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Università degli Studi di Milano Facoltà di Scienze Agrarie e Alimentari Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali Produzione, Territorio, Agroenergia Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie Agrarie Anno Accademico 2013-14 Appunti delle lezioni di COLTIVAZIONI ERBACEE Luciano Pecetti

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Università degli Studi di Milano

Facoltà di Scienze Agrarie e Alimentari

Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali –

Produzione, Territorio, Agroenergia

Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie Agrarie

Anno Accademico 2013-14

Appunti delle lezioni di

COLTIVAZIONI ERBACEE

Luciano Pecetti

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INTRODUZIONE

L’agricoltura si identifica con l’esercizio dell’attività umana destinata alla lavorazione

del terreno e alla coltivazione delle piante, all’allevamento degli animali, alla

conservazione dei prodotti e alla loro eventuale trasformazione entro l’azienda.

Attraverso le produzioni vegetali ed animali, l’agricoltura mira a soddisfare le esigenze

della popolazione mondiale fornendo prodotti essenziali per l’alimentazione dell’uomo

e materie prime per l’industria.

L’incremento della popolazione mondiale si è accentuato in maniera

esponenziale a partire da circa 250 anni fa, quale conseguenza della migliore

disponibilità ed accesso al cibo, del miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie,

dello sviluppo delle conoscenze in campo medico, e della conseguente diminuzione del

tasso di mortalità (slide 1/71). Indiscutibilmente, l’incremento della popolazione è

andato di pari passo con l’incremento della produzione di cibo, che è stato determinato

sia dall’aumento della superficie agricola coltivabile che dall’aumento della resa,

ovvero della quantità di cibo prodotta per stagione sullo stesso appezzamento agricolo.

La produzione mondiale di alimenti pro capite è cresciuta di quasi il 25% negli ultimi

40 anni, a fronte di un aumento del 10% delle superfici coltivate, mentre

contestualmente la popolazione è quasi raddoppiata (+90%).

Su una superficie mondiale di 50.9 miliardi di ha, la superficie disponibile per

l’agricoltura è di soli 1.5 miliardi di ha. Secondo alcune stime, la superficie utilizzabile

per l’agricoltura potrebbe essere di 3.2 miliardi di ha, ma bisogna considerare che: i) la

superficie disponibile spesso non si trova dove i consumi sono maggiori (ad esempio, in

Europa ogni persona dispone di 0.50 ha, ma sarebbe necessario un ulteriore 0.25 ha per

compensare le attuali importazioni di prodotti alimentari); ii) le aree oggi coltivate sono

quelle più idonee all’agricoltura, mentre terreno, clima e topografia limitano le aree

coltivabili; iii) l’incremento della popolazione e la crescente urbanizzazione stanno

determinando una massiccia destinazione ad altri usi dei terreni agricoli. Non vanno poi

dimenticati gli effetti di degrado del terreno agricolo, sino alla desertificazione, causati

dalla sovrautilizzazione del terreno stesso (sotto la crescente spinta demografica) e dai

cambiamenti climatici. La FAO stima una perdita annua di 5-7 milioni di ha a causa di

questo degrado.

In questa situazione, il ruolo dell’agricoltura è quello di permettere un

incremento delle rese, in modo da poter continuare a soddisfare le esigenze alimentari

della crescente popolazione mondiale (sl. 1/10-11). L’evoluzione delle tecniche colturali

e la difesa delle colture dalle avversità rappresentano attualmente gli unici strumenti

efficaci nel conseguimento di una maggiore quantità di alimenti.

COLTIVAZIONI ERBACEE

Col termine di ‘Coltivazioni erbacee’ si indica la disciplina tecnico-scientifica che si

occupa delle piante a consistenza erbacea. Le colture erbacee danno un enorme

contributo alla produzione mondiale di alimenti energetici, ma anche, e in misura

superiore a quanto saremmo portati a ritenere, alla produzione di proteine, sia

direttamente che indirettamente come piante per l’alimentazione del bestiame, dal quale

derivano alimenti proteici come carne, latte e uova. Molte specie vegetali sono inoltre

utilizzate per la produzione di materie prime da destinare a industrie di trasformazione.

1 Slide (di seguito, abbreviato in sl.) si riferisce all’approfondimento iconografico (foto, figura, grafico,

tabella), a corredo dell’argomento trattato, che può essere consultato nei file delle slide proiettate a

lezione. Il primo numero del riferimento (es. 1/) indica il numero del file corrispondente (da 1 a 26),

mentre il secondo numero (es. 7) indica il numero progressivo della/e slide all’interno del file.

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Per lunghissimo tempo, le produzioni agricole hanno costituito la voce principale della

vita economica di ogni paese, e solo nel secolo scorso sono state sostituite dal

rapidissimo sviluppo dei prodotti di attività industriali, che partono anche da materie

prime di origine extra-agricola.

Le specie vegetali coltivate nel mondo sono oltre 300, ma circa l’85% degli

alimenti è fornito da otto specie (frumento, riso, mais, miglio, patata, cassava, patata

dolce, soia), e tre di queste (frumento, riso e mais) provvedono a circa il 50% del

fabbisogno alimentare mondiale (sl. 1/20). Tra i primi 12 prodotti alimentari per valore

commerciale nel mondo, i dati 2009 della FAO (sl. 1/21) indicavano sette colture

erbacee (riso, frumento, soia, pomodoro, canna da zucchero, mais e patata) e cinque

prodotti derivati dall’allevamento di animali la cui alimentazione è basata su colture

erbacee (latte bovino, carne bovina, carne di maiale, carne di pollame, uova).

Nell’esercizio dell’attività agricola, un obiettivo di fondamentale importanza è

quello di stabilire quali specie e quali varietà di piante agrarie coltivare, quale

estensione si debba attribuire ad esse, e quali rapporti debbano intercorrere tra le diverse

coltivazioni (successioni colturali). È altresì importante definire, per ogni coltura

agraria, una tecnica colturale (comprendente anche la raccolta e la conservazione dei

prodotti) che consenta la massima produttività e redditività.

Benché l’aspetto delle coltivazioni agricole appaia oggi radicalmente mutato

rispetto a quello di tempi anche non molto remoti, le caratteristiche essenziali delle

coltivazioni sono rimaste praticamente invariate nel corso dei secoli. Come accadeva in

passato, i fattori di primaria importanza sono rappresentati da: i) produzione e

conservazione della semente; ii) lavorazione del terreno per la preparazione del letto di

semina e l’eliminazione della flora infestante; iii) scelta delle condizioni migliori per

l’effettuazione della semina, in relazione alle caratteristiche climatiche e pedologiche;

iv) cure colturali e irrigazione; v) raccolta dei prodotti, loro lavorazione e/o

conservazione. A questo schema fondamentale si sono poi aggiunti altri fattori, quali la

concimazione e la protezione delle colture dalle avversità.

Scopo di un corso di coltivazioni erbacee è quello di fornire elementi per la

conoscenza delle esigenze ecologico-adattative e delle caratteristiche fisiologiche delle

piante oggetto di studio, rilevando i possibili ostacoli che limitano la produttività delle

colture trattate e gli interventi sull’ambiente e sulle piante ai quali fare ricorso per

superare tali ostacoli ed avvicinare così le rese reali a quelle teoriche prevedibili. La

‘resa’ è infatti l’espressione più diretta dell’effetto degli interventi tecnici volti a

regolare i fattori naturali coinvolti nella produzione vegetale. La resa può essere

costituita da prodotti dell’accrescimento vegetativo delle piante (ad esempio, fusti e

foglie delle piante foraggere) o da prodotti della riproduzione (ad esempio, cariossidi

dei cereali o semi delle leguminose).

La corretta impostazione e conduzione di una coltura erbacea esige che si

conoscano in modo approfondito: l’esatta collocazione della specie nel contesto delle

colture in atto (avvicendamento colturale); i problemi relativi alla scelta e alla

reperibilità di varietà idonee, adatte agli scopi produttivi che si sono prestabiliti; le

ragioni e le modalità di esecuzione delle lavorazioni del terreno; le ragioni per le quali è

necessario provvedere ad un programma di fertilizzazione del terreno; il tipo di

macchine agricole disponibili e le loro caratteristiche di funzionamento; l’epoca più

appropriata di esecuzione delle varie operazioni (semina, concimazione, irrigazione,

trattamenti, raccolta, etc.). La tecnica colturale così definita deve poi dimostrarsi

adeguata anche da un punto di vista economico e ciò potrebbe portare alla rinuncia, per

eccessivo costo, ad interventi efficaci sotto il profilo tecnico.

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L’aumento delle produzioni agricole è dipeso, e continua a dipendere, dalla

disponibilità di numerosi fattori, come il lavoro (manuale e meccanico), i fertilizzanti, i

fitofarmaci, l’irrigazione e le varietà migliorate. Il conseguimento di rese più elevate è

un risultato derivante dai progressi compiuti da numerose scienze, quali la genetica, la

chimica (della fertilizzazione e della difesa fitosanitaria), la meccanica e l’idraulica, e

l’agricoltura moderna dipende dalle acquisizioni esterne determinate da tali scienze (sl.

1/33-35). A partire dal XIX secolo sono comparse macchine agricole che hanno

semplificato e facilitato numerose operazioni. Grazie alla genetica, nel XX secolo sono

state ottenute varietà nuove e migliorate, e circa il 40% dell’aumento delle rese è da

imputare a tale fattore. La chimica ha messo a disposizione fertilizzanti inorganici,

erbicidi e fitofarmaci. Notevoli progressi sono stati compiuti nella tecnologia

dell’irrigazione, e sebbene solo il 18% dei terreni coltivati sia irrigato, questi producono

il 40% degli alimenti. Le frontiere del XXI secolo sono la tecnologia informatica, che

potrà portare ad una diffusione sempre maggiore dell’agricoltura ‘di precisione’ e le

biotecnologie. Queste ultime potrebbero contribuire alla continua crescita delle

produzioni agricole mediante la propagazione clonale di piante prive di malattie e

l’identificazione ed isolamento di geni di interesse, in particolare l’identificazione di

regioni cromosomiche che codificano importanti caratteri multigenici (Quantitative

Trait Loci, QTL). Un contributo all’aumento delle produzioni potrebbe venire inoltre

dall’ingegneria genetica per caratteri di interesse agronomico (resistenza a stress biotici

ed abiotici), per composti nutritivi, per la riduzione delle perdite dopo la raccolta, o per

l’ottenimento di parentali maschiosterili per facilitare la produzione di varietà ibride. Su

di essa pesa ancora però − nel nostro paese più che in altri − l’incertezza dovuta alla

diffusa non accettazione delle piante geneticamente modificate per fattori di natura etica

e sociale.

Le acquisizioni tecnologiche che hanno così evidentemente migliorato le

produzioni agricole mondiali stanno cominciando a suscitare alcuni timori per i loro

possibili effetti negativi sull’ambiente. Tali effetti possono andare dalla degradazione

del terreno – sia per effetto di cambiamenti fisici (erosione), che di cambiamenti chimici

(acidificazione, salinizzazione, impoverimento di nutrienti, inquinamento delle falde) –

all’accumulo di molecole tossiche contenute in fitofarmaci ed erbicidi, alla perdita di

biodiversità vegetale a causa delle coltivazioni sempre più geneticamente uniformi. Gli

effetti dell’agricoltura intensiva sugli ecosistemi stanno suscitando preoccupazioni sulla

sostenibilità dell’agricoltura stessa. Esistono diverse definizioni di sostenibilità, più o

meno tutte coerenti tra di loro nella sostanza. Per esempio, è definito sviluppo

sostenibile lo sviluppo che soddisfa le necessità del presente senza compromettere le

capacità delle generazioni future di soddisfare le loro. Agricoltura sostenibile è definita

la gestione e utilizzazione dell’ecosistema agricolo in una maniera che mantiene la sua

diversità biologica, produttività, vitalità, funzionalità e capacità di affrontare avversità

esterne (resilienza), e che non produce danni ad altri ecosistemi. Un’importante

implicazione della sostenibilità sulla tecnica colturale, ed in particolare sulla scelta

varietale, è che deve essere la varietà ad adattarsi all’ambiente e non l’ambiente a

doversi modificare in funzione della varietà. Ovvero, cultivars diverse devono essere

selezionate ed utilizzate per rispondere ad ambienti diversificati invece di alterare

l’ambiente (con input costosi e/o ad alto impatto ambientale) per ospitare cultivars non

adatte a specifiche condizioni.

Un importante aspetto su cui la moderna agricoltura ha appena cominciato ad

interrogarsi è quello relativo al suo impatto sul cambiamento climatico. La maggior

parte degli studi stima il contributo delle emissioni agricole di gas ad effetto serra

(greenhouse gases, GHG) – quelle generate dalla sola attività primaria – tra l’11 e il

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15% del totale. La gran parte di queste emissioni è generata da pratiche agricole di tipo

industriale, caratterizzate dall’uso di fertilizzanti chimici e di macchinari agricoli potenti

alimentati da energia fossile, e da allevamenti zootecnici altamente concentrati, che

liberano nell’aria grandi quantità di metano. L’industrializzazione dell’agricoltura era

basata sul presupposto che la fertilità del terreno potesse essere mantenuta attraverso

l’uso di concimi chimici, mentre un’attenzione marginale era posta sull’importanza

della sostanza organica nel terreno. Numerosi studi indicano che i suoli coltivati hanno

perduto un’elevata percentuale della loro sostanza organica nel corso del XX secolo e si

stima che tra il 25 e il 40% dell’attuale eccesso di CO2 nell’atmosfera provenga dalla

distruzione della sostanza organica dei suoli.

L’espansione delle superfici agricole rappresenta circa il 70-90%

dell’eliminazione globale di copertura forestale e ciò comporta ulteriori emissioni di

GHG dovute al cambiamento nell’uso dei suoli indotto dall’agricoltura. La maggiore

fonte di deforestazione è costituita dall’espansione su enorme scala di piantagioni di

derrate quali soia, canna da zucchero, palma da olio, mais e colza, destinate alla

produzioni di mangimi o di agrocarburanti. Dal 1990, la superficie coltivata con queste

commodity è cresciuta del 38%, mentre è diminuita l’area destinata a coltivazioni di

primaria importanza per l’alimentazione globale, quali frumento e riso.

Una quota importante di emissioni, stimata nel 15-20% del totale, è da attribuire

alle fasi della filiera agroalimentare che intercorrono tra l’uscita dei prodotti

dall’azienda agricola e l’arrivo sulla tavola dei consumatori. L’agroalimentare

rappresenta il più grande settore economico mondiale, ed è stimato che la sola

movimentazione degli alimenti equivalga ad almeno il 6% delle emissioni complessive

di GHG. Il resto è prodotto nelle fasi di trasformazione, confezionamento,

conservazione e commercializzazione.

SISTEMI COLTURALI E SISTEMI GESTIONALI

Le differenti combinazioni delle colture nello spazio e nel tempo, associate alle

rispettive tecniche colturali, costituiscono i sistemi colturali. Nello spazio si può avere

una monocoltura, quando una sola specie è presente in una unità aziendale o campo, o

una consociazione (che può essere temporanea o permanente) quando più specie sono

presenti contemporaneamente in un campo. Nel tempo, si può avere una

monosuccessione, quando la specie precedentemente coltivata segue a sé stessa nella

sequenza colturale, o una rotazione o avvicendamento, quando si ha la sequenza

colturale di più specie (sl. 1/48-51). In generale, si tende ad alternare colture

miglioratrici (che aumentano la fertilità del terreno) e colture depauperanti (che

tendono invece a diminuire la fertilità rispetto a quella presente al momento del loro

impianto). Ad esempio, leguminose azotofissatrici dovrebbero essere alternate a

graminacee che utilizzano molto azoto. Lo stato fisico del suolo e gli aspetti biologici

(legati alla presenza di infestanti, insetti e microrganismi patogeni) sono altri fattori da

tenere in considerazione nel definire un ordinamento colturale. Rotazione o

avvicendamento tendono ad essere usati come sinonimi, anche se la prima dovrebbe

indicare una sequenza colturale di più specie in un ordine fisso, e il secondo una

sequenza colturale senza un ordine fisso.

Le tecniche colturali (che assumono ruoli diversi a seconda delle colture) viste

nell’insieme aziendale costituiscono i sistemi gestionali. I possibili sistemi gestionali

adottabili da un’azienda agraria sono numerosi e molto diversificati tra di loro. In

riferimento ai sistemi, oggi si tende a parlare di agricoltura convenzionale, sostenibile,

integrata, conservativa (o blu), di precisione, biologica (e biodinamica),

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multifunzionale, o biotecnologica. L’agricoltura integrata, conservativa, biologica e di

precisione possono essere tutte considerate sfaccettature di un sistema gestionale

sostenibile.

Agricoltura convenzionale

È il tipo di agricoltura al quale siamo storicamente abituati. Sotto il profilo della

dimensione, si identifica col comparto produttivo primario, in grado di dare il maggior

contributo per assicurare la sicurezza alimentare nel mondo. Ha sempre fatto ricorso a

tutte le tecnologie agronomiche disponibili nelle varie epoche, ma oggi, come detto, il

settore ha preso coscienza della necessità di un maggiore rispetto per l’ambiente e, pur

continuando ad usare i comuni mezzi tecnici, fondamentali per garantire elevati

standard produttivi e qualitativi, ha cominciato a considerare un loro più attento

impiego, anche alla luce di un atteggiamento più sensibile agli aspetti economici (costi

di produzione).

Le dinamiche agricole future, con scenari al momento ancora in via di

definizione, potranno essere sicuramente modificate dai cambiamenti in corso per

quanto riguarda la politica agricola comunitaria (PAC) ed il relativo sistema di

pagamento degli aiuti. Come è noto, la PAC si basa sui cosiddetti due ‘pilastri’, ovvero

il sostegno diretto al reddito e lo sviluppo rurale. La riforma appena conclusa del primo

pilastro, che ha inserito nuove componenti per il calcolo dei premi e che diventerà

attuativa a partire da questo anno, potrà avere conseguenze sulla struttura e la gestione

delle aziende agricole – al di là di possibili aiuti accoppiati ancora da definire –

soprattutto per effetto della componente cosiddetta di greening, ovvero il pagamento per

pratiche agricole benefiche per il clima e l’ambiente. Questa componente degli aiuti

diretti assorbirà il 30% della dotazione finanziaria nazionale per gli aiuti al reddito, e il

mancato rispetto delle pratiche previste comporterà l’applicazione di sanzioni a carico

dell’agricoltore inadempiente. In particolare, per avere diritto al premio di greening

l’agricoltore è tenuto al rispetto di tre diverse pratiche agronomiche benefiche per

l’ambiente: i) la diversificazione delle colture; ii) il mantenimento dei prati permanenti;

e iii) la costituzione di zone di interesse ecologico pari al 5% delle superfici a

seminativo (sl. 1/57-60). Come indicato in queste slides, l’applicazione di queste

pratiche potrà influenzare la superficie destinate ad alcune delle colture che saranno

trattate in questo corso, come, ad esempio, le colture foraggere, le colture

azotofissatrici, il riso e i boschi cedui a rotazione rapida (short rotation coppicing,

SRC), oltre che, ovviamente, i prati permanenti. Per le aziende agricole che già attuano

comportamenti e pratiche che hanno risvolti positivi in termini sostenibilità ambientale

è previsto un sistema di equivalenza al greening. Ad esempio, rientrano nell’ambito

dell’equivalenza le aziende biologiche. Il regolamento comunitario contiene un allegato

che elenca una serie di interventi che possono essere considerati equivalenti al greening

(sl. 1/61).

Agricoltura sostenibile

Come già accennato, l’agricoltura sostenibile è quell’agricoltura che persegue: i) un

utilizzo più consapevole nella produzione agricola dei processi naturali, quali il ciclo dei

nutrienti, la fissazione dell’azoto e le relazioni insetti-predatori; ii) un ridotto utilizzo

dei mezzi esterni ad alto rischio per l’ambiente o per la salute degli agricoltori e dei

consumatori; iii) un utilizzo ottimale (più produttivo) delle potenzialità biologiche e

genetiche delle specie vegetali e animali; iv) un migliore accordo tra le modalità di

coltivazione, il potenziale produttivo e le limitazioni fisiche degli ambienti agricoli; v)

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in definitiva, una produzione proficua ed efficiente, incentrata sul miglioramento della

gestione delle aziende agricole e sulla conservazione dei terreni, delle acque,

dell’energia e delle risorse biochimiche.

L’agricoltura sostenibile si pone l’obiettivo di soddisfare le esigenze economiche

senza compromettere l’ambiente, patrimonio di tutti e risorsa per le future generazioni.

Essa utilizza il più possibile i processi naturali e le fonti energetiche rinnovabili

disponibili in azienda, riducendo così l’impatto ambientale dovuto all’uso di sostanze

chimiche di sintesi, alle lavorazioni intensive del terreno, alle monocolture e

monosuccessioni, nonché allo smaltimento indiscriminato dei rifiuti di produzione.

Il passaggio dall’agricoltura convenzionale a quella sostenibile ha dei costi: a tal

fine può essere creato un legame diretto tra reddito e protezione ambientale (ad esempio

con regolamenti comunitari, come il CE 2078/92), grazie al quale gli agricoltori sono

pagati per fornire ‘servizi’ ambientali che vanno oltre la buona pratica agricola, e sono

compensati per eventuali costi aggiuntivi e possibili perdite di produzione. Obiettivo del

sostegno comunitario è quello di ridurre l’impatto dell’esercizio agricolo sull’atmosfera,

sul suolo, sull’acqua e sulla biodiversità.

I sistemi agricoli svolgono funzioni fondamentali a beneficio della collettività, e

un importante compito dei ricercatori e dei tecnici agricoli è fare in modo che cresca la

consapevolezza dell’importanza di questi ‘servizi ambientali’ all’interno della società.

Questo può essere perseguito attraverso una maggiore comunicazione ed una corretta

informazione scientifica tra ricercatori, tecnici, politici ed agricoltori. Soltanto se la

società riconoscerà agli agricoltori il ruolo – che certamente compete loro – di prestatori

di servizi agroambientali, la sostenibilità economica potrà coincidere con la sostenibilità

ambientale, e gli agricoltori saranno motivati ad adottare sistemi colturali compatibili

con una corretta gestione dell’ambiente.

Non esiste un unico modello di agricoltura sostenibile universalmente valido:

compito dell’agricoltore è quello di adattare i risultati della ricerca alla propria realtà

aziendale. I sitemi di agricoltura integrata, conservativa, di precisione, biologica e

multifunzionale, di seguito descritti, sono tutti sistemi che contribuiscono ad aumentare

(o, per lo meno, si pongono anche questo obiettivo) la sostenibilità agricola.

Agricoltura integrata

L’agricoltura integrata, o produzione integrata, è un sistema agricolo di produzione

sostenibile, in quanto prevede l’uso coordinato e razionale di tutti i fattori della

produzione allo scopo di ridurre al minimo il ricorso a mezzi tecnici che hanno un

impatto sull’ambiente o sulla salute dei consumatori. In particolare, il concetto di

agricoltura integrata prevede l’utilizzazione delle risorse naturali nella misura in cui

queste sono in grado di surrogare adeguatamente i mezzi tecnici adottati nell’agricoltura

convenzionale, e il ricorso a questi ultimi solo quando sono reputati necessari per

ottimizzare il compromesso fra le esigenze ambientali e fitosanitarie e le esigenze

economiche. In merito alle tecniche disponibili, a parità di condizioni, la scelta ricade

prioritariamente su quelle di minore impatto e, in ogni modo, esclude quelle di elevato

impatto.

Gli ambiti di applicazione dei principi dell’agricoltura integrata sono

principalmente quattro: fertilizzazione, lavorazioni del terreno, controllo delle infestanti

e difesa dei vegetali.

La fertilizzazione è condotta secondo criteri conservativi della fertilità chimica,

e il ricorso alla concimazione minerale è ammesso per mantenere alti i livelli di

produttività delle colture. I criteri dell’agricoltura integrata si applicano, in generale,

sfruttando nei limiti del possibile il ciclo della sostanza organica, ricorrendo a tecniche

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che favoriscono una lenta e costante mineralizzazione (per ridurre le perdite) e che

apportano al terreno materiali organici, e integrando i fabbisogni delle colture con la

concimazione chimica. Per quanto concerne quest’ultima, le dosi, l’epoca e la tecnica di

distribuzione devono essere approntate con l’obiettivo di prevenire i fenomeni di

dilavamento e il conseguente inquinamento delle falde acquifere.

Le lavorazioni del terreno devono essere condotte con l’obiettivo di prevenire la

degradazione della struttura del terreno e l’erosione. Nonostante non ci siano preclusioni

alle lavorazioni tradizionali, trovano un inserimento ottimale tecniche conservative quali

la lavorazione minima (minimum tillage), la semina su sodo (sod seeding),

l’inerbimento, etc. Tali tecniche sono spesso imposte dai disciplinari di produzione

integrata nei terreni declivi oltre certe pendenze, al fine di prevenire l’erosione e il

dissesto idrogeologico.

Il controllo delle piante infestanti va fatto sfruttando tecniche che limitano il

ricorso al diserbo chimico. Sono compatibili con questo obiettivo, ad esempio, le false

semine, le rotazioni colturali, il diserbo meccanico, etc. Il diserbo chimico si adotta

impiegando principi attivi a basso impatto, poco persistenti o con un’azione residuale

limitata, soprattutto per evitare possibili effetti residui nel terreno e l’inquinamento delle

falde.

La difesa dei vegetali è l’ambito in cui la produzione integrata ha trovato una più

larga applicazione. La strategia di difesa si basa sull’impiego integrato di mezzi di

difesa biologici, chimici, biotecnici, agronomici. La lotta integrata sfrutta nei limiti del

possibile la lotta biologica e richiede il monitoraggio della dinamica delle popolazioni

dei fitofagi e dell’andamento delle infestazioni al fine di intervenire solo al superamento

della soglia di intervento, secondo i criteri della lotta guidata. Ricorre inoltre ai mezzi

biologici (es. tecnica del maschio sterile, confusione sessuale, etc.) e biotecnici

(trappole per monitoraggio e cattura massale – con impiego di feromoni o altri attrattivi

–, reti antinsetto, etc.). L’uso dei fitofarmaci è improntato all’obiettivo di ridurre

complessivamente il quantitativo di prodotti chimici liberati nell’ambiente, ridurre al

minimo il rischio per la salute dei consumatori e ridurre al minimo l’impatto sugli

organismi ausiliari (predatori, parassitoidi, pronubi, etc.). La scelta dei principi attivi

ricade necessariamente su prodotti a basso spettro d’azione o ad alta selettività, a bassa

persistenza e a basso rischio di induzione di fenomeni di resistenza.

Agricoltura conservativa (blu)

Nei sistemi agricoli, le operazioni di lavorazione del terreno sono considerate basilari.

Tuttavia, esse rappresentano un costo elevato per gli agricoltori in termini di

macchinari, costi energetici e manodopera. Inoltre c’è una cresente evidenza

sperimentale che esse possano determinare anche degli effetti negativi sul terreno

stesso, sotto forma di aumento dell’erosione, compattamento e diminuzione della

biodiversità del suolo, oltre che contribuire all’emissione di GHG.

Con il termine di agricoltura conservativa vengono indicate tecniche agricole

alternative e sostenibili tendenti a conservare per il futuro la fertilità del suolo coltivato.

Queste comprendono: i) la riduzione delle operazioni di lavorazione del terreno, fino

alla non lavorazione (semina su sodo), al fine di preservare la struttura, la fauna e la

sostanza organica del suolo; ii) il mantenimento della copertura permanente del suolo

mediante colture dedicate (cover crops), residui colturali e coltri protettive; iii) una

migliore gestione dell’avvicendamento colturale, per favorire i microrganismi del suolo

e combattere le erbe infestanti, i parassiti e i patogeni delle piante; iv) una più

appropriata gestione dei fertilizzanti e dei fitofarmaci.

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Dall’applicazione dell’agricoltura conservativa derivano molti vantaggi, alcuni

dei quali (aumento delle rese e della biodiversità) diventano evidenti quando il sistema

entra a regime e si stabilizza. Le riserve di carbonio organico, l’attività biologica, la

biodiversità aerea e sotterranea e la struttura del suolo riscontrano tutte un

miglioramento. Le emissioni di CO2 diminuiscono a seguito del ridotto utilizzo di

macchinari e del maggiore accumulo di carbonio organico. Generalmente occorre un

periodo di transizione di 5-7 anni prima che un sistema di agricoltura conservativa

raggiunga l’equilibrio, e nei primi anni si può assistere ad una riduzione delle rese. Gli

agricoltori devono inoltre effettuare un investimento iniziale in macchinari specializzati

e devono poter disporre di sementi di cover crops adatte alle condizioni locali.

Agricoltura di precisione

È la gestione agronomica sito-specifica o localizzata dei processi di produzione. Essa

consiste nell’applicazione di tecnologie, principi e strategie per una gestione spaziale e

temporale della variabilità associata agli aspetti della produzione agricola, ossia

nell’esecuzione di interventi colturali (ad esempio le concimazioni) in relazione alle

reali necessità dell’appezzamento e alla loro variabilità spaziale e temporale.

La maggior parte dei sistemi opera mediante un ricevitore GPS collegato al

mezzo agricolo (trattore o mietitrebbiatrice), uno specifico software e un cosiddetto

Sistema di Supporto delle Decisioni Aziendali (SSDA). Fino ad oggi, con l’esecuzione

di un intervento agricolo uniforme, si è sempre trascurata la variabilità presente in

campo, ossia l’insieme delle differenze (ad esempio, di fertilità o di presenza di

infestanti) che possono interessare il singolo appezzamento. Ridurre i costi di

produzione comporta invece l’eliminazione degli sprechi e la massimizzazione

dell’efficienza degli interventi colturali, agendo in campo solamente se è veramente

necessario e con la pratica colturale o la dose di mezzo tecnico più adatta alle esigenze

delle diverse parti del campo.

L’Unione Europea mostra una sempre maggiore attenzione allo sviluppo e

all’applicazione di sistemi di precisione, poiché l’elevato costo degli input esterni rende

sempre meno competitive le produzioni agricole europee. D’altra parte, per quanto

riguarda i principali elementi nutritivi come azoto e fosforo, l’agricoltura europea è

quasi totalmente dipendente da prodotti importati o da produzioni industriali costose e

che generano GHG con conseguenti effetti negativi sull’ambiente e sul cambiamento

climatico. Nelle attuali pratiche agronomiche, i concimi minerali sono spesso usati in

maniera non appropriata o in misura eccessiva, causando una possibile perdita

economica agli agricoltori ed un danno ambientale (in termini di emissioni e di

inquinamento delle falde e dei terreni) soprattutto nelle aree ad agricoltura più intensiva.

Agricoltura biologica

Secondo l’IFOAM (International Federation of Organic Agriculture Movements)

l’agricoltura biologica include tutti i sistemi agricoli che promuovono una produzione di

cibo e fibre sicura dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Per questi

sistemi la fertilità del suolo è centrale per la riuscita produttiva. L’agricoltura biologica

riduce drasticamente gli input esterni rinunciando all’impiego di fertilizzanti, pesticidi e

farmaci di chemosintesi.

Secondo la Commissione Codex Alimentarius della FAO e dell’Organizzazione

Mondiale della Sanità, l’agricoltura biologica è un sistema olistico di gestione della

produzione che promuove e sviluppa la salute dell’agro-ecosistema. Essa favorisce l’uso

di pratiche di gestione interne all’agro-ecosistema invece di ricorrere ad input esterni.

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Questo si realizza utilizzando, dove possibile, metodi agronomici, biologici o meccanici

in sostituzione di materiali sintetici per qualunque specifica funzione entro il sistema.

Che i cibi prodotti da agricoltura biologica siano più salutari od

organoletticamente migliori di quelli prodotti con sistemi tradizionali resta ancora

un’affermazione da validare scientificamente. Quello che invece appare certo è il

vantaggio per il clima globale dell’agricoltura biologica rispetto a quella convenzionale.

Studi su ampia scala hanno dimostrato che il contenuto di carbonio nei terreni coltivati

con sistemi biologici è molto più elevato rispetto a quello dei terreni coltivati con

agricoltura ‘industriale’ e che l’accumulo di carbonio continua progressivamente nel

tempo.

Produrre secondo il metodo biologico non è un semplice ritorno all’applicazione

di vecchie pratiche agricole ma, al contrario, un sistema complesso che può consentire

produzioni economicamente vantaggiose. Il sistema biologico comporta una

riorganizzazione aziendale basata sull’alternanza colturale (rotazioni) o su di un

allevamento con un equilibrato carico di capi di bestiame per ettaro ed un’integrazione

tra produzioni agronomiche e produzioni zootecniche.

I punti critici della tecnica colturale per le produzioni biologiche sono,

soprattutto, la scelta varietale (varietà adatte alle specifiche condizioni), la disponibilità

di reperire semente certificata biologica (o la possibilità di utilizzare sementi

convenzionali in deroga), il controllo delle infestanti e delle fitopatie, una adeguata

fertilizzazione organica che consenta di mantenere livelli produttivi e qualitativi

soddisfacenti (problema di particolare rilievo per il frumento).

Nella scelta varietale bisogna fare ricorso a varietà con adattabilità alle

condizioni pedo-climatiche dell’ambiente e resistenti a tutte le condizioni di stress che

possono influire negativamente sulla produzione e sulla qualità. La sperimentazione

varietale ha evidenziato che esistono moderne varietà in grado di dare rese comparabili

in coltura convenzionale e biologica, mentre differenze sono emerse per l’aspetto

qualitativo (soprattutto nei cereali) perché il livello proteico ottenuto con la sola

concimazione organica non sempre è sufficiente per l’estrinsecazione del potenziale

qualitativo delle moderne varietà. L’uso di vecchie varietà, da più parti proposto, non

risulta sempre essere una buona soluzione, per la loro intrinsecamente più bassa

produttività rispetto alle moderne varietà

La fertilità e l’attività biologica del suolo devono essere mantenute mediante

coltivazione di leguminose, di concimi verdi (sovescio) e di specie aventi apparato

radicale profondo, nell’ambito di un adeguato programma di rotazione pluriennale, o

mediante incorporazione nel terreno di materiale organico prodotto da aziende che

operano nel rispetto delle norme vigenti. Il ciclo colturale di alcune colture (ad esempio

i cereali autunno-vernini) copre periodi dell’anno in cui la mineralizzazione dell’azoto

organico è molto limitata (periodo invernale) o in ritardo rispetto ai momenti critici

della coltura (fase di levata). Inoltre, i fertilizzanti organici presentano titoli di N, P, K

non sempre in equilibrio con le esigenze delle colture, rendendo difficile la copertura

dei fabbisogni. Sono quindi possibili caarenze nutrizionali durante alcune fasi del ciclo

vegetativo con conseguente influenza sulla produzione e sulla qualità.

Agricoltura multifunzionale

La multifunzionalità dell’agricoltura rappresenta una chiave di valorizzazione del

settore. All’agricoltura viene infatti assegnato non soltanto il ruolo di produttrice di beni

ed alimenti primari, ma anche di servizi a favore dell’ambiente e del benessere sociale,

in una visione multiuso del territorio agricolo. In tal senso, la multifunzionalità viene

vista dal settore agricolo come una opportunità economica per le aziende: infatti essa

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cerca di tradurre queste funzioni in forme di remunerazione che consentano la

sostenibilità economica del settore. L’agricoltura, sotto questa nuova veste, è in grado di

svolgere diverse funzioni associate al settore primario: funzioni produttive (sicurezza e

salubrità degli alimenti, valorizzazione delle risorse naturali e colturali); funzioni

territoriali (cura del paesaggio e del territorio); funzioni sociali (vitalità delle aree

rurali, argine allo spopolamento, recupero delle tradizioni); funzioni ambientali

(biodiversità, controllo delle emissioni di GHG).

Agricoltura biotecnologica

L’ingegneria genetica, o modificazione genetica delle colture, è emersa come una

rilevante tecnologia agraria a partire dalla metà degli anni ‘90, soprattutto in nord

America, Cina, Brasile e Argentina (sl. 1/96). Oggi (dati 2013) colture geneticamente

modificate (GM) sono presenti in 29 paesi, di cui 10 paesi ‘indistrializzati’ e 19 paesi

‘in via di sviluppo’ (sl. 1/97). Nel 2005, soia, mais, cotone e colza rappresentavano il

99% della superficie mondiale a colture GM (sl. 1/98). Attualmente si stanno

diffondendo varietà GM anche di papaia e barbabietola da zucchero (sl. 1/99). Per

alcune specie, la percentuale di coltivazione di varietà GM a livello mondiale è già

rilevante (sl. 1/100), ma negli USA tale percentuale ha ormai superato (stime dati 2012)

l’80-90% della superficie totale di coltivazione per mais (86% su 38 milioni di ha

totali), soia (93% su 30 milioni di ha totali) e cotone (95% su 5 milioni di ha totali).

Sebbene i caratteri oggetto di modificazione genetica siano di varia natura

(resistenza a insetti e malattie, tolleranza a stress abiotici, resa, qualità nutrizionale,

etc.), la tolleranza agli erbicidi e la resistenza ad alcuni insetti dominano il mercato delle

colture GM (sl. 1/107).

È in corso un complesso dibattito globale sul ruolo che la tecnologia delle

colture GM ha nell’affrontare i problemi dell’agricoltura, e sul fatto che gli agricoltori

abbiano ottenuto o meno dei benefici dalle colture GM. Le colture GM devono

sostenere una mole di controversie di natura tecnica, politica, ambientale, di proprietà

intellettuale, di biosicurezza e commerciale. I favorevoli citano gli incrementi di

potenziale produttivo delle colture, la maggiore sostenibilità derivante dalla riduzione di

fitofarmaci, la maggiore adattabilità colturale e il miglioramento nutrizionale dei

prodotti. I critici citano a loro volta i rischi ambientali e l’ampliamento delle disparità

sociali, tecnologiche ed economiche derivanti dall’introduzione delle colture GM. Le

preoccupazioni riguardano, tra l’altro, i flussi genici dalle colture GM, la riduzione della

diversità colturale, la resistenza agli erbicidi, la perdità della sovranità degli agricoltori

sulle sementi, e la mancanza di accesso alla proprietà intellettuale detenuta dal settore

privato.

Nei paesi occidentali, soprattutto europei, dove l’opinione pubblica è stata più

volte esposta a crisi sulla sicurezza degli alimenti (come quella della BSE, ad esempio)

gli studi sottolineano i sentimenti contrastanti nei confronti degli organismi GM. Più in

generale, i cittadini sembrano preoccupati a proposito dell’integrità e dell’adeguatezza

degli attuali modelli di regolamenti governativi e, in particolare, a proposito delle

assicurazioni scientifiche di sicurezza. Una migliore ‘scienza’ al riguardo è necessaria,

ma potrebbe non essere sufficiente a risolvere la diffusa incertezza sugli effetti delle

nuove tecnologie.

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PROSPETTO DEL CORSO

Le piante che verranno esaminate in questo corso sono le principali specie erbacee di

‘grande coltura’, con esclusione, quindi, delle specie ortive, floricole e officinali.

Le colture erbacee possono essere raggruppate sulla base di diversi sistemi di

classificazione proposti:

- a seconda della famiglia botanica di appartenenza (sl. 1/116);

- a seconda della parte della pianta utilizzata (semi, foglie, radici) (sl. 1/117);

- a seconda della prevalente destinazione d’uso (piante alimentari, piante

foraggere, piante saccarifere, piante oleoproteaginose, piante da fibra, piante

aromatiche) (sl. 1/118).

Sulla base di quest’ultimo sistema di classificazione, le specie trattate nel corso

verranno suddivise in:

- cereali (microtermi: frumento tenero, frumento duro, farro, orzo, triticale;

macrotermi: mais, sorgo, riso);

- leguminose da granella (soia, pisello);

- piante oleaginose (girasole);

- piante da tubero (patata);

- piante da bio-energia;

- foraggere (erbai, prati avvicendati, prati permanenti, pascoli).

Per ogni coltura, verranno affrontati i seguenti temi:

- cenni sull’importanza economica;

- origini e storia della coltura;

- principali caratteristiche botaniche ed inquadramento tassonomico;

- adattamento ecologico;

- varietà ed obiettivi di miglioramento genetico;

- tecnica colturale;

- cenni sull’utilizzazione e la conservazione,

in misura variabile in funzione della rilevanza della coltura e dell’importanza relativa

dei temi per ciascuna coltura.

I dati ISTAT ricavati dal censimento dell’agricoltura 2010 rivelano che 5.7 milioni (M)

di ha, pari al 44.4% della SAU italiana di 12.8 M ha, è stata destinata a seminativi di

colture erbacee appartenenti ai gruppi di specie qui considerati, di cui 3.1 M ha a cereali

e 2.1 M ha a foraggere (comprendendo in queste ultime anche le colture di mais per

l’insilamento). La percentuale sale al 54.4% della SAU considerando anche le superfici

coltivate a specie orticole e floricole. Se poi si aggiungono anche le superfici a prati

permanenti e pascoli, si raggiungono i 10.4 M ha, pari all’80.9% della SAU nazionale

(sl. 1/120).

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CEREALI

Col termine ‘cereali’ si indica un gruppo di specie, quasi tutte appartenenti alla famiglia

delle Graminacee, che producono frutti (cariossidi) amilacei, farinosi e commestibili e,

come già visto, costituiscono la base energetica della dieta di gran parte dell’umanità,

occupando circa la metà delle superfici coltivate a livello mondiale.

Una serie di positive caratteristiche hanno determinato il successo dei cereali

come specie agrarie e piante alimentari rispetto ad altre specie:

- hanno grande adattabilità a diversi ambienti, dai climi temperati e freddi ai climi

tropicali, dagli ambienti aridi a quelli umidi;

- il loro prodotto ha un basso contenuto di umidità (13-14%) ed è quindi

facilmente trasportabile e conservabile;

- hanno l’attitudine a formare, tramite macinazione, farine che, impastate con sola

acqua, producono importanti alimenti;

- il loro sapore è neutro, quindi non stanca e si presta a fornire la base

dell’alimentazione quotidiana;

- la quota energetica digeribile è molto alta, intorno almeno al 70%, ed è

rappresentata da carboidrati, in particolare da amido. Al contrario, il contenuto

in componenti indigeribili (cellulosa, lignina) è molto basso (sl. 2/7).

Dal punto di vista nutritivo, l’unico limite dei cereali è la scarsa presenza di alcuni

amminoacidi essenziali quali lisina e triptofano.

Oltre che per l’alimentazione umana, i cereali sono largamente utilizzati anche

per l’alimentazione zootecnica e per alcune produzioni industriali (bevande, amido,

plastica, combustibili). Si stima che circa il 49% della granella di cereali

complessivamente prodotta nel mondo sia destinata ad usi alimentari, il 37% ad usi

zootecnici ed il 10% ad usi industriali, mentre il restante 4% è impiegata come semente

in agricoltura (sl. 2/13).

I cereali possono essere distinti in ‘microtermi’ e ‘macrotermi’ sulla base delle

loro esigenze termiche. I primi vengono coltivati in Italia principalmente con ciclo

autunno-vernino, mentre i secondi sono coltivati solamente nel periodo primaverile-

estivo. I principali cereali microtermi sono il frumento tenero, il frumento duro, l’orzo,

l’avena e la segale, mentre le principali specie macroterme coltivate in Italia sono il riso,

il mais ed il sorgo.

Morfologia

Apparato radicale

È costituito da una (riso, sorgo) a 3-7 (frumento, mais) radici primarie che si originano

dall’embrione del seme e che normalmente arrestano la crescita nelle prime fasi di

sviluppo e da radici avventizie che si sviluppano, dopo l’emergenza, dai nodi basali del

culmo e svolgono le funzioni di assorbimento di acqua e nutrienti e ancoraggio al suolo.

In genere l’apparato radicale è piuttosto superficiale, fascicolato e molto esteso.

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Culmo

È il tipico fusto delle graminacee, generalmente cilindrico e senza ramificazioni, con

interno cavo oppure ripieno di midollo. Comprende una serie di nodi compatti – dai

quali prendono origine le foglie – i quali a loro volta delimitano una serie di internodi di

lunghezza generalmente crescente dalla base del culmo verso l’apice (sl. 2/19).

L’accestimento è il processo mediante il quale dai nodi basali, molto ravvicinati, si

formano nuovi culmi, determinando così la crescita in larghezza della pianta e la

formazione di cespi più o meno compatti.

Foglie

Le foglie sono alterne ed opposte, con una foglia per nodo, senza picciolo e composta

da varie parti: guaina, lamina, ligula e auricole. La guaina è la parte a stretto contatto

con il culmo, al quale si può abbracciare anche completamente, ed ha consistenza più o

meno membranosa. La lamina è la parte più appariscente della foglia, in diretta

comunicazione con la guaina, di forma allungata e con nervature parallele. La ligula è

una piccola membrana che si trova alla congiunzione tra lamina e guaina: può assumere

un diverso sviluppo a seconda della specie e può essere anche assente. Le auricole sono

delle piccole appendici di diverso sviluppo e forma, poste alla base della lamina.

Insieme con la ligula rappresentano degli importanti caratteri morfologici per il

riconoscimento delle specie graminacee in fase vegetativa, compresi alcuni cereali. Ad

esempio, in frumento la ligula è corta e le auricole larghe e pelose; in orzo la ligula è

allungata e le auricole sono lunghe e tipicamente amplessicauli; in avena la ligula è

dentata, corta e di forma piuttosto ovale mentre le auricole sono assenti; in segale sia la

ligula che le auricole sono corte (sl. 2/23).

Infiorescenza

Nelle graminacee esistono fondamentalmente due tipi di infiorescenza: la spiga, con

spighette sessili inserite direttamente sul rachide, e il panicolo o pannocchia, con

spighette inserite sul rachide mediante un peduncolo più o meno sviluppato (sl. 2/25-

30). Le spighette, sessili o peduncolate, possono essere monoflore, ma più spesso

contengono due o più fiori inseriti su un asse denominato rachilla. Ciascuna spighetta

porta alla base due glume mentre ciascun fiore è avvolto da due glumette, di cui quella

inferiore è detta lemma e quella superiore palea (sl. 2/34). La lemma può essere mutica

(senza resta) o aristata (con resta). Glume e glumette possono presentare dorsalmente

una carena, la quale può rappresentare un importante carattere di riconoscimento

botanico nella famiglia.

Cariosside

È il tipico frutto secco indeiscente delle graminacee, che porta un solo seme

concresciuto e saldato con il pericarpo. A maturazione, le glumette possono aderire alla

cariosside che, in questo caso, viene detta vestita; se la cariosside matura non risulta

avvolta dalle glumette è definita nuda. La cariosside delle graminacee può presentare

varie dimensioni e forme (ovoidale, globosa, appiattita, etc.) ma è spesso caratterizzata

da un solco laterale. La parte non occupata dall’embrione è l’endosperma, composto in

prevalenza da amido. L’embrione è attaccato all’endosperma mediante l’unico

cotiledone, detto scutello. Nell’embrione si distinguono il coleoptile e la coleoriza che

racchiudono, rispettivamente, la piumetta e la radichetta (sl. 2/35-36). Le proporzioni

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relative delle varie parti costituenti la cariosside possono variare in funzione delle

specie: ad esempio, le glumette sono assenti dalle cariossidi di frumento, mais e sorgo

(specie a cariossidi nude), ma possono rappresentare sino al 20-25% del peso della

cariosside in riso e avena; l’endosperma varia da circa il 60% della cariosside in avena

ad oltre l’80% in frumento, mais e sorgo; l’embrione solitamente non supera il 3% del

peso della cariosside nei cereali vernini ma raggiunge il 10-12% in mais e sorgo. La

forma, le dimensioni ed il peso della cariosside variano in funzione della specie (sl.

2/38-39).

I principali cereali coltivati nel mondo sono otto: frumento, riso, mais, orzo,

sorgo, miglio, avena e segale, per un totale di oltre 600 M ha ed una produzione di oltre

2 miliardi di tonnellate.

Dal punto di vista biologico ed agronomico, i cereali possono essere distinti in

tre sottogruppi: il sottogruppo del frumento ed affini (frumento, orzo), il sottogruppo del

mais ed affini (mais, sorgo) ed il sottogruppo del riso.

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FRUMENTO

Con circa 180 milioni di ettari coltivati, il frumento è una delle specie erbacee più

diffuse ed importanti nel mondo. La produzione mondiale stimata nel 2008 è stata pari a

circa 640 milioni di tonnellate, a fronte di una stima di consumo mondiale di 630

milioni di tonnellate nel 2007. Previsioni di stima sui prossimi 20 anni indicano in 890

M t il fabbisogno mondiale di frumento, sottolineando la necessità di incrementare le

produzioni per far fronte alle future richieste. L’Asia e l’Africa saranno i grandi

consumatori di domani, ma in questi continenti il fabbisogno è e resterà superiore

all’offerta. Le scorte di frumento dei 5 maggiori Paesi esportatori mondiali (Argentina,

Australia, Canada, UE e USA) sono diminuite drasticamente negli ultimi anni, sia per

effetto della maggiore domanda che, almeno in alcuni casi, della minore produzione.

Dei 640 M di tonnellate raccolti nel mondo, 610 M t sono state di frumento

tenero (Triticum aestivum) e 30 M t di frumento duro (T. durum). In Italia, sul totale di

oltre 2.7 M ha coltivati con cereali autunno-vernini (dati 2008), oltre 1.5 M ha erano

destinati a frumento duro, con una produzione di 5.4 M tonnellate, e 700 mila ha a

frumento tenero, con una produzione di 3.95 M tonnellate. L’Emilia-Romagna, il

Veneto ed il Piemonte sono state le regioni italiane in cui la superficie coltivata a

frumento tenero ha superato i 100 mila ettari (sl. 3/10, 17). La superficie a frumento

tenero in Italia è diminuita di circa il 40% negli ultimi 20 anni.

Circa i tre quarti del frumento tenero prodotto o importato in Italia vengono

impiegati nella panificazione, di cui il 90% è ancora sotto forma di produzioni

artigianali (sl. 3/11).

Origine

La tassonomia dei frumenti coltivati, e del genere Triticum più in generale (sl. 3/19), è

stata storicamente oggetto di complesse indagini. Una svolta nella classificazione del

frumento avvenne con la determinazione del numero cromosomico di base pari a 7 e

con l’individuazione di frumenti con numero cromosomico pari a 2n=14, o 2n=28, o

2n=42. Sulla base del numero cromosomico, le specie furono distinte in diploidi

(2n=2x=14), tetraploidi (2n=4x=28) ed esaploidi (2n=6x=42). Molte ricerche si sono

susseguite per chiarire le relazioni filogenetiche tra specie selvatiche, forme primitive di

frumenti coltivati e attuali frumenti coltivati. Una spiegazione sull’origine delle forme

coltivate si è avuta attraverso valutazioni morfologiche, genetiche, citogenetiche e

molecolari, in particolare mediante il grado di appaiamento alla meiosi dei cromosomi

omeologhi. I cromosomi omeologhi sono quelli derivanti da genomi (insiemi di

cromosomi) diversi e, pur possedendo geni con funzioni simili, non si appaiano tra di

loro durante la meiosi, come avviene invece per i cromosomi omologhi (appartenenti

allo stesso genoma).

Attraverso lo studio dell’appaiamento cromosomico alla meiosi è stato possibile

stabilire che i frumenti diploidi contengono un genoma indicato come AA, mentre i

tetraploidi contengono due genomi, definiti AABB, e gli esaploidi contengono i tre

genomi AABBDD (sl. 3/28). I frumenti tetraploidi ed esaploidi sono quindi degli

allopoliploidi. Si ritiene che il capostipite dei frumenti sia la specie selvatica T.

boeoticum (AA), dal quale sarebbe derivata la specie coltivata T. monococcum (AA) (sl.

3/30). I frumenti tetraploidi sarebbero derivati per incrocio (seguito dal raddoppiamento

del corredo cromosomico che rese fertili gli ibridi) tra un frumento diploide ed una

specie selvatica. La specie donatrice del genoma BB dovrebbe essere stata una specie

affine all’Aegilops speltoides (sl. 3/32) o una forma ancestrale di questa stessa, il cui

genoma SS è molto simile al genoma BB dei frumenti polipoidi, oggi non presente in

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nessuna specie di Aegilops conosciuta. Dai frumenti tetraploidi sarebbero derivate le

specie esaploidi a seguito di incrocio con una specie diploide selvatica e successivo

raddoppiamento del corredo cromosomico. La specie donatrice del genoma DD è stata

identificata in Aegilops squarrosa (sinonimo, T. tauschii) in cui tale genoma è appunto

presente (sl. 3/31). T. macha sarebbe stata la forma ancestrale dei frumenti esaploidi, da

cui, per accumulo di mutazioni, sarebbe derivato T. spelta, e per ibridazione tra questo e

T. macha (oppure per mutazione da T. spelta) si sarebbero formati i frumenti riferibili a

T. aestivum.

Sulla base del pionieristico lavoro di Vavilov sui centri di origine delle specie

coltivate, proseguito da Sinskaya e successivamente confermato da Dorofeev e colleghi,

l’origine dei frumenti coltivati è il cosiddetto Antico Mediterraneo, comprendente la

regione mediterranea e l’Asia sud-occidentale. Più in particolare, l’area di

domesticazione dei frumenti, coincidente con la regione di origine dell’agricoltura, è la

cosiddetta Mezzaluna fertile, compresa tra Palestina, Anatolia meridionale e

Mesopotamia (sl. 3/37). I frumenti sono stati un elemento basilare per l’umanità per

circa 10000 anni e si sono diffusi in tutto il mondo (sl. 3/40). La domesticazione e la

successiva millenaria storia evolutiva del frumento come pianta coltivata hanno

determinato delle profonde modificazioni nella morfo-fisiologia della pianta, la quale si

presenta oggi molto diversa da quella dei progenitori selvatici (sl. 3/42-46). La gamma

di variabilità che è derivata per effetto del tempo e dello spazio di coltivazione è

sorprendente e la formazione di nuove entità infraspecifiche (varietà botaniche) è stato

un processo continuo durante la diffusione della specie. L’allopoliploidia ha avuto

un’enorme importanza nella creazione di tale variabilità: è stato dimostrato infatti che la

variabilità e la distribuzione geografica dei frumenti diploidi sono minori rispetto a

quelle dei tetraploidi e degli esaploidi. Nell’evoluzione delle piante coltivate, la

poliploidia ha sempre svolto un ruolo importante, in quanto ha aumentato le possibilità

di adattamento ad un ampio ventaglio di ambienti e la sopravvivenza in condizioni

climatiche instabili.

Morfologia

Radici

L’apparato radicale è di tipo fascicolato. Nel primo periodo del ciclo vegetativo si

sviluppano 5-7 radici embrionali o primarie, che restano vitali per tutto il ciclo anche se

vengono presto sopravanzate in sviluppo ed importanza dalle radici secondarie o

avventizie, che si originano dai nodi basali del culmo principale e, in misura minore, dei

culmi di accestimento. La formazione delle radici avventizie avviene generalmente dalla

fase di terza foglia in poi. In relazione al tipo di suolo e alle condizioni ambientali, lo

sviluppo in profondità dell’apparato radicale può essere assai vario, raggiungendo anche

1.5 m e oltre. La massima densità radicale è comunque in genere in corrispondenza

dello strato attivo del terreno (30-40 cm di profondità) interessato dalla maggior parte

delle lavorazioni.

Culmo

Il fusto del frumento, detto culmo, può variare notevolmente in altezza in funzione delle

varietà e delle condizioni ambientali di crescita. Le vecchie varietà coltivate potevano

anche raggiungere e superare i 180 cm di altezza, mentre oggi vengono coltivate per lo

più varietà semi-nane che di solito non superano i 70-80 cm di altezza. L’altezza del

culmo è un carattere molto importante, perché legato inversamente alla resistenza al

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fenomeno dell’allettamento, che è la piegatura dei fusti causata dall’azione del vento e

della pioggia. Il fusto del frumento è eretto, cilindrico, con circa 5-8 internodi

generalmente cavi. Nella fase giovanile il culmo non è appariscente, in quanto gli

internodi non sono ancora sviluppati. Successivamente, il meristema di cui è fornito

ogni nodo determina l’allungamento dell’internodo sovrastante. Il germoglio primario

non resta unico: sui nodi basali, all’ascella delle foglie più basse, sono presenti e

possono svilupparsi altri apici vegetativi che danno origine a culmi secondari e terziari,

in numero variabile a seconda delle varietà e delle condizioni ambientali (spazio,

concimazione, umidità, etc.). Questo fenomeno è detto accestimento ed è descritto più

avanti.

Foglie

L’unico cotiledone è rappresentato dallo scutello, che è uno strato pluricellulare

disposto tra l’endosperma e l’embrione e avente la funzione di trasferire a quest’ultimo

le sostanze nutritive (le cellule dello scutello sono infatti ricche di enzimi diastasici e

proteolitici). Il coleoptile embrionale è la prima foglia, che fuoriesce dal terreno

incappucciando e proteggendo la piumetta, la quale presenta 3-4 foglie già abbozzate.

La prima foglia perfora il coleoptile dopo alcuni giorni ed inizia la fotosintesi. Le foglie

sono inserite sui nodi del culmo con disposizione alterna, ed ognuna comprende guaina,

lamina, ligula ed auricole.

Infiorescenza

L’infiorescenza dei frumenti è una spiga, che ha l’asse principale, o rachide, sinuoso e

formato da corti internodi che, nelle specie coltivate, sono resistenti alla rottura e

disarticolazione. Le spighette sono sessili, disposte alternativamente e ai lati opposti sui

nodi del rachide. Il numero e la densità delle spighette possono essere molto variabili. In

condizioni normali, il numero medio di spighette per spiga è di circa 15-20. Ogni

spighetta è costituita da un breve asse articolato, detto rachilla, con due file di fiori

alterni e solitari, ognuno protetto da due brattee dette glumette, di cui l’inferiore

(lemma) porta all’ascella il fiore. La lemma ha forma di navicella e l’estremità superiore

può essere dentata, a punta o aristata. Frumenti assolutamente mutici sono del tutto

eccezionali: perciò col termine mutico si intende un frumento che ha ariste (o reste)

molto ridotte. Forme mutiche sono frequenti in frumento tenero, in cui si trovano anche

tipi semi-aristati, ovvero con reste non presenti in tutte le spighette. Le spighe mutiche

sono invece rarissime in frumento duro. Le reste possono essere bianche, rossicce o

nere: queste ultime sono frequenti in frumento duro ma molto rare nel tenero. La

glumetta superiore è detta palea. Alla base della spighetta vi sono due brattee opposte,

rigide, di forma carenata, dette glume, che in tutti i frumenti eccetto T. polonicum sono

più corte delle glumette. Glume e glumette possono essere variamente pigmentate e/o

pubescenti.

Il numero di fiori in ogni spighetta può variare da 3 a 9, ma uno o più tra i fiori

superiori sono di norma imperfetti e sterili. Spesso il fiore terminale manca e le

glumette sono poco sviluppate. Il fiore perfetto ha tre stami con antere bilobate ed un

ovario. I filamenti degli stami si allungano rapidamente dopo la fioritura. Dall’ovario

sorgono due stili piumosi e ricurvi. All’antesi, due minute squame alla base interna delle

glumette, dette lodicole, si gonfiano rapidamente per breve tempo, divaricando le

glumette, esponendo gli stili e permettendo la fuoriuscita delle antere: l’operazione

facilita così l’eventuale impollinazione del fiore nel caso in cui la fecondazione

(cleistogama per circa il 97-99%) non fosse ancora avvenuta (sl. 3/67-68).

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Cariosside

Il peso della singola cariosside, di morfologia tipica, varia in funzione delle varietà,

oltre che delle condizioni ambientali, ed è generalmente compreso tra 30 e 50 mg. La

superficie della cariosside è liscia, ma quando la maturazione non avviene regolarmente

per effetto di squilibri idrici nella pianta, la cariosside si presenta più o meno striminzita

e grinzosa (il sintomo è definito stretta della cariosside).

La cariosside è costituita dall’embrione (2-4% del peso), dall’endosperma (87-

89%) e dagli involucri (circa 8%). L’endosperma comprende uno strato aleuronico

periferico a contatto col tegumento seminale (testa) e il parenchima con amido e

proteine di riserva (glutine) (sl. 3/72-73). La concentrazione di sostanza proteica e

minerali (ceneri) cresce dal centro verso la periferia del parenchima, mentre il contrario

avviene per l’amido. Il carattere farinoso della cariosside è dovuto alla formazione di

pori capillari tra le cellule dell’endosperma durante la maturazione. Tali pori

generalmente mancano nelle cariossidi di frumento duro, che presentano quindi un

aspetto compatto e vitreo. All’estremità della cariosside opposta a quella in cui è

localizzato l’embrione è presente un ciuffo di brevi e sottili peli.

Biologia (sl. 3/78)

Germinazione

Con acqua a disposizione per l’assorbimento (fino in ragione del 40% del peso della

cariosside) e in condizioni favorevoli di temperatura ed ossigenazione, il seme germina.

La temperatura ottimale di germinazione è di circa 20 °C, ma la germinazione può

avvenire, seppure lentamente, già a 2-4 °C (temperatura minima di germinazione). Per

prima fuoriesce la radichetta embrionale centrale, poi il coleoptile e infine le altre radici

primarie. La profondità ottimale di semina è intorno a 3-4 cm: una semina più profonda

costringerebbe la plantula ad allungare il primo internodo (detto rizoma) per spingere in

alto il coleoptile e farlo emergere, causando un consumo delle riserve embrionali e la

nascita di una pianta esile e stentata. Con una semina troppo superficiale, invece, il

seme appena germinato potrebbe disseccarsi od essere predato. Dopo l’uscita del

coleoptile dal terreno, la prima foglia lo rompe ed esce espandendosi fino a raggiungere

la dimensione normale.

Accestimento

Allo stadio di 3-4 foglie, all’ascella della prima foglia si forma un germoglio, quindi ne

compare un altro all’ascella della seconda foglia, e così via, dando vita al fenomeno

dell’accestimento (sl. 3/82-83), che termina quando l’apice vegetativo principale si

differenzia in organo riproduttivo. Un accestimento estremo è da evitare, poiché questo

comporterebbe una scalarità di fioritura protratta nel tempo a causa della dominanza del

germoglio primario sui germogli di accestimento primario, e di questi sui germogli di

accestimento secondario. L’accestimento dipende da molteplici fattori, tra cui la varietà,

la precocità (effetto positivo), le dimensioni del seme (effetto positivo), la profondità di

semina (effetto negativo), la densità delle piante (effetto negativo), la dotazione in

elementi nutritivi del terreno, soprattutto in azoto (effetto positivo), la temperatura

(effetto negativo con temperature elevate), l’epoca di semina (effetto positivo con

semine precoci). Come detto, tecnicamente è desiderabile un ridotto accestimento unito

ad un’elevata fittezza per avere un raccolto uniforme.

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Sotto l’influenza della temperatura e del fotoperiodo, ad un certo punto l’apice

vegetativo non differenzia più i primordi delle foglie ma differenzia gli abbozzi delle

future spighette. Questo stadio corrisponde al passaggio della pianta dalla fase

vegetativa a quella riproduttiva ed è indicato come viraggio (sl. 3/85-86). È importante

che al momento del viraggio la pianta sia in buone condizioni nutritive per garantire un

elevato numero di spighette future. Per numerose varietà, il viraggio è condizionato

dall’aver subito per qualche tempo lo stimolo delle basse temperature (vernalizzazione).

Si hanno così varietà autunnali (o non alternative) che, esigendo la vernalizzazione,

vanno sempre seminate in autunno, e varietà primaverili (o alternative) in cui la

fioritura è indotta prevalentemente dal fotoperiodo e che possono essere quindi seminate

anche in primavera.

Levata

Avvenuto il viraggio, quando la temperatura dell’aria raggiunge circa 12 °C, le piante

iniziano la fase di levata, con l’allungamento degli internodi per proliferazione del

tessuto meristematico alla base di ciascun nodo. L’accrescimento è acropeto a partire

dall’internodo più basso. Quando è in corso l’allungamento dell’ultimo internodo, la

spiga, già completamente formata, viene spinta attraverso la guaina dell’ultima foglia,

determinandovi un tipico rigonfiamento: è questo il cosiddetto stadio di botticella.

Pochi giorni dopo si ha l’uscita della spiga, o spigatura, e dopo altri 5-6 giorni si ha la

fioritura, stadio a cui la pianta raggiunge la massima altezza (sl. 3/87).

Durante la levata la pianta assorbe grandi quantità di elementi nutritivi e di

acqua ed ha una notevole attività fotosintetica. Temperature più basse di quelle ottimali

(15-20 °C) e carenza di acqua nel terreno riducono l’allungamento degli internodi. Una

scarsa illuminazione, come si ha nelle semine troppo fitte, stimola invece

l’allungamento degli internodi più bassi, riducendone però l’ispessimento e la tolleranza

all’allettamento. Durante la levata, la pianta diventa molto sensibile alle gelate (a

differenza della fase di accestimento) le quali devitalizzano per congelamento i tessuti

teneri e acquosi degli internodi in allungamento. Per questo, la fase di levata non deve

essere troppo precoce.

Fioritura

Circa 5-6 giorni dopo la spigatura avviene la fecondazione cleistogama del fiore.

Aprendo le glumette in quella fase si osserverebbe che l’ovario è ingrossato e gli stami

sono gialli e maturi. La fioritura e la fecondazione sono ostacolate dall’eccesso di

umidità, dalla pioggia e dai ritorni di freddo. Temperature inferiori a 15 °C possono già

essere dannose; temperature sotto lo zero possono provocare la devitalizzazione del

polline (castrazione fisiologica). Impropriamente viene definita fioritura il momento in

cui le glumette si aprono e lasciano fuoriuscire le antere: in realtà, in condizioni normali

ciò avviene quando la fecondazione è avvenuta, e si dovrebbe perciò parlare più

propriamente di sfioritura.

La fioritura inizia dalle spighette mediane della spiga e procede poi verso quelle

basali e infine verso quelle apicali. In ciascuna spighetta, il primo a fiorire è il fiore più

basso, seguito poi via via dai fiori superiori. La fioritura inizia nella spiga del culmo

principale e prosegue in quelli secondari secondo l’ordine della loro formazione sulla

pianta. La fioritura si completa in circa 3-4 giorni su una spiga, e sono necessari circa 6-

8 giorni per la fioritura completa in una pianta. Non tutti i fiori formati danno origine a

cariossidi: in condizioni non troppo ottimali, solo il primo e il secondo fiore di ogni

spighetta producono una cariosside, mentre in condizioni ottimali anche il terzo e quarto

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fiore possono essere fertili. Molto spesso, le 2-3 spighette basali sono completamente

sterili e non portano alcuna cariosside.

Maturazione

Subito dopo la fecondazione si ha l’inizio della formazione della cariosside

(granigione). L’ovocellula fecondata si sviluppa rapidamente, ed in 8-12 giorni

l’embrione è già formato. L’endosperma si forma dopo l’embriogenesi, per

moltiplicazione del nucleo secondario del sacco embrionale fecondato dal nucleo

vegetativo del budello pollinico. Nelle cellule dell’endosperma ha luogo il rapido

accumulo di granuli di amido, i quali sono inizialmente sospesi nel succo cellulare

formando un liquido lattiginoso (maturazione lattea). In questa fase la cariosside

raggiunge il massimo volume, la sua umidità è alta (70%) e tutta la pianta è ancora

verde. Successivamente, le cariossidi iniziano ad ingiallire, così come le lamine fogliari,

e per il progressivo accumulo di amido acquistano una consistenza cerosa. È questa la

maturazione cerosa, in cui il contenuto di acqua della cariosside scende al 40-45%. Col

procedere della maturazione, i granuli di amido finiscono per riempire completamente le

cellule dell’endosperma; la pianta ingiallisce completamente eccetto, per poco tempo

ancora, l’ultimo internodo. La cariosside si lascia appena incidere con l’unghia e la sua

umidità è del 30-35%. È questa la maturazione fisiologica a cui non segue più alcun

accumulo di sostanze di riserva. L’accumulo di amido nei semi ed il raggiungimento di

un elevato peso medio delle cariossidi sono favoriti se la granigione è lenta,

accompagnata da un andamento climatico favorevole e da una intensa e prolungata

attività fotosintetica. In condizioni avverse, soprattutto per carenza di acqua o per

malattie che danneggiano le parti verdi della pianta, le dimensioni delle cariossidi non

sono ottimali e le rese sono ridotte. Le diverse parti della pianta contribuiscono in

misura diversa con i loro elaborati al riempimento delle cariossidi. Oltre il 90% delle

sostanze depositate nelle cariossidi sono prodotte dalla pianta dopo la

spigatura/fioritura, ed un contributo fondamentale è fornito dall’ultima foglia espansa

sotto la spiga (foglia bandiera), dall’ultimo internodo e dalla spiga stessa (soprattutto

con le glume e le reste), che insieme sintetizzano fino all’85% delle riserve accumulate

nella cariosside. Dopo la maturazione fisiologica, il processo di maturazione consiste

solo nella perdita di acqua: quando la pianta è completamente ingiallita e l’umidità della

granella è scesa al 13-14% (maturazione piena) è possibile iniziare la raccolta

(mietitrebbiatura) (sl. 3/89-90).

Fisiologia della produzione

La resa del frumento dipende da molteplici fattori (definiti componenti della resa) che

sono determinati dallo sviluppo di un adeguato numero di piante in buone condizioni,

da una buona attività radicale, da una elevata attività fotosintetica, da una buona

fioritura e allegagione e da un ottimale accumulo di riserve nel seme. Le varie

componenti della resa (es. piante/m2, spighe/m

2, cariossidi per spiga, cariossidi/m

2, peso

di una cariosside) possono avere un diverso peso relativo sulla produzione finale a

seconda delle condizioni ambientali della coltura. L’architettura ideale di caratteri per

ogni determinato ambiente di coltivazione porta alla definizione dell’ideotipo varietale

da perseguire per ottimizzare la resa in quelle date condizioni.

Come tutte le piante a ciclo C3 (così dette perché il primo composto stabile che

si forma nel dopo la fissazione della CO2 nella fotosintesi, l’acido 3-fosfoglicerico o

PGA, contiene tre atomi di carbonio), il frumento ha una minore efficienza fotosintetica

(CO2 assorbita per unità di superficie fogliare) e maggiori perdite fotorespiratorie

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rispetto alle piante a ciclo C4 (come il mais, così dette perché hanno come primo

prodotto nel processo fotosintetico un composto, l’ossalacetato, con quattro atomi di

carbonio) (sl. 4/10). Conseguentemente, le piante C3 hanno un maggiore consumo di

acqua per unità di C fissato e un minore accumulo di sostanza secca.

La coltura è un sistema biologico con due componenti: le strutture che

sintetizzano sostanze utili (source) e gli organi preposti all’accumulo di tali sintetati

(sink). Per incrementare la resa si può agire aumentando l’attività del source,

migliorando l’efficienza del trasporto dei sintetati dal source al sink, o aumentando le

dimensioni del sink. Il sink (le spighe con le loro componenti) è formato nel periodo che

va dalla levata al termine della fioritura: la durata di tale periodo è spesso vincolata

dalla condizioni ambientali prevalenti in ogni areale di coltura, ad esempio in termini di

occorrenza di possibili gelate tardive o dell’insorgenza di condizioni siccitose

primaverili. Ai fini produttivi devono essere perseguiti un lungo periodo di riempimento

della granella ed un’elevata intensità di accumulo di sostanza secca nella granella stessa,

i quali dipendono dalla durata dell’attività fotosintetica della pianta, operata in

particolare, come sopra descritto, da quegli organi come la foglia bandiera, l’ultimo

internodo e la spiga che rimangono fotosinteticamente attivi oltre la fase di fioritura (sl.

4/13-14).

Adattamento

Le grandi zone di coltivazione del frumento sono le fasce temperate dell’emisfero nord

(tra 30° e 60° di latitudine) e dell’emisfero sud (tra 25° e 40° di latitudine). L’altitudine

sposta questi limiti verso l’equatore: sulle Ande si coltiva frumento fino a 4000 m. Il

frumento non è adatto alle basse latitudini dei tropici, a causa del clima caldo e umido

che provoca la mancanza di vernalizzazione e, soprattutto, l’insorgere di malattie

crittogamiche e la difficoltà di maturazione, raccolta e conservazione.

Il frumento è una specie microterma, con esigenze termiche basse ma crescenti

durante lo sviluppo: 2-3 °C per la germinazione e l’accestimento, 10-12 °C per la levata,

15 °C per la fioritura, 18-20 °C per la maturazione. Quando è in accestimento, il

frumento resiste anche a molti gradi sotto lo zero. In assenza di neve, le temperature

minime al di sotto dei –29 °C sono però letali e la coltura è possibile solo con semina

primaverile, purché vi siano almeno circa 100 giorni esenti da gelate. Nell’Italia

settentrionale, grande importanza ha il fatto che i rigori invernali trovino la coltura in

fase di accestimento (sl. 4/4). Semine troppo tardive potrebbero causare l’esposizione

delle piante alle temperature più fredde quando l’accestimento non è ancora iniziato.

Viceversa, con semine troppo anticipate la pianta potrebbe già essere nella fase di levata

al momento delle gelate più intense. Nell’Italia peninsulare, i danni peggiori sono

causati da gelate tardive primaverili, con abbassamenti improvvisi di temperature anche

di pochi gradi sotto lo zero, che sopraggiungono però quando il frumento è in levata

(con danni dei tessuti meristematici teneri ed acquosi) o, peggio ancora, quando è in

spigatura (con devitalizzazione del polline e sterilità). Gli eccessi di temperatura sono

soprattutto dannosi nelle regioni meridionali, in quanto accentuano l’evapotraspirazione

e ostacolano l’assimilazione e il riempimento della granella. Nella fase di granigione, le

temperature ottimali sono di 22-24 °C. Rialzi termici improvvisi oltre i 30 °C in questa

fase, specialmente con venti caldi e secchi, determinano la stretta da caldo con danni

irreversibili alle cariossidi e pregiudizio della produzione quanti-qualitativa.

