VALLI SCONOSCIUTE ai confini col mitico WAHKAN · Il Gran Bazar è animatissimo: ci sono i banchi...

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Avventure nel mondo 1 | 2018 - 101 RACCONTI DI VIAGGIO | Tajikistan Trek I n Asia centrale, da millenni terra di passaggio e di conquista (la via della seta, Gengis Khan e Alessandro Magno), alcune valli del Tajikistan sono ancora oggi molto isolate. Scoprire che in una di queste valli parlano ancora la lingua sogdiana, quella parlata da Alessandro Magno, ha incuriosito Fabrizio e mi ha convinto ad organizzare il viaggio nella valle degli Yagnob, un trek fuori dai circuiti turistici il cui percorso ad anello richiede sette giorni di trekking. Ma perché andare in Tajikistan solo per una settimana? E così a questo trek ne abbiamo abbinato un altro, nella zona dei monti Fan, una regione famosa per le sue montagne di 5000m e per i laghi turchesi, una regione nell’ovest del paese, lungo il confine uzbeko. Anche questo è un trek ad anello, di nove giorni, e in entrambi ci siamo mossi con l’indispensabile aiuto di otto asinelli, uno per ogni trekker, che ci hanno seguito carichi delle nostre sacche, dei viveri e dell’attrezzatura. Bobojon, un giovane tajiko, è stata la nostra guida e interprete, affiancato da Ascar, anche lui insegnante di inglese. Lo staff si è completato con il cuoco e con quattro cavallanti per guidare ed accudire gli asini. Agosto 2017. La città di Istaravshan è il primo contatto con il paese, musulmano moderato Testo e foto di Graziella Boni VALLI SCONOSCIUTE http://www.viaggiavventurenelmondo.it/viaggi/7425 Dal viaggio Yagnob Fan Trek gruppo Boni WAHKAN ai confini col mitico

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Avventure nel mondo 1 | 2018 - 101

suonatore andino

RACCONTI DI VIAGGIO | Tajikistan Trek

In Asia centrale, da millenni terra di passaggio e di conquista (la via della seta, Gengis Khan e Alessandro Magno), alcune valli del Tajikistan

sono ancora oggi molto isolate. Scoprire che in una di queste valli parlano ancora la lingua sogdiana, quella parlata da Alessandro Magno, ha incuriosito Fabrizio e mi ha convinto ad organizzare il viaggio nella valle degli Yagnob, un trek fuori dai circuiti turistici il cui percorso ad anello richiede sette giorni di trekking. Ma perché andare in Tajikistan solo per una settimana? E così a questo trek ne abbiamo abbinato un altro, nella zona dei monti Fan, una regione famosa per le sue montagne di 5000m e per i laghi turchesi, una regione nell’ovest del paese, lungo il confine uzbeko. Anche questo è un trek ad anello, di nove giorni, e in entrambi ci siamo mossi con l’indispensabile aiuto di otto asinelli, uno per ogni trekker, che ci hanno seguito carichi delle nostre sacche, dei viveri e dell’attrezzatura. Bobojon, un giovane tajiko, è stata la nostra guida e interprete, affiancato da Ascar, anche lui insegnante di inglese. Lo staff si è completato con il cuoco e con quattro cavallanti per guidare ed accudire gli asini.

Agosto 2017. La città di Istaravshan è il primo contatto con il paese, musulmano moderato

