Versilia Sognata

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Marcello Polacci “Versilia Sognata” Forme e colori della mia terra L’opera d’arte è il modo più semplice per esprimere un pensiero profondo Albert Einstein

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Catalogo della mostra tenutasi a Forte dei Marmi dal 15 marzo al 27 aprile 2008

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Marcello Polacci“Versilia Sognata”

Forme e coloridella mia terra

L’opera d’arte è il modo più sempliceper esprimere un pensiero profondo

Albert Einstein

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Presidenza del Consiglio ComunaleAssessorato alla Cultura

Marcello PolacciVersilia SognataForme e colori della mia terra

“Il Fortino”Piazza GaribaldiForte dei Marmi15 marzo - 27 aprile 2008

CatalogoPresentazioneCristina Acidini

Saggi criticiRaff aello BertoliDino CarlesiNicola MicieliTommaso Paloscia

TestimonianzeSilvana ArataMassimo CarràIlaria DottaFabio MazzeiAngelo MistrangeloIlaria NicchiosiniGiovanni PieracciniAdriana Tanzini

Grafi caMarcello PolacciAllestimento mostraMarcello Polacci Stefano Polacci

Fotografi e delle opereMarcello Polacci

Foto storicheArchivio foto Fabbroni Forte dei Marmi

ImpaginazioneMarcello Polacci Stefano PolacciGabriele Giovannetti

Promozione mostraCircolo Culturale“Il Magazzino”

Stampa Bandecchi & Vivaldi, Pontedera

Provincia di Lucca Comune di Forte dei Marmi

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Provincia di Lucca Comune di Forte dei Marmi

La Presidenza del Consiglio Comunale

L’Assessorato alla Cultura

Marcello

POLACCI

“Versilia Sognata”Forme e Colori della mia terra

“Il Fortino”15 marzo - 27 aprile 2008

Promozione mostraCircolo Culturale

“Il Magazzino”

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Le Alpi Apuaneda sinistra l’Altissimo, il Corchia, la Pania

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Non mi intendo di arte e sento perciò imbarazzo nello scriverne. Ma l’occasione è tale che non posso, e non voglio, esimermi dal farlo. Conosco Marcello Polacci da anni ed ho ricordi di lui che a volte si perdono tra realtà ed immagi-nazione.Una notte, la febbre, in braccio a mia madre, un grande sorriso, il medico ( Marcello ) che arriva a visitarmi.A quei tempi i medici si andavano a chiamare a piedi e, anche di notte, venivano a visitare a piedi. Dopo anni, molti anni, sono oggi a scrivere non del medico ma del pittore. Da non intenditore non posso che affi darmi al mio gusto : mi piace la sua pittura? Stimola sensazio-ni? Ne sono colpito?Marcello stilizza, con esaltante perfezione, le cose che amo: i monti, il mare, la spiaggia. Sento odore di salmastro nelle sue opere e nello stesso tempo apprezzo la forza della pietra. Guardo il suo mare, immenso orizzonte per uomini liberi, e sento il rumore delle onde durante le mareggiate con libec-cio. Guardo le sue cabine e scopro che sono anche le mie, quelle che vedo nelle mie passeggiate di rifl essione. Anche lui, come me, ama questa meravigliosa terra ma ha in piu’ la fortuna di saperla rappresentare con il pennello ed i colori. Si, mi piace la sua pittura.

Bruno MurziPresidente del Consiglio Comunale di Forte dei Marmi

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Forte dei Marmi, 1904oggi incrocio fra via Duca d’Aosta, via Carducci e via Matteotti

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Come portavoce e referente del nascente Circolo Culturale (che ancora non aveva né un nome né un presidente), ma soprattutto come amico e come concittadino, non potei non coinvolgere Marcello, circa un anno fa, nella fase fondante e costituente dello stesso: conoscevo troppo bene e da tempo la sua valenza artistica e culturale per lasciarmi sfuggire la disponibilità di un tale “patrimonio umano” e di una competenza come la sua, accumulata in una vita spesa in gran parte nell’Arte e per l’Arte! E infatti non me ne ebbi a pentire, né per il contributo tecnico-cognitivo, decisivo nel risolvere tanti aspetti logistici e burocratici, né tantomeno per quello didattico e propositivo, concretizzatosi in varie iniziative e manifestazioni, alcune già realizzate con successo, altre, come il ciclo di mostre al Fortino, e che si inaugura non a caso con la sua personale, di sicuro interesse e di stimolo per la vitalità artistica del paese.Così nel frattempo il Dottor Marcello Polacci, per noi del “Magazzino”, è diventato il “Maestro”, non solo per quella deferenza dovuta all’artista, ma anche nel senso di guida e punto di riferimento. Per questo siamo fi eri e orgogliosi, ma soprattutto felici, che l’Amministrazione Pubblica, nella fi gura del Presidente del Consiglio Comunale, abbia fatta propria l’idea di dare il giusto e dovuto ricono-scimento a questo nostro concittadino, a questo fi glio della Versilia, che nella sua pacata riservatezza di modi e gentilezza e nobiltà d’animo, tanto ha dato a questa terra “felice” per certi versi e “dura” per altri.Aspetti e scambio che fanno, secondo me, la sostanza della pittura del Maestro Marcello Polacci: pur nell’universalità del linguaggio artistico, nei suoi quadri si vede e si sente l’appartenenza alla Versilia, così ben espressa dalla lievità del paesaggio alle volte appena accennato per simboli ridotti a scarni eppur vivi stilemi, e dalla materica presenza dei blocchi di marmo cavato, squadrato, posato da questa terra e su di essa, a simboleggiare la presenza dell’uomo e il suo quotidiano travaglio, proprio attraverso quanto essa off ra di più duro e pesante, ma di duttile e vivo allo stesso tempo. Anche nella forma, sia pure ormai sganciata e personalissima, mi sembra di trovare cenni e riferimen-ti a certi paesaggi toscani: dalla semplicità giottesca degli alberi, al blù dei mari di Carrà… Ma quello che più mi colpisce in queste tele, è la trasognante presenza del pensiero umano, della sua attività conscia e subconscia, fra memoria e sogno, esperienza sensibile dell’ attimo e ricordo, nostalgia e speranza Non c’è solo descrizione sapiente, ma fi ne a se stessa: c’è trasfi gurazione ed interpretazione della realtà, che stimola e induce a pensare. E in questo, credo, consista la vera Arte.

Alessandro Di CioloPresidente del Circolo Culturale “Il Magazzino” di Forte dei Marmi

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Forte dei Marmi, 1925Tende e ombrelloni

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Avevo cominciato a dipingere negli anni ’50, dedicando alla pittura i pochi momenti che la profes-

sione mi lasciava liberi, ma poiché non volevo diventare il pittore della domenica, mi dedicai intera-

mente alla cura dei bambini, abbandonando la mia seconda passione.

Ho ripreso in mano i pennelli quando ho cessato l’attività di pediatra e ho ricominciato a dipingere

con giovanile entusiasmo. I miei soggetti preferiti sono stati i blocchi di marmo. L’interesse per que-

sta materia, solo apparentemente fredda, l’ho sentito fi n da bambino perché per me questi blocchi

di marmo non sono freddi parallelepipedi ricoperti di polvere e di terra, ma sono “carne” di quelle

montagne vecchie come il tempo, testimoni di storia lontana. Sono pezzi della mia terra e attraverso

loro ho sentito la necessità di esprimere le mie sensazioni.

In questi ultimi dieci anni mi sono dedicato esclusivamente a rappresentare sulla tela (anzi sul com-

pensato marino) la mia terra di Versilia. Cerco di far vedere la mia terra in chiave moderna, simbo-

lica, che sta tra il metafi sico e il surreale.

Vorrei subito precisare che non intendo ridar vita a principi estetici del passato, come ripercorrere

le strade dei grandi metafi sici De Chirico e Carrà o dei Maestri del ‘900, creerei soltanto delle opere

d’arte che sembrerebbero bambini nati già morti.

Hanno dipinto le meraviglie della Versilia, le Alpi Apuane, il mare, le pinete, la spiaggia, grandi

artisti come Soffi ci, Carrà, Dazzi e tanti altri e io mi inchino davanti a questi Maestri dai quali ho

appreso la mia lezione.

Oggi anch’io continuo a dipingere le cabine, il mare, i cieli della Versilia, i pini, i blocchi di marmo

che vengono dalle Apuane. Ogni elemento è riconoscibile, ma con accostamenti inusuali, architet-

ture impossibili, quasi dei “paradossi logici”. Tutti sono accostati da un’ispirazione, guidata forse

inconsciamente dai miei ricordi, dai luoghi della mia infanzia, dalle frequentazioni con artisti e dal

bagaglio delle mie esperienze.

E’ una realtà a cui resto fedele.

Non cerco d’inventare equivalenze che esisterebbero nell’inconscio, non mi riferisco a deliri, all’irra-

zionale, alle psicosi.

La componente metafi sica della mia pittura va intesa nel senso etimologico della parola, di oltre la

realtà naturalistica, verso una seconda realtà, più intensa e più magica.

Rifl essioni sulla mia pittura

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Si può forse ironicamente defi nire una pittura del “non senso” che può spiazzare e mettere in crisi i

valori delle normali conoscenze di tutti i giorni.

La rottura della logica abituale degli spazi e delle situazioni, è un modo di seguire il fi lo dei miei

ricordi, delle mie esperienze.

Distorcendo i rapporti di dimensione fra le cose e falsando le prospettive, mettendo gli oggetti in

luoghi nei quali abitualmente non li riconosceremmo mai, creo un disturbo nell’ordine abituale della

percezione. Nelle mie opere il razionale non è assente è soltanto sconvolto.

Quasi una sfi da al buonsenso.

Le mie immagini sono ritratti delle idee e non ritratti di oggetti o di individui, sono immagini che

esprimono pensieri che possono essere dipinti. Ad esempio dipingo una porta chiusa, ma secondo il

mio pensiero quella porta chiusa evoca ugualmente una apertura.

Quello che mostro riproduce cose riconoscibili. Si riconosce la cabina, il mare, il pino, le montagne,

la spiaggia, ma sono accostati in modo inusuale, tanto che assumono un altro signifi cato, diverso da

quello di una apparente banalità, sono immagini nuove di vecchie cose.

