Update Italia

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Marco Ciaffone Update “Italia” Viene qui presentato l'aggiornamento di “Italia” relativo al periodo che va dall'ottobre 2010 al 23 febbraio 2014. Per non tradire lo stile blog ho lavorato sul documento come si lavora sui post: si procede ad una scansione degli argomenti fedele a quella originale per permettere al lettore un facile inserimento delle nuove informazioni nel contesto precedente; altri nuovi dati poi, più che rappresentare un aggiornamento temporale vanno ad arricchire il testo al di là del periodo al quale si riferiscono; gli aggiornamenti, infine, sono presentati in ordine cronologico oppure ordinate secondo l'argomento, in base a quale dei due fattori risulti volta per volta più rilevante, e comprendono anche tutto quello che non è ancora finito nel blog sotto forma di post. Siamo ora pronti per l'update. [*] Informazioni generali Nel giugno 2010 erano 23 milioni gli italiani in Rete (+18% rispetto all'anno prima, 71% rispetto a 5 anni prima). Il rapporto Audiweb nel gennaio 2011 parlava di 24,7 milioni di italiani che avevano navigato almeno una volta in Rete nel novembre precedente (+10,7% rispetto all'anno prima). Il numero di utenti che navigano in media un'ora e mezza al giorno diventava 12,6 milioni (la maggior parte ha fra 25 e 54 1

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Aggiornamento di storia e analisi delle politiche di regolamentazione della Rete Internet in Italia al 23 febbraio 2014.

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Marco Ciaffone

Update “Italia”

Viene qui presentato l'aggiornamento di “Italia” relativo al periodo che va dall'ottobre 2010 al 23 febbraio 2014. Per non tradire lo stile blog ho lavorato sul documento come si lavora sui post: si procede ad una scansione degli argomenti fedele a quella originale per permettere al lettore un facile inserimento delle nuove informazioni nel contesto precedente; altri nuovi dati poi, più che rappresentare un aggiornamento temporale vanno ad arricchire il testo al di là del periodo al quale si riferiscono; gli aggiornamenti, infine, sono presentati in ordine cronologico oppure ordinate secondo l'argomento, in base a quale dei due fattori risulti volta per volta più rilevante, e comprendono anche tutto quello che non è ancora finito nel blog sotto forma di post. Siamo ora pronti per l'update. [*]

Informazioni generali

Nel giugno 2010 erano 23 milioni gli italiani in Rete (+18% rispetto all'anno prima, 71% rispetto a 5 anni prima). Il rapporto Audiweb nel gennaio 2011 parlava di 24,7 milioni di italiani che avevano navigato almeno una volta in Rete nel novembre precedente (+10,7% rispetto all'anno prima). Il numero di utenti che navigano in media un'ora e mezza al giorno diventava 12,6 milioni (la maggior parte ha fra 25 e 54

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anni: il 20,9% è nella fascia 25-34 anni e il 47,6% in quella 35-54 anni). Il rapporto del Censis/Ucsi “I media personali nell'era digitale” presentato al Senato alla metà di luglio 2011 rivelava che l'utenza di Internet in Italia ha superato il 50%, attestandosi al 53,1% (+6,1% rispetto al 2009). Qui un commento non certo trionfalistico di Massimo Mantellini. Dal rapporto del Censis di dicembre 2012 emergeva la crescita di nove punti percentuali della penetrazione di Internet in Italia in un anno. Pochi giorni dopo arrivava il report di Audiweb, che fotografava un Paese con 38 milioni di netizen. Nel marzo 2013 nuovi dati AudiWeb: l'utilizzo della Rete investe gli over 55 e i netizen italiani arrivano a 29,6 milioni. Sempre riferiti al dicembre 2012 sono questi dati sul digital divide italiano. Ancora Audiweb nella prima settimana di maggio 2013: il numero degli italiani su Internet nel giorno medio cresceva di oltre otto punti percentuali rispetto all'anno precedente.

Al maggio 2011la media delle velocità di connessione nella Penisola era di 4 Mbps; solo il 6% superava i 5Mbps e 7,7 milioni di italiani si connettonevano al di sotto dei 2 Mbps. Mentre in Lombardia partiva a novembre 2010 un progetto di fibra ottica regionale per sostituire quella in rame entro il 2017; all'inizio di maggio 2011 Telecom Italia si accaparrava poi il bando da 41 milioni di euro per la realizzazione di nuove reti che in 24 mesi avrebbero dovuto eliminare il digital divide nella regione. Stando ai dati Audiweb-Nielsen, la Lombardia era la seconda regione italiana per numero di netizen: il 26,7% dei cittadini era infatti online, preceduta dal solo Friuli Venezia Giulia (29,7%) e davanti all'area Piemonte-Val D'Aosta (26%).

In Italia a fine ottobre 2010 si contavano 2 milioni di domini registrati con il .it su Registro.it, numero raddoppiato rispetto a

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cinque anni prima (primo dominio registrato: cnr.it il 23 dicembre 1987, poche ore dopo la registrazione del dominio di primo livello “.it”; vedi qui); il nostro paese risultava così il quinto di questa speciale classifica in Europa, il nono su scala planetaria.

Solo il 67% delle nostre aziende e solo il 45% delle famiglie collegate alla banda larga. Nel febbraio 2011 arrivava il primo Rapporto sull'Innovazione nell'Italia delle Regioni (RIIR) presentato al Teatro della Gioventù di Genova. Se ci sono regioni dotate di una copertura relativamente buona, come ad esempio Lazio (75% delle linee), Campania (72%) e Liguria (69,5 %), sono presenti anche territori con un forte gap infrastrutturale; è il caso di Molise (39%), la Calabria (36%) e la Basilicata (34%). Il 12% della popolazione risultava senza accesso a connessioni di nessun tipo.

Dati Eurostat dicembre 2010: nel primo trimestre del 2010 ha avuto accesso ad Internet il 70% delle famiglie UE; in Italia lo stesso dato è 59%. A fare uso dei nuovi strumenti di comunicazione (chat, blog e social network) sono il 73% dei ragazzi italiani fra i 16 e i 24 anni, il 38% nella fascia di età dai 25 ai 54 anni e il 15% fra i 55 e i 74 anni, contro una media UE rispettivamente dell'80%, 42% e 18%. Anche nell'uso dell'email lìItalia risulta indietro rispetto alla media UE: nel nostro paese la posta elettronica è usata dall'84% dei giovani fra i 16 e i 24 anni, dall'83% nella fascia fra i 25 e 54 anni e dal 79% fra i 55 e i 74 anni, contro una media europea rispettivamente del 91%, 89% e 86%. Nel settembre 2012, il rapporto della Broadband Commission dell'Onu collocava il Belpaese al 29esimo posto per la penetrazione della banda larga.

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La prima causa di non possesso di accesso al web risulta essere la mancanza di capacità (40,8% dei casi), seguita dai costi (18,4%), mentre solo nel 13 per cento dei casi la connessione a casa manca perché si accede da un altro luogo. Un 23,3 per cento di famiglie, inoltre, considera Internet inutile.

Akamai, il Content Delivery Network (CDN) che movimenta il 30% del traffico globale di Internet, rilasciava alla fine di gennaio 2011 il suo nuovo rapporto sullo "Stato di Internet". Al di la del non edificante dato dell'essere al settimo posto tra i paesi dai quali hanno origine attacchi informatici, si evince come la velocità delle connessioni mobile nostrana sia la sesta al mondo (2.909 kbps; davanti a noi Russia, Malesia, Regno Unito, Slovacchia e Canada), risultato di gran lunga migliore rispetto a quello delle connessioni fisse, per le quali basti pensare che nella classifica delle 100 città con le connessioni più veloci non venissero menzionati centri urbani italiani (presenti invece quattro olandesi, una tedesca, una francese, una norvegese e tre rumene, tra le quali Constanta, la più veloce in Europa). Un nuovo rapporto di Akamai arrivava aluglio 2011 (lo “Stato di Internet” nel primo quarto dell'anno);si riscontra per l'Italia un aumento del 5% di indirizzi IPrispetto al quarto precedente e del 20% rispetto al 2010. Il nostro paese entra così tra i primi dieci paesi del mondo per traffico su Internet (scavalcando il Canada). Si registra anche un aumento del 23% nelle velocità di connessione (fino a 2,1 Mbps). In Europa, Constanta perde il primato di città più veloce a beneficio della norvegese Lyse.

Il 12 per cento degli italiani acquista beni o servizi online, rispetto al 37 per cento della media europea. Solo il 4 % delle

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nostre imprese vende online, mentre la media europea è almeno il triplo. Il totale degli acquisti online in Italia è fermo allo 0,8% (UK 9,5%, 6,9 Germania, Francia 4,9). Il principale motivo per lo scarso sviluppo dell'e-commerce è la paura in materia di sicurezza che molti nostri connazionali nutrono nei confronti della compravendita in Rete. Ed è davvero un peccato: alla vigilia di aprile 2011 veniva infatti presentato il price Index, indicatore elaborato da Kelkoo, la più grande piattaforma di e- commerce e advertising d'Europa, che riassume l'andamento dei prezzi per il mercato online; si scopre così che fare acquisti nell'online nostrano è mediamente conveniente e che potrebbe essere un'ottima strategia di risparmio diversificare in questo senso proprio in un momento di rincaro dei prezzi dovuto soprattutto al costo delle materie prime. Alimentari, cosmetici, automobili, giocattoli, prodotti di telefonia mobile, dvd, libri, cd, elettrodomestici, consolle e giochi, prodotti informatici: all'interno di questo paniere l'Italia è terza nel continente dietro a Gran Bretagna e Germania.

Tornando a parlare di banda larga, sono spesso false le velocità promesse dagli operatori (quelle reali sono circa il 55% di quelle indicate nelle promozioni). Si diffondono strumenti di verifica in merito alle reali prestazioni delle proprie connessioni al netto di ciò che proclamano gli ISP; ad esempio, il Neubot (Network neutrality bot) rilasciato all'inizio di novembre 2010 come open source dal Centro NEXA su Internet e Società tramite il quale gli utenti potranno verificare quanto è veloce e quanto è neutrale la propria connessione. Il 24 dello stesso mese arrivava anche il Ne.Me.Sys. (che sta per Network Measurement System) dell'Agcom. In gennaio invece L'Autority diffondeva, con gli stessi ma anche con più ampi intenti, l'informativa “i diritti dei consumatori nel mercato dei

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servizi di comunicazione elettronica”, prima di mettere a punto, nel giugno 2011, una nuova versione di Ne.Me.Sys. Nel novembre 2011 il sito SosTariffe.it diffondeva un nuovo rapporto dal quale si evincevano questo dati: la velocità media effettiva delle offerte a 7Mega è 3,5Mega, dato che diventa 7Mega per le offerte di 20Mbps.

La Corea del Sud, già primatista assoluto di velocità nelle connessioni nel mondo, rilancia a febbraio 2011 e mette in cantiere un progetto per portare nelle case Internet ad un gigabit al secondo entro il 2012 per un costo di circa 24,6 miliardi di dollari, di cui uno lo mette il governo e gli altri le grandi compagnie di telco. Per intenderci, un gigabit al secondo è 200 volte la connessione media degli USA (5Mbps); e proprio alla Corea aveva fatto riferimento Obama lanciando il suo piano di sviluppo per la banda larga da 18,7 miliardi di euro. Nel frattempo Google era pronta a far partire la sua Fiber-to-the-Home (FTTH) nelle “Kansas cities” (una nel Kansas, l'altra in Mossouri), così da collegare abitazioni proprio ad un giga al secondo; il progetto vedeva la luce nel luglio 2012 . A novembre, iniziava il cablaggio.

La diffusione record di smartphone nel nostro paese (secondo il Politecnico di Torino il 39% dei possessori di telefoni cellulari ne ha uno “intelligente”) non corrisponde alla capacità di sfruttarne le più avanzate caratteristiche da parte degli utenti italiani; insomma, “lo smartphone non lo sfruttiamo come gli altri per cercare le offerte migliori e i ristoranti più convenienti, ma per chiamare la mamma e farci mandare un vaglia a salvarci, quello sì”. Qui un più recente post di Massimo Mantellini che dipinge il fenomeno.

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Alla fine di maggio 2011 la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma diffondeva nuovi dati sull'Internet Economy italiana, dimostrando che essa ha raggiunto, nel 2010, un valore di circa 31,6 miliardi di euro, pari al 2% del PIL (nel 2009 era pari a 28,8 miliardi di euro, ovvero 1,9% del PIL).Questo dato sarà più che raddoppiato entro il 2015.Sembrano grosse cifre ma siamo ancora distanti dall’Europa : in Gran Bretagna, ad esempio, l’economia di internet vale 7,2% del PIL, mentre in Francia raggiungerà nel 2015 il 5,5%.

Il 19 giugno 2011 Assinform diffondeva il suo nuovo Rapporto dal quale si evinceva come gli accessi alla fibra ottica nel nostro paese fossero 440000 (qui un altro report del gennaio 2012: Italia nona in Europa nelle connessioni in fibra ottica). Ad accedere alla banda larga sarebbe l'87% delle aziende nostrane, ma resta il problema di un forte divario tra Nord e Sud (le percentuali delle imprese settentrionali sono in linea con le eccellenze europee, nel Meridione è il contrario). Inoltre, se in europa opera online il 13,4% delle PMI, in Italia siamo fermi al 3,8%, mentre nell'eCommerce la differenza tra la domanda italiana e la media europea è abissale: 14,7% contro 40,4%. La permanenza di un scarsa digitalizzazione si somma a quella di un diffuso digital divide. Il settore delle Tlc e ICT in generale nel nostro paese registra una flessione. Il presidente di Assinform Paolo Angelucci parlava di “un peggioramento degli ordinativi delle aziende informatiche, confermato da una netta riduzione della propensione agli investimenti in nuovi progetti IT da parte delle imprese-clienti. È questa una testimonianza preoccupante delle difficoltà a intraprendere la via dell'innovazione e della crescita di competitività, che ancora persistono nel sistema

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produttivo italiano, in particolare da parte delle Piccole e Medie Imprese”. Angelucci sottolineava nella stessa sede l'urgenza della messa a punto di un'Agenda Digitale.

Il 23 settembre 2011 veniva diffuso l'“Instant Poll sull'Online Privacy”, ricchissimo di dati su abitudini e tendenze degli italiani durante la navigazione.

Alla fine di ottobre 2011 Akamai diffondeva un nuovo "Rapporto sullo stato di Internet" dal quale si evincevano questi dati: l'Olanda balza in testa nella classifica delle connessioni a banda larga ad alta velocità (sopra i 5Mbps) con il suo 68% di penetrazione, scalzando lo storico leader Corea del Sud (58%, superata anche dal 59% di Hong Kong), mentre l'Italia resta al di sotto del 25% (la connessione media è del 4,2Mbps), pur scontando una crescita del 5,4% nella penetrazione di Internet rispetto al trimestre precedente. Qui un "dubbio sulle metriche Akamai" sollevato da Stefano Quintarelli, qui altri dati. Nuovo rapporto nel gennaio 2013 sul primo trimestre dell'anno precedente: Italia penultima davanti alla Turchia.

Sempre alla fine di ottobre 2011 la Broadband Commission for Digital Development dell'ONU diffondeva un programma in quattro punti per lo sviluppo della banda larga nel mondo da mettere in atto entro il 2015. Oltre a prevdere che ogni nazione sviluppi un proprio progetto, il piano prevede che la connessione sia accessibile a tutti i cittadini e al 40% delle famiglie dei paesi in via di sviluppo, con una penetrazione che dovrà raggiungere almeno il 60% a livello globale. Sull'attuazione di questi punti la supervisione spetterà all'ITU (International Telecommunication Union) e al suo segretario generale Hamadoun Touré.

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Il 28 ottobre 2011 su Wired Martina Pennisi metteva in luce come nella lettera presentata a Bruxelles pochi giorni prima dal governo italiano (in ballo le misure richieste dall'Unione al nostro Paese per la crescita) mancasse qualunque riferimento al digitale. Nel frattempo, Alessandro Longo parlava delle norme contenute nel Ddl Sviluppo volte ad armonizzare le reti 4G e l'elettrosmog. Solo pochi giorni dopo era la volta del maxiemendamento anticrisi da presentare al G20 di Cannes: come veniva tratta la questine broadband? Con delle promesse. E' ancora Alessandro Longo a spiegare di cosa si parla. Promesse peraltro disattese nel passaggio al Senato che precedeva le dimissioni di Berlusconi, con la banda larga che non viene proprio nominata e dunque non inserita nelle priorità anticrisi. Mentre al nuovo primo ministro Mario Monti veniva recapitata da Stefano Rodotà una lettera-appello partorita all'interno dell'Internet Governance Forum di Trento (simile l'iniziativa che prendeva vita il 26 novembre successivo negli "Stati Generali dell'Innovazione). Nelle ore successive, l'Happy Birthday Web al Tempio di Adriano, Roma.Bella la "foto" scattata da Fabio Savelli sul Corriere della Sera del 15 novembre 2011; sempre sul Corriere della Sera, il giorno dopo si lanciava la proposta di un ministero per l'Internet ("l'industria del web in Italia rappresenta ormai il 2% del Pil, cioè oltre 30 miliardi di euro, e per Marc Vos, managing director di Boston Consulting Group, si stima un solido 4% entro il 2015. Poco? Oggi l'Agricoltura - che ha un proprio ministero - rappresenta il 2,63% del Pil (dati Istat). E dunque è probabile che nella prossima legislatura avvenga il sorpasso").Il 24 novembre 2011 si leggeva sul sito del Sole24Ore: "Si

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convinto di Pdl e Pd all'ipotesi di nomina di un sottosegretario all'agenda digitale. 'Qualsiasi scelta che vada nella direzione di sviluppare l'economia digitale in Italia - commenta Antonio Palmieri, responsabile innovazione nel Pdl, ai microfoni di Enrico Pagliarini in 2024 su Radio 24 - e' una scelta utile che può aiutarci ad uscire dalla crisi. Collaboreremo con la persona scelta dal presidente Monti per portare a compimento i progetti del Governo precedente e le nuove iniziative'. Favorevole anche Paolo Gentiloni, responsabile Comunicazione del Pd: 'Siamo assolutamente favorevoli e convinti che questa sia una scelta positiva e nuova. Mario Monti ha fatto riferimento all'agenda digitale europea e gli impegni necessari in Italia, e questo mi ha colpito molto. Crediamo che l'economia digitale sia il settore piu' promettente e che il suo effetto volano per tutti i settori sia un sostegno concreto per rilanciare l'economia e lo sviluppo'.

Nei giorni durante i quali prendeva vita il governo Monti, il Partito Pirata Italiano per bocca del presidente Athos Gualazzi, annunciava che avrebbe presentato una propria lista alle elezioni politiche successive. L'obiettivo è imitare il successo dei colleghi tedeschi. A dicembre dichiaravano: "Tutti sono dirigenti e portavoce".Ad aprile 2012 la formazione politica si trovava impelagata in un procedimento sulla proprietà intellettuale che la vedeva contrappposta ad un gruppo omonimo; procedimento dal quale però usciva vincitrice.

Un'idea di Compass per incentivare l'utilizzo (ora scarsissimo) che gli italiani fanno dell'e-commerce: una carta di credito dedicata agli acquisti in Rete.

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E se fossero i cinesi a fermare la nostra fuga di cervelli? Il dubbio sorge a novembre 2011, quando la Huawei, colosso delle telecomunicazioni di Shenzhen decide di installare il primo laboratorio per lo sviluppo di tecnlogie wireless avanzate in Lombardia. La decisione sarebbe stata presa alla luce dell'alta formazione che i nostri atenei garantiuscono agli studenti. Che poi, puntualmente, vanno altrove a metterla in pratica non trovando sbocchi all'altezza nel nostro mercato del lavoro.

Alla fine di novembre 2011 il Commissario dell'Agcom Nicola D'Angelo parlava del passaggio che compieranno da gennaio 2013 tutte le reti telefoniche verso il protocollo IP. Negli stessi giorni Facebook raggiungeva in Italia i 21 milioni di profili e venivano diffusi nuovi dati sull'utilizzo della Rete nel nostro Paese (nell'agosto del 2013 gli utenti italiani del social network in blu erano 24 milioni).

Il 1 dicembre 2011 arrivava il 45esimo rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese: risultano connessi il 53,1% degli italiani, dato che diventa dell'87,4% nella fascia d'età compresa tra i 15 e i 24 anni. Sempre a dicembre, l'ultimo rapporto ISTAT. Nelle stesse ore, un report della Commissione Europea e Idate sulla diffusione della banda larga nel Continente che metteva in evidenza quanto i ritardi in materia di broadband per il nostro Paese siano legati alla mancanza di connessione veloce nelle aree rurali e ad un digital divide interno più alto della media (qui invece i ritardi di broadband rispetto all'Europa nel giugno 2012).

Nei primi giorni del 2012 venivano diffusi due rapporti molto interessanti: dal primo, dell'Agcom, si evince la perdita di

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terreno delle reti fisse nei confronti di quelle mobile; nel secondo, rilevazioni Nielsen, il fatto che una delle poche eccezioni in un mercato pubblicitario in netto calo è l'advertising online.

Rapporto Akamai sul terzo trimestre del 2011: peggiora il digital divide, siamo sempre indietro con la velocità, e “siamo ritornati a essere il Paese al mondo da cui origina più traffico legato ad attacchi provenienti da reti mobili”. Il tutto mentre un rapporto della McAfee sugli “armamenti digitali” ci dichiarava impreparati ad una cyberwar ; uno scenario confermato dal presidente del consiglio Mario Monti nel marzo del 2013 e al quale hanno fatto seguito iniziative legislative : la firma di un decreto che istituisce un Computer emergency repons team (Cert), un nucleo di sicurezza che farà da cervello centrale per il coordinamento delle azioni volte a contrastare i pericoli di attacco informatico al Paese. Iniziativa lodevole e necessaria, ma dalle colonne de L'Espresso Alessandro Longo faceva notare due ordini di problemi: il primo è che l'organismo non ha dotazione economica, caso più unico che raro; il secondo, è che sono molteplici i pezzi di governo ai quali questo nuovo soggetto dovrà rispondere, aprendo subito il rischio di inefficienza dovuta a scarsa autonomia e dinamismo. Ancor più pesante l'allarme lanciato da Fulvio Sarzana: il decreto per la sicurezza informatica garantirebbe ai servizi segreti un accesso a tutto campo ai dati degli utenti della Rete italiani che transitano tramite “operatori privati che forniscono reti pubbliche di comunicazione o servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico” (punto di vista ribadito poche settimane dopo). Andrea Rigoni si interrogava invece sulla compatibilità con il quadro europeo. Nelle inchieste di Repubblica un quadro dettagliatissimo di chi permette ai

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servizi l'accesso ai propri database.La Nato intanto diffondeva il suo “manuale della cyberwar”.

Nel dicembre 2013 l'Italia si dotava di un Piano per la Cybersecurity; a febbraio venivano pubblicati in Gazzetta Ufficiale il Quadro strategico nazionale per la sicurezza dello spazio cibernetico e il Piano nazionale per la protezione cibernetica e la sicurezza informatica.

Sempre sulla larghezza di banda, non ci sorridevano le classifiche nel febbraio 2013.

Da una ricerca Symantec diffusa il 6 marzo 2012 si apprende che Roma e Milano sono tra le dieci città d'Europa maggiormente esposte al rischio di attacchi informatici.

I numeri dell'Internet economy nostrana al marzo 2012. E i suoi ritardi sui paesi più sviluppati. La situazione della banda larga in Italia nello stesso momento.

Dall'11 luglio 2012 è possibile registrare, su Registro.it, domini con l'accento.

Non arrivano buone notizie per l'Italia dal rapporto diffuso nell'agosto 2012 dall'Oecd.

Da una ricerca condotta nel settembre 2012 da MusicMetric, società che analizza il mercato musicale, l'Italia risultava terza in classifica per numero di download sulle reti BitTorrent.

Tutt'altro che rosei i dati che nel dicembre 2012 venivano forniti dall'Eurostat sulla broadband nel Vecchio Continente.

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Ancora poche ore, e anche l'Istat provvedeva al bilancio di fine anno.

Le statistiche presentate nel marzo 2013 da Assinform, con la collaborazione di NetConsulting, in materia di sviluppo delle Ict in Italia segnavano un “meno”. Se su scala mondiale le nuove tecnologie segnavano un + 5,2% nel 2012, nel nostro Paese il dato era una doccia fredda: – 1,8%. Peggio della media europea, che pur non brillando vedeva l’Ict crescere dello 0,6% (prestazioni sotto la media confermate pochi giorni dopo dal quadro valutativo dell'Unione Europea).Nelle stesse ore partiva dalla Sardegna di Renato Soru il search engine che punta a valorizzare il patrimonio artistico, storico e culturale italiano: istella.

Nel marzo 2013 veniva aggiornata la legge Stanca sull’accesso dei disabili alle nuove tecnologie. La normativa, ferma al 2005, veniva rivista alla luce delle innovazioni sopraggiunte, soprattutto per quanto riguarda il passaggio dai linguaggi Html all’Xml.

Le potenzialità anticrisi delle Ict sono fotografate nitidamente dal Global Information Technology Report del 2013: per ogni aumento del 10% dell'indice di digitalizzazione di un Paese, lo stesso vede crescere il Pil pro-capite dello 0,75%.

Diritto d’Autore: Norme, Utilizzi della Rete e Infrazioni

Stando allo studio Online Piracy and Counterfeiting, pubblicato dalla società americana Mark Monitor nel gennaio del 2011,

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RapidShare, Megavideo e Megaupload hanno generato nel 2010 21 miliardi di visite; gli “armadietti digitali” (cyberlockers) hanno così sopravanzato i canali di P2P e bit torrent, anche se il numero totale delle visite in questo caso non può equivalere a numero totale di infrazioni di copyright, ospitando i suddetti “armadietti” anche materiale legale, che poi è la loro principale ragione d'essere o almeno quella che ha sempre garantito loro assoluzioni in tribunale.

Una condanna per Rapid Share arriva all'inizio di dicembre 2010, quando una corte di Amburgo rilevava come il servizio non avesse implementato adeguati filtri (come stabilito da una precedente ingiunzione del febbraio 2010) per evitare la circolazione senza autorizzazioni sulle sue reti di circa 150 testi appartenenti al gruppo di editori che avevano denunciato il servizio per violazione di copyright.

Particolarmente cruenta appare la battaglia che in terra olandese si combatte tra l'associazione a difesa dei diritti d'autore BREIN e il servizio di indexing presente su Usenet FTD; la dinamica è conosciuta: l'indexing faciliterebbe la condivisione di contenuti illegali, così l'accusa chiede la cessazione dell'attività. Meno comune la dinamica da film di spionaggio che si è generata: l'accusa parla di utenti del sito che avrebbero indicato dove reperire questo tipo di file, mentre i gestori del sito smentiscono che upload di questo tipo siano avvenuti; ma un articolo apparso tra le pagine della testata online TorrentFreak rivelava nell'ottobre 2010 come almeno 15 uomini di BREIN si sarebbero infiltrati nel servizio come comuni utenti caricando i suddetti file costruendo così le stesse prove ora portate davanti al giudice. Ovviamente BREIN respingeva le accuse ammettendo si infiltrazioni ma

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affermando che il lavoro sotto copertura degli investigatori era volto al semplice monitoraggio delle attività che sulla rete vengono svolte. Tuttavia, nell'ottobre 2011 una corte di Amsterdam alzavaulteriormente la posta in palio e, dando ragione a BREIN, condannava il provider di Usenet NewsService.com (NSE) per aver facilitato la ripetuta violazione di copyright sui suoi server. Dunque, un intervento pesante nell'area della responsabilità degli intermediari, che potrebbe coinvolgere anche servizi di file hosting come Megaupload. NSE dovrà ora eliminare dai suoi server ogni contenuto illecito, pena il pagamento di 50mila dollari per ogni giorno in più trascorso.

Il 2 dicembre 2010 sul blog ufficiale di Google appariva un post dal titolo “far funzionare meglio il copyright online”, firmato dal general consuel Kent Walker, che in pratica sanciva la volontà di BigG di essere considerato dalle autorità come un alleato nella lotta alla pirateria. Da Mountain View si partiva da alcuni numeri: sono un biliardo (un milione di miliardi) gli indirizzi registrati e l'esplosione di contenuti degli ultimi anni ha portato Youtube a vedere caricati sui suoi server 35 ore di video ogni minuto. Tutto ciò sarebbe minacciato dalle mele marce che si rendono responsabili delle violazioni di copyright. Dunque, Google si impegna a cambiare alcune delle sue policy per aiutare l'enforcement della lotta alla pirateria: le takedown request (richieste di rimozione) che gli arriveranno saranno più facili da inviare e soprattuto, se risulteranno fondate e affidabili, verranno prese in considerazione al massimo entro 24 ore (potrebbe essere anche meno), misura che sembrerebbe controbilanciata da strumenti che semplifichino anche chi si contrappone a queste

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richieste. Si apre poi all'applicazione globale di una norma come il Digital Millennium Copyright Act (DMCA, vedi “USA”) anche in sezioni che non troverebbero riscontri in ordinamenti come quello italiano; ad esempio, ilcounter notice, che farebbe agire Google come un vero e proprio content provider. BigG si dichiara poi intenzionato a rimuovere dai risultati di ricerca tutti i termini che siano legati all'universo del file sharing illegale, cercando di aggiornare volta per volta apposite liste nere per raggiungere questo difficile obiettivo. Tuttavia, fa notare lo l'european senior policy counsel di BigG Italia Marco Pancini, non sarebbero previste attività di filtraggio preventivo; le proposte sono finalizzate a cercare un bilanciamento tra tutela del diritto d'autore e diritto all'accesso, con il sistema di notice-and-takedown indicato come una vera alternativa alla criminalizzazione dell'utente finale. Naturalmente se il mondo dell'entertainment apprezza l'apertura, c'è chi storce il naso e pensa alla serie di motivi che hanno spinto Google a queste dichiarazioni: da un lato la necessità di iniziare ad attrezzarsi in vista di leggi come il temutissimo e prossimo in terra statunitense Combating Online Infringement and Counterfeits Act (COICA); dall'altro, il fatto che Google appare sempre più addentro al business della diffusione di contenuti legali, come dimostrano i recenti accordi stipulati con le stesse major.

I dati della BSA (la Business Software Alliance che nel 2010ha visto diventare presidente Matteo Mille) per il 2010 non sono migliori di quelle dell'anno precedente: per le impreseitaliane il costo complessivo della pirateria sarebbe cresciuto del 234%. Costi che, come si legge in un comunicato della stessa BSA, “rappresentano la somma dei costi per accordi extra giudiziali sostenuti dalle imprese scoperte ad utilizzare

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programmi senza licenza e di quelli sostenuti per l'acquisto delle regolari licenze necessarie per dotarsi delle medesime risorse software legali"; resta al 49% la soglia dei software illegali nel nostro paese. Dunque, ai pirati “privati” si sommano le grandi imprese.

Attivo dal 2001 presso l'assessorato per le Politiche Giovanili del Comune di Modena la Rete “Net Garage”: sei strutture rivolte ai giovani con l'obiettivo, prima, di alfabetizzare alle nuove tecnologie e proporre, poi, vere e proprie sperimentazioni nella direzione dell'Open Source. Nel 2008 la rete promuoveva la diffusione del testo “Creative Commons: manuale operativo” (Stampa Alternativa) ad opera di Simone Aliprandi.Creative Commons (carina la sintetica “guida” di Wired) è un progetto nato nel 2001 dall’iniziativa di alcuni giuristi (in testa Lawrence Lessing) della Stanford University della California. Obbiettivo primario del progetto è dunque promuovere un dibattito a livello globale sui nuovi paradigmi di gestione del diritto d’autore e diffondere strumenti giuridici e tecnologici (come le licenze e tutti i servizi a esse connesse) che permettano l’affermazione di un modello “alcuni diritti riservati” nella distribuzione di prodotti culturali. Questa mission è ben rappresentata in un’immagine in cui Creative Commons sta simbolicamente ad indicare una graduale sfumatura intermedia fra il modello “tutti i diritti riservati” tipico del copyright tradizionale e il modello “nessun diritto riservato” tipico del pubblico dominio integrale o di una sorta di no-copyright. Le licenze Creative Commons si applicano alle opere protette da copyright. In linea generale, le opere protette da copyright sono: libri, scritti, siti web, appunti, blog e ogni altra forma di scritto; fotografie e altre immagini visive;

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film, video game e altri documenti video; composizioni musicali, registrazioni sonore e altre opere audio. Le licenze Creative Commons non si applicano invece a idee, informazioni di fatto o altre cose che non sono protette da copyright. Sono così disponibili un set di sei licenze che permettono di indicare diversi tipi di diritti esercitabili dal licenziatario e che coprono praticamente qualunque tipo di modalità di utilizzo delle opere. Ogni licenza è poi composta di una parte informale accessibile a tutti, una più dettagliata “da avvocati” e una elettronica da implementare nelle opere stesse così che venga riconosciuta dai dispositivi stessi. La licenza Creative Commons “By-Sa” che tutela Wikipedia recita così:”Potete modificare, trasformare o adattare questa creazione, ma avete il diritto di distribuire l’opera che ne deriva solo se garantite agli altri la stessa possibilità”. Da queste parole prendeva spunto nel 2010 il blogger francese Florent Gallaire per lanciare una provocazione: avendo lo scrittore connazionale Michel Houllebecq ammesso di aver rielaborato testi dell'enciclopedia online per il suo ultimo romanzo “La carta e il territorio”, lo stesso dovrebbe considerarsi aperto a tutti; così Gallaire ne linkava sul suo blog la versione completa da Rapidshare. Naturalmente ora dovrà portare avanti le sue tesi anche davanti al giudice.

All'inizio di giugno 2011 Youtube metteva a disposizione degli utenti una serie di contenuti (circa 10mila) protetti da licenze Creative Commons; il servizio esordisce con la licenza di tipo CC BY 3.0, quella che prevede l'attribuzione di paternità ai contenuti; dunque gli utenti potranno utilizzare pezzi di video per montare di nuovi a patto che inseriscano link che rimandano ai contenuti originali. Da Mountain View si fa

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sapere che c'è l'intenzione di implementare gradualmente nei prossimi mesi anche le altre cinque licenze.

Nel novembre 2010 un tribunale belga sanciva il pieno valoredelle licenze Creative Commons, condannando un teatro belga per aver utilizzato e modificato un pezzo di una non meglio specificata band senza chiedere l'autorizzazione alla stessa e senza indicare la paternità del brano, come la licenza CC a copertura del brano prevedeva. Dunque, violare le CC, almeno in terra belga, è come violare il copyright tradizionale. Il 28 marzo 2008 invece negli studi di Al Jazeera, in Qatar, il trentunenne Mohamed Nanabhay (oggi direttore dell'emittente) decideva di mettere i filmati dell'attacco israeliano che in quelle ore si consumava su Gaza su Wikipedia con licenza CC.Infine, alla fine di aprile 2011 il co-fondatore e presidente diCreative Commons Joichi Ito veniva nominato nuovo direttore del MIT Media Lab, il centro di computing science del Massachusetts Institute of Technology di Boston.Per tre passi avanti ce n'è però anche uno indietro: la prima settimana di febbraio 2011 il nuovo ministro della cultura brasiliano, Ana De Hollanda, ordinava di rimuovere dal sito del ministero il riferimento alle licenze CC, rimandando il discorso sulla riforma del diritto d'autore a “quando sarà il suo momento”, in questo facendo retromarcia rispetto all'azione del predecessore Gilberto che aveva aperto fina dall'inizio del mandato alle Creative Commons (oltre ad aver stimolato un intenso dibattito sul fair use e la legalizzazione del P2P a fronte di un abbonamento generico).

Il 17 febbraio 2011 si leggevano queste parole in una sentenza di un giudice spagnolo: "In ogni caso, invertendo l'argomentazione giuridica, è concepibile che un cliente, dopo

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aver sentito o visto la copia pirata, possa decidere di acquistare gli originali ... in modo che la vendita di copie pirata, lungi dal nuocere, favorisca il mercato delle riproduzioni originali". Il tutto alla fine di un processo che vedeva imputati dei venditori di CD pirata. Dunque secondo il giudice, la circolazione dei contenuti al di fuori dei canali "leciti" potrebbe giovare al mercato "lecito". Come ci ricorda l'avvocato Marco Scialdone, nel 2001 l'allora giudice Gennaro Francione scriveva in una sentenza: "la New economy ha dimostrato come addirittura la diffusione gratuita delle opere artistiche acceleri paradossalmente la vendita anche degli altri prodotti smistati nei canali ufficiali, e se ciò vale nello spazio virtuale di Internet deve valere anche nello spazio materiale con vendita massiccia di prodotti-copia che alimentano l'immagine e la vendita dello stesso prodotto smistato in via 'legale' ".Tornando al giudice spagnolo, egli negava risarcimenti perché escludeva la presenza di un danno: "i clienti di musica e film pirata, quando effettuano l'acquisto, esternano la loro decisione di non voler acquistare musica e film originali, cosicchè non vi è alcuna perdita. Detto in altre parole, questi acquirenti o comprano al prezzo basso del supporto pirata o non comprano affatto".

Alla fine di giungo 2011 venivano rilasciate in versione italiana alcune delle nuove licenze Creative Commons 3.0; non di sola traduzione trattasi, ma di adattamento delle stesse all'ambiente giuridico del nostro paese.

In uno studio condotto tra il 2009 e il 2010 nientemeno che dalla Warner Bros, nonché nel report ISOS 2011 sullo stato della pirateria digitale in Italia, si evince come il 72 per cento

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di chi scarica abitualmente contenuti protetti da copyright sarebbe interessato ad un'offerta legale, soprattutto nel caso in cui questa prevedesse la disponibilità dei contenuti video usciti in contemporanea su tutti i mezzi o in contemporanea mondiale. Addirittura un 24 per cento degli interessati dichiara che non scaricherebbe più illegalmente nel caso di offerte simili. Dal lato opposto (ma convergente), nel rapporto di gennaio 2011 l'Ifpi dipingeva una situazione nella quale ogni 20 canzoni scaricate 19 sono illegali.

Alla fine di marzo 2011 arriva uno studio dell'Università del Minnesota che sembra dichiarare: il P2P non è una minaccia alla creatività degli artisti. Realizzato da Joel Waldfogel, nello studio si parla di un ritmo di produzione di nuovi dischi che non giustifica l'associazione tra tutela del copyright e produzione di nuove opere come rapporto direttamente proporzionale. Anzi, l'apertura garantita dai nuovi sistemi di scambio di contenuti avrebbe favorito la creatività stessa, che sarebbe invece ostacolata proprio dagli obsoleti sistemi di lotta alla pirateria delle major. Almeno di quelle tradizionali, mentre quelle indipendenti hanno iniziato già da tempo a utilizzare meccanismi flessibili adatti alla promozione e diffusione in rete dei loro artisti. Anche i produttori di anime giapponesi devono pensarla così: uno studio commissionato dalle autorità nipponiche e realizzato dall'Istituto di Ricerca Giapponese dell'Economia, del Commercio e dell'Industria metteva in luce all'inizio di febbraio 2011 un “effetto Youtube” sulla vendita dei DVD dei famosi cartoni animati: in pratica, più passavano sulla piattaforma video di Google maggiori erano le vendite. Youtube funzionerebbe dunque come canale promozionale. Risultati diversi, tuttavia, per la pirateria negli altri ambiti dell'intrattenimento, musica in testa.

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Per Jhon Bon Jovi, stando a quanto da lui dichiarato in un'intervista al Sunday Times alla metà di marzo 2011, la colpa della fine dei dischi sarebbe di Steve Jobs e di iTunes, rei di aver tolto ai giovani il piacere di acquistarli nei negozi e di avere con essi un contatto corporeo, mentre si attirano gli artisti in un mondo virtuale che poi diventerebbe un inferno.Curiosa invece la vicenda che coinvolge i Kiss: all'inizio di novembre il canale ufficiale di Youtube della rock band veniva chiuso per violazione di Copyright; all'inizio si pensava ad un attacco DDOS da parte di Anonymous (dei quali erano già stati vittima due siti gestiti dal bassista della band Gene Simmons). Invece su parte del materiale caricato i diritti sono di proprietà della S'more Entertainment, la quale potrebbe ora rifarsi proprio su Simmons che, da accusatore di eventuali hacker contro cui voleva scagliare l'FBI, si ritrova accusato per aver caricato sul Tubo materiale dei quali diritti non era titolare.

In materia di equo compenso arrivava nel novembre del 2010 una sentenza della Corte di Giustizia Europea con la quale si stabiliva che gli stati membri possono esigerlo per dispositivi “destinati” alla registrazione di copie private; dunque non basta che i suddetti strumenti siano soltanto “idonei”. Non sembra il caso della disciplina italiana, che proprio nel decreto Bondi ricomprende tra quelli soggetti al pagamento della "tassa", ad esempio, dispositivi e supporti acquistati da persone giuridiche e da professionisti per finalità estranee all'esecuzione della copia privata. La SIAE si affrettava a precisare come le apparenti discrasie con la normativa continentale siano già corrette dal sistema di “esenzioni (sul sito della SIAE sono indicati in tale categoria: consolle di videogiochi con hard disk interno; apparecchi di registrazione e supporti vergini spediti

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verso altri paesi dell'Unione Europea o esportati verso paesi terzi; supporti vergini di fatto inidonei alla "copia privata"; supporti vergini acquistati da imprese di duplicazione) e "rimborsi” demandato alla SIAE stessa, palesando però un'ulteriore anomalia: non solo le norme in materia sono da correggere, ma questa correzione “accessoria” è affidata ad un ente portatore di interessi che per quanto legittimi sono pur sempre di parte proprio nel merito della questione; insomma, alla SIAE, ente beneficiario dei compensi che ha dunque interesse a che essi siano più alti possibili per avere rispettive più alte provvigioni, è chiesto di fare in modo che essi non siano sproporzionati. Il conflitto di interesse sfiora il ridicolo.In più, nel marzo 2011 il Giurì di autodisciplina richiamava i vertici della SIAE a non presentare le proprie opinioni sull'equo compenso come fatti oggettivi. In ogni caso, nel marzo del 2012 il Tribunale Amministraztivo del Lazio, respingendo otto ricorsi presentati contro il decreto Bondi, dava ad esso nuova legittimità.

Mauro Masi, passato nel maggio 2011 dalla RAI alla Consap, guida dal gennaio 2009 il Comitato nazionale antipirateria, che non comprende però operatori del settore e finora ha dato praticamente risultati nulli.

Nel marzo 2011 un gruppo di scammer veniva condannato a risarcire Google, che li aveva denunciati l'anno prima, per aver sfruttato il marchio di Adwords indebitamente per promettere soldi facili con i propri siti e generare lucro.

Al 2 dicembre 2010 risultano essere 35 le ore di video caricate ogni minuto su Youtube; è quanto si leggeva sul blog ufficiale di Google (nello stesso post si menzionava il bilione di

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indirizzi URL registrati nel mondo).

Nel marzo 2011 l'ICANN autorizzava la creazione di domini .xxx, il quali venivano inaugurati nel settembre successivo. Si riaprivano così le proteste del mondo del porno ma anche le richieste di altri settori, come quello del mondo omosessuale e degli ambientalisti, che vorrebbero, rispettivamente, un .gay e un .eco. Inoltre, a novembre 2011 Manwin Licensing International SARL decideva di fare causa all'ICANN; essendo uno dei più grandi distributori di contenuti per adulti online, si diceva danneggiato da questa autorizzazione che genera un ulteriore onere per la registrazione e crea una condizione di monopolio (qui per approfondire). Le proteste si trasformavano in un'azione legale che terminava, con un accordo, nel maggio 2013. Su un altro fronte, nell'ottobre 2013 l'Icann dava il via libera ai primi quattro generic top level domain in arabo, russo e cinese.

Nei primi mesi del 2011 era invece arrivato Porn Wikileaks, un sito statunitense che rivela le reali identità degli attori di 23mila attori di film porno, corredando il tutto con prove fotografiche e addirittura documenti. L'iniziativa, che sembra essere figlia della volontà di mettere in campo una crociata moralizzatrice in terra americana (contro il porno ma anche contro l'omosessualità), lascia indifferente i professionisti del porno ma terrorizza chi si da ai film hard in incognito e negli interstizi di una vita socialmente irreprensibile.