L’acqua è l’altro fattore climatico importante ai fini della produttività del

frumento. Il 75% del frumento mondiale è prodotto nelle regioni semi-aride e sub-

umide caratterizzate da precipitazioni annue comprese tra 350 e 900 mm circa.

L’eccesso di piogge rende difficile la preparazione del letto di semina, liscivia gli

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elementi nutritivi del terreno, crea uno stato asfittico, favorisce malattie e allettamento,

ostacola la maturazione e la raccolta. Regola generale è quella di far coincidere il ciclo

colturale con la stagione pluviometricamente più favorevole (semine autunnali nelle

regione mediterranee con piovosità concentrata in autunno-inverno). I climi temperato-

freddi sono i più favorevoli a produzioni abbondanti; i climi temperato-caldi danno

invece le produzioni qualitativamente migliori, anche se irregolari e mediamente non

molto abbondanti.

I terreni che meglio si adattano al frumento sono quelli di tessitura da media a

medio-pesante (da franco ad argilloso), di buona struttura e ben sistemati

idraulicamente, poiché il frumento teme molti i ristagni di umidità. In terreni troppo

sciolti, il frumento può soffrire di deficienze nutritive, di eccessiva aerazione e di stress

idrico durante la granigione. Poco adatti sono anche i suoli acidi e quelli molto ricchi in

sostanza organica indecomposta.

Tecnica colturale

La redditività della coltura di frumento può essere garantita solo se si riescono ad

ottenere rese elevate, con buona qualità della granella e a bassi costi di produzione. Per

soddisfare tali esigenze, occorre che l’agricoltore disponga di conoscenze sulla migliore

tecnica agronomica da adottare. Come per tutte le altre colture, l’evoluzione della

tecnica di coltivazione del frumento ha trovato supporto nell’affermarsi della

meccanizzazione agricola, nella maggiore disponibilità di fertilizzanti, nella messa a

punto di prodotti diserbanti, insetticidi e anticrittogamici e nel lavoro di miglioramento

genetico. Le norme che regolano la coltivazione del frumento, come quella di ogni altra

coltura, riguardano: i) il posto nell’avvicendamento colturale, ii) la scelta delle varietà,

iii) la preparazione del terreno per la semina, iv) la semina, v) la concimazione, vi) la

lotta contro le infestanti, vii) la difesa contro i parassiti, viii) le cure colturali, ix) la

raccolta.

Avvicendamento

Il frumento è una coltura che trae notevoli vantaggi dall’avvicendamento con altre

specie. Il ringrano (omosuccessione) può determinare infatti una marcata riduzione delle

rese (sl. 4/23-25). In genere il frumento viene coltivato in avvicendamento con colture

miglioratrici, ovvero colture che lasciano un residuo di fertilità nel terreno superiore a

quella iniziale (a differenza delle colture sfruttatrici o depauperanti). Tuttavia,

soprattutto nelle zone semi-aride, in mancanza di alternative economicamente valide, il

frumento è spesso coltivato in successione a sé stesso o, al massimo, intercalato da un

maggese.

Le colture da rinnovo (es. mais, barbabietola, girasole, pomodoro, fava, patata)

sono ottime precessioni colturali per il frumento, perché migliorano il terreno grazie alla

lavorazione profonda e alle abbondanti concimazioni, anche organiche (letame), e

consentono un buon controllo delle erbe infestanti, con positivi effetti sulla produzione

del frumento che segue. Un possibile fattore da tenere in considerazione è l’epoca di

raccolta della coltura da rinnovo, in relazione al tempo disponibile per la preparazione

del terreno per la semina del frumento.

Le colture pratensi sono altre ottime precessioni del frumento, grazie all’azione

soffocante sulle infestanti determinata dal prato, al notevole arricchimento in sostanza

organica del terreno apportata dagli abbondanti residui, al miglioramento della struttura

fisica del terreno, e all’elevato apporto di azoto nel caso di prati di leguminose. Se la

rottura di un prato poliennale, ad esempio di erba medica, dovesse essere forzatamente

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tardiva, l’elevata presenza di residui organici potrebbe però essere meglio valorizzata da

una coltura da rinnovo (es. mais), alla quale potrebbe seguire più proficuamente il

frumento.

Scelta varietale

La scelta varietale è una tecnica colturale a costo contenuto per l’agricoltore ma che può

incidere enormemente sulla redditività della coltura. La scelta va fatta considerando le

caratteristiche della pianta in funzione delle esigenze imposte dalle condizioni

climatiche, dal terreno, dalle condizioni fitosanitarie, dalla presenza di infestanti, dalla

disponibilità di mezzi tecnici nella coltivazione, e dalla qualità del prodotto che si vuole

ottenere. Le caratteristiche più importanti da conoscere per poter scegliere

adeguatamente la varietà da coltivare sono la sua resistenza al freddo, alle alte

temperature e alla siccità, l’adattamento alle condizioni del terreno, la resistenza

all’allettamento, la resistenza alle malattie, la fertilità della pianta, la stabilità di

produzione, e la qualità del prodotto.

Un valido aiuto nella scelta delle varietà può essere fornito dai risultati di prove

condotte da soggetti imparziali, sulla base delle quali è possibile stilare delle liste di

raccomandazione varietale per diversi areali di coltivazione (sl. 4/33-40).

Preparazione del terreno

I lavori preparatori hanno appunto lo scopo di preparare un appropriato letto di semina e

creare le migliori condizioni di abitabilità per la coltura. Ciò si ottiene mediante

l’interramento delle erbe infestanti, dei residui della coltura precedente e dei concimi, lo

sgretolamento del terreno in modo da renderlo soffice, e un affinamento delle zolle

superficiali tale da assicurare un buon contatto col seme. La principale lavorazione

preparatoria è l’aratura a 30-40 cm di profondità, seguita da erpicature con cui ridurre la

zollosità (sl. 4/42). In genere, più è anticipata l’aratura migliore è il letto di semina ed il

controllo delle infestanti. La profondità può essere ridotta a 20-25 cm quando il

frumento segue una coltura da rinnovo per la quale sia stata già eseguita una lavorazione

profonda. Le lavorazioni devono anche prevedere idonee sistemazioni, per evitare

fenomeni di erosione nei terreni declivi ed evitare ristagni idrici che potrebbero

determinare danni diretti (attacco di mal del piede, minore radicamento, aumento delle

infestanti) e indiretti (difficoltà nelle semine, minore nitrificazione dell’azoto) (sl. 4/43-

44). Bisogna evitare in maniera categorica di lavorare quando il terreno è umido in

superficie e asciutto sotto, per evitare il cosiddetto arrabbiaticcio determinato dalla

mescolanza dei diversi strati del terreno, per effetto del quale il frumento cresce

stentatissimo a causa di forti carenze di azoto e gravi infestazioni di malerbe.

Anche per il frumento sono state proposte tecniche di lavorazione minima

(minimum tillage) o di non lavorazione (sod seeding) (sl. 4/46-50).

Semina

Requisiti essenziali della semente della varietà scelta per la semina devono essere la

purezza (varietale e da materiali estranei, soprattutto semi di infestanti), la

germinabilità, lo stato fitosanitario e le dimensioni delle cariossidi. In considerazione

del fatto che le cariossidi potrebbero essere contaminate da agenti patogeni, la semente

va conciata con prodotti anticrittogamici (sl. 4/56).

Nelle condizioni italiane, l’epoca di semina normale è quella autunnale, a partire

dalla seconda decade di ottobre nell’Italia settentrionale fino alla fine di novembre

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nell’Italia meridionale. Oltre che con l’aumentare della latitudine, la semina viene

anticipata anche con l’aumentare dell’altitudine. Nei climi più freddi di quello italiano,

la semina primaverile predomina su quella autunnale o la sostituisce completamente:

nella semina primaverile è indispensabile impiegare varietà alternative che spigano e

fioriscono anche in assenza di vernalizzazione (sl. 4/58-60).

La quantità di seme da impiegare per unità di superficie dipende dalla densità di

piante e di spighe che si vuole ottenere, dalle condizioni climatiche attese, dal peso

medio delle cariossidi, dall’epoca di semina e dai fattori che determinano la

germinabilità in campo (es. la preparazione del letto di semina). Il frumento è pianta a

‘fittezza elastica’, nel senso che con l’accestimento può compensare ampie differenze di

fittezza iniziale. Ciò è utile perché, in caso di semine mal riuscite che hanno prodotto

nascite molto scarse, grazie ad un accestimento molto spinto si può avere un’accettabile

densità di culmi fertili. In condizioni normali si ritiene però conveniente realizzare

fittezze iniziali piuttosto alte per limitare l’accestimento (evitando maturazioni troppo

scalari). Un obiettivo sensato è quello di ottenere 300 piante per m2 le quali, con un

moderato accestimento, formeranno circa 500-600 spighe per m2. In condizioni medie

(buon valore reale della semente, buona preparazione del terreno e tempestiva epoca di

semina) si può considerare che per avere 300 piante nate a m2 siano necessarie 400-450

cariossidi a m2 pari a circa 180-200 kg/ha di semi aventi un peso medio di 40 mg (sl.

4/62). Con semine ritardate rispetto a semine autunnali tempestive, la quantità di seme

va aumentata indicativamente di 1 kg per ettaro per ogni giorno di ritardo. Nel caso di

semine di fine inverno non si può far conto sull’accestimento, per cui le quantità di

seme vanno fortemente aumentate, fino anche a 300 kg ad ettaro.

La semina ormai universalmente adottata è quella a file con seminatrice, con file

in genere distanti 12-15 cm l’una dall’altra. La profondità di semina non dovrebbe

eccedere i 2-3 cm: solo in caso di semina su terreni sciolti e molto asciutti è opportuno

seminare un po’ più in profondità, considerando comunque che una semina troppo

profonda causa dei danni alla plantula in emergenza (sl. 4/66). Nei terreni soffici e

asciutti, una leggera rullatura fa aderire meglio il terreno alle cariossidi, facilitando

l’assorbimento dell’acqua e la germinazione.

In passato era diffusa la consociazione (coltura contemporanea di due o più

specie sulla stessa unità colturale) del frumento con altre specie (segale, lenticchie, etc.)

e la consociazione temporanea del frumento con specie prative (erba medica, trifogli,

etc.) mediante la trasemina della foraggera nel frumento con la tecnica detta bulatura.

Oggi la consociazione di cereali con una leguminosa prativa è oggetto di attenzione in

agricoltura biologica, per un possibile maggior controllo delle infestanti come

pacciamatura viva e per il possibile incremento del contenuto proteico della granella del

cereale grazie all’azoto fissato dalla leguminosa (con effetti positivi sulla qualità del

cereale biologico).

Concimazione

Scopo della concimazione è fornire al terreno gli elementi nutritivi necessari alle piante

per accrescersi e realizzare la loro produzione. La quantità di elementi nutritivi

necessari alla pianta varia in funzione di fattori genetici e di condizioni ambientali.

L’azoto stimola l’assorbimento degli altri elementi, la moltiplicazione cellulare,

la crescita, l’accestimento, la fertilità della spiga e lo sviluppo delle cariossidi, oltre a

migliorare la qualità (sl. 5/10). Il fosforo equilibra il rapporto tra sviluppo epigeo ed

ipogeo, fortifica i culmi, migliora la qualità del glutine, ed è tra i costituenti delle

nucleoproteine che hanno un ruolo importante nella riproduzione delle cellule. Il

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potassio stimola la produzione dei fotosintetati, aumenta la resistenza al freddo,

all’allettamento e alle malattie, e migliora le caratteristiche del seme.

L’azoto si trova nel terreno in forma nitrica prontamente assimilabile (forza

vecchia) e in forma ammoniacale e organica non prontamente utilizzabili, che per essere

sfruttate devono subire trasformazioni microbiologiche (nitrificazione e

mineralizzazione). In inverno c’è sempre insufficienza di azoto nitrico rispetto al

fabbisogno, per l’arresto della nitrificazione a causa delle temperature troppo basse. In

primavera si riscontra quasi sempre insufficienza di azoto all’inizio della levata, poiché

il risveglio vegetativo del frumento precede il risveglio dell’attività microbica del

terreno, che è più lento a riscaldarsi dell’aria. Fosforo e potassio sono fissati dal potere

assorbente del terreno e tenuti con continuità a disposizione delle piante. Per questi

elementi si tratterà di fare una congrua concimazione di fondo per integrare le riserve

del terreno.

La concimazione azotata è un elemento chiave nella coltura del frumento per

aumentarne la produttività (sl. 5/9). Non esiste una forma di concimazione adatta a tutte

le situazioni, poiché i principi da seguire per stabilire dosi e modi della concimazione

azotata dipendono da diversi fattori: caratteristiche varietali; condizioni climatiche e

disponibilità di acqua; obiettivo produttivo e qualitativo; quantità di N presente nel

terreno; intensità di mineralizzazione della sostanza organica; costo del concime; aspetti

ambientali. Dati sperimentali italiani indicano in 80-250 kg/ha gli estremi possibili di

dose per la concimazione azotata, con il valore minimo riferito a condizioni molto

siccitose, ed il massimo a coltivazioni in monosuccessione. Generalmente, le dosi

consigliate per le varietà più moderne e produttive vanno da 120 a 220 kg/ha di N,

variabili in funzione della fertilità residua della precessione colturale. Un eccesso di

azoto potrebbe causare una serie di effetti negativi sulla coltura: allettamento;

suscettibilità alle malattie fogliari; maggiori esigenze idriche della pianta; allungamento

di alcune fasi del ciclo.

La concimazione azotata va frazionata in modo da assicurare la disponibilità

dell’elemento al momento della richiesta della pianta. Il deficit fra l’azoto fornito dal

suolo e i bisogni della pianta diventa fortissimo a partire dall’inizio della fase di levata

(sl. 5/17). Sono raccomandati tre interventi di apporto dell’azoto, ed un quarto è da

valutare (sl. 5/18-22). Il primo apporto (30% circa della quantità totale da distribuire)

interrato alla semina (eseguita con concimi non facilmente dilavabili) o entro lo stadio

di terza foglia; il secondo apporto (50% circa), fondamentale, poco prima del viraggio;

il terzo apporto (20% circa) durante la levata (all0incirca dal secondo nodo). Una

concimazione azotata tardiva (stadio di botticella-inizio spigatura) con concimi fogliari

a base di urea può migliorare la qualità del glutine.

Controllo delle infestanti

Le erbe infestanti sono le specie erbacee che crescono in mezzo alla coltura, provocando

una più o meno elevata diminuzione dei livelli quantitativi e qualitativi della produzione

(sl. 5/27-35). I danni possono essere dovuti a fenomeni di parassitismo, di competizione

(spaziale o per luce, acqua o elementi nutritivi), di allelopatia, di avvelenamento dei

prodotti, di deprezzamento dei prodotti o di intralcio nelle lavorazioni. Le specie

infestanti possono essere a ciclo annuale, biennale o poliennale: queste ultime sono

difficili da controllare poiché mantengono sempre un apparato radicale vivace. I metodi

per il controllo delle infestanti possono essere indiretti (o preventivi: impedimento della

disseminazione dei semi delle infestanti), agronomici, meccanici o chimici (diserbo). I

metodi agronomici includono la riduzione della distanza tra le file, la preparazione

anticipata del letto di semina (falsa semina), la localizzazione delle concimazioni sulla

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fila della coltura. Tutte le pratiche che favoriscono il rapido sviluppo della coltura

(veloce emergenza, elevato vigore giovanile, rapida chiusura dell’interfila) vanno a

scapito delle infestanti. L’avvicendamento colturale determina un controllo delle

infestanti, poiché in un regime di colture avvicendate la flora rimane in equilibrio e non

si manifestano fenomeni di resistenza o di prevalenza delle specie più difficili da

controllare (flora di sostituzione) (sl. 5/41-42). Le lavorazioni profonde del terreno

hanno un effetto positivo sul controllo delle infestanti, mentre la non lavorazione o la

lavorazione minima hanno effetti minimi o, addirittura, nulli sulle infestanti.

Gli erbicidi, o diserbanti chimici, sono principi attivi che causano la morte o il

danneggiamento di alcune (diserbi selettivi) o di tutte (diserbi totali) le specie vegetali

con cui vengono a contatto. Il diserbo esercita sempre una forte pressione di selezione

sulle specie infestanti, determinando l’insorgere di fenomeni di resistenza; per questo

conviene sempre, ove possibile, miscelare diversi principi attivi e variarli nello spazio e

nel tempo. Un buon erbicida deve possedere un’elevata efficacia in relazione al suo

costo ad ettaro, deve avere il minimo impatto ambientale, deve essere flessibile

nell’utilizzo, deve essere miscibile con altri composti, non deve essere dannoso per la

salute di operatori e consumatori e non deve lasciare residui sulla coltura. Esistono

erbicidi fogliari (assorbiti attraverso le foglie e le parti verdi), residuali (assorbiti

attraverso le radici, l’ipocotile nelle dicotiledoni o il coleoptile nelle monocotiledoni) o

fogliare e residuali (es. le sulfoniluree). L’erbicida penetra nella pianta, viene trasferito

dal punto di penetrazione al sito d’azione e, lì giunto, interferisce su meccanismi

biochimici e su funzioni fisiologiche della pianta (azione primaria, alterando uno

specifico processo metabolico; azione secondaria, alterando le funzioni correlate e

interagenti con quel processo). I processi metabolici alterati dagli erbicidi possono

essere molteplici: fotosintesi (es. le triazine), respirazione (es. gli

arilossifenossipropionati e i cicloesenoni), crescita (es. gli acidi di- e

triclorofenossiacetici [ormonici] o i cloroacetanilidi), biosintesi di amminoacidi (es. i

fosforganici [glifosate e glufosinate], le sulfoniluree o gli imidazolinoni), biosintesi di

carotenoidi (es. diflufenican), biosintesi di lipidi (es. i bipiridilici). Gli erbicidi più

importanti degli ultimi anni appartengono a diverse ‘famiglie’, ma sono tutti

caratterizzati da dosaggi molto contenuti, ampio spettro d’azione per dicotiledoni e

graminacee, ampia possibilità di miscelazione, attività prevalente in post-emergenza e

ampio periodo d’impiego, offrendo la possibilità di diserbare il frumento con un solo

intervento in post-emergenza (sl. 5/54). La tecnica del diserbo post-emergenza

determina una serie di vantaggi rispetto al diserbo in pre-emergenza, quali la possibilità

della scelta dell’erbicida e del momento di intervento, un minore impatto ambientale, la

possibilità di controllo di infestanti difficili, la maggiore affidabilità nei sistemi con

lavorazioni ridotte o semine su sodo.

Anche nel diserbo del frumento si sta affermando il ricorso ad interventi in post-

emergenza. Ciò è stato favorito dalla disponibilità di numerosi graminicidi e

dicotiledonicidi a prevalente azione fogliare, ma anche dalla diffusione di infestanti

difficilmente controllabili con interventi preventivi (Avena, Galium, alcune

ombrellifere). L’epoca ottimale di intervento si situa tra l’inizio dell’accestimento e

l’inizio della levata della coltura, con la maggior parte delle infestanti annuali già

emerse ma non eccessivamente sviluppate e con il frumento in rapida crescita vegetativa

in grado di ostacolare la nascita successiva di malerbe. Per assicurare un’ottimale azione

erbicida, i prodotti devono essere applicati con temperature diurne stabilmente sui 5 °C,

con gelate notturne non eccessive, e buona umidità atmosferica e del suolo. Semine

tardive o con insediamento rado, e presenza di infestanti a nascita tardiva o perenni (es.

Cirsium), possono richiedere interventi diserbanti dopo l’inizio della levata.

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Difesa

Il frumento può essere interessato da avversità abiotiche (meteorologiche: ristagno

idrico, allettamento, temperature estreme, grandine [sl. 6/3-4]; fisiologiche: carenze

nutrizionali, inquinamento di suolo e aria, salinità, diserbanti) e biotiche (parassiti

vegetali, animali e virus [sl. 6/60]).

Le malattie fungine costituiscono un importante fattore limitante per la

produzione cerealicola, sia sotto l’aspetto quantitativo che quello qualitativo

(merceologico e igienico/sanitario). L’intensità di una malattia è influenzata

dall’interazione tra i principali fattori coinvolti, ovvero il patogeno, l’ospite e l’ambiente

(sl. 6/9). Le malattie fungine possono colpire il ‘piede’ (la base del culmo), le foglie, le

spighe o le cariossidi (sl. 6/12).

Le spore dei patogeni responsabili delle malattie del piede sono conservate e

disseminate dai residui colturali (sl. 6/13). La rotazione colturale è un efficace mezzo di

controllo, soprattutto se associata alla concia delle sementi. Vari fattori possono

favorire l’insorgere delle malattie del piede: una semina troppo anticipata; alcuni

precedenti colturali e, soprattutto, il ringrano; una cattiva preparazione del letto di

semina; una elevata densità di semina con varietà suscettibili; il clima invernale mite ed

umido; una eccessiva concimazione azotata durante l’accestimento. Tra le malattie del

piede, sono diffuse le fusariosi (Fusarium culmorum, F. graminearum, Microdochium

nivale [sl. 6/15]), ma anche altri funghi (es. Gaeumannomyces graminis, Ophiobolus

graminis, Cercosporella herpotricoides, Rhizoctonia cerealis [sl. 6/16-18]) possono

essere responsabili della patologia. Il mal del piede causa l’allettamento della pianta, per

i danni alla base del culmo, e la cattiva utilizzazione della fertilizzazione azotata, per la

distruzione dei fasci conduttori. Contro il mal del piede non esistono trattamenti curativi

efficaci o varietà resistenti e la malattia deve essere prevenuta con la concia delle

sementi (es. con protioconazolo, da solo o in miscela con tebuconazolo e fluoxastrobin)

e con mezzi agronomici che riducono le cause predisponenti: interramento della paglia

del cereale precedente; sistemazione dei terreni che assicuri un adeguato sgrondo delle

acque; avvicendamento con colture diverse dai cereali; semine ritardate nei terreni a

rischio.

Le malattie delle foglie e della spiga causano danni crescenti man mano che

l’attacco interessa l’ultima foglia e la spiga, poiché è l’attività fotosintetica della foglia

bandiera, dell’ultimo internodo e della spiga che maggiormente concorrono al

riempimento della granella. I danni consistono nella riduzione del peso della cariosside,

nella perdita di produzione, nella diminuzione del contenuto proteico, nella riduzione

dell’attività panificatoria (e pastificatoria nel caso del frumento duro), nella

contaminazione da micotossine della granella e di tutti i derivati (nal caso di fusariosi)

(sl. 6/20-21). Le principali malattie fogliari e della spiga sono l’oidio (Blumeria

graminis var. tritici = Erysiphe graminis [sl. 6/22]), la ruggine bruna (Puccinia

recondita [sl. 6/23]), la ruggine gialla (P. striiformis [sl. 6/24]), la septoriosi

(Mycosphaerella graminicola = Septoria tritici, solo sulle foglie; Stagonospora

nodorum = Septoria nodorum, su foglie e spiga [sl. 6/25]), la fusariosi della spiga (F.

graminearum, F. culmorum, F. poae, F. avenaceum, etc. [sl. 6/26-27]).

La fusariosi della spiga si trasmette mediante sementi infette, ma il patogeno

sopravvive nelle stoppie, per cui il ringrano aumenta il rischio di infezione (sl. 6/28).

Questa malattia è particolarmente importante non solo per i danni economici che può

causare alla coltura, ma anche perché produce delle micotossine (soprattutto tricoteceni,

tra cui il deossinivalenolo, DON) con possibili effetti tossici per l’uomo e gli animali

(sl. 6/29-31).

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La lotta alle malattie dovrebbe prevedere l’integrazione di metodi genetici,

agronomici e chimici. I metodi genetici consistono nell’impiego di varietà meno

suscettibili, ma la difficoltà consiste nel reperire varietà totalmente resistenti ai

patogeni. La scelta di varietà tolleranti resta ad esempio il mezzo più efficace per

limitare l’incidenza delle ruggini; per la ruggine bruna e per quella nera un tipo di

resistenza efficiente si è dimostrato la precocità che consente di sfuggire agli attacchi. I

mezzi agronomici consistono nell’adozione di pratiche che riducono il potenziale di

inoculo, come il trattamento dei residui e le ampie rotazioni colturali (sl. 6/36). I metodi

chimici prevedono sia l’impiego di concianti efficaci per trattare il seme (sl. 6/37, 64),

che trattamenti fungicidi sulla parte aerea della pianta (sl. 6/38, 66-67). Il momento

dell’applicazione è fondamentale per l’efficacia del trattamento (sl. 6/39-40). Per

esempio, per la fusariosi della spiga il trattamento deve essere eseguito nei 2-4 giorni

precedenti o 1-2 successivi alla fioritura in presenza di rischio di infezione (pioggia,

nebbie). Utile per questi trattamenti si è rivelata la combinazione dei principi attivi

bromuconazolo + tebuconazolo. La concia delle sementi è un irrinunciabile intervento

preventivo. Una serie di patogeni del frumento (carie, carbone, elmintosporiosi,

septoriosi, fusariosi, Pyrenophora [sl. 6/43, 44, 46]) sono infatti trasmessi attraverso le

sementi, poiché le spore sono fissate sulla superficie della cariosside o sull’embrione

(sl. 6/41). Quest’ultimo è il caso del carbone, per il cui controllo sono necessari

fungicidi ad azione sistemica.

Oltre alle malattie fungine, sono presenti anche diverse malattie virali, le quali

possono essere suddivise in due gruppi a seconda del tipo di vettore: i virus trasmessi da

vettori presenti nel terreno e quelli trasmessi da vettori animali. Tra i primi, i più

importanti sono il mosaico comune (soilborne wheat mosaic, SBWM [sl. 6/55]) e la

striatura fusiforme (wheat spindle streak mosaic, WSSM [sl. 6/56]). Entrambi sono

trasmessi alle radici delle piante dal microrganismo plasmodioforide Polymyxa

graminis, nelle cui spore durevoli i virus si localizzano e possono sopravvivere nel

terreno anche per molti anni. Tra i virus trasmessi da vettori animali sono il mosaico

striato del frumento (wheat streak mosaic, WSM [sl. 6/58]) trasmesso da un acaro

(Aceria tosichella) e il nanismo del frumento (BYD [sl. 6/59]) trasmesso da alcuni afidi

(Rhopalosiphon padi, Schizaphis graminis, Sitobium avenae).

Il frumento può essere attaccato da diversi insetti, che possono colpire la pianta

in diverse fasi del ciclo, oppure possono infestare le sementi conservate dopo la

raccolta. Tra i primi, è compresa la cimice del grano (Eurygaster maura e Aelia

rostrata), il cui attacco sulla spiga può peggiorare sensibilmente la qualità tecnologica

della granella di frumento (sl. 6/69-72). Altri insetti che attaccano la pianta sono la

mosca gialla (Opomyza florum [sl. 6/74]) che danneggia soprattutto i culmi, la lema

melanopa (Oulema melanopa [sl. 6/75]) che provoca diffuse rosure sulle foglie, gli afidi

(Sitobium avenae, S. granarum, Rhopalosiphon padi, etc. [sl. 6/76]) che causano danni

diretti ed indiretti come vettori di virus, la tignola (Ochsenheimeria bisontella [sl. 6/77])

che danneggia culmi e spighe, la cecidomia (Contarinia tritici [sl. 6/78]) che colpisce

gli organi fiorali prevenendo la normale formazione delle cariossidi, e lo zabro (Zabrus

tenebrioides [sl. 6/79]) che colpisce giovani e culmi nello stadio larvale e le cariossidi in

riempimento nella fase adulta.

Tra gli insetti delle derrate si ricordano il cappuccino (Rhizoperta dominica), il

punteruolo o calandra (Sitophilus granarius), la tignola vera del grano (Sitotroga

cerealella), il tribolio (Tribolium castaneum) e il silvano (Oryzaephilus surinamensis)

(sl. 6/81-85). Per la difesa delle derrate da questi insetti si può ricorrere a mezzi chimici

(letali per contatto e/o asfissia), biotecnici (feromoni per favorirne l’aggregazione e la

cattura) o fisici (temperature inferiori a 15 °C o atmosfera arricchita di CO2, con effetto

inibente e tossico, rispettivamente).

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Miglioramento genetico

Il miglioramento genetico del frumento tenero ha conseguito in Italia risultati non

realizzati da altre colture (eccetto il mais, ma con ibridi costituiti altrove). Grazie alla

costituzione di ‘razze elette’ prima, e di varietà migliorate poi, la resa è aumentata del

70-80% dai primi del ‘900 in poi, con una stima di 66 kg/ha · anno (sl. 7/2-3). Fino ad

allora, il frumento coltivato in Italia era rappresentato da razze locali, o ecotipi, frutto

della selezione naturale e della selezione empirica condotta per secoli dagli agricoltori.

Gli ecotipi erano popolazioni geneticamente molto eterogenee, poiché formate da un

insieme di biotipi che si differenziavano per numerosi caratteri. Di questa variabilità

genetica approfittarono i primi miglioratori genetici per selezionare all’interno delle

popolazioni i genotipi di maggiore interesse agrario per precocità, produttività,

resistenza alle ruggini e all’allettamento, etc. Mediante la selezione per linea pura

vennero così costituite le prime razze elette (sl. 7/9-12). Nazareno Strampelli intuì ben

presto che con la sola selezione entro ecotipi non era possibile ottenere ulteriori

miglioramenti, in quanto, con questa tecnica, si isolavano e moltiplicavano soltanto

individui superiori già presenti. Lo Strampelli adottò perciò su larga scala l’incrocio

intervarietale come metodo di miglioramento genetico per incrociare varietà diverse,

portatrici di caratteri utili, al fine di poter reperire nelle generazioni segreganti individui

che presentassero riuniti i caratteri favorevoli presenti separatamente nei genitori (sl.

7/13-14).

I metodi di miglioramento genetico sono quelli tipici delle specie autogame

(pedigree o genealogico [sl. 7/16]; popolazione riunita o bulk [sl. 7/17]; single seed

descent [sl. 7/18]). Un nuovo, e tutt’ora allo studio, indirizzo nel miglioramento

genetico del frumento è quello che ha per obiettivo la creazione e l’utilizzazione di

ibridi F1 per lo sfruttamento dell’eterosi, analogamente a quanto avviene in altre specie.

La riduzione della taglia della pianta è stato il principale obiettivo del

miglioramento genetico nella prima metà del ‘900, poiché, determinando una migliore

resistenza all’allettamento, ha permesso di avere colture più fitte e con maggiore

apporto di concimazione azotata (sl. 7/27). L’abbassamento della taglia non ha

sostanzialmente influito sulla quantità di sostanza secca che la coltura riesce a produrre

per unità di superficie ma, attraverso una significativa riduzione delle strutture

vegetative (internodi raccorciati, foglie più piccole ed erette ma con maggiore attività

fotosintetica), ha indotto una maggiore deposizione di sostanza secca nella granella,

determinando un incremento dell’harvest index (rapporto tra massa della granella e

massa totale della parte aerea della pianta).

La fioritura è il singolo carattere con la maggior influenza sull’adattamento di

una varietà al suo ambiente di coltivazione. In frumento, la durata della fase che precede

la spigatura è un fenomeno complesso che è determinato da tre fattori: vernalizzazione,

lunghezza del giorno (fotoperiodo) e temperature, spesso interagenti tra di loro. Il

controllo genetico dell’epoca di spigatura appare complesso, ma il carattere è di facile

determinazione ed altamente ereditabile, così che in ogni ambiente può essere

perseguita un’epoca di spigatura ‘ottimale’. Negli ambienti mediterranei la precocità di

spigatura rappresenta la fondamentale caratteristica per sfuggire alla siccità tardo-

primaverile/estiva che si verifica con frequenza in tali ambienti. Per questo motivo, la

precocità ha rappresentato un costante criterio di selezione per il frumento in Italia,

compatibilmente con la necessità di evitare che la spigatura avvenga in un periodo in cui

sono ancora possibili delle gelate tardive.

Attuali obiettivi del miglioramento genetico, oltre ovviamente all’incremento

della resa, sono l’incremento della stabilità produttiva (attraverso una migliore

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resistenza alle avversità biotiche ed abiotiche), il miglioramento dell’efficienza di

utilizzazione dell’azoto, il miglioramento della qualità tecnologica, il miglioramento

della qualità nutrizionale (compresa la riduzione delle intolleranze alimentari), le

possibili nuove utilizzazione non alimentari.

L’ideotipo è un modello di pianta da cui ci si attende che possa produrre una

maggiore quantità di granella o di altro prodotto utile quando sviluppato in una cultivar.

L’ideotipo non deve essere indipendente dall’ambiente di coltivazione per cui si sta

selezionando ma dovrebbe essere anzi ‘progettato’ in funzione di tale ambiente. Tra

varietà e ambiente di coltivazione si possono instaurare dei rapporti di interazione molto

forti (interazione genotipo × ambiente) che possono condizionare pesantemente le

prestazioni di una varietà. La risposta della varietà è condizionata dalle situazioni

pedoclimatiche di coltura o dalla gestione agronomica. La selezione per ampio

adattamento (cioè per l’adattamento a diverse condizioni pedoclimatiche e

agronomiche) può consentire economie di scala nella costituzione varietale e nelle

attività di produzione e commercializzazione del seme, e può facilitare la promozione e

raccomandazione delle varietà. Tuttavia, la maggior parte delle varietà appare

caratterizzata da adattamento specifico, cioè da risposte adattative generalmente

circoscritte in termini geografico-ambientali. La selezione per l’adattamento specifico

può permettere di massimizzare i guadagni selettivi e favorisce una maggiore

diversificazione varietale e, dunque, una maggiore biodiversità nel territorio. Il

miglioramento genetico, la raccomandazione varietale e la diffusione commerciale

devono tenere conto del possibile verificarsi di interazione tra varietà ed ambiente di

coltivazione.

La produzione mondiale di cibo è limitata principalmente dagli stress ambientali.

I principali stress abiotici sono: siccità; estremi di temperature; salinità; basso pH del

terreno; deficienze o tossicità di elementi minerali; ristagno idrico. La selezione di

varietà capaci di sfuggire o tollerare gli stress è l’innovazione tecnologica più

facilmente trasferibile agli agricoltori anche nelle aree marginali, e capace di garantire

la sostenibilità dei sistemi agricoli. La resistenza agli stress abiotici, in quanto parte

essenziale dell’adattamento ambientale, è necessariamente legata all’ambiente dato.

Tale resistenza è generalmente associata ad un adattamento specifico.

Le malattie costituiscono un fattore limitante sia per la produzione che per la

qualità della granella. Per mantenere i danni causati dalle malattie entro livelli

economicamente accettabili e con il minimo impatto ambientale occorre fare ricorso ad

una serie di interventi che consentano di eradicare o di curare la malattia se presente, o

di permettere alla coltura di sfuggire o di resistere ai patogeni. La costituzione di varietà

geneticamente resistenti rappresenta il metodo più efficace, più economico e più

‘ecologico’ di controllo delle malattie. I metodi di miglioramento per la resistenza alle

malattie non sono dissimili da quelli applicati per il miglioramento per altri caratteri,

benché in questo caso si abbia a che fare con due organismi interdipendenti. Le piante

rispondono all’attacco dei patogeni attivando geni di varia natura coinvolti nella difesa

(sl. 7/37). Il primo passo nel miglioramento genetico è quello di individuare le fonti di

resistenza disponibili. Gli ecotipi, i frumenti primitivi e i parentali selvatici hanno

rappresentato un punto di riferimento nella resistenza alle malattie, essendo popolazioni

geneticamente dinamiche, in equilibrio sia con l’ambiente che con i patogeni.

Il miglioramento genetico della qualità è un aspetto fondamentale nella

selezione varietale sia in frumento tenero che in quello duro. Tutti i costituenti chimici

della cariosside influiscono sulle caratteristiche del prodotto finito, ma la maggiore

influenza è comunque dovuta alla componente proteica (sl. 7/39-41), intesa sia in senso

quantitativo (contenuto proteico) che qualitativo (composizione chimica delle diverse

sub-unità proteiche: gliadine e glutenine) (sl. 7/42).

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Qualità

Intesa in senso globale, la qualità di una varietà di frumento comprende la qualità

merceologica (caratteristiche fisiche della granella), la qualità tecnologica (quantità,

qualità e caratteristiche delle proteine di riserva) e la qualità sanitaria (salubrità dei

prodotti alimentari derivati).

La qualità merceologica è definita da: umidità della granella; purezza fisica;

peso dei 1000 semi; peso ettolitrico; durezza del seme (hardness). Quest’ultima è una

caratteristica varietale che determina la maggiore o minore facilità di macinazione e la

granulometria dei prodotti della macinazione.

Ai fini delle qualità tecnologica ha grande importanza la forza della farina,

ovvero la capacità di trattenere all’interno di un impasto elastico e tenace il gas

carbonico che si forma per effetto della fermentazione degli zuccheri semplici che

derivano dall’idrolisi dell’amido. Queste proprietà sono conferite dal complesso

proteico esistente nell’endosperma e che va sotto il nome di glutine. Il glutine è una

sostanza colloidale, gommosa, di limitato valore nutrizionale ma di grande importanza

tecnologica, perché in presenza di acqua forma un reticolo elastico all’interno del quale

sono trattenute le bolle di anidride carbonica. Affinché il reticolo conferisca la

desiderata porosità al pane, occorre che il glutine sia abbondante e di buona qualità, cioè

sia dotato di estensibilità, elasticità, tenacità e impermeabilità ai gas. Il glutine è

costituito dall’insieme di gliadine e glutenine, che rappresentano le proteine di riserva

del seme del frumento (sl. 8/13-16). Tra le glutenine si distinguono proteine a basso

peso molecolare (LMW) e ad alto peso molecolare (HMW) (sl. 8/17). Le gliadine

conferiscono all’impasto estensibilità e viscosità (il reticolo si deforma senza rompersi,

consentendo l’aumento di volume della massa); le glutenine conferiscono elasticità e

tenacità (il reticolo mantiene la forma del prodotto durante gli stress meccanici delle

lavorazioni) (sl. 8/19). Nel frumento duro, il glutine trattiene i granuli di amido durante

la cottura della pasta, riducendo il fenomeno della collosità. Sono stati identificati

diversi geni coinvolti nell’espressione della qualità panificatoria e pastificatoria. In

frumento tenero sono coinvolti geni localizzati sui cromosomi 1A, 1B, 4A, 7B e 5D. A

tali loci sono presenti forme alleliche che controllano la sintesi di diverse sub-unità

gliadiniche o gluteniniche che determinano differenze nelle proprietà viscoelastiche del

glutine (sl. 8/18).

Una volta determinata la quantità di glutine presente (ad esempio mediante il

sistema Glutomatic), la valutazione della qualità può avvalersi di diversi metodi di

laboratorio (sl. 8/12):

i) test di sedimentazione del glutine in acido lattico (Zeleny);

ii) farinografo di Brabender (misura la resistenza meccanica offerta dal glutine

all’impasto);

iii) alveografo di Chopin (simulando la lievitazione, misura la resistenza

dell’impasto alla rottura).

Il farinografo registra la resistenza che l’impasto oppone ad una sollecitazione

meccanica costante in condizioni operative invariate. Il farinogramma che si ottiene

consente di valutare diversi indici: l’assorbimento di acqua; il tempo di sviluppo

dell’impasto; la stabilità dell’impasto; il grado di rammollimento dell’impasto (sl. 8/28).

L’assorbimento di acqua rappresenta la percentuale di acqua da aggiungere alla farina

affinché l’impasto raggiunga la giusta consistenza, avendo come riferimento la linea

arbitraria pari a 500 Unità Brabender (U.B.) sul farinogramma. Farine di qualità buona

od elevata avranno poi una stabilità (espressa in minuti) superiore a 7 o 10 minuti,

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rispettivamente, e un indice di rammollimento (in U.B.) inferiori a 50 o 30,

rispettivamente.

L’alveografo misura la resistenza che l’impasto oppone alla deformazione

provocata insufflando aria dal basso contro un disco di pasta (tenacità: P), e

l’estensibilità (L) della bolla di pasta che si forma sotto la pressione dell’aria, sino alla

rottura della bolla stessa. L’area W che si determina nel diagramma dell’alveografo

(alveogramma) per effetto della tenacità (P) ed estensibilità (L) dell’impasto permette la

classificazione della forza del glutine (sl. 8/33-36). Valori di W superiori a 250 indicano

frumenti di forza destinati alla produzione di pane e prodotti da forno con lunga

lievitazione (sl. 8/37-39).

L’amido è il maggiore costituente della cariosside di frumento. Chimicamente è

costituito da due polimeri del glucosio: l’amilosio (non ramificato) e l’amilopectina

(ramificata) (sl. 8/43). Il rapporto amilosio/amilopectina e il tipo di granulo influenzano

le caratteristiche qualitative.

Il falling number o indice di caduta (FN) misura (in secondi) il potere diastasico,

ovvero la quantità di amilasi presente nella farina (più è basso il FN più elevata è la

quantità di amilasi, e viceversa). Se eccessiva, l’attività amilasica può pregiudicare la

panificazione, in quanto determinerà la formazione di un impasto molle e appiccicoso.

Un’elevata attività amilasica è indice di farine derivate da frumento pregerminato in

campo, in cui, per effetto di un’eccessiva umidità, le cariossidi hanno già avviato i

processi che portano alla germinazione dell’embrione (sl. 8/45). Valori normali di

attività amilasica all’analisi di laboratorio sono compresi tra 220 e 280 secondi (sl. 8/46-

47).

La destinazione d’uso dei frumenti viene definita sulla base dell’Indice Sintetico

di Qualità (ISQ) che prende in considerazione il contenuto proteico, il Falling Number, i

risultati dell’alveogramma e del farinogramma, ed il test di panificazione. In funzione

della destinazione d’uso così determinata, in ambito interprofessionale è stata definita la

seguente classificazione delle varietà di frumento tenero: Frumenti di Forza (FF);

Frumenti Panificabili Superiori (FPS); Frumenti Panificabili (FP); Frumenti da Biscotti

(FB); Frumenti per Altri Usi (FAU) (sl. 8/50-52).

Il frumento duro è comunemente impiegato per la pastificazione ma può essere

utilizzato anche per la panificazione (sl. 8/53). Il processo di pastificazione comprende

varie fasi di impasto e formazione del prodotto e una fase di essiccazione, la quale

riveste particolare rilevanza nel determinare le caratteristiche qualitative della pasta.

Molti dei requisiti qualitativi e degli strumenti impiegati nella valutazione della qualità

del frumento tenero si applicano anche al frumento duro, mentre alcuni parametri

qualitativi, quali l’indice di giallo (contenuto di pigmenti carotenoidi) e la prova di

cottura della pasta, si applicano solo al frumento duro (sl. 8/55-56). Con le tecniche di

essiccazione a bassa temperatura (< 60 °C per 24-36 ore) la qualità proteica

(composizione gliadinica e gluteninica) riveste un’importanza chiave nel determinare la

buona qualità della pasta; con l’essiccazione ad alte temperature (> 80 °C per 4-7 ore;

mai oltre 100 °C) è la quantità proteica ad avere un ruolo preponderante per la qualità

della pasta. I valori del contenuto proteico, degli indici alveografici W e P/L e

dell’indice di glutine determinano l’attribuzione delle partite di frumento duro alle varie

classi di qualità sulla base dei requisiti tecnologici (sl. 8/57).

La qualità igienico-sanitaria comporta l’assenza di residui di fitofarmaci, di

metalli pesanti (es. cadmio, cromo, piombo) e di micotossine.

Le micotossine sono prodotti del metabolismo di alcuni funghi dei generi

Aspergillus, Penicillum e Fusarium. Le micotossine causano intossicazioni alimentari e

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affezioni acute e croniche agli animali (compreso l’uomo) che si nutrono di alimenti

contaminati. Le principali micotossine presenti nei cereali sono le aflatossine,

l’ocratossina A, il deossinivalenolo (DON), le tossine T-2 e HT-2, lo zearalenone e le

fumosine (sl. 8/60). Varie organizzazioni internazionali sono impegnate nella

valutazione del rischio per la salute umana ed animale derivante dall’esposizione alle

micotossine, e per ogni tipo di micotossina sono stati definiti dei valori massimi

ammissibili nei prodotti alimentari (sl. 8/63-67). I funghi del genere Fusarium sono

particolarmente coinvolti nella contaminazione del frumento con diversi tipi di

micotossine: DON, T-2, HT-2, zearalenone e fumosine B1 e B2. I fattori che

determinano la formazione delle micotossine in frumento possono essere molteplici. In

particolare, sono tutti i fattori che favoriscono l’infezione della coltura da parte del

patogeno (monosuccessione, suscettibilità varietale, stress biotici ed abiotici, eccesso di

umidità nella fase di spigatura/fioritura). Inoltre, la raccolta della granella (granella

troppo umida, danni meccanici alla granella stessa), la conservazione della granella

(umidità eccessiva, miscelazione con partite umide o infette, sbalzi termici,

infestazioni), o le preparazioni alimentari (contaminazioni di magazzino, impiego di

ingredienti contaminati, umidità del prodotto finito, scarsa sterilità del prodotto finito)

possono contribuire all’instaurarsi di infezioni.

FRUMENTO DURO

Frumento tetraploide (2n=4x=28) ad endosperma vitreo, molto proteico, probabilmente

selezionato in climi caldo-aridi. È la più importante specie di frumento in Italia per

superficie coltivata, con oltre 1 M ha. La gran parte della produzione, a cui si

aggiungono forti quote di importazione, è destinata alla preparazione di pasta (oltre 0.9

M t) (sl. 3/16). La legge n. 580 del 4.7.1967, modificata con il dpr 187/2001, vieta

infatti la fabbricazione con sfarinati di grano tenero di pasta secca destinata al consumo

nazionale.

Dal punto di vista morfologico, le principali differenze del frumento duro

rispetto al tenero sono le glume completamente carenate, le spighette praticamente

sempre aristate, le reste lunghe, poco divergenti, spesso pigmentate, il culmo pieno, e le

cariossidi allungate, più o meno appuntite, di aspetto ambraceo e a frattura vitrea.

Il clima più adatto al frumento duro è quello caldo-arido, soprattutto nella fase di

maturazione, la quale, per assicurare la migliore qualità, dovrebbe avvenire in

condizioni di limitate precipitazioni. Il suo areale di coltivazione comprende il bacino

del Mediterraneo e l’Asia minore, ma esistono importanti zone di coltivazione nelle

regioni steppiche di Russia, USA o Canada, dove però il ciclo colturale è primaverile-

estivo anziché autunno-primaverile. In Italia il frumento duro è diffuso largamente e

tradizionalmente nelle regioni meridionali ed insulari, ma negli ultimi decenni il

miglioramento genetico ha selezionato varietà che hanno consentito di estendere la

coltura anche all’Italia centro-settentrionale (sl. 3/17). Rispetto al frumento tenero, il

duro è comunque generalmente caratterizzato da minore adattabilità e produttività.

Aspetti più specifici del frumento duro che il miglioramento genetico ha

affrontato sono stati la resistenza all’allettamento (aumento dell’elasticità del culmo,

raccorciamento del culmo, diminuzione del numero di internodi, migliore struttura

dell’apparato radicale) e la resistenza al freddo (resistenza a forti abbassamenti termici

invernali sotto lo zero e alle gelate tardive primaverili). Dal punto di vista qualitativo,

uno specifico aspetto è stata la selezione per la resistenza alla bianconatura ovvero la

presenza di cariossidi che presentano settori più o meno estesi a consistenza farinosa,

anziché con endosperma completamente vitreo, con deprezzamento del prodotto. Per gli

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altri aspetti qualitativi relativi al frumento duro, si veda quanto già esposto

precedentemente nel paragrafo sulla qualità del frumento.

La tecnica colturale ricalca da vicino quella del frumento tenero. La semina può

essere eseguita con leggero anticipo rispetto a quella del tenero, per favorire

l’accestimento ed anticipare di poco la fioritura e maturazione, purché l’anticipo di

semina non esponga la varietà al rischio di gelate durante la fase riproduttiva.

In passato si seminava il frumento duro a densità molto minori a quelle del

tenero. La tendenza odierna è di impiegare quantità di seme non molto più basse di

quelle consigliate per il tenero. La densità ottimale dovrebbe essere di circa 350-400

cariossidi per m2.

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CEREALI MINORI

Comprendono specie diverse come il farro, l’orzo, la segale, il triticale e l’avena. Sono

così definiti perché la loro importanza colturale è inferiore a quella di frumento tenero e

duro. Le ragioni della loro minore diffusione sono molteplici: la grande disponibilità di

varietà di frumento per tutti gli ambienti colturali, che ne rendono conveniente la

coltura; il prezzo di vendita di queste specie generalmente più basso di quello del

frumento; le abitudini alimentari degli italiani, che da sempre favoriscono il consumo di

pane e pasta. Le attuali superfici di orzo e avena da granella (253 mila e 106 mila ha,

rispettivamente) forse rendono inappropriato il termine di ‘minore’ per queste specie,

considerato anche il loro grande impiego come erbai per l’alimentazione zootecnica.

FARRO

Farro è la denominazione generica attribuita indifferentemente a tre specie diverse del

genere Triticum, comunemente chiamate ‘frumenti vestiti’. Da alcuni anni il farro è

diventato oggetto di una forte ripresa di interesse, per un insieme di fattori legati alla

riscoperta di cibi tipici e alternativi, a provvedimenti di politica agraria volti a

diversificare gli indirizzi produttivi e al recupero di aree marginali e svantaggiate

attraverso forme di agricoltura ecocompatibili, e alla accresciuta sensibilità nei riguardi

della conservazione di specie agrarie a rischio di estinzione o di erosione genetica.

Le tre specie comprese sotto la voce ‘farro’ sono il farro piccolo (T.

monococcum), il farro medio (T. dicoccum) e il farro grande (T. spelta) (sl. 9/6). Il farro

piccolo o monococco ha culmo sottile e debole, spiga distica, aristata, compressa

lateralmente. Le spighette hanno glume consistenti, che racchiudono una, molto

raramente due, cariossidi schiacciate lateralmente, a frattura semivitrea. È il farro di più

antica origine e coltivazione. Come il farro piccolo, il farro medio presenta spiga

compatta e generalmente aristata. Le spighette contengono di norma due cariossidi,

raramente tre. La domesticazione del T. dicoccum fu molto più rapida di quella del farro

piccolo, fatto questo da collegare alla sua superiore produttività dovuta al fatto di

formare due cariossidi per spighetta invece dell’unica cariosside caratteristica del T.

monococcum. Il farro grande presenta spiga lasca, priva di reste o munita di reste

brevissime. Come nel farro medio, le spighette contengono due cariossidi, raramente

tre. È il farro di origine più recente (due millenni più tardi di farro piccolo e medio).

In Italia la coltivazione del farro può contribuire alla valorizzazione di ambienti

marginali, attraverso la tipicità e la qualità della materia prima e dei suoi derivati,

ottenuti da coltivazioni e da attività di trasformazione realizzate in quelle stesse aree. Le

più importanti aree italiane di coltivazione sono la Garfagnana e l’area a cavallo tra

l’Umbria ed il Reatino.

Il farro si adatta bene infatti alle zone marginali dove i terreni sono poco idonei

alle moderne varietà di frumento e di altri cereali a paglia, grazie alla sua rusticità, alle

modeste esigenze di fertilità e alla resistenza al freddo. Possiede inoltre caratteristiche

morfologiche e fisiologiche che ne determinano ulteriormente l’adattabilità a quegli

ambienti: (i) l’elevato accestimento che, entro certi limiti, può consentire il recupero di

una sufficiente fittezza delle colture nei casi di semine mal riuscite o di diradamenti

dovuti a freddi invernali; (ii) il ciclo tardivo che, in presenza di un clima più secco e più

caldo di quello di collina e montagna, causerebbe l’esposizione ad uno stress terminale;

(iii) la cariosside vestita, valida protezione contro avversità biotiche e possibili

alterazioni della granella causate dalla piovosità che di norma accompagna la granigione

e la maturazione negli ambienti alto-collinari. La taglia alta del farro potrebbe causare,

insieme con la tardività del ciclo e il forte accestimento, un’elevata suscettibilità

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all’allettamento, ma la scarsa fertilità degli ambienti marginali permette di contenere

questo problema.

Il farro piccolo è il meno produttivo ed è anche il tipo più tardivo nella spigatura

e maturazione (10-20 giorni in più rispetto alle comuni varietà di frumento), e ciò lo

rende inadatto agli ambienti caratterizzati da precoce innalzamento delle temperature e

da scarsità di precipitazioni. Il farro piccolo presenta interesse soprattutto sotto l’aspetto

qualitativo: le cariossidi, a frattura semi-vitrea, hanno un elevato contenuto di proteine e

di carotenoidi (sl. 9/10-11).

Il farro medio è il più importante e il più diffuso in Italia, tanto da essere spesso

considerato il farro per antonomasia. Più adattabile a condizioni ambientali difficili, è

specie tipica delle aree tradizionali di coltivazione dell’Italia centro-meridionale.

Nell’ambito di quegli areali, la coltivazione e la riproduzione in loco da lunghissimo

tempo hanno differenziato delle popolazioni autoctone (ecotipi) caratteristiche degli

areali medesimi. Ogni ecotipo costituisce un elemento di tipicità della produzione del

proprio areale di coltivazione, con riferimento al quale viene generalmente denominato.

Le particolarità caratterizzanti i tipi dei vari ambienti riguardano soprattutto l’habitus di

sviluppo e la produttività. Sono ad habitus di sviluppo nettamente autunnale i farri della

Garfagnana e del Molise, che possiedono elevate esigenze di vernalizzazione. Sono

pertanto tipi non alternativi, non adatti alla semina di fine inverno. La popolazione

umbro-reatina, viceversa, si caratterizza per un elevato grado di primaverilità (tipo

alternativo) idoneo a semine di fine inverno-inizio primavera, quali di norma sono

realizzate in certi ambienti (altopiano di Leonessa) del suo areale di coltivazione.

Il farro grande (o spelta) possiede potenzialità produttive superiori al farro

medio, che tuttavia possono esprimersi appieno solo in ambienti piuttosto favorevoli. In

situazioni pedoclimatiche difficili, lo spelta non risulta competitivo col farro medio,

anche in conseguenza del più lungo ciclo di sviluppo. Diversamente dal farro medio, lo

spelta non è presente in Italia sotto forma di popolazioni autoctone, mentre sono

disponibili numerose varietà commerciali, quasi tutte selezionate in paesi centroeuropei.

La tecnica di coltivazione dei farri è estremamente semplificata ed in certi casi

rudimentale quanto a mezzi tecnici impiegati e modalità della loro applicazione.

Limitatissimo o assente è l’uso di prodotti di sintesi, in particolare di erbicidi; anche

l’impiego di concimi è inesistente o limitato ad apporti molto ridotti di fertilizzanti

azotati. Generalmente non sono adottati regolari schemi di successione colturale. La

preparazione del letto di semina non è così accurata come quella degli altri cereali

vernini. L’attuale tendenza agronomica alla semplificazione delle lavorazioni, con un

minor numero e intensità degli interventi, presenta aspetti di grande interesse nel caso

della coltura del farro, per i vantaggi derivanti dalla riduzione del costo delle lavorazioni

e dal contenimento dell’impatto ambientale (rischi di erosione in ambienti fortemente

declivi).

La semina è di norma autunnale, salvo in ambienti ad altitudini elevate dove

viene eseguita a fine inverno per evitare i rischi connessi con le temperature molto basse

di tale stagione (vedi sopra). La semina post-invernale può cadere da fine febbraio ad

aprile inoltrato, a seconda delle condizioni locali. La quantità di seme vestito da

impiegare è molto variabile (da un minimo di 70 a un massimo di 150 kg/ha), per un

investimento non superiore a 150-200 cariossidi a metro quadrato. La semina può essere

effettuata a spaglio o con le comuni seminatrici per cereali. Riguardo alla concimazione,

di solito è sufficiente la letamazione o la fertilità lasciata da una precessione come una

leguminosa foraggera. Il farro ha infatti ridotte esigenze in fatto di elementi nutritivi.

Modesti apporti di azoto possono viceversa rendersi utili su terreni di fertilità molto

scarsa, con avvicendamenti in cui prevalgono colture sfruttanti o senza apporti di

letame. È da tener presente che questi cereali sono molto suscettibili all’allettamento.

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Essendo coltivati in zone marginali, dove si fa scarso uso di erbicidi, difficilmente si fa

ricorso a un controllo chimico delle infestanti. Tuttavia, questi cereali presentano una

rapida crescita iniziale e un elevato accestimento, risultando quindi molto competitivi

nei confronti delle infestanti.

La raccolta è più tardiva rispetto a quella del frumento e viene effettuata a partire

da metà luglio e fino a metà agosto, a seconda delle aree e del tipo di farro. Durante la

trebbiatura si deve ridurre la velocità di avanzamento della macchina e di rotazione

dell’aspo per diminuire le perdite di prodotto dovute alla rottura delle spighe. Le

produzioni sono molto variabili: da 2.8-3.0 t/ha nei terreni di pianura a 1.0-1.8 delle

zone di montagna e marginali. La granella, di elevato valore alimentare, può essere

impiegata nell’alimentazione zootecnica. Oggi viene impiegata quasi esclusivamente

nell’alimentazione umana. Nel caso dello spelta, può essere impiegata anche per la

panificazione. La coltivazione del farro può contribuire alla valorizzazione delle

produzioni in ambienti marginali: ad esempio, il Farro della Garfagnana ha ottenuto il

riconoscimento di IGP con Regolamento CE 1263/96.

ORZO

L’orzo (Hordeum vulgare) deriva dalla domesticazione della specie selvatica Hordeum

spontaneum (distico e a rachide fragile) ancora oggi presente allo stato naturale nel

vicino oriente.

È il cereale forse di più antica coltivazione e il più versatile. Grazie al suo rapido

ciclo biologico è coltivato in zone con breve stagione favorevole, fin quasi al circolo

polare artico. La sua tolleranza alla siccità ne consente altresì la coltivazione in zone

sub-desertiche (con piovosità di poco superiore a 250 mm annui). È inoltre il cereale

con la maggiore tolleranza alla salinità. La sua sensibilità alle crittogame ne limita però

la coltivazione nelle zone caldo-umide ed è infatti assente dalle fasce tropicali.

Si coltiva per la granella e anche come pianta da foraggio (da erbaio). La

granella trova largo impiego nell’alimentazione del bestiame e nell’industria della birra.

Altri impieghi secondari sono nell’alimentazione umana, per produrre alcol e per

estrarre amido.

Le forme di orzo coltivato vengono distinte in base al numero di file di cariossidi

della spiga. Se le tre spighette monoflore presenti su ogni nodo del rachide sono fertili

si hanno gli orzi polistici, in cui la spiga, vista dall’alto appare a sezione pressoché

rettangolare (tipo tetrastico) o esagonale (tipo esastico). Se invece solo la spighetta

centrale è fertile mentre le due laterali sono sterili si hanno gli orzi distici, in cui la

spiga appare a 2 file (sl. 9/20-22).

Il culmo è formato da 5-8 internodi, con un’altezza variabile da 30 a 150 cm. Le

auricole sono lunghe e tipicamente amplessicauli, mentre la ligula è allungata (sl. 2/23).

Le glumette sono molto sviluppate e aderenti strettamente alla cariosside (seme vestito):

esistono forme a seme nudo, ma sono poco diffuse. La lemma presenta una nervatura

mediana che termina in una robusta resta, mentre la palea è piccola e avvolta dalla

lemma. Le glume sono molto piccole. Il peso di 1000 semi è 45-55 g per i distici; 35-45

g per i polistici. Il peso ettolitrico è 65-75 kg per i distici; 60-70 kg per i polistici.

Rispetto al frumento, l’orzo presenta una minore resistenza alle gelate ed una

maggiore suscettibilità all’allettamento. Nel nord Italia si possono seminare varietà

alternative a fine inverno, ma la selezione ha reso disponibili varietà sufficientemente

resistenti al freddo per la semina autunnale. Nel controllo delle infestanti bisogna fare

attenzione al fatto che alcuni principi attivi usati per il frumento possono essere tossici

per l’orzo (sl. 9/31). Per contrastare l’allettamento si fa ricorso a concimazioni azotate

inferiori a quelle del frumento (in genere 80 kg/ha al massimo) e a minori densità di

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semina (circa 350 spighe/m2). Il ciclo colturale più breve di quello del frumento può

consentire la semina di un secondo raccolto (es. mais) dopo la raccolta dell’orzo (sl.

3/92).

Le principali avversità dell’orzo sono:

• Rinchosporium sp., specialmente sui distici (sl. 9/39-40)

• Ruggini (sl. 9/38)

• Oidio

• Virus del nanismo giallo (sl. 9/34-35)

• Helminthosporium gramineum

• Ustilago sp.

• Fusariosi

• Pythium

• Aspergillus

• Pyrenhophora graminea (Drechslera graminea) e Pyrenophora teres (sl. 9/36-

37)

• Afidi (sl. 9/33)

• Allettamento

• Pregerminazione (sl. 9/41)

L’orzo può essere coltivato per la granella, raccolta al 13% circa di umidità, ma

può essere anche impiegato per la produzione di insilato dell’intera pianta, con raccolta

e trinciatura a maturazione cerosa (umidità del 65-75%). La granella può essere

utilizzata per l’alimentazione umana, ma è in gran parte destinata all’alimentazione

zootecnica (85% del prodotto commercializzato), soprattutto i tipi polistici. La granella

di orzo è il concentrato energetico per uso zootecnico tipico dei paesi nordici, al punto

che è stata adottata come riferimento per misurare il contenuto di energia

metabolizzabile degli alimenti zootecnici misurato in Unità Foraggere (U.F.): 1 Unità

Foraggera (U.F.) = 1650 kcal fornite da 1 kg di granella di orzo maturo.

Un restante 12% della produzione è destinata alle malterie, soprattutto i tipi

distici. Per gli orzi da birra si preferiscono infatti varietà distiche perché di granella di

dimensioni più grandi e regolari e di più alto peso ettolitrico, oltre ad essere più povere

di sostanze proteiche (< 10%). La granella di grandi dimensioni ha la capacità di

germinare più rapidamente (in 6-7 giorni) ed è quindi maggiormente apprezzata nel

processo di maltazione. Orzi ricchi in proteina sono meno ricchi in carboidrati e creano

gravi difficoltà nella preparazione e conservazione della birra per intorbidamento dei

mosti. Gli orzi distici sono più adatti alla semina primaverile che a quella autunnale per

la scarsa resistenza al freddo. Si cerca di limitarne l’accestimento eccessivo mediante

una dose di semina maggiore, e si riducono le concimazioni azotate del 10-15%. La

raccolta deve essere particolarmente accurata per evitare danni alle cariossidi: partite di

seme con più del 5% di cariossidi rotte o lesionate non vengono accettate dalle malterie.

Oltre alle caratteristiche della cariosside (peso, dimensioni, uniformità) e al

contenuto proteico, caratteristiche importanti per la qualità di un orzo da birra sono

anche il contenuto in β-glucani (costituenti delle pareti cellulari dell’endosperma che

prevengono l’accesso degli enzimi idrolitici all’amido e, con le proteine, rallentano la

filtrazione del mosto), la viscosità – che è inversamente correlata alla filtrabilità e

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dovrebbe attenersi a valori prossimi a 1.50 cP (centipoise) e comunque inferiori a 1.60

per evitare problemi nella lavorazione della birra – , e la resa in estratto, che indica la

sostanza estraibile, e quindi utilizzabile, per la fermentazione alcolica (sl. 9/46). La resa

in birra e il grado alcolico dipendono da quanto materiale utile può essere solubilizzato

a partire dall’orzo maltato. Un buon orzo ha una resa in malto superiore al 75% (sl.

9/49).

Il processo di maltazione prevede tre fasi: l’ammollatura, la germinazione e

l’essiccazione (con due sottofasi: la tostatura leggera e la separazione delle cariossidi da

piumette e radichette emerse durante la fase di germinazione). La maltazione, mediante

l’avvio della germinazione del seme, attiva gli enzimi amilasici presenti nella

cariosside, consentendo così l’idrolisi dell’amido presente nell’endosperma in zuccheri

semplici che possono essere fermentati ad opera dei lieviti, con produzione di alcol

etilico. La produzione di birra, che segue la maltazione, si compone di quattro fasi: la

miscelazione del malto con acqua, riscaldando fino ad una temperatura che favorisca la

completa conversione in zuccheri dell’amido contenuto nel cereale; la bollitura del

‘mosto di malto’ così ottenuto con conseguente concentrazione, seguita dall’aggiunta di

luppolo; la fermentazione, provocata con aggiunta di lieviti al mosto, che causa la

formazione di alcol e anidride carbonica, ambedue prodotti dall’opera dei lieviti sugli

zuccheri; l’invecchiamento, in cui le proteine presenti vengono sedimentate oppure

digerite dagli enzimi: tale processo può durare dalle 2 alle 24 settimane. Oggi si

preferisce separare dal mosto l’anidride carbonica che si forma durante la fermentazione

per reintrodurla nella birra durante l’imbottigliamento.

TRITICALE

Il triticale (× Triticosecale) è una specie agraria realizzata dall’uomo attraverso

l’incrocio interspecifico tra il frumento (Triticum) e la segale (Secale), seguito dal

raddoppiamento cromosomico mediante colchicina che ha reso possibile l’ottenimento

di ibridi fertili (sl. 9/52-53). L’obiettivo principale dell’incrocio era quello di combinare

le caratteristiche positive del frumento (produttività, precocità, taglia bassa, contenuto

proteico) con quelle della segale (rusticità, resistenza alle malattie fogliari, resistenza al

freddo).

I primi triticali ottenuti erano ottoploidi (2n=8x=56) perché derivanti

dall’incrocio del frumento tenero esaploide con la segale diploide. Questi tipi

mostravano però un’elevata instabilità citologica, sterilità, taglia eccessivamente alta e

granella striminzita. Le varietà oggi maggiormente diffuse sono esaploidi, ottenute

dall’incrocio tra frumento duro tetraploide (genoma AABB) e segale (genoma RR).

L’embrione triploide che si ottiene dall’incrocio (n=21, ABR), viene colturato, fino ad

ottenere la plantula che viene sottoposta a trattamento con colchicina, con raddoppio del

numero cromosomico (2n=6x=42, AABBRR).

Nel mondo il triticale è coltivato su circa 3 M ha, principalmente in USA, Russia

e Polonia. In Italia è diffuso su circa 3000 ha, soprattutto in Lombardia e Piemone. È

utilizzato soprattutto per l’alimentazione zootecnica sotto forma di erbai da trinciare ed

insilare, ma anche come granella, utilizzata come ottima fonte di calorie, proteine ed

amminoacidi per l’alimentazione di animali monogastrici. È in crescente diffusione la

sua utilizzazione come insilato per la produzione di biogas. In piccola parte, all’estero, è

impiegato anche nell’industria dei distillati. Le migliori varietà da granella sono pure

idonee per uso foraggero. La produzione di biomassa può raggiungere le 10 t/ha di

sostanza secca, anche se, solitamente, è di circa 6.5 t/ha.

Il triticale è a fecondazione prevalentemente autogama. La pianta è alta,

vigorosa, con culmo flessuoso; la capacità di accestimento è relativamente bassa. La

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spiga è lunga, più slanciata di quella del frumento (sl. 9/54-55). La fertilità della

spighetta è simile a quella del frumento, con più di due fiori fertili; la spighetta

terminale è fertile, a differenza della segale. Le glume sono evidenti, grandi, come nel

frumento, ma pelose e dentellate sulla nervatura; la lemma è simile a quella della segale,

dentellata ma in misura minore, spesso aristata, con lieve peluria. Le reste hanno

portamento più o meno eretto a seconda che il triticale derivi dall’incrocio con frumento

duro (più eretto) o frumento tenero (più divergenti). Le cariossidi sono nude, grinzose

(sl. 9/54, 56), con peso ettolitrico non elevato (68-70 kg/hl), con tendenza a fuoriuscire

dalle spighette a maturità. La granella ha un contenuto in proteina (20%) ed in lisina

superiore a quella del frumento e della segale. Presenta anche un più elevato contenuto

di P, Fe, Cu, Zn e Mn.

Rispetto al frumento, il triticale mostra una maggiore resistenza al freddo e ai

terreni acidi. La resistenza al freddo è inferiore a quella della segale, ma esistono dei tipi

cosiddetti invernali, tardivi, che hanno una resistenza simile a quella della segale. I tipi

primaverili sono dotati invece di notevole precocità e sono particolarmente adatti agli

ambienti mediterranei. Il triticale ha una buona resistenza alla salinità, ed un’elevata

efficienza di utilizzazione dell’acqua che lo rende idoneo anche ad ambienti piuttosto

siccitosi. La dose di semina, simile a quella del frumento, è di 150-200 kg/ha.Le

asportazioni di N, P e K sono elevate, ma la risposta alla concimazione è scarsa. In

genere si apportano da 40 a 180 kg/ha di N e da 80 a 150 kg/ha di P2O5. Compete bene

con le infestanti e può quindi essere adatto anche all’agricoltura biologica.

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MAIS

La comparsa del mais nella storia dell’agricoltura europea coincide con la scoperta

dell’America da parte di Cristoforo Colombo, il quale, di ritorno dal suo primo viaggio,

fece cenno a questa pianta conosciuta all’interno dell’isola oggi conosciuta come Cuba,

in cui veniva chiamata ‘mahiz’. In seguito, questo cereale fu ritrovato anche in

numerose altre località del continente americano, sempre ed ovunque in posizione di

primo piano tra le produzioni vegetali di tutte le grandi civiltà pre-colombiane.

L’archeologia ha datato la presenza del mais in America fin dall’epoca preistorica, con

ritrovamenti stimati tra i 2500 e i 5200 anni a.C. In genere si tende ad indicare il

Messico come centro di origine del mais, ma non è esclusa anche l’ipotesi di diversi

centri di domesticazione della specie, che giustificherebbero una sua più vasta zona di

origine, comprendente anche alcune regioni dell’America meridionale.

Dalla sua introduzione in Spagna nel 1493, il mais si diffuse abbastanza

rapidamente in altri paesi europei come curiosità floristica, mentre l’utilizzazione

agricola iniziò dopo la conquista spagnola del Messico (dal 1519) e del Sudamerica (dal

1539), quando si importarono razze più adatte alle condizioni ambientali del vecchio

mondo. La coltura si diffuse nei Balcani e ben presto anche in Italia, ad opera dei

veneziani. Dal Veneto, ove il mais era giunto nel grande emporio di Venezia prima del

1500 ed era stato coltivato a scopo di studio da botanici e curiosi e poi per fini

economici nei campi, la coltura penetrò nel Polesine (1554), in Friuli (1580) e nel

Bergamasco (1632). È soprattutto sotto lo stimolo delle carestie (1667-68) che il mais si

diffuse in tutta la Pianura Padana. Sin dall’inizio il mais venne apprezzato per la sua

capacità di dare rese areiche superiori a quelle del frumento e perché adatto ai terreni

ricchi di sostanza organica, dove il frumento di solito allettava. Il prezzo basso della

granella e la sua alta produttività favorirono la sua diffusione nei ceti popolari. Le

innumerevoli situazioni pedoclimatiche e le distinte modalità di coltura dettero luogo ad

un complesso imponente di varietà locali, le quali sono oggi quasi completamente

scomparse dopo la rapida diffusione delle varietà ibride.

Se oggi il riso è in assoluto il cereale maggiormente impiegato per

l’alimentazione umana al mondo, e se il frumento è il cereale che occupa la superficie

maggiore, il mais è il cereale con la maggiore produzione ponderale totale, attestatasi

negli ultimi anni vicino ai 700 milioni di tonnellate, contro circa 600 milioni sia per il

frumento che per il riso. Il mais rappresenta il 22% delle superfici mondiali a cereali ed

il 32% della produzione mondiale di cereali. Oltre la metà del mais mondiale è prodotta

tra USA (circa 38%) e Cina (circa 20%) (sl. 10/5). La produzione mondiale è destinata

in gran parte all’alimentazione del bestiame (quasi i due terzi) e per meno di un quinto

all’alimentazione diretta umana (sl. 10/3). Dagli anni ‘70 si è assistito ad un

contemporaneo aumento delle rese (+40% dal 1990) e delle superfici coltivate (+12%)

(sl. 10/4). La differenza tra i due diversi aumenti è principalmente dovuta al progresso

scientifico e tecnologico di cui il mais ha beneficiato, molto più intenso rispetto a quello

di altre colture.

L’Unione Europea, nel complesso, rappresenta il terzo produttore mondiale di

mais, ma è strutturalmente deficitaria nel soddisfare i suoi fabbisogni interni. Tra i paesi

dell’Unione, l’Italia si situa al terzo posto per superfici coltivate dopo Romania e

Francia, con oltre 1.2 M ha, di cui 926 mila per la produzione di granella e 282 mila

destinati alla produzione di mais da insilato. Il 91% del mais è prodotto in

Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna. La coltura

del mais, in queste aree, contribuisce alla produzione del 70% della carne prodotta in

Italia, del 70% di latte e del 60% di uova. Nelle 15 province in cui si produce il Grana

Padano viene coltivato il 63% del mais da foraggio (insilato).

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Il mais in Italia è destinato per la gran parte all’alimentazione zootecnica (oltre

l’80%) (sl. 10/21). Tra le altre utilizzazioni, sta crescendo l’impiego per la produzione

energetica (biogas). Gli usi alimentari del mais nel nostro paese, seppur interessando

una piccola quota della produzione, rappresentano una tradizionale destinazione della

coltura e muovono un notevole giro di affari (sl. 10/22).

