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Vecchie e nuove sfide nel Mediterraneo: partecipazione "dal basso" e cooperazione esterna (12.8.1. Old and New Challenges in the Mediterranean: Bottom-up Participation and External Cooperation) ORNELLA URSO ([email protected]) SUM – Istituto Italiano di Scienze Umane Abstract. Nell’area del Mediterraneo, la complessa e sempre più stratificata realtà che caratterizza gran parte degli assetti politici, economici e sociali dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (MONA), è stata ulteriormente sottoposta a nuove sfide. Sin dalla fine del 2010, la “primavera araba” ha innescato un processo di trasformazione e di transizione dei regimi politici fino a quel momento ben saldi e stabili, riaprendo nuovi capitoli della letteratura della scienza politica, che mirano a considerare in chiave interpretativa “processi, attori ed esiti” protagonisti degli eventi che hanno coinvolto diversi paesi dell’area del Mediterraneo meridionale (come la Tunisia e l’Egitto). Il seguente lavoro si proporrà di presentare in chiave analitica lo scenario attualmente presente in quest’area - i cui outcomes sembrano essere lontani da una “quarta ondata di democratizzazione”. In particolare, concentrando l’attenzione sugli attori che influenzano, direttamente o indirettamente, tali processi di cambiamento politico, cercherò di approfondire e analizzare il ruolo svolto dalle organizzazioni della società civile, dai giovani (rappresentativi della dimensione interna al processo che tende ad ispirarsi sempre più al concetto di “partecipazione dal basso”, sfruttando nuove tecnologie, come i blog e i social network) e dall’Unione Europea (dimensione esterna); quest’ultima, infatti, è chiamata a superare il gap tra pratica e retorica condotta nei confronti di tali paesi. Qual è lo scenario attuale che nel Mediterraneo si presenta dopo (?) la “primavera araba”? Come gli attori interni ed esterni influenzano le dinamiche socio-politiche in contesti statuali variegati al loro interno e diversi gli uni dagli altri? Quali le possibili risposte alle richieste di maggiore partecipazione politica da parte della società civile? Questi e altri saranno i quesiti ai quali la mia ricerca mira a rispondere. XXVII Convegno SISP Università di Firenze - Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali e Centro Interuniversitario di Ricerca sul sud Europa Firenze, 12 - 14 settembre 2013 Sezione XII: Politica e Politiche dell’Unione Europea (Marco Brunazzo e Francesca Longo) Panel 12.8: Perspectives on European Development Cooperation: Societal actors, Institutional Dynamics, Policy Change Chair: Maurizio Carbone 1

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Vecchie e nuove sfide nel Mediterraneo: partecipazione "dal basso" e cooperazione esterna

(12.8.1. Old and New Challenges in the Mediterranean: Bottom-up Participation and External Cooperation)

ORNELLA URSO ([email protected]) SUM – Istituto Italiano di Scienze Umane

Abstract. Nell’area del Mediterraneo, la complessa e sempre più stratificata realtà che caratterizza gran parte degli assetti politici, economici e sociali dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (MONA), è stata ulteriormente sottoposta a nuove sfide. Sin dalla fine del 2010, la “primavera araba” ha innescato un processo di trasformazione e di transizione dei regimi politici fino a quel momento ben saldi e stabili, riaprendo nuovi capitoli della letteratura della scienza politica, che mirano a considerare in chiave interpretativa “processi, attori ed esiti” protagonisti degli eventi che hanno coinvolto diversi paesi dell’area del Mediterraneo meridionale (come la Tunisia e l’Egitto). Il seguente lavoro si proporrà di presentare in chiave analitica lo scenario attualmente presente in quest’area - i cui outcomes sembrano essere lontani da una “quarta ondata di democratizzazione”. In particolare, concentrando l’attenzione sugli attori che influenzano, direttamente o indirettamente, tali processi di cambiamento politico, cercherò di approfondire e analizzare il ruolo svolto dalle organizzazioni della società civile, dai giovani (rappresentativi della dimensione interna al processo che tende ad ispirarsi sempre più al concetto di “partecipazione dal basso”, sfruttando nuove tecnologie, come i blog e i social network) e dall’Unione Europea (dimensione esterna); quest’ultima, infatti, è chiamata a superare il gap tra pratica e retorica condotta nei confronti di tali paesi. Qual è lo scenario attuale che nel Mediterraneo si presenta dopo (?) la “primavera araba”? Come gli attori interni ed esterni influenzano le dinamiche socio-politiche in contesti statuali variegati al loro interno e diversi gli uni dagli altri? Quali le possibili risposte alle richieste di maggiore partecipazione politica da parte della società civile? Questi e altri saranno i quesiti ai quali la mia ricerca mira a rispondere.

XXVII Convegno SISP

Università di Firenze - Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali e Centro Interuniversitario di Ricerca sul sud EuropaFirenze, 12 - 14 settembre 2013

Sezione XII: Politica e Politiche dell’Unione Europea (Marco Brunazzo e Francesca Longo)Panel 12.8: Perspectives on European Development Cooperation: Societal actors, Institutional Dynamics, Policy Change

Chair: Maurizio Carbone

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Introduzione

Il mito della democrazia, che già dal 1974 sembrava avesse interessato più da vicino l’intera area del Mediterraneo, è rimasto in larga parte estraneo ai sistemi politici presenti in Nord Africa e in Medio Oriente. Il punto di partenza delle rivolte del mondo arabo è stato convenzionalmente stabilito con la data del 18 dicembre 2010, quando il giovane tunisino Mohamed Bouazizi si tolse la vita dandosi fuoco davanti all'edificio del governo di Sidi Bouzid per protestare contro la polizia che gli aveva vietato la vendita illegale di frutta e verdura. Sulla scia del gesto disperato di Bouazizi, le ondate di protesta hanno rapidamente interessato l'intera sponda meridionale del Mediterraneo. Nell'agenda politica di molti paesi, come la Tunisia e l’Egitto, sono emerse rilevanti questioni, volte a contrastare la povertà, la disoccupazione e le violazioni dei diritti umani. Ciò ha contribuito a determinare una crisi di legittimità dei governi interni, scuotendo le strutture centralizzate e gerarchiche di molti regimi non democratici.In altre parole, la lotta per la conquista della democrazia comincia con quella che è stata definita come la Primavera Araba ma che con il passare del tempo sembra essere ben lontana dal sorgere di un genus democratico. Vale la pena ripercorrere le dinamiche e ridefinire le dimensioni considerate dalla teoria tradizionale, che indaga sul processo di transizione politica, con particolare riguardo alla Tunisia e all’Egitto: paesi nei quali, proprio Piazza Tahrir e Avenue Habib Bourguiba costituiscono i luoghi in cui il cambiamento politico ha iniziato a prendere forma. Obiettivo del presente paper è quello di rivedere in chiave teorica quanto sia possibile spiegare gli accadimenti che hanno caratterizzato e che continuano a caratterizzare l’area che dall’Oceano Atlantico si estende fino all’Oceano Pacifico divenendo, storicamente, una delle zone strategicamente più rilevanti per lo studio delle relazioni internazionali. Più in dettaglio, nella prima parte verrà presentata una breve introduzione sullo status attuale che permea i sistemi politici di Tunisia e Egitto; i due paesi prossimi per geografia e che per primi hanno conosciuto l’effetto contagio che ha coinvolto e accomunato i giovani della “Primavera Araba” nella lotta per gli ideali di democrazia, trasparenza, buon governo, libertà civili e diritti politici, conclamati nello slogan che riecheggia all’unisono nelle piazze virtuali e in quelle di grandi centri come Tunisi, Cairo, Tripoli e Damasco “Ash-shab yurid, isqat an-nizam” (il popolo vuole la caduta del regime). In particolare, due sono le variabili alle quali verrà dedicata la seconda parte di questa relazione, per poter ulteriormente approfondire, in chiave analitica, l’impatto di questi aspetti alla luce dei più recenti avvenimenti e “cosa” la moderna letteratura della scienza politica può trarre dagli esiti (ancora parziali ed imprecisi) che ne emergono. Ponendo maggiore enfasi sugli attori che influenzano direttamente o indirettamente tali processi di cambiamento politico, cercherò di approfondire il ruolo svolto dai protagonisti della Primavera Araba, i giovani (rappresentativi della dimensione interna al processo che tende ad ispirarsi sempre più al concetto di “partecipazione dal basso”, sfruttando nuove tecnologie, come i blog e i social network) e dall’Unione Europea (dimensione esterna); quest’ultima, infatti, è chiamata a superare il gap tra pratica e retorica condotta nei confronti di tali paesi.Qual è lo scenario attuale che nel Mediterraneo si presenta dopo (?) la “primavera araba”? Come gli attori interni ed esterni influenzano le dinamiche socio-politiche in contesti statuali variegati al loro interno e diversi gli uni dagli altri? Quali le possibili risposte alle richieste di maggiore partecipazione politica da parte della società civile? Questi sono i principali quesiti a partire dai quali sono stati avviati i dibattiti interdisciplinari tra comunità accademiche, esperti e figure istituzionali di rilievo. Premettendo che, ad oggi, fornire delle risposte certe risulterebbe particolarmente difficile e, per certi aspetti superficiale, è tuttavia indispensabile riconoscere senza alcun dubbio la fase di crisi che vede il fiorire di una nuova stagione all’interno di realtà politiche i cui tratti autoritari hanno segnato per lungo tempo la storia di regimi inamovibili.

