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1 Università degli studi di Torino Facoltà di Lettere e Filosofia Il pensiero di Martin Heidegger attraverso l'incontro con l'Oriente ed i pre-socratici. Corso di Laurea in Filosofia e Storia delle Idee Tesi di laurea specialistica Disciplina: Filosofia teoretica Anno Accademico: 2011/12 Candidato: Alessandro Pugno Relatore: Prof. Ugo Ugazio

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Università degli studi di Torino

Facoltà di Lettere e Filosofia

Il pensiero di Martin Heidegger attraverso

l'incontro con

l'Oriente ed i pre-socratici.

Corso di Laurea in Filosofia e Storia delle Idee

Tesi di laurea specialistica

Disciplina: Filosofia teoretica

Anno Accademico: 2011/12

Candidato: Alessandro Pugno

Relatore: Prof. Ugo Ugazio

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Indice

Introduzione............................................p.5

Cap.1 I GRECI DI HEIDEGGER

1. L’interpretazione teleologica della storia

dell’essere............................................ p.8

2. Il ruolo di Platone nella storia del pensiero greco e

occidentale............................................p.10

3. Il compito filosofico che Heidegger affida ai greci ed all’Oriente.........................................p.19

4. I quattro assi portanti del pensiero greco secondo

Heidegger..............................................p.21

5. La questione della traduzione.......................p.27

6. L’analisi comparata dei testi e delle traduzione....p.31

7. Le fonti testuali...................................p.32

Cap.2 LE PAROLE FONDAMENTALI DELLA GRECITA’

1. Il proemio dell’opera di Parmenide..................p.35 2. Thea................................................p.43 3. Daimon..............................................p.52 4. Moira...............................................p.55 5. Dike e themis.......................................p.60 6. Aletheia............................................p.61 7. Lethe...............................................p.65 8. Pseudos.............................................p.69

Cap.3 PARMENIDE, ERACLITO ED ANASSIMANDRO

1. Necessità di un’analisi etimologica dell’intero corpus pre-socratico.......................................p.73

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2. Analisi e traduzione integrale del proemio di Parmenide...........................................p.75

3. I due sentieri della verità.........................p.81 4. Il carattere conflittuale di aletheia...............p.85 5. Logos...............................................p.90 6. Essere e divenire...................................p.97 7. Il detto di Anassimandro come sintesi tra il pensiero di Parmenide ed Eraclito...........................p.107

Cap.4 HEIDEGGER TRA GRECI ED ORIENTE

1. Cenni storici e testimonianze......................p.111 2. Parallelismi teoretici e semantici con il

Daodejing..........................................p.115

3. La questione del niente............................p.117 4. Identità tra essere e linguaggio...................p.120

Conclusione...........................................p.123

Bibliografia..........................................p.125

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Introduzione

Nella cosiddetta “seconda fase” della sua filosofia,

Heidegger dedicò gran parte del suo studio ad un’analisi

storica ed ermeneutica della filosofia greca volta a

reinterpretare gli scritti dei filosofi pre-socratici ed in

particolare quelli di Eraclito e Parmenide1. Heidegger

scelse come metodo di lavoro lo studio etimologico del

lessico greco scostandosi ampiamente dai modelli di

traduzione tradizionali fino all’ora in uso. Il frutto di

queste ricerche portò Heidegger a interpretare i

presocratici in chiave anti-platonica e soprattutto

antimetafisica. Ma non limitandosi a questo, com’è noto,

egli si servì del pensiero pre-socratico come prova storica

per riconsiderare tutto il pensiero occidentale post-

platonico come un errore o meglio come una deviazione

dall’autentico senso dell’essere (Heidegger 2007: 233).

Negli stessi anni Heidegger iniziò a intrattenere rapporti

via via sempre meno sporadici e tutt’altro che superficiali

con interpreti, studiosi e portavoce della filosofia

orientale. Questi rapporti risultano essere poco noti:

anche se in lingua inglese esistono alcune pubblicazioni

sull’argomento, e su tutte occorre citare come opera di

fondamentale importanza, Heidegger and Asian thought di

Graham Parkes, in Italia la prima e tuttora unica

pubblicazione a riguardo è il volume L’Oriente di

Heidegger, di Carlo Saviani apparsa solo nel 1998. Come

osserva lo stesso Saviani:

Il tema del rapporto tra il pensiero di Heidegger e il cosiddetto “pensiero orientale”, in particolare il Taoismo e Buddhismo Zen, attualmente presenta un

1 Ci riferiamo soprattutto ai corsi tenuti all’Università di Friburgo nel semestre invernale nel 1942-43 su Parmenide e a quello del 1943-44 su Eraclito, raccolti e pubblicati in italiano nei volumi: Parmenide, Adelphi, Milano 1999 ed Eraclito, trad. F.Camera, Mursia, Milano, 1993.

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aspetto singolare: la disparità esistente tra la rilevanza dei materiali e delle testimonianze oggi a disposizione [...] e l’esiguità dei riferimenti espliciti presenti nelle opere di Heidegger finora pubblicate.

(Saviani 1998: 13)

Negli stessi anni in cui si dedicava allo studio del

pensiero eracliteo e parmenideo Heidegger si avvicinava

allo studio del pensiero taoista cinese attraverso la

traduzione in italiano del famoso testo Daodejing di Laozi,

che un suo recente allievo, Paul Shii Xiao, pubblicò in

Italia a Bari nel 1941 grazie a Benedetto Croce (Saviani

1998: 18). I rapporti tra Heidegger ed il Giappone invece,

iniziarono negli anni ‘30 e si svilupparono infittendosi

fino a metà degli anni ‘60, da una parte grazie

all’interesse di studiosi giapponesi alle pubblicazioni di

Heidegger, dall’altra grazie ad incontri che il filosofo

tedesco ebbe con personaggi come Shuzo Kuki, Teitaro

Suzuki, Hoseki Hisamatsu, Takehiko Kojima e Koichi

Tsujimura (Saviani 1998: 23). Essendo tutti questi ultimi

riferibili se non alla Scuola di Kioto almeno all’area del

buddhismo zen, che a sua volta è una declinazione

giapponese del buddhismo ch’an, nato in Cina in epoca Tang

fortemente influenzato da elementi taoisti (Cheng 2000:

426-437), possiamo stabilire che non solo il contatto che

Heidegger ha con il vastissimo pensiero orientale è

circoscrivibile all’estremo Oriente, ma che l’ambito di

interesse più specifico è ascrivibile al taoismo cinese2.

Inoltre data la contemporaneità tra l’interesse di

Heidegger per la tradizione taoista cinese e quello per il

pensiero pre-socratico potremmo supporre che con buone

2 Ovviamente si tratta di una sintesi che seppur non del tutto esaustiva in quanto il buddhismo zen ha dei caratteri propri che sono riferibili non solo al buddhismo, ma allo shintoismo ed ai tratti della cultura giapponese, è necessaria per indagare l’omogeneità dell’interesse di Heidegger per la matrice filosofica eraclitea ed anche parmenidea con quella taoista ed utile per spiegarne i riferimenti culturali.

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probabilità lo studio dei primi abbia influito su quello

dei secondi e viceversa.

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Capitolo 1

I GRECI DI HEIDEGGER

§1 L’interpretazione della storia dell’essere

Heidegger ha stabilito in maniera netta uno spartiacque tra

il pensiero greco pre-platonico e quello successivo

(Heidegger 2007: 183-197). Quest’idea di Platone come

spartiacque del pensiero greco ed occidentale non è una

novità nel pensiero tedesco, in quanto era già stata

introdotta da Nietzsche alcuni decenni prima3. In

Heidegger, questo tema è utilizzato per affermare che la

filosofia greca è morta sul nascere, nel senso che prima

ancora che il pensiero autenticamente greco di Eraclito e

Parmenide si potesse sviluppare, Platone, con la teoria

delle idee, l'aveva deviato dalla sua essenza originaria

(Heidegger 1975: 67-72). Heidegger intende questa

fondazione come un primo inizio del pensiero in attesa di

un “secondo inizio”, quello vero (Heidegger 2007: 157-177).

Secondo quest’interpretazione la storia filosofica

occidentale che passa attraverso la latinità, la scolastica

ed il pensiero scientifico sarebbe un errore, una

deviazione dal pensiero autentico. Quest'errore

culminerebbe nel nichilismo, come aveva visto Friedrich

Nietzsche (Heidegger 1976: 66-82). Heidegger non

abbandonerà mai questa visione della storia del pensiero

occidentale. Nei Contributi alla filosofia (fine anni

trenta) Heidegger sosteneva la tesi di un’eredità storica

diretta tra il popolo greco e quello tedesco (Heidegger

2007: 68-69) e, come travolto da un’ansia escatologica,

3 Nella Nascita della tragedia Nietzsche colloca la rovina del pensiero greco nella nascita dell’uomo teoretico il cui emblema è Socrate e la rovina dell’arte greca nel teatro di Euripide (Nietzsche 2008: 89-93).

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affermava che in quegli anni l’umanità stava vivendo un

tempo transitorio in cui il ritorno al cosiddetto “primo

inizio” della filosofia era solo l'annuncio di un passaggio

più radicale all'"altro" inizio (Heidegger 2007: 387-391),

ovvero un’umanità più piena, capace di esprimere

direttamente la verità dell’essere senza deviazioni né

nascondimenti4.

La contemporanea ascesa al potere di Hitler, la megalomania

di quegli anni ed il discorso di investitura a rettore nel

1933 all’Università di Friburgo (Heidegger 2006: LXXIV-XCI)

rendono tale atteggiamento particolarmente inquietante.

Queste poche note evidenziano almeno in prima istanza la

parzialità della lettura storica che Heidegger diede dei

presocratici e quindi, di conseguenza, la parzialità della

sua interpretazione teleologica del pensiero occidentale.

Proprio per non cadere né in una cieca condivisione delle

tesi di Heidegger né al contrario in una ottusa

contrapposizione, dobbiamo scindere da una parte l’analisi

ermeneutica che Heidegger fece dei presocratici in base ai

loro testi e, dall’altra, l’interpretazione storica che ne

diede. Il primo punto sarà l’oggetto di studio della prima

parte di questo lavoro, mentre per il secondo punto è

necessario fare alcune considerazioni generali preliminari

per sgombrare il campo da possibili equivoci che la lettura

del proseguimento di questo studio potrebbe dare.

4 Un parallelo a quest’ansia escatologica quasi contemporanea la troviamo in Nietzsche con il suo superuomo (Nietzsche 2003: 3-19). Per Heidegger il superuomo è ancora un prodotto della metafisica (Heidegger 1976: 66-82), ma dobbiamo notare che anche con le dovute differenze preconizzano entrambi la prospettiva di un’umanità nuova.

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§2 Il ruolo di Platone nella storia del pensiero greco e

occidentale

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come Heidegger, nel

suo criticare il pensiero razionale occidentale, ne assuma

in realtà tutte le semplificazioni quando vede in esso una

linea continua. Heidegger si dimentica dei dibattiti tra

pensatori avvenuti nella storia e ignora totalmente non

solo autori in contrasto con le teorie dominanti, che

finirebbero per mandare all’aria il suo schema, ma interi

periodi storici, come per esempio il Rinascimento.

Heidegger fa coincidere la storia del pensiero con la

storia dell’essere, dimenticando che le differenze e le

etichette, sotto cui sono stati raccolti in gruppi i vari

pensatori, sono il frutto della sintesi storiografica da

lui tanto osteggiata5. A questa prima considerazione

dobbiamo aggiungerne un’altra che ne è l’origine: Heidegger

semplifica Platone riducendolo alla teoria delle idee

(Rosen 1993: 3-45) e, senza troppi indugi, lo appiattisce

quasi totalmente sulle dottrine aristoteliche, limitandosi

a notare che ciò che in Platone era ancora problematico

diventa per Aristotele definitivo (Heidegger 1975: 37-51).

In altre parole, Heidegger vede in Platone uno spartiacque

tra due epoche diverse ed in Aristotele un codificatore del

cambiamento avvenuto. Se è lecito affermare che Socrate,

Aristotele e Platone sono filosofi omogenei tra loro,

perché inscrivono le loro opere nel solco di un pensiero

che presto sarà il pensiero stesso delle scienze, bisogna

tuttavia ricordare che ciascuno di loro intrattiene con

l'origine un ben diverso rapporto.

5 E’ nota la polemica di Heidegger, contro la “storiografia”, che egli vede come riduttiva e parziale perché non tiene conto della “storia dell’essere”, oggetto della “storia autentica”, che chiama Geschichte (cfr. Heidegger 1999: 115-118)

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Nel Fedro c’è un indizio che evidenzia in maniera non tanto

esplicita, ma molto significativa, il cambiamento di

sensibilità che stava avvenendo nell’Atene del IV secolo

a.C. Socrate e Fedro cercano un luogo fuori città adatto

per una conversazione su amore ed una volta raggiunto il

luogo indicato, Socrate ne fa una descrizione in cui si

ravvisano ancora tracce della sensibilità antica:

Ah, per Era, che bel posto per riposare! Con questo platano così ampio di fronde e così alto! E che slancio quell’agnocasto, che bellissima ombra! E’ al colmo della sua fioritura e spande profumo per tutto il luogo. La sorgente amenissima scorre sotto il platano con fresche acque, come si può sentire col piede. Dalle statuette e dalle immagini si direbbe un luogo sacro a qualche ninfa e ad Acheloo. E poi la brezza del posto, quant’è amabile e dolce! Melodia estiva che risponde al coro delle cicale. Ma più gentile di tutto è quest’erba, sorta così soffice sul dolce pendio, da appoggiarvi comodo il capo per chi si sdraia. (Platone, Fedro 230 b-c)

La descrizione di Socrate presenta i tratti distintivi

della cultura panteistica arcaica che individuava nei

luoghi boscosi la presenza di spiriti e divinità minori.

Socrate avverte l’amico che lo elogiava per la bella

descrizione dicendo: «Io sono appassionato a imparare: ma

la campagna e gli alberi non sono disposti a insegnarmi

niente, mentre io imparo dagli uomini in città» (Platone

Fedro 230d).

Da questa breve testimonianza indiretta dello stesso

Platone traspare un dato storico di fondamentale importanza

per la nostra analisi: se il vivere dell’uomo greco

precedente era nella natura, habitat in cui l’uomo si

inscriveva completamente e quindi il sapere della natura

era anche un sapere dell’uomo per analogia, il Socrate

storico separa l’ambito umano da quello naturale e il

pensiero diventa pensiero dell’uomo. Proprio per questo

nella filosofia entra in campo per la prima volta la

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psicologia, scienza della psyche, dell’anima, in un senso

ben diverso rispetto a quello che questa parola aveva

anticamente: “soffio” e “respiro” (vale a dire ciò che

mette in comunicazione l’uomo con l’ambiente circostante).

La domanda di Socrate (ti esti;) darà inizio alla scienza,

sarà cioè il tentativo di spiegare e definire attraverso le

parole che cosa sia quel che ci circonda, chiarirne

l’essenza. Platone ed Aristotele approfondiranno questa

scienza delle definizioni, come la chiama Kant ancora alla

fine del 1700 (Kant 2010: 5-10), ma in maniera e con

sensibilità diverse che non possono essere semplificate

come invece fa Heidegger, perché il rischio è quello di

cancellare completamente epoche, idee e pensieri solo per

non averne approfondito le differenze. In parte potremmo

dare ragione ad Heidegger perché effettivamente solo

Aristotele (tra l’altro per la prima volta nella storia del

pensiero occidentale) scrive una serie di opere che

costituiscono un sistema, ovvero organizza il sapere

gerarchicamente in settori che diventano discipline.

Inoltre Aristotele codifica un metodo di ragionare, la

logica, che diventa base oggettiva per la scienza. Questa

volontà di oggettivare il sapere rendendolo condivisibile è

comune a tutti e tre i filosofi, ma solo Aristotele ne

stabilisce le regole. Il corpus platonico è invece

costituito da una serie di dialoghi non organizzati

tematicamente: non solo Platone ignorava un ordine nel

sapere gerarchicamente suddiviso, ma alla forma scritta, al

testo che fissa una volta per tutte ciò che viene detto,

preferiva il dialogo, strumento dialettico in cui la

sintesi è profondamente legata al procedimento maieutico

(dialettica). Se quindi giustamente Heidegger considera

Platone come uno spartiaque tra due epoche e sensibilità

diverse, è vero altresì che, come ben sottolinea Stanley

Rosen, il filosofo tedesco riduce la filosofia platonica

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alla teorie delle idee e se ne serve per affermare che

Platone in questo modo cambia per sempre il destino

dell’Occidente (Rosen 1993: 291-316). Heidegger infatti non

considera che lo stesso Platone, in un dialogo tardivo

della sua vecchiaia, immaginando un incontro tra il vecchio

Parmenide e un giovanissimo Socrate, ha criticato la teoria

delle idee, definendola incerta e solo possibile. Ciò fa

dire a Rosen che la teoria delle idee non solo è un aspetto

parziale della filosofia platonica, ma si delinea piuttosto

come una possibilità gnoseologica in grado di dare un

valido supporto metodologico alla scienza della conoscenza.

Rosen pensa che la metafisica sia sorta come riflessione di

buon senso sulla natura dell’esperienza quotidiana, e da

un’esigenza di miglioramento di vita (Rosen 1993: IX-XIII).

Possiamo dare atto che la concettualizzazione (per trovare

un sinonimo alla teoria delle idee) sia stata storicamente

un supporto di enorme utilità soprattutto nel campo delle

scienze, ma dobbiamo anche osservare che effettivamente la

mera utilità non garantisce nulla riguardo alla validità

ontologica. Tralasciando le categorie di utile, corretto o

giusto, dobbiamo però chiederci, e questo sarà l’argomento

principale del nostro lavoro, se siano esistite culture o

epoche storiche in cui il pensiero non sia stato veicolato

attraverso i concetti. Una testimonianza di questo fatto ci

viene indirettamente da un autorevole commentatore di

Aristotele: Simplicio, che già nel 500 d.C., in tardo

periodo ellenistico, esorta i lettori del suo tempo a non

meravigliarsi degli errori e degli inganni in cui Parmenide

è caduto, non tanto per causa sua, ma poiché vi erano

[...]cose che a quell’epoca non risultavano ancora chiare (nessuno infatti aveva usato l’espressione in molteplici sensi, e fu Platone il primo ad introdurre la duplicità, e neppure le espressioni in sé e per accidente).[...]Queste cose e anche il procedimento del sillogismo furono teorizzati mediante i ragionamenti e

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le confutazioni ai ragionamenti: egli non avrebbe ammesso questo, infatti, se non gli fosse parso necessario. Ma gli antichi presentavano le loro convinzioni senza dimostrazioni. (Simplicio Commento alla fisica, DK Parmenide A26)

Anche Simplicio dunque colloca Platone come spartiacque nel

pensiero greco: lo fa avvertendoci dell’assoluta ignoranza

di alcuni concetti e termini da parte degli autori a lui

precedenti, ma nello stesso tempo critica il modo di

pensare degli antichi perché non procede attraverso

sillogismi e dimostrazioni. Sempre nel Commento alla fisica

di Aristotele, Simplicio afferma che «gli antichi solevano

esprimere le loro opinioni in modo enigmatico (DK Parmenide

A19)» e nel criticare il linguaggio mitico dice che «i loro

inni [...] riguardano la scienza della natura» (DK

Parmenide A20). Il termine greco che impiega per definire

gli inni è fusiologikoi, letteralmente “aventi a che fare

con la logica della natura”, vale a dire che hanno per

oggetto la natura.

Dai giudizi di Simplicio ricaviamo dei punti importanti di

analisi che proviamo a riassumere, per avere un quadro

generale di ciò che andremo ad approfondire nel corso della

trattazione.

a) La forma del pensiero

Simplicio afferma che Platone inaugura la filosofia

introducendo un metodo (sillogismo e dimostrazioni), un

lessico (termini come “in sé” e “per accidente”) e un modo

di pensare nuovi (legato alla teoria delle idee). Se quindi

possiamo dar ragione a Stanley Rosen nel criticare

Heidegger che vede il platonismo solo come teoria delle

idee, siamo obbligati a riconoscere la fondamentale

importanza di questa teoria, se proprio un commentatore

dell’autorevolezza di Simplicio ne rileva la portata

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rivoluzionaria. Dobbiamo allora supporre che prima di

Platone, o meglio, prima dell’epoca greca classica, gli

antichi non si esprimessero né pensassero per concetti ed

idee, ovvero per entità astratte valide fuori dallo spazio

e dal tempo?

Desumiamo dalle sue parole su Platone, che Heidegger tende

a pensare che il filosofo ateniese si sia limitato a

formalizzare una teoria delle idee, istituendo una realtà

metafisica in cui i concetti astratti, come per esempio la

giustizia oppure l’uomo, hanno un’esistenza propria. Eppure

credo che Platone non si limiti a quest’aspetto, egli

letteralmente “inventa” il concetto. Quest’invenzione, che

attraverso i secoli ha avuto ulteriori definizioni e

spostamenti, costituisce ancora parte integrante del nostro

modo di pensare, da risultare ormai difficile per ciascuno

di noi poter “fare esperienza” senza l’uso dei concetti.

Eppure nella letteratura filosofica greca, come vedremo, e

anche presso altre civiltà ed epoche, possiamo trovare

riscontri di questa diversa sensibilità. Infatti, a ben

vedere, la forma scelta dai primi pensatori (Eraclito e

Parmenide su tutti) per veicolare il loro pensiero è la

poesia. In Aristotele il rapporto con la parola non è già

più quello di Omero, in cui la parola è innanzitutto detta

e cantata, ma è un rapporto concettuale basato su

spiegazioni e delucidazioni. Infatti Aristotele si avvale

di un metodo che è fatto di sillogismi e dimostrazioni

(logica).

L’argomentazione logica era un metodo non usato dagli

antichi che preferivano un linguaggio mitico, poetico e

forse enigmatico. Le ragioni di questa scelta non sono da

cercare solo nella mancanza di una terminologia

scientifico-filosofica, ma nel fatto che la parola fosse

vissuta ed esperita come un tutt’uno inscindibile che ha

una valenza espressiva diretta e non come un significante

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che veicolasse un significato. La parola antica dice,

nomina, esperisce e “vede” le cose. Essa si fa evento e

quest’evento ha un suo luogo e un suo tempo quando avviene

(ovvero quando la parola viene pronunciata).

Quest’atteggiamento o meglio questa sensibilità estetica,

teoretica e linguistica, come vedremo, risulta simile a

quella estremo orientale, anche su un piano meramente

linguistico. L’impiego della poesia, dell’immaginazione e

del mito non deve essere quindi inteso come un veicolo di

espressione della filosofia primitivo e rozzo, e neanche

allegorico, in quanto il cercare dietro ogni frase di

un’opera un’allegoria, un simbolo o una metafora è erroneo,

dal momento che gli antichi non si esprimevano né pensavano

metaforicamente. Il loro linguaggio era fattuale ed

espressivo e la poesia era quindi la forma più consona e

adatta ad una cultura orale, in cui la parola doveva

risuonare ad un uditorio e nel risuonare acquisiva una

valenza ulteriore e più profonda.

Un esempio molto significativo a questo proposito, e per

noi più vicino, è l’opera di Leopardi in cui il pensiero è

veicolato dai legami poetici tra le parole. Le poesie

L’infinito o La ginestra sono infatti esempi di “poesia

filosofica”, ovvero pensiero veicolato sotto forma di

poesia come accade in Eraclito e Parmenide6.

b) Il termine “fisico”

Un’altra considerazione importante da fare è chiarire il

perché Simplicio definisca “fisici” gli antichi pensatori. 6 Severino ha dedicato un lavoro importante e prezioso volto a segnalare l’importanza filosofica del pensiero di Leopardi come anticipatore di alcune tesi di Nietzsche e come importante esponente di una estetica filosofica della poesia (cfr. E.Severino, Cosa arcana e stupenda: l’Occidente e Leopardi)

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Platone, fondando la meta-fisica, getta le basi per una

credenza in un aldilà razionale ulteriore al mondo fisico e

ha bisogno di fare questo per legittimare la teoria delle

idee come forme pure che pur essendone distinte,

partecipano alla realtà fisica delle cose essendone

l’origine. Ma già in una sua opera tardiva, non a caso

intitolata Parmenide, attraverso un dialogo immaginario tra

il giovane Socrate e l’anziano Parmenide, mette in

discussione questa teoria anche da un punto di vista

logico. Il Parmenide del dialogo sostiene infatti che da

una parte le idee non possono essere avulse dalla realtà in

quanto ne partecipano, dall’altra constata l’impossibilità

di spiegarne il nesso. Inoltre, aggiunge, se si deve

ammettere un’idea di bello ovvero una idea degli

universali, bisognerebbe ammettere l’esistenza di un’idea

corrispondente per ogni cosa possibile, anche di un pelo,

per esempio, il che sarebbe ridicolo. Sarebbe d’altro canto

contraddittorio però, pensare che solo alcune cose abbiano

la propria idea corrispondente (Platone, Parmenide 127d6-

135c7). Aldilà della plausibilità o meno di una teoria, è

molto importante dire che attraverso l'idea di iperuranio

Platone fonda la possibilità di una realtà aldilà della

realtà. Questa possibilità era esclusa dagli antichi, che

infatti vedevano gli déi non tanto come entità

ultraterrene, ma come forze agenti nella realtà fisica

delle cose. Essi vedevano anche le altre dimensioni in

senso propriamente fisico e non come un aldilà né come un

"meta-" né per dirla con Nietzsche come un mondo dietro al

mondo (Nietzsche 2003: 29-32), ovvero un ipotetica

esistenza ulteriore e più vera che si nasconde dietro

quella apparente (quella reale).

