UNIVERSITÀ DI MACERATA DISPENSE PER IL CORSO DI …
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UNIVERSITÀ DI MACERATA
DISPENSE PER IL CORSO DI FILOLOGIA ARABA A.A. 2014-2015
Dott. Marco Lauri
INTRODUZIONE
Finalità del corso
Scopo primario del corso è quello di offrire una panoramica del linguaggio nelle società arabe, e
della storia intellettuale delle società arabe attraverso il linguaggio.
Struttura del corso:
Parte 1: la posizione linguistica dell'arabo
Cenni generali di linguistica storica. Le lingue semitiche. (1-10)
Le lingue afro-asiatiche: genealogia e classificazione. (3-10)
L'uso politico e razziale del “semitico”. (7-10)
Documentazione delle lingue semitiche e loro evoluzione. La posizione dell'arabo nelle lingue
semitiche. (8-10)
Il panorama linguistico dell'Arabia preislamica. La più antica documentazione dell'arabo. (14-
10)
La lingua del Corano e della poesia preislamica. Cenni ai dibattiti filologici sul Corano. (15-
10)
La fissazione del testo coranico. Gli approcci interpretativi al testo sacro. (21-10)
L'espansione dell'arabo come lingua di cultura e la frammentazione delle lingue parlate. I
modelli di formazione del neo-arabo. (22-10)
Riepilogo e chiarimento. Interventi seminariali degli studenti. (28-10)
Parte 2: il pensiero linguistico arabo
Il pensiero linguistico arabo: caratteri generali e basi concettuali. Al-Khalīl e Sībawayh. (29-10)
Le “scuole” di Baṣra e di Kūfa. Strutture soggiacenti e teoria del governo nella grammatica
araba. Sviluppo storico del pensiero grammaticale arabo. (4-11)
La riflessione speculativa sul linguaggio nel suo contesto intellettuale. (Ğurğānī, Ibn Ğinnī, Ibn
Maḍā‘) (5-11)
Grammatica e filosofia. Grammatica e logica. Il dibattito sulle origini del linguaggio. Al-Fārābī.
Ibn Ṭufayl. (11-11)
Abū Ḥayyān al-Ġarnāṭī e la pluralità delle lingue. Riepilogo, chiarimento, discussione. (12-11)
Parte 3: scrittura, paleografia e calligrafia
Funzioni cognitive della scrittura. Tipologie di scrittura in ottica comparativa.(18-11)
Scrittura e oralità. Il libro e la trasmissione del sapere nel Medioevo islamico. (19-11)
Evoluzione della scrittura nel Vicino Oriente antico; evoluzione delle scritture antiche
dell'Arabia. Origine dell'alfabeto. (25-11)
L'evoluzione della scrittura araba nei primi secoli. Cenni di paleografia e calligrafia arabe del
Medioevo e in epoca ottomana. Approfondimenti seminariali. (26-11)
Parte 4: lingua e identità
Lingua, identità e nazionalismo. Problemi generali. (2-12)
La formazione del nazionalismo arabo nel suo contesto storico. (3-12)
Il ruolo politico della lingua araba negli Stati moderni. (9-12)
Sāṭi‘ al-Ḥuṣrī e Zakī al-Arsūzī. Riepilogo. (10-12)
Discussione seminariale (17-12)
PARTE I
LA POSIZIONE LINGUISTICA DELL'ARABO
Sezione 1
Cenni generali di linguistica storica.
Il metodo comparativo.
Filologia e linguistica.
Filologia significa, etimologicamente, “amore per il lógos” (“discorso, parola, conoscenza
discorsiva”). Il termine è impiegato già in greco classico, e in latino in epoca romana, nel senso
generale di “varia e molteplice dottrina” (Enciclopedia Italiana Treccani, s.v.). A partire dal
Rinascimento si comincia a usare questo termine per indicare una disciplina più o meno
chiaramente definita: lo studio e la ricostruzione dei testi e delle letterature del passato, in
particolare di quelli greci e latini trasmessi dall'antichità, primariamente attraverso l'analisi
comparativa dei manoscritti. Questo implicava lo studio del linguaggio scritto nel suo sviluppo
storico, l'analisi etimologica delle singole parole, lo studio, più in generale, del passato attraverso il
linguaggio. Nel corso dell'Età Moderna, il campo di azione dello studio filologico si estende a testi
in lingue europee volgari e alle lingue “orientali” - prima di tutto quelle dell'Asia Occidentale e del
Nord Africa come l'arabo, l'ebraico, il copto e le diverse forme di aramaico, all'inizio con
motivazioni prevalentemente religiose.
I metodi filologici moderni implicano un approccio storico-critico ai testi, che ne esamina la forma
linguistica e quando possibile la modalità di trasmissione scritta. Negli ultimi decenni del
Settecento, lo studio filologico acquista nuove dimensioni in collegamento alla nascita della
linguistica storica comparata, da un lato, e della nascente, quasi rivoluzionaria convinzione che sia
possibile ottenere un sapere di carattere generale dalla conoscenza della storia, dall'altro. La
filologia si pone dunque, nell’Ottocento, con l’ambizione di rappresentare una disciplina scientifica
dello spirito umano, specialmente nelle correnti di ispirazione storicistica formatesi in particolare in
Germania. La filologia rivendica centralità come elemento fondante del sapere storico e base
epistemologica della conoscenza. Va sottolineato tuttavia il carattere particolare di ogni genere di
indagine filologica, che nel contesto intellettuale ottocentesco si connette alle aspirazioni nazionali
dei popoli europei, allora in pieno sviluppo.
La linguistica scientifica moderna si forma in quest'epoca, in stretta relazione con la filologia
scientifica. Linguistica o glottologia è lo studio del fenomeno linguistico in quanto tale. A partire
dalla rivoluzione intellettuale dei primi anni dell'Ottocento, questa si può distinguere in due ambiti
principali. La linguistica sincronica analizza la lingua nel suo funzionamento e nelle sue
articolazioni strutturali interne, continuando all'incirca, con modalità sempre più rigorose e spesso
più astratte, la tradizione di studio della grammatica. La linguistica storica o diacronica è, almeno
come studio scientifico e sistematico, una innovazione del periodo tra gli ultimi anni del Settecento
e i primi dell'Ottocento. Essa può essere considerata una estensione sistematica della tradizione di
studi filologici, e in alcuni casi può essere considerata indistinguibile dalla filologia, se non
addirittura un suo strumento (così ad esempio per Max Müller, uno dei padri degli studi sanscriti,
che vedeva la filologia come la “scienza naturale” del linguaggio); il suo scopo è l'analisi del
linguaggio nel suo mutamento temporale e la ricostruzione dei rapporti storici tra le varie lingue.
