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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA IN SERVIZIO SOCIALE MOBBING LAVORATIVO: Fenomeno sociale rilevante, dinamiche e relazioni da connettere. Relatrice Laureanda Prof.ssa Stefania Miodini Tania Colella Anno Accademico 2014/2015

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI

PARMA

DIPARTIMENTO DI

GIURISPRUDENZA

CORSO DI LAUREA IN SERVIZIO SOCIALE

MOBBING LAVORATIVO: Fenomeno sociale

rilevante, dinamiche e relazioni da connettere.

Relatrice Laureanda

Prof.ssa Stefania Miodini Tania Colella

Anno Accademico 2014/2015

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“Una persona può essere uccisa

una sola volta,

ma quando la si umilia,

la si uccide ripetutamente”.

Talmud

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INDICE

INTRODUZIONE pag.7

CAPITOLO 1: Il mobbing

1.1 Etimologia della parola pag.9

1.2 Il mobber pag.10

1.3 Il mobbizzato pag.12

1.4 Gli spettatori pag.14

1.4.1 Le figure satellite del processo pag.14

1.5 Le radici del Mobbing pag.17

1.6 Il modello di Leymann e i suoi sviluppi pag.20

CAPITOLO 2: Tipi di Mobbing

2.1 Il mobbing verticale e orizzontale pag.23

2.2 Il mobbing collettivo/organizzativo e il bossing pag.25

2.3 Il mobbing sulla persona e il mobbing sul ruolo lavorativo e

sulla mansione pag.27

2.4 Il doppio mobbing pag.28

2.5 Le conseguenze del Mobbing pag.29

2.6 Effetti del breve periodo pag.32

2.7 Effetti nel lungo periodo pag.33

2.8 Altri effetti del Mobbing pag.34

2.9 La metodologia di misurazione del Mobbing pag.37

2.10 Il counseling pag.39

CAPITOLO 3: Verso il cambiamento

3.1 Strategie di prevenzione nei luoghi di lavoro pag.41

3.2 Isolamento sistemico e cambiamento delle mansioni lavorative pag.42

3.3 Come uscirne? pag.43

3.4 Direttiva del Ministro della Funziona Pubblica pag.45

3.5 Alcune prospettive pag.48

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3.6 La possibilità di essere tutelati pag.51

CAPITOLO 4: Assistente sociale e Mobbing

4.1 Resoconto intervista pag.56

4.2 Colloquio, relazione d‟aiuto e i suoi aspetti pag.58

4.3 La documentazione pag.63

CAPITOLO 5 : Mobbing nella realtà

5.1 Storia di Marco pag.64

5.2 Testimonianze pag.68

CONCLUSIONI pag.74

BIBLIOGRAFIA pag.76

RINGRAZIAMENTI pag.78

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INTRODUZIONE

Molestie morali, persecuzioni psicologiche, minacce o vessazioni nei luoghi di lavoro, o

più semplicemente mal d‟ufficio, sono le espressioni per definire un fenomeno che

ormai viene generalmente conosciuto come mobbing. Quelle appena descritte sono

azioni che interessano la maggior parte delle organizzazioni lavorative della moderna

società post-industriale e che produce conseguenze negative non soltanto per le persone

che ne sono investite direttamente come vittime sacrificali ma anche e soprattutto per le

aziende in cui viene praticato in termini di costi per minore produttività del lavoro,

perdita di competitività e disfunzioni organizzative connesse ai problemi relazionali

interni.

Ho deciso di svolgere il mio lavoro di tesi cercando di osservare e di riuscire a collegare

quante più nozioni possibili su questo tipo di fenomeno molto ricorrente in ambito

lavorativo: il mobbing.

Da sempre ho ritenuto che il mobbing fosse un argomento molto interessante e spesso

inserito nelle questioni sociali in modo marginale. Colui che diviene vittima del

mobbing, attraversa un periodo nella sua vita in cui emergono sentimenti di

frustrazione, rabbia e ansia continua che si ripercuotono, oltre che nella sfera lavorativa,

nella vita di tutti i giorni. Molto spesso, vengono a mancare gli stimoli per reagire a

questo fenomeno, perché il mobbizzato non si capacita dell‟idea di essere una vittima di

tale fenomeno.

Nel primo capitolo della mia tesi ho voluto dare una spiegazione a questo fenomeno,

partendo dal significato che viene attribuito al termine “mobbing” e alle parole ad esso

collegate. Di seguito ho inserito qualche nozione storica riguardo chi, nel corso degli

anni, ha dedicato i propri studi alla spiegazione di questo meccanismo che si innesca in

coloro che assumono la posizione di mobber; provando a distinguere le figure emergenti

e i partecipanti in maniera diretta e indiretta. Verso la fine del capitolo mi sono

soffermata nel descrivere il primo modello dedicato a questa tematica, che vede come

protagonista Leymann e gli sviluppi successivi realizzati da Ege.

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Nel secondo capitolo ho riportato i vari tipi di mobbing che si possono verificare e gli

effetti che ne derivano, dividendoli in breve e lungo periodo. E‟ inoltre presente una

parte dedicata alla misurazione di questo terrore psicologico. Facendo riferimento alle

metodologie prese in considerazione o alle risoluzioni a cui si potrebbe andare incontro,

ho ritenuto opportuno soffermarmi sulla tecnica del counseling: strumento il più delle

volte efficace e molto usato anche in ambito prevalentemente sociale.

Di seguito nel terzo capitolo, com‟è possibile dedurre dal titolo attribuito “Verso il

cambiamento”, ho inserito una serie di possibili cambiamenti o, facendo riferimento alla

parte giuridica, di leggi a cui attenersi nei casi in cui si diviene vittime di mobbing

lavorativo. Essere tutelati è uno dei punti di partenza nel processo di cambiamento,

serve a rassicurare e sostenere la vittima che inevitabilmente si trova spaesata. Tutto

questo, permette al mobbizzato di aprirsi verso nuova prospettive e di concentrarsi nel

percorso intrapreso.

Nel quarto capitolo, nonché il più significativo e vicino a ciò che in futuro sarà il mio

lavoro, ho descritto i mezzi con cui l‟assistente sociale interviene. A differenza degli

altri capitoli, la sua costruzione è avvenuta in seguito a una piccola intervista che vede

come protagonista uno dei poli presenti nel Comune di Parma.

Nel quinto e ultimo capitolo, partendo dall‟idea di voler far nascere una piccola

riflessione in coloro che sono a conoscenza di questo terrore psicologico e di provare a

mettersi nei panni del mobbizzato, ho riportato alcune storie di mobbing.

Nei vari capitoli ho cercato di dare un‟idea più chiara del fenomeno, facendo

comprendere e mettendo in risalto quanto questo meccanismo condiziona la società nel

suo complesso. La mia idea, nella stesura di questo elaborato è stata quella di creare uno

spunto di riflessione in chiunque voglia saperne di più riguardo il mobbing, ovvero quel

fenomeno che prende il nome di terrore psicologico.

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CAPITOLO PRIMO

1.1 Etimologia della parola

1La spiegazione che viene data oggi al fenomeno del mobbing, non si discosta molto da

quella avuta in passato. Si definisce mobbing – dal verbo inglese to mob (significante

“assalto di gentaglia o plebaglia”), e dal latino mobile vulgus ( che significa appunto “

movimento della gentaglia”) – l‟aggressione della gentaglia d‟ufficio nei confronti del

novellino, del più bravo e del più ambizioso. Il vocabolo mobbing è spesso usato anche

dagli etologi per descrivere, in relazione al mondo animale, il comportamento di

aggressione del “branco nei confronti di un animale o esemplare isolato”. Il termine ha

dunque valenza metaforica ed esprime con tutta la forma dell‟immagine, dell‟assalto e

dell‟accerchiamento di gruppo la situazione di terrore psicologico dovuta

dall‟isolamento della vittima di fronte alle ostilità degli altri. Esistono diversi termini in

inglese utilizzati per dare un‟idea di quello che potrebbe meglio rappresentare questa

forma di abuso su colleghi e dipendenti. Un termine diffuso è quello di Bullyng che

significa fare il prepotente, comandare, angariare, tiranneggiare ed in realtà viene

utilizzato per indicare un determinato tipo di mobbing, ovvero quello compiuto da un

superiore nei confronti di un suo sottoposto. Di seguito al Bullyng, è presente il

Bossing, che sta ad indicare un‟azione che non viene compiuta solo da un superiore, ma

include l‟azienda stessa, dalla Direzione o dall‟Amministrazione del personale, nei

confronti dei dipendenti divenuti in qualche modo scomodi.

Negli Stati Uniti invece è diffuso, oltre al Bullying, anche il termine Harassment

(vessazione, tormento, molestia), che normalmente è usato nel contesto limitato delle

molestie sessuali, che possono tuttavia essere una forma di mobbing. Si trova inoltre

l‟espressione Employee Abuse (employee, “impiegato, lavoratore”; to abuse “insultare,

ingiuriare, oltraggiare, abusare di, fare cattivo uso di”), che indica più letteralmente

l‟abuso di potere o di comportamento, anche questo come espressione di mobbing.

Negli ultimi anni, la produzione di testi sul mobbing si è incrementata nel nostro Paese. Recenti volumi curati da Tosi (2004), Favretto (2005), De Falco e al (2006), Marini e Nonnis (2006), Gulatta (2006), Sprini (2007), Rupprecht

(2007), Pozzi (2008), oltre al recente volume di Herald Ege (2005) .1

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Dall‟unione di questi significati si può parlare di Mobbing, rifacendoci alla violenza

esercitata nei luoghi di lavoro, come quell‟aggressione sistematica posta in essere dal

datore di lavoro o da un suo preposto o superiore gerarchico oppure anche da colleghi o

compagni di lavoro, con chiari intenti discriminatori e persecutori, protesi ad

emarginare progressivamente un determinato lavoratore nell‟ambiente di lavoro e ad

indurlo alle dimissioni, per ragioni di concorrenza, gelosia, invidia o di altro

comportamento o sentimento socialmente deprecabile suscitato in un animo perverso

dalla convivenza nell‟ambiente di lavoro e dallo svolgimento dell‟attività lavorativa.

Come si evince da quanto sopra riportato a questa forma di virus organizzativo, in

continua evoluzione, prendono parte in modo particolare due protagonisti, riscontrabili

nell‟aggressore ( colui che compie l‟azione mobbizzante) e la vittima ( soggetto passivo,

in quanto è portato a subire l‟azione).

1.2 Il mobber

I mobber sono, nella maggior parte dei casi, uomini piuttosto che donne,

superivisori/manager piuttosto che colleghi. Zapf, tipografo tedesco, e i suoi

collaboratori rilevano tre tipi di caratteristiche dell‟aggressore che possono spiegare le

condotte mobbizzanti: i processi di regolazione del sé, con riferimento a una potenziale

minaccia all‟autostima; la mancanza di competenze sociali; una logica di tipo politico-

economico. Sulle orme di Baumeister, Heatherton e Tice (1993), essi sostengono che la

protezione dell‟autostima è un bisogno primario che influenza e controlla il

comportamento umano, e indicano l‟origine del conflitto di mobbing proprio nel

mancato riconoscimento dello status, della posizione sociale, della valutazione del sé di

un individuo nei confronti di un altro.

Nei casi analizzati, hanno riscontrato, che la violenza emergeva da una minaccia al

proprio Io: come orgoglio ferito, mancanza di rispetto, abuso verbale, insulti,

svalutazione della persona. Per la maggior parte delle culture, dei gruppi, piccoli e più

grandi, e dei singoli emergeva lo stesso pattern: la violenza avveniva quando il

sentimento di superiorità di una persona era in qualche modo svalutato e contraddetto.

Inoltre, Zapf sosteneva che coloro che posseggono maggiore autostima è più probabile

che ricorrano in episodi di mobbing, in quanto sono convinti di poter vincere la propria

battaglia e di poter prevalere. Se poi la natura di questa autostima è anche instabile,

l‟aggressività si può manifestare pure in risposta a piccole minacce. Anche l‟invidia può

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rientrare in questa sfera negativa del sé, in quanto essa porta a ostilità solo quando una

persona che ha una visione positiva di se stessa e pensa di meritare di raggiungere un

risultato positivo nutre sentimenti di ingiustizia e iniquità nei confronti di un‟altra

persona, che, nell‟ottenimento di tale risultato, ha un qualche tipo di vantaggio.

Numerose vittime di mobbing hanno riportato che l‟invidia nei loro confronti era una

delle cause principali del verificarsi del mobbing. Un‟altra caratteristica del mobber che

può spiegare condotte mobbizzanti è la mancanza di competenze sociali e di

intelligenza emotiva. Come descritto precedentemente, il mobber potrebbe essere un

supervisore con delle difficoltà a gestire le proprie emozioni e a controllare la propria

aggressività per cui potrebbe regolarmente alzare la voce con i propri collaboratori o

trattarli male. Il mobber potrebbe essere anche un lavoratore con scarse competenze

relazionali, scarsa empatia, per cui non si rende conto di compiere azioni ostili verso

un‟altra persona e, soprattutto, non capisce quanto queste azioni possano essere

percepite come vessatorie dalla vittima. In molti casi, infatti, i mobber sostengono che

non erano consapevoli delle reali conseguenze del proprio comportamento. Un ultima

descrizione che si può avere di mobber potrebbe essere quella persona particolarmente

aggressiva, con tratti di nevroticismo, che reagisce in modo estremamente ostile e

negativo anche a fronte di piccole provocazioni.

Una caratteristica riscontrata dalla letteratura nei mobber verte dalla necessità di

ottenere avanzamenti di carriera e far prevalere i propri interessi. È stato approfondito

come possa essere “razionale” mobbizzare un collega o un subordinato, soprattutto in

organizzazioni con forte competizione interna. L‟aggressore, sabotando il lavoro di un

collega, potrebbe trarne un vantaggio personale; oppure punendolo o cercando di

espellerlo dal contesto lavorativo, potrebbe migliorare la propria posizione. Un

superiore potrebbe compiere azioni mobbizzanti verso un collaboratore che ha

performance particolarmente elevate o particolarmente scarse: nel caso di un

subordinato di talento, potrebbe percepirlo come un rivale per la propria carriera futura;

mentre, se la remunerazione del superiore è basata sui risultati ottenuti dal

collaboratore, quest‟ultimo potrebbe essere percepito come una risorsa da eliminare, se

le sue performance fossero negative.

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1.3 Il mobbizzato

Anche nella vittima si possono riscontrare delle caratteristiche che possono favorire

l‟insorgere del mobbing. Alcuni individui, in alcune specifiche situazioni, dove sono

degli outsider, ovvero differiscono troppo dal resto del gruppo – ad esempio per

caratteristiche demografiche, come genere, posizione gerarchica, group membership,

anzianità di servizio, tipologia di contratto eccetera – potrebbero essere maggiormente a

rischio di mobbing. Leymann (1993) mise in luce che insegnanti uomini di scuola

elementare – che erano in minoranza – risultavano maggiormente vittime di mobbing

rispetto alle insegnanti donne. In un altro studio l‟autore riscontrò che il 21.6% di

lavoratori handicappati fu vittima di mobbing in un‟organizzazione no profit, mentre

soltanto il 4.4% dei lavoratori non handicappati percepiva di essere soggetto a molestia

morale. Inoltre, le caratteristiche di personalità e alcuni pattern di comportamento della

vittima potrebbero stimolare o invogliare comportamenti aggressivi e molesti da parte di

altri lavoratori. Una serie di studi hanno cercato di dimostrare chi e come diventa

vittima di mobbing lavorativo. Ad esempio, uno studio norvegese, condotto presso 2200

lavoratori da Einarsen nel 1994, mise in luce che le vittime di mobbing erano

caratterizzate da scarsa stima di sé e da scarsa competenza sociale e riportavano alti

livelli di ansietà. Coyne, Seigne e Randall nel 2000, in uno studio condotto in Irlanda su

sessanta vittime di mobbing, notarono che queste rispetto a un gruppo di controllo erano

più ansiose e sospettose, meno assertive e competitive, nonché in possesso di scarse

risorse di coping per far fronte alle situazioni più difficoltose. Da un successivo studio

psichiatrico, messo in atto da Lindemeier nel 1996, vide come protagoniste 87 vittime,

da cui emerse che il 31% dei pazienti riportava una tendenza generale a evitare il

conflitto, il 27% possedeva una scarsa stima di sé, anche prima che il mobbing iniziasse

e il 23% riconosceva una connaturata debolezza emotiva e aveva la tendenza a prendere

tutto sempre troppo seriamente. Un recente studio ha indagato il ruolo giocato dallo

humour nella percezione del 2mobbizzato (Burt, 2004): le vittime mostravano uno

scarso senso di humour, generando un atteggiamento negativo nei confronti dello

2 Non sono da inserire in questa categoria coloro che risultano vittime di mobbing di se stesse. ( Ege e Lancioni, 1998).

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humour e del suo uso sul posto di lavoro. Altre caratteristiche individuali emerse delle

vittime, come nevroticismo e self-efficacy, sono state associate al verificarsi del

fenomeno. La ricerca che meglio ha indagato le caratteristiche della vittima di mobbing

è, tuttavia, quella condotta da Matthiesen e Einarsen nel 2001 su 85 mobbizzati

norvegesi. Venne utilizzato il MMPI-2, uno degli inventari di personalità più impiegato

sia per finalità di ricerca che per finalità diagnostiche-cliniche; con questo sistema

quando le scale di cui è composto l‟inventario raggiungono un punteggio soglia, si

desume che queste indichino un disturbo psicologico su cui si debba intervenire con un

trattamento mirato. Gli autori trovarono punteggi alti nelle varie scale dell‟inventario

somministrato alle vittime di mobbing. Esse risultarono prevalentemente sospettose,

depresse, troppo sensibili e avevano la tendenza a convertire lo stress in disturbi

psicosomatici. Inoltre venne utilizzata la procedura della cluster analysis,

massimizzando le somiglianze entro un gruppo e minimizzando le differenze degli altri

gruppi, ed evidenziarono tre gruppi di vittime: i mobbizzati gravi (32%), i mobbizzati

comuni (25%) e i mobbizzati depressi e delusi (43%). I mobbizzati gravi, rispetto alle

altre vittime, riportavano alti livelli di ansia generalizzata, paura di specifici incidenti e

conseguenze più gravi sul proprio stato di salute. Tuttavia, i mobbizzati comuni

riportarono una maggiore frequenza di azioni mobbizzanti subite, rispetto ai mobbizzati

gravi e ai mobbizzati depressi e delusi. Matthiesen e Einarsen interpretarono questo

risultato come un fattore di vulnerabilità di uno specifico gruppo di vittime. Un ulteriore

e recente studio condotto su 72 mobbizzati e su un parallelo e adeguato gruppo di

controllo, ha rilevato differenze significative fra vittime e non vittime in quattro delle

cinque dimensioni di personalità più riconosciute nel panorama socio-psicologico, in

quanto i mobbizzati tendevano a essere più nevrotici, meno amicali, meno coscienziosi

e meno estroversi. Infine, anche l‟autostima, l‟abilità di risolvere i conflitti,

l‟autoefficacia personale e le risorse di coping potrebbero contribuire all‟evoluzione del

mobbing a partire da un semplice conflitto. Zapf e Gross al riguardo, compararono le

strategie di coping delle vittime la cui situazione mobbizzante era migliorata con il

tempo e di quelle la cui situazione era invece andata aggravandosi col tempo. Le vittime

di “successo” erano più capaci di riconoscere e agire comportamenti che potevano

attenuare il conflitto piuttosto che intensificarlo, come invece facevano le vittime che

non riuscivano a migliorare. Da una recente ricerca sulla reazione mobbing e

intelligenza emotiva condotta dagli scriventi emerge come le vittime di mobbing non

siano un gruppo omogeneo, ma siano divisibili in otto tipologie, in funzione della

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diversa struttura e del diverso sviluppo della loro intelligenza emotiva. Tale risultato è

in linea con lo studio di Matthiesen e Einarsen, proprio per questo anche sul versante

delle emozioni oltre che su quello della personalità, diverse e variegate configurazioni

possono emergere nelle vittime di mobbing. Risulta, da una parte, un “gruppo di

intelligenza emotiva normale”, che non presenta problematiche nella sfera emotiva, ma

che è, comunque, vittima di azioni mobbizzanti; dall‟altra, emerge un gruppo con bassa

intelligenza emotiva, che risulta maggiormente esposto ad azioni di mobbing.

1.4 Gli spettatori

Come ogni fenomeno che può verificarsi vi sono sempre delle persone che sono di

contorno a determinate circostante, esse prendono il nome di spettatori. Questi soggetti

sono tutte quelle persone, colleghi, superiori, addetti alla gestione del personale, che

non sono coinvolti direttamente nel Mobbing, ma che in qualche modo vi partecipano,

lo percepiscono, lo vivono anche se di riflesso. La funzione che lo spettatore ricopre

all‟interno del posto di lavoro ha un‟importanza cruciale per lo sviluppo del Mobbing.

Come il ruolo del mobber dipende in maniera cruciale dalla sua posizione gerarchica,

così anche quello dello spettatore diventa fondamentale nella sua capacità di influenza

sul Mobbing: se lo spettatore è un neo-assunto in contratto di Formazione allora è

comprensibile che potrà fare ben poco di fronte al Mobbing; se invece è il capo-reparto,

egli ha l‟autorità di porre fine o far proseguire il processo. Se uno spettatore non agisce,

molto spesso si può tramutare in un altro temibile aggressore. Come dice un noto

proverbio, il ladro non è solo chi ruba, ma anche chi gli regge il sacco: ebbene, un

collega che assiste al Mobbing e non lo denuncia o non cerca di fermarlo in qualche

modo può diventare lui stesso un mobber di riflesso, ossia un side-mobber: egli infatti

favorisce il mobbing con la sua indifferenza e la sua non disponibilità ad intervenire. I

colleghi non direttamente coinvolti hanno in mano la chiave di volta per permettere o

non permettere l‟azione del mobber nel loro ufficio. Nel Mobbing, più che in altre

situazioni, chi tace inesorabilmente acconsente.

1.4.1 ..le figure satellite del processo di mobbing: bystander, side-mobber e

whistleblower.

