, studia soltanto quel che gli piace.”

“E che cosa gli piace?” chiesi.“Un po’ di letteratura, lingue, nozioni sull’arte.”“E’ già mica male” dissi.“Sì, ma lo fa a modo suo, in modo disordinato,

incostante, e solo quando ne ha voglia.”

Jean-Pierre venne ammesso in “terminale A”, la classe dei “letterati”, alla quale non sempre ci si iscriveva per amore della letteratura, ma soltanto perché sembrava meno impegnativa delle altre. Una classe insomma per i meno laboriosi o per sognatori.

Per Natale organizzavo una festa. Io mi mettevo alla chitarra acustica e cantavo, al piano si metteva un certo Fournier, alla chitarra elettrica Amar, un algerino, alla batteria Malka, ebreo. Il sabato si facevano le prove. Jean-Pierre dovette sentir parlare del nostro gruppo, e moriva dalla voglia di farne parte - lo sapevo - ma toccava a lui andare oltre i pregiudizi nutriti finallora contro pro-fessori e sorveglianti.

Un pomeriggio, alla fine delle lezioni, si presentò in ufficio, l’aria piuttosto impacciata.

“Posso parlarti?” disse.Gli alunni mi davano tutti del tu. E per tutti ero Mariò, senza il solito formale “monsieur”.

“Certo” dissi, un po’ sulla difensiva. “C’è qualcosa che non va?”

“No, no, va tutto bene. Vorrei solo chiedere…” esitò, poi: “se potrei unirmi al gruppo che suona?”

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“Cosa suoni?” feci, meravigliato.“La chitarra basso.”

Era proprio quello che ci mancava, ma non mi fidavo di uno come lui che faceva solo le cose che gli piacevano e solo quando ne aveva voglia.

“Noi proviamo tutti i sabati pomeriggio” dissi. “E’ piuttosto impegnativo. Siamo un bel gruppo, e nessuno manca mai.”

“Non mancherò nemmeno io” disse, sicuro. “Allora d’accordo, vieni pure.”

E, chinato sulle mie scartoffie, feci finta di riprendere il lavoro senza più prestargli attenzione, ma lui non se ne andava.

“C’è qualcos’altro?” dissi allora, alzando il capo e guardandolo bene in faccia. Rimanevo diffidente.

“Sì, vorrei iscrivermi ai corsi d’italiano.”Faceva già inglese e spagnolo, non ne aveva proprio bisogno e, visti i risultati, avrebbe fatto meglio ad appli-carsi di più in spagnolo, il professore si era già lamentato.

“Appunto” disse lui, “vorrei lasciar perdere lo spagnolo, tanto non mi piace, e il professore non mi va giù.”E’qui che il dente doleva. Anche se la sua richiesta mi faceva piacere, non so se per scoraggiarlo o per metterlo in guardia, dissi:

“L’italiano non è facile come si crede.” E poi - con una punta d’ironia: “Non è detto che ti piaccia, e che io ti vada giù.” Lo guardavo fisso negli occhi senza che lui abbassasse i suoi. Mi trattenevo a stento dal ridere. Perché insomma, lo capivo, e dentro di me ero dalla sua parte. Il professore di

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spagnolo, che si prendeva per un hidalgo – ridicolo – era antipatico anche a me. Dissi, fintamente serio:

“Avrai da fare, chiedi agli altri.”“Ho già chiesto.”“Ti avverto però che, proprio perché amo la mia

lingua, in classe io non scherzo. Detesto gli amatori, gli assenteisti, i menefreghisti”, e stavo per dire i figli di papà, che venivano a scuola solo per passare il tempo fino alla maggiore età, tanto il loro avvenire era assicurato in un modo o in un altro. Ma aggiunsi, sforzandomi di essere ancor più rompiscatole:

“Dovrai farlo con passione o niente.”“D’accordo” disse lui, ammiccando, come se stesse

al gioco. “Quando una cosa mi piace la faccio sempre con passione.”Nel dir così avvertii anche da parte sua una punta di ironia. E mi tese la mano, come uno che ce l’aveva fatta dopo il provino per l’assegnazione di una parte a un attore. Stava per andarsene quando si voltò e, illuminandosi in volto, disse:

“Mi piace il cinema italiano. Ci parlerai di Fellini, di Visconti, di Pasolini, di Antonioni, e di tutti gli altri grandi registi? Ho visto quasi tutti i loro film.”Decisamente quel ragazzo mi stupiva. Non era come gli altri, mi assomigliava. Scavando, chissà quali tesori avrei trovato.

Tutto partì da lì, una lunga storia, che dura tuttora. Diventammo amici, conobbi la mamma, Jeanine, il papà, Jean, e la nonna: era tutta la sua famiglia. Inutile dire che la festa, la boum, come la chiamavano i ragazzi, fu un trionfo. Si cantò e si ballò fino a tarda sera.

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Come pattuito, Jean-Pierre mantenne la parola. Si appassionò all’italiano. Non voleva deludermi. Ma seguì con interesse, se non con la stessa passione, anche il corso di filosofia. Questo non mi stupì più di tanto perché Gluckstein, sulla trentina o poco più, era un professore davvero eccezionale, accattivante. E non tutti i professori erano eccezionali, accattivanti, ce n’erano addirittura - come certi predicatori - di tenacemente barbosi.

Gluckstein. Mi fu amico, e mi insegnò tante cose. E’con lui che scopersi che si poteva essere ebrei e

atei. Aveva l’aspetto, la faccia dell’ebreo come spesso viene raffigurato. Non alto e piuttosto magro, si lasciava crescere la barba. Era disarmante per la modestia, l’intel-ligenza, la semplicità, il modo di vestire dimesso. Sapeva ascoltare, qualità rara per un insegnante. Ammetteva di sbagliare. Non era uno che pensava di detenere la verità.

“Interessante” diceva spesso dopo aver ascoltato la riflessione di un alunno:

“A questo non avevo mai pensato.” Il “però” arrivava dopo, come un’aggiunta, per precisare un pensiero, che cercava di modellare, perfezionare, come un maestro in pittura consiglia, corregge, guida il pennello dell’alunno che si è messo alla sua scuola.

Una sera feci una festa a rue de Paradis. C’erano lì Sylvie Sommariva, che tanti ragazzi corteggiavano, la bionda, un po’oca ma gentile Patricia Antonioli, Richard Amato e Richard Caltagirone - che tipi questi due, che allora vedevo spesso - e Pino, Jean-Marie e altri di cui non ricordo il nome. E, lui, Gluckstein, che scolò una mezza bottiglia di whisky. Quante discussioni tra noi due su questo o quel filosofo, ma soprattutto su Nietzsche, che

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avevo appena scoperto e che ingenuamente attaccavo pur subendone il fascino. Quanti lampi, però, nella sua dolorosa ricerca della verità. Ne avvertivo l’importanza, il genio…che sotto sotto invidiavo, ammiravo. Ricopiavo nel mio diario tante sue affermazioni e aforismi, e questa sua frase per esempio, oggi più che mai vera:

“Ho cercato grandi uomini e non ho trovato che scimmiotti del loro ideale.”Quanto alla sua pazzia non resisto a trascrivere qui queste righe di un amico, incontrato per caso recentemente, Emanuel Carnevali, morto ancora giovane, a 45 anni, in un ospedale psichiatrico:“L’ottocento” scrive, “era fatto di maschere: maschere della poesia, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Verhaeren, Carducci, Leopardi, tutti più o meno pazzi, tutti più o meno ammalati, e Baudelaire interamente pazzo. Le maschere della musica, con Schumann, Beethoven, l’uno pazzo e suicida, l’altro sordo, Donizetti, anche lui pazzo. Pensavo con amore al suicidio di Van Gogh e alla filosofia di Nietzsche.”

Con quanto amore pensavo e penso tuttora anch’io a questi pazzi tenebrosi che illuminano l’umanità. Pazzi cui con amore pensava anche Jean-Pierre. Ne parlavamo, li leggevamo. A scuola, più che insegnare, cercavo di imparare con insaziabile avidità e curiosità. Mi sentivo un alunno tra gli alunni.

Jean-Pierre voleva diventare un artista: cantautore, ma il teatro e il cinema lo attiravano di più. All’inizio del maggio 68, appena sedicenne, si era unito agli studenti in rivolta che protestavano contro la chiusura della cineteca fondata da Henry Langlois per la conoscenza del cinema e

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la conservazione del suo patrimonio. Alla cineteca si poteva assistere a ogni sorta di film, buoni e meno buoni: western, thriller, comici, film nuovi o dimenticati negli scantinati, una meraviglia per gli appassionati, una scuola per coloro che sarebbero diventati i registi della nouvelle vague come Godard e Truffault. Jean-Pierre era un assiduo frequentatore della cineteca, sempre seduto ai primi posti per essere il primo a vedere le immagini che passavano sullo schermo. Se le beveva, se ne impregnava. Ne era incantato, stregato. Questo spiega il suo assenteismo a scuola.

Gli studenti, frequentatori della cineteca, furono i primi a scendere in piazza contro l’allora ministro degli Affari culturali, André Malraux, che per decreto, inspiega-bilmente, scacciava dalla cineteca il suo fondatore. La cineteca venne chiusa. Si sa come andò a finire: la protesta di questi sognatori amanti della settima arte fu il deto-natore che intaccò altre categorie, dilagando per tutto il paese. Inarrestabilmente.

“Avremmo potuto incontrarci sulle barricate” mi diceva Jean-Pierre. “E magari ci siamo trovati anche alla Sorbona o all’Odéon senza conoscerci. La chiusura della cineteca è stata per me un duro colpo. Mi son sentito perso, mi sembrò improvvisamente che tutto crollasse intorno a me. Che tristezza! Era il solo posto dove potevo rifugiarmi e dimenticare.”

“Dimenticare che cosa?”“Dimenticare lo schifo. La vita così come ci vien

proposta: metrò, lavoro e casa, no, non fa per me. Io voglio vivere libero, voglio sognare, voglio essere io e mille altri, voglio evadere.”

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“Evadere da che cosa poi?” lo spingevo a rispon-dere pur sapendo da che cosa.

“Dalla monotonia, dalla noia, capisci?” Lo capivo, eccome!Goethe ne “I dolori del giovane Werther” scriveva:Il genere umano è ben monotono. Questi passano la maggior parte del tempo a lavorare per vivere, e la poca libertà che resta loro li imbarazza talmente, che cercano tutti i mezzi possibili per sbarazzarsene. Oh sorte umana!Jean-Pierre voleva sfuggire a questa monotonia, a questa sorte. Non ci stava.I genitori invece, cresciuti diversamente, che per tirare avanti erano “costretti” a sgobbare dal mattino alla sera, lo incitavano a trovarsi un lavoro dopo il bac, ma lui aveva in mente ben altro. Però scendeva a compromessi, e ogni tanto, per accontentarli, scriveva una lettera qua e là in risposta alle offerte di lavoro che il papà gli indicava su un quotidiano, sperando però che non fossero prese in considerazione.Durante le vacanze andavo ad aiutare Emma, la mamma di Jean-Marie, nella sua agenzia immobiliare. Un giorno venne a trovarmi lì Jean-Pierre. Mi tese la lettera di una banca che gli proponeva un ingaggio.

“Mi sembra una buona opportunità” dissi.“Non ci vado” fece lui, testardo.“Il treno passa una sola volta nella vita, forse

dovresti provare, vacci!”“No, non ce la farei mai. Non è un lavoro per me.

Mi sono iscritto a un corso d’arte drammatica.” “E allora perché mi fai leggere questa lettera?”“Speravo un’altra reazione, un sostegno da parte

tua.”

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Non potevo consigliarlo diversamente. Ma dentro di me approvavo la sua decisione. Al suo posto avrei fatto lo stesso. Era quello che anche a me sarebbe piaciuto fare, fare l’artista, il cantante, o qualcosa del genere comunque, e anch’io per evadere, sognare, essere amato, felice come mi sembrava che lo fossero gli artisti. Forse non avevo insistito abbastanza, non mi ero battuto abbastanza. Ma lui ce l’avrebbe fatta. Era un bel ragazzo, non senza talento. E poi, diversamente da me, non era solo. Non gl’incombeva l’urgente necessità di guadagnarsi da vivere, non ancora, a vent’anni. Non era in strada. Non gli mancava nulla. Se aiutato, spalleggiato, sarebbe arrivato. Sta di fatto che quel giorno Jean-Pierre scelse il rischio, l’insicurezza. Anzi nemmeno scelse il rischio, l’insicu-rezza. Era sicuro che quella era la sua strada. Se soltanto si fosse visto più tardi!

Ora, come il giovane tenente Drogo nel “Deserto dei Tartari”, lui sogna, guai se sapesse come andrà a finire. E tuttavia, a ben vedere, tutti coloro che scelgono strade più sicure, come finiscono?

Qui mi viene in mente un vecchio film in bianco e nero di Jean Renoir: “Boudu, sauvé des eaux”, con l’inenarrabile strabiliante Michel Simon, immenso attore. In breve, ecco: è la storia di Boudu, un pittoresco e spensierato clochard. Un giorno però, dopo aver smarrito il suo cane, si butta nel fiume. Il proprietario di una libreria, un brav’uomo, che proprio in quel momento sta osservando la strada con un cannocchiale, vedendolo buttarsi dal ponte, non esita un istante, corre giù, si butta in acqua e lo trae in salvo.Se lo porta in casa, lo cura, e, sentendosene responsabile, cerca di fare di lui una persona come si deve. Boudu si

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sforza di cambiare, vien ripulito, rivestito da capo a piedi, va persino dal parrucchiere, si fa tagliare la barba, si lustra le scarpe, fuma persino i grossi sigari che gli offre il libraio, insomma scimmiotta i signori, ma purtroppo quella vita ben ordinata e felice non fa per lui. Apparente-mente ben ordinata e felice, perché il libraio se la fa con la giovane domestica, e la moglie, trascurata dal marito, si annoia da morire. Così, prima insofferente, si lascia sedurre da quel selvaggio di Boudu. Scopertisi a vicenda nelle braccia l’uno dell’altra - per la buona pace di tutti - finisce che a Boudu si dà in sposa la giovane domestica.

E’il giorno del matrimonio. Dopo la cerimonia, vediamo i quattro in barca per una romantica passeggiata sul fiume: il quadro è idilliaco. Ma ecco che, per un brusco movimento, la barca si rovescia. Il buon libraio, la moglie e la giovane sposa si mettono in salvo, ma Boudu - l’occasione è troppo buona - ne approfitta per sparire e darsi per annegato. Quella vita borghese lo annoiava, non gli conveniva, gli era troppo stretta. Giunto più lontano a riva, butta i suoi begli abiti da cerimonia e si riveste con gli stracci di uno spaventapasseri e, canticchiando, lo si vede tornare alla sua vita di prima, selvaggio, povero, ma libero e felice, lui sì veramente felice.

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XIIUN IDOLO PIETOSO

“E’ morto crocifisso con Cristo senza saperlo”“Certi poeti sono come angeli”

nno 1971. La notizia, nell’ambiente, trapelò solo dopo alcuni giorni, poi si diffuse come un lampo

sulla prima pagina dei giornali specializzati, alla tv, tra l’incredulità e la confusione di notizie contraddittorie, il rifiuto di credere che “l’eroe” fosse veramente morto, com’era già successo con James Dean e Elvis.

A

Purtroppo, però, la mattina del 3 luglio, il poeta dei Doors, Jim Morrison, era stato trovato esanime nella vasca da bagno proprio dalla sua ragazza – la sua “sposa cosmica” come la chiamava Jim – con la quale viveva dal mese di marzo in un bell’appartamento al 17 di rue Beautreillis nel quarto arrondissement, non lontano dalla Senna.

La sua vita finiva lì, distrutto così, schiantato così. Venne sepolto, quasi di nascosto, alla presenza di solo cinque persone al cimitero del Père Lachaise, dove giorni prima si era recato vagando tra le tombe di Edith Piaf, Oscar Wilde, Chopin, Balzac, Proust, Colette, Bizet, Balzac, Sarah Bernhardt, Héloïse e Abélard, Molière,

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esprimendo il desiderio d’essere sepolto lì, con loro. Presagiva?

La versione ufficiale fu ch’era morto per un arresto cardiaco. Ma più probabilmente era morto come Brian Jones, Jimi Hendrix e Janis Joplin, vittima di un’overdose. Triste fine. Ma uno come lui non poteva vivere a lungo. Lo sapeva.

Eppure Jim, fino ai vent’anni, frequentava la Florida State University: uno studente tranquillo, un bravo ragazzo che partecipava alle parate e alle partite di football. Lo si vede così nello spezzone di un film, girato nel campus dell’università nel 1961. Che cosa porterà quel ragazzo qualunque, tutto acqua e sapone, a diventare il provocante ribelle dei Doors dai lunghi capelli e dai vestiti di pelle, immerso nell’alcol e nella droga fino a essere arrestato nel 1969 per esibi-zionismo e per aver simulato l’atto sessuale durante un concerto a Miami? La noia di una vita qualunque? L’assenza di Dio? Ma poi che Dio era quello che tante chiese proponevano? Perché quel suo fuggire, quel suo cercare nell’alcol – sua droga preferita – ciò che neppure il denaro, la gloria gli davano?Era così per tutti i poeti? Per Baudelaire, Rimbaud – l’amatissimo – e tanti altri? Era questo il prezzo da pagare? Se ne parlava a scuola. Jean-Pierre mi aveva portato sulla sua tomba – una tomba talmente piccola che sembrava fosse stato sepolto in piedi – dove accorrevano da ogni parte ragazzi e ragazze che sembravano persi senza il loro idolo, un idolo pietoso, un idolo che aveva attraversato la vita nella più glaciale solitudine.

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Poeta ribelle, poeta dell’illusione, poeta della disperazione… Anima vagante, fusa a confusain cerca qua e làdi maestri e amici, in cerca del Paradiso perduto.Una vita così faceva paura e allo stesso tempo affascinava, destava compassione, come per un amico, un amico fragile, con tanto freddo nell’anima, e il cuore rotto.Tornando dal cimitero, camminando, dissi a Jean-Pierre:

“E’un ambiente crudele quello degli artisti, perico-loso, solo i più forti se la cavano.”

“Lo so” disse soltanto. “E non ti fa paura?”

“Non ci penso. Sono casi estremi, individui che bruciano tutto in poco tempo, che osano andare oltre…”

“Oltre che cosa, dove?” “Oltre se stessi, oltre la vita, più in là dell’oriz-

zonte, non possono fare a meno di bruciarsi, di immolarsi. Certi poeti sono come angeli. Vogliono volare, volare, e si bruciano le ali.” Jim era passato così su questa terra, come una vampata di fuoco subito spenta, un graffito osceno, un’ombra lumi-nosa; allucinato cercatore, carico d’odio e d’amore, un rivoltoso che aveva fatto dell’e-normalità la sua legge. Come Jean-Pierre mi sentivo vicino a questi rivoltosi, a questi scorticati vivi. Li capivo. Ma:

“Ai poeti come angeli” dissi, “non ci avevo mai pensato. ”

“Rimbaud per esempio è uno di questi, si è bruciato ch’era ancora adolescente” disse.

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“Infatti quel suo tormento era carne e anima…stra-ziate tra il bene e il male…e sete, curiosità insaziabili, in un continuo innalzarsi e precipitare.”

“E’ così per tanti artisti.” “E per i santi” osai dire. “Più si cerca il divino e più

si soffre. C’è questa lacerazione dell’anima prigioniera del corpo, proprio come i suppliziati che vengono squartati.”

“Certi artisti però, a differenza dei santi, sono allo stesso tempo volgari e sublimi” disse Jean-Pierre, “vedi Mozart, oppure teneri e violenti…Caravaggio, addirittura un teppista, un assassino.”

“Perché i santi” dissi, “cercano esclusivamente Dio, il puro, il sublime per eccellenza, non c’è più posto per la volgarità, per il male, sono completamente assorbiti dall’alto, non senza grandi tormenti, perché Dio è pur sempre inafferrabile.”

Mentre discorrevamo così lungo il marciapiede, sordi al traffico sulla carreggiata, il cielo si era fatto buio, minaccioso. Mi è sempre piaciuto andarmene a zonzo, da solo, sotto la pioggia come faceva James Dean, o anche in compagnia di una persona cara, magari sotto un ombrello a brandelli, come mi successe una volta con Franz a Montmartre. Ma lì, come si mise improvvisamente a piovere forte, ci rifugiammo in un bar. Appena il came-riere si fu allontanato, dopo averci servito il solito caffé – la bevanda meno cara – continuammo a discorrere come assenti, estranei alle persone sedute ai tavolini lì attorno. Jean-Pierre disse:

“Dio, chissà se esiste? Tu ci credi?”La sua domanda mi sorprese.

“Perché se tu ci credessi” continuò, “saresti un santo.”

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E santo certo non lo ero, anzi…Logica implacabile, logica di coloro che vogliono vedere Dio – se esiste – nel cuore dell’uomo, creato a sua immagine e somiglianza. Confesso che non seppi cosa rispondere, ma mi piaceva sentirmi provocare così, come spesso faceva in classe Gluckstein. Jean-Pierre era a una buona scuola. Infatti nessuna domanda è mai stupida o inutile. Le domande dei bambini, poi, sono quelle che più infastidiscono e mettono spalle al muro sapientoni, teologi e filosofi. Quanto a Cristo…mah! A Jean-Pierre sembrava ancor più assurdo, incredibile, una favola. E qui dovevo pur difenderlo quel povero Cristo, quel Gesù, l’Amico di un tempo, anche se per un po’ gliene avevo voluto dopo la morte di Caroline. Dissi:

“I santi non sarebbero santi se Dio non esistesse. A meno d’essere degli illusi. Io non credo che siano degli illusi. C’è in loro una forza, una luce che non è di questo mondo. E’impossibile essere santi senza Dio. Certi mistici poi, lo vedono, gli parlano, ne sono completamente posse-duti.”Dicendo questo pensavo alla santa di Lisieux, di cui a dodici, tredici anni ero innamorato. Poi, con più passione e ancor più convinto, proseguii:

“Quanto a Cristo, e più precisamente all’uomo-Dio crocifisso, io lo vedo anche in uno come Jim Morrison, in questa sua vita balorda, senza freni, paracadute, in cerca a modo suo di un assoluto che ricercava su un palcoscenico, nell’amore effimero e illusorio dei suoi fans, nel fondo di un bicchiere, nel sesso, nella droga. Nella poesia. Vedo Cristo in questa sua sofferenza, nella sua disperata sviata allucinata ricerca, nella sua follia. Preso dal panico, è morto crocifisso con Cristo senza saperlo.”

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Jean-Pierre rimase silenzioso. Lo sapevo più sensibile a questi argomenti che non ad altri più sapienti, più teolo-gici, argomenti che del resto non ero in grado di fornirgli. Disse:

“Ma dove vai a trovare queste idee? Comunque è bello così, e forse è come dici tu. Sarebbe interessante parlarne con Gluckstein, proprio perché è ebreo e ateo.”E come al solito disse questo ammiccando.

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XIIIERI LA MAMMA DI JEAN-MARIE

Sarebbe stato un tradimento

er un certo tempo Emma fu la mia tenera amica, e poi la tentazione. Ci vedevamo spesso, in macchina,

attraverso le vie di Parigi, di notte. Ma era la mamma di Jean-Marie, la compagna di Marcel, il papà: così la vedevo, la pensavo io, e nessun altro pensiero mi attra-versava la mente.

P

Una sera mi portò al drug-store, un locale sul boulevard des Italiens, vicino all’Opéra, un locale intimo, a luci soffuse. Ci perdemmo in un Pimm’s, un cocktail allora alla moda, dolce ma traditore al punto che, dopo un po’, mi sembrò che Emma cambiasse fisionomia. E forse, vedendo le altre coppie amoreggiare teneramente, o fors’anche per l’alcol che, non essendo abituata, comin-ciava a fare il suo effetto, mi disse:

“Come sei distante, Mario!”E si strinse tra le mie braccia.Sorpreso, la lasciai stare così. Però, se Jean-Marie ci avesse visti? Non era tradire la fiducia che riponeva in me? “Che mascalzone!” mi avrebbe detto, e tutto sarebbe finito lì. Pensai anche a Marcel che mi ospitava alla sua

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tavola. E tuttavia, lì, tra le mie braccia, Emma sembrava abbandonarsi come una bambina. Se nel tenerla così tra le braccia mi dava un senso di colpa, allo stesso tempo però cedevo alla tenerezza e al piacere che mi presero tutto intero.

Cara Emma, ancor oggi mi succede di pensare a quel momento. Così innocente, quasi infantile. Forse adesso reagirei diversamente. Fu un momento dolcissimo: tu fra le mie braccia, come offerta, fiduciosa. Momenti da capogiro.

Ti ricordi del nostro primo incontro? Mi telefonasti per invitarmi a pranzo. Era una domenica mattina, di maggio. Faceva caldo quella domenica. Mi sei parsa, se non giovanissima, ancora tanto giovane, e comunque all’età che amo. Poi venni a casa molte altre volte. Avevamo simpatizzato per via della nostra italianità. Parlare italiano ci faceva bene, benché tu non parlassi bene né il francese né l’italiano come succede a chi, non avendo studiato, mischia un po’ le due lingue. Ma questo, con quel tuo accento, si aggiungeva al tuo charme. Spesso, dopo pranzo, uscivamo insieme, con Jean-Marie. Marcel preferiva rimanere a casa. Notavo che gli uomini si volta-vano a guardarti per strada. Eri desiderabile, come una bella torta alla crema Chantilly.

Ti piaceva provocare gli uomini, ma senza malizia, così, per civetteria, per provare a te stessa che piacevi ancora. Non volevi darti per vinta, volevi rimanere a galla. E certo eri affascinante o meglio, come si dice in francese, charmeuse, enjoleuse. Il sorriso era l’arma con la quale disarmavi, incantavi. Credo che pochi abbiano saputo resisterti. Piacevi agli uomini, ma alle donne che ti facevi

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amiche. Non voglio dire con questo ch’eri una donna facile, tutt’altro. Non ho mai conosciuto una come te, così donna e bambina allo stesso tempo. Femmina. Innocente e sensuale, ma di una sensualità, come dire? selvaggia, naturale. Donna avevi un non so che della Sabrina Ferilli, questa sua sensualità e tenerezza, bambina possedevi l’innocenza, la freschezza della giovane Claudia Cardinale nel film di Fellini “8½”.

Che cos’ero io per te? Un amico? Il gran fratello di tuo figlio?

Poi venne giugno. Le passeggiate lungo la Marna, in famiglia. Mi piaceva stare con voi. Tu, per me, prendevi un po’il volto di mia madre. Non ti piaceva recitare questa parte, lo so, ma non offenderti. Mia madre era giovane, più giovane di te, molto più giovane di te quando morì. Era bruna come te, con gli stessi capelli che le cadevano sulle spalle, lo sguardo però era diverso. Per mia madre non esisteva che mio padre, innamoratissima, anche se lui la batteva e correva dietro ad altre. Le piaceva cantare, ridere, come piace anche a te. Capiva la miseria degli uomini, come la capisci anche tu. Insomma avevi preso il suo volto. Non ci hai mai pensato? No, non ci hai mai pensato. Troppo presa dal voler sedurre, per rassicurarti, e per niente preoccupata di sapere cosa pensavo io in certi momenti. Avrei voluto dirtelo, ma non capitava mai l’occasione, o non ne avevo il coraggio. In luglio Jean-Marie partì per il campeggio. Passavamo mattinate intere a telefonarci. Mi raccontavi la tua vita, tutta la tua vita…o quasi.

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“Ma perché ti ho raccontato tutto questo?” mi dicevi alla fine.Mi piaceva che tu ti raccontassi, ti confidassi.

“Credo di aver trovato in te un fratello, forse perché ho rotto – per una banale questione di soldi – con il mio che abita a Torino. Sei italiano come lui.”Mi beavo. Ero contento. Sentivo il tuo respiro al telefono quando il silenzio sì interponeva tra noi. Un pomeriggio mi annunciasti la consegna della tua nuova automobile:

“Vuoi provarla?”