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I. Un breve sguardo sui casi di Egitto e Tunisia, tra i “primi protagonisti” della Primavera Araba

L’Egitto e la Tunisia rappresentano i due paesi che per primi hanno conosciuto la fase delle proteste; si tratta di due stati le cui origini storiche hanno consentito di tracciare i confini territoriali, organizzativi e concettuali (Geddes, 2005) di due regimi politici che hanno vissuto l’esperienza egemonica: lontani dalla “terza ondata” (o “quarta ondata”) di democratizzazione (Huntington, 1991); tra i regimi “ibridi” e quelli pienamente autoritari (Diamond, 2002; Morlino, 2003, 2008) dei paesi arabi del Mediterraneo, la Tunisia e l’Egitto sono rientrati per molto tempo all’interno della classe degli autoritarismi elettorali non competitivi (Panebianco, 2012). L’area del Nord Africa e del Medio Oriente più in generale, e i casi di Egitto e Tunisia, in particolare, mostrano come non sempre l’avvio, seppur precario, di un processo di liberalizzazione conduca con successo all’instaurazione democratica, a testimonianza di come i conflitti civili e l’instabilità politica del territorio si siano rafforzati, sfruttando le fratture etniche interne.Il trend “democratico” del regime egiziano dell’ultimo decennio ha confermato la stabilità del genus autoritario, ben lontano da ogni possibile riforma di liberalizzazione. Dall’andamento medio del livello di libertà civili (5) e di diritti politici (5) rilevati dell’indice di Freedom House1, solo nell’ultimo anno lo status del paese è passato da “Not Free” a “Partly Free”, con un punteggio medio di 52, raggiunto attraverso il rispetto degli standard internazionali durante le recenti elezioni presidenziali e lo scioglimento del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF). La Tunisia ha sempre mantenuto un punteggio medio di 6,5 negli anni settanta, fino a giungere ai valori di 6 nel 2009, confermando il proprio status di paese “Not Free”. Storicamente infatti, la Tunisia può essere considerata l’esito politico del pugno di ferro dei due capi di stato – Bourguiba e Ben Alì – che hanno bloccato lo sviluppo istituzionale di un islamismo moderato e un possibile sbocco democratico. Se l’esperienza di “liberalizzazione” del mondo arabo, tipica degli anni novanta, ha incentivato in alcuni casi delle limitate forme di apertura politica, determinando il sorgere di regimi ambigui – cosiddetti “ibridi” (Morlino, 2008) – che possono essere considerati “Partly Free”, altri paesi invece, tra i quali proprio la Tunisia, hanno promosso un’ondata di “de-liberalizzazione”, che ha notevolmente contribuito all’instaurazione di nuove forme di autoritarismo.Fino al 2010, infatti, l’autoritarismo della Tunisia si è mostrato ostile verso qualunque forma di partecipazione politica da parte della società civile, composta da gruppi giovanili, organizzazioni non governative ed esponenti del settore privato; sono poche le associazioni che godono di un certo grado di autonomia (poiché spesso sono state soggette al controllo delle istituzioni di governo). La società civile è caduta ostaggio di dinamiche di esclusione, che cercavano di restringere gli spazi partecipativi a favore dello strapotere del partito di governo (Campanini, 2006). I più recenti

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1 Nell’analisi dei regimi di Tunisia e Egitto, tra i possibili strumenti utili per analizzare la presenza/assenza di democrazia, Freedom House (FH) presenta un database di facile consultazione (seppur non esente da critiche). FH classifica gli stati in base al loro status politico in “Free”, che presentano un punteggio compreso tra 1 e 2,5; “Partly Free” tra 3 e 5.5 e “Not Free” tra 5,5 e 7. Inoltre, trend simili per i casi di Egitto e Tunisia sono riscontrabili anche nei recenti report pubblicati da “Polity IV”: l’esperienza politica lontana dall’essere quella democratica è comune ad entrambi i casi, seppur presentando punteggi diversi.

2 Prima di questa fase, solo nel 2004 il regime egiziano aveva attraversato un periodo che alcuni studiosi come Brumberg (2002) hanno definito di “autocrazia liberalizzata”, in cui Mubarak acconsentì ad indire elezioni multipartitiche (monitorate da attori esterni come gli USA), dietro la spinta del movimento Kefaya. Dal 2007 però nuove riforme costituzionali hanno restaurato il pieno controllo del regime intorno alla carica politica del suo leader.

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sviluppi, ancora troppo incerti per poterli considerare come parte di un vero e proprio processo di democratizzazione, hanno sicuramente contribuito a determinare un flebile cambiamento: il timido pluralismo politico emerso dalla competizione elettorale del 2011, unitamente al riconoscimento del principio di libertà espressione e la lotta alla corruzione, appaiono indicativi di una possibile transizione politica.

Nell’immaginario comune sono proprio Piazza Tahrir in Egitto e Avenue Habib Bourguiba in Tunisia i luoghi dai quali una sfera pubblica alternativa prende forma. La rivolta può portare veramente al successo se questa viene accompagnata da sentimenti condivisi dalla maggior parte di coloro che si mobilitano verso un determinato scopo, senza ripensamenti, senza fare passi indietro. È proprio questo che caratterizza le proteste del mondo arabo. L’insieme di tutti questi fattori ha dato esito positivo alla rivolta messa in atto, che ha permesso la caduta dei regimi autocratici di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto. Questo è l’importante messaggio che la realtà ci mostra; realtà che per molto tempo è rimasta celata e che oggi si dichiara non più incline all’accettazione senza pretese del potere autocratico. Le civiltà in rivolta chiedono adesso libertà e democrazia; come sostiene Roy, “The new generation calls for debate, freedom, democracy, and good governance. The appeal of democracy is not a consequence of the export of the concept of Western democracy [...] It is the political consequence of social and cultural changes in Arab societies (though these changes, of course, are part of the globalization process). It is precisely because the Arab Spring is a succession of indigenous upheavals, centered on particular nationstates and delinked from Western encroachments, that democracy is seen as both acceptable and desirable” (Roy, 2012:9).Gli elementi nuovi, e per certi aspetti peculiari, che emergono dall’abbattimento delle “barriere della paura” ad opera di una rinata coscienza civile, appaiono connessi allo sviluppo delle nuove tecnologie che, cambiando simultaneamente il panorama della comunicazione politica, stimolano una maggiore inclusività e apertura all’interno di una società civile forte e plurale, nella quale la dimensione della rete in continua espansione sul territorio prende il posto delle strutture gerarchiche fino ad oggi dominanti. Il desiderio di maggiore innovazione metterebbe in risalto la capacità di auto-riforma che è propria dell’idea di partecipazione in senso democratico: Horreya, dimiqratya e ‘adala igtimaya risuonano all’unisono tra gli slogan dei protestanti che occupano per interi giorni piazza Tahrir in Egitto (Roccu, 2012). Da quest’aspetto emerge l’importanza degli esiti che scaturiscono dai trend di cambiamento che risiedono alla base del paradigma della “transitologia”; da ciò è possibile cogliere le dimensioni interne ed esterne che contribuiscono, seppur con diversa intensità, al processo di trasformazione dei regimi politici “ibridi” - e che tracciano i confini degli stati appartenenti all’area del Nord Africa e del Medio Oriente, componendo come un puzzle il disegno più ampio ispirato ai valori e ai principi di libertà, tolleranza, trasparenza, rule of law, partecipazione politica e lotta alla povertà e alla disoccupazione3.

II. Partecipazione “dal basso” e cooperazione esterna

Le ondate di rivolta che hanno coinvolto la regione del Medio Oriente e del Nord Africa consentono di poterci soffermare su alcuni (f)attori, interni ed esterni, che la letteratura attuale riconosce quali possibili promotori del cambiamento politico in senso democratico, vale a dire la dimensione della

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3 Per una rilettura accurata e multidisciplinare sui processi, gli attori e gli esiti ad oggi riscontrabili nell’area del Mediterraneo, si veda il volume curato da Stefania Panebianco e Rosa Rossi (2012).

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partecipazione giovanile e quella relativa all’azione di attori strategici internazionali promotori della democrazia (come l’Unione Europea), senza, tuttavia, sottovalutare l’impatto che altre variabili come quella religiosa (e dell’Islam politico, in particolare) possano avere. Vale la pena ripercorrere le dinamiche e ridefinire le dimensioni considerate dalla teoria tradizionale che indaga sul processo di transizione politica, con particolare riguardo agli esiti delle recenti rivolte sociali, che confutano la novità del processo di transizione verso l’instaurazione e il consolidamento di un regime democratico, a conferma delle peculiarità proprie di ciascuna realtà statale coinvolta. Altre dimensioni, interne ai regimi politici, andrebbero attentamente considerate, tra le quali la variabile politica, la dimensione socio-economica e quella legata alla matrice culturale e religiosa, capace di mettere in luce alcune sfaccettature caratterizzanti il ruolo svolto dall’Islam politico e il coinvolgimento della società civile attraverso forme non convenzionali di partecipazione politica. Di particolare rilevanza è l’impatto dei fattori esterni e, più propriamente, come l’Unione Europea intenda definire la propria azione esterna. Volgendo lo sguardo verso il ruolo di potenza regionale nel Mediterraneo, l’actorness internazionale dell’UE si ritrova oggi a dover fare i conti con nuove sfide interne, come l’attuale crisi economica, che rischia di frammentare ulteriormente l’unità tra gli stati membri, vanificando il modus operandi che Ian Manners (2002) aveva declinato nell’accezione di potenza normativa dell’UE.

