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1 Università di Pisa ELEMENTI di PSICOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE per i CORSI di LAUREA IN INFORMAZIONE SCIENTIFICA SUL FARMACO, FARMACIA e SCIENZE ERBORISTICHE Dott. Prof. Fulvio Corrieri, psicologo Avvertenza. Il presente lavoro costituisce un supporto per la didattica universitaria dell’Ateneo di Pisa. La Sua riproduzione è quindi riservata ai Corsisti e alle persone autorizzate che possono effettuare il downloading della stessa. L’eventuale utilizzazione e/o riproduzione per scopi diversi dalla consultazione per motivi di studio e/o di ricerca, d’interesse scientifico e/o culturale, comunque non autorizzato al di fuori del Corso di Laurea e dell’Ateneo di Pisa, è da considerarsi perciò illegittima. E’ ovviamente possibile la citazione di parti dello strumento didattico nelle forme riconosciute indicandolo lo stesso quale fonte sitografica. Presentazione Fulvio Corrieri, psicologo iscritto all’OPT (Ordine degli Psicologi della Toscana, posizione 1154) con studio clinico libero professionale ove svolge attività psicodiagnostica e di sostegno, da anni collabora alle attività di ricerca psicologica dell’Ateneo di Pisa e del CAFRE, sotto la direzione di Piero Paolicchi ed Elena Calamari. Docente a contratto presso la SSIS per l’insegnamento di Psicologia e per Psicologia e Mediazione (corso base) presso il Corso di Laurea in Scienze per la Pace. Fa parte del CISP dell’Ateneo di Pisa. Fa parte della Commissione di Psicologia e Scuola (OPT). E’ membro del CUG presso l’USR della Toscana. Ha realizzato numerosi interventi in campo formativo ed educativo. E-mail: [email protected] . - [email protected] Cellulare: 360-903883; oppure: 0586-889470.

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Università di Pisa

ELEMENTI di PSICOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

per i CORSI di LAUREA IN INFORMAZIONE SCIENTIFICA SUL

FARMACO, FARMACIA e SCIENZE ERBORISTICHE

Dott. Prof. Fulvio Corrieri, psicologo

Avvertenza.

Il presente lavoro costituisce un supporto per la didattica universitaria dell’Ateneo di

Pisa. La Sua riproduzione è quindi riservata ai Corsisti e alle persone autorizzate

che possono effettuare il downloading della stessa. L’eventuale utilizzazione e/o

riproduzione per scopi diversi dalla consultazione per motivi di studio e/o di ricerca,

d’interesse scientifico e/o culturale, comunque non autorizzato al di fuori del Corso

di Laurea e dell’Ateneo di Pisa, è da considerarsi perciò illegittima. E’ ovviamente

possibile la citazione di parti dello strumento didattico nelle forme riconosciute

indicandolo lo stesso quale fonte sitografica.

Presentazione

Fulvio Corrieri, psicologo iscritto all’OPT (Ordine degli Psicologi della Toscana,

posizione 1154) con studio clinico libero professionale ove svolge attività

psicodiagnostica e di sostegno, da anni collabora alle attività di ricerca psicologica

dell’Ateneo di Pisa e del CAFRE, sotto la direzione di Piero Paolicchi ed Elena

Calamari. Docente a contratto presso la SSIS per l’insegnamento di Psicologia e per

Psicologia e Mediazione (corso base) presso il Corso di Laurea in Scienze per la

Pace. Fa parte del CISP dell’Ateneo di Pisa. Fa parte della Commissione di

Psicologia e Scuola (OPT). E’ membro del CUG presso l’USR della Toscana. Ha

realizzato numerosi interventi in campo formativo ed educativo.

E-mail: [email protected]. - [email protected]

Cellulare: 360-903883; oppure: 0586-889470.

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Programma

Definizione di comunicazione

I modelli della comunicazione

Le funzioni della comunicazione

La pragmatica della comunicazione umana

CV e CNV

Stili di comunicazione: passivo, aggressivo e assertivo

Comunicazione e gruppo

Il gruppo sociale e il gruppo di lavoro

Le reti comunicative nei gruppi

Comunicazione e leadership

Comunicazione, stereotipi e pregiudizi

Comunicazione e conflitto

La gestione costruttiva delle emozioni e dei conflitti nelle relazioni interpersonali

Life-skills e comunicazione efficace

Empowerment, self-empowerment e comunicazione

Cos’è comunicare?

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“(…) la comunicazione non è solo razionalità,

ma anche e soprattutto espressione

di emozioni, di sentimenti, di valori”

(S. Castelli, 1996)

Comunicare e comunicazione sono termini che etimologicamente rimandano

alla parola latina communis, composta dal prefisso cum, con, indicante lo stare

insieme, e munis, cioè svolgere una funzione. Com-munis rimanda a ciò che è

comune e condiviso, in opposizione a ciò che è proprius, perciò non condivisibile per

sua natura con altri. Nella sua accezione più ampia, come sottolinea Galimberti

(1992), il termine viene impiegato in ambiti diversi, quali quelli della biologia, della

cibernetica *, della etologia, intesa come lo studio del comportamento animale nelle

condizioni più prossime a quelle dell’habitat naturale, per indicare lo scambio di

messaggi tra soggetti, organismi e macchine.

La comunicazione umana nell’ottica della psicologia è un processo sociale.

Essa, infatti, è un sistema che richiede più attori impegnati in una serie di eventi.

La comunicazione è perciò un’attività eminentemente sociale: “per

definizione, infatti, si ha comunicazione soltanto all’interno di gruppi (o comunità),

in quanto il gruppo rappresenta una condizione necessaria e un vincolo per la genesi,

l’elaborazione e la conservazione di qualsiasi sistema di comunicazione” (Anolli,

2006, p.13). A sua volta, qualsiasi sistema di comunicazione alimenta, influenza e

modifica in modo profondo la vita stessa del gruppo, per cui socialità e

comunicazione sono due dimensioni distinte ma intrinsecamente interdipendenti; esse

si evolvono in modo congiunto, “con un andamento a spirale senza fine, attraverso un

processo reciproco di continui rimandi” (ibidem). La comunicazione ha quindi una

natura relazionale. La comunicazione inoltre è un’attività cognitiva perché ci

consente di esplicitare ad altri ciò che pensiamo e sperimentiamo nel nostro “teatro

interiore” come, ad esempio, le emozioni. Infine la comunicazione è strettamente

connessa all’azione perché implica sempre un fare qualcosa nei confronti di un altro.

Essa perciò rappresenta “un’attività umana sofisticata, oltremodo complessa e

articolata, costitutiva dell’identità dei soggetti partecipanti e delle culture di

riferimento” (Anolli, cit., 2006, p. 14). Bateson (1972) ha posto in evidenza che gli

individui non solo si mettono in comunicazione, né semplicemente prendono parte

alla comunicazione, bensì sono in comunicazione e attraverso di essa mettono in

gioco se stessi e la propria identità. “Dal punto di vista psicologico ‘essere in

comunicazione’ significa che nella e mediante la comunicazione le persone

costruiscono, alimentano, mantengono, modificano la rete delle relazioni in cui sono

immerse e che esse stesse hanno contribuito a tessere” (Anolli, cit., 2006, p.33).

Occorre quindi distinguere tra comportamento, inteso come qualsiasi azione motoria

di un individuo, osservabile in qualche modo da un altro, informazione, intesa come

contenuto del messaggio, e interazione, che è un qualsiasi contatto (sia fisico che

virtuale) che avviene tra due o più individui, anche involontariamente, e che ha la

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capacità di modificare lo stato delle cose preesistente fra di loro. Queste distinzioni ci

consentono di rilevare che la comunicazione, a differenza dell’informazione, implica

l’intenzionalità comunicativa: infatti, A vuole comunicare qualcosa a B, e vuole che

il suo atto comunicativo sia riconosciuto in quanto tale da B. Inoltre ogni

comunicazione implica un’interazione, ma non tutte le interazioni sono

comunicazioni. Fatte queste distinzioni, si può affermare che “la comunicazione (in

quanto atto comunicativo) può essere definita come uno scambio interattivo

osservabile fra due o più partecipanti, dotato d’intenzionalità reciproca e di un

certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato

significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di

segnalazione secondo la cultura di riferimento” (Anolli, 2006, p. 37). La cultura

costituisce perciò un elemento essenziale per la definizione della comunicazione.

Essa è l’ambiente invisibile nel quale viviamo senza rendercene conto, un po’ come il

pesce che vive nell’acqua e che non può fare a meno di essa. La cultura è dentro e

fuori le nostre menti, essa è ovunque. La stessa comunicazione peraltro, come la

cultura, è esterna ed interna a noi: infatti, essa trae origine “da un lato, dal progetto

interno e dall’intenzione comunicativa di un soggetto e, dall’altro, dalla

manifestazione pubblica di tale intenzione in modo ostensivo ** (verbale e non

verbale) ad altre persone” (Anolli, 2006, p. 76). Il rapporto tra cultura, gruppi sociali

ed individui è dialettico: la cultura plasma gruppi sociali e persone e questi

trasformano la cultura. La comunicazione fa parte integrante di questi processi di

interdipendenza dai quali si originano anche nuove forme di comunicazione, come

dimostra lo sviluppo recente dei “nuovi media”.

* con il termine cibernetica s’intende quel “ramo della scienza pura ed applicata, che

si prefigge lo studio e la realizzazione di dispositivi e di macchine capaci di simulare

le funzioni del cervello umano, autoregolandosi per mezzo di segnali di comando e di

controllo in circuiti elettrici ed elettronici o in sistemi meccanici” (De Voto, Oli,

2011). Fu introdotto dal matematico americano N. Weiner (1947), derivandolo

dall’espressione greca “l’arte del pilota”.

** ostensivo significa “diretto a mostrare”

Modelli di comunicazione

Una delle prime formalizzazioni teoriche apparse in tempi moderni dei modelli

di comunicazione è il classico modello di Shannon e Weaver (1949), in cui si

definisce la comunicazione come il trasferimento di informazioni da un emittente a

un ricevente a mezzo di messaggi.

Lo schema teorico è semplice e lineare: esso prevede un emittente che, dopo

averlo codificato, trasmette un messaggio attraverso un canale a capacità limitata ad

un ricevente, che lo decodifica. Il processo avviene nell’ambito di un contesto che

consente di definire la natura e il tipo di comunicazione che si realizza tra i due poli

dell’interazione.

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La presenza di “rumori” che possono disturbare la trasmissione del messaggio

è una delle caratteristiche peculiari del modello che consente di indagare le

condizioni che rendono più efficiente ed efficace la comunicazione. I “rumori”

possono essere di varia natura: parole difficili, concetti confusi, perifrasi, evocazioni

connesse alla storia emozionale dei due poli del processo comunicativo ne sono

esempi. Esistono inoltre errori connessi alla educazione ricevuta o alla struttura stessa

di personalità, che spingono a distorcere sistematicamente alcune parole o alcuni

significati. Il rischio di questo schema è quello di interpretare come “rumore” anche

ciò che in effetti essenziale alla piena riuscita del processo comunicativo, come, ad

esempio, l’insieme delle conoscenze, credenze, convinzioni, aspettative dei soggetti

che interagiscono tra loro e che condizionano sia la trasmissione che la ricezione del

messaggio e del suo contenuto. In altri termini, lo schema rischia di sottovalutare

l’importanza della pre-comprensione che i soggetti possiedono relativamente ai

contenuti del messaggio e che può distorcere la corretta ricezione e codifica e

decodifica dello stesso. Inoltre fa parte di questa pre-comprensione dei soggetti

comunicanti l’idea che gli stessi hanno del comunicare e di come si comunica.

Si pensi, in proposito, all’uso errato delle modalità d’interazione comunicativa

dettate dai nuovi strumenti di comunicazione, in particolare dalla CMC, la

comunicazione mediata attraverso il computer, oppure all’utilizzo degli SMS, sempre

più diffuso, con i quali si tenta spesso di esprimere contenuti in forme inadeguate (ad

esempio, si è costretti a utilizzare immagini convenzionali come le cosiddette

emoticons per dare informazioni sul senso da attribuire al contenuto del messaggio).

La stessa posta elettronica richiede di essere utilizzata in forme adeguate,

altrimenti si può distorcere anche nel suo utilizzo il senso del messaggio trasmesso.

Da qui l’attenzione crescente anche agli aspetti etico - giuridici, quali quelli legati

alla privacy e al contrasto degli abusi, talvolta involontari, dovuti alla scarsa

conoscenza del mezzo comunicativo.

Con l’estendersi degli studi sulla comunicazione, prendendo soprattutto in

esame le modalità non verbali, si è reso necessario abbandonare modelli lineari come

quello di Shannon e Weaver, nonostante permanga intatta la loro importanza storica,

per rendere conto del fatto che la comunicazione non solo “passa” da un emittente ad

un ricevente, ma che viene in ogni istante modulata dalle risposte che il ricevente

elabora. Infatti l’informazione trasmessa dall’Emittente al Ricevente origina

inevitabilmente un feedback, un segnale di ritorno che consente all’emittente di

modulare la propria comunicazione successiva, adattandola a quella che gli appare

essere la situazione di chi riceve.

Il passaggio da modelli di comunicazione a causalità linearità a modelli a

causalità circolare ha rappresentato una vera e propria rivoluzione scientifica

nell’ambito degli studi della comunicazione.

Nei modelli lineari il rapporto di causa-effetto è di tipo deterministico: si può

dire cioè che l’evento A (il passaggio dell’informazione) viene per primo, e che

l’evento B (il comportamento conseguente) è causato dal verificarsi di A. I modelli

circolari o interattivi della comunicazione, invece, introducono nuovi concetti tra cui

è fondamentale quello di retroazione o di feedback: tra le due parti implicate nel

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processo comunicativo; perciò nello scambio comunicativo si attua sempre un

processo di retroazione negativa con il quale il ricevente è in grado di far pervenire

all’emittente la sua reazione a quanto gli viene comunicato. Il ricevente è così in

grado di influire con le sue parole e con il suo comportamento sul successivo

procedere del processo comunicativo.

Pertanto la comunicazione non segue più un processo lineare (da A a B a C

ecc.), bensì circolare: il messaggio torna al punto di partenza, proprio come i dati in

uscita rientrano nel sistema arricchendo lo spazio vitale in cui si realizza l’interazione

comunicativa di ulteriori dati, essenziali al mantenimento dello stesso processo

comunicativo. La comunicazione è quindi un processo di interazione circolare dove

non ha più senso dire che l’evento A viene per primo e che l’evento B è causato dal

verificarsi di A, (non è possibile stabilire qual è la causa determinante e l’effetto

determinato, cosa viene prima e cosa viene dopo), perché commettendo lo stesso

errore si potrebbe dire che l’evento B precede l’evento A a seconda di dove si scelga

di interrompere la continuità del processo circolare. Non c’è generalmente un inizio

ed una fine, bensì ogni messaggio o comportamento è insieme effetto e causa di altri

messaggi o comportamenti. L’assenza della consapevolezza di questo carattere

circolare del processo comunicativo produce errori spesso fatali per le relazioni

interpersonali, come accade quando sia la persona A sia la persona B dichiarano che i

loro comportamenti comunicativi sono soltanto la reazione al comportamento del

partner, senza accorgersi che sono loro stessi ad influenzare l’altro con la loro

reazione.

In ogni caso l’idea che esista una struttura comune a tutte le possibili forme di

comunicazione è universalmente accettata nella forma che stata elaborata dal

linguista Jakobson (Galimberti, 1992).

Le funzioni della comunicazione

Jakobson ha indicato sei principali funzioni della comunicazione: referenziale

(denotativa e cognitiva), espressiva (emotiva), conativa, fàtica, metalinguistica e

poetica.

Lo scambio di informazioni tra gli interlocutori su determinati temi ed

argomenti è essenziale per l’adattamento all’ambiente e il linguaggio costituisce il

veicolo privilegiato per eseguire la 1) funzione referenziale o proposizionale, che è

orientata verso il referente, cioè verso il contesto, la realtà extralinguistica. Sono

esempi di tale funzione asserzioni come “oggi piove”, “la felicità esiste”, “i marziani

sono verdi”. Questa funzione è detta denotativa perché l’enunciato non contiene

alcuna sfumatura di carattere soggettivo o emotivo (De Voto, Oli, 2011) (il suo

opposto è la connotazione), ma è anche cognitiva perché serve ad elaborare,

organizzare e trasmettere conoscenze fra i partecipanti, processi questi che

avvengono attraverso la formulazione di proposizioni. Il linguaggio riveste qui un

ruolo essenziale perché rende comunicabile il proprio pensiero. La 2) funzione

espressiva si riferisce all’espressione diretta dell’atteggiamento del soggetto riguardo

a ciò di cui si comunica ed è concentrata sul mittente, mentre quella 3) conativa è

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diretta al destinatario; ne sono esempi le espressioni verbali all’insegna

dell’imperativo (un comando). A differenza di una frase dichiarativa (ad esempio,

“questo oggetto è rosso”), la frase imperativa (ad esempio, “alzati e cammina!”) non

può subire alcuna “verifica di verità” (Galimberti, 1992, p. 206). La 4) funzione

fàtica si riferisce, invece, alla capacità che i messaggi possono avere per stabilire,

mantenere, prolungare o interrompere la comunicazione o a verificare il

funzionamento del canale (ad esempio, “Pronto, mi senti?”). Nella 5) funzione meta

- linguistica o meta - comunicativa gli interlocutori possono comunicare sulla stessa

comunicazione in atto, precisando le caratteristiche della relazione o il significato del

messaggio stesso; ad esempio, dopo aver pronunciato una frase ambigua o pesante, si

può dire “Volevo solo scherzare!” (Pedon, 2011). Tale funzione comporta due

operazioni distinte, costituite dalla riflessione sul linguaggio che si usa e

dall’evidenziare gli aspetti relazionali implicati negli scambi comunicativi. La prima

operazione consente di decodificare in modo corretto il messaggio (ci aiuta a capire

cosa significa il messaggio, oppure se il messaggio ha un valore puramente

dichiarativo – è così e così - o direttivo – fai così e così), mentre la seconda consente

di chiarire la relazione che sussiste tra gli interlocutori. Essa permette di “precisare la

definizione di sé che ciascuno intende proporre” (Pedon, cit., 2011, p. 79).