Poi le cose andarono avanti, successe quel che successe, e non fu più come prima. Qualcosa si era incrinato, nei pensieri, nella mente. Un non so che di ambiguo, di meno limpido, di meno innocente si era infiltrato. Quando ogni tanto passavi alla scuola per chiedere di Jean-Marie alla direttrice, non osavamo guardarci negli occhi. Mi vergo-gnavo, mi vergognavo per me e per te. Non riuscivo più a vederti, a pensarti come la donna da amare come la più tenera di tutte.

Tornando dal drug-store, mi accompagnasti a rue de Paradis. Forse la tua, nel buttarti tra le mie braccia, era stata soltanto una innocente effusione. Comunque giocavi col fuoco. Non riuscivo a capire cosa volevi da me, e anche soltanto dubitare mi sembrava indegno di te. Ti rispettavo. Eri la mamma di Jean-Marie. Non avrei più potuto guardarlo negli occhi. Sarebbe stato come un tradimento. E Marcel in tutto questo? Dovevo essere io il più forte, forte per tutti e due. Non accadde nulla.Tornando più tardi da Roma, mi dicesti:

“Mi hai delusa, Mario.”

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Ti risposi:“No, tu mi hai deluso.”

Avrei dovuto essere il tuo amante? Per quanto tempo? Una notte, due notti? Fino a quando? No, con me era tutto o niente. Impossibile. Sarebbe stata una storia vergognosa, una relazione da nascondere, che sarebbe finita comunque male. Ti dirò, per lenire il tuo orgoglio, che quella sera ti ho desiderata, oh quanto desiderata! Fino allo spasimo. Appagato il desiderio, però, mi sarei disprezzato, disgu-stato. E anche tu, no, immagino?

Dopo lo smacco, chiamiamolo così, che fu invece una vittoria, non ti rividi che raramente, non ti interessavo più. E’questo che mi fece più male, la tua indifferenza. Per un certo tempo ti detestai, e stranamente, pensandoti tra le braccia di un altro, fui preso dalla gelosia. Eppure come sarebbe stato bello coltivare l’amicizia. E’ proprio impossibile tra un uomo e una donna? Immagina un po’ se ti avessi presa come una qualsiasi ragazza! Povera bambina! Saresti stata la prima a metterti a piangere, a morderti le dita. E la colpa sarebbe stata tutta mia.

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XIVL’INCONTRO CON MIO PADRE

All’Annunciata“Anche tu vivi un po’ come dimezzato”

ean-Marie lasciò la scuola due anni prima del bac. Si lanciò unicamente nelle arti marziali. Il suo fisico, la

sua faccia da cinesino, la moda del karaté e la sua bravura lo favorirono. Si era messo con Martine, una ragazza con i capelli crespi e le labbra carnose, non bella in viso, ma con un corpo ben fatto; neanche particolarmente intel-ligente, aveva però un non so che nel fare, nel parlare, nel guardarti che faceva pensare a una ragazza piuttosto, come dire? viziosetta, facile da portare a letto. Non so cosa colpì allora Jean-Marie, forse un po’ tutto questo, fatto sta che, dopo un po’, andarono ad abitare nella casa che i genitori di lei avevano lasciato a La Varenne, in periferia, per stabilirsi in Bretagna.

J

Da allora non lo rividi più. Così mi meravigliai non poco quando ricomparve all’improvviso. Non era più un ragazzino, ma ancor giovanissimo, e papà di due figli: Celina di nove anni, e Michael di quattro. Lo trovai una sera che mi aspettava all’uscita della scuola. Andammo a prendere un bicchiere al bar di fronte.

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“Come mai questa tua riapparizione dopo tutti questi anni?” gli chiesi.

“Niente” disse. “Vengo a stare un po’con te.”E cominciò subito a raccontarsi come se ci fossimo lasciati il giorno prima. La sua storia con Martine comin-ciava a fare acqua. Si sentiva, come nel deserto, un viag-giatore che perde il senso dell’orientamento.

Poi tornò ogni giorno. Tutte le sere mi accompa-gnava a casa, e tante volte cenava con me. Tuttavia, anche se la sua storia con Martine cominciava a fare acqua, faceva fatica ad ammetterlo, e faceva ancor più fatica ad ammettere che fra loro fosse ormai finito tutto, o quasi. Non era questione di lasciarla, solo a pensarci ne provava rimorso, e poi c’erano i figli, ma allo stesso tempo, ecco, si sentiva soffocare. Lei lo teneva stretto, troppo stretto, lo rosicchiava, lo divorava a poco a poco come una mantide religiosa, per cui sentiva sempre più imperioso il bisogno di liberarsi da quella stretta. Mi faceva un po’ ridere quando diceva:

“Mi succhia il sangue come una vampira.”Ma poi, tristemente:

“Non ho più amici. Ha fatto in modo di allontanarli tutti, uno dopo l’altro.”

“E tu non hai mai reagito?”“L’ho lasciata fare, per pigrizia, per non dover

litigare, per amore o per vigliaccheria…”Non sapeva più bene.Come un atto liberatorio da qualche tempo aveva preso a frequentare le prostitute che bazzicavano al bois de Vincennes. Ma poi si rese conto che anche questo diventava una schiavitù, un vizio. Se ne vergognava,

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oppresso dal senso di colpa. Gli chiesi allora se ne avesse parlato con sua madre, Emma. Come, non lo sapevo? Si era separata dal padre. Viveva a Port Louis, all’isola Maurizio, con un indiano di vent’anni più giovane di lei, un imprenditore. Costruivano case, villette che poi vende-vano o affittavano. Stavano bene, lei sembrava felice. E il padre? Povero Marcel! Era partito per l’Algeria, a Costantina. Non sapeva bene cosa facesse laggiù, forse dei corsi di architettura all’università, e là, pur sempre inna-morato di Emma, si era messo con una donna polacca, anche lei sola, una donna non bella, malaticcia, che beveva, chissà con quale storia alle spalle.

Un naufragio, pensavo io, mentre Jean-Marie rac-contava. Povere vite che si avvinghiavano per non morire di solitudine. Emma poteva anche essere felice, ma cosa lasciava alle spalle? Non si costruisce la propria felicità con l’infelicità altrui. Ripensai a quella volta, al drug-store dell’Opéra, e poi a rue de Paradis. Se le avessi ceduto? Dentro di me gliene volevo. Non si agiva così, mi delu-deva. Felicità, amore che cosa significavano per lei?

Tutto questo scombussolava Jean-Marie. Lo rattristava. Era rimasto solo. A questo punto si guardò attorno e si ricordò di me,

del tempo in cui era ancora un ragazzo, si ricordò della nostra amicizia, di quando discorrevamo di cose belle, spirituali, di un ideale da raggiungere. Ed ecco che, all’improvviso, e nuovamente, gli parve che l’amicizia fosse superiore a tutto – la nostra amicizia – alla quale ora, sentendosi smarrito, cercava di aggrapparsi. Era rimasto bambino, certo adulto sessualmente, ma bambino dentro. Il guaio è che si era messo con Martine troppo giovane,

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ancora adolescente, l’uno e l’altra immaturi. Per cercar di capir meglio gli chiesi:

“Ma che cosa ti ha spinto a far tutto così in fretta?”“Per andar via da casa” disse, “e perché Martine

faceva bene l’amore. E’con lei che l’ho fatto la prima volta. Mi piaceva, lei non ne era mai sazia, e neanch’io. A La Varenne stavamo bene, per me era una cosa nuova, mi dava un senso di indipendenza, di sicurezza. Poi è venuta al mondo Celina, e più tardi Michael. Cosa potevo desi-derare di più?”

Ma poi?Non sapeva spiegarselo. Constatava semplicemente

che non era più felice con Martine; in fondo, forse, non lo era mai stato. Si era buttato nell’amore come ci si butta a letto. Un fuoco di paglia. Col tempo si accorse che aspirava anche a qualcos’altro, non sapeva ben dire a che cosa, a qualcosa che lo soddisfacesse più pienamente, a qualcosa di più alto, di più completo, che forse non esisteva, che però gli mancava. Martine era troppo pro-saica, non badava che alle cose materiali. Sentimentale sì, ma in modo meschino, piccolo, come una che avanza con i paraocchi. A lei bastava così.

Alla lunga si era creato un divario nel loro modo di pensare, di vedere, di sentire; un modo di pensare, di vedere, di sentire inconciliabili. A poco a poco si era stancato di quella vita monotona, senza ideali. Non guardavano nella stessa direzione. Erano arrivati a un punto che a guardarsi negli occhi non c’era più niente da scoprire. Neppure a letto. Era solo un tirare avanti, un ripetersi…un languire, un mentire, un morire. E non era facile prendere una decisione senza soffrire e far soffrire. E quale decisione prendere? Non si augurava che

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andasse tutto a rotoli com’era successo a suo padre e a sua madre.

“Ma i figli” dissi, “non bastano per far stare insieme due persone?”

“Per un po’ l’ho pensato” disse, “e mi illudevo che potessero bastare, ma poi mi son reso conto che non si sta insieme per i figli, ma perché ci si vuol bene, perché non si può fare a meno l’uno dell’altra.”

“E tu puoi fare a meno di Martine?”“Non lo so. Eppure, anche se non sento più quel

che provavo prima, vorrei amarla.” Era sincero quando diceva così. Dissi:

“Se vuoi, puoi. Ma lo vuoi veramente?”Scosse la testa. Non ne era così sicuro. Disse:

“Da una parte voglio, e dall’altra non voglio. Oggi voglio, e domani non voglio più ciò che volevo ieri. E’ strano, non trovi?”

“Non è strano, siamo fatti così” dissi soltanto.Questo suo “voglio”, e “non voglio” oggi mi fa pensare a san Paolo, a sant’Agostino, al fatto che nell’uomo ci sono due volontà, una buona e l’altra cattiva. Anche nel credere è questione di volontà. Teresa di Lisieux, nell’aridità, diceva: “Io non credo, ma voglio credere.” Con Jean-Marie mi sembrava di tornare indietro di tanti anni, quando veniva a trovarmi e parlavamo per ore e ore senza renderci conto del tempo che passava. Mi diceva:

“Stare con te mi sembra di essere in paradiso.”Era così. A rue de Paradis, sotto i tetti, parlavamo di Dio, era lui il centro delle nostre conversazioni, dei nostri dubbi, della nostra cerca. Era forse questo che gli man-cava: Lui. Ma Dio non si trova così, per trovarlo bisogna scavare, scavar dentro, fin nel più profondo dell’anima.

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Tante volte, invece, ci si ferma come sul ciglio di un abisso. Ne abbiamo paura, presi da vertigine.

Del travaglio di Jean-Marie, Martine sembrava non ren-dersi conto per nulla. E lui teneva tutto in cuor suo, non senza bugie, sforzi, sbandamenti, sperando che gli pas-sasse. Per alcune settimane lasciai che venisse a raccontarsi, a sfogarsi, ma un giorno gli chiesi:

“Martine, lo sa che vieni da me?” “Non ancora.”“Cosa aspetti? Non devi nasconderglielo. Non c’è

niente di male.”Aveva paura. Paura che Martine mi rifiutasse come aveva già fatto con tutti i suoi più cari amici, isolandolo. Non era un bene. Gli amici di Jean-Marie erano tutti ragazzi spor-tivi, sanissimi, avversi all’alcol e alla droga. L’effetto boomerang non poteva che farsi sentire. Insistei. Vederci come due clandestini non mi piaceva. Una sera, finalmente, come se gli si aprisse uno spiraglio, mi annunciò che aveva parlato con Martine: tutto a posto. Stranamente non gli era parsa per niente sorpresa. Si ricor-dava bene di me. Sabato sera ero invitato a cena.

Abitavano un villino con un bel giardino. Per una giovane coppia era un bell’aiuto, dava un senso di pace, di tranquillità. Nel vedermi Martine mi fece quasi festa. La cena, con vari manicaretti, fu sontuosa. Si era data da fare come dopo il ritrovamento di un amico carissimo. Jean-Marie non smetteva di parlare, euforico, contento, e, per festeggiare l’avvenimento, insieme ai figli eccitati per quella festa, si dette come loro a divorar gelati.

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Da quella sera, insieme, trascorremmo un periodo, come dire? idilliaco, felice. Ci invitavamo a cena, a rue de Paradis o a La Varenne. Talvolta al ristorante, dalle parti della Porte de Choisy, nel quartiere cinese. I bambini mi si affezionavano. Per Jean-Marie fu come una boccata d’ossigeno, sembrava addirittura rinascere. E anche con Martine sembrava che tutto si rimettesse a posto. Lui però aveva esagerato. Martine era una brava ragazza, e non la mantide religiosa che divorava il suo uomo, o la vampira che gli succhiava il sangue. Tuttavia un dubbio qua e là s’insinuava. In effetti non sempre riuscivo a ben capire chi fosse veramente Martine. Ogni tanto mi dava l’impres-sione che aspettasse il momento giusto, l’opportunità per riprendere il controllo della situazione, per riprendersi insomma il suo uomo…e divorarselo in santa pace. Cauta, temporeggiava, ci osservava. Si rendeva conto però che con me il rischio era maggiore. Non ero un amico qualsiasi. Tuttavia non era che un’impressione, un vago sospetto, e me ne volevo per questo. Comunque Jean-Marie sembrava aver ritrovato la serenità, la gioia, l’ardore di vivere: era ciò che contava.

Ora ecco cosa avvenne proprio in quel periodo.Jean-Marie sapeva della nostalgia che nutrivo per

un luogo della mia infanzia, l’Annunciata. Per l’Ascen-sione, con mia gran meraviglia, mi propose di portarmici, curioso di vedere quel luogo paradisiaco di cui gli avevo tanto parlato quand’era ancora a scuola.

In Francia l’Ascensione si festeggia ancora di gio-vedì per cui, con il ponte, disponevamo di ben quattro giorni. Proposta impensabile per me, persino pazza, che certo mi tentava, ma irrealizzabile, perché Martine non

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avrebbe mai lasciato andare il suo Jean-Marie. Invece, lui tanto fece e tanto disse che, prendendoci un po’ in contro-piede, Martine stranamente acconsentì. Anche lei aveva bisogno di uno stacco, avrebbe portato i bambini in Bretagna dai suoi, e ne avrebbe approfittato per ritrovare amici che non rivedeva da un pezzo.

Jean-Marie impazziva di gioia. Così partimmo. Era da dieci anni che non mettevo piedi in Italia, e

da più di venti che non rivedevo un membro della mia famiglia. Ero scomparso, diluito nella natura, dato per disperso, e fors’anche morto. Non sto a descrivere il viaggio in auto, ma vengo subito all’essenziale, a ciò che più mi è rimasto impresso nella memoria. Passando per il lago d’Endine, volli salire fin su a Ranzanico, il paese di mio padre. Forse lì qualcuno mi avrebbe dato notizia di mio fratello, con il quale non avevo mai vissuto, e che non avevo rivisto che en passant quando avevo quindici anni. Con lui avrei potuto riallacciare un rapporto, raccogliere i pezzi, costruire ciò che non c’era mai stato. Non avevamo la stessa madre, lo stesso padre, lo stesso sangue?

Il paese era tutto cambiato. Si erano arricchiti. Spaesato, riconobbi a stento la casa dei nonni dove prima c’era un bel portone verde che dava sulla veranda, con i tipici archi del primo piano, l’osteria, il gioco delle bocce, la stalla con i cavalli. Tutto rovinato, distrutto, ricostruito a nuovo. La zia Angioletta, dalla finestra, mi riconobbe subito. Era diventata grassa, enorme, persino baffuta, ma era lei.

Su in casa, dopo gli inutili preliminari sui quali non vale la pena che mi dilunghi, chiesi subito di mio fratello

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Romano. Seppi così, senza tanti preamboli, ch’era morto nel 76, a neanche trent’otto anni. Ma come, di che cosa era morto? Sapevo che mio fratello faceva il camionista. Non aveva orari. Sempre sulla strada, giorno e notte. Una volta, per un colpo di sonno, finì in un fosso col camion rovinato. Ma lavora! lavora! Come riposarsi? C’era il mutuo da pagare per la gran bella casa – il suo sogno – che si era fatto costruire in riva all’Oglio. Da qualche tempo, però, aveva cominciato ad avvertire una inspiegabile stanchezza - un campanello d’allarme - ma lui non ci aveva fatto caso. Comunque era andato lo stesso dal dottore ma, vista la gente che aspettava, se n’era andato. Una sera, rientrato a casa, si era messo a tavola come al solito. All’improvviso, mentre mangiava la minestra, si era sentito male, e, come per aggrapparsi per non cadere, aveva tirato la tovaglia verso di sé ed era stramazzato a terra. Due ore dopo era morto: primo choc. Però c’era ancora mio padre, in pensione a Esine. L’Angioletta gli telefonò subito:

“Non indovinerai mai chi c’è qui?” Indovinò subito. Non mi aspettavo di rivedere mio padre. Chissà com’era dopo tutti quegli anni! Di lui non avevo che pochi ricordi, e quei pochi erano brutti. Dopo neanche un’ora arrivò: secondo choc. Sì, era lui, ma invecchiato. Un po’mi fece ancora paura, soggezione. Appena me lo trovai davanti mi disse:

“La penna era troppo pesante per farmi sapere dove ti trovavi?”Ci siamo abbracciati mentre Jean-Marie, commosso, andava a piangere nella stanza da bagno. Per risparmiare il pranzo all’Angioletta, partimmo subito per Esine dove

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abitava con Erminia, la moglie, la cara Erminia, che ne aveva viste tante. Lei poverina mi voleva bene, ma doveva star zitta. La sera ci invitò a cena al ristorante, dal “sapì”. Passato il primo momento, adesso ero contento di ritrovarlo, e lui fece di tutto per sembrare simpatico, e in effetti lo era. Fuori casa era sempre di buona compagnia. Gli piaceva scherzare, far bella figura, essere considerato. Jean-Marie lo trovò addirittura irresistibile. M’illusi che fosse cambiato. Così decisi che sarei tornato in agosto per le vacanze. Dovevo ritrovarlo, e insieme avremmo rico-minciato tutto daccapo. Il posto c’era, mi disse mio padre, potevo venire quando volevo, la porta era aperta.

La mèta però era l’Annunciata. Lasciata la macchina giù al paese - Cogno - siamo

saliti per la stradina che conduce al convento, la stessa che prendevo da bambino. Sentivo il cuore che dentro mi batteva forte. Chissà cosa pensavo di ritrovare? Le emo-zioni di un tempo, il bambino di allora…fra’ Lorenzo. Ma già tante erano state le emozioni, e gli choc. C’era un bel sole, faceva caldo. Lascio qui la parola al diario in cui descrivevo così quei momenti:

«L’Annunciata: tutta la mia infanzia, la mia intima e solitaria infanzia. Da lassù contemplavamo la valle, bella e verde sotto il sole del mattino che faceva brillare la croce metallica ai piedi della quale ci siamo seduti. La pace, la chiarezza, la leggerezza della nostra anima. Dalla valle ci giungeva il ronzìo delle macchine che sfilavano sulla superstrada. Un mondo derisorio. Lassù eravamo più vicino al cielo che alla terra.

“E se ci facessimo eremiti?” ruppe a un certo punto il silenzio Jean-Marie. “Vivremmo in una grotta, lontano da tutto e da tutti, che ne dici?”

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“E’ un sogno.”“Lo so, ma è un sogno che ogni tanto mi passa per

la testa, mi tiene a galla, mi impedisce di sprofondare: l’anima esige la sua parte. Non è così anche per te?” Sì, era così anche per me. Lasciar perdere tutto…Chi non vorrebbe vivere come nei sogni, e sognare, sognare…volare.

Rimanemmo così per un certo tempo a contemplare la valle, silenziosi. Chissà a cosa pensava Jean-Marie, che sentivo lì accanto, che aveva voluto a tutti i costi portarmi fin qui sui luoghi della mia infanzia. Improvvisamente, ripensai alla sua storia, e mi venne di chiedergli:

“Ma, dì un po’, in fin dei conti, di che cosa è fatto l’amore fra te e Martine?”La domanda sembrò spiazzarlo. Poi però, su quell’altura, ai piedi della croce che ci sovrastava, si rese conto di una cosa. E, quasi inciampando su ogni parola, disse:

“E’ fatto di qualcosa di non chiaro, di paura, non saprei dire…è fatto d’impurità.”A questa parola, memore di una delle mie, come dire? non proprio lezioni, ma conversazioni come tra padre e figlio - che servivano soprattutto a me - gli dissi:

“Vuoi che andiamo avanti come facevamo a scuola? Che ne dici?”

“Ci sto” fece Jean-Marie, incuriosito.“Ecco, questa parola: impurità, mi fa venire in

mente Rilke ne Le lettere a un giovane poeta. Senti cosa scriveva in una di queste, sono righe che, a forza di leggere, so a memoria:

Puri sono i sentimenti sui quali voi concentrate il vostro essere tutto intero e che vi elevano; impuro è un

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sentimento che non risponde che a una parte di voi stessi e per conseguenza vi deforma.”Jean-Marie rimase pensoso. Poi: “Per impurità io intendevo un’altra cosa, ma pen-sandoci, è vero, con Martine ho vissuto e sto vivendo un po’come dimezzato, soltanto con una parte di me stesso.”

“Ecco perché stai male. Perché insomma, a che cosa è legato il tuo amore?”

“Non lo so, a tante cose, alla casa, ai bambini, al sesso…”

“E basta?”“A cosa vuoi che sia legato?”“Pensaci. Quando, ragazzo, venivi a trovarmi a rue

de Paradis ne parlavamo spesso.”Jean-Marie ci pensò su un po’, poi:

“Ho capito. Vuoi dire che…dovrebbe essere legato all’amore di Dio.”

“Perché è lui la sorgente dell’amore. Tagliati fuori da questa sorgente, il più delle volte vediamo solo copie, o addirittura scimmiottature dell’amore.”Avevo sentito questo discorso alla radio, una sera, lo avevo registrato e poi notato. Jean-Marie sospirò, disse:

“Ma Dio… tante volte è così lontano!”Poi, come rassegnato:

“E’ comunque difficile amare.” “E’ l’opera suprema” scriveva Rilke, che aggiun-

geva: Bisogna prima tesorizzare a lungo, accumulare molto, il dono di sé è un compimento. L’uomo ne è forse ancora incapace.”

“E’ l’errore che ho fatto io” disse Jean-Marie. “Mi son buttato vuoto nell’amore.”

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“E’ l’errore che commettono tanti e che commetto anch’io. Ma cosa capiamo noi dell’amore? Tante volte ci facciamo accecare da un bel viso, da un bel corpo. Diventiamo come bestie. Confondiamo l’amore con il piacere. Vecchia storia. Però, vedi, se provo ammirazione per i vincitori - o se vuoi per i santi - provo simpatia per i perdenti, per coloro che, delusi, si arrendono, cadono, non ce la fanno, per i più vulnerabili, per coloro che vivono nel bene e nel male trascinati dalle loro passioni, dai loro sogni, dalle loro pazzie, dalle loro visioni.”

“Fammi un esempio” disse Jean-Marie.“Ecco, ammiro un Francesco d’Assisi, a modo suo

un sognatore, un pazzo, un visionario, ma provo simpatia per un Rimbaud, e per tutti i maledetti come lui, a modo loro anch’essi sognatori, pazzi, visionari. Come non esserne affascinati?”

“Ti sei mai chiesto perché?”“Perché loro osano andare fino in fondo a quello

che sono, osano scendere fin giù all’inferno. Si paga a caro prezzo, a prezzo della vita: è un gran dolore, una tortura, una crocifissione, un martirio. E’stato così per Pier Paolo Pasolini, uno scorticato vivo, un dimezzato anche lui, che però fece il più bel film su Gesù Cristo. Nei suoi vagabondaggi notturni cercava disperatamente un trait d’union tra l’inferno e il paradiso, tra lui e il paradiso. Tante volte mi avvicina a Dio più uno come lui - un maledetto - che non tanti predicatori. C’è in ogni uomo tutto un mondo oscuro e luminoso che non si è mai finito di esplorare. La maggior parte rimane in superficie, ma forse è meglio così.”Jean-Marie, che da tempo mi conosceva, disse:

“Anche tu vivi un po’ come dimezzato.”

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“Certo! Ho sempre vissuto d’impurità e nell’im-purità. Puramente solo nella mia prima adolescenza, quando toccato dalla grazia traboccavo d’amore. Ora più vado avanti, più la spaccatura si accentua. Ma a ben vedere, neanche i santi sono puri, puri sono solo gli angeli.”

“Allora non sono solo” esclamò.“Chi non vive dimezzato?”

Tornando giù sul piazzale, dopo aver bevuto l’acqua della fontana, quella stessa alla quale mi ero abbeverato da bambino, che placò non solo la mia sete ma anche la mia fame:

“Sai” mi disse ridendo, “è bello tornare a scuola, soprattutto con te.”

“Sapessi quanto ho imparato dai miei alunni, nes-suno escluso, non ne hai idea.”

“Anche da me?”“Mi fai ridere! Anche adesso mi stai insegnando

qualcosa. Però - aggiunsi - se ti ricordi, a scuola non ci venivi sempre volentieri.”

“E ho fatto male. Ora mi rendo conto che me ne son venuto via troppo presto. Ho voluto bruciare le tappe. Ma ti ho ritrovato, e sono contento.”Anch’io ero contento. Conservo una foto di quel giorno: Jean-Marie chino sulla fontana. Porta una tuta blu con una riga rossa sui lati. Mentre lo sto fotografando mi guarda e sorride con l’acqua che gli cade nelle palme delle mani. Ha un’aria così innocente, così innocente. Si vorrebbe che certi attimi durassero l’eternità, perché poi… Un vecchio frate, di cui non ricordo il nome, ci fece visitare il convento, e passare in un corridoio dove c’erano

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le celle con sulla porta il nome di chi le occupava. Su una di queste c’era un cartellino con questa scritta: “DIO SOLO.” Pensai che per il frate che viveva lì, Dio solo contava, ma Jean-Marie mi disse:

“E’ la cella riservata al buon Dio.”Passando davanti alla sagrestia ci imbattemmo in un altro frate con una lunga barba grigia e due occhi vivacissimi, buoni. Teneva tra le mani, come un tesoro, la pisside piena di ostie che stava portando sull’altare. Seppi poi ch’era padre Domenico.Jean-Marie, che non era esperto in oggetti sacri, chiese:

“Cosa c’è li dentro?”“C’è il paradiso” disse padre Domenico.“Il paradiso?” mi stupii anch’io.“Sì, il paradiso”.

E dicendo questo si strinse ancor più amorosamente il pre-zioso scrigno sul petto. Poi aggiunse:

“Nemmeno agli angeli è dato questo cibo, nem-meno agli angeli.”

Scrivo queste righe, qui, da mio padre, che sono venuto a ritrovare in agosto. Vedendomi chino sul quaderno, mi dice:

“Cosa fai lì? Vattene a fare un giro!”“Dopo, dopo.”

E lui: “Così non guadagnerai mai un soldo né una cicca.”Ecco, tra l’altro, ciò che mi separa da mio padre, che se ne va scuotendo la testa, sempre arrabbiato. Mio padre. Povero papà! Non l’ho mai chiamato così. Bestemmia, tratta male la Erminia. Non parla che di soldi, soldi, soldi.

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Non ne ha mai abbastanza, eppure non manca di niente: alla sua età di che cosa ha paura?

“Ha paura di morire” mi dice la Erminia. Per forza ha paura di morire! Ha sempre pensato

solo a se stesso, al suo ventre e al suo basso ventre. L’ora della verità si avvicina, ha paura di quest’ora. Mi fa pena. Un abisso ci separa. Mi pento di essere venuto, c’è qualcosa che non va. Gli do fastidio. Non mi sopporta. Mi aveva già sepolto, creduto morto, valeva meglio che conti-nuasse a crederlo. Forse mi odia.

Dal balcone intravedo l’Annunciata, che mi consola del male che mi rode dentro, del vuoto che non colmerò mai. Non so che cosa mi attira, sempre, verso questo luogo, forse l’attrattiva del bene, dell’innocenza di un tempo, o di Dio, semplicemente. E’ lassù che dovrei essere, lassù e non altrove.