I punti di forza del mais in Italia sono costituiti dalla sua alta resa, dal continuo

afflusso di innovazione (soprattutto per effetto della ricerca condotta in altri paesi), dalla

forte integrazione con la zootecnia, e dalle molteplici utilizzazioni possibili. A questi si

contrappongono però delle criticità di rilievo: gli alti costi di produzione, la grande

necessità di acqua per l’irrigazione, gli alti fabbisogni di concimazioni azotate (ed i

conseguenti problemi ambientali), alcuni importanti problemi tecnici di produzione

(parassiti, micotossine, etc.). Opportunità e minacce si profilano all’orizzonte di questa

coltura in Italia. Tra le prime, l’ampliamento dell’utilizzazione energetica della

produzione, nuove destinazioni non-food (chimica, farmaceutica, etc.), o le barriere

all’importazione del prodotto GM da altri paesi. Le minacce riguardano invece la

possibile scarsità e le limitazioni nell’uso dell’acqua per l’irrigazione, la siccità

crescente dovuta ai cambiamenti climatici, la concorrenza del prodotto estero, e le

possibili limitazioni nell’apporto azotato per effetto della direttiva nitrati europea.

Botanica

Il mais appartiene alla tribù Andropogoneae e alla sottofamiglia Panicoideae delle

graminacee. Il parente più prossimo del mais è il teosinte (Euchlaena mexicana), che

vive in Messico, Guatemala e Honduras, ha lo stesso numero cromosomico del mais

(2n=2x=20) e con esso si incrocia facilmente in natura, dando delle progenie del tutto

fertili (sl. 10/27). Sebbene considerato il progenitore selvatico del mais, il teosinte

mostra alcune differenze anatomiche col primo (es. numero di ranghi per spiga, forma

del rachide, forma della cariosside, presenza di glume, capacità di accestimento, etc.)

che hanno sollevato alcune perplessità sulla derivazione diretta del mais dal teosinte, a

favore della possibile discendenza di entrambe le specie da un comune progenitore.

Il mais è una specie dotata di notevole polimorfismo, soprattutto per la forma e

le caratteristiche della cariosside. Sotto quest’ultimo aspetto, il mais coltivato può essere

suddiviso in 7 gruppi, indicati in passato anche come sottospecie o varietà botaniche (sl.

10/29-30): Z. mays indentata (mais dentato, dent corn); Z. mays indurata (mais vitreo o

plata, flint corn), Z. mays amylacea (mais da amido, soft corn), Z. mays saccharata

(mais dolce, sweet corn), Z. mays everta (pop corn), Z. mays ceratina (mais ceroso,

waxy corn), Z. mays tunicata (mais vestito, pod corn). Il tipo dentato è di gran lunga il

più coltivato nel mondo, seguito dal tipo vitreo, che viene preferito nell’alimentazione

umana e in avicoltura. Tutti gli altri gruppi hanno un’importanza molto più limitata e

trovano impiego o nell’industria alimentare (mais dolce e pop corn) o nell’industria

agro-alimentare e chimica (mais da amido e mais ceroso), o come piante ornamentali

(mais vestito).

Nel tipo dentato, la cariosside presenta una depressione alla sommità, che si

forma per il rapido essiccamento dell’amido poco compatto presente all’apice della

stessa, mentre l’amido presente ai lati è più compatto e corneo (sl. 10/36-38). Le

cariossidi sono gialle o bianche, ma talvolta possono essere colorate. L’impiego

prevalente del tipo dentato è per l’alimentazione zootecnica. Questa forma di mais è

ormai la più diffusa perché è la più produttiva, grazie alla grandi dimensioni della spiga

e all’elevato numero di cariossidi.

Il tipo vitreo presenta amido compatto all’esterno e più soffice o farinoso solo in

un piccolo nucleo interno. La cariosside è tondeggiante e più piccola di quella del tipo

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dentato (sl. 10/35, 37-38). Moltissimi mais europei di antica introduzione appartengono

a questo tipo. Rispetto agli altri tipi manifesta una maggiore conservabilità e

germinabilità.

Il mais ceroso comprende forme sviluppatesi in Cina e caratterizzate dalla

mutazione waxy, la quale induce la formazione di sola amilopectina nell’amido, invece

che di un miscuglio di amilosio e amilopectina (sl. 10/34). È largamente impiegato per

l’industria dell’amido, ed è coltivato prevalentemente in Asia orientale.

Il mais da amido contiene una percentuale molto più alta di amilosio (dal 50

all’80%) rispetto a quello degli altri tipi di mais in cui l’amido è composto per circa il

22% da amilosio e per il rimanente da amilopectina (con la citata eccezione del mais

ceroso) (sl. 10/33). Anche questo tipo viene impiegato per l’estrazione di amido, ed è

coltivato quasi esclusivamente negli ambienti sub-tropicali.

Il mais dolce differisce dal dentato solo per un gene recessivo, sugary-1, che

previene la conversione degli zuccheri solubili in amido. La ritardata conversione dello

zucchero in amido determina l’aspetto rugoso della cariosside di questo tipo (sl. 10/32).

Le spighe vengono raccolte a maturazione latteo-cerosa ed è usato soprattutto come

ortaggio, anche conservato in scatola.

Il pop corn è tra i tipi più primitivi, con piante prolifiche ed accestite, portanti

numerose piccole spighe. Ha cariossidi piccole e rostrate, con elevato contenuto di

amido compatto all’esterno e un piccolo nucleo interno friabile (sl. 10/39). Se riscaldate,

il vapore generato all’interno del seme aumenta di volume, esplode e forma la

caratteristica massa bianca.

Morfologia (sl. 10/42)

L’apparato radicale comprende delle radici seminali (normalmente in numero di

quattro), che generalmente perdono le loro funzioni dopo l’emissione della quinta-sesta

foglia. Alle radici embrionali si aggiungono quindi delle radici avventizie ipogee che si

sviluppano dai primi nodi del fusto che sono interrati, al di sotto del colletto. Queste

radici svolgono la principale azione assorbente nella pianta (sl. 10/42). Dopo l’inizio

della levata, la pianta emette delle radici avventizie epigee dai primi 2-3 nodi sopra la

superficie del terreno. Queste radici hanno funzioni di ancoraggio e anche di nutrizione

(sl. 10/41). Dal punto di vista anatomico, le radici comprendono all’estremità una

struttura in grado di penetrare nel terreno senza ledersi, definita cuffia, seguita da una

zona con accentuata divisione cellulare, una zona di allungamento cellulare, una zona

ricoperta da peli radicali con funzione di assorbimento dell’acqua e dei nutrienti, e una

zona suberizzata non più in grado di assorbire.

Il fusto (o culmo o stocco) è alto (altezza media 2-3 m, variabile da 50 cm a 6-7

m), robusto e formato da nodi ed internodi che si allungano da zone di crescita

(meristemi posti al di sopra dei nodi), a ‘telescopio’ (max 7-8 cm/giorno); all’interno si

trova un midollo spugnoso circondato da uno strato di fasci fibrovascolari.

L’accestimento dei fusti è un carattere raro e negativo.

Le foglie hanno disposizione alterna sui nodi del fusto (una per ogni nodo), sono

parallelinervie, larghe fino a 8 cm e lunghe fino a 70-80 cm e sono dotate di guaina

amplessicaule (ben visibile dalla sesta foglia, quando inizia l’allungamento del culmo).

La ligula fascia strettamente lo stocco e regola la posizione della lamina (sl. 10/45). La

lamina è lanceolata, con un’area di circa 400-500 cm2, pubescente nella pagina

superiore e glabra in quella inferiore dove è presente il maggior numero di stomi (5000-

10000 stomi per cm2). Il numero di foglie per pianta varia a seconda della precocità

varietale, che influenza il numero di nodi, con un minimo di 8-10 foglie ed un massimo

di 22-24. La superficie fogliare totale per pianta può raggiungere 1 m2.

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La pianta è monoica con fiori diclini (fiori maschili e femminili portati sulla

stessa pianta da infiorescenze separate). Il mais è specie allogama proterandra, con

fioritura maschile che precede di alcuni giorni la fioritura femminile. L’infiorescenza

maschile (detta pennacchio) è un panicolo terminale, che porta numerose spighette

contenenti gli stami, che emettono il polline (sl. 10/48-49). Il mais è, tra i cereali,

l’unica specie che possiede un’infiorescenza terminale con sole spighette maschili. Le

spighette sono in coppia a ciascun nodo, una sessile e l’altra peduncolata. Ogni

spighetta porta un fiore fertile (con 3 stami) ed un altro spesso abortito. Come detto, la

deiscenza del polline si verifica 2-3 giorni prima dell’emissione degli stimmi e

l’emissione del polline può durare per circa 13 giorni.

L’infiorescenza femminile (detta pannocchia) è una spiga ascellare, posta circa a

metà altezza della pianta, in genere al sesto-settimo nodo sotto il pennacchio (sl. 10/50-

52). Le forme maggiormente coltivate sono monospiga in ordinarie condizioni di

fittezza, anche se esistono genotipi che in condizioni di moderata competizione

manifestano una certa prolificità, portando avanti qualche altra spiga al di sotto di quella

principale, che mantiene comunque la sua dominanza. La spiga è portata da un

peduncolo fatto di internodi brevi e nodi ravvicinati; ciascun nodo porta una foglia

metamorfosata in brattea o spata. Il complesso delle brattee, che avvolgono la spiga,

forma il cartoccio, con funzione protettiva. La spiga è costituita da un asse ingrossato

detto tutolo sul quale sono inserite le spighette. Il tutolo può essere di colore bianco o

rosso, di forma cilindrica o conica più o meno tozza. Sul tutolo le spighette sono

disposte in file (ranghi) rettilinee piuttosto regolari, anche se talora sono spiralate e

meno regolari. Il numero di ranghi presenti sulla spiga varia moltissimo: nelle forme

locali di mais va da 8 a 24, nei moderni ibridi da 14 a 20. La lunghezza della spiga può

variare da meno di 10 a oltre 20 cm, il numero di fiori e di potenziali semi per rango

può andare da poche decine a 50, e una spiga può contenere da 200 a 1000 semi. Ogni

spighetta porta due fiori, di cui uno abortito. I fiori, racchiusi da glume e glumette,

hanno un ovario monospermo, con lunghissimi stili, morbidi, filiformi e ramificati (sete

o barbe). Gli stili fuoriescono scalarmente nel corso di una settimana. L’impollinazione

è anemofila con fecondazione quasi totalmente incrociata e solo l’1% circa di

autofecondazione.

Il frutto è una cariosside (frutto secco indeiscente) costituito da un embrione (12-

14%), un endosperma amilaceo (75-80%) e dagli involucri – pericarpo e perisperma –

(8-10%). L’embrione presenta notevoli analogie con quello, già descritto, del frumento.

È costituito dalla piumetta, che è protetta dal coleoptile e sulla quale sono già

differenziati gli abbozzi delle prime 4-5 foglie, dalla radichetta, protetta dalla coleoriza,

e dallo scutello, ricco di grassi. L’endosperma è costituito da uno strato aleuronico

esterno e da un parenchima amilaceo, che a sua volta è formato da una parte cornea,

ricca di sostanze azotate, e da una parte farinosa, quasi esclusivamente formata di amido

e povera di sostanze proteiche.

Nella cariosside di mais si distinguono: la corona, cioè la parte che nella spiga è

all’esterno ed opposta all’inserzione nel tutolo, due facce, di cui la superiore è volta

verso l’apice della spiga e l’inferiore è volta verso la base, e lo scutello, con l’embrione,

alla base del granello, sulla faccia superiore.

Il polimorfismo del granello di mais (colore, forma, peso) è assai accentuato. Il

colore può essere bruno, violetto, rosso, giallo, bianco; la forma rotondeggiante,

schiacciata, appuntita, etc.; il peso di 1000 cariossidi varia da meno di 100 grammi a

oltre 1200 grammi; nei tipi più comunemente coltivati 1000 cariossidi pesano 250-350 g

circa.

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La cariosside di mais è composta per circa il 72% da amido, il 10% da proteine,

il 5% da olio, il 2% da zuccheri, l’1% da ceneri e per la parte restante da acqua. Il valore

biologico delle proteine del mais (zeina) è basso per la scarsa presenza degli

amminoacidi lisina e triptofano, sebbene siano stati selezionati mais (definiti opaque-2

come descritto più avanti) con un più elevato contenuto di questi amminoacidi (sl.

10/59).

Biologia

Nel ciclo biologico del mais si distinguono tre fasi: la fase vegetativa (con

germinazione, emergenza, emissione delle radici secondarie e levata fino alla comparsa

dell’infiorescenza maschile), la fioritura (con emissione della pannocchia, l’emissione

degli stili e la fecondazione) e la maturazione (lattea, cerosa e fisiologica) (sl. 11/2-3).

In condizioni adatte di umidità e di temperatura, il seme assorbe acqua e inizia la

mobilitazione delle sostanze di riserva. Dagli involucri della cariosside fuoriesce la

radichetta embrionale, cui segue il coleoptile, all’inizio più lento nel crescere di quanto

non sia la prima. Si sviluppano poi le radici embrionali laterali, meno vigorose di quella

primaria, che con quella formano l’apparato radicale seminale. La temperatura minima

per avere germinazione e nascite accettabilmente rapide e regolari è di 12 °C. Quindi la

semina può essere fatta non appena si riscontra tale temperatura media nel terreno alla

profondità alla quale viene deposto il seme (5 cm circa). Dal coleoptile si svolge la

prima foglia, alla quale corrisponde nel terreno un primo nodo a profondità variabile

secondo le circostanze, ma sempre prossimo alla superficie.

Dopo l’emissione della quarta-quinta foglia, a circa un mese dalla semina, inizia

la levata e lo sviluppo completo della pianta, che è molto rapido se le condizioni

colturali sono favorevoli. Allo stadio di 8-10 foglie, all’interno della pianta diventa

evidente l’infiorescenza maschile (fase detta punto vegetativo; sl. 11/8) e dopo 7-8

giorni anche quella femminile. Gli internodi si allungano e in 4-6 settimane si arriva alla

fioritura, mentre vengono emesse nuove radici avventizie. La durata emergenza-

fioritura dipende dalla classe di precocità del mais: da 45-50 giorni per le varietà

precocissime a 75-80 giorni per quelle più tardive. In questo periodo aumentano le

necessità di acqua, calore e sostanze nutritive: carenze di questi fattori influiscono

negativamente sul numero di semi per spiga, sulla superficie fogliare e sulla resa.

Dopo la fecondazione, la cariosside ingrossa molto rapidamente; dopo circa tre

settimane raggiunge le dimensioni finali e si trova nella fase di maturazione lattea.

Dopo altri 25-30 giorni circa si giunge alla maturazione cerosa, e dopo tre settimane

ancora la granella raggiunge l’umidità del 30-35% ed è allo stadio di maturazione

fisiologica (strato o punto nero; sl. 11/24). Dopo la maturazione fisiologica si verifica

esclusivamente una perdita di acqua dalla granella. La fase di maturazione cerosa

(quando le cariossidi divengono consistenti, amilacee e pastose sotto le dita, e nei tipi

dentati comincia a formarsi la fossetta all’apice, mentre le brattee più esterne e le foglie

più basse cominciano ad ingiallire) segna il momento ottimale per la raccolta del mais

destinato all’insilamento. Un riferimento empirico per determinare il momento per la

raccolta dell’insilato è quello della cosiddetta linea lattea, ovvero la linea che separa la

parte apicale della cariosside che ha già raggiunto la maturazione cerosa da quella

basale ancora a maturazione latteo-cerosa. Per osservare la linea lattea si spezza la spiga

a circa 2/3 della lunghezza verso la punta e si esamina la parte distale: se la linea lattea

visibile sulla faccia delle cariossidi è circa a metà della lunghezza della cariosside (linea

lattea al 50%) si è raggiunto il momento ottimale per la trinciatura (sl. 13/58).

Le componenti della resa sono molteplici: il numero di piante utili per unità di

superficie, le dimensioni della spiga, il numero di ranghi per spiga e la lunghezza del

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rango, il numero di cariossidi per spiga, il peso, la profondità e la densità della

cariosside. Ai diversi fattori della resa corrispondono numerosi stadi critici (sl. 11/15-

23), alcuni dei quali sono molto sensibili per la resa finale, come lo stadio di 9-10 foglie

(V9-V10) e il panicolo visibile (Vt), in cui si influenzano la dimensione della spiga e la

lunghezza dei ranghi; oppure la fioritura e impollinazione (R1), la formazione della

cariosside (R2), la maturazione lattea (R3), la maturazione cerosa (R4), la formazione del

dente della cariosside (R5) e la maturazione fisiologica (R6), in cui si determinano il

numero di cariossidi, il peso di 1000 semi e il peso ettolitrico. Disponibilità di azoto e di

acqua, allettamento e parassiti (soprattutto la piralide) possono incidere negativamente

su queste fasi del ciclo, causando una riduzione delle rese.

Fisiologia

Il mais è una specie di origine tropicale, che nelle nostre latitudini può essere coltivata

soltanto nel periodo primaverile-estivo. Nelle zone di origine il mais era originariamente

una specie brevidiurna, tuttavia la selezione genetica ha portato all’ottenimento di ibridi

neutrodiurni (fotoindifferenti).

È una pianta di tipo C4, con un’elevatissima efficienza rispetto ai fattori

produttivi (energia radiante, nutrienti ed acqua) tanto da farne un insuperabile

produttore di biomassa vegetale. In condizioni non limitanti, la produzione giornaliera

di sostanza secca, nel periodo di massimo rendimento, può arrivare a 300-350 kg/ha ·

giorno, con punte massime di oltre 400 kg. A canopy chiusa (massimo sviluppo della

copertura vegetale) raggiunge un LAI di almeno 5. Può raggiungere le 20 t/ha di

sostanza secca, di cui il 50% costituita da granella, e per ottenerla assimila 40 t/ha di

CO2, consuma 4500-6000 m3/ha di acqua ed utilizza molta energia solare.

Le condizioni perché la capacità assimilatoria della copertura vegetale sia la più

grande possibile sono diverse. L’apparato radicale deve essere funzionale e ben

sviluppato. Le lavorazioni profonde e tempestive, le sistemazioni idraulico-agrarie e gli

ammendamenti, specialmente quelli organici, migliorano lo stato fisico del suolo

(struttura migliore e più stabile, minore crepacciabilità, maggiore capacità di ritenzione

idrica, etc.) e favoriscono l’espansione e l’attività delle radici che esplicano pertanto nel

migliore dei modi le loro funzioni di sostegno meccanico e di assorbimento di acqua ed

elementi nutritivi. L’apparato fogliare deve essere di appropriata ampiezza: con i tipi

più comuni di mais, la migliore copertura del terreno è quella costituita da un LAI di

almeno 4-5. Questa copertura va assicurata con un appropriato numero di piante a m2,

curando che esse siano ben distribuite nello spazio, cioè senza fallanze e senza

affollamenti sulla fila, e con file ravvicinate al massimo consentito dalle macchine per la

raccolta. Un’interessante possibilità di aumentare utilmente la superficie assimilante è

offerta da tipi di mais con foglie a portamento eretto che danno luogo ad una minore

competizione tra piante e tra foglie nei confronti della luce (sl. 11/34-35). L’apparato

assimilatore deve essere anche efficiente e longevo. La sua massima efficienza e durata

funzionale vanno assicurate con la scelta dell’ibrido appropriato, le concimazioni,

l’irrigazione e l’eliminazione delle interferenze negative di parassiti o di erbe infestanti.

Al contempo si deve disporre però anche di adeguati sink (organi di accumulo: spighe e

cariossidi). Un apparato assimilatore, pur se ben sviluppato e funzionale, sarebbe messo

in condizione di assimilare molto al di sotto delle sue possibilità se mancassero adeguati

‘magazzini’ nei quali traslocare i prodotti giornalieri della fotosintesi. La produzione di

granella è determinata soprattutto dai sintetati che gli organi assimilatori producono

dopo la fioritura (60%), mentre è minore (40%) il contributo delle sostanze di riserva

sintetizzate prima della fioritura e traslocate successivamente verso i semi.

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Da tutto questo deriva che la scelta della precocità dell’ibrido è di fondamentale

importanza. Esso deve avere infatti un ciclo che si inserisce nel migliore dei modi nel

periodo favorevole, non essendo né troppo precoce né troppo tardivo. Mais molto

precoci utilizzano incompletamente il periodo di accrescimento disponibile, maturando

troppo presto; essi vanno bene per la coltura asciutta o intercalare, ma in coltura

principale irrigata mostrano una decisa limitazione produttiva. Mais troppo tardivi

impiegano invece troppo tempo per giungere alla fioritura, per cui la fase di granigione

risulta di breve durata e per di più ritardata, così da svolgersi quando le condizioni

ambientali sono già divenute sub-ottimali per l’assimilazione. L’adozione di mais con

ciclo idoneo all’ambiente colturale comporta inoltre un minore contenuto di umidità

della granella al momento della raccolta e un più lungo tempo a disposizione per la

preparazione del terreno per la coltura successiva.

Il mais è una coltura termofila che cresce in una vasta gamma di condizioni

climatiche. In entrambi gli emisferi, la coltivazione si estende in pratica da 30° a 55° di

latitudine. Tuttavia, la gran parte delle coltivazioni si trovano nell’emisfero boreale tra i

35° e i 45° di latitudine: più a nord la coltura è limitata dalla insufficiente temperatura,

mentre più a sud il problema è costituito dalla disponibilità idrica. I principali areali di

coltivazione sono caratterizzati da elevati livelli di radiazione solare, temperature medie

comprese tra 21 e 27 °C, temperature medie notturne superiori a 15 °C, sommatoria dei

gradi giorno (Growing Degree Day, GDD) superiore a 1100 °C, ed un periodo di

almeno 130-150 giorni esente da gelate.

Il mais richiede temperature elevate per tutto il suo ciclo vitale, durante il quale

manifesta esigenze via via crescenti. Non germina e non si sviluppa (zero di

vegetazione) se le temperature sono inferiori a 10 °C. Come detto, per avere nascite non

troppo lente e aleatorie si consiglia di iniziare a seminare quando la temperatura del

terreno ha raggiunto stabilmente i 12 °C. Abbassamenti di temperatura anche solo vicini

a 0 °C (4-5 °C) possono uccidere le piante, o lasciarle irrimediabilmente stressate. Le

basse temperature, specie nella parte iniziale del ciclo, possono essere causa di carenze

nutritive che si manifestano con l’ingiallimento ed arrossamento delle foglie, sintomi di

difficoltà di assorbimento di azoto e fosforo. Il mais in fase di granigione cessa di

crescere con temperature al di sotto di 17 °C: è questa la soglia termica che segna il

termine della coltura (seconda o terza decade di settembre, in Italia).

Anche eccessi termici possono rivelarsi dannosi per la produttività del mais.

Forti riscaldamenti sono particolarmente dannosi durante la fioritura: temperature

superiori a 32-33 °C, accompagnate da bassa umidità relativa dell’aria e,

conseguentemente, anche da stress idrici per sbilancio evapotraspirativo, possono

provocare cattiva allegagione e gravi fallanze di cariossidi sulla spiga. Le conseguenze

sono frequentemente visibili come incompleta granigione delle spighe, specialmente

nella parte apicale, che è l’ultima a fiorire. Stagioni ed areali con temperature

particolarmente elevate (oltre 38 °C), associate a bassa umidità relativa dell’aria, in

corrispondenza della fioritura vanno incontro a danni gravissimi come la sterilità fiorale

e la morte del polline. Temperature superiori a 32 °C, oltre a non essere ottimali per

l’assimilazione della CO2, non sono positive in quanto aumentano la respirazione di

mantenimento e sono la causa di un maggiore consumo di sostanza organica. Così pure

le alte temperature notturne estive (temperatura minima oltre 23-25 °C), aumentando la

respirazione di mantenimento, si traducono in calo della resa complessiva. In ogni caso,

stagioni con temperature medie elevate riducono la durata del ciclo e non permettono la

realizzazione di produzioni unitarie elevate.

Le temperature ottimali della coltura sono dunque 22-23 °C alla levata, 24-25 °C

alla fioritura, 23-24 °C durante la granigione.

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Il GDD (Growing Degree Day), o somma termica, è un indicatore

particolarmente importante per il mais, in quanto rappresenta il cumulo di unità

termiche necessarie per raggiungere le varie fasi fenologiche della pianta. Esistono

diversi algoritmi per il calcolo delle unità termiche, ma la più comune formula è la

seguente:

GDD = {[ (Tmax + Tmin) / 2] – Tc}

(Tc = temperatura cardinale minima, corrispondente allo zero di vegetazione: 10 °C).

La conoscenza dei gradi giorno, oltre a stimare il raggiungimento delle diverse

fasi fenologiche, permette di individuare la più idonea classe di precocità degli ibridi in

funzione dell’epoca di semina e degli obiettivi produttivi che si intendono perseguire.

La classificazione degli ibridi viene indicata secondo un criterio internazionalmente

riconosciuto (classi FAO di precocità), basato orientativamente sulla lunghezza del

ciclo (emergenza-maturazione fisiologica). La lunghezza del ciclo di sviluppo

dell’ibrido misura i gradi di calore necessari per raggiungere, attraverso gli stadi di

sviluppo, la maturazione fisiologica. A parità di potenziale genetico, la produzione di un

ibrido è quindi strettamente legata al numero di giorni di fotosintesi attiva e alla durata

del periodo di accumulo.

Classe Precocità Ciclo in giorni GDD (somma termica)

100 ultraprecoci 76-85 fino a 1000

200 precocissimi 86-95 1000-1200

300 precoci 96-105 1200-1350

400 medio- precoci 106-115 1350-1420

500 medi 116-120 1420-1550

600 medio- tardivi 121-130 1550-1600

700 tardivi 131-140 1600-1620

Le regioni più adatte al mais (le cosiddette ‘corn belts’) sono quelle in cui le

piogge in estate sono frequenti e regolari. In Italia, solo le regioni nord-orientali hanno

una pluviometria abbastanza favorevole, che a volte può rendere non necessaria

l’irrigazione. Nel resto del paese il regime pluviometrico è spesso di tipo mediterraneo

(con piogge estive scarse e irregolari, o assenti), per cui il mais fornisce produzioni che,

senza l’ausilio dell’irrigazione, sono basse e aleatorie. Il mais è una specie sensibile alle

carenze idriche anche per brevi periodi, con danni che risultano irreversibili. Peraltro,

con l’irrigazione si può supplire alla deficienza delle piogge sotto ogni condizione

climatica, purché l’acqua necessaria sia disponibile a costi convenienti. Come detto, il

consumo idrico medio è di 4500-6000 m3/ha, ma in pianura padana raggiunge i 6000-

8000 m3/ha. In luglio, durante la fioritura, con 25-26 °C il consumo giornaliero è di 70-

80 m3/ha, mentre quello mensile è di 2000 m

3/ha.

Il mais è un ottimo esempio di adattabilità alle più varie condizioni di suolo.

Con clima favorevole e una buona tecnica colturale, tutti i terreni possono diventare

sede di un’eccellente maiscoltura, da quelli sabbiosi a quelli argillosi, da quelli sub-

acidi ai sub-alcalini (purché non si verifichino deficienze di microelementi), dalle terre

grigie, alle brune, alle rosse, alle torbose. Condizioni indispensabili perché il mais possa

dare i migliori risultati sono l’ampia disponibilità di elementi nutritivi assimilabili e una

buona aerazione della rizosfera. Il terreno ideale è quello profondo, franco, ricco di

sostanza organica, ben drenante, con buona capacità di ritenuta idrica, con pH 6.5-7.

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Non gradisce terreni poco profondi, compatti o molto limosi, umidi e freddi; è tollerante

verso quelli leggermente salini, quelli leggermente acidi (pH 6) o leggermente basici

(pH 8).

Tecnica colturale

Avvicendamento

Il mais è una coltura ‘da rinnovo’ in quanto, come conseguenza delle particolari cure

colturali che riceve (lavorazioni profonde, abbondanti concimazioni ed irrigazioni),

lascia il terreno particolarmente fertile per le colture che lo seguono. Nei sistemi

avvicendati classici veniva inserito tra prato e frumento: in tal modo il frumento si

avvantaggiava della fertilità residua delle concimazioni eseguite al mais, il quale, a sua

volta, era tra i migliori sfruttatori dei miglioramenti del terreno apportati dal prato.

Attualmente la tendenza è a coltivare mais solo dove le condizioni gli sono favorevoli

(clima con estate piovosa o sotto irrigazione), e spesso a coltivarlo in monosuccessione.

In genere, specialmente nei terreni sciolti, non si notano fenomeni di ‘stanchezza’;

tuttavia, infestazioni di malerbe resistenti ai diserbanti possono intensificarsi fino al

punto di costringere ad interrompere la monosuccessione. Le conseguenze della

monosuccessione possono infatti includere danni da costipamento del terreno, erosione

del terreno (scoperto) con le piogge autunnali, proliferazione di biotipi di infestanti

resistenti agli erbicidi (sorghetta, setaria, digitaria ed alcune dicotiledoni; sl. 12/9-10),

incremento dei parassiti specifici della coltura (piralide e diabrotica), necessità di

concimazioni minerali più elevate, e instabilità delle rese (sl. 12/11).

La soia si è rivelata un’ottima pianta da alternare al mais, in quanto gli è molto

affine per esigenze ambientali e agrotecniche (sl. 12/12). Una rotazione assai diffusa in

molte zone maidicole è quella che prevede tre anni di mais ed uno di soia.

Negli ambienti irrigui e a clima molto favorevole per il mais (es. la Val Padana),

può essere economicamente interessante il mais in seconda coltura, dopo il primo taglio

di un prato, dopo erbaio da insilato (generalmente loiessa o orzo), o dopo colture a

raccolta precoce come pisello da industria o orzo da granella (sl. 12/14). Queste

successioni sono rese possibili dalla disponibilità di mezzi rapidi per la raccolta e per la

preparazione del terreno, ma è evidente che si rende necessario l’impiego di varietà di

mais adeguatamente precoci, la cui prevalente destinazione è la produzione di insilati.

Nella piccola coltura di tipo familiare, diffusa in passato in Italia e tuttora nei

paesi in via di sviluppo, è molto frequente la consociazione con altre specie, facilitata

dal sistema di semina del mais a righe distanziate. Le piante che più spesso si trovano

consociate al mais sono leguminose da granella (fagiolo, arachide, fagiolo dall’occhio,

soia) o piante ortensi (zucche).

Scelta dell’ibrido

Fino al 1950 circa, prima della diffusione dei mais ibridi, le varietà coltivate in Italia

erano rappresentate da ecotipi, ossia da popolazioni selezionate dall’ambiente, oltre che

dagli agricoltori, e perciò caratterizzate da ottimo adattamento, ma anche da estrema

variabilità ed eterogeneità morfologica, fisiologica e produttiva, determinata dalla

struttura genetica delle popolazioni indotta dalla allogamia Una classificazione su base

agronomica distingueva le popolazioni italiane di mais nelle seguenti cinque categorie

di precocità crescente: maggenghi, agostani, agostanelli, cinquantini e quarantini.

Oggi sono iscritte al Registro Nazionale delle varietà moltissime varietà ibride

(circa 1300). La durata media della vita commerciale di un ibrido è di 5-7 anni, periodo

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di tempo nel quale una nuova generazione di materiali è resa disponibile per sostituire la

precedente.

I moderni ibridi si caratterizzano per:

- radici più sviluppate

- stocchi più resistenti

- migliore stay green (durata dell’apparato assimilatore)

- foglie erette

- maggiore tolleranza alla piralide

- più rapido raggiungimento della maturazione di raccolta (ibridi fast dry down)

Non sono variate l’altezza della pianta e quella di inserzione della spiga, l’epoca di

fioritura, il numero di foglie e il LAI.

Il primo (e spesso più difficile) criterio nella scelta dell’ibrido è quello della

giusta precocità (classe). L’ibrido scelto deve garantire un’elevata produttività ed un

elevato grado di adattamento (stabilità). Altri criteri sono la destinazione della coltura

(granella o insilato, ma anche industria molitoria per alimentazione umana o amideria),

la resistenza all’allettamento, la buona resistenza alle malattie e agli insetti più dannosi,

la buona resistenza al freddo (per consentire semine anticipate).

Secondo la classificazione FAO, gli ibridi vengono suddivisi in 9 classi di

precocità, contrassegnate con i numeri da 100 a 900 per ordine di precocità decrescente.

L’attribuzione alle varie classi va fatta con riferimento ad ibridi standard, uno per

classe, scelti opportunamente per la diversa lunghezza del loro ciclo vegetativo.

È da tener presente che la durata del ciclo in giorni ha un valore puramente

convenzionale e comparativo. Nel caso di coltura in asciutta vanno scelti ibridi

precocissimi (classi 200 e 300). Nel caso di coltura irrigua e di semina normale (coltura

principale), l’ibrido dovrà essere scelto di ciclo tale da sfruttare appieno la stagione

favorevole, raggiungendo la maturazione fisiologica quando le condizioni di

temperatura non consentono più una crescita apprezzabile. Nelle regioni italiane

climaticamente favorevoli al mais, i tipi migliori sono gli ibridi delle classi 600 e 700.

Nelle regioni centrali, i risultati migliori si ottengono con ibridi medio-precoci (classi

400-500). Nel caso di coltura intercalare vanno usati ibridi tanto più precoci quanto più

ritardata è la semina. Per le colture di mais da insilato, nelle quali interessa l’intera

massa della pianta e non solo la granella, e che vengono raccolte prima della

maturazione fisiologica (a maturazione cerosa), si possono seminare ibridi più tardivi di

quelli raccomandabili per la produzione di granella. Una classe di precocità più tardiva

darà infatti una pianta di vigore maggiore che potrà essere sfruttato nella produzione di

insilato, in cui si raccoglie l’intera pianta. La coltura non rimarrà in campo a lungo

come sarebbe nel caso di produzione di granella (fino alla maturazione di raccolta) e

questo non comporterà il rischio che la raccolta venga eseguita quando le condizioni

meteo tendono a peggiorare (autunno inoltrato).

Lavorazione del terreno

La preparazione del terreno per la semina del mais si basa su un’aratura mediamente

profonda (30-35 cm) o profonda (40-50 cm), normalmente eseguita in autunno o a fine

inverno. L’aratura consente una più facile penetrazione dell’acqua nel terreno, una

maggiore esposizione del terreno al sole e al gelo (con miglioramento della struttura), la

distruzione di eventuali suole di lavorazione, l’incorporazione di residui e fertilizzanti

organici. L’aratura profonda è utile soprattutto nel caso di terreni argillosi e di coltura

non irrigata, per assicurare la costituzione di riserve idriche nel terreno e per consentire

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un profondo sviluppo dell’apparato radicale. La lavorazione profonda viene

generalmente fatta con aratro rovesciatore, ma potrebbe essere fatta con il sistema ‘a

due strati’ (aratura-ripuntatura). All’aratura seguono lavori di affinamento delle zolle e

di controllo delle infestanti emerse (estirpature, erpicature) (sl. 12/26). Il mais non

abbisogna di un letto di semina particolarmente affinato, poiché il seme è grosso e

quindi va posto alquanto profondo.

Nel caso di mais in seconda coltura, si potrebbe operare una semina diretta,

senza nessuna lavorazione, adoperando una seminatrice specialmente attrezzata con

piccoli coltri per tagliare il terreno, ottenendo un risparmio di lavoro e un guadagno in

tempestività (sl. 12/25).

Epoca di semina

In generale è bene eseguire quanto prima possibile le semine primaverili. La scelta

dell’epoca di semina è dettata dalla temperatura del terreno. Nel caso del mais, per avere

nascite non troppo protratte e irregolari, bisogna aspettare che la temperatura del terreno

si sia stabilmente attestata su almeno 12 °C. Questo livello termico è raggiunto

mediamente in aprile: questa è, pertanto, l’epoca normale di semina nel caso di mais in

prima coltura. Fino all’inizio degli anni ‘90, nelle zone tipiche della coltivazione del

mais, sia per produrre granella che trinciato integrale, tradizionalmente erano possibili

tre epoche di semina: la prima eseguita tra il 15 e il 30 di aprile con ibridi di classe 600-

700; la seconda, tra il 10 e 20 maggio, dopo la raccolta di un erbaio autunno-vernino o

dopo il primo sfalcio di un prato avvicendato, utilizzando un ibrido di classe 400-500; la

terza, dal 20 giugno al 10 luglio dopo la raccolta della granella di un cereale vernino

(orzo o frumento) utilizzando ibridi di classe 200-300. Attualmente si dispone di ibridi

con resistenza al freddo che consentono di anticipare le semine anche alla seconda

decade di marzo, sfruttando i vantaggi di questa semina precoce. La semina anticipata,

unita al grande vigore di partenza di questi ibridi, permette un anticipo della fase di

fioritura, in modo che la pianta possa compiere il suo ciclo produttivo in un periodo

fisiologicamente più favorevole rispetto alla semina ordinaria. Con questa strategia, la

coltura raggiunge la fase critica della fioritura entro la fine del mese di giugno, con

notevoli vantaggi rispetto ad importanti fattori ambientali. In tale periodo, infartti,

l’energia radiante per il processo fotosintetico è massima, la temperatura dell’aria è più

favorevole per la fecondazione della spiga, mentre la disponibilità idrica del terreno e lo

sfasamento tra il ciclo della coltura e quello dei fitofagi (piralide) contribuiscono a

creare un ambiente più favorevole allo sviluppo della pianta. La semina anticipata

determina minori problemi durante la fecondazione causati dallo stress idrico, il quale

può accentuare la naturale proterandria della specie riducendo la quantità di polline

disponibile nel momento di massima recettività delle sete. Il clima secco accompagnato

da alte temperature può essere anche motivo di sterilità fiorale a causa della

disidratazione del polline e delle sete. Come conseguenza dell’anticipo di fioritura si ha

inoltre un incremento del periodo di accumulo di sintetati, che permette di

immagazzinare più sostanza secca nella granella e ottenere quindi una maggiore

produzione complessiva.

Quando il mais segue una coltura a raccolta precoce, assumendo il ruolo di

coltura intercalare, la temperatura del terreno è favorevole e le nascite avvengono più

velocemente (7-8 giorni). La stagione a disposizione è più corta e la scelta dell’ibrido è

fondamentale per far sì che la coltura giunga a maturazione in tempo utile. Utilizzando

ibridi a classe di maturazione opportuna, la semina può essere effettuata: nella prima-

seconda decade di maggio dopo loiessa o altro erbaio autunno-vernino; nella terza

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decade di maggio dopo orzo, frumento o triticale da insilamento; nella terza decade di

giugno dopo orzo da granella.

Si noti che, nel caso dei secondi raccolti, la produzione del mais è minore (sl.

13/67), e che, maggiore è il ritardo di semina, maggiore sarà la diminuzione di

produzione (si stima che per le semine in maggio la perdita è di circa 50 kg/ha di

granella per giorno di ritardo). Tuttavia, la produzione di biomassa totale riferita alle

due colture coltivate nell’anno è più elevata rispetto a quella del solo mais in coltura

principale, poiché viene intercettata con maggiore efficienza la radiazione

fotosinteticamente attiva (PAR) incidente nel corso dell’anno.

Densità di semina

Condizione importantissima ai fini di una buona produzione è che la fittezza sia giusta e

regolare. Il mais non corregge un basso investimento di piante a m2 con l’accestimento

o la ramificazione, come altre colture, e quindi la fittezza ottimale va perseguita in

partenza con il giusto numero di piante a m2. Con un numero di piante a m

2 inferiore

all’ottimale, la vegetazione non sviluppa un LAI sufficiente (almeno 5) a intercettare

completamente la radiazione luminosa disponibile e quindi assimila meno di quello che

potrebbe; inoltre il corrispondente basso numero di spighe a m2 limita il sink delle

piante.

Una fittezza eccessiva causa invece una riduzione della fertilità delle spighe,

fino alla totale sterilità, a causa dell’eccessivo ombreggiamento che subiscono le spighe,

situate a circa metà altezza della pianta.

Per avere l’investimento desiderato, in passato si seminava fitto sulla fila

eliminando poi con il diradamento manuale le piante nate in eccesso; oggi per evitare il

diradamento si fa la semina con seminatrici di precisione, che depositano sulla fila un

seme alla volta a distanza regolare prefissata.

La densità varia in funzione della classe e dipende dal numero di semi seminati,

dalla percentuale di germinazione e dalla percentuale di emergenza. Il numero di piante

è definitivo alla quarta-quinta foglia, ma può diminuire a causa di vari parassiti. In

genere si aumenta del 10-15% la quantità di seme alla semina rispetto a quello

necessario per ottenere la densità desiderata.

Gli ibridi più tardivi assumono maggiori dimensioni e quindi devono essere

seminati meno fitti rispetto a quelli precoci. L’investimento consigliato per una semina

in coltura principale da granella può variare da 6-6.5 piante/m2 per un ibrido di classe

700 a 8 piante/m2 per uno di classe 400, mentre per una semina di secondo raccolto può

variare da 6 per un classe 600 a 7 per un classe 400. Nel mais da trinciato si considerano

mediamente 1-2 piante/m2 in più rispetto a quello da granella (sl. 12/36), poiché una

minore dimensione delle spighe, dovuta alla fittezza ‘non ottimale’ per il loro sviluppo

regolare, è compensata dalla maggiore produzione di biomassa (granella + parti

vegetative) determinata dal più alto numero di piante a m2.

La distribuzione delle piante di mais sul terreno è fatta a file, con distanze tali da

rendere possibile l’uso delle macchine necessarie alla maiscoltura meccanizzata. In

particolare, l’impiego delle grandi macchine per la raccolta impone di lasciare tra le file

70-80 cm (più comunemente 75 cm).

Una volta stabilito il numero di semi da seminare per ogni m2 e fissata la

distanza tra le file, è facile determinare la distanza alla quale i semi dovranno essere

deposti nel terreno. Ad esempio per avere 7 semi a m2 con file a 75 cm, la distanza sulla

fila sarà: 10000/7 = 1428.6 cm2 per pianta; 1428.6/75 = 19 cm, distanza che può essere

ottenuta con le seminatrici di precisione.

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Si sta valutando la possibilità della semina a file distanti 45 cm, che

consentirebbe di ridurre la competizione tra le piante sulla fila (aumentandone la

distanza a circa 31.5 cm). La scelta comporterebbe alcuni adattamenti meccanici delle

macchine operatrici che, a breve, non sembrano facilmente attuabili.

La quantità di seme necessaria per investire un ettaro di coltura dipende dalla

fittezza di semina e dal peso medio di un seme; può variare da 15 a 24 kg/ha, anche se

tale dato ha solo carattere indicativo, in quanto i semi di mais si vendono a numero

(dosi).

La profondità di semina deve essere uniforme ed oculatamente scelta: né

eccessiva, sì da rendere difficile l’emergenza delle plantule, né troppo superficiale, da

esporre i semi in germinazione al rischio di disseccamento. In media si consigliano 4-6

cm di profondità: 4 con terreno freddo e umido, 6 con terreno asciutto. Con semine

troppo profonde si hanno ritardi di emergenza (circa 1 giorno ogni 2.5 cm di profondità)

e riduzione della durata del ciclo, oltre a rischi parassitari o danni da formazione di

croste superficiali (sl. 12/38).

I mais ibridi sono messi in commercio già conciati con prodotti fungicidi. Di

norma, alla semina si disinfesta anche il terreno dagli insetti terricoli. Insetticidi in

microgranuli vengono localizzati nelle vicinanze dei semi (dalla seminatrice) con

un’ottima protezione e con minime quantità di prodotto. Insetticidi possono essere

anche applicati direttamente sul seme mediante rivestimento dello stesso. È da

sottolineare che sono state rivolte accuse agli insetticidi della classe dei neonicotinoidi

per il possibile coinvolgimento di questi insetticidi nella sindrome del collasso della

colonia di api e che il Regolamento 485/2013/UE ha approvato restrizioni nell’uso di tre

insetticidi apparteneneti a questa classe (clotianidin, imidacloprid e tiametoxam), in

quanto identificati come dannosi per le popolazioni di api (anche se non sono stati

osservati effetti in studi di campo alle dosi realistiche di impiego). Le restrizioni

riguardano il trattamento di sementi, l’applicazione granulare nel terreno e i trattamenti

fogliari entro la fioritura su piante e cereali (ad eccezione dei cereali vernini) che

attraggono le api.

Concimazione

Il mais è una pianta che svolge il suo ciclo velocemente e le sue esigenze nutrizionali

sono considerevoli. Tuttavia, sono elevate anche le restituzioni al suolo dei

macronutrimenti assorbiti; infatti con l’interramento dei residui colturali ritornano al

suolo il 60% dell’azoto, il 56% del fosforo e l’83% del potassio. Quindi, l’effettiva

asportazione dei nutrienti sarà in funzione del tipo di destinazione della coltura (da

granella, da pastone di pannocchia o da trinciato integrale), in quanto diverse sono le

quantità di residui colturali lasciati sul campo. In pratica, il livello di concimazione

minerale dipende dalle asportazioni, dalle restituzioni organiche e dalla dotazione del

terreno. Dato che il mais è una pianta estiva, esso è in grado di utilizzare efficacemente

le riserve del suolo che vengono mineralizzate nel periodo di massima intensità di

assorbimento, periodo nel quale la temperatura e disponibilità idrica del terreno sono

particolarmente favorevoli ai processi di mineralizzazione. Il mais si avvantaggia della

concimazione organica, in quanto la mineralizzazione della sostanza organica procede

di pari passo con le esigenze nutritive del mais. La letamazione è stata perciò la

concimazione più classica del mais in passato. In quanto coltura estiva dagli elevati

fabbisogni di nutrienti come N e P, il mais si presta egregiamente alla utilizzazione

agronomica dei reflui zootecnici, riuscendo a produrre grandi quantità di alimenti per il

bestiame ed al contempo assicurare un efficiente riciclo degli effluenti zootecnici. Le

aziende che ancora dispongono del classico letame lo devono distribuire in pre-aratura

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nella quantità di 400-500 q/ha. Al giorno d’oggi sono frequenti le aziende che coltivano

il mais senza disporre di letame o di altri concimi organici, facendo ricorso a

concimazioni minerali e a concimi organici non tradizionali come i liquami.

Quando si raccoglie la granella e i residui colturali vengono interrati, gli apporti

di concimi minerali si possono limitare alle sole asportazioni senza considerare le

perdite, che vengono in pratica compensate: per l’azoto, dalla quota mineralizzata

proveniente dall’N organico che annualmente viene messa a disposizione delle piante;

per il fosforo e il potassio dalla parziale liberazione delle riserve minerali del suolo di

questi elementi causata dall’attività biologica del terreno. Per quanta riguarda l’azoto

distribuito, va inoltre ricordato che solo il 50-70% viene effettivamente assorbito dalla

coltura, aspetto che deve essere tenuto presente in fase di quantificazione della

concimazione minerale.

L’azoto rappresenta l’elemento più importante per il mais, in quanto influenza in

modo determinante la resa e il contenuto proteico. Nel periodo della fioritura, l’intensità

di assorbimento giornaliera è dell’ordine di 5 kg/ha. A maturità, i due terzi dell’azoto

totale della parte epigeica sono nella cariosside. Poiché la maggior parte

dell’assorbimento dell’azoto avviene nel periodo dall’emergenza alla fioritura, la

concimazione azotata dovrà essere effettuata nel periodo compreso tra poco prima della

semina e le prime fasi della levata. La dose di azoto da apportare è data dalla differenza

tra quantità necessaria (asportazioni + perdite) e quantità disponibile nel terreno. Fra

l’azoto fornito dal terreno va ricordato quello residuo della coltura precedente, quello

che deriva dalla mineralizzazione dell’N organico del suolo, e la quota degli eventuali

reflui utilizzati. La carenza di azoto si manifesta con foglie di colore verde-giallo e poco

vigorose. In funzione della carenza, già prima della fioritura le foglie ingialliscono e

disseccano.

Il fosforo è presente nel terreno in combinazioni organiche ed inorganiche, ma

per la pianta ne è disponibile solo una piccola parte, in quanto il mais assorbe solamente

fosfati inorganici solubili. È un elemento essenziale per la pianta, svolgendo un ruolo di

grande importanza nel trasferimento dell’energia nella fotosintesi. La carenza di fosforo

si osserva con arrossamenti delle foglie nei primi stadi di sviluppo della coltura. Tale

carenza può però essere causata anche dalle basse temperature registrate in tale fase, le

quali ostacolano l’assorbimento dei nutrienti, e in particolare quello del fosforo. Nei

terreni freddi, per limitare i danni di tale inconveniente, può essere consigliato eseguire

una concimazione fosfatica localizzata contestualmente alla semina.

Il potassio si trova nel terreno sotto forma di sali inorganici o è assorbito sul

complesso argillo-umico. Nelle piante influenza, come regolatore, tutti i processi

metabolici: assorbimento dell’azoto, divisione cellulare, attività fotosintetica, sintesi

delle proteine. Alla raccolta, la maggior parte del potassio si trova nei residui colturali:

pertanto, se si interrano i residui l’elemento ritorna nuovamente al terreno. La maggior

parte del potassio viene assorbita dalla fase di levata (quarta-quinta foglia) fino alla

fioritura. La carenza di potassio, oltre ad esaltare la respirazione, rallenta l’attività

fotosintetica e ciò comporta un indebolimento della pianta. Forti carenze rendono i

culmi meno resistenti allo stroncamento

In terreni di buona fertilità, non letamati, si può prevedere la seguente

concimazione (variabili in funzione del tipo di terreno e dell’obiettivo produttivo

prefissato): N 180-250 kg/ha, P2O5 80-120 kg/ha, K2O 50-100 kg/ha. Dosi di azoto oltre

quelle indicate non sembrano fornire risposte produttive significative (sl. 12/52-53).

La concimazione minerale con i concimi fosfo-potassici ed almeno metà della

dose di quella azotata (a base ureica) vanno interrati in occasione dei lavori preparatori

che precedono la semina. La quota restante della concimazione azotata va somministrata

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in copertura al momento della levata, con prodotti come urea o nitrato ammonico. Per

questa operazione è fondamentale utilizzare attrezzature meccaniche che distribuiscano

il concime sotto chioma, per evitare che i granuli di concime, cadendo entro l’imbuto

formato dalle foglie del mais, vi determinino ustioni, motivo che sconsiglia l’uso dello

sbrigativo spandiconcime centrifugo. Con la concimazione in copertura è consigliato

riscoprire la pratica della sarchiatura o della rincalzatura, interventi importanti per

interrare il prodotto; l’operazione è da raccomandare nei terreni calcarei, nei quali i

concimi ammoniacali tendono a volatilizzare. La concimazione in copertura può essere

comunque di esecuzione precaria, poiché la rapida crescita in altezza durante la levata

potrebbe rendere impossibile l’entrata delle macchine spandiconcime nei campi. Per

non correre il rischio di lasciare la coltura senza azoto, oggi si tende ad anticipare tutta

la concimazione alla semina, soprattutto in terreni argillosi con alto potere assorbente

degli elementi colloidali. Tuttavia, in ambienti piovosi o in coltura irrigua è

consigliabile distribuire una metà dell’N alla semina e il resto in copertura. Nei terreni

molto sciolti la concimazione andrebbe distribuita per 1/3 alla semina e 2/3 in copertura.

Diserbo

Le erbe infestanti possono causare importanti diminuzioni delle rese (dal 30 al 70%) sia

direttamente, a causa della competizione con le piante di mais per le risorse (luce,

acqua, nutrienti), che indirettamente rendendo più difficile le operazioni di raccolta. Le

infestanti possono inoltre provocare un decadimento qualitativo del prodotto, per la

maggiore predisposizione all’attacco di muffe e conseguente contaminazione da

micotossine.

Obiettivo principale del controllo delle infestanti è rendere la coltura priva di

competizione soprattutto nel periodo critico in cui essa è particolarmente sensibile a tale

competizione. Tale periodo va da circa 15 a circa 40 giorni dopo l’emergenza (fasi

fenologiche da V2-3 a V7) (sl. 13/4). Con semine anticipate, il periodo critico si allunga

di 10-20 giorni per effetto della più lenta emergenza e del minor vigore delle piantine di

mais in presenza di temperature più basse di quelle ottimali, e della possibile

competizione precoce di infestanti tipiche della stagione fredda.

Nella pianura padana, la flora infestante è composta per circa tre quarti da specie

dicotiledoni e per un quarto da graminacee. Negli ultimi decenni sono avvenuti

significativi cambiamenti nella flora infestante, come conseguenza dei cambiamenti

colturali. Tra le dicotiledoni, alcune specie appartenenti ai generi Polygonum,

Amaranthus, Chenopodium e Solanum sono oggi tra le infestanti più temibili (sl. 13/7-

13). Tra le graminacee, importanti infestanti sono il giavone (Echinochloa crus-galli), la

sorghetta (Sorghum halepense), la sanguinella (Digitaria sanguinalis), la setaria

(Setaria glauca) la gramigna (Cynodon dactylon) e il panico (Panicum

dichotomiflorum) (sl. 13/14-20).

Con l’evoluzione della tecnica colturale si è assistito ad una modificazione del

ventaglio delle specie infestanti. La monosuccessione spinta e l’uso massiccio

dell’atrazina hanno determinato l’instaurarsi di specie resistenti a questo diserbante, sia

tra le graminacee (sorghetta da rizoma, giavone) che tra le dicotiledoni annuali

(Amaranthus, Solanum, Chenopodium) o perenni (Cirsium, Convolvulus, etc.). Con il

bando dell’atrazina si è avuta la diffusione di nuove specie (Abutilon, Bidens, etc.). Il

set-aside e la minima lavorazione hanno favorito la comparsa di nuove specie infestanti,

mentre l’anticipo delle semine ha reso più temibili alcune specie infestanti tipiche della

stagione fredda (Polygonum aviculare, Fallopia convolvulus, Picris, Stachys, Anagallis,

Stellaria, Veronica).

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La tecnica di lotta alle malerbe può prevedere una gestione agronomica delle

infestanti (corretta e razionale rotazione colturale, che comporta una flora infestante

diversificata e meno competitiva; falsa semina in agricoltura biologica); una gestione

meccanica (corretta lavorazione principale del terreno, che determina un contenimento

delle infestanti perenni; buona preparazione del letto di semina; sarchiatura, di norma a

completamento del diserbo chimico; strigliatura in agricoltura biologica) e una gestione

chimica (diserbo).

Le rotazioni agrarie possono avere un’influenza enorme sulla quantità e qualità

(specie) di infestanti presenti in una coltura di mais. La monosuccessione determina un

enorme proliferare di poche specie estremamente adattate a questa condizione (sl.

13/23-24).

La lotta meccanica alle infestanti in passato era affidata alle sarchiature. Le

sarchiature meccaniche non bastano a risolvere soddisfacentemente il problema delle

infestanti, in quanto gli organi lavoranti della macchina sarchiatrice operano solo

nell’interfila. Inoltre, non sempre si riesce ad entrare nei campi per sarchiare prima che

il mais sia troppo cresciuto in altezza.

La gestione chimica delle malerbe (diserbo) comporta la necessità di valutare se

occorre effettivamente intervenire, in funzione di esperienze storiche o di una

determinata presenza di malerbe definita soglia di intervento, variabile in funzione di

ogni specie infestante. Occorre poi scegliere quale erbicida impiegare, in funzione delle

caratteristiche del terreno, delle malerbe presenti o del clima, e, soprattutto, decidere se

intervenire in pre- o post-emergenza della coltura. Erbicidi con diversa attività biologica

possono essere impiegati in funzione delle fasi fenologiche del mais e dell’epoca dei

trattamenti erbicidi. In pre-semina e pre-emergenza si impiegano erbicidi ad ampio

spettro di azione o miscele di erbicidi con spettro complementare. Non sono mirati e

non sono risolutivi, necessitando quindi quasi sempre di un trattamento in post-

emergenza. Sono inoltre poco idonei nei terreni ricchi di sostanza organica. Nuovi

principi attivi come la terbutilazina sono caratterizzati da una lunga persistenza.

In post-emergenza si impiegano erbicidi a penetrazione principalmente fogliare,

scelti in base alla flora presente, che richiedono l’aggiunta di coadiuvanti, adesivi o

bagnanti. Scelti per colpire obiettivi definiti, richiedono tempestività di intervento e

molta professionalità. Possono essere effettuati anche per completare un trattamento di

pre-emergenza non andato a buon fine.

La scelta del diserbante deve essere fatta anche in funzione delle caratteristiche

dei prodotti e delle condizioni ambientali. Si dovrebbero evitare diserbanti molto

solubili in terreni molto sciolti o in ambienti molto piovosi, e diserbanti persistenti in

terreni con elevata capacità di ritenzione ed in periodi con basse temperature.

Negli anni ‘80 il diserbo era incentrato sull’utilizzo in pre- e post-emergenza

dell’atrazina, selettiva nei confronti della coltura ed efficace sulla maggioranza delle

infestanti dicotiledoni e graminacee. Nel 1990 è stato proibito l’uso di tale principio

attivo. In pre-emergenza sono state proposte nuove triazine (terbutilazina), impiegate da

sole o in miscela con principi attivi diversi per potenziarne l’attività verso graminacee,

chenopodiacee e Solanum. In post-emergenza la sostituzione dell’atrazina fu più

complessa per la minor disponibilità di principi attivi. Negli anni ‘90 la ricerca ha

portato alla sintesi di numerose molecole che hanno permesso di sostituire l’atrazina, sia

in termini di selettività che di efficacia, tanto in pre- che post-emergenza: tra queste le

sulfoniluree che sono molto attive sia su dicotiledoni che su graminacee (sl. 13/33).

Va ricordato e sottolineato che qualunque trattamento erbicida va eseguito nello

stretto rispetto degli esistenti vincoli sanitari e ambientali, per evitare conseguenze agli

operatori e all’ambiente.

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Irrigazione

Per sostenere l’altissima produttività potenziale del mais (20 e oltre t/ha di sostanza

secca) sono richieste disponibilità d’acqua che solo in poche zone sono assicurate dalle

riserve idriche del terreno e dalle piogge nel periodo di crescita. Il mais svolge il suo

ciclo nel periodo dell’anno in cui la piovosità è al suo minimo e la domanda

evapotraspirativa è al suo massimo. Per questo, la maiscoltura in Italia, per essere

veramente intensiva, non può prescindere dall’ausilio dell'irrigazione.

L’insufficienza d’acqua provoca sempre danni al mais, danni che diventano di

gravità eccezionale quando lo stress idrico si verifica nel momento estremamente critico

della fioritura. In questa fase, l’appassimento anche temporaneo delle piante ha come

effetto il fallimento dei processi fecondativi, che si traduce nella riduzione, talora anche

totale, del numero di cariossidi per spiga. Il mais in coltura asciutta è quasi scomparso

proprio per l’instabilità delle sue produzioni legate alla aleatorietà delle piogge estive, in

particolare nel momento della fioritura.

Il mais ha un elevato fabbisogno idrico, ma in compenso è una delle colture più

efficienti nell’elaborare sostanza secca in rapporto all’acqua assorbita. La sua efficienza

di utilizzazione dell’acqua (WUE, water use efficiency) varia da circa 2 a circa 5 kg di

sostanza secca prodotta per m3 di acqua evapotraspirato. Il consumo medio giornaliero è

di circa 40 m3/ha pari a 0.6-0.7 l/pianta. Al di sotto del 40-50% della capacità di campo,

il mais riduce la sua evapotraspirazione e, quindi, la produzione di sostanza secca.

Diventa pertanto necessario intervenire con l’irrigazione. Una produzione di 12 t/ha di

granella comporta una produzione totale di biomassa di circa 24 t/ha, con una necessità

di 6000 m3/ha

di H2O pari a 600 mm. Tale quantitativo di acqua deve essere tuttavia

disponibile nei momenti critici del ciclo colturale e, conseguentemente, l’irrigazione

diventa una pratica importante per la coltura. Un programma d’irrigazione che voglia

coprire al meglio le esigenze di una coltura di mais deve prevedere che l’acqua non

manchi nel periodo che va dalla emissione del pennacchio (circa 7-10 giorni prima della

fioritura) fino almeno alla maturazione latteo-cerosa (circa 5-6 settimane dopo la

fioritura) per una stagione irrigua di 50-60 giorni, situata nei mesi centrali dell’estate

(luglio e agosto).

In generale, il livello evapotraspirativo tende a seguire lo sviluppo del LAI,

raggiungendo i massimi valori tra la piena fioritura e le prime fasi di riempimento della

granella. La fase di fioritura è caratterizzata da una straordinaria sensibilità alla

deficienza idrica e da gravissime conseguenze sulla produzione. È importante che

questa fase, che in un campo di mais dura circa una settimana, si svolga in perfette

condizioni idriche, perché uno stress che in questo momento provocasse anche un lieve

e momentaneo appassimento avrebbe come conseguenza l’infertilità di una quota

altissima di ovuli della spiga, con proporzionale perdita di produzione. Prima e dopo la

fioritura, la deficienza idrica riduce la capacità di assimilazione della coltura, ma non ha

conseguenze così drammatiche come alla fioritura.

La tendenza di questi ultimi anni ad anticipare le semine deve portare ad

abbandonare la mentalità del passato quando si era abituati ad irrigare guardando più il

calendario che lo stadio della coltura. Con la nuova tecnica, il mais si trova ad uno

stadio di sviluppo anticipato ed il periodo di maggior consumo cade a metà giugno-

inizio luglio, anziché a luglio inoltrato come con le semine tradizionali. Va comunque

rilevato che le varietà che si prestano per le semine anticipate consentono di sfruttare

meglio rispetto alle varietà ‘tradizionali’ la buona piovosità presente in genere nel

periodo tardo-primaverile. Nel caso di colture intercalari, l’irrigazione alla semina può

essere necessaria per assicurare nascite regolari.

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L’irrigazione del mais è generalmente eseguita col sistema per aspersione o con

metodi tradizionali quali lo scorrimento o l’infiltrazione laterale da solchi (sl. 13/40). È

in diffusione l’irrigazione a pioggia con pivot (sl. 13/41), mentre la ricerca sta cercando

di sviluppare tecniche di irrigazione a goccia. Quest’ultimo tipo di irrigazione

porterebbe non solo ad ottimizzare l’assorbimento dell’acqua da parte della pianta, ma

anche ad una diminuzione dei costi in termini di apporto idrico ed energetico. Restano

per ora elevati i costi di sistemazione e gestione delle manichette per l’irrigazione a

gocca, ma questa è già operativa in alcune aziende italiane.

A seconda dei sistemi di irrigazione, in genere vengono considerati i seguenti

quantitativi di acqua per ogni intervento irriguo: 10-30 mm con pivot; 30-40 mm con

irrigazione per aspersione; 60-80 mm con altri metodi (scorrimento, infiltrazione

laterale). Ogni adacquata va fatta con il massimo di razionalità per evitare sprechi,

insufficienze e inefficienze, sulla base di elementi tecnici precisi attinenti al terreno e

alla coltura, dai quali dedurre il volume di adacquamento. L’irrigazione deve essere

fatta per tempo, prima che la coltura manifesti il benché minimo segno di sofferenza,

quindi molto prima del punto di appassimento (foglie arrotolate). Il volume di

adacquamento deve essere stabilito in modo da bagnare lo strato superficiale di suolo di

70 cm circa di spessore. Il turno è l’intervallo di tempo che passa tra un’adacquata e

l’altra. Una volta stabilito il volume d’adacquamento, il turno sarà più o meno breve in

funzione della evapotraspirazione della coltura nei giorni successivi all’adacquata, per

un totale di circa 3-4 interventi al nord e 6-7 interventi al sud.

Gli elevati consumi di acqua per la coltura di mais possono essere in qualche

modo diminuiti con una oculata scelta dell’ibrido, favorendo una maggiore penetrazione

dell’acqua nel terreno, eseguendo semine precoci, diserbando accuratamente, o

riducendo la distanza tra le file. Un’azienda con ridotte disponibilità d’acqua potrebbe

limitarne il consumo abbreviando la lunghezza della stagione irrigua, riducendo il

numero (ma non il volume) degli adacquamenti, fino al limite di riservare un’unica

irrigazione alla ricarica idrica del terreno all’inizio della fase di fioritura.

Un sussidio irriguo limitato nel senso ora indicato può considerarsi una interessante

alternativa economica all’irrigazione totalitaria, che punta alle massime espressioni di

produttività del mais ma è molto onerosa. La diminuzione della produzione in termini

economici può essere compensata dal risparmio di acqua, energia e lavoro per

l’irrigazione, e dal risparmio nella concimazione e nell’essiccazione, visto che con

questo tipo di gestione le varietà consigliabili sono più precoci, più sane e di miglior

qualità (ad esempio, mais vitrei).

Altre cure colturali

Nella moderna maiscoltura intensiva, il diradamento delle plantule (manuale e molto

oneroso) è reso superfluo dalla semina di precisione.

La rincalzatura (consistente nell’addossare terra al piede delle piante di mais per

favorirne la radicazione e, soprattutto, per rendere possibile l’irrigazione col sistema per

infiltrazione laterale da solchi) è un’altra operazione colturale diffusa in passato, ma che

oggi, con altri sistemi di irrigazione, non sempre viene eseguita. Inoltre, essa può

rendere meno agevole operazioni colturali quale la trinciatura degli stocchi.

Nel caso di sarchiatura meccanica, può risultare utile, per meglio controllare le

infestanti, abbinare la rincalzatura alla sarchiatura (sarchia-rincalzatura), montando un

organo rincalzatore dietro ogni organo sarchiatore. In questo modo si riesce a

controllare, ricoprendole di terreno, le erbe infestanti presenti lungo la fila, nella striscia

di terreno non smosso dai sarchiatori.

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La sarchiatura stessa era indispensabile in passato per controllare le infestanti,

mentre un quesito oggi ancora non convenientemente risolto è quello di stabilire se si

debba sarchiare nel caso in cui il diserbo abbia sortito piena efficacia nel controllare le

malerbe. La sarchiatura consente infatti di conseguire altri benefici effetti oltre al

controllo delle infestanti, quali la riduzione dell’evaporazione e l’arieggiamento della

rizosfera, oltre all’interramento dei concimi. Nelle terre leggere e nelle colture irrigue

dove la maiscoltura è oggi prevalentemente concentrata, questi vantaggi sono poco

importanti, per cui la sarchiatura tende a non essere più praticata, essendo stata sostituita

dal diserbo quale mezzo di controllo delle erbe infestanti. Con le limitazioni all’uso di

alcuni diserbanti efficaci è prevedibile che la sarchiatura del mais dovrà essere ripresa in

considerazione come intervento ordinario, in sostituzione o a completamento del

diserbo chimico. Si tenga però presente che i campi di mais sono agibili per le macchine

finché le piante non superano i 60-70 cm di altezza. Data l’alta velocità di crescita del

mais nel periodo corrispondente a questa altezza, può capitare spesso di non riuscire ad

entrare in tempo nei campi.

Raccolta

Alla maturazione fisiologica (punto nero, stadio R6) la granella inizia la perdita

dell’umidità che è al livello del 35% circa. Normalmente questo stadio viene raggiunto

nella prima settimana di settembre, quando le condizioni climatiche non sempre

favoriscono la perdita di umidità. Per perdere 5-6 punti percentuali di umidità, in

condizioni favorevoli, occorrono 10-12 giorni. Dalla formazione del punto nero alla

raccolta (24-26% di umidità) passano circa 15-25 giorni, e ciò costituisce un rischio sia

per la produzione che per la qualità. È opportuno trovare un compromesso tra i maggiori

oneri derivanti dall’uso dell’essiccazione e la garanzia di produrre una buona qualità,

evitando anche perdite o rotture della granella per azione della mietitrebbia. Le

mietitrebbiatrici da mais sono mietitrebbiatrici munite di apposita testata

spannocchiatrice. La granella più secca si sgrana con facilità sotto l’azione degli organi

spannocchiatori e va così incontro a perdite. La granella più umida si distacca con

difficoltà dal tutolo e si spacca facilmente (un prodotto di buona qualità non deve

presentare più del 10% di semi rotti). La comune stagione di raccolta del mais da

granella va dalla seconda metà di settembre alla fine di ottobre (e oltre, se la varietà è

resistente ai marciumi del fusto).

La granella da commerciare secca deve avere non più del 14% d’umidità per

poter essere immagazzinata senza autoriscaldamento e ammuffimento, anche se

l’umidità standard commerciale è convenzionalmente del 15.5%. Quasi mai il mais è

raccolto abbastanza secco, e c’è quindi sempre bisogno di essiccarlo artificialmente in

essiccatoi ad aria calda, aziendali o consortili. Si considera che un impianto aziendale

sia economicamente giustificato solo se lavora almeno 400 t di mais secco all’anno.

L’obiettivo dell’essiccazione è di portare la granella ad una umidità non superiore al

14%, che costituisce il limite dell’attività enzimatica. Al di sotto di tale valore i

fenomeni di fermentazione e respirazione vengono ridotti al minimo o annullati.

L’ammuffimento è un inconveniente comune a tutte le granaglie ma che nel mais

assume una gravità tutta particolare perché l’agente è un fungo (Aspergillus) che

produce micotossine (aflatossine) di elevata tossicità.

Attualmente sono disponibili dei processi di ventilazione/refrigerazione,

consistenti nell’abbassare la temperatura della massa di granella al di sotto di

determinati valori (15 °C), tanto più bassi quanto più elevata è la sua umidità e più

lungo è il tempo di conservazione previsto. La conservazione mediante raffreddamento

offre i vantaggi dell’eliminazione dell’uso di antiparassitari, della riduzione della

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periodica movimentazione della massa, con minori rotture rotture della granella, e della

riduzione dell’azione dei parassiti con conseguente diminuzione delle perdite.

Uso zootecnico del mais

Diverse parti della pianta di mais si prestano per la preparazione di alimenti per la

zootecnia. La pianta intera può essere impiegata come foraggio verde o per la

preparazione di insilati; la spiga per la preparazione di pastoni integrali; la granella

umida per la preparazione di pastoni di granella; la granella secca è utilizzata tal quale o

macinata. Anche alcuni sottoprodotti di impieghi non zootecnici del mais possono

essere usati nell’alimentazione animale (es. panelli di germe o distillers).

Nella tradizione rurale, la granella secca di mais ha rappresentato il mangime

tipico dei maiali e dei polli, e solo recentemente è entrata diffusamente nelle razioni

alimentari delle vacche da latte come alimento ricco di energia ma povero in proteine.

La granella di mais, dopo macinazione, fioccatura o schiacciamento, costituisce la

componente preponderante dei concentrati per le vacche da latte. La farina di granella di

mais è un’importante fonte energetica: infatti 1 kg tal quale fornisce circa 1.15 UF,

mentre 1 kg di sostanza secca ha un contenuto del 10% di proteine, 81% di carboidrati e

4% di grassi, e per il 90% è costituito da sostanza organica digeribile, con un contenuto

molto basso di fibra. Nella proteina specifica (zeina) sono però quasi assenti due

aminoacidi fondamentali come lisina e triptofano.

Quando la coltura è in una fase di maturazione cerosa (circa 10-15 giorni in

anticipo rispetto alla raccolta della granella da essiccare, e con un’umidità del 35%) è

possibile raccogliere, macinare ed insilare la sola pannocchia (con o senza brattee)

oppure la sola granella, per ottener il pastone integrale o il pastone di granella,

rispettivamente. Questi pastoni sono alimenti molto digeribili e molto utilizzati

nell’alimentazione dei ruminanti e dei monogastrici.

La granella umida insilata è più digeribile ed appetita di quella secca, ma la sua

maggiore fermentescibilità richiede un impiego competente e prudente. Il pastone di

granella è particolarmente usato negli allevamenti suinicoli. Negli allevamenti per

bovini da latte esso deve essere inserito nella dieta giornaliera in modo bilanciato, in

quanto un suo abuso, pur aumentando la produzione di latte, può dare luogo ad un

peggioramento qualitativo (minor tasso lipidico e proteico).

Per entrambi i pastoni si raccomanda di seguire scrupolosamente tutte le

operazioni, dalla raccolta, all’insilamento (curandone la compressione e la copertura),

all’utilizzo; in caso contrario si creano le condizioni per fermentazioni anomale

(alcolica e/o butirrica) e possibili produzioni di sostanze nocive (ammine piogene e

tossine di origine batterica o fungina) che non solo possono compromettere il valore

nutritivo del prodotto, ma possono anche pregiudicare pesantemente la produttività e la

salute degli animali.

In Italia è molto diffusa la raccolta della pianta intera allo stadio di maturazione

cerosa delle cariossidi. In questo stadio il fusto è ricco di zuccheri solubili e le foglie

sono completamente verdi. La pianta viene finemente trinciata allo scopo di favorire la

fuoriuscita degli zuccheri solubili. La raccolta avviene 40-45 giorni dopo la fioritura

quando la biomassa è al 35-40% di sostanza secca e la granella al 50-60% di sostanza

secca, la lignificazione della fibra è ridotta e la dentatura della cariosside ben

pronunciata. Come già indicato, un riferimento empirico per determinare il momento

per la raccolta dell’insilato è rappresentato dalla posizione della linea lattea nella

cariosside (sl. 13/58).

Una caratteristica favorevole per l’insilamento è lo ‘stay-green’ ovvero la

tendenza a mantenere le foglie verdi e i fusti poco lignificati. Il ritardo di raccolta

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provoca una riduzione della digeribilità ed un maggiore rischio di formazione di

micotossine (le tossine ZEA, DON, T1 e T2 costituiscono una minaccia per il silomais o

il pastone di mais, mentre minore è il rischio rappresentato dalle aflatossine). Sarebbe

meglio trinciare con il 30% di sostanza secca e non aspettare il raggiungimento del

35%. Si tende a tagliare corto il trinciato per meglio compattare la trincea, ma questo

può provocare un peggioramento meccanico della fibra. La fibra più lunga aumenta la

digeribilità degli alimenti, dal momento che trattiene gli alimenti nel rumine e si oppone

al turn over veloce: la lunghezza corretta è di 0.8-2.0 cm. È utile usare anche il

rompigranella per aumentare la digeribilità (sl. 13/60). La raccolta si effettua con

macchine falcia-trincia-caricatrici. Le rese di silomais si aggirano sulle 50-60 fino a 90

t/ha di foraggio fresco, equivalenti a 16-18 fino a 27-30 t/ha di sostanza secca.

