Versione Finale con frontespizio

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” Corso di laurea di Studi Internazionali Individualismo, individualizzazione e mutamento sociale: un approccio storico-sociologico Tesi in Sociologia Relatore Prof. Marco Bontempi Candidato Matteo Rezzonico Anno Accademico 2006/2007

Transcript of Versione Finale con frontespizio

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE

Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”

Corso di laurea di Studi Internazionali

Individualismo, individualizzazione e mutamento sociale: un approccio storico-sociologico

Tesi in Sociologia

Relatore

Prof. Marco Bontempi

Candidato

Matteo Rezzonico

Anno Accademico 2006/2007

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INDICE

INTRODUZIONE p. 4

I. QUESTIONI TERMINOLOGICHE 11

1. ‘Individuo’, ‘individualizzazione’ e ‘individualismo’ 11

2. L’individualismo: aspetti storico-semantici 14

3. Una possibile tassonomia dell’individualismo 16

4. Il carattere problematico del rapporto tra individuo e società 18

II. INDIVIDUALIZZAZIONE E MUTAMENTO SOCIALE NELLE SOCIETÀ PREMODERNE 24

1. Omogeneità, differenziazione ed individualizzazione: il problema delle ‘società semplici’ 24

2. Elementi di individualizzazione e struttura sociale in epoca classica 29

3. Uguaglianza e interiorità nel concetto cristiano di individuo 34

4. L’individualizzazione come possibilità di ceto nello sviluppo della società stratificata medievale 36

5. Individualizzazione e sviluppo urbano come prodromi della modernità 40

6. Individualizzazione ‘profana’ e individualizzazione religiosa tra Rinascimento e Riforma 43

III. FORME DELL’INDIVIDUALISMO 51

1. L’individualismo ‘epistemologico’ 51

2. L’individualismo ‘politico’ 52

3. L’individualismo ‘economico’ 57

4. Il nesso tra libertà e uguaglianza e l’individualismo ‘quantitativo’ 59

3

IV. INDIVIDUALISMO E SOCIETÀ BORGHESE OTTOCENTESCA 67

1. Individualizzazione e stratificazione sociale nello sviluppo della borghesia 67

2. L’individualismo ‘qualitativo’ 75

3. Gli Stati Uniti e l’individualismo come valore fondante della nazione 77

V. IL XX SECOLO: ECLISSI DELL’INDIVIDUALISMO, TRIONFO DELL’INDIVIDUALIZZAZIONE? 81

1. Forme metropolitane dell’individualizzazione e società di massa 81

2. La categoria di individuo nelle avanguardie artistiche 86

3. L’asservimento dell’individualizzazione alla sfera politica nei regimi totalitari 89

VI. LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ NEL MONDO CONTEMPORANEO 95

1. L’identità come problema 95

2. Ricerca e costruzione dell’identità 97

3. Una distinzione importante: identità-Io e identità-Noi 100

CONCLUSIONE 105

1. L’individualizzazione: un processo irreversibile? 106

2. I possibili futuri campi di battaglia dell’individualismo 107

BIBLIOGRAFIA 111

INDICE DEI NOMI 116

4

INTRODUZIONE

L’individualismo, inteso come l’insieme delle dottrine filosofico-

culturali che antepongono l’individuo alla società, e l’individualizzazione,

intesa come il processo sociale che ha portato alla graduale

emancipazione dei singoli individui dai propri gruppi d’appartenenza,

sono due concetti di cui è stata a lungo sottovalutata la portata storica.

Mentre altre schematizzazioni e divisioni, come quella tra destra e

sinistra, tra religiosi e laici, tra progressisti e conservatori, hanno avuto

grande successo e diffusione sia tra gli studiosi che in seno all’opinione

pubblica, la distinzione tra individualisti e olisti, anche se non meno

rilevante delle precedenti in fatto di conseguenze sociali provocate, non

ha avuto la stessa fortuna. La scarsa popolarità riscossa da questa

rappresentazione sembra dovuta a due ragioni principali. La prima

consiste nell’eccessiva eterogeneità delle teorie e delle dottrine che si

definiscono – o vengono definite – individualiste. Tale varietà ha privato

il termine ‘individualismo’ della sua forza descrittiva, rendendolo vago,

ambiguo e inadatto ad un uso specifico in campo scientifico. La seconda

ragione sta invece nella trasversalità della divisione tra individualisti e

olisti sia rispetto agli schieramenti politici e ai partiti stessi, sia

relativamente ad altre distinzioni come quella tra religiosi e laici,

rendendo molto più difficile la precisa delimitazione dei due schieramenti

e la loro schematizzazione attraverso l’attribuzione di precisi punti di

riferimento ‘istituzionali’ alle parti avverse.

5

Nonostante questa difficoltà ad affermarsi esplicitamente nel dibattito

politico e culturale, è certo che l’individualismo e l’individualizzazione

abbiano visto uno sviluppo costante negli ultimi 2500 anni ed abbiano

avuto un forte impatto sulle strutture sociali e sulla vita quotidiana di un

enorme numero di persone.

Alla luce di queste considerazioni, per restituire al termine

‘individualismo’ un significato preciso e per meglio comprendere lo

sviluppo del processo di individualizzazione attraverso i secoli, diviene

necessario studiare l’evoluzione di tali fenomeni.

Per tali motivi, questo lavoro si propone di offrire una panoramica

della loro storia, sebbene inevitabilmente schematica ed incompleta data

l’ampiezza dell’arco temporale preso in considerazione. Al fine di non

generare confusione, si cercherà di mantenere ben distinti i due oggetti in

questione, conducendo la ricerca su due binari paralleli: quello

dell’individualismo, attinente prevalentemente alla storia delle idee, e

quello dell’individualizzazione, riguardante principalmente il mutamento

sociale. Nonostante questa netta distinzione però, si proverà a mettere in

evidenza l’intricata e complessa rete di relazioni, interdipendenze e

sovrapposizioni che intercorrono tra i due fenomeni.

La ricerca si snoda attraverso un percorso scandito da alcune tappe

apparse particolarmente importanti per la storia dell’individualismo e

dell’individualizzazione. Si tratta di una scelta consapevole di

semplificazione della realtà, che se da una parte rischia di compromettere

la percezione della lentezza e della gradualità dei mutamenti, dall’altra

consente una schematizzazione che può essere utile ai fini

dell’esposizione.

Prima di affrontare la storia dei fenomeni in questione, è però apparsa

opportuna una riflessione specifica sul significato da attribuire ai due

termini, con un’attenzione particolare per l’individualismo in quanto più

6

vago, cercando di ricostruire la sua etimologia, l’ambiente sociale e

culturale all’interno del quale il termine è nato e si è sviluppato, e le

differenti connotazioni che esso ha assunto nelle diverse realtà nazionali

in cui è stato introdotto, andando da quella fortemente negativa che ha

tuttora in Francia a quella idealizzante degli Stati Uniti.

In questa prospettiva appare significativo il tentativo di Steven Lukes

di scomporre le dottrine individualiste in unidici ‘idee-base’, in quanto

ciò consente di articolare in modo efficace l’impostazione dell’intero

lavoro e la scansione del percorso storico proposto.

Tale percorso – che si sviluppa nei capitoli che vanno dal secondo al

quinto – è strutturato attorno alla distinzione fodamentale, e

imprescindibile per qualunque ricostruzione storico-sociologica, tra le

società premoderne e quelle moderne. L’importanza di questo passaggio è

legata alla stretta relazione che intrattiene con la transizione da società in

cui prevaleva l’olismo – nel senso che Louis Dumont ha dato a questo

termine – ad altre in cui sono i principi individualisti ad imporsi.

All’interno delle due macro-aree temporali indicate sono state attuate

delle ulteriori suddivisioni, scegliendo come ‘paletti’ non

necessariamente eventi storici fondamentali quali guerre, rivoluzioni,

crolli d’imperi o scoperte geografiche, ma gli avvenimenti e lo sviluppo

delle correnti culturali che hanno determinato un’accelerazione del

processo di individualizzazione o l’introduzione di nuove forme di

individualismo.

Per quanto riguarda il mondo premoderno, il primo snodo

fondamentale è individuabile in quello che Karl Jaspers ha definito

‘periodo assiale’ e che in Occidente è coinciso con la comparsa della

figura di Socrate ad Atene. L’importanza della tesi formulata da questo

filosofo è legata, dal nostro punto di vista, alla concettualizzazione

dell’idea di coscienza individuale, che influenzerà profondamente il

7

pensiero dei secoli successivi. Con l’avvento del cristianesimo poi, a

questo concetto si aggiunse il riconoscimento di pari dignità tutti gli

esseri umani, dall’imperatore allo schiavo. Questi due presupposti

saranno fondamentali per il successivo sviluppo del processo di

individualizzazione, ma la loro incubazione sarà molto lunga e nel corso

del Medioevo l’applicazione concreta del concetto di pari dignità esteso

ad ogni individuo verrà frenata dalla presenza di stratificazioni sociali

rigide e ascrittive, in cui il ceto nobiliare veniva considerato moralmente

superiore agli altri, anche se la nascita delle prime città moderne riuscirà

ad indebolire questa struttura sociale, incidendo sul processo di

individualizzazione, e l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento

porranno la basi per i successivi sviluppi dell’individualismo.

Il vero punto di svolta sembra però individuabile nella Riforma

protestante e nel suo individualismo religioso, che cercava di favorire

un’individualizzazione del rapporto con Dio, creando una profonda

frattura rispetto alle società premoderne. Appare importante sottolineare

come tutto questo abbia avuto rilevanti effetti anche sugli stati che

rimasero cattolici, e abbia favorito la reazione culturale sfociata nella

Controriforma, che seppur in modo meno dirompente promuoveva

cambiamenti in buona parte ispirati agli stessi principi dei riformatori.

Partendo da questa prospettiva, è apparso opportuno porre l’accento

sui forti legami che Weber riteneva sussistessero tra la nuova etica

protestante e la diffusione del sistema economico capitalistico,

evidenziandone le importanti conseguenze sul piano

dell’individualizzazione.

Mentre sul piano religioso l’autonomia individuale venne affermata

per mezzo della Riforma, sul piano filosofico vide la luce grazie a

Cartesio e al cosiddetto individualismo epistemologico, che induceva a

8

cercare in se stessi le fondamenta sulle quali costruire tutte le proprie

certezze.

Questi profondi cambiamenti posero le basi per l’emergere di nuove

forme d’individualismo, che sancirono il definitivo passaggio alla

modernità in questo ambito. Nacquero così l’individualismo politico,

fondato sul contrattualismo lockiano e sul giusnaturalismo, e

l’individualismo economico, che faceva riferimento alla teoria degli

economisti liberali classici di cui il più celebre interprete fu Adam Smith.

L’insieme di queste dottrine è stato definito ‘individualismo quantitativo’,

perché mirava ad un aumento quantitativo delle libertà individuali,

cercando allo stesso tempo di promuovere l’idea di uguaglianza. I due

ideali non venivano allora percepiti come contrastanti – a differenza di

quanto avverrà in seguito – perché la teorizzazione di un individuo

astratto e di un’essenza individuale uguale in tutti gli uomini riuscirono a

far passare in secondo piano le contraddizioni insite in questo binomio.

Con l’avvento della Rivoluzione francese però esse divennero manifeste,

soprattutto nel periodo del Terrore rivoluzionario, in cui un’eccessiva

enfasi posta sull’uguaglianza soffocò ogni forma di libertà individuale.

Nonostante ciò, le Rivoluzioni in Francia e in America ebbero un ruolo

importante nell’accelerazione del processo di individualizzazione. Infatti,

questi sconvolgimenti sociali distrussero – o comunque indebolirono

fortemente – i precedenti vincoli comunitari premoderni, sostituendoli

con forme d’appartenenza più impersonali e allargate e affrancando gli

individui dallo stretto controllo sociale a cui erano precedentemente

sottoposti.

Con l’avvento del XIX secolo e della società borghese,

l’individualismo si sviluppò in diverse direzioni, producendo persino

dottrine tra loro contrastanti. L’individualismo di stampo liberale,

direttamente discendente da quello settecentesco, è stato così affiancato

9

da almeno altre tre correnti rilevanti. La prima cercava di combinare

individualismo e socialismo, e si differenziava da quella liberale per il

fatto di aver collocato il punto l’equilibrio tra libertà e uguaglianza più

verso quest’ultima. La seconda era costituita dai cosiddetti individualisti

radicali, e promuoveva un individualismo di tipo asociale e sovversivo,

opponendosi con decisione all’individualismo economico in quanto

l’aumento della dipendenza reciproca legato a quello della divisione del

lavoro non liberava gli individui, ma anzi creava nuovi vincoli. La terza

ed ultima nasceva invece dal Romanticismo tedesco ed era incentrata

sull’importanza della diversità e dell’unicità di ogni individuo e

dell’autorealizzazione personale.

Sul piano dell’individualizzazione invece, fu principalmente la nascita

dei ‘laboratori sociali’ rappresentati dalle nuove realtà metropolitane ad

imprimere una forte accelerazione al processo, dovuta principalmente –

come ha osservato Simmel – alla spersonalizzazione dei rapporti causata

dal passaggio ad un sistema che produceva per il mercato e dall’uso del

denaro come mezzo di scambio e come termine di paragone universale

con cui misurare persino le relazioni umane. Nel corso del XX secolo,

questa tendenza all’incremento dell’individualizzazione subì svariati

tentativi di arresto, di controllo o di subordinazione alla sfera politica,

soprattutto da parte di particolari correnti culturali – come il modernismo

– e dei regimi totalitari sia di destra che di sinistra. Solo con l’avvento del

secondo dopoguerra l’individualizzazione venne accettata e anzi

incoraggiata in tutto l’Occidente.

Al termine di questa ricostruzione storica, è apparso importante

accennare ad alcuni problemi delle società contemporanee legati allo

sviluppo del processo di individualizzazione, e si è scelto di farlo

attraverso alcune considerazioni sulla questione dell’identità, intesa come

punto di vista differente da cui guardare all’individualizzazione. Nel

10

mondo premoderno l’identità era qualcosa di scontato, di determinato alla

nascita e di attribuito dall’esterno. Con il passaggio alla modernità invece,

essa è diventata il prodotto di un insieme di scelte individuali riguardanti

ogni ambito della propria vita: chi sposare, che mestiere intraprendere,

che partito votare, che sport praticare, che religione professare. Se da una

parte quest’incremento dell’autonomia individuale ha permesso una più

soddisfacente realizzazione delle aspirazioni individuali, dall’altra ha

trasformato l’identità in un compito a cui non è possibile sottrarsi ed ha

posto il problema tutto moderno della sua costruzione, con l’ansia e

l’insicurezza diffuse che questo comporta.

Infine, nelle pagine conclusive di questo lavoro, sono state raccolte

alcune brevi considerazioni generali e si è cercato di immaginare alcuni

dei possibili sviluppi futuri delle dottrine individualiste e del processo di

individualizzazione.

11

CAPITOLO I

QUESTIONI TERMINOLOGICHE

1. ‘Individuo’, ‘individualizzazione’ e ‘individualismo’

Prima di provare a ricostruire – sebbene in modo selettivo ed

inevitabilmente incompleto – alcuni tratti della storia dell’individualismo

e dell’individualizzazione, può essere utile focalizzare l’attenzione sul

significato esatto da attribuire ad alcuni termini e sul percorso storico che

ha portato a tale risultato, cercando di evidenziare anche la rilevanza

assunta in questo senso dal dibattito filosofico e politico scatenatosi

attorno ad essi.

I termini ‘individualismo’ e ‘individualizzazione’ discendono dalla

radice comune ‘individuo’. Da un punto di vista etimologico, il sostantivo

‘individuum’ è il risultato della somma di un ‘in-’ privativo e di ‘divido’,

e sta quindi semplicemente ad indicare ciò che non può essere diviso.

Tale termine compare solo nel Medioevo, e la sua origine è legata alla

traduzione letterale della parola greca ‘àtomos’, anch’essa formata da un

“a-“ privativo e dal verbo “tèmno”, che nel pensiero filosofico di

Democrito definiva la materia ultima e indivisibile di cui erano composti

tutti gli elementi del mondo fisico. In seguito, il termine assunse

gradualmente un significato più ampio. Come osserva Norbert Elias, “la

parola individuum, collegata a problemi di logica formale, venne usata

per esprimere il caso singolo di una specie, e non soltanto umana: di

12

qualsiasi specie” [corsivo mio]1. Nel corso del Rinascimento e dopo la

Riforma protestante, grazie alla crescente autonomia dei singoli rispetto

ai propri gruppi d’appartenenza, ‘individuum’ cominciò ad indicare in

modo specifico gli esseri umani nella loro singolarità ed unicità, in modo

da distinguere questa loro sfaccettatura rispetto all’essere parte di

un’entità comunitaria superindividuale. A tale stadio i due aspetti non

venivano ancora percepiti come contrastanti ed inconciliabili. Fu solo nel

XIX secolo, a causa degli sconvolgimenti sociali portati dalla

Rivoluzione francese, del proliferare di nuove dottrine politiche

inneggianti alla superiorità e all’autonomia dell’individuo nei confronti

della comunità d’appartenenza, e dell’incredibile accelerazione subita dal

processo di individualizzazione, che vennero coniati “neologismi come

‘individualismo’ da un lato e, dall’altro, come ‘socialismo’ e

‘collettivismo’, che hanno largamente contribuito in epoca più recente

all’impiego dei concetti di ‘individuo’ e di ‘società’, di ‘individuale’ e di

‘sociale’ come coppie di opposti”2.

A questo punto è necessario compiere una netta distinzione tra due

termini che, come già accennato, rappresenteranno il principale filo

conduttore nello sviluppo dei prossimi capitoli e che troppo spesso

vengono confusi o usati indistintamente.

Da una parte abbiamo l’individualizzazione, intesa come processo

sociale e culturale consistente essenzialmente nella tendenza

dell’individuo “a svincolarsi sempre più dal controllo rigido e coercitivo

esercitato su di esso da parte di istituzioni familiari e parentali, educative,

religiose, politico-istituzionali, comunicative”3. Questo fenomeno può

essere analizzato adottando una prospettiva di studio di carattere

1 Norbert Elias, La società degli individui, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 183. 2 Ivi, pp. 184-185. 3 Andrea Millefiorini, Individualismo e società di massa – Dal XIX secolo agli inizi del XXI, Roma, Carocci, 2005, p. 14.

13

prevalentemente sociologico, e riguarda la conquista concreta di una

maggiore libertà individuale da parte dei cittadini.

Dall’altra parte c’è invece l’individualismo, considerato generalmente

una dottrina filosofica, e nelle sue forme più articolate anche

un’ideologia, come testimoniato dal tipico suffisso ‘-ismo’. In questo

caso le possibili prospettive di studio sono molteplici: si può passare da

un approccio filosofico ad uno relativo alla storia delle idee e da uno che

prende le mosse dalla storia delle dottrine politiche ad uno – come nel

nostro caso – sociologico. In realtà però la complessità di tale fenomeno

non permette di analizzarlo da un punto di vista unico, fingendo che gli

altri non esistano, ma esige un costante sforzo di sintesi degli elementi

principali di ogni ambito. Se stessimo dipingendo un paesaggio e

volessimo metterne in evidenza gli elementi dinamici, come gli alberi

piegati dal vento o l’infrangersi delle onde su uno scoglio, non potremmo

per questo tralasciare del tutto di disegnare le statiche rocce o lo sfondo

immobile delle colline; se lo facessimo, il risultato finale apparirebbe

distorto. Sarebbe invece possibile dare maggiore risalto a determinati

aspetti piuttosto che ad altri, ed è ciò che si è tentato di fare con

l’individualismo, ponendo l’accento sulla prospettiva sociologica, ma

cercando di mostrarne anche i legami multidirezionali con gli altri ambiti

di studio.

Appare inoltre importante sottolineare come individualismo e

individualizzazione non siano impermeabili alle influenze reciproche, ma

anzi si compenetrino e si condizionino vicendevolmente. Le dottrine

individualiste sono state uno dei principali motori di fenomeni come la

Rivoluzione francese, che hanno impresso una netta accelerazione al

processo di individualizzazione. Quest’ultimo invece, essendo la

realizzazione concreta di quanto predicato dall’individualismo, ne ha

incoraggiato i sostenitori ad immaginare costantemente nuovi territori da

14

conquistare. Ad esempio, come ha magistralmente mostrato Weber, senza

l’avvento di una maggiore individualizzazione in campo religioso per

mezzo delle innovazioni introdotte con la Riforma protestante,

l’estensione dell’ideologia individualista all’economia e la sua diffusione

sarebbero state molto più lente e difficoltose, rallentandone anche la

trasformazione in fenomeno socialmente rilevante attraverso lo sviluppo

del capitalismo moderno. Inoltre, secondo alcuni autori, come Elias,

l’individualismo non è un’idea innata negli uomini, ma “è l’espressione

del modo in cui l’individuo è stato storicamente plasmato in modo

peculiare da un intreccio di rapporti, da una forma di convivenza con gli

altri che ha una struttura del tutto specifica”4. In sostanza, secondo lo

studioso tedesco, l’individualismo è stato generato

dall’individualizzazione. Questa forte interdipendenza – come osserva

Alain Laurent – costringe chiunque voglia occuparsi di uno dei due temi

ad accostarsi anche all’altro.

2. L’individualismo: aspetti storico-semantici

Secondo Laurent, la dottrina individualista poggia essenzialmente

sull’idea secondo cui “l’umanità non è composta di insiemi sociali

(nazioni, classi,…) ma di individui, di esseri viventi, indivisibili e

irriducibili gli uni agli altri, singoli nel sentire, agire e pensare. […]

L’uomo non è dunque la semplice cellula di un organismo sociale […] o

la parte di un tutto”5, ma un’entità dotata di una propria autonomia.

Portando alle sue naturali conseguenze quest’affermazione, si può

dire che l’ideologia individualista si contraddistingue per la sua volontà di

anteporre gli interessi e le esigenze individuali a quelli collettivi, ed è

4 Norbert Elias, op. cit., p. 39. 5 Alain Laurent, Storia dell’individualismo, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 16.

15

diamentralmente opposta all’olismo, inteso come ideologia che mira a far

prevalere gli interessi e le esigenze sociali su quelli dei singoli.

Il termine ‘individualismo’ è stato coniato in Francia agli inizi

dell’Ottocento dagli oppositori dell’evoluzione sociale individualizzante

seguita allo scoppio della Rivoluzione francese. Il primo ad utilizzarlo fu

il controrivoluzionario Joseph de Maistre, intendendo con esso definire

quella che percepiva come la pericolosa e dilagante tendenza

all’atomizzazione e alla frammentazione sociale. Nei decenni successivi il

termine divenne di uso comune, soprattutto negli ambienti tradizionalisti

e conservatori, e dati i suoi diffusori non stupisce che fosse connotato

negativamente. Tutto ciò ha fatto sì che in Francia, escludendo qualche

isolata eccezione, il termine abbia mantenuto fino ad oggi il suo carattere

spregiativo e di critica sociale.

In altri paesi però, come osserva Lukes, il suo destino è stato

completamente diverso. In Germania l’introduzione del sostantivo

‘Individualismus’ è riconducibile al Romanticismo e rimanda all’idea di

individualità intesa come “nozione dell’unicità, originalità e

autorealizzazione dell’individuo” [traduzione mia]6. Esso non rievoca

quindi lo sgretolamento della società, ma si riferisce alla necessità e alla

bellezza della diversità e della particolarità di ogni singolo essere umano.

Come nel caso francese, anche in quello tedesco il contesto culturale che

ha prodotto quest’espressione ne ha influenzato fino ad oggi la

connotazione, che in quest’area linguistico-culturale è decisamente

positiva.

Infine, negli Stati Uniti di un XIX secolo fatto di colonizzazione

dell’Ovest e di una crescita economica senza precedenti nella storia

dell’umanità, l’individualismo divenne velocemente un vero e proprio

6 “notion of individual uniqueness, originality, self-realization”, Steven Lukes, Individualism, Colchester, ECPR, 2006, p. 138.

16

simbolo di identificazione nazionale, un manifesto del Sogno Americano,

dell’american way of life, assumendo così una connotazione

estremamente positiva.

3. Una possibile tassonomia dell’individualismo

Abbandonando la storia del termine e spostando l’attenzione su quella

delle idee che lo accompagnano, si rimane colpiti dall’ampiezza e

dall’eterogeneità delle dottrine che sono via via state accostate a tale

concetto. Come osserva Laurent, solo sul piano ideologico-politico ne

esistono versioni anarchiche, democratiche, liberali, aristocratiche e

conservatrici, per non parlare delle teorie riferite agli altri ambiti della

realtà.