Questa materia di cui sono fatto mi fa soffrire. La brut-tezza delle anime. La natura compensa il sordido di cui sono impastate le relazioni umane. Il denaro, gli interessi, la cupidigia corrompono i cuori.Spero di non lasciarmi mai corrompere da queste cose, o che Dio mi danni! E spero che neppure i miei amici si lasceranno mai guastare, deturpare da queste malattie.

Leggo questo, di Michel Quoist, sul retro della cartolina che mostra la valle:

“La bellezza si valuta secondo l’intensità dello spirito che penetra la materia: più ne è penetrata, più la materia risplende.”

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C’è appena stato un temporale, violentissimo. E qui nella valle sembra che il cielo mi cada sulla testa. Ma ecco il sole, che già riappare. Mille pensieri si accavallano, si urtano nella mia testa. L’amarezza prende il sopravvento. Mio padre è giunto a dire di me:

“Se lo si capovolgesse, non ne cadrebbe che della segatura.”Se non mi odia sembra disprezzarmi. Fa di tutto per umiliarmi, anche davanti alla gente. Mi fa paura, orrore, e allo stesso tempo pietà, ma è mio padre, e vorrei amarlo, soltanto amarlo. Ma lui non vuole farsi amare, da nessuno, perché lui stesso non ha mai amato nessuno.

Sto leggendo, o meglio sto cercando di leggere “Le livre des fuites” di Le Clezio. Questa frase mi colpisce ancor di più qui da mio padre:

“Efferatezza dei rapporti tra gli uomini. Qui, tutti cercano di approfittare, cercano di sorprendere l’altro, di derubarlo, di godere della sua carne. Non c’è dolcezza, non ci sono che i piaceri.” Non c’è dolcezza: è così vero. Mi vergogno che questo mi colpisca ancor di più qui da mio padre.

Tutti i giorni, da Esine, scendo in bici fino a Cogno, il paese dove sono nato, e vado a mettermi di fianco alla chiesa, là dove sotto scorre il torrente. Qui non c’è più nessuno che io conosca. Sono mancato da troppo tempo, dall’età di dieci-undici anni, ma già da più piccolo son stato via, dai nonni a Ranzanico, mentre mia madre moriva, sola, come una barbona.

Sradicato. Ecco cosa sono, uno sradicato. Qui al paese mi rendo conto ancor di più che il groppo delle mie

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esperienze infantili non è stato ancora sciolto – ma lo sarà mai? – e riaffiora con prepotenza. Cosa ci son tornato a fare?

Penso ai miei amici a Parigi, alla scuola, ai miei alunni, al mio nido a rue de Paradis. Ora so a cosa atte-nermi. Il mio mondo è altrove, il mio cuore è a Parigi.

Penso a Caroline: un amore ancora vivo perché non consumato, usato, rimasto intatto, non ancora colto nel suo fiorire.

Penso a Emma, a Marcel: anime vaganti. Perché amarsi e poi rinnegarsi, tradirsi, lasciarsi? C’è sempre qualcosa di triste in una storia che finisce, come quando qualcosa di prezioso si rompe, e si butta tutto ai rottami. Vuol dire che non ci si è mai veramente amati.

Penso a Jean-Marie, a Martine. Come andrà a finire? Sapranno resistere? Martine comunque non deve temer nulla da me, o sentirsi derubata, al contrario, sono un suo alleato, un rifugio per lei e Jean-Marie, un soste-gno, una difesa. Nessuno può pretendere di bastare in tutto all’essere amato, di essere tutto per la felicità dell’altro. L’amicizia è un’alleata dell’amore, legna che si aggiunge al focolare quando questa manca. Sennò altri commerci entrano in gioco, vili commerci, che avvelenano, falsano ogni rapporto.

Penso a Joe e Nancy: così amanti tra loro, e calo-rosi e buoni con me. Penso a Jean-Pierre, che presto rivedrò. Un sognatore, come Jean-Marie. Esseri inquieti, come me. Ma senza inquietudini cos’è un uomo? Il giovane Werther di Goethe perisce. Bisogna lottare, aggrapparsi. Chissà cosa stanno facendo in questo momento tutti questi miei cari cari amici? Non ho altri cari da amare. Qui

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sento di amarli ancora di più. Anche se lontani, vivono incancellabili, ancorati dentro di me, parte della mia stessa anima, al di là del tempo e dello spazio. E tuttavia questi occhi vogliono vedere, questi orecchi vogliono sentire, queste mani vogliono stringere, accarezzare. Nel mio paese, tra i miei, mi sento preso nella trappola dell’igno-ranza, dell’incomprensione, dell’egoismo assoluto che indurisce il cuore e rende l’anima selvaggia. E all’im-provviso, forse per l’effetto della grappa, sento che mi bruciano gli occhi, e comincio a piangere.»

Ma non era finita. Ero da mio padre solo da pochi giorni, quando una sera, a cena fatta, tetra, ecco cosa successe.

“Delinquente!” mi apostrofò. “Ora te lo devo dire, ce l’ho qui sul gozzo da trent’anni.”Guardai la Erminia come per cercar di capire, ma lei se ne stava con la testa bassa, impaurita.

“Che cosa?” dissi, presagendo qualcosa di brutto.“Sei partito come un delinquente” ripeté, “lascian-

domi un debito.”Un debito? Ma quale debito? Non capivo. Si alzò bestemmiando e uscì sbattendo la porta. Chiesi alla Erminia di che debito si trattava. A undici anni, le suore del convitto erano andate a comprare tre metri di stoffa per confezionarmi un abitino per entrare in seminario, dicendo al commerciante che l’avrebbe pagata mio padre di ritorno dalla Svizzera per le vacanze. Questo era il debito che gli avevo lasciato…a quell’età, quando già morivo di fame al paese. Durante i tre anni che passai in seminario non venne mai a trovarmi né pagò mai un soldo. Il padre superiore me lo faceva notare. Per mio padre ero dai preti, scaricato! Bon débarras!

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Quel suo rimprovero, nella sua assurdità, quel suo modo di trattarmi finì col disgustarmi. La tristezza, la vergogna che provai! Per sdebitarmi gli lasciai la mia macchina fotografica. Il giorno dopo mi portò lui stesso a prendere la corriera per essere sicuro che me ne andavo. Gli pesavo troppo sulla coscienza. Tutta la sua vita non aveva fatto che mentire a se stesso, e aveva finito col credere alle sue menzogne. Appena ritrovato, lo riperdevo, ma questa volta in modo definitivo, senza ritorno.

Morì nella casa di riposo, fuori di senno, e senza mai chiedere di me, assistito dalla Erminia che, nonostante tutto, gli volle bene, lo sopportò, lo accudì fino alla fine. Ora, anche lei è al ricovero. Sulla specchiera tiene una foto di mio padre. Che cosa ricorda di lui? Soltanto il buono. Io, invece, ricordo che un pomeriggio di domenica venne a casa, alzò a tutto volume la radio per non far sentire ai vicini le urla, le bestemmie, gli insulti mentre la stava massacrando di botte. E io fuori, in strada, come quando batteva mia madre ma lì, più grandicello, tratte-nevo le lacrime, più vergognoso che impaurito per via delle donne che, pur compatendo me, “póer pì!”, e la Erminia, “póera fomna!”, bisbigliavano tra di loro contro mio padre. Anni dopo, Ugo, il fisarmonicista, mi dirà ammirato:

“Tuo padre? Che uomo simpatico! Sempre in giro a ballare, elegantissimo, brillante. Gran signore. Nessuno sapeva far ridere come lui. E come piaceva alle donne! Nessuna gli resisteva. Che uomo!”Sì, che uomo!

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XVNON SI VIVE DI SOLE FUGHE E EBBREZZE

Sentii il bisogno di tornare sui miei passi

itrovavo la mia casa, il mio nido: rue de Paradis. Non avevo altro luogo dove rifugiarmi, altra via,

altro quartiere, altra città. Se da una parte mi sentivo sollevato, dall’altra però, qualcosa che credevo di aver superato, nuovamente tornava a galla, mi tormentava. Qualcosa mi si era guastato dentro.

R

Leggere, scrivere, guardare la tv, tutto mi annoiava. E come ogni volta, per non ritrovarmi solo, dovevo muo-vermi, uscire, stancarmi. Stavo fuori fino a tardi. Anche il sole, durante la giornata, mi dava fastidio. Avrei preferito un cielo grigio, nuvoloso, un cielo in accordo con la mia malinconia, che piovesse. Cosa non avrei dato, allora, per trovare un sollievo. Mi sarei dato a chiunque mi avesse raccolto, disposto a qualsiasi cosa pur di dimenticare. Ma perché quell’infelicità, quel vuoto che sentivo dentro, incolmabile, quel senso di solitudine? Lo strappo si faceva sentire più forte ora, appena tornato, perché insomma ero stato definitivamente rigettato, vomitato da mio padre.

Ripensavo alla giornata passata all’Annunciata con Jean-Marie, ad abbandonare ogni cosa, senza più dolori,

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tristezze, vagheggiando di un paese puro, di un paradiso, di un luogo dove sentirmi al sicuro. Sentimento che si era innestato in me fin dall’infanzia. Nostalgia di un grembo. L’Annunciata non era che un sogno, un sogno da bam-bino, non ancora chiaramente un richiamo.

Littré riapriva una settimana dopo le scuole pubbli-che. Non vedevo l’ora che ricominciasse. Ai primi di settembre, un lunedì, telefonai a Jean-Marie che, con Martine e i bambini, finalmente era tornato dalle vacanze. A lui solo potevo raccontare com’era andata da mio padre, lui che lo aveva conosciuto e tanto ammirato. Quel lunedì era libero, per cui passammo parte della giornata insieme a La Varenne. I figli erano a scuola, Martine al lavoro. Ero contento di ritrovarlo. Mi consolava.

Quando, però, gli chiesi di Martine, dei figli, Jean-Marie si mostrò più circospetto, chiuso. Rispose in modo evasivo, come imbarazzato, preoccupato. Lì per lì non ci feci caso. Gli succedeva di passare dei momenti così, nel vago. Tuttavia intuivo che qualcosa era cambiato. Ma che cosa? Con Martine? Forse era solo un’impressione. Verso le tre, siccome doveva andare a prendere Michael all’asilo, mi accompagnò alla più vicina stazione della metro. Prima di lasciarlo, come se fosse scontato, gli dissi:

“Allora ci vediamo sabato sera.” Sembrò esitare. Ma poi:

“Sì, certo. Passerò a prenderti.”E così fece, puntuale. Quando scesi in strada lui mi aspettava con il casco tra le mani senza però essersi tolto il suo, per cui vidi solo i suoi occhi che mi guardavano in modo strano, non con la solita contentezza. Dissi, mentre mi porgeva il casco:

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“C’è qualcosa che non va?”“No, niente” fece lui.“Come, niente? Non mi sembra.”

Mi diede una pacca sulle spalle, e:“Su, monta, andiamo!” disse soltanto.

Magari, sì, era solo una mia impressione, mi facevo delle idee, tanto più sballate proprio perché in quel momento ero io che stavo male, e vedevo tutto in nero.

Giunti a La Varenne, però, appena entrati in casa, mi resi subito conto che qualcosa era cambiato, anzi, tutto era cambiato: l’accoglienza di Martine, quei suoi modi apparentemente gentili, privi però di calore, quei suoi occhi sfuggevoli, il tono stesso della sua voce, e soprat-tutto il comportamento di Celina che abitualmente mi si gettava tra le braccia. Nel vedermi era scappata, impaurita, come se avesse visto un mostro. Lo stesso avvenne con il piccolo Michael.

Capii al volo cos’era successo. Giù la maschera, Martine non aveva trovato altro per allontanarmi da Jean-Marie: inoculare nei bambini – dipingendomi chissà come – la stessa avversione che provava lei per me. Miserabile, disarmante stratagemma. Ma non solo. Credendo di far leva sul penchant religioso di Jean-Marie, era andata a tirar fuori da non so dove un gran crocifisso, appartenuto forse ai nonni bretoni, che aveva appeso ben in vista nel salotto.

Quella mostra mi lasciò stupefatto, faceva pensare più a qualcosa di diabolico, come viene usato nelle messe nere insieme ad altri segni esoterici. Il fatto, nella sua stupidità, mi raggelò, e quasi mi impaurì. Come faceva a non capire che così affossava l’amore? Era un suicidio.

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Dovevo dileguarmi, sparire. Quella casa non era per me, e non poteva essere nemmeno la casa di Jean-Marie. Si era installato qualcosa di malsano tra quelle mura: il non amore.

La serata fu penosissima, opprimente. Tutta da dimenticare. Cercai di far finta di niente, ma era come se avessi una spina nella carne. Guardavo Martine con orrore, ripugnanza. Quel crocifisso non era al suo posto. Se ne serviva per far sì che Jean-Marie non gli sfuggisse, non gli passasse neanche per la mente di andarsene da quella casa. Sarebbe stato come tradire non solo lei, ma quel Cristo in croce, che tirava in ballo per condizionarlo, ricattarlo, suscitare in lui dei sensi di colpa. Era pronta a tutto pur di tenerselo. Carnalmente, viziosamente presa, una cagna. Sconcertato, non avevo più dubbi: il loro non era mai stato amore, ma solo passione, sesso. Uno sbaglio. Non poteva che incenerirsi.

Quando, alla fine, come di solito, Jean-Marie mi riaccompagnò a casa sulla sua grossa moto fu come una liberazione. Prima di arrivarci però, si mise a scorri-bandare sui boulevard, i lungosenna. Non si sarebbe mai fermato. All’inizio mi fece un po’ paura, ma poi capii che andava così per stordirsi, per non pensare ad altro, come quando nell’orgasmo si è afferrati solo dal piacere. La velocità, però, gli procurava un’ebbrezza più prolungata, e tanto più inebriante perché rasentava il pericolo, in bilico tra la vita e la morte. Non so per quanto tempo corse così. A un certo punto, aggrappato alle sue spalle, non so cosa mi prese, ma contagiato anch’io da quell’ebbrezza, lo spronai ad andare ancora più veloce. Non rallentava che per farmi ammirare

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certi scorci, le più belle vedute, i più bei monumenti della città.

“Guarda! Guarda!” gridava, girandosi verso di me.Tornava il ragazzo che avevo conosciuto, ancor innocente. Mi veniva in mente la scena finale di “Fellini Roma”: il rombo dei motori e i fari delle moto mentre attraversavano la città deserta. Le immagini delle due città si sovrappo-nevano, stupende.

Allora si vorrebbe prolungare quei momenti di ebbrezza, all’infinito. Vivere in una perenne estasi o in un orgasmo senza fine. Allucinati. Toccati da sempre nuove emozioni, sublimi amori. Si vorrebbe insomma che tutto nella vita fosse bello, e buono, e magico, sempre. Ma la routine finisce sempre per riprenderci, la stanchezza, la pesantezza, l’usura, la disillusione…

Non si vive di sole fughe e ebbrezze. E così, come atterrando o svegliandosi da un sogno,

giungemmo a rue de Paradis. Sul marciapiede di fronte al portone di casa ci togliemmo il casco. Jean-Marie non sembrava aver fretta di rientrare.

“Com’è bella Parigi di notte, non ti pare?” disse.“Sì, non è solo bella, ma emozionante. Vai spesso

in giro così?” “Mi succede, ogni tanto, quando sto male, quando

sento il bisogno di sfogarmi. Conosco persone che in questo caso si mettono a bere o ingoiano pillole…”

“Il karaté non ti basta per decomprimerti?”“Non è la stessa cosa. Con il karaté non rischio

niente, certo mi calma. Ma con la moto ho l’impressione di spaziare, di volare, come in certi western gli indiani a cavallo attraversano la prateria. Provo un gran senso di libertà. Capisci questo?”

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Lo capivo come nessun altro lo avrebbe capito. Adesso, però, cosa avrebbe fatto?Non lo sapeva.Sarebbe tornato dalle prostitute?

No, andarci lo lasciava insoddisfatto, e ancor più depresso. Della sua storia comunque non voleva più parlare. Lo infastidiva, imbarazzava. Per qualcosa, nel suo sfacelo, c’entrava anche lui. Così tornammo sui nostri vecchi dis-corsi, fatti tante volte anche a scuola. L’amore, alla fin fine, era tutta la questione. E Dio…

Stemmo lì ancora un po’ sul marciapiede a parlare di tutto questo, ma anche in silenzio come due poveri disgraziati.

Soffrivamo. Non so chi dei due soffrisse di più. Forse lui, o

forse io, forse lo stesso. Anche lui, come me, era uno sradicato, figlio di sradicati. Comunque sapeva dove tro-varmi, ma doveva cavarsela da solo. Che cosa avrei potuto fare per lui? Tuttavia, se ne avesse sentito il bisogno…Mi abbracciò. Si rimise in testa il casco, e lo vidi ripartire sulla sua moto fino al semaforo, al verde attraversò e imboccò la rue de la Fidélité.

Finché anche il rombo della moto si perse lontano. Rimasi solo. Per tutta la notte non feci che girarmi e rigirarmi

nel letto. E, come in un incubo – ma forse era proprio nel sonno – Martine mi si presentò sotto le sembianze di una orribile creatura, tipo l’indemoniata del film “L’esorcista”. I bambini, ch’erano scappati impauriti, ora sbucavano fuori da non so dove con facce scure, facendo smorfie, beffeggiandomi. Il crocefisso urlava:

“Toglietemi via di qua, toglietemi via!”

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Mi svegliai di soprassalto tutto sudato, spaventato. Cercai di riaddormentarmi. Approdo inutile. Nell’agitazione mi rividi bambino. Il desiderio mi prese di ucciderlo, di uccidere in me ogni ricordo della mia infanzia, il ricordo intollerabile della purezza di un tempo, purezza – ormai cadavere – che si vorrebbe dimenticare. Ma come uccidere la propria infanzia, la propria innocenza? Come sbaraz-zarsi del desiderio di una casa dove tornare, la sera, stanco di girovagare? Come liberarsi del desiderio di un grembo in cui essere accolto come un naufrago, stanco di batta-gliare?

Il mattino mi alzai, svuotato, come intontito. Sentivo il bisogno di una presenza. Di un corpo caldo da accarezzare. Di uno sguardo. Di un amico. Di un momento di totale oblio. Non mi passò nemmeno per la mente di pregare. Misi sullo stereo il primo disco che mi capitò tra le mani. Dei Doors. Ancora lui, Morrison. Un fratello. Più disgraziato di me, più assetato, più assoluto. Che quasi invidiai. Perché in un certo senso più corag-gioso, per essere andato fino in fondo nella rivolta, nella trasgressione. Fino a immolarsi. Vittima e boia di se stesso.

Mi emozionava più ora che non da vivo.Lui era arrivato in paradiso attraverso l’estasi degli

inferni, io, in attesa di quel momento, ero ancora in balìa dei soliti gesti, volgari: in bagno. In balìa di nostalgie, di illusioni, d’irrealizzabili sogni, di una religiosità che alle volte mi metteva paura, mi oltraggiava, m’imbavagliava, suscitava in me ingiusti sensi di colpa, rivolte e rimorsi. In balìa di attrattive inconfessabili, di desideri inappagati,

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della mia insaziabile curiosità, delle mie contraddizioni, dei miei risentimenti, di tutto il bene e di tutto il male che sentivo di poter commettere. Innocente e colpevole, come ogni uomo, e forse come anche Dio. In balìa dei miei interrogativi, dell’interrogativo maggiore, un tormento: dov’è, che cos’è la verità? Forse, scriveva Jim:

La verità è quellache ci hanno nascostoper tanto tempo.

O forse quella che gli uomini hanno tradito, travisato, sporcato per tanto tempo. Accecante, inafferrabile, irrag-giungibile. In balìa della suprema mancanza, del paradiso che Adamo andava cercando in lacrime dopo averlo perduto. Nell’attesa di un abbraccio, di appagare il solo desiderio che brucia nell’anima, nel cuore di ogni uomo.

In balìa di me stesso, piccolo uomo.

Le otto. Cielo grigio. Accesi la radio, ma pensavo ad altro. Il caffè. La giornata mi si apriva davanti come una voragine. Con mia rabbia mi sentivo riafferrare dalla tristezza, dall’odiato insopprimibile senso d’abbandono che mi attanagliava da quando avevo lasciato mio padre. Provavo rancore contro di lui. Impotente a cacciarlo via dalla mente. Egoista, stronzo di padre! Mi avvelenava il cuore e l’anima, tutto di me. Quel che era successo a La Varenne era stato solo come un diversivo che mi aveva portato fuori di me. Ma uno finisce sempre per ritrovarsi, per fare i conti con quello che è, con quello che vale. E ci sono dei momenti in cui uno si accorge della sua debo-lezza, della sua fragilità, che può ben poco per sé. Ma come si fa ad amare tutto ciò che ci accade, pur conve-niente per la nostra anima, nel bene o nel male?

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E adesso? continuavo a chiedermi. Non mi andava neanche più di uscire. Basta! Per andare dove del resto? Annoiato, indeciso, me la prendevo con me stesso, capace di aiutare e consigliare altri, ma incapace di tirarmi su da solo. Provai per me quasi lo stesso rancore che provavo contro mio padre. Sentivo insomma il bisogno di stare, di parlare con qualcuno, più distaccato, più forte, più buono di me.

Improvvisamente, come un naufrago vede terra, mi ricordai di lui, Ange, che avevo rivisto una volta sola dopo l’incidente mortale di Caroline. Anche in quella circo-stanza gli avevo promesso che sarei andato a trovarlo ogni tanto. Non ero stato di parola. Ora, però, non sapendo dove sbattere la testa, forte era il desiderio di rivederlo, di tornare sui miei passi, a rue de Rennes, là dove, della mia cameretta sotto i tetti, avevo fatto il mio Versailles. Dove Caroline era venuta a trovarmi. Dove mi ero estasiato a guardarla, fiduciosa, distesa sul letto.

Mentre salivo le scale il cuore mi batteva forte. Quando bussai alla porta, seguì un silenzio che mi parve interminabile, e l’idea mi attraversò che forse era morto. Poi, però, dall’interno sentii un fruscio, e dei passi sul parquet, e una voce un po’rauca dietro la porta:

“Chi è?”“Sono io” dissi, come se abitassi ancora là. “Il tuo

amico del piano di sopra.”Non rispose, ma aprì subito e disse:

“Vieni solo adesso? Ti ho aspettato tanto!”E, con mio stupore, mi fece entrare. Nel semibuio, perché le tende non erano tirate, scorsi qua e là dei gatti sonnec-chianti e delle cassette con la segatura per i loro bisogni, che puzzavano.

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“Andiamo in cucina” disse, “così ti preparo il caffè.” La cucina era uno stanzino dai muri un tempo bianchi, qua e là ammuffiti, con una credenza, una tavola di formica, una mensola, due sedie, e un fornello a gas, il tutto non proprio luccicante.

Ange non era cambiato. Aveva addosso una coperta sdrucita, incolore, con un buco in mezzo che portava come un poncho. Con i capelli lunghi e la barba irsuta sembrava veramente un uomo delle caverne, ma non m’impressio-nava più come la prima volta. Ora sapevo la sua umanità, la sua tenerezza. Cercava il caffè. Lo trovò in un barattolo sulla mensola, fra altri barattoli, scatole di conserva chiuse o mezze aperte, con dentro chissà che cosa, e bicchieri e tazzine con sopra uno strato di polvere. Nel lavandino c’erano stoviglie da lavare, là chissà da quanto tempo. Ma non m’importava, in quel disordine e quella dubbia pulizia c’era un uomo dal cuore d’oro. Lo osservavo mentre in silenzio si dava da fare. Forse era più emozionato di me. In attesa che la bevanda venisse su, mi si sedette accanto. Non vedevo che i suoi occhi, piccoli, che mi fissavano.

“Allora” disse, “racconta.”Tremavo, non sapevo da dove incominciare.

“Mi piacerebbe di più essere al tuo posto in questo momento” dissi miseramente. E gli raccontai di Jean-Marie, dell’Annunciata, di quel ch’era successo a La Varenne con Martine, ma soprattutto di mio padre, un mascalzone. Allo sbuffare della caffet-tiera Ange si alzò, la afferrò, e versò il caffè nelle tazzine con l’interno tutto nero, che proprio per questo, però, sarebbe stato migliore, avrebbe preso più corpo.

“Bevi” disse, “mentre è bello caldo.”

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Poi mi lasciò continuare senza più interrompermi, e solo dopo ch’ebbi finito, come quando gli annunciai la morte di Caroline:

“Povero ragazzo!” disse, e sembrava più perso di me. Stemmo un po’ in silenzio, a guardarci, o col capo chino. Lui, compassionevole. Ogni tanto si avvicinava un gatto, si strusciava a una gamba e se ne andava. Ce n’era uno, vecchio, con un occhio solo. Ma perché, pensavo, ero andato a importunare quell’uomo, che magari stava più male di me? Certo che vivendo come faceva, nessuno lo avrebbe mai deluso, non avrebbe più sofferto per la per-dita di una persona amata. Forse era il solo modo per non soffrire. Però, come arrivare a segregarsi, a non vivere più per nessuno? Non era un più gran dolore? Una più gran tristezza? La domanda mi sfuggì.

“Sai” disse lui, “si diventa misantropi per il troppo amore dell’umanità. Mi fa paura tutto…capisci? Tutto. Ma tu non puoi fare come me. Io sono un fuori di testa…”Ma non era un fuori di testa, protestai dentro di me. “Del resto” proseguì, “non ne saresti capace, non ce la faresti. Sei diverso e ancor giovane. La vita, per uno come te, sarà sempre piena di sorprese, tante volte appena volterai l’angolo. E succederà quando meno te l’aspetti, quando ti sembrerà che tutto è perso, che stai per affon-dare. Dopo il brutto arriva sempre il bello, ma bisogna volerlo, cercarlo, provocarlo.”

“Con Caroline sarebbe stato tutto diverso” dissi.“Ah, Caroline” sospirò. “Sai che tante volte l’ho

vista salire fin qui, e stava lì, esitante. Poi tornava indietro. Una volta l’ho vista che piangeva.”

“Che piangeva?”

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“Sì, che piangeva.”“Perché?”“Succede quando l’amore è tanto, allora ti fa pian-

gere. L’amore apre sempre una ferita.”“Come fai a saperlo?”“Lo so.”

E non disse altro.Sì, l’amore apriva sempre una ferita, si diventava vulne-rabili. Si aveva sempre paura di perderlo, com’era suc-cesso a me con Caroline. Si vorrebbe vivere di un amore eterno. Così anche nell’amicizia. Mi ricordai che quando Enea si suicidò, al senso di colpa si oppose il sentimento d’essere stato tradito. Perché se n’era andato lasciandomi solo? mi lamentavo. Acqua passata. Ma ogni distacco, ogni morte lasciava un segno. Era sempre una parte di sé che se ne andava, che moriva.

“Vuoi che mangiamo insieme?” disse improvvisa-mente Ange.

“Ma…”“Qualche cosa troverò, e…devo avere anche del

buon vino da qualche parte. Alla mamma piaceva il buon vino, beveva poco ma esigeva che fosse buono.”Quell’uomo, quel misantropo, quel “fuori di testa”, quel solitario mi consolava, mi dava ciò che mio padre non mi aveva mai dato. Bastava così poco. Ah se Jean-Marie fosse stato lì con me, con quel selvatico! Anche lui, però, anche se segregato, sepolto vivo, che si escludeva da sé, era bisognoso di dare e di ricevere amore.

Trovò nella credenza due scatolette di “cassoulet”: un piatto in umido della Linguadoca, fatto con oca, anatra, maiale e fagioli bianchi. Fece riscaldare le scatolette a bagnomaria. Ci scolammo una bottiglia di bordeaux. Era

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da tempo che non mangiavo qualcosa di così gustoso, e, anche se in un piatto non proprio pulito, come d’incanto la tristezza se ne volò via. Sentii il sangue scorrermi nuova-mente nelle vene, e la vita mi parve di nuovo bella. Sì, bastava poco: una scatola di “cassoulet”, un bicchiere di vino, il compatire di un uomo: valeva di più che non qual-siasi ebbrezza, che non qualsiasi droga, che non qualsiasi atto d’amore.

