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Università degli studi di Torino
Facoltà di Lettere e Filosofia
Il pensiero di Martin Heidegger attraverso
l'incontro con
l'Oriente ed i pre-socratici.
Corso di Laurea in Filosofia e Storia delle Idee
Tesi di laurea specialistica
Disciplina: Filosofia teoretica
Anno Accademico: 2011/12
Candidato: Alessandro Pugno
Relatore: Prof. Ugo Ugazio
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Indice
Introduzione............................................p.5
Cap.1 I GRECI DI HEIDEGGER
1. L’interpretazione teleologica della storia
dell’essere............................................ p.8
2. Il ruolo di Platone nella storia del pensiero greco e
occidentale............................................p.10
3. Il compito filosofico che Heidegger affida ai greci ed all’Oriente.........................................p.19
4. I quattro assi portanti del pensiero greco secondo
Heidegger..............................................p.21
5. La questione della traduzione.......................p.27
6. L’analisi comparata dei testi e delle traduzione....p.31
7. Le fonti testuali...................................p.32
Cap.2 LE PAROLE FONDAMENTALI DELLA GRECITA’
1. Il proemio dell’opera di Parmenide..................p.35 2. Thea................................................p.43 3. Daimon..............................................p.52 4. Moira...............................................p.55 5. Dike e themis.......................................p.60 6. Aletheia............................................p.61 7. Lethe...............................................p.65 8. Pseudos.............................................p.69
Cap.3 PARMENIDE, ERACLITO ED ANASSIMANDRO
1. Necessità di un’analisi etimologica dell’intero corpus pre-socratico.......................................p.73
3
2. Analisi e traduzione integrale del proemio di Parmenide...........................................p.75
3. I due sentieri della verità.........................p.81 4. Il carattere conflittuale di aletheia...............p.85 5. Logos...............................................p.90 6. Essere e divenire...................................p.97 7. Il detto di Anassimandro come sintesi tra il pensiero di Parmenide ed Eraclito...........................p.107
Cap.4 HEIDEGGER TRA GRECI ED ORIENTE
1. Cenni storici e testimonianze......................p.111 2. Parallelismi teoretici e semantici con il
Daodejing..........................................p.115
3. La questione del niente............................p.117 4. Identità tra essere e linguaggio...................p.120
Conclusione...........................................p.123
Bibliografia..........................................p.125
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Introduzione
Nella cosiddetta “seconda fase” della sua filosofia,
Heidegger dedicò gran parte del suo studio ad un’analisi
storica ed ermeneutica della filosofia greca volta a
reinterpretare gli scritti dei filosofi pre-socratici ed in
particolare quelli di Eraclito e Parmenide1. Heidegger
scelse come metodo di lavoro lo studio etimologico del
lessico greco scostandosi ampiamente dai modelli di
traduzione tradizionali fino all’ora in uso. Il frutto di
queste ricerche portò Heidegger a interpretare i
presocratici in chiave anti-platonica e soprattutto
antimetafisica. Ma non limitandosi a questo, com’è noto,
egli si servì del pensiero pre-socratico come prova storica
per riconsiderare tutto il pensiero occidentale post-
platonico come un errore o meglio come una deviazione
dall’autentico senso dell’essere (Heidegger 2007: 233).
Negli stessi anni Heidegger iniziò a intrattenere rapporti
via via sempre meno sporadici e tutt’altro che superficiali
con interpreti, studiosi e portavoce della filosofia
orientale. Questi rapporti risultano essere poco noti:
anche se in lingua inglese esistono alcune pubblicazioni
sull’argomento, e su tutte occorre citare come opera di
fondamentale importanza, Heidegger and Asian thought di
Graham Parkes, in Italia la prima e tuttora unica
pubblicazione a riguardo è il volume L’Oriente di
Heidegger, di Carlo Saviani apparsa solo nel 1998. Come
osserva lo stesso Saviani:
Il tema del rapporto tra il pensiero di Heidegger e il cosiddetto “pensiero orientale”, in particolare il Taoismo e Buddhismo Zen, attualmente presenta un
1 Ci riferiamo soprattutto ai corsi tenuti all’Università di Friburgo nel semestre invernale nel 1942-43 su Parmenide e a quello del 1943-44 su Eraclito, raccolti e pubblicati in italiano nei volumi: Parmenide, Adelphi, Milano 1999 ed Eraclito, trad. F.Camera, Mursia, Milano, 1993.
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aspetto singolare: la disparità esistente tra la rilevanza dei materiali e delle testimonianze oggi a disposizione [...] e l’esiguità dei riferimenti espliciti presenti nelle opere di Heidegger finora pubblicate.
(Saviani 1998: 13)
Negli stessi anni in cui si dedicava allo studio del
pensiero eracliteo e parmenideo Heidegger si avvicinava
allo studio del pensiero taoista cinese attraverso la
traduzione in italiano del famoso testo Daodejing di Laozi,
che un suo recente allievo, Paul Shii Xiao, pubblicò in
Italia a Bari nel 1941 grazie a Benedetto Croce (Saviani
1998: 18). I rapporti tra Heidegger ed il Giappone invece,
iniziarono negli anni ‘30 e si svilupparono infittendosi
fino a metà degli anni ‘60, da una parte grazie
all’interesse di studiosi giapponesi alle pubblicazioni di
Heidegger, dall’altra grazie ad incontri che il filosofo
tedesco ebbe con personaggi come Shuzo Kuki, Teitaro
Suzuki, Hoseki Hisamatsu, Takehiko Kojima e Koichi
Tsujimura (Saviani 1998: 23). Essendo tutti questi ultimi
riferibili se non alla Scuola di Kioto almeno all’area del
buddhismo zen, che a sua volta è una declinazione
giapponese del buddhismo ch’an, nato in Cina in epoca Tang
fortemente influenzato da elementi taoisti (Cheng 2000:
426-437), possiamo stabilire che non solo il contatto che
Heidegger ha con il vastissimo pensiero orientale è
circoscrivibile all’estremo Oriente, ma che l’ambito di
interesse più specifico è ascrivibile al taoismo cinese2.
Inoltre data la contemporaneità tra l’interesse di
Heidegger per la tradizione taoista cinese e quello per il
pensiero pre-socratico potremmo supporre che con buone
2 Ovviamente si tratta di una sintesi che seppur non del tutto esaustiva in quanto il buddhismo zen ha dei caratteri propri che sono riferibili non solo al buddhismo, ma allo shintoismo ed ai tratti della cultura giapponese, è necessaria per indagare l’omogeneità dell’interesse di Heidegger per la matrice filosofica eraclitea ed anche parmenidea con quella taoista ed utile per spiegarne i riferimenti culturali.
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probabilità lo studio dei primi abbia influito su quello
dei secondi e viceversa.
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Capitolo 1
I GRECI DI HEIDEGGER
§1 L’interpretazione della storia dell’essere
Heidegger ha stabilito in maniera netta uno spartiacque tra
il pensiero greco pre-platonico e quello successivo
(Heidegger 2007: 183-197). Quest’idea di Platone come
spartiacque del pensiero greco ed occidentale non è una
novità nel pensiero tedesco, in quanto era già stata
introdotta da Nietzsche alcuni decenni prima3. In
Heidegger, questo tema è utilizzato per affermare che la
filosofia greca è morta sul nascere, nel senso che prima
ancora che il pensiero autenticamente greco di Eraclito e
Parmenide si potesse sviluppare, Platone, con la teoria
delle idee, l'aveva deviato dalla sua essenza originaria
(Heidegger 1975: 67-72). Heidegger intende questa
fondazione come un primo inizio del pensiero in attesa di
un “secondo inizio”, quello vero (Heidegger 2007: 157-177).
Secondo quest’interpretazione la storia filosofica
occidentale che passa attraverso la latinità, la scolastica
ed il pensiero scientifico sarebbe un errore, una
deviazione dal pensiero autentico. Quest'errore
culminerebbe nel nichilismo, come aveva visto Friedrich
Nietzsche (Heidegger 1976: 66-82). Heidegger non
abbandonerà mai questa visione della storia del pensiero
occidentale. Nei Contributi alla filosofia (fine anni
trenta) Heidegger sosteneva la tesi di un’eredità storica
diretta tra il popolo greco e quello tedesco (Heidegger
2007: 68-69) e, come travolto da un’ansia escatologica,
3 Nella Nascita della tragedia Nietzsche colloca la rovina del pensiero greco nella nascita dell’uomo teoretico il cui emblema è Socrate e la rovina dell’arte greca nel teatro di Euripide (Nietzsche 2008: 89-93).
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affermava che in quegli anni l’umanità stava vivendo un
tempo transitorio in cui il ritorno al cosiddetto “primo
inizio” della filosofia era solo l'annuncio di un passaggio
più radicale all'"altro" inizio (Heidegger 2007: 387-391),
ovvero un’umanità più piena, capace di esprimere
direttamente la verità dell’essere senza deviazioni né
nascondimenti4.
La contemporanea ascesa al potere di Hitler, la megalomania
di quegli anni ed il discorso di investitura a rettore nel
1933 all’Università di Friburgo (Heidegger 2006: LXXIV-XCI)
rendono tale atteggiamento particolarmente inquietante.
Queste poche note evidenziano almeno in prima istanza la
parzialità della lettura storica che Heidegger diede dei
presocratici e quindi, di conseguenza, la parzialità della
sua interpretazione teleologica del pensiero occidentale.
Proprio per non cadere né in una cieca condivisione delle
tesi di Heidegger né al contrario in una ottusa
contrapposizione, dobbiamo scindere da una parte l’analisi
ermeneutica che Heidegger fece dei presocratici in base ai
loro testi e, dall’altra, l’interpretazione storica che ne
diede. Il primo punto sarà l’oggetto di studio della prima
parte di questo lavoro, mentre per il secondo punto è
necessario fare alcune considerazioni generali preliminari
per sgombrare il campo da possibili equivoci che la lettura
del proseguimento di questo studio potrebbe dare.
4 Un parallelo a quest’ansia escatologica quasi contemporanea la troviamo in Nietzsche con il suo superuomo (Nietzsche 2003: 3-19). Per Heidegger il superuomo è ancora un prodotto della metafisica (Heidegger 1976: 66-82), ma dobbiamo notare che anche con le dovute differenze preconizzano entrambi la prospettiva di un’umanità nuova.
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§2 Il ruolo di Platone nella storia del pensiero greco e
occidentale
Nel paragrafo precedente abbiamo visto come Heidegger, nel
suo criticare il pensiero razionale occidentale, ne assuma
in realtà tutte le semplificazioni quando vede in esso una
linea continua. Heidegger si dimentica dei dibattiti tra
pensatori avvenuti nella storia e ignora totalmente non
solo autori in contrasto con le teorie dominanti, che
finirebbero per mandare all’aria il suo schema, ma interi
periodi storici, come per esempio il Rinascimento.
Heidegger fa coincidere la storia del pensiero con la
storia dell’essere, dimenticando che le differenze e le
etichette, sotto cui sono stati raccolti in gruppi i vari
pensatori, sono il frutto della sintesi storiografica da
lui tanto osteggiata5. A questa prima considerazione
dobbiamo aggiungerne un’altra che ne è l’origine: Heidegger
semplifica Platone riducendolo alla teoria delle idee
(Rosen 1993: 3-45) e, senza troppi indugi, lo appiattisce
quasi totalmente sulle dottrine aristoteliche, limitandosi
a notare che ciò che in Platone era ancora problematico
diventa per Aristotele definitivo (Heidegger 1975: 37-51).
In altre parole, Heidegger vede in Platone uno spartiacque
tra due epoche diverse ed in Aristotele un codificatore del
cambiamento avvenuto. Se è lecito affermare che Socrate,
Aristotele e Platone sono filosofi omogenei tra loro,
perché inscrivono le loro opere nel solco di un pensiero
che presto sarà il pensiero stesso delle scienze, bisogna
tuttavia ricordare che ciascuno di loro intrattiene con
l'origine un ben diverso rapporto.
5 E’ nota la polemica di Heidegger, contro la “storiografia”, che egli vede come riduttiva e parziale perché non tiene conto della “storia dell’essere”, oggetto della “storia autentica”, che chiama Geschichte (cfr. Heidegger 1999: 115-118)
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Nel Fedro c’è un indizio che evidenzia in maniera non tanto
esplicita, ma molto significativa, il cambiamento di
sensibilità che stava avvenendo nell’Atene del IV secolo
a.C. Socrate e Fedro cercano un luogo fuori città adatto
per una conversazione su amore ed una volta raggiunto il
luogo indicato, Socrate ne fa una descrizione in cui si
ravvisano ancora tracce della sensibilità antica:
Ah, per Era, che bel posto per riposare! Con questo platano così ampio di fronde e così alto! E che slancio quell’agnocasto, che bellissima ombra! E’ al colmo della sua fioritura e spande profumo per tutto il luogo. La sorgente amenissima scorre sotto il platano con fresche acque, come si può sentire col piede. Dalle statuette e dalle immagini si direbbe un luogo sacro a qualche ninfa e ad Acheloo. E poi la brezza del posto, quant’è amabile e dolce! Melodia estiva che risponde al coro delle cicale. Ma più gentile di tutto è quest’erba, sorta così soffice sul dolce pendio, da appoggiarvi comodo il capo per chi si sdraia. (Platone, Fedro 230 b-c)
La descrizione di Socrate presenta i tratti distintivi
della cultura panteistica arcaica che individuava nei
luoghi boscosi la presenza di spiriti e divinità minori.
Socrate avverte l’amico che lo elogiava per la bella
descrizione dicendo: «Io sono appassionato a imparare: ma
la campagna e gli alberi non sono disposti a insegnarmi
niente, mentre io imparo dagli uomini in città» (Platone
Fedro 230d).
Da questa breve testimonianza indiretta dello stesso
Platone traspare un dato storico di fondamentale importanza
per la nostra analisi: se il vivere dell’uomo greco
precedente era nella natura, habitat in cui l’uomo si
inscriveva completamente e quindi il sapere della natura
era anche un sapere dell’uomo per analogia, il Socrate
storico separa l’ambito umano da quello naturale e il
pensiero diventa pensiero dell’uomo. Proprio per questo
nella filosofia entra in campo per la prima volta la
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psicologia, scienza della psyche, dell’anima, in un senso
ben diverso rispetto a quello che questa parola aveva
anticamente: “soffio” e “respiro” (vale a dire ciò che
mette in comunicazione l’uomo con l’ambiente circostante).
La domanda di Socrate (ti esti;) darà inizio alla scienza,
sarà cioè il tentativo di spiegare e definire attraverso le
parole che cosa sia quel che ci circonda, chiarirne
l’essenza. Platone ed Aristotele approfondiranno questa
scienza delle definizioni, come la chiama Kant ancora alla
fine del 1700 (Kant 2010: 5-10), ma in maniera e con
sensibilità diverse che non possono essere semplificate
come invece fa Heidegger, perché il rischio è quello di
cancellare completamente epoche, idee e pensieri solo per
non averne approfondito le differenze. In parte potremmo
dare ragione ad Heidegger perché effettivamente solo
Aristotele (tra l’altro per la prima volta nella storia del
pensiero occidentale) scrive una serie di opere che
costituiscono un sistema, ovvero organizza il sapere
gerarchicamente in settori che diventano discipline.
Inoltre Aristotele codifica un metodo di ragionare, la
logica, che diventa base oggettiva per la scienza. Questa
volontà di oggettivare il sapere rendendolo condivisibile è
comune a tutti e tre i filosofi, ma solo Aristotele ne
stabilisce le regole. Il corpus platonico è invece
costituito da una serie di dialoghi non organizzati
tematicamente: non solo Platone ignorava un ordine nel
sapere gerarchicamente suddiviso, ma alla forma scritta, al
testo che fissa una volta per tutte ciò che viene detto,
preferiva il dialogo, strumento dialettico in cui la
sintesi è profondamente legata al procedimento maieutico
(dialettica). Se quindi giustamente Heidegger considera
Platone come uno spartiaque tra due epoche e sensibilità
diverse, è vero altresì che, come ben sottolinea Stanley
Rosen, il filosofo tedesco riduce la filosofia platonica
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alla teorie delle idee e se ne serve per affermare che
Platone in questo modo cambia per sempre il destino
dell’Occidente (Rosen 1993: 291-316). Heidegger infatti non
considera che lo stesso Platone, in un dialogo tardivo
della sua vecchiaia, immaginando un incontro tra il vecchio
Parmenide e un giovanissimo Socrate, ha criticato la teoria
delle idee, definendola incerta e solo possibile. Ciò fa
dire a Rosen che la teoria delle idee non solo è un aspetto
parziale della filosofia platonica, ma si delinea piuttosto
come una possibilità gnoseologica in grado di dare un
valido supporto metodologico alla scienza della conoscenza.
Rosen pensa che la metafisica sia sorta come riflessione di
buon senso sulla natura dell’esperienza quotidiana, e da
un’esigenza di miglioramento di vita (Rosen 1993: IX-XIII).
Possiamo dare atto che la concettualizzazione (per trovare
un sinonimo alla teoria delle idee) sia stata storicamente
un supporto di enorme utilità soprattutto nel campo delle
scienze, ma dobbiamo anche osservare che effettivamente la
mera utilità non garantisce nulla riguardo alla validità
ontologica. Tralasciando le categorie di utile, corretto o
giusto, dobbiamo però chiederci, e questo sarà l’argomento
principale del nostro lavoro, se siano esistite culture o
epoche storiche in cui il pensiero non sia stato veicolato
attraverso i concetti. Una testimonianza di questo fatto ci
viene indirettamente da un autorevole commentatore di
Aristotele: Simplicio, che già nel 500 d.C., in tardo
periodo ellenistico, esorta i lettori del suo tempo a non
meravigliarsi degli errori e degli inganni in cui Parmenide
è caduto, non tanto per causa sua, ma poiché vi erano
[...]cose che a quell’epoca non risultavano ancora chiare (nessuno infatti aveva usato l’espressione in molteplici sensi, e fu Platone il primo ad introdurre la duplicità, e neppure le espressioni in sé e per accidente).[...]Queste cose e anche il procedimento del sillogismo furono teorizzati mediante i ragionamenti e
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le confutazioni ai ragionamenti: egli non avrebbe ammesso questo, infatti, se non gli fosse parso necessario. Ma gli antichi presentavano le loro convinzioni senza dimostrazioni. (Simplicio Commento alla fisica, DK Parmenide A26)
Anche Simplicio dunque colloca Platone come spartiacque nel
pensiero greco: lo fa avvertendoci dell’assoluta ignoranza
di alcuni concetti e termini da parte degli autori a lui
precedenti, ma nello stesso tempo critica il modo di
pensare degli antichi perché non procede attraverso
sillogismi e dimostrazioni. Sempre nel Commento alla fisica
di Aristotele, Simplicio afferma che «gli antichi solevano
esprimere le loro opinioni in modo enigmatico (DK Parmenide
A19)» e nel criticare il linguaggio mitico dice che «i loro
inni [...] riguardano la scienza della natura» (DK
Parmenide A20). Il termine greco che impiega per definire
gli inni è fusiologikoi, letteralmente “aventi a che fare
con la logica della natura”, vale a dire che hanno per
oggetto la natura.
Dai giudizi di Simplicio ricaviamo dei punti importanti di
analisi che proviamo a riassumere, per avere un quadro
generale di ciò che andremo ad approfondire nel corso della
trattazione.
a) La forma del pensiero
Simplicio afferma che Platone inaugura la filosofia
introducendo un metodo (sillogismo e dimostrazioni), un
lessico (termini come “in sé” e “per accidente”) e un modo
di pensare nuovi (legato alla teoria delle idee). Se quindi
possiamo dar ragione a Stanley Rosen nel criticare
Heidegger che vede il platonismo solo come teoria delle
idee, siamo obbligati a riconoscere la fondamentale
importanza di questa teoria, se proprio un commentatore
dell’autorevolezza di Simplicio ne rileva la portata
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rivoluzionaria. Dobbiamo allora supporre che prima di
Platone, o meglio, prima dell’epoca greca classica, gli
antichi non si esprimessero né pensassero per concetti ed
idee, ovvero per entità astratte valide fuori dallo spazio
e dal tempo?
Desumiamo dalle sue parole su Platone, che Heidegger tende
a pensare che il filosofo ateniese si sia limitato a
formalizzare una teoria delle idee, istituendo una realtà
metafisica in cui i concetti astratti, come per esempio la
giustizia oppure l’uomo, hanno un’esistenza propria. Eppure
credo che Platone non si limiti a quest’aspetto, egli
letteralmente “inventa” il concetto. Quest’invenzione, che
attraverso i secoli ha avuto ulteriori definizioni e
spostamenti, costituisce ancora parte integrante del nostro
modo di pensare, da risultare ormai difficile per ciascuno
di noi poter “fare esperienza” senza l’uso dei concetti.
Eppure nella letteratura filosofica greca, come vedremo, e
anche presso altre civiltà ed epoche, possiamo trovare
riscontri di questa diversa sensibilità. Infatti, a ben
vedere, la forma scelta dai primi pensatori (Eraclito e
Parmenide su tutti) per veicolare il loro pensiero è la
poesia. In Aristotele il rapporto con la parola non è già
più quello di Omero, in cui la parola è innanzitutto detta
e cantata, ma è un rapporto concettuale basato su
spiegazioni e delucidazioni. Infatti Aristotele si avvale
di un metodo che è fatto di sillogismi e dimostrazioni
(logica).
L’argomentazione logica era un metodo non usato dagli
antichi che preferivano un linguaggio mitico, poetico e
forse enigmatico. Le ragioni di questa scelta non sono da
cercare solo nella mancanza di una terminologia
scientifico-filosofica, ma nel fatto che la parola fosse
vissuta ed esperita come un tutt’uno inscindibile che ha
una valenza espressiva diretta e non come un significante
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che veicolasse un significato. La parola antica dice,
nomina, esperisce e “vede” le cose. Essa si fa evento e
quest’evento ha un suo luogo e un suo tempo quando avviene
(ovvero quando la parola viene pronunciata).
Quest’atteggiamento o meglio questa sensibilità estetica,
teoretica e linguistica, come vedremo, risulta simile a
quella estremo orientale, anche su un piano meramente
linguistico. L’impiego della poesia, dell’immaginazione e
del mito non deve essere quindi inteso come un veicolo di
espressione della filosofia primitivo e rozzo, e neanche
allegorico, in quanto il cercare dietro ogni frase di
un’opera un’allegoria, un simbolo o una metafora è erroneo,
dal momento che gli antichi non si esprimevano né pensavano
metaforicamente. Il loro linguaggio era fattuale ed
espressivo e la poesia era quindi la forma più consona e
adatta ad una cultura orale, in cui la parola doveva
risuonare ad un uditorio e nel risuonare acquisiva una
valenza ulteriore e più profonda.
Un esempio molto significativo a questo proposito, e per
noi più vicino, è l’opera di Leopardi in cui il pensiero è
veicolato dai legami poetici tra le parole. Le poesie
L’infinito o La ginestra sono infatti esempi di “poesia
filosofica”, ovvero pensiero veicolato sotto forma di
poesia come accade in Eraclito e Parmenide6.
b) Il termine “fisico”
Un’altra considerazione importante da fare è chiarire il
perché Simplicio definisca “fisici” gli antichi pensatori. 6 Severino ha dedicato un lavoro importante e prezioso volto a segnalare l’importanza filosofica del pensiero di Leopardi come anticipatore di alcune tesi di Nietzsche e come importante esponente di una estetica filosofica della poesia (cfr. E.Severino, Cosa arcana e stupenda: l’Occidente e Leopardi)
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Platone, fondando la meta-fisica, getta le basi per una
credenza in un aldilà razionale ulteriore al mondo fisico e
ha bisogno di fare questo per legittimare la teoria delle
idee come forme pure che pur essendone distinte,
partecipano alla realtà fisica delle cose essendone
l’origine. Ma già in una sua opera tardiva, non a caso
intitolata Parmenide, attraverso un dialogo immaginario tra
il giovane Socrate e l’anziano Parmenide, mette in
discussione questa teoria anche da un punto di vista
logico. Il Parmenide del dialogo sostiene infatti che da
una parte le idee non possono essere avulse dalla realtà in
quanto ne partecipano, dall’altra constata l’impossibilità
di spiegarne il nesso. Inoltre, aggiunge, se si deve
ammettere un’idea di bello ovvero una idea degli
universali, bisognerebbe ammettere l’esistenza di un’idea
corrispondente per ogni cosa possibile, anche di un pelo,
per esempio, il che sarebbe ridicolo. Sarebbe d’altro canto
contraddittorio però, pensare che solo alcune cose abbiano
la propria idea corrispondente (Platone, Parmenide 127d6-
135c7). Aldilà della plausibilità o meno di una teoria, è
molto importante dire che attraverso l'idea di iperuranio
Platone fonda la possibilità di una realtà aldilà della
realtà. Questa possibilità era esclusa dagli antichi, che
infatti vedevano gli déi non tanto come entità
ultraterrene, ma come forze agenti nella realtà fisica
delle cose. Essi vedevano anche le altre dimensioni in
senso propriamente fisico e non come un aldilà né come un
"meta-" né per dirla con Nietzsche come un mondo dietro al
mondo (Nietzsche 2003: 29-32), ovvero un ipotetica
esistenza ulteriore e più vera che si nasconde dietro
quella apparente (quella reale).