“M’illumino d’immenso” di Ungaretti è un esempio tra i più famosi della 6) funzione

poetica della comunicazione: qui l’accento è posto non sul destinatario né sul

mittente oppure sul canale o sulla relazione, quanto sul messaggio per se stesso

(Galimberti, 1992). Si può comunque osservare che a queste funzioni sono sottese

funzioni ancor più generali, come la funzione relazionale della comunicazione, che

evidenzia come la comunicazione “genera e rinnova le relazioni ed è alla base della

intersoggettività dialogica nella negoziazione dei significati e nella condivisione degli

scopi” (Anolli, 2006, p. 42).

La pragmatica della comunicazione

“Di ciò di cui non si deve parlare si deve tacere”

(L. Wittgenstein, Tractatus logicus-philosophicus, 1920)

Negli anni Sessanta - settanta del secolo da poco trascorso, un gruppo di

studiosi, del quale facevano parte studiosi come Watzlawick e a cui comunemente ci

si riferisce come “scuola di Palo Alto” (la località californiana dove sorgeva il loro

laboratorio di psicologia della comunicazione, il Mental Research Institute),

analizzarono sistematicamente gli effetti pragmatici, cioè comportamentali, della

comunicazione, ponendo in evidenza il ruolo patogenetico dei processi comunicativi

nelle patologie psichiatriche (ad esempio, nella schizofrenia).

La loro ricerca si concentrò quindi sul modo in cui la comunicazione influenza

il comportamento, considerando sia il contenuto verbale sia gli aspetti non verbali dei

processi comunicativi.

A differenza degli studiosi del modello lineare della comunicazione, il loro

interesse non era limitato all’effetto della comunicazione sul comportamento del solo

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ricevente, ma si rivolgeva anche all’effetto che la reazione del ricevente produceva

sull’emittente.

Nel loro studio ormai classico "Pragmatica della comunicazione umana"

(1967), gli Autori indicarono le "proprietà semplici della comunicazione che hanno

fondamentali implicazioni interpersonali" (Watzlawick et al., p.40).

Tali proprietà hanno quindi una natura assiomatica, trattandosi di affermazioni

basilari che consentono di dimostrare l'influenza che la comunicazione stessa esercita

sui comportamenti umani, e derivanti da una vasta gamma di osservazioni dei

fenomeni di comunicazione.

Gli assiomi della comunicazione sono cinque.

Il primo assioma

Il primo assioma sostiene che “non si può non comunicare”.

“Se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha

valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si

sforzi, non si può non comunicare”, per cui l’attività e il suo opposto, le parole o il

silenzio sono comunque messaggi in grado di influenzare gli altri “ e gli altri, a loro

volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano

anche loro”(ibidem, p.41).

In effetti qualsiasi comportamento, le parole o i silenzi, l’attività o l’inattività

dei soggetti hanno il valore di messaggio, influenzando gli interlocutori che non

possono non rispondere a queste comunicazioni.

Occorre ricordare che gli Autori il termine di comunicazione viene usato come

sinonimo di comportamento e il comportamento non ha un suo opposto, non è

possibile non avere un comportamento.

Il passeggero di un treno che siede con gli occhi chiusi o tenendo ben fisso un

giornale davanti a sé, sta comunicando di non voler parlare con nessuno e di non

voler essere disturbato. I vicini di solito afferrano il messaggio e rispondono in modo

adeguato, lasciandolo in pace.

La comunicazione comunque avviene, anche quando non è intenzionale e

conscia. Il che significa che il processo comunicativo non s’identifica con la

comprensione reciproca dei soggetti in interazione tra di loro.

Il secondo assioma

Il secondo assioma “metacomunicazionale” afferma che “ogni

comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione di modo che il

secondo classifica il primo, ed è quindi metacomunicazione” (ibidem, p.46).

In ogni processo comunicativo sono implicati due livelli comunicativi, cioè il

livello del contenuto e quello della relazione, per cui “una comunicazione non

soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento”

(ibidem, p.43).

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Se vi trovate di fronte ad un cartello indicatore che vi segnala la direzione della

città che dovete raggiungere, e sotto il nome della città trovare scritto “ignorate

questa indicazione”, costituisce un esempio di comunicazione paradossale dovuta al

conflitto tra il contenuto della comunicazione e la metacomunicazione, intesa come

comunicazione sulla comunicazione stessa.

Ciò equivale a dire che, quando vi è una comunicazione tra due o più persone,

non vi è mai solo uno scambio di contenuti e informazioni, ma viene definito anche il

tipo di relazione che sussiste tra le persone e implicitamente se stessi.

Dire ad un guidatore inesperto che sta imparando a condurre l’auto “è

importante togliere la frizione gradatamente e dolcemente”, non è diverso, nel

contenuto del messaggio, dal dire “togli di colpo la frizione e rovinerai la

trasmissione del mezzo!”, mentre è assai diverso dal punto di vista relazionale,

perché nel primo caso la relazione si caratterizza nel senso dello sforzo per sostenere

le difficoltà dell’allievo, mentre nel secondo caso l’accento cade sulla posizione di

subalternità di questi rispetto al guidatore esperto che rimarca la sua superiorità

sull’altro proprio attraverso in cui comunica il messaggio.

L’informazione sul contenuto è perciò data dagli aspetti semantici, mentre ciò

che codifica quella relazione è il modo del nostro messaggio: tono, gesti, parole

scelte, determinano il significato del contenuto stesso.

Lo stesso identico contenuto cambia di valore in funzione della modalità in cui

viene espresso; infatti, la domanda: “perché non provi ad ordinare il materiale

cartaceo prima di inserirlo nel PC? Vedrai che ti troverai meglio” non presenta alcuna

informazione diversa dalla frase “Ordina le schede prima di inserirle nel PC!”.

Quello che cambia è la relazione: nel primo caso un collega propone una

relazione più o meno paritaria, collaborativa, mentre nel secondo caso la relazione

che viene proposta è di dominio-sottomissione.

Le risonanze emotive e le risposte comportamentali che provocano questi due

messaggi sono molto diverse: perciò è l’aspetto di relazione che chiarisce il

significato del contenuto.

Come nel caso dei due colleghi, quando qualcuno non accetta un certo

messaggio, il rifiuto spesso non è rivolto al contenuto, ma alla relazione proposta, al

“come” si comunica piuttosto che al “cosa” si veicola nel processo comunicativo.

Non seguendo il suggerimento del suo collega, il soggetto A non ha fatto altro

che contestare il tipo di relazione veicolato dalla comunicazione.

Molti dei conflitti della comunicazione nascono proprio perché i due

interlocutori non sono d’accordo su come impostare la loro relazione comunicativa.

Spesso si crede di scontrarsi per ragioni di contenuto, in realtà lo si sta facendo a

livello di relazione.

È probabile che ognuno di noi abbia fatto esperienza di scambi di opinioni,

discussioni o litigi che avevano come oggetto argomenti di nessuna importanza:

quello che è in gioco non è la scelta di un mobile rosso o di una lampada blu, ma la

definizione di “chi gioca quale ruolo” all’interno della relazione interpersonale.

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Quanto più una relazione è spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale

della comunicazione (“ecco come mi vedo… ecco come ti vedo… ecco come ti vedo

che mi vedi..”) recede sullo sfondo.

Viceversa le relazioni patologiche sono caratterizzate “da una lotta costante per

ridefinire la natura delle relazioni, mentre l’aspetto del contenuto della

comunicazione diventa sempre meno importante” (ibidem, p.44).

Perciò “la capacità di metacomunicare in modo adeguato non solo è la conditio

sine qua non della comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata con il

grosso problema della consapevolezza di sé e degli altri”(ibidem, p.45).

Il terzo assioma

Il terzo assioma, che si richiama agli studi del matematico Bernard Bolzano

sul concetto di infinito, afferma che “la natura di una relazione dipende dalla

punteggiatura dalle sequenze di comunicazione tra i partecipanti” (ibidem, p.51).

L’alternanza continua fra messaggio e feedback rende la comunicazione umana

un processo continuo per cui un osservatore esterno potrebbe considerare una serie di

comunicazioni come una sequenza ininterrotta di scambi.

Poniamo la situazione di un capo e del suo collaboratore in cui il primo si

comporta in maniera sempre più autoritaria e il secondo non perde occasione di

manifestare atteggiamenti sempre più polemici. Se si chiede spiegazioni di questa

situazione ai due protagonisti presi separatamente, essi si pronunceranno in maniera

simmetrica: il capo giustificherà il proprio autoritarismo a causa degli atteggiamenti

polemici del suo collaboratore, mentre quest’ultimo sosterrà di difendersi dal

comportamento del proprio capo contestandolo apertamente. La lettura non si

differenzia per i contenuti, ma per il diverso ordine in cui li pongono, o come sostiene

il terzo assioma, per il diverso modo di punteggiare la comunicazione, per cui ognuno

interpreta il proprio comportamento come una risposta a quello dell’altro.

Partendo da posizioni diverse, i due punteggiano diversamente lo stesso

scambio con la pretesa di entrambi di imporre la propria punteggiatura su quella

dell’altro.

L’errore non nasce dal fatto che una delle due prospettive sia meno corretta

dell’altra, ma da un’imprescindibile esigenza umana, quella di voler attribuire una

linearità, un inizio e una fine, ad un fenomeno che invece si configura come circolare,

al fine di renderlo più compatibile con i nostri schemi mentali per lo più improntati

alla causalità lineare.

La possibilità di interpretare il processo comunicativo in tanti modi, fa sì che

persone mosse da emozioni, aspettative, desideri diversi, segmentano diversamente la

comunicazione fra di loro. Per risolvere i casi di malintesi o di conflitti che si

generano per il diverso modo di punteggiare l’interazione, è necessario spostare il

piano del confronto: il capo e il collaboratore possono uscire dall’empasse soltanto a

patto di comunicare sulla loro comunicazione, cioè di metacomunicare. Si tratta cioè,

di parlare del loro modo di rapportarsi l’uno all’altro, di come comunicano.

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E’ necessario passare dal piano dei contenuti a quello delle relazioni, cioè dagli

argomenti della comunicazione alla sua modalità: il loro problema, infatti, non è sulle

informazioni, ma sul modo, rispettivamente autoritario e polemico, di trattarle.

Finché il capo contesta il contenuto delle polemiche del proprio collaboratore,

per esempio la sua convinzione di essere sempre sfavorito nei turni, nulla cambierà; è

parlando della loro comunicazione, cioè dei loro diversi punti di vista, del loro

trattarsi reciprocamente in maniera polemica e autoritaria, che riescono a confrontarsi

sul problema.

Questo passaggio al piano della relazione (che è la metacomunicazione),

rappresenta l’unico strumento per risolvere gli inconvenienti che derivano dalla

circolarità della comunicazione.

Il quarto assioma

Nel quarto assioma si afferma che “gli esseri umani comunicano sia con il

modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi

logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata

nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non

ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la

natura delle relazioni” (ibidem, p.57). Gli esseri umani quindi comunicano sia con il

linguaggio numerico (verbale) sia con quello analogico (non verbale). Il fatto che la

specie umana, grazie alle sue caratteristiche biologiche, ha saputo sviluppare un

linguaggio inteso come sistema di segni e simboli altamente complessi, non vuol

perciò dire che gli esseri umani utilizzino solo il linguaggio verbale per comunicare.

Quando noi comunichiamo utilizziamo due modi principali: la parola e tutte le

modalità che rientrano nell’area della comunicazione non verbale (gesti, posizione

del corpo, espressioni del viso, inflessioni della voce, la prossemica).

Si può perciò affermare che fondamentalmente esistono due specie di segnali:

“quelli digitali, che sono simbolici, astratti, spesso complicati e con tutta probabilità

specificamente umani, e quelli analogici, che sono diretti, figurati, propri del

comportamento corporeo”, per cui “le parole trasmettono segnali digitali, i gesti

segnali analogici”. Il linguaggio verbale ha un’importanza particolare perché serve a

scambiare informazioni sugli oggetti, a nominarli e trasmettere la conoscenza da

epoca in epoca; il linguaggio verbale, rispetto a quello non verbale, è molto più ricco,

articolato, flessibile, capace di piegarsi alle infinite esigenze della comunicazione, in

quanto funzionale ad esprimere concetti mentali, oppure serve per indicare oggetti

concreti o per fissare grandi idee o accennare a sottili sfumature. Esiste però un

settore in cui facciamo assegnamento quasi esclusivamente sulla comunicazione non

verbale, il settore della relazione.

Il quinto assioma

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Il quinto assioma della comunicazione afferma che “tutti gli scambi di

comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati

sull’uguaglianza o sulla differenza” (Watzlawick, 1967, op. cit., p.60).

Si ha un’interazione simmetrica quando il comportamento di un individuo

tende a rispecchiare quello dell’altro: se viene comunicato un comportamento di

sfida, le stesse caratteristiche saranno messe in evidenza dal partner, nel tentativo di

minimizzare le differenze.

Nelle relazioni complementari il comportamento di un individuo completa il

comportamento di un altro individuo: un partner assume una posizione superiore o

dominante (one-up) e l’altro occupa la posizione corrispondente (one-down).

Si può quindi descrivere le prime relazioni come basate sull’uguaglianza e le

seconde basate sulla differenza.

Appartengono alla categoria delle interazioni complementari non soltanto i

rapporti legati a certe idiosincrasie di una data coppia, ma anche quelli stabiliti dal

contesto culturale: è il caso dei rapporti tra padre-figlio, tra insegnante e alunno, tra

medico e paziente.

In molti casi è da notare che queste relazioni asimmetriche non vengono

imposte in modo esplicito, ma ciascun soggetto si comporta in modo da presupporre

il comportamento dell’altro, offrendoli al tempo stesso le ragioni perché tale

asimmetria esista e perduri nel tempo.

Nella comunicazione, i termini simmetria e complementarietà, non sono in sé

sinonimi di “buono e cattivo” o “normali e anormali”, perché entrambe svolgono

delle funzioni importanti e sono necessarie nelle relazioni sane, ovviamente

alternandosi e operando in contesti diversi.

Anche nelle relazioni più asimmetriche, come quelle fra genitore e figlio, si

può cambiare: ad esempio, nel caso di un figlio con competenze informatiche che il

padre non ha, nell’ambito dell’utilizzazione di un PC è certamente in posizione up

rispetto al padre.

Se, invece, nelle relazioni si irrigidisce una delle due modalità di entrare in

rapporto con il partner, allora si producono patologie o fallimenti comunicativi: la

simmetria, ad esempio, può degenerare in una relazione patologica in cui è dominante

una dinamica di competizione per dimostrare “che io sono meglio di te”, come

accade, ad esempio, se alla violenza si risponde con violenza, creando un escalation

di violenza senza fine.

Il legame complementare diventa patologico quando allarga la forbice della

differenza fino agli estremi, e, chi domina, lo fa in forma assoluta. Ad esempio, se ad

una critica si risponde con un complementare atteggiamento di sottomissione e a

questo fa seguito un’ulteriore risposta critica, col passare del tempo i messaggi

diventano rispettivamente sempre più critici e sempre più sottomessi.

Il limite del modello della comunicazione della Scuola di Palo Alto è così

sintetizzato da Anolli (2006): “la sovrapposizione fra comportamento e

comunicazione (...) ha implicato nefaste conseguenze teoriche, poiché, se si fanno

coincidere comunicazione e comportamento, tutto diventa comunicazione (anche

l’azione più accidentale e inconsapevole) e non si ha più alcuna possibilità di

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comprendere quali siano le proprietà e le specificità della comunicazione in quanto

tale, dalla significazione all’intenzione, alla condivisione, al percorso di senso, ecc.”

(Anolli, 2006, p. 37).

La comunicazione non verbale (CNV).

Il linguaggio non verbale svolge nella relazione una funzione elettiva,

esprimendo in modo adeguato stati d’animo ed emozioni nel segnalare atteggiamenti

(superiorità/inferiorità, amicizia/ostilità) e nell’influenzare il tipo di relazione che si

stabilisce con l’altro.

In altre parole, con la mimica non possiamo certo addizionare due più due, né

parlare della pace nel mondo, ma con un sorriso, più che con le parole, siamo in

grado di segnalare all’altro la nostra disponibilità a voler simpatizzare con lui.

Il codice verbale e il codice non verbale sono complementari e servono a

rinforzare reciprocamente il messaggio; tuttavia, quando il non verbale e il verbale

sono incongruenti, chi riceve il messaggio presterà più attenzione ai messaggi non

verbali e darà ad essi maggiore credibilità proprio perché comunemente sono ritenuti

dalle persone più veritieri e diretti.

Si è soliti indicare come tipici della comunicazione non verbale i segnali vocali

non verbali, i segnali cioè che accompagnano l’espressione verbale (il tono della

voce, la sua altezza, le pause, la velocità del parlare), le espressioni facciali (ad

esempio, aggrottare le sopracciglia, spalancare gli occhi, storcere il naso o la bocca,

ecc.), il contatto visivo (lo sguardo, l’abbassare gli occhi, il fissare negli occhi, ecc.),

il contatto corporeo (ad esempio, prendere sottobraccio l’altro), la postura e

l’orientazione del corpo (ad esempio, lo stare in piedi con le braccia conserte), i gesti

e la distanza tra i soggetto comunicanti.

E’ possibile disporre gli elementi della CNV secondo una scala che procede

dall’alto verso il basso, dai segnali più manifesti e più facilmente percepibili

dall’interlocutore, a quelli meno evidenti e più mutevoli (Bonaiuto, Maricchiolo,

2012). Tale scala si può così riassumere:

ASPETTO ESTERIORE

Conformazione fisica

Abbigliamento

COMPORTAMENTO SPAZIALE

Distanza interpersonale

Contatto corporeo

Orientazione

Postura

COMPORTAMENTO CINESICO

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Movimenti di busto e gambe

Gesti delle mani

Movimenti del capo

VOLTO

Sguardo e contatto visivo

Espressione del volto

SEGNALI VOCALI

Segnali vocali verbali

Segnali vocali non verbali

Silenzio

L’aspetto esteriore.

Diversi comportamenti comunicativi non verbali sono quelli legati all’aspetto

esteriore, tra cui vanno ricordati, oltre al volto, la conformazione fisica,

l’abbigliamento, il trucco, l’acconciature dei capelli, lo stato della pelle.