Caricando su Youtube un contenuto che presenta materiale potenzialmente in violazione di diritto d'autore si può essere destinatari di un messaggio del genere: “Caro marcociaffone, il

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tuo video “esempio.mov” potrebbe contenere materiale di proprietà o concesso in licenza da EMI. Non è richiesta alcuna azione da parte tua; se ti interessa sapere come ciò influirà sul tuo video, visita la sezione "Corrispondenze ID video" del tuo account per ulteriori informazioni. Sincerely, Il team di YouTube”.

Su Facebook invece il tasto per segnalare una paginaappare così:

Tutte le segnalazioni sono strettamente confidenziali. Quale di queste opzioni descrive meglio l'abuso?

Spam e scam

Contiene discorsi che incitano all'odio o attacca un individuo

Comportamento violento o dannoso

Nudo, pornografia o contenuti sessualmente espliciti

Copia, Pagina falsa o attribuita alla categoria sbagliata

È di tua proprietà intellettuale?

Caricando un video su Facebook si apre una scheda di attesa “per l'approvazione”, il che evidenzia la presenza di filtri.

DELIBERE AGCOM 606/10/CONS e 607/10/CONS in attuazione del Decreto Romani (Decreto Legislativo n.44 15 marzo 2010 “Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l'esercizio delle attività televisive”)Da specificare, a monte, che la direttiva 2007/65/CE specifica

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che il suo ambito di applicazione deve ritenersi limitato "a tutte le forme di attività economica, comprese quelle svolte dalle imprese di servizio pubblico, ma non dovrebbe comprendere le attività precipuamente non economiche e che non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva, quali i siti internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell'ambito di comunità di interesse". Nessun dubbio pertanto che in Europa i gestori delle piattaforme User Generated Content (YouTube, Dailymotion, Vimeo ecc) non possono essere considerati "fornitori di servizi media audiovisivi", né assoggettati alla nuova disciplina relativa all'attività radiotelevisiva).Il 25 novembre 2010 arrivano dall'Agcom le direttive 606/10/CONS (Regolamento concernente la prestazione di servizi di media audiovisivi lineari o radiofonici su altri mezzi di comunicazione elettronica ai sensi dell'art.21, comma 1-bis, del testo unico dei servizi dei media audiovisivi e radiofonici) e 607/10/CONS (Regolamento in materia di fornitura di servizi di media audiovisivi a richiesta ai sensi dell'articolo 22-bis del testo unico dei media audiovisivi e radiofonici) pubblicate il 28 dicembre: durante la consultazione sulle bozze di regolamento emerge già un suggerimento sull'estensione delle norme ai siti di UGC, semplicemente disponendo che le norme riguardino anche “soggetti che non selezionano necessariamente ex ante le opere inserite nei cataloghi, ma che operano comunque una selezione ex post, riservandosi il potere di eliminare dal catalogo contenuti ritenuti in contrasto con le proprie scelte editoriali, e soprattutto svolgono un'attività di organizzazione delle opere anche inserite nel catalogo da terzi, allestendo sistemi di classificazione ed etichettatura dei contenuti, e consentendone il reperimento da parte degli utenti all'interno

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del catalogo" come si legge nella delibera 607/10/CONS. All'art. 2 di entrambi i regolamenti si prevede invece che "L'attività di comunicazione e di messa a disposizione di contenuti audiovisivi attraverso internet è libera e, in particolare, sono esclusi dal campo di applicazione del presente regolamento: [...] i siti internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati che provvedono alla selezione e alla organizzazione dei contenuti medesimi a fini di condivisione o di scambio nell'ambito di comunità di interesse tranne nel caso in cui sussistano, in capo ai soggetti che provvedono all'aggregazione dei contenuti medesimi, sia la responsabilità editoriale, in qualsiasi modo esercitata, sia uno sfruttamento economico". Nessun dubbio in merito allo sfruttamento economico (sopra la soglia dei centomila euro), qualcuno in merito al significato di “responsabilità editoriale”; a chiarirli ci si pensa nella 607: "nell'ipotesi di responsabilità editoriale attribuibile a più soggetti […] la responsabilità giuridica (va posta, nda) in capo a chi gestisce in maniera diretta l'effettiva consegna e messa a disposizione del contenuto agli utenti finali, ovvero in capo al soggetto che gestisce direttamente l'ultimo passaggio della filiera per la fruizione del contenuto da parte dell'utente finale. Infatti tale soggetto, benché in astratto non sia in condizione di determinare la scelta di ogni singolo prodotto audiovisivo all'interno delle sezioni di catalogo dallo stesso direttamente offerte, in concreto risulta pienamente in grado di pre-ordinarne la tipologia a livello contrattuale, almeno in termini di qualità e di genere, in relazione alla complessiva linea editoriale del catalogo proposto agli utenti". Dunque, il quadro è quello dei grandi siti di UGC che rientrano a pieno nelle norme: il regolamento esclude le piccole WebTV e i videoblog amatoriali (oltre al limite di 100mila euro di

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introiti c'è la messa in onda di almeno 24 ore di programmi ogni 7 giorni), ma non i portali video come YouTube, Vimeo, Daily Motion, ecc. che avrebbero dovuto assolvere da quel momento agli stessi obblighi di legge dei canali televisivi, tra i quali la responsabilità diretta sui materiali audiovisivi trasmessi, a dispetto della 2007/65/CE e delle norme sulla responsabilità degli intermediari. Un'interpretazione legittimata anche dalle parole del Commissario Mannoni, che l'8 dicembre 2010 dichiarava al Sole24Ore: "YouTube fa una gerarchizzazione dei propri contenuti, anche se magari solo con il suo algoritmo e in automatico, e questo equivale a un controllo editoriale". Gli obblighi previsti vedono dunque la necessità di una comunicazione d'inizio attività (sembra scomparsa invece la necessità di autorizzazione); previsti contribuiti una tantum di 500 euro per le web TV (secondo un censimento realizzato dall'osservatorio Altra Tv in Italia le web tv sono 436 nel 2010 con un incremento del 52% rispetto all'anno precedente; una su cinque riesce a ritagliarsi un numero di visitatori unici che supera i 10000 al mese; il maggiore problema per tutti è la scarsezza di banda in molti contesti) e 250 per le web radio (mentre all'inizio si parlava di 3mila euro per entrambe), l'iscrizione in un registro, la registrazione dei programmi trasmessi, il rispetto delle norme sulla pubblicità, la tutela dei minori e l'obbligo di rettifica entro 48 ore. Senza contare alcune norme di difficile attuazione, come il rispetto per le fasce protette, probabilmente impossibile online (il web è sempre disponibile e poi ci sono anche i fusi orari da tenere in conto essendo la rete mondiale). Proprio l'estensione sul globo porta l'Agcom a contemplare il concetto di “country of origin”: un sito che appartiene ad una compagnia che opera all'estero non dovrebbe richiedere l'autorizzazione e dovrebbe rispettare le regole di quella determinata nazione;

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regole che con tutta probabilità sarebbero diverse. A fine gennaio veniva poi pubblicata la delibera dell'Agcom 608/10/CONS, con la quale si estende ai “fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici” l'onere di iscrizione al ROC (Registro Unico degli Operatori di Comunicazione), ai dubbi iniziali su chi e con quali parametri avesse dovuto adempiere alla norma, rispondeva la stessa Autority specificando che si trattava degli stessi soggetti ricompresi nelle due delibere precedenti. Il problema rimaneva però proprio chi fossero quei soggetti.Ovviamente, proteste a ondate. Già nei giorni successivi il ministro per i rapporti con il Parlamento Elio Vito, rispondendo ad un'interrogazione parlamentare, escludeva questo tipo di situazione (nella stessa interrogazione il ministro commetteva anche una gaffe (non si sa quanto involontaria) affermando:"il Governo ha mantenuto l'impegno rendendo libero e gratuito l'accesso alla rete"; dubbia la libertà, sicuramente non vera la gratuità); è poi l'Agcom stessa, attraverso l'aggiornamento delle FAQ sul proprio sito, a chiarire i dubbi interpretativi: i regolamenti contestati non si applicherebbero ai "siti che diffondono contenuti generati dagli utenti (cd UGC)" in quanto "le delibere dell'Autorità in piena aderenza con i principi stabiliti dalla direttiva e dal decreto, ne hanno esplicitamente previsto l'esclusione dal campo di applicazione dei regolamenti, tranne nel caso in cui sussistano, congiuntamente, due condizioni in capo ai soggetti aggregatori: sia la responsabilità editoriale, in qualsiasi modo esercitata, sia uno sfruttamento economico […] Mentre lo sfruttamento economico è facilmente individuabile, affinché si determini la responsabilità editoriale, sono invece richiesti due elementi concorrenti: l'esercizio di un controllo effettivo sia sulla selezione dei programmi, ivi inclusi i programmi-dati, sia sulla

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loro organizzazione in un palinsesto cronologico, nel caso delle radiodiffusioni televisive o radiofoniche, o in un catalogo nel caso dei servizi a richiesta […] Pertanto, i siti che non selezionano ex ante i contenuti generati dagli utenti, ma effettuano una mera classificazione dei contenuti stessi, non rientrano nel campo di applicazione della norma". L'esclusione di Youtube e simili sembra così difficilmente equivocabile, se non fosse che sarebbe meglio inserire questo tipo di chiarimenti in documenti come le delibere stesse per dare un'ufficialità incontestabile alle regole. Soprattutto perché la sensazione che emerge è quella di una vicenda nella quale non sono stati gli equivoci a farla da padrona, ma le velleità di un'autorità che prova a più riprese a porre ostacoli alla rete con una logica televisiva, tentando quelle mosse alle quali il 25 novembre 2010 Vittorio Zambardino si riferiva dicendo: “Sono pura oppressione della libertà di pensiero. Deliberata volontà di ricondurre ogni novità dentro il quadro giuridico e normativo della metà del secolo scorso. E’ “reazione” , economica e politica, nel senso letterale del termine”; per poi fare marcia indietro solo davanti a proteste che sembrano smascherarne gli intenti. Intenti che, appunto, vengono fatti passare per equivoci.Parlando dello specifico della 668/10/CONS (“Consultazione pubblica su lineamenti di provvedimento concernente l'esercizio delle competenze dell'autorità nell'attività di tutela del diritto d'autore sulle reti di comunicazione elettronica) si parla ancora di attuazione del decreto Romani (articolo 6), ancora di Agcom, e ancora di controversie: si interviene sulla parte relativa al diritto d'autore, indicendo una consultazione pubblica della durata di 60 giorni con l'obiettivo di decidere quali misure di rafforzamento nella tutela del copyright in rete possono essere a disposizione dell'Authority. Si propone così una bozza di regolamento in materia, che contiene la previsione

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di un sistema di cancellazione e inibizione di contenuti e siti Internet (contemplate tutte le piattaforme, banche dati incluse, e tutte i formati, compreso lo streaming) sospettati di violare il diritto d'autore; in particolare, i punti dal 3.5 al 3.5.4 prevedono un percorso in quattro step che rimetterebbe all'Agcom questo tipo di potere: “L’Autorità ritiene che dopo un iniziale periodo di rodaggio la procedura qui tracciata possa operare in maniera pressoché automatica sulla base dello schema segnalazione – verifica - eventuale provvedimento inibitorio essendo fondata su un accertamento della violazione della normativa a protezione del diritto d’autore di tipo puramente oggettivo, che prescinde dalla valutazione di ipotetici elementi soggettivi associati al dolo o alla colpa. Come detto, è sufficiente infatti la verifica della presenza (non autorizzata) su un sito di contenuti protetti da copyright a legittimare l’attivazione delle iniziative di garanzia da parte dell’Autorità nell’ambito della finalità di prevenzione attribuita alla sua azione, in via generale, dal già citato art. 182 bis della legge 22 aprile 1941 n. 633”. Non si fa differenza tra attività pubblica e privata e se generi un lucro o meno. Il blocco tarato su indirizzo IP o domain name system arriverebbe comunque; alla rimozione di singoli contenuti si affianca anche la cancellazione di interi spazi web (oscuramento dentro all'interno dei confini nazionali per i siti ubicati su server esteri) se il loro fine è solo quello di diffondere materiale illegalmente, con un'altra strada prevista nella compilazione di una lista di siti illegali da consegnare ai provider, sul modello dei siti di gioco d'azzardo e pedopornografia (le “liste nere” che riguardano queste aree sono messe a punto e gestite dall'ente indipendente CNCP, istituito nel 2007 con il decreto Gentiloni; a tal proposito, l'Osservatorio sulla censura in Italia). Per ciò che riguarda singoli contenuti, il titolare del sito avrà

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l'obbligo di cancellazione entro 48 ore dalla notifica (tempo che appare strettissimo: ad esempio il “Notice and takedown” americano prevede invece un periodo di due settimane per gli uploader, nda) e avrà 5 giorni di tempo per difendersi davanti all'Agcom. Entrano così in gioco tutti i dibattiti sulla possibilità che un organismo di garanzia possa esercitare un potere che coinvolge diritti costituzionali senza l'intervento della magistratura, dalla rimozione a questa sorta di “processo”. Senza contare che i provider stessi non sarebbero obbligati a notificare ai soggetti che hanno caricato i contenuti (soggetti per i quali, comunque, non si prevedono punizioni, con sollievo di chi intravedeva la voglia dell'autorità di implementare un Hadopi all'italiana). E così, nuovo polverone. A metà febbraio 2011 un gruppo di 46 deputati provenienti da uno schieramento trasversale firmavano, su proposta del pidiellino Roberto Cassinelli, una richiesta nella quale si chiedeva al Ministro per i beni e le attività culturali, al Ministro dello Sviluppo economico e al Ministro della Giustizia, "se il governo non ritenga di assumere adeguate iniziative, anche di carattere normativo, al fine di pervenire rapidamente alla revisione della disciplina del diritto d'autore [...] La normativa vigente è obsoleta e non si concilia con le nuove esigenze poste dalla rete. I provvedimenti ai quali sta lavorando l’Agcom [...] non sono perciò in linea con l’evoluzione tecnologica e rischiano di minare la libertà di comunicazione ed espressione del pensiero affidando ad un ente amministrativo la possibilità di oscurare interi siti web”. Una chiara presa di posizione contro le tendenze emerse nelle settimane precedenti in seno all'Agcom in tema di poteri assegnati all'autorità stessa in merito a blocco e rimozione di contenuti dal web. Per i firmatari non si può più prescindere da una riforma dell'assetto legislativo in materia di copyright prima di assegnare funzioni così delicate alle autorità

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di vigilanza.Solleva dubbi sulle tendenze emerse in seno all'Agcom anche il centro di ricerca Torinese su Internet NEXA, che in merito alla proposta di istituire abbonamenti a prezzi maggiorati per chi decide di condividere legalmente contenuti sul web (sovrapprezzo che verrebbe poi redistribuito ai detentori di diritti) affermava: “A parere del Centro NEXA non è necessario utilizzare lo strumento delle licenze collettive estese per conseguire questo effetto estensivo: gli ISP non sono titolari dei diritti d'autore o connessi interessati dall'accordo collettivo qui considerato. A ben vedere gli ISP non sono neppure licenziatari, siccome l'utilizzazione delle opere a fini di condivisione è interamente ascrivibile ai loro abbonati. Ragioni di efficienza consigliano di limitare la negoziazione alle parti direttamente coinvolte: società di gestione collettiva ed associazioni di utenti". Stesso parere espresso pochi giorni dopo in un documento congiunto dalle associazioni dei consumatori Audiconsum e Altroconsumo oltre che dai rappresentanti di Agorà Digitale, associazione composta da parlamentari ed esperti di diritto, e delle associazioni di categoria Assonet e Assoprovider. Sottolineano le associazioni: "Le condotte sanzionate con il procedimento delineato dal paragrafo 3.5 della delibera, ovvero l'immissione in Rete di file protetti dal diritto d'autore, sono già previste dalla legge come reato, si tratta infatti delle fattispecie introdotte all'interno della legge sul diritto d'autore dalla legge 43/2005, altrimenti nota come Decreto Urbani". E sul web si moltiplicano proteste, appelli e petizioni come quella disponibile su sitononraggiungibile.it. Per Massimo Mantellini l'unico aspetto positivo della bozza è “aver finalmente capito dopo un decennio che la lotta alla pirateria online non la si fa trascinando in tribunale e minacciando l'utente finale, ma

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cercando di bloccare il grande diffusore di file piratati (e in questo, sempre più spesso, gli ISP saranno trasformati nei veri gendarmi di Internet)”.Alla fine di febbraio 2011 l'Agcom organizzava così al Senato una tavola rotonda per fare chiarezza sulle diverse posizioni emerse (e scontratesi) nel periodo di consultazione; a prevalere è sembrata una certa confusione e indecisione su quale modello adottare. L'unico con le idee chiare sembrava il commissario Nicola D'Angelo, che senza mezzi termini parlava delle leggi nostrane sul diritto d'autore come di norme antiquate e non adatte ai tempi; bisognerebbe dunque partire dalla riformulazione di esse per adattarle ai tempi prima di discutere di soluzioni che, stante un inappropriato quadro legislativo, presenterebbero un “peccato originale”. In questo è chiaro l'appoggio del vicepresidente della Commissione Cultura al Senato Vincenzo Vita, che affermava: "È il diritto che deve adeguarsi alla società e non il contrario". Per il resto, ferme le posizioni dei vari interessi di parte, mentre i rappresentanti di Confindustria Servizi Innovativi individuavano un'unica soluzione al problema pirateria: promozione del mercato legale, che secondo loro farebbe schizzare il giro d'affari dell'industria dell'intrattenimento del 10% l'anno (a patto che gli italiani acquisiscano anche maggiore confidenza con i pagamenti online). Anche per il presidente di BSA Italia Matteo Mille è preferibile investire sull'educazione e la sensibilizzazione degli utenti più che sull'implementazione di norme all'Hadopi. E poi ancora, tenere fermi i principi di non responsabilità diretta degli ISP (tanto più che, come sottolineano i rappresentanti delle associazioni dei provider, qualunque filtro tarato su di essi risulterebbe oltremodo costoso e soprattutto aggirabile ), cercare una soluzione al problema dei contenuti mash-up dove se anche si fa un uso improprio di

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materiale coperto da copyright si finisce per diventare co-autori di un contenuto. Così, il 29 marzo l'Ufficio legislativo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali l'Ufficio legislativo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in risposta all'appello di Cassinelli & Co. e traendo spunto da tutti questi dibattiti, annunciava: "Il Governo ritiene che, al fine di permettere il giusto e armonioso incontro tra le esigenze dei titolari dei diritti d'autore e dei fruitori del materiale oggetto di protezione, sia il Parlamento stesso la sede più idonea per trovare la soluzione normativa all'annosa questione, dato che il tema centrale è la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali". Dunque, ragione a chi la pensa come Cassinelli, D'Angelo e Vita, se non fosse che le linee del governo sulle quali saranno poi plasmate le leggi non fanno certo sperare per un approccio 2.0 al tema. Perché si le leggi sono obsolete e non si può rimettere ad un ente amministrativo una facoltà che ha ricadute costituzionali, ma "Il modello proposto (cioè l'oscuramento degli spazi web coinvolti in attività illecite , nda) va esattamente nella direzione seguita dal Governo e dalle iniziative parlamentari di cui sopra e agisce nell'ambito di una regolamentazione rispettosa dei principi comunitari e coerente con le best practices internazionali". Guarda sul blog l'evoluzione dell'importante vicenda; per quanto riguarda la situazione al luglio 2011 essa è ben descritta da questi due documenti: La lettera aperta ai Membri delle Commissioni VII e VIII del Senato della Repubblica di Adiconsum, Agorà Digitale, Altroconsumo, Assoprovider e Studio Legale Sarzana e L'approfondimento a cura di Agorà Digitale sul nuovo regolamento Agcom. Nell'estate del 2013 l'Agcom del nuovo presidente Angelo Maria Cardani diffondeva una nuova bozza di regolamento; subito le vibranti proteste degli oppositori.

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Nel dicembre 2013 l'Authority approvava il regolamento.

Nel settembre 2011 il vicepresidente della Commissione Europea, nonché responsabile dell'attuazione dell'Agenda Digitale continentale Neelie Kroes, ha dichiarato che le mosse della nostrana autorità in merito all'enforcement sul diritto d'autore saranno sorvegliate da Bruxelles. La Kroes replicava così all'interrogazione parlamentare presentata in merito da Sonia Alfano.

Nel marzo del 2012 il cammino del regolamento Agcom sul diritto d'autore si avviava alla sua fase conclusiva , e con il pericolo di ulteriori irrigidimenti. Guido Scorza spiegava perché sarebbe, oltre che inopportuno nel merito, anche scorretto nel metodo. Nelle stesse ore circolava un documento depositato nel corso delle audizioni del luglio 2011 firmato dall'avvocato Valerio Onida (qui un'analisi di Guido Scorza). Il presidente Corrado Calabrò teneva due audizioni in Senato spiegando che era pronto un decreto legge che avrebbe permesso all'Agcom di attuare il suo piano; il 29 marzo, sul suo blog, Anna Masera diffondeva la bozza del decreto . Poche ore dopo un'interpellanza dei senatori Perduca, Poretti, Vita e Vimercati chiedeva a Monti chiarimenti in merito. Il 3 aprile, in una nuova audizione, Calabrò affermava che l'Agcom avrebbe emanato il regolamento prima della fine del mandato.Un piano definitivamente abbandonato dopo le convulse settimane che hanno preceduto la scadenza del mandato dei commissari dell'Autorithy e che sembrava avessero aperto, per le nuove nomine, una nuova fase di relativa trasparenza nella scelta della nuova “squadra” Agcom. Apertura che si è rivelata subito un'illusione.Nel maggio 2013 l'Agcom tornava alla carica sul regolamento

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antipirateria. Importante momento di confronto il workshop del 24 maggio.

Alla fine di marzo 2011 il giudice Muscolo della Nona Sezione del Tribunale Civile di Roma emetteva una sentenza prima al mondo: ordinava infatti a Yahoo! Italia di rimuovere tutti i link che portavano a versioni pirata del film iraniano About Elly e lo inibiva a presentarli ancora tra i risultati di ricerca. Siamo di nuovo all'abc dell'intermediazione. Ma c'è di più: il giudice infatti specifica che Yahoo non esercita un controllo preventivo sui contenuti dei siti sorgente a cui è effettuato il link riconoscendo la non responsabilità del motore di ricerca nella fase di selezione e posizionamento delle informazioni (cosa scontata ma sembra ogni volta una conquista) ma da un altro lato afferma che “una volta venuto a conoscenza del contenuto illecito di alcuni siti è in condizione di esercitare un controllo successivo e impedirne la indicizzazione e il collegamento, non essendo materia del contendere la eliminazione dei contenuti dei siti pirata”. Il tutto alla luce del fatto che la società di produzione cinematografica PFA avesse scritto una lettera a Yahoo! Italia per metterla a conoscenza dei siti pirata stessi; “la mancata attivazione del gestore del motore di ricerca in tal senso– continua il giudice nella sentenza – lo rende responsabile di un concorso nella contraffazione dei diritti di proprietà intellettuale”, e lo espone dunque a condanne, non essendo più la situazione ricompresa nel safe harbor europeo. L'unicità della sentenza risiede anche nel fatto che di solito questo tipo di ordini vengono dati ai gestori degli spazi web o ai content provider (come Youtube) e non ai siti di indicizzazione. E così Opengate Italia, la società che ha portato in tribunale Yahoo! Italia, affermava per bocca del suo presidente Tullio Camiglieri, che i prossimi obiettivi saranno

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Google e lo stesso Youtube. Dunque, sembrava palesarsi il principio secondo il quale un motore di ricerca è obbligato a rimuovere i link che portano a materiale illegale se viene genericamente a conoscenza della loro esistenza dopo una segnalazione, principio che avrebbe potuto creare una situazione nella quale i search engine vengono ricoperti di richieste in tal senso e devono provvedere, pena l'essere ritenuti responsabili degli illeciti commessi dai siti dei quali si presenta il link tra i risultati. In ogni caso, Yahoo! Italia annunciava subito ricorso in appello contro al sentenza, mentre a metà luglio 2011 arrivava la revoca della sentenza ad opera della Sezione Specializzata in proprietà intellettuale del Tribunale di Roma; secondo quest'organo la PFA Films deve indicare specifici indirizzi web da oscurare e comunicarli al search engine, e non può limitarsi ad indicare un “generico riferimento ad alcune tipologie di contenuti”. Inoltre, l'onere probatorio grava sul titolare dei diritti, che deve dunque dimostrare la titolarità oltre che il carattere abusivo dei singoli atti di messa a disposizione del pubblico di ciascun contenuto di cui chiede la rimozione e/o l'inibitoria alla diffusione o all'accesso”; principi che nello specifico valgono il doppio, perché oltre ad essere stati riaffermati dopo aver pericolosamente vacillato si applicano al fatto che è stata riconosciuta la non totalità della paternità da parte della PFA sui contenuti “piratati”. La Sezione Specializzata concludeva il suo intervento con una dichiarazione di principio, riaffermando la necessità che nel bilanciamento dei diritti di tutti gli attori in gioco in questo tipo di questioni (utenti, detentori di diritti ed intermediari) venga “assicurato il rispetto delle esigenze di promozione e tutela della libera circolazione dei servizi della società dell'informazione”.

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Nel giugno 2012 il tribunale di Firenza riaffermava la non responsabilità dei motori di ricerca per le violazioni di copyright perpetrati tramite link indicizzati dal search engine finché gli stessi non sono a conoscenza del carattere illecito dei contenuti.

Uno dei due creatori di Napster, Sean Parker, entrava a far parte, quasi in una rivincita, della cordata che nel marzo 2011acquistava la Warner. Due anni dopo, la stessa Napster apriva un nuovo corso di streaming all'interno della legalità.

Aggiornamento delle leggi sul copyright anche all'ombra del Cupolone: l'Osservatore Romano annunciava a ridosso della Pasqua 2011 che la Santa Sede avrebbe messo a punto una nuova serie di norme per meglio tutelare l'immagine, gli insegnamenti e la voce del Papa a fronte delle evoluzioni tecnologiche sopraggiunte dal 1960, anno della legge promulgata da Papa Giovanni XXIII. "Scopo della legge - si legge ancora sul quotidiano pontificio - non è sottrarre alla libera fruibilità personale i testi del Magistero, che continueranno a essere disponibili per attività non lucrative, ma di proteggerne l'integrità e in definitiva l'autenticità dei contenuti". Viene così istituita una specifica commissione vaticana per la proprietà intellettuale con il compito di discutere delle questioni più importanti in materia e promuova nuove regolamentazioni. Ha partecipato alla stesura della legge anche 'ex-presidente di SIAE Giorgio Assumma, che spiegava così le nuove norme:”I punti essenziali sono progressisti perché non si riscontrano nelle altre normative nazionali. Non è in discussione la libera diffusione delle parole del Papa, ovvio […] Ad esempio, la Santa Sede avrebbe il diritto di chiedere a un editore (anche su Internet) la correzione o la rimozione di

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un documento del Magistero che sia stato pubblicato a scopo commerciale, senza autorizzazione, oppure con errori o modifiche del testo”. Restando a Città del Vaticano, nel

dicembre 2011 la Santa Sede sembrava essersi assicurata l'acquisto del dominio Vatican.xxx, per non rischiare brutte sorprese. Ma dopo pochi giorni il portavoce vaticano Padre Federico Lombardi annunciava che in realtà non era chiaro chei avesse provveduto all'acquisto del dominio.

Il 6 giugno 2011 partiva il progetto della Apple iCloud, che permette di abbonarsi ad un'ampia serie di contenuti in streaming che diventano così accessibili da qualunque dispositivo; dunque, ad iTunes, i cui contenuti sono scaricati sul proprio pc, si passa al cloud computing e all'accesso da remoto.

Alla metà di giugno 2011 la Guardia di Finanza di Catania denunciava a piede libero otto persone con l'accusa di aver messo in piedi un sistema di streaming volto alla diffusione di materiale in violazione delle leggi sul diritto d'autore, ricavandone un lucro.

Il 21 giungo 2011 l'Antitrust diffondeva la sua relazione annuale nella quale riservava un ampio spazio ad Internet; in particolare, si sottolineava in quella sede la necessità di aggiornare le normative sul copyright alla nuova realtà della Rete, menzionando Google News come esempio di nuova realtà al cui sviluppo in senso “lecito” hanno contribuito un po' tutti gli attori in gioco (non senza attriti iniziali, certo). Tuttavia, l'Autorità intercetta un “oggettivo squilibrio tra il valore che la produzione editoriale genera per il sistema di internet nel suo complesso e i ricavi che gli editori online sono

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in grado di percepire”, il che ha spinto l'Antitrust ad inviare “una segnalazione al Parlamento e al Governo chiedendo che venga rivista la normativa sul copyright, adeguandola alle innovazioni tecnologiche ed economiche del web. Serve una legge nazionale che definisca un sistema di diritti di proprietà intellettuale in grado di incoraggiare forme di cooperazione tra i titolari dell'esclusiva e i fornitori di servizi innovativi”. Inoltre, virtuoso sarebbe “cominciare dall'implementazione del piano d'azione della UE per la proprietà intellettuale presentato il 24 maggio di quest'anno”. Anche in tema di infrastrutture di rete si segnalano problemi, con gli ex monopolisti che sembrano non voler sempre sottostare alle regole di corretta concorrenza tanto che è stato contestato un presunto abuso di posizione dominante a Poste Italiane e Telecom.

Il 26 luglio 2011 Massimo Dona, segretario generale dell'Unione Nazionale Consumatori (UNC) manifestava soddisfazione per la decisione presa da Youtube di ripristinare il canale dell'organizzazione “unioneconsumatori”, dopo che lo stesso era stato sospeso circa due mesi prima per le richieste di Rti-Mediaset, che lo indicava come in violazione di copyright: “Neppure dodici ore dal deposito del nostro ricorso d’urgenza presso il Tribunale di Roma, YouTube ha deciso spontaneamente di riattivare il nostro canale video – sono state le parole di Dona - è una bella vittoria dell’UNC per la libertà della Rete. YouTube ha dato un segnale importante riconoscendo implicitamente che non è lecito oscurare un intero canale in conseguenza di segnalazioni ancora tutte da verificare: noi sosteniamo, infatti, che sia legittimo pubblicare brevi estratti di programmi televisivi quando lo scopo è informativo e quindi non in competizione economica con gli interessi dell’emittente televisiva. adesso dovremo mettere in

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cantiere un’autonoma azione nei confronti di RTI-Mediaset perché in questo caso è interesse della collettività che un giudice italiano dichiari la legittimità della pubblicazione di spezzoni di programmi televisivi quando i contenuti sono diffusi in modo parziale, nell’ambito del diritto di cronaca e comunque per finalità educative e non a scopo di lucro”.

La prima settimana di agosto 2011 vedeva l'assegnazione del del disegno di legge C4511 (presentato il 14 luglio) intitolato "Modifica degli articoli 16 e 17 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, in materia di responsabilità e di obblighi dei prestatori di servizi della società dell'informazione". Firmato dall'onorevole leghista Giovanni Fava, esso mira ad introdurre un principio di responsabilità diretta nei confronti degli ISP nel caso di contraffazione e rivendita sulle proprie reti di prodotti che hanno un mercato dedicato, come ad esempio quelli farmaceutici. Dunque, un nuovo tentativo di scaricare un pesante onere su intermediari e fornitori di servizi online, che al limite sarebbero costretti a rimuovere o oscurare un contenuto su segnalazione di qualunque cittadino. L'intermediario sarebbe sollevato dalle sue responsabilità solo se attua un “comportamento diligente” e implementa tutti i meccanismi tecnici in grado di disabilitare “l'accesso ad informazioni dirette a promuovere o comunque ad agevolare la messa in commercio di prodotti o di servizi, in quanto tali informazioni contengano parole chiave che, negli usi normali del commercio, indicano abitualmente che i prodotti o i servizi a cui si applicano non sono originali, usate isolatamente o in abbinamento a un marchio o a un segno distintivo di cui il destinatario del servizio non abbia dimostrato di essere il titolare o il licenziatario”. Inoltre, dovrà bloccare “l'accesso ad informazioni dirette a promuovere o comunque ad agevolare la

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messa in commercio di prodotti o di servizi la cui descrizione corrisponde alla descrizione di prodotti o di servizi contraffattori" oppure "la cui commercializzazione è riservata a canali di vendita o di fornitura particolari o richiede la prescrizione medica”. L'onorevole Fava ci riprovava a dicembre , con un emendamento che punta anche a rendere possibile a chiunque di reclamare la rimozione di contenuti. A gennaio 2012 il provvedimento otteneva il via libera dalla Commissione Politiche Comunitarie, scatenando rezioni e mobilitazioni in Parlamento e sul Web. Bocciato, Fava reiterava il tentativo nel maggio 2012. E veniva ribocciato.

Per la prima volta nel nostro paese un giudice dispone il sequestro e l'oscuramento diretto di ben 493 siti. Il provvedimento, datato 29 settembre e firmato Lara Fortuna, Tribunale di Padova, arriva a seguito della denuncia della società proprietaria del marchio di abbigliamento “Moncler”. Il marchio stesso sarebbe stato sfruttato in maniera illecita dai suddetti spazi online; nello specifico infatti le accuse sono commercio di prodotti con segni falsi e vendita di prodotti con segni mendaci. Molti dei siti sono amatoriali ma soprattutto molti altri risiedono all'estero; dunque, a differenza dell'oscuramento, il sequestro può avere luogo solo a seguito di rogatoria internazionale.Come spiegava l'avvocato Fulvio Sarzana di Sant'Ippolito: “Nonostante infatti la Corte di Cassazione abbia ammesso il sequestro preventivo di un sito (nel famoso caso Pirate Bay, ma per reati molto diversi da quelli per i quali si sta procedendo, ovvero la violazione della legge sul diritto d’autore) va detto che in quel caso ( già per sé discusso) il GIP di Bergamo non aveva disposto l’ “oscuramento diretto” di siti internet bensì l’

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impedimento all’accesso al sito tramite blocco dei DNS per i cittadini italiani, secondo un iter argomentativo che già aveva dato luogo a roventi polemica in dottrina. Nel caso trattato dal GIP di Padova sembra proprio che il semplice nome di dominio associato al sito sequestrato, sia stato considerato di per sé elemento da cui far scaturire l’illecito contraffattorio. Si tratta quindi in verità di un vero e proprio “sequestro preventivo” di nomi di dominio, “camuffato” da inibizione all’accesso per gli utenti italiani. La richiesta giunta ai provider italiani, inoltre, in ordine alla ricerca attiva delle centinaia di siti internet da oscurare, contrasta contro l’elementare principio in base al quale i provider non possono essere considerati a tutti gli effetti gli “sceriffi della rete”. Il precedente rischia di ripercuotersi seriamente sulle vendite effettuate tramite i portali di commercio elettronico quali Ebay, che potrebbero essere chiamate a rispondere in concorso con coloro che vendono beni ritenuti contraffatte su internet, e vedersi cosi chiuse le pagine delle inserzioni attraverso lo strumento del sequestro preventivo”.Poche settimane dopo la sentenza veniva impugnata da Assoprovider e AIIP davanti al Tribunale della Libertà di Padova. Il 2 novembre 2011 su Wired Alessandro Longo scriveva: “Ho scoperto che in Italia al momento sono oscurati 6 mila siti web, di cui solo 900 per pedopornografia. 2.500 lo sono per scommesse/giochi non autorizzati. Il resto sono per reati di contraffazione, violazione del diritto d'autore, persino (raramente) diffamazione. Si spiega così la rabbia dei provider. La buona notizia è che per la prima volta hanno avuto la possibilità di opporsi contro un ordine di oscurare i siti […] Significa che ora c'è un arma in più contro l'abuso di oscuramento di siti web: almeno un Tribunale ha considerato legittimo il tentativo de provider opporsi all'ordine. In ballo c'è

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la tenuta della libertà d'espressione online. Se passa l'idea che è così facile oscurare centinaia di siti in un colpo solo, con il concetto del "sequestro preventivo", allora rischiano tutti coloro che si scagliano contro politici e aziende scorrette. Ricordiamo che il caso Moncler ha riguardato anche domini vuoti, senza un sito attivo, solo per la futura eventualità che potessero essere utilizzati per vendere prodotti contraffatti.Per di più, è pericoloso per lo stesso funzionamento di internet che si ecceda con gli oscuramenti di indirizzi ip. Ognuno di questi infatti può avere sotto più di un sito web. Tutti vengono oscurati per il blocco del loro ip: anche quelli che non c'entrano niente con la sentenza”.Il 4 novembre 2011 arrivava il provvedimento di dissequestro dei siti da parte del Tribunale del riesame di Padova, che specificava: “"il provvedimento impugnato tende effettivamente a connotarsi per esorbitanza rispetto alla concreta acquisizione di elementi fattuali che consentano di evidenziare, chiaramente, acclarate condotte di contraffazione di capi con marchi Moncler".Nel luglio 2012 arrivava invece il “primo caso in Italia di sequestro preventivo nei confronti di una società commerciale concorrente per violazione delle norme sui marchi, attuato attraverso l’inibizione all’accesso dei cittadini italiani”. A settembre, venivano sequestrati Italia-film.come Locandinehits.com.

A proposito di sentenze, aste online ed eBay, invece, una riflessione dell'avvocato Giusella Finocchiaro.

Ad ottobre 2011 arrivavano le prime firme per ACTA; ad apporle Stati Uniti, Australia, Canada, Giappone, Marocco, Nuova Zelanda, Singapore e Sud Corea. La formulazione

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ratificata è una specie di copia della legislazione USA, e prevede anche la proibizione della vendita di dispositivi che permettono la duplicazione illegale dei contenuti.

Nella prima metà di ottobre 2011 il Presidente dell'Agcom Corrado Calabrò esponeva alcuni dati ricavati da uno studio condotto dall'Autorità stessa in merito a pirateria e impatto sul PIL, ne parla qui l'avvocato Guido Scorza.

Alla fine di ottobre 2011 la SIAE inviava richieste di pagamento per i siti che pubblicano i trailer online che contengono opere musicali protette da diritto d'autore, con tanto di tariffario. Qui il punto di vista della SIAE, mentre Guido Scorza e Fulvio Sarzana mettono in luce tutte le contraddizioni del caso. Il 28 ottobre la SIAE provava ancora a spiegare le sue ragioni in un comunicato che veniva commentato così ancora da Scorza; nei primi giorni di novembre si ripetevano sia l'uno che l'altro elemento. E poi ancora, il 10 novembre.

Nel consiglio del 3 novembre 2011 l'Agcom approvava la delibera contenente interventi regolamentari relativi all’interconnessione IP e alla interoperabilità per la fornitura servizi VoIP. Ne parlava sul suo blog il commissario “dissidente” Nicola D'Angelo: “Con questa delibera viene disposta la migrazione delle reti telefoniche su protocollo internet. Una vera e propria rivoluzione che consentirà anche ai piccoli operatori di ampliare le proprie offerte con altri pacchetti VoIP di qualità e a costi inferiori. Un provvedimento quindi che avrà, in breve tempo (entro il 1 gennaio 2013), effetti positivi sulla qualità delle reti e dei servizi per famiglie e aziende”.

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Nelle stesse ore partiva un'offensiva legale della Apple contro sette siti di distribuzione di materiale pornografico accusati di richiamare nell'URL uno dei prodotti più famosi dell'azienda di Cupertino, l'iPhone. Si muoverà in merito la WIPO (World Intellectual Property Organization), organizzazione dell'ONU che ha tra le sue ragioni d'esistenza la lotta al cybersquatting (la pratica di acquistare domini che richiamino nel nome i marchi di grandi aziende).

Alla metà di novembre venivano sequestrati 5 domini della rete di Italianshare.net, accusato di contribuire alla pirateria in diverse maniere (dall'indexing allo streaming, dal bit torrent al P2P). L'operazione, condotta dagli ufficiali della Guardia di Finanza di Agropoli, coordinati dal Sostituto Procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania (Salerno), ha individuato in un quarantanovenne di Agropoli il misterioso “Tex Willer” che ha ricavava un ingente guadagno da questa attività. Lo stesso “Tex” recapitava una lettera con la sua versione a Punto Informatico. Nel febbraio 2013 all'admin veniva comminata una sanzione stellare da 6,4 milioni di euro. Alla sanzione si affianca un’altra accusa: Tex Willer avrebbe rivenduto ad imprese operanti nel settore pubblicitario i profili degli utenti che utilizzavano i suoi servizi. Un colpo al copyright e uno alla privacy dunque, in una dinamica che apre anche un altro quesito: le società che quei dati li hanno comprati sono complici di un reato?Sempre a novembre 2012 un altro sito del network finiva sotto sequestro, freeplayclub.org, il cui gestore imitava la lettera precedente . L'avvocato Fulvio Sarzana sottolineava come fosse presente nella vicenda anche il tema dell'inibizione DNS o IP, con il rischio che si riproponesse il caso Moncler (l'avvocato,

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deciso ad assumere la difesa di “Tex Willer” in tribunale, raddoppiava su Punto Informatico), Anche Guido Scorza esprime i suoi dubbi su quello che sembra essere l'ennesimo caso di “mannaia” giudiziaria. Ancora qualche giorno e la mannaia si abbatteva anche su italianstylewebsite.net; anche qui, lettera con la versione del gestore, mentre tutti insieme impugnavano i decreti di sequestro preventivo presso il Tribunale di Roma. E arrivavano i primi “sblocchi”: Freeplayclub di nuovo online dal 29 novembre, italianwebsite.net due settimane dopo.Alessandro Longo a dicembre riassumeva così la storia: "Ad alcuni sarà sfuggito che l'ordine del giudice era semplicemente di sequestrare il sito (il che significherebbe toglierlo dal server americano tramite rogatoria internazionale). Le autorità l'hanno tradotto in una richiesta - ai provider - di oscurare Ip e Dns associati. Non contenti hanno chiesto lo stesso per altri siti, che però subito dopo si sono rivelati non c'entrare niente con la faccenda. E sono stati dissequestrati in un giorno".Tuttavia, alla metà di dicembre il Tribunale del riesame di Salerno respingeva il ricorso dei legali di Italianshare. A luglio 2012 Tex Willer finiva in manette con una lunga serie di accuse.

Nel gennaio 2013 il portale DownloadZone veniva sequestrato dalla Guardia di Finanza. Stessa sorte un mese più tardi per il portale di indexing filmsenzalimiti.it, in merito al quale però il tribunale del Riesame ribaltava la decisione. Nel maggio 2013 un nuovo sequestro per filmsenzalimiti.it.

Lo stesso Guido Scorza riferiva di una nuova sentenza del Tribunale di Roma datata 20 ottobre 2011 nella quale si rafforzano alcuni fondamentali principi in materia di

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responsabilità degli intermediari. Il contenzioso era tra RTI e la società di diritto statunitense Choopa LLC: “La responsabilità civile dell’hosting provider sussiste nelle 'sole ipotesi in cui esso non abbia prontamente ottemperato all’ordine dell’Autorità giudiziaria od amministrativa di impedire l’accesso alle informazioni illecite oppure all’ipotesi in cui esso, consapevole del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio di cui assicura l’accesso alla rete, non abbia provveduto ad informare l’autorità competente' […] una diffida da parte del titolare dei diritti – RTI nel caso di specie – che non contenga 'una dettagliata e specifica indicazione dei video da rimuovere e delle relative pagine web' non è idonea a far sorgere, in capo al fornitore di servizi di hosting alcun obbligo né responsabilità essendo, a tal fine, necessaria una puntuale segnalazione, contenente gli estremi identificativi dei singoli contenuti da rimuovere perché asseritamente pubblicati in violazione di altrui diritti [...] non è 'concedibile nei confronti di un soggetto ritenuto non responsabile [n.d.r. il fornitore di servizi di hosting nel caso di specie] un provvedimento inibitorio destinato a prevenire possibili condotte illecite altrui non ancora realizzate, non essendo esigibile nei confronti di Choopa [n.d.r. il fornitore di hosting], in quanto hosting provider passivo, l’esercizio di un controllo preventivo in riferimento a tutti e ciascuno dei contenuti che fossero ospitati sui siti dei propri server'. La sintesi del provvedimento andrebbe scolpita in maniera indelebile nella giurisprudenza in materia di responsabilità degli intermediari della comunicazione: è onere esclusivo del titolare dei diritti segnalare, in modo puntuale, i contenuti che ritiene illecitamente pubblicati attraverso i servizi del fornitore di hosting e non sussiste alcuna responsabilità di quest’ultimo per tale eventuale pubblicazione. Il fornitore di hosting,

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peraltro, non può essere richiesto dal Giudice – come, al contrario, sfortunatamente, spesso sin qui accaduto, di evitare la pubblicazione, neppure accaduta ma solo eventuale, di contenuti analoghi a quelli originariamente segnalati giacché un simile provvedimento costituirebbe una violazione del principio secondo il quale non può essere imposto agli intermediari della comunicazione un obbligo generale di sorveglianza”.