La confusione generata da tale abbondanza ha reso il termine vago e

difficilmente utilizzabile in campo scientifico in modo univoco. Per

questo, nel corso dei suoi studi su tale tema, Lukes ha cercato di

scomporre le dottrine che ha incontrato e di isolare alcune “idee-base di

individualismo” [traduzione mia]7. Nella sua concezione, queste ultime

dovrebbero corrispondere a dei mattoncini per mezzo dei quali, seppur

con qualche adattamento, sia possibile costruire tutte le varianti

conosciute delle dottrine individualiste. Nonostante tali idee si possano

combinare ed unire in una teoria però, ognuna di esse è dotata di una

propria autonomia concettuale, e l’accettazione di una non significa nulla

riguardo alla propria posizione sulle altre. Anzi, può capitare che due

dottrine composte da alcune idee-base siano apertamente in contrasto tra

loro, pur essendo ambedue etichettate come individualiste. Ad esempio,

alcune tra le critiche più feroci rivolte alla società ottocentesca dai

cosiddetti ‘individualisti estremi’ prendevano di mira il sistema liberale 7 “basic ideas of individualism”, Steven Lukes, op. cit., p. 50.

17

fondato proprio sull’individualismo politico e su quello economico e

ritenuto più vincolante dei precedenti in quanto favoriva l’aumento della

complessità sociale e quindi una maggiore interdipendenza tra gli

individui.

Le idee-base selezionate da Lukes sono undici e, dopo essere state

presentate qui di seguito in modo estremamente sintetico, verranno

illustrate in modo più esaustivo nel corso dei prossimi capitoli, secondo il

loro ordine d’apparizione nella storia occidentale.

Il primo gruppo di idee riguarda alcuni valori ed ideali che

costituiscono il cuore dell’individualismo, e più precisamente il

riconoscimento della dignità di ogni essere umano, l’affermazione

dell’autonomia dei singoli rispetto alle proprie scelte sia in ambito

religioso che politico-sociale, la definizione di una sfera privata (o

privacy) all’interno della quale gli individui siano liberi di comportarsi

come preferiscono senza interferenze esterne, ed infine l’idea romantica e

prevalentemente tedesca di self-development8, intesa come necessità di

sviluppare quanto più possibile le proprie potenzialità ed assecondare le

proprie inclinazioni.

Oltre a questi valori, fondamentale per lo sviluppo di molte dottrine

individualiste, soprattutto nel XVIII secolo, è la concezione astratta

dell’individuo, che cerca di evidenziare il comune denominatore presente

in ogni essere umano, e che può per certi versi essere considerata

l’antagonista concettuale del self-development, in quanto mette l’accento

su ciò che accomuna, e non su ciò che distingue e differenzia.

Il terzo gruppo di idee riguarda l’applicazione dell’individualismo ad

ambiti sociali ben determinati, producendo l’individualismo politico e

quello economico, che come si vedrà sono strettamente legati, quello

8 Per un chiarimento sul significato esatto del termine ‘self-development’, cfr. nota a p. 76.

18

religioso nato con la Riforma protestante e quello etico di cui Nietzsche

sarà il più celebre interprete.

Infine, l’ultima coppia di idee riguarda l’individualismo applicato alla

conoscenza e alla ricerca sociale, ed è costituita dall’individualismo

epistemologico sviluppatosi a partire da Cartesio e da quello

metodologico che ha avuto alterne fortune nel campo delle scienze

sociali.

4. Il carattere problematico del rapporto tra individuo e società

Come già accennato, alle dottrine individualiste si è da sempre

contrapposto l’olismo, anche definibile come ‘comunitarismo’ o

‘collettivismo’. Ciò che contraddistingue quest’ideologia è la convinzione

che esista un’entità superindividuale, la comunità, della quale gli

individui non sono che cellule non autonome, organizzate in sottogruppi

con funzioni specifiche e prevalentemente ascrittive (ceti, caste,

corporazioni). Non a caso in tali teorie è molto frequente il ricorso a

metafore organicistiche, che assimilano ad esempio i contadini alle

braccia del corpo sociale e il re alla sua testa.

Appare da subito evidente l’importanza rivestita nelle ideologie oliste

dai rapporti sociali, ma – come osserva François de Singly – ciò non

significa che in quelle individualiste tali legami siano meno rilevanti,

perché in ogni caso “l’individuo non esiste se non attraverso i legami

sociali. La differenza tra le società individualiste e quelle non

individualiste non riguarda dunque la diminuzione dei legami sociali.

Essa risiede nell’importanza accordata ai legami più personali, più

elettivi, più contrattuali” [traduzione mia]9.

9 “l’individu n’existe que par les liens sociaux. La différence entre les sociétés individualistes et les sociétés non individualistes ne tient donc pas à la diminution des liens sociaux. Elle réside dans

19

Nel corso dell’evoluzione della società occidentale, ed in modo

particolare nel lasso di tempo che ci separa dalla Rivoluzione francese, la

disputa attorno a questi temi si è rivelata molto accesa, portando ferventi

sostenitori sia dell’individualismo che dell’olismo a scontrarsi

nell’affollata arena delle ideologie e in alcuni casi anche sui campi di

battaglia, con il discontinuo ma inarrestabile sviluppo del processo di

individualizzazione a dare fuoco alle polveri.

Nel corso del XIX secolo gli attacchi all’individualismo sono

provenuti principalmente – secondo Laurent – da due filoni di teorie:

quello tradizionalista-reazionario e quello progressista-egualitario.

Appare importante sottolineare come anche prima dell’Ottocento siano

esistite posizioni che collocavano al centro del proprio pensiero la

collettività; anzi, come si vedrà, esse erano dominanti, ma solo dopo la

Rivoluzione americana e quella francese, che hanno garantito

all’individualismo come ideologia uno spazio inedito e fondamentale a

livello sociale, sono potute nascere delle correnti di pensiero che facevano

della critica alla crescente individualizzazione la principale ragione della

propria esistenza.

La prima di queste due posizioni, quella tradizionalista-reazionaria, si

sviluppò soprattutto in Francia, dove i moti rivoluzionari erano stati più

violenti, e in misura solo minore in Inghilterra e in Germania. Le critiche

principali rivolte all’individualismo riguardavano il pericolo

dell’atomizzazione e della fine della coesione sociale causato dalla

distruzione dei precedenti vincoli comunitari. Il primo e più celebre

sostenitore di tali tesi fu il conservatore Joseph de Maistre, che già nei

suoi Studi sulla sovranità (1794) – come riporta Laurent – affermava a

questo riguardo: “l’uomo per vivere non ha bisogno di problemi ma di

l’importance accordée aux liens plus personels, plus électifs, plus contractuels”, François de Singly, L’individualisme est un humanisme, La Tour d’Aigues, Éditions de l’Aube, 2007, p. 21.

20

fedi […] Un uomo abbandonato alla propria individuale ragione è

pericoloso, nell’ordine morale e politico, precisamente in proporzione al

suo talento”10.

La seconda corrente anti-individualista teorizzata da Laurent è quella

progressista-egualitaria, incarnata principalmente dai saint-simoniani e

dai socialisti utopisti. Queste scuole di pensiero, operanti all’incirca tra il

1830 e il 1850, oltre alle accuse classiche di isolamento sociale e di

dissoluzione dei vincoli tra individui, introdussero una critica nuova, che

avrà molto successo e verrà spesso ripresa nel XX secolo:

l’individualismo, e soprattutto quello di matrice economica, accresce le

disuguaglianze sociali e impoverisce le masse.

In questo contesto, i termini ‘individuo’ e ‘società’ vennero sempre

più percepiti come due poli opposti che si scontrano in un gioco a somma

zero, in cui una vittoria dell’uno significa inevitabilmente una sconfitta

dell’altro.

Data questa tensione costante e in qualche modo artificiale, molti

studiosi hanno cercato concettualizzazioni alternative, che potessero

portare ad una visione più conciliante del binomio in questione. Uno dei

primi intellettuali ad adoperarsi in tal senso fu Georg Simmel, per il quale

‘individuo’ e ‘società’ non erano due realtà confliggenti, ma due semplici

concetti metodologici, due punti di vista distinti sul medesimo soggetto,

“come la visione di un dipinto considerato ora come fenomeno

fisiologico-ottico e ora come prodotto culturale”11.

Uno dei contributi recenti più significativi in questa direzione è stato

quello prodotto da Norbert Elias, che già nel titolo del suo libro La

società degli individui tenta di conciliare i due termini. Come ha

osservato Bauman a riguardo, il grande merito dello studioso tedesco è

10 Cit. in Alain Laurent, op. cit., p. 79. 11 Georg Simmel, Individuo e gruppo, Roma, Armando Editore, 2006, p. 141.

21

stato quello di aver “sostituito l’’e’ e il ‘contro’ con il ‘di’”12, e cioè di

aver superato l’idea di una contrapposizione insormontabile tra i due

concetti, intendendoli invece, sulla scia di Simmel, come punti di vista

differenti sullo stesso fenomeno. Secondo Elias, entrambi gli elementi

hanno una propria dignità ontologica, e siccome tale dignità viene

comunemente riconosciuta agli individui a causa della sua immediatezza

biologica e sensoriale, lo studioso tedesco concentra i suoi sforzi nel

tentativo di evidenziare quella della società. A tale scopo viene

sottolineato come quest’ultima non sia la semplice somma degli individui

che la compongono, come vorrebbero i nominalisti13, ma sia composta

anche dalle relazioni che intercorrono tra questi individui, e che sono

dotate di autonomia e di leggi proprie. “Questa concatenazione delle

funzioni che gli uomini svolgono gli uni per gli altri, proprio questa e non

altro è ciò che noi chiamiamo ‘società’”14. Inoltre, sempre secondo Elias,

l’autonomia ontologica della società trova dimostrazione nell’assenza di

una sua pianificazione a priori da parte di un gruppo di individui.

Nessuno, ad esempio, ha progettato la società capitalista; essa si è formata

sulla spinta di forze economiche e sociali incontrollabili e dotate di leggi

proprie.

Dopo aver cercato di dimostrare l’esistenza della società come entità

distinta dalla somma degli individui che la compongono, Elias pone

l’accento sulla simbiosi esistente tra individuo e società. Da una parte la

società, in quanto somma dei legami tra individui, necessita comunque di

questi ultimi affinché i legami si stabiliscano, mentre dall’altra la società

è indispensabile per gli individui. Infatti nessun individuo può

considerarsi completamente autonomo e distaccato dagli altri esseri

12 Zygmunt Bauman, “Individualmente, insieme”, in La Società degli individui, 2000, n. 9, p. 5. 13 I nominalisti vengono definiti tali perché ritengono che ogni entità superindividuale non sia altro che il nome che viene assegnato ad un insieme di individui. 14 Norbert Elias, op. cit., p. 26.

22

umani per almeno due ragioni. La prima sta nel fatto che ogni soggetto è

il prodotto dell’unione di altri due esseri umani, e senza di essi non

esisterebbe. La seconda consiste nella dipendenza dai genitori che

accompagna ogni individuo per i primi anni della sua vita.

Per cercare di chiarire questa strettissima interdipendenza, Elias

prende in prestito da Aristotele la metafora della casa. Le singole pietre

rappresentano le unità da cui è composta una casa, ma se venissero

analizzate individualmente e astraendole dal contesto, misurandone peso,

forma e dimensione, non si otterrebbero informazioni rilevanti rispetto

alla struttura della casa. Quest’ultima non è infatti prodotta dalla

semplice somma dei suoi elementi, che potrebbe dare come risultato un

banale mucchio di pietre, ma dal rapporto che intercorre tra le singole

componenti.

Da tutto ciò Elias trae la conclusione che l’unico motivo per cui

‘individuo’ e ‘società’ vengono percepiti come termini contrapposti sta

nella mancanza di strumenti concettuali adeguati a descrivere la loro

relazione e nella convinzione semplicistica ed errata secondo cui “la sola

via feconda per comprendere unità composite sia la loro

scomposizione”15.

Il contributo di Elias è molto rilevante, in quanto risolve la

contrapposizione tra individuo e società. Nonostante ciò, esso non riesce

a fare lo stesso con il binomio individualismo-olismo, come invece

sembrerebbe lasciare intendere lo stesso Elias. Infatti, come si è cercato di

sottolineare definendo tali ideologie, la contrapposizione tra le due non

appare legata tanto al riconoscimento della dignità ontologica di entrambi

gli elementi; essa sembra invece riguardare principalmente la lotta per

stabilire quali interessi debbano prevalere tra quelli individuali e quelli

15 Ivi, p. 27.

23

sociali e, di conseguenza, se e quanto la società abbia il diritto di limitare

la libertà degli individui.

24

CAPITOLO II

INDIVIDUALIZZAZIONE E MUTAMENTO SOCIALE

NELLE SOCIETÀ PREMODERNE

1. Omogeneità, differenziazione ed individualizzazione: il problema

delle ‘società semplici’

Per ricostruire – sebbene in modo selettivo – le dimensioni più

significative del processo di individualizzazione e dell’ideologia

individualista che lo ha accompagnato, la teoria sociologica ha, fin dalla

sua fase classica, scelto come punto di partenza le società in cui questi

fenomeni erano completamente assenti: le antiche società tribali.

La caratteristica più rilevante di questo tipo di aggregato sociale è, dal

nostro punto di vista, l’inesistenza di qualunque forma di autopercezione

dei singoli individui come entità separate e relativamente autonome dal

gruppo al quale appartengono. Laurent ha osservato che i componenti di

queste società “non si pensano né si rappresentano come individui singoli

ma agiscono come semplici frammenti dipendenti da un noi”16.

Durkheim ritiene che il fattore determinante per capire questa assenza

di individualizzazione consista nella mancanza di una rilevante divisione

del lavoro. Infatti, tra i membri della tribù non si riscontrano importanti

differenziazioni dei compiti e dei ruoli, se non per quanto riguarda la

distinzione tra attività maschili (caccia, guerra,…) e femminili (raccolta,

cura dei piccoli,…). La sostanziale omogeneità dei componenti del 16 Alain Laurent, op. cit., p. 27.

25

gruppo fa sì che questi si assomiglino sia fisicamente che mentalmente in

modo molto più marcato di quanto non avvenga nelle società moderne,

nelle quali è presente un elevato grado di divisione del lavoro. “Perciò tra

i selvaggi l’originalità non è soltanto rara;” – scrive Durkheim – “per essa

non vi è per così dire nessun margine. Tutti allora ammettono e praticano,

senza discutere, la medesima religione; le sette e le dissidenze sono

ignote: non sarebbero tollerate. […] Numerosissimi e severissimi

regolamenti, per quanto non scritti, tracciano esattamente tutti gli atti

della loro vita”17.

Non essendoci una sufficiente interdipendenza funzionale a tenere

uniti i membri delle società tribali, all’interno di questi aggregati sociali

l’integrazione e la coesione sono garantite da quella che Durkheim

definisce solidarietà meccanica. “Questa solidarietà non consiste soltanto

nell’attaccamento generale e indeterminato dell’individuo al gruppo, ma

rende anche armoniche le singole parti dei movimenti. Infatti, dato che i

corpi collettivi in movimento si trovano ad essere ovunque i medesimi,

essi producono anche dovunque gli stessi effetti. Ogni volta che entrano

in gioco, le volontà si muovono spontaneamente e in perfetto accordo nel

medesimo senso”18. Per essere efficace però, questo tipo di solidarietà

necessita di un potente apparato di diritto repressivo, che sanzioni ogni

tentativo di differenziazione da parte dei singoli al fine di riaffermare la

supremazia dell’identità di gruppo.

Altri autori, come Taylor, hanno cercato di spiegare l’assenza di

individualizzazione ponendo l’accento sull’importanza delle religioni

arcaiche praticate nelle comunità tribali. I rituali sacri, fondamentali a

livello sociale in quanto ritenuti in grado di fornire protezione dai pericoli

e guarigione dalle malattie, erano strutturati in modo da non essere 17 Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1971, pp. 149 e 151. 18 Ivi, p. 124.

26

praticabili individualmente, ma solo collettivamente sotto forma di

cerimonie comunitarie. Questo produceva una conseguenza molto

rilevante: “siccome le loro azioni più importanti erano opera di interi

gruppi […] essi non potevano concepirsi come potenzialmente separati da

questa matrice sociale”19.

Esiste però un altro aspetto importante riguardo alle pratiche religiose

arcaiche. Non solo il singolo veniva sovrastato dalla collettività, ma il

rapporto con le divinità era sempre indiretto, guidato da agenti

specializzati (sacerdoti, sciamani, stregoni, indovini,…) che fungevano

da intermediari tra queste e il resto della tribù. Tale particolarità appare

rilevante soprattutto perché ci permette di introdurre una seconda

caratteristica fondamentale delle antiche comunità tribali, che avrà poi

ripercussioni di lungo periodo almeno fino all’avvento e al

consolidamento della modernità. Il ruolo cruciale svolto dai sacerdoti li

rendeva indispensabili per i propri gruppi di appartenenza, e la

trasmissione ereditaria di queste funzioni di padre in figlio portò

gradualmente ad una cristallizzazione della struttura sociale, in cui i

membri di alcune specifiche famiglie giunsero a detenere il monopolio

dell’intermediazione con le divinità. Questo fenomeno produsse una

parallela cristallizzazione anche nella gerarchia della ‘società civile’,

perché in queste tribù “la vita religiosa era inestricabilmente connessa alla

vita sociale”20. In tal modo nacquero delle strutture gerarchiche con

almeno tre caratteristiche particolari. La prima consiste nella capacità di

autoriprodursi senza sostanziali trasformazioni delle gerarchie stesse,

derivante in maniera diretta dalla cristallizzazione a cui sopra abbiamo

accennato. La seconda è rappresentata dall’inviolabilità, e cioè

dall’estrema difficoltà – per non dire dall’impossibilità – di mettere in

19 Charles Taylor, Gli immaginari sociali moderni, Roma, Meltemi, 2005, p. 65. 20 Ivi, p. 62.

27

discussione le gerarchie esistenti, provocata in primo luogo dall’origine

religiosa, e quindi in un certo senso sacra, della distinzione dei ruoli

sociali. La terza è una conseguenza immediata delle prime due, e cioè la

preponderanza del criterio ascrittivo nell’assegnazione delle funzioni

all’interno della comunità. Questo ha comportato una fortissima

limitazione della mobilità sociale, ponendo un ulteriore ostacolo alle

possibilità di scelta dei singoli.

Secondo la grande maggioranza degli studiosi, queste caratteristiche

fondamentali rendono le antiche società tribali realtà profondamente

oliste, nelle quali non solo si prepone la collettività agli individui, ma non

si concepisce nemmeno l’esistenza dei secondi in quanto tali. La società

viene qui considerata come un’entità superindividuale, in qualche modo

simile ad un organismo biologico.

Non tutti però sono d’accordo con questa lettura ‘monolitica’ della

struttura delle società tribali. Luhmann, ad esempio, evidenzia come

queste forme di aggregazione non siano prive di differenziazione sociale,

ma caratterizzate da quella che lui definisce differenziazione segmentaria.

Questa “si caratterizza per l’uguaglianza dei sistemi parziali della società,

i quali vengono distinti o sulla base della discendenza o sulla base delle

comunità di abitazione o mediante una combinazione di entrambi i

criteri” [corsivo originale]21. In sostanza, secondo Luhmann le società

tribali sono suddivise in segmenti (famiglie o villaggi) tra loro uguali, ma

ognuno autosufficiente per quanto riguarda i propri bisogni. Una struttura

di questo tipo appare più indicata in condizioni di vita difficili come

quelle delle tribù primitive, perché “in presenza di catastrofi che

minacciano la sopravvivenza, queste forme [i segmenti] possono

ricostituirsi senza difficoltà e ciò costituisce una sorta di garanzia della

21 Niklas Luhmann – Raffaele De Giorgi, Teoria della società, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 255.

28

riproduzione per società che dispongono di limitate capacità di resistenza

e di dominio della natura”22.

Luhmann sottolinea che la comunemente asserita ‘semplicità’ di

queste società è tale soprattutto se considerata dal punto di vista delle

dimensioni e del principio sul quale si fonda la struttura sociale:

l’appartenenza su base parentale e/o territoriale. Tuttavia, a ben vedere,

queste società sviluppano “differenziazioni aggiuntive”23, cioè non

fondamentali, che conferiscono una certa complessità e articolazione di

ruoli e anche di funzioni: “possono essere, per esempio, delle restrizioni

fissate per i matrimoni, oppure possono essere gruppi di età, case per soli

uomini, o altre organizzazioni quasi corporative, o si può trattare anche di

forme istituzionalizzate del trattamento dei conflitti, ma si può trattare

anche di differenziazioni di ruolo, eventualmente di ruoli determinati per

via ereditaria (sacerdote, capo) nell’ambito di determinate famiglie che

erano caratterizzate proprio da questi ruoli. Tali differenziazioni

aggiuntive non producono nessuna trasformazione della struttura

fondamentale della differenziazione segmentaria: esse devono essere

compatibili con quella struttura anche se, comparativamente, rendono il

modello complessivo delle società tribali estremamente complesso”24. È

in relazione a questa sorta di ‘complessità non strutturata’ che in queste

società si elaborano forme di differenziazione tra gruppi, identità e ruoli.

La sfera individuale viene sollecitata da questo reticolo di distinzioni.

L’individuo che ne emerge non si caratterizza per un’esigenza di

soggettività e autenticità, ma per la sua condizione di membro di gruppi

(famiglia, clan, gruppo di caccia, gruppo rituale,…) e

contemporaneamente di ‘non-membro’ di altri gruppi analoghi ai suoi e

facenti parte della stessa società, con i quali può entrare in relazione solo 22 Ivi, p. 261. 23 Ivi, p. 262. 24 Ibidem.

29

in quanto sostenuto dal proprio gruppo. In questo senso le differenze tra

individui della medesima comunità vengono percepite come differenze di

gruppo a cui ciascun individuo può fare riferimento nei rapporti con un

altro membro della sua società.

In seguito, a causa della cristallizzazione delle gerarchie religiose e

civili, che ha prodotto una concentrazione di risorse attorno al luogo dove

sorgeva il tempio, e con l’invenzione della scrittura, che ha facilitato

un’amministrazione centralizzata del territorio, sono nate le prime città.

Le antiche civiltà che le hanno generate hanno dato vita a società non più

segmentarie, ma differenziate secondo la dicotomia centro-periferia, che

ammetteva una disuguaglianza. Infatti il centro, la città, era il fulcro

politico e amministrativo del territorio, mentre la periferia, la campagna

circostante, era adibita alla produzione agricola necessaria al

sostentamento della popolazione.

2. Elementi di individualizzazione e struttura sociale in epoca classica

Il mondo greco, frammentato in una miriade di città-stato in perenne

conflitto tra loro, costituisce un interessante esempio delle caratteristiche

delineate per le società differenziate secondo il criterio centro-periferia. A

livello economico però, ed in un secondo tempo anche sul piano politico,

a partire da V secolo a.C. la struttura di alcune polis cominciò a mutare,

puntando su una maggiore divisione del lavoro e sulla specializzazione

delle funzioni al fine di incrementare la produzione, anche se altre – in

particolare Sparta – continuarono a lungo a mantenere il precedente

assetto.

I primi passi in questa direzione si ebbero, secondo molti studiosi,

nelle colonie della Magna Grecia. Luciano Pellicani, uno dei più decisi

sostenitori di questa tesi, nel suo lavoro intitolato Dalla società chiusa

30

alla società aperta fa notare come questo fenomeno si sia manifestato

inizialmente nelle colonie “poiché è lì che il cordone ombelicale che

teneva legati gli elleni alla loro comunità ancestrale si era rotto in modo

irrimediabile. Lontani dalla madrepatria, i colonizzatori si liberarono dal

controllo sociale e sfuggirono alla impersonale e onnipotente tirannia dei

mores”25.

Per quanto riguarda questo aspetto, va sottolineato innanzitutto che la

distanza favoriva la concessione di una maggiore autonomia decisionale

ai nuovi insediamenti, visti i rudimentali e lenti mezzi di comunicazione

disponibili. Inoltre, la struttura gerarchica delle colonie era più labile, a

causa della parziale subordinazione alle città d’origine e alla conseguente

assenza di una propria tradizione consolidata e di figure sacerdotali e

politiche di particolare rilevanza. Infine, per i coloni la mobilità sociale e

le possibilità di ascesa erano certamente maggiori di quelle offerte dalle

polis originarie. Tutto ciò permise ai singoli individui di ritagliarsi un

proprio spazio di autonomia, per quanto esiguo, dalle comunità

d’appartenenza.