Le ambiguità visive dei contrasti giorno-notte, buonsenso-nonsenso e delle metamorfosi cabine-

montagne, pareti-cieli, cielo-mare, diventano ambiguità di signifi cato tanto da rappresentare l’ambi-

guità del nostro tempo, le diffi coltà dell’uomo moderno, il suo bisogno di ordine e di equilibrio.

Gli spazi silenziosi, diventati spazi magici, senza atmosfera, dove il tempo è sospeso come in attesa di

un evento, vogliono invitare a una rifl essione:

La Versilia è una bella terra incantevole della quale io rappresento con una geometria essenziale i

suoi simboli ed ispirandomi ad essi, riscopro le mie radici e sogno per me e per tutti un domani

migliore.

Marcello Polacci

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Forte dei Marmi, fi ne 1800oggi incrocio via Spinetti, via Matteotti

Galleria del “Cipollaio”.Il trasporto dei marmi verso il mare

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Caro Marcello,

ho messo in forma di presentazione i ricordi della nostra chiacchierata di fronte alle tue ultime opere, spero sia quello che desideravi. Grazie per il bell’incontro cari saluti a te e alla famiglia.

Agli occhi della mente, alle orecchie del cuore

La ricerca combinatoria e sofi sticata di forme e colori cui Marcello Polacci ci haabituato si è andata negli ultimi tempi, se possibile, intensifi cando.Nella sua pittura, restia a farsi inquadrare in movimenti predefi niti,l’eredità della grande Metafi sica del primo Novecento si è gradualmente contaminata con le suggestioni di altre correnti, non menointellettualistiche e, per mutuare un aggettivo dal grande De Chirico,inquietanti: l’eccitazione visionaria di Magritte e dei Surrealisti, l’esattezza pensosa di Mondrian, la persuasiva eppure fuorviantegeometria di Escher. Una lucida vena di cultura ha attraversato fi ndalle prove più lontane la pittura di Polacci, elevando a unadimensione d’intesa introversa e silente il dialogo tra lo sguardo delpittore e le cose intorno. Che sono poi le cose della sua Versilia, acominciare dai blocchi di marmo apuano in riva al mare, formegeometriche di approssimativa purezza posate sulla rena, in dialetticacon le linee dell’orizzonte e della battigia. In quei blocchi sbozzatidai cavatori – i blocchi che dall’Alpe alla marina costarono aMichelangelo fatiche immense del fi sico e della mente, i blocchi che apiè d’opera nei cantieri ottocenteschi incantarono i cultori nostralidella macchia come Abbati e Cabianca - il pittore vede e racchiude ilfascino dei volumi primordiali ma anche il groppo scalpitante delleimmense potenzialità creative implicite in ognuno. Un fuoco ardente inun gelido guscio, per parafrasare Kandinsky.Rubati alla marina eportati in un altro ordine di scenari, i blocchi di Polacci hanno presonel tempo ruoli da grandi personaggi, sebbene siano assai menoantropomorfi dei manichini dei Metafi sici classici, anche dei più stilizzati. Monoliti diversi per dimensioni e colori, ora grandi eincombenti, ora piccoli e remoti, di tela in tela li abbiamo vistiprotagonisti di infi nite situazioni, in cui sono loro compagni glialtri ricorrenti temi off erti dalla Versilia, presente nel titolo

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sistematicamente identico a se stesso di tutte le mostre di Polacci.Grato alla sua terra, il pittore la idealizza riconducendola a simbolisenza tempo che hanno la forza magica di segni araldici: le tre cimeapuane, il pino, il mare, la cabina dal tetto a capanna. Ma al tempostesso, Polacci rivela la sua formazione toscana a tutto campo, laddovelascia che sia lo spirito della pittura antica, gotica erinascimentale, a guidare la ripartizione degli spazi in un quadro. Eallora riconosciamo in fi ligrana l’armonia proporzionale che scandivale misure delle tavole degli antichi maestri: la bassa predella, l’ampio campo centrale, l’ariosa cimasa. Cerchi rimasti apertimisteriosamente si chiudono: e i tagli spericolati delle mura-non muranelle città-non città di Polacci fi niscono per ricordare certe sceneistoriate della quattrocentesca Bibbia di Borso d’Este, fruttofantastico di quella Ferrara che secoli dopo, dai movimenti artisticifi oriti sulla sua dimensione urbana nitida e razionale, si sarebbeguadagnata la defi nizione di metafi sica.Gli ultimi lavori tuttavia,come dicevo, rappresentano uno sviluppo ulteriore –sorprendente e logico insieme – della visione interna che guida la sua pittura. Restaun tratto ricorrente la surreale interazione di elementi e di ambienti:i cieli contraddittori, il pino altissimo contro cui s’interrompono laspiaggia e il mare, l’apertura a scatole cinesi di fi nestreinverosimili e altro ancora. Ma, in una più convinta unifi cazionecompositiva, Polacci tende ora a manipolare spazi inconciliabili entrouno schema unico, quasi a perseguire una sua paradossale coerenza.Ilivelli di realtà si moltiplicano, agganciati l’uno all’altro secondoregole nuove e indicibili. Le diverse zone spaziali si assottiglianocome carte, si smazzano, si impilano e si incrociano per separarsisubito di nuovo, mentre strade in fuga prospettica schizzano via dalcuore della scena (o vi aff ondano come pugnali?) e mari crepuscolari s’innalzano da (o precipitano sopra?) porzioni di fondali: le strade sonopercorse, i mari sono contemplati da blocchi erratici col loro seguitodi ombre lunghissime, portatori ognuno di un’anima che conosce lacommozione solo attraverso il silenzio. Attorno a loro, ultimicapisaldi rassicuranti della geometria euclidea, mondi impazziti sisquadernano fi no a trasmettere un intelligente malessere, come quelloche accompagna le febbri altissime, allorché le dimensioni si alternanoe si confondono nella coscienza turbata. Varchi irradiati da invisibilifonti luminose interne fi ngono di aprirsi in quinte architettoniche

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piatte come fogli di carta. I cieli penetrano nelle stanze e le stanzesi ribaltano sul mare. Montagne stilizzate come piramidi, cabine vigilicome sentinelle pattugliano i margini degli abissi che non comunicano congli abissi adiacenti. Un corridoio magenta in scorcio spavaldo (maattenzione: la parete destra è più lunga di quella sinistra) mentre lo guardiamo diventa piattabanda, in una conversione impossibile cheavrebbe divertito Escher, e non meno lusingato Moebius, l’inventore del mitico anello a una dimensione. Eppure il pittore non perde neppure perun attimo il controllo della sarabanda spaziale che mette in moto: equesto grazie alla prospettiva, guida sapiente e strumento unifi cantedella composizione, cui in questi quadri si riconosce il ruolo di fi lod’Arianna consegnato dal Brunelleschi a tutti i suoi successori d’Occidente.I colori intrisi di luci si alleano al lucido delirio deldisegno, ora allontanando a dismisura ora avvicinando vertiginosamentequinte e fondali, scale e porte, vette e pini. La tavolozza di Polacci,a sua volta allucinata e allucinatoria, comprende tinte smaglianti comeil blu elettrico, il rosa shocking, il rosso papavero, ma anche tonicrudeli come il giallo sulfureo, il verde ottanio, il ruggine delsangue secco. Un lume pallido, come di sole bianco o luna diurna chetalora si rivela trapassando i corpi solidi, emana dal quadro che hasempre, secondo un principio fatto proprio da Polacci fi n dagli esordiin pittura, una luce propria all’interno. Sia il riverbero balenante diuno squarcio d’inferno nascosto, siano i cieli mutevoli e perlaceisopra il Tirreno versiliese, siano i crepuscoli rutilanti al di là delcredibile o le ombre arbitrarie che ridisegnano secondo un codice nuovole superfi ci, certo i fenomeni luministici dei quadri di Polacci sonoall’origine di chiaroscuri tanto impeccabili quanto innaturali, checompletano l’inganno teso all’osservatore consenziente.I quadri diPolacci, in buona sostanza, funzionano come macchine per sognare.Appesi alle pareti subito ne contraddicono il chiuso spessore fi sico,lo sfondano con le loro imprevedibili aperture, instradano lo sguardoper molteplici sentieri onirici. Sono quadri che ad ogni nuovo incontromostrano qualcosa di più agli occhi della mente e dicono qualcosa dinuovo alle orecchie del cuore.

Cristina AcidiniSoprintendente per il

polo Museale Fiorentino

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L’arte non ripete le cose visibili, ma le rende visibili.

Paul Klee

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Le immagini non devono descrivere mai una realtà,ma una delle interpretazioni della realtà.

