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Vesna Deželjin
INTORNO ALLA PRIMA TRADUZIONE ITALIANA DEL
CAPOLAVORO DI MARIN DRŽIĆ (MARINO DARSA)
Riassunto
Tanti illustri studiosi letterari concordano sulla grandezza del raguseo Marin Držić, vale a
dire sull'originalità dello scrittore nel teatro del Cinquecento. Uno dei principali motivi a
cui si deve tale giudizio è l'ambiguità del linguaggio del Darsa e il senso allusivo delle
sue commedie, in particolare della sua più nota commedia intitolata Dundo Maroje.
In quest'occasione ci proponiamo di presentare la prima traduzione in italiano di questo
capolavoro di Držić, col particolare riferimento alla lingua della traduzione, che nel testo
originale è polivalente, con duplice funzione espressiva: quella di divertire il pubblico e
quella di far passare impunita un'aspra critica indirizzata contro i governatori ragusei.
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Introduzione
La parte conservata dell'opus del sommo scrittore, poeta e commediografo, raguseo e
croato Marin Držić (Marino Darsa) attira di continuo e tuttora sia gli studiosi di lingua e
letteratura croata che semplici lettori. A questa constatazione non si sottrae neanche la
sua commedia più nota, vale a dire Dundo Maroje1, un'opera incompleta2, perché
incompleto, a quanto risulta, il manoscritto che ci è pervenuto. Questa commedia, in cui
l'autore «si è avvalso di tutti i moduli comuni ai commediografi del Cinquecento italiano»
(Missoni, 1989: 109), e che rispecchia, insieme ad altri testi teatrali, la poetica
rinascimentale e manieristica nonché l'individualismo creativo dell'autore (Muhoberac
1998: 10), è stata tradotta in più lingue. Per quanto riguarda la traduzione di quest'opera
in italiano, oltre alle traduzioni fatte ma non pubblicate3, di solito viene citata la
traduzione curata da Liliana Missoni col titolo Zio Maroje uscita presso l'editore Hefti di
Milano nel 1989 e con la prefazione di Frano Čale. Accanto a questa se ne colloca però
ancora un'altra, fatta da due scrittori triestini, Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, della
quale si sa poco o niente4.
Carpinteri e Faraguna5, una coppia conosciuta per la varia e ricca attività giornalistica,
letteraria, teatrale e di traduzione, fecero la traduzione del Dundo Maroje nel lontano
1969 per far rappresentare la commedia innanzitutto nel Teatro Stabile di Trieste. Infatti,
si trattava quasi di un esperimento poiché nel progetto furono coinvolti anche alcuni
croati, tra cui primeggiava il famoso regista Kosta Spaić. La traduzione, ossia come sta
scritto nel sottotitolo «prima versione italiana di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna
dalla traduzione originale di Giovanni Felicinovich» apparve col titolo di I Nobili
Ragusei6, comprendente le parti aggiunte da M. Kombol e R. Marinković al testo
originale. La commedia, in quella versione e sotto la stessa regia, fu in seguito presentata
anche a Vicenza7 con enorme successo.
Tradurre un testo letterario è un'attività complessa ed estremamente responsabile e
la traduzione di un'opera cruciale nella storia della letteratura e lingua croata, scritta da un
Raguseo e ambientata a Dubrovnik e a Roma è il primo motivo per cui se ne parlerà in
questa sede. Un altro motivo è la traduzione stessa, visto che tradurre un testo indica
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raddoppiarlo/ duplicarlo e ogni traduzione è il testo originale raddoppiato. E nel caso
particolare esistono persino due traduzioni italiane pubblicate del capolavoro di Držić per
cui ci si chiede se la traduzione in generale sia un altro aspetto del testo originale oppure
un altro testo, un'altra entità. L'incapacità di rispondere in modo univoco e semplice alla
succitata domanda, provocante ma fondata è confermata da numerose dispute teoriche
svolte in riguardo alla problematica accennata. Infatti, se si tratta di entità diverse e a sé
stanti (e fino ad un certo punto il testo originale e il testo tradotto lo sono), allora ogni
traduzione si può considerare separatamente e si può misurare con ogni altra dello stesso
testo di partenza, senza fare mai riferimenti al testo originale. L'altra possibilità è quella
di vedere nella traduzione solo un riflesso del testo originale in cui si osserva il destino
delle caratteristiche dell'opera letteraria (quelle concettualistiche, stilistiche, linguistiche,
ecc.) nel processo della traduzione. In questo caso, avendo a che fare con una traduzione
meno nota anche agli studiosi di Držić, abbandoneremo la direzione delle ricerche di tipo
traduttologico e prenderemo una direzione più tradizionalista, forse, restringendo
l'orrizzonte. Nella traduzione, ossia nella versione gemella del testo croato, si focalizzerà
il punto d'interesse cui la problematica del doppio, come iperonimo degli argomenti
possibili, si può benissimo applicare. Si pensa all'aspetto linguistico della traduzione di
Carpinteri e Faraguna, ein particolare all'idioma adottato per rendere al lettore italiano la
polivalenza dell'espressione linguistica del Darsa
I doppioni onomastici
Siccome, quindi, la traduzione8 ovvero il processo di trasposizione di un oggetto,
concepito originariamente in una lingua, in una lingua diversa, assomiglia al processo
del raddoppiamento, volendo analizzare un testo tradotto (una traduzione), la cosa più
semplice è di porlo a fronte di quello originale e subito si noteranno le diversità, almeno
quelle più palesi. Nel caso preciso, quello che attira l'attenzione è il significativo
cambiamento del titolo originale della commedia, Dundo Maroje9, che ora s'intitola I
nobili ragusei. Lo studioso Hermans, descrivendo un gruppo eterogeneo di traduttori
degli anni sessanta, dice che per loro la traduzione letteraria è un'attività descrittiva,
orientata verso l'obiettivo (ricevente), funzionale e sistematica (Hermans, 1985: 10).
