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Centro Studi Cultura e Società V Edizione Premio Piemont ch’a scriv e le sue Tradizioni Torino 27 settembre 2018

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Centro Studi Cultura e Società

V Edizione Premio

Piemont ch’a scriv

e le sue Tradizioni

Torino 27 settembre 2018

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 2 di 144

Stampato a Torino presso la Tipografia Agat – Settembre 2018

Il logo del Premio Piemont ch‟a scriv è una elaborazione realizzata per il Centro

Studi Cultura e Società da Nicolina Pollastro ©

I quadri riprodotti in copertina sono di Fanny Ghirelli ©

In prima: Veduta dal Po verso collina Monti Cappuccini;Tecnica a olio; cm 40x60

In quarta: Montechiaro d'Acqui (Langhe); Tecnica a olio; cm 60x40

Centro Studi Cultura e Società

via Cesana 56 - 10139 Torino - Tel 011/4333348 - 347/8105522

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 3 di 144

SOMMARIO

Pag. 3 Sommario

Pag. 5 Prefazione di Ernesto Vidotto

Pag. 7 Composizione della Giuria

Pag. 7 Patrocini

Pag. 8 Albo d‟oro

SEZIONE A – POESIA PIEMONTESE

Pag. 9 Graduatoria Sezione A

Pag. 10 Brumari (Mary MASSARA)

Pag. 12 Vache' (Luciano MILANESE)

Pag. 14 Orchidee (Anna Maria RIMONDOTTO)

Pag. 15 Un pugiö sü ‟n tramunt (Fabrizio SGUAZZINI)

Segnalazioni di Merito Sezione A Pag. 17 Pome montagnine (Gabriella MOCAFICO)

Pag. 18 Tramunt (Giacomo MUSETTA)

Menzioni della Giuria Sezione A

Pag. 19 Cume föïe (Vincenzo BOLIA)

Pag. 20 Le lèrme dël temp (Gianpiero CAVARERO)

Pag. 21 Nàssita (Maria Antonietta DOGLIO)

Pag. 22 La mòto Guzzi (Sergio DONNA)

Pag. 25 Tèra an boca (Paolo DURANDETTO)

Pag. 26 Arcòrd masnà (Maria Augusta GIOVANNINI LUCCA)

Pag. 27 San Gërman (Gianni MARTINETTI)

Pag. 28 Vadinfèrnu (Romano NICOLINO)

Pag. 29 On ricòrd (Fernanda PAGANI)

SEZIONE B – NARRATIVA BREVE PIEMONTESE

Pag. 31 Graduatoria Sezione B

Pag. 32 Sinfonìa dë color (Luigi CERESA)

Pag. 39 Tavio ël pescador (Luigi Lorenzo VAIRA)

Pag. 50 Mòrk (Mina MAZZOTTI)

Pag. 57 La cita ch‟a seugnava „l mar (Maria Teresa TRIBOLO)

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Segnalazioni di Merito Sezione B

Pag. 64 Ёl faudalin ëd Natàlia (Michele FASSINO)

Pag. 71 La Madòna dla Lòsa (Lucia RENAUDO)

Menzioni della Giuria Sezione B

Pag. 78 Piemont, arcòrd e tradission (G. Antonio BERTALMIA)

Pag. 86 La boata magica (Anna Maria CAFFRI)

Pag. 89 Le cite còse (Gianni CORDOLA)

SEZIONE C – CANZONE PIEMONTESE

Pag. 93 Graduatoria Sezione C

Pag. 94 Magg (KITCHEN IMPLOSION)

Pag. 95 La Bela Rosin (Giuseppe NOVAJRA)

Pag. 98 Varda giù 'n cula pianura ( QUINTA RUA)

SEZIONE D – POESIA ITALIANO TRADIZIONI PIEMONTE

Pag.101 Graduatoria Sezione D

Pag. 102 Un rito d‟altri tempi (Onorina GARONETTI)

Pag. 104 Strade di Moncalieri (Natalia BERTAGNA)

Segnalazioni di Merito Sezione D Pag. 106 Ricordi (Maria Luisa VIGNA)

Menzioni della Giuria Sezione D

Pag. 107 Fantasmi sabaudi (Flavio PROVINI)

SEZIONE E – NARRATIVA ITALIANO TRADIZ.PIEMONTE

Pag.109 Graduatoria Sezione E

Pag. 110 Dal mio scalino (Giuseppe MARRA)

Segnalazioni di Merito Sezione E

Pag. 116 Il vento (Maurizio BRACALI)

Pag. 122 Bartolomeo e i salamini (Gianni STUARDI)

Pag. 126 Il mistero dell‟inno sabaudo (Danilo TACCHINO)

Menzioni della Giuria Sezione E

Pag. 132 Marianna del Lago (M. Lina BOCCHETTA RAVALDI)

Pag. 137 Pesche e vino (Angela DONNA)

Pag. 139 Un tuffo nel passato (Silvia SARZANINI)

Pag. 143 Centro Studi Cultura e Società

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PREFAZIONE

Il Premio Piemont ch’a scriv e le sue Tradizioni, giunto alla V

Edizione, conferma i risultati molto positivi delle edizioni precedenti,

sia per numero dei partecipanti, rappresentativi di tutte le province

del Piemonte, che per la qualità delle opere. Sono state confermate

due sezioni a tema in lingua italiana. Per chi non sa scrivere in

piemontese ,rappresenta un‟opportunità, seppure molto selettiva

rispetto ai contenuti richiesti, per valorizzare le tradizioni popolari

piemontesi.

Particolarmente significativo il rinnovato riconoscimento da parte

delle maggiori Istituzioni a livello regionale e di alcuni Comuni del

Piemonte, che ne sottolineano lo stretto legame con il territorio.

La cerimonia di premiazione, ospitata nella prestigiosa sede del

Consiglio Regionale, rientra nel programma della XVII Festa ‘d

Turin, ricca di proposte che perseguono l‟obiettivo della

valorizzazione della lingua, della cultura e delle tradizioni del

Piemonte. Questa edizione propone:

La tradizionale Vijà 'd Poesìe Piemontèise del vin neuv, dedicata

alla cultura del vino ed alle tradizioni che rappresenta.

La I Edizione del Borgo San Paolo Poetry Slam

Poesìe e canson dël Piemont. Poesie e canzoni popolari da Nino

Costa a Gipo Farassino.

La mostra Trittico torinese, articolata in 3 sezioni: A) Il Barocco

torinese (fotografie di Marco Allais); B) Le case INA di corso

Sebastopoli (a cura di Giancarlo Libert); C) 100 anni della Lenci

– una realtà torinese e la bambola del cuore (Riproduzione

fotografica di bambole della collezione di Pieranna Bottino).

CantaTurin | CantaTorino Canzoni in italiano e in piemontese su

Torino interpretate dal M° Bruno Baudissone

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 6 di 144

Sarto per Signora Divertentissima commedia di Georges Feydeau

proposta in lingua piemontese. Traduzione ed adattamento di

Raffaele Galvagni

Gli Antichi Mestieri di Torino e del Piemonte, rievocati da

alcuni Gruppi del folclore popolare in costume, per far rivivere la

cultura del lavoro del nostro territorio.

Le Tradizioni delle Comunità Locali di Torino e del Piemonte,

rievocati da alcuni Gruppi Storici in costume, per far rivivere la

cultura del nostro territorio, con piccoli flash di rievocazione

della storia di Torino e dintorni.

Po-Etica del Borgo. Una giornata di festa artistica urbana tra

storia e presente di San Paolo e Cenisia.

Il progetto di Ricerca Passeggiando tra i Sentieri della Memoria. Un progetto in itinere da realizzare in un biennio che si propone

di raccontare le trasformazioni di un territorio vasto e dalle storie

molto diverse di borghi e luoghi simbolo, attraverso la memoria

di ciò che era, confrontata con quanto oggi c‟è.

Il lavoro della Giuria, anche quest‟anno, è stato particolarmente

impegnativo, avendo dovuto valutare opere di assoluta qualità,

applicando Linee Guida e Criteri di Valutazione per i Premi

adottati dalla nostra associazione e consultabili sul sito. I premi

assegnati sono stati di tre tipi. Oltre ai primi classificati sono state

assegnate le Segnalazioni di Merito e le Menzioni della Giuria.

Questa Antologia, che propone tutte le opere premiate, per

rafforzare la capacità di divulgazione dei valori culturali che

esprimono, alle opere in piemontese affianca la traduzione in lingua

italiana. Non solamente per chi non conosce il piemontese, ma

soprattutto per consentire a chi ancora lo parla, di apprezzare

meglio le sfumature delle parlate locali.

Ernesto VIDOTTO

(Coordinatore Centro Studi Cultura e Società)

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COMPOSIZIONE DELLA GIURIA

Michele BONAVERO

Carla COLOMBO

Marina GALLIA

Bruno GIOVETTI

Pier Carlo MUSSO

Sergio NOTARIO

Gianfranco PAVESI

Nel ringraziare la Giuria per il lavoro svolto, si precisa che. per le

sezioni A e B (Poesia e Narrativa breve in lingua piemontese) le

motivazioni sono state scritte collettivamente, sulla base delle

osservazioni espresse dai singoli componenti della Giuria e rese

omogenee da Sergio NOTARIO, che si è fatto carico di redigere il testo

sulla base delle osservazioni predisposte dai colleghi.

PATROCINI

Regione Piemonte

Consiglio Regionale del Piemonte

Città Metropolitana di Torino

Comune di Torino

Comune di Alba

Comune di Avigliana

Comune di Diano d’Alba

Comune di Frabosa Soprana

Comune di Palazzolo Vercellese

Comune di Saluzzo

Comune di Vische

Circoscrizione 3 Pozzo Strada, San Paolo, Cenisia Cit Turin

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ALBO D’ORO

POESIA PIEMONTESE

2014 Anna Maria BALOSSINI (Novara)

2015 Fernanda PAGANI (Novara)

2016 Luciano MILANESE (Poirino)

2017 Mary MASSARA (Marano Ticino)

2018 Mary MASSARA (Marano Ticino)

NARRATIVA PIEMONTESE

2014 Michele BONAVERO (Bussoleno)

2015 Gian Antonio BERTALMIA (Carmagnola)

2016 Giuseppe SANERO (Carmagnola)

2017 Gian Antonio BERTALMIA (Carmagnola)

2018 Luigi CERESA (Novara)

CANZONE PIEMONTESE

2017 Enzo VACCA (Rubiana)

2018 KITCHEN IMPLOSION (Villa del Bosco)

POESIA ITALIANO SU TRADIZIONI PIEMONTE

2017 Corrado DELL‟OGLIO (Torino)

2018 Onorina GARONETTI AVOGADRO (Tavigliano)

NARRATIVA ITALIANO SU TRADIZIONI PIEMONTE

2017 Tiziana DELSALE (Novara)

2018 Giuseppe MARRA (Asti)

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Sezione A

Poesia Piemontese

GRADUATORIA

1) Mary MASSARA (MARANO TICINO NO) - Brumari

2) Luciano MILANESE (POIRINO TO) - Vache'

3) Anna Maria RIMONDOTTO (ORBASSANO TO) - Orchidee

3) Fabrizio SGUAZZINI (NOVARA NO) - Un pugiö sü ’n tramunt

SEGNALAZIONI DI MERITO

Gabriella MOCAFICO (STRAMBINO TO) - Pome montagnine

Giacomo MUSETTA (BELLINZAGO NOVARESE NO) - Tramunt

MENZIONI DELLA GIURIA

Vincenzo BOLIA (ALBENGA SV) - Cume föïe

Gianpiero CAVARERO (MONASTEROLO TO) - Le lèrme dël temp

Maria Antonietta DOGLIO (DENICE AL) - Nàssita

Sergio DONNA (TORINO TO) - La mòto Guzzi

Paolo DURANDETTO (ALMESE TO) - Tèra an boca

Maria Augusta GIOVANNINI LUCCA (CASTELLAMONTE TO) -

Arcòrd masnà Gianni MARTINETTI (CAVALLIRIO NO) - San Gërman

Romano NICOLINO (GARESSIO CN) - Vadinfèrnu

Fernanda PAGANI (NOVARA NO) - On ricòrd

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Primo Premio Assoluto

Brumari

Sfronzà dël vent a sforsà la stagiôn:

folôn bofà int ij foj d‟ortaja d‟or,

intabarà ‟l Brumari sul bastiôn

d‟on ëspiümasc brilent, ‟mè bombas sor.

Sfronzà dël vent a sforsà ‟n finistreu,

feugh, vin dë pom novèl e na cansôn;

profum dë brugh, su cavej biond on reu

stralusent, „mè dë seda ij so parplôn.

Sfronzà dël vent a sforsà „l sogn dla not

strolga la luna, gibigiana spura

sul rusp1 dla bèla età „l rumià dla ment:

‟nt ël balin dols, indormentass al bot

strià e lontan d‟on campanôn d‟argent;

bianch ‟mè la fioca, ël fior dla bonora.

Mary MASSARA

MOTIVASSION - Già, „l di d‟ancheuj, trové un sonèt scrit con soe

mësure tute coma ch‟as deuv, a l‟é na còsa nen da pòch. Se peui a lòn

tjë gionte la vajantisa „nt ël dovré le paròle ch‟a l‟han le litre ch‟a

s‟arpeto o ch‟a s‟anverto dand musicalità a la scritura e n‟arserca „d

termo, an Lenga Piemontèisa - Noarèisa fàita con tanta atension e

1 Scarto vegetale

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perfession, it treuve na Poesìa, coma costa che, parland dij

cambiament dël Temp at conta ij cambiament dla Vita. E „t fa dì:

VIVA LA POESÌA!

TRADUZIONE ITALIANA - Brumale

Fiondata di vento a forzare la stagione:/ folate soffiate tra le foglie di

ortaggi d‟oro/ ammantellato il Brumale sul bastione/ d‟ un piumaggio

adamantino, come bambagia soffice. // Fiondata di vento a forzare una

finestrella, fuoco, sidro novello e una canzone;/ profumo di brugo, su

capelli biondi una tiara/ sfavillante, come di seta le sue ciglia.// Fiondata

di vento a forzare il sogno della notte/ chiromante la luna, barbaglio

solitario/ su ciò che resta della giovinezza il ruminare della mente:// nel

talamo dolce, addormentarsi al rintocco/ magico e lontano d‟un

campanone d‟argento;/ niveo, il fiore dell‟alba.

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Secondo Premio Assoluto

Vache'

Sij pra 'd Castion aranda 'l Ban-a

sota në spiovziné fastidios e s-ciass

da sta matin, a meuj pèj d'un-a ran-a,

a-i é 'n pòr cit, màire, vestì dë strass.

A-j fan companìa dontrè vachëtte

ëdcò lor sëcche parèj d'un stocafiss,

e 'n taboj dël cit sèmper ant le "fëtte"

nopà a cole bestie 'd dé l'ardriss.

Antratant ël cit sot a'n moron, an pé,

mal arparà da 'n bonèt ëstorcionà,

dal bërsach a tira fòra da mangé:

mach dontrè nos e 'n crocion arsëttà.

Mentre ch'a traonda 'l mìser disné

an boconiand meusi 'l cit tòch ëd pan

a rumia drint a soa ment tanti pensé:

la fam, la frèid, la famija tant lontan.

Chiel a pensa a cand sël mërcà pare

pr' ël campagnin ch'a l'avìa fitalo,

d'un bòt dësreisandlo dal sen ëd mare,

a fé 'l vaché a l'avìa portalo;

a la pajassa butà 'nt na stala,

al mangé sì scars e gram ëd minca di,

al padron con an boca la sigala

che 'd travaj a-j na gionta semp ëd pì.

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Contut cand a ca ti i' t'artorneras,

finìa la grama da vaché stagion,

ch'a l'avìo fitate pa it lo diras

ma ch'it j'ere giustate, da col padron.

Luciano MILANESE

MOTIVASSION - Na poesìa ch‟a descriv assè bin la vita dle masnà

campagnin-e „d na vòlta, scrita „n vers d‟ondes silabe, scasi tuti giust,

ma che, për maleur, minca tant a talòcio. L‟Autor a fa un quader an

rime alternà ch‟a lassa „l segn e a deuvra na scritura an Lenga

Piemontèisa con na bon-a costuma dle regole e dla grafìa.

TRADUZIONE ITALIANA - Piccolo mandriano

Sui prati di Castiglione vicino al Banna / sotto un piovigginare fastidioso e

fitto / da questa mattina ammollato peggio di una rana / c'è un povero

bambino, magro, vestito di stracci. // Gli fanno compagnia alcune piccole

mucche / anche loro secche come uno stoccafisso, / un bastardino sempre

tra i piedi del bambino / anziché a quelle bestie dare ordine. // Intanto il

bambino sotto al salice, in piedi / mal riparato da quel cappello

stropicciato / dal suo tascapane tira fuori da mangiare: / alcune noci e un

tozzo di pane raffermo. // Mentre ingoia lo scarso desinare /

sbocconcellando lentamente il piccolo pezzo di pane / rimugina nella sua

mente tanti pensieri / la fame, il freddo, la famiglia tanto lontano. // Lui

pensa al momento quando al mercato il padre / per il contadino che l'aveva

affittato, / di colpo sradicandolo dalle braccia della madre, / a fare il

"vaché" l'aveva portato, // al pagliericcio messo nella stalla, / al cibo così

scarso e cattivo di ogni giorno; / al padrone con in bocca il sigaro / che di

lavoro glie ne aggiunge sempre più. // Tuttavia quando ritornerai a casa /

finita la brutta stagione da "vachè" / tu non dirai che ti avevano affittato /

ma che ti eri "sistemato", da quel padrone.

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Terzo Premio ex-aequo

Orchidee

Cunà dal cheur groson ëd la cusin-a

a pòch a pòch ij boton calm a gonfio

„dcò se a në smija che pasi a ronfo

ël viagi „d gòj për noi lor a „ncamin-o,

a l‟han soa cadensa, sò pass lent,

pruibì tocheje „l temp për nòstr piasì,

lor an preparo n‟argal soasì

a basta deje amor për sò moment

quandi a slargo j‟ale ëd l‟energìa,

blëssa ch‟a canta „l vòl ëd la poesìa,

làver ch‟an parlo, che „d tut a-j pias rije

gropà a n‟àtim ciàir d‟eternità

a pijo nòstr fardel për vanità

e un po‟ bërnufi a blago come „d fije.

Anna Maria RIMONDOTTO

MOTIVASSION - A l‟é na poesìa ch‟a chërs a man a man ch‟a va

anans, ch‟a parla dël dolor sensa fesse pijé la man da la retòrica. Ël

tema “Tramont” a l‟é „l fil ch‟a pòrta anans tuta la poesìa.

TRADUZIONE ITALIANA - Orchidee

Cullati dal cuore arancio della cucina / a poco a poco i boccioli calmi

gonfiano / anche se ci sembra che tranquilli ronfino / il viaggio di gioia per

noi loro iniziano, // hanno il loro ritmo, il loro passo lento, / vietato fargli

fretta per il nostro piacere, / loro ci preparano un regalo squisito / basta

dargli amore per il loro momento // quando allargano le ali dell‟energia, /

bellezza che canta il volo della poesia, / labbra che ci parlano, che di tutto

amano ridere // legate a un attimo di eternità / prendono i nostri pesi per

vanità / e un po‟ leziose si pavoneggiano come ragazze.

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Terzo Premio ex-aequo

Un pugiö sü ’n tramunt

Camini sü sta stra sensa na fin,

i camini sensa pü energìa,

fin sü un pugiö d‟un tramunt nebius,

dua ch‟as facia la mè malincunìa.

E l‟è stassera car al mè amis

ch‟i saran tüti par ti i mè penser,

ti che i dificultà da sta vita

‟t han fai crèss e diventà n‟òman ver.

Ma dèss a s‟ha duverdǜ una porta,

ch‟a t‟ha fai bürlà dent int al dulur,

e da gnì fora sarà mia fàcil

e gnanca fàcil l‟è pudé discur.

Cusì vün as dumanda al parchè,

parchè l‟è capità propi a ti,

hin cüj parchè ch‟it làssan dla rabia

e di voj ch‟i sò mia impinì.

E sü cul pugiö d‟un tramunt nebius,

scundǜ in scüri prufundità

i tùrnan a gala di vegg ricord,

cume sarculà da undi agità.

Da undi s-ciümà d‟un màr sfularmà,

undi ch‟i trùsan ‟nt la mè scervèla,

ricord da cüj temp sémpar alégar,

ricord tegnǜ int la mè scarsèla.

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Int un respir gelà in cul tramunt,

nivli ad fià bùfan via i brüt penser,

as disa che duman l‟è n‟àltar dì

ma incö l‟è già cume s‟a füssa ier.

Da sicür duman agh sarà al sùl,

ch‟al riscaldarà la to custansa

sul pugiö d‟un tramunt prufümà,

là, dua ch‟as facia la mè speransa.

Fabrizio SGUAZZINI

MOTIVASSION - Na bela interpretassion poètica d‟una DITA d‟un

Monio scrita sota forma d‟un sonèt ( ch‟a scrusiss un pòch ant la

prima quartin-a). As perd un pòch coma vision vers la fin. Ma „l tut a

merita.

TRADUZIONE ITALIANA - Un balcone su un tramonto

Cammino su questa strada senza fine, / cammino senza più energia / fìn su

un balcone di un tramonto nebbioso, / dove si affaccia la mia malinconia. //

Ed è stasera caro il mio amico / che saranno tutti per te i miei pensieri, / tu

che le difficoltà di questa vita / ti hanno fatto crescere e diventare un uomo

vero. // Ma adesso si è aperta una porta / che ti ha fatto cascar dentro nel

dolore, / e venirne fuori non sarà facile / e neanche facile è poterne

parlare. // Così uno si domanda il perché / perché proprio a te, / quei

perché che ti lasciano della rabbia / e dei vuoti che non so riempire. // E su

quel balcone d‟un tramonto nebbioso, / nascosto in scure profondità, /

tornano a galla dei vecchi ricordi, / come sballottati da onde agitate. //

Onde schiumose di un mare tempestoso, / onde che rimescolano nel mio

cervello, / ricordi di quei tempi sempre allegri, / ricordi custoditi nella mia

tasca. // In un respiro gelato in quel tramonto / nuvole di fiato soffiano via i

brutti pensieri. / Si dice che domani è un altro giorno / ma oggi è già come

se fosse ieri. // Di sicuro domani ci sarà il sole / che riscalderà la tua

costanza / sul balcone di un tramonto profumato, / là dove si affaccia la

mia speranza.

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SEGNALAZIONI DI MERITO

Pome montagnine

'Me ij ciafele dle matòte

ch'a sijavo sla montagna

ël fen e peui l'ariòrda,

son le rionde pome rosse

ch'a smjo dësperdue

ant la cusin-a dla sità

tra ananàs e rarità.

Mach lor a l'han la dossëssa

timida e fòrta dla montagna

e la s-cetta consistensa

ëd na strenzùa 'd man

A son lor ch'a m'arcòrdo

dij coj lontan, cit, Nataj

quand con j'euj spalancà

da masnà la fioca spetavo,

antratant che su la stuvia

ij pom rusnent a mitonavo

Gabriella MOCAFICO

TRADUZIONE ITALIANA - Mele di montagna

Come le guance delle ragazze / che falciavano sulla montagna / il primo e

secondo fieno, / sono le rotonde mele rosse / che sembrano sperdute / nella

cucina della città / tra ananas e rarità. / Ma solo loro hanno la dolcezza /

timida e forte della montagna / e la stessa sicurezza / d'una vera stretta di

mano. / Sono loro che mi ricordano / quei lontani, piccoli Natali / quando

con gli occhi spalancati / da bambini aspettavamo la neve / mentre sulla

stufa / cuocevano lentamente le mele ruggine (renette)

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 18 di 144

Tramunt

Strâck, a la fîn d‟una giurnâ

un su sfaciard a m‟amguarscisa

gninta rus al vâ giò insacâ

mè na piânta taiâ d‟uniscia2

iultim râc d‟un dé c‟al vâ a murì

i lâsan un ciel insanguinâ

e un su strâck mè mi al vâ durmì

par disvigem al moên poê ripusâ

Giacomo MUSETTA

TRADUZIONE ITALIANA - Tramonto

Stanco, alla fine di una giornata / un sole sfacciato mi acceca / diventando

rosso scende insaccato / come una pianta tagliata di ontano // gli ultimi

raggi di un giorno che va a morire / lasciano un cielo insanguinato / e un

sole stanco come mè va a dormire / per risvegliarmi poi domani riposato.

2 La pianta dell‟Ontano appena tagliata assume un colore rossastro come se

sanguinasse.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 19 di 144

MENZIONI DELLA GIURIA

Cume föïe

E pöi

es desc-dactma,

rotulma au vèntu

sènsa ina diresiun,

e dventma giòni

e rüguji

prima d‟früsc-tòse.

Vincenzo BOLIA

TRADUZIONE ITALIANA - Come foglie

E poi / ci distacchiamo, /rotoliamo al vento / senza una direzione,

/ingialliamo, / ci crespiamo / prima di consumarci.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 20 di 144

Le lèrme dël temp

Sota la spëssa caviéra dla véja nosera,

dosman a s‟arpòsa l‟ombra dël temp ëd na vòta….

fin-a „l frisé nojos ëd le siàle ansugnòchìe

a l‟é sperdusse ant l‟ària dj‟ àrcòrd……..

Anche i timid bluèt

ch‟a orlavo le tan-e dij grij

a son sëccà ansema l‟èrba dij pra…….

Pendù al ram d‟un vej pomé

ancor a dindlano ij rest

d‟un biàuti ch‟a spatarava

ant ël vent marin

lë sgarì „d citin content

An fond a la boschin-a

as sent pì nen ël bësbijé afros

ëd la fontanéla solenga,

adess, soa vos l‟é fasse arnosa,

a piora lerme d‟arcòrd

cha fan tërmolé „l cheur…..

….mai pì !!!!!

Gianpiero CAVARERO

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 21 di 144

Nàssita

I son vnì grand ansissì,

andoa i ragg dël sol

i filtrò trames „l feuje dij persi,

antratant che l‟aria carëssa

l‟ombra dla vigna.

Për da sì, i son ël mè rèis,

andava anté a la matin a l‟orisont

m„i guardava ‟l Rè ‟d Preja

anfiòca e ciàir,

chiel, parej lontan,

ma da smijè davzin.

Ambelessì, anté ‟l calé dël sol

ën regala ‟l ross dël colin-e

e ‟l stèile s-ciairan

ël nëir ëd la neuit.

Për da sì, an na ca contadin-a,

anté mi l‟hai sentù ‟l bin dij nòni,

e ‟l calor dla vita.

Maria Antonietta DOGLIO

TRADUZIONE ITALIANA - Genesi

Sono cresciuta qui, / dove i raggi del sole / filtrano tra foglie dei peschi, /

mentre il vento accarezza / le ombre della vigna. // Qui, sono le mie radici,

/ dove alla mattina all‟orizzonte / guardavo il Re di Pietra / innevato e

lindo, / lui, così lontano,/ ma da sembrare vicino. // Qui, dove il tramonto /

regala il rosso delle colline / e le stelle rischiarano / il nero della notte. //

Qui, in una casa contadina,/ dove ho sentito l‟amore dei nonni, / e il

calore della vita.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 22 di 144

La mòto Guzzi

Son catame na doe roe:

a l‟ha dime: “Costa a tira,

questa è forte come un bue:

non lo senti come gira?”

Giàuna e nèira - smija n‟avija3

l‟ùnich tipo ch‟a l‟avìa.

I l‟hai sùbit fàit ël pien,

parèj peui i-i penso pì nen.

Son partì da la Val d‟Osta

con mia neuva mòto Guzzi...

lo sai pro: con lòn ch‟a costa,

podìa pa rivé ant j‟Abruzzi.

L‟hai girà tut ël Monfrà,

son fërmame a metà stra:

son galup, an verità,

për coj doss fàit antëccà...

I vë spiego ‟l trigomiro:4

i vorìa mangé ij krumiro,5

pròpi coj fàit a Casal,

bur, alvà6, na pëssià ‟d sal.

Bòja fàuss s‟a j‟ero bon:

l‟hai bèivù cò mes pinton. 7

Già ch‟i j‟era ‟ncaminà,

ributame sla carzà,8

3 ape

4 intrigo

5 tipico dolcetto casalese

6 lievito

7 bottiglione

8 carreggiata

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 23 di 144

slë stradon ch‟a va an Baragia,

dòp ël bivi për Salugia.

Son fërmame un pò a Vërsèj

për caté doi canestrej:9

“L‟oma mach ëd biciolan:10

coj ch‟a stan bin drit a man!

Canestrej? Ch‟a vada a Biela”...

Mi, ciuciand na caramela,

fas tra ‟d mi: “Ma ch‟a sje ten-a!

L‟hai ancor la pansa pien-a”.

Chiel am fà: “Sù, ch‟a lo tasta…”

Mi i ‟n n‟avìa già pròpi basta:

i l‟hai dit: "Nò, nò!”… “Darmagi".11

Buto an mòto (che tapagi!):12

son butame torna an viagi,

con prudensa e con coragi.

Quand ch‟i son rivà a Vivron,

l‟hai pensà: “Ma già ch‟i-i son,

faso un sàut fin-a a Pivron:

për mangeme doi povron”.

E da lì fin-a a Carema,

sempre drit, sensa patema,

son andàit a tasté il vin

dal mè amis fidà Censin.

Quand ch‟i son surtì da ca,

la mia Guzzi a-i era pa

e për artorné a Donnas,

i son famla tuta a pass.

9 canestrelli, dolci tipici di molte località del Piemonte

10 biscotti di pasticceria, tipici di Vercelli

11 peccato

12 gran rumore, confusione

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 24 di 144

Son catame na doe roe:

a l‟ha dime: “Costa a tira,

questa è forte come un bue:

non lo senti come gira?”

Sergio DONNA

TRADUZIONE ITALIANA - La moto Guzzi

Ho comprato una due ruote: / lui m‟ha detto: “Questa tira! / Questa è forte

come un bue: / non lo senti come gira?” // Gialla e nera, come un‟ape: /

era l‟unica che aveva. / E così ci ho fatto il pieno / e non c‟ho pensato più.

// Son partito là da Aosta / con la mia fiammante Guzzi, /sì però con quel

che costa / non di certo per gli Abruzzi. // Su e giù nel Monferrato, / poi mi

fermo a metà strada: / sono ghiotto in verità / di quei dolci fatti là. // Or vi

spiego questo inghippo: / a me piacciono i krumiri / quelli fatti lì a Casale:

/ con buon burro e un po‟ di sale. // Porco boia s‟eran buoni: / mezzo

bottiglion di vino! / Poi mi son rimesso in viaggio, / ancor sulla

carreggiata // della Strada di Baraggia, / direzione per Saluggia. // Faccio

tappa un po‟ a Vercelli, / per comprare i canestrelli: / “Abbiam sol dei

bicciolani: / stan ben dritti tra le mani! / Canestrelli? Vada a Biella!” / E

succhiando caramella, // penso: “Allora se li tenga”. / Lui insiste: “Su, li

tasti!” / Gli rispondo: “Adesso basta!” / Lui mi dice: “Che peccato!” /

Metto in moto (che frastuono!), / e mi metto ancora in viaggio, con

prudenza e con coraggio. // Quando arrivo a Viverone, / penso: “Adesso

che ci sono / vado fino a Piverone, / per mangiar due peperoni”. // E di lì,

fino a Carema: / sempre dritto, alcun patema, / per gustarmi quel buon

vino / dal mio amico Vincenzino. // Ma poi quand‟esco di casa, / non trovo

più la mia Guzzi / e per tornare a Donnas, / quanti ne ho fatti di passi. /

Ho comprato una due ruote: / lui m‟ha detto: “Questa tira! / Questa è

forte come un bue: / non lo senti come gira?”

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Tèra an boca

Arposé ij pé

An s‟la tèra „d tua Lenga

Avej ël piasì „d parlé fòrt

Sente tua vòs ch‟a son-a

Paròle ch‟a ampiniso „l cheur

Con Ti i sento „l cheur ch‟a biauta

Ël còrp ch‟a bogia

Ca mia al sò pòst

Sensa tëmma i vado anans

Con an boca la mia Lenga

Paolo DURANDETTO

TRADUZIONE ITALIANA - Terra in bocca

Posare i piedi / Sulla terra della tua Lingua / Avere il piacere di parlar

forte / Sentire la tua voce che suona / Parole che riempiono il cuore // Con

te sento il cuore che sussulta / Il corpo che si muove / Casa mia al suo

posto // Senza indugio vado avanti / con il bocca la mia Lingua

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Arcòrd masnà

N‟arcòrd bel i l‟hai ëd ti, mia granda,

cand che la sèira, ant ël lét a cun-a,

ansugnichìa, i scorzìa la lun-a

e su „nt ël cel d‟ëstèile na garlanda.

Sota „l linseul ëd càuna, la pajassa

ampinìa con feuje „d melia, sëcche,

ch‟a scrussavo, cand is bogiavo, cëcche,

a compagnava conte con vos bassa.

Ël luv, la volp, ël babèro, le crave

a sautrignavo drinta la stansiòta:

i ciupìa „nt ël mentre ch‟it contave.

I t‟arpetìe, cogià con mi aranda,

antiche conte, na pressiosa dòta

pa dësmentià, scotà da toa granda.

Maria Augusta GIOVANNINI LUCCA

TRADUZIONE ITALIANA - Ricordo d'infanzia

Un bel ricordo ho di te, nonna, / quando la sera, nel letto a forma di culla,

/ assonnata, scorgevo la luna / e su nel cielo di stelle una ghirlanda. //

Sotto il lenzuolo di canapa, il pagliericcio, / riempito con foglie di

granoturco, secche, / che, schiacciate, scricchiolavano quando ci

muovevamo, / accompagnava i racconti sottovoce. // Il lupo, la volpe,

l'agnello, le capre / saltellavano dentro la stanzetta: / chiudevo gli occhi

mentre tu raccontavi. // Ripetevi, coricata vicino a me, / antichi

racconti,una dote preziosa / mai dimenticata, ascoltati dalla tua nonna.