Testo e foto di Graziella Boni

VALLI SCONOSCIUTE

http://www.viaggiavventurenelmondo.it/viaggi/7425

Dal viaggio Yagnob Fan Trek gruppo Boni

WAHKANai confini col mitico

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Il gruppo

e ancora arretrato, dove, dopo il lungo dominio sovietico, la religione resta ancora in secondo piano: se ne coglie la presenza dalle donne con il capo coperto e per la presenza di qualche moschea. Il Gran Bazar è animatissimo: ci sono i banchi del pane, del te, dello zucchero. Tutti sono molto cordiali quando diciamo che siamo italiani, ed è tutto un sorriso…d’oro. Sì, i denti d’oro spopolano fra i tajiki e all’inizio la cosa fa decisamente impressione, ma poi ci si abitua. Lasciata la città all’inizio la strada è larga e ben asfaltata, circondata da campi o da terra brulla; poi si sale fra le montagne e, percorso un lungo tunnel, si sbuca su una strada ripida e sinuosa che ci porta nella valle del fiume Zerafshan, il fiume d’oro. Uno dei suoi affluenti è lo Yagnob: una strada sterrata sale nella stretta valle che costeggia il fiume, grigio per i detriti glaciali che trasporta, fino al villaggio di Margib, a quota 2200m. Qui alloggiamo in una casa, una homestay tradizionale. Il giorno successivo lasciamo il villaggio, i tanti bambini e gli asinelli, gli orti con patate, pomodori, zucche, fave, fagioli e alberi da frutto e ci incamminiamo nella valle sotto un sole caldissimo. Il regime sovietico ha fatto grandi danni alla valle e a questo popolo. Li hanno deportati tutti nelle piane aride e calde del Tajikistan per farli lavorare nelle piantagioni di cotone e solo dopo la caduta del regime alcuni Yagnobi sono tornati nella valle. Tanti insediamenti sono ormai abbandonati e, anche se è stata tracciata una carrareccia, difficilmente torneranno tutti a vivere qui stabilmente. Alcuni insediamenti sono oggi solo strutture estive, anche perché in inverno la valle è inospitale, bloccata dalla neve e nella morsa del freddo. La carrareccia è stata tracciata negli ultimi dieci anni nella prima metà della valle, un lavoro non semplice perché i versanti sono ripidi, i mezzi modesti e la scelta del versante su cui tracciarla contrastata dai capovillaggio, interessati a volerla sul loro lato. Chi resta sul versante senza carrareccia si deve arrangiare costruendo un ponte e rimanendo vincolato al trasporto con gli asini. I villaggi non sono mai sul fondovalle ma in alto: saliamo al primo, Chsirtab, dove vivono 10 famiglie, 48 persone. L’accoglienza è un rito irrinunciabile: stendono la tovaglia (dastarhan) e offrono all’ospite da mangiare pane, rotondo e lucido, che viene spezzato per gli ospiti; portano lo yogurt, la teiera di te verde e le ciotoline per berlo e non manca mai un vassoio di caramelle stantie. E’ tutto quello che hanno e te lo offrono. Lasciamo alcuni somoni, la valuta locale così potranno comprare qualcosa che serva a sostentarli nel lungo e freddo inverno. Li salutiamo con la mano destra portata sul cuore, il tipico saluto tajiko.I villaggi sono costruiti in corrispondenza dei ruscelli che vengono canalizzati per irrigare i campi di patate e il secondo giorno il sentiero sale fino ai 2475m del villaggio di Bidef, 5 famiglie e 27 persone, dove parlano sogdiano, l’antica lingua. Ormai è una lingua parlata da pochi ma grazie a Bobojon cerchiamo

di capire alcune parole. E’ il villaggio più bello che visitiamo, accogliente e pulito, dove ci offrono te e burro morbido con un pane appena sfornato molto buono. I sentieri sono spesso semplici tracce di animali, ripidi ed esposti. In un insediamento temporaneo incontriamo tre uomini che lavorano, a mano, dei bellissimi campi di patate rosse. Siamo sul versante nord, quello meno arido, e producono circa una tonnellata di patate che portano al mercato con il camion. Coltivano anche rape e verze per uso familiare. Un secondo insediamento è quasi tutto in rovina ma nell’unica casupola abitata ci sono nonno e nipote. I campi di patate sono meno rigogliosi, sembra che l’acqua sia più scarsa o il terreno meno fertile. Sempre sul versante nord raggiungiamo Nometcon, dove una donna sta cuocendo il pane nel forno d’argilla. Prima stende l’impasto su una sorta di cuscino di stoffa, poi lo sforacchia con un legnetto, lo inumidisce e, indossato una specie di guanto da forno ricavato da vecchi jeans, lo appoggia alla parete del forno sferico, dove resta come incollato; oltre a cucinare il pane è impegnata anche nella cottura di carne e verdure che friggono nell’olio su un piccolo fuoco di legna. Proseguiamo raggiungendo il fondovalle e, passato il ponte di legno, saliamo fino a Kashi. Il versante sud è caldo e arido e il villaggio sembra deserto finchè dal sentiero arrivano di corsa alcune bambine, spettinate e sporche. L’impressione è di grande povertà, con i campi stentati e aridi. Poco lontano un ruscello scende da una valle laterale e crea l’habitat per alberi di ginepro la cui ombra è perfetta per il pranzo. Il fresco creato dall’acqua è davvero gradevole ma dopo mezz’ora ci allacciamo di nuovo gli scarponi e torniamo sulla carrareccia; poco dopo la valle si stringe fra enormi speroni rocciosi, il famoso passaggio del diavolo, le rocce custodi e cancello della valle. Qui la carrareccia finisce e il sentiero prosegue tra le rocce, dalle quali, poco oltre, vediamo fuoriuscire acqua sorgiva. L’altro versante è una parete di roccia scura e verticale, senza possibilità di passaggio. Da qui in avanti i nostri passi seguiranno gli stessi tracciati di 2000 anni fa. Dopo la gola la valle si riapre con alte vette e belle pareti. Al di là del fiume un pastore sta tosando le

