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Verso una neuroestetica della letteratura a cura di Massimo Salgaro Università degli Studi di Verona Dipartimento di Germanistica e Slavistica

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Verso una neuroesteticadella letteratura

a cura diMassimo Salgaro

Università degli Studi di VeronaDipartimento di Germanistica e Slavistica

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via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

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ISBN 978–88–548–2441–6

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I edizione: aprile 2009

Indice

9 Introduzione

Premesse

27 Israel Rosenfield How the Brain Makes Sense of our Chaotic Sensory Worlds by creating Colors, Forms and our Sense of Ourselves

33 Francesco Ronzon Mente/Corpo. Alcune riflessioni introduttive al dialogo tra scienze umane e neuroscienze

La neuroestetica della letteratura

51 Gabriele Fedrigo Cervello e poesia

71 Anatole Pierre Fuksas

Il Romanzo nel Corpo: una teoria ecologica della refe-renza narrativa

107 Anna Cappellotto

«Sotto la scrittura agisce il nervo». La poesia cerebrale di Durs Grünbein

137 Massimo Salgaro

«L’opera letteraria si realizza nella coscienza del letto-re». Estetica della ricezione, psicologia cognitiva e neuroscienze

169 Indice dei nomi

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Introduzione

Continuo il volo. Tutto va avanti perfettamente. Tutto va avanti perfetta-mente. L’assenza di gravità dà una sensazione interessante. Tutto nuota. Nuota tutto quanto. Che bello! Interessante […] Vedo l’orizzonte terrestre. Viene a galla. Ma di stelle in cielo non se ne vedono. Si vede la superficie terrestre. Il cielo è nero. Sia sul bordo della Terra che sul bordo dell’orizzonte c’è un’aureola bellissima che si scurisce mano a mano che ci si allontana dalla Terra. Attenzione. Vedo l’orizzonte terrestre. Un’aureola proprio molto bella. All’inizio un arcobaleno che va dalla superficie della Terra in giù. Passa un arcobaleno così. È proprio bello! Vedo le stelle attraverso l’illuminatore, vedo come passano le stelle. È uno spettacolo bellissimo. È passata una stellina, se ne va, se ne va1.

Le righe appena lette sono estrapolate dalle comunicazioni che Jurij

Alekseevič Gagarin trasmise dalla navicella alla base terrestre durante la sua orbita spaziale del 12 aprile 1961. Saltano all’occhio l’entusiasmo e la felicità dell’astronauta russo che lo spingono alla ri-cerca di metafore variopinte per descrivere quello che gli balena sopra la sua cloche. Il suo stupore per «l’aureola» attorno alla terra è giusti-ficato anche dalla portata che quella percezione sensoriale ha avuto ri-spetto alla storia del pensiero umano: con un singolo colpo d’occhio egli sgombera il campo dalle discussioni centenarie che hanno riguar-dato la sfericità terrestre e l’eliocentrismo: per primo egli ha visto quello che altri uomini hanno teorizzato o contestato per millenni. Che la terra fosse rotonda lo si sapeva già – avranno pensato, detto e scritto

1 Citazione tradotta gentilmente da Stefano Aloe e tratta dal sito

http://epizodsspace.testpilot.ru/bibl/i_tsk/zv-reis.html.

Introduzione

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i soliti benpensanti – ma Gagarin ne ebbe in quel momento una cer-tezza sensoriale.

In una situazione simile a Gagarin si trovano da qualche decennio i neuroscienziati di fronte agli impressionanti scorci sul funzionamento del cervello che permette il brain imaging. Le immagini che ne risul-tano ci consentono di vedere per la prima volta dal vivo il funziona-mento del cervello: ciò fa sì che millenarie discussioni sulla mente umana dialoghino fra loro, si smentiscano o si confermino e che, tal-volta, se ne concepiscano di nuove. La coscienza, le emozioni, la me-moria, che qui sono in gioco, sono argomenti tradizionali della filoso-fia che ora vengono considerati in chiave fisiologica. Come Gagarin, anche noi profani delle neuroscienze, siamo stupefatti, sbalorditi, an-che increduli di fronte a queste immagini nelle quali si riverbera una parte anatomica in cui ci identifichiamo fortemente. Per circoscrivere questa sensazione di infinito e di profondità che scaturisce dall’incontro con la nostra mente si è parlato anche di «neuro-romanticismo»; fino a non troppo tempo fa tali qualità erano attribuite all’anima. Inoltre, non si deve dimenticare che la visibilità delle cose è un fenomeno allo stesso tempo tranquillizzante ed inquietante della «società dello spettacolo».

Tra le nuove tecniche del brain imaging che aiutano a scrutare il cervello umano si distinguono due categorie: quelle che visualizzano l’anatomia e la struttura del sistema nervoso centrale come la tomo-grafia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica nucleare (RMN) e quelle che palesano il funzionamento del cervello come l’elettroencefalogramma (EEG) e la magnetoencefalografia (MEG). Particolarmente efficace per questo secondo tipo di indagine si sono rivelate la tomografia per emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) che rilevano l’aumento di flusso sangui-gno che segnala l’attività di aree neuronali. I laboratori cercano di in-tegrare le diverse metodologie di visualizzazione in modo da ottenere informazioni complementari riguardo alle strutture cerebrali.

Se con il nuovo millennio la «decade del cervello» si è conclusa, il futuro delle neuroscienze è appena iniziato. Le neuroscienze puntano a modificare l’idea dell’uomo ed è per questo che le scienze umane non potranno sottrarsi dal cercare un dialogo con loro. La psicologia e la filosofia lo stanno già facendo con stati d’animo alterni. Questo ambi-

Introduzione

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to di discussione dai confini imprecisi ha assunto, a seconda dei refe-renti che coinvolge, nomi diversi, «neurofilosofia», «neuroetica», «neurofenomenologia» e «neuroestetica». Quest’ultima è fautrice di un’estetica che non intende esimersi dal prendere in esame le attività corporee e sensoriali sollecitate dalla dimensione artistica sia sul ver-sante della produzione che su quello della fruizione.