L’aspetto esteriore perciò può essere considerato una forma di CNV,

affermano Bonaiuto e Maricchiolo (2012), “poiché fornisce informazioni sugli

individui, influenza la formazione delle impressioni e provvede

all’autopresentazione”( cit., p. 40). Gli elementi che la compongono sostanzialmente

sono riconducibili alla conformazione fisica e all’abbigliamento. Si tratta di

elementi descritti come “statici” perché non sono modificabili nel corso

dell’interazione, almeno a breve termine. Nella conformazione rientra tutto ciò che è

costituzionale del fisico della persona come la corporatura, la forma del volto, il

colore degli occhi, il colore e lo stato della pelle. L’abbigliamento, invece, è

decisamente più mutevole dell’aspetto esteriore; esso comprende gli abiti, il trucco,

l’acconciatura, gli accessori, gli oggetti posseduti, i segnali status symbol. Questi

elementi sono meno “statici” della conformazione fisica. L’abbigliamento viene

considerato come canale privilegiato di presentazione di sé. Ciò avviene soprattutto

nell’adolescenza in quanto permette definire il senso della propria appartenenza al

proprio gruppo di riferimento, per cui tale aspetto della CNV contribuisce alla

costruzione della propria identità sociale, perciò è strumento di socializzazione.

La funzione comunicativa degli abiti segue un processo di sviluppo

nell’individuo. Nella prima infanzia con la distinzione dei ruoli sessuali, nella

fanciullezza e soprattutto nell’adolescenza con la ricerca di ruoli legati a modelli reali

o immaginari offerti, ad esempio, dai media. Infine “raggiunge una fase di

costruzione e codificazione dell’apparenza di sé, accessibile a tutti e utilizzata per

mostrare agli altri e a se stessi un’identità e un ruolo sociale specifici”, come, ad

esempio, accade con le uniformi, come quelle professionali, quali il camice del

personale sanitario (Bonaiuto, Maricchiolo, cit., 2012, p.43).

All’interno dell’interazione sociale l’abbigliamento svolge il ruolo di

definizione della categoria sociale di appartenenza della persona; mantiene tale

funzione “anche in rapporto agli altri indici comunicativi”, sia verbali che non

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verbali, “rappresentando una cornice interpretativa” (ibidem). Le funzioni principali

dell’abbigliamento e degli accessori sono quella di aiutare a negoziare le proprie

identità con gli altri e a definire le situazioni e i contesti d’interazione. Essendo

associato a identità e ruolo sociale, l’abbigliamento ha effetti significativi sulle

relazioni interpersonali. Infatti, influenza l’immagine della persona negli

interlocutori. La ricerca ha confermato il detto che “l’abito fa il monaco”, nel senso

che le persone vestite, ad esempio, in modo formale o informale, vengono percepite

in maniere differente dai loro interlocutori. L’individuo viene positivamente

percepito se c’è congruenza tra l’aspetto esteriore e le altre fonti informative.

L’abbigliamento influenza l’immagine percepita dagli altri sia nella formazione della

prima impressione sia nel suo permanere nel corso del tempo.

Dato che l’abbigliamento cambia in funzione del momento che il soggetto sta

vivendo, dettato dall’organizzazione della vita sociale che è complessa per la varietà

dei ruoli sociali ricoperti dalla singola persona, per cui nel corso di una stessa

giornata questa può presentare diverse facce di sé, “diverse identità sociali” e che

“variano a seconda dell’immagine di sé che si vuole comunicare agli altri in quel dato

momento e in quel determinato contesto” (Bonaiuto, Maricchiolo, cit., 2012, p.44).

L’abbigliamento può persino assumere una funzione “discorsiva”: si pensi, ad

esempio, quando ci togliamo la giacca, ci leviamo la cravatta, per sottolineare

l’informalità del momento).

Il linguaggio del corpo.

Se il linguaggio verbale è il mezzo più raffinato ed evoluto attraverso cui gli

uomini si mettono in relazione tra loro, la CNV può comunque essere definita come

comunicazione a tutti gli effetti, essendo una trasmissione di contenuti, una

costruzione e condivisione di significati che avviene a prescindere dall’uso delle

parole (Bonaiuto, Maricchiolo, cit., 2012, p.7). Si è infatti sostenuto che più che di

CV (comunicazione verbale) e CNV (comunicazione non verbale) sarebbe più

opportuno distinguere la comunicazione che fa uso di parole da quella che non ne fa

uso, e altri Autori (in particolare Argyle, 1972) affermano l’esistenza di un vero e

proprio linguaggio del corpo o di un’autentica comunicazione corporea (bodily

communication). Fermo restando il dibattito scientifico sul tema, per finalità

didattiche si possono adottare i due termini di CV - CNV e linguaggio del corpo

come interscambiabili (Bonaiuto, Maricchiolo, ibidem).

Occorre peraltro pensare che la comunicazione umana non si può ridurre, come

si è affermato in precedenza, alla mera trasmissione lineare di messaggi secondo un

modello che alcuni Autori definiscono come “telegrafico” (Wikin, 1996; Akoun,

1994; in Lalli, 2001) e che contrappongono ad un modello “orchestrale” della

comunicazione, in cui le modalità non verbali rientrano a pieno titolo nei processi

comunicativi.

Le funzioni della CNV

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Nelle relazioni con gli altri spesso sono decisivi sono proprio gli aspetti non

verbali della comunicazione. Un leggero tremolio alle mani può dire molto di più

sullo stato emotivo di una persona rispetto a quanto dice verbalmente di provare.

I messaggi non verbali, infatti, sembrano essere meno soggetti al controllo

consapevole da parte del soggetto e possono influenzare in modo decisivo

l’interazione sociale.

Questi aspetti sono stati studiati osservando pazienti psichiatrici, scoprendo che

chi tra loro era sotto tensione, angosciato o preoccupato, rivelava all’osservatore

questa condizione attraverso i gesti del corpo, i movimenti delle braccia e degli arti

anche se i soggetti tentavano di mascherare questa loro condizione, simulando una

condizione di maggior equilibrio a livello verbale. Questi pazienti riuscivano a

controllare il movimento del capo ma non quello del resto del corpo i cui messaggi

erano più efficaci nel mostrare la loro autentica condizione emotiva.

Dunque il corpo ha un suo linguaggio che, a differenza di quello verbale, è

meno controllato in modo consapevole dal soggetto ed esprime in maniera più

efficace gli atteggiamenti e le emozioni proprie della persona più del contenuto delle

sue parole.

Si tratta di un risultato che era stato anticipato dalle osservazioni di Darwin

(1872), il naturalista che scoprì l’evoluzione biologica delle specie animali e che

studiò le espressioni delle emozioni nell’uomo comparandole a quelle degli animali.

Alcuni studi verificarono sperimentalmente l’efficacia della comunicazione

non verbale nel trasmettere gli stati emotivi e le reazioni dei soggetti. Si chiedeva ai

soggetti di valutare lo stato di superiorità (one-top) o inferiorità (one-down) del

protagonista di un video che comunicava messaggi verbali contraddittori o coerenti

con messaggi non verbali. In uno di questi esperimenti una donna veniva presentata

nel ruolo di una docente universitaria molto decisa e determinata, che comunicava

atteggiamenti di grande superiorità, ma ai quali erano accompagnati da messaggi non

verbali di inferiorità, quali il sorriso rispettoso, la testa abbassata, il tono della voce

nervoso. Questi messaggi non verbali apparivano ben più potenti di quelli verbali nel

valutare la donna come effettivamente superiore o autorevole (Forgas, 1995).

Le implicazioni di tali ricerche sono chiare: possiamo esprimere con il nostro

corpo ciò che tentiamo di nascondere a parole e questi messaggi non verbali

saranno decisivi nell’interazione sociale, quindi nel rapporto con gli altri. Se non

adeguiamo i nostri movimenti corporei al contenuto del messaggio rischiamo di

trasmettere messaggi contraddittori e inefficaci.

La ricerca psicologica ha analizzato da molti anni i diversi aspetti della CNV

ma occorre ricordare i singoli segnali raramente sono utilizzati da soli, per cui “il

messaggio complessivo è sempre la somma di più parti” (Forgas, op. cit., p.159).

La postura.

La postura, ad esempio, intesa come la modalità con cui il corpo nella sua

globalità si atteggia nello spazio, ha un particolare rilievo persino nella diagnosi

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medica e psicologica: un soggetto gravemente depresso presenta un modo particolare

di ‘comunicare’ colla posizione del proprio corpo la sua sofferenza interiore. Essa

Lo sguardo.

Un altro di questi canali comunicativi non verbali è sicuramente lo sguardo.

Basti pensare che la pubblicità utilizza questo canale in modo privilegiato per

persuadere i potenziali acquirenti della bontà dei prodotti reclamizzati. Gli occhi non

mentono, sostiene la cultura popolare, e se non alzi gli occhi verso l’interlocutore

vuol dire che provi vergogna; negli occhi si dice che si specchia l’anima.

In effetti lo sguardo ha un grande potere: basterebbe che il condannato a morte

guardasse negli occhi il boia perché questi dubiti della giustezza dell’ordine che gli è

stato dato di ucciderlo. La benda posta sugli occhi del condannato serve proprio ad

impedire che il plotone d’esecuzione possa evitare di colpirlo durante la fucilazione a

causa del suo sguardo. Eppure molte convinzioni in proposito diffuse a livello di

senso comune vanno ridimensionate. Talvolta i selettori inesperti, nelle selezioni del

personale da inserire in posti di lavoro, tentano di mettere in difficoltà i candidati

fissandoli intensamente per vedere quanto tempo riescono a sostenere lo sguardo

dell’esaminatore o per vedere come reagiscono. Si tratta di un comportamento

controproducente e da evitare perché sappiamo che fissare intensamente una persona

acquista il significato di una sfida e può assumere un valore aggressivo. Infatti, se

fissiamo intensamente un guidatore ad un semaforo rosso, egli scatterà in avanti più

velocemente dei guidatori che non sono stati fissati (Ellsworth et al., 1972; in Forgas,

1995).

Lo sguardo intenso infatti esprime anche intimità che può diventare eccessiva,

invadente, in qualche modo voyeuristica ed offensiva, mentre guardare poco può

assumere il significato di una negazione dell’altro.

Il contatto fisico.

Il contatto fisico ha un intenso valore comunicativo. Si tratta infatti di una

modalità comunicativa in grado di esprimere grande intimità: essa è usata dalla

mamma e dal bambino nei loro primi contatti fisici e corporei.

Il tatto perciò costituisce uno dei più antichi modi di comunicazione con gli

altri (comunicazione aptica). Toccare è quindi uno dei segnali non verbali più

importanti nella vita di un individuo; da adulti questa modalità di comunicazione non

verbale è regolamentata da regole complesse, che variano da cultura a cultura.

Il valore comunicativo del contatto fisico varia anche in relazione al sesso: gli

uomini toccati da un’infermiera prima di entrare in sala operatoria per un intervento

chirurgico manifestarono più ansia e un innalzamento della pressione arteriosa ben

più significativa delle donne che ricevettero lo stesso contatto fisico (Whitcher e

Fisher, 1979; in Forgas, 1995).

Il comportamento spaziale: la prossemica.

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Con il termine ‘prossemica’ s’intende riferirsi al fatto che la distanza e il modo

in cui noi occupiamo e ci disponiamo nello spazio ha un valore comunicativo. Lo

spazio occupato dai soldati e dai loro ufficiali è preordinato dalle relazioni

gerarchiche e di obbedienza che caratterizzano la vita militare. Analogamente, se un

uomo sconosciuto si avvicina troppo ad una donna, potremmo pensare che abbia

intenzione di molestarla o tentare un approccio. Questo perché esiste uno spazio

personale che caratterizza la nostra sfera di intimità e di privacy che non può essere

superato da tutti e quando si vuole. Una persona possiamo giudicarla invadente

proprio perché infrange quella invisibile ‘bolla’ che circonda il nostro corpo nello

spazio fisico.

Le ricerche degli anni sessanta – settanta del secolo scorso sono riuscite ad

individuare diversi tipi di distanza derivanti dalla maggiore vicinanza o lontananza

tra soggetti.

Sono tre i tipi di distanza che caratterizzano le relazioni interpersonali nella

nostra società occidentale (Forgas, 1995):

la distanza personale, che è quella che caratterizza i rapporti di tipo amichevole e va

da cinquanta centimetri a un metro - un metro e mezzo;

la distanza sociale, che caratterizza le posizioni di ruolo e va da un metro - un metro e

mezzo a tre metri;

la distanza pubblica, che è quella che caratterizza le posizioni pubbliche (ad esempio,

in una conferenza).

Attraverso lo spazio possiamo esprimere il rifiuto o l’accettazione dell’altro.

Oltre alla vicinanza-distanza esiste un’altra dimensione prossemica, legata al

contatto-non contatto tra soggetti: posso avvicinarmi alla mia fidanzata e posso

toccarla. Se, però, a comportarsi così fosse un amico, potrei interpretare un tale

comportamento come intrusivo e persino offensivo e agire di conseguenza,

richiamandolo ad un maggiore rispetto verso di lei. In un altro caso, potrebbe essere

proprio lei a dimostrarsi ‘fredda’ nei miei confronti, sottraendosi alla mia vicinanza

fisica, magari per esprimere una sua delusione nei miei confronti per un fatto

accaduto tra noi.

L’esistenza di tale spazio personale e intimo si rende esplicita anche in

numerosi contesti della vita quotidiana. Basti pensare a quando ci troviamo in

ascensore con altre persone. Quando siamo costretti a ridurre drasticamente le

distanze interpersonali, la nostra reazione abituale è di ridurre o evitare di guardare

gli altri; evitando lo sguardo diretto, noi evitiamo anche di parlare con chi stavamo

parlando in precedenza. Uscendo dall’ascensore, riprendiamo a parlare come prima.

Questo fenomeno è conosciuto come “fenomeno dell’equilibrio nell’intimità”, per

cui, diminuendo la distanza interpersonale e aumentando di conseguenza i segnali di

intimità, tendiamo a compensare tale turbamento nell’equilibrio comunicativo

diminuendo altri segnali di intimità (come il contatto visivo).

Tale fenomeno consente inoltre di rendersi conto che la CNV, nell’uso dello

spazio e della distanza, è centrale anche per regolare i rapporti sociali.

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In alcune culture avvicinarsi troppo ad una persona socialmente importante

significa rompere una specie di ‘regola non scritta’: ricerche condotte negli Stati

Uniti, ad esempio, hanno dimostrato che i bambini bianchi appartenenti al ceto medio

preferiscono stare meno vicino ad altre persone in genere rispetto ai bambini neri e ai

bambini appartenenti alla classe operaia che sono, invece, più ‘invadenti’ lo ‘spazio

invisibile’ che circonda ognuno di noi.

Questo ‘spazio sociale’ in cui ci troviamo condiziona di conseguenza

fortemente il nostro modo di interagire con gli altri. Se entrate in un’aula scolastica vi

accorgete che il modo in cui sono disposti gli arredi (la cattedra, le seggiole, i banchi)

condiziona il tipo di relazione e comunicazione tra docente ed alunni.

La gestualità.

I gesti, come abbiamo già accennato in precedenza, costituiscono uno dei

canali più significativi della CNV e risentono dell’influenza culturale.

Per gestualità si può intendere “l'insieme dei gesti di una persona

considerati come mezzo di espressione e di comunicazione” (Gobbi, Sobrero,

1999).

Dato che la comunicazione fra gli uomini non passa infatti solo attraverso il

canale verbale, dato negli scambi comunicativi quotidiani si attivano, parallelamente

e contemporaneamente, anche canali paralinguistici (ritmo, intonazione, pause,

esitazioni ecc.) e cinesici (posture e movimenti del corpo), i gesti sono gli elementi

cinesici fondamentali. Essi sono le posizioni e i movimenti del corpo, delle mani,

della testa, le espressioni della faccia (e in particolare degli occhi) che,

volontariamente o involontariamente, comunicano una o più informazioni.

Si può inoltre distinguere fra gesti espressivi (o emotivi), gesti illustratori e

regolatori, e gesti simbolici (Gobbi, Sobrero, 1999). I gesti espressivi sono indicatori

dello stato emotivo del parlante e sono per lo più prodotti non intenzionalmente (per

es., piangere, ridere); il loro canale principale è il volto, ma hanno una funzione

analoga anche i gesti compiuti con altre parti del corpo, come, per es., picchiare un

pugno sul tavolo, pestare i piedi in segno di rabbia ecc. I gesti illustratori vengono

realizzati contemporaneamente alla produzione verbale con lo scopo di illustrare,

ampliare, sottolineare il contenuto della comunicazione (ad esempio, indicando forme

di oggetti, direzioni di movimento ecc.). I gesti regolatori hanno la funzione di

regolare la conversazione: dare e chiedere la parola, mostrare interesse ecc. I gesti

simbolici, infine, dotati di alta specificità e di notevole forza comunicativa, vengono

prodotti intenzionalmente e sono codificati secondo regole socialmente condivise (per

es., il saluto, la preghiera).

Gli indicatori paralinguistici.

Accanto a questi canali non verbali, esistono una serie di modalità

comunicative extraverbali particolarmente importanti che accompagnano la

comunicazione verbale, quali il tono della voce, il suo volume, il ritmo, l’altezza. Si

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tratta dei cosiddetti ‘indizi (o indicatori) paralinguistici’, il come pronunciamo ciò

che diciamo.

Con il tono della voce possiamo influenzare il comportamento degli altri: se

invitiamo alla calma un gruppo di persone urlando e agitandosi a più non posso, con

una voce spaventata, l’effetto sarà di elevare ulteriormente la tensione.

La persona affetta da depressione accompagna il suo parlare con un tono della

voce piatto e monocorde, mentre in alcuni soggetti cerebrolesi la voce appare cupa.

Perciò, a differenza di quanto comunemente si crede, non sono gli occhi a svelare se

una persona non dice la verità: per scoprire questo occorre piuttosto analizzare ancora

una volta il tono della voce. Parlare con la lentezza della lumaca o come se fossimo

una mitragliatrice che spara parole al posto dei proiettili sono modi errati di gestire un

altro importante indicatore paralinguistici, la velocità di emissione delle parole.

Anche il silenzio è un indicatore paralinguistico, come lo può diventare il

balbettare pur non essendo affatto balbuzienti, che può essere rivelatore delle

tensioni emotive che stiamo provando in una certa situazione (ad esempio, se

abbiamo sbagliato qualcosa e non abbiamo il coraggio di dire la verità per timore

della punizione o di ammettere l’errore).