sue pecore e restano a terra mucchi di lana marrone e nera. Superiamo un affluente dello Yagnob, il Tagobikul, e campeggiamo fra i due fiumi. Il giorno dopo siamo a Pskon, otto famiglie, ciascuna con circa

nove componenti (figli, genitori, nonni) che vivono qui tutto l’anno e hanno già fatto la scorta di farina per l’inverno. Scesi nel fondovalle riattraversiamo il fiume e uno stretto sentiero, quasi sempre a strapiombo sul fiume, le cui rapide nessuno ha mai disceso, ci porta ad un insediamento abbandonato da

tempo. Circa un’ora dopo siamo all’ultimo villaggio abitato della valle, Kirionte. Bobojon ci aveva detto che l’anno prima c’erano otto famiglie ma ne troviamo solo tre, molti campi sono abbandonati, anche se vi è acqua abbondante, e si respira un’aria di desolazione, con la piccola moschea dal tetto in rovina: basta poco tempo e il tetto di erbe e fango degenera. Abbiamo raggiunto l’estremità abitata della valle e da qui inizia il rientro attraverso il Garmen Pass, 2735 m, dove incontriamo un gruppo di donne che si dirigono al villaggio successivo: lasciamo la valle dello Yagnob e passiamo nella valle del Tagobikul. Al villaggio di Garmen veniamo accolti da un anziano che ci fa accomodare nella stanza degli ospiti, ci offre un altro dastarhan con te, pane e yogurt e quando ripartiamo inizia a piovere. In lontananza ci sono molte greggi e noi proseguiamo nel fondovalle dove ancora ci sono i resti di enormi valanghe della scorsa primavera finchè troviamo un piccolo pianoro dove fare campo. Dopo una notte di pioggia il cielo è sereno e la mattina dopo, lungo il sentiero, incrociamo gli uomini del villaggio di Kul che vanno con gli asini a fare acquisti per il villaggio. Poi, mentre saliamo, dal pendio arrivano tre grossi cani aggressivi e noi facciamo gruppo compatto finchè non compaiono i pastori che li richiamano. Si sale ancora fino ad arrivare al passo più alto del trek, 3754m, dove c’è molto sole, aria fredda e un paesaggio spettacolare. Aspettiamo gli asini e poi iniziamo la lunga e ripida discesa insieme a loro, fino al campo a quota 3080m. L’ultimo giorno superiamo ancora un passo e poi è tutta discesa…fino a non poterne più! Nell’ultimo insediamento in quota ci sono donne che fanno il burro e la più anziana ci offre pane, te, yogurt e uno strano burro, una sottile sfoglia. Cinque famiglie gestiscono in

