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Vesna Deželjin INTORNO ALLA PRIMA TRADUZIONE ITALIANA DEL CAPOLAVORO DI MARIN DRŽIĆ (MARINO DARSA) Riassunto Tanti illustri studiosi letterari concordano sulla grandezza del raguseo Marin Držić, vale a dire sull'originalità dello scrittore nel teatro del Cinquecento. Uno dei principali motivi a cui si deve tale giudizio è l'ambiguità del linguaggio del Darsa e il senso allusivo delle sue commedie, in particolare della sua più nota commedia intitolata Dundo Maroje. In quest'occasione ci proponiamo di presentare la prima traduzione in italiano di questo capolavoro di Držić, col particolare riferimento alla lingua della traduzione, che nel testo originale è polivalente, con duplice funzione espressiva: quella di divertire il pubblico e quella di far passare impunita un'aspra critica indirizzata contro i governatori ragusei. 1

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Vesna Deželjin

INTORNO ALLA PRIMA TRADUZIONE ITALIANA DEL

CAPOLAVORO DI MARIN DRŽIĆ (MARINO DARSA)

Riassunto

Tanti illustri studiosi letterari concordano sulla grandezza del raguseo Marin Držić, vale a

dire sull'originalità dello scrittore nel teatro del Cinquecento. Uno dei principali motivi a

cui si deve tale giudizio è l'ambiguità del linguaggio del Darsa e il senso allusivo delle

sue commedie, in particolare della sua più nota commedia intitolata Dundo Maroje.

In quest'occasione ci proponiamo di presentare la prima traduzione in italiano di questo

capolavoro di Držić, col particolare riferimento alla lingua della traduzione, che nel testo

originale è polivalente, con duplice funzione espressiva: quella di divertire il pubblico e

quella di far passare impunita un'aspra critica indirizzata contro i governatori ragusei.

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Introduzione

La parte conservata dell'opus del sommo scrittore, poeta e commediografo, raguseo e

croato Marin Držić (Marino Darsa) attira di continuo e tuttora sia gli studiosi di lingua e

letteratura croata che semplici lettori. A questa constatazione non si sottrae neanche la

sua commedia più nota, vale a dire Dundo Maroje1, un'opera incompleta2, perché

incompleto, a quanto risulta, il manoscritto che ci è pervenuto. Questa commedia, in cui

l'autore «si è avvalso di tutti i moduli comuni ai commediografi del Cinquecento italiano»

(Missoni, 1989: 109), e che rispecchia, insieme ad altri testi teatrali, la poetica

rinascimentale e manieristica nonché l'individualismo creativo dell'autore (Muhoberac

1998: 10), è stata tradotta in più lingue. Per quanto riguarda la traduzione di quest'opera

in italiano, oltre alle traduzioni fatte ma non pubblicate3, di solito viene citata la

traduzione curata da Liliana Missoni col titolo Zio Maroje uscita presso l'editore Hefti di

Milano nel 1989 e con la prefazione di Frano Čale. Accanto a questa se ne colloca però

ancora un'altra, fatta da due scrittori triestini, Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, della

quale si sa poco o niente4.

Carpinteri e Faraguna5, una coppia conosciuta per la varia e ricca attività giornalistica,

letteraria, teatrale e di traduzione, fecero la traduzione del Dundo Maroje nel lontano

1969 per far rappresentare la commedia innanzitutto nel Teatro Stabile di Trieste. Infatti,

si trattava quasi di un esperimento poiché nel progetto furono coinvolti anche alcuni

croati, tra cui primeggiava il famoso regista Kosta Spaić. La traduzione, ossia come sta

scritto nel sottotitolo «prima versione italiana di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna

dalla traduzione originale di Giovanni Felicinovich» apparve col titolo di I Nobili

Ragusei6, comprendente le parti aggiunte da M. Kombol e R. Marinković al testo

originale. La commedia, in quella versione e sotto la stessa regia, fu in seguito presentata

anche a Vicenza7 con enorme successo.

Tradurre un testo letterario è un'attività complessa ed estremamente responsabile e

la traduzione di un'opera cruciale nella storia della letteratura e lingua croata, scritta da un

Raguseo e ambientata a Dubrovnik e a Roma è il primo motivo per cui se ne parlerà in

questa sede. Un altro motivo è la traduzione stessa, visto che tradurre un testo indica

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raddoppiarlo/ duplicarlo e ogni traduzione è il testo originale raddoppiato. E nel caso

particolare esistono persino due traduzioni italiane pubblicate del capolavoro di Držić per

cui ci si chiede se la traduzione in generale sia un altro aspetto del testo originale oppure

un altro testo, un'altra entità. L'incapacità di rispondere in modo univoco e semplice alla

succitata domanda, provocante ma fondata è confermata da numerose dispute teoriche

svolte in riguardo alla problematica accennata. Infatti, se si tratta di entità diverse e a sé

stanti (e fino ad un certo punto il testo originale e il testo tradotto lo sono), allora ogni

traduzione si può considerare separatamente e si può misurare con ogni altra dello stesso

testo di partenza, senza fare mai riferimenti al testo originale. L'altra possibilità è quella

di vedere nella traduzione solo un riflesso del testo originale in cui si osserva il destino

delle caratteristiche dell'opera letteraria (quelle concettualistiche, stilistiche, linguistiche,

ecc.) nel processo della traduzione. In questo caso, avendo a che fare con una traduzione

meno nota anche agli studiosi di Držić, abbandoneremo la direzione delle ricerche di tipo

traduttologico e prenderemo una direzione più tradizionalista, forse, restringendo

l'orrizzonte. Nella traduzione, ossia nella versione gemella del testo croato, si focalizzerà

il punto d'interesse cui la problematica del doppio, come iperonimo degli argomenti

possibili, si può benissimo applicare. Si pensa all'aspetto linguistico della traduzione di

Carpinteri e Faraguna, ein particolare all'idioma adottato per rendere al lettore italiano la

polivalenza dell'espressione linguistica del Darsa

I doppioni onomastici

Siccome, quindi, la traduzione8 ovvero il processo di trasposizione di un oggetto,

concepito originariamente in una lingua, in una lingua diversa, assomiglia al processo

del raddoppiamento, volendo analizzare un testo tradotto (una traduzione), la cosa più

semplice è di porlo a fronte di quello originale e subito si noteranno le diversità, almeno

quelle più palesi. Nel caso preciso, quello che attira l'attenzione è il significativo

cambiamento del titolo originale della commedia, Dundo Maroje9, che ora s'intitola I

nobili ragusei. Lo studioso Hermans, descrivendo un gruppo eterogeneo di traduttori

degli anni sessanta, dice che per loro la traduzione letteraria è un'attività descrittiva,

orientata verso l'obiettivo (ricevente), funzionale e sistematica (Hermans, 1985: 10).