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XVI“SALVACI, GESÙ, SALVACI”

Un grido così ti squarcia il cielo

li era morta la nonna - che sapeva fare come nessuno la charlotte. Si era anche sposato, in chiesa strana-

mente, lui che in chiesa non ci andava mai. Si era sposato con Dominique, una ragazza lentigginosa, senza grilli in testa, che però gli voleva bene. Si conoscevano da quando lui, a Littré, stava preparando l’esame di maturità. Ancor prima di sposarsi si erano messi insieme in un piccolo appartamento nel diciottesimo arrondissement dove ogni tanto andavo a trovarlo con i suoi genitori.

G

Dominique, che lavorava in una agenzia per viaggi, con il suo stipendio manteneva il ménage; lui non ce l’avrebbe fatta nemmeno a sopravvivere da solo. Eppure si dava da fare, cercava in tutti i modi di introdursi nell’am-biente, si informava, si presentava ai diversi casting. Naturalmente faceva vita notturna, frequentava quei caffè dove si potevano incontrare artisti, produttori, ma anche solo pseudoproduttori, certa fauna, illusi, di tutto un po’. Talvolta gli sembrava di aver incontrato la persona giusta, importante, che gli prometteva mari e monti, sulla quale ingenuamente contava. Era un alternarsi di speranze e

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delusioni. Lui però non demordeva, non mollava, conti-nuava a sperare, oh non di vedere il suo nome sopra i manifesti, come cantava Aznavour. Non era il miraggio della celebrità che lo animava, ma il desiderio di com-piersi, di dare qualcosa di sé, di sfuggire alla routine di una vita qualunque. Quanto al denaro - tasche bucate qual era - se ne infischiava; quando ne aveva non badava a spese, era spensieratamente prodigo con tutti.

Ogni volta, quando lo ritrovavo dalla madre a Blancmesnil o a casa con Dominique, era sempre su un progetto, una commedia o un film da farsi, si infervorava, mancava soltanto una firma, quella del produttore natu-ralmente, era sempre e solo questione di alcuni dettagli. Viveva nella spasmodica attesa della “telefonata” che purtroppo non arrivava mai. Finiva che andava sempre a monte tutto, come andò a monte anche il suo matrimonio con Dominique, stanca di aspettare, di vivere sognando. Lei poverina, più realista, e più terra a terra, giustamente desiderava essere mamma; lui, instabile, con quel che guadagnava – e “tête en l’air”, diceva la mamma – non se la sentiva di assumersi una tale responsabilità. In realtà non erano fatti l’un per l’altra. C’era una abisso tra i due, una incompatibilità, non vivevano nello stesso mondo, con e per gli stessi sogni.

Fu allora che il padre, previdente, sapendosi ormai prossimo a morire, comprò per il figlio un appartamen-tino ai piedi della collina di Montmartre. Voleva essere sicuro che non andasse a finire come un barbone sotto i ponti.

Incredibile Jean-Pierre quando ci penso!

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Fu in quel periodo che ci vedemmo più spesso. Non passava settimana. Arrivava all’improvviso, di sera, e rimaneva fino a tardi. Siccome beveva, bevevo con lui. Non si lascia un amico bere da solo. Non so quante bottiglie di whisky, a piccoli sorsi, ci siamo scolate. Inebriarci ci rilassava, ci rendeva euforici, parlavamo di tutto a briglia sciolta. Di che cosa poi? Oh, di poesia, dei progetti che aveva in mente. Pensava addirittura di scri-vere un music-hall su François Villon, un poeta nato a Parigi nel 1431, che menò una vita avventurosa e rischiò a più riprese la forca, celebre per la sua “Ballata degli impiccati”. Vita che ricordava un po’ quella del Cara-vaggio. Parlandone si entusiasmava, si immedesimava nel personaggio, ne risentiva tutti i tormenti. Music-hall che anni dopo scrisse. Parole e musica. Conservo il demo di quella sua opera. “Però, che talento!” mi dissi ammirato quando lo ascoltai la prima volta. Si era indebitato fino al collo per realizzarlo. Purtroppo non tutti i talenti vengono scoperti, sfruttati. Non c’è posto per tutti. Succede così anche con i santi, solo pochi emergono, la maggior parte rimangono sconosciuti, come i costruttori di cattedrali.

I maledetti, i così detti “dannati” attiravano Jean-Pierre, come attiravano anche me – attirano e sconvolgono tuttora. Una sera venne con i testi delle canzoni e tutte le poesie di Morrison, che proprio perché un dannato tra i dannati ci intrigava. Tra le sue poesie, alcune sfolgoranti, una ci colpì in modo particolare. Rispondeva a una domanda che chissà quanti, nelle varie interviste, gli avevano posto: perché beveva così tanto? Il perché lo si poteva intuire, capire. Ma Jim – lo sbevazzone senza fondo – rispondeva così:

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Perché bevo?Così posso scrivere poesie.Talvolta quando si è a fine corsae ogni bruttura recedein un sonno profondoC’è come un risveglioe ogni cosa rimasta è reale.Per quanto devastato è il corpolo spirito cresce in energia.Perdona a me Padre poiché io soquello che faccio.Io voglio ascoltare l’ultima Poesiadell’ultimo Poeta.

Rimbaud e altri poeti si davano all’assenzio. Accettavano tutti i veleni, dall’alcol alla droga per captare la scintilla che illumina, il fuoco sacro che, rubato agli dei, avrebbero trasmesso a tutti.

“Così posso scrivere poesie…Per quanto devastato è il corpo, lo spirito cresce in energia” riprese Jean-Pierre. “E’disarmante, non trovi? Ogni parola è così forte, precisa, ti entra dentro: talvolta quando si è a fine corsa, e ogni bruttura recede in un sonno profondo, c’è come un risveglio…Qui c’è tutta una vita, la sua tormentata esi-stenza. Non aveva certo bisogno di bere per scrivere così. Se per acquisire il talento o il genio bastasse soltanto bere o drogarsi…”

“Era cosciente” dissi, “che così facendo si distrug-geva. Però bere lo aiutava a estraniarsi, era un modo per rendere più sopportabile la vita…sfuggire alla noia…”

“Gli faceva scattare dentro la molla.”“La molla?”

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“Sì, per non implodere, per fissare sulla carta le sue visioni…ch’erano come scintille, i lapilli d’un vulcano.”

Perdona a me Padre perché io soquello che faccio.

A quale Padre si riferiva Jim? ci chiedevamo. Dio padre? Lui che, fin da adolescente si rifiutava di andare in chiesa, chissà cosa pensava di Dio, della sua esistenza, di Cristo. Cristo non lo aveva mai conosciuto, e quindi non lo aveva mai nemmeno abbandonato, o tradito come altri suoi seguaci avevano fatto. Ecco perché lui stesso, come Rimbaud, aveva scritto il suo Vangelo, la sua Apocalisse. Come il veggente francese in “Una stagione in inferno” e nelle “Illuminazioni”, divenne lui stesso lo sposo infernale e il divino sposo.

“Che triste fine ha fatto però!” disse Jean-Pierre. “E’ morto solo.”

“Vuoi dire che è morto senza nessun conforto…sì, certo. Rimbaud, invece, è morto da cristiano, riconciliato con Dio, non bestemmiava più, chiamava Cristo in croce e pregava. Il prete che lo aveva confessato disse alla sorella: non ho mai visto una fede così forte.”

“Come poeta, comunque, era già morto prima.” “Sì, ma alla fine si è salvato l’anima.” “Mah…” fece Jean-Pierre, “l’anima…Come fai a

dire che hai un’anima?”“Non lo so. Ma per il fatto stesso che l’uomo sia

portato a pensare a una realtà fuori di sé, prova che c’è in lui qualcosa di spirituale, qualcosa che trascende il mate-riale, non ti pare?”

“Ammettiamo. Ma cos’è l’anima?” buttò lì.“Bisognerebbe chiederlo a un teologo. So soltanto

che io vivo, e che un cadavere è inanimato. E non solo

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abbiamo un’anima, ma è anche immortale. Sennò come spiegare il desiderio di Dio se non ci fosse?”Ci inoltravamo in questioni troppo difficili per capirle senza la fede. Ogni filosofo dava una sua risposta. Spesso contrastanti. Alla fine bisognava crederlo solo perché Cristo era venuto a dircelo, ecco tutto.

“La fede…” disse Jean-Pierre, rêveur, “mi piace-rebbe averla. Sarei ben più tranquillo e felice se fosse come dici tu.”

Per contro sulle canzoni di Jim non avevamo dissensi, dubbi. Ci piacevano, anche le più trasgressive e provocanti. Certune le sapevamo quasi a memoria. C’era nella sua voce un non so che di incantatorio, di osses-sionante, di struggente, di dolce e rabbioso allo stesso tempo. In fondo anche il giovane Francesco si era ribellato contro la parte marcia della società del suo tempo, come aveva fatto Gesù in Palestina. Lo salvò la sua fede in Cristo e…l’obbedienza alla Chiesa nonostante il lusso e la corruzione, ma quante delusioni, quanti rospi dovette ingoiare, quante lacrime.

La differenza tra lui e Jim è che, giunti a un bivio, anche se mossi dalla stessa inquietudine e dalla stessa sete, avevano preso due strade diverse. Era solo questione di uno scambio. Ciò che contava era il coraggio di andare fino in fondo a questa strada, che portava dritto verso il Cielo o giù all’inferno.

Tipi come Jim in fondo - osavo pensare - erano dei santi alla rovescia, santi della negatività, spinti dalla stessa appassionata violenta ricerca, che è come un virus dell’anima. Jim, senza Cristo, pensò di trovare la libertà attraverso il disordine, il caos, contro ogni potere costi-

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tuito, ma anche - e qui è simile a Francesco - nelle attività solo in apparenza senza senso. Di fronte a tante vigliac-cherie, menzogne, falsità, brutture d’ogni sorta, chi non nutre nell’animo il sogno di un mondo nuovo? Chi spe-rando nel bene: la salvezza, e chi disperando, perdendosi.Il mondo che proponeva Jim era un nuovo Far West, un mondo voluttuosamente malvagio. Strano e ammaliante, il percorso del sole…Un sole tenebroso però: il fascino del male in cui si dibatté e naufragò. E tuttavia – pensando ora a ciò che scriveva Thomas Merton – anche in lui, come in ogni uomo, foss’anche il più infame, nelle pieghe più riposte della sua anima, c’era “un punto vergine”, impermeabile al male, inaccessibile alle fantasie della sua mente e alle brutalità della sua volontà, in cui continuava a splendere l’inde-lebile immagine di Dio, immagine che a sprazzi risorgeva e lo illuminava. Era allora come un angelo.

Un giorno Jean-Pierre volle che tornassimo sulla sua tomba. Erano passati alcuni anni dalla sua morte. Non c’erano più fiori, nessun ornamento, tranne i graffiti, e una piccola targa con su scritto “A mon ami”. Sulla lapide per terra:

Douglas Morrison James

Artiste poète

Sopra il nome uno aveva scritto: Poète de tous les temps. La tomba di un povero, dimenticata. Finito lì. Senza amore, né da vivo né da morto.

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Era una giornata umida e fredda d’autunno, col cielo basso, scuro. Ci sedemmo, rannicchiandoci sui bordi di pietra. Avevamo portato con noi le poesie e i testi delle sue canzoni. Il cimitero, a quell’ora del pomeriggio, appa-riva deserto, tutt’intorno non si vedeva anima viva.

“Se tutto finisce così” disse improvvisamente Jean-Pierre” non so se vale la pena di vivere.”

“Ci dev’essere un aldilà.” “Vuoi dire che ci dev’essere un Dio?”“C’è, anche se non ci crediamo.”“Come esserne sicuri? Chissà com’è morto Jim? Si

sarà accorto che stava per morire?”“Forse è morto sognando.”

Mi vennero in mente le ultime bellissime righe delle “Memorie di Adriano”, quando l’imperatore, giunto alla fine, si rivolge così alla sua anima:

Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli…Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti.

“Se è così, è meglio morire senza accorgersene” disse Jean-Pierre.

“Io preferirei accorgermene.”“Perché?”“Per rivolgermi a Cristo.”“Pensi che Jim l’abbia fatto prima di morire?”“Basta un attimo. Anche Giuda può averlo fatto.

Però già in una sua canzone: When the music’s over, Jim si è rivolto a Cristo, non ti ricordi?” Era una delle sue canzoni che preferivo, la sapevo a memoria per averla fatta in classe. Presi a cantarla sotto-voce:

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“Before I sink into the big sleepI want to hear, I want to hearthe scream of the butterfly.”

Prima di sprofondare nel grande sonno Jim vuole sentire il grido della farfalla, proprio come un bambino prima di addormentarsi. Bellissimi, dolcissimi versi. Ma poi, simile a un profeta dell’Antico testamento, ecco il suo lamento, che risuona come una terribile accusa:

Che cosa hanno fatto alla terra? Che cosa hanno fatto alla nostra buona sorella?Devastata e saccheggiatae lacerata e malmenata.Nel fianco dell’auroracon coltelli feritacon steccati reclusae in basso trascinata. (…)Vogliamo il mondo e lo vogliamo…Vogliamo il mondo e lo vogliamo,ora, ora, ORA! (*)

In queste parole c’è tutta la sua anima, il suo dolore, il dolore di ogni uomo, che sfocia in un urlo straziante:

Salvaci,Gesù,Salvaci.

Pare di sentire qui il grido di Gesù sulla croce, abbando-nato anche dal padre. Abbandonato, a Jim non rimaneva che un’amica, la musica: Music is your only friend / Until the end, cantava.

(*) Cfr. Isaia 24, 1-6: La terra sarà spaccata, saccheggiata perché, trasgredendo le leggi del Creatore, i suoi abitanti la hanno profanata.

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Ma anche questa gli venne a mancare, non gli bastò più. La sua più grande speranza era di veder stampate le sue poesie. Era il suo sogno. Se la poesia lo attirava tanto era perché è talmente eterna, diceva. Eterna perché irra-gionevole, dolce e selvaggia come un amplesso. – Preso da una sorta di sacro fervore mi ero lasciato andare come facevo a scuola quando m’identificavo con un poeta che amavo. –

“ Ma come capire un poeta?” disse Jean-Pierre. “Per capire un poeta bisognerebbe entrare nella sua

mente, andare nella sua terra, diceva Goethe. Jim, nel suo feroce isolamento, non ha fatto che lottare per trovare la sua voce.”

“E c’è riuscito, secondo te?”“In parte sì, ma forse non del tutto. C’era qualcosa

in lui che mi sembra stesse ancora come sospeso, incom-piuto, tenuto dentro, qualcosa che non ha saputo tirar fuori, per questo bisogna scavar sempre più dentro, andar sempre più oltre…è un tormento, non è mai finita.”

Rimanemmo per un po’ silenziosi. Pensandolo, immaginandolo. Poi:

“Che peccato però” disse Jean-Pierre. “Negli ultimi mesi si era lasciato andare. Grasso, invecchiato, irricono-scibile, lui, la rockstar, eppure così giovane ancora.”

“Certo ti strappa il cuore, ma a forza d’insistere sull’amore-morte, e forse rendendosi conto che in fondo era stato amato solo di amore umano, che per la strada fin lì percorsa non c’era salvezza, ecco, era la fine.” E evocai quella sua lunga drammatica scandalosa can-zone: the end, che finisce così: The end / of nights we tried to die. This is the end.

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“In cui parole e musica fanno tutt’uno” si fece eco Jean-Pierre, ammirato. “Un tutt’uno impressionante. Jim incantava, ipnotizzava il suo pubblico con questo pezzo.”

“Perché gridava a tutti il suo folle desiderio di libertà. Ma sul rettile che fantasticando cavalcava nessuno lo avrebbe mai seguito.”Parlavamo sommessamente, come formando un cuor solo e un’anima sola con Jim. Così presente, così presente là sotto. Per un attimo mi tornò in mente Enea - morto anche lui in una vasca da bagno - là, sotto terra, al freddo…ancor più vicino da quando era morto. Jim sarebbe piaciuto a Enea, lo avrebbe capito proprio perché era vissuto da ribelle, da svitato. Ma non era pazzo. Jim era lucidissimo quando scriveva:

Quelli in Corsa verso la morteQuelli che aspettanoQuelli che si preoccupano.

Lui era di quelli, come l’amico Rimbaud, che “correva” verso la morte, anche se un anno prima aveva dichiarato che sperava di vivere fino ai centovent’anni. Era solo una boutade? Nel suo intimo cosa pensava veramente, giorno dopo giorno, ad ogni istante? Per quanto sappiamo di una persona, anche di un amico, non è che una parte, la piccola parte del tutto. E poi, come prevedere?

Tutto questo, parlandone, ci rendeva tristi, come quando si assiste alla lenta capitolazione, al suicidio, all’agonia di un amico senza poterlo aiutare. Anche se infreddoliti non riuscivamo a staccarci da quella tomba. Volevamo fargli ancora e ancora compagnia. In comune avevamo non solo gli stessi poeti, Rimbaud, Baudelaire, ma anche Camus, Molière, e Kerouac, che aveva segnato un’intera generazione. Avevamo le sue canzoni, le sue

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poesie, i suoi sogni, le sue rivolte, le sue sregolatezze in opposizione a certa falsa religiosità - scandalo dei codardi benpensanti. Jim non era che il fiore di una pianta in parte marcia. Un giorno avrei incontrato un altro “écorché vif”, Léon Bloy, un cristiano radicale che certo non risparmiò questa genia contro i quali, a suo tempo, inveì, vomitò Gesù. Libertà di spirito che Bloy pagò a caro prezzo. Reietto, visse nella più nera miseria.

“Mi sembra impossibile che sia morto” disse a un certo punto Jean-Pierre.

“Infatti non lo è. Sbarazzato del suo corpo deva-stato, è più vivo che mai, finalmente libero, come voleva essere.”

“Ma cosa pensi che in fin dei conti andasse cer-cando?”

“Quello che cerchiamo tutti: l’amore, l’eternità, e in fin dei conti Dio. Ognuno vale quanto ciò che cerca. E’da quando è caduto che l’uomo cerca Dio. La perdita dell’in-nocenza è il suo più gran dolore, e la sete d’amore il suo più gran tormento.”

“Dicevi già tutto questo a scuola. Ma tu ci credi veramente a queste cose? Voglio dire alla caduta, come si racconta nella Bibbia?”

“Talvolta sì, talvolta no. Sono roso dai dubbi, di continuo. Ma è bello pensare che sia così. Non posso escluderlo. Anzi, voglio crederlo!”

“Il dolore dell’uomo” disse scettico Jean-Pierre, “sarebbe dunque la perdita di Dio.”

“Che sarebbe la perdita dell’amore. Il mondo ha sete d’amore, scriveva Rimbaud. Ogni uomo prova questa

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sete, tu, io, Jim ha provato questa sete, ma ormai lui è arrivato alla sorgente…è felice.”

“Ne sei sicuro?” La sua solita insistente domanda.

“Come si fa?” dissi. “Comunque quel suo grido: salvaci, Gesù, salvaci, non può essere caduto nel vuoto. Un grido così ti squarcia il cielo, grido che mi fa pensare a Rimbaud nella Saison: Perché Cristo non mi aiuta, dando alla mia anima nobiltà e libertà. E: Aspetto Dio con golosità. Cosciente o no, ogni uomo aspetta Dio, certuni con ancor più fame e ingordigia. E nessuno è maledetto da Dio.”

“Nessuno, nessuno?” disse Jean-Pierre.“Dio non sarebbe più Dio.”

Già nel corso della serata, prima di rientrare, Jim si era sentito male, ma non volle inquietare più di tanto la sua compagna. Durante la notte si era alzato, e, prima di immergersi nel bagno – come per prepararsi al tanto agognato incontro – si era rasato. Pamela lo trovò così, con le braccia che pendevano dalle fiancate della vasca, un sorriso da ragazzino sul volto. Non era uno scherzo. Dopo averla tanto accarezzata, la morte finalmente gli aveva sorriso. Stufo di incertezza, se n’era andato…dall’altra parte del mattino. Ma:Viviamo, moriamo, e la morte non è la fine.[…]La morte ci rende tutti angeli.E ci dà ali.

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Così scriveva nella sua più straordinaria disarmante poesia:“An American Prayer”, che aveva fatto imprimere prima di partire per Parigi.Era finalmente giunto là dove cielo e terra si toccano, oltre ogni suo sogno. Ecco perché sorrideva. E non c’erano parole per esprimere ciò che ora egli vedeva, ciò che in vita aveva cercato disperatamente di vedere.E’ ritrovata!Che cosa? l’eternità,esclamava l’amico Rimbaud.

Cominciava a far notte. Il freddo ci era entrato nelle ossa. Una volta usciti dal cimitero:

“Adesso cosa facciamo?” dissi.“Andiamo a berci qualcosa, che ne dici?” disse

Jean-Pierre, dandomi una pacca amichevole sulle spalle. Faceva così anche Jim dopo aver tanto chiacchierato.

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Nota: ultimamente parlavo di Morrison con un novizio, convertitosi dopo una gioventù da sbandato, fanatico di musica metal. A un certo punto lui mi disse di Morrison:

“E’ come Giuda, satanico.”Lasciai perdere. Evdokìmov scrive così, che ritrovo in Dolcezze e Furori:

“Se Giuda fugge nella notte, ciò accade perché Satana è in lui. Ma Giuda tiene in mano un terribile mistero, il pezzo di pane della Cena del Signore. L’inferno perciò conserva un frammento di luce, secondo quanto dice la parola biblica:

“La luce splende nelle tenebre.”Il gesto di Gesù indica il mistero finale della Chiesa: essa è la mano di Gesù che offre la sua carne e il suo sangue; l’invito si rivolge a tutti perché tutti sono in potere del principe di questo mondo. La luce dissolve ancora le tenebre, ma le tenebre non hanno tuttavia potere sulla luce invincibile. Noi viviamo nella tensione ultima dell’autore divino.”

Qui come non pensare a Merton quando parla di quel punto o scintilla che appartiene interamente a Dio, intatto dal peccato…al centro del nostro essere…

Ma più stupefacente è ciò che ho trovato nella biografia di Morrison, scritta da Jerry Hopkins, (*) alla quale qua e là mi sono riferito: Jim, nel suo testamento, lasciò tutto a Pamela, la sua “sposa cosmica”. Questa morì di overdose nel 1974. I suoi dividendi sui futuri profitti dei Doors passò ai suoi parenti più prossimi. Ma i genitori di Jim si buttarono nella mischia e finirono per ottenere la loro parte. Il dividendo di Jim sui profitti dei Doors ha fruttato periodicamente parecchie centinaia di migliaia di dollari, fino a superare il milione di dollari in un anno. Gli uni e gli altri possiedono ora case e ingenti proprietà.

“Credo” scrive Hopkins, “che Jim troverebbe divertente il fatto che la sua fortuna postuma venga ripartita fra un preside in pensione e un ammiraglio a riposo – simboli di autorità per cui, da vivo, non aveva mai avuto né tempo né rispetto.”

*) Ed. Arcana.

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Che dire? Verso questi avvoltoi, magari anche cristiani, benpensanti,

ho sempre provato e provo tuttora disgusto e orrore. Jim era ben più pulito che non questa gente stimata e onorata, questi moralmente “ineccepibili” che poi godettero del denaro di un figlio che hanno sempre disapprovato, vergognandosene come di uno scandalo pub-blico. Ma il denaro, l’avidità, la cupidigia: i peggiori vizi che Jim non aveva, e che Cristo aborriva.

*

Per i testi e le canzoni di Morrison mi sono avvalso della traduzione di Tito Schipa jr in “Tempesta elettrica” Oscar Mondadori.

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XVIIPENSAVA TEATRO, SOGNAVA TEATRO

Era un modo per vivere in una vita mille altre vite

iunse l’estate, un’estate particolare. Vista da qui, mentre sto scrivendo, fors’anche un po’ pazza.

Seguivo Jean-Pierre nei locali dove bazziccava: birrerie, cabaret, caves della rive gauche intorno a St-Germain-des-Prés, più spesso nei club, boites dove si esibivano musicisti di jazz in favolose improvvisate jam-sessions. Così cominciai a familiarizzarmi con questa musica, a conoscere Miles Davis, Chet Baker e altri attraverso i dischi che andavo a comprare rovinosamente alla FNAC. Con Charlie Parker e John Coltrane scopersi le sonorità straordinarie di uno strumento al quale fino allora non avevo mai veramente fatto attenzione: il sax tenore.

G

Presi a leggere le storie dei personaggi più famosi, spesso sopravissuti a un’infanzia miserabile. Ma è soprat-tutto John Coltrane che m’incuriosì. M’incuriosì il suo cercare, per un certo tempo anche attraverso la droga, esperienza di cui più tardi parlò come di una “purifica-zione”. Intuivo cosa volesse dire con “purificazione”. Anche il peccato poteva essere inteso come un periodo di purificazione. Infatti diversamente da altri, Coltrane smise

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di far uso della droga fin dal 1957. Per lui la musica era sempre stata una via per arrivare a Dio. Dio o la cocaina. Questa rinuncia cambiò la sua vita. Questa sua rinuncia m’incuriosì.

Non mi stancavo di ascoltare il suo capolavoro: “A Love Supreme”, pubblicato nel gennaio del 1965. Non era un pezzo di facile ascolto, per cui solo a poco a poco finii col coglierne l’anima, il misticismo. Non so descrivere ciò che provavo e provo ancora ascoltandolo. So soltanto che le note di questo strumento mi toccavano e scuotevano, facevano vibrare quella parte di me che ignoravo. Era come se partecipassi a una preghiera, anzi a un nuovo modo di pregare, trascinato su tante strade diverse che tutte però portavano a Dio. Era questa la speranza, il sogno di Coltrane. E anche mio. Era come se trovassi un fratello, che mi trasmetteva con la sua musica ciò che contava di più, la fede in Dio, quella fede che abbraccia indistintamente ogni uomo, dal nord al sud, dall’est all’ovest. Il suo, in fondo, quando ci penso ora, era lo stesso sogno universalista del profeta Isaia: il sogno di Dio. L’illuminazione che non ebbe, nel suo smarrimento, l’infelice Morrison.

Fu quell’estate, dopo le incursioni nelle boites di Saint-Germain, che Jean-Pierre mi fece conoscere una coppia di amici: Véronique e Jean-Luc “il gitano”, sopran-nominato così non solo perché assomigliava a uno dei Gypsy King e suonava come loro la chitarra, ma perché era proprio un gitano puro sangue. Quanto a Véronique, che dire? Piccola, portava i capelli corti, un po’come Caroline. Assomigliava a Pascale Petit nel film di Marcel Carné “Les tricheurs”, e un po’anche a Jean Seberg nel

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film di Godard “A bout de souffle”. Parlava poco di sé. Seppi solo che il papà era un nero americano e la mamma un’alsaziana, che il compagno aveva abbandonato appena incinta. Véronique doveva soffrirne. La guardavo con simpatia e anche di più, ma, innamorata com’era di Jean-Luc, non le manifestai mai ciò che provavo per lei.

Insieme formavamo uno strano quartetto, strano proprio perché così diversi. Ma forse è proprio per questo che diventammo inseparabili, per quell’impulso che ti porta a cercare chi ti è diverso proprio perché diverso, per il piacere di scoprire nell’altro una parte di te che ignoravi, i possibili conciliabili. Sono questi gli incontri più arric-chenti. Quello che però fin dall’inizio ci accomunò, fu una stessa passione, la passione per il cinema, divorante, quasi una follia.