Nell'aprile 2013 27 portali internazionali di download venivano oscurati su ordine del gip del tribunale di Roma Massimo Di Lauro. Il motivo alla base della decisione era la presenza tra i contenuti a disposizioni di un film d'animazione francese protetto dal copyright, che per l'avvocato Fulvio Sarzana rischiava così di diventare “una delle più grandi pietre dello scandalo della storia recente di Internet”, essendo il provvedimento in questione “la più grande operazione di sequestro di contenuti su internet di un paese occidentale”, che vede l'oscuramento di intere (ed enormi) piattaforme per la presenza di un solo contenuto in violazione certificata. Poche ore dopo uno dei portali, Rapidgator, presentava ricorso al tribunale del Riesame di Roma. In proposito, il professor Giovanni Ziccardi spiegava perché “oscurare questo tipo di siti è inutile e costoso” e che in realtà l'unico rimedio alla pirateria fosse una riflessione per una riforma del copyright tarata sulle nuove tecnologie. Alla fine di maggio, il Tribunale capitolino accoglieva il ricorso e disponeva il dissequestro di Rapidgator, giudicando il provvedimento di oscuramento totale come “troppo invasivo” e sporporzionato.

Nel luglio 2013 un giudice di Milano confermava la linea dura italiana verso i siti di indexing, ordinando l'oscuramento per il

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popolarissimo Rojadirecta.Nel settembre 2013 Il Post ricostruiva la vicenda che aveva visto la testata online costretta a rimuovere alcuni link che rimandavano ad alcuni motori di ricerca per lo streaming delle partite di calcio su richiesta degli avvocati di Mediaset e della Lega Calcio. Non tutti i risultati, infatti, erano riferiti a contenuti leciti. Tuttavia, la misura presa dalla redazione non è servita ad evitare un procedimento penale nel quale si vietava alla testata (anzi, al direttore Luca Sofri) la futura pubblicazione di link e riferimenti a certi portali. Qui una disamina della vicenda.

Come si possono sfruttare i sistemi di “rivendicazione” di proprietà intellettuale su Youtube per fare soldi? Ecco un esempio.

Il 23 novembre 2011 Gabriele Fersini risultava tra gli indagati nell'ambito dell'inchiesta nella quale la Guardia di Finanza aveva sequestrato file illegali riguardanti il nuovo disco di Laura Pausini, non ancora uscito ufficialmente. Il dato è che Fersini è stato il chitarrista della Pausini fino a poche settimane prima della vicenda.

Richiamando la sentenza della Corte Europea di aprile 2011 sul contenzioso SABAM – Scarlet, il Tribunale di Roma nel dicembre 2011 riteneva illegittima la richiesta di Mediaset di imporre a Google di sorvegliare “a monte” affinché sui suoi servizi non passino materiali protetti dal copyright del biscione.Non si può imporre ad un provider tale tipo di filtraggio preventivo.Sempre in merito al contenzioso tra Mediaset e Youtube, nel febbraio 2014 il Tribunale di Roma annunciava un

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approfondimento sulle richieste inviate a Google da Cologno Monzese prima di arrivare ad una decisione.

Riccardo Meggiato ci parla su Wired del sito youhavedownloaded.com, che raccoglie un buon 20% degli indirizzi IP di chi è solito scaricare file dalla Rete con P2P e file sharing. Come a dire: quanto è facile rastrellare dati.

Cortocircuito nella lotta al copyright: nel dicembre 2011 Megaupload diffondeva il materiale di una sua nuova campagna pubblicitaria messa a punto con il supporto di numerosi artisti legati a diverse major (e dunque alla RIAA). La Universal chiedeva ripetutamente a Youtube di censurare i suddetti materiali (in particolare il video con la canzone Mega Song), i cui elementi però risultavano essere di proprietà del cyberlocker. Nonostante tutto, il canale di Megaupload rischia di essere chiuso per ripetute infrazioni tutte da provare. Il caso approdava in tribunale pochi giorni dopo. Qui una ricostruzione dellla vicenda, conclusasi, per il momento, nel marzo 2012, quando i legali del cyberlocker decidevano di dirtottare tutti gli sforzi sul più importante processo seguito al sequestro di Megaupload e Megavideo (vedi “Update USA”).E ancora, a ridosso di Natale TorrentFreak scopriva, proprio grazie al sopra menzionato YouHavedownloaded.com, che gli indirizzi IP di soggetti come la RIAA o la residenza ufficiale del presidente francese Nicolas Sarkozy erano collegati a diversi download illegali. I soggetti interessati si affrettavano a replicare che l'associaizone tra l'IP e la persona è una forzatura, dimenticandosi che è proprio uno dei punti forti della loro strategia antipirateria quello di associare i due elementi (a dispetto anche di sentenze come questa).

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Nelle liberalizzazioni operate dal governo Monti nel gennaio 2012 si tocca anche la SIAE e grazie ad una proposta di Agorà Digitale si prevede la fine del monopolio: “al fine di favorire nuove imprese nel settore della tutela dei diritti degli artisti interpreti ed esecutori, mediante lo sviluppo di un pluralismo competitivo e consentendo maggiori economicità di gestione nonché l'effettiva partecipazione e controllo da parte dei titolari dei diritti, l'attività di amministrazione e intermediazione dei diritti connessi al diritto d'autore di cui alla legge 22 aprile 1941, n. 633, in qualunque forma attuata, è libera”. Qui un'analisi di Guido Scorza. Qui, sempre Scorza ricostruisce alcune dinamiche si “storia recente”. Nel novembre del 2012 tuttavia, denuncia l’istituto Bruno Leoni, il governo pensa di perseverare nella tutela del monopolio in tema di intermediazione del diritto d’autore. Nelle stesse ore Google stringe un accordo con la Siae e i suoi corrispettivi francese e spagnolo per il pagamento di royalties sulla musica utilizzata per i servizi di BigG. Nel dicembre 2012 l'Agcom bacchettava, alcune disposizioni del decreto dell'esecutivo. Poche ore prima di Natale, agli artisti italinai veniva data libertà di scelta sulla tutela dei loro diritti.

Nel febbraio 2012 la Guardia di Finanza operava un server takedown nei confronti dei siti ScaricoLibero e FilmGratis (qui tutti i dettagli a cura di Fulvio Sarzana). Nelle stesse ore un'operazione internazionale poneva sotto sequestro il “Megaupload degli ebook”.

Su Wired Tommaso Canetta parla delle “Copyright Enforcement Companies”, società private che si mettono al servizio dell'industria del diritto d'autore per individuare gli utenti che condividono materiale protetto. Il loro ruolo non è

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riconosciuto dal diritto al momento per quanto riguarda l'imposizione agli ISP di concessioni dati e provvedimenti (serve un giudizio della magistratura) ma da un lato si mettono in atto pratiche di “patteggiamento privato” (paghi una penale altrimenti ti porto in causa) e dall'altra la situazione potrebbe cambiare con ACTA.Nel febbraio 2012 la Guardia di Finanza di Lecco metteva le mani su “SIDCrew”, definito “uno dei più importanti hacker informatici operanti in Italia. L'importanza di questa operazione sta nel fatto che l'imputato è un “release”, il primo anello della catena della pirateria.

Nel marzo 2012 si poneva la questione: i calendari di calcio sono protetti da copyright? Sempre in materia di pallone che rotola, nel settembre 2012 l'Agcom diffondeva la delibera che regola la commercializzazione dei diritti sulle manifestazioni sportive. Per Guido Scorza, il Web viene trattato ancora una volta come “figlio di un Dio minore”.Nel gennaio 2013 arrivava il primo sequestro di siti che trasmettevano in streaming manifestazioni sportive senza trarne un lucro; ad ordinarlo, dopo una denuncia di Mediaset, un giudice milanese in base ad un articolo di legge introdotto nel 2005 dal governo Berlusconi.

La musica digitale: il continuo incremento dei consumi. Nuove statistiche all'inizio del 2013.

Nel maggio 2012 la Guardia di Finanza di Cagliari confermava la “morte” di Btjunkie.org, provvedendo anche all'oscuramento di un'altra popolare piattaforma di file sharing, Kickasstorrents. Qui un commento di Fulvio Sarzana. Lo stesso Sarzana dà notizia dell'operazione “Macchia nera” della finanza di Brescia,

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nella quale per la prima volta si assiste al sequestro preventivo di un sito di indicizzazione. Ancora, l'avvocato informa sui raid antipirateria della Finanza nei primi giorni di dicembre 2012.

Risalire all'identità di un utente di BitTorrent? Le agenzie antipirateria ci mettono appena tre ore.Nel maggio 2013 BitTorrent apriva alla condivisione legale con Bundle cercando di coinvolgere gli stessi detentori di diritti.

Non si può condividere sui social network una foto coperta da copyright senza l'esplicito consenso dell'auore. Neanche se il soggetto ritratto nell'immagine è colui che la pubblica.

Nel dicembre 2012 partiva il progetto di digitalizzazione del patrimonio librario italiano come dall'accordo firmato nel 2012 tra Mibac e Google.

Il paradosso dei big del Web che pubblicano inserzioni sui siti di pirateria.

L'enforcement del diritto d'autore può tradursi in una lesione della libertà di espressione.

Nel febbraio 2013 la commissione parlamentare sui fenomeni della contraffazione e sulla pirateria redigeva un rapporto di fine legislatura nel quale venivano quantificati in 500 milioni di euro i danni provocati al sistema dalla pirateria digitale, una stima fatta solo sulla base delle audizioni con i rappresentanti delle major e con metodi opinabili. Inoltre, si auspicava l'implementazione di sistemi di rimozione dei contenuti illeciti che scavalcherebbero la magistratura.

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Anche le condizioni d'uso di un sito possono essere coperte dal diritto d'autore.

Nel marzo 2013 l'admin del sito vedogratis.it, sequestrato nel 2010, veniva condannato a cinque mesi di reclusione.

Il fronte della lotta contro al pirateria della Federazione dell'industria musicale italiana (Fimi) si allarga anche a chi compra spazi pubblicitari su piattaforme accusate di violazione del diritto d'autore.

Nell'aprile 2013 la Corte di Cassazione conferma che riprodurre in una propria opera effettivamente creativa un particolare “non significativo” di un'altra opera non è contraffazione. Si apriva uno squarcio verso il remix di contenuti.

Nel maggio 2013 la Procura di Milano ordinava il sequestro del sito di indexing dendi86download.com. Sempre a maggio la Guardia di Finanza di Cagliari sequestrava il sito di file sharing DdlHits, considerato dagli inquirenti come “la più grande piattaforma italiana di falso multimediale”.

Nel giugno 2013 il Tribunale di Milano respingeva la richiesta avanzata da Ryanair di rendere impossibile ad altri servizi che non fossero interni alla compagnia l'indicizzazione delle informazioni sui suoi voli.

Nel luglio 2013 il motore di ricerca canadese IsoHunt, da tempo nelle grinfie della giustizia Usa, finiva offline anche in Italia. Nell'ottobre dello stesso anno la resa: IsoHunt

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annunciava la cessazione del servizio e l'accordo con la MPPA per un risarcimento di 110 milioni di dollari.

La ricetta antipirateria di Google: più offerta legale, follow the money e rimozioni su segnalazione.

Nell'ottobre 2013 la Guardia di Finanza sequestrava un gran numero di motori di ricerca del torrentismo e l'intera rete riconducibile a The Pirate Bay.

Contenuti Illeciti

Costante la crescita dei numeri relativi ai reati online; oltre 800 persone denunciate dalla Polizia Postale, di cui 37 arrestate, soltanto nei primi mesi del 2010. Altre 76 persone arrestate in mezzo alle quasi tremila segnalazioni di cracking e 471 denunce per pedopornografia (51 arresti). 3 arresti sulle 69 piste per terrorismo. E così da quest'anno la Polizia Postale e la Symantec, il colosso della protezione informatica, lavoreranno fianco a fianco dopo aver firmato un protocollo d'intesa. Nelle stesse ore proprio la Symantec pubblicava il Norton Cybercrime Human Impact Report 2010, dal quale emergeva un'immagine non esaltante della situazione: il 69% degli italiani sarebbe stato vittima di qualche attacco informatico (media mondiale al 65%); il 10% vittima di truffe, il 4% vittima di furto d'identità, il 51% con virus e malaware nel computer. Cifre a sei zeri per quanto riguarda i danni subiti dalle aziende nel 2009.

Nell'ottobre 2010 la Corte di Cassazione vietava l'utilizzo di Facebook e social network agli arresti domiciliari, ricomprendendoli negli altri tipi di comunicazione con le

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persone non conviventi vietati nella condizione di fermo domiciliare (l'uso di Internet con funzione “conoscitiva e di ricerca” resta però ammesso). La sentenza si rivela utile alla polizia di Mazzarone, provincia di Caserta, nel marzo 2011, quando due ragazzi di 22 e 23 anni ai domiciliari vengono arrestati con l'accusa di postare sul social network in blu insulti alle forze dell'ordine (agenti avevano stretto amicizia con loro infiltrandosi così nelle loro reti) e mantenere contatti con altri pregiudicati. Pochi giorni dopo, ancora la Cassazione, con la sentenza n.37188, equiparava le prestazioni sessuali a pagamento in videoconferenza a quelle reali; insomma, spogliarsi in chat per soldi e con intermediari di mezzo è prostituzione a tutti gli effetti. Si esprimeva così la Terza Sezione della Cassazione Penale: "Le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza in modo da consentire al fruitore delle stesse di interagire in via diretta ed immediata con chi esegue la prestazione, con la possibilità di richiedere il compimento di atti sessuali determinati assume il valore di atto di prostituzione e configura il reato di sfruttamento della prostituzione a carico di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o ne abbiano consentito lo svolgimento creando i necessari collegamenti via internet o ne abbiano tratto guadagno".Fornire invece servizi informatici alle chat erotiche online non può essere messo sullo stesso piano dello sfruttamento della prostituzione; esprimendosi così, il tribunale di Roma nell'ottobre 2012 assolveva un imprenditore del settore telecomunicazioni.

In Gran Bretagna Facebook censurava nell'ottobre 2010 la foto di una donna che mostrava il pancione durante la gravidanza e che forse voleva imitare Demi Moore nella copertina di Vanity

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Fair del 1991. Le motivazioni? Nonostante le coperture la donna era comunque nuda. In Spagna invece nel novembre 2010 un episodio dai contorni letterari: la scrittrice Lucia Etxebbaria vedeva i suoi profili cancellati per tre giorni da Facebook; il plurale è dovuto al fatto che l'autrice di “Cosmofobia, io non soffro per amore, prozac e altre curiosità” gestiva due identità sul social in blu, una delle quali con lo pseudonimo di un personaggio di uno dei suoi romanzi. Dunque, doppia espulsione motivata dalla menzogna sulla sua identità ma anche per via, come afferma la stessa Etxebarria, di una “foto molto pop in cui si vedeva una silhouette fallica warholizzata in quadricromia che soltanto una mente molto maniacale avrebbe potuto definire pornografica”. In ogni caso, la scrittrice adduce la sua “risurrezione” su Facebook alla sua insistenza, al suo carattere ma soprattutto alla sua popolarità, senza la quale, dice, il suo profilo avrebbe fatto al fine di quello di tante persone comuni che ne sono state private senza appello. A meno che non intraprendono la via legale, come Mustafa Fteja, 32nne originario del Montenegro ma emigrato 17 anni fa negli USA; alla fine del gennaio 2011 Mustafa denuncia Facebook per aver cancellato il suo account e chiede 500mila dollari di risarcimento per danni morali, visto che il suo uso del social network era votato soprattutto a mantenere i contatti con il paese d'origine e i suoi cari rimasti in terra natia. Il suo account sarebbe stato cancellato dopo ripetuti tentativi di login andati a vuoto, senza spiegazioni e senza risposte alle sue domande in merito. Capita anche che nel tentativo di depurare la rete da falsi account di personaggi famosi si cancellino quelli di omonimi, come accaduto nel gennaio 2011 ad una certa Kate Middleton, la cui unica colpa era quella di vere lo stesso nome della fresca consorte del principino inglese William.

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Marco De Rossi lanciava nell'ottobre 2010, nell’ambito del suo OilProject, un'iniziativa volta a sensibilizzare gli utenti sui loro diritti di espressione nei social network, intesi come luoghi di espressione e di manifestazione di processi dell’opinione pubblica. L'argomento principale è che se milioni di persone si esprimono su un mezzo la questione proprietaria debba essere messa in secondo piano rispetto alla libertà di espressione, in una questione che coinvolge la democrazia stessa.E dunque quello che scriviamo sui social network e qualunque manifestazione del pensiero che ci si fa dentro sfuggono alle logiche sia del proprietario che cancella i contenuti sgraditi dalla sua proprietà sia di quello che decide “la massa” (intendendo così qualunque decisione di censura presa per stare dietro a proteste, segnalazioni, indignazioni a catena, non meglio specificato senso del pudore e della decenza, voglie di non offendere nessuno); perché se ha rilevanza per la democrazia ha rilevanza in senso costituzionale e le garanzie della Costituzione vi vanno applicate, con la sola magistratura che a quel punto può decidere, in quanto organo costituzionale, se un contenuto genera un reato.

Da valutare un quadro legislativo entro il quale le aziende possano elaborare regolamenti interni in merito all'uso che i dipendenti fanno di Internet durante l'orario di lavoro, social network su tutto (la pervasività dei social network fa si che ne nascano anche di tarati sullo scambio di conoscenza aziendale, vedi Jivesoftware.com, Yammer.com e Geni.com). In primis per tutelare la produttività e la sicurezza dell'azienda (i “controlli difensivi”), evitando che vengano diffuse informazioni sensibili sull'azienda, diffusione che potrebbe danneggiarla, e soprattutto evitando che il dipendente commetta reati: secondo il D.Lgs. n. 231/2001, recentemente modificato dal recepimento della

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Convenzione di Budapest sui crimini informatici l'azienda è corresponsabile di eventuali crimini dei suoi dipendenti per non aver controllato il loro operato tramite un modello organizzativo idoneo a prevenire la commissione dell’illecito; in seconda battuta per tutelare il lavoratore stesso, mettendo dei paletti alle possibilità dei datori di lavoro di accedere ai dati informatici dei dipendenti o a quelle di “cyberpedinamento” e indagini sul comportamento online dei dipendenti, con i casi estremi di persone licenziate o sospese dal lavoro per via di foto tratte da Facebook, come successo a dei medici di Grosseto nel marzo 2011 (le foto ritraevano il personale sanitario nell'atto di compiere atti goliardici nel reparto di terapia intensiva), o per semplici commenti contro vertici aziendali, come possono testimoniare a due impiegati della Cassa Nazionale di Previdenza dei Commercialisti a metà del febbraio 2011 (non furono licenziati ma subirono comunque importanti provvedimenti disciplinari). In un caso concreto il tribunale ha stabilito che il licenziamento o qualunque altro provvedimento preso nei confronti di un dipendente sulla base di foto e materiale tratto da profili social è lecito solo se il suddetto materiale è disponibile al datore di lavoro tramite le normali pratiche del sito e il reperimento non è frutto di pratiche di intromissione illecite. Avendo nel caso menzionato il dipendente optato per la messa a disposizione della foto agli “amici degli amici”, esso ha reso lecito il reperimento della foto da parte del datore di lavoro pur senza averlo tra gli “amici”. Ancora, il 2 settembre 2010 una 23enne inglese scriveva su Facebook che avrebbe ricevuto un'ottima buonuscita dalla Royal Bank of Scotland per la quale lavorava; risultato, veniva licenziata in tronco e senza liquidazione per aver violato la “regola di segretezza” imposta dalla banca. Diversa la questione che coinvolgeva nel dicembre 2010 Francesco Bianco, ex componente del gruppo neofascista NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), il quale si lasciava andare su Facebook a

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commenti offensivi nei confronti della comunità ebraica romana e del suo presidente Pacifici. Una miriade di internauti si sono scatenati subito in vivaci proteste nei confronti del sindaco di Roma Gianni Alemanno; Bianco era stato infatti da poco assunto all'Atac, l'azienda di trasporti urbana della Capitale, tramite le cui reti sarebbero stati diffusi i commenti finiti sotto accusa. E così Bianco veniva sospeso e le policy dell'azienda in merito all'utilizzo dei social network diventava meno permissiva. In ogni caso, bisogna stabilire quando il controllo che il datore di lavoro esercita sulle attività online del dipendente va oltre la lecita tutela dei processi produttivi per finire nella violazione della privacy. Alcune linee guida sono state tracciate dal Garante della privacy col provvedimento “Linee guida del Garante per posta elettronica e Internet” del 1 marzo 2007. In esso si stabilisce che il datore di lavoro deve mettere a conoscenza i dipendenti di eventuali controlli e delle loro modalità (anche e soprattutto tecnologiche, cioè se ci sono dispositivi installati a tale proposito), adottare e pubblicare adeguatamente un disciplinare interno, adottare le adeguate tecnologie per navigazione scambio di email e soprattutto gli è fatto divieto assoluto di controllare a distanza il dipendente. I dati incamerati devono risultare inoltre anonimi ed essere conservati solo in un arco di tempo strettamente necessario a finalità organizzative. C'è invece chi risolve il problema alla radice installando filtri che non permettono l'accesso a determinate piattaforme dai terminali aziendali, pratica lecita. Nel novembre 2010 arrivava dalla Corte di Cassazione una importante sentenza (41709/10) che stabiliva come l'uso del cellulare aziendale e della connessione Internet per scopi personali è legittimo all'interno della Pubblica Amministrazione a patto che i costi risultino contenuti così da non comportare un danno rilevante a livello economico alla PA.I social network sono in ogni caso sfruttati anche per “indagare” su candidati ad un posto di lavoro. Ma c'è anche chi li usa direttamente per assumere: è il caso di Pierre Ley, 44enne

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manager di Whirlpool Italia, che usa Facebook per ricercare potenziali candidati a lavorare nell'azienda con sede a Varese.Nel febbraio 2012 invece la Corte di Cassazzione stabiliva alcune deroghe al principio secondo il quale il datore di lavoro non può accedere alla corrispondenza elettronica dei propri dipendenti.

La vigente normativa nazionale sull'accessibilità (Legge n.4 del 2004, art. 12, comma 2) prescrive che il "decreto" , recante "Requisiti tecnici e i diversi livelli per l'accessibilità agli strumenti informatici" (DM 8 luglio 2005), venga periodicamente aggiornato per recepire eventuali modifiche delle normative internazionali e per l'acquisizione di innovazioni tecnologiche intervenute in materia di accessibilità.Ma al febbraio 2011 i requisiti tecnici previsti per le apparecchiature in dotazione alle PA erano (senza scendere troppo in dettagli tecnici) per i siti Internet basati sulla specifica sulla specifica W3C WCAG 1.0, la quale è tarata praticamente per il web del millennio scorso e non permette un reale sfruttamento del web 2.0 . Per questi motivo il W3C emanava nel 2008 il WCAG 2.0, con l'obiettivo di raccordare più che di rivoluzionare; il contraccolpo nelle nostre istituzioni è stata la costituzione presso il Dipartimento per l'Innovazione della PA e l'Innovazione tecnologia di un apposito gruppo di lavoro con il compito di produrre un elaborato tecnico su cui fondare l'aggiornamento richiesto. Il gruppo, al quale hanno partecipato personalità provenienti da tutto il panorama della tecnologia informatica, ha prodotto un documento dal quale è partita poi la consultazione "Nuovi requisiti e punti di controllo per l'accessibilità", che rischia però di compiere un anno senza produrre le nuove regole in materia. Il tutto incide sull'attuabilità del Codice dell'Amministrazione Digitale (vedi oltre).

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L'avvocato Giuliano Pisapia, legale di Google nel processo che contrapponeva l'azienda a Vividown, otteneva nel novembre 2010 la candidatura a sindaco di Milano dopo le primarie del PD, diventando poi sindaco della città alle elezioni comunali.Il 23 gennaio 2012 sul suo profilo Facebook annunciava: “È iniziata l'era dell'internet free in cinquanta sedi del Comune aperte ai milanesi. Da ieri il servizio gratuito di connessione Wi-Fi è attivo, per l'intera durata di apertura al pubblico, in tutte le biblioteche comunali, nelle sedi dell'anagrafe di tutte le nove Zone, aPalazzo Marino nell'Aula del Consiglio comunale e in alcuni spazi espositivi: il Museo del Novecento, la Rotonda della Besana, Palazzo della Ragione, Acquario civico”. Seguiva "l'elenco degli spazi pubblici in cui i milanesi potranno collegarsi gratuitamente alla rete con il proprio computer o telefonino, non più solo per un'ora ma per l'intera durata di apertura al pubblico".

Restando all'interno del processo Google-Vividown, nel dicembre 2012 il processo d'Appello arrivava alle battute finali, con l'accusa che spingeva per privare i vertici di Mountain View dall'ombrello protettivo del principio di non responsabilità dell'intermediario. Ma il giudice decideva per l'assoluzione dei tre dirigenti di BigG perché “il fatto non sussiste” (un approfondimento di Stefano Quintarelli; qui un approfondimento dell'avvocato Giusella Finocchiaro). Ad aprile, il ricorso degli inquirenti in Cassazione. La Suprema Corte, a dicembre, confermava l'assoluzione.

Un articolo apparso su L'espresso alla fine di ottobre 2010 denunciava come la Polizia Postale avesse stretto accordi con

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Facebook per garantirsi la possibilità di setacciare il social network ed entrare nei profili per prevenire reati senza previa autorizzazione della magistratura e senza rogatoria internazionale, vicenda arrivata anche in un un'interrogazione in Parlamento da parte dell'Idv. Insomma, una sorta di corsia preferenziale per detective digitali. Secca e totale la smentita da parte della polizia, per bocca del direttore centrale della Postale Antonio Apruzzese, che tuttavia lascia aperti molti dubbi; di sicuro c'è che già da tempo le forze dell'ordine si “Infiltrano” nelle reti social per inserirsi nei flussi di comunicazione che potrebbero rivelarsi utili alle indagini o alla prevenzione di reati, anche creando falsi profili magari con ammiccanti foto di donna. Fin qui niente di scandaloso (per quanto nello stesso pezzo su l'Espresso un ufficiale dei Carabinieri riveli :”non sempre facciamo un resoconto alla procura e nei verbali ci limitiamo a citare una fantomatica fonte confidenziale”), ma la possibilità di aprire i “domicili virtuali” degli utenti potenzialmente a proprio piacimento è tutt'altra questione, soprattutto perché si parla addirittura della capacità di acquisire i contenuti delle chat risalendo fino ad un anno addietro.

Uno studio diffuso da Kroll, azienda di consulenza in gestione di rischio, delineava nel novembre 2010 un quadro secondo il quale le truffe informatiche hanno superato quelle del mondo reale. Prendendo in analisi i dati raccolti su circa 800 dirigenti sparsi per il mondo si delinea un testa a testa, 27,3% per le frodi digitali, 27,2% per quelle fisiche, che scalza il precedente equilibrio (rispettivamente 18% e 28%). Secondo Richard Plansky di Kroll, la variazione "riflette il cambiamento avvenuto nell'economia. I valori di un'azienda sono sempre più intangibili. Si fanno meno prodotti e più idee".

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A metà novembre 2010 insorgevano le principali associazioni per la difesa dei diritti degli omosessuali per protestare contro il provvedimento della Regione Lazio con il quale si inserivano nella lista dei siti considerati pornografici alcune siti di informazione gay italiani (come gay.it, gay.tv e gaynews.it), rendendoli così irraggiungibili ai dipendenti. L'episodio arrivava poche settimane dopo quello dei social network oscurati e poi nuovamente sbloccati a seguito delle proteste.

In tema di gioco d'azzardo, nel nostro paese l'impegno contro gli eccessi e i pericoli che da esso derivano si spostano anche sul web e vanno ad alimentare quella speciale zona d'ombra dei siti censurati, quelli inseriti in una speciale lista nera e ai quali viene negato l'accesso, così che il nostro stato si pone, per dirla con Vittorio Zambardino, come “monopolista dell'etica”. Contro l'opacità delle liste di siti di gioco d'azzardo e pedoporgnografia tuonava lo stesso Zambardino sul suo blog il 17 dicembre 2010: “la compilazione e la gestione delle liste resta dentro l’opacità più completa, come accade anche per le altre due già esistenti. Cambiano di giorno in giorno, sono affidate al giudizio di tecnici e operatori amministrativi… scusate ma non ci vorrebbe più trasparenza quando lo stato decide cosa è bene per me-cittadino? Quelle liste e i loro criteri e i loro compilatori non dovrebbero essere pubblici? (E questo è lo stesso stato che decide quali siti di gioco on line vanno oscurati, avendo già deciso prima quali vanno tenuti vivi perché magari sono dentro un giro di interessi e relazioni con la politica…). Eh la trasparenza, questa cosa da illusi e poeti…”

Incremento del 37,4% nei rendimenti del gioco d'azzardo online in Italia rispetto al 2009 per un fatturato di quasi 3 miliardi di euro (dati Aams). Uno studio contestuale condotto

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con Lottomatica e Sapienza di Roma rivelava come in Italia l'1% della popolazione soffre di comportamenti compulsivi legati al gioco, percentuale che sale ad un giocatore su dieci nel mondo del web, soprattutto nel settore del poker online. Settore nel quale il 18 luglio cambiavano le regole: liberalizzati i cash games, i giochi d'azzardo con i soldi reali, che si affiancano così agli skill games già da tempo legalizzati. Nelle stesse ore la Guardia di Finanza faceva partire l'operazione “All in”, volta a rintracciare i giocatori di tavoli verdi virtuali che hanno ottenuto vincite importanti ma non le hanno dichiarate al fisco, evadendo le tasse esattamente come se i soldi li avessero vinti in una bisca in mattoni. Nell'aprile 2012 il numero di siti di gioco oscurati dall'Aams toccava quota 3926.

Lotta alla pedopornografia: dai dati di dicembre 2010 diramati dall'Osservatorio internazionale di Telefono Arcobaleno, si evince come siano stati 4mila i bambini abusati nello scorso anno dei quali si conosce il volto (ma non le generalità), mille più del 2009; ma la cosa più preoccupante è che si tratta dell'1% del totale.Nel novembre del 2010 arrivava la prima condanna in base alla legge numero 38 del 2006, quella volta alla lotta della pedopornografia anche a mezzo Internet: un cittadino milanese di 47 anni veniva condannato dal Tribunale della sua città a scontare due anni e due mesi di reclusione. Il reato contestatogli è il download (materiale poi cancellato) di circa 1600 file a sfondo pedopornografico e circa 7mila immagini e 36 video che riproducevano virtualmente situazioni di abuso su minori. Il giudice ha così applicato l'articolo 600-quater della legge che punisce con la reclusione "anche quando il materiale pornografico rappresenta immagini virtuali realizzate

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utilizzando immagini di minori o parti di esse [..] Per immagini virtuali si intendono immagini realizzate con tecniche di elaborazione grafica non associate in tutto o in parte a situazioni reali, la cui qualità di rappresentazione fa apparire come vere situazioni non reali". In queste situazioni la pena risulta ridotta di un terzo. Anche in molti altri paesi le immagini virtuali sono considerate esplicite come le reali; come in Australia, dove da gennaio 2011 si trova in carcere un uomo sul quale pc erano state trovate immagini che ritraevano simulazioni di abuso sui personaggi infantili dei Simpson. Non rientrano comunque, nella legge italiana, i manga e le anime a sfondo erotico, le cui immagini non apparirebbero abbastanza veritiere.Nel giugno 2012 il tribunale di Roma stabiliva che non si può essere accusati di pedoponografia online se a navigare sui siti che ritraggono scene di sesso con minori potrebbero essere stati terzi sfruttando una connessione WiFi non protetta.

La Rete è chiamata ancora ad interrogarsi sulle modalità di censura quando sul finire del 2010 un certo Philip Greaves pubblicava su Amazon un nuovo libro accusato di “giustificazionismo” nei confronti della pedofilia; il popolo di Internet si sollevava in vibranti proteste e nella richiesta di rimozione. Amazon da parte sua comunicava che in assenza di specifiche denunce non poteva operare alla rimozione perché questo sarebbe in conflitto con il Primo Emendamento della Costituzione americana. Intanto il libro diventava un best seller su Kindle Store, prima che Amazon facesse marcia indietro e, dimenticandosi dei suoi stessi argomenti, ritirasse la pubblicazione dai suoi cataloghi. Forse a fronte del titolo che in borsa registrava in quei giorni un calo del 3%. Dunque, ancora una volta si pone in prima linea la questione di un'azienda che

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media le “manifestazioni del pensiero”, non ha responsabilità dirette su esse (forse era questo il vero valore che Amazon voleva riaffermare lasciando il libro sui suoi scaffali, al di la della Costituzione a stelle e strisce) ma può deciderne le sorti avendo occhi, in fondo, solo per il mercato. Ancor più preoccupante è che in tutto questo l'azienda sia stata sostenuta da un largo fronte di “censori per giusta causa” che non si preoccupano delle garanzie che ad ognuno vanno riconosciute in uno stato di diritto che voglia definirsi democratico. Il dibattito torna attuale a dicembre, quando Amazon censura un libro con contenuti incestuosi, riaprendo la polemica anche sulla possibilità di censurare non solo i libri sui suoi scaffali, ma anche le copie presenti sui dispositivi degli utenti e legittimamente acquistate, che l'azienda ha però poi definito “problema tecnico” rimettendo a disposizione dei proprietari le copie scomparse.

DECRETO PISANU (decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005; n. 155).Anche qui, qualche dato preliminare: al novembre 2010 in Italia si contavano 4000 hotspots di connessione WiFi per un totale di 29,1 milioni di utenti. Il confronto con gli altri paesi appare impietoso: in Francia gli utenti erano 42,3 milioni su 30000hotospots, in Gran Bretagna 48,8 milioni di utenti per 28000 punti wi fi pubblici, in Svezia si contavano 8,1 milioni di utenti e 7700 hotspots.Il decreto Pisanu, come dichiarava Massimo Mantellini sul suo blog alla vigilia della cancellazione della norma, palesa come “fra la tutela di un ampio diritto e la preoccupazione per una piccola sicurezza i paesi normali in questi anni hanno scelto la prima, l'Italia la seconda”.

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L'anomalia italiana risalta anche dal fatto che, per fare un esempio, se ci si reca in uno Starbucks di Londra con il proprio laptop ci si può connettere alla rete senza dover informare nessuno; al massimo bisogna chiedere una password ma è cosa bene diversa, riguarda solo la protezione dell'hot spot del locale. E stiamo parlando del paese che ha subito gli attacchi terroristici che all'epoca spinsero il nostro governo a varare queste norme. In Inghilterra esiste un forte monitoraggio sul web, ma esso avviene con metodi più raffinati rispetto alla privazione di una libertà o alla censura alla fonte. Lo stesso Giuseppe Pisanu dichiarava nel 2009: "Le esigenze di sicurezza sono mutate e l’accesso a Internet come agli altri benefici dello sviluppo tecnologico deve essere facilitato".Finalmente, con il decreto “Milleproroghe” del gennaio 2011 i commi 4 e 5 dell'articolo 7 del decreto Pisanu venivano lasciati scadere (è il comma 19 dell'articolo 2 del Milleproroghe a definire il cambiamento). In pratica, decadono gli obblighi per i gestori dei punti di accesso (bar o Internet Point) di richiedere documenti ai fruitori, fotocopiarli e conservarli inviandone i dati alle autorità di polizia e ministero dell'Interno. Sopravvive fino al 31 dicembre 2011 per gli Internet Point (indicati come “esercizi pubblici che forniscono l'accesso ad Internet in via principale", in contrapposizione a chi forniscono connessione in via accessoria ai clienti come bar o ristoranti) l'obbligo di richiedere licenza al Questore per qualsiasi punto di accesso Internet pubblico, che sia wi fi o con altre tecnologie.Alle entusiastiche reazioni di chi vede in tutto questo l'alba di una nuova era del wi fi libero nel nostro paese si sommano quelle di chi esprime viva preoccupazione, come il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, che all'indomani degli annunci del governo aveva tuonato contro un provvedimento che secondo lui significava “ridurre moltissimo la possibilità di

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individuare tutti coloro che commettono reati attraverso Internet. Dietro queste reti WiFi e internet point – sottolineava Grasso - ci si può nascondere benissimo nella massa degli utenti non più identificabili e si possono trovare anche terroristi, pedofili e mafiosi". Ma soprattutto si crea una confusione e contraddizione interpretativa all'indomani dell'abolizione, tra i proclami di governo che parlano di totale liberalizzazione e analisti che puntualizzano sul reale significato e portata dell'abolizione stessa, sottolineandone punti oscuri e contraddizioni; spiegava ad esempio il segretario dell'Associazione Agorà Digitale Luca Nicotra sul suo blog: “Rimangono numerosi altri obblighi per i fornitori di accesso alla rete che in ogni caso non consentiranno quella il governo annuncia essere una liberalizzazione. Anzi, non registrare gli utenti che si collegano potrebbe portare i gestori della rete a rischiare più di prima. Se un utente non identificato si collega alla rete e commette un reato ad esempio scaricando materiale coperto da diritto d’autore o collegandosi ad un sito pedopornografico, parte della responsabilità può infatti ricadere sul fornitore d’accesso. C’e’ il caso di una signora, non in Italia ma in Germania, addirittura multata perché la sua rete privata, neanche di un bar, ma della sua abitazione, fu utilizzata per commettere un reato. In tribunale fu riconosciuto il fatto che non era stata lei a commettere il reato in prima persona, ma fu comunque considerata responsabile di aver lasciato aperta e “incustodita” la sua rete. Insomma, non c’e’ più l’obbligo di raccogliere i dati degli utenti. Ma chi non lo fa rischia grosso. Come si può pensare ad una vera liberalizzazione e sburocratizzazione se non si affronta questo punto fondamentale?”. In effetti, anche la maggior parte dei contratti che vengono stipulati tra privati e fornitori di connessione prevedono il

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divieto di condividere la rete con terzi. Inoltre, secondo quanto segnalato a Wired.it dall'avvocato Massimo Melica era ancora in vigore il decreto interministeriale 16 agosto 2005, quello che impone ai fornitori di connessione pubblica l'adozione di "misure fisiche e tecnologiche occorrenti per impedire l’accesso a persone non identificate. L'accesso e il riconoscimento dell'utente sarà, come già propongono le prime soluzioni nel mercato, gestito da società che in remoto non solo provvedono per esempio all'autenticazione del soggetto tramite l'utilizzo della carta di credito o sms, quanto conservano i file di log per il tempo previsto" dalle norme in vigore, dice Melica. Dunque, più che maggiore libertà, ci sarà un diverso modo di controllare, non cartaceo ma tecnologico, che comunque impone grane e costi ai titolari dell'hot spot. Per quanto riguarda le possibilità di indagine, si prospetta un modello simile a quello delle intercettazioni telefoniche, ovvero la possibilità per gli inquirenti di ordinare (dietro autorizzazione di un giudice) il tracciamento del traffico su specifiche reti o utenze. E' infine da chiarire la posizione giuridica che assume chi da quel momento vuole fornire una connessione al pubblico: agli internet point sono imposti gli stessi obblighi di conservazione dei dati che hanno gli Internet Service Provider (articolo 6 del Pisanu), che comunque, è bene ricordarlo, non riguarda il contenuto delle comunicazioni; in merito aveva già avuto modo di esprimersi la Corte di Cassazione con la sentenza 6046 del 2008: secondo la 5a sezione Penale i titolari di un Internet Point non solo non sono obbligati a conoscere il contenuto della navigazione dei loro utenti, ma ciò gli è anche impedito dalla legge. Al gestore di un Internet Point con la Pisanu veniva chiesto di svolgere un compito che permettesse l'identificazione di chi aveva utilizzato gli apparecchi ma non

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di svolgere un ruolo di sorveglianza volta a prevenire reati, escludendo così responsabilità di tipo omissivo per il gestore, anche alla luce dell'articolo 617-quater c.p. che vieta l’intercettazione fraudolenta di sistemi informatici e telematici; tutto questo li affiancherebbe più alla posizione di non responsabilità per culpa in vigilando tipica degli intermediari. I termini di conservazione, fissati dall'articolo 132 del codice in materia di protezione dei dati personali, sono di 12 mesi per il traffico telematico e di due anni per quello telefonico. La soluzione più semplice per gli Internet Point sembra quella di delegare a veri e propri ISP o a società specializzate l'incombenza ( società come la Rete Free Luna di Futur3). In questo senso si moltiplicavano in quei mesi anche iniziative locali. A dicembre 2011 nel decreto "milleproroghe" sembrava finire una norma che riporta in vita parte del Decreto Pisanu. Solo poche ore dopo le smentite; la fin troppo lunga era del Decreto Pisanu è finita, ma solo per i privati: gli obblighi di identificazione degli utenti che si connettono alle reti pubbliche resta in vita.Nel febbraio 2013 la discussione sulle norme del decreto Pisanu ritornava a galla; il Garante della privacy rispondeva infatti ad una richiesta della Confcommercio sugli oneri che avrebbero dovuto ancora rispettare i titolari di esercizi per mettere a disposizione dei loro clienti una connessione. L'Authority ribadiva come non ci fosse necessità di registrare gli utenti; ma Wired e Fulvio Sarzana, facevano alcune precisazioni soprattutto in merito al fatto che in ogni caso chiunque mette a disposizione una connessione ad Internet, pur non dovendo chiedere più la carta d'identità a chi ne usufruisce, deve comunque sottostare alla necessità di identificare i navigatori. Inoltre, i Comuni che decidono di installare una rete

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di hot spot pubblica si trovano di fronte ad intoppi.Pochi giorni dopo tornava sull'argomento Guido Scorza. Nel giugno 2013 un decreto del governo Letta sembrava cancellare l'obbligo di rivolgersi ad imprese iscritte ad uno specifico albo per l'installazione di modem e router e la necessità di identificare gli utenti (aspetto sul quale qualcuno esprimeva perplessità). La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto, tuttavia, apriva a nuovi dubbi. Nuova bufera sul WiFi poche settimane dopo, quando sembrava dovessero essere introdotte ulteriori oneri per le attività commerciali; un pericolo scampato in extremis.

Si discute nel Parlamento italiano alla fine di febbraio 2011 perl'approvazione di un nuovo articolo del codice penale, il 50-bis, che prevederebbe il reato di “istigazione a pratiche alimentari che possono condurre all'anoressia o alla bulimia”, il che avrebbe dirette ricadute anche sul mondo del web nostrano, nel quale si contavano nell'ultimo anno circa 300mila spazi web cosiddetti pro-ana. Questo nuovo articolo introdurrebbe un reato punibile con pene fino ad un anno di carcere e una sanzione fino a 50mila euro, pene che sarebbero raddoppiate se venisse coinvolto un minore di 14 anni e triplicate se l'istigazione dovesse portare alla morte di un minore.

Nel febbraio 2011 Facebook si scaglia contro il Daily Mail: ilquotidiano avrebbe dato per certa, in un articolo riguardanteuna rete di pedofili, la connessione tra le attività dei criminali e la loro attività su Facebook. I vertici del social network in blu parlano di mancanza di prove a sostegno della tesi del legame diretto con gli spazi sul sito, e minacciano l'azione legale; per quanto sul quotidiano sia stato specificato eni giorni successivi

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che le indagini sono ancora in corso, non sembrano essere arrivate scuse da parte della redazione causando dunque il permanere di una situazione di indubbia tensione.