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Questo vuol dire che il processo del tradurre necessariamente implica degli interventi
personali da parte del traduttore, per cui il testo tradotto è, almeno in parte, un'altra opera,
ossia il doppio di quello esistente10. Ed ecco che nel titolo della traduzione fatta da
Carpinteri e Faraguna, dato che, conforme a quanto accennato prima, l'altro, il doppio,
non può (o non dovrebbe) portare lo stesso nome, si nasconde l'intervento personale dei
traduttori che suggerisce un'ottica diversa nella lettura del loro testo. Carpinteri e
Faraguna richiedono di spostare il punto focale dal personaggio di Maroje, isolato, che
nel testo originale rappresenta l' aberrante nobiltà ragusea, in direzione di tutti i cittadini
di un'importante città nobile adriatica11, verso la cittadinanza e la civiltà ragusea, poiché il
testo tradotto nor sarà più una critica personale piena di delusione amara ed ironia contro
gli uomini a rovescio, ossia la nobiltà ragusea, ma piuttosto una storia divertente, meno
filosofica, di toni più bassi, in cui si deridono sia le debolezze che le virtù umane
riscontrabili ovunque, in Romani e in Ragusei, e che diventa interessante anche perché si
inseriscono i particolari storici e culturali comuni alle due sponde dell'Adriatico12, per cui
anche gli elementi del folclore locale possono assicurare degli effetti comici.
A favore della tesi del processo individuale di raddoppiamento parla anche il
fatto che nella traduzione i nomi di alcuni personaggi sono stati radicalmente cambiati. Il
protagonista cruciale della commedia, sia nel testo originale che in quello tradotto,
Pomet Trpeza , il cui nome in croato significa «nettatavole» e che raccoglie in sé tante
caratteristiche (buone?) dei suoi concittadini, prende il nome di Ragusino nella
traduzione. In tal modo la qualità principale di questo personaggio, sottolineata dal Darsa
e messa in rilievo ogniqualvolta nel testo originale lui viene citato (sia come locutore che
interlocutore che referente), nella traduzione viene trascurata, poiché col nuovo nome i
traduttori sottolineano innanzitutto la provenienza del personaggio, e con questa, forse
anche qualche stereotipio relativo alla comunità di origine e presente nel loro
immaginario13. Carpinteri e Faraguna hanno cambiato anche il nome di un altro
personaggio principale darsiano, quello di dundo Maroje che nella traduzione diventa
barba Maroje. Il cambiamento del determinante dundo in barba è probabilmente dovuto
a motivi semantici. Infatti, la parola dundo (per l'etim. cfr. Skok, 1972:524) nelle parlate
croate dell'Adriatico si usa nell'accezione di «zio materno o paterno» (cfr. Anić,
1998:197) oppure di «un anziano a cui si rivolgono giovani» (cfr. RHJ, 2000:220), anche
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se dal testo originale risulta che il protagonista chiamato così è il padre del giovanotto
Maro. Il significato della parola barba («Uomo fornito di buon senso, esperienza,
autorità», cfr. Zingarelli, s.v.) con cui il lemma dundo viene sostituito, s'avvicina al
significato della parola dundo nel testo originale poiché le due parole dundo e barba
condividono molti semi, quali [+ vecchio], [+maschio,. [+dotato di esperienza],
[+autoritario].
Un altro doppione si presenta nel nome del servo di Maroje: Bokčilo in croato, e
Tirapiedi ossia Tirapiè nella traduzione. Tirapiè è davvero un sempliciotto bonario,
devoto al suo padrone, la cui massima preoccupazione è di non soffrire la fame e la sete
per cui frequentemente innervosisce il padrone avaro, concentrato sui problemi finanziari
e quindi poco sensibile alle necessità altrui. Per quanto riguarda il significato del nome
croato, a parte che il dizionario della lingua croata non nota il lemma bokcčilo né come
nome comune né come quello proprio, alcuni semi componenti il significato possono
essere [+povero], [+aiutante], [sofferente], [+umiliato]. Quanto al doppione italiano,
ovvero Tirapiedi / Tiarapiè, sul dizionario la parola viene citata come nome comune con
più significati14, di cui al carattere del personaggio meglio s'abbina quello col valore
figurativo, spregiativo: «Chi è al servizio di un altro e ne asseconda ogni inziativa per
servilismo o allo scopo di ricavare vantaggi.» (cfr. Zingarelli, s.v.). Ecco perché uno dei
personaggi, parlando dell'arrivo di barba Maroje e del suo servo a Roma, ne dice: «El se
ga tirà dietro un tirapiè che ne ha bevesto fina el vin della Messa» (cfr. Carpinteri –
Faraguna, 1969: 44). Come si vede, nella parola italiana manca il sema [+povero] e
anche, forse, quello di [+umiliato], sicché il termine italiano Tirapiè non risulta un
doppione pienamente fedele del nome croato Bokčilo. Come nel caso di Ragusino, anche
qui l'ottica dei traduttore è alquanto diversa ed è la servilità, piuttosto che la sofferenza e
la povertà, del personaggio che si mette in primo piano.
Anche i nomi dei due personaggi meno importanti, Mazija, portalettere, e
Grubiša, il figlio del mercante Paulo, amico del barba Maroje che è venuto a Roma a
cercarlo, sono stati cambiati. Nella traduzione Mazija diventa Dalmazia, probabilmente
per la vicinanza grafica, –m-a-z-i-j-a- vs. –m-a-z-i-a-, piuttosto che per motivi eufonici
['mazija – dal'matsja]. Quanto all' altro esempio, nel testo di Držić Grubiša è un
giovanotto umile, poco istruito che gli osti romani, a cui pare poco intelligente, prendono
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crudelmente in giro. Carpinteri e Faraguna gli danno il nome di Cuntento. In questo nome
proprio si riconosce la forma veneto-giuliana per la forma dell'italiano standard,
«contento» (con la chiusura della /o/ pretonica in /u/ tipica dei dialetti veneti
dell'Adriatico orientale, per la forma cfr. Rosamani, 1990: 281, per il cambiamento
fonetico cfr. ivi) ed esso è frequente in altri testi di prosa scritti da Carpinteri e
Faraguna.in cui il personagglio che lo porta è sempre una persona un po' scema e tarda
(cfr. Carpinteri – Faraguna, 1965).