Le caratteristiche della comunicazione problematica.

Le forme che la comunicazione problematica può assumere sono molteplici, e

possono coinvolgere aspetti diversi dell’interazione, riguardando uno degli

interlocutori o entrambi, oppure riferirsi al contenuto del messaggio o, ancora, alla

relazione fra i soggetti interagenti, o ad entrambi gli aspetti.

I problemi di contenuto si verificano nel caso di un mancato incontro fra le

intenzioni del parlante e l’interpretazione dell’ascoltatore.

Se si considera il soggetto che partecipa all’atto comunicativo, possiamo

distinguere fra incomprensione dell’ascoltatore, quando comprende oppure interpreta

in modo sbagliato le intenzioni sottostanti al discorso dell’altro, e rappresentazione

erronea, quando invece è il parlante a causare il fallimento della comunicazione (non

necessariamente in modo deliberato), pronunciando frasi non corrette o non

chiarendo in modo accurato le proprie intenzioni.

Nelle situazioni in cui due interlocutori desiderano, in buona fede, comunicare,

e che nonostante questa premessa hanno difficoltà a farlo, possono verificarsi errori

dal punto di vista dell’emittente, quali:

la percezione interiore di ciò che si ha da dire;

la scelta del proprio codice di trasmissione;

il canale di trasmissione e l’ambiente esterno sono ‘rumorosi’.

Errori tipici dal punto di vista di chi riceve la comunicazione sono invece:

il rischio di interpretazioni eccessivamente soggettive;

le deformazioni dovute agli atteggiamenti personali del “ricevente”;

la valutazione giudicante del contenuto.

L’incomprensione da parte dell’ascoltatore e la rappresentazione erronea da

parte del parlante sono due aspetti della comunicazione problematica che riguardano

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il contenuto delle frasi, il mancato incontro fra le intenzioni del parlante e

l’interpretazione dell’ascoltatore.

L’incomprensione si ha quando l’ascoltatore comprende oppure interpreta in

modo sbagliato le intenzioni sottostanti il discorso dell’altro.

Le difficoltà nascono dal fatto che in generale viene dato per scontato che gli

altri comprendano esattamente ciò che si vuole comunicare, così come si pensa di

intendere correttamente ciò che gli altri esprimano.

Gli psicologi cognitivisti hanno verificato che noi non raccogliamo

semplicemente l’informazione, ma la elaboriamo. Per rappresentarci le nostre

conoscenze e per inserire nuovi elementi di informazione utilizziamo gli schemi

cognitivi. Questi non hanno semplicemente una funzione organizzativa. Quando

un'informazione è parziale o ci pare "strana" tendiamo a completarla e a far sì che

diventi coerente con tutte le altre informazioni che già abbiamo a disposizione, se

questo non è possibile, tendiamo ad ignorarla, a sottovalutarla o a ritenere la fonte

poco attendibile. Questo modo di manipolare le informazioni ha un ruolo adattivo,

ossia ci rende la vita più facile; ci permette, infatti, di utilizzare delle informazioni

più semplificate, di lavorare anche con informazioni incerte o frammentarie, di essere

"intuitivi". A volte però la nostra elaborazione diventa una vera e propria distorsione

cognitiva: ci allontaniamo troppo dalle informazioni ricevute e facciamo delle

operazioni di "inferenza indebita".

I problemi di comunicazione nelle relazioni tra gli interlocutori.

La comunicazione problematica è tuttavia un fenomeno più ampio che riguarda

le interazioni riuscite o fallimentari tra le persone.

Il modello pragmatico-relazionale focalizza le proprietà o assiomi che agiscono

indipendentemente dalla nostra consapevolezza e che, se vengono rispettate, danno

luogo ad una comunicazione efficace; al contrario la comunicazione risulta disturbata

quando cerchiamo di evaderle.

Quindi una modalità per analizzare i fallimenti comunicativi nelle relazioni tra

interlocutori è analizzare cosa accade quando questi assiomi o proprietà della

comunicazione vengono evase o si irrigidiscono.

Per quanto riguarda l’impossibilità di non comunicare, cercheremo di mettere

in atto tentativi di non comunicazione ogni volta che vogliamo evitare di impegnarci

in una comunicazione. Mettiamo il caso di trovarci nella sala d'aspetto del dentista

con un estraneo che per passare il tempo dell'attesa vuole parlare con noi mentre noi

non ne abbiamo nessuna voglia. Non possiamo andarcene e non possiamo non-

comunicare. Vediamo cosa possiamo fare in una situazione di questo genere:

possiamo rifiutare la comunicazione facendo capire al nostro interlocutore che non

vogliamo parlare con lui. Questo atteggiamento però potrebbe essere considerato

maleducato e oltre a farci trovare in un pesante silenzio, non ci avrà evitato di parlare

con quella persona;

possiamo accettare la comunicazione rassegnandoci a comunicare, sperando che il

nostro interlocutore si stanchi presto;

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possiamo squalificare la comunicazione rispondendo in modo vago,

contraddicendoci, cambiando argomento, dicendo frasi insensate;

infine possiamo comunicare attraverso il sintomo facendo finta di non avere capito, di

avere sonno, di stare male, un qualche malessere fisico che ci aiuti a giustificare la

nostra impossibilità di comunicare.

Quello che trasmettiamo in questo caso in effetti è: "mi piacerebbe parlare con

lei ma non posso".

Peraltro il sintomo somatico può diventare esso stesso una forma di

comunicazione.

Molto spesso le difficoltà di comunicazione sono provocati dalla confusione

che facciamo tra aspetti di contenuto e aspetti di relazione di un problema. Mentre

cerchiamo di metterci d'accordo con l’interlocutore sul piano del contenuto, il

problema è sul piano della relazione. Al di là di ogni contenuto, ciò che

comunichiamo in ogni messaggio è come ci vediamo noi rispetto alla persona con cui

stiamo parlando. Per esempio, se ci vediamo come amici (la definizione che io offro

di me) possiamo avanzare un invito a cui la persona in questione può rispondere in tre

modi:

può confermarlo (per esempio, accettando l'invito);

può rifiutarlo (per esempio, rifiutando l'invito);

può disconfermarlo (per esempio, ignorando l'invito)

Se non si risolvono le discrepanze relative alla punteggiatura delle sequenze, la

comunicazione arriverà ad un punto morto dove gli interlocutori possono arrivare a

lanciarsi reciprocamente accuse di cattiveria e di pazzia. Differenze nelle

punteggiature si hanno normalmente quando nei casi in cui almeno uno dei due

comunicanti è all'oscuro di alcuni fatti senza saperlo. Se lasciamo continuamente

messaggi in segreteria ad un’amica che non ci richiama (mettiamo che lei non sappia

di avere la segreteria rotta), potremmo considerare questo come segnale di un suo

disinteresse nei nostri confronti; d’altra parte, l’amica potrebbe considerare che noi

non teniamo alla sua amicizia, dal momento che non ci facciamo mai sentire. Da qui

in poi potremmo entrambe decidere di allontanarci oppure cercare di contattarci per

capire cosa è successo. In questo caso un fatto esterno impedisce di punteggiare

correttamente la sequenza di eventi.

Più spesso capita di non conoscere le sequenze di pensiero dell'altro, il

ragionamento che ha fatto per arrivare a quella conclusione e a quel comportamento

che ci è sembrato offensivo. In linea di massima non è corretto ritenere che un

interlocutore abbia il nostro stesso grado di informazioni e che tragga le nostre stesse

conclusioni, ma sembra un fatto inevitabile determinato dalla necessità di operare una

selezione sui dati sensoriali a cui siamo sottoposti continuamente per impedire che i

centri più elevati del cervello vengano sommersi dalle informazioni irrilevanti.

Alla base di molte incomprensioni c'è la convinzione profondamente radicata

che esiste soltanto una realtà, la nostra, e che ogni opinione diversa dipenda

dall'irrazionalità dell'altro o dalla sua mancanza di buona volontà. Si stabiliscono così

dei circoli viziosi che non si possono interrompere a meno che la comunicazione

stessa non diventa oggetto di comunicazione. Per fare questo però dobbiamo essere

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fuori dal circolo vizioso. Nei casi in cui si presentano discrepanze sulla

punteggiatura, solitamente si produce un conflitto su ciò che si considera la causa e su

ciò che si considera l'effetto in un'interazione.

Questo ci porta al concetto di “profezia che si autodetermina” (self-fulfilling

prophecy). Se, per esempio, una persona è convinta di non piacere a nessuno, tenderà

a mettere in atto comportamenti sospettosi, difensivi o aggressivi ed è probabile che

questi stimolino negli altri reazioni di antipatia che confermeranno la convinzione di

fondo di non piacere a nessuno (Watzlawick, op. cit., p.88). L'aspetto tipico di questa

sequenza è che la persona in questione è convinta di reagire ai comportamenti degli

altri e non di provocarli.

Simmetria e complementarietà nei processi comunicativi.

Oltre alla definizione di se stessi, in ogni scambio comunicativo i soggetti sono

impegnati anche nella definizione della relazione esistente tra di loro, che può essere

basata sulla simmetria o sulla complementarità. In una relazione sana è necessaria la

presenza di entrambe.

In una relazione simmetrica è sempre presente il pericolo della competitività: si

può osservare che l’uguaglianza sembra apparire più rassicurante se si riesce ad

essere “un pò più uguali degli altri”, per citare Orwell di Animal Farm (1934). È

questa tendenza alla competitività intrinseca alla simmetria comunicativa a cui si

deve la qualità tipica di escalation della conflittualità che si sprigiona allorchè le

interazioni abbiano perduto la stabilità (la cosiddetta runaway, i litigi tra coniugi o le

guerre tra nazioni). Ad esempio, è frequente osservare nei conflitti coniugali

l’escalation di un modello decisamente frustrante e conflittuale che i coniugi

perseguono nelle loro interazioni, caratterizzate da litigi, rimproveri, critiche,

ripicche, aggressioni verbali, persino fisiche, e che s’interrompono solo perché

entrambi sono spossati fisicamente o emotivamente; essi mantengono una tregua

inquieta finché non si sono sufficientemente ristabiliti per lo scontro successivo.

Perciò “la patologia della interazione simmetrica è quindi caratterizzata da

uno stato di guerra più o meno aperto o scisma”(ibidem, p.96).

Nella relazione complementare invece la relazione patologica consiste nella

fissazione dei ruoli degli interlocutori che si trovano costretti dall’interazione sempre

in una posizione one-up l’uno e one-down l’altro, senza che venga quasi mai offerta

ad entrambi la possibilità di modificare tali posizioni.

Quando i partners di una relazione simmetrica arrivano alla rottura, ciò è

dovuto al fatto che uno dei due arriva a rifiutare l'altro.

Nelle relazioni complementari la patologia equivale a disconferme del Sé

dell'altro piuttosto che ai rifiuti di tale Sé (ibidem, p.97).

Persino la traduzione di un messaggio analogico in numerico può comportare

degli errori. I messaggi analogici, come abbiamo visto, danno indicazioni sulla natura

della relazione tra le persone che stanno comunicando; se ci sono controversie

interpersonali sul significato da dare ad un certo messaggio analogico, viene

automaticamente fatta la traduzione numerica che consente di mantenere costante

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l'idea preesistente su quella relazione. Portare un dono è un esempio di

comunicazione analogica. Tuttavia chi riceve il dono lo giudica a seconda della

relazione che ha con il donatore: può sembrargli un segno di affetto, un tentativo di

corruzione, un ringraziamento o altro.

Abbiamo detto che il linguaggio numerico è particolarmente adatto per

comunicare a livello di contenuto, mentre quello analogico offre indicazioni al livello

della relazione. Nel tradurre il materiale analogico in numerico è necessario ricorrere

a funzioni che mancano al modulo analogico; una di queste è la negazione. E'

semplice infatti trasmettere un messaggio analogico del tipo "ti aggredirò", ma è

molto più difficile trasmettere "non ti aggredirò".

Quello che si verifica, paradossalmente, è che, nel tentativo di dimostrare di

non avere l'intenzione di fare del male all’altro, stimoliamo in lui reazioni di paura e

di allontanamento che stimolano a loro volta in noi disperazione (che rende

ulteriormente necessario dimostrare che non vogliamo fare del male): ciò provoca la

disperazione di essere respinti e di non poter dimostrare che non abbiamo intenzione

di fare del male.

Gli stili di comunicazione: passivo, aggressivo, assertivo.

I tre principali stili di comunicazione sono lo stile passivo, aggressivo,

assertivo. Per comprendere le differenze tra i tre stili possiamo prendere ad esempio

alcune situazioni tipiche della vita sociale quotidiana.

Un amico è teso e nervoso. Tu gli chiedi cosa è accaduto e lui ti risponde in

malo modo. Ti scusi per averlo disturbato e te ne vai. Sul lavoro un cliente si rivolge

a te in malo modo per un fatto di scarso rilievo. Abbassi gli occhi, non rispondi. Un

collega ti passa la pratica di un cliente in maniera rude e sgarbata. La prendi, senza

dire niente, solo qualche parola di commento sottovoce. Si tratta di situazioni diverse,

ma la modalità comunicativa è la stessa. Si tratta di uno stile comunicativo

all’insegna della passività. Nonostante il silenzio, il fatto che neanche rispondi ai

comportamenti comunicativi altrui, tu comunque comunichi rassegnazione,

incapacità di reagire, assenza di coinvolgimento nella situazione. Questo stile

comunicativo non solo non è efficace per interagire con gli altri ma è anche dannoso

per se stessi se diventa la modalità dominante con cui ci relazioniamo con gli altri. Ci

avvertiamo impotenti, siamo condizionati negativamente dagli altri, non riusciamo a

rapportarci con loro in modo da far valere ciò che proviamo e ciò che vorremmo dalla

relazione con l’amico, il cliente, il collega. Il livello della stima in noi stessi,

l’autostima, si abbassa; ci avvertiamo inoltre poco efficaci nell’interazione con gli

altri, per cui sviluppiamo pensieri negativi su di noi, sulla nostra capacità di operare

nella vita sociale in modo costruttivo e positivo.

Nel caso dello stile comunicativo aggressivo, invece, la condizione è

all’opposto di quella passiva. Ad esempio, durante una cena al ristorante con un

amico ordiniamo una pietanza. Il cameriere ce la serve poco cotta, nonostante gli

avessimo detto durante l’ordinazione di cucinarla a dovere. Chiamiamo il cameriere,

gli diciamo in modo sgarbato di riportare indietro il cibo, ci arrabbiamo se questi

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tenta di giustificarsi. Se il collega non ti passa velocemente la penna che gli hai

chiesto gli dici: “Ma che fai?! Allora, me la passi o no ‘sta penna?!?”.

Nonostante che i comportamenti descritti siano opposti a quelli passivi, anche

lo stile aggressivo si rivela del tutto inefficace nel mantenere relazioni interpersonali

positive e costruttive, e anch’esso rischia di danneggiare noi stessi. Infatti,

l’emozione dominante nello stile aggressivo e nello stile passivo, seppure in forma

più mascherata, è la rabbia che appare però vissuta in maniera poco adattiva.

La rabbia è infatti un’emozione, e come tutte le emozioni fa parte integrante

del nostro modo di vivere l’esperienza. Arrabbiarsi perciò non è un male, ma lasciarsi

dominare da questa emozione può essere assai rischioso per la nostra stessa salute

fisica. La rabbia si genera proprio per il senso di frustrazione sperimentato nelle

diverse situazioni di vita quotidiana. Allora avverti le tipiche manifestazioni

somatiche che accompagnano questo stato di tensione. I muscoli sono tesi, il battito

cardiaco aumenta, il respiro diventa meno profondo, la pressione sanguigna s’innalza,

il soggetto avverte sensazioni poco piacevoli, si sente braccato. Non puoi fuggire, ma

neanche puoi attaccare l’altro. Ti rappresenti il momento come una sorta di scontro in

un’arena, da cui si esce solo da vincitori o da sconfitti. La rabbia quindi si trasforma

in aggressività che può rivolgersi contro noi stessi. Perciò la rabbia, che di per sé è

un’importante ed utile emozione per l’uomo, può causare danni organici, in

particolare al nostro muscolo cardiaco, che deve fronteggiare la produzione di un

eccesso di sostanze che sono prodotte dal nostro organismo quando ci arrabbiamo, tra

cui gli ormoni come l’adrenalina, la noradrenalina e il cortisolo. Soprattutto

quest’ultimo svolge una funzione importante perché attiva processi che consentono al

nostro organismo di reagire prontamente alla situazione. Ma, come nel caso degli altri

ormoni, un eccesso di cortisolo può ridurre le nostre difese immunitarie, colpendo

anche in questo caso il cuore, affaticandolo troppo.

Ecco perché uno stile comunicativo aggressivo o passivo possono essere

persino pericolosi per la propria salute fisica.

Dalla rabbia distruttiva all’assertività.

Lo psicologo Albert Ellis ha sviluppato tra gli anni cinquanta e sessanta del

Novecento un sistema per combattere le idee o le convinzioni assurde che modificano

il nostro stato d’animo provocando rabbia o risentimento, sostituendole con

affermazioni più attinenti alla realtà dell’esperienza vissuta (Ellis, 1990; Palacios,

2007).

I pensieri o i punti di vista che Ellis definisce “irrazionali” generano percezioni

e valutazioni errate o fuorvianti delle situazioni sociali che possono provocare o

accrescere l’impatto emotivo della rabbia. Tali pensieri, che arrivano persino ad

insorgere nella nostra mente in forma di “pensieri automatici” impediscono od

ostacolano l’adozione di stili di comunicazione all’insegna dell’assertività, generando

piuttosto comportamenti comunicativi di tipo passivo o aggressivo.

Un esempio di tali pensieri irrazionali è costituito dalle ipergeneralizzazioni,

per cui da una singola esperienza negativa arriviamo ad estendere a tutti i casi

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similari quanto ci è accaduto in un’unica occasione. Partiamo da un fatto isolato e

arriviamo a generalizzare in maniera ingiustificata e fuorviante le caratteristiche

sperimentate in una situazione.

Altri esempi di tali convinzioni irragionevoli sono costituiti dalla tendenza a

dipendere in maniera esagerata dalle opinioni altrui, oppure dai cosiddetti “pensieri

filtrati” che consistono nel valutare qualcuno solo in base ai risultati ottenuti nei

compiti che più ci stanno a cuore.