Nel marzo 2011 l'Antitrust multava tre società online (Expedia, eDreams e Opodo) con sanzioni per 415mila euro complessivi: l'autorità “ha riscontrato scarsa trasparenza delle informazioni ai consumatori, meccanismi di assicurazione dei pacchetti vacanza poco chiari, addebiti su carte di credito non dovuti per transazioni non completate, gestione scorretta dei reclami”.

Ancora nel marzo 2011 il social lending (prestito personale tra utenti iscritti a un sito web) Zopa diveniva attività riconosciuta e regolamentata avendo avuto dalla Banca d'Italia l'autorizzazione ad operare come Istituto di Pagamento. Viene così ribaltato il provvedimento con il quale Zopa era stato obbligato a interrompere la sua attività in Italia, dove era sbarcato nel 2008 (tre anni dopo essere nato in Inghilterra).

Alla fine di maggio 2011 il quarantenne Fabio Petta veniva arrestato a Olbia degli esperti del Cnapic (Centro nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche); Petta era già finito nel mirino del Garante della Privacy per aver messo a punto e distribuito online il software Urban-pra, che permette l'accesso alla banca dati dell'Aci (il Pra, appunto). Ora gli inquirenti hanno fermato l'uomo accusandolo di aver messo su un vero mercato illecito: egli metteva infatti a disposizione degli utenti un sistema tramite il quale, con soli 49 nove euro, dalla targa di un veicolo era possibile risalire a un gran numero di informazione sul proprietario e sul mezzo stesso. Il giudice per le indagini preliminari confermava subito il fermo per Petta, che rischia

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così fino a cinque anni di galera in un procedimento unico nel suo caso fino a quel momento in Italia; altri spammer sono finiti nella rete degli investigatori in questi anni ma per la prima volta si arriva ad una formalizzazione dell'accusa così pesante, anche nelle pene detentive che potrebbero scaturirne (fino ad ora di solito questi casi si erano conclusi con denunce a piede libero).

Ad inizio giungo 2011 esplodeva un nuovo scandalo calcioscommesse; dall'analisi dei fatti emerge una curiosità: gli scommettitori clandestini si servivano di servizi asiatici, visto che nelle agenzie online del nostro paese per le puntate superiori ai mille euro sono richiesti documenti e procedure di identificazione, cosa che non succede, ad esempio, per la Cina.

Alla fine di giugno 2011 Google diffondeva i dati sulle richieste di rimozione di contenuti dal search engine presentategli dai più svariati soggetti in giro per il mondo negli ultimi sei mesi del 2010; da essi si evince come la maggior parte delle richieste arriva dai governi nazionali. Il “transparency report” veniva aggiornato a più riprese, come con il post del giugno 2012. Nuovo aggiornamento nel novembre 2012. Interessanti le statistiche che si ricavano dal Google Transparency Report in merito alla consegna di dati sul traffico degli utenti a fini investigativi. Qui un'analisi condotta da Wired e qui un articolo di Punto Informatico. Qui un aggiornamento del maggio 2012. Nel gennaio 2013 si apprendeva di come le richieste fossero cresciute del 70% rispetto al primo report; nelle stesse ore, arrivava il primo report di Twitter. Nel marzo 2013 Google era pronto a pubblicare anche i numeri relativi alle richieste dell'Fbi. Quasi contemporaneamente, anche Microsoft presentava il suo report.

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In aprile, Google si scagliava contro le “National security letter”, le missive con le quali l'Fbi chiede l'accesso ai dati degli utenti senza aver bisogno di un mandato giudiziario, come previsto dal Patriot Act targato Bush. Una battaglia che, nel maggio 2013, il colosso di Mountain View perdeva in tribunale. Nell'agosto 2013 anche Facebook esordiva con il suo report. Poco dopo, la prima volta di Yahoo!. Nel frattempo era deflagrato lo scandalo “Datagate” (vedi “Update Usa”).

Nei primi giorni di luglio 2011 due trentenni venivano denunciati per aver creato su Facebook un falso profilo del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Rischiano fino ad un anno di carcere oltre ad una salatissima multa.

Alla metà di luglio 2011 l'Antitrust avviava un'istruttoria per pratica commerciale scorretta nei confronti del sito Italia-programmi.net a seguito di numerose segnalazioni di cittadini e associazioni. Le denunce riguardano il fatto che il sito si poneva come distributore di software gratuiti previa registrazione allo spazio online; tuttavia, la stessa registrazione, senza che l'utente fosse opportunamente avvertito di ciò, diventava una sottoscrizione di contratto che prevedeva il pagamento di 96 euro mensili, in merito al quale iniziavano già dalle settimane successive pressioni e minacce di azioni legali in caso di mancato invio del denaro. Secondo l'Antitrust, la pagina di registrazione riportava i termini dell'abbonamento con un layout grafico non sufficiente a dare l'immediata percezione che non si trattasse di un servizio gratuito. Una truffa nella quale è cascato anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e che costava al sito un'ordinanza di sequestro preventivo nell'aprile 2012. E' questo uno dei tanti procedimenti avviati dall'Authority per questo tipo di pratiche

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scorrette; dal 2009 al 2011 il totale delle sanzioni pecuniarie comminate sarebbe di circa 5 milioni di euro. C'è da sottolineare che sul caso di Italia-programmi.net hanno lavorato due procure, Milano e Roma. C'è, però, una differenza sostanziale: il gip di Milano, Cristina Di Censo, ha disposto il sequestro preventivo del sito, inibendo agli internet provider italiani di accedervi, perché "l'attualità e la diffusività del fenomeno è comprovata dal ripetersi delle segnalazioni che, quotidianamente, continuano a pervenire alla pg e alla procura anche per via telematica" e dal fatto che "le minacce rivolte agli utenti (restii a pagare i 96 euro, ndr) sarebbero addirittura arrivate a paventare una prossima loro convocazione presso 'il tribunale regionale giudiziario', ovviamente inesistente". A Roma, invece, il gip Valerio Savio, ben tre mesi fa, ha bocciato un'analoga richiesta di sequestro avanzata dal procuratore aggiunto Nello Rossi e dal pm Nicola Maiorano "mediante l'immediato oscuramento e rimozione dai risultati di ricerca dei maggiori motori nazionali e provider (Google inc, Virgilio, Libero, Tiscali, Yahoo! Microsoft Corporation)", dei link riconducibili al sito internet "al fine di inibire agli ignari internauti italiani la possibilità di raggiungerlo e di esserne ingannati". "Difetta la prova - scriveva così il giudice Savio il 2 gennaio 2012 - che siano 'attualmente' in essere condotte artificiose e, quindi, che il reato sia 'attualmente' commesso e che 'attualmente' vi sia specifica e stabile relazione tra il contenuto del sito e la possibilità, il rischio che con tali contenuti vengano commessi ulteriori reati". Da allora i fascicoli finiti all'attenzione della procura di Roma (che procede contro ignoti per tentata truffa) si sono moltiplicati: sono diventati almeno 600 e provengono da ogni parte d'Italia per ragioni di omogeneità processuale. Gli inquirenti erano sulle tracce di un conto corrente (aperto a Cipro) dove sarebbe

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confluita parte dei soldi pagati dalle vittime. A sollecitare i pagamenti sarebbe la Estesa Limited, una società che ha sede alle Seychelles ed è proprietaria del sito incriminato. Ma anche la procura di Milano stava lavorando per gli stessi fatti su più di un centinaio di fascicoli. Dunque, non è da escludere che prima o poi i pm di Roma e del capoluogo lombardo decidano di incontrarsi per fare il punto della situazione e stabilire quale ufficio giudiziario sia alla fine competente per concludere gli accertamenti.

Il 26 luglio 2011 veniva depositata alla Camera dei Deputati la proposta di legge C4549, firmata dall'on. Elena Cementero (Pdl) e mirante a modificare gli articoli 16 e 17 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, quello che recepisce la direttiva 2000/31/CE (sulla "Responsabilità dei prestatori intermediari"). La proposta parte dal presupposto che la direttiva solleva gli intermediari da responsabilità qualora utenti dei servizi commettano reati solo quando è accertato che lo stesso intermediario era ignaro della presenza del suddetto contenuto. Dunque, affermano i proponenti, in tutti quei casi nei quali l'intermediario (che sia esso provider di connessione o di servizi telematici) viene informato, da qualunque soggetto, in merito ad una violazione perpetrata sulle sue reti, esso deve intervenire per risolvere il problema. Il punto critico della proposta è che si salta il momento nel quale viene accertato che un contenuto genera reato, il che spetta alla magistratura e a nessun altro. Inoltre, nonostante si riconosce all'intermediario di non avere obblighi di sorveglianza, si spinge affinché egli implementi dei filtri contro la pubblicazione di materiale, ad esempio, in violazione di copyright. Si arriva addirittura a pensare di chiedere agli intermediari “la sospensione della fruizione dei servizi dei destinatari di tali servizi che pongono

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in esame violazioni dei diritti di proprietà industriale per evitare che siano commesse nuove violazioni della stessa natura da parte degli stessi soggetti”. Cioè, non si deve far pubblicare di nuovo a quel soggetto quel contenuto, imboccando la china pericolosa che porta fino alla richiesta di impedire l'accesso al servizio e, perché no, alla Rete Internet.

Skype deve cambiare il suo sistema di numerazione SkypeIn entro il 28 agosto 2011. E' questo il sunto dell'ultimatum che il Ministero dello Sviluppo Economico lanciava al servizio di VoIP nell'estate 2011. Skype avrebbe implementato un sistema di numerazione nel quale i prefissi non corrispondono alla reali città di residenza di chi li attiva, come invece prevede la normativa vigente. Il 30 settembre 2011 Eutelia annunciava la sospensione del servizio erogato fino a quel momento per il VoIP citando proprio il provvedimento ministeriale. A novembre, l'annuncio di Skype: quei numeri sono da considerarsi perduti. Alla fine di ottobre 2011 era invece arrivato uno studio sulle vulnerabilità del sistema di Skype in materia di privacy.

L'11 agosto 2011 il Tribunale di Bologna stabiliva in un'ordinanza che il gestore di un forum online non è responsabile della pubblicazione di contenuti diffamatori da parte di terzi, e che un provvedimento finalizzato all'identificazione dell'autore dei suddetti contenuti è vincolata all'accertamento dell'avvenuto reato.

Alla fine di settembre 2011 il consigliere regionale abruzzese Maurizio Acerbo (Rifondazione Comunista) veniva convocato dalla Questura di Pescara per rispondere all'ipotesi di reato di “manifestazione non autorizzata”. Acerbo aveva creato un

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gruppo su Facebook dal titolo “non vogliamo Emilio Fede a Pescara” per protestare contro la presenza del direttore del Tg4 in qualità di giurato al festival Miss Gran Prix e Mister Italia, tenutosi nella città costiera. Tramite il ritrovo online arrivava quello fisico di fronte all'ingresso della manifestazione, con cartelli con la scritta “vergogna” e fischi. Subito dopo, la denuncia.

L'11 ottobre 2011 veniva presentato il progetto di legge S2951; firmato dal senatore Antonio Tomassini (Pdl) e altri, è il terzo tentativo in pochi mesi (dopo quelli di Giovanni Fava ed Elena Cementero) di intervenire nell'area della responsabilità degli intermediari per irrigidire il quadro.

Nella seconda metà del 2010 sarebbero state 837 le richieste pervenute a Google dalle autorità italiane in merito alla consegna di dati sul traffico degli utenti a fini investigativi. Nel 60% dei casi Mountain View ha acconsentito. Qui un'analisi condotta in merito da Wired e qui un articolo di Punto Informatico.

Curiosità: “Brother Net” è il primo esempio di di social network riservato ai massoni italiani. Con un circuito altamente selettivo, trasferiva in Rete una modalità d'azione (la sezione sugli annunci di lavoro era la più attiva) da sempre tra i segni distintivi della nostra Penisola. Pochi contenuti pubblici per paura delle intrusioni, la rete veniva coltivata con messaggi privati come questo:“Caro Fratello, ti scrivo per segnalarti che nella sezione Magazine del nostro Social ho provveduto ad inserire le ultime offerte di lavoro riservate ai fratelli. Tali offerte vengono dal fratello (...) della commissione Ospitalieri del Piemonte e sono

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riservate a coloro che ne avessero necessità. Per sveltire l'iter l'interessato può scrivere direttamente al nostro fratello, il quale con solerzia si attiverà. Troverai tutte le indicazioni nella sezione Magazine sotto il titolo Offerte di Lavoro”.Tuttavia alla metà di ottobre 2011, scoperto, risultava disattivato.

Il 25 ottobre 2011 la Corte di Giustizia Europea emetteva una sentenza in merito alla competenza giurisdizionale nei casi di diffamazione e reati contro la personalità online, stabilendo che è il giudice del paese nel quale la vittima risiede ad essere competente all'interno del territorio dell'Unione; la Corte stabilisce altresì che la vittima può "adire i giudici di ciascuno Stato membro sul cui territorio un’informazione messa in rete sia (o sia stata) accessibile, ai fini di un’azione di risarcimento per la totalità del danno. In tal caso tali giudici sono competenti a conoscere del solo danno causato sul territorio dello Stato in cui essi si trovano". Per approfondire, gli avvocati Fulvio Sarzana e Giusella Finocchiaro . Come spiega Guido Scorza, poi, con la sentenza la Corte ha “chiarito che la direttiva sul commercio elettronico va interpretata nel senso che al prestatore di un servizio della società dell’informazione non può, in nessun caso essere applicata una disciplina nazionale in materia di responsabilità che comporti effetti e/o conseguenze più severe di quelle cui il prestatore medesimo andrebbe in contro applicando la disciplina vigente nel Paese nel quale è stabilito. Fuor di giuridichese questo significa che un internet service provider – poco conta che si fornisca hosting, caching o mere conduit – è soggetto, in materia di responsabilità civile, in ogni caso alla disciplina del Paese nel quale ha scelto di stabilirsi e non in quella del Paese nel quale eroga i propri servizi almeno ogni

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qualvolta quest’ultima comporterebbe per lui un più severo regime di responsabilità. Tale principio, spiegano i Giudici della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, si pone l’obiettivo di garantire la libera circolazione dei servizi della società dell’informazione prestati dagli internet service provider, consentendo a questi ultimi, all’atto dell’avvio della loro attività, di nutrire una ragionevole certezza circa le regole di diritto da rispettare e le conseguenze di ogni eventuale violazione”.

Alla fine di ottobre, mentre il Movimenti Italiano Genitori (Moige) diffondeva uno studio sull'uso che fanno i minori di Internet e il corrispettivo (e molto poco diffuso) controllo messo in atto dai genitori, arrivava un allarme della polizia postale sui numeri sempre più alti degli adescamenti a mezzo Web.

Un utente di Facebook il 28 ottobre 2011 postava sul suo profilo questi aggiornamenti di stato:“Hanno fatto una rapina al supermercato di Pescasseroli (paesino abruzzese, nda), quello vicino alle poste. Hanno puntato una pistola alla tempia della cassiera facendosi consegnare tutti i soldi. Poi sono scappati via”, “Hanno portato via circa 7mila euro fuggendo a bordo di una macchina scura, ma i carabinieri li stanno inseguendo e sono stati sparati anche alcuni colpi di pistola”. Tam tam virtuale e panico reale per i cittadini del paese del Parco. Ma era uno scherzo. Pur non essendoci ancora iniziative giudiziarie in merito, è probabile che i carabinieri vogliano approfondire la questione per arrivare a chi, in fondo, ha preso in giro anche loro commettendo un reato.

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Procurato allarme è invece l'accusa che il sindaco di Alessandria rivolgeva solo due settimane dopo ad un gruppo su Facebook creato per monitorare il meteo cittadino dopo i giorni di maltempo e le alluvioni; gli aggiornamenti costanti dei 1700 iscritti per il primo cittadino hanno generato un eccessivo allarmismo.

Nelle stesse settimane le Sezioni Unite della Corte di Cassazione stabilivano che era applicabile la disciplina di accesso abusivo al sistema informatico anche per chi, pur in possesso delle credenziali d'accesso, utilizza queste stesse credenziali per un uso abusivo del sistema. Allo stesso modo, in un nuovo pronunciamento si stabilisce che il reato si consuma nel luogo in cui si trova il sistema oggetto della condotta abusiva.

Iniziavano inoltre i guai per Estesa Limited, società titolare del sito Italia-programmi.net, finita nel mirino della Procura di Roma che apriva un'indagine sulle presunte pratiche illecite che vedevano il sito attirare gli utenti sulle proprie pagine associando il proprio nome a nomi di software e a parole come “gratis”. Tuttavia, in un secondo momento si offrivano download gratuiti dietro i quali potevano però celarsi contratti per la fornitura di software dal costo anche di 96 euro annuali. Una pratica che ha fruttato ai gestori del sito circa 100mila euro. Numerose le segnalazioni sul caso (nell'ordine delle migliaia), oltre ad un'istruttoria aperta nel luglio 2011 dall'Antitrust. La stessa Antitrust nel gennaio 2012 infliggeva alla Estesa una mximulta di 1,5 milioni di euro.

Il 16 novembre 2011 arrivava la sentenza di dissequestro per il sito Alfemminile.com, sequestrato quasi due mesi prima perché

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accusato di aver facilitato al cessione di farmaci anoressizzanti.

Nel gennaio 2012 sul profilo Facebook di una bambina di 10 anni appariva una sua foto nuda con impostazioni di massima pubblcità. Subito l'intervento della polizia postale per la rimozione della pagina. Poche ore dopo a Catania veniva scoperto ed oscurato un sito che presentava scatti pruriginosi ritraenti bambine delle scuole medie; il sito era gestito da un loro compagno quattordicenne, il quale si era servito della connessione presente nella biblioteca della scuola, sperando così di non essere rintracciato.

Il 23 gennaio 2012 la X sezione del Tribunale di Roma ha assolto un uomo accusato di aver messo in vendita su eBay centiania di software contraffatti. L'imputato rischiava fino a tre anni di reclusione per il reato di rirpoduzione illecita di programma per elaboratore (art.171 bis della legge sul diritto d'autore). Dunque, come afferma uno degli avvocati difensori Fulvio Sarzana di Sant'Ippolito, “Mettere in vendita oggetti contraffatti sulla piattaforma E Bay può non costituire reato in quanto l’offerta di vendita di prodotti sul popolare sito può essere richiesta da chiunque, anche con false generalità […] Il Tribunale ha affrontato anche il tema della detenzione ad uso personale di programmi protetti dal diritto d’autore, ritenendo che il ritrovamento presso il domicilio dell’imputato di prodotti non originali o contraffatti anche in numero rilevante (si trattava di più di cento esemplari) di per sé non valesse, in assenza di ulteriori prove, a giustificare l’imputazione di detenzione di opere protette dal diritto d’autore a scopo di lucro o di profitto […] ferma restando la contrarietà alla legge della condotta di chi viola il diritto d’autore non è consentito a nessuno di desumere sic et simpliciter da una detenzione

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personale uno scopo ulteriore di lucro o di profitto. Il Tribunale di Roma ha anche stabilito di fatto il principio dell’anonimato protetto su internet: ognuno può agire sulla rete utilizzando anche uno pseudonimo e per poter essere condannati occorre che vi sia una rigorosa prova dell’identità tra chi vende su E bay e chi si assume essere il destinatario del profitto. Inoltre E Bay non è e non può essere un notaio o un pubblico ufficiale che attesti l’identità di chi opera su internet”.

Il 26 gennaio 2012 sul blog di Twitter i vertici del sito si dichiaravano pronti a far entrare a regime la funzione con la quale sono in grado di fermare il flusso dei cinguettii tarando l'azione su un singolo tweet di un singolo utente in uno specifico paese. Questo per permettere al sito di microblogging di allargarsi anche a paesi come la Cina. Le proteste degli utenti non si facevano attendere: intorno all'hashtag #TwitterCensored si “radunavano” tutti gli utenti contrariati da una scelta che definivano censoria. Pochi giorni dopo Fabio Chiusi sollevava interessanti spunti di riflessione. Qui Stefano Quintarelli, qui Luca Nicotra.Dubbi su un simile meccanismo di censura venivano sollevati anche su Google e il suo Blogspot.

Non è reato solo appropriarsi dell'identità online di qualcun'altro. E' reato anche creare false identità, in quanto, secondo la Cassazione, “si lede la buona fede di gestori e utenti”. Sempre la Cassazione, alla fine dell'aprile 2013, confermava che il reato di sostituzione di persona si configura anche quando profili con nickname sono stati creati utilizzando dati altrui.

Una frase di troppo contro due deputati e un intero sito viene

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sequestrato e oscurato a mezzo inibizione di IP e DNS. Tutto offline, compresa la marea di testimonianze e documenti perfettamente leciti. Alessandro Longo ci spiega quanto dannosa per la libertà di informazione si riveli questo provveidmento preso nel febbraio 2012 nei confronti del sito Vajont.info. Qui il provvedimento integrale. Qui un'analisi di Guido Scorza. Verso la fine di febbraio 2012 arrivava il ricorso dell'Assoprovider contro il provvedimento di sequestro. Il 9 marzo il Tribunale della Libertà di Belluno stabiliva che il provvedimento di sequstro dell'intero sito era illegittimo. Il sito tornava così online senza la frase incriminata, mentre il suo ammnistratore veniva condannato a pagare una multa e un risarcimento a Paniz.Nell'ottobre 2012 il tribunale di Varese condannava un blogger francese per diffamazione nei confronti di Renzo Bossi, oggetto di satira. In quel caso, non si stabiliva la rimozione dei contenuti incriminati.

Simile alla vicenda di Vajont.info è quella che nel giungo 2012 ha coinvolto Indymedia.

La microcensura esternalizzata di Facebook , che si riserva però il diritto di decidere delle questioni più scottanti.

Con la legge Casson del 15 febbraio 2012 i dispositivi informatici che vengono seuqestrati perché con essi sono stati commessi reati (o si presume questo scenario) vengono assegnati ai Giudici, ai Pubblici Ministeri o alle forze di polizia che ne fanno richiesta.

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Nel marzo 2012 l'Antitrust imponeva agli ISP italiani di oscurare il sito Private Outlet, accusato di vendita fraudolenta di prodotti griffati. Un'operazione che vede un soggetto amministrativo imporre ai provider un oscuramento con una modalità che espone (ingiustamente) anche altri siti a stessa sorte. In merito, i dubbi di Stefano Quintarelli, quelli di Fulvio Sarzana, e quelli di Guido Scorza.La vicenda si arricchiva (e complicava ulteriormente) nei giorni successivi.Nel gennaio 2013 si ripeteva una simile dinamica.

All'inizio di aprile 2012 la Cassazione stabiliva che fare acquisti online utilizzando un account registrato con il nome di qualcun altro e a sua insaputa è reato, anche se si usa uno pseudonimo.

Il 5 aprile 2012 dal ministero del Lavoro di Elsa Fornero partiva una missiva diretta alla Direzione provinciale del lavoro di Modena nella quale si richiedeva la chiusura del sito dell'ente www.dplmodena.it. E questo per "al fine di garantire una rappresentazione uniforme delle informazioni isti tuzionali e con riferimento agli obblighi di trasparenza ed ai profili di comunicazione e pubblicazione delle informazioni di interesse collett ivo anche per quanto att iene agli Uffici territoriali”. L'ordine veniva eseguito. In pratica sembra che il ministro si sia arrogato il diritto di accentrare l'informazione in merito a ciò che fanno gli uffici territoriali legati al suo dicastero imponendo la chiusura di un intero spazio online per la presenza di qualcosa che non le era gradito.

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Ma è lo stesso ministro, pochi giorni dopo, a chiarire la sua posizione e a parlare di una possibile riapertura del sito. Riapertura che arrivava il 13 aprile.

Se il problema della firma digitale è l'autorità di certificazione.

Sono validi i contratti online senza firma digitale?

Antiterrorismo e blog sequestrati d'urgenza senza passare dal Gip , abbinato all'ordine ai provider di inibire l'accesso al sito; Fulvio Sarzana spiega l'abuso di tale approcco: “Scrive il giudice che 'Non possono trovare applicazione riguardo ai blog le garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa, in quanto tale forma di comunicazione non può essere inquadrata nella nozione di stampato o prodotto editoriale, cui è estesa, ai sensi dell’art 1, legge 62/2001, la disciplina della legge sulla stampa'. Ergo, secondo questa impostazione,dovremmo ritenere che, per esempio, un blog presente all’interno di una testata tradizionale, magari gestito da un giornalista, possa essere tranquillamente sequestrato, senza le garanzie previste dalla nostra Costituzione, per il semplice fatto che lo stesso blog sia ritenuto contenere affermazioni ritenute diffamatorie.E ciò in quanto a tutta evidenza un blog, fatto di bit, non può essere equiparato ad uno stampato editoriale. L’informazione on line diverrebbe a questo punto molto difficile da trattare, per le gravi conseguenze derivanti da una cancellazione integrale di un blog in vai preventiva, anziché di singole frasi o singole parole”.

Sembra aver creato una specifica categoria da analizzare a parte la serie di querele collezionata da Google in merito al suo servizio di suggerimento automatico di chiavi di ricerca, il

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Google suggest: insieme a condanne e assoluzioni in giro per il mondo, il servizio di Mountain View si è ritrovato diverse volte sulla sbarra degli imputati nei tribunali nostrani, con sentenze contrastanti. Nel maggio 2012 un tribunale di Milano imponeva a BigG di filtrare alcune parole come “truffatore” suggerite insieme al nome di un imprenditore, mentre il foro di Pinerolo considerava validi gli argomenti della difesa assolvendo Google in un analogo procedimento per diffamazione. Affermano infatti i giudici della provincia di Torino che associare determinate parole ad una persona non è di per sé diffamatorio, perché ci si limita a “rendere noto che un certo numero di fruitori di internet si interroghi sul fatto se il ricorrente sia o meno stato coinvolto in vicende penali e voglia verificare se nel Web vi siano informazioni al proposito”, e che “un certo numero di utenti ha in tempi recenti interrogato il motore di ricerca per sapere se X fosse (o fosse stato) indagato oppure arrestato. Il riferimento, in termini di mera ricerca di informazioni, all'eventuale coinvolgimento di una persona in indagini penali, tuttavia, non è di per sé diffamatorio. Mancherebbe, inoltre, la dimostrazione dell'elemento soggettivo, per un delitto punito a titolo di dolo, non essendo provato che Google o gli utenti abbiano voluto ledere la reputazione del ricorrente”. Una sentenza a favore di Google arrivava nel marzo 2013 anche dal tribunale di Milano: nessuna responsabilità per i suggerimenti effettuati a mezzo algoritmo.

Nel maggio 2012 i senatori Pinzger e Thaler Ausserhofer presentavano un disegno di legge che punta ad obbligare i gestori di siti Internet alla rimozione di commenti su segnalazione di soggetti che si ritengono danneggiati dagli stessi, senza che ciò passi per alcun tipo di sentenza ma solo per un iter di “giustizia privata”. Si stabiliscono limiti di sette

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giorni, oltre i quali si rischia di essere accusati di complicità nel reato.

Alla fine di maggio 2012 il sito dell'Alitalia era oggetto di un attacco informatico di tipo phishing che costringeva la magistratura romana ad intervenire e sequestrare due domini attraverso i quali erano perpetrate le frodi.

Nel giugno del 2012 l'Antitrust ordinava a tutti i provider italiani di impedire l'accesso al sito www.viagra-cialis-levitra.it, dal quale è possibile acquistare i farmaci anti-impotenza viagra e cialis.

Nell'ottobre del 2012 la Corte di Cassazione stabiliva che su Internet le “catene di Sant'Antonio” (marketing piramidale) a scopo di lucro sono vietate.

Prima censura operata da Twitter che blocca il profilo di un gruppo neonazista.

Una guida contro il terrorismo online diffusa dall'Onu.

Nel novembre 2012 il forum antisemita e neonazista Stormfront veniva reso inaccessibile e i quattro amministratori arrestati dalla Digos per incitamento all'odio razziale. Nell'aprile 2013 la sentenza: gli admin venivano condannati a oltre dieci anni di detenzione domiciliare complessivi con l'accusa, senza precedenti, di associazione a delinquere finalizzata all'incitamento all'odio razziale tramite Internet. Pochi giorni dopo venivano sottoposti a sequestro preventivo anche i siti holywar.org e holywar.tv. L'accusa era ancora di

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incitamento all'odio razziale, etnico e religioso.

Lo stalking via email è meno invasivo di quello via sms e si configura più come spamming. Dunque, si può evitare più facilmente, e i responsabili non possono essere condannati. A stabilirlo è la Corte di Cassazione nel novembre 2012. La Suprema Corte ricalcava così una sentenza del luglio 2010 con la quale aveva annullato senza rinvio, con la motivazione che “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, la condanna per un 41enne che aveva ricevuto una multa di 200 euro dal tribunale di Cassino. L’accusa? Aver perpetrato molestie via e-mail (volgari apprezzamenti ad una signora). La Cassazione aveva ritenuto che l’art.606 del codice penale, relativo al reato di molestie o disturbo alle persone, non comprende con la dizione “telefono” anche gli altri analoghi mezzi di comunicazione a distanza, argomento con il quale aveva invece inflitto la condanna il tribunale di Cassino. La posta elettronica, secondo la Cassazione, “utilizza la rete telefonica e la rete cellulare delle bande di frequenza, ma non il telefono, nè costituisce applicazione della telefonia, che consiste, invece, nella teletrasmissione in modalità sincrona, di voci o di suoni”. Il suo essere asincrona la rende meno invasiva rispetto al telefono, non comportando peraltro un’interazione con il mittente e non essendo necessario l’isolamento delle connessioni per non ricevere il messaggio né il contatto del contenuto del messaggio prima di cancellarlo. Dunque non è possibile farla rientrare nello stesso regime delle telefonate, nella quale rientrano, invece, gli sms. Così la Corte aveva concluso che “la avvertita esigenza di espandere la tutela del bene protetto della tranquillità della persona incontra il limite coessenziale della legge penale, costituito dal principio di stretta legalità e di tipizzazione delle condotte illecite”,

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principio presente anche nella Costituzione.

Alla fine del dicembre 2012 l'Antitrust sanzionava due siti di ecommerce per pratiche scorrette e per la prima volta sfruttava la possibilità di richiedere agli Isp di inibirne l'accesso agli utenti.

Un caso di studio dall'inizio del 2013: si può essere condannati per un retweet? Di sicuro si può per i post su Facebook.

Crare un profilo su Facebook con il nome e la foto di un personaggio famoso per ridicolizzarlo può costare caro. Lo sa bene un giovane palermitano che da gestiva un fake di Luca Giurato sul social in blu. Video delle più famose “papere” del giornalista postate a ripetizione e pesanti dichiarazioni messegli in bocca. Giurato, sentendosi diffamato, ha sporto denuncia nel marzo 2013 e dopo che il gip aveva respinto la richiesta d’archiviazione del pm è partito il processo.

Nel marzo 2013 veniva caricato su Facebook un video che ritraeva abusi sessuali su una bambina. Sconvolgente il fatto che il filmato avesse ottenuto anche diverse migliaia di “mi piace” e condivisioni. Alla luce delle leggi italiane, basterebbe anche solo una di queste circostanze per avviare un procedimento penale a carico di ognuno di quegli utenti.

Nell'aprile 2013, per la prima volta, un gup milanese riusciva ad ottenere l'autorizzazione a “frugare” tra le chat di Facebook di un uomo accusato di molestie sessuali ai danni di minori. Da Palo Alto gli arrivava un cd.

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Alla fine dell'aprile 2013 il garante per la protezione dei dati personali emanava un provvedimento con il quale stabiliva l'obbligo per i fornitori di connessione operanti in Italia di comunicare tempestivamente ogni violazione dei propri database, pena multe salate.

Sempre alla fine di aprile 2013, il sito Il Perbenista di Marco Belviso, candidato alle elezioni amministrative di Udine, veniva sequestrato su ordine del Tribunale udinese per la presenza di alcuni commenti ritenuti diffamatori. Dunque, un altro caso dove un intero blog viene oscurato preventivamente per la presenza di alcuni specifici contenuti oggetto di un procedimento giudiziario.

Nel maggio 2013 la Corte di Cassazione stabiliva la liceità della pubblicazione degli annunci di prostitute sul Web, a patto che non ci sia collaborazione tra chi pubblica e chi esercita il mestiere più antico del mondo.

Quale Editoria sul Web?

In merito alla sentenza 35511 del luglio 2010 con la quale la Cassazione stabiliva che per un direttore di testata telematica non valgono le norme dell'articolo 57 del codice penale, nelle motivazioni la Corte ribadisce come "né con la legge 7 marzo 2001 n. 62, né con il già menzionato D.Lsvo del 2003, è stata effettuata la estensione della operatività dell'art. 57 c.p. dalla carta stampata ai giornali telematici, essendosi limitato il testo del 2001 a introdurre la registrazione dei giornali online (che dunque devono necessariamente avere al vertice un direttore) solo per ragioni amministrative e, in ultima analisi, perché

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possano essere richieste le provvidenze previste per l'editoria (come ha chiarito il successivo D. Lsvo)". Si tratta di un altro riconoscimento alla differenza che corre tra la carta stampata e il web, nel quale l'attività editoriale è svolta in forme molteplici e molteplici forme di espressione possono esservi ricondotte. Come abbiamo visto inoltre, la gran parte di di queste stesse forme possono già rientrare in varie leggi preesistenti in caso di reati, ma vengono punite come responsabilità individuali di chi magari lascia commenti diffamatori a post sui blog;stessa cosa per i quotidiani online e le responsabilità del direttore, sulle quali si esprimeva, a novembre 2011, ancora la Cassazione; per la Corte non si può addebitare al direttore nemmeno la responsabilità di non aver rimosso dal sito un commento inviato da un lettore e ritenuto diffamatorio (il caso è quello dell'ex direttore dell'Espresso online Daniela Hamaui; nella sentenza si legge che il commento in questione “non era un commento giornalistico, ma un post inviato alla rivista da un lettore, automaticamente pubblicato, senza alcun filtro preventivo”). Dunque, è ancora una volta chiaro quanto il tentativo di mettere sotto l'ombrello delle leggi sulla stampa tutto il web è quantomeno ingenuo e dannoso. In ogni caso, la sentenza ha stimolato un dibattito che tra gli esperti si è spesso polarizzato anche sul reale significato della sentenza stessa (c'è anche chi, come Fulvio Sarzana di Sant'Ippolito, ritiene che la Corte anziché limitarsi al giudizio di diritto sia entrata nel merito nella parte in cui si esprimeva sul disaccordo del direttore nei confronti dei contenuti della lettera incriminata; nella stessa sede Sarzana ricordava come nel dicembre 2008 la Suprema Corte dichiarava che su quello che veniva inserito nei forum di una testata telematica registrata come tale il direttore dovesse avere controllo diretto) lasciando aperta una dinamica che appunto probabilmente solo

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il legislatore potrà chiarire.Nel frattempo, però, nel maggio 2013 una blogger veniva condannata dal tribunale di Varese per alcuni commenti diffamatori inseriti da terzi nel suo blog; tra le motivazioni, si legge: “Quanto all’attribuzione soggettiva di responsabilità all’imputata, essa è diretta, non mediata dai criteri di cui agli artt. 57ss. c.pen.; la disponibilità dell’amministrazione del sito Internet rende l’imputata responsabile di tutti i contenuti di esso accessibili dalla Rete, sia quelli inseriti da lei stessa, sia quelli inseriti da utenti; è indifferente sotto questo profilo sia l’esistenza di una forma di filtro (poiché in tal caso i contenuti lesivi dell’altrui onorabilità devono ritenersi specificamente approvati dal dominus), sia l’inesistenza di filtri (poiché in tal caso i contenuti lesivi dell’altrui onorabilità devono ritenersi genericamente e incondizionatamente approvati dal dominus). Non è certamente idonea a escludere la responsabilità penale dell’imputata la clausola di attribuzione esclusiva di responsabilità agli autori dei commenti contenuta in un “regolamento” di natura esclusivamente privata per l’utilizzazione del sito (gli autori, semmai concorrono nel reato, ma di essi in questo processo non vi è traccia di identificazione, né sono imputati)”.In pratica, sembra dire il tribunale, che tu sia direttore di una testata registrata o tu sia un blogger, e che nello specifico tu abbia un filtro o meno sui tuoi contenuti è indifferente: se c'è una diffamazione sul tuo sito, da qualunque parte venga, sei responsabile della diffamazione.Pochi giorni dopo, simile sorte toccava al gestore del blog Cartellopoli, condannato per apologia di reato per contenuti postati da terzi, e con la sentenza che si allargava anche alla gestione della pagina Facebook.Ancora pochi giorni e l'Aduc, associazione a tutela di

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consumatori e utenti, veniva condannata per le presunte diffamazioni contenute in un forum sul proprio sito.

La quinta sezione della Cassazione, la stessa della sentenza appena citata, confermava alla fine di febbraio 2011 una decisione del Gip di Milano nella quale si legittimava il sequestro preventivo di un articolo pubblicato online; nel riconoscere che nessun ostacolo si possa frapporre fra un articolo e la sua diffusione online in quanto manifestazione del pensiero, la Corte specificava che questo tipo di manifestazione "non può, quindi, trovare limitazioni se non nella corrispondente tutela di diritti di pari dignità costituzionale e nel rispetto, altresì, delle norme di legge, di grado inferiore, con le quali il legislatore disciplina in concreto l'esercizio delle attività dianzi indicate". Diritti che nello specifico del caso (un articolo apparso sul blog Societacivile.it a firma del giornalista Gian Battista Barbacetto e ritenuto lesivo nei confronti di Licia Ronzulli, eurodeputato del Pdl) sono l'onorabilità e la dignità della persona.

Impeccabile proposta di Stefano Quintarelli in materia di rettifica: “Supponiamo invece che le rettifiche debbano essere fatte senza alcuna rimozione o censura, ma con un nuovo articolo con le stesse caratteristiche della notizia da rettificare, e con l'inserimento in testa alla pagina dell'articolo diffamatorio delle parole "Rettifica in base alla legge tal dei tali", con il testo esplicativo della rettifica. Un vantaggio diretto sarebbe che il messaggio diffamatorio verrà qualificato come tale: chi fa una ricerca su Google non corre il rischio di trovarsi il contenuto diffamatorio senza vederne la rettifica. In più, con una semplice ricerca si potrebbe ottenere un elenco di tutte le rettifiche cui il blog o la testata on line sono stati obbligati, consentendo al

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lettore di valutare l'attendibilità della fonte. E tutto ciò senza che alcun contenuto venga rimosso, quindi senza alcuna censura”.

Nell'ottobre 2010 il senatore Butti (Pdl) presenta un disegno di legge che punta ad inserire nell’art.65 della legge n.633 del 22 aprile 1941 sul diritto d'autore il divieto di utilizzo o riproduzione di un articolo di attualità senza la previa autorizzazione dell'editore, ottenuta tramite un accordo economico, in alternativa all'attuale norma vigente che prevede:“Gli articoli di attualità pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purchè si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato“. Oltre ad essere un altro esempio della mentalità che spinge il legislatore, la norma sembra essere anche inutile visto che la maggioranza degli articoli online porta già in calce il marchio riservato e dunque rende già fuori legge la loro riproduzione. I promotori della legge nello specificare le proprie intenzioni parlano della volontà di evitare che strumenti come i motori di ricerca traggano profitto dall'altrui ingegno. Il disegno di legge approdava in Commissione Giustizia del Senato a febbraio 2012.

Alla fine di novembre 2010 nasceva la prima piattaforma di prestito digitale per le biblioteche pubbliche italiane; si tratta di MediaLibraryOnLine (MLOL) che raccoglie circa 50mila tra e-book, video, film, foto, documentari e quotidiani. Nata da un progetto di Horizons Unlimited Srl di Bologna con la

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collaborazione del Consorzio Sistema Bibliotecario Nord Ovest di Milano e la Provincia di Reggio Emilia, raccoglie contenuti provenienti da 89 paesi e in 39 lingue, che saranno accessibili a tutti gli utenti provvisti dell'apposita tessera del servizio bibliotecario. Secondo l'Associazione Italiana Editori (Aie), i titoli elettronici disponibili a marzo 2011 in Italia erano circa 7 mila su un totale di 450 mila libri complessivi (0,1%); a dicembre 2010 erano 5.900 e si prevede che possano arrivare a 20 mila entro la fine del 2011. Il dicembre 2010 vede la firma di un accordo tra Rcs e Telecom Italia per la distribuzione di 672 titoli della casa editrice in formato ebook.