Eppure già in epoca ellenistica la credenza in un aldilà
(esperito come Dio o come mondo ideale) era un dato che non
veniva messo in discussione e, proprio in virtù di questo,
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Simplicio definisce gli antichi greci “naturalisti”, e i
loro inni “fisiologici”. Nelle opere antiche infatti
ravvisiamo che le osservazioni più prettamente filosofiche
si mescolano senza soluzione di continuità ad osservazioni
naturali o pre-scientifiche. Anche nel commentare queste
dovremo, sospendendone il giudizio, astenerci dal pensarle
effettivamente rozze, primitive ed errate, ma cercare di
cambiare punto di vista: probabilmente allora esse ci
appariranno totalmente inquadrate in una cornice di
pensiero diverso dal nostro, ma non per questo errato.
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§3 Il compito filosofico che Heidegger affida ai greci ed
all’Oriente
L’accusa principale che Heidegger muove al pensiero
occidentale, inteso come pensiero metafisico, è quella di
essere inadeguato a pensare l’essere come essere. Secondo
Heidegger, infatti, la metafisica è in grado di pensare
solo all’ente e, come scrive in Che cos’è la metafisica?,
al pensiero occidentale per questo motivo è precluso lo
sguardo sul niente (Heidegger 2001: 63).
Il compito filosofico che Heidegger si pone è quindi quello
di trovare un pensiero adeguato a pensare originariamente
all’essere.
Proprio per questo motivo insistiamo su un sapere originario, su una verità nel senso della manifestatività che ci introduca e vincoli a questo essere. Qui il compito supremo è di rendere attivi quei modi di pensare che ci mettano nella condizione di porre in questione le cose essenziali e renderle afferrabili. Questi modi di pensare hanno un carattere concettuale diverso rispetto ai modi di pensare della logica tradizionale. La potenza e la precisione della logica non sono in questo modo sminuite, ma anzi accresciute, nella misura in cui i concetti sono qui prelevati da una falsa contrapposizione secondo la quale il concetto, il pensato, è colto come razionale a differenza dell’irrazionale. Questa differenza conduce ad una determinata concezione della ragione; quest’ultima a sua volta alla concezione dell’uomo come animale razionale. Ne va del superamento della concezione del concetto come involucro. La conseguenza non è l’eliminazione del concetto ma la più alta necessità del domandare concettuale. (Heidegger, 2008: 171-172)
Heidegger individua nel platonismo e nell’aristotelismo,
come detto nel paragrafo precedente, le basi di questo
pensiero razionale tradizionale e compie un lavoro di
rilettura dei loro testi, individuando i postulati che
hanno fatto sì che l’antico pensiero greco diventasse
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metafisico. Gli assi principali su cui si muove questo
lavoro ermeneutico sono riassumibili in quattro punti.
1. la visione metafisica della verità come omoiosis
2. la differenziazione tra ente ed essere e quindi la
questione della “differenza ontologica”
3. la nascita della techne come sapere dell’ente 4. la trasformazione del senso originario della parola
logos in ragione
La missione filosofica che Heidegger si propone è quindi
quella di tornare ad un pensiero anteriore alla nascita
della metafisica che è, a suo dire, inadeguata a porsi la
domanda dell’essere. Heidegger troverà le radici di un
pensiero più totalizzante non racchiuso nei limitati
vincoli della logica, nei pensatori greci aurorali:
Anassimandro, Eraclito e Parmenide. La sua missione
filosofica si caratterizza quindi come un ritorno alle
origini.
Un altro spunto gli verrà offerto dalla tradizione
filosofica estremo orientale, soprattutto di matrice
taoista e zen, con cui Heidegger avrà modo di confrontarsi
a più riprese come vedremo nel prosieguo del presente
lavoro.
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§4 I quattro assi portanti del pensiero greco secondo
Heidegger
Abbiamo individuato i quattro assi portanti su cui poggia
la fondazione metafisica secondo Heidegger. Avremo modo di
tornare più volte su questi punti ma ora è necessario
fornire qualche cenno preliminare per abbozzare un quadro
generale dell’orizzonte filosofico a partire da cui si
muove Heidegger.
1- Verità come omoiosis
Ciò che noi intendiamo con la parola “verità”, in greco
aletheia, deriva, a causa di una serie di trasformazioni di
senso, dall’interpretazione che Aristotele diede a questa
parola definendola come omoiosis, da oiesthai, vale a dire
“tenere qualcosa per qualcosa”, ovvero «l’adeguazione del dire svelante dell’ente svelato che si mostra» (Heidegger
1999: 108). L’omoiosis si caratterizza nel pensiero di
Aristotele quindi come «adeguazione dell’asserzione e del pensiero a uno stato di cose stabile e presente» (Heidegger
1999: 108). L’adeguazione, che fornisce al pensiero la
possibilità di enunciare la falsità o la verità di una
proposizione che deve coincidere con la realtà, è la
logica, intesa come scienza del modo corretto di pensare
(Kant 2010: 5-10).
Questa possibilità però poggia a sua volta sulla maniera in
cui l’Occidente ha visto la relazione tra essere e
pensiero. Secondo questa visione, ad esprimere la
coincidenza tra essere e pensiero per la prima volta nella
storia è stato Parmenide il quale, nel frammento 5, che
avremo modo di analizzare nel terzo capitolo del nostro
21
saggio, dice: «È la stessa cosa essere e pensare» (DK Parm. B5). Heidegger pensa che la filosofia moderna, traducendo
il detto in questo modo, in realtà veda essere e pensiero
come entità separate che fa coincidere poi solo a
posteriori. Per Heidegger come vedremo, tra essere e
pensiero esiste una coappartenenza originaria, in quanto il
pensiero a cui si riferisce Heidegger non è il pensiero
razionale che oggettiva l’essere, ovvero lo riduce ad un
insieme di enti, che in quanto oggetti possono essere
pensati o addirittura concettualizzati, ossia pensati
fuori dal tempo e dallo spazio come idee (Heidegger 1976:
158-171).
2- La differenza ontologica
Attraverso il concetto della differenza ontologica
Heidegger basa il suo giudizio sulla metafisica
occidentale. Il filosofo tedesco intende quest’ultima come
un pensiero che occupandosi dell’ente ha perso di vista
l’essere. La differenza ontologica che Heidegger vede
intercorrere tra essere inteso in senso assoluto e l’ente
inteso come oggetto che riceve il suo essere dall’essere
proviene da una lettura dei testi pre-socratici che saranno
oggetto della trattazione che segue.
Questa differenziazione deriva in ultima istanza da
un’interpretazione linguistica:
L’ente è il termine che indica ogni determinazione della realtà, e corrisponde al greco to on. Essere è ciò che entifica l’ente, ciò che lo fa essere ente e non ni-ente, e corrisponde al greco einai. Verità ontica è a verità che riguarda l’ente, verità ontologica la verità che riguarda l’essere. (Galimberti 2005: 72)
22
Secondo Heidegger anche Dio, pensato metafisicamente come
causa suprema, resta e rimane un ente anche se pensato come
essere supremo. Esiste infatti una differenza profonda tra
pensare all’essere come totalità di enti, e quindi come
oggetto e quindi ancora una volta come ente, oppure pensare
all’essere in quanto essere. Heidegger, nei suoi lavori,
per evitare che il lettore concettualizzi l’essere e quindi
lo riduca ad ente, proverà a sbarrare il termine oppure a
scriverlo secondo l’uso tedesco antico (Seyn).
3- La tecnica
Secondo Heidegger, Platone fondando la teorie delle idee
permette la nascita di un sapere che si fonda sulla
conoscenza dell’ente.
Techne non significa tecnica nel senso dell’allestimento dell’ente attraverso l’uso delle macchine, non significa neppure arte nel senso della destrezza e dell’abilità dell’eseguire qualche procedimento e una qualche manipolazione. Techne indica una conoscenza: riconoscersi capaci di procedere di fronte all’ente (e nell’incontro con l’ente) ossia i fronte alla physis. (Heidegger, 2003: 127)
Nel corso su Eraclito, di cui commenteremo ampie parti,
Hedegger ci dice che:
Physis significa sorgere nel senso del provenire dal chiuso, dal velato e dal coperto (physis è la parola fondamentale del pensatori iniziali). Per noi questo sorgere risulta immediatamente evidente nel germogliare del germe di grano sepolto nella terra, nel nascere dei desideri, nello sbocciare della fioritura. Anche la vista del sole che sorge rimanda all’essenza del sorgere. [...] Dappertutto, per non parlare del cenno degli dei, si dà un multiforme e reciproco venire alla presenza di tutti gli esseri e in tutto questo si dà il
23
manifestarsi, nel senso del mostrarsi che nasce e viene fuori. Questo è physis. (Heidegger 1993: 60-61)
Secondo questa delucidazione allora la techne è il modo di
procedere di fronte alla physis, ovvero:
Comprendere l’ente che si dischiude a partire da sé nel suo mostrarsi in quanto qualcosa, nel suo aspetto, eidos, idea, per curare e far crescere l’ente stesso in base a questo suo aspetto, anzi per insediarsi all’interno dell’ente nella sua totalità producendo ed approntando cose che gli corrispondano. (Heidegger 2003: 127)
Techne è anche il terreno su cui può nascere la
trasformazione di aletheia in omoiosis, infatti
nell’essenza della techne come l’avanzante ed allestente lasciar imporsi il non nascondimento dell’ente, essenza richiesta alla physis stessa, c’è la possibilità dell’autonomia, della posizione di fini diversi e quindi dell’uscita della svolta necessaria della necessità iniziale. Se questo accade, allora, al posto della tonalità emotiva fondamentale dello stupore7, subentra l’avidità di conoscere e di calcolare. (Heidegger 2003: 127-128)
Da questa possibilità nasce la tecnica moderna pensata da
Heidegger come imposizione (Heidegger 1976: 14).
4. Logos e linguaggio
Aristotele definisce l’uomo, nella Politica, come zoon
logon echon, letteralmente: “vivente che possiede il
logos”. Noi conosciamo questa definizione anche nelle 7 Per Heidegger la tonalità emotiva fondamentale con cui nasce il pensiero aurorale greco è lo thaumazein, il meravigliarsi. Esso è lo stupore dell’uomo di fronte all’essere. Heidegger cita a questo proposito Aristotele, Metafisica A2, 982 b 11 sgg., passo in cui il filosofo ateniese fa coincidere il principio della nascita della filosofia con il sentimento dello stupore (Heidegger 2003: 111).
24
formulazioni che sono state date successivamente8 nella
latinità: homo est animal rationale: “l’uomo è l’essere
vivente razionale”. Il logos è diventato ratio, e in
seguito si è modificato in “ragione”. La caratteristica
dell’attività razionale è il pensiero (Heidegger 1993:
148). Siamo di nuovo di fronte al problema della dialettica
tra essere e pensiero: se l’uomo è l’essere che ha la
ragione, significa che solo in lui si dà la possibilità di
giudicare della falsità e della verità degli enti
attraverso gli enunciati. Qui però al binomio essere e
pensiero si aggiunge un altro elemento che diventa
fondamentale nella filosofia di Heidegger. Questo elemento
è il linguaggio. Logos che significa letteralmente “parola”
racchiude l’essenza del linguaggio di cui Heidegger cerca
di esperire il senso ontologico prima che esso diventi
logico (secondo la definizione moderna di questo termine).
Nella parola, in quanto pronunciata, e nell’esclusività
umana della facoltà del linguaggio si racchiude, secondo
Heidegger, l’essenza dell’uomo come definito da Aristotele
(“avente logos”). Heidegger definisce il linguaggio come
«l’imporsi del mezzo dell’esserci storico del popolo, mezzo capace di formare e conservare il mondo (Heidegger 2008:
235)». Parafrasando, potremmo dire che, secondo Heidegger il linguaggio esprime, attraverso la produzione letteraria,
la sensibilità di un popolo, ovvero la sua maniera
peculiare di porsi di fronte all’essere. Ma l’essenza del
linguaggio come mezzo di un popolo di esprimere l’essere
non si evince solo dalla produzione letteraria, ma anche
dalle strutture grammaticali e lessicali di una data lingua
storica. Per questo motivo Heidegger ricerca nella lingua
greca il “condensarsi” del pensiero ontologico dei greci e
8 Fu Cicerone il primo a tradurre logos con ratio.
25
quindi la traduzione dei loro testi diventa già
un'interpretazione.
Heidegger si chiede poi perché chiamiamo questo
interrogarci sull’essenza del linguaggio “logica” e
risponde affermando che il motivo è da individuare nel
fatto che
la logica tratta del logos e logos significa discorso e quindi linguaggio. Per il fatto che mediante la cosiddetta logica l’essenza del linguaggio è stata presto appiattita, esteriorizzata e fraintesa, la logica resta un carico non ancora assunto dell’esserci umano storico. (Heidegger 2008: 236)
Più in là Heidegger avverte:
L’essenza del linguaggio non si annuncia là dove se ne fa un cattivo uso e la si appiattisce, la si distorce e la si riduce a mezzo di trasporto e a mera espressione di una cosiddetta interiorità. L’essenza del linguaggio sussiste là dove essa accade come potenza che forma mondo, ossia là dove essa forma preliminarmente l’essere dell’ente e lo porta alla compagine. Vera poesia è il linguaggio di quell’essere che è rivolto a noi da lungo tempo e che non abbiamo mai raccolto. Per questo motivo il linguaggio del poeta non è mai odierno, ma sempre già stato e futuro. Poesia, dunque autentico linguaggio, accade solo là dove l’imporsi dell’essere è portato alla superiore intangibilità della parola originaria. (Heidegger 2008: 237)
Dalle osservazioni che abbiamo fatto non è possibile
suddividere in compartimenti stagni l’interpretazione
heideggeriana della grecità, ma come abbiamo notato,
essere, pensiero e linguaggio formano un tutt’uno quasi
sinonimico. Troveremo questi rimandi all’interno di tutti i
testi presocratici ed orientali che analizzeremo,
individuando ciò che Heidegger intende vederci; ciò su cui
però è importante mettere l’accento è l’attenzione riposta
da Heidegger nel linguaggio. Diventa dunque centrale
26
chiarire quali siano stati i presupposti metodologici
dell’analisi ermeneutica e filologica compiuta da Heidegger
e si pone anche il problema della traduzione dal greco,
perché se è vero che, come dice Heidegger, l’essere storico
di un popolo si manifesta nel linguaggio, proprio nel suo
linguaggio si evince quel carattere di irriducibilità
dell’esperienza storica di un popolo. Ogni traduzione dovrà
sempre misurarsi con questo presupposto e non potrà mai
dirsi esaustiva ma solo possibile ed esemplificativa, in
quanto esisterà sempre una distanza irriducibile tra la
formulazione originale e la sua traduzione.
27
§5 La questione della traduzione
Bisogna ora affrontare un nodo cruciale, bisogna cioè
chiarire quale metodo Heidegger usi per reinterpretare la
grecità: si presenta insomma il problema della traduzione
dal greco e della traduzione in sé. Per giudicare la bontà
del metodo heideggeriano usato per studiare i greci
dobbiamo riferirci alla questione della traduzione. Spesso
accade infatti che chi sposa il metodo heideggeriano ne
sposi anche conclusioni storicistiche e viceversa chi
contesta queste posizioni dica che Heidegger sul greco si
sbagliava, senza però offrire, per confutarne le tesi,
alcuna prova filologica, ma rifacendosi soltanto
all’autorevolezza della tradizione storica.
The role of etymology in Heidegger's thinking is curiously understudied. In the English-language Heidegger literature, there are currently no book-length studies devoted to it, and discussion of it is surprisingly absent from books on Heidegger's thinking on language. Frank Schalow's "Language and the Etymological Turn of Thought" is apparently the only article to appear as yet that takes up the philosophical significance of Heidegger's etymologies, though it does not address the etymological method as such. What I want to do in this essay, then, is look at what Heidegger is doing when he does etymology, so that we might see how and why we might do it, too. Lack of reflection on Heidegger's etymological method seems to have left philosophers with two default attitudes toward his etymologies. On one hand, for those generally hostile to Heidegger, the etymologies may come across as the kind of pretentious, inconsequential hand-waving that Plato seems to be sending up with the spurious etymologies in the Cratylus-in other words, they may come across as if there were no method to them at all. On the other hand, for those generally sympathetic to Heidegger, his use of etymology may be linked to his supposed goal of retrieving the "purer" concepts of earlier times. This essay will argue that there is indeed a method behind Heidegger's use of etymology, but that the
28
purpose of this method is not to replace degraded modem concepts with purer archaic ones. Rather than seeking to discover an original meaning, I argue that Heidegger's etymologies seek to recover the whole range of historical meanings of a word. The etymological method's purpose in contradistinction to the purpose of philosophical analysis-is to open up the word, to overcome the tendency for the meaning of words-which is also to say, their ability to present to us the being of beings-to become restricted over time. (King 2007)
Heidegger costruisce delle intere “storie del senso” di
alcune parole e delle loro modificazioni. Per esempio, nel
corso su Parmenide, come vedremo, Heidegger traccia la
storia della parola “giustizia”, in greco dike, che traduce
con “concordanza”, opponendola a quella latina di iustitia,
da ius “comando”, affermando che la nostra idea di
giustizia, essendo più simile a quella latina (giustizia
come imposizione, comando), non si addice a designare il
concetto greco di dike e che, quindi, tradurre come si fa
abitualmente dike con “giustizia”, è improprio (Heidegger
1999: 91-101). Una esplicitazione di cosa pensi lo stesso
Heidegger sulla traduzione ci viene dal saggio Il detto di
Anassimandro, in cui commentando la traduzione che
Nietzsche dà del detto, la dichiara ancora iscritta nel
solco della metafisica, vale a dire del platonismo
(Heidegger 1968: 299-301). Il metodo che invece Heidegger
preferisce seguire è compiere un passo indietro per andare
a capire come risuonasse una parola all’epoca dell’antica
Grecia ovvero, quale ne fosse il senso. Si tratta in
qualche modo di passare a setaccio la tradizione e la
storia in quanto in esse si condensano piccole o grandi
mutazioni di senso. Ripercorrendo la storia di una parola
si può andare a ritroso, scorporando dal significato
originario che una parola aveva in un dato momento storico
le sfumature di significato successive. Il problema che in
fondo si pone è capire se il lessico contemporaneo che
29
usiamo per tradurre i presocratici sia adatto allo scopo di
far rivivere il senso originario delle parole greche.
Facciamo un esempio concreto: noi possiamo dire, attraverso
il dizionario, che il termine greco aletheia significhi
“verità”, ma ciò non ci rende nulla dell’esperienza della
verità vissuta da un greco. Se però proviamo a ricercare
l’origine della radice della parola “verità”, leth/lath
confrontandola con altre parole che contengono la stessa
radice come lanthano (“nascondo”) e verificando gli usi e i
contesti in cui esse sono impiegate, potremo avere delle
indicazioni importanti: in questo caso, come vedremo,
scopriamo che per il greco antico il concetto di verità ha
a che fare con quello del nascondere. Altre indicazioni
sono fornite dallo scarto che c’è tra la parola greca
originaria, la sua traduzione in latino e le varie
modificazioni di significato che essa ha subito nei secoli
(aletheia>veritas>verità). Heidegger, nelle sue analisi
etimologiche, si serve di esempi tratti dal mondo omerico
che considera un bacino letterario originario e per
comparazione li usa per stabilire un’omogeneità lessicale
con le stesse parole e locuzioni eraclitee e parmenidee.
Anche se non lo esplicita mai, a giudicare dal numero di
ricorrenze omeriche ed esiodee presenti nei suoi testi,
Heidegger sembrerebbe convinto che il pensiero filosofico
iniziale fosse più affine al mondo letterario arcaico
piuttosto che al genere filosofico successivo. A questo
proposito Edmond Gentzler cita Heidegger nella sua
esposizione delle contemporanee teorie della traduzione
(Gentzler 2001 Heidegger: the limits of naming) come
esponente di un innovativo metodo di traduzione ed osserva
che, rispetto alle traduzioni in commercio dei testi pre-
socratici, quella di Heidegger differisce in quanto il
30
filosofo tedesco sceglie volontariamente di non impiegare
la terminologia filosofica tradizionale9. È da notare che
alcune delle etimologie che Heidegger introduce sono oggi
in parte accolte dai dizionari di greco antico in uso
corrente, come per esempio il Rocci10. Tom Rockmore giudica
invece le scelte etimologiche di Heidegger parziali, in
quanto le traduzioni dei testi greci che propone sono
frammentarie e spesso, come nel caso del corso su Parmenide
di cui parleremo, Heidegger traduce e commenta solo una
ventina di versi del proemio, ignorando il resto
dell’opera. Altre volte, Heidegger si limita a tradurre
parole greche isolate svincolandole dal contesto (Rockmore
1992: 235-236).
9 Il lessico impiegato in quasi tutta la totalità delle traduzioni italiane disponibili in commercio dei presocratici risente dell’influsso della terminologia tecnica filosofica cristallizatasi grazie ai commentatori ellenistici di Platone ed Aristotele e passata a noi attraverso la Scolastica, andremo a chiarire questo punto comparando varie traduzioni nei prossimi capitoli. 10 A titolo d’esempio basti ricordare la famosa derivazione della parola aletheia (verità) di cui parleremo in seguito, dal verbo lanthano (nascondersi) oggi diffusamente accettata. Il vocabolario greco-italiano a cura di Lorenzo Rocci, edito dalla Dante Alighieri nel 1943 è il più antico dizionario in uso nei licei e ginnasi classici italiani, tuttora usatissimo (la revisione è stata effettuata nel 2010).
31
§6 L’analisi comparata dei testi e delle traduzioni
Per poter quindi verificare criticamente gli esiti della
traduzione heideggeriana di Eraclito e Parmenide dovremo
estendere l’analisi e considerare l’intero testo parmenideo
e gran parte dei frammenti eraclitei. Inizieremo
dall’analisi comparata, mettendo a confronto le traduzioni
del proemio di Parmenide con le traduzioni dello stesso
fatte da Giovanni Reale11, per apprezzare la distanza che
intercorre tra la lettura della grecità che Heidegger
compie e la tradizione di cui Reale si fa interprete. In
secondo luogo compareremo le locuzioni e il lessico
fondamentale dei testi dei due filosofi pre-socratici,
principalmente analizzati da Heidegger (Eraclito e
Parmenide), con l’Iliade e l’Odissea. Estenderemo poi i
nostri commenti e le nostre ricerche, abbozzando la
traduzione delle restanti parti dell’opera di Parmenide ed
Eraclito per vagliare criticamente l’interpretazione
testuale di Heidegger seguendone il metodo. Infine, dopo
aver tratteggiato i caratteri comuni che sottendono i due
principali testi presocratici, li confronteremo con alcuni
passi del Daodejing di Laozi, testo fondamentale della
tradizione taoista da cui si è sviluppato anche il pensiero
zen giapponese (ricordiamo che sono i due referenti
orientali con cui Heidegger ebbe rapporti diretti). Potremo
così giungere a tracciare una ricostruzione dei rapporti
che Heidegger intrattenne con l’Oriente che, seppur non
sviluppati tematicamente, gettano una luce diversa sulla
sua interpretazione della grecità.
11 Reale ha tradotto in italiano per Bompiani l’intero volume sui presocratici (cfr. Diels-Kranz, op.cit. 2006), oltre a numerosi dialoghi platonici ed alla Metafisica di Aristotele.
32
§7 Le fonti testuali
Heidegger dedica a Parmenide un corso tenuto all’Università
di Friburgo nel semestre invernale del 1942/43.