Il maggior promotore di questo dialogo interdisciplinare è Semir Zeki, un neuroscienziato che nel 2001 ha fondato a Londra l’istituto inglese di Neuroestetica. Nel suo La visione dall’interno. Arte e cer-vello2 egli afferma che i pittori sono neurologi atipici i quali sfidano con le loro opere le potenzialità del cervello visivo che ha il compito di acquisire nuove conoscenze da mettere a disposizione dell’organismo. Secondo lui le arti visive sono sottoposte alle stesse leggi che regolano le attività quotidiane della vista3.

Sia Semir Zeki che Lamberto Maffei, il padre della neuroestetica italiana4, sono presenti nella miscellanea curata da Giovanni Lucigna-ni e Andrea Pinotti dal titolo Le immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia5 nel cui solco voglio collocare il presente volume. Come

2 S. ZEKI, La visione dall’interno. Arte e cervello, Bollati Boringhieri, Torino

2003. 3 Sulla falsariga di Semir Zeki, a cui riconosce di aver coniato il neologismo neu-

roestetica (44), si muove Vilayanur S. Ramachandran in Che cosa sappiamo della mente. Gli ultimi progressi delle neuroscienze raccontati dal massimo esperto mon-diale, Mondadori, Milano 2004. Nel capitolo intitolato Il cervello artista egli sostie-ne che ci sono degli universali artistici e ne elenca dieci, fra i quali l’iperbole, la me-tafora, l’aggruppamento percettivo e l’isolamento modulare. Quest’ultimo è suffra-gato dall’economia della nostra mente che ci permette di apprezzare maggiormente l’abbozzo di un quadro piuttosto che una foto. Esso sta alla base del piacere di intui-re una forma. L’aggruppamento percettivo è quel principio che ci permette di rico-noscere un dalmata in un’accozzaglia di macchie bianche e nere. Ramachandran non nega il fattore culturale dell’arte, afferma infatti: «Il 90% imputabile alla cultura viene studiato dalla maggior parte della gente ed è ciò che di solito prende il nome di storia dell’arte. Come scienziato, però, io sono interessato non già alle infinite varia-zioni indotte dalle singole culture, bensì dal 10% universale» (44).

4 Mentre scrivo questa introduzione viene annunciata una nuova edizione di Arte e cervello (1995) di Lamberto Maffei e Adriana Fiorentini con cui la neuroestetica italiana prende avvio. Cfr. “Il Sole 24 ore”, 24 agosto 2008, p. 36.

5 Le immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia, a cura di G. Lucignani, A. Pinotti, Cortina, Milano 2007, pp. 165-189.

Introduzione

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faremo nelle prossime pagine, essi riprendono, rinnovandole, antiche e fondamentali domande dell’estetica quali:

Che cosa succede quando facciamo esperienza dell’opera d’arte come fruitori? E come produttori? Che cosa accade in noi quando incontriamo quella particolare classe di oggetti che sono le opere d’arte, nel nostro accog-lierle e nel nostro crearle6? Quale avamposto di un’area di ricerca in fieri la miscellanea di Lu-

cignani e Pinotti si concentra, perlomeno sul versante delle humani-ties, su questioni più concettuali e più filosofiche, spianando la strada a chi, come noi, vorrà intraprendere un cammino nella medesima dire-zione. Il nostro intento è proprio quello di colmare una lacuna, allar-gando il campo della neuroestetica agli studi letterari che finora sono stati trascurati, qualcuno penserà: risparmiati. Gran parte degli studi neuroestetici si è concentrata sulle arti figurative e sulla musica, forse perché sono forme artistiche meno concettuali e più direttamente col-legate al dato sensoriale. Le scoperte neuroscientifiche non hanno però lasciato indifferente la letteratura: alcuni scrittori7 – come per esempio Oswald Wiener e Durs Grünbein in ambito germanofono – hanno re-cepito questo mutamento dei paradigmi antropologici. Indagando e descrivendo la mente umana diversi scrittori hanno anticipato alcune scoperte delle moderne neuroscienze8. D’altro canto anche alcuni e-sperti di neuroscienze, quali Dan Lloyd (Radiant Cool) e Israel Rosen-field (Freud’s Megalomania), hanno scritto opere di finzione. In modo crescente la «società letteraria» si chiede se questa aggiornata conce-

6 Ivi, p. XVIII. 7 Valeria Gennero mostra efficacemente come il dibattito su coscienza, mente e

cervello rappresenti uno dei temi principali di alcuni autori di spicco della narrativa anglo-americana contemporanea quali Richard Powers, Tom Wolfe, David Lodge, Jonathan Franzen e Jeffrey Eugenidis; cfr. V. GENNERO, L’eco dell’anima che scompare. Coscienza e identità nella narrativa anglo-americana contemporanea, in Psicologia e identità, a cura di P. Barbetta, M. Corona, Bergamo University Press, Bergamo 2005.

8 In Proust era un neuroscienziato (Codice Edizioni, Torino 2008) Jonah Lehrer osserva come alcuni scrittori (Marcel Proust, T.S. Eliot, Walt Whitman, Virginia Woolf e Gertrude Stein) e artisti abbiano formulato delle intuizioni sulla mente che sono state confermate dalle attuali neuroscienze.

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zione della mente ha cambiato la nostra idea della letteratura e come si inseriscano la creatività letteraria e la lettura all’interno delle nostre at-tività mentali.

Se si volesse fare l’inventario delle più importanti pubblicazioni concernenti la neuroestetica in campo letterario, l’elenco sarebbe bre-ve9; tra gli autori spiccherebbe il nome di Mark Turner che con The Literary Mind: The Origins of Thought and Language10 (1996) fece il primo passo verso una neuroestetica letteraria. Lì mostrò come la «mente letteraria» sia alla base di una serie importante di operazioni intellettuali che caratterizzano la nostra vita quotidiana e che ci per-mettono di spiegare, predire e pianificare le nostre esistenze11. Il no-stro sapere è articolato in storie che noi abbiamo la possibilità di in-trecciare attraverso un meccanismo che Turner chiama «parabola». La mente letteraria ci permette anche di integrare nei concetti informa-zioni difformi: il concetto «cavallo» include, ad esempio, nozioni formali, cromatiche e di moto. Di recente, in The art of compression12,

9 Frederick Turner e Ernst Pöppel sono neuroesteti della letteratura ante litteram

quando nel 1983 (in The neural lyre. Poetic meter, the brain and time, «Poetry», vol. 135, 1983, pp. 277-309 riproposto con lievi variazioni in Metered Poetry, the brain, and time, in Beauty and the brain. Biological Aspects, a cura di I. Rentschler, B. Herzberger, D. Epstein, Birkhäuser Verlag, Basel-Boston-Berlin 1988, pp. 71-91) discutono la funzione del metro, che è una caratteristica universale della poesia di tutto il mondo e di tutti i tempi, all’interno delle nostre funzioni cerebrali. Il metro risponde a precise esigenze della nostra mente: dà ordine alle informazioni, crea ri-petizioni e una varietà controllata, collega e coinvolge l’emisfero destro e quello si-nistro. Ma Frederick Turner sembra aver anticipato anche le attuali concezioni dar-winiane dell’estetica quando scrive nel 1985: «one of the most interesting questions in the contemporary study of aethetics concerns the biological basis and the evolu-tionary necessity of pleasure in general and aesthetic pleasure in particolar». F.