Eppure già in epoca ellenistica la credenza in un aldilà

(esperito come Dio o come mondo ideale) era un dato che non

veniva messo in discussione e, proprio in virtù di questo,

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Simplicio definisce gli antichi greci “naturalisti”, e i

loro inni “fisiologici”. Nelle opere antiche infatti

ravvisiamo che le osservazioni più prettamente filosofiche

si mescolano senza soluzione di continuità ad osservazioni

naturali o pre-scientifiche. Anche nel commentare queste

dovremo, sospendendone il giudizio, astenerci dal pensarle

effettivamente rozze, primitive ed errate, ma cercare di

cambiare punto di vista: probabilmente allora esse ci

appariranno totalmente inquadrate in una cornice di

pensiero diverso dal nostro, ma non per questo errato.

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§3 Il compito filosofico che Heidegger affida ai greci ed

all’Oriente

L’accusa principale che Heidegger muove al pensiero

occidentale, inteso come pensiero metafisico, è quella di

essere inadeguato a pensare l’essere come essere. Secondo

Heidegger, infatti, la metafisica è in grado di pensare

solo all’ente e, come scrive in Che cos’è la metafisica?,

al pensiero occidentale per questo motivo è precluso lo

sguardo sul niente (Heidegger 2001: 63).

Il compito filosofico che Heidegger si pone è quindi quello

di trovare un pensiero adeguato a pensare originariamente

all’essere.

Proprio per questo motivo insistiamo su un sapere originario, su una verità nel senso della manifestatività che ci introduca e vincoli a questo essere. Qui il compito supremo è di rendere attivi quei modi di pensare che ci mettano nella condizione di porre in questione le cose essenziali e renderle afferrabili. Questi modi di pensare hanno un carattere concettuale diverso rispetto ai modi di pensare della logica tradizionale. La potenza e la precisione della logica non sono in questo modo sminuite, ma anzi accresciute, nella misura in cui i concetti sono qui prelevati da una falsa contrapposizione secondo la quale il concetto, il pensato, è colto come razionale a differenza dell’irrazionale. Questa differenza conduce ad una determinata concezione della ragione; quest’ultima a sua volta alla concezione dell’uomo come animale razionale. Ne va del superamento della concezione del concetto come involucro. La conseguenza non è l’eliminazione del concetto ma la più alta necessità del domandare concettuale. (Heidegger, 2008: 171-172)

Heidegger individua nel platonismo e nell’aristotelismo,

come detto nel paragrafo precedente, le basi di questo

pensiero razionale tradizionale e compie un lavoro di

rilettura dei loro testi, individuando i postulati che

hanno fatto sì che l’antico pensiero greco diventasse

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metafisico. Gli assi principali su cui si muove questo

lavoro ermeneutico sono riassumibili in quattro punti.

1. la visione metafisica della verità come omoiosis

2. la differenziazione tra ente ed essere e quindi la

questione della “differenza ontologica”

3. la nascita della techne come sapere dell’ente 4. la trasformazione del senso originario della parola

logos in ragione

La missione filosofica che Heidegger si propone è quindi

quella di tornare ad un pensiero anteriore alla nascita

della metafisica che è, a suo dire, inadeguata a porsi la

domanda dell’essere. Heidegger troverà le radici di un

pensiero più totalizzante non racchiuso nei limitati

vincoli della logica, nei pensatori greci aurorali:

Anassimandro, Eraclito e Parmenide. La sua missione

filosofica si caratterizza quindi come un ritorno alle

origini.

Un altro spunto gli verrà offerto dalla tradizione

filosofica estremo orientale, soprattutto di matrice

taoista e zen, con cui Heidegger avrà modo di confrontarsi

a più riprese come vedremo nel prosieguo del presente

lavoro.

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§4 I quattro assi portanti del pensiero greco secondo

Heidegger

Abbiamo individuato i quattro assi portanti su cui poggia

la fondazione metafisica secondo Heidegger. Avremo modo di

tornare più volte su questi punti ma ora è necessario

fornire qualche cenno preliminare per abbozzare un quadro

generale dell’orizzonte filosofico a partire da cui si

muove Heidegger.

1- Verità come omoiosis

Ciò che noi intendiamo con la parola “verità”, in greco

aletheia, deriva, a causa di una serie di trasformazioni di

senso, dall’interpretazione che Aristotele diede a questa

parola definendola come omoiosis, da oiesthai, vale a dire

“tenere qualcosa per qualcosa”, ovvero «l’adeguazione del dire svelante dell’ente svelato che si mostra» (Heidegger

1999: 108). L’omoiosis si caratterizza nel pensiero di

Aristotele quindi come «adeguazione dell’asserzione e del pensiero a uno stato di cose stabile e presente» (Heidegger

1999: 108). L’adeguazione, che fornisce al pensiero la

possibilità di enunciare la falsità o la verità di una

proposizione che deve coincidere con la realtà, è la

logica, intesa come scienza del modo corretto di pensare

(Kant 2010: 5-10).

Questa possibilità però poggia a sua volta sulla maniera in

cui l’Occidente ha visto la relazione tra essere e

pensiero. Secondo questa visione, ad esprimere la

coincidenza tra essere e pensiero per la prima volta nella

storia è stato Parmenide il quale, nel frammento 5, che

avremo modo di analizzare nel terzo capitolo del nostro

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saggio, dice: «È la stessa cosa essere e pensare» (DK Parm. B5). Heidegger pensa che la filosofia moderna, traducendo

il detto in questo modo, in realtà veda essere e pensiero

come entità separate che fa coincidere poi solo a

posteriori. Per Heidegger come vedremo, tra essere e

pensiero esiste una coappartenenza originaria, in quanto il

pensiero a cui si riferisce Heidegger non è il pensiero

razionale che oggettiva l’essere, ovvero lo riduce ad un

insieme di enti, che in quanto oggetti possono essere

pensati o addirittura concettualizzati, ossia pensati

fuori dal tempo e dallo spazio come idee (Heidegger 1976:

158-171).

2- La differenza ontologica

Attraverso il concetto della differenza ontologica

Heidegger basa il suo giudizio sulla metafisica

occidentale. Il filosofo tedesco intende quest’ultima come

un pensiero che occupandosi dell’ente ha perso di vista

l’essere. La differenza ontologica che Heidegger vede

intercorrere tra essere inteso in senso assoluto e l’ente

inteso come oggetto che riceve il suo essere dall’essere

proviene da una lettura dei testi pre-socratici che saranno

oggetto della trattazione che segue.

Questa differenziazione deriva in ultima istanza da

un’interpretazione linguistica:

L’ente è il termine che indica ogni determinazione della realtà, e corrisponde al greco to on. Essere è ciò che entifica l’ente, ciò che lo fa essere ente e non ni-ente, e corrisponde al greco einai. Verità ontica è a verità che riguarda l’ente, verità ontologica la verità che riguarda l’essere. (Galimberti 2005: 72)

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Secondo Heidegger anche Dio, pensato metafisicamente come

causa suprema, resta e rimane un ente anche se pensato come

essere supremo. Esiste infatti una differenza profonda tra

pensare all’essere come totalità di enti, e quindi come

oggetto e quindi ancora una volta come ente, oppure pensare

all’essere in quanto essere. Heidegger, nei suoi lavori,

per evitare che il lettore concettualizzi l’essere e quindi

lo riduca ad ente, proverà a sbarrare il termine oppure a

scriverlo secondo l’uso tedesco antico (Seyn).

3- La tecnica

Secondo Heidegger, Platone fondando la teorie delle idee

permette la nascita di un sapere che si fonda sulla

conoscenza dell’ente.

Techne non significa tecnica nel senso dell’allestimento dell’ente attraverso l’uso delle macchine, non significa neppure arte nel senso della destrezza e dell’abilità dell’eseguire qualche procedimento e una qualche manipolazione. Techne indica una conoscenza: riconoscersi capaci di procedere di fronte all’ente (e nell’incontro con l’ente) ossia i fronte alla physis. (Heidegger, 2003: 127)

Nel corso su Eraclito, di cui commenteremo ampie parti,

Hedegger ci dice che:

Physis significa sorgere nel senso del provenire dal chiuso, dal velato e dal coperto (physis è la parola fondamentale del pensatori iniziali). Per noi questo sorgere risulta immediatamente evidente nel germogliare del germe di grano sepolto nella terra, nel nascere dei desideri, nello sbocciare della fioritura. Anche la vista del sole che sorge rimanda all’essenza del sorgere. [...] Dappertutto, per non parlare del cenno degli dei, si dà un multiforme e reciproco venire alla presenza di tutti gli esseri e in tutto questo si dà il

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manifestarsi, nel senso del mostrarsi che nasce e viene fuori. Questo è physis. (Heidegger 1993: 60-61)

Secondo questa delucidazione allora la techne è il modo di

procedere di fronte alla physis, ovvero:

Comprendere l’ente che si dischiude a partire da sé nel suo mostrarsi in quanto qualcosa, nel suo aspetto, eidos, idea, per curare e far crescere l’ente stesso in base a questo suo aspetto, anzi per insediarsi all’interno dell’ente nella sua totalità producendo ed approntando cose che gli corrispondano. (Heidegger 2003: 127)

Techne è anche il terreno su cui può nascere la

trasformazione di aletheia in omoiosis, infatti

nell’essenza della techne come l’avanzante ed allestente lasciar imporsi il non nascondimento dell’ente, essenza richiesta alla physis stessa, c’è la possibilità dell’autonomia, della posizione di fini diversi e quindi dell’uscita della svolta necessaria della necessità iniziale. Se questo accade, allora, al posto della tonalità emotiva fondamentale dello stupore7, subentra l’avidità di conoscere e di calcolare. (Heidegger 2003: 127-128)

Da questa possibilità nasce la tecnica moderna pensata da

Heidegger come imposizione (Heidegger 1976: 14).

4. Logos e linguaggio

Aristotele definisce l’uomo, nella Politica, come zoon

logon echon, letteralmente: “vivente che possiede il

logos”. Noi conosciamo questa definizione anche nelle 7 Per Heidegger la tonalità emotiva fondamentale con cui nasce il pensiero aurorale greco è lo thaumazein, il meravigliarsi. Esso è lo stupore dell’uomo di fronte all’essere. Heidegger cita a questo proposito Aristotele, Metafisica A2, 982 b 11 sgg., passo in cui il filosofo ateniese fa coincidere il principio della nascita della filosofia con il sentimento dello stupore (Heidegger 2003: 111).

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formulazioni che sono state date successivamente8 nella

latinità: homo est animal rationale: “l’uomo è l’essere

vivente razionale”. Il logos è diventato ratio, e in

seguito si è modificato in “ragione”. La caratteristica

dell’attività razionale è il pensiero (Heidegger 1993:

148). Siamo di nuovo di fronte al problema della dialettica

tra essere e pensiero: se l’uomo è l’essere che ha la

ragione, significa che solo in lui si dà la possibilità di

giudicare della falsità e della verità degli enti

attraverso gli enunciati. Qui però al binomio essere e

pensiero si aggiunge un altro elemento che diventa

fondamentale nella filosofia di Heidegger. Questo elemento

è il linguaggio. Logos che significa letteralmente “parola”

racchiude l’essenza del linguaggio di cui Heidegger cerca

di esperire il senso ontologico prima che esso diventi

logico (secondo la definizione moderna di questo termine).

Nella parola, in quanto pronunciata, e nell’esclusività

umana della facoltà del linguaggio si racchiude, secondo

Heidegger, l’essenza dell’uomo come definito da Aristotele

(“avente logos”). Heidegger definisce il linguaggio come

«l’imporsi del mezzo dell’esserci storico del popolo, mezzo capace di formare e conservare il mondo (Heidegger 2008:

235)». Parafrasando, potremmo dire che, secondo Heidegger il linguaggio esprime, attraverso la produzione letteraria,

la sensibilità di un popolo, ovvero la sua maniera

peculiare di porsi di fronte all’essere. Ma l’essenza del

linguaggio come mezzo di un popolo di esprimere l’essere

non si evince solo dalla produzione letteraria, ma anche

dalle strutture grammaticali e lessicali di una data lingua

storica. Per questo motivo Heidegger ricerca nella lingua

greca il “condensarsi” del pensiero ontologico dei greci e

8 Fu Cicerone il primo a tradurre logos con ratio.

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quindi la traduzione dei loro testi diventa già

un'interpretazione.

Heidegger si chiede poi perché chiamiamo questo

interrogarci sull’essenza del linguaggio “logica” e

risponde affermando che il motivo è da individuare nel

fatto che

la logica tratta del logos e logos significa discorso e quindi linguaggio. Per il fatto che mediante la cosiddetta logica l’essenza del linguaggio è stata presto appiattita, esteriorizzata e fraintesa, la logica resta un carico non ancora assunto dell’esserci umano storico. (Heidegger 2008: 236)

Più in là Heidegger avverte:

L’essenza del linguaggio non si annuncia là dove se ne fa un cattivo uso e la si appiattisce, la si distorce e la si riduce a mezzo di trasporto e a mera espressione di una cosiddetta interiorità. L’essenza del linguaggio sussiste là dove essa accade come potenza che forma mondo, ossia là dove essa forma preliminarmente l’essere dell’ente e lo porta alla compagine. Vera poesia è il linguaggio di quell’essere che è rivolto a noi da lungo tempo e che non abbiamo mai raccolto. Per questo motivo il linguaggio del poeta non è mai odierno, ma sempre già stato e futuro. Poesia, dunque autentico linguaggio, accade solo là dove l’imporsi dell’essere è portato alla superiore intangibilità della parola originaria. (Heidegger 2008: 237)

Dalle osservazioni che abbiamo fatto non è possibile

suddividere in compartimenti stagni l’interpretazione

heideggeriana della grecità, ma come abbiamo notato,

essere, pensiero e linguaggio formano un tutt’uno quasi

sinonimico. Troveremo questi rimandi all’interno di tutti i

testi presocratici ed orientali che analizzeremo,

individuando ciò che Heidegger intende vederci; ciò su cui

però è importante mettere l’accento è l’attenzione riposta

da Heidegger nel linguaggio. Diventa dunque centrale

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chiarire quali siano stati i presupposti metodologici

dell’analisi ermeneutica e filologica compiuta da Heidegger

e si pone anche il problema della traduzione dal greco,

perché se è vero che, come dice Heidegger, l’essere storico

di un popolo si manifesta nel linguaggio, proprio nel suo

linguaggio si evince quel carattere di irriducibilità

dell’esperienza storica di un popolo. Ogni traduzione dovrà

sempre misurarsi con questo presupposto e non potrà mai

dirsi esaustiva ma solo possibile ed esemplificativa, in

quanto esisterà sempre una distanza irriducibile tra la

formulazione originale e la sua traduzione.

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§5 La questione della traduzione

Bisogna ora affrontare un nodo cruciale, bisogna cioè

chiarire quale metodo Heidegger usi per reinterpretare la

grecità: si presenta insomma il problema della traduzione

dal greco e della traduzione in sé. Per giudicare la bontà

del metodo heideggeriano usato per studiare i greci

dobbiamo riferirci alla questione della traduzione. Spesso

accade infatti che chi sposa il metodo heideggeriano ne

sposi anche conclusioni storicistiche e viceversa chi

contesta queste posizioni dica che Heidegger sul greco si

sbagliava, senza però offrire, per confutarne le tesi,

alcuna prova filologica, ma rifacendosi soltanto

all’autorevolezza della tradizione storica.

The role of etymology in Heidegger's thinking is curiously understudied. In the English-language Heidegger literature, there are currently no book-length studies devoted to it, and discussion of it is surprisingly absent from books on Heidegger's thinking on language. Frank Schalow's "Language and the Etymological Turn of Thought" is apparently the only article to appear as yet that takes up the philosophical significance of Heidegger's etymologies, though it does not address the etymological method as such. What I want to do in this essay, then, is look at what Heidegger is doing when he does etymology, so that we might see how and why we might do it, too. Lack of reflection on Heidegger's etymological method seems to have left philosophers with two default attitudes toward his etymologies. On one hand, for those generally hostile to Heidegger, the etymologies may come across as the kind of pretentious, inconsequential hand-waving that Plato seems to be sending up with the spurious etymologies in the Cratylus-in other words, they may come across as if there were no method to them at all. On the other hand, for those generally sympathetic to Heidegger, his use of etymology may be linked to his supposed goal of retrieving the "purer" concepts of earlier times. This essay will argue that there is indeed a method behind Heidegger's use of etymology, but that the

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purpose of this method is not to replace degraded modem concepts with purer archaic ones. Rather than seeking to discover an original meaning, I argue that Heidegger's etymologies seek to recover the whole range of historical meanings of a word. The etymological method's purpose in contradistinction to the purpose of philosophical analysis-is to open up the word, to overcome the tendency for the meaning of words-which is also to say, their ability to present to us the being of beings-to become restricted over time. (King 2007)

Heidegger costruisce delle intere “storie del senso” di

alcune parole e delle loro modificazioni. Per esempio, nel

corso su Parmenide, come vedremo, Heidegger traccia la

storia della parola “giustizia”, in greco dike, che traduce

con “concordanza”, opponendola a quella latina di iustitia,

da ius “comando”, affermando che la nostra idea di

giustizia, essendo più simile a quella latina (giustizia

come imposizione, comando), non si addice a designare il

concetto greco di dike e che, quindi, tradurre come si fa

abitualmente dike con “giustizia”, è improprio (Heidegger

1999: 91-101). Una esplicitazione di cosa pensi lo stesso

Heidegger sulla traduzione ci viene dal saggio Il detto di

Anassimandro, in cui commentando la traduzione che

Nietzsche dà del detto, la dichiara ancora iscritta nel

solco della metafisica, vale a dire del platonismo

(Heidegger 1968: 299-301). Il metodo che invece Heidegger

preferisce seguire è compiere un passo indietro per andare

a capire come risuonasse una parola all’epoca dell’antica

Grecia ovvero, quale ne fosse il senso. Si tratta in

qualche modo di passare a setaccio la tradizione e la

storia in quanto in esse si condensano piccole o grandi

mutazioni di senso. Ripercorrendo la storia di una parola

si può andare a ritroso, scorporando dal significato

originario che una parola aveva in un dato momento storico

le sfumature di significato successive. Il problema che in

fondo si pone è capire se il lessico contemporaneo che

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usiamo per tradurre i presocratici sia adatto allo scopo di

far rivivere il senso originario delle parole greche.

Facciamo un esempio concreto: noi possiamo dire, attraverso

il dizionario, che il termine greco aletheia significhi

“verità”, ma ciò non ci rende nulla dell’esperienza della

verità vissuta da un greco. Se però proviamo a ricercare

l’origine della radice della parola “verità”, leth/lath

confrontandola con altre parole che contengono la stessa

radice come lanthano (“nascondo”) e verificando gli usi e i

contesti in cui esse sono impiegate, potremo avere delle

indicazioni importanti: in questo caso, come vedremo,

scopriamo che per il greco antico il concetto di verità ha

a che fare con quello del nascondere. Altre indicazioni

sono fornite dallo scarto che c’è tra la parola greca

originaria, la sua traduzione in latino e le varie

modificazioni di significato che essa ha subito nei secoli

(aletheia>veritas>verità). Heidegger, nelle sue analisi

etimologiche, si serve di esempi tratti dal mondo omerico

che considera un bacino letterario originario e per

comparazione li usa per stabilire un’omogeneità lessicale

con le stesse parole e locuzioni eraclitee e parmenidee.

Anche se non lo esplicita mai, a giudicare dal numero di

ricorrenze omeriche ed esiodee presenti nei suoi testi,

Heidegger sembrerebbe convinto che il pensiero filosofico

iniziale fosse più affine al mondo letterario arcaico

piuttosto che al genere filosofico successivo. A questo

proposito Edmond Gentzler cita Heidegger nella sua

esposizione delle contemporanee teorie della traduzione

(Gentzler 2001 Heidegger: the limits of naming) come

esponente di un innovativo metodo di traduzione ed osserva

che, rispetto alle traduzioni in commercio dei testi pre-

socratici, quella di Heidegger differisce in quanto il

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filosofo tedesco sceglie volontariamente di non impiegare

la terminologia filosofica tradizionale9. È da notare che

alcune delle etimologie che Heidegger introduce sono oggi

in parte accolte dai dizionari di greco antico in uso

corrente, come per esempio il Rocci10. Tom Rockmore giudica

invece le scelte etimologiche di Heidegger parziali, in

quanto le traduzioni dei testi greci che propone sono

frammentarie e spesso, come nel caso del corso su Parmenide

di cui parleremo, Heidegger traduce e commenta solo una

ventina di versi del proemio, ignorando il resto

dell’opera. Altre volte, Heidegger si limita a tradurre

parole greche isolate svincolandole dal contesto (Rockmore

1992: 235-236).

9 Il lessico impiegato in quasi tutta la totalità delle traduzioni italiane disponibili in commercio dei presocratici risente dell’influsso della terminologia tecnica filosofica cristallizatasi grazie ai commentatori ellenistici di Platone ed Aristotele e passata a noi attraverso la Scolastica, andremo a chiarire questo punto comparando varie traduzioni nei prossimi capitoli. 10 A titolo d’esempio basti ricordare la famosa derivazione della parola aletheia (verità) di cui parleremo in seguito, dal verbo lanthano (nascondersi) oggi diffusamente accettata. Il vocabolario greco-italiano a cura di Lorenzo Rocci, edito dalla Dante Alighieri nel 1943 è il più antico dizionario in uso nei licei e ginnasi classici italiani, tuttora usatissimo (la revisione è stata effettuata nel 2010).

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§6 L’analisi comparata dei testi e delle traduzioni

Per poter quindi verificare criticamente gli esiti della

traduzione heideggeriana di Eraclito e Parmenide dovremo

estendere l’analisi e considerare l’intero testo parmenideo

e gran parte dei frammenti eraclitei. Inizieremo

dall’analisi comparata, mettendo a confronto le traduzioni

del proemio di Parmenide con le traduzioni dello stesso

fatte da Giovanni Reale11, per apprezzare la distanza che

intercorre tra la lettura della grecità che Heidegger

compie e la tradizione di cui Reale si fa interprete. In

secondo luogo compareremo le locuzioni e il lessico

fondamentale dei testi dei due filosofi pre-socratici,

principalmente analizzati da Heidegger (Eraclito e

Parmenide), con l’Iliade e l’Odissea. Estenderemo poi i

nostri commenti e le nostre ricerche, abbozzando la

traduzione delle restanti parti dell’opera di Parmenide ed

Eraclito per vagliare criticamente l’interpretazione

testuale di Heidegger seguendone il metodo. Infine, dopo

aver tratteggiato i caratteri comuni che sottendono i due

principali testi presocratici, li confronteremo con alcuni

passi del Daodejing di Laozi, testo fondamentale della

tradizione taoista da cui si è sviluppato anche il pensiero

zen giapponese (ricordiamo che sono i due referenti

orientali con cui Heidegger ebbe rapporti diretti). Potremo

così giungere a tracciare una ricostruzione dei rapporti

che Heidegger intrattenne con l’Oriente che, seppur non

sviluppati tematicamente, gettano una luce diversa sulla

sua interpretazione della grecità.

11 Reale ha tradotto in italiano per Bompiani l’intero volume sui presocratici (cfr. Diels-Kranz, op.cit. 2006), oltre a numerosi dialoghi platonici ed alla Metafisica di Aristotele.

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§7 Le fonti testuali

Heidegger dedica a Parmenide un corso tenuto all’Università

di Friburgo nel semestre invernale del 1942/43.