Insieme a questo elemento di carattere geografico-spaziale, Pellicani

ne sottolinea un secondo, strettamente correlato, che consiste nello

sviluppo della navigazione e del commercio. Nell’economia delle colonie

lo scambio di prodotti con la madrepatria rivestiva un’importanza

fondamentale. Questo rendeva necessario un flusso di relazioni continuo,

e portò all’aumento della rilevanza numerica (e quindi sociale) di due

figure che sono per definizione più autonome e libere da vincoli rispetto

ai contadini: il mercante e il marinaio. Nel primo caso l’autonomia è

sviluppata nel perseguimento del proprio interesse, scegliendo i prodotti

da commerciare e coloro con i quali effettuare gli scambi secondo criteri

25 Luciano Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, p. 151.

31

di convenienza, all’interno di una prima rudimentale forma di mercato.

Nel secondo caso invece, ma in misura minore anche nel primo, la libertà

sta nella mobilità infinitamente maggiore rispetto a chi lavora nei campi,

che permette di sottrarsi parzialmente al controllo dei vertici della

struttura gerarchica.

Comunque sia, ben presto anche Atene giunse ad avere una struttura

economica fortemente basata sugli scambi26, con tutte le conseguenze in

termini di perdita di controllo su una parte della società che questo nuovo

modello economico comportava. L’antica oligarchia si indebolì a tal

punto da essere sostituita nell’attività di indirizzo politico della città da un

sistema democratico27.

È noto che questo contesto di generale apertura della società greca, ed

in particolare di quella ateniese, abbia rappresentato l’humus sociale

necessario allo sviluppo di un passaggio fondamentale nella storia del

processo di individualizzazione: la nascita della coscienza individuale.

In realtà non si è trattato di un caso isolato, ma di una scoperta

avvenuta quasi contemporaneamente in almeno tre aree del mondo,

delineando un arco temporale che Karl Jaspers ha definito ‘periodo

assiale’, il quale si estende dall’800 al 200 a.C. e ha avuto il suo apice

intorno al 500 a.C.. È in questo periodo che, tanto in Occidente quanto in

India e in Cina, “l’uomo prende coscienza dell’essere nella sua interezza,

di se stesso e dei suoi limiti. […] Pone domande radicali. […]

Comprendendo coscientemente i suoi limiti si propone gli obiettivi più

alti. Incontra l’assolutezza nella profondità dell’essere-se-stesso e nella

26 La nuova struttura economica ateniese venne favorita anche dalla graduale espansione del territorio controllato e dalla presenza nel sottosuolo cittadino di risorse minerarie come l’argento. 27 Ovviamente, il termine ‘democratico’ viene qui usato, con tutte le riserve del caso, non nella sua accezione moderna, ma per definire una gestione della res publica allargata ad alcune migliaia di persone, in contrapposizione al regime oligarchico, nel quale il potere è in mano a poche decine di individui.

32

chiarezza della trascendenza”28. Pur non dando nessuna spiegazione che

chiarisca le ragioni di questa contemporaneità, Jaspers osserva come nel

giro di pochi decenni siano comparsi personaggi come Confucio in Cina,

Gotama (Buddha) in India, i profeti in Israele e – ciò che in questo

momento più ci interessa – Socrate in Grecia.

Il grande filosofo ateniese è stato colui che per primo in Occidente ha

teorizzato l’esistenza di una coscienza individuale. In primo luogo il suo

‘conosci te stesso’ ha evidenziato l’esistenza di un’interiorità personale,

che verrà poi ripresa dagli stoici e dagli autori cristiani. Inoltre, con la

distinzione critica tra il logos (la coscienza) e la doxa (l’opinione

comune), ha proposto un modello alternativo alla cosiddetta ‘società della

vergogna’, in cui l’obiettivo primario era il raggiungimento della fama,

contrapponendole uno stile di vita che ambiva all’integrità e al

perfezionamento morali.

Dopo Socrate molti altri filosofi greci e poi romani evidenzieranno

l’importanza della coscienza e dell’interiorità individuali, giungendo

addirittura in alcuni casi, come faranno ad esempio Diogene ed Epicuro, a

predicare l’autosufficienza morale interiore. Tutto ciò induce a ritenere

che in queste ultime posizioni sia riscontrabile una prima tenue ed elitaria

forma di individualismo etico.

Tuttavia, questa nuova concezione dell’individuo è sociologicamente

significativa soprattutto perché accanto al concetto di coscienza si

sviluppano nuove realtà, come l’idea di poter intrattenere un rapporto

diretto, e non più mediato, con le divinità, che fa sì che agli antichi rituali

collettivi se ne affianchino altri praticabili individualmente, anche se la

loro diffusione rimane limitata ad una ristretta minoranza di iniziati.

28 Karl Jaspers, Origine e senso della storia, Milano, Edizioni di Comunità, 1972, p. 20.

33

Questa élite mostra i tratti di quelli che Louis Dumont ha definito

‘individui-fuori-dal-mondo’29, e cioè individui che intraprendono una

strada spirituale diversa e spesso in contrasto con quella del gruppo

d’origine, e per i quali “l’allontanamento dal mondo sociale è il requisito

indispensabile per lo sviluppo spirituale individuale”30. Non a caso molte

scuole, come ad esempio quella stoica, predicano un distacco totale da

tutto ciò che è terreno, al fine di essere il più possibile autosufficienti,

persino sul piano affettivo.

In breve, in questo periodo vengono compiuti alcuni fondamentali

passi in avanti nel processo di individualizzazione a livello teorico, ma la

loro applicazione rimane limitata ad una ristretta minoranza di individui,

mentre le società continuano ad essere fortemente oliste, anche se non più

in modo coerente e quasi totale come lo erano le antiche società tribali

che le avevano precedute. Insomma, il seme dell’individualismo era stato

gettato, anche se i frutti più rilevanti a livello sociale si sarebbero resi

visibili solo dopo più di un millennio.

Conseguenze sociali decisamente più concrete e immediate ha avuto

lo sviluppo nella società romana di un imponente apparato di diritto

privato e contrattuale. Si tratta di un tipo di diritto che caratterizza società

più complesse, articolate e in cui la divisione del lavoro è maggiore

rispetto a quelle primitive. L’obiettivo di queste norme, a differenza di

quelle di carattere repressivo, non è più l’espiazione, ma la semplice

riparazione del torto subito e il recupero del reo, al fine di ristabilire

l’armonia tra le funzioni sociali. Durkheim ha definito questo tipo di

solidarietà organica, ritenendola tipica delle società la cui struttura è

simile a quella degli animali superiori: “Ogni loro organo ha infatti la sua

29 Cfr. Louis Dumont, Saggi sull’individualismo – Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, Milano, Adelphi, 1993, p. 42. 30 Louis Dumont, op. cit., p. 43.

34

fisionomia specifica e la sua autonomia; tuttavia l’unità dell’organismo è

tanto maggiore quanto più accentuata è l’individuazione delle parti”31.

L’introduzione di questo tipo di diritto permette ai singoli di meglio

tutelare i propri interessi che, pur essendo necessari per il buon

funzionamento dell’organismo sociale, rimangono individuali,

rafforzando l’idea di difesa dell’interesse personale e della proprietà

privata.

3. Uguaglianza e interiorità nel concetto cristiano di individuo

Con l’avvento del cristianesimo sono state introdotte innovazioni di

grande rilievo sul piano della concezione ontologica dell’essere umano,

che a loro volta hanno agito sul processo di individualizzazione.

Nel suo importante lavoro dedicato all’individuo, Lukes ha

sottolineato come la più importante di queste innovazioni stesse nel

“supremo e intrinseco valore, o dignità, dell’essere umano individuale”

[traduzione mia]32. Tra i principi fondanti trasmessi da Gesù c’era infatti,

per la prima volta nella storia dell’umanità, l’idea che i singoli individui

avessero una dignità propria, in quanto figli dello stesso Padre divino.

Questo radicale cambiamento avrebbe però difficilmente visto la luce

senza l’apporto del monoteismo ebraico, che nei secoli precedenti si era

arricchito delle premesse filosofiche di cui abbiamo parlato, ed in

particolare dello sviluppo dell’idea di coscienza33.

Accanto a questo, un altro presupposto per il conferimento della

dignità al singolo essere umano era – secondo Lukes – la possibilità per

l’individuo di intrattenere un rapporto diretto con Dio attraverso la 31 Émile Durkheim, op. cit., p. 146. 32 “supreme and intrinsic value, or dignity, of the individual human being”, Steven Lukes, op. cit., p. 51. 33 In questo senso si parla di ellenizzazione dell’ebraismo, soprattutto dopo la conquista della Palestina da parte di Alessandro Magno nel IV secolo a.C..

35

preghiera individuale, divenuta colloquio filiale. Anche se, come

accennato, questa pratica era in parte già stata introdotta negli ultimi

secoli dell’era precristiana, la nuova religione le conferì un peso senza

precedenti.

Un altro aspetto fondamentale per il processo di individualizzazione,

strettamente correlato al nuovo valore attribuito a tutti gli esseri umani,

era rappresentato dalla teorizzazione di una loro uguaglianza di fronte a

Dio, che metteva sullo stesso piano l’imperatore e l’ultimo degli schiavi,

sempre in forza della comune paternità divina. L’effetto di tutto ciò era la

messa in discussione della legittimazione soprannaturale della struttura

gerarchica della società, a partire dalla divinizzazione degli imperatori. Il

terremoto sociale che ne sarebbe potuto scaturire, e che in parte ne

scaturì, spiega in misura preponderante il motivo per cui una società in

genere molto tollerante sul piano religioso come quella romana abbia

perseguitato in modo tanto feroce i primi cristiani.

Dopo aver sottolineato le caratteristiche dal nostro punto di vista più

interessanti della religione cristiana, può essere rilevante accennare al

ruolo assunto dalla Chiesa come istituzione. Prima però è necessario

porre l’accento sull’importanza della distinzione tra religione cristiana e

Chiesa come istituzione, soprattutto perché su alcuni temi la seconda si è

discostata dalla prima in modo abbastanza marcato.

Fino alla fine del IV secolo d.C. l’istituzione ecclesiastica, ancora

poco consolidata e gerarchicamente strutturata, si era occupata

esclusivamente di questioni extra-mondane. Dopo che il cristianesimo

divenne religione di stato però, anche la Chiesa fu suo malgrado

trascinata entro problematiche secolari, venendo chiamata a chiarire come

dovesse essere uno stato cristiano.

Gradualmente, nel corso dei secoli, la Chiesa estese la propria

influenza alle questioni mondane, e soprattutto a quelle politiche. Questo

36

fatto, insieme alla crescente gerarchizzazione dell’istituzione

ecclesiastica, portò ad un allontanamento nella realtà da ciò che predicava

il messaggio di Cristo, anche se, come ricorda Otto Brunner nel suo

celebre lavoro sulla Storia sociale dell’Europa nel Medioevo, “si viveva

nella chiesa e nel mondo in due sfere distinte, per quanto strettamente

legate fra di loro. Infatti anche il laico apparteneva alla chiesa ed il

chierico non era in grado di mantenersi senza un possesso mondano. Ma i

vertici rimanevano separati, con conseguenze che si ripercuotevano anche

verso il basso”34. Nella nostra prospettiva è importante notare che tutto

ciò produsse nel Medioevo società chiuse e strutturate secondo una rigida

architettura piramidale che lasciava ben poca libertà ai singoli individui e

veniva giustificata per mezzo della volontà divina. Insomma, i nuovi

valori introdotti grazie al cristianesimo non poterono svilupparsi in tutte

le loro potenzialità all’interno delle società medievali.

4. L’individualizzazione come possibilità di ceto nello sviluppo della

società stratificata medievale

Nel corso del Medioevo le società erano strutturate secondo quella

che Luhmann ha definito differenziazione stratificatoria, caratterizzata da

una “disuguaglianza di rango dei sistemi parziali”35. In sostanza, queste

comunità si contraddistinguevano per una netta divisione, poi resa più

articolata per mezzo di numerose suddivisioni secondarie, in due strati

sociali fondamentali: il ceto nobiliare, dotato di dignitas, e il resto del

popolo, senza dignitas. Un assetto di questo tipo negava nella sua essenza

l’idea di uguaglianza di tutti gli uomini in dignità teorizzata da Gesù.

34 Otto Brunner, Storia sociale dell’Europa nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 47-48. 35 Niklas Luhmann, op. cit., p. 256.

37

Riguardo all’origine di questo nuovo genere di differenziazione,

Luhmann afferma che “la stratificazione non nasce per la scomposizione

di un tutto in parti come di solito viene rappresentato questo processo, ma

per la differenziazione e la chiusura dello strato superiore […] [che] […]

avviene essenzialmente attraverso l’endogamia […] [e] […] fissa

inclusioni ed esclusioni”36.

Rispetto a tale questione, Brunner indica una spiegazione che

possiamo considerare complementare a quella di Luhmann, ma che

prende le mosse da una prospettiva diversa. Per lo storico tedesco, ciò che

ha prodotto una struttura sociale chiusa e stratificata è il fatto che il diritto

fosse in buona misura arbitrario, e che in genere prevalessero le ragioni

del più forte. Così “l’intera struttura sociale venne determinata dal

rapporto fra protezione ed aiuto, dalla protezione che i ‘forti’ fornivano ai

‘deboli’, alla ‘povera gente’, la quale non era in grado di proteggersi da

sola, e dall’aiuto che costoro erano tenuti a prestare ai loro protettori”37.

Si tratta di quella complementarietà gerarchica che vedeva, accanto agli

oratores, i bellatores e i laboratores. Ci si potrebbe però chiedere: perché

non è emerso subito un sovrano militarmente abbastanza forte da

garantire da solo la protezione di tutti i suoi sudditi? In realtà – osserva

Brunner – il mantenimento di un solido esercito permanente alle

dipendenze della casa reale sarebbe stato troppo oneroso da un punto di

vista finanziario, soprattutto perché “in una società prevalentemente

rurale con deboli rapporti di mercato e con una ridotta circolazione

monetaria non sarebbe stato possibile raccogliere imposte in quantità

sufficiente per finanziare un esercito”38. Se a ciò si aggiunge la graduale

ma inarrestabile crescita dell’importanza strategico-militare della fugura

del cavaliere corazzato, il cui equipaggiamento era particolarmente 36 Ivi, p. 282. 37 Otto Brunner, op. cit., p. 54. 38 Ivi, p. 77.

38

costoso, si può concludere che “il mantenimento di gruppi consistenti di

guerrieri di questo tipo era possibile solo a condizione di dotarli di terre

in modo da renderli economicamente indipendenti e da consentire loro di

equipaggiarsi da soli”39. Nel corso del tempo, il conferimento di queste

terre ai cavalieri-nobili venne regolamentato e istituzionalizzato, facendo

sì che il servizio e la fedeltà di questi vassalli nei confronti del sovrano

rappresentassero le basi giuridiche per la concessione della terra e dando

così vita al sistema feudale. In seguito, i vassalli si dotarono di sub-

vassalli, utilizzando lo stesso meccanismo sopra esposto. La coesione e la

solidarietà tra nobili venneno rafforzate anche attraverso la creazione di

un ethos signorile comune, incentrato sull’immagine del miles christianus

e sul concetto di ‘dignità cavalleresca’, che si ispirava a valori come

giustizia, prudenza, fortezza e temperanza. È certamente significativo il

fatto che tra questi ideali non comparisse l’uguaglianza tanto cara alla

dottrina cristiana; e non avrebbe potuto essere altrimenti, perché anche in

questo ethos si rispecchiava una struttura sociale che mirava soprattutto a

stabilire un confine invalicabile tra chi possedeva la dignitas e chi ne era

privo.

Si venne così a creare una stratificazione sociale molto articolata e

complessa, in cui continuò però a prevalere quello che Taylor chiama

“ordine morale premoderno”40. Secondo lo studioso canadese,

quest’ordine aveva due varianti principali. La prima verteva sull’idea di

sacralità delle tradizioni ed in particolare di una Legge che governava un

popolo da tempo immemorabile. Il carattere giurisdizionale della

legittimazione dell’autorità la vincolava indissolubilmente alla tradizione,

e molto spesso nemmeno i re “erano in grado di decidere da soli, in caso

di dubbio, dove fosse il diritto, in quanto questo diritto era un

39 Ivi, p. 74. 40 Charles Taylor, op. cit., p. 26.

39

ordinamento su base sacrale, al quale rimaneva subordinato lo stesso

sovrano”41. La seconda variante era invece contraddistinta da una

“nozione di gerarchia sociale che esprime e corrisponde a una gerarchia

cosmica”42. La struttura gerarchica vigente appariva così come l’ordine

naturale delle cose, e in questo senso va sottolineata la contraddizione

esistente tra l’idea di una gerarchia cosmica e l’uguaglianza formale

riconosciuta dal cristianesimo a tutti gli esseri umani.

Questa concezione del mondo, tipicamente olista, dava vita alla

cosiddetta ‘complementarietà gerarchica’, e cioè ad una condizione per

cui ogni membro della società era legato indissolubilmente agli altri da un

vincolo di dipendenza che andava dai più poveri fino al re stesso, secondo

un legame efficacemente rappresentato dall’immagine della “Grande

Catena dell’Essere”43. A tale proposito abbondavano le metafore che

equiparavano il re al leone o all’aquila tra gli animali, come testimoniato

anche dall’araldica. Uno dei migliori esempi in questo senso è un passo

del Macbeth di Shakespeare, in cui per illustrare quanto l’assassinio di un

re fosse un atto contro natura nel periodo in cui si ambienta la tragedia, un

personaggio parla della notte dell’omicidio di Duncan come di una notte

particolarmente burrascosa, con “strane grida di morte”, e un altro,

riferendosi a inquietanti fenomeni naturali avvenuti il mattino seguente,

come un ritardo nel sorgere del sole, dice: “È contro le leggi di natura,

come l’azione che è stata commessa. Martedì scorso un falco, mentre

montava in altura, fu germito, e ucciso, da un gufo cacciatore di topi”

[corsivo mio]. Un terzo afferma: “I cavalli di Duncan (cosa molto strana,

e certa) così belli e veloci, i gioielli della loro razza, divennero

improvvisamente d'indole selvaggia, spezzarono le loro sbarre nella

stalla, e si slanciarono fuori, rifiutandosi all'obbedienza, come se 41 Otto Brunner, op. cit., p. 57. 42 Ibidem. 43 Charles Taylor, Il disagio della modernità, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 99.

40

volessero far guerra al genere umano”. Infine un quarto aggiunge di aver

sentito che i cavalli si stessero divorando tra loro44. Tutto ciò sembra

testimoniare una ribellione della natura stessa di fronte ad un atto a lei

tanto contrario.

Dopo aver accennato, sebbene per sommi capi, a quelle che dal nostro

punto di vista sono alcune tra le caratteristiche più rilevanti delle società

medievali, va sottolineato che, nonostante la loro struttura sia ancora

fortemente premoderna e olista, anche in esse c’erano dei luoghi, i

monasteri, in cui il processo di individualizzazione si trovava ad uno

stadio decisamente più avanzato. A differenza del popolo, che per

relazionarsi a Dio prendeva parte a cerimonie collettive non lontane da

quelle tribali, in cui il contatto con il divino era mediato dai sacerdoti, i

monaci praticavano forme di preghiera individuali, che consentivano loro

di rapportarsi a Dio in modo diretto e personale. Il presupposto

imprescindibile rimaneva però la rinuncia ad ogni legame con la vita

terrena e il ritiro nei conventi, dove si sviluppavano delle comunità di

individui-fuori-dal-mondo.

5. Individualizzazione e sviluppo urbano come prodromi della

modernità

Nel corso del Basso Medioevo vari elementi di novità hanno influito

sul processo di individualizzazione, ma tra questi uno dei più rilevanti è

certamente la nascita delle prime città in senso moderno, soprattutto in

Italia e in Germania.

Quando si parla di città, si fa in questo caso generalmente riferimento

al tipo ideale delle città italiane, politicamente autonome e strutturate

44 Tutte le citazioni riportate sono tratte da William Shakespeare, Macbeth, in Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1973; II, iii, p. 955 e II, iv, p. 956.

41

secondo principi corporativi. L’indipendenza politica era stata spesso

raggiunta per mezzo di “un’usurpazione rivoluzionaria, se considerata da

un punto di vista giuridico-formale”45, messa in atto dalla comunità

cittadina nei confronti dei poteri che fino ad allora si erano contesi il

controllo del territorio, e cioè signori feudali e nobili in genere, nonché

alti prelati. La chiave per comprendere questa vittoria degli abitanti della

città sta nella loro superiorità in armamenti, legata al principio di

autoequipaggiamento dell’esercito, che li rendeva militarmente

indipendenti.

Secondo Weber, accanto alla città aristocratica, in cui le cariche

politiche erano assegnate secondo criteri ereditari o comunque legati alla

discendenza familiare, da queste lotte nacque la cosiddetta ‘città plebea’.

“In senso economico, il popolo si componeva di elementi assai diversi

[…] e soprattutto di imprenditori da un lato e di artigiani dall’altro. I

primi ebbero all’inizio la direzione nella lotta contro le schiatte

cavalleresche. Furono essi a creare e a finanziare l’affratellamento giurato

contro le schiatte, mentre le corporazioni industriali fornivano le masse

necessarie per la lotta”46. Appare evidente come questo passaggio,

accompagnato da un sensibile aumento della mobilità sociale, abbia

favorito il processo di individualizzazione.

Oltre a queste spiegazioni di carattere politico, ne vanno evidenziate

anche alcune legate alla sfera economica, ed in particolare al mercato.

Quest’istituzione, tipicamente cittadina, grazie alle retribuzioni in denaro

e non più in beni alimentari e di consumo, dava alla servitù una maggiore

libertà di scelta. Inoltre il diritto del suolo urbano, a differenza di quanto

avveniva in campagna, permetteva che i terreni fossero acquistati e

venduti, divenendo uno strumento di credito e acquisendo un valore

45 Max Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1961, vol. II, p. 577. 46 Ivi, vol. II, p. 618-619.

42

monetario. Tali norme favorirono la comparsa di nuove figure sociali,

come imprenditori e banchieri, che accentuarono il carattere mercantile

della città.

Sarebbe tuttavia ingenuo pensare ad una dinamica di sviluppo lineare

per fenomeni di questo tipo. A tale proposito un aspetto importante,

anche se decisamente contrario al processo di individualizzazione, era

dato dal potere di cui godevano le corporazioni degli artigiani e le

associazioni dei commercianti. Infatti, se da una parte esse non erano

caratterizzate unicamente da criteri di selezione ereditari, dall’altra

costituivano gruppi chiusi, che limitavano la libertà d’azione degli

individui. Ciò rendeva più complesso il ‘gioco’ delle relazioni tra

individuo e società. In questo senso si viene a creare un singolare quanto

importante equilibrio perché, come ha osservato Bettin, “il monopolio del

mestiere ha come contropartita l’eliminazione dell’iniziativa non

controllata dalla comunità: si attua così una felice e mai ripetuta sintesi

tra individuo e società; la stabilità della produzione è la condizione

dell’equilibrio comunitario”47.

In generale, si può affermare che la somma di tutte queste

caratteristiche, alle quali va aggiunta la crescente complessità della vita

sociale delle città, abbia prodotto una sorta di rottura dei vincoli sociali

precedenti, portando ad un’accelerazione del processo di emancipazione

individuale. Dal nostro punto di vista è fondamentale l’affermazione di

Weber secondo cui “i gruppi parentali persero ben presto ogni importanza

come elementi costitutivi della città. Questa divenne una confederazione

di singoli cittadini” [corsivo mio]48.

47 Gianfranco Bettin, I sociologi della città, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 49. 48 Max Weber, op. cit., vol. II, p. 570.

43

6. Individualizzazione ‘profana’ e individualizzazione religiosa tra

Rinascimento e Riforma

Proprio all’interno delle città medievali, e anzi prevalentemente

grazie a queste, si è sviluppato quel complesso insieme di fenomeni

culturali e sociali che chiamiamo Rinascimento e che, sebbene abbia

avuto un’estensione geografica e temporale abbastanza limitata, ha svolto

un ruolo centrale nella presa di coscienza da parte degli individui del

proprio valore intrinseco, influenzando molte dottrine e percezioni

ontologiche dell’uomo europeo nei secoli successivi.

Come è noto, la definizione dei confini e delle forme specifiche del

Rinascimento è da tempo al centro di vivaci discussioni. Molti storici

ottocenteschi, soprattutto di cultura tedesca e fortemente influenzati dal

pensiero romantico, ne hanno creato un’immagine che gli studiosi

tendono oggi a considerare distorta. Lo storico svizzero Jacob Burckhardt

è probabilmente colui che più di tutti ha contribuito alla produzione di

quest’immagine. In essa è forte il contrasto metaforicamente cromatico

tra uno sfondo costituito da un passato medievale buio, cupo, privo di

elementi innovativi, e un soggetto in primo piano, il Rinascimento

italiano, luminoso, raggiante, pieno di energia creativa e ricco di

personalità straordinarie. Ciò che avrebbe permesso questo mutamento

sarebbe stato – sempre secondo Burckhardt – il crescente individualismo,

liberatore delle potenzialità umane dai vincoli comunitari precedenti.