III. La componente giovanile e la Primavera Araba

“Rivoluzione dei gelsomini”, il nome [d’arte] da subito assegnato alla rivolta tunisina [Al Thawra], è semplice, suggestivo e facile da ricordare. Un marchio efficace, un brand sofisticato e particolarmente adatto alla moderna costituzione, capace di suggerire l’idea di qualcosa di garbato, non violento e allo stesso tempo di suscitare emozioni quasi romantiche, persino profumate. Un nome preso da un fiore o da un colore per una rivolta di piazza non è affatto una novità e ne ricorda molti altri (Macchi, 2012: 39).

Che la metafora della Primavera Araba sia ancora ben lontana dalla prospettiva di una possibile “democratizzazione” è ormai stato largamente confermato dalla dottrina. La letteratura che per anni si è dedicata all’analisi delle transizioni di regime e che storicamente Samuel P. Huntington (1991) ha distinto nelle tre grandi “ondate di democratizzazione” che hanno coinvolto gran parte dei paesi del mondo, non trova riscontro con le concettualizzazioni e i framework che gli approcci di tipo strutturale e della cosiddetta “transitologia” ci offrono. Interessante è lo sforzo avviato da molti studiosi e ricercatori nel tentativo di comprendere i punti in comune che in questa stagione araba emergono se confrontate con le esperienze del passato (in cui gli esiti derivanti dai processi di cambiamento politico hanno gradualmente consentito il sorgere di una coscienza politica insieme con lo sviluppo di un genus democratico). Il fil rouge è rintracciabile nel nome assegnato alla rivolte che negli ultimi decenni hanno sovvertito i governi in carica in alcuni paesi del continente europeo e, oggi, travolgono i regimi del Nord Africa e del Medio Oriente: le rinomate “rivoluzioni colorate”, tra le quali vale la pena ricordare l’emblematica “rivoluzione dei garofani” scoppiata in Portogallo nel 1974 (a partire dalla quale prende avvio la “terza ondata di democratizzazione”), seguita dalla “rivoluzione arancione” del 2005, che colpiva il governo ucraino in carica, dalla “rivoluzione dei tulipani” del 2008, che sovvertiva il governo kirghizo e dalla recente “rivoluzione verde” iraniana del 2009. Tale aspetto, se

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da un lato potrebbe non rendere del tutto vana la speranza di un possibile cambiamento politico in senso democratico nel MONA dall’altro, però, non può celare dietro gli slogan democratici una realtà politica, sociale ed economica segnata da una profonda crisi nella quale, la società civile è stata per lungo tempo esclusa da qualunque forma di partecipazione politica. Un altro elemento chiave delle “rivoluzioni colorate” è il metodo non violento con il quale, almeno inizialmente, le proteste sono state organizzate4. Inoltre, l’immagine dei giovani dimostranti che manifestano contro le forze filo-governative richiamando l’immagine delle pedine disposte casualmente sullo scacchiere politico dei paesi coinvolti, si scontra nei fatti con le “guide pratiche”, i centri studi (tra i quali il rinomato Canvas: Center for applied nonviolent action and strategies, con sede a Belgrado) e i workshops internazionali organizzati da vere e proprie società di consulenza a cui molti attivisti del Movimento Giovanile del 6 Aprile hanno dichiarato di aver preso parte (Macchi, 2012). Questa è, infatti, una delle ragioni per le quali è stato spesso utilizzato il termine “rivoluzione mediatica” con riferimento alla Primavera Araba. A caratterizzare le rivolte scoppiate in Tunisia prima e poi estesesi a macchia d’olio lungo tutta la sponda meridionale del Mar Mediterraneo, sono le immagini che ci giungono dai media o che sono trasmesse, tramite i più rinomati social network (Facebook e Twitter) agli occhi degli uomini di tutto il mondo. L’onda di uomini e donne che occupano le piazze delle principali città, non si tinge di un particolare colore politico bensì si muove a passi fermi e decisi ribadendo la dimensione apolitica dei movimenti di sommossa e di protesta, “colorati” da segni che esprimono un sentimento di nazionalità in grado di assorbire le differenze culturali, etniche e religiose. In altre parole, sono proprio i colori delle bandiere di Egitto, Tunisia, Siria e Libia, solo per citarne alcune, che tingono le strade e le piazze dei centri urbani del Maghreb e del Mashrek unendo la voce del popolo in un unico grido di libertà, trasparenza e rispetto dei diritti umani, rinnegati per troppo tempo dal silenzio, dalla corruzione e dalla violenza. Violenza che continua a fare da sfondo negli scontri di piazza e che, per i casi di Libia, Siria ed Egitto costa ogni giorno la vita a molti tra i giovani e gli studenti. Le giovani generazioni rappresentano la categoria sociale più debole, sottomessa ai complotti economici e politici che tarpano le ali a qualunque prospettiva di vita futura nel proprio paese d’origine. Sono loro i principali indignati, perché esclusi dalle politiche economiche e sociali di regimi economici caratterizzati da un tasso di disoccupazione che ,oggi, tende a superare il 20%, al quale fanno seguito un brusco calo della valuta, una borsa instabile, alti livelli di povertà e restrizioni civili e politiche; da qui il malcontento sociale che permea tutti i tessuti della società e stimola legami di solidarietà oltre confine (non mancano le bandiere tunisine in Egitto o in Libia e viceversa). Inoltre, diviene sempre più dirompente la stretta connessione che lega i giovani allo sviluppo e all’utilizzo delle nuove tecnologie e ai valori fondanti della democrazia5. Ed è proprio a partire dal caso del MONA che ci si interroga sulla definizione di democrazia: ad essere messa in

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4 Si veda Macchi (2012). Inoltre, nel manuale anonimo, che l’autore allega alla fine del suo libro, vengono espresse a chiare lettere le istruzioni da seguire per “protestare intelligentemente”; alla voce “Steps for Carrying Out the Plan” appaiono i riferimenti espliciti ad un linguaggio e a slogan dal messaggio positivo - in the name of Egypt and the people’s freedom - l’occupazione in massa delle strade, le marce organizzate verso i principali edifici pubblici e la formazione di grandi assemblee in cui potersi incontrare e confrontarsi. Uno scenario simile si era già visto in Egitto ai tempi della rivolta del pane nel 2008: “The city is burning. Thousands of demonstrators are out on the street, throwing stones, chanting anti-government slogans and defying the batons of the riot police, tear gas and bullets", queste le parole di Muhammad al-Attar dichiarate per il settimanale “Al-Ahram” (Beinin, 2008). Ancora una volta però, oggi le scene trasmesse da molti video amatoriali in Egitto denunciano le immagini di violenza e di umiliazione che diffondono il caos e il disordine anche tra l’opinione pubblica mondiale.

5 Emblematico è al riguardo lo slogan, marchio della rivolta tunisina le cui parole suonano e impattano a livello di una vera e propria strategia di mercato “Investi in democrazia!”.

