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UNIVERSITA' PONTIFICIA SALESIANA
Facoltà di Scienze dell'Educazione
Curricolo di pedagogia sociale
La teoria delle bande delinquenti in America di Cloward e Ohlin, e
Cohen, partendo da un introduzione di Merton e con un collegamento
alla situazione italiana.
Corso monografico di sociologia della devianza
Calabrò Francesco,
Renzopaoli Sara
PROFESSORE: Vettorato Giuliano
A.A. 2012-2013
INTRODUZIONE
In questa ricerca verrà analizzato il fenomeno delle bande delinquenti in America, l'obiettivo
principale è quello di esplicitare come dei grandi autori hanno affrontato questa teoria, analizzando
il problema delle bande delinquenti, della criminalità giovanile per rapportarla alla situazione
attuale in Italia. Si partirà dalla teoria dell'adattamento di Merton e la definizione di anomia, per
avere un quadro generale, poi più nello specifico con Cloward e Ohlin, Short e Cohen, infine, si
darà un accenno alla situazione attuale in Italia per quanto riguarda la condizione giovanile.
I materiali che verranno utilizzati saranno i principali libri scritti dagli autori trattati insieme ad
alcuni manuali di sociologia della devianza e della criminalità, e un'indagine sulla condizione
giovanile in Italia. Tutti i testi scelti sono consultabili nella biblioteca Don Bosco nella parte di
sociologia.
Il metodo di ricerca è di tipo deduttivo, partendo da un quadro teorico si giungerà poi a descrivere e
analizzare l’oggetto della ricerca.
Capitolo I: LE BANDE DELINQUENTI IN SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA
Sin dagli inizi di questo secolo la criminologia tenta di spiegare perché i minori si aggreghino in
bande per commettere reati, ma è soprattutto negli Stati Uniti, e in particolare tra gli anni '50 e '70,
che numerosi autori si sono cimentati con questo tema. Gli Stati Uniti, infatti, sono tra i paesi che
più hanno risentito – e continuano a risentire – dei problemi causati da questa forma di delinquenza
giovanile. Qui, nel corso degli anni, le bande criminali di ragazzi hanno subito molte mutazioni,
assumendo forme più o meno pericolose, fino ad arrivare in alcuni casi recenti, ad organizzazioni
ben strutturate che hanno sviluppato contatti con la malavita organizzata e scelto come ambito di
azione il traffico di sostanze stupefacenti.
La difficoltà di accedere alle mete definite dalla società, lo svilupparsi di modelli e culture devianti
alternativi rispetto a quelli dominanti, l’instabilità della vita familiare, la scarsa fiducia in sé sono
solo alcune delle ragioni che possono spingere i giovani ad aggregarsi in bande. Le teorie
criminologiche classiche sulle bande minorili, pur nelle loro differenze, sono accomunate dal
concepire questi gruppi come organizzazioni capaci di risolvere le contraddizioni dell'adolescenza.
Così per A.K. Cohen (1955) la banda è una sottocultura, cioè uno strumento alternativo attraverso il
quale un ragazzo delle classi povere può raggiungere mete sociali altrimenti inaccessibili. Sono le
frustrazioni procurate negli adolescenti meno abbienti dalla consapevolezza di non poter conseguire
gli obiettivi della classe media a portare alla formazione di gangs di ragazzi caratterizzate da regole
e valori in contrasto con quelli dominanti. La stessa scuola inculca nei giovani le mete della società
ricca, senza considerare che gli strumenti legittimi per raggiungerli non sono distribuiti equamente.
Sulla scia di Cohen, R.A. Cloward e L.E. Ohlin (1960), partendo dall'idea che le bande siano gusci
protettivi in grado di fornire giustificazione e convalida ad uno stile deviante di vita, arrivano a
classificare tre tipi di sottoculture giovanili: le criminali, le conflittuali, le astensioniste. Le
sottoculture criminali intraprendono attività illegali solo per conseguire utilità materiali. Emergono
in zone della città dove prevale il ceto inferiore, elevato è il grado di stabilità e dove esiste una
criminalità adulta sviluppata capace di controllare ed indirizzare la stessa criminalità minorile. Le
sottoculture conflittuali fanno della violenza, della lotta e della ribellione una ragione di vita.
Nascono in zone povere della città dove la coesione sociale è bassa e la mobilità alta. Le
sottoculture astensioniste, infine, si concentrano sull'abuso di droghe e di alcool, commettendo reati
con l'unico fine di procurarsi queste sostanze. Si formano nelle aree più povere delle città,
totalmente prive di strutture, dove la vita è così difficile che la fuga sembra essere l'unica
possibilità. Sono instabili e caratterizzate da un alto tasso di mobilità dei loro membri.
G.H. Sykes e D. Matza (1957) sottolineano il fatto che i giovani delle bande devianti non sono
portatori di valori opposti a quelli della società. La banda, infatti, nasce allo scopo di insegnare
tecniche per neutralizzare l'ansia derivante dal contravvenire alle regole costituite fornendo scuse
plausibili per far tacere la coscienza dei suoi membri. Altri autori evidenziano il carattere quasi
'terapeutico' della banda. W.B. Miller (1958) la ritiene uno strumento che offre
all’adolescente supporto nella soluzione dei problemi classici della sua età. Di stampo simile è la
teoria di H.A. Block e A.
Nierderhoffer (1958) che considera l'organizzazione in gruppi criminali un rituale attraverso cui i
giovani compiono il passaggio tra la fase adolescenziale e quella adulta. La banda
assolverebbe ad una funzione che la società non è stata in grado di adempiere: quella di rendere
meno difficoltosa la transizione verso l’età adulta, alleviando l’ansia, fornendo protezione e senso di
sicurezza. Un'ottica ancora più psicologica è adottata da studi come quello di P.M. Hall (1966) che,
nel valutare come il livello di autostima dei ragazzi influenzi l'accesso ad un gruppo criminale
minorile, arriva a dimostrare una maggiore propensione ad entrare in bande per quei soggetti con
scarsa sicurezza in sé stessi.
Dato che la spiegazione del crimine è spesso multifattoriale, sarebbe forse più utile, per tentare di
comprendere il fenomeno che in Italia è stato definito baby gang, operare una sintesi tra tutte queste
teorie criminologiche piuttosto che accettarne acriticamente una. Il problema che sorge a questo
punto è un altro. E' forse un po' semplicistico voler pensare che queste teorie, nate per problemi ben
più complessi e diffusi, siano trasferibili, senza adattamenti o ripensamenti, ai nostrani recenti
episodi di criminalità minorile di gruppo che, seppure da non sottovalutare, sembrano, in molti casi,
manifestare una pericolosità minore o comunque una minore strutturazione ed essere solo il
prodotto, sporadico e stupido, di adolescenti viziati e aggressivi, vinti dalla noia, allevati a valori
futili, pervasi dal crescente nichilismo che la nostra società sembra inculcare in tutti in dosi
massicce.
Gli studi statunitensi più recenti sulle bande giovanili tentano di spiegare l'atto di adesione dei
consociati come una scelta razionale. Il criminale che partecipa all'organizzazione sarebbe mosso da
interessi di tipo utilitaristico ed in grado di calcolare costi e benefici della sua azione illecita.
Entrare in un gruppo di giovani delinquenti sarebbe una decisione di tipo lavorativo. Queste analisi
lasciano facilmente intuire l'aspetto economico, di lucro, che sta prendendo piede anche in questo
genere di criminalità. Nel corso degli anni negli Stati Uniti le bande di teppisti sono diventate
sempre più organizzazioni illegali a scopo di profitto ed hanno assunto una portata che è certamente
molto diversa dalle baby gangs che negli ultimi mesi hanno affollato le cronache italiane. La
differenza tra il caso statunitense e quello italiano è facilmente intuibile ricorrendo alla distinzione
che i criminologi nordamericani operano tra "group delinquency" e "gang delinquency". La prima
può essere definita come criminalità commessa in associazione sulla base di un'alleanza
di breve periodo.