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Questo vuol dire che il processo del tradurre necessariamente implica degli interventi

personali da parte del traduttore, per cui il testo tradotto è, almeno in parte, un'altra opera,

ossia il doppio di quello esistente10. Ed ecco che nel titolo della traduzione fatta da

Carpinteri e Faraguna, dato che, conforme a quanto accennato prima, l'altro, il doppio,

non può (o non dovrebbe) portare lo stesso nome, si nasconde l'intervento personale dei

traduttori che suggerisce un'ottica diversa nella lettura del loro testo. Carpinteri e

Faraguna richiedono di spostare il punto focale dal personaggio di Maroje, isolato, che

nel testo originale rappresenta l' aberrante nobiltà ragusea, in direzione di tutti i cittadini

di un'importante città nobile adriatica11, verso la cittadinanza e la civiltà ragusea, poiché il

testo tradotto nor sarà più una critica personale piena di delusione amara ed ironia contro

gli uomini a rovescio, ossia la nobiltà ragusea, ma piuttosto una storia divertente, meno

filosofica, di toni più bassi, in cui si deridono sia le debolezze che le virtù umane

riscontrabili ovunque, in Romani e in Ragusei, e che diventa interessante anche perché si

inseriscono i particolari storici e culturali comuni alle due sponde dell'Adriatico12, per cui

anche gli elementi del folclore locale possono assicurare degli effetti comici.

A favore della tesi del processo individuale di raddoppiamento parla anche il

fatto che nella traduzione i nomi di alcuni personaggi sono stati radicalmente cambiati. Il

protagonista cruciale della commedia, sia nel testo originale che in quello tradotto,

Pomet Trpeza , il cui nome in croato significa «nettatavole» e che raccoglie in sé tante

caratteristiche (buone?) dei suoi concittadini, prende il nome di Ragusino nella

traduzione. In tal modo la qualità principale di questo personaggio, sottolineata dal Darsa

e messa in rilievo ogniqualvolta nel testo originale lui viene citato (sia come locutore che

interlocutore che referente), nella traduzione viene trascurata, poiché col nuovo nome i

traduttori sottolineano innanzitutto la provenienza del personaggio, e con questa, forse

anche qualche stereotipio relativo alla comunità di origine e presente nel loro

immaginario13. Carpinteri e Faraguna hanno cambiato anche il nome di un altro

personaggio principale darsiano, quello di dundo Maroje che nella traduzione diventa

barba Maroje. Il cambiamento del determinante dundo in barba è probabilmente dovuto

a motivi semantici. Infatti, la parola dundo (per l'etim. cfr. Skok, 1972:524) nelle parlate

croate dell'Adriatico si usa nell'accezione di «zio materno o paterno» (cfr. Anić,

1998:197) oppure di «un anziano a cui si rivolgono giovani» (cfr. RHJ, 2000:220), anche

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se dal testo originale risulta che il protagonista chiamato così è il padre del giovanotto

Maro. Il significato della parola barba («Uomo fornito di buon senso, esperienza,

autorità», cfr. Zingarelli, s.v.) con cui il lemma dundo viene sostituito, s'avvicina al

significato della parola dundo nel testo originale poiché le due parole dundo e barba

condividono molti semi, quali [+ vecchio], [+maschio,. [+dotato di esperienza],

[+autoritario].

Un altro doppione si presenta nel nome del servo di Maroje: Bokčilo in croato, e

Tirapiedi ossia Tirapiè nella traduzione. Tirapiè è davvero un sempliciotto bonario,

devoto al suo padrone, la cui massima preoccupazione è di non soffrire la fame e la sete

per cui frequentemente innervosisce il padrone avaro, concentrato sui problemi finanziari

e quindi poco sensibile alle necessità altrui. Per quanto riguarda il significato del nome

croato, a parte che il dizionario della lingua croata non nota il lemma bokcčilo né come

nome comune né come quello proprio, alcuni semi componenti il significato possono

essere [+povero], [+aiutante], [sofferente], [+umiliato]. Quanto al doppione italiano,

ovvero Tirapiedi / Tiarapiè, sul dizionario la parola viene citata come nome comune con

più significati14, di cui al carattere del personaggio meglio s'abbina quello col valore

figurativo, spregiativo: «Chi è al servizio di un altro e ne asseconda ogni inziativa per

servilismo o allo scopo di ricavare vantaggi.» (cfr. Zingarelli, s.v.). Ecco perché uno dei

personaggi, parlando dell'arrivo di barba Maroje e del suo servo a Roma, ne dice: «El se

ga tirà dietro un tirapiè che ne ha bevesto fina el vin della Messa» (cfr. Carpinteri –

Faraguna, 1969: 44). Come si vede, nella parola italiana manca il sema [+povero] e

anche, forse, quello di [+umiliato], sicché il termine italiano Tirapiè non risulta un

doppione pienamente fedele del nome croato Bokčilo. Come nel caso di Ragusino, anche

qui l'ottica dei traduttore è alquanto diversa ed è la servilità, piuttosto che la sofferenza e

la povertà, del personaggio che si mette in primo piano.

Anche i nomi dei due personaggi meno importanti, Mazija, portalettere, e

Grubiša, il figlio del mercante Paulo, amico del barba Maroje che è venuto a Roma a

cercarlo, sono stati cambiati. Nella traduzione Mazija diventa Dalmazia, probabilmente

per la vicinanza grafica, –m-a-z-i-j-a- vs. –m-a-z-i-a-, piuttosto che per motivi eufonici

['mazija – dal'matsja]. Quanto all' altro esempio, nel testo di Držić Grubiša è un

giovanotto umile, poco istruito che gli osti romani, a cui pare poco intelligente, prendono

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crudelmente in giro. Carpinteri e Faraguna gli danno il nome di Cuntento. In questo nome

proprio si riconosce la forma veneto-giuliana per la forma dell'italiano standard,

«contento» (con la chiusura della /o/ pretonica in /u/ tipica dei dialetti veneti

dell'Adriatico orientale, per la forma cfr. Rosamani, 1990: 281, per il cambiamento

fonetico cfr. ivi) ed esso è frequente in altri testi di prosa scritti da Carpinteri e

Faraguna.in cui il personagglio che lo porta è sempre una persona un po' scema e tarda

(cfr. Carpinteri – Faraguna, 1965).