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discussione non è la qualità della stessa, ma cosa si intenda per “crisi della democrazia”, se sia il “regime” in quanto tale a non soddisfare le attese e le pretese avanzate dai cittadini (specie per quel che concerne il grado di controllo esercitato sulle istituzioni di governo) o se, piuttosto, tale crisi colpisca più da vicino la liberal-democrazia di stampo occidentale a fronte di nuove forme - alternative - di democrazia. Si parla al riguardo di “post-democrazia” (Crouch, 2005) o di “contro-democrazia” (Rosanvallon, 2008), che rinnovano il termine verso forme di partecipazione diretta del demos e maggiori livelli di inclusività in senso deliberativo (Della Porta, 2011)6. Le piazze affollate del Cairo, di Tripoli, di Damasco e di Tunisi sono concepite secondo molti studiosi come “laboratori della vita politica” in cui la dimensione della rete sovrasta le strutture gerarchiche del potere. La componente giovanile è forte in questa regione ed è ormai indiscusso il suo ruolo di attore chiave nelle proteste (come mostrano i risultati delle elezioni sindacali e studentesche in Egitto). Nel MONA oggi la fascia della popolazione sotto i trent’ anni rappresenta i due terzi dell’intero bacino demografico; di questi circa 200 milioni sono i giovani che hanno preso parte alla cosiddetta Primavera Araba. Dal libro bianco “After the Arab Spring”, pubblicato dalla ASDA’A Burson-Marsteller e all’interno del quale vengono riportati gli esiti di un sondaggio condotto sui giovani di alcuni dei paesi protagonisti degli accadimenti degli ultimi tre anni (Bahrain, Egitto, Iraq, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Tunisia e Emirati Arabi Uniti7) emergono alcuni aspetti interessanti (e, per certi versi, di dichiarata prevedibilità). La richiesta di una risposta orientata alla ripresa delle politiche socio-economiche occupa un posto di rilievo nella scala delle priorità che i giovani hanno e per le quali si protesta: non può esserci democrazia senza la garanzia di una qualità di vita dignitosa e un moderato salario; per troppo tempo ormai la mancanza di “regole del gioco” democratiche, unitamente agli innumerevoli casi di violazione delle libertà civili e gli alti livelli di corruzione che hanno cristallizzato la situazione politica di molti regimi autocratici, hanno reso sempre più ampio il gap tra le richieste provenienti “dal basso” e le misure adottate in seno alle istituzioni vigenti. Inoltre, la percezione di grande ottimismo che nella componente giovanile trova massima espressione, è lo stesso “spirito dei popoli” (Diamond, 2008) che si riflette nelle rivolte; i giovani giocano un ruolo chiave in Nord Africa e in Medio Oriente poiché, meglio di altre categorie sociali, sono in grado di promuovere il cambiamento. L’impatto verso la transizione politica voluta dai movimenti giovanili non è un fenomeno nuovo; “ondate di mobilitazione collettiva” (Melucci, 1995) hanno segnato anche la storia delle società americane ed europee a partire dai movimenti studenteschi degli anni ’60, di quelli punk e dei centri sociali sorti negli anni ’70, dei movimenti pacifisti e ambientalisti degli anni ’80 e di tutti i movimenti giovanili che dagli anni ’90 si sono battuti per la denuncia di cause civili, lotta al razzismo e contrasto alla mafia. Dunque, la condivisione di valori - “changeability and transience” - e tratti comuni ai principi che fomentano l’azione collettiva in paesi come l’Egitto e la Tunisia, così come la creazione di nuovi codici, linguaggi attraverso i quali le informazioni vengono fatte circolare - “movements are media that speak through action” (Ibidem: 7) - si riflettono a livello internazionale mettendo in evidenza il

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6 Della Porta, al riguardo, sostiene la funzione di ri-legittimazione che i concetti di partecipazione e di deliberazione svolgono in termini di qualità democratica, consentendo ai movimenti sociali di acquisire con maggiore rilevanza lo status di attore democratico. Saliente, in tal senso, è lo stretto legame esistente tra pratiche comunicative da un lato e democrazia dall’altro (Della Porta, 2011).

7 Il numero dei giovani intervistati per ciascun paese è di 200 partecipanti, con l’eccezione degli Emirati Arabi Uniti, dell’Arabia Saudita e dell’Egitto con 250 casi e dell’Oman con 150 intervistati. Disponibile sul sito: http://www.arabyouthsurvey.com/english/pdf/white_paper_ays2012_English.pdf

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posto di rilievo che le giovani generazioni occupano in quest’area8. Non meno rilevante è anche il parere che emerge dalla percezione che i giovani hanno nei confronti delle potenze straniere: i partecipanti al sondaggio si sono dichiarati favorevoli alla presenza di attori esterni quali Francia (46%), Gran Bretagna (43%), India (41%), USA (31%, in calo del 10% rispetto allo scorso anno) e Cina (28%). Ciò consente di riprendere il dibattito sul ruolo che l’Unione Europea ha svolto, in qualità di attore regionale, nel definire la propria strategia politica in un’area segnata da profonde contraddizioni e difficoltà sociali, economiche e politiche. Inoltre, i protagonisti della Primavera Araba, in paesi come l’Egitto e la Tunisia hanno via via coinvolto altre componenti della società civile, tra i quali i sindacati, i partiti politici, gli “indecisi” (e, in alcuni casi, anche l’esercito). Le condizioni di isolamento, alienazione, malcontento e insoddisfazione, nelle quali le giovani generazioni sono state costrette a vivere per lungo tempo, hanno innescato la protesta. Dalla Tunisia, il cosiddetto “effetto Bouazizi” ha prodotto un processo di mobilitazione a cascata, nel quale giovani - tra cui donne e studenti - chiedono a gran voce la fine dei regimi autoritari, in nome della democrazia, del rispetto dei diritti umani, di maggiore trasparenza e partecipazione politica. La formazione di network9 (o i “Group-Forming Networks” come già nel 1999 David Reed li aveva definiti) e il processo di aggregazione orizzontale (tra i giovani tunisini ed egiziani) e verticale (coinvolgendo anche esponenti politici di rilievo e attraendo l’attenzione di tutta la società civile internazionale) sono le due logiche che l’Internet Communication Technology10 (Howard, 2010) ha sviluppato, generando meccanismi di apprendimento reciproco e sviluppo interattivo che rendono sempre più vaga la netta separazione teorica tra movimenti sociali, media e democrazia (Della Porta, 2013); riguardo a questo tipo di tendenza che introduce nuove forme d’azione (collettiva), Eltahawy adotta l’espressione di “Generazione Facebook del Medio Oriente”. In Tunisia e in Egitto, è a partire dall’uso di innovativi mezzi di diffusione della conoscenza che si originano nuove forme di pluralismo partecipativo, capaci di superare il rischio del “digital divide” ancora presente, invece, in altri paesi come lo Yemen (rendendo flessibile il binomio “mittente-destinatario” e/o “produttore-utente”). A questo hanno contribuito dai più visitati social network, come Facebook e Twitter; dalla multidimensionale piattaforma cibernetica di Youtube, Myspace e E-mail; dai canali televisivi internazionali (Al Jazeera, Al Akhbar e Al Arabya) fino alle più comuni tecnologie di comunicazione (SMS e smartphone). L’efftetto di Facebook è riscontrabile in pagine, come “We Are All Khaled Said”, “National Police Day” e “The April 6 Youth Movement”, che nel giro di pochi mesi hanno assistito ad un incremento nel numero di utenti iscritti; tra i profili individuali di esponenti di fama mondiale, appaiono i nomi di Wael Ghonim, Mohamed al Baradei e Hossam el-Hamalawy, così come non mancano gli hashtag di Twitter (#sidibouzid; #Jan25; #tunisia; #tunileaks; #cairo), i forum virtuali (come i portali tunisini Nawaat.org e Tunisian alternative news website) e lo stesso sito pirata di Assange Wikileaks o i video amatoriali girati dai “giornalisti cittadini” e in grado di informare in tempo reale gli altri dimostranti. Tra i nomi dei giovani tunisini leader nella “rivoluzione dei

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8 Adottando le parole di Melucci (1995), “when democracy is able to keep a space for youth voices to be heard, the split is less likely and youth movements can become important actors in the social and political innovation of contemporary societies”.

9 “The internet is not simply a technology: it is a communication media, and it is the material infrastructure of a given organizational form: the network” (Castells, 2001:136). Si veda al riguardo il contributo di Della Porta D. e Diani, M. (2004), No to the war with no ifs or buts. Protest against the War in Iraq, in Della Sala e Sergio Fabbrini (eds.), Italian Politics, Oxford, Berghahn Books, pp. 200-218.

10 Intorno alla rilevanza dei mezzi di comunicazione elettronici, si è sviluppato in dottrina un ampio dibattito su alcuni aspetti rilevanti che hanno cambiano e continuano ad ampliare la caratterizzazione semantica dei concetti propri della qualità democratica: e-democracy, e-participation, e-(public)sphere, e-voting, e-governance, ecc (Della Porta, 2013).

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gelsomini”, coeva alla Primavera Araba, appaiono quelli della ventisettenne Lina Ben Mhenni e di Mahdi Lamloum e dei loro rispettivi blog “A Tunisian Girl” e “Pink Lemon”; dell’account “Slim404” di Slim Amamou e del fondatore di Nawaat, Riadh Guerfali. La commistione tra gli strumenti del Web 1.0 e del Web 2.0 consente di dare fiato a quella che Beissinger ha definito con il termine di “noisy politics” e, nella quale i movimenti sociali si dimostrano capaci di permeare ambienti differenti attraverso la convergenza sulle pratiche e la volontà di trasformare le piazze in luoghi di espressione di una sfera pubblica alternativa (in cui la diversità è un elemento di ricchezza). Ciò consente, di riconoscere l’impatto che la società civile nel suo complesso abbia sul cambiamento politico e che, nel caso del MONA, sia in grado di stimolare un processo di strutturazione delle identità nazionali, trasmesso per mezzo di forme di comunicazione transnazionale (le stesse bandiere vengono utilizzate perché diventino strumenti di rivendicazione apolitica di una sovranità nazionale che sembra essere in pericolo). Tuttavia parlare di movimenti può rivelarsi particolarmente fuorviante con riferimento alla componente eterogenea che dà corpo alla “street politics”11; per tale ragione Bayat invita a enfatizzare il ruolo dei “nonmovimenti sociali” (diversi dai movimenti sociali le cui specificità storiche sono, secondo Tilly, riconducibili alle esperienze europee e americane degli anni ’70 e che, in tal senso, vengono riconosciuti come una categoria storica e non universale12), la cui forza si realizza attraverso il potere dei grandi numeri (moltitudine13) che viene alimentato dalla formazione di sistemi di network passivi. Soggetti diversi decidono di agire in maniera compatta, evitando ogni eventuale forma di conflitto interno al nonmovimento stesso, poiché spinti da un forte senso di solidarietà. Ciò è riscontrabile tra i gruppi di giovani che hanno preso parte alle proteste scoppiate in Nord Africa e in Medio Oriente. Come suggerisce lo stesso autore: As in many parts of the Middle East, the young in general remained dispersed, atomized, and divided, with their organized activism limited to a number of youth NGOs and publications. Youths instead forged collective identities in schools, colleges, urban public spaces, parks, cafés, and sports centers; or they connected with one another through the virtual world of various media [...] Youth may become agents of democratic change only when they act and think politically; otherwise, their preoccupation with their own narrow youthful claims may bear little impetus for engaging in broader societal concerns. In other words, the transforming or, in particular, democratizing effects of youth nonmovements depend partly on the capacity of adversarial regimes or states to accommodate youthful claims (Bayat, 2010: 19).