1 Le caratteristiche fonetiche, morfologiche e sintattiche non solo della succitata commedia bensì dell'intero opus di Marin Držić si trovano presso Milan Rešetar, 1953, Jezik Marina Držića, Rad JAZU 248, pp. 99-240; Milan Moguš, nel suo lavoro intitolato Jezični elementi Držićeva «Dunda Maroja», UR XII, n. 1, Zagabria 1968, pp. 49-62. Milan Moguš, !969 (di cui ci siamo serviti noi), ha fatto l'analisi linguostilistica, mentre F. Čale si è occupato degli elementi alloglotti (cfr.Čale 1971 e Čale 1971-1973). Lo stesso autore ha curato l'edizione dell'opera omnia di Marin Držić intitolata Djela , Biblioteka Temelji, SNL, Zagabria, 1979, in cui si trovano tante osservazioni utili nella parte introduttiva nonché i commenti e un esauriente vocabolario. 2 Il testo di questa commedia è stato completato dallo studioso Mihovil Kombol nel 1955.3 Marko Fotez (1969: 378) cita la traduzione in italiano da parte di Eros Sequi, mentre nell'articolo di F. Čale (1970:72) troviamo che Domenico Cernecca ha acconsentito di tradurre una versione abbreviata del testo originale ancora nel 1963, la quale però non è mai stata né pubblicata né messa in scena.4 F. Čale scrisse di questa traduzione poco dopo la sua pubblicazione (cfr. Čale, 1970:69-74) fornendo molti particolari interessanti legati non tanto alla traduzione in sé quanto alla fortuna dello spettacolo per cui essa servì. Inoltre, Čale accennò alla traduzione nella nota 8 del suo saggio Čale1971-1973:90-110.5 Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, nati ambedue nel 1924 a Trieste (Faraguna è morto nel 2001), entrarono in scena nel 1945 come giornalisti col manifesto Caleidoscopo e poi continuarono a lavorre insieme producendo programmi radiofonici. Si esibirono anche come scrittori di cronache locali e poesie, e la fama e il pubblico se lo conquistarono coll'uscita del primo dei sei libri intitolato Le Maldobrìe nel 1965 in cui, in forma di dialogo tra due interlocutori evocano vicende e personaggi storici noti agli abitanti dell'Adriatico orientale. Inoltre, per 40 anni diressero La Cittadella prima un settimanale e poi un supplemento del quotidiano triestino «Il Piccolo» di vena umoristica. 6 Questa versione uscì a Udine nel 1969 presso l'editore Del Bianco. Il valore fondamentale dell'edizione (e dell'intera collana si cui questa si trova) sta nel fatto che si tratta di un'opera straniera «in prima o in nuova traduzione o versione italiana». Inoltre, come scritto in copertina, «il testo pubblicato non corrisponde a quello predisposto inizialmente dall'autore o dal traduttore ma è il copione che gli attori hanno recitato (nelle stagioni appunto del Teatro Stabile di Trieste) così come è risultato alla conclusione dell'impegno drammaturgico e registico di chi l'ha messa in scena».7 Ci permettiamo, per motivi di curiosità, di citare un articolo (su cui si sofferma pure Čale, 1970: 74) apparso sul quotidiano londinese The Times il 9 ottobre 1969, pp. 9, che parla di due rappresentazioni diverse dello stessa commedia, ovvero di Dundo Maroje di
6
La poliglossia del testo originale
Come noto, sulla lingua del Držić, «polivalente ed atta ad adempire a una duplice
funzione espressiva: quella di divertire un largo pubblico di spettatori plebei e nobili,
rappresentando il lato comico delle loro preoccupazioni quotidiane e le diverse vicende
verosimili dei personaggi riconoscibili nell'ossatura paradigmatica del teatro tipico del
M. Držić, ma con esiti diversi. L'autore, John Francis Lane, scrisse che qualche giorno prima, la stessa sera, al programma del teatro La Fenice a Venezia c'era la rappresentazione intitolata Dundo Maroje, recitata da Jugoslovensko Dramsko Pozorište da Belgrado e diretta da Bojan Stupica, mentre al Teatro Olimpico di Vicenza c'era la commedia I nobili ragusei («closer investigation revealed that this was the same play by the same author», diceva il testo) recitata dal Teatro Stabile di Trieste e diretta dal regista straniero, Kosta Spaić («of the Zagreb Academy»). Mentre lo spettacolo di Venezia fu un disastro («it was difficult to reconcile Stupica's fame as a director with the spiritless production we saw at La Fenice, so poorly acted and so lacking in any real sense of Renaissance values») ricevette applausi e ovazioni («The Italian production, or rather that staged in Italian by Spaić, gets every inch of humour out of the situations»). 8 Quanto agli spunti relativi alla teoria della traduzione rimandiamo a Albrecht,1998, da cui abbiamo tratto tante osservazioni utili per questo contributo.9 A questo punto è necessario delineare in breve la trama della commedia. Il giovane prodigo Maro da un po' di tempo si trova a Roma vivendo da gran signore e godendo delle carezze della prima cortigiana della città grazie ai beni del padre, che, preoccupato soprattutto per i soldi che teme perduti, arriva da Dubrovnik per cercarlo. La bella amante di nome Laura viene corteggiata pure da un signore tedesco, Ugo Todesco, al cui servo, l'intelligente Ragusino, piace la serva della signora Laura, Petroniella, anche lei di Dubrovnik. Petroniella è cara anche a Bevagna, servo di Maro. A Roma vengono anche altri personaggi di Dubrovnik: la giovane Pera, insieme col cugino e la sua nutrice, cerca il fidanzato Maro, mentre Barba Maroje viene cercato dal fedele amico, mercante Paulo. Allo stesso tempo ci arriva un altro croato, Gulisan, che cerca la figlia perduta di un ricchissimo nobile tedesco. Dopo una serie di peripezie e risvolti comici, si ritrovano padre e figlio facendo pace e accettando la vita di prima il figlio e la perdita delle ricchezze il secondo, tornano insieme i fidanzati Pera e Maro, si scopre che la cortigiana Laura, che accetta l'affetto di Ugo Todesco, è la figlia perduta, si mettono insieme pure i loro servi, Ragusino e Petroniella. 10 Non a caso nel libro di J. Albrecht, che tratta la traduzione letteraria, uno dei capitoli porta il titolo «Letteratura di seconda mano: cambiamenti letterari alla luce della traduzione», cfr. Albrecht, 1998. 11 Il sintagma nobili Ragusei è presente fin dall'inizio del testo tradotto. Infatti il prologo della commedia, fatto nella versione tradotta pure da Ragusino (a differenza del Negromante nel testo originale) si apre con questo sintagma e il determinante nobile viene ripreso poi due volte di seguito, nelle due formule invocative che seguono immediatamente: «Nobili Ragusei, nobile e vecchio popolo de Ragusa, nobilissimo e
7
tempo /…/ e quella, tutta sua, di far passare impunita una critica aspra e giustamente
maligna, operante con la complicità del doppio senso» (Čale, 1989: 7), si sono espressi
molti valenti studiosi (cfr. n. 1). Senza alcuna pretesa di dire delle cose nuove, riteniamo
opportuno ricordare brevemente alcune carattereistiche essenziali relative alla lingua del
Dundo Maroje, una vera commedia rinascimentale in quanto caratterizzata da una
moltitudine di personaggi e situazioni diverse, intrighi, complicazioni e soluzioni.