I “pensieri polarizzati”, “estremi” sono anch’essi particolarmente pericolosi:

ragionare in termini di “tutto o niente”, “bianco o nero”, passando da un estremo

all’altro, costituiscono forme di interpretazione dell’esperienza che soprattutto in

ambito relazionale e lavorativo possono ostacolare la comunicazione efficace.

Formulare “pensieri catastrofici”, esagerando oltre misura le conseguenze di

un fatto accaduto, oppure il perfezionismo con il suo opposto, il pressapochismo,

sono ulteriori modalità di pensare l’esperienza che condizionano negativamente le

relazioni con gli altri e i proprio benessere psicologico, oltre a influire sulle proprie

performances lavorative e professionali accrescendo il senso di insuccesso, scarsa

efficacia e frustrazione.

Ellis ha perciò ideato un sistema per combattere tali idee e convinzioni assurde

che modificano il nostro stato d’animo provocando rabbia e risentimento,

sostituendole con affermazioni e modalità di elaborazione dell’esperienza più

attinenti alla sua realtà. Egli ha offerto anche delle indicazioni, una specie di

“vademecum psicologico”, per affrontare in maniera più efficace e costruttiva le

difficoltà della vita sociale, operando così modificazioni sul piano cognitivo che

permettono di sperimentare emozioni più positive o di contenere gli effetti perniciosi

di quelle negative.

Ellis, ad esempio, ha consigliato di apprendere dai propri errori piuttosto che

colpevolizzare gli altri o noi stessi. E’ assai più positivo intraprendere delle azioni

utili a correggerli onde evitare che si ripetano in futuro. Mettere in atto tattiche di

evitamento dei problemi piuttosto che affrontarli in modo realistico e costruttivo

impedisce di accrescere la propria competenza psicosociale e di migliorare la propria

performance lavorativa e professionale. Se qualcosa ci preoccupa, evitiamo di

rimuginare sulla situazione: utilizzando le abilità di problem-solving analizziamola,

per attivare la valutazione critica, ipotizzando grazie alla creatività scenari diversi per

affrontarla e risolverla.

Lo stile di comunicazione assertivo.

Gli stili comunicativi passivi e aggressivi sono dunque assai poco efficaci nel

produrre e mantenere relazioni interpersonali.

A differenze dei suddetti stili, lo stile comunicativo assertivo è il più efficace

per produrre comportamenti positivi al fine di instaurare e mantenere relazioni

costruttive con il cliente e con gli altri attori sociali (i colleghi di lavoro, i dirigenti,

ecc.) presenti nel contesto organizzativo dell’azienda per la quale si lavora.

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La ricerca scientifica ha focalizzato l’attenzione su tale stile comunicativo sia

per la sua importanza nelle relazioni interpersonali in funzione del benessere

psicologico che per lo svolgimento efficace delle mansioni lavorative nei contesti

professionali in cui la relazione con il cliente è essenziale per l’organizzazione, il suo

funzionamento e il suo successo.

Tale stile comunicativo accresce la competenza psicosociale e comunicativa.

Con questi termini s’intendono le capacità di saper gestire le relazioni con gli altri

attraverso i comportamenti comunicativi; ad esempio, sono competente non solo se

conosco che il linguaggio del corpo e la comunicazione non verbale sono elementi

essenziali per gestire in modo efficace le interazioni comunicative, ma se riesco a

mettere in pratica tali conoscenze nelle diverse situazioni lavorative in cui posso

venirmi a trovare nella vita quotidiana. Ad esempio, conosco l’importanza del tono

della voce per comunicare con gli altri e quando sono al telefono riesco a gestire il

tono della mia voce per rispondere in modo adeguato al cliente.

Perciò la competenza psicosociale e quella comunicativa includono sia la

capacità di gestire in maniera efficace i diversi aspetti della relazione comunicativa

che la capacità di saper interagire in maniera costruttiva con gli altri (i clienti, i

superiori, i colleghi, le altre figure professionali con cui mi dovrò confrontare

quotidianamente nell’esercizio delle mansioni lavorative).

“Nulla è più molle e debole dell’acqua. Eppure nessuno la supera nell’attaccare ciò

che è duro e forte. Niente può cambiarla. La debolezza vince la forza. La mollezza

vince la durezza”.

Così si legge nel secondo dei 36 stratagemmi, opera letteraria dell’antica Cina

che contiene alcuni principi ispiratori della strategia militare dell’antica civiltà

orientale e che costituiscono ancora oggi una fonte di ispirazione anche per il

potenziamento della competenza psicologico - sociale (cfr. anche Nardone, 2003).

L’aforisma cinese può esprimere in modo metaforico lo stile comunicativo di

tipo assertivo. Esso, infatti, restituisce il senso della fermezza nella flessibilità, della

capacità di adeguarsi ai diversi contesti senza rinunciare alla propria natura, quindi

alle proprie idee, convinzioni, punti di vista, pur essendo sempre disposti a metterli in

discussione.

Come realizzare lo stile comunicativo assertivo?

Lo stile comunicativo assertivo richiede alcune abilità per poter realizzarsi. Si

tratta di abilità che fanno parte delle cosiddette life-skills, cioè “abilità per la vita”, e

che sono essenziali per la competenza psicosociale.

Esse possono essere così sintetizzate: l’abilità nel prendere decisioni,

cosiddetta decision making; nell’analizzare e nel risolvere problemi, il cosiddetto

problem solving; occorre inoltre essere capaci di creatività (occorre quindi avere

pensiero creativo - creative thinking) per formulare ipotesi di soluzione ai problemi

innovative. Occorre inoltre essere dotati di senso critico (perciò capaci di pensiero

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critico - critical thinking). Centrale è la capacità di comunicazione efficace (la

cosiddetta effective communication), che si accompagna alla capacità di costruire e

gestire relazioni interpersonali (interpersonal relationship skills). E’ necessario

inoltre essere autoconsapevoli (self-awareness) di ciò che stiamo pensando e

sperimentando, perciò di riconoscere i nostri limiti. Bisogna essere capaci di empatia

(empathy), e saper gestire le emozioni (coping with emotions) e lo stress (coping with

stress).

Queste abilità possono essere apprese e potenziate in modo da rendere la nostra

capacità di interagire positivamente con gli altri, a partire dal cliente, per arrivare ai

colleghi, ai superiori, ai collaboratori.

Decision making

Quando scegliamo di fare qualcosa, di mettere in atto un comportamento

piuttosto che un altro, di adottare una strategia d’azione selezionandola tra più

opzioni, operiamo delle decisioni. Talvolta agiamo d’impulso, e ciò può produrre

conseguenze spiacevoli o involontarie persino dannose per gli altri o per noi stessi.

Occorre essere capaci di prendere decisioni costruttive per noi stessi e per gli altri al

fine di evitare di incorrere in situazioni pericolose o dannose.

Problem-solving

La capacità di prendere decisioni richiede l’analisi, obiettiva e realistica della

situazione in cui ci troviamo a scegliere. Quindi prendere decisioni significa valutare

le situazioni, reperire informazioni utili per intraprendere le azioni ritenute più

opportune, vagliare criticamente le stesse, verificarne l’utilità, disporle in una

gerarchia d’importanza rispetto all’obiettivo che vogliamo raggiungere. Occorre

perciò pensare a più opzioni, confrontandole tra loro in relazione a ciò che vogliamo

conquistare. Ecco perché la competenza nel prendere le decisioni si accompagna alla

capacità di risolvere i problemi.

Spesso i contrasti più gravi all’interno di un gruppo di lavoro nascono da vari

fattori, tra cui: il non aver chiarito i ruoli dei partecipanti rispetto ai compiti che il

gruppo deve realizzare; le loro effettive responsabilità rispetto al compito; non aver

chiaro i contorni del problema da affrontare; non aver condiviso gli scopi del lavoro

comune; non avere un modo comune per affrontare il problema e per prendere

decisioni sul da farsi. Per evitare questi problemi si può adottare una procedura detta

di problem-solving che consiste in sei passi successivi che il gruppo deve articolare

nei tempi e nelle modalità pratiche di esecuzione condividendoli prima di avviare il

lavoro sul problema.

I passi del problem-solving nella sua versione più semplice sono i seguenti:

esporre con chiarezza i contorni del problema;

ipotizzare le varie soluzioni possibili;

valutare gli aspetti positivi e negativi di ogni proposta;

eliminare le soluzioni non adatte e selezionare le più idonee;

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predisporre i mezzi per attuare le soluzioni individuate;

verificare i risultati ottenuti.

Creatività

Il pensiero creativo, spesso indicato come pensiero divergente, proprio perché

ci consente di elaborare soluzioni alternative e modalità innovative per raggiungerle

rispetto alle prassi consolidate e ai modi abituali di pensare (pensiero convergente), è

esso stesso una abilità fondamentale che interagisce con le due capacità del decision

making e del problem solving. La creatività, tra l’altro, è anche capacità di pensare in

maniera diversa uno stesso problema e la sua soluzione, ma essa ha bisogno

dell’ordine e della routine per potersi manifestare. Essere creativi non significa essere

eccentrici, perché tutti abbiamo bisogno di poter pensare nuovi modi di risolvere

problemi vecchi e nuovi. Possiamo percorrere sempre lo stesso tragitto per giungere

alla soluzione di un problema, ma può essere utile talvolta sperimentarne dei nuovi,

magari anche più lunghi, per scoprire nuove opportunità di conoscenza. Essere

creativi non significa perciò essere fantasiosi, bensì, anche utilizzando la fantasia,

ideare nuove soluzioni ai problemi. Nel caso analizzato si possono ipotizzare diverse

soluzioni, alcune delle quali più fattibili di altre. Per valutare quelle più fattibili

occorre utilizzare il pensiero critico.

Pensiero critico

Essere creativi è perciò indispensabile come essere capaci di pensiero critico.

Se ci fidiamo solo di ciò che altri ci dicono, dei pregiudizi, delle facili soluzioni allora

rischiamo di vivere in maniera illusoria, e di buttare il cervello all’ammasso. E’ vero

che si può giungere a soluzioni condivise all’interno di un gruppo, ad esempio di

amici o di compagni di scuola. Ma queste soluzioni devono essere sempre il frutto di

un confronto libero, aperto, critico appunto, per saggiarne la correttezza, l’efficacia,

la giustezza. Altrimenti ciò che può accadere è che prevalga la logica del branco

piuttosto che quella del gruppo che, a differenza del primo, è sempre ispirata alla

riflessione e alla capacità di agire in maniera da evitare le azioni impulsive o i

comportamenti superficiali, che non si curano delle conseguenze per sé e per gli altri.

Saper relazionarsi con gli altri

Saper comunicare è perciò una tra le più importanti competenze che dobbiamo

sviluppare e che consente di realizzare pienamente l’altra abilità di base, quella

relativa alla capacità di costruire adeguate relazioni interpersonali. E’ necessario per

vivere in maniera piena e costruttiva edificare relazioni positive con gli altri che

hanno un’importanza spesso decisiva per il nostro benessere e per la vita comunitaria.

Questa capacità si manifesta non solo nella costruzione di nuovi legami e nel

mantenerli ma anche di porre fine ad essi in modi e forme che non siano lesivi della

propria e dell’altrui dignità. Si può cessare una relazione in modo che ciò non

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provochi risentimenti e rancori, rabbia e frustrazione. Rompere un legame con

un’altra persona può avvenire in modo che sia l’uno che l’altro protagonista della

relazione possano vivere l’esperienza, sia pure comunque dolorosa e spiacevole, in

maniera che esso possa lasciare tracce importanti per la nostra vita emotiva ed

affettiva, da cui trarre insegnamenti per la costruzione di altre future relazioni.

Interagire con gli altri è essenziale per il benessere personale e comunitario. Vivere

esperienze costruttive e creative con gli altri produce benessere, fa provare senso di

soddisfazione, permette di vivere relazioni armoniche che non negano affatto

l’esistenza di contrasti e conflitti che vengono gestiti nel rispetto reciproco e senza

che le emozioni negative, come la rabbia, assumano connotati puramente distruttivi.

L’autoconsapevolezza

Tale abilità consiste nell’essere capaci di auto-osservazione, di riconoscere i

tratti della nostra personalità, i nostri punti di forza e le nostre debolezze, i nostri

desideri e ciò che non ci piace. Sviluppare tale abilità può aiutarci a capire quando

siamo sotto stress oppure quando siamo sotto pressione. Si tratta di un prerequisito

per la comunicazione efficace e per le relazioni interpersonali, così come per

sviluppare la capacità di sperimentare empatia per gli altri.

Comunicazione efficace

In questo contesto la capacità di comunicare in modo efficace è essenziale per

analizzare le situazioni, elaborare strategie per risolvere i problemi, essere creativi.

Infatti, questo insieme di attività di analisi, elaborazione e messa in atto di strategie

per affrontare e risolvere problemi vecchi e nuovi richiede un confronto continuo con

gli altri, potendo esprimere pensieri, vissuti emozionali, richieste, bisogni in maniera

appropriata rispetto al contesto nel quale ci troviamo al momento. Tale contesto è

culturale e relazionale insieme, perché anche quando siamo soli in realtà il nostro

pensiero è sempre diretto verso altri.

L’empatia

Si possono esprimere liberamente le proprie emozioni senza che questo

avvenga in maniera distruttiva o nociva per se stessi e per gli altri, valorizzando nel

contempo un’altra competenza di base essenziale, quella di sperimentare empatia nei

confronti degli altri.

Essa consiste nella capacità di sperimentare ciò che gli altri vivono, e che nelle

forme più mature si manifesta nel poter sentire ciò che un altro sente senza

dimenticare che quel che avvertiamo in noi è distinto dal vissuto dell’altro, è una

capacità essenziale nella comunicazione interpersonale e per la vita sociale.

Empatia e comunicazione efficace: ascolto empatico e ascolto attivo.

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Carl Rogers (1902-1987), psicologo umanista, ha indicato nell’ascolto

empatico uno strumento particolarmente utile per realizzare un ascolto comprendente

e non giudicante.

Rogers (1951) notò che tre erano le condizioni necessarie e sufficienti per

produrre un cambiamento positivo in una persona che vive una situazione di

conflittualità, di confusione, di malessere, rispetto ad una certa situazione. Queste tre

condizioni sono capaci di far evolvere la persona verso il superamento della difficoltà

e quindi verso la crescita.

Esse sono:

l'empatia, intesa come la capacità di mettersi nei panni dell'altro, pensare e sentire

"come se" si fosse l'altro, mantenendo nel contempo il contatto con se stesso e con le

proprie emozioni;

la congruenza, intesa come stato di accordo interno;

l'accettazione positiva dell'altro che presuppone una visione alterocentrica della

vita, secondo la quale si dà per scontato che ogni persona è diversa dall'altra.

L'ascolto empatico rappresenta quindi una struttura psicologica di accoglienza,

nel senso che l'empatia comporta il "sentire" e "l'essere consapevole" delle proprie

emozioni, (congruenza), ma anche il "sentire " e "l'essere consapevole" delle

emozioni dell'altro (empatia in senso stretto).

Questo processo determina la capacità dell'io di relazionarsi e quindi è indice di

maturità affettiva (posizione alterocentrica).

Secondo quanto osservava Rogers, se in un’interazione a due, uno dei due partners si

pone in modo alterocentrico (e quindi non egocentrico), questo modo di relazionarsi

nella persona si "contagerà" all'altro e determinerà corresponsabilità nella relazione, il

che è indice di maturità sociale.

Gli strumenti di applicazione dell'empatia sono l'ascolto passivo e l'ascolto

attivo. Il primo si avvale della comunicazione non verbale ma anche della

comunicazione verbale (esprimendo, mentre si ascolta una persona, con parole e

suoni, riconoscimento e accettazione, ad esempio, "Va bene, continui";"Si, sono

d’accordo", ecc.).

Relativamente alla CNV, è utile adottare la postura sia aperta e leggermente

inclinata in avanti, indicando così disponibilità verso l'altro, evitando una postura

chiusa (braccia incrociate, gambe chiuse), che solitamente indica un atteggiamento

difensivo, poco incline ad accettare davvero quello che viene detto dall’interlocutore.

L'espressione del volto indica, ad esempio, se una persona è preoccupata,

arrabbiata, triste o altro. Se rivolgiamo lo sguardo a una persona mentre le parliamo o

mentre l'ascoltiamo, le comunicheremo attenzione, rispetto e valorizzazione; è come

se dicessimo che quello che ci sta comunicando ci interessa.

Al contrario, distogliere lo sguardo dal proprio interlocutore può esprimere

scarso valore per ciò che l'altro ci sta dicendo, a meno che esso assuma il significato

di una pausa di riflessione rispetto a ciò che viene comunicato nel corso

dell’incontro.

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Accompagnare il discorso con una gestualità morbida (movimenti lenti e

rotatori delle braccia e delle mani) comunica serenità e senso di rilassamento,

mettendo l'interlocutore a proprio agio.

Occorre inoltre prestata particolare attenzione agli indicatori paralinguistica,

cioè a tutto ciò che accompagna linguaggio, come il timbro di voce, il tono di voce,

le pause.

Nell'ascolto passivo, i canali di comunicazione non verbale che entrano in

gioco più degli altri sono il contatto oculare (lo sguardo) e la postura aperta e

leggermente inclinata in avanti, perché questi due elementi testimoniano attenzione

all’interlocutore.

Altro elemento importante che entra in gioco nell'ascolto passivo è il silenzio.

Il silenzio non è solo da intendersi in senso verbale, di non-parole, ma anche e

soprattutto silenzio interiore, come vuoto interno di pensieri e sentimenti, come

presupposto per il sentire e l'esprimere verso l'altro, interesse e accettazione.

L'ascolto passivo si avvale inoltre della comunicazione verbale, attraverso

l’espressione di riconoscimento e accettazione dell'altro, tramite l'uso di parole e

suoni (come, ad esempio, “Va bene...”, “Uhm,....”, ecc.).

L’ascolto attivo si avvale soprattutto della comunicazione verbale e anche

della comunicazione non verbale, esprimendo empatia attraverso il tono della

voce e l'espressione facciale.

L'ascolto attivo significa ascoltare con partecipazione, cercando di capire

quello che l’altra persona sente o vorrebbe esprimere.

Comprendere il punto di vista dell’altro non significa comunque adottare il

modo di vedere dell’altra persona.