La seconda come delinquenza perpetrata da persone associate in organismi complessi, ben
strutturati, con leader ben identificabili, divisione del lavoro, regole chiare e riti condivisi tra i
membri. Negli Stati Uniti i mutamenti della criminalità minorile in banda mostrano chiaramente
un'evoluzione verso la ricerca del profitto. nordamericani comincia a farsi sentire seriamente agli
inizi degli anni '50. Poi, a metà degli anni i '60, vuoi per il successo delle strategie di controllo, vuoi
per una maggiore consapevolezza pubblica, vuoi per un eccessivo uso di droghe da parte dei
membri, si ridimensiona. Riemerge però, più violenta e predatoria che mai, negli anni '70, sia nelle
città maggiori, come Chicago, dove era sempre esistita, sia in nuove, più piccole.
Dalla fine degli anni '70 e durante gli '80 la leadership viene spesso assunta da adulti e le attività
criminali diventano più organizzate. Queste sono essenzialmente legate alla distribuzione al
dettaglio di droga, in modo particolare di crack, attività rischiosa nella quale le bande giovanili si
sostituiscono alle tradizionali famiglie criminali, e al traffico di armi. Ma anche forme di reati più
complesse, come le frodi alle carte di credito, rientrano nel curriculum criminale dei gruppi. Negli
anni '90 le gangs infiltrano le scuole statunitensi anche se la percentuale di giovani studenti che si
uniscono alla bande non è elevata, tanto che, anche nelle aree più colpite dal problema, non supera
mai il 10 per cento. Le scuole assolvono ad una forma di socializzazione, agevolano il reclutamento
dei membri e sono un luogo, un punto di ritrovo, dove compiere violenze ed altri reati. Gli studenti
che si trovano in istituti con presenza di bande giovanili dichiarano nel doppio dei casi, rispetto ai
loro colleghi in scuole pulite, di temere di diventare vittime.
Esistono diverse stime sull'entità delle bande che permettono di valutarne sia la crescita negli anni
che l'estensione attuale. Nel 1973 si parla di circa 55.000 affiliati in tutti gli Stati Uniti, nel 1982 il
numero passa a 98.000, nel 1992 a più di 249.000 per bande con una popolazione attorno al mezzo
milione. Tutti questi gruppi illegali tendono a svilupparsi su base etnica. Ne esistono di afro-
americani, ispanici, asiatici, bianchi; questi ultimi la tipologia in più rapido incremento. Spesso si
diffondono in tutto il territorio nazionale dando vita a confederazioni formate da più organismi
locali. I loro rappresentanti sono per il 90 per cento di sesso maschile, anche se la presenza
femminile è in crescita. I membri si distinguono perché indossano vestiti, con colori predefiniti, che
permettono di riconoscere facilmente l'appartenenza alla sottocultura di riferimento, perché
adottano determinati tagli di capelli, si fanno tatuare in modi simili, dipingono graffiti, si
comportano seguendo modelli comuni e mostrano grande lealtà tra loro. Sebbene la stragrande
maggioranza dei componenti sia minore, la loro età varia tra gli 8 ed i 55 anni, con un'età media che
si assesta intorno ai 17 anni.
Nelle città in cui i problemi di gang sono consolidati, queste stanno perdendo l'aspetto giovanile
perché il 74 per cento è composto da adulti. Ma nelle città americane dove il problema è più
recente, i minori sono ancora circa il 90 per cento dei membri. Comunque, l'arco di età più
rappresentato è molto giovane, assestandosi tra i 12 ed i 25 anni.
Le bande statunitensi sono tante, hanno nomi diversi e coloriti. Ovviamente non tutte sono
specializzate in attività criminali organizzate. Alcune si comportano ancora solo in modo pericoloso
e violento scegliendo la via della ribellione. E' vera, però, una cosa. Se il dibattito negli Stati Uniti
si incentra sulla opportunità di utilizzare anche per le juvenile gangs un approccio simile a quello
adottato per la criminalità organizzata, ciò vuol dire che è forte il collegamento concettuale tra
questa forma di criminalità e la delinquenza giovanile in gruppo.
1. La scuola di chicago
La devianza era una questione di importanza cruciale per la prima generazione di sociologi,
soprattutto americani e inglesi. Fenomeni come il crimine, la delinquenza e il 'vizio' erano
considerati minacce alla moralità dominante e alle concezioni vigenti dell'ordine sociale. La
devianza denotava un cattivo funzionamento dei sistemi di socializzazione primari/informali (la
famiglia, la scuola, la moralità). Gli scienziati sociali appoggiavano movimenti di riforma miranti a
rendere più efficienti, umane e 'progressiste' le istituzioni ufficialmente deputate al controllo sociale
(correzionalismo).
Le loro teorie si basavano sul paradigma della patologia e della semplicità. Questa "ideologia
professionale dei patologi sociali" (v. Mills, 1943), col suo insieme di criteri morali assoluti in base
ai quali valutare la devianza, con le sue teorie causali individualistiche o situazionali, con la sua
riluttanza a pensare in termini politici o storici, dominò il pensiero sociologico per decenni. La
Scuola di Chicago degli anni venti e trenta ereditò parte di questa ideologia, ma cercò di affrontare
il tema della devianza in modo più 'scientifico' e meno moralistico.
I suoi seguaci usavano dati statistici (riportando la distribuzione dei tassi di devianza su mappe della
città), ma furono anche i primi a utilizzare metodi etnografici: l'osservazione diretta, la ricostruzione
di storie individuali, lo studio di singoli casi. Le loro descrizioni, molto dettagliate, delle bande
giovanili, della criminalità organizzata, della prostituzione, del vagabondaggio, ecc. inaugurarono
una tradizione metodologica duratura.
Questi resoconti, apparentemente tesi a suffragare una concezione della devianza come fenomeno
semplice e patologico (un sottoprodotto indesiderabile dei rapidi mutamenti sociali, della mobilità
sociale, dell'immigrazione, del conflitto fra culture, della crescita urbana), paradossalmente
fornirono prove a favore della tesi della diversità e della complessità (v. Matza, 1969). La
delinquenza faceva parte del 'crescere nella città'; vizio e criminalità organizzata erano pienamente
integrati nell'apparato politico e in quello preposto all'applicazione della legge. La città era il
laboratorio dove studiare tutto ciò, ed era la fonte del male.
I bassifondi della città - le 'zone di transizione' contrassegnate dalla precarietà, dalla mobilità, dalla
marginalità - erano anche le aree dove risultavano più concentrate le categorie del degrado morale e
della patologia sociale, dove si registravano le più alte percentuali di atti criminali, suicidi, divorzi,
malattie mentali, casi di prostituzione, vagabondaggio, ecc. Queste correlazioni furono spiegate in
tre modi: in termini di 'ecologia' (la crescita urbana crea 'ambienti naturali' favorevoli al costituirsi
di rapporti simbiotici fra varie forme di devianza), in termini di 'trasmissione culturale' (le norme
devianti vengono trasmesse da una generazione all'altra attraverso un processo di apprendimento),
in termini di 'disorganizzazione sociale' (la devianza dipende dalla debolezza - in casi estremi dal
crollo - delle forme tradizionali di controllo sociale di fronte ai conflitti fra culture, ai mutamenti
sociali dirompenti e all'instabilità sociale).
I punti deboli della Scuola di Chicago sono stati rilevati già da tempo: il fatto di concentrarsi su
micromodelli piuttosto che sulla struttura sociale, il fatto di basarsi su una nozione di
disorganizzazione sociale affetta da circolarità logica (v. Downes e Rock, 1988²), ecc.
Essa ha, comunque, fornito un contributo importante e tuttora valido allo studio della devianza:
l'impostazione metodologica imperniata sulla descrizione puntuale e fedele degli universi devianti .
