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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO FACOLTÀ DI ECONOMIA DIPARTIMENTO DI DIRITTO DELL’ECONOMIA, DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE Dottorato di ricerca in Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente – XXI Ciclo LA TUTELA DEI LAVORATORI NEI PROCESSI DI ESTERNALIZZAZIONE Coordinatore: Chiar.mo Prof. Salvatore Piraino Relatore: Candidato: Chiar.mo Prof. Massimiliano Marinelli Dott.ssa Lidia Undiemi

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO FACOLTÀ DI ECONOMIA

DIPARTIMENTO DI DIRITTO DELL’ECONOMIA, DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE Dottorato di ricerca in Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente – XXI Ciclo

LA TUTELA DEI LAVORATORI NEI PROCESSI DI ESTERNALIZZAZIONE

Coordinatore: Chiar.mo Prof. Salvatore Piraino

Relatore: Candidato: Chiar.mo Prof. Massimiliano Marinelli Dott.ssa Lidia Undiemi

INDICE

Capitolo 1 La tutela del lavoro nei processi di esternalizzazione. Sistema economico evoluto o forme complesse di speculazione?

Introduzione…………………………………………………………………………1 1. Linee evolutive della disciplina sul trasferimento di azienda…………………….2 2. Cessioni e collegamenti societari: le anomalie del mercato delle esternalizzazioni…………………………………………………………………….3 3. Nuovi modelli interpretativi del fenomeno interrpositorio………………………6 4. Le esternalizzazioni nella pubblica amministrazione…………………………….8

Sezione A Capitolo 2 Evoluzione del concetto di azienda e di ramo di azienda

1. Il trasferimento di azienda tra diritto interno e diritto comunitario: il quadro generale……………………………………………………………………………10 2. L’oggetto del trasferimento ed il suo collegamento con la nozione giuridica d’impresa e di azienda……………………………………………………………..13 3. Il trasferimento di azienda secondo l’art. 2112 c.c.: una nuova nozione civilistica di azienda?................................................................................................................15 4. Questioni legate alla valutazione dell’autonomia funzionale del ramo ceduto: il requisito della preesistenza nel dibattito dottrinale………………………………..18

Capitolo 3 L’influenza dei collegamenti societari nel trasferimento di ramo d’azienda

1. Questioni giuridiche legate ai rapporti di lavoro nell’ambito di un collegamento societario…………………………………………………………………………..21 2. Il gruppo di società e l’attività di direzione e coordinamento………………….22 3. I risvolti in ambito lavoristico della disciplina dei gruppi di società: l’impresa

come fattispecie essenziale a tutela dei lavoratori………………………………...25 4. La disciplina del trasferimento di azienda in funzione elusoria della normativa posta a tutela dei lavoratori………………………………………......…………....31 5. Collegamenti societari e frode alla legge nel trasferimento di ramo d’azienda...31 6. La strategia negoziale della <<doppia cessione>> attraverso società controllate. L’antisindacalità della condotta nell’esternalizzazione Eutelia-Agile-Omega…....35 7. Segue:La cessione di quote di partecipazioni societarie e la tutela del lavoro nel trasferimento di azienda…………………………………………………………...37

Capitolo 4 Informazione e consultazione sindacale, condotta antisindacale ed effetti dell’operazione traslativa sui rapporti individuali di lavoro. Il diritto di opposizione dei lavoratori al trasferimento

1. Informazione, consultazione sindacale e tutela collettiva………………………40 2. La condotta antisindacale ex art. 28 come conseguenza della violazione della procedura di informazione e consultazione………………………………………..44 3. Il diritto di opposizione dei lavoratori al trasferimento nel diritto comunitario e la mancata regolamentazione nell’ordinamento giuridico italiano…………………...46 4. Ipotesi di introduzione del diritto di opposizione del lavoratore nella disciplina interna……………………………………………………………………………...48

Capitolo 5 La riforma fallimentare e la tutela dei lavoratori nel trasferimento di azienda in crisi

1. L’impatto della riforma fallimentare sui rapporti di lavoro..…………………...51 2. Il quadro normativo nazionale……………………………………………….…52 3. I punti di contrasto con la normativa comunitaria……………………………...55 4. Le novità introdotte dalla riforma del diritto fallimentare……………………...57 5. Il conflitto tra le discipline in tema di vendita dell'azienda o di suoi rami……..59 6. Segue. L'affitto di azienda o di suoi rami…………………………………….....61

Sezione B

Capitolo 6

L'utilizzo del lavoro autonomo negli appalti ed il suo collegamento con l'interposizione illecita di manodopera

1. Appalto, subordinazione ed interposizione vietata………………………..........63 2. Il ruolo della subordinazione nella qualificazione del vero imprenditore….......68 3. Il lavoro autonomo negli appalti…………………………............………….…72 4. Gli effetti della mancata regolamentazione dell’interposizione di lavoro autonomo................................................................................................................73 5. I possibili collegamenti fra l’interposizione di lavoro autonomo e l’attuale disciplina in materia di somministrazione di lavoro...............................................75 6. La centralità dell’oggetto dell’appalto per la valutazione della fattispecie interpositoria...........................................................................................................82 7. Il lavoro a progetto negli appalti........................................................................83

Capitolo 7 La qualifica di vero imprenditore ai fini della valutazione della liceità dell’appalto

1. Appalto di servizi ed interposizione vietata........................................................88 2. Il fenomeno organizzativo nella disciplina sull'appalto......................................90 3. La valutazione dell’autonomia funzionale dell’appaltatore: esistono servizi oggettivamente in appaltabili?.................................................................................92 4. Il ruolo dei mezzi immateriali di produzione negli appalti di servizi a prevalente impiego di prestazioni di lavoro..............................................................................97 5. L'impatto dell'innovazione tecnologica sulla fattispecie interpositoria............102

Sezione C

Capitolo 8 – Le esternalizzazioni nella p.a.

1. Le esternalizzazioni nelle p.a. e le ricadute di sistema sulla c.d. privatizzazione del pubblico impiego..............................................................................................105

2. Il trasferimento di attività nella p.a.: ambito soggettivo e ambito oggettivo di applicazione della fattispecie ex art. 31 d. lgs. n. 165/2001...................................108 3. La (ir)rilevanza del dissenso del lavoratore coinvolto nel trasferimento...........112 4. La selezione dei lavoratori coinvolti nel trasferimento.....................................113 5. La somministrazione di lavoro presso le p.a.....................................................114 6. Diritti, obblighi, tutele e trattamento economico e normativo del lavoratore somministrato........................................................................................................117 7. L’apparato sanzionatorio applicabile alla p.a....................................................121 8. L’interposizione illecita di manodopera e l’inapplicabilità della sanzione <<ordinaria>> della conversione..........................................................................122

Capitolo 9 Questioni di legittimità legate alle politiche di esternalizzazione attuate Telecom Italia

1. Il quadro generale..............................................................................................126 2. L'accordo del 28 marzo 2000 come punto di partenza: un commento critico.....................................................................................................................128 3. Segue: gli accordi sul Piano Industriale del 2002-2004 e del 2005-2007.........131 4. Questioni di legittimità riguardanti le politiche societarie relative alla cessione del ramo d'azienda: il caso <<Gestione Autoparco>>................................................135 5. Segue: il caso TE.SS..........................................................................................139 6. Segue: il caso Im.Ser.........................................................................................140 7. Un'ampia elaborazione giurisprudenziale sancisce l'illegittimità delle cessioni attuate dalla Telecom Italia....................................................................................141 8. L'illegittima individuazione dei dipendenti addetti all'attività da trasferire nelle cessioni Telecom Italia e il discutibile orientamento giurisprudenziale che nega l'interesse dei lavoratori ad agire contro il trasferimento ex art. 2112 c.c.............143 9. La cessione dell'attività <<Gestione autoparco>> a Savarent Fleet Services.................................................................................................................146 10. L’interposizione illecita di manodopera e l’inapplicabilità della sanzione <<ordinaria>> della conversione..........................................................................148 11. La cessione dell'attività <<Logistica della funzione acquisti di domestic wireline>> a TNT.................................................................................................150 12. La cessione dell'attività <<Grandi immobili>> a Im.Ser................................151 13. La cessione dell'attività <<User Support>> a HP DCS..................................152 14. La cessione dell'attività <<Human Resource/Servizi Generali>> a Emsa Servizi e dell’attività <<Manutenzione e Servizi Ambientali>> a MP Facility................153

15. La cessione dell'attività <<Centri territoriali di Sorveglianza in ambito Purchasing Acquisti e Servizi per la Security>> a Tecnosis e dell'attività <<Property Management>> a Pirelli & Real Estate Property Management...........................154

Capitolo 10 Il fenomeno delle esternalizzazioni nel settore delle attività di call center

1. Esternalizzazioni e precarietà nei call center.................................................156 2. I risvolti dell’adozione di una strategia di CRM nelle attività di call center..................................................................................................................157 3. Il lavoro autonomo coordinato e continuativo nei call center: dalla circolare Damiano ai primi orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione.........................................................................................................163 4. Il ruolo svolto dalla contrattazione collettiva................................................167 5. Call center Atesia: il ruolo del potere di governo dell’impresa appaltante nella valutazione della natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro degli operatori telefonici............................................................................................170 6. L’incidenza della regolamentazione per la tutela degli utenti sull'organizzazione del lavoro nei call center....................................................173 7. Le anomalie della cessione di attività da parte di Vodafone Italia................178

Bibliografia.............................................................................................................180

Capitolo 1 - La tutela del lavoro nei processi di esternalizzazione. Sistema

economico evoluto o forme complesse di speculazione?

SOMMARIO: Introduzione. - 1. Linee evolutive della disciplina sul trasferimento di azienda.

- 2. Cessioni e collegamenti societari: le anomalie del mercato delle esternalizzaizoni. - 3. Nuovi modelli interpretativi del fenomeno interrpositorio - 4. Le esternalizzazioni nella pubblica amministrazione.

Introduzione

Nell’ambito della espansione della grande crisi economica e sociale, un ruolo

determinate è stato certamente assunto dalla frenetica corsa alle cessioni di attività e

all’esecuzione dei lavori in appalto.

Logiche parassitarie di speculazione finanziaria ed economica hanno prevalso sui

principi giuridici preposti alla tutela dei diritti dei lavoratori coinvolti nelle politiche di

esternalizzazione. Si pensi, ad esempio, alla prassi secondo cui per evitare di perdere il

posto di lavoro in conseguenza del trasferimento di attività, i lavoratori coinvolti nella

cessione debbano ricorrere in giudizio per chiedere al giudice la non applicazione

dell’art. 2112 c.c., nonostante tale norma abbia, paradossalmente, la finalità di evitare

che i lavoratori subiscano un peggioramento delle condizioni di lavoro in conseguenza

delle vicende circolatorie dell’azienda.

Sulla base dei risultati emersi dal presente studio, ciò è avvenuto principalmente a

causa della mancanza di una disciplina organica e complessiva in materia di tutela dei

lavoratori nelle trasformazioni d’impresa.

L’attuale normativa è complessa e frammentata, ma, si badi bene, i principi di fondo

delle leggi che la regolano sono semplici e coerenti: verifica dei requisiti di

imprenditorialità legati all’attività oggetto di trasferimento o di appalto, ed

individuazione dell’effettivo datore di lavoro, cui attribuire l’instaurazione diretta del

rapporto di lavoro a prescindere dal sistema di relazioni commerciali posto in essere

formalmente dagli operatori economici.

E’ tuttavia necessario evidenziare che le discipline speciali legate alle fattispecie in

questione, avendo struttura e finalità differenti, pongono in risalto sfaccettature diverse

dello stesso elemento oggetto di studio, nonostante, in entrambi i casi, si tratta

sostanzialmente di verificare la capacità del cessionario/appaltatore di produrre un

autonomo risultato produttivo.

In termini strettamente giuridici, è interessante rilevare come le principali questioni

giuridiche affrontate in tema di esternalizzazioni sorgono in ragione di linee

interpretative che tendono ad allontanarsi dalla base di valori che reggono il sistema

giuridico di riferimento.

Questo tipo di problematiche sono sorte anche in relazione alla salvaguardia dei

diritti dei lavoratori nell’ambito di collegamenti societari, che oramai rappresentano un

tassello fondamentale delle strategie di outsourcing.

Il collegamento con la dottrina commercialistica si è rivelato essenziale nelle varie

ricostruzioni, specie ai fini di valutazioni di ordine sistematico. Le discipline speciali

che contengono disposizioni in materia di lavoro non possono dar luogo a fattispecie

come impresa (art. 2082 c.c.), azienda (art. 2555 c.c.) e appalto (art. 1655 c.c.) diverse

da quelle contenute nel codice civile.

Grazie all’analisi di alcuni casi concreti, è stato possibile verificare come le

problematiche giuridiche analizzate trovano riscontro nella realtà effettuale e

corrispondono a precise anomalie di mercato.

1. Linee evolutive della disciplina sul trasferimento di azienda

Riguardo alla disciplina sul trasferimento di azienda o di parte di azienda,

principalmente contenuta nell’art. 2112 c.c. e nell’art. 47 della l. n. 428/1990, si è

tentato fondamentalmente di risolvere il dibattito sorto in relazione alla possibilità di

interpretare la nozione di trasferimento di azienda dell’art. 2112 c.c. come introduzione

di una fattispecie <<<dematerializzata>> di azienda, intesa anche come creazione di una

nuova definizione valida esclusivamente per il diritto del lavoro, autonoma rispetto a

quella ricavabile dalla combinazione degli artt. 2555 e 2558 c.c. Tale questione è stata

risolta tenendo conto del fatto che l’organizzazione dell’attività ex art. 2555 c.c. può

riguardare anche beni immateriali. La fattispecie <<dematerializzata>> di azienda è

direttamente riscontrabile nel suddetto articolo, e, quindi, non sussiste, sotto questo

punto di vista, alcun distacco con la nozione di trasferimento di azienda contenuta

nell’art. 2112. In questa direzione, si è dimostrato come il fenomeno organizzativo

consente inoltre di spiegare il collegamento della fattispecie di trasferimento di azienda

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con la nozione di imprenditore contenuta nell’art. 2082 c.c. e, sotto il profilo temporale,

permette di risolvere il problema dell’attribuzione di un criterio oggettivo di

individuazione della nozione legale di trasferimento di parte d’azienda a seguito

dell’abolizione del requisito della preesistenza.

Sempre in tema di trasferimento, si consideri che con la recente riforma del diritto

fallimentare (d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) l'assetto delle garanzie predisposte per i

lavoratori coinvolti nel trasferimento di azienda ha subito un incisivo indebolimento. La

nuova disciplina in tema di vendita e di affitto di azienda, o di suoi rami, contempla

diverse ipotesi di deroga alla tutela individuale ex art. 2112 c.c. Tenendo conto della

filosofia generale della nuova legge sul fallimento, dichiaratamente finalizzata alla

conservazione delle imprese assoggettate alla procedura concorsuale, la previsione in

decreto della fattispecie derogatoria all'art. 2112 c.c. è sicuramente riconducibile al

perdurante contrasto tra la normativa nazionale e la direttiva comunitaria in materia di

tutela dei lavoratori nel trasferimento di azienda (dir. n. 23/2001/CE), dato che il

legislatore comunitario subordina la possibilità di escludere la suddetta tutela alla

finalità liquidatoria della procedura.

Per ciò che concerne il ruolo dei sindacati nei casi di trasferimento, la legge impone

agli imprenditori il rispetto di una procedura di informazione e (eventuale)

consultazione sindacale (art. 47 l. n. 428/1990). Su questo argomento, si vogliono solo

anticipare due aspetti: la possibilità di interpretare i contenuti della comunicazione

basandosi sui requisiti di legittimità della cessione, di modo tale da attribuire al

sindacato un potere di negoziazione forte e concreto, data la notevole diffusione del

cosiddetto gioco delle scatole cinesi; l’importanza attribuita ai collegamenti societari in

sede di informazione sindacale ex art. 47 da parte di un recentissimo orientamento

giurisprudenziale, che ha affrontato l’ormai famoso caso dell’esternalizzazione Eutelia-

Agile-Omega.

2. Cessioni e collegamenti societari: le anomalie del mercato delle esternalizzazioni

Nel mercato delle esternalizzazioni, quando al già complesso sistema di relazioni

commerciali si aggiunge l'intreccio di partecipazioni societarie, si possono verificare

delle anomalie che mettono in discussione il senso stesso dell'economia e del diritto.

La tendenza oggi più diffusa consiste nel coinvolgimento di più società collegate

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nell’attuazione del trasferimento d’azienda o di un suo ramo. Accade spesso, infatti, che

le imprese che di fatto dirigono la cessione, piuttosto che effettuare un trasferimento

diretto di ramo d’azienda, utilizzano società controllate che fungono da <<contenitori>>

di attività cedute. Il principale vantaggio di questa operazione consiste nella mancata

attribuzione delle responsabilità tipiche del datore di lavoro in capo alle società che, a

vario titolo, risultano essere le controllanti della <<società contenitore>>. Tale obiettivo

viene solitamente raggiunto attraverso la cessione di un ramo d’azienda da una società

controllante (cedente) verso una sua controllata (cessionario), con successivo

trasferimento di quest’ultima, tramite cessione di quote, ad un’altra società.

Più in generale, la possibilità di potere costituire e controllare diverse società, spesso

nell’ambito di uno stesso gruppo societario, consente una sorta di

deresponsabilizzazione della controllante, che di fatto esercita il proprio potere

decisionale sull’attività controllata. Questo accade sicuramente nell’ipotesi in cui una

società è controllata al cento per cento da un’altra società, in quanto, nonostante sia

evidente l’accentramento dei poteri di governo in capo alla controllante, quest’ultima

non ha giuridicamente alcuna responsabilità nei confronti dei dipendenti della società

controllata, dato che si tratta di distinti centri di imputazione di rapporti giuridici.

Si precisa che la tipologia di controllo cui ci si riferisce non riguarda soltanto le

quote di partecipazione, bensì una serie di variabili che nel loro complesso consentono

alla controllante un elevato grado di governabilità dell'attività della propria controllata,

al punto da poterne decidere le sorti. Alcune di queste variabili sono già evidenti in

prossimità della cessione, come ad esempio quando il cedente e la controllante del

cessionario stipulano un contratto di appalto per l'esecuzione del servizio che veniva

eseguito dal cedente (anche) attraverso il ramo ceduto. In questi casi, la società che ha

acquisito l'attività esternalizzata è chiamata a realizzare una parte di quel servizio, o

tramite un contratto di appalto stipulato direttamente con il cedente, ovvero attraverso

un contratto di subappalto sottoscritto con la propria controllante. In sostanza, il cedente

intrattiene dei rapporti contrattuali di natura commerciale con la <<società madre>> e la

<<società figlia>>, in relazione all'ambito produttivo coinvolto nella cessione. L'aspetto

rilevante in questi intrecci contrattuali è che, in molti casi, il ramo di attività che viene

trasferito alla società neocostituita è sostanzialmente formato da masse di lavoratori.

Nel nostro ordinamento giuridico non esiste una specifica disciplina che regola i

rapporti di lavoro nell’ambito di un collegamento societario, ed essendo il gruppo di

società privo di un’autonoma soggettività giuridica, eventuali forme di responsabilità in

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ordine alla stabilità occupazionale dei dipendenti della società controllata non gravano

sulla controllante. E’ solo in presenza dell’accertamento giudiziale di una finzione di

gruppo, finalizzata alla elusione della normativa posta a tutela dei lavoratori, che è

possibile attribuire al gruppo di società, quale autonomo soggetto di diritto, i rapporti di

lavoro facenti capo alle società del gruppo.

Tale vuoto legislativo, associato alla mancata previsione del diritto di opposizione

del lavoratore al trasferimento, consente alle imprese di attuare forme illegittime di

espulsione del personale, e di riversare conseguentemente sull’intera collettività i costi

generati dalla loro cattiva gestione. A conti fatti, l’ampia libertà riconosciuta agli

operatori economici di potere agevolmente spostare mezzi e persone da una società

all’altra pone i lavoratori in una condizione di precarietà permanente, dato che anche

nell’arco di un brevissimo periodo di tempo il loro contratto di lavoro potrebbe

diventare carta straccia.

Dall’analisi giuridica delle questioni interpretative legate al fenomeno in esame, si

evince chiaramente che le suddette anomalie di mercato traggono spunto dalla

prospettiva attraverso cui è stata affrontata l’interpretazione del regolamento normativo

dell’attività di direzione e coordinamento di società. In particolare, le soluzioni proposte

invertono l’impostazione del codice civile, dal momento che pongono in risalto

l’aspetto finanziario dei gruppi societari, prescindendo dalla circostanza che tale

normativa sia anzitutto disciplina di un’attività d’impresa. E’ su questa base che ci si è

inseriti nel dibattito dottrinario sorto in relazione alla possibilità di dare rilievo

giuridico, in alcuni casi, al concetto di impresa unitaria di gruppo in coesistenza con

l’alterità soggettiva fra le società del gruppo stesso. Attraverso la descrizione dei

concetti di organizzazione e di rischio che caratterizzano l’impresa ai sensi dell’art.

2082 c.c., si è voluta dimostrare l’impraticabilità della dissociazione fra chi governa le

attività e le responsabilità che ne derivano. Anche in materia di diritto societario,

assume quindi notevole importanza l’allontanamento delle discipline speciali

dall’ordine sistematico del codice civile, che rappresenta il fondamentale punto di

unione e di equilibrio fra i vari ambiti del diritto preposti alla tutela dei diversi centri di

interesse. La soluzione al problema della tutela dei lavoratori nei gruppi di società si

basa proprio sul richiamo ai requisiti di imprenditorialità ex art. 2082 c.c.,

coerentemente con i principi di fondo che regolano i rapporti di lavoro nei processi di

esternalizzazione. Si può così affermare che, indipendentemente dall’intento elusorio, se

all’alterità soggettiva fra le società del gruppo non corrisponde l’attribuzione a ciascuna

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di esse di un’attività d’impresa cui si riferisce la prestazione di lavoro, il rapporto deve

necessariamente imputarsi a chi effettivamente governa l’impresa. E’ questa la chiave di

lettura che è stata utilizzata per affrontare la specifica questione della tutela dei

lavoratori nei rapporti fra società controllante e società controllata, nonché il problema

dell’applicazione della disciplina protettiva contenuta nell’art. 2112 c.c. nell’ipotesi di

trasferimento di attività tramite cessione di quote di partecipazione.

La politica legislativa degli ultimi anni, piuttosto che prendere atto del fatto che

l’outsourcing si è progressivamente ritrasformato in un mercato di lavoratori, seppur

con forme più sofisticate rispetto al passato, ha assecondato tali meccanismi. Il d.lgs.

276/2003 contiene tre disposizioni che tendono ad andare in questa direzione:

l’eliminazione del requisito della preesistenza della parte di azienda da trasferire (art. 32

di modifica dell’art. 2112 c.c.); la previsione secondo cui l’organizzazione dei mezzi

necessari da parte dell’appaltatore può anche risultare dall’esercizio del potere

organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto (art. 29); la

disposizione in base alla quale i gruppi di impresa possono delegare lo svolgimento

degli adempimenti di amministrazione del personale alla società capogruppo, con la

precisazione che i soggetti titolari delle obbligazioni contrattuali e legislative restano le

singole società datrici di lavoro (art. 31).

A parere di chi scrive, l’unico intervento legislativo in grado di potere arginare i

danni prodotti alla collettività dalla strumentalizzazione abusiva delle politiche di

esternalizzazione, consiste nell’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano del

diritto di opposizione del lavoratore al proprio trasferimento nell’ambito di cessioni di

attività.

3. Nuovi modelli interpretativi del fenomeno interpositorio

Riguardo alla disciplina sull’appalto, si è cercato di ricostruire il quadro giuridico in

termini di collegamento fra la tutela lavoristica in materia di appalti, rivolta ai soli

lavoratori dipendenti, e le caratteristiche proprie del lavoro autonomo e del lavoro

subordinato. In materia di outsourcing, infatti, un nuovo campo da esplorare è

sicuramente quello della regolazione di forme di tutela in favore dei lavoratori

autonomi, che sono coinvolti nelle esternalizzazioni tanto quanto i lavoratori dipendenti,

ma con tutele nettamente inferiori. Ciò che si vuole dimostrare è l'esistenza di

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incoerenze di ordine sistematico fra le discipline in questione, che sfocia nella mancata

regolamentazione dell'interposizione di lavoro autonomo, o in senso più ampio

nell'assenza di adeguate forme di tutela in favore di questa categoria di lavoratori.

E’ proprio tale vuoto normativo che ha, senza dubbio, alimentato l'utilizzo improprio

di tale tipologia contrattuale. I vantaggi economici e normativi che gli imprenditori ne

riescono a trarre sono davvero consistenti: il committente può giocare al ribasso dei

prezzi, in quanto è consapevole che l'appaltatore non è obbligato a rispettare i minimi

retributivi e contributivi previsti per il lavoro subordinato. Può inoltre esso stesso

dirigere direttamente le attività dei collaboratori, senza incorrere nel rischio di vedersi

imputare le responsabilità derivanti dall'instaurazione diretta di un rapporto di lavoro,

che costituisce da decenni la più importante sanzione contro questa forma di

sfruttamento. Questo a maggior ragione se si considera la possibilità che il collaboratore

esegua, di fatto, una prestazione di lavoro subordinato. E', in tutta evidenza, una forma

di caporalato soggetta solo alle regole di mercato.

Come già accennato, il fenomeno è rinvenibile nell'ordinamento giuridico attraverso

una serie di incoerenze di ordine sistematico.

Il punto di partenza dello studio è la qualità imprenditoriale dell'appaltatore, che

rappresenta una condizione fondamentale per considerare un appalto lecito, piuttosto

che una mera interposizione di manodopera, punibile oggi secondo lo schema fornito

dal d.lgs. 276/2003.

Dall'analisi dei requisiti d'imprenditorialità, e dalla valutazione della struttura

dell'illecito della fattispecie interpositoria, si dimostrerà che l'esercizio dei poteri tipici

del datore di lavoro è diretta ed inevitabile espressione del potere organizzativo tipico

dell'appaltatore, senza il quale esso non può essere considerato un vero imprenditore,

bensì un mero interposto.

In questo parallelismo, l'aspetto più delicato è chiaramente quello relativo alle

potenziali interferenze con il diritto commerciale, generate dal richiamo della nozione

civilistica di appalto (art. 1655), e per derivazione di imprenditore (art. 2082), operato

dalla disciplina protettiva. Il percorso argomentativo utilizzato, anche attraverso le

affermazioni della dottrina commercialistica, ha consentito di dimostrare che il

considerare l'elemento della subordinazione un valore imprenditoriale non è una

invasione del diritto del lavoro, ma è espressione della fattispecie stessa.

Descrivere in questi termini il collegamento fra l'appalto, la subordinazione e

l'interposizione vietata, consente poi di comprendere, con una certa immediatezza, il

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perché la realizzazione dell'oggetto dell'appalto per il tramite delle prestazioni dei

collaboratori autonomi, specie se a progetto, è mera interposizione di manodopera, con

o senza specifica tutela. In questa direzione, la nuova disciplina sulla somministrazione

di lavoro lascia maggiori spazi interpretativi, dal momento che considera lecito il

ricorso a tale fattispecie solo se ha ad oggetto il lavoro subordinato.

Seppur indirettamente, inoltre, la rilevanza della questione è rinvenibile nelle altre

fattispecie previste dalla riforma del mercato del lavoro. In particolare, l'attività

(impropria) di somministrazione di lavoro autonomo include generalmente l'attività di

intermediazione e di ricerca e selezione del personale, che in questo caso, in quanto

prevista dal decreto del 2003 anche per il lavoro autonomo, sarebbe esercitata senza la

necessaria autorizzazione disposta dalla legge.

Ecco che la precarietà nelle esternalizzazioni origina da un’incoerenza del sistema

normativo di riferimento, ed è per questo che la soluzione al problema esposto deve

essere cercata entro queste argomentazioni giuridiche.

4. Le esternalizzazioni nella pubblica amministrazione

Per l’attuazione delle politiche di esternalizzazione, la p.a. dispone di strumenti

legislativi più favorevoli rispetto a qualsiasi altro operatore economico. Sia in tema di

trasferimento di attività che di appalti, infatti, si privilegiano le esigenze organizzative

della pubblica amministrazione, anche attraverso la predisposizione di un regime

sanzionatorio meno rigido, se si considera, ad esempio, che in caso di interposizione

illecita di manodopera non è possibile applicare la sanzione <<ordinaria>>> della

conversione.

Nella disciplina sul trasferimento o conferimento di attività, l’argomento più

interessante riguarda l’ambito oggettivo di applicazione. L’ampia e generica

formulazione contenuta nell’art. 31, <<trasferimento o conferimento di attività>>,

consente di ricomprendere nella fattispecie in esame qualsiasi vicenda traslativa, sia

essa di fonte negoziale, legale o amministrativa. La pubblica amministrazione non è

dunque tenuta a rispettare i requisiti di legittimità del trasferimento di attività sanciti

dall’art. 2112 c.c. In altri termini, la pubblica amministrazione può attuare il passaggio

dei dipendenti verso un altro soggetto pubblico o privato, senza che necessariamente

l’attività oggetto di cessione debba presentarsi come un’attività economica organizzata

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dotata di una propria autonomia funzionale. La legge prevede, comunque, che ai

dipendenti pubblici trasferiti debba essere applicata la disciplina protettiva contenuta

nella suddetta norma. Tale previsione normativa è interpretata come norma di miglior

favore, dato che, normalmente, il semplice trasferimento di attività non potrebbe essere

qualificato, secondo il diritto comunitario, come fattispecie rientrante nell’ambito di

applicazione della direttiva. Tuttavia, se si tiene conto del fatto che è ormai opinione

diffusa che l’essere coinvolti in un trasferimento di attività fa aumentare il rischio di

perdita del posto di lavoro, la non applicabilità alla pubblica amministrazione dei

requisiti limitativi delle fattispecie di trasferimento di azienda e di ramo contenuti

nell’art. 2112 c.c., preclude ai lavoratori la possibilità di far valere in giudizio la

rilevanza del proprio consenso ai fini della validità della propria cessione. A ciò si

aggiunga che le condizioni contrattuali del rapporto di lavoro pubblico impiego sono

generalmente più favorevoli a quelle del settore privato.

Anche in materia di somministrazione di lavoro la pubblica amministrazione gode di

un regime normativo più favorevole rispetto a quello del settore privato. Nel settore

pubblico, infatti, la sanzione della costituzione di un contratto di lavoro subordinato alle

dipendenze della pubblica amministrazione non è applicabile. La stessa regola, come

già accennato, vale anche in caso di interposizione illecita di manodopera . A tal

proposito, si è ritenuto opportuno precisare che, nonostante il mancato richiamo dell’art.

29 del d. lgs. n. 276/2003 fra le discipline applicabili al settore del pubblico impiego,

non è possibile non prendere in considerazione la distinzione fra appalto e

somministrazione contenuta in tale articolo, che è ad ogni modo di natura meramente

definitoria.

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Sezione A

Capitolo 2 – Evoluzione del concetto di azienda e di ramo di azienda.

SOMMARIO: 1. Il trasferimento di azienda tra diritto interno e diritto comunitario: il quadro generale. - 2. L’oggetto del trasferimento ed il suo collegamento con la nozione giuridica d’impresa e di azienda. – 3. Il trasferimento di azienda secondo l’art. 2112 c.c.: una nuova nozione civilistica di azienda? - 4. Questioni legate alla valutazione dell’autonomia funzionale del ramo ceduto: il requisito della preesistenza nel dibattito dottrinale.

1. Il trasferimento di azienda tra diritto interno e diritto comunitario: il quadro

generale

L’originaria disciplina legale del trasferimento di azienda1 è stata ridisegnata ad

opera del d.lgs. n. 18 del 2 febbraio 2001 di attuazione della Direttiva n. 98/50/CE2,

nonché attraverso un'ulteriore modifica da parte del d.lgs. n. 276 del 10 settembre 2003.

La regolamentazione di base è comunque oggi racchiusa nell'art. 2112 c.c. e nell'art. 47

della l. n. 428 del 29 dicembre 1990 di attuazione della direttiva n. 77/187/CEE.

La normativa sul trasferimento si basa sul principio del mantenimento dei diritti del

lavoratore in caso di trasferimento di azienda o di un suo ramo, al fine di garantire una

sostanziale indifferenza dei rapporti di lavoro rispetto alle vicende circolatorie

1 Per un quadro generale della normativa comunitaria e nazionale del trasferimento di azienda prima

della riforma del 2003 cfr. M. MARINELLI, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, Torino, 2002; R. DE LUCA TAMAJO, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo di azienda e rapporti di fornitura, in AA.VV., I processi di esternalizzazione. Opportunità e vincoli giuridici, a cura di R. DE LUCA TAMAJO, Napoli, 2002, 20 ss, F. SCARPELLI, Nuova disciplina del trasferimento di azienda, in Dir. prat. lav., 2001, n. 12, 779 ss; L. DE ANGELIS, La tutela del lavoratore ceduto, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona” .INT – 24/2004, reperibile nel sito www.lex.unict.it. Per approfondimenti sul tema dopo la riforma del 2003 cfr. M. MARINELLI, I licenziamenti per motivi economici, Torino, 2005, 209 ss; C. CESTER, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne e norme comunitarie, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2004, 27 ss; A. PALLADINI, G. SANTORO PASSARELLI e V. SPEZIALE, Opinioni sul trasferimento di azienda, in Giorn. dir. rel. ind., 2006, n. 112, 668 ss; L. NASEDDU, Il bilanciamento degli interessi nella fattispecie del trasferimento d'azienda, in Dir. lav., 2005, n. 5-6, 527 ss; V. SPEZIALE, Il trasferimento d'azienda tra disciplina nazionale ed interpretazioni “vincolanti” della Corte di Giustizia Europea, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona” .IT – 46/2006, reperibile nel sito www.lex.unict.it.

2 Tale Direttiva ha modificato la precedente Direttiva n. 77/187/CEE, ed è stata a sua volta oggetto di modifica, ma solo in termini di numerazione, da parte della Direttiva n. 23/2001/CE. Per un commento, cfr. A. PIZZOFERRATO, Il trasferimento di azienda nelle imprese in crisi, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2004, 153-156.

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dell'azienda, tra l’altro sottoposte al controllo sindacale ex art. 47 l. n. 428/19903.

L'art. 2112 c.c. stabilisce che in caso di trasferimento <<il rapporto di lavoro

continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano>>

(comma uno). Questo meccanismo di passaggio automatico dei lavoratori alle

dipendenze del cessionario è quindi nato con lo scopo di garantire la stabilità

occupazionale dei lavoratori coinvolti nei processi di esternalizzazione. In questo senso,

l'art. 2112 c.c. si pone in contraddizione con il principio civilistico di cui all'art. 1406

del c.c. che attribuisce valore decisivo al consenso del contraente ceduto. In ambito

comunitario, come si vedrà meglio in seguito, è prevista la possibilità per il lavoratore

di rifiutare il trasferimento e di restare alle dipendenze del cedente. L’ordinamento

giuridico italiano, tuttavia, non disciplina direttamente tale diritto di opposizione, con la

conseguenza che le conclusioni devono trarsi per via interpretativa. Secondo

l’orientamento prevalente, sia in dottrina che in giurisprudenza, il rifiuto del dipendente

va considerato come dimissioni, per le quali egli è tenuto a dare il preavviso, tranne nel

caso in cui sussista una giusta causa.

Altri due aspetti fondamentali della fattispecie in esame sono la nozione di

trasferimento ed il suo oggetto (nozione di azienda e di ramo di azienda).

Sia con la riforma del 2001 che con quella del 2003 è stato ampliato il concetto

normativo di trasferimento, tenendo conto dell'influenza esercitata dalla giurisprudenza

italiana e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che si è sviluppata

intorno all'interpretazione della fattispecie. In particolare, la Corte, fin dalla vigenza

della direttiva 77/187/CE che si riferiva alla sola <<cessione contrattuale>>, ha adottato

una nozione ampia di trasferimento di azienda. Il percorso seguito dalla giurisprudenza

comunitaria ha successivamente trovato positivo riscontro nella vasta definizione

contenuta nel testo novellato dall’art. 1 della direttiva 98/50/CE, in cui si fa riferimento

alla fusione, oltre che alla cessione contrattuale4.

Secondo quanto stabilito dal quinto comma dell’art. 2112, per trasferimento si

intende <<qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione,

comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata ... che

conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o

3 Cfr. M. MAGNANI (a cura di), Commento all'art. 47 della l. 29 dicembre 1990, n. 428, Disposizioni

in tema di trasferimento di azienda, in Nuove leggi. Civ. comm. 1992, 627 ss. 4 E. MARZIANI, Trasferimento di azienda nell’ordinamento comunitario: la nuova nozione e l’art. 4-

BIS della direttiva del consiglio del 29 giugno 1998, n. 98/50/CE. Conformità e punti di contrasto con la disciplina italiana, in Dir. fall., fasc. 2, 230 ss.

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dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato...>>. In sostanza, al

cedente è consentito di trasferire automaticamente i dipendenti addetti all'attività

esternalizzata, indipendentemente dallo strumento giuridico utilizzato per realizzare il

trasferimento. Non sono mancate le critiche da parte della dottrina5 circa l’ambiguità

della formulazione contenuta nel nuovo testo dell’art. 2112, dal momento che in esso il

trasferimento è considerato nella sua genericità, a prescindere cioè dalla tipologia

negoziale utilizzata per la sua attuazione, ed è contemporaneamente ricondotto alle sole

ipotesi di cessione contrattuale o fusione.

Riguardo invece all'oggetto del trasferimento, la riforma del 2001, di attuazione della

direttiva n. 98/50, introduce due concetti, ossia quello di azienda e quello di parte (o

ramo) di azienda6.

Il nuovo testo dell’art. 2112 c.c. fornisce una nozione di azienda direttamente

collegata al concetto di <<attività economica organizzata>>, che caratterizza anche il

trasferimento di parte di azienda, intesa come <<articolazione funzionalmente autonoma

di un'attività economica organizzata>> (comma cinque art. 2112 c.c.). Risulta evidente

l’importanza attribuita dal legislatore all’attività organizzata ai fini dell’identificazione

dell’oggetto del trasferimento, interpretabile anche come un avvicinamento alla nozione

di imprenditore ex art. 2082 c.c.

Sotto il profilo temporale, il d.lgs. n. 276/2003 ha eliminato il requisito della

preesistenza della parte di azienda da trasferire, precedentemente imposto dal d.lgs. n.

18/2001, stabilendo che l'identificazione del ramo d’azienda da esternalizzare possa

avvenire anche al momento del trasferimento. La conseguenza è una maggiore

autonomia per le parti di decidere cosa deve formare oggetto di esternalizzazione. In

ogni caso, a prescindere cioè dal requisito della preesistenza, il ramo d’azienda deve

necessariamente essere dotato del requisito dell'autonomia funzionale, ossia che la

cessione abbia ad oggetto un’entità economica che oggettivamente si presenti dotata di

un'autonomia organizzativa ed economica, funzionalizzata allo svolgimento di

un'attività volta alla produzione di beni o servizi7. In dottrina8 si ritiene che sia stata

attuata l’indiretta eliminazione della destinazione dell’attività economica alla

5 Cfr. C. CESTER, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne e norme comunitarie, op. cit., 41 ss.

6 Cfr., per tutti, A. PALLADINI, Opinioni sul trasferimento di azienda, op. cit., 668 ss; C. CESTER, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne e norme comunitarie, op. cit, 51 ss.

7 Cfr. Cass. n. 8017/2006. 8 Così C. CESTER, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra

norme interne e norme comunitarie, cit., 54.

12

produzione e allo scambio di beni e servizi, in quanto non citata nel testo dell’art. 2112.

Non si ritiene di potere aderire a tale impostazione, dato che la finalizzazione

dell’attività alla produzione di beni e servizi è intrinseca alla nozione di attività

economica9.

Infine, il legislatore del 2003, nel tentativo di disciplinare i processi di

esternalizzazione come fenomeno unitario, ha aggiunto il comma sei all'art. 2112 c.c.,

con cui dispone che nel caso in cui l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di

appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d'azienda oggetto di cessione,

l'appaltante e l'appaltatore sono obbligati in solido verso i lavoratori dipendenti

dell'appaltatore entro il limite di un anno dalla cessazione dell'appalto.

2. L’oggetto del trasferimento ed il suo collegamento con la nozione giuridica

d’impresa e di azienda

Le definizioni di azienda e di parte (o ramo) di azienda contenute nell’art. 2112 c.c.

evocano le caratteristiche della nozione di imprenditore di cui all’art. 2082 c.c., il cui

profilo essenziale è l'attività sorretta dalla nozione di organizzazione10.

Per ciò che concerne il tema dell’organizzazione, è interessante l'impostazione

secondo cui questa si manifesta sotto due aspetti: <<l'organizzazione esprime (nel suo

aspetto dinamico: come <<farsi>> dell'organizzazione) il momento astratto di

prefigurazione dell’attività, e (nel suo aspetto statico: come organizzato) la struttura in

cui tale prefigurazione si cala e si concretizza>>. Basandosi su questa distinzione, gli

studi in materia di organizzazione hanno messo in evidenza come <<l’essenza del

fenomeno organizzativo è da ritrovare proprio nel suo aspetto dinamico, nel farsi cioè

dell'organizzazione, più che nella struttura organizzata: e ciò sia perché quest'ultima è,

ovviamente, inscindibilmente legata all'attività (organizzatrice) che ne è all'origine e che

continuamente la trasforma, adeguandola alle esigenze per cui l'organizzazione è posta;

sia soprattutto perché la struttura prodotta non è che l'aspetto effettuale, la

9 Definizione Istat di attività economica: risultato di una combinazione di differenti risorse, quali

attrezzature, lavoro, tecniche di lavorazione, prodotti che da luogo alla produzione di specifici beni o servizi. Pertanto un'attività è caratterizzata da un input di risorse, da un processo produttivo e da un output di prodotti.

10 Così A. PALLADINI, Opinioni sul trasferimento di azienda, cit., 668.

13

concretizzazione del farsi, appunto, dell'organizzazione>>11.

La distinzione fra attività imprenditoriali e non imprenditoriali risiede proprio

nell’attività organizzatrice, cui l’art. 2082 c.c. attribuisce, attraverso l’espressione

<<attività organizzata>>, valore di elemento normativo indispensabile ai fini della

qualificazione dell’attività d’impresa. L’attività organizzatrice deve essere

concretamente svolta dall’imprenditore e manifestarsi attraverso la scelta della

destinazione funzionale ed organica dei beni che caratterizzano l’azienda, e con la

creazione di apparati e l’imposizione dei regole che presiedono al suo funzionamento12.

Il rapporto fra la nozione civilistica di imprenditore e la disciplina sul trasferimento

di azienda può essere efficacemente descritto richiamando il dibattito dottrinario che si

sviluppa in ragione della introduzione dei concetti di azienda e di parte di azienda

nell’art. 2112 c.c.13.

Il vecchio testo dell’art. 2112 non forniva una definizione di azienda, ma si ritiene

che il legislatore si riferisse chiaramente al concetto di azienda contenuto nell’art. 2555

c.c., ossia al <<complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio

dell’impresa>>14.

Con la riforma del 2001, avendo invece esplicitamente ricondotto il trasferimento

d’azienda a <<qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di

un’attività economica organizzata>>, si è spostato l'accento sui concetti di attività e di

organizzazione, ritenuti più aderenti alla nozione di imprenditore contenuta nell’art.

2082 c.c. rispetto a quella di azienda di cui all’art. 2555 c.c. Nel medesimo articolo si

procede inoltre a definire il ramo d’azienda come <<articolazione funzionalmente

autonoma di un’attività economica organizzata>>.

11 Cfr. A. NIGRO, imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, in P. RESCIGNO (a cura

di) Trattato di diritto privato, I, Impresa e lavoro, 2001, 650 e nota 236. 12 Cfr. A. NIGRO, imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, op. cit., 652. 13 Sull’argomento si rimanda a V. SPEZIALE, Il trasferimento d'azienda tra disciplina nazionale ed

interpretazioni “vincolanti” della Corte di Giustizia Europea, op. cit., 11 ss; C. CESTER, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne e norme comunitarie, cit., 32 ss; A. PALLADINI, Opinioni sul trasferimento di azienda, cit., 668-669-670.

14 Cfr. C. CESTER, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne e norme comunitarie, cit., 32.

14

3. Il trasferimento di azienda secondo l’art. 2112 c.c.: una nuova nozione civilistica

di azienda?

In dottrina ci si è posti il problema se l’art. 2112 si riferisca all’impresa piuttosto che

all’azienda, e se tale passaggio sia da interpretare come introduzione di una fattispecie

<<dematerializzata>> di azienda, idonea a configurare un trasferimento che includa

soltanto dipendenti e Know how senza alcun apporto di beni materiali e immateriali15.

In questo senso, la definizione di trasferimento di azienda ex art. 2112 è stata inoltre

intesa come creazione di una nuova fattispecie valida esclusivamente per il diritto del

lavoro, autonoma rispetto a quella ricavabile dalla combinazione degli artt. 2555 e 2558

c.c.16.

E’ importante notare come le questioni dottrinali appena citate si basano sul

presupposto della non coincidenza della fattispecie di azienda ex art. 2555 rispetto a

quella contenuta nell’art. 2112, sostanzialmente determinata dal mancato esplicito

richiamo ai beni nella definizione di trasferimento di azienda, che ha, invece, dato

maggiore visibilità all’organizzazione dell’attività ritenuta maggiormente

rappresentativa dell’impresa. Ora, mentre i concetti di attività e di organizzazione

contenuti in quest’ultima fattispecie vengono anche associati ad una concezione

<<dematerializzata>> di azienda, i beni della definizione descritta dall’art. 2555

evocano invece una materialità difficilmente conciliabile con l’universo di casi di

trasferimento che possono legittimamente realizzarsi. E’ dunque la materialità attribuita

ai beni che genera, in poche parole, il distacco fra l’oggetto del trasferimento nel nuovo

e nel vecchio testo dell’art. 2112, posto in termini di: riferimento all’azienda piuttosto

che all’impresa; introduzione di una fattispecie <<dematerializzata>> di azienda;

creazione di una fattispecie di trasferimento di azienda valida ai soli fini lavoristici.

Occorre adesso indagare per verificare se effettivamente i beni debbano essere intesi

esclusivamente in senso materiale e se azienda e impresa siano da considerare due realtà

scindibili.

Tali problematiche possono essere agevolmente risolte partendo dall’impostazione di

15 Cfr. V. SPEZIALE, Il trasferimento d'azienda tra disciplina nazionale ed interpretazioni

“vincolanti” della Corte di Giustizia Europea, cit., 12. 16 Cfr. Le modificazioni soggettive: il trasferimento d'azienda, in C. CESTER (a cura di), Il rapporto

di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, vol. II, tomo II, in F. CARINCI (diretto da), Commentario di Diritto del Lavoro, Torino, 2007, 1465; C. CESTER, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne e norme comunitarie, cit., 32 ss.

15

un autore17, che rileva come attività e azienda, entrambi sorretti dalla nozione di

organizzazione, sono i due profili essenziali dell’impresa.

L’organizzazione è dunque un fondamentale elemento di unione fra l’impresa e

l’azienda, ed è l’attività organizzativa dell’imprenditore che determina le modalità di

organizzazione dei beni dell’azienda, e ciò si evince direttamente nel testo dell’art. 2555

(<<l’azienda è il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio

dell’impresa>>). Risulta ovvio, a questo punto, che se lo svolgimento di una

determinata attività imprenditoriale si caratterizza per l’impiego di beni immateriali,

allora anche l’organizzazione ex art. 2555 c.c. deve riguardare beni immateriali. Ecco

che la fattispecie di azienda <<smaterializzata>> è direttamente riscontrabile nel

suddetto articolo. Si precisa, infatti, che l’art. 2555 comprende sia i beni materiali che i

beni immateriali, compreso il Know how. Ne deriva che:

a) il concetto di attività economica organizzata contenuto nell’art. 2112 c.c. si

riferisce sia all’impresa che all’azienda;

b) impresa e azienda sono due realtà inscindibili, così come d’altronde sostenuto da

autorevoli interpretazioni della dottrina commercialistica18;

c) l’attività e l’organizzazione, che definiscono il trasferimento di azienda ex art.

2112, caratterizzano allo stesso modo l’impresa e l’azienda, a prescindere da altri

elementi di differenziazione delle discipline.

d) l’azienda <<dematerializzata>> che si può ricavare dall’art. 2112 c.c. non

costituisce una nuova e diversa fattispecie rispetto a quella contenuta nell’art. 2555

c.c.;

e) la nuova formulazione dell’art. 2112 c.c. non comporta la nascita di una nozione

di azienda valida solo ai fini lavoristici.

A tal riguardo, merita di essere accennato il dibattito dottrinale sorto intorno alla

possibilità di costruire una nozione di azienda per il diritto del lavoro, nel senso di

potere considerare l’art. 2112 giuridicamente autosufficiente, ossia totalmente sradicato

dalla struttura sistematica del codice civile, ossia dagli artt. 2082 e 2555 c.c.19.

A parere di chi scrive, questa impostazione è da bocciare, in quanto, oltre a quanto

17 Cfr. l’impostazione di A. PALLADINI, Opinioni sul trasferimento di azienda, cit., 668. 18 Cfr. G. OPPO, Realtà giuridica globale dell'impresa nell'ordinamento italiano, in Riv. dir. comm., I,

1976, 591ss. Cfr., inoltre, il commento di V. SPEZIALE, Il trasferimento d'azienda tra disciplina nazionale ed interpretazioni “vincolanti” della Corte di Giustizia Europea, cit., 12; C. CESTER, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne e norme comunitarie, cit., 39.

19 Per approfondimenti cfr. Le modificazioni soggettive: il trasferimento d'azienda,op. cit., 1465 ss.

16

già detto, non si possono ignorare le esigenze di ordine sistematico, che sono state

messe in evidenza dalla tesi opposta20, secondo cui esiste solamente l’azienda

regolamentata dall’art. 2555, cui bisogna riferirsi per l’interpretazione dell’art. 2112.

In caso contrario, si finirebbe, inoltre, con il creare una spaccatura con i profilo

commercialistico che sta alla base della vicenda traslativa, che, a prescindere da

qualsiasi considerazione teorica, è, di fatto, un’unica realtà concreta.

Ciò si potrebbe anche tradurre in una limitazione ingiustificata della libertà di

iniziativa economica sancita dall’art. 41 della Cost., dato che la decisione

dell’imprenditore di trasferire un ramo di attività, considerato legittimo dalla legge ai

sensi dell’art. 2555 c.c., potrebbe essere considerato l’esatto opposto da un altro articolo

dello stesso codice (2112). Allo stesso modo, si faciliterebbero forme improprie di

licenziamento, in quanto anche un gruppo organizzato di lavoratori, non riconducibile ai

profili essenziali dell’impresa di cui all’art. 2082, potrebbe essere considerato come

un’attività economica organizzata ex art. 2112.

In termini economici, le stesse esternalizzazioni potrebbero generare due distinti

mercati paralleli dell’outosourcing, quello ai fini commercilistici, più aderente alla

realtà economica, e quello ai fini lavoristici, tendenzialmente più vicino ad

atteggiamenti fraudolenti degli operatori economici. In ogni caso, la giurisprudenza è

abbondantemente orientata ad una valutazione della legittima del trasferimento basata

sulla verifica dei requisiti di imprenditorialità.

Né si ritiene di potere aderire alla tesi intermedia21, in quanto, anche se da un lato

non appoggia l’idea dell’autosufficienza giuridica dell’art. 2112, interpreta il

trasferimento di azienda della riforma del 2001 come un concetto valido soltanto in

ambito lavoristico.

In verità, il legislatore pare non abbia fatto altro che esplicitare gli elementi che

caratterizzano le nozioni civilistiche di impresa e azienda, ossia l’attività e

l’organizzazione. L’errore di fondo è allora sempre quello di caricare di materialità il

concetto di bene.

Sul perché, poi, sia stata utilizzata tale formula legislativa, c’è chi sostiene che ciò si

è reso necessario <<al fine di trasporre in modo corretto nell’ordinamento italiano la

20 M. GRANDI, Le modificazioni del rapporto di lavoro, Milano, 1972, 271 ss. Non si condivide, tuttavia, il pensiero dell’autore relativo all’attribuzione all’impresa di profili di ambiguità, tali per cui nel diritto del lavoro tale fattispecie assume una sua dimensione concettuale sua specifica. Si è già detto, infatti, che la nozione di trasferimento richiama i profili essenziali dell’impresa di cui all’art. 2082 c.c., ossia i concetti di organizzazione e di attività.

21 Cfr. Le modificazioni soggettive: il trasferimento d'azienda, cit., 1466.

17

direttiva comunitaria in materia, nella quale si fa ampio uso di concetti e tecniche di

tutela estranei alla tradizionale lettura dell’art. 2112 c.c.>>22. Se la questione la si

guarda dalla prospettiva politica, non è da escludere che tale scelta sia stata dettata

dall’esigenza di <<supportare>> la progressiva materializzazione dei mercati.

Anche ammettendo che si sia in presenza di una nuova fattispecie di azienda, si

dovrebbe inoltre concludere che i concetti di organizzazione e di attività ex art. 2112

siano autonomi e differenti rispetto a quelli di azienda ex art. 2555 e di impresa ex art.

2082.

Infine, si consideri che il legislatore comunitario utilizza la formula <<trasferimenti

di imprese>> piuttosto che <<trasferimento di azienda>>23. Nella nota sentenza

Suzen24, la Corte di Giustizia Europea pone particolare attenzione al valore che può

essere assunto dai mezzi immateriali di produzione e all’importanza assunta

dall’esercizio concreto dell’impresa ai fini della verifica della legittimità del

trasferimento.

4. Questioni legate alla valutazione dell’autonomia funzionale del ramo ceduto: il requisito della preesistenza nel dibattito dottrinario.

E’ stato già evidenziato, in questo capitolo, che con la riforma del 2003 è stato

eliminato il requisito della preesistenza della parte di azienda da trasferire, con la

precisazione che deve pur sempre trattarsi di un’articolazione di un’attività economica

organizzata funzionalmente autonoma. Spetta al giudice la verifica della reale

sussistenza di un autonomo ramo d’azienda, ed in particolare della corrispondenza della

fattispecie legale con quanto effettivamente voluto dalle parti, cedente e cessionario.

La modifica del profilo temporale che caratterizza la valutazione dell’autonomia

funzionale del ramo di attività ceduto, si inserisce nell’ampio dibattito dottrinale già

sorto nella vigenza della precedente normativa, che, seppur con tutta una serie di

limitazioni, collegava l’identificazione del ramo d’azienda ai presupposti oggettivi della

preesistenza e della <<conservazione>> dell’identità dell’articolazione funzionalmente

autonoma nel trasferimento25.

22 Così M. MARINELLI, I licenziamenti per motivi economici, op. cit., 243. 23 Cfr., C. CESTER, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra

norme interne e norme comunitarie, cit., 36 ss. 24 Corte di Giustizia 11 marzo 1997, Suzen, causa C-13/95, in Foro it., 1989, IV, 437. 25 Sul punto, si rimanda a A. PALLADINI, Opinioni sul trasferimento di azienda, cit., 673.

18

Secondo la dottrina26, il requisito della conservazione, di derivazione comunitaria,

era necessario al momento del trasferimento, ma non anche una volta che il

trasferimento era stato posto in essere. Anche dopo l’emanazione dell’art. 32 del d. lgs.

n. 276 del 2003, la <<conservazione>> mantiene una sua funzione, dato che, anche

nell’ipotesi in cui il ramo d’azienda sia individuato al momento della cessione, <<è solo

dalla concreta prosecuzione dell’attività che risulta la reale capacità produttiva del ramo

ceduto>>.

Rimandando alla vasta bibliografia sull’argomento per un’analisi dettagliata delle

varie tesi esposte dagli studiosi, qui si cercherà di spiegare in che modo si esprime il

fenomeno organizzativo in relazione al requisito temporale del trasferimento di ramo

d’azienda.

Sotto questo aspetto, si ritiene che la questione principale è se la nozione legale di

parte di azienda da trasferire, in vista della maggiore autonomia riconosciuta alle parti

di definirne i confini, possa ancora considerarsi legata ad un criterio oggettivo di

individuazione della fattispecie, e quindi se rispetta la direttiva comunitaria in materia di

trasferimento di imprese27. Più in particolare, sia nella legge comunitaria che nella

giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea si rinviene una nozione di trasferimento

di parte di azienda collegata ad un concetto di attività economica organizzata e

strutturata in modo stabile, da cui deriva l’essenzialità del requisito della preesistenza

nella definizione dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda28. Secondo questa

impostazione, dunque, la disciplina nazionale si pone in contrasto con gli orientamenti

comunitari.

Le preoccupazioni emerse a fronte dell’eliminazione del requisito della preesistenza

sono sicuramente da condividere. Tuttavia, anche se il legislatore del 2003, così come

quello del 2001, ha inteso attribuire maggiore autonomia contrattuale alle parti nella

definizione del negozio traslativo, non pare che ciò abbia intaccato il criterio oggettivo

di individuazione. Tale criterio, infatti, resta garantito dalla circostanza che la

valutazione dell’attività economica organizzata è inscindibilmente legata, anche al

momento del trasferimento, all’oggetto dell’attività trasferita. Così, a titolo di esempio,

se un’impresa decide di esteralizzare l’attività di produzione di un determinato

26 Cfr. M. MARINELLI, I licenziamenti per motivi economici, cit., 247-248. 27 Cfr. G. SANTORO PASSARELLI, La nozione di azienda trasferita tra disciplina comunitaria e

nuova disciplina nazionale, in G. SANTORO PASSARELLI e R. FOGLIA (a cura di), La nuova disciplina del trasferimento d’impresa, Milano, 2002, 205; L. FRANCESCHINIS, L’art. 2112 c.c. dopo il d. lgs. n. 276/03, Dir. Lav., 2003, 862.

28 In questo senso, A. PALLADINI, Opinioni sul trasferimento di azienda, cit., 673.

19

semilavorato, la parte di attività ceduta deve comprendere tutti i mezzi di produzione,

materiali ed immateriali, necessari per garantire un autonomo risultato produttivo. In

altre parole, è preclusa la possibilità per il cedente e il cessionario di individuare

soggettivamente il ramo legato alla produzione, anche parziale, di un determinato bene

o servizio.

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Capitolo 2 – L’influenza dei collegamenti societari nel trasferimento di ramo

d’azienda

SOMMARIO: Introduzione - 1. Questioni giuridiche legate ai rapporti di lavoro nell’ambito di un collegamento societario. - 2. Il gruppo di società e l’attività di direzione e coordinamento. - 3. I risvolti in ambito lavoristico della disciplina dei gruppi di società: l’impresa come fattispecie essenziale a tutela dei lavoratori. - 4. La disciplina del trasferimento di azienda in funzione elusoria della normativa posta a tutela dei lavoratori. - 5. Collegamenti societari e frode alla legge nel trasferimento di ramo d’azienda. - 6. La strategia negoziale della <<doppia cessione>> attraverso società controllate. L’antisindacalità della condotta nell’esternalizzazione Eutelia-Agile-Omega. - 7. Segue:La cessione di quote di partecipazioni societarie e la tutela del lavoro nel trasferimento di azienda.

1. Questioni giuridiche legate ai rapporti di lavoro nell’ambito di un collegamento

societario

1. Nel nostro ordinamento giuridico non esiste una specifica disciplina che regola i

rapporti di lavoro nell'ambito di un collegamento societario. Ne deriva che, a seconda

del caso concreto, la qualificazione giuridica di tali rapporti avviene mediante le norme

generali del diritto del lavoro e del diritto civile29.

Una conseguenza importantissima dell'attuale impostazione normativa è l'esclusione

dell'esistenza di un'autonoma soggettività giuridica del gruppo societario ai fini

dell'imputazione del rapporto di lavoro30, salvo non si sia in presenza di un gruppo

creato artificiosamente per il fine fraudolento di eludere la disciplina posta a tutela dei

lavoratori31.

La questione cruciale è dunque riconducibile alla individuazione del soggetto datore

di lavoro, qualora la prestazione lavorativa sia resa in favore di società <<collegate>> a

quella identificabile come datore di lavoro.

Ad avviso della dottrina32, poi, il fenomeno si manifesta essenzialmente attraverso i

casi di utilizzazione <<cumulativa>> o <<alternativa>> della prestazione lavorativa da

29 Cfr. A. VALLEBONA, Lavoro nelle società collegate, Enciclopedia Giuridica Treccani, vol.

XXIX, Roma, 1993, 1 ss. 30 Cfr. G. BRANCA, La prestazione di lavoro in società collegate, Milano, 1965; A. VALLEBONA,

Lavoro nelle società collegate, Enciclopedia Giuridica Treccani, cit., 1 ss; Cass., 24 marzo 2003, n. 4274, con nota di E. POLELLA, In materia di licenziamenti il requisito dimensionale-occupazionale va considerato tenendo conto anche delle società collegate, in Nuovo dir., 2003, fasc. 9, 721 ss.