1 Le caratteristiche fonetiche, morfologiche e sintattiche non solo della succitata commedia bensì dell'intero opus di Marin Držić si trovano presso Milan Rešetar, 1953, Jezik Marina Držića, Rad JAZU 248, pp. 99-240; Milan Moguš, nel suo lavoro intitolato Jezični elementi Držićeva «Dunda Maroja», UR XII, n. 1, Zagabria 1968, pp. 49-62. Milan Moguš, !969 (di cui ci siamo serviti noi), ha fatto l'analisi linguostilistica, mentre F. Čale si è occupato degli elementi alloglotti (cfr.Čale 1971 e Čale 1971-1973). Lo stesso autore ha curato l'edizione dell'opera omnia di Marin Držić intitolata Djela , Biblioteka Temelji, SNL, Zagabria, 1979, in cui si trovano tante osservazioni utili nella parte introduttiva nonché i commenti e un esauriente vocabolario. 2 Il testo di questa commedia è stato completato dallo studioso Mihovil Kombol nel 1955.3 Marko Fotez (1969: 378) cita la traduzione in italiano da parte di Eros Sequi, mentre nell'articolo di F. Čale (1970:72) troviamo che Domenico Cernecca ha acconsentito di tradurre una versione abbreviata del testo originale ancora nel 1963, la quale però non è mai stata né pubblicata né messa in scena.4 F. Čale scrisse di questa traduzione poco dopo la sua pubblicazione (cfr. Čale, 1970:69-74) fornendo molti particolari interessanti legati non tanto alla traduzione in sé quanto alla fortuna dello spettacolo per cui essa servì. Inoltre, Čale accennò alla traduzione nella nota 8 del suo saggio Čale1971-1973:90-110.5 Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, nati ambedue nel 1924 a Trieste (Faraguna è morto nel 2001), entrarono in scena nel 1945 come giornalisti col manifesto Caleidoscopo e poi continuarono a lavorre insieme producendo programmi radiofonici. Si esibirono anche come scrittori di cronache locali e poesie, e la fama e il pubblico se lo conquistarono coll'uscita del primo dei sei libri intitolato Le Maldobrìe nel 1965 in cui, in forma di dialogo tra due interlocutori evocano vicende e personaggi storici noti agli abitanti dell'Adriatico orientale. Inoltre, per 40 anni diressero La Cittadella prima un settimanale e poi un supplemento del quotidiano triestino «Il Piccolo» di vena umoristica. 6 Questa versione uscì a Udine nel 1969 presso l'editore Del Bianco. Il valore fondamentale dell'edizione (e dell'intera collana si cui questa si trova) sta nel fatto che si tratta di un'opera straniera «in prima o in nuova traduzione o versione italiana». Inoltre, come scritto in copertina, «il testo pubblicato non corrisponde a quello predisposto inizialmente dall'autore o dal traduttore ma è il copione che gli attori hanno recitato (nelle stagioni appunto del Teatro Stabile di Trieste) così come è risultato alla conclusione dell'impegno drammaturgico e registico di chi l'ha messa in scena».7 Ci permettiamo, per motivi di curiosità, di citare un articolo (su cui si sofferma pure Čale, 1970: 74) apparso sul quotidiano londinese The Times il 9 ottobre 1969, pp. 9, che parla di due rappresentazioni diverse dello stessa commedia, ovvero di Dundo Maroje di

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La poliglossia del testo originale

Come noto, sulla lingua del Držić, «polivalente ed atta ad adempire a una duplice

funzione espressiva: quella di divertire un largo pubblico di spettatori plebei e nobili,

rappresentando il lato comico delle loro preoccupazioni quotidiane e le diverse vicende

verosimili dei personaggi riconoscibili nell'ossatura paradigmatica del teatro tipico del

M. Držić, ma con esiti diversi. L'autore, John Francis Lane, scrisse che qualche giorno prima, la stessa sera, al programma del teatro La Fenice a Venezia c'era la rappresentazione intitolata Dundo Maroje, recitata da Jugoslovensko Dramsko Pozorište da Belgrado e diretta da Bojan Stupica, mentre al Teatro Olimpico di Vicenza c'era la commedia I nobili ragusei («closer investigation revealed that this was the same play by the same author», diceva il testo) recitata dal Teatro Stabile di Trieste e diretta dal regista straniero, Kosta Spaić («of the Zagreb Academy»). Mentre lo spettacolo di Venezia fu un disastro («it was difficult to reconcile Stupica's fame as a director with the spiritless production we saw at La Fenice, so poorly acted and so lacking in any real sense of Renaissance values») ricevette applausi e ovazioni («The Italian production, or rather that staged in Italian by Spaić, gets every inch of humour out of the situations»). 8 Quanto agli spunti relativi alla teoria della traduzione rimandiamo a Albrecht,1998, da cui abbiamo tratto tante osservazioni utili per questo contributo.9 A questo punto è necessario delineare in breve la trama della commedia. Il giovane prodigo Maro da un po' di tempo si trova a Roma vivendo da gran signore e godendo delle carezze della prima cortigiana della città grazie ai beni del padre, che, preoccupato soprattutto per i soldi che teme perduti, arriva da Dubrovnik per cercarlo. La bella amante di nome Laura viene corteggiata pure da un signore tedesco, Ugo Todesco, al cui servo, l'intelligente Ragusino, piace la serva della signora Laura, Petroniella, anche lei di Dubrovnik. Petroniella è cara anche a Bevagna, servo di Maro. A Roma vengono anche altri personaggi di Dubrovnik: la giovane Pera, insieme col cugino e la sua nutrice, cerca il fidanzato Maro, mentre Barba Maroje viene cercato dal fedele amico, mercante Paulo. Allo stesso tempo ci arriva un altro croato, Gulisan, che cerca la figlia perduta di un ricchissimo nobile tedesco. Dopo una serie di peripezie e risvolti comici, si ritrovano padre e figlio facendo pace e accettando la vita di prima il figlio e la perdita delle ricchezze il secondo, tornano insieme i fidanzati Pera e Maro, si scopre che la cortigiana Laura, che accetta l'affetto di Ugo Todesco, è la figlia perduta, si mettono insieme pure i loro servi, Ragusino e Petroniella. 10 Non a caso nel libro di J. Albrecht, che tratta la traduzione letteraria, uno dei capitoli porta il titolo «Letteratura di seconda mano: cambiamenti letterari alla luce della traduzione», cfr. Albrecht, 1998. 11 Il sintagma nobili Ragusei è presente fin dall'inizio del testo tradotto. Infatti il prologo della commedia, fatto nella versione tradotta pure da Ragusino (a differenza del Negromante nel testo originale) si apre con questo sintagma e il determinante nobile viene ripreso poi due volte di seguito, nelle due formule invocative che seguono immediatamente: «Nobili Ragusei, nobile e vecchio popolo de Ragusa, nobilissimo e