In linea generale, anche se con qualche forzatura, si potrebbe dire che la filologia si concentra sullo
studio di testi, e in particolare di testi letterari, mentre la linguistica, muovendosi solitamente su un
livello più astratto, analizza (in termini diacronici o sincronici) il linguaggio umano come sistema
in quanto tale. Dato che le attestazioni del linguaggio sono, in senso lato, appunto dei testi, questi
due gruppi di discipline risultano comunque strettamente collegati. D'altra parte, mentre esiste una
linguistica generale, che si preoccupa dei principi e dei metodi del linguaggio in sé, è molto raro
sentir parlare di “filologia generale”. La filologia è praticamente sempre legata a uno o più corpi
testuali definiti, e ai relativi ambiti culturali.
La linguistica storica.
La nascita della linguistica storica si può far risalire al lavoro di William Jones (1786), di Rasmus
Rask (1814), e di Franz Bopp (1816) sulla comparazione, soprattutto morfologica e lessicale, tra le
antiche lingue europee (greco, latino, gotico, ecc.), il persiano pahlavi e il sanscrito. La definizione
della parentela linguistica indeuropea, coincidendo con la fase di dominio globale dell'Europa e
precedendo di poco lo sviluppo dell'antropologia razziale, fu accolta con grandissimo interesse ed
entusiasmo nei circoli intellettuali europei (si veda la sezione 3).
La comparazione linguistica era vista come una chiave per ricostruire la storia al di là della
documentazione scritta disponibile. Già si sapeva che le lingue si modificano nel corso del tempo,
ma ora questo mutamento poteva essere indagato scientificamente, specialmente attraverso il
metodo comparativo. Il metodo comparativo consiste nel confronto sistematico di forme
linguistiche storicamente attestate per verificarne la relazione e ricostruire le eventuali proto-forme
da cui deriverebbero (ma che vanno comunque intese come ipotetiche). Centrale è l'individuazione
e l'applicazione di leggi fonetiche regolari. In questa forma, il metodo si deve specialmente ai
grandi indeuropeisti della scuola filologica tedesca nella seconda metà dell'Ottocento: dapprima
Grimm, Schleicher e i neogrammatici.
Schleicher in particolare elaborò un modello genealogico di evoluzione linguistica per divergenza
da una “lingua madre” verso “lingue figlie” (Stammbaumtheorie). Pochi anni dopo Padre Joseph
Schmidt propose il modello alternativo della Wellentheorie, della diffusione cioè di caratteristiche e
forme linguistiche per “onde” da uno o più centri innovatori, anche attraverso aree linguistiche
diverse,
Questi due modelli sono stati spesso visti come competitivi, ma vanno più correttamente pensati
come complementari ed entrambi utili a spiegare storicamente i fatti linguistici. Questa
complementarità è particolarmente pertinente nello studio dello spazio linguistico semitico, come si
vedrà.
Le famiglie linguistiche.
La linguistica storica, individuando forme ancestrali, consente di costruire modelli genealogici di
relazioni tra forme linguistiche simili. Alcune forme linguistiche sono così raggruppate in famiglie
in cui determinate forme morfologiche e lessicali si trasformano in altre con il tempo.
In generale, uno dei modi più sicuri e generalmente accettati per stabilire la parentela genetica tra le
lingue è stata storicamente definita sulla base di corrispondenze paradigmatiche regolari nella
morfologia. Ad esempio, la base dello studio di Bopp sulla parentela genetica dell'indeuropeo è
fornita da corrispondenze nella coniugazione verbale greca, latina e sanscrita, in cui si potevano
mostrare corrispondenze regolari tra le desinenze delle diverse forme nelle varie lingue. Uno dei più
affidabili indicatori dell'esistenza di una famiglia linguistica è la presenza di una serie di
innovazioni condivise rispetto alle proto-forme, quando sia possibile individuarle.
Nelle parole della semitista Na'ama Pat-El:
“Le relazioni fondamentali tra lingue sono stabilite attraverso corrispondenze regolari di suoni
(fonemi), ma, per valutare l'esatta ramificazione di una famiglia linguistica, il principio più
importante è quello delle innovazioni condivise. Le innovazioni condivise sono tratti che emergono
in certe lingue e non sono, di conseguenza, parte del repertorio di tratti della lingua ancestrale
comune (o di quelli di altre lingue discendenti della stessa lingua ancestrale). Se due lingue
condividono una caratteristica innovativa, questa caratteristica è indicazione della loro vicinanza
genetica, ovvero entrambe condividono un antenato comune in cui ha avuto luogo l'innovazione. (The basic relationships between languages are established through regular sound correspondences, but in order to
evaluate the exact branching of a family the most important principle is shared innovations. Shared innovations are traits that arise in certain languages and are not, therefore, part of the repertoire of traits of the common ancestral
language (or, consequently, those of other languages descending from the same ancestral language). If two languages
share an innovative feature, that feature is indicative of their genetic closeness, i.e., they both share an ancestor in
which the innovation occurred.)” (Hackett e Pat-El 2010, traduzione mia).
Di grande importanza sono anche le corrispondenze lessicali a partire dalle quali è possibile
mostrare regolarità fonetiche nella corrispondenza tra diverse lingue. Si tende a considerare più
significative le corrispondenze nel lessico di base, che sono generalmente meno soggette a prestiti;
tuttavia, le sole corrispondenze lessicali non vanno normalmente considerate indicative di parentela
linguistica, in quanto il lessico è la componente della lingua più comunemente soggetta a
cambiamenti, specie in caso di contatto linguistico. Questo è particolarmente rilevante nei casi di
contatto continuo tra lingue geneticamente correlate e geograficamente prossime, come sono state
molte lingue semitiche per gran parte della loro storia. Esistono comunque diverse strategie per
distinguere il prestito linguistico dagli elementi ereditati (Bowern 2011).