31 Cfr. F. GALGANO, Direzione e coordinamento di società – Art. 2497 – 2497 septies, Bologna, 2005, 43 ss e 197 ss.

32 Cfr. A. VALLEBONA, Lavoro nelle società collegate, Enciclopedia Giuridica Treccani, cit., 1 ss.

21

parte di più società appartenenti al gruppo.

Le attuali politiche di esternalizzazione fanno emergere invece un’altra tendenza, che

consiste nel coinvolgimento di più società collegate nell'attuazione del trasferimento di

azienda o di un suo ramo. I casi più rappresentativi sono sicuramente quelli dove società

controllante e società controllata rivestono rispettivamente i panni di cedente e

cessionario.

L'obiettivo è allora quello di individuare l'effettivo centro di imputazione dei rapporti

obbligatori scaturenti dalla cessione dell'attività, e quindi anche dei rapporti di lavoro.

Si ribadisce che la ricostruzione dei possibili schemi giuridici potrà avvenire

attraverso la combinazione di norme generali del diritto del lavoro e del diritto civile.

Per tale ragione, è necessario un accenno alle principali discipline che potrebbero essere

ricondotte al caso concreto, ossia: il gruppo di società e l'attività di direzione e

coordinamento, la simulazione e la frode alla legge nel trasferimento di azienda.

2. Il gruppo di società e l’attività di direzione e coordinamento

Nonostante il gruppo di società sia uno strumento largamente diffuso,

nell'ordinamento giuridico italiano non è prevista una disciplina unitaria e complessiva.

Ciò ha spinto dottrina e giurisprudenza ad intervenire in modo rilevante sulla

questione33. Il vuoto normativo non è stato nemmeno colmato con la riforma del diritto

societario (D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6)34, anche se il legislatore è intervenuto in

questa occasione ad occuparsi per la prima volta del fenomeno, riferendosi all'ipotesi

patologica della <<responsabilità>> da abuso del potere di direzione e coordinamento35.

Il gruppo di società è sostanzialmente un'aggregazione di società formalmente

33 Per un breve quadro generale prima della riforma del diritto societario cfr. la sentenza del tribunale

di Bari 15 luglio 2004, con nota di F. FUNARI, Il concetto di gruppo fra diritto societario e diritto fallimentare, in Le società, 2005, n. 5, 638-640.

34 Le disposizioni in tema di direzione e coordinamento di società sono contenute in sei articoli (2497 – 2497 sexies). Per approfondimenti cfr. R. RORDORF, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, in Le società, 2004, n. 5, 538 ss; U. TOMBARI, Riforma del diritto societario e gruppo di imprese, in Giur. comm., 2004, I, 61 ss; F. FUNARI, Il concetto di gruppo fra diritto societario e diritto fallimentare, cit., 636 ss; F. GALGANO, Direzione e coordinamento di società – Art. 2497 – 2497 septies, cit.; S. MAZZAMUTO, Questioni sparse al confine tra diritto comune e diritto societario, in Contratto impr., 2006, n. 6, 1486 ss; M. ROSSI, Responsabilità e organizzazione dell'esercizio dell'impresa di gruppo, in Riv. Dir. Comm., 2007, n. 7 – 8 – 9, 613 ss.

35 Sul problema relativo alla qualificazione del titolo di tale responsabilità, in chiave aquiliana o contrattuale, cfr. S. MAZZAMUTO, Questioni sparse al confine tra diritto comune e diritto societario, cit., 1486 ss.

22

autonome e giuridicamente distinte l'una dall'altra, ma tutte accomunate

dall'assoggettamento al potere di direzione e coordinamento della società-madre (o

capogruppo), che le dirige perché le controlla totalmente o in maggioranza, sia

direttamente che indirettamente.

Uno dei profili maggiormente discussi in dottrina, che è quello che interessa ai fini

del presente scritto, consiste nella individuazione dei soggetti lesi dall'abuso dell'attività

di direzione e coordinamento di società.

L'art. 2497 c.c., comma uno, sancisce la responsabilità diretta, nei confronti dei soci

e dei creditori sociali della società controllata, della società o dell'ente che

<<esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell'interesse

imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria

e imprenditoriale delle società medesime>> arreca pregiudizio alla redditività ed al

valore della partecipazione sociale o all'integrità del patrimonio della società.

Il riferimento del legislatore a queste due specie di responsabilità, della controllante

nei confronti dei soci e dei creditori della controllata, suggerisce una lettura della norma

volta ad una maggiore tutela nella prospettiva dell'interesse individuale di due

particolari categorie di soggetti. L'art. 2497 c.c. pone, infatti, una tutela risarcitoria nei

confronti dei soci e dei creditori che intendano recuperare il proprio patrimonio36.

La norma, dunque, non contempla ulteriori categorie di soggetti legittimate a far

valere la responsabilità della controllante dall'abusivo esercizio dell'attività di direzione

e coordinamento.

Ma guardando al fenomeno dei collegamenti societari, risulta abbastanza chiaro che

attorno ad un gruppo di società gravitano anche altre posizioni giuridiche altrettanto

meritevoli di tutela.

Partendo dal presupposto che i grandi gruppi di società presentano una struttura

ampia e complessa, e per tale ragione in grado di coinvolgere un ampio ventaglio di

interessi, ci si rende conto che la responsabilità della società controllante, derivante

dall'esercizio abusivo dell'attività di direzione e coordinamento ex art. 2497 c.c., è

irrisoria rispetto al danno che una cattiva gestione potrebbe arrecare ai vari centri

d'interesse.

36 La nozione di pregiudizio differisce a seconda se l'azione risarcitoria è promossa dal creditore ovvero dal socio. Nel primo caso rileveranno solo le lesioni all'integrità del patrimonio sociale da cui derivi l'insufficienza di questo a soddisfare le ragioni del creditore medesimo. Nell'ipotesi in cui è invece il socio a promuovere l'azione, esso potrà conseguire il risarcimento dei danni sofferti dal patrimonio della società, e poi, ma solo per conseguenza, dal suo patrimonio personale. Così R. RORDORF, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, cit., 542-543.

23

L'irrisorietà della tutela posta dalla norma non riguarda solo l'ambito soggettivo (soci

e creditori della controllata), ma investe anche il suo contenuto se si considera che essa

è di natura meramente patrimoniale.

Basti pensare ad un'abusiva manovra economico-finanziaria realizzata dalla

capogruppo, i cui effetti negativi si ripercuotono a cascata sulla stabilità delle

controllate, al punto da porle in una situazione di crisi aziendale. In questi casi, le

posizioni giuridiche relative all'attività d'impresa della controllata37, che sono escluse

dalla tutela di cui all'art. 2497 c.c., dovranno subire l'abuso della controllante in quanto

prive di un'adeguata e specifica tutela.

E' bene evidenziare che i danni che può provocare l'abuso della società controllante

di un grande gruppo possono andare ben al di là delle singole posizioni giuridiche, e

coinvolgere sensibilmente parte del sistema economico e sociale di un territorio. Questo

accade, ad esempio, quando per far fronte alla crisi le società controllate attuano

procedure di mobilità e di licenziamenti collettivi di masse di lavoratori, che a loro

volta gravano anche sul sistema previdenziale. O, ancora, quando le società del gruppo

hanno avuto accesso a forme di finanziamento pubblico per lo sviluppo d'impresa non

andate a buon fine. In questo senso, l'esercizio abusivo dell'attività di direzione e

coordinamento diventa un grave problema di tutela dell'interesse collettivo, che di

sicuro non può risolversi attraverso l'estensione a singole categorie di una tutela di

natura esclusivamente patrimoniale.

E’ sotto questo ulteriore profilo che l'impostazione della norma genera un'ulteriore

aggravante, se si considera che l'art. 2497 subordina l'esperimento dell'azione del socio

e del creditore nei riguardi della società controllante all'infruttuoso esercizio di

un'analoga azione nei confronti della società partecipata, o propria debitrice. Ciò

significa che quest'ultima, che è stata direttamente lesa dal malgoverno della

capogruppo, deve anche paradossalmente risarcire il danno da essa cagionato al socio o

al creditore agente38, facendolo inevitabilmente gravare sul proprio patrimonio, e

conseguentemente sull'interesse collettivo, nei termini sopra esposti.

Ma c'è di più. La tutela privilegiata concessa ai soci e ai creditori sociali è idonea a

37 Cfr. M. ROSSI, Responsabilità e organizzazione dell'esercizio dell'impresa di gruppo, cit., 614-615. L'autore evidenzia il silenzio del legislatore in ordine alla legittimazione della stessa società controllata a far valere la responsabilità della controllante. La società controllata resta comunque legittimata ad agire attraverso altri strumenti normativi (con l'azione ordinaria ex artt. 2392 e 2393 c.c. verso i propri amministratori o nei confronti della controllante, e, alternativamente, ex artt. 2043, 1175 e 1375 c.c., ovvero 2028 c.c.).

38 Così M. ROSSI, Responsabilità e organizzazione dell'esercizio dell'impresa di gruppo, cit., 617-618.

24

creare un pericoloso <<effetto silenziatore>>, in quanto è proprio da queste categorie

che ci si dovrebbe aspettare un'efficace azione di contrasto, specialmente preventiva, nei

confronti dell'esercizio abusivo dell'attività di direzione e coordinamento. Invece, non

solo questi restano comunque garantiti dal patrimonio della capogruppo, ma potranno

ristorarsi, ledendolo, con il patrimonio della società per il quale essi stessi avrebbero

dovuto avere un interesse a mantenere integro. Insomma, la legge mette a disposizione

di questi soggetti, e soprattutto dei soci, uno strumento che indebolisce l'interesse alla

salvaguardia dell'attività d'impresa della società controllata, ma che soddisfa comunque

le loro esigenze di redditività. Ed è così che l'interesse individuale viene promosso a

scapito dell’interesse collettivo.

Infine, si deve aggiungere che, poiché le partecipazioni sono possedute proprio dalla

controllante, è probabile che gli istituti di credito che erogano i prestiti alla controllata

intrattengano un rapporto fiduciario con la capogruppo, secondo un loro schema

strategico complessivo volto al raggiungimento degli obiettivi di gruppo. Ed è per

questo che risulta difficile pensare ad un'azione posta in essere dalla più influente

categoria di creditori sociali, volta a far valere la responsabilità della capogruppo.

3. I risvolti in ambito lavoristico della disciplina dei gruppi di società: l’impresa

come fattispecie essenziale a tutela dei lavoratori

Passando adesso ad analizzare i risvolti in ambito lavoristico della disciplina dei

gruppi di società, ci si rende agevolmente conto che la categoria dei lavoratori ne esce

ingiustamente (apparentemente) sconfitta.

Come già accennato, infatti, eventuali forme di responsabilità in ordine alla stabilità

occupazionale dei dipendenti della società controllata gravano solo su di essa, essendo il

gruppo di società privo di un'autonoma soggettività giuridica. Ciò a prescindere dunque

dalla circostanza che sia stata la società controllante a determinare, attraverso l'esercizio

abusivo dell'attività di direzione e coordinamento, le premesse per una riduzione di

personale. Si afferma39 che è solo in presenza di una finzione di gruppo finalizzata alla

elusione della normativa posta a tutela dei lavoratori, che si potranno attribuire al

gruppo di società, quale autonomo soggetto di diritto, i rapporti di lavoro facenti capo

39 Cfr. F. GALGANO, Direzione e coordinamento di società – Art. 2497 – 2497 septies, cit., 43.

25

alle società del gruppo.

Ma prima di entrare nel merito di tale questione è necessario introdurre il principio

della centralità dell'attività d'impresa nella disciplina delle società.

In questo senso, una valida ricostruzione è fornita da un autore40, il quale critica le

prospettive attraverso cui è stata affrontata l'interpretazione del regolamento normativo

della direzione e coordinamento di società, in quanto le soluzioni proposte prescindono

dalla circostanza, in realtà centrale, che tale normativa sia anzitutto disciplina di

un'attività d'impresa. Costui sottolinea come in questo modo si finisce con il

capovolgere l'impostazione del codice civile, dal momento in cui si prescinde del tutto

dall'impresa, o al più se ne postula un rilievo solo economico, non in grado di incidere

sui profili organizzativi della società, se non in via di fatto.

Pertanto, se si guarda al gruppo di società mettendo in risalto l'aspetto finanziario,

come ha fatto lo stesso legislatore, e ponendo in secondo piano l'attività d'impresa, si

finisce con lo svalutare il dato essenziale che le società, anche se appartenenti al

medesimo gruppo, restano pur sempre giuridicamente distinte ed individualmente

responsabili per la propria attività imprenditoriale, nei confronti dei titolari di posizioni

giuridiche riferite specificatamente ad essa. In caso contrario, verrebbe meno il nesso

fondamentale fra governo ed imputazione della fattispecie imprenditoriale41.

La società deve essere dunque concepita come <<forma d'esercizio dell'impresa>>42,

ed in termini sistematici la disciplina societaria deve intendersi come strumentale

rispetto all'attività imprenditoriale oggettivamente intesa.

Introdotto il principio della centralità dell’attività d’impresa nella disciplina delle

società, è adesso possibile riprendere la problematica della tutela dei lavoratori nei

gruppi di società, che troverà una soluzione proprio attraverso il richiamo ai requisiti

d'imprenditorialità di cui all'art. 2082 c.c., su cui si fonda la normativa che tutela i

lavoratori nei processi di esternalizzazione.

Quello che si vuole dimostrare è l'idea che attraverso l'impostazione dell'attuale

normativa in materia di esternalizzazioni, si può arrivare alla conclusione che,

indipendentemente dall'intento elusorio, se all'alterità soggettiva fra le società del

gruppo non corrisponde l'attribuzione a ciascuna di esse di un'attività d'impresa cui si

40 Cfr. M. ROSSI, Responsabilità e organizzazione dell'esercizio dell'impresa di gruppo, cit., 627 ss. 41 In questo senso G. OPPO, L'impresa come fattispecie, in Dir. imp., Scritti giuridici, I, Padova,

1992, in particolare 244-246-255. 42 Così P. FERRO-LUZZI, I patrimoni <<dedicati>> e i <<gruppi>> nella riforma societaria, in

Riv. Not., 2002, 274.

26

riferisce la prestazione di lavoro, il rapporto di lavoro deve necessariamente imputarsi a

chi effettivamente governa l'attività imprenditoriale. Il vero datore di lavoro deve

coincidere con chi governa l'impresa.

Un autore43, basandosi su una serie di massime enunciate dalla Cassazione, propone

di dare rilievo giuridico, in presenza di determinate circostanze, al concetto di impresa

unitaria di gruppo in coesistenza con l’alterità soggettiva fra le società del gruppo

stesso, da cui far derivare l’imputazione del rapporto di lavoro di coloro che in essa

operano ad una pluralità di società. Queste sarebbero tutte di conseguenza solidalmente

responsabili verso i lavoratori, in quanto co-datori di lavoro.

Di questa ricostruzione se ne può senz'altro apprezzare l'intento, in quanto mira ad

introdurre forme di tutela del lavoro a livello di gruppo mettendo al centro l'impresa,

piuttosto che l'aspetto meramente finanziario del fenomeno societario. Anche in termini

di efficacia la valutazione è positiva, dato che l'imputazione del rapporto di lavoro alle

società del gruppo vanificherebbe la strumentalizzazione di alcune di queste alla

realizzazione dell'intento elusorio.

E' necessario però mettere in evidenza alcuni punti deboli dell'impostazione in

esame. Il primo è sicuramente il criterio di identificazione dell'impresa unitaria di

gruppo: l'imputazione del rapporto di lavoro alle società co-datrici di lavoro avviene

automaticamente in conseguenza dell'appartenenza ad un gruppo? Una soluzione in tal

senso non sarebbe prospettabile principalmente perché non esiste una definizione

giuridica di gruppo, da cui far derivare l'imputazione del rapporto di lavoro alle società

appartenenti ad esso. Di conseguenza, la nozione di impresa unitaria di gruppo può

essere solo funzionale ad una ricostruzione giurisprudenziale, attraverso cui è possibile

verificare, caso per caso, se esistono effettivamente i presupposti della contitolarità

soggettiva del rapporto da parte delle società del gruppo.

Un ulteriore problema definitorio, tutt'altro che squisitamente teorico, si pone in

relazione alla nozione di <<impresa unitaria>>. La conclusione raggiunta, che verrà di

seguito esposta, consente di aggravare la fragilità, e talora anche l'incoerenza

sistematica, di una disciplina societaria che punta sull'aspetto finanziario piuttosto che

gestionale. In particolare, dalla descrizione dei concetti di organizzazione e di rischio

che caratterizzano la fattispecie imprenditoriale ex art. 2082, si dimostrerà

l'impraticabilità della dissociazione fra chi governa un'attività e le responsabilità che ne

43 Cfr. F. GALGANO, Direzione e coordinamento di società – Art. 2497 – 2497 septies, cit., 43 ss.

27

derivano.

Come già discusso, il requisito organizzativo implica che la distinzione fra attività

imprenditoriali e non imprenditoriali risiede nell’attività organizzatrice.

Questo significa che se una società si occupa della realizzazione di un bene o di un

servizio, la direzione (o governo) dell'organizzazione di mezzi e di persone, riferita

all'attività imprenditoriale preposta alla suddetta produzione, spetta ad essa. E’, infatti,

sulla base di tale presupposto che si giustifica l'imputazione, alla società, delle

responsabilità derivanti dai rapporti giuridici sorti nell'ambito dell'esercizio della

propria attività imprenditoriale.

Anche dal concetto di rischio emerge l'essenzialità del potere direzionale in capo alla

società che formalmente svolge una determinata attività. Il rischio d'impresa si presenta

come l'aspetto negativo del profitto, e di conseguenza comporta l'assunzione del rischio

sull'impiego della forza-lavoro e di tutti i beni materiali ed immateriali coinvolti

nell'esercizio dell'impresa44. Risulta in tal modo coerente la stretta connessione fra il

concetto di rischio ed il concetto di profitto, quest'ultimo visto come <<la

remunerazione non della amministrazione o della coordinazione, ma del rischio e della

responsabilità che l’imprenditore (…) si è assunto>>45

. Quindi, se il profitto rappresenta

la remunerazione del rischio e della responsabilità che l'imprenditore si è assunto, e se

l'imputazione della responsabilità e del rischio dipende dall'effettiva direzione

dell'impresa, ne deriva che l'utile (o la perdita) prodotto da una società che esercita

un'attività imprenditoriale, deve essere considerato come il risultato di tale attività.

L'aspetto finanziario ha, pertanto, ragione di esistere solo se è strumentale alla creazione

di valore reale per l'impresa, e non viceversa.

In questo modo, si è dimostrato che non è giuridicamente corretto dissociare il

soggetto che governa l'attività d'impresa dalla persona giuridica che formalmente si

pone nei confronti del mercato come l'imprenditore di un'attività che in realtà non

governa, e che quindi finisce con il fare da <<schermo protettivo>> in favore di una

ingiustificata deresponsabilizzazione del vero imprenditore. Questa problematica si

scontra inevitabilmente con la definizione e i limiti dei poteri di direzione e

coordinamento riconosciuti alla capogruppo.

Ecco perché, l'idea di considerare l'impresa unitaria di gruppo svolta attraverso una

44 Cfr. G. ALPA, M. BESSONE e V. ZENO-ZENCOVICH, I criteri d'imputazione: colpa, dolo, rischio, in P. RESCIGNO (a cura di), Trattato di diritto privato, Obbligazioni e contratti, 1995, VI, 103.

45 Cfr. G. ALPA, M. BESSONE e V. ZENO-ZENCOVICH, I criteri d'imputazione: colpa, dolo, rischio, cit., 103.

28

pluralità di soggetti giuridici, porta a commettere l'errore di forzare strumenti normativi

che mettono in risalto l'aspetto gestionale per tutelare una particolare categoria di

soggetti, che in questo caso è quella dei lavoratori. Così come, in fin dei conti, ha fatto il

legislatore con la disciplina della direzione e coordinamento di società, che è stata

finalizzata, valorizzando stavolta l'aspetto finanziario, alla tutela patrimoniale della

categoria dei soci e dei creditori.

Per fare un esempio, ipotizzando una situazione in cui valga il principio dell'impresa

unitaria di gruppo, e che tutte le società che vi appartengono siano quindi co-datrici di

lavoro, il fallimento di una di queste in cui risultano impiegate migliaia di persone,

graverebbe sulle altre società, a prescindere da chi effettivamente abbia causato la crisi,

che potrebbe derivare da una cattiva gestione aziendale della fallita. In questi casi

verrebbe anzitutto meno il nesso fra governo ed imputazione della fattispecie

imprenditoriale, e si finirebbe con il seguire la stessa logica (ingiusta) della tutela posta

dalla disciplina sulla responsabilità da abuso di esercizio dell'attività di direzione e

coordinamento. Nel caso dell'impresa unitaria di gruppo, i lavoratori godrebbero di una

eccessiva tutela a scapito delle altre, perché i costi del personale graverebbero

ingiustamente sulla redditività e sulla stabilità del patrimonio sociale delle altre società,

e quindi sui soci e sui creditori sociali. Mentre nel secondo caso, si ricorda che la tutela

patrimoniale riconosciuta ai soci ed ai creditori sociali dall'art. 2497 c.c. grava sul

patrimonio della società controllata ed a cascata su tutti gli altri soggetti che vantano

una posizione giuridica nei confronti di questa, compresi i lavoratori.

La verità, allora, è che probabilmente in questi casi non è necessario introdurre nuove

nozioni per tutelare alcune posizioni soggettive, tra l'altro senza preoccuparsi delle altre.

Considerando le circostanze, è possibile affermare che esistono già gli strumenti

giuridici che tutelano le varie categorie di soggetti in un'ottica di interesse collettivo.

Quanto affermato, consente di affrontare con maggiore chiarezza la delicata

questione dell’individuazione del soggetto titolare dell’impresa di gruppo, cui attribuire

la qualità di datore di lavoro in caso di accertamento giudiziale della creazione fittizia di

un gruppo societario. Spesso, la giurisprudenza utilizza espressioni quali <<complesso

aziendale unico>>, <<impresa unica>>, <<datore di lavoro unico>> o <<centro unitario

di imputazione dei rapporti di lavoro>> senza però approfondirne il significato

giuridico, tranne che in alcune recenti sentenze46. Sicuramente, l’inesistenza di una

46 Cfr., O. RAZZOLINI, Con titolarità del rapporto di lavoro nel gruppo caratterizzato da <<unicità

d’impresa>>, in Giorn. dir. lav. rel .ind., 2009, 2, 279.

29

definizione giuridica di <<impresa di gruppo>> non consente l’individuazione univoca

del datore di lavoro data la pluralità di soggetti giuridici appartenenti al gruppo. A tal

proposito, occorre precisare che ciò che viene a mancare nell’impresa di gruppo è

l’attribuzione a ciascuna singola società di una vera ed autonoma attività d’impresa. La

difficoltà ad individuare l’effettivo datore di lavoro deriva proprio dall’inconsistenza

imprenditoriale di alcune società. Ne deriva che l’imputazione del rapporto di lavoro

fuoriesce dallo schema societario perché il <<lavoro>> regolamentato dall’ordinamento

giuslavoristico si riferisce all’impresa. In caso contrario, in effetti, sarebbe fin troppo

facile per l’impresa che agisce attraverso una pluralità di soggetti giuridici eludere

l’ordinamento giuslavoristico. Tralasciando per adesso il perché sia conveniente gestire

un’attività d’impresa per il tramite di più società, si può comunque affermare, come già

in parte spiegato, che dal punto di vista giuridico la soluzione più coerente dovrebbe

consistere nel ricondurre l’impresa ad un’unica società. L’esistenza di un gruppo

societario sarebbe giustificata soltanto qualora ogni società appartenente ad esso sia in

grado di svolgere concretamente ed autonomamente un’attività imprenditoriale. In

conclusione, considerare datore di lavoro il gruppo di società o identificare una pluralità

di datori di lavoro, tanti quante sono le società facenti parte del gruppo47, è una

forzatura che trae origine da una gestione <<deviata>> dei gruppi societari.

In questa direzione, la disciplina lavoristica in materia di esternalizzazioni pone delle

solide basi nell'ambito del fenomeno dei gruppi societari, in quanto mette al centro della

tutela la verifica dei requisiti d'imprenditorialità in capo ai soggetti che fanno ricorso

alla politica di outsourcing. E ciò vale sia nella disciplina sul trasferimento di azienda

che in quella sulla tutela del lavoro negli appalti. Si ricorda, infatti, che i concetti di

organizzazione e di rischio che caratterizzano l'appalto ai sensi dell'art. 1655 c.c.

(organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio) coincidono con quelli

della nozione di imprenditore (art. 2082 c.c.), che sono gli stessi elementi utilizzati per

valutare l'autonomia funzionale del ramo ceduto.

La tutela del lavoro nell'ambito del fenomeno dei gruppi di società deve essere

collegata alla disciplina in materia di politiche di outsourcing, anche attraverso l'ipotesi

di simulazione e frode alla legge in tema di trasferimento di azienda.

47 In questo senso, cfr. O. RAZZOLINI, Con titolarità del rapporto di lavoro nel gruppo

caratterizzato da <<unicità d’impresa>>, op. cit., 281.

30

4. La disciplina del trasferimento di azienda in funzione elusoria della normativa

posta a tutela dei lavoratori

Anche se la disciplina contenuta nell'art. 2112 c.c. è finalizzata alla salvaguardia dei

diritti dei lavoratori nei casi di trasferimento di azienda o di un suo ramo, la realtà ha

dimostrato che essa è stata spesso utilizzata dagli imprenditori per aggirare la normativa

posta a tutela dei lavoratori. E’ per questo motivo che, a prescindere dal fatto che ciò sia

vero o meno, le politiche di outsourcing attuate negli ultimi tempi sono state

aspramente contestate dagli stessi lavoratori coinvolti nelle cessioni, che evidentemente

non considerano il passaggio automatico alle dipendenze del cessionario come una

forma di tutela in loro favore.

Per contrastare l'uso illegittimo dell'art. 2112, la dottrina e la giurisprudenza hanno

fatto ricorso ad alcuni strumenti tradizionali del diritto civile48.

In generale, si può affermare che, qualora l'operazione traslativa realizzata dalle parti

sia stata posta in essere al fine di eludere la normativa posta a tutela dei lavoratori, è

possibile chiederne la nullità per frode alla legge ex art. 1344 c.c. Ma può anche

verificarsi che, in assenza di intento fraudolento, la cessione possa ritenersi nulla in

quanto simulata, ossia orientata a concludere un accordo diverso da quello dichiarato.

Rimandando ad altri scritti la complessa ricostruzione del quadro generale di tali

discipline49, si prosegue con l'analisi di quei profili della simulazione e della frode alla

legge che interessano ai fini della ricostruzione di alcuni possibili scenari riconducibili

alle tendenze <<anomale>> del mercato delle esternalizzazioni.

5. Collegamenti societari e frode alla legge nel trasferimento di ramo d’azienda

Sulla base delle argomentazioni già svolte in materia di collegamenti societari, è

adesso possibile descrivere i tratti caratterizzanti delle ipotesi di nullità della cessione,

allorquando l'imputazione del ramo d'azienda ad una determinata società si giustifica

solo in vista di un intento fraudolento.

Il fenomeno, largamente diffuso in Italia, si manifesta essenzialmente attraverso la

48 Cfr. M. MARINELLI, I licenziamenti per motivi economici, cit., 262 ss. 49 Per questo si rimanda a F. ANELLI, Simulazione e interposizioni, in M. COSTANZA (a cura di),

Trattato del contratto, diretto da V. ROPPO, III – Effetti, 2006; A. GENTILI, Il contratto simulato, Napoli, 1982.

31

costituzione di una pluralità di società di capitali, le cui azioni o quote appartengono ai

medesimi soggetti, al solo scopo di eludere l'applicazione di norma imperative di

legge50. Lo schema di creazione delle società fittizie dipende dall'obiettivo che si

intende raggiungere. Si può attuare la costituzione di più società, anziché di una sola

con un numero rilevante di dipendenti, al solo fine di evitare il raggiungimento della

soglia numerica prevista per l'applicabilità della normativa sui licenziamenti collettivi e

della tutela reale sancita ex art. 18 della l. n. 300/1970. Oppure, con lo scopo di

licenziare un certo numero di dipendenti senza passare per i costi e gli oneri previsti

nell'ambito delle procedure di licenziamento collettivo, si decide di trasferire i lavoratori

in una società destinata ad essere sciolta. O ancora si può creare artificiosamente una

società in prossimità della cessione, controllata dall'effettivo cessionario, per evitare di

vestire i panni del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori appartenenti al ramo

acquisito.

Quello che si censura in queste ipotesi è evidentemente l'abuso della personalità

giuridica, ossia della <<alterità soggettiva che la creazione di una nuova società ha

creato entro una entità soggettiva sostanzialmente unitaria>>51.

In questi casi la Cassazione52, pur affermando il principio secondo cui l'attuale

disciplina in materia di collegamenti societari non consente di attribuire all'attività di

gruppo, di per sé, <<un valore giuridicamente unificante>>, ha confermato che la

medesima giurisprudenza ha sempre fatto salva la possibilità di ravvisare un unico

centro di imputazione dei rapporti di lavoro ogni volta che vi sia una simulazione o

preordinazione in frode alla legge degli atti costitutivi delle società del gruppo mediante

interposizione fittizie di persone ovvero reali ma fiduciarie, o vi sia una illecita

interposizione di manodopera.

Si deve avvertire che l'applicazione della sanzione della nullità per frode alla legge

del contratto di società incontra la limitazione posta dalla tassatività dei casi di nullità

delle società di capitali fissata dal comma 1 dell'art. 2332 c.c., che non sono nemmeno

superabili con l'idea della simulazione. Ed è per tale ragione che la stessa

giurisprudenza pone crescente attenzione all'abuso dell'alterità soggettiva, fra società

che sono solo nominalmente fra loro diverse, e ad ogni altro effetto considerate dai loro

50 Cfr. F. GALGANO, Direzione e coordinamento di società – Art. 2497 – 2497 septies, cit., 198 ss. 51 Così F. GALGANO, Direzione e coordinamento di società – Art. 2497 – 2497 septies, cit., 198-

199. 52 Cfr. Cass., 24 marzo 2003, n. 4274, con nota di E. POLELLA, In materia di licenziamenti il

requisito dimensionale-occupazionale va considerato tenendo conto anche delle società collegate, cit., 721.

32

soci come un'unica società53.

Tutte le fattispecie richiamate per l'individuazione di un unico centro di imputazione

necessitano però di una specifica prova. Secondo la Cassazione54, in relazione al caso

concreto bisogna rivelare l'esistenza di alcuni requisiti essenziali, quali:

− l'unicità della struttura produttiva e organizzativa;

− l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il

correlativo interesse comune;

− Il coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un

unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese

verso uno scopo comune;

− l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie

società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia volta in modo

indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.

Essa precisa, inoltre, come l'individuazione di un unico centro di imputazione dei

rapporti di lavoro, al di là degli schemi societari utilizzati, risponde al contenuto dell'art.

2094 c.c. che impone di individuare l'effettivo datore di lavoro, ossia colui che di fatto

detiene ed esercita il potere direttivo e disciplinare nei confronti dei lavoratori.

L'utilizzo di questi indici rilevatori da parte della giurisprudenza, in particolare dei

primi tre, rafforza in modo determinante le criticità sopra esposte in materia di gruppi di

società, e la necessità di un intervento legislativo in tal senso.

Anzitutto è interessante notare come i poteri della capogruppo regolati dalla

disciplina societaria (potere di direzione e potere di coordinamento in considerazione

dell'interesse comune del gruppo nel suo complesso) coincidono sostanzialmente, ed in

parte anche nominalmente, con gli indici utilizzati per l'individuazione di un unico

centro di imputazione dei rapporti di lavoro (coordinamento tecnico e amministrativo-

finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse

attività delle singole imprese verso uno scopo comune). Ciò significa che se da un lato

la disciplina societaria attribuisce alla controllante una serie di poteri in ambito infra-

gruppo, dall'altro lato la giurisprudenza utilizza questo stesso potere di azione per

attribuire all'effettivo centro di governo delle attività del gruppo le responsabilità

53 Così F. GALGANO, Direzione e coordinamento di società – Art. 2497 – 2497 septies, cit., 19. 54 Cfr. Cass., 24 marzo 2003, n. 4274, con nota di E. POLELLA, In materia di licenziamenti il

requisito dimensionale-occupazionale va considerato tenendo conto anche delle società collegate, cit., 721 ss. Cfr. inoltre Cass., 15 maggio 2006, n. 11107, con nota di M. LOZITO, Presunti gruppi di impresa e lavoratore condiviso, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2007, n. 3, 440 ss.

33

relative alle prestazioni di lavoro inserite nelle varie strutture organizzative. Tale

questione deve evidentemente essere risolta alla luce delle problematiche sopra discusse

in relazione alla centralità dell'attività d'impresa nella disciplina societaria e nella

normativa posta a tutela dei lavoratori nei processi di esternalizzazione. In questo senso,

nel paragrafo successivo si analizzeranno alcune recentissime pronunce

giurisprudenziali, da cui emerge chiaramente che i giudici seguono la logica sistematica

del codice civile, ed in particolare della correlazione esistente fra la fattispecie impresa

ricavata dall'art. 2082, la nozione di prestatore di lavoro subordinato fornita dall'art.

2094, la disciplina del trasferimento di azienda di cui all'art. 2112 ed il concetto di

appalto ex art. 1655 richiamato dalla normativa da cui si ricava il divieto di

interposizione illecita di manodopera. In conclusione, o si stabiliscono precisi limiti al

potere di direzione e coordinamento attribuiti alla società controllante, oppure si deve

ammettere che sussistono gli elementi per poter ritenere che l'individuazione di un unico

centro di imputazione dei rapporti di lavoro avviene in conseguenza dell'attività di

direzione e coordinamento della capogruppo. Ma si può anche supporre che se

sussistono i presupposti di una coincidenza fra il potere di direzione ex art. 2497 con il

potere direttivo tipico del datore di lavoro di cui all'art. 2094, e ipotizzando inoltre che

le società controllate risultano essere meri interposti, i rapporti di lavoro (del gruppo)

devono essere imputati direttamente ed esclusivamente alla società controllante. In

questo caso, quindi, non si tratta di considerare il gruppo di società come un autonomo

soggetto di diritto a cui imputare i rapporti di lavoro, bensì di individuare nella

capogruppo l'effettivo datore di lavoro.

La Cassazione55 ha individuato la sussistenza della frode alla legge nel contratto di

affitto di ramo d'azienda in favore di una società che ha immediatamente licenziato i

lavoratori transitati (formalmente) presso di essa. E' stato sostanzialmente ravvisato lo

scopo illecito nel collegamento fra il contratto di affitto di ramo d'azienda e i successivi

recessi56. In tali ipotesi, la frode consiste nella elusione della disciplina limitativa del

55 Cfr. Cass., 7 febbraio 2008, n. 2874, con nota di B. DE MOZZI, Sul trasferimento di ramo

d’azienda in frode alla legge, in Arg. dir. lav., 2009, n. 2, 427 ss. 56 Cfr. Si segnala una ulteriore pronuncia della Cassazione (2 maggio 2006, n. 10108), nella quale si

afferma che <<non è in frode alla legge, né concluso per un motivo illecito, il contratto di cessione dell'azienda a un soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell'attività produttiva e dei rapporti di lavoro>>. Per un commento cfr. la nota di E. GRAGNOLI, Trasferimento di azienda, licenziamenti collettivi e frode alla legge, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2006, n. 4, 663 ss. Cfr., inoltre, D. BONSIGNORIO, Trasferimento d'azienda e frode alla legge: una pronuncia della Suprema Corte, in Riv. crit. lav., 2006, n. 3, 814 ss. Il richiamo a tale pronuncia è altresì contenuto nella sentenza in esame (7 febbraio 2008, n. 2874), dove la Cassazione precisa che quanto stabilito con la pronuncia n. 10108/2006 non può essere invocato in quanto

34

potere di licenziamento, attuata attraverso il ricorso ad un negozio (il trasferimento di

azienda) formalmente lecito ma sostanzialmente finalizzato a raggiungere, in modo

mediato e indiretto, un fine vietato da una norma imperativa.

Sulla base di quanto esposto, si può affermare che la frode alla legge nel

trasferimento di azienda si realizza, generalmente, mediante schemi negoziali volti ad

attribuire ad un soggetto giuridico diverso dal cedente le obbligazioni inerenti

all’instaurazione di un rapporto di lavoro con i dipendenti coinvolti nella cessione.

6. La strategia negoziale della <<doppia cessione>> attraverso società controllate.

L’antisindacalità della condotta nell’esternalizzazione Eutelia-Agile-Omega. Un’anomalia frequente del mercato delle esternalizzazioni consiste nel

coinvolgimento di tre diverse società nell’ambito di cessioni che dovrebbero

coinvolgerne soltanto due, ossia il cedente e il cessionario.

Nello specifico, accade che le imprese che di fatto governano la cessione, piuttosto

che effettuare un trasferimento diretto di ramo d’azienda, utilizzano società controllate

che fungono da <<contenitori>> di attività cedute.

Questo consente loro di non vestire i panni dell’effettivo datore di lavoro.

Tale obiettivo viene solitamente raggiunto attraverso la cessione di un ramo

d’azienda da una società controllante (cedente) verso una sua controllata (cessionario),

con successivo trasferimento di quest’ultima, tramite cessione di quote, ad un'altra

società.

Il primo passaggio consiste chiaramente in una cessione che integra la fattispecie di

cui all’art. 2112 c.c., dato che i lavoratori ceduti risultano impiegati, per effetto del

trasferimento, presso un diverso datore di lavoro.

La successiva cessione di quote di partecipazioni della società cessionaria da parte

della società cedente verso un ulteriore soggetto economico, non da luogo, almeno

secondo l’interpretazione prevalente, ad un trasferimento di azienda ex art. 2112 con la

conseguenza che ai lavoratori trasferiti non è possibile applicare le tutele predisposte

dalla norma. Ciò in quanto tale tipologia di cessione non realizza alcun mutamento

ci si riferisce ad una ipotesi diversa: <<la Corte ha, infatti, in sostanza, semplicemente affermato che l'ordinamento non condiziona la validità della cessione di azienda alla “prognosi favorevole alla continuazione dell'attività produttiva" e neppure "all'onere del cedente di verificare le capacità e potenzialità imprenditoriali del cessionario">>. Su tale questioni cfr., in particolare, L. VALENTE, Frode alla legge e trasferimento d’azienda: il cedente non ha l’onere di verificare la consistenza imprenditoriale del cessionario, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2006, n. 4, 675 ss.

35

soggettivo del datore di lavoro, dato che i rapporti di lavoro restano giuridicamente

legati alla società cessionaria.

A conti fatti, né il cedente né l’acquirente della società datrice di lavoro sono

giuridicamente responsabili nei confronti dei lavoratori trasferiti, sebbene abbiano di

fatto deciso e governato l’intera operazione.

Non c’è da stupirsi, allora, il perché le parti abbiano deciso di non effettuare un

trasferimento diretto di ramo d’azienda dalla società cedente alla società acquirente.

Bisogna adesso capire che valenza giuridica può assumere una società controllata al

cento per cento nell’ambito di tale strategia di cessione.

Il trasferimento di ramo d’azienda dalla società controllante alla società controllata

può essere apparentemente considerato come un normale atto di negoziazione. Tuttavia,

è ragionevole ritenere che cedente e cessionario siano soggetti giuridici distinti solo in

apparenza. E’ evidente, infatti, che l’assetto proprietario è impostato in modo tale da

assicurare alla controllante il totale governo/controllo di qualsiasi scelta inerente le sorti

della controllata, e dunque dei lavoratori in essa impiegati.

C’è da chiedersi, a questo punto, se sia possibile individuare in automatico un unico

centro di imputazione dei rapporti giuridici in tutti i casi in cui una società sia soggetta

al controllo totale di un’altra società. Nonostante la risposta sia negativa, su tale

fenomeno la giurisprudenza fornisce alcune indicazioni interessanti.

A questo proposito, fermo restando quanto affermato dalla Cassazione in materia di

collegamenti societari e frode alla legge nel trasferimento di azienda (v. infra), risulta

molto interessante la recentissima sentenza di primo grado emessa dal tribunale di

Roma (14 gennaio 2010, n. 2741) a fronte della richiesta di accertamento della condotta

antisindacale ex art. 28, presentata dalle OO.SS. in merito all’esternalizzazione Eutelia

(società controllante) - Agile (società controllata) - Omega (società acquirente delle

quote di partecipazione della società controllata una volta effettuato il trasferimento di

ramo d’azienda da Eutelia a Agile). E’ stata dichiarata l’antisindacalità della condotta in

relazione a tre elementi: mancata informativa riguardo alle trattative in corso per

l’acquisizione della totalità delle quote di Agile e circa il soggetto con cui erano state

intavolate; non corretta informativa in ordine al numero dei lavoratori coinvolti nella

cessione; mancata partecipazione di Agile all’incontro sindacale. Nel ragionamento

effettuato dal giudice, il collegamento tra la cessione del ramo IT da Eutelia a Agile e la

successiva vendita di Agile a Omega si è rivelato determinante, in quanto la successiva

negoziazione avrebbe potuto determinare <<notevoli conseguenze giuridiche,

36

economiche e sociali per i lavoratori>>. E’ evidente, prosegue il giudice, <<che le

informazioni relative al soggetto con cui pendevano le trattative per l’acquisto delle

quote erano di oggettiva rilevanza per il Sindacato, che avrebbe potuto informarsi

sull’assetto di tale soggetto e sulla sua solidità, orientando conseguentemente la propria

azione durante le successive fasi della procedura>>.

Si consideri che Omega non ha formalmente assunto alcun ruolo nelle procedure di

informazione sindacale: il primo trasferimento di ramo d’azienda ha riguardato Eutelia e

Agile e la successiva vendita di quest’ultima da parte di Eutelia a Omega, in quanto

avvenuta tramite cessione di partecipazioni, non configura trasferimento ai sensi

dell’art 2112 c.c. e quindi non presuppone obblighi di informazione in favore dei

sindacati.

L’operazione di cessione è stata dunque valutata nella sua concretezza, ossia un

passaggio di attività da Eutelia a Omega, nell’ambito del quale il trasferimento del ramo

in Agile si è rivelato un percorso intermedio e strumentale alla successiva vendita a

Omega.

E’ chiaro, che l’importanza attribuita alla mancata informativa sulla stabilità

economica e finanziaria di Omega deriva dalla soggezione al potere di direzione e di

controllo cui sarebbe stata sottoposta Agile una volta conclusa l’operazione di cessione,

tale da poter determinare notevoli conseguenze sui rapporti di lavoro coinvolti nel

trasferimento.

In questo caso, il dato oggettivo del controllo totale di una società consente di

attribuire al soggetto controllante una posizione giuridicamente rilevante nei confronti

dei lavoratori impiegati presso la controllata. Si precisa, tuttavia, che non si tratta di una

responsabilità diretta della controllante, ma di un vincolo <<informativo>> posto a

carico del cedente e del cessionario nella cessione del ramo che precede la vendita.

7. Segue:La cessione di quote di partecipazioni societarie e la tutela del lavoro nel

trasferimento di azienda.

Quanto esposto fino ad ora dovrebbe far riflettere la dottrina57 e la giurisprudenza58

57 In tal senso, cfr. G. SANTORO PASSARELLI, Il trasferimento d'azienda rivisitato, in Mass. Giur.

Lav., 1991, 465; ROMEI, Il trasferimento, 69; LAMBERTUCCI, Profili ricostruttivi, 159 ss; COSIO, Discipline, 62.

58 Cfr., ad esempio, Cass., 26 novembre 1994, n. 10068, in Dir. prat. lav., 1995, 864; Cass., 1 marzo 1993, n. 2516, in Foro. it. rep., 1993, 427; Cass., 11 novembre 1992, n. 12039, in Dir. prat. lav., 1993, 128 ss; Cass., 27 ottobre 1992, n. 11645, in Giur. it., 1993, I, 950; Cass., 3 luglio 1992, n. 8145, in Or.

37

prevalente che sostengono l’esclusione della vendita di azienda tramite cessione di

partecipazioni fra le ipotesi di trasferimento regolamentate dall’art. 2112. Ciò, come già

accennato, sul presupposto che tale tipologia di cessione non realizza alcun mutamento

soggettivo del datore di lavoro/imprenditore.

Esiste comunque un diverso orientamento59 secondo cui, invece, poiché l’obiettivo

che si prefigge la legge è l’indifferenza delle vicende riguardanti la proprietà rispetto ai

rapporti di lavoro, ne deriva che, qualunque sia il mezzo tecnico-giuridico utilizzato per

raggiungere tale scopo, ogni modificazione concreta della proprietà dell’azienda

configura trasferimento. Questa interpretazione troverebbe conferma nell’art. 2112 che

non tipizza gli strumenti giuridici attraverso cui effettuare la cessione, ma si riferisce

esclusivamente agli effetti che la vicenda circolatoria provoca nei confronti dei

lavoratori. Non esiste, quindi, una specifica preclusione normativa alla riconduzione di

tale strategia negoziale nel quadro delle vicende traslative dell’azienda.

La questione centrale è se il trasferimento del controllo di un’azienda tramite

cessione di quote sia idoneo a comportare un mutamento, di fatto, del soggetto

economico preposto al governo dell’impresa controllata, nonostante la titolarità resti

formalmente immutata.

In generale, anche nelle più recenti sentenze della Cassazione60, si continua a

reputare il trasferimento del pacchetto di partecipazioni non rappresentativo della

fattispecie contenuta nell’art. 2112. Tuttavia, non mancano importanti orientamenti

giurisprudenziali secondo cui anche attraverso tali operazioni è possibile pervenire al

trasferimento di un’attività economica organizzata. Si è espressa in tal senso più volte la

Corte di Cassazione61 chiamata ad interpretare l’art. 2557 c.c. che disciplina il divieto di

concorrenza a seguito della vendita dell’azienda. Nello specifico, la Corte ha

sostanzialmente stabilito che è astrattamente ammissibile l’applicazione analogica di

tale norma alla cessione di quote sociali. E’ ovvio però che si debba trattare di un

trasferimento di quote tale da comportare i medesimi effetti della cessione diretta

dell’azienda.

Si ricorda che nella sentenza sopra commentata in materia di condotta antisindacale

appare evidente, come già accennato, che il giudice reputa determinante l’informativa

Giur. lav., 1992, 715.

59 S. NAPPI , Negozi traslativi dell'impresa e rapporti di lavoro, Napoli, 1999, 177 ss. 60 Cfr. Cass. n. 9251/2007. 61 Cfr. Cass. n. 549/1997. Cfr., inoltre, Cass. 16 febbraio 1998, n. 1643, in Giur. Comm. 1998, 557.

Sempre in tale direzione cfr. Cass. 17 aprile 2003, n. 6169, in Giur. It., 2003, 2091.

38

circa la solidità economica e finanziaria della società controllante ai fini della

valutazione delle conseguenze giuridiche ed economiche sui lavoratori trasferiti.

39

Capitolo 3 – Informazione e consultazione sindacale, condotta antisindacale ed

effetti dell’operazione traslativa sui rapporti individuali di lavoro. Il diritto di

opposizione dei lavoratori al trasferimento

SOMMARIO: 1. Informazione, consultazione sindacale e tutela collettiva. - 2. La condotta

antisindacale ex art. 28 come conseguenza della violazione della procedura di informazione e consultazione. - 3. Il diritto di opposizione dei lavoratori al trasferimento nel diritto comunitario e la mancata regolamentazione nell’ordinamento giuridico italiano. - 4. Ipotesi di introduzione del diritto di opposizione del lavoratore nella disciplina interna.

1. Informazione, consultazione sindacale e tutela collettiva

Nei casi di trasferimento d'azienda la legge impone agli imprenditori il rispetto di

una procedura di informazione e (eventuale) consultazione sindacale. La disciplina62 è

contenuta nell'art. 47 della l. n. 428/1990 (di attuazione della direttiva n. 77/187/CEE),

ed è stata oggetto di alcune modifiche ad opera dell'art. 2 del d. lgs. n. 18/200163.

La procedura trova applicazione nel caso in cui l'operazione traslativa sia effettuata

da un'azienda che occupa più di 15 dipendenti, computati secondo i criteri elaborati in

relazione all'art. 35 della l. n. 300/1970, ed a prescindere, secondo l'orientamento

prevalente64, dal numero dei lavoratori effettivamente coinvolti nella cessione qualora il

trasferimento abbia ad oggetto una parte dell'azienda. Dunque, la soglia numerica oltre

la quale scatta l'obbligo procedurale si riferisce al numero complessivo dei dipendenti

impiegati presso l'azienda, e non a quelli da trasferire.

Il cedente ed il cessionario devono informare per iscritto, almeno 25 giorni prima

della stipula del contratto di cessione, o di un'intesa vincolante tra le parti, alle rispettive

rappresentanze sindacali unitarie, ovvero alle rappresentanze sindacali aziendali,

costituite ai sensi dell'art. 19 della l. n. 300/1970, nonché ai sindacati di categoria che

hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate al

62 Cfr. M. MARINELLI, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 84 ss; M.

MARINELLI, I licenziamenti per motivi economici, cit., 229 ss; L. DE ANGELIS, La tutela del lavoratore ceduto, cit., 15 ss; P. PASSALACQUA, Trasferimento d'azienda e ruolo del sindacato, in Dir. lav., 2000, I, 531 ss.

63 Per un breve quadro generale delle modifiche apportate dalla riforma del 2001 si rimanda a F. SCARPELLI, Nuova disciplina del trasferimento d'azienda, op. cit., 784-785.

64 Sull'argomento cfr. M. MARINELLI, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 85-86; F. SCARPELLI, Nuova disciplina del trasferimento d'azienda, cit., 784.

40

trasferimento. Nel caso in cui manchi la rappresentanza sindacale in azienda l'obbligo di

comunicazione va adempiuto nei confronti dei sindacati di categoria comparativamente

più rappresentativi, i quali possono anche essere informati tramite l'associazione

sindacale alla quale gli imprenditori aderiscono, o conferiscono mandato. Ciò significa

che il sindacato è il soggetto al quale la norma riserva il diritto ad essere informato

sull'attuazione dell'operazione traslativa.

Riguardo alla comunicazione, la legge impone che debbano essere indicate le

informazioni relative alla data (o la data proposta) del trasferimento, i motivi del

trasferimento, le sue conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori, ed

infine le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi.

Sui motivi del trasferimento si sono contrapposte diverse opinioni65. Secondo un

primo orientamento66, le informazioni contenute nella comunicazione dovrebbero

essere circoscritte alla valutazione delle conseguenze del trasferimento nei confronti dei

lavoratori, senza interferire in alcun modo nel merito delle scelte riservate alle parti

contraenti, che, in quanto espressione di libertà di iniziativa economica, sono tutelate e

garantite ai sensi dell'art. 41 della Costituzione. In senso diverso un secondo indirizzo67,

secondo cui il cedente ed il cessionario sono tenuti a comunicare anche i motivi

economici e finanziari che hanno indotto al trasferimento, al di là dell'ambito

strettamente connesso alle sorti dei lavoratori. In quest'ultimo caso l'obbligo relativo alla

comunicazione andrebbe ad investire il merito della scelta dell'imprenditore.

Fra queste due impostazioni interpretative è possibile ipotizzare una terza soluzione,

che, basandosi sul rilevamento dei requisiti di legittimità previsti dalla disciplina sul

trasferimento, consentirebbe alle rappresentanze sindacali di potere ottenere adeguate

informazioni in merito alle scelte economiche e organizzative (e sotto certi aspetti anche

finanziarie) che hanno condotto al trasferimento, ma con una ingerenza circoscritta alla

65 Per una ricostruzione cfr. P. PASSALACQUA, Trasferimento d'azienda e ruolo del sindacato, in cit., 544 ss.

66 Cfr. P. TOSI, Il dovere di informazione e consultazione sindacale nel trasferimento di azienda, in AA.VV., Le trasformazioni aziendali in vista del Mercato Europeo: legge e contratto collettivo, in Not. Giur. Lav. Supplemento, Roma, 1992, 284; P. LAMBERTUCCI, Le tutele del lavoratore nella circolazione dell'azienda, Torino, 1999, 219; R. ROMEI., Il rapporto di lavoro nel trasferimento d'azienda, Milano, 1993, 117; D. GOTTARDI, Legge e sindacato nelle crisi occupazionali, Padova, 1995, 68.

67 Cfr. L. GUAGLIONE, Le procedure di informazione e consultazione sindacale, in M. MAGNANI (a cura di), Disposizioni in tema di trasferimento di azienda. Commento all'art. 47 della l. 29 dicembre 1990, n. 428, Nuove leg. Civ. comm., 1992, 639; A. PERULLI, I rinvii all'autonomia collettiva: mercato del lavoro e trasferimento di azienda, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1992, 549; G. PERA, Trasformazioni e fusioni nel sistema creditizio, in Riv. it. dir. lav., 1993, I, 441; U. CARABELLI – B. VENEZIANI, Il trasferimento di azienda in Italia, in A. OJEDA AVILÉS, J. GORELLI HERNANDÉZ e M. J. RODRÌGUEZ RAMOS (a cura di), La transmisiòn de empresas en Europa, Bari, 1999, 119.

41

verifica dei limiti imposti dalla legge al cedente e al cessionario. In pratica, si

tratterebbe di ricondurre al contenuto della comunicazione le informazioni relative alla

capacità imprenditoriale del cessionario (organizzazione di mezzi e di persone e

gestione del rischio), al fine di potere valutare l'autonomia funzionale del ramo di

attività oggetto di cessione. Risulta evidente che utilizzando tali parametri di

valutazione, il sindacato avrebbe a disposizione tutti gli elementi per potere valutare i

reali termini dell'operazione, evitando, allo stesso tempo, di interferire su contesti della

scelta imprenditoriale che, anche se relativi al trasferimento, sono estranei all'ambito

della tutela del lavoratore ceduto. Ed è in questo senso che è possibile considerare

questa terza impostazione come intermedia rispetto ai due orientamenti sopra descritti.

Infatti, il primo si sviluppa attorno al principio che limita il ruolo del sindacato alla

valutazione ed alla formulazione di una eventuale proposta (nella fase successiva di

consultazione) alle parti contraenti di misure alternative nei confronti dei dipendenti

interessati al trasferimento, mentre il secondo, non ponendo un chiaro limite al controllo

sindacale rispetto alla libertà di iniziativa economica che spetta all'imprenditore, risulta

troppo estremista. L'alternativa prospettata, invece, consente di attribuire al sindacato un

potere di negoziazione forte, in quanto retto dal presupposto della legalità della

cessione, ed efficace perché mirato a risolvere la più importante questione che dovrebbe

emergere in sede di contrattazione, ossia la conferma che l'impresa cessionaria non sia

una scatola vuota, in quanto se fosse tale non sarebbe idonea a garantire una reale

stabilità occupazionale.

In questo modo, il livello di interferenza dei soggetti collettivi sulle decisioni

imprenditoriali può essere misurato dalla stessa normativa posta a tutela dei lavoratori,

divenendo pertanto ingiustificabile una eventuale resistenza della parte datoriale alle

richieste di informazioni dirette e dettagliate68.

Ma non solo. Questo approccio metodologico risolverebbe automaticamente un

interrogativo posto da un autore69, che riguarda la compatibilità fra il potere di

68 Ci si potrebbe porre il problema della tutela del segreto aziendale, ed in questo caso, in assenza di

una specifica previsione di fonte legislativa, si possono richiamare i limiti derivanti dall'obbligo di fedeltà imposto dall'art. 2105 c.c. se i partecipanti alla procedura sindacale sono dipendenti del cedente o del cessionario, mentre se ad acquisire le informazioni sono dei soggetti esterni all'azienda si possono richiamare i limiti sul piano penale degli artt. 622 e 623 c.p., e su quello della responsabilità extracontrattuale dell'art. 2053 c.c.. Resta tuttavia ferma la possibilità per l'imprenditore di rifiutare di fornire le informazioni richieste qualora la loro diffusione possa arrecare un danno alla sua attività non proporzionato al vantaggio ricavabile dalla parte sindacale dal possesso delle informazioni. Per quanto esposto sulla tutela del segreto aziendale cfr. M. MARINELLI, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 89-90.

69 Cfr. L. DE ANGELIS, La tutela del lavoratore ceduto, cit., 16-17.

42

identificazione del ramo d'attività da trasferire, riconosciuto al cedente e al cessionario

al momento del trasferimento (comma 1, art. 32 del d. lgs. 276/2003), e l'obbligo di

comunicazione sindacale per iscritto da adempiere almeno 25 giorni prima del

perfezionamento dell'atto da cui deriva il trasferimento, o il raggiungimento di un'intesa

vincolante tra le parti (comma 1, art. 47 della l. n. 428/1990). Colui che ha messo in

evidenza il problema lo risolve attraverso un coordinamento fra le due norme, ritenendo

che a larghe linee l'informazione debba comprendere l'identificazione della parte

d'azienda, i cui dettagli possono essere rimessi al momento del trasferimento.

Se si considerano piuttosto i requisiti di legittimità della cessione, la contraddizione

delle disposizioni in esame si annullerebbe, senza una forzatura di termini, in favore di

una inclusione dell'individuazione del ramo nei termini previsti dall'art. 47, e ciò per la

ovvia ragione che sarà interesse dei contraenti, dietro la spinta dei sindacati, dimostrare

la genuinità della cessione.

A questo punto, il vero nodo da sciogliere sarebbe semmai quello relativo alla

possibilità di considerare l'informativa sulla valenza legale del trasferimento come parte

integrante dell'obbligo di informazione, oppure una mera alternativa che dipenderà dal

potere di contrattazione della parte sindacale. Ma, mancando una espressa previsione

legislativa, non pare prospettabile la prima soluzione, e quindi non potrebbe imporsi

alcun obbligo in tal senso, se non attraverso un successivo utilizzo dello strumento del

controllo giudiziario. Ed allora spetterà alle organizzazioni sindacali negoziare70 le

informazioni idonee a consentire una puntuale valutazione dell'autonomia del ramo

ceduto, per la quale verranno ragionevolmente utilizzati gli stessi criteri sui quali si basa

il giudice in sede di giudizio.

E' evidente che anche la successiva fase di consultazione risulterebbe rinvigorita da

questa logica di intervento. E questo a maggior ragione se si considera che il confronto

fra sindacati e parte datoriale è solo eventuale, e quindi una volta adempiuto l'obbligo di

informazione, il cedente ed il cessionario potrebbero anche decidere di non discutere la

questione.

Comunque, a prescindere dalle considerazioni di carattere tecnico-giuridico, la

verifica della legittimità della esternalizzazione, come strumento di contrattazione

collettiva, è diventata una questione di notevole rilevanza pratica e sociale.

70 La normativa nazionale deve essere interpretata nel senso che di un vero e proprio obbligo a trattare da parte del sindacato, il quale non comporta che l'accordo deve necessariamente essere concluso, ma implica che le parti rispettino nella trattativa i canoni della correttezza e della buona fede. Cfr. M. MARINELLI, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 90.

43

2. La condotta antisindacale ex art. 28 come conseguenza della violazione della

procedura di informazione e consultazione

In primo luogo, occorre discutere la questione relativa alla natura della procedura, in

quanto essa assume valore decisivo in merito alle conseguenze derivanti dal mancato

rispetto dei relativi obblighi. Sul punto la dottrina è divisa71: alcuni ritengono che gli

obblighi di informazione e di consultazione dovrebbero essere considerati come vincoli

di natura procedimentale alla legittimità del contratto di cessione, altri, invece,

considerano tali obblighi come requisiti procedimentali di operatività della scelta

imprenditoriale. La Cassazione72 è comunque orientata ad escludere il carattere

procedimentale di tali obblighi sul piano del rapporto individuale, e di affermare la loro

valenza esclusivamente sul piano delle relazioni collettive. In altri termini,

l'inosservanza degli obblighi di cui al primo ed al secondo comma dell'art. 47 della l. n.

428/1990 non incide sulla sfera giuridica dei singoli lavoratori, e ciò in quanto la

legittimazione ad agire in giudizio contro il mancato rispetto degli obblighi procedurali

spetta, in via esclusiva, al sindacato. Invece, nell'ambito della normativa comunitaria, di

cui l'art. 47 è attuazione, si riconosce agli stati membri la possibilità di fissare doveri di

sola informazione nei confronti dei singoli, e solo in via sussidiaria, fermo restando

dunque l'obbligo a carico delle organizzazioni sindacali.