Renée Magritte

SAGGI CRITICI

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Pesanti, immobili, squadrati danno un senso di sicurezza: sono i blocchi di marmo delle apuane.“…per me, non sono freddi parallelepipedi, ricoperti di polvere e di terra,”, dice Marcello Polacci, “ma sono la carne di quelle montagne, di quelle madri vecchie come il tempo…”.Nella sua pittura – ricca di colore, suggestiva per atmosfere – i blocchi, a poco a poco, sono diventati personaggi: gi-ganti solenni, certi della loro durezza, della loro inamovibile forza, ma soprattutto fermi antagonisti della fragilità del nostro tempo.Basta pensare che un metro di altezza, uno di base, uno di profondità, danno un metro cubo: se di marmo, grosso modo, pesa due tonnellate e mezzo.La fragilità morale dei nostri giorni è ben più spicca dei blocchi sul piazzale delle cave; la fragilità della nostra vita, costretta a muoversi tra inquinamenti, tragedie ecologiche, nubifragi spaventosi, delitti cinici, delinquenza scatenata e vuoto etico, è ciò che si attendeva dal così detto progresso.Polacci, versiliese doc, sente la necessità di tornare alle cose semplici, arcaiche, alla leva capace di sollevare il mondo, al marmo di cui son fatte le nostre montagne bellissime, alle forme geometriche, alla quadratura del cerchio.Lo conosco da quando ha cominciato a dipingere, cioè da moltissimi anni. Poi la professione medica ha avuto il sopravvento….Intendiamoci: fi no a un certo punto, perché segretamente non ha mia smesso di lavorare intorno al cavalletto.I blocchi di marmo delle Apuane sono scesi al mare, lungo la via tracciata da Michelangelo Buonarroti e da Donato Benti. Ci fu un tempo, in cui Forte dei Marmi era eff ettivamente un fortino, contornato da blocchi, che attendevano di essere caricati sui navicelli. Così Polacci ha fatto l’itinerario inverso – nato a Pietrasanta, vissuto al Forte - è andato a scegliere i suoi protagonisti, sul piazzale delle cave, come il Buonarroti sceglieva il marmo delle sue statue. Tutto viene dal mare a suon di bradisismi e di millenni.E’ un gioco serio, quello di Polacci, i dadi dei bimbi uno sopra l’altro, uno accanto all’altro, formano case, paesi, sogni, fantasie, i dadi di Polacci sono immobili guardiani di umana eternità. Sembrano i marinai di sentinella di Arturo Dazzi, che stanno lungo il viale a mare. Non sono fantasie, sono guizzi di creatività, suggestioni, ripensamenti.Messosi in pensione, come pediatra, ha ripreso l’antica professione dei colori. Sempre c’era stato in mezzo: amico di pittori illustri, come Carrà, Carena, Soffi ci, Rosai, Maccari, Dova, Treccani, Migneco, Direttore della Galleria Comu-nale d’Arte Moderna di Forte dei Marmi per lunghi anni, ha sempre avuto l’occhio allenato. Eppoi l’amore per l’arte: le grandi mostre, i musei, i libri. Non scherzava Berenson, quando diceva: “Chi ha più fi gurine vince,”. Intendendo foto, diapositive, immagini, libri.Tre blocchi, tre colori, uno sopra l’altro…Un blocco solo e una rette fi ttissima di punti di fuga…Blocchi e scacchiere sul pavimento, alfi eri pronti a dare scacco matto…Lo sfondo dei blocchi non sono le Apuane, bensì il mare. Li ha portati con sé e non gli sono occorse due o tre paia di bovi, sono bastate tele, colori e pennelli.Cubi e parallelepipedi di marmo, soli nello spazio del quadro, potrebbero far pensare a gelide forme, ad atmosfere quasi metafi siche. Ma non è così. I blocchi di Polacci sono personaggi statici, ma con una dinamica interna: il marmo non è materia inerte, ma carne delle Alpi Apuane… E con questi personaggi viene voglia di parlare, per lo meno viene voglia di cercar di capire. Hanno qualcosa di profondo, di ancestrale, di meraviglioso.

Raff aello Bertoli

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Conciliabolo, 2006

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Una inattesa rappresentazione del mondoL’emozione grafi ca e coloristica è stata coltivata da Marcello Polacci in tanti anni di passione e attenzione dedicate entrambe all’arte proprio negli anni in cui il mestiere costringeva l’amico a fare il “dottore”. Un tirocinio continuo di attese e di predilezioni soff ocate, anche se non del tutto, in quanto bastava un ritaglio di tempo o un giorno di riposo per porre mano ai pennelli e concretizzare una visione che magari era dentro da anni e che attendeva solo che il pro-cesso creativo si realizzasse.Ed era tale l’interesse per la pittura che quando è sorta la possibilità di realizzarlo egli vi si è dedicato con giovanile entusiasmo, al punto di insistere su un motivo dominante, addirittura in modo ripetitivo, cioè sui blocchi di marmo, quelli che da piccolo aveva visto scendere dal monte sulla lizza delle cave e che nella sua mente erano rimasti fi ssati come un incubo e una tragedia. Ma questa non è la realtà e possiamo aff ermare fi n da ora che quella iterazione di massi non è una banale ripetizione di un motivo ricorrente ma una sequenza di scene sempre diverse, poste in luci contrapposte, con i blocchi che si pongono come vittime o come personaggi vincenti che entrano nella decorazione oppure partecipano alla composizione con autonoma presenza, che vivono il loro dramma esistenziale di pietre colme di tempo e di storia, pronte a farsi interpretare nei vari modi perché il messaggio artistico rimanga sempre ricco di ambiguità e misteriosità.Ho aff rontato subito questo problema perché ciò mi consente di contestare i critici dell’effi mero che parlano inu-tilmente del peso dei marmi e delle loro misure, dei massi visti come volumi “statici” troppo ripetuti per carenza di fantasia creativa: invece la lievitazione di un’idea – perché l’arte è sempre sintesi di immaginazione e cultura – vive di tempi lunghi, il prodotto risultando sempre una elaborazione esistenziale di un evento che viene da lontano, rientra nel problema della “conoscenza” e si realizza come risposta “necessaria” di vita e d’arte.Polacci medico era già virtualmente possessore dei suoi messaggi poetici, la poesia rimanendo viva e presente ora nelle sue scenografi e mentali ma già latente nel suo pensiero d’artista: queste sue opere dipinte non sono improvvisazioni di un medico che cerca di dare un senso al “tempo libero” m appaiono quali frutti intensi e meditati ripensamenti e soprattutto quali originali urgenze di comportamenti legati alla visione del mondo e al modo di viverci. Il dolore degli anni trascorsi tra i pazienti non era pagandato perduto, aveva fruttato il senso del rischio e del periodo, la coscienza della fragilità, l’attesa dei miracoli impossibili, ed ora nasceva l’urgenza della saldezza veritiera, la solidità della pietra seppure alleviata dalla poesia del colore e dalla misura di un ordine a cui porre mano col senso dell’armonia. Gli altri amici pittori avevano quasi esaurito il loro compito, avevano già dipinto le oro utopie. Ora toccava a lui, a Marcello. Ed è qui che l’accortezza e la fantasia intervengono per impedirgli di farsi ripetitore del linguaggio dei Maestri conosciuti, stimati ed amati: l’eccezionalità di questa esperienza di Polacci sta proprio nell’originalità delle sue composizioni che, pur richiamandosi – come tutti – alle poetiche del cubismo o del realismo o del geometrismo, non ne fanno motivo dominante ma giungono a conclusioni inaspettatamente semplici e originali, classicamente liriche.Evidentemente Polacci è dotato di una sua energia, di un suo impeto interiore che lo portano a legittimare un suo even-to personale al punto di includerlo nell’aria della sua “conoscenza”, anche se noi trattiamo solo il lavoro da lui svolto dal ’95 al 2005. All’inizio i blocchi delle sue Apuane erano semplici “cose” guardate con occhio realistico e quasi neutro, blocchi terrosi e quasi assenti, per poi passare alla fase attuale in cui i blocchi iniziano ad umanizzarsi, a farsi parte di

Dino Carlesi

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un tutto che compendia vari elementi, coinvolge forze facenti parte di un progetto segnico e cromatico elegantemente risolto.I primi blocchi erano sovrapposti secondo un ordine legato al lavoro e alla fatica, deposti su terre realmente calpestate e con fondali marini non ancora del tutto assimilati allo spirito del dipinto, poi i blocchi hanno incominciato a par-tecipare alla vita del sogno, cioè la storia umana che era dietro ad ogni blocco iniziò a mostrare le proprie sembianze: “Piazzale di notte” del ’96 è già un tripudio di personaggi riuniti sul palco del mondo. E poi i “percorsi” scuri tra i blocchi allineati e poi quelli incisi da linee parallele e sovrapposti come fi gure colorate con fondali grigi e azzurri.All’inizio del nuovo secolo Polacci toccò il momento massimo del suo rischio e del suo progetto lirico: o seguitare a lasciare in solitudine i suoi soggetti pur arricchendoli di cieli, spiagge e mari quali quinte di un teatro colmo di malin-conia oppure iniziare a coinvolgere in modo più intimo questi volumi ormai pronti per essere accolti in “composizioni” solenni, in armonie circolari o cubiche disponibili per essere trasferiti in “interni” o anche deposti ai piedi dell’Altissi-mo: così la montagna ritrovava i propri blocchi smarriti in un contesto ancora più poetico. E qui il pittore arricchisce le pietre delle ombre care alle “piazze d’Italia” di De Chirico, il quale giocava sulle arcate aperte alla luce mentre Po-lacci gioca sulle ombre dei suoi massi duri e aspri, ed infi ne l’inserimento dei blocchi nelle dimensioni interne di uno spazio entro cui essi possano familiarmente diventare “lui e lei”, predisporsi in armonica coppia come due “bagnanti” multicolori, porsi in successione tra due torri rosse e due porte, collocarsi in ambienti ricchi di magia con corridoi che s’avviano verso l’infi nito e il mistero delle geometrie. L’artista ha qui sfruttato tutte le sue conoscenze tecniche, la cultu-ra dei linguaggi conosciuti e capiti, per esempio ricuperando antiche visioni cubiste per far dimenticare la realtà fi sica degli oggetti e raggiungendo così il punto estremo di riduzione e rarefazione (che aprirà dopo le vie dell’astrazione) in modo da consentire che il gioco delle scacchiere, i punti di fuga, le cabine, gli orizzonti e le scalinate acquisissero signi-fi cati profondi di vita, aspetti non solo visivi di situazioni esistenziali complesse e pronte a chiudersi nel buio della notte (“Prima della tempesta”, 2005) o a creare i misteri della metafi sica per renderli esplorabili all’artista e a noi (“Ombre”, 2005) e anche per cogliere la forza magica che le “sfere” rosse rivelano dinamicizzando le “scalinate” (“La sfera rossa”, 2005) che portano chissà in quale paradiso.Quanto sono stai utili gli anni di ripensamento che Polacci ha trascorso a guardarsi attorno, a cogliere i segreti del vi-vere, i rapporti tra eventi e persone: ora le persone sembrano non esistere più, esistono i loro immaginati fantasmi che tracciano percorsi tra problemi e tensioni, prima che le porte verdi si aprano, prima che la surrealtà prenda il soprav-vento totale trasferendo nei blocchi i colori del mare, un mare che ricorda i dechirichiani “bagni misteriosi”, prima che l’insieme ci costringa alla scelta del viaggio, soprattutto quello verso la speranza. Solo in questa magrittiana sequenza di mari che diventano pavimenti geometrici e viceversa, solo queste cabine solitarie che racchiudono i loro sacrosanti misteri, solo queste scacchiere su cui gioca il destino dell’uomo che non si vede, solo in questo spettacolo visivo vera-mente insolito Marcello Poacci consuma l’esperienza più tenera e più commovente della sua vita: non si tratta di una trovata occasionale o di una sopraggiunta reminiscenza di motivi estetici goduti nel passato, ma di un determinato mutamento nel modo di porsi davanti al mondo, di penetrarne angoscianti temi di attesa, conquistarne angoli dai dolenti signifi cati morali validi non solo per lui ma per ogni essere che intende riproporsi il tema della propria fragilità e misteriosità. Provoca un certo sgomento questa sua rappresentazione del mondo e forse neppure l’autore – giunto

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a questo punto della sua vita - si rende bene conto a quale sconvolgente sintesi sia pervenuto. Altro che il collezioni-sta Polacci fedele alla sua raccolta di opere, altro che il medico amico pronto al consiglio sulla salute o sulla bellezza: Marcello si è dedicato alla ricerca di sé, a trovare il bandolo di quel groviglio che fu già di Montale o dei cavalieri di Marini o dei cavallini di Music: tutti in allerta in ascolto dei segnali più segreti che la cultura appena suggerisce ma che io talento tenta di scoprire e di realizzare. Anche se si è presentato un po’ in ritardo il talento di Marcello è un segnale che merita grande attenzione e stimoli.