IL CILCONE WIKILEAKS - E arriva nel frattempo il ciclone Wikileaks (“leak” significa “fessura”); l'organizzazione, fondata nel 2006 dall'australiano Julian Assange, si pone l'obiettivo di lanciare sul proprio sito documenti coperti da segreto (di stato, militare, industriale o bancario) dopo averli ricevuti in modo anonimo, volontario e criptato. La pubblicazione, preceduta da una verifica di autenticità del materiale, avviene da server situati in Belgio e Svezia, paesi che hanno leggi che tutelano questo tipo di esercizio. Durante gli anni di attività sulle colonne di bit del sito sono apparsi documenti provenienti praticamente da tutto il mondo, il che ha conferito a Wikileaks una certa notorietà tra il “popolo della Rete” per il potenziale di scardinamento dei forzieri diplomatici mondiali. Ma Wikileaks entra di prepotenza nel dibattito politico internazionale nel luglio 2010, dopo aver pubblicato decine di migliaia di documenti riservati dell'esercito statunitense in Afghanistan che documentavano gli aspetti oscuri di “Enduring Freedom”. Assange li avrebbe ricevuti dall'allora ventiduenne

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Bradley Manning, impegnato sul campo, che ha confessato tale scambio ad un suo amico hacker, Adrian Lamo, in chat; Manning è per questo dal maggio 2010 in isolamento quasi completo a Quantico, in Virginia, e sottoposto, almeno stando alle denunce del padre del ragazzo, ad ogni tipo di vessazione, situazione denunciata anche dal Los Angeles Times. Scrive a proposito Fabio Chiusi su “Il Nichilista” il 2 marzo 2011:”Si può chiamare democrazia uno Stato dove un prigioniero politico di 23 anni è detenuto dal 29 luglio 2010; in isolamento per 23 ore al giorno; senza poter avere accesso a notizie dal mondo esterno nell’ora restante; senza poter fare più di un’ora di esercizio fisico al giorno; senza poter dormire tra le cinque del mattino e le otto di sera; con le guardie che ogni cinque minuti devono verificare le sue condizioni di salute con tanto di domanda di rito (stai bene?) e attesa di risposta altrettanto di rito (sto bene); con le guardie che se, verificando il suo stato di salute di notte, lo trovano raggomitolato sotto le coperte o contro la parete, o si rende non identificabile per qualunque altro motivo lo devono svegliare e ripetere la procedura di cui sopra; senza poter consumare i suoi pasti che in cella; senza poter disporre di alcun oggetto personale, nemmeno un cuscino, che è tutt’uno col materasso; in condizioni di rapido deterioramento psico-fisico senza non solo aver mai subito alcuna condanna ma nemmeno un regolare processo? Si può chiamare democrazia uno Stato dove invece di condannare senza se e senza ma questo trattamento disumano si parla di pena di morte?” . La posizione di Manning si è ulteriormente aggravata ad inizio marzo 2011, quando gli alti vertici dell'esercito statunitense aggiungevano alla diffusione di materiale riservato altri 22 capi d'accusa (tra i quali “supportare il nemico”), esponendo il giovane militare al rischio pena di morte (qui un'analisi tecnico-giuridica del caso condotta

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dall'avvocato Fulvio Sarzana).Tornando allo specifico di Wikileaks, il sito continuava comunque a sfornare documenti; per dare un'idea, in possesso di Assange e compagni ci sarebbero circa 251000 dispacci diplomatici delle ambasciate statunitensi dal 1966 ad oggi.La reazione della comunità internazionale ha ovviamente avuto tendenze e colori diversi: da un lato governi che si sentono colpiti sotto la cintura che reagiscono tra imbarazzi, invettive, accuse e azioni legali, come fa quello statunitense. Dall'altra c'è chi legge la questione nell'ottica opposta, di smascheramento di giochi di potere occulti e di disintermediazione dagli stessi, dalla politica e spesso dagli stessi mezzi di informazione tradizionali. Ad esempio Vittorio Zambardino sul suo blog scriveva così il 7 dicembre del 2010: “L’arresto di Julian Assange è un banco di prova per i paesi coinvolti, che poi sono quelli dell’occidente democratico: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Svezia. Paesi che, con giusta ragione, vantano una storia che sta dalla parte dello stato di diritto. Almeno un po’ più che le varie Russia, Cina, Iran (e di certo più dell’Italia, almeno in prospettiva storica)[...] Tutti a tirare un sospiro di sollievo che si chiuda il rubinetto del “bullshit” e che si torni a un bel clima di indiscrezioni reciproche, veicolate dai siti di gossip comunemente riconosciuti e segretamente da tutti finanziati e nelle mani delle macchine del fango riconosciute e di rito accettato (pensateci, Wikileaks, all’improvviso e per qualche giorno, ce ne ha liberato. Assange è il disintermediatore della macchina del fango. Se il segreto non è più tale, è il fango stesso che si secca alla luce benefica della trasparenza, dove esistono responsabili, non perseguitati e persecutori). Sì, è un banco di prova questo arresto di Julian Assange: nel momento in cui l’occidente delle democrazie e dello stato di diritto si trova di fronte ad una trasgressione del

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tutto nuova, che propone una rivoluzione del concetto di informazione. Questo “criminale” ci sfida ad essere ciò che diciamo di essere […] E il suo lavoro dovrà essere trattato secondo i principi della libertà di espressione: non con il terrorismo informatico di stato su base planetaria, cui si è dato libera strada in questi ultimi giorni. Altrimenti, alla fine di tutta questa vicenda, cosa differenzierà l’America dalla Russia? L’Inghilterra dalla Cina o dall’Iran? E’ così estraneo alla storia delle democrazie che il cambiamento arrivi attraverso movimenti e pratiche che si presentano all’inizio come strappo e delitto? Rosa Parks non violava la legge? Gandhi non era un criminale per la giustizia inglese? […] L’occidente avrebbe dovuto finanziare Assange, perché creasse reti simili in Russia, Cina, Iran, veri e propri nuclei di resistenza e di sovvertimento civile delle dittature sulla base delle armi di informazione di massa. Altro che imitare gli stati canaglia dove i giornalisti sono uccisi e i blogger incarcerati.” Ma la stessa rottura che si crea con questa vicenda, la stessa disintermediazione della quale il sito si fa protagonista torna indietro a chiedere l'intermediazione del giornalismo per l'analisi di quei 250mila files che presentati così hanno un'intelligibilità tendente allo zero per il cittadino/lettore medio. Così Ezio Mauro su Repubblica il 9 dicembre 2010: “Internet apre la porta del potere, e trasporta nel suo flusso i materiali. Il giornalismo legge quei materiali, e riesce a farli leggere, perché opera per l'intelligenza degli avvenimenti. Questo avviene con l'uso degli strumenti tipici del giornalismo quotidiano, davanti ai grandi eventi e agli avvenimenti minori: la selezione delle notizie, la gerarchia tra i fatti, la relazione tra le vicende, il recupero degli antecedenti, l'individuazione dei protagonisti, palesi o occulti, l'illuminazione degli interessi in gioco, legittimi o illegittimi, alla luce dell'interesse generale. E

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infine, l'esercizio della responsabilità”. Wikileaks è così un terremoto non solo per il mondo diplomatico, ma per quello del giornalismo e per la società occidentale (qualunque cosa significhi una definizione così ampia e generalizzante) tutta, che scopre come la forza della sua apertura può essere allo stesso tempo una debolezza rispetto ai paesi autoritari e nel porvi rimedio rischia di allinearsi proprio ad essi. Infatti, la vicenda viene avvolta quasi immediatamente da iniziative giudiziarie e aloni di complotto: arrivano dalla Svezia accuse di stupro nei confronti di Assange, contro il quale viene spiccato dall'Interpol un mandato di cattura internazionale. L'australiano viene così arrestato il 6 dicembre 2010 dalla polizia di Londra alla quale egli stesso si consegna. Naturalmente nelle settimane successive la Rete reagisce come sa fare: già due giorni dopo i “ripetitori” di Wikileaks superano il migliaio e gruppi di hacker come quelli di Anonymous reagiscono con attacchi DDOS ai circuiti Visa, Mastercard e PayPal, brand rei di aver congelato i conti relativi a Wikileaks su richiesta del Dipartimento di Stato Americano [piccola digressione su Anonymous: nel marzo 2011 il gruppo si rendeva responsabile di un attacco alla Bank of America, della quale venivano resi pubblici documenti riservati e controversi in merito alla vicenda dei mutui americani; nelle stesse ore veniva attaccato anche il collettore di diritti di proprietà intellettuale Broadcast Music Incorporated (BMI). Da segnalare poi domenica 6 febbraio 2011 l'attacco a governo.it, il sito del governo italiano, all'azienda che supportava la cyberdifesa dell'FBI e al sito di Mubarak. Inoltre, gli attacchi di aprile ai siti della Sony e l'annuncio di ottobre 2011 della campagna contro la “parte oscura della rete”, pedofilia in testa. Infine, la “guerra” coi narcos messicani iniziata con il video nel quale nei primi giorni di ottobre 2011 si richiedeva il rilascio di uno degli anonymous rapiti dal

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cartello della droga, pena rivelazioni sugli affiliati. Per alcuni, come per il guru del software libero Richard Stallman, questi gesti sono solo un segno di protesta come può esserlo scendere in piazza a manifestare, e che dunque non è lecito riferirsi agli Anonymous né come hacker né tantomeno come cracker; in ogni caso, gli Anonymous italiani subivano all'alba del 5 luglio un blitz della Polizia informatica che portava all'inquisizione di 36 persone. Nel febbraio 2012 invece l'Interpol arrestava 25 hacktivisti in diversi paesi]. Nelle stesse ore, esordiva il sito “concorrente” Openleaks; fondato da fuoriusciti da Wikileaks in polemica con Assange, il loro obiettivo è rendere la delazione più sicura e dunque più estesa, anche se prima del lancio devono scontare, ironia della sorte, la comparsa su cryptome.org di un pdf contenente i testi del sito di Openleaks e ad i suoi fondatori sfuggito. Anche Amazon intanto sospendeva i servizi cloud che regolarmente Wikileaks gli pagava, creando un problema risolvibile solo essendo ospitati su altri server, disponibili solo tramite IP (i DNS venivano oscurati per prevenire gli attacchi ai quali era sottoposta Wikileaks, prevenzione che comprende anche l'acquisto di nuovi domini). I sospetti su chi ha coordinato gli attacchi diventano angoscianti se si leggono i dispacci di agenzia circolati in quei giorni : "(...) il senatore Usa indipendente Joe Lieberman e i colleghi repubblicani John Ensign e Scott Brown hanno presentato una proposta di legge per facilitare azioni giudiziarie e attacchi informatici contro Julian Assange e WikiLeaks. In un comunicato diffuso dall'ufficio di Lieberman, si spiega che lo "Shield Act" (legge scudo) permetterebbe all'Amministrazione Usa una maggiore flessibilità per attaccare WikiLeaks e il suo fondatore Julian Assange in quanto definisce illegale la pubblicazione dei nomi degli informatori dell'esercito USA e della comunità dei servizi

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di intelligence". Partendo da queste considerazioni il blogger Marco Calamari scriveva su Punto Informatico del 3 dicembre 2010 che la vera pirateria in quelle ore era quella di governi e aziende nei confronti di Wikileaks. Iniziava nel frattempo l'iter processuale che deciderà sull'estradizione di Assange in Svezia; il 23 febbraio 2011 il giudice britannico Howard Riddle concedeva l'estradizione ma anche la possibilità di ricorrere in appello agli avvocati della difesa, cosa che prolungava la permanenza dell'australiano in terra britannica. Il 2 novembre 2011 arrivava anche la sentenza d'appello, che confermava la precedente e lasciava all'australiano e ai suoi legali solo l'ultima spiaggia della Corte Suprema. Dalla Svezia Assange, è questa la vera preoccupazione sua e dei suoi sostenitori, potrebbe essere trasferito negli USA visto il trattato di cooperazioone che dal 1960 lega i due paesi in casi come questo. E negli USA da subito c'è chi ha chiesto di far valere leggi come lo “Espionage Act” del 1971 e dunque l'accusa per Assange sarebbe di attentato alla sicurezza nazionale, una posizione gravissima; per i legali di Assange il loro assistito rischierebbe di finire a Guantanamo prima e alla pena di morte poi. Nel frattempo l'australiano riceveva la libertà condizionata in Inghilterra (condizioni anche abbastanza pesanti, come la cavigliera elettronica per evitare una fuga all'estero). L'estradizione, nel giugno 2012, sembrava inevitabile dopo la decisione della Corte suprema britannica di non riaprire il caso. Tanto che Assange chiedeva asilo politico all'Ecuador , solo pochi giorni prima che gli venisse ordinato di consegnarsi alle autorità di Sua Maestà per essere estradato in Svezia. Asilo che l'Ecuador accettava di concedere inaugurando settimane di tensione davanti all'amabasciata a Londra, dove Assange si rifugiava atteso all'uscita dalla polizia britannica.

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Continuavano intanto imitazioni, blocchi (come la rimozione dell'applicazione di Wikileaks dallo Store della Apple) e nuove rivelazioni dalle ambasciate di mezzo mondo. Un'ingiunzione di un tribunale distrettuale della Virginia obbligava Twitter a fornire al Dipartimento distato americano tutti i dati relativi a Wikileaks (dagli indirizzi IP ai cinguettii fino a tempi di utilizzo e messaggi privati), sollevando ondate di proteste e la promessa da parte di varie associazioni (EFF inclusa) di ricorrere in appello, mentre ad Assange veniva commissionata un'autobiografia da 1,3 milioni di dollari, che l'australiano giura di non voler scrivere ma di doverlo fare per pagarsi le spese legali. Wikileaks, infatti, come annunciato dallo stesso Assange, perde ormai più di 500 mila dollari a settimana; tuttavia, non smettono di arrivare segnali di sostegno da tutto il mondo. Il più eclatante, quello del deputato norvegese Snorre Valen, 26 anni, che ha proposto la candidatura del sito al Nobel per la Pace. Valen ha spiegato sul suo blog: “WikiLeaks ha contribuito alla lotta per difendere i valori di tutta l’umanità, portando alla luce (tra molte altre cose) la corruzione, i crimini di guerra e la tortura - alcune volte anche condotte dagli alleati della Norvegia. E più di recente: divulgando gli accordi economici della famiglia presidenziale in Tunisia, WikiLeaks ha dato un piccolo contributo per abbattere una dittatura durata 24 anni”. Candidatura accettata dalla commissione del premio, insieme a quella di Internet (a sua volta giustificata dalle rivolte in Medio Oriente che a giudizio della commissione senza la potenza della Rete non si sarebbero scatenate). L'eccentrica personalità di Assange lo portava nel marzo 2011, durante un'apparizione alla Cambridge University, a dichiarare cose di questi tipo: “Internet non è una tecnologia che favorisce la libertà d'espressione. Non è una tecnologia che tutela i diritti umani. Piuttosto è una tecnologia che può essere sfruttata per

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mettere in piedi un regime totalitario basato sulla sorveglianza. Che non si era mai visto prima […] Internet ci offre in qualche modo la possibilità di essere informati a livelli senza precedenti, in particolare sulle attività dei vari governi ma è anche la più grande macchina di spionaggio che il mondo abbia mai visto". Dunque non uno strumento di libertà ma un'arma in mano ai sorveglianti (portando come esempio un social network egiziano su cui qualche anno fa operavano alcuni dissidenti ma che era usato anche dai poliziotti per identificare e arrestare), con le organizzazioni come Wikileaks ad operare in quello che è il lato buono della Rete. In ogni caso il paradigma della vicenda sembra fornirlo Evan Hansen, il direttore dell'edizione americana di Wired, il quale nell'editoriale del 7 dicembre 2010 affermava:"Una stampa veramente libera - libera dalle preoccupazioni del nazionalismo - pare sia un problema terrificante per i governi eletti come lo è per le tirannie”.

Alla fine di ottobre 2010 il CEO della Associated Press Tom Curley parlava della possibilità di creare un intermediario per raccogliere i diritti di proprietà intellettuale relativi alle notizie, una sorta di SIAE delle news.

A metà del febbraio 2011 la Apple lanciava un ultimatum agli editori: tutte le app presenti nell'App Store dovranno allinearsi alle disposizioni di Cupertino entro il 30 giugno dello stesso anno, pena l'espulsione.

Nelle stesse ore in Italia la giornalista Valeria Rossi veniva accompagnata presso la Questura di Savona dopo che una decina di uomini di Digos e Polizia Postale avevano perquisito casa sua, la sua auto e la redazione del quotidiano online per

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cui lavorava, Savona&Ponente, sequestrandone tutto il materiale informatico. Anche il sito Savonaeponente.com risulta sotto sequestro; l'accusa è quella di aver diffuso un articolo satirico nel quale si definiva Berlusconi come un “alieno” ma soprattutto si manifestava l'intenzione di ucciderlo. E così, sulla testa della giornalista gravano ora varie ipotesi di reato, dalla diffamazione aggravata alle minacce fino all'istigazione a delinquere. Nel gennaio 2012 invece finiva nell'occhio del ciclone il ledaer di Casapound Gianluca Iannotti, per aver postato uno status nel quale si rallegrava della morte del capo del pool antiterrorismo della Procura di Roma Pietro Saviotti, scatenando ulteriori commenti di giubilo che chiamavano in causa anche la recente morte di Giorgio Bocca. Alcuni dei militanti esprimevano anche il desiderio di nuove dipartite. La Procura di Roma apriva un'inchiesta per rintracciare i responsabili di quella che potrebbe configurarsi come istigazione a delinquere.

In un editoriale apparso sul NYT il 10 marzo del 2011 il direttore del quotidiano Bill Keller definiva gli aggregatori di news altrui uccelli-zecca, animaletti che vivono da parassiti sui dorsi dei grandi animali. E non risparmiava nessuno in questa definizione, arrivando ad inserirvi anche il celeberrimo Huffington Post. La risposta a mezzo internet della Huffington non si è fatta attendere con la rivendicazione che il suo lavoro è a tutti gli effetti giornalismo (curiosità: a giungo 2011, secondo i dati Comscore, il Post superava il NYT in materia di visitatori unici mensili per 36,6milioni a 35,5milioni); si ripropone così il dibattito sostanziale su cosa significa fare giornalismo 2.0, quali sono i suoi connotati e soprattutto quali i suoi limiti per non essere considerato invece saccheggio o parassitismo, ma

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lavoro originale. Dibattito sempre più acceso anche da noi se si pensa alla frase con la quale i membri della giunta esecutiva della Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI), in occasione del 26esimo congresso nazionale del sindacato dei giornalisti tenutosi a Bergamo nel gennaio 2011, hanno definito il lavoro dei nuovi strumenti di comunicazione ”una concorrenza quasi sleale” nei confronti del giornalismo tradizionale, posizione ribadita nella Memoria per la Commissione Lavoro del Senato della Repubblica in merito all’audizione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana del 29 marzo 2011. In quella sede si parlava della necessità di adeguare le norme che regolano l'attività giornalistica “ai tempi che corrono”, visto che la legge professionale risale al 1963 ed è dunque spesso inadatta alle situazioni reali che si incontrano oggi. Si mettevano inoltre in luce dati come la costante e inarrestabile riduzione di pubblicità e vendite nel settore cartaceo e la parallela crescita della pubblicità online (10,5% annuo). Anche la FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali) analizzava in quelle ore questo tipo di dati: nel 2010 le vendite delle copie cartacee sono scese del 4,3 per cento, mentre gli utenti unici giornalieri sul Web sono cresciuti del 37 per cento, con la percentuale di utenti unici di siti di quotidiani sull'utenza complessiva salita in un anno dal 38,3 al 45,4 per cento. E' dunque incontrovertibile che a trainare la ripresa dell'editoria può essere solo il Web.

In un'audizione della fine di marzo 2011 Antonio Catricalà parlava ancora di tutela dei contenuti editoriali tuonando contro tutti coloro i quali, in vario modo nella Rete, "riproducono ed elaborano in vario modo i contenuti stessi, anche per fini di lucro". In questo senso auspicava un nuovo quadro legislativo in materia perché quello attuale non contempla le specificità

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tecniche del mezzo, ma andando oltre le pratiche dissuasive e repressive già sperimentate in Francia; Catricalà sembra orientato più verso modelli di pagamento semplificati (come il recente One Pass di Google che permette di pagare un unico abbonamento per tutti i servizi, fissi o in mobilità) affiancati dalle attività promozionali che spingano verso il consumo di materiale legale.

Sempre nel marzo 2011 Google UK lanciava Think Quarterly, un trimestrale che contiene articoli sul mondo della Rete e delle tecnologie di comunicazione firmati da alcuni dei migliori giornalisti in terra britannica. Un paio di mesi prima l'Antitrust italiano aveva chiuso un'istruttoria nei confronti di BigG in materia di aggregazione e ricerca di news, impegnando l'azienda in vari modi: Google consentirà agli editori di rimuovere o selezionare i contenuti presenti su Google News Italia, renderà note agli editori le quote di ripartizione dei ricavi che determinano la remunerazione degli spazi pubblicitari; BigG rimuoverà inoltre il divieto di rilevazione dei click da parte delle imprese che veicolano pubblicità con la sua piattaforma. Il tutto garantirà agli editori un magiore controolo sia sull'aspetto comntenutistico che su quello economico. Nella stessa sede si chiedeva al Parlamento di ammodernare la legislazione in materia di diritto d'autore online.

Alla fine del marzo 2011 l'app canadese per iPod Zite è stata denunciata da un gruppo di editori (tra i quali Washington Post, AP, Gannett, Getty Images, Time, Dow Jones) che chiedevano di togliere dal suo database ogni contenuto da loro prodotto considerando violazione di copyright il fatto che Zite “riformatta, ripubblica e ridistribuisce i nostri contenuti originali su scala commerciale senza permesso” creando danni

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al loro business. Tuttavia, i vertici di Zite non si scompongono e nell'affermare di aspettarsi da sempre un'azione simile da parte del mondo dell'editoria dichiaravano che il loro obiettivo ultimo è quello di collaborare con gli editori.

Il NYT è a pagamento: introdotti il 28 marzo 2011 i paywall per chi legge più di 20 articoli al mese. Il gruppo Murdoch porta così un'altra gloriosa testata fuori dal mondo del tutto free online, dopo che a luglio 2010 era partito il Times (perso quasi il 90 per cento di pagine viste sui loro siti, da 21 a 2,7 milioni, pur portando 105 mila persone a pagare per leggere i giornali in Rete). Il paywall del NYT risultava comunque da mettere a punto visto che le modalità per bucarlo sembravano parecchie e anche semplici (la sola cancellazione de coockie poteva bastare a far azzerare il conto degli articoli letti; sono poi disponibili funzioni da implementare nel browser che rendono non necessaria neanche la suddetta cancellazione). In ogni caso, dopo tre settimane arrivavano i primi dati significativi: 100mila abbonamenti sottoscritti, e nonostante il giro d'affari complessivo del gruppo vedeva un'ulteriore calo, quello dell'online cresceva, così come la pubblicità (anche qui in contrasto con la diminuzione degli inserzionisti nella carta stampata).Da segnalare anche i primi progetti di giornale tradizionale nella forma ma per iPad: Project di Virgin sul finire del 2007 e The Daily di Ruperth Murdoch, che vede la luce all'inizio di febbraio 2011. Ma se Project riprende più la struttura delle riviste, The Daily riprende quella statica del quotidiano; abbonamenti in stile iTunes e aggiornamenti automatici fanno da sfondo al progetto di Murdoch, che incassa una forte collaborazione con la Apple (soprattutto i termini id sviluppo tecnologico) ma deve anche

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scontare già dalle prime ore la comparsa della versione “piratata” del suo The Daily. Appare comunque ormai irreversibile la fuga su smartphone e tablet.In Italia, in questo senso, ci si è orientati a far cassa più con le applicazioni per il mobile (11 milioni gli italiani che si sono connessi col mobile nel 2010; nel 2012 la spesa per navigare in mobilità schizzava verso gli 800 milioni di euro in un anno).

Il premio Pulitzer 2011 nella categoria National Reporting lo vincono dei giornalisti della testata online ProPublica per la pubblicazione di una serie di articoli sul mondo della finanza; l'anno scorso la stessa testata vinse il premio ma con un'inchiesta che fu comunque anche cartacea. Questa invece è la prima volta che viene premiato un lavoro mai andato in stampa ma diffuso solo in forma di bit.

Secondo Vittorio Zambardino “È cambiato alla radice il rapporto con l’informazione. È stato capovolto: fino agli anni precedenti il successo di Google, si andava a cercare unanotizia alla sua origine o se ne cercava traccia nei portali. Ora semplicemente si cerca la notizia, non il distributore di notizie, e anzi il “mio” distributore di notizie è il motore di ricerca. Il vero schianto della vecchia cultura e della vecchia industria comincia qui, attorno ai primi anni del decennio, con l’affermarsi della cultura-Google, e il contemporaneo fiorire del fenomeno p2p. Il web si pone come luogo di pratiche sempre più squassanti degli assetti costituiti. Di pratiche che sfuggono a tutta la filiera dei controlli dell’establishment. La cultura-Google è soprattutto una disposizione nei confronti del mondo. Fanno davvero grande fatica insegnanti e giornalisti, medici e uomini dell’establishment a cogliere questo aspetto e collocarlo al posto che gli compete nella loro rappresentazione

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del mondo. Se il rapporto è con il piece of information e non più con il veicolo che lo porta, non è il giornalista a essere delegittimato, sono le funzioni della trasmissione disciplinare del sapere che entrano in crisi in modo non reversibile. Come al giornalista, potrà capitare al medico, a cui un paziente potrebbe contestare la versione edulcorata delle possibilità di sopravvivenza a un certo tipo di cancro. Oh certo, con rischi di fraintendimento e di grave disinformazione, chi lo nega? Ma il problema che abbiamo di fronte è questo, ed è inutile esorcizzarlo in mille modi, perfino relegando la prova di Italiano sui “Social network, internet e new media”, come è accaduto alla maturità delle medie superiori del 2009, nell’ambito delle materie “tecnico-scientifiche”.”

A leggere della condanna inflitta al giornale abruzzese Primadanoi non stupisce tanto il fatto che si sia messo il diritto alla privacy davanti a quello di cronaca, ma la mancanza di tempi certi che regolano il diritto all'oblio su Internet e la conseguente arbitrarietà con la quale il giudice unico di Ortona abbia stabilito che la “data di scadenza” era stata superata. E che in ogni caso, quando si deciderà per un risolutivo intervento legislativo, la soluzione non potrà essere imporre agli editori del Web la sistematica cancellazione di notizie vere, come non si può imporre all'editoria tradizionale di far sparire copie di giornali cartacei dopo un lasso di tempi prestabilito. Ripercorriamo la vicenda: marzo 2011 il tema del diritto all'oblio, quando un Tribunale di Chieti, sezione di Ortona, nella persona del giudice Rita Carosella condannava la testata online abruzzese Primadinoi.it a cancellare un articolo riguardante l'arresto di due persone e a risarcire le stesse con +5mila euro per i danni patiti. La vicenda prende vita con il

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pezzo che, pubblicato nel marzo del 2008, dava conto dell'arresto dei due per tentata estorsione; la posizione della coppia veniva in seguito archiviata, ma nonostante l'articolo fosse stato puntualmente aggiornato dai redattori a tre anni di distanza esso va cancellato con la motivazione che “l'articolo, ormai acclarata l'infondatezza delle tesi accusatorie al tempo formulate nei loro riguardi, li danneggiasse nell'immagine, decoro e riservatezza”; il diritto alla privacy veniva così anteposto al diritto di cronaca perché la raccolta e il trattamento dei dati personali hanno superato i tempi di “necessaria conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti e successivamente trattati”, generando così un danno ai soggetti interessati. La testata presentava ricorso con varie tesi difensive: innanzitutto, l'articolo sarebbe rimasto in pagina solo un giorno per poi risultare accessibile solo tramite motore di ricerca; in seconda battuta, il Garante della Privacy aveva sentenziato che l'articolo poteva restare online perché "il trattamento dei dati personali è stato effettuato nel rispetto della disciplina di settore per finalità giornalistiche"; terzo e più importante punto si fa riferimento al fatto che non esistono leggi che prescrivono quanto tempo un articolo debba restare online per non ledere il diritto all'oblio; non esiste insomma una scadenza fissata per legge in questo tipo di casi. Sulla vicenda prendeva posizione anche l'ordine dei Giornalisti d'Abruzzo, sul cui sito ufficiale il 26 marzo 2011 si leggeva: “La sentenza [...] pone seri problemi ai giornalisti nell’esercizio del diritto di cronaca . L’articolo in questione, peraltro, secondo anche il parere del Garante per il trattamento dei dati personali, era stato redatto rispettando i criteri fondamentali del codice deontologico dei giornalisti (verità sostanziale dei fatti, interesse pubblico e continenza nel linguaggio). Se i giornali cartacei possono conservare nei loro

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archivi copie dei giornali pubblicati non si capisce perché i giornali on line non debbano avere la stessa possibilità. Del resto, anche volendo cancellare i dati digitali di una notizia essa rimane indelebilmente presente nelle memorie cache dei motori di ricerca ( feed Rss). Il problema, allora, non è di semplice risoluzione giudiziaria ma occorrerebbe, invece, per il reale esercizio del diritto all’oblio, che il legislatore stabilisca criteri certi e condivisi e non solo a livello nazionale data la complessità della materia e la sua natura globale”. Ma, come detto, il giudice di Ortona ha preferito imporre una data di scadenza.Una decisione che sembra però confliggere con l'impostazione dalla dalla Corte di Cassazione,con la sentenza 5525 dell'aprile 2012. La suprema Corte entra a gamba tesa sul tema del diritto all’oblio, stabilendo che è un dovere dell’editore o comunque del gestore/responsabile di un database Web tenere aggiornati i materiali relativi a procedimenti giudiziari. Il caso è quello di un politico che, coinvolto in tangentopoli ma successivamente assolto, reclamava la rimozione o quantomeno la modifica dell’articolo del Corriere della Sera che parlava del suo caso di imputazione. La Cassazione riteneva lecita la permanenza online dell’articolo ma obbligatorio il suo aggiornamento, così da tutelare sia l’immagine della persona coinvolta che il diritto ad essere informati del lettore. Un'impostazione che veniva recepita nel marzo 2013 anche dal Garante della Privacy.Più intelligente, in ogni caso sarebbe invece, oltre a stabilire il diritto dei “protagonisti” di vicende di cronaca a richiedere l’aggiornamento (e non la cancellazione) delle vecchie news, rimarcare che i responsabili del sito potranno essere incolpati solo in caso di rifiuto o inottemperanza, senza imporre loro l'onere di tenere sempre aggiornati gli archivi. Qui un'analisi dell'avvocato Giusellea Finocchiaro, che parla di “diritto alla

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contestualizzazione dell'informazione”.

Altre vicende in materia: a metà giugno 2011 l'ex senatore della Lega Nord Achille Ottaviani faceva causa a Google contestando al motore di ricerca di riportare come risultato per il suo nome un'autorizzazione a procedere nei suoi confronti del 2006 per un reato dal quale è stato poi assolto tre anni dopo. Ottaviani richiede a Mountain View ben 10 milioni di euro di risarcimento. Proprio Google qualche giorno dopo lanciava il servizio “Me on the Web”, che permette all'utente un più facile e diretto controllo dei risultati che il search engine restituisce in merito al proprio nome. Servizio che può essere utile in casi come quello del dottor Lorenzo Spaggiari o del più noto ex presidente della FIA Max Mosley.

Le problematiche sollevate da queste vicende, evidentemente di importanza fondamentale per lo sviluppo del giornalismo in Rete, sembrano necessitare anche un quadro regolatorio in sede europea. Tornando al marzo 2011, infatti, il Commissario per la Giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza della Comunità Europea, Viviane Reding, in un discorso suddiviso in quattro punti tenuto a Bruxelles nell'ambito della Privacy Platform, annunciava a chiare lettere: ogni azienda del mondo che opera sfruttando i dati di cittadini europei dovrà sottostare alle norme di Bruxelles in materia. La Reding lanciava così i punti fondamentali che guideranno la stesura della nuova direttiva sulla privacy che vedrà la luce nei prossimi mesi per adattare le politiche comunitarie alle evoluzioni tecnologiche sopraggiunte. Innanzitutto, il diritto all'oblio: obiettivo è far si che ogni utente possa avere totale controllo sulla propria privacy storica e la possibilità di cancellare quei dati a disposizione dell'universo social per i quali non sussisterebbe

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più alcun motivo valido affinché restino dove si trovino. Con ciò rispondeva al capo della privacy in Europa di Google, Peter Fleischer, che pochi giorni prima aveva pubblicato una lunga argomentazione sul suo blog personale in materia di diritto all'oblio nell'era digitale, prendendo spunto dalla manifestata intenzione della Commissione Europea di inserire il tema nella prossima Direttiva sulla Privacy; in esso venivano elencati e argomentati vari punti a proposito, specificando però che non doveva essere preso come il punto di vista dell'azienda. Fleischer condanna innanzitutto chi pretende di invocare calunnia e diffamazione con l'obiettivo di censurare contenuti sgraditi anche quando sono veri. Stessa cosa può accadere con il diritto all'oblio qualora si dia al solo soggetto interessato l'arbitrio su cosa cancellare o meno dei contenuti che lo riguardano. Sostanzialmente i temi sui quali egli ritiene si debba interrogarsi sono questi: quali contenuti devono essere eliminati in Rete, a chi spetterebbe questa eliminazione, e infine, con quali tempi e modalità. Punti importanti, visto che risulta implicato sempre e comunque il diritto di manifestazione del pensiero e che dare una scadenza alle informazioni pubblicate online non è una strada totalmente praticabile. Tornando alla Reding, il suo intervento approdava poi alla trasparenza delle politiche degli operatori e gestori degli spazi online, nonché agli obblighi per loro di richiedere autorizzazioni agli utenti ogni volta che cambino gli scopi per l'utilizzo dei dati.

Massimo Mantellini si chiede: che fine fanno dati e profili online delle persone decedute?

Alla fine di maggio 2011 il giornalista di Ragusa Carlo Ruta veniva condannato dalla prima sezione della Corte d'Appello di

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Catania per il reato di stampa clandestina, disciplinato dall'articolo 16 della legge sulla stampa (n.47 dell'8 febbraio 1948). Già condannato dal tribunale di Modica nel 2008, Ruta avrebbe dovuto versare 150 euro di multa; il suo blog Accadeinsicilia, focalizzato su inchieste riguardanti politica e collusioni con la mafia, era stato citato in giudizio dal procuratore della Repubblica di Ragusa Agostino Fera, che si dice danneggiato dai contenuti dello spazio online. A Catania si ribadiva che il blog necessitava di una registrazione presso un tribunale perché deve essere equiparato ad un giornale cartaceo; in mancanza di registrazione avrebbe dunque operato in clandestinità. L'avvocato di Ruta, Giuseppe Arnone, annunciava il ricorso in Cassazione, ritenendo la sentenza “gravemente illiberale in quanto non tiene in adeguata considerazione i principi costituzionali che garantiscono la libertà di stampa e d'informazione: elementi essenziali della democrazia”. Il precedente che si sarebbe andati a creare, infatti, avrebbe rischiato di gettare nella clandestinità migliaia di siti e blog: chi stabilisce la “necessità di equiparazione alla stampa cartacea”?Alla viglia della sentenza di Cassazione l'avvocato Daniele Minotti faceva il punto. Sentenza che, il 10 maggio 2012, metteva una parola fine alla diatriba, stabilendo che un blog non può essere assoggettato alla disciplina della stampa e che dunque non può essere considerato stampa clandestina, semplicemente perché la registrazione è obbligatoria solo per gli editori che intendono accedere ai finanziamenti pubblici.Importante anche la sentenza del tribunale di Pordenone che nel luglio 2012 assolveva Francesco Vanin, responsabile della web tv Pn Box, dall'accusa di esercizio abusivo della professione mossagli dall'ordine dei giornalisti friulano. Per il tribunale “il fatto non sussiste”, e non è dunque necessario

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possedere il tesserino da giornalista per gestire una piattaforma di citizen journalism.

Per fare informazione online occorre essere iscritti all'ordine dei giornalisti? L'odg del Friuli Venezia Giulia sembra pensarla così e porta in tribunale il responsabile di una webtv in quello che Guido Scorza chiama un “attentato all'informazione online”.

Nell'estate 2011 un caso da manuale sull'effetto boomerang che può essere causato dall'affrontare il Web con le armi sbagliate: un blogger critica l'omeopatia in un post che riceve una scarsa attenzione; una multinazionale con una missiva intima al blogger di eliminare i riferimenti ai suoi prodotti, di cancellare il post e al provider di inibire l'accesso al contenuto; il blogger pubblica la missiva; il post in questione, con il corredo di argomentazioni anti-omeopatia, rimbalza dovunque.

Dalla metà di ottobre 2011 il Sole 24 Ore apriva alla possibilità di copiare parte dei propri articoli per un riutilizzo su altri spazi da parte degli utenti; sul modello “alcuni diritti riservati” si passa dalla filosofia del “chi copia ruba” al “chi copia aiuta a diffonderci”. Le modalità di copia sono esposte in un popup che si apre vicino al testo, nel quale campeggia anche la nota:“Grazie per l’attenzione ai nostri contenuti: ci fa piacere che il nostro lavoro sia apprezzato e diffuso. Con questo servizio mettiamo a disposizione alcuni strumenti per facilitarne la condivisione.Gli strumenti proposti consentono di condividere una parte rilevante dei contenuti più brevi ed ampie porzioni dei contenuti più lunghi, oltre la quantità che potrebbe essere

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ritenuta ammissibile dalle norme vigenti in materia di diritto di corta citazione. Per questa ragione, e per eliminare qualsiasi ambiguità, abbiamo ritenuto opportuno associarvi la licenza Creative Commons CC BY-NC-SA.Per redarre questi contenuti sosteniamo costi importanti; i link nel testo che rimandano al nostro sito e qualche pubblicità che potremmo inserirvi ci aiutano a sostenerli.

Alla fine di ottobre 2011 arrivava una sentenza della Corte di Giustizia europea che sembra aprire alla possibilità di denunciare editori e siti di pubblicazione al di là dei confini nazionali.

Pochi giorni dopo sul blog “Il Giornalaio” compariva questa interessate analisi: “Forse il dato più interessante che emerge dall’analisi realizzata è relativo a come, complessivamente, l’informazione online sia decisamente più concentrata rispetto a quella cartacea con le prime 4 testate che raccolgono il 65% degli utenti contro il 49% delle vendite. Una concentrazione che contribuisce a spiegare ulteriormente la difficoltà di emergere da parte delle nuove iniziative editoriali, dei cosidetti 'superblog'. Sotto questo profilo sembrerebbe dunque che la vantata pluralità della Rete sia distante dalla realtà delle cose.”

A novembre 2011 arriva GlobaLeaks , mentre i ragazzi di Occupied Wall Street lanciavano il loro “Journal” indipendente finanziato con il crowdfunding di KickStarter.

Interessante l'ordinanza 337 del dicembre 2011 della Corte Costituzionale sul rapporto tra Internet e stampa; ce ne parla Marco Scialdone.

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Ma basta avere un Pc per essere costretti a pagare il canone Rai? Alla fine, sembra di no. Ma la certezza che ci abbiano provato sarà difficile cancellarla.

Si possono diffondere le notizie di agenzia su Twitter? La domanda scaturisce da un contenzioso tra la Reuters e il giornalista de Linkiesta Fabrizio Goria. Un'analisi di Guido Scorza.

Prestito digitale senza limiti in Italia?

Nel marzo 2012 si prospettava la possibilità di far affluire parte dei finanziamenti pubblici per l'editoria anche alle testate online.

Nel marzo 2012 i maggiori gruppi editoriali del paese creavano il Consorzio per la realizzazione di un'Edicola digitale nella quale un utente potrà trovare, tramite qualunque dispositivo, tutti i quotidiani che decideranno di aderire. Edicola Italiana partiva alla fine dell'anno.

Nel luglio 2012 il “paniere” del Sistema integrato delle comunicazioni (prodotto della legge Gasparri) si allarga alla Rete. A tutto vantaggio di Mediaset.

Nel luglio 2012 il Parlamento approva la conversione in legge del decreto editoria che interviene sulla disciplina degli obblighi di registrazione delle testate online. Si stabilisce che questo onere è a carico solo dei gruppi editoriali che, oltre ad aver fatto domanda di contributi pubblici, superino i 100mila euro di ricavi annui. Si va inoltre a toccare il Sistema integrato delle comunicazioni, il Sic di gasparriana memoria. Per chi

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l'avesse dimenticato, la 112 del maggio 2004, testo firmato dall'attuale capogruppo del Pdl al Senato, fu una raffinata operazione di congelamento dello status quo a tutto vantaggio di Mediaset. Veniva infatti previsto il Sistema integrato delle comuncazioni (Sic), un paniere che delimita un'area entro la quale nessun soggetto può superare il 20% di ricavi complessivi pena l'essere considerato in posizione dominante e dunque lesiva del pluralismo. Detto così sembra una norma di buon senso, se non fosse che il paniere in questione è talmente onnicomprensivo da attenuare la portata dello strapotere dei dupopolisti nel mercato televisivo diluendolo in un più vasto insieme di settori. Un insieme che, e veniamo ai nostri professori, viene ora ulteriormente slargato; nel Testo unico della radiotelevisione, figlio della legge Gasparri, vengono inseriti tra i “ricavi” anche quelli derivanti da “pubblicità on line e sulle diverse piattaforme anche in forma diretta, incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione”. L'obiettivo sembra essere quello di dare all'Agcom maggiore potere di intervento sugli “over the top” della Rete come Google, Facebook e affini. Il che non sarebbe scandaloso se non si stesse considerando, come spiega l'avvocato Guido Scorza su L'espresso, alla stregua di soggetti editoriali alcune imprese del Web che non hanno un controllo di natura, appunto, editoriale su ciò che passa sotto il loro logo. Inoltre, sempre stando all'analisi di Scorza, si sottrae ad un ampio dibattito parlamentare una norma che innesca un effetto domino che abbassa ulteriormente la percentuale di “estensione sul mercato” di Mediaset allargandone, di conseguenza, i confini dell'impero che è già suo.

Nell’agosto 2012 Guido Scorza lanciava l’allarme su un provvedimento preso dalla Federazione italiana editori di

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giornali in merito ad una specie di “cartello dei prezzi” dell’editoria online.

I nuovi tentativi di introdurre la “legge bavaglio” sulla Rete nel settembre 2011 e nell'ottobre 2012.

Nell'ottobre 2012 le federazioni degli editori di Italia, Francia e Germania si univano per richiedere una disciplina comune che garantisca una remunerazione per le testate per i contenuti indicizzati dai motori di ricerca. (Vedi “Update Ue” per le vicende in Belgio, Francia e Germania).

Nel febbraio 2013 il direttore dello sviluppo e innovazione del Gruppo Espresso, Claudio Giua, affermava che “i giornali potrebbero anche fare a meno di Google”. Pochi giorni dopo gli faceva da contraltare il digital editor de La Stampa Marco Bardazzi: “Dobbiamo essere creativi e non cercare capri espiatori”.

Nel maggio 2013 l'Antitrust invitava il Parlamento a varare una legge per la protezione dei contenuti editoriali sotto copyright nel Web.

Un buco di 96 milioni di euro, e per il solo periodo che va dal 2002 al 2006. È il debito che Google avrebbe accumulato nei confronti del fisco italiano, alla luce di 240 milioni di euro di introiti non dichiarati. A sollevare il velo sulla disinvoltura fiscale del colosso di Mountain View, messa in atto tramite un gioco di sponda tra società italiane e statunitensi, alla fine del novembre 2012 è Vieri Ceriani, sottosegretario all’Economia, in risposta ad un’interrogazione del deputato democratico Stefano Graziano. BigG finiva così nel mirino del fisco e,

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contestualmente, del Garante della Concorrenza e dell’Autorità per le Garanzie delle Comunicazioni. L’Agcom aveva infatti messo in luce come il mercato della pubblicità in Rete fosse controllato per il 40% da Google, una “posizione dominante” secondo l’Antitrust.Nelle settimane successive si allargava il raggio d'azione in materia di reporter e finanzieri. Sulle pratiche fiscali di BigG, intanto, il governo inglese chiedeva l'intervento del G8.

Un nuovo atto dello scontro tra editori ed Internet nel novembre 2012 vedeva protagonista l’edicola digitale Avaxhome.ws, che mette a disposizione il download di Pdf di giornali e riviste internazionali. O, almeno, metteva, perché la Procura di Milano imponeva il sequestro d’urgenza della piattaforma dopo al denuncia presentata nel giugno scorso dalla Mondadori. Una procedura inedita, visto che il sequestro avveniva prima del giudizio in Tribunale, e confermava l’atteggiamento del sistema giudiziario italiano nei confronti della Rete: nel dubbio, sequestrare, anche quando poi il provvedimento si rivela eccessivo. In ogni caso gli Isp italiani dovevano bloccare gli accessi alla piattaforma, accusata di ricettazione e violazione di copyright. Poche ore dopo la decisione dei pm, arrivava la conferma del Gip milanese.Nel novembre 2013 simile provvedimento di oscuramento per 12 siti e un'app per smartphone.

Verso al fine di gennaio 2013 Il Sole 24 Ore sterzava verso una redazione più attenta al digitale. Occasione per una ricognizione sulla direzione presa in materia dai giornali italiani.

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Nel maggio 2013 il comma “ammazzablog” si ripresentava per due volte nell'arco di pochi giorni, prima con la riproposizione del “decreto intercettazioni” e poi con un disegno di legge dedicato alla diffamazione a mezzo stampa. Ancora, nuova apparizione alla fine di giugno; il pericolo veniva scampato per l'ennesima volta.

Nel giugno 2013 il Tribunale di Roma sentenziava la non responsabilità della Wikimedia Foundation sull'eventuale portata diffamatoria delle voci di Wikipedia. Il caso vedeva una denuncia presentata da Cesare Previti; il giudice specificava che la fondazione “è un fornitore di hosting piuttosto che di contenuti e come tale non può essere ritenuta responsabile dei contenuti scritti dagli utenti individuali”, chiosando che Previti avrebbe fatto bene a rivolgersi alla comunità dell'enciclopedia online più che al tribunale per veder modificata la voce in questione.

Nel febbraio 2014 il Tribunale di Roma condannava un blogger campano per diffamazione; la particolarità del caso sta nel fatto che il contenuto incriminato fosse ripreso da un articolo presente su L'Espresso in merito al quale la testata e il giornalista erano già stati assolti in un analogo procedimento. A fare la differenza, dunque, la diffusione online e l'attività amatoriale e non professionale dello scrivente. La differenza tra la posizione di un giornalista di carta stampata e quella di chi scrive per testate online era emersa qualche settimana prima con l'apertura di un procedimento nei confronti della freelance Paola Bacchiddu, collaboratrice de Linkiesta.it.

Questione di Privacy

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“Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice civile”. (art. 15 Codice Privacy)

Come svelava Wired.it nel dicembre 2010 su Facebook sono in vendita “pacchetti di fan”, italiani e reali, al costo di 0,018 centesimi l'uno; in pratica, seguendo un annuncio su siocialmarketing.com, alcuni redattori per provare questo servizio compravano fan per una sconosciuta band di provincia che in 21 giorni vedeva incrementare di 1072 il numero dei sostenitori. Impossibile contattare i vertici dell'azienda che metteva a disposizione il servizio, che però dimostrava come si cautelava dai clienti morosi; infatti, sulla bacheca della band compariva la scritta:”stiamo ancora attendendo il pagamento dei 1000 fan, grazie”; insomma, se non lo paghi il lavoro diventa un boomerang per la tua immagine.