Quel che interessa rilevare in questa sede è che la mancanza di una disciplina

sanzionatoria in favore del singolo lavoratore indebolisce l'efficacia della tutela prevista

71 Cfr. M. MARINELLI, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 85. 72 Cfr. Cass., 22 agosto 2005, n. 17072, con nota di M.T. SALIMBENI, Violazione degli obblighi

procedurali e posizione dei singoli lavoratori nel trasferimento di azienda, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 592 ss. Questa sentenza si inserisce in un percorso già segnato dalla Cassazione (4 gennaio 2000, n. 23), Si rinvia a L. DE ANGELIS, La tutela del lavoratore ceduto, cit., 15-16. L'autore della nota mette in evidenza il percorso logico seguito nella motivazione per pervenire alla conclusione che ai lavoratori non è attribuita la legittimazione ad agire, che è il seguente: le violazioni degli obblighi di cui all'art. 47, l. n. 428/1990, primo e secondo comma, non incidono sulla validità del negozio traslativo, non costituendone presupposto di legittimità, ma configurano lesione dell'interesse del sindacato a un'informazione trasparente e corretta e a un'esecuzione puntuale dell'eventuale accordo; poiché la ratio della norma procedurale è quella di consentire soluzioni <<concordate>> a tutela di tutti i lavoratori, le disposizioni di cui all'art. 47 cit. valgono anche in caso di accordi conclusi tra imprenditore e r.s.a. La violazione dell'accordo raggiunto può pertanto costituire causa dell'azione sindacale, ma giammai produrre lesioni di diritti soggettivi dei singoli lavoratori e azioni individuali di tutela. Ciò perché se è vero che l'azienda è tenuta al rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede nei confronti del sindacato, sia nella fase informativa, sia in quella conclusiva dell'eventuale accordo, sia, naturalmente, nella fase attuativa di quest'ultimo, tali obblighi, rilevanti come <<modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi>>, non generano diritti ulteriori in capo ai singoli lavoratori che non sono parti della negoziazione collettiva intervenuta, pur se destinatari finali dei benefici della stessa.

44

nell'ambito della procedura in esame73. E questo a maggior ragione se si effettua un

paragone con la procedura di informazione e consultazione sindacale prevista per i

licenziamenti collettivi, la cui violazione è punita con l'inefficacia del licenziamento

posto in essere74.

Aderendo all'orientamento che vede nel sindacato l'unico soggetto destinatario degli

obblighi relativi alla procedura legale, è adesso possibile entrare nel merito della

questione più delicata, che riguarda l'applicazione dell'art. 28 della l. n. 300/70 per

violazione della procedura di informazione e consultazione, così come espressamente

disposto dal terzo comma dell'art. 47.

In particolare, ci si riferisce alle conseguenze che scaturiscono dall'accertamento

della condotta antisindacale ex art. 28, nell'ambito del quale la problematica di

maggiore rilievo riguarda la determinazione del contenuto dell'ordine giudiziale, nella

parte in cui si dispone la rimozione degli effetti del comportamento illegittimo75. Sul

punto si richiamano due tesi contrapposte: secondo il primo orientamento

l'adempimento degli obblighi procedurali andrebbe qualificato come requisito di

efficacia del negozio di trasferimento, per cui la violazione delle relative disposizioni

comporterebbe la temporanea inefficacia di quest'ultimo, fino a quando i soggetti

obbligati non abbiano correttamente adempiuto gli obblighi, in seguito all'ordine

giudiziale. In base ad un diverso orientamento, invece, il negozio di trasferimento

manterrebbe validità ed efficacia anche in caso di violazione degli obblighi di

procedura. Nei confronti dei singoli lavoratori le misure adottate sarebbero comunque

inefficaci, a meno che la procedura non venga successivamente effettuata in modo

corretto.

Alla tesi appena citata hanno aderito alcuni giudici di merito76, e la Corte di

Cassazione77, che ha ritenuto che l'adempimento degli obblighi in discussione non può

configurarsi come un presupposto di legittimità del negozio di trasferimento, che resta

73 Sul punto cfr. L. DE ANGELIS, Informazione e consultazione sindacale nel trasferimento d'azienda: regime sanzionatorio e tutela processuale, in Foro it., 1999, V, 289 ss.

74 Per un approfondimento cfr. M. MARINELLI, I licenziamenti per motivi economici, cit., 224-229. 75 Per una dettagliata esposizione dei problemi interpretativi legati alla questione, che saranno

comunque esposti di seguito in questo paragrafo, cfr. M. MARINELLI, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 94 ss.

76 Pret. Udine, 9 agosto 1995, con nota di E. BAIDA, Trasferimento di azienda. La sanzione per omessa informazione-consultazione, in Lav. Giur., 1996, 291 ss; Pret. Napoli, 7 dicembre 1993, con nota di R. COSIO, La nuova disciplina del trasferimento di azienda: i primi interventi della giurisprudenza, in Foro. it., 1995, I, 407 ss; Pret. Benevento, 29 aprile 1999, con nota di M. MARANDO, La violazione degli obblighi di informazione e il comportamento antisindacale nel trasferimento di azienda, in Giur. Comm., 2000, I, 2147 ss.

77 Cfr. Cass., 4 gennaio 2000, n. 23, cit.

45

di conseguenza valido anche se posto in essere in assenza del rispetto degli obblighi

procedurali.

Tralasciando ulteriori approfondimenti sulle questioni interpretative legate alla

validità del negozio di trasferimento, si può affermare che, dall'accertamento della

condotta antisindacale deriva, in ogni caso, l'inefficacia degli effetti del trasferimento in

capo ai singoli lavoratori.

Più in generale, poi, se si considera che molte aziende tendono ad esternalizzare rami

di attività a prevalente impiego di prestazioni di lavoro, ci si rende agevolmente conto

che in queste situazioni l'accertamento della condotta antisindacale produce notevoli

effetti positivi, sia in termini di maggiore efficacia del ruolo della contrattazione

collettiva che nei confronti dei singoli lavoratori.

3. Il diritto di opposizione dei lavoratori al trasferimento nel diritto comunitario e la

mancata regolamentazione nell’ordinamento giuridico italiano

Il passaggio automatico dei lavoratori alle dipendenze del cessionario è,

coerentemente con la finalità della disciplina sul trasferimento, espressione di un diritto

dei lavoratori a non subire una modifica (in senso peggiorativo) delle condizioni di

lavoro causata da vicende attinenti alla proprietà o alla titolarità dell'azienda.

Questa disposizione è inderogabile, con la conseguente nullità ex art. 1418 c.c. di

pattuizione contraria, individuale o collettiva, ferme restando, per quest'ultima, alcune

eccezioni specificatamente previste dalla legge78.

In questo senso, la previsione di cui all'art. 2112 c.c. è espressione del principio

comunitario in base al quale <<i diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un

contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono,

inconseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario>> (art. 3, primo co., lett. b),

dir. n. 2001/23/CE).

La Corte di Giustizia europea ha affermato che la regola prevista dal primo comma

dell'art. 3 della direttiva deve essere interpretata nel senso che, in caso di trasferimento,

il contratto di lavoro si trasferisce al subentrante senza necessità del consenso del

78 Resta salva, come si vedrà approfonditamente nel capitolo successivo, l'eccezione di cui al comma 5 dell'art. 47 della l. n. 428/1990, secondo la quale in determinate circostanze (stato di crisi accertato dal Ministero del Lavoro e procedure concorsuali a particolari condizioni), e fermo restando il rispetto di una specifica procedura, non trova applicazione l'art. 2112 c.c.

46

dipendente, dei rappresentanti sindacali del lavoratore, o del cedente o del cessionario e

con la regola imperativa che non può essere derogata in senso sfavorevole ai lavoratori.

La Corte ha inoltre affermato che questa disposizione, tuttavia, consente al dipendente

di rifiutare che il suo contratto di lavoro sia trasferito al cessionario, ed in questo caso la

situazione del lavoratore dipende dalla normativa di ogni stato membro: o il contratto

può essere considerato risolto, nell'impresa cedente, su domanda del datore di lavoro o

su domanda del dipendente, o il contratto può continuare con tale impresa79.

La legge italiana non disciplina espressamente il diritto di opposizione. L'art. 2112

c.c. prevede solo che il lavoratore <<le cui condizioni di lavoro subiscono una

sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le

dimissioni con gli effetti di cui all'art. 2119, co. 1>> (co. 4).

In sostanza, sulla base dell'interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia europea, il

lavoratore può rifiutare il passaggio alle dipendenze del nuovo imprenditore, e

dipenderà poi dalla normativa di ogni stato membro stabilire le conseguenze connesse a

questo rifiuto.

Ora, poiché la disciplina nazionale non regolamenta espressamente il diritto di

opposizione, le conclusioni devono trarsi per via interpretativa80. Secondo

l'orientamento prevalente il rifiuto del dipendente va considerato come dimissioni, per

le quali egli è tenuto a dare il preavviso, a meno che non sia configurabile una giusta

causa. Altri autori hanno invece sostenuto che, almeno nei casi in cui il trasferimento

abbia ad oggetto un ramo di azienda, il lavoratore avrebbe diritto ad opporsi al

passaggio alle dipendenze del cessionario, mantenendo il rapporto con il cedente.

Nella giurisprudenza italiana, soltanto un orientamento minoritario ammette la

possibilità per il lavoratore di esercitare il diritto di opposizione al trasferimento81.

Le ragioni di chi sostiene la possibilità per il lavoratore di potersi opporre al

trasferimento di ramo di azienda, e non quindi al trasferimento dell'azienda nel suo

complesso, sono condivisibili, in quanto nel caso di trasferimento dell'intera azienda, la

regola della continuità (senza possibilità di potere rimanere alle dipendenze del cedente)

è giustificata dalla non modificazione dell'organizzazione produttiva nella quale il

lavoratore è inserito, ed alla quale egli risulta legato. Nel caso, invece, in cui il

79 Cgce 24.01.2002, Temco, causa C - 51/00; Cgce 16.12.1992, Katsikas, cause riunite C - 132/91, C – 138/91, C – 139/91; Cgce 07.03.1996, Merckx, cause riunite C - 171/94, C – 172/94; Cgce 12.11.1998, Europièces, causa C – 399/96.

80 Per approfondimenti relativi a tale questione cfr. M. MARINELLI, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, op. cit., 73 ss; V. SPEZIALE, Opinioni sul trasferimento di azienda, cit, 730 ss.

81 Pret. Milano, 14.5.1999 n. 1102. Si segnala, inoltre, la sentenza della Cass. n. 19379/2004.

47

trasferimento ha ad oggetto solo parte di azienda, l'assetto organizzativo potrebbe subire

un'alterazione tale da rendere agevole per il cedente l'utilizzo dello strumento fornito

dall'art. 2112 al fine di realizzare forme di espulsione del personale, evitando l'uso delle

procedure di licenziamento collettivo. Questo specie nei casi in cui l'attività trasferita è

sostanzialmente composta da lavoratori.

C’è da aggiungere, però, che il fenomeno dell’attuazione di politiche di outsourcing

attraverso il meccanismo del doppio trasferimento in favore di società controllate,

spinge a considerare l’opportunità di creare forme specifiche di tutela anche in ipotesi di

trasferimento dell’intera azienda. Si supponga, ad esempio, il caso di un imprenditore

che cede un ramo di attività ad una sua società controllata al 100%, con lo scopo di

venderla successivamente ad un’altra impresa (controllante). E’ evidente che in questo

tipo di vendita la struttura organizzativa dell’azienda risulta alterata, nonché

strettamente dipendente dalle modifiche apportate in virtù della precedente acquisizione

del ramo. Così, anche la vendita dell’intera azienda può essere facilmente

strumentalizzata per scopi fraudolenti.

4. Ipotesi di introduzione del diritto di opposizione del lavoratore nella disciplina

interna

Considerando in questa sede solo la cessione di parte di azienda, il diritto di

opposizione al trasferimento potrebbe essere introdotto, nell’ordinamento giuridico

italiano, attraverso l’inserimento di un nuovo comma nell'art. 2112 c.c., precisamente:

(co. aggiunto) Ferma restando la previsione di cui al co. 1 del presente articolo, al

lavoratore è riconosciuto il diritto ad opporsi al trasferimento automatico del proprio

rapporto di lavoro in favore del cessionario e di rimanere conseguentemente alle

dipendenze del cedente. Il lavoratore potrà esercitare questo diritto di opposizione al

trasferimento automatico del proprio rapporto di lavoro entro trenta giorni dalla

ricezione della comunicazione scritta da parte del cedente, il quale dovrà indicare tutte

le informazioni utili riguardanti la cessione per consentire al lavoratore di potere

valutare l’opportunità di esercitare tale diritto di opposizione.

Tale nuovo comma è da inserire fra il comma quattro e il comma cinque dell'attuale

impostazione dell'art. 2112.

Pertanto, con l'integrazione del nuovo comma, l'art. 2112 risulterebbe riformulato nel

48

modo seguente:

2112. Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda.

In caso di trasferimento di azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario

ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano

Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il

lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e

411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente

dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai

contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento,

fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili

all'impresa del cessionario. L'effetto di sostituzione di produce esclusivamente fra

contratti collettivi del medesimo livello.

Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia

di licenziamenti, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di

licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale

modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie

dimissioni con gli effetti di cui all'articolo 2119, co. 1.

Ferma restando inoltre la previsione di cui al co. 1 del presente articolo, al

lavoratore è riconosciuto il diritto ad opporsi al trasferimento automatico del proprio

rapporto di lavoro in favore del cessionario e di rimanere conseguentemente alle

dipendenze del cedente. Il lavoratore potrà esercitare questo diritto di opposizione al

trasferimento automatico del proprio rapporto di lavoro entro trenta giorni dalla

ricezione della comunicazione scritta da parte del cedente, il quale dovrà indicare tutte

le informazioni utili riguardanti la cessione per consentire al lavoratore di potere

valutare l’opportunità di esercitare tale diritto di opposizione.

Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento

d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione,

comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza

scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria

identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale

il trasferimento è attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto d'azienda. Le disposizioni del

presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come

articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata,

49

identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.

Nel caso in cui l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di appalto la cui

esecuzione avviene utilizzando il ramo d'azienda oggetto di cessione, tra appaltante e

appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all'art. 29, comma 2, del decreto

legislativo 10 settembre 2003, n. 276>>.

Si noti che il principio della continuità del rapporto di lavoro di cui al comma uno

non è stato eliminato. Il diritto di opposizione sarebbe, infatti, solo eventuale, ferma

restando dunque la regola generale della continuità del rapporto di lavoro in capo al

cedente. E quindi, si badi bene, non si tratta di ritornare alla disciplina civilistica che

attribuisce valore decisivo al consenso del contraente ceduto ex art. 1406 c.c., bensì di

consentire al lavoratore di non essere vittima dell’uso distorto di una tutela che non per

questo deve smettere di esistere. In questo modo si evita anche il contrasto con la

disciplina comunitaria che mette al centro della tutela la continuità del rapporto di

lavoro in capo al cessionario in conseguenza del trasferimento.

Tra l’altro, una modifica legislativa in tale senso implicherebbe l’introduzione di

obblighi di informazione in favore dei singoli lavoratori.

Considerando, infine, che una previsione legislativa in tal senso consente una

maggiore autonomia nella gestione del rapporto di lavoro, dovrebbero restare tutti

soddisfatti: coloro che rivendicano maggiore flessibilità ed autonomia contrattuale, e

coloro che giustamente vogliono combattere l’utilizzo distorto dell’art. 2112 c.c.

50

Capitolo 5 – La riforma fallimentare e la tutela dei lavoratori nel trasferimento di

azienda in crisi

SOMMARIO: 1. L’impatto della riforma fallimentare sui rapporti di lavoro. - 2. Il quadro

normativo nazionale. - 3. I punti di contrasto con la normativa comunitaria. - 4. Le novità introdotte dalla riforma del diritto fallimentare. - 5. Il conflitto tra le discipline in tema di vendita dell'azienda o di suoi rami. - 6. Segue. L'affitto di azienda o di suoi rami.

1. L’impatto della riforma fallimentare sui rapporti di lavoro

Con la recente riforma del diritto fallimentare (d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) l'assetto

delle garanzie predisposte per i lavoratori coinvolti nel trasferimento di azienda ha

subito un incisivo indebolimento. La nuova disciplina in tema di vendita e di affitto di

azienda, o di suoi rami, contempla diverse ipotesi di deroga alla tutela individuale ex art.

2112 c.c.

Considerando la filosofia generale della nuova legge sul fallimento, dichiaratamente

finalizzata alla conservazione delle imprese assoggettate alla procedura concorsuale, la

previsione in decreto della fattispecie derogatoria dell'art. 2112 c.c. costituisce una

nuova tappa del perdurante contrasto tra la normativa nazionale e la direttiva

comunitaria in materia di tutela dei lavoratori nel trasferimento di azienda (dir. n.

23/2001/CE). Il legislatore comunitario subordina, infatti, la possibilità di escludere la

suddetta tutela alla finalità liquidatoria della procedura. Il diritto interno, invece, già in

precedenti interventi legislativi, riconosce la possibilità di deroga in specifici casi in cui

tale obiettivo non è previsto.

Nella medesima prospettiva, un'altra importante questione interpretativa sorge in

relazione alla possibilità, in ipotesi di vendita, del trasferimento solo parziale dei

lavoratori alle dipendenze dell'acquirente (comma tre, art. 105, d.lgs. n. 5/2006). Anche

in questo caso il problema si pone nell'ottica del contrasto tra diritto interno e diritto

comunitario, in quanto, secondo un condivisibile orientamento82, non è possibile

includere nella espressione <<modifica delle condizioni di lavoro>> (secondo comma,

art. 5, n. 23/2001/CE) l'individuazione della controparte del contratto di lavoro.

82 Cfr. M. MARINELLI, Il perdurante contrasto tra diritto interno e diritto comunitario sulla tutela

dei lavoratori nel trasferimento di azienda, in Europa dir. priv., 2003, 819 ss.

51

Ragionando infine in un'ottica di valutazione complessiva dell'impatto della riforma

sui rapporti di lavoro, è doveroso affermare che il d.lgs. n. 5/2006 risulta contraddittorio

e solo apparentemente orientato alla salvaguardia degli interessi dei lavoratori. Giova

infatti evidenziare come l'intento di considerare la conservazione dei livelli

occupazionali nella scelta dell'affittuario (comma due, art. 104 bis, d.lgs. n. 5/2006) è

sovrastata e contraddetta da una scelta, molto più concreta, di escludere la tutela

prevista dall'art. 2112 c.c. L'astuzia della tecnica giuridica utilizzata sembra essere

proprio quella di considerare la salvaguardia degli interessi dei lavoratori solo in linea di

principio.

2. Il quadro normativo nazionale

Un'importante deroga alle garanzie previste per i lavoratori in caso di trasferimento è

stata introdotta dal quinto comma dell'art. 47 della l. n. 42/199083, dove si dispone che

nei casi in cui il trasferimento riguardi aziende o unità produttive per le quali il

Ministero del lavoro abbia accertato lo stato di crisi, ovvero imprese per le quali ci sia

stata una dichiarazione di fallimento, di concordato preventivo consistente nella

cessione di beni, l'emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa

oppure la sottoposizione all'amministrazione straordinaria, se la continuazione

dell'attività non sia stata disposta o sia cessata, non trova applicazione l'art. 2112 c.c.,

qualora, nell'ambito delle procedure di cui al terzo comma, sia stato raggiunto un

accordo sindacale finalizzato alla salvaguardia dell'occupazione. Tale accordo può

inoltre prevedere, introducendo una disposizione di miglior favore per i lavoratori,

l'attribuzione di parte dei diritti in linea di principio negati84.

Dalla disapplicazione della tutela generale di cui all'art. 2112 derivano una serie di

83 Per un esame, cfr. P. MOROZZO DELLA ROCCA, Crisi dell’impresa e trasferimento d’azienda nel concorso delle fonti tra normativa nazionale e disciplina comunitaria, in Europa dir. priv., 2000, 237 ss; L. FOGLIA, Accordo sindacale in occasione di cessione d’azienda appartenente ad un’impresa insolvente e diritto comunitario, in Dir. lav., 2000, II, 183 ss; A. PIZZOFERRATO, La disciplina lavoristica del trasferimento di azienda in crisi nel nuovo scenario interpretativo, in Lav. giur., 2002, n. 3, 251 ss; P. LAMBERTUCCI, Il trasferimento di azienda in crisi fra diritto interno e diritto comunitario, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 114 ss; L. D’ARCANGELO, Trasferimento di azienda in crisi e concordato preventivo non omologato: la deroga all’art. 2112 c.c. non opera, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, 169 ss; G. ORLANDINI, Il trasferimento di azienda nelle imprese in stato di crisi tra dibattito teorico e prassi sindacale, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2005, n. 108, 593 ss; F. NOTARO, Trasferimento dell’ azienda in crisi e derogabilità dell’art. 2112 c.c. in sede collettiva, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 179 ss.

84 Cfr. M. MARINELLI, Il perdurante contrasto tra diritto interno e diritto comunitario sulla tutela dei lavoratori nel trasferimento di azienda, op. cit., 827.

52

rilevanti conseguenze sulla situazione dei singoli lavoratori. In particolare, poiché il

passaggio dal cedente al cessionario avviene mediante la sottoscrizione di un nuovo

contratto, non si tiene di regola conto dell'anzianità maturata con il precedente rapporto

di lavoro, può riguardare mansioni diverse da quelle previste nel precedente contratto, e

può anche prevedere una retribuzione inferiore. Non è prevista inoltre alcuna

obbligazione solidale tra il cedente e il cessionario per i crediti maturati nel precedente

rapporto di lavoro, per i quali resta responsabile il cedente85.

In ambito comunitario, la prima Direttiva in materia di trasferimento di azienda (n.

77/187/CE) non prevedeva nessuna disposizione specifica per i trasferimenti avvenuti

durante procedure di tipo concorsuale86. Tuttavia, la giurisprudenza comunitaria

sosteneva, in via interpretativa, l'esclusione di tali procedure dal campo di applicazione

della normativa generale87.

L'orientamento della giurisprudenza comunitaria in materia è stato successivamente

recepito dalla Direttiva n. 98/50/CE88 (oggi l'intera disciplina è contenuta nella Direttiva

n. 23/2001/CE), che ha espressamente previsto delle ipotesi di eccezione alla regola

generale, di cui alcune, appunto, già individuate in ambito giurisprudenziale.

La normativa comunitaria (primo comma dell'art. 5 della Direttiva n. 23/2001/CE)

prevede oggi che, fatti salvi eventuali trattamenti di miglior favore introdotti dagli stati

membri, ai trasferimenti di imprese oggetto di una procedura fallimentare, o di una

analoga procedura di insolvenza operata in vista della liquidazione dei beni del cedente,

e che si svolgono sotto il controllo di un'autorità pubblica competente, non trovi

applicazione la tutela dei diritti individuali di cui ai precedenti artt. 3 e 4, ossia non

85 Cfr. M. MARINELLI, Il perdurante contrasto tra diritto interno e diritto comunitario sulla tutela

dei lavoratori nel trasferimento di azienda, cit., 830. 86 Il legislatore nazionale, in sede di recepimento di tale direttiva ha invece espressamente disciplinato

la fattispecie al quinto comma dell’art. 47 della l. n. 428/90. Sull’argomento, cfr. P. PASSALACQUA, La Corte di Cassazione chiude il cerchio sul caso Spano in materia di trasferimento dell’azienda in crisi, in Dir. lav., 2001, II, in particolare 365.

87 Cfr. Corte Giust. UE 10-2-1988, causa n. 324/86, con nota di M. DE LUCA, Salvaguardia dei diritti dei lavoratori, in caso di trasferimento di azienda, nel diritto comunitario: una <<condanna>>, una <<assoluzione per insufficienza di prove>> ed altri suggerimenti della Corte di Giustizia per l’adeguamento dell’ordinamento italiano, in Foro. it., 1989, IV, 11; Corte Giust. UE 14-3-1994, causa n. 392/92, con nota di P. LAMBERTUCCI, Sulla nozione di trasferimento d’azienda nel diritto comunitario, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 608; R. FOGLIA, Il ruolo della Corte di Giustizia nell’evoluzione del diritto sociale comunitario e le prospettive per il futuro, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2002, n. 27, 96-97; G. ARRIGO, Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, II, Milano, 2001, 106, l’autore evidenzia come la giurisprudenza comunitaria, ai fini della individuazione delle ipotesi di inapplicabilità della direttiva, abbia utilizzato un criterio teleologico, integrato successivamente con criteri sussidiari, quando non fosse possibile qualificare la fattispecie normativa nazionale solo in funzione dello scopo delle discipline nazionali relative alla procedura di insolvenza.

88 Cfr. le osservazioni di G. ARRIGO, Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, op. cit., 88 ss; A. PIZZOFERRATO, Il trasferimento di azienda nelle imprese in crisi, op. cit., 153 ss.

53

valgono le disposizioni che prevedono: il passaggio dal cedente al cessionario dei diritti

e degli obblighi esistenti al momento del trasferimento; la possibilità di prevedere al

responsabilità solidale del cedente accanto a quella del cessionario, per gli obblighi

risultanti prima del mutamento soggettivo della parte datoriale del contratto; il

mantenimento della regolamentazione del rapporto di lavoro di fonte collettiva per un

periodo predeterminato; la disciplina relativa alla cessazione del rapporto di lavoro.

Il secondo comma dell'art. 5 dispone per gli stati membri la possibilità di prevedere

che nei trasferimenti avvenuti nel corso di procedure di insolvenza (indipendentemente

dalla loro finalità o natura), pur restando tendenzialmente ferma la tutela individuale dei

lavoratori e la disciplina relativa agli obblighi di informazione e consultazione, i debiti

verso i lavoratori già maturati prima del trasferimento non passino al cessionario, ma

rimangano interamente a carico del cedente, purché questi siano assistiti da una garanzia

non inferiore a quella offerta dalla Direttiva n. 80/987/CE, sulla protezione dei

lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro.

A ciò si aggiunge che, al fine di salvaguardare la sopravvivenza del complesso

produttivo trasferito, e mantenere così i livelli occupazionali raggiunti, il diritto

nazionale può altresì prevedere che il cedente, il cessionario ed i rappresentanti dei

lavoratori possano concordare per il contratto di lavoro alle dipendenze del cessionario

delle <<condizioni di lavoro>> deteriori rispetto a quelle del rapporto di lavoro del

cedente.

In sintesi, la normativa comunitaria prevede tassativamente delle ipotesi di deroga

alla disciplina generale sulla tutela dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda

(primo comma dell'art. 5 della Direttiva n. 23/2001) che si basano sul principio della

finalità liquidatoria della procedura. E' prevista inoltre la possibilità di non trasferire al

cessionario i debiti verso i lavoratori già maturati prima del trasferimento e di

modificare le condizioni di lavoro nel corso di procedure di insolvenza,

indipendentemente dalla loro natura e dalla loro finalità (secondo comma dell'art. 5

della Direttiva n. 23/2001). Infine, si stabilisce un'ulteriore ipotesi di ammissibilità della

modifica delle condizioni di lavoro nei casi di situazioni di grave crisi economica.

Non è comunque prevista alcuna deroga agli obblighi di informazione e

consultazione sindacale, anche nel caso di procedure aventi finalità liquidatorie.

54

3. I punti di contrasto con la normativa comunitaria

La disciplina nazionale presenta significativi punti di contrasto con la normativa

comunitaria89.

Partendo dalla disciplina nazionale, gli elementi costitutivi della fattispecie

derogatoria all'art. 2112 c.c. prevista dal quinto comma dell'art. 47 della L. n. 428/1990

sono: le ipotesi di deroga espressamente individuate dalla legge e l'accordo sindacale

circa il mantenimento anche parziale dei lavoratori.

Le ipotesi di deroga cui si riferisce la norma riguardano i trasferimenti di aziende o

unità produttive per le quali il Ministero del lavoro abbia accertato lo stato di crisi

aziendale, ovvero imprese per le quali vi sia stata una dichiarazione di fallimento,

un'omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni,

l'emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero la

sottoposizione all'amministrazione straordinaria, se la continuazione dell'attività non sia

stata disposta o sia cessata.

Questa disposizione è stata oggetto di ricorso, presentato dalla Commissione alla

Corte di Giustizia, per l'asserito inadempimento dell'Italia alle disposizioni contenute

nella normativa comunitaria. Ci si riferisce in particolare al caso di trasferimento di

azienda avvenuto durante la sottoposizione all'amministrazione straordinaria,

nell'ipotesi in cui sia prevista la prosecuzione dell'attività, ovvero nell'ipotesi di

89 Sul punto, cfr. il quadro generale delineato da M. MARINELLI, Il perdurante contrasto tra diritto

interno e diritto comunitario sulla tutela dei lavoratori nel trasferimento di azienda, cit., 819 ss. Cfr., inoltre, G. ARRIGO, Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, cit., 107 ss; A. PIZZOFERRATO, Il trasferimento di azienda nelle imprese in crisi, cit., 150 ss; P. MOROZZO DELLA ROCCA, Crisi dell’impresa e trasferimento d’azienda nel concorso delle fonti tra normativa nazionale e disciplina comunitaria, op. cit., 237 ss; P. PASSALACQUA, La Corte di Cassazione chiude il cerchio sul caso Spano in materia di trasferimento dell’azienda in crisi, op. cit., 365; L. FOGLIA, Accordo sindacale in occasione di cessione d’azienda appartenente ad un’impresa insolvente e diritto comunitario, op. cit., 183 ss; A. PIZZOFERRATO, La disciplina lavoristica del trasferimento di azienda in crisi nel nuovo scenario interpretativo, op. cit., 251 ss; M. DE LUCA, Salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda: funzione del diritto comunitario e della giurisprudenza della Corte di Giustizia nella interpretazione ed applicazione della nuova disciplina nazionale – Prime considerazioni sull’art. 47 della “legge comunitaria del 1990”, in Foro it., 1991, IV, 288 ss; P. LAMBERTUCCI, Il trasferimento di azienda in crisi fra diritto interno e diritto comunitario, op. cit., 114 ss; L. D’ARCANGELO, Trasferimento di azienda in crisi e concordato preventivo non omologato: la deroga all’art. 2112 c.c. non opera, op. cit., 169 ss; G. ORLANDINI, Il trasferimento di azienda nelle imprese in stato di crisi tra dibattito teorico e prassi sindacale, op. cit., 593 ss; F. NOTARO, Trasferimento dell’ azienda in crisi e derogabilità dell’art. 2112 c.c. in sede collettiva, op. cit., 179 ss; U. CARABELLI, Alcune riflessioni sulla tutela dei lavoratori nei trasferimenti d’azienda: la dimensione individuale, in Riv. it. dir. lav., 1995, I, 70 ss; E. MARZIANI, Trasferimento di azienda nell’ordinamento comunitario: la nuova nozione e l’art. 4-bis della direttiva del consiglio del 29 giugno 1998, n. 98/50/CE. Conformità e punti di contrasto con la disciplina italiana, op. cit., 230 ss.

55

concordato preventivo consistente nella cessione di beni avente una finalità

conservativa. Ciò in quanto, come più volte accennato, la normativa comunitaria

subordina l'applicazione della fattispecie derogatoria al requisito della finalità

liquidatoria della procedura. Rimandando ad altri scritti gli approfondimenti relativi

alla decisione della Corte di Giustizia, qui si ritiene opportuno evidenziare che nel caso

dell'amministrazione straordinaria la divergenza di principi è in realtà contenuta in un

successivo intervento del legislatore italiano (art. 63 del d.lgs. 270/1999), dove viene

enfatizzata la finalità conservativa della procedura, contrariamente a quanto previsto

nella l. n. 428/1990.

Importanti questioni interpretative sono sorte anche in relazione alla nozione di

<<condizioni di lavoro>>, che, secondo quanto disposto dalla Direttiva comunitaria

(secondo comma, art. 5, n. 23/2001/CE), possono essere oggetto di modifica nei

trasferimenti avvenuti nel corso di procedure di insolvenza. Da un lato90 si sostiene che

le parti possano, non soltanto modificare in peggio il trattamento economico e

normativo dei lavoratori, ma anche escludere il passaggio al cessionario di quote di essi.

Secondo un diverso orientamento91, invece, non si ritiene possibile includere nella

espressione <<modifica delle condizioni di lavoro>> l'individuazione della controparte

del contratto di lavoro. Quest'ultima impostazione sembra preferibile, in quanto in

un'altra disposizione della Direttiva (terzo comma dell'art. 3, n. 23/2001/CE) si fa

riferimento al termine <<condizioni di lavoro convenute mediante contratto

collettivo>>, e nei paesi comunitari normalmente il contratto collettivo integra la

disciplina del rapporto di lavoro, ma non la parte del contratto di lavoro. Questa

conclusione è inoltre confermata dalla terza ipotesi derogatoria prevista dal terzo

comma dell'art. 5, secondo cui per conservare i livelli occupazionali gli stati membri

possono permettere all'autonomia collettiva di prevedere modifiche delle condizioni di

lavoro anche in presenza di situazioni di grave crisi economica, purché dichiarata da

un'autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario.

Il legislatore italiano ha comunque adottato una nozione ampia di <<condizioni di

lavoro>>, consentendo che nell'accordo si possa prevedere anche il trasferimento

parziale dei lavoratori, e ciò, condividendo un'interpretazione restrittiva della

definizione di <<condizioni di lavoro>>, risulterebbe in contrasto con quanto disposto

90 A. PIZZOFERRATO, I riflessi della direttiva 98/50/CE sull’ordinamento italiano, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1999, n. 2-3, 475; MENGHINI, L’attenuazione delle tutele individuali dei lavoratori, 225.

91 M. MARINELLI, Il perdurante contrasto tra diritto interno e diritto comunitario sulla tutela dei lavoratori nel trasferimento di azienda, cit., 834-835.

56

dalla normativa comunitaria.

Infine, occorre qualche precisazione in merito alla possibilità di stipulare accordi

sindacali di natura transattiva che, al di fuori della consultazione sindacale prevista,

pongano in essere una deroga convenzionale alla continuità del lavoro stabilita dall'art.

2112 c.c. Secondo un consolidato orientamento della Cassazione92, anche se esiste una

disciplina espressa per il trasferimento delle aziende in crisi, è possibile una deroga

anche convenzionale all'art. 2112 c.c. che fuoriesce dal campo di applicazione della

relativa normativa, quando è in gioco la salvaguardia del mantenimento anche parziale

dei livelli occupazionali. Ma una parte rilevante della dottrina, così come emerge dalla

stessa giurisprudenza comunitaria, ritiene infondato l'orientamento della Cassazione93,

in quanto la normativa comunitaria regola l'intera materia, stabilendo tassativamente

condizioni e limiti di non applicazione della normativa codicistica.

4. Le novità introdotte dalla riforma del diritto fallimentare

Si premette che è anzitutto sul piano delle finalità che risiede l'ambiguità degli

strumenti giuridici messi a disposizione dalla legge94.

C'è da evidenziare, anzitutto, che il sistema normativo si presenta scoperto dal punto

di vista della tutela del creditore di minoranza dagli abusi del creditore di maggioranza.

Il comitato dei creditori è ora composto <<in modo da rappresentare in misura

equilibrata quantità e qualità dei crediti>> (comma due, art. 40, l. fall.). Considerando

la proporzionalità degli interessi rappresentati, è ovvio che la maggioranza dei membri

del comitato sia rappresentativa dei creditori maggiori. A ciò si aggiunga che, poiché la

92 Cfr., da ultimo, Cass., 26 maggio 2006, n. 12573, con nota di F. NOTARO, Trasferimento dell’ azienda in crisi e derogabilità dell’art. 2112 c.c. in sede collettiva, op. cit., 179 ss.

93 Cfr., per tutti, F. NOTARO, Trasferimento dell’ azienda in crisi e derogabilità dell’art. 2112 c.c. in sede collettiva, cit., 179 ss.

94 Sull’impatto della legge fallimentare nei rapporti di lavoro, cfr., F. ALLEVA, Primissime note critiche in tema di riforma fallimentare, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2006, n. 1, 103; L. DE ANGELIS, Fallimento e rapporti di lavoro: brevi considerazioni dopo la riforma del 2006, in Foro. it., 2007, III, 86 ss; E. BARRACO, Procedure concorsuali: tutela dei lavoratori, in Dir. prat. lav, 2006, n. 44, 2502 ss; A. CORRADO, La riforma della legge fallimentare: implicazioni giuslavoristiche del d. lgs. 5/06; parte prima: aspetti generali ed effetti del fallimento sui rapporti pendenti e La riforma della legge fallimentare: implicazioni giuslavoristiche del d. lgs. 5/06; parte seconda: l’esercizio provvisorio e l’affitto di azienda, in Riv. crit. dir. lav., 2006, n. 1-2, 19 e 357 ss; A. M. PERRINO, Le deroghe alle tutele dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda d’imprenditore in crisi o insolvente, in Foro it., 2007, I, 2157 ss; F. FIMMANO’, La vendita fallimentare dell’azienda, in Contratto impr., 2007, vol. 2, 530 ss; F. FIMMANO’, L’affitto di azienda preesistente al trasferimento, in S. AMBROSINI (a cura di), Le nuove procedure concorsuali, Bologna, 2008. Più di recente, cfr. F. BACCHINI, Trasferimento di azienda in crisi: nuova condanna dalla Corte UE, in Dir. prat. lav., 2009, n. 33, 1949.

57

procedura è divenuta decisamente più onerosa, è probabile che solo i creditori in grado

di sostenere detti oneri avranno interesse a ricoprire il ruolo di membro del comitato dei

creditori. Si attua in tal modo una suddivisione in classi per <<natura del credito>>,

dove i lavoratori, anche se continueranno ad essere muniti di privilegio per i loro crediti

salariali e previdenziali, non avranno verosimilmente i fondi necessari per sostenere la

procedura liquidatoria95.

In questa direzione, pare inoltre che nella riforma i principi di mera liquidazione e di

conservazione del valore produttivo dell'impresa fallita si alternano secondo una logica

di soddisfazione dei creditori più forti. Prova ne è il fatto che la vendita dell'intero

complesso aziendale o di suoi rami, rispetto alla liquidazione dei singoli beni, è

subordinata al requisito della <<maggiore soddisfazione dei creditori>> (comma uno,

art. 105). La facoltà di poter disporre il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle

dipendenze dell'acquirente (comma tre, art. 105), e quindi di poter derogare alle

garanzie ex art. 2112 c.c., esprime chiaramente l'assenza di un reale bilanciamento di

interessi nella riforma. In questo senso, tali questioni possono collegarsi al problema

della mancanza di una visione di tutela complessiva dei vari portatori di interesse nella

disciplina dell’attività di direzione e coordinamento di società.

Guardando direttamente al problema delle divergenze di regolazione tra la disciplina

nazionale e la direttiva comunitaria sul trasferimento di azienda, la nuova legge si pone

in evidente conflitto con il principio comunitario di limitazione delle ipotesi di deroga

alla regola del mantenimento dei diritti dei lavoratori (direttive 98/50, 2001/23). Da un

lato la normativa comunitaria subordina l'applicazione della deroga alla finalità

liquidatoria della procedura, e dall'altro lato la normativa interna si basa sull'opposto

principio della continuazione dell'attività d'impresa. Sembra proprio che il legislatore

italiano non abbia tenuto conto della dimensione comunitaria, dal momento che ha

esplicitamente contemplato le ipotesi di deroga alla tutela ex art. 2112 c.c. nell'ambito di

questa nuova filosofia del fallimento.

95 Su questi aspetti della riforma si è fatto riferimento all’efficace contributo di F. ALLEVA,

Primissime note critiche in tema di riforma fallimentare, op. cit., in particolare 124-125. Sulla posizione dei lavoratori, portatori di due diversi interessi, quello al soddisfacimento del proprio credito e quello al mantenimento del posto di lavoro, cfr. F. FIMMANO’, La vendita fallimentare dell’azienda, op. cit., 539.

58

5. Il conflitto tra le discipline in tema di vendita dell'azienda o di suoi rami

Il nuovo testo dell'art. 105 (R.D. 16 marzo 1942, n.267, novellato dall'art. 92, d.lgs.

n. 5/2006), disciplina la vendita dell'azienda e di suoi rami, oltre che di singoli beni96. Il

legislatore ha così introdotto una specifica disciplina per la vendita dell’azienda, che è

divenuta centrale nel nuovo sistema dell’esecuzione coattiva concorsuale97. L’articolo in

commento stabilisce, infatti, che la liquidazione dei singoli beni è disposta quando non è

possibile procedere alla vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o

rapporti giuridici individuabili in blocco (comma uno).

In quest’ampia prospettiva di conservazione dell’impresa assoggettata alla procedura

fallimentare, la nuova legge prevede inoltre che, nell’ambito delle consultazioni

sindacali relative al trasferimento di azienda, si possa convenire il trasferimento solo

parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente (comma tre, art. 105).

In questi termini, la normativa risulta in contrasto con il principio comunitario

ancorato alla finalità liquidatoria della procedura.

Ma attenzione, la possibilità di attuare una deroga alla tutela di cui all’art. 2112 in

ipotesi di fallimento, così come stabilito dal d. lgs. n. 5/2006, rientra apparentemente nei

margini di deroga riconosciuti dalla direttiva, proprio perché il fallimento è contemplato

nella norma comunitaria98. Ma in verità, il cambio di prospettiva del legislatore italiano

rispetto all’originaria filosofia della legge fallimentare, pone un problema interpretativo

96 L. DE ANGELIS, Fallimento e rapporti di lavoro: brevi considerazioni dopo la riforma del 2006,

op. cit., 86 ss; A. M. PERRINO, Le deroghe alle tutele dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda d’imprenditore in crisi o insolvente, op. cit., in particolare 2158-2159-2161 ss; F. FIMMANO’, La vendita fallimentare dell’azienda, cit., 530 ss; F. FIMMANO’, L’affitto di azienda preesistente al trasferimento, op. cit.

97 Il procedimento e le forme della vendita del compendio aziendale non sono più ancorate a rigide scansioni procedimentali e a provvedimenti giudiziari, salve le ipotesi contemplate dall’art. 108 della l. fall. Cfr., F. FIMMANO’, in A. IORIO (diretto da) e M. FAGIANI (coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, II, sub art. 105, Bologna, 2007, 1739. Su tale argomento, cfr., inoltre, E. BARRACO, Procedure concorsuali: tutela dei lavoratori, op. cit., 2508; M. SANDULLI, in A. NIGRO e M. SANDULLI (a cura di), La riforma della legge fallimentare, sub art. 105, Torino, 2006, 627; F. FIMMANO’ – C. ESPOSITO, La liquidazione dell’attivo fallimentare, Milano, 2006, 116. Più in generale, A. CORRADO, La riforma della legge fallimentare: implicazioni giuslavoristiche del d. lgs. 5/06; parte seconda: l’esercizio provvisorio e l’affitto di azienda, op. cit., 357. Va precisato, tuttavia, che il decreto correttivo approvato dal consiglio dei ministri il 15 giugno 2007 contempla la modifica dell’art. 107 l. fall., introducendo la facoltà del curatore di prevedere nel programma di liquidazione che le vendite dei beni mobili, immobili e mobili registrati siano effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili (lett. b, comma sei, art. 7 del decreto). Così, A. M. PERRINO, Le deroghe alle tutele dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda d’imprenditore in crisi o insolvente, cit., nota 6.

98 In caso di trasferimento di impresa non si applica, a meno che gli stati membri dispongano diversamente, ad alcun <<trasferimento d’imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente non sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga in vista della liquidazione dei beni del cedente>> (comma uno, art. 4 bis, n. 98/50/CE).

59

relativo all’assimilazione della procedura fallimentare ad una procedura di insolvenza

finalizzata alla liquidazione dei beni (del cedente).

La questione è dunque se il caso di fallimento con conservazione del complesso

aziendale è compreso fra le ipotesi di deroga consentite dalla disciplina comunitaria.

Alla luce della normativa di riferimento, pare che non possa essere accettata una

soluzione in tal senso. Ciò si evince dal testo della norma comunitaria, dal momento

che considera il fallimento equivalente ad una procedura di insolvenza aperta in vista

della liquidazione dei beni del cedente (comma uno, art. 4 bis, n. 98/50/CE). Si può

inoltre ritenere che il legislatore comunitario, precisando la finalizzazione delle

procedure alla liquidazione dei beni, abbia proprio voluto escludere quelle con finalità

diverse, incluso l'obiettivo della conservazione dei complessi produttivi. Diversamente,

non avrebbe nemmeno senso l'ulteriore regime di deroga previsto nella successiva

disposizione, applicabile <<indipendentemente dal fatto che la procedura sia stata aperta

in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso>> (comma due, art. 4 bis, n.

98/50/CE).

In tal senso, assume valore decisivo la posizione della giurisprudenza comunitaria

laddove, negli anni di vigenza della direttiva del ’77, utilizzava come criterio

determinante ai fini dell’applicabilità della direttiva l’obiettivo perseguito dal

procedimento di ammissione alla procedura fallimentare, o ad altra analoga procedura

concorsuale, nel senso che la disciplina protettiva disposta dalla direttiva trova

applicazione in tutti i casi in cui si dispone la prosecuzione dell’attività d’impresa99.

D'altronde, siffatte conclusioni si riscontrano anche nella disciplina nazionale sul

trasferimento di azienda, che esclude la possibilità di derogare alle garanzie ex art. 2112

c.c. in ipotesi di concordato preventivo con cessione dei beni avente una finalità

conservativa e di amministrazione straordinaria nel caso in cui la continuazione

dell'attività sia stata disposta o non sia cessata (comma cinque, art. 47, l. n. 428/1990).

Si può dunque affermare che il caso di fallimento con conservazione del complesso

aziendale, così come le ipotesi appena citate, non dovrebbe rientrare fra quelli che

consentono una deroga al mantenimento dei diritti dei lavoratori nel trasferimento di

99 Corte Giust. UE 25-7-1991, D’Urso, causa n. 362/89, con nota di R. FOGLIA, Trasferimenti di

aziende, procedure concorsuali <<conservative>> e diritto comunitario, in Dir. lav., 1991, II, 329 ss. In questo senso, cfr., inoltre, Corte Giust. UE 7-12-1995, Spano, causa n. 472/93, con nota di P. LAMBERTUCCI, La disciplina del trasferimento di azienda in crisi al vaglio della Corte di Giustizia; G. ARRIGO, Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, cit., 106-107; E. MARZIANI, Trasferimento di azienda nell’ordinamento comunitario: la nuova nozione e l’art. 4-bis della direttiva del consiglio del 29 giugno 1998, n. 98/50/CE. Conformità e punti di contrasto con la disciplina italiana, cit., 238.

60

azienda o di un suo ramo.

Va posto in luce, inoltre, che una soluzione in senso contrario sarebbe giuridicamente

scorretta, in ragione della ratio della normativa in materia di trasferimento di azienda,

finalizzata ad evitare che i lavoratori subiscano un peggioramento delle condizioni di

lavori in conseguenza delle vicende circolatorie dell'azienda.

Diversamente, l'opportunità di escludere la responsabilità dell'acquirente per i debiti

relativi all'esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento (comma quattro,

art. 105, d.lgs. n. 5/2006), è contemplata nella direttiva comunitaria a prescindere dal

fatto che la procedura sia stata aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente

(lettera a), comma due, art. 4 bis, n. 98/50/CE). Si tratta, comunque, di una nuova

ipotesi di deroga alla tutela ex art. 2112, accessibile salva diversa convenzione.

Quanto poi alla possibilità di convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori

alle dipendenze dell'acquirente, è importante ricordare che tale ipotesi rientra nel

dibattito interpretativo sorto in relazione alla nozione di <<condizioni di lavoro>>100.

6. Segue. L'affitto di azienda o di suoi rami

Anche l'affitto di azienda o di suoi rami (art. 104-bis l. fall.) è stato introdotto

nell'ottica della prosecuzione delle attività imprenditoriali, e quindi, anche in questo

caso, valgono le stesse considerazioni esposte in merito al presupposto della finalità

liquidatoria della procedura per l'applicazione della deroga alla disciplina sul

trasferimento d'azienda.

Il legislatore introduce una nuova ipotesi di deroga alla tutela prevista dall'art. 2112

c.c., stabilendo che la retrocessione al fallimento di aziende, o di rami di aziende, non

comporta la responsabilità per i debiti maturati sino alla retrocessione, senza alcuna

possibilità di diversa convenzione (comma sei, art. 104-bis)101. Rispetto all'ambito

normativo comunitario non sussistono elementi di contrasto, poiché, come già

100 Cfr., L. DE ANGELIS, Fallimento e rapporti di lavoro: brevi considerazioni dopo la riforma del

2006, cit., 86 ss; A. CORRADO, La riforma della legge fallimentare: implicazioni giuslavoristiche del d. lgs. 5/06; parte seconda: l’esercizio provvisorio e l’affitto di azienda, cit.; A. M. PERRINO, Le deroghe alle tutele dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda d’imprenditore in crisi o insolvente, cit. 2157 ss; F. FIMMANO’, L’affitto di azienda preesistente al trasferimento, cit.

101 Cfr., L. DE ANGELIS, Fallimento e rapporti di lavoro: brevi considerazioni dopo la riforma del 2006, cit., in particolare 86 e 90; A. M. PERRINO, Le deroghe alle tutele dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda d’imprenditore in crisi o insolvente, cit. 2161; F. FIMMANO’, L’affitto di azienda preesistente al trasferimento, cit.

61

accennato, la possibilità di non trasferire al cessionario i debiti sorti prima del

trasferimento è riconosciuta dalla direttiva (n. 98/50/CE), anche a prescindere dalla

finalità liquidatoria della procedura.

Valutando invece tale disciplina in termini di garanzia della tutela degli interessi

coinvolti, si comprende con estrema chiarezza che quelli dei lavoratori, considerati dalla

Comunità Europea come una necessaria premessa all'adozione di qualsivoglia

disposizione in materia di trasferimento (Direttiva n. 2001/23/CE), appaiono

pesantemente compromessi. Prova ne è il fatto che la deroga prevista in caso di

retrocessione al fallimento dell'azienda non ammette diversa convezione, circostanza

quantomeno ammessa in ipotesi di vendita. Così, anche immaginando che nel comitato

dei creditori gli interessi dei lavoratori siano ben rappresentati, non è concessa la

possibilità di ottenere l'applicazione della tutela, in virtù - è il caso di dirlo - delle

vicende circolatorie dell'azienda.

Il legislatore però attribuisce un certo rilievo alla conservazione dei livelli

occupazionali e, contemporaneamente, fornisce strumenti legislativi idonei a sovrastare

un simile intento.

Anzitutto, pone come prioritaria l'esigenza di autorizzare l'affitto dell'azienda a

condizione che ciò comporti una più proficua vendita dell'azienda o di parti della stessa

(comma uno art. 4-bis). L'interesse al piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali

e alla salvaguardia dei livelli occupazionali subentra solamente al momento della scelta

dell'affittuario (comma due, art. 104-bis). E se si considera che la durata dell'affitto è

subordinata alle esigenze di liquidazione dei beni (comma quattro, art. 104-bis),

piuttosto che del complesso produttivo, si comprende che difficilmente il

soddisfacimento di tali interessi troverà un reale riscontro.

In questo contesto legislativo, ciò che deve seriamente preoccupare è la possibilità

che la scelta di favorire la vendita e l'affitto di azienda o di suoi rami, si traduca in un

mercato dell'outsourcing delle imprese in crisi dove i lavoratori si ritrovano

sostanzialmente privi di tutela.

62

Sezione B

Capitolo 6 – L'utilizzo del lavoro autonomo negli appalti ed il suo collegamento

con l'interposizione illecita di manodopera

SOMMARIO: - 1. Appalto, subordinazione ed interposizione vietata. - 2. Il ruolo della subordinazione nella qualificazione del vero imprenditore. – 3. Il lavoro autonomo negli appalti. – 4. Gli effetti della mancata regolamentazione dell’interposizione di lavoro autonomo. – 5. I possibili collegamenti fra l’interposizione di lavoro autonomo e l’attuale disciplina in materia di somministrazione di lavoro. – 6. La centralità dell’oggetto dell’appalto per la valutazione della fattispecie interpositoria. – 7. Il lavoro a progetto negli appalti.

1. Appalto, subordinazione ed interposizione vietata

La distinzione fra appalti leciti di opere o servizi ed interposizione illecita è stata

governata per decenni dalla l. 23 ottobre 1960, n. 1369102, nata con lo scopo di

combattere un massiccio fenomeno di sfruttamento della manodopera, il cosiddetto

<<caporalato>>, attraverso cui un soggetto (pseudo-appaltatore) si interpone fra il

lavoratore ed il datore di lavoro, con lo scopo di consentire a quest’ultimo di poter

usufruire di mere prestazioni di manodopera senza assumersi le relative responsabilità

in ordine al rapporto di lavoro103. La legge aveva infatti imposto all'imprenditore il

divieto di affidare, tramite un contratto di appalto o in qualsiasi altra forma, l'esecuzione

di mere prestazioni di lavoro subordinato, a prescindere dalla natura dell'opera o del

servizio cui le prestazioni si riferiscono (art. 1).

Coerente con la finalità della norma era il regime sanzionatorio, che imponeva, al 102 Cfr. A. CESSARI, L'interposizione fraudolenta nel diritto del lavoro, Milano, 1959; E. LORIGA, La disciplina giuridica del lavoro in appalto, Milano, 1965; S. SPANO, Il divieto di interposizione nei rapporti di lavoro, Milano, 1965; G. IANNIRUBERTO e S. MATTONE, L'appalto di manodopera, in G. IANNIRUBERTO e S. MATTONE (a cura di), Il rapporto individuale di lavoro, Roma, 1972; O. MAZZOTTA, Rapporti interpositori e contratto di lavoro, Milano, 1979; G. DE SIMONE, Titolarità dei rapporti e regole di trasparenza, Milano, 1995, 40 ss; M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, in Comm. Cod. Civ., Milano, 2000, 8 ss.

103 La prima disciplina legislativa sull’argomento è stata dettata dall’art. 2127 c.c., il quale reprime una particolare forma dell’interposizione, e cioè quella posta in essere da dipendenti dell’imprenditore, retribuiti a cottimo, che a loro volta assumano e retribuiscano altri lavoratori (c.d. cottimo collettivo autonomo). Il ristretto ambito d’interposizione vietata a cui la norma si riferisce, che ne rappresenta tra l’altro l’ipotesi più eclatante, è stato ampliato con la l. n. 1369/1960, attraverso la quale si è fondato un divieto di carattere generale che, includendo il cottimo collettivo autonomo, ha abrogato tacitamente l’art. 2127 c.c.

63

verificarsi della fattispecie vietata, la costituzione del rapporto di lavoro in capo

all'effettivo utilizzatore (pseudo-appaltante), oltre che a sanzioni penali.

Questo regime di divieto assoluto è stato attenuato dalla l. 24 giugno 1997, n. 196

(cosiddetto Pacchetto Treu) che ha introdotto la fattispecie di lavoro temporaneo

nell'ordinamento giuridico italiano104. Questa normativa, pur senza abrogare la l. n.

1369/1960, ha legittimato la fornitura di mere prestazioni di lavoro da parte di

un'impresa, soggetta ad un regime rigoroso di autorizzazioni amministrative, ad un'altra

impresa per il soddisfacimento di esigenze produttive temporanee. Ma comunque, il

divieto generale di interposizione di manodopera ha continuato a sopravvivere

attraverso la legge del 1960.

La disciplina in materia di interposizione di manodopera è stata modificata in modo

sostanziale dal d.lgs. 276/2003105 che, abrogando la legislazione precedente, ha dettato

una nuova normativa attraverso la quale ha ampliato le opportunità di ricorso legittimo

all a somministrazione di lavoro (fornitura professionale di manodopera ai sensi dell'art.

2 e dell'art. 20), pur mantenendo un divieto generale di ricorso a tale fattispecie

contrattuale al di fuori delle ipotesi previste dalla stessa legge, e comunque

sottoponendo gli operatori ad uno specifico regime di autorizzazione amministrativa.

Il profilo di maggiore rilievo della normativa, sia in quella attuale che in quella

previgente, risiede nella distinzione fra l'interposizione e l'appalto. Questo in quanto la

fattispecie vietata si è quasi sempre nascosta dietro un contratto di appalto, che

formalmente risulta finalizzato alla realizzazione di un’opera o di un servizio, ma che in

verità ha come oggetto reale la mera fornitura di manodopera.

La nozione di appalto, cui si riferisce implicitamente la legge del 1960 (art. 1) ed

esplicitamente il decreto del 2003 (art. 29, comma uno), è quella civilistica di cui all'art.

1655 c.c. in virtù del quale una parte (appaltatore) si obbliga verso un'altra (committente

o appaltante) a compiere, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a

proprio rischio, un'opera o un servizio verso il corrispettivo in danaro. Poiché i concetti

di organizzazione e di rischio che caratterizzano l'appalto coincidono con quelli della

104 Cfr. O. MAZZOTTA, Qualche idea ricostruttiva (e molti interrogativi) intorno alla disciplina

giuridica del lavoro temporaneo, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 181 ss; R. DEL PUNTA, La <<fornitura di lavoro temporaneo>> nella L. N. 196/1997, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 199 ss; G. DE SIMONE, Divieto di intermediazione e divieto di interposizione: simul stabunt simul cadent?, in Riv. giur. lav., n. 1, 1998, 663 ss.

105 Cfr., per tutti, M. MARINELLI, Aspetti problematici del contratto di somministrazione di manodopera, in Dir. merc. lav., n. 1-2, 2004, 327 ss.

64

nozione di imprenditore (art. 2082 c.c.)106, occorre che l'appaltatore, nella concreta

esecuzione dell'opera o del servizio oggetto di appalto, sia dotato dei requisisti di

imprenditorialità.

Il recente intervento legislativo ha dunque ripreso per questo aspetto l'impostazione

adottata dalla legge del 1960, ossia la centralità della qualità imprenditoriale

dell'appaltatore ai fini della distinzione fra appalto ed interposizione di manodopera, che

è stata d'altronde confermata da una consolidata elaborazione giurisprudenziale107.

Se si verifica che l'appaltatore ha operato in concreto senza gli elementi qualificanti

la fattispecie di cui all'art. 1655 c.c., allora si deve concludere che i lavoratori impiegati

nell'appalto, anche se formalmente assunti dall'appaltatore, sono stati effettivamente

utilizzati dall'appaltante e, pertanto, trovano applicazione le sanzioni previste in caso di

somministrazione vietata di manodopera.

La difficoltà di dimostrare, in relazione al caso concreto, la sussistenza dei requisiti

richiesti dalla norma comporta notevoli sforzi interpretativi.

In questa logica, per facilitare la verifica del caso concreto era intervenuta

direttamente la stessa l. n. 1369/1960, che, avendo colto le caratteristiche del contesto

economico di quegli anni, aveva previsto una presunzione assoluta di illiceità qualora

l'appaltatore impiegasse capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante (art. 1,

comma tre, l. n. 1369/1960).

Tuttavia, le modificazioni intervenute nel sistema economico, che tende a

caratterizzarsi per la progressiva frammentazione delle imprese e per il cosiddetto

fenomeno del decentramento produttivo, hanno messo in crisi i tradizionali criteri di

distinzione fra l'appalto lecito e l'interposizione vietata, e cioè quelli che facevano perno

sui mezzi materiali di produzione.

L'espandersi dei servizi alla produzione, dove l'impiego di infrastrutture materiali è

spesso notevolmente ridimensionato, ha spinto dottrina e giurisprudenza a valorizzare

l'organizzazione del lavoro quale elemento di liceità dell'appalto108.

Questa particolare idoneità dell'appalto a rappresentare anche attività caratterizzate

dalla sola organizzazione del lavoro è stata evidenziata dal legislatore del 2003 (art. 29,

106 Cfr. G. OPPO, L'impresa come fattispecie, op. cit., 239 ss; G. OPPO, Impresa e imprenditore, in Diritto dell'impresa, Scritti giuridici, I, Padova, 1992, 263 ss; A. GRAZIANI – G. MINERVINI – U. BELVISO, in Manuale di diritto commerciale, Padova, 2004, 37 ss; A. NIGRO, imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, cit., 648 ss; Cfr. V. CORRENTI, Caratteri dell'imprenditore, in P. RESCIGNO (a cura di) Trattato di diritto privato, I, Impresa e lavoro, 2004, 293 ss.

107 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 82 ss. 108 Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di

fornitura, op. cit., 46 ss.

65

comma uno), il quale si è comunque preoccupato di sottolinearne il collegamento con la

norma del codice civile (art. 1655 c.c.). Ma maggiore è il ruolo svolto

dall'organizzazione del lavoro rispetto agli altri fattori della produzione, più labile

diventa il confine fra l'appalto e l'interposizione, e conseguentemente più difficile la

verifica del caso concreto.

In tutti i casi, a prescindere cioè dalle particolari caratteristiche del settore economico

di riferimento, la verifica in concreto della fattispecie interpositoria si è quindi fondata

su una serie di indici idonei a rilevare se l'appaltatore sia effettivamente vero

imprenditore. Di sicuro, uno degli indici più frequentemente utilizzati dalla

giurisprudenza per verificare l'autonomia organizzativa dell'appaltatore è stato quello

dell'esercizio, in concreto, del potere direttivo e di controllo dell'appaltante sui

lavoratori impiegati nell'attività appaltata, specie nei casi di attività sostanzialmente

riconducibili all'organizzazione del lavoro109.