Trascinati da Jean-Pierre andavamo spesso nei cinema d’art et d’essai o alla cineteca, che lui non aveva smesso di frequentare. Quasi ogni giorno, riuscivamo a vedere tre, quattro film. Col caldo che faceva, nelle sale climatizzate si stava bene. Uscivamo da una sala per precipitarci in un’altra. Scene, volti indimenticabili: Greta Garbo, Marlene Dietrich, Brando nel torrido “Un tram che si chiama desiderio”. Le commedie musicali con Fred Astaire e Gene Kelly, West Side Story, Hitchcock…

Ci ubriacavamo d’immagini. Certe scene mi sono rimaste impresse fino ad oggi, come quella del bagno notturno di Ava Gardner ne “La Notte dell’iguana”, e un’altra, terribile, in “Improvvisamente l’estate scorsa” con Elizabeth Taylor e Montgomery Clift. I drammi di Tennessee Williams mi impressionavano e turbavano.

Ho rivisto proprio ieri sera “La valle dell’Eden”, un film tratto dall’opera di John Steinbeck. Solo Elia Kazan

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poteva farne un film. E solo James Dean essere Cal, l’introverso, il mal-aimé, che il padre ottuso considerava cattivo. Quel suo tormento invece, quella sua inquietudine, quel suo sentirsi rigettato…

Mi sono rivisto alla sua età quando anch’io, come Cal, non desideravo altro che farmi amare da mio padre. Scena straziante quando, al compleanno del padre, questi rifiuta il denaro che il figlio gli vuole offrire per compen-sare la perdita di un affare che lo ha rovinato. Cal, allora, disperatamente gli si avvinghia al collo, in lacrime, come per strappargli almeno un assenso, una briciola di amore. Il padre, ancorato alla sua rigida religiosità, al suo freddo rigorismo, non reagisce, non capisce. Solo alla fine, ormai del tutto paralizzato, si arrenderà, e Cal, finalmente paci-ficato, potrà sederglisi accanto e vegliarlo. Scena che mi ha fatto pensare a mio padre, con questa differenza però: anche se ormai su una sedia a rotelle, fino all’ultimo non manifestò mai il desiderio di rivedermi. Per lui io non c’ero, non esistevo, non ero mai esistito. Da tempo non mi commuovevo alla scena di un film, scena che Jim improv-visò, scaturita probabilmente da una sua ferita, e proprio per questo più vera.

Ci sono in ogni individuo lacerazioni che riman-gono inguaribili, che tante volte neanche Dio su questa terra riesce a guarire. Vuoti incolmabili. La figura di James Dean mi è sempre stata cara, e mi commuove ancor oggi. Nessun sentimento in me muore mai.

Quel che è dato è dato. Negli inserti speciali Julie Harris, partner di Jim -

ora una anziana signora - racconta che alla fine del film volle andare a salutare Jim nel suo camerino. Lo trovò che piangeva. Il film era finito, e così anche il suo personaggio

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se ne andava, e lui rimaneva solo. Di che cosa aveva paura? Di se stesso? La cruda realtà lo colse all’im-provviso un mattino di maggio 1955: sulla strada, uno schianto, a soli ventiquattro anni. Ora ne avrebbe settanta-quattro. Inimmaginabile. Uno come lui non poteva invec-chiare. Che vita avrebbe fatto? Là sullo schermo rimane vivo, e giovane per sempre.

Morrison diceva che “il fascino del cinema deriva dalla paura della morte”, che “la gente chiede all’arte - e in particolare al cinema - conferme della propria esi-stenza”, che “in qualche modo le cose sembrano più reali se le si può fotografare e se si può creare un simulacro della vita sullo schermo”. (*)

Questo mi sembrava vero non solo per un attore, ma anche per lo spettatore. Infatti quando uscivamo da una sala era il mondo esteriore che ci appariva irreale. La vita, la vera vita era sullo schermo: l’immortalità. Ma che cosa era reale o irreale? Ne discutevamo.

Véronique era stata a Katmandu che allora era, come l’India, la meta, il pellegrinaggio “alle fonti” di tanti giovani in ricerca. Ne era tornata affascinata. Aveva appena letto un libro di Borges sul buddismo. Per un buddista, diceva, esiste maya, l’apparenza visibile del mondo, e il nirvana, che consiste nel pensare che nulla esiste dietro le apparenze: tutto non è che un’illusione, vivere è sognare. Certo il buddismo dava risposte alle domande che da sempre si poneva l’uomo, soprattutto a questa: cos’è la sofferenza? E conseguentemente: quale ne è la causa ?

(*) Los Angeles Free Press, Bob Chorush, primavera 1971 / in Jim Morrison, Jerry Hopkins, ed. Arcana.

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Per il Budda - citava Véronique - la sofferenza è nascere, invecchiare, ammalarsi, essere separati da ciò che si ama, non realizzare il proprio desiderio. La causa della soffe-renza è la sete che porta di reincarnazione in reincar-nazione, accompagnata da piaceri sensuali, e che soltanto a volte, qua e là, viene placata. Eliminando questa sete - che porta di reincarnazione in reincarnazione - si elimina la sofferenza. Questa eliminazione è il Nirvana, l’annien-tamento. Tutto questo però - obiettavo io - portava all’ateismo, alla negazione di Dio. Non era quindi un’altra vita; il nirvana promesso era l’abisso del nulla. Faceva paura. E poi, una vita tesa a sopprimere il desiderio, ogni desiderio, che vita era? La riduceva, la limitava. Si trattava invece di orientare i propri desideri. Non tutti erano cattivi. Il più grande desiderio non era quello dell’incontro con Dio, insopprimibile? Rassegnarsi al “nulla”, no, preferivo bat-tagliare, attraversare la vita con le sue gioie e i suoi dolori, i suoi alti e bassi.

Era bello, stimolante discuterne, talvolta animata-mente. Jean-Pierre, ch’era aperto a tutto, trovava ogni teoria o filosofia o religione che fosse, interessante, ma dov’era la verità? si chiedeva. Per inclinazione naturale si ritrovava nella “compassione” cui moralmente portavano sia il buddismo che il cristianesimo. Ma per il resto…Per esempio aborriva i divieti della morale cattolica, troppo rigida; con i suoi dogmi e le sue strutture intimidiva, mentre il Cristo sulla croce teneva le braccia “scandalo-samente” spalancate. Non gli davo torto.

L’indulgenza di Jean-Pierre. La sua tenerezza, la sua misericordia verso i più deboli, i più miseri, i più sfortunati, i perdenti, gli emarginati, gli esclusi d’ogni

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sorta, i clochards, i carcerati, i drogati, gli omosessuali, le prostitute, gli ubriaconi. Fino a identificarsi con loro. In questo mi sbalordiva. Largo aveva il cuore. Mi faceva pensare a una delle canzoni di Jacques Brel: Jef, storia di due vecchi amici, di cui uno cerca di consolare l’altro che, sconsolato, pensa di buttarsi in acqua, di farla finita. L’amico però non lo abbandona. Vieni, vieni - lo esorta - su, Jef, smettila di piangere così, smettila. Non vedi che la gente ti prende in giro? Su, vieni, mi restano due soldi, andremo a berceli, a mangiar cozze e patate fritte, a bere il vino della Moselle e, se sei ancora triste, andremo a trovare le ragazze da “madame Andrée”, sembra che ce ne siano delle nuove…Staremo bene tutti e due, come quando eravamo giovani. Non sei solo, Jef, basta con le tue smorfie, solleva i tuoi cento chili, muovi la tua carcassa, so che hai il cuore gonfio, ma bisogna sollevarlo, su, basta, non dire che sei buono solo a buttarti in acqua. Vieni, ho ancora la mia chitarra, andremo a Niort, parle-remo di musica, ci faremo un sacco di soldi, staremo bene tutti e due, canteremo come prima, come quando eravamo belli…come un tempo…come prima di diventare degli ubriaconi. Bisognerebbe sentire Brel cantare questa sua canzone, perché buttata giù così, in italiano, e senza musica…

Jean-Pierre era come quell’amico fedele che scuote, solleva Jef. Ecco perché prediligeva tutti quegli artisti che avevano tanto tribolato e fatto una vita grama, difficile, persino pericolosa ai margini del buon vivere tranquillo secondo le regole stabilite, come quel François Villon, Rimbaud e altri maledetti. Per tutti coloro che sbaglia-vano, cadevano, trovava sempre mille scuse.

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Nell’ambiente uno come lui aveva poche chance di riuscire. Bisognava essere disposti a compromessi, a corteggiare, a farsi avanti a gomitate. Nell’ambiente non c’erano amici, solo concorrenti, rivali. Bisognava aver più fegato che cuore. Jean-Pierre era un essere troppo libero per scendere a compromessi, era insieme tenero e ribelle.

Proprio in quel periodo feci un incontro che non mi aspettavo certo di fare. Una sera squillò il telefono. Lì per lì pensai a uno scherzo. Ma l’imitazione di quella incon-fondibile voce era troppo perfetta. Era nientemeno che Zizi Jeanmaire, una stella della danza, moglie del noto ballerino e coreografo Roland Petit.

Per la sua ultima tournée, che l’avrebbe portata in Italia, desiderava imparare un po’ d’italiano, e più preci-samente imparare a memoria ciò che in questa lingua doveva dire al pubblico sul palcoscenico, uno scorcio della sua vita, da quando petit rat all’Opéra di Parigi e poi danseuse étoile, di balletto in balletto, di teatro in teatro farà il giro del mondo, con show a Broadway e film a Hollywood.

Intimidito mi recai in avenue de la Paix, di fronte all’Opéra, da Repetto, la boutique d’articoli per la danza classica. E’ qui che gli avevano dato il mio numero di telefono perché ogni tanto ricorrevano a me per la loro corrispondenza con l’Italia. La Jeanmaire mi aspettava nel retrobottega in un piccolo ufficio. Quando me la trovai di fronte rimasi, come dire? sgomento. Piccola di statura, con i capelli alla garçonne, vestita di nero, era lei, ma lontano da come appariva nei suoi spettacoli o anche in tele-visione o sulle foto dei magazine. Il fatto è che non era più tanto giovane, e si vedeva, lì, a faccia a faccia e non su un

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palcoscenico, avvolta dalle luci dei riflettori, pulita, senza maquillage. Non so chi fosse più imbarazzato dei due, io per la ragione che ho appena detto, e lei - pensai stupi-damente - forse per la stessa ragione nel farsi vedere così. Ma mi sbagliavo. La danza forgia il carattere, è una dura disciplina. Comunque questa fu la mia prima impres-sione, una delusione che quasi subito, però, si attenuò, fino a sciogliersi in simpatia, solidarietà, proprio per il tempo che non guarda in faccia a nessuno, mentre si vorrebbe che risparmiasse almeno gli artisti, coloro che ci fanno sognare.

Durante le “lezioni” fu umilissima. Sentivo che provava simpatia per me. Ero anche un bel ragazzo. Ripeteva dopo di me parola per parola, così com’era scritta nel copione, che qua e là modificavo per facilitarle la dizione. Andavo da lei due volte alla settimana, dopo la scuola. Mi inteneriva proprio per la sua semplicità e natu-ralezza, per quella sua forza e caparbietà e nel contempo fragilità, ma anche perché, di confidenza in confidenza, ci si rende conto che nella vita di una stella non è sempre tutto rosa come si crede, anzi, ci sono tragedie, sofferenze, vuoti che non si possono manifestare.

Zizi - così volle che la chiamassi subito - sul palcoscenico doveva dare solo gioia. Gioia però che ogni artista trae dal dolore. Celebre era il finale d’ogni sua rivista, quando usciva sul palcoscenico emergendo da un fascio di piume rosa cantando Mon truc en plumes. Ma sapeva anche commuovere con quella sua voce tipica dei monelli parigini.

L’ascolto tutt’ora in un cd inciso il 19 novembre 2000 all’Opéra Bastille, in cui canta testi di Gainsbourg,

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Barbara, Queneau, Aragon, Lama, Marcel Aimé, Boris Vian, e una stupenda canzone scritta per lei dalla figlia Valentine che finisce così:

Le plus beau jardinEst celui de mon enfanceQuelque part en FranceEntre les rires et les chagrins.

In queste parole c’era tutta la sua vita, di donna e d’artista. Conservo una foto di lei con questa dedica: A mon professeur d’italien avec amitié, et merci pour ce merveilleux travail.Seduta su una di quelle sedie pieghevoli, di tela, che usano i registi o gli attori durante le riprese di un film, con scritto il suo nome sullo schienale, è appoggiata a un bracciolo con una gamba piegata e l’altra tesa orizzontalmente - stupende gambe di ballerina - e quel suo avvincente irresistibile sorriso.

Purtroppo, però, non era molto dotata per l’italiano. Faticava. La lezione veniva registrata, così poteva ascol-tarla anche a casa. Dubitavo che ce la facesse, e tante erano le mie perplessità. Tra una canzone e l’altra avrebbe dovuto dire il suo testo a memoria, brillantemente, senza inciampi. Ce la metteva tutta. Studiava, ripeteva ogni parola, ogni frase come una scolaretta, però con quel suo accento. Disperavo, e mi dispiaceva, ma una sera:

“Adesso” mi disse, “facciamo come se fossi sul palcoscenico, tu osserva, e mi dirai cosa non va.”Seduto, come a teatro, lei si alzò dietro il suo ufficio. Si concentrò. E lì, con mia meraviglia, avvenne, come dire? il miracolo. A mano a mano che diceva il suo testo - come se veramente fosse sul palcoscenico di fronte al pubblico -

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si trasformò, ringiovanì. La guardavo stupito, affascinato, abbagliato. Era come se, prima bruco e poi crisalide, dal bozzolo si schiudesse la farfalla. O meglio, pensando al Botticelli, come se da una conchiglia assistessi alla nascita di Venere. Non esagero. Alla fine, ansiosa, mi chiese:

“Com’è andata?”Mi aveva incantato, e glielo dissi. Quel suo riso! Un riso squillante, inconfondibile, che comunicava gioia. L’avrei abbracciata, tenuta stretta tra le braccia.La stessa sensazione provai quando un giorno andai a vedere Dalida all’Olympia. Appena apparve sul palco - mi trovavo nei primi posti con Emma, la mamma di Jean-Marie - ne fui deluso, come se tutto fosse solo un inganno. Notai le mani con vene che le deturpavano, i capelli sciolti che sembravano di paglia, insomma non era affatto come appariva sulla copertina dei dischi, nei rotocalchi o negli show televisivi. Mi fece quasi compassione. Poi, però, via via che lo spettacolo proseguiva, la metamorfosi avveniva e, come per incanto, si trasfigurava, diventava veramente la star: travolgente, meravigliosa, di una bellezza assoluta, trascinata da ciò che comunicava cantando e ballando.

“Bellezza che non dovrebbe mai svanire” scrivevo allora nel mio diario. “Stella che non dovrebbe mai tra-montare, morire.” Invece, Mourir sur scène fu la canzone che cantò per l’ultima volta alla fine di aprile a Antalya, in Turchia. Poco dopo, il 3 maggio 1987, decise di andarsene, di calare il sipario sulla sua vita. Era di domenica, quando la solitudine pesa di più. Stanca di fingere, stanca di appa-rire.

“Fini la comédie” cantava.

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Ebbi la notizia della sua morte la sera di quella stessa domenica, uscendo dalla pizzeria “chez Donato” con un amico. Me la buttò lì il ragazzo del bar:

“Lo sai che è morta Dalida?” Fu uno choc. Per un istante rimasi incredulo. La morte tragica di qualsiasi persona è sempre scioccante, ma lo è ancor più quando si tratta di un artista che potrebbe dare ancor tanto di sé. Ci si sente impoveriti, traditi, derubati. Certi poeti poi, scrittori, attori…li si vorrebbe immortali.La tenerezza che ho sempre provato soprattutto per i più infelici, i più fragili, a loro modo così vicini ai santi.

No so perché mi è venuto in mente tutto questo. Certi ricordi ti vengono su proprio mentre stai evocando qualcos’altro, come quando durante un viaggio ti si presenta un cartello che t’invita a fare un giro altrove, o quando per strada incontri per caso una persona cara che non vedevi da tempo, e allora ti attardi e stai con lei. I ricordi tante volte si accavallano, s’incrociano, sprizzano dal cervello come spiriti folletti.

Ma rieccomi, senza più intrusioni, a Jean-Pierre, Véronique e Jean-Luc. Tutti e tre progettavano di far qual-cosa nel mondo dello spettacolo. Sognavano. Da ragazzo anch’io avevo tanto sognato e, per un certo tempo - come ho già detto - furono i miei sogni a salvarmi. Lo scontro con la realtà fu tremendo, dovetti per forza arrendermi. Come sarebbe andata a finire se non mi fossi arreso? Male. Sì, penso veramente che sarebbe finita male, soprat-tutto se avessi avuto successo. Il successo mi avrebbe bruciato, fatto fuori, ammazzato. Come accadde tragica-mente a Morrison. Tuttavia, nel mio più profondo, ho sempre continuato a sognare: ancor oggi è così. Sogni intimi, segreti. Niente più sogni sarebbe già come morire.

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Ai sogni di un tempo ne ho sostituiti altri, e tra questi il più grande: Dio. Credere è un po’ come sognare, con qualcosa in più, che dà la fede, la certezza che il mio sogno è realtà. Allora, però - non ancora toccato dalla grazia - i sogni dei miei amici trovavano in me un’eco, mi contagiavano, sogni certo meno grandi, assoluti, ma necessari per sfuggire al baudelairiano spleen, all’ango-sciante comune senso della vita.

Senza ingaggi, sul finire dell’estate, i tre si erano messi a scrivere una serie di sketch, con monologhi e canzoni, sulla scia della festosa compagnia che imper-versava allora in un celebre caffè teatro: “Le Splendide”, ma anche con poesie di Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, e due scene, una tratta da La bisbetica domata di Shake-speare, e l’altra dall’Avaro di Molière: un’impresa, un originale ardito melting pot in cui si intrecciavano il dolce amaro, il tragicomico dell’avventura umana, che un filo conduttore teneva insieme come un’unica commedia. Infatti il titolo dello spettacolo fu proprio “Commedia”.

Artisticamente l’impresa era più che azzardata, ma se non il mestiere, c’era la passione, la freschezza, era un po’ come mettere insieme, in una sola creatura, le specie più diverse tra loro incompatibili. Ma Jean-Pierre era fatto così, di naïveté e di follia. E io ero rimasto un po’come lui. Non ci si cambia mai del tutto.

Una volta pronti, però, da chi farsi produrre e dove? Avevano cercato, bussato, sperato, poi però, impazienti, testardi, decisero coraggiosamente di prodursi da soli. Affittarono un locale, che credo non esista più, nei pressi del centro Pompidou: il Tintamarre. Dopo la scuola andavo ad assistere alle prove. Jean-Pierre voleva assolu-

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tamente il mio parere, e ne teneva conto. Sempre più coinvolto approfittai per suggerirgli di inserire una pagina dal Deserto dei Tartari, che a suo tempo avevamo visto a scuola.

“Perché non la fai tu?” mi disse Jean-Pierre. “Io?” dissi, schermendomi. “Non dovrai fare altro che quello che fai già a

scuola. Ti rivolgerai al pubblico come fai in classe. Sarebbe bello, no?”

Così entrai a far parte dello spettacolo. Contagiato lo feci certo per amicizia, e anche per quella pagina straordinaria di Buzzati in cui descrive l’irreparabile fuga del tempo, ma lo feci soprattutto perché tentato, vinto dalla voglia, non del tutto svanita, di calcare nuovamente il palcoscenico, come un tempo, di provarne i brividi, il panico prima di entrare in scena, e poi la soddisfazione, la gioia di comunicare qualcosa a persone in ascolto un po’ come, sulla scena di un teatro, ora commento la Parola di Dio.

Quello fu un periodo, come dire? strano, strano come quando si entra in un sogno, una fantasticheria che mi trascinò nell’affascinante mondo dello spettacolo, ancorato allo stesso tempo nel reale e nell’irreale: irreale proprio perché il reale veniva rappresentato, e l’irreale “vissuto” come realtà.

Inutile dire che oltre l’affitto per il locale, tra mani-festi e volantini, i tre si erano indebitati fino al collo: il rischio era grosso, ma ci credevano, l’avventura era troppo bella, eccitante. Sul davanti del “Tintamarre”, a caratteri cubitali, il titolo della pièce, scritta e interpretata da, con i loro nomi, e, in più piccolo, con la partecipazione di…

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Per Jean-Pierre quello fu un tempo felice, forse il più eccitante. Felice perché tutto si faceva in amicizia, senza intermediari, nella trasparenza. E la sala era sempre abba-stanza gremita, soprattutto il sabato sera.

La “première”, se non proprio un trionfo, andò piuttosto bene. Mordace, tra il serio, il provocatorio e il comico, la mescolanza delle diverse scene, ispirate al teatro classico e a ciò che di più odierno andava per la maggiore, a dir poco sorprendeva. Dopo lo spettacolo si andava a cena in un bistrot lì accanto, che era il ritrovo del Tintamarre dove si incontravano altri “artisti”, principianti o disoccupati, desiderosi di combinar qualcosa, di trovare un ingaggio. Talvolta il venerdì o il sabato finivamo a rue de Paradis, dove mettevo su la soupe à l’oignon, con una buona bottiglia di bourgogne. Discutevamo fin quasi all’alba per dire com’era andata, dei tagli o delle aggiunte per migliorare l’insieme, finché esausti, due sul materasso e due stesi sulla moquette, ci addormentavamo ascoltando sognanti “The dark side of the moon” dei Pink Floyd.

Lo spettacolo tenne l’affiche per quasi un mese fino all’esaurimento del pubblico. Il che era già una perfor-mance. Ma poi? Si dovette fare i conti. Nonostante il discreto pubblico, le spese furono superiori alle entrate. Colpo duro, ma Jean-Pierre si sarebbe rovinato anche di più pur di continuare a “vivere” su un palcoscenico. Più di ogni altro io sapevo che non lo faceva per il denaro, ma per distaccarsi, sentirsi vivo, come si sente distaccato e vivo, oso dire, un mistico immerso nella preghiera.

Un attore – ho letto non so più dove – passa il suo tempo a fuggire, a sfuggire a se stesso. Per Jean-Pierre era anche e soprattutto un modo per incarnarsi nei più svariati personaggi, dai più abietti ai più santi, come un esplo-

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ratore va alla ricerca di sempre nuovi mondi. Era un modo per vivere in una vita mille altre vite, tutte le vite che non avrebbe mai vissuto nella realtà. Anime inquiete sono fatte così. Si tratta di quella inquietudine che porta certuni fin giù all’inferno, altri verso Dio.

Fuori di lì la caduta è sempre vertiginosa. La realtà noiosa fino a diventare insopportabile, e

allora…ci si perde, si affonda…Nell’ambiente, sì, ci sono dei professionisti, solidi,

grandi artisti, ma anche dei sognatori, e Jean-Pierre era uno di questi, per forza più fragile, più vulnerabile. Per cui, una volta calato il sipario – ripreso dal vuoto – sentiva il bisogno di ripartire, d’immergersi in una nuova avven-tura, una nuova esplorazione di sé, una nuova vita.

Come capivo tutto questo!

Fragile e vulnerabile, dicevo di Jean-Pierre, ma si mostrava così solo con chi lo conosceva bene. Il suo aspetto era quello di un giovane sicuro di sé, curava il suo fisico e, siccome aveva smesso di fumare, avendo preso qualche chilo in più, andava in palestra per mantenersi in forma. Cinema, televisione, sì qualche cosa gli venne pro-posto, anche una pubblicità che fece volentieri, divertente, ma alla fine era verso il teatro che si sentiva attratto, perché dal palco, oltre a comunicare, poteva avvertire le reazioni della gente, sentirne il calore, l’odore, persino il silenzio. Ogni volta era un po’ come buttarsi nell’arena, darsi in pasto, e, sia alla prima che all’ultima rappre-sentazione, provava sempre la stessa emozione, simile a quando si fa l’amore per la prima volta quando si è innamorati. Pensava teatro, sognava teatro, a certi ruoli da interpretare, al suo “François Villon”, il poeta maledetto.

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Purtroppo però, tra un ingaggio e l’altro, anche dopo una tourné teatrale con un attore famoso, rimaneva uno dei tanti precari dello spettacolo. E tuttavia, nonostante le difficoltà, le delusioni, la dèche, l’essere quasi sempre in bolletta, non si sarebbe mai arreso, non ci avrebbe mai rinunciato. Non poteva rinunciare.

Tolto dai suoi sogni sarebbe morto. Del resto questo suo modo di concepire la vita gli

veniva dal nonno, mi diceva sua madre Jeanine. Anche lui era un artista, senza pertanto aver mai interpretato un ruolo, essere mai salito su un palcoscenico: non per questo si è meno artisti. Si nasceva, si viveva, si pensava così. E non ci si poteva far nulla. Jeanine si disperava e allo stesso tempo capiva che Jean-Pierre non poteva essere, vivere diversamente, era nato, programmato così, era nel suo DNA.

Artisti, poeti non erano quei barboni descritti da Steinbeck in “Tortilla Flat”? Francesco d’Assisi visse un po’come un barbone, da poeta. Jean-Pierre portava in sé questa impronta, indelebile. Gli mancava ciò che fece di Francesco un santo. Ma Dio, ne ho sempre avuto la cer-tezza, deve avere un debole per i poeti, non soltanto per i veri poeti - maledetti o no - ma anche e soprattutto per i poeti solo nell’anima.

E Jean-Luc, Véronique? Dopo lo spettacolo sparirono. Forse a Marsiglia. O

in India. Non ne ho più saputo niente. Volatilizzati. Partiti per chissà quale altra avventura. Non mi meravigliai più di tanto. In Jean-Luc sonnecchiava pur sempre un nomade. E Véronique ne era innamorata. Ci sono esseri così, che vivono come gli uccelli dell’aria, come i gigli nei campi.

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XVIIIL’AMICO FRANZ

Volevi darmi una famiglia:la tua

n quel periodo della mia vita avrei seguito un amico fino in capo al mondo, commesso pazzie, dato la mia

vita. L’amicizia era forte quanto l’amore, e fors’anche di più, perché esente da tutto ciò che, talvolta, passio-nalmente lo offusca. Ma non riuscivo sempre a distin-guere l’uno dall’altra. So soltanto che non ero capace di sentimenti tiepidi. Quando amavo mi ci buttavo sempre a capo fitto, senza calcoli, paure: irragionevolmente, come irragionevoli sono gli amanti, gli eroi delle tragedie in cui amore e morte si avvinghiano, fanno tutt’uno.

I

E tuttavia sempre con il dubbio di non saper amare, di non riuscire mai del tutto a riempire il vuoto che portavo dentro come una voragine.

Tra i miei amici più cari ci fu lui, Franz. Così presente nella mia mente, ora più di prima. E ora più di prima quante cose avremmo da dirci! Pensando a quanto è avvenuto provo rimorso. Quanta forza e delicatezza ha mostrato per non essere di peso, per non suscitare pietà, per lasciare di lui il ricordo più bello.

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Ho ritrovato queste pagine scritte a Parigi poco prima di partire per il postulato:

5 agosto 1992. – Sono tornato a Barbès, quartiere di Parigi che brulica di stranieri, per la maggior parte arabi e negri. Quartiere popolare, vivo, che i parigini ritengono pericoloso, quartiere dove non ci si avventura, svalutato proprio perché “malhabité”. Io, invece, in questo quar-tiere, mi son sempre sentito bene, forse perché non ho nulla da farmi rubare, ma anche perché voglio bene alla povera gente, a quelli che, bianchi o scuri di pelle, fati-cano a vivere. Ma non esageriamo, Barbès non è Harlem.

Mi sono spinto fino a rue Muller dove abitava Franz. Una via stretta tutta in salita che dà su una piaz-zetta. Qui una scalinata porta fin su al Sacré-Coeur. Fu dopo la partenza di Joceline per la Martinica con la bambina, che Franz lasciò l’appartamento più grande a Saint-Denis per affittare quel monolocale lì in via Muller, al quinto piano – senza ascensore naturalmente – del modesto palazzo abitatissimo dove solevo andare a tro-varlo. Certo meno comodo, di appena una ventina di metri quadri, ma per lui andava benissimo, anche perché c’era meno da spendere, e poi si trovava in città, a due passi dal metrò.