Con alcuni antecedenti, l'individuazione di alcune delle principali famiglie genealogiche di lingue
del Vecchio Mondo è avvenuta nel corso del diciannovesimo secolo. Il lavoro comparativo
sull'indeuropeo è stato particolarmente fecondo, grazie alla ricchezza, disponibilità, varietà e
relativa antichità della documentazione scritta. La possibilità di usare per la comparazione queste
varietà più antiche della lingua agevola il lavoro di ricostruzione. Le corrispondenze paradigmatiche
tra latino e sanscrito, ad esempio, sono quasi completamente oscurate nelle moderne lingue “figlie”
come il francese e la hindi, la cui parentela, in assenza di documentazione scritta, sarebbe assai più
difficile da documentare.
Da tempo esiste in linguistica storica una divisione approssimativa tra studiosi lumpers e splitters:
ricercatori che tendono rispettivamente a favorire raggruppamenti ampi, con ricostruzioni che si
spingono indietro nel tempo, o quelli che accettano come validi solo i raggruppamenti genetici
meglio fondati e più piccoli, reagendo con scetticismo a comparazioni ad ampio raggio.
Entrambi gli atteggiamenti possono essere considerati utili, forse necessari alla ricerca linguistica
storica. Tra i lumpers si possono segnalare quelli legati alla scuola di Mosca, particolarmente
impegnata nelle comparazioni linguistiche in profondità e nella ricostruzione di proto-forme molto
antiche. Tra i suoi principali rappresentanti si ricordano il grande comparatista Igor' D'jakonov
(Diakonoff) e Sergej Starostin.
Tra le grandi famiglie linguistiche generalmente accettate si segnalano quella indeuropea, quella
sino-tibetana, comprendente il cinese, il tibetano, il birmano e molte altre lingue dell'Asia
Orientale, quella austronesiana, che abbraccia la grande maggioranza delle lingue parlate in
Indonesia, Polinesia e Madagascar. La grande maggioranza delle lingue dell'Africa a sud del Sahara
sono considerate parte della grande famiglia Niger-Congo (o Niger-Kordofan), che è stata
riconosciuta alla metà del Ventesimo secolo; la sua precisa composizione è però ancora in parte
incerta, e diverse lingue africane potrebbero esibire caratteristiche Niger-Congo a causa di
prolungato contatto anziché di derivazione genetica.
Altre famiglie linguistiche sono state considerate valide per molto tempo ma sono attualmente
discusse: è il caso ad esempio della famiglia altaica, che comprenderebbe il turco, il mongolo e
forse il coreano ed il giapponese, la cui esistenza è al centro di una importante controversia.
Pochissimi oggi accettano la più ampia famiglia uralo-altaica, che raggruppava le lingue altaiche
con quelle “uraliche” dell’Europa settentrionale (finlandese, ungherese, ecc…) su base
prevalentemente tipologica.
La distribuzione storica e attuale delle relazioni genealogiche tra le lingue può essere un importante
indicatore di fenomeni storici, in particolare in relazione al movimento e alla diffusione di gruppi
umani. Non vi è infatti diffusione linguistica senza contatto; d'altra parte, la sostituzione di una
lingua non implica necessariamente una sostituzione di popolazione (anche se questo può avvenire,
come nel caso dell'attuale predominio di lingue indeuropee in Nord America).
Lingue e dialetti
“Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”. Questa facezia è popolare tra i linguisti,
anche se inesatta. Il linguaggio umano presenta una immensa ricchezza e variabilità di forme, che
spesso si presentano in un continuum di variazioni, solitamente geografiche o sociali. Non esiste
una definizione univoca e condivisa di cosa costituisca una “lingua” in opposizione a un “dialetto”.
In linea di massima i linguisti tendono a fare riferimento alla comprensibilità reciproca tra due
sistemi linguistici come criterio approssimativo, assieme a caratteristiche strutturali (affinità
grammaticali, cambiamenti fonetici, ecc…). È inoltre molto rilevante l’autocoscienza linguistica
delle comunità parlanti. Quest’ultimo fattore è particolarmente problematico, in quanto spesso
riflette fattori normativi (storici, sociali, di prestigio, politici, etc.) non direttamente legati alla
struttura interna del sistema linguistico.
Nell’uso comune, comunque, “l’esercito e la marina” e più ancora l’esistenza di una tradizione
scritta (in particolare una tradizione scritta normativa e codificata) sono spesso considerati elementi
fondamentali per definire una lingua. L’epoca moderna è segnata dal nazionalismo, in cui è spesso
importante l’associazione tra lingua e Stato (si veda la parte 4). Le forme linguistiche che non
godono del sostegno ufficiale dello Stato sono così relegate nella coscienza a dialetti
indipendentemente dai propri caratteri linguistici veri e propri (è questo ad esempio, storicamente, il
caso della situazione del provenzale e del bretone in Francia, nessuna delle quali può essere
classificata come una variante dialettale del francese).
In questa sede si parlerà normalmente di “varietà linguistiche” e si considereranno in linea di
massima “lingue” quelle che presentano sufficienti caratteri di differenziazione interna (inclusa,
quando documentata, l’eventuale autocoscienza delle comunità parlanti) senza riguardo per i fattori
politici ed ideologici o per l’esistenza di una tradizione scritta. È inevitabile che questo uso implichi
un certo grado di approssimazione.
Tipologia linguistica.
Non tutte le affinità tra lingue sono spiegabili in termini genealogici, specialmente nel caso delle
caratteristiche sintattiche. Fin dal tardo Settecento, sono state tentate classificazioni delle lingue per
tipi che non implicano, in linea di massima, una parentela. Tradizionalmente, si sono indicate
quattro grandi categorie di tipi linguistici, su base morfosintattica: le lingue flessive, agglutinanti,
isolanti, e incorporanti (o polisintetiche). Un'altra categoria tipologica generale è quella delle
lingue sintetiche o analitiche. Queste distinzioni riguardano il modo in cui le parole incorporano al
loro interno informazioni sui propri rapporti nella frase. L'opera di Edward Sapir negli anni '20 e '30
ha offerto una revisione e un raffinamento delle categorie tipologiche, anche se quelle elencate qui
sono ancora occasionalmente utilizzate a fini didattici.