La posizione della fattispecie della subordinazione rispetto al problema

dell'interposizione è per lo più dipesa dalla particolare struttura dell'illecito di cui all'art.

1 della l. n. 1369/1960. Su questo tema sono state formulate diverse teorie che, per

grandi linee, si basano su due impostazioni di fondo differenti110: la prima impostazione

secondo cui si ha, nella sostanza, una totale sovrapposizione fra l'area dell'illecito e

l'area della subordinazione, con una particolare attenzione all'elemento della <<effettiva

utilizzazione>> che caratterizza la struttura della fattispecie interpositoria111. Secondo

questa prima ricostruzione, l'ultimo comma dell'art. 1 della l. n. 1369/1960 non aveva

una funzione sanzionatoria, bensì meramente ricognitiva del rapporto giuridico che, ai

sensi dell'art. 2094 c.c., il lavoratore instaura con l'effettivo datore di lavoro. Con la

seconda impostazione si sostiene invece una coincidenza soltanto parziale fra la

fattispecie interpositoria e la nozione di subordinazione, in quanto l'analisi condotta

serve ad accertare la qualità imprenditoriale dell'appaltatore, e non se il committente

abbia esercitato il potere direttivo sui lavoratori utilizzati nell'appalto. Con questa

seconda interpretazione, sostenuta dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza, si

è voluto evidenziare il carattere autonomo ed innovativo della fattispecie di cui all'art. 1

109 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 85 ss; R. DE LUCA TAMAJO, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 49.

110 Cfr. R. DEL PUNTA, Problemi attuali e prospettive in tema di interposizione di manodopera, in Arg. dir. lav., 2002, n. 2, 289 ss. Cfr. anche O. MAZZOTTA, Il mondo al di là dello specchio: La delega sul lavoro e gli incerti confini della liceità nei rapporti interpositori, in Riv. it. dir. lav., 2003, I, 265 ss. Per un'esame critico delle varie ricostruzioni dottrinali si rimanda a M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 42 ss.

111 Cfr. O. MAZZOTTA, Rapporti interpositori e contratto di lavoro, cit., 265 ss.

66

della legge del 1960 rispetto all'art. 2094 c.c.

Anche analizzando la nuova normativa in materia di somministrazione di lavoro

contenuta nel d.lgs. n. 276/2003, si può affermare che l'illecito della fattispecie

interpositoria regolata dalla precedente legge mantenga la sua autonomia rispetto

all'elemento della subordinazione di cui all'art. 2094 c.c. Sotto questo aspetto, il decreto

stabilisce anzitutto che l'attività di somministrazione di lavoro, ossia “la fornitura

professionale di manodopera” (art. 2, comma uno), è considerata vietata, e di

conseguenza soggetta a sanzione, qualora venga esercitata da soggetti non autorizzati, e

comunque fuori dai casi consentiti dalla legge. Pertanto, l'ampia e generica

formulazione della fattispecie interpositoria prevista dalla l. n. 1369/1960 risulta solo

parzialmente abrogata dalla fattispecie di somministrazione di lavoro (subordinato)

prevista dal decreto del 2003. In particolare, mentre la previgente normativa puniva

tutte le ipotesi di interposizione di manodopera, l'attuale disciplina sanziona solamente

la somministrazione di lavoro (subordinato) che rientra nelle ipotesi vietate dalla legge,

e pertanto ritenuta illecita112. Data quindi la sopravvivenza di tale divieto, e

considerando la distinzione fra somministrazione di lavoro ed appalto ribadita dall'art.

29 del d.lgs. n. 276/2003, dove quest'ultimo è ricondotto esplicitamente all'art. 1655

c.c., si può confermare la teoria dell'autonomia dell'illecito della fattispecie

interpositoria rispetto alla fattispecie di lavoro subordinato.

Ne deriva che l'utilizzo degli indici riconducibili al concetto di subordinazione, sia

prima che dopo il decreto del 2003, è sempre considerato funzionale alla verifica della

qualità imprenditoriale dell'appaltatore.

Quello che è invece cambiato nella struttura dell'illecito in esame è il dato

dell’effettiva utilizzazione113. Con la l. n. 1369/1960 il divieto di interposizione operava

esclusivamente nei casi di effettiva utilizzazione, in quanto tale requisito era

presupposto fondamentale della fattispecie. Diversamente, nel d.lgs. n. 276/2003 il

112 Per approfondimenti sulla struttura dell'illecito della fattispecie interpositoria che si ricava dalla

nuova normativa sulla somministrazione di lavoro contenuta nel d. lgs. n. 276/2003 cfr. M.T. CARINCI, La somministrazione irregolare, anzi illecita, in F. CARINCI (a cura di), Commentario al d.lgs. 276/2003, coordinato da, II, sub artt. 20 – 32, Somministrazione, comando, appalto, trasferimento d'azienda, M.T. CARINCI e C. CESTER, 2004, 156 ss. Sul raccordo fra la disciplina della fattispecie interpositoria prevista dalla l. n. 1369/1960, l'ipotesi di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo della l. n. 196/1997 e la nuova normativa sulla somministrazione di lavoro contenuta nel d. lgs. n. 276/2003 Cfr. Cass., 26 gennaio 2004, n. 2583, in Orient. giur. lav.., 2004, n. 1, 143 ss.

113 Sul tipo di relazione che intercorre fra l'elemento dell'effettiva utilizzazione e l'elemento della inconsistenza imprenditoriale cfr. M.T. CARINCI, Questioni in ordine all'applicazione della legge sul divieto di intermediazione nei rapporti di lavoro, con particolare riferimento alle ferrovie, in Riv. it. dir. lav., 1997, IV, 712 ss.

67

divieto di somministrazione di lavoro è previsto in caso di inosservanza dei requisiti che

ne legittimano il ricorso, anche a prescindere dal dato dell’effettiva utilizzazione. In

verità, per l'applicabilità del divieto di somministrazione di lavoro il dato dell’effettiva

utilizzazione è richiesto, ma soltanto per la configurabilità di alcuni degli illeciti a cui

sono collegate le varie sanzioni (civile, penale e amministrativa). In particolare, sul

piano civile e penale, per l'applicabilità della sanzione è necessario che il contratto di

somministrazione abbia avuto effettivamente esecuzione, mentre questo stesso

presupposto non risulta essenziale per l'applicazione della sanzione amministrativa

imposta dalla legge114.

2. Il ruolo della subordinazione nella qualificazione del vero imprenditore

Occorre adesso analizzare il ruolo della subordinazione rispetto agli elementi di

liceità dell'appalto, ossia in che termini questa influisce sul potere imprenditoriale

dell'appaltatore (art. 1655 c.c.).

La subordinazione interagisce con entrambi gli elementi essenziali caratterizzanti un

lecito appalto, e quindi sia con l'autonomia organizzativa che con la gestione a proprio

rischio in capo all'appaltatore.

L'autonomia organizzativa implica l'esercizio del potere imprenditoriale sull'attività

organizzatrice, e più in particolare sull'organizzazione del lavoro, la cui rilevanza

aumenta al diminuire dell'impiego degli altri fattori della produzione (capitali,

attrezzature, macchine ecc.).

E' stata giustamente precisata da un autore115 la distinzione fra l'<<organizzazione

dei lavoratori>> e l'<<organizzazione delle prestazioni di lavoro>>, intendendo con la

prima una mera attività di selezione, reclutamento, formazione, trasporto dei lavoratori,

nonché di amministrazione retributiva e contributiva, e con la seconda un'attività che

comprende soprattutto i tipici poteri qualificanti la figura del datore di lavoro.

Si tratta adesso di capire se la mera organizzazione dei lavoratori, non includendo di

per sé l'esercizio del potere direttivo, disciplinare e di controllo, possa ritenersi

sufficiente ai fini della qualificazione di un lecito appalto.

114 Cfr. M.T. CARINCI, La somministrazione irregolare, anzi illecita, op. cit., 157–158. 115 Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di

fornitura, cit., 48 ss.

68

Sul punto, un autore evidenzia dei contrasti in dottrina116, affermando che da una

parte si sostiene l'irrilevanza della titolarità del rapporto e dell'esercizio del potere

direttivo e gerarchico ai fini della qualificazione della fattispecie concreta in termini di

illiceità, basandosi sulla considerazione che quello che deve valutarsi è l'esistenza

dell'impresa e non dell'organizzazione della prestazione, o in altri termini

dell'imprenditore piuttosto che del sostanziale datore di lavoro. Dall'altra parte si ritiene

invece che i poteri derivanti dal concetto di subordinazione siano necessari per

qualificare l'appaltatore come vero imprenditore117.

Ma il contrasto è solo apparente. Chi sostiene la centralità dell'impresa piuttosto che

dell'organizzazione della prestazione118, non nega la rilevanza dell'esercizio del potere

direttivo per la qualificazione della fattispecie vietata, bensì considera la subordinazione

sul piano del comportamento imprenditoriale, nel senso che la mancata direzione della

prestazione di lavoro, equivale, per l'interposto, alla mancata direzione della sua

impresa. Il potere direttivo è pertanto assorbito dal potere che si esprime nella direzione

dell'impresa. L'autrice (Bellocchi) chiarisce che le norme sull'interposizione si basano

sul collegamento lavoro-impresa, e non sulla struttura del contratto di lavoro. Ne deriva

che il divieto di interposizione, non essendo intrinseco alla definizione di

subordinazione di cui all'art. 2094 c.c., ha riguardo soltanto ai casi di effettiva

utilizzazione del lavoro altrui che si qualifica attraverso l'inesistenza dell'impresa cui il

contratto di lavoro si riferisce. In sostanza, il divieto di effettiva utilizzazione trae

origine dalla legge speciale e non dalla norma del codice civile (art. 2094).

Si può dunque affermare che la dottrina è sostanzialmente concorde nel ritenere che

l'esercizio del potere direttivo e gerarchico è un elemento essenziale per la verifica della

liceità dell’appalto.

Va precisato che la questione sulla relazione fra lavoro ed impresa non si esaurisce in

questi termini. Le attività possono qualificarsi come imprenditoriali anche a prescindere

dall'utilizzo di prestazioni di lavoro altrui. La dottrina commercialistica119 sostiene

l'essenzialità del coordinamento e della direzione del lavoro ai fini della qualificazione

116 Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di

fornitura, cit., 50-51. 117 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 86; R. DEL PUNTA, Problemi attuali e

prospettive in tema di interposizione di manodopera, cit., 294; R. DE LUCA TAMAJO, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 50 ss.

118 Cfr. P. BELLOCCHI, Interposizione e subordinazione, in Arg. dir. lav., 2001, n. 1, 162 ss. 119 Cfr. G. OPPO, L'impresa come fattispecie, cit., 250-254-255; G. OPPO, Impresa e imprenditore,

cit., 283-288-289; A. GRAZIANI – G. MINERVINI – U. BELVISO, cit., 38; V. CORRENTI, Caratteri dell'imprenditore, cit., 293.

69

di un'attività imprenditoriale, ma solo nei casi in cui l'imprenditore decide di impiegare

il lavoro altrui, ben potendo un'attività imprenditoriale qualificarsi come tale anche

senza la collaborazione dei lavoratori: il solo impiego di capitale proprio e lavoro

proprio è sufficiente per garantire l'esistenza dell'impresa. In sostanza, non tutte le

attività imprenditoriali richiedono il coordinamento e la direzione del lavoro altrui, che

risultano invece necessari qualora l'imprenditore decida di impiegare dei lavoratori

nell'attività.

Quindi è vero che si parla di esistenza dell'impresa e non dell’organizzazione della

prestazione, ma quest'ultimo elemento diviene strutturalmente collegato al primo nei

casi di effettivo impiego di lavoro altrui. Ne deriva che l'appaltatore, come è d'altronde

evidente nell'art. 1655 c.c., può essere considerato un vero imprenditore anche senza

esercitare i poteri tipici del datore di lavoro, purché l'organizzazione dei mezzi non

riguardi le prestazioni di lavoro.

Chiusa questa precisazione, e tornando all'ipotesi di effettivo impiego di lavoro altrui

per l'esecuzione dell'appalto, si può dunque affermare che gli indici riconducibili al

potere direttivo e gerarchico possono essere quindi definiti “assoluti”, nel senso che se

tali poteri sono esercitati in concreto dall'appaltante, equivale a dire che l'appaltatore è

privo di autonomia organizzativa120.

L’autonomia dell’appaltatore non viene però meno se l’appaltante esercita un certo

potere dispositivo e di controllo, purché, in ogni caso, tale potere riguardi l’attività

dell’appaltatore e non i suoi dipendenti121. Ciò significa che, anche se le caratteristiche

del prodotto o del servizio sono determinate dall’appaltante122, il potere d’ingerenza di

quest’ultimo sull’appaltatore non potrà mai essere tale da interferire sulle concrete

modalità di esecuzione e sui tempi della prestazione dei lavoratori coinvolti

nell’appalto, e più in generale sulla direzione tecnica e disciplinare123.

Il riferimento all'esercizio del potere direttivo, disciplinare e di controllo sui

lavoratori coinvolti nell'appalto, quale criterio di liceità, è infine effettuato

implicitamente dal comma uno dell'art. 29 del d.lgs. n. 276/2003: <<...organizzazione

dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle

120 Cfr. R. DEL PUNTA, Problemi attuali e prospettive in tema di interposizione di manodopera, cit., 293-294.

121 Cfr. Cass., 30 ottobre 2002, n. 15337, con nota di L. CALCATERRA, L'ambito oggettivo di applicazione del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro: problemi e prospettive di riforma, in Dir. lav., 2003, n. 1-2, 87 ss.

122 Cfr. Cass. n. 15665/2001, con nota di S. NAPPI, Interposizione, Appalti interni leciti e limiti del sindacato giurisdizionale, op. cit., 776.

123 Cfr. Cass., 19 dicembre 2002, n. 18098 e Cass., 29 agosto 2003, n. 12664.

70

esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere

organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto>>.

Come già accennato, oltre che con l'autonomia organizzativa (concetto che verrà

approfondito in seguito), la subordinazione interagisce con l'altro elemento essenziale

della nozione di appalto, ossia il rischio di impresa, che si presenta come l’aspetto

negativo del profitto, e di conseguenza comporta l'assunzione del rischio sull’impiego

della forza-lavoro e di tutti i beni materiali ed immateriali coinvolti nell’esercizio

d’impresa124.

Risulta in tal modo coerente la stretta connessione fra il concetto di rischio ed il

concetto di profitto, quest'ultimo visto come <<la remunerazione non

dell’amministrazione o della coordinazione, ma del rischio e della responsabilità che

l’imprenditore (…) si è assunto>>125.

In altre parole, chi svolge un’attività d’impresa ed esercita il potere

sull’organizzazione, condizionando e determinando, attraverso l’esercizio di tale potere,

il modo d’essere dell’attività, deve necessariamente correlare e controbilanciare tale

potere con l’assunzione del rischio d’impresa, inteso in senso economico, e cioè al

<<rischio di non coprire con i ricavi i costi dell’attività intrapresa>>126. In altre parole,

il rischio d'impresa <<è il rischio dell'imprenditore di non poter remunerare con i

guadagni i fattori della produzione impiegati nell'esecuzione dell'opera>>127, e

l'appaltatore potrebbe quindi perdere nell'affare nel caso in cui si verificasse una

eccedenza dei costi rispetto al compenso pattuito128.

Premesso ciò, diviene chiara la relazione che intercorre fra la subordinazione ed il

rischio d'impresa, che è evidentemente di natura indiretta, nel senso che il fattore lavoro

deve essere remunerato a prescindere da una eventuale eccedenza dei costi rispetto ai

ricavi, in conseguenza dell'esercizio dell'attività imprenditoriale in capo all'appaltatore.

La diretta dipendenza fra la retribuzione dovuta ai lavoratori ed il corrispettivo

dell'appaltatore è, infatti, uno degli indici utilizzati dalla giurisprudenza per verificare

124 Cfr. G. ALPA, M. BESSONE e V. ZENO-ZENCOVICH, I criteri d'imputazione: colpa, dolo, rischio, cit., 103.

125 Cfr. G. ALPA, M. BESSONE e V. ZENO-ZENCOVICH, I criteri d'imputazione: colpa, dolo, rischio, op. cit., 103.

126 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 82. 127 Cfr. G. FAVA e M. MAGRINI, Appalto di manodopera: aspetti giuslavoristici e fiscali, in Dir. prat.

lav., 2006, n. 48, 2784. 128 Cfr. G. FAVA e M. MAGRINI, Appalto di manodopera: aspetti giuslavoristici e fiscali op. cit.,

2784.

71

l'assenza di un reale rischio d'impresa129.

Occorre infine sottolineare che il livello effettivo di rischio economico assunto

dall'appaltatore dipenderà anche dalla sua capacità di negoziazione contrattuale ad

ottenere condizioni più o meno favorevoli ai propri interessi: <<Una cosa infatti è il

rischio attinente all'organizzazione imprenditoriale – che è quello rilevante ai fini della

configurazione di un legittimo appalto – altra cosa è il rischio conseguente al rapporto

contrattuale>>130.

3. Il lavoro autonomo negli appalti

Le conclusioni raggiunte circa il ruolo della subordinazione ai fini della distinzione

fra l’interposizione e l'appalto, spingono inevitabilmente a spostare l'attenzione sulle

ipotesi di utilizzo di prestazioni di lavoro autonomo negli appalti.

La questione si basa sostanzialmente sull'aspetto dell'autonomia nella organizzazione

del lavoro (intesa come organizzazione della prestazione di lavoro) che accomuna il

contratto di appalto con il contratto di lavoro autonomo: l'autonomia del singolo

lavoratore rappresenta infatti una parte della più ampia autonomia organizzativa

dell'appaltatore nell'esercizio dell'attività imprenditoriale.

Un lavoratore può essere definito autonomo se esegue la prestazione senza essere

assoggettato al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro. Dunque,

fermi restando eventuali vincoli di coordinamento e di continuità fra il committente ed il

collaboratore, quest'ultimo dovrà eseguire la prestazione in regime di effettiva

autonomia di tipo gestionale, gerarchico e organizzativo. Ma proprio l'esercizio di tali

poteri è espressione dell'autonomia organizzativa dell'appaltatore, e precisamente del

suo ruolo imprenditoriale sull'organizzazione del lavoro.

I termini del problema sono maggiormente evidenti nel caso di appalto di servizi a

prevalente prestazione professionale. In questi casi, l'autonomia organizzativa e

gestionale dell'appaltatore si esplica essenzialmente nella direzione del personale, nella

scelta delle modalità e dei tempi di lavoro131, e quindi nella definizione del contenuto

intrinseco della prestazione. E' chiaro che il mancato esercizio di tali poteri rende del

129 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 88. 130 Cfr. Cass., 26 gennaio 2004, n. 2583, in Orient. giur. lav., 2004, n. 53, 150. 131 Cfr. Cass. 29 agosto 2003, n. 12664.

72

tutto marginale ed accessorio il contributo dell'appaltatore. L'attività di quest'ultimo si

ridurrebbe, in concreto, ad una mera forma di coordinamento e di amministrazione dei

rapporti di lavoro. Si verifica in questo caso una incompatibilità, sia sul piano formale

che sul piano sostanziale, fra i due contratti, tale per cui i presupposti di legalità dell'uno

escluderebbero quelli dell'altro.

Si deve premettere che la dottrina prevalente e la giurisprudenza sono concordi nel

ritenere inapplicabile il divieto di interposizione ai rapporti di lavoro autonomo132, con

la precisazione che oggetto di interpretazione era la previgente normativa, che si riferiva

esclusivamente al lavoro subordinato.

In senso contrario un orientamento di una dottrina relativamente recente133, che,

basandosi sulla contrapposizione concettuale fra la fattispecie impresa e la fattispecie

interpositoria, sostiene l'applicabilità del divieto a prescindere dalla natura della

prestazione di lavoro. L'autrice rileva infatti, come già accennato sopra, che la disciplina

speciale deve essere letta ed applicata in rapporto al concetto di impresa, da cui deriva

che la direzione del lavoro altrui, come d'altronde sostenuto dalla dottrina

commercialistica, non è altro che una espressione della direzione dell'impresa.

4. Gli effetti della mancata regolamentazione dell’interposizione di lavoro autonomo

Le conclusioni raggiunte circa il ruolo della subordinazione ai fini della distinzione

fra l’interposizione e l'appalto, spingono inevitabilmente a spostare l'attenzione sulle

ipotesi di utilizzo di prestazioni di lavoro autonomo negli appalti.

La questione si basa sostanzialmente sull'aspetto dell'autonomia nella organizzazione

del lavoro (intesa come organizzazione della prestazione di lavoro) che accomuna il

contratto di appalto con il contratto di lavoro autonomo: l'autonomia del singolo

lavoratore rappresenta infatti una parte della più ampia autonomia organizzativa

dell'appaltatore nell'esercizio dell'attività imprenditoriale.

Un lavoratore può essere definito autonomo se esegue la prestazione senza essere

assoggettato al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro. Dunque,

132 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 72 ss; M. MARINELLI, Appalto di

manodopera e lavoro autonomo, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, 402 ss; A. FORTUNAT, Tipicità sociale del contratto di merchandising e divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 717 ss.

133 Cfr. P. BELLOCCHI, Interposizione e subordinazione, cit., 168-171.

73

fermi restando eventuali vincoli di coordinamento e di continuità fra il committente ed il

collaboratore, quest'ultimo dovrà eseguire la prestazione in regime di effettiva

autonomia di tipo gestionale, gerarchico e organizzativo. Ma proprio l'esercizio di tali

poteri è espressione dell'autonomia organizzativa dell'appaltatore, e precisamente del

suo ruolo imprenditoriale sull'organizzazione del lavoro.

I termini del problema sono maggiormente evidenti nel caso di appalto di servizi a

prevalente prestazione professionale. In questi casi, l'autonomia organizzativa e

gestionale dell'appaltatore si esplica essenzialmente nella direzione del personale, nella

scelta delle modalità e dei tempi di lavoro134, e quindi nella definizione del contenuto

intrinseco della prestazione. E' chiaro che il mancato esercizio di tali poteri rende del

tutto marginale ed accessorio il contributo dell'appaltatore. L'attività di quest'ultimo si

ridurrebbe, in concreto, ad una mera forma di coordinamento e di amministrazione dei

rapporti di lavoro. Si verifica in questo caso una incompatibilità, sia sul piano formale

che sul piano sostanziale, fra i due contratti, tale per cui i presupposti di legalità dell'uno

escluderebbero quelli dell'altro.

Si deve premettere che la dottrina prevalente e la giurisprudenza sono concordi nel

ritenere inapplicabile il divieto di interposizione ai rapporti di lavoro autonomo135, con

la precisazione che oggetto di interpretazione era la previgente normativa, che si riferiva

esclusivamente al lavoro subordinato.

In senso contrario un orientamento di una dottrina relativamente recente136, che,

basandosi sulla contrapposizione concettuale fra la fattispecie impresa e la fattispecie

interpositoria, sostiene l'applicabilità del divieto a prescindere dalla natura della

prestazione di lavoro. L'autrice rileva infatti, come già accennato sopra, che la disciplina

speciale deve essere letta ed applicata in rapporto al concetto di impresa, da cui deriva

che la direzione del lavoro altrui, come d'altronde sostenuto dalla dottrina

commercialistica, non è altro che una espressione della direzione dell'impresa.

134 Cfr. Cass. 29 agosto 2003, n. 12664. 135 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 72 ss; M. MARINELLI, Appalto di

manodopera e lavoro autonomo, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, 402 ss; A. FORTUNAT, Tipicità sociale del contratto di merchandising e divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, op. cit., 717 ss.

136 Cfr. P. BELLOCCHI, Interposizione e subordinazione, cit., 168-171.

74

5. I possibili collegamenti fra l’interposizione di lavoro autonomo e l’attuale

disciplina in materia di somministrazione di lavoro

A questo punto, è necessario analizzare più in dettaglio la struttura dell’attuale

disciplina speciale, che sembra lasciare maggiori spazi interpretativi per l’introduzione

di una specifica disciplina idonea a regolare l’interposizione di lavoro autonomo.

Già nella previgente normativa, in cui il legislatore non poteva prevedere il

diffondersi dell'utilizzo improprio di collaborazioni autonome come alternativa al lavoro

subordinato, si era compresa la necessità di inserire nel divieto altre forme di

manifestazione del fenomeno interpositorio, oltre le esplicite ipotesi di appalto e

subappalto (art. 1 l. n. 1369/1960). Tuttavia, la formula <<aperta>> adottata dal

legislatore era ben lontana dal considerare l'interposizione di lavoro autonomo.

L'elemento che aveva infatti inciso, in modo determinante, in favore della esclusione

dell'applicabilità del divieto di interposizione alla categoria di lavoratori autonomi era

stato l'esplicito riferimento alla manodopera assunta e retribuita, dall'appaltatore o

dall'intermediario. C'è però da precisare che se si considera la graduale trasposizione

delle tutele previste per il lavoro subordinato in favore del lavoro parasubordinato,

entrambi gli elementi (assunta e retribuita) hanno comunque perso nel tempo quella

forza discriminante fra le due categorie di lavori. Basti pensare al tendenziale

avvicinamento del trattamento fiscale e previdenziale delle collaborazioni coordinate e

continuative a quello dei lavoratori subordinati, ed al criterio di proporzionalità che

adesso caratterizza, per espressa disposizione legislativa (art. 63 del d.lgs. n. 276/2003),

il compenso dei lavoratori a progetto.

Anche la tipologia di sanzione prevista dalla legge del 1960 in caso di violazione del

divieto, ossia la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in capo al

committente, ha deposto in favore dell'applicabilità del divieto al solo lavoro

dipendente, in quanto è stata giustamente ritenuta sproporzionata qualora il rapporto di

lavoro sia stato svolto in regime di reale autonomia da parte del lavoratore. Ma anche in

questo caso, considerando che nell'attuale disciplina in tema di collaborazioni autonome

a progetto la violazione degli obblighi imposti dalla legge comporta, come sanzione, la

costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, a prescindere dall’effettiva natura del

rapporto137, forse anche il valore discriminante del comma cinque dell'art. 1 della legge

137 L'art. 69, comma uno, d.lgs. n. 276/2003 stabilisce che i rapporti di collaborazione coordinata e

continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto (o di un programma di lavoro o di

75

del 1960, ne sarebbe risultato, se ancora in vigore, indebolito dall'evolversi della nuova

regolamentazione del mercato del lavoro.

Riguardo alla somministrazione di lavoro, si deve anzitutto dire che anche nella

nuova regolamentazione si stabilisce che il ricorso al contratto stipulato fra il

somministratore e l'utilizzatore è lecito soltanto quando le prestazioni di lavoro oggetto

di contrattazione sono di natura subordinata, e di conseguenza anche le norme

sanzionatorie in materia possono applicarsi soltanto in caso di lavoro dipendente.

Fermo restando ciò, è tuttavia importante rilevare che, nonostante sia evidente la

destinazione delle tutele ai soli lavoratori subordinati, la nuova disciplina lascia

maggiori spazi interpretativi per una estensione del divieto al lavoro autonomo rispetto

a quella previgente, grazie alla differente impostazione contenutistica e metodologica

della decretazione. Ci si riferisce in particolare alla definizione generica di

somministrazione di lavoro fornita dal legislatore, alla nuova posizione attribuita alla

subordinazione rispetto alla fattispecie interpositoria, ed infine al risalto conferito alla

differenza fra la somministrazione e l'appalto.

Riguardo alla questione definitoria, il riferimento al lavoro subordinato non è

effettuato direttamente nella nozione di somministrazione di cui all'art. 2, lettera a)

comma uno, d.lgs. n. 276/2003 (...fornitura professionale di manodopera, a tempo

indeterminato o a termine, ai sensi dell'art. 20;), bensì indirettamente mediante quanto

previsto dall'art. 20, comma due (Per tutta la durata della somministrazione i lavoratori

svolgono la propria attività nell'interesse nonché sotto la direzione e il controllo

dell'utilizzatore...).

Sembra dunque che il legislatore abbia fornito un concetto ampio di

somministrazione senza specificare la tipologia di lavoro (art. 2), imponendo, poi, come

condizione di liceità (art. 20) per il ricorso a tale fattispecie contrattuale, che questa

debba avvenire attraverso la soggezione del lavoratore al potere direttivo e di controllo

dell'utilizzatore.

Considerato ciò, è adesso possibile discutere la seconda questione, che è tra l'altro un

aspetto fondamentale del passaggio dalla vecchia alla nuova normativa, ossia la una fase di esso) sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Questa previsione legislativa è stata ridimensionata dalle prime sentenze che affrontano la questione, secondo le quali si ammette la natura subordinata del rapporto di lavoro in assenza di progetto, salva la possibilità di fornire la prova contraria da parte del committente. Cfr. S. BRUN, Primi orientamenti della giurisprudenza di merito sul lavoro a progetto: prevale la linea “morbida”, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 330 ss; A. CORVINO, Osservatorio di giurisprudenza italiana – Dalla giurisprudenza ulteriori conferme agli indirizzi del Ministero del lavoro in merito al lavoro a progetto, in Dir. rel. ind., 2007, n. 3, 821 ss; S. SPATARO, Il lavoro a progetto nella giurisprudenza, in Dir. rel. ind., 3, 664 ss.

76

posizione della subordinazione rispetto alla fattispecie interpositoria: mentre in passato

con la legge del 1960 il rapporto di lavoro subordinato era elemento costitutivo della

fattispecie vietata, adesso, con il decreto del 2003, questo stesso elemento della

subordinazione è richiesto ai fini della liceità della fattispecie di somministrazione di

lavoro. Da ciò deriva che essendo la subordinazione un elemento fondamentale per la

liceità del contratto di somministrazione, se ne può dedurre che il lavoro autonomo non

può formare oggetto di contrattazione.

Un'ulteriore osservazione interessante, che mette ancor più in rilievo il valore della

estensione del divieto di interposizione al lavoro autonomo, è il risalto attribuito alla

distinzione fra l'appalto e la somministrazione di lavoro (art. 29, comma uno), attraverso

cui si ribadisce l'applicazione del principio su cui si è sempre basata la

regolamentazione del fenomeno, e cioè che l'appalto, ai sensi dell'art. 1655 c.c., si

distingue dalla somministrazione per l'organizzazione dei mezzi e per la gestione a

proprio rischio in capo all'appaltatore.

Soprattutto da quest'ultimo punto di vista emerge chiaramente il vuoto normativo in

esame: da un lato la somministrazione di lavoro regolamentata dalla legge riguarda

esclusivamente il lavoro subordinato, e dall'altro lato questa stessa fattispecie si deve

distinguere dall'appalto per dei requisiti essenziali che, come si è già avuto modo di

dimostrare, possono difettare anche in una particolare ipotesi di somministrazione di

lavoro che non è invece disciplinata dalla legge, ossia quella che ha ad oggetto il lavoro

autonomo.

In definitiva, si può affermare che una regolamentazione totale del fenomeno

interpositorio si rende anzitutto necessaria per garantire l'ordine sistematico delle

fattispecie giuridiche legate al fenomeno. Dall'indagine fin qui svolta risulta

chiaramente come le lacune della legge speciale si riflettono inevitabilmente in modo

negativo sulla identità della nozione di appalto (art. 1655 c.c.) e sulla identità della

nozione di imprenditore (art. 2082 c.c.).

Tali conclusioni consentono indubbiamente una rivalutazione positiva della

posizione assunta da quella dottrina minoritaria che sostiene l'applicabilità del divieto di

interposizione anche al lavoro autonomo. L'impostazione adottata dall'autrice è tuttavia

viziata da un errore interpretativo che consente di accettarla solo parzialmente. E' vero

che la legge speciale deve essere letta ed applicata in rapporto al concetto di impresa, e

che quindi il lavoro autonomo non dovrebbe essere escluso dalla normativa. Ma è anche

vero che non esiste alcuna disciplina, che possa far rientrare questa categoria di lavori

77

nel campo di applicazione delle tutele poste in essere per il lavoro subordinato.

A questo punto, prima di fornire possibili soluzioni orientate a colmare questa

lacuna, è opportuno citare alcune conseguenze, giuridiche ed economiche, generate dal

ricorso alla somministrazione di lavoro autonomo.

Per il committente, i vantaggi derivanti dal ricorso all'appalto eseguito mediante

l'impiego di lavoratori autonomi sarebbero infatti di due tipi: una maggiore possibilità di

poter negoziare un prezzo minore per il servizio o per l'opera, in quanto l'appaltatore

non è obbligato a rispettare i minimi retributivi e contributivi previsti per il lavoro

subordinato, e l'inapplicabilità della responsabilità solidale del committente prevista

dall'art. 29, comma due, d.lgs. n. 276/2003138.

Queste opportunità di mercato hanno probabilmente contribuito all'espansione di

processi di esternalizzazione mediante contratti di appalto, accompagnati da un

notevole, e spesso improprio, utilizzo delle collaborazioni autonome coordinate e

continuative, che hanno comportato condizioni di precarietà diffusa in questa categoria

di lavoratori.

In effetti, se l'appaltatore svolgesse un ruolo residuale rispetto al risultato atteso

dall'attività appaltata, non esisterebbe nessuna valida ragione economica che potrebbe

spingere il committente a ricorrere all'appalto (che tra l'altro non sarebbe più tale), oltre

l'opportunità di potersi svincolare dalle responsabilità derivanti da eventuali pretese dei

lavoratori. Questo a maggior ragione se si considera che, rispetto alla stipulazione

diretta di un contratto di lavoro, il committente deve sostenere un costo maggiore,

coincidente con il margine di profitto dell'appaltatore.

Ne consegue inoltre che, il ricorso all'impresa appaltatrice risulta economicamente e

normativamente più vantaggioso rispetto ad una società di somministrazione di

lavoro139, in quanto la prima può operare a bassi costi di manodopera (anche attraverso

138 L'art. 29, comma due, d.lgs. n. 276/2003 prevede una coobligazione solidale tra committente e

appaltatore relativamente ai trattamenti retributivi e ai contributi previdenziali dovuti, entro il limite di un anno dalla cessazione dell'appalto. Nella prima fornulazione dell'art. 29 il legislatore aveva previsto questa forma di tutela soltanto nei casi di appalto di servizi. Con un successivo decreto (n. 251/2004) la tutela è stata estesa anche agli appalti di opere. Sul tema cfr. P. ICHINO, Il rapporto di lavoro negli appalti di servizi, in M. PEDRAZZOLI (coordinato da), Commento al D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, 2004, sub artt. 20 – 29, 323 ss; R. ROMEI, La distinzione fra interposizione e appalto e le prospettive della certificazione, in M. TIRABOSCHI (a cura di) Le esternalizzazioni dopo la riforma Biagi, Milano, 2006, 298 ss. Ulteriori modifiche alla disciplina della coobligazione solidale in tema di appalto di cui all'art. 29 sono previste dalla l. 27 dicembre 2006, n. 296 (Finanziaria 2007), P. CHIECO, Lavoro e responsabilità solidale negli appalti: dalla legge Bersani alla Finanziaria 2007, in Lav. giur., 2007, n. 5, 467 ss.

139 Non a caso, ad agire in giudizio contro un appalto avente ad oggetto prestazioni infermieristiche (TAR Piemonte, 27 giugno 2006, n. 2711, con nota di I. ALVINO, Distinzione fra somministrazione e

78

collaborazioni coordinate e continuative), mentre la seconda è soggetta ad una serie di

vincoli retributivi e contributivi a favore del lavoratore, ovviamente subordinato140.

Queste ultime argomentazioni rafforzano e giustificano la creazione di una disciplina

specifica per la somministrazione di lavoro autonomo.

Prima di fornire possibili soluzioni, è necessario rispondere alla seguente domanda:

si deve totalmente vietare l'interposizione di lavoro autonomo o si deve creare una

disciplina che autorizzi questa forma di somministrazione di lavoro a determinate

condizioni imposte dalla legge?

La risposta a tale domanda è molto più complessa di quanto non lo sia in apparenza.

Il ricorso alla somministrazione di lavoro autonomo non ha gli stessi presupposti

economici e giuridici di quella che ha ad oggetto il lavoro dipendente.

Con la stipulazione di un contratto di somministrazione di lavoro subordinato,

l'utilizzatore ottiene il vantaggio di potere usufruire di lavoratori dipendenti senza

doversi accollare una serie di oneri derivanti dall'assunzione diretta. Ne discende che

l'utilizzatore ha il diritto di esercitare il proprio potere imprenditoriale sulla prestazione

di lavoro, senza correre il pericolo di vedersi imporre un'assunzione diretta, in

conseguenza della sanzione prevista in caso di stipulazione di un contratto di appalto

con un finto imprenditore. Quindi, l'utilizzatore, al fine di potersi avvalere di una

notevole flessibilità di organico secondo le proprie esigenze, è disposto a sostenere un

costo maggiore (profitto della società di somministrazione) rispetto alla stipulazione di

un contratto di lavoro subordinato.

Nel caso invece di lavoro autonomo questi vantaggi in termini di flessibilità garantiti

dal contratto di somministrazione sono già intrinseci nell'assunzione diretta. E quindi,

che cosa potrebbe giustificare il ricorso alla somministrazione di lavoro autonomo da

parte dell'utilizzatore?

Di sicuro, come già accennato, nessun apparente vantaggio in chiave economica, e

questo a maggior ragione se si tiene presente che per il lavoro autonomo non sono

previsti minimi retributivi. Neppure si può parlare di un’utilità in termini di flessibilità

organizzativa della prestazione di lavoro, nel senso che, con o senza contratto di

somministrazione, l'utilizzatore non può esercitare il potere di direzione e di controllo su

appalto: il caso della esternalizzazione delle attività di assistenza infermieristica, in Orient. giur. lav., 2006, n. 2, 329 ss) è stata l'Agenzie per il lavoro associate (A.P.L.A.), cui aderiscono numerose società di fornitura di lavoro temporaneo.

140 Sul tema della differenza fra appalto e somministrazione di lavoro in tema di tutela del lavoratore si veda R. DEL PUNTA, Statuto dei lavori ed esternalizzazioni, in Dir. rel ind., 2004, n. 2, 218 ss.

79

questa categoria di lavoratori.

L'insussistenza di valide esigenze di flessibilità nell'ipotesi di somministrazione di

lavoro autonomo trovano anche riscontro nel contesto del sistema giuridico di

riferimento.

Mentre per l'applicazione del divieto d'interposizione al lavoro subordinato si deve

dimostrare che l'appaltatore non ha agito come vero imprenditore, questo stesso

presupposto di verifica viene meno nel caso in cui vengano impiegati dei lavoratori

autonomi nell'attività.

In tal caso, infatti, l'assenza di imprenditorialità in capo all'appaltatore non necessita

di un ulteriore accertamento in quanto, come già ampiamente dimostrato, essa trae

direttamente origine dall'inesistenza del requisito dell'organizzazione, in conseguenza

dell'impiego di prestazioni di lavoro autonomo in alternativa al lavoro subordinato.

E' importante ribadire che il valore aggiunto fornito in questi casi dal finto

imprenditore, potrebbe essere solamente riconducibile ad una mera forma di

amministrazione dei contratti di lavoro, o tutt'al più ad un'attività in grado di produrre

un risultato diverso da quello atteso nel contratto di appalto, che probabilmente

coinciderebbe con il servizio di intermediazione e di ricerca e selezione del personale, il

quale non presuppone la titolarità del rapporto in capo al soggetto erogatore del

servizio.

Quest'ultima argomentazione rappresenta un'ulteriore conferma del valore

sistematico di un completamento della normativa in esame. In questo senso, se l'oggetto

dell'appalto coincidesse con una mera attività di somministrazione di lavoro autonomo,

accompagnata da un’apprezzabile attività di selezione del personale, si andrebbero a

violare anche le specifiche regole imposte dal decreto del 2003 per l'esercizio delle

attività di ricerca e selezione del personale. E si finirebbe di conseguenza con il privare

di significato il ruolo attribuito dalla legge a questa tipologia di attività.

A questo punto, la disciplina del fenomeno interpositorio, sia che la si voglia

ricondurre a delle finalità di ordine prettamente sistematico, e sia che la si voglia anche

intendere come strumento di tutela volto a contrastare la precarietà che ormai investe la

categoria di lavoratori autonomi negli appalti, non può che essere modificata nel senso

di una imposizione del divieto di somministrazione di lavoro autonomo senza eccezioni.

Ciò significa che l'eventuale interposizione di lavoro celata dietro un finto contratto

di appalto, risultante dall'impiego di prestazioni di lavoro autonomo, dovrebbe essere

principalmente sanzionata con l'imposizione della costituzione del rapporto di lavoro

80

autonomo in capo all'effettivo utilizzatore.

A questo dovrebbero aggiungersi almeno altre due componenti: il diritto del

lavoratore al riconoscimento, fin dalla data di costituzione del rapporto di lavoro, ad un

compenso proporzionato a quello normalmente corrisposto dall’effettivo committente,

per analoghe o simili prestazioni di lavoro, associato ad un adeguato sistema

sanzionatorio a carico dell'interposto e dell'effettivo utilizzatore.

Un'ulteriore soluzione di riserva, che dovrebbe soccorrere qualora venisse respinta la

tesi sulla incompatibilità giuridica fra l'impiego di lavoro autonomo e la sussistenza dei

requisiti di imprenditorialità in capo all'appaltatore, potrebbe essere quella di autorizzare

questa forma di somministrazione di lavoro attraverso la creazione di una specifica

disciplina, che vada in ogni caso a sanzionare l'interposizione non autorizzata, anche al

fine di mantenerne la separazione concettuale con l'appalto.

In tal caso, la verifica condotta deve pur sempre basarsi sull'accertamento della

qualità imprenditoriale dell'appaltatore, ma stavolta attraverso una serie di indici idonei

a rilevare, in concreto, l'autonomia organizzativa e la gestione a proprio rischio in capo

all'appaltatore. Si tratta ovviamente di una verifica dell'autonomia organizzativa sia

interna (nei confronti dei lavoratori autonomi) che esterna (nei confronti

dell'appaltante). E la stessa cosa vale anche per la valutazione del rischio d'impresa.

Quindi, attraverso la prima soluzione si stabilisce un divieto assoluto di

somministrazione di lavoro autonomo, mentre con la seconda impostazione si vieta il

ricorso a tale fattispecie solo al di fuori di precisi limiti, imposti dalla creazione di una

specifica disciplina. In quest'ultimo caso si ammette però implicitamente la possibilità

che l'appaltatore può essere considerato un vero imprenditore anche senza l'esercizio del

potere direttivo e disciplinare nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto. Questa

seconda soluzione lascerebbe dunque irrisolto il problema della compatibilità giuridica

fra i requisiti caratterizzanti il lavoro autonomo con quelli dell'appalto, e più in generale

la questione relativa alla sistematicità delle fattispecie giuridiche coinvolte.

Inoltre, offrire agli operatori economici l'opportunità di potere usufruire della

somministrazione di lavoro autonomo comporta una spinta verso l'utilizzo fraudolento

di tale tipologia contrattuale, in alternativa all'impiego di lavoro subordinato.

E' principalmente per tali ragioni che il vuoto normativo relativo al fenomeno in

esame, deve essere colmato attraverso la previsione di un divieto assoluto di

interposizione di lavoro autonomo. Questa è l'unica soluzione che riesce a risolvere

correttamente tutte le problematiche discusse, e quindi sia dal punto di vista

81

strettamente giuridico che in termini di maggiore tutela dei lavoratori nell'ampio

contesto delle esternalizzazioni.

Per ragioni di completezza, si deve rilevare che per la seconda ipotesi possono

utilizzarsi le stesse sanzioni fornite per la prima soluzione, ma con una variante:

l'obbligo per l'appaltatore di corrispondere al lavoratore un compenso non inferiore a

quello erogato dall'appaltante ai suoi lavoratori per analoghe o simili prestazioni di

lavoro, autonome e subordinate. In tal modo, si disincentiverebbe notevolmente

l'utilizzo indiretto del lavoro autonomo per ragioni di mero risparmio sul costo del

lavoro.

6. La centralità dell’oggetto dell’appalto per la valutazione della fattispecie

interpositoria

E' opportuno ribadire che gli elementi di liceità dell'appalto devono specificatamente

riguardare l'oggetto dell'attività appaltata. Quindi, più che di assetto organizzativo

dell'impresa, si potrebbe parlare di assetto organizzativo dell'attività appaltata.

Per tale ragione, il divieto d'interposizione non dovrebbe estendersi a tutte le forme

di lavoro autonomo impiegate per la realizzazione delle attività facenti capo

all'appaltatore.

Occorre valutare le prestazioni di lavoro in termini di riconducibilità ad una relazione

diretta con gli elementi di liceità (organizzazione autonoma e gestione a proprio rischio)

rispetto al contenuto specifico dell'oggetto dell'appalto.

Pertanto, il necessario esercizio del potere direttivo e disciplinare nei confronti dei

lavoratori coinvolti nell'appalto dovrebbe riferirsi soltanto a quelle prestazioni di lavoro

che, essendo direttamente inserite nell'organizzazione dell'attività oggetto dell'appalto,

rappresentano il mezzo attraverso cui l'appaltatore esprime il suo potere di vero

imprenditore, rispetto alle obbligazioni assunte contrattualmente con il committente.

Sulla base di tali presupposti, non è quindi la natura della prestazione che è

necessariamente subordinata, ma il suo legame con i presupposti essenziali di un lecito

appalto, e quindi con le caratteristiche dell'organizzazione del lavoro rispetto all'oggetto

dell'appalto stesso.

Ad esempio, un'attività appaltata che ha ad oggetto il solo servizio di assistenza alla

clientela, tramite call center, dovrebbe essere formata da lavoratori (subordinati)

82

impiegati direttamente nell'esecuzione del servizio (operatori telefonici), ai quali

potrebbero affiancarsi lavoratori di <<supporto>>, le cui prestazioni non vengono

impiegate per la realizzazione diretta del servizio oggetto dell'appalto (se non attraverso

il risultato finale), ad esempio gli incaricati dall'appaltatore alla sostituzione dei

componenti hardware dei pc utilizzati per l'inserimento dei dati relativi all'attività, o

l'elettricista nel caso di guasti all'impianto elettrico.

In effetti, per queste attività di supporto, poiché il contenuto intrinseco della

prestazione (in termini di scelta delle modalità e dei tempi di lavoro) non influisce sulle

caratteristiche della specifica commessa, l'eventuale ricorso a forme di lavoro autonomo

non altera la qualità imprenditoriale dell'appaltatore.

7. Il lavoro a progetto negli appalti

Riguardo alla notevole diffusione del lavoro coordinato e continuativo (art. 409 del

c.p.c.) nell'ambito degli appalti di servizi, è evidente come per questi rapporti, essendo

qualificati come prestazioni di lavoro autonomo141, valgano le stesse considerazioni

fatte in generale fino ad ora.

Occorre sottolineare che alcuni problemi interpretativi sono sorti in relazione al

contenuto generico dei requisiti (coordinamento e continuità) richiamati dall'art. 409 del

c.p.c., rispetto alla definizione di lavoro autonomo di cui all'art. 2222 c.c. Tuttavia, ai

fini del presente studio è sufficiente qualche precisazione.

Il coordinamento, che è stato definito in termini di <<...connessione funzionale fra

l'attività del prestatore d'opera e quella del destinatario della prestazione>>142, consente

a quest'ultimo di collegare il risultato della prestazione lavorativa (e quindi non questa

stessa come nel lavoro subordinato) alle necessità organizzative dell'impresa. Il

coordinamento, comunque, non potrà mai essere tale da determinare un

assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro circa le modalità di esecuzione

dell'attività lavorativa143, perché in tal caso non si avrebbe più lavoro autonomo ma

141 Sul punto la dottrina è divisa: all'orientamento prevalente secondo cui la fattispecie di lavoro a

progetto è un sottotipo del lavoro autonomo, si contrappone una tesi minoritaria che riconduce la nuova tipologia contrattuale ad un tertium genus tra autonomia e subordinazione. Per approfondimenti si rimanda a C. BIZZARRO, Il lavoro a progetto nella elaborazione dottrinale, in Dir. rel. ind., 2007, n. 3, 656-657.

142 Cfr. Cass., 30 dicembre 1999, n. 14722. 143 Cfr. Cass., 2 novembre 2004, n. 2622, in Mass. giust. civ., 2004.

83

subordinato. Il potere di coordinazione del committente può essere solo esterno rispetto

al contenuto intrinseco della prestazione, e pertanto è evidente che anche questo tipo di

prestazioni sono incompatibili con la necessità del vincolo della subordinazione che

caratterizza l'appalto.

Lo stesso ragionamento può farsi per il requisito della continuità <<...che ricorre

quando la prestazione non sia occasionale ma perduri nel tempo e comporti un impegno

costante del prestatore a favore del committente>>144.

Il d.lgs. n. 276/2003 ha tipizzato le collaborazioni coordinate e continuative145,

adesso riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso

(art. 61, comma uno), ferme restando alcune ipotesi per le quali tale presupposto non è

stato ritenuto necessario (art. 61, comma due e tre).

Dalla definizione di lavoro a progetto emerge che il principale carattere distintivo

rispetto alle vecchie collaborazioni coordinate e continuative è dato dall'esistenza di un

<<progetto, programma o fase di programma>>.

Dalle prime sentenze in materia, emerge anzitutto l'ampia conferma della natura

autonoma delle collaborazioni a progetto, quale requisito fondamentale della

fattispecie146.

Riguardo al progetto (programma di lavoro o fase di esso), l'elemento che lo

caratterizza deve essere la sua <<specificità>>, nel senso che, essendo finalizzato ad un

risultato realizzato in autonomia dal collaboratore, non può presentarsi in forma

standardizzata, senza specificazioni147.

Ma la specificità, ancor prima di essere elemento di distinzione fra le attività dei vari

collaboratori, svolge l'importante ruolo di creare una separazione fra l'oggetto sociale e

lo specifico progetto affidato al collaboratore.

Se si verificasse una coincidenza fra i due elementi, in realtà ai lavoratori non

144 Cfr. Cass., 19 aprile 2002, n. 5698. 145 Per approfondimenti si rimanda a D. MEZZACAPO, Il lavoro coordinato e continuativo a

progetto, in G. AMOROSO – V. DI CERBO - A. MARESCA (a cura di) Il diritto del lavoro, volume I, Milano, 2007, 1295 ss.

146 Cfr. sentenze: tribunale Torino 5 aprile 2005, tribunale Milano 10 novembre 2005, tribunale Ravenna 24 novembre 2005, tribunale Modena 21 febbraio 2006. Cfr. anche le note di A. LEPORE, Questioni in tema di lavoro a progetto, in Dir. lav., 2006, III, 305 ss; R. BAUSARDO, Il contratto a progetto a un primo vaglio della giurisprudenza di merito, in Riv. it. dir. lav., 2005, IV, 849 ss; S. BRUN, Primi orientamenti della giurisprudenza di merito sul lavoro a progetto: prevale la linea “morbida”, op. cit., 330 ss. Si veda inoltre la nota alle sentenze del tribunale di Torino (23 marzo 2007) e del tribunale di Bologna (6 febbraio 2007) di A. CORVINO, Osservatorio di giurisprudenza italiana – Dalla giurisprudenza ulteriori conferme agli indirizzi del Ministero del lavoro in merito al lavoro a progetto, cit., 825.

147 Cfr. M. NICOLINI, Lavoro a progetto in funzione antifraudolenta, in Dir. prat. lav., 2006, n. 15, 2668 ss.

84

verrebbe affidato il compito di <<collaborare>> con la struttura aziendale ma di

sostituirla ed esaurirla148, e, di fatto, si avrebbe l'inserimento del lavoratore nella

gerarchia aziendale, con la conseguente mancanza di autonomia decisionale che

andrebbe a snaturare la tipologia contrattuale utilizzata149.

Il ricorso alla standardizzazione è, in effetti, congeniale allo svolgimento delle

attività che coincidono con l'oggetto sociale, ma questo è possibile solo attraverso

l'inserimento delle prestazioni di lavoro nell'organizzazione aziendale.

Il requisito della specificità, inteso come elemento di distinzione rispetto all'oggetto

sociale, conferma l'impostazione in base alla quale le prestazioni di lavoro utilizzate

direttamente per la realizzazione dell'oggetto dell'appalto (quindi integrate

nell'organizzazione dell'attività appaltata), non possono essere definite prestazioni di

lavoro autonome.

In pratica, se il progetto coincidesse con l'oggetto dell'attività appaltata,

significherebbe ammettere che l'appaltatore non potrebbe governare le dinamiche del

fenomeno organizzativo. Questo in quanto ogni collaboratore, libero dal potere di

conformazione tipico del lavoro subordinato, raggiungerebbe il risultato dedotto in

contratto, che altro non è che l'oggetto dell'appalto, scegliendo egli stesso le modalità ed

i tempi della prestazione (e cioè l'organizzazione del proprio lavoro), assumendosi

inoltre il rischio d'impresa se il compenso è direttamente legato al risultato150.

L'appaltatore risulterebbe un mero coordinatore di un insieme di “nuclei indipendenti”,

che, in quanto tali, non sarebbero idonei a rappresentare un'organizzazione d'impresa

finalizzata al raggiungimento dell'oggetto dell'appalto, e l'organizzazione stessa sarebbe

inesistente.

La logica di base è dunque questa: la struttura aziendale, finalizzata alla realizzazione

dell'oggetto sociale (dell'oggetto dell'appalto nel caso di attività esternalizzata), deve

essere il risultato del potere organizzativo dell'imprenditore, al quale deve imputarsi il

rischio d'impresa.

148 Cfr. sentenza Tribunale Torino 5 aprile 2005. 149 Nella circolare n. 1/2004 sul lavoro a progetto, emanata dal ministero del Lavoro e delle Politiche

Sociali, si specifica che <<il progetto può essere connesso all'attività principale od accessoria dell'impresa.>>. Il concetto di “connessione” che emerge dalla citazione dovrebbe dare la conferma che la prestazione del lavoratore a progetto deve essere connessa all'attività del committente, ma non esserne parte integrante, se non attraverso il risultato finale.

150 Interessanti sotto questo punto di vista gli approfondimenti di un autore, relativamente alle implicazioni derivanti dalla riconducibilità dell'obbligazione del collaboratore a progetto ad una obbligazione di risultato. Cfr. G. SANTORO-PASSARELLI, Dal contratto d'opera al lavoro autonomo economicamente dipendente, attraverso il lavoro a progetto, in Riv. it. dir. lav., 2004, IV, 558-561.

85

La collaborazione di prestatori di lavoro autonomo deve essere attuata sotto forma di

<<connessione>> estranea alla gerarchia aziendale, che non vada cioè a creare una

sovrapposizione fra l'autonomia organizzativa del collaboratore rispetto al potere

organizzativo dell'imprenditore, tale per cui, di fatto, quest'ultimo finirebbe con il

costringere il lavoratore autonomo a conformare la propria prestazione alle mutevoli

esigenze dell'organizzazione imprenditoriale.

Quello che deve andarsi ad integrare all'organizzazione del committente, attraverso il

coordinamento fra le rispettive attività, è il risultato e non la prestazione di lavoro.

In questo senso, il ruolo svolto da “uno specifico progetto” sarebbe quello di

estraniare l'attività del collaboratore rispetto alle mutevoli e variabili esigenze del

committente, impedendo così <<a monte>> l'utilizzo fraudolento del lavoro

parasubordinato151. L'eventuale mancanza della specificità nel progetto è sintomo

dell'inserimento del collaboratore nella gerarchia aziendale, e quindi dell'inesistenza

dell'elemento essenziale della fattispecie di lavoro a progetto, cioè l'autonomia

nell'esecuzione della prestazione.

Il progetto assume quindi la funzione di rilevatore della genuinità del rapporto, che,

basandosi sulla centralità del requisito dell'autonomia del collaboratore rispetto

all'organizzazione del committente, mantiene una sua validità pratica, anche se dalla sua

assenza deriva la natura subordinata del rapporto solo salvo prova contraria fornita dal

committente.

Così, se un lavoro non può formare oggetto di uno specifico progetto (come sopra

inteso), è improbabile che questo possa essere svolto in regime di effettiva autonomia da

parte del collaboratore.

Ad esempio, questo vale sicuramente per il lavoro di una segretaria in uno studio, per

il lavoro di un operaio in una fabbrica, o per il lavoro di un operatore telefonico,

inbound o outbound, in un call center.

Basandosi sulla ratio della norma152, se alle considerazioni di portata generale della

previsione legislativa si affiancassero valutazioni specifiche per categorie di lavori

inseriti in particolari contesti produttivi, si potrebbe creare una “lista” di lavori che non

possono essere riconducibili allo schema di lavoro a progetto, disincentivando così, a

151 Cfr. F. LUNARDON, Tipologie contrattuali a progetto e occasionale, in P. BELLOCCHI, F.

LUNARDON e V. SPEZIALE (a cura di), Commentario al D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, sub artt. 61 - 69, 2004, 25.

152 Ossia impedire l'utilizzo improprio delle collaborazioni coordinate e continuative che di fatto nascondono un rapporto di lavoro subordinato.

86

priori, l'utilizzo improprio del lavoro parasubordinato.

In questa direzione, il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha emanato una

circolare (n. 17/2006), rivolta al personale ispettivo, per regolamentare l'utilizzo del

lavoro a progetto nei call center, dove, appunto, le caratteristiche del lavoro, o più in

generale del settore di riferimento, precludono al datore di lavoro la possibilità di

utilizzare contratti di lavoro a progetto per gli operatori telefonici che svolgono attività

inbound.

Talvolta, infatti, le caratteristiche del servizio potrebbero addirittura condurre ad una

subordinazione diretta del committente. In questi casi, ponendo per ipotesi che tutti i

lavoratori impiegati siano subordinati, gli elementi di liceità dell'appalto

(organizzazione autonoma e gestione a proprio rischio) sarebbero messi in discussione

dal tipo di relazione instaurata fra l'appaltatore ed il committente.

87

Capitolo 7 – La qualifica di vero imprenditore ai fini della valutazione della liceità

dell’appalto

SOMMARIO: - 1. Appalto di servizi ed interposizione vietata. - 2. Il fenomeno

organizzativo nella disciplina sull'appalto. - 3. La valutazione dell’autonomia funzionale dell’appaltatore: esistono servizi oggettivamente in appaltabili? - 4. Il ruolo dei mezzi immateriali di produzione negli appalti di servizi a prevalente impiego di prestazioni di lavoro. - 5. L'impatto dell'innovazione tecnologica sulla fattispecie interpositoria.

1. Appalto di servizi ed interposizione vietata

L'analisi condotta nei paragrafi precedenti ha riguardato la verifica dei requisiti di

imprenditorialità in capo all'appaltatore dal punto di vista della relazione fra questo ed il

lavoratore. Adesso, ponendo per ipotesi che tutti i lavoratori impiegati siano dipendenti,

è possibile affrontare la questione relativa alla verifica dei requisiti essenziali

dell'appalto dalla prospettiva del rapporto fra l'attività dell'appaltatore con quella del

committente.

L'argomento è estremamente interessante in quanto, come si vedrà meglio in seguito,

talvolta sono proprio le caratteristiche del servizio che conducono ad una

subordinazione diretta dei lavoratori in favore del committente.

In primo luogo, come già accennato, la verifica della liceità dell'appalto è condotta

per via interpretativa attraverso l'individuazione dei suoi elementi tipici153.

Si configura quindi un lecito appalto allorquando l’appaltatore crea, rispetto alla

mera messa a disposizione di mezzi e/o prestazioni di lavoro, un valore aggiunto che,

con la produzione dell’opera o del servizio, rispecchia le caratteristiche tipiche di

un’attività d’impresa, così come evidenziato dall'art. 29 del d.lgs. n. 276/2003.

Viceversa, i lavoratori si considerano dipendenti del committente, quando l'appaltatore,

anziché agire in concreto come un vero imprenditore, agisce come mero fornitore di

manodopera.

Coerentemente con tale impostazione, la giurisprudenza riconduce la liceità

dell'appalto alla verifica, nel caso concreto, dei requisisti di imprenditorialità in capo

153 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 81; A. BELLAVISTA, Le sabbie mobili del

divieto d’interposizione, in Giust. civ., 1998, I, 3228 ss.

88

all'appaltatore. Quest'ultimo deve essere in grado di fornire un autonomo risultato

produttivo rispetto alla complessa organizzazione del committente, in quanto è solo

attraverso questo che è <<possibile e individuabile una organizzazione e gestione

autonoma dell’appaltatore, con l’assunzione dei correlativi rischi economici in relazione

alla responsabilità dell’appaltatore in ordine al risultato pattuito>>154.