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tempo /…/ e quella, tutta sua, di far passare impunita una critica aspra e giustamente

maligna, operante con la complicità del doppio senso» (Čale, 1989: 7), si sono espressi

molti valenti studiosi (cfr. n. 1). Senza alcuna pretesa di dire delle cose nuove, riteniamo

opportuno ricordare brevemente alcune carattereistiche essenziali relative alla lingua del

Dundo Maroje, una vera commedia rinascimentale in quanto caratterizzata da una

moltitudine di personaggi e situazioni diverse, intrighi, complicazioni e soluzioni.

Una delle figure centrali della commedia darsiana, Pomet Trpeza parla, secondo

lo studioso croato Moguš, così come si parlava nella città di Dubrovnik verso la metà del

'500. Per precisare, questo significa che a Dubrovnik si parlava un idioma croato,

sostanzialmente ijekavo (Moguš, 1969: 272), pieno di elementi alloglotti, innanzitutto

italiani15 ma anche tardo latini, dalmatici (Čale, 1971-73: 95) e turchi. Conforme alla

concezione realistica del testo, che si rispecchia in particolare modo proprio nella lingua,

vi sono presenti pure parti di testo interamente in italiano e in latino.

L'idioma italiano è messo in bocca non solo degli italiani, gli osti e l'usuraio Sadi,

ma anche di alcuni ragusei quando si rivolgono ai romani. Si capisce che parlando dei

personaggi provenienti da Ragusa e dai suoi dintorni bisogna tener conto che l'idioma

italiano usato da loro che rappresentano lo strato colto della città di Dubrovnik (tra cui c'è

dundo/ barba Maroje, vecchio commerciante attento a come si spendono i soldi, poi suo

benevolo consesso». Nel testo originale, la parola plemenit (vale a dire «nobile») appare una volta sola all'inizio e dopo seguono altri determinanti dobrostiv («benevolo»), mudar («saggio»): «Plemeniti i dobrostivi skupe, puče stari i mudri». Darsa, amareggiato dalla sua esperienza personale con la nobiltà ragusea forse non se la sentiva di ripetere tante volte la parola «nobile».12 Gli autori venendo dalla zona di Trieste approfittano del fatto storico che per cent'anni,, dal 1814 al 1914, il territorio da Trieste fino alle Bocche di Cattaro, a sud di Dubrovnik, si trovò riunito nello stesso stato e i suoi abitanti, sottomessi al dominio degli Asburgo, fecero esperienza di una certa omologazione culturale e civilizzatrice asburgica sicché i nemici di una volta, in quel periodo subirono lo stesso destino. Il fatto però contribui alla conoscenza mutua e approfondì i rapporti di vaio tipo ormai esistenti tra gente appartenente a cerchie culturali diverse, innanzitutto venetoitaliani, croati, sloveni e tedeschi, in contatto nel territorio.13 Ai conoscitori dell'opus di Carpinteri e Faraguna non sfuggirà il proverbio relativo ai ragusei: I ragusei, che sia nobili o sia plebei, davanti a San Biaso se cava i capei . (Carpinteri-Faraguna, 1965: 99), che, forse, rivela una opinio comunis dell'ambiente degli Autori: il rispetto per il proprio patrono è una specie di nobiltà del carattere.14 Altri significati offerti sono: 1) Garzone o aiutante del boia che un tempo aveva il compito di tirare per i piedi gl'impiccati per abbreviare l'agonia; 2) fig. fam Chi lavora assolvendo incombenze molto misere. Cfr. Zingarelli, s.v.

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figlio Maro, giovane prodigo sia per l'età e per la mancanza di esperienza che per il

fascino dell'amante romana, infine il bocchese Tripčeta, amico di Maroje) è diverso

dall'italiano usato dai personaggi appartenenti allo strato dei servi. Mentre l'italiano usato

dai primi è sempre corretto anche se con qualche tratto locale (la realizzazione [š] per la s

seguita da c16), l'italiano usato, ma molto raramente, dall'altro gruppo di personaggi,

ovvero dai servi, mostra delle scorrettezze e chiari tratti venezianeggianti (per es. la

presenza di xe, nella risposta di Petroniella nell'atto II, scena 2). È chiaro quindi che oltre

ad accennare all'incapacità dei servi di servirsi correttamente dell'idioma italiano, lo

scopo di farli parlare in italiano è di attuare effetti comici e connotativi. Il procedimento

parallelo che mira allo stesso tipo di effetto scenico lo notiamo nella scena in cui gli osti

romani (I, 1 e IV,9) e un cittadino romano, Camillo (IV, 9), usano la lingua croata.

Inoltre Ugo, un nobile tedesco rivale in amore del figlio di Maroje, usa un italiano in cui

si rispecchia il suo idioma materno grazie innanzitutto ad alcuni tratti fonetici, in

particolare alla sostituzione assai consistente della labiodentale sonora (sia in posizione

iniziale che all'interno della parola) con la sorda (foler vs. voler; fostro vs. vostro; serfitor

vs. servitor), nonché all' uso degli infiniti (mi star sempre, salutar la signora).