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modalità condivisa, una settimana ciascuna, 30 mucche e il loro latte. Da qui le montagne sono deturpate dalla traccia di una strada, costruita per finalità minerarie, e dai sondaggi. Scendendo i radi e ripidi prati incontriamo i tagliatori d’erba, erba magra ma profumata, che viene lasciata a seccare sul posto e poi raccolta dagli asinelli provenienti da Margib. 7 giorni, 100 km e 6500m di dislivello in salita per un trek splendido paesaggisticamente, per le montagne e i ruscelli, e molto interessante sotto il profilo umano ed antropologico, con i piccoli villaggi, arroccati sui pendii della valle, popolati da poche ma ospitali famiglie. Dopo una sosta al lago Iskanderkul un lungo sterrato ci porta al campo base dei Monti Fan dove incontriamo i cavallanti e gli asinelli del secondo trek. Il nostro primo campo è sul lago Aloudin e da qui il primo giorno arriviamo al lago glaciale Mutnoe, a quota 3511, con il suo spettacolo di maestosi 5000, ghiacciai e cascate d’acqua che alimentano il lago. La lunga e divertente discesa su ghiaioni ci porta accanto a laghetti turchesi dall’acqua freddissima. Il giorno dopo raggiungiamo il passo Chapdara, 3430m, superando un bosco di vecchi ginepri. La discesa ripidissima ci riporta alla fascia dei ginepri e all’azzurrissimo Guitar lake. Il terzo giorno raggiungiamo il passo Aloudin, 3750m, con i 5000 e i ghiacciai pensili sulla sinistra mentre sulla destra ci sono guglie di roccia. La discesa zigzaga su un lungo pendio, prosegue su una cresta e poi ci conduce ai laghi gemelli Dushaka, sotto l’imponente ghiacciaio Miralì. Il giorno dopo, alle 5.30 di mattina, le vette delle pareti nord sono già illuminate dal sole. Il nostro percorso segue le morbide ondulazioni dei detriti morenici, coperti da tenera erba e dagli onnipresenti ginepri, che hanno portato alla formazione dei laghi Bibigianat, Kunigon, Govkush, Kuligarm, collegati da corsi d’acqua che non dobbiamo mai guadare perché rimaniamo sul versante destro. Raggiunto il lago Kulikalon iniziamo a salire fino a quota 3170m da dove, per non farci cogliere dalla pioggia sul ripido sentiero che dobbiamo percorrere per raggiungere il fondovalle, ci buttiamo in discesa fino ad uno squallido e sporco insediamento di pastori. Io e Fabrizio saliamo al lago glaciale Zierat, grigio e cupo, con ripidi ghiaioni incombenti sulle sue rive. Il giorno successivo proseguiamo lungo un tracciato in quota e raggiungiamo degli insediamenti estivi di pastori dove ci offrono te, un buon pane e uno yogurt acidissimo. Li salutiamo dopo avere fatto foto a tutti e puntiamo al secondo passo, incrociando un migliaio di capre e pecore, mentre un’aquila solitaria volteggia sopra di noi. La discesa è lunghissima e il sentiero diventa più ampio quando ci avviciniamo

al villaggio e incontriamo i ragazzi che salgono in quota con gli asini per caricarli di fieno. Nel villaggio di Guytan fa caldo e nella homestay ci aspetta il pranzo, anguria, pane, patate e qualche pezzetto di pollo, marmellata fresca di albicocche e uva, consumati in ginocchio sui materassini di lana, perché in Tagjikistan non ci sono tavoli e sedie! Nella piazza del villaggio, che conta circa 1000 persone, incontriamo donne e bambine che lavano piatti e vestiti nel canale, poiché non c’è acqua nelle case. Il giorno dopo raggiungiamo le acque blu e spumeggianti del fiume nel fondovalle e camminiamo superando zone aride ed incolte e piccole oasi verdi, cresciute grazie alla canalizzazione delle acque, con i tetti dei villaggi coperti dalle piccole e saporite albicocche selvatiche poste a seccare. Dopo alcune ore di cammino la valle si fa più stretta e si aggirano frane di massi enormi. Montiamo il nostro campo poco lontano da un attendamento di raccoglitori di fieno che hanno fatto grandi covoni con l’unico taglio dell’anno. La mattina successiva si comincia a sentire aria d’autunno e i primi raggi di sole ci scaldano mentre risaliamo la bellissima valle e, dopo uno sperone roccioso, superiamo il fiume su un ponte di tronchi con gli spazi riempiti da sassi, per permettere il passaggio degli asini. Proseguiamo su un sentiero che comincia ad inerpicarsi ma resta comunque una buona traccia e, dopo una mezza costa un po’ esposta, si sbuca al bellissimo lago Pushtikul, circondato dalle montagne e dal verde dei ginepri. Da lì un tracciato verticale ci porta in alto, su una costa molto panoramica, mentre i ginepri diventano più radi poiché la loro presenza è limitata alla quota compresa fra i 2000m e i 2800m. Le tracce sono ormai solo quelle degli animali e dobbiamo trovare il percorso che ci porti nella valle sottostante, dove faremo il campo, evitando dirupi e strapiombi rocciosi. Scendiamo su una traccia franosa e ripida, con alcuni passaggi esposti, finchè raggiungiamo gli asini che oggi hanno seguito un percorso più facile, evitando il lago. L’ottavo giorno si parte subito con una ripida salita che ci porta al Munora pass a quota 3500. Dopo una sosta per ammirare i ghiacciai pensili iniziamo la discesa fino ad un insediamento di pastori, una quindicina di ripari con struttura di legno coperta da stracci. All’ingresso c’è il fuoco dove scaldano l’acqua e cuociono il pane e appena entriamo il fumo ci avvolge, ma l’apertura nei teli del soffitto porta rapidamente fuori il fumo. Appesi su un lato della tenda ci sono sacchi di tessuto fitto che contengono latte cagliato che gocciola e, come sempre, stendono una tovaglia per terra e ci offrono yogurt, te e un pane più alto del solito. Siamo tutti un po’ sulle nostre, viste le condizioni igieniche generali, e anche il pane non riscuote il solito successo. All’aperto alcune ragazze