Nell’avvertenza del curatore dell’edizione italiana si
legge:
[...]l’argomento del corso sarebbe dovuto essere “Parmenide ed Eraclito”: il filosofo dell’essere e quello del divenire, ovvero - come preferisce interpretare Heidegger - i due pensatori aurorali che meditano sulla stessa cosa, cioè sull’Essere, sulla Physis, intendendola in termini opposti: come immobile unità o come diveniente articolazione e lotta di contrari. (Heidegger 1999: 17)
L’intenzione era quella di studiare insieme i due autori
aurorali del pensiero greco, ma in realtà il corso si
occuperà solo di Parmenide. Ad Eraclito sarà dedicato quello
dell’anno successivo. Il corso dedicato ad Eraclito si basa
su un itinerario interpretativo dei frammenti del filosofo
efesino, organizzato in due sezioni physis e logos, mentre
in quello su Parmenide, come abbiamo già sottolineato,
Heidegger dedica al testo originale solo una modesta parte
della trattazione. Il nucleo centrale del lavoro infatti è
una chiarificazione ermeneutica in capitoli delle parole
fondamentali del pensiero greco presocratico, come
aletheia, mithos, logos, epos, polis, dike, praxis, thoria,
theion. In ambedue i corsi il testo greco di riferimento di
Heidegger è la celebre edizione completa dei testi pre-
socratici a cura di Diels-Kranz,apparsa in Germania per la
prima volta nel 1903 sotto il titolo Die Fragmente der
Vorsokratiker griechisch und deutsch (1903). Essa raccoglie per la prima volta in Europa tutti i testi filosofici dei e
sui presocratici (oltre ai frammenti, i detti, le
biografie, gli antichi commenti e le glosse). In italiano
33
esistono solo due traduzioni edite integrali del volume: la
prima a cura di Gabriele Giannantoni per Laterza e la
seconda a cura di Giovanni Reale per Bompiani. Nell’analisi
comparata con la traduzione di Heidegger, abbiamo scelto
tra queste ultime due versioni, l’edizione a cura di
Giovanni Reale, sia perché quella a cura di Giannanntoni
non presenta una traduzione integrale di tutti i testi
raccolti da Diels e Kranz, sia perché il criterio
scientifico seguito è meno rigoroso, essendo corredata da
meno indicazioni testuali (cfr. Introduzione, a cura di
G.Reale, in Diels Kranz 2006: VII-XII). Per il Daodejing
abbiamo citato in bibliografia varie versioni con il testo
a fronte che abbiamo confrontato tra loro nella versione
italiana. Per la trascrizione dei caratteri cinesi si è
scelto come sistema univoco (a parte che nelle citazioni
bibliografiche) l’ormai consolidato sistema pinyin.
34
Capitolo 2
LE PAROLE FONDAMENTALI DELLA GRECITÀ
§1 Il proemio dell’opera di Parmenide
Non potremmo mai tradurre l’opera di Parmenide in prosa
senza mutarne o ridurne la portata: un indizio
dell’impossibilità di rendere il senso dell’opera di
Parmenide attraverso una traduzione letterale in prosa ci è
data dal greco che Parmenide usa nel proemio, in cui il
poeta ci racconta il viaggio fatto sul carro verso la dea
verità. Questo viaggio è descritto come un qualcosa di
furioso, dettato da un desiderio irrefrenabile, una corsa
pazza fatta su un’auriga i cui mozzi delle ruote si stan
per staccare per la velocità (DK Parm. B1). È molto
importante sottolineare questo elemento perché ci porta a
vedere come qui non si tratta dell’esposizione di una
dottrina: qui si rende poeticamente la brama dell’animo
umano nella ricerca della verità, che diventa un viaggio
ricco di elementi emozionali, difficilmente ravvisabili in
tutte le traduzioni italiane e nella stessa traduzione di
Heidegger. Una prima parola fondamentale che dobbiamo
segnalare nell’analisi del testo è quindi il “desiderio-
brama-volontà-animosità” che in greco si dice epithumos,
dove epi è un rafforzativo del termine. Ora, provando a
immergerci nel testo e nella parola proviamo a fornire la
traduzione che Reale fa del frammento del proemio scelto da
Heidegger come testo guida del suo corso su Parmenide del
‘42-’43, ovvero la parte finale di detto proemio (Heidegger
1999: 36).
E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra
35
prese, e incominciò a parlare e mi disse così: “O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino - infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini -, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della Verità ben rotonda e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza. Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso. (DK Parm. B1)
Nell’edizione tascabile pubblicata sempre per Bompiani del
poema di Parmenide, Reale aggiunge una nota al verso 28 e
una ai versi 31-32, per chiarire alcuni aspetti poco chiari
del testo (Parmenide 2001: 130). Nella prima dice che
traducendo moira, themis e dike con “sorte”, “legge divina”
e “giustizia” non ha usato le maiuscole «dando ai termini
il loro significato specifico e concreto». Se invece «si leggono con la maiuscola [...] si entra nella dimensione
emblematica del religioso» (130). Reale include poi una
sezione “Parole Chiave” nel volumetto su Parmenide (149-
154), dove spiega le parole dike, themis, moira. Riportiamo
la sua definizione di dike (che traduce come “giustizia”):
Figura emblematica “che molto punisce” e tiene le chiavi “che aprono e chiudono” le porte di accesso alla verità (fr.1, vv 14-17 e 28); e inoltre viene presentata come quella che non concesse all’essere, il nascere e perire, tenendolo saldo e fisso in se medesimo (fr. 8,14 s). Sui rapporti fra Giustizia e Dea cfr. Introduzione, cap 5. (150-151)
36
Nell’introduzione Reale cita Jaeger: «non ci troviamo di fronte a un'allegoria, ma di fronte a una grandiosa
espressione dell’esperienza di ascesa alla verità» (19).
Eppure in altre note dello stesso testo Reale usa la
maiuscola per tradurre la parola giustizia, allegorizzando
di fatto la figura di dike. Di themis, invece, Reale dice
che è da intendere come «legge divina che coincide con
sorte e giustizia» (153). Di moira, “sorte”, scrive che è
«quella figura manifestativa della Dea e della Verità che ha vincolato l’Essere all’interezza e all’immobilità e
quindi esprime uno dei caratteri fondamentali dell’essere
stesso» (153). Anche qui ci troviamo di fronte, se non ad allegorie, ad ambigue “figure manifestative” di cui non
riusciamo a cogliere il ruolo. Se applicassimo il metodo
etimologico di Heidegger, dovremmo chiederci quale
comprensione preliminare e immediata abbia un lettore
contemporaneo quando legge le parole “legge divina e
giustizia e sorte” (Heidegger 1999: 84-91). Proviamo ad
applicare questo metodo con la prima parola: “legge
divina”. “Legge divina” è direttamente collegabile con
l’idea di legge scritta racchiusa nel codice penale o
civile di ogni paese moderno. Quando noi pensiamo alla
legge infatti pensiamo a un insieme di norme codificate da
in un libro a cui noi cittadini dobbiamo attenerci. L’idea
di racchiudere le leggi civili in un codice risale a
Napoleone (1804 Code civile des Français), mentre la prima
“costituzione” è invece la Magna Carta inglese (1215 Magna
Charta Libertatum). L’idea di codice ha a sua volta come
precedente simbolico il sistema di leggi che il dio ebraico
prescrive agli uomini, affidandola alle tavole di Mosè.
Dobbiamo segnalare infatti che, in ambito greco, lo stesso
Platone predilige alle leggi scritte, quelle orali, e che
per nominarle utilizza non il termine themis, ma nomos
37
(Platone, Repubblica). Per quanto riguarda, invece, il
termine “sorte” un lettore moderno potrebbe intendere
sostanzialmente due cose: un vago destino (e anche qui
questo destino è inteso nel senso o di una vaga idea di
predeterminazione di cui non si conosce l’origine, o nel
senso cristiano di provvidenza) oppure un caso fortuito. Su
questo punto le analisi storiche moderne (vedi per esempio
Burckhardt 1974: 811) segnalano come i greci non avessero
l’idea di caso. Per quanto concerne invece la parola
“giustizia”, ricordiamoci che giustizia deriva da iustitia
in latino, che a sua volta viene da ius, “comando”. Abbiamo
la testimonianza diretta del procedimento etimologico
applicato a questa parola dello stesso Heidegger che,
analizzando il termine ius in ambito romano, evidenzia che
ius è un comando emanato dall’autorità per imporsi come
imperium (Heidegger 1999: 75-83). La civiltà greca non
conosceva la nozione di impero e neanche quella di
auctoritas, ovvero l’emblema di quell’imperium a cui si
doveva obbedienza. Nella polis greca, invece, non esisteva
una figura così preminente come l’imperatore romano e
proprio per questo nella storia greca sono così frequenti
le lotte alle tirannidi (cfr. Burckhardt 1974: 811).
Dall’analisi etimologica e storica delle tre parole themis,
dike e moira possiamo concludere che secondo il metodo
heideggeriano, la traduzione italiana “legge divina,
giustizia, sorte”, se non scorretta dal punto di vista
storico, risulta almeno essere ambigua. Prima però di
esporre la traduzione che lo stesso Heidegger fa di queste
parole, torniamo alla versione di Reale e aggiungiamo
qualche commento. Nella traduzione dei vv. 31-32 «Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono
(dokounta/doxa) bisognava che veramente fossero, essendo
tutte in ogni senso» (DK Parm. B1), Reale distingue
nettamente la parola doxa (“opinione”) da aletheia
38
(“verità”), non solo dando a questi versi una lettura
chiaramente platonica, ma rendendo effettivamente poco
comprensibile il «bisognava che veramente fossero, essendo
tutte in ogni senso». Cosa leghi infatti per Parmenide doxa e aletheia non è affatto chiaro. Per quanto riguarda il
primo punto, ricordiamo che è Platone a stabilire una
distinzione tra i termini aletheia, “verità”, a cui si
arriva attraverso il procedimento dialettico, e doxa,
“opinione non fondata”. Il fatto, però, che detti termini
assumano questo significato da Platone in poi non ci
autorizza a concludere che anche alcuni secoli prima
avessero lo stesso senso. Anzi, proprio il fatto che sia
Platone a stabilirne una chiara demarcazione, ci induce a
pensare che prima le cose stessero in altri termini. Per
venire al secondo punto, ovvero alla scarsa intellegibilità
della frase «bisognava che veramente fossero, essendo tutte
in ogni senso», vediamo che nella nota al v.32 Reale dice
che il dokimos potrebbe anche essere tradotto con «le cose che appaiono era necessario fossero nella maniera in cui
appaiono», mantenendo la duplicità del ta dokounta
“opinioni/apparenze”. Per quanto riguarda il per onta,
sottolinea che esiste anche la variante peronta (Parmenide
2001: 130-131).
Proviamo ora a confrontare la versione tradotta in italiano
dal tedesco che dà Heidegger dello stesso proemio.
E la dea mi accolse benevola, prendendo con la mano destra la mia destra; poi pronunciò la parola e mi si rivolse: O tu, compagno di aurighi immortali, che giungi alla nostra dimora condotto dai tuoi destrieri, salve! Poiché non è una destinazione avversa quella che ti ha spinto a incamminarti per questa via - e in verità essa si situa in disparte, lungi dal sentiero battuto dagli uomini - bensì sia l’ordinamento, sia la convenienza. Ma è necessario che tu apprenda tutto, tanto il cuore della svelatezza che tutto circonda, quanto ciò che risplendendo appare ai mortali, e in cui non risiede alcun affidamento per ciò
39
che è svelato. Ma dovrai nondimeno imparare a conoscere anche questo: come ciò che risplende (di necessità) sia tenuto ad essere conforme all’apparenza, pervadendo ogni cosa e (dunque), in questo modo, compiendo ogni cosa. (Heidegger 1999: 36)
Notiamo da una prima rapida lettura che la prima parte
della traduzione del proemio è simile a quella data da
Reale, mentre nella seconda iniziamo a cogliere delle
differenze non solo sul lessico impiegato, ma anche sulla
struttura logica del periodo.
L’ultima frase rimane comunque ambigua anche in questo
caso, sebbene ci sia un rovesciamento di senso:
Reale: Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso. Heidegger: Ma dovrai nondimeno imparare a conoscere anche questo: come ciò che risplende (di necessità) sia tenuto ad essere conforme all’apparenza, pervadendo ogni cosa e (dunque), in questo modo, compiendo ogni cosa.
La versione di Heidegger non rimarca la differenza tra doxa
e aletheia in senso forte come fa Reale sulla scia della
distinzione platonica, e inoltre vediamo come il filosofo
tedesco usa costanti perifrasi per rendere i termini greci.
Addirittura spesso aggiunge parole o frasi che non sono
presenti nella fonte greca, come per esempio il “di
necessità” riferito al ta dokounta. Risulta palese la non
correttezza metodologica di un’analisi testuale che va
molto aldilà del testo e che in qualche modo parafrasa la
traduzione dal greco. Heidegger dichiara esplicitamente che
la sua resa testuale non vuole essere filologicamente
corretta, ma che è già un’interpretazione preliminare
40
(Heidegger 1999: 34). Non potendo accettare da un punto di
vista scientifico come valida di per sé
quest’interpretazione preliminare, dovremo quindi
ricostruire le ragioni e i nessi filologici che hanno
portato Heidegger a questa traduzione. Proviamo quindi a
riassumere le parole chiave del proemio parmenideo e
confrontiamone le traduzioni in italiano date da Reale e
Heidegger. Queste parole ci serviranno come guida per
analizzare il criterio emeneutico utilizzato da Heidegger e
come orizzonte per commentare la lettura che il filosofo
fece del pensiero pre-socratico.
REALE HEIDEGGER
1) thea: “dea” “dea”
2) moira: “sorte” “destinazione”
3) themis: “legge divina” “ordinamento”
4) dike: “giustizia” “convenienza”
5) aletheia: “verità” “svelatezza”
6) doxa: “opinione/apparenza” “ciò che risplende
e appare”
41
§2 Thea
L’analisi che Heidegger dedica alla parola thea è centrale
nel corso su Parmenide e fornisce l’occasione per una densa
riflessione sulla grecità. La domanda che il filosofo
tedesco si pone è chi fossero gli dei greci e quale ne
fosse la loro essenza. Il dibattito sullo statuto della
divinità presso i greci è ampio e complesso, in quanto,
sebbene il pantheon greco rimanga nel suo nucleo centrale,
identico nel corso dei secoli, bisogna constatare che il
ruolo della divinità e il loro culto cambiano
progressivamente dall’epoca omerica a quella ellenistica
(cfr. Burkert 1985: 119-124). Il lettore moderno, quando
pensa agli dei greci e al loro politeismo, si riferisce
però prevalentemente all’universo mitico, cioè all’Iliade e
alle sue battaglie, ai viaggi dell’Odissea e al mito
esiodeo della Teogonia. Come scrive Burckhardt, la funzione
del mito è quella di continuare a vivere e a rapportarsi
col presente storico di ogni greco nelle varie epoche, per
cui per un ateniese il fondatore Teseo non rappresenta né
un’allegoria, né un fondatore immaginario, ma una
interconnessione costante con il presente (Burckhardt 1974:
33-54). Nell’Iliade non è sorprendente vedere sfilare
accanto a eroi come Achille e Ettore gli dèi che scendono
in campo per aiutare i loro prediletti. Questi dèi si
travestono e ingannano, e spesso sono così umanamente
imperfetti che ci danno l’impressione che si tratti di
uomini veri e propri con qualche potere in più. Tendiamo
cioè a pensare, secondo la nostra sensibilità moderna, a
divinità antropomorfizzate. Già Senofane di Colofone (570-
475 a.C.), criticando il politeismo, sosteneva che se gli
animali potessero fare statue di dèi, essi avrebbero per
sembiante il loro muso. Da questa antica testimonianza
possiamo intuire che il dibattito sullo statuto degli dei
42
fosse già molto vivo nella grecità, e alcuni, come
Senofane, vedessero antropomorfica e quindi superstiziosa
la loro religione.
Fin da principio, da Omero tutti hanno imparato. (DK Sen. B10) Attribuirono agli dei, sia Omero sia Esiodo, tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di vergogna: rubare, commettere adulterio e ingannarsi a vicenda. (DK Sen. B11) Ma i mortali credono che gli dei nascano e che abbiano vesti, lingua e figura come loro. Ma se i buoi e i cavalli e anche i leoni avessero mani e con le mani potessero dipingere e compiere le opere che compiono gli uomini, i cavalli dipingerebbero immagini di dei simili a cavalli e i buoi simili a buoi, e plasmerebbero i corpi degli dei tali quali essi hanno, ciascuno secondo il proprio aspetto. (DK Sen. B14-15) Non è vero che fin da principio gli dei hanno svelato tutto ai mortali,ma gli uomini stessi cercando, col tempo trovano ciò che è meglio. (DK Sen. B18)
Dobbiamo vedere come aperte e non univoche le posizioni dei
pensatori e letterati greci sulla valenza del divino, dal
momento che è importante ricordare che tra la presunta
redazione dell’Iliade e la nascita di Socrate intercorre un
certo lasso di tempo. In questo arco di tempo si sviluppa
il cosiddetto pensiero pre-socratico, che quindi risulta
essere non solo variegato sul piano storico, ma anche su
quello geografico: bisogna tenere in considerazione la
distanza geografica e culturale che esisteva tra le varie
polis (per fare un esempio, se Eraclito e Parmenide possono
dirsi quasi contemporanei: il primo nacque e visse a Efeso
sulle odierne coste della Turchia, mentre il secondo a Elea
nel sud dell’Italia). Ogni teoria antica o moderna
sull’identità degli dei greci dev’essere quindi
circoscritta, ma è da evidenziare il ruolo centrale che
l’universo omerico ed esiodeo hanno in tutta la grecità
43
essendo stati il riferimento culturale a cui si sono
riferiti, positivamente o negativamente, tutti i grandi
pensatori e letterati greci. È anche evidente che la forza
del mito si sia progressivamente stemperata nel corso dei
secoli e che, quindi, se l’universo omerico è una realtà
vicina e che vive ancora al tempo di Platone, lo stesso non
si può dire di Plutarco. Dovremmo allora provare a capire
dalle stesse parole di Omero e dei suoi contemporanei cosa
fossero le divinità presso l’antica Grecia, e quindi cosa
intenda anche Parmenide quando nel suo Proemio si rivolge
alla dea-verità. Un primo dato che balza all’occhio è che
uomini e dèi presentano tratti comuni. Secondo Heidegger
ciò che condividono uomini e dèi greci è il fatto che solo
questi due enti hanno uno sguardo sull’essere:
Lo sguardo del dio che ha origine dall’essere, può schiudersi nell’uomo e può guardare fuori dalla forma di uomo raccoltasi nello sguardo. Ed è per questo che anche gli uomini, a loro volta, sono per lo più divinizzati e pensati in forma di dei, giacché sia gli dei sia gli uomini ricevono la loro rispettiva essenza dall’essere stesso, cioè dall’aletheia. (Heidegger 1999: 201)
La frase è oscura e, sebbene individui una comunanza nello
sguardo tra uomini e dèi, non chiarisce quale sia però la
differenza tra lo statuto divino e quello umano. Possono
venirci in aiuto alcune importanti considerazioni che
Guthrie raccoglie nei capitoli A central problem e Gods and
man in Homer del volume “The greeks and their gods”, in cui
sottolinea come sia più corretto pensare che siano gli dei
ad avere qualcosa di umano, piuttosto che gli uomini
qualcosa di divino. Infatti, aggiunge, ciò che distingue il
dio dall’uomo è l’immortalità, e cita alcuni esempi tratti
dal mito, in cui la più grossa colpa e quindi la più
terribile punizione per cui un uomo possa essere castigato
da un dio è la hybris, ovvero la tracotanza che spinge un
44
uomo a voler elevarsi a dio (Guthrie 1950: 111-127).
Secondo Ehnmark (Guhtrie 1950: 116), invece, un’altra
importante differenza è il potere, o meglio i poteri che
negli dei sono incommensurabilmente superiori rispetto agli
uomini. Il motivo per cui, invece, secondo Guthrie, gli dei
omerici si comportano come uomini, ovvero senza moralità è
perché sono «dei naturali» per cui non possono essere
morali, in quanto la natura non è morale (Guhtrie 1950:
117-127). A questo proposito potremmo obiettare che gli dei
greci sono però, anche incarnazioni di facoltà umane, di
virtù e di mansioni specifiche. Atena per esempio è la dea
dell’intelligenza, ma anche delle arti, patrona
dell’artigianato e della tessitura e i suoi interventi
nell’Iliade accanto ai greci rappresentano la parte
“razionale” della guerra rispetto a quelli di Ares, che
sono la parte irrazionale della violenza cieca. Se noi però
proviamo a riflettere, vediamo che anche se non siamo in
grado di esprimere in un concetto la sintesi di tutte
queste qualità di Atena, esse hanno comunque un minimo
comun denominatore12. Se provassimo a ipotizzare che gli
antichi greci vedessero in questo minimo comun denominatore
un’energia, una forza agente sulla natura, che si
dispiegasse e declinasse anche nella realtà umana, magari
anche nell’artigianato, e che questo carattere fosse
appunto riconoscibile “alla vista”, potremmo fornire una
spiegazione razionale nell’atteggiamento greco che
raffigura umanamente e visivamente la divinità in quanto
forza agente.
Heidegger coglie l’essenza del divino dei greci nel
guardare, facendo derivare la parola theos, dio, da theao,
guardare (Heidegger 1999: 191-193). Prima però di
approfondire la relazione che sussiste tra sguardo e
12 Cfr. Détienne 1989
45
divino, è opportuno che noi ci chiediamo che significato
avesse per i greci la vista. In tutto il testo di Parmenide
si possono intravedere momenti in cui tutto l’ambito
semantico relativo alla vista, alla luce e allo sguardo
assumono un ruolo fondamentale, importantissimo da un punto
di vista ontologico. Nel v.3 del Proemio (DK Parm. B1), per
esempio, Parmenide nomina l’eidota phota, letteralmente
“l’uomo che sa”, l’uomo sapiente che viene condotto dalle
cavalle sulla via della divinità che dice molte cose. La
parola greca phos, “uomo”, da cui l’accusativo singolare
phota, è attestata solo presso Omero e Eschilo, quindi da
ritenere antichissima. È una contrazione di phaos, che vuol
dire “luce del sole”. Eidota invece è un participio di oida
che letteralmente vuol dire “sapere”. È importante
evidenziare però, anche l’origine dello stesso oida, che
non è un tempo presente (“io so”), ma uno di quei pochi
verbi greci coniugati al perfetto che hanno valore di
presente. Il presente di oida è orao, verbo frequentissimo
che significa “vedere”. In greco conoscere si diceva
letteralmente “ho visto”, “so perché ho visto”. Il tipo di
conoscenza a cui fa riferimento Parmenide secondo alcuni
commentatori non è una conoscenza deduttiva od oggettiva,
ma la conoscenza misterica di un iniziato (Untersteiner) .
J. Mansfeld invece, sulla scia della lettura di Heidegger
intende la conoscenza greca arcaica, un tipo di conoscenza
eminentemente visiva (Mansfeld 1964) e «partendo da
Senofane B34, (DK Sen. B36) sottolinea come eidos abbia un
valore legato alla esperienza visiva, che si conserverebbe
in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica è dunque
legata a un esperire, vedere, diretto» (Zucchiello 2011: 7-8).
Opposa de thntoisi pefenasin eisorarsthai. “Ai mortali tutte le cose che sono si mostrano alla vista”.
46
(DK Sen. B36)
Platone elabora la dottrina delle idee basandosi sulla
facoltà vista: idea, o eidos, vengono da orao, “vedere”, e
vogliono dire “forma”, “aspetto”. Aristotele
successivamente, nel primo capitolo della Metafisica nomina
la vista come facoltà di maggior peso nell’ambito della
conoscenza.
Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e più di tutte ,amano la sensazione della vista: in effetti non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze tra le cose. (Aristotele, 980a 1-27)
È lecito supporre che nella civiltà greca la vista fosse
non solo una semplice sensazione predominante rispetto alle
altre, ma avesse uno statuto ontologico e gnoseologico
fondamentale, ovvero fosse stato in epoca arcaica un
veicolo basilare di una forma evidentemente non ancora
intellettuale di conoscenza a partire dalla quale Platone,
attraverso le idee pensate come forme archetipiche prima
visive e poi mentali, inizia a costruire le basi di una
scienza razionale che Aristotele sviluppa e organizza. Del
resto è antropologicamente plausibile pensare che in una
data società un senso venisse privilegiato rispetto a un
altro e su di esso si basassero le veicolazioni dei valori
e dei paradigmi culturali di detta società. Per esempio
leggendo l’Antico Testamento, notiamo come a nessuno sia
data vedere l’immagine di Dio, mentre a tutti sia data
ascoltare la sua parola e che, per esempio, le leggi che
Mosè trascrive siano dettate direttamente da Dio.
47
Quest’importanza della parola dettata, tipica delle civiltà
mediorientali, si è trasmessa anche nell’Islam dove il
Corano è stato addirittura dettato direttamente da Dio.