Dalla Corea del Sud arrivava nel dicembre 2010 un ultimatum a Facebook in merito alla sua politica sulla privacy; il colosso di Zuckerberg, non prevedendo l'esplicito consenso dei suoi utenti per il trattamento dei dati personali, violerebbe l'articolo 22 della legge vigente a Seoul in materia. Nel paese asiatico sono circa 2,3 milioni i profili sul social network. Nel luglio 2011 invece le autorità coreane diramavano una nuova serie di regole che impongono a chiunque (blogger, utente di social network e affini, ecc.) di indicare i compensi ricevuti in cambio di recensioni favorevoli di prodotti; l'obiettivo è salvaguardare gli utenti da pubblicità camuffate da opinioni genuine, con provvedimenti molto simili a quelli adottati circa un anno prima dalla Federal Trade Commission americana. Arrivando all'agosto 2011 invece il governo sudcoreano pensava a soluzioni che potessero alleggerire i danni provocati

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da attacchi informatici come quelli subiti nelle settimane precedenti, che avevano causato il trafugamento dei dati di circa 35 milioni di netizen; il ministro della Pubblica Amministrazione proponeva così di abrogare le regole che impongono nel paese l'impossibilità di registrarsi ai servizi online con degli pseudonimi, regime che in passato aveva anche fatto desistere Google dall'implementare alcuni servizi in Corea del Sud.

Nell'ottobre 2010 il Garante della privacy obbligava Google a fornire dettagliate indicazioni ai cittadini riguardo i percorsi delle Google Car, così da permettere loro di sottrarsi alla cattura di immagini del servizio di mappatura stradale. Nello specifico, sul proprio sito la società di Mountain View dovrà pubblicare gli itinerari delle Gcars tre giorni prima che vadano in strada e gli stessi veicoli dovranno essere resi riconoscibili. Per le città sono contemplati anche annunci su giornali e radiofonici. Si tratta del primo provvedimento del genere in Europa. Solo pochi giorni prima la Procura di Roma apriva un'inchiesta su Google Street View nella quale si muoveva un'accusa contro ignoti per interferenza illecita nella vita privata. Il tutto traendo spunto dalle conclusioni dell'istruttoria del Garante della privacy in merito all'acquisizione illecita (e stando a quanto dichiarano i dirigenti di BigG accidentale) di dati provenienti dal wireless. La procura vuole analizzare questi dati nel dettaglio per assicurarsi che non sia stata appunto compiuta una violazione della riservatezza tale da configurare un reato. Questo tipo di dibattiti generano anche curiosi fenomeni, come nel novembre 2011 quando nella cittadina di Essen, nella parte occidentale della Germania, cittadini “fan di Google” lanciavano uova contro le abitazioni di chi aveva sfruttato l'opzione di opt-in prevista per lo Street

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View, rendendo così irriconoscibili le abitazioni stesse su Internet. Google si affrettava comunque a prendere le distanze da questo tipo di manifestazioni di “solidarietà” nei confronti dell'azienda.

Arrivava negli ultimi giorni di marzo 2011 un accordo tra Google e la FTC, dopo un'ammissione di colpa da parte di BigG in merito alla violazione della privacy perpetrata inserendo gli utenti di Google nella rete Buzz con pratiche ingannevoli: Google Buzz sarà monitorato per i prossimi 20 anni, con l'azienda di Mountain View impegnata a rivedere ogni due anni le policy in materia di privacy nonché a chiedere esplicito consenso agli utenti per ogni singolo cambiamento che coinvolga il trattamento dei dati personali. Nelle stesse ore però Google scontava la denuncia che gli veniva presentata contro da Microsoft presso le autorità antitrust europee per la posizione dominante sul mercato dei motori di ricerca nella regione (95% per Mountain View). Le nuove norme europee non puniscono in realtà il monopolio, ma il suo abuso e le tecniche utilizzate per mantenerlo; tecniche che secondo Microsoft consisterebbero nel rendere più difficile l'accesso degli altri motori di ricerca e sistemi operativi di smartphone concorrenti a proprie piattaforme come Youtube e molto altro. In questo tipo di processi Google è già immischiato in Texas e a New York, mentre Ohio e Wisconsin stanno prendendo in considerazione azioni simili. Tornando alla citazione europea, si contestano a Google anche la poca trasparenza nei confronti dei suoi inserzionisti (che sembrano non avere accesso ai dati inseriti) e il fatto che BigG avrebbe stretto accordi con importanti siti per limitare la diffusione sugli stessi dei search box dei concorrenti e rendere per loro le inserzioni più care.

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E' forse questa la risposta all'accusa che Google aveva lanciato poche settimane prima a Bing: il search engine della Microsoft ruberebbe i risultati di BigG. Certo che alcune delle prove portate in merito dai responsabili di Google sono anche abbastanza convincenti, come quando l'ingegnere dell'azienda di Mountain View e responsabile per gli algoritmi di ranking Amit Singhal postava sul suo blog i risultati di un suo “esperimento”: aveva inserito sul motore di ricerca di Mountain View i risultati per ricerche incomprensibili e risposte tarocche, tutto reperibile nella stessa identica maniera su Bing poco tempo dopo. Naturalmente da Redmond, sede della Microsoft, si respinge ad oltranza l'accusa di plagio anche con giri di parole da contorsionisti, fino a spostare l'attenzione prima denunciando a parole il fatto che Google trarrebbe profitto dallo spamming (troppe mail del genere presentano Google Ad) e poi in tribunale, come abbiamo visto qualche riga su. Alla fine di maggio 2011, inoltre, Google veniva pescata a indicizzare milioni di immagini delle anteprime di Bing; da Mountain View si spiegava che si tratta semplicemente di immagini presenti sul Web e per questo rintracciate dai software del search engine, anche se si precipitava ad interrompere la pratica.

Google scontava nelle stesse ore una denuncia da parte della Federazione Nazionale Statunitense dei Ciechi (NFB): la decisione presa da New York University e Northwestern University di utilizzare Google Apps for Education discriminerebbe gli studenti non vedenti in quanto Gmail e le altre applicazioni del pacchetto non sono perfettamente funzionali con il text-to-speech; una sorta di “barriera architettonica digitale” dunque, che si pone in violazione

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dell'Americans with Disabilities Act e del Rehabilitation Act.

Febbraio 2011, nuovi meccanismi di sicurezza su Facebook: si potrà impostare di default ogni attività sul social network sul più sicuro protocollo https (con le controindicazioni di una maggiore lentezza e la possibilità di trovare spazi del sito ancora non abilitati) e verrà chiesto di identificare una foto presa dalla contact list di un singolo profilo quando a questo si cercherà di entrare da due o più luoghi diversi. Facebook aveva comunicato qualche ora prima ai suoi sviluppatori che alcune applicazioni del sito avrebbero potuto utilizzare indirizzi e numeri di telefono degli utenti qualora essi li avessero messi sulla sezione pubblica del profilo. In aprile invece risultava in stand by una curiosa funzione del social network; si leggeva infatti tra le opzioni (molto nascosta) questa dicitura: “Ci siamo associati con alcuni siti per fornirti il massimo della personalizzazione nel momento in cui li visiti, come per esempio eseguire immediatamente la musica che ti piace o mostrarti le recensioni dei tuoi amici. Per costruire la tua esperienza personale, questi partner accedono solo ad informazioni pubbliche (come il tuo nome e la foto profilo) e le informazioni disponibili per tutti”. Subito dopo l'elenco dei siti “consociati” che in pratica avranno a disposizione i dati degli utenti del social network per fare questa personalizzazione; si può disattivare l'opzione sia dalle impostazioni del proprio account sia ogni quando si visiterà per la prima volta uno dei suddetti siti. Ma le questioni sono: il fatto che è molto nascosta, il fatto che se non visito mai quei siti non potrò mai impedirgli di venire in possesso dei miei dati e soprattutto di default questa opzione è attivata. Su queste questioni il social network in blu veniva anche “interrogato” a mezzo lettera da congressisti americani (vedi “USA”).

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Il 25 maggio 2011 scade il termine ultimo per l'attuazione delle norme contenute nella direttiva cosiddetta e-privacy 2009/136/CE; essa modifica la 2002/58/CE che riguarda il trattamento dei dati personali e la tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche. Questa nuova direttiva contiene alcune importanti prescrizioni: la prima è il “security breach notification”, secondo il quale il fornitore di comunicazioni elettroniche in caso di avvenuta violazione di dati personali deve comunicare tempestivamente sia all'autorità sia ai soggetti interessati, corredando il tutto col dettaglio delle misure che intende implementare per attenuare gli effetti delle violazioni. Subito dopo le nuove regole sui cookie, per l'utilizzo dei quali occorrerà sempre l'esplicito consenso dell'utente (la conferma del garante anche nel gennaio 2013; nelle stesse ore dalle colonne del Corriere Economia un viaggio in una giornata all'insegna del tracking e dei big data). Lo stesso regime varrà per le comunicazioni commerciali, che dovranno prevedere anche espliciti meccanismi di opt-out.

Il 3 giugno 2011 finiva in Gazzetta Ufficiale il provvedimento n.127 del Garante della Privacy italiano, con il quale si emanavano nuove regole in materia di accesso online ai dati bancari. In sintesi, l'accesso dei dipendenti di banche e istituti postali ai dati dei clienti sarà sottoposto ad un dettagliato tracciamento.

Nelle condizioni d'uso di Google è possibile leggere esplicitamente: “E' possibile che dati aggregati non personali vengano condivisi con terze parti esterne a Google”. Non si fa riferimento alla pubblicità, ma ci si arriva per logica.

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Il 22 giungo 2011 il Garante della Privacy Francesco Pizzetti diffondeva la sua Relazione Annuale; tra gli argomenti trattati, la privacy al tempo del “cloud computing” (in merito al quale si diffondeva un'apposita guida) e l'immagazzinamento di dati di geolocalizzazione praticato dagli smartphone.

Con un provvedimento all'inizio di agosto 2011 il Garante della Privacy ribadiva l'obbligo per i siti online di oscurare numeri di telefono, delle targhe atuomobilistiche, degli indirizzi di residenza e domicilio riferiti alle persone citate in un provvedimento giudiziario di custodia in carcere; alla base c'è il rispetto del principio di pertinenza.

Nell'agosto 2011 Linkedin veniva “pescata” in un'illecita azione di revisione delle policy sulla privacy. Sul social professionale erano state infatti implementate funzioni che producevano banner pubblicitari con le foto degli utenti, facendoli diventare testimonial inconsapevoli dei prodotti; non erano infatti richieste autorizzazioni per questo utilizzo delle foto e dei dati e la disabilitazione della funzione era nascosta tra le pieghe dei menu. Modifiche e scuse da Linkedin sono arrivate subito dopo le segnalazioni.

Nel novembre 2011 una sentenza ribadiva la validità della firma digitale nei contratti di natura bancaria e finanziaria digitali. Entro il 29 novembre 2011 poi, ogni società di persone e di capitali avrebbe dovuto dotarsi di una casella di posta elettronica certificata; il giorno della scadenza la copertura era del 62% e si pensava ad una proroga delle scadenze (il ministero dello Sviluppo Economico invitava le Camere di Commercio a non applicare la sanzione prevista), proroga che faceva slittare la scadenza al 30 giugno 2012. L'avvocato

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Marco Scialdone spiega come è intervenuta in merito la Legge di Stabilità di due settimane prima; intervento anche sul fatto che non è necessaria la presenza del notaio per attestare la validità della firma digitale nell'ambito del trasferimento di quote di s.r.l.Guido Scorza parla invece del “prepensionamento della CEC PAC” e dei dubbi in merito alla validità di “raccomandate elettroniche” senza firma.

La non eccedenza dei dati nei form di registrazione non fa certo eccezione per le università.

Il 18 novembre 2011 Martina Saporiti ci spiega su Wired come Facebook “pedina” i suoi iscritti (e non).

Alla fine di novembre 2011 Facebook diffondeva un documento nel quale si descrivono le prassi con le quali il scoial network si interfaccia con le forze dell'ordine.

“Chi di voi ha un iPhone? Chi ha un blackberry? Chi usa Gmail? Beh, siete tutti fregati”. Parola di Julian Assange , che presenta il 1 dicembre 2011 i “leaks” relativi a 160 aziende sparse in 25 paesi ed impegnate nella messa a punto e fornitura di tecnologie per l'intercettazione ed ill controllo dei contenuti e comunicazioni che viaggiano online. Ci sono anche sette aziende nostrane.

La manovra del dicembre 2011 targata Mario Monti interveniva in maniera importante in materia di codice della privacy; tuttavia secondo gli avvocati Lisi e Garrisi non cambia quasi nulla. Alla fine di gennaio ci tornava su l'avvocato Giusella Finocchiaro, seguita dall'avvocato Valentina Frediani.

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Ancora l'avvocato Finocchiaro all'indomani della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto “Semplificazioni”.

Incisive modifiche alle regole della privacy per i servizi di Google venivano annunciate nel gennaio 2012 per entrare ufficialmente a regime il primo marzo successivo. Quasi scontato, si sollevava una marea di reazioni polemiche all'annuncio. All'inizio di febbraio “Articolo29” (organismo europeo che si occupa della tutela della privacy nel Vecchio Continente) scriveva a Google chiedendogli di non applicare le modifiche prima di una attenta analisi degli organismi comunitari. Mountain View faceva però sapere di essere intenzionato ad andare avanti. Qui l'analisi di Wired.

Sull'accesso ai sistemi protetti: si può essere in abuso anche quando si è autorizzati all'accesso.Path e gli altri social che memorizzano le rubriche degli utenti. Evgeny Morozov propone una “polizza per la reputazione online”.

Nel maggio 2012 il Garante della privacy difffondeva un vademecum sul corretto utilizzo del cloud computing da parte della pubblica amministrazione.

Nel luglio 2012 i vertici di Facebook ammettevano la presenza di un software sul social network che scandaglia tutti i contenuti di posta e chat private per individuare contenuti crimininosi come, ad esempio, l'adescamento di minori da parte di pedofili.

La fine di ottobre 2012 è caratterizzata dai pericolosi

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emendamenti inseriti nella legge “salva Sallusti”, che sembrano però rientrare dopo le proteste e le manifestazioni. Scettico l'avvocato Fulvio Sarzana.

Nell'aprile 2013 i garanti della privacy di Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi e Spagna aprivano un'istruttoria in merito alle nuove in materia di privacy di BigG.

Nel luglio 2013 il Garante impediva ad un provider di profilare gli utenti a scopo pubblicitario senza esplicito consenso degli stessi.

Tra il giugno e il luglio 2013 due sentenze opposte sulla possibilità di utilizzare i messaggi e le chat private sui social network come prove in un processo. A marzo, invece, un giudice di Torino aveva giudicato ammissibili come prove alcune mail ottenute senza il consenso del titolare.

La neutralità della Rete

Legge Vita-Vimercati "Disposizioni per garantire la neutralità delle reti di comunicazione, la diffusione delle nuove tecnologie telematiche e lo sviluppo del software libero", 23 luglio 2009, "Lo Stato italiano, nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale, promuove lo sviluppo della società dell’informazione e della conoscenza al fine di garantire la neutralità nelle condizioni di accesso alle reti di comunicazione elettronica (…)"

Il 29 settembre 2010 l'unione Europea adotta la Dichiarazione sulla Neutralità della Rete; partorita dal Comitato del

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Consiglio dei ministri continentale, in essa si adottano principi basilari in materia di Net Neutrality: solo ragioni di interesse pubblico maggiore possono portare a decisioni contrarie alla non discriminazione del traffico online, la concorrenza neutrale è il migliore degli scenari nei quali il mercato può progredire, innovarsi e svilupparsi. Non è mancato chi ha sottolineato la genericità delle dichiarazioni. Inoltre più di un operatore in Europa (compresi i vertici dell'inglese O2) aprono alla fine della neutralità, riflettendo in parte lo scontro che in USA si è ormai creato tra operatori contrari alla neutralità che organizzano vere e proprie campagne per convincere gli utenti di quanto genuina possa essere anche l'imposizione di costi aggiuntivi per determinati contenuti, come nel caso di Allott e Openet mentre l'FCC di Genachowski, intenzionata a difendere la Net Neutrality a spada tratta, ridiscuteva le regole del web a stelle strisce proprio in questo senso nel dicembre 2010.Ridiscussione che riportava a Natale 2010 nella cassetta degli attrezzi dell'FCC il potere sanzionatorio nei confronti degli operatori rei di aver violato la NN. Durissimo il colpo per Verizon e Comcast, che vedranno così annientate le possibilità di continuare a discriminare il traffico che passa sulle loro reti. La FCC arrivava ad indire un concorso per la creazione di app che possano monitorare gli operatori e segnalarne le infrazioni in materia di NN. Aperto il plauso al documento da parte di Obama. Verizon comunque non ci sta e la guerra ha inizio: secondo i legali di Verizon la FCC non ha alcuna autorità nel diramare regole così restrittive nei confronti degli operatori, facendo scattare così la citazione in giudizio per Genachowski e soci, venendo subito appoggiata da altri grandi operatori del paese, tra i quali la statunitense MetroPSC, da mesi impegnata nella promozione di “pacchetti premium” che

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permettano con un sovrapprezzo la fruizione di servizi online a velocità e qualità maggiori. L'attacco alle regole di Genachowski sembra ignorare un punto che ha invece infastidito non poco i difensori della NN: il fatto che le regole antidiscriminazione non si applicano agli operatori mobile. In ogni caso resta rumorosa e intenzionata a non mollare la fazione di repubblicani pronti a tutto pur di mettere i bastoni tra le ruote di Genachowski, arrivando a presentare progetti di legge che oltre a prevedere una limitazione dell'ambito d'azione dell'FCC ipotizzano tagli ai fondi destinati alla commissione stessa. In occasione del convegno “Giochiamoci il futuro” tenutosi a Capri nell'ottobre del 2010 l'allore presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà (nel frattempo diventato sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo Monti) si schierava contro la Neutralità della Rete, indicandola come un ostacolo allo sviluppo della Rete stessa: “La neutralità della rete è un tabù che ostacola la creazione dell'Ngn (Next generation networking)”, ha affermato Catricalà, aggiungendo: “E' giusto che i fornitori di contenuti più pesanti paghino di più la banda”, così da renderebbe possibile la copertura dei costi di creazione della nuova infrastruttura di Rete. Dalla parte opposta, chi lo critica dicendo che così però il mercato dei contenuti sarebbe ancor più oligopolistico permettendo l'accesso solo a chi si può permettere di pagare di più al gestore per la banda. Nella stessa sede comunque, Catricalà ha giudicato positivamente l'idea di un'alleanza per la fibra, che nei primi giorni aveva snobbato, ammettendo di aver sbagliato,e rivendica l'autonomia della sua azione nei confronti di un governo che critica per il congelamento dei fondi del piano Romani.

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Fondamentale per gli scenari futuri sarà anche la cultura che si diffonderà tra i naviganti nel futuro rispetto alla possibilità di pagare i contenuti.

Sulla stessa lunghezza d'onda Franco Bernabè, che Il 14 marzo diventava presidente di Telecom. Un mese prima in un'intervista al Times Bernabè dichiarava che grandi imprese dell'online come Google e Facebook fanno un'ampio uso delle reti dei provider ma non ne contribuiscono allo sviluppo; dunque, tenendo saldo il principio di net neutrality, andrebbero comunque obbligati a questo tipo di partecipazione, che tradotto, significa obbligati a pagare dazi per la grande occupazione di banda; un punto di vista ribadito nel novembre 2012 nel saggio “Libertà vigilata”, dove Bernabè considera necessaria una “seconda Internet”.Interessante è anche l'intervista che, ad inizio giugno 2011, Marco Patuano rilasciava appena eletto nuovo Amministratore Delegato di Telecom Italia.

Le questioni legate alla neutralità della Rete coinvolgono ancheil mondo del copyright; ad esempio, forti attriti si sono creati in Francia tra MegaUpload e il provider Orange, reo di aver rallentato e in certi casi soffocato il traffico verso la piattaforma di file sharing, magari in ossequio alle richieste di qualche major. Accuse respinte al mittente da Orange che ascrive le cause del disservizio al fatto che MegaUpload si sia servita di operatori low cost che le hanno permesso di risparmiare ma risultano inaffidabili; c'è chi ha fatto comunque notare che i servizi di hosting interessati nella vicenda (i carrier in questione sono Cogent e TATA) siano in realtà considerati tra i più affidabili in circolazione.

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Ancora casi di operatori mobile che sfruttano la possibilità di gestire la banda: nelle nuove offerte di base Vodafone non ci sono VoIP e P2P. Decisione fortemente criticata da Skype, che chiama in causa esplicitamente la neutralità della Rete e le regole che dal maggio 2011 tutti i paesi dell'UE saranno obbligati ad adottare per la tutela della NN. Dalle parole di uno dei dirigenti di Skype, Jean-Jacques Sahel: "Skype è fermamente convinta che dovrebbero essere gli utenti di Internet, e nessun altro, a scegliere cosa fare online".

Nel primo trimestre del 2010 il volume di traffico sul 3G mobile ha raggiunto 24.743 terabyte scambiati (+101% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente). La tendenza di network management emersa in tutti gli operatori mobile nell'ultimo anno ha spinto l'Agcom a proporre una consultazione pubblica che dall'inizio di marzo 2011 si propone di individuare le linee che dovranno guidare la regolamentazione di questo settore. In Inghilterra a vegliare sulle politiche degli ISP sarà Tim Berners-Lee; l'ideatore del www sarà così impegnato in aiuto al Broadband Stakeholder Group, il gruppo voluto dal governo di Londra per tutelare i vari interessi in gioco. Il compito di Berners-Lee sarà quello di assicurarsi che le politiche di sviluppo dei provider siano slegati da interessi aziendali così da preservare la neutralità della Rete in terra inglese.

Ancora Network Management: molto chiare le intenzioni che Telecom manifestava in una comunicazione rivolta ai suoi utenti intitolata “Novità per la gestione dei servizi ADSL” del marzo 2011: “Allo scopo di garantire l'integrità della rete e il diritto da parte della generalità degli utenti di accedere ai

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servizi di connettività ad internet anche nelle fasce orarie in cui il traffico dati è particolarmente elevato, Telecom Italia, nel rispetto del principio di parità di trattamento e ove necessario, si riserva la facoltà di introdurre per tutte le offerte e/o i profili commerciali che prevedono traffico dati su tecnologia ADSL, meccanismi temporanei e non discriminatori di limitazione all'uso delle risorse di rete disponibili. A tal fine Telecom Italia potrà limitare la velocità di connessione ad Internet, intervenendo sulle applicazioni che determinano un maggior consumo di banda (peer to peer, file sharing ecc.), limitando la banda destinata a tali applicazioni ad un valore massimo proporzionale alla banda complessiva disponibile sul singolo DSLAM" . L'Associazione Italiana Internet Provider aveva già apertamente accusato Telecom di violare il principio della net neutrality invocando l’intervento dell’Agcom. Certo non siamoad una versione italiana di Comcast, ma è chiaro che Telecom

si organizza per gestire quantità e qualità del traffico che passa

per le sue reti, e nessuno ci assicura che lo faccia in totale buona fede e per il bene dei suoi utenti. E soprattutto gli utenti vengono chiamati a sottoscrivere un

contratto ma con la consapevolezza che da un momento all'altro il gestore di rete può decidere di negare l'accesso a determinati contenuti, come ad esempio, per dirla con Guido Scorza, sottoscrivere un contratto con una compagnia elettrica che può decidere se inviare energia al televisore o al frigorifero a suo piacimento. Insomma, costofisso ma servizio variabile. Infine, quali sarebbero gli strumenti per capire quando Telecom sta attuando net management? Agli utenti che sembrano insomma scaricati i costi figli della miopia di chi ha pensato più a massimizzare le entrate a breve termine che a pensare al futuro, mettendo un'ulteriore toppa su una

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situazione al limite del collasso. A cercare di rassicurare gli utenti ci provava la stessa Telecom: rispondendo alle domande del blogger Stefano Quintarelli, la compagnia precisava che gli interventi sarebbero stati fatti tarandoli sulle aree dove si intravedono congestioni agendo non sul singolo cliente ma sulle applicazioni, arrivando così a dichiarare, per bocca di Salvo Mizzi, oggi responsabile della divisione Internet Media & Digital Communication di Telecom Italia: “le applicazioni VoIP, compresa Skype, non saranno oggetto di alcuna limitazione. Gli unici applicativi P2P che saranno limitati (temporaneamente e solo in casi di congestione) sono quelli dedicati allo scambio di file. Che occupano - negli orari di picco - oltre il 30 per cento di banda downstream”.

A metà febbraio 2011 il senatore e capogruppo del Pdl in Commissione di vigilanza Rai Alessio Butti presentava il disegno di legge “Disposizioni per garantire i principi di neutralità della Rete e promuovere condizioni di concorrenza e sviluppo sostenibile nel contesto di Internet” che intende "favorire le condizioni per la massima diffusione di Internet ed il superamento del divario digitale in un contesto di mercato e di concorrenza". All'art.3 comma 1 si prevede che il Ministero dello Sviluppo Economico, d'intesa con le regioni, adotti un programma triennale di sviluppo e diffusione della connettività a banda larga, affidando all'Agcom il compito di sorvegliare affinché i provider non violino la neutralità della Rete.

In Italia gruppi come NNSquad (http://www.nnsquad.it/) per la difesa della neutralità; in giro per il mondo iniziative come The Open Internet (www.theopeninter.net/)

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Nel già citato articolo del 22 novembre 2010 che Tim Berners-Lee firmava su Scientific American dal titolo “Lunga vita al web” (vedi “In principio era ARPANET”) era presente una perorazione a favore della neutralità della Rete (vedi “Italia”), chiedendo ai lettori/utenti:”Cosa succederebbe se il vostro provider vi offrisse una connettività più veloce per raggiungere un determinato negozio online di scarpe e al contempo vi complicasse l'accesso agli altri? Sarebbe un controllo molto potente. E cosa succederebbe se il vostro provider vi complicasse l'accesso a determinati siti, che parlino di una fazione politica o di una particolare religione?”. Per sir Tim sarebbe un venire meno ai principi fondamentali della democrazia e della libertà, quegli stessi dai quali la rete ha finora tratto la sua forza.

C'è anche chi si interroga sulla “search neutrality”, considerandola il problema da afforntare subito dopo aver risolto quello della neutralità della rete; e chi, come il un giurista della New York Law School James Grimmelmann, afferma nel suo saggio Some skepticism about search neutrality che la neutralità della ricerca web è una chimera irrealizzabile, e che anche se fosse realizzata, potrebbe rivelarsi persino dannosa per l’utente.

Il 28 maggio 2011 Stefano Quintarelli proponeva una brillante analisi sulla situazione della Net Neutrality sul suo blog.

All'inizio del 2013 dalle colonne de L’Espresso arrivava la notizia che Telecom si apprestava a lanciare una “Internet 2” dedicata a chi, come Rai e Mediast, vuole distribuire contenuti multimediali direttamente agli utenti senza doversi mettere sullo stesso piano di tutti gli altri distributori. Detto in altre

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parole, l’alternativa alla violazione della neutralità della rete: l’autostrada telematica si apre su un altro spazio dove il fornitore di banda può chiedere un pedaggio, a differenza di quanto non può fare (ma vorrebbe tanto) sulla “Rete di tutti”.

L'argomento degli “over the top che devono retribuire le telco per risarcirle dello sfruttamento che fanno delle loro reti” sembra essere poco sostenuto dai numeri.

Conclusioni

Di scuro non cambia l'impressione manifestata nelle conclusioni di “Italia”: la nostra classe dirigente è un misto di conservatorismo, incompetenza e interesse personale, d'azienda, di partito o di categoria. Risultano ripetuti e sistematici i tentativi di ostacolare lo sviluppo della Rete e delle libertà ad esse connesse tramite burocrazia, oneri e balzelli.Senza contare che l'OpenNet Initiative classifica l'Italia tra i paesi nei quali è applicato un selettivo filtraggio per i contenuti online della sfera “sociale”.

Per quanto riguarda lo sviluppo delle infrastrutture di rete, uno studio condotto dalla Banca Mondiale nel 2010 dimostra come un 10% di aumento della penetrazione della banda larga stimolerebbe un aumento dell’1,21% del PIL pro capite (dati confermati da uno studio Ericsson del novembre 2011, nel quale si legge anche di come ogni 1000 linee broadband si creino 80 posti di lavoro; dati ulteriormente confermati da un rapporto McKinsey di poche settimane prima), un impatto maggiore di quello che hanno avuto a loro tempo Internet, telefonia fissa e mobile. La Commissione Europea parlava a

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sua volta della creazione di 2,1 milioni di posti di lavoro nel periodo che va dal 2006 al 2015, che sarebbero comunque un milione nello scenario peggiore e al netto di quelli persi. Anche l'Agcom diffondeva uno studio nel quale si affermava che se la banda larga arrivasse al 60% delle famiglie e al 90% delle imprese, il potenziale dell'economia italiana sarebbe tra l’1,2 e il 12,2% del Pil. Il problema reale per noi è che l'immobilismo fa sfumare queste possibilità, che ogni giorno che passa diventano sempre meno realizzabili a pieno. All'inizio di febbraio 2011 arrivavano, in materia di fibra ottica, i dati aggiornati dell’organizzazione Fibre To The Home Council Europe (Ftth), che vedevano il nostro paese posizionarsi al 25° posto, davanti alla sola Turchia tra i paesi che hanno una penetrazione superiore all'1% (siamo all'1,55%). Al primo posto in Europa c'è la Lituania (più del 22%), mentre nel mondo capofila è la Sud Corea (quasi 55%) , seguita da Giappone, Hong Kong, Emirati Arabi Uniti e Taiwan. Magra consolazione, anche Gran Bretagna, Germania e Spagna si trovano in ritardo.

Durante un incontro organizzato a Roma da Confindustria nell'ottobre 2010 emergeva come le società di telecomunicazione investano annualmente circa 6-7 miliardi di euro (15% dei ricavi) per lo sviluppo delle infrastrutture, nonostante la flessione dei ricavi renda i costi di questi stessi investimenti non ammortizzabili nel brevissimo periodo.

Novembre 2010: Sergio Chiamparino, in qualità di presidente dell'Associazione nazionale comuni italiani (Anci) sottoscriveva un protocollo d'intesa col ministro Paolo Romani per la messa a punto di soluzioni in materia di banda larga che siano tarate sulle specificità ed esigenze di comuni italiani.

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Il Comitato NGN, presieduto da Francesco Vatalaro vedeva invece a settembre 2010 l'uscita di Fastweb, Tiscali e Wind.L'Agcom alla fine di gennaio 2011 indicava “Cinque pilastri” sui quali costruire l'impianto regolamentare per le reti di nuova generazione: riconoscimento della competizione quale principale driver degli investimenti; imposizione degli obblighi di accesso simmetrico alla tratta terminale dell'edifico; necessità di riconoscere la rischiosità dell'investimento nella realizzazione di reti Nga nel caso di obbligo di accesso da parte di terzi; considerazione delle differenze geografiche e conseguente flessibilità regolamentare; incentivo alle situazioni di co-investimento. Il problema resta sempre la “rete di accesso”, i 35 milioni di chilometri di fili di rame che arrivano nelle case, che coinvolgono cioè il discorso sull' “ultimo miglio” e rappresentano il vero patrimonio di Telecom Italia. Alcuni operatori non superano lo 0,2-0,3% di rete in fibra, il che significa che in Italia non c’è altra rete al di fuori di quella di Telecom Italia tanto che gli altri operatori devono affittare la rete da Telecom per offrire servizi alla clientela finale in base alle tanto discusse tariffe di “unbundling” e “bitstream” fissate dall’Agcom. Secondo i dati Agcom,il 73,5% del mercato complessivo del fisso (cioè 9,02 miliardi di euro su 12,27) è in mano a Telecom Italia, al pari del 56,2% (2,21 mld) di quello degli accessi in banda larga (3,94 mld). In poche parole, forte dominio di Telecom nell’ingrosso (infrastrutture per gli operatori) e sostanziale nel dettaglio. All'inizio di settembre 2010 l'Agcom approvava lo schema di provvedimento che prevedeva aumenti per il cosiddetto “affitto dell'ultimo miglio” per le compagnie che sfruttano le reti di Telecom, incrementi bocciati qualche settimana dalla commissione Europea, che spiega:"il regolatore non sembra aver utilizzato i dati di una

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società efficiente che gestisce una rete in rame di nuova costruzione", invitando l'Agcom a rivedere (al ribasso) i suoi calcoli, mettendo in conto anche il fatto che al di la dei modelli di calcolo sono le grandezze degli indici ad essere sotto accusa. Ad esempio, il “tasso di guastabilità”: quello dichiarato da Telecom è del 12%, quello considerato dall'Agcom è del 22,5%, il che fa lievitare i costi di manutenzione aumentando appunto gli affitti. E così in novembre l'Agcom approvava un nuovo provvedimento con le tariffe riviste al ribasso. Bisogna stare attenti a simili episodi, perché come ammonisce Giovanni Floris “il monopolio delle telecomunicazioni, uscito dalla porta della telefonia, rischia di rientrare dalla finestra della banda larga”.Nel frattempo si pensava alla forma da dare alla newco una volta in fase operativa; già a novembre 2010 Paolo Romani aveva firmato un Memorandum of understandig con gli operatori (Vodafone, Fastweb, Tre, Wind, British Telecom, Tiscali e Telecom) nel quale le parti in causa trovavano un punto d'incontro sulla realizzazione delle infrastrutture passive, cavi, cavidotti e centraline che raggiungono le abitazioni, formalizzando l'intesa tecnica raggiunta a fine settembre; così, a febbraio si iniziava a parlare di società a guida pubblica a tempo determinato (principale investitore la Cassa dei Depositi e dei Prestiti), investendo 8,3 miliardi di euro con l'obiettivo di raggiungere con la fibra il 50% del territorio nazionale entro il 2020.E' ora al lavoro un comitato esecutivo presieduto da Vincenzo Sambuco al quale si affiancano come consulenti Rothschild e l'ex Telecom Stefano Pileri. A dare l'idea di quanto sia fattibile l'investimento dei 20 miliardi complessivi che tutto il sistema è chiamato a spendere per l'NGN ci ha pensato il sociologo Luciano Gallino, che il 6 novembre 2010 scriveva su Wired.it: “È comparabile allo

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stanziamento per il Ponte sullo Stretto, un’opera che ridurrebbe di mezz’ora il viaggio in Sicilia, ma con pochi altri vantaggi. Oppure, secondo i calcoli del ministero dell’Innovazione, 20 miliardi di euro sono l’equivalente di ciò che l’Italia spende in cinque anni per le auto blu. E ancora: a due nuove piste dell’aeroporto di Fiumicino, a 350 chilometri della Tav Milano-Torino, a 15 portaerei Cavour o all'acquisto di 131 cacciabombardieri F-35 approvato dal governo Prodi e confermato da quello Berlusconi“. L'intervento di Gallino arriva all'interno dell'iniziativa “Sveglia Italia!” con la quale Wired Italia indicava le 10 priorità “per far crescere Internet, innovazione, sviluppo, occupazione ed efficienza nel nostro Paese: 1- l'accesso a Internet è un diritto e va scritto in Costituzione;2- La banda larga è l'unica grande opera di cui ha bisogno l'Italia3- Rottamare i cavi in rame: l'unica vera banda larga è in fibra ottica4- La banda larga è necessaria per far crescere economia e occupazione5- Nei luoghi pubblichi il wi-fi deve essere libero, senza complicati sistemi di registrazione6- Le frequenze della tv analogica devono essere destinate per la banda larga mobile7- Ogni amministrazione locale pubblica (regioni, province e comuni) deve impegnarsi in prima persona per la diffusione della banda larga8- Nel 2020 ogni studente italiano dovrà poter disporre di un computer (o simile) 9- Nel 2020 Pubblica amministrazione dovrà essere solo online10- La conoscenza è un patrimonio comune che la Pubblica amministrazione deve rendere accessibile all'utente cittadino.

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Tornando all'NGN e ai suoi costi, va sottolineata la posizione espressa dal Presidente di Telecom Franco Bernabè alla metà di giugno 2011 in merito al Tavolo Romani: "Da nessun'altra parte c'è un intervento diretto del pubblico. Se lo Stato vuole tornare a essere imprenditore va benissimo: ha Infratel e lo faccia per conto suoi", rischiando però così di tornare "indietro di 15 anni, al ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni […] No allo Stato imprenditore e basta perdite di tempo: si bloccano gli investimenti in banda larga e ultralarga. Abbiamo un piano di investimenti su 13 città nel 2011 e 125 città entro il 2018 e siamo trattenuti dall'andare avanti", soprattutto per i "vincoli rappresentati dalla regolamentazione e quelli dei tavoli che ci impediscono di accelerare i tempi". Bernabè rilanciava così il dibattito tra la Telecom, che ribadisce di poter mettere a punto da sola una rete di nuova generazione, e chi invece pensa che il paese se ne possa permettere una sola e condivisa tra tutti gli operatori. Poche ore dopo, il presidente di Telecom allargava la questione indirizzando alla Commissione Europea (in particolare al responsabile dell'Agenda Digitale Neelie Kroes) una lettera nella quale si lamentava dell'Agcom e delle sue politiche in materia di sviluppo delle infrastrutture di rete in Italia, proprio mentre il ministro Paolo Romani rispondeva alle accuse: “Non si tratta assolutamente di una nazionalizzazione anche perché il 10 di novembre del 2010 abbiamo firmato con Telecom Italia un memorandum of understanding dove c'è scritto che la società pubblico-privata, la Infraco, agisce secondo il principio di sussidiarietà e interviene con un'infrastruttura passiva. Lo Stato non si mette dunque a fare nessuna concorrenza alle aziende italiane di telecomunicazione ma contribuisce a favorire il mercato". Romani aggiungeva che Telecom non vorrebbe l'intervento pubblico per la paura di perdere quella posizione di vantaggio

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nei confronti degli avversari garantitale dall'essere ex monopolista.

All'inizio di ottobre 2011 il Tavolo Romani sembrava naufragare definitivamente, con l'annuncio dell'uscita di Telecom; al suo posto salivano invece le quotazioni di F2i, che intende portare la fibra in tutta Italia tramite MetroWeb. Anche se c'è chi si dimostra molto perplesso in merito a tale eventualità, il piano veniva illustrato nel marzo 2012 , e nel maggio 2012 riceveva una appoggio finanziario dalla Cassa depositi e prestiti.A novembre l'Agcom approvava il regolamento che riguarda le procedure per la messa in atto dell'NGN. Nella prima settimana di gennaio 2012 esso diventava ufficiale e veniva pubblicato. C'è l'obbligo di unbundling per Telecom e l'end to end, ma nelle ore successive si sollevano dubbi , e si affiacciava il rischio di una procedura d'infrazione europea (procedura che in effetti partiva a luglio).Pochi giorni dopo dall'Agcom arrivava anche un documento nel quale si proponeva al governo la formazione di una “squadra” per la messa a punto di una strategia digitale nel paese; nelle stesse ore Alessandro Longo su Wired proponeva una disamina delle iniziative del governo Monti in materia di Agenda Digitale italiana, mentre partiva il progetto “Scuola in chiaro”, il quale prevede la diffusione online dei dati relativi agli 11mila istituti scolastici del Paese.Lo stesso Longo parlava della partenza, a marzo 2012, dell'Agenda Digitale, qualche giorno dopo considerata una mera dichiarazione d'intenti, mentre nel “pacchetto semplificazioni” presentato alla fine di gennaio veniva riservato (finalmente) un occhio di riguardo alle potenzialità di Internet e delle reti telematiche. Pochi giorni dopo sul Corriere

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della Sera Massimo Sideri faceva un quadro della situazione guardando da un'altra prospettiva, così come Martina Pennisi. (Qualche considerazione e riflessione di quei giorni qui, qui, qui , qui , qui e qui). Nelle stesse ore veniva presentato un disegno di legge da Roberto Rao e Paolo Gentiloni (qui la relazione). E all'approvazione del "semplifica Italia" si aggiungevano 11 mozioni in tema di digital divide e la possibilità di pagare le multe online.L'8 marzo 2012 il Pacchetto Semplificazioni veniva approvato dalla Camera. Qui un'analisi di Alessandro Logno, qui le perplessità sulle norme in materia di disaggregrazione dei costi di accesso alla rete telecom. Il decreto legge 83 del 2012 imponeva alle amministrazioni di pubblicare tutti dati di spesa che superano i mille euro dal gennaio 2013; il ritardo con il quale le Pa si allineavano alla normativa era alla base della "Settimana della Trasparenza" promossa da Agorà Digitale nel gennaio 2013 (qui il report dell'iniziativa). Tuttavia, con un decreto di riordino delle leggi in materia di trasparenza approvato a pochi giorni dalle politiche del febbraio 2013, provvedimento spacciato come "Freedom of Information Act italiano", lo stesso governo Monti faceva marcia indietro rischiando di abolire l'articolo 18. Fondamentale la mobilitazione del movimento per l'open government che riusciva ad emendare il provvedimento salvando il rivoluzionario quadro degli Open Data dipinto pochi mesi prima.Nel febbraio 2013 un altro tassello nell'apertura della Pa: il Consiglio di Stato stabiliva che se un'Amministrazione dichiara l'impossibilità di fornire documenti perché gli stessi non sono più esistenti ha l'onere della prova; non sarà molto, ma almeno un piccolo deterrente per eventuali chiusure causate da pigrizia.Nell'ottobre del 2013 partivano i controlli della Guardia di

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Finanza volti ad accertare il rispetto da parte delle Pa delle disposizioni del Decreto Trasparenza di febbraio.

Alla metà di marzo 2012 la "Cabina di Regia" per l'Agenda Digitale italiana è pronta a partire (qui il documento ufficiale della roadmap). Anche se i primi passi venivano rimandati a metà luglio e alla "cabina" si affiancava l'Agenzia per l'Italia digitale , che però non è altro se non il nuovo nome della DigitPA , (e non mancano dubbi sul sistema di nomine; inoltre, la modalità di assegnazione dei compiti a vari enti esponeva il sistema della Pa al rischio paralisi, senza contare il ritardo col quale veniva pubblicato il bando per la selezione del neodirettore e gli ulteriori ritardi sulla sua nomin a ; Agostino Ragosa iniziava il suo lavoro solo a metà gennaio; a marzo l'approvazione dello statuto). Mentre partivano i primi bandi per le smart cities. A luglio 2012 un provvedimento bipartisan sullo sviluppo digitale, nelle stesse ore, arriva Opencoesione, strumenti volto al monitoraggio di tutti i pagamenti effettuati dalle pubbliche amministrazioni (e c'è chi mette in cantiere progetti propri, come spaghettiopendata). Ma proprio in quei giorni si sollevano le critiche alla gestione dell'Agenda digitale targata Monti (vedi in proposito Mantellini, Scorza, e Lisi). Infine, Scorza segnala il pasticcio sull’ente deputato alla valutazione degli appalti pubblici in materia di informatica, prima di affermare, alla fine di settembre, che l'Agenda digitale "non è nell'agenda di Monti".Nell'ultima settimana di ottobre 2012, il decreto "Crescita 2.0" approdava in Gazzetta. Alla metà di dicembre, "dribblando" la caduta del governo Monti, veniva convertito in legge. Le analisi di Wired qui e qui. Qui, invece, l'entusiasmo di Stefano Quintarelli.Alla fine di aprile 2013, tuttavia, si attendevano ancora

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numerosi decreti attuativi. A maggio 2013, inoltre, il percorso dell’Agenzia per l’Italia digitale sembrava subire un altro stop. A stretto giro arrivava la smentita di Ragosa, con molti nodi che restavano, tuttavia, in sospeso (la feroce critica di Guido Scorza); e circolava l'indiscrezione dell'intenzione del governo Letta di riportare in vita il Dipartimento per la digitalizzazione della Pa. Alessandro Longo faceva il punto dei ritardi accumulati dall'Agenda Digitale italiana, seguito a stretto giro da un dossier della Camera.Tra maggio e giugno 2013 il premier Letta accentrava su di sé la responsabilità dell'azione in materia e nominava un “Mister Agenda Digitale” a Palazzo Chigi, Francesco Caio. A stretto giro, alcuni provvedimenti contenuti nel “decreto del fare”; le aspre critiche di Ernesto Belisario.Nel febbraio 2014 lo statuto dell'Agid veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale, in concomitanza con l'avvicendamento al Governo tra Enrico Letta e Matteo Renzi.