Le figure satellite del processo di mobbing sono tutte quelle persone non direttamente

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coinvolte ma che vivono il mobbing di riflesso, rimanendo, il più delle volte, passive

di fronte al suo manifestarsi, divenendo degli spettatori neutrali (bystander), oppure

schierandosi a favore del mobber o del mobbizzato e assumendo un ruolo attivo. Da

questo punto di vista, la distinzione è tra side-mobber e whistleblower.

I bystander sono colleghi, superiori o sottoposti più o meno consapevoli del mobbing,

ma incapaci di esprimere una qualsiasi forma di solidarietà verso la vittima; testimoni

che, in quanto spettatori inerti, rivestono un ruolo minore nel processo vessatorio.

Caratteristiche dei bystander:

• isolano la vittima, o fanno sì che la vittima si senta isolata e abbandonata;

• vivono la situazione male con il rischio di riportare conseguenze negative sul proprio

stato di salute psicologico e sulla prestazione;

• si possono sentire impotenti.

Le motivazioni che spingono un individuo a diventare complice del mobber: fedeltà e

servilismo verso il mobber, preoccupazione e paura di diventare a sua volta vittima

oppure per trarne un vantaggio sociale o di immagine, indotto dalla funzione

“correttiva” che qualche lavoratore potrebbe sentirsi investito a esercitare ai fini di

ristabilire ordine e giustizia nell‟organizzazione. I tre processi che sembrano essere alla

base dell‟effetto bystander sono l‟inibizione pubblica, ovvero il rischio di imbarazzo

sociale se la situazione non viene percepita così grave dagli altri come invece è sentita

dall‟individuo singolo; l‟influenza sociale, quando il non intervento diventa il modello

di comportamento previsto sulla base dell‟inerzia degli altri individui; la diffusione di

responsabilità, ossia la diminuzione di volontà di intervenire qualora siano presenti più

persone, in quanto il singolo soggetto tende a pensare che sia compito di altri farlo.

Nell‟assunzione di responsabilità si riscontrano maggiormente i processi basilari

dell‟effetto bystander, ma anche l‟interpretazione dell‟evento può, nel caso del

mobbing, essere estremamente rilevante. Un individuo spettatore di azioni mobbizzanti,

infatti, valuterà la serietà e gravità delle azioni poste in essere dall‟aggressore. Questa

valutazione sarà interpretata, oltre che a livello personale ed etico/morale, anche

considerando il contesto organizzativo, il suo clima e la sua cultura. In una cultura e

clima organizzativo senza rispetto e tutela dei lavoratori, episodi mobbizanti possono

addirittura essere considerati come parte dell‟attività quotidiana dell‟organizzazione .

Anche il sentirsi capace di dare aiuto sembra particolarmente pertinente al mobbing: in

quest‟ottica la formazione dei dipendenti a riconoscere episodi mobbizzanti, stabilendo,

ad esempio, dei codici di condotta e/o delle policy, favorisce l‟intervento degli

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spettatori, perché si sentiranno più capaci e dotati di strumenti di tutela anche nei

confronti di altri lavoratori.

I side-mobber sono coloro che affiancano attivamente i mobber nell‟azione vessatoria,

dando il loro apporto con condotte singole o reiterate di natura attiva o passiva, che

completano o accentuano la strategia mobbizzante.

I whistleblower sono coloro che cercano di aiutare la vittima. Una delle definizioni più

comuni nella letteratura della psicologia del lavoro e delle organizzazioni dei

whistleblower è “membri dell‟organizzazione (includendo anche gli ex lavoratori o

candidati) che rivelano pratiche aziendali illegittime, immorali e illegali a terzi (persone

o organizzazioni), e che potrebbero intervenire in merito ad esse”. I criteri fondamentali

del whistleblowing sembrano essere essenzialmente tre: l‟atto di notificare pratiche

sbagliate in un‟organizzazione; la motivazione sottostante a prevenire un danno nei

confronti di altri; l‟azione di un lavoratore o di un ex lavoratore che ha un accesso

privilegiato alle informazioni o è testimone di pratiche illegittime nell‟ambiente di

lavoro. Talvolta questi testimoni sono gli stessi colleghi di lavoro che sono ancora alle

dipendenze del datore-mobber, e che, pertanto, saranno più propensi a rendere delle

dichiarazioni che in qualche modo possono mettere a repentaglio la loro stessa

posizione all‟interno dell‟ambiente lavorativo se è presente una forma di supporto da

parte della politica organizzativa o da parte di un organismo di riferimento specifico.

Alcune caratteristiche dell‟organizzazione del lavoro risultano positivamente associate

al comportamento di whistleblowing: la bassa incidenza delle pratiche illegittime e

immorali all‟interno dell‟organizzazione ,le politiche organizzative che favoriscono il

comportamento whistleblowing, la risposta dell‟organizzazione al verificarsi e alla

scoperta di tali pratiche, il clima organizzativo positivo, l‟essere organizzazioni aperte al

cambiamento e con un basso livello di burocratizzazione . È stato inoltre messo in luce

che i whistleblower che denunciano maggiormente gli accadimenti negativi avvenuti

nell‟organizzazione hanno un potere maggiore in termini di anzianità di servizio

nell‟organizzazione ,livello di istruzione, stipendio e status organizzativo. Ponendo

ancora una volta l‟attenzione sul comportamento dei whistleblower, non si può non

considerare l‟attività dell‟organizzazione del lavoro, i vissuti e le percezioni delle

risorse umane che in essa operano come elementi fondanti.

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1.5 Le radici del mobbing

Il primo a utilizzare tale termine, è stato l‟etologo 3Konrad Lorenz (1963) per indicare il

comportamento aggressivo di alcune specie di uccelli nei confronti dei potenziali

aggressori che tentano di assalirne il nido. Successivamente Heinemann (1972), medico

svedese, utilizzò il termine mobbing in modo specifico per riferirsi a un gruppo di

bambini che adotta un comportamento deviante verso un altro bambino. È stato poi

Olweus, nel 1978, nei suoi lavori pionieristici, a considerare il fenomeno in

un‟accezione più ampia, estendendo tale definizione al soggetto singolo e introducendo

il termine bullying.

Seguendo questa tradizione di ricerca, Heinz Leymann,– professore, psicologo clinico e

terapeuta, oltre ad essere uno dei maggiori esperti mondiali dell'ambiente lavorativo, è

lo studioso più sistematico del fenomeno del mobbing che ha svolto negli anni Settanta

studi sui conflitti familiari.

Agli inizi degli anni Ottanta, Leymann si è dedicato allo studio del conflitto presso

organizzazioni, è nel momento in cui si trovò di fronte a comportamenti aggressivi sul

posto di lavoro, inziò a utilizzare il termine mobbing.

Leymann decise deliberatamente di non utilizzare il termine anglosassone bullying,

usato dai ricercatori inglesi e australiani, in quanto tale tipo di manifestazione ostile non

aveva le caratteristiche proprie del bullismo, anche se comportava effetti in ugual

misura altamente disfunzionali. Egli suggerì di mantenere il termine bullying per la

descrizione del fenomeno quando si manifestava tra bambini e adolescenti a scuola, e di

utilizzare la parola mobbing per il medesimo comportamento tra adulti nei contesti

organizzativi. Il primo report scientifico di Leymann risale a una ricerca svolta nel 1982

e pubblicata nel 1984 dal National Board of Occupational Safety and Health a

Stoccolma. Nel 1986, ulteriori studi dell‟autore sul mobbing misero in luce le

conseguenze, soprattutto nella sfera neuropsichica, dell‟esposizione a un

comportamento ostile protratto nel tempo.

Leymann, nel 1990, propose una prima definizione articolata di mobbing, dove il terrore

psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione sistematicamente

3 I più noti saggi di Leymann furono pubblicati nel numero 5 del 1996 della rivista European Journal of Work and Organizational Psychology.

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ostile e non etica – da parte di una o più persone – diretta generalmente a un singolo che

si viene a trovare privo di appoggio e difese a causa delle continue attività mobbizzanti.

Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta (almeno una volta alla

settimana) e su un lungo periodo di tempo (una durata di almeno sei mesi). Classificò le

azioni mobbizzanti in quattro differenti categorie sulla base degli aspetti sui quali

agiscono i comportamenti negativi: reputazione della vittima; possibilità della vittima di

continuare ad essere efficiente sul lavoro; possibilità della vittima di continuare a

comunicare con i propri colleghi; situazione sociale della vittima. Inoltre Leymann

(1992) sottolineò che i fattori di personalità non erano rilevanti nel determinare il

mobbing riconoscendo nelle condizioni di lavoro la causa primaria del fenomeno. In

sintesi, secondo Leymann l‟ambiente di lavoro è caratterizzato da conflitti che possono

scaturire dalla non ottemperanza di norme che regolano il comportamento delle persone;

tali conflitti rischiano di ingenerare processi di escalation in grado di portare a episodi

di mobbing se il management aziendale, disconoscendo il problema, non li gestisce, o li

gestisce in modo approssimativo e comunque inadeguato. In questi anni il fenomeno del

mobbing inizia ad attrarre crescente interesse nei ricercatori e in chi, all‟interno delle

organizzazioni, si occupa di sicurezza e salute sul posto di lavoro. Sono di questo

periodo gli articoli e libri di Svein Kile1 (professore norvegese di psicologia delle

organizzazioni) sugli effetti disfunzionali sulla salute provocati dall‟esercizio di una

leadership negativa. La ricerca norvegese sul harassment e sul mobbing iniziata alla

fine degli anni Ottanta (Einarsen, Raknes, Matthiesen e Hellesøy, 1990; Matthiesen,

Raknes e Rokkum, 1989) è ispirata dalla lunga tradizione di ricerca sul bullismo nelle

scuole, che già dagli anni Settanta aveva suscitato un forte interesse anche nella stampa

divulgativa. Nonostante ciò, fino ai primi anni Novanta gli studi sul mobbing sono

prevalentemente limitati ai Paesi nordeuropei con poche pubblicazioni in lingua inglese

(ad esempio, Leymann, 1990).

In America, invece, già nel 1976 lo psichiatra Brodsky parla di harassed worker e per

la prima volta sono studiati casi tipici di mobbing. Tuttavia va rilevato che Brodsky non

era interessato nello specifico all‟analisi di tali casi: in realtà gli stessi erano presentati

nell‟insieme di una trattazione concernente numerosi costrutti, come la sicurezza

lavorativa, lo stress, la fatica e la monotonia. Inoltre è doveroso notare che, a causa del

background di tipo medico di Brodsky e di un‟oggettiva difficoltà a discriminare

possibili situazioni di stress da quelle derivanti dalle molestie sul lavoro, tale testo ha

avuto scarsa considerazione nel panorama della letteratura scientifica dell‟epoca. È

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grazie a una nuova legge svedese del 1976, promulgata per migliorare l‟ambiente

lavorativo, e a un fondo nazionale di ricerca che offriva grandi possibilità per effettuare

indagini nell‟area della psicologia del lavoro e delle organizzazioni, che i ricercatori

scandinavi, sulla scia di una lunga tradizione di indagini empiriche e di attenzione

particolare alla qualità della vita di lavoro, incominciarono a occuparsi del mobbing.

Essi sono stati i primi a studiare in modo sistematico i disagi psicofisici sul posto di

lavoro, al fine di tutelare il benessere dei lavoratori per migliorarne la qualità della vita,

ottenendo già nel 1993 in Svezia specifiche norme legislative in materia.

In Inghilterra è il giornalista Andrea Adams (1992) che, attraverso il suo libro Bullying

at work e alcune trasmissioni radiofoniche, ha permesso a molte persone di attribuire un

nome alla situazione che stavano vivendo e/o avevano vissuto nell‟ambiente lavorativo.

Nonostante l‟approccio divulgativo al costrutto, Adams cercò di costruire, sulle orme

degli studi di Sigmund Freud e Erich Fromm, un modello teorico che concepiva il

mobbing come un tipo di aggressività umana che aveva radici nella personalità e nelle

esperienze di abuso subite dall‟aggressore, in particolare nell‟infanzia. Un approccio più

rigoroso e sistematico è legato, nell‟Inghilterra di quegli anni, al nome di Rayner

(1995), che individuava invece le radici del mobbing nell‟ambiente socioeconomico e

organizzativo.

La consapevolezza del fenomeno si diffuse anche fra i media grazie alla divulgazione

dell‟opera di Heinz Leymann (1993), in lingua tedesca, Mobbing – Psychoterror am

Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehren kann (Mobbing – terrorismo psicologico

sul posto di lavoro), orientata a un ampio pubblico.

Con il trascorrere degli anni, il mobbing iniziava in Europa ad attrarre crescente

interesse sia da parte dei media, sia nel panorama di ricerca della psicologia del lavoro e

delle organizzazioni. Nel 1996, un numero speciale dell‟European Journal of Work and

Organizational Psychology pubblica otto articoli di altrettanti studiosi di sei Paesi

europei sul tema del mobbing. Essi si riferivano a ricerche presentate in anteprima al

simposio sul mobbing tenuto al 7° congresso europeo di psicologia del lavoro e delle

organizzazioni, organizzato a Gyor in Ungheria nel 1995. Tale simposio è stato il primo

di una serie di successivi simposi europei tenuti nel corso del congresso biennale

dell‟European Work Organizational Psychology (EAWOP): a Verona nel 1997, a

Helsinky nel 1999, a Praga nel 2001, a Lisbona nel 2003, a Istanbul nel 2005 e a

Stoccolma nel 2007. Nel 2001, un altro numero dell‟European Journal of Work and

Organizational Psychology è stato dedicato al costrutto del mobbing.

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Un‟ulteriore ricerca, che ha costituito un importante punto di riferimento nel settore

e stimolato molti studi successivi, è stata quella di Einarsen e Raknes (1997),

Harassment in the workplace and the victimization of men. In quegli anni le molestie sul

lavoro erano prevalentemente investigate in quanto parte integrante del costrutto di

sexual harassment di cui le donne, come rilevato da molti studi scientifici, erano vittime

in numero più elevato rispetto ai colleghi uomini. Einarsen e Raknes (1997), prendendo

in considerazione un campione di 400 lavoratori uomini presso una compagnia di

navigazione norvegese, rilevarono frequenti casi di azioni mobbizzanti che non avevano

niente a che fare con le molestie sessuali, ma erano pur sempre azioni vessatorie. Tali

dati misero in evidenza il rischio di focalizzarsi troppo sulle molestie a scopo sessuale,

trascurando tutta una serie di azioni di natura meno manifesta, più sottile, ma non per

questo meno vessatoria, che poteva essere esercitata nei confronti di tutti lavoratori,

uomini o donne che fossero. Il progredire delle ricerche in Europa portava sempre più a

chiarire i molteplici aspetti del fenomeno mobbing.

Negli Stati Uniti, in Australia e in Canada, negli anni Novanta, si poneva invece

particolare attenzione ad azioni violente estreme di natura fisica, come aggressioni sul

posto di lavoro, furti e violenza. La psicologia del lavoro e delle organizzazioni era,

inoltre, concentrata maggiormente su comportamenti antisociali sul lavoro o su altre

forme di comportamenti ostili, che non rientravano nel fenomeno in questione. La

consapevolezza del mobbing negli Stati Uniti, in Australia e in Canada si è diffusa

quindi in tempi più recenti rispetto all‟Europa, ma suscitando comunque un interesse

crescente.

In Italia, Harald Ege ha pubblicato, nel 1996, il primo testo sul fenomeno del mobbing

in lingua italiana, ma si è iniziato a parlare diffusamente di mobbing soltanto dal

1999, quando si sono tenuti i primi due convegni nazionali sul tema, uno a Milano, il

24 febbraio, organizzato dalla Clinica del Lavoro Devoto, e uno a Roma, il 4 giugno, a

cura dell‟ISPESL, l‟Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro,

organo del ministero della Sanità. La discussione e il confronto sul fenomeno sono in

rapida crescita su tutti i media nazionali e da allora sono state effettuate numerose

ricerche.

1.6 Il modello di Leymann e i suoi sviluppi

Gli studi di Leymann hanno rilevato come il mobbing sia indotto da fattori organizzativi

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– lo stile di leadership, il work design, il clima dell‟organizzazione e dei gruppi

di lavoro – e hanno contrastato fortemente le teorizzazioni che consideravano il

mobbing come conseguenza di una predisposizione individuale. Secondo Leymann

quattro sono le cause principali del mobbing:

• l‟inefficienza della leadership;

• l‟inefficienza del work design;

• la posizione sociale della vittima;

• il basso morale dei reparti/uffici.

Il mobbing si verifica per una gestione approssimativa dei conflitti, o del tutto

inadeguata, da parte di un‟organizzazione che tende a non riconoscere il problema. Essi

possono intensificarsi (escalation) nella direzione di mobbing quando i manager o i

vertici aziendali, attraverso la negazione, alimentano il problema (ad esempio, perché

coinvolti nelle dinamiche di gruppo). In sintesi, gli ingredienti principali del mobbing

sono quindi da imputare all‟organizzazione del lavoro e all‟inadeguata gestione dei

conflitti organizzativi da parte dei responsabili aziendali.

Leymann (1996) inoltre ha definito quattro fasi in cui si articola il processo di mobbing

e la sequenza logica che intercorre tra esse:

1. La I Fase del modello si basa sul presupposto che il conflitto nasce

normalmente in tutti i posti di lavoro a causa di scontri di caratteri, di

opinioni ed abitudini diverse, a causa di invidia o competizione. Tale

conflitto è latente poiché non viene ancora esplicitato da nessuna azione o

frase. Esso diviene mobbing solo se non viene risolto e se comunque

diviene continuativo per almeno sei mesi.

2. La II Fase prevede l‟inizio del mobbing vero e proprio e del terrore

psicologico. Il conflitto quotidiano matura e diviene continuativo, vengono

definiti e cristallizzati i ruoli di mobber e di vittima, il mobber agisce in

modo sistematico ed intenzionale con strategie persecutorie ed il

mobbizzato subisce la stigmatizzazione collettiva.

3. La III Fase si verifica nel momento in cui il mobbing trascende i limiti

dell‟ufficio/reparto in cui è nato e diventa di dominio pubblico. La vittima

comincia ad accusare problemi di salute e si assenta ripetutamente dal

lavoro per malesseri o visite mediche. Inoltre, manifesta un calo di

rendimento così da dare il via ad indagini da parte dell‟Amministrazione

del Personale. Quest ultima può arrivare a considerare l‟elemento dannoso

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e dispendioso per l‟azienda e decidere di eliminarlo anche attraverso

azioni non propriamente legali, con l‟obiettivo di portarlo alle dimissioni

spontanee.

4. La IV Fase prevede l‟esclusione della vittima dal mondo del lavoro, o per

licenziamento o per dimissioni. Casi più gravi e violenti si verificano per

suicidi (dovuto ad un crollo interiore e morale della persona) della vittima

o invalidità permanenti (dovute a mancanza di concentrazione o

sabotaggi). A volte capitano anche aggressioni verso il mobber. Il

mobbing, in questa fase, ha raggiunto il suo scopo, cioè eliminare la

vittima.

Il modello di Leymann è puramente descrittivo: esso presenta dei limiti, rintracciabili

sia nella mancanza della dimensione soggettiva della vittima, sia nella mancanza di

relazione logica tra le fasi (necessaria per parlare di “processo”). Inoltre, Leymann

sembra basarsi sulla realtà svedese e tedesca, non permettendo l‟applicazione del suo

modello ad una realtà culturale e sociale come quella italiana, la quale presenta, rispetto

agli altri paesi europei, delle peculiarità: in Italia per esempio un legame familiare molto

forte può assorbire o al contrario enfatizzare le conseguenze del mobbing. In

quest‟ottica il modello di Leymann appare impreciso ed incompleto, lasciando aperti

molti quesiti. Per tale motivo Ege ha elaborato una variante del modello leymanniano,

introducendo il punto di vista del soggetto che partecipa al processo e legando ogni

singola fase a quella precedente e alla successiva. Il modello di Ege appare pertanto

molto più ricco, chiaro e fluido e maggiormente adeguato alla situazione italiana. Qui,

infatti, la conflittualità tra i lavoratori viene considerata una condizione normale di

lavoro, per cui il conflitto quotidiano non può essere il punto di partenza del mobbing.

Ege aggiunge una pre-fase detta “Condizione Zero” in cui il conflitto è generalizzato

(tutti contro tutti), senza la designazione di una vittima precisa. Il conflitto non è latente

poiché si manifesta (saltuariamente) attraverso piccoli diverbi, discussioni o ripicche.

Le fasi riportate sono le seguenti:

1. Il conflitto mirato. In questa fase già si parla di mobbing. Infatti il conflitto

quotidiano e fisiologico si trasforma, poiché l‟obiettivo è quello di distruggere

l‟avversario. Viene designata la vittima e si dirige su di essa la conflittualità

generale.

2. L’inizio del mobbing. Gli attacchi da parte del mobber suscitano senso di disagio

e fastidio. La vittima si interroga sul mutamento e sull‟inasprimento delle

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relazioni lavorative. Questa fase corrisponde alla seconda fase di Leymann.

3. Primi sintomi psico-somatici. Questa fase si colloca tra l‟inizio del mobbing e la

sua manifestazione pubblica. La vittima comincia ad avvisare problemi di salute

(insonnia, problemi digestivi, senso di insicurezza) che si possono protrarre

anche per lungo tempo.

4. Errori ed abusi dell’amministrazione del Personale. Il caso di mobbing diventa

pubblico e spesso viene favorito da errori di valutazione dell‟ufficio del

Personale, spesso dovuti alla mancanza di conoscenza del fenomeno e delle sue

caratteristiche. Quindi i provvedimenti presi il più delle volte risultano inadatti e

dannosi per la vittima.

5. Serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima. Il mobbizzato entra in

una fase di vera disperazione, accusando forme depressive, credendosi la causa

dei suoi problemi e avvertendo un senso di impotenza verso la situazione.

Spesso si cura con psicofarmaci e sedute terapeutiche, ma queste hanno un

effetto puramente palliativo, non eliminando il problema sul lavoro.

6. Esclusione dal mondo del lavoro. Questa fase rappresenta l‟esito ultimo del

mobbing e corrisponde alla quarta fase di Leymann (per cui valgono le stesse

considerazioni esposte sopra).