Nelle civiltà estremo-orientali vediamo invece come la
conoscenza venga trasmessa attraverso l’azione (ci
riferiamo alle varie pratiche di meditazione e alle arti
marziali, che in Oriente non sono solo strumenti di difesa
ma modalità conoscitive del corpo) e che essa venga
trasmessa in forma interpersonale attraverso l’emulazione
di una prassi da maestro ad allievo. Heidegger stesso nota
che
mentre il comune termine germanico Got, secondo la provenienza indiana, indica un essere che viene invocato dall’uomo, ed è quindi «l’invocato», i nomi greci per ciò che noi chiamiamo un dio dicono qualcosa di essenzialmente diverso, giacché theos - theaon e daimon - daion nominano il guardante che si schiude da sé e l’essere che si dà entrando nell’ente. (Heidegger 1999: 205)
Nell’Iliade vediamo proprio come le divinità appaiano
sempre in forma di qualcosa (metamorfosi) e come esse si
rendano visibili, e si facciano riconoscere solo da chi
vogliono (Burckhardt, 1976: 409-24). L’elemento visivo
risulta dunque essere un elemento fondamentale di
caratterizzazione della civiltà greca. Ciò è evidente anche
da un punto di vista etimologico: la parola thea/theos,
“dea/dio”, deriva infatti da theao, verbo che esprime la
stessa idea di orao, “vedere” ma con una sfumatura se
vogliamo più continuativa e rafforzativa. Abitualmente si
traduce theao con “guardare”; Heidegger traduce «offrire la
visione» (Heidegger,1999: 193). Letteralmente quindi, gli
dei greci sarebbero “coloro che si guardano o che
guardano”. Heidegger attribuisce all’essere uomo e
all’essere dio l’esclusività dello sguardo, differenziando
questo tipo da quello che hanno gli animali. Distingue qui
48
un mero guardare e un guardare che può anche guardarsi e
che guardando si fa guardare (Heidegger 1999: 199-202). La
frase suona ambigua e oscura, ma dovremmo provare a
riflettere sulla modalità in cui un uomo guarda a un altro
uomo. In questo mio guardare io sono anche guardato e
attraverso uno sguardo si possono cogliere le mie emozioni,
la mia interiorità e la mia espressività. Il guardare
rappresenta quindi uno spazio aperto, uno spazio di
incontro. Questo guardare, secondo i greci,
nell’interpretazione di Heidegger, è comune a uomini e dèi
ed è forse per questo, conclude, che sono rappresentati in
forma di uomini. Seguendo quest’interpretazione, potremmo
sostenere appunto l’ipotesi che le divinità omeriche nel
loro non essere concetti, né allegorie, né
personificazioni, erano piuttosto rappresentazioni dirette
di forze agente e presenti sulla realtà che potevano essere
viste, guardate nel loro agire e quindi riconosciute come
tali e nominate. Inoltre, in quanto forza che poteva essere
vista agire, essendo guardata, doveva necessariamente,
parafrasando Heidegger, guardare, e guardando, interveniva
sulle sorti dell’umanità. Emblematici in questo caso gli
interventi di tutti gli dèi nell’Iliade. Nel primo libro
dell’Iliade assistiamo a una scena in cui Atena si
manifesta ad Achille per placare la sua ira contro
Agamennone:
E mentre questo agitava nell’anima e in cuore e sfilava dal fodero la grande spada, venne Atena dal cielo; l’inviò la dea Era braccio bianco, amando ugualmente di cuore ambedue e avendone cura; gli stette dietro, per la chioma bionda prese il Pelide, a lui solo visibile: degli altri nessuno la vide. (IL 1.193-198)
Mentre vediamo come Ares sia scorto da Diomede:
49
Quale oscuro vapore si vede uscir dalle nubi, quando per la calura si leva bufera orrenda, tale Ares di bronzo a Diomede Tidide parve, al cielo vasto con le nubi salendo (IL 5.864-7)
Poseidone, per fare solo un altro esempio significativo,
salva Enea calando la nebbia attorno ad Achille
(impedendone quindi la vista) nel libro 20 (IL). In ultimo
osserviamo alcune descrizioni di dèi ed eroi che si
rifanno all’ambito semantico della vista e della luce:
Atena è detta “occhio azzurro”, mentre Ettore e altri
guerrieri sono detti eroi “dall’elmo splendente”
(luminoso). Il guardare è per il greco un’esperienza
fondamentale; Atena, l’intelligenza, guarda e quindi agisce
sul mondo, così come Poseidone, il dio del mare, è anche il
dio che scuote la terra (terremoto), ovvero il dio di ciò
che si agita. Per un greco la vita e la terra erano in
continua mutazione e dinamismo, e ciò che si muoveva era
divino nel senso che il suo agire avveniva non per causa
umana, né divina in senso cristiano, ma nel senso di un
principio potente che si manifestava e assumeva attraverso
la metamorfosi diverse sembianze (Burckhardt 1974: 409-
424). Quest’agire, potendo essere visto dall’uomo e
potendo l’agire stesso di queste forze agire sulla realtà
umana, poteva guardare l’uomo. Forse grazie a queste
considerazioni possiamo gettare un po’ di luce sulla
relazione tra vista e divinità, che in Heidegger rimane
solo indicata. Possiamo anche azzardarci ad avanzare
l’ipotesi storica che, sulla scorta di questa tradizione
Platone abbia cercato di dare realtà e consistenza
sovratemporali a dette forze, le divinità, trasformandole
in entità metafisiche (idee). La differenza che però si
stabilisce con l’epoca arcaica è sottile quanto
fondamentale: per gli antichi queste forze erano agenti e
il loro aspetto non era fissato fuori dallo spazio e dal
50
tempo, mentre per Platone queste sono realtà appunto
metafisiche ovvero eterne. Questa ipotesi dà a Platone una
innegabile continuità con la tradizione greca che innova, e
per noi è più corretta storicamente della posizione di
Heidegger che senza alcuna prova storica vede nella Grecia
pre-platonica e in quella post-platonica quasi due civiltà
distanti anni luce tra di loro senza nessuna possibilità di
contatto né compenetrazione (Heidegger 2007: 138-142).
51
§3 Daimon
Parmenide nel proemio utilizza anche un’altra parola per
nominare il divino, daimon, termine normalmente tradotto
con demone, che deriva probabilmente da daiomai, che
significa “dispensare, dare in sorte” (Rocci 1943). Il
demone greco è spesso associato alla figura di Socrate, che
ne parla come una voce:
C'è dentro di me non so che spirito divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell'atto di accusa. Ed è come una voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte. (Platone, Apologia di Socrate 31 d)
Questa voce è spesso intesa da noi moderni come la voce
della coscienza, che dice cosa non bisogna fare.
Analizzando il testo, però, vediamo come Socrate dica di
avere un daimon, che caratterizza come “voce”. Qui Platone
sta accostando due elementi diversi: la “voce” (phone) e il
“divino” (daimon) e dobbiamo star attenti a leggere questi
due elementi come già legati a priori, come la voce divina
in senso cristiano. Qui Platone sta solo caratterizzando
questa voce in maniera tipicamente greca, chiamandola
demonica. L’uso di daimon, con il significato di voce
divina, è invece attestato solo tardivamente in Plutarco,
in età ellenistica, dove daimon è usato per intendere il
“genio personale“ (concetto tipicamente romano che
diventerà cristianamente “la voce della coscienza”).
Andando a cercare il termine daimon sul dizionario, vediamo
che spesso è usato come sinonimo di “divino”, theos.
Colpisce però il contesto con cui daimon è usato in un
brano dell’Iliade e, precisamente, quando Ettore accusa di
codardia il figlio di Tideo e termina così l’invettiva:
52
paros toi daimona doso (IL 8.166). Letteralmente: “prima ti
darò il demone”, ovvero in questo contesto, “la morte”,
pensata come il luogo a cui è destinato, un luogo divino.
Luogo divino è anche come viene definito nel mito della
polis, l’aldilà a cui l’eroe Er è destinato nella
Repubblica di Platone (620e-621d). Heidegger si serve di
questo mito per spiegare il carattere demonico, come
l’insolito che si scorge nel solito (Heidegger 1999: 186-
191). Heidegger sembra parafrasare il termine greco
daimonion con l’aggettivo tedesco unheimlich, che sta a
indicare un carattere inquietante che emerge da ciò che è
famigliare. Curiosamente Freud dedica un intero saggio a
questa parola, caratterizzando l’Unheimlich come esperienza
psicologica fondamentale che compie il soggetto quando non
si riconosce nella sua immagine (S.Freud, 1976-80: Il
perturbante). L’accostamento che fa Heidegger tra daimon e
unheimlich è piuttosto ardito, ma possiamo sicuramente
trovare il carattere dell’inquietante nel demonico quando
esso è relazionato con la morte (Omero). Un altro termine
che i greci usavano per indicare il “divino”, dios,
letteralmente “celeste”.oi Quest’uso si attesta nell’Iliade
ed esprime un divino legato al luminoso: spesso si usa
questo aggettivo quando si parla del mare, “mare divino”, o
riferito a Ettore, non a caso detto anche “l’eroe dall’elmo
splendente” (IL). Potremmo concludere che in greco il
divino ha a che fare con il vedere (anche con l’immaginare)
e che la divinità può essere connotata in base alla
luminosità, potendo essere daimonios o dios. Potremmo dire
che secondo gli usi daimonios e dios sono due polarità di
theos; il primo ha il carattere dell’insolito,
dell’inquietante, del tenebroso, il secondo del celeste,
del limpido, del luminoso. Questa polarità ci porta
intuitivamente per analogia alla lettura che Nietzsche fece
del teatro greco, definendolo come perfetta unione dello
53
spirito apollineo e dionisiaco (Nietzsche 2008: 21-27). Se
Apollo è il dio dell’ideale, del sole, del bello e della
perfezione, quindi del principium individuationis, e in
ambito artistico della scultura (arte per eccellenza della
forma), Dioniso è il dio della musica, del tutto prima del
principium individuationis, un qualcosa che spaventa e
inquieta.
54
§4 Moira
Proviamo ora a delucidare il senso di un’altra parola tra
quelle che abbiamo individuato come fondamentali nel
proemio di Parmenide: moira. Reale traduce «non un’infausta
sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino» (DK Parm.
B1 vv.25-26) mentre Heidegger la rende così: «non è una destinazione avversa quella che ti ha spinto a incamminarti
per questa via» (Heidegger 1999: 36). Moira significa
letteralmente «la parte assegnata a una persona della preda
o del bottino che si spartiva» (Rocci, 1943). In Omero è attestato l’uso di kata moiran, “convenientemente”, “com’è
giusto” (letteralmente “secondo il destino”), mentre
Platone nel Protagora dice:
Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. (Platone, Protagora 322)
Divenire partecipe della divinità, theias moiras metechein,
letteralmente, “condividere un destino divino”. L’antica
espressione “parte assegnata di”, “assegnazione di qualcosa
da parte di”, diventa “destino”. Omero parla di moira
theou, “destino divino”, stesso uso ne fanno i tragici. La
traduzione di Reale con “sorte” non deve far pensare al
caso, alla casualità, alla circostanza. I greci pensavano
che anche al di sopra degli dèi ci fosse una legge
regolatrice detta in greco in vari modi tra cuiappunto
moira (Burckhardt 1974: 425-659). Questa rilevanza del
destino e della destinazione, come luogo a cui il destino
conduce, è presente anche nel frammento 2 (Parmenide, DK
B2) forse il più famoso dell’opera di Parmenide (quello in
55
cui si afferma la verità dell’essere). La dea dice che solo
due vie possono essere percorse e pensate:
A B C D
l) e men opos estin te kai os ouk esti me einai
2) e de os ouk estin te kai os chreon esti me
einai
Come si può notare anche a prima vista, le frasi hanno una
simmetria quasi speculare. L’elemento A è una tipica
costruzione greca che indica opposizione tra due elementi,
il B è identico se non fosse per ouk (“non”), il C è una
congiunzione, nel D abbiamo l’unico elemento aggiuntivo che
rompe la simmetria tra le due affermazioni. Cosa significa
chreon? Reale lo traduce come “essere necessario che”,
traslitterando e trasponendo il senso originario della
parola chreon che significa prima di tutto “destino”. I
greci usavano una locuzione per esprimere l’essere
destinato, l’essere inevitabile, e quindi il “bisogna che”:
chre accompagnato dal verbo essere. Chre deriva da chrao,
chraomai che ha molti usi anche molto diversi tra loro:
incontriamo, tra i più antichi, chrao nel senso di
“vaticinare”, “chiedere responso”, “interrogare l’oracolo”
(Rocci, 1943). Reale, traducendo chreon con essere
necessario, toglie l’elemento del destino alla frase e fa
intervenire una vaga idea di necessità come causalità, o
come conseguenza logica di un ragionamento. La causalità è
pensata in termini logici, come consequenzialità non solo
di fatti, ma di proposizioni deduttive. Se confrontiamo
però i testi platonici in cui inizia a imporsi anche
nell’uso linguistico questo tipo di locuzioni (“come
se...”, “ne consegue che”, “se... è necessario che”, “di
conseguenza” ecc... ) vediamo che il termine più frequente
che Platone usa non è chrao, ma dei. Da questi pochi esempi
56
potremmo supporre che il significato originario del chreon
esti, essere necessario, avesse dentro di sè l’idea di
destino, e che solo alcuni secoli dopo quest’”essere
destinato a” venisse pensato in termini logico-
consequenziali. La società ateniese dell’epoca di Socrate
viveva infatti il dibattito politico nella forma di
assemblea (agora) in cui ogni esponente esercitava la sua
persuasione in forma di retorica. I sofisti erano avvocati,
pedagoghi o politici che svilupparono un’arte oratoria
basata su inferenze e deduzioni, cioé una tecnica di
persuasione. Il ruolo storico di Socrate, nella sua
avversione contro i sofisti, infatti non è tanto quella di
criticare il loro metodo di dibattere e ragionare, ma di di
evidenziarne la vuotezza delle conclusioni e il relativismo
in cui sfociavano. Da ciò nasce l’urgenza di definire uno
strumento che, attraverso il dialogo, possa portare alla
verità; oggi diremmo un metodo scientifico. Quest’ipotesi
storica ci permette di spiegare la profonda differenza
esistente tra il pensare delle origini e il filosofare del
periodo classico, che assume una nuova valenza, più
confacente ai bisogni della società storica ateniese del
tempo: stabilire una “verità tra uomini”. Quando Heidegger
vede in Platone il fautore della deviazione dal senso
originario dell’essere (Heidegger 2007: 233), che non pensa
più la verità in termini di evento, ma di omoiosis, ovvero
coincidenza tra ciò che viene detto e cio che realmente
accade (Heidegger 1975: 37-51, e 1999: 75-83), quello che
in realtà accade, in altri termini, è che la verità viene
circoscritta al suo ambito etico. Heidegger ignora la
società in cui viveva il Platone storico, ritraendolo come
un uomo che in maniera avulsa dal contesto storico e
sociale, ha cambiato su due piedi il senso della verità.
Noi in maniera più prudente crediamo che Platone sia stato
un interprete della sua epoca e pertanto crediamo che la
57
prospettiva storiografica sia da tenere in forte
considerazione.
Tornando al testo di Parmenide, dopo questa necessaria
parentesi storica, pensiamo di essere legittimati a vedere
nell’uso parmenideo del chreon, non una idea di necessità
come consequenzialità, ma piuttosto il senso di necessità
come destino. Proviamo quindi ad abbozzare una nostra
traduzione della frase esaminata sulla scia di questa
interpretazione:
La prima (via) (dice) che è e che non-essere non è, la seconda (dice) che non è e che è destino non-essere.
Il destino qui nominato non indica la conseguenza di una
causa, ma l’impossibilità storica e teoretica del non-
essere. L’uomo in qualsiasi epoca e luogo ha di fronte a sè
essere. Il niente non è dato e non si può dare nella misura
in cui noi come uomini senzienti non possiamo non sentire
niente: ci è dato sentire sempre qualcosa. Nello stesso
tempo, non riusciamo a scorgere nessuna causa perché le
cose siano, perché ci sia essere e non piuttosto niente.
Anche caratterizzando il niente, lo vedremmo sempre e solo
come assenza di qualcosa, ovvero come un niente apparente.
Ma le cose viste da un punto di vista solo possibile e non
fattuale, avrebbero potuto benissimo non essere, eppure
sono. Di fronte a questo mistero che desta nell’animo greco
stupore e meraviglia (Heidegger 1999: 191-201), Aristotele
cerca di trovare una causa che chiama motore immobile
(Metafisica, 1071b 3-22, 1073a 3-14). Il cristianesimo
proto-ortodosso, lo chiama Dio, il mondo scientifico
contemporaneo cerca la particella che ha dato origine al
tutto. Nonostante tutti questi sforzi il perché dell’essere
e il perché del non-essere del niente rimangono ancora e
sempre un mistero. Per questa ragione il senso del destino
58
in termini greci è quello di una forza ineluttabile che non
coincide con una volontà personale, come nel caso del dio
cristiano-ebraico, che fa andare le cose in un verso e non
in un altro. Le ragioni di questo destino rimangono
imperscrutabili da un punto di vista razionale.
Quest’impossibilità della mente che cerca delle cause per
gli eventi del destino è argomento di una delle più grandi
manifestazioni artistiche delle grecità: il teatro tragico.
Parmenide nomina qui un nulla assoluto negandolo, mentre in
due frammenti successivi che esamineremo evidenzia il
carattere apparentemente conflittuale dell’essere come
notte e giorno, che potremmo chiamare “niente apparente”. A
causa di questa affermazione dell’univocità e dell’eternità
dell’essere si è soliti contrapporre Parmenide a Eraclito,
il pensatore del divenire che afferma la conflittualità
dell’essere. Nei capitoli successivi vedremo come invece
questa divergenza sia solo apparente e noteremo che
entrambi i pensatori affermano l’univocità dell’essere e
nello stesso tempo la sua conflittualità.
59
§5 Dike e themis
Dopo aver evidenziato il ruolo che gioca il concetto del
destino nella grecità, siamo in grado di comprendere meglio
la traduzione che Heidegger fa di altre due parole
fondamentali: dike e themis, “convenienza” e “ordinamento”.
“Convenienza” in senso di “concordanza”, ovvero
“concordanza con il destino”, ciò che si conviene col
destino e si confà a ciò che è stato assegnato. Themis
invece, tradotta con “ordinamento”, è di nuovo un sinonimo
di destino: il destino attuandosi diventa ordinamento. La
traduzione quindi di Reale di themis: “legge divina”, non è
errata, perché rimanda a una legge non normativa (umana),
ma universale. Il problema però è che “legge divina”
potrebbe essere intesa come legge in senso cristiano, come
comandamenti, come se ci fossero prima ancora dell’attuarsi
dell’ordine naturale del mondo delle regole o delle leggi
transcrivibili in forma di dottrina o codice (Mosè)
corrispondenti alla volontà divina. Themis in senso greco
non è un ordinamento transcrivibile o un insieme di regole
estrapolabili in forma di formule dalla realtà, ma
piuttosto una forza attiva, agente, un attuarsi eternamente
rinnovato e presente di un ordinamento (destino).
60
§6 Aletheia
Aletheia è il termine chiave del proemio parmenideo e
insieme con einai, “essere”, è la parola fondamentale di
tutto il poema. Parmenide, in maniera non frequente
nell’ambito letterario greco, chiama la verità “dea”. Lo
stesso viaggio è compiuto per recarsi al suo cospetto,
presso la dimora divina dove convergono le strade del
giorno e della notte. Heidegger fa derivare la radice
leth/lath di aletheia da lanthano che vuol dire
letteralmente “nascondersi” a cui è aggiunta un’alfa
privativa: aletheia diventa così secondo la lettura di
Heidegger in tedesco Unverborgenheit, che in italiano è
tradotto “non-nascondimento” o “dis-velamento” o
“svelatezza” (Heidegger 1999: 39-54). Nella prima parte del
corso su Parmenide Heidegger si chiede perché una parola di
fondamentale importanza come verità sia una negazione. Dopo
aver parallelamente citato l’etimologia del latino veritas
(75-83), il filosofo tedesco dà inizio a una serie di
ragionamenti linguistici che partono dal fatto che il
contrario di vero in greco non ha dentro di sè la radice
lath/leth, ma una radice totalmente distinta: infatti,
“falso” si dice in greco pseudos (84-101). L’idea di
nascondere e venire alla luce, insito nel carattere
conflittuale della verità (Heidegger 1999: 44-50) è
nominato da Parmenide nel binomio giorno/notte e in
generale in tutto l’ambito semantico greco relativo alla
luce e al vedere. Un verbo fondamentale nella lingua greca,
che non ha equivalente nella nostra, è phaino, “apparire”,
“mostrarsi”, “venire alla presenza”. Ancora oggi, quando
noi diciamo “fenomeno” intendiamo una manifestazione
sintomatica di una realtà che la trascende. Per il greco
invece il presentarsi era evento e non nascondeva nessuna
61
entità trascendente. Nell’immanenza del fenomeno si svelava
il divino che poi sarebbe tornato a velarsi quando il
fenomeno sarebbe scomparso o meglio ritornato nel
nascondimento. Di quest’apparire mostrantesi, lungi
dall’essere mera apparenza in senso moderno, noi facciamo
esperienza nella nostra vita, per esempio quando per molto
tempo non si trova la soluzione a un problema e poi di
colpo inaspettatamente ci appare. In quell’apparire, che
produce una sensazione determinata e localizzata al centro
del cervello, è insito un mostrarsi che si fa evento, un
evento che non ha durata ma coincide con l’attimo in cui si
ha l’intendimento, dopo di cui, pur lasciando traccia,
questo sentire si dilegua (tornando nel nascondimento).
Potremmo usare in italiano per nominare questo accadimento,
la parola intuizione, arrichendone però il suo ambito
semantico. Effettivamente la forma di verità (se così si
può dire) che Heidegger cerca nei greci ha più a che fare
con l’intuizione che con la deduzione. Possiamo anche dire
preliminarmente che Heidegger cerchi nei greci o
nell’Oriente dei sistemi culturali in cui la ragione
deduttiva lasci il posto all’intuizione empatica. In questo
saggio non si vuole discutere di quale di queste
interpretazioni della verità siano ontologicamente più
valide e originarie, ma cercare i presupposti per
comprenderne le differenze da un punto di vista storico,
ermeneutico e teoretico. Il carattere eminentemente
temporale della verità si evince anche dalla struttura
linguistica greca apparentemente impersonale usata con il
verbo lanthano/lanthanomai. Heidegger ne cita alcuni
esempi:
[...] ma quando ricominciava e lo spingevano al canto i re dei Feaci, che ai suoi racconti godevano, ancora Odisseo, coprendosi il capo, gemeva.
62
E a tutti gli altri “non potè nascondere le lacrime” (elanthane dakrua leibon); Alcinoo solo se ne accorse e capì, sedendogli accanto, [...] (OD 8.89-94)
Bisogna osservare che il verbo lanthano che in diatesi
attiva significa “nascondo” non è transitivo in greco, e
che quindi dakrua, “le lacrime”, non sono direttamente
riferite al verbo principale, ma al leibon, che è un
participio presente del verbo leibo, “versare”.