Quanto all'uso della lingua latina, Držić la mette in bocca a tre personaggi. I vari

tipi di dicta usati da Pomet nei suoi lunghi monologhi oppure dal vecchio Maroje nelle

brevi riflessioni sul destino e sulla fortuna (che poi lui traduce in croato per farsi capire)

nonché qualche enunciato in latino fatto da Tripčeta sono sempre in forma corretta. Altri

servi, a cui Pomet, «il savio interprete delle sue (cioè del Darsa, V.D.) idee e dei suoi

atteggiamenti morali e politici» (Čale, 1989: 8) non si associa per niente (come dice 15 Usiamo il termine «italiano» per comodità e anche come indicazione del diasistema. Esso include anche il referente «veneziano», ovvero «veneto», in particolare quando si tratta dei periodi più antichi (però, secondo M. Deanović, 1971-73: 1, «a differenza di quanto avvenne sulla rimanente costa orientale dell'Adriatico, che per secoli fece parte della Repubblica Veneta e dove si parlava il dialetto della Serenissima, codesto idioma non è mai penetrato nella indipendente Ragusa»), nonché il referente pugliese romano e toscano grazie ai rapporti stretti commerciali tra la Repubblica di Dubrovnik e le rispettive regioni. Ž. Muljačić cita il termine «toscano raguseo» (di cui si rese conto già Matteo Giulio Bartoli (cfr. Muljačić, 1971-73: 11 e n. 9), «lingua di cultura che, secondo lui, prese il posto del veneziano coloniale, lingua internazionale nel Mediterraneo». . Bisogna dire che il termine «italiano» frequentemente viene usato al posto del sintagma «lingua franca» per cui ha l'accezione di «veneziano coloniale» o di «veneziano de là de mar» nonché di «toscano raguseo», mentre Muljačić (1971-73: 16) usa il termine «l'italiano coloniale di Dubrovnik.

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Muhoberac, 1998: 8, Pomet /Ragusino governa il mondo come il sosia del Darsa, per cui

lo possiamo identificare coll'Autore), non distinguono il latino dall'italiano e lo dimostra

la scena in cui la serva Petroniella racconta che il papà di Maro ha portato via la roba di

Sadi ebreo pensando che si trattasse della proprietà del figlio, lei riproduce il discorso

diretto di Sadi che, secondo il suo parere, è stato in latino (« meni Sadi Žudio reče: ' Vidiš

li? Marov otac odnije'. Reče mi latinski: ' Pare de misser portao robe», IV, 4) ma in effetti

questo non è altro che un esempio del discorso macaronico (Čale, 1971).

La lingua della traduzione

Il quadro poliglottico a cui abbiamo accennato così sommariamente si presenta

come un aspetto complesso e quasi problematico dell'opera di Držić che richiede molta

capacità e sensibilità da parte di colui che pretende di riprodurlo in un altra lingua. Come

scrisse Čale (Čale, 1970: 72), i traduttori Lino Carpinteri e Mariano Faraguna avevano

adempito alle richieste particolari imposte dalla traduzione per il teatro avendo trovato

nella versione italiana la forma linguistica e stilistica adeguata perché la caratteristica

espressività comunicativa dei personaggi di Držić venisse dimostrata in scena. Nella

prefazione alla versione pubblicata (rilevata pure da Čale, 1970: 72), parlando della

lingua della commedia, i due traduttori dicono che «il croato 'illirico' di Marino Darsa

appare come un composito insieme di costrutti e copiosissimi prestiti lessicali italiani» (e

che «nella commedia – che è ambientata a Roma – i dialoghi al modo croato si alternano

ad intere scene scritte in italiano» e «questo italiano, naturalmentete sa più di Dalmazia

che non di Roma o di Toscana17 e proprio da esso in questa versione, si è preso l'avvio per

volgere in lingua nostra i dialoghi del Darsa» Carpinteri, L. – Faraguna, M., 1969: 11-

12). Poi, più avanti, i traduttori aggiungono che «l'adozione di un linguaggio molto

16 Questo tratto, riportato nella n. 4 presso Muljačić (1971-73: 10), viene descritto come segue: «…l's susseguita dalla c, che viene pronunciata marcatissima ed aspra, tanto, quasi, quanto l'sch dei Tedeschi nelle parole Freundschaft, Schrank, Schaube, Liebschaft.» 17 Dubrovnik è la città dalmata in cui da sempre si sentirono più influssi toscani, pugliesi e marchigiani che veneziani come invece fu nel resto della costa dell'Adriatico orientale. Cfr. Muljačić, 1971-73.

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Page 11: Vesna Deželjin - Ruđer Bošković Institute · Web viewA questa constatazione non si sottrae neanche la sua commedia piů nota, vale a dire Dundo Maroje, un'opera incompleta, perché

diverso da quello delle commedie nate in Italia nello stesso tratto di tempo e il più

possibile vicino ai moduli popolareschi della Dalmazia, si è resa necessaria per

mantenere in vita nella versione il marcato contrasto tra il croato d'Illiria e i dialogi alla

toscana e alla romana» e perciò «si è creduto, in sostanza, di poter legittimamemente

sostiruire l'idioma raguseo di radice slava (ma dalle molte fronde italiane) del testo

originale con l'altra parlata ragusea, dal lessico e dal costrutto esclusivamente italiani, che

accanto ad esso continuava a vivere» (Carpinteri, L. – Faraguna, M., 1969, 12-13). I

traduttori dichiarano inoltre che le fonti a cui hanno attinto i modelli di quel linguaggio

italiano, adatto a sostituire il croato del testo originale, sono varie e molteplici, e il

risultato sono «le antiche e, per il lettore contemporaneo, strane forme veneziane» (Čale,

1970: 72). Dalle osservazioni citate pare che i traduttori abbiano trascurato in parte

l'aspetto poliglottico della commedia di Držić, tanto importante non solo perché la

copresenza di più lingue sia stata richiesta dalle regole della commedia rinascimentale,

ma perchè essa rispecchia, anche se in maniera stilizzata, una situazione probabile dal

punto di vista sociolinguistico, vale a dire la realtà ragusea in cui il popolo semplice

parlava l'idioma croato (permeato da elementi alloglotti), e solo i nobili (escluse le donne)

e la gente istruita erano in grado di servirsi anche dell'italiano. I traduttori, come pure F.

Čale (1970), dicono poco o quasi niente di come questa caratteristica del testo originale

venga realizzata nella traduzione. In questa occasione ci prefiggiamo di esaminare

proprio questo aspetto della traduzione, ossia di analizzare come viene affrontata la

varietà linguistica del testo originale e in seguito realizzata nella traduzione, nonché di

chiarire la posizione di certi elementi alloglotti del testo originale e il loro esito nel testo

tradotto.