Nell’avvertenza del curatore dell’edizione italiana si

legge:

[...]l’argomento del corso sarebbe dovuto essere “Parmenide ed Eraclito”: il filosofo dell’essere e quello del divenire, ovvero - come preferisce interpretare Heidegger - i due pensatori aurorali che meditano sulla stessa cosa, cioè sull’Essere, sulla Physis, intendendola in termini opposti: come immobile unità o come diveniente articolazione e lotta di contrari. (Heidegger 1999: 17)

L’intenzione era quella di studiare insieme i due autori

aurorali del pensiero greco, ma in realtà il corso si

occuperà solo di Parmenide. Ad Eraclito sarà dedicato quello

dell’anno successivo. Il corso dedicato ad Eraclito si basa

su un itinerario interpretativo dei frammenti del filosofo

efesino, organizzato in due sezioni physis e logos, mentre

in quello su Parmenide, come abbiamo già sottolineato,

Heidegger dedica al testo originale solo una modesta parte

della trattazione. Il nucleo centrale del lavoro infatti è

una chiarificazione ermeneutica in capitoli delle parole

fondamentali del pensiero greco presocratico, come

aletheia, mithos, logos, epos, polis, dike, praxis, thoria,

theion. In ambedue i corsi il testo greco di riferimento di

Heidegger è la celebre edizione completa dei testi pre-

socratici a cura di Diels-Kranz,apparsa in Germania per la

prima volta nel 1903 sotto il titolo Die Fragmente der

Vorsokratiker griechisch und deutsch (1903). Essa raccoglie per la prima volta in Europa tutti i testi filosofici dei e

sui presocratici (oltre ai frammenti, i detti, le

biografie, gli antichi commenti e le glosse). In italiano

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esistono solo due traduzioni edite integrali del volume: la

prima a cura di Gabriele Giannantoni per Laterza e la

seconda a cura di Giovanni Reale per Bompiani. Nell’analisi

comparata con la traduzione di Heidegger, abbiamo scelto

tra queste ultime due versioni, l’edizione a cura di

Giovanni Reale, sia perché quella a cura di Giannanntoni

non presenta una traduzione integrale di tutti i testi

raccolti da Diels e Kranz, sia perché il criterio

scientifico seguito è meno rigoroso, essendo corredata da

meno indicazioni testuali (cfr. Introduzione, a cura di

G.Reale, in Diels Kranz 2006: VII-XII). Per il Daodejing

abbiamo citato in bibliografia varie versioni con il testo

a fronte che abbiamo confrontato tra loro nella versione

italiana. Per la trascrizione dei caratteri cinesi si è

scelto come sistema univoco (a parte che nelle citazioni

bibliografiche) l’ormai consolidato sistema pinyin.

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Capitolo 2

LE PAROLE FONDAMENTALI DELLA GRECITÀ

§1 Il proemio dell’opera di Parmenide

Non potremmo mai tradurre l’opera di Parmenide in prosa

senza mutarne o ridurne la portata: un indizio

dell’impossibilità di rendere il senso dell’opera di

Parmenide attraverso una traduzione letterale in prosa ci è

data dal greco che Parmenide usa nel proemio, in cui il

poeta ci racconta il viaggio fatto sul carro verso la dea

verità. Questo viaggio è descritto come un qualcosa di

furioso, dettato da un desiderio irrefrenabile, una corsa

pazza fatta su un’auriga i cui mozzi delle ruote si stan

per staccare per la velocità (DK Parm. B1). È molto

importante sottolineare questo elemento perché ci porta a

vedere come qui non si tratta dell’esposizione di una

dottrina: qui si rende poeticamente la brama dell’animo

umano nella ricerca della verità, che diventa un viaggio

ricco di elementi emozionali, difficilmente ravvisabili in

tutte le traduzioni italiane e nella stessa traduzione di

Heidegger. Una prima parola fondamentale che dobbiamo

segnalare nell’analisi del testo è quindi il “desiderio-

brama-volontà-animosità” che in greco si dice epithumos,

dove epi è un rafforzativo del termine. Ora, provando a

immergerci nel testo e nella parola proviamo a fornire la

traduzione che Reale fa del frammento del proemio scelto da

Heidegger come testo guida del suo corso su Parmenide del

‘42-’43, ovvero la parte finale di detto proemio (Heidegger

1999: 36).

E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra

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prese, e incominciò a parlare e mi disse così: “O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino - infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini -, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della Verità ben rotonda e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza. Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso. (DK Parm. B1)

Nell’edizione tascabile pubblicata sempre per Bompiani del

poema di Parmenide, Reale aggiunge una nota al verso 28 e

una ai versi 31-32, per chiarire alcuni aspetti poco chiari

del testo (Parmenide 2001: 130). Nella prima dice che

traducendo moira, themis e dike con “sorte”, “legge divina”

e “giustizia” non ha usato le maiuscole «dando ai termini

il loro significato specifico e concreto». Se invece «si leggono con la maiuscola [...] si entra nella dimensione

emblematica del religioso» (130). Reale include poi una

sezione “Parole Chiave” nel volumetto su Parmenide (149-

154), dove spiega le parole dike, themis, moira. Riportiamo

la sua definizione di dike (che traduce come “giustizia”):

Figura emblematica “che molto punisce” e tiene le chiavi “che aprono e chiudono” le porte di accesso alla verità (fr.1, vv 14-17 e 28); e inoltre viene presentata come quella che non concesse all’essere, il nascere e perire, tenendolo saldo e fisso in se medesimo (fr. 8,14 s). Sui rapporti fra Giustizia e Dea cfr. Introduzione, cap 5. (150-151)

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36

Nell’introduzione Reale cita Jaeger: «non ci troviamo di fronte a un'allegoria, ma di fronte a una grandiosa

espressione dell’esperienza di ascesa alla verità» (19).

Eppure in altre note dello stesso testo Reale usa la

maiuscola per tradurre la parola giustizia, allegorizzando

di fatto la figura di dike. Di themis, invece, Reale dice

che è da intendere come «legge divina che coincide con

sorte e giustizia» (153). Di moira, “sorte”, scrive che è

«quella figura manifestativa della Dea e della Verità che ha vincolato l’Essere all’interezza e all’immobilità e

quindi esprime uno dei caratteri fondamentali dell’essere

stesso» (153). Anche qui ci troviamo di fronte, se non ad allegorie, ad ambigue “figure manifestative” di cui non

riusciamo a cogliere il ruolo. Se applicassimo il metodo

etimologico di Heidegger, dovremmo chiederci quale

comprensione preliminare e immediata abbia un lettore

contemporaneo quando legge le parole “legge divina e

giustizia e sorte” (Heidegger 1999: 84-91). Proviamo ad

applicare questo metodo con la prima parola: “legge

divina”. “Legge divina” è direttamente collegabile con

l’idea di legge scritta racchiusa nel codice penale o

civile di ogni paese moderno. Quando noi pensiamo alla

legge infatti pensiamo a un insieme di norme codificate da

in un libro a cui noi cittadini dobbiamo attenerci. L’idea

di racchiudere le leggi civili in un codice risale a

Napoleone (1804 Code civile des Français), mentre la prima

“costituzione” è invece la Magna Carta inglese (1215 Magna

Charta Libertatum). L’idea di codice ha a sua volta come

precedente simbolico il sistema di leggi che il dio ebraico

prescrive agli uomini, affidandola alle tavole di Mosè.

Dobbiamo segnalare infatti che, in ambito greco, lo stesso

Platone predilige alle leggi scritte, quelle orali, e che

per nominarle utilizza non il termine themis, ma nomos

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(Platone, Repubblica). Per quanto riguarda, invece, il

termine “sorte” un lettore moderno potrebbe intendere

sostanzialmente due cose: un vago destino (e anche qui

questo destino è inteso nel senso o di una vaga idea di

predeterminazione di cui non si conosce l’origine, o nel

senso cristiano di provvidenza) oppure un caso fortuito. Su

questo punto le analisi storiche moderne (vedi per esempio

Burckhardt 1974: 811) segnalano come i greci non avessero

l’idea di caso. Per quanto concerne invece la parola

“giustizia”, ricordiamoci che giustizia deriva da iustitia

in latino, che a sua volta viene da ius, “comando”. Abbiamo

la testimonianza diretta del procedimento etimologico

applicato a questa parola dello stesso Heidegger che,

analizzando il termine ius in ambito romano, evidenzia che

ius è un comando emanato dall’autorità per imporsi come

imperium (Heidegger 1999: 75-83). La civiltà greca non

conosceva la nozione di impero e neanche quella di

auctoritas, ovvero l’emblema di quell’imperium a cui si

doveva obbedienza. Nella polis greca, invece, non esisteva

una figura così preminente come l’imperatore romano e

proprio per questo nella storia greca sono così frequenti

le lotte alle tirannidi (cfr. Burckhardt 1974: 811).

Dall’analisi etimologica e storica delle tre parole themis,

dike e moira possiamo concludere che secondo il metodo

heideggeriano, la traduzione italiana “legge divina,

giustizia, sorte”, se non scorretta dal punto di vista

storico, risulta almeno essere ambigua. Prima però di

esporre la traduzione che lo stesso Heidegger fa di queste

parole, torniamo alla versione di Reale e aggiungiamo

qualche commento. Nella traduzione dei vv. 31-32 «Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono

(dokounta/doxa) bisognava che veramente fossero, essendo

tutte in ogni senso» (DK Parm. B1), Reale distingue

nettamente la parola doxa (“opinione”) da aletheia

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(“verità”), non solo dando a questi versi una lettura

chiaramente platonica, ma rendendo effettivamente poco

comprensibile il «bisognava che veramente fossero, essendo

tutte in ogni senso». Cosa leghi infatti per Parmenide doxa e aletheia non è affatto chiaro. Per quanto riguarda il

primo punto, ricordiamo che è Platone a stabilire una

distinzione tra i termini aletheia, “verità”, a cui si

arriva attraverso il procedimento dialettico, e doxa,

“opinione non fondata”. Il fatto, però, che detti termini

assumano questo significato da Platone in poi non ci

autorizza a concludere che anche alcuni secoli prima

avessero lo stesso senso. Anzi, proprio il fatto che sia

Platone a stabilirne una chiara demarcazione, ci induce a

pensare che prima le cose stessero in altri termini. Per

venire al secondo punto, ovvero alla scarsa intellegibilità

della frase «bisognava che veramente fossero, essendo tutte

in ogni senso», vediamo che nella nota al v.32 Reale dice

che il dokimos potrebbe anche essere tradotto con «le cose che appaiono era necessario fossero nella maniera in cui

appaiono», mantenendo la duplicità del ta dokounta

“opinioni/apparenze”. Per quanto riguarda il per onta,

sottolinea che esiste anche la variante peronta (Parmenide

2001: 130-131).

Proviamo ora a confrontare la versione tradotta in italiano

dal tedesco che dà Heidegger dello stesso proemio.

E la dea mi accolse benevola, prendendo con la mano destra la mia destra; poi pronunciò la parola e mi si rivolse: O tu, compagno di aurighi immortali, che giungi alla nostra dimora condotto dai tuoi destrieri, salve! Poiché non è una destinazione avversa quella che ti ha spinto a incamminarti per questa via - e in verità essa si situa in disparte, lungi dal sentiero battuto dagli uomini - bensì sia l’ordinamento, sia la convenienza. Ma è necessario che tu apprenda tutto, tanto il cuore della svelatezza che tutto circonda, quanto ciò che risplendendo appare ai mortali, e in cui non risiede alcun affidamento per ciò

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che è svelato. Ma dovrai nondimeno imparare a conoscere anche questo: come ciò che risplende (di necessità) sia tenuto ad essere conforme all’apparenza, pervadendo ogni cosa e (dunque), in questo modo, compiendo ogni cosa. (Heidegger 1999: 36)

Notiamo da una prima rapida lettura che la prima parte

della traduzione del proemio è simile a quella data da

Reale, mentre nella seconda iniziamo a cogliere delle

differenze non solo sul lessico impiegato, ma anche sulla

struttura logica del periodo.

L’ultima frase rimane comunque ambigua anche in questo

caso, sebbene ci sia un rovesciamento di senso:

Reale: Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso. Heidegger: Ma dovrai nondimeno imparare a conoscere anche questo: come ciò che risplende (di necessità) sia tenuto ad essere conforme all’apparenza, pervadendo ogni cosa e (dunque), in questo modo, compiendo ogni cosa.

La versione di Heidegger non rimarca la differenza tra doxa

e aletheia in senso forte come fa Reale sulla scia della

distinzione platonica, e inoltre vediamo come il filosofo

tedesco usa costanti perifrasi per rendere i termini greci.

Addirittura spesso aggiunge parole o frasi che non sono

presenti nella fonte greca, come per esempio il “di

necessità” riferito al ta dokounta. Risulta palese la non

correttezza metodologica di un’analisi testuale che va

molto aldilà del testo e che in qualche modo parafrasa la

traduzione dal greco. Heidegger dichiara esplicitamente che

la sua resa testuale non vuole essere filologicamente

corretta, ma che è già un’interpretazione preliminare

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(Heidegger 1999: 34). Non potendo accettare da un punto di

vista scientifico come valida di per sé

quest’interpretazione preliminare, dovremo quindi

ricostruire le ragioni e i nessi filologici che hanno

portato Heidegger a questa traduzione. Proviamo quindi a

riassumere le parole chiave del proemio parmenideo e

confrontiamone le traduzioni in italiano date da Reale e

Heidegger. Queste parole ci serviranno come guida per

analizzare il criterio emeneutico utilizzato da Heidegger e

come orizzonte per commentare la lettura che il filosofo

fece del pensiero pre-socratico.

REALE HEIDEGGER

1) thea: “dea” “dea”

2) moira: “sorte” “destinazione”

3) themis: “legge divina” “ordinamento”

4) dike: “giustizia” “convenienza”

5) aletheia: “verità” “svelatezza”

6) doxa: “opinione/apparenza” “ciò che risplende

e appare”

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§2 Thea

L’analisi che Heidegger dedica alla parola thea è centrale

nel corso su Parmenide e fornisce l’occasione per una densa

riflessione sulla grecità. La domanda che il filosofo

tedesco si pone è chi fossero gli dei greci e quale ne

fosse la loro essenza. Il dibattito sullo statuto della

divinità presso i greci è ampio e complesso, in quanto,

sebbene il pantheon greco rimanga nel suo nucleo centrale,

identico nel corso dei secoli, bisogna constatare che il

ruolo della divinità e il loro culto cambiano

progressivamente dall’epoca omerica a quella ellenistica

(cfr. Burkert 1985: 119-124). Il lettore moderno, quando

pensa agli dei greci e al loro politeismo, si riferisce

però prevalentemente all’universo mitico, cioè all’Iliade e

alle sue battaglie, ai viaggi dell’Odissea e al mito

esiodeo della Teogonia. Come scrive Burckhardt, la funzione

del mito è quella di continuare a vivere e a rapportarsi

col presente storico di ogni greco nelle varie epoche, per

cui per un ateniese il fondatore Teseo non rappresenta né

un’allegoria, né un fondatore immaginario, ma una

interconnessione costante con il presente (Burckhardt 1974:

33-54). Nell’Iliade non è sorprendente vedere sfilare

accanto a eroi come Achille e Ettore gli dèi che scendono

in campo per aiutare i loro prediletti. Questi dèi si

travestono e ingannano, e spesso sono così umanamente

imperfetti che ci danno l’impressione che si tratti di

uomini veri e propri con qualche potere in più. Tendiamo

cioè a pensare, secondo la nostra sensibilità moderna, a

divinità antropomorfizzate. Già Senofane di Colofone (570-

475 a.C.), criticando il politeismo, sosteneva che se gli

animali potessero fare statue di dèi, essi avrebbero per

sembiante il loro muso. Da questa antica testimonianza

possiamo intuire che il dibattito sullo statuto degli dei

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fosse già molto vivo nella grecità, e alcuni, come

Senofane, vedessero antropomorfica e quindi superstiziosa

la loro religione.

Fin da principio, da Omero tutti hanno imparato. (DK Sen. B10) Attribuirono agli dei, sia Omero sia Esiodo, tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di vergogna: rubare, commettere adulterio e ingannarsi a vicenda. (DK Sen. B11) Ma i mortali credono che gli dei nascano e che abbiano vesti, lingua e figura come loro. Ma se i buoi e i cavalli e anche i leoni avessero mani e con le mani potessero dipingere e compiere le opere che compiono gli uomini, i cavalli dipingerebbero immagini di dei simili a cavalli e i buoi simili a buoi, e plasmerebbero i corpi degli dei tali quali essi hanno, ciascuno secondo il proprio aspetto. (DK Sen. B14-15) Non è vero che fin da principio gli dei hanno svelato tutto ai mortali,ma gli uomini stessi cercando, col tempo trovano ciò che è meglio. (DK Sen. B18)

Dobbiamo vedere come aperte e non univoche le posizioni dei

pensatori e letterati greci sulla valenza del divino, dal

momento che è importante ricordare che tra la presunta

redazione dell’Iliade e la nascita di Socrate intercorre un

certo lasso di tempo. In questo arco di tempo si sviluppa

il cosiddetto pensiero pre-socratico, che quindi risulta

essere non solo variegato sul piano storico, ma anche su

quello geografico: bisogna tenere in considerazione la

distanza geografica e culturale che esisteva tra le varie

polis (per fare un esempio, se Eraclito e Parmenide possono

dirsi quasi contemporanei: il primo nacque e visse a Efeso

sulle odierne coste della Turchia, mentre il secondo a Elea

nel sud dell’Italia). Ogni teoria antica o moderna

sull’identità degli dei greci dev’essere quindi

circoscritta, ma è da evidenziare il ruolo centrale che

l’universo omerico ed esiodeo hanno in tutta la grecità

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essendo stati il riferimento culturale a cui si sono

riferiti, positivamente o negativamente, tutti i grandi

pensatori e letterati greci. È anche evidente che la forza

del mito si sia progressivamente stemperata nel corso dei

secoli e che, quindi, se l’universo omerico è una realtà

vicina e che vive ancora al tempo di Platone, lo stesso non

si può dire di Plutarco. Dovremmo allora provare a capire

dalle stesse parole di Omero e dei suoi contemporanei cosa

fossero le divinità presso l’antica Grecia, e quindi cosa

intenda anche Parmenide quando nel suo Proemio si rivolge

alla dea-verità. Un primo dato che balza all’occhio è che

uomini e dèi presentano tratti comuni. Secondo Heidegger

ciò che condividono uomini e dèi greci è il fatto che solo

questi due enti hanno uno sguardo sull’essere:

Lo sguardo del dio che ha origine dall’essere, può schiudersi nell’uomo e può guardare fuori dalla forma di uomo raccoltasi nello sguardo. Ed è per questo che anche gli uomini, a loro volta, sono per lo più divinizzati e pensati in forma di dei, giacché sia gli dei sia gli uomini ricevono la loro rispettiva essenza dall’essere stesso, cioè dall’aletheia. (Heidegger 1999: 201)

La frase è oscura e, sebbene individui una comunanza nello

sguardo tra uomini e dèi, non chiarisce quale sia però la

differenza tra lo statuto divino e quello umano. Possono

venirci in aiuto alcune importanti considerazioni che

Guthrie raccoglie nei capitoli A central problem e Gods and

man in Homer del volume “The greeks and their gods”, in cui

sottolinea come sia più corretto pensare che siano gli dei

ad avere qualcosa di umano, piuttosto che gli uomini

qualcosa di divino. Infatti, aggiunge, ciò che distingue il

dio dall’uomo è l’immortalità, e cita alcuni esempi tratti

dal mito, in cui la più grossa colpa e quindi la più

terribile punizione per cui un uomo possa essere castigato

da un dio è la hybris, ovvero la tracotanza che spinge un

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uomo a voler elevarsi a dio (Guthrie 1950: 111-127).

Secondo Ehnmark (Guhtrie 1950: 116), invece, un’altra

importante differenza è il potere, o meglio i poteri che

negli dei sono incommensurabilmente superiori rispetto agli

uomini. Il motivo per cui, invece, secondo Guthrie, gli dei

omerici si comportano come uomini, ovvero senza moralità è

perché sono «dei naturali» per cui non possono essere

morali, in quanto la natura non è morale (Guhtrie 1950:

117-127). A questo proposito potremmo obiettare che gli dei

greci sono però, anche incarnazioni di facoltà umane, di

virtù e di mansioni specifiche. Atena per esempio è la dea

dell’intelligenza, ma anche delle arti, patrona

dell’artigianato e della tessitura e i suoi interventi

nell’Iliade accanto ai greci rappresentano la parte

“razionale” della guerra rispetto a quelli di Ares, che

sono la parte irrazionale della violenza cieca. Se noi però

proviamo a riflettere, vediamo che anche se non siamo in

grado di esprimere in un concetto la sintesi di tutte

queste qualità di Atena, esse hanno comunque un minimo

comun denominatore12. Se provassimo a ipotizzare che gli

antichi greci vedessero in questo minimo comun denominatore

un’energia, una forza agente sulla natura, che si

dispiegasse e declinasse anche nella realtà umana, magari

anche nell’artigianato, e che questo carattere fosse

appunto riconoscibile “alla vista”, potremmo fornire una

spiegazione razionale nell’atteggiamento greco che

raffigura umanamente e visivamente la divinità in quanto

forza agente.

Heidegger coglie l’essenza del divino dei greci nel

guardare, facendo derivare la parola theos, dio, da theao,

guardare (Heidegger 1999: 191-193). Prima però di

approfondire la relazione che sussiste tra sguardo e

12 Cfr. Détienne 1989

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divino, è opportuno che noi ci chiediamo che significato

avesse per i greci la vista. In tutto il testo di Parmenide

si possono intravedere momenti in cui tutto l’ambito

semantico relativo alla vista, alla luce e allo sguardo

assumono un ruolo fondamentale, importantissimo da un punto

di vista ontologico. Nel v.3 del Proemio (DK Parm. B1), per

esempio, Parmenide nomina l’eidota phota, letteralmente

“l’uomo che sa”, l’uomo sapiente che viene condotto dalle

cavalle sulla via della divinità che dice molte cose. La

parola greca phos, “uomo”, da cui l’accusativo singolare

phota, è attestata solo presso Omero e Eschilo, quindi da

ritenere antichissima. È una contrazione di phaos, che vuol

dire “luce del sole”. Eidota invece è un participio di oida

che letteralmente vuol dire “sapere”. È importante

evidenziare però, anche l’origine dello stesso oida, che

non è un tempo presente (“io so”), ma uno di quei pochi

verbi greci coniugati al perfetto che hanno valore di

presente. Il presente di oida è orao, verbo frequentissimo

che significa “vedere”. In greco conoscere si diceva

letteralmente “ho visto”, “so perché ho visto”. Il tipo di

conoscenza a cui fa riferimento Parmenide secondo alcuni

commentatori non è una conoscenza deduttiva od oggettiva,

ma la conoscenza misterica di un iniziato (Untersteiner) .

J. Mansfeld invece, sulla scia della lettura di Heidegger

intende la conoscenza greca arcaica, un tipo di conoscenza

eminentemente visiva (Mansfeld 1964) e «partendo da

Senofane B34, (DK Sen. B36) sottolinea come eidos abbia un

valore legato alla esperienza visiva, che si conserverebbe

in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica è dunque

legata a un esperire, vedere, diretto» (Zucchiello 2011: 7-8).

Opposa de thntoisi pefenasin eisorarsthai. “Ai mortali tutte le cose che sono si mostrano alla vista”.

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(DK Sen. B36)

Platone elabora la dottrina delle idee basandosi sulla

facoltà vista: idea, o eidos, vengono da orao, “vedere”, e

vogliono dire “forma”, “aspetto”. Aristotele

successivamente, nel primo capitolo della Metafisica nomina

la vista come facoltà di maggior peso nell’ambito della

conoscenza.

Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e più di tutte ,amano la sensazione della vista: in effetti non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze tra le cose. (Aristotele, 980a 1-27)

È lecito supporre che nella civiltà greca la vista fosse

non solo una semplice sensazione predominante rispetto alle

altre, ma avesse uno statuto ontologico e gnoseologico

fondamentale, ovvero fosse stato in epoca arcaica un

veicolo basilare di una forma evidentemente non ancora

intellettuale di conoscenza a partire dalla quale Platone,

attraverso le idee pensate come forme archetipiche prima

visive e poi mentali, inizia a costruire le basi di una

scienza razionale che Aristotele sviluppa e organizza. Del

resto è antropologicamente plausibile pensare che in una

data società un senso venisse privilegiato rispetto a un

altro e su di esso si basassero le veicolazioni dei valori

e dei paradigmi culturali di detta società. Per esempio

leggendo l’Antico Testamento, notiamo come a nessuno sia

data vedere l’immagine di Dio, mentre a tutti sia data

ascoltare la sua parola e che, per esempio, le leggi che

Mosè trascrive siano dettate direttamente da Dio.

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Quest’importanza della parola dettata, tipica delle civiltà

mediorientali, si è trasmessa anche nell’Islam dove il

Corano è stato addirittura dettato direttamente da Dio.