Letteralmente quindi “Ulisse rimase nascosto versante
lacrime” e solo Alcinoo se ne accorse. Heidegger riporta un
altro passo omerico, stavolta tratto dall’Iliade in cui è
impiegata la medesima costruzione (Heidegger 1999: 62-70):
Diceva, e l’asta scagliò, bilanciandola; ma vistala prima, l’evitò Ettore l’illustre: la vide, e si rannicchiò, sopra volò l’asta di bronzo e s’infisse per terra; la strappò Pallade Atena, la rese ad Achille, “non vista da Ettore” (lathe d’Ektora) pastore di genti. (IL 22.273-77)
La traduzione della costruzione verbo lanthano + participio
è spesso resa in italiano con la locuzione “all’insaputa”,
e anche il dizionario lo suggerisce (Rocci, 1943). Ma a
livello gramaticale risulta importante evidenziare la
funzione intransitiva di lanthano che è accompagnato
dall’accusativo di relazione Ektora: “rimase nascosta a
Ettore”. Accanto agli usi impersonali, il dizionario greco-
italiano riporta altri esempi dell’uso di lanthano il cui
primo significato riportato è “sono/sto/rimango nascosto”,
usato con l’accusativo della persona.
pasas Troas lathen “rimase occulta a tutte le troiane” (IL 3.420)
ou lethe Dios pykinon noon
63
“non sfuggì alla sagace mente di Giove” (IL 15.461)
ouk esti lathein ommata photos non possono celarsi gli occhi di chi... (Eschilo Agamennone 796)
Al medio invece lanthanomai significa dimenticare, questa
dimenticanza però non ha natura volontaria, avviene per
destino. Alcuni esempi:
pos an’Oduseos theioio lathoimen “come posso dimenticare il divino Ulisse” (OD 1.65) lathonto thouridos alkes “dimenticarono l’impetuosa forza” (IL 15.322) emeio lelasmenos “dimentico di me” (IL 23.69) lelasmenos oss’epeponthei “dimentico di quanto aveva sofferto” (OD 13.92) e lathet’e ouk enoesen: aasato de mega thumoi “forse scordò, o non vi pensò; e molto errò nel suo cuore” (IL 9.537)
Rimane comunque anche al medio l’idea di occultare: opos lelathoito tekousa “perché restasse occulto il suo parto” (Esiodo,Teogonia 471)
64
§7 Lethe
Heidegger chiama in causa direttamente Platone,
servendosene per chiarire il significato del sostantivo
lethe, derivato direttamente dal verbo lanthano. Questa
parola significa “oblio” e, come Hidegger riporta, Platone
chiama così nel mito di Er della Repubblica una pianura che
si incontra nel viaggio dopo la morte (Heidegger, 1999:
215-220). Il pedion lethes, “la pianura della
dimenticanza”, è avvertita dallo stesso Platone come un
luogo demonico a cui l’uomo è destinato attraverso la
morte. Leggiamo un ampio passo del mito di Er, tratto dalla
Repubblica di Platone:
Dopoché tutte le anime avevano scelto le rispettive vite, si presentavano a Lachesi (1) nell’ordine stabilito dalla sorte. A ciascuno ella dava come compagno il demone che quegli s’era preso, perché gli fosse guardiano durante la vita e adempisse il destino da lui scelto (2). Ed esso guidava l’anima anzitutto da Cloto, a confermare, sotto la sua mano e sotto il giro del fuso, il destino che s’era scelta dopo il sorteggio. Poi toccava questo e quindi la conduceva alla trama tessuta da Atropo rendendo inalterabile il destino una volta filato. Di lì senza volgersi ciascuno si recava sotto il trono di Ananke (3) e gli passava dall’altra parte. Dopoché anche gli altri erano passati, tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. Era una pianura priva d’alberi e di qualunque prodotto della terra (4). Al calare della sera, essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva di più della misura (5). Via via che uno beveva, si scordava di tutto. Poi s’erano addormentati, quando, a mezzanotte, era scoppiato un tuono e s’era prodotto un terremoto: e d’improvviso, chi di qua, chi di là, eccoli portati in su a nascere, ratti filando come stelle cadenti. Lui, Er, aveva ricevuto divieto di bere quell’acqua. Per dove e come avesse raggiunto il suo corpo non sapeva. Sapeva soltanto che d’un tratto aveva aperto gli occhi e s’era veduto all’alba giacere sulla pira. E così, Glaucone, s’è salvato il mito e non è andato perduto. E potrà salvare anche noi, se gli
65
crediamo; e noi attraverseremo bene il fiume Lete e non insozzeremo l’anima nostra. Se mi darete ascolto e penserete che l’anima è immortale, che può soffrire ogni male e godere ogni bene, sempre ci terremo alla via che porta in alto e coltiveremo in ogni modo la giustizia insieme con l’intelligenza, per essere amici a noi stessi e agli dei, sia finché resteremo qui, sia quando riporteremo i premi della giustizia, come chi vince nei giochi raccoglie in giro il suo premio; e per vivere felici in questo mondo e nel millenario cammino che abbiamo descritto.(Platone, Repubblica 620e-621d)
Questo celebre mito conclusivo del Libro 10 della
Repubblica espone la dottrina della metempsicosi. All’eroe
Er è concesso di raccontare la visione dell’aldilà.
Soffermiamoci su alcuni punti.
(1) Lachesi è nella Teogonia di Esiodo una delle tre moire,
figlia di Zeus e Themis, ovvero secondo quanto abbiamo
detto precedentemente, una delle tre figure del destino e
precisamente figlia dell’unione tra il cielo e
l’ordinamento. Le moire sono rappresentate mentre filano il
destino di ogni uomo. Cloto, la prima figura del destino,
significa in greco “io filo”, ed è raffigurata mentre fila
lo stame della vita. Lachesi (“destino”) svolge il filo sul
fuso, Atropo (“inevitabile”) lo recide con le cesoie. Nella
mitologia greca le moire sono ineluttabili e più potenti
degli stessi dèi. Quest’affermazione trova riscontro in
numerosi passi dell’Iliade: il destino si configura come
necessità ineluttabile a cui anche gli dèi sono sottoposti.
(2) Ekeinen d’ekasto on eileto daimona, touton phylaka sumpemein tou biou kai apopleroten ton airethenton.
Traduzione di F.Sartori (Platone, op.cit. 1967):
“A ciascuno ella dava come compagno il demone che quegli s’era preso, perché gli fosse guardiano durante la vita e adempisse il destino da lui scelto”.
66
Traduzione letterale:
“Lachesi a ciascuno (assegnava) il divino che aveva scelto per lui, come guardiano della vita e colui che desse compimento alle cose che erano state scelte per lui”.
Il traduttore dell’edizione Laterza vede il verbo eileto
riferito a ekasto, “ciascuno”, ma in realtà potrebbe essere
riferito al “destino” che dà a ciascuno, dopo la morte e
prima dell’inizio della prossima vita, il carattere
demonico che gli è stato assegnato. Infatti, come dicevamo
nei precedenti capitoli, il “destinare” non è opera di una
volontà personale. Il “demone” è quindi quella destinazione
che un’anima prende prima di reincarnarsi, a seconda di
come ha svolto la vita precedente.
(3) Ananke, “necessità” ovvero, è un sinonimo di Moira e
delle sue tre figure e ha il senso di mancanza.
(4) Lete, “dimenticanza”, è descritta come una pianura
arida e soffocante.
kai gar einai auto kenon dendron te kai osa phyei “era infatti vuota di alberi e di quanto la terra dischiude”
Sartori rende invece il verbo phyei con l’espressione “dare
prodotti”, ma secondo Heidegger, quest’interpretazione non
sarebbe del tutto corretta in quanto nel verbo produrre è
radicato il senso della produzione tecnica contemporanea.
Heidegger dedica un saggio alla questione della tecnica, in
cui fondamentalmente ne delinea l’essenza come impianto
(Gestell): la tecnica non è solo strumento ma è ambiente
che ha la caratteristica dell’impianto e dell’imposizione
(Heidegger 1976: 14). Ricordiamo che per Heidegger Physis è
il sorgere dell’essere dal vuoto apparente a partire da se
67
stesso; techne è il sorgere degli enti attraverso l’uomo,
il producere latino (Heidegger 1987: 193-256). Platone
descrive quindi la pianura come spoglia e vuota, una
vuotezza di elementi simile alla dimenticanza. La
dimenticanza è una tabula rasa, un vuoto, un niente
apparente.
(5) Ameles, il fiume la cui acqua non si può contenere, da
cui ogni uomo beve secondo misura.
metron men oun ti tou udatos pasin anankaion einai piein, tous de fronesei me sozomenous pleon pinein tou metrou “e tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva di più della misura”
Platone usa la locuzione anankaion einai, “essere
necessario”, in forma impersonale. Qui non è detto quindi
che gli uomini erano obbligati nel senso di costretti dalla
volontà di qualcuno, ma che ognuno beveva una quantità
d’acqua secondo il suo destino, e coloro che non erano
salvati dalla comprensione ne bevevano oltre la misura. La
“dimenticanza” viene a configurarsi quasi come un
nascondimento totale, o parziale, a cui l’uomo è costretto
dal destino, proprio perché il nascondimento è insito nella
natura stessa delle cose.
68
§8 Pseudos
Heidegger, nel corso su Parmenide, riporta i modi con cui
la grecità esprimeva il contrario di a-lethes, per
delucidarne meglio il senso (Heidegger 1999: 62-106).
L'opposizione generica a alethes è detta pseudos, e
presenta dunque una radice etimologica totalmente
differente dal suo contrario. Heidegger cita in primo luogo
Esiodo, che nella Teogonia (vv.233 e seguenti) parlando
della divinità Pontos, dice che generò Nereo e lo definisce
come apseudea kai alethea, letteralmente non falso e vero.
Questo passo risulta essere decisivo nell’intepretazione
heideggeriana, in quanto nomina nella stessa frase i due
contrari. Proviamo a ipotizzare perché per Heidegger questo
fatto sia così fondamentale, visto che nel corso della
trattazione non lo esplicita. La domanda infatti che sorge
spontanea é se questa descrizione di Nerea sia una
tautologia oppure se il nominare due sinonimi apparenti,
che hanno radici diverse, porti ognuno dei termini
all’assumere un’accezione lievemente diversa. Heidegger
cita un passo del secondo libro dell’Iliade:
[...] prin kai Dios aigiochoio gnomenai ei te pseudos uposchesis, ei te kai ouchi, [...] astrapton epidexi', enaisima semata phainon “Prima di sapere che la promessa di Zeus egioco fosse falsa o no” [...] “Lampeggiò a destra e diede un segno propizio” (IL 2.348)
Siamo di fronte a un segnale mandato da Zeus prima della
spedizione greca verso Troia, che sembrava propizio, ma di
cui ora non si è certi. La veridicità si riferisce a un
segno di Zeus, letteralmente: “lampeggiando a destra,
facendo apparire un segno favorevole”. Heidegger scrive:
69
L’essenza del sema, cioè del segno, implica che esso stesso appaia (si mostri) e in questo apparire indichi nel contempo qualcos’altro [...] Quand’è che essa (la promessa, il segno ndr.) è pseudos? Lo è quando i fulmini che balenano a destra in quanto segni del destino favorevole, velano il destino avverso che ai greci è stato riservato, cioè che è stato loro assegnato. (Heidegger 1999: 79-80)
Il segno, nel suo mostrare qualcos’altro che non si mostra
ma a cui esso rimanda, in qualche modo vela, occulta,
quindi è pseudos. Heidegger si serve unicamente di questo
passo per chiarire l’essenza dello pseudos e contrapporlo
alla svelatezza dell’alethes. Secondo questa visione però
noi, tornando al passo esiodeo, non riusciamo ancora a
chiarire perché il poeta nomini Nerea come apseudea e
alethea: la differenza tra i due termini ci rimane ancora
oscura. Heidegger, per definire l’essenza greca di pseudos
(e questa è la sua seconda “prova”), accenna all’uso
moderno della parola “pseudonimo” (Heidegger 1999: 84-90).
Lo pseudonimo non dice che il nome della persona a cui si
riferisce è falso, o che la persona è sbagliata, ci dice
che copre il nome originale di una persona, lo occulta.
Siamo di fronte solo a due accenni che ci portano a
ricondurre la radice di pseudos allo stesso ambito
semantico di alethes, ma dobbiamo verificare e approfondire
meglio questa relazione vedendo se è certa o no, trovando
altri usi ed esempi antichi e autorevoli di questa parola.
Prima però passiamo in rassegna gli altri termini greci che
si riferiscono all’ambito semantico del falso. Troviamo
sfallo (Heidegger 1999: 91-97), il cui uso fa riferimento a
una volontà soggettiva dell’occultare, quindi a un
ingannare, apatos, ovvero fuori-dal sentiero, quindi
deviato. Heidegger poi riporta i termini keutho, krupto,
kalupto, “celare”, “velare”, “coprire” che hanno un uso
70
quotidiano. Accenna a IL 23.244, Aidi keuthomai, “essere
celato nell’ade” e OD 3.16, “la terra cela i morti”,
sottolineando che qui il senso del celare si trasferisce
dal quotidiano diventando ontologico. A tal proposito
potremmo fornire un altro esempio, che appare spesso
nell’Iliade, come luogo comune (IL, 4.461-526): ton de
skotos osse kalupse, e “il buio gli velò gli occhi”13.
Tornando a pseudos, vediamo che l’uso che ne fa Omero si
riferisce soprattutto all’ambito del dire, dire il falso.
Il dire il falso era esperito come una volontà di inganno,
un dire menzogne, o più semplicemente come un implicito
occultare o velare? È difficile rispondere a questa
domanda, ma interessante guardare un uso di pseudos simile
per contesto a quello sopracitato. Si tratta di IL 21:
anche qui ci troviamo di fronte alla percezione di un
segnale che sembra falso. In questo passo Achille si
lamenta con Zeus perché, vedendosi vicino alla morte, dice
che sua madre l’ha incantato con falsità, promettendogli
una morte da eroe contrariamente a quello che sembra che
stia accadendo: Achille si trova infatti travolto da un
fiume. Zeus, rispondendogli, dice che non è destino che
Achille sia ucciso dal fiume, e quel destino è detto
aisimon, stessa parola usata anche nell’altro passo dove
Zeus è detto enaisima semata phainon (IL 2.348), “facente
apparire segni favorevoli, segni del destino”. Anche qui,
quindi quando Achille responsabilizza sua madre per avergli
detto cose false riguardo al suo destino, abbiamo
l’impressione che Omero voglia intendere, trattandosi di un
vaticinio, che sua madre gli occultasse il suo vero
destino. Da notare anche l’uso del verbo pseudo riferito a
parole come elpis (“speranza”) e logos (“parola”), nel 13 E’ importante notare, dalla frequenza con cui appare quest’espressione in Omero, come l’importanza fondamentale nella civiltà greca della facoltà della vista fosse espressa anche nel suo legame con la morte. La morte infatti è il buio che impedisce per sempre la luce (la vista delle cose).
71
senso di “speranze disattese”, “parole che disattendono
(fatti)”. Euripide, Ecuba 10131: pseusei s’odou tesd’elpis,
“la speranza di questo viaggio ti deluderà”, Eschilo,
Persiani: pstugne daimon, os ar’epseusas frenon Persas, “o
odiata divinità/destino come hai disatteso le intenzioni
dei Persiani”. Dagli esempi tratti rileviamo l’esistenza di
una sottilissima sfumatura tra “l’occultare “(pseudo) e
“l’ingannare volontario” (sfallo), ma non possiamo però
essere certi che la caratterizzazione di Nerea come
apseudea kai alethea, che potremmo tradurre come “non
occultata e non nascosta”, ovvero limpida e trasparente,
non sia una tautologia. Bisogna ammettere che, pur non
pensando che si tratti di una tautologia, non riusciamo a
chiarire la differenza tra i due termini. Quest’ammissione
porta con sè però un’importante risultato metodologico. Se
infatti il metodo etimologico che Heidegger utilizza
risulta essere una traccia importante di studio, non può
essere efficace, se non supportato da numerose prove
testuali che comprovino le tesi addotte. Infatti
l’interpretazione della grecità, da un punto meramente
testuale, può essere una valida pista che però non può
dichiararsi in se stessa scientificamente esaustiva,
dovendosi caratterizzare come un’ipotesi storica.
72
Capitolo 3
PARMENIDE, ERACLITO E ANASSIMANDRO
§1 Necessità di un’analisi etimologica dell’intero corpus
pre-socratico
Heidegger, nel corso su Parmenide, traduce e analizza
esclusivamente i versi finali (vv.22-32) del proemio,
trascurandone non solo l’ampia prima parte, ma tutto il
resto dei frammenti pervenuti dell’opera “Peri physeos”.
Non intendiamo qui fare delle considerazioni su quel che
Heidegger ha omesso, ma semplicemente mettere in evidenza
alcuni punti chiave dei testi attraverso un’analisi
comparata. Dopo aver fornito quindi alcune indicazioni
metodologiche (Cap.1) e aver confrontato la traduzione di
Heidegger di parte del proemio dell’opera di Parmenide con
quella di Reale, per metterne in luce l’interpretazione
(Cap.2), in questo capitolo cercheremo di applicare il
metodo etimologico di Heidegger anche a passi dell’opera di
Parmenide, che lui stesso non affronta e ne compareremo i
risultati con la traduzione che Heidegger ha fornito di
alcuni frammenti dell’opera di Eraclito nei corsi
semestrali del 1943 e del 1944, raccolti nel volume
Eraclito. Saremo così in grado di chiarire se
effettivamente, come sostiene il curatore della versione
italiana del volume su Parmenide (Heidegger, 1999: 17),
Heidegger abbia voluto scindere in due corsi distinti
l’analisi dei due interpreti maggiori della grecità pre-
platonica perché il loro pensiero era assolutamente
divergente, oppure se invece sia possibile concludere che
l’interpretazione heideggeriana del pensiero pre-socratico
sia omogenea e possa essere valida per entrambi i
pensatori. Nel corso del commento ai testi potremo iniziare
anche a evidenziare alcuni parallelismi lessicali e
73
teoretici esistenti tra il pensiero pre-socratico e quello
orientale, tema quest’ultimo, che affronteremo nel capitolo
4.
74
§2. Analisi e traduzione integrale del proemio di Parmenide
Le cavalle che mi portano fino a dove il mio spirito (1) desidera arrivare, mi mandarono, avendomi guidato e incamminato sulla leggendaria via (2) che è un destino divino (3) e che porta in molti luoghi (4) l'uomo che sa (5). Là mi portarono. Là infatti le assennate (6) cavalle mi portavano trainando un carro e ragazze facevano strada sulla via. L'asse mandava un sibilo metallico nei mozzi infiammandosi (infatti da entrambi i lati era premuto da due cerchi rotondi), e si affrettavano a guidarmi, le figlie del sole, dopo aver lasciato le dimore della notte, verso la luce, togliendosi via dal capo con la mano i veli della notte. Qui c’è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno: ha dai due lati un architrave e una soglia di pietra (7); la porta che risplende e arde nel cielo è assicurata da grandi battenti (8); la legge che molto castiga ha le chiavi che vengono in cambio (9). Le ragazze, seducendo la dea con parole delicate, la convinsero con intelligenza a toglier via velocemente per loro, la sbarra del chiavistello dalla porta. Questa aprendosi causò una vasta spalancatura dei battenti (10), facendo ruotare all'inverso gli assi di bronzo nei cardini, fissati con chiodi e borchie. Di là subito attraversando la porta, le ragazze condussero diritto carro e cavalle per la via maestra, e la dea mi accolse benevola, prese con la mano destra la mia destra, e rivolgendosi a me disse queste parole: "O giovane, compagno di immortali aurighi, che portandoti con le cavalle giungi alla nostra dimora, gioisci, perché non è un destino malvagio quello che ti ha portato ad andare su questa via (infatti è fuori dal sentiero battuto dagli uomini), ma un ordinamento divino e una giusta e necessaria convenienza. E' destino che tu tutto interroghi, sia il saldo cuore che non trema della verità che tutto avvolge, sia ciò che appare ai mortali, in cui non vi è garanzia di verità, ma in ogni caso anche questo imparerai, come fosse destino che le cose che appaiono, fossero così come sono, apparenti, essendo dappertutto in ogni dove (11). (DK Parm. B1)
(1) Ho tradotto thumos con “spirito”, perché è un termine
che può indicare sia lo “spirito vitale”, nel senso di
“soffio”, in greco pneuma, o psyche, ovvero “ciò che lega
l’uomo alla vita” (il respiro in senso fisico e in senso
lato) sia la sede delle emozioni, della vitalità e del
desiderio (Heidegger 1999: 186-191). Omero infatti diceva
thumon olesai, “togliere la vita“(IL), letteralmente
75
“annientare lo spirito”. Nell’Iliade esistono altri
numerosi esempi che indicano la poliedricità di questo
termine, che non va confuso con il termine latino animus né
con la ridefinizione cristiana del termine latino anima.
Thumos è “ciò che fa sì che un corpo sia vivo e non morto”,
è un “soffio“ perché fragile e sottile, è principio di
movimento e di volontà e desiderio.
(2) Polufemos odos, “la via leggendaria”, di cui molti
parlano, ha un parallelo in Omero OD 22.376, su te kai
polufemos aoidos, “cantore leggendario”, “cantore dalle
molte storie”, “famoso”, “di cui tutti parlano”. “Via” è
una parola che molte civiltà usano per indicare il cammino
iniziatico che conduce l’uomo alla verità14. La via della
verità, di cui troviamo un parallelo contemporaneo
cronologicamente a Parmenide nel Daodeching di Lao Zi il
Dao, letteralmente “la via”, è una via di cui gli uomini
molto discutono, rinomata, e leggendaria nella misura in
cui diventa mitica nel suo essere agognata.
(3) La via è un topos daimonios, “un luogo che appartiene
alla divinità”. Qui la parola topos è omessa perché il
riferimento al luogo è esplicitato dalla parola odos,
“via”. La via appartiene al demone, ovvero è divina, ma
siccome Parmenide non usa la parola theou, del dio, ma
daimonos, potremmo dire che la via si riferisce a una
realtà che ha a che fare con il mistero della vita e della
morte. Ho quindi aggiunto al termine divino la parola
“destino”, ovvero un luogo a cui tutti tendiamo per
necessità (a cui tutti siamo destinati) secondo quanto
detto a proposito di questa parola al §3 del Cap.2.
(4) La frase “che porta in molti luoghi” è detta
letteralmente “che porta in molte città”, usando il termine
antico astu, “costruzione fortificata dove risiedono gli
14 Il binomio polufemos odos potrebbe anche essere una variante di oime “la via dei canti” (Od. 8.481 -22.347)
76
uomini”. Qui la parola città potrebbe essere usata in
riferimento all’immaginario del viandante, del viaggiatore
che, nel suo cammino, trova e si ferma in molte città.
Parmenide caratterizza sempre di più il cammino della
verità come un viaggio (vedi le parole: “via”, “aurighi”,
“cavalle”, “città”, “carro”, “assi”, “mozzi”...).
(5) Per quanto riguarda eidota phota, “l’uomo che sa”, e la
sua etimologia legata alla luce e al vedere, rimandiamo a
quanto detto in precedenza15.
(6) Da notare anche il termine polyfrastos, riferito alle
cavalle, un termine che compare due volte nella letteratura
greca: in Parmenide e poi, molti secoli dopo, solo in un
altro autore, Oppiano del III sec. d.C., che scrive un
poema sulla caccia. Sembra che questa parola venisse
riferita agli animali: Oppiano la riferisce all’esca,
Parmenide alle cavalle. Ricordiamo che questa parola deriva
da frazomai, ovvero “mostrare”, “indicare” (lett. “le
cavalle molto mostranti”).
(7) Questo paragrafo è stato trascurato da Heidegger nel
suo corso, ma è in realtà molto importante perché, prima
ancora di annunciare il discorso della dea, Parmenide
descrive una porta da cui è costretto a passare, una porta
in cui convergono i sentieri della notte e del giorno. Qui
notte e giorno valgono per opposti che trovano un loro
ricongiungimento nella porta. Se seguiamo l’interpretazione
data da Heidegger alla parola aletheia (Heidegger, 1999:
57-83) come evento che esce dal nascondimento per poi
tornare a nascondersi, ovvero se effettivamente la verità
esperita “grecamente” ha all’interno una doppiezza o meglio
ancora un’opposizione (Heidegger 1999: 57-62), troviamo
giustificato l’impiego da parte di Parmenide di una serie
di espressioni e termini riconducibili al vedere e
15 Cfr. supra 46-47
77
all’opposizione di luce (non-nascondimento) e oscurità
(nascondimento) come tratti inevitabilmente alternantesi
della svelatezza. Ecco allora una serie di parole come
“Eliadi”, “o figlie del sole che lasciano le dimore della
notte e si tolgono i veli”, detti kaluptras, che erano i
veli che si usavano per coprire il capo probabilmente la
notte. Come accennavamo prima, la verità è, secondo
Heidegger, un evento che si manifesta per poi ritrarsi
(Heidegger 1999: 44-50); nel suo manifestarsi è giorno e
luce e nel suo ritrarsi è nascondersi nella notte. Tutta la
trattazione che Heidegger riserva alle parole che esprimono
i modi greci del “nascondere” come lanthano, krypto,
kalypto (Heidegger 1999: 121-125) trova un arricchimento in
questo passo: il giorno e la notte, l’essere e l’apparente
non essere si trovano a congiungersi in un punto, una
porta. Questa porta è sbarrata da due grossi battenti,
perché all’uomo solitamente non è concesso attraversarla.
(8) Il termine aither (v.13), tradotto abitualmente
“etere”, e aithomenos (v.7), “che brucia e si infiamma”
derivano dal verbo aitho, “accendersi/risplendere”, la cui
radice unisce il fenomeno luminoso con quello del calore e
dell’ardere (anche in senso figurato). Il carro, nella sua
bramosa ricerca della verità, arde e ardendo si illumina,
mentre la porta della verità dove giungono i sentieri della
notte e del giorno è una porta che risplende (e arde).
(9) Dike, il “destino necessario”, “la concordanza e
convenienza“ con la legge divina che si compie
indipendentemente da ogni volontà individuale, “molto
castiga” (polupoinos): reca molto dolore a causa della sua
durezza e della sua inevitabilità, ma in cambio ha le
chiavi della porta. Amoibos è un termine che indica sia
ricompensa, che corrispondenza e alternanza. Reale traduce
«giustizia ha le chiavi che aprono e chiudono», ovvero
legge amoibos con l’idea di “alternanza”; noi, invece,
78
pensiamo che il termine si riferisca piuttosto alla
“ricompensa” rispetto all’attenersi a dike.