Raccogliendo la pianta a maturazione cerosa, il ciclo della coltura non è terminato e

quindi si perde parte della produttività della coltura. Queste perdite sono però

compensate dal fatto che si può utilizzare tutta la biomassa aerea della coltura. Il

numero di UF conseguibili con il silomais è molto più elevato di quelle conseguibili con

la sola granella. L’energia del silomais non deriva solo dall’amido, dagli zuccheri e

dalle pectine (carboidrati non strutturali), ma anche dai carboidrati strutturali (cellulosa,

emicellulose) che costituiscono la fibra totale (NDF). Un insilato di mais di ottima

qualità presenta le seguenti caratteristiche (per kg di sostanza secca): 7.9% di proteine,

35.6% di amido, 72% di sostanza organica digeribile, 42% di NDF, 23% di ADF e pH

inferiore a 4.

I vantaggi dell’utilizzazione del trinciato integrale sono: l’elevata concentrazione

energetica per unità di sostanza secca; la buona appetibilità; la costanza del valore

alimentare; la facile conservazione; il facile inserimento nelle razioni (50% della dieta

per le vacche da latte, 100% per i bovini da carne); il basso costo dell’unità foraggera.

L’uso medio di silomais è generalmente da 18 a 25 kg/capo.

Non sempre gli ibridi da granella più produttivi sono idonei per il silomais. Sono

indicati ibridi di taglia alta, con buona resistenza alle malattie, buon diametro dello

stocco e foglie larghe. La classe di precocità deve essere scelta in funzione dell’epoca di

semina (sl. 13/66); i più produttivi sono gli ibridi tardivi (classe 600-700) dotati di

elevate rese in granella. Come già indicato, l’investimento ottimale è con 1-2 piante in

più rispetto alla coltura da granella. Anche la concimazione deve prevedere 40-50 kg/ha

di N in più rispetto alla coltura da granella (sl. 13/68). Va ricordato però che la

concimazione azotata favorisce la produzione, ma l’eccesso può essere dannoso per gli

animali per l’accumulo di nitrati nel trinciato.

Il trinciato viene compresso in sili a trincea per favorire l’allontanamento

dell’aria e favorire i processi di fermentazione anaerobica. La fermentazione ideale è

operata dai batteri lattici che portano ad un abbassamento del pH fino a valori di circa

4.0. A quel punto la fermentazione si ferma e il prodotto finale può essere conservato

per parecchi mesi (sl. 13/70-71). È opportuno che i processi di fermentazione

avvengano in breve tempo. Quando il mais viene trinciato, i tessuti vegetali continuano

a respirare, quindi ci sono delle perdite di zuccheri. Anche la fermentazione comporta

perdite di una quota di energia contenuta nel foraggio. Per questi motivi, è necessario

creare un ambiente asfittico tramite la compressione del trinciato e la sua copertura con

dei teli di plastica opportunamente caricati con sabbia o altro, con un peso omogeneo di

circa 100 kg/m2. Dalla fase di insilamento all’utilizzo nella razione alimentare del

prodotto conservato devono trascorrere almeno due mesi.

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Miglioramento genetico

Per secoli, e fino almeno al 1930, il miglioramento genetico del mais è stato condotto

con il metodo della selezione massale, da sempre praticata sotto forma di scelta delle

spighe migliori per la semina. Uno spettacolare salto di qualità nel miglioramento

genetico del mais fu realizzato con l’introduzione del concetto di ibrido. L’era dei mais

ibridi cominciò nel 1909 con la contemporanea e indipendente pubblicazione dei lavori

di Shull e East, genetisti americani, che dettarono i principi generali della costituzione

degli ibridi di mais: 1) Le piante di una popolazione naturale di mais sono ibridi

complessi di genealogia ignota: nulla è possibile dedurre sul loro genotipo in base al

fenotipo. 2) Queste piante sottoposte forzatamente ad autofecondazione ripetuta tendono

allo stato omozigote, per cui durante questo processo, detto di inbreeding, caratteri

recessivi prima nascosti compaiono e possono essere eliminati con la selezione. 3)

Durante l’inbreeding le discendenze perdono progressivamente vigore e produttività,

ma tendono ad uniformarsi, costituendo linee inbred (impropriamente dette anche linee

pure) praticamente omozigoti. 4) L'incrocio di due linee inbred opportunamente scelte

dà luogo a spettacolari manifestazioni del fenomeno dell’eterosi: la generazione ibrida

(F1) è costituita da individui eterozigoti, vigorosissimi e tutti uguali. L’eterosi è il

maggior vigore vegetativo e riproduttivo (lussureggiamento) degli ibridi rispetto ai

parentali (sl. 14/3).

Le linee inbred si ottengono dopo 5-10 anni di autofecondazione di individui

scelti inizialmente entro una popolazione (ecotipo, varietà sintetica, ibrido da

migliorare). L’autofecondazione si effettua ogni anno a mano, coprendo con buste di

carta l’infiorescenza femminile prima della sua antesi, per poi impollinarla, sempre a

mano, col polline raccolto sul pennacchio della stessa pianta (sl. 14/4). È evidente che

ad ogni generazione la combinazione genetica dell’ibrido va ricostituita e che il seme va

rinnovato ogni anno. Un ibrido viene definito a formula aperta o a formula chiusa a

seconda che le linee inbred di partenza vengano dichiarate o tenute segrete. Gli ibridi

possono essere a due vie, a tre vie, o a quattro vie, a seconda del numero di linee inbred

coinvolte. Gli ibridi semplici, o a due vie, risultano costosi per i seguenti motivi: a) il

rapporto di 1:1 tra piante impollinanti e piante portaseme, che porta a raccogliere seme

ibrido solo sulla metà della superficie coltivata; b) la bassissima produttività delle piante

portaseme le quali, essendo inbred, sono estremamente deboli. Questo alto costo di

produzione degli ibridi semplici ne ha limitato e ne limita tuttora l’impiego, anche se si

è riusciti ad abbassarne il prezzo ricorrendo alla tecnica delle ‘sister lines’, ossia di

portaseme ottenute dall’incrocio tra due linee geneticamente molto affini (e, quindi, più

vigorose di una vera linea inbred), e con l’inserimento di più efficienti fattori di

resistenza alle avversità ambientali e parassitarie. Per abbassare il costo della semente,

senza rinunciare ai vantaggi degli ibridi, si è ricorsi agli ibridi doppi, o a quattro vie, i

quali risultano dall’ibridazione di due diversi incroci semplici (sl. 14/7). Si deve cioè

disporre di quattro linee inbred (es. A, B, C e D) che abbiano tra loro una buona

attitudine combinatoria semplice. Esse vengono combinate a due a due, a costituire due

ibridi semplici (A×B) e (C×D). La produzione dell’ibrido doppio si fa seminando

l’ibrido impollinante e quello portaseme in un rapporto di 1:3, dato che le piante

impollinanti sono ibride e hanno un’abbondante produzione di polline. Il costo di

produzione degli ibridi doppi è così inferiore a quello degli ibridi semplici, perché il

seme ibrido viene raccolto sui 3/4 della superficie coltivata e su piante portaseme che,

essendo ibride, danno un’alta resa. Gli ibridi doppi sono meno uniformi e vigorosi di

quelli semplici, ma avendo una più larga base genetica dimostrano una maggiore

capacità di adattarsi alle diverse condizioni ambientali. Una via di mezzo tra gli ibridi

semplici e quelli doppi è rappresentata dagli ibridi a tre vie: [(A×B)×C]. Le

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caratteristiche di plasticità adattativa e il costo degli ibridi a tre vie sono intermedi tra

quelli degli ibridi a due e a quattro vie.

La produzione di granella è stato ed è l’obiettivo principale di ogni programma

di miglioramento genetico. Il carattere dipende tuttavia da molti altri caratteri

morfologici, fisiologici e di adattamento. Per la produzione di granella è importante sia

la potenzialità di assimilazione (source) che quella di immagazzinamento (sink). Il sink

è stato potenziato con successo selezionando soprattutto per caratteri morfologici come

la lunghezza e il numero dei ranghi della spiga e la lunghezza delle cariossidi. Ulteriori

progressi potrebbero forse essere ottenuti anche con piante potenzialmente polispiga,

anziché monospiga come le attuali. Oggi c’è l’orientamento ad innalzare il limite della

produttività cercando di selezionare altri caratteri legati all’attività di assimilazione

(source). Il portamento eretto delle lamine fogliari, ad esempio, riduce la competizione

per la luce, perché le foglie superiori ombreggiano di meno quelle inferiori rispetto alle

foglie con portamento reclinato. In questo modo si può aumentare utilmente

l’estensione dell’apparato fogliare mediante l’aumento della fittezza di allevamento (sl.

14/9, 11). Anche la selezione di ibridi stay green, che mantengono più lungo funzionale

l’apparato fogliare, aumenta l’efficienza dell’apparato assimilatore. Allo stesso scopo

agiscono anche le maggiori resistenze ad avversità biotiche e abiotiche (sl. 14/11).

La giusta precocità è un’altra caratteristica di adattamento ai fini della

produttività. La lunghezza del suo ciclo, ed in particolare dei sottoperiodi nei quali il

ciclo può essere diviso, è infatti determinante per la produttività di un mais. Dal

momento che la lunghezza del periodo fioritura-maturazione è piuttosto invariabile, è

conveniente che il mais raggiunga precocemente la fioritura per evitare che le

condizioni climatiche estive più avverse non coincidano con questa fase critica del

ciclo. Alla fine della fase di riempimento della granella, è necessaria una rapida

essiccazione di questa dopo la maturazione fisiologica. I nuovi ibridi a rapida

maturazione (fast dry down) soddisfano quest’ultima condizione.

Altro carattere importante è la resistenza al freddo, per fornire ibridi capaci di

germinare o di resistere senza danno a temperature relativamente basse, utili per

consentire di anticipare di qualche giorno la semina e quindi di allungare la stagione di

crescita.

Tra le avversità biotiche, la resistenza alle malattie fogliari (di cui la più temibile

in Italia è l’elminosporiosi), ai marciumi e, soprattutto, alla piralide sono fondamentali

obiettivi del miglioramento genetico (sl. 14/11).

Il miglioramento genetico punta anche a migliorare la qualità delle proteine

endospermiche (zeina), modificandone la composizione amminoacidica. La zeina

contiene poca lisina, e ciò ne rende basso il valore biologico per gli animali

monogastrici. Sono stati scoperti dei geni capaci di modificare in senso favorevole la

sintesi proteica nell’endosperma, inducendo una maggior quota di lisina. Il mutante più

considerato è stato, come già ricordato, l’opaque-2 (O2). Purtroppo ci sono ostacoli alla

diffusione dei mais opaque, quali la bassa produttività, l’elevata umidità alla raccolta, e

la suscettibilità della spiga alle malattie e delle cariossidi ad essere lesionate durante la

raccolta.

Il mais è stato recentemente oggetto di un intenso lavoro di miglioramento con le

tecniche dell’ingegneria genetica, che si è tradotto nella realizzazione di ibridi GM.

Attualmente due sono i caratteri ingegnerizzati e commercializzati: la resistenza alla

piralide e la resistenza al glifosate. Nel primo caso, la resistenza del mais al fitofago è

stata realizzata introducendo nel genoma del mais un gene (Bt) del Bacillus

thuringensis, parassita delle larve di piralide. Con questo inserimento, il mais GM

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produce nei suoi tessuti la tossina batterica che uccide le larve che lo attaccano. Nel

secondo caso, l’ingegneria genetica ha inserito nel genoma del mais un gene che

detossifica il diserbante totale (a base di glifosate o di glufosinate). Si è così ottenuto un

mais GM sul quale il diserbante è assolutamente innocuo, mentre è letale per qualsiasi

pianta infestante.

Uso non zootecnico del mais

Nel mondo, circa il 30% della produzione di mais è destinata all’alimentazione umana,

a trasformazione nell’industria agro-alimentare o ad altri usi industriali. Il giro di affari

del mais per usi non zootecnici in Italia supera i 500 M di euro annui (sl. 15/3). Il mais

per uso non zootecnico è destinato soprattutto alle industrie della fermentazione e

distillazione (per la preparazione di whisky, alcol o birra), alle industrie della

macinazione ad umido (per la preparazione di amido, olio, sciroppo di gluosio,

destrosio, etc.) e ai molini per la macinazione a secco (per la preparazione di farine) (sl.

15/4).

Lo scopo della macinazione umida è la produzione di amido puro e di vari

prodotti derivati dall’amido estratto. Il processo si basa sull’impiego dell’acqua calda

(per 30-36 ore, a temperatura inferiore a 50 °C), integrata da processi chimici o

enzimatici per convertire l’amido in sciroppi e zucchero. I sottoprodotti che ne derivano

sono i germi usati per estrarre olio o, unitamente ai pericarpi (crusca), per

l’alimentazione degli animali. L’amido è usato tal quale dopo essiccazione (amido

nativo) o modificato con trattamenti chimici, fisici o enzimatici per ottenere i suoi

derivati usati come dolcificanti, fonti di zuccheri fermentescibili, etc.

L’olio di mais è molto apprezzato per l’alto contenuto in acidi grassi insaturi

(oltre l’80%) e l’alto contenuto in sostanze antiossidanti (tocoferoli). Il glutine di mais,

che rimane come residuo dopo la macinazione umida, e il panello di germe, che rimane

dopo l’estrazione dell’olio, sono utilizzati nell’industria mangimistica per il loro alto

contenuto proteico.

Con la macinazione a secco, la granella viene macinata e sottoposta a tre

operazioni di setacciatura, dalle quali si ricavano: la bramata o semolino, che è il

prodotto più grossolano, usato per preparare prodotti per la prima colazione a base di

cereali (corn flakes), per mezzo di cottura, rullatura e tostatura; il fioretto o farina di

media finezza, cucinato in acqua bollente per preparare la polenta; il fumetto o farina

fine, che è usata per fare frittelle, pane di mais, vari altri prodotti da forno (dolci e

biscotti) o per l’industria della birra o del whisky in sostituzione del malto.

Negli ultimi anni si sta assistendo ad una rapida espansione dell’impiego del

mais come fonte di energia alternativa, sia per la produzione di energia convertibile

(combustibili) che per la combustione diretta (della granella o dei residui). I

combustibili ottenibili sono l’etanolo (per fermentazione degli zuccheri derivanti

dall’amido contenuto nella granella; in futuro anche dagli stocchi, ricchi di cellulosa,

con lo sviluppo dei cosiddetti ‘biocarburanti di seconda generazione’) (sl. 15/15) ed il

metano (per fermentazione anaerobica delle biomasse fornite dalla pianta intera).

Per la combustione diretta si possono utilizzare i residui (stocchi, foglie, tutoli,

brattee) utilizzati tal quali, o imballati, o addensati in pellet o bricchette di diverse

dimensioni; la granella, in sostituzione di pellet legnosi, in caldaie di piccole

dimensioni; o i prodotti della lavorazione della granella (es. farine, amido) quali

ingredienti o additivi dei pellet.

Come biomassa, il mais raccolto a maturazione cerosa è competitivo nei

confronti di altre colture dedicate di specie erbacee annuali (kenaf, sorgo da fibra),

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specie erbacee perenni (canna comune, cardo, etc.) o specie arboree a breve rotazione

(pioppo, salice, robinia).

Avversità

Meteoriche: estremi di temperature, siccità, ristagno idrico, vento, grandine.

Parassiti animali ipogei: elateridi (ferretti), agrotidi (nottue), miriapodi, maggiolino,

grillotalpa (sl. 15/22).

Parassiti animali epigei: piralide, diabrotica, nottua delle graminacee, tripidi, sesamia,

crambide (sl. 15/22).

Parassiti vegetali: carbone, elmintosporiosi, fusariosi, marciumi dello stocco.

La piralide (Ostrinia nubilalis) è un lepidottero le cui larve, scavando il culmo

dall’interno, ne facilitano lo stroncamento (sl. 15/23). Il danno produttivo causato da un

attacco di piralide può raggiungere anche il 30%, a cui si aggiungono i danni qualitativi

determinati dallo sviluppo di muffe sulle spighe danneggiate e conseguente produzione

di micotossine. Le spighe sono attaccate soprattutto dalla seconda generazione

dell’insetto, la quale depone le uova sulle spighe stesse, mentre la prima generazione,

originata dalle larve svernanti nei residui colturali, ovidepone sulla pagine inferiore

delle foglie prima dell’emissione del pennacchio (sl. 15/24). Il livello di suscettibilità

cresce con lo sviluppo della pianta e con la conseguente diminuzione nelle foglie del

glucoside dimboa (a partire dagli stadi V7-9). Questo glucoside, a contatto con la saliva

delle larve di piralide, si idrolizza risultando tossico per le larve stesse. Tra i mezzi di

lotta si segnalano la trinciatura e l’interramento degli stocchi entro la prima decade di

aprile per contrastare la prima generazione e i trattamenti bioinsetticidi a base di

Bacillus thuringensis, o chimici (sl. 15/28, 30). È molto importante l’epoca dei

trattamenti, da eseguire dopo la schiusa delle uova e prima della penetrazione delle larve

di seconda generazione nella pianta, di solito dopo una settimana dallo sfarfallamento

(all’incirca agli inizi di luglio), monitorato con apposite trappole per gli adulti (sl.

15/27). Alcuni tecnici consigliano, empiricamente, di eseguire il trattamento insetticida

quando le sete della spiga virano dal colore verde al marrone. I prodotti insetticidi

utilizzabili contro la piralide appartengono a diverse classi (piretroidi, Insect growth

regulators, piretroidi + organofosforati, ossadiozine) con diversificati meccanismi di

azione (sl. 15/29). I trattamenti contro la piralide possono essere effettuati solo con

apposite macchine semoventi munite di ‘trampoli’ per poter lavorare al di sopra della

chioma del mais ormai alla sua massima altezza (sl. 15/31).

La diabrotica (Diabrotica virgifera virgifera) rappresenta attualmente la più

grave minaccia per la maiscoltura del nord Italia (sl. 15/32-33). Di origine

nordamericana, dove rappresenta una delle più importanti avversità del mais, in pochi

anni è diventato un serio problema per diversi paesi europei. È comparsa in Italia nel

1999, e nel 2002 ha raggiunto la Lombardia (sl. 15/35-36). La diabrotica sverna come

uovo deposto nel terreno, ad una profondità di circa 15 cm, nei mesi di luglio-agosto. La

profondità è influenzata dalla tessitura del terreno, diventando più superficiale nei

terreni pesanti. Le larve sono rinvenute nel nord Italia a partire dal mese di maggio, con

un picco attorno a metà giugno, anche se la schiusa può protrarsi fino ad inizio luglio. I

primi danni si manifestano a giugno ma diventano evidenti soltanto verso la prima

decade di luglio. La temperatura ottimale per lo sviluppo delle larve è di circa 22 °C: a

questa temperatura lo stadio larvale dura circa 30 giorni. La percentuale di

sopravvivenza è favorita dall’umidità del terreno e dalla presenza di piante ospiti. Le

larve mature si localizzano vicino alla superficie del terreno dove si impupano. La

durata dello stadio pupale è di 1-2 giorni a 22 °C. Negli areali della Pianura Padana gli

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adulti volano da giugno sino a ottobre. Il picco degli adulti si ha tra la fine di giugno e

la prima decade di luglio, in corrispondenza della fioritura del mais. Gli adulti sono

maggiormente attivi ad una temperatura compresa tra 23 e 27 °C; mentre nelle ore più

calde, quando la temperatura supera i 30 °C, si aggregano sulle porzioni della pianta

meno esposte al sole, protetti dalle brattee della spiga o dalle guaine fogliari. La durata

della vita degli adulti è influenzata da fattori quali fotoperiodo e disponibilità

alimentare: studi di laboratorio hanno indicato una durata variabile da 50 giorni a circa

tre mesi. Entro una settimana dallo sfarfallamento si hanno i primi accoppiamenti, che

proseguiranno per l’intero periodo di vita degli adulti; sia i maschi che le femmine

possono accoppiarsi più volte nella loro vita. La fecondità delle femmine dipende

principalmente da temperatura, fotoperiodo e disponibilità di alimento; mediamente

vengono deposte 400 uova, anche se il loro numero può variare da circa 100 a 1000.

Grazie all’azione del vento, o sfruttando diversi vettori tra cui l’uomo, gli adulti

possono spostarsi anche di 25-40 km l’anno. Le femmine depongono le uova in piccoli

gruppi e completano la deposizione in circa 20 giorni, prediligendo terreni umidi e

sciolti. Viene effettuata una sola generazione annua (sl. 15/37-39). I danni sono causati

sia dalle larve che dagli adulti, anche se sono le prime a causare la maggiori perdite di

resa. Nutrendosi a carico dell’apparato radicale, esse causano, in relazione alla gravità

dell’attacco, l’allettamento della pianta e la diminuzione della capacità di assobimento

dell’acqua e degli elementi nutritivi, con conseguente calo di produzione. Le piante

allettate tendono a risollevarsi dal suolo assumendo una tipica conformazione che viene

definita ‘a collo d’oca’ (sl. 15/33, 39). Le piante colpite possono essere estratte dal

terreno con facilità. L’entità dei danni dipende dal numero di larve presenti, dal tipo di

terreno, dalle condizioni ambientali, dalle pratiche agronomiche ed irrigue, dalla

tipologia di ibrido e dalle condizioni della pianta. I cali di resa aumentano se l’attacco

delle larve coincide con uno stress per la pianta causato, ad esempio, da siccità. Gli

adulti sono polifagi e i danni causati al mais sono in genere limitati; essi si nutrono delle

foglie e delle sete dell’infiorescenza femminile. In seguito, nelle fasi di maturazione

lattea e cerosa, si nutrono a spese delle cariossidi, senza però provocare danni ingenti.

L’azione esercitata sugli stimmi fiorali può causare però aborti fiorali, interferendo

negativamente con l’allegagione (sl. 15/40-41).

La diabrotica si può combattere con accorgimenti di tipo agronomico, oltre che

chimico. La lotta agronomica, di tipo preventivo, è fondamentale per evitare gravi

infestazioni. L’insetto causa danni economici esclusivamente al mais in

monosuccessione, che determina la formazione di popolazioni larvali consistenti,

mentre l’avvicendamento con altre specie causa la morte delle larve nel terreno, le quali

non trovano piante su cui alimentarsi. In genere le semine precoci sono da preferirsi

poiché consentono alla pianta di giungere con le radici maggiormente sviluppate al

periodo di massima comparsa dell’insetto. Un apparato radicale vigoroso permette una

migliore resistenza all’allettamento anche in presenza del danno subito da parte delle

larve. Inoltre, le piante che hanno completato la fioritura risultano meno attrattive nei

confronti della diabrotica. Le semine tardive (da maggio in avanti) coincidono invece

con la schiusa delle uova e con la comparsa delle popolazioni larvali quando le radici

sono ancora deboli e poco sviluppate.

La scelta dell’ibrido deve ricadere su varietà con apparato radicale

particolarmente vigoroso e con una buona resistenza all’allettamento. Le operazioni

colturali devono creare le condizioni migliori per la crescita della pianta, in quanto un

mais vigoroso, in ottime condizioni di rifornimento idrico e nutrizionale è in grado di

meglio contrastare un attacco di diabrotica. Le lavorazioni pre-semina devono mirare a

favorire lo sgrondo delle acque in eccesso nel terreno, in quanto i terreni umidi sono

preferiti dalle femmine per la deposizione delle uova. La rincalzatura favorisce la

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formazione di radici avventizie e quindi migliora la stabilità della pianta. L’andamento

climatico influenza fortemente le popolazioni dell’insetto. In particolare, primavere

piovose favoriscono il mantenimento di popolazioni elevate di uova e larve; al

contrario, inverni e primavere miti e siccitose causano un’elevata mortalità delle uova.

Gli elateridi (gen. Agriotes) sono dannosi per il mais durante il loro stadio

larvale (ferretti; sl. 15/45). I ferretti sono frequenti nel terreno dopo prato o medicaio.

Le larve completano lo sviluppo dopo numerose mute (più di 8) superando anche due

inverni. Le larve, ma anche gli adulti, prima attaccano i semi in germinazione,

successivamente la parte interrata della pianta e poi l’intera pianta. Striature gialle sulle

foglie di piante in accrescimento sono un sintomo specifico del parassita. Le piante

adulte attaccate da elateridi presentano fusti esili, altezza ridotta e spighe atrofizzate (sl.

15/46). La lotta viene eseguita con la concia del seme o con geoinsetticidi.

Le nottue (gen. Agrotis) provocano danni per erosioni sia sulle foglie che al

colletto e sugli organi sotterranei (sl. 15/48). La lotta viene eseguita con trattamenti

insetticidi a base di deltametrina, nel tardo pomeriggio o alla sera.

Afidi (Rhopalosiphon maidis, R. padi) e cicaline (Metopolophium dirhodum,

Laodelphax striatellus, Peregrinum maidis) attaccano l’apparato aereo del mais (sl.

15/49). Oltre a determinare un danno diretto a seguito dell’attività trofica, essi possono

essere vettori di virus quali il mosaico del mais (Maize Mosaic Virus, MMV), o il

nanismo ruvido del mais (Maize Rough Dwarf Virus, MRDV) e causare quindi

consistenti perdite produttive e qualitative (sl. 15/50). La lotta si esegue con la concia

del seme o con trattamenti insetticidi.

Principali malattie fungine

• Carbone (Ustilago maydis; sl. 15/54)

• Marciume del seme e delle plantule (Pythium spp., Helmintosporium spp.; sl.

15/55)

• Elmintosporiosi (Helmintosporium turcicum, H. maydis; sl. 15/56)

• Peronospora (Sclerospora macrospora; sl. 15/57)

• Marciume dello stocco (Fusarium graminearum; sl. 15/58)

• Fusariosi della spiga (Fusarium verticillioides; sl. 15/59)

• Marciumi da Aspergillus flavus

• Marciumi delle spighe e delle cariossidi (Fusarium spp., Gibberella spp.)

Il carbone causa la formazione di galle su varie parti della pianta, ma soprattutto

sulla spiga. Le galle sono bianche, ma dopo circa 20 giorni si trasformano in una massa

nera polverulenta. La malattia è favorita da un andamento climatico caldo-asciutto.

Il marciume del seme e delle plantule, causato da funghi dei generi Pythium ed

Helmintosporium presenti nel terreno o sul seme, è spesso causa di morte della pianta.

L’infezione prende avvio sulle parti della pianta a contatto con il terreno, causando

imbrunimenti e successivi fenomeni di marcescenza. La gravità della malattia è

influenzata dalle caratteristiche del terreno (cattivo drenaggio, eccessiva compattezza,

bassa temperatura ed eccessivo contenuto idrico).

L’elmintosporiosi è una malattia fogliare che causa disseccamenti con

conseguente indebolimento della pianta. La malattia è favorita da condizioni di umidità

molto alta. La specie H. maydis comprende due razze: la razza ‘O’ e la razza ‘T’.

Quest’ultima è la più pericolosa, attaccando le foglie, le guaine ed il culmo, e

determinando il marciume del tutolo. Questi patogeni vengono controllati mediante la

concia del seme.

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La peronospora, o cima pazza, causa alterazioni in varie parti della pianta. La

più caratteristica è quella a carico del pennacchio, che si trasforma in una massa di

strutture fogliari. L’infezione è favorita da condizioni di sommersione delle giovani

piantine (fino allo stadio di 4-5 foglie). Altri sintomi comprendono abbondanti

accestimenti, arricciamenti e arrotolamenti delle foglie superiori, foglie strette e

nastriformi e piante più piccole.

Il marciume dello stocco provoca sintomi tipici come il rammollimento del

culmo, soprattutto nella parte basale, e la sua disgregazione. La malattia causa

indebolimento della pianta, fino alla morte nei casi più gravi, allettamenti e stroncature

del culmo, spighe ridotte, cariossidi piccole e striminzite e ammuffimenti sulla spiga.

La fusariosi della spiga causa marciumi all’apice o su piccoli gruppi di cariossidi

in altre parti della spiga. Le spore del patogeno sono trasportate dal vento e l’infezione

può avvenire attraverso le sete o attraverso ferite da grandine o da insetti, oltre che da

seme infetto (sl. 15/60-61).

I marciumi dello stocco, della spiga e delle cariossidi possono essere causati da

diverse specie dei generi Fusarium e Gibberella (Fusarium graminearum, Gibberella

zeae, F. verticilloides, G. fujikuroi, etc.; sl. 15/62-63), le quali sono responsabili della

produzione di numerose micotossine. F. culmorum e F. graminearum producono

tricoteceni (DON) e zearalenone; F. sporotrichiodes produce le tossine T2 e HT2; F.

verticilliodes e F. proliferatum producono fumosine.

Anche Aspergillus flavus e A. parasiticus possono provocare marciumi, che si

manifestano con una muffa verde sulle cariossidi (sl. 15/65-66), e sono responsabili

della produzione di aflatossine, la cui produzione può continuare anche in post-raccolta

(si possono sviluppare anche in magazzino, con umidità della granella superiore al

15%). L’infezione avviene attraverso le sete o le ferite delle cariossidi, specialmente

quando l’umidità della granella scende sotto il 28%: per questo bisogna evitare danni

meccanici alla granella durante la trebbiatura in caso di raccolta ritardata.

Marciumi della spiga e delle cariossidi possono essere causati anche da funghi

del genere Penicillium (sl. 15/67). I marciumi delle cariossidi si possono sviluppare

soprattutto in magazzino se il seme è stato danneggiato. I funghi del genere Penicillium

sono responsabili della produzione di ocratossine.

In sintesi, i funghi del genere Aspergillus prediligono un clima caldo, in quanto

molto termofili (tollerano fino a 42 °C) e resistenti al secco, e sono tipici del post-

raccolta. I funghi del genere Penicillum prediligono invece ambienti freschi ed umidi, e

sono anch’essi tipici del post-raccolta. Le specie del genere Fusarium preferiscono

temperature fresche ed elevati livelli di umidità e sono tipiche delle condizioni di

campo.

Le micotossine sono sostanze naturali, prodotte da funghi microscopici, in grado

di causare effetti tossici, acuti o cronici, sugli animali e sull’uomo. I funghi tossigeni

sono dei Deuteromiceti e tra essi le specie più pericolose sono comprese nei generi

Aspergillus, Fusarium e Penicillium, oltre ad Alternaria e Claviceps (sl. 15/75-76).

Essendo sostanze stabili, le micotossine si accumulano nell’organismo e causano

tossicità una volta raggiunto un certo livello nei tessuti.

La loro pericolosità è elevata perché esse provocano gravi danni a diversi organi

del corpo e riescono ad agire a basse concentrazioni. Diverse micotossine sono

implicate nell’insorgenza di malattie nell’uomo (compreso un effetto cancerogeno). Il

meccanismo d’azione si esplica a livello degli acidi nucleici, inibendo la sintesi del

DNA o alterando la trascrizione e la traduzione dell’informazione genetica e la sintesi

proteica. Nei bovini da latte, suini e pollame, le micotossine provocano danni al fegato o

in altri organi, riducendo l’efficienza della crescita, la conversione del mangime in

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carne, il livello di fertilità, la resistenza alle malattie, l’efficacia delle vaccinazioni, etc.

Alcune passano attraverso l’apparato digerente e si possono ritrovare, variamente

modificate, negli alimenti di origine animale. Non esistono metodi efficaci per

eliminarle dai prodotti contaminati e permangono anche dopo che è stato eliminato

l’organismo causale. Micotossine possono essere presenti anche in prodotti su cui la

muffa non è visibile.

La produzione di micotossine è condizionata da fattori ambientali, tra cui i più

importanti sono umidità e temperatura. I funghi tossigeni sono diffusi in modo quasi

ubiquitario nei nostri ambienti, sono dotati di grande capacità saprofitaria e vivono e si

riproducono a spese di tutti i tipi di sostanza organica. Le micotossine si possono

sviluppare sia nelle piante infette in campo, sia nelle derrate immagazzinate. In campo

si possono sviluppare soprattutto quando le piante sono soggette a stress e su

ibridi/varietà suscettibili.

La tecnica colturale può influire sullo sviluppo dei funghi tossigeni. Nella fase di

raccolta ed essiccazione, i danni meccanici al seme e i tempi lunghi di riduzione

dell’umidità possono favorire lo sviluppo dei funghi. In fase di conservazione, con

presenza di superfici di condensazione e nuclei di riscaldamento si può avere un

ulteriore sviluppo dei funghi e delle micotossine.

Alcune micotossine sono labili al calore e il rischio di assunzione nell’uomo si

riduce per effetto della cottura degli alimenti, mentre il rischio è rilevante nella

formulazione dei mangimi per l’allevamento del bestiame, utilizzati senza trattamenti

termici. La completa sanità è considerata oggi la base per ogni prodotto destinato

all’alimentazione. I limiti di contaminazione tollerati divengono sempre più restrittivi,

sia perché la tecnica permette di evidenziare quantitativi sempre più bassi di

contaminanti, sia perché sono sempre più numerose le sostanze che vengono studiate e

che risultano dannose (sl. 15/78-79).

Le micotossine sono un problema di filiera. Punto chiave della strategia di

contenimento dello sviluppo di patogeni tossigeni è la gestione integrata

dell’agrotecnica, dal momento che sullo sviluppo delle malattie fungine incide

largamente l’andamento climatico, ma risultano fattori determinati anche le pratiche

colturali e di post-raccolta, le scelte varietali e la protezione fungicida.

Tra gli accorgimento agronomici per il controllo delle contaminazioni dei cereali

da micotossine in fase di pre-raccolta si ricordano: i) la vocazionalità dell’ambiente; ii)

gli avvicendamenti e la gestione dei residui colturali; iii) la scelta varietale; iv) le

tecniche colturali più appropriate (in termini di epoca e densità di semina, concimazione

ed irrigazione, trattamenti fitosanitari ed epoca di raccolta). In fase di raccolta e post-

raccolta, la tempestività della raccolta stessa, la pulizia e integrità della granella (sl.

15/93) e la sua rapida essiccazione sono di fondamentale importanza per il controllo

delle contaminazioni.

Per limitare lo sviluppo di malattie nel mais, si può agire in modo preventivo

attraverso la scelta degli ibridi e delle tecniche colturali (avvicendamento; sfibramento e

interramento dei residui colturali con l’aratura), o in modo curativo applicando

agrofarmaci ad azione specifica contro i patogeni (sl. 15/89-90). Una corretta scelta del

seme è alla base della prevenzione delle malattie, così come una buona semina. Il

diserbo e la concimazione possono svolgere un ruolo importante nel controllo delle

malattie, perché piante vigorose sono in grado di affrontare meglio gli attacchi dei

patogeni. La concia del seme garantisce buona protezione delle plantule da insetti e

patogeni presenti nel seme e nel terreno (sl. 15/97).

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SORGO Il sorgo (Sorghum bicolor) è una graminacea originaria di zone tropicali, a ciclo

fotosintetico C4 come il mais, brevidiurna e macroterma (con ciclo primaverile-estivo).

È stata una delle prime piante ad essere coltivata, e si ritiene che le forme attuali

abbiano avuto la loro origine nelle aree tropicali dell’Africa centro-orientale (Sudan,

Etiopia) diverse migliaia di anni fa. Dall’Africa il sorgo si è esteso in tutto il mondo:

anticamente in Asia e in Europa, più recentemente in America e in Australia. È il quarto

cereale per importanza nell’economia agricola mondiale, dopo frumento, riso e mais,

rappresentando il 6% della superficie globale a cereali, e il 3% della loro produzione.

Insieme con il miglio e il panico, il sorgo rappresenta il cereale dei paesi più caldi e

siccitosi e, in genere, più poveri. Oltre l’80% della superficie, e il 50% della produzione

mondiale, è localizzata in paesi in via di sviluppo, in particolare in Asia e Africa (sl.

16/3), dove la granella viene utilizzata quasi esclusivamente nell’alimentazione umana e

nella preparazione di bevande alcoliche. Le rese sono molto basse, dell’ordine di 0.5-1

t/ha, sia per la primitiva tecnica colturale, sia per le condizioni ambientali avverse. Nelle

agricolture dei paesi occidentali, la granella viene invece destinata all’alimentazione

animale, in concorrenza con quella di mais, di cui ha analogo valore nutritivo. Negli

USA, inoltre, una parte viene destinata alla trasformazione industriale in amido,

zuccheri, sciroppo, alcol etilico, olio, etc. Nell’Unione Europea si coltivano oltre 100

mila ha per una produzione di circa 600 mila t, prevalentemente in Francia (45% della

produzione EU), Italia, Svezia, Spagna e Germania. La superficie coltivata in Italia è di

35000-40000 ha, piuttosto stabile nell’ultimo decennio.

Esistono 6 sottogeneri, uno dei quali, l’Eusorghum, comprende i sorghi oggi

coltivati, appartenenti alla specie Sorghum bicolor (L.) Moench [o Sorghum vulgare

(Pers.)], con corredo cromosomico 2n=20 e caratterizzata da ampio polimorfismo.

Le molteplici forme di sorgo esistenti possono essere classificate, secondo la loro

destinazione, in sorghi da granella, sorghi da foraggio, sorghi zuccherini, sorghi da

scopa e sorghi da biomassa (sl. 16/9). All’interno dei sorghi da granella vengono

identificati diversi sottogruppi a seconda dell’area geografica di prevalente diffusione

(sl. 16/10).

Caratteristiche botaniche

Il sorgo coltivato è una pianta erbacea annuale, con radici che si originano da una

corona formata da 5-6 nodi molto ravvicinati, ciascuno con un palco di radici. Queste

sono simili a quelle del mais, ma più robuste, fibrose, più espanse lateralmente e in

profondità, e con maggiore capacità di estrarre acqua.

Il culmo è robusto, con un’altezza variabile da 50 cm fino a 3-4 m, con nodi e

internodi (nel sorgo zuccherino, var. saccharatum, il midollo è succulento e ricco di

zucchero). Sui nodi basali sono presenti gemme che, germogliando, danno origine a

culmi di accestimento; l’accestimento è maggiore nei sorghi da foraggio che in quelli

da granella. L’ultimo internodo è molto allungato e facilita la raccolta con la

mietitrebbia (carattere ‘combine’, dal termine combine con cui in inglese si indica la

mietitrebbia; sl. 16/13). Il fusto è più basso per le varietà da granella, più alto per quelle

da foraggio.

Le foglie sono in numero di 8-10 nelle varietà precoci e 18-20 in quelle tardive.

La lamina è lineare e lanceolata con margine lievemente dentellato (riconoscibile da

quello liscio del mais). La presenza di pruina sulla lamina, insieme con le minori

dimensioni degli stomi rispetto a quelli del mais, conferiscono una maggiore resistenza

alla siccità.

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L’infiorescenza è una pannocchia (racemo composto) più o meno espansa detta

panicolo, eretta o pendente. Il panicolo può essere compatto, spargolo o semi-spargolo;

l’asse principale porta numerose ramificazioni laterali con le spighette. Due giorni dopo

la spigatura inizia la fioritura, che si completa in 6-10 giorni. La fecondazione è

prevalentemente autogama (per circa il 95%).

Le spighette sono a coppie, in cui una spighetta è monoflora, sessile e fertile, e

l’altra è peduncolata e sterile. La forma delle spighette è globosa, leggermente

compressa, con glume più o meno lunghe, coriacee, di vario colore. I fiori sono

ermafroditi, composti da tre stami, uno stilo bifido e stimma piumoso. Le glume a

maturità diventano lucenti; le glumette sono membranose, raramente aristate: la lemma

è cartacea e la palea è piccolissima.

Il granello è una cariosside nuda o vestita dalle glume, colorata di bianco, giallo

aranciato, bruno, rossiccio o bruno-violaceo per la presenza di pigmenti nelle cellule

del pericarpo o dello spermoderma o di entrambi. Il peso di 1000 semi varia da 15 a 35-

40 g, e il peso ettolitrico è di 65-70 kg/hl.

Esigenze ambientali

Rispetto al mais, il sorgo ha maggiori esigenze termiche: per germinare e nascere con

accettabile prontezza richiede temperature del terreno di 14 °C, a fronte dei 12 °C

necessari per il mais. Il sorgo ha però minori esigenze idriche del mais, in quanto è

capace di sopportare con danno ridotto le deficienze di acqua. Le principali

caratteristiche morfologiche e fisiologiche che conferiscono al sorgo una spiccata

resistenza all’aridità sono: i) le radici profonde ed espanse, capaci di estrarre dal terreno

l’acqua anche quando questa è fortemente trattenuta; ii) le foglie fortemente cutinizzate,

ricoperte di pruina, con stomi meno numerosi e più piccoli di quelli del mais; iii) il

protoplasma capace di sopportare senza danni irreversibili temperature relativamente

alte e disidratazione piuttosto spinta; iv) i consumi idrici unitari tra i più bassi; v) la

capacità di entrare in stasi vegetativa rallentando i processi vitali in caso di stress idrico

per riprenderli, con danno limitato, appena si siano ripristinate più favorevoli condizioni

idriche (nel mais, invece, lo stress idrico arresta la crescita irreparabilmente).

È necessario che tra le riserve d’acqua del terreno e gli apporti di piogge durante

il ciclo si possa contare su una quantità d’acqua stimabile intorno a 300-350 mm (o

3000-3500 m3/ha). In terreni profondi e con buona capacità di ritenzione idrica (quindi

con esclusione di quelli sciolti) basta che piovano 120-150 mm nei mesi da giugno ad

agosto per assicurare rese quanto meno adeguate dal punto di vista economico. Queste

condizioni possono essere soddisfatte in diverse regioni italiane, soprattutto dell’Italia

centrale, anche in zone collinari piuttosto marginali. Nelle regioni meridionali, troppo

aride, il sorgo senza irrigazione non può essere proposto, ma potrebbe dare eccellenti

risposte produttive ad irrigazioni limitate, aventi carattere di soccorso.

Per quanto riguarda il terreno, il sorgo si adatta bene anche a quelli argillosi

pesanti e con mediocre struttura; tollera un’ampia gamma di acidità (pH da 5.5 a 8.5) e

sopporta anche una certa salinità.

Tecnica colturale

Avvicendamento

Il sorgo da granella potrebbe senza inconvenienti succedere a sé stesso, ma di norma è

considerata una pianta da rinnovo che segue e precede un cereale vernino. Dato che

negli ambienti semi-aridi, dove il sorgo viene coltivato, le colture più sicure e redditizie

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sono i cereali vernini, il sorgo viene infatti alternato a questi per evitare gli

inconvenienti del ringrano. Dopo il sorgo, tuttavia, la fertilità del terreno è più bassa che

dopo il mais o altre piante da rinnovo, tanto che il cereale successivo, in genere

frumento, tende a produrre di meno. La principale causa del minore potenziale

produttivo del frumento dopo il sorgo è la minore disponibilità di azoto, provocata da

una maggiore immobilizzazione biologica di questo elemento.

Scelta dell’ibrido

La giusta durata del ciclo (indicata con lo stesso sistema delle classi FAO utilizzate per

il mais) è fondamentale per la coltura del sorgo, poiché solo con i tipi di precocità

appropriata si possono sfruttare completamente le limitate risorse idriche. Negli

ambienti dove si può contare su una certa piovosità estiva, i risultati migliori si

ottengono con le varietà ibride di classe 300-400 (anche 500), le quali entrano in stasi

vegetativa appena si sono esaurite le riserve d’acqua del suolo e vi restano fino alle

prime piogge, quando si verifica la ripresa dell’attività vegetativa. È da evitare di

coltivare sorghi medio-tardivi o tardivi, dati i seri rischi che questi corrono di non

raggiungere la maturazione della granella.

Tra i caratteri morfologici, assumono particolare importanza nei riguardi della

meccanizzazione la taglia bassa e una buona inserzione del panicolo: tutti gli ibridi da

granella sono bassi (1.3-1.5 m di altezza anziché i 2-3 metri e più dei tipi da foraggio)

(sl. 16/21, 23). Inoltre, per facilitare la mietitrebbiatura è importante che il panicolo sia

sorretto da un lungo peduncolo, in modo da essere ben distanziato dall’ultima foglia:

regolando opportunamente l’altezza di taglio della barra falciante, si possono così

raccogliere esclusivamente i panicoli evitando le parti verdi della pianta (carattere

‘combine’). Nei tipi da granella è desiderabile un ridotto accestimento, per evitare ritardi

nella maturazione dei panicoli secondari.

La granella di sorgo, per essere commercializzabile nella UE, deve avere un

basso contenuto di tannini, la cui presenza abbassa la digeribilità della proteina.

Pertanto, gli ibridi che erano stati selezionati per alto contenuto di tannini, onde renderli

resistenti alla predazione degli uccelli (ibridi BR: ‘Bird Resistant’), sono in via di

abbandono (sl. 16/35).

Preparazione del terreno

Essendo il sorgo pianta da coltura asciutta, si deve favorire l’approfondimento radicale e

la costituzione di riserve idriche abbondanti nel terreno, mediante lavorazioni profonde

fatte tempestivamente prima dell’inizio della stagione piovosa, con aratura o, meglio,

con lavorazione a due strati. È da escludere ogni possibile coltura intercalare, in quanto

questa diminuirebbe le scorte d’acqua e renderebbe difficile o impossibile preparare il

letto di semina con la perfezione che il sorgo richiede. Le dimensioni del seme, la

delicatezza delle plantule e la tarda data di semina impongono infatti una preparazione

del terreno estremamente accurata. Nei terreni argillosi è necessario che il terreno sia

preparato molto tempestivamente, durante l’autunno e l’inverno, con energiche

erpicature, in modo che alla semina sia già ben livellato ed amminutato, tanto da non

richiedere che l’intervento di erpici leggeri che smuovano solo uno strato molto

superficiale. Solo in tal modo, lasciando agli agenti atmosferici il compito di

perfezionare lo sminuzzamento del terreno superficiale ed evitando di rimescolare gli

strati, si può sperare di mettere i semi in condizioni propizie alla germinazione e

all’emergenza, con terreno amminutato così da ben aderire ai semi, umido già alla

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profondità di 2-3 cm, e ben strutturato per prevenire la formazione di crosta. La perfetta

preparazione del terreno è la fase forse più critica della coltivazione.

Semina

L’epoca di semina è determinata dalla temperatura minima per la germinazione che, nel

caso del sorgo, è più alta di quella del mais (14 °C anziché 12 °C). Ciò obbliga a

seminare più tardi rispetto al mais, all’incirca da fine aprile al Sud, a metà maggio al

Centro. È necessario seminare con la massima tempestività, tenendo conto che ogni

ritardo nella semina avrà ripercussioni negative sulla produzione. Con gli ibridi medio-

precoci, che sono i più coltivati, la semina è eseguita a file distanti 40-50 cm,

impiegando la seminatrice da frumento o quella di precisione regolata in modo da

seminare una quantità di seme sufficiente ad assicurare una densità di 15-30 piante/m2.

Prevedendo una quota di fallanze (dell’ordine del 40-50%), va previsto l’impiego di 10-

15 kg/ha di seme. La profondità di semina è molto importante: se essa è eccessiva rende

problematica l’emergenza delle plantule, se è insufficiente espone i semi a pericoli o di

disseccamento o di predazione da parte degli uccelli. La profondità ideale è di 2-3 cm

(massimo 4) in terreno possibilmente ben rassodato da una rullatura pre-semina.

Irrigazione

In ambienti climatici ad aridità primaverile-estiva molto spinta il sorgo non riesce a

produrre soddisfacentemente in coltura asciutta. In questi casi, la coltivazione è

possibile qualora esistano disponibilità idriche che non hanno un’utilizzazione più

conveniente. Si tratta di fornire un limitato sussidio irriguo di soccorso quando la

coltura è nella fase più critica, che va dallo stadio di botticella alla maturazione lattea. In

questo periodo, apporti dell’ordine di 150-200 mm consentono di raggiungere

produzioni di 7-8 t/ha di granella secca e oltre.

L’efficienza dell’uso dell’acqua (sostanza secca prodotta per mm di acqua

traspirata) del sorgo è analoga a quella del mais, con 350-450 kg di H2O necessari per

kg di sostanza secca.

Il sorgo si spinge assai in profondità per attingere acqua e quindi si può irrigare

in modo da bagnare 1 m di spessore; inoltre l’esigenza di tempestività è assai meno

sentita che nel mais, in quanto il sorgo può entrare in quiescenza. Il vantaggio del sorgo

rispetto al mais è legato infatti alla possibilità di arrestare lo stadio di sviluppo in caso di

stress idrico, per poi riprenderlo senza danno dopo che le piogge, o le irrigazioni,

determinano condizioni nuovamente favorevoli.

Concimazione

Trattandosi di coltura asciutta, la concimazione minerale dovrà essere limitata, tanto più

quanto più scarse sono le disponibilità idriche. In assenza di letame, le dosi più

consigliabili sono: 40-60 kg/ha di P2O5 da dare in pre-semina e 80-100 kg/ha di azoto da

dare alla semina come urea. Data la natura argillosa dei terreni sui quali il sorgo viene di

solito coltivato, non è certa l’utilità della concimazione potassica.

Il sorgo si presta molto bene, come il mais, a ricevere concimazioni con reflui

zootecnici. Nel caso del sorgo, la coltura continua a vivere (e ad emettere nuovi

germogli) dopo la raccolta della granella, fino al sopraggiungere dei freddi. Di

conseguenza, la coltura esercita un assorbimento attivo dei nitrati che diminuisce il

rischio ambientale di lisciviazione.

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Diserbo

Il diserbo chimico del sorgo trova notevoli limitazioni nel ridottissimo numero di

principi attivi il cui uso è ammesso su questa specie (sl. 16/29). Il controllo delle erbe

infestanti potrebbe utilmente essere fatto con la sarchiatura meccanica che, in una

coltura non irrigata come è il sorgo, farebbe conseguire anche altri vantaggi, oltre al

controllo delle malerbe, come migliore aerazione della rizosfera ed economia d’acqua,

specialmente nelle terre argillose soggette a fessurarsi.

Raccolta

La raccolta da granella avviene solitamente entro settembre. Il sorgo, a differenza del

mais, mantiene completamente verdi le foglie e gli steli anche quando la granella è

matura. Quasi mai la granella è abbastanza secca alla raccolta da non richiedere

l’essiccazione. La raccolta della granella viene eseguita con le stesse mietitrebbiatrici da

frumento, regolando l’altezza di taglio tanto in alto da raccogliere, se possibile, solo i

panicoli.

Le rese di granella conseguibili sono variabili secondo l’andamento stagionale:

in condizioni molto favorevoli di terreno e di piovosità estiva possono raggiungere 8-9

t/ha di granella; rese medie di 6 t/ha sono da considerarsi buone.

Avversità

Avversità meteoriche

Il sorgo teme le basse temperature all’inizio della vegetazione, perché possono

accentuare gli attacchi di afidi sulle giovani piantine.

L’allettamento non è da temere nelle varietà da granella, che sono molto basse e

robuste, mentre costituisce un grave problema per certi sorghi da foraggio di grande

sviluppo e per i quali l’allettamento rappresenta un ostacolo alla raccolta meccanica.

Avversità crittogamiche

Di solito le malattie fungine non sono molto preoccupanti. Può essere colpito da

marciumi delle plantule (Fusarium, Pythium), che si prevengono con la concia delle

sementi ed evitando semine troppo precoci. Possono essere presenti anche marciumi

dello stelo (Fusarium, Macrophomina phaseoli, Rhizoctonia solani). Tra i virus, può

essere attaccato dal mosaico del nanismo ruvido del mais (MRDV).

Uccelli

Soprattutto i passeracei sono un flagello per il sorgo, almeno quando la coltivazione è

fatta su superfici limitate. Essi si posano sui panicoli asportando i granelli in

formazione, dalla maturazione lattea in poi.

Avversità parassitarie

I parassiti più pericolosi sono insetti terricoli (elateridi ed agrotidi) contro i quali va

fatta una disinfestazione alla semina.

Gli afidi (Aphis maidis) possono essere assai dannosi quando attaccano le piante

giovani. La lotta non è facile quando gli insetti sono localizzati sulla pagina inferiore

delle foglie.

Nel corso della vegetazione, danni possono essere causati dalle piralidi (Ostrinia

nubilalis, Sesamia cretica) che minano lo stelo.

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Nelle regioni meridionali, o in caso di semine tardive, danni sono provocati da

due ditteri, la cecidomia (Contarinia sorghicola), le cui larve consumano gli ovari o le

cariossidi appena formate, e l’aterigona (Atherigona soccata), che provoca la

distruzione dell’apice vegetativo degli steli in fase di levata, provocandone l’arresto

della crescita e stimolando l’emissione di germogli di accestimento.

Sostanze antinutrizionali nel sorgo

La pianta giovane di sorgo contiene un glucoside detto durrina (da durra, che è il nome

della specie in Africa orientale), che è pericoloso in quanto metabolizzato negli animali

in acido cianidrico. La durrina è un mezzo di difesa della pianta contro gli erbivori,

poiché, essendo concentrata negli apici meristematici, essa impedisce il pascolamento.

La durrina è presente in gran quantità nelle foglie della pianta ai primi stadi di sviluppo,

ma anche in condizioni di stress idrico o quando il sorgo abbia subito danni da freddo. Il

glucoside diminuisce con la crescita della pianta e scompare dopo la fioritura. L’uso

della pianta mediante fienagione (con taglio alla fioritura) o insilamento esclude ogni

pericolo di intossicazione per gli animali. Inoltre le varietà costituite recentemente ne

possiedono quantità minime.

La granella di molte varietà di sorgo contiene tannini che riducono la digeribilità

delle proteine. Alcune varietà di sorgo sono prive di tannini, in questo caso tuttavia la

granella viene spesso danneggiata dagli uccelli. Gli ibridi con pochi tannini vengono

definiti ibridi bianchi e sono oggi i tipi più diffusi in Italia, poiché sono i più pregiati

per la zootecnia (in quanto più digeribili) e riescono a spuntare i più alti prezzi di

vendita.

Sorgo da foraggio

Oltre ai sorghi da granella, che sono i più diffusi, esistono anche sorghi da foraggio

detti gentili (Sorghum sudanense), adatti alla fienagione, o ‘ibridi’ (in senso botanico,

in quanto derivanti dall’incrocio interspecifico S. bicolor × S. sudanense), adatti

all’utilizzazione come foraggio verde o per l’insilamento. I sorghi da foraggio sono tutti

a taglia alta ed hanno una grande capacità di accestimento, foglie strette, panicolo

lasso, granella piccola e vestita. Con i 2-3 tagli possibili, si può raggiungere una

produzione complessiva di 12-16 t/ha di sostanza secca. Il primo taglio viene

generalmente eseguito in pre-fioritura, verso la fine di giugno, il secondo taglio viene

eseguito a fine luglio ed il terzo a fine agosto.

La tecnica di raccolta del sorgo da foraggio varia in funzione dell’uso per

consumo verde, insilamento o affienamento, ma è comunque opportuno raccoglierlo con

l’avvertenza di sfalciare alto: 7-9 cm di stocco a terra consentiranno un rapido e

abbondante ricaccio. Per il consumo verde si sfalciano le piante quando hanno raggiunto

un’altezza di almeno 80-100 cm (per evitare il rischio di presenza della durrina). Si

consiglia comunque di effettuare la raccolta non oltre lo stadio di botticella-spigatura;

dopo tale stadio infatti la qualità del foraggio decresce rapidamente e risulta necessario

effettuare una trinciatura per ridurre gli avanzi in mangiatoia. Molto utile è

l’appassimento in campo, che permette di ridurre il volume del foraggio, aumentando

così la capacità di ingestione dell’animale. Per la fienagione si sfalciano le piante

quando la loro altezza è di almeno 70-80 cm; anche in questo caso si consiglia di

raccogliere prima del raggiungimento degli stadi di botticella-spigatura. L’eventuale

condizionamento meccanico (schiacciatura mediante rulli degli steli durante lo sfalcio) è

utile per abbreviare l’essiccazione e la permanenza del fieno in campo ed è

raccomandabile perciò per la fienagione e per l’appassimento parziale. Per l’insilamento

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si raccoglie quando le piante hanno raggiunto lo stadio latteo-ceroso della granella,

sfalciando ad un contenuto in sostanza secca pari al 30-35% (sl. 16/41). Se non si riesce

a raggiungere questo grado di umidità, è probabile che l’insilato ottenuto sia instabile,

con elevate perdite di percolazione ed una quantità eccessiva di acido butirrico. Le rese

in trinciato sono di 10-12 t/ha di sostanza secca. Il valore energetico dell’insilato di

sorgo è inferiore del 10-20% rispetto a quello del silomais. Anche la qualità dell’insilato

di sorgo è inferiore a quella del mais, per l’alto contenuto in tannini, la granella più dura

e la minore digeribilità della quota fibrosa. I sorghi da granella, rispetto a quelli da

foraggio, offrono migliore qualità dell’insilato (in quanto comprendono anche una quota

rilevante di granella) e minori rischi di allettamento. I secondi hanno però una più alta

resa in biomassa: ciò ha portato ad un crescente impiego dei sorghi ‘ibridi’ per la

produzione di insilati, in quanto capaci di combinare il vigore dei sorghi da foraggio con

una buona produzione di granella.

Sorgo zuccherino

Questo tipi di sorgo (S. vulgare var. saccharatum) presenta piante molto alte (sl. 16/44),

a culmo grosso, con foglie larghe, steli succosi e zuccherini per la presenza nel midollo

di notevoli quantità di saccarosio (15-20%). Nel sorgo, il saccarosio è sempre

accompagnato da un’alta concentrazione di zucchero invertito che inibisce la

cristallizzazione e questo ne ha impedito l’utilizzazione per la produzione di zucchero

alimentare. Pertanto i sorghi zuccherini hanno un’importanza marginale e servono per

l’industria dell’alcol (anche come biocarburante), per la preparazione di sciroppi o

come coltura foraggera da erbaio.

Sorgo da scope

Il sorgo da scope (S. vulgare var. technicum) ha un cortissimo asse principale del

panicolo, sul quale sono inserite, quasi a formare un’infiorescenza ad ombrella,

ramificazioni lunghissime ed elastiche. Tale infiorescenza, privata della granella, è usata

per la fabbricazione di scope e spazzole. La raccolta avviene alla maturazione della

granella, ma per evitare che il peso di questa pieghi le ramificazioni del panicolo,

deformandole, è necessario che alla maturazione lattea i culmi siano piegati in modo che

i panicoli pendano verso il basso.

Sorgo da biomassa

È utilizzato per la combustione e per la produzione di biogas (sl. 16/46-48). È di facile

inserimento negli ordinamenti aziendali, ma necessita di maggiori impegni (attrezzature

meccaniche) nella gestione della raccolta, del trasporto e dello stoccaggio. I redditi non

sono sempre competitivi con le colture tradizionali. C’è la necessità di individuare

ibridi più produttivi ma anche di fornire precise indicazioni su forma e tipologia della

materia prima da avviare agli impianti energetici.

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RISO

Il riso è uno dei più antichi cereali coltivati, come dimostrato dalla scoperta della ‘Spirit

Cave’, nelle montagne della Thailandia settentrionale, in cui furono rinvenuti dei resti di

riso raccolto circa 10000 anni a.C. Le forme annuali asiatiche comparvero nel Neolitico

nel nord-est ed est dell’India, nel sud-est asiatico e nelle regioni meridionali della Cina,

a causa dell’alternanza di periodi di secco ed umido, e delle pronunciate variazioni

termiche che favorirono probabilmente lo sviluppo di queste forme. I primi tipi coltivati

furono probabilmente della razza eco-geografica indica, più precoce del progenitore

selvatico. L’accresciuta aridità spinse correnti migratorie di popoli verso le zone più

umide collocate più a nord o più a sud-est della zona originaria: queste migrazioni

determinarono l’ulteriore diversificazione eco-geografica della specie (sl. 17/4).

All’interno dell’attuale Cina si diversificò una razza definita ‘delle zone temperate’

derivata dalla razza indica e chiamata sinica. Questa razza venne poi introdotta in

Giappone e ri-definita japonica. Dalle coste del sud e sud-est asiatico, le forme più alte

e a granello grosso vennero portate nell’arcipelago indonesiano, dove si differenziò la

razza javanica. Dall’Asia meridionale e sud-orientale, la coltura si diffuse, passando per

la Persia e attraverso i fertili bassopiani dell’Eufrate, fino all’Egitto. Con Alessandro

Magno (~300 a.C.), questa pianta raggiunse anche il bacino del Mediterraneo. Nel IX

secolo, gli Arabi introdussero il riso in Spagna. Alla fine del XVII secolo, infine, il riso

oltrepassò l’Atlantico e raggiunse il nuovo mondo. In Italia il riso era conosciuto sin

dall’epoca greco-romana ma non si diffuse come importante coltura agraria fino al XVI

secolo, quando fu introdotto dagli Sforza nel Milanese e nel Pavese.

L’Italia è oggi il primo produttore europeo di riso (sl. 17/15) e la produzione

italiana è destinata per due terzi all’esportazione, soprattutto verso gli altri paesi dell’UE

(oltre il 50% del totale; sl. 17/18). Piemonte e Lombardia da sole coprono oltre il 90%

della superficie coltivata e della produzione nazionale (sl. 17/19-21). Da alcuni decenni

si assiste ad una tendenza verso una diminuzione del numero di aziende risicole ed un

aumento della superficie delle stesse.

Il riso è oggi una delle principali piante coltivate nel mondo e costituisce la

risorsa alimentare essenziale per circa metà della popolazione umana. Per numero di

persone coinvolte, la risicoltura rappresenta in assoluto la più importante attività

agricola mondiale. L’area coltivata a riso interessa l’11% dell’intera superficie arabile

mondiale ed è distribuita in 122 Paesi di tutti i continenti. In Asia, la coltivazione

interessa oltre 250 milioni di aziende, la maggior parte con meno di 1 ha di superficie.

Nel mondo si producono 550 milioni di tonnellate, su una superficie di 150 milioni di

ha.

L’ampia diffusione è da attribuire alla grande variabilità delle varietà coltivate,

evolute in funzione dell’adattabilità delle piante ai diversi ambienti agroecologici, e alle

preferenze dei consumatori. Oggi sono disponibili almeno 140000 varietà, diversificate

per adattabilità agroecologica, forma e dimensione delle cariossidi, caratteristiche

qualitative e organolettiche.

Il riso è in assoluto il cereale maggiormente impiegato per l’alimentazione

umana ed è interessante notare che solo il 4.5% della produzione mondiale (27 milioni

di tonnellate) è destinato ad una esportazione rispetto al luogo di raccolta. Ciò significa

che quasi l’intera produzione mondiale viene impiegata per il fabbisogno locale.

Il riso viene coltivato soprattutto nelle regioni tropicali, ma anche in alcune zone

sub-tropicali e temperate. Negli ambienti tropicali, la coltivazione viene condotta ad

altitudini comprese tra il livello del mare e circa 2600 m di altezza (rilievi Himalayani

del Nepal)

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Esistono diversi metodi di coltivazione, definiti come ‘pluviale’, ‘inondato’, ‘in

acqua profonda’ e ‘irrigato’ (sl. 17/8).

Il riso pluviale (upland rice) occupa circa il 10% dell’area coltivata mondiale (in

India e Bangladesh, nelle aree collinari e umide dell’Africa Occidentale e aree collinari

del Brasile), fornendo circa il 3% della produzione totale. Viene così coltivato in terreni

da pianeggianti a declivi (fino al 40%), poco fertili, e con forte presenza di malattie e

infestanti. Non viene praticata nessuna regimazione delle acque e l’unica acqua

disponibile per la coltura è quella apportata dalle piogge. Si ha un limitato impiego di

mezzi di produzione e la resa media è di 1-4 t/ha.

Il riso inondato (rainfed lowland rice) occupa il 32% dell’area coltivata

mondiale (nel delta dei fiumi, paludi, o zone soggette a sommersione in Asia e Africa

sub-sahariana) e fornisce il 19% della produzione totale. Viene coltivato su terreni

pianeggianti o in leggera pendenza, con modeste arginellature. Non si ha nessuna

regimazione delle acque (profonde fino a 50 cm) e si sfrutta l’apporto idrico delle

piogge. L’impiego di mezzi di produzione è medio-basso e la resa media è di 1-3 t/ha,

con danni causati soprattutto da carenze idriche.

Il riso in acqua profonda (deep-water rice) occupa il 4% dell’area coltivata

mondiale (delta dei fiumi in India, Bangladesh, Vietnam, Cambogia, Thailandia, Africa

occidentale; zone costiere dell’India, Bangladesh, Vietnam, Indonesia), fornendo il 2%

della produzione totale. Viene coltivato in terreni pianeggianti o in leggera pendenza,

senza arginellature, senza regimazione delle acque (da 0.5 a 1.5 m di profondità:

floating rice o riso galleggiante) apportate dalle piogge o mediante il sollevamento delle

falde. L’impiego di mezzi di produzione è ridotto e la resa media è di 1-1.5 t/ha,

condizionata da forti stress ambientali.

Il riso irrigato (irrigated rice) occupa il 48% dell’area coltivata mondiale (in

Asia e Sud-America – anche con 2-3 raccolti/anno – oltre che in Nord-America,

Australia, Europa e Nord-Africa), fornendo il 75% della produzione totale. Questo tipo

di coltura viene eseguita in terreni pianeggianti e in risaie con arginellature. L’acqua è

apportata dall’irrigazione e dalle piogge ed è presente una regimazione delle acque

(profonde da 5 a 15 cm o più). L’impiego di mezzi di produzione è elevato e la resa

media è di 4-10 t/ha.

Sistematica e caratteri botanici

Il genere Oryza appartiene alla tribù Oryzeae della sottofamiglia Oryzoideae delle

graminacee e comprende 24 specie a numero cromosomico diploide 2n=2x=24 o

tetraploide 2n=4x=48. Di queste, sono coltivate soprattutto O. sativa (con granello a

pericarpo quasi sempre bianco) e, meno diffusamente della prima e con importanza

soltanto in alcune regioni africane, O. glaberrima (con granello a pericarpo rossastro o

marrone). Entrambe hanno numero cromosomico 2n=24 e sembrano derivare da

un’unica specie ancestrale, O. perennis, con centri di differenziazione originari,

rispettivamente, nel sud-est asiatico e nell’Africa centro-occidentale (delta del Niger)

(sl. 17/26).

Come già indicato, in O. sativa si distinguono le sottospecie indica, japonica e

javanica. Le varietà del tipo indica sono poco adattabili alle basse temperature e per

questo sono prevalentemente coltivate negli ambienti soggetti a sommersione naturale a

clima tropicale (Cina meridionale, sud-est asiatico, Africa sub-sahariana, Centro e Sud

America). Sono piuttosto resistenti alla siccità e alle malattie e sono molto sensibili al

fotoperiodo (piante brevidiurne). I granelli di queste varietà hanno una forma snella e

allungata (rapporto lunghezza/larghezza superiore a 2.5), motivo per il quale sono note

anche come riso a chicco lungo. Durante la cottura assorbono poca acqua, per cui

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preservano la propria consistenza, non si appiccicano e sono quindi ideali per le

preparazioni a base di riso asciutto, per insalate, specialità orientali, etc. Il tipo japonica

mostra buona adattabilità alle basse temperature ed è coltivato nelle regioni a clima sub-

tropicale e temperato (Cina settentrionale, Giappone, Corea, Asia centrale, Europa,

USA, Australia) Le varietà japonica sono poco sensibili al fotoperiodo ed hanno

esigenze termiche minori rispetto ai risi indica, ma maggiori esigenze nutrizionali. La

paglia è piuttosto corta e robusta e la produttività elevata. Le varietà japonica presentano

chicchi corti, da ovali a tondeggianti, con rapporto lunghezza/larghezza generalmente

minore di 2.5. Durante la cottura assorbono molto liquido e si rigonfiano, diventando

leggermente appiccicosi, per cui sono particolarmente adatti per pietanze a base di riso

quali minestre, sformati, riso al latte, risotto, dessert, etc. Le varietà del tipo javanica

sono coltivate in ambienti ad elevata altitudine (Indonesia, Filippine, Madagascar) con

basse temperature durante il ciclo colturale.

Descrizione botanica

Il sistema radicale è fascicolato, costituito da radici seminali e da radici avventizie

ramificate, analogamente a quanto visto per i cereali microtermi. Le radici seminali

rimangono attive per l’intero ciclo. Alla germinazione compare una radichetta

embrionale di maggiore dimensioni rispetto a quelle secondarie. Nelle radici avventizie

compaiono dei ‘vasi aeriferi’, che assicurano l’aerazione delle radici anche

nell’ambiente sommerso in cui il riso vive (sl. 17/31). L’apparato radicale è poco

sviluppato in profondità.

Il culmo ha 10-20 internodi cavi e nodi pieni, raggiungendo un’altezza di 80-120

cm. Nella sezione trasversale di un internodo si distinguono: l’epidermide, con gli

stomi; la corteccia, che lignifica a maturazione; il parenchima midollare, in cui, con

l’avanzamento del ciclo, alcune cellule degenerano dando luogo alla formazione di

cavità (lacune aerifere) che consentono la circolazione dell’ossigeno, e il lume, che è la

parte cava (sl. 17/32). Nel parenchima midollare si accumula amido, che permette al

culmo di ritardare la senescenza rispetto alle foglie.

Le foglie sono in numero variabile a seconda della varietà, ma di solito sono 5-7

per culmo, costituite da una guaina e da una lamina (lunga 30-50 cm, larga 1.5 cm

circa), ruvida per la presenza di peli corti e duri. Come il culmo, anche la foglia presenta

cavità aerifere. La ligula è lunga e bifida (circa 5-15 mm) e le auricole sono pelose,

ialine o pigmentate. Allo stadio di plantula, il riso si distingue dal giavone perché

quest’ultimo non presenta ligula e auricole e le foglie sono più trasparenti in controluce.

L’infiorescenza è un panicolo (eretto o pendulo) terminale, ramificato, che porta

spighette uniflore. Le spighette sono dotate di glume molto più piccole delle glumette,

mentre queste ultime sono molto sviluppate, sovrapposte ai margini, appiattite e

racchiudenti la cariosside come un astuccio (sl. 17/35). La glumetta inferiore (lemma)

può essere mutica o brevemente aristata. In molte varietà, le glumette a maturazione

presentano delle pigmentazioni tipiche.

Il fiore è ermafrodito e comprende un gineceo uniovulare, con stilo bifido e

stimma piumoso, ed un androceo con sei stami (sl. 17/36). La fecondazione è

strettamente autogama (cleistogama).

La cariosside è vestita (risone; sl. 17/37), con endosperma a frattura vitrea, anche

se può presentare una zona centrale, più o meno ampia, a frattura farinosa (perla); in

Asia è coltivato anche il riso ‘glutinoso’, a frattura farinosa. Il colore è generalmente

bianco o bianco-paglierino, tuttavia sono note varietà con pericarpo giallo, rosso, viola o

nero.

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Il peso di 1000 semi è di 25-45 g, il peso ettolitrico di 60-65 kg/hl. La cariosside

contiene carboidrati (84-87%), proteine (6-11%), lipidi (2-3%), ceneri (2%) e fibra

grezza (1%). L’aleurone e il germe sono ricchi in vitamine del gruppo B. Nell’aleurone

sono depositate sostanze di riserva, soprattutto proteine e, nelle varietà indica, anche

lipidi. L’endosperma è costituito da amido, il cui rapporto amilosio/amilopectina

conferisce particolari e differenti caratteristiche di tenuta alla cottura del riso. L’elevata

presenza di amilopectina rende il riso più colloso. La presenza ridotta o nulla di

amilosio è tipica delle varietà waxy (o glutinose) impiegate in pasticceria o come

additivi alimentari.

Sviluppo, crescita e fisiologia

Secondo una classificazione internazionalmente riconosciuta, nel riso vengono

generalmente indicate 10 fasi fenologiche o stadi (con diversi sottostadi) (sl. 17/40):

0 Germinazione

1 Sviluppo foglie

2 Accestimento

3 Levata

4 Botticella

5 Spigatura

6 Fioritura

7 Sviluppo semi

8 Maturazione

9 Senescenza

La temperatura ottimale per la germinazione è di 28-30 °C, con un minimo di

10-12 °C per il tipo japonica e 14-15 °C per l’indica. L’ambiente deve essere

abbastanza umido, purché ricco di ossigeno. Con la semina in asciutto, fuoriesce prima

la radichetta e poi la piumetta, mentre con la semina in sommersione fuoriesce prima la

piumetta e poi la radichetta.

L’accestimento inizia con lo sviluppo di un germoglio all’ascella della foglia più

bassa e si protrae per 40-70 giorni dopo la germinazione. Lo sviluppo dei germogli si

accompagna a quello delle radici avventizie. Il numero di culmi fertili per pianta è

normalmente di cinque, ma può variare con la varietà e la tecnica colturale.

L’accestimento termina con la differenziazione dell’apice fiorale, dopo la quale inizia la

fase riproduttiva.

La levata può iniziare quando la pianta è ancora in accestimento, specialmente

nelle varietà tardive, e dura circa 30 giorni. Durante la levata si ha l’allungamento degli

internodi, l’accrescimento delle foglie ed il progressivo sviluppo dell’infiorescenza. Si

conclude con il raggiungimento della massima altezza, a cui seguono la fase di

botticella e l’emissione della pannocchia.

La fioritura (stadio 6) comprende i sottostadi di inizio fioritura (61), con antere

visibili all’apice della pannocchia; piena fioritura (65), con antere visibili nella

maggioranza delle spighette; fine fioritura (69), in cui tutte le spighette hanno

completato la fioritura ed è possibile la presenza di antere disseccate. La fioritura è

scalare, partendo dalla parte apicale della pannocchia. La temperatura ottimale per

l’antesi è di 30 °C, con umidità relativa dell’aria del 70-80%.