Contrariamente a quanto si è creduto in passato, i fatti tipologici non hanno di per sé valore ai fini
della classificazione linguistica, anche se possono risultare utili in questo senso laddove associati ad
altre indicazioni.
Linguistica di area e di contatto
Il contatto tra lingue è un fenomeno universale nell'evoluzione linguistica, ed è ritenuto un fattore
importante nel cambiamento linguistico. Il lessico è l'elemento di una lingua più comunemente
soggetto a fenomeni di contatto (prestiti lessicali). Tuttavia, non esiste parte di un sistema
linguistico che non possa essere trasmessa in caso di contatto.
Contatti linguistici prolungati possono portare a importanti convergenze tra le caratteristiche
(specialmente fonologiche e sintattiche oltre che lessicali) di lingue geograficamente vicine ma non
strettamente imparentate dal punto di vista genealogico. Questa situazione è stata documentata per
molto tempo in alcune aree specifiche come la penisola balcanica, l'India, e l'Australia. Si parla in
questi casi di “leghe linguistiche” o Sprachbund. Si è sostenuto autorevolmente, ad esempio, che le
lingue dell'Europa centrale ed occidentale, condividano alcune caratteristiche sintattiche specifiche
che permettono di parlare di un'area linguistica europea, indipendentemente dall'appartenenza ai
rami germanico, italico (neolatino) o slavo della grande famiglia indoeuropea o, nel caso
dell'ungherese, a una famiglia linguistica non indeuropea, quella uralica.
Il contatto tra lingue diverse nella stessa area può oscurare le relazioni genealogiche e far
considerare lingue geograficamente prossime più strettamente imparentate di quanto non fossero in
origine.
In alcuni casi, un contatto particolarmente intenso e asimmetrico può portare a fenomeni di
pidginizzazione e creolizzazione. Questi fenomeni, particolarmente documentati in contesti
coloniali nei Caraibi e in Oceania, sono stati a lungo ritenuti casi estremi ed eccezionali di
mutamento linguistico. Più di recente, tuttavia, alcuni linguisti hanno osservato che fenomeni del
genere siano molto più comuni di quel che si pensasse, inducendo scetticismo verso i
raggruppamenti genealogici. Un pidgin è una interlingua, una forma semplificata di una o più
varietà linguistiche, usata per la comunicazione di base tra gruppi linguisticamente diversi; molti
pidgin sono stati usati come lingue commerciali, anche il fenomeno delle “lingue franche” di
commercio non è perfettamente identico a quello dei pidgin. Un creolo è una forma linguistica
“ridotta” e semplificata che si stabilisce come madrelingua di una comunità (potrebbe
originariamente trattarsi di un pidgin). Un caso tipico di creolizzazione è quello in cui una lingua
dominante viene (imperfettamente) acquisita da una popolazione linguisticamente diversa in poco
tempo e in condizioni di asimmetria gerarchica (ad esempio nel caso delle piantagioni dei Caraibi,
dove la popolazione schiava acquisì imperfettamente la lingua dei padroni). In seguito, con la
trasmissione alle generazioni successive, si ha una ristrutturazione degli elementi linguistici
d'origine in una nuova forma linguistica propria dei gruppi dominati. Il lessico è preso in gran parte
dalla lingua dominante, ma le forme grammaticali sono ricreate in modo originale. Della lingua-
sorgente si perde gran parte della complessità morfologica; alcune forme tipiche che vengono
mantenute sono i verbi all'imperativo. Nel caso in seguito diventi disponibile un migliore accesso
alla lingua-sorgente, si può avere una decreolizzazione, ovvero l'apparizione di caratteristiche
grammaticali precedentemente perdute, più vicine a quelle delle forme standard.
Sezione 2
Le lingue afro-asiatiche: genealogia, tipologia e classificazione.
L'arabo appartiene al ramo semitico della grande famiglia linguistica afro-asiatica, (Afro-asiatic o
Afrasian in inglese; la seconda forma è preferita nella tradizione accademica russa che fa
riferimento alla Scuola di Mosca) in passato nota come camito-semitica.
L'affinità piuttosto stretta tra le lingue semitiche è stata riconosciuta da molto tempo (si veda la
sezione 3). La relazione tra le lingue afro-asiatiche è più complessa, ma già nel Medioevo alcuni
grammatici avevano individuato rapporti tra lingue semitiche e berbere, e a partire dalla metà
dell'Ottocento, la parentela “camito-semitica” aveva un largo consenso in linguistica storica.
Già il nome mette in evidenza la posizione particolare attribuita, all'interno di questa famiglia
linguistica, al ramo semitico; una situazione dovuta in parte a preconcetti degli studiosi europei
dell'epoca, in parte alla natura della documentazione, assai più variegata, antica e ricca per il
semitico che per qualsiasi altra branca dell'afro-asiatico, o in effetti, di qualsiasi altra famiglia
linguistica conosciuta: l'unico possibile termine di paragone in questo senso, l'indeuropeo, non
dispone di documentazione altrettanto antica nel tempo; altra documentazione molto antica di
famiglie linguistiche come il sumerico, l'egizio e il sino-tibetano (rappresentato dal cinese arcaico
delle iscrizioni oracolari di epoca Shang) è limitata sostanzialmente ad una sola lingua e non
consente perciò indagine comparativa. Si noti che la famiglia afro-asiatica nel suo insieme,
associando la documentazione scritta mesopotamica ed antico-egizia, offre alla comparazione una
profondità storica ancora maggiore e priva di paralleli conosciuti altrove. La posizione privilegiata
del semitico, ipotizzata forse più sulla base di pregiudizi razziali e geografici che sulla realtà
linguistica (si veda sezione 3), è stata in seguito messa in discussione: si accetta oggi che non esista
nessun gruppo linguistico “camitico” con caratteri condivisi dai rami africani della famiglia in
opposizione al semitico. Tuttavia, solo verso la metà del Novecento il termine “afro-asiatico” entra
in uso, grazie soprattutto al lavoro del grande e controverso comparatista Joseph Greenberg.