(10) Letteralmente la vasta spalancatura dei battenti che
produce l’apertura della porta è detta in greco: “la porta
essendosi aperta produsse un’apertura spalancata dei
battenti”. Il momento in cui si apre la porta non è lento
né dolce ma sembra quasi che la porta si squarci. Questo
squarciarsi è molto simile alle descrizioni con cui nella
filosofia zen si parla dell’illuminazione, in giapponese
satori. Nella mente si produce una spalancatura, un aprirsi
subitaneo che fa vedere le cose nella loro essenza e nella
loro vera natura.
(11) Siamo giunti al discorso della dea, che Heidegger
riporta nel suo corso (Heidegger 1999: 36). Abbiamo provato
a tradurre direttamente dal greco all’italiano seguendo
l’interpretazione di Heidegger e provando a non passare
attraverso la traduzione tedesca. Abbiamo quindi tradotto
themis e dike, con “ordinamento divino e una giusta e
necessaria convenienza”, pensando che in italiano questa
perifrasi corrisponda meglio all’originale greco. Ma ciò
che soprattutto si è tentato di chiarire nella traduzione è
l’apparente opposizione doxa/aletheia, che come dicevamo
confrontando le traduzioni di Reale e Heidegger, risulta
essere in entrambi i casi poco chiara16. Seguendo Heidegger
noi pensiamo non si tratti dell’opposizione platonica tra
“opinione” e “verità“ (Repubblica 514a-517e), ma di una
descrizione del modo di mostrarsi della verità. La verità
si mostra attraverso ciò che appare, ma ciò che appare non
è apparenza nel senso in cui siamo soliti intenderla
(ovvero aspetto esteriore che nasconde la vera realtà delle
cose), ma tutto ciò che si presenta alla vista dell’uomo.
16 Cfr. supra 40-42
79
L’essere si manifesta attraverso ciò che appare, ma non
sempre si svela nella sua essenza e, proprio per questo,
mentre il cuore della verità è saldo perché “non trema”
(atremes), nella semplice apparenza non c’è
fiducia/affidamento/garanzia di svelatezza (verità).
Parmenide dà anche un’altra indicazione ,dicendo che le
apparenze sono necessarie e che bisognava che veramente
fossero così come sono, cioè apparenti, e che esse sono
dappertutto e in tutto, ovvero: l’essere stesso si dà
nell’apparire, ma solo a volte si svela nella sua verità17.
17 Cfr. infra 121-122
80
§3 I due sentieri della verità
Proponiamo ora l’analisi dei frammenti 2 e 3 dell’opera
“Sulla natura”, in cui Parmenide esplicita il senso di
aletheia.
Io ti dico, e tu ascolta e accogli la parola (prendendotene cura) (1), quali sono le uniche vie di ricerca che possono essere pensate (visibili con lo sguardo): la prima (dice) che è, e che non è non essere. E’ sentiero di fiducia (infatti accompagna svelatezza). L'altra (dice) che non è e (che) è destino che non sia. A te dico che è un sentiero del tutto oscuro e inviabile (2): infatti non ti è possibile conoscere il non essente, non é fattibile, né ti è possibile il dirlo (3). (DK. Parm. B2)
E’ la stessa cosa l’essere e il vederlo con la mente (4). (DK. Parm. B3)
(1) komizai del primo verso, è un verbo che ha a che fare
con l’ospitalità. Per questo ho aggiunto tra parentesi il
“prendere cura”, che definisce maggiormente un modo
dell’accogliere.
(2) Parmenide stabilisce due uniche vie di ricerca
percorribili per giungere alla verità; esse sono le sole
possibili, perché sono le uniche che possono essere
pensate. Qui bisogna però cercare di chiarire cosa
intendiamo con “pensare”. L’identità tra essere e pensiero,
tra io pensante e essere è un tema molto caro all’idealismo
tedesco (Fichte e Hegel). Il cogitare latino è per
Heidegger, il pensiero calcolatore di un popolo di
abilissimi ingegneri civili che non ha nulla a che fare con
il termine greco “pensare” (cfr. Heidegger 1999: 91-97).
Per poter meglio definire però a che genere di pensiero si
riferisca Parmenide, passiamo in rassegna i verbi greci con
cui si indica l’idea di pensiero. “pensare” è detto da
Platone principalmente in due modi: noeo e froneo. Proviamo
81
a chiarirne le etimologie. Froneo deriva da fren,
“cuore/mente”, sede non solo delle passioni, ma anche
dell’intelligenza18, noeo invece deriva da nous,
“mente/sguardo”. Mentre Aristotele usa piuttosto il verbo
sapere-conoscere, usando epistamai, un rafforzativo di
istemi, “stabilire”, “collocare”, Platone usa il verbo noeo
a proposito della teoria delle idee. Le idee sono in greco
le forme, l’aspetto visivo comune che hanno le cose tra
loro (Heidegger 1975: 67-72). In virtù del fatto che noi
conosciamo la forma di uomo, possiamo dire che quella data
persona è un uomo. L’idea ha quindi in origine un legame
molto stretto con la vista. Soltanto dopo, noeo diventa un
vedere intellettuale, un pensare in senso astratto. Ma se
in Platone l’antico legame tra pensiero e vista è un po’
sbiadito, in Omero era la stessa vista a dominare il
pensiero. Nell’Iliade troviamo tantissime volte il termine
noeo, il cui significato prima ancora di pensare è “vedere
nel senso di accorgersi”. Alcuni esempi: “ma tu
allontanati, perché non se ne accorga Era” (IL 1.522); “se
non lo vedeva subito la figlia di Zeus Afrodite (e lo
nascose stendendo il peplo ampio splendente)” (IL 5.312);
“Ma li vide la dea Era braccio bianco” (IL 5.711). Come
dicevamo all’inizio del nostro saggio19, il nuovo
significato che Platone dà alla vista è chiarito da
Aristotele proprio nell’incipit della Metafisica. Sul
differenziare e sul raggruppare (ovvero attraverso le forme
e le categorie) Aristotele fonda la “scienza”, episteme.
Possiamo quindi ipotizzare che attraverso una serie di
passaggi, il pensiero greco e occidentale abbia come
origine teoretica una vista che sente e che sa. Questo
vedere Omero lo diceva appunto, noeo, e possiamo per
18 Anche nella medicina tradizionale cinese la mente è associata al cuore, tanto da essere chiamata cuore/mente. 19Cfr. supra 47-48
82
ragioni cronologiche, ma anche letterarie, supporre che
anche Parmenide nei frammenti due e tre attribuisse a
questa parola il senso omerico e non quello più tardivo che
inizia ad affacciarsi alla storia all’epoca di Platone ad
Atene.
(3) Le uniche due vie che possono essere abbracciate con lo
sguardo sono:
1. (dire) che le cose sono, ovvero ricercare partendo da
questo fatto. Partire dal fatto che le cose sono.
2. (dire) che non c’è il niente, e partire dal fatto che
non si dia il niente per ricercare la verità.
Parmenide, secondo la traduzione esposta, non starebbe
dicendo che esistono due possibilità ovvero l’essere e il
niente e che l’ultima sia impossibile (cfr. traduzione di
G.Reale, DK Parmenide B2), ma che nella ricerca della
verità ci sono due vie possibili, una parte dalla
constatazione dell’essere, l’altra dall’impossibilità del
niente. Questi due cammini di ricerca, vale a dire la
riflessione a partire dall’essere oppure dal niente, sono
entrambe compresenti nelle varie tradizioni filosofiche
dell’umanità. Ma mentre la via di Parmenide si svolge a
partire dall’essere, il metodo zen, la riflessione
buddhista sulla vacuità e, in ambito occidentale, il
misticismo di Meister Eckhart, sono esempi della seconda
via che parte da una riflessione su ciò che potremmo
chiamare “l’impossibile possibilità del non-essere”.
Parmenide constata invece davanti all’esistenza di queste
due possibilità che la prima via è un sentiero di “fiducia”
(pistis) mentre la seconda via è oscura: infatti non
essendo dato conoscere il non essente, è più difficile da
praticare e soprattutto è incomunicabile. Infatti le
dottrine sapienziali che muovono dal niente si basano
83
sull’esperienza soggettiva della meditazione oppure su
pratiche esoteriche. Come rileva Severino, Parmenide getta
le basi e costruisce le fondamenta della filosofia, che è
uno sguardo all’essere dell’ente e un tentativo di renderlo
trasparente. Secondo la sua interpretazione, Platone e
Aristotele muoveranno da quest’esigenza di una conoscenza
luminosa e incontrovertibile dell’essere, la scienza, ma ne
devieranno il senso originario (Severino 1982: 19-61).
(4) Riprendendo l’analisi fatta riguardo al pensare in
termini greci, abbiamo voluto sottolineare la coincidenza
tra essere e coscienza dell’essere, che avviene per i greci
attraverso la parola, il pensiero, l’azione umana e la
vista, traducendo liberamente il noein (DK. B3) con “vedere
con la mente”. Secondo quest’interpretazione, il pensatore
eleate non starebbe affermando una generica identità tra
essere e pensiero (come pensa Reale), ma starebbe invece
dicendo che sono la stessa cosa l’essere e l’accorgersi
dell’essere, o per dirla in termini moderni, prendendo
spunto dalla psicoanalisi: “è la stessa cosa essere e
averne coscienza”. Infatti nella misura in cui l’uomo
vedendo le cose essere, si accorge dell’essere, allora
l’essere è. Deve esserci uno sguardo perché si possa dire
che l’essere è; solo lo sguardo fa sì che l’essere sia. Se
questo sguardo non ci fosse, allora sarebbe il niente
(impossibile). È in questo senso, come dicevamo nel cap.1
§4, che Heidegger vede coappartenentesi l’essere e il
pensare esperito come noeo.
84
§4 Il carattere conflittuale di aletheia Nel frammento 4 Parmenide torna a parlare di nous, mente,
intesa come sguardo:
Guarda come ciò che è lontano/assente alla vista della mente sia saldamente presente/vicino: infatti non potrai separare ciò che è dalla sua appartenenza all’essere, non essendo né disperso del tutto in ogni parte del cosmo, né essendo completamente raccolto insieme.
(DK Parm. B4)
Parmenide sembra affermare che non si possa separare una
cosa che è da tutte le altre cose che sono. Eppure dice che
l’essere non è né disperso completamente né completamente
raccolto. Lo sguardo della mente, cioè il pensiero, vede le
cose anche se assenti o lontane, la mente immagina oggetti
che non sono immediatamente presenti e li fa essere. In questo frammento si introduce un elemento nuovo, l’unità
dell’essere e il suo carattere eterno. Heidegger ha
impiegato nella sua filosofia un concetto che avrà molta
fortuna nel novecento: differenza ontologica (Tercic 2006:
101-109). Secondo questa celebre distinzione, da una parte sussistono gli enti, ovvero le cose che sono (piano
ontico), dall’altra è l’essere, ovvero la circostanza che
aldilà delle differenze tra le cose si dà comunque e solo
essere. Questa differenza, da un lato salvaguarda l’unità dell’essere, dall’altra in qualche modo ammette il
divenire. Le cose nascono, divengono e periscono, ma
l’essere considerato nel suo insieme rimane immutabile. Emanuele Severino, criticando questa tesi, cioè negando il
divenire delle cose, usa Parmenide come interprete assoluto
della dottrina dell’eternità dell’essere (Severino 2006:
109-128). Questa inconciliabilità tra essere e divenire è anche alla base dell’inconciliabilità che la tradizione
85
filosofica (compresi Heidegger e Severino) vede tra le
posizioni di Parmenide ed Eraclito, come è evidente nella
stessa prefazione di Franco Volpi all’edizione italiana del
volume su Parmenide di Heidegger.
L’argomento del corso sarebbe dovuto essere “Parmenide ed Eraclito”: il filosofo dell’essere e quello del divenire, ovvero - come preferisce interpretare Heidegger - i due pensatori aurorali che meditano sulla stessa cosa, cioè sull’Essere, sulla Physis, intendendola in termini opposti: come immobile unità o come diveniente articolazione e lotta di contrari. (Heidegger 1999: 16)
Se è vero che la meditazione dei due pensatori aurorali ha
per oggetto la stessa cosa, dobbiamo però domandarci quali
siano questi due punti di vista e se siano veramente
opposti. Nel testo di Parmenide che abbiamo appena citato
(DK Parm. B4), possiamo notare alcuni punti di incontro con
il pensiero di Eraclito che se opportunamente confrontati e
contestualizzati potrebbero incrinare l’interpretazione di
Parmenide come filosofo dell’univocità dell’essere
(Severino 1982: 19-81). Questo frammento ha un’analogia
diretta nell’uso dei termini “lontananza/assenza” e
“vicinanza/presenza” con il frammento 34 dell’opera di
Eraclito, che reca lo stesso titolo di quella di Parmenide,
ovvero “Sulla natura”.
Ascoltano, ma non capiscono, sembrano sordi; il detto gli è testimone: coloro che sono presenti/vicini, sono in realtà assenti/lontani. (DK Eracl. B34)
Qui Eraclito si riferisce agli uomini, mentre in Parmenide
il soggetto sono le cose; il tema, dunque, sembrerebbe a
prima vista diverso. Non è però scontato il fatto che
costruzione e senso della proposizione siano simili: ciò
che a prima vista sembra presente è in realtà assente.
86
Eraclito, in un altro frammento, dà a questa opposizione un
significato più pregnante:
Proprio da ciò che gli è più frequentemente famigliare, da quel LOGOS che tutto sottende, si distanziano; a loro viene incontro tutti i giorni, ma gli appare come qualcosa di estraneo. (DK Parm. B72)
Pur non usando il binomio assente/presente, ne abbiamo uno
molto simile: famigliare/estraneo. Ciò che è a noi più
vicino e famigliare, è in realtà più estraneo e lontano. Questa “cosa” viene da Eraclito detta Logos. L’apparire
greco (phaino20) ha in sé lo stesso carattere che Heidegger
definisce conflittuale della parola aletheia. Heidegger
cita un frammento di Eraclito per suggerire come il
conflittuale fosse essenziale nella vita del popolo greco e
stesse alla base del loro spirito agonale e competitivo.
Ma, aggiunge, queste ultime sono manifestazioni storiche
che hanno origine nel carattere conflittuale con cui la
grecità esperiva l’essere (Heidegger 1999: 57-60).
Polemos è padre e signore di tutte le cose: ne mostrò gli uni dei, gli altri uomini, gli uni li fece liberi gli altri schiavi (DK Eracl. B53)
Heidegger aggiunge che la parola polemos in Eraclito «è spesso usata a sproposito e riportata sempre e soltanto in
modo storpiato, ha in comune con il pensiero greco solo una
vuota risonanza verbale» (Heidegger 1999: 58). In un altro frammento che Heidegger non riporta si legge:
è necessario intuire come conflitto, concordanza e contesa siano comuni a tutte le cose, e che tutte le cose divengono e nascono secondo contesa e destino. (DK Eracl. B80)
20 Cfr. supra 61-73
87
Un termine analogo a polemos (“conflitto”) è in greco eris
(“contesa”), mentre dike è detta in altri frammenti dallo
stesso Eraclito armonia. In un altro frammento Eraclito
lega esplicitamente eris a dike:
Elios non andrà oltre misura: se no lo sorprenderanno le Erinni, le aiutanti di dike (DK Eracl. B94)
Le Erinni sono le divinità della discordia che portano il
nome di eris e nella mitologia sono le esecutrici della
vendetta e dell’espiazione della colpa21. Dall’analisi di
questo frammento e da quanto detto nei paragrafi precedenti
a proposito del mito di Er22, possiamo notare come per i
greci fosse centrale il senso della “misura” (metros) e
come sia eris (“discordia”) che dike (“concordia”) la
avessero come unità. Probabilmente, l’immagine più adeguata
per descrivere quest’opposizione discordante, questo
carattere conflittuale della verità, è quella delle
polarità elettromagnetiche. In natura ogni cosa ha una
carica elettrica che se messa in relazione con un’altra
crea un campo magnetico, in cui i due oggetti prendono
polarità opposte. Così come né il polo positivo né quello
negativo valgono in senso assoluto, ma sono riferiti sempre
a qualcosa, così la dottrina degli opposti eraclitea è
relativa sempre a un metros, “misura”. Il pensiero taoista
caratterizza queste polarità come yin (negativo) e yang
(positivo) che insieme costituiscono la ruota del Taiji:
l’unità essenziale. Nel famoso testo I-ching, yin e yang
sono rappresentati rispettivamente da una linea spezzata e
da una intera e componendosi formano 64 segni complessi che
secondo la cosmologia cinese sono in grado di descrivere i
21 Cfr. supra quanto detto a proposito delle Moire, 30,58 22 Cfr. supra 67
88
fenomeni. Lao Zi scrive: «Il Tao generò l'Uno, l'Uno generò il Due, il Due generò il Tre, il Tre generò le diecimila
creature. Le creature voltano le spalle allo yin e volgono
il volto allo yang (Lao Zi, 42)» I termini Yin e Yang
nascono infatti per designare i due lati di una collina,
quello ombreggiato è yin, quello al sole yang. Essi possono
mutare durante il giorno: infatti nel Canone interno
dell’imperatore giallo, uno dei testi di medicina più
antichi al mondo, si dice che Yin e yang vogliono dire che
ogni cosa può essere suddivisa infinitamente da uno in due
(Vasalli-Pulcri 2003: 43-44).
89
§5 Logos
Heidegger dedica alla parola logos e alla dottrina
eraclitea del logos l’intero corso semestrale dell’estate
1944. Nella prima parte del corso Heidegger affronta il
significato del termine logos e la sua traduzione con i
termini: “parola”, “ragione”, “Verbo divino”, “discorso”,
“argomento” (Heidegger 1993: 123-149). Heidegger fa
derivare la parola logos dal verbo greco legein,
“raccogliere”: logos, nella sua interpretazione, vorrebbe
dire quindi “parola che raccoglie” (Heidegger 1993: 175-
178). Vediamo alcuni esempi tratti da altre fonti
letterarie. Omero usa la parola logos poche volte e sempre
al plurale: IL 15.393 “lo confortava con le parole”, e
OD.1.56 “con molli e seducenti parole”, malakoisi kai
aimulioisi logoisi. Parmenide, nella sua opera, a logos
preferisce usare i sinonimi epos (cfr. DK Parm. B1 v.23) e
muthos (cfr. DK Parm. B2 e B8 v.1), riferendosi alla parola
che la dea pronuncia rivolgendosi a lui. Anche in Omero è
ben attestata un’espressione simile a quella parmenidea:
“dire parole”, dove parola è epos oppure muthos. Quest’uso
apparentemente >ogico23, potrebbe evidenziare l’importanza
di questa parola e nello stesso tempo segnalare la
differenza implicita tra il termine logos da una parte, ed
epos e muthos dall’altra. Confrontando infatti le fonti
sembra che questi ultimi due vocaboli siano usati nel senso
di “parola detta e pronunciata”, mentre logos ha già più
implicitamente (cfr. DK Parm. B1, v.15 e IL 15.393) il
senso di “discorso”. Platone impiegherà logos nel senso di
discorso in tutti i suoi dialoghi e da allora, a questo
significato inizierà ad affiancarsi anche quello di
“ragionamento”. In Eraclito invece la parola logos è
23 Cfr. supra quanto detto dell’uso tautologico a proposito di pseudos, 71
90
frequente, mentre assenti sono le parole epos e muthos24.
Ma Eraclito sembra fare di logos un uso diverso rispetto
agli esempi citati per Omero e Parmenide, quasi volendo
condensare in questa parola un contenuto iniziatico. Basti
citare il frammento 50 con cui Heidegger inizia il saggio
Logos (Heidegger 1976: 141):
ouk emou alla tou logou akousantas omologein sophon estin Ev Panta
Questo frammento può essere tradotto alla lettera:
“se non me ma il LOGOS avete ascoltato, è saggio dire la stessa cosa (essere concordi): tutto è uno”
Non abbiamo tradotto la parola logos perché ci sembra
opportuno elencare prima le varie accezioni con cui vari
traduttori l’hanno inteso in questo frammento. Snell
intende logos come “Senso”, Reale come “ragione”, Tonelli
invece non lo traduce, ma affidandosi a una nota chiarisce
come va inteso: «legge obbiettiva che è possibile
apprendere dal mondo circostante» (Eraclito 2005: 128).
Heidegger dedica tutta la terza sezione del corso sul logos
a ricapitolare il senso eracliteo di questa parola che
comprende come concordanza con l’essere e la verità, come
essenza propria dell’uomo, e come essenza del linguaggio
(Heidegger 1993: 227-251). Heidegger, come dicevamo, fa
derivare logos da legein nel senso antico di raccogliere.
Legein come “raccogliere” e “radunare” è frequentissimo in
Omero e sembra essere preesistente a quello di “dire”.
Secondo Heidegger il senso legein sarebbe quindi quello di
radunare l’essere alla presenza attraverso la parola
(Heidegger 1993: 187-194). Noi non troviamo però una
continuità evidente tra il senso eracliteo della parola
24 Cfr. Martin 1989
91
logos e quello che aveva questa parola in Omero e ci
risulta difficile quindi dare ragione a Heidegger e pensare
che questa parola nella grecità avesse per sta uto quello
che il filosofo tedesco vuole attribuirgli. Ci sembra molto
più corretto e prudente pensare che l’operazione fatta da
Eraclito fosse quella di attribuire un significato più
ampio e talvolta inesprimibile aduna parola della sua
lingua proprio, come fa Lao Zi con la parola Tao nel
Daodejing:
C'è un qualcosa che completa nel caos, il quale vive prima delCielo e della Terra.
A riprova della nostra ipotesi notiamo che nei frammenti
tramandati non troviamo mai la compresenza del verbo legein
con il sostantivo logos. Eraclito usa il verbo legein (e in
un solo caso il suo sinonimo eipein) ben sette volte (DK
Eracl. B32,19,93,114,112,73,56) e in tutti questi casi il
senso del verbo legein è dire/parlare con sfumature
leggermente diverse solo nei frammenti 32 e 93. La parola
logos è usata invece otto volte. Nei frammenti 39, 87 e 108
logos sembra indicare semplicemente la “parola” o “il
discorso riportato di qualcuno,” nel frammento 31 sembra
che stia a “equilibrio”, “proporzione”, “misura”, mentre
nei frammenti 1,2,72,45 logos sembra assumere quella
funzione specifica e quasi intraducibile a cui ci
riferivamo prima. È probabile infatti che la parola logos
racchiuda un significato sapienziale, iniziatico e quasi
esoterico (Eraclito 2005: 128), come si può intuire dalla
dedica con cui Eraclito apre il suo libro.
“Ai nottambuli, ai maghi, ai bacanti, alle menadi, agli iniziati”(DK Eracl. B14)
92
Il frammento 72, come abbiamo avuto modo di notare a
proposito del binomio “assenza/presenza”25, definisce il
rapporto tra logos e uomo come qualcosa di così familiare
da apparire estraneo. Il frammento 45 sottolinea ancora
meglio l’impossibilità di definire questo logos:
Non troveresti i confini dell’anima (psyche), pur percorrendo tutta la via, tanto profondo ha il (suo) logos. (DK Eracl. B45)
Psyche è un termine a noi familiare che rimanda alla
scienza della psiche, la psicologia, mentre per anima
intendiamo vagamente quella parte spirituale dell’uomo
distinta dal corpo. Heidegger legge invece psyche come
“soffio”, “respiro” (Heidegger 1993: 183-187), ciò che
rende vivo l’uomo in quanto rapportantesi con il mondo
(attraverso il respiro). Psyche infatti deriva dal verbo
psucho: “soffiare” (Rocci, 1943) e Omero intende psyche
come ciò che lega l’uomo alla vita: ton d’elipe psyche, “lo
lasciò la vita” (IL.5.696), e lo lega al termine thumos:
“Infatti Diomede Tidide, famoso con l’asta, li privò della
vita, del fiato, spogliò le inclite armi” (IL. 11.334-
335). Questi due versi fanno vedere come Omero caratterizzi
l’essenza dell’uomo come “avente armi” (teucha), “avente
soffio vitale” (psyche), “avente animosità” (thumos che
abbiamo tradotto con brama-animosità volontà desiderio
quando commentavamo il v.1 del proemio di Parmenide26).