Anche in questa elaborazione, come in quella base di Leymann, possono verificarsi

variazioni, per cui alcune fasi possono mancare e il mobbing può concludersi prima

della fase cronica, relativamente alla particolare storia di ogni vittima.

Con questo capitolo ho cercato di porre le basi per spiegare ciò che viene riportato nei

capitoli successivi. Com‟è possibile notare mi sono soffermata su ciò che è il mobbing e

sui protagonisti di tale fenomeno, oltre ad aver prestato attenzione nel descrivere le fasi

storiche che lo compongono.

Credo sia essenziale prima di dare una collocazione a un tema di preminente rilevanza,

descriverlo e comprenderlo attraverso le varie sfaccettature presentate.

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SECONDO CAPITOLO

TIPI DI MOBBING

2.1 Il mobbing verticale e orizzontale

Tra le varie tipologie di mobbing, è possibile individuare una prima forma di

4terrorismo psicologico che si basa sul tipo di relazione gerarchica che intercorre tra gli

attori del fenomeno. Partendo dal ruolo lavorativo e dalla posizione formale ricoperti

dall‟aggressore e dalla vittima si possono distinguere due tipologie di mobbing: 5il

mobbing verticale e il mobbing di orizzontale. A sua volta, il mobbing verticale può

essere suddiviso in discendente e ascendente.

Si tratta di un caso di mobbing verticale discendente quando la violenza psicologica

viene posta in essere da un superiore della vittima e può determinarsi anche con il

concorso dei colleghi della vittima che svolgono, consapevolmente o meno, un‟azione

mobbizzante. Le azioni più tipiche di questa forma di mobbing sono legittimate dal

potere formale e dall‟autorità detenuti dal mobber. Proprio per questo motivo, a

superiori e manager viene dato potere formale dall‟organizzazione che, talvolta, può

giungere a forme di abuso dalle quali la vittima non è in grado di difendersi. Un tipico

esempio di mobbing verticale è l‟abuso di potere, vale a dire tutte quelle situazioni in

cui viene attuato un uso arbitrario e non razionale dal punto di vista organizzativo ed

etico del potere da parte di un superiore, che utilizza, a tal fine, la posizione che occupa

nella gerarchia aziendale. Disprezzare e mostrare scarsa considerazione verso i

collaboratori e subordinati, mostrare continua sfiducia e sospetto, vedere i subordinati

come un oggetto da manipolare, prendere credito dai successi degli altri e punire senza

reale necessità sono alcuni dei possibili comportamenti messi in atto dal superiore

mobber.

Ci si trova, invece, davanti a un caso di mobbing verticale ascendente quando la

violenza psicologica viene posta in essere nei confronti della vittima da uno o più

collaboratori/ subordinati. Lo staff dipende dai superiori riguardo ai compiti da

4 H. Ege, Che cos’è il terrore psicologico sul luogo di lavoro. Pitagora, Bologna (1996).

5 Menelao et al. Nel 2001 riportano dati secondo cui in Italia il 40-45% dei casi di mobbing è di tipo verticale, mentre solo nel 5% dei casi si tratta di mobbing orizzontale.

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svolgere, le risorse da utilizzare, i premi da ricevere e le valutazioni delle loro

prestazioni, ma anche i superiori dipendono dai collaboratori/subordinati in merito al

raggiungimento degli obiettivi prefissati e ai risultati finali ottenuti. Ne consegue che

anche la dipendenza dei manager dal loro staff può diventare una forma di potere che

può essere oggetto di abuso. Infatti, il potere detenuto dallo staff nei confronti del

manager risulta limitato se il superiore è riconosciuto e legittimato, ma, nel caso in cui il

manager non venga rispettato, i collaboratori/ subordinati possono esercitare una forma

di abuso di potere, grazie al facile reperimento di conoscenze, informazioni e network

del superiore e all‟utilizzo di tattiche di coalizione. Le azioni più tipiche di questa forma

di mobbing sono, verosimilmente, più di tipo rivendicativo/punitivo come trattenere

informazioni necessarie per il superiore o diffondere gossip e false accuse nei suoi

confronti. Il manager, a sua volta, si trova in estrema difficoltà a cercare supporto e

aiuto, in quanto la sua posizione e il sistema di aspettative intrinseche al suo ruolo da

parte dell‟azienda e degli impiegati ne diminuiscono la possibilità di difesa. Ci si trova,

invece, davanti a un caso di mobbing orizzontale quando la violenza psicologica viene

posta in essere nei confronti della vittima da uno o più colleghi di pari grado.

Le azioni più tipiche in questo caso sono verosimilmente di tipo comunicativo, come

ignorare ed escludere la persona, o attaccarne la vita privata. I colleghi, infatti, hanno

una conoscenza più approfondita degli stili di vita, delle preferenze e delle attitudini

delle persone con cui lavorano. Questa approfondita conoscenza potrebbe influenzare il

comportamento di mobbing in contesti e situazioni specifiche: in essi, infatti, alcune

categorie di lavoratori, per determinate caratteristiche di personalità e attitudini,

vengono percepite come aventi meno potere e l‟aggressore può sentirisi perfino

legittimato a esercitare azioni mobbizzanti.

2.2 Il mobbing collettivo/organizzativo e il bossing

Un‟altra tipologia di mobbing emerge sulla base della concettualizzazione del fenomeno

entro una logica strettamente aziendale.

Molti studiosi, come rilevato precedentemente, hanno messo in luce che il mobbing è

un fenomeno interpersonale che evolve da un processo interattivo fra le parti, mentre

altri (Liefooghe e Mackenzie, 2001) hanno invece concettualizzato il mobbing come un

fenomeno organizzativo. Il mobbing collettivo/organizzativo si riferisce alle situazioni

in cui le procedure e le pratiche organizzative vengono percepite regolarmente e

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sistematicamente come oppressive, degradanti e umilianti al punto che i lavoratori si

sentono mobbizzati da esse. Anche in questa forma di mobbing i comportamenti

negativi sono frequenti, persistenti e tormentano, creando frustrazione nei dipendenti. In

queste situazioni, i manager, a livello di singolo o di gruppo, danno sostegno e forma

alle strutture organizzative e alle procedure che possono tormentare, abusare e sfruttare

gli impiegati.

Il bossing, invece, è una forma di terrorismo psicologico che viene programmato

dall‟azienda o dai vertici dirigenziali come vera e propria strategia aziendale di

riduzione o razionalizzazione del personale, oppure di semplice eliminazione di una

persona indesiderata. Ege (2001) definisce il bossing come un tipo di mobbing politico,

in cui la linea politica del mobber coincide con quella aziendale e in cui il mobber può

essere considerato l‟azienda stessa, il datore di lavoro o comunque i vertici aziendali. In

quest‟ottica, i dirigenti e i quadri dell‟azienda hanno lo scopo preciso di indurre il

dipendente, divenuto “scomodo”, all‟autoeliminazione (dimissioni volontarie, pre

pensionamento), oppure di creare il necessario background per un suo licenziamento, il

tutto al riparo da qualsiasi problema di tipo sindacale e giuridico.

Il bossing può essere utilizzato per intraprendere operazioni su larga scala, come la

riduzione di personale o la riorganizzazione di interi uffici, oppure per espellere dal

contesto socio produttivo lavoratori non voluti, altrimenti difficilmente amovibili. Esso

è caratterizzato dall‟intento strategico dell‟aggressore (quindi azione voluta,

intenzionale, cosciente e pianificata) di allontanare ed emarginare il lavoratore ed è

specificamente ricollegabile a finalità inerenti all‟ambito lavorativo. Come è noto, al

giorno d‟oggi la legislazione vigente in merito alla tutela dei lavoratori rende molto

difficile per l‟azienda licenziare qualche dipendente, soprattutto quando si tratta di

persone organizzate nei sindacati. Tuttavia, soprattutto in tempi di crisi, molte aziende

sono costrette a ridurre il personale, o a ringiovanirlo. Il bossing si configura in questi

casi proprio come una precisa strategia aziendale. Nei sistemi, infatti, dove esiste

maggiore libertà di licenziare, la frequenza di strategie di bossing risulta normalmente

minore; al contrario, in una realtà dove il licenziamento è ammesso solo per giusta

causa o giustificato motivo, pena sanzioni anche rilevanti, l‟interesse a provocare le

dimissioni può diventare molto forte e, se il lavoratore ha scarse possibilità di trovare

una diversa occupazione, il suo attaccamento al lavoro sarà maggiore, con conseguenze

per lui nefaste.

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Le azioni più tipiche di questa forma di mobbing riguarderanno più specificamente

l‟attività lavorativa, si manifesteranno sotto forma di trappole, diffusione di

informazioni false o incomplete e sabotaggi, affinché gli errori commessi dal lavoratore

possano essere fatti ricadere su di lui e costituiscano una prova costruita da esibire in

giudizio.

Inoltre, il bossing crea intorno alla persona da “eliminare” un clima negativo e ostile:

atteggiamenti eccessivamente e ingiustamente severi, minacce più o meno velate,

rimproveri più o meno immeritati, che non vengono compresi dalla vittima.

Inizialmente essa è disorientata, con il passare del tempo può diventare incredula

rispetto a ciò che sta succedendo, successivamente fortemente impaurita di perdere il

proprio posto di lavoro e, infine, cosciente della situazione, ma impotente di fronte alla

strategia di persecuzione messa in atto contro di lei. In questa ipotesi il mobbizzato può

venire, per altro anche legittimamente, licenziato in quanto ormai inefficiente, assente

per malattia, inadempiente ai doveri contrattuali. In questa situazione l‟esclusione del

mobbizzato dall‟ambiente di lavoro può essere una mera conseguenza del bossing: ciò

avviene quando i superiori o i colleghi intervengono in un‟azione mobbizzante già

intrapresa dall‟organizzazione, dunque entro una logica prettamente aziendale. I

superiori o i colleghi, pur non avendo premeditato il licenziamento, si trovano, cioè, a

dover sanzionare il dipendente, completando l‟opera di demolimento intrapresa dai

vertici dirigenziali dell‟azienda.

2.3 Il mobbing sulla persona e il mobbing sul ruolo lavorativo e sulla mansione.

Continuando la rassegna delle varie tipologie di mobbing, è possibile individuare

un‟altra forma di terrorismo psicologico sulla base delle azioni poste in essere

dall‟aggressore e percepite dalla vittima. Come è emerso da uno studio di Einarsen e

Hoel (2001) condotto presso 5300 lavoratori e da Giorgi e Majer presso oltre 2000

lavoratori italiani, ci sono due tipologie di azioni negative: attacchi diretti al ruolo

lavorativo e alla mansione e attacchi diretti alla persona. Il mobbing sul ruolo lavorativo

e la mansione si attua attraverso la marginalizzazione dell‟attività lavorativa. Spesso si

inizia con l‟esclusione reiterata del lavoratore da iniziative formative di riqualificazione

e aggiornamento professionale, e/o con l‟esercizio esasperato di forme di controllo,

oppure con ripetuti trasferimenti ingiustificati cui viene sottoposta la vittima.

Parallelamente, viene colpito l‟operato del lavoratore: un esempio è dato dalla

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prolungata attribuzione di compiti eccessivi con scadenze irragionevoli o dalla mancata

assegnazione degli strumenti di lavoro, così che, successivamente, vengono tolte

responsabilità cruciali di competenza e assegnati compiti dequalificanti rispetto al

profilo professionale posseduto. Altre manifestazioni del mobbing sul ruolo lavorativo e

sulla mansione sono rinvenibili nell‟inadeguatezza strutturale e sistematica delle

informazioni inerenti all‟ordinaria attività del lavoro e nell‟impedimento sistematico e

strutturale dell‟accesso a notizie necessarie per il lavoratore.

Il mobbing sulla persona si attua, invece, nella violazione dell‟integrità e della dignità

umana della vittima. Spesso si inizia con azioni negative “velate”, come fare continue

critiche, pettegolezzi e gossip; oppure la vittima inizia ad essere frequentemente

umiliata in pubblico o riceve giudizi negativi reiterati in merito a errori e sbagli

commessi. Possono, inoltre, essere diffuse false accuse e la vittima può divenire il

bersaglio di un eccessivo sarcasmo o di scherzi imbarazzanti. Contestualmente

all‟evolversi del conflitto, le azioni negative possono diventare più esplicite e dirette e

assumere l‟aspetto di veri e propri comportamenti intimidatori (invadere lo spazio

personale, impedire il passaggio, puntare il dito contro). Il mobbizzato, inoltre, inizia ad

essere sempre più frequentemente vittima di aggressività e rabbia, con il rischio di

arrivare alla minaccia di violenza o ad atti di vera e propria violenza fisica.

Altre manifestazioni del mobbing sulla persona sono riscontrabili nell‟isolamento

sociale, nell‟ignorare o nel compiere azioni ostili quando la vittima si avvicina, nei

reiterati commenti offensivi o insulti sulla sua persona o sulla sua vita privata. Altre

volte vengono dati da parte del mobber costanti segnali che mirano a far lasciare alla

vittima il suo posto di lavoro.

2.4 Il doppio mobbing

Contestualmente allo svilupparsi delle varie fasi del mobbing lavorativo, si può

sviluppare inoltre, secondo Ege (1996), il doppio mobbing, ossia quell‟insieme di

vessazioni che la vittima subisce dalla propria famiglia e/o amici in aggiunta alle

persecuzioni lavorative.

La famiglia, in particolare in Italia, riveste un importante ruolo caratterizzato da stretti

legami e da una partecipazione attiva all‟evoluzione sociale e personale dei suoi

membri: si interessa del loro lavoro, della loro vita privata, fornisce consigli e aiuti nel

risolvere i problemi e fornisce protezione. La vittima, in situazione di mobbing, cerca

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proprio nella famiglia quella comprensione e quel conforto in cui sfogare la propria

rabbia e la propria frustrazione, l‟insoddisfazione e lo stress che ha accumulato durante

la giornata lavorativa. Così, chi si trova coinvolto nel mobbing, cerca una condivisione

delle proprie difficoltà con il coniuge, i figli, i genitori. Essendo il mobbing un lento

stillicidio di persecuzioni, attacchi e umiliazioni, che perdura inesorabilmente nel

tempo, e proprio nella lunga durata ha la sua forza devastante, il logorio attacca la

famiglia, che, inizialmente resiste e compensa le perdite, poi fornisce sostegno fino a un

certo limite. Quando la violenza psicologica subita all‟interno dell‟ambiente lavorativo

diventa l‟unico e ossessivo argomento di conversazione della vittima e la situazione

diviene insostenibile e dannosa per l‟unione e la coesione familiare, la stessa famiglia

per “istinto di sopravvivenza” erge un muro di protezione e passa al contrattacco con

atti estremi e irrazionali, e tende nei casi più gravi a isolare l‟individuo anche dal nucleo

familiare, causandogli con ciò un peggioramento per quanto concerne la sua stabilità

psicologica.

2.5 Le conseguenze del Mobbing

Il Mobbing è una pratica dannosa e realmente criminale: le sue intenzioni sono dettate

da sentimenti profondamente distruttivi verso gli altri ed i suoi esiti sono di portata

sconvolgente. Proprio per questo motivo sono facilmente intuibili la sua potenzialità

disgregatrici e le 6conseguenze che ne derivano anche nel tessuto sociale. Per la vittima

il Mobbing significa prima di tutto problemi di salute, legati alla somatizzazione della

tensione nervosa. Il nervosismo causa spesso palpitazioni, tremori, difficoltà

respiratorie, problemi di espressione, gastriti e disturbi digestivi. Un'altra sfera

dell´esistenza che risente dello stress è il sonno: incubi, sonno interrotto, insonnia.

Spesso poi il mobbizzato manifesta disturbi alle funzioni intellettuali: annebbiamento

della vista, difficoltà di memoria e di concentrazione e molto frequenti sono i sintomi da

pressione psicologica più evidenti, come capogiri e svenimenti. Il Mobbing causa poi

alla vittima anche danni finanziari, spesso di entità considerevole: pensiamo alle costose

visite mediche specialistiche ed alle sedute psicoanalitiche, oltre alla scomparsa della

regolare entrata mensile dello stipendio nei casi in cui il Mobbing sfocia nella perdita

del posto di lavoro. Il Mobbing però causa anche danni di tipo sociale, cioè il crollo

6 Proteo, Che cos’è il terrore pscicologico, Bologna, 1996.

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della sua immagine sociale e la perdita di colleghi, di collaboratori o di amici che non

sopportano più il suo umore depressivo o del partner che se ne va convinto che sia un

fallito.

Per l'azienda il Mobbing ha effetti ugualmente devastanti, principalmente sul piano

economico: sicuramente se un imprenditore fosse a conoscenza dei veri danni del

Mobbing, lo combatterebbe con decisione e rapidità. Anche per l'azienda poi il

Mobbing ha conseguenze che vanno ben oltre quelle dei costi. Ci sono infatti anche

conseguenze gravi sul piano sociale: se i dipendenti si dimostrano scontenti delle

condizioni di lavoro a cui sono costretti e ne parlano al di fuori, l'immagine della ditta

ne risente inevitabilmente e la concorrenza può approfittarne. Vi è un'altra entità che

viene gravemente danneggiata dal Mobbing, la società stessa. Pensiamo ad un

mobbizzato costretto a protratte assenze per malattia. L'INPS, ente statale e quindi

finanziato dalla comunità, eroga denaro all'azienda affinché questa persona sia

regolarmente retribuita. Non solo: la USL, anche questa statale, contribuisce alle spese

per le visite mediche, le analisi, le terapie e gli eventuali interventi di altro genere

necessari allo stato di salute della vittima del Mobbing.

Passiamo ora alle estreme conseguenze cui il Mobbing può portare una sua vittima, cioè

a un caso di invalidità professionale permanente. Il mobbizzato è giunto ad uno stato

fisico o psichico in cui non può più svolgere normalmente alcun tipo di lavoro

(esaurimento nervoso, depressione cronica, etc). In situazioni di danni permanenti alla

salute, la vittima può essere costretta al prepensionamento in età ancora relativamente

giovane. Anche in questo caso i costi per la società sono enormi: non si deve infatti

considerare solo la pensione che riceve con 10-20 anni di anticipo rispetto alla normale

età pensionabile. Pensiamo anche ai contributi sullo stipendio che non versa più e alla

perdita sociale della risorsa umana relativa all'attività lavorativa che non svolge più. In

pratica, possiamo affermare che la sua forza lavorativa non è più al servizio della

società con molti anni di anticipo.

Le ricerche europee sono arrivate ad una stima approssimativa del danno economico

che un prepensionamento a 40 anni causa alla società: la cifra è molto elevata, a cui

inevitabilmente va aggiunto il costo della persona che, non producendo più, occupa però

un posto in ospedale o si sottopone ad una visita specialistica, o ad una seduta di terapia.

Anche l'ambiente della vittima subisce un danno da Mobbing: spesso gli umori

altalenanti o insopportabili del mobbizzato riescono a far saltare i nervi anche ai

familiari ed agli amici. Immaginiamo una coppia in cui uno dei due partner cominci a

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subire Mobbing: diventerebbe intrattabile. Porterebbe a casa i suoi problemi sul lavoro;

a volte per cercare di liberarsene si darebbe all'alcol, o al fumo; forse diventerebbe

violento. Ce n'è abbastanza per separarsi. Anche un divorzio è da includere all'interno

dei costi a carico della società dovuti al Mobbing. Nel 1996/97 è stata condotta la prima

ricerca sul Mobbing in Italia da parte di PRIMA, Associazione Italiana contro Mobbing

e stress psicosociale.

A 301 vittime di Mobbing è stato sottoposto un questionario specifico che riguardava

gli effetti e le modalità del terrorismo psicologico che subivano o avevano subito sul

posto di lavoro. Ecco alcuni dei risultati della ricerca:

- Più del 38% delle vittime intervistate provengono dal settore dell´industria

produttrice di beni/servizi, mentre un altro forte riscontro del Mobbing si ha

nella pubblica amministrazione (oltre 21%). All´interno del mondo industriale o

del terziario è evidente un certo orientamento verso il profitto, che si traduce di

solito nella filosofia secondo cui chi produce di più viene anche maggiormente

gratificato. Possiamo dunque avanzare l'ipotesi che esiste una forte relazione tra

Mobbing e ambizione. Poiché più si produce e più si ricevono gratificazioni, è

possibile che un impiegato carrierista ed ambizioso ricorra al Mobbing per

liberarsi di un collega molto bravo sul lavoro, che è o potrebbe diventare un

pericoloso concorrente nella corsa alla promozione. Nell'amministrazione

pubblica, invece, solitamente hanno molto peso i favoritismi di ogni tipo,

familiare, politico, etc. Ciò può portare alla spiccata tendenza ad eliminare

chiunque non faccia parte della "famiglia", e che quindi costituisce con la sua

semplice presenza, una denuncia al sistema. Un altro motivo di insorgenza del

Mobbing negli uffici pubblici inoltre penso possa essere rintracciato nel diffuso

sentimento di "noia" di cui tanti impiegati e lavoratori soffrono. In effetti, spesso

il personale è in esubero, e quindi il lavoro che ognuno deve svolgere occupa

solo una parte del suo orario. Per il resto del tempo si deve restare sul posto di

lavoro ad annoiarsi, e prendere in giro un collega diventa troppo spesso un

passatempo.

Con quanto sopra descritto, si è cercato di descrivere in linea generale quali sono gli

effetti che si possono riscontrare in coloro che sono ritenute vittime di mobbing. Nel

corso degli anni e grazie agli studi che si sono avuti su questo fenomeno, è stato

possibile provare a definire nel dettaglio le conseguenza. Non bisogna dimenticare che

gli effetti di questo terrore psicologico, possono risultare permanenti e durevoli nel

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tempo; il mobbizzato difficilmente riesce ad abbandonare l‟idea di essere stato una

vittima di Mobbing. Ora facendo riferimento agli studi condotti da Leymann e

successori, possiamo notare com è possibile dividere gli effetti di Mobbing nel breve e

nel lungo periodo.