TURNER, Natural Classicism. Essays on Literature and science, Paragon House Pu-blishers, New York 1985, p. 13.

10 M. TURNER, The literary mind, Oxford University Press, New York 1996. 11 Per una critica o una limitazione del concetto di mente letteraria si veda R.

SHUSTERMAN, Æsthetics and literary mind. Some thoughts from a thought experi-ment, conferenza tenuta al Centre for British Studies di Berlino in occasione del convegno, The literary mind, 10-13 aprile 2008.

12 M. TURNER, The art of compression, in The artful mind, Cognitive science and the riddle of human creativity, a cura di M. Turner, Oxford University Press, Oxford 2006, pp. 93-115. Cfr. anche ID., The origin of selkies, «Journal of consciousness studies», vol. 11, n. 5-6, 2004, pp. 90-115.

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Turner si interroga, nella scia delle evolutionary aesthetics, sul ruolo dell’arte nell’evoluzione della nostra specie e nella nostra adattabilità all’ambiente. La principale caratteristica dell’essere umano che lo di-stingue dagli altri esseri viventi è la sua capacità di integrare concetti che gli permette, ad esempio nelle forme artistiche, una conceptual compression. L’arte stimola quella che lui chiama la «forbidden-fruit integration» la quale ci dà la possibilità di combinare, tenendole sepa-rate, cose diverse e che nella realtà sono inconciliabili o distanti fra lo-ro.

Kay Young e Jeffrey Saver forniscono un altro tassello allo spacca-to sulla neuroestetica letteraria che stiamo descrivendo13 scandaglian-do la «neurologia della narrazione» per cercare di spiegare la centrali-tà della narrazione nella cognizione umana e nel fondamento della propria soggettività. Essi si chiedono principalmente: «why does the “I” tell his or her self as a story?»14. Per i due ricercatori la narrazione è localizzata in una precisa rete neurale: «the amygdalo-hippocampal system, where episodic and autobiographic memories are initially ar-ranged; 2) the left peri-Sylvian region were language is formulated; and 3) the frontal cortices and their subcortical connections, where in-dividual entities and events are organized into real and fictional (ima-gined) temporal narrative frames»15. I due autori presentano anche dei casi di «dysnarrativia» nei quali dei soggetti, a causa di patologie ce-rebrali, perdono la capacità di poggiare il loro sé su una narrazione or-ganica.

In Poetry as right-hemispheric language16 Julie Kane smonta la concezione tradizionale riferita al linguaggio secondo cui l’emisfero sinistro ne sarebbe l’unico responsabile. Questa concezione è negata dalla circostanza che l’emisfero destro controlla una serie di funzioni che l’autrice definisce poetiche o letterarie. Durante la lettura di testi di saggistica sarebbe più attivo l’emisfero sinistro mentre nella lettura di testi letterari il suo opposto. La Kane cita studi sui danni

13 K. YOUNG, J.L. SAVER, The neurology of narrative, «SubStance», vol. 30, n.1-

2, 2001, pp. 72-84. 14 Ivi, p. 73. 15 Ivi, p. 75. 16 J. KANE, Poetry as right-hemispheric language, «Journal of consciousness

Studies», vol. 11, n. 5-6, 2004, pp. 21-59.

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all’emisfero destro che non permettono di comprendere il linguaggio metaforico o altre figure retoriche quali metonimia, allusione, personi-ficazione, ironia e onomatopea. Patologie all’emisfero destro non con-sentono altresì di costruire una storia. Secondo l’autrice l’emisfero si-nistro controllerebbe la dimensione denotativa del testo, quello destro le connotazioni. L’emisfero destro è predominante anche nelle culture primitive e nelle culture orali, nei bambini e negli analfabeti – siamo forse di fronte ad una spiegazione neuroscientifica del «poetica del fanciullino» di Pascoli? La Kane spiega l’alta occorrenza di malattie mentali negli scrittori proprio attraverso questa predominanza del lato destro.

Raymond Mar17 elenca gli studi neuroscientifici che hanno analiz-zato le facoltà impegnate nel rapporto con i testi letterari, integrandoli alle ricerche della psicologia cognitiva. Afferma – siamo già nel 2004 – che «the body of brain research specifically devoted to narrative is relatively young and by no means extensive. There exists, neverthe-less, enough research within the neuropsychology of narrative to con-struct an interesting, preliminary portrait of this fundamental human process»18. Per Mar la produzione e la comprensione di narrazioni so-no una parte importante della nostra esperienza che si differenzia dal nostro rapporto con i testi di saggistica anche in base alle operazioni intellettuali che implica. Sebbene la narrazione, come la saggistica, contenga una serie di eventi legati da nessi logico-causali, solo la pri-ma contempla esperienze in prima persona: leggere testi finzionali impone di assumere la prospettiva dei personaggi per capire le loro in-tenzioni. Mar cita degli studi che hanno localizzato la nostra attività neuronale durante l’attribuzione di stati mentali a personaggi19 e offre

17 R.A. MAR, The neuropsychology of narrative: Story comprehension, story production and their interrelation, «Neuropsicologia», vol. 42, 2004, pp. 1414-1434.