Ovviamente una certa ingerenza del committente sull'attività dell'appaltatore è

ammessa, ma questa deve essere attuata sotto forma di coordinamento155, che non potrà

mai essere tale da vincolare l'autonomia organizzativa e la gestione a proprio rischio

dell'appaltatore, perché, in caso contrario, priverebbe quest'ultimo della qualità di

imprenditore, e pertanto incorrerebbe nel divieto d'interposizione.

In altri termini, si tratta di un problema di distribuzione del potere esercitabile

sull'attività esternalizzata fra il committente e l'appaltatore, legata a sua volta alla

quantità e alla qualità dell'integrazione fra le rispettive organizzazioni. La quantità e la

qualità dipendono, da un lato, dal rapporto fra l'oggetto dell'appalto e l'organizzazione

del committente, e, dall'altro, dal livello di dinamicità del processo produttivo del

committente, che influisce direttamente su tale relazione.

A volte, infatti, l'elevata dinamicità richiede un continuo processo di adattamento e di

scambio fra le rispettive organizzazioni, che può anche essere tale da annullare

l'autonomia organizzativa dell'appaltatore, riducendola ad una mera gestione

amministrativa156. Soprattutto in questi casi, il committente anziché operare un

controllo tecnico connaturale al contratto di appalto, effettua un controllo organizzativo

sull'attività dell'appaltatore157.

L'appaltatore ed il committente interagiscono quindi mediante una sorta di relazione

inversa, se quest'ultimo ingerisce sull'attività dell'appaltatore al punto da limitarne

l'autonomia organizzativa. In caso di controversia, spetta al giudice, in relazione al caso

concreto, stabilire il confine fra l'ipotesi lecita di coordinamento e controllo, rispetto ad

una vera e propria ingerenza vietata del committente sull'organizzazione dell'attività

154 Cfr. Cass., 30 ottobre 2002, n. 15337 con nota di P. ALBI, Interposizione illecita e organizzazione

dei mezzi necessari secondo la L. N. 1369/1960, in Riv. it. dir. lav., 2003, III, 536 ss, e con nota di A. V. D'ORONZO, Sulla distinzione fra interposizione e appalto di servizi a carattere continuativo, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, 254 ss.

155 Cfr. M.T. CARINCI, Questioni in ordine all'applicazione della legge sul divieto di intermediazione nei rapporti di lavoro, cit., 716-717.

156 Soprattutto in questi casi è evidente come l'esercizio del potere di conformazione sui lavoratori coinvolti nell'appalto è essenziale per adeguare le prestazioni di lavoro alle dinamiche dell'organizzazione rispetto alla qualità del servizio appaltato.

157 Cfr. Cass., 19 dicembre 2002, n. 18098.

89

dell'appaltatore.

Risulta evidente l'importanza della ricerca di quei principi di fondo dei concetti di

organizzazione e di rischio che sono universalmente validi, e che devono trovare

riscontro nel caso concreto attraverso una serie di elementi eterogenei che

caratterizzano, di volta in volta, le diverse realtà produttive.

2. Il fenomeno organizzativo nella disciplina sull'appalto

L’analisi generale del concetto di organizzazione è stata già effettuata nel primo

capitolo, in quanto essa risulta valida sia in tema di trasferimento che in tema di appalto.

Per quanto riguarda specificatamente il contesto degli appalti, è ovvio che anche in

questo caso, le attività imprenditoriali non devono necessariamente essere legate al

concetto rigido di azienda ex art. 2555 c.c., secondo cui ad essa non possono essere

riconducibili le attività <<smaterializzate>>, ossia prive di un rilevante apporto di beni

materiali. E’ sempre il governo sull’attività organizzatrice che consente di identificare il

<<vero>> imprenditore nel rapporto fra committente e appaltatore.

Più in particolare, se il coordinamento con l'organizzazione del committente vincola

l'attività organizzatrice dell'appaltatore, quest'ultimo non potrebbe governare le

dinamiche del fenomeno organizzativo, e finirebbe con l'operare su una struttura

organizzata dal committente, al quale verrebbe imputata la qualifica di vero

imprenditore. Nelle ipotesi di appalti di servizi a scarsa intensità organizzativa, il

problema si pone in termini di <<distinzione fra potere direttivo proprio del datore di

lavoro e potere di coordinamento organizzativo fra le due imprese>>158.

Sotto un altro aspetto, il concetto di struttura risultante dall'attività organizzatrice,

non implica necessariamente, da parte dell'appaltatore, la proprietà dei mezzi di

produzione per l'esecuzione dell'appalto159, in quanto, non è l'utilizzo dei fattori di

produzione altrui in sé che limita il potere imprenditoriale, ma il fatto che se tale “messa

a disposizione” altrui (cioè del committente) si traduce, in concreto, nell'imposizione di

una struttura (che ad esempio limita il potere di organizzare il personale in termini di

scelta delle modalità e dei tempi di lavoro) tale per cui l'appaltatore non potrebbe

158 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 89. 159 L'art. 1655 c.c. non impone infatti il titolo con il quale l'appaltatore deve garantire la disponibilità

dei mezzi. Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 91.

90

esercitare il proprio potere imprenditoriale (attività organizzatrice), ne consegue che

l'appalto avrebbe come oggetto reale la mera gestione amministrativa dell'attività

esternalizzata.

L'elasticità della rilevanza dell'utilizzo dei mezzi di produzione altrui, per la

creazione della struttura necessaria per l'esecuzione dello specifico appalto, è accentuata

dalla mancata richiesta del requisito della professionalità160 in capo all'appaltatore. La

nozione economica d'impresa, nei termini in cui assume come base l'organizzazione dei

fattori economici161, risulta infatti maggiormente rappresentativa della qualità

imprenditoriale dell'appaltatore, rispetto a quella legislativa che si ricava dall'art. 2082

c.c.162.

D'altronde, la presunzione legale di illiceità di cui all'art. 1, comma terzo, l. n.

1369/1960, secondo cui <<...è considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni

forma di appalto o subappalto, anche per l'esecuzione di opere o di servizi, ove

l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante,

quand'anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all'appaltante>>163, ormai

abrogata dal d.lgs. n. 276/2003, non ha operato come diretta manifestazione dell'attività

organizzatrice, ma è stata un modo per rendere più agevole la verifica di una situazione

di fatto, in un contesto produttivo dove era determinante l'apporto di capitali, macchine

ed attrezzature per qualificare un'attività imprenditoriale.

L'espandersi di servizi alla produzione, in cui l'impatto dei beni materiali è spesso

ridimensionato, al punto da risultare superfluo rispetto alla qualificazione dell'attività

imprenditoriale, ha spinto la stessa giurisprudenza a ritenere che il comma terzo ha

operato sul piano probatorio, nei termini di una presunzione semplice164.

160 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 83-84. 161 Cfr. NIGRO, imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, cit., 652. 162 Cfr. Cass. 22 Agosto 2003, n. 12363, cit. 163 Si discute se tale ipotesi costituisce una fattispecie vietata aggiuntiva, oppure se integra l’ipotesi

vietata prevista dall’art. 1, primo comma, formando un’unica ipotesi d’interposizione vietata. La dottrina maggioritaria sostiene quest’ultimo caso. Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 92; R. DE LUCA TAMAJO, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 42-43.

164 Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 94-95.

91

3. La valutazione dell’autonomia funzionale dell’appaltatore: esistono servizi

oggettivamente in appaltabili?

Nei servizi caratterizzati da una bassa incidenza dei mezzi di produzione, come ad

esempio in quelli “classici” di pulizia e facchinaggio, oppure in quelli più moderni di

assistenza software, è il fattore lavoro l’elemento preminente per la realizzazione

dell’oggetto dell’appalto.

L’attenzione della giurisprudenza si sposta inevitabilmente sul concetto di servizio165

ai fini della rilevazione in concreto dei requisiti d’imprenditorialità in capo

all’appaltatore.

E' necessario premettere che la difficoltà di fondo dell'accertamento dipende dal

naturale collegamento fra l'attività dell'appaltatore rispetto a quella del committente:

l'oggetto dell'appalto ha lo scopo di soddisfare una esigenza produttiva riferita

all'attività del committente, a cui il risultato realizzato dall'appaltatore va ad integrarsi.

E' evidente che, nell'ambito della distinzione fra appalto ed interposizione, il potere

imprenditoriale dell'appaltatore può essere limitato solamente da quello del

committente166 (o da vincoli imposti dalle autorità sulle sue attività), a prescindere da

qualsiasi argomentazione circa la relazione fra l'oggetto dell'appalto e le ragioni

organizzative e gestionali riferite all'attività dell'appaltante.

Questa caratteristica, tipica di qualsiasi contratto di appalto, giustifica pienamente

l'importanza attribuita dalla Cassazione alla finalizzazione di un lecito appalto ad un

autonomo risultato produttivo rispetto alla complessa organizzazione dell'appaltante167,

in quanto la mancanza di autonomia nella produzione del risultato oggetto di appalto,

non può che originare da una mancanza di autonomia organizzativa e gestionale

dell'appaltatore, che si manifesta necessariamente in relazione all'organizzazione

dell'appaltante.

Queste problematiche sono maggiormente evidenti nei casi di appalto di servizi a

prevalente prestazione personale, per i quali la Cassazione, con una recente sentenza168,

ha stabilito che <<l'autonomia gestionale può esplicarsi solo in relazione a mansioni

appaltate suscettibili di costituire un servizio in sé compiuto ed autonomo, e cioè un

complesso di operazioni costituenti una sezione del processo produttivo esperibile

165 Cfr. Cass., 29 agosto 2003, n. 12664. 166 Ovviamente ponendo come ipotesi che l'appaltatore utilizza delle prestazioni di lavoro subordinato. 167 Cfr. Cass., 22 Agosto 2003, n. 12363. 168 Cfr. Cass., 29 agosto 2003, n. 12664.

92

autonomamente dall'appaltatore, nella organizzazione complessa dell'appaltante>>.

Un autore169 solleva dei dubbi circa la validità della riconducibilità dell'autonomia

gestionale dell'appaltatore alla fornitura di <<un servizio in sé compiuto ed

autonomo>>, in quanto criterio distintivo dell'appalto rispetto alla mera fornitura di

manodopera, basandosi, da un lato sulla circostanza che l'elemento da valutare è il

valore aggiunto dell'opera dell'appaltatore rispetto alle mere prestazioni e non la

posizione dell'appalto rispetto al ciclo produttivo del committente, e dall'altro lato

evidenziando il problema della verifica, in concreto, dei requisiti dell'autonomia e della

compiutezza.

Rispetto alla posizione di questo autore, è possibile, con le opportune

argomentazioni, considerare i concetti di autonomia e di compiutezza della definizione

di servizio fornita dalla Cassazione come presupposti essenziali ai fini della

qualificazione di un lecito appalto.

Questi elementi, anche se contemporaneamente presenti nel concetto di servizio,

agiscono su livelli differenti: la compiutezza si riferisce al servizio inteso come oggetto

di un'attività imprenditoriale così come voluta dall'art. 1655 c.c., facendo rientrare nel

concetto di servizio una qualsiasi <<sezione del processo produttivo>>, e quindi anche

quelle estranee rispetto all'attività tipica dell'impresa committente. Una volta provata la

compiutezza del servizio, e quindi verificati i presupposti di cui all'art. 1655 c.c., entra

in gioco l'aspetto fondamentale del problema dell'interposizione vietata, e cioè la

verifica del requisito dell'autonomia dell'appaltatore rispetto alla complessa

organizzazione dell'appaltante, in termini di potere imprenditoriale eventualmente

esercitato dal committente sull'attività appaltata; è in questa fase che deve evidenziarsi

l'importanza della relazione fra il ciclo produttivo specifico del committente e l'oggetto

dell'appalto, ossia nel senso di quanto questa relazione possa incidere sulla effettiva

autonomia dell'appaltatore, e non quindi ai fini della qualificazione, a monte, di un vero

imprenditore170.

169 Cfr. L. CALCATERRA, Interposizione e appalto di servizi: La Cassazione anticipa la riforma, cit.,

61. 170 Questa impostazione, che riconduce l'importanza della relazione fra l'oggetto dell'appalto ed il

ciclo produttivo del committente alla fase di verifica della effettiva autonomia dell'appaltatore (e quindi di un soggetto che, a prescindere dal tipo di attività, sia apparentemente un vero imprenditore), risulta coerente con la tesi della irrilevanza dell'inerenza dell'attività oggetto dell'appalto al ciclo produttivo del committente ai fini dell'applicazione generale del divieto a qualsiasi attività di mera fornitura di manodopera. In questo modo sarebbe anche possibile tralasciare il problema relativo alla formulazione di una nozione generale di ciclo produttivo, che diversamente potrà essere affrontato, di volta in volta, in relazione alle caratteristiche del caso concreto. Sull'argomento Cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 89-91; A. V. D'ORONZO, Sulla distinzione fra interposizione e appalto di servizi a carattere

93

Mentre il requisito della compiutezza opera oggettivamente, cioè il servizio è

valutato in quanto oggetto dell'attività imprenditoriale in base all'art. 1655 c.c., a

prescindere quindi dal legame che di fatto si realizza fra le parti nello specifico contratto

di appalto, il requisito dell'autonomia deve essere valutato in termini di relazione fra le

rispettive organizzazioni. Da questa analisi deve emergere un'autonomia “oggettiva”

dell'organizzazione dell'appaltatore rispetto allo specifico ciclo produttivo

dell'appaltante, ed un'autonomia “soggettiva”, e cioè senza limitazioni in fase di

esecuzione del potere imprenditoriale dell'appaltatore da parte del committente. A

seconda del caso concreto, ovviamente, l'importanza della relazione dipenderà dalla sua

intensità, ma in nessun caso il ciclo produttivo del committente, qualsiasi forma questo

assuma, potrà mai limitare l'autonomia imprenditoriale dell'appaltatore.

In sostanza occorre porsi le seguenti domande: l'oggetto dell'appalto è realmente un

servizio che l'appaltatore potrebbe astrattamente realizzare con le caratteristiche

d'imprenditorialità di cui all'art. 1655 c.c. (concetto di compiutezza)? Le particolari

caratteristiche del ciclo produttivo dell'impresa committente consentono una effettiva

autonomia organizzativa e gestionale dell'appaltatore-imprenditore, con l'assunzione del

relativo rischio economico (concetto di autonomia oggettiva)? L'appaltatore agisce

come vero imprenditore od opera in concreto come mero fornitore di manodopera

(concetto di autonomia soggettiva)? I tre livelli di analisi (compiutezza, autonomia

oggettiva ed autonomia soggettiva) non sono in ordine casuale, nel senso che se, ad

esempio, non sussistono i presupposti della compiutezza, non possono

conseguentemente verificarsi gli altri due requisiti (autonomia oggettiva ed autonomia

soggettiva).

Il TAR del Piemonte con una recente pronuncia171, affrontando un caso relativo agli

appalti aventi ad oggetto il servizio per prestazioni infermieristiche, ha colto il problema

della oggettiva inappaltabilità di alcuni tipi di attività. In particolare, il tribunale

amministrativo ha stabilito che, nel caso di specie, non sussistono i presupposti di liceità

dell'appalto ma si configura l'ipotesi della somministrazione di lavoro a tempo

determinato172, e questo per delle ragioni fondamentali legate, da un lato all'oggetto

stesso del contratto di appalto, e dall'altro al criterio di aggiudicazione della gara. Dalla

continuativo, cit., 257.

171 Cfr. TAR Piemonte, 27 giugno 2006, n. 2771, con nota di I. ALVINO, Distinzione fra somministrazione e appalto: il caso della esternalizzazione delle attività di assistenza infermieristica, cit., 329 ss.

172 Artt. 20 e ss. del d.lgs. n. 276/2003.

94

descrizione delle modalità organizzative173 delle prestazioni infermieristiche contenute

nel bando di gara emerge chiaramente che l'attività dell'appaltatore, e dei suoi

dipendenti, dovrà essere svolta sotto la direzione ed il controllo della stazione

appaltante174. Com'è evidente, la mancanza dei presupposti di liceità dell'appalto non

dipende dalle concrete modalità di esecuzione dell'attività oggetto dell'appalto, ma è

piuttosto legata alle caratteristiche del servizio descritte nel bando di gara, che,

conseguentemente, dovrebbe rientrare nell'ipotesi di oggettiva inappaltabilità del

servizio per la mancanza del requisito della autonomia oggettiva. Ma in realtà, anche

prescindendo dalla specifica descrizione contenuta nel bando di gara, le prestazioni

infermieristiche inserite in una qualsiasi struttura ospedaliera non potrebbero in nessun

caso costituire un servizio in sé compiuto ed autonomo, e quindi essere oggetto di un

contratto di appalto lecito: un infermiere inserito in una Azienda Ospedaliera, poiché la

sua prestazione lavorativa è strettamente dipendente da quella del medico o più in

generale dalla stessa struttura dell'ospedale, deve necessariamente osservare le regole

impartite da questa per l'esecuzione e la disciplina del rapporto di lavoro, e questo vale

per tutto il settore di riferimento indipendentemente dallo specifico ciclo produttivo del

committente. Pertanto, qualsiasi contratto di appalto contenente “prestazioni

infermieristiche”, singolarmente considerate o con altri elementi che potrebbero formare

teoricamente oggetto di attività appaltata, sarebbe illecito, senza la necessità di ulteriori

argomentazioni. Di conseguenza, gli appalti contenenti questa tipologia di prestazioni

rientrano nella categoria delle attività oggettivamente inappaltabili per difetto del

requisito (base) di compiutezza.

La Cassazione175, nella stessa sentenza in cui ha ricondotto il servizio ai concetti di

173 Lett. E) Modalità organizzative: “Le turnazioni verranno definite dai responsabili del settore e

potranno subire delle variazioni estemporanee. L'orario di lavoro sarà definito sulla base della necessità, come da C.C.N.L. di comparto”; lett. M): osservanza di regole impartite: “Il prestatore di lavoro dovrà svolgere la propria attività secondo le istruzioni impartite dall'A.S.O. per l'esecuzione e la disciplina del rapporto di lavoro ed è tenuto all'osservanza di tutte le ... linee guida e protocolli emanate dalle A.S.O.”; lett. P) Rilevazione orario servizio: “Verranno forniti dalle Due Aziende i badges per la rilevazione degli orari di bollatura”; lett. S) Norme di comportamento: “Gli operatori dovranno uniformarsi alle seguenti regole di comportamento: corretto utilizzo della divisa di servizio secondo le linee guida aziendali con l'esposizione del tesserino di riconoscimento;...”; “Osservanza del segreto professionale, del regolamento aziendale e della tutela della privacy; Rispetto puntuale della programmazione dell'attività formulata dal Coordinatore della struttura Complessa; Rispetto delle indicazioni organizzative dei coordinatori”.

174 In questa vicenda, emerge chiaramente che l'applicazione del divieto di somministrazione di lavoro è avvenuta senza che si sia verificata l'effettiva utilizzazione da parte dell'Azienda ospedaliera. Si conferma in tal modo l'oggettiva inappaltabilità di alcuni tipi di attività, che era stata d'altro canto già messa in evidenza dalla Cassazione in una recente sentenza (Cass., 29 agosto 2003, n. 12664 ).

175 Cfr. Cass., 29 agosto 2003, n. 12664. Cfr. anche M.T. CARINCI, La somministrazione irregolare, anzi illecita, cit., 157–158; R. DE LUCA TAMAJO, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e

95

compiutezza ed autonomia, ha colto la possibilità di poter effettuare la verifica della

liceità dell'appalto attraverso due livelli di analisi riferibili in modo congiunto ad un

criterio soggettivo, riferito alla capacità imprenditoriale dell’appaltatore, ed uno

oggettivo riferito al servizio in sè. In base al primo criterio <<la appaltabilità di servizi a

prevalente prestazione professionale fa emergere, quale criterio di liceità, l’autonomia

gestionale dell’appaltatore che si esplica non nella determinazione delle caratteristiche

del prodotto, riservate al committente, ma nella conduzione aziendale, nella direzione

del personale, nella scelta delle modalità e dei tempi di lavoro>>. Il criterio oggettivo si

integra con quello soggettivo in quanto <<l’autonomia gestionale può esplicarsi solo in

relazione a mansioni appaltate suscettibili di costituire un servizio in sé compiuto ed

autonomo, e cioè un complesso di operazioni costituenti una sezione del ciclo

produttivo esperibile autonomamente dall’appaltatore nella organizzazione complessa

dell’appaltante>>176.

Dal punto di vista soggettivo, quindi, la giurisprudenza pone primaria attenzione alla

figura dell’appaltatore per verificarne la qualità di imprenditore, e dal punto di vista

oggettivo considera il concetto di autonomia legato, non direttamente al soggetto

interposto, ma al servizio in sé rispetto all’organizzazione dell’appaltante. Ne consegue

che l’autonomia soggettiva dell’appaltatore deve essere preceduta dalla verifica della

idoneità dell'oggetto dell'appalto a costituire un servizio in sé compiuto ed autonomo,

che altro non è, per l'appunto, che il criterio oggettivo espresso dalla giurisprudenza.

Questo principio coincide con il requisito della compiutezza e dell'autonomia oggettiva

argomentati in precedenza.

Se infatti l’attività appaltata è strettamente integrata con l’organizzazione del

committente, al punto da non consentire l’autonomia dell’appaltatore in relazione, ad

esempio, alle modalità e ai tempi di lavoro, inevitabilmente nell’esercizio in concreto

dello specifico servizio non può configurarsi un lecito appalto177.

Con il criterio oggettivo, il servizio, inteso nella sua compiutezza ed autonomia,

prescinde dalla qualità imprenditoriale del soggetto interposto, ed è piuttosto legato ad

oggettive considerazioni sull'attività dell'appaltatore rispetto alla complessa

organizzazione della società committente.

L'oggettiva appaltabilità, che a sua volta rende astrattamente possibile l'autonomia rapporti di fornitura, cit., 48 ss.

176 Tale principio è stato ribadito anche in altre sentenze della Cassazione: Cass., 29 maggio 2000, n. 7089; Cass., 19 dicembre 2002, n. 18098; Cass., 30 ottobre 2002, n. 15337.

177 Cfr. Cass., 22 Agosto 2003, n. 12363.

96

organizzativa e gestionale dell'appaltatore, si verifica quando è possibile distinguere il

risultato dell'attività (servizio oggetto dell'appalto), di cui le caratteristiche sono

determinate dal committente, rispetto alle modalità di svolgimento della stessa178.

Tuttavia, le caratteristiche del servizio potrebbero, proprio per loro natura,

influenzare notevolmente le modalità di esecuzione della prestazione, al punto da

determinare una totale sovrapposizione fra i due elementi, il cui risultato sarebbe

un'attività oggettivamente inappaltabile.

4. Il ruolo dei mezzi immateriali di produzione negli appalti di servizi a prevalente

impiego di prestazioni di lavoro

Le problematiche appena esposte sono maggiormente evidenti nel caso di servizi a

bassa intensità organizzativa, in cui è necessario valutare la gestione autonoma

dell'organizzazione del lavoro e/o dei beni materiali e immateriali, e l'esistenza di un

reale rischio d'impresa.

Il primo elemento (organizzazione del lavoro) è una diretta espressione dell'attività

organizzatrice, ed in quanto tale è una condizione necessaria di liceità: mentre la

presunzione di cui all'art. 1, terzo comma, della legge del 1960 ha operato come indice

relativo, in nessun caso un lecito appalto può prescindere dall'organizzazione del lavoro

in capo all'appaltatore. In caso contrario, si avrebbe l'effettiva utilizzazione delle

prestazioni di lavoro da parte del committente.

L'organizzazione del lavoro è tale se, alle mere prestazioni di lavoro, è possibile

integrare un valore aggiunto, sia esso un bene immateriale, tipo software, od uno

specifico Know how179, tale per cui dalla loro combinazione è possibile produrre un

servizio in sé compiuto ed autonomo (presupposto oggettivo), in quanto frutto

dell'autonomia organizzativa e della gestione a proprio rischio dell'appaltatore

(presupposto soggettivo).

La modifica introdotta dal d.lgs. n. 276/2003, in base al quale l’appalto può anche

risultare << … in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto,

dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati

178 Cfr. S. NAPPI, Interposizione, Appalti interni leciti e limiti del sindacato giurisdizionale, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 772 ss. 179 Sulla distinzione fra software e Know how cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 95-

96.

97

nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio

d'impresa>> (comma uno, art. 29), di fatto non sembra aver aggiunto nullo di nuovo,

dovendo pur sempre l’organizzazione del lavoro, in quanto tale, risultare dalla

combinazione dei fattori, e cioè mere prestazioni di lavoro e mezzi immateriali180.

Questo è evidente nel momento in cui si considera la riconducibilità alle esigenze

dell’opera o del servizio dedotti in contratto.

Il grado di complessità dell'accertamento del divieto di interposizione dipende

principalmente dal livello di integrazione fra le prestazioni di lavoro e l'organizzazione

del committente, a sua volta determinato dallo specifico oggetto di appalto dedotto in

contratto.

Nel caso dei lavori di pulizia, è già l'oggetto dell'appalto in sé che, non essendo

direttamente legato al ciclo produttivo del committente, non richiede una significativa

ingerenza da parte di quest'ultimo.

Se diversamente le prestazioni di lavoro fossero strettamente connesse col processo

produttivo specifico dell'imprenditore committente, la liceità dell'appalto sarebbe

seriamente messa in discussione, in quanto l'appaltatore non potrebbe oggettivamente

essere in grado di esercitare un ruolo imprenditoriale, operando di fatto nella struttura

organizzata dall'appaltante.

L'oggettiva inappaltabilità è in alcuni settori, specie in quelli dove le imprese

rivestono un ruolo di pubblica utilità, ulteriormente “appesantita” da eventuali vincoli

imposti dalle autorità, nell'ambito delle rispettive competenze181. Si potrebbe in tal caso

parlare di criterio oggettivo esterno.

In sostanza, tanto maggiore è il livello di connessione fra le prestazioni di lavoro

utilizzate nell'appalto con il processo produttivo del committente, tanto minore sarà la

possibilità per l'appaltatore di agire con un'autonoma organizzazione, in quanto si

riducono gli spazi necessari per combinare fra loro i fattori della produzione. Ed è infatti

attraverso tale combinazione che è possibile esplicare la funzione imprenditoriale,

creando efficienza ed economicità in relazione al costo.

L'organizzazione del lavoro implica che l'appaltatore deve organizzare e gestire le

prestazioni di lavoro, e quindi esercitare il potere direttivo e gerarchico sui lavoratori

180 In questo senso, la Cassazione (sentenza 26 gennaio 2004 n. 2583) ha dichiarato che quanto

disposto dall’art. 29 del d.lgs. n. 276/2003, è stata una precisazione relativa alla distinzione fra somministrazione ed appalto di servizi.

181 Questa problematica è stata trattata indirettamente nella sentenza della Cass., 22 Agosto 2003, n. 12363, con riferimento ad un appalto avente ad oggetto alcuni servizi delle Ferrovie dello Stato.

98

impiegati nell'appalto, sulla base del suo contributo in termini di apporti immateriali,

fermo restando un residuale impiego di beni strumentali. L'appaltatore agisce quindi

come un vero imprenditore se, attraverso la combinazione delle prestazioni di lavoro

con i mezzi immateriali a sua disposizione, crea un valore aggiunto, riconducibile al

servizio, in sé compiuto ed autonomo, oggetto di appalto.

La centralità dell'oggetto dell'appalto per la valutazione in concreto di una reale

organizzazione d'impresa, rispetto alla diffusione delle attività “smaterializzate”, è stata

messa bene in evidenza dalla Cassazione, che in una nota sentenza182 ha riconosciuto

l’importanza crescente del software e del Know-how, in quanto elementi essenziali per

il raggiungimento di autonomi risultati economici che possono costituire oggetto di

attività appaltate183. Nella sentenza emerge un altro passaggio fondamentale, e cioè che

l'apporto di beni materiali (per esempio il pc), è considerato talvolta strumentale ai fini

del raggiungimento del risultato economico, risultando invece determinante il

contributo di beni immateriali (ad esempio il software).

Sotto questo aspetto va evidenziato che determinate attività “smaterializzate”, in

relazione all'oggetto che le caratterizza, possono anche richiedere una complessa

organizzazione di mezzi e di persone, nonché notevoli investimenti di capitali. Questa

precisazione si è resa necessaria data la diffusa opinione secondo cui, in tema di liceità

dell'appalto, la questione relativa agli apporti di mezzi immateriali è sostanzialmente

riconducibile alle attività a scarsa intensità organizzativa, e quindi alle prestazioni di

lavoro in termini di specifico Know-how, capacità, conoscenze, ecc.184.

In verità, questa visione del problema è parte integrante di una più ampia questione

relativa al ruolo dei mezzi immateriali nell'ambito della qualificazione di un lecito

appalto.

Premesso ciò, bisogna considerare due ipotesi, ossia quella in cui il bene immateriale

182 Cfr. Cass., S.U., 19 ottobre 1990, n. 10183.

183 Sulle problematiche relative al ruolo del Know-how nell'ambito della distinzione fra appalto ed interposizione cfr. M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 100; M. MARINELLI, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 112 ss.; L. CALCATERRA, L'ambito oggettivo di applicazione del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro: problemi e prospettive di riforma, cit., 71-77.

184 Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 44-45; R. DE LUCA TAMAJO, Metamorfosi dell'impresa e nuova disciplina dell'interposizione, cit.; M.G. GRECO, L'obbligazione solidale negli appalti dopo la riforma del mercato del lavoro, in Lav. giur., 2004, n. 10, 922-923; R. ROMEI, La distinzione fra interposizione e appalto e le prospettive della certificazione, cit. Diversamente, M.T. CARINCI, in La fornitura di lavoro altrui, cit., 95-101, fornisce un'argomentazione più ampia del problema, dedicando, giustamente, un paragrafo agli appalti di servizi a bassa intensità organizzativa diverso da quello relativo agli appalti dove hanno rilevanza i mezzi immateriali.

99

rappresenta un mezzo di produzione, ovvero quella in cui tale bene è invece oggetto

dell'attività appaltata185. Nel primo caso, date le specifiche caratteristiche dell'oggetto

dell'appalto, occorrerebbe capire quanto e come incide il mezzo immateriale rispetto ai

requisiti di organizzazione autonoma e di gestione a proprio rischio di cui all'art. 1655

c.c.. Si potranno avere dei casi in cui il bene immateriale rappresenta il nucleo centrale

dell'attività, attorno al quale gravitano, guidati da un processo di adattamento reciproco

che converge verso il concetto di organizzazione, i mezzi materiali e le prestazioni di

lavoro. In questa particolare ipotesi, se il bene immateriale su cui operano i lavoratori è

fornito e gestito dal committente, è molto probabile che si abbia di fatto un inserimento

delle prestazioni di lavoro nell'organizzazione dell'appaltante, e l'appaltatore potrebbe

solamente svolgere un ruolo residuale, che di certo non è riconducibile a quello di vero

imprenditore.

Si può affermare che, in quegli appalti dove l’oggetto dell’attività è riconducibile ad

un servizio ad alto contenuto tecnologico, e quindi i beni materiali sono considerati alla

stregua di mere strumentazioni, l’eventuale conformità dell’appaltatore, così come

previsto dalla normativa sulla subfornitura (art. 1, primo comma, l. n. 192/1998), <<a

progetti esecutivi, conoscenze tecniche o tecnologiche, modelli e prototipi forniti

dall’impresa committente>> potrebbe essere un segnale di interposizione vietata,

qualora l'organizzazione del lavoro sia strettamente dipendente a tali elementi186. La

conseguenza sarebbe infatti l'annullamento dell'autonomia organizzativa e del controllo

del rischio d'impresa in capo all'appaltatore.

Un caso emblematico potrebbe essere quello degli appalti aventi ad oggetto attività

di call center delle banche, in cui risulta discutibile che sia effettivamente l'appaltatore

ad imporre le direttive sul lavoro. E ciò non solo in quanto il principale strumento di

lavoro, ossia il software che consente all'operatore di gestire la relazione con il cliente, è

185 Cfr M.T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 98. 186 Il contratto di subfornitura, che la dottrina maggioritaria riconduce al contratto di appalto (M.T.

CARINCI, La fornitura di lavoro altrui, cit., 39 ), avendo come caratteristica peculiare il presupposto della dipendenza tecnologica e commerciale rispetto al committente, riduce notevolmente i margini di imprenditorialità dell'impresa fornitrice, specie se si considerano quelle forniture dove il Know how è proprio il valore aggiunto che, combinato con le prestazioni di lavoro, dovrebbe essere posseduto dall'appaltatore. La stessa dottrina è infatti sostanzialmente concorde nel ritenere che la normativa sulla subfornitura non è applicabile ai contratti di outsourcing, in quanto questi sono generalmente privi dei presupposti previsti dalla legge (dipendenza tecnologica e commerciale ). <<Normalmente è il presupposto della dipendenza tecnologica a non potersi configurare nei confronti dell'impresa fornitrice, in quanto il Know-how è nelle mani dell'appaltatore, o comunque del soggetto che fornisce un certo servizio, in grado di individuare soluzioni anche innovative, capaci di garantire maggiore efficienza>>, in I contratti di outsourcing e di global maintenance service, in Lav. Giur., 2004, n. 14, 406 – 407. Sulla relazione tra l'interposizione vietata e normativa sulla subfornitura cfr. anche M. SALA CHIRI, Subfornitura ed appalto di lavoro, in Arg. dir. lav., 2004, n. 1, 219 ss.

100

probabilmente quello della banca committente o comunque gestito e organizzato da

questa in un'ottica strategica, ma anche per le particolari esigenze del settore di

riferimento. Sarebbe come pensare di esternalizzare la produzione di un semilavorato,

utilizzando però nell'appalto, come mezzi di produzione, le macchine e le attrezzature

integrate nella catena di montaggio all'interno della fabbrica dell'appaltante. Oppure

diversamente, ma con lo stesso risultato in termini di mancanza di autonomia

organizzativa da parte dell'appaltatore, avere come oggetto del contratto di appalto la

sola organizzazione del lavoro riferita alla produzione del semilavorato (o appunto del

servizio di call center). In questi casi, infatti, l'apporto di altri beni immateriali da parte

dell'appaltatore, quali ad esempio la formazione del personale od uno specifico Know-

How187, anche se astrattamente idoneo a formare oggetto di appalto, tuttavia, in questi

specifici casi, non consentirebbe all'appaltatore di governare autonomamente le

dinamiche del fenomeno organizzativo, e quindi di agire in qualità di imprenditore. In

sostanza, l'appaltatore non sarebbe in grado di controllare l'organizzazione del lavoro, e

nemmeno la gestione del rischio d'impresa.

Ne deriva quindi che se le esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, in

cui prevale la discrezionalità delle parti, entrano in contrasto con i requisiti di cui all'art.

1655 c.c., si deve concludere che l'appalto è illecito. Ciò significa che l'appaltatore ed il

committente possono liberamente scegliere come oggetto dell'appalto un servizio

riconducibile alla sola organizzazione del lavoro, purché questa astratta possibilità sia

concretamente realizzabile.

Queste argomentazioni assumono un'importanza esponenziale se si considera che

l'attuale sistema produttivo italiano è caratterizzato proprio da un massiccio ricorso ad

appalti di servizi che si basano sull'organizzazione del lavoro e sull'utilizzo di nuove

tecnologie.

Meno problematica, invece, pare l'ipotesi in cui il bene immateriale è oggetto

dell'attività anziché mezzo di produzione. Ad esempio, nel caso di un appalto avente ad

oggetto la fornitura di software, comprensiva di eventuali aggiornamenti e correzioni, il

valore aggiunto del servizio prodotto dall'appaltatore è chiaramente riscontrabile

nell'apporto di mezzi immateriali (software e Know-how) e prestazioni di lavoro da

parte di quest'ultimo188. Tuttavia, nel caso specifico in cui oggetto del contratto di

187 Sulle problematiche relative alla qualificazione del concetto di Know-how Cfr. M.T. CARINCI, La

fornitura di lavoro altrui, cit., 100. 188 Cfr. Divieto d'interposizione nel lavoro a cottimo, in Comm. cod. civ., in P. CENDON (a cura di),

101

appalto è, ad esempio, un servizio di manutenzione dei sistemi informatici, il contributo

in termini di Know-how dell'appaltatore sarebbe nella maggior parte dei casi irrilevante,

in quanto coinciderebbe con le competenze professionali dei prestatori di lavoro189.

E' possibile affermare che, nella sostanza, mezzi materiali e mezzi immateriali sono

posti sullo stesso piano, e a seconda dell’attività possono alternativamente essere o

oggetto o strumento della stessa, e per entrambe le categorie di beni (materiali ed

immateriali) possono anche essere necessari ingenti investimenti in capitali ed una

complessa organizzazione.

In conclusione, si ribadisce che la necessaria imputabilità all'appaltatore

dell'organizzazione di alcuni mezzi di produzione, piuttosto che di altri, dipende quindi

dalle caratteristiche dell'oggetto dell'appalto, nell'ambito del quale l'appaltatore deve

operare come vero imprenditore.

5. L'impatto dell'innovazione tecnologica sulla fattispecie interpositoria

Negli ultimi anni, le nuove tecnologie informatiche e della comunicazione hanno

consentito alle aziende di raccogliere, classificare ed elaborare, in modo automatizzato e

secondo dei parametri di standardizzazione, le informazioni utili al perseguimento degli

obiettivi aziendali, provenienti dalle diverse classi di interlocutori dell’azienda (clienti,

fornitori, dipendenti, collaboratori etc…), con cui essa interagisce instaurando relazioni

ed interdipendenze.

L’informatica e i nuovi sistemi di comunicazione influenzano direttamente la

struttura organizzativa, sia a livello interaziendale che a livello di organizzazione

interna.

Nel primo caso, oltre ad un mutamento nell’assetto organizzativo-istituzionale dei

grandi gruppi, le aziende tendono ad esternalizzare parti del processo produttivo,

aumentando, allo stesso tempo, il collegamento con gli operatori economici ai quali

delega parte dell’attività. Milano, 2002, 463; M.T. CARINCI, in La fornitura di lavoro altrui, cit., 95-101.

189 In questo senso L. CALCATERRA, L'ambito oggettivo di applicazione del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro: problemi e prospettive di riforma, cit., 76. E' stato inoltre evidenziato come molte delle ipotesi per le quali si riteneva possibile la conclusione di un contratto di appalto sono state ricomprese fra le fattispecie legali di legittima conclusione del contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, e fra queste particolare attenzione è stata posta ai servizi di consulenza ed assistenza nel settore informatico, M. MARINELLI, Aspetti problematici del contratto di somministrazione di manodopera, cit., 335-340.

102

In altre parole, le tecnologie informatiche e della comunicazione consentono una

forte interconnessione ed integrazione fra l’azienda ed “autonome unità produttive”,

senza che questo pregiudichi le strette relazioni di coordinamento e di controllo da parte

della società che esternalizza, a prescindere dalla differente collocazione geografica190.

Risulta di conseguenza difficile definire i confini dell’azienda.

Ma nell’ambito della normativa sugli appalti, quanto effettivamente può essere

autonoma una unità produttiva strettamente interconnessa ed integrata con la società

committente, quest’ultima in grado di esercitare un consistente e diretto controllo

sull’attività appaltata?

E’ in questi termini che l’evoluzione dell’assetto organizzativo interaziendale si

collega inevitabilmente al problema della interposizione vietata.

Infatti, se le aziende riescono ad ottenere un elevato livello di integrazione e

d’interdipendenza, al punto da consentire al committente di esercitare un potere diretto

sull’attività esternalizzata, attraverso sistemi di programmazione e di controllo, non è

difficile ipotizzare l’effettivo esercizio del potere direttivo e di controllo nei confronti

dei lavoratori utilizzati nell’appalto, o più in generale sull'intera organizzazione

dell'appaltatore.

Inoltre, l’imposizione dell’uso dell’automatizzazione del sistema informativo,

consente all’impresa la standardizzazione delle modalità operative di esecuzione

dell’attività, secondo norme prestabilite.

Ciò significa che non soltanto il committente è in grado di esercitare un diretto potere

di programmazione e controllo sull’attività appaltata, tale da rendere incerti i confini fra

le imprese, ma, attraverso l’imposizione dell’automatizzazione con la creazione di

procedure esecutive standard, potrebbe di fatto esercitare un potere dispositivo e di

controllo sui lavoratori impiegati nell’appalto.

La valenza di queste affermazioni è collegata all’oggetto dell’attività appaltata.

Se l’oggetto dell’appalto è un servizio la cui produzione è strettamente interconnessa

con il sistema informatico dell’azienda committente (ad esempio attivazione servizi

clienti nel settore bancario o delle telecomunicazioni), l'efficacia e l'efficienza rispetto

190 Nei moderni sistemi per la gestione dei database è indispensabile l’indipendenza dal supporto

fisico nell’organizzazione dei dati, in quanto in tal modo è possibile una reale integrazione dei dati. <<Con il termine integrazione dei dati s’intende l’utilizzo e la condivisione di archivi comuni da parte di più aree funzionali, processi e procedure automatizzate relative all’attività dell’azienda e ai rapporti che la stessa intrattiene con i suoi stakeholder (clienti, fornitori, pubblica amministrazione ecc.)>>. Cfr. G. BRACCHI, C. FRANCALANCI e G. MOTTA, I sistemi di supporto operativo nelle aziende in rete, in Sistemi informativi e aziende in rete, Mc Graw-Hill, 2001, 103-106.

103

agli obiettivi aziendali dipende dall’integrazione fra le imprese, e quindi anche

dall’automatizzazione e dalla standardizzazione secondo regole operative prestabilite

dal committente: tanto maggiore è il ruolo svolto dalle ICT (Information

Communication Tecnology) a supporto sia dei processi che dei prodotti/servizi per

l’impresa, tanto più le ICT rappresentano una leva strategica rilevante per il top

management191.

La piena comprensione di tali fenomeni necessita di approfondimenti tecnici relativi

ai sistemi informatici utilizzati, i quali, sulla base delle scelte strategiche ed operative

dell’azienda, si riflettono inevitabilmente e direttamente sull’organizzazione e gestione

delle risorse umane, sia insourcing che in outsourcing.

191 ICT Strategic Sourcing: un’ottica diversa nelle scelte di outsourcing, i risultati 2005

dell’osservatorio, dipartimento di Ingegneria gestionale, Politecnico di Milano, www.osservatori.net.

104

Sezione C

Capitolo 8 – Le esternalizzazioni nella p.a.

SOMMARIO: 1. Le esternalizzazioni nelle p.a. e le ricadute di sistema sulla c.d. privatizzazione del pubblico impiego. – 2. Il trasferimento di attività nella p.a.: ambito soggettivo e ambito oggettivo di applicazione della fattispecie ex art. 31 d. lgs. n. 165/2001. – 3. La (ir)rilevanza del dissenso del lavoratore coinvolto nel trasferimento. – 4. La selezione dei lavoratori coinvolti nel trasferimento. – 5. La somministrazione di lavoro presso le p.a. – 6. Diritti, obblighi, tutele e trattamento economico e normativo del lavoratore somministrato – 7. L’apparato sanzionatorio applicabile alla p.a. – 8. L’interposizione illecita di manodopera e l’inapplicabilità della sanzione <<ordinaria>> della conversione.

1. Le esternalizzazioni nelle p.a. e le ricadute di sistema sulla c.d. privatizzazione del

pubblico impiego

La riforma del mercato del lavoro del 2003 esclude, in linea generale, il lavoro alle

dipendenze delle p.a. dal proprio ambito di applicazione. Ad ogni modo, pare che ciò

non abbia intaccato i principi cardine della <<privatizzazione>>192, anche se

rappresenta sicuramente una inversione di tendenza rispetto ai consistenti interventi

legislativi volti alla parificazione della disciplina giuridica dell’impiego pubblico con

quella dell’impiego privato193.

Per l’attuazione delle politiche di esternalizzazione, la p.a. dispone di strumenti

legislativi più favorevoli rispetto a qualsiasi altro operatore economico, che si traduce in

una tutela meno favorevole per i lavoratori ceduti o addetti a servizi pubblici appaltati.

Come si vedrà meglio in seguito, sia in tema di trasferimento di attività che di appalti,

infatti, si privilegiano le esigenze organizzative della pubblica amministrazione, anche

attraverso la predisposizione di un regime sanzionatorio meno rigido, se si considera, ad

esempio, che in caso di interposizione illecita di manodopera non è possibile applicare

la sanzione <<ordinaria>>> della conversione.

E’ adesso necessario soffermarsi brevemente sulle ricadute dell’esclusione del

192 Per un commento sulle recentissime norma in materia di privatizzazione del pubblico impiego cfr. F. CARINCI, La privatizzazione del pubblico impiego alla prova del terzo governo Berlusconi: dalla legge 133/2008 alla legge n. 15/2009, in Lav. pub. amm., 2008, XI, 949 ss.

193 Cfr., per tutti, S. MAINARDI, D. lgs. 10 settembre 2003 n. 276 e riforma del mercato del lavoro: l’esclusione del pubblico impiego, in Lav. pub. amm., 2003, VI, 1069 ss.

105

settore del pubblico impiego dall’ambito di applicazione della l. n. 30/2003 e del d. lgs.

276/2003.

La legge delega all’art. 6 prevede che <<le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si

applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente

richiamate>>. Allo stesso modo, l’art. 1, comma due del decreto legislativo attuativo

della legge delega, dispone che <<il presente decreto non trova applicazione per le

pubbliche amministrazioni e per il loro personale>>194.

Ci si è chiesto se l’inciso <<ove non siano espressamente richiamate>> sia da riferire

agli artt. da 1 a 5 della legge 30 oppure ai decreti legislativi attuativi195. Nel primo caso,

si tratterebbe di rintracciare <<in positivo>> le parti di disciplina espressamente

applicabili nel testo della legge, ma si è obiettato che le norme in questione non

descrivono discipline estensibili al lavoro pubblico, ma anzi provvedono a ribadirne

l’esclusione con riferimento alla regolamentazione di alcune discipline, ossia la

regolamentazione del lavoro a tempo parziale (art. 3) e della certificazione dei rapporti

di lavoro (art. 5). Appare preferibile, invece, l’interpretazione secondo cui il suddetto

inciso debba riferirsi ai decreti attuativi, con un rinvio fatto al legislatore delegato per

l’individuazione esplicita delle discipline da applicare anche nei confronti dei

dipendenti pubblici, in via eccezionale rispetto al criterio di esclusione ex art. 6 della l.

n. 30/2003.

Altra norma di carattere generale è quella secondo cui <<il presente decreto non

trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale>> (art. 1,

comma due d. lgs. n. 276/2003). Qui, l’ambito soggettivo emerge sotto un duplice

profilo196: il riferimento alle pubbliche amministrazioni in qualità di datore di lavoro,

dato che sotto un diverso aspetto la stessa legge attribuisce un ruolo attivo alle p.a. in

alcune importanti discipline (ad esempio in materia di certificazione di cui all’art. 76 o

nell’ambito dell’attività di intermediazione ex art. 6). Per quanto riguarda, invece, il

richiamo al <<loro personale>>, il riferimento è all’intero universo dei lavoratori

194 Più autori hanno sollevato dubbi di legittimità costituzionale sull’esclusione del lavoro pubblico

dall’ambito di applicazione della riforma del mercato del lavoro, cfr. L. ZOPPOLI, La subordinazione tra persistenti diseguaglianze e tendenze neo-autoritarie, in www.unicz.it/lavoro; R. SANTUCCI, Contrattazione collettiva e lavori flessibili nelle pubbliche amministrazioni, in Dir. rel. ind., 2003, 114; F. BORGOGELLI, La nuova disciplina del mercato del lavoro e la pubblica amministrazione, in Lav. dir., 2004, n. 1 69.

195 Cfr. S. MAINARDI, D. lgs. 10 settembre 2003 n. 276 e riforma del mercato del lavoro: l’esclusione del pubblico impiego, in Lav. pub. amm., op. cit., 1071.

196 Sempre S. MAINARDI, D. lgs. 10 settembre 2003 n. 276 e riforma del mercato del lavoro: l’esclusione del pubblico impiego, in Lav. pub. amm., cit., 1073.

106

pubblici.

Per espressa disposizione del d.lgs. n. 276 del 2003, si applicano al lavoro pubblico:

1) il contratto di somministrazione a tempo determinato (art. 85, comma nove), con

esclusione della sanzione della conversione (art. 27, comma uno);

2) il contratto di formazione e lavoro, fatto salvo quanto previsto dall’art. 59, comma

tre (art. 86, comma nove);

3) esclusivamente per gli enti di ricerca il contratto di inserimento (art. 54, comma

due, lett. e).

E’ evidente che l’applicazione della riforma del 2003 al settore pubblico si basa su

logiche di inclusione ed esclusione che rendono il quadro normativo generale

visibilmente frammentato, nonché difficilmente conciliabile con l’ottica

dell’avvicinamento alle regole generali dettate per il rapporto di lavoro tra privati.

Tale distacco è proseguito con la legge 9 marzo 2006, n. 30 (legge di conversione del

decreto legge 10 gennaio 2006, n. 4), che ha modificato gli artt. 35 e 36 del d.lgs. n.

165/2001. L’art. 4 di tale legge ha aggiunto all’art. 36 il comma uno bis, secondo il

quale <<le amministrazioni possono attivare i contratti di cui al comma uno solo per

esigenze temporanee ed eccezionali e previo esperimento di procedure inerenti

assegnazione di personale anche temporanea, nonché previa valutazione circa

l'opportunità di attivazione di contratti con le agenzie di cui all'articolo 4, comma uno,

lettera a), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, per la somministrazione a

tempo determinato di personale, ovvero di esternalizzazione e appalto dei servizi>>. La

finalità perseguita dal legislatore del 2006 è quella del contenimento del fenomeno di

<<precarizzazzione>> nel pubblico impiego, che ha raggiunto negli ultimi anni

dimensioni preoccupanti. Il medesimo scopo si persegue, infine, con la legge 24

dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008), il cui art. 3, comma settantanove

ha integralmente riscritto l’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001. In base al nuovo testo, le

pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato

a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro

flessibile se non per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi. Il comma

due, inoltre, vieta il rinnovo del contratto o l'utilizzazione del medesimo lavoratore con

altra tipologia contrattuale197.

197 Cfr., L. BUSICO, Breve excursus storico sulla flessibilità nel pubblico impiego, in LexItalia.it,

2008, n. 1.

107

2. Il trasferimento di attività nella p.a.: ambito soggettivo e ambito oggettivo di

applicazione della fattispecie ex art. 31 d. lgs. n. 165/2001

L’art. 31 del d. lgs. 165/2001, che ripropone integralmente la formulazione del

precedente art. 34 del d. lgs. n. 29/1993 (a suo tempo novellato dal d. lgs. n. 80/1998),

dispone che nei casi di trasferimento o conferimento di attività posti in essere dalle

pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture, al personale che

passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano le norme che regolano il trasferimento

di azienda o di parte di azienda, ossia l’art. 2112 c.c. e l’art. 47, commi da uno a quattro

della l. n. 428/1990198.

Nonostante tale esplicito richiamo, sussistono rilevanti differenze tra la disciplina cui

è soggetta la p.a. rispetto alle regole imposte ai privati.

La disciplina generale contenuta nell’art. 31 può, anzitutto, essere sostituita con

disposizioni speciali contenute in leggi regionali, che possono riguardare particolari

comparti della pubblica amministrazione. Si pensi, ad esempio, alla l. r. Lombardia 14

agosto 1999 n. 16, con cui vengono assegnate all’Agenzia Regionale Protezione

Ambiente alcune attività inerenti la tutela ambientale, precedentemente in capo ad altri

enti199.

Per ciò che concerne l’applicabilità delle norme comunitarie, si precisa che la

direttiva in materia di trasferimento di imprese, di stabilimenti, di parti di imprese o di

stabilimenti (Dir. 2001/23) non si applica alle ipotesi di riorganizzazione amministrativa

di enti pubblici, ovvero al trasferimento di funzioni tra questi ultimi. Il legislatore

italiano, non fornisce specificazioni al riguardo, e dunque si può concludere che la

198 Cfr. S. MAINARDI, Trasferimento di attività a soggetti pubblici o privati e passaggio di

personale, in F. CARINCI e L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Vol. V, Tomo I, in F. CARINCI (diretto da), Commentario di diritto del lavoro, Torino, 2004, 726 ss; M. FERRETTI, Trasferimento di attività della pubblica amministrazione e passaggio dei dipendenti: il caso delle esternalizzazioni dei servizi pubblici locali, in Lav. pub. amm., 2005, VIII, 634 ss; S. MAINARDI, D. lgs. 10 settembre 2003 n. 276 e riforma del mercato del lavoro: l’esclusione del pubblico impiego, in Lav. pub. amm., cit., 1089 ss; D. CASALE, Pubbliche amministrazioni e d. lgs. n. 276/2003: alcune questioni in tema di somministrazione, in Lav. pub. amm., cit., 949 ss.

199 Cfr., per approfondimenti sull’argomento, M. FERRETTI, Trasferimento di attività tra soggetti pubblici: passaggio personale e natura degli atti, in Lav. pub. amm., 2008, XI, 1105 ss. Cfr., inoltre, Corte Cass., 7 ottobre 2008, n. 24738, in Lav. pub. amm., 2008, XI, 1093 ss.

108

normativa nazionale includa anche ipotesi che si collocano al di fuori della direttiva200.

Tornando all’ambito nazionale, e nell’ottica del raffronto tra pubblico e privato, si

può affermare che il <<raggio di azione>> riconosciuto alla p.a. è notevolmente ampio,

e va al di là della libertà contrattuale riconosciuta al cedente e al cessionario nel settore

privato.

Sotto questo punto di vista, l’argomento più interessante riguarda l’ambito oggettivo

di applicazione. L’ampia e generica formulazione contenuta nell’art. 31,

<<trasferimento o conferimento di attività>>, consente di ricomprendere nella

fattispecie in esame qualsiasi vicenda traslativa, sia essa di fonte negoziale, legale o

amministrativa201. Ciò significa che l’applicazione dell’art. 2112 è estesa anche ai casi

di provvedimenti autoritativi di trasferimento202.

L’ampiezza della norma pare giustificarsi in ragione di una generale esigenza di

riorganizzazione e razionalizzazione degli apparati amministrativi, in un’ottica di

redistribuzione di compiti tra enti diversi203.

E’ necessario precisare che il campo di applicazione definito dal legislatore nell’art.

31 non può essere confrontato con l’attuale formulazione dell’art. 2112 c.c., in quanto

all’epoca della sua formulazione non esisteva la nozione di trasferimento di azienda

contenuta nell’art. 2112 c.c.

In dottrina204, si è precisato che l’art. 31 non realizza un ampliamento della nozione

di trasferimento di azienda rispetto alla definizione di cui all’art. 2112 c.c., bensì una

estensione delle sole tutele giuslavoristiche ai dipendenti pubblici addetti all’attività

trasferita.

Questo significa che la pubblica amministrazione non è soggetta al rispetto dei

requisiti di legittimità del trasferimento di ramo d’azienda sanciti dalla norma del codice

civile. In altri termini, la p.a. può attuare il passaggio automatico dei dipendenti ad un

altro soggetto pubblico o privato, senza che necessariamente l’attività oggetto di

cessione debba presentarsi come un’entità economica organizzata dotata di una propria

200 Cfr., anche per approfondimenti, M. MARINELLI, La tutela dei lavoratori pubblici nel

trasferimento di attività, in Riv. dir. ec. trasp. amb.,www.giureta.unipa.it, 2008, VI. 201 M. FERRETTI, Trasferimento di attività della pubblica amministrazione e passaggio dei

dipendenti: il caso delle esternalizzazioni dei servizi pubblici locali, op. cit. 636. 202 Per un’analisi sulla fonte della vicenda traslativa cfr. F. BASENGHI, Passaggio di dipendenti per

effetto di trasferimento di attività, in AA.VV., Il diritto del lavoro, vol. III, Milano, 2004, 229. 203 Così D. CASALE, Pubbliche amministrazioni e d. lgs. n. 276/2003: alcune questioni in tema di

somministrazione, cit., 952. 204 Così M. FERRETTI, Trasferimento di attività della pubblica amministrazione e passaggio dei

dipendenti: il caso delle esternalizzazioni dei servizi pubblici locali, op. cit., 639.

109

autonomia funzionale.

Alla luce di quanto affermato, l’estensione delle tutele ex art. 2112 ai dipendenti

pubblici, in caso di trasferimento di attività non rientrante nella nozione dettata dalla

suddetta norma, deve essere letta ed interpretata come norma di miglior favore, dato

che, normalmente, il semplice trasferimento di un’attività non potrebbe essere

qualificato, ai sensi del diritto comunitario, come fattispecie rientrante nell’ambito di

applicazione della direttiva205.

Si consideri però che nel settore privato la non applicabilità della disciplina

contenuta nell’art. 2112 c.c. in caso di cessione di attività non rientrante nella nozione

dettata dal legislatore, consente ai lavoratori di far valere in giudizio la rilevanza del

proprio consenso ai fini della validità del proprio trasferimento ex art. 1046 c.c. In tal

modo, i lavoratori interessati a rimanere presso l’impresa cedente possono evitare il

passaggio automatico alle dipende del cessionario. Come già ampiamente discusso, la

possibilità di chiedere l’illegittimità del trasferimento, e dunque l’applicazione dell’art.

1406, è diventato il più efficace strumento di tutela <<sostanziale>> utilizzato dai

lavoratori per difendersi dai trasferimenti di azienda finalizzati all’attuazione di forme

illegali di licenziamento collettivo.

Nell’ambito del pubblico impiego, invece, l’estensione della disciplina di cui all’art.

2112 a qualsiasi forma di trasferimento di attività, secondo lo schema fornito dall’art. 31

del d. lgs. 165/2001, comporta l’applicabilità della regola dell’automaticità del

passaggio a prescindere da qualsiasi valutazione sull’attività ceduta. E’ questa la

differenza sostanziale fra le due regolamentazioni: un’impresa privata può, così come la

p.a., cedere attività che non rientrano nelle nozioni di trasferimento di azienda e di parte

di azienda contenute nell’art. 2112, ma in questi casi non ha il potere trasferire i

lavoratori senza il loro consenso.

Sotto questo ulteriore punto di vista, quanto stabilito dall’art. 31 non comporta un

miglioramento delle tutele in favore dei lavoratori ceduti, bensì una maggiore libertà di

organizzazione delle risorse umane, che si traduce, di fatto, in una forma di

<<espulsione>> del personale in eccesso. Questo ragionamento assume notevole

rilevanza nell’ipotesi in cui i lavoratori vengono trasferiti presso un’impresa privata, e a

maggior ragione se si tratta, ad esempio, di una società controllata costituita ad hoc in

occasione della cessione.

205 In questo senso M. MARINELLI, La tutela dei lavoratori pubblici nel trasferimento di attività, op.

cit.

110

Non si può nemmeno trascurare il fatto che se i lavoratori non passano alle

dipendenze del soggetto a cui è stata trasferita l’attività, l’amministrazione potrebbe

procedere al licenziamento del dipendente o all’avvio della procedura per la messa in

mobilità, sempre che ne sussistano i presupposti.

Detto ciò, resta da chiedersi quali siano, se esistono, i confini della fattispecie di

<<trasferimento o conferimento di attività>> ex art. 31, e cioè se anche il mero

trasferimento di un gruppo di dipendenti possa considerarsi legittimo. Se così fosse,

allora si può concludere che il controllo giudiziale può esclusivamente riguardare

l’accertamento di quanto dichiarato nell’atto di trasferimento o di conferimento206. In tal

caso, gli unici strumenti a disposizione del lavoratore contro il proprio trasferimento

consistono nella dimostrazione dell’insussistenza di un obbligo a passare alle

dipendenze del cessionario o del mancato rispetto delle regole sulla gestione delle

eccedenze di personale.

Queste problematiche si incrociano inevitabilmente con le questioni interpretative

legate alla rilevanza (o irrilevanza) del dissenso del lavoratore coinvolto nel

trasferimento, alla selezione dei lavoratori da trasferire e, per certi versi, alla fattispecie

di interposizione illecita di manodopera e l’inapplicabilità della sanzione <<ordinaria>>

della conversione.

Per quanto concerne l’atto di conferimento, si tratta di un presupposto notevolmente

ampio, se si considera la genericità della formulazione contenuta nell’art. 31. In tal

senso, il concetto di conferimento può essere ricondotto alla sfera privatistica e alla

sfera pubblicistica207. Nel primo caso, il riferimento è alla nozione di conferimento in

società da parte di socio. Nel secondo caso, invece, si è ritenuto che il termine deve

essere inteso, così come precisato dal comma uno dell’art. 1 della l. n. 59/1997, nel

senso di <<trasferimento, delega o attribuzione di funzioni e compiti>> a Regioni ed

Enti locali allo scopo di assecondare la tendenza al decentramento. Il concetto di

<<trasferimento>> deve essere inteso in senso ancor più ampio, dato che nemmeno

implica una specifica tipologia di traslazione.