2.6 Effetti nel breve periodo

Già nel 1990 Leymann aveva dimostrato tramite osservazioni cliniche che il mobbing

non solo comportava sindromi psicologiche o gravi disturbi ma anche isolamento

sociale, malattie psicosomatiche, depressione, rabbia, sensazione di impotenza e così

via. Essere vittime di comportamenti vessatori sembra produrre anche forti reazioni

emotive, o dei veri traumi, come paura, ansia e shock. La vittimizzazione subita, inoltre,

trasforma le percezioni delle persone sul proprio lavoro e sulla propria vita in genere in

situazioni che implicano insicurezza, minaccia e pericolo.

Per Einarsen e Hellesøy (1998), le vittime di mobbing riportano meno soddisfazione

lavorativa e benessere psicologico e una serie di sintomi di stress, come bassa

autostima, problemi legati al sonno, ansia, difficoltà di concentrazione, fatica cronica,

rabbia, depressione e altri sintomi psicosomatici; alcune vittime, inoltre, sviluppano

anche pensieri suicidi. Il mobbing, inoltre, può dare adito anche a dolori muscolari, la

cui motivazione può essere ricercata nello stato di tensione che il mobbing causa nella

vittima . In uno studio di Mikkelsen e Einarsen (2002), i mobbizzati, rispetto a un

gruppo di controllo, si consideravano meno capaci e abili e percepivano il mondo in

modo più negativo e pessimistico. Sulla base di osservazioni cliniche e interviste con

vittime americane di harassment, Brodsky (1976) identificò tre pattern di risposta:

alcune vittime sviluppavano sintomatologie di natura fisica, quali debolezza, mancanza

di forza, fatica cronica, dolori e così via, altre reagivano con depressione o

sintomatologie ad essa correlate, quali impotenza, mancanza di autostima e disturbi del

sonno; il terzo gruppo manifestava sintomatologie psicologiche, quali ostilità,

ipersensibilità, perdita di memoria, sentimenti persecutori, nervosismo.

Bisogna tuttavia considerare che i risultati degli studi sulle conseguenze del mobbing a

breve termine riportatati fino ad ora riguardano prevalentemente vittime consapevoli del

proprio vissuto di molestia e che avevano chiesto una qualche forma di aiuto e/o

supporto per uscirne. È possibile, quindi, ipotizzare che i loro problemi di salute fossero

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più gravi rispetto ad altre tipologie di vittime; in alcuni casi il loro vissuto poteva essere

ricondotto al mobbing oggettivo e/o a un mobbing non soltanto a breve termine ma a

lungo termine. Grazie agli studi e ai risultati concomitanti sostenuti da Einarsen e Zapf

emerge chiaramente che il mobbing influenza il benessere e la salute dei lavoratori, la

percezione soggettiva di essere vessati della vittima che pertanto può avere degli effetti

estremamente disfunzionali. Questo dato si dimostra essere significativo e

particolarmente rilevante non solo dal punto di vista scientifico, ma anche per le

prospettive di diagnosi precoce di intervento preventivo che emergono; in quanto la

maggiore parte degli studi effettuati, si rifanno a disegni di ricerca di tipo correzionale,

solo alcuni sono in grado di evidenziare l‟effetto causale del mobbing sullo stato di

salute delle vittime.

2.7 Effetti del mobbing nel lungo periodo

Nella costellazione dei sintomi delle vittime di mobbing a lungo termine è stato

riconosciuto anche il disturbo post-traumatico da stress. La diagnosi del disturbo

postraumatico si riferisce a un insieme di sintomi da stress presentati da vittime di

eventi traumatici. Può essere definito come un evento che ha comportato una minaccia

per la vita, o una grave lesione, o una minaccia all‟integrità fisica, propria o di altri, che

hanno condotto la vittima a una condizione di paura intensa, sentimenti di impotenza o

di orrore. L‟elemento chiave che determina lo sviluppo di questa patologia è la

percezione soggettiva di minaccia per la vita, l‟impossibilità percepita di ricevere aiuto,

l‟esperienza di paura estrema. Questo contribuisce a spiegare perché soggetti diversi,

esposti alla stessa circostanza traumatica, possono sviluppare, o meno, il disturbo. I

sintomi sono: la fissazione del pensiero sugli eventi traumatici, i comportamenti

evitanti, la reazione emotiva. In primo luogo il trauma viene rivissuto attraverso ricordi

dolorosi dell‟evento traumatico sotto forma di immagini, di flashback, di sogno.

In secondo luogo, la vittima tende a evitare stimoli in qualche modo collegati alla

situazione traumatica mostrando comportamenti evitanti: potrebbero sorgere problemi

nel ricordare alcuni eventi, potrebbe ridursi un interesse per alcune attività prima

gradite, possono anche verificarsi forme di chiusura ai rapporti interpersonali e agli

affetti. Il terzo elemento presente è dato dalla reazione emotiva intensa innescata da

luoghi o fatti che hanno qualche relazione con l‟evento traumatico. È correlata allo stato

emotivo e spesso presenta una vistosa componente somatica: accessi di calore,

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sudorazione, tensione muscolare, tremore, puntate ipertensive, reazioni coliche o

gastrointestinali in generale.

Numerosi sono ormai gli studi che supportano la relazione tra mobbing e disturbo post-

traumatico da stress. Leymann e Gustafsson, in uno studio condotto su 64 vittime

svedesi di mobbing inserite in un programma di riabilitazione, conclusero che il 65%

soffriva di questo tipo di disturbo. In uno studio il cui campione era costituito da 102

vittime norvegesi di mobbing a lungo termine, Einarsen evidenziò che il 75% dei

mobbizzati presentava sintomi tipici del disturbo post-traumatico da stress e, anche

dopo cinque anni dalla cessazione delle molestie, il 65% delle vittime riportava un

pattern di sintomi indicante il disturbo. Mikkelsen e Einarsen , in un campione di 118

vittime danesi di mobbing, sulla base dei criteri diagnostici, rilevarono che il 29%

soffriva di un disturbo post-traumatico da stress, mentre il 47% non soddisfaceva

soltanto il criterio. Inoltre, il 61.7% delle 89 vittime prese in considerazione,

soddisfaceva tutti i criteri del disturbo post-traumatico da stress.

Un altro possibile effetto del mobbing a lungo termine è il disturbo di adattamento, la

cui caratteristica fondamentale è una risposta psicologica a uno o più fattori stressanti

identificabili che conducono allo sviluppo di sintomi emotivi o comportamentali

clinicamente significativi. I sintomi devono svilupparsi entro tre mesi dall‟esordio del

fattore o dei fattori stressanti. La sofferenza emotiva indotta da situazioni stressanti o

eventi di vita sfavorevoli viene valutata secondo la durata e la gravità dei sintomi in

relazione all‟evento stressante. La diagnosi viene adottata ogni volta che si verifica una

significativa compromissione funzionale nella vita lavorativa e/o di relazione. È bene

comunque sottolineare che qualsiasi sia la diagnosi degli effetti, il cuore del problema è

la comprensione di quanto il mobbing possa essere psicologicamente distruttivo.

Il mobbing non solo danneggia la salute mentale ma anche la carriera, lo status e lo stile

di vita. La maggior parte delle vittime percepisce l‟esposizione al mobbing come la

peggior cosa che sia mai successa nella propria vita. Ciò dimostra che per alcuni

lavoratori il mobbing è un evento estremamente traumatico, sia a breve che, ancor più, a

lungo termine.

2.8 Altri effetti del mobbing

Come ogni situazione che possa verificarsi, anche il mobbing, non ricade solo su coloro

che vengono considerati i protagonisti del fenomeno. Proprio per questo, non bisogna

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dimenticare chi si ritrova in questa situazione assumendo una posizione marginale e che

inevitabilmente ne subisce le conseguenze. Molto spesso inizialmente questi soggetti

vengono esclusi dal contesto mobbing e sono: gli osservatori e l‟organizzazione, intessa

come sistema.

Gli osservatori, in quanto il mobbing non sembra influenzare soltanto il bersaglio ma

anche i colleghi e gli osservatori. Gli effetti del mobbing sugli osservatori possono

essere sia diretti, vale a dire quando gli stessi sviluppano la paura di diventare le

prossime vittime, sia indiretti, ossia quando il benessere generale degli osservatori è

ridotto a causa dell‟ambiente mobbizzante in cui lavorano. È, inoltre, possibile

ipotizzare che i testimoni di mobbing potrebbero anche essere psicologicamente affranti

da una reale o percepita incapacità di aiutare la vittima. In uno studio di Rayner, più di

un terzo dei testimoni riferiva che avrebbe voluto aiutare la vittima, ma non osava

rischiare tanto per le possibili conseguenze negative che sarebbero potute derivare da

tale azione.

È ormai ampiamente riconosciuto come il mobbing, in particolare quello a lungo

termine, abbia effetti estremamente disfunzionali sulla salute della persona. Sebbene in

Italia ancora non vengano del tutto considerati gli effetti che anche un mobbing a breve

termine può comportare sul mobbizzato, l‟elemento diagnostico della vittima di

mobbing a lungo termine nel nostro Paese, in particolare per fini medico-legali, in

qualche modo incoraggia lo svilupparsi di una maggiore sensibilità e attenzione nei

confronti anche dei mobbizzati meno gravi, in quanto non presentano disturbi

psicopatologici come il disturbo post-traumatico da stress o il disturbo di adattamento.

Gli effetti disfunzionali che il fenomeno può comportare sull‟organizzazione non

sembrano, aver suscitato particolare attenzione da un punto di vista aziendale; ma è

evidente che il mobbing possa influenzare negativamente la produzione e di

conseguenza diminuire la qualità della prestazione. Il venir meno della motivazione e

del coinvolgimento lavorativo di chi è vittima di azioni mobbizzanti possono portare la

persona a non svolgere bene il proprio lavoro; soprattutto se insorgono problemi di

salute,in quanto diminuisce la capacità di concentrazione della persona e aumenta la

possibilità che il dipendente commetta errori. Ciò riduce la qualità della prestazione ed

è, inoltre, più probabile che si verifichino incidenti e infortuni. Dal punto di vista

empirico, nonostante le difficoltà legate a una misurazione puntuale della produttività

sul lavoro, Einarsen mise in luce che campioni consistenti di lavoratori, il 27% in

Norvegia e il 32.5% in Inghilterra, dichiaravano di aver diminuito la propria efficienza a

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causa del mobbing. Inoltre, i mobbizzati dichiaravano di essere il 7% meno produttivi

rispetto a coloro che non erano stati né mobbizzati né erano stati testimoni di

comportamenti vessatori. Non è da escludere che il calo nella prestazione di un

individuo possa avere effetti negativi anche sulla prestazione degli altri lavoratori,

all‟interno del gruppo di lavoro, o del proprio superiore, con la possibilità di giocare un

pericoloso effetto “domino” e, quindi, di abbassare l‟efficienza e la produttività non

soltanto del proprio ufficio ma di tutta l‟organizzazione. Anche l‟assenteismo rientra

come possibile/probabile outcome organizzativo del mobbing. A questo proposito uno

studio finlandese, grazie al fatto di aver potuto accedere a registri e documentazioni

contenenti certificati di malattie, ha dimostrato che il rischio di assenteismo per i

mobbizzati era di 1.5 volte maggiore rispetto ai non mobbizzati. Hoel e Cooper hanno

invece evidenziato che le vittime di mobbing hanno in media sette giorni di assenteismo

annui in più rispetto ai non mobbizzati o a chi non ha assistito al mobbing. In tre

ricerche, condotte presso organizzazioni pubbliche inglesi e organizzazioni private

australiane, un terzo dei mobbizzati dichiarava di essere stato assente al lavoro a causa

del mobbing e un numero considerevole di costoro dichiarava che si trattava di assenze

prolungate. Il 29% dei mobbizzati risultava essere stato assente dal lavoro per 30 giorni,

mentre il 13% per 60 giorni. Esiste, quindi, una relazione significativa fra assenteismo e

mobbing, anche se non appare così forte come si potrebbe pensare di primo acchito.

Einarsen per darne una spiegazione si è riferito al lavoro di Thyholdt, secondo i quali le

vittime tenderebbero prima a maturare sintomi specifici da stress, piuttosto che arrivare

subito all‟assenteismo. Va tuttavia considerato che assenteismo, turnover e produttività

possono interagire in modo dinamico tra loro dando vita a circoli viziosi per

l‟organizzazione. Ad esempio, se una persona non viene sostituita da qualcun‟altro

quando è assente, la pressione lavorativa potrebbe aumentare per i suoi colleghi,

alimentando possibili tensioni che potevano essere già in atto, diminuendo la

produttività e/o innalzando il turnover. Se, invece, la vittima decidesse di non assentarsi

dal lavoro, potrebbe comunque non essere sufficientemente produttiva a causa di

problemi di salute, mancanza di concentrazione o paura di commettere errori. Ciò

potrebbe riflettersi nella relazione con i propri superiori o colleghi, con il rischio di

aumentare il conflitto, piuttosto che diminuirlo. Conflitto che a sua volta potrebbe

incidere negativamente la produttività dell‟ufficio/reparto.

Da quanto sopra descritto, è facilmente deducibile inquadrare il mobbing in un danno

tipo psico-sociale.

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2.9 Le metodologie di misurazione del mobbing

Lo studio di un fenomeno e la sua misurazione sono aspetti correlati tra loro; è

interessante notare che le tecniche utilizzate nello studio del mobbing possono essere

metodologie quantitative o metodologie qualitative.

Nelle metodologie quantitative rientrano i questionari; strumenti psicometrici capaci di

dare una misura quantitativa del fenomeno ed inoltre la loro utilità sta nel conferire una

struttura fattoriale al mobbing, attraverso indagini empiriche. Il 7“Leymann Inventory of

Psychological Terrorization” (LIPT), realizzato nel 1997 è un questionario anonimo ed

è ancora oggi lo strumento più usato nella rilevazione del Mobbing. Il LIPT contiene

una lista di azioni ostili, suddivise in cinque categorie (Attacchi ai contatti umani,

Isolamento sistematico, Cambiamenti di mansioni, Attacchi alla reputazione, Violenza e

minacce di violenza), che il soggetto è tenuto a segnalare, oltre alle indicazioni relative

alla frequenza e alla durata del trattamento negativo e alle conseguenze psicofisiche

patite. Successivamente nel 1995 Harald Ege ha elaborato la versione italiana del

questionario, denominata "LIPT modificato", che contiene importanti aggiunte e

adattamenti alla realtà italiana. Essendo anonimo e di facile lettura, il "LIPT modificato"

è funzionale alla rilevazione del livello di conflittualità nei contesti organizzativi; con

questo strumento sono infatti stati condotti vari studi, tra cui la prima ricerca italiana sul

Mobbing. Nel 2002, un ulteriore sviluppo ha portato alla stesura di una versione non

anonima, sostanzialmente rivisitata ed ampliata del questionario, detta "LIPT-Ege", che

insieme al relativo “Metodo Ege, già riconosciuto da vari tribunali italiani con alcune

importanti sentenze, è volta alla valutazione del Mobbing e alla quantificazione del

danno da Mobbing ai fini giuridici risarcitori. Il "LIPT-Ege" è stato pubblicato per la

prima volta, a titolo didattico ed esemplificativo, nel testo di H. Ege "La valutazione

peritale del Danno da Mobbing".

Un altro questionario utilizzato fu Il “Negative Act Questionnaire” (NAQ), sviluppato

da Einarsen e venne realizzato per valutare l‟esposizione al mobbing nell‟ambiente di

lavoro, e per offrire una misura sia degli specifici comportamenti di vittimizzazione e

dei sentimenti legati all‟aggressione. Il fenomeno del mobbing, è dalla società odierna

7 Il questionario venne pubblicato nel 1992 dall’editore Viden e Karlskrone in Svezia.

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riconosciuto come un serio problema, nonostante ciò resta difficile da valutare e da

definire con precisione. Nel lavoro di ricerca, l‟utilizzo dei questionari può comportare

dei vantaggi, come ad esempio quello di ottenere in un tempo limitato dati riguardanti

un vasto campione di soggetti mobbizzati, ed inoltre è facile per le analisi statistiche di

una gamma di fattori come: il genere, lo status e l‟età. Inoltre,nell‟utilizzo dei

questionari, possono essere presenti degli svantaggi provenienti dal fatto che: i dati

derivano da resoconti fatti dagli individui e possono essere influenzati da altri fattori; la

validità predittiva dei dati può risultare dubbia, il ricordo di episodi di mobbing può

essere distorto, il confronto fra culture diverse può risultare difficile e non bisogna

escludere la possibilità che le informazioni riguardanti i processi e le dinamiche della

situazione dell‟ aggressore o della vittima non sono dettagliate. Le metodologie

qualitative sono più numerose rispetto alle quantitative, tra queste le più comuni sono:

l‟intervista ed il focus group; sempre qualitativa ma innovativa ed in netta espansione

rispetto alle altre è il counseling.Il termine intervista fa riferimento a metodologie tra

loro molto diverse; un‟intervista può essere più o meno strutturata o standardizzata e il

grado ottimale di strutturazione e standardizzazione è definibile principalmente in base

agli scopi per i quali viene condotta ed in base ai vincoli e alle risorse esistenti per

quella ricerca. Un‟intervista è strutturata in base a quali sono gli argomenti e i temi

specifici sui quali vertono le domande poste all‟intervistato; qual è l‟ordine con cui si

pongono le domande relative a tali argomenti; la formulazione delle domande e se si

tratta di interviste semistrutturate o se la specifica formulazione a livello linguistico

della domanda è predefinita, anche se in questo caso l‟intervista è standardizzata. Tutti

gli intervistati rispondono esattamente alle stesse domande, sono esposti agli stessi

stimoli, l‟intervista completamente strutturata e standardizzata è del tutto analoga al

questionario, salvo che per la modalità di somministrazione che è orale, le interviste,

chiamate colloqui, di selezione del personale, di orientamento professionale, cliniche,

ecc. sono, ad esempio, quasi sempre parzialmente strutturate piuttosto che totalmente

libere o non strutturate, o piuttosto che completamente strutturate. Le interviste sono

tecniche di misura di tipo qualitativo, che mirano ad indagare le modalità con cui ogni

individuo interpreta e descrive il suo mondo e le persone che ne fanno parte; i vantaggi

di un simile tipo di ricerca riguarda il materiale ottenuto che è di tipo qualitativo, chiaro

e ricco e può costituire un punto di partenza per l‟elaborazione di un nuovo modello; la

relazione fra intervistatore e intervistato è più controllabile rispetto a quella che si

sviluppa con l‟uso di un questionario, si ottengono informazioni più specifiche sulla

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dinamica delle situazioni di vittimizzazione in cui gli intervistati sono stati coinvolti. Gli

svantaggi,riscontrati riguardano il metodo la temporalità limitata, in quanto, le vittime

possono dimostrarsi reticenti a parlare. Tale metodo permette di indagare campioni di

piccole dimensioni e l‟interpretazione può essere distorta a causa di alcuni errori. Il

focus group, è un intervista di gruppo durante il quale a dei soggetti vengono poste

alcune domande aperte a carattere vario, a volte molto generali e a volte specifiche,

sugli argomenti oggetto di interesse per il ricercatore, è usato anche il termine panel

interview dove il ricercatore crea un ambiente confortevole, facendo domande mirate

con lo scopo di incoraggiare la discussione e l‟espressione dei diversi punti di vista. La

discussione può anche essere registrata e successivamente trascritta più o meno

integralmente; in alcuni casi può essere necessaria la videoregistrazione, poiché fornisce

informazioni maggiori e più dettagliate utili per capire meglio quanto è stato detto. Lo

scopo dell‟intervista di gruppo e i vincoli dettati dalle risorse disponibili definiscono

anche la lunghezza ottimale dell‟ intervista, che può variare da un‟ora circa a tre ore.

L‟intervista di gruppo può essere utilizzata, quando, non ci sono molte informazioni

circa gli atteggiamenti, le opinioni o le conoscenze della popolazione su un argomento.

Le interviste vengono condotte su molte persone per poter identificare le tendenze nelle

percezioni e nelle opinioni espresse, i vantaggi di questa metodologia possono essere:

consentire al ricercatore di intervistare ed agire su più persone contemporaneamente, la

flessibilità, la durata (minimo un‟ora) per permette ai partecipanti di conoscere in modo

più approfondito i punti di vista, le percezioni e le esperienze fatte sul mobbing nei

luoghi di lavoro; questa metodologia aiuta ad identificare la chiave del problema che

può essere poi approfondita in un più ampio studio quantitativo. Gli svantaggi del focus

group possono dipendere dal fatto che sia un metodo limitato nel tempo e

l‟intervistatore può perdere il controllo della situazione, i soggetti possono divagare

dall‟argomento centrale, l‟azione del gruppo può essere influenzata “dall‟effetto del

consenso” rendendo difficile l‟emergere dei diversi punti di vista. In questa tecnica c‟è

bisogno di esperti che facilitino la discussione e l‟interazione; i dati raccolti possono

essere difficilmente generalizzabili; possono essere riscontrati problemi etici circa la

riservatezza del gruppo ed il grado di libertà che ognuno ha nell‟esprimere i propri

pareri senza dover subire delle ripercussioni.

2.10 Il Counseling

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Il counseling è la metodologia più innovativa ma anche quella con un unico svantaggio.

Per counseling si intende una relazione di aiuto tra una persona che riveste il ruolo di

counselor ed un‟altra che temporaneamente riveste il ruolo di “cliente”, termine che

comprende e identifica non solo un singolo individuo ma anche una coppia, un gruppo,

un nucleo familiare. Questa metodologia è un‟attività distintiva, fondata su principi e

caratterizzata dall‟applicazione di un insieme di abilità comunicative, che si svolge

secondo modalità che rispettano valori, risorse personali e capacità di

autodeterminazione del cliente; è una tecnica che aiuta la persona a capire e a rispondere

ai propri bisogni, a gestire e a risolvere i problemi. Per aiuto non viene inteso un

intervento finalizzato a dare consigli o a fornire soluzioni di problemi, quanto come un

processo che rende possibile la riattivazione e la riorganizzazione delle risorse personali

del “cliente”. L‟intervento di counseling, dovrebbe, in caso di vessazioni subite, fornire

supporto in momenti di crisi; cioè mettere le persone nella condizione di ripristinare il

senso di controllo della situazione, aiutare ad individuare, chiarire ed affrontare i

problemi attuali e futuri, fornire motivazioni ed accrescere la fiducia in se stessi così da

facilitare il processo decisionale. Come sostengono Binetti e Bruni (2003), il counseling

viene visto come un itinerario attraverso il quale il soggetto è portato a essere sempre

più libero, perché si libera di condizionamenti interni ed esterni che per varie ragioni ne

limitano le potenzialità. Già questa affermazione esplica quali possono essere i

vantaggi,in quanto può essere un percorso affrontabile singolarmente o in relazione con

chi vive quotidianamente le medesime problematiche. Il counseling è un incontro

destinato al sostegno e alla chiarificazione, allo sviluppo e alla crescita, ma non può

prescindere dalla natura dell‟incontro con l‟altro, dall‟emergere dell‟empatia e da una

relazione interpersonale finalizzata alla evoluzione/trasformazione . Questo processo

mira all‟autoconsapevolezza, all‟autopercezione, all‟autodeterminazione e

all‟autocontrollo. Di contro gli svantaggi possono essere racchiusi nella convenzione

sociale per cui la rapidità è un valore per la società odierna, dove rapidità è sinonimo di

efficienza, ma, come sappiamo, non è detto che ciò sia sempre vero.