18 Ivi, p. 1415. 19 Ivi, pp. 1418-1419. Mar cita Fletcher ed altri (P.C. FLETCHER, F. HAPPÉ, U.

FRITH, S.C. BAKER, R.J. DOLAN, R.S.J. FRACKOWIAK , C.D. FRITH, Other minds in the brain: a functional imaging study of “theory of mind” in story comprehension, «Cognition», vol. 57, n. 2, 1995, pp. 109-128) i quali hanno dimostrato che durante la lettura di storie che prevedono la comprensione delle intenzioni dei personaggi (le cosiddette «theory of mind stories») si attiva una zona specifica del cervello, «la Brodman’s area 8».

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un’ottima ed esaustiva rassegna sulla mappa neurale attiva durante la produzione ed elaborazione di testi narrativi di cui vogliamo segnalare solo un esempio: gli studi neurologici evidenziano che il livello sintat-tico e il livello narrativo delle frasi non coinvolgono le stesse aree. Pa-zienti con danni nell’area di Broca hanno problemi a ordinare parole in frasi, ma non a comprendere strutture narrative, l’opposto di quanto avviene in pazienti con danni all’area prefrontale20. Mar propone di ef-fettuare studi contrastivi sull’attività neuronale durante la lettura di te-sti di finzione e di saggistica21 auspicando, in ogni caso, la collabora-zione fra studi cognitivi e studi neurologici.

Una strada verso la neuroestetica della letteratura si spiana anche Stanislas Dehaene nel suo Les neurones de la lecture22. Come la mag-gior parte degli studi citati le sue analisi non riguardano specificamen-te la letteratura, ma senza grossi sforzi se ne può riconoscere la ricadu-ta. Gli esami di risonanza magnetica funzionale hanno reso evidente che la parola scritta stimola la zona occipito-temporale sinistra del cervello23. Dopo aver mostrato i meccanismi neurali attivi durante la lettura e il loro venir meno nell’alexie (ovvero l’incapacità di leggere nonostante siano rimaste intatte le facoltà di scrivere, parlare e ricono-scere le lettere e le parole), Dehaene cerca le invarianti della lettura nelle diverse lingue del mondo. Queste invarianti esistono perché, a suo avviso, non è stato il cervello ad adattarsi alla lettura ma il contra-rio24. Come per Zeki che Dehaene cita, gli scrittori sono dei neurologi non professionisti che esplorano con le loro opere le potenzialità del cervello25. Dehaene, che si dimostra scettico nei confronti dei dati em-pirici dubbi di certa neuroestetica, esprime anche una tesi affascinante: secondo lui l’armonia che caratterizza le opere d’arte trova forse una spiegazione nelle aree cerebrali che essa stimola.

Che si stia andando in direzione di un dialogo interdisciplinare fra neuroscienze e scienze umane è percepito anche nella riflessione criti-ca più recente, come dimostra Cultural Turns. Neuorientierungen in

20 Ivi, p. 1425. 21 Ivi, p. 1429. 22 S. DEHAENE, Les neurones de la lecture, Odile Jacob, Paris 2007. 23 Ivi, p. 109. 24 Ivi, p. 394. 25 Ivi, p. 403.

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den Kulturwissenschaften di Doris Bachmann-Medick26, la quale, do-po aver passato in rassegna tutti i turns che hanno caratterizzato le Kulturwissenschaften e i Cultural Studies negli ultimi decenni, giunge al neurobiological turn che, secondo lei, rischia di provocare un salto paradigmatico cancellando gli antiquati e ormai logori steccati fra scienze culturali e naturali27. Superando le reciproche diffidenze – la Bachmann-Medick cita la voce critica di Jürgen Habermas – fra neu-roscienze e scienze culturali si punta a creare un «terzo spazio» in cui discutere delle modifiche alla concezione dell’uomo che le prime stanno inaugurando. Per l’autrice è evidente come le scienze naturali non possano privarsi della coscienza e della riflessione simbolica e linguistica delle scienze culturali.

Israel Rosenfield, che apre la sezione delle Premesse degli atti che stiamo presentando, è forse lo studioso più deputato a esprimersi in un simile consesso. Le sue pubblicazioni vanno da testi di saggistica co-me L’invenzione della memoria (1989), nel quale ha smontato le tesi prevalenti sul funzionamento del nostro cervello, dimostrando come fosse impensabile localizzare la memoria in una specifica area del cervello, a romanzi come Freud’s Megalomania (1990), un’opera sati-rica già tradotta in francese e tedesco ma non ancora in italiano – che ruota intorno ad un ipotetico inedito di Freud nel quale egli spiega come inganni e autoinganni siano al centro dell'esperienza umana28. Nel presente contributo Rosenfield forza il concetto di creatività che nella sua accezione non si limita all’ambito artistico ma denota quelle attività del cervello che ci permettono di raccogliere il nostro sapere sul mondo e di fondare la nostra percezione del sé. Il cervello è infatti ininterrottamente confrontato con un mondo caotico dal quale deve e-strarre il profilo di persone e oggetti e per stabilizzarlo esso «inventa» quello che percepiamo, ad esempio i colori che non esistono nella re-altà fisica. La «costanza cromatica» prodotta dal cervello stabilisce dei

26 D. BACHMANN-MEDICK, Cultural Turns. Neuorientierungen in den Kulturwis-

senschaften, Rowohlt, Reinbek 2006. 27 Ivi, p. 389. 28 Sul rapporto fra questo romanzo e il resto della produzione di Rosenfield cfr.

l’intervista a Israel Rosenfield in «Rivista di filologia cognitiva» 2007 (http://w3.uniroma1.it/cogfil/homepage.html).

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confini fra le cose, dona ordine. Nel contempo esso integra il sapere che ricava dall’ambiente nello schema corporeo che sta alla base del nostro sé. Rosenfield dimostra che la creatività non è uno stato ecce-zionale delle nostre attività mentali e fa vacillare una concezione sem-plicistica di mimesi. A sostegno delle sue tesi cita vari esempi: fra gli altri gli esperimenti ottici di Edwin Land e alcuni celebri casi neurolo-gici studiati da Joseph Capgras e Jules Dejerine.