Secondo Peter Burke “quest’idea del Rinascimento è un mito”

[corsivo mio]49, e riguardo alle contrapposizioni così nette evidenziate tra

Medioevo e Rinascimento lo storico inglese afferma: “tali contrasti sono

ritenuti un’esagerazione, che ignora […] le numerose innovazioni che

49 Peter Burke, Il Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 8.

44

furono compiute nel corso del Medioevo”50. Insomma, secondo questa

tesi la transizione è stata molto più complessa e articolata. Per rimanere

all’interno della nostra metafora, si potrebbe dire che il confine tra i colori

dello sfondo e quelli in primo piano diventa in questo modo molto più

sfumato.

A ben guardare, Burke non ritiene che il concetto di Rinascimento

debba essere eliminato, ma rivisto alla luce di una certa continuità rispetto

al periodo precedente. La sua posizione consiste nel porre l’accento non

su un crescente individualismo della cui esistenza mancano – a suo

avviso – le prove storiche, ma sull’importanza della riscoperta della

classicità greco-romana avvenuta a partire dal XV secolo. Evidenziando

questi aspetti appare più comprensibile il motivo per cui il Rinascimento

è stato suprattutto, anche se non unicamente, un fenomeno concentrato

nelle città italiane. La spiegazione starebbe nella forte somiglianza

politica e strutturale esistente tra la polis greca e la città medievale

italiana. Entrambe erano infatti contraddistinte dall’essere autonome e

inserite in un contesto fortemente frammentato. “Il nesso fra

indipendenza e identificazione con l’antichità è […] chiaro”51.

La prospettiva di Burke ci consente di sottolineare il carattere

individualizzante dei fenomeni socio-culturali etichettati come

‘Rinascimento’. Tale influenza è stata indiretta, perché passata non

attraverso dei cambiamenti sostanziali nella vita dei singoli, ma attraverso

il rafforzamento di una delle dottrine individualiste, cioè di quella che

afferma l’uguaglianza in dignità di tutti gli esseri umani. Tutto ciò è stato

possibile grazie alla rivalutazione in chiave cristiana dei principi filosofici

classici di cui si è precedentemente parlato. L’esempio più celebre di

questa corrente di pensiero è forse dato da Pico della Mirandola che, non

50 Ibidem. 51 Ivi, p. 41.

45

a caso, viene considerato molto vicino alle idee di Platone, e la cui lotta a

favore del riconoscimento della dignità insita nell’uomo può essere

testimoniata dal titolo della sua opera Oratio de hominis dignitate.

Accanto agli aspetti sociali, economici e culturali appena delineati,

all’inizio del XVI secolo si sviluppò un altro fenomeno, che impresse una

netta accelerazione al processo di individualizzazione. Si tratta della

Riforma protestante, il cui inizio si fa per convenzione risalire

all’affissione da parte di Martin Lutero delle sue 95 tesi sulla porta della

cattedrale di Wittenberg nell’ottobre del 1517. La sua incubazione ebbe

luogo principalmente nelle città, a causa della maggiore libertà

individuale dei loro abitanti.

L’insieme delle novità per noi rilevanti introdotte per mezzo della

Riforma viene definito individualismo religioso, e poggia sull’idea

dell’autonomia spirituale di ogni singolo essere umano. Da tale assioma

discende l’estensione a tutto il popolo della possibilità di relazionarsi

direttamente a Dio. Questo passaggio trasformò i sacerdoti da veri e

propri intermediari in semplici guide, collocate sullo stesso piano

spirituale del resto dei fedeli e prive delle complesse gerarchie

istituzionali cattoliche.

I metodi di preghiera individuali, la cui pratica era rimasta rinchiusa

fino ad allora quasi esclusivamente all’interno dei monasteri, si diffusero

tra la popolazione. La lettura individuale della Bibbia e soprattutto la sua

interpretazione personale vennero fortemente incoraggiate – o addirittura

imposte come obbligo morale – dai riformatori, il cui intento venne

favorito anche dalla recente invenzione della stampa. Inoltre, il principio

dell’autonomia spirituale degli individui produsse come conseguenza la

richiesta da parte di molte chiese protestanti di un’adesione personale e

consapevole da parte dei singoli fedeli.

46

Un altro aspetto importante del nuovo rapporto con Dio stava nella

trasformazione dei fedeli in soggetti direttamente responsabili della

propria salvezza eterna, almeno per quanto riguarda la concezione

luterana della questione52.

Il nuovo individualismo religioso operò quello che Dumont ha

sintetizzato come passaggio dall’individuo-fuori-dal-mondo

all’individuo-nel-mondo53. Ciò che prima era relegato nei monasteri e

richiedeva una rinuncia totale ai legami terreni ora si poteva estendere a

tutta la società, conquistando per la prima volta anche la sfera mondana

dell’esistenza. In realtà, già nel corso del Medioevo alcune voci dissidenti

avevano auspicato una Chiesa più presente nel mondo. La più celebre di

esse fu certamente quella di Francesco di Assisi, che allo stile di vita

monastico, incentrato – come abbiamo visto – sull’isolamento

contemplativo all’interno dei conventi, ne contrappose uno più attivo sul

piano sociale e strutturato attorno all’idea di agire nella società per aiutare

i poveri e i bisognosi. In chiave sociologica, il movimento avviato da

Francesco segna una rilevante discontinuità nel rapporto tra agire

religioso e individuo. È in questa chiave che Weber ha sottolineato come

“il terzo ordine di san Francesco fu un possente tentativo nel senso di una

compenetrazione ascetica nella vita quotidiana”54. Ciò che

contraddistingueva questi ordini era però il fatto che la loro azione

riformatrice avveniva all’interno di una ‘cornice’ di regole definita dalla

Chiesa cattolica, e non al di fuori di essa.

Secondo Dumont, il compimento di questa transizione dell’individuo

‘nel mondo’ non fu attuata tanto da Lutero, quanto da Calvino e dai suoi

52 I calvinisti invece credevano nella predestinazione, e ritenevano, come si vedrà più dettagliatamente in seguito, che la salvezza o la dannazione eterna non dipendessero dal comportamento individuale, ma fossero decise da Dio secondo logiche che gli uomini non potevano comprendere. 53 Cfr. Louis Dumont, op. cit., p. 77. 54 Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Milano, Rizzoli, 2006, p. 181.

47

seguaci55. Infatti, come magistralmente illustrato da Weber nel suo lavoro

sul rapporto tra l’etica protestante e lo spirito del capitalismo, la definitiva

giustificazione morale dell’agire mondano, soprattutto in campo

economico, derivò principalmente dalla formulazione ad opera di Calvino

della dottrina della predestinazione. Secondo questa concezione, la

salvezza non poteva essere acquisita né per mezzo di ‘opere buone’, come

per i cattolici, né in forza del pentimento per i peccati commessi e con la

contrizione, come per i luterani. Il suo conseguimento dipendeva solo

dalla volontà di Dio, che, attraverso la selezione, incomprensibile

all’intelletto umano e facente parte dei suoi disegni divini, celebrava la

propria “autoglorificazione”56. E “poiché i decreti di Dio sono

immutabili, la sua grazia non può essere perduta da coloro a cui la

elargisce, né conseguita da quelli a cui la nega”57. Questa concezione

sottintendeva l’idea secondo cui il mondo era votato esclusivamente

all’autoglorificazione di Dio: “il cristiano eletto esiste allo scopo e solo

allo scopo di accrescere la gloria di Dio nel mondo, per parte sua,

eseguendo i suoi comandamenti”58. A differenza di Lutero, Calvino

fornisce così una giustificazione anche all’accumulazione di ricchezze,

perché se quella è la volontà di Dio, colui che si arricchisce non fa che il

suo dovere dandole attuazione. Ciò che è deplorevole è invece l’ozio a cui

l’abbondanza di beni può portare. Infatti, proprio perché la ricchezza

terrena ha l’unico scopo di glorificare il Signore, l’individuo ha il dovere

di continuare ad accumularne senza sosta e soprattutto senza goderne

personalmente. Gradualmente, i calvinisti giunsero a ritenere che

un’attività lavorativa incessante e l’accumulazione di capitali fossero gli

unici indicatori certi della propria beatitudine.

55 Louis Dumont, op. cit., pp. 76-85. 56 Max Weber, op. cit., p. 164. 57 Ivi, p. 165. 58 Ivi, p. 169.

48

Da questa concezione del mondo scaturì una condotta di vita ascetica,

in cui Weber vedeva il vero spirito del capitalismo. Questa condotta di

vita impone agli individui di agire nel mondo in modo coerente e

sistematico al fine di accumulare la maggior quantità possibile di capitali,

ma allo stesso tempo di condurre un’esistenza austera e priva di ogni

sorta di lusso e soprattutto di ostentazione. L’obiettivo non era il profitto

per mezzo del quale giungere ad un secondo fine, ma il profitto fine a se

stesso e da reinvestire all’infinito nell’impresa. In questo senso, il proprio

lavoro non andava visto come un semplice mezzo, ma come un Beruf,

cioè come attività di per sé dotata di senso e come vocazione, che dava

vita ad un ethos professionale consistente nella “convinzione che

l’adempimento del proprio dovere nell’ambito delle professioni mondane

fosse il contenuto supremo che potesse mai assumere la realizzazione

della propria persona morale”59. In questo senso si può parlare, dal nostro

punto di vista, di un’individualizzazione morale relativa alla propria

condotta di vita.

Come in parte già anticipato, un’impostazione di questo tipo, se da un

lato “agì violentemente contro il godimento spensierato del possesso, [e]

restrinse il consumo, specialmente il consumo di lusso”, dall’altro ebbe

“l’effetto psicologico di liberare l’attività lucrativa dalle inibizioni

dell’etica tradizionalistica, [e] spezzò le catene che avvincevano la ricerca

del guadagno, in quanto non solo la legalizzò, ma ritenne fosse voluta

direttamente da Dio”60. Secondo Weber, lo spirito del capitalismo

consisteva proprio in questa visione del mondo, e non nella semplice

avidità di guadagni, che si può riscontrare in ogni tempo e luogo.

L’influenza sull’economia capitalistica fu dovuta al fatto che un tale

spirito – un tale ethos professionale – permise al nuovo sistema

59 Ivi, p. 102. 60 Ivi, pp. 229-230.

49

economico di radicarsi più velocemente e saldamente nelle società

protestanti, ed in particolare in quelle calviniste. Questo è stato il grande

contributo dell’etica protestante allo sviluppo del capitalismo nelle sue

fasi iniziali. Oggi invece, come ammetteva lo stesso Weber già all’inizio

del Novecento, dell’influenza diretta di questo spirito non rimangono che

flebili tracce, ma una volta che l’ordine economico capitalistico è

diventato dominante, esso ha imposto agli imprenditori, anche se non più

animati dal fervore calvinista, di continuare a reinvestire i propri profitti,

perché la concorrenza – vero cuore del sistema – opera una sorta di

selezione che elimina le imprese obsolete e meno competitive. In questo

senso, “il puritano volle essere un professionista, noi lo dobbiamo essere”

[corsivo originale]61.

L’ethos professionale di cui si è parlato prende forma in connessione

con lo sviluppo di una stratificazione sociale tipica di un sistema

capitalistico. Da una parte infatti ha contribuito a creare lo spirito

borghese della classe imprenditoriale: “con la coscienza di godere

pienamente della grazia di Dio e di essere visibilmente benedetto da lui, il

borghese poteva perseguire i suoi interessi lucrativi – e anzi doveva farlo

– a condizione di mantenersi entro i limiti della correttezza formale, di

vivere in una maniera eticamente ineccepibile, e di non fare un uso

scandaloso delle proprie ricchezze” [corsivo originale]62. Dall’altra parte

va però evidenziato come abbia agito anche sulla classe operaia. Infatti,

un’economia capitalistica può reggersi solo sulla presenza, sul mercato

del lavoro libero, di operai qualificati in grado di far funzionare macchine

sempre più complesse, e in questo senso l’etica calvinista “metteva a […]

61 Ivi, p. 239. 62 Ivi, p. 235.

50

disposizione operai sobri, coscienziosi, insolitamente efficienti e attaccati

al lavoro, che consideravano lo scopo della vita voluto da Dio”63.

Tornando ai caratteri generali dell’individualismo religioso della

Riforma, si può dire che il suo fondamentale contributo sia qualitativo

che quantitativo abbia fatto sì che questo fenomeno possa essere forse

considerato il punto di svolta nella storia del processo di

individualizzazione. Certo, tutto ciò che verrà in seguito e tutte le forme

di individualismo che ne scaturiranno apriranno infinite nuove strade

all’individualizzazione e ne evidenzieranno tutte le potenzialità, ma è qui

che la società è stata per la prima volta diffusamente percepita come

un’associazione di individui, logica conseguenza di un’analoga

percezione in campo religioso64.

Un ultimo aspetto va sottolineato riguardo all’influenza avuta dalla

Riforma protestante. Nonostante i nuovi principi vennero interiorizzati

soprattutto da chi si convertì, essi posero il problema dell’autonomia

religiosa individuale anche nei confronti di coloro che rimasero fedeli al

cattolicesimo. È inoltre importante accennare al fatto che senza lo scisma

non avrebbe probabilmente preso corpo la Controriforma, che anche se in

modo più blando fece propri molti dei principi di cui si è parlato.

63 Ibidem. 64 Cfr. Charles Taylor, Gli immaginari sociali moderni, cit., p. 62.

51

CAPITOLO III

FORME DELL’INDIVIDUALISMO

Tra il XVII e il XVIII secolo, l’ideologia individualista ricevette

alcuni tra i suoi più importanti contributi, accompagnando e favorendo il

generale passaggio delle società europee alla modernità. Si svilupparono

così nuovi tipi di individualismo in molti campi, tra i quali

l’epistemologia, la politica e l’economia. Se da una parte appare

importante far risaltare i punti di contatto tra queste nuove teorie

individualiste, dall’altra sarà necessario mantenerle ben distinte, al fine di

giungere ad una più chiara esposizione. Inoltre la separazione è utile

perché anche per gli stessi teorizzatori di queste dottrine l’accettazione di

una di esse non presupponeva necessariamente quella delle altre.

1. L’individualismo ‘epistemologico’

Rispetto a questo quadro di riferimento, il primo contributo in ordine

di tempo all’ideologia individualista è provenuto da Cartesio, che con le

sue riflessioni diede vita al cosiddetto individualismo epistemologico. In

sostanza, il filosofo francese giunse alla conclusione che l’unica cosa di

cui poteva essere davvero certo consisteva nel fatto che se poteva

pensare, allora esisteva. Si tratta del celeberrimo ‘cogito ergo sum’. La

prova della propria esistenza non andava quindi cercata nel mondo al di

fuori dell’individuo, ma nell’interiorità di ciascun essere umano. Allo

52

stesso tempo veniva affermata l’idea di poter mettere in dubbio tutto

quanto provenisse dall’esterno.

Questa nuova concezione del mondo era rivoluzionaria, tanto da far

affermare ad André Gluckman che Cartesio “firma l’atto di nascita

filosofica degli individui sovrani” [corsivo mio] 65.

In seguito alla pietra miliare appena posta, la strada

dell’individualismo epistemologico venne lastricata con i contributi di

molti altri filosofi e studiosi. Leibniz ad esempio sviluppò la teoria

cartesiana, stabilendo un collegamento tra questa e l’indipendenza del

singolo dal mondo esterno. Inoltre, circa un secolo dopo, Immanuel Kant

assunse una prospettiva affine a quella di Cartesio, sostenendo che le

categorie fossero innate negli individui, e quindi venissero dal proprio

spazio interiore, e non fossero inculcate dall’esterno.

Persino coloro che si opponevano al razionalismo cartesiano – gli

empiristi – giunsero comunque ad affermare che la conoscenza non

provenisse direttamente dal mondo esterno, ma in modo mediato

attraverso l’esperienza sensoriale. Alcuni, come Locke, sostenevano che i

sensi fossero infallibili, mentre altri, come Hume, si dimostrarono scettici

a riguardo. In ogni caso, ciò che conta dal nostro punto di vista è il fatto

che anche gli empiristi riconoscessero l’importanza della mediazione

individuale, andando a rafforzare le tesi degli individualisti

epistemologici66.

2. L’individualismo ‘politico’

Per quanto riguarda l’ambito politico, che costituisce il secondo

terreno d’espansione dell’individualismo nel corso del passaggio alla

65 Cit. in Alain Laurent, cit., p. 40. 66 Cfr. Steven Lukes, op. cit., pp. 92-93.

53

modernità, l’ordine morale e politico moderno, che si sviluppò a partire

dal XVII secolo e nel XVIII trovò la sua consacrazione, poggiava –

secondo Taylor – su due pilastri fondamentali.

Il primo era costituito dal nascente giusnaturalismo. Questa dottrina,

teorizzata tra gli altri dal giurista olandese Ugo Grozio, si fondava

sull’idea che a tutti gli individui dovessero essere riconosciuti alcuni

diritti naturali – ad esempio il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà

– inalienabili e discendenti semplicemente dal fatto di appartenere alla

specie umana, e non concessi solo in funzione del ceto, del luogo

d’origine o del ruolo ricoperto nella famiglia o nel villaggio. In questo

senso tali diritti possono essere considerati un’estensione del principio di

uguale dignità degli esseri umani introdotto con il cristianesimo.

Il secondo pilastro era strettamente dipendente dal primo, in quanto

ne era una sorta di applicazione all’ambito sociale che diede vita al

cosiddetto individualismo politico, ed era costituito dalle teorie

contrattualistiche.

Il primo autore ad assumere una prospettiva di questo tipo fu Hobbes.

Nel suo Leviatano il filosofo inglese partiva da una concezione

pessimistica della natura umana, sintetizzata per mezzo del celebre ‘homo

homini lupus’, e da una condizione originaria di anarchia, chiamata ‘stato

di natura’, in cui ogni essere umano era completamente libero, ma doveva

provvedere da solo alla propria difesa e alla tutela dei suoi diritti. Come

affermò lo stesso Hobbes riguardo a tale stato, “poiché la condizione

dell’uomo […] è una condizione di guerra di ciuascuno contro ogni altro,

e in questo caso ciascuno è governato dalla propria ragione e non esiste

niente di cui egli sia in grado di servirsi, che non possa essergli di aiuto

nel preservare la propria vita contro i nemici, ne segue che in una

54

condizione di questo genere ciascuno ha diritto a tutto”67. Prendendo le

mosse da questi presupposti, Hobbes concluse che l’unico modo per

evitare una situazione di scontro perenne di tutti contro tutti fosse la

rinuncia ai propri diritti naturali e la subordinazione volontaria ad uno

stato assoluto che in cambio garantisse più sicurezza e benessere. Il

contratto sociale consisteva in tale patto tra individui e stato68. È vero,

quest’impostazione era quanto di più lontano potesse esistere dal

riconoscimento di diritti e libertà a tutti gli esseri umani, ed era anche in

contrasto con qualunque ideologia individualista; ma, per arrivare a

questa conclusione, Hobbes era partito dall’idea che nello stato di natura

originario i cittadini godessero di alcuni diritti naturali e conducessero

esistenze separate. In sostanza, anche se la soluzione che veniva proposta

era fortemente anti-individualista, i presupposti attraverso i quali si era

giunti ad essa riconoscevano che l’unità originaria della società era

costituita dal singolo essere umano, titolare di alcuni diritti naturali, ai

quali poteva rinunciare solo volontariamente.

In seguito a questa prima formulazione, la teoria contrattualistica

venne sviluppata in tutte le sue potenzialità da Locke. Il filosofo inglese,

pur facendo proprie molte delle premesse di Hobbes, partiva da una

concezione più ottimistica riguardo alla natura umana e sosteneva che una

certa forma di autoregolazione pacifica fosse possibile, senza bisogno di

cedere tutte le libertà individuali allo stato.

Da questo diverso approccio discendeva che anche per Locke alla

base della costituzione di una società c’era un’adesione volontaria da

67 Thomas Hobbes, Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 105-106. 68 Hobbes immagina un tacito patto di ogni individuo con tutti gli altri secondo una formula di questo tipo: “Dò autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni”, Thomas Hobbes, op. cit., p. 143.

55

parte dei singoli individui69, ma il suo scopo era la migliore tutela

possibile dei diritti naturali individuali, e non la loro sottrazione in

funzione di una maggiore sicurezza. Il contratto sociale prevedeva in

questo caso da una parte la sottomissione dei singoli alle leggi dello stato,

ma dall’altra la garanzia da parte delle istituzioni che tali leggi fossero

prodotte al solo fine di meglio proteggere i diritti individuali.

Una conseguenza logica, ma di grande rilevanza dal punto di vista

dell’individuo, dell’idea di contratto sociale stava nel fatto che la

legittimazione dei regimi al potere dovesse fondarsi solo sul precedente

consenso accordato loro dai sudditi, e che l’unico obiettivo dell’autorità

dovesse essere la tutela dei diritti dei singoli. Le monarchie assolute e le

tirannie, privando i sudditi dei propri diritti, erano perciò da considerarsi

illegittime e da rovesciare. Come si vedrà in seguito, quest’impostazione

avrà forti ripercussioni nel corso del Settecento, influenzando soprattutto i

rivoluzionari americani e francesi.

Secondo Taylor però, la conseguenza di maggiore rilevanza delle

teorie contrattualistiche stava nei mutamenti sociali che vennero proposti,

e che trovarono attuazione concreta a partire dalle due rivoluzioni a cui si

è fatto riferimento. L’idea di società come associazione volontaria di

individui destabilizzava le strutture gerarchiche immutabili e legittimate

per mezzo di un’ipotetica volontà divina, che vennero gradualmente

sostituite da una differenziazione funzionale utile al perseguimento del

benessere comune, ma che, pur presupponendo una qualche forma di

gerarchia, ritenevano che quest’ultima “non ha alcun valore essenziale; è

accidentale e potenzialmente modificabile”70. Tale aspetto è molto

importante dal nostro punto di vista, perché quando le teorie

69 Locke afferma: “Tutti gli uomini si trovano naturalmente in questo stato [di natura] e vi rimangono finché per loro consenso non si rendano membri di una società politica”, John Locke, Secondo trattato sul governo, Milano, Rizzoli, 2004, p. 81. 70 Charles Taylor, op. cit., p. 29.

56

contrattualistiche verranno applicate a società reali, permettendo a

chiunque di scalare le gerarchie sociali, il processo di individualizzazione

subirà una nuova accelerazione.

Se bisognerà aspettare fino alla seconda metà del Settecento perché

questi principi trovino realizzazione concreta, a livello ideologico essi

produssero da subito i loro effetti, dando vita al cosiddetto individualismo

politico. Questa forma particolare di individualismo, nata proprio con le

teorie contrattualistiche, poggia – secondo Lukes – su alcuni postulati

fondamentali. Il primo – si è già visto – consiste nella visione del governo

come basato sul consenso dei cittadini, anche se non per forza

democratico. Il secondo è dato dall’idea della rappresentanza politica

come rappresentanza degli interessi dei singoli individui, e non di ordini,

caste o corporazioni come avveniva in precedenza. Il terzo è infine

rappresentato la concezione del governo come semplice strumento per

favorire la realizzazione delle preferenze e la tutela dei diritti dei singoli,

assumendo il ruolo di ‘arbitro’ nella “harmonious competition”71 tra gli

interessi individuali.

Va precisato che non tutti i sociologi sono concordi nel ritenere il

nesso tra contrattualismo e individualizzazione necessario per lo sviluppo

di quest’ultima. Durkheim, ad esempio, cercò di dimostrare che l’idea di

uno stato di natura in cui gli esseri umani conducevano esistenze

autonome e separate fosse una finzione, affermando: “Se supponiamo una

pluralità di individui che anteriormente non erano uniti da nessun vincolo,

quale ragione ha potuto spingerli a sacrificarsi reciprocamente? Il bisogno

di pace? Ma la pace per se stessa non è più desiderabile della guerra, che

ha i suoi oneri e i suoi vantaggi. Non vi sono forse stati popoli, e non vi

sono in ogni tempo individui per i quali la guerra è la passione

predominante? Gli istinti ai quali essa risponde non sono meno forti di 71 Steven Lukes, op. cit., p. 77

57

quelli soddisfatti dalla pace”72. Così, se accettassimo la tesi – che in realtà

lascia molti dubbi – secondo cui pace e guerra sono ugualmente

auspicabili, vedremmo l’intero edificio del contrattualismo sociale

crollare inesorabilmente, perché allo stato verrebbe a mancare il collante

costituito dal comune interesse degli individui al mantenimento della

pace per tutelare i propri diritti.