Nelle civiltà estremo-orientali vediamo invece come la

conoscenza venga trasmessa attraverso l’azione (ci

riferiamo alle varie pratiche di meditazione e alle arti

marziali, che in Oriente non sono solo strumenti di difesa

ma modalità conoscitive del corpo) e che essa venga

trasmessa in forma interpersonale attraverso l’emulazione

di una prassi da maestro ad allievo. Heidegger stesso nota

che

mentre il comune termine germanico Got, secondo la provenienza indiana, indica un essere che viene invocato dall’uomo, ed è quindi «l’invocato», i nomi greci per ciò che noi chiamiamo un dio dicono qualcosa di essenzialmente diverso, giacché theos - theaon e daimon - daion nominano il guardante che si schiude da sé e l’essere che si dà entrando nell’ente. (Heidegger 1999: 205)

Nell’Iliade vediamo proprio come le divinità appaiano

sempre in forma di qualcosa (metamorfosi) e come esse si

rendano visibili, e si facciano riconoscere solo da chi

vogliono (Burckhardt, 1976: 409-24). L’elemento visivo

risulta dunque essere un elemento fondamentale di

caratterizzazione della civiltà greca. Ciò è evidente anche

da un punto di vista etimologico: la parola thea/theos,

“dea/dio”, deriva infatti da theao, verbo che esprime la

stessa idea di orao, “vedere” ma con una sfumatura se

vogliamo più continuativa e rafforzativa. Abitualmente si

traduce theao con “guardare”; Heidegger traduce «offrire la

visione» (Heidegger,1999: 193). Letteralmente quindi, gli

dei greci sarebbero “coloro che si guardano o che

guardano”. Heidegger attribuisce all’essere uomo e

all’essere dio l’esclusività dello sguardo, differenziando

questo tipo da quello che hanno gli animali. Distingue qui

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un mero guardare e un guardare che può anche guardarsi e

che guardando si fa guardare (Heidegger 1999: 199-202). La

frase suona ambigua e oscura, ma dovremmo provare a

riflettere sulla modalità in cui un uomo guarda a un altro

uomo. In questo mio guardare io sono anche guardato e

attraverso uno sguardo si possono cogliere le mie emozioni,

la mia interiorità e la mia espressività. Il guardare

rappresenta quindi uno spazio aperto, uno spazio di

incontro. Questo guardare, secondo i greci,

nell’interpretazione di Heidegger, è comune a uomini e dèi

ed è forse per questo, conclude, che sono rappresentati in

forma di uomini. Seguendo quest’interpretazione, potremmo

sostenere appunto l’ipotesi che le divinità omeriche nel

loro non essere concetti, né allegorie, né

personificazioni, erano piuttosto rappresentazioni dirette

di forze agente e presenti sulla realtà che potevano essere

viste, guardate nel loro agire e quindi riconosciute come

tali e nominate. Inoltre, in quanto forza che poteva essere

vista agire, essendo guardata, doveva necessariamente,

parafrasando Heidegger, guardare, e guardando, interveniva

sulle sorti dell’umanità. Emblematici in questo caso gli

interventi di tutti gli dèi nell’Iliade. Nel primo libro

dell’Iliade assistiamo a una scena in cui Atena si

manifesta ad Achille per placare la sua ira contro

Agamennone:

E mentre questo agitava nell’anima e in cuore e sfilava dal fodero la grande spada, venne Atena dal cielo; l’inviò la dea Era braccio bianco, amando ugualmente di cuore ambedue e avendone cura; gli stette dietro, per la chioma bionda prese il Pelide, a lui solo visibile: degli altri nessuno la vide. (IL 1.193-198)

Mentre vediamo come Ares sia scorto da Diomede:

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Quale oscuro vapore si vede uscir dalle nubi, quando per la calura si leva bufera orrenda, tale Ares di bronzo a Diomede Tidide parve, al cielo vasto con le nubi salendo (IL 5.864-7)

Poseidone, per fare solo un altro esempio significativo,

salva Enea calando la nebbia attorno ad Achille

(impedendone quindi la vista) nel libro 20 (IL). In ultimo

osserviamo alcune descrizioni di dèi ed eroi che si

rifanno all’ambito semantico della vista e della luce:

Atena è detta “occhio azzurro”, mentre Ettore e altri

guerrieri sono detti eroi “dall’elmo splendente”

(luminoso). Il guardare è per il greco un’esperienza

fondamentale; Atena, l’intelligenza, guarda e quindi agisce

sul mondo, così come Poseidone, il dio del mare, è anche il

dio che scuote la terra (terremoto), ovvero il dio di ciò

che si agita. Per un greco la vita e la terra erano in

continua mutazione e dinamismo, e ciò che si muoveva era

divino nel senso che il suo agire avveniva non per causa

umana, né divina in senso cristiano, ma nel senso di un

principio potente che si manifestava e assumeva attraverso

la metamorfosi diverse sembianze (Burckhardt 1974: 409-

424). Quest’agire, potendo essere visto dall’uomo e

potendo l’agire stesso di queste forze agire sulla realtà

umana, poteva guardare l’uomo. Forse grazie a queste

considerazioni possiamo gettare un po’ di luce sulla

relazione tra vista e divinità, che in Heidegger rimane

solo indicata. Possiamo anche azzardarci ad avanzare

l’ipotesi storica che, sulla scorta di questa tradizione

Platone abbia cercato di dare realtà e consistenza

sovratemporali a dette forze, le divinità, trasformandole

in entità metafisiche (idee). La differenza che però si

stabilisce con l’epoca arcaica è sottile quanto

fondamentale: per gli antichi queste forze erano agenti e

il loro aspetto non era fissato fuori dallo spazio e dal

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tempo, mentre per Platone queste sono realtà appunto

metafisiche ovvero eterne. Questa ipotesi dà a Platone una

innegabile continuità con la tradizione greca che innova, e

per noi è più corretta storicamente della posizione di

Heidegger che senza alcuna prova storica vede nella Grecia

pre-platonica e in quella post-platonica quasi due civiltà

distanti anni luce tra di loro senza nessuna possibilità di

contatto né compenetrazione (Heidegger 2007: 138-142).

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§3 Daimon

Parmenide nel proemio utilizza anche un’altra parola per

nominare il divino, daimon, termine normalmente tradotto

con demone, che deriva probabilmente da daiomai, che

significa “dispensare, dare in sorte” (Rocci 1943). Il

demone greco è spesso associato alla figura di Socrate, che

ne parla come una voce:

C'è dentro di me non so che spirito divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell'atto di accusa. Ed è come una voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte. (Platone, Apologia di Socrate 31 d)

Questa voce è spesso intesa da noi moderni come la voce

della coscienza, che dice cosa non bisogna fare.

Analizzando il testo, però, vediamo come Socrate dica di

avere un daimon, che caratterizza come “voce”. Qui Platone

sta accostando due elementi diversi: la “voce” (phone) e il

“divino” (daimon) e dobbiamo star attenti a leggere questi

due elementi come già legati a priori, come la voce divina

in senso cristiano. Qui Platone sta solo caratterizzando

questa voce in maniera tipicamente greca, chiamandola

demonica. L’uso di daimon, con il significato di voce

divina, è invece attestato solo tardivamente in Plutarco,

in età ellenistica, dove daimon è usato per intendere il

“genio personale“ (concetto tipicamente romano che

diventerà cristianamente “la voce della coscienza”).

Andando a cercare il termine daimon sul dizionario, vediamo

che spesso è usato come sinonimo di “divino”, theos.

Colpisce però il contesto con cui daimon è usato in un

brano dell’Iliade e, precisamente, quando Ettore accusa di

codardia il figlio di Tideo e termina così l’invettiva:

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paros toi daimona doso (IL 8.166). Letteralmente: “prima ti

darò il demone”, ovvero in questo contesto, “la morte”,

pensata come il luogo a cui è destinato, un luogo divino.

Luogo divino è anche come viene definito nel mito della

polis, l’aldilà a cui l’eroe Er è destinato nella

Repubblica di Platone (620e-621d). Heidegger si serve di

questo mito per spiegare il carattere demonico, come

l’insolito che si scorge nel solito (Heidegger 1999: 186-

191). Heidegger sembra parafrasare il termine greco

daimonion con l’aggettivo tedesco unheimlich, che sta a

indicare un carattere inquietante che emerge da ciò che è

famigliare. Curiosamente Freud dedica un intero saggio a

questa parola, caratterizzando l’Unheimlich come esperienza

psicologica fondamentale che compie il soggetto quando non

si riconosce nella sua immagine (S.Freud, 1976-80: Il

perturbante). L’accostamento che fa Heidegger tra daimon e

unheimlich è piuttosto ardito, ma possiamo sicuramente

trovare il carattere dell’inquietante nel demonico quando

esso è relazionato con la morte (Omero). Un altro termine

che i greci usavano per indicare il “divino”, dios,

letteralmente “celeste”.oi Quest’uso si attesta nell’Iliade

ed esprime un divino legato al luminoso: spesso si usa

questo aggettivo quando si parla del mare, “mare divino”, o

riferito a Ettore, non a caso detto anche “l’eroe dall’elmo

splendente” (IL). Potremmo concludere che in greco il

divino ha a che fare con il vedere (anche con l’immaginare)

e che la divinità può essere connotata in base alla

luminosità, potendo essere daimonios o dios. Potremmo dire

che secondo gli usi daimonios e dios sono due polarità di

theos; il primo ha il carattere dell’insolito,

dell’inquietante, del tenebroso, il secondo del celeste,

del limpido, del luminoso. Questa polarità ci porta

intuitivamente per analogia alla lettura che Nietzsche fece

del teatro greco, definendolo come perfetta unione dello

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spirito apollineo e dionisiaco (Nietzsche 2008: 21-27). Se

Apollo è il dio dell’ideale, del sole, del bello e della

perfezione, quindi del principium individuationis, e in

ambito artistico della scultura (arte per eccellenza della

forma), Dioniso è il dio della musica, del tutto prima del

principium individuationis, un qualcosa che spaventa e

inquieta.

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§4 Moira

Proviamo ora a delucidare il senso di un’altra parola tra

quelle che abbiamo individuato come fondamentali nel

proemio di Parmenide: moira. Reale traduce «non un’infausta

sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino» (DK Parm.

B1 vv.25-26) mentre Heidegger la rende così: «non è una destinazione avversa quella che ti ha spinto a incamminarti

per questa via» (Heidegger 1999: 36). Moira significa

letteralmente «la parte assegnata a una persona della preda

o del bottino che si spartiva» (Rocci, 1943). In Omero è attestato l’uso di kata moiran, “convenientemente”, “com’è

giusto” (letteralmente “secondo il destino”), mentre

Platone nel Protagora dice:

Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. (Platone, Protagora 322)

Divenire partecipe della divinità, theias moiras metechein,

letteralmente, “condividere un destino divino”. L’antica

espressione “parte assegnata di”, “assegnazione di qualcosa

da parte di”, diventa “destino”. Omero parla di moira

theou, “destino divino”, stesso uso ne fanno i tragici. La

traduzione di Reale con “sorte” non deve far pensare al

caso, alla casualità, alla circostanza. I greci pensavano

che anche al di sopra degli dèi ci fosse una legge

regolatrice detta in greco in vari modi tra cuiappunto

moira (Burckhardt 1974: 425-659). Questa rilevanza del

destino e della destinazione, come luogo a cui il destino

conduce, è presente anche nel frammento 2 (Parmenide, DK

B2) forse il più famoso dell’opera di Parmenide (quello in

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cui si afferma la verità dell’essere). La dea dice che solo

due vie possono essere percorse e pensate:

A B C D

l) e men opos estin te kai os ouk esti me einai

2) e de os ouk estin te kai os chreon esti me

einai

Come si può notare anche a prima vista, le frasi hanno una

simmetria quasi speculare. L’elemento A è una tipica

costruzione greca che indica opposizione tra due elementi,

il B è identico se non fosse per ouk (“non”), il C è una

congiunzione, nel D abbiamo l’unico elemento aggiuntivo che

rompe la simmetria tra le due affermazioni. Cosa significa

chreon? Reale lo traduce come “essere necessario che”,

traslitterando e trasponendo il senso originario della

parola chreon che significa prima di tutto “destino”. I

greci usavano una locuzione per esprimere l’essere

destinato, l’essere inevitabile, e quindi il “bisogna che”:

chre accompagnato dal verbo essere. Chre deriva da chrao,

chraomai che ha molti usi anche molto diversi tra loro:

incontriamo, tra i più antichi, chrao nel senso di

“vaticinare”, “chiedere responso”, “interrogare l’oracolo”

(Rocci, 1943). Reale, traducendo chreon con essere

necessario, toglie l’elemento del destino alla frase e fa

intervenire una vaga idea di necessità come causalità, o

come conseguenza logica di un ragionamento. La causalità è

pensata in termini logici, come consequenzialità non solo

di fatti, ma di proposizioni deduttive. Se confrontiamo

però i testi platonici in cui inizia a imporsi anche

nell’uso linguistico questo tipo di locuzioni (“come

se...”, “ne consegue che”, “se... è necessario che”, “di

conseguenza” ecc... ) vediamo che il termine più frequente

che Platone usa non è chrao, ma dei. Da questi pochi esempi

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potremmo supporre che il significato originario del chreon

esti, essere necessario, avesse dentro di sè l’idea di

destino, e che solo alcuni secoli dopo quest’”essere

destinato a” venisse pensato in termini logico-

consequenziali. La società ateniese dell’epoca di Socrate

viveva infatti il dibattito politico nella forma di

assemblea (agora) in cui ogni esponente esercitava la sua

persuasione in forma di retorica. I sofisti erano avvocati,

pedagoghi o politici che svilupparono un’arte oratoria

basata su inferenze e deduzioni, cioé una tecnica di

persuasione. Il ruolo storico di Socrate, nella sua

avversione contro i sofisti, infatti non è tanto quella di

criticare il loro metodo di dibattere e ragionare, ma di di

evidenziarne la vuotezza delle conclusioni e il relativismo

in cui sfociavano. Da ciò nasce l’urgenza di definire uno

strumento che, attraverso il dialogo, possa portare alla

verità; oggi diremmo un metodo scientifico. Quest’ipotesi

storica ci permette di spiegare la profonda differenza

esistente tra il pensare delle origini e il filosofare del

periodo classico, che assume una nuova valenza, più

confacente ai bisogni della società storica ateniese del

tempo: stabilire una “verità tra uomini”. Quando Heidegger

vede in Platone il fautore della deviazione dal senso

originario dell’essere (Heidegger 2007: 233), che non pensa

più la verità in termini di evento, ma di omoiosis, ovvero

coincidenza tra ciò che viene detto e cio che realmente

accade (Heidegger 1975: 37-51, e 1999: 75-83), quello che

in realtà accade, in altri termini, è che la verità viene

circoscritta al suo ambito etico. Heidegger ignora la

società in cui viveva il Platone storico, ritraendolo come

un uomo che in maniera avulsa dal contesto storico e

sociale, ha cambiato su due piedi il senso della verità.

Noi in maniera più prudente crediamo che Platone sia stato

un interprete della sua epoca e pertanto crediamo che la

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prospettiva storiografica sia da tenere in forte

considerazione.

Tornando al testo di Parmenide, dopo questa necessaria

parentesi storica, pensiamo di essere legittimati a vedere

nell’uso parmenideo del chreon, non una idea di necessità

come consequenzialità, ma piuttosto il senso di necessità

come destino. Proviamo quindi ad abbozzare una nostra

traduzione della frase esaminata sulla scia di questa

interpretazione:

La prima (via) (dice) che è e che non-essere non è, la seconda (dice) che non è e che è destino non-essere.

Il destino qui nominato non indica la conseguenza di una

causa, ma l’impossibilità storica e teoretica del non-

essere. L’uomo in qualsiasi epoca e luogo ha di fronte a sè

essere. Il niente non è dato e non si può dare nella misura

in cui noi come uomini senzienti non possiamo non sentire

niente: ci è dato sentire sempre qualcosa. Nello stesso

tempo, non riusciamo a scorgere nessuna causa perché le

cose siano, perché ci sia essere e non piuttosto niente.

Anche caratterizzando il niente, lo vedremmo sempre e solo

come assenza di qualcosa, ovvero come un niente apparente.

Ma le cose viste da un punto di vista solo possibile e non

fattuale, avrebbero potuto benissimo non essere, eppure

sono. Di fronte a questo mistero che desta nell’animo greco

stupore e meraviglia (Heidegger 1999: 191-201), Aristotele

cerca di trovare una causa che chiama motore immobile

(Metafisica, 1071b 3-22, 1073a 3-14). Il cristianesimo

proto-ortodosso, lo chiama Dio, il mondo scientifico

contemporaneo cerca la particella che ha dato origine al

tutto. Nonostante tutti questi sforzi il perché dell’essere

e il perché del non-essere del niente rimangono ancora e

sempre un mistero. Per questa ragione il senso del destino

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in termini greci è quello di una forza ineluttabile che non

coincide con una volontà personale, come nel caso del dio

cristiano-ebraico, che fa andare le cose in un verso e non

in un altro. Le ragioni di questo destino rimangono

imperscrutabili da un punto di vista razionale.

Quest’impossibilità della mente che cerca delle cause per

gli eventi del destino è argomento di una delle più grandi

manifestazioni artistiche delle grecità: il teatro tragico.

Parmenide nomina qui un nulla assoluto negandolo, mentre in

due frammenti successivi che esamineremo evidenzia il

carattere apparentemente conflittuale dell’essere come

notte e giorno, che potremmo chiamare “niente apparente”. A

causa di questa affermazione dell’univocità e dell’eternità

dell’essere si è soliti contrapporre Parmenide a Eraclito,

il pensatore del divenire che afferma la conflittualità

dell’essere. Nei capitoli successivi vedremo come invece

questa divergenza sia solo apparente e noteremo che

entrambi i pensatori affermano l’univocità dell’essere e

nello stesso tempo la sua conflittualità.

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§5 Dike e themis

Dopo aver evidenziato il ruolo che gioca il concetto del

destino nella grecità, siamo in grado di comprendere meglio

la traduzione che Heidegger fa di altre due parole

fondamentali: dike e themis, “convenienza” e “ordinamento”.

“Convenienza” in senso di “concordanza”, ovvero

“concordanza con il destino”, ciò che si conviene col

destino e si confà a ciò che è stato assegnato. Themis

invece, tradotta con “ordinamento”, è di nuovo un sinonimo

di destino: il destino attuandosi diventa ordinamento. La

traduzione quindi di Reale di themis: “legge divina”, non è

errata, perché rimanda a una legge non normativa (umana),

ma universale. Il problema però è che “legge divina”

potrebbe essere intesa come legge in senso cristiano, come

comandamenti, come se ci fossero prima ancora dell’attuarsi

dell’ordine naturale del mondo delle regole o delle leggi

transcrivibili in forma di dottrina o codice (Mosè)

corrispondenti alla volontà divina. Themis in senso greco

non è un ordinamento transcrivibile o un insieme di regole

estrapolabili in forma di formule dalla realtà, ma

piuttosto una forza attiva, agente, un attuarsi eternamente

rinnovato e presente di un ordinamento (destino).

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§6 Aletheia

Aletheia è il termine chiave del proemio parmenideo e

insieme con einai, “essere”, è la parola fondamentale di

tutto il poema. Parmenide, in maniera non frequente

nell’ambito letterario greco, chiama la verità “dea”. Lo

stesso viaggio è compiuto per recarsi al suo cospetto,

presso la dimora divina dove convergono le strade del

giorno e della notte. Heidegger fa derivare la radice

leth/lath di aletheia da lanthano che vuol dire

letteralmente “nascondersi” a cui è aggiunta un’alfa

privativa: aletheia diventa così secondo la lettura di

Heidegger in tedesco Unverborgenheit, che in italiano è

tradotto “non-nascondimento” o “dis-velamento” o

“svelatezza” (Heidegger 1999: 39-54). Nella prima parte del

corso su Parmenide Heidegger si chiede perché una parola di

fondamentale importanza come verità sia una negazione. Dopo

aver parallelamente citato l’etimologia del latino veritas

(75-83), il filosofo tedesco dà inizio a una serie di

ragionamenti linguistici che partono dal fatto che il

contrario di vero in greco non ha dentro di sè la radice

lath/leth, ma una radice totalmente distinta: infatti,

“falso” si dice in greco pseudos (84-101). L’idea di

nascondere e venire alla luce, insito nel carattere

conflittuale della verità (Heidegger 1999: 44-50) è

nominato da Parmenide nel binomio giorno/notte e in

generale in tutto l’ambito semantico greco relativo alla

luce e al vedere. Un verbo fondamentale nella lingua greca,

che non ha equivalente nella nostra, è phaino, “apparire”,

“mostrarsi”, “venire alla presenza”. Ancora oggi, quando

noi diciamo “fenomeno” intendiamo una manifestazione

sintomatica di una realtà che la trascende. Per il greco

invece il presentarsi era evento e non nascondeva nessuna

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entità trascendente. Nell’immanenza del fenomeno si svelava

il divino che poi sarebbe tornato a velarsi quando il

fenomeno sarebbe scomparso o meglio ritornato nel

nascondimento. Di quest’apparire mostrantesi, lungi

dall’essere mera apparenza in senso moderno, noi facciamo

esperienza nella nostra vita, per esempio quando per molto

tempo non si trova la soluzione a un problema e poi di

colpo inaspettatamente ci appare. In quell’apparire, che

produce una sensazione determinata e localizzata al centro

del cervello, è insito un mostrarsi che si fa evento, un

evento che non ha durata ma coincide con l’attimo in cui si

ha l’intendimento, dopo di cui, pur lasciando traccia,

questo sentire si dilegua (tornando nel nascondimento).

Potremmo usare in italiano per nominare questo accadimento,

la parola intuizione, arrichendone però il suo ambito

semantico. Effettivamente la forma di verità (se così si

può dire) che Heidegger cerca nei greci ha più a che fare

con l’intuizione che con la deduzione. Possiamo anche dire

preliminarmente che Heidegger cerchi nei greci o

nell’Oriente dei sistemi culturali in cui la ragione

deduttiva lasci il posto all’intuizione empatica. In questo

saggio non si vuole discutere di quale di queste

interpretazioni della verità siano ontologicamente più

valide e originarie, ma cercare i presupposti per

comprenderne le differenze da un punto di vista storico,

ermeneutico e teoretico. Il carattere eminentemente

temporale della verità si evince anche dalla struttura

linguistica greca apparentemente impersonale usata con il

verbo lanthano/lanthanomai. Heidegger ne cita alcuni

esempi:

[...] ma quando ricominciava e lo spingevano al canto i re dei Feaci, che ai suoi racconti godevano, ancora Odisseo, coprendosi il capo, gemeva.

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E a tutti gli altri “non potè nascondere le lacrime” (elanthane dakrua leibon); Alcinoo solo se ne accorse e capì, sedendogli accanto, [...] (OD 8.89-94)

Bisogna osservare che il verbo lanthano che in diatesi

attiva significa “nascondo” non è transitivo in greco, e

che quindi dakrua, “le lacrime”, non sono direttamente

riferite al verbo principale, ma al leibon, che è un

participio presente del verbo leibo, “versare”.