Il funzionalismo in auge dopo gli anni quaranta non era interessato né a una descrizione dettagliata
degli universi devianti, né ad alcun tipo di assistenzialismo o correzionalismo. Tali questioni erano
respinte come provinciali e riformiste, irrilevanti ai fini dello studio della società 'normale'.
Richiamandosi alla teoria sociale europea classica (specialmente alle teorie di Durkheim e Weber), i
funzionalisti si interessavano dei macromodelli dell'ordine sociale. Nella teoria di Parsons la
devianza era uno scostamento dagli standard normativi, da spiegarsi in termini di socializzazione
difettosa o di aspettative di ruolo. Comunque, malgrado la loro dichiarata mancanza di interesse per
la devianza in sé (considerata il prodotto di scarto di una macchina mal funzionante), il
funzionalismo e le concezioni a esso ispirate contribuirono allo studio del fenomeno con due idee
estremamente importanti.
1.1 Le funzioni positive della devianza
Il primo contributo del funzionalismo allo studio della devianza è l'idea - paradossale - che la
devianza, lungi dall'essere un fenomeno puramente negativo e patologico, svolga un ruolo
fondamentale e addirittura positivo nel mantenimento dell'ordine sociale. Questa idea si fa
immancabilmente risalire alle prime tesi di Durkheim sulla "normalità del crimine". Il crimine,
secondo Durkheim, è un fatto sociale non solo in senso statistico, ma anche in quanto esso svolge
precise funzioni sociali: "Classificare il crimine tra i fenomeni della normale sociologia non vuol
dire solo affermare che esso è un fenomeno inevitabile, sebbene deplorevole, dovuto
all'incorreggibile debolezza dell'uomo, ma anche che esso è un fattore di salute pubblica, una parte
integrante di tutte le società sane" (v. Durkheim, 1895).Una società senza devianza è impossibile da
immaginare. Le "funzioni positive" della devianza sono: rafforzare la coscienza collettiva, segnare i
confini di ciò che è lecito e anticipare mutamenti sociali desiderabili. Il crimine, lungi dall'essere
puramente distruttivo, mantiene la stabilità sociale. (Marx aveva notato lo stesso paradosso che
tanto affascinava Durkheim; Marx, però, si chiedeva non come fosse possibile la società, ma come
fosse possibile la società capitalistica, dove il crimine svolgeva un ruolo necessario nel
mantenimento dello status quo).
Lungo queste linee di pensiero sociologi di diverse scuole (v. Erikson, 1966; v. Box, 1971)
precisarono le funzioni positive della devianza: la devianza rafforza la solidarietà (aggregando
l'opinione pubblica nella comune condanna del deviante) e chiarisce i confini della morale (la
denuncia del male ci informa su ciò che è bene). La devianza è dosata in modo tale che ogni società
ottiene la quantità e il tipo di devianza di cui 'necessita'. Più precisamente e più proficuamente tutte
queste funzioni dovrebbero essere considerate funzioni non della devianza ma delle reazioni alla
devianza.
Altri teorici sostennero un paradosso parallelo: la distinzione tra funzioni manifeste e funzioni
latenti. Sotto la superficie visibile negativa - l'unica dimensione accessibile agli occhi del moralista
- ci sono le funzioni sociali occulte della devianza, che possono essere rivelate solo da un analista
più raffinato. Così la corruzione presente nelle istituzioni cittadine offre possibilità di ascesa
sociale; così la prostituzione aiuta a preservare la famiglia monogama. I funzionalisti non
sembravano rendersi conto del fatto che tali conclusioni erano influenzate dai valori in cui essi
credevano; inoltre sottovalutavano le divisioni sociali, i conflitti e le disuguaglianze di potere che
rendono sospetta ogni formula sulle funzioni positive della devianza. "Funzionale a chi?" resta il
quesito.
1.2 L'anomia e le teorie delle subculture
Anche il secondo importante contributo del funzionalismo allo studio della devianza trae ispirazione
da Durkheim. In questo caso non si tratta degli aspetti della devianza ritenuti 'normali' o 'sani', ma
delle sue origini nella 'anormale divisione del lavoro', in certi tratti patologici della società moderna
emergente. Il famoso termine durkheimiano 'anomia' si riferiva alla caratteristica dissociazione,
nella società moderna, dell'individualità dalla coscienza collettiva. I desideri individuali, che
emergono dal loro "abisso insaziabile e senza fondo", non sono sufficientemente regolati o
controllati. L'anomia era lo stato di mancanza di norme (o di deregulation) prodotto dalla rapida
fuoriuscita dalla società tradizionale, ed esacerbato dalle crisi sociali ed economiche.
Nel Suicide - forse il primo 'classico' di sociologia della devianza - Durkheim (v., 1897) prese in
esame il suicidio, la forma di devianza più individuale di tutte, per costruire un modello di
causazione sociale. Egli individuò le cause sociali del suicidio (e, implicitamente, di altre patologie)
nella debolezza della regolamentazione morale delle società moderne. I settori vulnerabili della
popolazione - avulsi dalle fonti tradizionali della coercizione e della solidarietà sociale - erano
lasciati in preda ad ambizioni illimitate, e quindi condannati all'"infelicità perpetua", che, in casi
estremi, poteva sfociare in un comportamento autodistruttivo o in altre forme di comportamento
patologico. Tali 'devianti anomici' potevano essere distinti sia dal 'deviante biologico', presente
anche nella società più perfetta, sia dal 'ribelle funzionale', una persona normale che sceglie di
reagire a un ordine sociale anormale o ingiusto.
In quello che è considerato il più importante scritto di sociologia della devianza, Merton (v., 1938)
trasformò la nozione di anomia di Durkheim in una nuova formula sociologica in grado di spiegare
l'esistenza della devianza nelle società democratiche moderne. Per Merton l'anomia non era più
l'assenza di norme, ma la conseguenza non voluta di un divario strutturale tra fini e mezzi. In una
società che dà troppa importanza al successo personale, al raggiungimento di traguardi cui tutti
dovrebbero aspirare ('il sogno americano'), e che tuttavia possiede una struttura che non offre a tutti
uguali opportunità o uguali mezzi per raggiungere questi traguardi, si determina una tensione
permanente. La risposta più comune a questa situazione sarà sempre il conformismo, cioè
l'accettazione dei mezzi legittimi e culturalmente prescritti (come l'impegno individuale), nonché
dei traguardi approvati. Esistono però anche adattamenti devianti, di cui i più importanti sono
l'innovazione e la rinuncia. L'innovazione consiste nel perseguire i fini culturali prescritti (in
particolare il successo materiale), facendo però uso di mezzi illegittimi (per esempio il furto, la
frode, la violenza); la rinuncia (una categoria di comportamenti nella quale Merton includeva gli
'adattamenti devianti' come il suicidio, la malattia mentale e la tossicomania) consiste nel rifiuto sia
dei fini prescritti sia dei mezzi convenzionali.La formula mertoniana "l'anomia porta alla devianza",
nonostante le numerose critiche cui è stata sottoposta, perché non tiene conto del processo
attraverso cui si perviene alle soluzioni devianti (v. Cohen, 1965), perché reifica la struttura sociale,
perché presuppone il consenso sui valori e perché trascura la questione del controllo sociale (v.
Clinard, 1964), ha tuttavia esercitato un'influenza duratura. La più importante conseguenza della
concezione mertoniana, per lo studio della devianza, è stata lo sviluppo delle teorie delle subculture,
specialmente a proposito della delinquenza giovanile. Queste teorie, pur notevolmente diverse tra
loro (v. Cloward e Ohlin, 1960; v. Downes, 1964), hanno in comune due caratteristiche: si basano
tutte sul presupposto che la delinquenza sia una soluzione culturale condivisa di problemi indotti
strutturalmente, e tutte rappresentano un tentativo di combinare un macromodello derivato da una
teoria sul tipo di quella dell'anomia (che chiama in causa le tensioni, le pressioni, le frustrazioni e le
ineguali opportunità di successo generate dalle democrazie industriali avanzate) con un
micromodello derivato da una teoria sul tipo di quella della Scuola di Chicago (che mette in luce i
processi sociali concreti attraverso i quali si giunge agli adattamenti devianti, li si impara e li si
adotta come stili di vita).