Nello stadio 7 (sviluppo dei semi) si distinguono alcuni sottostadi: maturazione

acquosa (71) quando i primi granelli hanno raggiunto circa metà della loro dimensione

finale; maturazione lattea precoce (73); maturazione lattea media (75) quando il succo

contenuto nella granella è latteo; maturazione lattea piena (77).

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Anche lo stadio 8 (maturazione dei semi) passa attraverso diversi sottostadi:

maturazione cerosa precoce (83); maturazione cerosa piena (85) quando il contenuto

della granella è soffice ma secco, l’incisione dell’unghia sul granello non rimane

evidente, e la granella e le glumette sono ancora verdi; maturazione cerosa avanzata

(87) quando il contenuto della granella è solido e l’incisione dell’unghia rimane

evidente; maturazione piena o fisiologica (89) quando la granella è dura, difficile da

rompere con l’unghia. La temperatura ideale per la maturazione è di 20 °C, e

l’abbassamento termico notturno favorisce il processo. La maturazione è scalare come

la fioritura. Il ciclo dalla semina alla maturazione è di 150-180 giorni.

Esigenze ambientali

Il processo evolutivo, realizzatosi nel corso di millenni, ha consentito al riso di adattarsi

a condizioni ambientali molto diversificate. La specie è oggi coltivata in aree tropicali

dove la media termica durante la stagione di coltivazione è di 33 °C, e in regioni

temperate con medie stagionali tra 17 e 19 °C. Anche le precipitazioni delle diverse aree

colturali possono variare da circa 100 mm/anno ad oltre 5000 mm/anno, così come

l’altitudine che può variare dal livello del mare a circa 2500 m.

Dal punto di vista fotoperiodico, il riso è originariamente brevidiurno, ma le

varietà oggi coltivate (ad esempio in Italia) possono avere una sensibilità al fotoperiodo

molto attenuata, tanto da fiorire anche in regime di 15 ore giornaliere di luce (in piena

estate).

Il riso si avvantaggia di forti livelli di radiazione, i quali determinano un

maggior numero di spighette durante la levata ed un maggior peso della cariosside

durante la maturazione.

Il riso è esigentissimo in fatto di calore e di acqua, ma la sua più peculiare

caratteristica ecologica è di tollerare la saturazione idrica del terreno per cui, pur non

essendo una pianta acquatica, è adattato alle zone umide dei tropici e dei subtropici

soggette anche a sommersione. Si adatta ad essere coltivato in molte situazioni idriche,

ma i migliori risultati si ottengono dove si attua la sommersione continua. Può essere

coltivato senza irrigazione (upland rice) solo dove cadono regolarmente più di 200 mm

di pioggia al mese per almeno 3-4 mesi. L’acqua, oltre a soddisfare le esigenze

fisiologiche, funge da volano termico, proteggendo la pianta dagli sbalzi di temperatura,

particolarmente dannosi nelle fasi critiche della germinazione e della formazione del

polline. Il riso è molto sensibile alle escursioni termiche giornaliere. L’acqua, pertanto,

costituisce un insostituibile soccorso termico per l’apporto diretto di calore (quando

l’acqua abbia temperatura superiore a quella dell’aria) e per l’azione termoregolatrice,

cedendo di notte e nei giorni freddi il calore accumulato nei periodi di insolazione

intensa. Con la sommersione, un’escursione termica giornaliera di 10-15 °C viene

ridotta a 3-4 °C.

L’acqua mantiene il suolo in stato ridotto, dove l’azoto si conserva allo stato

ammoniacale. Sotto tale forma, esso è disponibile per il riso e si sottrae al dilavamento

legandosi al terreno. L’acqua di sommersione ha anche effetti favorevoli sulla

assimilabilità del P e del K, oltre che di microelementi come Si, Fe e Mn. L’acqua

consente anche di controllare tutte le piante infestanti non acquatiche e rallenta lo

sviluppo delle graminacee riproducibili mediante seme (ad eccezione di alcuni tipi di

giavone). Per contro, la sommersione favorisce lo sviluppo di infestanti acquatiche.

Essa svolge anche un’azione di contenimento della germinazione dei semi di riso crodo

interrati in profondità.

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L’acqua di sommersione può però avere effetti negativi sull’ambiente, a seguito

di processi fermentativi che producono gas (metano in particolare) a ‘effetto serra’, oltre

ad aumentare i rischi di contaminazione delle acque di falda.

Le esigenze idriche del riso sono di circa 500-800 litri per kg di sostanza secca

(WUE più bassa di quella del mais). Il consumo idrico negli ambienti colturali italiani

varia da circa 13000 m3/ha nei terreni meno permeabili (vercellese e alto novarese) a

35000 m3/ha nei terreni di medio impasto (milanese, lodigiano), fino a 65000 m

3/ha nei

terreni sciolti e permeabili (pavese).

Come detto, il riso ha anche elevate esigenze termiche, e nei climi temperati

l’unica stagione di coltura possibile è quella primaverile-estiva e con l’ausilio di

irrigazione fatta con sistemi tali da svolgere anche importanti funzioni termoregolatrici.

Nelle regioni equatoriali, dove la temperatura è costantemente alta, si ottengono anche

2-3 raccolti all’anno.

Per quanto riguarda il terreno, il riso si adatta ad ogni tipo e tessitura, purché

umido. Nella risicoltura sommersa, la limitazione principale in fatto di terreno consiste

nelle caratteristiche idrologiche del suolo stesso, che deve essere abbastanza

impermeabile da potervi mantenere la lama d’acqua necessaria di circa 15 cm di

spessore. Il terreno deve essere sistemato in modo da rendere possibile l’uniforme

distribuzione dell’acqua ed un rapido prosciugamento per poter compiere le asciutte

necessarie per determinate operazioni colturali.

Nella risaia sommersa, il profilo del terreno è caratterizzato da un sottile strato

ossidato in corrispondenza dell’interfaccia suolo-acqua, al di sotto del quale il terreno si

trova in condizioni fortemente riducenti (sl. 17/66). In poche settimane dalla

sommersione si instaurano condizioni di anaerobiosi e prevalgono le condizioni

riducenti, con trasformazioni a carico dei diversi composti ossidati, evidenti per le

modifiche di colore assunte dal suolo dovute, soprattutto, alle diverse forme di Fe e Mn.

Per effetto della sommersione, oltre ad una riduzione della percolazione, si hanno infatti

modifiche della caratteristiche fisiche e chimiche del suolo. Le modifiche di natura

chimica interessano l’azoto, che passa da N nitrico a N ammoniacale, Mn e Fe, che da

forme fortemente ossidate passano a forme ridotte, i solfati che si trasformano in solfiti,

e la CO2 che si trasforma in metano (CH4). Queste condizioni di riduzione sono però

dinamiche, perché si invertono con le asciutte, quando si viene a ripristinare

l’ossigenazione. All’interno dello strato riducente è presente la suola di aratura,

provocata non solo dai lavori preparatori, ma anche dal costipamento e dal traffico

veicolare.

Tecnica colturale

Avvicendamento

Il riso viene normalmente coltivato in monosuccessione, a causa della specifica e

costosa sistemazione del terreno che esso richiede. Tuttavia, oltre i 4-6 anni la

monosuccessione può mostrare problemi di infestanti. Al riso si può far seguire il

frumento, di cui costituisce un’ottima precessione a causa del favorevole rinettamento

dalle infestanti terrestri. Tra una semina di riso e l’altra, nella monosuccessione può

essere utile inserire una coltura intercalare da sovescio (es. trifoglio incarnato, colza).

Nei terreni molto ricchi di sostanza organica il riso dovrebbe rimanere non più di 3-4

anni, per evitare l’accumulo di sostanze tossiche derivanti dalla trasformazione della

sostanza organica in condizioni anaerobiche.

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Sistemazione del terreno

Con la sistemazione del terreno della risaia si intende realizzare l’uniformità di

distribuzione dell’acqua, in modo da sommergere il terreno fino al livello desiderato e

rendere rapido lo smaltimento dell’acqua ed il prosciugamento della risaia quando è

necessario metterla in asciutta per le operazioni colturali. La sistemazione deve al

contempo ridurre al minimo le tare del terreno per arginature ma facilitare altresì

l’impiego delle macchine. Alla base della sistemazione è il perfetto spianamento del

terreno.

Gli appezzamenti sono delimitati da ripe e suddivisi in camere, delimitate da

arginelli e sistemate a prose (10-12 m) separate da solchi acquai (sl. 17/74). La forma e

le dimensioni delle camere dipendono soprattutto dalla giacitura del terreno, e sono

tanto più grandi e regolari quanto più pianeggiante è il terreno. La meccanizzazione e

l’incremento delle dimensioni aziendali hanno determinato un aumento dell’estensione

delle camere (3-4 ha, fino anche a 8-10). Questo aumento è stato favorito anche dal

miglior livellamento dei terreni, effettuato con lame a controllo laser. Il buon

livellamento ha altresì permesso la riduzione del numero dei solchi acquai e la riduzione

delle arginature e, conseguentemente, di fonti di diffusione delle infestanti e dei costi di

mantenimento della risaia.

Preparazione del terreno

La preparazione del terreno per il riso consiste in un complesso di lavori che, per lo più,

vengono eseguiti nel periodo autunno-primaverile. Questi lavori, tutti volti ad una

adeguata gestione delle acque, possono comprendere aratura, livellamento,

affinamento, arginellatura e intasamento.

L’aratura con rovesciamento completo della fetta è utile per ripristinare la

struttura e, nel caso della risaia stabile, per assicurare l’ossigenazione degli strati di

suolo che la prolungata sommersione fa passare allo stato ridotto. Per stabilire la

profondità di aratura va esaminata la permeabilità del sottosuolo: se questa è elevata,

l’aratura dovrà essere superficiale (18-20 cm) per evitare eccessivi disperdimenti

d’acqua per percolazione; se il sottosuolo è tenace e poco permeabile si potrà

approfondire il solco, ma sempre tenendosi a profondità modesta, non superando mai i

30-35 cm. Di norma si esegue un’aratura in autunno nei terreni argillosi e in quelli

umidi, a fine inverno in quelli torbosi o sciolti. L’aratura autunnale svolge

un ruolo importante, consentendo una rapida trasformazione dei residui colturali, con

benefici sulla fertilità del terreno, e svolgendo un’azione propizia sulla struttura del

terreno. Essa svolge inoltre un’azione penalizzante sulle infestanti della successiva

stagione. All’aratura profonda si imputa tuttavia di favorire la conservazione di riserve

di semi delle principali infestanti della coltura, e in particolare del riso crodo. Il

posizionamento dei semi a profondità variabile determina un’emergenza scalare e il

mantenimento del potenziale infestante per diversi anni. Le arature leggere stimolano

invece la germinazione precoce delle infestanti, favorendo la loro distruzione

successiva.

Il pareggiamento ha lo scopo di assicurare il livellamento perfetto della camera.

Si fa immettendo nella risaia acqua che, fungendo da livella, consente di individuare

colmi e bassure, e intervenendo con passaggi di spianone, a superficie liscia o munita di

denti o zappette. L’utilizzo della lama a controllo laser ha rivoluzionato la tecnica di

preparazione della risaia. Con il livellamento si ha uniformità dei livelli di

sommersione, maggiore velocità nello scarico e carico dell’acqua nelle camere,

risparmio dei consumi irrigui, affrancamento uniforme delle plantule e quindi miglior

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investimento, e maggiore efficacia degli erbicidi. Bisogna fare attenzione a non

compattare troppo il terreno, poiché il costipamento può creare problemi di sviluppo e

di declino autunnale precoce. La disponibilità di terreni ben livellati ha pure permesso

l’attuazione della coltivazione con semina in asciutto e sommersione allo stadio di 3-4

foglie.

L’affinamento viene eseguito con erpici di vario tipo (a 3-5 cm). Una volta

serviva per frantumare le zolle dopo l’aratura ed il pareggiamento della superficie, ora

per ripristinare la sofficità dello strato superficiale. In entrambi i casi, il suo ruolo è

quello di permettere un buono sviluppo dell’apparato radicale seminale. La

frantumazione non va troppo spinta, per limitare il grado di intorbidimento dell’acqua,

con conseguente eccessivo ricoprimento del seme con la terra in sospensione e

riduzione della germinabilità (con semina in sommersione). L’erpicatura serve anche

per interrare i fertilizzanti e distruggere alcune infestanti.

L’intasamento dello strato attivo è un’operazione necessaria solo nei terreni

eccessivamente permeabili, per ridurre le perdite per percolazione. Si tratta di provocare

nella risaia allagata la formazione di torbida che, sedimentandosi, riduce la bibicità del

terreno. Servono allo scopo appositi strumenti intasatori o anche, ottimamente, ripetuti

passaggi veloci di trattrici munite di ruote a gabbia.

Variazioni nella preparazione del terreno comprendono la minima lavorazione

(con sola erpicatura) e la semina su sodo (con bruciatura della paglia e poi semina con

apposita seminatrice). Queste tecniche, tuttavia, non hanno dato risultati

incondizionatamente favorevoli. È stata osservata una maggiore difficoltà di

radicamento e di penetrazione delle radici nel terreno, con riduzione dello sviluppo

vegetativo. In questi casi è consigliato prevedere un aumento della quantità di seme.

Concimazione

La concimazione organica, sotto forma di letamazione e/o di sovescio, è stata in passato

la principale forma di fertilizzazione della risaia, soprattutto nei terreni poveri di

sostanza organica. Oggi la fertilizzazione è basata prevalentemente sull’impiego dei

concimi minerali e sulla reintegrazione nel terreno di tutti i residui colturali. La

concimazione minerale è quindi la base indispensabile per assicurare le massime rese.

La concimazione deve rispondere alle esigenze della coltura in modo da

garantire elevate caratteristiche quanti-qualitative della produzione, mantenere il terreno

in buone condizioni di fertilità, ridurre o annullare le perdite in modo da migliorare

l’efficienza d’uso di fertilizzanti e ridurre i costi, ed eliminare i rischi di inquinamento

ambientale.

Azoto. Nelle fasi giovanili della coltura viene assorbito in forma ammoniacale, mentre

dopo la fase di differenziazione della pannocchia è assorbito anche in forma nitrica.

Favorisce l’accestimento, il numero di cariossidi per pannocchia, l’altezza della pianta,

il peso dei semi ed il contenuto proteico (sl. 18/11). Un eccesso di azoto aumenta il

rischio di allettamento e di sterilità fiorale, e la sensibilità alle basse temperature e ai

patogeni, in particolare al brusone.

La forma del concime azotato utilizzato per la risaia ha grandissima importanza.

L’azoto sotto forma nitrica o nitro-ammoniacale è da escludere, perché troppo solubile,

dilavabile e soggetto a denitrificarsi negli strati sottosuperficiali del suolo che si trovano

allo stato ridotto. L’urea è il concime azotato ideale per la risaia; vengono usati anche la

calciocianamide o concimi a lento rilascio controllato.

Le dosi di azoto variano a seconda della varietà, della natura del terreno e della

coltura precedente (se avvicendato). La concimazione azotata può essere omessa nei

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terreni organici e torbosi del delta del Po. Normalmente si applicano 100-150 kg/ha di

N, di cui il 60-70% in pre-semina ed il rimanente in copertura, a fine accestimento-

inizio levata. In caso di scarso investimento si può intervenire allo stadio di quinta

foglia per stimolare l’accestimento.

Fosforo. Favorisce la radicazione delle plantule, l’allungamento delle radici e

l’accestimento. La carenza di questo elemento diminuisce la resistenza ai freddi tardivi

e provoca un anormale ingrossamento delle cariossidi. Nel periodo riproduttivo

favorisce la maturazione, specialmente con temperature subottimali. Viene assorbito in

maniera elevata a partire dalla differenziazione della pannocchia. La concimazione

fosfatica è eseguita solo se necessario (con valori di fosforo assimilabile inferiori a 15

ppm) e nei terreni torbosi e organici; la dose consigliata è di 70-80 kg/ha da distribuire

in pre-semina. Vengono utilizzati fosfati naturali, scorie Thomas o fosfato biammonico.

Può avere un indesiderato effetto favorevole sullo sviluppo di alghe (eutrofizzazione).

Potassio. Favorisce l’accestimento, le dimensioni del seme, la resistenza alle malattie, al

freddo e all’allettamento, è importante per la biosintesi ed il trasporto degli zuccheri, e

migliora la resa alla lavorazione industriale. La carenza provoca ridotto accrescimento,

decolorazione dei bordi fogliari, senescenza precoce, facile allettamento. Il suo

assorbimento è massimo dall’accestimento alla fase di botticella. La concimazione

potassica con 40-70 kg/ha è pratica comune. È consigliabile frazionare il 60% in pre-

semina ed il restante ad inizio levata. Normalmente si usa solfato potassico o cloruro

potassico (meno costoso).

Governo dell’acqua

La conduzione dell’irrigazione in risaia è di grandissima importanza per assicurare alla

coltura nelle sue varie fasi le migliori condizioni di temperatura, di disponibilità di

elementi nutritivi, di controllo delle alghe e delle erbe infestanti o di certi parassiti. Di

conseguenza, essa richiede grande perizia in chi deve regolare i flussi di alimentazione e

di scarico delle camere. È importante intervenire con innalzamenti della sommersione

per ridurre danni da abbassamenti termici soprattutto durante la germinazione e alla

formazione del polline (8 giorni prima della fioritura), e con temporanei prosciugamenti

(asciutte) per lo svolgimento di pratiche colturali. Un’asciutta finale troppo anticipata

può favorire una ripresa dell’accestimento con conseguenze negative sulla produzione;

tale pratica è tuttavia utile in caso di forte allettamento o forte attacco di brusone.

Nel tradizionale ‘sistema vercellese’ (sl. 18/14), la tecnica prevede le seguenti

operazioni: 1) Sommersione con 2-3 cm d’acqua per eseguire il livellamento

(indicativamente ai primi di aprile). 2) Aumento della lama d’acqua a 5.5 cm (massimo

7-8) per eseguire la semina, e suo mantenimento per i 15-20 giorni successivi (per

favorire la germinazione); data indicativa: 10-30 aprile. 3) Breve asciutta o

abbassamento del livello, per favorire il radicamento delle plantule. 4) Aumento della

lama d’acqua a 12-13 cm per 10 giorni, in modo da sommergere completamente le

plantule per eseguire il trattamento contro i giavoni (primi di maggio). 5) Riduzione

della lama d’acqua a 8-10 cm per 30-35 giorni (cioè fino verso la metà di giugno). 6)

Asciutta di 2-3 giorni per eseguire il diserbo contro ciperacee e altre specie palustri non

graminacee. 7) Sommersione con 8-10 cm d’acqua per circa due settimane. 8) Asciutta

di una settimana per eseguire la concimazione in copertura all’inizio della levata (ultimi

giorni di giugno); le asciutte indicate ai punti 6 e 8 a volte vengono riunite. 9)

Sommersione con 8-10 cm di acqua fin verso la fine di agosto, all’inizio dello stadio di

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maturazione cerosa. 10) Sospensione dell’irrigazione in modo che le risaie siano agibili

in settembre per le macchine da raccolta.

Nelle terre torbose del ferrarese, il governo dell’acqua differisce da quanto

esposto (‘sistema ferrarese’: sl. 18/16). La lama d’acqua è sempre molto più alta (20-25

cm) ed è poi praticata un’asciutta più lunga di radicamento verso la metà di giugno per

favorire lo sviluppo dell’apparato radicale, mentre non sempre si pratica l’asciutta di

inizio levata, la quale sarebbe controproducente favorendo un eccessivo rilascio di azoto

da parte del terreno, che è molto ricco di sostanza organica.

L’attuale tendenza del governo delle acque prevede l’immissione dell’acqua

nelle camere da qualche giorno ad un mese (nel caso della lotta al riso crodo con

erbicidi antigerminello: si veda più avanti) prima della semina. Un intervallo di 4-7

giorni tra la sommersione e la semina favorisce l’azione di erbicidi a base di Oxadiazon,

contro le piante acquatiche del genere Heteranthera (si veda più avanti).

Quando il riso ha sviluppato una piumetta di 2-2.5 cm (8-10 giorni dalla semina

in aprile, 5-7 giorni dalla semina in maggio) si procede all’asciutta di radicamento.

Oltre all’effetto di affrancamento delle piante, questa asciutta ha un effetto di controllo

delle alghe e di riduzione di eventuali fermentazioni o fenomeni di tossicità da erbicidi

di pre-semina. La durata massima di questa asciutta deve essere una settimana, al fine di

non favorire la germinazione di giavoni e del crodo (avvantaggiati da bassi livelli di

acqua) e non creare indurimento del terreno. In questa fase di asciutta si possono

manifestrare fenomeni di sensibilità della coltura agli abbassamenti termici.

Nella fase colturale successiva, il livello dell’acqua segue progressivamente la

crescita della coltura sino alla seconda asciutta programmata per l’esecuzione dei

trattamenti erbicidi, a cui segue, solitamente, la concimazione azotata di copertura. La

durata di tale asciutta è legata alla strategia di diserbo, andando da pochi giorni a due

settimane. La concimazione azotata viene eseguita prima della sommersione,

normalmente dopo 5-7 giorni dal diserbo. Nella fase di accestimento il livello

dell’acqua viene mantenuto sui 5-10 cm. Livelli bassi favoriscono l’accestimento e

l’irrobustimento dei culmi. Con il sopraggiungere del caldo risulta utile fare un riciclo

completo delle acque, allo scopo di favorire una maggiore ossigenazione e di

allontanare composti tossici provenienti dal metabolismo anaerobico della risaia.

All’inizio della fase di levata in molte situazioni colturali è vantaggioso ricorrere ad una

terza asciutta. Tale pratica favorisce l’eliminazione di composti ridotti, impedisce la

formazione di accestimenti tardivi e migliora la resistenza all’allettamento, favorendo

una ripresa della crescita dell’apparato radicale e la lignificazione dei culmi. La durata

varia dai 10 ai 15 giorni in funzione del clima e del terreno. La nuova sommersione ha

lo scopo di prevenire danni da abbassamenti termici durante la fase di maturazione del

polline. La gestione si conclude con l’asciutta pre-raccolta, generalmente all’inizio

dello stadio di maturazione cerosa. Asciutte anticipate provocano un calo produttivo e

l’abbassamento della resa in riso lavorato.

Alla tradizionale semina in sommersione si va affiancando la semina in asciutto

a file interrate (sl. 18/20). Questa tecnica può determinare alcuni vantaggi, quali il

minore uso di acqua, la riduzione dello sviluppo di alghe, la riduzione dell’allettamento,

una minore perdita di sostanza organica e una complessiva riduzione dei costi di

produzione. Il ciclo colturale viene allungato di qualche giorno, specialmente per le

semine precoci e si utilizzano quindi varietà a ciclo medio o medio-precoce. Si può

avere un maggiore sviluppo di riso crodo a causa della nascita anche dei semi interrati

più in profondità. Alla sommersione (circa un mese dopo l’emergenza), almeno un terzo

dell’altezza della pianta deve essere sommerso per favorire il superamento della fase

critica di transizione dall’asciutto al sommerso. È opportuno distribuire circa il 20% di

N in più rispetto alla semina in sommersione.

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La tradizionale coltivazione per sommersione potrebbe diventare difficilmente

sostenibile in un futuro con sempre meno acqua disponibile. Si sta quindi

sperimentando la possibilità di coltivare il riso con una irrigazione turnata. La tecnica

prevede la semina a file su terreno asciutto ed apporti idrici attraverso sommersione o

aspersione in funzione dell’evapotraspirazione. La fase critica della coltura è quella tra

la formazione dell’abbozzo panicolare e la fioritura. Sarà necessario ricorrere a varietà

resistenti allo stress idrico e al brusone. Per il contenimento delle infestanti da asciutto,

come giavoni ed alcune dicotiledoni, occorrono diserbi fin dai primi stadi di sviluppo

della coltura.

Semina

La scelta delle varietà da seminare può contare su tipi di riso che differiscono tra loro

per la durata del ciclo di sviluppo, per la tecnica colturale e, soprattutto, per le

caratteristiche mercantili del prodotto (sl. 18/26-27). In base alla precocità, le varietà

italiane sono distinte in: molto precoci (140 giorni di durata del ciclo); precoci (141-150

gg); medie (151-160 gg); di stagione (161-170 gg) e tardive (171-175 gg). In passato

esistevano anche varietà precocissime (125 giorni), utilizzate per la coltura intercalare

trapiantata, oggi scomparsa. C’è una relazione lineare che lega la produttività alla

lunghezza del periodo vegetativo. Varietà precoci sono da preferire quando si debba

liberare presto il terreno per la successiva semina del frumento, o nel caso in cui si

ricorra alla falsa semina per la lotta al riso crodo.

La stagione di semina del riso varia a seconda della temperatura dell’acqua, della

coltura precedente (se avvicendato) e della precocità della varietà. Per avere

un’emergenza soddisfacente occorre che la temperatura raggiunga i 12-14 °C. In genere

la semina è compresa tra la metà di aprile e la metà di maggio, ma con varietà molto

precoci ci si può spingere fino alla fine di maggio. Ciò, come detto, è particolarmente

utile per il controllo del riso crodo mediante la tecnica della falsa semina. Il riso crodo è

un riso selvatico infestante, il cui aspetto è molto simile a quello del riso coltivato (si

veda più avanti). La caratteristica principale del riso crodo è la tendenza delle cariossidi

a staccarsi dalla pannocchia e a cadere al suolo (crodatura) prima della raccolta del riso.

La presenza di riso crodo nelle risaie ha serie conseguenze per gli agricoltori, poiché

comporta, infatti, una perdita di produzione. Si calcola che la presenza di sole 10 piante

di crodo per m2 possa provocare una perdita pari ad un quarto del raccolto potenziale.

Solitamente, il riso crodo si distingue dal riso coltivato per la maggiore statura e per la

colorazione rossastra del pericarpo. In alcuni casi, però, il riso crodo può avere

un’altezza simile a quella del riso coltivato e la colorazione delle cariossidi può

assumere tonalità comprese tra il rosso ed il bianco, rendendo non facile distinguere i

due tipi. La semina ritardata, o falsa semina, si è resa necessaria in seguito alla

diffusione del riso crodo. Tale tecnica di semina interessa ormai circa 25000 ha in

Lombardia. La sua caratteristica è quella di favorire la germinazione delle infestanti che

vengono distrutte prima di iniziare la coltivazione vera e propria, ritardando quindi

l’epoca di semina del riso coltivato. La falsa semina con diserbo posticipato consiste nel

preparare il più precocemente possibile (fine marzo-primi di aprile) il letto di semina,

favorendo al massimo la germinazione dei semi naturalmente presenti nel terreno (semi

di infestanti, semi di riso caduti dalla coltivazione dell’anno precedente, semi di riso

crodo) per poi procedere alla distruzione delle piantine quando esse hanno raggiunto un

certo sviluppo e la semina del riso coltivato è oramai prossima. La preparazione delle

risaie su cui effettuare la falsa semina inizia con le lavorazioni superficiali del terreno,

che va reso il più possibile fine allo scopo di favorire al massimo la germinazione delle

infestanti. In molte aziende risicole lombarde è comune sottoporre la risaia ad una

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nuova lavorazione superficiale del terreno una volta effettuato il diserbo, allo scopo di

completare la distruzione delle infestanti germinate e porre la semente nelle migliori

condizioni per la germinazione. In questo caso, per evitare di portare in superficie nuovi

semi, la lavorazione deve essere però estremamente superficiale. Dopo questa

operazione si procede alla semina del riso, o con la tecnica tradizionale (in questo caso

si provvede all’allagamento della risaia) o con la tecnica della semina in asciutto: in

questo caso non è possibile impiegare prodotti diserbanti ad effetto residuale (es.

Dalapon) per la distruzione del crodo.

Le varietà di riso che è possibile coltivare con questo tipo di semina risentono

del fatto che è necessario aspettare lo sviluppo delle infestanti prima di provvedere alla

semina, e quindi devono essere forzatamente a ciclo breve. In Lomellina le più diffuse

sono Loto, Selenio, Gladio e, negli ultimi anni, Nembo e Centauro. Altre varietà

utilizzate sono Savio, Aipper, Alpe e Lido. Nel Pavese e nel Milanese, alle varietà già

menzionate si affiancano anche Drago, Baldo e Sant’Andrea.

A parte la semina ritardata per la lotta al riso crodo, le semine tradizionali più

diffuse sono la semina in acqua e la semina interrata a file su terreno asciutto.

Quest’ultima è particolarmente diffusa in Lombardia (eccetto il mantovano), dove è

concentrato circa il 90% della superficie nazionale coltivata con questa tecnica. Le aree

dove maggiormente è diffusa sono quelle con minore disponibilità di acqua per

l’irrigazione o quelle dove il terreno, particolarmente permeabile, rende difficoltosa la

semina tradizionale in acqua. In anni con primavere particolarmente siccitose la

percentuale di semine in asciutto tende ad aumentare, mentre nelle annate piovose tende

a diminuire. Per semina in asciutto si intende la semina del riso su terreno privo di

acqua, interrando la semente a 2-3 cm di profondità. Per questa operazione si impiegano

generalmente le stesse macchine utilizzate per la semina del frumento. Il seme viene

interrato asciutto prelevandolo direttamente dai sacchi, senza alcun trattamento

preventivo (cosa che invece è di uso comune nella tecnica tradizionale). In molte

aziende la macchina seminatrice è combinata con un attrezzo che effettua la lavorazione

superficiale del terreno (erpice a denti o fresatrice) in modo da consentire con un unico

passaggio della trattrice sia la lavorazione superficiale che 1’interramento della

semente. Questo consente un risparmio di manodopera e di tempo. A volte alle

‘combinate’ è aggiunto un rullo per costipare il terreno, completando in tal modo le

operazioni necessarie alla semina. Sebbene qualche tecnico consigli una dose di semina

leggermente superiore in asciutto rispetto alla semina in acqua (a causa del possibile

minor accestimento che le piante realizzerebbero in asciutto), la dose di semina può

essere sostanzialmente la stessa in asciutto e in sommersione. L’acqua di irrigazione

viene immessa nel campo circa 30 giorni dopo la semina, quando le piantine hanno

raggiunto lo sviluppo di 3-4 foglie. Dopo questa fase, la coltivazione rimane allagata e

la gestione dell’acqua è analoga a quella di una risaia tradizionale. Tutte le varietà di

riso possono essere coltivate con la tecnica della semina in asciutto, ma alcune si

adattano meglio di altre. Le varietà con ciclo vegetativo (semina-fioritura) breve (es.

Drago) risultano, in genere, le più indicate. Adatte sono anche quelle con sviluppo

vegetativo rigoglioso (es. Volano, Sant’Andrea) in quanto il vigore delle piante risulta

contenuto, riducendo di conseguenza anche il rischio di allettamento. Anche le varietà

maggiormente resistenti alle basse temperature (es. Carnaroli) sono più adatte di quelle

sensibili agli sbalzi termici.

La semina tradizionale in acqua consiste nel preparare il terreno destinato alla

risaia, quindi allagarlo e procedere alla semina a spaglio (la semina segue

immediatamente il passaggio dello spianone, di modo che la copertura del seme

avvenga per il depositarsi della torbida sollevata da questo) o a righe leggermente

interrate. La sommersione crea un ambiente pedo-climatico favorevole allo sviluppo del

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riso e consente una buona nutrizione della pianta. La semina viene preceduta

dall’operazione preparatoria dell’ammollamento della semente, che consiste

nell’immersione in acqua per almeno 24 ore dei sacchi contenenti la semente stessa,

onde facilitare l’affondamento delle cariossidi al momento della semina e anticipare la

germinazione e la nascita del riso. La dose di seme impiegata varia da 180 a 250 kg/ha

(sl. 18/30).

Oltre che direttamente in campo, il riso può essere seminato in semenzaio (1/10-

1/20 della superficie da coltivare) per essere poi trapiantato (alto 15 cm, disponendo 18-

20 ciuffi di 3-6 piante per m2). Il trapianto in Italia è completamente scomparso; si

praticava estesamente in passato per guadagnare tempo e poter usare il riso come

coltura intercalare dopo frumento o dopo il primo taglio di un prato. Questo sistema è

ancora molto seguito ai tropici perché fa guadagnare tempo, consentendo fino a 2-3

raccolti all’anno, e fa risparmiare semente.

Lotta alle malerbe

La risaia sommersa è un agroecosistema del tutto particolare nel quale la vegetazione

infestante che vi si insedia ha caratteristiche altrettanto particolari, adattate all’habitat

della risaia. La flora infestante delle risaie è infatti adatta ad ambienti palustri, o

comunque saturi d’acqua, per cui comprende specie diverse da quelle che si trovano

negli altri agroecosistemi, quali alghe, piante acquatiche vere e proprie (eterantera; sl.

18/37), piante palustri (ciperacee, butomacee, alismatacee; sl. 18/38), o piante tolleranti

gli ambienti umidi (tra le graminacee, i giavoni e il riso crodo). Con l’innovazione della

tecnica colturale sono divenute importanti anche alcune piante infestanti tipiche di

colture asciutte. Le diminuzioni di produzione provocate dalle infestanti possono

arrivare anche all’80%.

Nella risicoltura del passato il controllo della vegetazione infestante era fatta

soprattutto con la monda a mano, eseguita con due passaggi a distanza di 15 giorni nel

mese di giugno, che richiedevano l’impegno di circa 45 giornate lavorative per ettaro.

Motivi economici hanno ormai da tempo reso non più proponibile la monda: sono stati

così messi a punto erbicidi che, grazie alla loro efficacia, hanno avuto una larghissima

diffusione in tutte le zone risicole. L’impiego generalizzato di diserbanti sulle colture di

riso che si ripetono sullo stesso terreno, per parecchi anni, ha però dato luogo ad un

progressivo e profondo cambiamento della flora infestante. Le specie che in passato

avevano importanza secondaria sono diventate dominanti perché resistenti ai diserbanti

più diffusi (flora di sostituzione). Ciò ha reso incessante la ricerca di nuovi principi

attivi contro le infestanti emergenti e, di conseguenza, la tecnica del loro controllo, che

va fatto in modo diversificato, in base alla flora specifica, e con ponderazione, tenendo

conto che i prodotti che vengono immessi nell’acqua della risaia vengono veicolati nel

sottosuolo o nei corpi idrici superficiali.

Le infestazioni di alghe sono dannose specialmente durante il primo sviluppo del

riso, per il feltro che esse formano con l’intreccio dei loro filamenti sul fondo della

risaia o in superficie. Le alghe prevalenti nelle risaie sono quelle verdi (Chlorophyceae)

e quelle azzurre (Cyanophyceae); in passato le prime erano prevalenti ma facilmente

controllabili, mentre attualmente stanno aumentando le seconde. Le alghe verdi

formano un feltro galleggiante che ostacola l’emergenza dall’acqua delle piantine di

riso, le cui foglie restano invischiate nel feltro algale, trovando difficoltà ad uscire alla

luce. Si controllano mediante concia del seme (con Mancozeb), con l’uso di carbammati

o sali di rame, o riducendo l’altezza dell’acqua di sommersione. Le alghe azzurre

formano il loro feltro prima sul fondo, dove le plantule di riso stanno compiendo il loro

primo sviluppo, per poi sollevarsi diventando galleggianti: in questo modo le plantule di

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riso vengono sradicate e portate in superficie. I periodi di asciutta ed il basso livello

dell’acqua possono contenere lo sviluppo di alghe azzurre.

Tra le piante acquatiche, l’eterantera (Heteranthera limosa, H. reniformis, H.

rotundifolia) è un’infestante nuova, introdotta dall’America centrale alcuni anni fa e che

infesta ormai la quasi totalità delle risaie italiane.

Le più diffuse piante palustri comprendono specie di famiglie diverse come le

Ciperacee (Scirpus maritimus, S. mucronatus), Alismatacee (Alisma plantago-aquatica)

o Butomacee (Butumus umbellulatus, difficile da controllare). I trattamenti erbicidi

contro queste specie vengono eseguiti durante la seconda asciutta di metà giugno (con

semina ordinaria: si veda sopra).

La flora infestante emergente comprende specie come Cyperus esculentus,

Cyperus serotinus, Commelina communis, o Murdannia keisak (sl. 18/39-40).

Le graminacee più temibili come infestanti della risaia sono Echinochloa spp.,

Leptochloa spp., Leersia oryzoides, Sorghum halepense, Panicum dicothomiflorum (sl.

18/48) e il già menzionato riso crodo.

I giavoni (sl. 18/43-44) comprendono diverse specie del genere Echinochloa

(giavone peloso: E. phyllopogon, in espansione; giavone meridionale: E. colonum;

giavone comune: E. crus-galli, il più diffuso, presente in circa 190 mila ha; giavone

pendulo: E. crus-pavonis; giavone cinese: E. erecta, in espansione; giavone maggiore:

E. oryzoides, diffuso in Veneto ed Emilia Romagna) e sono le infestanti del riso più

frequenti e invadenti, contro le quali è quasi sempre necessario intervenire perché

bastano pochissime piante per m2 (6-7) per causare perdite di produzione considerevoli.

La lotta ai giavoni si esegue con trattamenti in pre-semina o, soprattutto, in post-

emergenza con elevata lama d’acqua (all’inizio di maggio con semina ordinaria: si veda

sopra) con vari tipi di principi attivi (Oxadiazon, Tiocarbammati, Azimsulfuron,

Propanile, Quinclorac), alcuni dei quali da considerare con attenzione perché inquinanti

o potenzialmente fitotossici.

Il riso crodo (Oryza sativa var. sylvatica) è botanicamente classificato nella

stessa specie del riso coltivato, del quale è considerato una varietà botanica (sl. 18/49).

Questa infestante, diffusa in buona parte delle aree risicole mondiali, è conosciuta in

Italia perlomeno dall’inizio del 1800. La sua presenza in Italia era però piuttosto limitata

fino agli anni ‘80 del novecento, quando aumentò in modo drammatico a causa

soprattutto della diffusione di varietà a granello lungo (tipo indica) nella cui semente

erano presenti in abbondanza cariossidi della malerba. Il riso crodo manifesta un’ampia

variabilità di caratteristiche anatomiche, biologiche e fisiologiche. È difficilmente

distinguibile dal riso coltivato almeno fino allo stadio di accestimento. Generalmente, le

piante di riso crodo sono più vigorose, più sviluppate in altezza e presentano un maggior

numero di culmi di accestimento rispetto alle varietà coltivate. Le caratteristiche più

peculiari del riso crodo sono la colorazione del pericarpo (anche se vi sono numerosi

biotipi a pericarpo bianco, in tutto simili al riso coltivato) e, in particolare, la capacità

delle cariossidi di staccarsi dal rachide della pannocchia al raggiungimento della

maturità (crodatura). I danni dovuti alla presenza della malerba sono rappresentati dal

calo di produzione (meno 20-60%) dovuto agli effetti competitivi, e dai maggiori costi

di lavorazione del riso. La parte di cariossidi della malerba che non è ancora caduta a

terra al momento della trebbiatura del riso viene raccolta infatti col riso stesso,

inquinando le partite commerciali. La presenza di tali cariossidi nel risone richiede una

lavorazione più energica che si traduce in un aumento dei tempi di lavorazione e della

percentuale di scarti. La difficoltà maggiore nella gestione del riso crodo è rappresentata

dal fatto che, fisiologicamente, è una pianta estremamente affine al riso coltivato.

Peculiari caratteristiche biologiche del riso crodo sono: i) La rapida acquisizione

della capacità germinativa dopo la fioritura e crodatura: i semi di riso crodo sono

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potenzialmente in grado di germinare già nove giorni dopo la fioritura; ii) La dormienza

dei semi: a differenza della maggior parte dei risi coltivati della sottospecie japonica, i

semi del riso crodo (come quelli della sottospecie indica) presentano comunemente un

più o meno elevato grado di dormienza. Questo fenomeno si traduce in una scalarità

delle emergenze, che permette al riso crodo con germinazione ritardata di sfuggire agli

interventi di lotta chimica o meccanica. La forte pressione selettiva esercitata dagli

interventi di lotta praticati per più anni può favorire, inoltre, la selezione e la diffusione

di tipi con emergenza tardiva; iii) La longevità dei semi (persistenza della vitalità):

secondo alcune sperimentazioni può arrivare fino a 12 anni; iv) La capacità di

emergenza: in alcuni ecotipi è stata osservata solo una modesta riduzione della

percentuale di emergenza fino a 25 cm di profondità; v) La taglia più elevata (migliore

capacità competitiva per la luce).

Le strategie di lotta al riso crodo si basano sulla combinazione di tecniche

colturali e di interventi chimici. In un programma di lotta integrata al riso crodo, la

scelta del tipo di lavorazione va fatta in funzione della consistenza della ‘banca dei

semi’ (totale e alle diverse profondità) e degli altri mezzi di lotta che si vogliono

adottare. Con l’aratura ordinaria, ad esempio, i semi delle infestanti vengono in genere

redistribuiti in modo omogeneo lungo tutto il profilo interessato, mentre con la minima

lavorazione i semi rimangono concentrati nei primi 6-8 centimetri. Le lavorazioni

superficiali tendono a stimolare le emergenze, per cui bene si adattano all’adozione di

tecniche come la falsa semina, finalizzate alla rapida riduzione della banca dei semi.

Come già ricordato, la falsa semina è la tecnica di lotta più diffusa nelle risaie italiane.

Scopo della falsa semina è quello di indurre una emergenza abbondante e il più

possibile uniforme dell’infestante prima della semina del riso. Essa determina un

drastico contenimento dell’infestazione nel corso della stagione in cui viene adottata ed

il suo impiego ripetuto negli anni consente una progressiva riduzione della banca dei

semi. L’adozione della tecnica della falsa semina, ritardando di circa 30 giorni la semina

rispetto all’epoca ordinaria, impone l’impiego di varietà precoci. In passato venivano

impiegate varietà molto precoci (Titanio, Silla, Rosa Marchetti) che consentivano di

limitare notevolmente la disseminazione dell’infestante, in quanto raccolte normalmente

prima della crodatura della stessa. Queste cultivar sono state sostituite da altre molto più

produttive e con migliori caratteristiche agronomiche (in particolare maggiore resistenza

all’allettamento), quali le già citate Loto, Cripto, Selenio e Savio.

Una delle principali ragioni della drammatica diffusione del riso crodo risiede

nella quasi totale assenza di rotazioni che caratterizza le principali aree risicole italiane.

In casi di infestazione particolarmente abbondante, il ricorso alla rotazione diventa

l’unica strada percorribile. Le colture che più frequentemente sono inserite in rotazione

col riso sono mais e soia. In queste colture, il riso crodo può essere controllato con

diserbo chimico in pre- o post-emergenza, oppure con interventi meccanici.

Ovviamente, l’utilizzo di semente certificata è un valido metodo di contenimento della

diffusione dell’infestante.

Nella lotta al riso crodo, a causa della elevata affinità tra infestante e coltura, è

possibile effettuare trattamenti diserbanti quasi esclusivamente in pre-semina del riso

coltivato. I trattamenti eseguibili in pre-semina sono sostanzialmente di due tipi: in pre-

emergenza del riso crodo o in post-emergenza del riso crodo (in abbinamento alla falsa

semina). L’impiego di prodotti chimici dopo la semina del riso è limitata

esclusivamente a trattamenti di soccorso con barra umettante. Sebbene sia nota

l’efficacia di vari principi attivi nel controllo in pre-emergenza del riso crodo, in Italia il

Pretilachlor è il più usato. Il prodotto viene utilizzato con risaia sommersa (alto livello

di acqua) e il trattamento va eseguito almeno 25-30 giorni prima della semina, per

evitare effetti fitotossici sulla coltura, alla dose di 2.5 kg/ha di formulato commerciale. I

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trattamenti in post-emergenza del riso crodo al termine della falsa semina forniscono

generalmente i risultati migliori rispetto a tutti gli altri mezzi di lotta. I principi attivi

disponibili sono il Dalapon, impiegato già da molti anni, e il Cycloxydim, autorizzato su

riso in pre-semina dal 1999. L’impiego di altri diserbanti a largo spettro, come ad

esempio Glifosate hanno mostrato livelli di efficacia piuttosto ridotti. Questo

comportamento è probabilmente da porre in relazione alla limitata superficie di

assorbimento delle plantule di riso crodo nel momento in cui si effettuano i trattamenti

(stadio di 2-3 foglie). Per evitare l’aumento di semi di crodo nel terreno è possibile

operare interventi di soccorso durante la coltura del riso, con barra falciante (due

interventi distanziati di 15 giorni) o con barra umettante (con Glifosate).

Le biotecnologie sono state applicate sul riso anche per conferire resistenza ad

erbicidi. Le ricerche hanno riguardato soprattutto la trasformazione per la resistenza a

glufosinate-ammonio, un diserbante a largo spettro normalmente non selettivo per il riso

e potente inibitore della glutammina sintetasi. L’inibizione di questo enzima provoca un

accumulo di ammoniaca, che determina la morte della pianta. La resistenza viene

ottenuta attraverso l’introduzione nel genoma della pianta del gene bar di Streptomyces

hygroscopicus. L’impiego di questa tecnica ha già portato a delle applicazioni

commerciali da parte della società che detiene il brevetto della molecola erbicida

(Aventis), attraverso lo sviluppo di varietà caratterizzate dalla denominazione ‘Liberty-

link’. La valutazione agronomica di varietà transgeniche è stata effettuata soprattutto

negli USA. La possibilità di controllare efficacemente il riso crodo in varietà

transgeniche è stata ampiamente dimostrata, ma presenta alcuni rischi potenziali, primo

fra tutti il possibile passaggio del gene di resistenza dalla coltura al riso crodo. In

situazioni di incrocio controllato fra varietà trasformata e riso crodo è stata osservata la

comparsa di progenie resistenti a glufosinate-ammonio, mentre resta da verificare la

reale possibilità che questo fenomeno possa verificarsi nelle comuni condizioni di

campo.

Sul mercato esiste un’altra tecnologia di lotta che prevede l’impiego di varietà

tolleranti ad un erbicida specifico, ottenute per mutagenesi e selezione, e non mediante

trasformazione genetica. La tecnologia è denominata ‘Clearfield®’ e la prima varietà

utilizzata è stata Libero, tollerante all’erbicida Beyond (un imidazolinone) (sl. 18/61-

62). Oggi sono disponibili diverse altre varietà ‘Clearfield®

’ (es. Luna CL; CL 26; CL

71; CL XL745: quest’ultima è una varietà ibrida).

Raccolta e lavorazione industriale

Il riso giunge alla maturazione fisiologica in epoche diverse secondo la precocità della

varietà: con semina in aprile, le precoci raggiungono la maturazione in settembre,

mentre le tardive vi pervengono alla fine di ottobre. La raccolta è preceduta dall’asciutta

definitiva che si fa a maturazione cerosa (2-3 settimane prima della maturazione) per

accelerare la maturazione fisiologica e rendere praticabile il terreno. È necessario che la

raccolta sia fatta con tempestività, perché un ritardo aumenta le perdite per crodatura e

la quota di cariossidi che non si sbiancano durante la lavorazione del risone.

La mietitrebbiatura del riso può presentare qualche difficoltà per la problematica

praticabilità del terreno della risaia da parte della pesante mietitrebbiatrice. Per ovviare

a questo inconveniente le mietitrebbie da riso sono spesso semi-cingolate. Si tratta di

macchine semoventi con barre di taglio da 3 a 4.5 m di lunghezza e capacità lavorativa

di circa 1 ha all’ora. La raccolta può essere eseguita con la cosiddetta ‘Stripper’, ovvero

una testata da mietitrebbia che consente di raccogliere la sola granella senza tagliare la

paglia e causa minori danni al seme (svestitura, fessurazioni e rotture) (sl. 19/3).

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Alla raccolta, l’umidità della granella è del 20-26% e, a causa di questa elevata

umidità, il risone che esce dalla trebbiatrice deve essere sottoposto ad essiccazione. La

pratica dell’essiccazione artificiale viene attuata in appositi essiccatoi ad aria calda e a

moderata temperatura (35-40 °C); questa operazione va fatta subito dopo la raccolta, e

comunque non oltre 15-20 ore da questa, altrimenti si possono avviare processi di

fermentazione. Uscito dall’essiccatoio, il riso subisce una pulitura per ventilazione e

vagliatura onde liberarlo dalle impurità inerti, dai semi di malerbe e dalla granella

vuota, immatura, etc. Quindi viene immagazzinato in attesa di essere ceduto

all’industria che lo lavorerà; l’umidità di conservazione è del 13%.

Il riso greggio o risone (paddy) è il riso dopo la prima fase di lavorazione

(trebbiatura ed essiccazione), con i chicchi rivestiti delle dure glumette dalla struttura

legnosa e silicea (da cui anche la definizione di ‘riso vestito’) (sl. 19/6). In questa fase,

l’embrione può germinare, per cui i chicchi sono adatti per la semina. Non sono però

ancora utilizzabili in cucina. Per trasformare il risone in riso commestibile, occorre

procedere ad una serie di operazioni meccaniche che, per gradi, provvedono

all’asportazione delle glumette e degli strati superficiali della cariosside fino a

raggiungere la parte amilacea dell’endosperma. Il complesso di tali operazioni prende il

nome di sbiancatura e può essere eseguito seguendo il procedimento tradizionale o

quello del parboiling. Con il procedere della lavorazione si ha un progressivo

impoverimento delle caratteristiche nutritive della cariosside, poiché vengono asportati

anche lo strato aleuronico e l’embrione, che contengono in percentuale elevata grassi,

sali minerali, proteine e vitamine. La sbiancatura è comunque indispensabile per

conferire conservabilità alle cariossidi, evitando processi di ossidazione a cui queste

andrebbero incontro.

La lavorazione tradizionale del risone (sl. 19/8) comporta le successive

operazioni di pulitura per eliminare le impurezze residue, di sbramatura che consiste

nell’eliminazione delle glumette ottenendo il riso semigreggio o integrale, e di

sbiancatura vera e propria da cui si ricava il riso mercantile o riso raffinato. Il riso

raffinato può subire ulteriori trattamenti di brillatura (con talco e glucosio) o di

oleatura, che conferiscono lucentezza al granello. Con la lavorazione industriale, dal

risone si ottengono circa il 18-20% di lolla (glumette), l’8-9% di pula e farinaccio

(rivestimenti della cariosside), l’1% di germe (embrione), l’8-10% di granelli rotti e

immaturi e il 62-64% di granelli interi.

Il procedimento parboiling (sl. 19/14) consiste dapprima nel sottrarre, sotto

vuoto, l’aria al riso greggio. Il riso viene poi messo a mollo in acqua tiepida, per liberare

le vitamine e i minerali contenuti nell’embrione e nel pericarpo. I chicchi vengono

quindi trattati al vapore, sotto alta pressione, in modo da reintrodurre le sostanze

nutritive idrofile all’interno del granello. L’amido in superficie viene indurito dal vapore

caldo, formando una sigillatura che trattiene le sostanze nutritive nel granello. Infine il

riso viene fatto essiccare. Il riso parboiled presenta quindi quasi lo stesso tenore

nutritivo del riso integrale. Dopo essere stato sottoposto al procedimento parboiling, il

riso greggio viene avviato come d’uso alla sbramatura e alle ulteriori raffinazioni. Il riso

parboiled ha un riflesso leggermente giallastro, ma con la cottura diventa bianchissimo e

rimane al dente anche se cotto più a lungo. Il procedimento parboiling porta alla

eliminazione delle rotture durante la successiva lavorazione e aumenta la resistenza alla

cottura e allo spappolamento del granello lavorato.

Il consumo italiano è costituito per circa il 69% da riso ‘normale’ (bianco), per il

29% da riso parboiled, e per il 2% da riso integrale (sl. 19/15).

Tra i sottoprodotti che si ricavano dalla lavorazione del risone, la lolla può

essere impiegata come lettiera negli allevamenti, come ammendante del terreno, come

sostanza filtrante, come combustibile (da cui si ottiene il 16% di cenere ricca di C e Si,

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utilizzata per la produzione di mattoni refrattari o nelle acciaierie, quale isolante termico

e antiossidante nelle colate), o come materia prima per la produzione di furfurolo da cui

si ricava il nailon. La pula e il farinaccio sono utilizzati nella preparazione di mangimi,

avendo un ottimo contenuto in proteine e acidi grassi, vitamine (tiamina, riboflavina,

niacina, piridossina, acido pantotenico, inositolo e colina) e minerali (P, Fe e Zn). Il

germe è utilizzato nella preparazione di mangimi e per la produzione (estrazione) di

olio. L’olio di riso si dovrebbe chiamare in realtà ‘olio di crusca di riso’ (rice bran oil)

poiché è ottenuto dai residui della sbramatura (lolla e pula) nei quali sono rimaste tracce

dell’embrione della cariosside. Tali avanzi vengono tostati a 100 °C per bloccare gli

enzimi responsabili della degradazione degli acidi grassi, e deumidificati fino al 6-7% di

umidità. Segue poi la spremitura e l’estrazione con solventi chimici (esano). Il sistema

di raffinazione adottato può diminuire il contenuto di gamma orizanolo. Un buon

sistema di raffinazione consente di ottenere un olio di riso all’1% (1 g di gamma

orizanolo su 100 g di olio). Il gamma orizanolo innalza i livelli di testosterone e

dell’ormone della crescita, può avere un effetto anabolizzante, innalza il livello delle

endorfine, è di aiuto nella menopausa, diminuisce il colesterolo LDL ed ha una generale

azione ipolipemizzante (diminuzione dei grassi nel sangue).

Tra i derivati del riso, l’amido, in polvere o sciolto in acqua, ha una funzione

rinfrescante, ottima per la pelle irritata; unito ad altri materiali, viene invece usato dalle

industrie per produrre colle e vernici. La farina è particolarmente adatta nei casi di

intolleranza alimentare al glutine; con la farina di riso è possibile preparare pane,

minestre, gnocchi, ma anche pasta fresca e dolci. Il latte deriva dalla lavorazione del

riso integrale; è una bevanda molto dolce, con la quale si possono preparare degli ottimi

biscotti, torte e creme. La pasta, preparata esclusivamente con farina di riso, è senza

glutine e può essere consumata anche dai celiaci. La polvere può essere usata come

cosmetico al posto della cipria ed è più delicata e rinfrescante di quest’ultima. La paglia

viene usata, unita alla lolla, sia per la preparazione di combustibile che per le lettiere

degli animali. Dalla paglia di riso si ricava anche la carta di riso, di qualità pregiata,

particolarmente sottile ma anche molto resistente.

Classificazione commerciale/merceologica

I tipi japonica e indica si diversificano piuttosto nettamente per le caratteristiche

qualitative, che ne influenzano l’utilizzazione gastronomica. La struttura amorfa

dell’amido del riso japonica lo rende ‘spugnoso’, con tendenza ad assorbire in quantità

elevata il liquido di cottura ed i componenti in essi disciolti, assumendone i sapori. È

quindi un riso adatto per minestre e risotti. Il riso indica ha invece una struttura

dell’amido completamente cristallina, che impedisce una penetrazione abbondante del

liquido o vapore di cottura. È quindi soprattutto utilizzato come contorno o per insalate.

La tradizionale classificazione merceologica italiana (sl. 19/24) distingue il tipo

Comune o originario, caratterizzato da una lunghezza del granello inferiore a 5.2 mm

(una classica varietà di questo tipo è l’Originario), il Semifino, con lunghezza compresa

tra 5.2 e 6.4 mm (es. il Vialone nano), il Fino, con lunghezza superiore a 6.4 mm (es. il

Ribe) e il Superfino con lunghezza maggiore di 6.4 mm ed altre caratteristiche superiori

(es. l’Arborio).

Il riso comune (tondo secondo la classificazione europea) ha chicchi piccoli e

tondeggianti, cuoce in 12-13 minuti e durante la cottura tende a rilasciare amido, il che

lo rende adatto alla preparazione di minestre in brodo, timballi e dolci. Il riso semifino

ha chicchi tondeggianti, semiallungati e di media grandezza; cuoce in 13-15 minuti e la

sua buona capacità di rilasciare l’amido fa sì che si presti alla preparazione di

minestroni, supplì, timballi e risotti in cui è prevista la mantecatura, nella tipica

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preparazione ‘all’onda’. Tra le varietà si segnala il Vialone nano. Il riso fino, dai chicchi

affusolati e lunghi, è ottimo per timballi e supplì. Cuoce in 14 minuti ed è molto

apprezzato per la sua estrema versatilità in cucina. Il riso superfino ha chicchi grandi e

molto lunghi, tiene bene la cottura e rilascia pochissimo amido, tanto da lasciare l’acqua

di cottura quasi limpida. Per questo è indicato nella preparazione di insalate e di piatti

come la paella, in cui i chicchi devono rimanere ben sgranati. Tra le sue varietà sono

famose Arborio, Baldo, Carnaroli e Roma.

L’attuale classificazione europea (sl. 19/26-27) distingue il tipo Tondo, dal

chicco di lunghezza < 5.2 mm e rapporto lunghezza/larghezza < 2, il Medio (lunghezza

5.2-6 mm, rapporto lunghezza/larghezza < 3), il Lungo A (lunghezza > 6 mm, rapporto

lunghezza/larghezza < 3) e il Lungo B (lunghezza > 6 mm, rapporto

lunghezza/larghezza > 3). Il Lungo B comprende soprattutto varietà di tipo indica

(Thaibonnet e altre).

La cariosside di riso presenta generalmente un aspetto cristallino, che comporta

buona resistenza alla cottura. La perlatura è determinata dalla presenza di spazi d’aria

all’interno della cariosside, i quali determinano un maggior rigonfiamento durante la

cottura ed un granello cotto più morbido. La perlatura provoca però anche un

incremento della percentuale di granelli rotti durante la lavorazione. La presenza di

perlatura è governata da fattori genetici e da fattori ambientali. Le elevate temperature

notturne durante la granigione incrementano il grado di perlatura.

Il consumo medio di riso in Italia è di circa 5 kg/anno pro capite, con grandi

differenze tra le diverse aree geografiche (9 kg/anno in Lombardia, 3 kg/anno al Sud).

Tra le varietà più consumate in Italia, molte appartengono al tipo Lungo A (sl. 19/29-

33). Il tipo Lungo A copre la maggior percentuale di superficie coltivata in Italia,

mentre si sta assistendo ad un aumento importante delle superfici coltivate con varietà

di tipo Lungo B (sl. 19/34-36).

Altri tipi di riso comprendono il riso waxy, i risi aromatici (Basmati) e i risi

pigmentati. Il riso waxy (o riso glutinoso) ha granello a frattura quasi totalmente

farinosa e l’amido è costituito quasi esclusivamente da amilopectina. A seguito della

cottura questo riso tende ad ‘incollarsi’ ed è utilizzato in pasticceria.

I risi aromatici sono caratterizzati da un aroma simile a quello del pop-corn;

molto apprezzati in India, Pakistan e Medio Oriente, stanno diventando via via più

popolari anche in USA ed Europa. L’importazione europea di risi aromatici, soprattutto

Basmati (con granello allungato, traslucido), è da attribuirsi al nuovo mercato etnico e

ad una richiesta da parte di consumatori più attenti alle novità gastronomiche.

Responsabile dell’aroma è la 2-acetil-l-pirrolina (2-AP). Attualmente in Italia sono

coltivate sei varietà aromatiche: Apollo, Asia, Fragrance, Gange, Giano e Giglio.

I risi pigmentati (dal pericarpo nero o rosso; sl. 19/39) hanno occupato negli anni

recenti interessanti quote di mercato (con lavorazione allo stato di riso semigreggio). I

pigmenti naturali del riso possiedono proprietà antiossidanti e rimuovono i radicali

liberi. La frazione pigmentata (composti fenolici) è in grado di ridurre la formazione di

ossido nitrico, un potente produttore di radicali liberi.

Qualità

Il riso è un alimento dalle ottime caratteristiche nutrizionali e rappresenta un’ottima

fonte di carboidrati. È altamente digeribile e presenta un buon contenuto di proteine di

elevato valore biologico, un ottimo rapporto sodio/potassio ed un’elevata

concentrazione di vitamine idrosolubili (PP, B1, B2).

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Ovviamente, il riso integrale presenta un maggiore contenuto di vitamine, fibra,

minerali, acidi grassi ed enzimi che vanno vanno persi con la raffinazione nel riso

brillato.

L’amido è il maggiore componente della cariosside ed il riso brillato è in pratica

solo amido con una piccola parte di quota proteica in esso inglobata. Chimicamente

l’amido è formato da due componenti: l’amilosio (con catene lineari di molecole di

glucosio) e l’amilopectina (con catene ramificate). Le caratteristiche qualitative del riso

dipendono essenzialmente dal rapporto tra i due componenti dell’amido, dalle loro

caratteristiche chimico-fisiche, dalla quota proteica in essi contenuta, e dalla forma dei

granuli d’amido. Oltre che dalle caratteristiche del genotipo, le caratteristiche qualitative

del riso dipendono inoltre da altri fattori interdipendenti, quali le pratiche colturali, le

condizioni pedoclimatiche e le condizioni di stoccaggio.

Le varietà a basso contenuto in amilosio (10-20%) mostrano, dopo la cottura, un

granello colloso e poco consistente. Le varietà con contenuto medio (20-24%) e elevato

(> 24%) di amilosio presentano un granello cotto poco appiccicoso e con buona

consistenza (sl. 19/47). In Giappone sono richieste varietà che, dopo la cottura,

mantengano un granello appiccicoso (consumo con bacchette di legno). Le varietà

japonica sono infatti caratterizzate da basso contenuto in amilosio. In India sono invece

richieste varietà che, dopo la cottura, mantengano una buona struttura e consistenza,

poco collose e con granelli ben separati (consumo con mani o posate). Le varietà indica

presentano un contenuto medio o alto di amilosio.

Miglioramento genetico

Il riso è una pianta autogama e i primi metodi di selezione delle popolazioni locali

(largamente diffuse nel sud-est asiatico) sono stati, così come per i cereali autogami

autunno-vernini, la selezione massale e la selezione per linea pura (sl. 19/50).

I principali caratteri oggetto di selezione nei programmi di miglioramento

genetico sono: la precocità del ciclo (utile soprattutto nella lotta al riso crodo); la

riduzione della taglia (per una migliore resistenza all’allettamento); la resistenza alle

patologie (brusone, mal del collo, fusariosi, etc.); la resa elevata; il miglioramento della

qualità (es. contenuto in amilosio); l’ottenimento di materiali ‘speciali’ (aromatici,

pigmentati, waxy) (sl. 19/51).

Nel miglioramento per la resistenza a patogeni fungini, l’obiettivo principale è la

resistenza alle patologie causate da Pyricularia oryzae (syn. P. grisea; forma

anamorfica di Magnaporthe grisea). La metodologia operativa per tale obiettivo

comprende lo screening del germoplasma italiano ed estero per l’introduzione ed

impiego di genotipi contenenti geni di resistenza (Pi), oppure per l’introgressione delle

resistenze attraverso incroci specifici (strategia di gene pyramiding) (sl. 19/52). Oggi

sempre più frequentemente si fa ricorso alla selezione assistita con l’impiego di

marcatori molecolari.

Per la resistenza allo stress idrico, si opera valutando in campo collezioni di

linee per la tolleranza allo stress a cui segue la scelta dei parentali migliori e

l’esecuzione degli incroci per l’ottenimento di seme F1 da avviare alla selezione

genealogica.

A partire dagli anni ‘60, in Cina iniziarono gli studi per l’ottenimento di varietà

ibride F1 da introdurre in coltivazione. Gli ibridi vennero ottenuti mediante l’impiego di

linee con maschiosterilità citoplasmatica e linee impollinanti con geni per la

restorazione della fertilità. Le prime varietà ibride furono introdotte in coltivazione negli

anni ‘70. Nei venti anni successivi, il riso ibrido è stato largamente adottato in Cina,

dove è stimato coprire oggi oltre il 50% della superficie a riso, ed è accreditato

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dell’incremento della produzione in quel paese. Il riso ibrido ha infatti un potenziale di

resa superiore anche fino al 30% rispetto ai risi comuni. Varietà ibride sono coltivate

anche in altri paesi asiatici, in Brasile e USA. Fino ad oggi gli ibridi non si sono

affermati in Italia per l’assenza di tipi idonei ai nostri ambienti e per l’elevato costo

della semente.

Avversità abiotiche e biotiche

Il vento è la più dannosa tra le avversità meteoriche, in quanto, dando origine a moti

ondosi, può provocare lo sradicamento delle piantine. Inoltre, più avanti nello sviluppo,

il vento può essere causa di allettamento o di sgranatura.

Tra le avversità di origine fisiologica, la colatura apicale consiste nell’atrofia di

una parte del panicolo, che può portare alla sterilità anche del 50% delle spighette. Oltre

alla predisposizione varietale, causa della colatura possono essere le basse temperature

nel periodo tra il viraggio e la spigatura. Una qualche importanza può anche essere

occasionalmente rivestita dal cosiddetto gentiluomo (straighthead = ‘testa alta’), che si

manifesta con colorazione verde cupo della pianta, foglie erette e panicolo che resta

completamente sterile e, per questo, assume portamento eretto. Il fatto che questa

avversità si manifesti in risaie in successione a vecchi prati fa ritenere che ne siano

causa fenomeni putrefattivi a carico della sostanza organica. Analoga come eziologia è

una malattia di natura fisiologica, sporadica in Italia ma molto comune in Giappone,

denominata akiochi (o declino autunnale), che sarebbe conseguenza della presenza nel

terreno di acido solfidrico formatosi nell’ambiente anaerobico del terreno a risaia.

Parassiti animali

Con i suoi movimenti che sollevano la terra del fondo e intorbidano l’acqua, il crostaceo

Triops cancriformis (coppetta) (sl. 19/57) può provocare fallanze per mancata

germinazione o per sradicamento. La messa in asciutta è un trattamento agronomico che

può limitarne il danno.

Tra i ditteri, danni notevoli al germinello possono essere provocati dalle larve

del leccariso (Cricotopus spp.), che erodono le plantule e le foglie sommerse o adagiate

sull’acqua, e da quelle di Hidrellia griseola (sl. 19/58), che provocano diradamenti

minando il tessuto verde delle foglie delle giovani piante appena emerse dall’acqua. In

genere questi ditteri possono essere combattuti indirettamente con le asciutte.

Il punteruolo acquatico del riso (Lissorhoptrus oryzophilus) (sl. 19/59-60) vive

prevalentemente sul riso ma può trovarsi anche su malerbe ai bordi delle risaie (su

graminacee e ciperacee, ma anche su alcune dicotiledoni) ed è comunque legato

all’ambiente acquatico della risaia. Originario del nord America (USA, Messico,

Canada), a partire dagli anni 1970 si è diffuso anche in Cina, Giappone e Corea, in

genere come popolazioni di femmine partenogenetiche; in Italia è presente dal 2004.

Negli USA (es. Louisiana, Texas) L. oryzophilus è considerato l’insetto più dannoso al

riso. Una densità di una larva per pianta di riso può ridurre la produzione di circa 90

kg/ha.

La larva a maturità misura circa 8 mm, è bianca e apoda. Presenta, dal II al VII

urite, trachee collegate con un paio di uncini che, inseriti nel parenchima aerifero delle

radici di riso, consentono la respirazione sott’acqua. La pupa si sviluppa in una cella

pupale ovoidale, costruita dalla larva usando fango. La cella è poco visibile e si trova

fissata alle radici del riso. L’adulto è lungo 3.3-3.7 mm rostro compreso. È quindi

piccolo, ma comunque visibile ad occhio nudo. Sulle elitre si nota una macchia scura

caratteristica. L’adulto manifesta tanatosi, fenomeno per cui, se disturbato, si lascia

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cadere come morto. Può volare, anche se lo fa di rado. La diffusione avviene quindi

lentamente per mobilità dell’insetto adulto. La semente non dovrebbe costituire un

veicolo di diffusione, in quanto l’insetto non se ne nutre né vi risiede. L. oryzophilus è

in grado di riprodursi partenogeneticamente e la popolazione fino ad ora rinvenuta in

pianura padana è di sole femmine. Sverna come adulto sui bordi delle risaie alla base

delle erbe spontanee o tra i detriti vegetali, in diapausa. In primavera si sposta sulle

piantine di riso seminate in acqua (non in asciutta), spostandosi a nuoto via via verso il

centro della risaia. Le femmine depongono singolarmente le uova alla base delle

piantine di riso. Le larve giovani entrano nella base del riso e nelle radici, poi crescendo

si nutrono dall’esterno, e possono spostarsi nel terreno solo per pochi centimetri.

L’adulto sfarfalla da luglio a settembre e raramente ovidepone subito, ma in genere si

allontana dalla risaia alla ricerca del luogo di svernamento.

Il danno è apportato principalmente dalle larve, che sono piccole e, in quanto

sotterranee, poco visibili. Economicamente meno importanti, ma più evidenti, sono i

sintomi causati dagli adulti, visibili come erosioni longitudinali sulle foglie del riso. I

sintomi si notano nelle risaie seminate in acqua, soprattutto vicino ai bordi. Nonostante

questo insetto non sia inserito nelle liste europee da quarantena, è comunque da ritenersi

potenzialmente pericoloso per la nostra risicoltura. Il rischio fitosanitario appare elevato

considerando l’impossibilità pratica di realizzare rotazioni colturali efficaci nei nostri

comprensori risicoli.

Parassiti delle derrate

Il riso stoccato in magazzino o silos può essere attaccato da diversi insetti parassiti delle

derrate, analogamente a quanto già indicato per i cereali autunno-vernini. Tra questi

parassiti si ricordano il cappuccino (Rhizoperta dominica), il punteruolo o calandra

(Sitophilus granarius), la tignola (Sitotroga spp.) e il silvano (Oryzaephilus

surinamensis). Per la difesa delle derrate, oltre che a vari mezzi chimici che agiscono

per asfissia o per contatto (sl. 19/69), si può fare ricorso anche a mezzi biotecnici o a

mezzi fisici. Tra i primi, sono compresi attrattivi sessuali o feromoni (che consentono di

rilevare tempestivamente la presenza degli insetti) e feromoni sintetici di aggregazione e

sessuali femminili, da inserire in trappole per la cattura dei parassiti. I mezzi fisici

includono la frigoconservazione, con temperature di 10-15 °C che inibiscono lo

sviluppo degli artropodi, e l’uso di anidride carbonica in atmosfera controllata.

Un’atmosfera povera di O2 e ricca di CO2 (60% circa) provoca l’intossicazione di

artropodi e roditori.

Patogeni

Il riso può essere colpito da patogeni fungini che causano diverse malattie e con danni

in tutte le fasi del ciclo colturale (sl. 19/71).

La Pyricularia oryzae (syn. P. grisea; forma anamorfica di Magnaporthe grisea)

(sl. 19/72, 74) è responsabile di una sindrome molto variata che prende nome di:

brusone quando colpisce precocemente le foglie (provocando un danno limitato)

e di

mal del nodo e di mal del colletto quando colpisce la pianta ai nodi o all’ultimo

internodo, con danni ben più gravi, dato che ne consegue il disseccamento dell’intero

panicolo.

Si tratta della più grave malattia fungina del riso a distribuzione mondiale. Nelle

nostre regioni risicole, questa patologia mostra una certa intensità su piante di riso

adulte, quando la temperatura si avvicina ai 27-30 °C e con umidità dell’aria tra l’80 e il

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90%, solitamente durante il mese di luglio. La forma più importante di dispersione di

Pyricularia è l’aria, anche se questo fungo può essere disseminato tramite stoppie,

sementi o acque di irrigazione infette. In zone temperate come le nostre, i principali

mezzi di svernamento del patogeno sono le sementi, le stoppie e alcune infestanti

infette. Per limitare la malattia è necessario fornire un giusto apporto di nutrienti al

terreno: elevati livelli di azoto, infatti, predispongono all’infezione e ne aggravano le

conseguenze. La diffusione della malattia è favorita da elevata umidità dell’aria durante

o subito dopo la spigatura, da semine fitte, e da bruschi abbassamenti di temperatura.

L’impiego di varietà resistenti è il mezzo di prevenzione più efficace: i tipi indica sono

più resistenti di quelli japonica. La lotta chimica al brusone utilizza principi attivi quali

triciclazolo, azoxystrobin, propiconazolo e iprodione.

L’elmintosporiosi (Helminthosporium oryzae o Drechslera oryzae) (sl. 19/76)

arreca danni gravissimi, soprattutto al di fuori dell’Italia, colpendo tutte le parti aeree

della pianta. Attualmente sta destando crescente preoccupazione anche in Italia.

L’infezione si trasmette con il seme, che deve essere quindi scrupolosamente trattato

con concianti.

Il mal del piede del riso (Sclerotium oryzae) (sl. 19/77) si manifesta durante la

maturazione con il disseccamento e il conseguente allettamento delle piante. L’attacco,

visibile come lesioni nerastre, comincia sulle guaine delle foglie basali e poi passa sugli

internodi. Il rimedio migliore è l’adozione di varietà resistenti.

Il bakanae (Fusarium spp.) (sl. 19/78-79) è una patologia dominante in Asia, ma

ormai diffusa a livello mondiale. Il bakanae fu una delle prime malattie conosciute del

riso, descritta per la prima volta in Giappone nel 1828. Il sintomo classico è la crescita

di una pianta allungata, sottile e di color verde pallido; a volte si manifestano clorosi e

marciumi alle radici e al colletto. Le piante colpite poco dopo la germinazione muoiono,

mentre quelle colpite ad uno stadio più avanzato sono sterili. Si stimano perdite pari al

50% del raccolto. La patologia si trasmette con l’utilizzo di semi infetti; solitamente le

ife fungine e i conidi possono sopravvivere nel suolo e nei residui vegetali infetti solo

per pochi mesi. Il fungo colpisce in modo sistemico la pianta del riso ma non attacca la

pannocchia. Sono note cultivar di riso più resistenti di altre all’infezione. Le alte

temperature (30-35 °C) sono un importante fattore predisponente per questa malattia.