Modelli di classificazione
La famiglia afro-asiatica mostra una considerevole varietà interna, che indica una diversificazione
precoce, stimata variamente dagli studiosi ma riconducibile con buona probabilità alle prime fasi
del Neolitico (ca. 12.000-9.000 anni a.C.); si considera di solito essere la più antica tra le grandi
famiglie linguistiche generalmente accettate.
Esistono sei branche frequentemente accettate dell'afro-asiatico:
1) Semitico: (si veda sotto).
2) Egiziano: la forma linguistica attestata in diverse fasi storiche dalla documentazione scritta
della civiltà faraonica e dell'Egitto ellenistico e romano. Si possono distinguere sei fasi di
sviluppo, corrispondenti a “lingue” diverse più o meno in successione:
1. Egizio arcaico è la lingua, piuttosto mal documentata, delle più antiche iscrizioni
geroglifiche, trovate soprattutto in contesti funerari, risalenti all'ultimo periodo pre-
dinastico e alle prime due dinastie (attorno al 3000 a.C.)
2. Antico Egizio (Old Egyptian) è la lingua dell'Antico Regno, documentata in modo
abbastanza completo dai testi delle Piramidi e dai primi papiri nel terzo millennio a.C.
3. Medio Egizio è la lingua classica dell'Egitto faraonico. Si tratta della forma letteraria
della lingua probabilmente parlata nel Primo Periodo Intermedio (c.a. 2000 a.C.) e
codificata nel Medio Regno (c.a. 1900-1700 a.C.). Rimane in uso scritto quasi esclusivo
fino al regno del faraone Akhenaten attorno al 1300 a.C., e continuerà ad essere
impiegata nelle iscrizioni geroglifiche per tutta la successiva storia della civiltà
faraonica, come forma linguistica di prestigio. Si trova attestata da un ricchissimo corpus
di iscrizioni geroglifiche e di papiri, anche di contenuto letterario, in scrittura geroglifica
corsiva o ieratica.
4. Tardo Egizio è la lingua parlata nel Nuovo Regno. Emerge alla documentazione scritta,
su iscrizioni e papiri, in conseguenza della rivoluzione religiosa promossa dal faraone
Akhenaten. Presenta differenze importanti dal Medio e dall'Antico egizio, sia nella
pronuncia che nella grammatica (presenza dell'articolo determinativo). La
documentazione, anche letteraria, è molto ricca (ad esempio il Grande Inno ad Aten).
5. Demotico la lingua usata in Egitto in epoca tarda. Non va confusa con la forma di
scrittura dallo stesso nome, che è una forma altamente abbreviata e perlopiù logografica
derivata dallo ieratico usata per scrivere documenti su papiro. Tuttavia, la scrittura e la
forma linguistica demotiche appaiono più o meno contemporaneamente a partire dalla
XXVI dinastia (c.a. 650 a.C.) e restano in uso in epoca persiana, ellenistica e romana. Le
ultime documentazioni risalgono al V secolo d.C.
6. Copto è la forma finale dell'egiziano, che esprime la cultura scritta dell'Egitto cristiano.
A differenza di tutte le varietà precedenti, è documentato in una scrittura alfabetica, che
utilizza un alfabeto greco a cui sono aggiunti alcuni segni. La documentazione è molto
ricca, in particolare in campo religioso. Il copto è documentato in sei principali varietà
dialettali che presentano variazioni fonologiche e grammaticali, e risente di una forte
influenza linguistica del greco. Attestato a partire dal III-IV secolo d.C., come lingua
parlata entra in declino tra nono e decimo secolo a favore dell'arabo. Rimane nell'uso
parlato probabilmente fino al XIV o forse al XVII secolo. Tuttora è in uso come lingua
liturgica e culturale della chiesa copta d'Egitto.
3) Le lingue libico-berbere parlate nell'Africa del Nord ad ovest della valle del Nilo.
Nell'antichità sono documentate da un grande numero di brevi iscrizioni dette iscrizioni
libiche, di epoca tardo-cartaginese e romana, in alfabeto fenicio modificato (punico) o in
alfabeto latino a partire dal III secolo a.C. Alcuni testi in lingue berbere scritte con l’alfabeto
arabo sopravvivono dal periodo medievale. Le diverse forme moderne sono diffuse in aree
sparse attraverso tutto il Nordafrica ad ovest del Nilo e gran parte del Sahara centrale e
occidentale, particolarmente in Algeria e Marocco, e sono spesso indicate collettivamente
come Tamazight. Anche se strettamente imparentate tra loro, le diverse varietà non sono
mutualmente comprensibili. Si fa uso per scriverle a volte dell'alfabeto latino, altre volte di
quello arabo, o, più spesso, di diversi adattamenti moderni delle Tifinagh, un alfabeto
consonantico tradizionale, rimasto in uso sporadico e soprattutto decorativo in epoca
islamica, che sembra derivato dal fenicio e forse continua quello delle iscrizioni libiche.
Quasi certamente apparteneva al gruppo libico-berbero la lingua estinta parlata dai
Guanchos, la popolazione nativa delle isole Canarie prima della conquista spagnola alla fine
del quindicesimo secolo.
4) Le lingue chadiche, parlate in una vasta fascia di territorio nel Sahel centrale a sud del
Sahara, attorno al lago Chad e nelle savane tra Nigeria e Niger. L'appartenenza delle lingue
chadiche all'afro-asiatico è oggi generalmente accettata ma rimase a lungo controversa. La
più importante tra queste lingue è lo Hausa (oltre 30 milioni di parlanti), usato come lingua
franca in una vasta regione del Sahel comprendente il Niger e quasi tutta la metà
settentrionale della Nigeria, e come uno dei principali veicoli della cultura islamica nella
regione. Si dividono in quattro sottogruppi principali:
1. Chadico occidentale, comprendente lo Hausa. Copre una vasta area centrata sulla
Nigeria settentrionale e il Niger centrale.
2. Chadico centrale o Biu-Mandara, un insieme di numerose lingue prive di tradizione
scritta parlate tra il nord-est della Nigeria, il Chad e il Camerun settentrionale.
3. Chadico orientale, anch'esso articolato in numerose lingue non scritte, diffuse nelle
savane centrali del Chad.
4. Masa, un piccolo gruppo di lingue strettamente imparentate diffuse tra il sudovest del
Chad e l'estremo nord del Camerun.