Le teorie delle subculture godono ancora di notevole credito; a esse si contrappone una teoria nota
come 'teoria del controllo' (v. Hirschi, 1969). Rifacendosi (quasi) alla nozione di Durkheim,
secondo cui l'anomia è l'effetto di un controllo insufficiente, questo modello sostiene che, siccome
la tensione è un fatto universale (ognuno ha i suoi problemi), la questione non è come spiegare la
devianza, ma come spiegare il conformismo.
Anziché postulare che la maggior parte della gente segua le regole a meno che non accada qualcosa
di speciale (anomia, tensione, frustrazione, alienazione, ecc.), si dovrebbe partire dal presupposto
che i desideri devianti sono normali.
La maggior parte delle persone infrangerà le regole a meno che delle circostanze speciali - per
esempio un forte legame sociale, uno stretto controllo sociale e un forte attaccamento alle istituzioni
convenzionali - non glielo impediscano. Si diventa devianti perché si è liberi di diventare tali, non
perché vi si sia costretti da problemi strutturali. Oltre alle differenze teoriche tra questi modelli,
vanno notate le loro diverse implicazioni politiche e pratiche (un importante terreno su cui
confrontare le varie teorie della devianza). Le teorie che fanno riferimento al binomio
'tensione'/'opportunità' si prestano a ispirare riforme come quelle che propugnano una maggiore
uguaglianza nel campo dell'istruzione o in quello del lavoro; la teoria del controllo suggerisce
programmi più conservatori, come quelli che auspicano l'introduzione di una disciplina più severa a
scuola.
Adesso nel II capitolo andremo ad analizzare bene gli autori principali che hanno contraddistinto la
teoria delle subculture in America, come Merton, Clwoard e Olhin e infine la critica di Choen.
Capitolo II: LA TEORIA DELLE BANDE DELINQUENTI IN AMERICA
La teoria delle bande delinquenti in America nasce negli anni '50, quando gli Stati Uniti, usciti
vincitori dalla Seconda Guerra Mondiale, conoscono un periodo di elevato benessere, di un forte
incremento dei consumi, di una crescita esponenziale del livello di istruzione. Tutto questo, però, va
a vantaggio soprattutto delle classi sociali medie o alte, mentre i ceti inferiori continuano ad essere
relegati nelle periferie degradate delle grandi città, ancora in via d'espansione.
Molti criminologi del periodo iniziano, di conseguenza, a compiere ricerche per verificare la
correlazione positiva tra appartenenza alle classi inferiori, residenza nelle periferie urbane più
degradate e delinquenza; oppure, da un altro punto di vista, la correlazione tra disagio sociale,
disagio psicologico individuale e devianza. Un terzo tipo di analisi mette in rapporto la situazione
delle comunità di classe inferiore, specie di quelle che appaiono al loro interno integrate, con
l'esistenza di un controllo sociale esercitato su di esse dalla criminalità organizzata (che si serve dei
membri della comunità ma ha interesse che l'ambiente resti tranquillo) e le relazioni che vengono
stabilite tra le bande e gli amministratori ed i politici locali.
Tutti questi studi testimoniano una crescente attenzione dei sociologi alle situazioni sociali
"diverse", quelle che Merton avrebbe definito come più facilmente coinvolte nell'anomia e nel
comportamento deviante, quelle che in sostanza erano studiate dalla Scuola di Chicago fin dagli
anni '20 e che erano state definite come "aree di disorganizzazione sociale" in cui più facilmente
potevano emergere e stabilizzarsi le "subculture".
1. Merton
Merton aderisce al funzionalismo, condivide, cioè, l'idea della necessità che il sistema sociale sia
integrato, che la carente socializzazione sia determinante come spinta alla devianza e che il conflitto
porti al disordine sociale. Al contrario di Parson, prende le distanze da ogni interpretazione
generalizzata o di tipo psicologico del comportamento deviante e cerca di capire in che modo le
strutture sociali stesse possano influenzare alcuni individui (e non altri) tanto da orientarli verso le
scelte devianti e non verso il conformismo.
Merton vuole raggiungere questo obiettivo attraverso l'elaborazione di una "teoria di medio raggio",
lontana cioè sia dalla pura generalizzazione teorica (come aveva fatto Parson) quanto dalla semplice
raccolta di dati empirici (così come aveva fatto fino a quel momento molta sociologia USA); perciò
egli imposta i suoi studi sulla base di ipotesi conoscitive e di teorie interpretative di taglio
strettamente sociologico, verificate poi attraverso ricerche, svolte sul campo e metodologicamente
corrette. I campi in cui Merton verifica la correttezza della sua teoria sono: devianza, gruppi di
riferimento e sociologia della conoscenza. Quello di cui ci interesseremo è soprattutto la devianza.
"Il nostro primo scopo è quello di scoprire come alcune strutture sociali esercitino una pressione
definita sopra certe persone nella società tanto da indurle a comportarsi non conformisticamente,
anzichè in maniera conformista. Se potremmo individuare i gruppi particolarmente soggetti a tali
pressioni, troveremo percentuali abbastanza alte di comportamento deviato non perchè gli esseri
umani che li costituiscono abbiano tendenze biologiche speciali, ma perchè essi rispondono in modo
normale alla situazione sociale nella quale si trovano"1.
1.1 Il concetto di anomia secondo Merton
Il punto di partenza della riflessione mertoniana sulla devianza è la distinzione tra struttura culturale
e struttura sociale esistente nel sistema. La struttura culturale definisce le mete, le intenzioni e gli
interessi che vengono indicati come importanti da raggiungere dai membri della società, regola e
controlla le norme a cui tutti devono conformarsi per raggiungere tali mete; la struttura sociale,
invece, definisce gli status e il ruolo dei soggetti agenti e, di conseguenza, identifica le opportunità
ed i mezzi che ciascuno possiede per raggiungere le mete. Esse, nella società americana, sono
soprattutto quelle del successo, della realizzazione di sè, del prestigio sociale, del benessere, del
consumo. Secondo Merton, la devianza, o comportamento aberrante, è un sintomo della
"dissociazione fra le aspirazioni (le mete) culturalmente prescritte e le vie (i mezzi) socialmente
strutturate per realizzare queste aspirazioni".2 In questo caso, man mano che l'allontanamento e la
discrepanza tra mete e mezzi si accentuano, la società diventa sempre più instabile e si sviluppa
l'anomia, o mancanza di norme.
Secondo Merton, il meccanismo di sviluppo dell'anomia prevede, da un lato, una grande spinta
culturale a raggiungere la meta del successo e, dall'altro lato, la diffusione e l'accettazione culturale
di tre assiomi:
• tutti dovrebbero tendere alle stesse mete, dal momento che queste sono aperte a tutti;
• l'apparente insuccesso del momento non è che una tappa intermedia verso il successo finale;
• il vero insuccesso consiste nella diminuzione dell'ambizione e nella rinuncia.
L'anomia di Merton non coincide perfettamente con quella di Durkheim, che parlava di una vera e
propria mancanza di norme, ma, piuttosto, di un contrasto tra una ipersocializzazione alle
prescrizioni culturali, vigenti e stabili, ed il disagio di chi vive la propria situazione personale come
caratterizzata da una carenza oggettiva di opportunità adeguate alla loro realizzazione.