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San Gërman

A vëgh-la lì, „n mezz la brüghera, fò „d man fa fin-a tënërëzza cola giesiola „d San Gërman

L‟è sëntü „l rumor dla cuv sü la ranza e tanci gril ëntorn a mënè la danza.

Secondu na bëschin-bëscosa di temp andài l‟è vist armi lüsì e „l suór di suldài.

Sott la seu capella l‟è nasci üna zingra vagabonda ch‟l‟è turnà spusèsi quand ch‟l‟è gnùa rutonda.

L‟è passà sascin, delinquent e ladri a scassè la porta për rubacè di quadri

crosti che për lor gh‟evu „nciün significà ma, për la gent da Cavalin j‟evu „rgurdanza di papà.

E ti, San Gërman, signor dla Baraggia, ferm e dricc a vardèni „n faccia,

forsi a cumpatini për al pitti rüzzi da curtil chi lasciu „l temp chi trovu e gnanca pü „n fil,

povri e cëndri süi teui mila agn, sëntinella sanza temp ëd dësgrazii e vadagn.

Gianni MARTINETTI

TRADUZIONE ITALIANA - San Germano A vederla lì, in mezzo alla brughiera, fuori mano / fa persino tenerezza quella chiesetta di San Germano. // Ha sentito il rumore della cote sulla falce fienaia / e tanti grilli intorno a condurre la danza. // Secondo una storiella dei tempi andati, / ha visto luccicare armi e il sudore dei soldati. // Sotto la sua cappella è nata una zingara vagabonda / che è ritornata a sposarsi quando s‟è fatta rotonda. // Sono passati assassini, delinquenti e ladri / a scassinare la porta per rubacchiare dei quadri, // croste che per loro non avevano significato / ma per la gente di Cavallirio erano il ricordo dei padri. // E tu, San Germano, signore della Baraggia, / fermo e diritto a guardarci in faccia, // forse a compatirci per i piccoli litigi da cortile / che lasciano il tempo che trovano e nulla più, // polvere e cenere sui tuoi mille anni, / sentinella senza tempo di disgrazie e guadagni.

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Vadinfèrnu13

In nome da pave

per cule poche ca

da tropi agni

vöie e müte,

per cui sènté,

cinni d‟ ruvè,

lande ina vota

tante majnòi

e zuòvi e curòvi,

veloci e lgeȓi,

cume e föȉè

intu vèntu dl‟utunu.-

Romano NICOLINO

TRADUZIONE ITALIANA - Valdinferno

Un nome da paura / per quelle poche case / da troppi anni / vuote e mute, /

per quei sentieri, / pieni di rovi, / dove una volta / tanti bambini /

giocavano e correvano, / veloci e leggeri / come le foglie / nel vento

d‟autunno.-

13

Erazione di Garessio a m.1200 sulle pendici del monte Antoroto

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On ricòrd

Barsò dë glicin fiorì

basà dal sól dla bassora,

on tavlin dë gorin,

dassora, on lìbar duèrt

pàgini dal temp sbiavà.

S-ciata al giardin in mila color

Vol dë farfali

cincià d‟uslin.

Come piuma ligera, la ment

la vola indrera…

Mi zèrba ‟mè èrba dë primavera

e ti nèspola ‟pena catà,

cont ij lìbar sota ël brasc

për ël vial a spass për man, visin,

on basin profuma d‟inocensa…

Sensa parlà, cont on soris,

int on lìbar tim hè miss

na stèla alpina velutà.

Ricòrd d‟on temp d‟està.

Eucc lusent… passà, present…

Basà dal sól dla bassora

dassora a pàgini sbiavà

cont la man ligera i carèssi

ël sògn d‟on temp lontan

na stèla alpina velutà!

Fernanda PAGANI

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 30 di 144

TRADUZIONE ITALIANA - Un ricordo

Pergolato di glicine fiorito / baciato dal sole del pomeriggio, / un tavolino

di vimini, / sopra,un libro aperto / pagine dal tempo sbiadite. // Esplode il

giardino in mille colori / Voli di farfalle, / cinguettare d‟uccellini. / Come

piuma leggera la mente / vola indietro… // Io acerba come erba in

primavera / e tu nespola appena colta, / con i libri sotto braccio / lungo il

viale a passeggio per mano, vicini, / un bacio profumato d‟innocenza… //

Senza parlare, con un sorriso, / in un libro mi hai messo / una stella alpina

vellutata. / Ricordo di un tempo d‟estate. / Occhi lucidi… passato,

presente… // Baciata dal sole del pomeriggio / sopra pagine sbiadite / con

mano leggera accarezzo / il sogno di un tempo lontano / una stella alpina

vellutata. //

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 31 di 144

Sezione B

Narrativa breve Piemontese

GRADUATORIA 1) Luigi CERESA (NOVARA NO) - Sinfonìa dë color

2) Luigi Lorenzo VAIRA (BRA CN) - Tavio ël pescador

3) Mina MAZZOTTI (CAMERI NO) - Mòrk

3) Maria Teresa TRIBOLO (CASTELLAMONTE TO) - La cita ch’a

seugnava ‘l mar SEGNALAZIONI DI MERITO

Michele FASSINO (VILLASTELLONE TO) - Ёl faudalin ëd Natàlia

Lucia RENAUDO (CERVASCA CN) - La Madòna dla Lòsa

MENZIONI DELLA GIURIA

Gian A. BERTALMIA (CARMAGNOLA) - Piemont, arcòrd e tradission

Anna Maria CAFFRI (CASTELLAMONTE TO) - La boata magica

Gianni CORDOLA (TORINO TO) - Le cite còse

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 32 di 144

Primo Premio Assoluto

Sinfonìa dë color

Im hò doverdù ‟mè ‟l git d‟on fior, on fior ch‟al profuma dë metal, dë

sangh, dë mòrt.

Dèss, pocià denta sti carni squarscià, i sprofondi sémpar pussè sota,

int on mond sensa tinti.

Da ani i sôn gnù vègia loà int on pòrta-palòtoli dë coram.

Ël mè bèl color giald, lusent ‟mè l‟òr, con la tèsta negra ‟mè ‟l

piomb, l‟è gnu vargantà dë smagi dë verderam.

I sevi rassegnà a morì dismentigà për sémpar, arzijà d‟ij àcid dovrà

për conscià la pèl. Ma incheu, tut int on colp, i sôn sentù ël calor ëd

na man sudà ch‟am ha ciapà, e peu ël frègg ëd na camisa d‟assal

ch‟am ha stringiù con amor.

I sôn stai lì ‟mè int ona tomba, për ori int ël top e int ël silensi.

Peu… on romor lontan, coma d‟on motor…

I sôn sentù ël forsié d‟assal mòvass e a la fin dël longh cilìndar i sôn

sguissì ‟n ciar: on bleu con denta dël bianch e dël ross d‟on cel con

l‟ùltim sparlôn dë sól.

“L‟è ora! -i sôn pensà- A la bonora ël destin ch‟i sôn nassù al sarà

fai!”.

Ël sercin dë cel a la fin dla cana dla carabina a s‟ha movù in prèssa,

l‟è andai giò sul pel ëd l‟aqua grisa e bleu celestin, peu pian pianin

l‟è inquadrà la facia, negra dal sól, d‟on fiolòt; a s‟ha sbassà sul color

négar ‟mè‟l carbôn dla maja dë goma ch‟agh quarciava ël stòmigh.

A s‟ha farmà.

In col moment lì i sôn capì. “Nòòò! -i sôn vosà- Nòòò! I sôn mia

nassù për lu! Nòòò…!”

Ël vegg al speciava l‟autun cont on desideri dë sta pu ‟nt la pèl.

Al podeva mia s-ciarà l‟està con tuti cuj romor: ël bragalà dla gent in

vacansa, ël ciadèl dij fiolin ch‟i giugàvan, l‟avanti ‟ndré dij màchini

suj stra dël lagh, ël tramento fracass dij barchi a motor ch‟i sa

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 33 di 144

spostàvan a tuta bira tribolanda ël pel ëd l‟aqua për andà dova? a fà

che ròba?

Ma parchè ja proibìvan mia, lassanda madomà ij veli spostà in silensi

dl‟Invèrna, la brisa ch‟la gneva giò d‟ij montagni!

Ma finì l‟està tut al tornava a la sò cadensa, ai romor dla natura.

La matina da bonora al guardava la nebièta ch‟as levava pian pianin,

cont ël pass ëstrach, për svanì int ël gnenta lassanda smicià la ròca

d‟Arona ch‟as pociava int ël lagh për fàss aqua.

E peu sù për ël di, ‟mè ‟n fiolin a s‟imbambolava a slumà, int ël cel

ch‟al smejava na quèrta bleu, ij nìvoli ch‟is giontàvan, is lassàvan,

sagomanda na vòlta on dindo, na vòlta on can, na vòlta la grègna

d‟on vegg për peu s-ciancass in tanti squarsc impinì d‟on gnenta dël

color dla carta da sùcar.

Al rimirava ij barchi cont ij veli sgonfià dal vent e al sorideva

d‟imparlù pensand: “Ij veli i hin bianchi ‟mè ‟l lir, ma ël legn l‟è

bianch ësporch ‟mè la panscia dij mònighi!”.

Al rimirava ël color dij barchi tacà visin a riva: bluèt ‟mè ël vel dla

Madòna, giald ‟mè ‟l safran, argent ‟mè na lama giascià d‟on fium,

gris ‟mè j‟eucc d‟on mòrt, verd ‟mè la miseria dij sò sacògi…

Al guardava, al guardava e al sognava speranda ch‟al di al sarìa mia

finì prima dë disvigiass.

Vèrs sera la tranquillità as notava ancora pussè.

J‟ombrii i së slongàvan e ij scimi dij pianti i spantegàvan tuti insèma

sinfonii dë color.

Ël ross viscà e ‟l marôn dorà dël ram gnù vegg o col opach ‟mè ‟l

tabach i févan da prim ator.

Ij fòji fai sù a scartòsc, vuna për vuna as distacàvan dij rami,

madomà na quaivuna as rivoltava e la stava con ostinassiôn al sò pòst

impipàndassan dël vent e dla stagiôn.

Renta ij spondi l‟èrba d‟on color verdusin, negà int ël lagh, as lassava

pià d‟ij gàboli dl‟arièta legera faséndass cunà int on quaièt andà e

gnì…

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 34 di 144

…Al saveva ch‟al sarìa capità ancora, anca cola sera- lì.

Al gh‟heva ij nèrv tirà, j‟orègi pronti a sentì ancora na vòlta col

romor, col trôn ch‟al squarsciava ël silensi e al s-ciopava int la sò

scervèla.

L‟è sentù ‟n ronzà lontan, peu pussè fòrt, sémpar pussè fòrt! Tal-lì!

Tal-lì anca cola sera!

Na mòtò d‟aqua l‟è comparì a pòch métar dla sponda, peu l‟è

comincià (ma parchè pròpi lì dannai a lu?) a fà dij ondi e a strimì ij

pèss ch‟i saltàvan fòra d‟l‟aqua ‟mè scalmani d‟argent e j‟angni

salvàdighi dal còl sbarlusent ch‟i scapàvan piand ël vol d‟la riva.

E peu a s‟ha farmà int ël mès dij tiramolin për partì ancora a manèta

saltanda su j‟ondi.

Vuna, dò, des vòlti! Tuti ij seri!! D‟autun!!!

“Sa ti torni doman la sarà l‟ùltima vira!” l‟heva giurà la sera prima.

Tut l‟eva pront. Ij persiani dë cà sarà sù, madomà la gelosìa dël salôn

‟pena dovèrdù ‟n cicin.

In cò dla stansa, pogià su ‟n tripé, la carabina l‟eva cargà.

L‟è spicià ël moment ch‟la mòto l‟è ralentà int ël mès dij sercc; ël

mirin l‟è scarligà dal celèst dël cel al gris ëd l‟aqua, l‟è cercà la facia

scurì dal sól dël fieu, l‟è ‟ndai giò sul stòmigh quercià da na maja dë

goma negra ‟mè ‟l piomb; a s‟ha farmà…

Peu vun drera l‟àltar l‟è sparà du colp: ël prim a la maja dë goma,

l‟àltar al serbatòj dla benzina dla mòto.

Agh ha smejà dë sentì on “nòòò...” lontan.

L‟è fai on sorisin. “La mè coscensa l‟è vosà nò, ma la mè ment l‟è dì

sii! Massà l‟è na fèsta, l‟è ‟mè on pàss dë bal, ël sangh al dà sémpar

ligrìa!”.

L‟è tornà ël silensi, s-ciapà për on quai moment dal barbotà dij boli

d‟aria ch‟i gnévan sù da col garbuj dë fèr e carna ch‟a ‟ndava a fond

int on ùltim tiramolin.

Sù in alt ij pianti i sfrangiàvan ël profil dij colini ricamand ël cel ross

viv con la ragnèra dij sò ram.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 35 di 144

Int on pìcol fià dël di ël ross dël cel a s‟ha dislinguà int ona nebièta

ch‟la gneva sù d‟l‟aqua…

Im hò doverdù ‟mè ‟l git d‟on fior, on fior ch‟al profuma dë metal,

dë sangh, dë mòrt.

Dèss, pocià denta sti carni squarscià, i sprofondi giò, sémpar pussè

sota, int on mond sensa tinti.

Ël ciar a së smòrsa dasi dasi; ij color is mìs-cian vun con l‟àltar, tuti

insèma: i pèrdan ij sò qualità, is trósan, i végnan ëscur, sémpar pussè

scur; négar, négar ‟mè la pesa, négar ‟mè ‟l piomb dël mè git…

Là ‟nscima la nòcc as vistissirà cont ël sò mantèl pussè top; la curva

straca dla luna la starà sensa ciar.

Ël cel, bugiatà d‟ij stèli che stracuntà i bataran ij parpèli, al smejarà

piang làgrimi dë védar.

Doman ël sól ‟pena nassù al bevarà la rosà e peu ël di a s-cioparà int

ona neuva sinfonìa dë color ch‟i ripiaran a cantà…

Luigi CERESA

MOTIVASSION - L‟Autor a l‟é riussì a scrive un tòch ëd pròsa

ch‟a lassa ambajà. Përchè ch‟a l‟é original ël tema tratà, ma dzortut

la manera ch‟a l‟ha dovrà për dëslopelo, përchè ch‟a riess a fé „n

manera che ti ch‟it lese „t reste „n sospèis fin-a a la fin e mach a la fin

i t‟ancòrse ch‟a l‟é na stòria „d sangh e d‟esasperassion stërmà sota

sta sinfonìa dij color. Na vajantisa ch‟a trasforma „n poesìa la lenga

local ch‟it la sente lòn ch‟a l‟é, val a dì na Lenga Vera.

TRADUZIONE ITALIANA - Sinfonia di colori

Mi sono aperta come il bocciolo di un fiore, un fiore che profuma di

metallo, di sangue, di morte.

Ora, immersa in queste carni lacerate, sprofondo sempre più in basso, in

un mondo senza tinte.

Da anni sono invecchiata riposta in una cartucciera di cuoio.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 36 di 144

Il mio bel colore giallo, lucido come l‟oro, con la testa nera come il

piombo, si è macchiato di striature di verderame.

Ero rassegnata ad essere dimenticata per sempre, corrosa dagli acidi usati

per la concia della pelle. Ma oggi, all‟improvviso, ho sentito il calore di

una mano sudata che mi ha afferrata, e poi il freddo di una camicia

d‟acciaio che mi ha stretta con amore.

Sono rimasta lì, come in una tomba, per ore nel buio e nel silenzio.

Poi… un rumore lontano, come di un motore…

Ho sentito la cassa d‟acciaio muoversi ed in fondo al lungo cilindro ho

intravvisto una luce: un blu con dentro del bianco rosato di un cielo al

tramonto. “Ci siamo!-ho pensato- Finalmente il destino per cui sono nata

si compirà!”

Il piccolo cerchio di cielo in fondo alla canna della carabina si è spostato

velocemente, è sceso sulla superficie di un‟acqua grigia e azzurra, poi

lentamente ha inquadrato il viso abbronzato di un ragazzo; si è abbassato

sul colore nero come il carbone della muta che gli copriva il petto.

Si è fermato. In quel momento ho capito. “Nooo! -ho gridato- Nooo! Non

sono nata per lui! Nooo…!”

Il vecchio aspettava l‟autunno con un irresistibile desiderio.

Odiava l‟estate con tutti quei rumori: le urla dei turisti in vacanza, le grida

dei bambini che giocavano, il viavai delle macchine lungo le strade del

lago, il tremendo fracasso delle barche a motore che si spostavano a gran

velocità disturbando la superficie dell‟acqua; per andare dove? per fare

cosa?

Ma perché non le vietavano lasciando spazio solo alle vele mosse

silenziosamente dall‟Inverna, la brezza che scendeva dai monti!

Ma finita l‟estate tutto ritornava ai ritmi, ai rumori della natura.

Al mattino presto osservava la nebbia che si alzava lentamente, con passo

stanco, per svanire nel nulla, lasciando intravedere la rocca di Arona che

si intingeva nel lago per diventare acqua.

E poi durante il giorno, come un bambino, si perdeva a guardare, in un

cielo che sembrava una coperta blu, le nuvole che si univano, si

lasciavano, formando ora un tacchino, ora un cane, ora la smorfia di un

vecchio per poi lacerarsi in tanti strappi riempiti da un nulla del colore

della carta da zucchero.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 37 di 144

Contemplava le barche con le vele gonfiate dal vento e sorrideva da solo

pensando: “Le vele sono bianche come un giglio, ma lo scafo è bianco

sporco come il ventre delle monache!”.

Ammirava il colore delle imbarcazioni ancorate vicino alla riva: turchino

chiaro come il velo della madonna, giallo come lo zafferano, argento come

la lama gelata d‟un fiume, grigio come gli occhi d‟un morto, verde come la

miseria delle sue tasche…

Guardava, guardava e sognava sperando che il giorno non finisse prima

del suo risveglio.

Verso sera la quiete era ancora più evidente.

Le ombre si allungavano e le chiome degli alberi spandevano in coro

sinfonie di colori.

Il rosso acceso ed il marrone dorato del rame invecchiato o quello opaco

come il tabacco diventavano i protagonisti.

Le foglie accartocciate, ad una ad una stancamente si staccavano dai rami,

solo qualcuna si ribellava e stava ostinatamente al suo posto facendosi

beffe del vento e della stagione.

A riva l‟erba d‟un colore verde smunto, annegata nel lago, indugiava alle

lusinghe della brezza leggera, lasciandosi cullare in un lento va e vieni…

…Sapeva che sarebbe successo ancora, anche quella sera.

Aveva i nervi tesi, le orecchie pronte a cogliere ancora una volta quel

rumore, quel boato che squarciava il silenzio ed esplodeva nel suo

cervello.

Sentì un ronzio lontano, poi più forte, sempre più forte! Eccolo! Eccolo

anche quella sera!

Una moto d‟acqua comparve a pochi metri dalla riva, poi incominciò (ma

perché proprio lì davanti a lui!?) a fare delle onde e a spaventare i pesci

che schizzavano fuori dall‟acqua come saette d‟argento ed i germani dal

collo iridescente che fuggivano in volo dalla riva.

E poi si fermò nel centro dei mulinelli per ripartire a tutto gas saltando

sulle onde.

Una, due, dieci volte! Ogni sera!! In autunno!!!

“Se torni domani sarà l‟ultima volta!” Aveva giurato la sera precedente.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 38 di 144

Tutto era pronto. Gli infissi di casa chiusi, solo la gelosia del salone

appena socchiusa.

In fondo alla stanza, posata su un treppiedi, la carabina era carica.

Aspettò l‟attimo in cui la moto rallentò nel centro dei cerchi; il mirino

scivolò dal celeste del cielo al grigio dell‟acqua, cercò il viso abbronzato

del ragazzo, scese sul torace ricoperto da una muta nera come il piombo;

si fermò…

Poi tirò in rapida successione due colpi: il primo alla muta, l‟altro al

serbatoio della moto.

Gli parve di sentire un “nooo…” lontano.

Sorrise. “La mia coscienza ha gridato no, ma la mia mente ha detto sii!

L‟assassinio è esultanza, è come un passo di danza, il sangue dà sempre

allegria!”.

Ritornò il silenzio rotto per pochi istanti dal gorgoglio delle bolle d‟aria

che si alzavano da quel groviglio di ferro e carne che andava a fondo in un

ultimo mulinello.

In alto gli alberi interrompevano il profilo delle colline ricamando il cielo

porpora con la ragnatela dei loro rami.

In un breve respiro del giorno il rosso del cielo andò a liquefarsi nella

nebbiolina che si alzava dall‟acqua…

Mi sono aperta come il bocciolo di un fiore, un fiore che profuma di

metallo, di sangue, di morte.

Ora, immersa in queste carni lacerate, sprofondo giù, sempre più in basso,

in un mondo senza tinte.

La luminosità si spegne lentamente; i colori si mescolano uno con l‟altro,

tutti insieme: perdono le loro caratteristiche, si confondono, diventano

scuri, sempre più scuri; neri, neri come la pece, neri come il piombo del

mio bocciolo…

Lassù la notte metterà il suo mantello più scuro; la curva stanca della luna

rimarrà senza luce.

Il cielo, trapanato dalle stelle che stupite batteranno le ciglia, sembrerà

piangere lacrime di vetro.

Domani il sole appena nato berrà la rugiada e poi il giorno esploderà in

una nuova sinfonia di colori che riprenderanno a cantare…

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 39 di 144

Secondo Premio Assoluto

Tavio ël pescador

Costa-sì a l‟è na stòria ch‟a l‟ha già ‟n pòchi d‟ani, ma a l‟è tanto

atuala ch‟a podrìa esse ambientà pròpi adess ant ij nòstri pais. Saré

donca j‟euj e scoté da bin la stran-a aventura ʼd Tavio ʼl pëscador.

Tavio a l‟era ʼn fiolin coma tanti àutri ‟d sò pais, quajdun a disìa ch‟

a fussa na frisinin-a servaj, ma a l‟era mach për ël fàit che chiel, ëd

ca, a stasìa ‟nt na cassin-a bastansa ‟n fòra e për col motiv, nen avènd

la possibilità ‟d gieughe con ij cambrada dla scòla, a l‟era costumasse

a sté da sol. Soa mama a l‟avìa daje col nòm curios përchè dòp avèj

butà al mond set masnà e arnomà tuti ij parent, tant da soa part che

da cola ‟d sò òm, a savìa pa pì che nòm buteje e alora la levatris a

l‟era vnije ‟n agiut an disènd che, da già che chiel a l‟era col ch‟a

fasìa eut, a sarìa stàit pì che giust ciamelo Tavio. A j‟euj ëd la gent

col fiolin a smiava ‟n pòch ëstran përchè, coma ch‟ i l‟oma già dit, an

mancansa d‟amis ëd sò temp, minca tant a parlava da sol o magara

con ël can, d‟àutre vòlte nopà a l‟era chiel a sté ciuto për ëscoté le

bestie, coma s‟a podèisso pròpi fé ‟n dëscors an tra ‟d lor. Tavio a

l‟avìa doe grosse passion: un-a, i l‟oma già dilo, a j‟ero le bestie, tute

le bestie che Nosgnor a l‟era anmaginasse ‟d creé, l‟àutra a l‟era cola

d‟andé a pësché, coma ch‟a fasìa sò nòno Bilin che ‟n gioventù a

l‟era stàit un dij mej pëscador dël sircondari.

Sì, i lo sai che coste doe ròbe a smijo ch‟a peusso nen ‟ndé d‟acorde

an tra ‟d lor, ma Tavio, për nen arzighé ‟d fé dël mal ai pèss, a

ʼndasìa sèmper a pësché sensa buté ël lamon a la fin dël fil, tant a

chiel ëd portè a ca ël cavagnin pien a-j na fasìa gnente da già che la

carn a la mangiava pròpi nen. Për Tavio sté lì an brova a la rian-a a

vardè l‟eva a score, a scoté le canson subià dai pasaròt con

lʼacompagnament dël bërboté dle ran-e, a l‟era na ròba ch‟ a-j dasìa

na pas ch‟a lʼè mal fé spieghela con le paròle. Lì, arlong a la bialera,

Tavio as sentìa pròpi un re, ma an efet, a coj ch‟a lo conossìo nen da

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 40 di 144

bin, col fiolin a smiava nen pròpi tut finì. Soa mama a fasìa për chiel

tut lòn ch‟a savìa ma con tante masnà da cudì a l‟era n‟imprèisa tut

àutr che sempia. La gent dël pais parland ëd chiel a disìa:

«stran a l‟è stran ëd sicur, speroma mach che ʼn chërsend a taca peui

nen a fé quaiche marminela gròssa ».

Minca tant, quand che ʼl fiolin a passava dnans a l‟osto coj ch‟a

j‟ero setà lì fòra a tacavo a cojonelo con la sòlita canson:

«Tavio ʼl pëscador

a seurt con soe tre cane,

ma nì dij pèss e nì dle ran-e

a pòrta manch a ca l‟odor »

e giù na bela rijada tuti ʼnsem, ma Tavio a seguitava tranquil për soa

strà sensa deje da ment a gnun, sicur coma ch‟a l‟era che ij veri

sagrin a fusso nen coj-lì. An efet, pròpi chiel a l‟era stàit un dij primi

a arcorzisse che quaicòs ant l‟ambient a ʼndasìa nen për sò vers. Da

ʼn pòch ëd temp arlongh a la rian-a dël mulin, andova che na vòlta a-i

era minca rassa ʼd bestie: dai trapon a jë schërieuj, da le laserde a ij

lajeuj, a smijava ch‟a fussa passaje Catlin-a a portesse via tute le

creature nostran-e ‟n lassand ël post a dij giariass gròss coma ʼd can

che, da cole part, gnun l‟avìa mai vist-je prima. Coj bej pèss che

vòlta as vëddìo da ʼnsima a la pianca dle saraje a j‟ero sparì squasi

tuti e quand che l‟eva a l‟era pì sclinta e a përmëttìa ʼd vardé fin-a ‟n

sël fond dij tampon pì përfond, andova che na vòlta a spassigiavo

nivole d‟anlevam, a së s-ciairava mach pì dla rumenta campà ‟nt la

rian-a da quaich dësgrassià. Fin-a le ran-e, che na volta a sautavo ‟nt

l‟eva a dosen-e, quand ch‟ it passave arlongh a coj senté, a-i ero pì

nen. An compens, se ij pèss a smijavo mach pì la metà dla metà, ij

pëscador a j‟ero pì che rindobiasse për via dla convinssion che pròpi

ambelelì, ant ël gòrgh dël mulin, a-i fussa ʼn pèss monstruos, gròss

coma ʼn caval e ch‟a fussa chiel ël responsàbil ëd tuta cola carëstìa.

Ëd che rassa ch‟a fussa col pèss ch‟as mangiava tute j‟àutre bestie

gnun a lo savìa, ma riesse a ciapé na creatura parèj e portela ‟n piassa

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 41 di 144

a l‟era lòn ch‟ a-j dasìa la caria a tuti, bele ch‟a lʼavèisso na frisa ʼd

tëmma ant l‟avzinesse al gòrgh. Tute le vòlte che quajdun a disìa

d‟avèj vist ël mostro dël mulin, coma ch‟ a j‟ero costumasse a

ciamelo, col pèss a dventava sèmper pì gròss e pì teribil. A deje da

ment a coj racont, col pèss a sarìa dovù esse pì o meno gròss coma ‟n

cocodrilo, con na boca strasordinaria, pien-a ʼd dent aùss pronta a

travonde ij pëscador ant un bocon sol. A chi ch‟a l‟era stàit bon a feje

mangé sò lamon, ël mostro a l‟avìa portaje via nen mach ël fil e ‟l

galegiant ma cò fin-a la cana. L‟unich ch‟a l‟avìa nen pàu dël mostro

a l‟era Tavio che, nen avènd mai fàit dël mal a gnun manch a l‟avìa

‟dcò nen ël sagrin che quajdun a podèissa feine a chiel. Na sèira

donca, ambrancand la cana con la man drita e la bërsaca da pëscador

con la mancin-a, Tavio a l‟era partì, con destinassion la rian-a dël

mulin, bin decis a dëscheuvre col misteri. Rivà an sël pòst lë spetacol

ch‟a l‟era presentasse dnans a j‟euj dël ʼl fiolin a l‟avià gavaje ël fià

dal dëspiasì: ij paisan a lʼavìo sarà l‟eva për bagné ij camp e dëdsà

dle saraje la rian-a a l‟era squasi suita. Ant ël gòrgh a-i restava mach

pì ‟n pòch d‟eva spòrca e spussolènta ‟nt la tampa pì përfonda e

ambelelì, mes mòrt, con la schin-a fòra da l‟eva, catlo-là ʼl mostro

dël mulin a l‟era ‟ncamin a marcandé ij pat glorios. Pòvra bestia, a

l‟avìa subit pensà Tavio, avzinand-se për capì che rassa ëd pèss ch‟a

fussa. Sensa penseje manch na mesa minuta Tavio a l‟era intrà ‟nt

l‟eva fin-a a jë snoj e a l‟avìa vist da bin che ‟l mostro dël mulin a

l‟era peui mach un normalissim luss, gròss des vòlte tant pì dël

normal, ma sèmper mach un pèss nostran, donca gnente dë special.

Cola bestia a l‟era pròpi ‟n fin ëd vita, la pel dla schin-a giumai sëccà

dal sol a l‟era pien-a ëd piaghe e ij tavan a fasìo marenda con ël

sangh ch‟a surtìa. La boca del luss as durbìa e ‟s sarava ampressa

coma për cheuje n‟ultim buf ëd fià e ‟n sij sò euj, mesi duvert e mesi

sarà, a l‟era già calaje ël vel ëd la mòrt. Tavio a l‟era sùbit campasse

a ambrassé col pèss coma për deje ‟d protession, a l‟avìa taparaje via

ij tavan e bagnaje la schin-a për rinfrëschelo. Pen-a che l‟eva frësca a

l‟avìa tacà a deje na frisa‟d soliev, ël luss a l‟avìa virà lë sguard anver

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 42 di 144

sò socoritor e con un fil ëd vos a l‟avià dije: «Mersì Tavio, quand

ch‟ i l‟heu sentì ij tò pass i chërdìa ch‟a fussa rivà mia ultima ora, ma

adess i son tranquil përchè gnun d‟àutri a l‟avrìa giutame»

A sente cole parole ël fieul a l‟era stàit con la boca duverta da lë

stupor:

«Ma com‟a rest-la sta stòria? Un luss ch‟a parla?»

«Tute le bestie a parlo» a l‟avìa rësponduje ël pèss «ma squasi gnun

òm a l‟è bon a scoteje. Mi a l‟è tant temp ch‟it conòss, tante volte i

l‟heu vardate pëschè sì arlongh, se i riesso a salveme i veuj pròpi

contete mia stòria e magara dete quaich consèj».

Col pèss a l‟era talment gròss che Tavio a sarìa mai stàit bon a

tramuvelo e dunca, bin antensionà a nen lasselo meuri, ël pëscador a

l‟era montà an sla pianca për aussé n‟ pòch la saraja e campé d‟eva

polida ant ël gòrgh. Për ël fiolin la saraja a l‟era tròp pèisa, ma chiel,

bele ch‟a fussa mach quaranta chilo bagnà, an ciamand-je agiut a tuti

ij sant dël paradis a l‟era riussì a tirela sù ‟d na mesa branca. Col

ësbrincc d‟eva ch‟a surtìa, pissand fin-a a metà dël gòrgh, pòch për

vòlta a l‟avìa daje neuva fòrsa al luss ch‟a finìa pì nen ëd ringrassiè

sò salvator.

I savrìa nen chi dij doi a fussa pì content: se ‟l mostro dël mulin, ch‟a

l‟avìa portà a ca la pel, o Tavio ch‟a l‟avìa giutalo.

Për tant che ‟l livel ëd l‟eva ‟nt ël gòrgh a rivèissa a la mzura sòlita a

sarìa passàje squasi tuta la neuit ma a-i era gnun-a spressa talment

tante a j‟ero le ròbe che ij dòi a l‟avìo da disse:

«Adess i son pròpi curios ëd conòsse toa stòria» a l‟avìa dit Tavio – e

lʼàutr:

«Bin i të spiegh, mi i son un luss na frisa stran përchè, a diferensa

dj‟àutri pèss ëd mia rassa, a mi ‟m pias nen mangé la carn»

«Ammi un luss vegetarian a l‟è peui mai sentisse»

«Sta brav e scota: coma ch‟it disìa a mi la carn am va pròpi nen giù,

dël rest a-i na son tanti pèss ch‟a mangio fruta e vërdura, ij quajastr a

ven-o mat për le cerese e për ël sambur e le carpe da sèmper as

pasturo con la melia, dunca i son peui nen tròp ëstran»

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 43 di 144

« Beh… tut finì i dirìa nen »

«Jj pëscador a son sèmper vnù mat a serché ‟d ciapeme butand an sël

lamon verm, sansùe, camolon dël bòsch e dla sira, ma a mi tute cole

ròbe a l‟han mai fame gòj a diferensa dij me cambrada che, un apress

a l‟àutr, pròpi për col motiv, a son finì ‟nt la cassaròla. Mi quaich

vòlta i son prù forame ij laver an mangiand ij bocon destinà a dj‟àutri

pëss, ma për boneur ël fil da pësca a l‟era fin e i son sèmper stàit bon

a s-cianchelo. Ant j‟ani i son chërsù fina dventé gròss coma ch it im

vëdde e ij tò colega a l‟han ancaminà ciameme “ël mostro dël

mùlin”».

«Che tulipan»

«Già, comsëssìa a l‟è n‟àutra la ròba amportanta ch‟i vrava dite: a

l‟han dame a mi la colpa se ambelessì a-i son pì nen le bestie ‟d na

vòlta, ma ij responsabij a son coj-là ch‟a l‟han acusame. Varda

arlong a la riva, che strì: a smija na dëscaria, tuti coj ch‟a l‟han

dl‟ëmnis da campé via a lo pòrto sí e donca a-i è pa da stupìsse se tuti

j‟animaj a son ëscapà. Fin-a ij pèss a son andà via, chi armontand la

corent, chi ‟n caland-la. Mi i son restà përchè i j‟era tròp gròss e

podìa nen viagé ‟nt j‟eve basse e ancheuj a sarìa stàit mé ultim di s‟it

fusse nen rivà ti a salveme».