L’altra parte delle Premesse è occupata dall’intervento di France-sco Ronzon. Quale antropologo egli è abituato a far dialogare i saperi e a illuminare le intersezioni che si creano ai loro margini. Ronzon constata che negli ultimi anni sotto le spinte delle neuroscienze, della psicologia cognitiva, dell’intelligenza artificiale, è stato creato un grande meccanismo di comprensione della comprensione umana. Le nostre modalità di apprendimento, le nostre percezioni, la coscienza, la nostra facoltà di ricordare, la capacità linguistica sono state scanda-gliate e, a volte, localizzate a livello cerebrale. La convergenza di inte-ressi non cela all’occhio scafato di Ronzon le differenti pratiche socia-li che sottendono discipline limitrofe come le neuroscienze, le scienze cognitive, la neuro-psicologia e le cosiddette computer-sciences. Nel corso del suo intervento passa in rassegna le tre posizioni filosofiche di taglio materialista relative al nesso tra mente e cervello evidenzian-do il significato che queste rivestono nello sviluppo e nell’articolazione del dialogo fra scienze umane e neuroscienze. Le divergenti posizioni sono incarnate dalla «teoria dell’identità dei tipi», dal «materialismo eliminazionista» e dalla «teoria dell’identità delle occorrenze». Invece di accogliere o respingere semplicemente un pun-to di vista, Ronzon presenta al lettore gli argomenti che possono esse-re addotti a favore o contro una certa modalità di discussione discipli-nare. Possiamo concordare con lui quando afferma che «lungi dal rap-presentare una fuga dalle responsabilità, questo tipo di apertura è in-fatti una strategia euristica particolarmente importante in tutti gli am-biti di confine – come quello relativo al dialogo tra scienze umane e neuroscienze – ove temi, metodi e prospettive non sono ancora stan-dard, sistematici e intersoggettivamente condivisi».

Con il contributo di Gabriele Fedrigo entriamo nel vivo del dialogo fra neuroscienze e letteratura, ambito che rientra, come abbiamo ricor-dato, nella neuroestetica, un termine pensato dal neurologo Semir Zeki

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per tracciare l’incontro fra la dimensione artistica e quella neurologi-ca. Fedrigo conia i concetti di «poetica neuronale» o «neuropoietica» che sono da intendere come attività neuronali non direttamente vinco-late a fattori omeostatici e riproduttivi e quindi aperte a forme di auto-esplorazione e di autosperimentazione di cui dà ampiamente testimo-nianza l’arte. In quest’ottica la poesia diventa spazio di esplorazione della potenzialità del linguaggio resa possibile dal cervello. Analoga-mente a Israel Rosenfield egli crede che il «fare poetico» non sia altro che l’espressione di una «poietica neuronale» che opera costantemente nella costruzione non solo di un mondo in cui riuscire a gestire stimoli esterni e interni, ma anche nella formazione di mondi immaginari in cui vengono fatti «saltare» proprio quei punti di riferimento e di orien-tamento così essenziali alla sopravvivenza. Fedrigo costruisce la sua riflessione su tre solidi pilastri: Paul Valéry, il pensiero neuroestetico contemporaneo e la riflessione di Charles Darwin. Paul Valéry, di cui Fedrigo è un affermato esperto, ha cercato di riflettere sulla poesia dal punto di vista del funzionamento del sistema nervoso e dell’azione del linguaggio sulla sensibilità di chi produce e di chi riceve il messaggio poetico. Ci basti la seguente citazione di Valéry secondo cui «le plus grand poète possibile c’est le système nerveux, l’inventeur de tout – mais plutôt le seul poète».

Fedrigo si confronta, mai in modo acritico, con la neuroestetica. Conformemente a Semir Zeki egli pensa che la letteratura sia una pro-duzione del cervello e uno studio meticoloso su di essa darà forti sug-gerimenti su come sia organizzato il sistema cerebrale. Per Zeki il mondo umano e tutta la sua storia sembrano diventare laboratori del funzionamento cerebrale e gli artisti trasformarsi, loro malgrado, in «neurologi».

L’ultimo interlocutore a distanza di Fedrigo è Charles Darwin29, il quale poneva l’accento su due aspetti particolarmente interessanti per il nostro discorso: l’immaginazione e la capacità del linguaggio di cre-are associazioni fra tutto ciò che è di dominio della vita mentale al di

29 Così Fedrigo si colloca nella scia di una rilettura darwiniana dell’estetica. Cfr. J. TOOBY, L. COSMIDES, Does beauty build adapted minds? Towards an evolutio-nary theory of aesthetics, fiction and the arts, «SubStance. A review of the theory and literary criticism», vol. 30, n. 1-2, 2001, pp. 6-27 e K. EIBL, Animal Poeta. Bau-steine der biologischen Kultur- und Literaturtheorie, Mentis, Paderborn 2004.

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fuori del linguaggio articolato (immagini, concetti, emozioni, senti-menti, azioni, ecc.) e il mondo delle parole e delle loro combinazioni. In entrambi i casi si tratta di attività cerebrali che non sono affatto di esclusiva pertinenza del poeta, benché di queste potenzialità il poeta, o una certa poesia, sembri proprio non poter fare a meno. Tale tesi è confermata dal «generatore di diversità» di Changeux; conseguente-mente «in questa prospettiva, quel che crea il poeta è un deragliamen-to, un battere strade inusitate, un volgersi alle capacità cerebromentali con l’intento di toccarne e sperimentarne appunto il possibile».

Le tradizionali concezioni della mimesi letteraria che all’unisono sostengono una distinzione tra finzione e realtà sono passate in rasse-gna nel contributo di Anatole Pierre Fuksas, il quale propone di scar-dinare questo dualismo attraverso una teoria ecologica della referenza narrativa: i romanzi come ogni altro genere di storie non rappresenta-no, secondo lui, il riflesso mimetico o l’alter ego della “realtà”, piutto-sto, tanto la realtà quanto la narrazione sono elaborazioni umane di stimoli che incentivano l’azione. Una siffatta teoria ecologica del ro-manzo è basata sull’idea che la comprensione di romanzi e storie attivi il sistema senso-motorio di ascoltatori e lettori proprio come fa la “re-altà reale”. Il pensiero ecologico che qui fa capolino considera l’organismo come parte integrante di un ambiente. Gibson in The eco-logical approach to visual perception (1979), che inaugura tale filone, spiega come le sensazioni siano colte dall’organismo direttamente in quanto affordances, un suo neologismo derivante da to afford che si-gnifica sia “fornire” o “presentare” che essere in grado di fare qualco-sa. Tale termine denota tutto quello che la natura ci mette a disposi-zione determinando delle opportunità di azione: una via è un’affordance di locomozione, un ostacolo un’affordance di collisio-ne. L’uomo può anche produrre delle affordances quali gli strumenti di lavoro che diventano una specie di estensione delle mani facendo così cadere il dualismo fra soggetto e oggetto. Le intuizioni di Gibson sono supportate da recenti scoperte nel campo delle neuroscienze co-me quelle di Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese. Questi studiosi hanno dimostrato che gli esseri umani e gli altri primati superiori comprendono le azioni compiute da altri mediante l’attivazione degli stessi circuiti neurali coinvolti nel corso dell’esecuzione delle azioni medesime. Secondo questa “semantica incorporata”, che è corroborata