Sul finire della legislatura arrivano bandi di gara per 900 milioni di euro volti a superare il digitale divide del Mezzogiorno.

La campagna elettorale per le politiche del 2013 vede diventare d'attualità il dibattito sulla eventuale necessità di prevedere un regime di par condicio per la Rete, una possibilità che sembra esistere però solo nella mente di chi di Internet non ha ancora afferrato il reale funzionamento. Mentre un'app per smartphone e tablet squassava il quadro normativo sui sondaggi costringendo l'Agcom a ordini e contrordini al limite del ridicolo (qui una ricostruzione della vicenda di Wired; qui un ulteriore approfondimento di Guido Scorza). L'authority, dopo pochi giorni, decideva di estendere il divieto anche a

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Sentimeter, iniziativa di analisi dei Twitter trend politici targata Corriere della Sera.

Alla fine di dicembre 2012 la Commissione Europea approvava il piano del governo Monti per lo stanziamento di fondi contro il digital divide nelle regioni del Mezzogiorno.

Dal 2013 le iscrizioni alle scuole italiane dovranno avvenire esclusivamente online.

Alessandro Longo ci parla del progetto di fibra ottica a 100 Mega lanciato a novembre 2011 da Telecom Italia per Roma, Milano, Roma, Bari, Torino e altri grandi centri (ulteriori dettagli). E se e a pagare la nuova infrastruttura per la banda ultralarga fossero gli utenti semplicemente con i soldi del canone Telecom?

Incredibile ma vero, nel Decreto "Semplifica Italia" finiscono anche norme suggerite via Internet dai cittadini , e in tema di Agenda Digitale arriva la conultazione pubblica online. Mentre finiscono online i redditi dei ministri.

Sempre più vicino l'obbligo per le Pa di fatturare solo in modalità elettronica.

Il ministro Paolo Romani sembrava in vena di grandi annunci, come quando affermava sicuro che il problema del digital divide in Italia sarà risolto entro il 2013. Certo il nuovo stanziamento di 100 milioni di euro non basterà all'obiettivo; Infratel, la società di scopo costituita nel 1999 su iniziativa del Ministero delle Comunicazioni e di Sviluppo Italia s.p.a. in qualità di società di scopo per l'attrazione degli investimenti e

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lo sviluppo d'impresa, è il soggetto che sta utilizzando questo fondi. Dal 2008 ha speso 200 milioni e altrettanti ne ha impegnati, coprendo circa 2 milioni di cittadini. Altri 5 ne restano. Incrociando dunque questi dati con la considerazione che più si va avanti con la copertura più i cittadini in digital divide sono difficili da raggiungere (nel senso, gli ultimi sono i più lontani e gli oneri sono così crescenti), ad Infratel entro il 2013 serviranno almeno un altro miliardo di euro entro quel 2013 posto come limite da Romani.

Sempre in tema di Expo2015 come occasione di innovazione in materia di banda larga, dal primo aprile 2011 è disponibile, nel cortile della sede dell'Expo in via Rovello 2, una connessione pubblica alla quale potrà accedere qualunque cittadino semplicemente avendo una password.

Tutto il mondo degli operatori di Rete è in fermento: nell'ottobre 2010 durante il convegno Internet Chiama Italia, organizzato a Roma dall'Associazione Italiana Internet Provider (AIIP), a rappresentare gli interessi di circa 50 operatori (tra gli altri, Aruba, Tiscali e Unidata), veniva proposto il progetto comune Fibra Ottica Spa che riunirebbe soggetti detentori del 2,5% del mercato e li porrebbe in un'identità comune nell'appoggiare e partecipare agli altri progetti (come le NGN e fibra per l'Italia) che si muovono in questo senso. Nella stessa sede si mostravano studi che confermavano: un'infrastruttura pervasiva in fibra ottica aumenterebbe il Prodotto Interno Lordo (PIL) nazionale dell'1,6/1,7 per cento.

Con la delibera 62/11/CONS - recentemente diramata dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom),

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contenente “modifiche ed integrazioni alla delibera 188/09/CSP recante criteri di ripartizione tra gli operatori della remunerazione dei costi sostenuti dal soggetto indipendente”, l'Agcom dava avvio ad una mappatura delle reti wireless in Italia, dando al progetto un taglio particolare: come notava il blogger Stefano Quintarelli, si tratta forse per la prima volta della comparsa in un documento pubblico del wireless pensato come ADSL replacement, come alternativa alla banda larga per la lotta al digital divide.

E' Venezia ad avere il titolo di primo capoluogo italiano senza fili, visto che dal luglio 2009 chiunque può connettersi attraverso gli hot spot sparsi nel centro storico, in gran parte della terraferma e in alcune isole della Laguna; la connessione è disponibile per tutti i dispositivi, basta richiedere. user-id e password su cittadinanzadigitale.it. Provincia di Roma con Nicola Zingaretti: il progetto Rete Provincia WiFi nel febbraio 2012 vedeva, come comunicato in una mail agli iscritti, 830 hotspot totali installati di cui 568 a Roma e 262 in Provincia su 97 comuni, 174.000 utenti registrati e oltre 4000 utenti che ogni giorno utilizzano ProvinciaWiFi e complessivamente 1215 hotspot attivi e oltre 200.000 utenti registrati alle diverse reti interconnesse nella federazione Free ItaliaWiFi (vedi http://www.freeitaliawifi.it). Non mancano comunque critiche alle iniziative pubbliche in materia di connessioni: a metà febbraio 2011 il presidente di Assotelecomunicazioni Stefano Parisi, intervenendo a Radio24, definiva concorrenza sleale la fornitura di connettività gratis ai cittadini da parte di provincie e comuni, facendo eco all'ad di Vodafone Paolo Bertoluzzo che aveva espresso le stesse idee pochi giorni prima. Per Parisi, la costruzione di un NGN nazionale è talmente costosa da non poter scontare la

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concorrenza dell'apparato pubblico che da connettività gratis. Secca la replica di Zingaretti, che dichiarava:”Portiamo il Web libero, gratuito e accessibile a tutti nei luoghi pubblici”, senza che ciò significhi mettersi in concorrenza con gli operatori privati, perché la connettività di cui si parla viene resa disponibile nei luoghi pubblici non dentro le case. Alla base dell'iniziativa ci sarebbe la consapevolezza che Internet nelle aree pubbliche è un servizio che lo stato da al cittadino così come l'illuminazione o le fontane. Anzi, aggiunge Zingaretti, il wi fi pubblico potrebbe avere avere effetti positivi sul mercato aumentando la domanda di Rete : “Dopo che è stato aperto un hot spot in un Comune che non ne aveva, i cittadini, stimolati nel bisogno di connettività, iniziano a chiedere agli operatori la banda larga”. E sui costi del progetto in totale: “non si supererà una spesa di due milioni di euro, quando per una rotonda fatta come si deve, per avere un'idea delle proporzioni, bisogna spendere 500mila euro”. In questo senso sconta l'aperto plauso di Franco Bernabè nonché l'inattesa manifestazione di ammirazione per la pionieristica iniziativa da parte del settimanale tedesco Der Spiegel. Zingaretti si fa così padrino insieme a Wired Italia della nascita di “Free wi fi Italia”, progetto che intende allargare l'esperienza della provincia di Roma al territorio nazionale, e sigla con la Confederazione nazionale dell'artigianato un protocollo d'intesa per la creazione di una rete wireless che coinvolga ben 4200 locali pubblici di Roma e provincia nonché di altri luoghi simbolo della Capitale come Villa Borghese e Campo dei Fiori; subito dopo l'intesa arrivava con le ferrovie per portare wi fi gratuito nelle stazioni. Il tutto mentre la Nexis, società bolognese specializzata in reti informatiche e WiFi, dava vita in città al progetti che prevede di fornire di hardware per la connessione almeno 100 esercizi commerciali nel centro storico, così da creare una rete alla

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quale il cittadino può accedere su tutto il territorio sfruttando le stesse credenziali d'accesso. E la Confesercenti che apre hot spot pubblici in piazza a Modena con l'obiettivo di allargare il progetto ai comuni limitrofi e poi alle altre provincie.

L'8 settembre 2011 ricevevo questa mail:“Cari Utenti di ProvinciaWiFi,domani 9 settembre inaugureremo a Venezia il sistema integrato di identificazione degli utenti delle reti che hanno aderito a Free ItaliaWiFI.Come già saprete, il 30 novembre scorso il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, l'assessore della Regione Sardegna Mario Floris e l'assessore del Comune di Venezia Gianfranco Bettin, hanno lanciato il progetto Free ItaliaWiFi per la collaborazione e il sostegno al WiFi pubblico e libero nelle amministrazioni italiane.Uno dei primi obiettivi delle tre amministrazioni promotrici del progetto e delle molte altre che hanno via via aderito è stata la realizzazione di un sistema di integrazione delle reti WiFi, tale da permettere a tutti gli utenti registrati su una rete di avere accesso anche alle altre reti federate con le stesse credenziali.Questo è ciò che in questi mesi abbiamo costruito e che domani inaugureremo.In pratica, significa che tutti voi utenti di provinciaWiFi quando sarete a Venezia o in Sardegna (ma anche a Torino, Genova, e nelle province di Grosseto, Prato e Gorizia per adesso) potrete navigare gratuitamente sulle reti WiFi delle rispettive amministrazioni utilizzando le stesse credenziali che usate in provinciaWiFi. L'unica piccola modifica è che quando sarete "in trasferta" dovrete aggiungere "@provinciawifi" al vostro username (tipicamente il numero di cellulare), continuando comunque a usare la stessa password.

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In sostanza quindi individuata la rete pubblica del luogo in cui siete, se essa aderisce a Free ItaliaWiFi e quindi presenta il logo nella pagina di autenticazione, utilizzate "username@provinciawifi" come username e la stessa password che usate in ProvinciaWiFi.Tutte le reti si impegnano a garantire agli utenti delle reti federate almeno 300MB di traffico e/o due ore di navigazione giornaliere gratuite (articolo 8 dei Principi della Federazione Free ItaliaWiFi).Presto le reti wireless di molte altre città e amministrazioni saranno integrate con Free ItaliaWiFi perché già hanno aderito al progetto e stanno facendo i necessari passi amministrativi e tecnici per attivare l'interconnessione.Questo risultato, fortemente voluto dalla Provincia di Roma, che è stata la promotrice originaria del progetto, è stato realizzato anche grazie al supporto tecnico del Consorzio Interuniversitario Caspur (www.caspur.it), che oltre ad essere il nostro partner tecnico per ProvinciaWiFi gestirà anche il nodo di interscambio nazionale di Free ItaliaWiFI.Con la soddisfazione di realizzare questo progetto di federalismo reale fra le amministrazioni italiane, proprio nel centocinquantenario dell'Unità di Italia, in ultimo, voglio solo riportarvi i Principi fondamentali che ispirano il progetto Free ItaliaWiFIPrincipi fondamentali di "Free ItaliaWiFi"Le pubbliche amministrazioni che si associano alla rete federata nazionale del progetto “Free ItaliaWiFi” aderiscono ai seguenti principi nella promozione e gestione delle reti WiFi:1.Gestione diretta e/o controllo della rete da parte delle amministrazioni.E’ consentita la partecipazione di privati nella gestione operativa delle reti, ma - in ogni caso - per conto e secondo le

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indicazioni delle amministrazioni o istituzioni pubbliche.2. Accesso aperto e senza discriminazioni a tutti i cittadini di riferimento dell'amministrazione.La possibilità di registrarsi ed usare la rete deve essere garantita a tutti i cittadini dell’amministrazione promotrice.3. Gratuità dell'uso.Fatta salva l'eventuale richiesta all'utente di un rimborso per le spese di registrazione, comunque di trascurabile entità, l'uso della rete deve essere gratuito.4.Carattere no profit della rete.La rete WiFi non deve avere finalità di lucro e non può, quindi, essere sfruttata commercialmente da alcuno, neanche con l’assenso dell’amministrazione. Inoltre, i dati di utilizzo della rete e degli utenti - se non gestiti direttamente dalle amministrazioni - devono comunque essere gestiti per loro conto e non possono essere ceduti a terzi né utilizzati per fini diversi da quelli previsti dalla gestione della rete.5.Neutralità della rete.Non devono essere effettuate restrizioni arbitrarie sull'accesso alla rete Internet e ai suoi servizi né sui dispositivi utilizzabili dagli utenti.6.Conformità alla legislazione italiana.La gestione della rete deve essere svolta in conformità alla normativa nazionale e territoriale vigente.7.Pubblicità del servizio.Il servizio deve essere garantito e pubblicizzato anche mediante l’adozione, da parte della pubblica amministrazione, di una carta dei servizi WiFi offerti con l’indicazione delle eventuali limitazioni nell’utilizzo, delle modalità di registrazione e dei riferimenti alle informative ai sensi di legge.8. Garanzie nell'uso della rete per gli utenti “Free ItaliaWiFi”.Ogni amministrazione garantisce il rispetto dei principi sopra

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elencati anche per gli utenti registrati su altre reti federate a “Free ItaliaWiFi”. Inoltre, a questi utenti, assicura pari livelli di servizio garantendo - nel caso di limitazioni sul tempo o sul traffico - i seguenti limiti minimi giornalieri: un minimo di due ore di collegamento anche non continuativo; un minimo di traffico generato (in download e upload) non inferiore a 300 MB.Cordiali SalutiFrancesco LorigaResponsabile ProvinciaWiFIDirigente del SIRIT - Sistemi Informativi, Retie Innovazione Tecnologica - Serv. IV”.

Nel dicembre 2012 arrivava anche la rete WiFi del Comune di Roma, accolta però subito da ombre, polemiche e accuse.

All'interno dell'IGF Italia arrivava il 30 novembre 2010 la firma di un protocollo d'intesa tra Provincia di Roma, Regione Sardegna e Comune di Venezia. Si estende così il progetto Free Italia WiFi per una Rete unica, in banda larga, senza fili, pubblica e gratuita. Progetto per il quale hanno già espresso interesse anche molte altre provincie e comuni. Altri innovativi progetti sono, ad esempio, quello lanciato dall'associazione no profit GreenGeek ancora in collaborazione con Wired Italia e altri soggetti per la messa a disposizione di un'ora di connessione senza fili gratuita in piazza Cadorna a Milano tramite una rete aperta e condivisa; il tutto va riportato all'interno dell'iniziativa che mira a mettere a disposizione WiFi pubblico in 150 comuni che ne facciano richiesta; il 7 febbraio 2011, a pochi giorni dal lancio dell'iniziativa, si registravano già circa 100 richieste di adesione. Soluzione resa più facile dall'abrogazione del decreto Pisanu, che ha fatto

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propendere anche la città di Firenze a fornire connessioni dai luoghi pubblici di tutto il centro storico, bandendo una gara da 1,5 milioni di euro; il progetto dovrebbe essere completato entro il 15 novembre di quest'anno. Sempre a Milano, il 2012 partiva con uno stanziamento di 6 milioni di euro per l'implementazione di una rete WiFi che copra 1200 punti della città.

A Verona il sindaco Flavio Tosi si inorgoglisce parlando di “Verona wi-fi”, il servizio di accesso gratuito ad Internet nel comune realizzato a partire dal 2009 e che alla vigilia di aprile 2011 contava 18mila utenti registrati coprendo 45 zone con i suoi 80 punti di accesso; prossima tappa, dice Tosi, la banda larga, secondo lui irrinunciabile e foriera di ampi benefici per tutti i cittadini.

Iniziativa 1000 comuni Vodafone: coprire un comune al giorno con la banda larga via radio (a 2Mbps) per arrivare a 1000. Il progetto partiva addirittura in anticipo sulla tabella di marcia collegando pochi giorni prima del Natale 2010 i primi 4 comuni: Pallare (Liguria, 972 abitanti), San Pietro Viminario (Veneto, 2957), Noepoli (Basilicata, 1024) e Suni (Sardegna, 1137 anime); alla fine di gennaio 2011 erano già 31 i comuni coperti; all'inizio di marzo, dopo poco più di 60 giorni, i comuni erano 60. Nelle stesse ore Vodafone si impegnava al potenziamento dei servizi nelle aree già coperte; diventa così il primo operatore ad avviare, grazie all'utilizzo della tecnologia HSPA+ (High Speed Packet Access), la copertura di rete mobile alla velocità massima di 43,2 Mbps, in molti casi paragonabile (se non addirittura superiore) alla connessione fissa. Roma e Milano saranno le prime a partire con la nuova velocità. A seguire arriveranno entro marzo 2011 altre 16 città

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italiane con il lancio commerciale atteso per aprile 2011 con l'arrivo sul mercato di nuove chiavette realizzate ad hoc per la nuova tecnologia. I dati di Vodafone parlano in ogni caso di 1800 comuni senza ADSL per un totale di 7 milioni di cittadini (il 12% della popolazione). Da parte sua Telecom stipulava nella prima settimana di febbraio 2011 un accordo con la Provincia autonoma di Trento che dava avvio alla marcia verso le reti di nuova generazione sul territorio; sul tavolo la cablatura in fibra ottica tramite una newco pubblico-privata che vede come socio privato Telecom Italia . Verso la fine di giugno 2011 la Commissione Europea inviava alla suddetta Provincia una missiva nella quale chiedeva spiegazioni in merito al progetto; l'obiettivo è valutare se ci siano gli estremi per aprire un'infrazione per aiuti di stato. Nella lettera della Commissione si legge: “Con quale metodologia è stato stimato l'ammontare del conferimento della Provincia? Con quale metodologia è stato stimato il valore dei due conferimenti di Telecom? È stata già realizzata una perizia indipendente, come menzionato negli atti? In che modo la Provincia intende procedere alla valutazione dello switch off del rame? […] La Provincia ritiene che l'intervento ricada nella logica dell'investitore privato e pertanto non rientri tra gli aiuti di Stato. Il precedente più rilevante in materia di banda larga è rappresentato dalla decisione Citynet Amsterdam del 2007. Può la Provincia spiegare i motivi per cui ritiene che il progetto Trentino Ngn sia in conformità con i principi della decisione Amsterdam?”. In ogni caso, il 16 dicembre 2011 arrivava l'accordo per Trentino NGN, primo esperimento di compartecipazione pubblico-privata di Next Generation Networking. Nelle stesse ore arrivava l'accordo tra il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo e le Regioni per l'utilizzo dei 423 milioni stanziati

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dall'UE per lo sviluppo digitale delle zone del Mezzogiorno.

Il tutto mentre l'Agcom dava il via libera (anche se temporaneo e limitato nel numero di utenti raggiungibile, che non dovrà superare i 40mila) allo sviluppo della banda ultralarga a 100 Mbps, nuovo motivo di contesa con Vodafone e gli altri operatori, ai quali proprio l'Agcom sembra aver pensato obbligando Telecom a inserirle nell'esperimento tramite la messa a disposizione delle proprie reti con sconti sull'affitto fino al 12%. Un'altra “toppa” in attesa di un definitivo quadro regolamentare sull'NGN. Ancora a proposito di Next Generation Networking, all'inizio di giugno 2011 l'Economist diffondeva questa immagine come riassunto di uno studio su velocità, estensione e impegno dello stato (in temrini di fondi stanziati) per la rete di nuova generazione in più parti del mondo.

In tema di WiMax: è una tecnologia che consente accesso alle reti di comunicazione in banda larga e senza fili quattro volte superiore all'Umts (attualmente usato dagli operatori telefonici) e che permetterebbe di risolvere più in fretta anche il problema del digital divide; non viene investito nulla nel nostro paese anche per via delle resistenze degli operatori che hanno investito nelle tecnologie 3G e 3,5G e non avrebbero lo stesso margine di guadagno con il WiMax (ad affermarlo è Alessio Bordin, studioso della tematica che ha svolto varie ricerche sul tema).

Le frequenze televisive liberate dal passaggio al digitale terrestre anziché essere messe subito all'asta (asta dalla quale il governo prevede di ricavare 2,4miliardi di euro) per essere sfruttate in chiave banda larga, tramite il decreto Milleproroghe

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del febbraio 2011 venivano dirottate per il 30% alle piccole emittenti televisive a titolo di risarcimento e per restare fedeli alla logica del pluralismo televisivo. “I nsomma, tu dici Internet e loro rispondono Vanna Marchi”, o per dirla con l'AD di Tiscali Renato Soru: "Perché viene considerato un servizio pubblico un canale sul digitale terrestre seguito da pochi e non Internet in mobilità a banda larga a buon prezzo?". Rimanendo nello specifico dell'asta, nella seconda settimana di marzo 2011 questa subiva peraltro un intoppo a causa del mistero che per qualche giorno è aleggiato sulle frequenze di proprietà del ministero della Difesa, che sembrava disposto a cederle al Tesoro solo in cambio di denaro (successivamente il Ministero della difesa ha deciso di liberare gli intervalli su 1800 e 2600 Mhz), senza contare le proteste degli operatori di telecomunicazioni ai quali si chiede di pagare a settembre 2011 ma ai quali si garantisce di poter mettere le mani sulle frequenze solo nel dicembre 2012. Frequenze spesso ancora occupate da piccole reti televisive private e in balia di vecchie cause giudiziarie come quella che vede di fronte Rete 4 ed Europa 7.Aste del genere si sono già svolte in altri paesi con ottimi ricavi, come i 4,38 miliardi in Germania.Per capire la dimensione del discorso, partiamo dal fatto che ogni pagina web equivale a quasi quasi 100 telefonate. Le onde della vecchia tv viaggiano tra i 790 e gli 864 MHz, uno spettro che consentirebbe un’ottima trasmissione di dati Internet. Il tutto in vista soprattutto del passaggio dell'Internet mobile alla tecnologia Lte (Long term evolution), meglio nota come come 4G (ovvero la quarta generazione, qui un'analisi), arrivata in Italia a cavalle del 2013 e che dovrebbe garantire una velocità di 144 Mpbs (a tal propostito, Alessandro Longo metteva in guardia sui rischi).

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Con 8 MHz a disposizione, ovvero lo spazio ad oggi occupa un solo canale della vecchia tv, il 4G permette la trasmissione di circa 50 Megabit al secondo, che significherebbe ridurre o quasi eliminare la presenza di italiani connessi a meno di 2 Mbps (ancora superiori le prestazioni delle prime connessioni Lte della Vodafone ad Ivrea). Partiva così alla fine di marzo la consultazione pubblica che dovrebbe portare dritti all'asta; sembra farsi strada l'idea di vincolare gli acquirenti al rispetto di alcune garanzie per gli utenti futuri, net neutrality inclusa; oltre a mettere all'asta le frequenze comprese tra 800, 1800, 2000 e 2600 Mhz, si dettano le linee guida per il refarming della banda a 1800 Mhz, oggi usata per il GSM e da indirizzare ora a LTE e Wimax, e per prorogare le licenze esistenti a 900 e 2100 Mhz. Clicca qui per il quadro delle questioni più spinose in merito alle frequenze in Italia.In ogni caso, il 28 giugno 2011 veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il bando di gara per l'assegnazione dei diritti d'uso delle frequenze relative agli 800, 1800, 2000 e 2600 Mhz per la banda larga mobile. Entro settembre dovrebbe partire l'asta la cui base sarà di 3,1 miliardi di euro alla quale parteciperanno Telecom Italia, Vodafone, Wind, H3G e Linkem. Entusiasta il commento del ministro Romani: “Con l'attivazione della procedura di gara l'Italia sarà tra le prime nazioni europee ad assegnare le suddette frequenze all'industria della telefonia mobile, aprendo di fatto la strada all'era del 4G”. Pochi giorni dopo, nell'ultima revisione della legge di Stabilità 2011 si intimava alle tv locali di liberare le frequenze ancora occupate entro il 31 dicembre 2012, pena disattivazione coattiva degli impianti. Ai piccoli conviene dunque farsi bastare i 240 milioni di indennizzo previsti. Il 12 luglio 2011 arrivava invece la pubblicazione del bando e della disciplinare per l'assegnazione

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di sei multiplex digitali, che saranno assegnati in modalità beauty contest, cioè non a chi offre di più ma a chi presenta il progetto migliore. C'è chi ha fatto notare come la suddivisione dei pacchetti di canali favorisca Rai e Mediaset: "nel sottinsieme B destinato alle aziende preesistenti sul mercato sono contenute le frequenze migliori in quanto utilizzano una singola frequenza su tutto il territorio nazionale e sono coordinate a Ginevra.Per gli altri pacchetti di utenze (il sottoinsieme A destinato ai nuovi soggetti, e quello C per i soggetti telefonici), si tratta invece di frequenze sempre coordinate a Ginevra ma costituite da un fascio di frequenze diverse che verranno impiegate altresì dalle emittenti locali e vedranno dunque probabilmente Sky convivere con 15-20 piccoli soggetti locali". Nel novembre 2011 però la TIM presenta un ricorso contro l'assegnazione alla RAI, giudicandola fuori quota, avendo già cinque freuqenze ed essendo la proprietà di una sesta vietata dalle regole europee. Alla fine del mese arrivava anche il ritiro dalla gara da parte di Sky, che giudica i tempi di assegnazione troppo lunghi e le regole non rispettose della concorrenza.Un ricorso contro il beauty contest partiva a dicembre anche da parte dell'Assoprovider, assistita dall'avvocato Fulvio Sarzana.Il 16 dicembre 2011 il governo Monti dava il contrordine: le frequenze andranno all'asta. Tuttavia, il 2012 iniziava con i dubbi illustrati dall'avvocato Fulvio Sarzana in merito a questa decisione. Alla metà di aprile il governo decideva per la definitiva abrogazione del beauty contest; Mediaset faceva ricorso al Tar del Lazio, mentre a fine legislatura le decisioni erano ancora in alto mare.

Il 29 settembre 2011 il Ministro Romani annunciava la chiusura dell'asta per l'assegnazione dei 18 blocchi di

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frequenze compresi tra 1800 e 2600 mhz di quarta generazione(4G); ricavo complessivo: 3,950 miliardi di euro.

Lo studente Ryan Guerra trovava alla fine di aprile 2011 il modo di utilizzare l'antenna della televisione per potenziare il segnale WiFi ricevuto da un'abitazione di Houston, semplicemente sfruttando gli “spazi bianchi” dello spettro radiotelevisivo, quelle frequenze rimaste libere dopo il passaggio al digitale. Per fare questo, si è anche giovato del permesso di utilizzo rilasciato dalla Federal Trade Commission (proprio per quest'ultimo aspetto in Italia un'espediente del genere non è ancora realizzabile). Dunque, un segnale che incontrando ostacoli naturali aveva un'estensione massima di 400/500metri arriva ora ad un chilometro e mezzo. Certo, da valutare ancora eventuali interferenze con lo spettro televisivo, ma non c'è dubbio che, come sottolineato dallo stesso Guerra, l'utilizzo di una simile trovata potrebbe essere funzionale alla risoluzione del problema di connessione delle zone rurali, dove la questione più spinosa è la copertura dell'ultimo miglio.

Ultimo E-Government Survey dell'ONU: Italia al 56esimo posto tra i paesi le cui amministrazioni favoriscono la partecipazione dei cittadini tramite Internet.

Ne gennaio 2009 Brunetta presentava il piano “E-government 2012” con l'obiettivo allinearsi all'agenda di Lisbona; erano così previsti 80 progetti per 130 milioni di euro. Ma il problema forse è proprio nelle caratteristiche della nostra PA: pochi soldi agli uffici, inadeguata formazione delle risorse umane (basti pensare a quanto limitato sia il numero di addetti ad attività legate all'ICT: 2,9 ogni cento in regione, 2 in provincia e solo 1,6 ogni 100 dipendenti nei comuni), età

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elevata dei dipendenti, poca conoscenza tecnica, e molte volte le nuove frontiere sono solo l'occasione per creare nuove clientele e sperperi. Un caso su tutti: Italia.it. Progettato per essere un grandioso portale catalizzatore del turismo nel nostro paese, si è perso durante più di un decennio tra finanziamenti mastodontici e risultati ridicoli; ancora oggi, le sezioni sono elementari in grafica e contenuti, l'apporto multimediale è minimo, le potenzialità del web 2.0, delle sue logiche e dei suoi strumenti sono praticamente ignorate, gran parte delle sezioni sono dipendenti da altri siti e servizi, il plurilinguismo latita e i costi, già nel 2007, erano nell'ordine di 45 milioni di euro. Altri dieci milioni di fondi venivano annunciati nel marzo 2010 per il periodo che arriva fino a fine 2012, mentre a dicembre 2011 il Consiglio di Stato giudicava irregolare la gara d'appalto per il sito, aggiungendo un'ulteriore episodio di una vicenda davvero triste.

Nel novembre 2010 arrivavano anche i dati ISTAT sull'e-government in Italia: da essi si evinceva come il 99,9% delle amministrazioni locali avesse una connessione. La banda larga risultava utilizzata nella fascia che va dall'83,6% degli enti locali del Nord-est al 71,5% delle amministrazioni locali del Nord-ovest. L'open source utilizzata dalla totalità delle regioni e dal 92,2% delle province, dal 52,8% delle comunità montane e dal 48,1% dei comuni; il 98% delle amministrazioni locali aveva un'e-mail e nel 62,6% dei casi un'amministrazione locale utilizzava sistemi di posta elettronica certificata (PEC, all'origine CEC-PAC, Comunicazione Elettronica Certificata Pubblica Amministrazione-Cittadino). In materia di firma digitale, essa risultava utilizzata dal 56,6% delle amministrazioni comunali, dal 95,5% delle regioni e dal 98,0% delle province impiega. Dati sicuramente positivi, se non fosse

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che l'avanzamento riguarda soprattutto l'informatizzazione delle attività gestionali, mentre meno passi avanti sono stati fatti nei servizi che riguardano direttamente il rapporto col cittadino (come i bandi di concorso e gli URP) che così poco può apprezzare dei miglioramenti. Se infatti quasi tutte le amministrazioni sono ormai dotate di una pagina web, solo il 76,6% permette di scaricare modulistica, e un ancor più ristretto 49,8% permette di inoltrarla online. Alla lista si aggiunge il fatto che il 44,8% permette l'avvio e la conclusione per via telematica dell'intero iter relativo al servizio richiesto e un misero 13% permette di effettuare pagamenti online. Solo il 2,4% delle amministrazioni (la metà delle quali nel Centro-Nord) utilizza software avanzati che permettono la gestione di servizi automatizzati che sfruttano la raccolta, l'archiviazione e l'analisi dei dati in possesso della PA. Infine, nella stragrande maggioranza dei casi le funzioni ICT sono gestite tramite outsourcing e acquisto di servizi esterni.

Partiva nel dicembre 2010 il monitoraggio ufficiale della Pec governativa, che continuava a dare nelle settimane precedenti pessime prove di funzionamento anche riguardo a concorsi pubblici di grande rilievo.

Proprio alla fine del Dicembre 2010, era la volta dei dati relativi allo stato di avanzamento del piano e-Gov2012 del Dipartimento per la Digitalizzazione e Innovazione tecnologica della Pubblica Amministrazione (Ddi) e della DigitPA, l'ente presieduto dal novembre 2010 da Francesco Beltramo che è evoluzione del Cnipa (Centro nazionale per l'informatica nella Pubblica Amministrazione) e si occupa proprio dello sviluppo dell'e-government: 20 mila caselle di PEC registrate nell'Indice delle Pubbliche Amministrazioni (Ipa), ma solo poco più del 40

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per cento dei comuni in possesso di una di esse (migliori prestazioni in Umbria, che raggiunge il 90 percento, e Friuli Venezia Giulia con il 75). Solo un terzo dei comuni offre al momento servizi online per le imprese, e meno di un terzo hanno predisposto l'accesso allo Sportello Unico per le Attività Produttive (Suap); si arriva al 40 per cento solo se si considerano esclusivamente i comuni capoluogo. Cresce invece l'adozione della Posta Certificata tra i cittadini: 450mila le richieste di attivazione (anche se ben lontani dal milioni fissato come obiettivo dal ministro). Nel 2013 arrivava l'istituzione di un “Indice nazionale degli indirizzi di Posta certificata delle imprese e dei professionisti (Ini-Pec)”.Appare altresì avanzato lo stato di digitalizzazione di anagrafi e gestione dei tributi, e più del 50% dei comuni rende disponibili online informazioni e servizi relativi alle banche dati, con un capillare collegamento con le banche dati centrali.Sul fronte scuola, si registra l'arrivo di oltre 22.300 lavagne interattive multimediali e la realizzazione del portale ScuolaMia che offre servizi digitali alle famiglie (certo siamo parecchio distanti da progetti come quello del Ministero dell'istruzione della Corea del Sud, il quale, stanziando 1,4 miliardi di euro intende sostituire entro il 2015 gli attuali libri di testo con tablet digitali che permettano la diffusione dei contenuti “in the cloud” e la copertura degli istituti scolastici con reti WiFi; ma siamo indietro di 15 anni anche rispetto all'Inghilterra). Nelle Università, invece, sono state attivate le iniziative per incrementare la copertura WiFi e l'adozione di servizi online in 55 università, oltre all'avanzamento dei progetti per l'ottimizzazione di iscrizione online, verbalizzazione elettronica degli esami, fascicolo personale dello studente fino all'utilizzo dei servizi di VoIP.Nel marzo 2013 il decreto per l'arrivo dei testi digitali nelle

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scuole del nostro Paese. Qualcuno esprimeva perplessità. Nel maggio 2013, inoltre, l'Associazione italiana degli editori presentava ricorso al Tar contro il provvedimento. Nel settembre 2013 il decreto per il rinvio dell'introduzione degli ebook nelle scuole italiane all'anno scolastico 2014/2015.

Ma la fine di dicembre è caratterizzata dall'approvazione del nuovo Codice dell'Amministrazione Digitale (CAD) tramite il Decreto Legislativo 235/2010 (inserito in GU il 10 gennaio 2011) del 22 dicembre 2010. Esso va a sostituire il CAD inserito nel nostro ordinamento con il D. Lgs 82/2005 subito integrato dal decreto 159/2006.Come sempre il più entusiasta di tutti appariva Renato Brunetta, il quale dichiarava che entro il 2012 “tutte le Pubbliche Amministrazioni avranno l'obbligo di dialogare tra loro e con i cittadini e le imprese in via digitale. Questo vuol dire fine dei faldoni, degli archivi e della carta. Vuol dire aumento della trasparenza, della produttività, con minor costi e più crescita. Vuol dire che il prossimo censimento, fatto salvo il digital divide per la famiglie, sarà totalmente e potenzialmente in forma digitale”. In effetti, dal 9 ottobre 2011 diventa possibile compilare i moduli del censimento anche online ; peccato che il sito sia andato in tilt dopo poche ore per sovraccarico. Così facendo, in ogni caso, si stima si possano risparmiare circa sei milioni l'anno (il 90% delle spese).Diverse e sostanziali le modifiche apportate, fra cui l’introduzione di un quarto tipo di firma elettronica, la firma elettronica avanzata, che va ad aggiungersi a firma elettronica propriamente detta, firma elettronica qualificata e firma digitale. Proviamo a mettere un po' di ordine con le definizioni. La firma elettronica è “l'insieme dei dati in forma elettronica,

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allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di autenticazione informatica" (si va dalla password alla firma biometrica; quest'ultima autorizzata in Italia nel gennaio 2013), senza che vengano ulteriormente specificate caratteristiche tecniche e livello di sicurezza. La firma elettronica qualificata invece è una modalità avanzata basata su un certificato qualificato e realizzata mediante un dispositivo sicuro per la creazione della firma. Dunque c'è un certificato qualificato ad associare documento e firmatario. La firma digitale è poi è un particolare tipo di firma elettronica qualificata basata su un sistema di crittografia a chiave pubblica; essa è apposta con smart card o token rilasciati dal certificatore qualificato. Tuttavia la nuova definizione presenta punti critici; la firma digitale è definita all'art.1, comma 1, lett. s), del Codice dell'Amministrazione Digitale modificato, come un “particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l'integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici”; l'avvocato Giusella Finocchiaro fa notare in proposito che “la nuova definizione di firma digitale, basata su quella di firma elettronica avanzata, invece che, come nel Codice previgente, su quella di firma elettronica qualificata, è ora incompleta, dal momento che è priva del riferimento al dispositivo sicuro. Indubbiamente si tratta di un errore che si spera il legislatore correggerà al più presto.Peraltro, si noti, questo errore del legislatore conduce a conseguenze irragionevoli. La nuova firma digitale potrebbe risultare meno sicura della firma

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elettronica qualificata, non essendo la prima necessariamente basata su un dispositivo sicuro. Eppure, sia l’art. 24 che l’art. 25 del Codice continuano a richiedere, a certi effetti, ad esempio per l’autentica della firma da parte del notaio, l’uso della firma digitale e non quello della firma elettronica qualificata”. Il decreto del Ministero della Giustizia n.44 del marzo 2011 puntava a risolvere il problema definendo la firma digitale come “firma elettronica avanzata, basata su un certificato qualificato, rilasciato da un certificatore accreditato, e generata mediante un dispositivo per la creazione di una firma sicura, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82”. E' ancora l'avvocato Finocchiaro a commentare: “anche la definizione del D.M. è incompleta, dal momento che manca il riferimento al sistema di chiavi crittografiche, che incontestabilmente caratterizza la firma digitale. Si segnala, inoltre, che nel d.m. in commento si precisa, nella definizione stessa di firma digitale, che il certificatore può essere solo un certificatore accreditato, e non anche un certificatore qualificato. Questo ulteriore requisito sarebbe stato comunque richiesto per gli atti dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 34 del CAD. Considerato l’ambito di applicazione del decreto, è presumibilmente volto ad elevare la sicurezza degli atti informatici prodotti”. In ogni caso, all'inizio di luglio 2011 sul sito della DigitPa veniva pubblicata ed esposta ai commenti del pubblico la bozza delle regole tecniche sulle firme elettroniche . Proprio a seguito di questa consultazione pubblica veniva pubblicata, a settembre 2011, una nuova bozza.E arriviamo alla firma elettronica avanzata, definita come “insieme di dati in forma elettronica allegati oppure connessi a un documento informatico che consentono l’identificazione del firmatario del documento e garantiscono la connessione univoca al firmatario, creati con mezzi sui quali il firmatario

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può conservare un controllo esclusivo, collegati ai dati ai quali detta firma si riferisce in modo da consentire di rilevare se i dati stessi siano stati successivamente modificati”; essa è dunque una firma elettronica con alcune caratteristiche di sicurezza come lo è ad esempio l'OTP (One Time Password). Tuttavia la modalità con la quale avviene l'associazione al firmatario non è specificata; di sicuro c'è che avrà la stessa efficacia probatoria della firma digitale e della firma elettronica qualificata (quella prevista dall’art. 2702 del codice civile per la scrittura privata), validità che non è propria della semplice firma elettronica, per la quale continuerà ad essere necessaria una valutazione caso per caso del giudice sulla base delle caratteristiche di caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità. Unica eccezione: la firma elettronica avanzata non basterà per gli atti aventi ad oggetto beni immobili, per i quali sono richieste la firma elettronica qualificata o la firma digitale. Viene altresì individuato nell'Organismo di Certificazione di Sicurezza (OCSI), l'ente deputato ad accertare la conformità dei dispositivi di sicurezza dei quali devono essere dotate le firme elettroniche ai requisiti di sicurezza richiesti per la creazione di una firma qualificata.Sempre in materia di firma elettronica avanzata, novità arrivavano nel decreto Sviluppo dell'ottobre 2012 e nel “Salva HSM” del luglio precedente. Nel Gennaio 2011 la Lombardia metteva a punto un nuovo sistema digitale per l'approvazione di atti e provvedimenti facendo proprie le possibilità della firma digitale e la trasmissione degli atti permesso dall'implementazione della Pec.Nell'aprile 2013 una società veniva multata dall'Antitrust per aver pubblicizzato il suo pacchetto per la firma elettronica avanzata prima che la stessa fosse regolamentata tecnicamente.

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Un provvedimento anacronistico dato che il regolamento era atteso da più di due anni e che, soprattuto, la "linea amica" del governo rassicurava sulla validità della firma elettronica avanzat a .Nel maggio 2013 arrivavano due importanti decreti attuativi: uno sulla frima elettronica avanzata e l'altro sulla fatturazione elettronica.

Il 14 marzo 2011 la V sezione della Cassazione Penale, con la decisione n. 10200, interveniva per la prima volta in una vicenda riguardante un falso perpetrato per ottenere il rilascio di una firma digitale.

Nell'agosto 2012 diventava legge una proposta di modifica dell'articolo 68 del Codice dell'amministrazione digitale firmato dall'avvocato Marco Scialdone, membro del team legale dell'associazione Agorà Digitale. Nel testo si prevede l'obbligo di acquisto per le Pa di software open source quando una valutazione comparativa dei costi ne mette in luce la convenienza, riservando gli acquisti di programmi sotto licenza solo a casi residuali. Qui un'analisi dello stesso Scialdone.

Nell'ottobre 2012 la Regione Umbria si preparava ad abbracciare l'onpen source.

Il 18 aprile 2011 veniva invece pubblicato in G.U. il decreto del ministero della Giustizia n.44 del 2011 relativo al processo telematico. Venivano così rimpiazzate le regole contenute nel d.p.r. n.123 del 13 febbraio 2001 e nel decreto del ministero della Giustizia del 17 luglio 2008. Le nuove norme, in vigore dal 18 maggio 2011, contemplano l'uso della Posta Elettronica Certificata così come regolamentata nel CAD. Si prevedere che gli indirizzi di PEC dei soggetti interessati siano disponibili attraverso il portale dei servizi telematici e il registro generale

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degli indirizzi elettronici. Si parla poi del fascicolo informatico, che conterrà tutti gli atti del processo in formato digitale.

Il 23 settembre 2011 il TAR del Lazio rafforzava con una sentenza la validità della firma elettronica. Il 31 ottobre 2011 veniva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il D.C.P.M. Del 14 ottobre con il quale si proroga per altri due anni (fino al 1 novembre 2013) l'efficacia delle autocertificazioni e delle autodichiarazioni emesse dai certificatori di firma elettronica sui dispositivi per l'apposizione di firma con procedure automatiche, come già previsto dal D.C.P.M. Del 10 febbraio 2010. Per rientrare nei termini basterà che ogni dispositivo abbia ottenuto entro il 1 novembre 2011 il parere positivo dell’OCSI (Organismo di Certificazione della Sicurezza Informatica). Sul Sole 24 Ore si leggeva che “il mercato delle firme digitali – mercato in crescita, perché le sottoscrizioni elettroniche equivalgono alle firme autografe e garantiscono la provenienza e l'autenticità del documento informatico – rischia il blocco. Chi non può autocertificarsi perché non ha presentato la domanda – cioè, vista la tempistica, tutti gli operatori – ha le mani legate. Si attende un nuovo decreto che sbrogli la matassa”.