3. L’individualismo ‘economico’

Parallelamente allo sviluppo dell’individualismo politico, nel corso

del Settecento prese forma anche la teoria economica liberale classica,

che produsse l’individualismo economico. Questa nuova dottrina,

sostenuta da autori come Adam Smith e David Ricardo, poggiava

sostanzialmente su una “visione dell’economia come un armonioso

ordine naturale […] più o meno capace di autoregolarsi […] che […]

conduce alla massima soddisfazione degli individui e al progresso

(individuale e sociale)”73, e quindi sulla convinzione che le azioni

individuali fossero sufficienti per il corretto funzionamento

dell’economia di una società. Questo meccanismo di autoregolazione del

mercato, spesso chiamato ‘mano invisibile’, era visto come insito nella

natura stessa dell’uomo, perché nonostante ognuno badi maggiormente al

proprio guadagno che a quello altrui, la reciprocità del calcolo di interesse

dovrebbe portare ad una sempre crescente divisione del lavoro, ad un

aumento della produzione e quindi ad un maggiore benessere generale.

Da quest’impostazione di fondo discendevano alcune prescrizioni

pratiche. La prima consisteva nella concessione agli individui della

72 Émile Durkheim, op. cit., p. 137. 73 “view of the economy as a natural harmonious order […] more or less self-adjusting […] that […] conduces to the maximum satisfaction of individuals and to (individual and social) progress”, Steven Lukes, op. cit., p. 81.

58

massima libertà d’impresa individuale, grazie anche all’abolizione delle

formazioni corporative, e avrebbe dovuto portare ad una vera concorrenza

e quindi al libero mercato. La seconda era la minimizzazione delle

interferenze dello stato in economia perché distorsive del funzionamento

del mercato, anche se “Adam Simth […] non si opponeva all’intervento

statale in economia per principio […] (ad esempio in ambiti come igiene

pubblica, sanità e condizioni d’impiego nelle fabbriche)” [traduzione

mia]74.

Un problema rilevante dell’individualismo economico consisteva però

nel portare quasi inevitabilmente ad una visione fortemente utilitaristica

dei rapporti tra individui. Su questa linea, Bentham arrivò a prospettare

un individuo freddo calcolatore guidato solo dal proprio interesse.

L’utilitarismo mette in evidenza una questione a cui si è già

accennato, e cioè il fatto che non solo l’accettazione di una delle idee-

base e dottrine individualiste non presuppone automaticamente quella

delle altre, ma che queste possono essere anche in netto contrasto tra loro.

Secondo Lukes infatti l’utilitarismo, se spinto all’eccesso, porta ad una

valutazione dei rapporti interindividuali solamente in funzione

dell’interesse personale. Gli individui vengono così considerati

unicamente in relazione all’utile che possono portare, e questo costituisce

una negazione della dignità intrinseca dell’essere umano75.

Un altro aspetto molto interessante dal nostro punto di vista, oltre alle

questioni dottrinali di cui si è parlato, sta nel fatto che – come nota Taylor

– “il mondo privato della produzione acquista ora nuova dignità e

importanza. L’accentuazione della sfera privata legittima in effetti un

certo tipo di individualismo. L’agente produttivo agisce

74 “Adam Smith […] was not opposed to state intervention in the economy on principle […] (e.g. in matters such as sanitation, health and conditions of factory employment”, Steven Lukes, op. cit., p. 82. 75 Cfr. Steven Lukes, op. cit., p. 53.

59

autonomamente”76. Il tipo di individualismo di cui parla lo studioso

canadese è probabilmente quello che Lukes definisce individualismo

della privacy, e cioè l’idea di una sfera privata della vita umana in cui gli

individui agiscono in una condizione di emancipazione dalla volontà e

dalla subordinazione agli altri. È certamente su questa linea anche la

riflessione weberiana e durkheimiana sul significato sociale del lavoro

come leva del mutamento sociale e dell’indipendenza politica degli

individui. La teorizzazione di questo spazio autonomo giungerà a

compimento nell’Ottocento, quando J. S. Mill sosterrà che gli esseri

umani debbano godere di libertà assoluta per tutto ciò che riguarda

solamente la loro persona, scegliendo il proprio stile di vita e gli obiettivi

da perseguire.

4. Il nesso tra libertà ed uguaglianza e l’individualismo ‘quantitativo’

Da un punto di vista generale, il nesso tra individualismo economico e

politico appare molto stretto. In questo senso, Lukes ha evidenziato che

“così come il libero mercato era ritenuto portare al massimo beneficio per

tutti, allo stesso modo anche il sistema politico riformato (con elettori e

rappresentanti che perseguono i propri interessi individuali) avrebbe

massimizzato la soddisfazione complessiva degli interessi individuali

separati. La ‘mano invisibile’ funzionava in politica, così come in

economia” [traduzione mia]77.

Questa simmetria è il risultato di una matrice culturale comune. Sia

Locke che gli economisti liberali classici possono infatti essere

considerati pensatori illuministi. Tale corrente filosofica, tanto ampia 76 Charles Taylor, op. cit., p. 109. 77 “just as the free market was assumed to lead to maximum benefit for all, so also would the reformed political system (with electors and representatives all pursuing their individual interests) maximize the aggregate satisfaction of men’s separate individual interests. The ‘invisible hand’ worked in politics, just as in economcs”, Steven Lukes, op. cit., p. 76.

60

quanto variegata, si proponeva di portare i lumi della ragione nel buio

delle società dell’epoca, rimettendo in discussione anche gli assetti sociali

esistenti.

L’Illuminismo, soprattutto quello inglese, produsse quello che

Simmel ha definito individualismo quantitativo, che puntava cioè ad un

aumento quantitativo delle libertà e dei diritti indistintamente per tutti gli

individui. Tale pretesa poggiava sull’idea di una sostanziale uguaglianza

di tutti gli esseri umani.

Simmel ha sottolineato che l’accostamento di libertà e uguaglianza fu

un prodotto della situazione storica settecentesca: “Per una inevitabile

reazione alla costituzione sociale dominante, nel XVIII secolo emerse un

concetto di individualità, che non poteva esprimersi in modo più giusto e

logico che nell’ideale, in sé così illogico, di libertà e uguaglianza. Infatti

quella era un’epoca in cui le forze individuali erano sentite nel più

insostenibile contrasto con i loro legami e le loro formazioni storico-

sociali. I privilegi dei ceti superiori come il dispotico controllo del

commercio e del traffico, i resti ancora potenti degli statuti corporativi

come la coercizione intollerante della chiesa; i doveri servili della

popolazione contadina come la tutela politica nella vita dello stato e la

limitatezza delle costituzioni municipali apparivano superati e corrotti,

alla stregua di vincoli servili, sotto i quali non si poteva più respirare.

Nell’oppressione esercitata da tali istituzioni, che avevano perduto ogni

diritto intrinseco, che da ragionevoli e benefiche erano divenute insensate

e dannose, nacque l’ideale della pura libertà dell’individuo”78.

Ma perché Simmel ritiene libertà e uguaglianza in qualche modo

incompatibili? Probabilmente la risposta sta nel fatto che se intendiamo il

concetto di uguaglianza in senso stretto, esso produce

un’omogeneizzazione che finisce per limitare le libertà e le inclinazioni 78 Georg Simmel, Forme dell’individualismo, Roma, Armando Editore, 2001, pp. 36-37.

61

individuali. Adottando questa prospettiva si pone però una seconda

domanda: come mai la sensibilità illuminista e razionalista del XVIII

secolo non percepiva tale binomio come contraddittorio? Il punto centrale

per conciliare i due valori, seguendo la linea interpretativa simmeliana, è

costituito da una concezione astratta dell’individuo. L’idea di fondo è che

in ogni uomo c’è un nucleo che costituisce la sua vera essenza e che è

comune a tutti; “e ora si comprende il motivo per cui libertà e

uguaglianza vennero sentite come un ideale unitario: solo se l’uomo si

fosse liberato, sarebbe emersa di nuovo, in quanto suo autentico io, la sua

essenza puramente umana, che i vincoli e le deformazioni della storia

avevano nascosto e alterato, e questo suo autentico io sarebbe stato in tutti

lo stesso, poiché rappresenterebbe appunto l’uomo universale in noi”79.

Anche autori più recenti hanno posto l’accento sull’importanza per

l’individualismo settecentesco della concezione astratta dell’individuo.

Lukes ne ha fatto una delle sue idee-base dell’individualismo, mentre

François de Singly, per riferirsi in generale al pensiero individualista

prodotto dal secolo dei Lumi, parla di ‘individualismo astratto’, cioè di

“un individualismo che prende in considerazione in tutti gli esseri umani

ciò che li unisce, ciò che è loro comune, vale a dire la ragione e la

comune umanità” [traduzione mia]80.

Anche se è sbagliato – o comunque molto difficile – stabilire rapporti

di causalità diretti tra il pensiero illuminista e le due grandi rivoluzioni di

fine Settecento in America e in Francia, è certo che il primo abbia in

qualche modo influenzato le seconde.

Dal nostro punto di vista questi due capovolgimenti politico-sociali

sono fondamentali, perché hanno dato attuazione concreta a buona parte

79 Georg Simmel, op. cit., p. 38. 80 “un individualisme qui considère chez tous les êtres humains ce qui les réunit, ce qui leur est commun, à savoir la raison et la commune humanité”, François de Singly, op. cit., p. 26.

62

delle idee suggerite dall’individualismo politico ed economico e

dall’Illuminismo, evidenziandone anche limiti e contraddizioni.

Mentre in Inghilterra il passaggio da una società olista ad una

prevalentemente individualista è avvenuto gradualmente e abbastanza

pacificamente, cominciando con i diritti concessi tramite la Magna Charta

del 1215 e continuando progressivamente nel corso dei secoli, nelle

colonie nord-americane e in Francia tale transizione ha avuto luogo per

mezzo di sanguinose rivoluzioni, causate dalle resistenze al cambiamento

mostrate dall’Ancien Régime e dalla corona inglese stessa, che in patria si

era dimostrata più aperta.

I valori che ispiravano i rivoluzionari sulle due sponde dell’Atlantico

erano sostanzialmente i medesimi, e gli stessi di cui si è già parlato:

libertà e uguaglianza. Un’importante differenza stava tuttavia nel fatto

che i francesi chiedevano il riconoscimento di questi ideali in merito alle

differenze tra ‘i tre stati’, mentre per gli americani, le cui strutture sociali

erano meno rigide e più aperte, le disparità che andavano eliminate erano

quelle nei rapporti tra le colonie e la madrepatria. Come già fatto notare

da Simmel però, questi due valori rischiano sul piano pratico di risultare

contraddittori e, come sottolinea lui stesso, è probabilmente anche per

questo che i francesi accanto alla liberté e all’égalité hanno sentito il

bisogno di aggiungere la fraternité come ideale unificante. Ma il ruolo

svolto dal terzo elemento della triade non finisce qui. Secondo Singly

esso rimanda anche al rovesciamento del vecchio regime, perché “la

verticalità valorizzata e simboleggiata attraverso la relazione con il padre

[per estensione anche il re in veste di padre della patria] lascia il posto

all’orizzontalità della relazione tra eguali, tra fratelli” [traduzione e

corsivo miei]81. In altre parole, la categoria di fraternità sembra agire

81 “La verticalité valorisée et symbolisée par la relation au père laisse la place à l’horizontalité de la relation entre égaux, entre frères”, François de Singly, op. cit., p. 41.

63

come un dispositivo di trasformazione della legittimazione dell’ordine

sociale da verticale in orizzontale, all’interno però della metafora

‘familiare’ come rappresentazione della società considerata nel suo

insieme82.

Inoltre, per risolvere la contraddizione, sia gli americani che – soprattutto

– i francesi fecero ricorso alla concezione astratta dell’individuo, di cui si

è già parlato. In questo senso sono innumerevoli gli esempi di riferimenti

a termini impersonali come ‘cittadino’, ‘popolo’ e ‘volontà generale’.

Ad ogni modo, la vera svolta sul piano politico si ebbe quando i

coloni americani, dopo vari tentativi di riconciliazione con la madrepatria,

redassero la Dichiarazione d’indipendenza del 1776. Questo documento

attingeva a piene mani dal contrattualismo lockiano e dal

giusnaturalismo, come testimonia il brano qui riportato: “Noi riteniamo

che siano per se stesse evidenti queste verità, che tutti gli uomini sono

creati eguali, che essi sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti,

che tra questi ci sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità;

che per garantire questi diritti, sono istituiti tra gli Uomini Governi che

derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni volta che

una qualsiasi Forma di Governo diventa lesiva di questi fini, il Popolo ha

il Diritto di mutarla o abolirla, e di istituire un nuovo Governo, fondato su

tali principi e di organizzarne i suoi poteri nella forma che sembri al

Popolo meglio adatta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”

[traduzione mia]83. Per la prima volta vennero riconosciuti dei diritti

universali, e non più soltanto di alcuni. Con la vittoria militare 82 Cfr. Michel Foucault, Sécurité, territoire, population, Corso al Collège de France (1977-1978), Paris, Gallimard-Seuil, 2004. 83 “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness; That to secure these rights, Governments are instituted among Men, deriving their just powers from the consent of the governed; That whenever any Form of Government becomes destructive of these ends, it is the Right of the People to alter or to abolish it, and to institute new Government, laying its foundation on such principles and organizing its powers in such form, as to them shall seem most likely to effect their Safety and Happiness”, Dichiarazione d’indipendenza americana, 1776.

64

sull’Inghilterra, l’indipendenza reale e la stesura della Costituzione del

1787, a questi diritti vennero date dignità legale e applicazione concreta.

Poco dopo, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del

cittadino del 1789 fece lo stesso in Francia.

Rispetto ai rivoluzionari americani però, quelli francesi vennero

maggiormente influenzati da pensatori come Rousseau che, seppur

illuministi, anteponevano la società all’individuo. Può apparire strano

collocare il filosofo francese tra gli ‘olisti’, visto che – come riporta

Laurent – ne Il contratto sociale (1762) aveva definito l’individuo

originariamente “perfetto e solitario”84. Il fatto è che Rousseau, come

Hobbes, partiva da premesse fortemente individualiste per giungere a

conclusioni che, nella sostanza, erano oliste e anti-individualiste. La sua

concezione estremamente astratta dell’individuo lo portava a vedere

un’uguaglianza di fondo nell’essenza di tutti gli uomini sotto le differenze

superficiali, per cui la ‘volontà generale’ del popolo omogoneo doveva

essere una sola. In questo modo, come nota Taylor, “non resta un posto

legittimo per l’interesse privato, nemmeno quando è subordinato

all’amore del bene generale”85: il cittadino è privato dei suoi diritti

naturali a beneficio della volontà generale.

Gradualmente, durante della Rivoluzione francese, questa visione

assunse sempre più importanza, attribuendo un peso crescente

all’uguaglianza a scapito della libertà. Tale spostamento dell’equilibrio

tra i due ideali produsse quello che è stato definito ‘Terrore

rivoluzionario’.

Se in Francia il limite principale della Rivoluzione fu lo slittamento

su posizioni esageratamente egualitarie, che frenarono le rivendicazioni

individualiste sul piano delle libertà, la contraddizione più stridente della

84 Cit. in Alain Laurent, op. cit., p. 88. 85 Charles Taoylor, op. cit., p. 123.

65

Rivoluzione americana era costituita dall’inconciliabilità tra il

riconoscimento di diritti universali a tutti gli esseri umani e la pratica

dello schiavismo, dilagante nelle ex-colonie del sud.

L’ambiguità nei confronti della questione degli schiavi era comunque

un tratto caratteristico di tutto l’Illuminismo, i cui rappresentanti più

autorevoli non sostenevano posizioni apertamente abolizioniste. Da un

punto di vista morale, scegliendo criteri teologici e appellandosi alla

Bibbia, non si poteva negare che nell’Antico Testamento i patriarchi

possedessero degli schiavi. Se invece si sceglieva di affidare la soluzione

della questione alla scienza, si poneva il problema di determinare la

natura umana o animale degli schiavi di colore e – anche se oggi può

apparire assurdo – le opinioni a riguardo erano contrastanti. Così, pur

cercando di usare la ragione illuminista, era difficile giungere ad una

condanna morale definitiva della schiavitù, anche se la percezione della

fragilità delle argomentazioni schiaviste era diffusa. Lo stesso Thomas

Jefferson, pur essendo un abolizionista moderato, non era convinto

dell’uguaglianza tra bianchi e neri, e accettò di non inserire norme per la

liberazione degli schiavi nella Dichiarazione d’indipendenza. È noto però

che, accanto alle questioni morali a cui si è accennato, un ruolo

determinante è stato giocato a riguardo dalla fondamentale importanza

degli schiavi per l’economia di tutti gli stati del sud, basata su

un’agricoltura di tipo estensivo organizzata in grandi piantagioni e

bisognosa di una gigantesca mole di forza-lavoro.

In conclusione, dopo esserci soffermati sulle questioni riguardanti il

processo di individualizzazione e lo sviluppo delle dottrine individualiste,

si può aggiungere che ciò che è cambiato davvero con il graduale

passaggio alla modernità sono gli immaginari sociali, cioè “i modi in cui

gli individui immaginano la loro esistenza sociale, il modo in cui le loro

esistenze si intrecciano a quelle degli altri, come si strutturano i loro

66

rapporti, le aspettative che sono normalmente soddisfatte, e le più

profonde nozioni e immagini normative su cui si basano tali

aspettative”86. Ma come sono cambiati tali immaginari nei secoli di cui si

è parlato? Secondo Taylor, “la nostra prima autocomprensione [era]

profondamente radicata nella società. La nostra identità essenziale era

quella di padre, figlio, ecc., e di membro di [una] tribù”; solo in seguito,

con la lenta transizione verso la modernità, “abbiamo cominciato a

concepirci anzitutto come individui liberi” [corsivo mio]87. Questo è ciò

che lo studioso canadese ha definito ‘grande sradicamento’, e che ha

sancito il passaggio da società tradizionali e oliste a società nuove

gravitanti intorno ad un individuo più libero e indipendente.

86 Ivi, p. 37. 87 Ivi, p. 74.

67

CAPITOLO IV

INDIVIDUALISMO E SOCIETÀ BORGHESE OTTOCENTESCA

1. Individualizzazione e stratificazione sociale nello sviluppo della

borghesia

Nel corso del XIX secolo l’esperienza dell’individualizzazione si

cominciò ad allargare a cerchie sempre più ampie di popolazione, ancora

minoritarie ma molto più consistenti da un punto di vista numerico

rispetto al passato. Come afferma Laurent, “se sul piano sociologico ci si

può chiedere se si tratti già di un fenomeno veramente di massa su scala

europea, su un altro piano non si può ignorare che, nella prima metà del

XIX secolo, l’accesso ad un’indipendenza individuale diffusa cessa di

essere appannaggio di un piccolo gruppo di privilegiati per estendersi ad

una robusta minoranza che, nel processo di individualizzazione, fa da

modello ad una maggioranza all’interno della quale i giovani, che

appartengono alla nuova borghesia urbana e che cominciano ad

emanciparsi dal paternalismo tradizionale e a vivere al di fuori della tutela

familiare, ne rappresentano la forza motrice”88.

Tra le tante cause di questo parziale distacco dei giovani borghesi

dalla famiglia, che ha permesso loro di sottrarsi al controllo paterno, c’è

probabilmente anche il precipitato storico e politico delle dottrine

individualiste settecentesche di cui si è parlato. L’accento posto sulla

libertà e sull’uguaglianza di tutti i cittadini ha infatti scardinato l’ordine 88 Alain Laurent, op. cit., p. 56.

68

morale premoderno imperniato sull’idea di una gerarchia sociale

ascrittiva e tendenzialmente restia ai mutamenti. Uno degli aspetti più

importanti della cultura borghese ottocentesca, originata in buona parte

dall’individualismo quantitativo, è – secondo Andrea Millefiorini –

proprio il fatto che si “affermò definitivamente il valore dell’azione

‘elettiva’ rispetto a quella ‘ascrittiva’ nella società europea, e ancor di più

in quella americana”89.

Certamente questi processi trovarono nello sviluppo della rivoluzione

industriale una base di particolare importanza. L’esodo di molti contadini

verso le città, la loro trasformazione in operai e la retribuzione in denaro

immediatamente spendibile li sradicarono dalla terra e dalle comunità

d’origine, rendendoli più individualizzati, anche se non necessariamente

più liberi. Anche i borghesi furono investiti da quest’ondata di

mutamenti, che fecero aumentare esponenzialmente la divisione del

lavoro, producendo una sempre maggiore differenziazione tra le attività

svolte dai singoli individui. In questo senso, un nesso importante tra lo

sviluppo dell’individualizzazione e la rivoluzione industriale è rilevabile

nel declino delle appartenenze tradizionali, ma anche – contestualmente –

nello sviluppo di forme più astratte e complesse di legami sociali, come

fu all’epoca messo in evidenza sia da Durkheim che da Simmel.

Sarebbe dunque un errore ridurre l’individualizzazione ad una

semplice perdita d’appartenenza. Ciò è particolarmente evidente quando

si considera il processo di individualizzazione da un punto di vista

culturale, con lo sviluppo di quella che Durkheim ha chiamato

‘individualizzazione morale’. Taylor ha efficacemente sintetizzato questo

nesso osservando che “l’individualismo moderno, in quanto idea morale,

non significa la completa scomparsa delle appartenenze – questo è

l’individualismo dell’anomia e del tracollo sociale – significa solo 89 Andrea Millefiorini, op. cit., p. 67.

69

immaginarsi come membri di entità sempre più ampie e impersonali: lo

Stato, il movimento, la comunità umana nel suo complesso”90. In questo

senso, sono stati proprio l’individualismo quantitativo e le rivoluzioni,

che ne hanno in qualche modo veicolato le idee, a consentire tale

passaggio, anche attraverso la concezione astratta dell’individuo91. Come

nota ancora Taylor, “siamo passati da un ordine gerarchico di legami

personalizzati a un ordine impersonale ugualitario”92.

Proprio questo nuovo senso d’appartenenza allo stato moderno ci

porta a parlare di un’altra caratteristica della cultura borghese

ottocentesca: il patriottismo. Questo ideale, spesso declinato nella sua

forma più aggressiva, il nazionalismo, era praticamente sconosciuto alle

masse fino al XIX secolo. Nonostante ciò, con la rottura dei precedenti

vincoli sociali premoderni e la perdita del senso d’appartenenza che li

accompagnava, il concetto di patria divenne uno strumento formidabile

per rafforzare la coesione sociale. In particolare, esso era “in grado di

motivare [i cittadini] verso un sentimento d’unione, di riconoscimento

comune, ed offriva così uno stabile appoggio a quel bisogno identitario

che […] in una cultura individualistica e moderna è sempre a rischio di

non essere pienamente soddisfatto, e di far così ricadere l’individuo in

una condizione di anomia”93. In sostanza, si sentiva la necessità di

colmare il vuoto lasciato dalla dissoluzione, o comunque dal forte

indebolimento, del senso d’appartenenza comunitaria.

Il concetto di patria e quello di nazione traevano la propria forza

principalmente dall’idea, non sempre storicamente fondata, di un passato

e di una storia comuni. Non a caso entrambi i termini contengono, nella

propria etimologia, un riferimento rispettivamente alla terra dei padri e a 90 Charles Taylor, op. cit., p. 155. 91 L’immaginarsi come membro di uno stato significa non sentirsi più solo o principalmente padre, figlio, ecc., ma cittadino astratto dotato degli stessi diritti degli altri. 92 Ivi, p. 154. 93 Andrea Millefiorini, op. cit., p. 86.

70

quella della nascita, dell’origine. Questi elementi erano particolarmente

importanti per quei paesi – soprattutto la Germania – che intendevano il

concetto di patria in senso naturalistico, e quindi legato all’idea di

comunità di sangue, di un comune ceppo etnico originario. Nel resto

dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti invece prevaleva

un’impostazione volontaristica, per cui chiunque poteva far parte di una

nazione se ne accettava i costumi e i valori fondanti. Chiaramente, in

relazione al concetto di patria, per questi paesi assumevano grande

importanza elementi come la costituzione, le istituzioni politiche e

giudiziarie e l’idea della costruzione di un futuro comune.

È opportuno osservare che nella nostra prospettiva le categorie di

patria e di nazione consentivano l’elaborazione di identità collettive

all’interno delle quali la differenziazione funzionale potesse svilupparsi

senza ledere la coesione sociale. In questo senso, ciò costituiva un fattore

di incremento dell’individualizzazione.

L’estensione a nuovi strati di popolazione e la crescita qualitativa del

processo di individualizzazione portarono gli studiosi del tempo ad

occuparsi in modo più attento e diretto delle dottrine individualiste. Se da

una parte questo diede vita a diverse correnti a sostegno

dell’individualismo, la diffusione delle nuove idee, soprattutto in Francia

dopo la Rivoluzione, produsse anche i primi nemici dell’individualismo

in quanto tale.