Come detto sopra, nella traduzione, adattata per la rappresentazione in scena e di

conseguenza alquanto semplificata e abbreviata18 rispetto al testo darsiano, troviamo una

specie di lingua italiana, o piuttosto un tipo linguistico ibrido, con dei tratti fonetici,

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morfologici o lessicali19 tipici di idiomi appartenenti a varie famiglie dialettali in cui si

notano anche elementi alloglotti croati, tedeschi e latini la cui presenza, dal punto di vista

diacronico è poco probabile o addirittura impossibile se si pensa ad un particolare

dialetto italiano. Succede infatti, che negli enunciato in veneziano (coloniale),

caratterizzzati pure dalla presenza di qualche croatismo, si trovi qulche elemento proprio

dell'italiano/ toscano. Per questo motivo ci limiteremo a dire che l'idioma usato nella

traduzione di Carpinteri e Faraguna è un prodotto artistico, una koinè, in cui vengono

combinati elementi propri del veneziano antico e di altri idiomi veneti nonché quelli

propri degli idiomi centro-italiani. Sarà utile, quindi, presentare i tratti tipici degli idiomi

che ci concorrono e anche fare una rassegna degli elementi alloglotti presenti nel testo

tradotto per poter definire il loro rapporto con il tipo linguistico della traduzione, tenendo

sempre conto degli elementi alloglotti presenti nel testo originale e del loro rapporto con

la lingua indigena.

Livello fonetico-fonologico della koinè

Quanto alle caratteristiche proprie del veneziano (e altri idiomi veneti), oltre alla

presenza dell'aferesi (chiappare vs. acchiappare20, scoltar vs. ascoltare) e la perdita

dell'ultima vocale preceduta da una r-, l-, n- (voler, cavar, leon,), nel testo tradotto si

nota la presenza delle affricate palatali (rispetto alle affricate alveolari in italiano e in

toscano): pianze vs. piange; ruzine vs. ruggine, zinquemila vs. cinquemila, fazzo vs.

18 Nella traduzione troviamo le didascalie, ma sono le note del regista, con cui vengono indicati i cambiamenti della scena, i movimenti degli attori sul palcoscenico e il loro aspetto fisico. Inoltre, nella traduzione certe scene sono state scartate o notevolmente abbreviate (tanto per darne solo un esempio, nella traduzione il IVo atto si chiude con la scena 10 del IIIo atto; una parte della scena 11 (il monologo di Maro) apre il Vo atto della traduzione al posto del monologo di Pomet nell'originale, mentre le scene 12 e 13 mancano del tutto). 19 Un tratto lessicale che accenna al legame dei traduttori con l'area veneta e giuliana è la parola bigolera («Che in Cattaro se chiamava Mande la bigolera», cfr. Carpinteri – Faraguna, 1969: 32). Nel dialetto veneziano bigoler (Boerio, 80) indica «Quel botteghiere che fa o vende i vermicelli ed altre paste secche». Nell'area giuliana (Rosamani, 1990: 92), si annota questo lemma in funzione di un soprannome.

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faccio; in un caso si nota la forma justo (vs /ğiusto/)21. Inoltre, è frequente la fricativa

alveolare al posto della fricativa palatale (lassar vs. lasciare); la sonorizzazione, ma non

consistente, delle intervocaliche (fabricado, ubriago, mudande, accanto a perduto, ); lo

scempiamento, ma solo occasionale, delle doppie (comedia, femene, inamora, accanto,

però, alle geminate in piccola, velludo, pellizier , come pure nel testo originale), l'

esito /e/ (<Ē, Ĭ latine) nella posizione tonica, tipico delle parlate venete (cfr. Rohlfs,

1966-68, § 55): magazzen (rispetto alla forma magazzin del testo originale); il dittongo

/ie/, (cfr. Rohlfs, 1966-68, § 94), al posto della /e/ tonica (presente di continuo nella

forma missier della traduzione, rispetto alla forma misser del testo originale). Sia nella

forma misser che in quella missier, rispetto alla forma italiana messere, si presenta la

caduta dell'ultima vocale e la chiusura della /e/ pretonica in /i/, una tendenza percettibile

sia in Toscana che nelle zone del settentrione (cfr. pure la forma nissuno, pur con molte

eccezioni, cfr. Rohlfs; 1968-69, §130), nonché la chiusura della /e/ postonica: anema

(cfr. Rohlfs, 1966-68, §139). Un altro tratto comune alle varietà settentrionali e quindi

anche agli idiomi veneti dell'Adriatico orientale è la chiusura della –o- pretonica o

postonica (soprattutto nelle varietà veneto-dalmate, cfr. Ursini, 1987: 70), in –u- (cfr.

Rohlfs, 1966-68, §§ 131-32): Cuntento vs contento, strangulasse vs. strangolar, buccal

vs. boccale, argumento vs. argomento, miraculo vs. miracolo; diavulo vs. diavolo. Un

tratto meno frequente, ma che rivela che l'idioma di base usato da Carpinteri e Faraguna

nella traduzione è sempre veneziano (e veneto), è ancora il prefisso des- (per questo

prefisso cfr. Ursini, 1987: 57): desmentecato, (cfr. però˝la forma desmentegar in Boerio,

251), descorrer (accanto però alle forme con dis- : discorrere), desperar, desgraziato.

A questo punto bisogna citare gli elementi fonetico-fonologici che nella

traduzione chiaramente indicano l'influsso toscano, e così continuano i tratti principali

dell'italiano usato da Marin Držić. Si fa riferimento, oltre alle sporadiche soluzioni

doppie indicate poco prima (la conservazione di qualche intervocalica o anche delle

20 La forma venezianeggiante e veneta sarebbe però ciapar, per cui si capisce che in questo caso abbiamo la forma toscana con l'aferesi.21 Per gli esiti diversi della G davanti a vocale palatale, DI e I (o di J dei prestiti francesi e provenzali) sia in posizione iniziale che mediana cfr. Rohlfs, 1966-68, §§ 156, 158, 220, 277, 279. Nel veneziano antico la soluzione più frequente era /dz/, che si conserva nel veneziano dalmata. Cfr. Ursini, 1987: 86.Per gli esiti di C davanti a vocale palatale e di TI cfr. Rohlfs, 1966-86, §§ 152, 214, 290

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geminate e la chiusura della /e/ pretonica in /i/), al mantenimento della velare laddove

negli idiomi veneti appare la palatale /č/: acchiappare, occhio.

Livello morfologico della koinè

Quanto ai tratti morfologici propri degli idiomi veneti che troviamo nella

traduzione, si devono citare innanzitutto alcune forme verbali. Per il presente di essere,

accanto alla forma comunissima è, troviamo anche la forma xe, tipicamente veneta (cfr.