Sotto il profilo soggettivo, infine, l’art. 31 del d. lgs. 165/2001 considera un’ampia

gamma di soggetti pubblici <<cedenti>>, rappresentata da tutte le pubbliche

206 Discorso diverso per l’ipotesi di appalto di pubblici servizi, dove, oltre alla verifica dell’effettiva

sussistenza dell’oggetto dell’appalto, occorre accertare se l’attività appaltata sia riconducibile ad un’attività d’impresa in grado di produrre autonomamente il bene e/o il servizio dedotti in contratto.

207 Per questi aspetti cfr. S. MAINARDI, Trasferimento di attività a soggetti pubblici o privati e passaggio di personale, op. cit., 729.

111

amministrazioni, comprese le loro aziende e strutture. Allo stesso modo con riferimento

alla posizione del cessionario, che può coincidere con qualsiasi soggetto pubblico o

privato.

La previgente normativa, invece, restringeva la propria l’efficacia ai <<dipendenti

degli enti pubblici e delle aziende municipalizzate consortili>> (art. 62, d. lgs. n.

29/1993).

3. La (ir)rilevanza del dissenso del lavoratore coinvolto nel trasferimento

Sulla regola dell’automaticità del trasferimento dei lavoratori coinvolti nei processi

di riorganizzazione della p.a., dottrina e giurisprudenza maggioritaria ritengono che ai

fini del trasferimento di attività sia irrilevante il consenso del lavoratore ceduto208.

Nel settore privato, come si è già rilevato, la Cassazione ha confermato l’opinione

sostanzialmente unanime in giurisprudenza e maggioritaria in dottrina, secondo cui i

lavoratori possono essere trasferiti ex art. 2112 a prescindere dal loro consenso.

In assenza di una precisa scelta da parte del legislatore in tal senso, si è ritenuto che

non ci siano valide ragioni per una differenziazione fra pubblico e privato, che si

porrebbe, inoltre, in antitesi rispetto alla ratio della <<privatizzazione>>209.

In questo ragionamento, però, non si considera il fatto che un distacco rilevante con

il settore privato avviene proprio in ragione della possibilità, riconosciuta alla sola

pubblica amministrazione, di applicare tale regola anche ai trasferimenti di attività

svincolati dalle nozioni di trasferimento di azienda e di parte di azienda contenute

nell’art. 2112. Tenendo conto di ciò, sarebbe più logico riconoscere l’automaticità del

passaggio solo nei casi in cui il trasferimento attuato dalla pubblica amministrazione

abbia ad oggetto un’attività economica che rispecchia i requisiti stabiliti dalla norma

del codice civile.

208 In dottrina cfr., per tutti, D. CASALE, Pubbliche amministrazioni e d. lgs. n. 276/2003: alcune

questioni in tema di somministrazione, cit., 957 ss. In giurisprudenza, cfr. Pret. Bergamo 24 giugno 1999, in Lav. pub. amm., 1999, 1292 ss, con nota di G. PELLACANI, Trasferimento di attività e servizi a società miste ex art. 22, l. n. 142/1990 ed effetti sui rapporti di lavoro; trib. Treviso 26 giugno 2001, in Rep. foro it. 2002, Lavoro (rapporto), n. 1158. In senso contrario trib. Siena ordinanze 6 maggio 2003 e 21 maggio 2003, in Lav. pub. amm., 2003, con nota di D. CASALE, Pubbliche amministrazioni e d. lgs. n. 276/2003: alcune questioni in tema di somministrazione, cit., 949 ss.

209 Così D. CASALE, Pubbliche amministrazioni e d. lgs. n. 276/2003: alcune questioni in tema di somministrazione, cit., 957.

112

4. La selezione dei lavoratori coinvolti nel trasferimento

Il problema della selezione dei lavoratori nei casi di cessione di attività si pone

qualora sussistano, presso l’amministrazione cedente, vacanze per profili corrispondenti

agli addetti all’attività ceduta e, contemporaneamente, vi siano alcuni di essi interessati

a rimanere alle dipendenze del soggetto che attua il trasferimento.

Si ritiene che, nei limi della trasparenza e della ragionevolezza, rientra nel potere

organizzativo del datore di lavoro pubblico la facoltà di scegliere i dipendenti da

trasferire210.

La Corte di Cassazione211 ha recentemente affrontato un caso di trasferimento di un

dipendente con funzioni dirigenziali che, a seguito dell’istituzione dell’Arpa (Agenzia

Regionale Protezione e Ambiente), è stato trasferito dall’Asl di Brescia nella suddetta

Agenzia.

In tale occasione, la Corte ha anzitutto affermato, nonostante le oscillazioni dei

giudici di merito, che la cessione del lavoratore <<è da ricondurre agli atti di gestione

del rapporto che sono espressione di attività di diritto privato che incidono in via diretta

sul contratto di lavoro del dipendente>>. La competenza è dunque del giudice ordinario,

in quanto, nonostante la fonte del trasferimento sia una specifica legge regionale (l. r.

Lombardia del 14 agosto 1999, n. 16) espressione di potere pubblicistico, il

trasferimento dei dipendenti nel passaggio di attività è considerata fattispecie inerente la

gestione del rapporto di lavoro.

Una conseguenza importante che si può trarre da questa conclusione, è che la facoltà

riconosciuta alla p.a. di scegliere i dipendenti da trasferire è soggetta alle limitazioni

imposte dall’ordinamento giuslavoristico.

In primo luogo, il trasferimento non può comportare il demansionamento del

lavoratore alla stregua dell’art. 2103 c.c., il quale può essere adibito a mansioni

equivalenti, sulla base del presupposto della necessaria omogeneità << delle due diverse

mansioni sotto il profilo quantitativo e qualitativo, la stessa importanza, lo stesso grado

di autonomia, di iniziativa e di discrezionalità e comporti la necessità che le nuove

mansioni siano confacenti alla professionalità acquisita dal lavoratore e siano tali da

210 cfr. D. CASALE, Pubbliche amministrazioni e d. lgs. n. 276/2003: alcune questioni in tema di somministrazione, cit., 961.

211 Corte di Cass. 7 ottobre 2008, n. 24738, cit., 1093 ss, con nota di M. FERRETTI, Trasferimento di attività tra soggetti pubblici: passaggio personale e natura degli atti,op. cit., 1103 ss.

113

richiedere un impegno non eccessivo per l’adattamento richiesto al lavoratore

medesimo>>.

Così come nel settore privato, il parametro della equivalenza è considerato come un

limite al potere organizzativo del datore di lavoro. L’unica differenza è che l’art. 52 del

d. lgs. 165/2001 attribuisce il giudizio di equivalenza al sistema di classificazione

professionale prevista dai contratti collettivi>>, anche se, le incertezze sui rapporti di

equivalenza delle prime previsioni negoziali, attribuiscono alla giurisprudenza ordinaria

il compito di identificare la nozione di equivalenza, in questo caso di fonte negoziale

anziché legale212. In materia di esternalizzazioni, l’aspetto più delicato e interessante

riguarda l’ipotesi di demansionamento attuato prima della cessione, sicché dalla

dichiarazione di nullità dell’atto posto in essere dal cedente consegue il diritto del

lavoratore a ritornare alle mansioni originarie presso il soggetto che ha attuato il

trasferimento213. Non pare ci siano ostacoli affinché tale regola possa essere applicata

anche ai trasferimenti posti in essere dalla p.a.

In secondo luogo, l’individuazione dei dipendenti da coinvolgere nel trasferimento è

vincolata, così come evidenziato dalla Corte di Cassazione, ai criteri fissati nell’atto

amministrativo (l. r. art. 22) circa il personale e le strumentazioni che devono formare

oggetto di cessione. Nel caso in questione, il dipendente trasferito non era adibito ad

alcuna delle attività attribuite all’ente cessionario. Com’è evidente, il limite in questo

caso non deriva da disposizioni contenute nella disciplina nazionale, bensì da un atto

che è diretta espressione del potere organizzativo della pubblica amministrazione. In

altri termini, la modalità di gestione del rapporto di lavoro da parte dell’operatore

pubblico deve essere conforme al provvedimento amministrativo che dispone il

trasferimento di attività.

5. La somministrazione di lavoro presso le p.a.

Secondo quanto stabilito dall’art. 86, comma nove, del d. lgs. n. 276/2003, le

pubbliche amministrazioni possono ricorrere alla sola somministrazione di lavoro a

tempo determinato214.

212 Cfr., AA.VV., Il rapporto di lavoro subordinato, in Il diritto del lavoro, Torino, 406-407. 213 Cfr., M. MARINELLI, I licenziamenti per motivi economici, cit., 262. 214 Per una trattazione approfondita dei vari aspetti della somministrazione di lavoro nell’ambito della

114

Ancor prima, l’art. 36 del d. lgs. 165/2001 riconosceva esplicitamente alla p.a. la

possibilità di utilizzare il contratto di fornitura di lavoro temporaneo attraverso la

disciplina contenuta negli artt. 1-11 della l. n. 197/1997, ormai abrogati dall’art. 85,

comma uno, lett. f del d. lgs. 276/2003. Il ricorso al lavoro interinale nel settore del

pubblico impiego era, inoltre, desumibile dalla lettura dell’art. 11, comma due della l. n.

196/1997, anche se la formulazione adottata è stata criticata in quanto talmente ampia

da non permettere esclusioni rispetto all’ambito soggettivo di applicazione215.

Il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato presuppone

l’esistenza di <<ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo

anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore>> (comma quattro, art. 20).

Diversamente, la fornitura di lavoro regolata dalla l. n. 196/1997 era genericamente

connessa al soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo.

Questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate in ragione dei limiti posti

dall’art. 6 della legge delega n. 30/2003, in quanto essa esclude l’applicabilità della

riforma al settore pubblico216. La circostanza che l’estensione riguarda esclusivamente

la somministrazione a tempo determinato è, tuttavia, coerente con la previdente

normativa sul lavoro temporaneo per le p.a. Per la ricostruzione del quadro normativo di

riferimento, si ritiene che continui ad operare la disciplina contrattuale prevista in

relazione al lavoro interinale.

Le problematiche di maggiore interesse che emergono dalla nuova disciplina sulla

somministrazione di lavoro, sono evidentemente legate alle particolari finalità che

caratterizzano le attività della p.a. rispetto a qualsiasi altra azienda privata.

Anzitutto, occorre distinguere l’ipotesi di fabbisogno permanente di risorse rispetto

alle esigenze produttive temporanee217. Nel primo caso, la pubblica amministrazione

non potrà ricorrere direttamente alla somministrazione di lavoro, in quanto dovrà

soddisfare il fabbisogno con proprie risorse, secondo gli strumenti a disposizione, quali,

ad esempio, l’acquisizione di personale tramite procedure di mobilità, oppure con

p.a. si rimanda AA.VV., La somministrazione di lavoro temporaneo nelle pubbliche amministrazioni, Ufficio del Personale delle Pubbliche Amministrazioni – Dipartimento della Funzione Pubblica, Roma, 2005. Per un commento critico della norma dal punto di vista sistematico cfr. D. CASALE, Pubbliche amministrazioni e d. lgs. n. 276/2003: alcune questioni in tema di somministrazione, in Lav. pub amm., 2006, IX, 372-373.

215 Sul punto e sulle questioni relative al sistema delle fonti di regolazione del lavoro interinale si rinvia a G. BOLEGO, La somministrazione di lavoro a tempo determinato, cit., 583 ss.

216 Cfr. G. BOLEGO, La somministrazione di lavoro a tempo determinato, cit., 587. 217 Cfr. V. LO STORTO, La somministrazione di lavoro a tempo determinato nella pubblica

amministrazione: i rapporti tra pubblica amministrazione utilizzatrice e lavoratore e le rispettive responsabilità, in Lav. pub. amm., 2005, VIII, 546-547.

115

adeguate procedure di formazione del personale in servizio. Qualora si tratti di esigenze

temporanee, l’operatore pubblico potrà ricorrere ai contratti di somministrazione di

lavoro a tempo determinato.

In questo senso, dunque, l’esclusione della fattispecie di somministrazione di lavoro

a tempo indeterminato, risulta coerente con l’impianto normativo e organizzativo

dell’intero apparato della p.a.

Quanto al ruolo della contrattazione collettiva, la nuova disciplina sulla

somministrazione di lavoro a tempo determinato, in ragione dell’ampiezza della

clausola giustificatrice, riserva ai contratti collettivi esclusivamente la possibilità di

individuare i limiti quantitativi di somministrazione (art. 20, comma quattro, d. lgs. n.

276/2003).

E’ così emerso il problema della sorte delle clausole dei CCNL che prevedono la

possibilità di ricorso ai contratti di fornitura temporanea secondo la previgente

normativa nella legge del 1997. Si deve ritenere che i contratti conclusi in relazione al

lavoro interinale possono ritenersi ancora in vigore anche in relazione ai limiti

quantitativi, e non solo per quanto riguarda le causali218. Sotto questo ulteriore punto di

vista, può ritenersi legittimo il ricorso alla somministrazione di lavoro sia per la

temporanea utilizzazione in qualifiche non previste dai normali assetti organizzativi che

per la sostituzione di lavoratori assenti (lettere b) e c) dell’art. 1, comma due della l. n.

196/1997). Ulteriori causali sono previste dall’accordo quadro del 09/08/2000, che ha

incluso anche la necessità di <<soddisfare esigenze a carattere non continuativo e/o a

cadenza periodica <<, nonché quella di soddisfare esigenze <<collegate a situazioni di

urgenza non fronteggiabili con il personale in servizio o attraverso le modalità di

reclutamento ordinario previste dallo stesso d. lgs. n. 29/1993>>. Nell’Accordo quadro

si prevede, inoltre, la facoltà per la contrattazione di comparto di <<specificare le

ipotesi di ricorso alla fornitura di lavoro temporaneo>> nonché la possibilità di

prevedere casi di esclusione.

Per quanto riguarda il contratto di somministrazione di lavoro, si può affermare che

in linea generale valgono le stesse previste per il settore privato. Il contratto concluso

fra la pubblica amministrazione utilizzatrice e l’agenzia di somministrazione si

configura come un contratto di fornitura di servizi. Si tratta, dunque, di un comune

218 Cfr., anche per ciò che concerne gli approfondimenti sulle causali, Commentario carinci, 588-590.

Cfr., inoltre, S. MAINARDI, D. lgs. 10 settembre 2003 n. 276 e riforma del mercato del lavoro: l’esclusione del pubblico impiego, in Lav. pub. amm., cit., 1082-1083.

116

contratto civile o di impresa, che deve essere stipulato per iscritto ed avere il contenuto

obbligatorio stabilito dall’art. 21, comma uno del d. lgs. n. 276/2003. I soggetti abilitati

ad esercitare la somministrazione di lavoro devono possedere i requisiti stabiliti dall’art.

5 del decreto del 2003. Sussistono, tuttavia, due deroghe alla disciplina generalmente

prevista per il settore privato. La prima riguarda le conseguenze del mancato rispetto

della forma scritta o dell’omessa indicazione dei requisiti di cui alle lettere a)-e) dell’art.

21. In caso di violazione, come si vedrà meglio in seguito, non è possibile ottenere la

costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in capo all’amministrazione

utilizzatrice. La seconda deroga concerne le modalità di selezione dell’impresa

utilizzatrice, che nel settore pubblico è subordinata al principio di buon andamento ed

imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), mentre nel settore privato

rientra nella libertà di iniziativa economica degli imprenditori.

Regole particolari sussistono anche in relazione alle modalità di selezione

dell’impresa somministratrice. Il ricorso alla somministrazione di lavoro avviene

mediante un vero e proprio procedimento amministrativo, il cui atto iniziale è costituito

dalla determinazione a contrattare219. Per la selezione dell’impresa utilizzatrice, la p.a.

dovrà bandire, a seconda delle circostanze, gare aperte o ristrette220.

6. Diritti, obblighi, tutele e trattamento economico e normativo del lavoratore

somministrato

La normativa in materia di somministrazione di manodopera221, prevede che i

lavoratori impiegati presso l’impresa utilizzatrice stipulino un contratto di lavoro con

l’agenzia di somministrazione. In nessun caso essi possono ritenersi dipendenti

219 Cfr. Cfr. G. BOLEGO, La somministrazione di lavoro a tempo determinato, cit., 588-590. 220 Cfr., per approfondimenti, G. BOLEGO, La somministrazione di lavoro a tempo determinato, cit.,

592. 221 Per approfondimenti sui vari aspetti della disciplina, cfr. M.T. CARINCI, La somministrazione di

lavoro altrui, cit., 5 ss; M. TIRABOSCHI, Somministrazione di lavoro, appalto di servizi, distacco, in M. TIRABOSCHI (a cura di), La riforma Biagi del mercato del lavoro, Milano, 2004, 205 ss; G. GHEZZI, Il lavoro tra progresso e mercificazione, Roma, 2004, 113 ss; M. MARINELLI, Aspetti problematici del contratto di somministrazione di manodopera, cit., 327 ss; M. LANOTTE, Il contratto di somministrazione di lavoro: tipologie e condizioni di liceità, in L. GALANTINO (a cura di), La riforma del mercato del lavoro, Torino, 2004, 191 ss; V. SPEZIALE, Il contratto commerciale di somministrazione di lavoro, in Dir. Rel Ind., 2004, n. 2, 295 ss; C. CARDARELLO e C. MAZZAMAURO, Il contratto di somministrazione di lavoro, l’appalto di servizi ed il distacco, in C. CARDARELLO, A. TIRANNA, C. MAZZAMAURO, A. PATRIZI MONITORO (a cura di), La legge Biagi e la nuova disciplina dei rapporti di lavoro, Milano, 2006.

117

pubblici, quand’anche l’utilizzatore della prestazione di lavoro sia la pubblica

amministrazione222.

In generale, ossia a prescindere dalla natura pubblica o privata dell’utilizzatore,

l’elemento caratterizzante il contratto di lavoro stipulato con l’agenzia di

somministrazione consiste nella dissociazione dei poteri del datore di lavoro: il potere di

direzione e di controllo spetta all’utilizzatore (comma due, art. 20 d. lgs. 276/2003),

mentre al somministratore, in qualità di datore di lavoro formale, spetta il potere

disciplinare. Ciò comporta che l’utilizzatore non può applicare sanzioni disciplinari,

dovendo, invece, comunicare al somministratore i fatti che formeranno oggetto di

contestazione ai sensi dell’art. 7 Stat. Lav. (art. 23, comma sette). Si consideri che

l’individuazione delle infrazioni disciplinari, nonché il concreto esercizio del potere

disciplinare, anche se formalmente riconducibili all’agenzia, devono essere regolati in

base alla disciplina applicabile presso l’amministrazione utilizzatrice223. In dottrina224,

c’è addirittura chi ritiene che l’agenzia non abbia nemmeno un potere di contestazione

della decisione dell’utilizzatore di irrogare l’una o l’altra sanzione, potendo soltanto

procedere agli adempimenti formali e all’irrogazione della sanzione indicata dal

committente.

In materia di mansioni, il comma sei dell’art. 23 detta una specifica disciplina in

ipotesi di adibizione del lavoratore a mansioni superiori, o comunque non equivalenti a

quelle dedotte in contratto. In tali ipotesi, l’utilizzatore deve darne immediata

comunicazione scritta al somministratore consegnandone copia al lavoratore medesimo.

Se l’utilizzatore non adempie al suddetto obbligo di informazione, esso stesso risponde

in via esclusiva per le differenze retributive spettanti al lavoratore occupato a mansioni

superiori o per l’eventuale risarcimento del danno derivante dall’assegnazione a

mansioni inferiori.

La formula adottata dal legislatore pone problemi interpretativi sulle conseguenze

dell’adibizione a <<mansioni non equivalenti>>. La norma, in questo caso, si limita

semplicemente ad applicare una sanzione monetaria in caso la violazione dell’obbligo di

informazione, escludendo in tal modo la nullità dell’atto negoziale sancita dall’art. 2103

222 cfr. D. CASALE, Pubbliche amministrazioni e d. lgs. n. 276/2003: alcune questioni in tema di somministrazione,op. cit., 371. L’autore accenna alla questione, teorica, di ricostruire l’istituto del lavoro tramite agenzia secono la prospettiva del <<compiego>>, molto discussa negli ultimi anni.

223 In questo senso V. LO STORTO, La somministrazione di lavoro a tempo determinato nella pubblica amministrazione: i rapporti tra pubblica amministrazione utilizzatrice e lavoratore e le rispettive responsabilità, op. cit., 553.

224 O. MAZZOTTA, Le nuove norme in materia di somministrazione di lavoro, Relazione Convegno Paradigma, Milano, novembre 2003, 1.

118

c.c. e dall’art. 52 del d. lgs. 165/2001 nel settore pubblico225, che ha riprodotto la

disposizione contenuta agli artt. 56 e 57 del d. lgs. n. 29/1993, con le modifiche

introdotte dall’art. 25 del d.lgs. n. 80/1998, successivamente modificato dall’art. 15 del

d. lgs. 387/1998226. La disposizione in esame comporta una modificazione della

disciplina inderogabile ex art. 2103 c.c., e per tale ragione potrebbe incorrere nella

violazione sia dell’art. 3 della Costituzione, dato che si attua una disparità di trattamento

tra i lavoratori ordinari e i lavoratori somministrati, sia della legge delega, in quanto non

prevede alcun mandato specifico sul punto227.

Per ciò che concerne gli obblighi inerenti la sicurezza e la salute del lavoratore

somministrato, il quinto comma dell’art. 23 stabilisce che gli obblighi di formazione e

di informazione gravino sul datore di lavoro formale, ossia sul somministratore, salva

eventuale ed espressa pattuizione contenuta nel contratto di somministrazione con cui si

attribuiscono tali obblighi direttamente a carico dell’utilizzatore. Quest’ultimo ha,

inoltre, l’obbligo di informare il lavoratore in caso di adibizione a mansioni che

richiedano una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici,

conformemente a quanto previsto dalle leggi in materia di salute e sicurezza nei luoghi

di lavoro. Sempre l’utilizzatore, infine, è obbligato ad osservare tutti gli obblighi di

protezione previsti nei confronti dei propri dipendenti ed è responsabile per la

violazione degli obblighi di sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi.

Il legislatore individua nel <<datore di lavoro sostanziale>> il soggetto cui attribuire

la responsabilità in caso di danni arrecati a terzi dal lavoratore somministrato nello

svolgimento delle sue mansioni (art. 26). Tale disposizione si applica anche alle

pubbliche amministrazioni utilizzatrici, le quali saranno dunque tenute al risarcimento

per responsabilità indiretta, anche se non si esclude comunque la responsabilità solidale

e diretta ex art. 2043 c.c. del lavoratore, che può essere chiamato dall’utilizzatore in

caso di azione di regresso228.

225 AA.VV., La somministrazione di lavoro temporaneo nelle pubbliche amministrazioni, op. cit., 25-

26. Sul demansionamento nel pubblico impiego cfr., inoltre, G. SGUEO, Il demansionamento nell’impiego pubblico e la posizione della giurisprudenza, in Diritto & Diritti – www.diritto.it, 2007.

226 La specialità della disciplina rispetto al regime vigente nel settore privato nasce dall’esigenza di evitare l’introduzione di forme di riconoscimento automatico di promozioni e di garantire il dato formale del rispetto delle piante organiche. Così G. SGUEO, Il demansionamento nell’impiego pubblico e la posizione della giurisprudenza, in Diritto & Diritti – www.diritto.it, 2007.

227 Cfr., AA.VV., La somministrazione di lavoro temporaneo nelle pubbliche amministrazioni, op. cit., 26. Per un commento critico cfr., inoltre, P. CHIECO, Somministrazione, comando, appalto. Le nuove forme di prestazione di lavoro a favore del terzo, in P. CURZIO (a cura di) Lavoro e Diritti, CACUCCI, 2004, 127 ss.

228 AA.VV., La somministrazione di lavoro temporaneo nelle pubbliche amministrazioni, op. cit., 27.

119

Per ciò che concerne il trattamento economico e normativo del lavoratore

somministrato, vige un principio generale di parità di trattamento con i lavoratori

dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte (comma uno, art.

23). La ratio è chiaramente quella di evitare qualsiasi forma di sfruttamento del

lavoratore somministrato da parte dei soggetti che stipulano il contratto di

somministrazione229.

L’unica eccezione a tale principio è prevista in caso di contratti di somministrazione

di lavoro conclusi da soggetti privati autorizzati nell’ambito di specifici programmi di

formazione, inserimento e riqualificazione erogati, a favore dei lavoratori svantaggiati,

in concorso con regioni, province ed enti locali ai sensi e nei limiti di cui all’art. 13

(comma due, art. 23). Non pare, tuttavia, che tale deroga si possa applicare in caso di

somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni, dato che il legislatore

si riferisce specificatamente ai <<soggetti privati autorizzati>>230.

Ai lavoratori somministrati, nei modi e secondo i criteri prefissati dalla

contrattazione collettiva applicata dall’utilizzatore, spettano anche le erogazioni

economiche correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi concordati

tra le parti o collegati all’andamento economico dell’impresa (comma quattro, art. 23).

Sul piano della effettività, la tutela del lavoratore somministrato è garantita anche

attraverso la previsione della natura solidale della obbligazione retributiva e

contributiva sancita dall’articolo 23, comma tre. Tale norma è rafforzata dalla

previsione di cui all’articolo 21, comma uno, lettera k), che sancisce che nel contratto di

somministrazione l’utilizzatore debba assumersi espressamente l’obbligo di versare

direttamente al lavoratore il trattamento economico nonché di versare i contributi

previdenziali dovuti in caso di inadempimento del somministratore, fatto salvo il diritto

di rivalsa verso il somministratore.

229 Cfr. CARDARELLA – MAZZAMAURO, Il contratto di somministrazione di lavoro, l’appalto di servizi ed il distacco, op. cit., 2004, 144.

230 In tal senso, AA.VV., La somministrazione di lavoro a termine, in Manuale Operativo su Lavoro Pubbico e Flessibilità, Formez, 2004, 187.

120

7. L’apparato sanzionatorio applicabile alla p.a.

Il d. lgs. n. 276/2003 prevede un sistema sanzionatorio piuttosto rigido, anche se è

sul piano civilistico che si dispone la più efficace forma di tutela in favore dei lavoratori

somministrati.

L’art. 27, comma uno, prevede che, nei casi in cui la somministrazione di lavoro

avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli artt. 20 e 21, comma uno,

lettere a), b), c), d) e e), il lavoratore possa chiedere la costituzione di un rapporto di

lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore, con effetto dall’inizio della

somministrazione.

L’altra sanzione prevista dalla disciplina generale in caso di somministrazione

irregolare è quella amministrativa pecuniaria, da euro 250 a euro 1.250 in caso di

violazione degli obblighi e dei divieti di cui all’art. 20, commi tre, quattro e cinque, e

art. 21, commi uno e due, nonché, per il solo somministratore, in caso di violazione del

disposto di cui al comma tre del medesimo art. 21.

Nel settore pubblico, la sanzione della costituzione di un contratto di lavoro

subordinato alle dipendenze della p.a. è inapplicabile, in quanto gli interessi di

quest’ultima prevalgono sulle esigenze di tutela dei lavoratori. L’esclusione è

espressamente sancita dal comma nove dell’art. 86 del d. lgs. 276/2003. Stessa

conclusione anche in caso di violazione del comma quattro dell’art. 21, in quanto

incompatibile con la speciale disciplina sulle assunzioni dettata dagli artt. 35 e 36 del d.

lgs. n. 165/2001 e dall’art. 97, comma tre della Costituzione. C’è da precisare che tali

disposizioni perseguono finalità differenti: la norma costituzionale pone una garanzia

per il rispetto della regola del pubblico concorso, mentre l’art. 36 del d. lgs. n. 165/2001

persegue come obiettivo il contenimento, il controllo e la razionalizzazione della spesa

pubblica (art. 1 d. lgs. 165/2001), rinvenibile nell’art. 81 della Costituzione231.

In caso di somministrazione irregolare, il lavoratore interessato ha comunque diritto

al risarcimento del danno (aquiliano) derivante dalla prestazione di lavoro in violazione

di disposizioni imperative (art. 36). Il lavoratore irregolarmente somministrato può,

inoltre, far valere la sussistenza di un rapporto di fatto con le conseguenze favorevoli di

cui all’art. 2126 c.c., ossia la corresponsione del trattamento retributivo e contributivo

spettante per il periodo di esecuzione della prestazione, al netto delle somme già

231 In questo senso, cfr., M. T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui. Art. 2127, cit., 161.

121

corrisposte dal somministratore. Le amministrazioni potranno agire nei confronti dei

propri dirigenti per il recupero delle somme pagate a tale titolo, sempre che si tratti di

violazioni caratterizzate da dolo o colpa grave232.

Riguardo alle sanzioni amministrative previste dall’art. 18, comma tre, non

sussistono ragioni per escluderne l’applicazione nei riguardi dei dirigenti responsabili

della stipula del contratto di somministrazione irregolare233.

La somministrazione illecita, che è una forma più grave di violazione rispetto alla

somministrazione irregolare, si configura come reato contravvenzionale234. L’art. 18,

comma due, prevede che qualora l’utilizzatore si rivolga a soggetti diversi da quelli di

cui all’art. 4, comma uno, lettera a), ovvero da parte di soggetti diversi da quelli di cui

all'articolo 4, comma uno, lettera b), o comunque al di fuori dei limiti ivi previsti, si

applica la pena dell'ammenda di euro 5 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata

di occupazione. In caso di sfruttamento dei minori, la pena è dell'arresto fino a diciotto

mesi e l'ammenda è aumentata fino al sestuplo. In questi casi, integra reato anche la

mera sottoscrizione del contratto di somministrazione senza il rispetto della legge.

Infine, la somministrazione fraudolenta rappresenta il terzo e massimo livello di

illiceità della somministrazione. Secondo quanto stabilito dall’art. 28, essa si verifica

quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con l’intenzione di eludere

norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore. In questo

caso, ferme restando le sanzioni di cui all’art. 18, somministratore ed utilizzatore sono

puniti con l’ammenda di euro 20 per ciascun lavoratore coinvolto e ciascun giorno di

somministrazione (comma uno).

8. L’ interposizione illecita di manodopera e l’inapplicabilità della sanzione

<<ordinaria>> della conversione

In assenza di uno specifico richiamo, l’attuale disciplina sulla tutela dei lavoratori

negli appalti ricavabile dal d. lgs. 276/2003 non è applicabile ai dipendenti pubblici.

232 Cfr. L. CAPOGNA e R. TOMEI, La flessibilità nel rapporto di lavoro con la pubblica

amministrazione, a cura di L. CAPOGNA e R. TOMEI, Milano, 2008, 173. 233 In questo senso S. MAINARDI, D. lgs. 10 settembre 2003 n. 276 e riforma del mercato del lavoro:

l’esclusione del pubblico impiego, in Lav. pub. amm., cit., 1081. 234 Cfr. V. LO STORTO, La somministrazione di lavoro a tempo determinato nella pubblica

amministrazione: i rapporti tra pubblica amministrazione utilizzatrice e lavoratore e le rispettive responsabilità, cit., 565.

122

Tuttavia, in ragione della estensione della disciplina sulla somministrazione di lavoro a

tempo determinato in favore della pubblica amministrazione, non pare sia possibile

ignorare la distinzione tra appalto e somministrazione contenuta nel comma uno

dell’art. 29 del d. lgs. 276/2003235.

Nella vigenza della ormai abrogata l. n. 1369/1960, il divieto di interposizione

illecita di cui all’art. 1 era considerato generalmente applicabile alla pubblica

amministrazione236, anche se era esclusa la possibilità di costituire un rapporto di lavoro

con l’ente pubblico sul presupposto della sanzione prevista dal comma cinque, art. 1

della l. n. 1369/1960237.

Successivamente, la l. n. 196/1997, pur ammettendo la possibilità di derogare in

determinati casi al divieto disposto dalla legge del 1960, ha escluso che alla pubblica

amministrazione possano essere applicate le <<previsioni relative alla trasformazione

del rapporto a tempo indeterminato nei casi previsti dalla presente legge>> (comma due,

art. 11).

Tale principio è stato poi ribadito nel comma due dell’art. 36 del d. lgs. n. 165/2001,

secondo il quale <<la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o

l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la

costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche

amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità o sanzione>>.

Una ulteriore conferma è rivenibile nella previsione di apertura dell’Accordo quadro

secondo cui <<in nessun caso, il ricorso alla fornitura di lavoro temporaneo potrà essere

utilizzato per sopperire stabilmente e continuativamente a carenze organiche>> (comma

due, art. 1)238.

Come già accennato, la nullità dell’atto costitutivo del rapporto di pubblico impiego

comporta unicamente la sussistenza di un rapporto di fatto, con le conseguenze

favorevoli di cui all’art. 2126 c.c. Inoltre, secondo l’art. 36 del d.lgs. 165/2001, il

lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di

lavoro in violazione di disposizioni imperative. In sostanza vige una duplice tutela,

ossia il diritto alla retribuzione e il diritto al risarcimento del danno (aquiliano), con il

235 In questo senso S. MAINARDI, D. lgs. 10 settembre 2003 n. 276 e riforma del mercato del lavoro: l’esclusione del pubblico impiego, in Lav. pub. amm., cit., 1090.

236 Cfr., in giurisprudenza, Cass., 5 marzo 2002, n. 3172; Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2000, n. 1441, in Foro amm., 2000, 947; Cons. Stato, sez. V, 19 ottobre 1999, n. 1590, in Consiglio di Stato, 1999, I, 1630. In dottrina, cfr., per tutti, M. T. CARINCI, La fornitura di lavoro altrui. Art. 2127, cit., 110 ss.

237 Cfr., Cons. di Stato, sez. IV, 6 marzo 1998, n. 377, in lav. pub. amm., 1998, 903; Cons. Stato, sez. V, 11 aprile 1996, n. 386, in Consiglio di Stato, 1996, I, 590.

238 Cfr., G. BOLEGO, La somministrazione di lavoro a tempo determinato, cit., 586.

123

limite, in caso di mancanza di dolo, della risarcibilità del solo danno prevedibile ex art.

1225 c.c. 239.

Secondo l’attuale disciplina contenuta nella legge del 2003, il dipendente che intende

far valere l’illiceità del rapporto interpositorio deve dimostrare che la p.a. ha fatto

ricorso alla somministrazione di lavoro nascosta dietro un finto contratto di appalto.

Ecco perché, nonostante il mancato richiamo dell’art. 29 del d. lgs. n. 276/2003 fra le

discipline applicabili al settore del pubblico impiego, non è possibile non prendere in

considerazione la distinzione fra appalto e somministrazione, ad ogni modo di natura

meramente definitoria, contenuta nel suddetto articolo.

Tale impostazione è supportata dalla considerazione secondo cui l’appalto di lavori

pubblici conserva i caratteri fondamentali del contratto di appalto privato di cui all’art.

1655 c.c.240, che è, per l’appunto, espressamente richiamato nel comma uno dell’art. 29.

Tali requisiti (organizzazione di mezzi e gestione a proprio rischio) sono riconducibili,

come più volte discusso, a quelli della nozione di imprenditore ex art. 2082 c.c.

Si può concludere che il divieto di appalti di manodopera (e non anche le sanzioni)

continua ad essere applicato nei confronti della p.a., non già come accadeva con la l. n.

1369/1960 mediante un esplicita previsione in tal senso (art. 1), bensì attraverso la

regolamentazione <<privatistica>> della somministrazione di lavoro a tempo

determinato contenuta nella legge del 2003.

Qualche dubbio può sorgere in relazione all’ambito soggettivo di applicazione del

divieto.

Secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato241, supportato da una costante

giurisprudenza, è escluso che possa trovare applicazione l’art. 1 della l. n. 1369/1960

per le amministrazioni pubbliche non costituite in forma di azienda e non svolgenti

attività d’impresa, e comunque nei casi in cui l’amministrazione agisce nell’esercizio

delle sue funzioni istituzionali242.

Nella disciplina sulla somministrazione di lavoro a tempo determinato contenuta nel

d. lgs. 276/2003 non si rinviene una limitazione in tal senso, e quindi il divieto di

interposizione illecita di manodopera è applicabile a tutte le pubbliche amministrazioni

committenti. Si attua così una estensione dell’ambito soggettivo di applicazione rispetto

239 Cfr., anche per ulteriori approfondimenti, F. BUFFA e G. DE LUCIA, Il posto nella pubblica amministrazione. Dalla sistemazione alla flessibilità, Macerata, 2006, 174-175.

240 A. CAROSI e D. DI CARLO, Il quadro normativo sui contratti, in C. FRANCHINI (a cura di), I contratti con la pubblica amministrazione, Torino, 2008, 175.

241 Cons. Stato, Sez. IV, 6 marzo 1998, n. 379, in Foro it., 1998, III, 269. 242 Cons. Stato, Sez. V, 12 marzo 2009, n. 1467.

124

alla previgente disciplina.

Stessa impostazione del problema per quanto riguarda la figura dell’appaltatore. Se si

tratta di un imprenditore privato, occorre sicuramente verificare la sua qualità

imprenditoriale e, in tutti i casi, chi esercita, in concreto, il potere di direzione e di

controllo sui lavoratori impiegati nell’appalto. Se l’appaltatore è, invece, un altro ente

pubblico, probabilmente la violazione del divieto non può trarsi dalla valutazione dei

requisiti di imprenditorialità, ma da chi esercita effettivamente i poteri tipici del datore

di lavoro. Resta aperta la questione se in questo caso si possa configurare una fattispecie

di appalto, valida solo ai fini lavoristici, diversa da quella contenuta nell’art. 1655 c.c.

Le alternative pare siano due: o si ammette che l’ente pubblico appaltatore deve

necessariamente possedere le caratteristiche ex art. 1655 c.c. nell’ambito della specifica

attività appaltata dove sono coinvolti i lavoratori interessati, o si considera il distacco

con la nozione civilistica di appalto utilizzando, come singolo parametro di distinzione

con la somministrazione vietata, la verifica dell’effettivo utilizzatore diretto della

prestazione di lavoro.

In questa direzione, infine, si tenga conto del fatto che per l’applicazione dell’art.

2126 devono sussistere una serie di indici rilevatori in concorso tra loro, in

particolare243:

- la continuità e professionalità delle prestazioni lavorative;

- il vincolo della subordinazione gerarchica;

- la percezione di una retribuzione predeterminata corrispondente ad una delle

qualifiche esistenti nell’organico dell’Ente;

- la volontà dell’amministrazione, manifestata attraverso comportamenti univoci, di

inserire il prestatore di lavoro nella propria organizzazione;

- il rispetto di un orario di inizio e termine della prestazione lavorativa.

243 Cfr., A. CAROSI e D. DI CARLO, Il quadro normativo sui contratti, in I contratti con la

pubblica amministrazione, op. cit., 175.

125

Capitolo 9 – Questioni di legittimità legate alle politiche di esternalizzaizone

attuate Telecom Italia

SOMMARIO: 1. Il quadro generale. - 2. L'accordo del 28 marzo 2000 come punto di

partenza: un commento critico. - 3. Segue: gli accordi sul Piano Industriale del 2002-2004 e del 2005-2007. - 4. Questioni di legittimità riguardanti le politiche societarie relative alla cessione del ramo d'azienda: il caso <<Gestione Autoparco>>. – 5. Segue: il caso TE.SS. – 6. Segue: il caso Im.Ser. - 7. Un'ampia elaborazione giurisprudenziale sancisce l'illegittimità delle cessioni attuate dalla Telecom Italia. - 8. L'illegittima individuazione dei dipendenti addetti all'attività da trasferire nelle cessioni Telecom Italia e il discutibile orientamento giurisprudenziale che nega l'interesse dei lavoratori ad agire contro il trasferimento ex art. 2112 c.c. - 9. La cessione dell'attività <<Gestione autoparco>> a Savarent Fleet Services. - 10. L’interposizione illecita di manodopera e l’inapplicabilità della sanzione <<ordinaria>> della conversione. - 11. La cessione dell'attività <<Logistica della funzione acquisti di domestic wireline>> a TNT. - 12. La cessione dell'attività <<Grandi immobili>> a Im.Ser. - 13. La cessione dell'attività <<User Support>> a HP DCS. - 14. La cessione dell'attività <<Human Resource/Servizi Generali>> a Emsa Servizi e dell’attività <<Manutenzione e Servizi Ambientali>> a MP Facility. - 15. La cessione dell'attività <<Centri territoriali di Sorveglianza in ambito Purchasing Acquisti e Servizi per la Security>> a Tecnosis e dell'attività <<Property Management>> a Pirelli & Real Estate Property Management.

1. Il quadro generale

Negli ultimi anni Telecom Italia S.p.a. (d'ora in poi Telecom Italia) ha ceduto

parecchi rami di attività, in cui sono stati coinvolti migliaia di lavoratori. Molti di loro

hanno rifiutato di credere che i trasferimenti siano stati legittimi, ed hanno fatto ricorso

in tribunale per chiedere la nullità degli effetti nei loro confronti. Sono state emanate

decine di sentenze244 che, nella maggior parte dei casi, hanno dato ragione ai lavoratori

dichiarando illegittima la cessione.

La battaglia legale è ancora in corso, e si consideri che molte cessioni sono sfociate

nell'attuazione (o tentativi di attuazione) di procedure di mobilità e di licenziamenti

collettivi.

Le attività esternalizzate sono riconducibili a svariate funzioni: gestione e

valorizzazione del patrimonio immobiliare; fatturazione bollette telefoniche; gestione

autoparco; amministrazione del personale; manutenzione hardware e software; gestione

logistica; gestione delle polizze sinistri; gestione protocollo, posta ed archivi cartacei;

244 Per l’elenco completo delle sentenze aggiornate a luglio 2008, nonché per ulteriori

informazioni contenute nei vari allegati, si rimanda alla versione pubblicata sulla rivista giuridica on line www.giureta.unipa.it, 2008, volume VI.

126

manutenzioni e servizi ambientali; gestione servizi di sicurezza; gestione servizi

radiomarittimi.

Quasi tutte le cessioni sono state accompagnate dalla stipulazione di contratti di

appalto, attraverso cui la società cedente ha reinserito il risultato dell'attività

esternalizzata nel proprio ciclo produttivo.

Tali politiche di esternalizzazione sono parte integrante di un complesso Piano di

Sviluppo e di Riorganizzazione del gruppo Telecom, che, come si vedrà meglio in

seguito, è stato inizialmente approvato dalle organizzazioni sindacali con un accordo del

2000 (per il periodo 2000-2002), cui sono seguiti altri due accordi siglati nel 2002 (per

il periodo 2002-2004) e nel 2005 (per il periodo 2005-2007), che riguardano

sostanzialmente delle fasi di attuazione degli obiettivi raggiunti nella prima intesa245.

Dallo studio delle singole cessioni è emerso il ruolo determinante della complessità

dei rapporti societari, delle relazioni commerciali e dei continui trasferimenti di attività

da un’azienda all’altra. In questa direzione, si è dimostrato che non si è trattato di

normali esternalizzazioni, bensì di continui trasferimenti di rami d’azienda (e di

aziende) <<a catena>>, spesso intrecciati fra loro. Per questo, non pare sia possibile

giustificare un simile disegno strategico attraverso i classici obiettivi che le imprese

intendono raggiungere con il ricorso all’outsourcing.

Dal punto di vista giuridico, hanno assunto notevole importanza le problematiche

legate al tema della responsabilità della capogruppo nei gruppi di società, dato che le

cessioni sono state governate nell’ambito di gruppi societari, da cui è scaturita

l’acquisizione (formale) di determinati rami d’azienda da parte di società neonate,

controllate da realtà imprenditoriali che hanno, di fatto, governato il processo di

esternalizzazione. Basti pensare ai nomi assegnati alle Newco, ad esempio: Savarent e

Savarent Fleet Services nell’ambito del gruppo Fiat; TE.SS. rinominata Accenture HR

Services appartenente al gruppo Accenture con capogruppo Accenture S.p.a.;

nell’ampio contesto della cessione del patrimonio immobiliare i lavoratori sono passati

attraverso quattro società fra cui due nominate entrambe Telemaco immobiliare, una

S.r.l. e l’altra S.p.a.; oppure le cosiddette “pirelline” (Pirelli & c. Project Management

S.p.a., Pirelli & c. Commercial Agency , S.p.a., Pirelli & c. Real Estate Property

245 Punto fermo della strategia aziendale affermata nel Piano è stato il consistente ridimensionamento

del personale: dal 2000 al 2006 si è avuta una diminuzione di circa 30 mila dipendenti. In particolare, il personale del gruppo Telecom al 31/12/2000 ammontava a 114.669 unità e al 31/12/2006 sono state dichiarate 83.209 unità, con una variazione netta in diminuzione di 31.460 unità. Fonte dati: bilanci Telecom reperibili nel sito ufficiale: www.telecomitalia.it.

127

Management S.p.a. e Pirelli & c. Real Estate S.p.a.) tutte appartenenti al gruppo Pirelli;

ecc. Si consideri, che quasi tutte le cessioni sono sfociate in procedure di mobilità e di

licenziamenti collettivi.

E’ stata anche discussa la questione realiva all’integrazione delle attività, resa

possibile da determinati mezzi di produzione immateriali, che consente a chi

esternalizza di non perdere il controllo sull’attività trasferita, e talvolta anche sui

lavoratori ceduti. Dall’esame delle numerose sentenze, infatti, è risultato chiaro come

attraverso adeguate strumentazioni informatiche si può esternalizzare il lavoratore senza

esternalizzare la sua prestazione di lavoro. Si è già detto diverse volte, che questo tipo di

esternalizzazioni sono punite dalla legge con l'imputazione del rapporto di lavoro in

capo all'effettivo imprenditore (cessionario/appaltatore), ossia a colui che esercita, di

fatto, il potere di direzione e di controllo sui lavoratori impiegati nell'attività

esternalizzata. E’ stata proprio l'applicazione di questo fondamentale principio che ha

spinto molti giudici a dichiarare nulla la cessione.

Il caso Telecom Italia dimostra che l’unico soggetto che oggi è realmente in grado di

tutelare il lavoratore, è il lavoratore stesso. In tal senso, l’introduzione del diritto di

opposizione al trasferimento è un passo necessario.

2. L'accordo del 28 marzo 2000 come punto di partenza: un commento critico

Le politiche di outsourcing oggetto di analisi hanno tratto origine da un verbale di

accordo siglato nel marzo del 2000, presso il ministero del Lavoro e della Previdenza

sociale, dal gruppo Telecom Italia e dalle organizzazioni sindacali (SLC CGIL - FISTEL

CISL - UILTE UIL, e assistiti dalle OO.SS. CGIL – CISL – UIL). Tale accordo è stato il

frutto di una serie di incontri in cui le parti hanno esaminato e discusso il Piano Telecom

di Sviluppo e di Riorganizzazione per il triennio 2000-2002: si afferma come i

lineamenti del Piano trovano rispondenza in specifiche iniziative e processi di sviluppo

e di riorganizzazione, comprese le linee operative per la gestione degli aspetti connessi

al personale occupato.

L'intenzione, in questa sede, non è quella di entrare nel merito delle scelte tecnico-

produttive e organizzative dell'azienda, bensì quella di valutarne l'impatto sulle

condizioni di lavoro, sul ruolo attribuito alle organizzazioni sindacali e, infine, sulla

corrispondenza fra quanto stabilito nel Piano e ciò che prevede la legge in materia di

128

esternalizzazioni.

L'accordo è sostanzialmente suddiviso in due parti: la politica di sviluppo e di

riorganizzazione e il protocollo di relazioni industriali.

Di notevole interesse, nell'ampio contesto della prima parte, è l'importanza attribuita

alla politica di sviluppo che fa perno sul principio di integrazione:

- integrazione di funzionalità e di applicazioni;

- progressiva integrazione di reti e sistemi informatici;

- integrazione commerciale;

- integrazione funzione hosting e customer care;

- integrazione dei servizi voce e dati;

- e più in generale, integrazione derivante da una visione <<aziendale>> delle

soluzioni ICT come strumento per attuare specifiche strategie di business: <<un insieme

complesso di relazioni, di tecnologie, di applicazioni e di esigenze cui è necessario dare

risposta in termini di piena integrazione>>.

Com'è evidente, l'integrazione è una variabile importantissima per il governo

dell'intero gruppo Telecom Italia. Tuttavia, una tale scelta strategica, proiettata nella

logica della normativa posta a tutela dei lavoratori in materia di esternalizzazioni,

spinge inevitabilmente a considerare l'ipotesi di incompatibilità della strategia di

riorganizzazione con i requisiti di legittimità per il ricorso all'outsourcing. E ciò sulla

base del principio secondo cui all'aumentare del livello d'integrazione fra il ciclo

produttivo del cedente/committente e l'attività del cessionario/appaltatore,

diminuiscono, fino anche ad annullarsi, gli spazi necessari per qualificare quest'ultimo

come vero imprenditore, e, quindi, se difettano i requisiti di imprenditorialità il

trasferimento e/o l'appalto sono illegittimi.

In questo senso, le parti, già attraverso il presente accordo, si sarebbero dovute

accorgere che la questione relativa alla potenziale illegittimità delle esternalizzazioni

attuate dalla Telecom Italia doveva essere il principale argomento di discussione in sede

di contrattazione. Ma ciò non è avvenuto, e non si capisce come si possa discutere delle

sorti di migliaia di lavoratori (famiglie comprese) senza una preventiva verifica della

compatibilità fra le scelte di riorganizzazione e le norme che tutelano il lavoro in queste

specifiche circostanze. O, quantomeno, si doveva lavorare su un diretto, dettagliato,

chiaro ed inequivocabile collegamento tra la politica di outsourcing ed il relativo

sistema di garanzie.

Diversamente, nell'accordo, con particolare riferimento al sistema Telecom Italia, si

129

prevede che l'azienda s'impegna a ricercare soluzioni consensuali, attraverso l'avvio di

un confronto con le OO.SS. firmatarie del presente accordo, rispetto ai termini formali

delle procedure di legge, con l'intento di approfondire i criteri che si utilizzeranno per la

definizione delle cessioni previste. In questa direzione, si conferma l'attenzione verso le

tematiche relative alle risorse umane e agli assetti contrattuali, agli aspetti previdenziali

ed alla rappresentanza sindacale.

Molto preoccupante, a parere di chi scrive, è l'impegno assunto dal cedente di

individuare, in accordo con il cessionario, per un periodo di tempo definito, soluzioni

volte ad evitare l'utilizzo di provvedimenti di riduzione collettiva degli organici ex art.

24 della l. n. 223/1991. Questo esplicito collegamento fra la politica di cessione e le

procedure di licenziamento collettivo non può che spingere, fin dall'inizio, a riflettere

sulle reali ragioni dei trasferimenti di rami d'azienda attuati. E questo a maggior ragione

se si considera che alcuni cessionari hanno effettivamente attuato delle procedure di

mobilità, e talvolta addirittura pochi mesi dopo l'acquisizione del ramo d'azienda. E'

evidente che da queste poche informazioni non si può (e non si vuole) dedurre l'intento

fraudolento della cessione, ma quantomeno si deve riflettere sul perché un'azienda che

esternalizza avverta l'esigenza di contrattare, per certi versi, l'utilizzo delle procedure di

licenziamento collettivo sui lavoratori appartenenti al ramo ceduto.

In questa direzione, è doverosa un'ultima osservazione critica in merito al nesso di

causalità fra le eccedenze di personale previste e le iniziative di riorganizzazione, che

chiaramente è al di fuori della problematica relativa alle esternalizzazioni. In

particolare, non si evince nessuna diretta corrispondenza fra i lavoratori in esubero

rispetto alle scelte di razionalizzazione delle singole strutture. Per fare un esempio, non

viene specificato quanti lavoratori siano effettivamente coinvolti nella razionalizzazione

del processo di Esercizio e Manutenzione, delle attività relative al ciclo immobiliare,

delle strutture di Customer Care, ecc.

C'è da chiedersi come si possa avallare una individuazione generica dei lavoratori in

esubero, in un accordo che ha la pretesa di giustificare la perdita del posto di lavoro di

migliaia di persone, con evidenti e gravi ripercussioni sulla loro vita e quella dei loro

familiari.

Eppure le parti hanno fatto numerosi incontri prima di presentare questo accordo.

I lavoratori prima, e la collettività dopo, avevano il diritto ad essere informati

attraverso l'accordo su tutte le valutazioni che hanno portato alla individuazione delle

eccedenze, che sostanzialmente dovevano essere le seguenti: inequivocabile

130

corrispondenza numerica fra i settori razionalizzati e i lavoratori coinvolti; chiara

individuazione delle professionalità esuberanti rispetto alle strategie di sviluppo; le

motivazioni relative all'impossibilità di reimpiegare il personale nelle attività in via di

sviluppo, anche attraverso adeguati corsi di riqualificazione professionale.

A nulla rileva, poi, il fatto che nella concreta espulsione dei lavoratori eccedenti

siano stati stipulati successivi accordi. Questo in quanto questi ultimi rappresentano una

fase attuativa dell'intesa oggetto di analisi, rientrano nell'ambito degli obblighi previsti

dalla legge in materia di licenziamento collettivo, e, comunque, tutto ciò che è stato in

un secondo tempo contrattato non è idoneo a giustificare i vuoti dell'accordo in

discussione.

3. Segue: gli accordi sul Piano Industriale del 2002-2004 e del 2005-2007

Con una successiva intesa siglata il 27 maggio 2002, ed in linea di continuità con

l'accordo del 28 marzo 2000, le parti, nell'ambito del Piano Industriale 2002-2004,

hanno ridiscusso il sistema di Relazioni Industriali, che sostanzialmente conferma

quello già posto in essere nel 2000.

Si ribadisce la volontà dell'azienda di attuare un corretto dimensionamento

dell'organico, e ciò, tenuto conto dell'esperienza precedentemente maturata, attraverso la

mobilità interaziendale nel gruppo Telecom (e professionale), la collocazione in

mobilità ex lege n. 223/91 e gli inserimenti mirati per consolidare e migliorare il

servizio al cliente. L'obiettivo dichiarato è quello di far sì che gli interventi previsti dal

Piano Industriale non generino eccedenze strutturali per il triennio 2002-2004.

Con specifico riferimento all'applicazione della mobilità ex lege n. 223/91, le parti si

orientano affinché questa avvenga senza l'opposizione dei lavoratori, prevedendo, in

questa direzione, esodi incentivati secondo le linee operative di cui all'accordo del 28

marzo 2000.

L'attenzione è posta anche verso l'utilizzo del lavoro atipico (bisogna considerare che

l'intesa è stata raggiunta prima della riforma del mercato del lavoro del 2003) nelle sue

varie forme: lavoro temporaneo, collaborazioni coordinate e continuative, telelavoro,

remotizzazione, part-time e job-sharing.

L'aspetto più interessante è ovviamente quello relativo alle esternalizzazioni, e su

questo punto l'azienda si esprime nel senso di valutare l'ipotesi di attuazione di

131

iniziative in tal senso.

Di particolare importanza sono le dichiarazioni in merito alle cause che possono

spingere il gruppo Telecom a ricorrere all'outsourcing. Si evidenzia, infatti, che le

terziarizzazioni avverranno <<sulla base della valutazione della strategicità dei singoli

segmenti dei mercati di riferimento, della necessità di poter fruire di servizi eccellenti

alle migliori condizioni di costo, dell'opportunità di avviare partnership con operatori

specializzati>>.

Ora, com'è possibile che i requisiti di <<servizio eccellente>> e <<operatori

specializzati>>, ritenuti fondamentali, siano stati soppressi nella concreta attuazione

dell'esternalizzazione, attraverso l'affidamento ad imprese nate poco tempo prima della

cessione? Di certo, non sembra potere esistere alcuna razionalità logica, figuriamoci

economica e/o organizzativa, fra la volontà teorica di ricorrere ad un fornitore esterno in

possesso dei requisiti sopra esposti e la scelta concreta di affidare un servizio ad una

società neocostituita. Qualcuno potrebbe obiettare che la neonata impresa possiede

indirettamente un'adeguata esperienza, in quanto controllata, spesso totalmente, da

un'azienda leader nel settore cui l'esternalizzazione si riferisce. Ciò non ha comunque

alcuna rilevanza, dato che si tratta pur sempre di soggetti giuridici differenti, ossia di

distinti centri di imputazione di rapporti obbligatori, con la conseguenza che sulle sorti

dei contratti di lavoro stipulati dalla newco ne risponde esclusivamente quest'ultima,

restando quindi esclusa qualsiasi possibilità per i lavoratori di rivalersi sulla società

controllante.

Per il resto, nell'intesa del 2002 si riprendono gli stessi principi dell'accordo del

2000, ed in particolare riguardo all'impegno assunto dall'azienda di ricercare, in accordo

con il cessionario, l'utilizzo di provvedimenti di riduzione collettiva del personale (la

critica a tale previsione è già stata fornita nel paragrafo precedente).

Ulteriori preoccupazioni di carattere generale emergono dalle premesse che hanno

preceduto il contenuto dell'intesa. Si afferma che lo scenario competitivo è mutato, nel

senso che il processo di liberalizzazione ha innescato un meccanismo competitivo, che

ha provocato un forte calo dei prezzi per tutte le tipologie di servizio. Questa

diminuzione del margine di redditività ha spinto l'azienda a reagire anche attraverso una

maggiore attenzione alle dinamiche dei costi. E ciò anche alla luce di un ripensamento

delle strategie di sviluppo, in quanto le attese di crescita del mercato Internet si sono

rivelate eccessive. A questo si aggiunga un appesantimento della situazione debitoria, a

cui si è deciso di far fronte con una ristrutturazione finanziaria orientata verso l'aumento

132

della componente con scadenza a medio/lungo termine246.

Tornando alle iniziative di terziarizzazione, queste sono state successivamente

riconfermate in un accordo del 10 giugno 2003, dove le parti si sono preoccupate di

evidenziare che tali scelte non verranno adottate nell'ottica della soluzione di eventuali

problematiche occupazionali.

Sempre con riferimento al Piano Industriale del 2002-2004, ulteriori dettagli in tema

di esternalizzazioni sono contenuti in un accordo del 12 novembre 2004, che si riferisce

alla serie di incontri svolti dalle parti nel corso dell'anno, al fine di verificare gli

impegni precedentemente assunti e di analizzare i temi di maggiore rilevanza

complessiva.

Colpiscono, anche in questo caso, tutta una serie di esternazioni attraverso cui

l'azienda, probabilmente spinta dal malcontento dei lavoratori esternalizzati, dichiara

esplicitamente che essa s'impegna affinché vengano rispettati i principi dell'ordinamento

e di etica nella conduzione degli affari, ritenendo, inoltre, fondamentale il rispetto dei

diritti dei lavoratori e l'attuazione di un sistema di garanzie atte a prevederne la

salvaguardia ed il mantenimento.

Ancora una volta, poi, si commette l'errore di considerare il mantenimento dei diritti

dei lavoratori in caso di trasferimento come oggetto di contrattazione fra le parti,

addirittura incanalandoli all'interno di alcune clausole del contratto di cessione.

E’ anche interessante il richiamo allo strumento del monitoraggio nell'ambito del

sistema di garanzie, in quanto ci si pone come obiettivo quello di verificare l'andamento

dell'iniziativa di outsourcing in relazione agli assetti organizzativi del cedente e del

cessionario. L'utilizzo di questa importantissima funzione, proiettata nell'ottica della

normativa in materia di esternalizzazioni, avrebbe probabilmente evitato la massa di

ricorsi legali al fine di verificare la legittimità del trasferimento.

Passando invece all'accordo del 7 novembre 2005, relativo al Piano Industriale del

periodo 2005-2007, si può anzitutto evincere un cambiamento positivo, ossia che,

mentre nell'accordo del 27 maggio 2002 veniva dichiarato un calo di redditività dovuto

alla crescente competitività nel settore delle telecomunicazioni, nell'esercizio 2004

emerge un miglioramento dei ricavi e della redditività.

246 Fra il 2002 ed il 2004 il prestito obbligazionario risulta triplicato, passando da 10.624 milioni di

euro a 31.118 milioni di euro. Si deve sottolineare come tale aumento sia in realtà iniziato a partire dal 2000 dove il prestito era pari a 1.814 milioni di euro. Un andamento diverso ha invece caratterizzato il debito verso le banche: dal 1999 al 2000 raddoppia (slitta da 8.149 milioni di euro a 16.796 milioni di euro), e negli anni successivi fino al 2004 si riduce progressivamente. Fonte dati: bilanci Telecom, cit..

133

Il fatto non ha prodotto alcun effetto positivo sul ricorso alla mobilità ex lege n.

223/91, per la quale continuano a trovare applicazione gli stessi criteri e le stesse

garanzie individuate nell'accordo del 27 maggio 2002.

La stessa cosa deve dirsi per la politica di outsourcing, ed infatti viene riconfermata

la validità dell'accordo del 12 novembre 2004.

Diversamente, e relativamente alla questione relativa alla legittimità della

esternalizzazione, può invece essere considerata indicativa, nell'accordo, la descrizione

del nuovo modello di business integrato, che riprende quanto già discusso sul tema

dell'integrazione nell'accordo del 28 marzo 2000, ma con delle precisazioni che forse

rappresentano la giusta chiave di lettura, in termini giuridici, dell'outsourcing.