Letteralmente quindi “Ulisse rimase nascosto versante

lacrime” e solo Alcinoo se ne accorse. Heidegger riporta un

altro passo omerico, stavolta tratto dall’Iliade in cui è

impiegata la medesima costruzione (Heidegger 1999: 62-70):

Diceva, e l’asta scagliò, bilanciandola; ma vistala prima, l’evitò Ettore l’illustre: la vide, e si rannicchiò, sopra volò l’asta di bronzo e s’infisse per terra; la strappò Pallade Atena, la rese ad Achille, “non vista da Ettore” (lathe d’Ektora) pastore di genti. (IL 22.273-77)

La traduzione della costruzione verbo lanthano + participio

è spesso resa in italiano con la locuzione “all’insaputa”,

e anche il dizionario lo suggerisce (Rocci, 1943). Ma a

livello gramaticale risulta importante evidenziare la

funzione intransitiva di lanthano che è accompagnato

dall’accusativo di relazione Ektora: “rimase nascosta a

Ettore”. Accanto agli usi impersonali, il dizionario greco-

italiano riporta altri esempi dell’uso di lanthano il cui

primo significato riportato è “sono/sto/rimango nascosto”,

usato con l’accusativo della persona.

pasas Troas lathen “rimase occulta a tutte le troiane” (IL 3.420)

ou lethe Dios pykinon noon

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“non sfuggì alla sagace mente di Giove” (IL 15.461)

ouk esti lathein ommata photos non possono celarsi gli occhi di chi... (Eschilo Agamennone 796)

Al medio invece lanthanomai significa dimenticare, questa

dimenticanza però non ha natura volontaria, avviene per

destino. Alcuni esempi:

pos an’Oduseos theioio lathoimen “come posso dimenticare il divino Ulisse” (OD 1.65) lathonto thouridos alkes “dimenticarono l’impetuosa forza” (IL 15.322) emeio lelasmenos “dimentico di me” (IL 23.69) lelasmenos oss’epeponthei “dimentico di quanto aveva sofferto” (OD 13.92) e lathet’e ouk enoesen: aasato de mega thumoi “forse scordò, o non vi pensò; e molto errò nel suo cuore” (IL 9.537)

Rimane comunque anche al medio l’idea di occultare: opos lelathoito tekousa “perché restasse occulto il suo parto” (Esiodo,Teogonia 471)

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§7 Lethe

Heidegger chiama in causa direttamente Platone,

servendosene per chiarire il significato del sostantivo

lethe, derivato direttamente dal verbo lanthano. Questa

parola significa “oblio” e, come Hidegger riporta, Platone

chiama così nel mito di Er della Repubblica una pianura che

si incontra nel viaggio dopo la morte (Heidegger, 1999:

215-220). Il pedion lethes, “la pianura della

dimenticanza”, è avvertita dallo stesso Platone come un

luogo demonico a cui l’uomo è destinato attraverso la

morte. Leggiamo un ampio passo del mito di Er, tratto dalla

Repubblica di Platone:

Dopoché tutte le anime avevano scelto le rispettive vite, si presentavano a Lachesi (1) nell’ordine stabilito dalla sorte. A ciascuno ella dava come compagno il demone che quegli s’era preso, perché gli fosse guardiano durante la vita e adempisse il destino da lui scelto (2). Ed esso guidava l’anima anzitutto da Cloto, a confermare, sotto la sua mano e sotto il giro del fuso, il destino che s’era scelta dopo il sorteggio. Poi toccava questo e quindi la conduceva alla trama tessuta da Atropo rendendo inalterabile il destino una volta filato. Di lì senza volgersi ciascuno si recava sotto il trono di Ananke (3) e gli passava dall’altra parte. Dopoché anche gli altri erano passati, tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. Era una pianura priva d’alberi e di qualunque prodotto della terra (4). Al calare della sera, essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva di più della misura (5). Via via che uno beveva, si scordava di tutto. Poi s’erano addormentati, quando, a mezzanotte, era scoppiato un tuono e s’era prodotto un terremoto: e d’improvviso, chi di qua, chi di là, eccoli portati in su a nascere, ratti filando come stelle cadenti. Lui, Er, aveva ricevuto divieto di bere quell’acqua. Per dove e come avesse raggiunto il suo corpo non sapeva. Sapeva soltanto che d’un tratto aveva aperto gli occhi e s’era veduto all’alba giacere sulla pira. E così, Glaucone, s’è salvato il mito e non è andato perduto. E potrà salvare anche noi, se gli

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crediamo; e noi attraverseremo bene il fiume Lete e non insozzeremo l’anima nostra. Se mi darete ascolto e penserete che l’anima è immortale, che può soffrire ogni male e godere ogni bene, sempre ci terremo alla via che porta in alto e coltiveremo in ogni modo la giustizia insieme con l’intelligenza, per essere amici a noi stessi e agli dei, sia finché resteremo qui, sia quando riporteremo i premi della giustizia, come chi vince nei giochi raccoglie in giro il suo premio; e per vivere felici in questo mondo e nel millenario cammino che abbiamo descritto.(Platone, Repubblica 620e-621d)

Questo celebre mito conclusivo del Libro 10 della

Repubblica espone la dottrina della metempsicosi. All’eroe

Er è concesso di raccontare la visione dell’aldilà.

Soffermiamoci su alcuni punti.

(1) Lachesi è nella Teogonia di Esiodo una delle tre moire,

figlia di Zeus e Themis, ovvero secondo quanto abbiamo

detto precedentemente, una delle tre figure del destino e

precisamente figlia dell’unione tra il cielo e

l’ordinamento. Le moire sono rappresentate mentre filano il

destino di ogni uomo. Cloto, la prima figura del destino,

significa in greco “io filo”, ed è raffigurata mentre fila

lo stame della vita. Lachesi (“destino”) svolge il filo sul

fuso, Atropo (“inevitabile”) lo recide con le cesoie. Nella

mitologia greca le moire sono ineluttabili e più potenti

degli stessi dèi. Quest’affermazione trova riscontro in

numerosi passi dell’Iliade: il destino si configura come

necessità ineluttabile a cui anche gli dèi sono sottoposti.

(2) Ekeinen d’ekasto on eileto daimona, touton phylaka sumpemein tou biou kai apopleroten ton airethenton.

Traduzione di F.Sartori (Platone, op.cit. 1967):

“A ciascuno ella dava come compagno il demone che quegli s’era preso, perché gli fosse guardiano durante la vita e adempisse il destino da lui scelto”.

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Traduzione letterale:

“Lachesi a ciascuno (assegnava) il divino che aveva scelto per lui, come guardiano della vita e colui che desse compimento alle cose che erano state scelte per lui”.

Il traduttore dell’edizione Laterza vede il verbo eileto

riferito a ekasto, “ciascuno”, ma in realtà potrebbe essere

riferito al “destino” che dà a ciascuno, dopo la morte e

prima dell’inizio della prossima vita, il carattere

demonico che gli è stato assegnato. Infatti, come dicevamo

nei precedenti capitoli, il “destinare” non è opera di una

volontà personale. Il “demone” è quindi quella destinazione

che un’anima prende prima di reincarnarsi, a seconda di

come ha svolto la vita precedente.

(3) Ananke, “necessità” ovvero, è un sinonimo di Moira e

delle sue tre figure e ha il senso di mancanza.

(4) Lete, “dimenticanza”, è descritta come una pianura

arida e soffocante.

kai gar einai auto kenon dendron te kai osa phyei “era infatti vuota di alberi e di quanto la terra dischiude”

Sartori rende invece il verbo phyei con l’espressione “dare

prodotti”, ma secondo Heidegger, quest’interpretazione non

sarebbe del tutto corretta in quanto nel verbo produrre è

radicato il senso della produzione tecnica contemporanea.

Heidegger dedica un saggio alla questione della tecnica, in

cui fondamentalmente ne delinea l’essenza come impianto

(Gestell): la tecnica non è solo strumento ma è ambiente

che ha la caratteristica dell’impianto e dell’imposizione

(Heidegger 1976: 14). Ricordiamo che per Heidegger Physis è

il sorgere dell’essere dal vuoto apparente a partire da se

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stesso; techne è il sorgere degli enti attraverso l’uomo,

il producere latino (Heidegger 1987: 193-256). Platone

descrive quindi la pianura come spoglia e vuota, una

vuotezza di elementi simile alla dimenticanza. La

dimenticanza è una tabula rasa, un vuoto, un niente

apparente.

(5) Ameles, il fiume la cui acqua non si può contenere, da

cui ogni uomo beve secondo misura.

metron men oun ti tou udatos pasin anankaion einai piein, tous de fronesei me sozomenous pleon pinein tou metrou “e tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva di più della misura”

Platone usa la locuzione anankaion einai, “essere

necessario”, in forma impersonale. Qui non è detto quindi

che gli uomini erano obbligati nel senso di costretti dalla

volontà di qualcuno, ma che ognuno beveva una quantità

d’acqua secondo il suo destino, e coloro che non erano

salvati dalla comprensione ne bevevano oltre la misura. La

“dimenticanza” viene a configurarsi quasi come un

nascondimento totale, o parziale, a cui l’uomo è costretto

dal destino, proprio perché il nascondimento è insito nella

natura stessa delle cose.

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§8 Pseudos

Heidegger, nel corso su Parmenide, riporta i modi con cui

la grecità esprimeva il contrario di a-lethes, per

delucidarne meglio il senso (Heidegger 1999: 62-106).

L'opposizione generica a alethes è detta pseudos, e

presenta dunque una radice etimologica totalmente

differente dal suo contrario. Heidegger cita in primo luogo

Esiodo, che nella Teogonia (vv.233 e seguenti) parlando

della divinità Pontos, dice che generò Nereo e lo definisce

come apseudea kai alethea, letteralmente non falso e vero.

Questo passo risulta essere decisivo nell’intepretazione

heideggeriana, in quanto nomina nella stessa frase i due

contrari. Proviamo a ipotizzare perché per Heidegger questo

fatto sia così fondamentale, visto che nel corso della

trattazione non lo esplicita. La domanda infatti che sorge

spontanea é se questa descrizione di Nerea sia una

tautologia oppure se il nominare due sinonimi apparenti,

che hanno radici diverse, porti ognuno dei termini

all’assumere un’accezione lievemente diversa. Heidegger

cita un passo del secondo libro dell’Iliade:

[...] prin kai Dios aigiochoio gnomenai ei te pseudos uposchesis, ei te kai ouchi, [...] astrapton epidexi', enaisima semata phainon “Prima di sapere che la promessa di Zeus egioco fosse falsa o no” [...] “Lampeggiò a destra e diede un segno propizio” (IL 2.348)

Siamo di fronte a un segnale mandato da Zeus prima della

spedizione greca verso Troia, che sembrava propizio, ma di

cui ora non si è certi. La veridicità si riferisce a un

segno di Zeus, letteralmente: “lampeggiando a destra,

facendo apparire un segno favorevole”. Heidegger scrive:

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L’essenza del sema, cioè del segno, implica che esso stesso appaia (si mostri) e in questo apparire indichi nel contempo qualcos’altro [...] Quand’è che essa (la promessa, il segno ndr.) è pseudos? Lo è quando i fulmini che balenano a destra in quanto segni del destino favorevole, velano il destino avverso che ai greci è stato riservato, cioè che è stato loro assegnato. (Heidegger 1999: 79-80)

Il segno, nel suo mostrare qualcos’altro che non si mostra

ma a cui esso rimanda, in qualche modo vela, occulta,

quindi è pseudos. Heidegger si serve unicamente di questo

passo per chiarire l’essenza dello pseudos e contrapporlo

alla svelatezza dell’alethes. Secondo questa visione però

noi, tornando al passo esiodeo, non riusciamo ancora a

chiarire perché il poeta nomini Nerea come apseudea e

alethea: la differenza tra i due termini ci rimane ancora

oscura. Heidegger, per definire l’essenza greca di pseudos

(e questa è la sua seconda “prova”), accenna all’uso

moderno della parola “pseudonimo” (Heidegger 1999: 84-90).

Lo pseudonimo non dice che il nome della persona a cui si

riferisce è falso, o che la persona è sbagliata, ci dice

che copre il nome originale di una persona, lo occulta.

Siamo di fronte solo a due accenni che ci portano a

ricondurre la radice di pseudos allo stesso ambito

semantico di alethes, ma dobbiamo verificare e approfondire

meglio questa relazione vedendo se è certa o no, trovando

altri usi ed esempi antichi e autorevoli di questa parola.

Prima però passiamo in rassegna gli altri termini greci che

si riferiscono all’ambito semantico del falso. Troviamo

sfallo (Heidegger 1999: 91-97), il cui uso fa riferimento a

una volontà soggettiva dell’occultare, quindi a un

ingannare, apatos, ovvero fuori-dal sentiero, quindi

deviato. Heidegger poi riporta i termini keutho, krupto,

kalupto, “celare”, “velare”, “coprire” che hanno un uso

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quotidiano. Accenna a IL 23.244, Aidi keuthomai, “essere

celato nell’ade” e OD 3.16, “la terra cela i morti”,

sottolineando che qui il senso del celare si trasferisce

dal quotidiano diventando ontologico. A tal proposito

potremmo fornire un altro esempio, che appare spesso

nell’Iliade, come luogo comune (IL, 4.461-526): ton de

skotos osse kalupse, e “il buio gli velò gli occhi”13.

Tornando a pseudos, vediamo che l’uso che ne fa Omero si

riferisce soprattutto all’ambito del dire, dire il falso.

Il dire il falso era esperito come una volontà di inganno,

un dire menzogne, o più semplicemente come un implicito

occultare o velare? È difficile rispondere a questa

domanda, ma interessante guardare un uso di pseudos simile

per contesto a quello sopracitato. Si tratta di IL 21:

anche qui ci troviamo di fronte alla percezione di un

segnale che sembra falso. In questo passo Achille si

lamenta con Zeus perché, vedendosi vicino alla morte, dice

che sua madre l’ha incantato con falsità, promettendogli

una morte da eroe contrariamente a quello che sembra che

stia accadendo: Achille si trova infatti travolto da un

fiume. Zeus, rispondendogli, dice che non è destino che

Achille sia ucciso dal fiume, e quel destino è detto

aisimon, stessa parola usata anche nell’altro passo dove

Zeus è detto enaisima semata phainon (IL 2.348), “facente

apparire segni favorevoli, segni del destino”. Anche qui,

quindi quando Achille responsabilizza sua madre per avergli

detto cose false riguardo al suo destino, abbiamo

l’impressione che Omero voglia intendere, trattandosi di un

vaticinio, che sua madre gli occultasse il suo vero

destino. Da notare anche l’uso del verbo pseudo riferito a

parole come elpis (“speranza”) e logos (“parola”), nel 13 E’ importante notare, dalla frequenza con cui appare quest’espressione in Omero, come l’importanza fondamentale nella civiltà greca della facoltà della vista fosse espressa anche nel suo legame con la morte. La morte infatti è il buio che impedisce per sempre la luce (la vista delle cose).

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senso di “speranze disattese”, “parole che disattendono

(fatti)”. Euripide, Ecuba 10131: pseusei s’odou tesd’elpis,

“la speranza di questo viaggio ti deluderà”, Eschilo,

Persiani: pstugne daimon, os ar’epseusas frenon Persas, “o

odiata divinità/destino come hai disatteso le intenzioni

dei Persiani”. Dagli esempi tratti rileviamo l’esistenza di

una sottilissima sfumatura tra “l’occultare “(pseudo) e

“l’ingannare volontario” (sfallo), ma non possiamo però

essere certi che la caratterizzazione di Nerea come

apseudea kai alethea, che potremmo tradurre come “non

occultata e non nascosta”, ovvero limpida e trasparente,

non sia una tautologia. Bisogna ammettere che, pur non

pensando che si tratti di una tautologia, non riusciamo a

chiarire la differenza tra i due termini. Quest’ammissione

porta con sè però un’importante risultato metodologico. Se

infatti il metodo etimologico che Heidegger utilizza

risulta essere una traccia importante di studio, non può

essere efficace, se non supportato da numerose prove

testuali che comprovino le tesi addotte. Infatti

l’interpretazione della grecità, da un punto meramente

testuale, può essere una valida pista che però non può

dichiararsi in se stessa scientificamente esaustiva,

dovendosi caratterizzare come un’ipotesi storica.

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Capitolo 3

PARMENIDE, ERACLITO E ANASSIMANDRO

§1 Necessità di un’analisi etimologica dell’intero corpus

pre-socratico

Heidegger, nel corso su Parmenide, traduce e analizza

esclusivamente i versi finali (vv.22-32) del proemio,

trascurandone non solo l’ampia prima parte, ma tutto il

resto dei frammenti pervenuti dell’opera “Peri physeos”.

Non intendiamo qui fare delle considerazioni su quel che

Heidegger ha omesso, ma semplicemente mettere in evidenza

alcuni punti chiave dei testi attraverso un’analisi

comparata. Dopo aver fornito quindi alcune indicazioni

metodologiche (Cap.1) e aver confrontato la traduzione di

Heidegger di parte del proemio dell’opera di Parmenide con

quella di Reale, per metterne in luce l’interpretazione

(Cap.2), in questo capitolo cercheremo di applicare il

metodo etimologico di Heidegger anche a passi dell’opera di

Parmenide, che lui stesso non affronta e ne compareremo i

risultati con la traduzione che Heidegger ha fornito di

alcuni frammenti dell’opera di Eraclito nei corsi

semestrali del 1943 e del 1944, raccolti nel volume

Eraclito. Saremo così in grado di chiarire se

effettivamente, come sostiene il curatore della versione

italiana del volume su Parmenide (Heidegger, 1999: 17),

Heidegger abbia voluto scindere in due corsi distinti

l’analisi dei due interpreti maggiori della grecità pre-

platonica perché il loro pensiero era assolutamente

divergente, oppure se invece sia possibile concludere che

l’interpretazione heideggeriana del pensiero pre-socratico

sia omogenea e possa essere valida per entrambi i

pensatori. Nel corso del commento ai testi potremo iniziare

anche a evidenziare alcuni parallelismi lessicali e

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teoretici esistenti tra il pensiero pre-socratico e quello

orientale, tema quest’ultimo, che affronteremo nel capitolo

4.

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§2. Analisi e traduzione integrale del proemio di Parmenide

Le cavalle che mi portano fino a dove il mio spirito (1) desidera arrivare, mi mandarono, avendomi guidato e incamminato sulla leggendaria via (2) che è un destino divino (3) e che porta in molti luoghi (4) l'uomo che sa (5). Là mi portarono. Là infatti le assennate (6) cavalle mi portavano trainando un carro e ragazze facevano strada sulla via. L'asse mandava un sibilo metallico nei mozzi infiammandosi (infatti da entrambi i lati era premuto da due cerchi rotondi), e si affrettavano a guidarmi, le figlie del sole, dopo aver lasciato le dimore della notte, verso la luce, togliendosi via dal capo con la mano i veli della notte. Qui c’è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno: ha dai due lati un architrave e una soglia di pietra (7); la porta che risplende e arde nel cielo è assicurata da grandi battenti (8); la legge che molto castiga ha le chiavi che vengono in cambio (9). Le ragazze, seducendo la dea con parole delicate, la convinsero con intelligenza a toglier via velocemente per loro, la sbarra del chiavistello dalla porta. Questa aprendosi causò una vasta spalancatura dei battenti (10), facendo ruotare all'inverso gli assi di bronzo nei cardini, fissati con chiodi e borchie. Di là subito attraversando la porta, le ragazze condussero diritto carro e cavalle per la via maestra, e la dea mi accolse benevola, prese con la mano destra la mia destra, e rivolgendosi a me disse queste parole: "O giovane, compagno di immortali aurighi, che portandoti con le cavalle giungi alla nostra dimora, gioisci, perché non è un destino malvagio quello che ti ha portato ad andare su questa via (infatti è fuori dal sentiero battuto dagli uomini), ma un ordinamento divino e una giusta e necessaria convenienza. E' destino che tu tutto interroghi, sia il saldo cuore che non trema della verità che tutto avvolge, sia ciò che appare ai mortali, in cui non vi è garanzia di verità, ma in ogni caso anche questo imparerai, come fosse destino che le cose che appaiono, fossero così come sono, apparenti, essendo dappertutto in ogni dove (11). (DK Parm. B1)

(1) Ho tradotto thumos con “spirito”, perché è un termine

che può indicare sia lo “spirito vitale”, nel senso di

“soffio”, in greco pneuma, o psyche, ovvero “ciò che lega

l’uomo alla vita” (il respiro in senso fisico e in senso

lato) sia la sede delle emozioni, della vitalità e del

desiderio (Heidegger 1999: 186-191). Omero infatti diceva

thumon olesai, “togliere la vita“(IL), letteralmente

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“annientare lo spirito”. Nell’Iliade esistono altri

numerosi esempi che indicano la poliedricità di questo

termine, che non va confuso con il termine latino animus né

con la ridefinizione cristiana del termine latino anima.

Thumos è “ciò che fa sì che un corpo sia vivo e non morto”,

è un “soffio“ perché fragile e sottile, è principio di

movimento e di volontà e desiderio.

(2) Polufemos odos, “la via leggendaria”, di cui molti

parlano, ha un parallelo in Omero OD 22.376, su te kai

polufemos aoidos, “cantore leggendario”, “cantore dalle

molte storie”, “famoso”, “di cui tutti parlano”. “Via” è

una parola che molte civiltà usano per indicare il cammino

iniziatico che conduce l’uomo alla verità14. La via della

verità, di cui troviamo un parallelo contemporaneo

cronologicamente a Parmenide nel Daodeching di Lao Zi il

Dao, letteralmente “la via”, è una via di cui gli uomini

molto discutono, rinomata, e leggendaria nella misura in

cui diventa mitica nel suo essere agognata.

(3) La via è un topos daimonios, “un luogo che appartiene

alla divinità”. Qui la parola topos è omessa perché il

riferimento al luogo è esplicitato dalla parola odos,

“via”. La via appartiene al demone, ovvero è divina, ma

siccome Parmenide non usa la parola theou, del dio, ma

daimonos, potremmo dire che la via si riferisce a una

realtà che ha a che fare con il mistero della vita e della

morte. Ho quindi aggiunto al termine divino la parola

“destino”, ovvero un luogo a cui tutti tendiamo per

necessità (a cui tutti siamo destinati) secondo quanto

detto a proposito di questa parola al §3 del Cap.2.

(4) La frase “che porta in molti luoghi” è detta

letteralmente “che porta in molte città”, usando il termine

antico astu, “costruzione fortificata dove risiedono gli

14 Il binomio polufemos odos potrebbe anche essere una variante di oime “la via dei canti” (Od. 8.481 -22.347)

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uomini”. Qui la parola città potrebbe essere usata in

riferimento all’immaginario del viandante, del viaggiatore

che, nel suo cammino, trova e si ferma in molte città.

Parmenide caratterizza sempre di più il cammino della

verità come un viaggio (vedi le parole: “via”, “aurighi”,

“cavalle”, “città”, “carro”, “assi”, “mozzi”...).

(5) Per quanto riguarda eidota phota, “l’uomo che sa”, e la

sua etimologia legata alla luce e al vedere, rimandiamo a

quanto detto in precedenza15.

(6) Da notare anche il termine polyfrastos, riferito alle

cavalle, un termine che compare due volte nella letteratura

greca: in Parmenide e poi, molti secoli dopo, solo in un

altro autore, Oppiano del III sec. d.C., che scrive un

poema sulla caccia. Sembra che questa parola venisse

riferita agli animali: Oppiano la riferisce all’esca,

Parmenide alle cavalle. Ricordiamo che questa parola deriva

da frazomai, ovvero “mostrare”, “indicare” (lett. “le

cavalle molto mostranti”).

(7) Questo paragrafo è stato trascurato da Heidegger nel

suo corso, ma è in realtà molto importante perché, prima

ancora di annunciare il discorso della dea, Parmenide

descrive una porta da cui è costretto a passare, una porta

in cui convergono i sentieri della notte e del giorno. Qui

notte e giorno valgono per opposti che trovano un loro

ricongiungimento nella porta. Se seguiamo l’interpretazione

data da Heidegger alla parola aletheia (Heidegger, 1999:

57-83) come evento che esce dal nascondimento per poi

tornare a nascondersi, ovvero se effettivamente la verità

esperita “grecamente” ha all’interno una doppiezza o meglio

ancora un’opposizione (Heidegger 1999: 57-62), troviamo

giustificato l’impiego da parte di Parmenide di una serie

di espressioni e termini riconducibili al vedere e

15 Cfr. supra 46-47

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all’opposizione di luce (non-nascondimento) e oscurità

(nascondimento) come tratti inevitabilmente alternantesi

della svelatezza. Ecco allora una serie di parole come

“Eliadi”, “o figlie del sole che lasciano le dimore della

notte e si tolgono i veli”, detti kaluptras, che erano i

veli che si usavano per coprire il capo probabilmente la

notte. Come accennavamo prima, la verità è, secondo

Heidegger, un evento che si manifesta per poi ritrarsi

(Heidegger 1999: 44-50); nel suo manifestarsi è giorno e

luce e nel suo ritrarsi è nascondersi nella notte. Tutta la

trattazione che Heidegger riserva alle parole che esprimono

i modi greci del “nascondere” come lanthano, krypto,

kalypto (Heidegger 1999: 121-125) trova un arricchimento in

questo passo: il giorno e la notte, l’essere e l’apparente

non essere si trovano a congiungersi in un punto, una

porta. Questa porta è sbarrata da due grossi battenti,

perché all’uomo solitamente non è concesso attraversarla.

(8) Il termine aither (v.13), tradotto abitualmente

“etere”, e aithomenos (v.7), “che brucia e si infiamma”

derivano dal verbo aitho, “accendersi/risplendere”, la cui

radice unisce il fenomeno luminoso con quello del calore e

dell’ardere (anche in senso figurato). Il carro, nella sua

bramosa ricerca della verità, arde e ardendo si illumina,

mentre la porta della verità dove giungono i sentieri della

notte e del giorno è una porta che risplende (e arde).