Pontedera agosto 2006

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L’idolo, 2006

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Una terra, una cultura, un pittoreNon mi sorprese più di tanto, lo sorso gennaio, la notizia che Marcello Polacci era prossimo a inaugurare una mostra personale di pittura a Pietrasanta, la sua città natale. Non sapevo che dipingesse: non me ne aveva mai fatto cenno. Eppure, quando me lo annunciò, mi parve del tutto normale, anzi conseguente, fi gurarlo alle prese con tele (in realtà tavole: compensato marino), pennelli, colori e vernici. Eravamo nel chiostro della chiesa di Sant’Agostino, a Pietra-santa, dove presentavo una mostra di Romano Cosci. La stessa sede nella quale Marcello avrebbe esposto le sue liete – ossia gratifi canti, e per questo lievi – fatiche. Altrettanto prevedibile, data la qualità del personaggio e la sua peculiare vicenda, mi parve il titolo dichiarativo della mostra, mantenuto (sorta di teca) anche per questa seconda e penso anche per le successive tappe del suo viaggio immaginario: Versilia sognata. Forme e colori della mia terra.Ricordo che mentre mi parlava e mi si rivelava pittore, i suoi occhi restituivano più luminoso, e come eccitato, il sorriso che gli è solito. Un sorriso trasparente, senza sottintesi e malizie. Indizio certo di una disposizione positiva verso la vita e il mondo, compresa l’intricata rete delle relazioni umane. Un sorriso che credo abbia impresso il tono aff abile della sin-cerità la sua consuetudine con i bambini, nella veste professionale di pediatra che egli ha indossato per alcuni anni.Non decenni, ma pur sempre un mannello di anni, sono trascorsi dacché ho conosciuto la prima volta il “dottor” Polac-ci. L’occasione era una di quelle conversazioni che Tommaso Paloscia, il nostro compianto amico comune, usava pro-muovere per rendere più gradevoli i soggiorni estivi degli ospiti del Lagomare, il complesso residenziale immerso nella pineta di Torre del Lago. Mi fu presentato come navigatore di lungo corso e presenza rilevante della Versilia artistica. Tale lo seppi allora, sulla parola affi dabile di Tommaso. In seguito non sono mancati i nostri incontri “in simulazione”, conviviali e anche di lavoro. Per quest’ultimo caso ricordo, ad esempio, le mostre sull’arte in Versilia nel Novecento da lui organizzate a Lugano. Ho insomma avuto agio e modo circostanziato di conoscerlo e di riconoscerlo infaticabile animatore e testimone di molti accadimenti culturali di una terra, la sua e in parte la mia, che occupa un posto non marginale nella geografi a del Novecento artistico italiano, come ben sanno ormai non solo gli addetti ai lavori. Le stesse testimonianze qui pubblicate lo confermano.Polacci è stato amico, spesso sodale, di tanti pittori e scultori, scrittori e letterati stabilmente insediati o frequentatori abituali di Forte dei Marmi e del più ampio contesto versiliese. Al Forte ha avuto un ruolo di primo piano quale presi-dente, per quindici anni, della Galleria Comunale d’Arte Moderna, essendo responsabile dell’attività espositiva e delle acquisizioni. A lui si devono gli spunti e spesso il motore operativo di numerose altre manifestazioni intraprese. Cito solo la raccolta “Arturo Dazzi”, costituita con opere e documenti donati dalla signora Andreina, la moglie del grande, e non giustamente valutato, scultore carrarino che al Forte aveva fi ssato la propria residenza. Quella raccolta è un mo-dello di conservazione d’un patrimonio altrimenti destinato, con buona probabilità, alla dispersione.In un suo recente volumetto, Memoria e fatti di incontri a Forte dei Marmi, al quale ho abbondantemente attinto per comporre nelle seguenti pagine il quadro di riferimento delle motivazioni profonde e del retroterra di questi dipinti, Polacci ha fornito ampia e non ostentata notizia dei suoi incontri e frequentazioni versiliesi. Sul fi lo della memoria, si ricompongono situazioni, episodi, aneddoti di vita vissuta per lo più inediti, relativi a personalità ed eventi centrali della storia di Forte dei Marmi e dintorni. Non sarà inutile ricordare che si tratta di una storia che in non pochi casi sconfi na nel mito, trattandosi di artisti e autori del livello di Dazzi, Cremona, Carrà, Pea, Malaparte, Soffi ci, Longhi,

Nicola Micieli

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e numerosi altri di equivalente caratura. Con il lindore d’una parola improntata alla semplicità, il suo agile racconto e le numerose foto che lo corredano restituiscono un sentimento del tempo e del luogo, una temperatura esistenziale, un clima culturale di grande fervore. Con la memoria comunicano il senso di una stagione irripetibile della quale Marcello è stato compartecipe. Non solo in funzione di mero, per quanto provveduto spettatore.Ecco! Fino a meno di un anno fa, Marcello era per me un uomo colto e sensibile fattivamente coinvolto, a vario ti-tolo, nelle cose dell’arte e della cultura; e, si intende, amico d’elezione per comunanza di interessi. Ignoravo difatti i suoi trascorsi giovanili di pittore, e non so –non gliel’ho chiesto- se di quella breve apertura abbia conservato qualche prova. Era il tempo in cui, studente di medicina e poi medico alle prime armi, non mancava di assistere –da sensibile uditore- alle vivaci riunioni al “Quarto Platano”, ossia ai tavolini del bar di Forte dei Marmi dove s’intrattenevano conversando, dibattendo, divagando fi gure di primissimo piano dell’arte e della letteratura italiane. Nemmeno sapevo del dilemma che gli toccò scegliere, quando venne il momento di fare la scelta decisiva tra la professione di pediatra e quella di pittore. Finì col dedicarsi alla prima, come si sa, accantonando la seconda per recuperarla dopo la lunga “parentesi” pediatrica.Lo racconta Polacci stesso nella paginetta posta ad apertura di questo catalogo. Dalla quale si deduce che se avesse op-tato per l’altro corno del dilemma, la pittura da cui pure si sentiva fortemente attratto, l’avrebbe fatto solo a condizione di praticarla a tempo pieno e, beninteso, con il massimo rigore professionale. Ossia da artista a tutto tondo. Non volle essere un medico con il “pallino” della pittura, buona a saturare le crepe del tempo libero, e non avrebbe accettato di dedicarsi alla pittura con la nostalgia o il rimpianto per la medicina. Glielo imponevano un abito mentale improntato alla serietà e, penso, la consapevolezza dell’impegno senza scarti che la pittura avrebbe comportato, a farla sul serio, giu-sto l’esempio degli artisti d’alto profi lo che le circostanze della vita gli avevano consentito di avvicinare e frequentare, e che non potevano non pesare sulle sue scelte.In un suo scritto di presentazione alla mostra dello scorso anno alla Fògola Galleria Dantesca di Torino, Paloscia giusta-mente sottolineava il carattere non dilettantistico della pittura di Polacci. Si riferiva, ovviamente, alle opere eseguite al compimento del lungo capitolo della pediatria, delle quali quelle qui documentate sono il coerente seguito e sviluppo. La sua aff ermazione si fondava sia sull’analisi linguistica e formale delle opere, dunque argomenti specifi ci, sia sul no-torio retroterra culturale del “ritrovato” pittore e sull’incidenza formativa delle esperienze artistiche, in senso generale, da lui maturate nel tempo.Sottoscrivo le pertinenti considerazioni di Paloscia. Del resto, corrispondono a quelle di altri autorevoli testimoni, da Raff aello Bertoli a Dino Carlesi a Massimo Carrà. Esse giustifi cano anche, a posteriori, la mia sorpresa solo parziale allorché Polacci mi annunciò la prossima inaugurazione della sua mostra a Pietrasanta. La sua fi gura, difatti mi pareva così intrinseca al laboratorio e all’entourage dell’arte versiliese e in Versilia nel Secondo Novecento, e la sua persona così familiarmente legata alle persone degli artisti nella quotidianità e per la durata di un’esistenza, da rendere pressoché scontata la “novità” della notizia.Alle osservazioni di Paloscia vorrei aggiungerne una sola, della quale parlerò più avanti, a mio avviso decisiva per sciogliere l’interrogativo circa l’eff ettiva portata e l’ambizione del Polacci pittore allo specchio dell’attuale panorama artistico anche solo toscano, e avviso subito che tale questione ha un senso molto relativo, nel suo caso. Eventualmente