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da vari esperimenti in ambito neuroscientifico e neurolinguistico, l’elaborazione di un discorso, vuoi letto vuoi ascoltato, suscita reazio-ni motorie collegate alla corrispondente esperienza dei fatti descritti, eventi percettivi o azioni. Fuksas conclude che nella prospettiva eco-logica si potrebbe definire «il senso di una parola come la gamma di affordances alle quali essa si riferisce».

Questo approccio sostiene che l’abilità di formulare e comprendere referenze di carattere linguistico dipende dalla capacità implicita di eseguire azioni e adottare comportamenti corrispondenti. Fuksas cita le tesi di Feldman e Narayanan secondo i quali tanto la formulazione che la comprensione della descrizione narrativa di azioni dipendono dall’interpretazione di esperienze incorporate corrispondenti, ovvero appropriate ai fatti descritti dal racconto. Di conseguenza, la cono-scenza collegata all’azione che è descritta nei testi narrativi è ricono-sciuta e compresa sulla base delle medesime rappresentazioni senso-motorie individuali che supportano l’esecuzione delle azioni corri-spondenti.

La semantica incorporata è in grado di spiegare sia la comprensione di azioni situate nel presente narrativo, che in un qualche passato o fu-turo, sia espressioni letterali, che metaforiche e traslate. Anche i co-siddetti “stati d’animo”, come emozioni e sentimenti, dipendono da meccanismi somatosensoriali che scaturiscono all’interno del sistema ecologico emergente dall’interazione di un individuo con l’ambiente in cui è immerso. Le emozioni rappresentano una risposta immediata alle sfide e alle opportunità che l’organismo si trova ad affrontare. Proprio per questo motivo romanzi e altri generi narrativi coinvolgono generalmente i lettori o gli ascoltatori sulla base di descrizioni di azio-ni intenzionali e sensate in quanto strettamente collegate a stati emoti-vi che si generano dall’interazione dei personaggi con l’ambiente in cui si trovano collocati.

Fuksas trae diverse conclusioni dalle sue analisi e formula delle stimolanti ipotesi di lavoro per la critica letteraria. Innanzi tutto rivalu-ta la descrizione all’interno della narrazione in quanto essa fornisce quello sfondo necessario, e soprattutto, quelle affordances, alle quali i personaggi e il lettore fanno riferimento. Il mondo fittizio della lettera-tura può essere considerato un archivio di descrizioni di «nicchie eco-logiche» in cui i protagonisti mettono alla prova i loro talenti. Nella

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storia della letteratura mondiale possiamo ammirare la grande varietà e la ricchezza delle prove e degli ambienti ai quali i protagonisti sono esposti. Un’altra riflessione che scaturisce da queste osservazioni ri-guarda la tradizione manoscritta medievale: finora non si è tenuto in debita considerazione il corpo del copista impegnato durante la lettura ad elaborare le referenze narrative secondo meccanismi di risonanza che chiamano in causa un’esperienza specifica e personale dei fatti narrati. Le variazioni testuali dovrebbero quindi essere lette come a-deguamenti di un testo alla peculiare esperienza del copista. Fuksas propone altresì di valutare contrastivamente i pattern di attività speci-fici di determinati personaggi comparando le esperienze sensoriali, le emozioni, i pensieri, i gesti ed i comportamenti che definiscono la loro presenza all’interno di diversi romanzi e tradizioni. Ciò permetterebbe altresì di indagare le ragioni del successo di certi romanzi e dei classi-ci che a detta di Fuksas dovrebbero essere ricercate nel giusto equili-brio fra la descrizione di azioni e le motivazioni che le guidano. Una siffatta teoria ecologica permetterebbe anche di spiegare il fascino u-niversale e imperituro esercitato dai testi narrativi sui lettori di ogni epoca.

Anna Cappellotto mostra nel suo intervento come la riflessione neuroestetica diventi urgente per non dire inaggirabile quando a ri-chiederla sono gli scrittori stessi. Durs Grünbein, probabilmente il più apprezzato poeta tedesco contemporaneo, fa del dialogo con le neuro-scienze la premessa e il fondamento della sua scrittura. Quale «neuro-romantico» egli crede che l’anima abbia cessato il suo servizio sia in quanto centro dell'identità umana sia come tema privilegiato della po-esia. Lo spazio abbandonato dall’anima è stato occupato dal cervello che, in quanto mai interamente conoscibile, diventa il nuovo simbolo dell’infinito. Grünbein non rifiuta la tradizione in toto, anzi la «zona grigia» in cui colloca la sua poesia è anche metafora di un dialogo in-cessante fra il presente e il passato, fra il poeta e la tradizione, tra l’io e il mondo. Attraverso il corpo e la fisiologia egli cerca di ridare una nuova linfa alla lingua e di ristabilire un nesso tra significante e signi-ficato. Non solo la physis e più precisamente il cervello, è ritenuto la fonte della poesia, ma per agire la poesia deve diventare traccia mne-stica, un engramma. A suo dire nella neurologia giace la poetica del futuro. Fra i molti esempi che Anna Cappellotto menziona per esporre

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questa poesia informata dalle neuroscienze basti la sua concezione della ricezione letteraria: deluso dall’inquietante distanza che divide la poesia dalle scienze naturali Grünbein ha fatto ricorso ad un concetto neurologico, il fattore N400, per determinare il rapporto fra lettore e testo letterario. Questo concetto è il frutto di indagini di laboratorio in cui, tramite elettroencefalogramma, si è misurata l’ampiezza della ca-rica elettrica cerebrale di un soggetto sia mentre esprimeva un enun-ciato semplice come «il gatto prende il topo» che quando recitava una frase semanticamente improbabile come «il gatto prende la luna». Il risultato dell’esperimento dimostrò che il potenziale impiegato duran-te l’enunciazione della seconda frase era nettamente maggiore. Grün-bein ne consegue che lo scopo del poeta è quello di cercare delle nuo-ve immagini, inusuali, che siano fautrici di una specifica attività cere-brale.