(9) Dike, il “destino necessario”, “la concordanza e

convenienza“ con la legge divina che si compie

indipendentemente da ogni volontà individuale, “molto

castiga” (polupoinos): reca molto dolore a causa della sua

durezza e della sua inevitabilità, ma in cambio ha le

chiavi della porta. Amoibos è un termine che indica sia

ricompensa, che corrispondenza e alternanza. Reale traduce

«giustizia ha le chiavi che aprono e chiudono», ovvero

legge amoibos con l’idea di “alternanza”; noi, invece,

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pensiamo che il termine si riferisca piuttosto alla

“ricompensa” rispetto all’attenersi a dike.

(10) Letteralmente la vasta spalancatura dei battenti che

produce l’apertura della porta è detta in greco: “la porta

essendosi aperta produsse un’apertura spalancata dei

battenti”. Il momento in cui si apre la porta non è lento

né dolce ma sembra quasi che la porta si squarci. Questo

squarciarsi è molto simile alle descrizioni con cui nella

filosofia zen si parla dell’illuminazione, in giapponese

satori. Nella mente si produce una spalancatura, un aprirsi

subitaneo che fa vedere le cose nella loro essenza e nella

loro vera natura.

(11) Siamo giunti al discorso della dea, che Heidegger

riporta nel suo corso (Heidegger 1999: 36). Abbiamo provato

a tradurre direttamente dal greco all’italiano seguendo

l’interpretazione di Heidegger e provando a non passare

attraverso la traduzione tedesca. Abbiamo quindi tradotto

themis e dike, con “ordinamento divino e una giusta e

necessaria convenienza”, pensando che in italiano questa

perifrasi corrisponda meglio all’originale greco. Ma ciò

che soprattutto si è tentato di chiarire nella traduzione è

l’apparente opposizione doxa/aletheia, che come dicevamo

confrontando le traduzioni di Reale e Heidegger, risulta

essere in entrambi i casi poco chiara16. Seguendo Heidegger

noi pensiamo non si tratti dell’opposizione platonica tra

“opinione” e “verità“ (Repubblica 514a-517e), ma di una

descrizione del modo di mostrarsi della verità. La verità

si mostra attraverso ciò che appare, ma ciò che appare non

è apparenza nel senso in cui siamo soliti intenderla

(ovvero aspetto esteriore che nasconde la vera realtà delle

cose), ma tutto ciò che si presenta alla vista dell’uomo.

16 Cfr. supra 40-42

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L’essere si manifesta attraverso ciò che appare, ma non

sempre si svela nella sua essenza e, proprio per questo,

mentre il cuore della verità è saldo perché “non trema”

(atremes), nella semplice apparenza non c’è

fiducia/affidamento/garanzia di svelatezza (verità).

Parmenide dà anche un’altra indicazione ,dicendo che le

apparenze sono necessarie e che bisognava che veramente

fossero così come sono, cioè apparenti, e che esse sono

dappertutto e in tutto, ovvero: l’essere stesso si dà

nell’apparire, ma solo a volte si svela nella sua verità17.

17 Cfr. infra 121-122

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§3 I due sentieri della verità

Proponiamo ora l’analisi dei frammenti 2 e 3 dell’opera

“Sulla natura”, in cui Parmenide esplicita il senso di

aletheia.

Io ti dico, e tu ascolta e accogli la parola (prendendotene cura) (1), quali sono le uniche vie di ricerca che possono essere pensate (visibili con lo sguardo): la prima (dice) che è, e che non è non essere. E’ sentiero di fiducia (infatti accompagna svelatezza). L'altra (dice) che non è e (che) è destino che non sia. A te dico che è un sentiero del tutto oscuro e inviabile (2): infatti non ti è possibile conoscere il non essente, non é fattibile, né ti è possibile il dirlo (3). (DK. Parm. B2)

E’ la stessa cosa l’essere e il vederlo con la mente (4). (DK. Parm. B3)

(1) komizai del primo verso, è un verbo che ha a che fare

con l’ospitalità. Per questo ho aggiunto tra parentesi il

“prendere cura”, che definisce maggiormente un modo

dell’accogliere.

(2) Parmenide stabilisce due uniche vie di ricerca

percorribili per giungere alla verità; esse sono le sole

possibili, perché sono le uniche che possono essere

pensate. Qui bisogna però cercare di chiarire cosa

intendiamo con “pensare”. L’identità tra essere e pensiero,

tra io pensante e essere è un tema molto caro all’idealismo

tedesco (Fichte e Hegel). Il cogitare latino è per

Heidegger, il pensiero calcolatore di un popolo di

abilissimi ingegneri civili che non ha nulla a che fare con

il termine greco “pensare” (cfr. Heidegger 1999: 91-97).

Per poter meglio definire però a che genere di pensiero si

riferisca Parmenide, passiamo in rassegna i verbi greci con

cui si indica l’idea di pensiero. “pensare” è detto da

Platone principalmente in due modi: noeo e froneo. Proviamo

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a chiarirne le etimologie. Froneo deriva da fren,

“cuore/mente”, sede non solo delle passioni, ma anche

dell’intelligenza18, noeo invece deriva da nous,

“mente/sguardo”. Mentre Aristotele usa piuttosto il verbo

sapere-conoscere, usando epistamai, un rafforzativo di

istemi, “stabilire”, “collocare”, Platone usa il verbo noeo

a proposito della teoria delle idee. Le idee sono in greco

le forme, l’aspetto visivo comune che hanno le cose tra

loro (Heidegger 1975: 67-72). In virtù del fatto che noi

conosciamo la forma di uomo, possiamo dire che quella data

persona è un uomo. L’idea ha quindi in origine un legame

molto stretto con la vista. Soltanto dopo, noeo diventa un

vedere intellettuale, un pensare in senso astratto. Ma se

in Platone l’antico legame tra pensiero e vista è un po’

sbiadito, in Omero era la stessa vista a dominare il

pensiero. Nell’Iliade troviamo tantissime volte il termine

noeo, il cui significato prima ancora di pensare è “vedere

nel senso di accorgersi”. Alcuni esempi: “ma tu

allontanati, perché non se ne accorga Era” (IL 1.522); “se

non lo vedeva subito la figlia di Zeus Afrodite (e lo

nascose stendendo il peplo ampio splendente)” (IL 5.312);

“Ma li vide la dea Era braccio bianco” (IL 5.711). Come

dicevamo all’inizio del nostro saggio19, il nuovo

significato che Platone dà alla vista è chiarito da

Aristotele proprio nell’incipit della Metafisica. Sul

differenziare e sul raggruppare (ovvero attraverso le forme

e le categorie) Aristotele fonda la “scienza”, episteme.

Possiamo quindi ipotizzare che attraverso una serie di

passaggi, il pensiero greco e occidentale abbia come

origine teoretica una vista che sente e che sa. Questo

vedere Omero lo diceva appunto, noeo, e possiamo per

18 Anche nella medicina tradizionale cinese la mente è associata al cuore, tanto da essere chiamata cuore/mente. 19Cfr. supra 47-48

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ragioni cronologiche, ma anche letterarie, supporre che

anche Parmenide nei frammenti due e tre attribuisse a

questa parola il senso omerico e non quello più tardivo che

inizia ad affacciarsi alla storia all’epoca di Platone ad

Atene.

(3) Le uniche due vie che possono essere abbracciate con lo

sguardo sono:

1. (dire) che le cose sono, ovvero ricercare partendo da

questo fatto. Partire dal fatto che le cose sono.

2. (dire) che non c’è il niente, e partire dal fatto che

non si dia il niente per ricercare la verità.

Parmenide, secondo la traduzione esposta, non starebbe

dicendo che esistono due possibilità ovvero l’essere e il

niente e che l’ultima sia impossibile (cfr. traduzione di

G.Reale, DK Parmenide B2), ma che nella ricerca della

verità ci sono due vie possibili, una parte dalla

constatazione dell’essere, l’altra dall’impossibilità del

niente. Questi due cammini di ricerca, vale a dire la

riflessione a partire dall’essere oppure dal niente, sono

entrambe compresenti nelle varie tradizioni filosofiche

dell’umanità. Ma mentre la via di Parmenide si svolge a

partire dall’essere, il metodo zen, la riflessione

buddhista sulla vacuità e, in ambito occidentale, il

misticismo di Meister Eckhart, sono esempi della seconda

via che parte da una riflessione su ciò che potremmo

chiamare “l’impossibile possibilità del non-essere”.

Parmenide constata invece davanti all’esistenza di queste

due possibilità che la prima via è un sentiero di “fiducia”

(pistis) mentre la seconda via è oscura: infatti non

essendo dato conoscere il non essente, è più difficile da

praticare e soprattutto è incomunicabile. Infatti le

dottrine sapienziali che muovono dal niente si basano

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sull’esperienza soggettiva della meditazione oppure su

pratiche esoteriche. Come rileva Severino, Parmenide getta

le basi e costruisce le fondamenta della filosofia, che è

uno sguardo all’essere dell’ente e un tentativo di renderlo

trasparente. Secondo la sua interpretazione, Platone e

Aristotele muoveranno da quest’esigenza di una conoscenza

luminosa e incontrovertibile dell’essere, la scienza, ma ne

devieranno il senso originario (Severino 1982: 19-61).

(4) Riprendendo l’analisi fatta riguardo al pensare in

termini greci, abbiamo voluto sottolineare la coincidenza

tra essere e coscienza dell’essere, che avviene per i greci

attraverso la parola, il pensiero, l’azione umana e la

vista, traducendo liberamente il noein (DK. B3) con “vedere

con la mente”. Secondo quest’interpretazione, il pensatore

eleate non starebbe affermando una generica identità tra

essere e pensiero (come pensa Reale), ma starebbe invece

dicendo che sono la stessa cosa l’essere e l’accorgersi

dell’essere, o per dirla in termini moderni, prendendo

spunto dalla psicoanalisi: “è la stessa cosa essere e

averne coscienza”. Infatti nella misura in cui l’uomo

vedendo le cose essere, si accorge dell’essere, allora

l’essere è. Deve esserci uno sguardo perché si possa dire

che l’essere è; solo lo sguardo fa sì che l’essere sia. Se

questo sguardo non ci fosse, allora sarebbe il niente

(impossibile). È in questo senso, come dicevamo nel cap.1

§4, che Heidegger vede coappartenentesi l’essere e il

pensare esperito come noeo.

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§4 Il carattere conflittuale di aletheia Nel frammento 4 Parmenide torna a parlare di nous, mente,

intesa come sguardo:

Guarda come ciò che è lontano/assente alla vista della mente sia saldamente presente/vicino: infatti non potrai separare ciò che è dalla sua appartenenza all’essere, non essendo né disperso del tutto in ogni parte del cosmo, né essendo completamente raccolto insieme.

(DK Parm. B4)

Parmenide sembra affermare che non si possa separare una

cosa che è da tutte le altre cose che sono. Eppure dice che

l’essere non è né disperso completamente né completamente

raccolto. Lo sguardo della mente, cioè il pensiero, vede le

cose anche se assenti o lontane, la mente immagina oggetti

che non sono immediatamente presenti e li fa essere. In questo frammento si introduce un elemento nuovo, l’unità

dell’essere e il suo carattere eterno. Heidegger ha

impiegato nella sua filosofia un concetto che avrà molta

fortuna nel novecento: differenza ontologica (Tercic 2006:

101-109). Secondo questa celebre distinzione, da una parte sussistono gli enti, ovvero le cose che sono (piano

ontico), dall’altra è l’essere, ovvero la circostanza che

aldilà delle differenze tra le cose si dà comunque e solo

essere. Questa differenza, da un lato salvaguarda l’unità dell’essere, dall’altra in qualche modo ammette il

divenire. Le cose nascono, divengono e periscono, ma

l’essere considerato nel suo insieme rimane immutabile. Emanuele Severino, criticando questa tesi, cioè negando il

divenire delle cose, usa Parmenide come interprete assoluto

della dottrina dell’eternità dell’essere (Severino 2006:

109-128). Questa inconciliabilità tra essere e divenire è anche alla base dell’inconciliabilità che la tradizione

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filosofica (compresi Heidegger e Severino) vede tra le

posizioni di Parmenide ed Eraclito, come è evidente nella

stessa prefazione di Franco Volpi all’edizione italiana del

volume su Parmenide di Heidegger.

L’argomento del corso sarebbe dovuto essere “Parmenide ed Eraclito”: il filosofo dell’essere e quello del divenire, ovvero - come preferisce interpretare Heidegger - i due pensatori aurorali che meditano sulla stessa cosa, cioè sull’Essere, sulla Physis, intendendola in termini opposti: come immobile unità o come diveniente articolazione e lotta di contrari. (Heidegger 1999: 16)

Se è vero che la meditazione dei due pensatori aurorali ha

per oggetto la stessa cosa, dobbiamo però domandarci quali

siano questi due punti di vista e se siano veramente

opposti. Nel testo di Parmenide che abbiamo appena citato

(DK Parm. B4), possiamo notare alcuni punti di incontro con

il pensiero di Eraclito che se opportunamente confrontati e

contestualizzati potrebbero incrinare l’interpretazione di

Parmenide come filosofo dell’univocità dell’essere

(Severino 1982: 19-81). Questo frammento ha un’analogia

diretta nell’uso dei termini “lontananza/assenza” e

“vicinanza/presenza” con il frammento 34 dell’opera di

Eraclito, che reca lo stesso titolo di quella di Parmenide,

ovvero “Sulla natura”.

Ascoltano, ma non capiscono, sembrano sordi; il detto gli è testimone: coloro che sono presenti/vicini, sono in realtà assenti/lontani. (DK Eracl. B34)

Qui Eraclito si riferisce agli uomini, mentre in Parmenide

il soggetto sono le cose; il tema, dunque, sembrerebbe a

prima vista diverso. Non è però scontato il fatto che

costruzione e senso della proposizione siano simili: ciò

che a prima vista sembra presente è in realtà assente.

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Eraclito, in un altro frammento, dà a questa opposizione un

significato più pregnante:

Proprio da ciò che gli è più frequentemente famigliare, da quel LOGOS che tutto sottende, si distanziano; a loro viene incontro tutti i giorni, ma gli appare come qualcosa di estraneo. (DK Parm. B72)

Pur non usando il binomio assente/presente, ne abbiamo uno

molto simile: famigliare/estraneo. Ciò che è a noi più

vicino e famigliare, è in realtà più estraneo e lontano. Questa “cosa” viene da Eraclito detta Logos. L’apparire

greco (phaino20) ha in sé lo stesso carattere che Heidegger

definisce conflittuale della parola aletheia. Heidegger

cita un frammento di Eraclito per suggerire come il

conflittuale fosse essenziale nella vita del popolo greco e

stesse alla base del loro spirito agonale e competitivo.

Ma, aggiunge, queste ultime sono manifestazioni storiche

che hanno origine nel carattere conflittuale con cui la

grecità esperiva l’essere (Heidegger 1999: 57-60).

Polemos è padre e signore di tutte le cose: ne mostrò gli uni dei, gli altri uomini, gli uni li fece liberi gli altri schiavi (DK Eracl. B53)

Heidegger aggiunge che la parola polemos in Eraclito «è spesso usata a sproposito e riportata sempre e soltanto in

modo storpiato, ha in comune con il pensiero greco solo una

vuota risonanza verbale» (Heidegger 1999: 58). In un altro frammento che Heidegger non riporta si legge:

è necessario intuire come conflitto, concordanza e contesa siano comuni a tutte le cose, e che tutte le cose divengono e nascono secondo contesa e destino. (DK Eracl. B80)

20 Cfr. supra 61-73

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Un termine analogo a polemos (“conflitto”) è in greco eris

(“contesa”), mentre dike è detta in altri frammenti dallo

stesso Eraclito armonia. In un altro frammento Eraclito

lega esplicitamente eris a dike:

Elios non andrà oltre misura: se no lo sorprenderanno le Erinni, le aiutanti di dike (DK Eracl. B94)

Le Erinni sono le divinità della discordia che portano il

nome di eris e nella mitologia sono le esecutrici della

vendetta e dell’espiazione della colpa21. Dall’analisi di

questo frammento e da quanto detto nei paragrafi precedenti

a proposito del mito di Er22, possiamo notare come per i

greci fosse centrale il senso della “misura” (metros) e

come sia eris (“discordia”) che dike (“concordia”) la

avessero come unità. Probabilmente, l’immagine più adeguata

per descrivere quest’opposizione discordante, questo

carattere conflittuale della verità, è quella delle

polarità elettromagnetiche. In natura ogni cosa ha una

carica elettrica che se messa in relazione con un’altra

crea un campo magnetico, in cui i due oggetti prendono

polarità opposte. Così come né il polo positivo né quello

negativo valgono in senso assoluto, ma sono riferiti sempre

a qualcosa, così la dottrina degli opposti eraclitea è

relativa sempre a un metros, “misura”. Il pensiero taoista

caratterizza queste polarità come yin (negativo) e yang

(positivo) che insieme costituiscono la ruota del Taiji:

l’unità essenziale. Nel famoso testo I-ching, yin e yang

sono rappresentati rispettivamente da una linea spezzata e

da una intera e componendosi formano 64 segni complessi che

secondo la cosmologia cinese sono in grado di descrivere i

21 Cfr. supra quanto detto a proposito delle Moire, 30,58 22 Cfr. supra 67

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fenomeni. Lao Zi scrive: «Il Tao generò l'Uno, l'Uno generò il Due, il Due generò il Tre, il Tre generò le diecimila

creature. Le creature voltano le spalle allo yin e volgono

il volto allo yang (Lao Zi, 42)» I termini Yin e Yang

nascono infatti per designare i due lati di una collina,

quello ombreggiato è yin, quello al sole yang. Essi possono

mutare durante il giorno: infatti nel Canone interno

dell’imperatore giallo, uno dei testi di medicina più

antichi al mondo, si dice che Yin e yang vogliono dire che

ogni cosa può essere suddivisa infinitamente da uno in due

(Vasalli-Pulcri 2003: 43-44).

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§5 Logos

Heidegger dedica alla parola logos e alla dottrina

eraclitea del logos l’intero corso semestrale dell’estate

1944. Nella prima parte del corso Heidegger affronta il

significato del termine logos e la sua traduzione con i

termini: “parola”, “ragione”, “Verbo divino”, “discorso”,

“argomento” (Heidegger 1993: 123-149). Heidegger fa

derivare la parola logos dal verbo greco legein,

“raccogliere”: logos, nella sua interpretazione, vorrebbe

dire quindi “parola che raccoglie” (Heidegger 1993: 175-

178). Vediamo alcuni esempi tratti da altre fonti

letterarie. Omero usa la parola logos poche volte e sempre

al plurale: IL 15.393 “lo confortava con le parole”, e

OD.1.56 “con molli e seducenti parole”, malakoisi kai

aimulioisi logoisi. Parmenide, nella sua opera, a logos

preferisce usare i sinonimi epos (cfr. DK Parm. B1 v.23) e

muthos (cfr. DK Parm. B2 e B8 v.1), riferendosi alla parola

che la dea pronuncia rivolgendosi a lui. Anche in Omero è

ben attestata un’espressione simile a quella parmenidea:

“dire parole”, dove parola è epos oppure muthos. Quest’uso

apparentemente >ogico23, potrebbe evidenziare l’importanza

di questa parola e nello stesso tempo segnalare la

differenza implicita tra il termine logos da una parte, ed

epos e muthos dall’altra. Confrontando infatti le fonti

sembra che questi ultimi due vocaboli siano usati nel senso

di “parola detta e pronunciata”, mentre logos ha già più

implicitamente (cfr. DK Parm. B1, v.15 e IL 15.393) il

senso di “discorso”. Platone impiegherà logos nel senso di

discorso in tutti i suoi dialoghi e da allora, a questo

significato inizierà ad affiancarsi anche quello di

“ragionamento”. In Eraclito invece la parola logos è

23 Cfr. supra quanto detto dell’uso tautologico a proposito di pseudos, 71

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frequente, mentre assenti sono le parole epos e muthos24.

Ma Eraclito sembra fare di logos un uso diverso rispetto

agli esempi citati per Omero e Parmenide, quasi volendo

condensare in questa parola un contenuto iniziatico. Basti

citare il frammento 50 con cui Heidegger inizia il saggio

Logos (Heidegger 1976: 141):

ouk emou alla tou logou akousantas omologein sophon estin Ev Panta

Questo frammento può essere tradotto alla lettera:

“se non me ma il LOGOS avete ascoltato, è saggio dire la stessa cosa (essere concordi): tutto è uno”

Non abbiamo tradotto la parola logos perché ci sembra

opportuno elencare prima le varie accezioni con cui vari

traduttori l’hanno inteso in questo frammento. Snell

intende logos come “Senso”, Reale come “ragione”, Tonelli

invece non lo traduce, ma affidandosi a una nota chiarisce

come va inteso: «legge obbiettiva che è possibile

apprendere dal mondo circostante» (Eraclito 2005: 128).

Heidegger dedica tutta la terza sezione del corso sul logos

a ricapitolare il senso eracliteo di questa parola che

comprende come concordanza con l’essere e la verità, come

essenza propria dell’uomo, e come essenza del linguaggio

(Heidegger 1993: 227-251). Heidegger, come dicevamo, fa

derivare logos da legein nel senso antico di raccogliere.

Legein come “raccogliere” e “radunare” è frequentissimo in

Omero e sembra essere preesistente a quello di “dire”.

Secondo Heidegger il senso legein sarebbe quindi quello di

radunare l’essere alla presenza attraverso la parola

(Heidegger 1993: 187-194). Noi non troviamo però una

continuità evidente tra il senso eracliteo della parola

24 Cfr. Martin 1989

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logos e quello che aveva questa parola in Omero e ci

risulta difficile quindi dare ragione a Heidegger e pensare

che questa parola nella grecità avesse per sta uto quello

che il filosofo tedesco vuole attribuirgli. Ci sembra molto

più corretto e prudente pensare che l’operazione fatta da

Eraclito fosse quella di attribuire un significato più

ampio e talvolta inesprimibile aduna parola della sua

lingua proprio, come fa Lao Zi con la parola Tao nel

Daodejing:

C'è un qualcosa che completa nel caos, il quale vive prima delCielo e della Terra.

A riprova della nostra ipotesi notiamo che nei frammenti

tramandati non troviamo mai la compresenza del verbo legein

con il sostantivo logos. Eraclito usa il verbo legein (e in

un solo caso il suo sinonimo eipein) ben sette volte (DK

Eracl. B32,19,93,114,112,73,56) e in tutti questi casi il

senso del verbo legein è dire/parlare con sfumature

leggermente diverse solo nei frammenti 32 e 93. La parola

logos è usata invece otto volte. Nei frammenti 39, 87 e 108

logos sembra indicare semplicemente la “parola” o “il

discorso riportato di qualcuno,” nel frammento 31 sembra

che stia a “equilibrio”, “proporzione”, “misura”, mentre

nei frammenti 1,2,72,45 logos sembra assumere quella

funzione specifica e quasi intraducibile a cui ci

riferivamo prima. È probabile infatti che la parola logos

racchiuda un significato sapienziale, iniziatico e quasi

esoterico (Eraclito 2005: 128), come si può intuire dalla

dedica con cui Eraclito apre il suo libro.

“Ai nottambuli, ai maghi, ai bacanti, alle menadi, agli iniziati”(DK Eracl. B14)

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Il frammento 72, come abbiamo avuto modo di notare a

proposito del binomio “assenza/presenza”25, definisce il

rapporto tra logos e uomo come qualcosa di così familiare

da apparire estraneo. Il frammento 45 sottolinea ancora

meglio l’impossibilità di definire questo logos:

Non troveresti i confini dell’anima (psyche), pur percorrendo tutta la via, tanto profondo ha il (suo) logos. (DK Eracl. B45)

Psyche è un termine a noi familiare che rimanda alla

scienza della psiche, la psicologia, mentre per anima

intendiamo vagamente quella parte spirituale dell’uomo

distinta dal corpo. Heidegger legge invece psyche come

“soffio”, “respiro” (Heidegger 1993: 183-187), ciò che

rende vivo l’uomo in quanto rapportantesi con il mondo

(attraverso il respiro). Psyche infatti deriva dal verbo

psucho: “soffiare” (Rocci, 1943) e Omero intende psyche

come ciò che lega l’uomo alla vita: ton d’elipe psyche, “lo

lasciò la vita” (IL.5.696), e lo lega al termine thumos:

“Infatti Diomede Tidide, famoso con l’asta, li privò della

vita, del fiato, spogliò le inclite armi” (IL. 11.334-

335). Questi due versi fanno vedere come Omero caratterizzi

l’essenza dell’uomo come “avente armi” (teucha), “avente

soffio vitale” (psyche), “avente animosità” (thumos che

abbiamo tradotto con brama-animosità volontà desiderio

quando commentavamo il v.1 del proemio di Parmenide26).