Una delle figure centrali della commedia darsiana, Pomet Trpeza parla, secondo
lo studioso croato Moguš, così come si parlava nella città di Dubrovnik verso la metà del
'500. Per precisare, questo significa che a Dubrovnik si parlava un idioma croato,
sostanzialmente ijekavo (Moguš, 1969: 272), pieno di elementi alloglotti, innanzitutto
italiani15 ma anche tardo latini, dalmatici (Čale, 1971-73: 95) e turchi. Conforme alla
concezione realistica del testo, che si rispecchia in particolare modo proprio nella lingua,
vi sono presenti pure parti di testo interamente in italiano e in latino.
L'idioma italiano è messo in bocca non solo degli italiani, gli osti e l'usuraio Sadi,
ma anche di alcuni ragusei quando si rivolgono ai romani. Si capisce che parlando dei
personaggi provenienti da Ragusa e dai suoi dintorni bisogna tener conto che l'idioma
italiano usato da loro che rappresentano lo strato colto della città di Dubrovnik (tra cui c'è
dundo/ barba Maroje, vecchio commerciante attento a come si spendono i soldi, poi suo
benevolo consesso». Nel testo originale, la parola plemenit (vale a dire «nobile») appare una volta sola all'inizio e dopo seguono altri determinanti dobrostiv («benevolo»), mudar («saggio»): «Plemeniti i dobrostivi skupe, puče stari i mudri». Darsa, amareggiato dalla sua esperienza personale con la nobiltà ragusea forse non se la sentiva di ripetere tante volte la parola «nobile».12 Gli autori venendo dalla zona di Trieste approfittano del fatto storico che per cent'anni,, dal 1814 al 1914, il territorio da Trieste fino alle Bocche di Cattaro, a sud di Dubrovnik, si trovò riunito nello stesso stato e i suoi abitanti, sottomessi al dominio degli Asburgo, fecero esperienza di una certa omologazione culturale e civilizzatrice asburgica sicché i nemici di una volta, in quel periodo subirono lo stesso destino. Il fatto però contribui alla conoscenza mutua e approfondì i rapporti di vaio tipo ormai esistenti tra gente appartenente a cerchie culturali diverse, innanzitutto venetoitaliani, croati, sloveni e tedeschi, in contatto nel territorio.13 Ai conoscitori dell'opus di Carpinteri e Faraguna non sfuggirà il proverbio relativo ai ragusei: I ragusei, che sia nobili o sia plebei, davanti a San Biaso se cava i capei . (Carpinteri-Faraguna, 1965: 99), che, forse, rivela una opinio comunis dell'ambiente degli Autori: il rispetto per il proprio patrono è una specie di nobiltà del carattere.14 Altri significati offerti sono: 1) Garzone o aiutante del boia che un tempo aveva il compito di tirare per i piedi gl'impiccati per abbreviare l'agonia; 2) fig. fam Chi lavora assolvendo incombenze molto misere. Cfr. Zingarelli, s.v.
8
figlio Maro, giovane prodigo sia per l'età e per la mancanza di esperienza che per il
fascino dell'amante romana, infine il bocchese Tripčeta, amico di Maroje) è diverso
dall'italiano usato dai personaggi appartenenti allo strato dei servi. Mentre l'italiano usato
dai primi è sempre corretto anche se con qualche tratto locale (la realizzazione [š] per la s
seguita da c16), l'italiano usato, ma molto raramente, dall'altro gruppo di personaggi,
ovvero dai servi, mostra delle scorrettezze e chiari tratti venezianeggianti (per es. la
presenza di xe, nella risposta di Petroniella nell'atto II, scena 2). È chiaro quindi che oltre
ad accennare all'incapacità dei servi di servirsi correttamente dell'idioma italiano, lo
scopo di farli parlare in italiano è di attuare effetti comici e connotativi. Il procedimento
parallelo che mira allo stesso tipo di effetto scenico lo notiamo nella scena in cui gli osti
romani (I, 1 e IV,9) e un cittadino romano, Camillo (IV, 9), usano la lingua croata.
Inoltre Ugo, un nobile tedesco rivale in amore del figlio di Maroje, usa un italiano in cui
si rispecchia il suo idioma materno grazie innanzitutto ad alcuni tratti fonetici, in
particolare alla sostituzione assai consistente della labiodentale sonora (sia in posizione
iniziale che all'interno della parola) con la sorda (foler vs. voler; fostro vs. vostro; serfitor
vs. servitor), nonché all' uso degli infiniti (mi star sempre, salutar la signora).
Quanto all'uso della lingua latina, Držić la mette in bocca a tre personaggi. I vari
tipi di dicta usati da Pomet nei suoi lunghi monologhi oppure dal vecchio Maroje nelle
brevi riflessioni sul destino e sulla fortuna (che poi lui traduce in croato per farsi capire)
nonché qualche enunciato in latino fatto da Tripčeta sono sempre in forma corretta. Altri
servi, a cui Pomet, «il savio interprete delle sue (cioè del Darsa, V.D.) idee e dei suoi
atteggiamenti morali e politici» (Čale, 1989: 8) non si associa per niente (come dice 15 Usiamo il termine «italiano» per comodità e anche come indicazione del diasistema. Esso include anche il referente «veneziano», ovvero «veneto», in particolare quando si tratta dei periodi più antichi (però, secondo M. Deanović, 1971-73: 1, «a differenza di quanto avvenne sulla rimanente costa orientale dell'Adriatico, che per secoli fece parte della Repubblica Veneta e dove si parlava il dialetto della Serenissima, codesto idioma non è mai penetrato nella indipendente Ragusa»), nonché il referente pugliese romano e toscano grazie ai rapporti stretti commerciali tra la Repubblica di Dubrovnik e le rispettive regioni. Ž. Muljačić cita il termine «toscano raguseo» (di cui si rese conto già Matteo Giulio Bartoli (cfr. Muljačić, 1971-73: 11 e n. 9), «lingua di cultura che, secondo lui, prese il posto del veneziano coloniale, lingua internazionale nel Mediterraneo». . Bisogna dire che il termine «italiano» frequentemente viene usato al posto del sintagma «lingua franca» per cui ha l'accezione di «veneziano coloniale» o di «veneziano de là de mar» nonché di «toscano raguseo», mentre Muljačić (1971-73: 16) usa il termine «l'italiano coloniale di Dubrovnik.