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TERZO CAPITOLO

3.1 Strategie di prevenzione nei luoghi di lavoro

Affrontare il tema del Mobbing, in quanto condizione organizzativa che produce

disagio, significa intervenire rispetto a due questioni importanti: la tutela dell‟integrità

psicofisica del lavoratore e la tutela della salute, intesa, non come assenza di malattia,

ma come benessere, fisico, mentale e sociale. Creare una formazione antimobbing

significa aiutare persone, gruppi e organizzazioni ad apprendere per cambiare, ovvero

per raggiungere meglio i propri obiettivi e i traguardi organizzativi che si propongono

nel rapporto con gli altri. I singoli dovranno adattare i loro comportamenti alle esigenze

degli altri, apprendendo quei meccanismi e quelle conoscenze che consentiranno loro di

avere buone relazioni sul posto di lavoro. Mettere in evidenza le azioni negative

fornisce degli spunti per gestire relazioni positive sul lavoro a sostegno e sviluppo di

coloro che, in particolare, non considerano l‟effetto vessatorio che possono avere certi

comportamenti per alcune persone. Accrescendo la consapevolezza delle azioni

vessatorie sul posto di lavoro e del loro impatto, si riducono e si controllano in modo

più efficace questi comportamenti negativi. Anche in presenza di una certa

consapevolezza di azioni mobbizzanti non accompagnate da una condotta consona, la

formazione diventa il mezzo per la trasformazione della consapevolezza in azioni

positive concrete. Per quanto concerne la metodologia didattica per la prevenzione del

mobbing, oltre alla tradizionale lezione d‟aula possono essere produttivamente utilizzati

i lavori di gruppo, i metodi dei casi e le simulazioni. Fin dalla metà degli anni ‟50, è

presente nella gestione dell‟infortunistica italiana il concetto di “sicurezza integrata”,

confermato e diffuso dal decreto legislativo 626/94, secondo cui la sicurezza è la

risultante degli aspetti oggettivi (eliminazione/riduzione dei rischi, misure di protezione

collettiva, disposizioni di protezione individuale) e soggettivi (l‟idoneità psicologica,

motivazione al lavoro, identità personale) della sicurezza stessa. Il Mobbing rientra

nella categoria dei rischi organizzativi, vale a dire quei rischi che trovano la loro origine

nelle scelte organizzative (gestione delle risorse umane, comunicazione, ecc) ed hanno

una ricaduta sullo stato di salute e di benessere dei lavoratori analogamente

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all‟esposizione ad un agente chimico o fisico. E‟necessario, quindi, che la struttura della

sicurezza aziendale, nonostante le difficoltà di analisi delle variabili organizzative,

impari a considerare anche questi tipi di rischio, sempre più scanditi dal complesso delle

innovazioni tecnologiche, ed a prevedere le misure idonee di prevenzione e di

intervento.

3.2 Isolamento sistemico e cambiamento delle mansioni lavorative

Le condotte “classiche” di Mobbing che possono provenire da gradi pari, ma anche da

sottoposti, del mobbizzato sono, ad esempio, le azioni di isolamento, di occultamento di

informazioni, di critica più o meno velata, di maldicenza nell‟ambito lavorativo, di

ostentazione di indifferenza o di scarsa stima. Altri comportamenti tipici richiedono,

invece, una posizione di preminenza rispetto al dipendente: la sottrazione di strumenti di

lavoro, il rimprovero ingiustificato, sgarbato ed eccessivo, l‟attribuzione di mansioni

avvilenti o senza significato, la sottoposizione a pressanti visite di controllo nei

confronti del lavoratore in malattia, l‟assegnazione di obiettivi di lavoro irraggiungibili,

fino ad arrivare al demansionamento, al trasferimento e al licenziamento.

Questo genere di persecuzione ha, di solito, un obiettivo aziendale ben preciso:

espellere il lavoratore dall‟impresa. Riguardo all‟isolamento, la persona viene

sopraffatta da un sentimento di solitudine di fronte alla terribile realtà che la circonda e

al vuoto sociale in cui è stata spinta.

Il gruppo sembra non voler avere contatti con lei, né personali né professionali; nessuno

ammette questo isolamento né tanto meno pare voler fornire un supporto. Il mobbizzato

si sente escluso dai rapporti sociali tra i colleghi (“dimenticano”di invitarlo ai

ricevimenti e ai party, fingono di non vederlo durante l‟intervallo..), e interrompono la

conversazione nel momento in cui la vittima entra in ufficio. Il sentimento di solitudine

si estende anche al vissuto di unicità della propria esperienza; la vittima crede, infatti,

che a nessun altro sia capitato o stia capitando la stessa cosa. Pensa di essere la sola

persona al mondo ad esserne vittima. Riguardo al secondo aspetto, invece, nelle

situazioni di Mobbing si rileva sempre uno scollamento tra la qualifica o la posizione

ricoperta e il compito lavorativo effettivamente svolto.

E‟ oramai entrata nel modo di dire comune l‟espressione “sindrome della scrivania

vuota”, a testimonianza del fatto che la persona mobbizzata viene frequentemente

sollevata da ogni incarico lavorativo. La sua postazione di lavoro diviene vuota. Ma non

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è l‟unica modalità. La sindrome depressiva si associa positivamente alle mansioni

lavorative anche per il fatto che, maggiore è l‟affidamento di compiti troppo difficili,

inutili, senza senso ed umilianti, maggiormente il lavoratore percepisce che tali

mansioni hanno l‟unico scopo di metterlo in difficoltà di fronte ai propri colleghi. Può

accadere, infatti, che ai lavoratori si affidino compiti molto al di sotto della qualifica

professionale. Tale comportamento equivale alla percezione di una sottovalutazione

psicologica e lavorativa del soggetto. Inoltre può accadere che il superiore affidi a

questi soggetti compiti molto difficili, con la conseguenza diretta di provocare un‟ansia

da prestazione e di pressione psicologica. Comunque sia, il fine è sempre quello di

allontanarlo, di metterlo in una posizione di totale impotenza, fino a consumare una vera

e propria esclusione nei suoi confronti. Spesso la persona mobbizzata è continuamente

esposta alle critiche e accusata come colpevole per i fallimenti che oggettivamente non

sono neanche avvenuti, oppure per quello che il mobber, di nascosto e deliberatamente,

ha eliminato o danneggiato. Senza alcun motivo reale, si svalutano i risultati del suo

lavoro. La vittima viene poi privata delle informazioni e degli strumenti che sarebbero

necessari per operare (pc, telefono, etc.), le relazioni interpersonali si riducono al

minimo e l‟amministrazione si dilegua e non risponde alle numerose richieste di

chiarimento. I colleghi, nel migliore dei casi, fiutano il pericolo e prendono le distanze

dal malcapitato nel tentativo di scongiurare un rischio analogo. Infine, deprivato del suo

lavoro, escluso dalle relazioni formali e informali che danno significato allo stare

dell‟uomo in azienda, un ulteriore attacco viene sferrato all‟immagine del mobbizzato.

Continuamente avvengono derisioni e scherzi sul suo modo di parlare, camminare, sul

suo abbigliamento, pettinatura, vita privata, sesso, razza, nazionalità, ecc. C‟è, inoltre, la

divulgazione dei pettegolezzi e delle diffamazioni. Tutto ciò avviene con lo scopo di

distruggere la sua reputazione professionale e personale.

Il demansionamento e la dequalificazione sono forme tipiche di Mobbing verticale,

avvilenti per il lavoratore e utili chiaramente all‟eventuale progetto di estromissione del

lavoratore dall‟azienda, della sottrazione delle proprie mansioni e competenze, e

dell‟attribuzione di compiti non conformi alla propria professionalità o addirittura della

totale assenza di compiti.

3.3 Come uscirne?

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Cercare di prevenire il Mobbing sembra, senza dubbio, il mezzo più efficace per

evitarlo. L‟Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del lavoro (ISPESL),

identifica nella prevenzione tre diversi livelli di intervento:

1. Prevenzione primaria: progettazione ergonomia. L‟ergonomia, per la prima volta in

una legge italiana (D.Lgs. 626), è una tecnica interdisciplinare di progettazione di

sistemi semplici e complessi che interfacciano con l‟uomo. Questa è in grado di

ottimizzare il rapporto uomo-macchina-ambiente (anche relazionale), ribaltando la

tradizionale filosofia tayloristica dell‟”uomo giusto al posto giusto” in nome dell‟uomo

giusto al “posto di un lavoro adatto” alle sue esigenze.

2. Prevenzione secondaria: formazione (soprattutto manageriale), codici di

comportamento, accordi di clima, etc. Vale a dire strumenti in grado di fornire

competenze adeguate di gestione delle risorse umane, nonché di promuovere la

condivisione di principi sui quali si devono basare i comportamenti all‟interno della

struttura organizzativa, al fine di prevenire qualsiasi forma di discriminazione culturale,

religiosa, sessuale, etc.

3. Prevenzione terziaria: riguarda una più puntuale applicazione delle norme che

tutelano la sicurezza e la salute del lavoratore. Nel caso specifico, si tratterebbe di

predisporre moduli informativi e formativi tali da rispondere ai reali bisogni delle

persone cui si riferiscono, o di mettere a punto documenti di valutazione completi, che

prendano in considerazione anche i rischi psicosociali, il contenuto del lavoro, le

relazioni interpersonali, i percorsi di carriera, etc.

E‟ importante approfondire due concetti: quello dell‟informazione e quello della

formazione. L‟informazione dovrebbe essere rivolta a promuovere nei lavoratori la

conoscenza del fenomeno, le cause, le conseguenze e la consapevolezza della sua

gravità. Tutti dovrebbero essere veramente interessati a fermare il Mobbing, altrimenti

continuerà a causare danni irreparabili alla vittima e all‟azienda. Ma per combattere

qualcosa, bisogna prima imparare a conoscerlo.

Ne consegue che, un ottimo punto di partenza per l‟intervento sul Mobbing consiste in

un profondo lavoro di sensibilizzazione dell‟opinione pubblica a tutti i livelli.

Relativamente alla formazione, invece, è importante dire che essa è un processo teso

allo sviluppo personale e lavorativo dell‟individuo. Fare formazione vuol dire produrre

un nuovo processo di cambiamento organizzativo, con una necessaria modifica degli

atteggiamenti e dei comportamenti degli attori coinvolti. Si potrebbe ipotizzare che

comportamenti competitivi lascino il posto a comportamenti cooperativi. Fare

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formazione significa anche diffondere elementari nozioni di interesse sociale del lavoro

e delle organizzazioni, di giurisprudenza, di diritto sindacale, che consentano agli

operatori di fornire risposte adeguate alla domanda di aiuto. Si può concludere dicendo

che, prevenire, formare e portare alla luce il fenomeno, sono tre azioni fondamentali per

evitare che questa piaga sociale si radichi anche nelle forme di lavoro atipico, dove

sarebbe ancora più difficile intervenire.

3.4 Direttiva del Ministero della funziona pubblica

Il Dipartimento della Funzione Pubblica intende sostenere la capacità delle

amministrazioni pubbliche di attivarsi, oltre che per raggiungere obiettivi di efficacia e

di produttività, anche per realizzare e mantenere il benessere fisico e psicologico delle

persone, attraverso la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al

miglioramento della qualità della vita dei lavoratori e delle prestazioni. In particolare, il

Dipartimento della Funzione Pubblica ha collocato tra le priorità di cambiamento da

sostenere nelle amministrazioni pubbliche, quella di creare specifiche condizioni che

possano incidere sul miglioramento del sistema sociale interno, delle relazioni

interpersonali e, in generale, della cultura organizzativa.

Per assicurare il benessere organizzativo, le amministrazioni devono prestare attenzione

alle seguenti variabili:

a. Caratteristiche dell‟ambiente nel quale il lavoro si svolge: L‟amministrazione

allestisce un ambiente di lavoro salubre, confortevole e accogliente. Questo vuol dire

che, il datore di lavoro può elaborare le migliori procedure possibili che garantiscano

condizioni psicologiche e sociali nei luoghi di lavoro, anche per quanto concerne la

situazione lavorativa e l‟organizzazione del lavoro. Oppure, può adottare delle misure

per impedire che si manifestino reazioni negative sul lavoro, ad esempio, elaborando

delle regole che incoraggino un clima di rispetto e di amicizia nel luogo di lavoro.

b. Chiarezza degli obiettivi organizzativi e coerenza tra enunciati e pratiche

organizzative: Il datore di lavoro può elaborare una politica ad hoc per l‟ambiente di

lavoro che illustri le intenzioni, gli obiettivi e l‟atteggiamento di ordine generale nei

confronti dei propri dipendenti.

c. Riconoscimento e valorizzazione delle competenze: L‟amministrazione riconosce e

valorizza le competenze dei dipendenti e stimola nuove potenzialità, assicurando

un‟adeguata varietà dei compiti ed autonomia nella definizione dei ruoli organizzativi.

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Significa che, il datore di lavoro deve fare in modo che i doveri di competenza dei

dipendenti siano concreti e sensati e che per adempiere alle loro funzioni essi utilizzino

le loro conoscenze e capacità individuali. Inoltre, il datore di lavoro dovrebbe dare

l‟opportunità ai lavoratori di incrementare le loro conoscenze e di migliorare le loro

prestazioni, incoraggiandoli nel frattempo a raggiungere questo obiettivo.

d. Comunicazione intraorganizzativa circolare: L‟amministrazione ascolta le istanze dei

dipendenti e stimola il senso di utilità sociale del loro lavoro.

e. Circolare delle informazioni: L‟amministrazione mette a disposizione dei dipendenti

le informazioni pertinenti il loro lavoro. In particolare, è importante che il datore di

lavoro comunichi in modo chiaro quali siano le regole vigenti nel luogo di lavoro e

fornisca ad ogni lavoratore le informazioni sulle attività e sui loro obiettivi, nonché

quelle in merito alle misure concordate per la prevenzione di ogni forma di

persecuzione sul lavoro.

f. Prevenzione degli infortuni e dei rischi professionali: L‟amministrazione adotta tutte

le azioni per prevenire gli infortuni e i rischi professionali. Riveste un‟importanza

particolare il fatto che il datore di lavoro adotti misure efficaci per evitare che

qualunque lavoratore sia oggetto di persecuzione da parte di altri dipendenti. I dirigenti

svolgono un ruolo importante nel creare il clima nel luogo di lavoro e nel definirne le

regole; dunque, la cosa essenziale è che il datore di lavoro non sottoponga mai il

lavoratore a forma di persecuzione, ad esempio attraverso l‟abuso di potere o qualsiasi

altro atteggiamento inaccettabile.

g. Clima relazionale franco e collaborativo: L‟amministrazione stimola un ambiente

relazionale franco, comunicativo e collaborativo. Questo vuol dire che, per creare un

clima favorevole nell‟ambiente lavorativo, è importante che il datore di lavoro, con il

suo modo di fare, stabilisca le condizioni per un dialogo reciproco, una facile

comunicazione e un desiderio reale di risolvere i problemi.

h. Scorrevolezza operativa e supporto verso gli obiettivi: L‟amministrazione assicura la

rapidità di decisione e supporta l‟azione verso gli obiettivi.

i. Giustizia organizzativa: L‟amministrazione assicura, nel rispetto dei Contratti

Collettivi Nazionali di Lavoro, equità di trattamento a livello retributivo, di

assegnazione di responsabilità, di promozione del personale e di attribuzione dei carichi

di lavoro.

l. Apertura all‟innovazione: L‟amministrazione è aperta all‟ambiente esterno e

all‟innovazione tecnologica e culturale.

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m. Stress: L‟amministrazione tiene sotto controllo i livelli percepiti di fatica fisica e

mentale nonché di stress.

n. Conflittualità: L‟amministrazione gestisce l‟eventuale presenza di situazioni

conflittuali manifeste o implicite.

Alla fine di queste indicazioni, è essenziale dire che tutti i problemi che si presentano in

un luogo di lavoro devono essere affrontati rapidamente, in maniera pertinente e

rispettosa. Le soluzioni vanno trovate attraverso il dialogo e misure atte al

miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Un‟altra cosa molto importante è

affrontare le questioni in maniera obiettiva, positiva e con l‟intenzione di trovare una

soluzione, ascoltare tutti i soggetti interessati e fornire il proprio sostegno ai più deboli.

Quel che è certo è che, nella politica di prevenzione relativa all‟ambiente di lavoro, il

datore di lavoro deve predisporre un piano di intervento per quanto concerne gli aspetti

psicologici, sociali e organizzativi dell‟ambiente di lavoro che sono altrettanto

importanti dei fattori di ordine fisico o tecnico. E‟ovvio che può essere molto difficile

per un datore di lavoro arrivare a farsi un‟opinione obiettiva di tutti gli aspetti del

problema; di conseguenza, è consigliabile ricorrere alla consulenza di un esperto.

La figura dell‟assistente sociale, ad esempio, a cui viene attribuito un compito

indispensabile e specifico per le vittime del Mobbing. Il professionista una volta

interessatosi al problema, accompagna la vittima fino alla fine del percorso d‟aiuto e

molto spesso i contatti rimangono per un periodo di tempo indeterminato. Può anche

succedere alle volte che il soggetto ritrovi la propria autonomia in un breve periodo di

tempo, ma il lavoro svolto dall‟assistente sociale non cambia. Egli spesso rimane

concentrata nello svolgere nei tempi richiesti e con le modalità che ritiene più opportune

i compiti di certificazione, di valutazione, di assistenza e supporto. Nella presa in carico

di una situazione, sono presenti dei passaggi standardizzati a cui l‟assistente sociale

deve attenersi e che sono alla base della formazione e dell‟avvio del processo d‟aiuto: la

raccolta di informazioni. Un‟idea ormai comune, che si presenta sottoforma di pretesa, è

quella dell‟assistente sociale, come quella figura che procede alla risoluzione del

problema una volta manifestato; ma non è proprio così.

La via d‟uscita dalla situazione che arreca disagio viene costruita tra operatore e utente

in seguito alla predisposizione di un contratto; all‟interno del qualche i due soggetti si

impegnano a provvedere alla risoluzione del problema. Alla base del contratto è

necessaria la presenza di un rapporto di fiducia tra i due “stipulanti”.

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3.5 Alcune prospettitive

Specialmente negli ultimi anni i casi di mobbing accertati e quelli per i quali si è avviata

denuncia all‟INAIL sono in continuo aumento. L‟approccio verso il problema, se ora è

legato alla soluzione di emergenze, cioè di casi conclamati, dovrà diventare sempre più

a carattere preventivo, così come già indicato dal decreto legislativo 626 per le questioni

di sicurezza e prevenzione degli infortuni, sulla via di una garanzia totale di salute e

benessere per chi lavora. Su un altro versante, quello legislativo, sarà comunque

opportuno procedere per arrivare ad una vera tutela dei lavoratori colpiti da Mobbing e

dettare norme di prevenzione nei luoghi di lavoro.

Questi provvedimenti legislativi tutelano l‟integrità fisica e la personalità morale del

lavoratore, ma riguardano casi specifici. Le norme penali, infatti, possono essere

utilizzate solo in casi limite, per fare un esempio, quando dal pettegolezzo si arriva alla

diffamazione, le battute diventano minacce o gli scherzi si trasformano in episodi di

violenza. Emerge chiaramente la necessità di una legge specifica sul Mobbing, che lo

definisca e contemporaneamente lo renda oggetto di riprovazione sociale. Sarebbe

anche opportuno riflettere sulla possibilità di aprire un luogo specifico (sito web o

sportello Mobbing), sia come punto di riferimento per il sostegno legale-psicologico ai

lavoratori “vittime da Mobbing”, sia come punto di orientamento verso strutture

competenti che sappiano affrontare gli aspetti medico-legali e giuridici dei riflessi

derivanti da questo “male dei nostri tempi”, sempre più spesso inserito in un contesto di

danno morale, biologico, psichico.

Sinora, nella XIII legislatura, sono state presentate, nei due rami del Parlamento, delle

proposte di legge, ma sono tutte in attesa di approvazione e sono le seguenti:

- Camera: Proposta di legge n. 1813, 9 luglio 1996 “Norme per la repressione del

terrorismo psicologico nei luoghi di lavoro” (Cuicu, Marras e Altri).

- Camera: Proposta di legge n. 6410, 30 settembre 1999 “Disposizioni a tutela dei

lavoratori dalla violenza e dalla persecuzione psicologica” (Benvenuto, Ciani, Pistone,

Repetto).

- Camera: Proposta di legge n. 6667, 5 gennaio 2000 “Disposizioni per la tutela della

persona da violenze morali e persecuzioni psicologiche” (Fiori).

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Si deve però registrare agli inizi del 2001 l‟approvazione della Commissione Lavoro

della Camera dei deputati di una proposta di legge che unifica le tre presentate in

precedenza alla Camera.

91 - Senato: Disegno di legge n. 4265, 13 ottobre 1999 “Tutela della persona che lavora

da violenze morali e persecuzioni psicologiche nell‟ambito dell‟attività lavorativa”

(Tapparo, Battafarano, Smuraglia e Altri).

- Senato: Disegno di legge n. 4313, 2 novembre 1999 “Disposizioni a tutela dei

lavoratori e delle lavoratrici dalla violenza psicologica” (Athos De Luca).