Il nesso tra stratificazione sociale e individualizzazione si manifestò

in termini ideologici attraverso l’elaborazione di concezioni diverse

dell’individualismo, connesse a differenti posizioni sociali. In un’analisi

di queste articolazioni, Laurent ha individuato tre principali correnti di

ideologie individualiste.

La prima è quella dell’individualismo liberale, erede diretto della

tradizione settecentesca. I pensatori che vi aderiscono sono “nemici del

71

disordine come del dispotismo […] [e] […] giudicano auspicabile e

possibile istituzionalizzare l’autoregolazione del rispetto dei diritti

naturali dell’uomo, formalizzandone giuridicamente tutte le

implicazioni”; in tale corrente “l’individuo e il suo desiderio di libertà

non si oppongono alla società in quanto tale ma alle sue forme

coercitive”94.

Questa corrente era maggioritaria tra gli individualisti ottocenteschi,

ed in particolar modo in Inghilterra, con interpreti come J. S. Mill, e in

Francia, dove spiccavano tra gli altri Constant e Bastiat. Nonostante ciò,

nel corso dell’Ottocento comincia a delinearsi un secondo ramo

individualista: l’individualismo progressista. Si tratta di una linea di

pensiero che “veicola aspirazioni egualitarie (suffragio universale) e

libertarie (divorzio, laicismo) nelle quali i fautori del progresso possono

riconoscersi”95. Laurent si riferisce in questo caso soprattutto agli

intellettuali di sinistra e socialisti, che giungeranno ad affermare con varie

sfumature che individualismo e socialismo sono interdipendenti e

indissolubilmente legati. Jaurès, per esempio, in Socialisme et liberté

(1898) afferma che “il socialismo è l’individualismo logico e

completo”96.

Questa tesi è formulata anche da Durkheim, che però assume una

posizione differente, pur concordando sul nesso tra socialismo e

individualismo. In una lettera del marzo 1898, afferma che

l’individualismo è “il nostro solo fine collettivo; che lungi dal disperderci

è il solo centro di collegamento possibile; […] il socialismo è un ramo

della stessa corrente”97. In realtà, la posizione del sociologo francese è più

complessa, perché l’individualismo durkheimiano sembra esaltare l’idea

94 Alain Laurent, op. cit., p. 58. 95 Ivi, p. 65. 96 Cit. in Alain Laurent, op. cit., p. 67. 97 Cit. in Alain Laurent, op. cit., p. 67.

72

di uguaglianza e di pari dignità degli individui, ma si oppone fermamente

ad altre dottrine individualiste, in modo particolare in campo

epistemologico. Certamente Durkheim ha saputo cogliere più e meglio di

altri la natura sociale del concetto di individuo e da questa prospettiva ha

potuto efficacemente sviluppare un approccio originale rispetto al legame

tra individuo e modernità. Ciò diviene evidente quando si considera

questa posizione proprio a partire dalle sue implicazioni epistemologiche.

Per il sociologo francese, la realtà della società – ha scritto Bontempi –

“non è una derivazione delle proprietà degli individui, ma una vera e

propria realtà empirica logicamente distinta da quella individuale delle

percezioni sensibili, sebbene strettamente collegata ad essa”; i

partecipanti ai rituali ad esempio, come già visto nella parte sulle società

tribali, “vivono un’esperienza di superamento dell’individualità in una

realtà non-individuale che esiste per ciascuna persona nella misura in cui

implica reciprocamente la partecipazione degli altri e per questo è

un’esperienza condivisa tra tutti i partecipanti”98.

La terza categoria definita da Laurent è quella dei cosiddetti

individualisti radicali. Si tratta di una piccola minoranza di intellettuali

estremisti, diversissimi tra loro, ma che “hanno in comune un gusto

viscerale per la singolarità, un amore selvaggio per la solitudine e

professano un individualismo risolutamente asociale e sovversivo”99. È

probabilmente proprio la somma di queste caratteristiche a renderli

‘geneticamente’ impossibilitati, e certamente poco interessati, a

conquistare le masse con la loro dottrina. Ciò che li contraddistingue è un

forte pessimismo nei confronti del futuro, generato da un giudizio

negativo sui cambiamenti avvenuti con il passaggio alla modernità. Le

principali critiche formulate riguardano il liberalismo economico, che a 98 Marco Bontempi, “Un altro illuminismo è possibile? Ragione e razionalità nella sociologia di Durkheim”, in Quaderni di Teoria Sociale, 2006, n. 6, p. 16. 99 Alain Laurent, op. cit., p. 68.

73

loro avviso non favorisce l’individualismo, ma anzi sottomette gli

individui alle leggi del mercato, mentre la crescente divisione del lavoro

li rende sempre più dipendenti gli uni dagli altri, e quindi meno autonomi.

Inoltre, si ritiene che l’estensione dell’individualizzazione alle masse

aggravi la situazione, perché il conformismo del popolo e la sua cieca

obbedienza inquinano l’ideale individualista. Appare in questo modo

evidente il carattere fortemente elitista degli individualisti assoluti.

Il tipo di individualismo al quale questi pensatori hanno dato vita è

quello che Lukes ha definito individualismo etico. Questa corrente di

pensiero era già stata più volte anticipata nel corso della storia, come nel

caso di alcuni filosofi greci, ma nessuno aveva mai portato il

ragionamento alle sue estreme conseguenze. Il primo pensatore che

formulò in modo sistematico una dottrina di questo tipo fu – secondo

Lukes – Hobbes con il suo ‘egoismo etico’. In sostanza, il cuore della

teoria stava nel ritenere il beneficio individuale ottenuto da un’azione

come l’unico criterio rilevante per giudicarne la moralità.

L’individualismo etico vero e proprio si sviluppò però solo

nell’Ottocento con alcuni dei più celebri intellettuali dell’epoca, tra i quali

spiccano Baudelaire, Kierkegaard, Stirner e per molti versi anche

Nietzsche. Secondo questa dottrina, o almeno secondo la sintesi che ne fa

Lukes, “la fonte della moralità, dei valori e dei principi morali, il creatore

dei soli criteri di valutazione morale, è l’individuo: egli diventa l’arbitro

supremo dei valori […] morali, l’autorità morale ultima nel senso più

fondamentale” [traduzione mia]100. Tutto ciò non è che la logica

conseguenza dell’accettazione dell’autonomia individuale sviluppatasi in

campo religioso con la Riforma protestante e in campo filosofico con il

100 “the source of morality, of moral values and principles, the creator of the very criteria of moral evaluation, is the individual: he becomes the supreme arbiter of moral […] values, the final moral authority in the most fundamental sense”, Steven Lukes, op. cit., p. 88.

74

razionalismo cartesiano e con l’Illuminismo, che sostenevano

l’autonomia della ragione umana.

Come già anticipato, è a questo tipo di dottrina che si ispira

Nietzsche, anche se si tratta di un caso sui generis. Secondo Laurent,

l’Übermensch che egli esalta “rappresenta il compimento ultimo e

iperbolico della storia dell’individualismo […] Esso rompe

irrimediabilmente con l’idea di associazione di simili o di ricostruzione di

una libera società. Aspirando alla sovranità sulla propria vita più che alla

vita stessa, l’individuo nietzschiano crea se stesso in solitudine e crea i

propri valori”101. In questo senso, se il controllo della propria esistenza

diventa l’obiettivo primario, le motivazioni che hanno spinto gli uomini

ad unirsi in società politiche, come ad esempio una maggiore sicurezza,

non sono più abbastanza rilevanti da giustificare la perdita di libertà e di

indipendenza che un ingresso in società comporta.

Pare difficile però affermare, come ha fatto Laurent, che Nietzsche

sia colui che ha portato a compimento l’individualismo in generale. Il

filosofo tedesco ha probabilmente condotto alle sue estreme conseguenze

l’individualismo etico, ma nel fare ciò si è messo in contrasto con altre

forme di individualismo, ed in particolare con l’individualismo politico,

intriso di quel contrattualismo sociale che Nietzsche voleva distruggere

perché limitante per l’autonomia individuale. Come osserva Crespi,

Nietzsche ritiene che il tipo di individuo prodotto dal Settecento, che noi

abbiamo definito astratto, non sia che “una maschera illusoria, avente la

funzione di fissare la molteplicità delle espressioni della vita tramite una

rassicurante stabilità e continuità”102.

101 Alain Laurent, op. cit., pp. 71-72. 102 Franco Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 26.

75

2. L’individualismo ‘qualitativo’

Secondo Simmel, l’Ottocento ha visto soprattutto il passaggio da un

individualismo quantitativo, del quale abbiamo già parlato, ad uno

qualitativo.

Per il sociologo tedesco, l’unione settecentesca “di libertà e

uguaglianza, o, altrimenti detto, di individualità e uguaglianza, nel XIX

secolo si spezzò in due correnti del tutto divergenti. Servendoci di

concetti generali, che necessitano di molte riserve, noi le designamo come

tendenza all’uguaglianza senza individualità e all’individualità senza

uguaglianza. La prima […] si incarna essenzialmente nel socialismo, […]

l’altra ha creato quella forma di individualismo che […] si sviluppa da

Goethe attraverso Schleichermacher e il Romanticismo fino al

nietzschianesimo”103, e che lo stesso Simmel ha definito individualismo

qualitativo. Questa posizione si distacca da quella di Laurent in almeno

due punti: il primo sta nel fatto di non considerare nessun tipo di

socialismo come una forma di individualismo; il secondo consiste nella

maggiore rilevanza data ad una corrente fondamentale, sviluppatasi

soprattutto in Germania, che pone al centro della propria attenzione la

libertà, ma lo fa in modo diverso dal pensiero liberale anglo-francese.

Infatti, mentre quest’ultimo rappresenta l’individualismo

dell’uguaglianza, e cioè quello che tende ad evidenziare i tratti comuni a

tutti gli esseri umani, il nuovo filone tedesco costituirà l’individualismo

della diversità, che porrà l’accento sui caratteri che differenziano i singoli

esseri umani e rendono ogni individuo unico e irripetibile. Il

Romanticismo partiva infatti da presupposti storici differenti rispetto a

quelli del giusnaturalismo e del contrattualismo. Una volta che questi

ultimi avevano conquistato l’uguaglianza per tutti gli uomini attraverso la 103 Georg Simmel, op. cit., p. 39.

76

concettualizzazione di un individuo astratto e la messa in pratica di

dottrine conseguenti in campo politico, si può pensare di far emergere le

differenze e le inclinazioni individuali senza paura di cedere spazio alle

ingiustizie e ai privilegi. L’esigenza dell’autenticità incide dunque in

modo profondo sullo sviluppo dell’individualizzazione: “gli individui resi

autonomi vogliono anche distinguersi l’uno dall’altro;” – ha scritto

Simmel – “non importa più essere in generale un singolo libero, bensì

essere questo essere determinato e non scambiabile. […] La formazione

ideale caratteristica del XIX secolo prevedeva individui del tutto

differenziati a causa della divisione del lavoro, tenuti insieme da

organizzazioni, che si basavano proprio sulla divisone del lavoro e

sull’intrecciarsi di questi elementi differenziati” [corsivo originale]104. In

questo senso, siamo in sintonia con il concetto di solidarietà organica di

Durkheim, al quale si è già accennato.

Anche Lukes segue Simmel nel ritenere il Romanticismo e

l’individualismo tedesco dimensioni centrali per il processo di

individualizzazione, tanto da farne una delle sue idee-base, che chiama

self-development105. L’aspetto più interessante – secondo Lukes – è il

fatto che questa forma di individualismo rappresenti “un ideale il cui

contenuto varia con differenti idee del self su un continuum che va dal

puro egoismo ad un forte comunitarismo”106. Al primo estremo si

potrebbe probabilmente collocare Nietzsche con il suo elitismo

‘aristocratico’ e asociale, mentre sul fronte opposto Lukes indica la

104 Georg Simmel, op. cit., p. 40. 105 Riguardo a questo termine si pone un problema di traduzione. Molti traduttori, come ad esempio Lorella Cedroni (nella versione italiana di una parte di Individualism di Lukes apparsa sulla rivista La società degli individui, 2000, n. 7, p. 138), hanno scelto il termine italiano ‘auto-realizzazione’, che sembra però connotato da un’idea di predeterminazione, che fa pensare di dover divenire ciò che è già insito nella propria natura. In alternativa, si potrebbe scegliere anche il termine ‘auto-sviluppo’, che appare più fedele da un punto di vista etimologico e lessicale, e che contiene un’idea di crescita spontanea e non predefinita. Data questa ambivalenza concettuale, ho preferito non tradurre il termine self-development. 106 “an ideal whose content varies with different ideas of the self on a continuum from pure egoism to strong communitarism”, Steven Lukes, op. cit., p. 68.

77

posizione di Marx, secondo il quale in ogni uomo sono insite delle

potenzialità, e il loro sviluppo è un bisogno umano che se non soddisfatto

porta all’alienazione, ma tali potenzialità si possono esprimere solo

all’interno di una comunità.

Il tema del self-development e le sue implicazioni problematiche sono

ricostruite in modo efficace da Taylor nel suo celebre lavoro intitolato Il

disagio della modernità. Lo studioso canadese pone a questo riguardo

l’accento sull’importanza culturale e sociale del Romanticismo, citando

ad esempio la posizione di Herder, secondo cui ognuno ha una sua

essenza unica e irripetibile e il suo modo di essere uomo, e affermando

che “quest’idea ha messo radici profondissime nella coscienza

moderna”107. In particolare, l’esperienza romantica influenzerà i giovani

borghesi, che per la prima volta pretenderanno di poter decidere cosa fare

della propria vita, sia in amore, attraverso la personale scelta del partner,

sia in campo lavorativo, scegliendo quale attività svolgere.

3. Gli Stati Uniti e l’individualismo come valore fondante della

nazione

Mentre in Europa, e in Francia in modo particolare, imperversavano

le critiche alle dottrine individualiste, in America, dopo il conseguimento

dell’indipendenza, l’individualismo inteso in senso lato divenne – come

ha detto Lukes – “un termine simbolico con un significato ideologico

straordinario, esprimente tutto ciò che nelle varie epoche era stato incluso

nella filosofia dei diritti naturali, nel credo nella libera impresa, e nel

Sogno Americano”, tanto da divenire una sorta di “simbolo di

107 Charles Taylor, Il disagio della modernità, cit., p. 35.

78

identificazione nazionale” [traduzione mia]108, un valore fondante della

giovane nazione americana.

Di fronte ad un’accoglienza tanto trionfale risulta spontaneo

chiedersi: quali sono state le ragioni di questa idealizzazione

dell’individualismo, che ha contrastato sul nascere con grande successo

qualunque forma di dottrina e sé contraria? Tra le tante possibili

spiegazioni prospettate dai vari autori, ne ho selezionate alcune che

sembrano avere una rilevanza particolare.

Secondo Taylor, il motivo principale che ha determinato il successo

del processo di individualizzazione, e di conseguenza delle dottrine

individualiste, è dato dall’apertura della frontiera ad ovest dopo il

distacco dall’Inghilterra. Così, “l’indipendenza divenne una realtà per un

gran numero di giovani, e spesso anche di donne, che potevano e in effetti

fecero fortuna da soli, lasciando le proprie famiglie e in molti casi

rompendo con le loro comunità e con i tradizionali legami di

dipendenza”109.

Su questa linea si colloca anche Laurent, che però, oltre ad affermare

l’importanza della frontiera, aggiunge degli elementi nuovi. Il primo di

questi consiste nel porre l’attenzione sul fatto che gli Stati Uniti,

soprattutto nel nord, vennero colonizzati da emigranti inglesi e

protestanti, fortemente inclini all’autogoverno e alla libera iniziativa

individuale. Inoltre, la mancanza di una gerarchia consolidata aveva

escluso in partenza molti potenziali oppositori, ed in particolare nobili e

alto clero spaventati dall’idea di perdere i propri privilegi. In questo

senso, si potrebbe forse stabilire un parallelismo con le antiche colonie

della Magna Grecia che, proprio grazie ad una distanza geografica

108 “a symbolic catchword of immense ideological significance, expressing all that at various times been implied in the philosophy of natural rights, the belief in free enterprise, and the American Dream […] a symbol of national identification”, Steven Lukes, op. cit., pp. 37-38. 109 Charles Taylor, Gli immaginari sociali moderni, cit., p. 146.

79

favorevole all’autogoverno e alla mancanza di sistemi gerarchici

particolarmente solidi e strutturati, concessero per prime maggiore

autonomia ai singoli individui, proprio come faranno in seguito gli Stati

Uniti rispetto all’Inghilterra. Infine – sempre secondo Laurent – la

successiva immigrazione, molto differenziata da un punto di vista etnico,

“farà del libero individuo dall’appartenenza relativa, il cardine e il

protagonista di una vita sociale, economia e politica aperta”110. In

quest’ottica, come fa acutemente notare Tocqueville, assunse grande

importanza l’associazionismo, che svolse una funzione d’integrazione

comunitaria in genere affidata in modo quasi esclusivo allo stato

nazionale.

Un’ultima ragione di tale mancanza di solide correnti di opposizione

all’individualismo, evidenziata soprattutto da Millefiorini, è contenuta

nella differenza tra individualismo europeo e americano. L’elemento

principale di questa diversità è dato dal maggiore egualitarismo

dell’individualismo americano, prodotto soprattutto dalle ragioni di cui si

è precedentemente parlato, ed in particolare dalla mancanza di gerarchie

consolidate dal tempo. Tutto ciò ha favorito una maggiore mobilità

sociale rispetto all’Europa, facendo sì che chiunque avesse la possibilità

potenziale di arricchirsi. Probabilmente è proprio questa l’essenza del

cosiddetto ‘Sogno Americano’. A dimostrazione del maggiore

egualitarismo si può di nuovo chiamare in causa Tocqueville, che nel suo

celebre libro intitolato La democrazia in America afferma: “negli Stati

Uniti le professioni sono più o meno faticose, più o meno lucrative, ma

non sono mai alte o basse; ogni professione onesta è onorevole”111.

Questo aspetto è importante, perché l’impostazione più egualitaria

dell’individualismo americano ha probabilmente contribuito a soffocare

110 Alain Laurent, op. cit., p. 95. 111 Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Milano, Rizzoli, 1982, p. 568.

80

sul nascere lo sviluppo di una corrente critica di tipo progressista-

egualitario.

81

CAPITOLO V

IL XX SECOLO: ECLISSI DELL’INDIVIDUALISMO,

TRIONFO DELL’INDIVIDUALIZZAZIONE?

1. Forme metropolitane dell’individualizzazione e società di massa

Nel periodo che va dagli ultimi decenni del XIX ai primi del XX

secolo, l’Occidente è passato da una società ancora fortemente

caratterizzata da marcate forme di stratificazione sociale, tanto nel reddito

quanto negli stili di vita, ad una società – cosiddetta ‘di massa’ – in cui

alcuni dei fattori della stratificazione, soprattutto di carattere culturale,

assumono una diffusione che segna un cambiamento profondo nelle

dinamiche di riproduzione sociale. Questo fenomeno viene in genere

indicato come contraddistinto, tra le altre cose, dal trasferimento di buona

parte della popolazione dalle attività agricole delle campagne a quelle

industriali delle città, portando allo sviluppo di centri urbani di grandi

dimensioni. Georg Simmel è stato il primo sociologo ad occuparsi in

modo approfondito di questi nuovi agglomerati abitativi, vivendo e

osservando gli anni dell’impressionante crescita demografica di Berlino,

che passò da un milione di abitanti nel 1877 a due e mezzo nel 1900.

Le metropoli hanno così precorso i tempi, mettendo in evidenza già a

cavallo tra Ottocento e Novecento le potenzialità, i problemi e le

contraddizioni che si sarebbero poi manifestati nei decenni successivi con

il pieno dispiegamento della moderna società di massa.

82

Per le sue ricerche, Simmel sceglie, contro l’uso del tempo, di

prendere come punto di riferimento l’individuo nelle sue dinamiche

psicologiche e sociali, e partendo da questi presupposti metodologici

individua almeno due caratteristiche delle metropoli molto rilevanti per

capire il “tipo delle individualità metropolitane”112.

Il primo tratto particolare delle grandi città moderne consiste

nell’essere la sede naturale dell’economia monetaria, perché in esse gli

scambi si intensificano tanto da rendere il denaro indispensabile come

mezzo di scambio; nelle campagne invece, la minore quantità di merce

circolante attenua la rilevanza di tale medium. In questa situazione, da un

punto di vista economico-psicologico – afferma Simmel – “l’essenziale

[…] è che in condizioni più primitive si produce per un cliente che ordina

la merce, così che produttore e cliente si conoscono reciprocamente. La

metropoli moderna, al contrario, vive quasi esclusivamente della

produzione per il mercato, cioè per clienti totalmente sconosciuti, che

non entrano mai nel raggio visuale del vero produttore. Questo fa sì che

l’interesse di entrambe le parti diventi di una spietata oggettività; il loro

egoismo economico, basato sul calcolo intellettuale, non deve temere

nessuna distrazione che provenga dall’imponderabilità delle relazioni

umane” [corsivo mio]113. Le relazioni economiche vengono

spersonalizzate e guidate dalla semplice razionalità ‘contabile’. Questo

produce un effetto molto rilevante dal nostro punto di vista, cioè il fatto

che il denaro, da semplice medium per lo scambio di beni, diventa il

parametro di riferimento per le relazioni umane, attraverso quella che

Simmel definisce “mera neutralità oggettiva”114. L’egoismo economico

che si instaura induce a considerare gli individui solo in relazione al

guadagno che possono portare. Come già detto in riferimento 112 Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando Editore, 1995, p. 36. 113 Ivi, p. 39. 114 Ivi, p. 38.

83

all’utilitarismo settecentesco, un atteggiamento di questo tipo produce

delle contraddizioni in relazione all’individualismo, perché se da una

parte favorisce lo sviluppo di un individualismo economico estremo,

dall’altra nega la dignità intrinseca dell’essere umano, ridotto ad un

valore monetario. Tutto ciò garantisce un certo grado di libertà

individuale dovuto all’eliminazione dei vincoli tradizionali, ma allo

stesso tempo tale libertà viene limitata dal fatto che – come nota Bettin –

gli individui “da attori economici si trasformano in oggetto di azione

economica”115.

Oltre a questa prima fondamentale caratteristica delle metropoli, che

le differenzia dagli altri tipi di insediamento, Simmel ne individua anche

una seconda: l’intensificazione della vita nervosa, prodotta da un aumento

esponenziale di stimoli sensoriali, sollecitazioni, relazioni e impressioni

sia esteriori che interiori.

La somma delle due peculiarità sopra esposte produce – sempre

secondo Simmel – il comportamento tipico degli abitanti delle metropoli:

l’essere blasé. Questo atteggiamento psicologico consiste sostanzialmente

“nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze tra le cose, non

nel senso che queste non siano percepite – come sarebbe il caso per un

idiota – ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con

ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come

irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco,

incapace di suscitare preferenze”116. Quest’indifferenza generalizzata è

prodotta da una parte dal fatto che se il denaro costituisce il termine

universale di paragone, tutte le differenze qualitative degli oggetti (uso,

materiale, peso, colore,…) diventano quantitative (costo). Dall’altra parte,

l’atteggiamento blasé ha anche una funzione ‘difensiva’ rispetto al

115 Gianfranco Bettin, op. cit., p. 112. 116 Georg Simmel, op. cit., p. 43.

84

numero eccessivo di stimoli nervosi. Se all’incredibile quantità di contatti

esteriori corrispondesse un numero altrettanto grande di relazioni

interiori, l’individuo diverrebbe “interiormente del tutto disintegrato”,

finendo per trovarsi “in una condizione psicologica insostenibile”117.

Dal nostro punto di vista appare molto interessante un’ulteriore

osservazione di Simmel sul rapporto tra l’aumento degli stimoli nervosi e

la percezione del proprio io. Secondo il sociologo tedesco, l’io “si eleva

al di sopra di questi stimoli solo nella misura in cui, proprio attraverso la

grande quantità delle loro diversità, diviene evidente alla nostra coscienza

che l’io stesso ne è il fattore comune”118. Da queste premesse si può

facilmente concludere che le moderne società metropolitane,

moltiplicando la quantità di stimoli esterni, favoriscono lo sviluppo di un

io personale e unico, con conseguenze molto rilevanti sul processo di

individualizzazione.

Accanto a quest’evoluzione della personalità in senso

individualizzante e alla libertà che la metropoli offre, va evidenziato

anche come la distruzione dei legami tradizionali possa produrre un senso

di profonda solitudine e di alienazione, facendo sì che “a volte non ci si

senta da nessuna parte così soli e abbandonati come nel brulichìo della

metropoli: qui come altrove, non è detto affatto che la libertà dell’uomo si

debba manifestare come un sentimento di benessere nella sua vita

affettiva”119.