Interessante citare un breve passo molto significativo

dell’Iliade

ed ecco a lui venne l’anima del misero Patroclo, gli somigliava in tutto, grandezza, occhi belli, voce e vesti uguali vestiva sul corpo;

25 Cfr. infra 86 26 Cfr. supra 35-36

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gli stette sopra la testa e gli parlò parola: “Tu dormi Achille e ti scordi di me: mai, vivo, mi trascuravi, ma mi trascuri morto”. (IL 23.65-70)

E poco più avanti Omero aggiunge:

Tese le braccia, parlando così ma non l’afferrò: l’anima come fumo sotto terra sparì stridendo, saltò su Achille, stupito, batté le mani insieme e disse mesta parola: “Ah c’è dunque, anche nella dimora dell’Ade. “un’ombra” (psyche), “un fantasma” (eidolon), ma dentro non c’è più “la mente” (fren) Tutta notte l’ombra del misero Patroclo m’è stata intorno, gemendo e piangendo: molte cose ordinava. Gli somigliava prodigiosamente. (IL 23.101-107)

Eidolon, letteralmente immagine, è accostato a psyche, che

la traduttrice italiana rende in maniera un po’ libera con

“ombra“, probabilmente proprio rimandando alla leggerezza e

inconsistenza di psyche come “soffio”. A questo proposito è

utile citare un parallelo biblico dove Dio viene detto

“soffio”:

In principio Dio creò il cielo e la terra La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. (Genesi 1-2)

Nell’antica Cina invece si usava la parola qi per definire

l’energia di una persona, la sua essenza vitale, che veniva

anche detta soffio.

Vediamo come Eraclito indica nel frammento 2 un logos

proprio della psyche, un logos proprio dell’uomo e lo

caratterizza come profondo, vasto e sconfinato. Altri

frammenti ci danno ulteriori indicazioni del rapporto tra

uomo e logos:

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Quindi bisogna seguire ciò che è la stessa cosa per tutti, ciò che è comune. E’ valido per tutti ciò che è comune. Il logos è comune, ma i più vivono come se avessero un’intelligenza personale. (DK Eracl. B2)

Di questo Logos, gli uomini sono sempre inconsapevoli, sia prima di ascoltarlo che quando lo ascoltano la prima volta. Sembra che mentre fanno cose o mentre si esprimono, non esperiscano che tutte queste azioni e parole avvengano secondo questo logos. Io le mostro, discernendo l’origine di ciascuna e la faccio vedere come essa è realmente. Ad altri uomini invece è nascosto ciò che fanno da svegli così come dimenticano ciò che fanno nel sonno. (DK Eracl. B1)

Il logos eracliteo si caratterizza quasi come una voce che

viene ignorata e rimane inascoltata anche se sottende

sempre tutto il reale. È una sorta di intelligenza o legge

universale su cui spesso gli uomini non si “sintonizzano”.

Ritornando al frammento 50, con cui abbiamo iniziato il

paragrafo, diamo un’ulteriore indicazione del senso di

LOGOS.

Se si ascolta il Logos e non me, sapienza è essere concorde col fatto che tutte le cose sono una sola. (DK Eracl. B50)

Essere concorde è detto in greco omologein, da omos

(“stesso, uguale”) e logos (“parola”). L’accordo che qui si

intende, secondo Heidegger, è tra l’uomo e il logos

(Heidegger 1993: 183-187): si è in accordo con il logos se

si esperisce la sostanziale unità di tutte le cose27.

Questa concordanza con un logos esperito come legge

naturale universale a cui l’uomo deve accordarsi è detto in

altri frammenti armonia e che Parmenide chiama dike

(“concordanza”) e themis28 (“legge universale”).

27 Cfr. a questo proposito il concetto di dionisiaco in Nietzsche e di aorgico in Hoelderlin, ovvero la possibilità nell’uomo di esperire l’unità del tutto prima del principium individuationis 28 Cfr. supra 59

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Non comprendono come discordando da sé sia in realtà concorde, accordo che si volge all’indietro (al contrario), come avviene nell’arco e nella lira. (DK Eracl. B51)

L’immagine della lira aiuta forse a comprendere meglio il

“volgersi all’indietro” in quanto in greco armonia

significa anche “accordo musicale”. Questo accordo è

prodotto facendo vibrare la corda all’indietro, così come

nell’arco per scoccare la freccia si tende la corda

all’indietro per produrre un movimento in avanti. Nella

visione eraclitea, l’accordo tra opposti avviene secondo un

principio di forze che noi moderni potremmo dire di azione-

reazione (Heidegger, 1993: 227-230). E ancora:

L’accordo che non si mostra alla vista è superiore a quello visibile. (DK Eracl. B54)

Il concordare (raccogliersi insieme) dei contrari; e dai discordanti (nasce) il più bell’accordo. Tutte le cose si generano dalla contesa (polemos). (DK Eracl. B8)

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§6. Essere e divenire

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come alcune

espressioni, contesti, significati e parole siano comuni a

Parmenide e a Eraclito. L’uso omogeneo di queste

espressioni ci porta a fare due ipotesi: da una parte,

potrebbe indicare una vicinanza tra il pensiero di Eraclito

e quello di Parmenide maggiore rispetto a quello che la

tradizione filosofica e Heidegger stesso gli hanno

attribuito; dall’altra potrebbe segnalare l’esistenza di un

bacino culturale organico e comune nella grecia antica, da

cui i vari autori hanno attinto, aldilà della distanza

geografica e cronologica esistente tra loro, trattandosi di

un linguaggio tradizionale, cioè comune a chi usa una

dizione poetica condivisa. In questa sede ci limiteremo ad approfondire alcuni parallelismi che uniscono Eraclito e

Parmenide, continuando l’analisi comparata di alcuni

frammenti. In primo luogo, citiamo la prima parte del

famoso frammento in cui Parmenide nomina l’eternità

dell’essere e nega il non-essere:

Solo una parola rimane sulla via: “che è”. Su questa via ci sono segni (1) in abbondanza del fatto che ciò che è, è ingenerato e indistruttibile, infatti è intatto, non vacillante, senza fine. Non era una volta, né sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, raccolto (2); che origine cercherai di esso (3)? Come e da dove si sarebbe accresciuto? Non ti lascerò dire né pensare che venga dal non essere; infatti non è dicibile né pensabile il fatto che non sia. Quale destino avrebbe fatto sorgere prima o dopo, l’originarsi dell’essere (3), se fosse incominciato dal nulla? E’ destino che l’essere sia assolutamente oppure che non sia affatto. E non concederà nessuna solida certezza al fatto che possa nascere dall’essere qualcosa accanto a esso. Per questo una giusta necessità non lo lasciò libero di generarsi né di annientarsi, allontanandone le catene, ma con esse lo stringe. La scelta drastica attorno a queste cose sta in questo: è o non è. E’ stato deciso dunque, per necessità, che una via sarebbe indicibile e impensabile, non essendo infatti via di svelatezza,

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l’altra è, ed è reale. Come potrebbe essere in futuro l’essere? Come potrebbe essersi generato? Se infatti si è generato, non è, né se fosse in procinto di essere in futuro. Così si spense una nascita e un annientamento (4) che non possono essere interrogati (pensati). Nè può essere disgiunto, poiché è omogeneo, e niente gli è in eccedenza, che gli impedisca di essere raccolto (unito), né gli è qualcosa di meno, essendo tutto pieno d’essere e per questo è tutto unito, l’essere infatti sta insieme all’essere. E non si muove dai grandi vincoli (5) ed è senza principio né fine poiché genesi e annientamento furono respinti lontano: li respinse l’affidarsi alla svelatezza. Lo stesso in se stesso giace presso se stesso e sta lì saldo. Infatti una necessità forte lo stringe nei vincoli del limite, chiudendolo attorno; è legge (6) il fatto che essere non sia senza compimento, infatti non gli manca nulla, il non essere mancherebbe di tutto. (DK Parm. B8)

Osservazioni:

(1) Sema: “segno”. Nei paragrafi dedicati a chiarire il

senso greco del nascondersi e dell’occultare abbiamo

riportato attraverso Heidegger due passi dell’Iliade, in

cui si evince il senso della parola “segno”29. Eraclito

nomina l’essenza del segno, sema, a proposito dell’oracolo

di Delfi:

Il signore che vaticina a Delfi, non dice e non nasconde, ma indica (semainei).(DK Eracl. B93)

Il dire iniziatico di Eraclito e Parmenide si configura

quindi come un dire che non spiega, ma è svelante nella

misura in cui indica (fa vedere30).

(2) Suneches: “raccolto”, letteralmente “che sta insieme”.

Si può evidenziare un’analogia con legein, dire nel senso

di raccogliere31.

(3) Phyo: “sorgere, originarsi”, da cui physis “natura”. Il

verbo fuo indica un nascere non biologico, un comparire, un 29 Cfr. supra 68-71 30 Cfr. supra quanto detto sul senso del vedere e del guardare presso i greci: 42-50 31 Cfr. infra 90-92

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venire alla luce. Physis è secondo Heidegger ciò che sorge,

ciò che si schiude. Heidegger definisce questa parola

opponendola a techne. Techne (da cui il termine moderno

tecnica) è una parola che probabilmente deriva da teknon,

“figlio”, con cui la grecità, secondo Heidegger, definisce

quel sapere dell’ente, altrimenti detto episteme,

“scienza”, legato al produrre. Il produrre è un’azione

pensante che genera un ente a partire da un altro ente,

un’attività che è propria dell’uomo. Sempre secondo

Heidegger, la physis è invece il sorgere delle cose

spontaneamente, cioè a partire da se stesse, senza

l’intervento umano. Lo schiudersi è “un’attività” propria

invece della natura (Heidegger, 1993: 133-136). Eraclito

nomina la physis in ben tre frammenti: 1,112,123.

(4) Genesthai e ollusthai, “generarsi e annientarsi”.

Reale traduce con nascita e morte. In greco per genesis si

intende un “nascere da”, ovvero si mette in evidenza il “da

dove”, mentre per quanto riguarda il verbo phyo, “sorgere”,

non viene indicata la provenienza e proprio per questo

fatto si può tradurre in italiano con originarsi.

Genesthai, “generarsi”, rimanda a una catena di nascite, a

un divenire, mentre ollusthai ha il senso di annientare,

distruggere, annichilirsi. Parmenide usa questo verbo

proprio per indicare l’impossibilità dell’essere a divenire

niente.

(5) Peirasi: “nei vincoli”, “nei limiti”, parola

fondamentale nel detto di Anassimandro che commenteremo in

seguito.

(6) Kosmos esti: da kosmos, parola che significa sia

“ordine” che “universo”; viene dal verbo kosmeo,

“disporre”, “apparecchiare”, può essere quindi intesa come

“disposizione universale”.

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Proviamo ora ad accostare alle parole di Parmenide alcuni

frammenti di Eraclito, seguendo l’interpretazione che

Heidegger ne dà all’interno dei corsi dei semestri 1943-44.

Se si ascolta il Logos e non me, sapienza è essere concorde col fatto che tutte le cose sono una sola. (DK Eracl. B50) Questo universo (disposizione universale) non lo fece (1) nessun dio né nessun uomo, ma era sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre vivo, che secondo la misura s’accende e si spegne (2). (DK Eracl. B30) Per coloro che sono svegli è unico e comune l’universo (3), invece ciascuno dei dormienti si volge indietro verso un suo cosmo particolare. (DK Eracl. B89) Il venire alla luce ama nascondersi (4) (DK Eracl. B123)

Osservazioni: (1) Poieo. Questo verbo è reso solitamente con “fare”. Ma

poiesis e poieo in greco avevano un senso specifico tratto

dal mondo artigiano. Poieo era il “fare”, “produrre”, a

partire da qualcosa (come il technein, da cui techne,

tecnica). L’idea che nessun dio né nessun uomo abbiano

“fatto” nel senso di “scolpito”, “modellato” l’universo è

radicalmente opposta da quella cristiana di un dio che

plasma il mondo secondo la sua volontà (Heidegger 1999:

202-209).

(2) “Accendersi/spegnersi”. Collegato a pur, “fuoco”,

“fiamma”. L’ambito semantico che si riferisce alla fiamma e

al fulmine è molto frequente nei presocratici come abbiamo

osservato a proposito di Parmenide32.

32 Cfr. supra 77

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(3) Kosmos: vedi quanto detto a proposito di questo termine

nel frammento 8 di Parmenide (92-93)

(4) “Sorgere/nascondersi”: Eraclito attribuisce al venire

alla luce, cioè all’avere origine, allo schiudersi e al

sorgere nel senso che abbiamo chiarito precedentemente, i

tratti dell’inappariscente, ovvero quel carattere

conflittuale del darsi della verità che Heidegger rileva

anche in Parmenide (Heidegger 1999: 57-62).

In questa prima serie di frammenti abbiamo riscontrato un

utilizzo del lessico comune e dei parallelismi teoretici

notevoli. La parola kosmos per esempio è stata tradotta

“universo” in Eraclito, e “ordine” in Parmenide. Il verbo

kosmeo significa “disporre, apparecchiare, governare”. In

questo senso kosmos non è tanto usato in senso fisico, ma

in senso ontologico, nel senso cioè di quell’ordine,

chiamato da Parmenide “legge” (themis), o “convenienza,

concordanza” (dike), che si manifesta nella realtà

disponendo e sottendendo a tutto. Abbiamo incontrato anche la parola physis, spesso tradotta con “natura”, a cui

Heidegger dedica una profonda analisi nel suo corso su

Eraclito (Heidegger 1993: 133-136). Physis come abbiamo

visto non è uno spazio, che si contrappone alla polis,

ovvero come la intenderemmo oggi, il mondo naturale

contrapposto al mondo artificiale in cui abitano gli

uomini, ma un principio dinamico che genera vita. Quando

Eraclito nel fr.123 dice che la physis “ama nascondersi”,

nomina l’evento-aletheia cioè il carattere inappariscente e

conflittuale dell’essere (Heidegger 1999: 57-62). In natura

assistiamo in primavera al sorgere delle gemme, un sorgere

dal secco apparente. Quando nasce un filo d’erba il filo

sbuca, e quindi sorge, da una distesa di terra

apparentemente arida. Quest’esperienza, ancora una volta

visiva, era detta dai greci physis. Ecco perché Eraclito ci

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dice che il sorgere ama nascondersi (Heidegger 1993: 85-

88). Infatti non vediamo il “da dove” del sorgere, eppure

sappiamo, come dice Parmenide, che l’essere non può avere

origine dal niente. Secondo questa interpretazione physis è

sorgere a partire dall’essere di cui non vediamo l’origine

(inappariscente). Possiamo qui introdurre due concetti,

cari al pensiero orientale che potrebbero esserci d’ausilio

nella lettura dei passi seguenti: il niente assoluto,

quello che per intenderci Parmenide dice impossibile,

dandosi solo essere, e il vuoto, il niente apparente da cui

si generano le cose. Il greco antico non aveva una parola

precisa per esprimere questo concetto, e usava la parola

niente, ouden o meden, letteralmente “non uno solo”. Per

questo motivo Eraclito, come vedremo, non può dire come per

esempio fa Lao Zi, che l’essere ha origine dal vuoto.

Mentre il cinese ha più parole per dire essere e

altrettante per dire niente33, il greco usa altre

espressioni che pur non nominando direttamente il niente,

rimandano a esso. Sono le parole che abbiamo visto nel

capitolo 2 di questo saggio: “velarsi”, “nascondere”,

“dimenticare”, “svelatezza”, “verità”, “veli della

notte”... e così via. Questi termini fanno riferimento

all’opposizione luce-notte sono frequenti e pregnanti non

solo in Parmenide ed Eraclito, ma anche in Omero. Per

tornare invece alle parole kosmos e physis, abbiamo tentato

di spiegare questi termini descrivendo l’immagine che

abbiamo della primavera e del fenomeno della

germogliazione, ma i greci, ed Eraclito in questo ci è

testimone, hanno un’altra immagine a cui spesso si è data

una connotazione esclusivamente simbolica. Quest’immagine è

quella della fiamma e della folgore. In Omero Zeus è

associato al “fulmine” (keraunos) e, come abbiamo visto, il

33 Cfr. infra 114

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fulmine è associato al “segno premonitore”34 (sema). Se in

molte culture tra cui l’inca, quella germanica e quella

giapponese, per fare degli esempi, c’è una divinità

associata al fulmine, la peculiarità greca è che il dio del

fulmine è il padre di tutti gli altri dei. Il fulmine

assume quindi una valenza chiave nell’immaginario greco. Il

fulmine è luce abbagliante che rischiara per un momento la

notte. L’essere luce che rischiara e che si fa evento

momentaneo e repentino che subito sparisce (tornando a

nascondersi) è un’immagine che, per la civiltà greca, che

abbiamo caratterizzato come civiltà della luce, del vedere

e della svelatezza, diventa appunto emblematico (Heidegger,

1993: 106-113). Heidegger cita un frammento di Eraclito a

proposito del fulmine.

L’uno, l’unica cosa saggia, vuole e non vuole essere chiamata con il nome di Zeus (della folgore). (DK. Eracl. B34)

Eraclito in un altro frammento non commentato da Heidegger,

aggiunge:

Il fulmine regge il timone di tutte le cose. (DK. Eracl. B9)

All’immagine del fulmine è associata anche quella della

“fiamma” (pur) detta a volte pur aithomenos, parola che

troviamo anche nel Proemio dell’opera di Parmenide35,

riferita sia alla ruota del carro che brucia, sia alla

porta che congiunge i sentieri del giorno e della notte (la

verità). Nell’esperienzialità greca il fuoco è ciò che

brucia e divampa nello spirito, rendendolo vivo, ma anche

ciò che ardendo illumina (Heidegger 1993: 106-113). Pur è

34 Cfr. supra 68-70 35 Cfr. supra 77

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un principio dinamico che Eraclito associa all’essere;

infatti, nel frammento che abbiamo visto, egli chiama il

cosmo, cioè la disposizione universale, la legge che

sottende a tutto il reale, ovvero l’essere: pur aeizon,

“fuoco sempre vivente” (Heidegger 1993: 69-72). Esaminiamo

un altro frammento che nomina la fiamma:

Il dio è giorno notte, inverno estate, conflitto pace, sazietà fame, diventa altro come il fuoco, quando è associato ad aromi, è chiamato secondo il piacere di ciascuno. (DK Eracl. B67)

Abbiamo qui una sostanza mutevole, il fuoco, che è chiamato

in diversi modi a seconda del punto di vista. Anche

Parmenide nella seconda parte del frammento 8 che

riportiamo, nomina la mutevolezza apparente dell’essere.

La stessa cosa è il pensare e per questa ragione si dà il pensiero. Infatti senza l’essere, nel cui ambito è ciò che è detto, non troverai il pensare. Infatti niente è o sarà qualcosa a fianco dell’essere, poiché il destino lo vincolò a essere intero e immobile. Tutto ciò avrà tutti i nomi che i mortali gli metteranno sopra, essendo persuasi di essere nella svelatezza: generarsi e annientarsi, essere e non essere, il mutare luogo, il cambiare il luminoso sembiante delle cose. Inoltre poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto in ogni luogo, simile a una mole sferica che tutto circonda, dal centro uguale da ogni parte in tutto; infatti è di necessità il fatto che né qui né lì ci sia qualcosa di più grande e qualcosa di più piccolo, né è possibile che l’essere sia qualcosa in più o in meno dell’essere, poiché è un tutto inviolabile uguale in tutto, in modo uguale si incontra nei suoi confini. (DK Parm. B8)

Eraclito ribadisce quest’idea dell’unità del tutto in un

famoso passo:

La stessa cosa è il vivente e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: infatti queste cose trapassando, diventano quelle, e quelle trapassando ritornano queste.

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(DK Eracl.B88) Dai passi che abbiamo citato si ripropone come non risolta

la questione della differenza ontologica36. Infatti

Parmenide sembra ammettere contemporaneamente

l’immutabilità dell’essere che Eraclito chiama uno/fuoco

(piano ontologico) e il divenire (piano ontico) che

Eraclito nomina attraverso una serie di contrari e

Parmenide attraverso il binomio giorno/notte o attraverso

il termine genesis (“generazione”) . Nella terza parte del

frammento 8 anche Parmenide nomina il fuoco:

Qui metto fine alla parola che trae fiducia e al pensiero che accompagna svelatezza. Impara da ciò le opinioni periture dei mortali prestando ascolto alla disposizione seducente delle mie parole. Essi stabilirono di dare segni diversi (nomi diversi) a delle apparenze la cui unità non è data, e in questo sono fuorviati. Le giudicarono figure opposte e gli diedero segni diversi separandoli l’uno dall’altra; da un lato stabilirono il folgorare della fiamma che si eleva in alto, che è benigna e molto leggera, a se stessa in tutto identica, ma non identica all’altra. Dall’altro stabilirono l’altro da sé, l’opposto, la notte priva di luce, figura densa e pesante. Io a te dichiaro che questa disposizione, è assolutamente apparente, affinché nessuna tesi dei mortali ti possa fuorviare. (DK Parm. B8)

Nel frammento successivo stabilisce il senso

dell’opposizione luce/notte:

Dal momento che tutto è chiamato luce e notte e le cose derivano secondo la forza di ciascuna, da questa o da quella, tutto è allo stesso tempo pieno di luce e notte che occulta, uguali entrambe, poiché in unione con nessuna delle due c’è il nulla.(DK Parm. B9)

Eraclito:

36 Cfr. supra quanto detto a proposito della differenza ontologica in Heidegger e Severino cfr.84-87

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Se non fosse sole, sarebbe notte. (DK Eracl. B99)

Parmenide e Eraclito chiamano notte quello che gli

orientali chiamerebbero niente apparente; l’essere

appariscente, invece giorno. Entrambi sono la stessa cosa e

nessuno dei due è niente. A conclusione di questo capitolo

citiamo ancora due frammenti: nel primo Eraclito nomina

esplicitamente l’unità tra giorno e notte in maniera

identica a Parmenide, nel secondo afferma l’eternità

dell’essere. Attraverso questo frammento, Heidegger

descrivendo l’esperienza greca del tramontare37, prenderà

le mosse per chiarire l’essenza del nascondimento

(Heidegger 1993: 34-56), già affrontata nel corso su

Parmenide38.

Maestro di molti Esiodo; essi ritengono che sapesse molte cose, lui che non conosceva la distinzione tra giorno e notte. Sono infatti una sola cosa. (DK Eracl. B57)

Di fronte al non tramontare39, come può uno nascondersi? (DK Eracl. B16)

37 Cfr. supra 28 38 Cfr. supra 60-74 39 Per i greci il tramontare era l’andare nel nascondimento del sole. Per questo motivo Eraclito dice: Il sole è nuovo ogni giorno (DK Eracl.B6)

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§7 Il detto di Anassimandro come sintesi tra il pensiero di

Parmenide ed Eraclito

Per dare un ulteriore chiarimento al difficile concetto di

differenza ontologica, citeremo il famoso detto di

Anassimandro: il terzo pensatore che Heidegger include tra

gli unici a essere veramente iniziali (Heidegger 1993: 7) e

di cui commenta il famoso frammento nel saggio “Il detto di

Anassimandro”. Questo passo ci servirà da tramite e sintesi

tra il pensiero di Parmenide e quello di Eraclito. Ecco la

versione che ne dà Reale:

Anassimandro ha detto che principio degli esseri è l’infinito; da dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la dissoluzione secondo la necessità: essi pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. (DK Anassimandro B1)

Heidegger invece rifiuta come posteriore e non autentica la

prima e l’ultima parte del detto (seguendo la lezione di

Burnet) e fa incominciare la traduzione da kata to chreon:

Lungo il man-tenimento; essi lasciano infatti appartenere l’accordo e quindi anche la cura-riguardosa dell’uno per l’altro (nella risoluzione) del disaccordo. (M.Heidegger 1968: 347).

Come scrive Umberto Galimberti, questa traduzione è frutto

dell’interpretazione da parte di Heidegger del senso che i

greci davano alla parola “essere”: mantenimento è il

soggiornare dell’ente nell’essere (chreon, destino,

necessità), mentre dike è da intendere come accordo, come

abbiamo avuto modo di vedere nel secondo capitolo di questo

saggio40.

40Cfr. supra 59

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Se infatti all’essere appartiene l’apparire, il modo di apparire dell’essere avviene necessariamente nei limiti (peras) espressi dalla determinazione degli enti, in cui l’essere nel suo dispiegarsi “termina”. L’essere come indeterminato fondamento (apeiron) di determinazioni (peras) resta altro rispetto all’apparire determinato dall’ente, resta assente rispetto alla sua presenzialità determinata. (Galimberti 2005: 102)

Questo passo spiega il senso della differenza ontologica

individuata da Heidegger tra essere degli enti ed essere

dell’essere, e concilia in qualche modo, attraverso

l’analisi del frammento di Anassimandro, le posizioni di

Eraclito e Parmenide.