Se la struttura culturale può essere definita come quell'insieme organizzato di valori normativi
governanti il comportamento il quale è comune ai membri di una determinata società e se, per
struttura sociale si intende quell'insieme organizzato di rapporti sociali in cui i membri sono
1 MERTON R.K., Social theory and social structure, London, The Free Press of Glencoe, 1964, p. 186.2 MERTON, p.190.
variamente implicati, allora l'anomia può essere concepita come una frattura nella struttura culturale
che avviene quando c'è un grave dissidio tra le norme e le mete culturali e le capacità socialmente
strutturate dei membri del gruppo di agire in accordo con esse. L'assenza di norme quindi va intesa
non in senso letterale, come aveva detto Durkheim, ma come una "rottura delle norme" provocata
dalla mancanza di integrazione tra la struttura culturale e quella sociale. Nella cultura americana, la
responsabilità di tale tendenza anomica non va ricercata nella situazione sociale svantaggiata vissuta
da alcuni, ma va ricercata esclusivamente nelle quelità personali di un soggetto: tutti, infatti, sono
chiamati al successo e chi fallisce può incolpare solo se stesso. Ciò significa, allora, per chi non
riesce ad emergere, vivere un doppio fallimento: quello di essere sconfitti nella corsa verso la meta
indicata per tutti e quello di dover riconoscere di non avere le capacità o la forza morale idonee per
arrivare.
1.2 La teoria dell'adattamento di Merton
Dall'anomia mertoniana emerge la tipologia dei diversi modi in cui l'individuo si adatta al contesto
sociale: ciò avviene in modo eterogeneo, a seconda del livello di adesione di ciascuno alle mete
cutlurali ed in rapporto alla percezione di adeguatezza o meno dei mezzi leggittimi posseduti, in
base alla propria collocazione sociale.
Modi di adattamento Mete culturali Mezzi istituzionalizzati
CONFORMITA' Accettate (+) Accettati (+)
INNOVAZIONE Accettate (+) Rifiutati (-)
RITUALISMO Rifiutate (-) Accettati (+)
RINUNCIA Rifiutate (-) Rifiutati (-)
RIBELLIONE Rifiuto valori dominanti e sostituzione di nuovi valori
(+/-)
Rifiuto mezzi dominanti e sostituzione di nuovi mezzi
(+/-)Solo il primo dei modi di adattamento è di tipo conformista: esso è il più comune, il più diffuso e
garantisce la stabilità del sistema sociale esistente.
Il ribelle è esattamente l'opposto del conformista, rappresenta una risposta di transizione che cerca
di istituzionalizzare nuove mete e nuovi mezzi che siano condivisi dagli altri membri della società.
Si riferisce così ai tentativi di cambiare la struttura culturale e sociale esistente piuttosto che a
tentativi di adattamento all'interno di questa struttura. È evidente che, quanto più il gruppo ribelle si
consolidi e si diffondano i nuovi valori, tanto più potrebbe ampliarsi la possibilità di un
cambiamento culturale e sociale importante; a quel punto, anche un atteggiamento definito deviante
o conformista potrebbe modificarsi.
Gli altri tipi di adattamento tendono a sfociare in comportamenti devianti con motivazioni personali
e con obiettivi che non mettono in discussione le leggi vigenti.
Nel caso della innovazione l'individuo pur di raggiungere la meta utilizza anche mezzi illeciti; ciò
può avvenire ad ogni ivello di stratificazione sociale ed è difficile distinguere tra l'utilizzo di mezzi
leciti o illeciti e, quindi, tra devianza o comportamenti al limite.
Il ritualismo comporta l'abbandono o l'abbassamento di mete di successo economico e di ascesa
finale fino ad un livello di aspirazioni che possano realisticamente essere soddisfatte, è
l'atteggiamento tipico di chi rifiuta la competizione per non rischiare eventuali frustrazioni, di chi
"non mira in alto" per non restare deluso.
Per quanto riguarda la rinuncia è un comportamento che si concretizza nell'abbandono sia delle
mete che dei mezzi leciti; è un atteggiamento tipico "degli psicopatici,(...), i vagabondi, (...) gli
alcolizzati cronici e i drogati"1. Secondo Merton, questo accade quando mete e norme legali sono
interiorizzate da individui che poi sperimentano l'impossibilità di raggiungere il successo attraverso
le vie istituzionalizzate per loro accessibili. Da qui un duplice conflitto: tra l'interiore obbligo
morale che li spinge alla conformità ma non permette il successo e l'impulso ad assumere
comportamenti devianti che permetterebbero loro di avere successo ma che impedisce di essere
integrati nel gruppo. Da qui anche il senso di sconfitta, i meccanismi di fuga dalle richieste della
società ed il vissuto di estraniazione del gruppo: il soggetto diventa asociale, si chiude nel privato e
nell'isolamento.
2. Cloward e Ohlin
Negli anni '60 Cloward e Ohlin iniziano la loro riflessione da una critica alla teoria mertoniana: essi
infatti obiettano a Merton che, per raggiungere le mete culturalmente prescritte, non esistono solo i
mezzi legittimi ma esistono anche i mezzi illegittimi, che formano rispetto ai primi una sorta di
struttura parallela ed alternativa che essi denominano "struttura illegittima delle opportunità"
Applicando questa idea di devianza, in particolare a quella giovanile2, i due autori sostengono che
nelle aree urbane abitate nelle classi inferiori esistono sia le opportunità legittime per raggiungere le
mete sia le opportunità illegittime; anche queste ultime, però, hanno una struttura definita e dei
limiti che ne condizionano la possibilità di accesso. Così è la posizione sociale di ogni individuo
che determina non solo la capacità di utilizzare i canali legittimi ma anche la possibilità di accedere
a quelli illegali.
Una volta legittimato il comportamento deviante, la forma specifica di sottocultura che andrà
affermandosi dipenderà dalle occasioni illegittime presenti nello specifico ambiente sociale.
In particolare, per quanto riguarda la devianza giovanile, Cloward e Ohlin sostengono che l'accesso
alle opportunità illegali è tanto più facile quanto più esiste nell'area urbana una struttura criminale
stabile ed organizzata. In caso contrario, il successo della delinquenza sarebbe meno facile da
1 MERTON, p 217.2 CLOWARD R.- L. OHLIN, Teoria delle bande delinquenti in America, Bari, Laterza, 1968.
ottenere rispetto alla riuscita nei comportamenti legali.
Partendo da questa affermazione, Cloward e Ohlin distinguono tre "tipi di ideali" di subculture
delinquenti:
• Criminale, tipica di una comunità ben integrata (buon inserimento dei valori criminali
nell'ambito del gruppo sociale di appartenenza). In questo caso le bande giovanili sono una
forma di apprendistato per diventare, da adulti, dei veri criminali: le bande, formate per lo
più da minorenni, si dedicano a comportamenti illegali a basso grado di violenza, sotto la
supervisione della criminalità organizzata. Anche se vengono arrestati per spaccio di droga,
ricettazione, furto o estorsione, i giovanissimi sanno di non rischiare pene gravi a causa della
loro età, e per questo motivo si prestano ad essere largamente utilizzati dagli adulti, da cui
apprendono non solo le tecniche di reato più appropriate ma anche i modelli di
identificazione a cui rifarsi.
• Conflittuale, in cui la comunità non ha una struttura criminale organizzata, e non possiede
nemmeno la capacità di esercitare sui giovani un controllo sociale adeguato ed efficace
perchè in essa esiste un alto tasso di precarietà e di instabilità in tutte le componenti della
vita sociale, in modo particolare quelle più significative per i giovani come la famiglia e la
scuola. I comportamenti devianti che compiono i più giovani hanno caratteristiche principali
quelle della violenza gratuita e della imprevedibilità e come obiettivo quello di ottenere
l'attenzione ed il "rispetto" degli adulti, sia conformisti che criminali. Le relazioni
interpersonali precarie ed instabili che sono tipiche di questo tipo di comunità locale si
riflettono anche nelle interazioni tra i giovani e tra essi e le generazioni adulte: i modelli
adulti di identificazione che vengono proposti ai ragazzi sono infatti sempre quelli di
persone fallite, sia che si tratti di adulti che rispettano le norme (ma che restano di ceto
inferiore) o che non le rispettino (ma che non hanno successo neppure come devianti).