Rohlfs, 1968, § 540). La base veneta si manifesta nella forma avè dell'ausiliare avere (cfr.

Rohlfs, 1968, § 541), nelle forme del presente stago, dago (cfr. Rohlfs, 1968, §§ 542,

543), poi nei participi passati finenti in –esto (facesto, avesto, dicesto, intendesto, cfr.

Rohlfs, 1968, § 624).

Per quanto riguarda altre forme verbali, si può dire che, benché non si tratti di

forme ben attestate, esse lasciano intravvedere alcuni tratti tipici veneti antichi. Le forme

poderai, vederai usate per la prima persona del futuro richiamano le forme antiche in –ai

in veneziano e in triestino (cfr. Rohlfs, 1968, § 588).

I traduttori hanno approfittato del fatto che nella storia della lingua certe forme

erano comuni anche agli idiomi geografiicamente e tipologicamente distanti. Nella

traduzione viene costantemente usata la forma el per l'articolo maschile al singolare, una

forma tipica delle varianti venete, ma anche dell'antico fiorentino e dell'antico senese (cfr,

Rohlfs, 1968, §§ 414, 417). In seguito, per le prime due persone del plurale troviamo le

forme noialtri e voialtri, tipiche del toscano antico (cfr. Rohlfs, 1968, § 438), e la forma

ne per l'oggetto diretto forma atona del pronome personale della prima persona plurale.

Infine, mentre le forme saresse, voleresse, poderessi, doveressi, pareresse, se ti

sentiresse ecc. richiamano le forme analogiche del condizionale (in –ss-), comuni sia agli

scrittori antichi senesi che a quelli settentrionali (cfr. Rohlfs, 1968, § 598), le forme

vegneria, alzaria, avria, ecc. richiamano indubbiamente solo quelle del condizionale di

tipo cantaria nel toscano antico (cfr. Rohlfs, 1968, § 594 per la forma averia e § 595).

Aggiungiamo che le forme del condizionale, usate da Trifone, sono quelle proprie della

lingua moderna (sarebbe, sarebbero), mentre Sadi, orafo ebreo, usa la forma sarebbono,

montarebbono.

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Livello lessicale della koinè - elementi alloglotti

Nel tipo linguistico di cui i traduttori del capolavoro del Darsa si sono serviti,

troviamo parecchie parole ed espressioni alloglotte. Come già detto, vi sono delle forme

provenienti dalla lingua croata (i croatismi bogati, brate22 sono stati presi inalterati,

mentre la forma drusco richiama il croatismo drug, «compagno»), poi dalla lingua

tedesca, tra cui si distinguono sia i germanismi lessicali inesistenti nel testo originale

(Musik!, Noch einmal Musik!, 32; Jawohl!, 48) che quelli presi dal testo originale,

pronunciati dal tedesco Ugo, e adattati a livello grafico e fonetico; infine, ci sono i

latinismi messi in bocca di Barba Maroje, di Trifone, cattarino, e perfino di Tirapiè,

servo di Maroje che, come noto, nel testo originale non pronuncia mai nulla in latino. Si

vede che, quanto all'uso degli alloglottismi nel testo originale e in quello tradotto non si

può parlare del pieno parallelismo, poiché alcuni elementi presenti nella traduzione sono

pura invenzione dei traduttori il cui scopo è di accentuare la comicità della situazione e

del personaggio. Inoltre, per quanto concerne la distribuzione degli idiomi usati, nel testo

originale sono in concorrenza praticamente due lingue, il croato e l'italiano siccome il

latino appare sporadicamente e mai come idioma di comunicazione tra personaggi. In

questo modo i personaggi si differenziano in base alla lingua usata. Tutti i servi (con

esclusione di Pomet, vale a dire Ragusino nella traduzione) parlano il croato (l'unico

enunciato in italiano da parte del servo di Maroje è scorretto, mentre una espressione e le

canzoncine in italiano da parte del servo di Maro non bastano per dimostrare la sua

competenza in questo idioma). I nobili però si servono di due lingue, in relazione alla

situazione e all'interlocutore.

22 Il lemma brate è stato citato già da Boerio col significato: «Schiavone, dalmatino, Illirico» e con l'osservazione che «la voce vernacola è illirica». Cfr. Boerio, 1998:98.Il lemma bogati è citato da Miotto (Miotto, 1991: 28). L'assenza di questo lemma da Boerio suggerisce che il croatismo entrò più tardi nel veneziano coloniale dell'Adriatico orientale. Rosamani (Rosamani, 1990: 100) cita il soprannome Bogomè che prova la presenza della forma di base bog , che in seguito diede, oltre alla forma bogati, le altre di cui il succitato Miotto (Miotto, 1991: 28) menziona la bestemmia boga, le forme ottative bogami, bogova, il verbo bogovar («bestemmiare»), sostantivi bogovador («bestemmiatore»), bogoveta («piccola bestemmia»). Per il termine «forma ottativa cfr. Garavelli, 1988: 165.

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A differenza dell'originale, nella traduzione troviamo un tipo linguistico solo, una

koinè italiana ideata dai traduttori ed è essa che varia a seconda del parlante. Quando la

koinè viene usata tra i servi (che sono tutti croati), nella espressione vengono percepite le

caratteristiche per le quali questo tipo linguistico s'avvicina alle parlate veneziane e

venete, e quando invece essa viene usata dai nobili provenienti da Dubrovnik e dintorni,

vi sono sempre più percettibili i tratti toscaneggianti anche se qualche tratto

venezianeggiante resiste. Dall'altra parte, nel linguaggio di coloro che provengono

dall'Appennino, i tratti toscaneggianti prevalgono in assoluto. La decisione dei traduttori

di distinguere i parlanti in base alle caratteristiche della koinè, le quali l'avvicinano ora ad

uno ora all'altro tipo di parlate, corrisponde evidentemente al fatto che nel testo orginale i

nobili (provenienti dalla costa dalmata) comunicano, oltre che in croato tra di loro, anche

in italiano (in italiano «coloniale») con dei tratti toscani, e senesi in particolare,

sottolineando in tal modo i contatti tra Dubrovnik e le corrispondenti zone

appenninniche23. In questo modo i nobili ragusei, a cui si fa riferimento esplicito nel titolo

della traduzione, e in particolare il tipo linguistico usato da loro fanno da ponte tra la

lingua dei loro servi e quella della gente autoctona di Roma poiché nella propria

espressione uniscono elementi distanti nei termini di diatopia. Possiamo ipotizzare e dire

che con questo procedimento stilistico i traduttori volevano mantenere la duplicità della

lingua della nobiltà ragusea e che così hanno anche accennato all'influsso di vari idiomi

italiani, propri della parte occidentare dell'Adriatico, sulle parlate dell'Adriatico orientale,

nonché alla varietà di questo influsso nei termini diastratici, prescindendo però dal fatto

che i periodi24 di quegli influssi non coincidevano sempre.