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11 Con questo termine viene indicata una doppia dimensione attraverso la quale la politica e la diffusione di una coscienza politica si realizzano. Se da una lato esso permette di rievocare il conflitto generato tra gruppi informali di protesta e istituzioni, dall’altro la strade (e le piazze) rappresentano il luogo nel quale ristrette proteste si trasformano in massicce esibizioni di solidarietà, capaci di forgiare identità.

12 Secondo Tilly e Tarrow l’uso improprio del termine “movimento sociale” includerebbe latu sensu anche tutte le forme di conflitto e le manifestazioni di piazza (spontanee e non o violente). Si veda al riguardo “La politica del conflitto” di Charles Tilly e Sidney Tarrow (ed. italiana 2008).

13 Adesso possiamo indovinare come mai le manifestazioni di massa risultino seducenti e ammalianti come il mare. Nella massa, come nel mare, e a differenza del suolo edificato, intersecato da recinzioni e interamente mappato, tutto o quasi tutto potrebbe accadere, persino se niente o quasi niente possa essere fatto con certezza [...] Le persone nelle strade sono presagio di cambiamento. Ma annunciano anche la transizione? Dove per transizione intendo qualcosa in più di un semplice cambiamento: un passaggio da un qui ad un altrove. Tuttavia, per le persone nelle strade e piazze risulta definito soltanto il “qui” dal quale desiderano fuggire, mentre l’“altrove” verso il quale tendono, nel migliore dei casi, è ancora avvolto nella nebbia (Bauman, 2011); fonte: www.social-europe.eu.

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Per quanto esistano delle differenze, in termini di obiettivi e di interessi, tra i giovani tunisini e egiziani è, tuttavia, possibile poter delineare dei contorni comuni ai (non)movimenti14 giovanili. Storicamente l’immagine dei giovani che affollano i punti nevralgici dei principali centri urbani del proprio paese non è nuova; molti degli slogan di esperienze precedenti sono stati rievocati in nome di un’identità collettiva che riemerge con maggiore enfasi (anche e soprattutto all’interno delle piazze virtuali). Nel caso dell’Egitto, ad esempio, sin dai primi anni del 2000 il movimento nascente che si batteva a sostegno dei valori e dell’instaurazione di istituzioni democratiche constava al suo interno di una cospicua componente giovanile che si dichiarava paladina di una forma di mobilitazione innovativa, capace di muovere le forze popolari e di dimostrare in segno di protesta allo scopo di denunciare gli episodi di tortura e l’arresto di alcuni tra gli esponenti dell'opposizione partitica al governo di Hosni Mubarak. La Kifaya (come la “Green Wave” iraniana) è il movimento, diverso dal socialismo arabo dei movimenti islamisti e dal successivo post-islamismo promosso da Al-Wasat, che per primo in Egitto ha sfidato il governo autoritario, giudicato da molti intransigente e corrotto. Emblematico nel 2008 è stato lo sciopero, espressione di un attivismo collettivo, indetto dalla classe dei lavoratori dell’azienda tessile “Misr Spinning and Weaving Company” nella città di Mahalla Al-Kubra. A sostenerne la causa e il generale malcontento della società civile egiziana, è il “Movimento Giovanile del 6 Aprile” composto e guidato da giovani attivisti (tra i quali i ventisettenni Esraa Abdel Fattah Ahmed Rashid e Ahmed Maher). Come precedentemente accennato, e riprendendo le dimensioni che Bimber et al (2006) presentano per spiegare il modello all’interno del quale prende forma lo spazio di azione collettiva, collocando il Movimento Giovanile del 6 Aprile lungo l’asse che misura il grado di interazione (personale/impersonale) esso presenta tratti distintivi compresi tra i due estremi, poiché il contesto d’azione in cui agisce non è solo quello della piazza - face-to-face - ma anche quello virtuale di Internet. Con riferimento, invece, alla variabile del coinvolgimento politico (di tipo imprenditoriale o istituzionale), il Movimento sembra per certi versi sfidare le strutture gerarchiche e rigide (e per questo animatamente contestate) sulle quali la leadership politica locale ha gettato le radici del proprio potere, a vantaggio di un nuova forma di partecipazione efficace, che promuove canali non-convenzionali deliberativi e di negoziazione. La struttura organizzativa del Movimento, basata su una fitta rete di relazioni fluide e flessibili, si pone in netto contrasto con altre organizzazioni della società civile egiziana, legate al cordone del finanziamento pubblico, le cui risorse vengono disposte direttamente dal governo centrale. Ai comitati esecutivi e al leader, tipici delle strutture gerarchiche, si contrappongono le figure degli organizzatori e dei coordinatori disposti ad ascoltare le proposte provenienti dallo stesso livello e non “dal basso”, seguendo una visione verticistica del potere. Il processo di formazione di un gruppo reticolare in continua espansione ha permesso di ridurre i costi del coordinamento attraverso l’utilizzo di Facebook, confermando quanto sostenuto da Lupia e Sin, secondo i quali il progresso nei mezzi di comunicazione e il contemporaneo aumento del numero dei membri che prendono parte al movimento non determinano negativamente il successo dell’azione collettiva (Lupia e Sin, 2003). L’attivismo cibernetico si pone in netto contrasto con la strategia che la coalizione di governo ha fino ad ora condotto per mezzo delle politiche elettorali; l’indipendenza da qualsiasi colore politico e/o religione fa del movimento un potenziale attore d’opposizione; inoltre, il linguaggio comune che si trasmette attraverso gli SMS da un attivista ad un altro, infittisce la rete di solidarietà e di fiducia in grado di resistere al trascorrere del tempo (diversamente dall’enfasi di

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14 Con il termine “movimento” vengono indicati quei gruppi di attivisti che hanno, nel corso, degli anni segnato la storia delle proteste in Nord Africa e in Medio Oriente. Il riferimento al concetto di “movimento”, qui inteso, riprende i tratti del “nonmovimento sociale” di cui parla Bayat nel suo libro del 2010 “Life as Politics. How Ordinary People Change the Middle East”.

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entusiasmo che invade il sentimento di protesta per poi via via scemare nel lungo termine). Infine, il sostegno che il gruppo del Movimento Giovanile del 6 Aprile ricerca all’esterno, tra gli attori internazionali, le organizzazioni non-governative e i media non lascia spazio a filtri o strategie di compromesso con l’élites di governo che hanno “tradito” le aspettative dei giovani egiziani; tuttavia, gli stessi membri del movimento si dichiarano favorevoli ad un processo di socializzazione.I gruppi di protesta non restano degli atomi a se stanti ma dialogano tra loro (la “Revolution’s Youth Coalition” sorge dalla fusione tra il Movimento Giovanile del 6 Aprile e i giovani membri dei Fratelli Musulmani) e con i principali esponenti delle forze politiche15 per destituire il presidente in carica. Segnali positivi sembrano emergere in seguito ad alcuni provvedimenti politici accolti dal Consiglio Supremo delle Forze Armate, seppur limitati dal sorgere di una fase di tensione interna al paese, che a due anni di distanza dalla cosiddetta “giornata della collera” costringerà il nuovo presidente in carica, Mohamed Morsi, a dimettersi.A livello decisionale resta, tuttavia, basso il grado di coinvolgimento dei giovani: in Egitto, lo stesso Al-Dostour, partito di El-Baradei e portavoce del movimento giovanile, sta attraversando una grave crisi interna per le accuse di chi sostiene che il partito stia andando incontro ad una fase di strutturazione gerarchizzata. Centrale resta, comunque, la questione della partecipazione giovanile oltre l’ondata delle proteste anche tra gli attori politici locali (Meringolo, 2013), confermandone la centralità e il potenziale potere d’influenza sulle scelte politiche che il (nuovo) governo è chiamato ad intraprendere.