Però, ritrovarsi soli non è facile. La figlioletta gli mancava più della moglie. A star a ciò che mi diceva, Joceline era una brava ragazza, ma indolente, pigra, senza conversazione. Guardia notturna all’AGF – compagnia d’assicurazioni – Franz doveva far tutto: la spesa, la cucina, persino il bucato, anche se alla lavanderia sotto casa. A cosa gli serviva una donna in casa che non si sognava neppure di trovarsi un lavoretto foss’anche part time?

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Questo fu il periodo in cui ci vedemmo di più, quasi ogni giorno. E’ così che l’amicizia si approfondì. Ripensandoci credo che Franz fu la persona alla quale mi confidai, mi rivelai di più. Mi conobbe come nessun altro. Di lui mi fidavo, come lui si fidava di me. Qualsiasi cosa gli avessi detto, qualsiasi segreto, vizio o colpa, lui mi capiva, e nulla cambiava tra di noi. Ci stimavamo. Però io lo stimavo più pulito di me, più nobile, con più cuore e più coraggio. Quel che ci univa era la sotterranea sofferenza, l’insoddisfazione, la sete di altre cose, certa paura, la fragilità, l’incolmabile segreta solitudine, la rivolta contro ogni ingiustizia.

Ma quanto ridere anche! Quante spaghettate all’una di notte quando non era di turno al lavoro dopo aver girovagato per la Butte Montmartre fra turisti e fauna d’ogni sorta. Il nostro chiacchierare quando rimanevo a dormire da lui. E si sa che la notte è propizia allo svuota-mento dell’anima, a dire cose, sussurrare pensieri che escono fuori solo al buio.

Franz era nato alla Martinica. Di famiglia modesta, per non dire povera, casa e un pezzo di terra. Un’infanzia un po’simile – immaginavo – a quella che poi verrà descritta nel film “Rue Cases Nègres”. Ragazzo irrequieto, sognatore, presto l’isola gli parve troppo piccola. Conoscere il mondo, evadere, sapere, scoprire, vedere, era l’indomabile suo desiderio, l’insa-ziabile sua curiosità, l’urgenza di coloro che presagiscono che il tempo sarà breve. Giovanissimo si recò negli USA. Si arrangiò, fece di tutto, sopravvisse, ma conobbe l’Ame-rica, e anche una ragazza con la quale coabitò per qualche tempo. Franz piaceva, seduceva. Non solo aveva un bel

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volto, ma anche un corpo ben fatto, statuario, da dio. E quando lo si conosceva non si rimaneva delusi, la bellezza del corpo era pari alla bellezza dell’animo.

Ma era pur sempre un “negro”, diceva lui. Io però – e potrà sembrare strano – non ho mai fatto caso al colore della sua pelle, come lui non faceva caso al mio. Per me lui non era un negro, e per lui io non ero un bianco: eravamo amici. Un po’ lo invidiavo, tra l’altro perché ci sapeva fare con le donne, e nessuna gli resisteva ma, delicato, non devastava gli animi, s’introduceva prima col cuore, senza di che nessun rapporto era possibile. Con lui – come Morrison – anche una donna bruttina aveva la sua chance, proprio perché aveva cuore.

Saggiata l’America si portò in Europa. Sostò per alcuni mesi a Parigi, poi la curiosità lo spinse in Italia dove, tra Perugia e Milano, trascorse un anno intero. L’Italia gli piacque come pure gli italiani, ma all’inizio degli anni 70 l’Italia non era ancora il rifugio, l’agognata terra di tanti disperati, e non c’era ancora quel razzismo che affligge ora tanta gente del nord, anche benestanti, timorosi di condividere, diffidenti, manipolati da mediocri ambiziosi politicanti il cui discorso populista, come in Francia e altrove, raccoglie tanti disgraziati consensi.

Franz, a Milano, occasionalmente fece anche il fotomodello. Rivedo qui le sue foto: irresistibile per quella sua sciolta innocente sensuale grazia. Avrebbe potuto farsi strada in quell’ambiente ma poi, forse per quella sua insita irrequietezza, tornò a Parigi. O forse perché – senza illusioni – pensava che a ventisei anni era ora di fissarsi in qualche posto, di trovare un lavoro stabile, di sistemarsi come dicono le mamme, e metter su famiglia.

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«La gioventù – scrivevo allora nel mio diario – non è che un fulminante incantevole tempo, un arcobaleno teso fra cielo e terra. Da giovani ci si crede eterni, invulne-rabili. L’ho creduto anch’io.»

E’ a Beaubourg, dove bazzicavo, che conobbi Franz, di fronte al centro culturale che assomiglia a una raffineria, sullo spiazzo antistante – vasto teatro – che occupano artisti d’ogni pelo: mangiafuoco, clown, musi-cisti, predicatori, contestatori, chanteurs des rues, ma anche rocchettari, mimi circondati da turisti, curiosi, tossici, ladruncoli e fannulloni d’ogni sorta. Diventammo subito amici, attratti l’uno verso l’altro, da parte sua anche per via della mia italianità per cui, all’inizio, ci espri-memmo in italiano, che Franz parlava con sorprendente scioltezza e un pizzico di accento creolo. Con lui scoprivo un altro mondo, arricchente, un modo di vedere, di perce-pire, di parlare diversi. Talvolta avevo la sensazione di essere nella sua isola, parte della sua stessa gente. Era, come dire? pimento e miele.

Fu in quel periodo che conobbe Joceline, allora impiegata al municipio del diciannovesimo arrondis-sement. Franz allora non aveva un domicilio fisso, dor-miva un po’ qua, un po’ là, dove capitava. E, se trovava un lavoro lo faceva. Non dava l’impressione di preoccuparsi del domani. Poi, però, trovò quel posto all’AGF, come guardia notturna, e l’appartamento in cui si sistemò con Joceline. Gli nacque la bambina. I primi tempi, immagino, furono più o meno felici. Dico immagino perché fu allora che ci perdemmo di vista. Non ricordo con esattezza per quanto tempo. So soltanto che quando ci rivedemmo fu per caso, alla gare de l’Est. Cambiato, ormai trentenne,

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appesantito da qualche chilo. Nonostante la gioia nel rivederci, notai subito la sua ansietà, e nei suoi occhi ridenti la recondita malinconia. Da qualche tempo la minaccia di un licenziamento si faceva sempre più stressante.

“Vogliono imporci un orario inaccettabile” mi diceva. “E’solo un pretesto per rompere il contratto, e buttarci tutti fuori.”Tanto più che per quel lavoro c’erano solo degli immi-grati.

“Ma tu non sei un immigrato!” reagivo.“Fa lo stesso, sono un negro.”

La sua amarezza. A parte i pochi soldi per tirare avanti, la monotonia di un’esistenza mediocre lo faceva sentire come ingabbiato. Dal lavoro, anche se ci eravamo appena visti nel pomeriggio, mi telefonava quasi ogni notte:

“Ti disturbo a quest’ora?” si scusava.Ma c’era sempre qualcosa da dire, da raccontare: la soli-tudine. Alla fine di ogni telefonata mi diceva:

“A parte questo, come va il tuo cuore?”Sapeva come anch’io ero tenero, sapeva la mia fragilità. Gli anni passavano e gli pareva di inoltrarsi in un tunnel. Sola sua gioia, ma anche preoccupazione, la bambina. C’era una tale spaccatura tra la vita che aveva fatto e la vita che faceva, tra i suoi sogni e la realtà, che lo riempiva di sgomento e d’amarezza. Come tirarsi fuori da quella situazione, liberarsi dalla camicia di forza che portava addosso? Quella sua vita non era vita. Vita senza più sogni. E la paura del domani. Una sera, passeggiando sotto la pioggia per la Butte Montmartre, mi disse:

“Sono infelice, Mario, infelice: non puoi imma-ginare quanto.”

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Non risposi nulla, mi accontentai di prenderlo sotto braccio. Non era solo, stavo con lui, soffrivo con lui. Ma poi?

Per veder chiaro in se stesso sentiva sempre più il bisogno di starsene un po’ da solo, almeno per un certo tempo. Di questo suo bisogno convinse Joceline che, non del tutto scontenta, partì per la Martinica con la bambina. Una separazione che durò sette mesi, dalla primavera all’autunno. Sette mesi di libertà, da celibe. Franz ne approfittò ma, come dicevo, non è facile ritrovarsi da soli e poi…non si rifà la gioventù. Però non fu tempo perso, furono sette mesi in cui fummo inseparabili, fratelli, come figli della stessa madre quando questi si amano. Basta un giorno, un’ora talvolta per rischiarare tutta una vita.

Condividevamo ogni pensiero, senza sottintesi, senza barare, fiduciosi. Si rideva e ci si indignava per gli stessi fatti, con la complicità di vecchi amici. Uno sguardo bastava, un cenno, e ci capivamo. Di giorno erano discus-sioni talvolta animate, di notte conversazioni più pacate.

Ci si svuotava l’anima. Eravamo veramente un otre – l’un per l’altro – in

cui ci versavamo. Furono sette mesi felici. Rubati alla vita. Poiché ogni istante felice è come un furto. Nulla ti è dato gratis. O rubi o paghi il prezzo.

Fummo ladri.Ladri di libertà.Ladri di confidenze.Ladri dei nostri cuori.Ladri delle nostre anime.Ladri dei tesori che ognuno porta in sé.Ladri di un bottino che ci scambiavamo in parti

uguali.

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In un libro, che qua e là leggemmo insieme, si raccontava di quei negri che venivano deportati e venduti come schiavi nelle Americhe. La vita sulle navi era così dura da suscitare rivolte. I colpevoli venivano impiccati. Uno di loro era stato appeso a un gancio infilato tra le costole, piedi e testa in giù. Il disgraziato agonizzò così per tre giorni al punto che, per cercare di spegnere il fuoco che gli bruciava dentro, girava la testa per arrivare a bere le gocce del proprio sudore.

“Ce ne avete fatte vedere di brutte” mi disse Franz dopo questo racconto. E aggiunse:

“Ma ne abbiamo subite altre da allora: linciaggi, impiccagioni…”Solo per questo avrebbe potuto odiarmi.

Una delle sue cantanti preferite era Billie Holiday, con quella sua voce roca, strascicata, struggente. Anche lei ne aveva subite tante fin da bambina. Violentata da un inquilino della madre a dieci anni – e per questo ritenuta corrotta – venne rinchiusa in un riformatorio. Dopo di che fece di tutto per sopravvivere: lavapiatti, prostituta. Finì più volte in galera, prima per prostituzione e poi per detenzione e uso di eroina.

Strange fruit:una canzone che Billie cantò per la prima volta nel

1939. E certo strideva in confronto con altre canzoni. Era un atto di resistenza:

“La prima protesta significativa in parole e musica, la prima invocazione gridata contro il razzismo” scriveva il critico jazz Leonard Feather.

Strano frutto, sì.

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Ho qui sotto gli occhi una foto del 19 luglio 1935, in cui si vede il trentaduenne Rubin Stacy pendere a un albero a Fort Lauderdale, in Florida, dopo essere stato sottratto alla custodia degli aiutanti dello sceriffo per presunte molestie a una donna bianca. Quattro individui, vestiti a festa, circondano l’impiccato, soddisfatti, uno di loro sghignazza.

Ascoltavamo Billie in silenzio, di notte, quando non era di turno, con il solo riverbero dei lampioni che proveniva dalla strada. La canzone diceva:Gli alberi del Sud producono uno strano frutto,Sangue sulle foglie e sangue alle radici,Un corpo nero dondola nella brezza del Sud,Uno strano frutto pende dai pioppi.(…)Qui c’è un frutto che i corvi possono beccare,Che la pioggia inzuppa, il vento sfianca,Che il sole marcisce, l’albero lascia cadere,Qui c’è uno strano e amaro raccolto. (*)

Agghiacciante pietosa immagine dell’impiccato che pende dall’albero – sì, amaro frutto. La voce di Billie ci avvolgeva, come solo il dolore e l’amore avvolgono, come solo la sete di un amore avvolge. Ascoltavamo tutte le sue canzoni, incise allora su 33 giri. Billie ci commuoveva, affascinava, sconvolgeva. A chi pensava quando cantava I love a man o Embrace me? Solo il dolore, la mancanza d’amore la rendeva inimitabile, come Edith Piaf, che traeva la voce dalle sue viscere per cantare l’abisso incol-mabile della solitudine che le stringeva il petto.

(*) Southern trees bear a strange fruit / Blood on the leaves and blood at the root / Black bodies swinging in the Southern breeze / Strange fruit hanging from the poplar trees…

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Billie…indimenticabile Billie che ascolto tuttora, ripen-sando a Franz. Tuttavia non ascoltavamo solo Billie. Franz adorava la musica dei Caraibi, la salsa, un ritmo che mischia il jazz con l’afro-cubano. Così, quando la tristezza lo stringeva più forte, faceva come Zorba il greco, e si metteva a ballare. Il ritmo Franz lo aveva nella pelle, e mi piaceva guardarlo ballare, ma lui:

“Vieni, viso pallido, vieni a ballare anche tu!” m’incitava. Mi chiamava così ogni tanto, scherzosamente, da quando avevamo visto “Little Big Man”, un film che ci era piaciuto molto con quel Dustin Hoffman dai mille volti. Momenti felici. Mi ci vedo ancora. Un bianco e un negro: kif-kif, si dice in arabo, c’est pareil. In altre parole: un cuor solo e un’anima sola.

In ottobre, per le vacanze, a costo di mille sacrifici, sgobbando talvolta anche di giorno, partì per la Martinica dove mancava da quattro anni. Oltre la figlia, grande era il suo desiderio di rivedere la vecchia madre.

“A ogni incontro” mi diceva ridendo, “la mia vecchia mi palpa sempre dappertutto per assicurarsi che sto bene, che son ben lì tutto intero, in carne e ossa.”Lo invidiavo. Mi mettevo al suo posto. Pur negro e povero mi sarebbe piaciuto avere una madre che mi palpasse così.Franz mi raccontava anche questa, ridendo: quando da bambino aveva fame prima dell’ora, la madre lo faceva pazientare, ma siccome lui, più commediante che capric-cioso, pestava i piedi: “Se proprio hai fame, mangia il tuo braccio!” gli diceva la madre. Bastava per calmarlo. Altro che le merendine degli obesi viziatelli d’oggi.

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Dopo un mese tornò con Joceline e la bambina. Pronto a provare di nuovo, a ricominciare daccapo. Mi confessava però che, pur amando la sua terra, ne era tornato piuttosto deluso. Ritrovava laggiù tutta una menta-lità che non gli conveniva più. Se ne era allontanato da troppo tempo e, anche se ne parlava con nostalgia, non avrebbe più potuto viverci. Ma penso ch’era solo nostal-gico dell’innocenza perduta, di un’infanzia passata a sognare.

Ora che Franz aveva ritrovato le “sue donne”, io mi feci più discreto. Tuttavia andavo a trovarlo ogni dome-nica. Joceline si era trasformata in perfetta donna di casa, faceva il bucato, ordinava, cucinava, e la bambina mi si affezionava. Una volta – Franz era in bagno – la bambina si mise a chiamarlo: “Papà, papà!”

“Eccomi qua” risposi io che la tenevo in braccio.“Ma non sei il mio papà” replicò lei con la sua

vocina.“Sì, sono il tuo papà.”“No, non sei il mio papà.”“Sì, sì, sono il tuo papà” insistei, serio serio.

Si arrese lei per prima:“Allora ho due papà” disse, sorridendomi.“Sì, hai due papà.”

E mi strinse forte con le sue braccine intorno al collo.

Il ritrovarci insieme era una gioia per tutti. L’amicizia rimaneva viva, necessaria come il pane.

“Non è che non ho più bisogno di te perché non sono più solo” mi disse Franz.

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Un pomeriggio – ricordo – mentre Joceline e la bambina guardavano un film alla tv, uscimmo a fare un giro. Di solito ero io a trascinarlo dentro quando passa-vamo davanti a una chiesa, ma lì fu lui a propormi di entrare nella chiesa di Saint-Pierre a Montmartre:

“Devo fare una preghiera” mi disse.Ci eravamo messi in un banco, accanto alla statua di Teresa di Lisieux, in silenzio. Dopo un po’ gli diedi una spallata: “Allora” feci, “che cosa hai chiesto?”

“Ho chiesto che il tuo affetto per noi non cessi di aumentare.”

“E’ così importante?”“Ne ho bisogno, ho bisogno di te.”

Anch’io avevo bisogno di lui.Un’altra volta, più che altro per riposarci dopo aver

tanto camminato, e per trovare un po’ di fresco, entrammo nella chiesa del Sacré-Coeur. Appena dentro, nonostante i turisti – detestabili – sotto l’imponente volta di fronte al Santissimo esposto ventiquattro ore su ventiquattro, fui preso dalla nostalgia della pietà di un tempo. Era l’ora della messa. Nel confessionale scorsi un sacerdote. No so cosa mi prese, se per gioco o per un mio recondito desi-derio, sussurrai a Franz:

“Vai a confessarti.”“No” rispose lui, sorpreso. “Su, su, vai a confessarti” ripresi seriamente, “dopo

di che potrai anche far la comunione.”“Ma cosa vuoi che dica al prete?”“I tuoi peccati.” “Non so più nemmeno come si fa.” “Appunto! Quanto tempo è che non vai a confes-

sarti?”

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“Oh, ero bambino.”“Proprio per questo vacci!”“Mi vergogno. Vacci tu per primo!”“No, tu per primo” insistei. Ma poi, più come una

sfida rivolta a me stesso:“Se ci vai tu, ci vado anch’io.”

Io conoscevo i suoi peccati, e lui i miei. Ma confessarsi davanti a Dio era un’altra cosa. Infatti, dopo quella con-fessione, e poi la comunione, uscimmo dal Sacré-Coeur ch’eravamo come angeli. Ci sembrava di volare.

Passò tutto un inverno. Però quanti problemi sempre! Là dove abitavano, nel monolocale di via Muller, erano un po’ troppo alle strette. La bambina cresceva, la minaccia di un licenziamento si precisava. E sempre meno soldi per arrivare a fine mese. Franz rimaneva insod-disfatto, preoccupato. Il futuro si presentava ogni giorno più cupo. Una volta licenziato, cosa avrebbe fatto? Non sapeva dove sbattere la testa, come cavarsela. Senza un diploma, un mestiere, con la disoccupazione dilagante, l’avvenire gli appariva chiuso, e il presente ben precario. E poi, era pur sempre un “negro”, come usava dire lui. Negritudine di cui era giustamente fiero ma, anche se francese à part entière, il colore della pelle non lo favo-riva: a un negro si aprivano più difficilmente le porte.

Tuttavia ci fu un cambiamento. A forza di bussare, di chiedere, di seccare, finì col trovare un appartamento, anche se in periferia. La gioia del cambiamento non durò a lungo una volta sistemato. Si trattava d’un locale certo comodo, al settimo piano, però in un casamento dove vivevano centinaia di famiglie, immigrati d’ogni paese, un

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casermone sperduto a una mezz’ora dai negozi. Franz si lamentava:

“Per andar a far la spesa, vedi un po’ fin dove devo andare. Senza un mezzo, soprattutto quando piove o fa freddo e torno a casa carico dal mercato, immagina un po’ il divertimento! Quanto alla bambina, salvo quando la porto a scuola, non esce mai. Qui non c’è niente ed è anche pericoloso. In città, almeno, si usciva a far due passi, c’era movimento, animazione, salivamo fino alla Butte Montmartre. Qui siamo come conigli in gabbia con centinaia di altri poveri disgraziati e tanti giovani allo sbando. Prima o poi vedrai che si ribelleranno, spac-cheranno tutto. Non c’è altro modo per toccare i politici.”Franz vedeva bene. Infatti è ciò che accadrà nelle varie banlieues non solo di Parigi.

“In questo casermone fuori mano” aggiungeva amaro “mi sento ancor più infelice, più emarginato, come in un ghetto, uno scarico per rifiuti. Hai visto i graffiti osceni sui muri e nell’ascensore? Qui è tutto così squallido, lugubre.”

Era senza speranza. Franz non vedeva più nessun orizzonte davanti a sé,

preso in una morsa, una trappola, soffocava. Si sentiva come una pianta – così bella e fiorita nella sua isola – che stava appassendo, morendo.

Coll’andar del tempo la strada si faceva sempre più incerta, persino l’aria si appesantiva, diventava cattiva. Si lasciava andare, ingrassava, poi si riprendeva, sperava, e di nuovo disperava, si intristiva. Stati d’animo che si con-trastavano, si contendevano il suo cervello. Alti e bassi che lo minavano, lo usavano, indebolivano.

Stava per essere distrutto, fatto fuori, liquidato.

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Seguì un periodo in cui, per tante ragioni, non andai a trovarlo. Povere ragioni. Forse perché più lontano – occorreva prendere il treno – o preso da altre cose, altri attaccamenti. Imperdonabile. Nulla potrebbe scagionarmi. E nemmeno gli telefonai. Ma lui, perché non lo faceva? Sarei accorso. Avrei dovuto presagire, e stargli vicino. Solo dopo capii perché non telefonava. Non voleva farsi vedere in quello stato, addolorarmi.

Una mattina ricevetti una telefonata da Joceline. Non lo aveva mai fatto. Per cui le dissi, contento:

“Ciao, Joceline, che sorpresa!”Non potei aggiungere altro perché disse:

“Franz…”“Cosa, Franz? E’ capitato qualcosa?”“E’ morto.”

Rimasi un istante senza fiato, incredulo. Ingoiai il nodo che mi venne alla gola. Non ricordo come formulai la mia domanda: come, perché, cos’era successo? Da qualche tempo Franz si sentiva stanco, anormalmente stanco. Su consiglio del medico si era recato all’ospedale per subire degli esami. Leucemia. Iniziò il supplizio della chemio. Tre mesi di viavai all’ospedale. Tre mesi in cui si rinchiuse in sé.

Muto. Muto anche con Joceline – gliene ho voluto – cui non venne neppure l’idea di chiamarmi. Un mattino Franz si recò all’ospedale per il solito con-trollo e la cura settimanale. Il cuore. Improvvisamente cessò di battere.Finì così. Solo.

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Non potei neanche vederlo. Il corpo era già stato rimpa-triato. Pensai alla vecchia madre nel ritrovare il figlio in una bara. Doveva essere come sentirsi strappare l’anima, morire. O Franz, anch’io mi son sentito un po’ morire. Poiché ogni volta che una persona cara muore è una parte di sé che muore. E tu fosti tra le mie persone più care, l’amico attraverso il quale Dio mi ha amato con più tenerezza.

Quanti ricordi rimontano a galla!Avevi voluto darmi una famiglia, la tua.

Una domenica arrivai in casa mentre Joceline e la bambina stavano in bagno a farsi belle. Quando la bam-bina uscì, con le treccine ornate d’un nastro rosso, corse verso di me, salì sulle mie ginocchia, e prese a baciarmi dappertutto sulla faccia e, mentre mi passava il suo raffreddore e la sua tosse, mi diceva:

“Comme tu es doux, comme tu es doux.”Lì tutto diventava bello, e dentro di me ti ringraziavo.

“Al suo battesimo sarai il suo padrino” mi dicesti.“Joceline è d’accordo?”“Come no? Ti vuol molto bene, e io sarò così

contento.”

“Sai che Joceline pensa sempre a te quando prepara il pranzo? Ha sempre paura che ti annoi qui con noi.”Non solo non mi annoiavo, non me ne sarei mai andato. Sarei sempre rimasto lì con voi.

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Un giorno – era un 10 dicembre – ci recammo a una manifestazione in memoria di Malik, un giovane magrebino ucciso dalle forze dell’ordine, non ricordo più in quali circostanze. Manifestazione silenziosa, una fiu-mana di gente purificatrice. Mi dicesti la tua emozione, e :

“Questi giovani mi fanno bene, mi sento meno solo di fronte all’ingiustizia e al razzismo.”

Volevi riuscire il perfetto accordo tra l’amore e l’amicizia. Più che la fede ti rassicurava l’amore.

Quante volte mi sono inquietato per te. Come quando, per non aver pagato la bolletta del telefono, ti avevano tagliato la linea. Accorsi subito e andammo a pagarla insieme. Per strada mi dicesti:

“Non devi preoccuparti tanto per noi.”“Ma io non ho nessuno per cui preoccuparmi.”

“E noi abbiamo solo te.”

La tristezza che talvolta scorgevo nei tuoi occhi. La malinconia che nascondevi sotto il sorriso, solare. Quel tuo coraggio. Come in nessun altro vedevo nei tuoi occhi la mia anima.

Si era appena sparsa la notizia della morte di un celebre fantasista. Poco prima di morire diceva a un amico: “Ho paura di soffrire, sarò vile di fronte alla soffe-renza.”Nell’arco di tre mesi tu hai saputo della tua malattia, e poi lo schianto. Tre mesi di solitudine, assoluta, senza nessun conforto…come Cristo, abbandonato persino dai suoi più amati.

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Scrivevo nel mio diario:“Un giorno, a forza di amare, il mio cuore scop-

pierà. Come un motore che gira di continuo al di sopra della sua potenzialità. Perché tanta sete in me? Questa insopprimibile esigenza? Perché questo bisogno di asso-luto, questo bisogno di fondermi, di darmi sempre tutto intero? Sì, un giorno, a forza di amare come amo, il mio cuore scoppierà.”Ti feci leggere queste righe. Tu mi dicesti:

“Scoppierà prima il mio.” Ne “Les yeux ouverts”, alla domanda: – E la solitudine dovuta all’assenza, alla partenza di un essere umano? – Marguerite Yourcenar rispondeva:

“Come capire la parola partenza, la parola assenza? E’ un sentimento di cui non ci si consola mai, benché la potente vita assicuri sovente, quasi miracolosamente un cambio.”Sì, certo.Ma rimane pur sempre un vuoto, incolmabile. Proprio perché a ogni morte è una parte di sé che vien sepolta. E tuttavia, diceva altrove la Yourcenar:

“Non si muore veramente il giorno in cui l’ultima persona che si ama muore.”

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XIXMONSIEUR IBRAHIM E I FIORI DEL CORANO

Una favola evocatrice di tanti ricordi

a settimana scorsa, all’edicola per trovare un dvd su Giovanni Paolo II, mi sono imbattuto in “Monsieur

Ibrahim e i fiori del Corano”, un film tratto da un bellis-simo libro di Eric-Emanuel Schmitt, che avevo letto alcuni mesi fa. Spinto dalla curiosità ho visto il film la sera stessa. Con commozione. Il giorno dopo ho ripreso il libro che, come il dvd, ho trovato per caso curiosando in una libreria. Il film ricalca fedelmente lo scritto, pagina dopo pagina, parola per parola. I dialoghi sono dello stesso autore. Straordinaria l’interpretazione dei due protagonisti: Omar Sharif nella parte dell’arabo, e Pierre Boulanger in quella di Momo. Sharif è talmente calato nel suo perso-naggio che sembra aver messo radici dentro la sua dro-gheria. Da più di quarant’anni è “l’arabo” in una via ebrea. Parla poco, sorride sempre, non ha mai fretta, al riparo, protetto dall’agitazione che rovina la maggior parte della gente in città. Passa per uomo saggio, felice, e lo è. A Momo, che felice non è, dirà:

L

“Il segreto della felicità è la lentezza.”188

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Il racconto, ambientato negli anni 60, mi ha riportato sui luoghi che furono miei per tanti anni, nelle stesse vie che percorrevo ogni giorno: rue de Paradis, rue Bleue, rue de la Fidélité. Mentre rileggevo il libro - un piccolo libro di una novantina di pagine - cercando di scoprirne il segreto, mi dicevo ammirato:

“Se sapessi scrivere anche soltanto un libro così!” Apparentemente in certi libri non c’è nulla di straordi-nario ma, con semplicità, l’autore ti racconta una storia che ti prende, ti sorprende, ti tocca. Semplicità che è dono, virtù. Scrivere così ha del magico.