23 Si sa che M. Držić (M. Darsa) trascorse una parte della vita a Siena per motivi di studio ed ebbe dei contatti con Lorenzo il Magnifico. Cfr. Čale, 1989.24 La violazione della dimensione diacronica è ovvia. La storia delle interferenze tra gli idiomi (e le culture) dell'Adriatico occidentale e quello orientale manifestatesi sulla costa orientale del mare è troppo lunga e complessa per entrarne in merito ora. Si vuole perciò solo ricordare, pur rischiando di semplificare troppo, che all'epoca del Darsa la città di Dubrovnik teneva contatti stretti innanzitutto con le zone centromeridionali dell'Appennino, quindi con la Toscana, Il Lazio, la Puglia (cfr. Mujljačić, 1971-73), mentre l'influsso veneziano e veneto, più sentito in Istria, nel Quarnero e in Dalmazia, si estese su tutto l'Adriatico orientale, fino alle Bocche di Cattaro, appena dopo la caduta della Serenissima, il cui potere venne sostituito da quello degli Asburgo che come centro d'irradiazione linguistica e culturale scelsero la città di Trieste.

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Per quanto riguarda la distribuzione dei pochi croatismi annotati nella koinè della

traduzione, essi si usano solo tra i personaggi croatofoni (Tripčeta ossia Trifone, Bokčilo

ossia Trirapiè, Pomet ossia Ragusino, Dživulin Lopuđanin ossia Gian di Lopud) con

funzioni testuali e pragmatiche ben distinte. Gli elementi croati servono a esprimere vari

sentimenti, come amicizia (brate), compassione (aimemeni, bogati), ironia (bogati),

oppure aiutano a stabilire o a interrompere la comunicazione tra i compatrioti (brate,

bogati).

A differenza dei latinismi che nel testo originale appaiono per evocare certi

concetti filosofici e storici nei monologhi di Pomet (Ragusino), (cfr. Muhoberac,

1998:78, 82, 92), oppure per denotare fatti possibili raccontati da Tripčeta (Trifone),

(ibid. 1998:90), oppure per esprimere il sollievo quando pronunciati da Maroje (cfr. ibid.,

1998:62), alla componenete latina nella traduzione spetta un ruolo diverso. Se usati, i

latinismi servono ad attuare toni ironici e scherzosi (come già detto troviamo qualche

latinismo perfino in bocca del servo di Maroje). Inoltre, nella traduzione troviamo molti

latinismi (come pure germanismi) inesistenti nel testo originale (in aeternum, circum

circa,, consumatum est, minimum, ecc.), che però sono molto frequenti nei testi dialettali

in prosa scritti dai traduttori25. A causa di questo procedimeto stilistico, il ruolo del latino

della traduzione non corrisponde a quello riservato al latino del testo originale in cui il

latino è considerato un idioma privilegiato, ossia la lingua alta (LA26) il cui uso è

circoscritto allo strato dei parlanti colti.

Osservazioni conclusive

Sulla base di quanto esposto finora, è interessante appurare che cosa succede

all'ambiguità inerente al testo originale e/ o la sua possibile doppia interpretazione in 25 Nella traduzione di Carpinteri e Faraguna troviamo alcune espressioni latine (circum circa, Ite missa est!, in aeternam, consumatum est, ecc.) che nel testo originale non esistono. Sono espressioni frequenti nella koinè veneta dell'Adriatico orientale, documentate e usate nelle opere dei traduttori, in particolere nella loro prosa di memoria, conosciuta sotto il nome di maldobrìe, proveniente dal loro primo libro di questo tipo intitolato Le Maldobrè, 1967, Ed. Lint. Trieste. 26 Usiamo il termine «lingua alta» (LA) conforme alla teoria relativistica di Ž. Muljačić. Cfr. Muljačić, 1984.

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chiave linguistica nella traduzione di Carpinteri e Faraguna. Questo importante aspetto

del testo originale non si perde nella traduzione innanzitutto grazie ai procedimenti

stilistici il cui esito si percepisce per lo più negli antroponimi e negli elementi lessicali in

generale nonché in quelli morfologici. I traduttori si sono sforzati di mantenere più livelli

espressivi nella comunicazione scenica: uno riservato per la comunicazione tra popolani

e servi, uno tipico della comunicazione solo tra nobili ragusei e uno ancora tra i nobili

ragusei e i cittadini romani. Il tipo linguistico che usano popolani e servi mostra

variazioni a vari livelli, con dei tratti venezianeggianti sia a livello fonetico che

morfologico e con maggiore apertura verso gli elementi alloglotti, in particolare di

provenienza croata. L'idioma usato dai nobili ragusei, ma in particolare da Tripčeta

(Trifone), proveniente da Cattaro, dimostra più tratti toscani anche nelle situazioni in cui

il suo interlocutore appartiene allo strato dei servi (Petroniella). Il personaggio di

Ragusino (Pomet), diverso da altri servi poiché nel testo originale parla sia croato che

italiano, e poi quando parla col padrone Ugo, il suo italiano sa anche di tedesco, nella

traduzione si serve della koinè che, a seconda dell'interlocutore, evidenzia ora più tratti

venezianeggianti ora più quelli toscaneggianti.

Si vede quindi, che le due lingue diverse (e le loro varianti) usate nei dialoghi nel

testo originale, nella traduzione diventano più varianti di un solo tipo linguistico

stilizzato, vale a dire, di una koinè artistica ideata dai traduttori. In base a questo si può

constatare che con la prima, ma non tanto conosciuta traduzione italiana della nota

commedia rinascimentale croata, adattata in seguito per la rappresentazione teatrale che,

come si è visto, ha suscitato molto e senz'altro meritato successo, si è riusciti a rendere in

lingua italiana, anche se parzialmente e solo in alcuni segmenti sacrificandone molto,

l'idea e il gusto della molteplicità linguistica del testo darsiano, e dei suoi effetti

sociolinguistici e stilistici .

Letteratura:

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