L’infezione al seme può dare origine alla formazione di micotossine.

Nell’ambiente risicolo italiano sta destando qualche preoccupazione il virus del

giallume (rice yellow mottle virus, RYMV), che è diffuso da un afide, il Rhopalosiphon

padi, attraverso l’ospite intermedio rappresentato dalla specie selvatica Leersia

oryzoides. Questa virosi provoca arresto della crescita, necrosi radicali, sterilità della

spighetta, e addirittura la morte della pianta.

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LEGUMINOSE DA GRANELLA

Sono specie di coltivazione antichissima, probabilmente perché fu presto notata dai

primi agricoltori la loro capacità di fornire semi facilmente conservabili e molto

nutrienti.

Le più importanti leguminose da granella appartengono alle tribù Vicieae (Vicia

faba, Cicer arietinum, Lens esculenta, Pisum sativum, Lathyrus sativus), Phaseoleae

(Phaseolus vulgaris, Glycine max = Soja hispida) e Genisteae (Lupinus albus, L.

angustifolius, L. luteus) della famiglia delle Leguminose e sono quasi tutte originarie

del Vecchio mondo ad esclusione di alcune specie di Phaseolus e di Lupinus

provenienti dal Nuovo mondo.

Le specie coltivate differiscono da quelle selvatiche per l’abito vegetativo più

contenuto, per le maggiore dimensione dei frutti e dei semi, per la ridotta deiscenza dei

legumi e dormienza dei semi, per la prevalente forma annuale e l’autogamia.

Caratteri botanici

La radice è fittonante, ramificata, con diverso sviluppo in profondità a seconda delle

specie, anche se generalmente robusta. Sulle radici sono solitamente presenti tubercoli

radicali, il cui numero, forma e dimensioni variano a seconda della specie, dell’età delle

radici, della durata del ciclo, della presenza nel terreno degli azotofissatori, etc.

Le foglie sono alterne, raramente opposte; sono spesso composte ovvero formate

da due o più foglioline (sl. 20/5). Le foglie composte possono essere pennate (con

foglioline appaiate lungo un asse) – a loro volta suddivise in imparipennate, quando

hanno una fogliolina terminale, e paripennate, quando la fogliolina terminale è

trasformata in viticcio – e trifogliate, con foglioline picciolate, sessili o diversamente

picciolate. Alla base dei piccioli fogliari spesso si trovano le stipole, appendici di varia

forma, dimensioni e colore.

I fiori sono per lo più ermafroditi, spesso riuniti in infiorescenze a capolino o

racemo. Il calice e la corolla sono composti, rispettivamente, da cinque sepali (spesso

saldati, verdi) e cinque petali (di vario colore), che sono tipicamente papilionacei (due

‘ali’ laterali, un ‘vessillo’ superiore, una ‘carena’ inferiore formata da due petali saldati

alla sommità; sl. 20/7). Il pistillo è costituito da un ovario supero, quasi sempre con

molti ovuli; gli stami sono 10, spesso saldati per i filamenti (monoadelfi) o nove saldati

ed uno libero (diadelfi). La fecondazione può essere allogama (generalmente

entomofila) o autogama.

Il frutto (baccello) è un tipico legume, lungo, per lo più deiscente secondo una o

due suture dalle quali si apre in due valve. Il frutto può portare un solo seme (spesso in

cece e lenticchia), ma di solito contiene più semi. In alcune specie di leguminose (es.

arachide) è presente la geocarpia, ovvero la formazione del frutto e del seme sotto terra.

Il seme possiede un tegumento esterno o ‘testa’ per lo più impermeabile (semi

duri) in una fase più o meno lunga successiva alla maturazione. Nella maggior parte

delle specie, nel seme manca l’endosperma e la massa interna è costituita

dall’embrione, molto sviluppato e con grossi cotiledoni, fra i quali si trova l’abbozzo

della radichetta, più o meno prominente. Sul seme è evidente l’ilo, che è la cicatrice

lasciata dal funicolo (peduncolo che nell’ovario sorregge l’ovulo). Le forme e le

dimensioni del seme sono varie, ma prevalgono quella globosa e quella reniforme, più o

meno appiattita. La germinazione può essere ipogeica, con cotiledoni che non

emergono dal terreno (fava, pisello), o epigeica nel caso in cui i cotiledoni vengono

portati fuori dal terreno (fagiolo, soia) (sl. 20/11, 48, 82).

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Valore biologico delle proteine

I semi (secchi o freschi) ed i legumi giovani vengono utilizzati per l’alimentazione

umana e rappresentano alimenti di elevato valore nutritivo. Essi hanno sempre un

elevato contenuto proteico e, soprattutto in alcune alcune specie (soia, arachidi, lupino),

anche un elevato contenuto di grassi. La composizione proteica è carente di

amminoacidi solforati (cisteina, metionina e triptofano), ma è ricca di lisina. Per

l’alimentazione del bestiame forniscono un ottimo foraggio, che può essere pascolato,

affienato o insilato, mentre c’è un crescente uso nell’alimentazione zootecnica delle

granelle e dei sottoprodotti di utilizzazioni agro-industriali (es. farine di estrazione di

oli) come concentrati proteici. Il loro ruolo è diventato strategico dopo la messa al

bando delle farine proteiche di origine animale a seguito della diffusione della BSE.

Un elemento molto importante per valutare l’effettiva utilizzazione biologica

delle proteine è dato dalla loro digeribilità, essendo i legumi, in generale, ricchi di

composti che interagiscono con le proteine, riducendone la biodisponibilità. La

presenza di questi composti nel seme (fattori antitriptici, tannini, fitati, etc.),

comunemente noti come fattori antinutrizionali, è spesso il risultato di adattamenti

evolutivi che rendono la pianta capace di completare il proprio ciclo anche in presenza

di stress abiotici e biotici (come erbivori, insetti o funghi). Sono composti che vengono

inattivati dal calore e, quindi, dalla cottura dei semi o delle farine.

Esistono antinutrizionali di natura proteica e antinutrizionali non proteici. I

primi sono inibitori di vari enzimi digestivi, come gli inibitori della tripsina (tipo

Bowman-Birk e tipo Kunitz) e gli inibitori dell’alfa-amilasi. Altri antinutrizionali di

natura proteica inibiscono la crescita degli animali o provocano disturbi digestivi, come

le lectine e le emoagglutinine.

Gli antinutrizionali non proteici comprendono l’acido fitico e il mioinositolo,

che si complessano con minerali essenziali e inibiscono, in tal modo, l’attività di alcuni

enzimi, e composti fenolici come i tannini, che possono legarsi alle proteine causando

una riduzione della loro digeribilità. La flatulenza indotta dalla granella di molte

leguminose è provocata da oligosaccaridi indigesti all’uomo e a molti animali

(raffinosio, stachiosio, verbascosio) che sono sprovvisti dell’enzima (alfa-galattosidasi)

preposto alla loro degradazione.

Nuove opportunità per le colture proteiche?

Le colture leguminose rivestono un fondamentale ruolo agronomico, grazie alla

fertilizzazione del suolo arricchito di N mediante la fissazione simbiotica (riduzione

dell’azoto atmosferico ad ammoniaca ad opera del complesso enzimatico della

nitrogenasi) operata dai batteri azotofissatori presenti nei tubercoli radicali di queste

specie (sl. 20/14-19). Ciò sta determinando una ripresa di interesse per queste specie nei

sistemi colturali convenzionali, grazie alla migliore sostenibilità economico-ambientale

che il loro impiego potrebbe determinare, e, soprattutto, nei sistemi biologici come

fondamentale fonte di azoto per tutte le colture. La fissazione biologica dell’azoto

potrebbe ridurre l’impatto negativo che l’agricoltura basata sui fertilizzanti azotati di

sintesi ha sull’ambiente (elevata richiesta di input energetici, emissione di gas ad effetto

serra, inquinamento delle acque).

L’introduzione in semina autunnale di una coltura proteica nei sistemi intensivi

foraggero-zootecnici o cerealicoli potrebbe consentire di incrementare la produzione

aziendale di proteine di elevato valore biologico, complimentando la produzione ad alto

contenuto energetico del mais da insilato. La coltura proteica a semina autunnale (anche

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da insilamento; sl. 20/28) potrebbe apportare alla coltura di mais in secondo raccolto un

beneficio produttivo dovuto all’effetto miglioratore complessivo della prima.

Da diversi anni in ambito europeo si sta discutendo di un rilancio delle colture

proteiche, soprattutto per soddisfare le esigenze delle aziende zootecniche alla luce degli

elevati costi di produzione legati in gran parte all’acquisto di alimenti proteici. L’UE

importa infatti circa il 70% delle proteine vegetali utilizzate per l’alimentazione

zootecnica, coperte soprattutto da oltre 30 M di tonnellate annue di farine di soia (sl.

20/22). Ciò ha creato una forte dipendenza economica e ‘politica’ con profonde

ripercussioni sulla sostenibilità dei sistemi zootecnici europei, senza escludere la sempre

crescente difficoltà di mantenere filiere OGM-free in quei casi in cui ciò sia un

importante vincolo, come nelle filiere dei prodotti a denominazione di origine ed in

quelle biologiche. Le leguminose occupano il 2% delle terre arabili europee, ovvero un

quarto di quanto presente in sistemi agricoli comparabili come il Canada o l’Australia.

Un aumento di 4 volte di tale superficie consentirebbe, alle attuali produzioni medie di

2.1 t/ha, di ridurre del 50% l’importazione di farine di soia extraeuropee. Con la riforma

della PAC in corso di definizione, inizia ad intravedersi qualche interessante segnale di

cambiamento grazie a specifici interventi di sostegno che potrebbero favorire queste

colture. Tra questi, vi è la possibilità di destinare alle colture proteiche fino al 2% della

dotazione nazionale per i pagamenti diretti a favore del ‘sostegno accoppiato’ (artt. 38 e

39 del nuovo regolamento sui pagamenti diretti). Un secondo incentivo è previsto nelle

disposizioni relative al sostegno alle pratiche di greening. L’obbligo della

diversificazione colturale previsto dal greening dovrebbe offrire maggiore spazio alle

colture proteiche come il pisello a scapito dei cereali negli ordinamenti produttivi delle

aziende di maggiori dimensioni. Allo stesso modo, anche la realizzazione di aree di

interesse ecologico prevista dal greening potrebbe contribuire ad un’espansione delle

colture proteiche laddove considera soddisfatto tale obbligo con la semina di colture

azotofissatrici.

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SOIA (Glycine max)

È una specie originaria dell’Asia sud-orientale, derivata dal progenitore selvatico

Glycine soja. In Europa è giunta agli inizi del 1900, inizialmente come alimento per

diabetici in quanto priva di amido. Era diffusa soprattutto nei paesi a clima temperato-

caldo, con abbondanti precipitazioni, ma ormai è coltivata in molte regioni del mondo.

È stata, ed è tuttora, una specie di importanza fondamentale per l’alimentazione umana.

In Italia la coltivazione è stata tentata con scarso successo a partire dagli anni ‘40, ma

solo negli anni ‘60-‘70 ha avuto una significativa espansione. Oltre che come coltura da

granella, può essere impiegata anche come foraggera (per la produzione di fieno,

l’insilamento o il consumo verde) e per sovescio.

In Italia la soia è coltivata su oltre 150 mila ha, concentrati per circa l’80% nelle

regioni del nord-est (sl. 20/33), dove questa specie ha incontrato le condizioni migliori

per la sua diffusione.

Caratteri botanici e biologia

La soia è una specie annuale diploide (numero cromosomico 2n=40) a ciclo

primaverile-estivo, ma con scarsa resistenza alla siccità.

La radice è un fittone dal quale si dipartono dei palchi di radici secondarie con

diverse ramificazioni. Le radici avventizie diventano preponderanti e possono

raggiungere anche i 150 cm di profondità; l’apparato radicale nel complesso è molto

espanso. Sulle radici si formano tubercoli radicali ad opera del batterio simbionte

azotofissatore Bradyrhizobium japonicum, il quale riesce a fissare una quantità di azoto

che può variare tra 60 e 170 kg/ha. L’azotofissazione è il risultato di un delicato

equilibrio tra la pianta ed il batterio: essa è favorita da una buona struttura del terreno,

una sufficiente dotazione di Fe, Mo e B, una limitata disponibilità di N, e condizioni

favorevoli allo sviluppo della coltura (clima, tecnica colturale, varietà, assenza di

malattie). Gli stress idrici causano invece una forte riduzione dell’attività

azotofissatrice.

I fusti di norma sono ricoperti da una peluria di colore bruno o grigio; il fusto

principale, ramificato già dai nodi più bassi, si origina dall’asse embrionale.

La germinazione della soia è epigeica e lo sviluppo può essere determinato (sl.

20/39) o indeterminato (sl. 20/38). Nel primo caso, il numero di nodi varia da 5-8 a 12-

14, l’altezza è ridotta ed il fusto termina con un racemo. Il tipo determinato è di

provenienza giapponese. Nelle piante con sviluppo indeterminato, invece, il numero di

nodi è di 20-22, l’altezza è maggiore (90-130 cm) ed il fusto non presenta un racemo

terminale. Questo tipo è originario della Cina.

Il tipo coltivato in Italia è quello a sviluppo indeterminato, con fusto unico e

poco ramificato. Esso è caratterizzato da un allungamento indefinito dello stelo e da un

lungo periodo di fioritura e di allegagione, durante il quale le piante sono capaci di

recuperare eventuali riduzioni di produzione dovute a condizioni climatiche sfavorevoli.

Le piante di questo tipo sono più resistenti a stress idrici di quelle di tipo determinato.

La fioritura avviene dal basso verso l’alto.

Le piante a sviluppo determinato sono adatte soprattutto ad ambienti con lunga

stagione vegetativa, alte temperature, elevata fertilità del terreno e fotoperiodo breve. In

questo tipo, dal breve periodo di fioritura, fioriscono prima i fiori apicali. Le piante a

sviluppo determinato sono molto resistenti all’allettamento.

Dopo l’emergenza dei cotiledoni compaiono le prime due foglie vere,

unifogliate, opposte ed inserite al primo nodo. Le foglie trifogliate, alterne, sono sempre

pubescenti e di dimensioni variabili: le dimensioni delle singole foglioline (di forma

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lanceolata o romboidale) possono variare da 4 a 20 cm in lunghezza e da 3 a 10 cm in

larghezza. Il colore delle foglie vira al giallo prima della maturazione dei legumi, ed

esse cadono quando i semi hanno ancora più del 20% di umidità.

I fiori sono tipici delle leguminose, di colore bianco o rossastro, piccoli, raccolti

in numero di 2-35 in racemi peduncolati posti all’ascella delle foglie (sl. 20/41). Il

periodo di fioritura nei tipi indeterminati varia da 3 a 5 settimane. Moltissimi fiori (dal

20 all’80%, in genere i primi e gli ultimi fiori emessi) abortiscono entro una settimana

dalla fioritura.

I frutti sono baccelli piccoli, diritti o leggermente ricurvi, coperti di peli, e colore

molto vario, dal giallo al quasi nero (sl. 20/42). I baccelli tendono ad aprirsi a maturità.

Ogni baccello contiene da 1 a 5 semi, normalmente da 2 a 3. Il numero di baccelli per

infiorescenza varia da 1 a 20 circa e può superare i 400 per pianta. In circa 30 giorni il

baccello raggiunge le dimensioni massime, ed in circa 40 il suo massimo peso fresco.

Il seme, come nelle altre leguminose, è privo di endosperma e consiste in un

tegumento seminale che circonda un grande embrione con due cotiledoni, che a maturità

sono di colore giallo o verde. La forma varia con le cultivar, da sferica ad appiattita e

allungata, e il colore può essere da giallo paglierino a nero, anche con combinazioni di

diversi colori (sl. 20/43). Sul tegumento si osserva l’ilo (punto di attacco del seme al

baccello), anch’esso variabile in forma e colore. Le dimensioni del seme possono essere

molto diverse, tanto che il peso di 1000 semi può variare da 50 a 450 g. In genere le

dimensioni maggiori sono quelle dei tipi per l’alimentazione umana.

Esigenze climatiche e adattamento

La soia ha esigenze abbastanza simili a quelle del mais, anche se per la germinazione è

necessaria un’umidità più alta rispetto a quella richiesta per il mais. La temperatura

minima di crescita è di 4-6 °C, mentre quella ottimale è di 24-25 °C. La soia è meno

sensibile del mais agli abbassamenti di temperatura allo stadio di plantula e in fase di

maturazione. È una specie generalmente brevidiurna e certe varietà necessitano di 7-10

ore di buio per fiorire. Tuttavia, le cultivar coltivate in Italia sono fotoindifferenti.

La soia è considerata più aridoresistente del mais, ma presenta comunque certi

stadi di sviluppo in cui è particolarmente suscettibile alla carenza idrica. I periodi critici

sono: la germinazione del seme (sensibile non solo alla carenza ma anche all’eccesso di

umidità), la fioritura, l’inizio della formazione dei baccelli, e l’ultima settimana di

sviluppo dei baccelli con la formazione del seme.

Pur crescendo in modo soddisfacente in una vasta gamma di terreni, sono

sconsigliati quelli troppo umidi, troppo sciolti, troppo acidi o troppo calcarei. Il pH

ottimale è di 6-6.5. Può tollerare una moderata salinità del terreno, pari ad una

conducibilità elettrica (ECe) di 5 dS/m.

Stadi fenologici

Nel ciclo della soia sono stati classificati numerosi stadi fenologici, di cui due nella fase

di germinazione-emergenza, n nella fase vegetativa (corrispondenti ad altrettante foglie

trifogliate completamente sviluppate su n nodi del fusto principale), ed otto nella fase

riproduttiva, dall’inizio fioritura (R1, un fiore aperto su un nodo del fusto principale)

alla piena maturazione (R8, col 95% dei baccelli che hanno raggiunto il tipico colore di

maturazione) (sl. 20/45-47).

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Avvicendamento

La soia può essere seminata come coltura principale o come intercalare (in secondo

raccolto) dopo un cereale a paglia, erbai diversi, etc., con semina non oltre la metà di

giugno. È una coltura con ridotte esigenze e quindi può essere preceduta da diverse

colture (frumento, mais, sorgo, bietola, etc.). La soia può succedere anche a sé stessa,

anche se la monosuccessione può determinare problemi fitosanitari. Per lo stesso

motivo, andrebbero evitate le colture che hanno patogeni in comune con la soia. Ad

esempio, girasole e colza, come la soia, sono sensibili all’attacco di Sclerotinia

sclerotiorum, e per questo vanno distanziate di almeno due anni dalla soia in una

rotazione. Nelle rotazioni si nota il cosiddetto ‘effetto soia’ dovuto al fatto che questa

specie lascia alla coltura successiva circa 30-60 kg/ha di N e circa 6-10 t/ha di sostanza

organica. I cereali, ed il mais in particolare, sono le colture che meglio sfruttano

l’effetto soia.

Lavorazione del terreno

I lavori preparatori del terreno sono quelli comunemente eseguiti per il mais. Nel caso

di semina principale e di terreni argillosi è bene eseguire l’aratura in autunno. In coltura

intercalare può essere interessante l’adozione di sistemi di minima lavorazione (a 10-15

cm) o di semina diretta.

Per germinare, il seme di soia ha bisogno di molta acqua; inoltre, poiché la

germinazione è epigeica e la plantula ha un potere perforante limitato, bisogna evitare la

formazione di croste.

Concimazione

Per una produzione di 3.5 t/ha di granella, vengono stimati dei fabbisogni di circa 230

kg/ha di N, 70 kg/ha di P2O5 e 120 kg/ha di K2O. Dei 230 kg/ha di N, 45 vengono

restituiti sotto forma di residui colturali, e 185 sono asportati con il prodotto. L’azoto

fissato simbioticamente di solito supera la quantità richiesta dalla coltura. Anche una

parte del fosforo e del potassio viene restituita al terreno con i residui. Il fabbisogno di

fosforo è costante, con un picco nei primi stadi di formazione del seme. Questo

elemento favorisce un maggiore accumulo di proteine nel seme. Il potassio agisce

invece positivamente sulla quantità e qualità dell’olio.

Se le piante sono inoculate correttamente, nei terreni fertili non è necessaria la

concimazione azotata. Moderate concimazioni con azoto (80-100 kg/ha) possono essere

raccomandate solo in terreni poco fertili per stimolare le piante a crescere rapidamente

nei primi stadi di sviluppo. Si consigliano invece concimazioni con 50-60 kg/ha di P2O5

localizzate alla semina (o, in alternativa, 70 kg/ha in pieno campo in pre-semina) e 70

kg/ha di K2O alla lavorazione del terreno nei terreni carenti in potassio. In terreni acidi

(pH 5.5), le calcitazioni esercitano un ruolo importante nell’utilizzo del fosforo e del

potassio, migliorando le condizioni di disponibilità di questi elementi.

Inoculazione

Un aspetto fondamentale nella coltivazione della soia è l’inoculo del seme. Perché si

ottenga la fissazione biologica dell’azoto è necessario che vi sia l’apporto di un

adeguato numero di cellule vitali del rizobio specifico (Bradyrhizobium japonicum) sul

tegumento seminale (stimato in un milione di cellule vitali per ogni seme). I preparati a

base di Bradyrhizobium japonicum possono essere in forma polverulenta o granulare. I

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prodotti in polvere vengono utilizzati per eseguire una concia umida dei semi in pre-

semina. Questa operazione viene eseguita utilizzando preparati a base di torba

contenenti Bradyrizobium japonicum che vengono miscelati al seme poche ore prima

della semina. È necessario osservare alcuni accorgimenti tecnici, come operare il

trattamento al riparo dalla luce diretta del sole ed evitare le ore più calde della giornata.

La concia umida è il metodo più efficace di inoculazione. D’altra parte, però, i prodotti

granulari risultano di più pratico impiego, potendo essere distribuiti sulla fila alla

semina.

L’inoculazione è praticamente obbligatoria per la coltivazione in terreni mai

coltivati a soia o in terreni nei quali non si coltiva soia da circa cinque anni. Essa è

inoltre consigliata in terreni poco fertili o troppo acidi. Può essere evitata qualora si

coltivi soia per più anni e le condizioni del terreno siano ottimali.

Nel caso di inefficacia dell’inoculazione, riscontrabile, oltre che dal numero di

noduli presenti, anche dall’ingiallimento e dalle dimensioni ridotte delle foglie, è

consigliabile applicare una concimazione azotata in ragione di 80-100 kg/ha.

Semina

La data di semina nel nord Italia può andare da metà aprile a giugno, con un

investimento che miri ad ottenere 30-45 piante/m2 alla raccolta. La dose di seme

consigliata è di 80 kg/ha di seme, da aumentare con semine tardive. Sono da evitare dosi

eccessive per non favorire l’allettamento.

La distanza sull’interfila sarà di 45 cm nel caso di varietà precoci, e di 60 cm nel

caso di varietà tardive. Sulla fila la distanza sarà di 5.5-6 cm, ridotta a 5 cm nel caso di

semina su sodo. La profondità sarà di 3 cm circa nei terreni pesanti, e di 4-5 cm in quelli

leggeri e sciolti.

Varietà

Esiste un’ampia variabilità genetica per composizione chimica, dimensioni del seme,

struttura della pianta, produttività, resistenza ad avversità, etc. In genere si distinguono

varietà da olio o da proteine, varietà da foraggio e varietà da consumo umano.

Nelle varietà da olio o da proteine (quelle principalmente coltivate in Italia), la

lunghezza del ciclo può variare da 75 a 200 giorni circa. Queste varietà sono suddivise

in 13 classi di precocità, indicate come 000 (la più precoce), 00, 0, I (o 1) e via via fino

alla X (o 10) la più tardiva. Tra una classe e la successiva la durata del ciclo aumenta di

10-15 giorni circa.

Le varietà più precoci (classi 000, 00, 0) sono più adatte per latitudini elevate, in

cui riescono a produrre in maniera soddisfacente anche se seminate tardivamente. Le

varietà più tardive sono invece adatte a latitudini inferiori, in cui vanno seminate presto

per sfruttare il lungo periodo vegetativo. In Italia sono coltivate varietà precoci

appartenenti alle classi 00 (molto precoce, con un ciclo di 90-100 giorni), 0 (precoce,

100-120 giorni), I (semi precoce, 120-130 giorni) o II (semi tardiva, 130-150 giorni).

Dal punto di vista della precocità, l’ideotipo varietale per le condizioni italiane

appartiene ai gruppi di maturazione I o II nel caso di coltura principale, e 0+ o I nel caso

di secondo raccolto. La varietà dovrebbe essere inoltre resistente alle principali malattie

(Sclerotinia, Diaporthe, Phytophtora) e all’allettamento, e presentare un elevato tenore

in proteine.

Le varietà disponibili sono prevalentemente di origine americana, anche se

ormai si comincia a disporre anche di varietà selezionate in Europa. Di recente sono

state iscritte al Registro Nazionale anche alcune varietà selezionate in Italia.

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Controllo delle infestanti

Le principali infestanti della soia sono quelle comuni ad altre colture primaverili-estive

come il mais. Tra le monodicotiledoni si ricordano Echinocloa crus galli (giavone) e

Sorghum halepense, e tra le dicotiledoni varie specie quali Amaranthus spp.,

Chenopodium album (farinello comune), Solanum nigrum (erba morella), Abutilon

theophrasti (cencio molle), Polygonum persicaria e P. lapathifolium, Convolvulus spp.

e Datura stramonium (stramonio comune).

La soia è molto sensibile alla competizione delle malerbe, specialmente nei

primi stadi di sviluppo. Le perdite produttive causate dalle infestanti possono andare dal

20 al 50%. Oggi si va diffondendo la tecnica delle DMR (Dosi Molto Ridotte) di diserbo

in post-emergenza (sl. 20/61). I vantaggi di questa tecnica di controllo sono un ridotto

impiego di prodotti chimici (risparmio economico), il trattamento delle infestanti in

stadi precoci di sviluppo, la possibilità di aggiungere degli additivi (es. oli, solfato

d’ammonio) che aumentino l’azione dei principi attivi, la possibilità di miscela con i

graminicidi, il controllo di infestanti difficili (es. Abutilon) e i ridotti volumi d’acqua

richiesti (250-350 l/ha).

Il controllo delle infestanti può essere anche eseguito mediante una sarchiatura o

fresatura, purché non troppo profonda per non danneggiare le radici.

Controllo dei parassiti

Parassiti animali

La presenza del ragnetto rosso (Tetranycus urticae) (sl. 20/62) va verificata dallo stadio

R1 (inizio foritura) allo stadio R4 (piena formazione dei baccelli). Per l’accertamento

della presenza, va osservata la pagina inferiore delle foglie. Se si supera la soglia di 1-3

forme mobili per foglia bisogna trattare con acaricidi specifici, intervenendo non oltre la

seconda decade di luglio. Le temperature elevate e la scarsa piovosità favoriscono

questo parassita..

La presenza della cimice (Nezara viridula) (sl. 20/63) va monitorata dallo stadio

R3 (inizio formazione dei baccelli) allo stadio R5 (inizio ingrossamento del seme). La

cimice viene rilevata scuotendo le piante poste in due file contigue per 1 m. È

necessario trattare se si supera la presenza di 1-3 individui per metro lineare

dell’interfila.

La soia può essere attaccata da diversi lepidotteri defogliatori (Cyntia cardui,

Udea ferugalis, Tephrina murinaria, Ifantria cunea) (sl. 20/64). La loro presenza è

facilmente riconoscibile a tutti gli stadi riproduttivi (da R1, inizio fioritura, a R6, totale

ingrossamento del seme) per le erosioni che questi insetti provocano sulle foglie. È

necessario trattare se si supera la distruzione del 35% della superficie fogliare prima

della piena fioritura, o del 15 % dopo la piena fioritura.

La soia può essere inoltre attaccata da nematodi, soprattutto in condizioni di

scarsa fertilità e siccità.

Patogeni

Le patologie fungine più temibili sulla soia sono il marciume da sclerotinia (Sclerotinia

sclerotiorum), il cancro dello stelo (Diaporthe phaseolorum var. caulivora) e il

marciume del colletto (Phytophthora megasperma var. sojae).

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I sintomi della sclerotinia (marciume ricoperto da una efflorescenza cotonosa

nella parte basale del fusto) cominciano ad essere evidenti alla fine della fioritura. Il

fungo può sopravvivere nel terreno anche per diversi anni. Oltre che la soia, esso attacca

anche colza, girasole e piante ortive. Per il suo controllo è bene operare una lotta

integrata, che preveda l’avvicendamento colturale, l’aumento della distanza tra le file

fino a 70 cm, un ritardo nell’epoca di semina (impiegando quindi varietà più precoci) e

l’utilizzo di varietà tolleranti.

Il cancro dello stelo si instaura nelle prime fasi vegetative, ma lo si può

osservare durante le fasi riproduttive. I residui delle colture infette costituiscono la fonte

di infezione, mentre gli stress idrici predispongono agli attacchi. Viene condotta una

lotta integrata adottando gli stessi accorgimenti enunciati per la lotta alla slerotinia, ed

una lotta chimica che consiste nella concia del seme.

Il marciume del colletto può colpire la pianta in ogni stadio di sviluppo. Si

manifesta specialmente in terreni pesanti con scarso drenaggio. Come nel caso della

sclerotinia, anche la Phytophtora può sopravvivere a lungo nel terreno. Per combatterla,

si ricorre all’avvicendamento colturale e all’impiego di varietà tolleranti. La lotta

chimica prevede la concia del seme e la distribuzione di fungicidi alla semina.

Altre malattie fungine comprendono la peronospora (Peronospora manshurica),

che può essere controllata con la concia del seme, l’antracnosi (Glomerella glycines),

che può essere controllata con la concia del seme ed anche con arature profonde e ampi

avvicendamenti che non prevedano leguminose, e la rizottoniosi (Rhizoctonia solani),

che può essere controllata con la concia del seme, con arature profonde,

l’avvicendamento, e l’impiego di varietà resistenti.

Altri patogeni non fungini sono la maculatura batterica (Pseudomonas syringae)

trasmessa da seme, che in Italia causa lievi danni, e il virus del mosaico (Soybean

Mosaic Virus), che causa l’arresto dell’accrescimento e la decolorazione dei semi, con

maggiore virulenza sulle cultivar a seme grande.

Avversità abiotiche

La grandine causa notevoli danni, in quanto la defogliazione nel periodo di riempimento

del seme provoca rilevanti diminuzioni di produzione. Anche l’allettamento provoca

spesso delle cospicue perdite produttive, poiché quando la coltura è allettata si perdono

numerosi baccelli che rimangono sul terreno durante la raccolta.

Irrigazione

Nell’Italia settentrionale, in primo raccolto, la soia può essere coltivata senza irrigazione

in terreni franco-argillosi, con elevata capacità di campo. In terreni più sciolti, invece, la

coltura necessita di interventi irrigui. Una buona disponibilità idrica durante la fioritura

aumenta il numero di fiori prodotti, mentre una buona disponibilità durante la

granigione determina un incremento del peso unitario del seme. In questo caso, si ha

una risposta ottimale se l’intervento irriguo viene eseguito nella fase di inizio

ingrossamento del seme (R5). L’irrigazione è sempre indispensabile nel caso di

coltivazione della soia in seconda raccolta.

Raccolta

Il momento opportuno della raccolta è quando la coltura ha perso le foglie e i baccelli

sono di colore bruno. In quello stadio l’umidità della granella varia dal 14 al 20%. La

raccolta può essere eseguita con mietitrebbie con testata da grano ordinaria, oppure con

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una testata da grano modificata, con una piattaforma di taglio più flessibile che consente

un perfetto adeguamento a qualsiasi tipo di terreno. La piattaforma è dotata di tastatori

che permettono di mantenere un’altezza minima di taglio su tutta la lunghezza della

barra.

Nella raccolta si può andare incontro a rilevanti perdite di prodotto, causate dalla

deiscenza dei baccelli prima della raccolta, o dalla presenza di semi o baccelli sgranati o

rotti per azione dell’aspo della mietitrebbia, o dalla mancata sgusciatura di una parte dei

semi, o dalla presenza di piante allettate e non raccolte dalla mietitrebbia. Per ridurre le

perdite causate dall’allettamento, è necessario abbassare la barra falciante e ridurre la

velocità di avanzamento.

Qualora fosse necessario a causa dell’umidità della granella alla raccolta, si può

ricorrere all’essiccazione della stessa.

Caratteristiche qualitative

La soia è divenuta una specie agraria importante perché il seme maturo è ricco in

proteine e grassi. Le varietà comunemente utilizzate hanno un contenuto proteico medio

del 40-41%, ma con punte anche più elevate, e un contenuto in olio del 20-24% sulla

sostanza secca. La proteina è abbastanza ben bilanciata negli amminoacidi essenziali,

sebbene sia piuttosto povera in metionina e cisteina, ma è più alta in lisina e triptofano

rispetto ai cereali comuni.

L’olio contiene circa il 12-14% di acidi grassi saturi (palmitico e stearico) e il

resto è costituito da acidi grassi insaturi: oleico (30-35%), linoleico (44-56%) e α-

linolenico (5-10%). L’olio grezzo ha un colore scuro, sapore sgradevole e scarsa

stabilità. Dall’olio grezzo, mediante trattamenti, si separano la lecitina di soia e l’olio

degommificato. La lecitina è usata come agente emulsionante e stabilizzante, mentre

l’olio degommificato, sottoposto a raffinazione, decolorazione e deodorazione, viene

reso adatto al consumo come condimento, per la cottura, o per la preparazione di

margarina, o ad usi non alimentari (saponi, cosmetici, inchiostri, materie plastiche,

linoleum, etc.).

Il miglioramento genetico ha consentito la selezione di varietà a basso contenuto

in acido palmitico (4.4%), usate nella produzione di olio da condimento. Sono state

selezionate anche varietà a più basso contenuto in acido α-linolenico (4%), che

consentono di ridurre il sapore sgradevole conferito da questo acido e migliorano la

conservabilità dell’olio. Sempre mediante selezione genetica sono state identificate

varietà a più alto contenuto in acidi saturi, destinate alla produzione di margarina.

I metodi di estrazione possono essere per pressione o per mezzo di solventi

(esano). Questo secondo metodo dà un’estrazione meno completa di quella meccanica

per pressione (con residui di olio non estratti di circa il 4% rispetto allo 0.5%

dell’estrazione meccanica) ma è meno costoso per lavorazioni di grandi quantità di

semi. L’estrazione dell’olio con solventi prevede lo schiacciamento del seme, per

staccare i tegumenti e rompere i cotiledoni, il trattamento a caldo (63-74 °C) ad umidità

del 10-11% per inattivare i fattori antinutrizionali, e la macinazione. L’olio viene infine

estratto con solventi dalla farina. La farina sgrassata, con un contenuto proteico fino al

49%, viene largamente utilizzata come alimento zootecnico. L’impiego diretto per uso

zootecnico della granella o dello sfarinato di soia tal quale è impedito dalla presenza di

fattori antinutrizionali, che inibiscono la completa utilizzazione della proteina da parte

degli animali e dell’uomo. In particolare, sono presenti due fattori inibitori della

proteasi (il Kunitz trypsin inhibitor, o SBTI-A2, e il Bowman-Birk inhibitor) che

agiscono nei confronti della tripsina e della chimotripsina. Questi fattori, presenti nel

seme crudo, vengono però eliminati col trattamento termico.

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Utilizzazione della soia

Della soia si possono utilizzare i semi interi, per l’aggiunta a farine o alimenti a base di

cereali, per la preparazione di alimenti orientali, o per l’alimentazione zootecnica; l’olio,

per la preparazione di prodotti alimentari o di prodotti industriali; e la farina, integrale o

di estrazione: dalla prima si ricavano prodotti alimentari e prodotti industriali, mentre la

farina di estrazione è basilare per la preparazione di alimenti zootecnici, oltre che per la

preparazione di concentrati proteici (70% proteina) o isolati proteici (90% proteina).

Con gli isolati si possono produrre alimenti simili alla carne di pollo o vitello,

integrativi della panificazione, o altri prodotti alimentari (soyfoods), oltre ad avere

anche un’utilizzazione non alimentare (adesivi, carta).

Tra i prodotti alimentari a base di soia, oltre ai germogli (semi germinati), si

ricordano il latte di soia, ottenuto facendo bollire in acqua la soia macinata, la salsa di

soia, ottenuta per lunga fermentazione di un infuso di soia bollita e farina di frumento, e

il formaggio di soia, ottenuto per coagulazione delle proteine del latte di soia.

Miglioramento genetico

La soia è una specie autogama e quindi per il suo miglioramento genetico vengono

impiegate le stesse tecniche adottate per le altre specie autogame (selezione

genealogica, selezione ricorrente, single-seed descent, etc.).

I principali obiettivi del miglioramento genetico sono: l’alta produzione, con

elevato contenuto in olio e/o proteine; l’adattamento alle diverse aree di produzione

(con particolare riferimento alla resistenza alla siccità); la resistenza all’allettamento; la

resistenza alla sgranatura (selezione di baccelli indeiscenti); la resistenza alle malattie;

la resistenza a diserbanti totali come il glifosate; una migliore qualità dell’olio (ad

esempio, una soia ad alto contenuto in acido oleico o a basso contenuto in acido

palmitico); una migliore qualità della proteina (maggiore concentrazione di cisteina e

metionina). Il miglioramento della qualità della soia prevede anche la diminuzione del

contenuto di sostanzi antinutrizionali del seme. Sono state recentemente iscritte al

Registro Nazionale delle Varietà alcune selezioni di diversa precocità, dal gruppo 0 al

gruppo 2, con un’attività antitriptica praticamente dimezzata (10-12 mg di SBTI-A2 per

g di farina integrale) rispetto a quella rilevata inizialmente nelle varietà commerciali più

diffuse in Italia (> 22 mg/g).

L’ideotipo della pianta dovrebbe avere una conformazione tale da consentire

un’uniforme penetrazione della luce, con foglie più piccole a portamento assurgente,

un’altezza non elevata per diminuire il rischio di allettamento, e il primo nodo fiorale

inserito in alto, in modo da agevolare la raccolta meccanica.

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PISELLO (Pisum sativum)

Non si conoscono i progenitori selvatici del pisello, che risulta essere coltivato fin dal

Neolitico (7000 a.C.). Probabilmente la specie è originaria di zone dell’India

settentrionale. È coltivato in tutto il mondo, in particolare nei paesi asiatici (India,

Cina).

La produzione è orientata sul pisello fresco, o da consumo diretto, sul pisello da

pieno campo per l’industria conserviera (inscatolamento, surgelazione), e sul pisello per

granella secca per alimentazione umana o zootecnica (‘pisello proteico’). Il pisello è

usato largamente anche come foraggera da erbaio.

Caratteri botanici

Il pisello è una pianta diploide (2n=14), annuale, glabra e glauca, con un solo stelo

cilindrico sottile e debole, di lunghezza variabile da 0.30 a 3 metri (si distinguono piselli

nani, seminani e rampicanti). Nei piselli rampicanti da orto lo sviluppo è indeterminato,

dando luogo ad una fruttificazione continua e protratta nel tempo. Quelli nani hanno

portamento semi-eretto e sono a sviluppo determinato, per cui la fioritura e la

maturazione dei vari palchi fiorali avvengono in un tempo alquanto breve. La gracilità

dei fusti ha come effetto che le colture di pisello tendono a prostrarsi a terra, a meno che

non siano fornite di sostegni (frasche, reti) come nella coltura ortiva. Nelle coltivazioni

in pieno campo, e soprattutto in quelle da granella secca da raccogliere a piena

maturazione, il fatto che la vegetazione sia prostrata al suolo rende difficoltosa la

mietitrebbiatura, dando luogo a consistenti perdite di prodotto.

Il pisello ha una radice marcatamente fittonante, che si sviluppa fino a 0.80 m di

profondità, con numerose ramificazioni.

Le foglie sono pennate, composte: da 2-4 paia di foglioline grandi, ovate, intere;

da uno o più paia di foglioline trasformate in cirri; da un cirro terminale ramificato e

sviluppatissimo; e da un paio di stipole di dimensioni simili, o addirittura più grandi,

alle vere foglioline (è questa una caratteristica tipica della specie).

I fiori sono lungamente peduncolati e si formano in numero da 1 a 4 su racemi

ascellari emergenti dai nodi mediani e superiori dello stelo. La corolla è grande e

vistosa, di solito di colore bianco o rosso-violetto. La fecondazione è autogama e il

frutto è un baccello liscio, quasi cilindrico, contenente numerosi semi (4-10). La

germinazione dei semi è ipogeica, con i cotiledoni che restano sottoterra mentre emerge

il fusticino (epicotile), incurvato. I semi di pisello sono variabili per forma, colore e

dimensioni. La forma è normalmente rotondeggiante ma può essere cuboide nelle forme

in cui i semi sono molto serrati nel baccello. Il peso di 1000 semi può variare da 100 a

500 g. Un’importante differenza di forma è quella tra semi lisci e semi grinzosi, causata

dal diverso biochimismo dell’accumulo di carboidrati nei cotiledoni. Nei semi lisci, a

maturazione è presente prevalentemente amido; in quelli grinzosi poco più della metà

dei carboidrati di riserva è costituita da amido mentre il resto è formata da zuccheri

solubili, la cui presenza fa sì che i semi restino dolci e teneri a lungo durante la

maturazione. Questo è un vantaggio rispetto ai piselli a seme liscio i quali, se non

raccolti al momento giusto, rapidamente si induriscono e perdono la loro dolcezza. I

piselli a seme grande, verde e grinzoso vanno bene per la surgelazione, mentre per

l’inscatolamento si preferiscono piselli a seme piccolo e liscio.

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Esigenze ambientali

Il pisello è una pianta microterma che ha limitate esigenze di temperature per crescere e

svilupparsi, e rifugge dai forti calori e dalla siccità. In Italia, la semina è autunnale nelle

regioni a inverno mite (centro-meridionali), mentre in quelle settentrionali la semina

autunnale può essere adottata solo con varietà resistenti al freddo; in caso contrario, si

può seminare solo dopo l’inverno.

Il pisello germina con accettabile prontezza con temperature del terreno intorno

a 4 °C, mentre la temperatura ottimale per il compimento del ciclo vitale è compresa tra

15 e 18 °C. La resistenza al freddo del pisello è limitata, ma varia molto con il grado di

sviluppo della pianta e con la varietà. La fase di massima resistenza è lo stadio di 4-5

foglie, in cui sopporta senza danno temperature fino a –8 °C. Allo stadio di fioritura,

anche gelate leggere sono dannose.

In generale, però, la maggiore intolleranza del pisello è per le alte temperature.

Forti calori durante la fase di riempimento dei semi da raccogliere freschi ne accelerano

troppo la maturazione e ne provocano il rapido indurimento, con gravissimo pregiudizio

per la qualità. La maturazione avviene invece con gradualità, e la raccolta può essere

eseguita con tranquillità, in condizioni di temperatura moderata e di elevata umidità

dell’aria.

Il pisello teme moltissimo i ristagni di umidità che rendono il terreno freddo e

asfittico. Non ha esigenze particolari riguardo al terreno, tuttavia i terreni più adatti sono

quelli piuttosto sciolti, caldi, ben aerati, con moderato contenuto di calcare e pH

compreso tra 6.5 e 7.5, di buona capacità idrica.

Varietà

L’ideotipo è diverso a seconda che la destinazione del prodotto sia il mercato orticolo

oppure l’industria conserviera (granella immatura) o mangimistica (granella secca;

insilato). Nel primo caso, essendo la raccolta manuale, si richiede precocità e scalarità di

maturazione in modo da allungare la presenza del prodotto sul mercato.

Per il pisello da pieno campo per l’industria conserviera, si tende alla completa

meccanizzazione, fino alla raccolta che deve essere unica, per cui le regole da seguire

sono le seguenti: scelta di varietà nane, a maturazione contemporanea, a bassa ‘velocità

di maturazione’, cioè con semi che si mantengano teneri e dolci anche in caso di

raccolta un po’ ritardata. È inoltre necessario assicurare all’industria una lavorazione

prolungata e uniforme: ciò mediante coltivazioni opportunamente pianificate per quanto

riguarda epoca di semina e precocità delle varietà. Il panorama varietale è vastissimo e

in rapida evoluzione. Per l’inscatolamento sono richiesti semi di colore verde chiaro,

piccoli e lisci. Le varietà da surgelazione sono a semi verde scuro, medi o grandi,

grinzosi (che restano dolci a lungo).

Per la coltura da granella secca, caratteristiche apprezzate sono l’alto contenuto

proteico dei semi, il seme piuttosto piccolo (che consente di risparmiare sulla semente),

il portamento eretto delle piante a maturità e la resistenza all’allettamento (sl. 20/90), in

modo che la mietitrebbiatura non dia luogo a perdite eccessive. Quest’ultimo requisito è

posseduto da certe varietà di pisello espressamente selezionate per avere un eccezionale

sviluppo dei cirri fogliari: l’intreccio dei cirri di piante vicine fa sì che tutta la

vegetazione si sorregga da sé. Le varietà di questo tipo sono dette leafless o afile perché

hanno trasformate in cirri tutte le foglie vere, così che solo le grandi stipole conservano

il loro aspetto fogliaceo (sl. 20/88-89). Anche per l’insilamento, sia in purezza che in

consociazione con un cereale vernino (frumento; triticale), la varietà deve essere ad

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abito eretto, di alta taglia e afila, per garantire una buona tolleranza all’allettamento e, in

caso di consociazione col cereale, una maggiore capacità di competizione.

Tecnica colturale

Il pisello è una precessione ottima per il frumento, in quanto libera presto il terreno, lo

lascia assai rinettato dalle malerbe e lascia un buon residuo di azoto, stimabile

nell’ordine di 40-60 kg/ha. Esso è quindi coltivabile tra due cereali autunnali.

È buona norma prevedere un intervallo di almeno 4 o 5 anni prima di far tornare il

pisello sullo stesso terreno, a causa delle malattie a cui può essere soggetto.

Concimazione e preparazione del terreno

La concimazione minerale più importante è quella fosfatica, sempre necessaria nella

misura di 60-80 kg/ha di P2O5. Il potassio va somministrato in caso di terreni poveri di

questo elemento, mentre l’azoto non dà, in genere, risposte apprezzabili: al massimo

potrebbero essere apportati 20-30 kg/ha di azoto alla semina.

La preparazione del terreno è molto simile a quella per il frumento: lavorazione

a media profondità, affinamento delle zolle anche in profondità per evitare cavernosità,

ma affinamento superficiale non particolarmente spinto, data la grande dimensione del

seme. Un fattore che invece ha grande importanza è lo spianamento e la

regolarizzazione superficiale dei campi, che devono essere perfetti per rendere più

agevole il successivo lavoro della mietitrebbiatrice.

Semina

L’epoca di semina più comune nelle regioni del Centro-Nord, dove la coltivazione del

pisello da granella è attualmente più diffusa, è in febbraio, appena la temperatura del

terreno è risalita a 5-6 °C. Ove si disponga di varietà abbastanza resistenti al freddo, la

semina autunnale è da preferire, anche se va fatta in tempo perché all’arrivo dei freddi le

piantine abbiano raggiunto almeno lo stadio di 3-4 foglie. La semina autunnale anticipa

il ciclo in primavera, aumentando la quantità di radiazione intercettata che, a sua volta,

innalza la quantità di fotosintetati che si accumula nel seme. La fioritura anticipata

consente, nello stesso tempo, di ridurre i rischi di stress da siccità ed alte temperature.

D’altro lato, però, la semina autunnale espone le piante al rischio di basse temperature e

di malattie che colpiscono l’apparato arereo, particolarmente aggressive sulle piante

sofferenti per lo stress termico (Ascochyta, etc.). In genere l’epoca di semina è ottobre

nel Nord Italia e novembre nel Centro-Sud (qualche giorno prima del frumento). Nel

caso di colture per l’industria conserviera, le semine si eseguono scalarmente, in modo

da prolungare il periodo di raccolta per la trasformazione.

La semina in pieno campo viene eseguita a file distanti 18-25 cm, in modo da

determinare maggiore competizione verso le erbe infestanti e facilitare la raccolta

meccanica. Il pisello si semina a 70-100 semi/m2 per avere da 50 a 70 piante/m

2.

Peraltro, ramificandosi, la coltura riesce più o meno a compensare difetti di densità. A

seconda del peso medio dei semi, le quantità di semina oscillano da 150 a oltre 250

kg/ha. Per la semina si usano in genere le seminatrici universali da frumento, avendo

cura di controllare che non si abbiano danni al seme da parte degli organi distributori.

I semi vanno posti alla profondità di 5-7 cm, onde ridurre la predazione da parte

di uccelli e roditori.

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Cure colturali e diserbo

Interventi meccanici nel corso della coltivazione sono impossibili, data la fittezza delle

file e, d’altra parte, questi sono resi non necessari dal diserbo chimico. Il controllo delle

erbe infestanti del pisello può essere infatti realizzato con efficacia mediante il diserbo

chimico. Spesso esso richiede due interventi: uno in pre-semina o in pre-emergenza e un

altro eventuale in post-emergenza (sl. 20/97). Trattamenti chimici possono rendersi

necessari anche per combattere le avversità biotiche.

Raccolta e utilizzazione

Il pisello da industria va raccolto ad un giusto grado di maturazione, definito dalla

tenerezza del seme valutata in gradi tenderometrici. I piselli al di sotto di 90 gradi

tenderometrici sono troppo teneri, quelli al di sopra di 130 sono troppo duri: il grado di

maturazione più conveniente è di 110 gradi. Un altro aspetto qualitativo importante nel

determinare il momento per raccogliere il pisello da inscatolamento è il diametro dei

semi.

La raccolta del pisello da industria oggi prevede prevalentemente la ‘pettina-

sgranatura’, con macchina semovente che stacca i baccelli e sgrana solo questi. Questa

soluzione è quella attualmente preferita per la velocità di esecuzione (1 ora/ha), rispetto

alle operazioni di falcia-andanatura in campo e sgranatura in stabilimento, o falcia-

sgranatura in campo.

I piselli secchi si raccolgono con le mietitrebbiatrici da frumento, evitando di

attendere che i baccelli e i semi si dissecchino troppo (per evitare forti perdite per

sgranatura). Le produzioni ordinarie di buone colture sono 4-4.5 t/ha di semi freschi

sgranati di pisello da industria, e di 3.5-4 t/ha di granella secca.

Avversità e parassiti

Parassiti vegetali

Le principali avversità in cui il pisello può incorrere sono l’antracnosi, la peronospora e

la fusariosi.

L’antracnosi è un insieme di sintomatologie (sl. 20/100-101) causate da funghi

del complesso Ascochyta, di cui spesso si riscontrano due o tre specie

contemporaneamente: Ascochyta pisi, A. pinodes, di cui viene più spesso citata la forma

perfetta Mycosphaerella pinodes, e A. pinodella, designata anche come Phoma

medicaginis var. pinodella. I sintomi si presentano con macchie su foglie, baccelli, steli,

stipole e fiori, o con imbrunimento dello stelo e marciume del piede, causando gravi

danni sia alla produzione che alla qualità. Sono funghi endemici nelle zone di

coltivazione del pisello e si conservano da un anno all’altro nei residui colturali o nel

terreno. A primavera, le spore sono portate dal vento o dalla pioggia, causando infezioni

primarie sulle colture. La lotta si basa sull’uso di seme sano, sul trattamento del seme

con concianti (benzimidazolici e ftalamidici), sull’interramento dei residui colturali

subito dopo la raccolta per evitare la dispersione delle spore fungine e sulle rotazioni

colturali, in attesa che il miglioramento genetico possa rendere disponibili delle varietà

resistenti.

La peronospora è causata dal fungo Peronospora pisi e si manifesta in periodi

freddi e piovosi, formando sulle foglie e sui baccelli delle macchie prima traslucide poi

brune, che producono quindi un’efflorescenza di colore bruno-biancastro costitutita dai

conidiofori e dai conidi. La lotta si basa sulla disinfezione del seme con prodotti

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sistemici (Metalaxil o Cimoxanil), sull’eliminazione dei residui colturali, sui trattamenti

eradicanti precoci con prodotti sistemici (fenilammidi e altri), e sull’uso di varietà

resistenti.

La fusariosi, causata da funghi tracheicoli del genere Fusarium e, in particolare,

da F. oxysporum f. sp. pisi, provoca necrosi del colletto con conseguente ingiallimento e

avvizzimento rapido delle piantine. La lotta a questa malattia si basa quasi

esclusivamente sull’utilizzazione di varietà resistenti.

Parassiti animali

Gli afidi verde (Acyrthosiphon pisum) e nero (Aphis fabae) formano colonie sulle foglie

causando il deperimento delle piante e diffondono le virosi del pisello (Pea Enation

Mosaic Virus, PEMV e Pea Mosaic Virus, PMV; sl. 20/105). In certe annate può

rendersi necessario effettuarne il controllo chimico.

I semi sono molto soggetti ad essere attaccati dal tonchio (Bruchus pisorum) (sl.

20/106-107), che alla fine della fioritura depone le uova sui piccoli baccelli nei cui semi

le larve poi passano e si sviluppano.

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GIRASOLE

La produzione di lipidi, caratteristica comune a tutte le piante, consente di individuare

un certo numero di specie nelle quali la concentrazione dei grassi in qualche organo è

così elevata da renderne possibile e conveniente lo sfruttamento.

La gran parte delle riserve lipidiche si trova accumulata nei semi o nei frutti, ma

non di rado vengono depositate anche in altri organi. Tale caratteristica è presente in

numerose piante erbacee ed arboree delle zone temperate e tropicali, appartenenti a

diverse famiglie botaniche.

Circa una quindicina di piante forniscono più del 90% della produzione

mondiale di oli vegetali. In Europa, le specie oleifere più importanti sono l’olivo, il

girasole, la soia e alcune crucifere. In America settentrionale sono la soia, il cotone e

l’arachide. In America meridionale, il cotone, il sesamo, l’arachide, la palma da cocco,

il girasole e il ricino. In Africa, il cotone, il sesamo, l’arachide e varie palme. In Asia, la

soia, il cotone, il lino, alcune crucifere, l’arachide e varie palme.

Il girasole appartiene al genere Helianthus, di cui sono note circa 70 specie diploidi

(2n=34). Due specie sono economicamente importanti nel genere: il girasole

(Helianthus annuus) e il topinambur (H. tuberosus), entrambe originarie del nord

America (tra Messico e Stati Uniti).

La domesticazione del girasole è iniziata circa 3000 anni a.C. e la specie era

largamente coltivata in America prima dell’arrivo degli europei. Fu introdotta in Spagna

per la prima volta nel 1510, e inizialmente destò interesse come pianta ornamentale,

officinale (per l’attività cicatrizzante del lattice e le proprietà diuretiche dell’infuso) e

antimalarica. Nel 1716, in Inghilterra, si scoprì il suo ruolo di pianta oleaginosa, ma la

sua importanza si accrebbe a partire dal 1835, quando in Russia fu costruita la prima

macchina per l’estrazione dell’olio a livello industriale. A partire dal XIX secolo iniziò

la grande diffusione della specie nei paesi dell’est europeo. Oggi il girasole occupa il

secondo posto dopo la soia per la produzione di olio nel mondo, ed è coltivato in

America, Eurasia, Africa e Australia.

Le rese variano molto da un ambiente all’altro (es. da 0.57 t/ha dell’India, a 1.7

dell’Argentina, a 2.5 della Francia); la produzione mondiale è di circa 26.8 milioni di

tonnellate, con una produzione in olio di circa 9.5 milioni di tonnellate. L’olio prodotto

è di ottima qualità sia per il suo valore nutrizionale, che per la sua stabilità e per le sue

caratteristiche fisico-chimiche (sl. 21/11).

La superficie coltivata in Italia è oggi di poco superiore a 100 mila ha, in gran

parte localizzata nelle regioni centrali (sl. 21/13). Un’importante quota della superficie

coltivata (poco meno del 10%) è destinata alla produzione di olio ‘no food’ per la

preparazione di biodiesel.

Caratteristiche botaniche

Il ciclo della pianta è annuale, con notevole sviluppo dei suoi organi vegetativi. La

radice è un fittone molto sviluppato (a volte la sua lunghezza supera quella del fusto),

con abbondante capillizio radicale. La radice si accresce più rapidamente della parte

aerea, raggiungendo il massimo sviluppo ad inizio fioritura, con una profondità di circa

2 m.

Il fusto è eretto, vigoroso, cilindrico, pieno di midollo, con un’altezza variabile

da 60 a 220 cm, e un diametro di 2-5 cm, ineguale nei diversi tratti. A maturità, il fusto

tende a piegarsi al di sotto della calatide. I fusti più forti sono quelli dotati di internodi

corti e piccioli fogliari lunghi. Nelle forme migliorate il fusto è privo di ramificazioni,

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le quali costituiscono un carattere negativo dato che le calatidi secondarie maturano più

tardi e producono semi più piccoli.

Le foglie sono alterne, grandi, ovate, acute o acuminate, con margine dentato,

pubescenti su entrambe le pagine. Il numero di foglie per pianta varia da 12 a 40, con

3000-6000 cm2 di superficie totale. Il picciolo ha un’elevata elasticità che impedisce

alla foglia di essere danneggiata dal vento nonostante la grande superficie esposta.

L’infiorescenza (calatide) è un capolino con numerosi fiori (1000-1500, ma

anche fino a 3000) su di un ricettacolo discoidale di 10-40 cm di diametro (sl. 21/17).

In fase di antesi, la calatide effettua dei movimenti di rotazione per i quali la superficie

discoidale forma costantemente un angolo retto con la direzione dei raggi del sole

(eliotropismo).

Esistono due tipi di fiori, quelli ligulati, asessuati o raramente femminili, sterili,

di colore giallo-dorato, riuniti in 1-2 file in quella che è impropriamente definita

‘corolla’, e quelli tubulari, ermafroditi, disposti ad archi spiralati che irradiano dal

centro del disco (sl. 21/15-16).

Il frutto è un achenio (detto impropriamente seme), compresso, con pericarpo

duro e fibroso, di colore dal bianco al nero, con nervature bianche o grigie, largo 3.5-9

mm e lungo 7.5-17 mm (sl. 21/18). Il peso di 1000 semi è di 60 g circa.

Nel ciclo della pianta, di durata variabile da 110 a 150 giorni, si distinguono

diverse fasi, ognuna delle quali caratterizzata da sotto-fasi (sl. 21/20-23).

Germinazione ed emergenza: varia dai 5 ai 7 giorni, in funzione della

temperatura del suolo, della profondità di semina e dell’umidità. Le varietà precoci

emergono più rapidamente di quelle tardive.

Formazione delle foglie: la durata di questa fase di crescita attiva ed il numero di

foglie formate variano in relazione alla varietà, alla luminosità, alla temperatura, alle

condizioni di nutrizione e all’umidità presente nel terreno. La pianta può differenziare

sino a 10-15 coppie di foglie.

Differenziazione dei primordi del ricettacolo (apice vegetativo): la formazione di

un ricettacolo grande con elevato numero di fiori è condizionata dalla crescita vigorosa

della pianta nella fase precedente. La fase termina 5-7 giorni prima che il bottone fiorale

sia visibile.

Fioritura: in questa fase l’altezza della pianta è ormai definita; rallenta

l’accumulo di sostanza secca, che inizia a migrare verso la calatide.

Formazione e riempimento del seme: la durata dipende dalla temperatura

dell’aria e dall’umidità del terreno.

Maturazione: dura 30-40 giorni in funzione delle condizioni climatiche. Inizia

con la caduta dei fiori ligulati, quando il dorso della calatide è ancora verde, e termina

quando tutti gli organi della pianta sono di colore bruno-scuro e l’umidità degli acheni è

vicina al 10%. La raccolta avviene solitamente tra la fine di agosto e l’inizio di

settembre.

Esigenze ambientali

Temperatura

Le temperature ottimali sono di circa 15 °C per la germinazione, 18 °C nelle prime fasi

di sviluppo e 20 °C per la fioritura-maturazione; lo zero di vegetazione è pari a 5 °C. La

semina può anticipare, sia pure di poco, quella del mais. Come plantula il girasole è in

grado di resistere anche a temperature di –5° C; ritorni di freddo durante la fase di

crescita più intensa causano la ramificazione del fusto. Temperature sub-ottimali

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durante la fioritura causano la sterilità più o meno accentuata della calatide.

Temperature elevate durante la maturazione aumentano il contenuto di acido oleico

dell’olio, mentre temperature più basse favoriscono l’accumulo di acido linoleico.

Umidità

I consumi idrici unitari medi sono di circa 425 l/kg di sostanza secca prodotta (WUE =

2.35 g s.s/l H2O, mediamente inferiore a quella del mais). Con una produzione di 9 t/ha

di sostanza secca (di cui circa 2.5 t/ha di seme), il consumo stimato è di oltre 3800

m3/ha.

Il periodo critico per l’approvvigionamento idrico è quello che va dalla fase di

crescita attiva a quella dell’ingrossamento degli acheni, ed in particolare durante la

fioritura. La pianta ha una grande capacità di attingere acqua anche in profondità, grazie

all’ampio apparato radicale. Alcune cultivar hanno la capacità di chiudere gli stomi alle

alte temperature, diminuendo così la traspirazione e i consumi idrici, che altrimenti

tendono ad essere piuttosto elevati.

Luce

Il girasole è un specie neutrodiurna, anche se si possono trovare tipi a giorno lungo o a

giorno breve. Manifesta comunque una particolare sensibilità all’intensità luminosa,

soprattutto nella fase di formazione del polline. Le foglie mediane sono quelle che

hanno la più alta capacità fotosintetica e da questo deriva l’importanza di un giusto

investimento, per evitare che l’ombreggiamento causi una riduzione della resa in acheni

e del contenuto in olio. Il girasole è una pianta C3 con elevata attività fotosintetica, a cui

però non fa riscontro altrettanta efficienza di trasformazione. È necessario un LAI

adeguato (2.5-3) per intercettare ed utilizzare sufficientemente la luce.

Terreno

In fatto di terreno, le esigenze non sono eccessive, purché esso sia dotato di alta capacità

di ritenzione idrica. Poco adatti sono i terreni molto sabbiosi e quelli troppo pesanti;

predilige i terreni sub-acidi, anche se non ha particolari esigenze in fatto di reazione, e

tollera moderatamente la salinità.

Tecnica colturale

Il girasole è una tipica coltura da rinnovo; l’entità e la composizione dei residui lasciati

(50 kg/ha di azoto, 25 di fosforo e 220 di potassio) sono ottimi apporti per la coltura che

segue. Inoltre, rispetto ad altre colture a semina primaverile, permette di liberare il

terreno relativamente presto e di prepararlo con maggiore cura per la coltura successiva.

Fino ad alcuni decenni fa, il girasole era largamente coltivato in monosuccessione; in

seguito si diffuse la rotazione biennale girasole-frumento. Oggi si tende a sostituire

questa classica rotazione con avvicendamenti più lunghi (es. girasole-frumento-orzo o

girasole-frumento-sorgo-frumento), in cui il girasole ritorna meno frequentemente sullo

stesso appezzamento, per evitare la diffusione di parassiti come sclerotinia o

macrofomina (sl. 21/29). Bisogna anche evitare colture avvicendate che abbiano dei

parassiti comuni: come già indicato, soia, colza e girasole sono sensibili ad attacchi di

sclerotinia, e quindi nell’avvicendamento devono distare tra loro almeno due anni,

intercalando se possibile un cereale.

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Le lavorazioni del terreno dipendono dalle caratteristiche dell’ambiente di

coltivazione, ma è importante una buona preparazione che renda possibile ottenere un

buon letto di semina. Un terreno ben preparato deve consentire nascite uniformi e rapide

e favorire il radicamento profondo della pianta, che troverà negli strati meno superficiali

le maggiori riserve idriche. In genere, è opportuna un’aratura profonda (50-60 cm), di

solito eseguita in estate, o una lavorazione a due strati. Il terreno dovrà essere ben

amminutato nei primi 6-8 cm.

Le esigenze termiche non troppo elevate per la germinazione consentono di

effettuare semine abbastanza precoci. L’epoca di semina dovrà opportunamente

conciliare l’esigenza di concludere prima possibile il ciclo ed evitare gli effetti negativi

della carenza idrica in fase di maturazione con l’esigenza di evitare le basse temperature

nelle fasi sensibili della coltura. La semina viene effettuata da metà febbraio alla fine di

marzo al Centro (sl. 21/32), da inizio marzo alla prima metà di aprile al Nord, e da

inizio febbraio a non oltre la metà di marzo al Sud.

La semina viene fatta a file distanti 70-75 cm (a distanza minore, circa 45 cm,

con ibridi a taglia bassa), con seminatrice di precisione, curando la distanza di semina in

modo da avere, senza diradamento, 5-6 piante/m2 al Centro (sl. 21/33), 5 al Sud, e 6-7 al

Nord. La distanza sulla fila sarà di 18-20 cm per la semina con file distanti 75 cm, e di

30-32 cm con file distanti 45 cm. La quantità di seme per ettaro è di 5-6 kg (la quantità

va aumentata del 10% per eventuali semine su sodo). Il seme di girasole viene

normalmente venduto in dosi da 70000 o 75000 semi (pari a 4-6 kg), normalmente

calibrate e conciate. La profondità di semina è di 3-4 cm.

Varietà

Le varietà di girasole oggi maggiormente impiegate sono degli ibridi, che vengono

suddivisi, in funzione della durata del ciclo biologico, in precoci, medi e tardivi. Tra gli

ibridi di media precocità (che sono i più diffusi) vengono ulteriormente distinti quelli

medio-precoci e quelli medio-tardivi. La durata media del periodo emergenza-fioritura

può variare dai 59 giorni degli ibridi precoci ai 70 giorni degli ibridi tardivi (sl. 21/34).

L’ideotipo per l’Italia centro-settentrionale deve avere ciclo medio, taglia media,

resistenza all’allettamento, tolleranza alle malattie, un elevato tenore in olio (50%), una

composizione in acidi grassi secondo le esigenze del mercato ed un facile sgusciamento

del seme. Per quanto riguarda la composizione in acidi grassi dell’olio, sono disponibili

varietà ad alto contenuto di acido linoleico o di acido oleico.

Concimazione

Per una produzione di 3.5 t/ha di acheni i fabbisogni nutritivi sono di 160 kg/ha di N, 60

kg/ha di P2O5 e 400 kg/ha di K2O. Una buona parte dei tre elementi viene comunque

restituita al terreno con i residui colturali, rendendo necessario un reintegro di moderata

entità con la concimazione.

Le dosi di concimazione sono di 80-100 kg/ha di N in copertura (possibilmente

alla sarchiatura) o, in alternativa 100 kg/ha alla semina; 50 kg/ha di P2O5 localizzati alla

semina o, in alternativa, 70 kg/ha distribuiti in pieno campo e in pre-semina; 60 kg/ha di

K2O alla lavorazione del terreno, solo in terreni carenti di potassio.

Irrigazione

Le necessità idriche della coltura sono di 2000 m3/ha nell’Italia centrale, di 3500 m

3/ha

nell’Italia meridionale e di 4200 m3/ha nelle isole. L’acqua deve essere disponibile per

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circa il 40% dall’emergenza alla fioritura per ottenere un buon LAI, circa il 15-20%

durante la fioritura, e circa il 40-45% dopo la fioritura per mantenere più a lungo

l’attività fogliare.

Per soddisfare tali esigenze, la pianta stessa è però in grado di utilizzare le

disponibilità del suolo: se la lavorazione del terreno è stata soddisfacente, la rapidità di

sviluppo dell’apparato radicale e la forte capacità di esplorazione delle radici

permettono un adeguato sfruttamento delle riserve che si sono accumulate. Il girasole è

quindi una pianta adatta alla coltura asciutta nei terreni dotati di una buona capacità

idrica e lavorati profondamente nelle regioni centrali, dove la piovosità estiva è

irregolare ma ha una certa consistenza. Nell’Italia centrale, per coltivazioni non

intercalari, la pratica dell’irrigazione dovrebbe costituire soltanto un’eccezione. Nelle

regioni meridionali, più aride, può essere necessario il sussidio dell’irrigazione. Come

coltura intercalare, il girasole richiede sempre l’irrigazione.

Controllo delle infestanti

La precoce competizione delle infestanti (nelle prime quattro settimane di vegetazione,

tra l’emergenza e lo stadio di 6-8 foglie) può determinare riduzioni di resa del 65-70%.

Per questo motivo, il diserbo in pre-emergenza è la garanzia per ottenere elevate

produzioni.

Le principali infestanti sono comuni specie di dicotiledoni (Chenopodium

album, Sinapis arvensis, Anagallis arvensis, Polygonum sp., Solanum nigrum, Abutilon

theophrasti, Ammi majus) o monocotiledoni (Echinocloa crus-galli, Setaria spp.,

Digitaria spp.). Le monocotiledoni tendono a divenire dominanti con semine tardive.

Il controllo delle infestanti deve essere integrato, facendo ricorso a rotazioni,

adeguate lavorazioni del terreno, opportune epoche di semina, equilibrate concimazioni

(soprattutto in termini di azoto) e lotta chimica. Ad oggi non sono disponibili prodotti

dicotiledonicidi selettivi e a largo spettro di azione utilizzabili in post-emergenza. I

trattamenti devono essere eseguiti in pre-semina e devono essere integrati dalla

sarchiatura tra le file. Anche la rincalzatura può aiutare a contenere le infestanti sulla

fila.

Nella coltura che segue il girasole nella rotazione, il girasole stesso può

comportarsi da infestante, a causa della rinascita di piante da semi non raccolti. Il

controllo delle rinascite è quindi un’importante operazione colturale. La riduzione delle

perdite di seme alla raccolta è, ovviamente, la prima pratica da adottare per evitare la

rinascita. Successivamente si può operare mediante lavorazioni precoci che consentano

una rapida germinazione del seme caduto e l’eliminazione delle plantule con interventi

meccanici eseguiti prima della semina della coltura che segue. Per favorire la

germinazione si può eseguire una minima lavorazione subito dopo la raccolta. Per un

controllo più efficace delle rinascite, è bene far seguire al girasole in primavera il mais o

il sorgo, invece di un cereale vernino. In caso di insuccesso con il controllo meccanico

delle rinascite, può essere condotto un controllo chimico sulla coltura successiva,

adottando specifici principi attivi e modalità di intervento a seconda della coltura stessa.

Raccolta

La coltura è pronta per la raccolta quando gli acheni si staccano facilmente dalla

calatide, 15-20 giorni dopo la maturazione fisiologica. La trebbiatura deve iniziare

quando il dorso della calatide è di colore bruno e l’umidità degli acheni è del 9-10%.

Per la raccolta si può usare una mietitrebbia da frumento adattata con una testata per

girasole dotata di convogliatori a pettine per ridurre le perdite.

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Malattie fungine

La più diffusa malattia è il marciume carbonioso dello stelo, provocato da Sclerotium

bataticola, la cui forma perfetta è Macrophomina phaseolina. Questo è un fungo

polifago, ubiquitario, che può parassitizzare anche altre specie (sorgo, mais, soia). Ad

oggi non esistono varietà resistenti a tale patogeno. L’incidenza della malattia è

maggiore in condizioni di stress idrico, quando la pianta è più debole. Esso attacca le

radici ed il fusto, provocando la morte della pianta.

In ambienti piovosi si possono avere anche attacchi di Sclerotinia sclerotiorum,

l’agente del marciume del fusto e della calatide. Per prevenire questa muffa, bisogna

evitare eccessive concimazioni azotate e le irrigazioni nel corso della fioritura.

Molto diffusa è anche la peronospora (Plasmopara halstedii f. sp. helianthi), che

si manifesta in tutti gli stadi vegetativi, provocando danni più gravi con gli attacchi

precoci. La sintomatologia comprende il nanismo e le clorosi fogliari. Per questa

malattia esistono varietà resistenti.

La muffa grigia (Botrytis cinerea) può manifestarsi in tutti gli stadi vegetativi, e

provocare gravi danni quando attacca la calatide, con marcescenze, sfaldamento e

caduta.

Per difendersi dalle malattie fungine non esistono mezzi di lotta diretti e pertanto

è molto importante effettuare una adeguata rotazione della coltura.

Parassiti animali

Gli insetti non si dimostrano particolarmente dannosi per il girasole; quelli di una certa

importanza sono gli elateridi (Agriotes spp.), gli agrotidi (Agrotis spp.) e i collemboli

(Sminthurus viridis) nelle fasi iniziali del ciclo colturale, e il lepidottero geometride

Gymnoscelis pupilata durante il periodo fioritura-maturazione. Per gli insetti terricoli, è

necessario eseguire il monitoraggio della loro presenza, ed eventualmente eseguire un

intervento di disinfezione del terreno in pre-semina. Nel caso di attacchi

economicamente rilevanti di piralide del girasole (Homeosoma nebulella), si possono

eseguire dei trattamenti con Methiocarb o Thiodicarb (4-5 kg/ha), ma va sottolineato

che si tratta di prodotti molto tossici per l’entomofauna domestica.

Gli uccelli possono provocare discreti danni alla coltura, specialmente durante la

fase di maturazione.

Caratteristiche del prodotto

Il seme di girasole contiene in media circa il 48% di olio, il 18% di proteina (con uno

scarso contenuto in lisina e un alto contenuto di amminoacidi solforati), il 20% di fibra,

il 9% di acqua e il 2-3% di ceneri. La percentuale di ‘mandorla’ (seme sgusciato)

sull’achenio è del 70-80%, e il contenuto in olio della sola mandorla è di circa il 58-

60% (nel guscio il contenuto è del 2-3%). L’olio è ricco di acidi grassi polinsaturi (85-

91%) – in gran parte costituiti da acido oleico e acido linoleico (che gli conferisce

un’alta conservabilità) – ed è usato come olio da tavola o da cucina e nella produzione

di margarine. L’olio di girasole ha inoltre un alto contenuto di -tocoferolo (vitamina

E).