Proprio per cercare di attenuare questa sensazione, gli abitanti delle

metropoli ricorrono a nuove forme di relazione sociale in sostituzione di

quelle tradizionali. La socievolezza, sulla quale Simmel ha scritto un

breve ma celebre saggio, fa parte di questi nuovi tipi di relazione. In una

realtà guidata dal razionalismo economico la socievolezza, definita come 117 Ivi, pp. 44-45. 118 Georg Simmel, Individuo e gruppo, cit., p. 130. 119 Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 49.

85

il “far società come valore in sé”120, costituisce una valvola di sfogo, un

momento in cui si mettono da parte i propri interessi materiali e le

motivazioni pratiche che spingono alle relazioni per lasciare il campo ad

un “rapporto puramente formale”121. In questi rapporti ciò che dà piacere

non è né il guadagno materiale che se ne può ottenere, né l’importanza

del tema di cui si discute, che deve anzi essere il più possibile neutrale per

evitare tensioni tra interessi contrapposti, ma la semplice forma della

conversazione. In questo senso, la socievolezza può essere intesa come

“arte dell’intrattenimento”122.

Riguardo alla struttura sociale che la metropoli produce, si può

sottolineare il fatto che viene favorito lo sviluppo di una divisione del

lavoro sempre maggiore. Infatti, da una parte le grandi dimensioni di un

insediamento urbano permettono di raggiungere la ‘massa critica’ di

popolazione necessaria all’offerta di una gamma sempre più ampia di

prestazioni particolari, mentre dall’altra la feroce concorrenza dovuta alla

gigantesca estensione quantitativa dell’offerta rende indispensabile una

sempre maggiore differenziazione qualitativa, portando alla crescita della

specializzazione individuale e quindi dell’individualizzazione.

Inoltre, Simmel estrapola dall’osservazione della realtà metropolitana

una regola generale, che ritiene applicabile a tutte le società umane:

“l’estensione quantitativa [della popolazione] provoca una crescente

differenziazione; le differenze interindividuali, originariamente minime,

riguardanti le attitudini esteriori e interiori ed il loro impiego, si

acutizzano a motivo della necessità di assicurarsi con mezzi sempre più

personali risorse vitali sempre più contese. La concorrenza sviluppa la

specificità dell’individuo in proporzione al numero di coloro che vi

120 Georg Simmel, La socievolezza, Roma, Armando Editore, 2005, p. 42. 121 Ivi, p. 43. 122 Ivi, p. 53.

86

partecipano” [corsivo mio]123. In sostanza, Simmel individua un rapporto

diretto tra la dimensione di un gruppo e la differenziazione e

l’individualizzazione in esso riscontrabili.

Tutto ciò produce una struttura sociale estremamente articolata e

complessa, in cui la coesione è garantita dalla forte interdipendenza tra

individui e in cui il processo di individualizzazione si trova ad uno stadio

mai raggiunto prima.

In conclusione, sembra opportuno sottolineare come gli effetti delle

innovazioni sociali prodotte dalle società metropolitane non si limitino

alle aree in questione, ma influenzino in modo significativo anche le vaste

regioni circostanti che per vari motivi intrattengono relazioni con le

metropoli.

2. La categoria di individuo nelle avanguardie artistiche

Proprio nelle grandi città di tutta l’Europa cominciarono a nascere

correnti culturali la cui tematizzazione dell’individualizzazione attraverso

le differenti forme di ‘celebrazione’ dell’individuo costituisce un

interessante indicatore sociologico della profondità di questo fenomeno.

In particolare in Italia si svilupparono vari filoni modernisti tra loro affini,

come quello futurista e quello che ruotava attorno alla rivista La Voce,

che vennero etichettati come ‘avanguardie’.

L’obiettivo di questi movimenti culturali era quello di sfruttare tutte le

potenzialità insite nel processo di modernizzazione e nelle nuove

tecnologie che si rendevano mano a mano disponibili, ma se i liberali

ritenevano che si dovesse lasciare libero sfogo a questo fiume impetuoso

e imprevedibile di cambiamenti, i modernisti miravano ad incanalarlo in

123 Georg Simmel, Individuo e gruppo, cit., p. 71.

87

una direzione decisa dall’uomo: volevano cavalcare l’onda, guidare la

modernità.

Per fare ciò, bisognava conferire significato alle trasformazioni in atto

– come osserva Bontempi – attraverso “un sistema di valori che esaltava

il mutamento, sottolineandone la dimensione etica e simbolica”124. Il

mutamento e il dinamismo come valori in sé divennero dunque elementi

centrali del pensiero modernista. Tutto ciò trovava espressione in una

specifica concezione dell’uomo, quella di un ‘uomo nuovo futurista’ che

fosse in grado di dominare le grandi forze del mutamento e della

modernizzazione, al fine di dirigerle nelle direzione voluta. Dal nostro

punto di vista può essere interessante notare come l’uomo futurista fosse

per definizione elitista e individualista, perché i modernisti ritenevano la

creatività individuale un requisito indispensabile per governare i

mutamenti.

Da questo approccio individualista discende una concezione della

società non come organismo biologico unitario e inscindibile di tipo

olista, ma come associazione di individui, come “comunità di fede”125,

importante solamente in quanto cornice all’interno della quale realizzare

la propria individualità nel senso di una riappropriazione del controllo

sulla realtà che permettesse un vero self-development.

La volontà di guidare la modernità attraverso la forza dell’uomo

nuovo portò gli avanguardisti a mitizzare la guerra126 come evento che

“offre l’opportunità dell’affermazione di un individualismo che domina

eticamente la potenza della tecnica, in una sorta di eroismo moderno”127.

Lo scoppio della prima guerra mondiale venne così salutato dai

modernisti come un’occasione imperdibile per dimostrare la loro potenza 124 Marco Bontempi, Mito politico e modernità, Padova, CEDAM, 1997, p. 97. 125 Ivi, p. 106. 126 Non a caso il termine ‘avanguardia’ in riferimento a movimenti artistici costituisce una metafora tratta dal linguaggio militare. 127 Ivi, p. 116.

88

dinamica. Dopo aver visto trionfare le proprie posizioni interventiste con

l’ingresso dell’Italia nel conflitto, molti intellettuali delle avanguardie si

arruolarono volontariamente nell’esercito ed entrarono nel corpo degli

arditi.

Mentre la guerra fu un’esperienza terribile per i comuni soldati di

fanteria che, fermi nelle trincee ed esposti a continui bombardamenti, si

sentivano impotenti davanti allo strapotere della tecnica e degli

armamenti moderni, facendo sì che “di fronte all’autonomia dell’evento,

l’identità dell’attore [il soldato] entrava in crisi”128, per gli arditi la

situazione fu completamente diversa. Questo reparto non era infatti stato

istituito per la guerra di logoramento nelle trincee, ma concepito come

corpo di volontari e d’élite votato al compimento di azioni

particolarmente rischiose e coraggiose. Così, l’azione militare diviene

“azione individuale, connotata, nei limiti delle possibilità militari, dei

tratti di autonomia e creatività, e attraverso questa azione l’individuo

mostra agli altri e a se stesso la capacità di dominare gli eventi bellici”

[corsivo mio]129. In tal senso, pare interessante notare che l’incontro tra la

concezione elitistica dell’individuo e l’esperienza della violenza bellica di

questa peculiare frazione dei militari impegnati al fronte trovò già prima

della fine della guerra un’elaborazione politica. Nel 1917 il futurista

Emilio Settimelli scriveva infatti: “Questa educazione politica è un bene

enorme. Non dovrà essere perduta quando – dopo la guerra – un grande

partito nazionale darà il ritmo della nuova vita italiana. L’educazione

dovrà continuarsi. Ormai la guerra – maestra severa – ha insegnato l’abc.

Bisogna continuare”130.

128 Ivi, p. 137. 129 Ivi, p. 142. 130 Emilio Settimelli, “Qual è la nostra più grande Vittoria”, in L’Italia Futurista, 1917, n. 1.

89

3. L’asservimento dell’individualizzazione alla sfera politica nei

regimi totalitari131

È proprio ad alcuni dei valori sopra citati che si rifaceva l’ideologia

fascista nelle sue fasi iniziali, quando la componente modernista e legata

agli arditi era maggioritaria all’interno del movimento. Con l’avvento al

potere però, gli ideali modernisti di cui Mussolini si era servito

evidenziarono i propri limiti intrinseci. Infatti, l’idea di dinamicità e di

cambiamento continuo come valori in sé e la conseguente incapacità di

passare da una struttura movimentista ad una istituzionale e fortemente

gerarchizzata rendevano difficile e contradditorio il rapporto tra i principi

modernisti e l’instaurazione di un regime, in particolare in relazione

all’attività di governo. Questa tensione interna tra modernisti e fascisti

istituzionali, ben riassunta dal contrasto tra D’Annunzio e Mussolini,

portò il partito sull’orlo di una scissione. In seguito, con la conquista del

potere e la sconfitta della componente modernista, vennero messe da

parte le istanze individualiste che l’avevano contraddista.

A ben vedere, questa tensione è facilmente comprensibile proprio per

la peculiare avversione che le ideologie totalitarie manifestano verso ogni

forma di individualismo. Tali ideologie partono infatti da una concezione

fortemente olista della società, in cui l’individuo inteso singolarmente

viene percepito come una pericolosa astrazione generata dal mondo

borghese e liberale, e in cui viene affermato l’assoluto primato della

comunità nel suo insieme. Mussolini stesso ne Il fascismo (1929)

afferma: “se il XIX secolo è stato il secolo dell’individuo (liberalismo

131 La definizione di ‘regime totalitario’ estesa al fascismo italiano è discutibile, perché nonostante numerosi studiosi la ritengano corretta, sottolineando la volontà del regime fascista di controllare la totalità della vita dei cittadini, altri autori la mettono in discussione e preferiscono l’espressione ‘regime autoritario di mobilitazione’, evidenziando come nei fatti il PNF non detenesse un potere totale e illimitato in Italia, ma che avesse nella monarchia e soprattutto nella Chiesa cattolica dei contraltari efettivi.

90

significa individualismo), si può pensare che il secolo attuale sia il secolo

del collettivo”132. Persino l’idea del valore insito in ogni singolo essere

umano, che sta alla base del principio della dignità individuale, viene

sacrificato – come nota Lukes – in funzione di una supposta superiorità

della collettività nel suo insieme133. L’idea di fondo è quella di creare

un’entità superindividuale in grado di sottomettere e gestire la modernità.

Si può così affermare che da tale punto di vista la differenza principale tra

i diversi regimi stava nel fatto che il fascismo identificava quest’entità

con lo stato, il nazismo con il Volk, il popolo caratterizzato in senso

etnico, mentre il comunismo con la classe operaia. Si tratta tuttavia di

varianti che convergono nella negazione tanto della dignità quanto

dell’autonomia del singolo individuo.

Non tutti gli studiosi sono però d’accordo nel classificare le ideologie

di questi regimi come completamente oliste. Dumont, ad esempio, mette

in evidenza come il nazismo, accanto ai caratteri fortemente comunitari di

cui si è parlato, presentasse anche istanze di tipo individualista. Infatti, il

darwinismo sociale insito nelle idee razziste espresse da Hitler nel Mein

Kampf presupponeva che i soggetti primi fossero gli individui biologici in

lotta tra loro, e l’avversione dei nazisti per ogni forma di carica ascrittiva

favoriva un ugualitarismo delle opportunità di tipo individualista, anche

se limitato agli ‘ariani’134.

In ogni caso, una prova dell’orientamento tendenzialmente olista di

questi regimi consiste nella comune adesione ad un sistema parlamentare-

istituzionale di tipo corporativo. Tale assetto rovesciava uno dei principi

dell’individualismo politico su cui si basavano i regimi liberali e liberal-

democratici, e cioè la visione dell’arena politica come luogo del conflitto

tra interessi individuali contrastanti. Il sistema corporativo prevedeva 132 Cfr. Alain Laurent, op. cit., p. 87. 133 Cfr. Steven Lukes, op. cit., p. 52. 134 Cfr. Louis Dumont, op. cit., pp. 182-183.

91

infatti di sostituire la lotta tra gli interessi individuali con quella tra gli

interessi di interi settori produttivi, eliminando ogni spazio di autonomia

politica per i singoli individui.

Anche in campo economico l’approccio dei totalitarismi fu simile. Il

mercato, inteso come luogo di interazione tra gli interessi individuali,

venne fortemente alterato o eliminato e sostituito da un dirigismo

economico che si proponeva di perseguire l’interesse generale.

L’economia venne così in tutti e tre i casi subordinata alla politica, anche

se con intensità diverse. Mentre i totalitarismi di destra mantennero una

sorta di mercato, per quanto distorto dal pesante intervento statale, il

regime sovietico eliminò la proprietà privata, e con essa anche quei pochi

brandelli di autonomia economica e quindi individuale che erano rimasti

sotto nazismo e fascismo.

Da un punto di vista sociale dunque, i totalitarismi puntarono

principalmente a frenare e a far regredire il processo di

individualizzazione in atto. Per fare ciò, cercarono di ridurre al minimo i

contatti precedentemente esistenti tra individui, al fine di creare un

isolamento sociale diffuso e di trasformare il partito-stato nell’unico

intermediario possibile per la socializzazione. In Germania, ad esempio, il

regime promosse il fenomeno della Gleichschaltung, cioè

dell’allineamento di tutte le associazioni tedesche al nazismo al fine di

renderle meglio controllabili. Inoltre vennero introdotti rituali e pratiche

superindividuali, di cui l’esempio più celebre è riscontrabile nelle adunate

di Norimberga del 1935, che per mezzo della ‘fusione mistica’ dei singoli

esseri umani grazie al regime miravano a favorire la percezione della

collettività come organo superindividuale. In conclusione, nella

prospettiva del nostro lavoro sembra opportuno sottolineare che, pur in un

intreccio non lineare tra processi di modernizzazione e dinamiche dei

regimi, i totalitarismi mostrano una tendenza a subordinare

92

l’individualizzazione alla sfera politica, ed in particolare ad una

concezione olistica dell’azione politica e di governo.

Dagli elementi sopra esposti appare chiaro come tutti i regimi in

questione avessero come contraltare ideologico non il totalitarismo di

segno opposto, ma il liberalismo, promotore e difensore dell’ordine

morale moderno e delle dottrine individualiste che lo accompagnano.

Secondo Taylor, l’affermazione definitiva e pressoché universale,

almeno da un punto di vista politico, dell’ordine morale moderno è

avvenuta solamente nel 1945, con la vittoria militare delle democrazie

liberali anglo-americane sui totalitarismi olisti di destra. È vero, anche tra

gli Alleati c’era un regime totalitario e olista, l’Unione Sovietiva, ma si

trovava in netta minoranza all’interno della propria coalizione. Non è

però certo un caso il fatto che subito dopo la fine della guerra l’alleanza si

ruppe e si creò un nuovo fronte di divisione tra gli stati individualisti e

quelli olisti di tipo comunista.

Comunque sia, da un punto di vista giuridico – come fa notare

Antonio Cassese – è proprio con la fine della seconda guerra mondiale, e

più precisamente con il processo di Norimberga, che viene formulato il

concetto di ‘crimine contro l’umanità’, e cioè di un crimine tanto grave da

essere perseguibile anche se la legislazione del paese nel quale è stato

perpetrato non lo vieta esplicitamente. Il riconoscimento di una serie di

diritti, che in buona parte riprendono i diritti naturali di Grozio e Locke,

continua con la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e con

molte altre dichiarazioni e norme successive. Dal nostro punto di vista

tutto ciò è interessante in quanto si ottiene un riconoscimento esteso a

tutto il mondo, anche se limitato al piano giuridico, della pari dignità che

contraddistingue ogni singolo essere umano, portando ad un’espansione

territoriale senza precedenti di tale concetto.

93

Un ruolo centrale in questo sviluppo è stato ricoperto dalle Nazioni

Unite. Come osserva Cassese, l’ONU “promuovendo tenacemente ed

instancabilmente il rispetto dei diritti umani, ha introdotto un nuovo ethos

nella comunità internazionale. Essa ha gradualmente messo in atto una

sorta di rivoluzione copernicana: mentre prima l’intero sistema

internazionale aveva come cardine la sovranità dello Stato, oggi sono gli

individui a costituire il perno di questa comunità” [corsivo mio]135. Infatti

oggi, a differenza di quanto avveniva in passato, gli stati sono visti

“principalmente in funzione della tutela degli interessi e dei bisogni degli

individui”136.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il numero delle strade

imboccate da individualismo e individualizzazione si è moltiplicato ad un

ritmo impressionante, producendo una realtà estremamente eterogenea e

complessa. Le ragioni di questo incredibile sviluppo sono molteplici. La

prima è certamente la naturale accelerazione a cui è stato sottoposto il

processo di individualizzazione in seguito ai cambiamenti culturali

avvenuti nell’ultimo mezzo secolo, e di cui Cassese ha mostrato uno dei

molteplici aspetti. Inoltre la crescente diffusione di mezzi di

comunicazione sempre più efficaci ha permesso la proliferazione di

nuove teorie e sotto-teorie individualiste, creando così un intricato e

confuso groviglio concettuale difficilmente districabile. Infine – e questa

è forse la ragione più importante – la prossimità storica del periodo preso

in esame non ha ancora permesso al tempo di operare una ‘selezione’ tra i

diversi approcci e le differenti forme sociali.

135 Antonio Cassese, Diritto internazionale, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 168. 136 Ibidem.

94

Per queste ragioni è sembrato opportuno non trattare in forma

specifica e dettagliata gli sviluppi recenti dei due fenomeni legati

all’individuo, ma considerarne gli effetti sociali complessivi secondo un

punto di vista differente, e tuttavia tanto vicino al processo di

emancipazione individuale da rappresentarne in qualche modo il rovescio

della medaglia. Si tratta della questione, in epoca moderna divenuta

problematica, dell’identità. Questo tema viene spesso considerato centrale

per la comprensione delle società contemporanee, e l’influenza che il

processo di individualizzazione ha avuto su di esso è innegabile. Infatti,

se da una parte ha significato una maggiore libertà nella definizione dei

ruoli sociali, dall’altra ha imposto un’inevitabile assunzione di

responsabilità da parte degli individui nei confronti delle scelte

concernenti la propria identità.

Nel prossimo capitolo si cercherà quindi di chiarire alcuni elementi

riguardanti l’identità, come la sua recente problematizzazione, il difficile

compito della sua costruzione nelle società contemporanee e il rapporto

che intercorre tra questa e il processo di individualizzazione.

95

CAPITOLO VI

LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ NEL MONDO

CONTEMPORANEO

1. L’identità come problema

Come si è cercato di illustrare per sommi capi nei capitoli precedenti,

nel corso dei secoli il grado di individualizzazione delle società

occidentali è cresciuto in modo molto significativo, soprattutto con il

passaggio alla modernità.

Mentre in passato i ruoli sociali e le identità ad essi connesse erano in

in buona parte attribuiti alla nascita, nelle società moderne si è

gradualmente fatto strada il criterio elettivo, cioè la possibilità per un

individuo di definire personalmente gran parte dei propri ruoli

indipendentemente dalla condizione sociale legata alle proprie origini. Si

tratta, come è noto, di un cambiamento epocale che, seppur frenato da

molti fattori, ha comunque ampliato in modo smisurato le possibilità dei

singoli. In questo senso si è attivato un processo in forza del quale nella

società moderna l’identità tende a “diventare il risultato di una scelta

individuale piuttosto che di un’attribuzione sociale”137.

La possibilità di definire individualmente la propria identità attraverso

l’autoattribuzione di buona parte dei propri ruoli sociali è uno dei caratteri

essenziali che contraddistinguono il mondo moderno. Tuttavia, come ogni

scelta, anche la definizione della propria identità attiva dinamiche 137 Franco Crespi, op. cit., p. 7.

96

complesse. Il fatto stesso di poter scegliere tra più alternative impone

quanto meno una riflessione sul criterio da utilizzare per prendere le

proprie decisioni e da questa riflessione nasce il problema, tutto moderno,

dell’identità. Non che nel mondo premoderno il bisogno di identità fosse

sconosciuto; anzi, esso era importante quanto lo è oggi, ma le identità si

strutturavano in forza di appartenenze a gruppi e venivano assegnate da

agenti esterni con ridotti margini da parte dell’individuo per intervenire

concretamente su tale processo. Con l’avvento della modernità invece, gli

individui si sono trovati nella condizione di poter intervenire direttamente

sui propri ruoli sociali. Come mette bene in evidenza Bauman, “ci sono

voluti la lenta disintegrazione e l’affievolirsi della tenuta delle comunità

locali, sommati alla rivoluzione dei trasporti, per spianare il terreno alla

nascita dell’identità: come problema e, principalmente, come compito”138.

In questo contesto appare corretta l’affermazione secondo cui

“l’individualizzazione consiste nella trasformazione dell’’identità’ umana

da qualcosa di ‘dato’ a un ‘compito’, e nell’attribuzione agli attori della

responsabilità rispetto alla realizzazione di questo compito e delle

conseguenze (anche degli effetti collaterali) delle loro azioni”139.

Questa trasformazione ha dunque importanti implicazioni di senso. Il

fatto che oggi non solo possiamo, ma dobbiamo scegliere, in quanto

anche il non-scegliere è comunque una scelta, è forse l’elemento che più

ci differenzia da coloro che sono vissuti nelle epoche premoderne. In altre

parole, l’individualizzazione e le scelte individuali che questa comporta

diventano “un destino, non una scelta”140.

138 Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 17. 139 Zygmunt Bauman, “Individualmente, insieme”, cit., p. 6. 140 Ivi, p. 8.

97

2. Ricerca e costruzione dell’identità

Dopo aver cercato di evidenziare la problematicità per gli individui

delle società contemporanee della definizione della propria identità, si

può cercare di mettere in evidenza alcuni aspetti legati alla sua ricerca e

alla sua costruzione.

Il primo elemento da sottolineare è dato dal fatto che il passaggio alla

modernità ha comportato anche quello da un insieme di identità e di

gruppi d’appartenenza ascrittivi e disposti in modo concentrico rispetto

all’individuo (famiglia, villaggio, regno,…) ad una situazione

estremamente più complessa e articolata, in cui le identità e le

appartenenze si intersecano, si sovrappongono e contrastano tra loro,

portando ad un numero pressoché infinito di potenziali combinazioni.

Nelle società contemporanee un individuo può essere allo stesso tempo

membro di una famiglia, di un partito, di un circolo sportivo, di

un’associazione umanitaria, di un’organizzazione di categoria, di una

tifoseria calcistica e di innumerevoli altri gruppi.

Un secondo elemento fondamentale nel processo di costruzione

dell’identità moderna è la ricerca continua della reversibilità nella scelta

dei gruppi d’appartenenza e più in generale in ogni decisione riguardante

la propria vita. È proprio questa possibilità di reversibilità ciò che sta più

a cuore all’uomo contemporaneo e lo fa sentire libero. Le scelte

irreversibili vengono percepite come vincoli insopportabili e limitanti da

cui mantenersi il più possibile lontani. La ‘vera libertà’ diviene così la

libertà di cambiare ogni volta che se ne sente l’esigenza, proprio come

Peer Gynt, il protagonista dell’omonima pièce teatrale di Henrik Ibsen,

che ne fa il faro della propria vita: “Ciò che costituisce tutta l’arte di

osare, l’arte di avere il coraggio di agire, è: restar libero di scelta in

mezzo ai tranelli insidiosi che la vita ci tende… sapere di certo che col

98

giorno di lotta non hanno termine i giorni… sapere che ci resta aperto un

ponte che permette la ritirata. Questa teoria mi ha sempre sorretto, e ha

colorato tutta la mia esistenza” [corsivo mio]141.

La combinazione delle due caratteristiche sopra delineate, e cioè la

complessa molteplicità delle appartenenze e la ricerca della reversibilità

in ogni scelta, ci porta ad un’importante conclusione: nelle società

contemporanee l’identità non potrà mai essere determinata in modo

definitivo; sarà invece sempre suscettibile di ulteriori cambiamenti. In

questo senso si può dire che l’identità moderna non è un punto d’arrivo,

ma un processo senza fine di costante adattamento ad esigenze sempre

nuove.

Costruire una simile identità è un’esperienza faticosa e angosciante.

Se da una parte la reversibilità rende qualunque errore meno rilevante,

dall’altra la mancanza non solo di un percorso prestabilito, ma anche di

una meta certa verso la quale rivolgere lo sguardo produce una forte

insicurezza. Le nuove opportunità offerte dalla sostituzione del metodo

ascrittivo con quello elettivo si trasformano facilmente in rischi. Questo è

il prezzo della modernità; anzi, questo è il prezzo

dell’individualizzazione.