fanno il burro con la zangola mentre i bambini corrono intorno a loro fra pecore e capre, per terra solo cacche e neppure un filo d’erba. L’acqua non c’è, ma poco sotto il campo scorre il fiume Sarmat, azzurrissimo, che raggiungiamo e superiamo su un ponte di legno. Da qui risaliamo sul versante sinistro della valle, cercando una radura adatta al campo e ci fermiamo su un ventoso ma panoramico pianoro con una modesta sorgente e poco dopo arrivano i nostri stanchi asinelli. Siamo a quota 2970m e nel buio della sera i cavallanti accendono un fuoco per festeggiare la conclusione del trek: sotto uno spettacolare cielo stellato e tante stelle cadenti, a turno cantiamo canzoni italiane e tajike. L’ultimo giorno di trek partiamo veloci diretti al Tobasang Pass per poi affrontare la discesa, ripida ed esposta, alternata ad alcune risalite, lungo un nuovo itinerario che ci porta al 7° lago. Mentre scendiamo superiamo insediamenti primaverili non abitati perché nella tarda estate non c’è più acqua. La discesa prosegue sempre ripida ma siamo entusiasti di arrivare a questo azzurrissimo e profondo lago formatosi a causa di una enorme frana. Un ghiaione a picco sul lago lascia il posto ad enormi massi e in breve raggiungiamo l’emissario. Un ponte ci porta in un paesaggio quasi svizzero, con prati verdi e mucche, che contrasta con la frana appena superata. Da qui inizia una strada sterrata che costeggia il torrente, passa attraverso un grande villaggio con una ‘parete’ di sorgenti, in realtà acqua che filtra dalle rocce della frana. Poi prosegue costeggiando il 6° lago, profondo, con versanti ripidi, e villaggi costruiti in alto, e privo di emissario: l’acqua sparisce

nelle rocce di un’altra frana. Ci fermiamo in un prato punteggiato di albicocchi, accanto al quale riaffiora l’acqua del lago, per il nostro ultimo campo e siamo contenti: i trek sono stati belli ma la stanchezza comincia ad affiorare. Salutiamo i cavallanti e ci raggiungono i driver che domani ci porteranno in città, entrambi con gli immancabili

denti d’oro. La mattina facciamo una tappa per ciascuno dei quattro laghi della parte bassa della valle e poi usciamo dalle gole ritrovando l’asfalto che ci porta fino a Panjikent, cittadina a pochi chilometri da Samarcanda, che però non possiamo raggiungere perché questo confine con l’Uzbekistan è chiuso dal 2010. E’ arrivato il momento di rientrare: lasciamo le montagne, i ghiacciai e i fantastici laghi e portiamo con noi le immagini dei pastori e della loro dura vita. In totale 9 giorni, 114 km e 7700m di dislivello in salita.Un grande ‘bravi’ agli amici Sandro, Piera, Iva, Mara e Maurizio che hanno seguito me e Fabrizio in questo viaggio in Tajikistan, una meta davvero interessante ed unica.

Ponte nella Yagnob Valley