Analizzando le altre novità del nuovo CAD, la definizione di “identificazione informatica” sostituisce la definizione di “autenticazione informatica” precedentemente presente nel Codice. Per quanto riguarda invece i file privi di firma informatica, essi sono già dotati di una specifica efficacia probatoria riconosciuta dalla legge, dalla giurisprudenza e anche dalla Corte di Cassazione nel 2001 (sentenza 11445) e nel 2005 (sentenza 9888). A questo si affianca la ridefinizione dei concetti di copia nei vari passaggi tra analogico e informatico (art. 22, 23 e 23-bis): sono state, infatti, elaborate nuove definizioni di “copia informatica di documento

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analogico”, “copia per immagine su supporto informatico di documento analogico”, “copia informatica di documento informatico” e “duplicato informatico”. Il tutto non è esente da problemi interpretativi che verranno probabilmente risolti con le regole tecniche di futura emanazione; il CAD rimanda infatti, e non solo su questo punto, a questo tipo di regolamenti aggiuntivi. Viene altresì introdotto il timbro digitale per le copie analogiche di documenti amministrativi informatici (art 23-ter), oltre alla possibilità di dialogo tra PA e imprese e tra i vari organismi della PA tramite qualsiasi PEC purché il gestore abbia proceduto al riconoscimento in fase di assegnazione delle credenziali di accesso (art. 65), possibilità che diventava obbligo dal marzo 2011. Si introducono poi novità in tema di conservazione dei documenti digitali, forse l'unico vero aspetto nel quale la sistematicità e rigorosità del nostro sistema legislativo si dimostra più avanzata rispetto a quella di molti altri paesi (USA inclusi) che solo ora fanno i conti con la volatilità dei bit. All'art 44 comma 1-ter si da alla PA la possibilità di affidare in outsourcing i processi di conservazione digitale (art 44 comma 1-ter), in merito alla quale restano aperti punti critici come il fatto che il “conservatore” è anche colui che certifica la qualità della conservazione e che in sede di bando pubblico per questo ruolo si potranno presentare solo società che hanno un capitale sociale di almeno 200000 euro. Obbligatoria diventa inoltre la presenza di un dettagliato piano di continuità operativa in caso di emergenza per ogni organismo della PA. Previsti infine premi e sanzioni sulla scorta della brunettiana riforma della Pubblica Amministrazione attuata con il decreto 150/2010, mentre al cittadino basterà fornire i propri dati alla PA una sola volta; sarà essa ad avere poi l'onere di renderli accessibili a tutti gli uffici. Previsto infine in pochi mesi il passaggio a bandi

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pubblicati online.

Il primo a muoversi per allinearsi al nuovo CAD è Nichi Vendola, che già nei primi giorni di marzo firmava un protocollo d'intesa sull'innovazione nella Pubblica Amministrazione con Brunetta. Lo stesso Vendola pochi mesi prima aveva firmato un altro protocollo d'intesa con Microsoft Italia per la creazione di specifici centri di competenza volti a sperimentare soluzioni per la PA sul territorio pugliese, dopo una ricognizione sullo stesso. Per questo Vendola è stato contestato dall'Associazione per il software libero (Assoli), soprattutto per le posizioni espresse più volte da lui e dal suo partito in favore dell'open source; ad esempio, nel dicembre del 2010 era stato ospite del governatore a Bari Richard Stallman, fondatore della Free Software Foundation, a cui la giunta regionale chiedeva di collaborare per la stesura della legge regionale per il software libero; allo stesso tempo Vendola stipulava un protocollo speciale con l'Ufficio scolastico della Puglia, per il software libero nelle scuole, concludendo con l'annuncio dell'intenzione di ospitare in Puglia gli stati generali del software libero durante il 2011; infine, nel luglio 2011 si arrivava alla presentazione di un disegno di legge per far si che i cittadini pugliesi possano accedere ai dati delle amministrazioni senza spendere un euro grazie alle tecnologie open che le stesse adotterebbero). Vendola si difendeva così dalle accuse: "I veri nemici non sono più Windows, Google, Leopard o iPad […] Il vero nemico è il digital divide in cui il paese è prigioniero". Rimanendo in tema di Puglia, il sindaco di Bari Michele Emiliano è finito più volte negli ultimi mesi nell'occhio del ciclone per aver postato sulla propria pagina Facebook video di denuncia nei confronti dei dipendenti comunali “fannulloni”, riprendendone comportamenti non

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lodevoli ma tirandosi così addosso le critiche di tutto il mondo sindacale.

Nel nuovo CAD presente anche la disposizione che obbliga le PA a prevedere piani di disaster recovery; anche se nel giugno 2012 questo punto è ancora per la gran parte ignorato.

Il 19 marzo 2011 venivano pubblicate in Gazzetta Ufficiale le linee guida del Garante della privacy in merito al trattamento dei dati personali sul web da parte dei soggetti pubblici (“Linee guida in materia di trattamento dei dati personali contenuti anche in atti e documenti amministrativi effettuato da soggetti pubblici per finalità di pubblicazione e diffusione sul web”), e poche settimane dopo si specificava che per quanto riguarda l'Agenzia delle Entrate e la Presidenza del Consiglio dei Ministri esistono larghe eccezioni alle norme contenute nel nuovo CAD.In agosto, arrivavano le definitive “Linee guida per i siti web delle PA 2011”, mentre nelle stesse ore sul sito della DigitPa compariva la bozza delle regole tecniche in materia di conservazione e trattamento dei documenti informatici; la bozza veniva sottoposta ai commenti pubblici per un mese.

All'inizio di aprile 2011 partivano gli Sportelli Unici per le Attività Produttive per la creazione di un database di documentazione utile alle imprese per relazionarsi con la Pubblica Amministrazione. Dal 7 ottobre 2011 è invece online l'Osservatorio sulle partite Iva del Dipartimento delle Finanze.

Nel gennaio 2011 veniva avanzata, attraverso le pagine del Corriere della Sera, l'iniziativa pubblica Agenda Digitale, che si pone l'obiettivo di portare le questioni relative alle nuove

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tecnologie al centro del dibattito politico nazionale, chiedendo alla politica di assumersi le sue responsabilità in merito. La mission e le motivazioni che spingono alla creazione del progetto sono da ricercare tutte nella consapevolezza dell'importanza che le ICT rivestono in chiave di sviluppo economico e sociale, problematiche e punti critici compresi. Insomma, un'iniziativa a 360° in merito ad Internet. Cento, tra esperti del settore, imprenditori, top manager e personaggi del mondo dello spettacolo i firmatari che chiedono a tutte le forze politiche l'impegno a interessarsi concretamente della questione, coinvolgendo così in una rete i vari pezzi del sistema. L'appello si apriva così: “Per i giovani che si costruiscono una prospettiva, per le piccole imprese che devono competere nel mondo, per i cittadini che cercano una migliore qualità della vita, l’opportunità offerta dalla tecnologia è irrinunciabile. Il XIX secolo è stato caratterizzato dalle macchine a vapore, il XX secolo dall’elettricità. Il XXI secolo è il secolo digitale . La politica ha posto la strategia digitale al centro del dibattito in tutte le principali economie del mondo. Ma non in Italia”. Proprio nella sezione “risorse” del sito di Agenda Digitale cono illustrati i modelli dei paesi europei ai quali bisognerebbe allinearsi: la Germania, ad esempio, dove il governo ha redatto il progetto Digital Deutschland 2015, nel quale si stima che la banda ultra-larga genererà un milione di nuovi posti di lavoro in Europa; o la Francia, con Sarkozy che ha destinato 4,5 miliardi di euro alle politiche di sviluppo delle ICT; oppure la Spagna, che si è data come obiettivo di investire in innovazione il 4 per cento del PIL entro il 2015 ed arrivare a 150 brevetti annui per milione di abitanti.Vene anche citato il Commissario per la Società dell'Informazione della Commissione Europea, Neelie Kroes,

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la quale considera l'agenda digitale un elemento base della sostenibilità socio-economica. L'appello richiede così "un impegno concreto" da parte della politica che si traduca "nella presentazione, entro 100 giorni, di proposte organiche per un'Agenda digitale per l'Italia". Certo la richiesta di elaborazione di proposte concrete entro 100 giorni dall'appello era più una provocazione visto il momento politico, ma resta indubbio il significato di un'iniziativa potenzialmente di ampia portata, che ha scontato da subito aperture da varie parti del mondo politico ma allo stesso tempo scetticismo e critiche. La firma di Franco Bernabè, all'epoca amministratore delegato di Telecom Italia, faceva ad esempio storcere un po' il naso a chi come Vittorio Zambardino si pone sempre più verso un modello etico e purista della libertà di Rete, pur non disdegnando di dare eco all'iniziativa dai bit del suo blog. Si palesava poi l'ira del ministro Paolo Romani che rinfacciava alle telco di contraddirsi da sole firmando il documento perché esse sono testimoni diretti degli sforzi del governo al tavolo al quale siedono col ministro stesso per lavorare alle infrastrutture per la broadband, rivendicando nella stessa sede gli impegni del governo nel contrastare il digital divide (ridotto a sua detta del 13% dal 2009 al 2010) e la messa a punto di 1000 cantieri per lavorare nello stesso senso. Interessante l'interpretazione che del fatto dava Massimo Mantellini su Punto Informatico il 7 febbraio 2011: “Il prestigio dei Ministri della Repubblica è infatti da noi calcolato con una strana unità di misura, che ha poche relazioni con i concreti risultati ottenuti e moltissima attinenza invece con la centralità del Ministro stesso nel dibattito mediatico. Vale molto di più, nell'attuale scala di valori della politica italiana, una sfuriata di Brunetta contro i fannulloni o un rogo di scatoloni pieni di documenti da parte

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del Ministro Calderoli in TV, che non qualsiasi concreto passo avanti della amministrazione, silenziosamente concordato a beneficio dei cittadini. Così Romani, invece di infastidirsi per la sua inconsistente attività nei panni di Sottosegretario alle Comunicazioni, per le comiche assicurazioni sugli investimenti promessi, sempre poi rapidamente smentite dai fatti, o per la generale incapacità della politica nostrana a mostrare capacità di indirizzo nelle scelte di sviluppo tecnologico del Paese, si arrabbia perché un folto gruppo di imprenditori di primo piano, mescolato a professori universitari, giornalisti, uomini di spettacolo ed esperti di rete, chiede alla politica di preparare nei prossimi 100 giorni una agenda digitale per il Paese”, sostanzialmente mettendone a nudo tutti gli indubitabili ritardi che si nascondono al di là dei proclami. Perché in fondo, la sensazione che si ricava è che da noi si vive alla giornata nella regolamentazione del web, non ci sono progetti di lungo periodo, quelli che ci sono non decollano e soprattutto vengono osteggiati da una mentalità vecchia che vede nella rete solo un pericolo (riprenderò il discorso poco più avanti). Da un grafico presente sul sito dell'ITU risalente allo scorso anno si evince come l'84 per cento dei paesi mondiali possegga una strategia di sviluppo digitale, il 7 per cento la stia per adottare, e i restanti siano solo la Libia, la Somalia e l'Italia. In questo senso è da accogliere positivamente l'apertura al progetto di Agenda Digitale da parte di Brunetta, al quale però si faceva notare, tra le altre cose, il mancato lancio del sito dati.gov.it, piattaforma che avrebbe dovuto promuovere la trasparenza dei dati della PA; contro i ritardi si prospettavano all'orizzonte azioni come quella dell'Associazione Italiana per l'Open Government, che proponeva di hackerare i dati stessi per renderli pubblici. Open Government, o Open Data, letteralmente “dati aperti”, è una pratica che postula che alcune tipologie di dati in possesso di

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enti e istituzioni delle amministrazioni pubbliche siano liberamente accessibili a tutti e in un formato privo di ostacoli di acquisizione e rielaborazione. Già nel 2008 i Radicali avevano avviato una campagna per la trasparenza e la pubblicazione delle informazioni riguardanti i redditi, gli incarichi, i curricula e i comportamenti istituzionali (presenze, votazioni e sedute) degli eletti e dei nominati. L'obiettivo era dunque realizzare un'Anagrafe Pubblica degli eletti e dei Nominati; fin'ora poco più del 7% dei Parlamentari hanno aderito a questa campagna di trasparenza (trincerandosi dietro le leggi sulla privacy). Nel marzo 2011 l'iniziativa veniva così rilanciata unendo gli sforzi con Agorà Digitale e Valigia blu proponendo una petizione e un'azione di “mail bombing” verso i parlamentari restii ad aderire all'anagrafe. In parallelo, i Radicali proponevano anche iniziative di open data per la trasparenza del Parlamento e davano l'esempio digitalizzando gli elenchi dei fornitori del Parlamento con i relativi contratti, un'operazione in stile Wikileaks che rispecchia in realtà alcuni punti del programma con la quale la Bonino si era presentata alla corsa per diventare governatore del Lazio del 2010; proprio il Lazio, e proprio su proposta dei radicali, nel maggio 2012 “apriva” i propri database (qui invece un po' di siti con gli open data d'Italia). In questo senso sono da segnalare anche progetti come Openpolis.it, un database della storia di 127mila politici italiani in carica (ogni tipo di carica) costruiti negli ultimi tre anni con dati pubblici (che non è sinonimo di noti) da una community di circa 10mila utenti. E proprio esponenti di Openpolis e dei Radicali sono stati tra i relatori del convegno “Diritti civili di nuova generazione” svoltosi durante l'IGF Italia del novembre 2010, nel quale è stata anche promossa la disobbedienza civile in merito ai nuovi regolamenti Agcom sulle webtv: Marco Cappato parlava dell'apertura di una webtv

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alla quale bisognava mandare scontrini di ogni tipo così da raggiungere i 100mila euro di fatturato per porsi all'interno dell'area regolamentata e, lì, disobbedire. Nel novembre 2010 nasceva anche l'associazione italiana per l'Open Government, promossa da una nutrita schiera di esperti di diritto e di nuove tecnologie, funzionari pubblici e privati e docenti universitari, che ha il proprio riferimento online nel sito datagov.it.Nel luglio 2012 la Provincia di Trento apre all'open source.

Il 18 ottobre 2011 partivano due ambiziosi progetti, uno promosso dallo Stato, il piano operativo per l'Open Government, e uno da una rete di cittadini, Wikitalia.Il primo prevede la liberazione dei dati della Pubblica Amministrazione passando per tre step: il portale dati.gov.it, un vademecum Open Data per chi vuole allinearsi ma non ne ha ancora le competenze e Apps4Italy, concorso aperto anche ai cittadini per lo sviluppo di applicazioni e strumenti utili alla causa. A dicembre arrivava anche l'apertura della Camera dei Deputati agli open data tramite il sito dati.camera.it; in esso, saranno disponibili le informazioni sulle attività con licenze Creative Commons e in diversi formati.

Il 9 marzo 2011 esordiva il nuovo sito del Ministero dello Sviluppo Economico, poche settimane prima passato a Paolo Romani dopo circa sette mesi di situazione vacante a seguito delle dimissioni di Claudio Scajola. Nelle stesse settimane veniva annunciato un piano da 50 milioni di euro per la digitalizzazione degli archivi cartacei relativi alla giustizia (atti, notifiche e pagamenti) del nostro paese che i prevede entrerà a regime nell'ottobre 2012.

Non è andato certo bene il lancio del progetto sui certificati

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medici online promosso dai ministeri di Semplificazione normativa e Salute e dall'INPS: in pratica, i medici di famiglia avrebbero dovuto inviare dal 31 gennaio 2011 i certificati di malattia dei lavoratori ad INPS e datori di lavoro, con sanzioni che dopo due mancati invii avrebbero portato addirittura alla revoca della convenzione col Servizio Sanitario Nazionale. Ma nonostante alla fine del 2010 il 90% dei medici risultasse attrezzato, tra mancanza di strumenti, mancanza di conoscenza e scarsità di banda il progetto è partito nel caos più totale, rendendo indispensabili nuovi interventi ministeriali, appelli, denunce, polemiche e posticipazioni. C'erano aspetti della normativa che hanno portato qualcuno addirittura a dubitare dl valore legale dei certificati stessi (è il caso dell'avv. Andrea Lisi). Con il decreto emesso dal ministero di Economia e Finanze e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 5 marzo 2011 si dava invece l'avvio alle ricette mediche elettroniche; i medici di famiglia dovranno così provvedere alla trasmissione allo stesso ministero di tutti i dati relativi alla somministrazione quotidiana di ricette. Per farlo potranno utilizzare il Sistema di Accoglienza Centrale (Sac); partiti per primi i medici della Valle d'Aosta il primo aprile 2011. Per Brunetta ci sarà un risparmio potenziale del 30% sulla spesa farmaceutica (circa 800/900 milioni di euro) derivanti soprattutto dal mancato utilizzo di carta.Dal 14 settembre 2011 invece un lavoratore in malattia potrà inviare tramite Internet il certificato medico al suo datore di lavoro, come prevede la circolare 4/2011 della Funzione Pubblica e del Ministero del Lavoro. Dal 2 dicembre 2011 arrivano le ricette mediche elettroniche.

All'inizio di ottobre 2011 veniva specificata la validità delle

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norme del CAD in ambito finanziario.

A dicembre 2011 qualche riflessione sul nuovo CAD e sulle norme in esso contenute in materia di conservazione digitale dei documenti dell'avvocato Andrea Lisi. Lo stesso Lisi approfondiva l'argmomento firme digitali e HSM. Pochi giorni dopo l'Agcm, autorità garante del mercato, adeguava le modalità della sua comuinicazione esterna al CAD.

Nei primi giorni del 2011 il presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara lanciava un gravissimo allarme: per colpa dei tagli decisi dal governo all'assistenza informatica per i tribunali gli stessi rischiano una paralisi informatica che diventerebbe automaticamente paralisi del sistema giudiziario.

Nel gennaio 2011 il Ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, e la Polizia Postale hanno iniziato a collaborare con Google per una serie di iniziative, tra le quali un nuovo round di presentazione per il parental control di BigG e una collaborazione con le scuole italiane per spiegare l'uso responsabile della Rete.

Da un accordo tra Telecom Italia e Trenitalia dal dicembre 2010 arriva il WiFi sui vagoni dell'Alta Velocità (i Frecciarossa) e una migliore ricezione del 3G. Dopo il primo mese gratuito, venivano introdotti progressivamente sistemi di pagamento. Subito arrivati i proclami di contromosse dai concorrenti Arenaways ed Ntv (il treno di Montezemolo e Della Valle in attesa di arrivare sulle rotaie), sui cui siti online si parla di future connessioni gratuite sulle carrozze.

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Google sembra voler riempire alcuni vuoti lasciati dalla politica; è la sensazione che emerge guardando il progetto Internet Revolution, che si pone di aiutare tra le 50 e le 100mila microimprese nazionali a sbarcare su Internet; investendo circa 5 milioni di euro il colosso di Mountain View fornirà assistenza in fase di start-up per la realizzazione e gestione di un sito web per i primi sei mesi, ricavandone ovviamente un'importante fetta del panorama pubblicitario ma promuovendo in ogni caso sviluppo in un settore chiave (esperienza già fatta in Polonia). Il Google filantropo spende anche nel settore dell'editoria, finanziando anche qui progetti innovativi.

Partite in marzo due nuovi consultazioni pubbliche tra Agcom e tutti i soggetti interessati al mercato dell'online (i cosiddetti stakeholder): la prima, che sarà preceduta da una indagine conoscitiva nel settore (già avviata in precedenza con la delibera 649/09/CONS), riguarderà il traffico P2P e il VoIP; la seconda, si concentrerà sul tema della net neutrality (delibera 40/11/CONS). Obiettivo di entrambe è cercare di elaborare un quadro regolatore quanto più possibile bilanciato tra interessi di parte e libertà, analizzando a fondo le nuove pratiche di comunicazione, di scambio di contenuti di ogni tipo nonché i pericoli discriminatori e nocivi per gli utenti che si potrebbero generare dal venire meno della neutralità della Rete. Si affianca ad esse l'indagine conoscitiva promossa nelle stesse ore dalla Commissione Trasporti e Lavori pubblici del Senato: l'obiettivo è intercettare le problematiche che affliggono lo sviluppo della banda larga e mettere a punto soluzioni che li elimino nel cammino verso il futuro digitale.

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Approfondisco in queste ultime pagine il discorso sulla “mentalità” della classe dirigente italiana.

Si vede in Internet un pericolo più che un'occasione, confermando il cattivo rapporto che parte del nostro paese ha con l'innovazione. Problema non solo di investimenti pubblici e privati, ma anche di alfabetizzazione (scarsa) ai media digitali nella popolazione (“schiava” della tv) per larga parte anziana.A ciò si aggiunge la resistenza di élite e corporazioni a cambiamenti potenzialmente radicali, insieme a quella di molte lobby: dalla resistenza dei giornalisti della vecchia guardia a quella di chi Internet non lo conosce e ne ha paura (spesso perché conosce la Rete solo dagli apocalittici resoconti dei primi; ma in fondo, anche Gutemberg ha dovuto scontrarsi con la lobby degli amanuensi...), senza contare chi non capisce che il lato cattivo della rete è forse solo un piccolo prezzo da pagare per avere anche quello buono. E poi, la lobby delle major dell'intrattenimento, mentre il mondo dell'imprenditoria non sfrutta ancora il potenziale delle ICT.Da parte sua, lo stato dovrebbe dunque essere impegnato nel riconoscimento di quello che ormai è un diritto che va tutelato, senza interferire/ostacolare/favorire qualcuno, e predisporre le condizioni necessarie affinché questo diritto possa realizzarsi (in sostanza, di welfare trattasi). Oltre al diritto sociale c'è la possibilità di crescita economica (per il paese tutto) offerta dagli investimenti sulle ITC; in Italia entrambi gli aspetti vengono praticamente sottomessi ad un'ideologia reazionaria o agli interessi economici dell'élite.Tutto questo va a creare un circolo vizioso che ci lascia indietro.Si arriva a frasi come quelle di Brunetta, che nell'ottobre 2010 dichiarava: “È inutile pensare agli 800 milioni che mancano

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per la banda larga in Italia quando il suo livello attuale di utilizzo è inferiore al 50 per cento", spostando la colpa ai cittadini ma soprattutto ribaltando il focus della questione. Parlando come il dirigente di un'azienda di telecomunicazioni e non come un membro delle istituzioni che ha il compito proprio di invertire la rotta in chiave di maggiore sviluppo del paese e delle possibilità che esso offre ai cittadini anziché adattarvi le proprie mosse per un maggiore ritorno economico; bisogna cioè, oltre a predisporre misure per eliminare il digital divide tecnico, anche quelle che permettano di eliminare quel digital divide delle persone raggiunte da Internet ma non in Rete, per un motivo o per l'altro (quasi sempre per mancanza di alfabetizzazione al mezzo); fare proprio cioè il motto “se lo costruisci, le persone verranno”.

E la situazione appare sempre più cupa approfondendo ulteriormente il discorso sul rapporto tra Internet e Silvio Berlusconi. Gli spazi online curati per il presidente del Consiglio da Antonio Palmieri sono impostati più che altro su una logica televisiva, broadcast e push (one-to-many, unidirezionale), paragonabili più ai palchi dei comizi che alle piazze di discussione online [nel giugno 2011 i siti pdl.it, governoberlusconi.it, forzasilvio.it e silvioberlusconifansclub venivano attaccati dal gruppo hacker Anonymous nell'ambito dell'Operation Italy; poche settimane dopo era la volta del sito del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche (CNAIPIC, istituito con decreto del Capo della polizia il 7 agosto 2008), dal quale gli Anonymous trafugavano documenti secretati sui rapporti tra l'Italia e gli altri paesi; poche ore dopo, tuttavia, il gruppo di hacker smentiva un proprio coinvolgimento in quest'ultima operazione, anche se, passati ancora alcuni giorni, sotto attacco

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finiva il Vitrociset, che gestisce i più svariati sistemi informatici per la difesa, il controllo del traffico aereo e i trasporti]. Il che risulterebbe il minimo di fronte a scenari tutt'altro che auspicabili; al di là dello sfruttamento di Internet come focus group gratuito (soprattutto per chi ha così tanto feeling con la politica dei sondaggi di matrice populista) e come simbolo di “modernità”, cosa che lo ha spinto negli ultimi mesi ha sbarcare con audiomessaggi anche su Facebook (sempre nell'ottica broadcasting però), c'è da sperare che l'impero di Berlusconi non riuscirà nell'impresa di colonizzare economicamente anche il web, in alternativa all'ostacolarlo per via degli interessi televisivi. Nell'Italia degli interessi incrociati tutto questo potrebbe realizzarsi più o meno così: detto della predominanza di Telecom nel mercato delle telecomunicazioni, infatti, va segnalata la presenza ai vertici della telco di Guido Vigorelli, che a Mediaset ha passato praticamente tutta la sua carriera ed è stato vicino a Forza Italia per tutto il quindicennio di vita del partito; lo scenario meno peggiore è la vicinanza di premier e maggiore operatore, ma non si può escludere il peggiore: Mediaset compra Telecom e, come avviene per il tubo catodico, anche in Internet la maggior parte dei contenuti che arrivano in Rete passerebbe per il provider di proprietà del presidente del Consiglio...Il tutto mentre, sul versante opposto, le potenzialità della Rete si esprimono in maniera inequivocabile: vedi No B-Day del 5 dicembre 2009.L'atteggiamento dell'impero berlusconiano nei confronti della Rete si è palesato a ripetizione negli ultimi anni, a partire dal caso Mediaset vs Google, che appare soprattutto figlio del ritardo di Mediaset nel capire Internet; solo pochi mesi fa a Cologno Monzese di riteneva lontano il momento nel quale

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Internet avrebbe potuto erodere pubblico (e inserzionisti) alla tv tanto da metterla in crisi. Oggi, Mediaset si scontra con i numeri del web e di canali come Youtube, ma anche con esperienze come quella di Hulu.com, il servizio web lanciato da Murdoch e Universal insieme (presto aggiuntasi anche la Disney) che partito nel 2008 proponeva gratis materiale di Nbc e Fox (e non solo) con una definizione migliore di Youtube ha fatto registrare nel primo anno di attività 50 milioni di utenti mensili e 65 milioni di dollari di fatturato, con un 15-18% di margine operativo lordo, proventi pubblicitari che per il 30% finiscono al sito e per il 70% finiscono ai produttori di contenuti, che sono però gli stessi proprietari della piattaforma. Si cerca così di correre ai ripari, con esperimenti come video.mediaset.it ma anche attraverso i tribunali, come già citato; oppure con provvedimenti legislativi. Del resto, il Decreto Romani, coincidenza, arriva proprio mentre Mediaset sbarca sul web. Inoltre la vicinanza tra Romani e Berlusconi è ormai decennale, con il primo impegnato più volte nella ricerca di soluzioni legislative più possibile “Mediaset oriented”. Anche l'ambasciatore americano a Roma, David Thorne, affermava il 3 febbraio 2010: “Il decreto legge Romani creerebbe un precedente che nazioni come la Cina potrebbero copiare o usare come giustificazione nel porre un limite alla libertà di parola - come è possibile apprendere da alcuni documenti pubblicato su Wikileaks- la legge sembra scritta per dare la governo il potere di censurare o bloccare qualsiasi contenuto di Internet”, rivelando altresì il dubbio che la legge potesse favorire Mediaset nel confronto con Sky: “Questo è uno schema familiare: Berlusconi e Mediaset hanno usato il potere di governo in questo modo sin dai tempi di Bettino Craxi”.Solo il 23 febbraio 2011 Mediaset Premuim fa partire il suo

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servizio di tv on demand in streaming. Molto meglio la Rai già attrezzata da tempo in merito alla disponibilità dei contenuti sul suo sito.Ha dell'incredibile la vicenda che avvolge il dominio mediaset.com nei primi mesi del 2012: l'azienda dimentica di rinnovarne i diritti e il dominio stesso va all'asta; in quella sede se lo aggiudica una società statuniteste. Da Cologno Monzese parte un ricorso alla Wipo (World Intellectual Property Organization), iniziativa che viene però respinta dall'organo. Il biscione si rivolge così alla giustizia italiana, la quale gli dà ragione ad aprile, quando la nona sezione del tribunale civile di Roma accoglie il ricorso dichiarando che l'acquisto del dominio da parte della società a stelle e strisce è avvenuto in mala fede e con il solo intento di “agganciamento del noto marchio Mediaset”, imponendo la cessazione dell'uso dello spazio online pena un pagamento di una multa di 1000 euro per ogni giorno di ritardo. Peccato, però, che la decisione del tribunale capitolino abbia ben poca speranza di essere considerata vincolante in sede internazionale.

Il governo Berlusconi, in generale, non ha fornito belle prestazioni in momenti importanti per la Rete. In merito al caso “Tartaglia”, ad esempio, Maroni pensava a implementazioni di filtri simili a quelli antipedopornografia per evitare la diffusione di contenuti come i siti pro-Tartaglia, senza meglio specificare l'agghiacciante parola “filtri”. Pierferdinando Casini in un discorso alla camera puntualizzava: “le leggi esistenti già consentono di perseguire i responsabili di istigazione o apologia in rete, e per farla rispettare la polizia postale fa un lavoro straordinario. Guardiamo agli Stati Uniti d'America, guardiamo a quello che succede in quel paese che è la grande frontiera della libertà: dove Obama riceve intimidazioni

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inaccettabili su internet ma dove a nessuno è mai venuto in mente, nemmeno nell'anticamera del cervello, di censurare internet”; Gianfranco Fini invitava poi il governo a “non cedere alla sindrome cinese, la tentazione della censura preventiva”. Al su citato tavolo di autoregolamentazione si arrivava dopo la retromarcia di Maroni su questi filtri.Nell'aprile 2011 teneva invece banco per qualche ora il caso dei “Falsi” aquilani a Forum. Lo sfogo degli aquilani rimbalzava in Rete generando un curioso episodio sul sito www.quotidianoabruzzo.it; in calce ad alcuni commenti spuntava infatti una nota dell'ufficio stampa del capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, che suonava come un avvertimento: chiunque avesse “postato commenti diffamanti sull'operato del governo e di Berlusconi” avrebbe rischiato querele alla Polizia postale.Ma è un po' tutto il mondo della politica nostrana ad essere indietro nello sfruttamento di Internet, che si pensa di poter usare (ancora) come nuova piazza da comizio più che (come invece è nel DNA del mezzo) spazio relazionale costruito su botta e risposta e non su propaganda. Non basta veicolare i propri messaggi, in rete si dialoga e ci si apre al confronto (per un approfondimento del tema si rimanda a “campagne online Bentivegna” e “nemici della rete). Il politici italiani sembrano i protagonisti ideali dell'affermazione di Manuel Castells: “L'approccio dei politici al web 2.0 è tecnologico ma non concettuale”. Un uso improprio del mezzo (così come risposte improprie all'uso altrui) può generare danni a catena e risultati opposti a quelli sperati. Come sempre ci sono da fare le dovute eccezioni: importanza alla Rete sembrano dare Gianfranco Fini (anche per via della contrapposizione con Berlusconi che lo costringe ad utilizzare il mezzo, vedi FareFuturo), Antonio Di Pietro e, soprattutto,

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Nichi Vendola. E' comunque in fase di avanzamento l'uso del 2.0 nella bagarre politica anche grazie a società di consulenza, pur se lentamente e con i difetti appena descritti (clicca qui per i dati relativi all'uso del Web da parte dei candidati alle importanti elezioni amministrative del 15 e 16 maggio 2011).

Questo mi introduce a parlare del fatto che anche in Italia ci sono avanguardie culturali e persone ampiamente al passo coi tempi, e sono milioni. Il lettore ha avuto modo di incontrare vari esempi di questa forte spinta dal basso a favore dello sviluppo della Rete, spinta che proprio in rete trova la sua massima espressione. Su Scene Digitali del 13 marzo 2011 era ad esempio possibile leggere : “La Rete a questo paese ha fatto bene: per la prima volta, dopo l’unificazione linguistica realizzata dalla televisione negli anni ‘50-’60, quella criticata da Pier Paolo Pasolini, abbiamo una unificazione linguistica attiva, realizzata in forme di espressione articolate. Sarà pure imperante l’italiano del “cosa centra questo” e “nn pso prlrt” ma il risultato complessivo è buono. Non è vero che il ritardo nello sviluppo delle infrastrutture ci abbia bloccato del tutto. Siamo un paese con uno sviluppo record dell’utenza Facebook; i blog hanno avuto una stagione fiorente; l’Italia è piena di ragazzi che pensano di usare la rete per sviluppare un’attività in proprio. Il ritardo infrastrutturale è pesante e sul lungo periodo avrà effetti catastrofici. Al momento produce forme paradossali di digital divide: come il servizio 100 megabit, che sarà disponibile nei centri delle città, ma non nelle periferie. A Roma, se abiti al di là delle mura aureliane, sei un web citizen di serie B. L’alfabetizzazione digitale non aspetta i programmi ufficiali. Si autosviluppa come può, con gli strumenti dati e non c’è niente da fare se i ragazzi passano il loro tempo immersi nel web. Così è, è umanità che forma i suoi modi di vivere da sola,

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senza chiedere permessi a nessuno. Tutto questo fa dell’Italia un paese con una sola “sfera” digitale, dove il tratto linguistico vince su ogni altra spinta. Ciò che è criminale (sì, criminale) è il ritardo dei media e della politica nello scommettere sul web c0me fattore di sviluppo dell’economia. Qualche giorno fa si è letto che i ragazzi fra i 20 e i 24 anni non dichiarano reddito: è a loro che la rete potrebbe dare una nuova opportunità. Ma non di solo pane si tratta, è di cultura e mentalità che abbiamo bisogno…. Ritardo culturale significa discutere ancora in termini di digitale separato dal reale. Se non vediamo che la rete è come l’aria che ci avvolge e che il tempo degli amanuensi, e della loro concezione del mondo, è finito, allora davvero non ci siamo ancora.

Il 4 novembre 2010 su Wired.it il giurista Stefano Rodotà proponeva l'inserimento del diritto all'accesso ad Internet tra quelli fondamentali tutelati in Costituzione; Rodotà affermava che “una cittadinanza amputata della dimensione digitale non sarebbe più una cittadinanza, perché escluderebbe la persona dalla dimensione globale […] La conoscenza va vista come un bene pubblico globale, non solo rivedendo categorie tradizionali come quelle del brevetto e del diritto d’autore, ma evitando fenomeni di “chiusura” di questo “common”, che caratterizza la nostra società come quella “della conoscenza”. L’accesso è l’ineliminabile punto di partenza, ma ha una natura strumentale: ogni persona dev’essere nella condizione di godere delle opportunità del Web”. La proposta veniva rilanciata in occasione dell'Internet Governance Forum Italia 2010 (svoltosi il 29 e 30 novembre a Roma) , nel quale veniva presentato la proposta di Articolo 21-bis da inserire nella Carta : “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità

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tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale". La formulazione, ponendo subito l'accento sull'accesso, rimetterebbe allo stato un dovere ineludibile nel confronti della risoluzione del digital divide. Il 19 dicembre sempre su Wired.it, Rodotà rilanciava affermando: “Diversi paesi hanno già dato riconosciuto il diritto di accedere a Internet come diritto fondamentale della persona con una varietà di strumenti – costituzioni (Estonia, Grecia, Ecuador), decisioni di organi costituzionali (Conseil Constitutionnel, Francia), legislazione ordinaria (Finlandia) –; il piano Obama contiene una significativa reinterpretazione del servizio universale; l’Unione europea e il Consiglio d’Europa si sono già espressi in questo senso; proprio in questo momento se ne discute intensamente in Rete […] Il fatto, poi, che in Italia si possa già fare riferimento a norme costituzionali o ordinarie non è considerazione di per sé risolutiva. Al contrario, abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a continue incursioni che considerano Internet come un territorio dove si possano mettere impunemente le mani, nella sostanza negando proprio che si tratti di materia già accompagnata da una adeguata copertura costituzionale. Se la proposta di un articolo aggiuntivo spingerà ad una reinterpretazione dell’art. 21 e ad una estensione della garanzia costituzionale, non sarà un risultato da poco”. Dunque, questo è anche uno dei tentativi di togliere dall'immaginario collettivo l'idea di “cittadino digitale” come se fosse qualcosa d'altro rispetto alla cittadinanza reale; come suggerisce Massimo Mantellini, in merito sarebbe meglio eliminare l'aggettivo “digitale” e parlare solo di cittadini; cittadini che hanno diritto di essere anche digitali.

L'apprezzamento dal mondo della politica è arrivato pressoché unanime, e a dicembre arrivava in Parlamento il disegno di

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legge 2485 che , firmato da 16 senatori, puntava a dare inizio all'iter di inserimento di questo “diritto 2.0”, anche se a mesi di distanza di concreto si è mosso poco. Almeno a livello nazionale, perché in fondo un primo risultato istituzionale è arrivato al comune di Venezia, che inaugurava l'anno nuovo inserendo nello Statuto comunale questo emendamento:”Il Comune di Venezia considera la rete internet un’infrastruttura essenziale per l’esercizio dei diritti di cittadinanza; concorre a garantire ai cittadini e a chi visita la città l’accesso alla rete internet in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale; adotta procedure atte a favorire la partecipazione dei cittadini all’azione politica e amministrativa tramite la rete internet, tenendo conto della varietà delle caratteristiche personali, sociali e culturali e si adopera per favorire la crescita della cultura digitale con particolare riguardo alle categorie a rischio di esclusione”. Al tutto seguiva l'istituzione di corsi di alfabetizzazione digitale e la progettazione di 200 hotspot urbani.

Nel luglio 2012 l'Onu ribadiva la sua visione di Internet come diritto umano.

Alla fine di settembre 2011 Assoprovider segnalava all'Antitrust il progetto di Google LaMiaImpresaOnline, accusato di essere in abuso di posizione dominante.

Si è svolto a Nairobi (Kenya) alla fine di settembre 2011 il sesto Internet Governance Forum (IGF) delle Nazioni Unite, che vedeva coinvolti 100 paesi. Qui il resoconto presentato da Wired.

All'inizio di ottobre 2011 sul Sole 24 Ore appariva un calcolo effettuato dagli Osservatori del politecnico di Torino: un serio programma di digitalizzazione della pubblica amministrazione

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centrale e locale porterebbe ad un risparmio di circa 43 miliardi di euro sulla spesa corrente.

Il primo novembre 2011 si teneva a Londra una conferenza internazionale per discutere sul futuro della Rete e del bilanciamento tra lotta al suo lato oscuro e libertà, cercando di mettere nero su bianco un “vademecum” per lo sviluppo del mezzo. Alla London Conference in Cyberspace, organizzata dal ministro degli esteri britannico William Hague, partecipavano importanti uomini di governo del mondo occidentale, esperti di Internet e personaggi come il fondatore di Wikipedia Jimmy Wales. Lo stesso ministro lanciava appelli contro al censura operata dalle dittature, affermando che “la libertà di espressione è il cuore del problema circa il futuro del cyberspazio [...ma] risulta minacciata”. Tuttavia, strideva il mancato invito a chi, come Julian Assange, si trovava proprio nella capitale Inglese, mentre alcuni attivisti (EEF in testa) scrivevano al ministro una lettera per spiegare quanto trovassero anacronistico che l'incontro fosse organizzato proprio da chi, “a mezzo” Cameron, aveva annunciato misure per la Rete non proprio in direzione della difesa della libertà d'espressione. Dell'evento fa un resoconto Martina Pennisi su Wired.

Curioso comportamento dell'on. Gabriella Carlucci nelle ore successive al suo passaggio dal PdL all'UDC (novembre 2011): prima non aggiorna dell'accaduto il suo blog; poi, lo mette praticamente offline. Dopo l'annuncio delle imminenti dimissioni di Berlusconi, Alessandra Longo faceva il punto su ciò che il governo ha e non ha fatto per l'innovazione; bilancio ovviamente in negativo. Pochi giorni dopo, era Martina Pennisi a chiedersi che fine avesse fatto l'Agenda Digitale per l'Italia. Porgetto del quale parlava Stefano Quintarelli a ridosso della fine del 2011.

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Dal luglio 2013 tutte le comunicazioni all'interno della PA dovranno passare in forma elettronica.

Qual'è la situazione a novembre 2011 per il WiFi, visti gli undici mesi passati dall'abolizione delle restrizioni del decreto Pisanu? Ce lo spiega Wired.

Il 3 febbraio 2012 la neve cadeva copiosa su tutta l'Italia, Roma compresa. Il Sindaco Gianni Alemanno utilizzava così il suo profilo Twitter per dispensare news e consigli, mentre qualcun altro creava un profilo fasullo di Alemanno stesso scrivendo tweet grotteschi. Il sindaco lanciava così un appello in merito alla collaborazione affinché questo fake fosse isolato e rimosso. Ancor più comica la situazione nella quale si è trovato Sarkozy solo un paio di settimane dopo: il presidente francese sbarcava su Twitter e iniziava a seguire i “colleghi” in giro per l'Europa, incappando nel fake di Mario Monti che si augurava una sua rielezione all'Eliseo. Ma nelle stesse ore il presidente francese (o chi per lui) inviava a Twitter la richiesta di chiusura per cinque account che portavano il suo nome; se nelle condizioni d'utilizzo del servizio di cinguettii è bene chiaro che l'assumere altrui identità causa la soppressione dell'account, si prevede anche che qualora questo avvenga per fare satira, e si specifica questo intento, c'è un “porto sicuro”. Garanzie che però nell'occasione sembravano essere state dimenticate dagli amministratori.

La lotta di Marco Cappato per la messa online delle registrazioni delle sedute del Consiglio Comunale milanese e le resistenze di alcuni suoi componenti. Sempre in Lombradia, ma stavolta al Consiglio Regionale, il leghista Cesare Bossetti

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presentava il 6 marzo 2012 la proposta di disabilitare le connessioni ai social network dagli uffici della Regione.

Una scoperta su alcune caratteristiche delle onde radio potrebbe rivoluzionare la gestione delle telecomunicazioni permettendo di ospitare fino a 55 canali su una sola frequenza.

Alla fine del marzo 2012 l'Antitrust multava le principali telco del mobile italiano perché ritenute colpevoli di pratiche scorrette nei cofronti degli utenti.

Ad aprile 2012 arrivava la cabina telefonica smart. Negli stessi giorni partiva la campagna “Internet come bene comune” ideata dalla Fondazione Sistema Toscana.

Come sfruttare i software e le reti che garantiscono l'anonimato per mettere su un bazar di droghe ed armi? Il tema viene approfondito su Repubblica da Riccardo Luna, che parla di una “Internet parallela” alla quale si accede tramite sistemi che garantiscono l'anonimato sfruttando i Tor. L'argomento viene affrontato anche su Wired alla fine del 2012.Mentre spuntano i DNS alternativi. Ma gli stratagemmi del “dark Web” non sempre siginficano impunità, come dimostra la vicenda del trafficante di droghe australiano arrestato nel febbraio 2013.

Nel maggio 2012 il Consiglio dei ministri approvava delle importanti modifiche al Codice dell comunicazioni elettroniche.

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Le assicurazioni (e il loro costo) per i viaggi aerei prenotati online devono essere previste in regime di opt-in e non entrare di default nei contratti sottoscritti dagli utenti-viaggiatori.

Le aziende sembrano dare molto peso al numero di fan e follower che riescono a collezionare sui social network, tanto da crearsene di fasulli. Come i politici, del resto.Ma i follower sono del dipendente o dell'azienda? Dipende da chi registra il profilo e dal nome dello stesso.

Se manca la connessione manca un diritto fondamentale e si crea una “disuguaglianza digitale”, e la compagnia telefonica deve risarcire l'utente. Lo stabiliva nel settembre 2012 un giudice di pace di Trieste. Qui un'analisi di Massimo Mantellini.

Nell'ottobre 2012 il Codacons chiedeva di disattivare le connessioni WiFi sui treni italiani, perché genererebbero campi elettromagnetici pericolosi.

Dal gennaio 2013 impacchettare i regali online non è un'esclusiva di Amazon.

Nel marzo 2013 il ministero del Lavoro decretava che le aziende basate sul crowdfunding non hanno bisogno dell'autorizzazione preventiva del per iniziare l'attività.

Nel maggio 2013 venivano arrestate quattro persone considerate vicine al collettivo di Anonymous per attacchi informatici a siti del governo, del parlamento e del Vaticano. Per loro da valutare l'ipotesi di reato di associazione a delinquere virtuale.

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Voglio chiudere con un paio di citazioni:

Come affermava Vittorio Zambardino il 6 febbraio sul suo blog Scene Digitali ”L’innovazione non è la banda larga. E’ anche la banda larga. Ma è la banda larga con la libertà” . Per Stefano Quintarelli “la rete deve essere neutrale, la responsabilità deve essere individuale, internet non si deve filtrare l'anonimato deve essere protetto e la magistratura deve indagare caso per caso”.

[*] Dove non diversamente specificato i dati presentati in merito all'Italia in questa sezione sono ricavati dal testo “I nemici della rete”, Di Corinto Arturo, Gilioli Alessandro, Rizzoli, Milano, 2010

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