9
Muhoberac, 1998: 8, Pomet /Ragusino governa il mondo come il sosia del Darsa, per cui
lo possiamo identificare coll'Autore), non distinguono il latino dall'italiano e lo dimostra
la scena in cui la serva Petroniella racconta che il papà di Maro ha portato via la roba di
Sadi ebreo pensando che si trattasse della proprietà del figlio, lei riproduce il discorso
diretto di Sadi che, secondo il suo parere, è stato in latino (« meni Sadi Žudio reče: ' Vidiš
li? Marov otac odnije'. Reče mi latinski: ' Pare de misser portao robe», IV, 4) ma in effetti
questo non è altro che un esempio del discorso macaronico (Čale, 1971).
La lingua della traduzione
Il quadro poliglottico a cui abbiamo accennato così sommariamente si presenta
come un aspetto complesso e quasi problematico dell'opera di Držić che richiede molta
capacità e sensibilità da parte di colui che pretende di riprodurlo in un altra lingua. Come
scrisse Čale (Čale, 1970: 72), i traduttori Lino Carpinteri e Mariano Faraguna avevano
adempito alle richieste particolari imposte dalla traduzione per il teatro avendo trovato
nella versione italiana la forma linguistica e stilistica adeguata perché la caratteristica
espressività comunicativa dei personaggi di Držić venisse dimostrata in scena. Nella
prefazione alla versione pubblicata (rilevata pure da Čale, 1970: 72), parlando della
lingua della commedia, i due traduttori dicono che «il croato 'illirico' di Marino Darsa
appare come un composito insieme di costrutti e copiosissimi prestiti lessicali italiani» (e
che «nella commedia – che è ambientata a Roma – i dialoghi al modo croato si alternano
ad intere scene scritte in italiano» e «questo italiano, naturalmentete sa più di Dalmazia
che non di Roma o di Toscana17 e proprio da esso in questa versione, si è preso l'avvio per
volgere in lingua nostra i dialoghi del Darsa» Carpinteri, L. – Faraguna, M., 1969: 11-
12). Poi, più avanti, i traduttori aggiungono che «l'adozione di un linguaggio molto
16 Questo tratto, riportato nella n. 4 presso Muljačić (1971-73: 10), viene descritto come segue: «…l's susseguita dalla c, che viene pronunciata marcatissima ed aspra, tanto, quasi, quanto l'sch dei Tedeschi nelle parole Freundschaft, Schrank, Schaube, Liebschaft.» 17 Dubrovnik è la città dalmata in cui da sempre si sentirono più influssi toscani, pugliesi e marchigiani che veneziani come invece fu nel resto della costa dell'Adriatico orientale. Cfr. Muljačić, 1971-73.
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diverso da quello delle commedie nate in Italia nello stesso tratto di tempo e il più
possibile vicino ai moduli popolareschi della Dalmazia, si è resa necessaria per
mantenere in vita nella versione il marcato contrasto tra il croato d'Illiria e i dialogi alla
toscana e alla romana» e perciò «si è creduto, in sostanza, di poter legittimamemente
sostiruire l'idioma raguseo di radice slava (ma dalle molte fronde italiane) del testo
originale con l'altra parlata ragusea, dal lessico e dal costrutto esclusivamente italiani, che
accanto ad esso continuava a vivere» (Carpinteri, L. – Faraguna, M., 1969, 12-13). I
traduttori dichiarano inoltre che le fonti a cui hanno attinto i modelli di quel linguaggio
italiano, adatto a sostituire il croato del testo originale, sono varie e molteplici, e il
risultato sono «le antiche e, per il lettore contemporaneo, strane forme veneziane» (Čale,
1970: 72). Dalle osservazioni citate pare che i traduttori abbiano trascurato in parte
l'aspetto poliglottico della commedia di Držić, tanto importante non solo perché la
copresenza di più lingue sia stata richiesta dalle regole della commedia rinascimentale,
ma perchè essa rispecchia, anche se in maniera stilizzata, una situazione probabile dal
punto di vista sociolinguistico, vale a dire la realtà ragusea in cui il popolo semplice
parlava l'idioma croato (permeato da elementi alloglotti), e solo i nobili (escluse le donne)
e la gente istruita erano in grado di servirsi anche dell'italiano. I traduttori, come pure F.
Čale (1970), dicono poco o quasi niente di come questa caratteristica del testo originale
venga realizzata nella traduzione. In questa occasione ci prefiggiamo di esaminare
proprio questo aspetto della traduzione, ossia di analizzare come viene affrontata la
varietà linguistica del testo originale e in seguito realizzata nella traduzione, nonché di
chiarire la posizione di certi elementi alloglotti del testo originale e il loro esito nel testo
tradotto.