Tavio a l‟era stàit tuta la neuit a scoté le paròle dël luss e quand che

a la primalba a l‟era artornà an pais, nopà d‟andé a ca, a l‟era

fërmasse an piassa a conté soa aventura. La pì gran part ëd la gent a

l‟era convinta che Tavio a fussa ‟nventasse la stòria dël mostro, ma

ant l‟istess temp col racont a l‟avìa faje capì a tuti che ij responsàbij

ëd col disastro, a la rian-a dël mulin, a j‟ero gnun d‟àutri se nen pròpi

lor. Pì Tavio a parlava pì ij sò amis e avzin ëd ca as convincìo ‟d

dovèj cambié stil ëd vita rispetand la natura coma ch‟is dev. Da col

di, pòch për vòlta la rian-a dël mulin a l‟è torna animasse con ij cant

dij passaròt e j‟arciam dle ran-e, ij pèss a son artornà ‟nt ël gòrgh

sicur coma ch‟a j‟ero ‟d podèj vive tranquij sota a la protession dël

luss vegetarian.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 44 di 144

Tavio për tuta la vita a l‟avìa seguità a fé soe stranesse e da antlora,

quand ch‟a passava dnans a l‟osto për andé a pësché, la gent a-j

cantava la solita canson, ma con na stròfa ‟d pì:

«Tavio ʼl pëscador

a seurt con soe tre cane,

nì dij pèss e nì dle ran-e

a pòrta manch a ca l‟odor

ma noi i soma bin content

che da chiel, con sò bel deuit,

i l‟oma amprendù, ant na sola neuit,

a rispeté ij pèss e l‟ambient ».

Luigi Lorenzo VAIRA

MOTIVASSION - A l‟é na Fàula, ma na Fàula dël Di d‟Ancheuj,

andoa ij personagi, Tavio „l Pëscador e „l sò amis ël Luss (pèss che

chiel andasìa a pësché sensa lamon) e dzortut l‟Autor, a l‟han

trasformala „n na FÀULA ECOLOGÌSTA ch‟a l‟ha, coma scasi tute

le Fàule la moral ch‟a dis che la “BIN e l‟ESSE TUT PËR J‟ÀUTRI”

a vagno. A peul esse che nen tut as peul chërdse. Ma a l‟é na

FÀULA, e pròpi bin scrita.

TRADUZIONE ITALIANA - Ottavio il pescatore

Questa è una storia che ha già un po‟ di anni, ma è tanto attuale che

potrebbe essere ambientata proprio adesso nei nostri paesi. Chiudete

dunque gli occhi ed ascoltate per bene la strana storia di Ottavio il

pescatore.

Ottavio era un ragazzino come tanti altri del suo paese, qualcuno diceva

che fosse un pochino inselvatichito, ma questo era dovuto solamente al

fatto che lui, di casa, abitava inuna cascinaabbastanza lontana e per quel

motivo, non avendo la possibilità di giocare con i compagni di scuola, si

era abituato a stare da solo. Sua mamma gli aveva dato quel nome curioso

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 45 di 144

perché dopo aver messo al mondo sette bambini ai quali aveva dato i nomi

di altrettanti parenti stretti, tanto dalla sua parte che da quella del marito,

non sapeva più come chiamarlo ed allora le era venuta in aiuto la levatrice

dicendo che poiché era l‟ottavo figlio sarebbe stato più che giusto

chiamarlo Ottavio. Agli occhi della gente quel ragazzino pareva un poco

strano perché, come abbiamo già detto, in mancanza di amici della sua

stessa età, ogni tanto parlava da solo o magari con il cane, altre volte

invece era lui a star zitto per ascoltare gli animali, come se questi

potessero veramente fare dei discorsi tra di loro. Ottavio aveva due grandi

passioni: una, l‟abbiamo già detto, erano le bestie, tutte le bestie che

Nostro Signore si era immaginato di creare, l‟altra era quella di andare a

pescare, come faceva suo nonno Gabriele che in gioventù era stato uno dei

migliori pescatori del circondario.

Sì, lo sò che queste due cose possono non andare d‟accordo tra di loro, ma

Ottavio, per non rischiare di far del male ai pesci, andava sempre a

pescare senza mettere l‟amo al fondo della lenza tanto a lui di portare a

casa il cestino pieno pieno non gliene importava nulla visto che la carne

proprio non la mangiava. Per Ottavio restare lì sul bordo del ruscello ad

osservare lo scorrere dell‟acqua ascoltando le canzoni fischiate dai passeri

accompagnate al gracidare delle rane, era una cosa che gli dava una pace

che diventa difficile spiegarla a parole. Lì, lungo la bialera Ottavio si

sentiva proprio un re, ma in effetti, a quelli che lo conoscevano non

proprio bene, quel ragazzino non sembrava tutto finito. Sua mamma faceva

per lui tutto ciò che sapeva, ma con tanti figli da accudire era un‟impresa

tutt‟altro che semplice. La gente del paese parlando di lui diceva:«strano è

strano di sicuro, speriamo almeno che crescendo non inizi poi a fare

qualche danno grave».

Alle volte quando il ragazzo passava di fronte all‟osteria, i clienti seduti lì

fuori iniziavano a canzonarlo nel solito modo:

«Ottavio il pescatore

esce con le sue tre canne

ma ne di pesci ne di rane

porta a casa manco l‟odore»

e giù una bella risata tutti quanti insieme, ma Ottavio continuava

tranquillo per la sua strada senza dare loro ascolto, sicuro com‟era che le

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 46 di 144

vere preoccupazioni fossero altre. In effetti proprio lui era stato uno dei

primi ad accorgersi che qualcosa nell‟ambiente non andava per il verso

giusto. Da un po‟ di tempo lungo il ruscello del mulino, dove una volta

c‟era ogni tipo di animale: dalle talpe ali scoiattoli, dalle lucertole ai

ramarri, pareva che fosse passata Caterina (la morte) a portasi via tutte le

creature nostranelasciando il posto a dei grandi topi grossi come cani che,

da quelle parti, nessuno aveva mai visto prima. Quei bei pesci che un

tempo si vedevano dalla passerella delle chiuse erano quasi tutti scomparsi

e quando l‟acqua era più limpida e consentiva di guardare fin in fondo

delle fosse più profonde, dove una volta passeggiavano nuvole di avanotti,

si vedeva solamente più dell‟immondizia gettata la da qualche disgraziato.

Perfino le rane che un tempo saltavano nell‟acqua a dozzine quando si

passava lungo quei sentieri, non c‟erano più. In compenso, se i pesci

parevano essere metà della metà, i pescatori si erano più che raddoppiati

per via della convinzione che proprio lì nel bacino del mulino, ci fosse un

pesce mostruoso, grande come un cavallo e che fosse proprio lui il

responsabile di tutta quella carestia. A quale razza appartenesse quel

pesce che mangiava tutte le altre bestie nessuno lo sapeva, ma riuscire a

catturare una creatura così e portarla in piazza era ciò che dava la carica

a tutti, anche se avevano un po‟ di timore nell‟ avvicinarsi al bacino. Tutte

le volte che qualcuno diceva di aver visto il mostro del mulino, comesi

erano abituati a definirlo, quel pesce diventava sempre più grande e

terribile. A dare ascolto a quei racconti, quel pesce sarebbedovuto essere

più o meno grosso quanto un coccodrillo con una bocca straordinaria

piena di denti aguzzi e pronta ad ingurgitare i pescatori in un solo

boccone. A quanti erano stati in grado di far mangiare la propria esca, il

mostro aveva portato via non solo il filo ed il galleggiante ma perfino

anche la canna. L‟unico che non aveva paura del mostro era Ottavio, che

non avendo mai fatto del male a nessuno non aveva neanche la

preoccupazione che qualcuno potesse farne a lui. Una sera, serrando la

canna con la mano destra e la cartella con la sinistra, Ottavio era partito

con destinazione il torrente del mulino, ben deciso a risolvere quel mistero.

Giunto sul posto lo spettacolo che si era presentato davanti agli occhi del

ragazzino gli aveva tolto il fiato dal dispiacere: i contadini avevano chiuso

l‟acqua per irrigare i campi e di qua dalle chiuse il torrente era quasi

completamente in secca. Nel bacino restava solo più un poco d‟acqua

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 47 di 144

sporca e puzzolente nella buca più profonda e lì, mezzo morto, con la

schiena fuoridall‟acqua, eccolo là il mostro del mulino stava per morire.

Povera bestia, aveva subito pensato Ottavio, avvicinandosi percapire quale

tipo di pesce fosse. Senza pensarcinemmeno mezzo minuto Ottavio era

entrato in acqua fino all‟altezza delle ginocchia ed aveva visto che il

famoso mostro non era altro che un normalissimo luccio, grosso dieci volte

più del normale, ma sempre solo un pesce nostrano, dunque nulla di

speciale. Quella bestia era proprio in fin di vita, la pelle della schiena

ormai seccata dal sole era piena di piaghe ed i tafani facevano merenda

con il sangue che ne usciva. La bocca del luccio si apriva e chiudeva in

fretta come per raccogliere un ultimo soffio d‟aria e sui suoi occhi

socchiusi era già calato il velo della morte. Ottavio si era subito gettato ad

abbracciare quel pesce come per dargli protezione, gli aveva scacciato i

tafani e bagnata la schiena per rinfrescarlo. Appena l‟acqua fresca aveva

iniziato a dargli un po‟ di sollievo, il luccio aveva girato lo sguardo verso

il suo soccorritore e con un filo di voce gli aveva detto:«Grazie Ottavio,

quando ho sentito i tuoi passi credevo che fosse giunta la mia ultima ora,

ma adesso sono tranquillo perché nessun altro mi avrebbe aiutato».

Nel sentire quelle parole il ragazzo restò con la bocca aperta dallo

stupore:

«Ma cosa sarebbe questa storia? Un luccio che parla?».

« Tutte le bestie parlano» gli aveva risposto il pesce « ma quasi nessun

uomo è capace di ascoltarle. Io è tanto tempo che ti conosco, tante vole ti

ho visto pescare qua, se riesco a salvarmi ti voglio proprio raccontare la

mia storia e magari darti un consiglio.

Quel pesce era talmente grande che Ottavio non sarebbe mai stato capace

di spostarlo e dunque, ben intenzionato a non lasciarlo morire, il pescatore

era salito sulla passerella per alzare un po‟ le chiuse e far entrare acqua

pulita nel bacino. Per il ragazzo la chiusa era troppo pesante, ma lui,

anche se era solamente quaranta chili bagnati, chiedendo aiuto a tutti i

santi del paradiso riuscì a sollevarla di una mezza spanna. Quel getto

d‟acqua che usciva schizzando fino a metà del bacino, poco per volta

aveva dato nuova forza al luccio che non la finiva più di ringraziare il suo

salvatore.

Non saprei chi dei due fosse più contento: se il mostro del mulino che

aveva portato a casa la pelle, oppure Ottavio che lo aveva aiutato. Perché

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 48 di 144

il livello dell‟acqua nel bacino arrivasse alla solita altezza sarebbe

trascorsa quasi tutta la notte ma non c‟era alcuna fretta talmente tante

erano le cose che i due avevano da dirsi:

«Adesso sono proprio curioso di conoscere la tua storia» aveva detto

Ottavio – e lʼaltro:

«bene ti spiego, io sono un luccio un poco strano perché, a differenza dei

miei simili, a me non piace mangiare la carne

«Ammi un luccio vegetariano non si era mai sentito».

«Sta bravo e ascolta: come ti dicevo a me la carne non va proprio giù, del

resto ce ne sono tanti pesci che mangiano frutta e verdura, i cavedani

diventano matti per le ciliege e per il sambuco e le carpe da da sempre si

nutrono di granturco, quindi non sono poi così strano».

«Beh… tutto finito non direi»

«i pescatori sono sempre impazziti cercando di catturarmi mettendo

sull‟amo vermi, sanguisughe, grossi tarli del legno e della cera, ma a me

quelle cose non mi hanno mai fatto gola a differenza dei miei compagni

che, uno dopo l‟altro, proprio per quel motivo sono finiti in pentola. Io

qualche volta mi sono forato le labbra mangiando le esche destinate a

degli altri pesci, ma per mia fortuna il filo era sottile ed io sono sempre

riuscito a strapparlo. Negli anni sono sono cresciuto fino a diventare

grande come mi vedi ora ed i tuoi colleghi hanno iniziato a chiamarmi “il

mostro del mulino”».

«Che tonti»

Già, comunque è un‟altra la cosa importante che volevo dirti: hanno dato

a me la colpa se qua non ci sono più gli animali di un tempo, ma i

responsabili sono quelli che mi hanno accusato. Guarda lungo la riva, che

schifo: sembra una discarica, tutti coloro che hanno dell‟immondizia da

buttar via la gettano qua e dunque non c‟è da stupirsi se gli animali sono

fuggiti. Perfino i pesci sono andati via, chi risalendo la corrente chi

andandovi a favore. Io sono rimasto perché ero troppo grosso per non

potevo viaggiare nelle acque basse ed oggi sarebbe stato il mio ultimo

giorno se non fossi attivato tu a salvarmi».

Ottavio era rimasto tutta la notte ad ascoltare le parole del luccio e

quando all‟alba era tornato in paese, invece di andare a casa, si era

fermato in piazza a raccontare la sua avventura. La maggior parte della

gente era convinta che Ottavio si fosse inventato la storia del mostro, ma

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 49 di 144

allo stesso tempo quel racconto aveva fatto capire a tutti che i veri

responsabili del disastro al ruscello del mulino non erano altri se non

proprio loro. Più Ottavio parlava più i suoi amici e vicini si convincevano

di dover cambiare stile di vita, rispettando la natura come si deve. Da quel

giorno, poco per volta, il ruscello del mulino era tornato a ad animarsi con

i canti dei passerotti ed il gracidare delle rane, i pesci fecero ritorno nel

bacino certi come erano di poter vivere tranquilli sotto la protezione del

luccio vegetariano. Ottavio per tutta la vita aveva continuato a fare le sue

stranezze e da allora, quando passava davanti all‟osteria per andare a

pescare la gente gli cantava la solita canzone, ma con una strofa in più:

«Ottavio il pescatore

esce con le sue tre canne

ma ne di pesci ne di rane

porta a casa manco l‟odore,

ma noi siamo ben contenti

che da lui, con il suo bel garbo

abbiamo imparato in una sola notte

a rispettare i pesci e l‟ambiente».

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 50 di 144

Terzo Premio ex-aequo

Mòrk

Stamatina a fà on frègg da galinasci, i sôn fin rèd. Sôn tut cargà dë

scighèra.

Èco ch‟al riva, finalment. Sôn content dë védal e igh salti ‟dòss. Lu

am dà na scarpà e am disa: «Stà giò, bastard». Mi i la sò che am

veura ben, anca se dij vòlti al dròva on bastôn.

Am ha portà come tuti ij matini ël mè pan mojà int l‟aqua, peu al va

via sul trator int ij camp. Mi i vorarii córagh drera për stà on pò

insèma a lu, ma la cadena l‟è cheurta e s‟i tiri a më stròssa. Ben, i

starò chì quaièt a fagh la guardia a la cassina… ma s‟al riva on

quaivun come i fò a córagh drera e mòrdagh ij ciapi s‟i sôn legà?

L‟è on quai dì ch‟a passa on camioncin con sù dò fiòli. Quand i hin

renta i raléntan e im salùdan. I sôn bajà on para ëd vòlti. I më sméan

mia dij làdar, ma l‟è mej mia fidass.

Ancheu cuj dò fiòli i hin gnù giò dal camioncin e im han gnù renta. I

hin cercà dë slongà na man su la mè tèsta. Mi igh hò fai vidé ij dent. I

hin dì ona paròla ch‟i sôn mai sentù: «Dài, i veuri dat ona carèssa, it

fò mia mal». Na carèssa? E cos l‟è? Quand Lu a slonga na man l‟è

për dam na tèca. Mi igh fò mia vidé ij dent a Lu. Lu am veura ben,

l‟è ‟l mè padrôn!

Cuj fiòli i végnan dë spèss a trovam. Im mètan ij man su la tèsta e su

la schena, ansi i devi dì ch‟am dispiasa gnanca on pò. Pecà che ‟l mè

padrôn al capissa mia col ch‟igh disi la sera quand al vegna a finì ij

lavor int la cassina. Am disa: «Piantla dë sguignì, bastard».

Ancheu cuj fiòli im l‟han combinà bèla. I hin rivà, i m‟han caressà

(eh, dèss i la sò cos hin ij carèssi!) e peu con na tinaja i hin tajà la

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 51 di 144

cadena e im han cargà sul camioncin. Mi im hò stremì e cercavi dë

scapà, i pensavi a Lu. Chissà stassera cos al farà sensa dë mi.

I m‟han portà int on pòst ch‟igh ciàman “stallo”. Mi i sò cos l‟è la

stala, ma stallo, mah... Peu i sôn capì. Alora: stallo l‟è on pòst indoa

a gh‟è na bèla cort granda, ‟gh è anca dij gat ch‟im guàrdan dë sbièss

ma mi i ghë stò a la larga. Peu agh è na dòna ch‟am dà da mangià dij

ròbi boni che mi i sôn mai sagià. I stò për prudensa int on cantôn, im

fidi mia dë cuj gat e peu i seguiti a pensagh a Lu, ël mè padrôn.

Cuj fiòli i hin gnù a trovam e im han fai ël bagn con l‟aqua tevia

parchè i hin dì ch‟igh hò ij trètli. L‟è la prima vòlta che i fò na ròba

insì. Dë sòlit i stò sota l‟aqua quand a piòva. Peu im han fai na

fotografìa e m‟han dì: «Va‟ ‟mè ti sè bèl, ti vedarè ch‟it trovoma on

padrôn comè ch‟as deva». Ma se on padrôn mi igh l‟hò già, parchè i

dévan trovàman on àltar? Mi igh hò pagura e scapi int ël mè cantôn,

a la larga d‟ij gat.

Ancheu l‟è fèsta. As fèrma davanti al cancèl na màchina rossa. A

vegna giò on òm e dò fiolini ch‟im córan incontra e cércan dë

brasciam sù. Mi im tegni la mè coa come sémpar in mès dij sciampi,

i sò mia cos l‟è sta novità. Ij fiòli i dìsan: «Papà, è bellissimo, dai

prendiamolo, è ancora più bello che in fotografia!» Col-lì ch‟i la

ciàman “papà” am carèssa e al disa ch‟a va ben. Im càrgan su la

màchina e im pòrtan int on pòst cont on giardin e con tanti vas pien

dë fior. L‟è gnù fòra d‟in cà na dòna e l‟è dì: «Òh tal-chì, l‟è pròpi

grassios, i sì già pensà come ciamal?». «Sì mamma, lo chiamiamo

Mork, l‟ha proposto il papà e noi siamo d‟accordo, ti piace?» Mi

intant im guardi in gir, agh è anca on àltar can. Am nasa on pò ël

dadrera, i nasi anca mi ël sò dadrera, l‟è mia come mi. Am disa:

«Ciao, mi i sôn la Lengi, i sôn na famèla ma fàt mia cèrti idei, che

tant it mòli gnenta. It han pià parchè l‟è mòrt ël mè amis, l‟è soterà

int ël cantôn dël giardin dova agh è ‟l boscôn dij reusi. Mi i mangiavi

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 52 di 144

pu dal dispiasé e i fasevi ‟pòsta a fà j‟eugg da can bandonà parchè i

vorevi compagnìa. E ti come tit ciami?» Mi, tut pien dë supa, igh hò

dì: «Im ciami Bastard». «Bastard... ah, ah, ah!… Ma va, toanaga, che

nòm l‟è? Ma ti rivi d‟la Mondurla? E peu as disa meticcio!». Mi i sôn

restà mal ma im l‟hò mia ciapà. Cos i në sò, ël mè padrôn m‟ha

sémpar ciamà Bastard!

In fond dël giardin agh è na raminà. Dadlà a stà na dòna che ij fiòli i

la ciàman nòna. Am veda e la disa: «E cos-chì al sarìa ël can neuv?

L‟è pròpi on bèl ësprusc-lôn!». Mi a m‟ha fai gnì ël fotôn, l‟hò

guardà mal e i sôn decidù ch‟l‟è antipàtica.

Ciombia com am piasa a stà chì! Agh è gnanca on gatasc ch‟am

rompa ij bali, ël giardin l‟è grand e mi i cori sémpar, l‟è insì bèl cor.

E peu i gieughi con la Lengi. Le a m‟ha dì ch‟l‟è on pò vigiòta e ‟gh

ha pu vòja dë cor, ma i ciciaroma sémpar e peu igh oma na cocia

pr‟una, ma mi i më ‟nfili sémpar int la soa insèma le, e anca s‟la

marmòta fà gnenta.

Tuti ij seri la mama la bagna ij fior con la daquadora. Agh n‟è tanti

ëd fior, mi i veuri jutala për fagh vidé ch‟i sôn content dë stà chì, ma

l‟ùnica manera ch‟i conossi l‟è alsà la sciampa e pissà. Për fagh na

sorpresa, prima ch‟la vegna cà da lavrà i pissi pussè ch‟i pòdi suj

fior. Sò mia parchè am disa ch‟as deva mia fà, ma mi tuti ij di i la fò.

Prima o dòpo la gnarà da capì ch‟i veuri jutala!

Ògni tant cola sbera dla nòna am ciama e am passa dij licardarii

travèrs la raminà. Mi i jë nasi, am vegna vòja dë mangiaj sùbit, ma

sicoma ch‟l‟è antipàtica, i la guardi, i guardi col ch‟am ha portà, im

giri, i alsi la sciampa e fò na pissadina; e im në vò ‟mè në spatusciôn

con la coa int l‟aria. Le ormai am ciama Pòrk... sò mia parchè. Però,

‟pena ch‟la gira j‟eugg i torni indrera e i lapi tut da sgordiatôn. Le am

disa: «Bèla la vita da can, nèh?»

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 53 di 144

I sôn chì da on pò dë temp. Ij fiolini i gieugan tanto insèma mi, im

móstran a dagh la sciampa, a stà setà e dij altri ròbi. Mi am piasa

dagh da trà. Im pòrtan in campagna a spass, mi i cori tut ësfolarmà, i

sôn mai ëstrach. Igh fò compagnìa a la Lengi, igh baji drera a tuti ij

gatasc ch‟i s-ciari. I bagni sémpar ij vas dij fior anca d‟invèrno, as sà

mai ch‟igh n‟han bisògn. La mè coa la stà sémpar drita voltà int

l‟aria ch‟am tira fina la pèl dël cu, i sò mia parchè i riesci mia a tegn-

la giò.

Ògni tant i fò on brut sògn. I sògni ch‟igh hò tanto frègg e ‟n quaidun

al riva cont on bastôn in man. Peu im disvegi visin a la Lengi, igh dò

na barlecada sul mus, le la bofa e peu anca le am barlèca ‟l mè mus.

Mah... sta vita da can ch‟la disa la nòna am dispiasa gnanca on pò,

ansi. Sta ‟tent ch‟a va fornì ch‟am diventa simpàtica anca le!

Mina MAZZOTTI

MOTIVASSION - A l‟é la stòria „d Mòrk, ch‟a l‟é un Can e a l‟é na

stòria coma ch‟a la ved ël Can. Ma a l‟é „dcò na conta scrita con na

serta ironìa mës-cià a la malinconia ch‟a dis che „l pì dle vòlte, l‟òm

a-i taca nen ant ël valuté lòn ch‟a penso le bes-ce. Bela e bin scrita la

Lenga Piemontèisa.

TRADUZIONE ITALIANA - Mòrk

Stamattina fa un freddo da intirizzire, mi sento mezzo congelato. Sono tutto

carico di brina.

Ecco che arriva, finalmente. Sono contento di vederlo e gli salto addosso.

Lui mi allunga un calcio e mi dice: «Stai giù, bastardo!». Io lo so che mi

vuole bene, anche se a volte usa un bastone. Mi ha portato come tutte le

mattine il mio pane inzuppato nell'acqua, poi se ne va via sul trattore per i

campi. Io vorrei corrergli dietro per stare un po' con Lui, ma la catena è

corta e se la tiro mi strozza. Beh, starò qui tranquillo a far la guardia alla

cascina, ma se arriva qualcuno come faccio ad agguantargli le chiappe se

sono legato?

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 54 di 144

Da qualche giorno passa un furgone con due ragazze, quando sono vicine

rallentano e mi salutano. Io ho abbaiato un paio di volte. Non mi sembrano

ladre, ma è meglio non fidarsi.

Oggi quelle ragzze sono scese dal furgone e si sono avvicinate. Hanno

cercato di allungare una mano sulla la mia testa. Io ho digrignato i denti.

Hanno detto una parola che non conosco: «Dai voglio farti una carezza,

non ti faccio male». Una carezza? E cosa sarebbe? Quando Lui allunga

una mano è per colpirmi. Io non faccio vedere i denti a Lui. Lui mi vuole

bene, è il mio padrone!

Quelle ragazze vengono spesso a trovarmi. Fanno scivolare le mani sulla

mia testa e la schiena e devo dire che non mi dispiace affatto. Che peccato

che il mio padrone non capisca quello che tento di dirgli alla sera, quando

viene a finire i lavori in cascina. Mi dice: «Piantala di guaire, bastardo!».

Oggi quelle due ragazze me l'hanno combinata bella. Sono arrivate, mi

hanno accarezzato (eh ora so cosa sono le carezze) e poi con una tenaglia

hanno tagliato la catena e mi hanno caricato sul furgone. Io mi sono

spaventato, ho cercato di scappare, pensavo a Lui. Chissà stasera cosa

farà senza di me.

Mi hanno portato in un posto chiamato “stallo”. Io so cos'è una stalla, ma

“stallo” mah. Poi ho capito. Allora: “stallo” è un posto dove c'è un bel

cortile grande, ci sono anche dei gatti che mi guardano di sbieco ma io gli

sto alla larga. Poi c'è una donna che mi dà da mangiare cose buone che io

non ho mai assaggiato. Me ne sto per prudenza in un angolo, non mi fido

di quei gatti e poi continuo a pensare a Lui, al mio padrone.

Quelle ragazze sono venute a trovarmi e mi hanno fatto il bagno con

l'acqua tiepida perchè hanno detto che sono tutto inzaccherato. E' la prima

volta che faccio una cosa così. Di solito sto sotto l'acqua quando piove. Poi

mi hanno fatto una fotografia e mi hanno detto: «Guarda come sei bello,

vedrai che ti troveremo un padrone come si deve!». Ma se un padrone io

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 55 di 144

ce l'ho già perché devono trovarmene un altro? Io ho paura e scappo nel

mio angolo, alla larga dai gatti.

Oggi è domenica. Si ferma davanti al cancello una macchina rossa.

Scendono un uomo e due bambine che mi corrono incontro e cercano di

abbracciarmi. Io tengo come sempre la mia coda in mezzo alle zampe, non

so cosa sia questa novità. Le ragazze dicono: «Papà è bellissimo, dai

prendiamolo! È ancora più bello che in fotografia!». Quello che chiamano

papà mi accarezza e dice che va bene. Mi caricano sulla macchina e mi

portano in un posto con un giardino e con tanti vasi pieni di fiori. E' uscita

di casa una signora e ha detto: «Oh eccolo, è proprio carino! Avete già

pensato al nome?». «Sì mamma, lo chiamiamo Mork. L'ha proposto il papà

e noi noi siamo d'accordo. Ti piace?». Io intanto mi guardo in giro, c'è

anche un altro cane. Mi annusa un po' il didietro, annuso anch'io il suo

didietro, mi accordo che non è come me. Mi dice: «Ciao, io sono la Lengi,

sono una femmina ma non farti idee bislacche tanto non ti mollo niente. Ti

hanno preso perchè è morto il mio amico, è sepolto in quell'angolo del

giardino dove c'è il cespuglio di rose. Io non mangiavo più dal dispiacere e

facevo apposta a fare gli occhi da cane abbandonato perché volevo

compagnia. E tu come ti chiami?». Io, tutto ogoglioso, gli dico: «Mi

chiamo Bastardo!». «Bastardo? Ahahah... ma va sciocco che nome è? Ma

arrivi dalla Mondurla? E poi si dice meticcio!». Io ci sono rimasto male

ma non mi sono offeso. Che ne so, il mio padrone mi ha sempre chiamato

Bastardo!

In fondo al giardino c'è una recinzione. Dall'altra parte abita una donna

che le ragazze chiamano nonna. Mi vede e dice: «E questo sarebbe il cane

nuovo? Beh, è proprio un bello sgorbietto!». A me è venuto il nervoso, l'ho

guardata male e ho deciso che è antipatica.

Oh come mi piace stare qui! Non c'è neanche un gattaccio che mi rompe le

scatole, il giardino è grande e io corro sempre, è così bello correre! E poi

gioco con la Lengi. Lei mi ha detto che è un po' vecchiotta e non ha più

voglia di correre, ma chiacchieriamo sempre e poi abbiamo una cuccia per

ciascuno, ma io mi infilo sempre nella sua con lei e anche se borbotta a me

non importa.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 56 di 144

Tutte le sere la mamma bagna i fiori con l'annaffiatoio. Ce ne sono tanti di

fiori, io voglio aiutarla per farle vedere che sono contento di stare qui, ma

l'unico modo che conosco è alzare la zampa e fare pipì. Per farle una

sorpresa, prima che lei torna dal lavoro faccio più pipì che posso sui fiori.

Non so perché mi dice che non si deve fare, ma io tutti i giorni lo faccio.

Prima o poi capirà che la voglio solo aiutare!

Ogni tanto quella nonna scorbutica mi passa delle golosità attraverso la

recinzione. Io annuso, mi verrebbe voglia di divorare tutto subito, ma

siccome mi sta antipatica, la guardo, guardo quello che mi ha portato, mi

giro, alzo una zampa e faccio una pisciatina e me ne vado con aria

baldanzosa e la coda rivolta in alto. Lei ormai mi chiama Pork... non so

perché. Poi, appena non mi vede, torno e mangio tutto in gran fretta. Lei

mi dice: «Bella la vita da cani, vero?».

Mi trovo qui da un po' di tempo. Le bambine giocano tanto con me, mi

insegnano a dare la zampa, a stare seduto e altre cose. A me piace

obbedire. Mi portano in campagna a passeggio, io corro nei campi come

un forsennato, non mi stanco mai. Faccio compagnia alla Lengi, abbaio a

tutti i gattacci che vedo. Annaffio regolarmente i vasi dei fiori anche in

inverno, non si sa mai che ne abbiano bisogno. La mia coda sta sempre

così dritta rivolta verso l'alto che mi tira persino la pelle del mio didietro,

non so perché non riesco a farla rimanere giù.

Ogni tanto ho un incubo. Sogno che ho tanto freddo e qualcuno arriva con

un bastone in mano. Poi mi sveglio vicino alla Lengi, le do una leccata sul

muso, lei sbuffa e poi anche lei mi lecca il muso.

Mah... questa vita da cani come dice la nonna non mi dispiace per niente,

anzi. Sta a vedere che mi diventa simpatica anche lei!

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Terzo Premio ex-aequo

La cita ch’a seugnava ‘l mar

Mariòta a l‟avìa des agn, na cita un po‟ genà ma svicia, dossa,

ubidienta, motobin tacà a soa mare.

Tuti ij des agn ëd soa vita, a l‟ha passaje a sò paisòt andova ch‟a l‟é

nassùa, antrames a le colin-e dle Langhe, lì a l‟ha tanti amis, a van a

scòla „nsema, a gieugho, as amuso sempe sensa pretèise, ant le strà o

drinta a le cort, come për esempi stërmesse trames na stala e l‟autra o

giù për quàich vigna. As contentavo „d pòch ij cit d‟anlora. Sò mond

a l‟era tut lì.

Col ann, finìa la scòla a l‟é capitàje na còsa diferenta.

Mariòta a va a scòla pijé la pagela, a torna a ca contenta da nen

chërde, a tocava „l cel con un dil “I son passà!!!” a l‟era „mportant

col ann-lì esse promòssa përchè a passava da la scòla elementar a la

scòla superior. La mama anlora a i dà la bela neuva: Vist ch‟it ses

stàita brava, it ses vagnate na bela vacansa, la sman-a ch‟a-i ven it

vade al mar, an colònia.

Ëd sicur la mama a lo savìa già ch‟a sarìa stàita promòssa, parèj a

l‟avìa prenotà la colònia, ma a l‟avìa spetà a dijlo dòp d‟avèj vist la

pagela.

A-i riva „l moment ëd parte, col di d‟istà a l‟é stàit për Mariòta un

di màgich, da nen dismentiè; a stasìa për parte vers “ Marina di

Massa!!” A l‟era contenta me „n pocio bele se un pò sagrinà; a l‟era

la prima vòlta ch‟a lassava soa ca e ij sò, a l‟era la prima vòlta ch‟a

l‟avrìa vist ël mar, a l‟era la prima vòlta ch‟a montava „dzora un

treno, për chila a l‟era tut na prima vòlta.

Cola matin bonora, „nsema a soa mare a pàrt con la coriera „d ses

ore vers Turin. A rivo dëdnans a un palass stragròss con ëd gròsse

vedrià, quaidun a-j dis ch‟a l‟è palass esposission, esposission ëd

còsa a lo sa nen, ma a-j „nteressa nen savèjlo, a l‟era talment su „d gir

a vëdde tut col tran-tran ëd viture, gent, coriere, a-i rivava „d cit da

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tut ël Piemont: con ël tranvaj con la vitura, na confusion da fesse

vèn-e le baluchëtte.

Dòp avèj vestì ij cit con na muda, tuti l‟istess, brajëtte celest e

majëtta bleu, a l‟han butàje a squadre da vint cite e vint cit e peui con

le coriere a l‟han portaje a la stassion ëd Porta Neuva.