Interessante citare un breve passo molto significativo
dell’Iliade
ed ecco a lui venne l’anima del misero Patroclo, gli somigliava in tutto, grandezza, occhi belli, voce e vesti uguali vestiva sul corpo;
25 Cfr. infra 86 26 Cfr. supra 35-36
93
gli stette sopra la testa e gli parlò parola: “Tu dormi Achille e ti scordi di me: mai, vivo, mi trascuravi, ma mi trascuri morto”. (IL 23.65-70)
E poco più avanti Omero aggiunge:
Tese le braccia, parlando così ma non l’afferrò: l’anima come fumo sotto terra sparì stridendo, saltò su Achille, stupito, batté le mani insieme e disse mesta parola: “Ah c’è dunque, anche nella dimora dell’Ade. “un’ombra” (psyche), “un fantasma” (eidolon), ma dentro non c’è più “la mente” (fren) Tutta notte l’ombra del misero Patroclo m’è stata intorno, gemendo e piangendo: molte cose ordinava. Gli somigliava prodigiosamente. (IL 23.101-107)
Eidolon, letteralmente immagine, è accostato a psyche, che
la traduttrice italiana rende in maniera un po’ libera con
“ombra“, probabilmente proprio rimandando alla leggerezza e
inconsistenza di psyche come “soffio”. A questo proposito è
utile citare un parallelo biblico dove Dio viene detto
“soffio”:
In principio Dio creò il cielo e la terra La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. (Genesi 1-2)
Nell’antica Cina invece si usava la parola qi per definire
l’energia di una persona, la sua essenza vitale, che veniva
anche detta soffio.
Vediamo come Eraclito indica nel frammento 2 un logos
proprio della psyche, un logos proprio dell’uomo e lo
caratterizza come profondo, vasto e sconfinato. Altri
frammenti ci danno ulteriori indicazioni del rapporto tra
uomo e logos:
94
Quindi bisogna seguire ciò che è la stessa cosa per tutti, ciò che è comune. E’ valido per tutti ciò che è comune. Il logos è comune, ma i più vivono come se avessero un’intelligenza personale. (DK Eracl. B2)
Di questo Logos, gli uomini sono sempre inconsapevoli, sia prima di ascoltarlo che quando lo ascoltano la prima volta. Sembra che mentre fanno cose o mentre si esprimono, non esperiscano che tutte queste azioni e parole avvengano secondo questo logos. Io le mostro, discernendo l’origine di ciascuna e la faccio vedere come essa è realmente. Ad altri uomini invece è nascosto ciò che fanno da svegli così come dimenticano ciò che fanno nel sonno. (DK Eracl. B1)
Il logos eracliteo si caratterizza quasi come una voce che
viene ignorata e rimane inascoltata anche se sottende
sempre tutto il reale. È una sorta di intelligenza o legge
universale su cui spesso gli uomini non si “sintonizzano”.
Ritornando al frammento 50, con cui abbiamo iniziato il
paragrafo, diamo un’ulteriore indicazione del senso di
LOGOS.
Se si ascolta il Logos e non me, sapienza è essere concorde col fatto che tutte le cose sono una sola. (DK Eracl. B50)
Essere concorde è detto in greco omologein, da omos
(“stesso, uguale”) e logos (“parola”). L’accordo che qui si
intende, secondo Heidegger, è tra l’uomo e il logos
(Heidegger 1993: 183-187): si è in accordo con il logos se
si esperisce la sostanziale unità di tutte le cose27.
Questa concordanza con un logos esperito come legge
naturale universale a cui l’uomo deve accordarsi è detto in
altri frammenti armonia e che Parmenide chiama dike
(“concordanza”) e themis28 (“legge universale”).
27 Cfr. a questo proposito il concetto di dionisiaco in Nietzsche e di aorgico in Hoelderlin, ovvero la possibilità nell’uomo di esperire l’unità del tutto prima del principium individuationis 28 Cfr. supra 59
95
Non comprendono come discordando da sé sia in realtà concorde, accordo che si volge all’indietro (al contrario), come avviene nell’arco e nella lira. (DK Eracl. B51)
L’immagine della lira aiuta forse a comprendere meglio il
“volgersi all’indietro” in quanto in greco armonia
significa anche “accordo musicale”. Questo accordo è
prodotto facendo vibrare la corda all’indietro, così come
nell’arco per scoccare la freccia si tende la corda
all’indietro per produrre un movimento in avanti. Nella
visione eraclitea, l’accordo tra opposti avviene secondo un
principio di forze che noi moderni potremmo dire di azione-
reazione (Heidegger, 1993: 227-230). E ancora:
L’accordo che non si mostra alla vista è superiore a quello visibile. (DK Eracl. B54)
Il concordare (raccogliersi insieme) dei contrari; e dai discordanti (nasce) il più bell’accordo. Tutte le cose si generano dalla contesa (polemos). (DK Eracl. B8)
96
§6. Essere e divenire
Nel paragrafo precedente abbiamo visto come alcune
espressioni, contesti, significati e parole siano comuni a
Parmenide e a Eraclito. L’uso omogeneo di queste
espressioni ci porta a fare due ipotesi: da una parte,
potrebbe indicare una vicinanza tra il pensiero di Eraclito
e quello di Parmenide maggiore rispetto a quello che la
tradizione filosofica e Heidegger stesso gli hanno
attribuito; dall’altra potrebbe segnalare l’esistenza di un
bacino culturale organico e comune nella grecia antica, da
cui i vari autori hanno attinto, aldilà della distanza
geografica e cronologica esistente tra loro, trattandosi di
un linguaggio tradizionale, cioè comune a chi usa una
dizione poetica condivisa. In questa sede ci limiteremo ad approfondire alcuni parallelismi che uniscono Eraclito e
Parmenide, continuando l’analisi comparata di alcuni
frammenti. In primo luogo, citiamo la prima parte del
famoso frammento in cui Parmenide nomina l’eternità
dell’essere e nega il non-essere:
Solo una parola rimane sulla via: “che è”. Su questa via ci sono segni (1) in abbondanza del fatto che ciò che è, è ingenerato e indistruttibile, infatti è intatto, non vacillante, senza fine. Non era una volta, né sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, raccolto (2); che origine cercherai di esso (3)? Come e da dove si sarebbe accresciuto? Non ti lascerò dire né pensare che venga dal non essere; infatti non è dicibile né pensabile il fatto che non sia. Quale destino avrebbe fatto sorgere prima o dopo, l’originarsi dell’essere (3), se fosse incominciato dal nulla? E’ destino che l’essere sia assolutamente oppure che non sia affatto. E non concederà nessuna solida certezza al fatto che possa nascere dall’essere qualcosa accanto a esso. Per questo una giusta necessità non lo lasciò libero di generarsi né di annientarsi, allontanandone le catene, ma con esse lo stringe. La scelta drastica attorno a queste cose sta in questo: è o non è. E’ stato deciso dunque, per necessità, che una via sarebbe indicibile e impensabile, non essendo infatti via di svelatezza,
97
l’altra è, ed è reale. Come potrebbe essere in futuro l’essere? Come potrebbe essersi generato? Se infatti si è generato, non è, né se fosse in procinto di essere in futuro. Così si spense una nascita e un annientamento (4) che non possono essere interrogati (pensati). Nè può essere disgiunto, poiché è omogeneo, e niente gli è in eccedenza, che gli impedisca di essere raccolto (unito), né gli è qualcosa di meno, essendo tutto pieno d’essere e per questo è tutto unito, l’essere infatti sta insieme all’essere. E non si muove dai grandi vincoli (5) ed è senza principio né fine poiché genesi e annientamento furono respinti lontano: li respinse l’affidarsi alla svelatezza. Lo stesso in se stesso giace presso se stesso e sta lì saldo. Infatti una necessità forte lo stringe nei vincoli del limite, chiudendolo attorno; è legge (6) il fatto che essere non sia senza compimento, infatti non gli manca nulla, il non essere mancherebbe di tutto. (DK Parm. B8)
Osservazioni:
(1) Sema: “segno”. Nei paragrafi dedicati a chiarire il
senso greco del nascondersi e dell’occultare abbiamo
riportato attraverso Heidegger due passi dell’Iliade, in
cui si evince il senso della parola “segno”29. Eraclito
nomina l’essenza del segno, sema, a proposito dell’oracolo
di Delfi:
Il signore che vaticina a Delfi, non dice e non nasconde, ma indica (semainei).(DK Eracl. B93)
Il dire iniziatico di Eraclito e Parmenide si configura
quindi come un dire che non spiega, ma è svelante nella
misura in cui indica (fa vedere30).
(2) Suneches: “raccolto”, letteralmente “che sta insieme”.
Si può evidenziare un’analogia con legein, dire nel senso
di raccogliere31.
(3) Phyo: “sorgere, originarsi”, da cui physis “natura”. Il
verbo fuo indica un nascere non biologico, un comparire, un 29 Cfr. supra 68-71 30 Cfr. supra quanto detto sul senso del vedere e del guardare presso i greci: 42-50 31 Cfr. infra 90-92
98
venire alla luce. Physis è secondo Heidegger ciò che sorge,
ciò che si schiude. Heidegger definisce questa parola
opponendola a techne. Techne (da cui il termine moderno
tecnica) è una parola che probabilmente deriva da teknon,
“figlio”, con cui la grecità, secondo Heidegger, definisce
quel sapere dell’ente, altrimenti detto episteme,
“scienza”, legato al produrre. Il produrre è un’azione
pensante che genera un ente a partire da un altro ente,
un’attività che è propria dell’uomo. Sempre secondo
Heidegger, la physis è invece il sorgere delle cose
spontaneamente, cioè a partire da se stesse, senza
l’intervento umano. Lo schiudersi è “un’attività” propria
invece della natura (Heidegger, 1993: 133-136). Eraclito
nomina la physis in ben tre frammenti: 1,112,123.
(4) Genesthai e ollusthai, “generarsi e annientarsi”.
Reale traduce con nascita e morte. In greco per genesis si
intende un “nascere da”, ovvero si mette in evidenza il “da
dove”, mentre per quanto riguarda il verbo phyo, “sorgere”,
non viene indicata la provenienza e proprio per questo
fatto si può tradurre in italiano con originarsi.
Genesthai, “generarsi”, rimanda a una catena di nascite, a
un divenire, mentre ollusthai ha il senso di annientare,
distruggere, annichilirsi. Parmenide usa questo verbo
proprio per indicare l’impossibilità dell’essere a divenire
niente.
(5) Peirasi: “nei vincoli”, “nei limiti”, parola
fondamentale nel detto di Anassimandro che commenteremo in
seguito.
(6) Kosmos esti: da kosmos, parola che significa sia
“ordine” che “universo”; viene dal verbo kosmeo,
“disporre”, “apparecchiare”, può essere quindi intesa come
“disposizione universale”.
99
Proviamo ora ad accostare alle parole di Parmenide alcuni
frammenti di Eraclito, seguendo l’interpretazione che
Heidegger ne dà all’interno dei corsi dei semestri 1943-44.
Se si ascolta il Logos e non me, sapienza è essere concorde col fatto che tutte le cose sono una sola. (DK Eracl. B50) Questo universo (disposizione universale) non lo fece (1) nessun dio né nessun uomo, ma era sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre vivo, che secondo la misura s’accende e si spegne (2). (DK Eracl. B30) Per coloro che sono svegli è unico e comune l’universo (3), invece ciascuno dei dormienti si volge indietro verso un suo cosmo particolare. (DK Eracl. B89) Il venire alla luce ama nascondersi (4) (DK Eracl. B123)
Osservazioni: (1) Poieo. Questo verbo è reso solitamente con “fare”. Ma
poiesis e poieo in greco avevano un senso specifico tratto
dal mondo artigiano. Poieo era il “fare”, “produrre”, a
partire da qualcosa (come il technein, da cui techne,
tecnica). L’idea che nessun dio né nessun uomo abbiano
“fatto” nel senso di “scolpito”, “modellato” l’universo è
radicalmente opposta da quella cristiana di un dio che
plasma il mondo secondo la sua volontà (Heidegger 1999:
202-209).
(2) “Accendersi/spegnersi”. Collegato a pur, “fuoco”,
“fiamma”. L’ambito semantico che si riferisce alla fiamma e
al fulmine è molto frequente nei presocratici come abbiamo
osservato a proposito di Parmenide32.
32 Cfr. supra 77
100
(3) Kosmos: vedi quanto detto a proposito di questo termine
nel frammento 8 di Parmenide (92-93)
(4) “Sorgere/nascondersi”: Eraclito attribuisce al venire
alla luce, cioè all’avere origine, allo schiudersi e al
sorgere nel senso che abbiamo chiarito precedentemente, i
tratti dell’inappariscente, ovvero quel carattere
conflittuale del darsi della verità che Heidegger rileva
anche in Parmenide (Heidegger 1999: 57-62).
In questa prima serie di frammenti abbiamo riscontrato un
utilizzo del lessico comune e dei parallelismi teoretici
notevoli. La parola kosmos per esempio è stata tradotta
“universo” in Eraclito, e “ordine” in Parmenide. Il verbo
kosmeo significa “disporre, apparecchiare, governare”. In
questo senso kosmos non è tanto usato in senso fisico, ma
in senso ontologico, nel senso cioè di quell’ordine,
chiamato da Parmenide “legge” (themis), o “convenienza,
concordanza” (dike), che si manifesta nella realtà
disponendo e sottendendo a tutto. Abbiamo incontrato anche la parola physis, spesso tradotta con “natura”, a cui
Heidegger dedica una profonda analisi nel suo corso su
Eraclito (Heidegger 1993: 133-136). Physis come abbiamo
visto non è uno spazio, che si contrappone alla polis,
ovvero come la intenderemmo oggi, il mondo naturale
contrapposto al mondo artificiale in cui abitano gli
uomini, ma un principio dinamico che genera vita. Quando
Eraclito nel fr.123 dice che la physis “ama nascondersi”,
nomina l’evento-aletheia cioè il carattere inappariscente e
conflittuale dell’essere (Heidegger 1999: 57-62). In natura
assistiamo in primavera al sorgere delle gemme, un sorgere
dal secco apparente. Quando nasce un filo d’erba il filo
sbuca, e quindi sorge, da una distesa di terra
apparentemente arida. Quest’esperienza, ancora una volta
visiva, era detta dai greci physis. Ecco perché Eraclito ci
101
dice che il sorgere ama nascondersi (Heidegger 1993: 85-
88). Infatti non vediamo il “da dove” del sorgere, eppure
sappiamo, come dice Parmenide, che l’essere non può avere
origine dal niente. Secondo questa interpretazione physis è
sorgere a partire dall’essere di cui non vediamo l’origine
(inappariscente). Possiamo qui introdurre due concetti,
cari al pensiero orientale che potrebbero esserci d’ausilio
nella lettura dei passi seguenti: il niente assoluto,
quello che per intenderci Parmenide dice impossibile,
dandosi solo essere, e il vuoto, il niente apparente da cui
si generano le cose. Il greco antico non aveva una parola
precisa per esprimere questo concetto, e usava la parola
niente, ouden o meden, letteralmente “non uno solo”. Per
questo motivo Eraclito, come vedremo, non può dire come per
esempio fa Lao Zi, che l’essere ha origine dal vuoto.
Mentre il cinese ha più parole per dire essere e
altrettante per dire niente33, il greco usa altre
espressioni che pur non nominando direttamente il niente,
rimandano a esso. Sono le parole che abbiamo visto nel
capitolo 2 di questo saggio: “velarsi”, “nascondere”,
“dimenticare”, “svelatezza”, “verità”, “veli della
notte”... e così via. Questi termini fanno riferimento
all’opposizione luce-notte sono frequenti e pregnanti non
solo in Parmenide ed Eraclito, ma anche in Omero. Per
tornare invece alle parole kosmos e physis, abbiamo tentato
di spiegare questi termini descrivendo l’immagine che
abbiamo della primavera e del fenomeno della
germogliazione, ma i greci, ed Eraclito in questo ci è
testimone, hanno un’altra immagine a cui spesso si è data
una connotazione esclusivamente simbolica. Quest’immagine è
quella della fiamma e della folgore. In Omero Zeus è
associato al “fulmine” (keraunos) e, come abbiamo visto, il
33 Cfr. infra 114
102
fulmine è associato al “segno premonitore”34 (sema). Se in
molte culture tra cui l’inca, quella germanica e quella
giapponese, per fare degli esempi, c’è una divinità
associata al fulmine, la peculiarità greca è che il dio del
fulmine è il padre di tutti gli altri dei. Il fulmine
assume quindi una valenza chiave nell’immaginario greco. Il
fulmine è luce abbagliante che rischiara per un momento la
notte. L’essere luce che rischiara e che si fa evento
momentaneo e repentino che subito sparisce (tornando a
nascondersi) è un’immagine che, per la civiltà greca, che
abbiamo caratterizzato come civiltà della luce, del vedere
e della svelatezza, diventa appunto emblematico (Heidegger,
1993: 106-113). Heidegger cita un frammento di Eraclito a
proposito del fulmine.
L’uno, l’unica cosa saggia, vuole e non vuole essere chiamata con il nome di Zeus (della folgore). (DK. Eracl. B34)
Eraclito in un altro frammento non commentato da Heidegger,
aggiunge:
Il fulmine regge il timone di tutte le cose. (DK. Eracl. B9)
All’immagine del fulmine è associata anche quella della
“fiamma” (pur) detta a volte pur aithomenos, parola che
troviamo anche nel Proemio dell’opera di Parmenide35,
riferita sia alla ruota del carro che brucia, sia alla
porta che congiunge i sentieri del giorno e della notte (la
verità). Nell’esperienzialità greca il fuoco è ciò che
brucia e divampa nello spirito, rendendolo vivo, ma anche
ciò che ardendo illumina (Heidegger 1993: 106-113). Pur è
34 Cfr. supra 68-70 35 Cfr. supra 77
103
un principio dinamico che Eraclito associa all’essere;
infatti, nel frammento che abbiamo visto, egli chiama il
cosmo, cioè la disposizione universale, la legge che
sottende a tutto il reale, ovvero l’essere: pur aeizon,
“fuoco sempre vivente” (Heidegger 1993: 69-72). Esaminiamo
un altro frammento che nomina la fiamma:
Il dio è giorno notte, inverno estate, conflitto pace, sazietà fame, diventa altro come il fuoco, quando è associato ad aromi, è chiamato secondo il piacere di ciascuno. (DK Eracl. B67)
Abbiamo qui una sostanza mutevole, il fuoco, che è chiamato
in diversi modi a seconda del punto di vista. Anche
Parmenide nella seconda parte del frammento 8 che
riportiamo, nomina la mutevolezza apparente dell’essere.
La stessa cosa è il pensare e per questa ragione si dà il pensiero. Infatti senza l’essere, nel cui ambito è ciò che è detto, non troverai il pensare. Infatti niente è o sarà qualcosa a fianco dell’essere, poiché il destino lo vincolò a essere intero e immobile. Tutto ciò avrà tutti i nomi che i mortali gli metteranno sopra, essendo persuasi di essere nella svelatezza: generarsi e annientarsi, essere e non essere, il mutare luogo, il cambiare il luminoso sembiante delle cose. Inoltre poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto in ogni luogo, simile a una mole sferica che tutto circonda, dal centro uguale da ogni parte in tutto; infatti è di necessità il fatto che né qui né lì ci sia qualcosa di più grande e qualcosa di più piccolo, né è possibile che l’essere sia qualcosa in più o in meno dell’essere, poiché è un tutto inviolabile uguale in tutto, in modo uguale si incontra nei suoi confini. (DK Parm. B8)
Eraclito ribadisce quest’idea dell’unità del tutto in un
famoso passo:
La stessa cosa è il vivente e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: infatti queste cose trapassando, diventano quelle, e quelle trapassando ritornano queste.
104
(DK Eracl.B88) Dai passi che abbiamo citato si ripropone come non risolta
la questione della differenza ontologica36. Infatti
Parmenide sembra ammettere contemporaneamente
l’immutabilità dell’essere che Eraclito chiama uno/fuoco
(piano ontologico) e il divenire (piano ontico) che
Eraclito nomina attraverso una serie di contrari e
Parmenide attraverso il binomio giorno/notte o attraverso
il termine genesis (“generazione”) . Nella terza parte del
frammento 8 anche Parmenide nomina il fuoco:
Qui metto fine alla parola che trae fiducia e al pensiero che accompagna svelatezza. Impara da ciò le opinioni periture dei mortali prestando ascolto alla disposizione seducente delle mie parole. Essi stabilirono di dare segni diversi (nomi diversi) a delle apparenze la cui unità non è data, e in questo sono fuorviati. Le giudicarono figure opposte e gli diedero segni diversi separandoli l’uno dall’altra; da un lato stabilirono il folgorare della fiamma che si eleva in alto, che è benigna e molto leggera, a se stessa in tutto identica, ma non identica all’altra. Dall’altro stabilirono l’altro da sé, l’opposto, la notte priva di luce, figura densa e pesante. Io a te dichiaro che questa disposizione, è assolutamente apparente, affinché nessuna tesi dei mortali ti possa fuorviare. (DK Parm. B8)
Nel frammento successivo stabilisce il senso
dell’opposizione luce/notte:
Dal momento che tutto è chiamato luce e notte e le cose derivano secondo la forza di ciascuna, da questa o da quella, tutto è allo stesso tempo pieno di luce e notte che occulta, uguali entrambe, poiché in unione con nessuna delle due c’è il nulla.(DK Parm. B9)
Eraclito:
36 Cfr. supra quanto detto a proposito della differenza ontologica in Heidegger e Severino cfr.84-87
105
Se non fosse sole, sarebbe notte. (DK Eracl. B99)
Parmenide e Eraclito chiamano notte quello che gli
orientali chiamerebbero niente apparente; l’essere
appariscente, invece giorno. Entrambi sono la stessa cosa e
nessuno dei due è niente. A conclusione di questo capitolo
citiamo ancora due frammenti: nel primo Eraclito nomina
esplicitamente l’unità tra giorno e notte in maniera
identica a Parmenide, nel secondo afferma l’eternità
dell’essere. Attraverso questo frammento, Heidegger
descrivendo l’esperienza greca del tramontare37, prenderà
le mosse per chiarire l’essenza del nascondimento
(Heidegger 1993: 34-56), già affrontata nel corso su
Parmenide38.
Maestro di molti Esiodo; essi ritengono che sapesse molte cose, lui che non conosceva la distinzione tra giorno e notte. Sono infatti una sola cosa. (DK Eracl. B57)
Di fronte al non tramontare39, come può uno nascondersi? (DK Eracl. B16)
37 Cfr. supra 28 38 Cfr. supra 60-74 39 Per i greci il tramontare era l’andare nel nascondimento del sole. Per questo motivo Eraclito dice: Il sole è nuovo ogni giorno (DK Eracl.B6)
106
§7 Il detto di Anassimandro come sintesi tra il pensiero di
Parmenide ed Eraclito
Per dare un ulteriore chiarimento al difficile concetto di
differenza ontologica, citeremo il famoso detto di
Anassimandro: il terzo pensatore che Heidegger include tra
gli unici a essere veramente iniziali (Heidegger 1993: 7) e
di cui commenta il famoso frammento nel saggio “Il detto di
Anassimandro”. Questo passo ci servirà da tramite e sintesi
tra il pensiero di Parmenide e quello di Eraclito. Ecco la
versione che ne dà Reale:
Anassimandro ha detto che principio degli esseri è l’infinito; da dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la dissoluzione secondo la necessità: essi pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. (DK Anassimandro B1)
Heidegger invece rifiuta come posteriore e non autentica la
prima e l’ultima parte del detto (seguendo la lezione di
Burnet) e fa incominciare la traduzione da kata to chreon:
Lungo il man-tenimento; essi lasciano infatti appartenere l’accordo e quindi anche la cura-riguardosa dell’uno per l’altro (nella risoluzione) del disaccordo. (M.Heidegger 1968: 347).
Come scrive Umberto Galimberti, questa traduzione è frutto
dell’interpretazione da parte di Heidegger del senso che i
greci davano alla parola “essere”: mantenimento è il
soggiornare dell’ente nell’essere (chreon, destino,
necessità), mentre dike è da intendere come accordo, come
abbiamo avuto modo di vedere nel secondo capitolo di questo
saggio40.
40Cfr. supra 59
107
Se infatti all’essere appartiene l’apparire, il modo di apparire dell’essere avviene necessariamente nei limiti (peras) espressi dalla determinazione degli enti, in cui l’essere nel suo dispiegarsi “termina”. L’essere come indeterminato fondamento (apeiron) di determinazioni (peras) resta altro rispetto all’apparire determinato dall’ente, resta assente rispetto alla sua presenzialità determinata. (Galimberti 2005: 102)
Questo passo spiega il senso della differenza ontologica
individuata da Heidegger tra essere degli enti ed essere
dell’essere, e concilia in qualche modo, attraverso
l’analisi del frammento di Anassimandro, le posizioni di
Eraclito e Parmenide.