5) Le lingue cuscitiche, parlate soprattutto sulle coste africane del Mar Rosso e in gran parte
del Corno d'Africa: tra esse vanno ricordate l'Oromo, un gruppo di varietà linguistiche molto
diffuso in Etiopia, e il somalo. Il cuscitico prende il nome da Kush, nome antico della Nubia,
all'incirca l'odierno Sudan, ma in passato riferito a volte anche all'Etiopia. Si tratta di una
famiglia linguistica molto variegata. È complessivamente accettata una suddivisione in tre o
quattro sottogruppi principali, ma alcuni, negando l'unità del cuscitico, hanno proposto di
ritenere questi sottogruppi direttamente come divisioni dell'afro-asiatico. I quattro
sottogruppi sono:
1. Cuscitico settentrionale: Beja o Beḍawye, un gruppo di varietà parlato nella regione
desertica tra la valle del Nilo e il Mar Rosso, tra l'estremo sud-est dell'Egitto e il nord-
ovest dell'Eritrea. Non esiste una tradizione scritta se non in tempi recenti.
2. Cuscitico centrale: è rappresentato dalle lingue Agaw, parlate in varie isole linguistiche
all'interno dello spazio linguistico etio-semitico nell'altipiano dell'Etiopia settentrionale e
dell'Eritrea. Le principali sono il Bilin parlato in Eritrea, l’affine Xamtanga, il Qiment,
e lo Awngi. Si ritiene rappresentino quanto resta del substrato cuscitico delle lingue
semitiche dell'Etiopia centro-settentrionale. Esiste una letteratura moderna, soprattutto in
Bilin. Parte dell’antica comunità ebraica d’Etiopia, i Beta Israel, parlava fino a tempi
recentissimi varietà affini al Qiment, attualmente in fortissimo declino, di cui resta anche
una documentazione in manoscritti medievali. Tutte queste lingue sono solitamente
scritte con adattamenti dell’alfasillabario etiopico, tranne il Bilin, che ha adottato
l’alfabeto latino di recente.
3. Cuscitico orientale: occupa una vasta parte del Corno d'Africa a sud e a est dell'etio-
semitico, e include una ampia varietà linguistica. Si suddivide a sua volta in cuscitico
orientale delle pianure, rappresentato ad esempio dalle varietà Oromo, dallo Afar e dal
Saho (coste meridionali del Mar Rosso tra Etiopia ed Eritrea), e dal somalo, e cuscitico
orientale dell'altopiano, rappresentato da numerose lingue locali di cui le più
importanti sono le lingue Sidama. Nessuna di queste lingue presenta una significativa
tradizione scritta prima della fine del diciottesimo secolo, ma attualmente il somalo e
l'oromo possiedono ricche letterature e sono standardizzate come lingue ufficiali. Il
somalo, in passato scritto di solito con adattamenti dei caratteri arabi, attualmente
utilizza l’alfabeto latino, mentre l’oromo impiega l’alfasillabario etiopico. Inoltre nel
Ventesimo secolo ci sono stati tentativi di ideare un alfabeto specifico per il somalo, uno
dei quali per qualche anno ha avuto carattere ufficiale.
4. Cuscitico meridionale: diffuso in alcune isole linguistiche in Kenya e Tanzania,
presenta alcune affinità con cuscitico orientale, assieme al quale è a volte classificato. È
fortemente influenzato dalla vicinanza con l'ambiente linguistico Bantu (Niger-Congo)
in cui è immerso. La lingua più importante è l'Iraqw. Manca una tradizione scritta.
6) Le lingue omotiche, diffuse in una regione relativamente piccola nel Sud-ovest dell'Etiopia,
attorno alla valle del fiume Omo. Sono usualmente suddivise in omotico settentrionale e
omotico meridionale.
La posizione dell'omotico all'interno della famiglia afro-asiatica è più controversa di quella
degli altri gruppi, anche a causa della difficoltà di documentazione di queste lingue, alcune
delle quali sono estinte o minacciate di scomparsa. L'omotico è stato considerato
inizialmente una sotto-branca di cuscitico (il “cuscitico occidentale”); in seguito è stato
suggerito da alcuni che esso non costituisca una branca unitaria, ma che omotico
settentrionale e omotico meridionale siano gruppi indipendenti, con relazioni genealogiche
distinte; altri infine (Theil 2003) propongono di vedere la famiglia o le famiglie omotiche
come isolate e non appartenenti all'afro-asiatico fino a prova del contrario.
L'esatta relazione dei rami principali dell'afro-asiatico tra di loro non è ancora definitivamente
compresa. Molte delle proposte attualmente diffuse postulano un “nord-afro-asiatico” o “eritreo”
che esclude l'omotico e in molti autori il cuscitico. Sembra che una relazione più stretta esista tra
libico-berbero e chadico, e tra semitico ed egiziano.
Casi particolari
Alcune lingue afro-asiatiche pongono problemi specifici e non rientrano facilmente nello schema di
classificazione delineato sopra: si accennerà qui ai casi del Dahalo, dell'Ongota e della lingua delle
iscrizioni meroitiche.
Il Dahalo è classificato come una lingua cuscitica, probabilmente della branca cuscitica orientale (o
meridionale secondo altri), parlata da una piccola comunità di cacciatori-raccoglitori nel nord-est
del Kenya. Essa presenta caratteristiche particolari: in particolare, in campo fonologico, è una delle
poche lingue a presentare i “clicks”, dei suoni prodotti attraverso uno movimento degli organi
vocali che fa entrare aria nei polmoni, come uno schiocco della lingua. La grande maggioranza
delle lingue del mondo dispone di meccanismi sonori basati sull'aria che esce dai polmoni (o a volte
dalla glottide). I clicks sono tipici di alcune lingue dei gruppi tradizionalmente classificati nella
famiglia Khoi-san (la cui unità genetica è oggi considerata fortemente in dubbio), attualmente
diffuse nelle aree più aride dell'Africa meridionale, ma presenti in isole linguistiche (Sandawe)
nell'attuale Tanzania. I clicks sono inoltre presenti in numerose lingue del gruppo Bantu (Niger-
Congo) parlate anch'esse nell'Africa meridionale, come lo Xhosa e il Sotho; è praticamente certo
che siano stati incorporati in esse a partire da un substrato “Khoi-san”, supportando l'idea che lo
spazio linguistico “Khoi-san” fosse in passato assai più esteso su una larga parte dell'Africa
orientale e meridionale.