IV. Tra retorica e pratica: il ruolo dell’Unione Europea

Oggi il premio Nobel per la pace 2012 è stato conferito all'Unione europea. Questa onorificenza vuole premiare il contributo dato per oltre 60 anni dall'UE alla promozione della pace e riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani. (“Il Premio Nobel per la pace va all’Unione Europea” - 12/10/2012. Fonte: www.ec.europa.eu)

Gli sforzi che l’Unione ha condotto nel corso dell’ultimo decennio in nome della promozione democratica restano vani, o comunque secondari, rispetto alla necessità di mantenere un’area, come il MONA, stabile e sicura, contrastando le sfide provenienti dalla lotta al terrorismo, dalla gestione dei flussi migratori e dall’implementazione di misure volte al monitoraggio e al controllo della sicurezza energetica, ritenute prioritarie rispetto alla fondazione di istituzioni democratiche (nonché alla tutela dei diritti politici e delle libertà civili). Inevitabilmente poi, la grave crisi economica e gli effetti prodotti dallo scoppio della bolla finanziaria che dal mercato immobiliare statunitense si sono estesi oltreoceano, colpendo i mercati europei, hanno costretto le istituzioni comunitarie a riformulare le questioni in agenda, trascurando il fardello della causa democratica che la “normative power” (Manners, 2002) promuove tra le strategie di politica estera, specie per quel che riguarda l’area del Mediterraneo. La retorica europea si è spesso scontrata con il modus operandi dei singoli stati membri (specie quelli prossimi all’area considerata) e con il ruolo di osservatore passivo dell’Unione Europea stessa, accusata per questo di essere incapace di rispondere prontamente alle richieste provenenti

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15 Tra le quali si possono annoverare: “Real Estate Tax Authority Union”, “Egyptian Health Technologists Syndicate”, “Manshiyet al-Bakri Hospital Workers’ Union”, “Cairo Public Transport Authority Independent Union”. (Aouragh e Alexander, 2011: 3).

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dalla società civile dei paesi partner del Mediterraneo. Per decenni, godendo dell’acquiescenza silenziosa dell’UE, la violenza repressiva dei regimi autoritari è stata la risposta immediata a qualunque forma di dissenso popolare (Peters, 2011).L’attenzione verso la componente giovanile sembra non essere trascurata da un attore esterno come l’Unione Europea che, da sempre, si dichiara la potenza regionale più vicina (per le comuni radici storiche che affondano tra le acque del Mediterraneo e per le iniziative che l’UE e ciascuno stato membro hanno promosso) all’area del Medio Oriente e del Nord Africa. Tra i programmi adottati in risposta alla richieste provenienti dalle proteste sorte con quella che convenzionalmente è stata definita come la Primavera Araba, il programma regionale “EuroMed Youth IV”16 mira a stimolare nuove forme di cooperazione volte a promuovere progetti di mobilità (Euro-Med Youth Exhanges), servizio di volontariato (Euro-Med Youth Voluntary Service) e offerte formative (Euro-Med Youth Training and Networking), successi concreti derivanti dal partneriato sociale, culturale e umano del Processo di Barcellona. Inoltre, l’implementazione di proposte concrete per lo sviluppo di politiche e strutture istituzionali capaci di concedere ampio spazio alla partecipazione giovanile e ai programmi di ricerca da questi condotti (nonché, il rafforzamento e il supporto di nuove forme di cooperazione regionale e di modelli di partecipazione che possano dare modo alle giovani generazioni di far sentire la propria “voce”) sono alcuni degli obiettivi previsti nel recente simposio - Arab Spring: Youth participation for the promotion of peace, human rights and fundamental freedoms- promosso dai rappresentanti delle istituzioni comunitarie (Commissione e Consiglio Europeo), dalla Lega Araba e dalle autorità di governo tunisine (insieme ad altre iniziative che mirano a rilanciare il dialogo euro-mediterraneo e al Fondo per la Popolazione delle Nazioni Unite).Secondo la letteratura esistente, il modello di promozione democratica, grazie al quale l'UE è stata definita come una "potenza civile" (Duchêne, 1972), una "potenza normativa" (Manners, 2002), una "forza del bene" (Jørgensen & Laatikainen, 2004) e una "potenza etica" (Aggestam, 2008), si è rivelato fragile e non così facile da realizzare. Per tale ragione l’azione dell'Unione europea è cambiata seguendo il corso degli eventi che ne hanno sfidato la politica estera e lo status di attore esterno nei processi di democratizzazione dei paesi terzi o che ambivano allo status di paese membro dell’UE. Le contemporanee sfide interne (crisi economica) ed esterne (Primavera Araba) hanno forzato l’UE a superare la retorica dietro la quale i contorni di una “potenza civile” hanno preso sempre più forma, per porre maggiore enfasi sulla necessità di fornire una risposta concreta alle sfide provenienti dal Mediterraneo, attraverso una politica estera pragmatica. In altri termini, si tratta di superare (i) il fallimento degli obiettivi per il raggiungimento del “vitale interesse di un Nord Africa democratico, stabile, prospero e pacifico”17; (ii) il gap tra ciò che l’Unione “fa” e ciò che “intende fare”; (iii) lo scarto persistente tra intenzioni (dell’UE) e le percezioni (dei popoli che vivono in prima persona l’esperienza della Primavera Araba). Riguardo al Mediterraneo, l’adozione della Comunicazione congiunta della Commissione A Partnership for Democracy and Shared Prosperity with the Southern Mediterranean nel marzo 2011 dimostra la volontà e il desiderio di rinnovare l'accento sulla democrazia, attraverso un nuovo

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16 Il programma prevede la partecipazione di 35 paesi, compresi tra gli stati membri dell’Unione Europea e 8 dei paesi partner del Mediterraneo (firmatari della Dichiarazione di Barcellona) quali l’ Algeria, l’ Egitto, la Giordania, il Libano, il Marocco, l’Autorità Palestinese, la Tunisia e Israele). Vedi: http://euromedyouth.net/About-EuroMed-Youth-Program,51.html

17 Riprendendo le parole del commissario europeo per l'Allargamento e la Politica Europea di Vicinato Stefan Füle secondo il quale: Europe was not vocal enough in defending human rights and local democratic forces in the region. Too many of us fell prey to the assumption that authoritarian regimes were a guarantee of stability in the region. This was not even Realpolitik. It was, at best, short-termism – and the kind of short-termism that makes the long-term ever more difficult to build (“Speech on the recent events in North Africa - 28/02/2011; fonte: www.europa.eu/rapid/press-release_SPEECH-11-130_en.htm).

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e coerente approccio. Ciò che a prima facie emerge è, comunque, la necessità di ri-orientare le strategie che l'Unione Europea vuole promuovere nei paesi del MONA, come (f)attore esterno di un possibile processo di democratizzazione, dando maggiore priorità e “voce” ai partner locali.La promozione di un modello democratico, secondo l’approccio "outside-inside" dà per scontata l’idea generale "che certe strutture istituzionali siano necessarie per promuovere le riforme all'interno delle istituzioni esistenti, in conformità con un governo liberal-democratico e delle linee-guida di mercato di tipo capitalistico" (Pace et al, 2009). Ciò si scontra nei fatti con le richieste di democrazia provenienti “dal basso”; per tale ragione, diverse sono le iniziative che l’UE ha inaugurato per la promozione democratica nei paesi del Mediterraneo a partire dagli anni ’90.Come suggerisce Daniela Huber (2008), restano centrali le questioni connesse ai principi della democrazia partecipativa come la garanzia del suffragio universale e di elezioni libere; la parità di accesso all'attività politica e un processo decisionale di tipo partecipativo; diritti umani e Stato di diritto (in cui rientrano un sistema giudiziario indipendente e trasparente, l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e il controllo dei corpi di polizia e dell'amministrazione pubblica). Tali aspetti sono stati ripresi dalla Dichiarazione di Barcellona che, con l’omonimo Processo, ha avviato, nel 1995, il Partenariato Euro-Mediterraneo (PEM) volto a istituire una zona di dialogo, di scambio e di cooperazione garante della pace, della stabilità e della prosperità, attraverso la diffusione della democrazia, il rispetto dei diritti umani, lo sviluppo sociale, economico e sostenibile, oltre a specifiche misure volte a contrastare la povertà.Tuttavia, l'entusiasmo iniziale che l'innovativo approccio multilaterale del Partenariato Euro-Mediterraneo aveva conosciuto, è stato indebolito dallo scoppio della seconda Intifada nel 2000 e dagli attacchi terroristici dell’ 11 Settembre 2001. La necessità di ridefinire le relazioni con i paesi del Mediterraneo meridionale ha permesso al bilateralismo di superare il regionalismo. La Politica Europea di Vicinato (PEV) lanciata nel 2003 promuove la cooperazione bilaterale (attraverso l'adozione di Piani d’Azione ad hoc) basandosi sul principio di condizionalità positiva, a conferma dello "stile etico" e della “persuasione morale” (Wood, 2009) di cui l’UE è portatrice.L'odierna Unione per il Mediterraneo (UpM) lanciata dal presidente francese Nicolas Sarkozy durante la sua campagna elettorale nel 2007, ha lo scopo di rivitalizzare il PEM (e la cooperazione multilaterale, in particolare), ri-stabilendo forti istituzioni intergovernative (Balfour, 2009). In altre parole, la vecchia dimensione del Partenariato Euro-Mediterraneo è stata sostituita dalla "co-ownership", pur mantenendo i progetti tecnici e finanziari (unitamente alle debolezze) della precedente iniziativa.Allo stesso tempo però, un’iniziativa importante come la PEV ha mostrato nel corso del tempo alcuni limiti sostanziali; gli obiettivi che la politica di vicinato mira a perseguire sembrano essere caduti nella trappola di quelle che Tocci (2011) individua come tre logiche:1) la logica dell’allargamento e della sicurezza;2) la logica dell’imprecisione, per quel che riguarda la (concreta) attuazione dei principi di

condizionalità e la strategia “more and more” (attraverso meccanismi d’implementazione precisi e mirati);

3) la logica della “insularità”, che consentirebbe di porre maggiore enfasi sullo sforzo sinergico che gli attori politici locali sono chiamati a compiere, rispetto alla funzione di sostegno e di supporto che l’UE dovrebbe svolgere in un processo di socializzazione, prima, e di democratizzazione, poi. Pur continuando ad adottare l’approccio della società civile, “necessario ma non sufficiente” per l’avvio di un processo di democratizzazione, l’Unione deve mostrarsi capace di stimolare il dialogo tra tutti i soggetti politici che operano a livello locale senza, tuttavia, sottovalutare l’influenza che vecchi e nuovi attori esterni, come la Russia e la Cina, possono esercitare in alcune aree del Nord Africa e del Medio Oriente.