- Senato: Disegno di legge n. 4512, 2 marzo 2000 (Tomassini, Asciutti, Bettamio,

Bruni, Costa, De Anna, Germanà, Lauro, Manca, Manfredi, Piccioni, Porcari, Sella di

Monteluce, Terracini, Toniolli, Vegas, Ventucci).

Tanta strada è stata fatta nell‟azione di lotta contro il mobbing; ed è proprio per questo

che bisogna rafforzare l‟azione attraverso la costruzione di progetti di prevenzione ed

interventi ad hoc. Nei casi in cui è presente un disagio psichico grave è preferibile

curarsi in un servizio pubblico, se adeguato. È bene valutare con attenzione la

possibilità di dimettersi. Un lavoratore colpito pensa subito a come fuggire, ma spesso

la persecuzione serve a licenziare impunemente. La scelta di lasciare il lavoro libera il

lavoratore dalla sofferenza ma rende impossibile l‟azione risarcitoria. Il disadattamento

lavorativo è molto diffuso; in Italia un milione e mezzo di lavoratori ne sono colpiti. In

questo caso è necessario raccogliere tutta la documentazione delle vessazioni subite ed è

utile rivolgersi a un avvocato che abbia già trattato casi di mobbing e che non abbia

alcun tipo di legame con l‟azienda. Bisogna chiarire gli obiettivi da raggiungere ed è

consentito chiedere copia della documentazione che si trova negli atti di ufficio e nel

fascicolo personale. In caso di ricorso alle vie legali è utile ricordare che nella scelta del

procedimento per vie civili e/o penali è preferibile procedere per vie civili. La durata di

una causa di lavoro è lunga: anche in caso di vittoria di primo grado, bisogna aspettarsi

un ricorso in appello da parte dell‟azienda; le tempistiche oscillano da un minimo di

quattro anni, fino a un massimo di otto, dieci anni.

Si può operare a vari livelli: a livello aziendale, con specifiche modalità formative di

gestione del conflitto e del mobbing; a livello professionale, rivolgendosi a quei

professionisti (medici, psicologi, avvocati, ecc.) e a quegli operatori del sociale che

sono i primi punti di riferimento a cui si rivolge una persona con problemi sul lavoro;

infine c‟è la formazione individuale, ossia rivolta alle singole persone, mobbizzate o

meno, e mirata a rinsaldare i principi dell‟autostima. Quindi è fondamentale essere

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informati sul problema e acquisire una nuova cultura del lavoro. Il mobbing va di paro

passo con la variabile tempo, pertanto diventa indispensabile riconoscere il problema il

prima possibile per poter intervenire con strategie mirate ed efficaci di difesa. Ogni

situazione di mobbing è unica nel suo genere, pertanto non è possibile dare delle

indicazioni precise come se avessimo una bacchetta magica. Proprio per questo motivo,

già in passato Ege nel 2001 propone delle semplici norme generali di comportamento,

adatte a qualsiasi persona, ma che vanno necessariamente affiancate ad altre forme di

intervento risolutivo. Infatti è bene ricordare che per uscire dal mobbing è fondamentale

l‟aiuto esterno di un esperto che aiuti ed analizzi non solo la vittima ma soprattutto

l‟ambiente di lavoro in cui il mobbing si è sviluppato. Una prima regola, già ricordata,

consiste nel de-emozionare il conflitto, in modo da affrontarlo con lucidità e sangue

freddo. La reazione immediata è quella più emotiva ed istintiva, magari la più sbagliata,

poiché si rischia di fare il gioco dell‟aggressore. Se il medico riscontra una situazione di

ansia, stress o depressione è consigliabile assentarsi dal lavoro (la causa prima del

nostro malessere) per recuperare le energie. Non bisogna sentirsi in colpa, è un nostro

diritto, anche perché la nostra prima preoccupazione deve essere la nostra salute. Il

mobber, quando è consapevole, non è stupido, e solitamente attacca in assenza di

testimoni perché sa che ciò che fa non è lecito. Per questo motivo è buon consiglio

mettere per iscritto tutto ciò che succede in ufficio raccogliendo la documentazione

delle vessazioni subite: tenere un diario di ogni azione mobbizzante contenente data,

ora, luogo, autore, descrizione, persone presenti, testimoni; tenere un resoconto delle

conseguenze psico-fisiche che le azioni mobbizzati hanno avuto sul nostro organismo

(questo faciliterà la documentazione del danno biologico che il mobbing ha determinato

per la richiesta di risarcimento dei danni psicofisici) e di tutta la documentazione

medica e delle cure seguite; mettere in forma scritta e fare protocollare o spedire per

raccomandata ogni richiesta, trasformando qualsiasi ordine verbale ricevuto in

interrogazione scritta («a voce mi è stato detto di fare questo, chiedo conferma scritta»)

ed esigere l‟ordine di servizio che attesti il cambiamento di mansioni, il trasferimento o

lo straordinario. Molto spesso non si riceve risposta: ciò sarà un‟ulteriore prova di

azione mobbizzate. Sarebbe molto utile cercare degli alleati, ma è forse la cosa più

difficile. Infatti, non sempre i colleghi sono coraggiosi. Spesso impauriti si ritirano in

disparte per evitare che il mobbing messo in atto nei confronti della vittima possa

estendersi anche a loro. Spesso, nel mobbing trasversale, sono essi stessi i mobber. È

fondamentale non isolarsi, ma coltivare le relazioni sociali, frequentare gli amici,

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rinsaldare i rapporti familiari. Si può andare a cena fuori, fare una bella vacanza, o

dedicarsi ad un hobby; insomma, tutto ciò che può costituire una utile valvola di sfogo è

ben accetto. Ad esempio scrivere ha dei grandi effetti terapeutici poiché rende i conflitti

visibili a tutti. Si deve spiegare ai propri familiari cos‟è il mobbing e quello che si sta

subendo e non vergognandosi della propria situazione. Ma non si deve passare

all‟estremo opposto, parlando incessantemente del proprio problema e focalizzando

l‟attenzione unicamente sul proprio dramma. Si realizzerebbe così il fenomeno del

„doppio mobbing”.

Volendo fare un breve sintesi d‟intervento è necessario:

• migliorare la comunicazione con i colleghi e le colleghe, e con chi gestisce le risorse

umane;

• acquisire empowerment e maggior autostima, anche per capire se si tratta di mobbing

o meno, per aumentare l‟amore di sé e la consapevolezza del rispetto dovuto a tutte le

persone.

• Non ci si deve mai sentire soli.

In conclusione si può affermare che, conoscere e intervenire adeguatamente sul

fenomeno del mobbing porta indubbi vantaggi ai molteplici soggetti che vi sono

implicati: le persone, divenendo maggiormente coscienti della loro situazione,

potrebbero adottare migliori strategie difensive contro gli aggressori e combattere il loro

malessere; le aziende potrebbero risparmiarsi onerosi costi di un personale così

problematico con un loro aggiornamento culturale che le porrebbe in grado di affrontare

o prevenire situazioni di mobbing mediante esperti consulenti che addestrino i dirigenti

alla gestione del personale ed ai relativi conflitti; la mutua non dovrebbe caricarsi degli

onerosi costi per terapie mediche e/o addirittura ricoveri nei casi più gravi; infine, lo

Stato eviterebbe gravosi oneri sociali collettivi con premature pensioni di invalidità.

3.6 La possibilità di essere tutelati

Il concetto di mobbing entra a far parte dell'ordinamento Europeo e viene disciplinato

nel 2001. La situazione Italiana in merito è alquanto paradossale, avendo un

ordinamento giuridico notevolmente vasto e di difficile interpretazione. Tuttavia, il

reato di mobbing non è specificamente contemplato ed è invece associato a diverse

possibili violazioni del codice penale. La presenza di svariati disegni di legge senza che

ancora oggi ci sia una disciplina specifica rende la valutazione dei singoli casi

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complessa. In linea generale si prende in considerazione quanto espresso dalla

Costituzione Italiana (riferimento ad articoli dal 2 al 42) che cerca di tutelare l'essere

umano sia come persona sia lavoratore, tanto quanto membro di una società con diritti

di eguale misura per se e i suoi pari.

La situazione in altri Paesi è piuttosto variegata e fonte di acceso dibattito tra sociologi e

personale dedito allo studio di queste dinamiche: l'America è alquanto selettiva e rigida

per quanto riguarda reati in ambito lavorativo collegati a molestie di natura sessuale ma,

manca di un ordinamento che possa disciplinare le questioni in ambito sociale. La

Svezia (e più in generale, alcuni dei grandi centri legislativi del nord-Europa) possiede

un espressivo ordinamento che pensa a preservare al meglio i diritti umani, la loro

inviolabilità e le condizioni secondo cui si deve attribuire un giusto risarcimento nel

caso di lesione reale e documentata.

8Per sentirsi tutelato il lavoratore vessato avrà la possibilità di rivolgersi all'Autorità

Giudiziaria, per ottenere il risarcimento dei danni subiti, che possono avere varia natura

a seconda dei singoli casi. Preliminarmente dovrà esperire il tentativo obbligatorio di

conciliazione secondo l‟art. 410 c.p.c., davanti alla Direzione Provinciale del Lavoro

competente secondo i criteri di cui all'art. 413 c.p.c. relativo alle controversie in materia

di lavoro. Successivamente, sia in ipotesi di mancato accordo in fase di convocazione

sia per il decorso del termine di cui all'art. 410 bis c.p.c. (di 90 gg. per il pubblico

impiego privatizzato), si potrà adire l'autorità giudiziaria ordinaria, in funzione di G.U.

del lavoro, osservando i criteri di competenza di cui all'art. 413 cit.

Si precisa che, alcune categorie di pubblici impiegati sono rimaste escluse dal processo

di privatizzazione del rapporto e restano assoggettati alla disciplina precedente, in

particolare dal punto di vista della giurisdizione che resta in capo ai Tribunali

Amministrativi Regionali.

Pregiudizialmente all'utilizzo dell'azione risarcitoria, ovvero a seconda dei casi anche in

sua alternativa, si ritiene prospettabile l'esperibilità di un'azione ex art. 700 c.p.c. per

inibire il comportamento del datore di lavoro che integri una violazione degli obblighi

di sicurezza o che leda la libertà o la dignità del prestatore di lavoro. Un'azione di

questo tipo ben risponderebbe, in realtà, in aggiunta all'utilizzo della tecnica risarcitoria,

a un'esigenza di effettività della tutela dei diritti del lavoratore. In tema di tutela contro

il mutamento di mansioni, ad esempio, l'utilizzabilità della tutela cautelare d'urgenza è

8 Il mobbing nei diversi contesti sociali: mobbing familiare, sul lavoro e scolastico, a cura dell’avvocato Matteo Cavallini. Quale tutela può ottenere il lavoratore mobbizzato?

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utile al fine di evitare il verificarsi o l'aggravarsi di pregiudizi irreparabili alla sfera

professionale del lavoratore. In relazione a comportamenti lesivi di beni primari della

persona umana trovano applicazione, come evidenzia la recente giurisprudenza di

legittimità, le norme generali in materia di responsabilità contrattuale (ex artt. 2087 e

2103 c.c.) ed extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.). Nel caso in cui venga accertata in

capo al datore di lavoro la responsabilità per comportamenti di mobbing, la

giurisprudenza ritiene risarcibili diverse tipologie di danno:

- è pacifica la risarcibilità del danno patrimoniale, di quel danno, cioè, che incide sulla

capacità di lavoro e di guadagno del dipendente. Questo consiste nel danno emergente e

nel lucro cessante che siano conseguenza diretta e immediata della condotta lesiva (art.

1223 c.c.);

- nei casi in cui al lavoratore venga impedito il normale e completo svolgimento delle

mansioni di sua competenza, o in cui questo sia comunque mortificato nelle sue

capacità o aspettative professionali, è potenzialmente risarcibile, previa prova anche per

presunzioni, il danno alla professionalità, che comprende non solo il danno alla sua

immagine professionale e alle sue potenzialità lavorative, ma anche il pregiudizio alle

future prospettive occupazionali;

- per i comportamenti di mobbing - sia che integrino oppure no fattispecie anche

penalmente sanzionate - è riconosciuta la risarcibilità del danno morale, che consiste nei

patemi d'animo provati dalla vittima, e del danno alla vita di relazione (ex art. 2059 c.c.

e 185 c.p.);

- è, inoltre, risarcibile, a prescindere dalla sussistenza di un danno patrimoniale o morale

o alla vita di relazione, il danno cd. biologico, in seguito sia a responsabilità

contrattuale, sia extracontrattuale. Tale danno (definito a livello legislativo dall'art. 13

del D.Lgs. n. 38/2000) consiste nella menomazione dell'integrità psicofisica della

persona in quanto tale e, quindi, si riferisce non solo all'attitudine a produrre ricchezza e

a ogni eventuale conseguenza patrimoniale della lesione, ma anche alla totalità dei

riflessi pregiudizievoli rispetto alle funzioni naturali del soggetto nel suo ambiente di

vita. L'ambito applicativo del danno biologico è stato progressivamente esteso fino a

ricomprendere, nelle ipotesi in cui la lesione abbia comportato una patologia

clinicamente accertabile, il danno cd. psichico;

- parte della dottrina e della giurisprudenza di merito più attenta, ha prospettato, infine,

un'ulteriore figura di danno risarcibile: il danno cd. esistenziale. Attraverso tale ulteriore

figura si vorrebbe assicurare un'adeguata tutela risarcitoria, in generale, a tutti i casi di

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lesione delle prerogative della persona costituzionalmente riconosciute e, in particolare,

a tutti quei casi di ingiustificata e dannosa compromissione della personalità morale del

lavoratore (tutelata direttamente dall'art. 2087 c.c.), che non siano, però, tali da originare

traumi o psicopatologie.

La nozione di danno esistenziale cit. comprende qualsiasi evento che, per la sua

negativa incidenza sul complesso dei rapporti facenti capo alla persona, è suscettibile di

ripercuotersi in maniera consistente e talvolta permanente sull'esistenza di questa. Resta

ben inteso che in tal caso la tutela risarcitoria non è invocabile nel caso di generici

pregiudizi esistenziali, conseguenti alla lesione di un qualsivoglia interesse, bensì

soltanto nel caso di lesione di beni-interessi che godano di una copertura, diretta o

indiretta, di rango costituzionale.

Come però statuito da Cass. SS.UU. Civ. 6572 del 24/03/2006, in tema di

demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al

risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che ne deriva non

ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può

prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla

natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.Infatti, mentre il risarcimento del

danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psicofisica

medicalmente accertabile, il danno esistenziale, da intendere come ogni pregiudizio (di

natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato

sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali

propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della

sua personalità nel mondo esterno, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti

dall'ordinamento, in particolare ricorrendo anche alla prova per presunzioni.

Esiste inoltre la possibilità che i comportamenti che integrano la condotta di mobbing

possono assumere anche rilevanza penale. In questi casi, oltre alle disposizioni che

prevedono responsabilità di carattere civilistico, potranno risultare, ad esempio,

applicabili:

- la norma che sanziona, con previsione generale, chi cagiona per colpa una lesione

personale ad altri soggetti (art. 590 c.p., lesioni personali colpose);

- quella che punisce con la reclusione il comportamento di chiunque con violenza o

minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali,

fattispecie applicabile anche ai casi di molestia sessuale (art.609 bis c.p., violenza

sessuale);

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anche ai casi di molestia sessuale (art.609 bis c.p., violenza sessuale);

- quella che sanziona chi, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od

omettere qualche cosa (art. 610 c.p., violenza privata);

- quella che punisce l'offesa all'onore o al decoro di una persona presente, anche quando

l'ingiuria è commessa attraverso comunicazione telefonica o scritta (art. 594 c.p.,

ingiuria);

- quella che punisce il comportamento di chi lede la reputazione di un soggetto (art. 595

c.p., diffamazione);

Tutti questi reati, di competenza del Giudice unico, sono perseguibili a querela di parte.

Nel caso del reato di violenza sessuale, tuttavia, e a differenza di quanto avviene per le

altre fattispecie, la querela una volta proposta non può essere revocata.

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CAPITOLO QUARTO

4.1 Resoconto intervista

La stesura di questo capitolo, a differenza dei precedenti è avvenuta in maniera diversa;

per poterlo realizzare è stato indispensabile il supporto prestato dalla mia tutor di

tirocinio, l‟assistente sociale Laura Romeo, che si è resa disponibile per dedicarmi del

tempo in cui portare a termine il mio lavoro di tesi. Grazie alla sua disponibilità e a

quella di altre colleghe, con cui ho interagito in maniera indiretta, ho potuto avere una

visione più completa di come lavorano le assistenti sociali, quando si trovano di fronte a

problematiche relative al mobbing lavorativo, aumentando e rendendo più chiari i

concetti appresi in precedenza. Premetto che il Polo Lubiana del Comune di Parma

(polo presso cui ho svolto il tirocinio del terzo anno) è un quartiere residenziale dove

vivono 23 mila abitanti. All‟interno del Polo, alle assistenti sociali che vi lavorano viene

affidata una categoria diversa riguardo la presa in carico dell‟utenza; quella in cui

rientra la problematica del mobbing lavorativo corrisponde all‟aria relativa alla fragilità

adulta.

Tramite delle piccole interviste rivolte alle assistenti sociali, è stato facile venire a

conoscenza dei processi che si attivano e delle modalità attraverso cui si procede nei

casi di mobbing lavorativo. È emerso che la maggior parte degli utenti che si rivolgono

al servizio riportano problematiche inerenti la sfera lavorativa concentrare sulle

modalità attraverso cui le aziende si rivolgono ad essi nel momento in cui desiderano

proporgli un contratto. Come ormai accade da circa due anni questi soggetti lamentano

di non possedere un lavoro e rappresentano l‟80% dell‟utenza; per quanto riguarda i

contratti che i soggetti sono costretti ad accettare, anche se molto spesso arrecano

sentimenti di squalifica e di frustrazione, sono caratterizzati da scadenze a breve termine

o molto spesso sono privi di rinnovo.

Quando un soggetto chiede aiuto ai servizi sociali, il professionista molto spesso si

trova spiazzato, perché ci si rende conto che non si hanno a disposizione le risorse

necessarie per intervenire e si percepisce la presenza di altri bisogni che l‟utente è

portato a nascondere sempre scaturiti dal fatto di non percepire una retribuzione.

L‟utenza che accoglie il servizio non ha limiti di età e spesso possiede un buon livello di

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istruzione,ma nonostante questo le modalità attraverso cui si procede non presentano

delle diversità. Dopo aver raccolto le informazioni necessarie sul soggetto e aver

individuato la presenza o meno di un inviante, si discute sulla presa in carico

dell‟utente. In base alle problematiche presentate, il professionista, venendo a

conoscenza del fatto che vi sono delle imprecisioni o delle tutele di cui esso non può

rispondere, quasi sempre indirizza la persona vittima di mobbing verso un sindacato. Il

polo, non ha la facoltà di inviare l‟utenza ad un solo sindacato, in quanto andrebbe

incontro a dei precisi orientamenti politici che nel sociale non devono essere presenti.

Un‟altra modalità presa in considerazione, nel caso in cui l‟utenza si trovasse senza

lavoro o non avesse delle conoscenze riguardo le possibilità di un occupazione, è quella

attraverso cui si propone al soggetto, con cui inizia a costruire un processo di aiuto ,

l‟invio al centro per l‟impiego; strumento che nel corso degli anni si è reso molto

disponibile a collaborare. Nella maggior parte dei casi l‟invio al centro dell‟impiego

viene proposto a quelle fasce ritenute deboli che sono per lo più rappresentate da utenti

stranieri e ragazzini.

Da circa un anno inoltre, è stato fondato un progetto “Io mi impegno per Parma” che

presenta più un valore socializzante e educativo, rispetto a quello di garantire una

retribuzione. In tale progetto, sono presenti anche soggetti che colpiti da mobbing, si

sentono emarginati e cercano di integrarsi per colmare quel senso di vuoto e di

frustrazione che si viene a creare. A questi soggetti, da un certo punto di vista , i lavori

che vengono assegnati possono sembrare squalificanti, come ad esempio la pulizia degli

spazi pubblici; ma la cosa interessante è il vedere come l‟utente pur di sentirsi

impegnato accetta senza alcuna esitazione.

È inoltre imbarazzante e presenta un certo livello di sconforto a livello sociale, vedere

soggetti colpiti da mobbing o anche privi di occupazione, che nonostante tutto si

trovano a dover occuparsi della propria famiglia. Durante questa ricerca, ciò che mi ha

più colpita è il sentir dire da un genitore : “mio figlio mi ha chiesto i quaderni per

andare a scuola e io non ho neanche i soldi per poterli comprare”. Da questa

affermazione, una riflessione che condivido in maniera spontanea è quella che

probabilmente (facendo riferimento al territorio preso in considerazione) non vi sono

molte vittime di mobbing, proprio perché manca il lavoro e dove sono presenti, il

lavoratore accetta pur di garantire un minimo salario alla propria famiglia. Al di là della

soglia di benessere indispensabile alla propria famiglia, il soggetto che si trova a dover

lottare ogni giorno,accetta la situazione, perché ha un‟idea di ciò a cui potrebbe andare

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incontro se dovesse rivolgersi al servizio e riportare le condizioni in cui egli e la propria

famiglia si trova a vivere. Si parla alle volte di casi in cui per preservare la salute e la

tutela di un minore, è emersa la necessità di doverlo dividere dalla propria famiglia. È

inevitabile dire che per un genitore dover lasciare il proprio figlio/a in un dormitorio,

non è una cosa di cui ne va fiero e in modo non del tutto relativo ricade sul benessere

psicologico e famigliare della situazione presa in considerazione.