Come detto sopra, nella traduzione, adattata per la rappresentazione in scena e di
conseguenza alquanto semplificata e abbreviata18 rispetto al testo darsiano, troviamo una
specie di lingua italiana, o piuttosto un tipo linguistico ibrido, con dei tratti fonetici,
11
morfologici o lessicali19 tipici di idiomi appartenenti a varie famiglie dialettali in cui si
notano anche elementi alloglotti croati, tedeschi e latini la cui presenza, dal punto di vista
diacronico è poco probabile o addirittura impossibile se si pensa ad un particolare
dialetto italiano. Succede infatti, che negli enunciato in veneziano (coloniale),
caratterizzzati pure dalla presenza di qualche croatismo, si trovi qulche elemento proprio
dell'italiano/ toscano. Per questo motivo ci limiteremo a dire che l'idioma usato nella
traduzione di Carpinteri e Faraguna è un prodotto artistico, una koinè, in cui vengono
combinati elementi propri del veneziano antico e di altri idiomi veneti nonché quelli
propri degli idiomi centro-italiani. Sarà utile, quindi, presentare i tratti tipici degli idiomi
che ci concorrono e anche fare una rassegna degli elementi alloglotti presenti nel testo
tradotto per poter definire il loro rapporto con il tipo linguistico della traduzione, tenendo
sempre conto degli elementi alloglotti presenti nel testo originale e del loro rapporto con
la lingua indigena.
Livello fonetico-fonologico della koinè
Quanto alle caratteristiche proprie del veneziano (e altri idiomi veneti), oltre alla
presenza dell'aferesi (chiappare vs. acchiappare20, scoltar vs. ascoltare) e la perdita
dell'ultima vocale preceduta da una r-, l-, n- (voler, cavar, leon,), nel testo tradotto si
nota la presenza delle affricate palatali (rispetto alle affricate alveolari in italiano e in
toscano): pianze vs. piange; ruzine vs. ruggine, zinquemila vs. cinquemila, fazzo vs.
18 Nella traduzione troviamo le didascalie, ma sono le note del regista, con cui vengono indicati i cambiamenti della scena, i movimenti degli attori sul palcoscenico e il loro aspetto fisico. Inoltre, nella traduzione certe scene sono state scartate o notevolmente abbreviate (tanto per darne solo un esempio, nella traduzione il IVo atto si chiude con la scena 10 del IIIo atto; una parte della scena 11 (il monologo di Maro) apre il Vo atto della traduzione al posto del monologo di Pomet nell'originale, mentre le scene 12 e 13 mancano del tutto). 19 Un tratto lessicale che accenna al legame dei traduttori con l'area veneta e giuliana è la parola bigolera («Che in Cattaro se chiamava Mande la bigolera», cfr. Carpinteri – Faraguna, 1969: 32). Nel dialetto veneziano bigoler (Boerio, 80) indica «Quel botteghiere che fa o vende i vermicelli ed altre paste secche». Nell'area giuliana (Rosamani, 1990: 92), si annota questo lemma in funzione di un soprannome.
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faccio; in un caso si nota la forma justo (vs /ğiusto/)21. Inoltre, è frequente la fricativa
alveolare al posto della fricativa palatale (lassar vs. lasciare); la sonorizzazione, ma non
consistente, delle intervocaliche (fabricado, ubriago, mudande, accanto a perduto, ); lo
scempiamento, ma solo occasionale, delle doppie (comedia, femene, inamora, accanto,
però, alle geminate in piccola, velludo, pellizier , come pure nel testo originale), l'
esito /e/ (<Ē, Ĭ latine) nella posizione tonica, tipico delle parlate venete (cfr. Rohlfs,
1966-68, § 55): magazzen (rispetto alla forma magazzin del testo originale); il dittongo
/ie/, (cfr. Rohlfs, 1966-68, § 94), al posto della /e/ tonica (presente di continuo nella
forma missier della traduzione, rispetto alla forma misser del testo originale). Sia nella
forma misser che in quella missier, rispetto alla forma italiana messere, si presenta la
caduta dell'ultima vocale e la chiusura della /e/ pretonica in /i/, una tendenza percettibile
sia in Toscana che nelle zone del settentrione (cfr. pure la forma nissuno, pur con molte
eccezioni, cfr. Rohlfs; 1968-69, §130), nonché la chiusura della /e/ postonica: anema
(cfr. Rohlfs, 1966-68, §139). Un altro tratto comune alle varietà settentrionali e quindi
anche agli idiomi veneti dell'Adriatico orientale è la chiusura della –o- pretonica o
postonica (soprattutto nelle varietà veneto-dalmate, cfr. Ursini, 1987: 70), in –u- (cfr.
Rohlfs, 1966-68, §§ 131-32): Cuntento vs contento, strangulasse vs. strangolar, buccal
vs. boccale, argumento vs. argomento, miraculo vs. miracolo; diavulo vs. diavolo. Un
tratto meno frequente, ma che rivela che l'idioma di base usato da Carpinteri e Faraguna
nella traduzione è sempre veneziano (e veneto), è ancora il prefisso des- (per questo
prefisso cfr. Ursini, 1987: 57): desmentecato, (cfr. però˝la forma desmentegar in Boerio,
251), descorrer (accanto però alle forme con dis- : discorrere), desperar, desgraziato.
A questo punto bisogna citare gli elementi fonetico-fonologici che nella
traduzione chiaramente indicano l'influsso toscano, e così continuano i tratti principali
dell'italiano usato da Marin Držić. Si fa riferimento, oltre alle sporadiche soluzioni
doppie indicate poco prima (la conservazione di qualche intervocalica o anche delle
20 La forma venezianeggiante e veneta sarebbe però ciapar, per cui si capisce che in questo caso abbiamo la forma toscana con l'aferesi.21 Per gli esiti diversi della G davanti a vocale palatale, DI e I (o di J dei prestiti francesi e provenzali) sia in posizione iniziale che mediana cfr. Rohlfs, 1966-68, §§ 156, 158, 220, 277, 279. Nel veneziano antico la soluzione più frequente era /dz/, che si conserva nel veneziano dalmata. Cfr. Ursini, 1987: 86.Per gli esiti di C davanti a vocale palatale e di TI cfr. Rohlfs, 1966-86, §§ 152, 214, 290
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geminate e la chiusura della /e/ pretonica in /i/), al mantenimento della velare laddove
negli idiomi veneti appare la palatale /č/: acchiappare, occhio.
Livello morfologico della koinè
Quanto ai tratti morfologici propri degli idiomi veneti che troviamo nella
traduzione, si devono citare innanzitutto alcune forme verbali. Per il presente di essere,
accanto alla forma comunissima è, troviamo anche la forma xe, tipicamente veneta (cfr.
Rohlfs, 1968, § 540). La base veneta si manifesta nella forma avè dell'ausiliare avere (cfr.
Rohlfs, 1968, § 541), nelle forme del presente stago, dago (cfr. Rohlfs, 1968, §§ 542,
543), poi nei participi passati finenti in –esto (facesto, avesto, dicesto, intendesto, cfr.