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Tra i dibattiti e le riflessioni che hanno contribuito ad arricchire la letteratura dedicata allo studio dell’actorness dell’Unione Europea, emerge il ruolo che l’UE svolge a livello internazionale come “attore globale di maggior spicco [nel Mediterraneo], le cui scelte strategiche hanno condotto ad esiti diversi in materia di politica estera”. L’approccio costruttivista, basato sulla rilevanza della componente ideologica e valoriale, ha orientato la definizione degli standard morali dell’UE; più specificamente, la teoria della modernizzazione e quella della pace democratica si scontrano con la pratica e la mancanza di una risposta coerente ed efficace nel breve e nel lungo termine. Il dualismo che affligge il ruolo di attore esterno dell’Unione Europea è stato descritto nelle parole di Seeberg (2009) che definisce l’UE come “un attore realista [che orienta i propri obiettivi al mantenimento di uno status quo stabile e sicuro] con un outfit normativo [volto alla promozione dei valori e dei principi democratici, della rule of law e del rispetto dei diritti umani]”. Spesso, infatti, l’impegno selettivo dell'UE nei confronti degli attori liberali presenti in Medio Oriente e in Nord Africa riflette l'incapacità di cogliere pienamente gli umori pubblici di questi paesi (Tocci e Cassarino, 2011). La "politica del silenzio e dell’indifferenza" adottata dall’Unione ha legittimato l'esistenza di sistemi di governo fortemente centralizzati e corrotti, contribuendo a fomentare dall’interno la nuova coscienza civile emersa con la recente Primavera Araba. Per questo motivo, è importante ripensare al modo in cui la ri-definizione degli strumenti di politica estera dell’UE possa condurre ad un dialogo costruttivo tra i diversi attori politici locali, stimolando nuove pratiche di "buon governo" senza, tuttavia, trascurare l’approccio alla sicurezza in questa difficile area del Mediterraneo. La Politica Mediterranea Europea va intesa come l’insieme delle politiche estere (Attinà, 2003) che, a livello comunitario, consentono all’UE di adottare specifiche posizioni su temi inseriti all’interno dell’agenda della Politica Estera e di Sicurezza e di quella di Politica Europea di Sicurezza e di Difesa (Panebianco, 2012). All’interno dell’ombrello “politica estera” rientrano le politiche implementate nell’ambito della sicurezza, degli aiuti umanitari, degli accordi commerciali e di partenariato, oltre alle relazioni diplomatiche che confermerebbero l’influenza che l’UE esercita sullo scenario internazionale. Inoltre, tra le nuove strategie istituzionali, l’approccio “more and more” - more benefits, more conditionality and more partnership with civil society (Tocci, 2011:4) - contribuirebbe a sostenere il “democratic momentum” come fattore complementare alla crescita economica e al progresso. Obiettivo primario per l’Unione è quello di confermare l’immagine di attore strategico nel Mediterraneo, rimescolando le priorità: “EU’s commitment to fundamental rights, to human dignity, commitment to keeping the citizens at the heart of politics is the key source of our credibility [...] The Arab Spring has also been a wake-up call for us as it showed that in spite of that tangible success inside the EU we have not always been as coherent and consistent in our foreign relations “(Todrnstra, direttore dell’Ufficio per la promozione della democrazia parlamentare - OPPD del Parlamento Europeo; 6/05/2013. Fonte: www.euractiv.com). La situazione di incertezza che deriverebbe dalla fase delle proteste rende vano qualsiasi esito in senso democratico e lascia irrisolte ancora molte questioni riguardo il possibile impatto che l’azione esterna dell’Unione Europea possa avere sul prodotto delle rivolte. Come sostiene Pinfari “the existence of mutually beneficial bilateral agreement between these countries and key EU member states largely accounts for the problems faced by EU institutions in expressing convincing leadership during the early phases of the Arab Spring, and reveals a number of inconsistencies that can hardly be explained on purely ideological or ethical grounds” (Pinfari, 2011:43, in Peters, 2011). Inoltre, se da un lato l’ondata delle rivolte che ha coinvolto i regimi di partner strategici per l’Europa, come l’Algeria, la Tunisia, l’Egitto, la Libia, la Siria e (seppur di portata minore) lo Yemen, l’Oman e il Qatar, forza l’Unione a ripensare la propria politica in Medio Oriente e in Nord Africa, dall’altro la crisi economica continua a mettere in ginocchio i mercati dei capitali lasciando ancora irrisolte molte delle tensioni interne e dei problemi strutturali di cui alcuni paesi membri

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soffrono (connessi all’alto tasso di disoccupazione, a deboli strategie finanziarie e agli esigui crediti concessi alle imprese di piccola e media dimensione). Ad oggi, l’implementazione di una nuova politica estera per il Mediterraneo risente degli attriti interni alle istituzioni europee (gli stati membri non sempre riescono a convenire intorno ad un’unica decisione) e dello stato di crisi (ancora molto forte in Siria e in Egitto) che continua a vanificare la progettualità dell’UE per l’area del Nord Africa e del Medio Oriente; sin dall’inizio della fase delle proteste alla fine del 2010, la reazione dell’Unione Europea è stata lenta e a singhiozzi. La direzione che l’UE mira a perseguire è orientata dalla cosiddette “3M” - money, mobility e markets18 - per le quali è stato previsto un pacchetto di politiche che vede il coinvolgimento della Commissione, della Banca Europea degli Investimenti (BEI) e della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), tenuto conto delle peculiarità economiche, politiche e sociali di ciascun paese partner. Tra gli strumenti che l’UE ha lanciato negli ultimi tre anni, l’enfasi sulla volontà di promuovere un valido modello democratico, capace di tutelare il rispetto dei diritti umani, è testimoniato dalla creazione dell’ European Endowment for Democracy (insieme con lo SPRING e l’iniziativa Neighbourhood Civil Society Facility) e dalla No Disconnect Strategy, per mezzo dei quali l’UE mira a fornire il continuo supporto alla società civile attraverso programmi bilaterali differenziati. L’impegno politico europeo è riscontrabile anche tra le righe delle Comunicazioni per mezzo delle quali la Commissione esprime e rende note le proprie strategie, a partire dalla Comunicazione congiunta della Commissione Europea e dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera - A Partnership for Democracy and Shared Prosperity with the Southern Mediterranean - dell’8 marzo 2011, fino alla più recente Comunicazione congiunta - Sostegno dell'UE a un cambiamento sostenibile nelle società in fase di transizione - adottata il 3 ottobre 2012. La strategia “more and more” (unitamente all’obiettivo delle “3M”) mira ad attrarre i paesi arabi partner verso incentivi e finanziamenti che l’Unione ha già previsto per il periodo 2011-2013 e 2011-2012 in paesi come la Tunisia e l’Egitto. In particolare, compito principale dell’UE è quello di stimolare il governo tunisino ad implementare nuove misure per il soddisfacimento dei bisogni reali (riforme politiche e socio-economiche) che la società civile richiede. Il supporto politico dell’UE in Tunisia è confermato dal continuo dialogo tra le cariche istituzionali comunitarie e quelle del governo tunisino, così come dalla creazione nel settembre 2011 di una Task-Force EU-Tunisia e dall’ EU Election Observation Mission (EOM), missione condotta anche durante le elezioni egiziane del 2012. La condotta di elezioni trasparenti e regolari e gli esiti che, nei due paesi, hanno visto la vittoria degli attori islamici, spingono l’UE a non ripetere gli stessi errori del passato,

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18 Non mi soffermerò a riprendere le disposizioni previste dall’UE per ciascun ambito d’azione, tuttavia, vale la pena ricordare come l’insieme delle iniziative tenga conto di tale ripartizione. In particolare, alla voce “Money” rientrano: il programma “Support for Partnership Reform and Inclusive Growth” (SPRING) con un budget di circa 350 milioni di euro spesi a favore delle economie di tutti quei paesi che raggiungono importanti standard di progresso e di riforme democratiche; la creazione della “Neighbourhood Civil Society Facility”, insieme a finanziamenti previsti per l’Erasmus Mundus, per gli aiuti umanitari e per il raggiungimento delle “best performance” in linea con il principio del “more and more” che, rientrerebbero all’interno dell’European Neighbourhood Instrument (ENI). Alla voce “Moblity” fanno parte l’insieme delle misure che fungono da volano per il decollo delle “Mobility Partnership” e dei programmi di studio in coordinazione con le reti universitarie delle due sponde del Mediterraneo (come l’Erasmus Mundus e il programma Tempus).Per quanto riguarda l’obiettivo “Markets” è previsto l’avvio di un processo di progressiva integrazione tra le economie dei paesi che fanno parte del mercato unico europeo e i paesi del Marocco, della Giordania, dell’Egitto e della Tunisia per la creazione della “Deep and Comprehensive Free Trade Areas” (DCFTAs); uno schema di investimenti - SANAD (“supporto” in arabo) - per le imprese di piccole e medie dimensioni; il nuovo schema “Investment Security” previsto per l’area del Mediterraneo. Inoltre l’UE è uno dei principali attori del G-8 “Deauville Partnership” in cui sono previsti cospicui finanziamenti a vantaggio dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente.