Se una persona ha la possibilità di parlare fino in fondo e si sente compresa, è

più disposta ad ascoltare con attenzione gli altri e a mostrare comprensione.

Per verificare se si è capito bene l’una o l’altra, il mediatore può avvalersi delle

seguenti tecniche: la riflessione del contenuto di ciò che dice il parlante, la riflessione

del sentimento sottostante al messaggio e il confronto attraverso il messaggio in

prima persona.

La riflessione del contenuto (o parafrasi) consiste nell'abilità di parafrasare ciò

che dice l’interlocutore, usando parole diverse e frasi sintetiche. Prendiamo, ad

esempio, la frase seguente: "Il nuovo direttore non lo capisco proprio, così rigido, con

le sue regole immodificabili...." – Parafrasi - "Stai dicendo che non riesci a cogliere il

senso del suo comportamento?"

La riflessione del sentimento consiste nell'abilità di cogliere il vissuto emotivo

del cliente sottostante al contenuto e rimandarglielo, verbalizzandolo.

Nell'esempio di prima, si può dire: "Si sente sorpreso da questo

comportamento?". In tal modo l’altro è aiutato a mettersi in contatto con la propria

parte più emotiva.

Il confronto attraverso il messaggio in prima persona consiste in un atto di

auto-rivelazione, attraverso il quale il parlante esprime il proprio punto di vista.

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Esprimere il proprio punto di vista significa dire ciò che si vuole dire usando

frasi come "Secondo me..”, “Io penso che...", e non invece frasi come "questa è la

verità..”, “Si fa così...".

Esprimersi usando messaggi in prima persona significa contestualizzare (e non

generalizzare) ciò che si pensa e si dice, assumendosi nel contempo, la responsabilità

del proprio pensiero.

Invitando i contraenti ad usare messaggi in prima persona, si aiutano a dire con

chiarezza quel è il problema reale e che tipo dio sentimenti questo suscita loro

La parafrasi e la riflessione del sentimento determinano una condizione

psicologica di apertura nell’interlocutore. La persona che riceve questo tipo di

atteggiamento si sente infatti capita, accettata e non giudicata. E' come se gli si

dicesse (metamessaggio) che può aprirsi, farsi vedere, abbassare le difese. La

parafrasi e la riflessione del sentimento creano un clima di fiducia. In questo clima di

fiducia è possibile poi confrontarsi con l'altro, dire il proprio punto di vista, attraverso

l'uso del messaggio in prima persona. Ciò facilita la convergenza tra i partners della

relazione, portandoli verso la soluzione del problema. L'empatia che si esprime

attraverso la riflessione del contenuto e la riflessione del sentimento fa sì che quando

ciò che l'altro ci dice non ci è ancora chiaro, ci può essere chiarito attraverso l'uso di

queste due modalità.

Inoltre l'atteggiamento empatico determina nell'altro una condizione di

abbassamento delle difese dall’ansia del confronto con l’altro, proprio perché la

persona non si sente giudicata e si auto-esplora più facilmente.

In un’interazione, quando uno dei due ha ricevuto un atteggiamento empatico

da parte dell'altro, sarà più disposto a sentire e quindi a mostrare altrettanta apertura e

comprensione. Per questo, il messaggio in prima persona, usato per confrontarsi,

esprimendo il proprio punto di vista si rivela più efficace quando segue ad un

intervento fatto in termini di rimando empatico.

Per introdurre l'ascolto attivo è utile usare alcune frasi tipiche. Se siete

abbastanza sicuri di aver capito bene, è opportuno usare frasi come "Ti senti...”,

“Secondo te...”, “Tu pensi che...”, “Mi stai dicendo che..”, “Vuoi dire che...". Se

invece non siete abbastanza sicuri di aver capito bene, conviene usare frasi

come..."Potrebbe essere che..”, “Mi chiedo se...”, “Non so se ho capito, ma...”,

“Correggimi se sbaglio, ma...”, “E' possibile che...”, “Sembra che tu...”, “Forse ti

senti...".

Gestire le emozioni

La capacità di empatizzare è strettamente correlata con un’altra competenza di

base, la capacità di gestire le emozioni . Per poter vivere in modo adeguato la nostra

vita quotidiana abbiamo bisogno di riconoscere le nostre e altrui emozioni. Saperle

gestire non significa affatto negarle o reprimerle. Gestire le emozioni significa invece

essere in grado di poterle esprimere in modo adeguato al contesto, senza che questo

avvenga dimenticando ciò che tale espressione significa per gli altri.

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Gestire lo stress

La gestione delle emozioni s’intreccia la capacità empatica ma anche con

l’altra competenza essenziale per la nostra vita psicologica e sociale, relativa alla

gestione dello stress. La parola stress non ha in psicologia un’accezione negativa. Si

parla infatti di eustress per indicare una condizione stressante positiva per il proprio

organismo. Se, però, lo stress assume il senso di una pressione ambientale che si

realizza per un prolungato periodo, allora esso diventa distress, stress negativo cioè, e

può, se non adeguatamente gestito, causare conseguenze nocive anche sotto il profilo

organico oltre che psicologico. Essere capaci di gestire in modo adeguato al contesto

ed efficace i diversi livelli di distress al fine di evitare che insorgano vere e proprie

patologie.

Comunicazione e gruppo sociale.

In psicologia sociale si è soliti definire il gruppo come un insieme di individui

che interagiscono tra loro facendo riferimento a modelli comuni di comportamento,

che si ritengono membri del gruppo medesimo e che sono considerati, da altri

individui o gruppi, come parte del gruppo inteso come un insieme omogeneo

(Vianello, 1998).

Un gruppo è perciò un insieme dinamico (una totalità dinamica) costituito da

individui che si percepiscono vicendevolmente come interdipendenti per qualche

aspetto.

Si tratta di una definizione che risale a Kurt Lewin, uno dei padri fondatori

della psicologia sociale, e da lui elaborata negli anni Trenta - Quaranta del secolo

XX°, ispirandosi alla psicologia gestaltista che aveva contribuito a sviluppare in

Europa, prima dell’avvento del nazismo e dell’emigrazione forzata negli Stati Uniti.

La psicologia della Gestalt aveva scoperto che la nostra percezione seguiva

leggi basate sul principio secondo cui l’insieme delle sensazioni percepite aveva

proprietà non riducibili alle proprietà delle singole sensazioni.

In altri termini, il tutto ha proprietà specifiche diverse dalla somma delle parti

costituenti e che sono in grado di strutturare queste stesse parti in una totalità

organica.

Quindi l'identità, il riferimento a modelli di comportamento comuni e il senso

di appartenenza sono i tratti distintivi dell'essere gruppo.

All’interno del gruppo ogni componente ha uno status sociale ed esercita un

ruolo sociale. Lo status indica la posizione che l’individuo ricopre all’interno del

gruppo, il ruolo di un individuo è l’insieme delle azioni che ci si aspetta che egli

metta in atto nelle interazioni con gli altri. Lo status può essere ascritto, come, ad

esempio, l’età o il sesso, oppure acquisito, come la posizione professionale, il tipo di

lavoro che si svolge.

Gruppi primari e secondari.

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Si è soliti distinguere tra i gruppi primari, come il gruppo degli amici più

intimi, e gruppi secondari, come può esserlo un gruppo di frequentanti un corso di

formazione o un gruppo di lavoro di insegnanti. La famiglia è l’esempio tipico di

gruppo primario, in cui i componenti sono affettivamente legati fra di loro.

L'interazione tra i componenti di un gruppo primario è perciò molto intensa,

emotivamente ed affettivamente coinvolge, a differenza di quanto accade in un

gruppo secondario in cui invece l'interazione è meno profonda e spesso legata ad

obiettivi determinati dal contesto organizzativo in cui il gruppo opera.

In effetti accade, come dimostrarono le ricerche condotte negli Stati Uniti tra il

1927 e il 1932, conosciute come "esperimenti Hawthorne" (dal nome dell’industria

elettrica in cui tali ricerche si svolsero), che un gruppo secondario possa tramutarsi in

un gruppo primario, come nel caso del piccolo gruppo di operaie che lavorava

all'interno di quella azienda e che risultavano, alle osservazioni dei sociologi, molto

legate fra di loro al punto che il fattore che maggiormente incideva sulla loro

produttività era proprio rappresentato da questo ‘spirito di gruppo’.

Perciò quel che contava per farle produrre di più non era tanto la promessa di

premi in denaro bensì piuttosto la loro opinione collettiva su quanto fosse giusto

lavorare di più o di meno.

Una successiva ricerca su di un gruppo di circa quindici operai della stessa

azienda confermò che anche all'interno di un gruppo secondario potevano svilupparsi

regole comuni di convivenza simili a quelle dei gruppi primari, e che si attuavano

anche attraverso le comunicazioni tra loro, con la creazione di un particolare gergo,

una suddivisione spontanea di ruoli diversi all'interno del gruppo, per cui c'era chi

guidava gli altri ma anche chi interveniva per ridurre le tensioni tra i membri o chi

invece impediva agli altri che il lavoro svolto fosse superiore a quanto stabilito dal

gruppo stesso.

Gli altri membri potevano svolgere una funzione esattamente opposta,

segnalando a chi rallentava troppo il lavoro di incentivare la sua produzione,

indicandolo con nomignoli quali ‘cesellatore’, oppure appellando ‘spione’ chi dava

informazioni che potessero mettere in difficoltà un altro membro del gruppo davanti

al caporeparto.

Le caratteristiche del gruppo.

Quando e come accade che un semplice aggregato di persone si trasformi in un

gruppo psicologico? Perché non è sufficiente che un insieme di persone condivida

una stessa situazione per definirlo un gruppo?

Esistono alcune condizioni essenziali perché un aggregato di individui diventi

un gruppo, costituenti dei veri e propri parametri con i quali è possibile definirlo tale

(Cartwright, Zander, 1998).

Il primo parametro per caratterizzare un gruppo è che esso necessita di una

determinata ampiezza (parametro della numerosità).

Infatti, occorrono almeno quattro persone per fare un gruppo.

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Una coppia non è un gruppo vero e proprio, ma nemmeno una triade è un

gruppo in senso specifico perché solitamente due membri si ‘alleano’ tra di loro e il

terzo viene escluso dal ‘rapporto di complicità’ diadico, di coppia, che si crea. Il

motivo psicologico più profondo per spiegare questa difficoltà nel “fare gruppo in

tre” è rappresentato dal riattivarsi della dinamica edipica, con la diade che rievoca la

coppia parentale e il terzo escluso che assume nei fatti il ruolo di ‘membro filiale’

della triade.

Se quattro è il limite inferiore, tra dieci e quindici è il limite superiore. Questo

criterio è di natura quantitativa nel senso che per ogni persona in più presente nel

gruppo, il numero di relazioni che si forma nel gruppo medesimo non aumenta di una

sola unità bensì di un numero di volte che risulta dalla seguente formula matematica:

½ Numero dei componenti • (Numero dei componenti – 1)

In altri termini, il numero delle relazioni di un gruppo è equivalente al numero

corrispondente alla metà delle persone presenti moltiplicato per il numero meno uno

delle stesse persone.

Ad esempio, considerando equivalente a 10 il numero dei componenti del

gruppo, in esso si costituiranno ben 45 “canali” di rapporto (canali di comunicazione)

fra le persone. Se solo aumentiamo di 2 unità il gruppo, il numero delle “relazioni”

tra i componenti aumenterà del 46%, passando da 45 a 66. Quando il numero delle

persone componenti il gruppo supera il numero dei canali di comunicazione che è

ragionevole aspettarsi di essere gestito da un conduttore, allora il gruppo sarà un

grande gruppo e tenderà a suddividersi in tanti piccoli gruppi.

Il secondo parametro che permette di definire un gruppo è la possibilità offerta

ai suoi membri di interagire in un tempo significativo (parametro della

temporalità). La durata temporale deve essere tale che il gruppo possa avere la

possibilità di passare dalla pura e semplice interazione alla relazione vera e propria, il

che accade quando i componenti del gruppo cominciano ad avere una storia comune.

Il terzo parametro è costituito dagli obiettivi condivisi (parametro della

condivisione degli obiettivi). Un insieme di persone diventa gruppo quando elabora

al suo interno, in modi e forme anche inconsapevoli, degli obiettivi comuni. Nel

gruppo di lavoro gli obiettivi vengono dati dall’esterno (ad esempio, dal

‘committente’, dall’ufficio superiore, ecc.) ma per lavorare davvero in gruppo occorre

che tali obiettivi divengano i propri obiettivi, rielaborandoli in modo da condividerli.

Il quarto parametro è strettamente connesso al precedente, e riguarda le norme

di funzionamento del gruppo e i suoi valori (parametro della elaborazione delle

norme). La fase del confronto (e talvolta del conflitto) è qui ineludibile. Proprio

grazie a questo confronto, se costruttivo, il gruppo arriva a darsi le sue regole e il

processo di normazione, risolta la fase del conflitto, produce i valori del gruppo che

ne costituiranno la base fondamentale per la sua vita.

Il quinto parametro per caratterizzare un gruppo in senso psicologico e sociale, è

costituito dai ruoli che si costituiscono al suo interno e che sono le attese che gli altri

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hanno nei confronti di un membro del gruppo per il fatto che quel membro occupa

una determinata posizione nel gruppo stesso (parametro del ruolo).

Le aspettative che gli altri hanno su di noi, la loro origine, su cosa esse si

basano, quanto effettivamente siano in grado di rispecchiare le nostre effettive

capacità o di soddisfare il nostro piacere, sono questioni che devono essere affrontate

proprio nella relazione col gruppo. Il riconoscimento dei ruoli, indica il grado di

accettazione delle differenti competenze. Questo rafforza il senso di utilità di ognuno

e la messa in atto di un’interdipendenza positiva. Si può contare sul contributo di tutti

perché tutti hanno qualcosa da mettere a disposizione. Oltre ad avere una notevole

incidenza sul clima di gruppo, la gestione dei ruoli ha importanti effetti anche sul

gruppo operativo.

Il ruolo può essere definito come un insieme di aspettative condivise circa il

modo in cui dovrebbe comportarsi un individuo che occupa una determinata

posizione nel gruppo. Si comprende da qui come l'attribuzione di un ruolo assicuri un

certo grado di prevedibilità nel comportamento che verrà eseguito. I ruoli non

evidenziano solo una differenza tra gli individui, ma conseguentemente anche la loro

interrelazione, una complementarietà per il conseguimento di finalità e obiettivi

comuni.

Infine, il sesto parametro è costituito dall’esistenza di relazioni di tipo socio-

affettivo ed emozionale tra i componenti del gruppo (parametro del clima). Questo

clima è in grado di condizionare, spesso in modo decisivo sia in senso positivo sia in

senso negativo, la performance del gruppo stesso in relazione ai suoi obiettivi.

Perché il gruppo è una risorsa.

Lasch (1981; 1987) ha posto in evidenza le difficoltà del “fare gruppo” nella

società attuale caratterizzata da un narcisismo diffuso e dalla costruzione di micro-

identità (l’io minimo) che allontana piuttosto che avvicinare gli individui tra di loro.

Nonostante i limiti culturali della vita sociale contemporanea che spingono più

verso l’individualità che la gruppalità, molteplici sono i vantaggi del costituirsi in

gruppo.

Innanzi tutto perché, essendo il gruppo qualcosa d’altro della semplice somma

delle singole parti, sviluppa, una volta raggiunta la stabilità psicologica propria, una

sorta di “mente gruppale” che può però degenerare in una vera e propria “patologia

della vita di gruppo” (group think), nella quale il conformismo, l’unanimismo e la

percezione distorta dell’outgroup rispetto all’ingroup, sistematicamente

sopravvalutato, sono i sintomi in grado di condizionare negativamente i processi

decisionali del gruppo stesso (Janis, 1972, 1982, 1989).

In altri termini, se il “pensiero di gruppo” viene contrastato in maniera efficace,

l’insieme delle capacità singolari dei componenti si potenziano tra di loro ed essi

diventano capaci di produrre qualcosa che i diversi componenti da soli non sarebbero

stati in grado di creare.

Il gruppo inoltre è necessario per vedersi riconosciuto nel proprio status che

costituisce la dimensione complementare ed opposta al ruolo: perciò, se il ruolo

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prescrive i doveri che ho verso gli altri, lo status sancisce i miei diritti che devono

essere rispettati dagli altri per una buona qualità della vita in gruppo.

Il gruppo inoltre sostiene la stima dei suoi componenti. Quindi, se è indirizzato

alla sua realizzazione, esso influisce positivamente sull’autostima dei membri del

gruppo stesso.

Nel darsi delle regole, il gruppo indica dei limiti al vivere sociale che sono

preziosi proprio per la qualità della vita individuale.

Il gruppo peraltro fornisce regole che sono meno costrittive e inibenti delle

regole macrosociali.

I gruppi si distinguono tra di loro per il modo in cui realizzano le caratteristiche

distintive dell’essere gruppo, per cui esiste una sorta di “indice di gruppalità” che

permette di valutare in modo qualitativo lo scarto del gruppo considerato rispetto al

prototipo del gruppo sociale (De Grada, 1999; Mannetti, 2002).

In relazione ai parametri descritti è possibile che tale “indice” sia maggiore se

le persone interagiscono tra di loro in modo integrato e orientato al raggiungimento di

uno scopo comune e se si percepiscono come membri di uno stesso gruppo,

caratteristica questa molto valorizzata dalle ricerche orientate in senso cognitivo,

perché consente al gruppo e ai suoi componenti di costruire la loro stessa identità

sociale attraverso processi di autocategorizzazione (Tajfel, 1981, 1982; Turner et al.,

1987).

Inoltre le persone componenti un gruppo con l’”indice di gruppalità” più alto

nutrono sentimenti positivi nei confronti degli altri membri dell’insieme e verso le

attività comuni, determinando il “sentimento del noi” (we feeling), quel senso di

appartenenza del singolo al gruppo che ci consente di valutare gli individui come più

o meno affiatati tra di loro.

L’identificazione reciproca consente inoltre di sviluppare un’elevata

influenzabilità tra i componenti, tale che esiste una specie di idem sentire in cui la

proposta del singolo viene accolta con condivisione ed entusiasmo.

Il gruppo ad elevata coesione presenta un’elevata articolazione interna, con una

struttura organizzativa e gerarchica in relazione alle attività, ai ruoli e agli status,

funzionante, riconosciuta e accettata.