Massimo Salgaro tira le conseguenze dalle riflessioni neuroesteti-che scaturite dai contributi proposti dai relatori che lo hanno precedu-to. Secondo lui la letteratura non potrà più essere compresa come un’attività intellettuale staccata dalle altre attività del corpo, anzi, il lettore dovrà essere inteso come embodied, come un soggetto «incar-nato» le cui attività intellettuali e spirituali non siano dissociate dalla propria corporeità. Per dimostrarlo egli espone i portati di un gruppo di neuroscienziati di Parma che hanno individuato uno specifico grup-po di neuroni, i neuroni specchio, che si attivano quando si rilevano le azioni altrui. Da questi esperimenti si può apprendere che colui che osserva un’azione la simula nella sua mente e mette in moto quelle zone cerebrali attive durante lo svolgimento delle attività di cui sta prendendo atto. Tali neuroni hanno la funzione di favorire la com-prensione degli atti motori degli altri, poiché ogni volta che vediamo compiere un atto il nostro sistema motorio entra in risonanza con l’organismo osservato consentendoci di riconoscere l’aspetto inten-zionale dei movimenti osservati.

La teoria della ricezione letteraria della scuola di Costanza e gli studi sui neuroni specchio presentano forti analogie, innanzi tutto gra-zie alla comune radice fenomenologica: sia il rapporto fra oggetto e soggetto, sia quello fra testo e lettore sono basati sulla consonanza in-tenzionale. Tali analogie trovano un radicamento in recentissimi studi sperimentali che confermano l’attivazione dei neuroni specchio duran-

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te la lettura. Salgaro cita esperimenti neurolinguistici e di psicologia cognitiva i quali spingono a riconsiderare dei concetti della critica let-teraria quali l’empatia, interpretandola come «intenzionalità condivi-sa» e l’identificazione considerandola una «simulazione incarnata». Ma le novità non riguardano solo il lettore: l’immaginario che il testo evoca non dovrà più essere inteso come «astratto, amodale e arbitra-rio» poiché la «comprensione è simulazione» di un evento ed essa comporta un’attivazione senso-motoria. Da ciò si desume che «quan-do qualcuno legge non dà le spalle al mondo reale – non c’è Weltver-gessenheit come sostiene Roman Ingarden – ma costruisce un mondo che inizia ad abitare da subito».

Chi si attende da questo volume teorie fatte e finite o metodologie da applicare al testo rimarrà deluso e, per un certo verso, si sbaglie-rebbe. D’altronde lo dichiariamo già nel titolo: non pensiamo di aver raggiunto un obiettivo, siamo in procinto di muoverci, stiamo andando verso la neuroestetica della letteratura. Visto lo stato ancora fram-mentario e lacunoso delle attuali conoscenze sul cervello, per ora chiediamo di essere valutati per le nostre intenzioni, la prima e la più cogente è quella di inserire e considerare il nostro rapporto con la let-teratura all’interno della nostra fisiologia e della nostra storia evoluti-va. Il cammino qui intrapreso verso la neuroestetica mira soprattutto ad integrare la letteratura nella nostra quotidianità per renderla più vi-cina, concreta, viva; non pretendiamo certo che la scienza fagociti la letteratura e ancor meno la critica letteraria.

Ci soccorre l’ingenuità di un ventiseienne americano che avendo lavorato per alcuni mesi in un prestigioso laboratorio di neuroscienze e essendosi reso conto di «non essere abbastanza in gamba» per la scienza, si è dato alla scrittura per formulare ex negativo le condizioni per un incontro fra la letteratura e le neuroscienze: Purtroppo la nostra cultura contemporanea aderisce a una definizione molto angusta di verità: se qualcosa non può essere misurata o calcolata, allora non può dirsi vera. […] Prendiamo la mente umana: gli scienziati descrivono il nostro cervello in base ai suoi componenti fisici; in questa prospettiva, non siamo che un telaio di cellule elettriche e spazi sinaptici. Quel che la scienza dimentica è che non è così che noi facciamo esperienza del mondo (noi ci sentiamo come lo spettro, non come la mac-china). È paradossale ma vero: l’unica realtà che la scienza non può ridurre è l’unica che mai conosceremo. Ecco perché abbiamo bisogno dell’arte. Esprimendo la nostra

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esperienza reale, l’artista ci ricorda che la scienza è incompleta, che nessun tipo di mappa spiegherà mai l’immaterialità della nostra coscienza. […] Sappiamo abbas-tanza del cervello per sapere che il suo mistero rimarrà sempre tale30.

30 J. LEHRER, op.cit., p. XIV.

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Israel Rosenfield

How the Brain Makes Sense or Our Chaotic Sensory Worlds by Creating Colors, Forms and our Sense of Ourselves

Our senses are confronted by a chaotic, constantly changing world that has no labels and the brain must make sense of that chaos; and in this chaotic world our emotions are essential to our ability to recog-nize objects and people.

And while the search for an “identity”, the constant and subtle shifts from one personality to another in our encounters with each oth-er are characteristic of all of us, neurological breakdowns can lead to syndromes of “multiple personalities” – cases in which the change from one personality to another is radical, with a loss of memory about one’s previous personality. Indeed, multiple personalities have too few personalities, unlike most of us. What we might call the syn-drome of Dr. Jekyl and Mr. Hyde, involves not only a change of per-sonality, but a complete reworking of one’s memories and sense of self and of one’s sense of one’s own body. Involuntary changes of personality that are of neurological origin are accompanied by radical changes in our sense of self. And we should add that the neurological loss of an ability to have emotional reactions, can make us believe that our most intimate family and friends are imposters, as the French Neu-rologist Joseph Capgras first described in 1923. Capgras’s patient thought her husband and children were “sosies” – fraudulent copies of their real selves.

Our sensory environments are very messy, and the brain must give these environments a sense. Our visual sensations are unorganized,

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constantly changing and unlabelled. What the brain must do is some-how stabilize this environment, make it into something coherent that the individual can “understand” and use. And the way the brain does this is by “inventing” what we perceive. Artists have always known, at least intuitively, that the brain makes possible the creation of our visu-al worlds, since representational art uses materials on a flat surface to create the illusion of faces, objects, and scenes. Hence what the brain does, is transform visual and other stimuli into a series of inventions that are what we “see”, “hear” and “feel” when we look around us.