Rohlfs, 1968, § 624).
Per quanto riguarda altre forme verbali, si può dire che, benché non si tratti di
forme ben attestate, esse lasciano intravvedere alcuni tratti tipici veneti antichi. Le forme
poderai, vederai usate per la prima persona del futuro richiamano le forme antiche in –ai
in veneziano e in triestino (cfr. Rohlfs, 1968, § 588).
I traduttori hanno approfittato del fatto che nella storia della lingua certe forme
erano comuni anche agli idiomi geografiicamente e tipologicamente distanti. Nella
traduzione viene costantemente usata la forma el per l'articolo maschile al singolare, una
forma tipica delle varianti venete, ma anche dell'antico fiorentino e dell'antico senese (cfr,
Rohlfs, 1968, §§ 414, 417). In seguito, per le prime due persone del plurale troviamo le
forme noialtri e voialtri, tipiche del toscano antico (cfr. Rohlfs, 1968, § 438), e la forma
ne per l'oggetto diretto forma atona del pronome personale della prima persona plurale.
Infine, mentre le forme saresse, voleresse, poderessi, doveressi, pareresse, se ti
sentiresse ecc. richiamano le forme analogiche del condizionale (in –ss-), comuni sia agli
scrittori antichi senesi che a quelli settentrionali (cfr. Rohlfs, 1968, § 598), le forme
vegneria, alzaria, avria, ecc. richiamano indubbiamente solo quelle del condizionale di
tipo cantaria nel toscano antico (cfr. Rohlfs, 1968, § 594 per la forma averia e § 595).
Aggiungiamo che le forme del condizionale, usate da Trifone, sono quelle proprie della
lingua moderna (sarebbe, sarebbero), mentre Sadi, orafo ebreo, usa la forma sarebbono,
montarebbono.
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Livello lessicale della koinè - elementi alloglotti
Nel tipo linguistico di cui i traduttori del capolavoro del Darsa si sono serviti,
troviamo parecchie parole ed espressioni alloglotte. Come già detto, vi sono delle forme
provenienti dalla lingua croata (i croatismi bogati, brate22 sono stati presi inalterati,
mentre la forma drusco richiama il croatismo drug, «compagno»), poi dalla lingua
tedesca, tra cui si distinguono sia i germanismi lessicali inesistenti nel testo originale
(Musik!, Noch einmal Musik!, 32; Jawohl!, 48) che quelli presi dal testo originale,
pronunciati dal tedesco Ugo, e adattati a livello grafico e fonetico; infine, ci sono i
latinismi messi in bocca di Barba Maroje, di Trifone, cattarino, e perfino di Tirapiè,
servo di Maroje che, come noto, nel testo originale non pronuncia mai nulla in latino. Si
vede che, quanto all'uso degli alloglottismi nel testo originale e in quello tradotto non si
può parlare del pieno parallelismo, poiché alcuni elementi presenti nella traduzione sono
pura invenzione dei traduttori il cui scopo è di accentuare la comicità della situazione e
del personaggio. Inoltre, per quanto concerne la distribuzione degli idiomi usati, nel testo
originale sono in concorrenza praticamente due lingue, il croato e l'italiano siccome il
latino appare sporadicamente e mai come idioma di comunicazione tra personaggi. In
questo modo i personaggi si differenziano in base alla lingua usata. Tutti i servi (con
esclusione di Pomet, vale a dire Ragusino nella traduzione) parlano il croato (l'unico
enunciato in italiano da parte del servo di Maroje è scorretto, mentre una espressione e le
canzoncine in italiano da parte del servo di Maro non bastano per dimostrare la sua
competenza in questo idioma). I nobili però si servono di due lingue, in relazione alla
situazione e all'interlocutore.
22 Il lemma brate è stato citato già da Boerio col significato: «Schiavone, dalmatino, Illirico» e con l'osservazione che «la voce vernacola è illirica». Cfr. Boerio, 1998:98.Il lemma bogati è citato da Miotto (Miotto, 1991: 28). L'assenza di questo lemma da Boerio suggerisce che il croatismo entrò più tardi nel veneziano coloniale dell'Adriatico orientale. Rosamani (Rosamani, 1990: 100) cita il soprannome Bogomè che prova la presenza della forma di base bog , che in seguito diede, oltre alla forma bogati, le altre di cui il succitato Miotto (Miotto, 1991: 28) menziona la bestemmia boga, le forme ottative bogami, bogova, il verbo bogovar («bestemmiare»), sostantivi bogovador («bestemmiatore»), bogoveta («piccola bestemmia»). Per il termine «forma ottativa cfr. Garavelli, 1988: 165.
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A differenza dell'originale, nella traduzione troviamo un tipo linguistico solo, una
koinè italiana ideata dai traduttori ed è essa che varia a seconda del parlante. Quando la
koinè viene usata tra i servi (che sono tutti croati), nella espressione vengono percepite le
caratteristiche per le quali questo tipo linguistico s'avvicina alle parlate veneziane e
venete, e quando invece essa viene usata dai nobili provenienti da Dubrovnik e dintorni,
vi sono sempre più percettibili i tratti toscaneggianti anche se qualche tratto
venezianeggiante resiste. Dall'altra parte, nel linguaggio di coloro che provengono
dall'Appennino, i tratti toscaneggianti prevalgono in assoluto. La decisione dei traduttori
di distinguere i parlanti in base alle caratteristiche della koinè, le quali l'avvicinano ora ad
uno ora all'altro tipo di parlate, corrisponde evidentemente al fatto che nel testo orginale i
nobili (provenienti dalla costa dalmata) comunicano, oltre che in croato tra di loro, anche
in italiano (in italiano «coloniale») con dei tratti toscani, e senesi in particolare,
sottolineando in tal modo i contatti tra Dubrovnik e le corrispondenti zone
appenninniche23. In questo modo i nobili ragusei, a cui si fa riferimento esplicito nel titolo
della traduzione, e in particolare il tipo linguistico usato da loro fanno da ponte tra la
lingua dei loro servi e quella della gente autoctona di Roma poiché nella propria
espressione uniscono elementi distanti nei termini di diatopia. Possiamo ipotizzare e dire
che con questo procedimento stilistico i traduttori volevano mantenere la duplicità della
lingua della nobiltà ragusea e che così hanno anche accennato all'influsso di vari idiomi
italiani, propri della parte occidentare dell'Adriatico, sulle parlate dell'Adriatico orientale,
nonché alla varietà di questo influsso nei termini diastratici, prescindendo però dal fatto
che i periodi24 di quegli influssi non coincidevano sempre.