Infine il gruppo condivide il sistema di norme implicito o esplicito che ha

prodotto, dando origine ad una struttura normativa solida, capace di creare una vera e

propria ideologia o cultura del gruppo.

Bion (1961) usa l’espressione “cultura di gruppo” in modo assai estensivo,

includendovi anche la struttura che il gruppo produce nel corso dei diversi momenti

della sua esistenza ed evoluzione, le attività che svolge e l’organizzazione che adotta.

Struttura e dinamica del gruppo.

Ogni gruppo, da quello familiare ed amicale al gruppo secondario di lavoro, ha

una sua struttura, perché ogni membro ha un suo ruolo, di cui si può essere più o

meno consapevoli.

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Nel caso del ‘mobbing’ la vittima ha appunto il ruolo di ‘capro espiatorio’ dei

conflitti che esistono nel gruppo.

Talvolta accade che ci sia chi vuole utilizzare il gruppo per tentare di

manipolarlo per suoi scopi e questo può accadere perché l’individuo ha bisogno di

essere riconosciuto come capace di avere successo.

In altre occasioni invece un individuo può ostacolare le attività del gruppo,

opponendosi sistematicamente, nel caso di un gruppo di lavoro, al conduttore delle

attività per dimostrare in negativo il suo ‘potere’.

In altri casi all’interno di un gruppo alcuni individui possono sentirsi

emarginati, mentre altri non pensano di esserlo e invece di fatto lo sono. In altri casi,

alcuni membri vogliono mettersi ‘al di sopra degli altri’, alzando la voce

continuamente oppure ponendosi sempre al centro dell’attenzione.

Si tratta di fenomeni abbastanza abituali che, finché si manifestano in maniera

sostanzialmente rispettosa degli altri e nelle prime fasi della vita di un gruppo, sono

spesso riconducibili a preoccupazioni e timori legati proprio al vivere l’esperienza

stessa dello stare in gruppo.

Possono invece emergere sul lungo periodo comportamenti di ‘dipendenza’ da

parte dei membri di un gruppo: ci sono persone che cercano in esso certezze acritiche

in grado di compensare le loro insicurezze e tali bisogni possono essere così forti da

creare veri e propri gruppi ‘settari’, che possono persino impedire ai componenti di

poter manifestare comportamenti autonomi dalle rigide regole stabilite dal gruppo

stesso. In altri casi i comportamenti ostili o negativi dei singoli possono continuare e

in tal caso può essere necessario ristrutturare il gruppo in modo da rendere possibile

il suo lavoro.

Solitamente si può intervenire nell’analizzare la struttura e le dinamiche del

gruppo per prevenire fenomeni eccessivamente conflittuali o disagi all’interno del

medesimo attraverso l’osservazione e la formazione dei gruppi stessi al vivere

insieme, come avviene nei cosiddetti T-Groups (Training-Groups), in cui s’apprende

a convivere positivamente insieme, sperimentando in condizioni controllate le

difficoltà che questo comporta e imparando dai propri errori.

Uno degli strumenti più utili per comprendere la struttura e la dinamica di un

gruppo è costituito da un vero e proprio test, detto Test Sociometrico, ideato da

Jacob Levi Moreno, celebre per la tecnica terapeutica nota col nome di psicodramma.

Il Test consente di rappresentare anche graficamente la struttura e la dinamica

di un gruppo in un certo momento della sua vita e consiste nella richiesta, fatta ai

membri del gruppo, di esprimere preferenze o rifiuti verso gli altri componenti del

medesimo. La raccolta dei dati viene elaborata in un sociogramma che può essere

variamente rappresentato e che permette di individuare la posizione di ogni singolo

individuo nel gruppo rispetto agli altri e ad un ipotetico punto di massima coesione

del gruppo stesso. Si tratta di un utile strumento per comprendere chi in effetti

conduce il gruppo, chi si trova distante o persino isolato dagli altri componenti, chi

invece è più vicino ad altri, costituendo così dei sottogruppi interni al gruppo.

La comunicazione nel gruppo.

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I modi in cui i componenti di un gruppo interagiscono e comunicano tra di loro

configurano la struttura del gruppo stesso e le sue modificazioni determinano la

dinamica del medesimo.

Le reti di comunicazione di un gruppo sono perciò il modo in cui i suoi

componenti comunicano tra di loro e la loro rilevazione è indispensabile per

mantenere la coesione del gruppo. Vi sono diversi tipi di queste reti: a Y, a catena, di

tipo circolare, a ruota, e altre ancora (Leavitt, 1951).

Queste reti sono descrizioni delle modalità di interazione comunicativa tra i

componenti di un gruppo, ma non ci dicono quale struttura comunicativa sia più utile

da adottare in assoluto.

Si potrebbe, infatti, pensare che una rete di comunicazione aperta e circolare

che descrive un gruppo in cui tutti interagiscono tra di loro in maniera cooperativa e

paritaria sia da preferirsi sempre ad altre strutture comunicativo-relazionali, come

quella più centralizzata.

Shaw (1964) ha dimostrato sperimentalmente che quest’ultimo tipo di rete

di comunicazione a Y o a ruota (reti centralizzate), sono più funzionali di altre

solo se i compiti sono cognitivamente semplici, mentre nel caso di compiti

complessi queste reti comunicative sono meno produttive di quelle non

centralizzate.

Fra gli indici per descrivere vari tipi di reti, importanti sono l'indice di distanza

(il numero minimo di legami di comunicazione che un individuo deve attraversare

per comunicare con un altro membro del gruppo) e l'indice di centralità, che misura il

grado di centralizzazione di una rete (cioè misura quanto le comunicazioni in un

gruppo siano centralizzate su una persona o distribuite più o meno uniformemente fra

i membri).

Si sono messe in luce delle correlazioni tra l'indice di centralità di una rete e

certe espressioni del lavoro di gruppo: più la rete è centralizzata, meno numerose

sono le comunicazioni e più rapido è lo svolgimento del compito, anche se il morale

medio del gruppo diminuisce con la centralità. Successivamente altre ricerche

corressero l'idea che i gruppi centralizzati risolvessero i compiti più rapidamente: ciò

vale per i compiti semplici, mentre di fronte a compiti più complessi, sono più

efficienti i gruppi a rete circolare.

In un gruppo efficace la comunicazione è bi-direzionale: l' espressione aperta e

accurata delle idee e dei sentimenti, è accettata e favorita.

In un gruppo di lavoro cooperativo i membri cercano di finalizzare gli scambi

(comunicazione finalizzata) al raggiungimento sia degli obiettivi condivisi che di

quelli del singolo. La comunicazione finalizzata è un'attività concreta perché porta a

sviluppare soluzioni alternative di un problema, a prendere decisioni, a gestire

relazioni. E' una comunicazione pragmatica, perché da più importanza ai fatti e ai

dati e meno alle opinioni e ai giudizi di valore personali; si orienta perciò verso

l'operatività del gruppo.

Lavorare in gruppo è rischioso?

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Occorre poi ricordare che nei gruppi possono prodursi fenomeni di distorsione

interpretativa e decisionale già a partire dalla semplice triade, come hanno dimostrato

alcuni esperimenti ormai classici di Sherif (1935) e Asch (1951; 1955,1956).

In uno di questi studi, un piccolo gruppo era inserito all'interno di una stanza

completamente buia dove si proiettava su di una parete un punto luminoso e si

chiedeva ai componenti del gruppo di valutare l'entità dello spostamento del punto

nel corso del tempo. In effetti, ciò che accade è che il punto luminoso sembra

muoversi per un effetto percettivo conosciuto come "effetto autocinetico", una vera e

propria illusione ottica. In altri termini, il punto non si muoveva per niente ma i

componenti del gruppo concordavano su valutazioni pressoché unanimi di questo

spostamento di fatto puramente illusorio.

In un altro esperimento (Asch, 1952, 1955) un soggetto che rappresentava la

"cavia" della situazione veniva inserito in un gruppo di collaboratori dello

sperimentatore (che facevano finta di non conoscersi tra loro). Lo sperimentatore

successivamente chiedeva al gruppo di valutare collettivamente l'eventuale differenza

di lunghezza tra delle immagini di bastoncini proiettati su di uno schermo,

comparandoli rispetto ad un altro bastoncino "campione". I collaboratori dello

sperimentatore si erano in precedenza accordati nel fornire le medesime risposte

sbagliate anche nel caso di evidenti differenze di lunghezza tra i diversi bastoncini. Il

soggetto sottoposto all'esperimento, assolutamente ignaro di tutto, spesso si

uniformava al giudizio espresso dal resto del gruppo. Solo in pochi casi (seppur

significativi) le “cavie” rifiutavano le valutazioni del gruppo, dimostrando così come

un gruppo può arrivare a valutazioni errate per l'influenza esercitata sui singoli

componenti dal gruppo stesso.

Per evitare queste distorsioni può essere utile l’adozione di strategie di analisi

dei problemi come il problem-solving.

La leadership.

Gli stili di leadership costituiscono un ulteriore elemento costitutivo del gruppo

di lavoro. All'interno di ogni gruppo, alcuni individui assumono sia spontaneamente

sia per designazione la funzione di guida delle attività del gruppo stesso. Questa

funzione, detta di leadership, può essere svolta anche da più persone in momenti

diversi. Solitamente si pensa che i gruppi sociali o le organizzazioni siano in genere

guidati da personaggi "carismatici", capaci cioè di imporre la propria volontà al

gruppo grazie alle particolari attitudini e doti di comando di cui sono dotati.

Pur essendo questo del ‘leader carismatico’ un fenomeno reale, la leadership

nei diversi gruppi può essere esercitata da individui "comuni", per cui la capacità di

esercitare tale funzione può essere appresa e perfezionata attraverso l'esperienza.

Diversi individui possono esercitare all'interno di uno stesso gruppo forme di

leadership di tipo diverso.

Alcuni individui possono indirizzare gli altri al raggiungimento degli obiettivi

del gruppo, essendo in grado di richiamare il gruppo stesso alle regole che lo

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guidano, alla responsabilità di raggiungere nei tempi previsti di obiettivi condivisi,

sollecitandoli a superare le difficoltà e suggerendo soluzioni efficaci ai problemi

incontrati.

Questa forma di conduzione del gruppo viene definita come leadership

funzionale e il leader che la svolge come orientato al compito.

Altri, invece, potranno manifestare in modo più efficace la capacità di

esprimere le esigenze specifiche dei componenti del gruppo, i loro bisogni di tipo

affettivo ed emotivo.

Questa forma di conduzione dei gruppi è invece definita come leadership

espressiva o socio-emotiva e il leader che la svolge come orientato alla relazione.

L'equilibrio tra le diverse forme di leadership, funzionale ed espressiva, è

indispensabile per garantire la vita del gruppo, per aumentarne la coesione, per

migliorarne il clima interno e per promuovere il benessere dei suoi componenti.

Tipologie di leadership

Leadership funzionale, orientata al compito.

Il leader, tra l’altro, orienta continuamente il gruppo all’obiettivo da raggiungere,

supporta gli sforzi dei suoi componenti nelle attività necessarie al lavoro da svolgere,

stimola la loro creatività e l’apporto attivo alla discussione, favorisce un clima sereno

di collaborazione reciproca, riformula continuamente gli apporti dei componenti per

tenere aperti i canali comunicativi, media i conflitti per evitare che possano

degenerare in scontro aperto senza impedire peraltro che si manifesti la diversità di

opinioni e di punti di vista).

Leadership socio-emotiva, espressiva.

Il leader, tra l’altro, ascolta con attenzione ed empatia il contributo degli altri, intesa

come capacità di sperimentare il vissuto affettivo ed emotivo dell’altro senza mai

immedesimarsi totalmente in esso, esprime e riformula i bisogni più profondi del

gruppo, collaborando alla leadership funzionale ed evitando che la loro espressione

possa tradursi in conflitto antagonistico tra i membri del gruppo).

Gli stili di leadership.

Il conduttore del gruppo può assumere stili di leadership assai diversi tra loro.

Il leader può esercitare una conduzione di tipo autoritario in cui non permette al

gruppo di discutere su ciò che si deve fare e imponendo forme di comunicazione e

relazione che privilegiano il rapporto diretto tra i singoli componenti del gruppo e il

conduttore stesso.

Questo stile di conduzione può essere necessario in momenti particolarmente

difficili della vita di un gruppo, ad esempio nel caso in cui vi sono forti tensioni

dovute a fattori esterni al gruppo stesso oppure in situazioni in cui il tempo necessario

a raggiungere obiettivi indispensabili per il gruppo sia limitato.

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All'opposto, in altri casi chi esercita la leadership può evitare di assumere

alcuna responsabilità, promuovendo un clima di caotica interazione tra i membri del

gruppo, senza consigliare o suggerire alcun comportamento funzionale a

raggiungimento degli obiettivi (stile di conduzione laissez-faire).

Altri stili di conduzione del gruppo di lavoro sono invece di tipo democratico e

autorevole.

In questi casi il conduttore assume comportamenti che favoriscono la

comunicazione reciproca tra i membri del gruppo, manifestando attenzione e rispetto

per le diverse idee e opinioni in relazione alle attività da realizzare in modo da

assicurare una partecipazione democratica alle decisioni senza però, nel caso dello

stile autorevole, perdere di vista le finalità fondamentali del gruppo. Le tipologie di

leadership e di stili di leadership sono perciò così sintetizzabili (Corrieri, 2003;

Corrieri, Piz, 2003):

Leadership autoritaria.

Chi ha la responsabilità di guidare il gruppo lo fa senza ascoltare gli altri

membri, distribuendo i compiti secondo criteri fissati apriori e non negoziati col

gruppo stesso.

La comunicazione privilegia la rete a Y o a catena perché i componenti del

gruppo si limitano per lo più ad eseguire le indicazioni date dal leader che non si cura

più del necessario degli aspetti socio-emotivi dei componenti del gruppo i quali

spesso entrano in conflitto tra di loro.

Domina la passività nell’esecuzione del compito affidato e l’aggressività che

può prodursi nei momenti di maggiore stanchezza può esprimersi contro il ‘capro

espiatorio’.

Vantaggi: è utile quando gli obiettivi sono semplici da definire e c’è poco tempo per

raggiungerlo. Un esempio potrebbe essere quello di un gruppo che deve soccorrere

immediatamente persone in difficoltà, anche se lo stesso risultato positivo si può

avere con un gruppo ‘ben affiatato’ proprio grazie ad uno stile di leadership meno

autoritaria esercitato prima di entrare in azione.

Limiti: c’è scarsa soddisfazione per quel che si fa, stare in gruppo diventa faticoso, e

c’è il rischio di vivere l’esperienza come frustrante soprattutto per i più motivati al

lavoro, mentre i più dipendenti dall’autorità possono essere eccessivamente

compiacenti rispetto al ‘capo’, alimentando rancori e gelosie tra i componenti del

gruppo.

Leadership permissiva (laissez-faire)

Paradossalmente può essere la forma più negativa di conduzione di un gruppo

perché può esprimere in forma mascherata un bisogno aggressivo dello stesso

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conduttore, indotto anche da possibili frustrazioni sperimentate prima o durante

l’esecuzione del lavoro comune.

Questa forma di leadership, infatti, è caratterizzata da una sostanziale

deresponsabilizzazione del leader dal suo ruolo di conduzione, per cui il gruppo è

completamente abbandonato a se stesso nell’attività da svolgere. La coesione del

gruppo è debole, il suo rendimento è basso, si lavora male, i conflitti insorgono

continuamente e non si riesce a mediarli in modo efficace perché manca chi interpreti

tale ruolo di negoziazione in maniera continuativa.

Vantaggi: se non è espressione di incapacità o demotivazione sostanziale all’esercizio

del ruolo di conduzione del gruppo da parte del leader, questo stile può talvolta essere

utile in situazioni di difficoltà; ad esempio, quando è difficile -se non impossibile-

attuare efficacemente le attività lavorative, consentendo al conduttore di prendere

tempo in attesa che chi occupa posizioni più elevate di responsabilità

nell’organigramma dell’organizzazione (cioè nella struttura gerarchica della

medesima) chiarisca gli obiettivi che il gruppo deve effettivamente raggiungere, le

risorse realmente disponibili, ecc.

Ciò peraltro potrebbe prestarsi proprio a ‘colpevolizzare’ il conduttore del gruppo che

dimostrerebbe così la sua ‘incapacità’ nell’esercitare il ruolo assegnato e diventare il

‘capro espiatorio’ della situazione.

La rete comunicativa che si determina in conseguenza di questo stile di leadership

potrebbe essere anche di tipo aperto, in cui tutti interagiscono tra di loro, ma se

l’obiettivo da raggiungere è a breve termine questo potrebbe costituire un ostacolo.

Limiti: se la conduzione è all’insegna del laissez-faire il rendimento è decisamente

basso, i componenti del gruppo, magari anche motivati all’obiettivo, possono

progressivamente vivere un senso di deresponsabilizzazione crescente e che rende più

facile l’emergere di tensioni nel gruppo.

Lo spreco delle risorse è eccessivo.

Spesso uno stile di questo genere si configura come l’altra faccia dello stile

autoritario, perché chi lo esercita può vivere l’esperienza della conduzione come

esercizio di autoritarismo invece di essere l’assunzione di una responsabilità

consapevole e da esercitarsi in contesti definiti.

Leadership democratica - autorevole

Forse è la forma di conduzione di un gruppo più apprezzata perché consente di

valorizzare l’apporto creativo e autonomo di tutti i suoi componenti. Il leader appare

aperto al contributo di tutti, stimola la comunicazione diffusa, evita di precludere la

discussione, accetta la diversità, valorizzandola in modi adeguati. Essa però richiede

anche una certa direttività da parte del conduttore, intesa come guida equilibrata e

rispettosa del lavoro del gruppo anche nelle sue esigenze emozionali ma nel rispetto

del raggiungimento degli obiettivi, peraltro discussi e condivisi. In questo senso

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richiede autorevolezza del conduttore, che talvolta, soprattutto se il gruppo è

paritario, può non essere immediatamente evidente o condivisa da tutti i componenti.

Vantaggi: la coesione nel gruppo così diretto è alta, buono è il rendimento; tutti

partecipano al lavoro con soddisfazione, mentre sono stimolati dal leader che

riformula i problemi continuamente alla luce dei diversi apporti. La comunicazione è

diffusa e aperta, si esce da una riunione solitamente soddisfatti del lavoro svolto.