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si porrebbe solo se Polacci pretendesse o presumesse di annettere alla sua pur felice e seria “appendice” di pittore una valenza e un signifi cato esorbitanti i limiti dichiarati. Che sono quelli di un viaggio o un’avventura paga del suo farsi e manifestarsi, quale compimento del bisogno di tradurre nella concretezza del linguaggio pittorico, e nell’immaginario che tramite le forme e i colori si esprime, un sogno lungamente e segretamente coltivato.. Posso aff ermare, a ragion veduta, che l’ambizione di Polacci consiste tutta in un onesto e pungente proposito: render testimonianza poetica delle proprie radici e della propria fedeltà a una terra e alla sua cultura diff usa. Una terra alla quale egli si sente di appartenere non solo per nascita e atavismo, ma perché ad essa fanno capo i valori che hanno nutrito la sua esistenza e plasmato la sua personalità. Polacci si è raccontato, insomma, attraverso l’immagine idealizzata della propria terra e, per essa, degli elementi morfologici e antropici che, ridotti nella partitura pittorica a emblemi più che simboli, la contrassegnano e la connotano, rendendola intuitivamente percepibile come vera e presente, al di là della riconoscibilità naturalistica.Il repertorio dei referenti versiliesi cui Polacci ricorre è quanto mai sobrio e puntualmente riproposto in ogni opera. Compare anzitutto il profi lo delle Apuane, segnatamente il monte Altissimo, e i cieli che lo sovrastano, e cangiano suggerendo un clima, un’ora, una stagione, secondo l’inclinazione dell’animo che detta la qualità della luce, non già il bollettino meteorologico. Quindi la spiaggia e l’orizzonte marino, gli edifi ci e le cabine degli stabilimenti balneari, i moli e i blocchi di marmo. Quei blocchi che Polacci già dipingeva nella loro massiccia sostanza minerale, pronti all’imbarco per approdare ai laboratori e fabbriche e piazze del mondo, sono andati gradualmente spogliandosi della loro fi sicità fi no ad assumere la pura forma astratta (ossia essenziale in senso alchemico) di prismi e parallelepipedi, e fungono oggi da personaggi principi del racconto. Infi ne, qualche isolato pino dal fusto vertiginoso, memoria del pri-mitivismo versione Novecento e forse omaggio a Carrà. Nient’altro. Salvo, sporadicamente, una sfera simboleggiante la totalità dell’essere e la ciclicità della vita e degli elementi, indice di movimento.Pochi elementi, come si vede. Ma la diversa e varia combinazione, per incastri a tarsia dei piani, di questi emblemi rarefatti sulla scacchiera dell’immagine, determina un clima visivo di non impropria attribuzione metafi sica che, nella sua irrealtà, restituisce meglio d’una ripresa dal vero il carattere del luogo.Il raccontarsi di Polacci non consiste nel rievocare liricamente i momenti topici del suo stringente rapporto con la terra di Versilia. Difatti egli non si affi da a situazioni o episodi narrativi, se non nei titoli che li suggeriscono, quanto alla proprietà evocativa dello spazio edifi cato come scena e alla muta presenza delle strutture e degli oggetti emblematici. Da quanto sin qui argomentato, sembra che la pittura sia cresciuta dentro il cuore e la mente di Polacci, nel seguito degli anni dedicati alla professione medica e corroborati dall’immersione non balneare nel variegato universo dell’arte che gli fl uttuava dintorno, e comunque gli apparteneva, in quanto costituiva, al pari di Forte dei Marmi, il suo referen-te identitario privilegiato. Covava, la pittura, pronta a rivelarsi in pienezza di forme e fi gure dell’immaginario, quando fi nalmente si fosse off erto totale e privo di vincoli alieni il tempo ad essa consacrato.Ciò spiega –ed è questa la mia aggiunta alle osservazioni di Paloscia- il fatto che il pittore Polacci, sia nato, in un certo senso, già adulto. Tra il ’95 e il ’96, le prime prove lo dichiarano già suffi cientemente sicuro quanto a proprietà dei mezzi tecnici e linguistici, messa a fuoco dei soggetti e del sotteso mondo poetico, fi nalità sia del racconto che della corrispondenza interiore. La si sarebbe detta la neonata pittura, non l’avvio ma già un primo apprezzabile approdo del viaggio o della bella avventura che dir si voglia, e parlo senza alcuna intenzione di sopravalutare per compiacenza d’oc-

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Infi nito, 2006

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casione o in qualche modo forzare l’eff ettiva valenza delle opere d’esordio. Lo aff ermo cioè nella piena consapevolezza anche dei loro limiti, presupposti nel particolare statuto di chi sfocia nella pittura in età non più tenera. Limiti che in nessun modo, tuttavia, sono o possono essere letti come indizi d’uno sguardo e d’una mano di dilettante, nel senso domenicale del termine. Sia pure d’un dilettante colto e avveduto che, in fi n dei conti, della pittura e suoi annessi e connessi si è lungamente nutrito. Come nel caso di Polacci, appunto. Il quale comincia a dipingere e sembra che l’abbia sempre fatto e non penso che la sua familiarità con il mezzo sia, in qualche misura, il deposito reintegrato della sua esperienza giovanile, lontana nel tempo e non più ripresa sino alla metà degli anni Novanta. Propendo piuttosto a credere che in Polacci abbia giocato, quale fattore decisivo e distintivo, la sua “cultura visiva”, sul piano della sensibilità e del gusto oltre che della conoscen-za acquisita dei linguaggi di movimenti e tendenze moderni e dei procedimenti tecnici e formatori. Il suo tirocinio, il suo percorso di formazione lo ha compiuto in itinere grazie alla lunga consuetudine con gli amici artisti e i loro studi, alla familiarità con le opere all’analisi dei relativi linguaggi, da uomo di cultura incline a prestare particolare attenzione alle arti della visione, segnatamente la pittura e la scultura.L’altro elemento che mi induce a sostenere l’ipotesi d’una educazione allo spirito e alla prassi della pittura maturata in-teriormente, e come parte integrante dell’identità umana e culturale della persona, è il breve arco temporale e la conse-quenzialità dei passaggi con cui Polacci ha sviluppato le proposizioni dell’esordio. Nel giro di pochi anni, dall’originaria pittura condotta con pennellate vigorose ancora saldamente ancorate al dato concreto, egli è pervenuto all’attuale stato di autonomia stilistica e limpidezza pittorica attraverso il processo cui accennavo di riduzione formale, di sintesi geo-metrica dell’impianto spaziale e dell’immagine che scaturisce dall’architettura di quello spazio, da Polacci qualifi cato sotto specie di visionario teatro del silenzio. Che è a un tempo contenente e contenuto del dramma, luogo e soggetto del racconto, esso stesso dramatis persona totalizzante, tra gli altri oggetti recitanti in virtù della loro sola presenza.Dapprima i personaggi per eccellenza, anzi esclusivi, della scena pittorica erano massicci e sommariamente squadrati blocchi di marmo. Polacci amava dipingerli accatastati sulla spiaggia. In alcuni casi sembrano arcaici dolmen e resti di ciclopiche mura sconnesse. In altri, tagliati e soprammessi con maggiore regolarità, formano immani pile e castelli, quali ancora oggi si vedono nei depositi del Forte e di altrove, nella Versilia che del marmo cavato dalla Apuane ha fatto per secoli e da millenni, la propria risorsa economica e la scaturigine della propria cultura materiale e spirituale.Si capisce la ragione per cui un versiliese come Polacci abbia assunto i blocchi di marmo a protagonisti della propria pit-tura: Sin da ragazzo li aveva visti cavare, trasportare, accatastare, infi ne caricare sui bastimenti, uno di quali governato dal padre: Presenze imperiose del paesaggio e della topografi a familiare, per lui rappresentavano l’ossatura e la carne e la vena della terra, aspri e teneri come la vita. Fatica ed orgoglio della sua gente, la bianca e compatta materia strappata al monte educava al rispetto e al sentimento dei valori e della durata, mentre suscitava il desiderio di farne risuonare la grana cristallina, di strapparle la forma e la bellezza latenti nella sua anima minerale con il lavoro vigoroso e sapiente degli scalpellini e l’intuizione creatrice degli artisti.Non un soggetto qualsiasi o un pretesto pittorico, dunque. I blocchi di marmo per Polacci sono la sintesi e il simbolo d’un vissuto e d’un mondo interiorizzati, e insieme un parametro di solidità e di certezza non gratuite, ma da conqui-stare, che egli ha fi nito col contrapporre alla dissipazione dell’effi mero e alla perdita del senso profondo dell’identità

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che sembrano essere i segni distintivi del nostro tempo. Lo ha fatto con le opere degli ultimi anni e recenti che abbiamo detto di ispirazione metafi sica e di riduzione simbolica della forma pittorica. Nelle quali egli davvero si racconta quan-do sulla scena lascia fi ltrare, e traduce in immagine trasfi gurata, la propria rifl essione sull’uomo contemporaneo e il suoi porsi arrogante e precario nella vita e davanti all’infi nita estensione, al mistero dell’essere. Ebbene, in queste linde partiture che simulano la consequenzialità dell’ordine geometrico, Polacci si rivela pittore del bilico, dell’equilibrio precario, dell’impossibilità di ancorare a una certezza (al faticato e affi dabile blocco di marmo dei padri costruttori) l’esperienza nonché la cognizione del mondo. Lo è per il modo di comporre gli interni/esterni della scena pittorica in cui consiste la sua “Versilia sognata”, fatta di fondali sagome quinte paratie scale porte fi nestre stanze edifi ci (e blocchi di marmo squadrati in parallelepipedi), che diresti razionalisti se non parassero all’irrealtà e persino all’assurdo. Lo è per la lucidità con cui mira allo straniamento, abilmente giocando su magrittiani inganni della percezione e della visione e sulla combinazione incongrua di molteplici prospettive lineari, che contraddicono e vanifi cano la lettura logica dello spazio edifi cato. Lo è per l’apparente candore con cui assegna ai suoi blocchi/personaggi il compito di raccontare storie di vita in forma di memorie, di situazioni, di apologhi versiliesi, mentre la scena dichiara l’impossibilità di individuare il confi ne tra l’ombra e la luce, tra l’alto e il basso, tra il concreto e l’astratto, tra il qui e l’altrove separati da uno spec-chio.Le forme e i colori della “Versilia sognata” di Polacci, sono la bella metafora di un altro mondo e di un’altra età, forse mai veramente esistiti se non nella dimensione della memoria, nondimeno auspicabili come speranza che non sia in-fausto il destino della presente disastrata umanità.