Il centro per l‟impiego, mantenendo i contatti con il servizio e in base alla stagione e le

risorse da impegnare, organizza dei progetti che cercano di impegnare i soggetti che si

ritrovano senza un‟occupazione e che per la maggior parte sono in carico ai servizi

sociali. A coloro, che vi aderiscono viene data una piccola ricompensa, intorno ai 200

euro e questa possibilità purtroppo non può essere data a tutti, infatti molte volte ci si

trova davanti a un numero elevato di domande, rispetto all‟offerta di lavoro. Il

vantaggio che si potrebbe ricavare da ciò e che in futuro o in seguito al termine delle ore

in cui l‟utente si trova ad essere impegnato nel progetto, non è da escludere la

possibilità di un‟assunzione, anche part-time, se la persona presa in considerazione si

distinguesse dalle altre o presentasse una buona predisposizione nel portare a termine

ciò per cui è stato “assunto”. Proprio da qui , potrebbe partire la speranza da parte di

coloro che non hanno un occupazione e magari molto spesso la causa è la presenza di

attività di mobbing nel luogo di lavoro precedentemente svolto, di iniziare ad aprirsi

verso nuove prospettive.

Non bisogna dimenticare che tutto questo avviene proprio perché tra professionista e

utente, si è innescato un processo di aiuto, alla base del quale vi è la presenza di una

fiducia reciproca. Lo strumento grazie alla quale si è arrivati a una relazione di questo

tipo è il colloquio.

4.2 ..colloquio, relazione di aiuto e i suoi aspetti.

Come sappiamo, il colloquio, è uno degli strumenti principali che l‟assistente sociale ha

a disposizione nella messa in pratica del suo lavoro.

Il colloquio nel servizio sociale, molti anni dopo, ha mutato dal lavoro di tipo clinico e

psicoterapeutico,un proprio sistema di riferimenti teorico-pratico e le conseguenti

tecniche di conduzione. Nei primi anni del Novecento, lo strumento del colloquio

orientato al casework, si basava su un atteggiamento di tipo “medico”; successivamente

con la nascita del casework, e del comunitywork poi ha progressivamente ampliato

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l‟ottica di lavoro, affinandone gli strumenti di analisi e di approfondimento per uscire da

una logica individualista di diagnosi-cura e riflettere sul concetto di prevenzione e di co-

costruzione di realtà nuove con il cliente, ponendo lo stesso in una posizione attiva,

autodeterminata e responsabilizzante. Il concetto di colloquio, nel significato moderno

del termine nasce probabilmente con la psicoanalisi e parallelamente con i suoi primi

studi di psicologia sperimentale, con l‟intento di costruire un modello scientifico e

misurabile del funzionamento della mente. La ricerca sul colloquio si è evoluta nel

tentativo di indicare variabili di riferimento utili alla conduzione del colloquio; proprio

da questo sono nate diverse scuole di pensiero, tra cui è bene ricordare il

comportamentismo, le scuole psicodinamiche, le scuole sistemico-relazionali. Il

comportamentismo ha cercato di individuare metodi di intervento sul modo di agire del

soggetto lavorando sulla struttura formale del colloquio. I metodi principali individuati

sono tre: i metodi rispondenti (l‟insegnamento del rilassamento, la desensibilizzazione

sistematica, il cambiamento degli antecedenti); i metodi operanti (il rafforzamento

positivo, l‟imparare a catena , l‟estinsione) e i metodi cognitivo-comportamentistici (il

modeling -insegnare per dimostrazione- e le procedure di influenzamento coperto).

Quello che accomuna queste tecniche è la loro pragmaticità e prescrittività. Le varie

scuole ad orientamento psicodinamico che prendono spunto dalla psicoanalisi partono

dal presupposto che l‟individuo ha una vita inconscia che influenza il suo rapporto con

la realtà. Per l‟impostazione e la gestione del colloquio vengono utilizzate le definizioni

di Io, Es, Super Io, Transfert, Controtransfert e meccanismi di difesa. Un concetto

essenziale è quello di rapporto inteso come 9“incontro alla soggettività dell‟uno, con

quella della altro”. Il colloquio è quindi un momento sia di conoscenza del cliente, da

parte dell‟assistente sociale, che di se stesso; un momento di curiosità non invadente e

neutrale, in cui porre l‟attenzione alle condizioni ambientali, al linguaggio, alla durata,

alle modalità di appuntamento, al far sentire l‟utente in una condizione di “reciprocità”.

L‟ottica sistemico-relazionale è il modello più recente, che coinvolge anche i contesti di

riferimento più significativi. In questo caso vi sono differenzazioni sulle tecniche di

conduzione del colloquio, il modello strutturale, il modello strategico, il modello

centrato sul paradosso. Hanno iniziato questo percorso Goldestein (modello unitario) e

Pincus e Minahan (modello integrato), e utilizzano per primi il concetto di “sistema”.

L‟approccio sistemico relazionale è il modello di riferimento teorico che viene

9 cit. Pasqualini, (1993).

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considerato utile per la conduzione del colloquio. Nella gestione dei colloqui di servizio

sociale è possibile fare riferimento a diversi modelli teorici presenti, anche se la scelta

di riferimento principale , può guidare l‟azione sociale in modo più equilibrato e utile

per ottenere risultati. Per quanto concerne l‟assistente sociale, le viene richiesta sempre

più competenza nella gestione di situazioni complesse, soprattutto nella prospettiva di

valorizzarne le capacità di pensare, promuovere, realizzare progetti di “cura” in senso

lato, di riabilitazione, di rieducazione e di prevenzione, le risorse sul piano materiale e

in particolare su quello economico finanziario a disposizione dell‟operatore in cui le

risorse sono molte ridotte. La competenza primaria che caratterizza il lavoro

dell‟assistente sociale è la capacità di costruire relazioni di aiuto attraverso il processo

della comunicazione. Nella realtà umana le persone si differenziano per il loro

comportamento nella vita interpersonale, per la capacità di instaurare e mantenere

relazioni soddisfacenti e per la capacità di comprendere gli interlocutori. La stessa

persona utilizza stili e comportamenti diversi in momenti e situazioni differenti. Nello

studio dell‟interazione sociale si possono identificare le componenti della competenza

sociale: si tratta, degli atteggiamenti sociali che i soggetti adottano per produrre

interazioni efficaci e soddisfacenti. Il desiderio di vedere confermata la propria identità

e la stima di sé costituisce una delle motivazioni più comuni negli incontri sociali della

vita quotidiana. In situazioni che richiedono un‟abilità sociale professionale specifica,

come quella dell‟assistente sociale, è indispensabile raccogliere le informazioni di

“ritorno”, cioè quei comportamenti che forniscono informazioni sulle recezioni

dell‟altro. Il professionista dovrà preoccuparsi di prestare attenzione a tutti quei

comportamenti e atteggiamenti che permettono di ottenere, da parte dell‟utente,

informazioni utili alla comprensione del progetto di aiuto e idee sul modo in cui è

percepita la relazione nell‟ambito del sovra-sistema “assistente sociale-utente”.

Si può affermare che esiste una competenza comunicativa di base in ogni persona,

prodotta nelle interazione quotidiane di tutti gli individui; mentre lo studio, la ricerca,

l‟elaborazione teorica della prassi permettono, la costruzione delle abilità professionali

legate al ruolo effettivamente svolto nella situazione di lavoro. L‟identità professionale

è maturata sull‟integrazione di queste di queste due dimensioni, quella soggettiva, legata

all‟esperienza personale e quella sociale, appresa nei contesti esterni di studio e

lavorativi. Possiamo definire la competenza comunicativa come l‟insieme di quelle

capacità che favoriscono lo scambio di informazioni attraverso il linguaggio verbale e

attraverso i segnali non verbali emessi e ricevuti mediante il canale visivo, tattile,

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cinesico, uditivo e olfattivo, utilizzate prevalentemente nell‟interazione faccia a faccia.

Questa competenza si esprime in:

- Funzione di invio efficace dei messaggi;

- Funzione di ricezione dei segnali e delle informazioni che essi forniscono;

- Funzione di decodifica dei messaggi inviati;

- Meccanismi interni all‟individuo, quali consapevolezza, congruenza interna, feedback

interno ecc.

La competenza comunicativa permette un approccio più rigoroso alle componenti

cognitive ed affettive delle relazioni interpersonali e la nozione di competenza

comunicativa permette di affrontare il comportamento interpersonale attribuendo un

particolare rilievo alle differenze individuali nelle capacità “socio-emozionali”.

Il colloquio è utile nella relazione del processo di aiuto tra utente e operatore, ed

entrambi hanno pari dignità e collaborano alla soluzione di un problema.

L‟assistente sociale deve essere propensa all‟ascolto e all‟accoglienza della persona,

oltre al creare un ponte con chi sta vivendo un disagio che non è in grado di affrontare

da solo; dal momento che il colloquio è un dialogo dove si incontrano ruoli precisi e

diversi, anche se entrambi attivi; sono presenti regole definite dal contesto stesso in cui

avviene l‟incontro. L‟obiettivo principale dei questo strumento è il raggiungimento

dell‟obiettivo, durante il quale l‟assistente sociale agisce in maniera strategica per

affrontare il problema portato dall‟utente, e lo fa tramite la manipolazione,

l‟influenzamento e la negoziazione. È anche presente l‟utilizzo delle tattiche e le

ritroviamo nella conversazione verbale e non verbale. La comunicazione verbale si

caratterizza per :

- le domande, generalmente di tipo relazionali e sono utili a completare la pratica di

servizio sociale;

- le affermazioni, constatazioni chiare sul bisogno riportato;

- le ristrutturazioni, presentazione di una diversa punteggiatura da quella presenta

dall‟utente;

- le prescrizione, sollecitazioni date all‟utente per l‟apprendimento di adeguati

comportamenti.

Nella comunicazione non verbale, invece, sono presenti quattro componenti che sono:

la prossemica (la distanza emozionale) , la cinesica (espressioni facciali), il

paralinguaggio (corrispondenza tra quanto detto e il significato semantico delle parole)

e l‟aspetto esteriore.

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I requisiti che rientrano nell‟ascolto sono:

- L‟attenzione: disponibile ad offrire ascolto alla persona che chiede aiuto, inserendo una

sospensione del giudizio, distanza emozionale, mettendosi a disposizione dell‟altro e del

suo problema,

- Percezione: ricevere il messaggio e permettere di farlo arrivare al cervello, accettandolo

a livello cosciente. Non vi deve essere la presenza di un pregiudizio;

- Elaborazione: vale a dire comprendere il messaggio, ovvero ciò che l‟utente vede e

sente e cercare di trovare un comprensione comune prendendo in considerazione il

problema e le risorse a disposizione.

- Restituzione: dare risposta all‟utente riguardo le informazioni raccolte, le decisioni e nel

caso in cui dovessero essere presenti, l‟assunzione di rischi.

Per quanto concerne il colloquio rispetto all‟utente; in questo caso la persona vittima di

mobbing, non sempre riesce ad aprirsi e a raccontarsi con chi pur essendo un professionista,

fino a pochi istanti precedenti l‟incontro era una persona a lui estranea. In questo caso

spetta all‟assistente sociale, essere abile nel mettere il più possibile l‟utente a proprio agio e

con il tempo riuscire a tirare fuori i vissuti e i pensieri repressi presenti nella mente della

vittima. Mostrarsi predisposti all‟ascolto aiuta l‟utente ad aprirsi e questo è un fattore

determinante per porre le basi per istaurare un rapporto fondato sulla fiducia.

L‟obiettivo primario di un operatore è quello di dare un‟immagine di sé come una “porta

sempre aperta”, pronta a recepire le istanze di cambiamento e quelle di non cambiamento,

conducendolo verso un approccio motivazionale. L‟operatore deve aumentare la frattura

interiore del soggetto, vale a dire far capire all‟utente la realtà spiacevole che sta vivendo in

modo tale che la riconosca e cerca di modificarla. Con questa tecnica si evita di creare

nell‟utente un senso di costrizione, facendo pressione affinché modifichi il comportamento

discrepante con obiettivi e valori di qualcun altro. La motivazione e le ragioni per cambiare

devono provenire dal soggetto stesso, divenuto consapevole di come vive e di come

vorrebbe vivere. Un risultato efficiente potrebbe essere quello che presenta i caratteri

dell‟ottimismo nel processo di cambiamento, in cui l‟utente esprime fiducia e speranza nella

possibilità di cambiare poiché si rende conto di avere tale capacità.

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4.3 La documentazione

Anche nei casi di mobbing, come in tutti i casi per cui l‟assistente sociale procede con la

presa in carico, assume rilevanza la documentazione. 10

Vi è una differenza sostanziale tra

documento e documentazione. Il documento è “scrittura atta a fornire una pratica o

convalida in ambito burocratico, amministrativo, giuridico; qualsiasi oggetto utilizzabile ai

fini di consultazione, ricerca, informazione”. La documentazione invece, è il complesso

delle attività occorrenti per raccogliere e classificare materiale bibliografico, informativo,

dimostrativo (cartella sociale), ed è anche l‟insieme dei documenti prescritti per la

costruzione di una pratica burocratica o amministrativa. È importante la distinzione tra i due

termini: il documento è legato prevalentemente al dato, mentre la documentazione è

portatrice di informazioni e conoscenza, perché frutto di un percorso di analisi e di

elaborazione. Per quanto riguarda l‟assistente sociale uno strumento che rientra nella

documentazione è la 11

cartella sociale: il contenitore con i dati della famiglia, della rete

sociale e dei documenti sul caso. È uno spazio in cui annotare, scrivere, riassumere,

riorganizzare ciò che si fa e si deve fare, tra cui gli impegni presi, le riflessioni, il progetto,

sensazione e pensieri. Permette di organizzare e modificare le variabili del processo di aiuto

oltre ad essere la base nel caso in cui il caso dovesse essere inviato ad altri servizi. Proprio

per questo i dati devono sempre essere precisi e pertinenti anche dagli altri operatori del

servizio con un linguaggio chiaro e non ridondante.

10 Devoti, Oli, dizionario della lingua italiana (1990). 11 L.Bini, Documentazione e servizio sociale, Roma, Carocci (2003).

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CAPITOLO 5

5.1 STORIE DI MOBBING

5.1.1 Marco, “una lenta discesa all’inferno”

L‟obiettivo della seguente storia che verrà riportata di seguito consiste nel dare un‟idea

di come vengono analizzate le storie di mobbing. Si parte con l‟identificare le

caratteristiche che ci fanno collegare l‟atteggiamento di tale storia al mobbing e si

procede esaminando la situazione con il modello multi casuale di Zapf; fino ad arrivare

al prendere in considerazione alcune prospettive di intervento.

Il caso in questione, vede come protagonista Marco è risale al 2007; anno in cui si

iniziano a presentare atteggiamenti vessatori da parte del mobber, protratti fino al 2009.

In questa storia si percepisce che gli atteggiamenti messi in atto, si verificavano almeno

due volte al mese e man mano che aumentavano, veniva sempre meno da parte della

vittima la possibilità di difendersi, fino al momento delle dimissioni. Vi è inoltre una

limitata capacità della vittima di esprimersi e molte volte il mobbizzato, veniva

interrotto mentre parlava dal titolare e dai suoi responsabili. Marco è stato vittima di

continue critiche da parte del titolare dell‟azienda sul suo lavoro e ribadisce più volte

che subiva rimproveri e gli veniva continuamente ricordato quanto costasse all‟azienda.

I continui lamenti dovuti al suo demansionamento e al suo stipendio tagliato non sono

stati presi in considerazione, ma le minacce avvenivano soprattutto nel periodo in cui

Marco chiedeva di firmare le dimissioni. La realtà in cui Marco lavorava è peggiore di

un sogno ricorrente che egli racconta, dove dice di essere solo in una stanza circondata

da pareti di vetro e alcuni colleghi dall‟altra parte dei vetri ridono di lui e altri lo

guardano con compassione.

La possibilità della vittima di relazionarsi con i suoi colleghi risultava limitata: gli

venivano più volte cambiate le mansioni in maniera improvvisa, ma la maggior parte

delle volte gli venivano assegnati lavori in cui il contatto con i colleghi era ridotto al

minimo. Marco s trovava ad oscillare tra il dover fare lavori umilianti e piuttosto

disparati al dover raggiungere obiettivi al di sotto della sua qualificazione professionale.

Nonostante egli fosse un valido lavoratore che otteneva degli ottimi risultati, il suo

lavoro non veniva premiato e molte volte veniva giudicato in maniera sbagliata e

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offensiva. A Marco veniva inoltre impedito di andare in malattia e ciò si ripercuoteva

sulla sua salute fisica.

All‟interno di questa storia sono riscontrabili alcuni fattori di rischio, visibili in vari

aspetti:

1. Aspetti organizzativi. Si può affermare che il clima organizzativo non offriva

alcun supporto sociale: per lunghi periodi Marco lavorava da solo, con contatti

limitati con i suoi colleghi e con i responsabili. Inoltre la messa in atto di

cambiamenti organizzativi così improvvisi, come il trasferimento o il nuovo

responsabile repentinamente licenziato, possono rappresentare aspetti

organizzativi ritenuti rischiosi.

2. Aspetti di gruppo. Purtroppo la vittima raramente cita i rapporti che aveva con i

suoi gruppi di lavoro, ma si può azzardare che col tempo la qualità dei rapporti

tra lui e i colleghi sia diventata abbastanza scarsa.

3. Aspetti individuali. Gli viene continuamente chiesto di occupare ruoli lavorativi

nettamente inferiori alla sua preparazione professionale; per giunta, a suo dire, le

mansioni che gli venivano assegnate e gli obiettivi che egli doveva raggiungere

erano esagerati in confronto a quello che avrebbe potuto fare un solo lavoratore

nell‟azienda in questione.

Inoltre, i comportamenti vessatori da parte dell‟organizzazione nei confronti di Marco

hanno provocato una serie di conseguenze su diversi punti di vista; sulla salute in

quanto la vittima rammenta una serie di disturbi psicosomatici (attacchi d‟asma,

tachicardia, nausea, gastrite, febbre), segnali emozionali (disturbi dell‟umore, pianti

improvvisi e incontrollabili, sensazioni di impotenza e fragilità, stress, senso di

solitudine, insonnia) e segnali comportamentali (blocco dell‟appetito, perdita di peso,

collassi ecc.).

Altri effetti scaturiti, riguardano anche il contesto sociale e i costi economici. Nel

contesto sociale, in quanto si parla di un‟organizzazione sempre più esigente che ad un

certo punto ha portato la vittima a riconsiderare e mettere in dubbio la sua certezza

lavorativa e i rapporti interpersonali coi colleghi. Prendendo in considerazione i costi

economici invece, Marco era diventato un peso per l‟organizzazione, la quale non

poteva permettersi un lavoratore come lui a tempo indeterminato. I suoi giorni di

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malattia, causati tra l‟altro dall‟organizzazione stessa, erano diventati un problema, e

probabilmente ciò ha contribuito al suo licenziamento.

Lettura del caso tramite il modello multicausale di Zapt.

Il caso in questione può essere analizzato tramite il modello multi causale di Zapt

(1999), che individua fattori individuali, sociali e organizzativi tra le cause del mobbing,

i quali possono essere collegati alle manifestazione e alle conseguenze che sono state

descritte in precedenza.

I fattori rilevanti, sembrano essere quelli organizzativi, collegati a uno stile di leadership

prettamente autoritario; si può notare un abuso di potere da parte del titolare

dell‟azienda che impartisce ordini insindacabili con toni minacciosi e molto forti, non

permettendo alla vittima di ribattere alle accuse che gli vengono spinte, prendendo delle

decisioni che vanno a ledere il benessere lavorativo. I suoi responsabili, d‟altro canto

sono, totalmente indifferenti alla sua situazione (il responsabile fa passare dei giorni

prima di comunicare alla direzione il problema di Marco per la partenza in Sardegna per

le vacanze di pasqua, provocando l‟ennesimo disagio per la vittima al momento della

discussione nell‟ufficio del titolare). Si può identificare un organizzazione del lavoro

ambigua, con continui cambiamenti e una sorte di stress dal punto di vista della cultura

organizzativa e anche secondo lo sviluppo di carriera, che si dimostra essere piena di

ostacoli, anche riguardo al contenuto del lavoro: orari di lavoro eccessivamente lunghi e

ingestibili. In questo caso il mobber si identifica nel titolare dell‟azienda, basta questo

particolare per farci capire la mancanza di una specifica politica sul mobbing. Marco è

costretto a rivolgersi a un sindacato per ottenere delle sicurezze e delle spiegazioni,

riguardo la sua situazione.

La vittima nelle testimonianze non cita i rapporti che aveva con i suoi colleghi, ciò

potrebbe aver favorito l‟insorgenza del fenomeno del mobbing. I suoi collaboratori nel

2009 si dimostrano come coloro che sono vittime del mobbing e sono portate ad avere

atteggiamenti di instabilità emotiva e una maggiore tendenza all‟impulsività, ciò è

quello che viene riscontrato in Marco durante la sua testimonianza confessa di avere

stati di ansia e irritabilità; il tutto avveniva come risposta ai comportamenti vessatori

ricevuti.

Tramite le informazioni riportate e in seguito all‟analisi del caso, è presente la

possibilità di programmare alcuni interventi preventivi. L‟organizzazione in causa,

dovrebbe prima di tutto focalizzare l‟attenzione sulla valutazione degli aspetti

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psicosociali, sia dal punto di vista del contesto lavorativo (cultura organizzativa,

sviluppo di carriera)che dal contenuto lavorativo (orario di lavoro, ritmo e

pianificazione dei compiti lavorativi). Inoltre, se nel caso l‟azienda non lo avesse

sarebbe opportuno procurarsi un codice etico diretto alla gestione e alla riduzione delle

probabilità del verificarsi di comportamenti aggressivi sia da parte del responsabile che

da parte dei colleghi. Cercare di dirigersi verso una stile di leadership meno autoritario,

meno indifferenti e più comunicativi, focalizzati sia sul compito che sulle relazioni

interpersonali, in modo da creare un clima aziendale piacevole e collaborativo. Si

potrebbe consigliare di implementare un sistema che premi i lavoratori meritevoli e dei

sistemi di ascolto (per esempio uno sportello mobbing), che permettano di alleviare sia

la durata di fenomeni come il mobbing sia la diffusione dei disturbi. Infine,

l‟organizzazione dovrebbe evitare di prendere decisioni senza consultare i diretti

interessati; per esempio, nel momento in cui viene attuato un progetto di lavoro, la

direzione dovrebbe organizzare una riunione con tutti i diretti interessati almeno una

volta al mese, per analizzare l‟andamento del progetto e per riflettere insieme a loro su

eventuali sospensioni. Per giunta, dovrebbe evitare di fare promesse che non può

mantenere, come ad esempio lo stipendio fisso accompagnato da provvigioni che è stato

assicurato a Marco e mai confermato.