Limiti: occorre tempo per condurre in porto il lavoro, perché la soddisfazione che i

componenti nel lavorare in questo modo provano può indurli a cercare più

l’esperienza di gratificazione che il raggiungimento dell’obiettivo che talvolta può

essere vissuto come estraneo o scarsamente definito o persino impossibile da

raggiungere. Si ha talvolta la sensazione di trovarsi in un ‘salotto a conversare’ più

che in un ‘gruppo a lavorare’.

La comunicazione tra stereotipi e pregiudizi.

"Gli italiani sono passionali"; "le donne non sono portate per la matematica";

"gli adolescenti sono ribelli". Queste frasi son esempi di ciò che in psicologia sociale

chiamiamo stereotipi, ovvero le credenze sugli attributi personali di una determinata

categoria sociale, in particolare di alcuni gruppi sociali, per esempio, le donne. In

altre parole, lo stereotipo è un insieme coerente e abbastanza rigido di credenze che

un certo gruppo condivide rispetto a un altro gruppo o categorie di persone (Mazzara,

1997; Villano, 2003).

Come sostiene Brown (1997) lo stereotipo è una rappresentazione della realtà

spesso arricchita da aspetti valutativi e affettivi, i quali segnalano alla persona che li

mette in atto quali aspetti siano positivi e quali sono invece irrilevanti e negativi.

Per quanto riguarda il pregiudizio, dal punto di vista etimologico questo

termine indica un giudizio precedente all'esperienza, o in assenza di dati empirici, che

può intendersi quindi come più o meno errato, orientato in senso favorevole o

sfavorevole, riferito tanto ad eventi che a persone o gruppi. Le scienze sociali

interessate ad evidenziare l'utilità di questo concetto per la comprensione dei

fenomeni socialmente rilevanti, hanno aggiunto due specificazioni di significato del

termine pregiudizio, ormai diventato parte integrante del suo uso comune.

La prima specificazione riguarda il fatto che il pregiudizio si riferisca a

specifici gruppi sociali, piuttosto che a fatti o eventi; la seconda che tale pregiudizio

sia di solito sfavorevole. In quest’accezione più specifica e ristretta, il pregiudizio è

pertanto definito come la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente

sfavorevole persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale. A

quest’accezione si associa inoltre l'idea che il pregiudizio non si limiti alle valutazioni

rispetto all'oggetto, ma sia in grado di orientare concretamente l'azione nei suoi

confronti.

Il "passaggio all'azione" è, infatti, la caratteristiche che differenzia il

pregiudizio dallo stereotipo. Uno dei modi per orientarsi fra le diverse interpretazioni

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che nel corso del tempo sono state elaborate per comprendere questi fenomeni, è

quello di individuare alcuni criteri discriminanti, rispetto ai quali le diverse

spiegazioni possono essere considerate come alternative.

Il conflitto.

Il conflitto è l'espressione di una tensione e di incompatibilità tra alcune parti

che prima avevano un equilibrio positivo. Comunemente i conflitti sono vissuti come

qualcosa di fastidioso, minaccioso, distruttivo doloroso e la maggior parte delle

persone tenta di evitarli. D'altra parte è chiaro che i conflitti ci saranno sempre, per

questo motivo i conflitti devono essere considerati in un modo diverso e più

adeguato. I conflitti sono il segnale importante di qualcosa che non va più e deve

essere modificato, sono quindi un'opportunità per migliorare e sviluppare i

rapporti reciproci.

E' il modo (costruttivo o distruttivo) in cui il conflitto è gestito a stabilire se

quest’opportunità sarà colta o meno.

Una divergenza di opinioni o di idee può degenerare in un conflitto personale.

I diversi modi di vedere rispetto a determinati problemi vengono, infatti,

trasformati in rimproveri verso l’altra persona o illazioni sul suo carattere, le sue

intenzioni, e i suoi motivi. Invece di affrontare il problema, si identifica la persona

con il problema stesso. Nella maggior parte dei conflitti, i contenuti della

controversia cambiano con l’intensificarsi del conflitto.

All’inizio si trattava di un problema singolo, col passare del tempo emergono

però nuovi e diversi problemi d’altro tipo. Il colloquio sui problemi diventa sempre

meno specifico e sempre più vago. I problemi proliferano e lasciano una sensazione

di confusività.

Alla fine anche la comunicazione diventa sempre più indiretta e sempre meno

precisa. I contendenti hanno sempre meno contatto tra loro e tendono ad intensificarlo

con le persone che condividono le loro idee. Alla crescente intensità e al crescente

coinvolgimento emotivo corrisponde la minore capacità di ascoltare e di comunicare.

In questo modo difficilmente si raggiungeranno soluzioni soddisfacenti.

Risolvere i conflitti in modo costruttivo significa cercare una soluzione al

problema senza attaccare la persona che ci sta di fronte. Quindi si tratta di evitare di

identificare la persona con il problema.

Nello stesso modo in cui si opera una distinzione fra persona e problema, così

occorre distinguere tra posizione e interesse. Le singole posizioni, vale a dire le idee

ben strutturate su come andrebbe risolto un problema, spesso sono inconciliabili tra

loro (esempi). Non sembra perciò possibile una soluzione concordata del problema.

Tuttavia nella maggior parte dei casi gli interessi che vi stanno alla base, che alla fine

sono la cosa più importante, possono essere soddisfatti in modo diverso. Se gli

interessi sono esplicitati, diventa possibile trovare delle soluzioni soddisfacenti per

tutti.

Occorre perciò focalizzarsi sugli interessi (bisogni), non sulle posizioni

(soluzioni). Nello stesso modo in cui si opera una distinzione tra persona e problema,

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così occorre distinguere fra posizione e interesse. Le singole posizioni, vale a dire le

idee ben strutturate di come dovrebbe essere risolto un problema, spesso non sono

conciliabili fra di loro. Non sembra quindi possibile una soluzione concordata del

problema. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, gli interessi che vi stanno alla base -

che sono alla fine dei conti la cosa più importante - possono essere soddisfatti in

molteplici modi. Se gli interessi sono esplicitati, diventa più semplice trovare delle

soluzioni soddisfacenti per tutti.

Due sorelle si contendono un’arancia. Alla fine convengono di dividere il frutto. Una

prende la sua metà, mangia la polpa e getta la buccia. L’altra invece butta la parte

interne e usa la buccia per fare il dolce.

Come mostra l’esempio, persino interessi diversi potrebbero benissimo essere

utilizzati per raggiungere una soluzione ottimale comunque se si decidesse soltanto

dopo avere preso in esame le posizioni (“Io voglio l’arancia”) sulla base degli

interessi (“Io voglio mangiare la polpa” - “ Io voglio la buccia per fare il dolce”). Il

processo di soluzione costruttiva porta per entrambi le parti a soddisfazione e

migliora spesso il rapporto reciproco.

Quando si parla di conflitto generalmente viene in mente una lite o discussione

fra due o più persone causata dai loro diversi punti di vista su una determinata

questione: è la modalità che le persone sperimentano più facilmente e riconoscono in

quanto "conflitto". In realtà si possono distinguere tre diversi livelli:

intrapersonale: quando qualcuno deve decidere per esempio se accettare o meno una

proposta di lavoro che ha i suoi pro e i suoi contro

interpersonale: quando due persone sono in disaccordo perché hanno esigenze ed

obiettivi diversi;

nel gruppo (intragruppo) o tra gruppi (intergruppo)

Il conflitto intragruppo e intergruppi.

Spesso, soprattutto all’inizio di un’attività di un gruppo, i suoi componenti

possono entrare in contrasto tra di loro. Se questo contrasto degenera in conflitto

aperto questo potrebbe causare lo sfaldamento del gruppo stesso.

Ma non tutti i conflitti in un gruppo sono negativi: ad esempio, la diversità di

opinioni all’interno del medesimo sul modo in cui raggiungere uno stesso obiettivo

non è affatto un limite all’inizio di un’esperienza di lavoro insieme.

Il gruppo deve però riuscire a trovare modi e forme di negoziazione dei

conflitti, per riuscire a valorizzare queste stesse diversità nell’interesse di tutti i suoi

componenti. Questo è legato anche a modo in cui il gruppo comunica al suo stesso

interno.

In effetti, il conflitto nel gruppo sembra essere legato alle fasi di sviluppo del

gruppo stesso, come evidenziato da Tuckman (1965; Tuckman e Jensen, 1977) che ha

individuato cinque fasi di tale evoluzione: la fase di Forming, la fase di Storming, la

fase di Norming, la fase di Performing, la fase di Adjourning. Nella fase 1. i

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componenti del gruppo stabiliscono le relazioni reciproche iniziali, ma si chiedono

anche se sia o meno il caso di far parte del gruppo stesso. Se trovano di avere

“qualcosa in comune”, allora si passa alla fase 2, di ‘turbolenza’ (storming è la

tempesta), in cui prevalgono il conflitto e la disorganizzazione perché tutti cercano di

affermare i propri bisogni e di influenzare gli altri. Nella fase 3 i componenti si

avvertono più in relazione tra di loro, la coesione aumenta e si definiscono le

posizioni di status e di ruolo. Nella fase 4, i membri del gruppo cooperano per il

raggiungimento dello scopo. Si tratta della fase in cui il gruppo ha raggiunto la

maturità di performance. Nella fase finale, una volta raggiunto l’obiettivo, cresce il

disimpegno e l’interdipendenza diminuisce.

Il conflitto può nascere tra gruppi, come dimostrato sperimentalmente sul

campo da Sherif (1961) con il famoso Robbers-cave Experiment (l’esperimento della

caverna dei ladri) in cui due gruppi di pre-adolescenti si misero in competizione l’uno

contro l’altro semplicemente perché i ricercatori, nella previsione di realizzare una

situazione conflittuale, li avevano divisi fin dal loro arrivo nel campo estivo in cui si

svolgeva lo studio.

Fu possibile ridurre il conflitto solo introducendo scopi sovraordinati, come

quello di far funzionare il camion per gli approvvigionamenti alimentari.

Tajfel (1981) ha approfondito il significato di tale conflittualità intergruppo,

dimostrando che la semplice assegnazione degli individui a categorie diverse poteva

originare il contrasto anche in assenza di qualsiasi motivo di competizione oggettiva,

ponendo così in evidenza la centralità del processo cognitivo di differenziazione

categoriale nella costruzione del mondo fisico e sociale.

Questo processo di categorizzazione induce a distinguere tra gli ingroups e gli

outgroups e a privilegiare nelle relazioni e nei comportamenti gli appartenenti al

‘nostro’ gruppo rispetto a quelli dell’altro gruppo. L’identità sociale dipende proprio

da questo senso di appartenenza ai gruppi di riferimento.

Strategie personali di risposta ai conflitti interpersonali.

Il primo passo per gestire i conflitti fra persone è capire come gli individui

affrontano queste situazioni: di fronte ad un conflitto si reagisce mettendo in atto

quello che l'abitudine e l'esperienza ha permesso di acquisire, ovvero una serie di

strategie personali di risoluzione dei conflitti. Johnson e Johnson (1991; in Atzei,

2003) affermano che per ognuno esiste un modo abbastanza spontaneo e naturale di

risolvere i conflitti.

Secondo questi studiosi è possibile associare metaforicamente le cinque

strategie che hanno individuato a cinque animali che nella nostra cultura richiamano

un modo di agire caratteristico.

La tartaruga (fuga).

La tartaruga si ritira dentro la sua corazza per evitare il conflitto. In questo modo

rinuncia ai suoi obiettivi personali e alla relazione con gli altri. Si tiene lontana da

ogni situazione conflittuale. E' ormai convinta che non esistono soluzioni ai conflitti.

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Lo squalo (violenza).

Lo squalo cerca di forzare i suoi "nemici" forzandoli ad accettare la sua soluzione.

Per lui ciò che conta è raggiungere i suoi obiettivi a tutti i costi disprezzando la

relazione con gli altri e quindi non ponendo attenzione ai loro bisogni.

L'orsacchiotto (modo gentili, affabili, educati).

Per l'orsacchiotto sono molto importanti le relazioni con gli altri e meno gli obiettivi e

gli interessi personali, dal momento che gli piace farsi ben accettare e dagli altri. Per

questo i suoi modi sono sempre affabili pur di non uscire male da una situazione

relazionale.

La volpe (compromesso).

La volpe non cerca né gli obiettivi personali né la relazione con gli altri, ma piuttosto

un compromesso tra i due modo di agire: in parte rinuncia ai propri interessi, in parte

persuade gli altri a rinunciare ai propri. Quindi cerca una soluzione in cui entrambi le

parti possono guadagnare qualcosa.

Il gufo (confronto).

Il gufo persegue sia i propri obiettivi che la relazione con gli altri. Egli cerca una

soluzione che soddisfi tanto se stesso che gli altri con cui è in disaccordo.

Queste cinque strategie si distribuiscono su una scala che oscilla tra le due

dimensioni su cui si struttura il conflitto:

Il soddisfacimento dei propri bisogni ed interessi personali

vs.

Il mantenimento della relazione con l'altro.

E' opinione diffusa che risolvere un conflitto voglia dire che una delle due parti

esce come vincitore, ottenendo così una posizione di potere e ponendo l'altro in una

situazione di sottomissione. In realtà dalla conflittualità si può uscire in più modi:

1. Dominio. (vincente vs. perdente).

Questa modalità è messa in atto da chi cerca in tutti i modi di raggiungere solo gli

obiettivi personali. Il conflitto è visto come uno spazio in cui sopraffare l'altra

persona e uscirne come vincitori. Ma la propria vittoria è strettamente collegata alla

sconfitta di chi è visto come avversario.

2. Compromesso (né vincente, né perdente).

Con questa strategia non vi è né un vincitore, né un perdente. Ciò che le parti mettono

in atto non è il tentativo di trovare una soluzione di soddisfacimento per entrambi, ma

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di salvaguardare la relazione raggiungendo un accordo in cui nessuno delle due abbia

avuto più dell'altro.

3. Fuga difensiva (perdente/perdente).

Questa modalità non vede nessun vincitore, ma solo perdenti, in quanto vi è una

rinuncia sia agli obiettivi personali sia alla relazione con gli altri. Chi adotta questa

soluzione non riesca ad intravedere soluzioni; riesce solo ad allontanarsene.

4. Accomodamento (perdente/vincente).

Il binomio perdente/vincente questa volta è invertito. Con l'accomodamento la

priorità è riservata alla relazione interpersonale e al suo mantenimento, piuttosto che

al raggiungimento di interessi, obiettivi concreti. Anche qui vi è una rinuncia agli

interessi, ma soltanto da una delle due parti, la quale proprio per timore di

compromettere la relazione con l'altro, anticipando gli sviluppi negativi, preferisce

piegarsi ai suoi interessi e alla sua volontà.

5. Integrazione (vincente/vincente).

Qui le parti hanno entrambe lo scopo di perseguire il mantenimento della relazione.

L'atteggiamento e quello di comprendere e avvicinarsi ai bisogni e ragioni dell'altra

persona, e viene anche detto di collaborazione confronto, in cui si possono osservare

azioni quali indagare sull'origine del disaccordo, non rinunciare ad esprimere le

proprie opinioni ascoltando con empatia, lasciarsi convincere della forza delle

ragioni, ecc.

Come si è evince ognuna delle strategie propende prevalentemente o per

l'aspetto del raggiungimento dei bisogni o interessi, o per l'aspetto del mantenimento

della relazione. Abitualmente si converge o verso l'obiettivo o verso l'altro: o si

propende per la relazione rinunciando a veder soddisfatti i propri interessi, oppure ci

si focalizza su ciò che si vuole ottenere in termini pratici e si trascura la relazione,

rischiando di incrinarla.

Essere consapevole delle proprie strategie di soluzione dei conflitti

interpersonali è il primo passo non solo per capire su quale versante ci si trova, ma

anche per preveder la possibilità di cambiare e acquisire nuove modalità di

comportamento in situazioni conflittuali. Va precisato, comunque, che non in tutte le

situazioni conflittuali è proficuo usare la stessa modalità di risoluzione, anzi si

dovrebbe possedere l'abilità di saperne usare diverse.

Empowerment, self-empowerment e stili di comunicazione.

Le conoscenze di base della psicologia della comunicazione si muovono nel

senso di promuovere il self-empowerment e l’empowerment. Con tali espressioni si è

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soliti riferirsi all’incremento che possiamo sperimentare nel riuscire ad affrontare una

situazione problematica attraverso il reperimento di risorse utili alla sua soluzione,

che possono essere trovate nell’ambiente o attraverso modificazioni dei nostri

pensieri, atteggiamenti, comportamenti. Pensiamo al caso analizzato. In alcuni

passaggi dell’analisi della situazione è apparso chiaro che l’operatore alla reception

non poteva risolvere da solo il problema del cliente: egli ha dovuto attivarsi per

reperire ulteriori risorse utili, persino indispensabili, per trovare la via d’uscita. Nel

contempo essere riusciti a gestire la relazione in modo efficace ha incrementato ciò

che Albert Bandura (1997) definisce come self-efficacy. Si tratta del modo in cui

l’individuo percepisce se stesso in relazione alla capacità di dominare specifiche

attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico e sociale (Caprara,

2001).

La mente umana non si limita a reagire all’esperienza esterna ed interna; essa

piuttosto opera attivamente sul mondo interno ed esterno per modificarli secondo

obiettivi e standard personali che richiedono di essere valutati nella loro efficacia.

Incrementare tale capacità è essenziale anche nei contesti lavorativi. Essa può essere

accresciuta attraverso la consapevole adozione di stili di comunicazione adeguati al

contesto situazionale in cui i soggetti si trovano ad interagire. Se ciò accade, allora il

soggetto acquisisce una maggiore capacità di modificare la situazione problematica

che interagisce positivamente con il senso di autoefficacia. La persona si sente

sempre meno vittima di eventi esterni incontrollabili e sempre più capace di

affrontare le sfide del momento in vista di un auto-miglioramento che viene avvertito

come un processo continuo, caratterizzato da comportamenti comunicativi in grado di

mostrare una maggiore sicurezza della propria professionalità. Si tratta di una

sicurezza che si origina dalla consapevolezza critica dei propri limiti, motivata da

assunti su come la nostra capacità cognitiva opera nell’apprendere dagli errori

compiuti. Tale combinazione di aspetti cognitivi, affettivi ed emozionali, si traduce in

comportamenti comunicativi che manifestano autenticità nella gestione della

relazione interpersonale con gli altri.

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