Là a- i era già „l treno ch‟a spetava, longh con tanti vagon, a

smijava un serpent ëd tòla con tante fnëstre. Mariòta a l‟era ancòra

cita, a l‟avìa mai vist un treno ver, a riessìa nen a capì coma ch‟ a

fèissa „l treno a core „dzora cole doe bare „d fer.

Dòp d‟avèj pijà pòst ant ij vagon, tuti ij matòt a comenso a tiré giù

ij finestrìn për saluté le mare e ij pare ch‟a l‟avìo compagnaje, a-i era

chi a piorava, chi ch‟a grignàva, chi ch‟a crijàva. Mariòta a savìa nen

se pioré o rije, soa mare a seguitava a „rpetje dë sté pasia, a l‟avrìa

scrivuje tante litre e chila, a l‟avrìa rësponduje con na bela cartolin-a

ch‟as vëddìa „l mar.

Andrinta soa testa „d cita tutun Mariòta a pensava fastudià: ma mia

mama a conòss mia adrëssa dël mar? “Ma sicur ch‟a lo sa, a l‟avìa

dàjlo la magistra „d soa squadra!”

Parèj dòp un temp ch‟a smijava „d pì nen finì, ël treno as bogia,

prima pian peui sëmpre pì fòrt.

A rivo a la stassion ëd “Massa”, peui con le coriere a-j pòrto a

“Marina di Massa”. Maramam che s‟avzin-o a la colonia, as

comensa a vëdde sponté da dré le ca e ij pin la tor bianca, granda con

tanti përtus nèir, a j‟ero le fnëstre, da dré la tor na distèisa bleu ch‟as

bugiava, a l‟era „l mar!.

Mariòta a resta „d bòsch con ël nas piantà ant ël véder ëd la coriera.

A l‟avìo spiegajlo coma a l‟era „l mar, a l‟avìa „dcò vistlo an cartolin-

a e quàich vòlta a lo seugnava ma, àora ch‟a „l l‟avìa lì dëdnans a

j‟eui a l‟era restà sensa paròle ant ël vëdde vàire eva a podìa essie ant

ël mar.

A smijava fussa tranquila ma, an sò cheur a-i era agitassion e gòj, a

vëddìa nen l‟ora d‟andé davzin a col eva salà ch‟a stasìa mai

fërma, sëmpre an moviment e …..tochela.

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Cand ch‟a l‟han fàit monté tuti an le stànsie a l‟era giumai dòp

mesdì tard, ma a-i era ancora „l sol, le giornà d‟istà a son longhe.

Mariòta a vàrda fòra dla fnëstra ch‟a l‟era pròpi aranda sò let, a stà lì

ambajà a vardé „l mar. Col mar ch‟a l‟avìa tant sustà e seugnà. Le

onde a s‟aussavo as corìo d‟apress, a fasìo na s-ciuma bianca e peui a

meurìo contra jë scheuj o „n sla riva, „dzora a cola riva che, al dì

apress le magistre a l‟avrìo portàje a gieughe.

Dòp d‟avèj assegnà a ognidun un let, con linseuj candi e coèrta a

righe bianca e celest, con aranda un cit tàulin da neuit andova podèj

buté le còse personaj, a l‟han dije d‟arposesse des minute che peui, a

dovìo prepàresse per la sin-a ma, ëd bot an blan a s‟anvisca „l

micròfon, na vos a comensa a ciamé ëd nom ëd cit, ëdcò col ëd

Mariòta.

Tut sùbit Mariòta a së sbaruva a sentisse ciamé, ma la magistra la

càlma disendje: “it l‟has nen da fastudiete, a veulo mach conòss-te „d

person-a”. Tra „d chila Mariòta a pensa: “ma përché mach mi e mie

cambrada nen?”.

Combin sta còsa dròla, a comensa a calé giù ëd corsa „l coridor dla

tor ch‟a virava „n tond coma na sòtola, a riva an fond, a-i era già na

desèn-a „d cit butà an fila për doi da na madama vestìa „d bianch.

Tut an torn a-i era n‟aria dròla, Mariòta a vëdd che tuti ij cit a

l‟avìo an sla facia „d pontìn ross, ëd sicur a-j j‟avìa „dcò chila, ma a

podìa nen vëddje.

Parèj an fila për doi a-j pòrto „ndrinta a na gròssa stansia con tanti

let e lì a-j ten-o për tut ël temp ëd la vacansa.

Për maleur a-i era n‟epidemìa „d varicella e lor a son piàss-la tuti,

„dcò Mariòta.

Parèj për col ann, nen mach a l‟ha nen podù toché l‟eva del mar, ma

gnanca vëddlo.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 60 di 144

La neuit però lo sentìa, le onde ch‟a s‟alvavo ch‟as bassavo, a s-

mijava ch‟a la cunéisso con col romor sord, tutun a podìa

anmaginelo coma s‟a l‟avèissa vistlo da la fnëstra dla tor.

Ël di anans ëd torné a ca, la madama vestìa „d bianch, ch‟a l‟era

afessionasse a Mariòta; cola cita brava, ch‟as lamentava mai, ma che

sovens a piorava dë scondion, an silensi, a-j pòrta na bela cuchija

che, butandla d‟avzin a l‟orija as sentìa „l mar.

Mariòta cand a l‟è rivà a ca, a l‟ha fàje cadò a soa mare disendje:

scota mama, drinta costa cuchija as sent ël romor dël mar! pròpi

coma lo sentìa mi, tute le neuit da mé let d‟ospidal.

Maria Teresa TRIBOLO

MOTIVASSION - Scritura spòtica e frësca për conté lòn ch‟a

preuva na masnà quandi ch‟a ved SÒ SEUGN andé „n malora. Bin

riussìa e bin scrita.

TRADUZIONE ITALIANA - La bimba che sognava il mare

Maria aveva dieci anni, una bimba timida ma sveglia, dolce, ubbidiente,

molto affezionata a sua mamma.

Tutti i dieci anni della sua vita, li ha passati al suo paese natìo, in mezzo

alle colline delle Langhe, dove ha tanti amici, vanno a scuola insieme,

giocano e si divertono senza pretese nelle strade o dentro i cortili, come

per esempio giocare a nascondino tra una stalla e l‟altra o giù per qualche

vigna. Si accontentavano di poco i bambini di allora. Il loro mondo era

tutto lì.

Quell‟anno, finita la scuola è successa una cosa diversa.

Maria va a scuola a ritirare la pagella, torna a casa contenta più che mai,

toccava il cielo con un dito “Sono promossa!!”, era importante quell‟anno

in quanto sarebbe passata dalla scuola elementare alle superiori. La

mamma allora le da la bella notizia: “visto che sei stata brava, ti sei

guadagnata una bella vacanza, la settimana prossima vai al mare, in

colonia”.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 61 di 144

Di sicuro la mamma lo sapeva che sarebbe stata promossa, aveva infatti

già prenotato la colonia, ma aveva aspettato a dirglielo dopo aver visto la

pagella.

Arriva il momento di partire, quel giorno d‟estate è stato per Maria un

giorno magico da non dimenticare, stava per partire verso Marina di

Massa! Era contenta… di più, contentissima, ma nello stesso tempo un po‟

dispiaciuta; era la prima volta che lasciava la sua casa e i suoi genitori,

era la prima volta che avrebbe visto il mare, era la prima volta che saliva

sopra un treno, per lei era tutto una prima volta.

Quel mattino all‟alba, assieme a sua mamma parte con la corriera verso

Torino. Arrivano e si trovano davanti ad un palazzo enorme con grandi

vetrate, qualcuno le dice che quello era “Palazzo Esposizioni”, esposizioni

di cosa non lo sa, ma non gli interessa saperlo, era talmente su di giri a

vedere tutto quel tran-tran di macchine, gente, corriere, arrivavano

bambini da tutto il Piemonte con il bus, con le macchine, una confusione

da far girare la testa.

Dopo aver vestito tutti i bambini con una divisa tutti uguali, pantaloncini

celeste e maglietta blu, li hanno messi a squadre da venti bimbe e venti

bimbi, poi con le corriere li hanno portati alla stazione di Porta Nuova. La

c‟era già il treno che li aspettava, lungo con tanti vagoni, assomigliava ad

un serpente di latta con tante finestre. Maria non aveva mai visto un treno

dal vivo, non riusciva a capire come facesse quel treno a correre sopra a

quelle due barre di ferro.

Dopo aver preso posto nei vagoni, tutti i bambini incominciano a tirare

giù i finestrini per salutare le mamme e i papà che li avevano

accompagnati, c‟era chi piangeva, chi rideva, chi gridava, Maria non

sapeva se piangere o ridere, sua mamma continuava a ripetergli di stare

tranquilla, le avrebbe scritto tante letterine e lei le avrebbe risposto con

cartoline dove si vedeva il mare.

Dentro sua testa di bambina tuttavia Maria pensava preoccupata: “ma

mia mamma lo sa il mio indirizzo del mare?, ma certo che lo sa, glielo

aveva dato la maestra della sua squadra!”. Così dopo un tempo che

sembrava non passare mai, il treno comincia a muoversi, prima piano, poi

sempre più forte.

Arrivano alla stazione di Massa, poi con le corriere li portano a Marina

di Massa. Man mano che si avvicinano alla colonia, s‟incomincia a

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 62 di 144

intravedere da dietro le case e i pini la torre bianca, grande, con tanti

buchi neri, erano le finestre, dietro la torre una distesa blu che si muoveva,

era il mare.

Maria resta senza fiato con il naso piantato nel vetro della corriera.

Glielo avevano spiegato come era il mare, l‟aveva visto anche in cartolina

e qualche volta lo aveva sognato ma, ora che lo vedeva veramente e lo

aveva lì davanti agli occhi, resta senza parole nel vedere quanta acqua

poteva contenere il mare…

Sembrava tranquilla ma, nel suo cuore c‟era agitazione e contentezza,

non vedeva l‟ora di andare vicino a quell‟acqua salata che non stava mai

ferma, sempre in movimento e….toccarla.

Quando hanno fatto salire tutti nelle rispettive camerate, era già

pomeriggio tardi ma, c‟era ancora il sole, sono lunghe le giornate d‟estate.

Maria guarda fuori dalla finestra, che era proprio vicino al suo letto e

resta incantata a guardare il mare. Quel mare che aveva tanto sospirato e

sognato. Le onde si alzavano, si correvano dietro, facevano una schiuma

bianca e poi morivano contro gli scogli e sulla spiaggia, su quella spiaggia

dove l‟indomani le maestre li avrebbero portati a giocare.

Dopo aver assegnato a ognuno il proprio letto, con lenzuola candide, una

coperta a righe bianca e celeste, vicino ognuno aveva un tavolino da notte

dove poter riporre le cose personali, hanno ordinato di riposarsi dieci

minuti, dopo di che avrebbero dovuto prepararsi per la cena ma, di punto

in bianco si accende un auto-parlante, una voce comincia a chiamare nomi

di bambini, anche quello di Maria.

Tutto subito Maria si spaventa nel sentirsi chiamare, la maestra la

tranquillizza dicendole: “non ti preoccupare, vogliono solo conoscerti di

persona”, tra se Maria pensa: “ma perché solo me e i miei compagni no?”

Nonostante questa cosa strana, incomincia a scendere di corsa il corridoio

della torre che girava tutto intorno come una trottola, arriva in fondo,

c‟erano già una decina di bambini messi in fila da una signora vestita di

bianco.

Si respirava un‟aria strana, Maria vede che tutti i bambini avevano dei

puntini rossi in faccia, sicuramente li aveva anche lei ma, non poteva

vederseli. Così in fila per due li portano in una grande stanza con tanti letti

e lì ci restano per tutta la durata della vacanza.

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Sfortunatamente c‟era un‟epidemia di varicella e loro se la sono presa

tutti, anche Maria.

Così per quell‟anno, non solo non ha potuto toccare l‟acqua del mare,

ma neanche vederlo. La notte però lo sentiva, le onde che si alzavano si

abbassavano, sembrava la cullassero con il loro sordo rumore, tuttavia

poteva immaginarlo come se lo avesse visto dalla finestra della torre.

Il giorno prima di tornare a casa, la signora vestita di bianco, che si era

affezionata a Maria, quella piccola brava, che non si lamentava mai ma,

che sovente piangeva di nascosto in silenzio, le porta una conchiglia che,

mettendola vicino all‟orecchio si poteva sentire il mare.

Maria appena arrivata a casa, la regala a sua mamma e le dice “ascolta

mamma, dentro a questa conchiglia si sente il mare! Proprio come io lo

sentivo tutte le notti dal mio letto d‟ospedale!”

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SEGNALAZIONI DI MERITO

Ёl faudalin ëd Natàlia

An mérit al rapòrt ch‟a-i é ancor adess tra mi e Natàlia, a fà mal fé

definine la natura, se nen arcorend a në schema codificà an mia testa,

ch‟i dòvro për separé le person-e ch‟i l‟hai sempe daje dël ti da

j‟àutre, con le quaj, për rivé a l‟istess livel ëd confidenza, a l‟é

anvece andame pì ʼd temp. Aponto për lòn, Natàlia a aparten a la

categorìa dle prime e i savrìa gnanca dì quand che nòsta vicenda

uman-a a sia ancaminà – e a podrìa nen esse diversament – dal

moment che an prinsipi a j‟ero conossusse nòsti nòno, peui nòsti pare

e mare e, a la fin, noi ch‟i soma nà a Moncalé, ʼnt l‟istessa borgà na

stanten-a d‟agn fa.

An mes a le tante còse ch‟a l‟han vist-ne ansema, le scòle elementar

a son ëstàite, ëd sicur, l‟element sostansial, ël pì formativ, un temp

seren ëd la vita ch‟i l‟oma passà sota l‟ala protetriss – ma severa! –

ëd na straordinaria figura ʼd seuta coma la magistra Ricci, che për noi

a l‟era semplicement la Signorina. Për gionta, combin ch‟i fusso tui

costumà a parlé piemontèis, sia tra compagn che an famija, quand

ch‟i fasìo riferiment a chila i seguitavo ancor sempe a definila an sta

manera-sì – sensa gnun-e tradussion an nòsta lenga mare – e tal a l‟é

restà ʼnt le memòrie d‟ognidun, contut ch‟a-i sia pì nen da tanti ani.

Ёd col perìodo-là i conservo na serie ʼd lìmpid arcòrd, un dij quaj –

purtròp për mì, assolutament indelébil! – a riguarda giustaponto

Natàlia e a l‟é capità ʼnt ël 1956, quand ch‟i j‟ero an tersa elementar.

Se, fin-a an seconda, i l‟avìo avù tuti l‟òblig ëd butesse un faudalin

nèir, con al colèt na gala bleuva – ch‟a costituija l‟ùnica blaga andrin

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a na divisa motobin severa – da col ann-lì, noi mas-ciòt, i l‟oma dovù

molé sto vestiari për caussé na maja color bleu scur, con gropà al còl

doi fiochèt ëd l‟istessa tinta. Le cite, anvece, a j‟ero stàite obligà a

baraté ʼl faudalin nèir con un bianch, conservand però ancor sempe la

medesima gala.

Antlora, për scrive, as dovrava na piuma ʼd bòsch, con un piumin

ch‟a vnisìa anfilà an ponta coma na baionëtta. Sto piumin a podìa

avèj le forme pì diferente, contut che ël pì comun a fussa col-lì dla

Mòle, ciamà parèj përchè a smijava ʼn pò a la Mòle Antonelian-a.

Con na certa frequensa a andasìa bagnà ʼnt un caramal, ancastrà

andrin a ʼn përtus ricavà an sël bòrd dël banch anté che jë scolé a

j‟ero sistemà. S‟as vorìo evitesse ʼd bej pastiss, sta pratica a andasìa

fàita con un pò ʼd deuit e – prima d‟arpijé a scrive – a ventava sopaté

la piuma, për liberé ʼl piumin dal liquid ëd tròp. L‟operassion a

comportava ʼd fé torna robaté na part ëd l‟inciòstr ant ël caramal, a

fussa nen che ij faudalin imacolà dle cite a j‟ero tròp bianch për nen

costituì n‟iresistìbil tentassion… Ёd conseguensa, cole che a l‟avìo ʼl

maleur d‟esse setà dnans a chèiche gagno maléfich, a-j capitava

sovens ëd trovesse ʼl faudalin macià ëd minùscole – ma motobin

evidente! – macëtte scure. E sicoma as dasìa ʼl cas che Natàlia a

l‟avèissa giusta mi daré ʼd chila, a l‟é pròpi stàita sta postassion

scarògnà la càusa ʼd n‟autèntich cataclisma.

La tragedia a l‟é concretisasse la vòlta che, antant ch‟i j‟ero ampegnà

ʼnt la risolussion dʼun problema, mi – convint ëd nen esse vist – i

l‟avìa combinà ëd dovré la piuma come n‟aspersòri, con ël propòsit

ëd benedì la schin-a ʼd mia amisa. Quand ch‟i son ancorzume d‟esse

stàit bëccà a l‟era oramai tròp tard përchè la Signorina, molà la

càtedra, a l‟era già ancaminasse anvers mi coma na furia e con në

sguard ëf feu ch‟a lassava presagì gnente ëd bon. Na vòlta ch‟a l‟é

rivame a tir, a l‟ha fàit che ambrancheme n‟orija e, sensa dì na

paròla, a l‟é butasse a tirela për ansù fin ch‟i son stàit obligà a

drisseme; peui, quand ch‟a l‟é rendusse cont ch‟im resìa mach pì an

sla ponta dij pé, a l‟ha rabastame daré dla lavagna. An col moment-lì

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 66 di 144

i l‟hai sentù Natàlia che, intuì lòn ch‟a l‟era capitaje, a l‟avìa tacà a

artrosseme:

“At ëstà pròpi bin, parèj i t‟ampare për n‟àutra vòlta!”.

Ma se chila a l‟ha peui përdoname squasi sùbit, autërtant as peul nen

disse dla magistra. Se, për col di-là, a l‟era limitasse a feme sté an

castigh fin-a a la fin ëd le lession, dal di dòp, tute le vòlte ch‟a-j

portava ʼl quadern për la coression dël travaj ch‟a l‟avìa dane da fé a

scòla, chila, con un gest rabios, a lo scaraventava ʼl pì lontan

possìbil. E vassavèj fin-a a quand ch‟a sarìa andàit anans sto balèt

pervers, se n‟incident casual e baravantan – però pì che tut

baravantan! – a fussa nen antervenù a decretene la fin. Pitòst distant

da la càtedra, a-i era ʼn sigilin pien d‟eva andrin al qual la Signorina,

come se mè quadern a fussa stàit un balon da basket – pluf! – a l‟ha

realisà ʼn canestr da 3 pont.

“Oh, povera me!”, a l‟ha antlora bërbotà, a mesa vos, la magistra

costernà.

Antant a l‟era ancaminasse anvers ël sigilin, con l‟istessa veemensa

ëd quant ch‟i l‟avìa vist-la vnì-me ancontra chèiche di prima. Dòp

avèj tirà fòra ël malcapità da l‟ùmid, a l‟ha provà a suvelo pàgina për

pàgina, ma l‟ùnich cambiament apressàbil a l‟é stàit col-lì ʼd vëdde

sò fassolèt bianch rigà da na serie dë striadure bluastre.

Constatà ʼl faliment dë st‟operassion, a l‟ha pensà bin ëd posé ʼl

quadern an sij sercc ëd ghisa dla stuva, ant la speransa che ʼl calor

dël feu a fèissa svaporé l‟umidità. Ma gnanca sto second tentativ a

l‟ha produvù l‟efet che la Signorina a sarìa augurasse përchè, na

vòlta conclusa l‟operassion, ògni feuj a l‟avìa aquistà na soa

ondolassion che, diferensiand-lo da j‟àutri, a contribuija a

scompaginene tut l‟ardriss. Ёl pòr dësgrassià, ëd pregévol carta

Fabrian – con an sla cuvertin-a la riprodussion ëd l‟autoritrat a

sanguigna ʼd Leonardo da Vinci – a la fin as presentava gonfi e

dësforma come ʼn babiass ëd gròsse dimension. An pòche paròle,

adess, dnans a nòsti euj, as presentava ʼn quàder motobin disastros!

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 67 di 144

Parèj, ant ël mentre che mia magistra a sopatava la testa dëscoragià,

mi – contut ch‟im pijèissa bin varda ʼd nen tradì la pì cita emossion –

i sentìa ʼl diavlèt, che andrin a mi a stasìa sempe con j‟orije drite,

sautërlé alégher e sghignassé ampertinent…

E chiel a n‟avìa tute le rason d‟arlegresse, përché col bagn-lì a l‟era

an camin ch‟a procurava ʼn benéfich efet, ch‟a l‟avrìa finì për ëdcò

decreté mia arvangia. Istess come ʼn temporal che – providensial! – a

ven-a a dëstissé ʼn feu, ant l‟istessa manera a l‟ha smorsà tui j‟ardor

ëd mia insegnant. Ёl dì dòp a l‟é rivasne a scòla con un quadern neuv

catà da chila, anté ch'i l‟hai podù arcopié tut lòn ch‟a-i era andrin a

col-lì andàit a meuj: n‟operassion destina a risòlv-se an na matinà.

Peui tra mi e la Signorina a l‟é tornaje – ugualment restaurà –

l‟abitual armonìa.

Ma la question, da bon ëd vità o ëd mòrt, a l‟é che mia mama a sia

sempe stàita a lë scur ëd tut. Sossì a l‟é rendusse possibil dal moment

che ʼl famos quadern i lo dovravo mach ant ij travaj an classe, e le

famije a podìo vëdd-lo unicament durant ij colòqui con la magistra,

opura a la fin ëd l‟ann quand ch‟a vnisìa portà a ca. E pròpi cola-lì a

l‟é stàita mia salvëssa.

Dësnò, na vòlta che mia mama a l‟avèissa savù come a l‟era andàita

la question, pitòst che andé da la Signorina a lamentasse dël

tratament riserva a sò pòr cit – come a farìo tante mare dël di

d‟ancheuj – àutr che na tirada d‟orije… Na tirada d‟orije a sarìa stàita

gnente an confront a jë sgiaflonass ch‟a l‟avrìa ficame chila!

Michele FASSINO

TRADUZIONE ITALIANA - Il grembiulino di Natàlia

In merito al rapporto, tuttora esistente tra me e Natàlia, è difficile definirne

la natura, se non ricorrendo a uno schema codificato nella mia testa, che

uso per separare le persone cui ho sempre dato del tu dalle altre, con le

quali, per arrivare ad un tale livello di confidenza, c‟è invece voluto del

tempo. Natàlia appartiene quindi alla schiera delle prime e nemmeno

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 68 di 144

saprei dire quando la nostra vicenda umana sia iniziata – né potrebbe

essere altrimenti – giacché in principio si erano conosciuti i nostri nonni,

poi i nostri genitori e infine noi che siamo nati a Moncalieri, nella stessa

borgata una settantina di anni fa.

Tra le cose che ci hanno visto insieme, la scuola elementare costituisce

certo l‟elemento essenziale, il più formativo, una fase serena della vita

trascorsa sotto l‟ala protettrice – ma severa! – di una straordinaria figura

di chioccia come la maestra Ricci, che per noi era semplicemente la

Signorina. Oltretutto, pur essendo abituati a parlare in piemontese, sia tra

compagni che in famiglia, ogniqualvolta ci riferivamo a lei continuavamo

ancora sempre a definirla in questo modo – senz‟alcuna traduzione nella

nostra madrelingua – e tale è rimasta nella mente di ognuno, anche adesso

che non c‟è più da tanti anni.

Di quel periodo conservo una serie di nitidi ricordi, uno dei quali –

purtroppo per me, assolutamente indelebile! – è legato proprio a Natàlia e

risale al 1956, quando eravamo in terza elementare.

Se fino in seconda era valso per tutti l‟obbligo d‟indossare un grembiulino

nero, chiuso al collo da un nastro azzurro – che costituiva l‟unico vezzo

nell‟ambito di una divisa quanto mai austera – da quell‟anno, noi

maschietti, avevamo dovuto abbandonare quell‟abbigliamento per una

maglia di color blu scuro, annodata al collo con un cordoncino, chiuso alle

estremità da due minuscoli pompon dello stesso colore. Le femmine,

invece, sostituirono il grembiulino nero con uno bianco pur continuando a

mantenere il consueto nastro azzurro.

Allora per scrivere si usava una penna di legno in punta alla quale veniva

inastato – al pari di una baionetta – un pennino, che poteva avere le forme

più disparate, benché la più ricorrente fosse quella antonelliana, così

definita perché riproduceva vagamente l‟immagine della Mole. Con una

certa frequenza era necessario intingerlo dentro un calamaio, sistemato in

un vano ricavato sul bordo anteriore del banco, dove alloggiava ogni

scolaro. Tale pratica richiedeva una particolare cautela, per cui – al fine

di evitare degli autentici disastri – prima di riprendere a scrivere

occorreva scuotere la penna, in modo da liberare il pennino dal liquido in

eccesso. L‟operazione andava svolta facendo ricadere parte d‟inchiostro

nel calamaio, non fosse che gli immacolati grembiuli delle bambine erano

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 69 di 144

troppo candidi per non costituire un‟irresistibile tentazione… Di

conseguenza quelle che, per loro sfortuna, erano sedute davanti a certi

maschiacci malefici, finivano spesso col ritrovarsi il grembiulino chiazzato

da minuscole – quanto evidenti – macchioline scure. E poiché si dava il

caso che Natàlia avesse me alle sue spalle, fu proprio quella sventurata

postazione la causa di un autentico cataclisma.

Il dramma si materializzò la volta in cui eravamo impegnati nella

risoluzione di un problema ed io – convinto di non essere visto – avevo

pensato bene di usare la penna come un aspersorio, con l‟intento di

benedire la schiena della mia amica. Quando mi accorsi di essere stato

beccato era ormai troppo tardi perché la Signorina, lasciata la cattedra, si

era incamminata verso di me come una furia, e con uno sguardo di fuoco

che non lasciava presagire nulla di buono. Appena mi ebbe raggiunto

afferrò una delle mie orecchie e, senza dire una parola, cominciò a tirarla

verso l‟alto finché fui costretto ad alzarmi; solo quando si rese conto che

mi reggevo sulla punta dei piedi, mi trascinò dietro la lavagna. In quel

momento sentii Natàlia che, intuito l‟accaduto, aveva preso ad ammonirmi:

“Ti sta proprio bene così impari per un‟altra volta!”.

Ma mentre lei mi perdonò quasi subito, altrettanto non si può dire della

maestra. Se quella mattina si limitò a lasciarmi in castigo fino al termine

delle lezioni, dal giorno seguente, ogni volta che le portavo il quaderno per

la correzione del compito che ci aveva assegnato in classe, con un gesto

rabbioso lo scaraventava il più lontano possibile. E chissà fino a quando si

sarebbe protratto l‟infelice balletto, se un incidente casuale e stravagante –

a onor del vero, soprattutto stravagante! – non fosse intervenuto a

decretarne la fine. Discosto dalla cattedra c‟era un secchio pieno d‟acqua

dentro il quale la Signorina, come se il mio quaderno fosse stato un pallone

da basket – pluf! – realizzò un canestro da 3 punti.

“Oh, povera me!”, borbottò allora, a mezza voce, la maestra costernata.

Si era intanto avviata verso il secchio con la stessa veemenza con cui

l‟avevo vista venirmi incontro qualche giorno prima. Dopo aver tratto

dall‟umido il malcapitato tentò di asciugarlo pagina per pagina, ma

l‟unico risultato apprezzabile fu di vedere il suo candido fazzoletto solcato

da una serie di striature azzurrognole.

Preso atto del fallimento, pensò bene di posare il quaderno sui cerchi in

ghisa della stufa, nella speranza che il calore del fuoco facesse evaporare

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 70 di 144

l‟umidità residua. Ma nemmeno questo secondo tentativo portò al risultato

che la Signorina avrebbe auspicato perché, una volta conclusa

l‟operazione, ogni foglio aveva acquisito una propria ondulazione che,

differenziandolo dagli altri, contribuiva a scompaginarne l‟intero assetto.

Lo sventurato, di pregiata carta Fabriano, avente in copertina la

riproduzione dell‟autoritratto a sanguigna di Leonardo da Vinci, alla fine

appariva gonfio e deforme come un rospo dalle gigantesche dimensioni. In

poche parole, quello che si parava adesso davanti ai nostri occhi era un

autentico disastro!

Così, mentre la mia maestra scuoteva la testa rassegnata, io – pur

guardandomi bene dal tradire ogni benché minima emozione – sentivo il

diavoletto, che dentro di me era sempre all‟erta, saltellare felice e

sghignazzare impertinente.

E lui ne aveva ben donde di rallegrarsi perché quel bagno stava sortendo

un benefico effetto, che avrebbe finito col sancire anche la mia rivincita. Al

pari di un temporale che – provvidenziale! – venga a estinguere un

incendio, allo stesso modo spense tutti gli ardori della mia insegnante. Il

giorno seguente se ne arrivò con un quaderno nuovo acquistato da lei,

dove ricopiai il contenuto di quello finito in ammollo: un‟operazione

destinata a risolversi nella medesima mattinata. Dopodiché tra me e la

Signorina tornò – ugualmente restaurata – la consueta armonia.

Ma la cosa davvero vitale è che mia madre sia sempre rimasta all‟oscuro

di tutto. Questo fu possibile perché quel quaderno era utilizzato solo per i

compiti in classe e le famiglie avevano occasione di vederlo unicamente

durante i colloqui con la maestra, oppure alla fine dell‟anno quando

veniva mandato a casa. E proprio quella fu la mia salvezza.

In caso contrario, una volta che mia madre avesse appurato lo svolgimento

dei fatti, anziché andare dalla Signorina a lamentarsi per il trattamento

riservato al suo povero figliolo – come farebbero molte madri di oggi –

altro che tirata d‟orecchi… Una tirata d‟orecchi sarebbe stata niente in

confronto agli schiaffoni che mi avrebbe rifilato lei!

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La Madòna dla Lòsa

Introdussion

Ël racont as fonda su vicende stòriche: la lòsa con l'imàgine dla

Madòna, espòsta ant la gesia parochial ëd San Michel ëd Servasca,

ël verbal conservà an vescovà a Coni, ij nòm dij protagonista ...

A San Michel ëd Servasca as venera la “Madòna dla Lòsa”.

San Michel a l‟é „n paisòt, adess mach pì na cita frassion, sle colin-e

tra Servasca e Vigneul; la gent a lo ciama “La Vila”, përchè pròpi lì a

l‟era stàita, fin a l‟inissi dël 1800, la sede dël Comun ëd Servasca,

peui tramudà an pianura.

La vicenda dla Madòna a capita ant ij primi agn quaranta dël 1700.

Gioann Batista Giordanengh, ëd mesté, a fasìa „l tajalòse e a

travajava drinta na cava arlongh a la via che da San Michel, tajand ai

pé dla colin-a „d San Muris, a menava e ancora ancheuj a men-a, a

Vigneul.

A l‟era portasse daré „l disné, doi bocon a la bon-a e peui a l‟era

cogiasse a l‟ombra d‟un castagné për arposesse „n momentin. A l‟era

sùbit andurmisse, tant a l‟era stanch, ma a l‟era dësvijasse d‟arsàut

për colpa „d na lòsa ch‟a l‟era rotolà ben aramba a soa testa.

“Cristianin, che schers dël pento!” a l‟avìa dit, pensand che quaidun a

l‟avèissa volù feje na burla, për dësvijelo e rovineje col moment

d'arlass..

Ma varda da sì, varda da là, a-i era pa anima viva lì dantorn. Gioann

Batista a riessìa pa a fesne na rason.

“Le lòse as dëstaco pa da sole!” a pensava, vardandse an gir,

scrutand daré dij castagné pì gròss e dij busson, ma a-i era pròpi

gnun!

E alora, vist che oramai a l‟era dësvijà, a l‟avìa „mbrancà lë scopel

për ripijé „l travaj e për prima còsa a l‟avìa pensà „d deurve, a metà,

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sta ròca, rotolà chissà da dova, ma tròp spëssa për esse na lòsa da

cuvert.

Anfilà lë scopel, la pera a l‟era duvertasse pròpi a metà, ma „l pòvre

tajalòse a l‟era stàit a boca duverta e peui a l‟era mach pì

anginojasse, gavandse „l capel.

Drinta a la lòsa a-i ero doe imàgini, una për part: a rapresentavo la

Madòna ch‟a dà la pupa a Gesù Bambin.

Na Madòna bela parèj a l‟avìa mai vistla! Na facia dlicà e amabila,

con j‟euj bass a vardé sò cit, bel pacioflù e patanù, che con na manin-

a a spòsta la vesta dla mama, për pupè an santa pas. A smijavo viv, lì

sla pera!

Pen-a arpijà „l fià, a l‟era butasse a ciamé la gent, ch‟a stasìa ant le

ca, mach a „n tir ëd pera da lì e la gent a l‟era venùa „d corsa,

pensand chissà còsa a podìa mai essje capità, da vosé parèj!

E tuti a vardavo sta lòsa duverta, crijand al miracol!

A-i era chi a pregava, chi a piorava për la comossion; un, pì fichet ëd

j‟àutri, a l‟avìa fàit noté che lë scopel a l‟avìa lassà na sgrafignura tra

l‟orija snistra e‟l laver dla Madòna.

E a l'era pròpi vera, la sgrafignura as veghìa.

Darmagi! Su na facia bela parèj!

Ma dova buté coste doe lòse, tant pressiose?

An col temp a la Vila a-i era pa pì la gesia; a l‟avìo campala giù coj

dla piana, për fene una pì an bass, al Bodarel, ma peui a j‟ero pa stàit

an grado „d finila.

E alora la popolassion a l‟avìa decidù „d fabriché lì, sël pòst, na cita

capela.

Antant la neuva a l‟era passà da na boca a l‟àutra, a l‟era spantiasse

ben an pressa e a comensava a rivé „d gent, nen mach dij contorn, ma

'dcò ben da lontan.