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Marcello Polacci “non è” il solito medico che dipinge

“Il solito medico che dipinge”” (?). Non è un inequivocabile interrogativo, questo che l’interlocutore mi rivolge inter-rompendo alcune mie veloci notazioni sull’interessante pittura di Marcello Polacci; ma nell’ambiguità del tono mi è facile individuare il senso di una domanda che attende conferme al proprio convincimento prudentemente non esplicitato: in quella espressione, divenuta di comunissimo consumo in un tempo in cui una massa ormai ampia di persone si avvicina spesso impreparata nello specifi co, a quadri e sculture con l’intento proditorio di giudicare. Nella cui manipolazione, del resto, si avvicendano altrettanto numerosi “operatori” senz’arte né parte. Per cui: “No, non è il solito medico che dipinge, dico, anche se si tratta di un notissimo pediatra. Il Dottor Polacci ha dipinto sin da quand’era ragazzo, è un cultore e intenditore assai fi ne di arte visiva ed è stato persino direttore della Galleria Comunale d’arte moder-na di Forte dei Marmi in un periodo di felici iniziative pubbliche. Un personaggio di grande rispetto, dunque, così come è rispettabile il sua operato”.L’itinerario percorso dall’artista Polacci è strettamente legato all’ambiente nel quale egli ha trascorso l’adolescenza e che è soprattutto riferito alla presenza di letterati e di artisti molto noti (ai quali si mescolavano i soliti curiosi in cerca di svago) che si davano convegno ai tavolini all’ombra di un grande platano, il quarto a cominciare da quello che era vicino al bar ospitante (bar sopravvissuto).Il nucleo dominante era costituito da Maestri considerati fra i maggiori del nostro Novecento Carrà, Dazzi, Maccari, Pea, Soffi ci, Magnelli, Carena…Il concitato ma civile sovrapporsi di elementi polemici di quei convegni, ai quali Polacci e altri ragazzi come lui assiste-vano non dalle primissime fi le, divenne musica per le orecchie del giovane Polacci. Di qui, a farla breve, lo sviluppo di una costante sperimentazione su carte tele e legni a portata di mano: una sperimentazione silenziosa e umile, che oggi si è fatta colta, sempre con l’occhio dell’anima rivolto alla natura. Al vero, al verosimile, con la rivisitazione sistematica di memorie sottratte alla cultura metafi sica.Questi blocchi dunque, strappati a un’antica memoria, rivivono allineati e sovrapposti con ordine nei loro diversi co-lori-luce, e si trasformano in elementi preziosi di un gioco seriamente impegnato a ricostruire armonie disegnative e cromatiche nuove in cui i passaggi dagli interni all’esterno sembrano meditatissime mosse su una scacchiera per giganti. E Marcello ci lascia solo intravedere, sulle prime, la compattezza di un ideale scontro di idee in un ancora non preci-sato ruolo affi dato a quei blocchi umanizzati. “Li ho sempre amati –suol dire infatti l’artista Polacci- essi sono l’anima, la vita della nostra Versilia. Li ho sempre avuti nel mio cuore di versiliese. Ricordo quando, da ragazzo, andavo a vedere mio padre che li caricava sul suo bastimento per trasportarli in tutti i Paesi del Mediterraneo. Questi parallelepipedi apparentemente senza vita li ho davvero umanizzati. Sono diventati personaggi che parlano non solo in intimi colloqui; e vanno al mare, vanno in gita sulle Apuane. Vanno sull’Altissimo a conoscere i luoghi aspri, e incantevoli insieme, nei quali sono nati. Rivivono i luoghi delle loro radici” Forse per questo sono immagini inquietanti, e tuttavia capaci di opporre la loro solidità all’esistere effi mero di una società divenuta assai fragile e sempre meno consapevole dei propri mezzi di cui stenta a recuperare l’energia e la vita-lità. “Questi blocchi di marmo –ribadisce Polacci- sono carne di quelle montagne (le nostre Apuane) di quelle madri

Tommaso Paloscia

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vecchie come il tempo, testimoni di una storia lontana, di un metamorfi smo plurimillenario”. E’ dunque in una logica esistenziale che la sua pittura va ancor più apertamente evolvendosi in un contraddittorio vivace con i responsabili del degrado generale dell’arte, di un’arte subdolamente impoverita di soluzioni formali degne di essere accolte nella pittura e nella scultura. E quale strumento di contrapposizione Polacci avrebbe potuto invocare più effi cace della solidità dei blocchi di marmo delle sue Apuane che in queste tele fanno muraglia ideale per arginare il caos? Essi recuperano –per-ché no?- la solidità dialettica di quei grandi maestri del Novecento, battaglieri protagonisti intorno al mitico “Quarto Platano” del Forte, e possono identifi carsi in un ideale che si esprime contro la “fragilità morale dell’uomo” artista-non artista il quale dipinge, scolpisce, progetta, spesso con un dilettantismo sconcertante. Quando non abbia addirittura la consapevolezza di volere stupire ad ogni costo realizzando un “nuovo” cervellotico, per vanità, vale a dire al solo scopo di farsi notare mediante “orrori” di grammatica e di sintassi, trappole mortali per l’arte. Quasi alla stregua di colui che ruba o ammazza solo per avere il proprio nome sui giornali. D’altra parte la voce dei blocchi di marmo, ambientata suggestivamente nei luoghi che legittimamente la amplifi cano e la giustifi cano, sono uno strumento che può anche essere “poesia” o, meglio, simbolo d una poesia disposta oggi ad assumersi il compito di tramandare alle generazioni future certi valori il cui esistere è messo in pericolo dal caos dila-gante. E vengono a mente le parole del grande Pea: “la mia Versilia, posta di fronte a tante insulse deformazioni”. Che sono oggi brutture assolutamente incapaci di opporre neanche quella similinnocenza attribuibile alle mode di quel tempo combattute dall’impegno dei Carrà, dei Maccari, dei Dazzi…..La storia si ripete, certo, ma gravata di altri mali endemici che Polacci intende denunciare con una pittura nuova. Soprattutto ricca di una suadente forza espressiva nel suo linguaggio pulito. Civile.

Firenze 2005

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Forte dei MarmiIl Pontile caricatore, primi del ‘900

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TESTIMONIANZE

Magritte dipinse una pipa e intitolò il quadro:

“Questa non è una pipa”. Infatti non è l’oggetto

ma solo l’immagine che rassomiglia all’oggetto.

Interrogato in proposito rispose: “Perché questa pipa non è una pipa?

Per la stessa ragione per cui la parola cane non abbaia”.

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Silvana Arata

Marcello Polacci: il medico e il pittoreHo sempre nutrito grande ammirazione e rispetto per il dottor Marcello Polacci. Col tempo ho avuto modo di conoscere l’aspetto più singolare della sua professionalità: l’amore profondo e continuo per l’arte e per la pittura in particolare.Polacci, versiliese autentico, ha sempre coltivato la passione per l’arte vissuta anche nella sua professione di medico, come una risorsa e un valore al quale fare riferi-mento. Conoscitore profondo della materia ha frequentato Gallerie prestigiose, stretto rapporti con noti artisti e critici d’arte. Dal 1976 ai primi degli anni ’90 ha diretto la Galleria Comunale d’arte moderna al Forte, denotando tutta la sua competenza innovativa. E dopo svariate esperienze ora ha avvertito l’esigenza prorompente di scoprire la sua vena artistica. Così ha dato forma e luce ai suoi quadri attraverso solidi blocchi di marmo. Sono i marmi delle Apuane, simboli e ricchezza di questa terra insieme al mare. Una pittura autonoma la sua, che si rifl ette tra porte misteriose, scacchiere nel gioco della vita, spiragli di luce. Con questo slancio vitale i blocchi dipinti nei colori più caldi o più lievi, hanno conquistato i numerosi visitatori nell’antica Galleria Fògola di Torino aff acciata su Piazza Carlo Felice.

“La Nazione”, Firenze

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Marina, 2006

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Massimo Carrà

Conosco Marcello Polacci da oltre mezzo secolo e posso dire a ragion veduta che il suo amore per l’arte, pittura e scultura, ha caratterizzato la sua vita non meno del suo impegno professionale di medico. In tutta questa nostra lunga amicizia, difatti, ogni volta che ci si incontrava si fi niva a parlare prevalentemente di arte e di artisti,E sono lieto di poter rendere questa piccola testimonianza su questo amore per l’arte di Marcello che via via si è esplicato in varie forme e dimensioni, a cominciare dal gusto di raccogliere opere con la passione del collezionista per poi passare a gestire con la moglie Adriana una piccola galleria fortemarmina dove ha organizzato mostre soprattutto di disegni e opere grafi che di atisti importanti, pittori e scultori del Novecento Italiano. E poi ancora come direttore della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Forte dei Marmi per la quale ha curato rassegne signifi cative di cui ancora oggi è interes-sante consultare i cataloghi.E ora che dall’interesse per l’arte altrui è passato a una propria diffi cile attività creativa, aff ettuosa-mente gli dico: buon lavoro Marcello.

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Ilaria Dotta

I paesaggi metafi sici del pediatra-pittore“Non chiamatelo il medico pittore”. Certo, quando negli anni Sessanta Marcello Poacci si trovò a scegliere tra la professione di pediatra e quella di artista, senza troppe incertezze scelse la medicina dei bambini. Ma adesso è tutta un’altra storia. Da alcuni anni, infatti, il medico versiliese che non ha mai saputo abbandonare la passione per la tavolozza è andato in pensione. E ha potuto tornare a votarsi completamente alla pittura. Alla realizzazione di quei suoi paesaggi dell’anima dal sapore metafi sico a cui, proprio in questi giorni, la Galleria Fògola Dantesca di Torino ha deciso di dedicare una ricca mostra. Una personale –la prima per l’artista di Pietrasanta nel capoluogo piemontese- che riunisce ben trentatre tele recenti. Sono tutti paesaggi di Versilia letti in chiave surreale, in cui il pittore pone pesanti massi di marmo delle Alpi Apuane come simbolo di un rapporto mai dimenticato con la terra, ma anche con la memoria personale di emozioni autentiche. “Questi blocchi di marmi –ha spiegato Polacci- sono la carne di quelle montagne, di quelle madri vecchie come il tempo, testimoni di una storia lontana, di un metamorfi smo millenario”.E poi, ci sono le porte misteriose e buie che si aprono sull’ignoto, le scacchiere che fanno pensare al gioco della vita: E il mare. Sempre presente, forse a simboleggiare l’origine dell’esistenza.