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riconoscendo i partiti islamici (Fratelli Musulmani in Egitto e Ennahada in Tunisia) vincenti in quanto tali (Beck, 2013). Nonostante la preoccupazione mostrata dall’UE nei confronti della profonda crisi che sta attraversando un paese come l’Egitto, gli episodi di violenza e il precipitare del sistema economico egiziano sembrano cancellare quanto fino a questo momento, è stato fatto. I segni del sostegno che l’UE intende fornire all’Egitto sono riscontrabili nelle azioni di supporto al movimento per la democrazia e i diritti umani egiziano e negli accordi bilaterali rafforzati dall’ Accordo di Associazione siglato tra UE ed Egitto, che hanno consentito la riapertura della fase di negoziazione per un nuovo Piano d’Azione e la EOM per le elezioni parlamentari di inizio 2013, stimolando nuovi accordi di libero scambio (tra i quali la “Deep and Comprehensive Free Trade Area”) e nuovi investimenti. Nel quadro dei finanziamenti previsti per il programma di supporto per la transizione, i contributi derivano dalla EU-Egypt Task Force (novembre 2012), dalla “Neighbourhood Investiment Facility” e dal programma SPRING (a cui prendono parte la Banca Mondiale e la Banca Africana di Sviluppo).Per quel che concerne il caso tunisino, gli strumenti attraverso i quali l’UE intende sostenere il cambiamento dei regimi politici nei paesi arabi del Mediterraneo rispondono all’incentivo del “more and more” come il nuovo Piano d’Azione per la Politica Europea di Vicinato che, in Tunisia, ha condotto alla “Privileged Partnership” lanciata alla fine del 2012; così come la “Mobility Partnership” in materia di sicurezza e gestione dei flussi migratori e le trattative per l’adozione di nuovi accordi commerciali19, oltre ai finanziamenti provenienti dai programmi SPRING e ENPI (European Neighbourhood and Partnership Instrument). Oltre le politiche estere dell’UE per il Mediterraneo, ciascuno stato membro tende a perseguire le proprie strategie di politica estera nazionale; la Francia, ad esempio, è tra gli stati membri che mirano a garantire la propria posizione di partner privilegiati nell’area del Maghreb e, più specificamente, nelle relazioni politiche ed economiche intraprese con la Tunisia: 9 miliardi di dollari è il budget previsto nel 2010 per il finanziamento di misure volte a rafforzare la cooperazione e gli scambi economici tra le due sponde del Mar Mediterraneo.All’alba degli accadimenti che hanno sconvolto il tessuto sociale e politico dei paesi del MONA, non sono mancate le dichiarazioni da parte delle principali cariche istituzionali europee (primi fra tutti i commissari e il Presidente della Commissione, José Manuel Barroso, il Presidente del Parlamento, Martin Schultz, e l’Alto Rappresentante/Vice Presidente, Catherine Ashton) nell’esprimere la volontà di dar vita ad una nuova fase di dialogo con i principali attori di governo, dell’opposizione e di tutta la società civile, in nome di una stabilità che lasci ampio spazio alle riforme politiche ed economiche conclamate tra gli slogan che occupano piazze e strade in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa. Due sarebbero, in particolare, le sfide che l’Unione Europea è chiamata a superare:- stimolare il sistema economico verso nuove strategie politiche che possano soddisfare le richieste

provenienti dalla classe media e dai giovani, contrastando l’alto grado di povertà e di disoccupazione che generano malcontento sociale;

- promuovere un modello democratico “deep & sustainable” che non sia limitato all’adozione di un nuovo testo costituzionale e all’indizione di elezioni libere e trasparenti in contesti in cui l’esperienza del passato ha dimostrato scarsi risultati nell’avvio di un processo di democratizzazione. Gli obiettivi da raggiungere per una “deep democracy” troverebbero piena espressione nella creazione di istituzioni democratiche tra le quali rientrano la libertà di stampa, la presenza di un apparato giudiziario stabile e indipendente e il coinvolgimento di una società civile dinamica all’interno del processo di formazione dell’agenda politica di ciascun paese.

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19 Come il “Deep and Comprehensive Free Trade Agreement” (DFCTA), l’accordo per la Liberalizzazione del Trasporto Aereo e l’accordo previsto in materia di “Acceptance And Conformity Assessment for industrial products” (ACAA).

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Considerazioni Conclusive

Già nel 1987 Braudel definiva il Mediterraneo come “un luogo di contraddizioni religiose, sociali e territoriali, il risultato di conflitti multipli” descrivendolo come “mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi [...] Da millenni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando e arricchendo la sua storia [...] la sua storia non può non essere dissociata dal modo terrestre che lo circonda” (Braudel, 1987). Questo è lo scenario che oggi è possibile trovare seppur attraverso aspetti caratterizzanti differenti nel Mediterraneo e in particolare in Nord Africa e in Medio Oriente, in cui la storia per lungo tempo segnata dall’esperienza autoritaria cambia il suo corso e continua ad essere scritta da mani nuove, quelle provenienti dai popoli, perlopiù giovani, che protestano nelle piazze e nelle strade. Due sono le considerazioni che emergono dalle rivolte in Nord Africa e in Medio Oriente: da un lato, il valido sforzo di confutare il presupposto popolare insito nell’ eccezionalismo arabo a favore della promozione di una forma di democrazia di tipo procedurale; dall’altro, l’enfasi posta sulla dimensione interna a ciascun processo di cambiamento, senza tuttavia escludere l’impatto della dimensione internazionale e, più propriamente, regionale. Allo stesso tempo però, il caos invaliderebbe qualunque forma di democrazia deliberativa, rendendo aleatorio quel processo che, riprendendo l’opera del 1991 di Samuel P. Huntington, potrebbe essere definito come l’inizio di una “terza” o “quarta ondata di democratizzazione”. Nel considerare l’importanza che gli attori politici locali rivestono nel determinare il cambiamento politico all’interno di regimi che per decenni hanno vissuto l’esperienza autoritaria occorre, tuttavia, considerare che la transizione politica non sia un processo lineare e automatico. Il rapporto di causa-effetto che ne deriverebbe presenta contorni e (possibili) esisti ancora troppo incerti. Inoltre, rispetto al processo di trasformazione in atto nell’area considerata, ciò che appare necessario è lo sforzo sinergico e la co-presenza di attori interni (determinanti del cambiamento) e attori esterni, in cui i secondi dovrebbero mostrarsi capaci di sostenere un (primordiale) processo di socializzazione in grado di affiancare la condotta degli attori principali della società civile verso la fondazione di istituzioni democratiche. L’UE, prima di prestare il proprio supporto per una “attesa” democratizzazione, è chiamata a rispondere concretamente alle richieste di sostegno per orientare una transizione politica ed economica; lo sviluppo di una forma di dialogo “people-to-people”; la continua promozione di forme di cooperazione regionale.Un ulteriore elemento da considerare, e ampiamente confermato in dottrina, consiste nel riconoscere un vero e proprio “effetto contagio” dell’ondata delle proteste che dalla Tunisia si è diffusa in tutto il MONA attraverso i “laboratori” delle piazze e delle strade e le piattaforme virtuali che contribuiscono a modificare il volto della variabile temporale. Tale “effetto” è invece assente nei processi di cambiamento che hanno coinvolto i regimi politici la cui storia è stata segnata da profonde fratture sociali di matrice religiosa o etnica. La componente giovanile protagonista della metafora della Primavera Araba si dimostra in grado di lottare per difendere valori come la libertà, la giustizia e l’uguaglianza che, allo stesso tempo, accendono e stimolano il dibattito teorico in materia di modelli di democrazia e sfide provenienti “dal basso” che oggi costituiscono un obiettivo a cui tutti i popoli soggetti a restrizioni politiche dovrebbero aspirare. I giovani hanno lentamente convertito il Web 2.0 da una “sfera di dissidenza” in un vero e proprio “strumento di rivoluzione” confermando quanto sostenuto da Aouragh e Alexander (2011) in merito allo studio dell’azione politica “offiline e online” che si è estesa a macchia d’olio su gran parte del territorio egiziano a partire dal 25 gennaio 2011 e, più in generale, in tutto il MONA.

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