23 Si sa che M. Držić (M. Darsa) trascorse una parte della vita a Siena per motivi di studio ed ebbe dei contatti con Lorenzo il Magnifico. Cfr. Čale, 1989.24 La violazione della dimensione diacronica è ovvia. La storia delle interferenze tra gli idiomi (e le culture) dell'Adriatico occidentale e quello orientale manifestatesi sulla costa orientale del mare è troppo lunga e complessa per entrarne in merito ora. Si vuole perciò solo ricordare, pur rischiando di semplificare troppo, che all'epoca del Darsa la città di Dubrovnik teneva contatti stretti innanzitutto con le zone centromeridionali dell'Appennino, quindi con la Toscana, Il Lazio, la Puglia (cfr. Mujljačić, 1971-73), mentre l'influsso veneziano e veneto, più sentito in Istria, nel Quarnero e in Dalmazia, si estese su tutto l'Adriatico orientale, fino alle Bocche di Cattaro, appena dopo la caduta della Serenissima, il cui potere venne sostituito da quello degli Asburgo che come centro d'irradiazione linguistica e culturale scelsero la città di Trieste.
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Per quanto riguarda la distribuzione dei pochi croatismi annotati nella koinè della
traduzione, essi si usano solo tra i personaggi croatofoni (Tripčeta ossia Trifone, Bokčilo
ossia Trirapiè, Pomet ossia Ragusino, Dživulin Lopuđanin ossia Gian di Lopud) con
funzioni testuali e pragmatiche ben distinte. Gli elementi croati servono a esprimere vari
sentimenti, come amicizia (brate), compassione (aimemeni, bogati), ironia (bogati),
oppure aiutano a stabilire o a interrompere la comunicazione tra i compatrioti (brate,
bogati).
A differenza dei latinismi che nel testo originale appaiono per evocare certi
concetti filosofici e storici nei monologhi di Pomet (Ragusino), (cfr. Muhoberac,
1998:78, 82, 92), oppure per denotare fatti possibili raccontati da Tripčeta (Trifone),
(ibid. 1998:90), oppure per esprimere il sollievo quando pronunciati da Maroje (cfr. ibid.,
1998:62), alla componenete latina nella traduzione spetta un ruolo diverso. Se usati, i
latinismi servono ad attuare toni ironici e scherzosi (come già detto troviamo qualche
latinismo perfino in bocca del servo di Maroje). Inoltre, nella traduzione troviamo molti
latinismi (come pure germanismi) inesistenti nel testo originale (in aeternum, circum
circa,, consumatum est, minimum, ecc.), che però sono molto frequenti nei testi dialettali
in prosa scritti dai traduttori25. A causa di questo procedimeto stilistico, il ruolo del latino
della traduzione non corrisponde a quello riservato al latino del testo originale in cui il
latino è considerato un idioma privilegiato, ossia la lingua alta (LA26) il cui uso è
circoscritto allo strato dei parlanti colti.
Osservazioni conclusive
Sulla base di quanto esposto finora, è interessante appurare che cosa succede
all'ambiguità inerente al testo originale e/ o la sua possibile doppia interpretazione in 25 Nella traduzione di Carpinteri e Faraguna troviamo alcune espressioni latine (circum circa, Ite missa est!, in aeternam, consumatum est, ecc.) che nel testo originale non esistono. Sono espressioni frequenti nella koinè veneta dell'Adriatico orientale, documentate e usate nelle opere dei traduttori, in particolere nella loro prosa di memoria, conosciuta sotto il nome di maldobrìe, proveniente dal loro primo libro di questo tipo intitolato Le Maldobrè, 1967, Ed. Lint. Trieste. 26 Usiamo il termine «lingua alta» (LA) conforme alla teoria relativistica di Ž. Muljačić. Cfr. Muljačić, 1984.
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chiave linguistica nella traduzione di Carpinteri e Faraguna. Questo importante aspetto
del testo originale non si perde nella traduzione innanzitutto grazie ai procedimenti
stilistici il cui esito si percepisce per lo più negli antroponimi e negli elementi lessicali in
generale nonché in quelli morfologici. I traduttori si sono sforzati di mantenere più livelli
espressivi nella comunicazione scenica: uno riservato per la comunicazione tra popolani
e servi, uno tipico della comunicazione solo tra nobili ragusei e uno ancora tra i nobili
ragusei e i cittadini romani. Il tipo linguistico che usano popolani e servi mostra
variazioni a vari livelli, con dei tratti venezianeggianti sia a livello fonetico che
morfologico e con maggiore apertura verso gli elementi alloglotti, in particolare di
provenienza croata. L'idioma usato dai nobili ragusei, ma in particolare da Tripčeta
(Trifone), proveniente da Cattaro, dimostra più tratti toscani anche nelle situazioni in cui
il suo interlocutore appartiene allo strato dei servi (Petroniella). Il personaggio di
Ragusino (Pomet), diverso da altri servi poiché nel testo originale parla sia croato che
italiano, e poi quando parla col padrone Ugo, il suo italiano sa anche di tedesco, nella
traduzione si serve della koinè che, a seconda dell'interlocutore, evidenzia ora più tratti
venezianeggianti ora più quelli toscaneggianti.
Si vede quindi, che le due lingue diverse (e le loro varianti) usate nei dialoghi nel
testo originale, nella traduzione diventano più varianti di un solo tipo linguistico
stilizzato, vale a dire, di una koinè artistica ideata dai traduttori. In base a questo si può
constatare che con la prima, ma non tanto conosciuta traduzione italiana della nota
commedia rinascimentale croata, adattata in seguito per la rappresentazione teatrale che,
come si è visto, ha suscitato molto e senz'altro meritato successo, si è riusciti a rendere in
lingua italiana, anche se parzialmente e solo in alcuni segmenti sacrificandone molto,
l'idea e il gusto della molteplicità linguistica del testo darsiano, e dei suoi effetti
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