Tanti a j'ero mach ëd curios, ma tanti àutri a pregavo con tut ël cheur

cola imàgine, coma se a l'avèisso 'dnans a lor la Madòna an përsona e

coste preghiere a j'ero nen andàite përdùe.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 73 di 144

As conta „d guarigion ch‟a l‟avìo dël miracolos: un citin, storpià da la

nassita, ch‟a l‟avìa tacà a caminé e a l‟avìa lassà lì soe cròsse, coma

testimoniansa; un rascassòt, ch‟a parlava nen e ch‟a l‟avìa comensà a

parlé sël moment; na prinsipëssa „d Savijan, tanto malavia, ch‟a l‟era

varìa dòp d‟avèj pregà la Madòna dla Lòsa e a l‟avìa mandà „d sòld,

për riconossensa.

Peui a l‟era rivà „l 1744 e l‟assedi „d Coni. J‟esércit spagneuj e

fransèis a s‟ero acampà dantorn a la sità, ma da lì a fasìo scorerìe ant

ël circondari e a j‟ero rivà dcò a San Michel, fasend ravagi e

violense; la popolassion, an gnune manere, a podìa difendisse da le

prepotense dij soldà e alora, disperà, a pregava soa Madòna dla Lòsa,

ch‟a la difendèissa.

Peui, coma Dio a l‟avìa volù, a l‟era finì cost temp ëd disperassion.

E a San Michel a l‟avìo pensà d‟arfé la gesia, ch‟a l‟era venùa su pì

bela che prima e pròpi dapé a l‟autar magior, sla drita, a l‟avìo

costruì n‟àutar dedicà a la Madòna dla Lòsa, dova a l‟avìo sistemà

una dle doe lòse con l‟imàgine dla Madòna.

L‟àutra lòsa a l‟era stàita volùa dal cont Bonada, Sgnor ëd Servasca e

'd Vigneul, për concession dij Savòja.

A-i son pa gnun document ch‟a parlo dla reassion dle gerarchìe dla

gesia, fin al 1819.

Doi agn prima, Coni a l‟era diventà diòcesi e alora n‟incaricà dël

vësco a „nteroga, nen Gioann Batista Giordanengh, ch‟a l‟é già mòrt,

ma „n sò parent, Martin Tòni Bolan, che sota giurament, tocand la

Bibia, a conta la vicenda. A dis d‟avèj 86 ani e che, cora la Madòna a

l‟era manifestasse an cola manera, drinta na lòsa, chiel a l‟avìa mach

9 ani; fasend ij cont, se Martin a ricordava giust, la Madòna a l‟era

fasse veghe ant ël 1742.

E Martin a ricorda propi ben. Conta coma a l‟era capità la vicenda, le

guarigion miracolose che chiel a l'avìa vist e che a l‟era prima „d

l‟assedi „d Coni.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 74 di 144

L‟incaricà dël vësco a fà verbalisé domande e rispòste, ël verbal a

ven firmà, ma tut a finiss lì; a-i é pa gnun seguit; la Gesia ufissial as

pronuncia nen.

La gent a resta ben delusa; tuti a l'avìo tanto sperà ant un

riconossiment, ch'a l'avrìa ricompensà l'afront soportà pòchi agn

prima, al temp ëd l'ocupassion fransèisa (1801), cora, pròpi con ël

permess ëd la Gesia ufissial, la paròchia 'd la Vila a l'era stàita ben

ridimensionà a favor dla paròchia 'd Sant Ësteo, ant la piana; Sant

Ësteo a l'era diventà la “paròchia mare” con giurisdission su tut ël

teritòri 'd Servasca e 'd Vigneul e San Michel a l'avìa përdù tute le

prerogative ch'a l'avìa avù da sempre e la gent as sentìa defraudà.

An pì, già ij Fransèis a j'avìo sbefià riguard a la devossion për la

Madòna dla Lòsa, ma passiensa, as savìa che ij Fransèis a j'ero

miscredent!

A l'é pa 'd bel fé aceté 'l silensi dla Gesia, ma j'abitant ëd la Vila a

përdo pa la fiusa, ansi as sento ben orgojos ëd continué a crese an

costa manifestassion dla Madòna.

A son passà ben pì „d dosent agn e la Madòna sla Lòsa a l‟é sempre

l‟istessa, gnun segn a ricordé 'l trascore dël temp.

E la gent dël pòst a continua a preghé e a confidé an “soa Madòna dla

Lòsa”.

Vers ël 24 d‟agost as fà na procession fin a la capela, portand na

statua dal Madòna, ma nen la lòsa, ch‟a resta al sicur, an gesia,

protèta da 'n véder blindà, përchè a l'é tròp pressiosa!

Lucia RENAUDO

TRADUZIONE ITALIANA - Madonna della Losa

Introduzione

Il racconto si fonda su vicende storiche: l'ardesia (lòsa) con l'immagine

della Madonna, esposta nella chiesa parrocchiale di San Michele di

Cervasca, il verbale conservato in vescovado a Cuneo, i nomi dei

protagonisti …

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A San Michele di Cervasca si venera la “Madonna della Losa”.

San Michele é un paesino, oggi solo più una piccola frazione, sulle colline

tra Cervasca e Vignolo; la gente lo chiama “La Vila”, perchè proprio lì

era stata, fino all'inizio del 1800, la sede del Comune di Cervasca, poi

spostata in pianura.

La vicenda della Madonna succede nei primi anni quaranta del 1700.

Giovanni Battista Giordanengo, di mestiere, faceva il tagliatore di ardesie

e lavorava dentro una cava lungo la via che da San Michele, tagliando ai

piedi della collina di San Maurizio, conduceva e conduce ancora oggi a

Vignolo.

Si era portato dietro il pranzo, due bocconi e poi si era coricato all'ombra

di un castagno per riposarsi un momento. Si era subito addormentato,

tanto era stanco, ma si era svegliato di soprassalto per colpa di un'ardesia

che era rotolata ben vicino alla sua testa. “Cristianin, che scherzo

stupido!” aveva detto, pensando che qualcuno avesse voluto fargli una

burla, per svegliarlo e rovinargli quel momento di sollievo.

Ma guarda di qui, guarda di là, non c'era anima viva lì attorno; Giovanni

Battista non riusciva a farsene una ragione. “Le ardesie non si staccano da

sole!” pensava, guardando in giro, scrutando dietro ai castagni più grossi

e ai cespugli, ma non c'era proprio nessuno.

E allora, visto che oramai era sveglio, aveva preso lo scalpello per

ricominciare il lavoro e per prima cosa aveva pensato di aprire a metà

questa pietra, rotolata chissà da dove, ma troppo spessa per essere

un'ardesia da tetto.

Infilato lo scolpello, la pietra si era aperta proprio a metà, ma il povero

tagliatore era rimasto a bocca aperta e poi si era inginocchiato, levandosi

il cappello.

Dentro l'ardesia c'erano due immagini, una per parte: rappresentavano la

Madonna che dà il latte a Gesù Bambino. Una Madonna bella così non

l'aveva mai vista!

Una faccia delicata e amabile, con gli occhi bassi a guardare il suo

bambino, grassottello e nudo, che con una manina scosta il vestito della

mamma per succhiare in santa pace. Sembravano vivi, lì sulla pietra!

Appena ripreso il fiato, si era messo a chiamare la gente che stava nelle

case, lì vicino, e la gente era venuta di corsa, pensando che cosa potesse

mai essere successo, da gridare così!

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 76 di 144

E tutti guardavano l'ardesia aperta, gridando al miracolo!

C'era chi pregava, chi piangeva per la commozione; uno più ficcanaso

degli altri aveva fatto notare che lo scalpello aveva lasciato un graffio tra

l'orecchio sinistro e il labbro della Madonna.

Ed era proprio vero, il graffio si vedeva. Peccato! Su una faccia così bella!

Ma dove mettere queste due ardesie, tanto preziose?

In quel tempo a San Michele non c'era più la chiesa; l'avevano buttata giù

quelli della piana, per farne una più in basso, al Valdarello, ma poi non

erano stati in grado di finirla.

E allora la popolazione aveva deciso di fabbricare lì, sul posto, una

piccola cappella.

Intanto la notizia era passata di bocca in bocca, si era sparpagliata molto

in fretta e cominciava ad arrivare gente, non solo dai dintorni, ma anche

ben da lontano.

Tanti erano solo curiosi, ma tanti altri pregavano con tutto il cuore quella

immagine, come se avessero davanti a loro la Madonna in persona e

queste preghiere non erano andate perdute. Si racconta di guarigioni che

avevano del miracoloso. Un bimbo, storpio dalla nascita, che aveva

cominciato a camminare e aveva lasciato lì le sue stampelle, come

testimonianza; un ragazzino che non parlava, aveva iniziato a parlare sul

momento; una principessa di Savigliano, tanto malata, che era guarita

dopo aver pregato la Madonna della Losa e aveva mandato dei soldi, per

riconoscenza.

Poi era arrivato il 1744 e l'assedio di Cuneo. Gli eserciti spagnoli e

francesi erano accampati attorno alla città, ma, di lì, facevano scorrerie

nel circondario ed erano arrivati anche a San Michele, facendo saccheggi

e violenze; la popolazione non poteva in nessun modo difendersi dalle

prepotenze dei soldati e allora, disperata, pregava la sua Madonna della

Losa, perché la difendesse.

Poi, grazie a Dio, era finito questo tempo di disperazione.

A San Michele avevano pensato di rifare la chiesa, che era risultata più

bella di prima e proprio vicino all'altare maggiore, a destra, avevano

costruito un altare dedicato alla Madonna della Losa, dove avevano

sistemato una delle due ardesie con l'immagine della Madonna. L'altra

ardesia era stata rischiesta dal conte Bonada, Signore di Cervasca e

Vignolo, per concessione dei Savoia.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 77 di 144

Non esistono documenti che parlano della posizione delle gerarchie della

Chiesa, fino al 1819. Due anni prima, Cuneo era diventata diocesi e allora

un incaricato del vescovo interroga, non Giovanni Battista Giordanengo,

che é già morto, ma un suo parente, Martino Antonio Bollano, che sotto

giuramento, toccando la Bibbia, racconta la vicenda. Dice di avere 86 anni

e che, quando la Madonna si era manifestata in quel modo, dentro

un'ardesia, lui aveva solo 9 anni; facendo i conti, se Martino ricordava

esattamente, la Madonna si era fatta “vedere” nel 1742.

E Martino ricorda proprio bene: racconta come era capitata la vicenda, le

guarigioni miracolose che lui aveva visto e che era prima dell'assedio di

Cuneo.

L'incaricato del vescovo fa verbalizzare domande e risposte, il verbale

viene firmato, ma tutto finisce lì; non c'é alcun seguito; la Chiesa ufficiale

non prende posizione.

La gente rimane ben delusa; tutti avevano sperato in un riconoscimento,

che avrebbe ricompensato l'affronto sopportato pochi anni prima (1801),

quando, proprio con il permesso della Chiesa, la parrocchia di San

Michele era stata molto ridimensionata a favore della parrocchia di Santo

Stefano, in pianura.

Santo Stefano era diventata “parrocchia madre” con giurisdizione su tutto

il territorio di Cervasca e Vignolo e San Michele aveva perduto tutte le

prerogative che aveva avuto da sempre e la gente si sentiva “derubata”.

Oltretutto, già i Francesi occupanti li avevano derisi riguardo alla

devozione per la Madonna della Losa, ma, pazienza, si sapeva che i

Francesi non erano credenti!

Non é facile accettare il silenzio della Chiesa, ma gli abitanti della Vila

non perdono la fiducia, anzi si sentono ben orgogliosi di continuare a

credere in questa manifestazione della Madonna.

Sono passati più di duecento anni e la Madonna sulla Losa é sempre

uguale, nessun segno ricorda lo scorrere del tempo.

E la gente del posto continua a pregare e a confidare nella “sua Madonna

della Lòsa”.

Verso il 24 d'agosto si fa una processione fino alla cappella, portando una

statua della Madonna, ma non l'ardesia, che rimane al sicuro, in chiesa,

protetta da un vetro blindato, perchè é troppo preziosa

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 78 di 144

MENZIONI DELLA GIURIA

Piemont, arcòrd e tradission

Piemont, mia bela e dossa tèra, it ringrassio!

It ringrassio përchè ‟t l‟has fame chërse ‟nt un dij pòst pì bej dël

mond, an mes a gent s-cëtta e genita, ch‟a l‟han mostrame a vive e a

rispeté tue tradission e tue usanse.

I l‟heu tanti arcòrd ch‟am galegio ‟nt la memòria e, an mes a sent

arcòrd nen ciàir, confus, i n‟heu ëd bej e ‟nciarmant che minca tant

am torno an ment.

Arcòrd ëd l‟adolessensa, quandi ch‟i ‟ndasìa a mëssoné ‟l gran con

mare granda. Noi i l‟avìo nen la campagna ma chila am mostrava a

cheuje lë spi spatarà për ij camp, a fene ‟n massolin e a gropelo con

la paja ‟d na spi. Peui, quandi ch‟i n‟avìo na bela brassà, i la portavo

a ca e spetavo che da nòst avzin a i ëvnisèissa la màchina për bate ‟l

gran e s‟lo fasìo bate. Dòp mè pare a lo portava al mulin e a tornava a

ca con un bel sachèt ëd farin-a. Antlora, se al panaté it je portave ‟n

chilo ‟d farina, chiel at dasìa ‟n chilo ‟d pan.

Coma ch‟a l‟era bel a la sèira dòp sin-a, vëdde coj camp andova a

l‟avìo tajà ‟l gran pien ëd bòje mëssonere. I m‟arcòrd che mia mare

granda a l‟avìa mostrame na bela canson ch‟a disìa:

“Lumin bel, tich, tach, ven giù che mi it ciap!”

E alora mi e Margherita, mia visin-a ‟d ca, i corìo come mat an mes a

coj lumin, cantand e sercand d‟ambranchene quaidun, për vëdde nòst

pugn a vischesse e a dëstissesse.

Mi e Margherita a la matin i së spetavo ‟n punta a la stra e peui is

pijavo për man e i andasìo a scòla. I j‟ero vestì tuti doi con ël

faudalin nèir, ël colèt bianch e la reusa celest. Mi i l‟avìa i cavèj curt,

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 79 di 144

përchè mè pare am tosonava con la machinëtta ch‟a tosonava ‟dcò ‟l

can e Margherita a l‟avìa ‟n bel caschèt ëd cavèj nèir ch‟a-j lo fasìa

soa mare con le tësòire ch‟a dovrava ‟dcò a tajé la stòfa.

A la sèira dòp sin-a, is trovavo ant lë stabi e, antramentre che j‟òmo a

giugavo a tressèt e le fomne a fasìo ij caussèt con ij fer sota a le

assëlle, noi i fasìo ij travaj dë scòla. I son sempre ciamame còsa ch‟a

na fèisso ‟d tuti coj caussèt. Minca tant j‟òmini as butavo a rusé për

ël gieugh e a-i ëscapava quai bëstëmmie e alora nòste mare an

quatavo le orije con le man e an mandavo a deurme.

Mnisend pì grand mè pare, ant le vacanse de scòla, am giustava da

vaché da nòst avzin ëd ca. Coma ch‟a l‟era bel, vàire ch‟am piasìa

porté le vache ‟n pastura! I partìa da ca con un trop ëd vache e Paris,

ël can, ch‟a-j corìa da fianch e a-j fasìa sté anlignà. Paris a l‟era ‟n

can ëd pura rassa “can da pajé”, ma a l‟era motobin an gamba e se it

i-j disìe: “Va a pijé la Bionda ò va a pijè la Randola, chiel a sbaliava

nen vaca, ma a pijava cola giusta”. Chiel a l‟era ‟dcò tant, tant puss.

Is vorìo pròpi na bin ëd l‟ànima. Peui, quandi che a l‟avìo ‟mpinisse

bin, bin lë stòmi, le vache as cogiavo a l‟ombra dle arbre e dij moré.

Alora im cogiava a l‟ombra ‟dcò mi e Paris a mnisìa a cogesse dacant

a mi, davzin, davzin, përchè i lo carëssèissa.

E, minca tant, quand che ‟nsema a soa mare a lavavo la lëssìa ‟nt la

biarlëtta ch‟a corìa lì dacant, a i ëmnisìa ‟dcò Margherita a cogesse a

l‟ombra dacant a mi e Paris.

I stasìo lì tuti tre an silensi, a vardé anciarmà, le nìvole ch‟as corìo

d‟apress an col cel bleu come në strassasach. Peui soa mare a-j

brajava ch‟a ‟ndèissa a deje na man a carié ‟l sëbbròt an sla carëtta e

alora chila am salutava e a travërsava ‟l pra ‟d corsa. Da lì an pòch ël

ciochè dla Gesia a sonava l‟Ave Maria e alora i tornavo a ca ‟dcò

noi.

Arcòrd ëd quandi che l‟adolessensa pian, pian a l‟ha lassaje ‟l pòst a

la giovinëssa e i l‟heu comensà a vardé la vita e, dzortut le fije, con

ëd j‟àutri euj e ‟n n‟àutra manera.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 80 di 144

Ant la borga ‟ndova ch‟i son anlevame, tutte le matin a-i era na

mëssa. A la ciamavo mëssa prima e a l‟era a ses ore dla matin. A la

dumìnica, nopà, a-i era mëssa prima e mëssa granda a des ore. A

mëssa prima a i andasìa mach quat monie quace ma, a mëssa granda,

a i andasìa tuta la borgà.

I m‟arcòrd che don Michel a fasìa la prèdica ‟n piemontèis ma dësnò

bin pòchi a l‟avrìo capì lòn ch‟a disìa. E i m‟arcòrd che la Gesia a

l‟era divisa an doi: da na part a-i era ij banch con le fomne e, da

l‟àutra, ij banch con j‟òmini. E a l‟é ‟mbelelì ch‟i l‟heu comensà a

‟ntajemne che Margherita am vardava. Tute le vòlte che mi i girava

la testa, vardla-là che chila a l‟era lì ch‟am vardava e, come che ij

nòsti sguard a së ‟ncontravo, chila a bassava la testa e a arpijava a

lese ‟l librèt ch‟a l‟avìa ‟n man. Coj sguard a duravo pròpi mach në

slussi ‟d temp, ma am fasìo sente ‟ndrinta a mi, quaicòs ëd dròlo ch‟i

riessìa nen a capì bin, ch‟i riessìa nen a spiegheme.

Peui a la sèira dòp sin-a, quandi che ‟nt l‟èira, an mes a na tombarlà

‟d pan-e ‟d melia ch‟i-j ëspanavo, setà davzin antramentre che le

fomne a cantavo “Pocionin e Mè ideal”, cole uciade a continuavo

compagnà da ‟n soris genà e ambarassà. Mi i vardava col facin ch‟am

soridìa, bel, an mes a coj cavej nèir che la lun-a a fasìa luse, col

corpicin che pòch për vòlta a l‟era dësbandì e i sentìa mè cheur ch‟a

batìa, ch‟am sautava con fracass ant lë stòmi. I l‟avìa fin-a paura che

coj ch‟a-i ero lì dantorn a lo sentèisso.

Mi e Margherita is vardavo ‟n silensi e pura cole-lì a son le paròle pì

bele ch‟i l‟heu sentù ‟n tuta mia vita.

Peui, quand che Tomalin, ël pare ‟d Margherita, as dasìa da fé a

cheuje ij mass për loveje tacà a la pantalera, chila am compagnava

fin-a tacà al porton. Alora is salutavo, peui i stasìo ‟n moment an

silensi, come se i vorèisso disse ‟ncora quaicòs, ma la vos ed soa

mare ch‟a la ciamava an fërmava le paròle ‟n gola. Alora chila a

sarava ‟l porton e a scapava via.

Ma l‟arcòrd pì bel i ‟l l‟heu ‟d na festa dla borgà.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 81 di 144

A la festa dla borgà, sla piassa dnans a la Gesia, a montavo ‟l bal a

palchèt. Ëd fianch al bal a-i era l‟erbo dla cocagna, con dij salam, dij

formagg e dj‟àutri regaj pendù. Col ann-lì a-i era fin-a na cobia ‟d

polastr. An pòch pì ‟n là, a-i era doj paj con na còrda tirà con le ole

pendue. Mi ‟n punta a l‟erbo dla cocagna i son mai stàit bon a rivé.

Con tut ch‟i m‟ampinièissa le sacòce ‟d ressiura, i son sempre sghijà

giù da col pal quatà ‟d grass. E tute le vòlte ch‟i l‟heu provà a s-ciapè

le ole con la pèrtia, i l‟heu sempre s-ciapà cola pien-a d‟eva e son

sempre tornà a ca mars come n‟aniòt.

Cola sèira-lì i j‟era ‟ndàit an piassa ma i-j‟era nen andàit davzin a

l‟erbo dla cocagna e a le ole. I j‟era vestime tut da bin, i j‟era fin-a

‟ndàit dal pruché a feme rangè la panta. Quandi che la Benedission a

l‟era finìa, la gent a l‟era surtìa d‟an Gesia e a l‟avìa invadù la piassa.

La mùsica a l‟avìa comensà a soné e ‟l bal a palchèt a l‟era sùbit

ampinisse. Tribuland nen pòch i j‟era riessù a ausineme e l‟avìa

vëddù che Margherita a balava con na soa amisa. Quand ch‟a girava

a le nòte ‟d coj valser, ël cotin a s‟aussava e mi i vardava ‟ncantà,

ambambolà, cole gambe lunghe, cole cheusse bianche ch‟a rivavo

fin-a tacà a le brajëtte. Manaman i son sentume ciamé, i son tornà sla

tèra, e i l‟heu vëddù Margherita ch‟am ciamava e am fasìa sègn ëd

monté sël bal.

I l‟avìo balà fin quand che la mùsica a l‟avìa chità ‟d sonè. Peui,

mnisend ross come ‟n povron, i l‟avìa ciamaje s‟i podìa compagnela

a ca. Chila a l‟avìa fame sègn chë ‟d si e mi i l‟avìa cariala sël tubo

dla biciclëtta. Quand ch‟i j‟era rivà dnans a ca soa, i l‟avìa pontajà la

biciclëtta tacà al porton e i j‟era girame për salutela, chila a l‟era

ausinasse e a l‟avìa dame ‟n basin. A l‟avìa dame ‟n basin sij làver e

a l‟avìa butame la lenga ‟n boca. Mi i savìa nen còs fè e i capìa nen

còs ch‟a vorèìssa dì cola ròba-lì. A l‟avìa peui spiegamlo Margherita

la vòlta dòp quand ch‟i j‟ero torna vëddusse.

Mi e Margherita i soma peui mariasse e a l‟é ‟d pì ‟d sinquant‟agn

ch‟i soma ‟nsema e, minca tant, an pias duverté ‟l cassiòt dj‟arcòrd

ch‟i l‟oma ‟nt la memoria. Përché nòst amor a l‟é sempre l‟istess, a

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 82 di 144

l‟é sempre col d‟anlora. Nopà le tradission ëd nòst bel Piemont a van

perdense ma, contut che a faso ‟d tut për ruinelo, ch‟a faso ‟d tut për

felo sparì, chiel a resta sempre un-a dle pì bele region nen mach ëd

cola bela Italia che a l‟ha fàit chiel, ma ‟d tut ël mond.

Gian Antonio BERTALMIA

TRADUZIONE ITALIANA - Piemonte, ricordi e tradizioni

Piemonte, mia bella e dolce terra, ti ringrazio!

Ti ringrazio perché mi hai fatto crescere in uno dei posti più belli del

mondo, in mezzo a gente schietta e genuina, che mi ha insegnato a vivere e

a rispettare le tue tradizioni e le tue usanze.

Ho tanti ricordi che mi galleggiano nella memoria e, in mezzo a cento

ricordi non chiari, confusi, ne ho di quelli belli e incantevoli che ogni tanto

mi ritornano in mente.

Ricordi dell‟adolescenza, quando andavo a spigolare il grano con la mia

nonna. Noi non avevamo la campagna ma lei mi insegnava a raccogliere le

spighe sparpagliate nei campi, a farne un mazzolino e a legarlo con la

paglia di una spiga. Poi, quando ne avevamo un bel fascio, lo portavamo a

casa e aspettavamo che dal nostro vicino venisse la trebbiatrice e ce lo

facevamo mietere. Dopo mio padre lo portava al mulino e tornava a casa

con un bel sacchetto di farina. A quei tempi, se al panettiere portavi un

chilo di farina, lui ti dava un chilo di pane.

Come era bello, la sera dopo cena, vedere quei campi dove avevano

tagliato il grano pieni di lucciole. Mi ricordo che mia nonna mi aveva

insegnato una bella canzoncina che diceva:

“Lumino bello, tich, tach, vieni giù che io ti prendo!”

E allora io e Margherita, la mia vicina di casa, correvamo come matti in

mezzo a quei lumini, cantando e cercando di prenderne qualcuno, per

vedere il nostro pugno accendersi e spegnersi.

Io e Margherita al mattino ci aspettavamo in punta alla strada e poi ci

prendevamo per mano e andavamo a scuola. Eravamo vestiti tutti due con

il grembiulino nero, il colletto bianco e il fiocco azzurro. Io avevo i capelli

corti, perché mio padre mi rapava con la macchinetta che tosava anche il

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 83 di 144

cane e Margherita aveva un bel caschetto di capelli neri che glielo faceva

sua madre con le forbici che usava anche per tagliare la stoffa.

Alla sera dopo cena, ci trovavamo nella stalla e, mentre gli uomini

giocavano a tressette e le donne facevano le calze con i ferri sotto le

ascelle, noi facevamo i compiti di scuola. Mi sono sempre chiesto cosa ne

facessero di tutte quelle calze. Ogni tanto gli uomini incominciavano a

litigare per il gioco e scappava loro qualche bestemmia e allora le nostre

mamma ci coprivano le orecchie con le mani e ci mandavano a dormire.

Crescendo mio padre, nelle vacanze di scuola, mi mandava e lavorare dal

nostro vicino di casa. Come era bello, come mi piaceva portare le mucche

al pascolo! Partivo da casa con un gruppo di mucche e Paris, il cane, che

correva loro di fianco e le faceva rimanere in fila. Paris era un cane di

pura razza “cane da pagliaio”, ma era molto in gamba e se gli dicevi:

“Vai a prendere la Bionda o vai a prendere la Rondine”, lui non sbagliava

mucca, ma prendeva quella giusta. Lui era anche tanto, tanto affettuoso. Ci

volevamo proprio un bene dell‟anima. Poi, quando si erano riempite ben

bene lo stomaco, le mucche si coricavano all‟ombra dei pioppi e dei gelsi.

Allora mi coricavo all‟ombra anch‟io e Paris veniva a coricarsi accanto a

me, vicino, vicino, perché lo accarezzassi.

E, ogni tanto, quando con sua mamma lavava il bucato nel ruscello che

correva lì accanto, veniva anche Margherita a coricarsi vicino a me e

Paris.

Stavamo tutti e tre in silenzio, a guardare incantati, le nuvole che si

rincorrevano in quel cielo blu come un fiordaliso. Poi sua madre le

gridava che andasse ad aiutarla a caricare il mastello sulla carriola e

allora lei mi salutava e attraversava il prato di corsa. Dopo un po‟ il

campanile della Chiesa suonava l‟Ave Maria e allora tornavamo a casa

anche noi.

Ricordi di quando l‟adolescenza pian, piano ha lasciato il posto alla

giovinezza e ho incominciato a guardare la vita e, soprattutto le ragazze,

con altri occhi e in un altro modo.

Nella borgata dove sono cresciuto, tutte le mattine c‟era una messa. La

chiamavano prima messa ed era alle sei del mattino. Alla domenica,

invece, c‟era la prima messa e la messa grande alle ore dieci. Alla prima

messa andavano solo quattro vecchiette bigotte ma, alla messa grande,

andava tutta la borgata.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 84 di 144

Mi ricordo che don Michele faceva la predica in piemontese altrimenti ben

pochi avrebbero capito quello che diceva. E mi ricordo che la Chiesa era

divisa in due: da una parte c‟erano i banchi con le donne e dall‟altra

c‟erano i banchi con gli uomini. Ed è lì che mi sono accorto che

Margherita mi guardava. Tutte le volte che giravo il capo, ecco che lei era

lì che mi stava guardando e, quando i nostri sguardi si incontravano, lei

abbassava il capo e riprendeva a leggere il libricino che aveva in mano.

Erano sguardi che duravano proprio solo un lampo di tempo, ma mi

facevano sentire dentro di me, qualcosa di strano che non riuscivo a

comprendere bene, che non riuscivo a spiegarmi.

Poi alla sera dopo cena, quando nel cortile, in mezzo ad un mucchio di

pannocchie di granoturco che stavamo spannocchiando, seduti vicini

mentre le donne cantavano “Piccolo bocciolo e Mio ideale”, quelle

occhiate continuavano accompagnate da un sorriso timido e impacciato. Io

guardavo quel visino che mi sorrideva, bello, in mezzo a quei capelli neri

che la luna faceva brillare, quel corpicino che poco alla volta era

sbocciato e sentivo il cuore che batteva, che mi saltava con fracasso nello

stomaco. Avevo persino paura che quelli che erano lì attorno lo sentissero.

Io e Margherita ci guardavamo in silenzio, eppure quelle sono le parole

più belle che ho sentito in tutta la mia vita.

Poi, quando Tommaso, il padre di Margherita, si dava da fare a

raccogliere i mazzi per sistemarli appesi alla parete preparata per

accogliere le pannocchie, lei mi accompagnava fino al portone. Allora ci

salutavamo, poi stavamo un momento in silenzio, come se volessimo dirci

ancora qualcosa, ma la voce si sua madre che la chiamava ci fermava le

parole in gola. Allora lei chiudeva il portone e scappava via.

Ma il ricordo più bello ce l‟ho di una festa della borgata.

Alla festa della borgata, sulla piazza davanti alla Chiesa, montavano il

ballo a palchetto. Di fianco al ballo c‟era l‟albero della cuccagna, con dei

salami, dei formaggi e altri regali appesi. Quel anno c‟era persino una

coppia di polli. Un po‟ più in là, c‟erano due pali con una corda tesa e le

pignatte appese. Io in punta all‟albero della cuccagna non sono mai stato

capace di arrivare. Anche se mi riempivo le tasche di segatura, sono

sempre scivolato giù da quel palo coperto di grasso. E tutte le volte che ho

provato a rompere una pignatta con la pertica, ho sempre spaccato quella

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 85 di 144

piena d‟acqua e sono sempre tornato a casa bagnato fradicio come un

anatroccolo.

Quella sera ero andato in piazza ma non ero andato vicino all‟albero della

cuccagna e alle pignatte. Mi ero vestito elegante, ero persino andato dal

parrucchiere a farmi aggiustare i capelli. Quando la Benedizione era

terminata, la gente era uscita dalla Chiesa e aveva invaso la piazza. La

musica aveva incominciato a suonare e il ballo a palchetto si era subito

riempito. Con non poca fatica ero riuscito ad avvicinarmi e avevo veduto

Margherita che stava ballando con una sua amica. Quando girava alle

nota di quei valzer, la gonna si alzava e io guardavo incantato,

imbambolato, quelle gambe lunghe, quelle cosce bianche che arrivavano

vicino alle mutandine. Ad un certo punto mi son sentito chiamare, sono

tornato sulla terra, e ho visto che Margherita mi chiamava e mi faceva

segno di salire sul ballo.

Avevamo ballato fino a quando la musica aveva smesso di suonare. Poi,

diventando rosso come un peperone, le avevo chiesto se potevo

accompagnarla a casa. Lei mi aveva fatto segno di sì e io l‟avevo caricata

sul tubo della bicicletta. Quando eravamo arrivati davanti a casa sua,

avevo appoggiato la bicicletta al portone e mi ero voltato per salutarla, lei

si era avvicinata e mi aveva dato un bacio. Mi aveva dato un bacio sulle

labbra e mi aveva messo la lingua in bocca. Io non sapevo cosa fare e non

capivo cosa volesse dire quella roba lì. Me lo aveva poi spiegato

Margherita la volta successiva quando ci eravamo rivisti.

Io e Margherita ci siamo poi sposati e siamo insieme da più di

cinquant‟anni e, ogni tanto, ci piace aprire il cassetto dei ricordi che

abbiamo nella memoria. Perché il nostro amore è sempre lo stesso, è

sempre quello di allora. Invece le tradizioni del nostro bel Piemonte stanno

scomparendo ma, nonostante facciano di tutto per rovinarlo, facciano di

tutto per farlo sparire, lui rimane sempre una delle regioni più belle non

solo di quell‟Italia che ha fatto lui, ma di tutto il mondo.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 86 di 144

La boata magica

Soa mare a l'era mancà da pòch e adess a-j tocava 'l travaj pì grev,

col ëd dësblë la ca. Chi ch'a l'ha già dovù butesse an costa imprèisa-si

a sà vàire ch'a fassa mal. Tut lòn ch'at càpita 'n man a l'è n' arcòrd èd

chèidun o 'd cheicòs. A l'é tut un viramolin tra passà e present, a tè

smija d'esse fòra dël temp. It vive sospèis tra fantasia e realtà, tra

arcòrd bej e brut. Antramentre ch'it toche ste ròbe veje at torno an

ment ëd përson-e conossùe tanti agn fa che la memòria a l'avia

dësmentià dël tut. At torno moment ëd toa vita passà e ti ët rende

cont che toe rèis as na van 'nsema a cole rafataje ch'it n'ariesse nen a

decid-te se ten-je o campeje via.

Da na part it vorerie ten-te tut e da l'àutra it vëdde nen l'ora 'd fé fòra

tuta sta porcheria.

A sarìa pròpi nè s-ciancon ant l'ancreus dèl cheur.

Sël fond d'un tirol a l'ha trovà 'n vërtoj dë strass. Dròlo për mama

ten-e tuta sta porcada, pròpi chila ch'a butava sempe d'ardriss. A lo

duverta e maravija! La boata màgica!.

Na pitòcia fàita 'd paja e strass, con na facin-a 'd porslan-a, j'euj bleu,

në sguard fiss da bon-a dòna, ij cavèj ëd cotonin-a giàuna tuti

scarpëntà. La vestin-a a fiorin-e dëscolorìe dal sol, fin-a 'n po'

dëscusìa da na part e në s-cianchèt a na gamba d'andova ch' a-i

seurtia l'ambotidura. A vardela adess a-j èsmija 'd pi a na stria che a

na boata màgica.