Nello specifico, nel nuovo assetto organizzativo viene operata una distinzione fra le

attività di indirizzo e controllo connesse al business, nonché il governo complessivo

delle tematiche trasversali al business stesso, e una struttura <<Operations per le attività

di gestione e lo sviluppo del business delle telecomunicazioni Fisse, Mobili e dei servizi

Internet>>.

Si evince chiaramente che il sistema organizzativo scelto dall'azienda si basa su una

logica piramidale, dove la tecnica dell'integrazione consente di gestire in modo ottimale

la distinzione fra le attività di <<indirizzo e controllo e le attività <<operative>>.

Il problema che ci si deve porre è quello di capire se questa tipologia di assetto

organizzativo possa, a livello interaziendale (indipendentemente dall'appartenenza o

meno al gruppo), creare delle sovrapposizioni fra imprese giuridicamente distinte,

ognuna delle quali deve possedere, per essere considerata tale, delle concrete funzioni di

governo. In altri termini, come sopra argomentato, l'eccessiva ingerenza del

cedente/committente sull'attività del cessionario/appaltatore potrebbe provocare la

perdita dei requisiti di legittimità della cessione e/o dell'appalto.

Bisogna precisare che, in base a quanto dichiarato nell'accordo, nell'ambito delle

<<Operations>> sono state create delle funzioni, fra cui quella di direzione generale,

che fanno propendere verso una corretta impostazione della politica di

esternalizzazione.

Ma in realtà la soluzione va ricercata nella corretta interpretazione dell'assetto

organizzativo effettivamente posto in essere, che si tenterà di fornire, nei paragrafi

successivi, attraverso l'analisi delle singole cessioni di ramo d'azienda.

134

4. Questioni di legittimità riguardanti le politiche societarie relative alla cessione del

ramo d'azienda: il caso <<Gestione Autoparco>>

L’intenzione di cedere l’attività denominata <<Gestione Autoparco>> è chiaramente

emersa all’epoca della stipulazione dell’accordo sindacale del 28 marzo 2000. Ed

effettivamente il 21 dicembre 2001 è stato concluso, con efficacia differita di qualche

mese, il contratto fra Telecom Italia e Savarent Fleet Services S.r.l. per la cessione del

suddetto ramo di azienda247.

La peculiarità di questa cessione è direttamente rinvenibile nel contratto di cessione,

stipulato da tre parti (Telecom Italia, Savarent Fleet Services S.r.l. d’ora in poi Savarent

Fleet Services e Savarent S.p.a. d’ora in poi Savarent), quando invece avrebbe dovuto

coinvolgere i soli cedente e cessionario, che nel caso in esame sono rispettivamente

Telecom Italia e Savarent Fleet Services.

Considerando le circostanze della vicenda, risulta chiara qual'è stata la strategia

societaria posta in essere dalla Savarent, e ciò, si badi bene, a prescindere dal fatto che

questa possa essere ricondotta a fattispecie vietate dalla legge.

L'accordo di cessione fra Telecom Italia e Savarent Fleet Services trae origine dalla

stipulazione di un contratto di servizi fra Telecom Italia e Savarent, che si è aggiudicata

la gara indetta dall'appaltante per l'affidamento dei servizi di noleggio degli autoveicoli

e la gestione degli autoveicoli noleggiati nonché di quelli che resteranno di proprietà del

cedente (v. lettera h) ed i) delle premesse dell'atto di cessione). Ed è stato solo

successivamente a tale accordo che la Savarent ha deciso di costituire ex novo la

Savarent Fleet Services248.

Precisamente, il primo marzo 2002 Telecom Italia e Savarent hanno stipulato un

contratto di appalto avente ad oggetto il noleggio di lunga durata di autoveicoli da parte

della seconda alla prima, nonché la prestazione di servizi di <<fleet management>>

(tanto sui veicoli così noleggiati che su quelli già di proprietà) che Savarent ha (in un

secondo momento, con decorrenza dal primo giugno 2002, surrogata da Leasys S.p.a.)

subappaltato a Savarent Fleet Services249. Gran parte dell'autoparco è stato invece

acquistato da Leasys S.p.a.. Ad un certo punto, in data 18 novembre 2002, Savarent

247 La ricostruzione è stata effettuata utilizzando i dati contenuti nel contratto di cessione di ramo d'azienda concluso fra Telecom Italia, Savarent Fleet Services S.r.l. e Savarent Fleet Services e Savarent S.p.a., nonché attraverso le sentenze emesse in merito a tale cessione, ed in particolare quella del tribunale di Torino, 27 febbraio 2003, n. 1407.

248 Cfr. Cass., 8 agosto 2007, n. 17434. 249 Ricostruzione contenuta nella sentenza del Tribunale di Roma, 23 novembre 2004, n. 33319.

135

Fleet Services è stata trasformata nell'attuale Targa Fleet Management S.r.l..

Senza entrare per adesso nel merito dell'oggetto della cessione, si ricostruiranno, di

seguito, alcuni scenari astrattamente concepibili in riferimento ai collegamenti societari

emersi nella vicenda. La principale fonte di informazione utilizzata sarà l'atto di

cessione.

L’atto di cessione è stato il frutto di una precisa scelta strategica della Savarent,

finalizzata alla gestione del servizio affidatole da Telecom Italia. Ciò risulta evidente se

si considera che la newco Savarent Fleet Services è stata costituita dalla Savarent, che la

controlla totalmente.

Quindi, la Savarent stipula un contratto di servizi con la Telecom Italia, e poco dopo

crea una società con lo scopo di far confluire su di essa il ramo di attività esternalizzato

dalla Telecom Italia, che riguarda in parte la medesima attività oggetto del contratto di

appalto. In sostanza, anche se il ramo di azienda è stato rilevato dalla neonata Savarent

Fleet Services, l'intera cessione è stata decisa ed è stata governata dalla sua controllante.

Non è difficile ipotizzare che la società che ha (formalmente) rilevato il ramo di

attività <<Gestione Autoparco>> abbia assunto, in realtà, il ruolo di mero interposto,

con la conseguenza che l'atto negoziale (contratto di cessione) posto in essere sia

riconducibile all'ipotesi di simulazione relativa soggettiva250. In questo caso, il contratto

dissimulato sarebbe quello in cui Savarent risulta formalmente il cessionario del ramo

ceduto da Telecom Italia.

Come ormai stabilmente affermato dalla giurisprudenza, ai fini della dimostrazione

dell'interposizione simulatoria si richiede la prova di un accordo avente natura

trilaterale, con la conseguenza che, ai fini dell'accertamento dell'interposizione fittizia,

occorre la dimostrazione della partecipazione del terzo (Telecom Italia) all'intesa

simulatoria e il rispetto del requisito di forma per il trasferimento del diritto oggetto del

negozio251. Nel caso in esame, tale prova risiede chiaramente nell'atto di cessione.

Questo documento fornisce anche altri elementi che rafforzano la suddetta ipotesi di

simulazione.

Nel contratto di cessione si trova anzitutto una particolare condizione (lettera n) delle

premesse e articolo XII), ossia che la Telecom Italia <<si è dimostrata disponibile a

cedere il ramo di azienda a Savarent Fleet Services S.r.l. a condizione che Savarent si

250 Per approfondimenti in materia di simulazione cfr. F. ANELLI, Simulazione e interposizioni, in

Trattato del contratto, cit.. 251 Cfr. F. ANELLI, Simulazione e interposizioni, in Trattato del contratto, cit., 639-640.

136

faccia garante di tutte le obbligazioni previste dal contratto, a carico della stessa

Savarent Fleet Services S.r.l., quale co-obbligato solidale>>. La richiesta del cedente è

stata accolta dalla Savarent (lettera o)). E' evidente che la richiesta della Telecom Italia è

probabilmente dettata dalla consapevolezza che una società neonata, con le

caratteristiche sopra esposte, non può costituire un'adeguata garanzia per le obbligazioni

derivanti dal contratto di cessione.

Un altro indice sintomatico dell'intesa simulatoria è la condizione secondo cui

qualsiasi comunicazione riferita al contratto dovrà essere indirizzata, sia per Savarent

che per Savarent Fleet Services, alla medesima persona ed al medesimo indirizzo

(articolo XIII).

O ancora la previsione in base alla quale Savarent Fleet Services e Savarent

dovranno tenere Telecom Italia <<manlevata ed indenne in relazione a qualsiasi pretesa

o richiesta avanzata da qualsiasi terzo...>> (articolo VIII).

Se si vuole ipotizzare, invece, la frode alla legge, occorrono ulteriori argomentazioni,

in quanto il meccanismo della frode alla legge consiste nell'utilizzare un negozio in sé

lecito per realizzare mediatamente un fine vietato da una norma imperativa252. Nel caso

in esame, lo scopo vietato che le parti hanno inteso raggiungere potrebbe essere quello

di evitare che Savarent si assumesse le responsabilità derivanti dall'instaurazione di un

rapporto di lavoro con i dipendenti ceduti da Telecom Italia, che, di fatto, risultano però

essere alle dipendenze della prima società. Anche se ciò fosse vero occorrerebbe

identificare la normativa elusa, che in questo caso è il divieto di interposizione illecita di

manodopera. Per questa strada bisognerebbe accertare se i lavoratori alle dipendenze da

Savarent Fleet Services (si ricorda adesso Targa Fleet Management S.r.l.) siano soggetti

al potere dispositivo e di controllo da Savarent. In questa direzione, l'analisi dei

contratti di appalto di servizi fra le società che figurano nell'atto di cessione è d'obbligo.

Tralasciando ulteriori approfondimenti, si può concludere affermando che la

ricostruzione effettuata sulla base del solo atto di cessione, oltre a confermare le

problematiche affrontate in relazione alla tutela dei lavoratori nell'ambito dei

collegamenti societari, costituisce uno spiraglio per quei lavoratori che ancora oggi

vogliono far valere la nullità della cessione del proprio contratto di lavoro. Questa ,

infatti, sembra l'unica strada percorribile, visto che la richiesta di invalidità di tale

cessione per mancanza di autonomia del ramo ceduto è stata disattesa fino in

252 Cfr. Cass., 7 febbraio 2008, n. 2874.

137

Cassazione253.

Nelle sentenze di primo grado emesse dal tribunale di Roma e dal tribunale di

Ancona parte delle questioni esposte sono state affrontate.

Il giudice di Roma254 ha affermato che non sussiste una ipotesi di interposizione

illecita di manodopera a beneficio di Savarent S.p.a. - Leasys S.p.a., in quanto mancano

le necessarie allegazioni per potere prospettare tale ipotesi.

Il giudice di Ancona255, invece, fornisce una serie di argomentazioni che, a parere di

chi scrive, sono molto discutibili. Nello specifico, sembra di capire che il giudice non

reputa significativo il riferimento, da parte dei ricorrenti, alla duplicità dei soggetti

(Savarent Fleet Services e Savarent), in quanto essi risultano di fatto <<soggettivamente

ed economicamente unitari>>, ed appartenenti ad un <<unico centro imprenditoriale>>

(gruppo Fiat). Infatti, prosegue il giudice, una volta stabilito che il ramo d'azienda è

stato effettivamente alienato da Telecom Italia, ogni questione relativa alla unità

(sostanziale) o dualità (formale) di acquirenti-appaltatori, e del rapporto tra loro, esula

dall'oggetto del presente giudizio in quanto non sussiste l'interesse dei ricorrenti ad

essere considerati dipendenti dea Savarent256. Per analoghi motivi, l'ipotesi di

interposizione di manodopera può assumere rilievo solo con riferimento al rapporto (di

appalto) tra Telecom Italia (da una parte) e le due Società Fiat dall'altra, e non anche

nell'ambito del rapporto formalizzato tra queste ultime.

In sostanza, esso considera Savarent e Savarent Fleet Services come un soggetto

unitario. Com'è stato già ampiamente discusso, anche se una società è controllata al

100% da un'altra società si tratta pur sempre di soggetti giuridici differenti, ed una

eventuale co-datorialità deve essere dimostrata e sancita in sede di giudizio.

Effettivamente, anche lo stesso giudice ammette indirettamente che il lavoratore non è

dipendente di Savarent, e tra l'altro cade anche in una contraddizione quando

inizialmente afferma che deve essere riconosciuto l'interesse ad agire dei lavoratori, ai

fini della individuazione della controparte contrattuale.

253 Cfr. Cass., 8 agosto 2007, n. 17434. 254 Cfr. Tribunale di Roma, 23 novembre 2004, n. 33319. 255 Cfr. Tribunale di Ancona, 8 giugno 2005, n. 544. 256 C'è da dire, come giustamente affermato dal giudice, che il giudizio non è stato instaurato in

contraddittorio con la Savarent.

138

5. Segue: il caso TE.SS.

Con atto di conferimento di ramo d’azienda stipulato il 30 ottobre 2000 (efficace dal

primo novembre 2000), Telecom Italia ha operato il trasferimento dell'attività

(funzionale) all'<<Amministrazione del personale>> alla cessionaria Telepayroll

Service S.p.a. (da ora in poi TE.SS.).

Il cedente detiene una partecipazione del 100% nella società TE.SS.. Telecom Italia

ha praticamente esternalizzato a se stessa 349 lavoratori, di cui soltanto alcuni

precedentemente adibiti all’unità/linea <<amministrazione del personale>>

appartenente alla macro divisione Risorse Umane.

TE.SS. è stata costituita nel 1990 a Napoli con la denominazione Teleporti Italia

S.p.a.. Con Assemblea straordinaria del 2 febbraio 1998 la società veniva posta in

liquidazione. Successivamente con delibera del 31 maggio 2000 l'Assemblea

straordinaria dei soci revocava lo stato di liquidazione, trasferiva la sede in Roma,

variava la denominazione sociale in TE.SS.. Si afferma che le principali linee di

business in cui l'azienda intenderà operare successivamente al conferimento del ramo

sono attività relative all'amministrazione del personale. Da ciò si evince che TE.SS. non

è altro che una riproposizione di una società, posta in liquidazione, che a quanto pare

non si era mai occupata di amministrazione del personale. La <<rinascita>> di TE.SS. è

stata strumentale alla cessione, basti pensare che la revoca dello stato di liquidazione e

di attribuzione della nuova denominazione sociale è avvenuta sei mesi prima della data

di conferimento del ramo di azienda.

In data 20 dicembre 2002, Telecom Italia cede l'intero capitale azionario

all'acquirente società Accenture HRS International Lmtd. Il contratto di compravendita

azionaria diveniva efficace a seguito del provvedimento autorizzativo n. 11708, emesso

in data 13 febbraio 2003 dalla competente Autorità Garante per la concorrenza ed il

mercato (v. art. 5 del contratto di compravendita di azioni). Per l’effetto, i lavoratori

ceduti entravano a far parte della compagine lavorativa dell’attuale azienda di

destinazione: Accenture HR Services S.p.a./in breve TE.SS..

Con questo ulteriore acquisto di partecipazioni, i lavoratori ceduti in TE.SS. si sono

ritrovati a lavorare per una società esterna al gruppo, nonostante Telecom Italia si sia

impegnata nell'accordo sindacale del 2000 a mantenere le attività di amministrazione

del personale in società operanti in un ambito di controllo di Telecom Italia.

Ma attenzione. Può anche darsi che Telecom Italia non abbia mai realmente

139

esternalizzato l'attività di <<amministrazione del personale>>. Presupposto essenziale

per l'esternalizzazione di questo tipo di attività è che i requisiti di imprenditorialità del

cessionario/appaltatore debbano manifestarsi attraverso il governo dell'organizzazione,

in capo ad esso, del software di gestione dell'amministrazione del personale, in quanto

principale mezzo di produzione. Se questa condizione non si verifica, è probabile che

Telecom Italia non abbia realmente ceduto l'attività di amministrazione del personale,

ma solo i lavoratori. In questo modo, Telecom Italia potrebbe tranquillamente decidere

di non rinnovare la commessa, e la società appaltatrice potrebbe anche cessare l'attività.

Di conseguenza, le centinaia di lavoratori (ex) Telecom Italia perderebbero il posto di

lavoro.

Negli ultimi anni i bilanci da Accenture HR Services S.p.a. hanno mostrato una

perdita, che va progressivamente aumentando.

Attualmente tantissimi lavoratori, circa duecento, sono in causa al fine di ottenere la

reintegrazione in Telecom Italia.

6. Segue: il caso Im.Ser

Durante la lettura è necessario porre particolare attenzione alla sequenza delle date in

relazione agli eventi257. In data 10 novembre 2000 veniva sottoscritto il verbale di

riunione fra Telecom Italia, Im.Ser S.p.a. (d'ora in poi Im.Ser) e le OO.SS. di

esperimento della procedura di cui all'art. 47 della l. n. 428/1990 in merito al

conferimento alla società Im.Ser da parte della Telecom Italia del proprio ramo

d'azienda <<Grandi Immobili>>, una funzione realizzata per garantire la gestione

patrimoniale della quota di patrimonio immobiliare costituita dagli immobili di maggior

pregio (circa 570 immobili), pianificando e realizzando le relative operazioni di

valorizzazione o dismissione.

In data primo 1° dicembre 2000 la Telecom Italia ha conferito il ramo d'azienda

<<Grandi Immobili>> alla Im.Ser, ed ha successivamente ceduto il 60% di tale società a

Beni Stabili (45%) e Lehman Brothers (15%).

Con ordine di servizio n. 1 del 24 gennaio 2001 il consiglio di amministrazione di

Im.Ser deliberava la costituzione di due divisioni (Investment e Trading) rispettivamente

257 Le informazioni di seguito riportate sono sostanzialmente contenute nella sentenza del tribunale

di Roma, 22 dicembre 2003, n. 3876 e nei bilanci della Telecom Italia.

140

con funzioni di mantenimento del patrimonio immobiliare strategico e di vendita di

quelli non strategici.

In data 23 marzo 2001 veniva sottoscritto il verbale di riunione fra Im.Ser, Telemaco

Immobiliare S.p.a. (d'ora in poi Telemaco Immobiliare) e OO.SS. per l'esperimento

della procedura di cui all'art. 47 della l. n. 428/1990 relativa alla decisione di Im.Ser di

conferire alla neocostituita Telemaco immobiliare il proprio ramo d'azienda

<<Divisione Trading>> (con decorrenza dal primo maggio 2001) dedicato alla gestione

dinamica della quota di patrimonio immobiliare per la quale sono previsti la

pianificazione e la realizzazione delle relative operazioni di valorizzazione, nonché

interventi di engineering e di manutenzione straordinaria.

Il 1° agosto 2002 si è perfezionata la cessione di Telemaco Immobiliare a Mirtus,

azienda indirettamente controllata dal fondo immobiliare americano Whitehall,

promosso dal Gruppo Goldman Sachs, con un incasso netto di euro 192 milioni, ed una

plusvalenza netta di euro 64 milioni per il Gruppo Telecom Italia.

Provando a ricostruire la vicenda, si può anzitutto affermare che è stata attuata una

colossale cessione di immobili di proprietà della Telecom Italia. Non si comprende bene

però quale sia stato il concreto interesse economico/strategico legato alla realizzazione

delle suddette operazioni, di esternalizzazioni <<a catena>>.

Per quanto riguarda gli 89 dipendenti ceduti all'inizio dalla Telecom Italia, essi si

occupano della manutenzione dei pochi stabili rimasti ad Im.Ser.. La maggior parte (62)

hanno fatto ricorso al giudice, che nel dicembre 2003 ha ritenuto nulla la cessione,

decisione impugnata da Telecom Italia che è ricorsa in Appello.

Il 28 marzo 2005 anche la Telemaco Immobiliare S.r.l., frutto di un successivo

passaggio, apre una procedura di mobilità per cessazione dell’attività entro l’anno

licenziando 52 dipendenti (ex) Telecom Italia.

7. Un'ampia elaborazione giurisprudenziale sancisce l'illegittimità delle cessioni

attuate dalla Telecom Italia

Come già accennato, delle quindici cessioni di ramo d'azienda effettuate dalla

Telecom Italia, dal 2000 al 2006, otto (10 se si considerano i ricorsi in corso dei

lavoratori ceduti a TE.SS. e a ITS Servizi Marittimi e Satellitari S.p.a.) sono state

oggetto di moltissimi ricorsi legali da parte dei lavoratori, che hanno chiesto al giudice

141

di dichiarare la nullità della cessione nei loro confronti.

Dalle sentenze raccolte si evince la netta vittoria dei lavoratori, il cui ricorso è stato

accolto nel 73% dei casi.

Anche se tutti i lavoratori hanno sostanzialmente agito in giudizio per far valere

l'illegittimità del loro trasferimento, le richieste sono variate dall'accertamento del

demansionamento e della verifica della mancanza di autonomia funzionale del ramo

ceduto all'accertamento di quest'ultimo senza il primo.

Il demansionamento si caratterizza per la sua valenza prettamente individualista, nel

senso che l'accoglimento del ricorso necessita di una serie di accertamenti da parte del

giudice relativi alla situazione individuale del lavoratore nei confronti dell'azienda.

Diversamente, la verifica della mancanza di autonomia del ramo ceduto passa

attraverso una valutazione complessiva dell'attività esternalizzata. Ma anche tale

accertamento esplica comunque la sua efficacia esclusivamente nei confronti dei

lavoratori che hanno agito in giudizio.

Ora, considerando che le cessioni hanno riguardato rami di attività sparsi sul

territorio nazionale, si è assistiti a situazioni in cui, da una parte la maggioranza dei

giudici hanno dichiarato l'illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda per mancanza

dei requisiti richiesti dalla legge (art. 2112 c.c.), mentre una minoranza di essi hanno

ritenuto valida la medesima cessione.

Questo è accaduto nell'ambito dei ricorsi attuati contro la cessione del ramo d'azienda

in favore di TNT Logistic Italia S.p.a. (d'ora in poi TNT), dato che in ben diciannove

sentenze i giudici hanno dichiarato l'illegittimità della cessione per mancanza di

autonomia del ramo ceduto, e contemporaneamente in altre quattro sentenze se ne è

dichiarata invece la legittimità.

La circostanza si ripete con la cessione a HP DCS – Hewlett Packard Distributed

Computing Services S.r.l. (d'ora in poi HP DCS), dove a fronte di sette ricorsi accolti

per mancanza di autonomia del ramo ne è stato respinto uno soltanto.

Una situazione simile si è verificata con la cessione del ramo di attività in favore di

Telepost: in sette sentenze è stata dichiarata l'illegittimità della cessione per mancanza

di autonomia del ramo ceduto, a fronte di altre quattro sentenze in cui la stessa viene

dichiarata valida.

Per quanto riguarda le decisioni dei giudici sulle altre cessioni, si riportano di seguito

i seguenti risultati, sempre in ordine alla valutazione dell'autonomia del ramo ceduto:

− Cessione a Savarent Fleet Services (ora Targa Fleet Management): tutti i ricorsi

142

dei lavoratori (quattro) sono stati respinti, di cui uno fino in Cassazione.

− Cessione a Im.Ser: una sola sentenza emessa in favore dei lavoratori. La società

ha fatto ricorso in Corte d'Appello, il cui verdetto è atteso per la metà di luglio.

− Cessioni a Emsa servizi: un solo ricorso accolto.

− Cessione a M.P. Facility S.p.a. (d'ora in poi MPF): tre ricorsi accolti.

− Cessione a Tecnosis S.p.a. (d'ora in poi Tecnosis): un solo ricorso che è stato

accolto.

− Cessione a Pirelli & Real Estate Property Management S.p.a. (d'ora in poi

Pirelli): due ricorsi, entrambi accolti.

Com'è evidente, l'elaborazione giurisprudenziale è nettamente orientata a considerare

illegittime le cessioni per mancanza dei requisiti stabiliti dall'art. 2112 c.c.

Al di là della apprezzabilità del risultato, e dunque prima di effettuare una sommaria

analisi delle sentenze in questione, si deve osservare che se l'intenzione del cedente era

davvero quella di liberarsi dei dipendenti, c'è riuscito. Telecom Italia, infatti, è obbligata

a reintegrare soltanto una minima parte dei lavoratori esternalizzati, e cioè solo quelli

che hanno vinto il ricorso.

8. L'illegittima individuazione dei dipendenti addetti all'attività da trasferire nelle

cessioni Telecom Italia e il discutibile orientamento giurisprudenziale che nega

l'interesse dei lavoratori ad agire contro il trasferimento ex art. 2112 c.c.

Dall'esame delle sentenze è emerso che non pochi ricorsi hanno riguardato l'ipotesi di

demansionamento258, e qualcuna anche di mancata inerenza del lavoratore al ramo

ceduto, attraverso cui i ricorrenti hanno chiesto al giudice di far dichiarare l'illegittimità

della cessione del loro contratto di lavoro.

Le decisioni dei giudici saranno analizzate nella prospettiva del collegamento fra il

258 Sui vari aspetti della disciplina cfr. F. LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro

legale, Milano, 1982; M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, in P. SCHLESINGER (diretto da) Comm. Cod. Civ., Milano, 1997; P. ICHINO, Il contratto di lavoro, II, Milano, 2003, 284 ss. Sul regime probatorio del demansionamento e del mobbing cfr. M. MEUCCI, Alcuni punti fermi in tema di oneri probatori del demansionamento e del mobbing, in Riv. crit. dir. lav., 2007, n. 3, 631 ss. Sul danno da demansionamento cfr., inoltre, Cass., 24 marzo 2006, n. 6572, con nota di P. MAGNO, Danno da demansionamento e onere della prova, in Dir. lav., 2006, II, 141 ss. Nell'ambito delle sentenze emesse in riferimento alle esternalizzazioni Telecom Italia, cfr. le argomentazioni del tribunale di Ferrara, 1 febbraio 2008, n. 50, il quale, ripercorrendo i tratti essenziali della disciplina, accenna alla tendenziale affermazione di una nozione dinamica di equivalenza professionale.

143

demansionamento ed il trasferimento del ramo d'azienda, che è invece un’ovvietà nei

casi di mancata inerenza del lavoratore al ramo ceduto.

Il demansionamento è stato oggetto di ricorso nell'ambito della cessione da Telecom

Italia a TNT, Telepost, HP DCS, Tecnosis e Emsa.

Nel caso della TNT, su un totale di venticinque sentenze emesse undici hanno anche

riguardato la richiesta dei lavoratori di far valere l'asserito demansionamento. Di

queste259, otto sono state accolte.

Nei ricorsi accolti, risulta evidente il collegamento fra il demansionamento e il

trasferimento di ramo d'azienda, che consiste nella circostanza che la sottrazione di

mansioni è stata finalizzata all'inserimento in un settore di attività, a sua volta

funzionale ad una successiva cessione di ramo d'azienda, e quindi anche dei lavoratori

demansionati. Ciò è confermato anche dalla tempistica degli eventi: l'inizio del

demansionamento (febbraio 2002) contestato dai lavoratori coincide con il periodo in

cui Telecom Italia ha attuato la riorganizzazione (febbraio-marzo 2002)260.

Si precisa che ci si sta riferendo all'ipotesi di demansionamento attuato prima della

cessione del ramo di azienda, sicché dalla dichiarazione di nullità dell'atto posto in

essere da Telecom Italia consegue il diritto del lavoratore a ritornare alle mansioni

originarie presso l'impresa di provenienza261.

Sui ricorsi non accolti, bisogna considerare che in questi tre casi i lavoratori hanno

chiesto di far valere il demansionamento a partire dal 1997, e quindi diversi anni prima

del momento della cessione del ramo d'azienda. Ne deriva che non sussiste alcun

collegamento apparente, e giuridicamente rilevante, fra lo stesso ed il trasferimento di

ramo d'azienda nei termini sopra esposti. In questo senso, in due delle tre sentenze in

discussione (tribunale di Rimini, 2 maggio 2007, n. 513 e tribunale di Ferrara, 1

febbraio 2008, n. 50), anche se non è stato accertato l'asserito demansionamento, i

259 Le accolte sono: Tribunale di Roma, 27 ottobre 2005, n. 18777; Tribunale di Bologna, 6 ottobre 2005, n. 741; Tribunale di Palermo, 20 ottobre 2006, n. 4420; Tribunale di Palermo, 20 ottobre 2006 n. 4418; Tribunale di Palermo, 20 ottobre 2006 n. 4422; Tribunale di Palermo, 20 ottobre 2006, 4423; Tribunale di Palermo, 20 ottobre 2006 n. 4417; Tribunale di Bologna, 3 maggio 2007, n. 236. Quelle respinte sono: Tribunale di Forlì, 3 dicembre 2004, n. 327; Tribunale di Rimini, 13 dicembre 2006, n. 513; Tribunale di Ferrara, 1 febbraio 2008, n. 50. Si precisa che delle richieste respinte solo una è stata accompagnata dall'ulteriore mancato accoglimento dell'accertamento della mancanza di autonomia del ramo d'azienda ceduto. Nelle altre sentenze i ricorrenti hanno comunque ottenuto la reintegrazione in Telecom Italia, in conseguenza della mancanza del presupposti di cui all'art. 2112 c.c..

260 Così in tutte le sentenze accolte, tranne che per quella di Bologna (4 settembre 2007, n. 236), in cui il demansionamento è stato accertato a partire dal 1998. Tuttavia anche in questa occasione il giudice ha richiamato un collegamento con la cessione dell'attività: <<le attività svolte dal ricorrente anteriormente al trasferimento sono state cedute TNT e che nessuno dei dipendenti di Telecom Italia che erano addetti all'ufficio ove operava il ricorrente è stato ceduto a TNT>>.

261 Così M. MARINELLI, I licenziamenti per motivi economici, cit., 262.

144

giudici hanno comunque dichiarato l'illegittimità della cessione di ramo d'azienda, con

conseguenze non operatività del disposto di cui all'art. 2112 c.c., per cui la cessione del

contratto di lavoro del ricorrente è inefficace, in quanto esso non ha prestato il proprio

consenso ex art. 1406 c.c.

Seguendo lo stesso percorso argomentativo per il caso Telepost262, c'è da dire che, in

ragione del fatto che si hanno a disposizione solo tre sentenze e tra l'altro con risultati

diversi, non è possibile confermare quello che in TNT è un evidente collegamento fra

demansionamento e cessione di attività. E’ doveroso precisare, tuttavia, che nei due casi

in cui il ricorso contro l'adibizione a mansioni inferiori è stato accolto, tale

collegamento emerge nei termini seguenti: i ricorrenti sono stati adibiti nell'area di

attività denominata <<Document Management>> nello stesso mese in cui la stessa è

stata creata (luglio 2003), a sua volta poco tempo dopo (marzo 2004) trasferita alla

società Telepost. A questo deve aggiungersi che tutti e tre ricorsi sono stati accolti in

relazione all'accertamento della illegittimità della cessione per mancanza dei requisiti di

cui all'art. 2112 c.c..

Per quanto riguarda invece il caso HP DCS deve essere fatta un'importante premessa.

Su due dei tre ricorsi persi in merito alla richiesta di demansionamento, la motivazione

addotta dal giudice (lo stesso in entrambe le cause) consiste nella carenza di interesse ad

agire, ex art. 100 c.c.p., dei ricorrenti263. Nello specifico, si afferma che: <<Nel caso in

esame il ricorrente non fornisce alcuna allegazione comprovante di aver subito alcun

pregiudizio dal trasferimento del ramo d'azienda di cui è causa. Anzi, si ritiene che lo

stesso non abbia subito alcun pregiudizio, poiché risulta dall'accordo sindacale dell'otto

aprile 2003 e dal contratto di cessione ed è circostanza non contestata che l'attore ha

conservato lo stesso trattamento economico e normativo precedente, e gode di una

garanzia di stabilità assoluta per 24 mesi>>264. Questo discutibile orientamento

giurisprudenziale è stato giustamente criticato da un autore che ha affrontato la

questione commentando altre due sentenze265, sempre contro Telecom Italia, con le

262 Ricorsi accolti: tribunale di Napoli, 21 febbraio 2008, n. 5792; tribunale di Venezia, 8 aprile 2008,

n. 110. Ricorso respinto: tribunale di Roma, 28 febbraio 2007, n. 6528. 263 Così: tribunale di Bologna, 26 gennaio 2006, n. 959 e tribunale di Bologna, 2 marzo 2006, n. 210.

Per l'altro ricorso respinto si veda tribunale di Bologna, 15 settembre 2006, n. 708. I ricorsi accolti, che però riguardano l'ipotesi di mancata inerenza dei lavoratori al ramo ceduto, si veda: tribunale di Roma, 11 luglio 2007, n. 14964 e tribunale di Roma, 6 giugno 2007, n. 14959.

264 Tribunale di Bologna, 2 marzo 2006, n. 210. Identica conclusione nella sentenza del tribunale di Bologna, 6 dicembre 2005, n. 959.

265 Cfr. tribunale Bologna, 17 ottobre 2005 e tribunale Torino, 8 febbraio 2006 con nota di P. PASSALACQUA, L'interesse ad agire del dipendente nell'azione di accertamento della nullità del trasferimento d'azienda, in Riv.giur. lav. prev. soc., 2007, fasc. 2, 289 ss.

145

stesse argomentazioni, di cui una emessa proprio dallo stesso giudice delle sentenze in

questione266. In breve, questo sottolinea come sussiste un interesse ad agire del

lavoratore legato a ragioni di carattere sostanziale attinenti più da vicino alla ratio della

normativa giuslavoristica del trasferimento di azienda. Si consideri inoltre che in tutte le

sentenze esaminate nel presente scritto che hanno affrontato l'argomento, è stata

dichiarata la sussistenza dell'interesse ad agire dei ricorrenti. Fra tutte si segnala quella

del tribunale di Napoli sul caso Telepost (23 marzo 2007), in cui il giudice sostiene

fortemente l'interesse del lavoratore ad opporsi al trasferimento, considerando che le

vicende circolatorie di segmenti aziendali si prestano ad utilizzi fraudolenti in senso

lato, anche alla luce delle innovazioni legislative sulla materia dichiaratamente

finalizzate ad agevolare i processi di esternalizzazione.

Un altro caso di demansionamento si è avuto in relazione alla cessione a Emsa (si

veda tribunale di Roma, 10 maggio 2007).

Chiusa questa parentesi, resta da fare un accenno alle sentenze dove è emersa la

mancata inerenza dei lavoratori al ramo di azienda ceduto, da cui è derivata l'invalidità

della cessione dei contratti di lavoro dei ricorrenti. In questo senso il tribunale di

Ancona nel caso TNT (7 novembre 2006), il tribunale di Roma nel caso HPDCS (7

agosto e 4 ottobre 2007) ed il tribunale di Trieste (9 marzo 2007).

In merito alla valutazione dell’autonomia funzionale del ramo ceduto, ben sette delle

otto cessioni poste al vaglio della magistratura sono state dichiarate illegittime da

diversi giudici d'Italia267.

9. La cessione dell'attività <<Gestione autoparco>> a Savarent Fleet Services

Ad oggi, la cessione del ramo d'azienda <<Gestione Autoparco>> è stata l'unica

esternalizzazione di Telecom Italia che è stata ritenuta valida da tutti i giudici che si

sono pronunciati sulla vicenda.

La <<Gestione Autoparco>> consiste nell'attività di gestione del parco autoveicoli,

tenuta distinta dall'Autoparco (complesso di autovetture, furgoni, camion e mezzi

266 Si segnala un'altra sentenza emessa sempre dallo stesso giudice (tribunale di Bologna, 3 maggio 2007, n. 236), dove però non discute dell'interesse ad agire del lavoratore, bensì dichiara l'illegittimità della cessione del contratto di lavoro nell'ambito della cessione del ramo d'azienda in conseguenza dell'accertato demansionamento.

267 Si ricorda che sono in corso altre cause relative alla cessione in favore della società TE.SS. e della società ITS Servizi marittimi e Satellitari S.p.a..

146

speciali) che è rimasto in parte a Telecom e in parte è stato acquistato da Leasys. C'è da

dire che Telecom Italia, prima di cedere il ramo, aveva già appaltato a Savarent i servizi

di noleggio degli autoveicoli ed anche la gestione del parco veicoli, ed è solo in un

secondo momento che quest'ultima ha a sua volta subappaltato a Savarent Fleet

Services la prestazione di servizi di <<fleet management>>.

In relazione a tutte le sentenze emesse, i ricorrenti hanno chiesto al giudice di far

valere l'insussistenza di un effettivo ramo d'azienda268. Il problema è dunque quello di

capire se la <<Gestione Autoparco>> possa essere ricondotta ad un'attività

imprenditoriale funzionalmente autonoma.

Nella sentenza del tribunale di Torino (27 febbraio 2003), seguita da quella relativa al

ricorso in Corte d'Appello (8 gennaio 2004, n. 1) ed alla Corte di Cassazione (13

giugno, n.17434), si afferma sostanzialmente che il ramo d'azienda deve essere

considerato autonomo, in quanto formato da un complesso di beni materiali ed

immateriali e di rapporti contrattuali funzionalmente collegato all'attività di gestione

dell'autoparco aziendale.

Sul punto, maggiori informazioni sono contenute nelle altre sentenze di primo grado.

In particolare, nella sentenza del tribunale di Roma (23 novembre 2004) si specifica il

contenuto della <<gestione operativa dell'autoparco aziendale>> in termini di:

approntamento/consegna/ritiro veicoli e accessori; controlli tecnico/specialistici sugli

interventi di manutenzione; adempimenti relativi a revisioni e collaudi. L'autonomia

funzionale della <<Gestione autoparco>> in relazione a queste attività è soprattutto

garantita dai mezzi immateriali trasferiti, software (come meglio individuati

nell'allegato C del contratto di cessione) e know-how acquisito dai dipendenti trasferiti

(in termini di avviamento). La centralità dei mezzi di produzione immateriali

nell'ambito di tale cessione è inoltre ribadita dal tribunale di Ancona (8 giugno 2005)

che sul punto rileva una contraddizione determinante, ossia che i software inclusi nel

ramo d'azienda (allegato C del contratto di cessione fra Telecom Italia e Savarent Fleet

Services) risultano essere stati ceduti da Telecom Italia anche a Savarent con un

contratto di servizi. Si consideri anche la coincidenza di date: l'1 marzo 2002 è stato

stipulato il contratto di servizi e nello stesso giorno è decorsa la validità del contratto di

cessione. Tuttavia il giudice tralascia la questione in quanto ritiene, erroneamente, che

268 Sulla contestazione relativa al rispetto della procedura di informazione e consultazione sindacale ex art. 47 della l. n. 428/1990, questa giurisprudenza ha giustamente rilevato come la richiesta di supposta violazione di tale procedura non può essere fatta valere dai ricorrenti, e questo perché la legge attribuisce la legittimazione attiva ad agire in giudizio contro la suddetta violazione alle organizzazioni sindacali.

147

Savarent e Savarent Fleet Services sono esplicitamente considerati sostanzialmente

come unico soggetto cessionario-appaltante. Ma se si tralascia questa considerazione

aggiuntiva, e si valuta esclusivamente la cessione a Savarent Fleet Services ci si rende

agevolmente conto che se i software sono stati ceduti realmente ceduti a Savarent, il

ramo di azienda trasferito non può essere considerato funzionalmente autonomo,

proprio in quanto privato del mezzo immateriale che in tutte le sentenze è stato reputato

determinante. Una corretta indagine su questo aspetto potrebbe anche comportare un

ribaltamento delle decisioni dei giudici, anche in considerazione della richiesta di alcuni

ricorrenti in ordine alla configurazione di un appalto illecito di manodopera.

10. La cessione dell'attività <<Logistica della funzione acquisti di domestic

wireline>> a TNT

In riferimento a tale cessione sorprende che in ben 22 sentenze emesse, su un totale

di 25, si dichiara l'illegittimità della cessione per mancanza di autonomia del ramo

ceduto. In ragione dell'ampia elaborazione giurisprudenziale si procederà con la

valutazione complessiva delle sentenze in cui è stata dichiarata l'illegittimità della

cessione, a cui seguirà una breve analisi comparata fra i ricorsi accolti e quelli respinti.

Le decisioni dei giudici, in riferimento ai ricorsi accolti, si basano fondamentalmente

sulla circostanza che non è stata ceduta l'intera struttura logistica, bensì solo una parte di

tale questa.

Nella recentissima sentenza del tribunale di Novara (10 aprile 2008), si

ricostruiscono i fatti nel modo seguente: per ammissione della stessa Telecom Italia

infatti, la funzione logistica, originariamente articolata in quattro strutture (Rete, Clienti

Residenziali, Data.Com e Fonia business), composta da sei Centri di raccolta cui si

affiancavano 110 micro-strutture (magazzini) e completata da un'attività impiegatizia di

supporto, è stata modificata nel febbraio – marzo 2002: dapprima sono state accorpate

le strutture Fonia Business e Data.Com nella struttura Rete che permase, con tale

modificazione, assieme alla struttura <<Clienti Residenziali>> e poi, nel marzo 2002, si

creò un'unica struttura logistica denominata <<Domestic Wireline>>. Oggetto del

trasferimento non è stata l'intera struttura logistica, ma solo una parte di essa, quella

relativa alla logistica della funzione <<Acquisti>> di Domestic Wireline, da cui deriva

l'impossibilità per la parte di attività trasferita di porsi autonomamente nel mercato. A

148

ciò si aggiunga che la logistica della <<rete>> (Case Management) e quella dei

<<clienti privati>> afferente l'amministrazione dei negozi Telecom Italia non è stata

oggetto di cessione. Per tutte queste ragioni è stato affermato che non si è trattato di un

trasferimento di ramo d'azienda, quanto piuttosto dello <<smembramento di un unico

servizio>> (Corte d'Appello di Torino, 26 settembre 2006, n.1441). Si è trattato

sostanzialmente della cessione a TNT della logistica dei negozi affiliati (Franchising), e

quindi di una esternalizzazione avente una finalità di separazione <<burocratica>>,

piuttosto che economico/funzionale, dei negozi affiliati rispetto ai negozi sociali.

Quello che sicuramente assume valore decisivo è che Telecom Italia, anche dopo la

cessione, ha mantenuto il potere decisionale sull'organizzazione aziendale dell'attività

esternalizzata: non solo in ordine a scelte di carattere strategico, sulla tipologia dei

prodotti o dei materiali da utilizzare, ma anche sul loro numero e sulle modalità di

sistemazione dei medesimi.

In relazione alle pochissime sentenze dove il ramo d'azienda è stato ritenuto

autonomo, si segnalano anzitutto le particolari considerazioni del tribunale di Forlì (7

gennaio 2005), secondo cui la suddetta esternalizzazione deve essere valutata nel

contesto di generale favore espresso dal legislatore a tale procedura, ed inoltre ricava la

validità della cessione sulla base di una testimonianza del sindacato Snater, per il solo

fatto che quest’ultimo, in altra sede, ha invocato la procedura ex art. 47 della l. n.

428/1990.

Ciò su cui pare sia stata fondata la comune, quanto sintetica, decisione di ritenere

legittima la cessione ex art. 2112 è il principio secondo cui appare irrilevante che

determinate attività (beni) siano rimasti in Telecom Italia.

E' evidente che in questa vicenda il nodo cruciale è la scissione fra l'attività di

governo e le funzioni meramente esecutive, che non sono sufficienti a potere

configurare un'attività d'impresa. In questa direzione, considerando che la cessione a

TNT (come d'altronde anche le altre) si riferisce ad un'attività sparsa sul territorio

nazionale, non è pensabile che questa possa essere governata ed organizzata senza il

supporto di adeguati programmi informatici. Ed infatti nella sentenza del tribunale di

Venezia (25 luglio 2007) la mancanza di autonomia funzionale viene anche valutata in

relazione all'attribuzione a Telecom Italia della possibilità di controllare i dati archiviati

da TNT visionando direttamente il suo archivio informatico, grazie all'adozione del

medesimo programma informatico GEM sviluppato dal cedente ed utilizzato anche dal

suo personale.

149

11. La cessione dell'attività <<Document Management>> a Telepost

Il <<Document Management>> consiste nell'attività di gestione della corrispondenza

in ingresso e in uscita, della corrispondenza in uscita prodotta su file con stampa presso

centro specializzato, gestione della distribuzione della corrispondenza, gestione degli

archivi cartacei e di gestione del parco macchine fotocopiatrici (lettera A) delle

premesse dell'atto di cessione).

Su 11 sentenze emesse l'invalidità della cessione è stata rilevata ben 7 volte.

Da questa esternalizzazione emerge con prepotenza che un ramo di attività, sparso su

più presidi in diverse città, non può essere autonomo se non c'è un complesso

organizzativo, governato dal cessionario/appaltatore, basato sull'utilizzo di un software

gestionale idoneo a consentire la realizzazione dello specifico servizio. La mancanza di

autonomia funzionale di un siffatto ramo si ricava con chiarezza già dall'atto di

cessione: con i 257 lavoratori ceduti sono state trasferite irrisorie strumentazioni (10

affrancatrici, 18 bilance, un carrello, una bucatrice, due calcolatrici, due distruggi

documenti, dieci imbustatrici, una incollatrice, una plastificatrice, dodici protocollatrici,

due rilegratici, una spillatrice e due taglierine, oltre alcuni mobili di arredo), che

avrebbero dovuto consentire, nell'ottica imprenditoriale del cedente e del cessionario,

l'operatività aziendale in 17 sedi sparse in tutta Italia. Praticamente, il valore

complessivo dei beni (allegato C dell'atto di cessione) è di 77.790 euro, e, così come

evidenziato dal giudice di Milano (8 ottobre 2007), dividendo tale somma per 17 si

ottiene il valore dei beni <<non condivisibili>> per ciascuna sede, ossia circa 4.500

euro. Con questi mezzi materiali, in ragione dell'oggetto dell'attività in una dimensione

nazionale, non si può nemmeno parlare di organizzazione del lavoro.

E' fin troppo evidente che l'unico modo per portare avanti un'attività come quella del

Document Management è l'utilizzo di un programma informatico attraverso cui

coordinare e gestire il lavoro a livello nazionale.

Il giudice di Napoli (23 marzo 2007) ha ben chiara questa situazione, ed infatti

precisa come l'utilizzo di un software (Fastmail) per la gestione dell'attività ceduta

rimasto di proprietà esclusiva del cedente ed escluso dal ramo, tale da non consentire la

piena autonomia del servizio reso. Esso sottolinea inoltre l'assoluta prevalenza del

fatturato Telepost degli introiti derivanti dal cliente Telecom Italia, tale da segnarne la

dipendenza economica; l'esercizio della funzione ceduta in aree nella piena disponibilità

del cedente, tale da ridurre la commerciabilità di un servizio che può essere reso solo a

150

chi è in grado di trarne utilità (ecc.).

Attualmente i dipendenti Telepost lavorano utilizzando il Sigec, uno strumento

informatico su intranet Telecom Italia. Senza l'utilizzo di questo programma, basato su

procedure e direttive Telecom Italia, l'attività di Telepost ne risulterebbe paralizzata.

Dando un brevissimo sguardo alle sentenze dove il ramo trasferito è stato invece

considerato autonomo, si può affermare che sono stati ritenuti sufficienti i beni materiali

e i beni immateriali (non si capisce quali) trasferiti ai fini della produzione di un

autonomo ramo produttivo.

Tuttavia, è doveroso sottolineare che i risultati giurisprudenziali non sono nettamente

a favore dei lavoratori, ed infatti su 11 sentenze 7 ricorsi sono stati accolti e 4 respinti.

12. La cessione dell'attività <<Grandi immobili>> a Im.Ser

Sul caso Im.Ser si ha a disposizione una sola sentenza, positiva per i lavoratori.

L'attività <<Grandi immobili>> è stata realizzata per garantire la gestione

patrimoniale della quota di patrimonio immobiliare costituita dagli immobili di maggior

pregio (circa 570 immobili), pianificando e realizzando le relative operazioni di

valorizzazione o dismissione.

Il giudice di Roma (22 dicembre 2003), ha dichiarato illegittima la cessione per

mancanza di una congrua preesistenza dell'autonomia funzionale del ramo,

considerando che al momento della cessione tale requisti era richiesto dalla normativa

previgente.

In particolare si afferma che la funzione Grandi immobili, prima dell'ordine di

servizio del 21 dicembre 1999, non esisteva autonomamente in ambito Telecom Italia,

ed è stata costituita al fine di valorizzare degli immobili di maggior pregio, ossi di

vendita a terzi ovvero messa a reddito degli stessi , tramite la locazione alla medesima

ex-proprietaria, peraltro con la peculiarità del mantenimento in capo a questa anche

degli oneri di manutenzione straordinaria. Dunque, si continua, creazione ex novo, di

una articolazione aziendale prima non esistenze perché nemmeno esisteva tra le finalità

imprenditoriali dell'azienda (poi) cedente, quella di valorizzazione dei propri immobili

di maggior pregio con ordine di servizio del 21 dicembre 1999; assegnazione ad essa

(senza particolare documentazione dei criteri seguiti per la selezione tra i circa 1.000

dipendenti che si occupavano del settore immobiliare in senso lato) di un ristretto

151

numero di lavoratori senza esperienza in materia di commercializzazione degli

immobili; accordo, dopo 3 mesi, per la costituzione di autonome strutture in ambito di

controllo Telecom Italia; configurazione, con ordine di servizio 8 novembre 2000, della

funzione come articolazione di autonoma business unit, dopo solo due giorni,

informazione alle OO.SS. del trasferimento del ramo d'azienda; dopo pochi altri giorni

cessione del controllo della società cessionario. Da tale sviluppo degli eventi si ricavano

la stretta sequenza cronologica degli eventi (costituzione di funzione non preesistente e

per finalità non preesistenti, informativa ai sindacati sfociata in una presa d'atto e non in

un accordo, cessione di ramo d'azienda) in meno di un anno ed il venir meno, sempre in

pochi mesi, della circostanza oggetto dell'accordo sottoscritto al Ministero del Lavoro

del mantenimento delle strutture autonome in ambito di controllo Telecom Italia.

Non si ritiene si debba aggiungere qualcos'altro alle considerazioni del giudice.

13. La cessione dell'attività <<User Support>> a HP DCS

Si deve premettere che in 7 delle 10 sentenze relative a tale cessione la Telecom

Italia è subentrata quale incorporante di It Telcom S.p.a. (d'ora in poi It Telecom). Ma

ciò si spiega alla luce di una serie di passaggi societari che hanno ruotato attorno a

questa vicenda.

L'attività User Support è stato costituito all'interno di It Telecom, attraverso

l'aggregazione di personale derivante da diverse aree, tutti aventi diverse funzioni, privi

di coordinamento o interazione. Successivamente It Telecom cede a HP DCS la suddetta

attività, e stipula con essa in contratto di appalto di servizi.

E proprio su questa linea il tribunale di Roma (31 gennaio 2007) conclude

sostenendo la mancanza di un'articolazione funzionalmente autonoma, il trasferimento

di professionalità diverse da quelle cedute, la riduzione delle attività svolte dai

ricorrenti, la tipologia dei passaggi societari descritti che hanno visto la costituzione di

una società (It Telecom) nell'agosto 2002 precedentemente alla cessione della struttura

It User Support, creata pochi mesi prima della cessione (ecc.).

Tralasciando ulteriori considerazioni, per le quali si rimanda ad un'approfondita

analisi delle sentenze allegate, è su questo intreccio che ha sostanzialmente gravitato

questa vicenda.

152

14. La cessione dell'attività <<Human Resource/Servizi Generali>> a Emsa Servizi

e dell’attività <<Manutenzione e Servizi Ambientali>> a MP Facility

Anche per questo trasferimento di ramo d'azienda sono state attuate una serie di

manovre societarie che rendono difficile la comprensione delle finalità delle

esternalizzazioni <<a catena>>, che a quanto pare sono una regola in ambito Telecom

Italia.

Prima di procedere all'analisi di questa sentenza, dove Telecom Italia agisce in

qualità di incorporante della It Telecom S.p.a., occorre specificare che questa cessione è

stata effettuata parallelamente alle cessioni del medesimo settore di Finsiel e TIM alla

società Emsa Servizi. Lo scorporo di parte dei <<Servizi Generali>> di queste tre

società si inserisce nel quadro del riassetto delle attività di <<Facility Management>> di

Telecom Italia. In sostanza, la società Emsa è stata utilizzata come <<area di transito>>

per i lavoratori in attesa delle successive cessioni verso MP Facility e Telepost.

Nel 2003 è stato infatti trasferito ad Emsa (tribunale Roma, 10 maggio 2007) il ramo

d'azienda di IT Telecom denominato HR/SG (Human Resource/Servizi Generali), a sua

volta il frutto di una riorganizzazione e suddivisione dei Servizi Generali. Cedente e

cessionario hanno successivamente stipulato il contratto di appalto avente ad oggetto lo

svolgimento delle attività cedute. Il primo novembre 2004 il ricorrente è stato

nuovamente ceduto alla società MP Facility, anch'essa convenuta.

La cessione da IT Telecom ad Emsa è stata dichiarata illegittima in ragione della

frammentazione dei Servizi generali, tale per cui il trasferimento di una porzione di

questo comporta il non rispetto dei requisiti di cui all'art. 2112 c.c..

La successiva cessione alla MP Facility non viene valutata in questa sentenza, posto

che il giudizio che invalidava la prima rende ovviamente superflua la valutazione di

merito della seconda cessione. Dei tre ricorsi promossi contro la cessione effettuata in

favore di MP Facility non si hanno ancora le motivazioni.

Oltre a questa sentenza, in cui è direttamente coinvolta la Telecom Italia (in qualità di

incorporante di IT Telecom), se ne segnalano altre 7 di accoglimento del ricorso in

ordine alle 3 distinte cessioni effettuate da Tim, It Telecom e Finsiel verso Emsa, e

successivamente da Emsa e Telecom Italia verso Mp Facility e soltanto 2 di rigetto

dell'istanza.

In sostanza sono state realizzate ben 3 cessioni verso Emsa e 2 cessioni distinte dei

153

rami <<Manutenzione e Servizi Ambientali>> e <<Document Management>> della

Emsa alle società Mp Facility e Telepost.

Per i dipendenti transitati in Emsa e successivamente in Telepost abbiamo ad oggi

una sentenza di accoglimento del ricorso (26 febbraio 2007).

15. La cessione dell'attività <<Centri territoriali di Sorveglianza in ambito

Purchasing Acquisti e Servizi per la Security>> a Tecnosis e dell'attività <<Property

Management>> a Pirelli & Real Estate Property Management

La cessione dell'attività di sorveglianza è unica nel suo genere per l'oggetto

dell'esternalizzazione, ed inoltre in quanto Telecom Italia ha successivamente deciso di

riacquisire il ramo trasferito a Tecnosis, sempre con lo strumento del trasferimento di

ramo d'azienda. Quello che colpisce è la riacquisizione di un ramo ceduto che il

tribunale di Trieste aveva comunque dichiarato illegittimo. Le argomentazioni fornite si

basano sulle prove documentali, e soprattutto sulla base di quanto emerso dal contratto

di cessione. Si intende richiamare in questo scritto un punto del contratto da cui emerge

con chiarezza la non genuinità dell'operazione (punto 6.4): <<... Nell'ipotesi in cui per

provvedimento giudiziale tutti o una parte dei dipendenti dovessero essere riconosciuti,

per qualsiasi motivazione, dipendenti di Telecom, outsourcer si obbliga a rinegoziare

con Telecom Italia il corrispettivo del contratto di servizi e del presente contratto

adeguandone l'entità anche tenendo conto del costo (retributivo e contributivo) dei

lavoratori il cui rapporto di lavoro proseguirà con Telecom Italia...>>.

Altro elemento ritenuto indicativo dal giudice è quello relativo alla non

proporzionalità fa il prezzo pagato da Tecnosis ed il valore della parte di attività

trasferita. Ed infine valuta l'inesistenza di un autonomo ramo produttivo in relazione alla

eterogeneità delle attività che sono state trasferite, che non risultano dunque unificate

dall'elemento dell'organizzazione. Per ulteriori dettagli si rimanda alla lettura della

sentenza.

L'ultima cessione alla quale si accenna è quella che ha ad oggetto l’attività

denominata <<Property Management>>, preposta alla gestione amministrativa del

patrimonio immobiliare e relativa rendicontazione, gestione degli interventi

edili/impiantistici a carico del proprietario e/o contrattualmente previsti. Tale attività è

stata creata a seguito della riorganizzazione della Real Estate & General Services,

154

nell’ambito della quale è stata creata una sotto struttura costituita dalle unità

organizzative Serices Sistem Management, Asset Management, project Management,

Property Management, Agency, e facility Mangement.

Il ricorrente, nella sentenza del tribunale di Roma (20 febbraio 2007), ha contestato

che la cessione della divisione Property Management è illegittima in quanto ha

riguardato solo una parte della linea Real Estate & General Services e non tutte le

articolazioni che sono in rapporto di necessaria interdipendenza. Il giudice ha accolto il

ricorso del lavoratore, constatando la centralità del sistema informatico SAP, in quanto

il ramo d’azienda formalmente trasferito al cessionario continuava, di fatto, ad essere

governato dal cedente. Sul punto nella sentenza si evince come: i dati inseriti nel SAP

della Property Management Pirelli potevano essere modificati esclusivamente da

dipendenti di quest’ultima e potevano essere visualizzati dal personale Telecom Italia

addetto al controllo dell’attività svolta da Pirelli. Ciò era stabilito dal contratto di

servizio che precedeva l’esclusività dell’attività svolta da Pirelli per Telecom Italia. La

procedura prevedeva, in caso di verifica di errore da parte del controllo, una

segnalazione ai referenti Pirelli. Il sistema SAP lascia traccia sia della modifica che del

suo autore. Per quasi un anno i dipendenti (ex) Telecom Italia predisponevano della

documentazione in carta Telecom Italia poi firmata da dipendente Telecom Italia

relativa ai rapporti di locazione, ad esempio lettere di recesso, rinnovo contratti.

L’attività di predisposizione dell’atto in base al contratto era di Pirelli, ma la svolge

Telecom seppur preparata da Pirelli.

Sulla base di tali argomentazioni, il giudice afferma che l’originaria incapacità già

all’interno di Telecom Italia allo svolgimento di un’attività autonoma organizzata da

parte dell’unità Property Management,si è protratta dopo la cessione della struttura a

Pirelli, costringendo i dipendenti transitati al continuo supporto ed intervento degli ex

colleghi di lavoro non transitati.

155

Capitolo 10 – Il fenomeno delle esternalizzazioni nel settore delle attività di call

center

SOMMARIO: SOMMARIO: 1. Esternalizzazioni e precarietà nei call center. - 2. I risvolti dell’adozione di una strategia di CRM nelle attività di call center. - 3. Il lavoro autonomo coordinato e continuativo nei call center: dalla circolare Damiano ai primi orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione. - 4. Il ruolo svolto dalla contrattazione collettiva. - 5. Call center Atesia: il ruolo del potere di governo dell’impresa appaltante nella valutazione della natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro degli operatori telefonici. - 6. L’incidenza della regolamentazione per la tutela degli utenti sull'organizzazione del lavoro nei call center. - 7. Le anomalie della cessione di attività da parte di Vodafone Italia.

1. Esternalizzazioni e precarietà nei call center

Le esternalizzazioni delle attività di call center è divenuto il simbolo della

fragilità del sistema di regole posto alla base del funzionamento del sistema

economico e sociale italiano.

Attraverso l’analisi di alcuni casi concreti, si dimostrerà come le principali

questioni giuridiche analizzate in tema di trasferimento di azienda, collegamenti

societari e appalti sono i fattori che stanno alla base dei fallimenti dei mercati in

Italia, e dunque della crisi economica.

Nel caos degli intrecci societari e dei continui trasferimenti di attività da

un’azienda all’altra, le attività delle grosse società di Telecomunicazioni e delle

pubbliche amministrazioni committenti pare non subiscano alcun tipo di disagio che

sia lontanamente avvicinabile al declino dei loro outsourcers. Si consideri, infatti,

che il successo della strategia di outsourcing dipende dalla capacità del fornitore

esterno di produrre un determinato bene o servizio, spesso anche attraverso i rami di

azienda ceduti dall’appaltante. Che le cessioni di attività di call center siano in realtà

soltanto apparenti, e che consistano di fatto in mere prestazioni di lavoro, è una delle

possibili spiegazioni. Generalmente, le tipologie di servizi di call center che possono

essere oggetto di trasferimento e/o di appalto sono: technology service, vale a dire il

servizio di base consistente nella progettazione, realizzazione, manutenzione

dell’infrastruttura tecnologica, manpower management, in cui il fornitore si fa carico

di gestire il servizio utilizzando personale proprio su infrastrutture tecnologiche

156

dell’impresa committente; full service ossia l’affidamento di tutto il servizio di call

service (tecnologia e personale) ad un call service outsourcer269. Come si vedrà

meglio in seguito (v. infra), se l’appaltatore impiega il proprio personale su sistemi

informatici gestiti dal committente, attraverso cui riesce ad applicare la propria

strategia di CRM indipendentemente dalla dislocazione geografica e/o societaria

degli operatori telefonici, c’è la seria possibilità che l’attività appaltata consista in

una mera gestione amministrativa dei rapporti di lavoro. Interessanti indicazioni in

tal senso sono contenute nella sentenza del tribunale di Roma (31 luglio 2008)

riguardante il call center Atesia (v. infra ..).