• Astensionista, in questo tipo di subcultura prevalgono i giovani che non hanno accesso nè
alle opportunità legali per raggiungere una meta prestigiosa (per queste cause legate
all'appartenenza svantaggiata di classe o di etnia, etc.) nè alle opportunità di tipo illegale
perchè psicologicamente incapaci di accettafre e di far violenza. Si tratta, per questi giovani,
di un doppio fallimento nella loro ricerca di status; la consapevolezza di essere doppiamente
sconfitti socialmente provoca, secondo Cloward e Ohlin, una conseguenza abbastanza
frequente: la fuga (o il rifugio) nell'assunzione di quelle droghe che più facilmente portano
all'oblio e che, per le loro caratteristiche, giustificano, agli occhi degli stessi assuntori, il
doppio fallimento. Questo comportamento reattivo sarebbe sostenuto e guidato dai
tossicodipendenti cronici presenti nella subcultura astensionista, che insegnano ai nuovi
"falliti" come ottenere e usare al meglio gli stupefacenti più adatti.
In conclusione, possiamo sottolineare gli aspetti principali della riflessione di Cloward e Ohlin:
• le diverse forme di comportamento deviante si spiegano attraverso i modelli subculturali
esistenti negli specifici ambienti in cui essi si manifestano;
• la situazione anomica (cioè di tensione tra mete e mezzi) all'internodelle classi inferiori è un
dato di fatto: la devianza (ed in particolare la delinquenza giovanile) è una forma di
adattamento alla situazione specifica in ogni società, che fornisce varie strutture di
possibilità, sia legittime che illegittime;
• un determinato ruolo deviante emerge dove l'ambiente offre possibilità socialmente
strutturate di apprenderlo e diesplicarlo con successo.
Anche a questa teoria sono state rivolte numerose critiche, a partire da quella più generale che rileva
come oggi la società sia sempre meno omogenea ed invece sempre più differenziata e complessa.
Cohen obietta a Cloward e Ohlin che "non ci sono certe cose che rappresentano le opportunità
legittime e altre che rappresentano quelle illegittime, ma le stesse cose rappresentano di solito
entrambe le possibilità"1. L'obiezione principale dei sociologi del conflitto riguarda un po' tutti i
teorici della subcultura che hanno studiato il comportamento deviante esclusivamente all'interno dei
ceti inferiori: la critica riguarda il fatto che è difficile applicare il concetto di subcultura a gruppi
devianti la cui radice conflittuale sia identificabile non in elementi precisi e ristretti ma nella stessa
appartenenza di classe, verso cui il senso d'identità e di appartenenza è, di solito, molto meno
preciso; ciò vale, soprattutto, nel caso delle forme di devianza individuale, che sono diffuse in molte
classi e in tutti gli ambienti sociali.
3. Cohen
Gli anni 50 sono caratterizzati da una fase di prosperità e di crescita dei consumi. I valori della
classe media avevano dimostrato la loro superiorità durante lo sforzo bellico; di conseguenza
risultava difficile a molti concepire come normale qualunque cosa si differenziasse da questi valori.
La forte urbanizzazione degli Stati Uniti portava ad un deterioramento delle aree centrali delle città.
Si svilupparono cosi i sobborghi delle classi medie e la prima lottizzazione residenziale fu costruita
a Filadelfia. Con una netta separazione le classi americane medie si consideravano superiori rispetto
a quelle meno abbienti. Secondo Murray ( 1984) il concetto di povertà più diffuso delle politiche
degli anni 50 era quello che metteva in relazione disagio e comportamento individuale.
Secondo il senso comune dell’epoca, gli individui erano responsabili della loro situazione, e
probabilmente erano poveri perché non si erano dati troppo da fare.
Uno degli autori più attenti alle diverse cause della devianza ed in particolare della delinquenza
giovanile è stato Choen.
1 COHEN
La sua riflessione parte da una critica alla teoria mertoniana. Choen sostiene infatti che essa non
considera a sufficienza il fatto che ogni individuo, nel decidere le mete a cui tendere e nel
considerare i mezzi necessari per ottenere la ricompensa desiderata, prende in considerazione, come
esempio, i comportamenti di chi gli sta intorno.
Questo spiega per Choen il fatto che esista più di un modo per individuare e raggiungere la propria
ricompensa e che la medesima situazione possa portare un soggetto alla delinquenza ed un altro al
conformismo e al ritualismo.
Choen deduce da tutte queste osservazioni che la situazione di anomia può determinare una
generica propensione al comportamento deviante ma che la specifica forma di violazione delle
regole che il singolo assumerà dipende soprattutto dall’ambiente in cui vive e dalle esperienze che
sperimenta nel gruppo sociale di appartenenza. Da qui l’importanza dell’esperienza personale e
dell’appartenenza a gruppi svantaggiati: negli ambienti e nei ceti inferiori, infatti, Choen vede lo
sviluppo della delinquenza come uno dei modi di compensare la stima di se , distrutta dalla cultura
dominante, tipica delle classi medie.
Applicando la sua idea alla devianza giovanile, Choen sostiene che i ragazzi vivono in una
situazione di disagio, perché, fin da piccoli, sono stati socializzati in modo incoerente, dai genitori
cioè che, contemporaneamente, hanno trasmesso loro sia i valori dominanti e le aspirazioni da
raggiungere sia le frustrazioni e le delusioni subite.
Al momento di inserirsi nel gruppo sociale, in particolare attraverso la scuola, i bambini di classe
inferiore avvertono non solo di essere in svantaggio ( rispetto ai coetanei di classe media ) nella
competizione per ottenere ricompense, ma anche per essere valutati dagli adulti perché tale
valutazione avviene, sulla base di criteri che sono estranei alla loro esperienza di vita, quella fatta
nel proprio gruppo svantaggiato ( che non sperimenta come positivi valori come la condivisione, la
posticipazione delle gratificazioni, il porsi obiettivi a lungo termine, il rispetto della proprietà altrui.
Nella continua lotta, comune a tutti i membri della società, per inserirsi in uno status prestigioso, i
ragazzi di ceti inferiori si riconoscono dunque perdenti. Essi devono reagire, in qualche modo, ed
adattarsi alla realtà: quanto più è accettato il metro di misura della classe superiore, tanto più
l’autoconsiderazione dei giovani di classe inferiore sarà bassa e più facile un adattamento di
depressione o di rinuncia; quando invece l’adattamento è collettivo e maturato nel gruppo dei
coetanei di classe inferiore esso ha bisogno di nuove norme, nuovi criteri per definire gli
status,legittimare le caratteristiche possedute e i comportamenti che si è capaci di perseguire : è
cosi che si forma la subcultura inferiore, che non sempre e non necessariamente diventa deviante.
Choen, in base alle indagini sociali compiute, rileva come le subculture dei corner boy,
prevalentemente di sesso maschile presentano di solito atteggiamenti provocatori, talvolta teppistici
ma non utilitaristici e spesso siano prive di motivazioni razionali. I comportamenti, cioè, sono fini a
se stessi, edonistici a breve termine, solidali a livello di piccolo gruppo e genericamente ostili nei
confronti degli estranei : sono di solito, in aperto e provocatorio contrasto con le regole
generalmente condivise, ma almeno in partenza più anticonvenzionali che devianti.
Se però un ragazzo ( di un quartiere periferico, di classe inferiore e insoddisfatto dell’ambiente in
cui vive ) si trova ad interagire con una vera e propria subcultura delinquenziale organizzata, allora
la probabilità che il suo comportamento assuma le caratteristiche vere e proprie del deviante salirà
enormemente. Dunque Choen afferma che :
1. Le tensioni prodotte dalla disgregazione sociale ( e dall’organizzazione differenziale della
società ) creano un disagio psicologico a molti giovani dei ceti subalterni.
2. Questo disagio stimola i ragazzi a elaborare propri valori al cui interno essi ricreano una
competizione di status accessibile a tutti.