Anassimandro ha trovato il principio dell’essente nel senza limite. Dal senza limite proviene il generarsi dell’essente, ma di necessità proviene dal senza limite anche l’andare verso la dissoluzione da parte dell’essente, in questo modo, secondo l’ordine dettato dal tempo, l’essente offre accordo vicendevolmente con l’essente con cui è discorde. (DK Anassimandro B1)
108
Capitolo 4
HEIDEGGER TRA GRECI E ORIENTE
§1 Cenni storici e testimonianze
Come dicevamo nell'introduzione a questo lavoro41, sono
scarse le opere che indagano i rapporti diretti tra
Heidegger e l'Oriente; più frequenti invece sono gli studi
comparati tra la filosofia di Heidegger e quella orientale.
Carlo Saviani riporta nel suo prezioso testo i pochi cenni
che Heidegger dedica, nei suoi libri e nei suoi corsi, alla
filosofia orientale sintetizzandone gli aspetti principali:
In primo luogo, a differenza di Schopenhauer e Nietzsche, Heidegger dedica una minima attenzione al Buddhismo; anzi, dai due pensatori sembra ereditare un'immagine nichilistica; ma, in secondo luogo, anche dagli ultimi brani citati appare chiaro come Heidegger abbia comunque nutrito un serio interesse per quelle tradizioni del pensiero orientale, nelle quali ha scorto, se non una possibilità di salvezza da accogliere in modo immediato e ingenuo, certamente un necessario e stimolante interlocutore nello sforzo di ridefinire radicalmente il compito e l'andamento del pensiero filosofico. (Saviani 1998: 17)
Oltre ai pochi accenni che Heidegger dedica alla filosofia
orientale nei suoi lavori, Saviani riporta gli incontri che
Heidegger ha avuto durante la sua vita con rappresentanti
del pensiero orientale, soprattutto cinese e giapponese.
Nell'ambito della nostra analisi comparata, ci
focalizzeremo soprattutto su tre incontri che risultano
essere rappresentativi degli interessi principali che
Heidegger nutriva verso l’Oriente. Il primo incontro è
quello col cinese Paul Hsiao, con cui negli anni ‘40,
41 Cfr. supra 3-4
109
progettò di tradurre in tedesco il famoso testo taoista
Daodejing di Lao Zi (Saviani 1998: 41-47). Il secondo
incontro riguarda l’essenza del linguaggio e avviene nel
1954 con il professore di letteratura tedesca
dell’Università di Tokio, Tomio Tezuka (Saviani 1998: 60-
64), mentre l’ultimo incontro ha per oggetto l’essenza
dell’arte e avviene nel 1958 con Hoseki Hisamatsu, allievo
di un monaco zen rinzai e professore di filosofia e
buddhismo presso varie università giapponesi (Saviani 1998:
64-70). L'interesse che Heidegger esprime per la filosofia
taoista e zen è speculare alle indagini che egli dedica ai
pre-socratici, come afferma lo stesso Hsiao: «La concezione di Lao Zi del wu, del niente, e la sua avversione nei
confronti di qualunque tipo di razionalismo corrispondevano
alle idee di Heidegger (Saviani 1998: 19)». In un'altra
testimonianza, Hsiao riporta un colloquio con Heidegger
avuto mentre discutevano di un passo del Daodejing.
Heidegger chiese: «Perché i cinesi parlano in questo modo?
(Saviani 1998: 45)» Dopo aver atteso un po’, rispose:
«Perché i cinesi di quel tempo non conoscevano la logica aristotelica! Grazie a dio no! - ribatté spontaneamente
Heidegger (ibidem)». Da queste poche righe significative
notiamo che sia il pensiero orientale che quello pre-
socratico sono, per Heidegger, esempi di un pensiero non
ancora “macchiato” di aristotelismo. Se però ai pre-
socratici ha dedicato studi approfonditi, gli incontri con
l’oriente seppur significativi, saranno solo sporadici. Per
Heidegger infatti:
Ogni meditazione su ciò che è oggi, può sorgere e svilupparsi solo se mediante un dialogo con i pensatori greci e il loro linguaggio, affonda le radici nel fondamento della nostra esistenza storica. Questo dialogo aspetta ancora di essere iniziato. Esso è a malapena ancora in via di preparazione e rimane a sua
110
volta la condizione per l’indispensabile dialogo con il mondo dell’oriente asiatico. (Heidegger 1976: 29)
Dalle testimonianze che abbiamo a disposizione siamo in
grado di stabilire un altro punto di incontro
nell’interesse di Heidegger per Grecia e Oriente: il
linguaggio. Vedremo come Heidegger, sulla scia del lavoro
etimologico fatto sul greco, cerchi di approfondire nei
suoi incontri con gli orientali aspetti propriamente
linguistici: si chiede cioè con quali soluzioni le lingue
cinese e giapponese esprimano il loro rapporto con
l'essere, cioè in che modo l'essere sia nominato in quelle
lingue. Vediamo come anche rispetto a questo aspetto
specifico ci sia una corrispondenza con lo studio dei pre-
socratici, presso cui, come abbiamo avuto modo di vedere,
la riflessione filosofica prende le mosse da un’analisi
ermeneutica e filologica. Il problema della conoscenza
della lingua e l’urgenza di un’ermeneutica restano per
Heidegger il problema principale per avviare
«l’indispensabile dialogo con l’Oriente (Heidegger 1976:
29)» a cui accennavamo. In una lettera indirizzata ai
relatori di un convegno, tenutosi presso l’Università
delle Hawaii del 1969, dal titolo “Heidegger and Eastern
Thought” (Saviani 1998: 47) Heidegger scrive:
più volte mi è apparsa l’urgenza di un dialogo con i pensatori di quello che per noi è il mondo orientale. In questa impresa la più grossa difficoltà consiste sempre, secondo me, nel fatto che salve poche eccezioni, non c’è padronanza delle lingue orientali né in Europa né negli Stati Uniti. (Feist Hirsch 1970: 222)
Se il problema della traduzione rimane lo scoglio più
grande nell’avvicinamento di Heidegger al pensiero
orientale, vediamo come i suoi stessi interlocutori nutrano
111
dubbi sulla correttezza filologica del suo metodo. Lo
stesso Hsiao, che nell’estate del 1946 aveva lavorato con
Heidegger alla traduzione del Daodejing ,esprime alcune
perplessità sul lavoro svolto:
I could not during our work together get free from a slight anxiety that Heidegger’s notes might perhaps go beyond what is called for in a translation. As an interpreter and a mediator this tendency unsettled me. (Parkes 1987: 98)
Un altro elemento importante per delineare il quadro
generale dei rapporti tra Heidegger e l'Oriente è la
ricezione che le opere del filosofo tedesco ebbero nel
Giappone del dopoguerra, come riconosce l'interlocutore
giapponese nel famoso colloquio di Unterwegs zur Sprache.
G.[...] noi in Giappone siamo stati in grado di intendere subito la conferenza Was ist Metaphisik?, quand’essa ci giunse nel 1930 nella traduzione che ne arrischiò uno studente che a quel tempo frequentava le sue lezioni. Noi ci meravigliamo ancora oggi come gli europei siano potuti cadere nell’errore di interpretare nihilisticamente il Nulla di cui si ragiona nella conferenza accennata. (Heidegger 1997: 97)
E ancora:
La reazione allo scritto in Europa, lo bollò come nichilismo e ostilità nei confronti della logica. Nell’estremo oriente si trovò in esso, nell’espressione Niente correttamente intesa la parola Essere (Heidegger 1992: 219)
Una volta esposto sommariamente il quadro generale in cui
si situano i rapporti che Heidegger ha intrattenuto con
l’Oriente, ciò che ci preme individuare in questa sede sono
i parallelismi e le corrispondenze tra il pensiero greco e
quello orientale nelle interpretazioni heideggeriane.
112
§2 Parallelismi teoretici e semantici con il Daodejing
Nel capitolo precedente abbiamo dedicato le nostre ricerche
alla chiarificazione della parola logos, alla luce
dell’interpretazione di Heidegger42. Il logos eracliteo
indica l’essere e la sua coappartenenza all'uomo. Logos è
anche l'uno, l'unica cosa da pensare, la verità e anche la
natura intima delle cose (physis). Tutte queste
declinazioni sono soltanto aspetti di un qualcosa di più
ampio che sfugge a ogni definizione e concettualizzazione,
che Eraclito chiama appunto logos. Heidegger ne rileva
indirettamente l'intraducibilità, affermando in Identità e
differenza a proposito della parola tedesca Ereignis, resa
abitualmente in italiano con “evento”, che «essa è
altrettanto difficile da tradurre quanto la parola greca
logos e la cinese tao (Heidegger 1982: 12)». In L'essenza del linguaggio aggiunge:
La parola-guida nel pensare poetante di Lao Zi suona "tao" e propriamente significa "via". Ma poiché ci si rappresenta in modo superficiale la via come tratto di collegamento tra due luoghi, si è frettolosamente scartato il termine "via"[...] Si è così tradotto tao con ragione, spirito, senso, logos. Ma il Tao potrebbe essere la via che tutto av-via [...] Forse nella via tao si nasconde il mistero di tutti i misteri del dire pensante [...] Tutto è via. (Heidegger 1997: 56)
Riportiamo le parole di Lao Zi stesso:
La via di cui si può parlare non è una via costante. Il nome che si può nominare non è un nome costante. Senza nome (il non-essere) è l’origine del cielo e della terra, con il nome (l’essere) è la madre di tutte le creature. Chi è privo di desideri può coglierne il mistero, chi è offuscato dal desiderio può vederne i limiti. Essere e non essere hanno comune origine sebbene siano designati con nomi differenti, insieme
42 Cfr. supra 90-96
113
essi sono il mistero dei misteri, la porta delle meraviglie (Lao Zi, 1)
Da un’analisi di questo passo possiamo constatare come le
parole chiave, su cui Heidegger ha centrato la sua
interpretazione dei testi del pensiero pre-socratico,
abbiano delle analogie con alcune parole usate da Lao Zi.
Oltre l’analogia tra il dao (via) di Lao Zi e il logos di
Eraclito43 troviamo delle corrispondenze tra dao e odos
(76), tra quanto detto a proposito di sema (69-71,98,103) e
«il nome che non si può nominare», tra physis (99-102) e origine, tra essere e non essere e giorno e notte
(61,75,77-78,104-198), tra «sebbene siano designati con
nomi differenti», il fuoco eracliteo (100,101,104-105) e
l’essere di Parmenide che può essere chiamato con tutti i
nomi dell’universo (105). Abbiamo inoltre già citato la
corrispondenza tra il soffio taoista qi e quello greco
psyche (86-88), tra fren e il mente/cuore (82) della
Medicina Tradizionale Cinese. Possiamo poi individuare
altri parallelismi tra l’immagine del bambino taoista, che
possiede il dao (28), e l’immagine dell’eternità che è un
fanciullo che gioca (Eraclito B52), il senza limite di
Anassimandro (107-110) e le immagini taoiste del vuoto che
prende forma (117-118). Alcune di queste corrispondenze
sono oggetto dell’analisi che Reinhard May conduce nel
capitolo 3 dello studio Heidegger’s hidden sources. La
conclusione a cui giunge attraverso l’analisi comparata è
che Heidegger debba gran parte delle idee centrali della
sua filosofia, e per conseguenza gran parte
dell’interpretazione dei presocratici, alla filosofia
orientale che si configura proprio a parere suo, come si
43 Cfr. supra 99-105
114
evince dal titolo del suo libro, come una fonte nascosta e
tenuta in segreto (May 1996: 52).
115
§3 La questione del niente
Le considerazioni di May e la lettura del di Lao Zi 1-25 ci
riportano alla dottrina eraclitea degli opposti e al
binomio giorno notte di Parmenide in cui abbiamo
individuato la nozione di niente apparente che nei greci
non è stata mai affrontata e nominata direttamente. Il
concetto di niente apparente è stato affrontato soltanto
indirettamente dai greci, mentre gli antichi cinesi lo
hanno nominato direttamente attraverso il termine wu. Carlo
Saviani riporta un passo illuminante di Charles a proposito
di questo concetto (tratto dall’articolo L’ereignis dans le
Tao).
In cinese “essere” e “non essere” sono resi con shih e fei, come copula di giudizi di adaequatio, con ts’un e wang, nel significato di presenza persistente, e con yu e wu, in quello di possesso d’essere, di identità, di sostanzialità. Ora se shih non è mai detto a proposito di Tao e ts’un vi è riferito sono metaforicamente, Tao è insieme yu e wu: possedendo essere in quanto yu, non lo perde affatto divenendo wu. Wu non è assolutamente un nulla assoluto, ma il complementare di yu. Tao in quanto wu, non è il Nulla, ma l’indeterminazione che ingloba tutte le identità e che in ogni momento le può togliere. Non essere attivo: wu wei”44 (Saviani 1998: 19-20)
Il concetto di Niente apparente, detto in altri termini
vuoto è descritto da Lao Zi attraverso alcune immagini:
Nulla al mondo è piú molle e piú debole dell’acqua eppure nell’attaccare ciò che è duro e forte niente riesce a superarla e nessuno può sostituirla (Lao Zi, 78) Trenta raggi convergono in un mozzo ed è il vuoto del mozzo che permette l’uso della ruota
44 Wu-wei è l’ideale etico taoista del non-agire.
116
Si modella l’argilla per fare un vaso ed è il suo vuoto interno che permette l’uso del vaso. Costruendo una casa vi si fanno porte e finestre ed è il loro vuoto che permette l’uso della casa Perciò l’essere costituisce l’oggetto ma dal non-essere viene la sua utilità (Lao Zi, 11)
Nel già citato seminario, tenutosi nel 1958 all’università
di Friburgo, assistiamo a un dialogo tra Heidegger e il
professore zen Hoseki Hisamatsu proprio attorno a questi
concetti:
Dice Hisamatsu: “In Occidente, l’Origine è in qualche modo un ente, un eidetico. Nello zen l’origine è l’informe, il non ente. Questo non non è tuttavia una mera negazione. Questo Niente è privo di qualunque forma, per cui in quanto totalmente informe, può muoversi del tutto libero sempre e dovunque. In questo libero movimento consiste il movimento dal quale è prodotta l’opera d’arte”. E Heidegger di rimando: “Questo Vuoto non è il Nulla negativo. Se intendiamo il vuoto come un concetto spaziale, dobbiamo dire che proprio il Vuoto di questo spazio è ciò-che-dà-spazio, ciò che raccoglie tutte le cose”. (Saviani 1998: 67)
Nel testo della conferenza Che cos’è metafisica?, Heidegger
osserva che la metafisica occidentale ha sempre visto il
Niente come Niente assoluto, «ex nihilo nihil fit
(Heidegger 2001: 61)», ma il «Niente non dà solo il
concetto opposto a quello di ente, ma appartiene
originariamente all’essere essenziale stesso. Nell’essere
dell’ente avviene il nientificare del Niente (ibidem, 56)». E più in là aggiunge:
Ma la domanda del Niente pervade l’intera Metafisica perché ci costringe a porci davanti al problema
117
dell’origine della negazione, cioè in fondo, dinnanzi alla decisione sulla legittimità del dominio della logica nella metafisica. (ibidem, 63)
Secondo Heidegger è quindi la stessa logica come modo di
pensare dominante e sedimentato nella storia a non
permetterci di pensare nei giusti termini al niente. Questo
fatto ci riporta ad approfondire le considerazioni addotte
a proposito dei due sentieri della verità (Cap.3,§3).
Secondo la nostra interpretazione Parmenide cita due vie di
ricerca per accedere alla verità: la prima prende le mosse
dall’essere mentre la seconda si muove a partire dal
niente. Parmenide scarta questa seconda via e inizia la sua
riflessione intorno all’essere, senza però negare di fatto
la possibilità almeno teorica di partire dalla seconda via.
Nell’atto di scegliere la prima strada Parmenide fonda
letteralmente la filosofia occidentale che, scartando la
via del niente, vuole portare la conoscenza alla luce della
verità esperita “grecamente” come trasparenza e chiarezza.
Ed è proprio su questa base di partenza che può nascere (e
poteva farlo solo in Occidente) la scienza che, se è vero
che annovera tra i suoi fondatori Platone e Aristotele, ha
come primo e autentico iniziatore Parmenide. La grande
differenza che esiste tra Parmenide ed Eraclito è che
nonostante l’omogeneità complessiva, quest’ultimo è ancora
perfettamente inscritto nella cultura sapienziale arcaica
dove le vie di ricerca non sono ancora né definite, né
disgiunte. Parmenide, per la prima volta nella storia della
grecità, esclude la via del non essere affidando la
riflessione solo sull’essere e fondando in questo modo la
filosofia. La nozione di Heidegger di “primo inizio45” è,
alla luce di queste considerazioni, da spostare più
indietro e da vedere come una autentica fondazione
teoretica e non tanto come una deviazione metafisica.
45 Cfr. supra Cap.1 §1-2
118
§4 Identità tra essere e linguaggio
Per Heidegger l’ostacolo maggiore che l’Occidente ha avuto
per pensare al niente è la logica (Heidegger 2001: 61);
secondo le nostre osservazioni, invece, la causa è da
ricercare a prima della fondazione della logica. Il greco
infatti non aveva le basi linguistiche per esprimere la
differenza ontologica sussistente tra l’essere degli enti e
l’essere dell’essere e tra il niente assoluto e il niente
apparente. Heidegger, nel colloquio con Hisamatsu,
sostenuto il giorno dopo la già citata conferenza del 1958,
fornisce un’indicazione importante a suffragio della nostra
tesi:
Il modo occidentale di intendere grammaticalmente il linguaggio sta sotto la signoria non solo dell’impronta aristotelica, bensì dell’intera ontologia greca. Ma il linguaggio di un poeta non si può comprendere con questa concezione grammaticale del linguaggio. (Saviani 1998: 70)
Queste osservazioni spiegano quindi l’interesse di
Heidegger per le lingue orientali. Saviani ne riporta
alcune testimonianze: la prima si riferisce all’incontro
tra Heidegger e Chung-yuan Chang, uno dei massimi esperti
contemporanei di taoismo che ha dedicato studi comparati al
rapporto tra il pensiero taoista e la filosofia di
Heidegger (Saviani 1998: 48). Ricorda Chang:
Era anche molto interessato in quel periodo all’identità di linguaggio ed essere che, diceva, occorreva spesso nelle lingue più antiche. Così mi chiese: “Come direbbe c’è un albero in cinese antico?”. Io risposi “Mu a. Vuol dire albero sì”. Allora chiese: “E c’è un vecchio albero?” Risposi: “Mu lao yee. Vuol dire albero vecchio! Quando una tale espressione è pronunciata, l’essere del parlante e la sua pronuncia sono del tutto identificati o coappartenentisi”. Heidegger era molto compiaciuto di
119
trovare un tale esempio dell’identità di essere e pensiero nell’antica lingua cinese. (Saviani 1998: 50)
Riguardo all’incontro tra Heidegger e Tomio Tezuka del
1954, Saviani riporta uno stralcio della conversazione:
Più che qualcosa sul giapponese precisa Tezuka volle ascoltare il giapponese stesso [...] poi chiese: “In giapponese c’è sicuramente una parola che indica linguaggio. Quale significato ha originariamente questa parola?” Risposi: “La parola di cui lei domanda è kotoba. Non sono uno specialista in questo campo e non posso quindi parlare con certezza, ma ritengo che koto sia in relazione con koto, quale risuona in kotogara, nel significato di evento o stato delle cose. Ba è un’eufonia per ha e indica a mio parere ooi, molto o shigeshi, cresciuti folti; lo si potrebbe immaginare per esempio come ha, foglie di un albero. Se questo fosse esatto, kotoba, linguaggio, e koto, evento sarebbero i due lati della stessa cosa. L’evento gemma e diventa linguaggio, kotoba. Forse la parola kotoba viene da tale concezione”. Heidegger accolse questa spiegazione in modo straordinariamente favorevole. Prendendo appunti su di un pezzo di carta, disse: “Interessante. Allora la parola giapponese kotoba significa cosa (Ding)”. Forse Heidegger pressò un po’ troppo la parola in un concetto già preparato. Ma non potevo rifiutare la sua interpretazione. (Saviani 1998: 61)
Più avanti, Saviani riporta un altro esempio:
Heidegger chiese: “Quali sono le parole abituali che in giapponese indicano apparenza ed essenza?” [...] Tezuka rispose: “Le parole per essenza ed apparenza non le si può chiamare parole quotidiane. Si tratta originariamente di termini buddhisti, di termini impiegati in una consapevole meditazione. Tuttavia, dato che queste parole già da molto tempo suonano familiari alla coscienza dei giapponesi, si potrebbero anche chiamare quotidiane. Sono le parole shiki e ku. Shiki corrisponde a fenomeno e ku corrisponde vagamente ad essenza. [...] ku e shiki sono qualcosa di opposto ma sono concepiti nello stesso tempo come qualcosa di identico [...] shiki significa colore, tinta e, analogamente, fenomeno. Ku indica originariamente il vuoto ma anche il Cielo e l’Aperto. In un certo senso è il vuoto del niente, ma questo vuoto non ha semplicemente un senso negativo. Esso indica
120
l’originaria condizione di tutte le cose, quindi anelata come ideale. (Saviani 1998: 61)
Le delucidazioni fornite da Tezuka sulle parole giapponesi
shiku (“fenomeno”) e ku (“essenza”) ci rimandano in maniera
abbastanza evidente a quanto abbiamo detto46, a proposito
delle parole greche doxa (“apparenza”) e aletheia
(“verità”), che Parmenide utilizza negli ultimi tre versi
del Proemio. Abbiamo visto come queste parole,
nell’interpretazione di Heidegger, non siano radicalmente
opposte, ma in maniera simile a shiku e ku condividano una
stessa origine. Riportiamo le parole di Parmenide contenute
nei versi finali del proemio:
E' destino che tu tutto interroghi, sia il saldo cuore che non trema della verità che tutto avvolge, sia ciò che appare ai mortali, in cui non vi è garanzia di verità, ma in ogni caso anche questo imparerai, come fosse destino che le cose che appaiono, fossero così come sono, apparenti, essendo dappertutto in ogni dove. (DK Parm. B1)
L’analogia è evidente, ma constatiamo ancora una volta che
mentre il binomio greco rimanda al venire alla presenza
dell’essere, l’origine di ku sia da cercare nel niente
apparente. Potremmo avere qui una prova indiretta della
correttezza della nostra interpretazione dei versi, in cui
Parmenide descrive quali sono gli unici due sentieri
esistenti di ricerca della verità che espone47 (DK Parm.
B2). Il sentiero che parte dall’essere è il sentiero su cui
si è incamminato il pensiero occidentale. Il secondo
sentiero, quello che parte dal niente e che Parmenide
considera impraticabile, è il sentiero su cui si è
instradato nella storia il cammino del pensiero taoista e
zen. Il ricongiungimento delle due vie di ricerca è 46 Cfr. supra 78-99 47 Cfr. supra Cap.3 §3
121
l’oggetto del dialogo tra Occidente e Oriente auspicato da
Heidegger48 (Heidegger 1976: 29).
48 Cfr. supra 112
122
Conclusione
Abbiamo visto come esista un parallelo, con basi teoretiche
e storiche, tra l’interesse che Heidegger nutre per gli
orientali e i suoi studi sui primi pensatori greci.
L’interesse comune si fonda sul tentativo di trovare un
pensiero che non sia lo stesso che porrta al passaggio
dalla scienza alla tecnica. La ricerca di questo pensiero
altro49, come abbiamo visto, è sentita nel modo più
inquietantemente entusiastico nei paragrafi dedicati al
“secondo inizio” (Heidegger, 2007: 157-177) dei Contributi
alla filosofia. Si affievolisce però nell’intervista
rilasciata allo Spiegel, come emerge sin dal titolo Ormai
solo un dio ci potrà salvare.
Come ha notato lo stesso Hsiao50 a proposito del lavoro di
traduzione del Daodejing, incominciato insieme a Heidegger
(Parkes 1987: 98), è difficile separare il lavoro di
traduzione e di interpretazione che il filosofo tedesco
compie sui testi orientali e sui greci dal suo stesso
pensiero, visto che egli cerca in fondo dei portavoce
storici della sua filosofia, un po’ alla stregua di quanto
fece Platone con Socrate. In questo saggio abbiamo solo
cercato di accostare gli spunti che l'antichità greca e
l'antichità estremorientale hanno offerto al pensiero nel
suo momento iniziale. Oggi esistono sempre di più
compenetrazioni di due modelli di pensiero: i paesi
orientali stanno facendo passi da gigante nel progresso
scientifico e tecnico, mentre noi occidentali ci avvaliamo
sempre di più di pratiche orientali. Il presente lavoro si
colloca probabilmente all'interno di questi scambi.
49 Cfr. supra Cap.1§1 50 Cfr. supra 113
123
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