2. I risvolti dell’adozione di una strategia di CRM nelle attività di call center

Specie nel settore delle telecomunicazioni, le aziende più evolute adottano il CRM

(Customer Relationship Management), ossia una strategia di business orientata al

governo della relazione con i clienti, interagendo singolarmente con ciascuno di essi

(approccio “One to One”)270.

Un'analisi approfondita delle varie dimensioni del CRM è stata realizzata attraverso

il Customer Management Forum271, sostenuto dalla partecipazione di oltre cinquecento

269 Cfr., Regolamento (CEE) n. 4064/89 sulle concentrazioni, in conformità con l’art. 6, par. 1, lettera

b), caso n. IV/M. 1654 – Telexis/Eds, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle comunità europee L-2985 Lussemburgo, http://ec.europa.eu/competition/mergers/cases/decisions/m1654_it.pdf.

270 Per una trattazione completa dell'argomento cfr. G. BRACCHI, C. FRANCALANCI, G. MOTTA, I sistemi di supporto operativo nelle aziende in rete, op. cit.; D. PREVIATI, Governo del capitale umano e Business Intelligence, in R. C.D. NACAMULLI (diretto da) Sviluppo & Organizzazione, novembre – luglio/agosto 2003, n. 198, 91 ss; C. CAPE', G. MOTTA e F. TROIANI, Management, tecnologia dell'informazione e catena del servizio, in R. C.D. NACAMULLI (diretto da), Sviluppo & Organizzazione, novembre – dicembre 2005, n. 212, 31 ss; A. NASTRI, E se fosse solo una commodity?, in F. REBUFFO e G. CERIANI (diretto da) Sistemi & Impresa – Mensile di management e sistemi tecnologici, Este, novembre 2004, n. 9, 55 ss; M. ARTUSI e M. MESENZANI, Realizzare la strategia attraverso le relazioni con i clienti, in F. REBUFFO e G. CERIANI (diretto da) Sistemi & Impresa – Mensile di management e sistemi tecnologici, Este, gennaio/febbraio 2005, n. 1, 25 ss; T. SCHAEL, Il CRM in Italia, in F. REBUFFO e G. CERIANI (diretto da) Sistemi & Impresa – Mensile di management e sistemi tecnologici, Este, giugno 2005, n. 5, 45 ss; F. VARANINI, Per la costruzione di una relazione etica con il customer, in F. REBUFFO e G. CERIANI (diretto da) Sistemi & Impresa – Mensile di management e sistemi tecnologici, Este, novembre 2005, n. 9, 35 ss; A. NASTRI, Individuazione dei processi e coinvolgimento delle persone – la chiave di un CRM efficace, in F. REBUFFO e G. CERIANI (diretto da), Sistemi & Impresa – Mensile di management e sistemi tecnologici, Este, novembre 2005, n. 9, 61 ss; F. FLACCO, Il Customer Care tra indicatori di processo e variabili intangibili, in F. REBUFFO e G. CERIANI (diretto da) Sistemi & Impresa – Mensile di management e sistemi tecnologici, Este, novembre 2005, n. 9, 41 ss; T. FEDERICI e F. D'ASCENZO, Ampiezza d'approccio nell'adozione del CRM – I risultati di una ricerca sulle banche italiane, in F. REBUFFO e G. CERIANI (diretto da) Sistemi & Impresa – Mensile di management e sistemi tecnologici, Este, novembre 2004, n. 9, 61 ss.

271 <<264 partecipanti con complessivamente 422 contact center attivi, pari al 22% dei 1.900 esistenti in Italia (Fonte: Datamonitor, 2004), questa è la penetrazione del benchmarking nelle varie industries. Nel campione si trovano gran parte delle aziende con più di 1.000 postazioni operatore come

157

imprese pubbliche e private con una comunità professionale di oltre duemila persone in

Italia.

La ricerca si è concentrata sull'analisi dei principali elementi che costituiscono il

CRM: strategia clienti, processi e operations, gestione e sviluppo delle persone.

In primo luogo, i risultati evidenziano che il CRM non è solo tecnologia, ma è prima

di tutto una strategia di business orientata al mantenimento di una relazione di qualità

con il cliente. E' importante tenere presente, infatti, che una cosa è la fornitura di CRM

in senso tecnologico, altra cosa è il CRM inteso come cultura di orientamento al cliente.

Nel primo caso, l’outsourcing consiste nella stipulazione di contratti aventi ad oggetto la

fornitura di piattaforme tecnologiche; nel secondo caso, invece, si tratta di servizi

riguardanti la gestione diretta della relazione con i clienti.

Affinché ogni singola occasione di contatto possa contribuire alla creazione di valore

per l’impresa, è necessario porre in essere una serie complessa di attività operative,

attraverso cui è possibile trasformare una pura informazione in conoscenza. Tali

operazioni vanno dalle fasi di raccolta ed analisi dei dati rilasciati dai clienti, alle fasi

mediante le quali trovano attuazione a livello operativo le strategie create proprio sulla

base della conoscenza acquisita attraverso le informazioni ottenute. Risulta evidente che

la strategia di CRM deve trovare riscontro nell'operatività quotidiana della gestione dei

contatti.

Poiché, inoltre, il contatto con l'utente cliente, da cui si ricavano i dati e le

informazioni relativi al suo bisogno ed al suo comportamento, avviene attraverso vari

canali (web, posta, telefono ecc.), in linea di principio complementari, è chiaro che una

delle aree determinanti per il successo della strategia è la multicanalità integrata,

attraverso cui l'azienda si presenta come un'unica realtà.

Questa complessità è stata ben rappresentata nell'ambito del Customer Management

Forum attraverso tre aree principali che interagiscono tra loro: la gestione della

relazione con il cliente in una logica di multicanalità integrata (in termini di applicativi

si fa riferimento alle infrastrutture di contact center), la gestione dei processi

commerciali e della forza di vendita (in termini di applicativi denominato sales force

automation) e l'area del CRM analitico su clienti e mercati con finalità prevalentemente

di marketing (in termini di applicativi conosciuto come data warehouse e business Acroservizi, Gruppo COS, H3G, Poste Italiane, Telecom Italia, TIM, Televoice-Gruppo Comdata, Vodafone e Wind che fa arrivare il contatore a complessivamente 35.300 postazioni operatore, ovvero il 42% del parco installato nel Belpaese – un grande risultato che rende molto affidabile i risultati e la previsione di cosa succede in tema di CRM in Italia.>>, Cfr. T. SCHAEL, Il CRM in Italia, op. cit., 46.

158

intelligence)272.

Un aspetto importantissimo ai fini del successo della strategia di CRM, che merita

una trattazione specifica, è l'aspetto relativo alla comunicazione. Questo elemento, che

già intuitivamente risulta intrinseco al concetto di relazione, assume un ruolo centrale

nell'ambito della visione strategica del CRM, almeno sotto due aspetti: quello del

marketing relazionale, in cui i contenuti della comunicazione variano a seconda della

tipologia di clientela273; quello della convergenza del CRM con la Business Ethics, che

considera fondamentale il livello di coinvolgimento dei soggetti implicati

nell'erogazione del servizio per l'instaurazione di una relazione etica con i clienti, ai fini

del raggiungimento di migliori risultati economici274. E' chiaro che in questa categoria

di soggetti strategici rientra l'operatore telefonico, indipendentemente da una

esternalizzazione o meno del call center. In questa ottica, un ruolo centrale è attribuito al

processo di erogazione del servizio, il cui continuo miglioramento è legato alla capacità

di leggere l'evoluzione delle aspettative del customer, e di adattarsi di conseguenza275. A

tal fine, l’utilizzo di strumenti tecnici di rilevazione e di monitoraggio per la

collocazione strategica del contributo di ciascun singolo attore, diventa essenziale ai fini

del buon andamento del processo di erogazione del servizio.

Considerata la complessità del mantenimento di una relazione di qualità con i clienti,

nei confronti dei quali, si ripete, l'azienda deve presentarsi come un'unica realtà (in

chiave di marketing, comunicazione, ecc.), sorgono ragionevoli dubbi sulla effettiva

possibilità di autonomia dell'appaltatore, qualora alcune di queste funzioni siano gestite

in outsourcing.

Il problema si pone in particolare per gli appalti aventi ad oggetto il servizio di call

center su piattaforme tecnologiche predisposte dall’impresa committente.

Il call center è uno degli strumenti di comunicazione fra l'azienda e gli utenti che,

generalmente, viene gestito secondo le logiche di multicanalità integrata. Dalla classica

versione di call center, si è infatti passati al c.d. contact center, che integra le

funzionalità di telecomunicazione con i sistemi informativi, aggiungendo all'utilizzo del

mezzo telefonico altri strumenti/canali di comunicazione, quali ad esempio lo sportello

272 Cfr. T. SCHAEL, Il CRM in Italia, op. cit. Per approfondimenti sul tema in relazione alle banche

italiane v. inoltre T. FEDERICI e F. D'ASCENZO, Ampiezza d'approccio nell'adozione del CRM – I risultati di una ricerca sulle banche italiane, op. cit., 61-72.

273 Cfr. M. ARTUSI e M. MESENZANI, Realizzare la strategia attraverso le relazioni con i clienti, op. cit., 25 ss.

274 Cfr. F. VARANINI, Per la costruzione di una relazione etica con il customer, op. cit., 36. 275 Cfr. F. VARANINI, Per la costruzione di una relazione etica con il customer, op. cit., 37.

159

fisico, la posta, il fax, la mail, il web, le messaggerie su telefoni cellulari, ecc.

Quando l’azienda decide di affidare in outsourcing il servizio di call center mediante

la stipulazione di un contratto di appalto, bisognerebbe domandarsi cosa stia

effettivamente esternalizzando. In altre parole, è necessario comprendere se ciò che è

dato in appalto può costituire un servizio in sé compiuto ed autonomo, oppure se, date le

particolari caratteristiche del contesto produttivo analizzato, l'oggetto dell'attività

rappresenta una fase meramente esecutiva della catena del servizio governata dal

committente.

<<Se da un lato, dare in outsourcing significa “alleggerire” l'azienda di alcuni

processi, per affidarli a terzi specializzati, dall'altro significa fare entrare a far parte del

proprio business aziendale, una terza azienda che assurgerà ad un ruolo ben più

strategico rispetto a quello del fornitore, delineandosi come vero e proprio business

partner e quanto più significativo è il servizio che si esternalizza, tanto più è necessario

mettere in comunione i propri processi interni con quelli del fornitore. La “delicatezza”

dei processi che vengono affidati in outsourcing pesa in maniera esponenziale sulla

partnership creata: mettere in comunione un customer database, affidare ad un altro ente

una variabile sempre più strategica quale la “soddisfazione” dei propri clienti, impone

fare “comunione di business”, impone chiarezza e condivisione degli obiettivi e delle

modalità lavorative>>276.

Partendo dal requisito dell’autonomia organizzativa che caratterizza la figura del

vero imprenditore, sarebbe interessante capire che tipo di influenza esercita

l’applicazione della strategia di CRM a livello operativo sull'organizzazione del lavoro

facente capo all'appaltatore.

Nel caso specifico degli appalti di attività di call center, l'organizzazione autonoma si

manifesta anzitutto attraverso l'esercizio del potere direttivo, disciplinare e di controllo

nei confronti degli operatori telefonici impiegati nell'appalto, in quanto tali soggetti

sono preposti al contatto diretto con i clienti, e quindi all'esecuzione del <<cuore>>

dell'attività appaltata. L'esercizio da parte dell'appaltatore dei poteri riconducibili al

concetto di subordinazione, si dovrebbero tradurre, in concreto, nella scelta delle

modalità e dei tempi di lavoro, e più in generale nella determinazione del contenuto

intrinseco della prestazione, che si combina con gli altri fattori della produzione

impiegati per la realizzazione di un autonomo risultato produttivo.

276 Cfr. F. FLACCO, Il Customer Care tra indicatori di processo e variabili intangibili, op. cit., 41.

160

Per capire se l'appaltatore esercita effettivamente tali poteri, bisogna capire in che

cosa consiste l'attività degli operatori di call center. In particolare, questi lavoratori

possono essere addetti alla ricezione delle chiamate (c.d. inbound telefonico), alla

effettuazione delle chiamate verso i clienti (c.d. outbound telefonico), ovvero ad

entrambe le attività. L'attività inbound può consistere nell'erogazione di informazioni di

diversa natura, nell'offerta di servizi e/o prodotti dell'azienda committente o altro

ancora. Come in tutti gli appalti, è evidente che le caratteristiche del servizio e/o dei

prodotti offerti alla clientela devono essere determinate dal committente. Tale principio,

applicato ai servizi in questione, si traduce nella necessaria coincidenza fra quanto detto

dall'operatore al cliente e le istruzioni impartite dall'appaltante. In altri termini, le

caratteristiche del servizio sono tali da incidere direttamente sulle modalità di

esecuzione della prestazione lavorativa. Già in questa prima fase di analisi, emerge

l’idea della diretta trasposizione delle direttive di lavoro dal committente agli impiegati

dell’appaltatore.

Seguendo le logiche della strategia di CRM, le istruzioni impartite non si fermeranno

alla mera descrizione delle caratteristiche del servizio offerto, ma saranno organizzate e

modificate sulla base degli obiettivi fissati dai responsabili dell’area marketing e

comunicazione dell’impresa committente, che si muovono lungo un processo di

continuo adattamento dell'azienda (committente) alle esigenze dei clienti/utenti. E’

ovvio, infatti, che la qualità della comunicazione, sia che la si voglia leggere in chiave

di variabile di marketing relazionale, sia che la si voglia interpretare nella più ampia

visione dell'etica di relazione, può incidere in modo determinante sul successo o

l'insuccesso delle azioni commerciali poste in essere.

Il buon fine di una conversazione dipende almeno dalla combinazione dei seguenti

elementi: qualità di ciò che si offre (anche una semplice informazione); categoria di

clienti, o potenziali tali, ai quali si decide di offrire quel determinato bene (specie nel

lancio di promozioni); qualità della strategia di comunicazione; canali di comunicazione

adottati; qualità della prestazione dell'operatore di call center, che è sostanzialmente

vincolata ai fattori precedenti.

In questo senso, soltanto coloro che possiedono il Know how relativo sistema di

CRM adottato sono in grado di far convergere, attraverso il proprio ruolo decisionale,

l'operatività quotidiana della gestione dei contatti verso il successo della strategia posta

a monte dalla società committente. Se si considera che a formare oggetto di cessione

non è l'intera gestione della relazione con i clienti, ma uno strumento della stessa, che

161

tra l'altro deve essere coerente con gli altri strumenti predisposti dal committente (web,

mail, ecc.), quasi certamente il governo delle dinamiche organizzative dell’attività

appaltata è nelle mani della società committente.

Il potere decisionale inerente le modalità di esecuzione della prestazione

dell’operatore telefonico è talmente importante per il successo della strategia di

business277 da non potere essere ceduto ad un fornitore esterno. Questo a maggior

ragione se si tiene conto del fatto che il medesimo servizio è spesso appaltato a diverse

società in varie parti d’Italia.

Molto probabilmente, se il committente è un'azienda che attua una valida strategia di

CRM278, l'appaltatore non può governare autonomamente le dinamiche organizzative

del lavoro, con la conseguente impossibilità di poter creare efficienza ed economicità in

relazione al costo, e quindi di svolgere la funzione imprenditoriale. L'unico ruolo che

residuerebbe all'appaltatore sarebbe quello di mera intermediazione e di gestione

amministrativa dei rapporti di lavoro. Anzi, talvolta potrebbe accadere che anche la

gestione amministrativa dei rapporti di lavoro sia in mano al committente, dato che la

legge prevede che i gruppi di impresa possono delegare lo svolgimento degli

adempimenti di amministrazione del personale alla società capogruppo (art. 31, d.lgs. n.

276/2003).

Passando adesso gli altri fattori della produzione, si può sostenere che il principale

mezzo su cui si basa il servizio è un'applicazione del sistema informatico di CRM, che

consente di gestire a livello esecutivo la relazione con i clienti. Tale strumento

rappresenta il principale mezzo di lavoro dell'operatore telefonico.

L'applicazione informatica non è altro che una traduzione in strumento di lavoro del

modello strategico e organizzativo dell'azienda committente, che è d'altronde l'unico

soggetto che possiede il Know-how necessario per poterlo adattare alle esigenze degli

operatori telefonici e della clientela in un'ottica di efficienza e di economicità. Quello

che probabilmente accade, quindi, è che il committente mette a disposizione

277 Il ruolo strategico dell'operatore di call center emerge in tutti gli articoli citati in tema di CRM. In

particolare: F. FLACCO, Il Customer Care tra indicatori di processo e variabili intangibili, op. cit., 41 ss; M. ARTUSI e M. MESENZANI, Realizzare la strategia attraverso le relazioni con i clienti, op. cit., 25; A. NASTRI, Individuazione dei processi e coinvolgimento delle persone – la chiave di un CRM efficace, op. cit., 61 ss.

278 Secondo i risultati prodotti dal Customer Management Forum, i settori più avanti sul tema del CRM sono le Telecomunicazioni con il 66.7% di aziende nel profilo customer centric (che raggruppa le aziende dotate di un'elevata coerenza su tutte le dimensioni). Seguono con il 31,6% di rispondenti collocati all'interno del profilo customer centric il settore Utilities e il Bancario Assicurativo. V. T. SCHAEL, Il CRM in Italia, op. cit., 51.

162

dell'appaltatore, nell'ottica della condivisione, il customer database. Non a caso, parte

integrante delle ordinarie funzionalità fornite dal sistema di CRM sono le funzioni per

lo sviluppo delle linee guide esecutive per l'operatore (script) utilizzate nelle campagne

promozionali e per rispondere alle domande del cliente, nonché per la programmazione

ed esecuzione delle campagne di telemarketing inbound e outbound. Queste funzioni si

sovrappongono parzialmente alla gestione delle campagne279.

Ci si trova di fronte al caso tipico in cui il bene immateriale è il principale mezzo di

produzione, rispetto ai beni materiali che sono invece considerati strumentali rispetto

alla produzione del servizio. Ne deriva che, fermo restando che è già l'assenza di

autonomia organizzativa del lavoro che non consente di qualificare l'appaltatore come

vero imprenditore, l'eventuale apporto da parte di questo soggetto di beni strumentali,

quali ad esempio i pc, tavoli, cuffie e quant'altro, non sarebbe sufficiente a qualificare

l'appalto come lecito.

Sulla base di queste ulteriori considerazioni sul sistema di CRM, si può concludere

che non si può nemmeno parlare di servizio, ma di una fase meramente esecutiva di un

servizio di gestione della relazione con il cliente.

In conclusione, si può affermare che l’applicazione da parte delle imprese di una

valida strategia di CRM comporta che, con molta probabilità, gli appalti aventi ad

oggetto attività di call center non possano realizzare un risultato in sé compiuto ed

autonomo, ma una fase meramente strumentale del servizio complessivo.

La libertà di contrattazione fra gli operatori economici trova un limite nel rispetto

della normativa posta a tutela dei lavoratori coinvolti: per l'appaltatore essere vero

imprenditore non è soltanto un diritto nei confronti del committente, ma è soprattutto un

dovere nei confronti dei lavoratori impiegati nell'appalto.

3. Il lavoro autonomo coordinato e continuativo nei call center: dalla circolare

Damiano ai primi orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione

Nell'ampio contesto delle esternalizzazioni delle attività di call center, la notevole

diffusione dell'impiego di prestazioni di lavoro autonomo ha fatto sorgere un altro

fattore critico in tema di tutela del lavoro.

279 Cfr. G. BRACCHI, C. FRANCALANCI, G. MOTTA, I sistemi di supporto operativo nelle aziende

in rete, op. cit., 144.

163

Già il ricorso all'appalto, piuttosto che all'assunzione diretta o alla somministrazione

di lavoro, presenta per la società che esternalizza una serie di vantaggi economici e

normativi in relazione al rapporto di lavoro. Se a questo si aggiunge l'impiego di

prestazioni di lavoro autonomo per l'esecuzione dell'appalto i vantaggi si moltiplicano,

non soltanto in senso economico in quanto l'appaltatore può scendere al di sotto dei

minimi salariali previsti per il lavoro subordinato, ma anche perché l'appaltatore è altresì

esonerato dal rispetto della tutela per il lavoro subordinato prevista in tema di

esternalizzazioni.

Il fenomeno ha raggiunto delle dimensioni tali da spingere il Ministero del lavoro e

delle Politiche Sociali ad emanare delle disposizioni in merito alla relazione fra le

caratteristiche delle attività di call center e l'organizzazione del lavoro del medesimo

settore.

Nello specifico, il Ministero ha emanato una circolare (14 giugno 2006, n. 17)280, di

concerto con le parti sociali, attraverso cui fornisce precise indicazioni operative

nell'ambito delle attività di vigilanza, circa la possibilità di utilizzo dei contratti di

lavoro a progetto nei call center.

Lo scopo dichiarato della circolare è quello di regolamentare l'utilizzo delle

collaborazioni coordinate e continuative nelle modalità a progetto, ed in particolare di

consentirne l'utilizzo solo per quelle attività dove sia effettivamente possibile riscontrare

i requisiti essenziali stabiliti dall'articolo 61 del d.lgs. n. 276/2003.

Questa circolare, pertanto, rappresenta una particolare attuazione della finalità del

contratto a progetto, e cioè l'emersione delle forme di collaborazione autonoma che di

fatto nascondono un rapporto di lavoro subordinato.

Il provvedimento, basandosi sulla essenzialità del presupposto dell'autonomia nella

scelta delle modalità di esecuzione della prestazione che caratterizza il lavoro

coordinato e continuativo, ha stabilito che per le attività inbound possono utilizzarsi

soltanto dei contratti di lavoro subordinato, mentre per le attività outbound è ammessa

280 Si precisa che la prima circolare in materia di collaborazioni a progetto è stata emanata l’8 gennaio

2004, n. 1. Sempre in questo ambito, il Ministero del lavoro e della previdenza sociale è recentemente intervenuto con un’ulteriore nota del 24 settembre 2007, n. 11899, che contiene i criteri di selezione per l’approvazione dei singoli accordi di stabilizzazione previsti dalla legge finanziaria del 2007 ed alcune disposizioni utili per la individuazione dei profili di conformità dei singoli accordi sindacali alla ratio della procedura prevista dal legislatore. Cfr., A. MARESCA L. CAROLLO, Il contratto di collaborazione a progetto, in Dr. rel. ind., n. 3, 2007, 675 ss; Riguardo ai successivi provvedimenti (Ministero del lavoro nota 29 gennaio 2008, n. 4 e nota 3 dicembre 2008, n. 17826, cui si aggiunge la richiesta di chiarimenti da parte dell’Inps con la circolare del 17 dicembre 2008, n. 111) cfr. Co.co. pro. e call center, in Lav. prev. oggi, n. 12, 2008, 1838 ss. Cfr., inoltre, V. FILI’, Il lavoro a progetto nelle circolari del ministero del lavoro, in Lav. giur., n. 9, 2006, 853 ss;

164

la possibilità di utilizzo di rapporti di lavoro parasubordinati, purché, in concreto, ne

ricorrano i presupposti.

Nelle attività inbound, che consistono nella gestione del flusso di chiamate in entrata

che giungono in un'azienda o ad un ente, gli operatori telefonici sono tenuti ad erogare

adeguate informazioni all'utenza, non potendo in alcun modo predeterminare il

contenuto intrinseco della propria prestazione lavorativa, sia in termini di tempi che di

modalità di esecuzione della prestazione.

Ciò significa che, anche considerando forme di coordinamento temporale che, come

precisa la circolare, possono consistere nella determinazione di fasce orarie prestabilite

all'interno delle quali eseguire la prestazione, nelle attività inbound il vincolo temporale

incide direttamente sulle modalità di esecuzione della prestazione, in quanto l'operatore

non è in grado di autodeterminare il ritmo di lavoro.

Nella posizione del Ministero emerge chiaramente che il tempo di lavoro è il criterio

fondamentale per distinguere le collaborazioni autonome dal lavoro dipendente. Proprio

sulla base di questo principio, si è deciso di riservare un trattamento più flessibile alle

attività outbound rispetto alle regole imposte per l'inbound, dato che l’operatore

outbound ha la possibilità di rendersi attivo nel contattare l’utenza, e quindi di potere

esso stesso determinare il ritmo di lavoro.

Tuttavia, a prescindere dai tempi di lavoro, l'impossibilità per l'operatore telefonico

di poter determinare autonomamente il contenuto intrinseco della prestazione è, come

già discusso, il risultato di un'organizzazione del lavoro che sembra essere in molti casi

vincolata dalla strategia di governo della relazione con il cliente adottata dall’azienda.

Nei call center, infatti, lo smistamento automatico delle chiamate in entrata (inbound)

sulle varie postazioni di lavoro consente l'ottimizzazione della gestione delle

comunicazioni provenienti dall'esterno. Dall'automatizzazione della distribuzione del

flusso di chiamate in entrata, deriva l'impossibilità per l'operatore di poter gestire

autonomamente i tempi della prestazione, in quanto egli subisce passivamente la

gestione del tempo di lavoro imposto dal sistema. A questo si aggiunga, così come

specificato dalla circolare, l'imprevedibilità dell'arrivo delle chiamate.

Nelle attività inbound non è soltanto il tempo di lavoro a non poter essere

predeterminabile da parte del prestatore di lavoro. L'operatore, una volta <<presa>> la

chiamata, è tenuto ad erogare adeguate informazioni all'utenza, secondo le loro

imprevedibili esigenze, rispettando le modalità di lavoro fissate dal sistema informatico

dell'azienda, nonché gli standard commerciali e di comunicazione per l'erogazione delle

165

informazioni al pubblico. Ciò significa che, non soltanto l'operatore non è in grado di

gestire il ritmo di lavoro, ma deve altresì rispettare gli standard di gestione e di

comunicazione delle chiamate, che ovviamente incidono direttamente sulla prestazione

di lavoro. La conseguenza è che, anche se per tali attività fosse astrattamente possibile

la gestione dei tempi di lavoro, l'operatore risulterebbe comunque assoggettato al potere

direttivo ed organizzativo del datore di lavoro.

La tecnologia informatica ed i mezzi di comunicazione disponibili facilitano

notevolmente l'esercizio di tali poteri al committente: la possibilità di registrare le

conversazioni e di poter effettuare un controllo <<a distanza>> ne sono un chiaro

esempio.

A prescindere dal tempo di lavoro, si può dunque affermare che, con molta

probabilità, sulla base delle strategie di ottimizzazione della gestione della relazione con

i clienti da parte dell'azienda, per il lavoratore a progetto, sia inbound che outbound, è

praticamente impossibile operare in regime di effettiva autonomia.

Sotto questo punto di vista, è interessante notare come proprio dai requisiti richiesti

nella circolare per poter ricorrere al lavoro <<a progetto>>281 emerge chiaramente che,

anche prescindendo da un preciso vincolo temporale, non esiste una reale correlazione

fra il risultato dell'attività dedotto in contratto e l'autonomia richiesta dalla legge.

La predeterminazione di tali elementi crea una rigidità tale da non consentire al

collaboratore di potere usufruire di un ragionevole margine di autonomia

nell’esecuzione del lavoro. Il risultato della prestazione (ad esempio la vendita di un

prodotto) dipende, infatti, principalmente dalla qualità dell'offerta, dalla tipologia di

clienti da contattare, dal periodo di lancio dell'offerta, dagli strumenti di lavoro utilizzati

per contattare la clientela, e cioè da tutti gli elementi che secondo quanto disposto nella

circolare dovrebbero essere predeterminati.

Se alla mancanza di autonomia si aggiunge, infine, il dato della variabilità della

retribuzione a seconda dei risultati raggiunti, secondo criteri di attribuzione stabiliti

dall'impresa, si finisce con l'attribuire all'operatore telefonico parte del rischio tipico

281 Ai fini della corretta e compiuta determinazione del risultato richiesto al collaboratore è dunque

necessario che il progetto, programma di lavoro o fase di esso sia qualificato tramite la specificazione: a) del singolo committente finale cui è riconducibile la campagna (con riferimento ai call center che offrono servizi in outsourcing la campagna di riferimento sarà dunque quella commissionata da terzi all'impresa stessa); b) della durata della campagna, rispetto alla quale il contratto di lavoro a progetto non può mai avere una durata superiore; c) del singolo tipo di attività richiesta al collaboratore nell'ambito di tale campagna (promozione, vendita, sondaggi, ecc.); d) della concreta tipologia di prodotti o servizi oggetto dell'attività richiesta al collaboratore; e) della tipologia di clientela da contattare (individuata con riferimento a requisiti oggettivi e/o soggettivi).

166

d'impresa, senza alcuna possibilità da parte del lavoratore di poter controbilanciare

l'assunzione di tale rischio con un ragionevole margine di autonomia. Ad esempio, il

sistema di smistamento automatico delle chiamate, sia nel caso di inbound che di

outbound, non consente all'operatore di poter autonomamente effettuare una selezione

delle anagrafiche, anche perché non sarebbe comunque in possesso del Know-how

necessario per poterne valutare la qualità, che invece riveste un ruolo importante nel

conseguimento del risultato, sia esso legato ad una promozione, alla vendita di un bene,

o altro ancora.

La Corte di Cassazione282 ha stabilito un principio generale secondo cui gli operatori

che svolgono la loro attività presso i call center devono essere considerati, a tutti gli

effetti, lavoratori subordinati, in quanto soggetti ai poteri tipici del datore di lavoro. Con

tale decisione, la giurisprudenza si pone in linea di continuità con i provvedimenti

adottati dal Ministero e con il percorso di stabilizzazione della legge finanziaria del

2007.

La Corte esprime il suo giudizio esponendo una serie di indici sintomatici della

subordinazione, ossia <<l’assenza del rischio d’impresa, la continuità della prestazione,

l’obbligo di osservare un orario di lavoro, la cadenza e la forma della retribuzione,

l’utilizzazione di strumenti di lavoro e lo svolgimento della prestazione in ambienti

messi a disposizione del datore di lavoro>>. Le indicazioni fornite sono state criticate

per il carattere astratto e non aggiornato rispetto all’evoluzione dell’organizzazione di

lavoro nella moderna economia283.

4. Il ruolo svolto dalla contrattazione collettiva

Date le dimensioni del fenomeno, un tentativo di regolamentazione è stato in passato

realizzato anche dalla contrattazione collettiva.

Nel 2003 era stato siglato un accordo (parte integrante del CCNL del commercio) tra

Assocallcenter-Confcommercio e le organizzazioni sindacali (Filcams Cgil, Fisascat

Cisl e Uiltucs Uil) che aveva lo scopo di regolamentare il contratto di lavoro dei

282 Cass., 14 aprile 2008, n. 9812, con nota di E. GRAGNOLI, Il lavoro delle <<telefoniste>> e gli indici della subordinazione, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2008, n. 3, 547 ss e con nota di G. GIRARDI, Una significativa sentenza della Suprema Corte: gli addetti dei call-center sono lavoratori subordinati, in Lav. giur., 2008, n. 7, 685 ss.

283 In questo senso, cfr., E. GRAGNOLI, Il lavoro delle <<telefoniste>> e gli indici della subordinazione,op. cit., 551.

167

dipendenti dei call center in outsourcing284.

L'accordo prevedeva per i dipendenti dei call center diritti e trattamenti uguali a

quelli degli altri lavoratori del terziario, con alcuni adeguamenti per rispondere alle

esigenze del settore, ed una graduale trasformazione delle collaborazioni coordinate e

continuative in lavoro dipendente.

Parte integrante dell'accordo era inoltre l'estensione alle collaborazioni autonome di

una serie di tutele tipiche del lavoro subordinato: minimi retributivi (dal settembre 2005

una paga oraria di 8,55 euro), tutele in caso di malattia, formazione retribuita, ecc..

Già da questo accordo era emersa l'implicita ammissione delle parti sociali circa

l'utilizzo improprio del lavoro coordinato e continuativo nelle attività di call center.

Tuttavia, sono stati rari i casi in cui le aziende hanno di fatto applicato l'accordo, e gli

obiettivi fissati non sono stati raggiunti.

Non sono mancati, a livello territoriale, accordi in senso peggiorativo rispetto a

quello dell'Assocallcenter.

Ad esempio, qualche mese dopo (31 gennaio 2005) rispetto alla stipulazione

dell'accordo nazionale, è stato siglato uno speciale accordo fra i sindacati a livello

territoriale e la sede di Palermo del gruppo Cos, che prevedeva in via sperimentale, la

regolamentazione di 1600 contratti a progetto, con due fasi intermedie di verifica (31

luglio 2005 e 31 agosto 2006).

Tale accordo escludeva alcune delle garanzie previste dal protocollo siglato

dall'Assocallcenter, fra le quali spiccavano la mancata previsione di una paga oraria

minima e di ore di formazione non retribuita.

E' evidente che la previsione di un compenso quantificato esclusivamente in funzione

dei risultati raggiunti, pone l'azienda che adotta tale forma di retribuzione in una

situazione di vantaggio rispetto alle altre imprese. Questo è possibile in quanto la

maggiore flessibilità dei costi consente, da un lato la possibilità di poter offrire un

prezzo minore rispetto alle altre aziende per la stessa commessa, e dall'altro espone

l'azienda ad un minore rischio d'impresa, in gran parte trasferito al collaboratore.

Se l'accordo dell'Assocallcenter fosse stato vincolante per tutte le aziende che

operano nel settore dei call center, si sarebbero create le premesse per una

regolamentazione uniforme. Per questo, la creazione di un contratto collettivo nazionale

valido per l'intero settore potrebbe ridimensionare il ruolo dominante della negoziazione

284 Pubblicato in Dir. prat. lav., 2006, n. 15, 875 ss.

168

basata sul minor prezzo.

Un'altra caratteristica interessante dell'accordo Cos di Palermo, che si ricollega al

problema principale del requisito dell'autonomia nell'esecuzione della prestazione, è

stata, nell'ambito delle forme di coordinamento, la seguente disposizione: <<durante

l'esecuzione della prestazione il collaboratore dovrà attenersi alle istruzioni operative

del responsabile del progetto o del programma di lavoro>>.

Più che una forma di coordinamento, tale previsione sembra imporre al collaboratore

un vero e proprio assoggettamento al potere direttivo e di controllo del datore di lavoro,

in quanto legittima il responsabile del progetto o del programma di lavoro ad impartire

istruzioni operative che incidono direttamente sulle modalità di esecuzione della

prestazione.

Adesso a rappresentare il settore è l'Assocontact (aderente a Fita-Confindustria)285.

Tale associazione, attraverso il confronto con le parti sociali, si propone come

rappresentante delle aziende partner e dei livelli occupazionali del settore, nonché come

autorevole punto di riferimento per le istituzioni pubbliche, il legislatore e per i

sindacati.

Il punto di svolta circa il ruolo della contrattazione collettiva in questo settore, si è

però avuto con la circolare ministeriale n. 17/2006, cui è seguita nel giro di poco tempo

un'azione ispettiva, attraverso cui è stato intimato alla società Atesia, uno dei più grandi

call center italiani che fa parte del gruppo Almaviva, l'assunzione con contratto di

lavoro subordinato a tempo indeterminato di 3200 lavoratori a progetto286. Gli effetti

sanzionatori dell’accertamento sono stati sospesi da un’ordinanza del Tar del Lazio (22

novermbre 2006, n. 6365). Successivamente, è stata realizzata una trattativa sindacale,

che si è conclusa con l’accordo del 13 dicembre 2006, con il quale l’azienda si è

impegnata ad assumere con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato più

di 6000 lavoratori, precedentemente impiegati con contratto di lavoro a progetto287. Si

è arrivati, infine, al percorso di stabilizzazione previsto dalla legge finanziaria del 2007

(l. n. 296/2006), preceduto dall’avviso comune del 4 ottobre 2006, siglato dalle

285 Cfr. La presentazione completa è pubblicata nel sito: www.assocontact.it. 286 Fonte: Corriere della sera, venerdì 25 agosto 2006, 13. 287 L'accordo raggiunto tra le Organizzazioni Sindacali Confederali (Uil/Uilcom – Cgil/Slc -

Cisl/Fistel) e il Gruppo Almaviva (Atesia – Cos – Cosmed – Aticos – In-action) riguarda l'assunzione di 6500 lavoratori precari dei call center a tempo indeterminato. La stabilizzazione, spiega una nota della Uilcom, avverrà entro il 2007 e riguarderà 4000 lavoratori inbound e 2500 in attività mista, con l'assunzione a tempo indeterminato par-time a 4 ore al terzo livello del contratto delle Tlc. Per i rimanenti circa 1000 lavoratori in outbound, e' prevista l'assunzione con contratto di apprendistato professionalizzato. Fonte: ASCA.

169

organizzazioni sindacali confederali e Confindustria, unitamente a Fita e Assocontact288.

5. Call center Atesia: il ruolo del potere di governo dell’impresa appaltante nella

valutazione della natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro degli operatori

telefonici

Non tutti i collaboratori <<a progetto>> della società Atesia hanno aderito alla

procedura sindacale di stabilizzazione del 2006.

In effetti, l’accordo, più che un riconoscimento dei diritti dei lavoratori, è apparso

come una sanatoria per l’azienda, che, altrimenti, avrebbe dovuto affrontare vertenze di

massa finalizzate al riconoscimento della natura subordinata della prestazione di lavoro

degli operatori telefonici, con conversione ex tunc del contratto di lavoro subordinato e

con il riconoscimento degli altri diritti stabiliti dalla disciplina protettiva. Nell’accordo,

invece, Atesia si è impegnata ad assumere ex nunc con contratto a tempo indeterminato

a determinate condizioni, fra cui: dimezzamento dell’orario, retrocessione di qualifica e

rinuncia a qualsivoglia pretesa riguardo al pregresso. A distanza di pochi mesi, la società

mette in cassa integrazione più di mille persone a quattrocentocinquanta euro al mese.

Un’operatrice telefonica, piuttosto che sottoscrivere l’accordo sindacale, ha deciso di

rivolgersi al giudice per far valere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato sin

dal 2002, con tutti gli effetti che ne derivano.

La sentenza emessa dal tribunale di Roma289 sul caso in esame, va oltre la classica

prospettiva attraverso cui è stato affrontato il problema del lavoro nei call center. Il

Giudice affronta tale questione sotto due interessanti ed innovativi punti di vista, ossia

la qualificazione del rapporto di lavoro tenendo conto delle particolari esigenze del

settore di riferimento e l’assoggettamento dei collaboratori autonomi al potere di

direzione e di controllo dell’impresa committente.

Riguardo al primo punto, tale giurisprudenza ha basato la valutazione della natura del

rapporto di lavoro sulla contemporanea sussistenza dell’elemento

288 Per approfondimenti cfr. A. MARESCA, L. CAROLLO, Il contratto di collaborazione a progetto,

op. cit., 682 ss. Cfr., inoltre, A. NUCCI, Le procedure di stabilizzazione dei rapporti precari ai sensi della legge 27 dicembre 2006, n.° 296 (c.d. legge finanziaria per l’anno 2007), in Orient. giur. lav., 2008, n. 4, 1049 ss.

289 Cfr., tribunale di Roma, 31 luglio 2008, con nota di V. ANIBALLI, Il lavoro a progetto nei call center: tra natura autonoma della prestazione e specificità del progetto in relazione all’oggetto sociale dell’impresa, in Arg. dir. lav., 2009, n. 1, 143 ss.

170

dell’eterodeterminazione e del requisito dello stabile inserimento nell’organizzazione

aziendale. I fattori che hanno comportato un <<elevato grado di eterodeterminazione>>

sono: <<la ripetitività delle tipologie delle telefonate, l’esistenza di risposte standard

poiché di risoluzione tecnica obbligata alle problematiche esposte dal cliente, l’offerta

ed esposizione del contenuto di offerte commerciali predeterminate nei contenuti dalla

società committente, l’uso di postazioni in tutto le une simili alle altre poiché

predisposte dalla società collaborata, l’utilizzo di un sistema informatico per la

distribuzione random delle chiamate sia in arrivo che in uscita, l’esistenza di schede di

accesso comuni a tutti gli addetti nelle quali venivano illustrate le procedure da seguire

in ogni singola campagna, l’offerta di corsi di preparazione alla corretta risposta da

offrire al cliente in relazione al singolo servizio>>. Non risulta provato, invece,

l’inserimento nella struttura organizzativa di Atesia, dato che non sussistevano obblighi

di presenza oraria, giornaliera o settimanale.

Si è già avuto modo di spiegare (cfr. infra ), che l’autonomia nella esecuzione della

prestazione è carattere indefettibile del rapporto di lavoro autonomo <<a progetto>>,

mentre il requisito del coordinamento con l’organizzazione del committente può essere

compatibile l’autonomia del prestatore di lavoro.

L’argomento su cui vale la pena soffermarsi è, invece, quello relativo al rapporto fra

l’oggetto sociale e la tipologia di progetto, programma di lavoro, o fase di esso dedotto

in contratto. La collaboratrice lamenta la coincidenza della propria attività con

l’oggetto sociale. Al contrario, il giudice ritiene che questa circostanza non sussiste, in

quanto <<non è stato dedotto quali fossero nel periodo la totalità delle attività svolte

dalla convenuta ed in particolare se le campagne in cui erano coinvolti la ricorrente e gli

altri collaboratori fossero la totalità, la maggioranza o quale parte delle campagne

commissionatele…né è stato dedotto che Telecom fosse l’unico committente di servizi

Atesia>>.

L’impostazione adottata dal giudice, nonostante sia in linea generale coerente con il

principio secondo cui il progetto non può coincidere con l’oggetto sociale, si fonda su

un errore di valutazione circa i fattori che concorrono a determinare la sovrapposizione

fra i due elementi. In particolare, nella sentenza non si tiene in considerazione il fatto

che è il carattere della <<specificità>> del progetto (programma di lavoro o fasi di esso)

che consente di distinguere i due ambiti, nel senso che, essendo finalizzato ad un

risultato realizzato in autonomia dal collaboratore, non può presentarsi in forma

171

standardizzata senza specificazioni290. La <<specificità>> non è quindi legata alla

valutazione della specifica commessa, ma si riferisce al tipo di attività che caratterizza

l’oggetto sociale, che, nel caso in questione, coincide esattamente con il lavoro

assegnato all’operatrice telefonica, ossia l’attività di gestione delle chiamate inbound ed

outbound per conto di terze imprese.

Il vero nodo cruciale di questa complessa vicenda è, in realtà, la seconda questione

affrontata dal Giudice, e cioè l’assoggettamento dei collaboratori autonomi alle

disposizioni impartite dall’impresa committente: <<la scarsa autonomia gestionale

nell’operare dell’addetto più che dipesa dalla volontà accentratrice aziendale si sia

viceversa determinata in relazione alla natura in sé della prestazione richiesta la quale,

per ogni singola campagna, doveva seguire gli standard di volta in volta fissati dal

committente. In altre parole, se di eterodeterminazione è corretto parlare è per potere

contrattuale esercitato dalla committente nel rapporto con Atesina e non da Atesina nel

rapporto con il collaboratore>>. Ciò significa, che i fattori che in questo tipo di

organizzazione determinano un <<elevato grado di eterodeterminazione>> non sono

altro che la concreta espressione del potere di direzione e di controllo esercitato

dall’impresa committente sui lavoratori impiegati dall’appaltatore.

Non si può assolutamente condividere la posizione del Giudice che, sulla base del

potere di governo esercitato dal committente di turno, tende a giustificare un sistema di

relazioni commerciali che non consentono una facile individuazione dei soggetti

obbligati ad applicare la disciplina posta a tutela dei lavoratori contro forme speculative

di contratti di collaborazione autonoma.

Anche ammettendo che fosse possibile gestire degli appalti con personale autonomo

direttamente vincolato alle disposizioni impartire dall’appaltante, non si potrebbe

negare che, a questo punto, l’azienda appaltatrice/committente agirebbe, di fatto, come

mero intermediario di rapporti di lavoro, specie se si considera che le postazioni di

lavoro erano state predisposte dalla società <<collaborata>>. In sostanza, l’appaltatore

risulta essere privo di autonomia imprenditoriale e, comunque, indipendentemente da

chi effettivamente esercita i poteri tipici del datore di lavoro, si tratta di una prestazione

di lavoro eterodeterminata e non autonoma: a conti fatti, la collaboratrice dovrebbe

essere considerata una dipendente dell’appaltante. Questo episodio racchiude in sé tutte

le problematiche giuridiche analizzate in materia appalti di manodopera di lavoro

290 Cfr., M. NICOLINI, Lavoro a progetto in funzione antifraudolenta, op. cit., 2668.

172

autonomo (cfr. infra …) e tutte le questioni sopra analizzate sui risvolti

dell’applicazione di una strategia di CRM nelle attività di call center.

6. L’incidenza della regolamentazione per la tutela degli utenti sull'organizzazione

del lavoro nei call center

In materia di attività di call center, un ruolo importante è svolto da alcune autorità,

che impongono vincoli relativi alla gestione dei dati e alla qualità della comunicazione

nei confronti del pubblico.

Il Garante della privacy e l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni hanno

emanato dei provvedimenti riguardanti i call center, che pongono seri problemi di

lesione dei diritti degli utenti telefonici.

Il Garante per la protezione dei dati personali, a fronte di numerose segnalazioni e

reclami, ha emanato un provvedimento291, avente ad oggetto una serie di procedure,

dispositive e di controllo, con lo scopo di evitare comportamenti illeciti nell’ambito dei

servizi di telefonia. In particolare, i gestori telefonici (nel caso di appalto definite

società committenti) devono <<mettere in atto procedure per verificare tempestivamente

le anomalie e vigilare sull’operato dei rivenditori e dei call center>>.

Specifica inoltre il Garante che <<Operatori telefonici, di comunicazione elettronica

e call center dovranno controllare, anche a campione, l’attività di rivenditori e incaricati,

anche allo scopo di rintracciare chi materialmente abbia effettuato l’attivazione

indebita>>.

In sostanza, il Garante consente agli operatori (committenti), qualora non gestiscano

direttamente la fornitura di beni e/o servizi, di designare i collaboratori esterni in qualità

di responsabili del trattamento dei dati. Dispone, inoltre, che gli stessi operatori devono

assicurare verifiche su ogni categoria di figura esterna, ed in caso di contestazione da

parte degli interessati (utenti) <<è altresì necessario che i titolari del trattamento

(committenti nel caso di call center in outsourcing) sviluppino o integrino strumenti,

anche informatici, in grado di identificare l’incaricato che ha effettuato l’attivazione>>.

Ciò significa che, la società committente, da un lato deve predisporre modalità di

raccolta e trattamento dei dati idonei a garantire un lecito utilizzo, e dall’altro attuare

291 Il provvedimento è pubblicato sul sito www.garanteprivacy.it.

173

delle procedure di controllo tali da identificare l’incaricato, e cioè l’operatore che

esecutivamente attiva il servizio e/o eroga le informazioni, che altro non è che

l’operatore del call center in outsourcing.

L’esigenza di maggiore tutela dei diritti degli utenti, comporta, inevitabilmente, una

maggiore ingerenza sull’attività dell’appaltatore da parte del committente, al punto da

consentire a quest’ultimo un diretto controllo sull’attività esecutiva dei lavoratori

impiegati nell’appalto. Tale impostazione, anche alla luce della diretta integrazione delle

aziende effettuabile con la rete informatica, potrebbe fornire utili indicazioni per

appoggiare l’ipotesi di una eventuale interposizione di manodopera intrinseca nel

sistema di gestione dei call center.

Mentre il Garante per la protezione dei dati personali entra soltanto nel merito del

lecito trattamento dei dati personali, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni

interviene sulla qualità dell’erogazione dei servizi292.

L’Autorità ha avviato delle iniziative di vigilanza, su richiesta presentata in tema di

qualità dei servizi resi dagli operatori di telecomunicazioni, degli indicatori di qualità

adottati e della loro relativa modalità di comunicazione al pubblico.

L’aspetto più interessante è il continuo richiamo alla standardizzazione da parte

dell’Autorità, la quale impone agli operatori la diffusione delle informazioni agli utenti

secondo criteri uniformi di trasparenza, chiarezza e tempestività, osservando in

particolare i principi di buona fede e di lealtà293. Gli operatori sono tenuti, fra le altre

cose, ad individuare gli indicatori di qualità dei servizi, e le rispettive funzioni e metodi

di valutazione, fissandone i relativi standard generici e specifici294.

Pare, dunque, che la qualità del servizio sia legata all’uniformità delle modalità di

erogazione delle informazioni nei confronti degli utenti, realizzabile attraverso la

definizione di funzioni e metodi di valutazioni standardizzati, a prescindere da una

eventuale esternalizzazione del servizio.

In questa direzione, l'intervento specifico dell'Autorità sui call center (delibera n.

88/07/CSP), stabilisce una serie di regole da rispettarsi a prescindere da una eventuale

esternalizzazione del servizio (art. 3, punto 3), fra cui spicca quella dell'uniformità delle

292 Cfr. d. P.R. n. 77/2001 recante “regolamento di attuazione delle direttive n. 97/51/CE e n.

98/10/CE, in materia di telecomunicazioni”. L'autorità, fermo restando quanto previsto dal d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 ha successivamente emanato diverse delibere (n. 179/03/CSP, n. 254/04/CSP, n. 164/05/CSP e le atre reperibili sul sito dell'autorità: www.agcom.it) di cui l'ultima (n. 88/07/CSP) che riguarda nello specifico la materia della qualità dei servizi di contatto (call center) nel settore delle telecomunicazioni.

293 Cfr. Delibera 179/03/CSP, art. 4. 294 Cfr. Delibera 179/03/CSP, art. 10.

174

risposte e delle proposte commerciali al variare dell'addetto (art. 4, lettera g).

Affinché ciò sia realizzabile, non v’è dubbio che questa disposizione deve trovare

attuazione anche a livello operativo, sia che l'operatore venga assunto dal committente

che dall'appaltatore.

Anche sotto questo punto di vista (criterio oggettivo esterno, v. infra), sussistono dei

ragionevoli dubbi sulla possibilità per l'appaltatore di poter usufruire di un reale

margine di autonomia organizzativa, nonché l'assunzione del rischio d'impresa.

Indicazioni interessanti sono altresì fornite da una comunicazione della Consob, che

riguarda l’esternalizzazione delle attività di call center295. L’attività sottoposta a

regolamentazione ha ad oggetto il momento della ricezione degli ordini telefonici di

compravendita dei titoli. Dalla disciplina emergono una serie di vincoli per gli operatori.

Anzitutto, il contatto fra la clientela e gli operatori del call center è possibile previa

stipula da parte dell’investitore di un contratto relativo alla prestazione di servizi con

uno degli intermediari negoziatori aderenti all’iniziativa. L’operatore del call center,

pertanto, si limita <<allo svolgimento di operazioni disposte dall’investitore nel quadro

della regolamentazione contrattuale già definita dal cliente direttamente con

l’intermediario negoziatore>>.

Nella comunicazione si stabilisce che l’accesso al servizio da parte dell’utente

avviene attraverso un risponditore automatico, mediante cui viene espletata la procedura

di identificazione a seguito della quale l’operatore può procedere ad erogare le

informazioni all’investitore e, successivamente, ad inserire l’ordine impartito dallo

stesso nella procedura titoli dell’intermediario autorizzato, senza alcuna possibilità

autonoma d’intervento sulla procedura e sui conti dell’investitore.

Non v’è dubbio che l’intermediario (committente) esercita una certa ingerenza sulle

modalità di esecuzione della prestazione degli addetti al call center.

La Consob si è inoltre preoccupata di individuare tre distinte ipotesi, con regole

diverse giustificate dai differenti ambiti di legittimità ed operatività, di gestione di call

center in outsourcing. Tale attività può essere condotta:

- da un soggetto non autorizzato alla prestazione di servizi di investimento;

- dall’intermediario autorizzato incaricato dell’offerta fuori sede del servizio di

295 Comunicazione Consob n. DIN/2073042 del 7-11-2002, reperibile sul sito www.consob.it.

(http://www.consob.it/main/documenti/bollettino2002/c2073042.htm?hkeywords=2073042&docid=7&page=0&hits=8&mode=gfx). Cfr. anche F. SARTORI e R. TAROLLI, L'esternalizzazione delle c.d. attività di call center. Brevi note alla comunicazione Consob n. 2073042 del 7 novembre 2002,reperibile nel sito www.diritto.it.

175

negoziazione in conto terzi;

- da un altro intermediario autorizzato al servizio di negoziazione in conto terzi.

Ai fini del presente studio, sarà analizzata soltanto la prima ipotesi, in quanto

presenta disposizioni più stringenti.

In questo caso, l’oggetto dell’appalto riguarda <<una fase meramente “strumentale”,

di supporto al suo processo produttivo, che non riguardi il compimento di atti

propriamente caratteristici del servizio>>. Tale fase potrà essere esternalizzata solo se

l’operatore si limiterà <<una volta ricevuto l'ordine, a trasferire tempestivamente lo

stesso, con le modalità tecniche all'uopo stabilite, all'intermediario autorizzato per la sua

successiva gestione e conseguente esecuzione, senza che lo stesso operatore possa

procedere ad alcuna valutazione di carattere discrezionale (senza, per esempio, potere in

alcun modo intervenire sulla valutazione di adeguatezza dell'ordine).>>

In altri termini, l’operatore dovrà trasferire l’ordine all’intermediario, secondo

precise modalità temporali (tempestivamente e sulla base di un risponditore automatico)

e secondo precise modalità di esecuzione (modalità tecniche all’uopo stabilite) per una

successiva gestione. Emerge chiaramente, pertanto, che l’attività meramente

strumentale è strettamente integrata ed interconnessa nel ciclo produttivo del

committente.

L’unico equivoco sulla diretta ingerenza del committente nell’attività degli operatori

di call center potrebbe nascere da una diversa interpretazione dell’espressione

<<modalità tecniche all’uopo stabilite>>, e cioè nel senso che esse siano stabilite

dall’appaltatore. Questo dubbio viene meno se si tiene conto che si stabilisce, inoltre,

che <<il sistema informatico del soggetto incaricato sia integrato con quello

dell'intermediario committente e disponga di procedure dedicate per il collegamento ai

sistemi operativi di quest'ultimo e idonee a svolgere, da parte dell'intermediario, i

controlli sulle operazioni; ciascuna postazione del call center sia dotata, ove del caso, di

un idoneo supporto magnetico per la registrazione degli ordini ricevuti>>.

Un ulteriore presupposto stabilito dalla Consob da prendere in considerazione ai fini

della valutazione dell’appaltabilità di attività di call center, è legato alla circostanza che

<<l'intermediario committente stipuli con il soggetto incaricato un apposito contratto

che definisca condizioni, contenuti e limiti dell'operatività, almeno con riferimento alla

predisposizione di un adeguato sistema di reporting dell'attività svolta (flusso costante

di informazioni all'intermediario autorizzato per consentire a quest'ultimo l'esatta

ricostruzione dell'attività svolta dal soggetto esterno), al rispetto degli obblighi di

176

riservatezza, alla presenza di adeguati presidi tecnologici per la sicurezza delle

operazioni, all'attribuzione dei rischi connessi all'esecuzione delle stesse, nonché alla

sottomissione degli operatori alla funzione di controllo dell'intermediario>>.

Quest’ultima disposizione sembra essere in netto contrasto con quanto stabilito dalla

Cassazione, che consente al committente di effettuare un controllo sull'attività

dell'appaltatore, ma non sui suoi dipendenti296.

Ma d’altronde, essendo l’attività appaltata meramente strumentale, e dovendosi

necessariamente integrare con il sistema informatico della società committente,

l’appaltatore deve per forza rispettare le regole per il corretto funzionamento

dell’attività, la cui efficacia dipende anche da forme dirette di controllo.

La comunicazione della Consob, infatti, non parla di appalto di servizi alla clientela,

suscettibile di costituire un servizio in sé compiuto ed autonomo, ma di un semplice

strumento alternativo di ricezione dell’ordine <<in quanto fase meramente materiale e

strumentale alla prestazione del servizio stesso>>.

In sostanza, il committente esternalizza una parte del servizio, che necessariamente

deve integrarsi con la restante parte, ma per fare ciò, non solo deve dire cosa fare

(oggetto appalto: produzione di fase di un servizio), ma anche come attuarlo

operativamente (organizzazione del lavoro), con relative forme dirette dispositive e di

controllo sulle prestazioni dei lavoratori.

Un’altra indicazione in tal senso, è relativa alla previsione secondo cui devono essere

adottate <<clausole contrattuali e concrete modalità operative idonee ad assicurare

condizioni di efficiente e corretto svolgimento delle relazioni con l'utenza (la clientela

in particolare, deve poter individuare in maniera univoca la controparte con cui viene in

contatto tramite call center, il quale dovrà essere alla stessa accessibile tramite

numerazioni telefoniche dedicate)>>.

E' evidente che l'attenzione della Consob per le attività di call center è dettata dalle

particolari esigenze di tutela dei clienti nel settore dell'intermediazione finanziaria. In

questo contesto, anche prescindendo da esigenze di strategie di business, gli

intermediari non potrebbero delegare ad un soggetto esterno funzioni estremamente

delicate, fra cui la gestione del contatto con i clienti. L'appaltatore non potrebbe di certo

sostituirsi ad una banca sul come, con quali tempi e con quali strumenti gestire le

esigenze del cliente. Basta chiedersi su cosa (dati relativi al rapporto fra banca e

296 Cfr. Cass., 30 ottobre 2002, n. 15337, cit.

177

cliente), su come (il call center e cioè una fase meramente strumentale del servizio) e

attraverso quali strumentazioni (database di gestione dei dati relativi al rapporto fra

banca e cliente) l'operatore di call center si trova ad eseguire la propria prestazione

lavorativa.

7. Le anomalie della cessione di attività da parte di Vodafone Italia

Nel 2007, Vodafone Italia ha ceduto alla Comdata Care Srl un ramo di attività

comprendente 914 lavoratori. Nel 2008 la società chiude con una perdita di 729.062

euro e sussistono forti timori che ciò si traduca in perdita di posti di lavoro.

Le anomalie legate a tale cessione emergono chiaramente nell’ipotesi di accordo

sindacale. L'ambiguità più pericolosa è sicuramente quella relativa all'impresa che

realmente acquisisce il ramo di azienda oggetto di cessione. Nell'ipotesi di accordo

figurano tre società, ossia la Vodafone Italia, la Comdata Spa e la Comdata Care Srl,

quest'ultima costituita e controllata dall Comdata Spa proprio in vista della cessione

(cfr. ipotesi di accordo 25 ottobre 2007).

E’ estremamente rilevante la circostanza che la procedura di consultazione

sindacale ex art. 47, comma 2 della Legge n. 428/1990 (che si è conclusa l'8 ottobre

mentre l'ipotesi di accordo è datata 25 ottobre) è stata effettuata tra la Vodafone Italia

e la Comdata Spa ovvero sue controllate, così come affermato nell’accordo. Come

già discusso, essendo la controllante e la controllata soggetti giuridici differenti,

specie in merito alle responsabilità inerenti ai rapporti di lavoro, non è possibile che

una società faccia una consultazione per conto di un’altra. L'8 novembre, di fatto, la

cessione avviene in favore di un’altra società, ossia la Comdata Care Srl.

In tal senso, indicazioni interessanti sono contenute nella lettera che la Vodafone

Omnitel ha consegnato ai lavoratori, datata 5 novembre, dove l'anzidetta società

comunica ai lavoratori l'avvenuta cessione in favore della <<costituenda società

Comdata Care Srl, la quale sarà interamente controllata dalla Comdata S.p.a.>>.

Questo significa probabilmente che il cessionario nemmeno esisteva durante la fase

di informazione e consultazione sindacale.

Al di là di altre considerazioni, è evidente che il ramo di azienda sarà governato

dalla Comdata Spa, la quale però non ha assunto l'onere di diventare formalmente il

datore di lavoro dei 914 dipendenti delle attività acquisite. Non deve sorprendere,

178

dunque, che la vicenda sia sfociata in una interrogazione parlamentare, dovuta al

rischio di ridimensionamento della Comdata Care Srl, dato che i contratti appaltati a

quest’ultima a seguito della cessione sono state, guarda caso, successivamente

passate alla società che la governa, ossia alla Comdata Spa.

Un'ulteriore dimostrazione di questa erronea rappresentazione della realtà si

riscontra nella lettera che la Vodafone Omnitel ha consegnato ai lavoratori, datata 5

novembre, dove l'anzidetta società comunica ai lavoratori l'avvenuta cessione in

favore della <<costituenda società Comdata Care Srl, la quale sarà interamente

controllata dalla Comdata S.p.a.>>. Questo significa che, probabilmente, il

cessionario nemmeno esisteva durante la fase di realizzazione della procedura di

informazione e consultazione sindacale.

179

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