3. Le interazioni frequenti e significative con una subcultura deviante vere e proprie fanno
crescere la probabilità del passaggio dalla subcultura giovanile di classe inferiore alla
delinquenziale.
Il libro di Cohen “Delinquent Boys” (1955) rappresentò il primo tentativo di risolvere la questione
di come prende avvio una subcultura delinquenziale.
Cohen riscontrò che il comportamento delinquente si verifica più spesso tra i maschi delle classi
inferiori. Stabilì inoltre che le subculture giovani si caratterizzano per atteggiamenti di tipo “non
utilitario, prevaricatore e negativo”, Cohen non ravvisò nella delinquenza sub culturale alcuna
motivazione razionale per i furti. I giovani devianti provavano soddisfazione nel causare il disagio
altrui e tentavano ovviamente di oltraggiare i valori delle classi medie. La ricerca fa emergere come
le bande fossero versatili edoniste e autonomiste. Cohen affermò che tutti i giovani sono alla ricerca
di uno status sociale.
Non tutti possono competere per raggiungerlo avendo pari opportunità. I primi problemi di status
emergono sin da bambini dove i ragazzi competono con i compagni e con gli insegnati. Quelli che
avvertono maggiormente la perdita soffrono di frustrazione da status. Ricorrendo al meccanismo di
reazione formazione illustrato da Freud (meccanismo difensivo per vincere l’ansia). Cohen avanzò
l’idea che ci si dovesse quindi aspettare una reazione ostile ai valori delle classi medie. La
frustrazione che affligge molti ragazzi delle classi inferiori ori può far scaturire vari tipi di
adattamento rispetto ai valori delle classi medie. L’adattamento sarà rappresentato da una soluzione
collettiva che rende necessario modificare i mezzi per raggiungere lo status.
È cosi che si viene a creare una nuova forma culturale una subcultura delinquente. Più
frequentemente poi un ragazzo frustato di un quartiere periferico interagisce con la subcultura
delinquenziali, maggiori sono le possibilità che ne assuma le definizioni e i comportamenti. Cohen
formulò anche teorie sulla delinquenza femminile e su quella degli appartenenti alle classi medie di
sesso maschile. Le donne sarebbero frustate dal doppio standard sessuale a cui reagirebbero
assumendo comportamenti devianti di natura sessuale, gli uomini delle classi medie proverebbero
l’impulso di esprimere la loro mascolinità per reagire alla crescente responsabilità che le donne si
assumono nel crescere i figli.
La teoria della subcultura di Cohen è stata anche definita come della “tensione o strutturale” se da
un lato la tensione è la fonte della subcultura delinquenziale, dall’altro la teoria mette in luce il
processo attraverso cui viene creata la subcultura. È più appropriato considerarla come Teoria-
ponte: Cohen utilizza la spiegazione della struttura sociale formulata dalla teoria della tensione per
poi delineare il processo di formazione della subcultura delinquente.
La teoria di Choen è stata sottoposta a numerose critiche: le più significative evidenziano la
sottovalutazione dell’influenza familiare, la mancata considerazione della diversità e della pluralità
di sottoculture esistenti e la scarsa attenzione ai meccanismi psicologici per cui i giovani devianti,
pur violando volutamente le regole, cercano comunque di evitare le conseguenze dei loro
comportamenti. A molte di queste critiche risponde lui stesso.
A differenza della Scuola di Chicago, che aveva sottolineato soprattutto la disorganizzazione sociale
delle aree in cui riesce ad attecchire la devianza ( tanto più organizzata e con valori propri quanto
più manca di organizzazione l’ambiente ch la circonda ), Choen rileva come sia la subcultura
giovanile sia quella deviante vera e propria coesistono con il sistema generale dei valori ed anzi
traggono origine dalla verifica di no poter attuare i principi generali che hanno interiorizzato.
Capitolo III: ENTITA' ED EVOLUZIONE DELLA DELINQUENZA GIOVANILE IN ITALIA1
L'analisi delle statistiche giudiziarie relative alle denunce, ai processi, alle condanne di soggetti
minorenni, fornisce informazioni interessanti sulla delinquenza giovanile, ma tali informazioni
vanno vagliate criticamente, in quanto soggette a notevoli limiti e possibili distorsioni. È noto,
infatti, che le statistiche giudiziarie rappresentino soltanto una parte del fenomeno criminale, in
quanto moltissimi reati, soprattutto i meno gravi, non vengono denunciati, e di molti dei reati
denunciati non viene riconosciuto l'autore, la cui eventuale minore età non viene messa in luce.
Bisogna inoltre considerare che le denuncie possono variare in funzione dei diversi atteggiamenti
dei cittadini, e dell'attività delle forze dell'ordine, per cui il numero dei reati registrati può essere
influenzato dalla reazione della società nei confronti dei comportamenti illeciti dei minorenni.
L'allarme sociale nei confronti di un certo reato, ad esempio, può far aumentare le denunce, anche
se il numero reale di tali comportamenti illeciti è stabile o addirittura in diminuzione. Pur con
queste limitazioni appare utile valutare i dati giudiziari, sia perchè forniscono una misura della
reazione giudiziaria nei confronti dei minori, sia perchè i dati riguardanti alcuni gravi reati sono
sufficientemente rappresentativi della realtà.
Una prima valutazione può essere desunta dal numero assoluto di tutte le denunce nei confronti di
minorenni nel corso di ogni anno. I dati relativi alle denunce alle Procure danno una prima
indicazione sulla numerosità dei fatti segnalati come penalmente rilevanti, anche se poi non hanno
avuto seguito. Il numero delle denuce alle Procure può essere considerato in parallelo con il numero
delle denunce di minorenni alle Procure e per i quali viene iniziata dalla magistratura l'azione
penale. Si tratta in questo caso di soggetti di età compresa tra i 14 ed i 17 anni che la magistratura
ritiene passibili di azione giudiziaria.
A partire dal 1987 si è verificato un progressivo aumento dei minorenni denunciati, questo può
anche essere attribuito alla crisi dei servizi sociali degli enti locali, che potrebbero essere meno
incisivi nella gestione di casi di minori problematici al di fuori del circuito giudiziario. Si è passati
da 20000-25000 denuncie negli anni precedenti il 1989, a 40000-45000 negli anni immediatamenti
seguenti. Questo incremento riflette anche una particolare situazione che si è andata configurando in
Italia in questi ultimi anni, ed è legata al fenomeno dell'immigrazione. Molti dei minori stranieri
denunciati sono di età inferiore ai quattordici anni e, per tale ragione, non vengono sottoposti a
procedimento penale.
Per quanto riguarda la distribuzione dei diversi tipi di reato per i quali i minorenni sono denunciati,
si può osservare che i reati contro il patrimonio sono di gran lunga i più frequenti, mentre i reati
violenti sono piuttosto rari.
1 I dati in questo capitolo sono relativi al Rapporto sulla Criminalità in Italia nel 2001.
Passando ad un'analisi retrospettiva più dettagliata, considereremo le denunce alle quali è seguita
un'azione penale, per le quali abbiamo a disposizione una lunga serie storica e le rapporteremo al
numero di minori presenti sul territorio. Infatti, negli ultimi vent'anni il numero di minorenni in
Italia è notevolmente diminuito, e ciò va tenuto presente per fare una valutazione della delinquenza
che non sia distorta da fattori demografici. La traiettoria che descrive l'evoluzione nel tempo del
tasso e di denunce seguite da un'azione penale, per 100000 minorenni, evidenzia una flessione alla
fine degli anni '70 ed una ripresa a partire dalla fine degli anni '80.
Anche le denunce di minorenni per furto presentano una flessione alla fine degli anni '70 ed una
ripresa a partire dalla fine degli anni '80, ma non evidenziano un'impennata in questi ultimi anni,
durante i quali i tassi di denunce sono addirittura più bassi di quelli della metà degli anni '70.