Andrinta a soa testa a l'é dëscheurvisse n'orissi d' arcòrd corna 'n

turbij. Vàire vire cand che pare a rivava a ca cioch chila a sé

stërmava ant ël cambrin e, con soa Miclin-a strënzùa s-ciassa al còl a

riessìa a nen sente ij crij ëd soa mama, le bëstemie dèl pa e 'l fracass

dij piat ch'a volavo 'n cusin-a. Cand ch'a Miclin-a an brass soa testa a

'ndasia ant n'àutr mond. As trovava a l'improvista ant un bel castel. A

l'era na prinsipëssa, tuti a s'anchinavo dëdnans a chila e cola

riverensa a l'ampinia d'orgheuj. A butava na bela vesta lunga e a

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 87 di 144

spassëgiava an blagand arlongh ij coridor dèl palas. Tuti a la

poponavo e a-j portavo tut pien ëd dosse, bombon e cicolatin.

Cand che peui l'orissi an cusin-a a l'era pasiasse, soa mare a la fasìa

seurte da sò castel e chila a tornava a la trista realtà.

Ëdcò cand ch'a rivava da scòla, dòp che soe cambrade a l'avìo pijala

'n bala përchè sò faudalin a l'era tut ësliss, chila a pijava soa Miclin-a

e a comensava torna a galopé con la fantasia: a dventava la magistra

'd soa scòla e, con tanta gòj e sodisfassion, a pijava jé scartari (che 'n

soa ment a j'ero coj ëd soe cambrade) e giù 'd rigasse rosse e 'd votass

brut. Miclin-a a n'arriessia a feje dësmentié tuti ij so sagrin. A l'era

pròpi soa boata màgica.

Maraman che j' agn a passavo a sërcava sempe meno soa Miclin-a,

cand ch'a l'avia un sagrin a l'avia giumai 'mprendù a gestì soe

delusion ant n'àutra manera, parèj la boata a l'é passà ant la

dèsmentia. Ëd sicur Miclin-a a finirà nen antrames al baron ëd le

ròbe da campé via.

Anna Maria CAFFRI

TRADUZIONE ITALIANA - La bambola magica

Sua madre era mancata da poco e adesso le toccava il lavoro più penoso,

quello di disfare la casa. Chi ha già dovuto mettersi in questa impresa sa

quanto sia doloroso. Tutto ciò che ti capita in mano è un ricordo di

qualcuno o di qualcosa. E tutto un vortice tra passato e presente, ti sembra

di essere fuori dal tempo. Vivi sospeso fra fantasia e realtà, tra ricordi belli

e brutti. Mentre tocchi queste vecchie cose ti ritornano in mente persone

conosciute tanti anni fa e che la memoria aveva del tutto dimenticato. Ti

ritornano momenti della tua vita passata e ti rendi conto che le tue radici

se ne vanno con quelle carabattole che non riesci a decidere se tenerle o

buttarle. Da una parte vorresti tenere tutto e dall'altra non vedi l'ora di far

fuori tutta sta porcheria. Sarebbe proprio uno strappo nel profondo del

cuore. Al fondo di un cassetto ha trovato un involto di stracci. Strano per

mamma tenere questa porcheria, proprio lei che era cosi ordinata. Lo apre

e .meraviglia! La bambola magica! Una bambolina fatta di paglia e

stracci, con un faccino di porcellana, gli occhi blu, uno sguardo fisso da

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 88 di 144

poverina, i capelli di cotonina gialla tutti spettinati. Il vestitino a fiorellini

scolorito dal sole, anche un po' scucito da una parte e un piccolo strappo a

una gamba da dove usciva l'imbottitura. A guardarla adesso assomiglia di

più ad una strega che a una bambola magica. Dentro la sua testa si riapre

un uragano di ricordi come un turbine. Quante volte quando il padre

ritornava a casa ubriaco lei si nascondeva nello sgabuzzino e, con la sua

Michelina abbracciata stretta al collo, riusciva a non sentire le grida della

madre, le bestemmie del padre e il fracasso dei piatti che volavano in

cucina. Quando aveva Michelina in braccio la sua mente andava in un

altro mondo. Si trovava all'improvviso in un bel castello. Era la

principessa, tutti s'inchinavano davanti a lei e quella riverenza la riempiva

d'orgoglio. Indossava un bel vestito lungo e passeggiava boriosamente

lungo i corridoi dei palazzo. Tutti la coccolavano e le porgevano dolci,

confetti e cioccolatini. Quando poi la bufera in cucina era passata, sua

madre la faceva uscire dal suo castello e lei ritornava alla triste realtà.

Anche quando ritornava da scuola, dopo che le sue compagne l'avevano

presa in giro perchè il suo grembiulino era malandato e consunto, lei

prendeva la sua Michelina e cominciava a galoppare con la fantasia:

diventava la maestra della sua classe e, con tanta gioia e soddisfazione,

prendeva i quaderni (che nella sua mente erano quelli delle sue compagne)

e giù rigacce rosse e bruttissimi voti. Michelina riusciva a farle

dimenticare tutti i suoi dispiaceri. Era proprio una bambola magica! Man

mano che gli anni passavano cercava sempre meno la sua Michelina,

quando aveva un dispiacere aveva ormai imparato a gestire le sue

delusioni in un altro modo, così la bambola è passata nel dimenticatoio.

Sicuramente Michelina non finirà in mezzo al mucchio delle cose da

buttare via.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 89 di 144

Le cite còse

Mè pare a m‟arpetìa sempe: “Nòsta a l‟é na famija „d campagnin e

„dcò ti „t saras campagnin.” Mi nò ch‟j‟era pa content! Da pòch a

l‟era finìa la guèra e la vita „n montagna a më smijava tròp dura; mi

sugnava na vita pì bela „n sità, cola sità che ij vej a „rfasìo përgna

d‟arcan: “Vëdde là bass an fons dla pian-a: Turin!” sìmbol d‟un

mond contà da coj pòchi viagiator ch‟a j‟ero staje. Cand ch‟a l‟é vnù

„l moment ëd decide i l‟hai pa avù „d dubi e i son andàit a la stassion

ëd la stra „d fer dël pais. Pijo „l bijèt për Turin e, spetand ël treno, la

vita „m passa dnans birosa e tuta l‟istessa. Un subi e l‟ësbofé dla

motriss a vapor am dësnandia dai crussi.

Monto e „m seto s‟un sedil ëd bòsch avzin al finestrin ëspetand

ansios ël subi dël cap-ëstassion. Con n‟ësfrajé „d roe, „l treno as

bogia prima pian pianòt e peui sempe pì biros. Mi, ancolà al finestrin,

im faso robé da lë spetàcol ch‟i l‟hai dnans: ij mè euj a vëddo „n balèt

ëd pra verd spassià da ca e bòsch, un senari fantàstich për mi chërsù

„nt na cita borgià „d montagna trames a ròche, a pascoj e pa mach che

le vache a feme companìa. L‟armor ëd le roe sij binari a consìa la

ment e a giuta a tajesse fòra dal mond; ma dj‟àutri viandant a monto

sù a le fërmade ch‟a ven-o apress e „nt l‟aria „s dësparpaja na spussa

„d sigala…

Finalment i rivo an sità. Feura dla stassion i levo j‟euj al cel, ch‟a

l‟era pì nen bleussiel coma ch‟i lo vëddìa „n montagna, ma gris

sënner; l‟aria a l‟era pì greva; le ca àute pì che quatr bàite butà un-a

sl‟àutra; le fomne a pòrto „d caplin ch‟a smijo ni „d merlo e j‟òmo,

pitòst che la cabassa, a pòrto na borsa: tuti a marcio „n pressa sensa

parlé. Ma coma ch‟a l‟é rumorosa la sità, i l‟hai pensà. Traverso la

stra, ma na ciochinà „m fa „rsauté: a l‟é „n tranvaj, ël prim ch‟i

vëddìa.

Sempe pì sle mie, i rivo da l‟àutra part ëd la stra e i vado vers na

piassa pien-a „d gent ch‟as pistava, ch‟as possonava, ch‟as n‟andasìa

sghëmmonand; për tèra j‟era „d baron ëd minca sòrt ëd marcansìa,

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 90 di 144

franch „me a la fera dël pais. Ësta piassa së s-ciama Pòrta Pila e sì as

treuva „d tut: ëd brajëtte, „d cotin, ëd sòco, ancor ëd tomàtiche, „d

tòme, „d bur, ëd polastr, ëd colomb e „d quaje, fin-a j‟arnèis ëd cusin-

a, e „d trapole për ij giari e d‟àutra sòrt ëd prodot.

Na furfa „d fomne, „d servente, „d campagnin, as bogia con flema,

fërmandse dnans a la ròba, „dcò arciamà da j‟anvit dij bateur: “Ch‟a

ven-a avanti madamin, bela ròba a bon pat!”. Ëstordì m‟avzin-o për

caté quaicòs da mangé, ma „nt le sacòce a-i son pa pì ij sòld ch‟l‟ha

dame pare; antlora i marcio sensa na mira, gaboland daspërmi su

coma l‟hai podù femje robé ò perdje.

Anvers l‟ambrunì i ciamo a „n civich s‟a-i fussa na quàiche fnera

anté podèjme „rposé. Cost, am varda sbafumà coma s‟i fussa „n fòl e,

con un gest, am fa vëdde na piòla. Andrinta, l‟aria l‟era greva e

fumosa, it veusto për le tròpe person-e present, ma dzoratut për ël

fum dij toscan e l‟arfiaj dël vin.

Ëd sitadin, pijà pòst a l‟antorn ëd na tàula e comandà „n lìter ëd

col bon, a s‟anformo sle neuve dla giornà. Dj‟àutri, pòch pi „n là,

dnans a „n cit pùblich d‟atent spetator, a s‟asardo „nt ël rumoros

gieugh ëd la mora, „nterdì ma „ncor sempe butà „n pratica.

L‟òsto, ch‟a fa da padron a cost andé e vnì „d gent ëd minca

posission sossial, a l‟é „n gran drito e, pen-a ch‟a capiss ch‟i son

sensa dné, tut sùbit am possa a l‟uss. Përparèj „rtorno a la piassa dël

mërcà; „ntant che ij mërcandin artiro la ròba, i cheujo për tèra doi

pom gianinà: sempe mej che gnente.

Magonà, „rtorno a la stassion dla stra „d fer; setà „nt la sala d‟aspet

i stago për andurmime, cand doi òmo „n divisa „m sopato, e dòp avèj

arvëddù ij papé am fan seurte.

Basta, i n‟hai pro! Coma ch‟am manca la naturalëssa dle cite còse

„d cola vita ch‟i chërdìa greva, nopà a l‟era la pi bela. I l‟hai vorsù

toché con man na neuva realtà, e i l‟hai dëscheurvì coma ch‟i j‟era

beà „nt la mia borgià, con un bicer ëd vin a la cantin-a e le quatr

ciaciarade con j‟amis, sota „l cel bleussiel e l‟aria bon-a, an col

ambient anmascà „d montagna.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 91 di 144

Artorno a ca a „rtrové mie ròbe, cite ma „d gròss valor; tratant a

m‟artorno a la ment le paròle „d mè grand: “Lòn ch‟it l‟has „nt ël

cheur a meuir mai!”

Gianni CORDOLA

TRADUZIONE ITALIANA - Le piccole cose

Mio papà mi ripeteva sempre; “La nostra è una famiglia di contadini e

anche tu sarai contadino.” Io no non ero contento! Da poco era finita la

guerra e la vita in montagna mi sembrava troppo dura; io sognavo una vita

più bella in città, quella città che le persone più anziane riferivano pregna

di misteri: “Vedi laggiù al fondo della piana: Torino!” simbolo di un

mondo raccontato da quei pochi viaggiatori che c‟erano stati. Quando

venne il momento di decidere non ho avuto esitazioni e mi sono andato alla

stazione ferroviaria del paese. Prendo il biglietto per Torino e, aspettando

il treno, la vita mi passa davanti veloce e tutta uguale. Un fischio e lo

sbuffare della locomotiva a vapore mi distoglie dai pensieri.

Salgo e mi siedo su un sedile di legno vicino al finestrino attendendo

trepidante il fischiodel capo stazione. Con uno sferragliare di ruote, il

treno si muove prima lentamente poi sempre più veloce. Io incollato al

finestrino mi facevo rapire dallo spettacolo che avevo di fronte: i miei

occhi vedono una danza di prati verdi intervallati da case e boschi, un

fantastico scenario per me cresciuto in una piccola borgata di montagna

tra rocce, pascoli e la sola compagnia delle mucche. Il rumore delle ruote

sui binari concilia la mente ed aiuta ad isolarsi dal mondo; ma altri

passeggeri salgono alle fermate successive e nell‟aria si spande un odore

di sigaro...

Finalmente arrivo in città. Fuori dalla stazione alzo gli occhi al cielo

che non era più azzurro come lo vedevo in montagna, ma grigio; l„aria era

più pesante; le case sono alte più di quattro baite messe una sull‟altra; le

donne portano cappellini che sembrano nidi di merli e gli uomini, anziché

la gerla portano una borsa: tutti camminano veloci senza parlare. Ma

come è rumorosa la città pensai. Attraverso la strada ma uno scampanellio

mi fa sobbalzare: è un tram, il primo che vedevo.

Sempre più teso giungo dall‟altra parte della strada e vado verso una

piazza piena di gente che si pigiava, che si urtava, che andava sgomitando;

per terra cumuli di mercanzia di ogni genere, come alla fiera del paese.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 92 di 144

Questa piazza si chiama Porta Pila e qui si trova di tutto: dei calzoncini,

delle gonne, degli zoccoli, ancora dei pomodori, del formaggio, del burro,

dei polli, dei colombi e delle quaglie, anche stoviglie, trappole per topi e

altri prodotti.

Una folla di donne, di serve, di contadini, estasiata si muove

lentamente, sosta davanti alle merci, attratta anche dagli inviti dei

venditori: “Venga avanti signora, bella merce a buon prezzo”. Frastornato

mi avvicino per comprare qualcosa da mangiare, ma nelle tasche non ho

più i pochi soldi avuti da papà, allora cammino senza una meta pensando

tra me e me come ho potuto farmeli rubare o perderli.

Verso sera chiedo ad un vigile se ci fosse qualche fienile dove poter

riposare. Questo, mi guarda stralunato come fossi matto e con un cenno mi

indica una osteria. All‟interno, l‟aria è pesante e fumosa, vuoi per le

troppe persone presenti, ma soprattutto per il fumo dei toscani e delle

esalazioni del vino.

Alcuni cittadini, preso posto attorno ad un tavolo e ordinato un litro di

quello buono si informano sulle novità della giornata. Altri, poco più in là,

davanti un piccolo pubblico di attenti spettatori, si cimentano nel rumoroso

gioco della morra, vietato ma sempre praticato.

L‟oste, che domina sovrano questo via vai di gente d‟ogni posizione

sociale, è persona astuta e, appena capisce che sono senza denari, subito

mi spinge alla porta. Così torno alla piazza del mercato; intanto che i

venditori ritirano la merce, raccolgo a terra due mele bacate: sempre

meglio di niente.

Mestamente, torno alla stazione ferroviaria; seduto nella sala d‟aspetto

mi sto appisolando, quando due uomini in divisa mi scuotono, e dopo aver

controllato i documenti mi fanno uscire.

Basta, non ne posso più! Come mi manca la semplicità delle piccole

cose di quella vita che credevo grigia, ed invece era la più bella. Ho voluto

toccare con mano una nuova realtà, ed ho scoperto come ero felice nella

mia borgata, con un bicchiere di vino alla cantina e le quattro chiacchiere

con gli amici, cielo azzurro ed aria buona, in quella magica atmosfera di

montagna.

Torno a casa a ritrovare le mie cose, piccole ma di grande valore;

intanto mi tornano in mente le parole di mio nonno: “Quello che hai nel

cuore non muore mai!”

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Sezione C

Canzone Piemontese

GRADUATORIA

1) KITCHEN IMPLOSION (VILLA DEL BOSCO BI) - Magg (Il

Maggio di Casalcermelli) 2) Giuseppe NOVAJRA (TORINO TO) - La Bela Rosin

2) QUINTA RUA (CANDELO BI) - Varda giù 'n cula pianura

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Primo Premio Assoluto

Magg (Il Maggio di Casalcermelli)14

Interpretazione dei KITCHEN IMPLOSION

1 - Entroma ant‟ is palasi - che l‟ è csi bel antrè

Ai dioma a la padrouna - c‟ am lasa „n po‟ canté

2- E s‟in voi nènt cröddi - che Mağ a l‟è rivà

Sfacév da cùla fnèstra - ch‟l‟alber l‟è piantà

3 - Chi cl‟ é „sta bela fija c‟ansima dl‟ arburii

E cl‟ à la vesta bianca - e „l scarpi d‟ maruchii

RIT>

Magg, Magg, Magg, turnirà la fin di Magg

Io sono Maggio e sono il più bello

Fiorellin d‟amor che canta sul cappello

Siura padrouna padrouna dir pulé

c‟ am daga j ovi freschi e i lendi ai lasa sté

MOTIVASSION - Un rock piemontese che spacca! Finalmente

qualcosa di nuovo, il gruppo Kitchen Implosion sbaraglia i

concorrenti e arriva meritatamente al primo posto facendo ballare

letteralmente la giuria, grande entusiasmo di fronte alla rivisitazione

moderna di una canzone folk in dialetto tradizionale. L'originalità del

ritmo sfrenato non ha nulla da invidiare ai più noti gruppi americani,

meritato primo premio! (Carla COLOMBO)

14

Canzone tradizionale in dialetto locale della questua del Maggio di Casal

Cermelli (AL) – Autore ignoto. Rielaborazione del gruppo musicale piemontese

elettro-punk-folk KITCHEN IMPLOSION (www.kitchenimplosion.com), brano

contenuto nel CD autoprodotto –Pretty Work Brave Boys- del 2014

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Secondo Premio ex-aequo

La Bela Rosin15

Interprete Giuseppe Novajra

Viva la Bela Rosin!

1. Motobin l‟era anciarmanta

la Rosin-a dij Verslan-a:

un soris bel ch‟a t‟ancanta

e la pel come ‟d porslan-a.

Viva la Bela Rosin!

2. Ma che bela la Rosin:

a l‟é „d Nissa nen „d la Paja.

E sò pare? Un tambornin,

granatié, òm ëd la naja.

Pròpi bela la Rosin!

3, Pòrta ancor le veste ‟d lan-a

e sò pare tambornin

(tut d‟un tòch son ij Verslan-a)

fà nen seurte la Rosin.

Peul pa seurte la Rosin!

4. Riva ‟l prinsi co‟ ‟j barbis,

con ij can e l‟archibus:

a va a cassa a Racunis,

la Rosin l‟é sempre sl‟uss.

Sempre sl‟uss a stà Rosin.

15

Autori: Sergio Donna (parole), Giuseppe Novajra (musica) Rosa Vercellana, detta la Bela Rosin, nacque a Nizza Marittima nel 1833. Suo padre, dopo aver fatto parte della Guardia imperiale napoleonica, entrò nei granatieri di Sardegna con il grado di "tamburo maggiore". Rosa incontrò per la prima volta Vittorio Emanuele II nel 1847, e ne divenne l‟amante. Vittorio Emanuele II mantenne la propria relazione con Rosa a per tutta la vita, anche dopo la morte della regina.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 96 di 144

5. Con lë s-ciòp e lë stival,

a la tnùa ‟d Racunis,

cala giù da sò caval

Tòjo prinsi co‟ ‟j barbis.

Va a trové Bela Rosin.

6. Sëddes agn a l‟ha Rosin,

e Vitòrio gnanca tranta.

Ma còs fà? S‟as veulo bin,

minca cheur giumaj a canta.

Canta ‟l cheur ëd la Rosin.

7. Canta ‟l cheur ‟d Tòjo Manuel:

pì davzin a-j va Rosin;

pròpi lì an sël pì bel

a lo cheurv ëd bej basin.

Basa bin Bela Rosin!

MOTIVASSION - Quando la poesia diventa canzone. L‟intrigante

storia d‟amore tra Rosa Vercellana e il re Vittorio Emanuele, rivive,

fin dai suoi primi albori, sulle note della chitarra e la voce del

maestro Beppe Novajra, che ne fa melodia “anciarmanta”, come

deliziosa è la Bela Rosin. Il maestro, come in altre occasioni, riesce,

con piccole variazioni, a trasformare una bella poesia in una

altrettanto bella canzone, mantenendo la forma strofica e la poetica

originale. Per il suo attingere alla tradizione locale e per la melodia

coinvolgente, “La Bela Rosin”, nella sua originalità, può essere

considerata una canzone d‟autore, ma anche popolare e quindi degna

di rappresentare il patrimonio musicale e la tradizione del nostro

Piemonte. (Bruno GIOVETTI)

TRADUZIONE ITALIANA – La bella Rosina

Viva la Bela Rosin! // 1. Aveva molto fascino la Rosina Vercellana: un

sorriso bello che t‟incanta e la pelle come porcellana. Viva la Bela Rosin!

// 2. Ma che bella la Rosin: è di Nizza (non del Monferrato). E suo padre?

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 97 di 144

Un tamburino,granatiere, militare. Proprio bella la Rosin! // 3. Porta

ancora vesti di lana e suo padre tamburino (i Vercellana sono tutti d‟un

pezzo) non fa uscire Rosin. Non può uscire la Rosin. // 4.Arriva il principe

con i baffi, con i cani e l‟archibugio: va a caccia alla tenuta di Racconigi,

Rosin è sempre sull‟uscio. Sempre sull‟uscio sta Rosin. //5. Con schioppo e

stivali alla tenuta di Racconigi, scende da cavallo Vittorio (Tòjo) principe

con i baffi. Va a trovare la Bela Rosin. // 6. Sedici anni ha Rosin, e Vittorio

nemmeno trenta. Ma che importa? Se si vogliono bene, ogni cuore ormai

canta. Canta il cuore di Rosin. // 7. Canta il cuore di Vittorio Emanuele:

più vicino gli va Rosin; proprio lì sul più bello lo copre di bei baci. Bacia

bene la Bela Rosin!

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Secondo Premio ex-aequo

Varda giù 'n cula pianura 16

Interpretazione dei QUINTA RUA

Varda giù 'n cula pianura

Varda giù 'n cula pianura

i ciminé fan papûfûm, fan papûfûm

i padrundl'a gran paúraas fan guarnè

as fan guarnè da cui dal lûm.

A s'éingaggiàse 'na gran battaia

dai nemis, dai nemis dal capital, dal capital.

A l'è noit e le marcheiseantjëstra, antjëstra

lor ai son pa, lor ai son pa,

a iè mach la povraovriera

cha travaja, catravajaneuit e dì, neuit e dì.

Varda là le nostre fie, catravajo, catravajo

al fabricùn, al fabricùn

e se sunbele e ben turnie

a sun la gioia, a sun la gioia dai padrun, cui lazarun.

Ant 'i officine, ai manca l'aria

ant le suffiette, ant le suffiette

ai manca al pan, ai manca al pan

e custa vita proletaria j'ouvrie, j'ouvrie,

la fan tutl'an, tut l'ani la fan.

16

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La canzone, la cui paternità alcuni attribuiscono ad Antonio

Mazzucato edaltri a Luigi Valsoano“l'unico poeta autenticamente

operaio – così lo definisce Gustavo Buratti”,è un tipico esempio di

canto sociale e rievoca in particolare la protesta operaia in Piemonte.

Alcune fonti affermano che questo canto era già presente durante la

lotta per le dieci ore iniziata a Valle Mosso il 26 settembre 1897,

quando entrarono in sciopero ottocento tessitori, con mille operai

addetti alla filatura, alla tintoria e all'apparecchiamento. Durante lo

sciopero, scrive Pietro Secchia,"gli operai percorrevano le strade a

gruppi e manifestavano cantando alcune strofe di una canzone che

diventerà molto popolare, si tramanderà di generazione in

generazione: in occasione di ogni sciopero o manifestazione di

tessitori, da allora sino agli anni della prima guerra mondiale,

veniva sempre cantata assieme ad altri inni proletari”. Sicuramente

Antonio Gramsci ne faceva cenno proprio in un articolo in cui

ricostruiva la storia dello sciopero dei tessili torinesi dell'aprile-

maggio 1906, che finalmente permise loro la conquista delle dieci

ore senza diminuzione di salario, ricordando che“il 'fabricòn' era

diventato sinonimo di ergastolo”

Che la canzone fosse ben presente nel corso di quella lotta del 1906

lo ricordava anche la torinese Teresa Noce: "Custa sì a l'era una

dlecanson ch'ampiasivaadpì. Questa che canto io è anche di Biella,

ma è quella dei grandi scioperi, del Novecentosei, i primi che io mi

ricordo, quando vedevo che venivano giù le operaie da via

Garibaldi, che venivano giù da Rivoli dove c'era la Leumann con le

succlötte e tachtachtach in via Garibaldi, con il grembiale nero,

perché allora le operaie andavano tutte vestite così. E mia madre

che era reazionaria all'ultimo mi diceva 'Non guardarle, non

guardarle! Vanno alla casa del diavolo!'. La casa del diavolo era la

Camera del Lavoro. E io invece avevo tanta curiosità di vedere

queste donne con gli zoccoletti che cantavano questa canzone!".

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TRADUZIONE ITALIANA – Guarda giù in quella pianura

Guarda giù in quella pianura / le ciminiere, le ciminiere non fanno più

fumo / i padroni (i titolari) dalla grande paura / si fanno proteggere, si

fanno proteggere da “quelli del lume” (i Carabinieri: il riferimento è alla

fiamma dei loro cappelli) / / S'è ingaggiata una grande battaglia / da parte

dei nemici, dei nemici del capitale, del capitale. / / È notte, e le marchese

(le signore bene) per le strade / non ci sono, non ci sono / c'è soltanto la

povera operaia / che lavora, che lavora notte e giorno, notte e giorno / /

Guarda là, le nostre figlie, / che lavorano, che lavorano al fabbricone / e se

sono belle, e ben tornite (dalle forme gradevoli) / sono la gioia, sono la

gioia dei padroni, quei lazzaroni. / / Nelle officine manca l'aria, / nei solai

(i sottotetti in cui vivevano gli operai) manca il pane, manca il pane / e

questa vita proletaria, gli operai, gli operai / la fanno tutto l'anno, tutto

l'anno la fanno.

MOTIVASSION - I Quinta Rua ci ripropongo questo canto sociale

come colonna sonora dell‟interessante progetto Vuoti a perdere - Un

viaggio tra i luoghi abbandonati nel nostro paese–. Taleprogetto

nasce nel 2013 con l‟intenzione di raccontare attraverso parole e

fotografie i tanti luoghi dismessi presenti sul territorio piemontese.

Ideatore del progetto è il fotografo e videomaker biellese Riccardo

Poma.

I Quinta Rua, che amano definirsi un gruppo poligenerazionale (ci

sono 30 anni di differenza tra il membro più giovane e quello più

anziano) e multistrumentale, in quanto i suoi elementi suonano una

molteplicità di strumenti a corde, fiati, mantice e percussioni popolari

assortite nonché strumenti auto-costruiti con materiali di recupero,

hanno fatto conoscere la loro musica in Piemonte, Francia, Germania

e nel resto della Penisola suonando in ogni possibile ed immaginabile

situazione, animando feste di piazza e matrimoni, salutando gli amici

defunti, muovendosi sui palchi di prestigiosi festival o tra le tavolate

delle piole, promuovendo e valorizzando la lingua piemontese,

facendo conoscere la cultura popolare e le tradizioni del Piemonte,

perseguendo lo stesso obiettivo del premio Piemont ch‟a scriv. (Pier

Carlo MUSSO)

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Sezione D - Poesia Italiano

Tradizioni del Piemontese

GRADUATORIA

1) Onorina GARONETTI AVOGADRO (TAVIGLIANO BI) - Un rito

d’altri tempi 2) Natalia BERTAGNA (MONCALIERI TO) - Strade di Moncalieri

SEGNALAZIONI DI MERITO

Maria Luisa VIGNA (TORINO TO) - Ricordi

MENZIONI DELLA GIURIA

Flavio PROVINI (MILANO MI) - Fantasmi sabaudi

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Primo Premio Assoluto

Un rito d’altri tempi

Nello scrigno segreto della memoria

è rimasto vivo un pezzo di storia

un aspetto della vita popolare

di vecchia data, da non dimenticare.

E‟ il lungo bucato del tempo che fu

ch‟esigeva un rito che or non c‟è più:

una giornata di lavoro stancante,

oggi un dito che preme un pulsante.

L‟orgoglio di lino, canapa, cotone

tessuti a mano con gran precisione

allor pregi e vanti di normalità

ora soppressi da scienza e tecnicità!

Dunque, il bucato già insaponato

empie il mastello in strati piegato:

è ricoperto da ceneri bianchissime

con foglie d‟alloro profumatissime.

Poi nel mastello posato su sostegno

si versano i secchi d‟acqua bollente

che filtra i panni sì lentamente

da far il miscuglio sgrassante, pulente.

E‟ il “ranno” ripreso appena freddato

da un foro in fondo al mastello

per riscaldarlo e ancor riusarlo,

forza sbiancante per tutto il bucato.

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Quindi si procede all‟azzurraggio,

la raffinatezza del lungo lavaggio

e per ultimo alla fatica dura:

nell‟acqua corrente, la risciacquatura.

Inginocchiata su un rude supporto,

sta la massaia sporgendosi in acqua:

immerge, solleva ed anche sbatacchia

la biancheria che sciacqua e risciacqua.

E giunge il tempo della stenditura,

su corde robuste all‟uopo tirate:

d‟inverno al chiuso, d‟estate nel prato

e quel candore è assai ammirato.

I panni che han il riflesso di cielo

tra fiori e fiori di tanti colori

cullati dal vento, baciati dal sole

si colgon alfin profumati di viole!

Onorina GARONETTI AVOGADRO

MOTIVASSION - L‟autrice ci offre la possibilità di rivivere uno

spaccato di vita d‟altri tempi.

Quando fare il bucato era un vero e proprio rituale, scandito da una

serie di azioni precise e sequenziali che venivano tramandate di

generazione in generazione. La tecnologia e la scienza hanno affidato

a un “dito” e ad un “pulsante” le ore di lavoro duro e faticoso svolto

dalle nostre nonne.

La forza di questa poesia sta nel restituire ad una generazione smart

la conoscenza di un mestiere sì lungo e faticoso ma carico di poesia e

di emozioni. (Marina GALLIA)

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Secondo Premio Assoluto

Strade di Moncalieri

Ciottoli levigati

di paradiso ignoto

questi silenzi conoscono

l'insidia dell'ombra

dove storie antiche

catturano fremiti arcani,

tratteggiano l'eco

di remoti passi

e ne celano l'umida impronta.

In quieta simbiosi

ascolto l'incedere

del viandante pellegrino,

respiro le note sospese d'un cembalo

e malinconie sottili

si affacciano a finestre socchiuse

sussurrando antiche melodie.

Guardo le tue strade

farsi vento

profuso in corpuscoli di luce,

immobili orologi fermi

su appassite foglie di calicanto.

Dove il tempo

è parentesi aperta

l'antico suono di campane

conosce la fissità dell'ora.

Natalia BERTAGNA

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MOTIVASSION - Delicata e malinconica lirica, un omaggio alle

strade del proprio paese, intrise di “fremiti arcani”, con le quali

l‟autrice, per sua stessa ammissione, entra, con passo leggero, “ in

quieta simbiosi” tra “ ciottoli levigati di paradiso ignoto”.

Un susseguirsi di figure e di sensazioni dove si respirano “ le note

sospese del cembalo” o si cela “l‟umida impronta” di passi lontani.

Dalle “ finestre socchiuse” della poetica dell‟autrice, non stupirebbe

intravedere l‟espressione compiaciuta di Montale, Quasimodo,

Ungaretti o Pavese.

Un paradiso “dove il tempo è parentesi aperta” e, come direbbe il

Leopardi, dove “ il naufragar m‟è dolce”, in questo caso, per le strade

di Moncalieri. (Bruno GIOVETTI)

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SEGNALAZIONI DI MERITO

Ricordi

……Di una casetta nelle Langhe,

l'odore del grano maturo,

i papaveri rossi che voltano al vento,

gli azzurri fiordalisi.

Vicino al ruscello, dopo la

cascata, cantavano le lavandaie

e il bucato candido profumava di buono.

Al mattino la rugiada nei prati,

correvano le lumachine,

il pane fresco appena sfornato

accompagnava le delizie degli orti.

Nelle sere d'estate le gare a bocce,

ai tempi per soli uomini.

Alla festa del paese

si saltava nei sacchi per strada

e le macchine si fermavano. Dopo il ballo

Quand'era autunno

le vigne si coloravano di viola,

con i grappoli pronti per il buon vino.

La nonnina aspettava che qualcuno ritornava.

Anche se per me tutto è cambiato,

qui il paesaggio è sempre questo…

patrimonio dell‟UNESCO.

Maria Luisa VIGNA

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MENZIONI DELLA GIURIA

Fantasmi sabaudi

Si narra che a Torino ronzino fantasmi

a lagnarsi del languire nei marasmi,

vecchie glorie non arrese agli spasmi

d‟una vita che li soffoca come miasmi.

In centro vado e li vedo, eccome se li vedo

ma non li fermo e nulla loro chiedo,

all‟urbano dedalo li lascio far da arredo

come fossero di spose diafano corredo.

Errabondi spiriti quali randagi gatti

nel Quadrilatero, nei ciechi anfratti

sfuggono alla vista mala dei distratti,

nell‟etere sornioni rifiutano i contatti.

D‟improvviso uno m‟appare in galleria

del Pietro Micca, forse soldato, forse spia

nella verde giubba mi scruta e fugge via,

dei passi così impalpabili nessuna scia.

Ne ignoro la strana essenza e il ruolo,

se siano ectoplasmi di morti a far dolo

come alle nozze del Falletti di Barolo

quando la magna scala fu rasa al suolo.