C'è ragione di credere che i parlanti Dahalo, parlassero in passato una lingua diversa, forse
appartenente ad uno dei gruppi “Khoi-san”, prima di adottare una forma parzialmente creolizzata di
cuscitico, probabilmente orientale; tuttavia le caratteristiche del substrato precedente hanno agito
fortemente sul Dahalo, dandogli delle caratteristiche divergenti rispetto al resto del cuscitico.
L'Ongota è una lingua parlata da una piccola comunità sud-ovest dell'Etiopia, parlata attualmente
solo dagli anziani della comunità e considerata prossima all'estinzione. Questa lingua presenta
caratteristiche in comune con l'omotico, il cuscitico orientale e con le lingue Nilo-Sahariane (in
particolare nei pronomi), una grande e molto diversificata famiglia linguistica africana che occupa,
sebbene in modo frammentario, un vasto spazio tra i Grandi Laghi, l'altopiano etiopico e il medio
corso del Niger. Va sottolineato che l'unità genetica del Nilo-Sahariano (tra i cui primi fautori era J.
Greenberg) non è universalmente accettata. La posizione genetica dell'Ongota non è chiara ed è
considerata uno dei più importanti problemi della linguistica storica dell'Etiopia. La relativa
semplicità della morfologia ha indotto alcuni a ritenere che l'Ongota fosse originariamente un creolo
prodotto dall'incontro tra gruppi di lingua afro-asiatica e nilo-sahariana. In uno studio dettagliato,
Harold Fleming ha recentemente sostenuto che l'Ongota rappresenti una branca a sé stante
dell'Afro-asiatico, separata da tutte le altre e particolarmente conservativa. Questo punto di vista
non ha però ottenuto un consenso generale. Vaclav Blažek ha sostenuto che l'Ongota vada
considerato Nilo-Sahariano; altri studiosi tendono a vedere nell'Ongota una lingua cuscitica o
omotica, quindi parte del gruppo Afro-asiatico ma senza occupare in esso una posizione speciale.
Le iscrizioni meroitiche sono una documentazione epigrafica, perlopiù su pietra risalente all'antico
regno di Meroe (o Kush), uno stato che comprendeva gran parte dell'attuale Sudan tra il sesto secolo
a.C. e il terzo secolo d.C. Il sistema di scrittura, derivato probabilmente dallo ieratico egizio ma
semplificato in un sistema alfasillabico, è stato decifrato da oltre un secolo, ma la lingua in cui le
iscrizioni sono redatte, chiamata convenzionalmente meroitico, è attualmente in gran parte
incomprensibile.
La scoperta di una relazione genetica con altre lingue potrebbe essere d'aiuto alla sua comprensione;
la ricerca si è concentrata sulle due grandi famiglie linguistiche geograficamente vicine, quella
Nilo-Sahariana (di cui fa parte il nubiano, la lingua usata nella stessa area in epoca successiva, con
la quale il meroitico non sembra però avere una relazione stretta) e quella Afro-asiatica;
recentemente una analisi della struttura fonetica del meroitico (Rowan 2006) ha rivelato schemi
coerenti con un rapporto stretto con l'afro-asiatico (è stata suggerita in particolare una relazione col
semitico, che non è però comunemente accettata). Il meroitico potrebbe dunque rivelarsi una nuova
branca dell'afro-asiatico, o parte di una delle branche già note. Tuttavia, le restrizioni fonetiche
individuate da Rowan non sono esclusive dell'afro-asiatico e costituiscono dunque solo
un'indicazione, non una prova certa, della parentela proposta.
L'urheimat afro-asiatico e i modelli di diffusione
L'antichità della documentazione afro-asiatica e la grande varietà linguistica presente all'interno di
una famiglia così estesa e numerosa hanno reso possibile proporre date approssimative per la proto-
varietà linguistica (“proto-afro-asiatico”) da cui le diverse branche deriverebbero. Questa
sembrerebbe potersi ricondurre al primo Neolitico, un'epoca particolarmente significativa per la
preistoria umana in quanto coincidente con gli inizi dell'agricoltura.
Alcune delle più antiche tracce archeologiche di agricoltura sono state trovate in aree come la
Mezzaluna Fertile e l'Egitto, dove in epoca storica sono attestate lingue afro-asiatiche. Secondo il
linguista russo Alexandr Militar'ev, autorevole esponente della Scuola di Mosca, il proto-afro-
asiatico potrebbe essere stata la lingua dei primi agricoltori del Levante, avrebbe quindi un'origine
asiatica: il semitico rappresenterebbe la continuazione locale dell'afro-asiatico, mentre le altre
branche principali si sarebbero diversificate in Africa da successive ondate migratorie provenienti
da Nord-Est. La posizione appartata del cuscitico (e dell'omotico) si spiegherebbe secondo
Militar’ev con una via di migrazione distinta, giunta in Africa attraverso la penisola araba e
attraversando il Mar Rosso dallo Yemen, mentre le altre branche (l'egiziano, il chadico e il berbero;
queste ultime due sarebbero più strettamente imparentate tra loro secondo Militar'ev) sarebbero
giunte attraverso il Sinai e la valle del Nilo.
Questo modello è suggestivo e in certa misura riflette a grandi linee il paradigma di diffusione, assai
meglio documentato, che si ritiene abbiano avuto in seguito le lingue semitiche.
Tuttavia, la diversità linguistica dell'afro-asiatico al più alto livello di ramificazione è concentrata in
Africa; questa è considerata in linguistica storica una indicazione dell'area più probabile in cui
cercare il centro di diffusione di una famiglia linguistica; in altre parole, se l'afro-asiatico avesse
avuto origine in Asia, ci si potrebbero aspettare maggiori tracce di caratteri linguistici perduti in
semitico e conservati in altri rami della famiglia, e quindi una diversità considerevolmente maggiore
dell’Afro-asiatico documentato in Asia. Di conseguenza un buon numero di specialisti tende a
considerare l'Africa nord-orientale (il Corno d'Africa o la Valle del Nilo o, secondo un'ipotesi di
D'jakonov, il Sahara orientale) come l'urheimat, il centro originario di diffusione.