Schmitt, che ha studiato musica e letteratura, ed è laureato in filosofia, racconta la storia di un’amicizia tra Momo - un ragazzino ebreo di 13 anni, abbandonato a se stesso - e Ibrahim, il bottegaio arabo di Rue Bleue. Ma la via blu non è blu, e l’arabo non è arabo, è musulmano e viene dalla Mezzaluna d’Oro. E rue de Paradis, rue Bleue non erano e non sono come le vie descritte nel libro. Il film è ambientato in un altro quartiere, ma le prostitute le puoi trovare non lontano, a rue Saint-Denis, molto simile alla strada descritta nel libro e vista nel film, dove com-mercianti ebrei e prostitute fanno bon ménage.

Negli ultimi cinquant’anni molti quartieri di Parigi sono stati rimodernati, scombussolati, talvolta anche sfigu-rati, alcuni resi irriconoscibili, ma la Parigi di un tempo esiste ancora, basta cercarla, andare a piedi come facevo io e faccio tuttora quando ci torno. Come faceva Julien Green, il quale un giorno - racconta nel suo diario il 15 novembre 1974 - si recò a rue de Paradis per comprare dei bicchieri. Apprezza la strada con i suoi luccicanti negozi di cristalleria e poi cité de Trévise, una traversa di rue

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Bleue che porta inaspettatamente in una piazzetta con la bella fontana circondata da piccoli alberi:

“Come tutto questo mi sembra fragile” scrive, “ma che ne sarà fra dieci anni?”

Tuttavia la piazzetta, silenziosa, con la fontana e i suoi piccoli alberi c’è ancora, restaurata. Certo nel quartiere la gente è cambiata. Anche in via Paradiso, dove abitavo, è rimasta soltanto l’anziana mademoiselle Bénoit – un po’spaesata – e nella “mia” mansarda c’è uno studente. Sotto non c’è più la vecchia Olga, l’ebrea, e quel polacco bastardo, simpatizzante nazista che, ubriaco dal mattino alla sera, batteva la moglie.

Ora, nella casa, c’è una giovane copia, un corista dell’Opéra con la moglie giapponese, due studenti, un po’chiassosi ma simpatici – mi diceva mademoiselle Bénoit – e persino una famiglia cinese. E anche uno dei due alberi nel cortile, troppo vecchio e rinsecchito, è stato tagliato. Al suo posto ne hanno piantato uno nuovo.

A un certo punto – racconta Schmitt – tornando da scuola, Momo trova un biglietto per terra in cui il padre, dopo essere stato licenziato – del resto era sempre depresso – gli dice che se n’è andato perché non riesce a essere un buon padre; gli chiede scusa, forse un giorno si rivedranno quando lui, Momo, sarà più grande. Poco dopo un poliziotto gli annuncerà che il padre si è buttato sotto un treno vicino a Marsiglia. Abbandonato, Momo decide di far credere anche a monsieur Ibrahim che il padre vive sempre lì, mangia lì, e continua a spartire con lui le lunghe serate di noia.

Questo episodio mi ha fatto pensare a qualcosa di analogo. Quante volte da bambino mi son ritrovato solo a

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casa, affamato e con tanta paura di notte. Simulavo la presenza del padre, non volevo che i vicini ne parlassero male. Per giorni e giorni anche la Erminia, stanca di quella vita, se ne tornava a Esine, dai suoi. Essere abbandonato insomma voleva dire che non ero amato. Come ammet-terlo? Non volevo che si sapesse. Era una questione d’onore. Se allora anch’io avessi trovato un amico come monsieur Ibrahim che, per non urtare la sensibilità di Momo, faceva finta di credergli, e continuava a passargli le scatolette come se il padre fosse sempre in casa, e gli diceva tutte quelle cose belle che trovava nel Corano, cose stupende che solo molto più tardi avrei scoperto. Se anch’io fossi stato adottato da uno come lui! Tutta la mia vita sarebbe stata diversa. E, in mancanza di una madre, magari avessi attinto anch’io al latte della tenerezza che Momo trovava nelle prostitute sotto casa.

Ma ecco uno degli episodi che mi ha divertito: a Istanbul Ibrahim guida Momo nei luoghi di culto con una benda sugli occhi perché indovini la religione dall’odore. Odore di cera? E’cattolico, indovina Momo. Odore d’incenso? E’ortodosso. Puzza di piedi? E’musulmano. Pouah, ma qui c’è un fetore!Al ché, Ibrahim:

“Cosa?! Ma è la Moschea Blu! Non ti piace un posto che odora di corpi umani? A te non puzzano mai, i piedi?Ti disgusta un luogo di preghiera che odora d’uomo, che è fatto per gli uomini, con gli uomini dentro? (…) A me, questo profumo di pantofole rassicura. Mi fa pensare che non valgo più dei miei simili. Mi sento naso, sento noi col naso, e quindi mi sento già meglio!”Irresistibile monsieur Ibrahim!

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E’di maestri così che avremmo bisogno, di un parlare così, anche nelle nostre chiese.

E il Verbo si fece uomo, no? Tanti sono gli episodi e le cose belle che in questo

libro mi hanno qui coinvolto, commosso, là incantato. Sentite questa: giunti in un villaggio di montagna, Ibrahim – musulmano sufi – vuole portare Momo a ballare.

“A ballare?” fa lui, stupito.“Dobbiamo. Assolutamente. Il cuore dell’uomo è

come un uccello rinchiuso nella gabbia del corpo. Quando danzi il cuore canta come un uccello che aspira a fondersi con Dio.”E lo porta al tekké, un monastero dove per la prima volta Momo vede uomini che, indossando ampi vestiti chiari e morbidi, girano su se stessi fino a trasformarsi in trottole. Guardo anch’io questi uomini con stupore, leggeri, dimen-tichi del loro corpo, come in estasi. Ibrahim:

“Vedi, Momo, girano su se stessi, girano intorno al loro cuore, che è il luogo della presenza di Dio. E’ come una preghiera.”E questa sarebbe una preghiera? si meraviglia Momo, sbi-gottito.

“Altroché” gli spiega Ibrahim, “perdono tutti i rife-rimenti terrestri, quella pesantezza che noi chiamiamo equilibrio, diventano fiaccole che si consumano in un grande fuoco. Prova, Momo, prova. Seguimi.”Così anche loro si mettono a ballare, a girare su stessi, intorno al loro cuore. E sono felici. Non è un incanto? La scena del film ti prende, ti porta, ti trascina su, là dove ogni agitazione si dilegua. A un certo punto tace anche il tamburo, e il silenzio si fa musica. I

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Dervisci continuano a girare, a girare su se stessi: sono veramente diventati come fiaccole. Rapiti, si vorrebbe fare come loro, essere uno di loro. Ricordo quando anch’io scopersi per la prima volta questi uomini danzanti della confraternita sufica dei Dervisci, fondata da Rûmî nel XIII secolo: un poeta, un santo, un pazzo ebbro di Dio, che può stare alla pari con i nostri più grandi mistici, un Giovanni della Croce. Per capire, gustare queste cose, e aprire gli occhi sull’umanità in ciò che ha di più bello, alto e unificante, bisogna essere poeti o santi.

Certo, “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” è solo una favola, ma è stata per me come un balsamo su tante ferite, evocatrice di tanti ricordi. In certuni mi vedo nei panni di Momo, in altri nei panni di monsieur Ibrahim. Sono stato or l’uno or l’altro nel corso della mia vita, e ancor oggi mi sembra di essere un po’ l’uno e un po’ l’altro. Nulla nell’uomo muore mai. In qualche modo, leggendo il libro e vedendone le immagini, è il bambino e poi il ragazzino di allora che ne ha tratto sollievo, conso-lazione, e persino un pizzico di felicità. Fra qualche giorno, come ogni anno, sarò a Parigi. Cosa ci troverò? A rue de Paradis e a rue Bleue c’è ancora l’arabo, che vuol dire - spiegava monsieur Ibrahim a Momo - bottega aperta dalle otto a mezzanotte, anche di domenica. Di queste drogherie ce n’è un po’ ovunque a Parigi.

Nella favola monsieur Ibrahim muore al paese, un villaggio non lontano dal suo mare tra l’Anatolia e la Persia. E Momo ha ereditato la sua bottega. Forse un altro monsieur Ibrahim tiene una di queste botteghe, un arabo che non è arabo, che viene da chissà dove. Forse in una di queste c’è Momo al posto di monsieur Ibrahim, anche se anche lui non è arabo, ma ebreo.

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XXNELLA METRO DI NUOVO A CANTARE“Non ti è mai capitato di voler morire?”

gni volta che torno a Parigi ho la sensazione di non averla mai lasciata. A Parigi ritrovo sempre qual-

cosa di me, qualcosa che è rimasto qui, soltanto qui, dentro di me. Certo io sono sempre io, ma nel contempo un altro. E poi, pensare, parlare in un’altra lingua mi fa sempre sentire, essere un altro. Ma di quanti “altri” siamo fatti, che ignoriamo? A Parigi tanto di me torna a galla, tanto di me che in convento sembra assopito, tenuto in disparte, dormiente. Nel bene e nel male. Ho disperso, lasciato un po’ di me ovunque sono vissuto. Un po’ al paese della mia infanzia, poi a Ginevra, a Firenze, a Roma, in Algeria: a Parigi molto di più. Mi sento fatto di tanti pezzi, di brandelli, che soltanto sul finire, forse, si ricomporranno.

O

Appena giunto a Parigi ho telefonato a Jean-Marie. Ci siamo dati appuntamento a rue de Paradis, davanti al portone verde del palazzo dove anche lui per un certo tempo ha abitato. Poi siamo andati a farci una bella abbuf-fata, une bonne bouffe, dal “tunisino” naturalmente, che ogni volta mi accoglie con un “quelle surprise, Mariò!” Contento di rivedermi.

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Incredibile come passa il tempo! Sovrano, inarre-stabile, insolente. E tuttavia quel ragazzino sedicenne, che non sempre veniva a scuola volentieri, mi sta lì davanti come allora. Quanti anni fa? Tanti, troppi. Ciò nonostante lui è sempre lui, e io sono sempre io, anche se la nostra vita è cambiata. Cambiata però solo intorno a noi, con il suo evolversi, con i suoi avvenimenti, senza mai intaccare quello che ognuno è, e rimane per sempre. Quando ci si guarda dentro, nulla cambia mai del tutto. Sì, certo, qual-cosa può anche migliorare, ma qua e là anche peggiorare.

La pizza dal tunisino è sempre buona, una delle migliori che abbia mai gustato. Sono felice di ritrovarmi lì, come un tempo, felice d’essere lì con Jean-Marie. Per me è sempre quell’adolescente con il quale scorazzavo in bici per i boulevard semideserti certe domeniche d’estate, e poi a cavalcioni sulla sua prima moto, una 1100 BMW, a tutta birra: a tout berzingue. Il nostro ridere. La nostra spensieratezza. La sua droga: le arti marziali, il karaté, i film con Bruce Lee. Parliamo di tutto questo.

Qui in convento non ho ricordi da spartire, con nessuno. Ho fatto il mio percorso da solo. Talvolta mi sembra di essere, come dire? un corpo estraneo, una escrescenza. E’forse anche per questo che scrivo, per non implodere. Come per Jean-Marie il karaté, così scrivere è per me. E siccome non di solo pane vive l’uomo, si potrebbe anche dire che non di solo Dio vive l’uomo. A meno d’esser santi. A Teresa d’Avila Dio solo bastava. Ma era proprio sempre così? Anche di questo parliamo. Con lui posso farlo, come allora.

Poi mi racconta della sua vita. Di Emma, la madre. Del padre. Vivono sempre ognuno per conto suo, lei

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all’isola Maurizio, lui più spesso in Polonia con la sua compagna. Gli dico:

“In fondo, fin da ragazzo, anche se a casa, anche tu sei cresciuto un po’ abbandonato a te stesso.” Lui:

“Non del tutto. C’eri tu.”Sì, c’ero io. Infatti per un certo tempo sono stato per lui – almeno un po’ – ciò che monsieur Ibrahim è stato per Momo. Un’amicizia che aveva per testimone proprio via Paradiso. Evochiamo tutto questo mangiando con l’appetito di quando eravamo ragazzi. Sì, ragazzi, poiché allora lo ero ancor tanto anch’io.

“E’strano” mi dice a un certo punto Jean-Marie, “con te ho sempre avuto l’impressione di stare con la mia anima davanti a se stessa.”Non è poi così strano.

Sapevo che con Martine si erano lasciati e si era messo con Cécile, una ragazza dai capelli neri che m’era sembrata oltre che carina, interessante, allegra. Mi pia-ceva, e le piacevo anch’io. Insieme discutevamo. Aveva due occhi blu da morire. Da questa unione erano nati due maschietti: uno ora aveva già quattro anni, e l’altro due. L’anno scorso ero stato a casa loro. Si erano sistemati in una casetta a Colombes, con garage e l’entrata indipen-dente. Mi era parsa una coppia felice. Ricordo di aver detto a Jean-Marie:

“Finalmente hai trovato la donna che fa per te.”Però al dessert – una banana split come gli piaceva tanto – siccome non ne parla, gli dico:

“Con Cécile, come va?”“Non va.”

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“In che senso non va?” “E’ finita.” “Finita? Ma come: finita!?” “Finita, ti dico.”

Per un po’ penso che stia scherzando. Si era persino spo-sato in chiesa. Cos’era successo?

“Me lo sto chiedendo anch’io. A un certo punto, dopo la nascita del secondo, si è messa a vaneggiare, a parlare come una pazza, a dirmi che voleva fare un’espe-rienza con un tipo che aveva incontrato a una festa. Sua madre mi aveva avvertito: «Guarda che mia figlia non ha i nervi a posto, ogni tanto ha anche delle crisi epilettiche.» E infatti ne ha avute, ma non m’importava, le volevo bene.”

“E adesso?”“Io vivo in un monolocale sotto casa. Tutte le sere i

bambini vengono giù da me, mi occupo di loro, li faccio mangiare. Talvolta sto lì a guardarli mentre giocano tra loro, non stanno mai fermi. Li lascio fare anche se met-tono tutto sottosopra. Non m’infastidiscono, li guardo con meraviglia.”

“E con lei, Cécile?”“Con lei? Io l’amo ancora. Per un bel po’ j’en ai

bavé, ne ho sofferto, è stata dura. Martine mi diceva, come per prendersi una rivalsa, che quel che le ho fatto passare io quando l’ho lasciata, ora toccava a me. Comunque un amore è sempre amore, anche se non è condiviso.”

Queste parole mi ricordano Momo, che non capisce perché Myriam, la ragazzina di cui è innamorato, dopo aver accettato la sua corte, lo respinge. Monsieur Ibrahim lo consola dicendo che non fa niente. Il suo amore per lei è suo. Gli appartiene. Anche se lei lo rifiuta, non lo può

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cambiare. Semplicemente non ne approfitta. Ecco tutto. Quello che lui dà è suo per la vita; quello che non dà è perduto per sempre.

Jean-Marie, fin da bambino, non era stato fortunato, anche se aveva sempre avuto da mangiare, una casa, un tetto, ma con genitori che non si amavano più. Come loro tanti si ritrovano così, con il cuore e l’anima a pezzi. Che cosa c’è che non va, non funziona? Che cosa manca per far sì che l’amore possa durare? Incomprensioni, malintesi, insopportabilità.

Tante volte nemmeno Dio è di aiuto per mantenere saldi certi legami, l’amore tra due persone. Ma forse quel Dio non è Dio, e quell’amore non è amore. La sua fine è sempre un castigo.

E tuttavia nessun amore è mai banale. Ogni amore è importante. Come non c’è vita che conti meno di un’altra. E separarsi è sempre una tragedia, un dolore. Si vorrebbe che tutta la vita fosse una storia d’amore. Questo non è possibile nemmeno con Dio. Ci sono momenti di stacco, di aridità, di buio.

Fin da ragazzo Jean-Marie ha cercato, inseguito il grande inalterabile amore, però:

“Sai” mi dice, “mi rendo conto di aver sempre sognato tanto, forse troppo.”

“E adesso?”“Vorrei non sognare più. Tante volte mi dico:

basta! Ma come si fa?” Rimango per un istante senza parole, pensando che le sofferenze di tanti sono ben più gravi che quelle capitate a

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me. Le delusioni in amore, poi, sono sempre così tre-mende, insopportabili. E’come un vuoto, una voragine che improvvisamente ti si apre davanti.

“Cosa intendi fare, adesso?” gli dico. “Intendo essere almeno un buon padre. Ho sognato

tanto per me, ora voglio sognare per loro. Non so se ce la farò, ma voglio provare.”Celina ormai se la cavava da sola. A Michael doveva ancora stargli dietro, non era un ragazzo facile, ma si sarebbe arruolato nell’esercito, ai due più piccoli doveva dare la vita ormai, tutta la sua vita. Dico:

“E’un bel compito, una vocazione, come per me esser frate.”

“Frate” ripete lui come per farselo risuonare bene in testa. Poi, preso dalla curiosità:

“Come ti chiamano giù in Italia?” “La gente mi chiama padre Mario.”“Père Mariò! Sembra incredibile. Sai che faccio

fatica a chiamarti così? Ma in fin dei conti ti sta bene.” “Anch’io faccio fatica a vederti nei panni del padre,

ma in fin dei conti sta bene anche a te.”Si mette a ridere, poi:

“Chi l’avrebbe detto che saremmo diventati padri tutti e due?! Sembra un’impresa.”Sì, chi l’avrebbe detto, anche se in modo così diverso. Dico:

“Ti ricordi quando a scuola ti chiamavano il cinese?”

“Avevo sedici anni.” “Io ti vedo e penso sempre come se tu avessi la

stessa età. E’così con tutti. Non vedo invecchiare mai nessuno. E’ l’immagine del primo incontro che mi rimane

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impressa. Sei sempre quel ragazzo che un giorno si è pre-sentato a scuola, al Cours Littré.”

“Magari fossi ancora quel ragazzo, allora ero felice senza saperlo.”Il tunisino, di cui non ho mai saputo il nome, ci porta il caffè con il rituale pousse-café. Fisso Jean-Marie. Ha una faccia che non tradisce mai apertamente le sue emozioni. Forse è per quella sua faccia da cinese. Ma io so ciò che prova dentro.

“Sono contento quando vieni” mi dice. “Però, rimani sempre così poco. In fondo, quando ci penso, sei il mio solo punto di riferimento, mi sei sempre stato accanto, fin da ragazzo. Sei l’unica persona che conosce tutto di me. ”M’intenerisce. Quasi quasi potrebbe essere mio figlio.

Poco dopo, sulla sua grossa moto – ora una 1200 BMW – mi porta a scorazzare per le vie della città semi-deserta. Sa che mi piace andare in giro così. E di notte, Dio, la Ville lumière è un incanto. Ci fermiamo davanti alla piramide del Louvre.

L’aria è tiepida. Nessuno dei due ha voglia di lasciare l’altro. Dimentichi del presente ci mettiamo a parlare come una volta, quando a rue de Paradis veniva a raccontarmi le sue prime emozioni, i primi fremiti che provava per quella o quell’altra ragazza, quando sognava di un grande amore, mai dissociato dall’amore di Dio.

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Con Jean-Pierre è stato del tutto diverso. Jeanine, la mamma, ha voluto che prima ci vedessimo io e lei da soli. Per sfogarsi. La situazione del figlio è drammatica. Col taxi ha avuto un incidente, la macchina è un rottame. Ora, per sopravvivere, è spinto a cercare un lavoro qualsiasi, ma alla sua età…In settembre farà uno stage per cercare di essere assunto come barelliere.

“Eppure ha talento!” mi dice quasi urlando Jeanine.Trema, si agita. Si è fatta magra magra. Nonostante quei suoi occhi color verde mare non assomiglia più come un tempo ad Agostina Belli nel film di Dino Risi “Profumo di donna”. Ha un’aria disfatta. “Non so come andrà a finire” dice. “Non ne posso più. Vorrei essere morta. Sai che una volta Jean-Pierre ha tentato di suicidarsi?”Non lo sapevo. Come? Quando?

“E’successo anni fa. Ha cercato di impiccarsi. Lo ha salvato Catherine, la sua amica di allora.” Ammutolito cerco di immaginarmi la scena, ma non ci riesco. Ma poi perché? Per arrivare a questo gesto ce ne vuole! Non è da lui. So però che basta poco per crollare, basta una goccia, la goccia che fa traboccare il vaso. E ora la situazione è addirittura più grave. Per porvi rimedio ci vorrebbe un miracolo, e non so farne.

“Se si suicida, mi suicido anch’io” rincara Jeanine. “Non mi aspetto più niente dalla vita.”Eppure un tempo si era illusa. E mi ero illuso anch’io. Era rimasta vedova proprio nel periodo in cui Jean-Pierre - che sembrava finalmente avesse il vento in poppa - dovette assentarsi per una serie di piccoli ingaggi, ma soprattutto per un ruolo in una commedia la cui première veniva data a Lione. Fu il periodo in cui le stetti più vicino. Non

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cessava di piangere. Nel vederla così, per consolarla, la prendevo tra le braccia e lei vi si rannicchiava. Andavo a trovarla tutte le domeniche, ma poi anche durante la settimana. Lei, che mi era già affezionata, a poco a poco cominciò a nutrire l’idea o il sogno ch’io potessi diventare più che un amico. Me lo manifestava in mille modi, con la sua tenerezza, l’esagerata ammirazione, le lunghe continue telefonate, certi pranzi. Le lacrime si fecero sempre più rare, finì che non pianse più. Non viveva che per il momento in cui ci saremmo visti. Imbarazzato cercai di equilibrare, canalizzare i suoi sentimenti, anche perché nello stesso tempo – seppur ancor confusamente – qualcun altro stava insinuandosi nella mia vita. Ma come parlare di amicizia a una donna innamorata? Tuttavia la capivo, ca-pivo questo suo aggrapparsi, questa sua paura di rimaner sola: una fobia. Ma forse quel suo innamoramento era solo paura della solitudine. Sbiancò quando una notte di Natale annunciai che mi sarei fatto frate.

“Stai scherzando” mi disse Jean-Pierre, sbigottito. Ma non era uno scherzo. All’inizio Jeanine non capì, o non volle capire, si oppose, lottò, ma poi finì col rasse-gnarsi. Povera Jeanine! Non credo sia mai stata felice, o forse un po’, ogni tanto. Ora però è ancor più sola, e ancor più infelice, non ha nulla e nessuno cui aggrapparsi. E come Jean-Pierre non ha il conforto della religione. Dubito comunque – e non dovrei – che in questo frangente le servirebbe. Io le sono sfuggito e Jean-Pierre, affogato nei debiti, si è inoltrato in un vicolo cieco. Quanto alla barca – su cui vive con quella mezza artista che neppure lei lavora – gli resta il mutuo da pagare; e la banca, che gli ha già fatto un grosso prestito, non gli fa più credito, anzi,

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Jeanine teme il peggio: il sequestro della stessa imbar-cazione. Ma c’è di più: Jean-Pierre non ha più neanche un soldo per mangiare.“Come ha fatto a cader così in basso?” mi chiedo, allibito. E lo stage non è gratis. Con delicatezza offro di pagarglielo io. Jeanine accetta ma, per l’onore:

“E’solo un prestito” mi assicura. “Ti rimborserò soldo per soldo.”Poi però:

“Ma come farà a campare fino a settembre?” geme. “Io ho già fatto tutto quello che potevo.” D’impulso sono tentato di farmi carico di tutto, ma poi, riflettendo, mi dico che non servirebbe a gran ché, se non a mettere una toppa per poi ritrovarsi nella stessa situa-zione. Mi sfugge di bocca:

“Però, avrebbe potuto trovarsi un lavoro anche prima, mettersi le spalle al sicuro…”Non l’avessi mai detto.

“Jean-Pierre non è un fannullone” sbotta lei, punta sul vivo. “Guarda quanti passano in televisione, e gente senza nessun talento. Non è giusto!” Poi, risentita:

“A te comunque cosa importa? Te ne stai quieto nel tuo convento, te ne freghi, ma io sono sua madre, capisci? sua madre!”Intuisco perché mi parla così. L’avevo lasciata. Ne aveva sofferto. Ripete che vuol morire. Se lo farà il figlio, lo farà anche lei. Sembra un ricatto. Mi irrita. Trovo che è ingiusta con me. Non è vero che me ne frego. Una volta pensavo che Jean-Pierre – proprio perché spalleggiato, aiutato – avrebbe combinato qualcosa, ora però mi devo ricredere. Se avesse dovuto sempre mantenersi da solo come ho fatto io, non sarebbe arrivato fino a questo punto.

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Padre e madre gli erano sempre stati a fianco, e anch’io gli avevo regalato la mia mansarda perché avesse un pied-à-terre sicuro. Lui invece se n’era subito sbarazzato per coprire i suoi debiti. Insomma almeno un po’ era respon-sabile della sua situazione.

Ma è pur vero, pensai subito per scusarlo, che per uno che sfonda nel mondo dello spettacolo quanti si trovano esclusi, tagliati fuori, incapaci di fare altro, di reinserirsi nella società come la maggior parte. Vecchia storia. Infranto il sogno, la vita non vale più nulla, non merita d’essere vissuta, non ci sono alternative. Senza rendersi conto, il sogno ha divorato, bruciato in loro ogni energia, ogni slancio vitale.

Nel métro rimuginavo tutto questo, preoccupato, amareggiato. Certo non soffrivo come soffriva Jeanine. Però, anche se non era vero che me ne fregavo, non aveva del tutto torto nel buttarmi in faccia che io me ne stavo quieto nel mio convento. Protetto, al riparo. Provavo rimorso. Mi attraversò persino il pensiero che sarebbe stato tutto diverso se non me ne fossi mai andato, se invece di far dono della mia vita al Signore l’avessi offerta a lei e a Jean-Pierre. Mi sfiorò il dubbio di aver sbagliato, di essermela svignata. In fondo li avevo abbandonati e, in un certo modo, traditi. Se avessi previsto tutto quello sfacelo, tutta quella sofferenza, la divorante solitudine in cui si dibatteva Jeanine, non lo so, forse sarei rimasto, e non mi sarei mai fatto frate.

Ho visto Jean-Pierre una volta dalla mamma, e un’altra volta da solo. Dalla mamma ha fatto finta di niente anche se, nonostante gli sforzi, meno in “verve” del solito. Ma poi, quando ci siamo rivisti - un pomeriggio - si

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è confidato come credo non lo faccia con nessuno. Con me può permettersi d’essere com’è, di mostrarsi senza artefici, senza fanfaronate. Finito il tempo delle illusioni.

Siamo andati a passeggiare lungo la Senna tra il ponte Saint-Michel e Notre-Dame. All’inizio parlando di alcuni fatti, della ribellione delle “banlieues” avvenute in aprile, dello scandalo che scuoteva il primo ministro, del film “Il codice da Vinci” – un cumulo di calunnie, di errori teologici, che però faceva emergere lo smarrimento e l’ignoranza religiosa di tanti cristiani –, e anche scher-zando come facevamo una volta, ma poi:

“E tu?” oso chiedere. “Come va? Parlami un po’di te?”

“Di me?”“Sì, di te.”“Suppongo che mia madre te ne abbia già parlato.”“Sì, un po’, ma non è lo stesso se me ne parli tu. Ti

ricordi quando andavamo al Père Lachaise, dei nostri discorsi sulla tomba di Morrison?”

“Allora ero più giovane, e strapieno.”“Strapieno di che cosa?”“Di vita, sogni, progetti da realizzare. Ci credevo.”“E adesso non ci credi più?”“Sarei un pazzo se ci credessi ancora. O ero un

pazzo allora.” Tira un sospiro, poi:

“Vedi, Mariò, credo di essere arrivato all’ultima fermata. Guarda qui la Senna. La nostra vita è come un fiume, nasce da una sorgente, cresce, attraversa valli, pianure, ma poi si dilegua, si butta in mare…e scompare.”

“Non scompare, va a far parte di qualcosa di più grande.”

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“Vuoi dire che non si muore?”“La morte ci rende tutti angeli. E ci dà ali. Non ti

ricordi?”“Sì, mi ricordo, l’amico Morrison. Perché aspettare

allora, soprattutto quando la vita non ha più nessun senso?”