“Il Giornale”

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Sognando, 2007

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La famiglia, 2007

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Fabio Mazzei

Marcello, ti riporto le nuove sensazioni che ho provato mentre, a casa tua, mi mostravi i dipinti che avevi pensato di esporre nella nuova personale.Il. movimento dei corpi l’ho percepito come se fosse molto avanzato stringendosi in un’unione che si sta facendo sempre più serrata, quasi come se, avvicinandosi a un traguardo, fosse necessaria una maggiore consapevolezza di noi stessi e delle persone che si amano, e, quindi, uscire allo scoperto con la coscienza di poter assumere il ruolo di protagonista ma sempre con la discrezione dell’animo forte. Le luci, che non rivelando la fonte di provenienza, irrompono costantemente sulla scena da una di-agonale, che oserei dire “gentile”, e sono rivelatrici di una grande vitalità che mai diventa prepotente, pronte ad accompagnarci anche con una musicalità che mi piace associare ai suoni che producono i venti dei nostri luoghi sulla marina, nella pineta e sulle montagne.Ti devo confessare che stavolta sono stato catturato dall’insieme di tre situazioni: il punto o i punti di fuga, la posizione dei blocchi, la fonte luminosa e che ancora più del senso della vita e della sol-lecitazione al ragionamento mi sono cullato ad ascoltare e….ci sono riuscito!.....ed è stato veramente piacevole. Ma ancora più intrigante ed attraente è stato il rapirmi e perdermi nell’intendere: che tipo di musica si suona, chi ascolta quella musica e soprattutto chi la dirige.Le tue rappresentazioni si compongono di situazioni in cui il singolo individuo si può confrontare senza limiti di spazio e di tempo e riferire le immagini e percepirle con serenità coerentemente ai propri stati d’animo e, quindi, decidere di volta in volta, le risposte da darsi agli interrogativi che suscitano la tua pittura. Ti ringrazio ancora una volta di avermi fatto partecipe delle tue opere e così vorrei che fosse anche in futuro perché sono consapevole di poter godere di ulteriori meravigliose emozioni.

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Angelo Mistrangelo

Alla Galleria Dantesca le atmosfere surreali e metafi siche di Marcello Polacci

Del pittore versiliese Marcello Polacci s’inaugura domani, alle 18, una personale alla Galleria Dan-tesca, in piazza Carlo Felice 15. Introdotta di testi critici di Tommaso Paloscia e Raff aello Bertoli, questa mostra presenta quadri nei quali i blocchi di marmo sono i personaggi, i simboli, i soggetti di una raffi gurazione dalle rarefatte atmosfere metafi siche. Direttore per circa vent’anni della Galleria d’Arte Moderna di Forte dei Marmi, Polacci affi da alle sue “tavole” un linguaggio sempre calibrato, un’elaborazione geometrica dello spazio in cui colloca, secondo un nitido impianto prospettico, il profi lo delle Alpi Apuane, un capanno rosso sulla spiaggia, la linea impalpabile e lontanissima dell’orizzonte sul mare. Vi è inoltre nelle sue opere un senso di mistero, di “ambientazioni illogiche e surreali”, di impressioni che hanno la sospensione del sogno o il fl uire dell’esistenza.

“La Stampa”

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Presenze metafi siche, 2007

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Armonie luminose, 2007

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Erika Nicchiosini

La Versilia di Polacci – Il pittore del marmo metafi sicoDella Versilia il Polacci rimangono i marmi ed il mare. I marmi e i monti. Due connubi strettissimi, per quanto rivela anche l’artista, con la pura natura umana. E quanta Versilia in Polacci, che dovette anni fa scegliere tra una brillante carriera da medico pediatra e un’altra (che sarebbe stata altrettanto brillante, immaginiamo) da illustre pittore; talmente tanta da poter facilmente intuire che i solidi marmi da lui raffi gurati altro non rappresentano che un attaccamento profondo alla sua terra e alle sue radici, ma anche al bisogno di solidità dei valori in contrapposizione con la fragilità corporea e morale dell’uomo moderno. In ogni tela infatti il Polacci dà vita a delle piccole trasfi gurazioni in cui è possibile notare temi ricorrenti e un evidente antropomorfi smo delle pietre, dei blocchi, avvolti in un eccellente cromatismo e gusto dei toni. Le conversazioni di Polacci, la vita da lui rappresentata, prendono forma in colori, giochi, prospettive talvolta estremamente azzardate come in Capanno Rosso dove tra mare e cielo si situano gli amici blocchi di marmo poggiati su pavimento (o sospesi) a off rire il loro spigolo più aguzzo mentre in fondo si apre un’architettura forata su cui spicca, tra i toni del beige, del bianco e dell’azzurro, un capanno rosso fuoco che non pare un capanno ma un disegno di bambino su foglio di carta e privo del senso della tridimensionalità. E accanto al capanno colorato, sul muro, si susseguono a ripetizione una serie di altri capanni di cui il pittore traccia solo i contorni come a voler dare un senso di compiutezza solo all’elemento chiave del quadro, quello che ne porta il titolo.E allora sbirciando tra le varie e azzardate prospettive e tra i punti di fuga o piccoli barlumi e lucette, possiamo prenderci forse la libertà di defi nire il “nostro” un “pittore metafi sico”?Consideriamo una dichiarazione da Polacci fatta: “I blocchi, rappresentati inizialmente con un lin-guaggio realistico, a poco a poco li ho idealizzati e trasfi gurati, immaginandoli e trattandoli come personaggi nel loro vissuto quotidiano. Personaggi simbolici, il cui fascino va ricercato nei loro sig-nifi cati più profondi”.Ciò detto e data soprattutto un’occhiata alla produzione pittorica del nostro, notate le diff erenze tra l’Altissimo e Sintesi (giusto per fare un esempio), allora sì, possiamo riservarci il diritto di defi nire il nostro artista un pittore metafi sico. E non è diffi cile scoprire con quale cura amorevole i blocchi di marmo da lui dipinti si trasformino in personaggi portati a recitare la commedia della vita immersi in architetture fantastiche, sospese tra orizzonti marini e pavimenti di legno in tipiche spiagge versiliesi.

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E di giochi della vita, tra sacre conversazioni tra un lui e una lei di marmo il cui sesso è distinguibile solo tramite il colore, Polacci parla francamente e apertamente come ne Il gioco della vita. Qui su un piano (molo?) proteso verso il mare e con il pavimento a scacchi (ocra e rosso), sono posti dei bloc-chi di marmo bianchi e neri (pedine?) e al limite stremo del piano un muro chiude l’orizzonte. Ed è un costante susseguirsi di stanze: stanze dalle architetture improbabili su cui si aprono varchi, pic-cole porte, stanze divise da pavimenti dipinti secondo le più elementari regole della prospettiva, con punti di fuga a volte molto lontani o che terminano proprio nel buio di qualcuno tra i varchi aperti nelle pareti. Insomma, pochi e costanti elementi caricati di un forte simbolismo: i valori, le radici sono i blocchi di marmo, a loro volta personaggi, interpreti di una umanità statica, in attesa. Le palle colorate che si insinuano a volte nelle composizioni sino vita, vita che rotola, vita che cambia, brevi attimi in composizioni che prediligono linee parallele, spigoli e forme geometriche quadrangolari in costante comunicazione con gli spazi circostanti, avvolti dal sogno, perfettamente coscienti di sé.

“Corriere dell’Arte”

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Metamorfosi, 2007

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Cabine a Forte dei Marmi, 2007

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Giovanni Pieraccini

Per l’amico Marcello PolacciNon ho titolo di critico d’arte e di storico per scrivere sulla pittura di Marcello Polacci, ma ho quello di amico e quello di essere come lui legato profondamente alla bellezza e ai valori dell’arte ed alla frequentazione di tanti artisti che nella nostra Versilia sono vissuti ed hanno operato. E’ per questa amicizia che conosco bene la vita e le opere di Marcello Polacci.E’ un uomo, in tutto ciò che ha fatto, di un forte impegno, il che è notevole poiché è riuscito quasi a realizzare due impulsi, per non dire due missioni, di essere medico ed artista. E’ stato – ed è – una fi gura importante nel campo della medicina, un pediatra di successo, di notevole valore. Chi potrà mai sapere quanti adulti di oggi, giovani o meno giovani, lo ricorderanno per tutta la vita come il medico della loro infanzia, curatore e protettore degli anni del loro sviluppo.Ma Marcello Polacci è sempre stato anche pittore. Credo anzi che abbia, a suo tempo, oscillato fra l’una o l’altra carriera, come in un diffi cile dilemma. Non ha mai cessato di sentire la pittura non come un abbellimento o un dilettantesco ornamento della sua vita, ma come un suo mondo poetico che premeva con intensità per essere espresso, con un suo linguaggio, non banale. Ora che la carriera del medico, almeno uffi cialmente si è chiusa, assistiamo – anche con un po’ di stupore – alla piena realizzazione della sua pittura. Ecco dunque davanti a noi l’inconsueta riuscita del medico e del pit-tore, uniti nella stessa persona.La pittura di Marcello non è nata in un deserto o in una oscura provincia dove giungono solo echi di un mondo lontano, anche se ormai immersa, ma soltanto superfi cialmente, nel mondo dei mass-media. La pittura di Marcello è nata nel fertile humus della Versilia e dall’incontro con artisti e anche con grandi artisti. Fra l’altro, ad allacciare queste frequentazioni e a mantenerle c’era anche la galleria d’arte di sua moglie Adriana. Ed è su questo terreno che è nata e si è consolidata la nostra amicizia. Non dimenticherò mai tante serate estive passate con gli amici comuni sulla terrazza sul mare della mia casa viareggina, o sull’alto spiazzo fra gli ulivi della sua casa estiva a Strettoria o – qualche volta d’inverno – nella sua casa del Forte, o nella casa costruita da Carlo Carrà a Roma Imperiale, con il fi glio Massimo, con sua moglie Cornelia, con il poeta Piero Bigongiari. Molti di loro ormai ci hanno lasciato per sempre, come se con loro si allontanasse, come in una lenta dissolvenza, un’intera epoca. Ma ci sono ancora tanti amici e il nostro dialogo non è fi nito.La nostra terra ci ha fatto crescere nella presenza dell’arte, della poesia, della cultura fi n dalla nostra