L'impennata di tassi del totale delle denunce dipende dall'aumento di altri reati, quali lo spaccio di
droga ed i reati violenti (con l'eccezione dell'omicidio volontario). Le denunce per rapina e per
lesioni personali volontarie seguono un'andamento particolare. Il loro incremento inizia molto
prima, a partire dall'inizio degli anni '80 ed è particolarmente accentuato, al punto che il tasso delle
denunce di minorenni per questi reati è triplicato in vent'anni (anche se le denunce per lesioni non
sono aumentate in questi ultimi cinque anni).
Per quanto riguarda la droga non abbiamo reperito dati precedenti il 1989, e l'analisi riguarda
unicamente l'ultimo decennio, durante il quale si è registrato un notevole incremento. Riportiamo
anche i tassi di denunce per omicidio volontario, omicidio preterintenzionale e infanticidio; questi
reati sono molto rari tra i minorenni e, quindi, i tassi sono soggetti a brusche oscillazioni nei diversi
anni; in numero assoluto le denunce di minorenni per omicidio volontario non superano mai le
cento unità all'anno, e si attestano intorno a una media di circa 50 denunce all'anno. Una prima
analisi sugli ultimi decenni permette quindi di affermare che l'andamento dei tassi delle denunce
Furto
Ricettazione
Danneggiamenti
Spaccio
Rapina
Violenza, resistenza
Violenza privata, minaccia
Lesioni volontarie
Omicidio vol. e tent.omicidio
Altro
0 2000 4000 6000 8000 10000 12000 14000 16000
complessive a carico di minorenni sembra essere fortemente condizionato da due eventi legislativi
che hanno modificato il complessivo sistema di controllo della devianza giovanile, ed in particolare
il decreto di decentramento (d.p.r. n. 616/1977), al quale è seguita una diminuzione delle denunce, e
l'entrata in vigore, nel 1989, delle nuove norme di procedura penale, alla quale è seguito un
notevole incremento. Nello stesso periodo i tassi relativi ai reati violenti (escluso l'omicidio), così
come allo spaccio di sostanze stupefacenti (raddoppiato negli anni '90), hanno avuto una crescita, ch
etestimonia un probabile incremento reale di questi comportamenti illeciti. Nei primi anni '80,
infatti, quando il numero totale delle denunce era in decremento, le denunce di minorenni per rapina
e per lesioni personali volontarie cominciavano una progressione che è durata fino alla fine degli
anni '90.
in generale, questi dati sembrano dimostrare che occorre analizzare con attenzione il numero delle
denunce di minorenni, la cui consistenza può dipendere da molti fattori, tra cui il numero effettivo
dei comportamenti illeciti.
CONCLUSIONE
Come un sito archeologico, il discorso in atto sulla devianza contiene in pratica le tracce di tutti i
suoi strati precedenti. Nell'ambito del senso comune, della politica, dei mass media, della pratica
professionale e delle teorie sociologiche si incontrano tutte le combinazioni possibili delle
concezioni moralista, patologica, funzionale e radicale.Il modello sociologico dominante della
devianza resta quello delineato dalle teorie degli anni sessanta. Le polemiche suscitate dalla teoria
dell'etichettamento continuano tuttora - senza alcun costrutto, secondo alcuni critici (v. Scull, 1988)
-, ma non si vede alcuna alternativa effettiva a tale teoria. La tradizione etnografica (che studia
singoli casi di devianza e le culture devianti) ha perso di importanza. Si propende a studiare le
vittime piuttosto che gli aggressori, specialmente le donne che hanno subito violenze sessuali. Si sta
manifestando una certa rinascita di interesse per la devianza come categoria morale, come dimostra,
per esempio, un recente studio sulla attrazione che esercita il 'comportarsi male' (v. Katz, 1988).
Il concetto originario di devianza come status attribuito piuttosto che conseguito conserva la sua
importanza nello studio di varie categorie socialmente svalutate - i vecchi, i disabili, i ritardati, le
minoranze etniche -, ma questi soggetti tendono ora ad avere i loro 'propri' sociologi piuttosto che
essere studiati nell'ambito della sociologia della devianza. Gli sviluppi teorici più promettenti
potrebbero venire da quattro concezioni affini:
1) la teoria critica del controllo sociale;
2) il costruzionismo sociale;
3) il femminismo;
4) il pensiero di Foucault.
1. In sede di revisione critica della teoria del controllo sociale (v. Cohen, 1989) si sta abbandonando
il modello centrato sullo Stato e la concezione secondo cui il controllo sociale si ridurrebbe
esclusivamente all''insieme delle reazioni organizzate alla devianza'. È in corso di elaborazione un
modello di controllo più antropologico, che ruota intorno alla nozione di 'controllo della vita
sociale'.
2. Il problema di come siano costruite e gestite socialmente determinate categorie, quali la
'devianza' e il 'problema sociale', viene affrontato dal costruzionismo sociale applicando un
paradigma derivato dalla sociologia della scienza e della conoscenza. Quale che sia l'argomento -
l'AIDS, la guida in stato di ebbrezza o l'incesto -, si fa ricorso a uno scetticismo ontologico radicale
per scoprire come vengano costruite le opinioni su ciascun fenomeno.
3. La teoria femminista recente ha attirato l'attenzione sul ruolo onnipresente del sesso nel controllo
della vita sociale e nella costruzione di ciò che viene reputato 'deviante' sia per le donne che per gli
uomini. Oltre a ciò, la metodologia femminista, trasformando radicalmente le categorie di 'privato' e
'pubblico' e stabilendo un collegamento tra il personale e il politico, offre prospettive più generali
per lo studio della devianza e del controllo sociale.
4. Senza dubbio l'eredità di Foucault rappresenta la sfida più radicale lanciata agli studiosi della
devianza e del controllo. Le implicazioni delle sue genealogie dei sistemi di controllo sociale, la sua
topologia del potere normalizzante in aree come quelle della salute mentale e della sessualità e la
sua teoria generale del rapporto tra potere e conoscenza devono ancora essere assorbite da discipline
quali la giurisprudenza, la psichiatria, la criminologia e la sociologia della devianza.
Quale che sia la linea di ricerca seguita, lo studio della devianza resta uno dei più creativi delle
scienze sociali. Il tema della devianza - perché la gente si allontana dalle norme sociali nei modi più
strani, più molesti, più offensivi e più dannosi, e i modi, straordinariamente diversi, di reagire a
tutto ciò - sarà sempre un argomento affascinante.Il successo delle scienze sociali nell'affrontare
questi argomenti può essere misurato in base a due criteri differenti. Il primo criterio, il più ovvio,
consiste nella nostra capacità di comprendere le caratteristiche intrinseche dei vari modelli di
devianza e di controllo e (se è questo che ci interessa) di ideare le opportune politiche umane e,
appunto, sociali. Il secondo criterio consiste nel confermare la convinzione di Durkheim, di Freud e
ora di Foucault secondo cui proprio l'osservazione dell'anormale, del deviante e del patologico ci
porta a comprendere il funzionamento 'normale' della società. Siamo ancora lontani dalla possibilità
di applicare con successo entrambi questi criteri.
Bibliografia:
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MERTON R.K., Social theory and social structure, London, The Free Press of Glencoe, 1964.
Indice
INTRODUZIONE
Capitolo I: LE BANDE DELINQUENTI IN SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA
1. La scuola di Chicago
1.1 Le funzioni positive della devianza
1.2 L'anomia e le teorie delle subculture
Capitolo II: LA TEORIA DELLE BANDE DELINQUENTI IN AMERICA
1. Merton
1.1 Il concetto di anomia secondo Merton
1.2 La teoria dell'adattamento di Merton
2. Cloward e Ohlin
3. Cohen
Capitolo III: ENTITA' ED EVOLUZIONE DELLA DELINQUENZA GIOVANILE IN ITALIA
CONCLUSIONE
Bibliografia