In un libro sotto forma di Intervista sull’identità, Bauman prova a

spiegare la situazione di chi oggi cerca di costruire la propria identità

attraverso la metafora del puzzle. Un individuo che cerchi di costruire la

propria identità deve trovare i pezzi che compongono l’immagine finale e

collocarli al posto giusto. Ma, secondo il sociologo polacco, tale metafora

è solo parzialmente corretta, perché nella realtà il compito è molto più

difficile. Infatti, mentre per un puzzle abbiamo la certezza di avere tutti i

pezzi, un’immagine di riferimento (un obiettivo a cui arrivare) e una sola

soluzione corretta, “nessuna di queste agevolazioni è disponibile nel 141 Henrik Ibsen, Peer Gynt, Torino, Einaudi, 1975, pp. 62-63.

99

momento in cui componi la tua identità… È vero, sul tavolo sono a

disposizione tanti piccoli pezzi che speri di poter incastrare l’uno con

l’altro fino a ottenere un insieme dotato di senso, ma l’immagine che

dovrebbe emergere al termine del lavoro non è fornita in anticipo, e

pertanto non puoi sapere per certo se possiedi tutti i pezzi necessari per

comporla, se i pezzi scelti fra quelli sparsi sul tavolo siano quelli giusti,

se li hai messi al posto giusto e se servono a comporre il disegno

finale”142. Inoltre, si potrebbe aggiungere che probabilmente non esiste

un’immagine finale, ma solo immagini temporanee adatte ai bisogni di un

dato momento.

Di fronte alla difficoltà e all’incertezza di una sfida di questo genere,

molti individui si spaventano e rimpiangono l’ordine e la semplicità del

mondo premoderno, in cui ogni cosa aveva una sua collocazione e un suo

senso in relazione al ‘Tutto’. Questo è uno degli elementi che creano il

‘disagio della modernità’ di cui parla Taylor, perché la perdita di un

proprio ruolo certo e definito rischia di portare ad una perdita di senso

della vita stessa. Da un simile punto di vista, la difficoltà principale della

modernità sta nel fatto che – come osserva Bauman – “ogni identità

sfrutta fino in fondo uno, e uno soltanto, dei due valori, entrambi amati e

ugualmente indispensabili per un’esistenza umana decente e compiuta: la

libertà di scelta e la sicurezza offerta dall’appartenenza”143. È in questa

chiave che si combatte oggi la nuova battaglia tra possibilità di scelta e

ascrizione. Il paradosso sta però nel fatto che nella società contemporanea

anche la difesa dell’ascrizione è una scelta.

In quest’ottica Bauman evidenzia come le forme di associazione

moderne siano ‘comunità a tempo’, fragili e di breve durata. Infatti, ciò

che oggi spinge gli individui ad unirsi non è un senso di comune

142 Zymgunt Bauman, Intervista sull’identità, cit., p. 56. 143 Ivi, p. 76.

100

appartenenza, ma preoccupazioni e paure condivise rispetto a singole

tematiche e scelte, che una volta scomparse portano l’associazione

all’estinzione. Partendo da questa fragilità di fondo delle comunità

contemporanee, viene proposta anche una spiegazione per il fiorire dei

fondamentalismi, molto interessanti dal nostro punto di vista perché

tendenti a negare la libertà e la dignità del singolo in funzione di una

maggiore unità e coesione del gruppo. Le persone che preferiscono la

sicurezza dell’appartenenza alla libertà di scelta possono essere attratte

dai fondamentalismi perché questi, bollando come eretiche tutte le

alternative a se stessi, propongono una visione del mondo dalla quale tutti

i dubbi vengono spazzati via ed in cui si trova una risposta, per quanto

fittizia, a tutti i problemi dell’umanità, riuscendo a sconfiggere

l’insicurezza generata dal mondo moderno. Dal nostro punto di vista è

tuttavia importante sottolineare come la rinuncia alla ricerca di una

propria identità personale e alla libertà individuale significhi in qualche

modo una regressione del processo di individualizzazione fino al suo

stadio iniziale e tribale. Tale questione pone il problema del rapporto,

sempre più conflittuale, tra un’identità personale ed una sociale.

3. Una distinzione importante: identità-Io e identità-Noi

Se partiamo dal presupposto che l’identità è – secondo Crespi – “ciò

che permette di definire noi stessi sia nella nostra individualità

irripetibile, sia in quanto appartenenti a un gruppo, a un’unità sociale, a

un mondo” [corsivo mio]144, appare subito evidente l’importanza della

distinzione tra identità personale e identità sociale a cui fa riferimento,

144 Franco Crespi, op. cit., p. IX.

101

anche se con termini diversi145, la quasi totalità degli studiosi che si

occupano di questa tema. Riprendendo la definizione di Crespi, si può

dire che la prima identità tende a evidenziare ciò che differenzia gli

individui, mentre la seconda pone l’accento su ciò che li accomuna.

Elias ritiene che questa duplicità identitaria scaturisca dalla necessità

dell’uomo moderno di trovare un equilibrio tra due esigenze contrastanti:

da una parte si avverte il bisogno di essere uguali agli altri, mentre

dall’altra si desidera fortemente distinguersi e non essere solo ‘uno dei

tanti’. Pare in tal senso agevole stabilire un parallelismo tra questi due

istinti e le due forme di individualismo teorizzate da Simmel e delle quali

si è a lungo parlato: l’individualismo quantitativo settecentesco, che pone

l’accento sull’importanza dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e

quello qualitativo romantico e ottocentesco, che si concentra invece su ciò

che differenzia e caratterizza ogni singolo individuo. Una volta proposta

tale simmetria può essere ragionevole pensare che questa tensione

istintuale sia generata dall’interiorizzazione ad opera dell’ordine morale

moderno di entrambi i tipi di individualismo, come ad esempio fa Taylor

stabilendo una relazione di causalità diretta tra l’influenza del

Romanticismo tedesco e l’ideale contemporaneo dell’autenticità (o self-

development).

Gli individui necessitano – secondo Crespi – di entrambe le identità:

“senza identità personale, senza una certa differenza rispetto agli altri,

l’individuo cade in una sorta di anonimato, tende a non avere più

un’immagine interiorizzata di sé, […] ma anche l’identità sociale è per lui

altrettanto importante, in quanto, senza una certa similarità con gli altri,

l’individuo corre il rischio di non riuscire più a comunicare con il suo

145 Per esprimere questi due concetti sono state impiegate formule linguistiche differenti ma pressoché identiche nel loro significato: Crespi parla di ‘identità personale’ e ‘identità sociale’, Elias di ‘identità-Io’ e ‘identità-Noi’, Ricoeur di ‘identità ipse’ e ‘identità idem’.

102

prossimo e, quindi, di venire rifiutato o emarginato. Ne è un esempio il

caso del folle” [corsivo originale]146.

Riguardo al punto d’equilibrio tra le due identità, non tutti gli studiosi

partono dalla medesima prospettiva. Elias ritiene empiricamente

dimostrabile che nelle società più primitive l’identità-Noi prevalesse

sull’identità-Io, mentre reputa altrettanto certo che nelle società

contemporanee la situazione sia rovesciata. Simmel sostiene invece che

esista “un quantum della tendenza all’individualizzazione e di quella

all’indifferenziazione che è determinato dalle circostanze personali,

storiche e sociali, e che resta uguale sia che emerga nella configurazione

puramente personale sia in quella della comunità sociale di cui la persona

fa parte”147. In sostanza, Simmel non considererebbe l’affermazione di

Elias di per sé sbagliata, ma metterebbe l’accento sul fatto che non tutte le

società hanno lo stesso grado di ‘personalizzazione’. Come ha osservato

Luhmann, le comunità più chiuse verso l’esterno e più settarie, come ad

esempio le tribù, possono permettersi tanta indifferenziazione interna solo

perché sono esse stesse ‘personalizzanti’, riuscendo a creare una netta

differenza tra i propri membri e quelli delle altre tribù e soddisfacendo

così l’esigenza di distinzione innata in ogni essere umano. Allargandosi,

invece, le società tendono a formulare regole astratte e spersonalizzate,

spingendo così gli individui a cercare il proprio quantum di

individualizzazione nell’identità personale.

Riguardo alla proposta simmetria tra identità personale e

individualizzazione da una parte, e identità sociale e olismo dall’altra, va

sottolineato come anche Simmel riconosca la sua tendenziale validità. In

genere, le società individualizzate vedono prevalere l’identità personale, e

viceversa. Ciò che Simmel vuole mettere in evidenza è tuttavia il fatto

146 Ivi, p. XI. 147 Georg Simmel, op. cit., p. 81.

103

che tra questi elementi non esiste un rapporto di causalità diretta

dimostrato, infallibile e sempre valido, ma solo la constatazione empirica

di una tendenza di fondo.

Il problema che si pone parlando delle due identità è però la loro

delimitazione effettiva. Mentre per quanto riguarda l’identità personale

appare ovvio che il punto di riferimento sia il singolo individuo, non

altrettanto scontata è la definizione del ‘Noi’ che sta alla base dell’identità

sociale. Come fa notare Elias, esistono vari livelli di identità collettiva: ad

esempio Noi come famiglia, come città, come regione, come nazione e

anche come intera umanità. Ciò che conta davvero, osserva il sociologo

tedesco, è l’ordine d’importanza che i singoli attribuiscono alle identità

sociali elencate, ossia “l’intensità dell’identificazione con questi differenti

piani d’integrazione”148. Elias individua poi una tendenza di fondo che

consiste nel fatto che più il cerchio si allarga e il Noi aumenta

quantitativamente, più il sentimento d’appartenenza e la forza emotiva

che il gruppo suscita si affievoliscono. Un’importante eccezione è in

questo senso costituita dallo stato nazionale. La spiegazione della

rilevanza dell’identità sociale legata al concetto di nazione è composta da

due elementi principali. Il primo è l’attribuzione allo stato, mediante il

contratto sociale, del compito di garantire i più importanti diritti

individuali, e in modo particolare la sicurezza. Il secondo, strettamente

legato al primo, ruota attorno al principio di sovranità, che rende lo stato

un interlocutore fondamentale in molti ambiti in quanto principale

decisore politico. La rilevanza per i cittadini di questi due aspetti e la

percezione dell’insostituibilità delle istituzioni nazionali hanno

gradualmente rafforzato l’identità sociale in relazione allo stato.

Queste considerazioni aprono la strada ad alcune ulteriori riflessioni.

In particolare, lo stesso Elias riconosce che l’importanza attuale 148 Norbert Elias, op. cit., p. 231.

104

dell’identità nazionale non è legata a dimensioni particolari o

‘fisiologiche’ delle società, ma alle funzioni svolte dallo stato. Perciò –

sempre secondo Elias – le principali esigenze degli individui, come la

protezione dei propri diritti, potrebbero in futuro essere appannaggio di

istituzioni sempre più allargate149, fino ad includere l’intera umanità,

anche se “siamo ancora molto distanti dalla possibilità che l’umanità

rappresenti un perno per i sentimenti e un filo conduttore per l’agire degli

individui”150. Il principale ostacolo al rafforzamento di tale identità è il

fatto che storicamente le appartenenze comunitarie si sono formate a

partire da una minaccia esterna. Il Noi è sempre nato in contrapposizione

ad un Loro, secondo una ferrea logica di inclusione ed esclusione.

L’umanità, intesa come idea di inclusione generale, non soddisferebbe

tale ‘requisito empirico’.

Dal nostro punto di vista è comunque rilevante sottolineare come la

possibilità di un rafforzamento di identità sociali facenti riferimento a

collettività più ampie non potrebbe che favorire lo sviluppo del processo

di individualizzazione, se è vero – come sostiene Simmel – che ad un

allargamento quantitativo del gruppo corrisponde sempre un aumento

dell’autonomia dei suoi membri.

149 Un buon esempio di questa tendenza può essere trovato nella creazione dell’Unione Europea, intesa come comunità non solo economica, ma anche politica. 150 Ivi, p. 261.

105

CONCLUSIONE

Giunti al termine di questa sommaria ricostruzione dello sviluppo del

processo di individualizzazione, appare evidente come tale fenomeno

abbia profondamente inciso sulle strutture sociali attraverso i secoli,

proponendosi ora come motore del mutamento, ora come sua diretta

conseguenza. I cambiamenti promossi hanno portato ad un graduale, ma

finora inarrestabile, spostamento del punto d’equilibrio nel rapporto tra

società e individuo a favore di quest’ultimo. Gli effetti di tale

trasformazione sono stati tanto rilevanti quanto contraddittori sul piano

del loro impatto sociale.

Da una parte appare difficilmente confutabile la tesi secondo la quale

il processo di individualizzazione ha garantito ai singoli individui una

crescente libertà di scelta e una maggiore uguaglianza potenziale. Inoltre

va sottolineato come le catastrofiche previsioni dei primi detrattori

dell’individualismo, secondo cui l’aumento dell’autonomia individuale

avrebbe portato all’atomizzazione sociale e addirittura alla dissoluzione

della società con il conseguente ritorno ad uno stato di natura di tipo

hobbesiano, a distanza di più di duecento anni non si siano realizzate.

L’edificio sociale non è crollato, ma è stato ristrutturato secondo logiche

e dinamiche nuove, in cui i vecchi sistemi di appartenenze sono stati

sostituiti da una forte interdipendenza di carattere funzionale, e il criterio

elettivo ha soppiantato quello ascrittivo nell’attribuzione della maggior

parte dei ruoli sociali.

106

Nonostante questi aspetti positivi però, non sempre le società

moderne hanno saputo colmare completamente il vuoto lasciato dalla

dissoluzione – o comunque dal fortissimo indebolimento – dei vincoli

comunitari premoderni, mettendo a repentaglio la coesione sociale e

generando alcuni problemi considerati a ragione tipicamente moderni,

come l’alienazione e l’emarginazione di un numero sempre crescente di

individui, l’egoismo, il narcisismo, l’insicurezza diffusa e l’obbligo di

scegliere a cui si è accennato nel capitolo precedente. Insomma, come

tutti i fenomeni sociali, anche lo sviluppo del processo di

individualizzazione ha risolto alcuni problemi e ne ha posti altri.

1. L’individualizzazione: un processo irreversibile?

A questo punto, continuando a ragionare sul processo di

individualizzazione, risulta spontaneo porsi una domanda: si tratta di

mutamenti irreversibili, definitivamente accettati, oppure di situazioni

temporanee e potenzialmente soggette a ripensamenti? Ad oggi, non

sembrano esserci ragioni convincenti per sostenere che le innovazioni

sociali introdotte con il processo di individualizzazione siano acquisite

una volta per tutte. Va certamente considerato il fatto che negli ultimi

2500 anni, sebbene con un alternarsi di rapide accelerazioni e brusche

frenate, la tendenza di fondo che ha pervaso l’intera società occidentale è

stata quella di una costante crescita dell’individualizzazione, come si è

cercato di dimostrare nei capitoli precedenti. Nonostante ciò, ci sono stati

molteplici tentativi di sconfiggere quest’orientamento individualizzante,

partendo dai controrivoluzionari francesi come Joseph de Maistre per

giungere fino ai totalitarismi di destra e di sinistra che hanno

profondamente segnato la storia del XX secolo. La sconfitta di tali

ideologie di ispirazione olista non è stata scontata come potrebbe

107

sembrare a posteriori, ed è possibile che in futuro nuovi avversari

dell’individualizzazione riescano a riportare importanti vittorie,

sfruttando soprattutto gli inevitabili eccessi e limiti a cui un ulteriore e

prolungato incremento dell’individualizzazione porterebbe, secondo una

sorta di legge del pendolo.

Nonostante la teorica reversibilità del processo di individulizzazione,

può essere utile sottolineare come nessun cambiamento di un certo rilievo

potrebbe essere attuato senza aver prima rinunciato ai principi economici

e politici individualisti e individualizzanti che costituiscono l’essenza

stessa del sistema produttivo capitalista e della democrazia liberale.

Probabilmente per questo motivo una delle principali preoccupazioni dei

regimi totalitari novecenteschi è stata quella di sostituire le due strutture

sociali menzionate con un forte dirigismo economico e con un sistema

elettorale di tipo corporativo.

2. I possibili futuri campi di battaglia dell’individualismo

In conclusione di questo lavoro, appare importante porre l’accento sul

fatto che, oltre a dover costantemente difendere le posizioni già

conquistate, l’individualismo e l’individualizzazione abbiano dal nostro

punto di vista alcune possibilità di sviluppo ‘naturali’ per il futuro, e cioè

logiche conseguenze del loro attuale stadio di maturazione. Appare così

immaginabile che i progressi del processo di individualizzazione e le

future rivendicazioni degli individualisti, il cui successo è tutt’altro che

scontato, vadano in almeno tre direzioni differenti.

La prima si potrebbe definire ‘intensiva’, e cioè legata

all’intensificazione e allo sviluppo di nuove rivendicazioni nell’Occidente

individualizzato. In particolare, studiosi come Laurent ritengono che sarà

l’idea di autonomia individuale a subire le maggiori trasformazioni alla

108

luce delle nuove possibilità offerte dalla scienza. Infatti, il principio della

libertà di scelta sulle questioni riguardanti se stessi condurrà

probabilmente ad alcune conclusioni che appaiono logiche se si accettano

i postulati che ne stanno alla base. La libertà di scelta potrebbe essere

estesa, come già in parte avvenuto, alla propria vita e anche alla

possibilità di decidere se porvi fine. Così, uno dei probabili futuri campi

di battaglia dell’individualismo potrebbe riguardare il riconoscimento

giuridico del diritto all’eutanasia. Allo stesso modo, la teorizzazione del

diritto a fare del proprio corpo ciò che si vuole potrebbe portare alla

difesa di nuove forme di procreazione, come ad esempio l’affitto del

proprio utero da parte di una donna. Infine, portando alle sue estreme

conseguenze questa logica, sarebbe immaginabile che alcuni

individualisti radicali si schierino a favore del diritto alla vendita dei

propri organi, visti come un bene di cui gli individui possono e devono

disporre. È ovvio che l’esito di tutte queste battaglie sarebbe tutt’altro che

scontato, ed è anche immaginabile che molti di coloro che oggi vengono

considerati individualisti si collocherebbero nel campo avverso riguardo

ad alcune di queste tematiche. Come si è già detto, l’accettazione di

alcune delle idee che stanno alla base dell’individualismo non presuppone

automaticamente l’adesione alle altre.

La seconda direzione percorribile dall’individualismo si potrebbe

definire ‘estensiva’, in opposizione alla precedente. Questa via non

prevede infatti lo sviluppo di nuove forme di individualismo in

Occidente, ma la sua estensione alle parti del mondo in cui non è ancora

arrivato ed in cui il comunitarismo è tuttora molto forte. Riguardo

all’esito di questa nuova ‘campagna di conquista’ si potrebbero avanzare

molte riserve. Ci si potrebbe infatti chidere se all’infuori dell’Occidente le

dottrine individualiste riuscirebbero ad attecchire o se l’humus sociale e

culturale sarebbe loro sfavorevole. Probabilmente, come è già avvenuto

109

nelle nostre società, un vero processo di individualizzazione potrà avere

luogo solo per mezzo dell’instaurazione di un sistema democratico e di

una vera economia di mercato, con l’inevitabile aumento della

complessità sociale e la distruzione dei precedenti vincoli comunitari che

tutto ciò comporterebbe.

La terza direzione non riguarda le dottrine individualiste, ma il

rapporto tra innovazione tecnologica, sistema di produzione industriale e

individualizzazione. Il punto cruciale di tale relazione verte sul fatto che

probabilmente i futuri sviluppi in campo tecnico-scientifico

permetteranno la creazione e la diffusione di beni e strumenti a vantaggio

dell’autonomia individuale nella vita quotidiana e di una più ampia

possibilità di scelta come consumatori. Riguardo al raggiungimento di

una maggiore autonomia individuale, si può evidenziare il modo in cui lo

sviluppo di tecnologie come Internet abbia reso più semplice e immediato

l’accesso ad ogni genere d’informazione da parte del singolo ed abbia

enormemente facilitato la comunicazione a distanza tra individui. È

immaginabile che in futuro lo sviluppo di strumenti sempre più evoluti in

questi settori incrementi ulteriormente l’autonomia individuale. Per

quanto riguarda invece la possibilità di scelta dei consumatori, appare

importante sottolineare come si vada sempre più verso un sistema di

produzione industriale che molti sociologi hanno definito ‘post-fordista’.

La caratteristica per noi più rilevante di tale sistema consiste nel fatto che

i macchinari per la produzione industriale si sono evoluti fino a

permettere la realizzazione della cosiddetta ‘specializzazione flessibile’,

cioè della possibilità di modificare facilmente e velocemente le

caratteristiche dei beni fabbricati, consentendo la produzione di piccole

partite di articoli altamente personalizzati senza incidere eccessivamente

sul loro costo. Questo cambiamento epocale, che ha portato studiosi come

110

Kumar a parlare di “un secondo spartiacque industriale”151, ha ampliato a

dismisura – e continuerà ad ampliare – le possibilità di personalizzazione

dei prodotti. Se un tempo acquistando un’automobile si potevano

scegliere al massimo il colore della carrozzeria e la cilindrata del motore,

oggi ogni modello propone una vasta gamma di optional, che

combinandosi tra loro permettono la creazione di decine di migliaia di

soluzioni differenti e personalizzate. Tutto ciò ha influito e influirà

significativamente sulle possibilità di scelta dei consumatori, portando ad

un’ulteriore incremento dell’individualizzazione.

151 Krishan Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo – Dalla società post-industriale alla società post-moderna, Torino, Einaudi, 2000, p. 60.

111

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116

INDICE DEI NOMI

Alessandro Magno, 34n

Aristotele, 22

Bastiat, Frédéric, 71

Baudelaire, Charles, 73

Bauman, Zygmunt, 20-21n, 96,

98-99

Bentham, Jeremy, 58

Bettin, Gianfranco, 42, 83

Bontempi, Marco, 72, 87-88n

Brunner, Otto, 36-39n

Burckhardt, Jacob, 43

Burke, Peter, 43-44

Calvino, Giovanni, 46-47

Cartesio, 18, 51-52

Cassese, Antonio, 92-93

Cedroni, Lorella, 76n

Confucio, 32

Constant, Benjamin, 71

Crespi, Franco, 74, 95n, 100-102n

D’Annunzio, Gabriele, 89

De Giorgi, Raffaele, 27n-28n

Della Mirandola, Pico, 44

Diogene, 32

Dumont, Louis, 6, 33, 46-47n, 90

Durkheim, Émile, 24-25, 33-34n,

56-57n, 68, 71-72, 76

Elias, Norbert, 11-12n, 14, 20-22,

101-104

Epicuro, 32

Foucault, Michel, 63n

Francesco (d’Assisi), 46

Gesù, 34, 36

Gluckman, André, 52

Goethe, Johann, 75

Gotama (Buddha), 32

Grozio, Ugo, 53, 92

Herder, Johann, 77

Hitler, Adolf, 90

Hobbes, Thomas, 53-54, 64, 73

Hume, David, 52

Ibsen, Henrik, 97

Jaspers, Karl, 6, 31-32

Jaurès, Jean, 71

Jefferson, Thomas, 65

Kant, Immanuel, 52

Kierkegaard, Søren, 73

Kumar, Krishan, 110

117

Laurent, Alain, 14, 16-17, 19-20,

24, 52n, 64, 67, 70-72, 74-75,

78-79, 90n

Leibniz, Gottfried, 52

Locke, John, 52, 54-55n, 59, 92

Luhmann, Niklas, 27-28, 36-37

Lukes, Steven, 6, 15-16, 34, 52n,

56-59, 73, 76-78n, 90

Lutero, Martin, 45-47

Maistre de, Joseph, 15, 19, 106

Marx, Karl, 77

Mill, John Stuart, 59, 71

Millefiorini, Andrea, 12n, 68-69n,

79

Mussolini, Benito, 89

Nietzsche, Friedrich, 18, 73-74, 76

Pellicani, Luciano, 29-30

Platone, 45

Ricardo, David, 57

Ricoeur, Paul, 101n

Rousseau, Jean-Jacques, 64

Schleichermacher, Friedrich, 75

Settimelli, Emilio, 88

Shakespeare, William, 39-40n

Simmel, Georg, 9, 20-21, 60-62,

68, 75-76, 81-86, 101-102, 104

Singly de, François, 18, 61-62

Smith, Adam, 8, 57-58

Socrate, 6, 32

Stirner, Max, 73

Taylor, Charles, 25-26n, 38-39n,

50n, 55, 58-59n, 64, 66, 68-69,

77-78, 92, 99, 101

Tocqueville de, Alexis, 79

Weber, Max, 7, 14, 41-42, 46-50n