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prima giovinezza ed è per questo che la pittura di Marcello si è nutrita delle molteplici esperienze, tendenze, correnti dell’arte moderna nella loro più ampia dimensione: dalle avanguardie storiche, dai futuristi, a Dada, dagli impressionisti agli espressionisti, dalla metafi sica al “Novecento” italiano, dagli astrattisti ai neorealisti, fi no ai nostri giorni. Di tutto questo Marcello ha anche scritto nei suoi libri, poiché oltre che medico e pittore, è anche scrittore.Ora che è pittore a tempo pieno, che può lavorare a lungo su ogni suo quadro, la sua pittura si esprime con un suo originale linguaggio e in un suo mondo poetico ed io ci sento la memoria della metafi sica, del Novecento ed anche quella di un movimento praticamente nato in Versilia che si chiama Metacosa, i cui pittori sono ancora felicemente operanti, di cui Marcello non ha fatto parte ma che ha con essi una certa aura comune.E’ il ritorno al fi gurativo, dopo il lungo rifi uto delle avanguardie e di quella arte dei nostri giorni che si esprime mediante l’uso delle tecnologie più avanzate, con gli strumenti dei mass-media, della fo-tografi a, del cinema e dell’informatica. C’è in queste correnti che riaff ermano la pittura con i metodi della sua millenaria storia, la capacità di immergerla nel nostro tempo. E’ un’arte che io amo proprio perché è insieme tradizione e modernità: quell’aura metafi sica che avvolge i paesaggi dei quadri è, in defi nitiva, quasi la sospesa, diradata atmosfera – come un misterioso interrogativo – di un mondo inquieto e perfi no drammatico. E’ un interrogativo sulla nostra esistenza, sul nostro mondo e sul nostro futuro che già si poneva nei giorni di de Chirico e che si pone ancor più oggi. Nella immobile atmosfera, fra realtà e metafi sica, c’è forse più modernità di tante opere tecnologiche. Tutto questo mondo pittorico che dà vita ai quadri di Macello Polacci ha un suo ben concreto con-tenuto: è la Versilia. Sono i blocchi di marmo, le Apuane, il mare, i pini, le cabine della spiaggia, le strade rette che solcano la nostra pianura, immersi nei colori dei limpidi giorni di primavera e nella gran luce d’agosto.C’è nella mia casa di Viareggio, appeso alla parete del soggiorno sul mare, un suo quadro, che Mar-cello ha generosamente voluto donarmi: sono proprio i suoi blocchi di marmo sulla spiaggia al sole, sullo sfondo azzurro del mare e del cielo. Amo guardarlo perché mi trasmette insieme il messaggio dell’arte, della mia terra e del mio amico. Grazie Marcello, e buon lavoro

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Adriana Tanzini

“Polacci ha raggiunto una essenziale e geometrica dimensione del paesaggio marino di Forte dei Marmi”, dice Angelo Mistrangelo de “La Stampa” di Torino in una sua recente recensione.E’ questo un giudizio molto positivo e lusinghiero per un pittore che dipinge la sua terra, perché riesce a raggiungere la sintesi assoluta di ciò che si vuol rappresentare, signifi ca riuscire a penetrare l’essenza, a darne l’idea e il concetto senza ricorrere alla ormai stanca e superata rappresentazione edonistica del solito paesaggio realistico.E’ una ”Versilia Sognata” quella di Marcello Polacci, dove le montagne, le cabine, il mare sono ridotti a simboli essenziali, diventando un linguaggio esclusivamente interiore.I blocchi di marmo estratti dalle montagne madri, diventano “personaggi” che vivono come in un presente continuato, le diffi coltà della vita di ogni giorno. Essi sono sempre posti davanti a una scel-ta, davanti a diversi possibili orizzonti da raggiungere e si trovano spesso in situazioni sospese, perché non c’è niente di certo nel cammino della vita, ma una continua lotta per una continua ricerca del bene e della felicità.In ogni quadro però c’è sempre una luce di speranza e una forza vitale che, osservandolo attenta-

mente, ci coinvolge e si trasferisce in noi.

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Ritratto di un’idea, 2007

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La stanza rossa, 2007

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La scala infi nita, 2007

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Prospettive, 2007

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Punti di fuga, 2007

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Rosso di sera..., 2007

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Dalla cabina, 2007

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Dove?, 2007

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Biografi a ragionata

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Bagnanti, Forte dei Marmi, 1926

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Marcello Polacci è un versiliese puro: è nato a Pietrasanta e vive a Forte dei Marmi. Non ha frequentato scuole d’arte, ma ha sempre coltivato la sua grande passione per la cultura e l’arte frequentando artisti e letterati, instaurando con loro rapporti di amicizia e di reciproca stima, come Arturo Dazzi, Marino Marini, Felice Carena, Mino Maccari, Mauro Reggiani, Ernesto Treccani, Gianni Dova, Pietro Cascella, Curzio Malaparte, Piero Bigongiari, Massimo Carrà, solo per citarne alcuni.Ha diretto la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Forte dei Marmi dal 1973 fi no agli anni Novanta organizzando prestigiose mostre, alcune di rilevanza internazionale. La prima mostra della Galleria Comunale fu dedicata ad Arturo Dazzi con una mostra antologica inaugurata dal Presidente del Senato di allora Sen. Spagnolli, alla presenza della ve-dova di Dazzi, Signora Andreina e della marchesa Cristina Marconi.Nel 1967, come Medico scolastico e Presidente della Mostra del Fanciullo, organizza il “Convegno Pedagogico sullo studio della grafi ca infantile”. Capannina 31 maggio 1967 presenti i Proff . Arata, Volpicelli, Pepper, Agazzi e altri.Organizzatore di incontri culturali. Nel 1995 organizza i “pomeriggi culturali” alla Capannina, dove vengono pre-sentati i carteggi fra artisti e letterati che hanno vissuto a Forte dei Marmi con interventi di autorevoli personalità del mondo della letteratura e dell’arte.1995 carteggio Soffi ci- Carrà 1996 carteggio Carrà con amici e colleghi1997 carteggio Maccari-Cremona 1998 Malaparte a Forte dei Marmi1999 Carteggio di Carena con colleghi e un’amica.Nel 1996 organizza per il Centro Congressi di Torino, la serie di conferenze “Torino incontra l’Arte” tenute da Dino Carlesi, Massimo Carrà, Vittorio Fagone, Ugo Nespolo e Raff ele De Grada: nel 1999 organizza gli “incontri con l’autore” al locale Liceo scientifi co di Forte dei Marmi. Una serie di conferenze tenute da esponenti della pittura, della scultura europea e della scultura giapponese, delle fonderie, del mosaico e della grafi ca.Nel 2000 organizza due importanti mostre in collaborazione col Comune di Lugano.Lugano 7 ottobre – 5 novembre 2000 “Pittori italiani in Versilia e Lucchesia” 50 artisti dai Maestri del Novecento ai giovani artisti versiliesi. Dal 23 novembre 2000 al 7 gennaio 2001 50 sculture di artisti italiani o stranieri che lavorano in Italia sono esposte in via Nassa e nel loggiato del Municipio di Lugano. In contemporanea nella sala Cattaneo del Consolato italiano a Lugano espone 50 disegni di artisti italiani del Novecento.Ha cominciato a dipingere alla fi ne degli anni Cinquanta, nel 1958 espone con Guido Gabrielli e Arturo Puliti alla Galleria “Il Chiostro” di Siena. I tre artisti erano stati chiamati “i tre del baraccone” dal critico d’arte Franco Miele e da Roberto Longhi.Nel 1960 dovette scegliere tra la professione del pediatra o seguitare a fare il pittore. Scelse la pediatria continuando però a dipingere, seppure nei brevi ritagli di tempo lasciti liberi dall’impegnativa professione In pensione da alcuni anni ha potuto dedicarsi completamente alla pittura. Nel suo pur breve periodo di attività pittorica ha presentato la sua “Versilia Sognata” (così sono intitolate tutte le sue mostre) in sedi prestigiose come la Galleria Fògola di Torino nel 2005 e all’inizio del 2006, il Chiostro di Sant’Agostino di Pietrasanta alla fi ne del 2006 e oggi al “Fortino” di Forte dei Marmi.

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Sommario

Il Presidente del Consiglio Comunale Bruno Murzi 5

Il Presidente del Circolo Culturale “Il Magazzino” Alessandro Di Ciolo 7

Rifl essioni sulla mia pittura Marcello Polacci 9

Agli occhi della mente alle orecchie del cuore. Cristina Acidini 12

Saggi critici 17

Pesanti, immobili, squadrati, danno un senso di sicurezza….Raff aello Bertoli 18

Una inattesa rappresentazione del mondo. Dino Carlesi 20

Una terra, una cultura, un pittore. Nicola Micieli 24

Marcello Polacci “non è” il solito medico che dipinge…Tommaso Paloscia 30

Testimonianze 33

Ho sempre avuto grande ammirazione e rispetto….Silvana Arata 34

Conosco Marcello Polacci da oltre mezzo secolo. Massimo Carrà 36

Non chiamatelo “il medico pittore”.…Ilaria Dotta 37

Marcello, ti riporto le nuove sensazioni.…Fabio Mazzei 40

Del pittore versiliese Marcello Polacci….Angelo Mistrangelo 41

La Versilia di Polacci - Il pittore del marmo metafi sico. Erika Nicchiosini 44

Per l’amico Marcello Polacci. Giovanni Pieraccini 48

Polacci ha raggiunto una essenziale e geometrica dimensione... Adriana Tanzini 50

Biografi a ragionata 59

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Finito di Stamparenella Tipografi a

Bandecchi & VivaldiPontedera

Marzo 2008

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio la Provincia di Lucca per il patrocinio accordato alla manifestazione e per la sensibilità all’iniziativa; ringrazio il Comune di Forte dei Marmi

per avermi concesso la disponibilità del Fortino; la Presidenza del Consiglio Comunale per aver voluto questa mia mostra;

l’Assessorato alla Cultura e l’Uffi cio Tecnico per la disponibilità e il prezioso contributo all’organizzazione tecnica dell’ esposizione .

Ringrazio gli amici del Circolo Culturale “Il Magazzino” che hanno avuto la prima idea di questa mia mostra e hanno inoltrato

poi la proposta all’Assessorato alla Cultura.Ringrazio tutti quei privati ed Enti che sono stati sensibili all’iniziativa:

L’Unione Proprietari Bagni di Forte dei Marmi, Il laboratorio di scultura di Giorgio Angeli,

il Ristorante “La Barca”. Ringrazio per la fattiva collaborazione

i giovani amici Stefano Polacci e Gabriele Giovannetti.