Indeed we might argue that it is the need to create a coherent envi-ronment out of the chaotic stimuli, that is one of the brain’s primary activities. For example, there are no colors in the world, but many dif-ferent (colorless) waves; our visual worlds are in fact a constantly changing environment of lightness and darkness. If we were directly aware of the light hitting our retinas, we would be very disturbed by the instability of our visual images. It would resemble strobe lights going on and off in a grey world. Normally, our visual worlds are sta-bilized because the brain simplifies the visual environment by com-paring the various amounts of lightness and darkness in three different wavelengths of light and this comparison gives rise to what we perce-ive as color.

In other words, the brain creates a sense of “color constancy”: no matter what the lighting conditions – bright sunlight, filtered sunlight, or artificial lighting – colors remain more or less the same. This re-markable ability is not fully understood, but depends, in part, on the brain’s comparing the amount of light reflected in the long (red), mid-dle (green), and short (blue) frequencies coming from different parts of a given scene. In a famous experiment performed by Edwin Land, the inventor of the Polaroid camera, Land took two black and white photos of a particular scene. One photo was taken with a red filter and the other with a green filter. He then projected slides of the photos, superimposing them, using only a red filter in front of the projector with the photo taken with a red filter. The original colors of the scene were visible, even though only a red filter was used. Since the black and white photos had been taken with different filters (red and green) – in other words in different frequencies of light – the distribution of light and darkness in each photo was different. Red apples will appear

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light in a black and white photo taken with a red filter (the red light is absorbed by the filter), whereas they will appear dark in a photo taken with a green filter (the light can pass through the filter). The brain compares the dark/light ratios in the different frequencies of light to which the eye is sensitive (essentially the red, green and blue wave-lengths of light) and it creates colors from these comparisons. There-fore by creating colors the visual environment is stabilized. Further-more, since colors are created when the brain compares the ratios of light frequencies reflected by neighboring surfaces, colors establish borders; even in chaotic and turbulent paintings there are always un-avoidable distinctions from one shade of color to another. Brain injury can destroy the ability of the brain to compare the reflectance of light in different frequencies, and consequently individuals with damage to the area of the brain where the comparisons are made will see the world as constantly changing levels of grey light. Along with the de-struction of the ability to see colors, is the loss of any recollection of colors, or even a sense of what colors are. In other words, knowledge and recollection depends on the brain being able to carry out the processes that create our awareness of that knowledge (in this case our knowledge of what color is). The way colors are created is the model for how the brain creates knowledge.

And what of signs and symbols that are so dependent on context and that become ornaments when they are out of their original con-text? A famous neurological study illustrates the problem.

In the 1890s the French neurologist Jules Dejerine described what has become a classic example of a neurological breakdown following a cerebral accident. Dejerine’s patient, Oscar, one day suddenly rea-lized that he could not read a single word, though he could write (without being able to read what he had written) and had not lost any powers of speech or recognition of objects, people and places. Oscar thought he had a problem with his eyes, but when he visited an opto-metrist he realized that he could see letters and words, since he could retrace them stroke by stroke, but he was unable to make name the let-ters or read words. Curiously he could read single digit numbers – 1, 2, 3, 4, … – but was unable to read 112 as “one hundred and twelve”. He could only read, “one, one, two”. Instead of naming letters, he compared them to animals or objects: thus Z he compared to a serpent,

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A to an easel and P to a buckle. The use of such images suggested to Dejerine that his patient’s visual centers had been “disconnected” from the linguistic centers of the brain, as if there were a wire that connected the visual and language areas of the brain had been broken. He therefore argued that his patient retained to ability to “draw” but that he couldn’t make any linguistic sense out of the drawings. Oscar’s brain can no longer make the correlations necessary for reading and understanding letters; nor can his brain carry out an analogous set of procedures to create the awareness of color in part of his visual field. Ornamentation, too, is a creation of the brain. What is interesting about Dejerine’s case is that it suggests how, from a neurological point of view, symbols (context dependent) are profoundly different from non-symbolic images (relatively context independent).

So too our sense of self, our notions of who we are and who others are, are creations of the brain. I have mentioned we are normally many different, constantly changing personalities. We understand the world through our understanding of ourself – or our many selves. All of these personalities are contained, held together, within our body schema. A change of body schema gives rise to a change of personali-ty; a breakdown of the sense of body, gives rise to a breakdown of the sense of self and with it a loss of knowledge of our surroundings. The fragility of this understanding (our knowledge of ourselves and the world around us) and the relation between body schema and our knowing who are was shown by an experiment performed in the 1960s. Subjects were asked to introduce a gloved hand into a box. They were told to observe their hand but they were not informed that another gloved had been introduced into the box just above theirs. The gloved hand they were actually observing was that of the experimen-ter, not their own. They were then told to make certain movements (“make a fist, now open it” etc.) with their hand. The experimenter made precisely these movements and the subjects believed they were watching their own hands. From time to time, the experimenter failed to follow the commands and the subject saw his gloved hand moving in a way that was different from what he was actually doing. For ex-ample, if he had been told to make a fist, the experimenter spread his hand open. About thirty percent of the subjects believed the hand they were observing was their own and they felt they were being controlled

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by an external force. They also felt considerable pain when their hand “failed” to carry out the experimenter’s commands.

More recently the experiment was performed on patients with symptoms of schizophrenia: 80% of these patients complained their hands were being controlled by an outside force.

But what is the source of the pain the subjects feel when they ob-serve the experimenter’s hand disobeying the commands? It appears to be related to the incoherence between what is being observed (a hand spreading wide open, for example) and the action the brain be-lieves it is performing (making a fist). When what the brain “sees” and what it “feels” it is doing appear to be identical, there is no pain, no feeling an outside force is controlling one’s movements.

In fact, our sense of self is a consequence of constant change: this dynamic nature of the self is an integration of an immediate past and momentary present – what Henri Bergson called le souvenir du present (1908). The brain integrates past and present into a new form – conscious knowledge and awareness of self, just as it creates colors from the constantly changing reflectance of different frequencies of light.