“Si può sempre trovare un senso alla vita.”Parlando così, dall’alto delle mie certezze, mi sento ridi-colo, mi sembra di predicare. Jean-Pierre, comprensivo:

“Tu l’hai trovato, ma io non so più bene che senso darle. Mi è sempre andato tutto storto, magari anche per colpa mia. Cosa sto a fare qui, ormai? Sono uno che sta solo annaspando. Al mio posto cosa faresti?”Non so cosa rispondere, proprio perché non so cosa farei al suo posto. E non vorrei esserci.

“Ti è mai capitato di voler morire?” mi chiede.“Sì, ma forse non ne ho avuto il coraggio. Ho degli

amici che lo hanno avuto. Però è sempre una sconfitta.” Mi viene in mente Marcel Jouhandeau, che scriveva così sul suicidio:«Per ammazzarsi bisogna confessare che non si ama più del tutto nessuno, che non si tiene più del tutto all’amore di nessuno. Bisogna anche non aver esercitato il proprio cuore verso gli altri né verso se stessi, ma ammettere che si è preso con tutti una specie di abitudine che diventa un’attitudine alla durezza, all’implacabilità assoluta.»Parole agghiaccianti, che facevo tradurre in italiano ai miei alunni confrontandole con una pagina del diario di Pavese.

“Per voler morire bisogna non amare più nessuno”, butto lì. “Ti ricordi di queste righe?”

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“Sì, ma cosa c’entra!” fa lui, turbato. “Quel che conta non è se io tengo o no a qualcuno, ma se qualcuno tiene veramente a me.”

“Forse questo succede quando neanche noi non teniamo più del tutto a qualcuno.”

“Forse” mormora lui, “forse. Amare, ora come ora, non me lo posso permettere, sarebbe un lusso, come per uno che sta morendo di fame. E poi comunque, non c’è nessuno.”Sto per dirgli: c’è tua madre, ma lascio perdere. C’è quella mezz’artista, bruttina, con cui vive, ma so che lui l’ha raccolta soltanto perché non ha più casa, non sa dove sbattere la testa. Si fanno compagnia.

Rimaniamo in silenzio. Tutt’intorno c’è un viavai di turisti, gruppi di gio-

vanissimi che cinguettano chi in inglese, chi in spagnolo. Rivedo il primo giorno in cui Jean-Pierre si è presentato a scuola. Sulla difensiva, con aria quasi truce, ostile. E poi quando è venuto a chiedermi se poteva suonare con il gruppo per la festa di Natale. Mi sembra ieri. Il tempo, assassino, ha già divorato, corroso il meglio. Ci pensava ogni tanto? Fa cenno di sì. Ma poi…è andata come è andata. Allora voleva suonare, cantare solo perché gli piaceva, per stare coi compagni, fare qualcosa insieme, perché quando cantava e suonava stava bene, aveva l’impressione di esistere, di vivere di più, più pienamente, come un ballerino si solleva da terra e vola sganciato da ogni pesantezza.

Perché non ricominciare allora? mi passa come un lampo per la testa. Tanti lo facevano. Non era mai troppo tardi. Bastava poco tante volte per riemergere, tirarsi su, per far rinascere in sé la speranza, la voglia di vivere, il

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desiderio della vera libertà, sganciata da ogni desiderio di successo. Bastava un po’di coraggio, un po’di poesia nel cuore, di una mano amica. Stramba idea? Non proprio.

“Vieni” gli dico. “Ti voglio far veder qualcosa.”Risalimmo i gradini che portano sulla strada, là dove i “bouquinistes” espongono libri d’occasione e altre curio-sità e, tra il viavai della gente, lo portai fin su al teatro dell’Odéon dove c’erano sempre dei ragazzi che canta-vano accompagnandosi con la chitarra. Giunti là, sui gra-dini, ce n’erano due, biondissimi, circondati da un bel gruppo di persone, per la maggior parte stranieri, turisti. Stavano cantando Yellow submarine dei Beatles.

“Ti ricordi quel che succedeva qui nel maggio 68?”“Allora pensavo di cambiare il mondo. C’eri anche

tu.”“Sì, c’ero anch’io, ma non abbiamo cambiato pro-

prio niente. Però…non ti ho portato qui per questo.”“Per che cosa allora?”“Guarda quei due. Non ti viene in mente niente?”“Mi viene in mente che cantavo anch’io, compo-

nevo canzoni…era bello.”“Era bello perché eri libero, lo facevi perché ne

sentivi il bisogno, era il tuo modo di esprimerti. Era bello ed eri felice così, senza altri pensieri in testa. Perché non ricominci?” Rimane un istante perplesso, poi:

“Vuoi dire che dovrei fare come loro, cantare per strada?”

“Sulle piazze, sui ponti, nel métro. Guadagneresti da vivere e ti lascerebbe libero per fare altro. Ritroveresti la tua gioventù, una nuova gioventù, quella che non muore mai. E chissà che prima o poi anche il tuo music-hall su

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François Villon non impressioni un produttore e venga rappresentato? Ma anche se questo non avvenisse, cosa t’importa? Hai più frecce al tuo arco, sai suonare e cantare, usa questa. Canta come fanno gli uccelli del cielo, canta per te, per la gente, per…”

“Per il Creatore” m’interrompe lui, “come faceva Francesco, vuoi dire.”Scuote la testa, non proprio convinto:

“Adesso parli proprio come un frate.”“E come vuoi che parli?”“Sì, Francesco…Con quale passione ce ne parlavi.

Era nella lista degli autori che dovevamo presentare al Bac. Però non è così semplice tornare a quello che tu chiamavi uno stato di grazia.” Un’espressione, questa, che usavo spesso: tornare al pri-mitivo stato di grazia, e cioè tornare allo spirito d’infanzia che a mano a mano seppellivamo perché manipolati, ade-scati, influenzati in mille modi fino a perdere il senso vero della vita. Jean-Pierre era pieno di risorse. Bastava stimolarlo, fare come con le auto di un tempo, che ripartivano girando la manovella. Gliela giro così:

“Guarda che l’ho fatto anch’io quando mi son tro-vato in cattive acque. E’ difficile solo la prima volta. Non c’è da vergognarsi. Edith Piaf cantava per strada. C’è per-sino una certa nobiltà nel fare, come dire? il trovatore. Nel tuo “François Villon” ne descrivi uno, e se ne descrivi uno è perché in te c’è sempre un trovatore che sonnecchia.” Jean-Pierre non replica, si sta dibattendo, poi:

“Senti Mariò,” mi fa, ammiccante, “se per comin-ciare vieni anche tu, perché no? ci sto.”

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Riconosco che la proposta mi prese di contropiede. Era come dire: parli, parli, fa’ tu per primo ciò che proponi all’altro. Non potevo filarmela. Qui si trattava di salvare un amico, tornare semplicemente al tempo in cui, per amore di Caroline, ero sceso a strimpellare nel métro. Era anche una bella sfida. Mi ricordai di Jef, la canzone di Jacques Brel. E’ l’amicizia che salva Jef, che con l’amico riprende a suonare come quando erano giovani e belli. Noi, certo, non saremmo andati fino a Niort – come fanno i due amici della canzone – ma Parigi era grande, e, se non in un teatro, ci saremmo esibiti non solo nel métro, ma dappertutto, a Saint-Germain-des-Prés, a Place Vendôme, sulle rive della Senna, a Beaubourg, sulla scalinata del Sacré-Coeur, all’Opéra…a via Paradiso.

Mancavano pochi giorni al mio rientro in Italia, ma quei pochi furono straordinari, perché mi sembrò di venir trasportato su un altro pianeta, sul quel pianeta che in ogni uomo rimane indistruttibile, il pianeta dell’eterna giovi-nezza, il pianeta dei vagabondi, dei puri, dei poeti, dei santi. Il pianeta dell’amico Morrison – il re lucertola – lo sciamano convinto che un giorno la guerra si sarebbe inchinata al suono di una chitarra.

In quei giorni fummo veramente un cuor solo e un’anima sola. Lui cantava le sue più belle canzoni, ma anche Blowing in the Wind di Bob Dylan, io i rock più scatenati, il mio repertorio di un tempo, ma anche Volare, le canzoni napoletane che conoscevo, tra le quali Tu vuo’ fa’l’americano, senza dimenticare Comme facette màm-meta? e La mort est sur le chemin: anche se l’avevo composta contro la guerra del Vietnam, tante erano ancora le guerre, tutte nefaste, atroci, inutili. Terminavamo can-tando insieme Imagine di John Lennon. Ci siamo ritrovati

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come nel 68, come quando a scuola suonavamo per la festa di Natale o per la fine dell’anno scolastico, come quando avevamo montato “Commedia” con Véronique e Jean-Luc al “Tintamarre”. Io poi, mi sono rivisto a diciott’anni con Sergio, in Versilia, nei diversi locali tra Forte dei Marmi e Viareggio. E poi a Roma, di night in night, e attraverso l’Italia, di teatro in teatro, di piazza in piazza, sognando di diventare un giorno un cantante famoso.

Sorrido mentre sto scrivendo queste righe, perché come ogni sera in giugno, fino a tarda notte, dal parco adiacente al convento mi giunge il frastuono dei concerti che attirano giovani da ogni parte. Musica rap, soul, pop, rock. Dà molto fastidio ai frati. Non a me.

Giovanissimo questa musica – il rap arrivò più tardi – esercitò su di me un fascino irresistibile. Sui palchi di tante piazze ho cantato anch’io. Se non sono diventato famoso, devo tuttavia al rock d’essere sopravissuto, d’essere un po’ quello che sono. Quando da ragazzo fui rigettato non solo da mio padre, ma anche dai “buoni padri” – e mi trovai per strada – è grazie al rock se ho potuto sfamarmi. Ho sperimentato sulla mia pelle quanto le vie del Signore siano imprevedibili. Il rock è stato la zattera sulla quale ho potuto mantenermi a galla e non affondare.

“Perché non rimani?” mi disse Jean-Pierre una sera mentre contavamo le monete. “Non siamo felici così?”La proposta, anche se buttata lì quasi scherzosamente, risuonò in me come un canto, un richiamo, come in un lupo ammansito l’appello della foresta. Ma c’era qual-cuno, un “prepotente” che mi voleva altrove, e al quale avevo dato la mia parola se non del tutto la mia vita.

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XXIAMORI FELICI, ETERNI?

Pensieri, incontri, come stelle cadenti

ono tornato da Parigi ieri sera, col TGV fino a Milano e poi di nuovo in treno - un regionale - fino a Novara.

Anche se sudato, non mi son fatto subito la doccia, per conservare su di me gli odori delle strade, del métro, delle piazze, delle chiese, della FNAC dove andavo spesso a curiosare, a leggere e, cedendo alla tentazione, a com-prarmi alcuni libri e dvd.

S

Mai come quest’anno ho trovato così bella Parigi. La bellezza era ovunque, bellezza che andavo scoprendo attraverso quartieri che non conoscevo, rimasti intatti. Ricordo un pomeriggio mentre contemplavo Notre-Dame dal ponte Saint-Michel: accarezzata dalla tenue luce del sole al tramonto fui preso dallo stesso incanto di quella notte in cui, innamorato, spasimavo di rivedere Caroline. Mai come quest’anno mi sono mischiato alla gente che gremiva le strade, lasciandomi portare come su un’onda, ebbro di umanità, dell’umanità di persone d’ogni nazione che lì si sfioravano pacificamente. Colpito, catturato talvolta da uno sguardo. Ci sono sguardi che, come un lampo, ti attraversano, squarciano l’anima.

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Ritrovo qui un bigliettino su cui scrivevo nella metro:“C’est bon mais rare de rencontrer des gens étonnants et étonnés. Les poètes et les saints sont comme ça.” – E’ bello ma raro incontrare gente meravigliante e mera-vigliata. Solo i poeti e i santi sono così. –

Nella bella luminosa chiesa di Saint-Gervais – dove, come ogni anno, mi capita di assistere ai vespri cantati dalla Fraternità Monastica di Gerusalemme – mi sono chiesto: fra la tanta gente che incontro, che gremisce strade, ristoranti e caffè, quanti cercano Dio?

Mi è rimasta impressa – un venerdì pomeriggio – la fiumana di gente che usciva dalla Grande Moschea, una fiumana che sembrava non finisse mai, che si riversava ovunque per le strade, centinaia, migliaia di persone, e tanti, tanti giovani. Mi sono detto: avessimo anche noi la fede che muove tutta questa gente!

A Parigi – lo constato ogni volta – posso fare la vita

di un angelo o la vita di un diavolo. Esposto a tutte le tentazioni. Posso ogni giorno ingoiare il boccone che Gesù ha offerto a Giuda, e poi tradirlo. Posso più facilmente dannarmi, ma più meritevolmente salvarmi. Posso per-dermi nei luoghi più ambigui e loschi, ma anche in angoli di paradiso dove gustare più che altrove il silenzio, quel silenzio che è l’acustica dell’anima, diceva Novalis.

Tante cose posso trovare a Parigi, che mi nutrono, ispirano, toccano, sorprendono, smuovono, entusiasmano, incontri che mi fanno scoprire un po’ di più chi sono, e, in definitiva, chi è l’uomo.

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Nel métro, a Saint-Germain-des-Prés, c’era una mostra sulla musica jazz – souvenir d’una calda estate. Non avendo niente per scrivere ci son tornato apposta per notare alcune frasi. Del contrabassista Charles Mingus:

“Nella mia musica cerco di esprimere chi sono. E’ difficile poiché cambio di continuo.”Di Thelonious Monk:

“Il jazz è un’avventura. Bracco i nuovi accordi, le possibilità di sincope, le figure migliori, le nuove suite. Come utilizzare le diverse note. Sì, è così: soltanto una diversa utilizzazione delle note.”Di Ornette Monk:

“Il jazz è la sola musica nella quale una nota può essere suonata notte dopo notte, ma diversamente ogni volta.”Ci ho pensato, e ci penso ancora. E’ così anche nella vita. Cerco ogni giorno, a fatica, di esprimere chi sono, sempre lo stesso – come dicevo pagine addietro – ma anche un po’altro. Cerco di utilizzare ciò che c’è di buono e di meglio in me, e, per sfuggire alla noia, alla routine, cerco di utilizzare in modo diverso le note dello strumento che Dio mi ha affidato fin dalla nascita. Insomma cerco ogni giorno di essere in qualche modo nuovo. La vita sta in questo continuo cercare e cercarsi, senza mai stancarsi.

Ripenso a Jean-Pierre. Probabilmente non realiz-zerà mai quel suo sogno di sfondare nel mondo dello spet-tacolo, ma forse è anche un bene. Tanti hanno realizzato questo sogno, magari anche soltanto per essere più amati; non per questo però, come Morrison, sono stati più felici, anzi! Arriva sempre un giorno in cui cala il sipario e, spente le luci, ci si trova a faccia a faccia con se stessi.

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Dalida, come Marilyn, è morta di disamore. Al top del successo la solitudine è ancor più insopportabile. La gloria non ammette rivali. Tirannica, è come una mantide reli-giosa che prima ti abbraccia, inebria e poi ti divora.

Ogni suicidio mi impressiona e addolora, suscita in me orrore e attrazione, come il cielo attira, ma come anche il vuoto e l’abisso attirano. Capisco il perché di questo gesto disperato. Si vorrebbe un grande amore, un amore eterno, come dire una gioventù eterna. Ma desiderare un simile amore è morire. D’amore ci si ammala, e se ne può morire. C’è poi l’amore sul suo finire, svuotante, non corrisposto.

Jacques Brel, in una della sue più belle toccanti canzoni, un capolavoro: “Ne me quitte pas”, propone all’amata le cose più pazzesche, ma poi – siccome impos-sibili – pur di non essere abbandonato, anche soltanto di diventare l’ombra della sua ombra, l’ombra della sua mano, l’ombra del suo cane…

Tragica la fine di un’altra stupenda canzone di Léo Férré: Avec le temps. Dopo aver tanto amato, adorato, sofferto per…alla fine ci si ritrova soli in un letto ghiac-ciato, e non si ama più. Solo a pensarci ci si sente agghiacciare.

Amori felici, eterni?Romeo e Giulietta.L’amore-morte.

Ritrovo nel mio diario queste righe che scrivevo non so più in quali circostanze:

Qualcuno da amare. Come desiderare una cosa simile? Amare è morire. Poiché l’amore è la morte. Non si sopravvive all’amore.

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Detto questo, però, che cosa aveva in mente Jean-Pierre quel giorno in cui ha cercato di impiccarsi? Lui non me ne ha mai parlato, e io per delicatezza non gli ho mai chiesto niente. E perché proprio impiccandosi? So che per il suo “François Villon” si era documentato, aveva letto più o meno tutto ciò che si era scritto su questo leggen-dario romantico dannato poeta, forse soltanto un “povero venditore di parole”, ma quali geniali parole!Impregnato delle sue poesie, certune le sapeva a memoria. Sono andato a rileggerne. Ce n’è una che inizia così in “Dibattito di Villon con il suo cuore”:Cosa succede? – Sono io. – Io chi? – Il tuo cuoreChe tiene ormai solo a un filo sottile.Non ho più forze, materia né umore,Quando ti vedo rintanarti solo solo,Come un povero cane in un cantone.

- Perché è successo? – Per la tua folle compiacenza.- E che t’importa? – Ne provo amarezza.- Lasciami in pace! – Perché? – Ho da pensarci.- Quando? – Quando sarò uscito dall’infanzia.- Non dico altro. – E io me ne accontento.

[…]- Che pensi? – Di essere un uomo di valore.- Hai già trent’anni! – E’ l’età buona per i muli.- E’ infanzia? – No certo. – Dunque è folliaChe ti prende.

Forse Jean-Pierre si è trovato così, in dibattito con il suo cuore. E, non intravedendo più nessuno sbocco, ben oltre i trent’anni, ha pensato di farla finita come quei cinque, sei poveri impiccati della più celebre ballata di Villon. Essi supplicano i fratelli umani che ancora vivono di non essere duri di cuore con loro, di non beffeggiarli, perché

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non tutti gli uomini hanno la testa a posto, e di intercedere davanti al figlio della Vergine Maria perché Dio li voglia assolvere e li preservi dai fulmini infernali.

Nella “Lettera agli amici”:Pietà di me, pietà di me,Almeno, ve ne prego, amici miei!Sto in una fossa, non sotto verdi fronde…(…)Fanciulle, voi che amate svelti giovinetti,Danzatori, acrobati che fate lo sgambetto,Veloci come il dardo, dritti come fuso,Gole dal timbro chiaro come campanelli,Lo lascerete là, il povero Villon?

Qui ho visto il mondo dello spettacolo al quale forse – come Villon – Jean-Pierre si è rivolto: mi lascerete qui?Mi tornano in mente queste parole di Jeanine:

“Jean-Pierre è sempre stato troppo buono, gene-roso, credulone, è soprattutto questo che lo ha disarmato, deluso.”

Per fortuna, o per grazia, Jean-Pierre si è ripreso. Spero che non sia solo una tregua. Non è stato così per Enea, Ignazio, gli amici di un tempo a me più cari. Ignazio era un po’come Jean-Pierre, troppo buono, credulone. E’ stato fregato, disarmato da quegli stessi nei quali aveva posto tutta la sua fiducia. E’successo anche a me. Lui, dal disgusto, non lo ha sopportato. Tante volte mi dico che è meglio così. Ci sono persone troppo fragili per poter vivere in un mondo così pieno di brutture, di cattiverie e orrori d’ogni genere. Soprattutto troppo fragili per vivere

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una vita senza nessun genere di amore. Io ho resistito, e ho riscoperto, dopo tanto girovagare, che c’è un solo amore felice, eterno: l’amore Dio. Pur inconsapevole o miscredente, non c’è un uomo al mondo che non cerchi questo amore, anche nel peccato. Ne so qualcosa.

Ecco cosa ho trovato anche quest’anno a Parigi. Ma non vorrei andarmene senza prima parlare di Benoît, un uomo d’eccezione che ho incontrato, come una meteora, alla “Fraternité des Capucins”, rue Boissonade.

Benoît è un frate sulla settantina, un frate a dir poco singolare, che fa pensare a uno di questi baroudeurs, avventurieri che se ne vanno in giro per il mondo là dove li porta il vento. Infatti lui ha sempre vissuto così, da vagabondo. Appena l’ho visto, in refettorio, ho subito notato che non era come gli altri frati. Nei suoi occhi si scorgeva qualcosa di diverso, qualcosa di più grande, di più vasto, qualcosa di infantile e nel contempo di maturo, di solido. Sul suo volto il tempo era passato come sulla corteccia di un albero. Con quella sua faccia assomigliava a un vecchio lupo di mare o a un viandante del deserto, una faccia un po’ tra un Hemingway e un Théodore Monod, l’instan-cabile difensore della natura.

Da anni vive per conto suo nel sud della Francia. Ha scritto alcuni libri - ma non se ne cura - tra i quali anche questo: “J’ai passé une année en prison” – Ho passato un anno in prigione –.

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Dai confratelli è considerato un originale, qualcuno che vive ai margini della fraternità. I soliti commenti: se tutti facessero come lui, eccetera. Ma proprio per questo suo vivere ai margini mi ha incuriosito, come mi ha sempre attratto ogni persona che esce dal seminato, dalla solita strada. “Ci sono personaggi” mi diceva un vecchio ebreo, “ – e tu ne fai parte – che, come certe opere, non entrano in nessuno stampo, sono impossibili da inquadrare.” Dopo cena siamo rimasti in refettorio a chiacchierare. Non potevo non chiedergli che cosa aveva fatto per passare un anno in prigione. Lui ha sorriso, e mi ha detto:

“Niente. Ne ho fatto la richiesta, e me l’hanno concesso.”

“Come cappellano, naturalmente.”“No, no, come un carcerato qualsiasi.”

Che tipo! Ma che cosa lo aveva spinto a farlo? “Non lo so neanch’io” mi ha risposto. “Forse

perché sono pazzo, o forse perché al posto di tanti carce-rati ne avrei fatte anche di peggio.” Ma poi, con semplicità:

“Vedi, fratello, ho sempre pensato che il solo modo per conoscere l’altro, per capirlo, è mettersi al suo posto, soffrire, aver fame e sete con lui, incarnarsi in lui come ha fatto Cristo con noi.”

Benoît non è pazzo, e non parla a vanvera, crede a quel che dice e lo mette in pratica. Persone così, come non ammirarle? Mi disarmano. A modo suo Benoît è un vero figlio di Francesco. Ascoltandolo, tutto il resto mi è parso ben risibile. Certi incontri servono proprio a mettere a fuoco ciò che solo vale.

Inutile dire che abbiamo simpatizzato.

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Però anch’io, a Firenze, ero stato in carcere, anche se per poco. A sedici anni lo choc è stato tremendo. E gli ho raccontato in quali circostanze. In quei giorni, a Firenze, passati in una sordida cella alle Murate, ricordo l’odio – mai provato fino allora – non solo verso mio padre, ma soprattutto verso quel prete che vigliaccamente mi ci aveva buttato. E allora me la presi anche con quell’accozzaglia di preti che per tre anni mi avevano parlato dell’amore di Cristo.

Questo episodio – raccontato già più volte altrove – mi allontanò per anni e anni da tutti coloro che lo predi-cavano. Non avevano fatto altro che imbrogliarmi, raccon-tare baggianate. Non erano più credibili.

Benoît è uno di questi individui che compensano tante mie delusioni. Porta già un bel nome. Sembra venire de nulle part, da nessuna parte, un po’ come me. Lo si vede sul suo viso. Siamo stati insieme fino a tardi a raccontarci. Cosa che non mi è mai successo di fare con nessun altro in convento, tranne al noviziato e poi allo studentato con alcuni miei compagni.

Benoît ha girato un po’dappertutto, in America latina con un gruppo di giovani, nell’Amazzonia, ma anche nei paesi del Magreb, che ha attraversato dal Marocco fino in Egitto. Ciò che più stupisce, però, è che lo ha fatto a piedi, da solo, senza nessun patrocinio, proprio come un vagabondo, portandosi dietro una specie di carrellino che si è fabbricato con pezzi raccolti qua e là.Perciò gli ho raccontato che anch’io ero stato in Algeria – quando ancora non pensavo neanche lontanamente di farmi frate – ospite di povera gente che non aveva altro da mangiare che “patates” a mezzogiorno, e “pommes de terre” la sera. Un paese l’Algeria che, in mancanza

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dell’Italia, ho amato con passione come una mia nuova patria. Ho concluso dicendo: “Senza saperlo, ero più frate allora che non adesso”. Benoît si è messo a ridere e, dandomi una pacca amiche-vole sulle spalle: “Ci sono tanti modi per essere frate” mi ha detto furbescamente. Di rimbalzo gli ho parlato della proposta di Jean-Pierre. “Che bella proposta!” ha esclamato lui, illumi-nandosi. “Potresti fare il frate anche così, perché no? Ma per questo” ha aggiunto con un sorriso disarmante negli occhi, “dovresti tornare a essere povero, povero come quando si nasce e poi si muore, povero com’eri più frate prima senza saperlo.”Lui, che povero era, aveva il diritto di parlarmi così. Purtroppo Benoît è dovuto ripartire il giorno dopo. Pensavo di trovare i suoi libri in biblioteca, ma niente. Uno così non interessa nessuno. E’come un poeta che scrive poesie. E la poesia, si sa, non dà pane, dicevano gli antichi.

Chissà che l’anno prossimo non vada a trovarlo nel suo eremo, laggiù nel sud della Francia. Vivere come lui è sempre stato un mio vecchio sogno. Ma ormai è troppo tardi. Che dire? Ho vissuto altro, tutt’altro. Ma ogni volta che incontro una persona come lui, ho la sensazione di aver fallito qualcosa se non tutto nella mia vita, di non essere insomma che un fallito. Fallito nel senso che non mi sono mai incarnato del tutto nelle persone che ho incontrato e amato. Mi sembra che una parte di me sia sempre stata preservata, rimasta incolume, illesa, mai ferita fino a morire. Dare tutto, darmi del tutto fino alla morte l’ho magari pensato, desiderato, sul punto di farlo, ma non l’ho mai fatto.

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L’ultima sera, prima di partire, me ne sono andato in giro per la città. Tanti ricordi mi hanno stretto il cuore. Come si fa? Si è fatti di tutto ciò che abbiamo vissuto o mancato di vivere, di tutto ciò che ci ha fatto gioire, soffrire, vibrare, che ci ha cimentato nel bene e nel male. Tra questi ricordi quel mio desiderio di far venire ad abitare con me Caroline a via Paradiso. Un sogno che è andato a infrangersi su una pietra. Pensando a lei mi è venuto in mente anche Ange. Non sono più andato a trovarlo come gli avevo promesso. Chissà se lui mi avrà mai pensato? Era sicuramente morto da un bel po’. Chissà com’è morto? Solo…divorato dai suoi gatti. Forse soltanto la puzza del cadavere avrà allarmato i vicini. Succede. Comunque lui era già morto, come altri – vecchi o giovani – muoiono prima di morire, di solitudine. Per questa terra desolata ho vagato tante volte anch’io.

Basta così. E’ ora che io esca da queste pagine. Anche perché,

dopo aver “piantato” tante parole, non riesco più a met-terne una dopo l’altra, a coordinare i diversi pensieri. C’è sempre un abisso fra ciò che porto dentro e ciò che scrivo. Il più importante è ciò che rimane inespresso, indicibile, ciò che ignoro, ciò che non riuscirò mai a scovare in me. Talvolta, quando mi volto indietro, ho l’impressione di aver vissuto più vite in una vita.

E non è finita. Quando finirà? Come finirà?

Forse come finisce qui questo libro: con negli occhi via Paradiso, a cui porta da una parte la via Blu, e dall’altra la via della Fedeltà.

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NOTAE ora – come ogni volta – dopo l’angoscia della pagina bianca, provo l’angoscia della pagina scritta. Che cosa ho combinato? mi chiedo. Ne è valsa la pena?Vedendomi nel dubbio, dal suo monastero di Genova, suor Veronica mi esortava così:

“Mi piace pensare che Dio possa convertire un’anima mediante un libro, una pagina, una riga. Per questo già più volte ti ho detto: scrivi, continua a scrivere, forse ciò che a te sembra inutile o quasi, è proprio ciò che salva un’anima.”

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