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Tale spettro di fra‟ Cambiani da Ruffia

m‟appare il dieci d‟ogni mese a fondo via,

del sacro ufficio un‟indomita nostalgia

ancor muove l‟Inquisitore contro l‟eresia.

E sempre alberga il Boia in Via Bonelli

al patibolo dei condannati giacché ribelli,

vagherebbe in Santa Chiara senz‟orpelli

e non son voci, deliri di folli o di pischelli!

Ma se si cercano ordinati in processione

indico al Castello della Rotta l‟escursione,

a metà giugno al maniero fan visitazione

chi a cavallo, chi senza capo né gonfalone.

E nelle liete o meste sere sotto la Mole

non v‟è mai quiete quando muore il sole,

al buio gemono, fischiano, fan capriole

al cielo aprono un cuore che ancora duole.

Flavio PROVINI

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Sezione E – Narrativa Italiano

Tradizioni del Piemontese

GRADUATORIA 1) Giuseppe MARRA (ASTI AT) - Dal mio scalino SEGNALAZIONI DI MERITO

Maurizio BRACALI (CERIALE SV) - Il vento

Gianni STUARDI (TORINO TO) - Bartolomeo e i salamini

Danilo TACCHINO (MONCALIERI TO) - Il mistero dell’inno sabaudo

MENZIONI DELLA GIURIA

Maria Lina BOCCHETTA RAVALDI (ARONA) - Marianna del Lago

Angela DONNA (TORINO TO) - Pesche e vino

Silvia SARZANINI (ASTI AT) - Un tuffo nel passato nella storia di un

giornale piemontese

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Primo Premio Assoluto

Dal mio scalino

Sono tornato, qui, su questo scalino con accanto una sana bottiglia di

Barbera e all‟orizzonte il tramonto sulle colline Monferrine. Sono

tornato qui a sedermi sul mio scalino, è da qui sono partiti i miei

sogni, da qui è iniziata la mia avventura.

Aeroporto di Malpensa, arrivi internazionali. C‟è molta gente

sconosciuta e frenetica che circola, corre con i bagagli in mano,

parecchi sono davanti al tabellone degli arrivi con il naso all‟insù,

qualcuno sbuffa, altri guardano in continuazione l‟orologio, tanti

sono lì da ore. Un uomo ed un bambino silenziosamente aspettano. E

parte un annuncio- “L‟aereo az… proveniente da Buenos Aires è

atterrato”. Qualcuno applaude, altri mostrano visibilmente segni di

gioia e tutti si stringono alla porta d‟uscita. Ci vuole mezz‟ora prima

che i primi passeggeri escano con il viso stanco trascinandosi i

trolley impolverati. Tutti si accalcano, qualcuno comincia a salutare

da lontano, infine arrivano gli abbracci commoventi, le lacrime di

gioia. L‟uomo e il ragazzo s‟avvicinano e poco dopo individuano una

famigliola, un uomo sui cinquanta, con la moglie, due ragazzi poco

più che adolescenti ed una coppia di anziani, lui sugli ottanta e lei

poco più giovane.

-Eccoli!- Esclama l‟uomo ed il ragazzo aguzza la vista, il gruppetto

individua i due. Partono sorrisi e, man mano che si avvicinano,

cresce un‟incontenibile gioia da entrambe le parti. Infine si

incontrano, s‟abbracciano e si baciano, come tutti gli altri e si

stringono uno con l‟altro, con visibili lacrime.

-Zio Pino sei proprio tu? Io sono Carlo, il figlio della Teresa, tua

sorella- dice l‟uomo con voce strozzata- e questo è mio figlio, Marco.

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-Hola, Oh, qué hermoso bebé, oh qué emoción estar aquí, yo .. yo

nací aqui, sono nato qui- dice l‟anziano anch‟egli con la voce

tremolante.

-Lo so zio, lo so-.

-Son muchos años que no viene, la patria ...l‟Italia- dice Pino

scoppiando in un pianto e abbracciando nuovamente Carlo.

Vanno al bar a bere una bibita fresca e poi escono dall‟aeroporto e

Pino sgrana gli occhi per vedere, è ancora incredulo, non gli sembra

vero d‟avere percorso migliaia di chilometri per tornare nella sua

patria, non gli sembra vero, anche perché quando lasciò l‟Italia,

questa era molto diversa.

Salgono tutti in auto e via verso il Piemonte, verso le colline del

Monferrato, verso le radici. Durante il viaggio Pino e la moglie

parlano un po‟ in spagnolo, un po‟ in piemontese e un po‟ in italiano.

E intanto guardano dal finestrino e commentano

-Italia es maravilloso, todo ordenado, limpio- dice Pino.

-Non è proprio così dappertutto!- dice il nipote.

-Ciertamente, ma si vede che c‟è stato progresso. Quando sono

andato via jo c‟era solo miseria-

L‟auto procede veloce, attraversa la pianura, sulla quale sono

distribuite case, paesi, fabbriche e città, e Pino assimila tutto come

fosse davanti ad uno schermo in un cinema. E poi piano, piano dopo

Alessandria, cominciano ad intravedersi le colline e le cascine con i

trattori fermi nei cortili e i rimorchi carichi di fieno e in Pino

cominciano lentamente a riaffiorare vecchi ricordi di quando era

bambino e scorazzava nell‟aia, quando si trebbiava e lui si

nascondeva dietro la scala della cascina perché era impaurito ed allo

stesso tempo affascinato dalla macchina da battere, così rumorosa,

così magica e affascinante. L‟auto esce finalmente dall‟autostrada e

s‟innesta nella provinciale e già si sente il profumo di casa.

S‟inerpica per la collina, sbuffa e traballa, è vecchia ma fa ancora il

suo dovere. S‟intravedono le vigne e Pino sgrana gli occhi, tenta di

parlare ma non riesce perché ha un nodo in gola dall‟emozione.

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 112 di 144

All‟improvviso il paesino compare davanti ai loro occhi e Pino lo

vede attraverso il finestrino e non è un film, è proprio lui, con le case

arroccate sul profilo scosceso della collina ed in cima il campanile

con sotto la piazza.

-Aquí está mi país, el me pais.- dice l‟uomo un po‟ in spagnolo e un

po‟ in piemontese, non stando più nella pelle, stringendo il braccio

della moglie che invece sta in silenzio ma anch‟essa con le lacrime

agli occhi-

-Zio si è proprio lui, Corticelle, non è mai cambiato nel tempo,

sempre uguale, non è come le città che si sono trasformate, sono nate

industrie, dove si vedono visibilmente i segni del progresso, Qui tutto

sommato è rimasto ancora immutato. La gente ha solo restaurato le

proprie case, ha fatto costruire il bagno e alcune stalle si sono

trasformate in sale con i divani, ma a parte ciò zio è sempre lui, il tuo

Corticelle.

-“A vugh” (Vedo) - dice l‟anziano in piemontese, asciugandosi le

lacrime-

Ma l‟emozione continua, attraversandolo, Pino mette la testa fuori

dal finestrino respira profondamente, riconosce le vie, i muri, le

pietre, le indica e non riesce a tirare fuori una parola. L‟auto arriva

nel cortile e lì ci sono tutti i parenti allineati, pronti ad accoglierli.

L‟auto si ferma, il nipote scende e va ad aprire gli zii i quali

scendono con i visi stanchi ma felici, tutti si abbracciano, le lacrime

si fanno intense come un fiume in piena. Pino boccheggia non

riuscendo a parlare, poi a forza di deglutire riesce a dire qualcosa.

-Nací aquí, son na a que- dice Pino e si abbassa per baciare la terra

e poi corre come un bambino che va verso la mamma e si appiccica

alla vecchia casa, l‟abbraccia come meglio può e la bacia, mentre le

lacrime continuano a scendere. Tutti rimangono ammutoliti nel

vedere quanto amore abbia lo zio nei confronti della vecchia

abitazione. Pino riprende il discorso dicendo che quella casa, quella

strada e le colline, il campanile, se li sognava di frequente. Si

siedono tutti a tavola e Pino, ripresosi dall‟emozione, racconta la sua

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 113 di 144

storia, sebbene tutti la conoscano. Finita la guerra lui era poco più di

un ragazzo, avevano poca terra e suo padre decise di emigrare in

Argentina, là c‟era già un suo zio da tempo che gli fece sapere che si

lavorava tanto nei campi, ma si stava bene. Così partirono, e Pino si

ricorda vagamente il porto di Genova con il grande bastimento, si

ricorda le lacrime che tutti versavano e soprattutto si ricorda bene i

fazzoletti che sventolavano dalla banchina, quando la nave stava

allontanandosi. E dopo un viaggio estenuante arrivarono al Porto di

Buenos Aires dove li aspettava lo zio che li accolse con allegria

donando a loro tutti la speranza. Così passarono anni e anni. Pino,

iniziò a lavorare nei campi e successivamente aprì una bottega di

alimentari e questo gli permise di mettere da parte un po‟ di risparmi.

Così quando Pino e Maria, figlia di una delle famiglie emigrate con

lui, si sposarono, tornarono in Italia in viaggio di nozze e rimasero lì,

al paese ben venti giorni. Ora erano davvero tanti anni che non

venivano più. Al termine del racconto tutti sono carichi di emozione

ed ammirazione per i parenti argentini. Ma Pino improvvisamante si

alza, afferra una bottiglia aperta di Barbera ed un bicchiere, si scusa,

dice di assentarsi per un po‟ ed esce, tutti si guardano e Maria

interviene.

-Non preccupatevi, lui aveva un desiderio ben preciso, quello di

sedersi sul vecchio scalino di casa sua-.

Pino attraversa l‟aia e va sedersi proprio sullo scalino della vecchia

casa, che aveva abbracciato prima e si lascia andare, chiude per un

attimo gli occhi ed è come tornasse ragazzo. Allora si rivede con i

calzoni corti che corre dietro alle galline in cortile, si vede mentre

s‟arrampica sull‟albero di ciliegie per saziarsi, si vede con la nonna

mentre va nel prato, verso valle, a raccogliere l‟erba medica per i

conigli. Si vede con due soldi in tasca che corre in paese a

comprarsi qualche caramella. E soprattutto si vede nitidamente

quando è nella vigna ad afferrare i grossi grappoli di Barbera, di

Moscato e mangiarseli di nascosto. E si ricorda i primi bicchieri di

vino novello bevuti nella cantina del nonno, che sapevano ancora di

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 114 di 144

uva. E mentre ricorda afferra la bottiglia e si versa il vino nel

bicchiere. Si ricorda ancora quando suo padre lo portava a Nizza a

mangiare la “bela cauda”, rivede il “Magnan” che passava e chiedeva

di riparare pentole e pentolini, e il carro che passava a vendere il

ghiaccio. E poi ancora la festa del paese quando “piantavano il ballo

a palchetto” e le ragazze venivano accompagnate dalle mamme che

stavano a guardarle tutta la sera, lui ragazzino, si accontentava di

girare attorno al ballo e guardare attraverso le feritoie le gambe delle

signorine che si muovevano. Si ricorda anche i primi balli americani,

in particolare il twist e il boogie-boogie. E si vede ancora durante la

processione alla festa della Madonna del Rosario, accanto alla madre,

dietro al tabernacolo. Beve lentamente e guarda il tramonto come

quando era ragazzo, stesso cielo, stesso paesaggio, stesso campanile

in lontananza, e ancora sente gli stessi profumi, gli stessi rumori in

cortile di allora. Da quello scalino lui sognava il suo futuro, sognava

di viaggiare per il mondo, sognava di trovarsi un lavoro e di farsi una

famiglia. Su quello scalino si era seduto l‟ultima volta prima di

emigrare con una grande tristezza, perché sapeva che era difficile

ritornare lì a sedersi, per sentire il canto dei grilli nelle sere d‟estate,

e la frescura della notte monferrina e il rumore dell‟andirivieni del

cane legato con la catena, e vedere nella penombra il paese da

lontano. Invece è riuscito a tornare, ed ora, che si è rilassato ed ha il

bicchiere in mano di buon Barbera, si sente felice e in cuor suo

ringrazia il Signore per averlo conservato e sostenuto per questo

viaggio. Egli è seduto su quel gradino logoro dal tempo, un pò come

lui, per poter ancora sognare, per ancora respirare quell‟aria antica,

salubre, per sentirsi ancora ragazzo con i pantaloni corti, e andare in

mezzo alle sue colline, in mezzo ai suoi filari, che gli pare lo stiano

chiamando per dirgli di non andare più via che hanno bisogno di lui.

Giuseppe MARRA

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MOTIVASSION Un racconto commovente sul tema dell'emigrazione dopo la guerra,

un ritorno in età avanzata alle proprie radici, al paesino nel

Monferrato dove poco sembra cambiato mantenendo la genuinità

contadina e agreste.

Emozioni, profumi, rumori e sospiri descritti magistralmente con

dovizia di particolari tanto da far immedesimare il lettore

nell'anziano protagonista che bacia la terra a cui era stato strappato

da ragazzino e abbraccia più che può la casa finalmente ritrovata

dopo le tante stagioni della vita. Una bellissima immagine questa,

rende bene l'amore che lega tutti al primitivo nido che ci vide

nascere.

La trama è ben strutturata e coinvolgente: il faticoso viaggio in

bastimento da Genova a Buenos Aires, l'addio dei fazzoletti dalla

banchina, il lavoro in Argentina, il breve viaggio di nozze al paesino

in Nord Italia mai dimenticato, il sospirato ritorno in aeroplano con

la moglie, il figlio, la nuora, i nipoti, i verdi paesaggi dal finestrino

dell'auto e ancora poi i parenti allineati sull'aia per dare il benvenuto,

sembra davvero di sentire una voce narrante e vedere succedersi

scene da un vecchio film...

Originale il mix del linguaggio a metà tra spagnolo e piemontese e le

descrizioni di un tempo che fu, per infine ritrovarsi ad ammirare il

tramonto nel tramonto della vita ma sotto lo stesso cielo proprio

come da ragazzo, da quell'amato scalino, con n buon bicchiere di

Barbera. Un brindisi simbolico ai veri valori, all'amore per la terra,

alle proprie radici sempre salde nel cuore.

“Dal mio scalino” offre una visuale degna d'essere premiata con

plauso unanime all'autore. (Carla COLOMBO)

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SEGNALAZIONI DI MERITO

Il vento

Un uomo intelligente non può in verità diventare nulla. Solo gli sciocchi, diventano qualcosa. F. Dostoevskij (Ricordi dal sottosuolo)

La prima volta che vidi il Vento mi parlò con voce nasale. Mi chiese bofonchiando e sputacchiando, con un linguaggio impastato e approssimativo, se per caso avessi visto il suo cane che gli era scappato un'altra volta. Stavo per rispondere che non sapevo neppure dell‟esistenza di quel cane, quando l‟amico che mi accompagnava rispose al posto mio. Gli si rivolse col tono di chi parla con un bambino e con calma gli spiegò che io non potevo conoscere il suo cane essendo la prima volta che mi trovavo in quel piccolo paese del Piemonte. Nonostante il fatto che chi gli parlava lo conoscesse da tempo, il Vento, aveva stranamente rivolto a me la domanda sul cane. Giovane, ma di età indefinita, malamente vestito con pesanti e informi scarponi da montagna e una lisa giacca marrone due taglie più grossa, il Vento continuava a guardarmi, senza curiosità, con occhi assenti, manipolando un filo d'erba tra le mani, come se ascoltasse senza alcun interesse quanto gli stavano dicendo. Poi il mio amico, facendomi un cenno d'intesa, gli chiese se credeva possibile che quel giorno potesse alzarsi il vento. Allora gli occhi finora inebetiti del Vento si illuminarono di colpo diventando vividi e gioiosi e nuovamente parlò biascicando, dicendo qualcosa che non riuscii a capire. Il mio amico continuò, dicendo che a volte il vento poteva essere pericoloso e chiedendogli come si sarebbe comportato

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se una raffica di quel vento che lui amava tanto gli avesse scoperchiato il tetto della casa. Questa volta lo capii benissimo: rispose ridacchiando che lui al vento avrebbe sempre lasciato fare tutto quello che voleva. Poco dopo mentre si allontanava lungo il sentiero arido e sassoso prendendo a calci una pietra, il mio amico mi raccontò di lui. Era quel che si dice il matto del villaggio. La sua ossessione era il vento, tanto che tutti ormai lo chiamavano così, al punto che molti, e forse anche lui stesso, avevano dimenticato il suo vero nome. Così com'era spento e assente nei giorni in cui il vento riposava, quando si muoveva l'aria il ragazzo pareva trasformarsi: diventava attivo e vitale. La presenza di una sostanziosa brezza lo rivitalizzava, rendendolo irruento, euforico ed esaltandolo. Se la spinta del vento era violenta, anch'egli si agitava animato da energia fino al punto da non capir più nulla, impazzando felice, seguendo con corse a perdifiato le correnti nei vicoli del borgo o correndo lungo i sentieri e attraverso i prati. Viveva in una vecchia baracca col suo cane, facendo piccoli favori alla gente del paese che lo ripagava con qualche soldo, un po‟ di roba da mangiare e sigarette. A volte pascolava le pecore o le vacche di un pastore, faceva commissioni ed era benvoluto da tutti.

***

Avevo accettato l'invito a trascorrere alcuni giorni di vacanza in quel minuscolo paese del Piemonte, un piccolo borgo bucolico e pastorizio, frazione della più nota e turistica Sestriere, raggomitolato in una valle circondata da montagne alte, con le vette innevate anche d'estate. Mi stavo riposando e rilassando. Durante il giorno, io e l'amico del quale ero ospite, facevamo lunghe passeggiate nei boschi discorrendo e restando poi in silenzio, quando i sentieri si facevano più erti e il fiato si faceva un pò più corto. Scoiattoli e marmotte, ci attraversavano la strada ignorandoci con naturale noncuranza, mentre falchi e altri grossi uccelli volavano alti sopra le nostre teste.

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Alcune volte attraversavamo prati dove i ragazzi del paese si ritrovavano per giocare. Discutevano e ridevano parlando in patois a voce alta, dividendo i perimetri erbosi con vacche pascolanti che ruminavano in placido silenzio indisturbate da tutto quel vociare. Ognitanto un ragazzo raccoglieva un grosso sasso e lo scagliava con forza, distrattamente, come senza pensarci, continuando a parlare con gli amici, verso quelle mucche. Ora, quel sasso che avrebbe tramortito un uomo, colpiva l'animale contro un fianco e io ignorante di vacche e di montagna, che già mi aspettavo con preoccupazione di vedere la bestia fuggire imbizzarrita muggendo e scalpitando, la vedevo sollevare appena il muso con ciuffi d'erba sporgenti e masticati, voltarsi all'indietro lentamente come a cercare, con uno sguardo vacuo e indifferente, la causa di quel piccolo fastidio. Seduti con la schiena appoggiata a un grosso tronco, guardavamo i ragazzi impennare vecchie e scassate mountain bike, abbandonarle per una corsa a piedi, un po' di lotta, e poi riprenderle per giocare a superare un dosso erboso. L'incontro con il Vento, mi era però rimasto stranamente impresso. Mi ritornava in mente sovrapponendosi con forza, a pensieri e ricordi senz'altro più importanti. Immagini confuse più o meno lontane, affioravano e si susseguivano, schiarendosi in una sorta di mnemonica messa a fuoco, presentandosi davanti ai cancelli della mia memoria e insistendo per entrare. Esigenti e volitivi ricordi, esiliati in zone oscure della mente, riguardanti figure singolari e strani personaggi, alcuni dei quali credevo aver dimenticato, prepotenti ritornavano evocati dall'incontro col Vento esigendo un loro spazio, come se avessi aperto un cassetto pieno di ricordi lontani, che il Vento, invece di spazzare via, mi ributtava addosso offeso delle mie dimenticanze. Facce, comportamenti, azioni, di strane persone viste o conosciute nel passato rinascevano magicamente vividi, rivendicando con autorevolezza il loro posto nella mia memoria.

***

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Io che amavo scrivere e descrivere mi ricordai di tutti i “matti” che la mia sensibilità d‟autore aveva immagazzinato in un ricordo pronto ad esplodere alla prima occasione narrativa. Mi ricordai dell‟uomo che camminava per ore, instancabilmente, intorno al monumento della piazza, fermandosi solo per chiedere un‟altra sigaretta al passante di turno. Mi ricordai di Rigoletto, il carrettiere nano e ovviamente gobbo, che incuteva paura a noi bambini con quel pezzetto di lingua sempre sporgente da un angolo delle labbra e che mi sembra di rivedere ora, seduto sul muretto con le corte gambe sgraziate penzoloni, mentre fuma lunghe e ricurve pipe di legno col fornello scolpito con le sembianze di antichi volti umani dalle barbe a punta. Mi sovvenne la Triste, pazza figura felliniana dall‟enorme seno che dalla finestra insultava passanti sconosciuti senza alcun motivo, pazza e ferita per la morte dell‟amato fratello partigiano trucidato dai fascisti come non smetteva mai di raccontare e che riuscì a morire felice di quel ricordo eroico senza mai essere venuta a conoscenza di quello che tutti sapevano da sempre: il fratello era stato giustiziato dagli stessi partigiani in quanto traditore. Poi c‟era la Contessa dal viso incartapecorito in una ragnatela di rughe che viveva abbigliata come a fine „800 tra trine e merletti, che aveva il vezzo (o la mania) di non toccare i soldi che si faceva prelevare dall‟antico borsellino di velluto dalle stesse commesse dei negozi dove faceva la spesa e che girava sempre immotivatamente con tre o quattro borse appese alle sue fragili braccia di ottantenne. Mi ricordai del Signor Natale, che non sorrideva mai, che non conosceva il minimo umorismo e il cui credo e scopo nella vita era “marciare” e lo faceva camminando sempre, spostandosi a piedi da un paese all‟altro e che quando pioveva andava avanti e indietro instancabilmente sotto un breve tratto di strada porticato come un leone in gabbia, mi ricordai anche di Giovanni, “quello che raccoglieva i cartoni” che impazziva per i film western e che il gestore del Cinema Odeon faceva entrare gratis a patto che poi lui alla fine del film lo aiutasse a portare via i morti da dietro lo schermo. Giovanni al termine della proiezione si presentava pronto ad eseguire il suo dovere ma gli veniva detto che i morti stavolta erano pochi e che non c‟era bisogno del suo aiuto.

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***

Il sole tramontava presto a causa degli alti monti che circondavano il piccolo villaggio piemontese Il flusso dei ricordi si era adesso interrotto, mentre anche i ragazzi davanti a noi stavano ormai mettendo fine ai loro giochi. Decidemmo di andare poiché la strada fino a casa continuava ancora per un po' e il cielo violaceo si stava imbrunendo a poco a poco. Anche i ragazzi adesso prendevano le bici rovesciate sull'erba o appoggiate senza cura contro gli alberi e cominciavano a scendere in discesa il sentiero pietroso verso il borgo ballonzolando in equilibrio sui pedali. Altri prima di andare, come ultimo gesto di sfida contro il mondo raccoglievano una merda di vacca, rotonda, vecchia e secca, e la scagliavano con forza come un disco volante, a schiantarsi contro il tronco di un albero dove si frantumava sbriciolandosi quasi senza rumore.

***

La seconda volta che vidi il Vento, fu alcuni giorni dopo. Una notte. Un leggero fruscio, ripetuto ad intervalli irregolari interruppe il mio sonno leggero cominciato da poco. Alla luce dello spiraglio luminoso di una vivida luna, vidi il fantasma di una tendina bianca che svolazzava sbattendo sulla finestra per poi strisciare contro la parete ricadendo immobile per attimi o secondi, stirandosi sul vetro, per poi ancora nuovamente alzarsi in volo senza destinazione. Cercai di non badarci, richiudendo gli occhi e tentando di riaddormentarmi, ma a quel fruscio, si aggiunse presto il sibilo del vento e lo sbattere secco e ritmato della finestra chiusa male che lasciava entrare oltre la luce della luna, l'aria. Mi alzai di malavoglia a sistemarla. Poco più lontano, oltre il prato che si stendeva davanti alla mia stanza, gli alberi si piegavano sotto l'urto del vento scrollando le chiome con rumore di scaglie metalliche e fruscianti. La luce della luna mutava le foglie in piccole schegge balenanti e frementi, mentre sotto, giù in strada, la tenda a strisce colorate di un

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negozio sbatteva col furore di una vela imbavagliata per paura da marinai terrorizzati. Fu allora che lo vidi; al centro di quel prato. Sferzato dall'aria e dalla luce tagliente della luna il Vento roteava su se stesso piroettando in un grottesco girotondo solitario. Volteggiava con furia tenendo ed allargando con le mani i lembi logori di quella giacca informe, ululando e fischiando, alzando le ginocchia in una danza di tribale parossismo. Riuscivo a vederlo, lo intuivo con le guance gonfie di aria che veniva sputata con forza contro il cielo in un'estasi di gioia primordiale insieme a urli orgasmici e strozzati. A tratti si chinava bruscamente per raccogliere un foglio di carta o un vecchio straccio che il vento gli aveva portato in mezzo ai piedi. Lo teneva nel pugno come una bandiera per il tempo di un paio di piroette, poi lo lasciava andare a proseguire la corsa trascinato verso l'oscurità notturna in prossimità degli alberi dove finiva per perdersi alla vista. Dopo alcuni minuti di quella folle danza il Vento decise di seguire le correnti. Come se fosse anch'egli trascinato dal quel vento violento e vigoroso, cominciò a spostarsi, correndo, gridando, saltando, girando ancora su se stesso come un mistico sufi in estasi divina, rimpicciolendo alla vista, strappando ciuffi d'erba e arbusti che poi lanciava in aria disperdendoli con soffi e grida sempre più lontane. Fino a quando sparì, sospinto da quel vento, inghiottito dal buio della notte e della boscaglia. Il prato restò solo, deserto e silenzioso. Persino il vento mi parve diminuito, sembrava quasi se ne fosse andato insieme a lui. Il sonno era svanito ormai del tutto. Disteso nuovamente dentro al letto mi rigiravo inquieto senza possibilità di ritornare a dormire in breve tempo. Mi alzai di nuovo. Nella valigia avevo carta e penna, accesi la luce e mi sedetti al tavolino. E scrissi questa storia.

Maurizio BRACALI

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Bartolomeo e i salamini Questa è una vecchia, curiosa storia che ci raccontava il nonno, di quando lui bambino, nelle fredde sere d'inverno, si rifugiava nella stalla con tutti gli abitanti della grande cascina situata nelle campagne di Poirino. Qui, al caldo, mentre le donne cianciavano facendo la calza, gli uomini gustavano del buon vino discutendo del raccolto e i bambini giocavano prima di addormentarsi, il più sapputello della compagnia incominciava....

Bartolomeo, per gli amici Trumlin, era un buongustaio molto ghiottone e poteva definirsi un vero esperto in cose buone, avendo per tutta la vita, gestito un negozio di salumeria. Sull'insegna spiccava la scritta "SPECIALITA' PIEMONTESI" e la vetrina della sua bottega, nella strada principale di un paesone del Cuneese, era uno spettacolo che faceva venire l‟acquolina in bocca solo a guardarla. Salami, prosciutti, formaggi e tome delle valli, tinche in carpione, acciughe al verde, profumatissimi tartufi d‟Alba, vitello tonnato, insalate russe e ogni altra delizia che, a seconda della stagione, poteva stuzzicare il palato e tentare la gola di tutti noi umani. Al sabato pomeriggio organizzava in una saletta, anche con l'aiuto dei suoi due cuochi commessi, una prova d'assaggio per i clienti affezionati, che desiderosi giungevano numerosi anche dalla città e offriva come merenda, una porzione del delizioso "bonet", il classico dolce piemontese. Non trattava vini il nostro salumaio ma indirizzava i clienti una cinquantina di metri più avanti, dove potevano trovare la "Crota 'd Mare granda" con un grande assortimento dei migliori vini della zona. Barbera, Barbaresco, Barolo, Dolcetto e Arneis di tutte le annate e con ottimi prezzi. Ma la vera, grande, eccelsa specialità del nostro Trumlin, il suo grande amore, erano i salamini, sia quelli da mangiare crudi, che quelli da far cuocere e Bartolomeo da dietro il suo imponente, fornitissimo bancone, dispensava utili consigli gastronomici a tutti.

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“Assaggi una fetta di questo e mi dirà se non è una vera delizia” oppure: “oggi i cacciatorini sono veramente speciali” o ancora: "questo cotechino è una vera cannonata, non lo faccia cuocere troppo.” I ragazzi del paese passavano le ore a guardare la vetrina di Trumlin, ma i soldi non c‟erano e perciò dovevano accontentarsi di annusare i profumi che uscivano dalla bottega del salumiere. Se gli chiedevano di regalare loro un salamino, lui rispondeva in malo modo. “Andate a guadagnarvi i soldi, lavativi, se volete assaggiare queste delizie!” Passarono gli anni e in Bartolomeo, la passione, il suo amore, quasi una mania per i salamini, crebbero nella stessa misura in cui aumentò il suo pancione: ormai per lui era quasi un dispiacere separarsi da un buon salamino per venderlo. Sempre più rubicondo, avendo guadagnato abbastanza per vivere tranquillo e non avendo eredi a cui lasciare il negozio, decise di cedere la salumeria. Si ritirò pertanto nella sua casetta poco fuori del paese e smise di lavorare. I salami però non li abbandonò affatto: appesi a lato del grande camino, tanti splendidi salamini, facevano bella mostra di sé e spandevano il loro profumo nella grande cucina. Ogni giorno li annusava, li puliva, li asciugava, li accarezzava, li baciava come fossero la sua donna e solo quando a suo giudizio erano perfetti, solo allora, ne tagliava una fettina che si gustava in goduriosa beatitudine. “Questo sì che è l‟elisir di lunga vita” esclamava soddisfatto ad alta voce. Era così geloso dei suoi salamini che non li faceva manco più assaggiare ai suoi amici. Erano le sue creature, figuriamoci se avrebbe potuto regalarli a quei mascalzoni, lavativi di ragazzi, che portandogli a casa la legna per il camino, ogni volta gli chiedevano un salamino come mancia. Il profumo in quella stanza era così buono e la vista dei salamini così attraente, lì a fianco del camino, che i ragazzi non seppero resistere alla tentazione di assaggiarne qualcuno. Decisero così di organizzarsi e… Una sera, dopo cena, nella quale si era gustato un salamino dei più eccezionali, l‟ex salumaio sonnecchiava tranquillo sulla sua comodissima poltrona, quando una profonda voce lo raggiunse: “Bartolomeo sono l‟angelo salumaio e il Signore mi ha ordinato di

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Centro Studi Cultura e Società Piemont ch’a scriv V Edizione- pag 124 di 144

accompagnarti nel Paradiso dei salumieri. "Vieniiii…con meee…Vieniii…Tante delizie ti aspettano. Cinque angeli stanno già preparando dei deliziosi salamini per teeee… Vieni, adesso ti manderò la sedia Ascensionale.” E con gran rumore e una nuvola di caligine, una sedia dorata scese dal camino. Bartolomeo, ancora mezzo addormentato e molto spaventato, si mise a guardare la sedia dorata. Era un po‟ perplesso, in quanto non aveva mai sentito il Parroco parlare di Paradiso dei Salumieri, ma la cavernosa voce riprese:” Bartolomeoooo…Muoviti, in Paradiso stanno già apparecchiando la tavola per la tua festa e gli Angeli stanno tagliando a fette i salamini, si sente già il loro profumoooo.Se non fai in fretta, se li mangiano tutti loroooo…” E allora Bartolomeo si convinse. ”Cosa vuoi che ne capisca il Parroco, che al venerdì non mangia la carne." Con un po‟ di fatica accomodò la sua grossa mole sulla sedia, che tirata da quattro corde incominciò a salire lungo il camino. Ma non arrivò in Paradiso, ad appena un metro da terra si fermò, anche perché il pancione di Trumlin si era incastrato nella canna fumaria. L‟uomo tutto agitato gridò:”tirate più forte” ma invece di sentire la voce degli angeli, riconobbe la voce dei ragazzi che ridacchiavano.”C‟è cascato, lo abbiamo fregato!!” I lavativi, come lui li chiamava, scesero dal tetto ed entrarono in cucina. Incuranti degli strilli di Bartolomeo, le cui gambe si agitavano davanti ai loro occhi nel camino, presero i salamini appesi alla parete e incominciarono a mangiarli di gusto e tanti se li infilarono nelle tasche. Poco dopo arrivarono i pompieri del paese che liberarono il poveretto, ma troppo geloso ed egoista Bartolomeo: ”Non era in Paradiso che volevano portarmi, erano i salamini che volevano mangiarmi” ripeteva mestamente mentre si ripuliva il volto dalla fuliggine!

La storia era finita, forse noi bambini non l'avevamo ascoltata manco tutta e già addormentati, la mamma ci portava a letto, non prima di aver infilato sotto le coperte, un mattone ben caldo.

Gianni STUARDI

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Il mistero dell’inno sabaudo Voci in ordine di apparizione - Narratore - Onorevole Teobaldo Calissano - Conte Ettore De Sonnaz - Giuseppe Gabetti - Giuseppe Ghebart - Strillone

Prologo Narratore: “Questa che vengo a raccontarvi, è una storia Risorgimentale, semplice nelle sue forme e potrebbe addirittura considerarsi minore, ma nel suo evolvere, portò alla composizione della melodia che pervenne a simbolo della Nazione italiana per più di cento anni, dal primo periodo risorgimentale sino al declino del Regno d‟Italia nel 1946. Questa melodia, venne scritta a La Morra, paese della langa Albese, ora conosciuto per i suoi vini pregiati e le sue specialità culinarie, e si dice che il suo creatore la compose tra il 1831 e il 1834 mentre era in congedo temporaneo dall‟esercito sabaudo. Ma chi fù il Padre di questo Inno? Giuseppe Gabetti di origini doglianesi, nacque e visse a Torino. Nel 1821, a venticinque anni, era un semplice musicista. Decise allora di arruolarsi come volontario Musicante nell‟Esercito Sardo. Compì una rapida carriera che lo portò a divenire nel 1829, Capomusica e direttore della Banda del 1° Reggimento dellaBrigata Savoia. Questo fu il periodo della sua fortuna in quanto il Re Carlo Alberto voleva innovare lo Stato e l‟esercito, ed in questo programma vi era anche la composizione di un Inno che rappresentasse degnamente il suo Stato ed il suo esercito. La commissionò al Colonnello Ettore De Sonnaz, comandante della Brigata Savoia, che avendo in simpatia il capomusica del 1°

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Reggimento, ordinò a lui questo importante compito, che portò a termine a La Morra. Gabetti fu ospite per qualche anno, della figlia Aldegonda, sposata con l‟illustre musicista e poeta Matteo Ascheri originario dell‟Annunziata, ridente e importante frazione di La Morra, alla quale si deve il primo insediamento rurale del territorio...