Dalla lavorazione di una tonnellata di semi, dopo l’estrazione dell’olio, si

ottengono circa 400 kg di farina di estrazione o di panelli, utilizzati come alimento

zootecnico ricco di proteine (30% circa, ma con seme sgusciato il contenuto proteico

può raggiungere anche il 40%).

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Oltre che per l’industria agro-alimentare, l’olio di girasole può essere impiegato

anche per la produzione di biodiesel. La sostituzione dei prodotti di derivazione

petrolifera con quelli da risorse rinnovabili è particolarmente promettente per le

sostanze grasse d’origine vegetale, sia da un punto di vista ambientale che tecnico. Gli

oli vegetali presentano uno straordinario vantaggio ambientale essendo biodegradabili,

avendo bassa ecotossicità in generale e una bassa tossicità verso l’uomo, poiché

derivano da risorse rinnovabili e non contribuiscono all’emissione di composti organici

volatili. Gli oli vegetali possono essere impiegati in una vasta gamma di applicazioni

industriali nei settori dei lubrificanti, surfattanti, emulsionanti, plastiche e resine.

Da una tonnellata di semi di girasole, con contenuto del 50% di olio, si

ottengono circa 350 litri di biodiesel. Il girasole presenta i grandi vantaggi di avere dei

costi di produzione piuttosto contenuti ed una tecnica colturale ormai collaudata nelle

zone vocate per questa specie. La sostenibilità economica ed ambientale del girasole

dipendono dalla sua adattabilità ad un sistema di coltivazione a ridotto input, anche nel

caso di aree soggette a deficit idrico. Per la produzione di biodiesel sono richieste

varietà che presentino, oltre ad uno specifico adattamento agli ambienti di produzione,

un alto contenuto in acido oleico. Il girasole ‘alto oleico’, il cui olio può contenere fino

al 90% in acido oleico, risulta particolarmente interessante anche per la produzione di

biolubrificanti, grazie alle proprietà ingrassanti e all’elevata resistenza all’ossidazione

che esso presenta (sl. 21/53).

Miglioramento genetico

Il miglioramento genetico del girasole si basa ormai pressoché esclusivamente

sull’ottenimento di varietà ibride. L’ibridazione, che nel caso del mais è facilmente

realizzabile anche per via meccanica per la particolare conformazione degli organi

fiorali, nel girasole può essere ottenuta solo facendo ricorso alla maschiosterilità

citoplasmatica.

I caratteri oggetto di maggiore attenzione nella selezione degli ibridi di girasole

sono l’elevata produzione di acheni, l’elevata resa in olio, le caratteristiche qualitative

ottimali per le diverse destinazioni d’uso (es. elevato contenuto in acido linoleico o in

acido oleico), la resistenza all’allettamento (mediante un raccorciamento degli internodi

e una diminuzione della taglia), il portamento eretto delle foglie per massimizzare il

LAI e, quindi, l’intercettazione della luce aumentando la densità di piante, e la

resistenza alle principali avversità.

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PATATA

La patata (Solanum tuberosum) è una specie tetraploide (2n=4x=48) originaria delle

regioni montuose dell’America meridionale. Introdotta in Europa come curiosità

botanica nella seconda metà del 1500, si diffuse in coltivazione solo nella seconda metà

del ‘700, soprattutto nell’Europa centro-settentrionale, divenendo un fondamentale

alimento per le popolazioni di quelle regioni. La coltivazione in Italia iniziò ai primi

dell’Ottocento, anche se la sua vera diffusione è stata successiva (fine del XIX secolo).

Oggi la patata è coltivata su oltre 18 milioni di ettari nel mondo, di cui la gran parte in

Cina, India ed Europa (in particolare Russia, Polonia e Germania) (sl. 22/4-7), dove in

alcuni paesi si raggiungono rese unitarie che sono tra le più elevate, e dove rappresenta,

per molte popolazioni, l’alimento base. In Italia, la coltura copre poco più di 62000 ha,

tipicamente in aree di collina e montagna, anche se non mancano importanti realtà

pataticole di pianura (ad esempio, la pianura bolognese) (sl. 22/10). Due sono i tipi di

pataticoltura largamente praticati in Italia (sl. 22/9): la coltura primaticcia, su circa 18

mila ha localizzati soprattutto in Campania, Puglia e Sicilia (sl. 22/11-12), avente la

caratteristica di fornire un prodotto fuori stagione e, quindi, con un valore economico

molto alto, e la coltura normale, su circa 44 mila ha. L’Italia è allo stesso tempo

esportatrice (di prodotto precoce) e importatrice (di prodotto comune e di tuberi da

semina).

Oltre che per il consumo alimentare diretto, la coltivazione della patata interessa

l’industria alimentare per la produzione di fecola, amido, destrine o glucosio. Trova

inoltre impiego per la distillazione e nell’alimentazione zootecnica. Il mercato richiede

anche prodotti adatti al confezionamento (compresa la surgelazione) e alla produzione

di patatine fritte (chips) (sl. 22/13).

Caratteri botanici

La patata è una pianta erbacea annuale con steli originati da un tubero sotterraneo,

robusti, eretti, alti da 30 cm a 1 m, lievemente pubescenti (sl. 22/17). Le foglie sono

composte da 5 a 9 foglioline di varia dimensione e colore (da verde chiaro a verde

intenso) (sl. 22/18). L’infiorescenza è a corimbo, con fiori ermafroditi, campanulati (sl.

22/19). Alcune varietà di patata, indipendentemente dall’ambiente, non fioriscono, altre

invece giungono ad emettere i bocci fiorali, che però cadono prima della fioritura,

mentre altre, infine, fioriscono regolarmente e portano a maturazione i frutti, che sono

delle bacche più o meno tondeggianti (sl. 22/20), contenenti da 150 a 300 semi

reniformi, appiattiti.

La parte ipogea della patata è costituita dalle radici fascicolate piuttosto

superficiali, dotate di numerose diramazioni capillari, e da stoloni che all’estremità si

ingrossano fino a formare un tubero (sl. 22/22). Il tubero, che costituisce il prodotto

utile della patata, è uno stelo modificato per l’accumulo di amido e che porta delle

branche laterali disposte a spirale costituenti i cosiddetti occhi. Ogni occhio è costituito

da un asse raccorciatissimo che porta tre o più gemme protette da squame (sl. 22/23). La

‘buccia’ della patata (periderma) è costituita da uno strato di cellule suberificate che

presenta delle aperture dette lenticelle. I tuberi esposti alla luce si inverdiscono per la

formazione di clorofilla e, al contempo, si arricchiscono di solanina, che è un alcaloide

amaro e, in certe dosi, tossico (sl. 22/25). La solanina si forma nella ‘buccia’ del tubero

ed è eliminata in gran parte con la sbucciatura. Il colore esterno dei tuberi varia dal

giallognolo fino al violetto o al rossastro a seconda delle varietà (sl. 22/26). Vengono

distinte la patate a polpa bianca e quelle a polpa gialla (sl. 22/27), anche se non

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mancano tipi con venature rosa, rosse o violette. La forma del tubero è rotondeggiante,

oblunga o clavata a seconda della varietà e della natura del terreno (sl. 22/28).

Per le piante che hanno avuto origine per via agamica, il ciclo germinazione-

maturazione dura normalmente 100-150 giorni, mentre le piante che derivano da seme

hanno un ciclo notevolmente più lungo (180-200 giorni). Per questo, per le seconde, si

rende necessario un preliminare allevamento in serra. La riproduzione gamica è

comunque usata nella patata praticamente solo come mezzo di miglioramento varietale.

Sono infatti rari i casi in cui avviene la coltivazione commerciale della patata a partire

da seme ‘vero’ e non da tuberi.

Dopo un periodo di riposo (50-60 giorni dalla maturazione), in condizioni adatte

(temperatura superiore a 6-8 °C), ha luogo la germogliazione dei tuberi. Le fasi

vegetative della pianta agli effetti della coltivazione sono: l’emergenza, l’accrescimento

vegetativo, la fioritura, l’accrescimento dei tuberi e la maturazione dei tuberi. La

formazione dei tuberi inizia poco prima della comparsa dei bocci fiorali e si manifesta

con un ingrossamento degli stoloni o delle loro ramificazioni. La fase di maturazione è

caratterizzata dal graduale ingiallimento delle foglie e dei fusti, nonché dal

cambiamento di colore delle bacche (se sono presenti) che dal verde tendono al

giallastro, mentre la buccia dei tuberi tende a staccarsi sempre più difficilmente dalla

polpa. Successivamente, le foglie e i fusti si seccano e le bacche cadono. La raccolta

può avvenire in epoca anticipata per i tuberi di pronto consumo (coltura primaticcia) e

per quelli destinati alla propagazione, mentre per quelli di uso comune si può ritardare

la loro escavazione.

Esigenze ambientali

La patata si estende in coltura dall’equatore sino a latitudini estreme (70° N) ed è una

specie adatta alle zone climatiche temperato-fredde. Le aree più vocate alla pataticoltura

sono le grandi pianure dell’Europa centro-settentrionale. È peraltro la coltura, insieme

con l’orzo, che si spinge più in alto nei paesi europei, raggiungendo altitudini di

coltivazione di 1300-1400 m s.l.m. ed oltre in caso di buona esposizione.

Non è però una specie resistente al freddo, ed il suo ciclo vegetativo è

primaverile-estivo nella maggior parte d’Europa; è una coltura a ciclo autunno-invernale

nelle zone con climi particolarmente miti come quelli dell’Italia meridionale, dove dà

luogo alla produzione della patata primaticcia (sl. 22/34).

La pianta ha bisogno, in ogni fase biologica, di una sufficiente quantità di acqua.

La patata è molto sensibile alla siccità e predilige ambienti freschi con buona e regolare

distribuzione delle piogge. Le esigenze idriche si attenuano solo in prossimità della

maturazione. In Italia le condizioni più favorevoli per la patata in coltura primaverile-

estiva sono quelle delle regioni alpine e di quelle appenniniche centro-settentrionali. La

patata teme comunque molto gli eccessi di umidità e il conseguente ristagno idrico, che

favorisce lo sviluppo di malattie crittogamiche e causa il cattivo funzionamento delle

radici e l’irregolare sviluppo dei tuberi. Per quanto riguarda le esigenze termiche, la

pianta ha uno zero di vegetazione a temperature di 6-8 °C: sono quindi temibili i ritorni

di freddo primaverili (inferiori a 2 °C). Temperature di congelamento inferiori a –2 °C

possono danneggiare i tuberi. Le alte temperature, prossime o superiori a 30 °C,

riducono fortemente l’assimilazione e, quindi, l’accrescimento dei tuberi.

Di origine tropicale, la patata è tendenzialmente brevidiurna, tuttavia

l’adattamento e la selezione l’hanno resa in gran parte neutrodiurna.

Quanto al terreno, è una pianta con una notevole adattabilità e può essere

coltivata in suoli di svariata natura, purché non troppo umidi. Tuttavia, sono ideali i

terreni silicei o siliceo-argillosi, leggermente acidi (pH 6-7), leggeri, sciolti, permeabili,

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profondi. In terreni argillosi la raccolta dei tuberi è più difficile e la loro qualità è

inferiore (forma poco regolare, buccia ruvida e scura). La patata rifugge inoltre dai

terreni alcalini.

Varietà

In rapporto alla destinazione d’uso del prodotto, esistono patate per l’alimentazione

umana, per l’alimentazione zootecnica e per impieghi industriali. In quelle destinate

all’alimentazione umana, interessa la consistenza della polpa, il sapore e il

comportamento durante la cottura. Per le patate da cuocere in acqua ha importanza la

resistenza allo spappolamento, dipendente dal contenuto in sostanza azotate (che non

dovrebbe scendere sotto il 2%); per le patate da friggere (chips) ha importanza il colore

che assumono durante la cottura, che è dato dal giusto contenuto di zuccheri solubili

(fruttosio, glucosio), che non deve essere troppo basso per non dare un colore troppo

chiaro, né troppo elevato per evitare imbrunimenti durante la frittura. La diffusione della

sbucciatura meccanica fa preferire varietà a tubero tondeggiante, regolare, a gemme

superficiali. Le patate da foraggio hanno tuberi grossi e acquosi, mentre per quelle da

industria il valore è in funzione del loro contenuto in amido, che nelle buone cultivar

supera il 18% (sl. 22/38).

Qualunque sia la destinazione, nelle varietà rivestono grande importanza la

precocità e la resistenza alle avversità. Per la precocità, si va da tipi precocissimi, che

compiono il ciclo in 80-90 giorni, a tipi tardivi che impiegano oltre 150 giorni per

svilupparsi (sl. 22/40-41). Le varietà precoci sono quelle più adatte alla coltura

primaticcia.

Il miglioramento genetico della patata si basa su metodi adatti a piante a

moltiplicazione vegetativa, utilizzando largamente la selezione clonale che sfrutta la

variabilità presente nelle varietà o nelle popolazioni naturali. Si fa inoltre ricorso

all’ibridazione intervarietale o interspecifica, con successiva selezione delle

combinazioni più favorevoli e loro fissazione mediante moltiplicazione vegetativa.

Tecnica colturale

Per quanto riguarda l’avvicendamento, la patata occupa di norma il primo posto (coltura

da rinnovo). È la coltura da rinnovo più importante nei paesi dell’Europa centro-

settentrionale e nelle nostre zone montane. La cosiddetta patata bisestile o di secondo

raccolto (poco diffusa in Italia, anche se in espansione) occupa invece il posto di coltura

intercalare a ciclo estivo-autunnale (sl. 22/34). In pianura, la patata può essere

avvicendata con il frumento o le leguminose prative, mentre in montagna si alterna

frequentemente alla segale. È bene che gli ordinamenti colturali prevedano rotazioni in

cui la patata ritorna sullo stesso terreno ogni 4 o addirittura 5-6 anni, e che in questo

lasso di tempo non entrino nella rotazione altre colture di solanacee (pomodoro,

peperone, melanzana). Rotazioni corte favoriscono lo sviluppo di agenti patogeni

terricoli (rizottoniosi, elmintosporiosi, nematodi) che determinano sensibili riduzioni

delle produzioni.

La pianta si avvantaggia di tutte le operazioni (come la concimazione organica e

le lavorazioni profonde) capaci di migliorare lo stato strutturale del terreno,

specialmente se di tessitura pesante. Il terreno destinato alla patata va lavorato in

profondità in estate (40-50 cm), effettuando così anche l’interramento della sostanza

organica. All’aratura si fa seguire una adeguata erpicatura allo scopo di perfezionare il

letto di semina. Con gli ultimi interventi preparatori, la superficie del terreno può essere

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perfettamente livellata (per la successiva semina meccanizzata) o assolcata (per la

semina a mano).

La patata è una coltura capace di trarre i massimi benefici dalla concimazione

con letame, somministrato prima dell’inverno, sia per la sua azione sulla nutrizione che

per quella sulla sofficità del suolo. Oltre che di azoto (che può essere apportato con la

letamazione), la patata ha esigenze assai alte di fosforo e di potassio. Il potassio facilita

la sintesi di glucidi nelle foglie e la traslocazione di questi nei tuberi. Una buona

nutrizione in potassio migliora la qualità dei tuberi. Il fosforo è un fattore di precocità e

favorisce lo sviluppo radicale. Le concimazioni di fosforo e potassio che comunemente

si impiegano per la coltura normale sono di almeno 180 kg/ha di P2O5 come perfosfato

semplice o triplo, e altrettanti di K2O, meglio come solfato potassico. I concimi fosfo-

potassici devono essere interrati con l’aratura o con uno dei lavori complementari

invernali. L’azoto è l’elemento più importante, in quanto determina l’ampiezza

dell’apparato fogliare e la sua efficienza fotosintetica, fattori sui quali si basa

l’accumulo di amido nei tuberi. Tuttavia, l’azoto in eccesso promuove un eccessivo

sviluppo fogliare a scapito dei tuberi, ne ritarda la maturazione e ne diminuisce il

contenuto di sostanza secca. La quantità di azoto richiesta per la coltura normale è di

circa 200 kg/ha. La somministrazione dell’azoto deve essere frazionata, in parte (50%)

prima dell’interramento del ‘seme’, in parte con localizzazione alla semina ed in

copertura, poco dopo la completa emergenza delle piante. La forma di azoto che è più

adatta è quella ammoniacale. Per la patata primaticcia le dosi di concimazioni possono

essere ridotte, perché, in tale tipo di coltura, le produzioni sono normalmente inferiori a

quelle della coltura normale: si possono apportare circa 150 kg/ha di N e 130 kg/ha di

P2O5 e K2O.

La patata si propaga normalmente per tuberi e, quindi, sarebbe più appropriato

parlare di ‘piantamento’ anziché di ‘semina’, anche se quest’ultimo termine è quello

comunemente e universalmente utilizzato. Nella coltura ordinaria si semina alla fine del

periodo delle gelate tardive: marzo-aprile nelle regioni settentrionali, febbraio in quelle

meridionali. Nel caso della coltura primaticcia, si semina in autunno (novembre-

dicembre). Nella coltura intercalare (patata bisestile), si semina in giugno-luglio per

raccogliere in autunno (sl. 22/34).

La scelta dei ‘tuberi-seme’ ha grandissima importanza per il buon esito della

coltura. Oltre alla scelta della cultivar adatta all’ambiente e alla destinazione d’uso, è

indispensabile che i tuberi-seme siano sani, soprattutto per l’assenza di virosi. Anche le

dimensioni dei tuberi-seme hanno notevole importanza: tuberi grossi con molti occhi

formano un cespo di numerosi steli tra i quali la competizione è forte, mentre tuberi

troppo piccoli non danno garanzia di normale maturazione. I migliori sembrano i tuberi

del peso di 50-80 g. La densità di semina può variare dalle 3.5-4 piante/m2 della coltura

normale, alle 6 o più piante/m2 della coltura primaticcia, nella quale ai tuberi non è dato

tempo di ingrossarsi. Poiché il grado di competizione determina il numero e la

dimensione dei tuberi, si tende oggi a definire la densità di piantagione non tanto come

numero di tuberi-seme messi a dimora per metro quadrato, ma come numero

complessivo di fusti che se ne origineranno. Il numero ottimale è stimato in circa 15-20

steli per metro quadrato. Il quantitativo di tuberi normalmente impiegato per la semina

è di 20-30 quintali ad ettaro. Una pratica per risparmiare sulla quantità di seme, oggi in

disuso, è il frazionamento dei tuberi. Soprattutto nel caso di coltura non ordinaria, può

essere utile ricorrere alla pratica della pre-germogliazione per guadagnare tempo. I

tuberi-seme sono disposti in cassette accatastabili in non più di due strati, in ambiente

ben illuminato da luce diffusa, non troppo secco, a temperatura tra 12 e 16 °C.

Normalmente, dopo 4-6 settimane, dagli occhi dei tuberi nascono germogli corti (15-20

mm al massimo), tozzi, robusti, pigmentati (sl. 22/51). I tuberi-seme sono allora pronti

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per il piantamento, che va fatto con molta cura per evitare la rottura dei germogli. La

pre-germogliazione permette di anticipare l’inizio della vegetazione, determinando un

accorciamento del ciclo vegetativo di 10-15 giorni ed un ingresso anticipato del

prodotto sul mercato (con positivi effetti sul suo prezzo).

I tuberi si distanziano sulla fila di 25-30 cm nella coltura precoce e di 30-35 cm

nella coltura ordinaria. La distanza tra le file è di 60-80 cm. La profondità di semina è di

5-8 cm in relazione alla natura del terreno. La semina può essere effettuata a mano

oppure con piantatrici, con le quali l’operazione viene ad essere parzialmente o

completamente meccanizzata (sl. 22/53).

Nei terreni soggetti ad incrostamento, in relazione all’andamento climatico, è

utile una sarchiatura non appena le file siano ben visibili sul terreno. L’operazione è

efficace anche come complemento alla lotta chimica contro le infestanti. Segue poi la

rincalzatura, che consiste nell’addossare terra dell’interfila alla fila di piante di patata,

in modo da favorire l’emissione di rizomi e di radici dalla parte interrata degli steli (sl.

22/55). Si fa in uno o due passaggi nelle 2-3 settimane successive alla semina, formando

un rialzo di 20 cm circa di altezza sul piano di campagna. Questo assicura condizioni

ottimali di sviluppo alle radici, ai rizomi e ai tuberi-figli, evitando l’inverdimento dei

tuberi (soprattutto nel caso di colture tardive e medio-tardive tendenti a tuberizzare

superficialmente) e proteggendoli, sia pur parzialmente, dall’infezione delle spore di

peronospora cadute sul terreno.

La patata ha esigenze idriche abbastanza elevate durante un periodo dell’anno in

cui le precipitazioni tendono a ridursi. Il suo apparato radicale poco profondo, con

debole capacità di penetrazione e di suzione, la rende sensibile allo stress idrico. In

Italia, l’irrigazione è quindi indispensabile negli ambienti centro-meridionali, mentre

può essere utile (anche se non indispensabile) nelle regioni settentrionali o nelle aree

montane, dove il deficit idrico è meno marcato. Il periodo critico per l’acqua va da 20

giorni prima a 20 giorni dopo l’inizio dell’antesi, allorché la patata sviluppa la fase più

delicata del suo ciclo che è quella dell’ingrossamento dei tuberi. In questo periodo non

dovrebbero mai mancare condizioni di buona umidità nel terreno. È bene allora che

l’irrigazione, per scorrimento o per aspersione, non sia eccessiva (per evitare problemi

di ristagni), ma fatta con piccoli volumi d’adacquamento e turni brevi (sl. 22/57-58).

La patata è sensibile alla competizione delle piante infestanti, sia per la lentezza

di sviluppo iniziale che per lo scarso potere di competizione. La flora infestante è quella

tipica delle colture a ciclo primaverile-estivo in relazione all’ambiente pedoclimatico in

cui si opera. Il diserbo chimico è considerato necessario per la difesa della coltura,

attribuendo, come detto, un ruolo complementare alle lavorazioni superficiali. Gli

erbicidi indicati per il diserbo chimico della patata appartengono prevalentemente al

gruppo delle uree-sostituite e delle triazine.

Raccolta e conservazione

La raccolta dei tuberi può essere eseguita con criteri diversi in relazione alle finalità

della coltura. Ad esempio, la raccolta delle patate novelle (coltura primaticcia) è

anticipata (in aprile-maggio) per motivi di mercato, in uno stadio in cui il periderma non

è ancora suberificato e si distacca facilmente anche con le dita esercitando una pressione

tangenziale sul tubero (sl. 22/60). La raccolta è anticipata anche nella produzione di

tuberi da seme, quando si voglia evitare che, nella fase finale di migrazione delle

sostanze di riserva verso il tubero, eventuali attacchi tardivi di virosi possano

trasmettersi al tubero stesso. Per le patate comuni, destinate al consumo fresco o

all’industria, la maturazione dei tuberi deve essere completa (in luglio-agosto per le

varietà precoci; settembre per quelle tardive). Indicazioni semplici per valutare la

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raggiunta maturazione sono l’avanzato ingiallimento del fogliame e la consistenza del

periderma, che non deve distaccarsi, ma essere ben suberificato e resistente agli urti.

Nella grande coltura, la raccolta è meccanizzata, utilizzando semplici macchine

escavatrici, che lasciano i tuberi in file sul campo (raccolti successivamente) (sl. 22/62-

63), oppure macchine escavatrici-raccoglitrici (sl. 22/64). La raccolta dovrebbe avvenire

con terreno non umido, non soltanto perché l’operazione è più agevole, ma anche per

raccogliere i tuberi asciutti e puliti. La raccolta può essere preceduta da un trattamento

disseccante della parte aerea (sl. 22/65), per eliminare l’ostacolo che questa rappresenta

nell’esecuzione delle operazioni di escavazione.

Le rese unitarie possono variare notevolmente in relazione all’ambiente e alle

condizioni di coltura. Nelle situazioni migliori, per la coltura ordinaria si possono

raggiungere 40 t/ha e oltre, ma anche rese di 25 t/ha possono considerarsi soddisfacenti.

Le colture primaticce o intercalari producono molto meno (4-6 t/ha), ma il valore

economico di queste produzioni è molto più elevato.

Le patate raccolte vengono immesse immediatamente sul mercato per consumo

fresco solo nel caso delle produzioni fuori stagione (primaticce; bisestili). Il grosso della

produzione di stagione viene invece immesso sul mercato, sia del consumo fresco che

dell’industria, gradatamente per un periodo di tempo che può estendersi fino a 8-10

mesi dalla raccolta. È quindi molto importante conservare in modo appropriato le patate

per: i) limitare le perdite di peso; ii) impedire la germogliazione e lo sviluppo di

malattie; iii) preservare la qualità dei tuberi (culinaria per le patate da consumo,

tecnologica per quelle destinate alla trasformazione industriale). La buona

conservazione dipende dalle condizioni del locale di immagazzinamento. La

temperatura di conservazione ottimale è di 5-6 °C. Temperature inferiori hanno l’effetto

di produrre un accumulo eccessivo di zuccheri solubili, responsabili dell’‘addolcimento’

dei tuberi. Le patate destinate al consumo possono subire un trattamento con prodotti

antigermogliazione quando la conservazione si debba prolungare oltre 2-3 mesi con

temperature di 6 °C o più. I magazzini di conservazione devono essere ben ventilati, in

modo da permettere l’essiccazione dei tuberi appena introdotti, favorire la

cicatrizzazione delle ferite ricevute alla raccolta e impedire la condensazione dell’acqua

sulla loro superficie. L’eccessiva intensità luminosa può inverdire gli strati corticali.

Tale inverdimento è un inconveniente grave per i tuberi da mensa, perché può conferire

sapore amaro per la presenza di solanina, ma può risultare utile per i tuberi da semina.

La produzione di tuberi da ‘seme’

L’ambiente richiesto per la produzione di tuberi-seme deve essere caratterizzato da un

clima fresco, con temperature moderate per tutto il ciclo della pianta e senza alternanza

di periodi di pioggia e di siccità. Devono essere inoltre assenti gli insetti vettori di

virosi, per evitare che tali patologie siano trasmesse coi tuberi-seme alle colture

commerciali. Tale tipo di ambiente in Italia si trova in particolar modo in montagna,

dove, però, il decentramento territoriale e le ridotte unità colturali aumentano

notevolmente i costi di produzione e le difficoltà di conservazione dei tuberi. Tale

situazione rende difficile l’estendersi della produzione di tuberi-seme nel nostro paese,

rendendoci in gran parte dipendenti dall’estero per il fabbisogno di ‘seme’.

Avversità e parassiti

Avversità climatiche

Le gelate tardive possono compromettere l’esito della coltura quando si verificano dopo

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l’emergenza delle piante. Altrettanto dannosa è la siccità, specialmente se essa si

manifesta nelle fasi iniziali di sviluppo della pianta o durante l’ingrossamento dei

tuberi. La grandine può determinare gravi lesioni all’apparato vegetativo, ma gli effetti

sulla produzione sono più spesso di entità minore di quanto possa apparire dall’aspetto

della parte aerea. Le condizioni climatiche avverse possono avere anche un effetto

negativo indiretto sulla produzione, in quanto favoriscono l’attacco di parassiti o di

malattie di diversa natura.

Nematodi

Il più temibile è il nematode cisticolo dorato (Globodera rostochiensis, sin. Heterodera

rostochiensis) (sl. 22/72-76) che può attaccare la pianta in tutte le fasi del ciclo,

distruggendone il prodotto. Altri nematodi parassiti della pianta appartengono al genere

Meloidogyne (nematodi galligeni delle radici) (sl. 22/77). La lotta si basa sia su principi

agronomici, adottando avvicendamenti nei quali la patata ritorna sullo stesso

appezzamento a intervalli lunghi, che su principi genetici, utilizzando varietà resistenti

ottenute da incroci con specie selvatiche del genere Solanum. Può essere utile

sovesciare colture intercalari di Brassicacee con attività nematocida, come alcune

varietà di senape o di rafano (sl. 22/78-79). Nella parte aerea di tali piante sono

contenuti dei composti tossici per i nematodi detti glucosinolati, che vengono idrolizzati

in isotiocianati o nitrili e sono liberati nel terreno in seguito al sovescio. Le piante che

contengono glucosinolati attivi nelle radici sono definite ‘piante trappola’ (catch crops)

perché il nematode penetra ma non riesce a completare il ciclo di sviluppo prima del

sovescio.

Malattie fungine e batteriche

- Peronospora della patata (Phytophthora infestans): si manifesta tanto sulle foglie, con

ingiallimenti e necrosi che interessano tutto l’apparato aereo, quanto sui tuberi, con aree

necrotiche sulla buccia e nella polpa (sl. 22/81-83). Alcune varietà sono più sensibili al

fungo, che può essere controllato con adeguati trattamenti (es. prodotti rameici).

- Cancrena secca (Fusarium spp.): colpisce il tubero specialmente nel periodo di

conservazione (sl. 22/84).

- Scabbia polverulenta (Spongospora subterranea), scabbia comune (Actinomyces

scabies) e scabbia argentea (Helminthosporium atrovirens): colpiscono il tubero nella

zona epidermica, determinando la comparsa di pustole di varia natura e dimensione (sl.

22/85).

- Rogna nera o cancro (Synchytrium endoticum): determina necrosi soprattutto nei

tessuti interni del tubero.

- Tracheomicosi (Fusarium spp. e Verticillium spp.): colpisce i tessuti interni dei fusti in

fase giovanile, determinandone il rapido deperimento.

- Alternariosi (Alternaria solani): attacca foglie, tuberi e fusti (sl. 22/86-87).

- Batteriosi della patata (Pectobacterium carotovorum var. atrosepticum): causa il

marciume dei tuberi in campo e in magazzino (sl. 22/88).

Malattie da virus

La patata è una delle piante agrarie più colpite da virosi (sl. 22/93). Diversi virus

possono essere contemporaneamente presenti su una medesima pianta.

- Accartocciamento: è la virosi meglio conosciuta per i sintomi evidenti e perché

identificata da quasi un secolo. Causa l’arrotolamento delle foglie parallelamente alla

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nervatura mediana, e le foglie colpite divengono dure e fragili, con portamento

pressoché eretto (sl. 22/90-91). Il virus è trasmesso dagli afidi, tra cui il più importante

come vettore è Myzus persicae.

- Virus Y: presente con maggiore frequenza nelle regioni centro-settentrionali. Si

trasmette per contatto con succhi cellulari infetti o mediante afidi. Determina uno

scolorimento delle nervature, al quale fa seguito un distinto mosaico accompagnato da

bollosità e arricciamento.

- Virus X: è molto diffuso e, in genere, meno temibile del virus Y, ma capace di

produrre gravi danni quando si trovi associato a quest’ultimo. Causa mosaici e necrosi.

Non sembra trasmissibile per mezzo di afidi, ma mediante contatto.

- Virus A: è abbastanza frequente in Italia, spesso associato al virus X (sl. 22/92). Si

diffonde soprattutto ad opera dell’afide Myzus persicae.

Altri virus non molto diffusi in Italia e che provocano inconvenienti

relativamente poco gravi, anche se possono predisporre le piante all’infezione di altri

virus, sono il Virus M, il Virus S e il Virus F (Mosaico aucuba).

Insetti

Fra i più dannosi si ricordano la grillotalpa (Gryllotalpa grillotalpa), che danneggia i

tuberi in campo (sl. 22/95), il maggiolino (Melolontha melolontha), le cui larve

danneggiano i tuberi con erosioni, il gremignolo (Agriotes lineatus), che attacca radici e

tuberi (sl. 22/96), la dorifora (Leptinotarsa decemlineata), la cui larva è in grado di

distruggere l’apparato fogliare della pianta (sl. 22/97), e alcune specie di afidi (es.

Myzus persicae; sl. 22/98), che, oltre ad arrecare danni diretti per la sottrazione di linfa,

sono vettori di molte virosi. Contro questi insetti sono possibili adeguati e specifici

sistemi di lotta.

Misure agronomiche per ridurre l’incidenza delle avversità biotiche (sl. 22/99)

Contro le virosi, sono raccomandati l’uso di tuberi-seme certificati e l’eliminazione

della vegetazione spontanea, in particolare delle piante di patata nate da residui della

coltura precedente. Per controllare i nematodi si devono adottare rotazioni lunghe (5-6

anni) ed escludere le solanacee dalle rotazioni stesse.

Le operazioni colturali che possono aiutare a prevenire gli attacchi di

peronospora sono diverse: i) l’uso di tuberi-seme sani; ii) l’uso di varietà poco

suscettibili; iii) l’eliminazione dei ricacci spontanei di patata; iv) lunghe rotazioni; v)

una rincalzatura accurata; vi) una concimazioni equilibrata senza eccessi di azoto; vii)

degli impianti non troppo fitti.

Bisogna evitare le irrigazioni tardive per non stimolare la risalita delle larve di

coleotteri, e la lesione dei tuberi alla raccolta per diminuire il rischio di marciumi

durante la conservazione.

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COLTURE ‘DA ENERGIA’

Il Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) ha concluso che “il

riscaldamento del sistema climatico è indubbio” e che “la maggior parte dell’aumento

osservato nelle temperature medie globali a partire dalla metà del XX secolo è molto

probabilmente dovuto all’aumento osservato delle concentrazioni di gas ad effetto serra

(GHG) di origine antropica”.

Le conseguenze osservabili di tale riscaldamento sono l’aumento della frequenza

e dell’intensità di eventi climatici estremi, una crescente siccità e lo scioglimento dei

ghiacciai. Queste conseguenze del cambiamento climatico possono determinare gravi

effetti su importanti settori di sussistenza come l’agricoltura – diminuendo fortemente la

sicurezza alimentare e ostacolando la lotta alla povertà – ma anche sulla salute umana e

sugli ecosistemi.

Aumentare l’efficienza energetica e sviluppare ed utilizzare fonti energetiche più

pulite e sostenibili sono approcci chiave per affrontare il cambiamento climatico. La

bioenergia è emersa come un’alternativa ai combustibili fossili e viene promossa

(spesso anche con la concessione di contributi) come fonte pulita di energia (sl. 23/6).

In aggiunta all’impulso determinato dal cambiamento climatico, le crescenti

preoccupazioni per la sicurezza energetica e i costi crescenti dei combustibili fossili

stanno spingendo molti paesi a considerare i biocombustibili come un importante

elemento delle proprie strategie energetiche. Elaborazioni recenti ENEA-Coldiretti

indicano un contributo complessivo dell’8% delle agroenergie al bilancio energetico

nazionale al 2020, con una riduzione di emissioni di CO2 pari a 26.4 milioni di tonellate

all’anno.

Con bioenergia ci si riferisce alla conversione della biomassa in forma liquida,

solida o gassosa, a seconda della materia prima di base e della tecnologia impiegata, per

la generazione di energia. L’energia contenuta nelle biomasse vegetali può essere

convertita adottando processi termochimici, biologici o fisici. Il risultato finale, a parte

il caso della combustione diretta, è un prodotto ad alta densità energetica, utilizzabile

con maggiore facilità e flessibilità in successivi dispositivi di conversione energetica (sl.

23/9-10).

Le biomasse comprendono un’ampia gamma di materiali vegetali che vanno

dagli scarti urbani, forestali ed agricoli, a piante specificamente coltivate per produrre

biocarburanti come il bioetanolo e il biodiesel. I residui agricoli possono essere di vario

tipo: la principale suddivisione è tra i residui secchi (come la paglia o gli stocchi di

mais) e i residui umidi (come letame e liquami). Il contenuto di umidità dei secondi

deve essere ridotto prima dell’eventuale combustione, o durante la combustione stessa,

utilizzando in tal caso parte dell’energia prodotta e riducendo l’efficienza energetica

complessiva. I residui colturali secchi delle colture da granella (non utili per

l’alimentazione umana e di solito poco utilizzati anche per l’alimentazione del bestiame

a causa del ridotto contenuto proteico e la scarsa digeribilità) potrebbero essere

efficientemente utilizzati per la combustione.

Le colture ‘da energia’ sono dunque piante coltivate e raccolte per generare

calore o elettricità mediante la loro combustione, oppure per produrre biocombustibili

(prodotti ad alta densità energetica) (sl. 23/12-16). Esse possono quindi essere utilizzate

come biomasse, oppure per fornire uno specifico prodotto per una particolare

applicazione energetica, distinguendosi quindi, a seconda della destinazione d’uso, in

colture da biomasse solide per la combustione, colture per la produzione di

biocarburanti liquidi e colture per la produzione di biocarburanti gassosi (sl. 23/17).

I biocombustibili solidi sono in primo luogo i materiali vegetali legnosi che

possono essere utilizzati direttamente come combustibile, ad esempio nelle tradizionali

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stufe a legna. Milioni di persone nei paesi in via di sviluppo dipendono da questo tipo di

combustibili per i loro bisogni basilari di preparazione dei cibi e riscaldamento. In

alcuni paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia meridionale, la quota di energia

derivante dalle biomasse raggiunge anche il 90%. Il processo di combustione, per essere

efficiente, richiede un materiale di partenza a bassa umidità. Pertanto le biomasse

vegetali (cippato, residui vegetali), che inizialmente presentano il 60-70% di umidità,

vanno portate al 10-12% di umidità, ottenendo così un prodotto ad alta densità

energetica (sl. 23/21). Le specie utilizzabili per la produzione di biomassa sono

potenzialmente molto numerose dato che, non essendo richieste particolari

caratteristiche qualitative del prodotto, la principale valenza agronomica delle specie

deve consistere nell’elevato tasso di crescita. Esse si dividono generalmente in specie

legnose e specie erbacee (sl. 23/24). Tra le prime, sono molto utilizzate il salice, il

pioppo o la robinia, caratterizzate da alta produttività di biomassa e capacità di ricrescita

dopo la ceduazione (taglio periodico). La tendenza attuale per le coltivazioni

energetiche legnose è di aumentare la densità di impianto e ridurre l’intervallo di tempo

tra i tagli. Possono essere praticate le gestioni definite come ‘Short Rotation Coppicing’

(SRC), o ceduazione a breve rotazione – in cui il prodotto viene raccolto ogni tre anni

circa, ed è cippato direttamente al momento della raccolta oppure dopo un periodo di

asciugatura (sl. 23/31-32) – o ‘Short Rotation Forestry’ (SRF), che è più vicina ad una

gestione forestale convenzionale ma su una scala temporale più breve (solitamente 8-20

anni). L’alta densità di impianto e la brevità del turno di utilizzazione consentono di

ottenere rese produttive elevate con piante ancora relativamente piccole e sottili, che

meglio si prestano alla raccolta meccanizzata.

Tra le specie erbacee, possono essere utilizzate sia piante poliennali, come

miscanto o canna comune (sl. 23/29-30), che piante annuali come mais, sorgo da fibra

(sl. 23/26-28), etc. Rispetto alle specie annuali, le perenni presentano vantaggi

economici significativi, permettendo di ammortizzare i costi d’impianto (pari anche al

50% dell’energia totale spesa per la coltura) lungo l’intera durata della coltivazione. Le

colture perenni, inoltre, presentano importanti vantaggi ecologici, tra cui il limitato

bisogno di lavorazioni del terreno, riducendo i rischi di erosione, aumentando la

biodiversità del suolo e il sequestro del carbonio. Grazie alla notevole rusticità delle

specie perenni, queste hanno una bassa domanda di elementi nutritivi e un’alta

resistenza a stress biotici ed abiotici.

I biocombustibili liquidi sono usati per il riscaldamento, la cucina,

l’illuminazione, i trasporti e la generazione di elettricità. Le forme più comuni sono il

bioetanolo e il biodiesel.

Il bioetanolo è un alcol ottenuto dalla fermentazione di prodotti agricoli ricchi di

carboidrati. Il risultato finale della fermentazione è un misto di acqua e alcol che deve

essere separato attraverso la distillazione (sl. 23/51-52). Per la sua produzione si

utilizzano colture saccarifere, amilacee, o residui lignocellulosici. I materiali agricoli

più usati sono la canna da zucchero e la granella di mais. L’amido contenuto nella

granella deve essere idrolizzato in zuccheri semplici attraverso reazioni enzimatiche. La

canna da zucchero è considerata la più efficiente specie vegetale per la produzione di

bioetanolo, sulla base della sua resa in biomassa, zuccheri e fibra. Switchgrass

(Panicum virgatum), barbabietole, frumento, sorgo, scarti e residui di biomasse, e rifiuti

solidi urbani possono essere tutti utilizzati come materie prime per la produzione di

bioetanolo. Il bioetanolo di seconda generazione sarà quello prodotto a partire dalla

cellulosa ricavata da composti carboidrati complessi presenti in parti delle piante

diverse dalla granella dei cereali. La ricerca sta cercando di mettere a punto trattamenti

enzimatici e nuovi ceppi di lieviti per ottimizzare l’idrolisi e la fermentazione dei

composti cellulosici complessi. Studi multidisciplinari stanno contemporaneamente

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investigando la parete cellulare di alcune specie di grande potenziale per la produzione

di bioetanolo (soprattutto il switchgrass), cercando di modificarne la composizione per

massimizzare la conversione di cellulosa in etanolo.

Il bioetanolo può essere utilizzato come carburante al posto della benzina (1 kg

di benzina è pari a circa 1.64 kg di bioetanolo). Può essere impiegato come componente

per benzine (migliorando le prestazioni in termini di ottani e di emissioni di scarico) in

percentuali fino al 20% senza modificare il motore, o in forma pura in appositi motori,

come il Flex. Mediante reazione con isobutilene, dal bietanolo si può inoltre produrre

ETBE (etil-tertiar-butil-etere), che può essere utilizzato come antidetonante nelle

benzine in sostituzione del benzene o del MTBE (di origine minerale e potenzialmente

nocivo per la salute).

Il biodiesel è un carburante ottenuto dalla lavorazione degli oli estratti da alcune

piante, come colza, girasole, soia, cartamo, ricino, etc. (sl. 23/58, 61). In alcuni paesi,

come ad esempio la Germania, si è molto diffusa la coltura del colza per la produzione

di biodiesel: questa specie ha una resa in olio (circa 37%) molto superiore a quella di

altre specie da seme adatte alla coltivazione in aree temperate come la soia (sl. 23/62).

La forma più comune di conversione degli oli in biodiesel è l’esterificazione con alcol

metilico. Non tutti gli oli vegetali sono però adatti allo stesso modo per la conversione.

Ciò dipende da fattori chimici come il grado di saturazione (numero di doppi legami

nella molecola) e la tendenza dei doppi legami a formare perossidi con l’ossigeno

atmosferico. L’impatto ambientale del biodiesel è notevolmente ridotto rispetto a quello

del gasolio, grazie alla completa rinnovabilità della risorsa, alla biodegradabilità del

prodotto, al bilancio positivo del carbonio (con riduzione dell’emissione di GHG), al

bilancio positivo dell’energia in ingresso e in uscita dalla filiera, e alla migliore qualità

delle emissioni da motori alimentati con biodiesel (minore presenza di PM10, benzene,

alchibenzene, anidride solforosa, CO e metalli pesanti). Dal punto di vista tecnico-

applicativo, utilizzando il biodiesel in miscela dal 5% al 30% con il gasolio non è

necessaria nessuna alterazione delle caratteristiche dei motori diesel, così come non è

necessaria nessuna modifica per il funzionamento delle caldaie utilizzando l’olio

estratto tal quale o il biodiesel puro. È possibile utilizzare l’olio tal quale anche in diesel

veloci – mediante apparecchiature in grado di modificarne viscosità e densità

direttamente sul mezzo –, in motori diesel lenti o in caldaie per la produzione di energia

elettrica.

Il biogas è la forma gassosa di biocombustibile, composto principalmente da

metano (50-80%), ed è prodotto dalla digestione anaerobica di sostanza organica (sl.

23/42, 46). Questa sostanza può essere costituita da scarti agro-alimentari, come ad

esempio i liqui-letami delle aziende zootecniche, ma i digestori possono essere riforniti

anche con colture energetiche in forma di insilati, come nel caso del mais, la cui coltura

destinata ai digestori si sta diffondendo rapidamente (sl. 23/43, 49). Le biomasse

vegetali con un elevato contenuto di proteine grezze, grassi, cellulosa ed emicellulosa

sono particolarmente idonee a questo scopo. Il contenuto di fibra è invece poco

interessante. La digestione delle biomasse per la produzione di biogas si può

suddividere in tre fasi: la prima operata da microrganismi che idrolizzano, rendendolo

solubile, il materiale organico di partenza; la seconda, operata sempre da microrganismi

acidofili, consiste in un’ulteriore demolizione dei materiali (deidrogenazione,

carbossilazione) fino ad arrivare ad una prevalenza di acido acetico; l’ultima fase

consiste nella produzione di biogas (sl. 23/44). Tramite la digestione biologica (un

processo della durata di 20-40 giorni) oltre al biogas si può produrre anche energia

elettrica, grazie ad un co-generatore alimentato dallo stesso biogas (sl. 23/48).

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Alcune potenziali colture da biomassa per gli ambienti italiani

Miscanto (Miscanthus giganteus)

È una specie erbacea poliennale, di taglia alta (fino a 3.5 m), dai fusti piuttosto

lignificati (sl. 23/35). Trattiene una larga parte dei nutrienti nell’ampio apparato

rizomatoso e le necessità di nutrienti per la parte aerea sono ridotte. Di solito,

l’applicazione di azoto non determina grandi benefici in termini di resa in biomassa. È

una specie a ciclo fotosintetico C4 con alta efficienza di fissazione del carbonio e di

utilizzazione dell’acqua. È però una pianta esigente in termini di disponibilità idriche,

soprattutto se confrontata con la canna comune. Viene propagata per divisione dei

rizomi, e la meccanizzazione delle operazioni di trapianto rappresenta un altro punto

debole, essendo costosa e non ancora perfettamente a punto. Possono essere utilizzate

trapiantatrici da patata, ma sono in via di sviluppo attrezzature specializzate. Si trapianta

in primavera alla densità di 20000 piante/ha e cresce rapidamente sino a 1-2 m entro

agosto. Negli anni seguenti, raggiunge altezze molto maggiori (2.5-3.5 m) e le rese

crescono progressivamente nei primi 4-5 anni. La coltura può essere raccolta

annualmente per 15-20 anni senza che si presenti la necessità di un reimpianto. Si

raccoglie a fine inverno e le piante al momento della raccolta sono piuttosto secche

(umidità relativa inferiore al 20%). La raccolta viene eseguita con una falciatrice da

foraggi, la biomassa viene lasciata in andane per un’eventuale ulteriore asciugatura ed

infine raccolta con una imballatrice da foraggi. Il miscanto entra in piena produzione

soprattutto dal terzo anno in poi e la produzione media annua di sostanza secca è

piuttosto elevata (fino a 14 t/ha), pari o superiore a quella del sorgo e inferiore soltanto a

quella della canna. Il valore calorifico del miscanto è leggermente inferiore a quello

delle colture legnose e il contenuto in ceneri è piuttosto alto (fino al 14%); la biomassa è

inoltre caratterizzata da un elevato contenuto in silice.

Canna comune (Arundo donax)

La canna è senz’altro la specie da energia più produttiva tra quelle sperimentate

nell’ambiente mediterraneo. È una pianta erbacea perenne dal fusto lungo, cavo e

robusto, che forma dense macchie in terreni umidi, lungo gli argini di fiumi e stagni, ma

anche sui margini dei campi coltivati e sulle dune sabbiose. Presenta un ciclo C3 con

una inusuale elevata capacità fotosintetica. Dato il suo ritmo di crescita molto elevato, la

canna può essere un’ottima fonte di biomassa per uso combustibile e di cellulosa per

l’industria della carta. Ha un profondo apparato radicale, molto più sviluppato di quelli

del sorgo o del miscanto, che consente di ottenere alte rese unitarie anche in condizioni

asciutte. La canna raggiunge la maturità (5-6 m di altezza) rapidamente (circa un anno)

e, a seconda del clima, può essere raccolta da una a tre volte all’anno. Produce una

media di circa 25-28 t/ha annue di sostanza secca e può essere raccolta per 20-25 anni

senza necessità di sostituire l’impianto. La tecnica colturale non presenta particolari

difficoltà (normale aratura o ripuntatura, facoltativamente accompagnata da una

concimazione di fondo di 100 kg/ha di P2O5) se non per la necessità di propagare

vegetativamente le piante a causa della sterilità del seme. Per la messa a dimora delle

piante si impiegano comunemente porzioni di rizoma dotate di almeno una gemma e

con un peso minimo di 200 g, oppure fusti maturi (> 2 anni di età) interrati mediante

l’ausilio di piante trapiantatrici. I rizomi vengono interrati a fine inverno-inizio

primavera, mentre il fusto può essere trapiantato all’inizio dell’inverno. La densità

d’impianto che ha dato i migliori risultati produttivi è di 20000 piante/ha. La canna

comune richiede al massimo un trattamento erbicida di post-emergenza solo nel primo

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anno, essendo in genere fortemente competitiva contro le infestanti. La fertilizzazione

azotata determina un sostanziale miglioramento della sostanza secca prodotta, ma il suo

effetto tende a scomparire nel tempo.

Cardo mariano (Sylibum marianum)

Il cardo è una specie erbacea spinosa, comune negli ambienti mediterranei dove è

considerata una temibile infestante dei pascoli per la sua competitività nei confronti di

specie più pabulari. La sua rusticità e il suo tasso di accrescimento lo rendono però una

specie interessante per la produzione di biomassa in asciutto, soprattutto nei terreni

marginali o abbandonati. Una recente sperimentazione condotta in Sardegna ha

dimostrato che il cardo mariano è in grado di fornire una produzione di biomassa

superiore a quella di cereali e foraggere in un ambiente con piovosità di 420 mm dalla

semina alla raccolta (quasi 20 t/ha di biomassa all’85% di sostanza secca), con un

bilancio energetico netto di quasi 300 GJ/ha. Questo output energetico è inferiore a

quello ottenibile con la canna comune o il sorgo, ma il suo rapporto output/input di

energia è risultato nettamente superiore a quelli delle altre due specie.

Bioenergia e biocarburanti: opportunità e rischi

Secondo una parte di esperti, l’energia generata dalle biomasse vegetali sarebbe ‘carbon

neutral’, perché la CO2 rilasciata nei processi di trasformazione è la stessa assorbita

dalle piante attraverso la fotosintesi. Altri hanno invece sollevato alcune importanti

questioni etiche ed ambientali. In particolare, è stata rilevata con attenzione e

preoccupazione la rapida crescita dei prezzi di certe colture dovuta anche all’espansione

globale dei biocarburanti a spese della produzione di cibo. Le cause dei recenti aumenti

dei prezzi delle derrate alimentari sono complesse, e includono fattori come l’aumento

della richiesta da parte di paesi in rapida crescita economica (in particolare la Cina); gli

scarsi raccolti causati da eventi climatici; l’uso di colture alimentari per la produzione di

biocarburanti (es. il mais per il bioetanolo); i più alti prezzi dell’energia e dei

fertilizzanti; le scarse riserve mondiali; le restrizioni alle esportazioni imposte da alcuni

importanti paesi produttori per difendere i loro mercati interni; il controllo dei prezzi di

mercato di alcuni prodotti agricoli – come i cereali e la soia – da parte dell’industria

‘finanziaria’ che specula sui contratti di acquisto di questi ‘beni’.

In una proposta presentata nel 2013 dalla Commissione Europea al Parlamento e

al Consiglio d’Europa si indica il mantenimento dell’obiettivo del 10% di combustibili

da fonti rinnovabili per i trasporti entro il 2020, ma in quel 10% i biocarburanti derivati

da colture alimentari (o di ‘prima generazione’) non dovranno superare il 5%.

Per quanto riguarda nello specifico l’Italia, la crescente diffusione di impianti

per la produzione di biogas (oltre 300 nella sola Lombardia) e l’elevato uso di insilato di

mais per alimentare i digestori ha posto all’attenzione la necessità di evitare una

competizione tra biogas e produzioni zootecniche per la disponibilità di insilato e per

l’utilizzazione dei terreni (con i relativi costi di affitto).

Preoccupazioni ambientali

Esiste un notevole dibattito sulla quantità delle emissioni dirette ed indirette di GHG

con i biocombustibili, ed è ancora controverso se essi (soprattutto quelli di prima

generazione) determinino dei benefici netti in termini di GHG. Tuttavia, è plausibile

attendersi che la coltivazione intensiva di colture ‘energetiche’ produca effetti

ambientali negativi sul suolo e sull’acqua delle aree coltivate, e causi una maggiore

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deforestazione e una perdita di biodiversità. Le disposizioni in ambito agricolo a livello

locale, nazionale e sovranazionale dovranno considerare i rapporti costi-benefici tra la

necessità di ottenere rese superiori e quella del mantenimento dell’ambiente e della

biodiversità.

Alcune pratiche agronomiche con effetti negativi sono: i) la rimozione dei

residui colturali, impiegati nella co-generazione di energia, con peggioramento della

struttura del terreno, aumento dell’erosione e riduzione della sostenibilità

dell’ecosistema; ii) il massiccio ricorso all’irrigazione per le colture ‘energetiche’

dedicate, con diminuzione della disponibilità idrica complessiva; iii) le piantagioni

estensive di colture come la palma da olio nel sud-est asiatico o della soia in

Sudamerica, con distruzione delle foreste e diminuzione della biodiversità.

L’espansione agricola rappresenta circa il 70-90% dell’eliminazione globale di

copertura forestale, e circa il 15-18% del totale di emissioni di GHG è a carico del

cambiamento nell’uso dei suoli indotto dall’agricoltura. Dal 1990, la superficie coltivata

a commodities come soia, canna da zucchero, palma da olio, mais e colza è cresciuta del

38%, mentre è diminuita l’area destinata a colture di primaria importanza per

l’alimentazione globale, quali riso e frumento.

La validità dei biocombustibili per la mitigazione del cambiamento climatico

dipende dalla riduzione di emissioni di GHG e dal loro costo a confronto con quello

delle attuali condizioni. L’etanolo prodotto dalla canna da zucchero e i biocarburanti di

seconda generazione possono realizzare una diminuzione dei GHG rispetto ai prodotti

petroliferi, ma alcune colture, come il mais, non consentono gli stessi risultati, perché la

loro produzione richiede massicci input basati sui combustibili fossili.

La ricerca potrà contribuire a ridurre questi squilibri, ad esempio aumentando le

rese per unità di superficie, riducendo il fabbisogno di input, ottimizzando i metodi

colturali, o aumentando l’efficienza di trasformazione della materia prima in

combustibile. Nondimeno, le emissioni associate con il cambiamento di utilizzazione

dei terreni e la deforestazione contribuirebbero ancora negativamente al bilancio dei

GHG.

Preoccupazioni di sicurezza alimentare

L’insicurezza alimentare è il mancato accesso fisico ed economico delle persone ad un

cibo sicuro, nutriente e culturalmente accettabile in misura sufficiente da soddisfare i

loro bisogni dietetici. La sicurezza alimentare è una delle principali preoccupazioni che

accompagnano l’uso dei biocombustibili. La produzione di materie prime per i

biocombustibili compete per terra, acqua e fertilizzanti con la produzione di cibo, fibre e

legname. Colture agrarie utilizzate come combustibili e terreni agricoli impiegati per

l’impianto di colture da energia possono determinare un aumento dell’insicurezza

alimentare. Oltre 2 miliardi di persone vivono con un reddito di meno di 2 USD al

giorno, e un aumento dei prezzi degli alimenti aumenterebbe con tutta probabilità la loro

insicurezza alimentare: è stato stimato che per ogni punto percentuale di aumento del

costo attuale degli alimenti aumenta l’insicurezza alimentare di 16 milioni di persone.

La crescente domanda per colture da materie prime, come ad esempio il mais, ha

contribuito alla volatilità dei prezzi agricoli mondiali nel settore dei cereali. A queste

pressioni sui mercati agricoli globali e sui prezzi si sommano altri fattori negativi per la

disponibilità complessiva dei prodotti agricoli, quali la ricchezza crescente delle

economie emergenti – che causa lo spostamento delle preferenze alimentari da alimenti

base tradizionali ad alimenti di derivazione animale (carne e latte) – e il cambiamento

climatico con il suo impatto sulla produttività agricola.

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COLTURE FORAGGERE

I foraggi sono prodotti vegetali non utilizzabili per l’alimentazione umana né,

solitamente, per usi industriali, ma adatti all’alimentazione degli erbivori. Si

differenziano dagli alimenti concentrati (es. granelle di cereali) per la loro minore

digeribilità e il più basso contenuto di nutrienti. Le colture foraggere sono le formazioni

vegetali che producono i foraggi.

La maggior parte delle piante foraggere appartiene alle famiglie delle

graminacee e delle leguminose, sebbene specie erbacee appartenenti ad altre famiglie

(es. crucifere o chenopodiacee) possano essere utilizzate come alimenti per il bestiame.

Le piante foraggere vivono spesso allo stato spontaneo, in prati incolti, ma da tempi più

o meno remoti vengono anche coltivate con il preciso scopo di produrre foraggi per gli

animali. I foraggi possono essere utilizzati sul posto (pascolamento), oppure possono

essere raccolti per essere utilizzati altrove, allo stato fresco oppure conservati, sotto

forma di fieno o di insilato.

La caratteristica della quasi totalità delle foraggere, ad eccezione di quelle

utilizzate come erbaio a taglio unico, è la loro vivacità, cioè il fenomeno grazie al quale

esse sono in grado di ricrescere (ricacciare) dopo l’utilizzazione (sfalcio o

pascolamento). Questa capacità è presente nelle foraggere dotate di particolari strutture

morfo-fisiologiche basali, definite corona e cespo, rispettivamente, per le leguminose e

le graminacee (sl. 24/11-12). Queste strutture funzionano come organi di deposito delle

sostanze di riserva, il cui accumulo avviene in particolare verso la fine del ciclo

vegetativo. Dopo aver asportato la biomassa epigea con lo sfalcio, le sostanze di riserva

accumulate nelle strutture della corona o del cespo si mobilizzano, inducendo la

differenziazione delle cellule meristematiche in nuovi culmi o steli.

Tipi di foraggi

Nella storia dell’umanità, una delle prime forme di attività agricola è stata la pastorizia,

e tuttora gran parte degli erbivori allevati nel mondo viene alimentata con i foraggi

prodotti nelle formazioni vegetali naturali. Più tardi, in particolare nel mondo

occidentale, l’allevamento degli animali domestici ha subito profonde innovazioni, tra le

quali sono da ricordare: il ricovero stagionale o permanente degli animali; la

conservazione di parte del foraggio per far fronte ai momenti di scarsità; l’incremento

della produttività dei cotici naturali attraverso interventi agronomici; l’inserimento di

specie foraggere negli ordinamenti colturali, trasformandole così in colture foraggere.

In Italia le colture foraggere vengono distinte, a seconda della loro durata, nelle

seguenti categorie (sl. 24/16, 18):

- Foraggere permanenti, sono i cotici a durata illimitata o comunque superiore a 10

anni, in genere costituiti da una vegetazione composta da specie spontanee, vivaci o

autoriseminanti. Questi aspetti portano a considerare queste formazioni come naturali.

In questa tipologia sono annoverati i prati stabili, non alternati nel tempo con altre

colture.

- Foraggere avvicendate, sono quelle che si seminano ed entrano in rotazione con altre

colture. Possono avere durata inferiore ad un anno (erbai) o di più anni (prati): questi

ultimi, a loro volta, possono essere costituiti da una sola specie o da più specie

consociate. Si hanno cosi i prati monofiti, se l’impianto è fatto con una sola specie (es.

erba medica, trifoglio bianco, sulla, etc. tra le leguminose, o festuca, dattile, etc. tra le

graminacee perenni), polifiti se costituiti da numerose specie, o oligofiti se l’impianto è

costituito da un numero limitato di specie (2-3). I prati possono essere asciutti oppure

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irrigui. Questi ultimi possono essere ad irrigazione tipicamente estiva, oppure ad

irrigazione invernale (marcite) con funzione termoregolatrice (una volta tipici della

foraggicoltura padana, ma oggi largamente in disuso).

Per il modo di utilizzazione del foraggio, i prati, il cui foraggio prodotto viene

sfalciato per essere consumato altrove, si distinguono dai pascoli, che rappresentano i

cotici foraggeri più estensivi, solitamente permanenti ed utilizzati direttamente dal

bestiame, e dai prati-pascoli, costituiti da foraggere permanenti, il cui ricaccio

primaverile, producendo una massa abbondante, può essere sfalciato e conservato per

costituire delle scorte per i periodi meno produttivi del cotico, mentre i ricacci

successivo vengono utilizzati mediante pascolamento.

Gli erbai, come indicato, sono caratterizzati dalla brevità del ciclo colturale

(inferiore ad un anno). Si dicono annuali quando nell’avvicendamento occupano il

posto di una coltura annuale (mais trinciato o cereali vernini), o intercalari se la loro

coltivazione viene inserita tra una coltura principale e l’altra dell’avvicendamento. A

secondo della stagione in cui svolgono il loro ciclo si distinguono in:

• erbai autunno-vernini (detti anche autunno-primaverili): sono quelli seminati in

autunno e raccolti in primavera (es. cereali vernini, loiessa);

• erbai primaverili: seminati a fine inverno e raccolti a maggio-giugno (es. avena-

veccia-pisello);

• erbai primaverili-estivi: sono i classici erbai annuali (mais o sorgo trinciati);

• erbai estivi: sono quelli a semina estiva dopo aver raccolto la coltura principale (es.

granturchino).

Tendenza della foraggicoltura italiana

Negli ultimi anni, la foraggicoltura nazionale ha fatto registrare una grande evoluzione,

conseguente ai profondi mutamenti avvenuti a diversi livelli (tecnici, economici,

sociali), a seguito della quale si sono registrati:

Un aumento del consumo di alimenti concentrati. Negli animali ad alta genealogia

dalle elevate prestazioni (sia monogastrici che poligastrici), la principale fonte

energetica è sempre più rappresentata dai cereali da granella, mentre come integratori

proteici sono utilizzati i panelli o le farine di estrazione, in particolare di soia e di

girasole.

Un’espansione degli erbai annuali. La tecnologia ha permesso a questo tipo di colture

un balzo produttivo consistente e la produzione di un foraggio facilmente conservabile

tramite insilamento; con il mais in primo raccolto, si totalizzano imponenti quantità di

U.F. per unità di superficie, superiori a qualsiasi altra coltura estiva.

Una riduzione del consumo di fieno. Questo prodotto, che una volta era il solo

alimento conservato, entra attualmente nella razione in quantità ridotta, sostituito in

gran parte dai foraggio di cereali insilati. Il fieno entra nella razione alimentare di una

vacca da latte solo come alimento apportatore di fibra lunga, necessaria per un buon

funzionamento del sistema di ruminazione. Il fieno di erba medica ha conservato

notevole importanza anche come alimento principale soltanto nella zona di produzione

del Parmigiano-Reggiano, dove l’uso degli insilati è vietato dal disciplinare (per evitare

possibili interferenze negative con la qualità del formaggio).

Una riduzione delle superfici a prati avvicendati. Gli investimenti a queste colture si

sono largamente ridimensionati per la riduzione del consumo di fieno negli allevamenti

specializzati da latte, anche come conseguenza del cambio del sistema di alimentazione.

Il piatto unico (unifeed) ha generalmente soppiantato altri sistemi di alimentazione come

la foraggiata verde. Per effetto di tali scelte, ad esempio, la coltura del prato monofita di

ladino è praticamente scomparsa. I problemi di approvvigionamento proteico derivanti

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dalla comparsa della BSE (con conseguente divieto delle farine di origine animale) ha

portato ad una riconsiderazione dei prati di leguminose, in quanto fonti proteiche

‘sicure’, sotto forma di fieno o foraggio disidratato.

Qualità dei foraggi

I foraggi costituiscono da sempre la base alimentare degli animali domestici, ed in

particolare dei ruminanti. Il loro contributo non si limita all’apporto di sostanze nutritive

(carboidrati, proteine, minerali e vitamine), ma anche all’apporto di fibra ‘strutturata’

molto importante per garantire le funzioni motorie del rumine. Per sfruttare a pieno i

principi nutritivi contenuti nei foraggi, è necessario conoscere le caratteristiche

specifiche del prodotto, in quanto esse ne determinano le possibilità di impiego

nell’alimentazione zootecnica. Nella valutazione degli alimenti zootecnici assume

quindi un’importanza fondamentale la determinazione di:

Valore energetico. Per questo parametro occorre conoscere la composizione chimica

dei foraggi. I nutrienti che apportano energia sono l’amido, gli zuccheri, le proteine e i

polisaccaridi non amilacei. La quantità di energia contenuta nei foraggi dipende dalla

quantità e, soprattutto, della qualità della sostanza organica di cui sono costituiti, ed in

particolare dalla qualità della fibra. L’energia presente in un foraggio viene espressa in

Unità Foraggere (sl. 24/40).

Fibra. Rappresenta l’insieme dei costituenti della parete cellulare (pectine,

emicellulose, cellulose, lignina, etc.), mentre all’interno della cellula si trovano i

costituenti del contenuto cellulare, tutti altamente digeribili (zuccheri solubili, amido,

amminoacidi e proteine, sostanze di natura lipidica), oltre ad acqua, minerali e vitamine.

Le frazioni fibrose della parete cellulare dei vegetali assicurano rigidità,

sostegno e protezione alle singole cellule. Queste frazioni tendono ad aumentare con

l’avanzamento di maturazione della vegetazione, mentre parallelamente diminuisce la

digeribilità del foraggio, poiché la struttura fibrosa è sempre più lignificata e ciò limita

l’efficacia degli enzimi cellulosolitici del rumine. A causa di questo, diminuisce quindi

l’assimilazione dei principi nutritivi presenti all’interno della parete cellulare. Il più

comune sistema di valutazione dei foraggi (Van Soest) è basato sulla quantificazione

delle frazioni fibrose. In particolare, vengono determinate le frazioni definite:

– NDF (fibra neutro-detersa), ovvero fibra insolubile al detergente neutro, è la

frazione che rappresenta la fibra totale e comprende emicellulose, cellulosa, lignina,

minerali (silice). Il valore di NDF è quello che riveste la maggiore importanza ai fini

della capacità di ingestione, in quanto rappresenta con buona approssimazione una

stima della parete cellulare e, quindi, dell’‘ingombro’ rappresentato dal foraggio

all’ingestione.

– ADF (fibra acido-detersa), o fibra insolubile al detergente acido, è costituita

principalmente da cellulosa, lignina e silice. La sua quota rappresenta il dato

maggiormente correlato all’energia e alla digeribilità dell’alimento.

– ADL, che rappresenta il complesso di sostanze indigeribili (composti fenolici)

che costituiscono la lignina.

Contenuto proteico. Il contenuto di proteine costituisce l’aspetto più qualificante di un

foraggio. Le proteine sono sostanze organiche costituite da amminoacidi, che formano

lunghe catene con legami detti peptidici. Esse sono una componente fondamentale della

materia organica e rivestono un ruolo basilare per il funzionamento cellulare e per la

trasmissione delle informazioni genetiche. Gli animali costruiscono le proteine

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necessarie all’organismo trasformando in amminoacidi le proteine assunte con

l’alimentazione, per poi ricombinarli nelle proteine necessarie seguendo le informazioni

fornite dal proprio DNA, per mezzo della sintesi proteica. Alcuni amminoacidi vengono

sintetizzati direttamente dall’organismo. Otto amminoacidi non sono però prodotti dagli

animali e devono essere perciò assunti con l’alimentazione (e per tale ragione vengono

denominati essenziali): leucina, isoleucina, valina, lisina, treonina, metionina,

fenilalanina e triptofano. Per gli animali in accrescimento (compresi i bambini) risultano

essenziali anche arginina e istidina.

Fattori antinutrizionali. Possono essere eventualmente presenti negli alimenti e tale

presenza, anche se modesta, può danneggiare la salute degli animali e/o le loro

produzioni, in misura anche rilevante. Tra i più comuni fattori antinutrizionali si

possono ricordare gli isoflavoni ad attività estrogenica (es. formononetina in trifoglio

sotterraneo), che alterano la funzionalità degli organi riproduttivi; i glucosidi

cianogenici (presenti in sorgo e in trifoglio bianco), che sono tossici; le saponine, che

sono glucosidi triterpenici, presenti ad esempio in erba medica, che possono alterare

l’assimibilità intestinale degli alimenti; i tannini (presenti in sulla, ginestrino, fava, etc.)

che possono interferire con la digeribilità proteica; o le micotossine che, come già visto,

derivano dall’attività di alcuni funghi sulle cariossidi dei cereali e possono causare gravi

patologie.

A mano a mano che le foraggere prative si sviluppano e maturano, soprattutto

nel corso del primo ciclo vegetativo primaverile, la proporzione di foglie o lamine

fogliari diminuisce a favore dello stelo, o dell’insieme culmo-guaina nelle graminacee.

A questo è associato un calo del contenuto di acqua della pianta e, soprattutto, una

diminuzione del valore nutritivo del foraggio, al quale spesso si associa anche un calo

dell’appetibilità del prodotto. La quantità di sostanza secca prodotta ad ettaro è massima

allo stadio di piena fioritura per le leguminose e di piena spigatura per le graminacee,

ma quella delle Unità Foraggere è massima immediatamente prima dell’inizio dei

processi di fioritura e spigatura.

I ruminanti, nel corso di milioni di anni, hanno sviluppato un perfetto

adattamento che ha permesso loro di attaccare, tramite enzimi cellulosolitici, i legami

chimici (β-glucosidici) delle componenti fibrose dei vegetali, riuscendo così non solo a

digerire i carboidrati strutturali (componenti delle pareti cellulari), ma anche ad

assimilare le sostanze presenti all’interno delle cellule, altrimenti inutilizzabili. Il

rumine può essere considerato un fermentatore, in condizione di anaerobiosi, nel quale

sono presenti quantità rilevanti di batteri. L’alimentazione di un ruminante deve

assicurare il mantenimento di un certo equilibrio nella popolazione di questi

microrganismi, per garantire l’espletamento al meglio delle potenzialità produttive degli

animali allevati. Per questo, soprattutto i bovini necessitano di una quota di fibra

digeribile strutturata, in assenza della quale verrebbero meno gli stimoli riflessi della

ruminazione. Senza fibra, i batteri cellulosolitici non si svilupperebbero più e la

conseguenza sarebbe l’impossibilità di digerire le frazioni fibrose delle cellule vegetali.

Se non riceve una sufficiente quantità di alimenti a fibra stutturata una bovina in

lattazione può incorrere quindi in gravi disordini fisiologici e metabolici.

Le tradizionali analisi di qualità dei foraggi (sostanza secca, contenuto proteico,

NDF, ADF, ADL, ceneri) sono state affiancate negli ultimi anni da nuovi parametri

qualitativi (quota di fibra digeribile dagli enzimi ruminali, velocità di digestione delle

fibre, contenuto di singoli minerali) che consentono una più raffinata previsione delle

proprietà nutrizionali dei foraggi e una più precisa classificazione in funzione delle

esigenze delle bovine da latte nelle loro diverse fasi fisiologiche. Nell’ottica di ridurre

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l’impiego di costosi concentrati, è indispensabile che i foraggi della razione siano

giovani e molto digeribili. Questa è una condizione necessaria per incrementare la

proteina microbica prodotta dal rumine e diminuire il ricorso ai concentrati. Per ogni

punto di aumento della digeribilità dell’NDF è atteso un incremento produttivo di 250 g

di latte e di 170 g di ingestione.

La messa a punto di tecniche NIRS (spettroscopia di riflettanza nel vicino

infrarosso) consente inoltre di analizzare in modo più rapido ed economico i foraggi

rispetto ai metodi chimici. È stata così estesa la possibilità di classificare in tempo

rapido i foraggi sia al momento dello stoccaggio che al momento dell’impiego.

Le principali limitazioni alla produzione dei foraggi

Fattori climatici

Nelle regioni umide, senza una significativa stagione secca (es. nord Europa), le

condizioni climatiche determinano elevate produzioni di foraggio, favorite anche dalla

lunga durata del giorno nei mesi primaverili ed estivi. Nelle regioni equatoriali, la

minore lunghezza del giorno e la frequente copertura nuvolosa possono limitare le

produzioni di foraggio rispetto a quelle conseguibili a latitudini elevate.

In Italia, le condizioni climatiche variano dal clima spiccatamente mediterraneo

delle regioni meridionali al clima continentale delle regioni settentrionali. Nella

maggior parte degli ambienti italiani, la quantità e la distribuzione delle precipitazioni

nel corso della tarda primavera e dell’estate limitano fortemente la produttività

foraggera. Di conseguenza, il ricorso all’irrigazione, ove possibile tecnicamente ed

economicamente, consente un notevole incremento delle produzioni di foraggio.

All’aumentare della distanza dall’equatore, le temperature impediscono

l’accrescimento delle piante durante i periodi dell’anno nei quali la lunghezza del giorno

è minore (autunno ed inverno). Nelle regioni a clima caldo, le graminacee più frequenti

sono piante a ciclo C4 (macroterme), mentre nelle regioni temperate e fredde le

graminacee sono piante a ciclo C3 (microterme).

Condizioni del suolo

La natura del suolo è importante nel determinare le produzioni di foraggio. I suoli più

fertili e più profondi sono riservati agli erbai e ai prati avvicendati, mentre i pascoli e

prati-pascoli occupano spesso suoli poveri, dotati di scarsa profondità, e talora ricchi di

scheletro e con rocce affioranti.

Specie vegetali e tipologie varietali

Le specie foraggere native di un dato ambiente sono adattate a sopravvivere alle

avversità climatiche e alle caratteristiche sfavorevoli del terreno. Lo stress idrico e la

scarsa fertilità dei suoli costituiscono i principali fattori che limitano la crescita dei

foraggi. Negli ambienti difficili, l’introduzione di varietà di specie foraggere migliorate

ma poco adattate all’ambiente può spesso rivelarsi un insuccesso.