Come intervenire sulla situazione di Marco.

Ponendo l‟attenzione sulla vittima e essendo certi che il caso in questione si è risolto

con un licenziamento, ci sarebbe ben poco da recuperare, ma si potrebbe focalizzare la

trattazione su possibili interventi da attuare per cercare di risolvere situazioni simili.

Se, dopo l‟attuazione di interventi preventivi (alcuni dei quali consigliati nel paragrafo

precedente), si verificassero casi di Mobbing, l‟organizzazione non potrebbe fare altro

che intervenire direttamente sulle vittime. Innanzitutto dovrebbe rispettare alla lettera le

norme contrattuali: lo stipendio che spetta al lavoratore dev‟essere dato senza tagli e, se

la persona ha diritto a usufruire di giorni di malattia certificati, allora bisogna concederli

senza contrastarla. Al suo rientro in azienda, l‟organizzazione dovrebbe attuare un piano

di recupero che permetta alla vittima, se l‟assenza è stata piuttosto lunga, di reintegrarsi

nel contesto lavorativo serenamente e senza ulteriori pressioni. Il sovraccarico di lavoro

si dovrebbe evitare, consentendo alla vittima un recupero graduale; si dovrebbe evitare,

inoltre, il cambiamento delle mansioni che aveva precedentemente e l‟isolamento

sociale, assicurando un posto di lavoro in cui possa giovare di supporto sociale e di

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relazioni interpersonali proficue. Ogni decisione aziendale dev‟essere ufficializzata, in

modo tale che non si instauri nelle vittime la percezione di ingiustizia organizzativa e la

paura che venga fatto qualcosa alle loro spalle. Se, come per Marco, non è più

disponibile la precedente posizione lavorativa della vittima, sarebbe opportuno trovarne

una alternativa a tutti i costi; se neanche quest‟ultima fosse reperibile, si dovrebbe

preventivamente provvedere a un outplacement in tempi piuttosto brevi.

5.2 Alcune testimonianze

Credo che le testimonianze siano il modo migliorare che un soggetto ha per dare prova

di quanto subito, oltre al fatto che testimoniare può essere d‟aiuto al fine di acquisire

maggiore consapevolezza nella presa di coscienza della situazione che si sta vivendo.

Prendendo l‟attenzione su cosa rappresentano le testimonianze per il lettore, ho voluto

riportare alcuni racconti, per stimolare ancora di più una riflessione riguardo il tema

preso in considerazione. Sapere e provare ad immedesimarsi in determinate situazioni

non è facile, ma allo stesso tempo potrebbe aiutare a non lasciare il problema in una

posizione marginale, come a mio avviso succede nella nostra società. Si dovrebbe

pensare al mobbing lavorativo come quel fenomeno che ha ripercussioni rilevanti in un

ambito che risulta essere fondamentale per l‟esistenza di un individuo ed è anche

riconosciuto dal codice civile e dalla nostra Costituzione come un diritto fondamentale.

A tal fine, ho riportato di seguito alcune testimonianze di coloro che sono state vittime

di mobbing lavorativo.

5.2.1M.,35anni.

“Lavoravo in una casa di riposo al reparto “protetto” che ospitava anziani affetti da

morbo di Alzheimer. Tutto cominciò a pochi mesi dalla mia assunzione, quando venne

sostituito il direttore sanitario. Ancora oggi non credo ci sia stata una vera e propria

causa scatenante: penso che nei miei mobbers sia nata la consapevolezza di non potermi

condizionare, di non potermi far dire o fare ciò che volevano. Il rendersi conto che il

lavoratore sa svolgere il proprio lavoro con professionalità crea in qualche modo delle

frustrazioni e destabilizza l'intero sistema. La prima cosa che oggi rielaboro con grande

amarezza è il controllo, all'inizio del turno e durante le attività; il porre ostacoli

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all'esecuzione dei progetti educativi, peraltro tutti approvati dai direttori sanitari; il

divieto di fare fotocopie per i miei utenti, di entrare in casa di riposo durante il periodo

di ferie impostomi d'ufficio. Dicevano al personale di non parlarmi perché ero

inaffidabile, e poi l'aggressione, le telefonate anonime e ingiuriose, i richiami scritti... Io

andavo d'accordo con i miei colleghi e c'era collaborazione fra noi ma la paura credo

abbia prevalso; la paura di essere diversi, di poter cambiare davvero questo sistema.

Chiedendo scusa, accettavano a capo chino le imposizioni provenienti dai superiori.

All'inizio non mi rendevo conto di quello che mi stava succedendo: andavo al lavoro e

mi sentivo diversa, piangevo anche in reparto, a casa, di notte, non dormivo più, una

volta a letto i miei occhi si spalancavano e vedevano l'arrivo del mattino seguente.

Inappetenza, perdita di peso, tachicardie improvvise, senso di paura e di inadeguatezza;

continuavo a chiedermi se e dove stavo sbagliando ma mi sembrava che non ci fosse

soluzione. Per me esisteva solo IL problema, ero IO il problema o, meglio, questo mi

avevano indotto a pensare. Continuavo a parlarne in casa con gli amici più vicini, il

resto passava in secondo piano. Poi, un giorno, mi fu comunicato che il contratto alla

sua scadenza non mi sarebbe stato rinnovato "perché il mio lavoro non andava già bene

da diverso tempo". Questa plateale rivelazione mi scosse: non poteva essere così perchè

i risultati con gli ospiti si vedevano, io li vedevo e anche gli altri. I miei pazienti, se pur

prigionieri dell'oblio causato dalla loro malattia mi aspettavano e stavano bene con me;

apparecchiavano la tavola, cantavano, leggevano, ballavano, dipingevano, hanno

arredato da soli l'intero reparto. Quando scoprii che il mio contratto era illegittimo e in

quel momento avrei potuto mostrare che loro non erano così forti, quando fu rintracciata

la persona che effettuava le chiamate anonime, quando la psicoterapeuta mi disse che

non dovevo dimostrare a nessuno di saper fare il mio lavoro ma che solo i risultati che

avrei ottenuto dall'impiego delle mie conoscenze e capacità avrebbero potuto fornirmi la

prova che serve a ogni lavoratore per crescere professionalmente e a livello umano,

decisi di ribellarmi. Ovviamente non è possibile dimenticare. Qualunque cosa legata a

quei momenti, a quel contesto, ne fa riaffiorare il ricordo”.

Da questo piccolo racconto, come capita anche negli altri, una fattore che mi lascia

perplessa è pensare a come in coloro che sono vittime di mobbing lavorativo si sussegue

una perdita di coscienza e delle proprie capacità sia in campo lavorativo che come

persona. Il dover ricominciare riacquisendo la consapevolezza di ciò che si è ritrovando

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la fiducia in se stessi è uno dei passaggi più difficili ma sicuramente uno dei più

significativi.

5.2.2A.,38anni.

“Lavoravo nel settore del turismo. L'azienda iniziò a farmi mobbing dopo alcuni mesi

dalla mia comunicazione di una seconda gravidanza, con una scusa banale: una

contestazione di uso improprio del computer aziendale, cosa dimostrata non vera. Dopo

il parto, quando sarei dovuta rientrare, mi obbligarono a prendere tutte le ferie a

disposizione anche se non era assolutamente obbligatorio e avrei potuto usufruirne

all'occorrenza, visto che avevo un bimbo di pochi mesi. Al rientro, stabilito da loro, mi

allontanarono dagli uffici, posizionando la mia scrivania nel retro di un archivio,

togliendomi ogni ruolo e ogni mansione. Sulla carta avevano "creato" un ruolo ad hoc

per me, ma nel concreto quel lavoro non esisteva. Lì sono stata per due anni, senza fare

quasi nulla. Non avevo nel luogo di ultima destinazione rapporti con molti colleghi, se

non un paio. Quelli che incontravo nei paraggi dell'ufficio mi ignoravano. Fin da subito

mi venne una forte depressione che mi costrinse a psicofarmaci e a visite periodiche con

psichiatri specializzati. Feci anche un percorso di 6 mesi con il centro antimobbing della

mia città. Le giornate erano lunghe, interminabili. Per quanto volessi impegnare la

mente, dedicarmi ai miei bambini, lo sconforto, l'ansia e la solitudine la facevano da

padrone. Tutta la mia vita sociale era cambiata. A casa il mio nervosismo lo

percepivano e ne risentivano specialmente i miei figli. Evitavo di uscire con amici

perché puntualmente si finiva a parlare di lavoro e la cosa non mi faceva stare bene.

Sentirsi poi dire frasi del tipo "che t'importa, quello che conta è che ti paghino", mi

feriva più di ogni altra cosa, perché era la dimostrazione che nulla e nessuno avrebbe

mai compreso il mio stato d'animo. Decisi subito di ribellarmi. Provai per circa nove

mesi a trovare un accordo con la mia azienda, a ricevere motivazioni, ma quando capii

la loro totale chiusura, gli feci causa e ad oggi è ancora in corso. Nonostante tutto, non

ho mai sentito di potercela fare. Mi hanno mandata via, la causa di mobbing è ancora in

alto mare e sto per iniziare quella per il licenziamento. Credo che un'esperienza del

genere sia, e resti, una violenza psicologica molto forte. La cicatrice c'è e resterà per

sempre. A seguito di questa esperienza ho anche creato un forum, Mobbingdonna

(www.mobbingdonna.it), che ho deciso di aprire gratuitamente l'8 marzo del 2012. L'ho

fatto perché nelle lunghe giornate di inattività lavorative avrei voluto tanto qualcuno

con cui parlare, ma un qualcuno che mi capisse e, purtroppo, solo chi ha vissuto o sta

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vivendo la tua stessa tragica esperienza può farlo. Mi ha aiutato a non sentirmi più sola.

Tante sono state le persone, donne e uomini, che mi hanno scritto, che mi hanno chiesto

consigli, moltissimi però in privato, forse per paura. Spero che anche qualcuno di loro in

qualche modo si sia sentito meno solo”.

In questa testimonianza è presente una gravidanza; come questa esperienza appena

riportata, c‟è ne sono molte altre in cui la gravidanza porta a diventare vittima di

mobbing lavorativo. Quanto accade è sconfortante e da un certo punto di vista va contro

quelle che sono le leggi previste in Italia. Rivolgendomi a coloro che si comportano da

mobber, vorrei ricordare che nel nostro ordinamento è presente un decreto legislativo

151/2001 che stabilisce che il datore di lavoro non possa licenziare una donna in stato di

gravidanza. Tale divieto opera anche se il datore di lavoro non era a conoscenza della

gravidanza e sin dall‟inizio di quest‟ultima. Di conseguenza, la lavoratrice sarà tutelata

a partire dal momento della gestazione.

5.2.3A., 35 anni

Mi laureo a 23 anni in economia e commercio; parto con uno stage in un'azienda che

produce impianti per il settore alimentare e rimango poi all'interno dello stesso gruppo

ma in un'altra azienda diversa dalla capogruppo iniziale.

Comincio quindi in questa azienda nel 2003, prima nell'ufficio manuali poi passo

all'ufficio assistenza dove rimango sino alle mie dimissioni nel maggio 2013.

Il dicembre 2012 nasce il mio bimbo; chiedo all'amministratore delegato di poter fare le

6 ore di allattamento con orario continuato invece dello spezzato, dato che la strada è

Parma San polo torrile e viceversa - come avevano fatto le mie colleghe durante la loro

maternità e mi sento rispondere (anzi scrive via mail) che la cosa ovviamente disturba e

lo devono fare solo perchè obbligati per legge. Una buona partenza....

Torno in ufficio il primo aprile dell'anno dopo, facendo le sei ore previste dall'accordo..

Optando per l' orario continuato questo richiedeva un'uscita anticipata rispetto all'orario

canonico (che è il seguente 8.30 - 13.00/14.00 - 17.30).

Svolgo le mie consuete mansioni per un paio di settimane fin che non vengo chiamata in

direzione dove l'amministratore delegato mi dice che ha bisogno di una persona in

ufficio amministrativo dato che le ragazze (una responsabile + l‟atra impiegata) hanno

tanto lavoro e l'unica laureata in economia che quindi può aiutare,sono io.

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Accetto anche se la legge richiede che le mamme con un bimbo sotto l'anno d'età non

devono essere spostate al rientro.

Mi trovo in un ufficio dove di eccesso di lavoro non c‟è n'è per niente e nessuna delle

due colleghe intende cederne per passarne a me.

Arriviamo ad ottobre 2013. Mi chiama sempre la direzione per dirmi che arriva un

dirigente amministrativo da fuori e io sono spedita nella capo gruppo (all'epoca a

Montecchio Reggio Emilia) a fare il mio vecchio lavoro con un "trasferimento diretto"

contratto possibile solo tra aziende dello stesso gruppo: Il dipendente viene trasferito da

un'azienda ed un'altra cambiando datore di lavoro senza essere licenziato. Appunto un

trasferimento diretto.

Mi rivolgo ad un avvocato e alla consigliera di parità della provincia per esporre il

problema, che mi accoglie un mese dopo la richiesta. Sembra che non lo possano fare.

Al che rifiuto l'offerta e dopo una serie di insulti nei miei confronti trova il modo di

mandarmi via.

Il 25 novembre - quindi hanno atteso a pelo la scadenza dell'anno di mio figlio, 01

dicembre - mi dicono che dovrò comunque andare a Montecchio con una "sospensione

temporanea del lavoro", clausola che permette di avere sempre il tuo storico datore di

lavoro ma sei formalmente alle dipendenze di un altro, adducendo come causale il fatto

che la mia professionalità in azienda era ormai di troppo.

Ci sarebbero state altre dipendenti senza famiglia o figli che avevano le qualità per

prendere il mio posto, ma guarda caso hanno preferito me.

La consigliera di parità il 5 dicembre convoca l'azienda che nel colloquio ha sostenuto

persino che io fossi d'accordo.

Purtroppo non ero presente, non mi avevano detto che fosse necessario.

Il tutto però si è fermato lì',nel senso che il colloquio non è servito a nulla anzi la

consigliera ha quasi creduto alle parole dell'azienda.

Nel mese di maggio consegno le dimissioni e vado all'ispettorato del lavoro

(obbligatorio firmare i loro documenti se ci si dimette e si è genitori di un bimbo sotto i

tre anni) e mi dicono che se fossi andata da loro subito a fare denuncia avrebbero fatto

un'ispezione; peccato che né l'avvocato né la consigliera me l'avessero detto.

Quando mi hanno dato l'ultima notizia mi sono messa a casa terminando la mia

facoltativa sino al giorno delle dimissioni.

Ora amministro condomini e faccio tirocinio da una commercialista con l'intento di

diventarlo quando sarà il momento.

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Non sono pentita anzi mi spiace non averlo fatto prima, però gli strumenti messi a

disposizione dallo stato a titolo gratuito per le neo mamme non sono per niente validi e

siamo considerate solo dei problemi per le aziende.

L‟aspetto che assume rilevanza in questa storia è il riscatto avuto dalla persona vittima

di mobbing. Il lieto fine presente lascia una speranza un po‟ a tutti per ricominciare, per

potercela fare. Dopo aver subito gli effetti del mobbing lavorativo, il ritrovarsi ancora

una volta in gioco sarà sicuramente utile in primo luogo alla vittima e poi agli altri per

dimostrare le proprie capacità. In questa testimonianza è presente la gioia di aver

ricominciato e la voglia di cancellare tutto quello subito oltre alla volontà di migliorare

per sentirsi nuovamente gratificati.

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CONCLUSIONI

Nella vita dell‟individuo il lavoro rappresenta uno dei fenomeni fondamentali di

autorealizzazione e spesso, quando questa possibilità viene meno a causa di contrasti

interpersonali nei luoghi di lavoro o a causa di politiche aziendali sbagliate, ciò assume

una notevole rilevanza e viene considerato un aspetto gravissimo sia sotto il profilo

della tutela individuale e della persona, sia per quanto concerne l‟aggravamento dei

costi all‟interno dell‟azienda ; fino all‟indebolimento della capacità reddituale.

Il mobbing appare sempre più un fenomeno molto complesso , per cui necessita di

maggiori indagini, soprattutto per quanto riguarda la dimensione metodologica delle

procedure di ricerca.

Bisognerebbe attivare, in modo tale da creare una vera e propria collaborazione, tutte le

attività che possono essere messe in atto per riuscire a contrastare questo fenomeno. Un

punto di partenza su cui sarebbe utile prestare attenzione è l‟atteggiamento ambivalente

delle aziende; in quanto da una parte viene riconosciuto il problema e non si è disposti a

tollerarne la presenza, dall‟altra, l‟azienda, non desidera suscitare problemi quando non

ci sono o crearne quando questi fossero ancora nell‟oscurità. Questo atteggiamento

risulta comprensibile, non solo perché vengono poste domande all‟azienda su una

tematica così critica, ma anche per il fatto che si ha una conoscenza limitata al riguardo

e il fenomeno viene percepito come un problema in agguato. Promuovere la salute di

una persona e nello specifico di ogni lavoratore è di per sé un processo antimobbing.

Soffermandoci sull‟evoluzione del mobbing, possiamo riscontrare ragioni profonde, tali

da imporre una riflessione sul contesto sociale in cui viviamo. È la società attuale a

dover riscoprire i valori e i principi che abbiamo nel rispetto per il prossimo. Nella

cultura del lavoro si possono ritrovare le basi su cui rifondare il sistema attuale,

all‟interno del quale, l‟arroganza e la superficialità rendono sempre più difficile la

crescita del nostro Paese sotto l‟aspetto culturale, sociale e morale. Spetta alla

collettività trasformare illusione in realtà, dal momento che l‟inattività e il silenzio sono

sinonimi di sconfitta sociale.

Ogni individuo può divenire vittima di mobbing, ognuno di noi deve impegnarsi per

distruggere questa piaga sociale a ogni forma socioeconomia che la promuove e/o la

tollera.

Spero di aver messo a disposizione, nella stesura di questo elaborato, un po‟ di

materiale per continuare e poter dare spunti riguardo una serie di interventi che

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potrebbero essere inseriti nelle guerre contro il mobbing. Mi premeva molto fare un

lavoro su questo tema perché credo ne valga la pena continuare a metterci del proprio in

questa lotta in quanto trovo disarmante leggere la tristezza sui volti delle persone e il

fallimento che scaturisce dall‟essere una vittima di mobbing; tralasciando come

riportato in precedenza tutte le conseguenze che ne derivano e gli ambiti in cui si

ripercuotono.

Un particolare che ha colto la mia attenzione nelle varie ricerche effettuate è di come

l‟assistente sociale rimanga in una posizione marginale in questo contesto; dal mio

punto di vista sarebbe interessante inserire nelle varie fasi prese in considerazione, un

passaggio più specifico in cui includere la figura di questa professione.

Il mobbing come afferma Spaltro (1995), è una patologia relazionale, che deve essere

riconosciuta al fine di proporre adeguati progetti di intervento e per traghettare la nostra

società, che accetta e subisce il malessere lavorativo, verso una società del benessere

che offra speranze e promesse di progettualità, invece di minacce e paure.

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Bibliografia:

Conoscere, comprendere e reagire al fenomeno del mobbing. A cura di Tiziana

Bertolucci; Comitato delle pari opportunità, Università degli studi di Firenze.

La documentazione.pdf, Digilander.libero.it/MTSC1/.

Lavoro perverso. A cura di Francesco Blasi e Claudio Petrella.

Il colloquio d‟aiuto, Teoria e pratica nel servizio sociale. Maria Teresa Zini, Stefania

Miodini.

www.intrage.it

www.proteo.ralbcub.it/article.php3?id_article=85

Mobbing: virus organizzativo; prevenire contrastare il fenomeno del mobbing e i

comportamenti negativi sul lavoro. Gabriele Giorgi e Vincenzo Majer.

Studio cataldi; www.studiocataldi.it/guide/_legali/il-mobbing/.

Venezia; www.comunedivenezia.it/flex/pages/ServeBlob.php/L/IT/IDPagine/17615.

Berdardini; www.unicam.it/ssolici/mobbing/berardini.pdf.

Unict; www.mobbing.unict.it/materialiformativi01.doc.

Proteo; www.proteo.ralbcub.it/article.php3?id_article=85.

Ospedali varese; www.ospedalivarese.nel/comitato-garanzia/DispenseEge.pdf.

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RINGRAZIAMENTI

Il conseguimento di questo titolo, lo devo a tutti coloro che hanno sempre creduto in

me, dandomi la grinta necessaria per raggiungere questo traguardo.

Partirei con il dire grazie, alla docente Stefania Miodini, che mi ha dato la possibilità

di svolgere insieme a lei il mio lavoro di tesi, mostrandosi disponibile nonostante si

trovasse in delle condizioni fisiche non del tutto favorevoli.

Devo un forte e sentito grazie alla mia famiglia; loro che da sempre mi hanno dato

fiducia e mi hanno insegnato a non arrendermi mai. Nonostante la distanza che ci

divide sono sempre stati presenti e infondo vorrei ricordare che la mia laurea è anche

la loro. Mi reputo molto fortunata nell’avere persone così speciali per me, che ogni

giorno mi accompagnano e mi sostengono in quelle che sono le mie scelte di vita, oltre

all’essere sempre pronti a dimostrarmi tutto l’amore che ci unisce.

Inoltre ringrazio i miei amici, ognuno di loro nel suo piccolo con una parola, un

abbraccio o semplicemente con un sorriso, ha reso quest’avventura meravigliosa e

spero solo di essere riuscita a ricambiare in qualche modo quanto ricevuto. Vorrei

cogliere l’occasione per ricordare che, anche se le nostre strade si divideranno il mio

pensiero per loro ci sarà sempre. Al momento vedo questi anni come quelli più belli e

significativi della mia vita ed è proprio per questo che sarà difficile dimenticare chi ci

ha messo del proprio per renderli tali.

Infine, vorrei ringraziare in modo particolare la mia sorellina Marta; la mia

coinquilina Katia e la mia amica Michela.

A Marta che c’è sempre stata e a Katia e Michela, che anche se le conosco da poco, mi

hanno accompagnata in questo traguardo e sono riuscite a trasmettermi tanto supporto

e affetto.

Vi voglio bene, la vostra laureanda Tania.