Entra in scena l‟Onorevole Teobaldo Calissano Calissano : “Mi permetta l‟intromissione illustre narratore, la interrompo per offrirle il mio racconto su questa storia non comune. Sono L‟Onorevole Teobaldo Calissano, deputato del collegio di Cherasco ed Alba, e Ministro nel governo Golitti. Il 13 agosto del 1899 io mi recai a La Morra per inaugurare il monumento costruito in suo onore. Gabetti fu un uomo che con il suo canto ha reso omaggio alla nostra storia, ed a lui va tutto il nostro ricordo e la nostra stima. La sua opera fu vivace, briosa, grave e solenne nelle sue prime note, ma anche calda e melodica come l‟onda del suo purissimo canto, vigorosa e trionfale come il suo vibrante finale… Dalla vicina terra di Dogliani, dove antico ed onorevole come tuttora fiorente è il culto della musica, trae le sue origini la famiglia di Giuseppe Gabetti. Egli nacque da Michele Gabetti e da Margherita Gallo il 5 marzo 1796 in Torino. Seguendo la sua naturale inclinazione piuttosto che gli insegnamenti altrui, essendo un giovane forte d‟intelletto e di volontà, non tardò a farsi conoscere come abile violinista. Agli inizi, obbligato dalle necessità della vita, si limitò per lungo tempo a ridurre e strumentare composizioni musicali di altri, per l‟esecuzione nelle chiese o da parte di bande musicali. Poi scrisse qualche composizione originale, e dettò Messe e Vespri che egli stesso dirigeva con successo in occasione delle feste religiose e popolari in varie città piemontesi. Il lavoro mi è ignoto, ma lo si scrisse ed io lo sentii ripetere poco tempo fa , che il Gabetti compose anche la musica di qualche ballo rappresentato al Teatro Regio….” Narratore: “Suvvia Calissano, non enfatizzi il ricordo della sua commemorazione oramai persa nel tempo… Lei è un fantasma

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apparso dal passato. (Si rivolge al pubblico) Stavo dicendo che il periodo tra il 1831 e il 1834 fu un momento importante e delicato per il maestro. Aveva bisogno di trovare spunti e appigli per poter dar spazio alla sua ispirazione per realizzare il compito che gli era stato richiesto, e il tempo concessogli era ormai quasi esaurito e di questo Gabetti ne era preoccupato. Infatti a conferma di ciò, giunse in Casa Ascheri da Torino il Conte De Sonnaz, Colonnello comandante della Brigata della quale Gabetti era il Capo musica” I due uomini si allontanano lentamente mentre cambia la scena.

PARTE I (La Morra: Interno di casa Ascheri - Gabetti) Gabetti: “De Sonnaz è qui? Avrà avuto pressioni dal Re. Si aspetterà che gli comunichi di aver completato l‟inno.. E cosa gli dico adesso?.. Devo essere sincero e schietto con il mio Colonnello... Sincero e schietto...” Entra De Sonnaz, Gabetti rivolgendosi a lui: “Signor Colonnello ... si accomodi ...” De Sonnaz: “Come già immagina vengo a nome del Re. Sua maestà Carlo Alberto freme nell‟avere la marcia che gli avevo promesso, e mi chiede sempre gli sviluppi di come sta andando. Vuole innovare lo Stato e visto che il reverendissimo Paolo Bodoira lo ha convinto dell‟ormai superata musicalità del suono dei pifferi e dei Tamburi della marcia Austriaca utilizzata sinora per riverirlo, vuole al più presto un inno che lo rappresenti e rappresenti il nuovo Stato ...” Gabetti: “Signor Colonnello, rassicuri il Re che ci sto lavorando come promessogli, ed una promessa fatta al Re non può essere la promessa di un marinaio!” De Sonnaz: “Bene Gabetti, bene! Deve sapere che il Re ha voluto sincerarsi e informarsi del suo stato di servizio e dei suoi precedenti. Il Re sa che Lei è nato nel 1796 a Torino, e che l‟attenzione di suo fratello Gaetano, proprietario di un negozio di musica in Via Po, gli ha offerto lo spunto per divenire un buon musicista, violinista e arrangiatore di musiche oltre che suonatore di pianoforte ...” Gabetti: “Sapere che il Re si è interessato profondamente alla mia persona, non può che rendermi più attento, più grato e orgoglioso di

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poter ottemperare ad un compito così importante ed elevato, come quello di sottoporre una marcia al Re per il bene dello Stato ...” De Sonnaz: “E‟ quello che volevo sentirle dire Gabetti, ma i tempi si sono ristretti perchè la nostra politica sta subendo dei cambiamenti importanti nel quadro politico europeo, specie per il nostro piccolo Stato. Si ha sentore che la tolleranza e l‟alleanza con l‟Impero asburgico, non abbia a durare... i moti liberali stanno creando molti problemi e forti pressioni a non finire verso il Re, che destabilizzano le politiche internazionali e i rapporti diplomatici. Le scelte politiche del nostro Sovrano sono ritenute contraddittorie dai liberali, tanto che gli hanno dato con vergogna l‟appellativo di Re tentenna...” Gabetti: “DavveroSignor Colonnello?” De Sonnaz: “Certo, purtroppo è vero Gabetti, tanto che il Sovrano sta progettando delle azioni di contenimento repressive e conservatrici, pur volendo mantenere una situazione che possa favorirlo nel contesto degli equilibri politici internazionali. Nello stato delle cose, è probabile che i rapporti con gli austriaci si deteriorino molto prima di quel che si possa credere; quindi il Re vuole essere preparato a tutto, anche nell‟avere un Inno tutto suo per il suo Stato. “

Gabetti: “Dica al Re di darmi ancora alcuni mesi. Il 1834 è alle porte ed io sono a buon punto, tanto che ho studiato due diverse melodie ormai ben chiare nella mia mente, e alla fine, ne sono sicuro, mi porteranno a presentare due marce al Re!” De Sonnaz: “Faccia presto Gabetti, appena ha concluso, si presenti da me a Torino.” Gabetti:“Non dubiti Colonnello, Porga i miei saluti a sua Altezza Reale ... lunga vita al Re!”

PARTE II Rientrano in scena Calissano e il Narratore. Calissano: “Il Re fu talmente soddisfatto e convinto del lavoro effettuato dal Gabetti, che diede ordine al Villamarina, Ministro della guerra, di far suonare questa nuova marcia d‟ordinanza in ogni sfilata da parata delle truppe dell‟esercito. La marcia Reale venne distribuita

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a tutti i reggimenti e divenne obbligatoria per tutte le parate ufficiali. Questo offrì a Gabetti una notorietà che lo porterà presto a lasciare l‟esercito e divenire primo violinista nonché maestro del coro e dei balli del Teatro Regio. Gabetti non avrebbe mai pensato che la sua opera potesse, oltre che divenire simbolo dello Stato Sabaudo, prendere una piega tale da coprirsi di mistero… Narratore: “Siamo a Torino, verso la fine di Luglio del 1848, la città è in apprensione per le sorti della guerra in atto contro gli Austriaci, e Gabetti sta conversando con Giuseppe Ghebart, direttore dell‟orchestra della Regia Cappella di Torino, nelle pause di prova tra un opera e l‟altra, sotto i portici del Teatro Regio ...” I due uomini escono e la scena cambia: Siamo sotto ai portici del Teatro Regio a Torino. Ghebart: “Caro Gabetti, sono tempi duri per lo Stato, ma noi musicisti del Teatro Regio e della Cappella Reale non possiamo che continuare con tenacia e professionalità a preparare ed eseguire le grandi musiche dei nostri compositori Italiani: Rossini, Donizetti, Giuseppe Verdi; fulgidi esempi e riferimenti per la nostra scuola musicale. Abbiamo fatto un discreto lavoro in questi anni, caro Gabetti. La rappresentazione dinnanzi ai Sovrani della “Regina di Cipro” dell‟illustrissimo maestro Cavalier Pacini, è stato un buon successo, alla stessa stregua della “Rinnegata” di Donizetti, o del “Guglielmo Tell” del grande Gioachino Rossini ...” Gabetti: “Abbiamo fatto già cose eccellenti, ma dobbiamo continuare caro Ghebart, a scrivere e a produrre, per il bene della musica. Mi ricordo anche che alcuni anni or sono diressi con successo nel 1834 mi pare, il ballo fantastico: “Fausta” del maestro Viviani, le esecuzioni dei brani dell‟Elisir d‟amore di Donizetti, o il “Mosè in Egitto” di Rossini ... Si ricorda il ritmo di quest‟ultimo?

Ghebart: “Beh! Quest‟ultimo non dovrebbe offrirgli dei ricordi molto allegri, caro Gabetti, se pur io con molta franchezza e lei lo sa, ho avuto molte perplessità quando Carlo Alberto le concesse la paternità della marcia che ora ufficialmente rappresenta il nostro Stato. Ora ho

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dissipato ogni dubbio e la stimo molto, ma altri colleghi la tacciarono di aver attinto alla marcia di quest‟opera, dissimulandone una variante molto ben congeniata ...” Sottovoce parlando a se stesso: “Sun ancor, prufundamènt cunvint che a l‟è nèntüta fariña del sò sach Gabetti di straforo sembra aver compreso e si infuria Gabetti: “Sa benissimo caro Maestro che questo non è vero! A l‟è nèn ver! A l‟è na busia!. Ho lavorato sodo per poter soddisfare il Re, tanto che di marce ne avevo composte due, ed il Re scelse quella a cui tenevo meno ed io dalla delusione mi sfogai con l‟allora mio Colonnello della Brigata, Ettore De Sonnaz, a cui diedi quello spartito. Mi „ v avra disbruième per gaveme „n peis da u stome e feme passè u nervus per lo cu „l ava sernì u Re. Përchè su i era nèn per De Sonnàz, mi „ n girava i sin minute, e „l avria sciancà tut...Mn‟venisa n‟ assident a chi am cred nèn!” Parlando come tra sé e sé “U „l e propi vèij che son cui ch‟ t fidi che prima o poi „t giro a schin-a!!” Ghebart: “Va bin Gabetti va bin,...a s‟inchieta nèn... De Sonnaz ora è Luogotente Generale insieme al Re e al Generale Bava sul fronte del Ticino contro l‟esercito austriaco. Ho sentito che gli attacchi dell‟esercito Piemontese per sfondare nel quadrilatero del Feldmaresciallo Radetzky si susseguono, insistentemente e furiosamente; speriamo in bene ...”

Compare uno strillone che vende giornali: Strillone: “La Gazzetta! Edizione straordinaria! L‟esercito piemontese sconfitto dagli austriaci a Custoza! Ritirata precipitosa dal Ticino! Carlo Alberto si ritira verso Novara! Radetsky entra trionfalmente a Milano all‟inno della nuova Marcia a lui dedicata da Johann Strauss! Il Generale De Sonnaz depista e confuta gli onori della marcia austriaca dichiarando che l‟autore non è Strauss bensì Giuseppe Gabetti, l‟autore dell‟Inno Sabaudo!...”

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Gabetti di soprassalto: “Come, come! Ah Boia Fauss!... A lè nen pusibil! Ghebart, legga qui! U „l è ridìcol! De Sonnaz dichiara che nel 1834, quando io presentai le due marce al Re, lasciai a lui quella scartata, che qualche anno dopo, in periodi non ancora ostili tra i due Stati, la offrì come regalo formale in un ricevimento avvenuto a Vienna, all‟Imperatore d‟Austria! ... Ma è inaudito! Io non ne sapevo nulla! Inoltre, mi ricordo ancora bene l‟armonia ed il ritmo di quella marcia, anche se non ho più lo spartito... ma non ho ancora ascoltato la marcia scritta da Strauss per Radetzky ... Debbo assolutamente sentirla ...” Ghebart: “Gabetti, mi dia retta ... lasci perdere...Qualsiasi sia la verità, questa situazione è una strategia politica architettata appositamente per gettare discredito e limitare il trionfalismo della vittoria austriaca ... A „s bita nèn „d mes Gabetti, a cu me scuta ...” Gabetti: “U „l a rasun Ghebart, u „l a rasun, ma u dève ammètte che‟m sènt „n buraciu „n màn à la pulitica..” Ghebart: “Concordo con lei Gabetti, ma la ragion di Stato a volte prevale sull‟integrità e sulla professionalità, in ogni campo. Noi dobbiamo essere i sudditi fedeli della liberale ed illuminata figura del nostro Monarca che tanto si è battuto per liberare il nostro Stato dal giogo Imperiale ed assolutista di uno stato straniero che nega lo spirito libertario e Nazionale dei nostri popoli italici ...” Gabetti: “Caro Ghebart, io mi ritengo un uomo semplice e modesto, un leale professionista della musica che vuole soltanto offrire i suoi servigi al Re ed allo Stato, per far crescere quest‟arte con lo scopo di rallegrare gli animi, sensibilizzare le coscienze e far sì che il proprio lavoro sia utile ed apprezzato ...” Ghebart: “Ed è per questo che ritengo lei debba star fuori da ogni polemica! Lasci che il Re faccia ciò che ritenga più giusto per il bene della Nazione, e lei continui a fare quello che gli riesce meglio: il musicista!”

Danilo TACCHINO

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MENZIONI DELLA GIURIA

Marianna del Lago

“La casa di Marianna sorgeva in mezzo ad un prato,sulla riva del lago dove salici rigogliosi dai rami ripiegati sin quasi dentro l‟acqua creavano una singolare cromia di verdi. Sotto quegli alberi molti viandanti, per lo più mendicanti sostavano per riposarsi. Percorrevano la statale del Sempione che fiancheggiava la casa di Marianna dalla quale ricevevano sempre aiuto, come in una lontana notte di Agosto. Sul lago si era abbattuto un violento temporale annunciato da grevi nubi nere sin dal pomeriggio. Poi, con un rumoreggiare sordo di tuoni, era cominciata la tempesta. Le mucche nella stalla mugghiavano e raspavano lo strame con gli zoccoli per la paura. Marianna, chiudendo le finestre, aveva scorto un‟ombra sotto i salici. Lo scialle in spalla, un lume a petrolio in mano, corse in riva al lago e vi trovò un mendicante, il volto scarno e denutrito, gli abiti logori fradici d‟acqua. Lo accompagnò in casa, dove lo rifocillò ed ospitò per la notte in una stanzetta che in famiglia chiamavano „La ca‟ di lègn‟ (casa della legna).Da quel giorno l‟uomo trovò sempre ospitalità presso Marianna: lì deponeva gli abiti sporchi, ne riceveva di puliti,e veniva rifocillato. Orfana di padre ancora giovanissima, Marianna aveva dovuto aiutare la madre, occuparsi dei fratelli minori, lavorare nei campi ed a malapena aveva frequentato le elementari. Quando, gerlo in spalla, si recava al mercato per vendere i prodotti dell‟orto, doveva servirsi del „libro dei conti fatti‟, sussidio a quell‟epoca in uso per gente di scarsa scolarizzazione come lei. Aveva sposato Antonio, il grande amore della sua vita e dal matrimonio erano nati cinque figli. Conducevano una vita decorosa di contadini e pescatori, gente semplice e forte che si accontentava

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del poco. L‟unica volta in cui Marianna aveva lasciato il suo paese fu per il viaggio di nozze in treno, sino a Milano. Per la gente umile del tempo era un avvenimento poter vedere il Duomo, costruito con il marmo rosa delle cave di Candoglia trasportato dal paese dell‟Ossola su enormi barche lungo il Toce, il Lago Maggiore ed il Ticino sino al Naviglio di Milano. Anche ai tempi di Marianna, le „gabàre, tipici barconi a grossa vela con un lunghissimo timone, erano usate per il trasporto di derrate. Affacciata alla finestra, vedendole passare, Marianna fantasticava di salire a bordo per visitare paesi lontani. Invece la sua vita si sarebbe svolta nel borgo natio con il lago e le verdi colline unico confine del suo mondo. Le sere d‟estate Marianna, seduta in riva al lago scambiava due chiacchiere con le vicine. Antonio, con gli altri uomini, fumava la „scigala‟,il toscano, spesso intinto nella grappa per renderlo più forte. I ragazzi giocavano alla lippa, pronti ad interrompere i loro giochi appena spuntava la Marchesa a cavallo che lanciava loro manciate di caramelle dopo il corale “Buona sera Signora Marchesa”. Le domeniche d‟estate dopo cena, Marianna usciva in barca con i suoi. I pescatori si chiamavano l‟un l‟altro dalle imbarcazioni con grida di gioia se la pesca era buona. L‟eco delle voci e i lumini delle barche che dondolavano sull‟acqua,l‟oscurità punteggiata dalle luci delle rive creavano un‟atmosfera di magia che tanto affascinava la donna. Marianna era amata per la sua generosità: quando nel vicinato una donna partoriva, ella si offriva a lavare la biancheria della famiglia, come usava durante la „quarantena „delle puerpere. In riva al lago,inginocchiata sulla „brèla‟, l‟asse per lavare del tempo, con cenere, soda e potassa preparava la „lisciva,‟ il detersivo di allora. Su due mattoni sotto i quali accendeva il fuoco, posava un pentolone e vi bolliva il bucato. Scoppiò la Grande Guerra e per Marianna furono anni difficili: Antonio era al fronte e lei incinta del quinto figlio. Quando nacque Carolina, l‟ultimogenita, Marianna affrontò il parto da sola, e suo unico conforto erano le lettere di Antonio. Dalla sua finestra attendeva il portalettere, ne spiava la scura sagoma intabarrata comparire in fondo alla via su una cigolante bicicletta.

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Un giorno le lettere dal fronte cessarono: senza più notizie temeva il peggio. Marianna decise allora di recarsi al Santuario del Crocifisso dove chiedere la grazia come era usanza di fede a quel tempo in caso di malattie o difficoltà. Un mattino di primavera, all‟alba, sulle spalle lo scialle di seta azzurra delle nozze, salì sul biroccio con i figli. Attraverso strade impervie e polverose, raggiunse l‟imponente costruzione dell‟Antonelli che con il suo pronao e le alte colonne si staglia improvvisa tra i boschi, gigante di marmo e mattoni. Davanti l‟effige del Crocefisso, Marianna pregò con speranza e fiducia. La sera, al ritorno, infilata sotto l‟uscio, trovò una lettera dell‟ospedale militare di Torino. Suo marito, ferito in combattimento, vi si trovava ricoverato. Per Marianna era avvenuto il miracolo: nei giorni successivi si recò felice a riabbracciare il marito. Finalmente, al termine della guerra, Antonio era tornato a casa e la vita di Marianna riprese a scorrere serena, appagata per i frutti gratificanti del lavoro nei campi. Uno dopo l‟altro i figli si erano sposati e Marianna, rimasta sola con Antonio, si dedicava a lui e lo aiutava in campagna. La tranquilla vita di paese fu turbata dal secondo conflitto mondiale. Dalle città di pianura, anche nel paese di Marianna erano giunti molti sfollati di cui la donna, sempre generosa ed accogliente, si era guadagnato l‟affetto. Semplice donna di lago,nulla sapeva di filosofia, tuttavia era convinta che anche una goccia di bene può contrastare il male cosmico. Era una notte di fine settembre, pioveva a dirotto, scrosci di acqua gelata si alternavano a raffiche di vento freddo che risucchiavano gli spruzzi delle onde forti contro la riva. Improvvisamente bussarono alla porta di Marianna.Quando aprì l‟uscio, scorse la vecchia Esther rannicchiata sulla panca accanto all‟ingresso, in piedi il figlio Daniele e la nuora Simonetta: una famiglia di suoi vicini, ebrei sfollati da Milano. Dai loro visi impauriti, Marianna intuì che erano in difficoltà e li fece entrare. Dovevano fuggire:al telefono li avevano avvisati che vi era il pericolo di essere catturati. A causa delle leggi razziali rischiavano la

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deportazione. Era impossibile usare la barca per raggiungere la vicina Svizzera :il lago era controllato. Al telefono lo sconosciuto li aveva indirizzati verso un cascinale in collina dove li avrebbero condotti oltre confine. Esther, anziana,non poteva affrontare un simile viaggio, né poteva restare sola. Marianna li rincuorò rassicurandoli del proprio aiuto. Daniele e Simonetta, nel congedarsi, le consegnarono una borsa con del denaro ed indumenti per la madre. Da quel momento Esther fu ospitata nella “Ca‟ di legn” che altre volte aveva accolto persone in difficoltà e Marianna non si curò del rischio che correva nel nascondere una ebrea in casa propria. Da alcuni mesi il comando delle S.S. aveva stabilito il proprio quartier generale in un albergo sul lago. Un pomeriggio, mentre Esther riposava, anche la casa di Marianna fu perquisita da una pattuglia di S.S.. Entrarono anche nella cameretta di Esther che fortunatamente non si svegliò. Marianna, cercando di non tradirsi, spiegò al meglio che l‟anziana era una sua congiunta di Milano che aveva perso tutto in un bombardamento. Durante la perquisizione riaffiorava in lei il ricordo del tragico fatto recente che aveva turbato il paese. Intere famiglie di ebrei, catturate, uccise erano state gettate nel lago. Rivedeva con raccapriccio quei poveri corpi martoriati riportati a galla dalle piogge torrenziali dei giorni precedenti, allineati sul ciglio della strada, accanto alla sua casa in attesa di essere portati via, mentre i fucili spianati dei militari tedeschi allontanavano i passanti dalla macabra vista. Quel pomeriggio, durante la perquisizione, Marianna se li era ritrovati di fronte. Lo sguardo coraggiosamente dritto nei loro occhi, non si tradì. Dopo tutto, pensava, erano figli o mariti di donne come lei, costretti a combattere. Forse sotto le loro uniformi batteva un cuore e pian piano si fece strada in lei una pietà così profonda che le apparvero disarmati. Uomini sprofondati nel buio gorgo di una cieca ideologia, involontari protagonisti di un conflitto, vittime e carnefici ad un tempo. Marianna provò una tale pena per loro che coraggiosamente fronteggiò la situazione.

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Quando Esther si svegliò, i militari se n‟erano fortunatamente già andati: non si era accorta di nulla, e nessuno le disse dell‟accaduto per non avvilirla e spaventarla. Al termine della guerra, il figlio e la nuora tornati in Italia si riunirono all‟anziana madre. La loro casa era stata danneggiata e Marianna non esitò ad ospitarli per alcuni mesi senza accettare nulla in cambio da loro. La borsa con i preziosi e il denaro a lei affidata prima della fuga in Svizzera, fu riconsegnata intatta ai suoi amici. “Non voglio niente,ho salvatouna vita, per me è la ricompensa migliore”, disse Marianna. Al termine di un freddo inverno, Marianna fu costretta a letto. Un male inguaribile minava la sua forte fibra. Sul suo volto smunto e scavato dalla malattia, le rughe parevano percorsi di un‟antica mappa. La bellezza della giovane donna di un tempo si era solo attenuata conservando ancora tratti di dimessa nobiltà. Gli occhi febbricitanti brillavano di una luce sbiadita e parevano voler comunicare. Quando quella luce si spense, una sera di settembre, nella stanza della moribonda regnava un‟atmosfera di pace. Il cielo azzurro cupo si rifletteva nel lago immobile, i fiori del giardino di Marianna rimandavano un‟immagine di bellezza unica che rendeva ancor più struggente la pena del distacco. In silenzio, Marianna se n‟era andata e pareva ormai lontana da tutti, ma dal viso disteso si capiva che riposava felice nella certezza finale di non aver vissuto invano. Tutto per lei era bene,lo aveva distribuito a piene mani e ciò era quanto davvero contava per lei, semplice e coraggiosa donna di lago.”

****** Le vicende qui narrate, arricchite dalla mia fantasia, sono realmente avvenute. Nessun libro di storia le riporta,né le riporterà mai. Appartengono al mondo finitimo dei ricordi di mia Madre che me le ha raccontate. In segno di affetto verso di lei e di ammirazione per il coraggio della protagonista le affido a queste pagine.

Maria Lina BOCCHETTA RAVALDI

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Pesche e vino

Ho imparato ad amare il vino amando mio padre. Un padre grande e

buono - alto a proteggermi - quando mi portava a cavalluccio sulle

spalle da bambina.

Contadino „zoccolone‟, ci diceva, diventato marinaio perché „la terra

l‟è basa‟. Ma - in pensione - tornato a quella terra. Senza rimpianti. E

alle sue semplici abitudini. La campagna d‟origine ridimensionata

ormai in un piccolo orto montano. Eppure la stessa cura. La stessa

pazienza. Lo stesso attento ritmo delle stagioni.

So con certezza che ogni volta che apro una buona bottiglia per gli

amici lui è presente. E lì con me. Consuetudine usanza regola antica

dell‟accoglienza. Dell‟ospitalità. Della gioia conviviale. Della

condivisione. Del piacere della vita. Occasioni e momenti di festa

intorno a una tavola imbandita riemergono nella mia memoria-

bambina dove la famiglia allargata - e riunita insieme agli amici –

vede papà mescere generosamente i vini portati su dalla cantina. La

piccola crota buia e fresca con le stagere colme di file di bottiglie

accuratamente imbottigliate ed etichettate da lui con la luna giusta.

Più tenero un ricordo „da nulla‟.

D‟estate - durante il periodo delle albicocche e delle pesche –

rammento ancora il suo rituale quotidiano. A ogni fine pasto. Lento –

ché la lentezza e l‟arte della vita e ci schiude alla bellezza – ripetendo

i gesti di suo padre e di generazioni di contadini prima di lui. Pesche

e vino.

Misurato e solenne come un sacerdote. Sposta il suo bicchiere al

centro del piatto fondo. Sceglie attento - rigirandolo palpandolo nella

mano destra - un frutto maturo tra quelli appena lavati e che mia

madre ha portato in tavola dentro un piccolo grilet di ceramica

bianca. Impugna il suo opinel – coltello d‟elezione nella tradizione

delle montagne al confine francese – ormai logoro per il troppo uso e

- appoggiando la lama sottile sul pollice - taglia a spicchi regolari la

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pesca destinata al sacrificio. Sistemata con somma cura ogni fetta –

se del caso schiacciando leggermente la polpa per trovar posto a

tutte nel coppa del vetro – inizia l‟ultimo atto. Il più sacro.

Il suo braccio si allungava a raggiungere il collo della bottiglia di

barbera – immancabile compagna dei pasti inaugurati sempre da

un‟insalata dei prodotti del suo „orticello di guerra‟ (cipollini erba di

San Pietro cicorietta pomodori basilico timo santoreggia…).

Gioiosamente il gotto di vino profumato saliva nella trasparenza del

bicchiere unendosi al dolce aroma delle pesche che affogavano pian

piano nel liquido sanguigno. Da lì in avanti iniziava la degustazione.

La punta del coltello ferisce spicchio dopo spicchio che - portato alla

bocca – lascia colare il suo sugo rossastro e si scioglie sulle papille

gustative.

“Mi ricreo!” era l‟amen emesso con vigore a conclusione del

cerimoniale di quella liturgia del cibo che sempre mi porto nel cuore.

Insieme a mio padre.

Angela DONNA

NOTA DELL’AUTRICE

Il racconto “Pesche e vino” nasce dal semplice “piatto” di fine pranzo

estivo della cultura contadina piemontese che consisteva nell‟intingere le

pesche, appena tagliate, nel bicchiere di vino rosso (ma credo anche di

altre regioni italiane poiché mi giunge notizia da amiche siciliane che

anche il loro nonno aveva questa abitudine). Mi pare un principio di

sangria.

Il mio legame con questa tradizione è veicolato fortemente dall‟amore per

mio padre (come si evince dal racconto stesso).

Oggi questo dessert l‟ho riscoperto e proposto più volte con successo

abbinandovi anche amaretti sbriciolati e pezzetti di cioccolato fondente

(che sono poi gli ingredienti anche delle pesche ripiene altro piatto tipico

piemontese).

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Un tuffo nel passato

nella storia di un giornale piemontese

In un giorno piovoso di primavera, una giovane studentessa della

Facoltà di Lettere di Torino, visita il museo del giornale "La stampa"

e così ha la possibilità di immergersi in un passato grandioso ed

epico. Il 9 febbraio 1867 nacque la" Gazzetta piemontese" che

costava 5 centesimi e tirava circa 8000 copie; prometteva di dire

sempre la verità, "frangar non flectar" era il motto scritto vicino alla

testata. Risulta affascinante per Carlotta tuffarsi nel passato ed

immaginare di poter svolgere l'apprendistato nel 1908, quando, sotto

la direzione di Frassati, proprietario di due terzi del giornale, nel

titolo rimase solo la dizione "La stampa", togliendo la

denominazione "Gazzetta piemontese". In quell'epoca fecero

l'ingresso le Linotipe e Carlotta apprende cosa fosse il lavoro del

linotipista, un tecnico specializzato che componeva le parole,

comandando per ogni singolo tasto una leva che liberava una matrice

situata nei magazzini (cassetti). Le matrici si disponevano nel

compositoio per formare la riga e la colata di piombo fuso fissava

l'intera riga; gli addetti alle rotative dovevano bere circa due litri di

latte al giorno, fornito dall'azienda, per evitare gli effetti nocivi

dovuti a una prolungata esposizione al piombo. Nel 1894 "La

Stampa" aveva introdotto le linotipe e nel 1898 aveva iniziato ad

utilizzare il servizio telegrafico, per i resoconti dalla Camera.

Che termini astrusi e desueti per una nativa digitale! La studentessa

apprende che per correggere un errore vi fosse la necessità di

riscrivere tutta la riga. L'avvento del telegrafo, nel secolo lungo, (il

secolo delle invenzioni mentre, per secolo breve si intende quello

delle innovazioni), cambiò le relazioni politiche, economiche, sociali

perché si velocizzò la modalità di comunicare, infatti, i treni e le

navi, mezzi di cui ci si era avvalsi fino ad allora, erano molto più

lenti.

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Carlotta rivive la frenetica vita di un giornale, che si svolgeva di

notte, quando l'attività era intensa per preparare il "menabò",

scaturito nelle riunioni di redazione: i corrispondenti trasmettevano

le notizie, via posta, via telegrafo o, anche, personalmente. Tutti

erano alacremente impegnati a ricercare notizie, a gareggiare contro

il tempo per rispettare gli orari della tipografia in arrivo. Il giornale

che ogni mattina prendeva vita e forma, veniva distribuito secondo i

canali allora in uso e, tra questi, vi erano gli strilloni. Frassati riuscì a

creare un giornale moderno, diffuso e accreditato, sempre al passo

con le innovazioni e il progresso tecnologico anche in ambito di

comunicazione e di distribuzione.

Nel 1904 "La Stampa" uscì a sei pagine e nel 1907 a otto pagine e

raggiunse centomila copie; si riuscì a fidelizzare il pubblico, quasi

metà dei lettori era abbonato;vennero creati anche inserti dedicati

allo sport e alla donna, sulle novità anche in termini di moda.

La curiosità e l'interesse per una attività che affonda le sue radici nel

passato, inducono Carlotta a ricercare altre notizie, anche sfogliando

articoli di vecchi giornali, monografie sulla storia del giornalismo e

del giornale, edite anche in occasione dei 150 anni della fondazione

del giornale, nonché visitando il sito nel quale vi è un nutrito ed

interessante archivio storico, in cui, sono inserite, tutte le edizioni

de"La Stampa".

La ragazza cerca di ricostruire l'atmosfera di inizio secolo,quando

"La Stampa" aveva sede all'angolo di via Bertolotti con Piazza

Solferino: allora si recavano in redazione molte persone, anche

estranee all'ambiente, portando notizie e informazioni, e non era raro

incontrare il vecchio Giolitti che arrivava per parlare con il Direttore.

Nei sotterranei vi erano i locali macchine e i reparti spedizione. Nel

1904 le stampatrici a centomila copie furono sostituite da macchine a

doppia tiratura.

Ora non si sentono più nella città le voci squillanti degli strilloni che

urlavano le notizie più interessanti per incentivare i passanti

all'acquisto;la loro attività iniziava di notte, quando le prime copie

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uscivano dalle rotative; le edicole erano poche, fino agli anni

cinquanta del Novecento. Il fornitore del giornale indicava le notizie

da strillare, il titolo "La Stampa" doveva essere indicato e ripetuto

prima e dopo ogni strillo; le frasi erano sintetiche e di particolare

efficacia. Gli strilloni conducevano una vita molto dura, ma con

entusiasmo si avventuravano per le vie della vecchia Torino, erano

spesso ragazzi poveri ma pieni di sogni per costruirsi un futuro

migliore; usavano la loro voce per urlare al mondo le notizie.

Questi ragazzi sognavano ad occhi aperti vedendo i nobili e i ricchi

borghesi uscire dal vecchio Teatro Regio o dalle private dimore o dai

luoghi di incontro, deputati alle classi agiate, fuori dai quali vi erano

le carrozze ad aspettarli, con i cocchieri, altro mestiere che poi sparì

con l'avvento e la diffusione delle automobili.

Ora i social media, lo sviluppo delle piattaforme come Twitter,

Facebook e Instagram sono diventati un momento importante nel

lavoro di redazione, per intercettare i "mi piace" o i "like" e

analizzare le notizie; questi mezzi sono i nuovi strilloni, così come i

follower, che diffondono le notizie, ma tutto è anonimo senza poesia

e senza un rapporto umano diretto e autentico, vera anima di un

momento storico che non esiste più.

Silvia SARZANINI

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