Nelle colture foraggere si parla spesso di ecotipi o di varietà migliorate

riferendosi ai tipi coltivati. Gli ecotipi (termine che deriva dal greco e significa

‘impronta ambientale’) rappresentano il frutto della selezione operata da fattori

climatici, pedologici ed antropici su popolazioni che si sono riprodotte da tempo

immemorabile nello stesso ambiente. Per le sue caratteristiche, un ecotipo è strettamente

legato all’ambiente ecologico in cui vive. La varietà migliorata è invece la varietà

sottoposta ad un processo deliberato di selezione da parte dell’uomo. Le varietà

migliorate di specie foraggere possono ovviamente permettere maggiori produzioni ed

una migliore digeribilità del foraggio. Di solito, però, riescono ad esprimere il loro

potenziale soltanto in condizioni favorevoli di suolo, di clima e di disponibilità di

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nutrienti. Spesso, una migliore sopravvivenza delle specie è assicurata da ecotipi

adattati alla zona di coltivazione. Il miglioramento genetico delle foraggere ha

tradizionalmente fatto riferimento agli ecotipi come base di partenza per il lavoro di

selezione.

Gestione e agrotecnica

Le produzioni di foraggio in una determinata area non dipendono soltanto dalle

condizioni climatiche e pedologiche. All’interno di queste condizioni, gli agricoltori

hanno infatti ampi margini per influenzare i livelli quantitativi e qualitativi dei foraggi

prodotti. Le opzioni più importanti sono rappresentate dagli apporti di fertilizzanti, dalla

frequenza e altezza di taglio nel caso di utilizzazione con sfalcio, o dal carico di

bestiame (numero di capi e loro spostamenti sugli appezzamenti) nel caso di

pascolamento.

Se il foraggio viene sfalciato ed utilizzato per alimentare animali le cui deiezioni

saranno poi sparse su colture diverse da quelle foraggere, si può incorrere in un

progressivo impoverimento del suolo, che può essere evitato soltanto applicando

concimi minerali. Nel caso del pascolo, buona parte dei nutrienti (N, P, K) torna al

suolo con le deiezioni degli animali, ma una frazione rimane immobilizzata negli

animali ed un’altra è persa per volatilizzazione di ammoniaca e percolazione di nitrati.

Anche in questo caso, quindi, in assenza di fertilizzazioni minerali il suolo va incontro

ad impoverimento. L’azoto è l’elemento che limita maggiormente la produzione delle

graminacee, ed i suoli naturali o non fertilizzati ne sono sempre carenti. Le leguminose

sono invece in grado di superare il problema della carenza di azoto nel suolo grazie alla

fissazione simbiontica di questo elemento operata dai batteri che vivono nei tubercoli

delle loro radici. Le leguminose sono per contro più sensibili delle graminacee alla

concimazione fosfatica. Nelle consociazioni tra graminacee e leguminose, queste ultime

rendono disponibile parte dell’azoto per le graminacee, ma questa disponibilità può non

essere sufficiente per le graminacee in caso di gravi carenze di azoto.

Una elevata frequenza dei tagli può accelerare lo sfruttamento dei nutrienti del

suolo e, soprattutto, determinare la scomparsa di specie non adattate morfologicamente

a frequenti defogliazioni. D’altra parte, il foraggio raccolto in uno stadio precoce di

sviluppo ha un più elevato contenuto di proteine ed una maggiore digeribilità rispetto al

foraggio raccolto nelle fasi di sviluppo più avanzate. Il momento del taglio è sempre un

compromesso tra contenuto proteico e digeribilità da un lato, e quantità di foraggio e

sfruttamento non eccessivo della coltura dall’altro.

Un numero di capi elevato rispetto all’area pascolata, ed una permanenza

eccessiva nella stessa area, possono determinare la scomparsa di specie palatabili

(appetite dal bestiame) e la progressiva diffusione di specie non appetite dal bestiame

(es. cardi). Un pascolo eccessivo, quindi, riduce o compromette la produttività dei

cotici.

Il ruolo ambientale dei prati avvicendati di leguminose

Oltre agli aspetti inerenti il ciclo dell’azoto, i prati poliennali di leguminose esercitano

una serie di effetti positivi relativamente alla loro azione rinettante nei confronti delle

erbe infestanti, alla diminuzione del quantitativo di erbicidi applicato (per ettaro e per

anno), e all’incremento della sostanza organica del suolo dovuto all’assenza di

lavorazioni e agli abbondanti residui radicali (sl. 24/53). Quest’ultimo aspetto assume

una importanza particolare alla luce dell’azione di ‘deposito’ della CO2 atmosferica

offerta dai terreni agricoli.

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Le leguminose svolgono un ruolo determinante nei sistemi colturali a basso

input di concimi azotati di sintesi. Quando i concimi azotati industriali sono poco

disponibili o sono costosi, o non possono essere impiegati (come nei sistemi biologici),

il ricorso a colture leguminose (da granella o da foraggio) nelle rotazioni diventa

irrinunciabile.

Nei terreni carenti di azoto (ecosistemi naturali o terreni non concimati), il

vantaggio competitivo delle leguminose sulle altre specie è notevole. Tuttavia, l’attività

delle leguminose incrementa la disponibilità di azoto nel terreno fino al punto in cui lo

svantaggio delle altre specie tende ad annullarsi. Per questa ragione, è difficile

mantenere in purezza negli anni un prato di leguminose, che si trasforma gradualmente

in un prato polifita con frazioni crescenti di graminacee.

Vantaggi della consociazione nei prati oligofiti

La consociazione è la coltivazione contemporanea di due o più specie sullo stesso

terreno. È molto diffusa nelle agricolture di sussistenza, o comunque nei casi in cui

l’agricoltura è condotta con notevole impiego di manodopera. Gli agroecosistemi ad

agricoltura industrializzata tendono alla coltura specializzata, allo scopo di semplificare

le operazioni colturali.

Nel caso delle colture foraggere, la consociazione viene spesso ancora utilizzata,

coltivando una specie graminacea con una o più specie di leguminose come, ad

esempio, nei prati consociati di trifoglio bianco e loietto, o di dattile, erba medica e

ginestrino, o negli erbai di avena e veccia.

La consociazione foraggera può offrire diversi vantaggi rispetto alla coltura

specializzata, quali:

- il migliore sfruttamento delle risorse del terreno assicurato da specie con apparati

radicali complementari (fascicolato e superficiale per le graminacee, fittonante e

profondo per le leguminose);

- la disponibilità di azoto per le graminacee grazie alle escrezioni radicali delle

leguminose, che ne sono ricche;

- il migliore assorbimento della energia radiante (PAR) consentito dalla combinazione

di piante che hanno forma e disposizione delle foglie diverse tra loro, e che si traduce in

maggiore produzione complessiva;

- la composizione più equilibrata del foraggio da un punto di vista nutrizionale

(leguminose ricche di proteine, graminacee ricche di carboidrati);

- la maggiore facilità di conservazione del foraggio: le graminacee agevolano la

fienagione e riducono la perdita di foglie delle leguminose; l’insilamento delle

leguminose diventa più facile se sono consociate con le graminacee ricche di zuccheri

fermentescibili;

- la migliore distribuzione annuale delle produzioni di foraggio, dovuta a ritmi di

crescita diversi nel corso della stagione (le graminacee hanno una maggiore crescita in

primavera, le leguminose crescono relativamente di più nel corso dell’estate);

- la minore presenza di infestanti dovuta al maggiore potere competitivo della

consociazione.

Taglio del foraggio

Mentre gli erbai di cereali (es. orzo o mais ceroso) forniscono un solo taglio (fa

eccezione il sorgo da foraggio, che può fornire più tagli), molte foraggere sono ‘piante

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vivaci’, che riprendono l’accrescimento dopo il taglio e possono quindi essere raccolte

più volte in un anno, con un numero di sfalci che può andare in genere da 2 a 5, a

seconda della specie, delle disponibilità idriche e delle condizioni climatiche.

Il momento e la modalità di utilizzazione del cotico riveste una grande

importanza, non solo per la qualità del prodotto, ma anche per la persistenza della

coltura (sl. 24/58). È molto importante scegliere il tempo e il modo di utilizzazione, al

fine di raggiungere il miglior compromesso tra la quantità e la qualità del foraggio,

garantendo al contempo un buon ricaccio.

Il momento migliore per effettuare il taglio è l’inizio di spigatura per le

graminacee e l’inizio di fioritura per le leguminose. Il taglio in queste fasi fenologiche

consente infatti di ottenere il giusto compromesso tra quantità e qualità del foraggio,

con una buona appetibilità e digeribilità del foraggio da parte del bestiame, e una buona

capacità di ricaccio della coltura dovuta alle riserve radicali accumulate fino a quello

stadio di sviluppo. Se la raccolta avviene prima della fioritura o della spigatura, il

foraggio è di migliore qualità (più proteine, meno cellulosa e lignina) ed è molto

appetibile ma la quantità è scarsa e i tagli successivi sono compromessi poiché la pianta

non riesce a ricostituire delle adeguate riserve radicali. Se la raccolta avviene invece

dopo la fioritura o la spigatura, il foraggio è molto più ricco di cellulosa e lignina

(quindi di peggiore qualità) e meno appetibile e digeribile per il bestiame.

Conservazione dei foraggi

I foraggi possono essere utilizzati allo stato fresco dal bestiame. Tuttavia, la produzione

è concentrata in brevi periodi e, quindi, si pone l’esigenza di conservare i foraggi per

metterli a disposizione degli animali nei periodi di scarsa o nulla produzione. Ciò viene

realizzato attraverso la fienagione o l’insilamento. Entrambi i metodi comportano delle

perdite di valore nutritivo rispetto al prodotto fresco, ma sono comunque necessari per

poter utilizzare il prodotto a diversi mesi di distanza dalla raccolta.

Fienagione

Consiste nell’essiccazione del foraggio, che passa dal 75-80% di umidità al momento

dello sfalcio al 16-18% (ottimale) al momento della conservazione. L’essiccazione può

essere fatta naturalmente, esponendo in campo l’erba al sole e all’aria per un periodo di

3-4 giorni; l’essiccazione può essere favorita schiacciando il foraggio al momento del

taglio con macchine falcia-condizionatrici. Il fieno viene quindi raccolto sciolto oppure

compresso e legato in balle da apposite macchine imballatrici (sl. 24/62-63).

L’essiccazione è artificiale quando l’erba falciata, dopo un pre-appassimento in campo

che la porta ad un’umidità inferiore al 45%, viene posta in fienili attrezzati con appositi

sistemi di ventilazione (fienagione in due tempi). L’aria viene fatta passare attraverso la

massa di foraggio fino a raggiungere un’umidità del foraggio inferiore al 20% (sl.

24/63).

La fienagione è un sistema oneroso in termini di tempo e mano d’opera. Non

tutte le specie si prestano bene a questo tipo di conservazione, poiché alcune sono poco

(es. avena) o niente adatte (es. mais). Con la fienagione si hanno inoltre elevate perdite

di prodotto, con perdite di valore nutritivo dell’ordine del 25% anche nelle migliori

condizioni, a causa di respirazione dei tessuti prima della morte cellulare (per questo

l’essiccazione deve essere rapida), perdite meccaniche di foglie nelle leguminose (gli

organi più ricchi di proteine), o perdite per dilavamento e sviluppo di muffe in caso di

pioggia durante la permanenza in campo del foraggio sfalciato. Le macchine

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condizionatrici, che operano uno schiacciamento del foraggio al momento del taglio,

accelerano l’essiccazione e permettono di contenere le perdite. Anche la fienagione in

due tempi, con ventilazione in fienile del foraggio parzialmente essiccato, riduce

sostanzialmente le perdite.

Insilamento

L’insilato è un materiale succulento ottenuto dalla fermentazione di foraggi freschi. Le

condizioni dalle quali dipende la conservazione del foraggio insilato sono

fondamentalmente due: l’aumento rapido dell’acidità dell’insilato (fino a pH 3.5-4),

dovuto allo sviluppo di acido lattico da parte di lattobacilli che utilizzano zuccheri

solubili presenti nel substrato (silaggio acido), e la creazione di uno stato asfittico per

saturazione con la CO2 prodotta dalla respirazione della massa vegetale (silaggio

asfittico). Questa seconda condizione si ottiene mediante forte compressione della

massa, in modo da far fuoriuscire l’aria presente (e con essa l’ossigeno), e con

contenitori o coperture impermeabili ai gas (sl. 24/66-68).

Le perdite legate a queste trasformazioni sono meno elevate di quelle dovute alla

fienagione, e il foraggio rimane verde e succulento per lungo tempo. La fermentazione

lattica inizia subito dopo l’immissione del foraggio trinciato nel silo. In assenza di

ossigeno (ambiente anaerobico), ad una temperatura ottimale di 20-30 °C ed in presenza

di una sufficiente quantità di zuccheri, si sviluppano i batteri lattici che trasformano gli

zuccheri fermentescibili in acido lattico. Quando l’acidità della massa del foraggio è

aumentata fino ad un pH di 3.5-4, l’ambiente acido evita l’instaurarsi di fermentazioni

putride mentre si arresta l’azione dei batteri lattici. Oltre all’acido lattico, si osserva la

produzione di una certa quantità di acido acetico che contribuisce all’acidificazione

della massa insilata. Le perdite di sostanze nutritive durante la conservazione dei

foraggi insilati sono comprese fra il 10 e il 30%, a seconda delle caratteristiche del

foraggio, delle modalità di raccolta e di insilamento e del tipo di silo.

Le graminacee si prestano bene all’insilamento perchè sono ricche di zuccheri

fermentescibili; le leguminose hanno invece un basso contenuto di zuccheri e un alto

contenuto di proteine e calcio, che tamponano il pH, non prestandosi altrettanto bene al

silaggio acido. È possibile insilare le leguminose nei sili asfittici dopo pre-appassimento

fino al 40% di umidità. L’erba pre-appassita può essere imballata anche in grossi sacchi

di plastica impermeabili all’acqua e ai gas. Per consentirne l’insilamento acido, le

leguminose possono essere addizionate di melassa di barbabietola, oppure di acido

propionico. In alternativa, le leguminose possono essere insilate se consociate per

almeno il 50% con le graminacee.

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PASCOLI

Vengono detti pascoli le superfici in cui il foraggio viene utilizzato direttamente dagli

animali. Sono costituiti da formazioni vegetali permanenti, naturali o artificiali

naturalizzate, generalmente composte da numerose specie perenni, vivaci o annuali

autoriseminanti.

Nei pascoli convivono specie vegetali diverse: erbacee (graminacee, che in

genere sono le predominanti, leguminose, composite, ombrellifere, chenopodiacee,

etc.), arbustive od arboree. Di tutte queste, l’aspetto più importante è la loro pabularità

o palatabilità, in pratica l’appetibilità da parte degli animali che pascolano. Una specie è

pabulare quando è utilizzata come fonte alimentare dagli animali. La pabularità non è un

concetto assoluto, ma è legato alla specie animale che pascola, allo stadio di sviluppo

dell’essenza foraggera e al grado di bisogno dell’animale. Le specie non pabulari

diventano quindi, per un cotico sottoposto al pascolamento, delle vere e proprie

infestanti che a volte, non essendo controllate, possono espandersi in modo del tutto

incontrollato, creando problemi per l’equilibrio del pascolo.

Il danno subito dalle piante con il pascolo è raramente letale per la pianta, che

reagisce a tale danno emettendo nuovi fusti e foglie, e utilizzando a questo scopo le

riserve accumulate nelle radici, nelle corone o nei cespi. Le graminacee foraggere sono

fortemente tolleranti al pascolamento. Un pascolo eccessivo e ripetuto nel tempo,

comunque, può portare alla morte delle piante e al danneggiamento del cotico erboso.

La composizione floristica dei pascoli è in funzione del clima, della natura del

terreno (soprattutto del pH), dell’altitudine, della pressione di pascolamento e della

latitudine. I pascoli alpini sono dominati da specie poliennali, mentre quelli dell’Italia

centrale, meridionale ed insulare sono dominati da specie annuali, molte delle quali

autoriseminanti.

La stagione di pascolamento dipende dall’altitudine e dalle precipitazioni. Nei

pascoli alpini, tale stagione varia da giugno-settembre alle quote più basse, a luglio-

agosto a quelle più elevate; nei pascoli appenninici, la stagione va da aprile ad ottobre,

con una stasi estiva dovuta alla siccità; nei pascoli meridionali ed insulari i periodi di

pascolamento sono marzo-maggio e ottobre-dicembre.

In genere i pascoli forniscono rese molto basse, in media di 700 kg/ha di

sostanza secca, ma comunque interessanti poiché si tratta di superfici altrimenti

improduttive in quanto non adatte alla coltivazione. Il loro rendimento è in funzione

dell’altitudine, della profondità del suolo, dell’esposizione e delle condizioni climatiche.

Una serie di fattori stanno suggerendo la necessità di passare (o di tornare) al

pascolamento come forma di attività compatibile con la crescente domanda di

un’agricoltura sostenibile sotto il profilo agronomico, economico ed ambientale. Nelle

aree in cui la meccanizzazione è ostacolata dalla conformazione geografica, o in cui le

condizioni pedo-climatiche determinano un limite per le rese, la competitività delle

aziende zootecniche può essere perseguita soltanto, prescindendo da interventi di

sostegno, riducendo i costi di produzione. La necessità di produrre a costi minori e con

minore manodopera è spesso il maggiore ostacolo ai sistemi zootecnici di tali ambienti.

Si manifesta allora la potenzialità dell’allevamento in forme prevalentemente pascolive,

per motivi di carattere organizzativo, sociale ed economico, accresciuti dall’interesse di

poter disporre di praterie in abbandono o non più convenientemente utilizzabili con lo

sfalcio. L’introduzione (o la re-introduzione) del pascolamento contribuirebbe al

recupero di aree marginali o dismesse dove non esistono, di fatto, ipotesi di gestione

agricola economicamente alternative all’allevamento estensivo. Tale recupero sarebbe

ulteriormente favorito laddove il sistema zootecnico fosse associato alla valorizzazione

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di produzioni di filiera di qualità, quali le linee vacca-vitello di razze da carne autoctone

di pregio o i prodotti caseari a denominazione di origine.

Un ulteriore incremento dell’impiego del pascolamento potrebbe derivare

dall’applicazione dei metodi di produzione biologica per i prodotti di origine animale, i

quali richiedono un largo ricorso al pascolamento per poter qualificare un allevamento

come biologico. L’introduzione (o la re-introduzione) del pascolamento nelle aree più

‘fragili’ renderebbe possibile la gestione territoriale di ampie superfici e promuoverebbe

la cura di molti terreni abbandonati, favorendo la prevenzione dei rischi ambientali

(erosione, frane, alluvioni, etc.) associati allo spopolamento di tali zone. La copertura

erbacea permanente costituisce un’eccellente protezione contro i rischi di erosione del

suolo. Infatti, essa attutisce in modo efficace la forza erosiva delle piogge e gli apparati

radicali (soprattutto quelli fascicolati delle graminacee) forniscono un’efficace trama di

protezione del terreno.

Un ulteriore aspetto positivo della presenza dei pascoli è l’incremento del

contenuto di sostanza organica, spesso superiore a quello di forti concimazioni

letamiche, determinata dall’assenza di lavorazioni meccaniche. Il suolo indisturbato

rallenta infatti il tasso di mineralizzazione della sostanza organica.

Tecniche di pascolamento

Il pascolo può essere libero o a rotazione, secondo tecniche differenziate.

Pascolo libero (brado o semibrado)

In esso gli animali sono liberi di muoversi sulla superficie destinata a pascolo e

scegliere le essenze da brucare, lasciando a disposizione del bestiame tutto il pascolo

(brado), o suddividendolo in 2-3 grossi settori in cui la mandria permane per 30-40

giorni (semibrado).

In questa tecnica di pascolamento, l’unico parametro tecnico seguito è il carico,

cioè la quantità di capi per unità di superficie che quella superficie può sopportare per

l’intera stagione. Riuscire ad individuare il giusto carico diventa la condizione

fondamentale perché il cotico si mantenga equilibrato e produttivo nel tempo. Per

questo tipo di pascolo possono essere dannosi tanto il sottocarico quanto il sovraccarico.

Infatti, un carico troppo basso aumenta gli sprechi dovuti alla selettività del bestiame,

mentre un carico di bestiame eccessivo danneggia il cotico erboso. Con un sottocarico

(in cui gli animali possono ‘scegliere’), le specie meno pabulari possono prendere il

sopravvento su quelle più appetibili, mentre con un sovraccarico il prelevamento troppo

spinto della biomassa pregiudica la capacità di ricaccio delle piante.

I vantaggi offerti da questo tipo di pascolamento sono la semplificazione estrema

dell’allevamento, la minima richiesta di manodopera per la sua gestione, e la possibilità

di recuperare ampie superfici che rimarrebbero altrimenti inutilizzate. Gli svantaggi

sono invece rappresentati dalla bassissima produttività dei cotici e dal peggioramento

degli stessi con possibile proliferazione di infestanti, dagli sprechi elevati (fino all’80%)

dovuti ad imbrattamento e consumo selettivo delle specie più appetite, e dai problemi di

cattura del bestiame al rientro autunnale. È un sistema accettabile solo in alta montagna

per recuperare ampie superfici prive di recinti, o in collina su notevoli superfici poco

produttive e molto dissestate, e con razze animali molto rustiche (es. vacche

Maremmane).

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Pascolo a rotazione o turnato

Consiste nel suddividere la superficie destinata al pascolamento in varie sezioni nelle

quali, a turno, viene immesso il bestiame con un carico elevato per un periodo limitato.

In questo modo si limitano gli sprechi e si possono conseguire diversi vantaggi: si

utilizza il foraggio ad uno stadio ottimale e si raggiunge il compromesso tra qualità,

quantità e capacità di ricaccio; si ottiene un coefficiente di utilizzazione del cotico

molto elevato (70-80%) e si registra un regolare ricaccio nel periodo indisturbato; nei

periodi di maggiore produzione si può far pascolare parte della superficie ed affienare il

foraggio prodotto sulla restante superficie, costituendo così delle scorte aziendali.

Per eseguire il pascolo turnato è necessario suddividere l’area in appezzamenti

sufficientemente grandi da consentire alla mandria di rimanere da 7 a 15 giorni

(rotazione stretta o rotazione larga, rispettivamente), e ritornare sulla stessa superficie

quando l’erba ha raggiunto il giusto stadio di sviluppo (dopo 35 giorni circa).

Un tipo particolare di pascolo a rotazione è il cosiddetto pascolo razionato, con

il quale ogni giorno si mette a disposizione del bestiame un’area di pascolo tale da

garantire la copertura del fabbisogno giornaliero. Appena il foraggio è stato consumato,

gli animali vengono spostati in un altro appezzamento. È questo un sistema di

utilizzazione ideale per vacche e pecore da latte in produzione, dalle elevate esigenze

fisiologiche, in quanto permette di fornire sempre un foraggio di elevata qualità. È

consigliabile, quindi, soprattutto in pianura o in collina su terreni produttivi e poco

frazionati. La produttività del cotico viene assicurata lasciando crescere indisturbata

l’erba tra i due turni successivi di utilizzazione. Gli sprechi sono molto ridotti (10-15%),

perché il bestiame deve spostarsi poco e trova tutto il foraggio al giusto stadio di

sviluppo. Anche i danni da calpestamento sono ridotti, dato specialmente utile nei

periodi piovosi e su terreni argillosi. Lo svantaggio maggiore consiste nella necessità di

predisporre recinti fissi lungo il perimetro dell’azienda e recinti mobili elettrificati per la

suddivisione in settori, con richiesta di manodopera giornaliera per la movimentazione

della mandria.

Tecniche di miglioramento dei pascoli

I pascoli possono essere migliorati attraverso interventi agronomici tendenti ad incidere

sulla produzione, tanto da un punto di vista qualitativo che quantitativo. Tra i vari

interventi attuabili si possono ricordare:

- le concimazioni minerali, che devono essere modeste, ma possono sostenere la

produttività del cotico erboso; l’azoto tende a favorire selettivamente le graminacee,

mentre il fosforo tende a favorire selettivamente le leguminose;

- lo sfalcio delle specie non utilizzate (es. cardi) per evitarne la diffusione;

- la semina di specie leguminose, per migliorare l’apporto proteico e la digeribilità del

pascolo (semina su sodo per prevenire l’erosione);

- la trasemina di varietà migliorate;

- lo spargimento di deiezioni solide bovine;

- lo spietramento.

Alla base di qualsiasi intervento di miglioramento di un cotico pascolivo ci deve sempre

essere un carico ben regolato ed un turno appropriato.

Le basi conoscitive su cui sono fondate le tecniche di pascolamento sono

l’evoluzione quanti-qualitativa della biomassa e l’azione selettiva degli animali sulla

biomassa, da cui dipendono: il momento ottimale di pascolamento; il periodo di

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soggiorno; il periodo di riposo tra un turno ed il successivo; il carico di bestiame

mantenibile per unità di superficie.

Il carico (espresso in numero dei capi o in kg di peso vivo) può essere calcolato

come: (produzione disponibile/consumi alimentari per capo al giorno) × K, dove K è il

coefficiente di utilizzazione (= 0.7-0.8). Con la formula si può determinare il cosiddetto

carico istantaneo o quello stagionale. Se riferito a tutto l’anno, si parla di carico

annuale.

Gli animali, e i bovini in particolare, tendono ad utilizzare selettivamente il

foraggio più appetibile e nutriente, evitando il foraggio calpestato o contaminato da feci

ed urine. La deposizione di feci ed urine avviene preferenzialmente in alcune zone

(all’ombra e vicino ai punti di abbeverata) e crea scarsa uniformità di distribuzione di N

e P nel terreno, con rischi di inquinamento delle acque superficiali e profonde. Una sola

deposizione di urina può determinare una concimazione localizzata pari a circa 600

kg/ha di N.

In qualsiasi soluzione adottata, un ruolo importante è svolto anche dalle

condizioni economiche, sociali e politiche, che determinano la disponibilità di capitali e

di infrastrutture, e il possibile ricorso a mezzi tecnici quali l’irrigazione e la

concimazione, che possono avvicinare le produzioni effettive ai livelli di produttività

potenziale.

Prati-pascoli

Occupano terreni meno marginali rispetto ai pascoli, in cui la pendenza sia tale da

consentire le operazioni meccaniche di taglio e raccolta dei foraggi, e la quantità di

foraggio giustifichi le operazioni di raccolta. La produzione minima si aggira su 2.5 t/ha

di sostanza secca. Si tratta in genere di terreni di collina o montagna che fino a pochi

decenni fa erano occupati da una cerealicoltura marginale, e in seguito sono stati lasciati

incolti. La copertura erbosa permanente permette un buon controllo dell’erosione del

suolo.

Normalmente viene tagliato ed affienato il primo taglio, che è il più abbondante,

e vengono fatti pascolare i ricacci. La ragione della elevata produttività del primo taglio

è dovuta al fatto che nei mesi di aprile e maggio il terreno contiene ancora una buona

dotazione di acqua e le temperature non sono ancora troppo alte rispetto alle esigenze

delle foraggere, che sono piante microterme a prevalente crescita primaverile.

In appezzamenti nei quali vengono opportunamente seminate specie e varietà di

diversa precocità, realizzando così una notevole scalarità di crescita del foraggio, si

possono realizzare delle catene di foraggiamento. I prati-pascoli devono essere

suddivisi in sezioni, in ognuna delle quali viene seminata una specie e varietà

determinata, in modo da realizzare una gamma di precocità la più estesa possibile, col

risultato di poter scaglionare nel tempo la produzione e utilizzazione dei cotici. Il

sistema permette così di intervenire al momento ottimale, evitando il peggioramento

qualitativo a cui l’erba, soprattutto di graminacee, va incontro in caso di ritardo

nell’utilizzazione.

Specie adatte alla costituzione di prati-pascoli sono la festuca, la dattile, il loietto

ed il fleolo tra le graminacee; il ginestrino ed il trifoglio bianco tra le leguminose.

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Importanza ambientale dei prati e dei pascoli

− Il terreno occupato da cotici prativi viene lavorato ad intervalli più ampi rispetto ai

sistemi arativi. Per esempio, nel caso di un medicaio la durata del prato è in media

di quattro anni, e soltanto alla fine di questo periodo il terreno viene nuovamente

lavorato. Questo consente di aumentare il contenuto di sostanza organica del

terreno, e quindi di migliorare le caratteristiche chimiche e fisiche del suolo. Questo

permette anche al terreno di svolgere il ruolo di deposito di carbonio, e quindi di

mitigare l’effetto delle emissioni di CO2 nell’atmosfera.

− Poiché i prati vengono frequentemente sfalciati, in genere non richiedono l’impiego

di diserbanti per controllare la flora infestante. Rispetto ai sistemi arativi diminuisce

quindi notevolmente l’impiego di sostanze chimiche.

− I prati, e soprattutto i pascoli, sono costituiti da diverse specie, e quindi tollerano

meglio delle colture monofite gli stress abiotici (es. siccità, freddi eccessivi) e

biotici (patogeni, parassiti). Sono cioè dei sistemi dotati di maggiore resilienza.

− I prati, e soprattutto i pascoli, esercitano una copertura costante del suolo nel corso

dell’anno. Questo consente alle colture di assorbire attivamente nitrati durante i

periodi vegetativi e, quindi, di diminuire le perdite per percolazione di azoto.

− I prati, e soprattutto i pascoli, con la loro copertura vegetale proteggono il suolo

dall’azione battente della pioggia limitando l’erosione. Inoltre, gli apparati radicali

fascicolati, specie quelli delle graminacee, trattengono molto bene il suolo e gli

conferiscono un’ottima struttura, facilitando l’infiltrazione dell’acqua. Queste azioni

sono fondamentali nei terreni declivi, dove le colture arative possono determinare

gravi effetti ambientali e il pascolo o il bosco sono le uniche alternative sostenibili.

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SPECIE FORAGGERE DA PRATO AVVICENDATO

Leguminose

ERBA MEDICA (Medicago sativa)

L’erba medica è la leguminosa foraggera poliennale più coltivata nel mondo, con una

superficie stimata di 15 milioni di ettari. Le ragioni di questa sua superiorità nei

confronti di altre specie sono riconducibili a pregi unanimemente riconosciuti quali

l’alta produttività, l’elevato valore nutritivo del foraggio, l’azione miglioratrice sulla

fertilità del terreno, la buona resistenza alla siccità, l’ottima capacità azotofissatrice, la

possibilità di utilizzare i nutrienti delle riserve profonde del terreno e l’azione rinettante

dalla malerbe.

La lunghissima storia di questa foraggera come pianta coltivata risale al terzo

millennio a.C. Si ritiene che il centro di origine di questa pianta sia l’Asia sud-

occidentale, soprattutto la zona del Turkestan, da dove si è diffusa attraverso i secoli con

le migrazioni dei popoli nomadi, verso oriente (India e Cina) e verso occidente (Persia

ed Asia Minore) sino a giungere in Grecia nel IV sec a.C. ed in Italia nel I secolo a.C. In

seguito alle invasioni barbariche e con la caduta dell’impero romano la sua coltivazione

decadde. Fu reintrodotta dagli arabi in Spagna e da qui nel XVI secolo si diffuse

dapprima in Europa (da cui il nome volgare talora usato in Italia di ‘erba spagna’) e poi

nelle Americhe da parte dei conquistatori. Fu in quel periodo che l’erba medica, con i

trifogli, concorse a far registrare una svolta storica nel modo di coltivare la terra.

L’incremento della popolazione registrato nel Rinascimento imponeva l’abbandono

delle classiche rotazioni discontinue a base di maggese nudo o di riposo pascolato, per

passare alla coltivazione ininterrotta del terreno. L’avvicendamento periodico con il

prato, evolutosi lentamente verso impianti monofiti di leguminose (sotto l’impulso

anche dei lavori degli agronomi del tempo come Tarello e Gallo), non solo evitò il

rapido degrado del terreno coltivato, ma divenne uno dei più potenti fattori di

miglioramento agronomico dei suoli, in quanto in grado di ripristinare uno stato di

fertilità nei terreni sfruttati dai cereali, grazie all’azione benefica delle foraggere e delle

leguminose in particolare. A questa azione benefica si aggiunse quella indiretta, ma

altrettanto positiva, conseguita con l’incremento del numero di capi di bestiame

allevabili per unità di superficie e con la relativa produzione di letame, considerato fino

a non molti anni fa quasi l’unica risorsa per la fertilizzazione dei terreni.

La grande diffusione di questa specie nel mondo è dovuta senz’altro alla sua

notevole variabilità genetica, che ne ha permesso un ampio adattamento in diverse

condizioni pedo-climatiche. In Italia, l’erba medica è coltivata su circa 600-700 mila

ettari, di cui quasi la metà in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto (sl. 25/20). Se la

sua superficie totale si è dimezzata in trenta anni (raggiungendo peraltro un livello

piuttosto stabile negli ultimi anni), la sua percentuale rispetto al totale dei prati

avvicendati è aumentata, e ne rappresenta oggi circa il 64%.

Caratteri botanici, biologia e classificazione

L’erba medica è una leguminosa a pianta vivace, con apparato radicale fittonante molto

profondo e robusto (può comunemente spingersi oltre il metro). Gli steli glabri, in

genere eretti e più o meno cavi, hanno origine dalla parte basale della pianta detta

corona e possono raggiungere un’altezza di 90-100 cm (sl. 25/8, 16). La corona si

differenzia all’inizio dello sviluppo delle plantule, quando si verifica il cosiddetto

accrescimento contrattile. Poco dopo l’emergenza, l’ipocotile e la parte superiore della

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radice si espandono in larghezza e contemporaneamente subiscono quasi una

contrazione della lunghezza, col risultato che i primi internodi vengono trascinati verso

il basso, quasi compressi, e vengono a trovarsi sotto la superficie del suolo.

Contemporaneamente, all’ascella delle prime foglioline, comprese quelle cotiledonari,

si differenziano delle gemme da cui hanno origine delle ramificazioni, l’insieme delle

quali, unitamente alle parti basali dello stelo, costituiscono la cosiddetta corona. Dalla

corona basale si differenziano le gemme avventizie che daranno origine agli steli (sl.

25/29, 31). La corona, unitamente alle radici, svolge funzione di deposito delle sostanze

di riserva; ogni volta che con lo sfalcio viene asportata la parte vegetativa, una parte

delle gemme della corona interrompe la dormienza, le sostanze di riserva accumulate

vengono mobilitate e si sviluppano nuovi steli. Una corretta agrotecnica e l’impiego di

varietà adatte ai tagli frequenti garantiscono una buona persistenza del medicaio (sl.

25/32).

La medica è pianta allogama ad impollinazione entomofila, con foglie alterne

trifogliate. I fiori, generalmente di colore violetto, sono numerosi e riuniti in racemi (sl.

25/15).

La specie presenta una spiccata capacità azotofissatrice, in grado di utilizzare

l’N atmosferico grazie all’attività del batterio specifico Sinorhizobium meliloti, che

permette di fissare sotto forma di ammoniaca e ammino-composti l’azoto gassoso

presente nel suolo. Studi specifici sulla simbiosi erba medica-rizobio hanno evidenziato

come una coltura di erba medica permetta di lasciare delle vere e proprie riserve di

azoto nel terreno, stimabili in 150-200 kg/ha disponibili per la coltura che succede

nell’avvicendamento.

Una particolare classificazione delle varietà viene fatta sulla base della loro

cosiddetta ‘dormienza autunnale’, cioè della loro capacità di entrare in stasi vegetativa

durante la stagione più fredda dell’anno. Nelle zone con inverni molto freddi (come gli

stati del Midwest americano) sono necessarie delle varietà molto dormienti, che cessano

la loro attività vegetativa piuttosto precocemente in autunno e riescono a sopravvivere ai

rigori invernali. In fase di riposo vegetativo la coltura sopporta normalmente

temperature anche al di sotto di –20 °C. Nelle aree con inverni miti (come gli stati del

sud-ovest degli USA o l’area mediterranea) sono invece coltivate varietà con dormienza

bassa o molto bassa, capaci di vegetare e fornire produzioni per buona parte dell’anno.

Nell’Italia settentrionale, le varietà hanno comunemente una dormienza ‘media’, pari a

circa 6 nella scala internazionale da 1 (massima) a 11 (nulla).

Esigenze pedo-climatiche ed agronomiche

Terreno

L’erba medica trova condizioni molto favorevoli di impianto e di sviluppo in terreni

profondi (> 0.5 m), non troppo compatti né eccessivamente sciolti, e dotati di un buon

drenaggio. Sono da evitare assolutamente suoli mal sistemati, dove ristagna l’acqua,

perché l’erba medica soffre molto più di altre foraggere di questa situazione (sl. 25/18).

La presenza di eccessi idrici, specialmente nella stagione vegetativa, provoca infatti

malattie quali Phytophthora, Pythium ed altri patogeni della corona e della radice, oltre

alla difficoltà di nodulazione sulle radici per mancanza di ossigeno e all’asfissia

radicale.

Valori di pH compresi tra 6.5 e 7.5 sembrano essere ottimali, mentre al di fuori

di questo intervallo l’impianto della coltura diventa difficile. In particolare, un pH basso

è causa di seri problemi, che possono essere in parte evitati con l’impiego di calcio

come ammendante; questo favorisce la fissazione biologica dell’azoto da parte del

rizobio e fa aumentare la disponibilità di fosforo e potassio.

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Adattamento ambientale

L’erba medica preferisce zone temperato-calde, non eccessivamente piovose e

caratterizzate da buona insolazione. La radiazione luminosa è infatti molto importante

per questa pianta per determinare l’intensità della fotosintesi. Anche la temperatura

esercita un’azione non trascurabile su questo fattore. Sotto i 5 °C e sopra i 35 °C la

fotosintesi si blocca molto velocemente.

Avvicendamento

La coltura di erba medica influenza la fertilità agronomica del terreno attraverso il

miglioramento delle caratteristiche chimico-fisiche dello stesso. Essa aumenta infatti il

contenuto di sostanza organica e di azoto ed agisce sulla stabilità degli aggregati del

terreno, migliorandone così la struttura.

Volendo seguire un razionale avvicendamento, è buona norma inserire la coltura

della medica dopo un cereale autunno-vernino (frumento, orzo, etc.) e prima di una

sarchiata (bietola, mais, etc.). La successione a sé stessa è sconsigliata, in quanto questa

porta ad un diradamento precoce dovuto all’accumulo di secrezioni radicali con effetti

allelopatici e di patogeni che attaccano le giovani piante.

Tecnica colturale

Lavorazione del terreno

I fattori che permettono una rapida germinazione sono un terreno umido e ben

preparato, un buon contatto del seme col terreno e un’uniforme profondità di semina

onde evitare nascite scalari (sl. 25/35-37). Per ottenere queste condizioni, nei terreni

argillosi la lavorazione principale sarà costituita da un’aratura a 30 cm di profondità,

preferibilmente nell’estate precedente l’impianto, cui seguiranno altri lavori, come la

frangizollatura, l’erpicatura, etc., per amminutare al massimo le zolle. In terreni sciolti e

leggeri, queste operazioni possono invece essere eseguite pochi giorni prima della

semina. La distribuzione di letame avverrà prima dell’aratura, mentre quella dei concimi

minerali prima dell’erpicatura. È da evitare la formazione di letti di semina troppo

soffici che si asciugano facilmente, o troppo fini che favoriscono la formazione di

croste, o grossolani che non permettono una buona adesione del terreno al seme. Per i

terreni leggeri sarebbe raccomandabile una rullatura finale.

Concimazione organica

L’apporto di letame è consigliabile solo in terreni poveri di sostanza organica, ed in tale

caso si somministra prima dell’aratura in ragione di 400-500 q/ha stando attenti ad

utilizzare letame ben maturo. Nei terreni più ricchi, il letame non risulta un concime

fondamentale per la coltura dell’erba medica, anche perché la sua funzione di

ammendante che contribuisce a promuovere l’aggregazione delle particelle e la stabilità

dei glomeruli formati, è già svolta dalla medica stessa.

Concimazione minerale

Azoto

Questo elemento non viene di norma somministrato al medicaio, perché le piante,

attraverso il processo di fissazione biologica dell’azoto atmosferico da parte del rizobio,

riescono a soddisfare quasi interamente i propri fabbisogni. Piccole quantità di azoto,

dell’ordine di 30-40 kg/ha sono a volte consigliate al momento della semina per aiutare

le giovani piantine, prima dello sviluppo della nodulazione sulle radici e specialmente in

sfavorevoli condizioni ambientali e pedologiche. Negli anni successivi all’impianto,

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nessuna somministrazione azotata deve essere fornita al medicaio e questo si traduce in

notevoli benefici, sia dal punto di vista economico che sotto l’aspetto dell’impatto

ambientale.

Fosforo

Contrariamente all’azoto, questo elemento riveste un’importanza vitale per soddisfare le

esigenze nutritive dell’erba medica. Infatti, esso favorisce ed aumenta il numero dei

noduli e le loro dimensioni, e di conseguenza la quantità di azoto assorbita per

fissazione biologica. È molto importante che il fosforo sia applicato prima della semina,

in funzione della dotazione del terreno, per favorire le piantine che hanno bisogno di

un’elevata disponibilità per il loro accrescimento. Mediamente si apportano circa 150

kg/ha di P2O5 interrati con l’ultima erpicatura. Le somministrazioni fosfatiche negli anni

successivi non danno in genere apprezzabili differenze rispetto ad un’unica

distribuzione eseguita al momento della semina, specialmente nei terreni normalmente

dotati di questo elemento. È anche da tenere presente che con l’eventuale uso di letame

o di liqui-letame all’impianto si apportano elevati quantitativi di fosforo, che deve

essere pertanto diminuito dalle concimazioni minerali. In caso contrario vi è un aumento

ed accumulo di fosforo nel terreno.

Potassio

Il potassio è un elemento asportato in grande quantità dall’erba medica ed il suo

assorbimento aumenta man mano che la pianta cresce. Questo elemento migliora la

capacità di fissazione dell’azoto, allunga la durata del medicaio, aumenta la sua

resistenza al freddo, rende la coltura meno suscettibile alle malattie e migliora la

competizione rispetto alle graminacee in caso di consociazione.

Non sempre è possibile rilevare la sua positiva influenza sulla produzione di

sostanza secca, perché i terreni particolarmente vocati alla medica sono molto ricchi di

questo elemento (da 160 a 360 ppm di K2O). Nei terreni poco dotati di potassio è più

facile invece evidenziarne l’importanza.

Quando necessario, la dose apportata in pre-semina è di circa 250-300 kg/ha di

K2O. Per la sua maggiore mobilità, il potassio, contrariamente al fosforo, può essere

vantaggiosamente distribuito ogni anno in copertura prima della ripresa vegetativa,

specialmente nei terreni sciolti e sabbiosi, nella misura di 100-150 kg/ha di K2O.

Semina

La tradizionale semina dell’erba medica consociata ad un cereale, la cosiddetta

‘bulatura’ (trasemina della medica a fine inverno nel cereale seminato in autunno), è

oggi completamente abbandonata a favore della semina in purezza su terreno nudo. Per

quanto riguarda l’epoca di semina, bisogna tenere presenti due considerazioni

fondamentali, ovvero che le leguminose sono sensibili alle basse temperature nei primi

stadi di sviluppo, e che l’apparato radicale deve svilupparsi prima della stagione secca.

Per questo, mentre nelle regioni meridionali si adottano spesso semine autunnali, nelle

regioni centro-settentrionali, con climi più umidi e freddi, si preferiscono le semine

primaverili. Risultati di varie prove sperimentali hanno dimostrano che è possibile,

anche in ambienti settentrionali, seminare il medicaio nella tarda estate, ma in ogni caso

la resa è sempre inferiore a quelle primaverili ed in particolare alla semina eseguita nella

prima decade di marzo, che risulta essere la più indicata per le zone di pianura (sl.

25/39). Oltre a mostrare minori produzioni, il medicaio in semina autunnale tende ad

infestarsi di malerbe in misura maggiore, per la lunga esposizione alle basse

temperature nella sua fase iniziale di sviluppo.

In un terreno sciolto, ben preparato e dotato di umidità, si possono usare 20

kg/ha di seme con semina a macchina e a righe. La grande maggioranza dei terreni

italiani adatti all’erba medica è costituita però da terreni tendenzialmente pesanti, e su

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questi si consigliano 30-40 kg/ha di seme, per arrivare anche a dosi di 40-50 kg/ha in

condizioni particolarmente svantaggiate per epoca e situazioni pedo-climatiche.

La profondità di semina riveste una grande importanza per la buona riuscita

dell’impianto: quella ideale, che deve essere la più regolare possibile, è di circa 1 cm

nei terreni argillosi, pesanti, e 1-2 cm in quelli leggeri, sabbiosi. Si sconsiglia di adottare

profondità di semina superiori a quelle indicate, per non compromettere la regolarità e la

velocità di emergenza delle plantule.

Diserbo

La durata di un cotico di medica è funzione di molte variabili, quali il terreno, il clima,

la varietà, i ritmi di utilizzazione e, non ultima, la competizione con la flora infestante.

Nel primo anno, il tipo di infestazione che predomina è in genere costituito da specie

annuali, mentre negli anni successivi queste tendono a lasciare il posto ad infestanti

poliennali.

Anche se si adottano corrette tecniche agronomiche, il medicaio si trova

generalmente in forte competizione con le malerbe nell’anno d’impianto e durante il

riposo vegetativo invernale, in special modo ad opera delle dicotiledoni annuali, quali

stellaria, crucifere e composite, e delle dicotiledoni perennanti nei terreni sciolti di

pianura. Il diserbo dell’erba medica può essere articolato come segue. Nell’anno

d’impianto si può eseguire in pre-semina con Benfluralin, che controlla le graminacee, o

in pre-emergenza con Propizamide, che controlla graminacee e dicotiledoni ed anche i

germinelli di romice e di cuscuta, o in post-emergenza con 2,4DB, Imazamox, Piridate o

Quizalofop-etile, intervenendo allo stadio di 1-4 foglie, e altezza di 8-10 cm. Negli anni

successivi si possono fare trattamenti di mantenimento durante il riposo vegetativo

invernale con Propizamide, Metribuzin, Imazamox, Piridate o Quizalofop-etile. In

presenza di cuscuta (sl. 25/83) si può intervenire con Propizamide a fine inverno e

subito dopo il primo taglio.

.

Irrigazione

Benché sia una specie originaria di zone temperato-calde, l’erba medica presenta un

elevato consumo di acqua, pari a circa 700-1000 kg di H2O per kg di sostanza secca,

con una WUE inferiore a 2 kg di sostanza secca per m3 di acqua traspirata. Grazie al suo

profondo apparato radicale, la medica riesce quasi sempre a sopperire da sola,

specialmente in terreni freschi, profondi e dotati di falda acquifera, alle proprie necessità

idriche. Sono pertanto limitati i casi erba medica irrigua. Nelle condizioni pedo-

climatiche della pianura padana può essere effettuata un’irrigazione di soccorso durante

il primo anno o, al massimo, nei primi due anni di vita, quando la coltura non ha ancora

raggiunto il pieno sviluppo radicale. L’irrigazione favorisce, tra l’altro, lo sviluppo di

erbe infestanti estive che prendono il sopravvento sull’erba medica, e la proliferazione

di funghi patogeni della corona e della radice, contribuendo al diradamento dei cespi.

Nelle zone più siccitose del centro-sud, l’irrigazione può esplicare la sua efficacia

durante tutto il ciclo produttivo. Riguardo al momento dell’intervento irriguo, è

consigliato effettuarlo dopo lo sfalcio del foraggio, per ricostituire rapidamente la

copertura vegetale con un vigoroso ricaccio. Il metodo consigliato e più diffuso è quello

per aspersione, con volumi variabili da 400 a 500 m3/ha in relazione alla tessitura del

terreno e alle condizioni climatiche.

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Gestione del medicaio

Un aspetto fondamentale per la corretta conduzione del medicaio è quello di

programmare i tempi e le modalità di raccolta, al fine di garantire una buona

produzione, un foraggio di elevata qualità ed assicurare la longevità dell’impianto.

Epoca di taglio

Lo stadio in cui la coltura viene sfalciata riveste un’importanza particolare. Infatti, se si

sfalcia prima dell’emissione dei primi fiori, quando il germoglio fiorale è ancora verde,

si ottiene di norma una produzione inferiore, ma dotata di superiore qualità, con più

proteine, più carboidrati solubili e meno cellulosa e lignina (sl. 25/51-52). In genere,

però, questo tipo di utilizzazione, favorevole alla qualità del foraggio, danneggia il

medicaio riducendone la durata. Un giusto compromesso è allora quello di sfalciare al

cosiddetto stadio del 50% del bottone blu, quando cioè circa la metà dei fiori

nell’infiorescenza (ancora chiusi) inizia a mostrare la pigmentazione blu-viola dei

petali, o, al più tardi, all’inizio della fioritura (circa 10% di fiori aperti).

Modalità di raccolta

L’erba medica entra nella razione alimentare delle bovine da latte quasi unicamente

come prodotto conservato, infatti la foraggiata verde, salvo alcuni casi marginali, è

quasi del tutto scomparsa.

Le modalità della raccolta sono influenzate dal sistema di conservazione e di

utilizzazione che si vogliono adottare, ma in linea di massima le operazioni di raccolta

devono essere svolte in modo da soddisfare due requisiti molto importanti: ridurre al

minimo il traffico delle macchine operatrici sul medicaio, che mal sopporta il calpestìo

(sl. 25/48), e ridurre i tempi e il numero di operazioni, per limitare le perdite del

prodotto. Il taglio deve essere veloce e regolare, ad un’altezza non inferiore ai 5 cm. Il

taglio con falcia-condizionatrici (a rulli o a flagelli) resta la soluzione migliore per

facilitare la perdita di acqua dagli steli e ridurre la permanenza in campo del foraggio

(sl. 25/55).

Una modalità particolare di utilizzazione dell’erba medica è mediante

pascolamento diretto da parte degli animali, come illustrato più avanti.

Conservazione

La conservazione del foraggio è un fattore molto importante in un’azienda zootecnica, e

le modalità di conservazione sono in funzione sia del sistema foraggero che del tipo di

alimentazione del bestiame. Nel passato, l’uso massiccio della foraggiata verde

richiedeva la conservazione di una quota relativamente limitata di foraggio attraverso la

fienagione. Questa rappresenta oggi il metodo prevalente di raccolta e conservazione dei

foraggi prativi. Particolari condizioni ambientali o di utilizzazione (unifeed) hanno

portato però a considerare e sviluppare altre forme di conservazione, più razionali e

convenienti. Fra queste, l’insilamento, eseguito con l’erba di medica a determinate

percentuali di umidità, può risultare una valida soluzione.

Fienagione

Come già accennato, la fienagione è la più antica e la più diffusa forma di

conservazione del foraggio ma, nonostante il miglioramento delle tecniche, essa

presenta alcuni inconvenienti difficili da eliminare, specialmente in alcune condizioni

ambientali. La fienagione completa in campo richiede un particolare e ampio parco

macchine per l’esecuzione delle operazioni, le quali, a seconda della massa di foraggio e

della stagione, sono numerose e protratte nel tempo. Tutto questo fa sì che il foraggio, e

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in particolare quello di erba medica, sia soggetto a perdite notevoli. Con lo sfalcio e le

successive operazioni di rivoltamento e andanatura (sl. 25/54) si verifica infatti un

danno al prodotto, soprattutto per il distacco di foglioline e della parte più sottile dello

stelo, che rappresentano la parte migliore del foraggio da un punto di vista nutrizionale.

Le perdite aumentano man mano che diminuisce l’umidità dell’erba.

Alle perdite di natura meccanica che si verificano durante la fienagione, bisogna

aggiungere le eventuali perdite causate da avverse condizioni meteorologiche. La

probabilità che si verifichino tali eventi aumenta proporzionalmente con la durata della

permanenza del foraggio in campo, soprattutto in primavera e a fine estate, in

corrispondenza del primo e dell’ultimo taglio, e comunque in quelle regioni

caratterizzate da un’elevata umidità dell’aria anche in estate, che rende necessari

numerosi interventi di rivoltamento.

In parte si può ovviare a questi inconvenienti ricorrendo ad alcuni accorgimenti

durante la fienagione. I tempi di essiccamento, e di conseguenza le perdite, si riducono

infatti di molto se, durante la falciatura, si esegue anche il condizionamento meccanico

(sl. 25/55) mirato a creare delle ‘lesioni’ sullo stelo ogni 2-3 cm o, meglio, a schiacciare

lo stelo, in modo da provocare la fuoriuscita dell’acqua dallo stesso e la perdita di

umidità del foraggio. Un condizionamento eseguito correttamente e con macchine

idonee non dovrebbe portare alla perdita di foglioline per distacco.

Una volta essiccata, quando presenta un contenuto di umidità del 20% o

inferiore, l’erba medica è pronta per essere imballata, operazione questa che può essere

eseguita formando balle parallelepipede o con rotoimballatrici che formano balloni

cilindrici di circa 400 kg. Durante l’operazione di imballatura possono essere utilizzati

alcuni additivi conservanti, quali i propionati, che inibiscono lo sviluppo dei

microrganismi responsabili del surriscaldamento ed ammuffimento del fieno. Così

operando, si può imballare il fieno con un contenuto di umidità leggermente superiore

limitando ulteriormente la perdita di foglioline.

Un metodo alternativo alla completa fienagione in campo è la cosiddetta

‘fienagione in due tempi’, consistente nell’essiccamento finale del foraggio in modo

artificiale in fienili a ventilazione forzata (sl. 25/56). Con questo sistema, si può

asportare dal campo il foraggio di medica pre-appassito (< 45% circa di sostanza secca),

trasportarlo sciolto con l’ausilio di carri autocaricanti in appositi fienili e continuare

l’essiccamento insufflando aria calda dal basso. Sono stati messi a punto anche dei

sistemi capaci di essiccare la medica pre-appassita rotoimballata.

Sotto l’aspetto economico, la fienagione è un sistema piuttosto dispendioso, in

quanto richiede l’uso di un parco macchine specifico e ampio, nonché l’impiego

massiccio di mano d’opera per l’esecuzione delle molteplici e frazionate operazioni. Ciò

si traduce in costi elevati per il foraggicoltore, costi che aumentano ulteriormente nel

caso dell’essiccamento artificiale, a causa delle strutture dedicate e dell’impiego del

combustibile per il riscaldamento dell’aria.

Insilamento

Per ovviare alla maggior parte dei problemi di carattere tecnico-economico ed

organizzativo della fienagione, si può ricorrere all’insilamento dell’erba medica, anche

se questa pratica presenta un certo livello di difficoltà rispetto ad altre specie foraggere

(cereali, graminacee prative) per il basso contenuto di zuccheri fermentescibili e

l’elevato potere tampone dei suoi succhi cellulari, che si oppongono all’abbassamento

del pH. Con l’insilamento del foraggio verde dell’erba medica si riducono l’impiego di

mano d’opera e le perdite, riducendo al minimo la permanenza in campo dell’erba

sfalciata. Con questo sistema, infatti, si ottiene circa il 20% di prodotto in più in termini

di energia conservata (UF). L’insilamento nelle trincee (sl. 25/61-62), metodo

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collaudatissimo e largamente utilizzato da tempo con successo per il trinciato integrale

di mais, si presta bene anche per l’insilamento dell’erba dei foraggi prativi, specie di

quelli a base di graminacee, ma una corretta ed appropriata tecnica permette di ottenere

un buon insilato anche con l’erba medica.

La conservazione di un foraggio insilato è dovuta alle fermentazioni che

avvengono nella massa, in ambiente anaerobico, e che hanno come risultato la

formazione di acidi organici, di cui i più importanti sono l’acido lattico e l’acido

acetico, che abbassano il pH del prodotto conservato. Il tipo di fermentazioni e, quindi,

la riuscita dell’insilato dipende dalle tecniche utilizzate durante il processo di

insilamento. Una corretta tecnica suggerisce di sfalciare il medicaio allo stadio di

bottone fiorale, poiché andando oltre questo stadio la qualità diminuisce rapidamente;

alla falciatura andrebbe sempre abbinato il condizionamento, per favorire la perdita di

umidità durante il breve periodo di permanenza in campo dell’erba sfalciata (pre-

appassimento), fino al raggiungimento di un contenuto di sostanza secca di circa il 30%.

A questo punto, l’erba può essere trinciata alla lunghezza di 2-2.5 cm, dimensione

ottimale per ottenere una buona compattazione dell’insilato, un facile desilamento ed un

corretto utilizzo da parte dell’animale poligastrico. Una volta trinciata, l’erba va

trasportata, ammassata e compattata nella trincea: queste operazioni debbono essere

fatte il più celermente possibile per ridurre al minimo l’esposizione all’aria che

avvierebbe le fermentazioni aerobiche, indesiderate. Una cura particolare va posta nella

chiusura del silo, perché, come è stato già ricordato, la conditio sine qua non per

ottenere un buon insilato è l’assoluta mancanza di aria. Nel processo di insilamento si

possono adoperare alcuni additivi, per la maggior parte costituiti da fermenti lattici, che

hanno la funzione di innescare e favorire la fermentazione batterica desiderata; tali

additivi non hanno comunque la capacità di migliorare un insilamento non

correttamente eseguito.

L’insilamento in trincea è prerogativa di aziende di medie e grandi dimensioni,

che hanno una certa capacità organizzativa sia nella gestione che nelle strutture e nelle

macchine. Una valida alternativa all’insilamento in trincea è fornita dall’insilamento

delle balle cilindriche in sacchi di polietilene o, come più recentemente ed

efficacemente usato, in rotoballe fasciate meccanicamente con film di polietilene (sl.

25/63). Questi sistemi sono adatti anche per le aziende di non grandi dimensioni, in

quanto sono estremamente versatili e non richiedono particolari strutture ed attrezzature,

potendo eseguire infatti le operazioni con le normali macchine per la fienagione. In

particolare, il secondo sistema (fasciatura) risulta migliore, in quanto elimina molta

mano d’opera e le operazioni di insilamento sono più veloci ed efficaci, offrendo un

migliore isolamento all’aria. Ciononostante, per garantire una buona conservazione con

le rotoballe fasciate è richiesto un certo grado di attenzione e professionalità da parte

dell’agricoltore, in particolare nell’osservanza di accorgimenti importanti in alcune fasi

delicate come: i) prevenzione dell’inquinamento terroso per limitare la presenza di

clostridi e, di conseguenza, di fermentazioni indesiderate; ii) scelta del grado di

appassimento ottimale (circa il 60-70% di umidità), che consente un buon

compattamento della balla e facilità di movimentazione; iii) tempestività nell’eseguire

tutte le operazioni per sottrarre il foraggio il più presto possibile all’esposizione

dall’aria; iv) grande cura nella movimentazione delle balle fasciate per evitare le

lacerazioni nella fasciatura.

Disidratazione

Con lo scopo di ridurre al minimo le perdite di conservazione e mantenere quasi

inalterato l’alto valore biologico-nutrizionale di questa foraggera, si ricorre alla tecnica

della disidratazione, grazie alla quale l’erba medica può essere considerata anche una

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coltura di tipo industriale. La disidratazione consiste nell’essiccamento molto rapido

dell’erba entro 2-4 ore dello sfalcio, portandola ad un contenuto in sostanza secca del

90-94%. Questo tipo di conservazione si è sviluppato con un’impronta industriale a

partire dagli anni ’60, ha subito l’effetto della crisi energetica degli anni ‘70, per poi

riprendere l’espansione in modo costante nella seconda metà degli anni ‘80. Nel nostro

paese la produzione è di circa 600 mila tonnellate, su una superficie di oltre 50 mila ha.

Le principali tipologie di prodotti disidratati sono rappresentate dai ‘pellets’ di

farina disidratata, ricchi di proteine e beta-carotene, dai concentrati proteici (PX),

ottenuti per spremitura, flocculazione ed essiccazione dei succhi fogliari (presentano

un’altissima concentrazione di proteine, fino al 50% sulla sostanza secca, sono ricchi in

amminoacidi essenziali, xantofille e beta-carotene, e hanno solo il 2-3% di fibra), e dalle

balle e balloni (da 200 a 800 kg) di erba disidratata a fibra lunga (7-12 cm), ideali per

le bovine da latte (sl. 25/69). L’erba medica disidratata a fibra lunga è ricca di proteine

e fibra ‘fisicamente efficace’, che stimola la ruminazione e incrementa la salivazione,

con un positivo effetto tampone sul pH ruminale. Negli ultimi anni, i balloni di erba

medica a fibra lunga hanno raggiunto l’80% del totale dei prodotti disidratati in Italia.

Gli altri tipi sono generalmente impiegati quali integratori di concentrati utilizzati

nell’alimentazione dei monogastrici (dal 2 al 5% della razione nei polli, dal 5 al 15% nei

suini e dal 10 al 30% nei cavalli).

La catena delle macchine operatrici per questo sistema di conservazione è

costituita dalla falcia-trinciacaricatrice (sl. 25/65) e da autocarri per il trasporto del

prodotto presso gli stabilimenti, dove moderni impianti, in genere a tamburo rotante,

essiccano rapidamente l’erba medica trinciata (sl. 25/66). La trinciatura è più fine (a 3-5

cm) per la produzione di pellets e concentrati proteici, più grossolana (come detto, a 7-

12 cm) per la produzione di balle e balloni di erba disidratata a fibra lunga.

Il calendario dei tagli viene stabilito dal disidratatore con un intervallo oscillante

intorno ai 30 giorni, periodo che rappresenta un accettabile compromesso tra la

produzione di sostanza secca, la concentrazione proteica e la capacità operativa

dell’impresa di trasformazione. Dal punto di vista economico, questa attività,

prettamente industriale, è gestita con contratti stipulati fra industria ed imprenditore

agricolo.

Per questo tipo di utilizzazione vanno scelte varietà adatte ai tagli molto

anticipati e frequenti, con buon rapporto foglie/steli ed elevata persistenza (sl. 25/73).

Pascolamento

Sebbene la sua utilizzazione prevalente sia come coltura da sfalcio, l’erba medica può

rappresentare una specie di pregio anche nella costituzione di pascoli per diverse specie

animali, e come tale è già largamente impiegata in alcuni paesi extraeuropei, quali

Argentina, USA, Canada o Australia.

Un prato-pascolo basato sull’erba medica può integrare un pascolo naturale

formato da essenze graminacee a spiccata stagionalità produttiva (tarda primavera-

inizio estate), sostenendo il valore nutritivo del pascolo nei mesi estivi. Soprattutto in

ambiente mediterraneo, l’erba medica può rappresentare uno strumento per allungare la

stagione di pascolamento, mediante la sua introduzione in una ‘catena’ di risorse

foraggere.

Le difficoltà maggiori nell’impiego dell’erba medica come pianta da pascolo

sono rappresentate dal rischio di meteorismo nei ruminanti (quando l’erba medica

rappresenta oltre il 50-60% della vegetazione nel pascolo) e dalla scarsa tolleranza delle

varietà tradizionali al pascolamento intenso. Il meteorismo è una patologia provocata

dalla formazione di schiuma nel rumine (causata da una digestione rapida e tumultuosa

della proteina solubile da parte dei batteri ruminali), la quale, ostruendo il cardias,

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impedisce la fuoriuscita dei gas che si formano nel rumine stesso durante la digestione,

determinandone il rigonfiamento e la dilatazione che possono provocare danni agli altri

organi interni. A causa dell’abbondanza di proteine, il pascolamento di erba medica

costituisce un fattore di rischio. Si possono però adottare alcuni accorgimenti tecnici che

possono ridurre il rischio di meteorismo: ad esempio, non introdurre animali affamati

sul pascolo per evitare un’ingestione rapida e massiccia; lasciare del fieno (anche di

scarsa qualità) a disposizione degli animali durante il pascolamento (in modo da

ingombrare parzialmente il rumine con foraggio più lentamente digeribile); lasciare gli

animali per brevi periodi sull’erba medica nei primi giorni di pascolamento (sempre per

limitare l’ingestione rapida e massiccia di un alimento nuovo ed altamente appetibile);

prestare attenzione nelle giornate fresche e umide (in primavera e/o inizio autunno),

poiché un foraggio succulento, inducendo un consumo maggiore, aumenta il rischio di

meteorismo.

I fattori che determinano la scarsa persistenza al pascolamento delle varietà

tradizionali di erba medica sono di natura morfo-fisiologica. La corona delle piante di

varietà tradizionali, generalmente piccola e superficiale, subisce infatti dei danni a causa

dello strappo e/o del calpestìo degli animali, divenendo anche più suscettibile a fattori

quali malattie e gelate. Inoltre, l’intensa e continuata defogliazione delle piante provoca

un progressivo depauperamento delle riserve negli organi sotterranei (che non vengono

sufficientemente riforniti di fotosintetati), con ulteriori conseguenze negative sulla

persistenza dei cotici. Negli ultimi due decenni, la ricerca ha compiuto importanti

progressi nella comprensione dei meccanismi morfologici e fisiologici che stanno alla

base della tolleranza al pascolamento in erba medica (ad esempio, l’abito di crescita

prostrato o semi-eretto; la corona profonda (sl. 25/80); la capacità di accumulo di riserve

sotterranee; la capacità di proliferazione laterale delle piante) e, soprattutto, nella

selezione diretta dei tipi più tolleranti in condizioni reali di pascolamento. L’adozione di

varietà specificamente tolleranti il pascolamento può consentire di aumentare il tempo

di permanenza sul pascolo senza compromettere la persistenza del cotico, mantenendo

anche un buon rapporto tra erba medica e graminacee quando queste siano allevate in

consociazione.

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Graminacee

LOIESSA o LOGLIO ITALICO (Lolium multiflorum; sl. 26/11)

È una foraggera molto precoce e molto produttiva, che in Italia settentrionale viene

frequentemente impiegata come erbaio autunno-primaverile. Nella pianura lombarda, la

doppia coltura intercalata di loiessa e mais può formare un sistema foraggero dotato di

elevata efficienza, in quanto il terreno è coperto da vegetazione attiva quasi tutto l’anno

(sl. 26/12). L’erbaio di loiessa viene seminato in settembre-ottobre, dopo la raccolta del

mais ceroso, e la raccolta avviene agli inizi di maggio in modo da farla seguire dalla

semina di un erbaio di mais da trinciato da raccogliere a maturazione cerosa. Oltre che

per erbai, la loiessa è indicata anche per prati polifiti con trifoglio ladino, trifoglio

pratense o lupinella (sl. 26/15-16). Il foraggio è di ottima qualità, ma il taglio va

effettuato precocemente, poiché la pianta tende a disseminare e a diventare infestante.

Fra i numerosi motivi che hanno determinato il successo della loiessa si possono

ricordare: i) l’ottenimento, in confronto con le foraggere tradizionali, di elevate

produzioni di sostanza secca per ettaro, che hanno consentito incrementi sensibili del

carico del bestiame; ii) la possibilità della integrale meccanizzazione dalla semina alla

somministrazione del prodotto agli animali; iii) la facilità di inserimento, per l’intero

anno, del prodotto conservato nelle diete alimentari; iv) l’elevata capacità vegetativa

protratta fino al tardo autunno e la precoce ripresa vegetativa primaverile (dovute al

fatto che la specie ha uno zero di vegetazione di 2-3 °C); v) l’ottima produttività in un

arco di tempo ben determinato (fra ottobre ed aprile) collegata ad una spiccata capacità

competitiva verso le malerbe; vi) la possibilità di un ampio calendario di semina e di

raccolta; vii) la produzione di un foraggio con buone caratteristiche qualitative, di facile

conservazione con l’insilamento (il contenuto in zuccheri è tale da garantire una

regolare fermentazione per opera dei batteri lattici in caso di conservazione tramite

insilamento) e che si presta anche ad essere utilizzato allo stato fresco od affienato; viii)

la facilità di impianto unita ad un veloce insediamento; ix) l’azione positiva nei

confronti della conservazione della fertilità del suolo per l’effetto di copertura esercitato

durante i mesi invernali. La loiessa potrebbe infatti svolgere anche un importante ruolo

come pianta da utilizzare nell’ambito delle pratiche di greening della nuova PAC, grazie

al suo possibile impiego come copertura invernale. L’uso della loiessa potrebbe

rappresentare un sistema efficace per ridurre l’erosione del suolo, recuperare l’azoto

residuo e contenere la lisciviazione nella falda di quello apportato da reflui zootecnici,

ridurre la carica di malerbe, in modo particolare di quelle autunno-primaverili, ed

aumentare la dotazione di sostanza organica del suolo.

Aspetti botanici e biologici

La loiessa è una specie allogama, cespitosa, annuale o biennale, dall’apparato radicale

fascicolato. I culmi, vigorosi e cilindrici, sono alti fino a 120 cm; le foglie numerose e

sviluppate sono elastiche, di colore verde opaco nella pagina superiore, più lucido e

brillante in quella inferiore. L’infiorescenza è una spiga lassa costituita da spighette

solitarie aristate.

Dal punto di vista tassonomico si distinguono due sottospecie: L. multiflorum

subsp. westerwoldicum, tipicamente annuale, alternativa (capace cioè di spigare

nell’anno di semina senza la necessità di essere esposta a ‘vernalizzazione’) ed indicata

per le colture da erbaio, e L. multiflorum subsp. italicum, tendenzialmente biennale e

adatta anche per prati di breve durata. Rispetto al corredo cromosomico, in entrambe le

sottospecie si hanno varietà diploidi (2n=2x=14) e varietà tetraploidi (2n=4x=28) (sl.

26/18). Le prime sono particolarmente adatte alla fienagione, in quanto presentano fusti

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e foglie sottili; le seconde, più adatte alla foraggiata verde e all’insilamento, sono

costituite da piante particolarmente vigorose con steli grossi, foglie larghe, lunghe e più

ricche in acqua. In genere, nel medesimo ambiente di prova, le varietà diploidi sono più

precoci rispetto alle tetraploidi. La fase di inizio spigatura, nella quale si raggiunge un

buon compromesso tra quantità prodotta e qualità del foraggio, viene raggiunta in

genere con 4-5 giorni di anticipo nelle varietà diploidi rispetto alle altre. Inoltre, a parità

di stadio fenologico, le varietà diploidi risultano meno acquose delle tetraploidi

mediamente di due punti percentuali. Per i motivi prima esposti a proposito della doppia

coltura, dove la tempestività degli interventi colturali è determinante, la scelta varietale

della loiessa andrebbe orientata verso varietà diploidi.

Caratteristiche agronomiche e coltivazione

La loiessa è una foraggera di rapido e facile insediamento, che manifesta elevata

aggressività. Predilige i terreni di medio impasto, freschi e profondi, mentre rifugge

quelli argillosi e molto tenaci. In genere si semina da fine settembre a metà ottobre

come coltura intercalare autunno-primaverile da insilare all’inizio della spigatura; se

invece si vuole disporre di un taglio anche nel tardo autunno si deve anticipare la

semina a fine agosto-prima metà di settembre.

La preparazione del letto di semina può essere effettuata con operazioni più

veloci e meno dispendiose dal punto di vista energetico ed economico (fresatura,

erpicatura) rispetto alla classica aratura, dal momento che la produzione non ne è

influenzata negativamente. Resta inteso che la successione loiessa-mais trinciato

garantisce i migliori risultati nei terreni sciolti e facilmente lavorabili, nei quali la

tempestività degli interventi agronomici è garantita.

Una quantità di 30 e 40 kg/ha di seme per i tipi diploidi e tetraploidi,

rispettivamente, è la più consigliata dose di semina. Con data di semina posticipata è

sempre consigliato aumentare la dose di semina.

Utilizzazione, produttività e qualità

Come già ricordato, la loiessa è tipica essenza da sfalcio, che si presta tanto al consumo

verde quanto alla fienagione e all’insilamento. La pratica della fienagione risulta a volte

di non facile applicazione, sia per l’abbondante massa di foraggio prodotta che per il

periodo nel quale si effettua tale operazione, caratterizzato spesso da instabilità

meteorica, e che può quindi determinare una lenta perdita di umidità. L’uso di soluzioni

conservanti o l’essiccazione in due tempi, cioè portando in azienda il foraggio al 35-

40% di umidità e continuando l’essiccazione tramite ventilazione forzata in fienile,

possono dare un ulteriore contributo per una buona conservazione, riducendo al minimo

le perdite quali-quantitative.

Per questi motivi, la pratica dell’insilamento si va sempre più diffondendo. Con

tale pratica, oltre a ridurre il lavoro di raccolta, vengono ridotte al minimo le perdite

meccaniche. È più facile ottenere quella tempestività necessaria nelle operazioni di

raccolta e cogliere il momento fisiologico migliore, in modo particolare per quanto

riguarda il buon livello di zuccheri solubili (14-16% della sostanza secca) e il basso

potere tampone che a questo stadio la pianta offre. Tutti gli interventi meccanici si

eseguono con lo stesso cantiere di lavoro usato per il mais raccolto a maturazione

cerosa. Interessante risulta essere anche la soluzione delle rotoballe fasciate, per la

semplicità del cantiere di lavoro e la facilità di manipolazione. Anche in questo caso il

prodotto va raccolto al 35-40% di sostanza secca.

La produttività della loiessa è esaltata dalle concimazioni azotate, e colture ben

condotte possono realizzare in un solo sfalcio produzioni di 6-7 t/ha di sostanza secca.

Va anche ricordato che l’azoto può esercitare un notevole effetto positivo sul tenore

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proteico del foraggio, tanto che concimazioni abbondanti di tale elemento, abbinate a

sfalci precoci, possono migliorare qualitativamente il foraggio di loiessa. Se il tenore

proteico è importante per giudicare il valore del foraggio, va comunque ricordato come

gli apporti massicci di azoto, in modo particolare quando la pianta è in fase di levata,

possono determinare, come conseguenza negativa sulla qualità, un aumento del livello

di nitrati nel foraggio. La pianta, in presenza di elevata disponibilità di N nel terreno, è

portata ad assorbirlo in quantità superiore alle propria necessità, con conseguente

accumulo di N-NO3 nei tessuti verdi. Oltre una soglia di tolleranza (stimata in 4 ppm), i

nitrati ingeriti dagli animali vengono ridotti a nitriti e risultano tossici.