Anassimandro ha trovato il principio dell’essente nel senza limite. Dal senza limite proviene il generarsi dell’essente, ma di necessità proviene dal senza limite anche l’andare verso la dissoluzione da parte dell’essente, in questo modo, secondo l’ordine dettato dal tempo, l’essente offre accordo vicendevolmente con l’essente con cui è discorde. (DK Anassimandro B1)

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Capitolo 4

HEIDEGGER TRA GRECI E ORIENTE

§1 Cenni storici e testimonianze

Come dicevamo nell'introduzione a questo lavoro41, sono

scarse le opere che indagano i rapporti diretti tra

Heidegger e l'Oriente; più frequenti invece sono gli studi

comparati tra la filosofia di Heidegger e quella orientale.

Carlo Saviani riporta nel suo prezioso testo i pochi cenni

che Heidegger dedica, nei suoi libri e nei suoi corsi, alla

filosofia orientale sintetizzandone gli aspetti principali:

In primo luogo, a differenza di Schopenhauer e Nietzsche, Heidegger dedica una minima attenzione al Buddhismo; anzi, dai due pensatori sembra ereditare un'immagine nichilistica; ma, in secondo luogo, anche dagli ultimi brani citati appare chiaro come Heidegger abbia comunque nutrito un serio interesse per quelle tradizioni del pensiero orientale, nelle quali ha scorto, se non una possibilità di salvezza da accogliere in modo immediato e ingenuo, certamente un necessario e stimolante interlocutore nello sforzo di ridefinire radicalmente il compito e l'andamento del pensiero filosofico. (Saviani 1998: 17)

Oltre ai pochi accenni che Heidegger dedica alla filosofia

orientale nei suoi lavori, Saviani riporta gli incontri che

Heidegger ha avuto durante la sua vita con rappresentanti

del pensiero orientale, soprattutto cinese e giapponese.

Nell'ambito della nostra analisi comparata, ci

focalizzeremo soprattutto su tre incontri che risultano

essere rappresentativi degli interessi principali che

Heidegger nutriva verso l’Oriente. Il primo incontro è

quello col cinese Paul Hsiao, con cui negli anni ‘40,

41 Cfr. supra 3-4

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progettò di tradurre in tedesco il famoso testo taoista

Daodejing di Lao Zi (Saviani 1998: 41-47). Il secondo

incontro riguarda l’essenza del linguaggio e avviene nel

1954 con il professore di letteratura tedesca

dell’Università di Tokio, Tomio Tezuka (Saviani 1998: 60-

64), mentre l’ultimo incontro ha per oggetto l’essenza

dell’arte e avviene nel 1958 con Hoseki Hisamatsu, allievo

di un monaco zen rinzai e professore di filosofia e

buddhismo presso varie università giapponesi (Saviani 1998:

64-70). L'interesse che Heidegger esprime per la filosofia

taoista e zen è speculare alle indagini che egli dedica ai

pre-socratici, come afferma lo stesso Hsiao: «La concezione di Lao Zi del wu, del niente, e la sua avversione nei

confronti di qualunque tipo di razionalismo corrispondevano

alle idee di Heidegger (Saviani 1998: 19)». In un'altra

testimonianza, Hsiao riporta un colloquio con Heidegger

avuto mentre discutevano di un passo del Daodejing.

Heidegger chiese: «Perché i cinesi parlano in questo modo?

(Saviani 1998: 45)» Dopo aver atteso un po’, rispose:

«Perché i cinesi di quel tempo non conoscevano la logica aristotelica! Grazie a dio no! - ribatté spontaneamente

Heidegger (ibidem)». Da queste poche righe significative

notiamo che sia il pensiero orientale che quello pre-

socratico sono, per Heidegger, esempi di un pensiero non

ancora “macchiato” di aristotelismo. Se però ai pre-

socratici ha dedicato studi approfonditi, gli incontri con

l’oriente seppur significativi, saranno solo sporadici. Per

Heidegger infatti:

Ogni meditazione su ciò che è oggi, può sorgere e svilupparsi solo se mediante un dialogo con i pensatori greci e il loro linguaggio, affonda le radici nel fondamento della nostra esistenza storica. Questo dialogo aspetta ancora di essere iniziato. Esso è a malapena ancora in via di preparazione e rimane a sua

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volta la condizione per l’indispensabile dialogo con il mondo dell’oriente asiatico. (Heidegger 1976: 29)

Dalle testimonianze che abbiamo a disposizione siamo in

grado di stabilire un altro punto di incontro

nell’interesse di Heidegger per Grecia e Oriente: il

linguaggio. Vedremo come Heidegger, sulla scia del lavoro

etimologico fatto sul greco, cerchi di approfondire nei

suoi incontri con gli orientali aspetti propriamente

linguistici: si chiede cioè con quali soluzioni le lingue

cinese e giapponese esprimano il loro rapporto con

l'essere, cioè in che modo l'essere sia nominato in quelle

lingue. Vediamo come anche rispetto a questo aspetto

specifico ci sia una corrispondenza con lo studio dei pre-

socratici, presso cui, come abbiamo avuto modo di vedere,

la riflessione filosofica prende le mosse da un’analisi

ermeneutica e filologica. Il problema della conoscenza

della lingua e l’urgenza di un’ermeneutica restano per

Heidegger il problema principale per avviare

«l’indispensabile dialogo con l’Oriente (Heidegger 1976:

29)» a cui accennavamo. In una lettera indirizzata ai

relatori di un convegno, tenutosi presso l’Università

delle Hawaii del 1969, dal titolo “Heidegger and Eastern

Thought” (Saviani 1998: 47) Heidegger scrive:

più volte mi è apparsa l’urgenza di un dialogo con i pensatori di quello che per noi è il mondo orientale. In questa impresa la più grossa difficoltà consiste sempre, secondo me, nel fatto che salve poche eccezioni, non c’è padronanza delle lingue orientali né in Europa né negli Stati Uniti. (Feist Hirsch 1970: 222)

Se il problema della traduzione rimane lo scoglio più

grande nell’avvicinamento di Heidegger al pensiero

orientale, vediamo come i suoi stessi interlocutori nutrano

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dubbi sulla correttezza filologica del suo metodo. Lo

stesso Hsiao, che nell’estate del 1946 aveva lavorato con

Heidegger alla traduzione del Daodejing ,esprime alcune

perplessità sul lavoro svolto:

I could not during our work together get free from a slight anxiety that Heidegger’s notes might perhaps go beyond what is called for in a translation. As an interpreter and a mediator this tendency unsettled me. (Parkes 1987: 98)

Un altro elemento importante per delineare il quadro

generale dei rapporti tra Heidegger e l'Oriente è la

ricezione che le opere del filosofo tedesco ebbero nel

Giappone del dopoguerra, come riconosce l'interlocutore

giapponese nel famoso colloquio di Unterwegs zur Sprache.

G.[...] noi in Giappone siamo stati in grado di intendere subito la conferenza Was ist Metaphisik?, quand’essa ci giunse nel 1930 nella traduzione che ne arrischiò uno studente che a quel tempo frequentava le sue lezioni. Noi ci meravigliamo ancora oggi come gli europei siano potuti cadere nell’errore di interpretare nihilisticamente il Nulla di cui si ragiona nella conferenza accennata. (Heidegger 1997: 97)

E ancora:

La reazione allo scritto in Europa, lo bollò come nichilismo e ostilità nei confronti della logica. Nell’estremo oriente si trovò in esso, nell’espressione Niente correttamente intesa la parola Essere (Heidegger 1992: 219)

Una volta esposto sommariamente il quadro generale in cui

si situano i rapporti che Heidegger ha intrattenuto con

l’Oriente, ciò che ci preme individuare in questa sede sono

i parallelismi e le corrispondenze tra il pensiero greco e

quello orientale nelle interpretazioni heideggeriane.

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§2 Parallelismi teoretici e semantici con il Daodejing

Nel capitolo precedente abbiamo dedicato le nostre ricerche

alla chiarificazione della parola logos, alla luce

dell’interpretazione di Heidegger42. Il logos eracliteo

indica l’essere e la sua coappartenenza all'uomo. Logos è

anche l'uno, l'unica cosa da pensare, la verità e anche la

natura intima delle cose (physis). Tutte queste

declinazioni sono soltanto aspetti di un qualcosa di più

ampio che sfugge a ogni definizione e concettualizzazione,

che Eraclito chiama appunto logos. Heidegger ne rileva

indirettamente l'intraducibilità, affermando in Identità e

differenza a proposito della parola tedesca Ereignis, resa

abitualmente in italiano con “evento”, che «essa è

altrettanto difficile da tradurre quanto la parola greca

logos e la cinese tao (Heidegger 1982: 12)». In L'essenza del linguaggio aggiunge:

La parola-guida nel pensare poetante di Lao Zi suona "tao" e propriamente significa "via". Ma poiché ci si rappresenta in modo superficiale la via come tratto di collegamento tra due luoghi, si è frettolosamente scartato il termine "via"[...] Si è così tradotto tao con ragione, spirito, senso, logos. Ma il Tao potrebbe essere la via che tutto av-via [...] Forse nella via tao si nasconde il mistero di tutti i misteri del dire pensante [...] Tutto è via. (Heidegger 1997: 56)

Riportiamo le parole di Lao Zi stesso:

La via di cui si può parlare non è una via costante. Il nome che si può nominare non è un nome costante. Senza nome (il non-essere) è l’origine del cielo e della terra, con il nome (l’essere) è la madre di tutte le creature. Chi è privo di desideri può coglierne il mistero, chi è offuscato dal desiderio può vederne i limiti. Essere e non essere hanno comune origine sebbene siano designati con nomi differenti, insieme

42 Cfr. supra 90-96

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essi sono il mistero dei misteri, la porta delle meraviglie (Lao Zi, 1)

Da un’analisi di questo passo possiamo constatare come le

parole chiave, su cui Heidegger ha centrato la sua

interpretazione dei testi del pensiero pre-socratico,

abbiano delle analogie con alcune parole usate da Lao Zi.

Oltre l’analogia tra il dao (via) di Lao Zi e il logos di

Eraclito43 troviamo delle corrispondenze tra dao e odos

(76), tra quanto detto a proposito di sema (69-71,98,103) e

«il nome che non si può nominare», tra physis (99-102) e origine, tra essere e non essere e giorno e notte

(61,75,77-78,104-198), tra «sebbene siano designati con

nomi differenti», il fuoco eracliteo (100,101,104-105) e

l’essere di Parmenide che può essere chiamato con tutti i

nomi dell’universo (105). Abbiamo inoltre già citato la

corrispondenza tra il soffio taoista qi e quello greco

psyche (86-88), tra fren e il mente/cuore (82) della

Medicina Tradizionale Cinese. Possiamo poi individuare

altri parallelismi tra l’immagine del bambino taoista, che

possiede il dao (28), e l’immagine dell’eternità che è un

fanciullo che gioca (Eraclito B52), il senza limite di

Anassimandro (107-110) e le immagini taoiste del vuoto che

prende forma (117-118). Alcune di queste corrispondenze

sono oggetto dell’analisi che Reinhard May conduce nel

capitolo 3 dello studio Heidegger’s hidden sources. La

conclusione a cui giunge attraverso l’analisi comparata è

che Heidegger debba gran parte delle idee centrali della

sua filosofia, e per conseguenza gran parte

dell’interpretazione dei presocratici, alla filosofia

orientale che si configura proprio a parere suo, come si

43 Cfr. supra 99-105

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evince dal titolo del suo libro, come una fonte nascosta e

tenuta in segreto (May 1996: 52).

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§3 La questione del niente

Le considerazioni di May e la lettura del di Lao Zi 1-25 ci

riportano alla dottrina eraclitea degli opposti e al

binomio giorno notte di Parmenide in cui abbiamo

individuato la nozione di niente apparente che nei greci

non è stata mai affrontata e nominata direttamente. Il

concetto di niente apparente è stato affrontato soltanto

indirettamente dai greci, mentre gli antichi cinesi lo

hanno nominato direttamente attraverso il termine wu. Carlo

Saviani riporta un passo illuminante di Charles a proposito

di questo concetto (tratto dall’articolo L’ereignis dans le

Tao).

In cinese “essere” e “non essere” sono resi con shih e fei, come copula di giudizi di adaequatio, con ts’un e wang, nel significato di presenza persistente, e con yu e wu, in quello di possesso d’essere, di identità, di sostanzialità. Ora se shih non è mai detto a proposito di Tao e ts’un vi è riferito sono metaforicamente, Tao è insieme yu e wu: possedendo essere in quanto yu, non lo perde affatto divenendo wu. Wu non è assolutamente un nulla assoluto, ma il complementare di yu. Tao in quanto wu, non è il Nulla, ma l’indeterminazione che ingloba tutte le identità e che in ogni momento le può togliere. Non essere attivo: wu wei”44 (Saviani 1998: 19-20)

Il concetto di Niente apparente, detto in altri termini

vuoto è descritto da Lao Zi attraverso alcune immagini:

Nulla al mondo è piú molle e piú debole dell’acqua eppure nell’attaccare ciò che è duro e forte niente riesce a superarla e nessuno può sostituirla (Lao Zi, 78) Trenta raggi convergono in un mozzo ed è il vuoto del mozzo che permette l’uso della ruota

44 Wu-wei è l’ideale etico taoista del non-agire.

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Si modella l’argilla per fare un vaso ed è il suo vuoto interno che permette l’uso del vaso. Costruendo una casa vi si fanno porte e finestre ed è il loro vuoto che permette l’uso della casa Perciò l’essere costituisce l’oggetto ma dal non-essere viene la sua utilità (Lao Zi, 11)

Nel già citato seminario, tenutosi nel 1958 all’università

di Friburgo, assistiamo a un dialogo tra Heidegger e il

professore zen Hoseki Hisamatsu proprio attorno a questi

concetti:

Dice Hisamatsu: “In Occidente, l’Origine è in qualche modo un ente, un eidetico. Nello zen l’origine è l’informe, il non ente. Questo non non è tuttavia una mera negazione. Questo Niente è privo di qualunque forma, per cui in quanto totalmente informe, può muoversi del tutto libero sempre e dovunque. In questo libero movimento consiste il movimento dal quale è prodotta l’opera d’arte”. E Heidegger di rimando: “Questo Vuoto non è il Nulla negativo. Se intendiamo il vuoto come un concetto spaziale, dobbiamo dire che proprio il Vuoto di questo spazio è ciò-che-dà-spazio, ciò che raccoglie tutte le cose”. (Saviani 1998: 67)

Nel testo della conferenza Che cos’è metafisica?, Heidegger

osserva che la metafisica occidentale ha sempre visto il

Niente come Niente assoluto, «ex nihilo nihil fit

(Heidegger 2001: 61)», ma il «Niente non dà solo il

concetto opposto a quello di ente, ma appartiene

originariamente all’essere essenziale stesso. Nell’essere

dell’ente avviene il nientificare del Niente (ibidem, 56)». E più in là aggiunge:

Ma la domanda del Niente pervade l’intera Metafisica perché ci costringe a porci davanti al problema

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dell’origine della negazione, cioè in fondo, dinnanzi alla decisione sulla legittimità del dominio della logica nella metafisica. (ibidem, 63)

Secondo Heidegger è quindi la stessa logica come modo di

pensare dominante e sedimentato nella storia a non

permetterci di pensare nei giusti termini al niente. Questo

fatto ci riporta ad approfondire le considerazioni addotte

a proposito dei due sentieri della verità (Cap.3,§3).

Secondo la nostra interpretazione Parmenide cita due vie di

ricerca per accedere alla verità: la prima prende le mosse

dall’essere mentre la seconda si muove a partire dal

niente. Parmenide scarta questa seconda via e inizia la sua

riflessione intorno all’essere, senza però negare di fatto

la possibilità almeno teorica di partire dalla seconda via.

Nell’atto di scegliere la prima strada Parmenide fonda

letteralmente la filosofia occidentale che, scartando la

via del niente, vuole portare la conoscenza alla luce della

verità esperita “grecamente” come trasparenza e chiarezza.

Ed è proprio su questa base di partenza che può nascere (e

poteva farlo solo in Occidente) la scienza che, se è vero

che annovera tra i suoi fondatori Platone e Aristotele, ha

come primo e autentico iniziatore Parmenide. La grande

differenza che esiste tra Parmenide ed Eraclito è che

nonostante l’omogeneità complessiva, quest’ultimo è ancora

perfettamente inscritto nella cultura sapienziale arcaica

dove le vie di ricerca non sono ancora né definite, né

disgiunte. Parmenide, per la prima volta nella storia della

grecità, esclude la via del non essere affidando la

riflessione solo sull’essere e fondando in questo modo la

filosofia. La nozione di Heidegger di “primo inizio45” è,

alla luce di queste considerazioni, da spostare più

indietro e da vedere come una autentica fondazione

teoretica e non tanto come una deviazione metafisica.

45 Cfr. supra Cap.1 §1-2

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§4 Identità tra essere e linguaggio

Per Heidegger l’ostacolo maggiore che l’Occidente ha avuto

per pensare al niente è la logica (Heidegger 2001: 61);

secondo le nostre osservazioni, invece, la causa è da

ricercare a prima della fondazione della logica. Il greco

infatti non aveva le basi linguistiche per esprimere la

differenza ontologica sussistente tra l’essere degli enti e

l’essere dell’essere e tra il niente assoluto e il niente

apparente. Heidegger, nel colloquio con Hisamatsu,

sostenuto il giorno dopo la già citata conferenza del 1958,

fornisce un’indicazione importante a suffragio della nostra

tesi:

Il modo occidentale di intendere grammaticalmente il linguaggio sta sotto la signoria non solo dell’impronta aristotelica, bensì dell’intera ontologia greca. Ma il linguaggio di un poeta non si può comprendere con questa concezione grammaticale del linguaggio. (Saviani 1998: 70)

Queste osservazioni spiegano quindi l’interesse di

Heidegger per le lingue orientali. Saviani ne riporta

alcune testimonianze: la prima si riferisce all’incontro

tra Heidegger e Chung-yuan Chang, uno dei massimi esperti

contemporanei di taoismo che ha dedicato studi comparati al

rapporto tra il pensiero taoista e la filosofia di

Heidegger (Saviani 1998: 48). Ricorda Chang:

Era anche molto interessato in quel periodo all’identità di linguaggio ed essere che, diceva, occorreva spesso nelle lingue più antiche. Così mi chiese: “Come direbbe c’è un albero in cinese antico?”. Io risposi “Mu a. Vuol dire albero sì”. Allora chiese: “E c’è un vecchio albero?” Risposi: “Mu lao yee. Vuol dire albero vecchio! Quando una tale espressione è pronunciata, l’essere del parlante e la sua pronuncia sono del tutto identificati o coappartenentisi”. Heidegger era molto compiaciuto di

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trovare un tale esempio dell’identità di essere e pensiero nell’antica lingua cinese. (Saviani 1998: 50)

Riguardo all’incontro tra Heidegger e Tomio Tezuka del

1954, Saviani riporta uno stralcio della conversazione:

Più che qualcosa sul giapponese precisa Tezuka volle ascoltare il giapponese stesso [...] poi chiese: “In giapponese c’è sicuramente una parola che indica linguaggio. Quale significato ha originariamente questa parola?” Risposi: “La parola di cui lei domanda è kotoba. Non sono uno specialista in questo campo e non posso quindi parlare con certezza, ma ritengo che koto sia in relazione con koto, quale risuona in kotogara, nel significato di evento o stato delle cose. Ba è un’eufonia per ha e indica a mio parere ooi, molto o shigeshi, cresciuti folti; lo si potrebbe immaginare per esempio come ha, foglie di un albero. Se questo fosse esatto, kotoba, linguaggio, e koto, evento sarebbero i due lati della stessa cosa. L’evento gemma e diventa linguaggio, kotoba. Forse la parola kotoba viene da tale concezione”. Heidegger accolse questa spiegazione in modo straordinariamente favorevole. Prendendo appunti su di un pezzo di carta, disse: “Interessante. Allora la parola giapponese kotoba significa cosa (Ding)”. Forse Heidegger pressò un po’ troppo la parola in un concetto già preparato. Ma non potevo rifiutare la sua interpretazione. (Saviani 1998: 61)

Più avanti, Saviani riporta un altro esempio:

Heidegger chiese: “Quali sono le parole abituali che in giapponese indicano apparenza ed essenza?” [...] Tezuka rispose: “Le parole per essenza ed apparenza non le si può chiamare parole quotidiane. Si tratta originariamente di termini buddhisti, di termini impiegati in una consapevole meditazione. Tuttavia, dato che queste parole già da molto tempo suonano familiari alla coscienza dei giapponesi, si potrebbero anche chiamare quotidiane. Sono le parole shiki e ku. Shiki corrisponde a fenomeno e ku corrisponde vagamente ad essenza. [...] ku e shiki sono qualcosa di opposto ma sono concepiti nello stesso tempo come qualcosa di identico [...] shiki significa colore, tinta e, analogamente, fenomeno. Ku indica originariamente il vuoto ma anche il Cielo e l’Aperto. In un certo senso è il vuoto del niente, ma questo vuoto non ha semplicemente un senso negativo. Esso indica

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l’originaria condizione di tutte le cose, quindi anelata come ideale. (Saviani 1998: 61)

Le delucidazioni fornite da Tezuka sulle parole giapponesi

shiku (“fenomeno”) e ku (“essenza”) ci rimandano in maniera

abbastanza evidente a quanto abbiamo detto46, a proposito

delle parole greche doxa (“apparenza”) e aletheia

(“verità”), che Parmenide utilizza negli ultimi tre versi

del Proemio. Abbiamo visto come queste parole,

nell’interpretazione di Heidegger, non siano radicalmente

opposte, ma in maniera simile a shiku e ku condividano una

stessa origine. Riportiamo le parole di Parmenide contenute

nei versi finali del proemio:

E' destino che tu tutto interroghi, sia il saldo cuore che non trema della verità che tutto avvolge, sia ciò che appare ai mortali, in cui non vi è garanzia di verità, ma in ogni caso anche questo imparerai, come fosse destino che le cose che appaiono, fossero così come sono, apparenti, essendo dappertutto in ogni dove. (DK Parm. B1)

L’analogia è evidente, ma constatiamo ancora una volta che

mentre il binomio greco rimanda al venire alla presenza

dell’essere, l’origine di ku sia da cercare nel niente

apparente. Potremmo avere qui una prova indiretta della

correttezza della nostra interpretazione dei versi, in cui

Parmenide descrive quali sono gli unici due sentieri

esistenti di ricerca della verità che espone47 (DK Parm.

B2). Il sentiero che parte dall’essere è il sentiero su cui

si è incamminato il pensiero occidentale. Il secondo

sentiero, quello che parte dal niente e che Parmenide

considera impraticabile, è il sentiero su cui si è

instradato nella storia il cammino del pensiero taoista e

zen. Il ricongiungimento delle due vie di ricerca è 46 Cfr. supra 78-99 47 Cfr. supra Cap.3 §3

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l’oggetto del dialogo tra Occidente e Oriente auspicato da

Heidegger48 (Heidegger 1976: 29).

48 Cfr. supra 112

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Conclusione

Abbiamo visto come esista un parallelo, con basi teoretiche

e storiche, tra l’interesse che Heidegger nutre per gli

orientali e i suoi studi sui primi pensatori greci.

L’interesse comune si fonda sul tentativo di trovare un

pensiero che non sia lo stesso che porrta al passaggio

dalla scienza alla tecnica. La ricerca di questo pensiero

altro49, come abbiamo visto, è sentita nel modo più

inquietantemente entusiastico nei paragrafi dedicati al

“secondo inizio” (Heidegger, 2007: 157-177) dei Contributi

alla filosofia. Si affievolisce però nell’intervista

rilasciata allo Spiegel, come emerge sin dal titolo Ormai

solo un dio ci potrà salvare.

Come ha notato lo stesso Hsiao50 a proposito del lavoro di

traduzione del Daodejing, incominciato insieme a Heidegger

(Parkes 1987: 98), è difficile separare il lavoro di

traduzione e di interpretazione che il filosofo tedesco

compie sui testi orientali e sui greci dal suo stesso

pensiero, visto che egli cerca in fondo dei portavoce

storici della sua filosofia, un po’ alla stregua di quanto

fece Platone con Socrate. In questo saggio abbiamo solo

cercato di accostare gli spunti che l'antichità greca e

l'antichità estremorientale hanno offerto al pensiero nel

suo momento iniziale. Oggi esistono sempre di più

compenetrazioni di due modelli di pensiero: i paesi

orientali stanno facendo passi da gigante nel progresso

scientifico e tecnico, mentre noi occidentali ci avvaliamo

sempre di più di pratiche orientali. Il presente lavoro si

colloca probabilmente all'interno di questi scambi.

49 Cfr. supra Cap.1§1 50 Cfr. supra 113

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