Va infine ricordata la prospettiva del semitista italiano Giovanni Garbini. Secondo Garbini, una
ricostruzione genealogica dell'afro-asiatico (così come del semitico) rappresenta una impostazione
fondamentalmente sbagliata del problema del rapporto dei vari rami della famiglia; è in effetti
perfino discutibile, dal suo punto di vista, che l’afro-asiatico si possa considerare in senso proprio
una famiglia linguistica. Facendo riferimento alla Wellentheorie di Schmidt e ai fenomeni di
pidginizzazione e contatto linguistico citati sopra, Garbini ritiene che le affinità tra le lingue afro-
asiatiche possano essere meglio comprese come “onde” di influenza, soprattutto semitica, che
hanno operano su altri gruppi linguistici africani originariamente non imparentati, a partire da uno o
più centri (come nel modello di Militar’ev, il centro principale sarebbe da cercare nel Levante).
Anziché un “albero” ramificato da un tronco comune, Garbini propone di vedere l'afro-asiatico
come una “bougainvillea” di radici, tronchi e rami distinti e variamente intrecciati. Questo punto di
vista tuttavia rimane largamente minoritario.
Diffusione delle lingue afro-asiatiche secondo una approssimazione del modello di Militar’ev
Sezione 3
Le lingue semitiche: documentazione, classificazione e caratteri generali. La posizione
dell'arabo.
«If we imagine a traveller going from oasis to oasis, from village to village from the Northern Hijaz
to the upper Euphrates let us say in the time of Alexander the Great, he would most likely never be
aware of passing from ’Arabic’-speaking areas into ’Hebrew’-speaking ones, then passing the
border to the people speaking ’Aramaic’. He would instead notice continuous small differences in
the speech of the locals on his way. Today, a similar picture would be created by a similar journey
from Mauritania to Oman through the Arabophone areas.» (Retsö 2006)
L’Arabia e le regioni vicine, da Hoyland 2001.
Il concetto di “semitico”: qualche nota storica
L'espressione “lingue semitiche” viene coniata nel 1781 dall'influente storico e linguista tedesco
August von Schlözer per indicare l'ebraico, l'arabo, l'aramaico e l'etiopico; le somiglianze tra queste
lingue erano già ben note (e sono in effetti evidenti anche una prima analisi). Erano state osservate
ad esempio dal grammatico ebreo nordafricano Ibn Quraysh già nel decimo secolo. Lo stesso Ibn
Quraysh aveva osservato le affinità col berbero. Ma fino alla fine del Settecento, non risulta che
queste somiglianze fossero mai state oggetto di una vera e propria analisi scientifica. La parola
“semitico” fa riferimento a Sem (Šām in arabo) uno dei tre figli di Noé nella Tavola dei Popoli della
Genesi biblica; secondo la Bibbia da lui discenderebbero Ebrei, Arabi, Aramei e parte degli abitanti
della Mesopotamia, ma anche gli Elamiti, che storicamente non parlavano una lingua semitica (è
stato proposto da alcuni che l’antico Elamita sia da collegarsi lontanamente all’afro-asiatico, ma
questa ipotesi è molto dubbia e manca di consenso). Va sottolineato che il concetto di semitico
nell’uso attuale è unicamente linguistico e non fa riferimento ad una cultura o una discendenza
comuni. Non è però sempre stato così.
Nel corso dell’Ottocento è avviata l’esplorazione archeologica del Medio Oriente e la
documentazione etnografica sistematica delle società extra-europee; questo allarga enormemente la
documentazione “semitica” disponibile. È in quest’epoca che si delinea una concezione
essenzialista del “semitico”, sentito come contrapposto o complementare all’ “indeuropeo” (o,
comunemente nel linguaggio dell’epoca, “ariano”). In particolare, va segnalata l’opera del grande
studioso francese Ernest Renan, il “padre” della filologia semitica sistematica. Riassumendo
all’estremo, Renan vedeva nel “semita” e nell’ “ariano” i due poli della storia significativa della
civiltà umana (fondamentalmente, a suo modo di vedere, la civiltà europea).
In questa visione, all’ “ariano” (come razza, cultura e lingua) si attribuiscono caratteristiche di
creatività, concretezza, fantasia. Le lingue indeuropee, rappresentate tipicamente dal greco e dal
sanscrito, si prestano all’espressione del mito e della filosofia, più in generale alla rappresentazione
del molteplice, anche sulla base di presunte caratteristiche morfologiche quali la fusione di
informazioni grammaticali nella struttura fonetica della parola.
Il “semitico”, con la sua tipica struttura di radici consonantiche, viene in questo tipo di discorso
presentato come una forma linguistica rigida, che tende verso l’unità e l’astrattezza. Se le lingue
indeuropee si prestano a rendere la molteplice varietà del mondo naturale, le lingue semitiche,
formate nella monotonia del deserto, porterebbero il pensiero a concepire il monoteismo.
L’elemento intellettuale semitico è dunque, da solo, sterile. Capace di produrre un Dio trascendente
e lontano, ma non di raffigurarlo o di rapportarlo all’umanità.
Questo genere di discorsi tendevano a rappresentare la tradizione culturale europea come l’unione,
operata dal cristianesimo, degli aspetti migliori dell’elemento dominante ariano e di quello semitico,
giustificando la superiorità europea che emergeva in quest’epoca nelle conquiste coloniali.
Naturalmente, questi stessi discorsi potevano facilmente essere impiegati per escludere dall’Europa
“ariana” la tradizione ebraica (e quella islamica), fornendo una premessa intellettuale per i ben noti
esiti storici alla metà del Ventesimo secolo. È per questo motivo che, alla fine dell’Ottocento,
l’ostilità verso gli Ebrei viene chiamata “antisemitismo”. Almeno implicitamente, essa include
l’ostilità verso gli Arabi e i musulmani, sentiti come portatori anch’essi dell’estraneità culturale (e
linguistica) alla vera civiltà “ariana” che si attribuisce agli Ebrei. L’antisemitismo moderno trova
dunque in parte alimento in una opposizione non solo all’ebraismo e agli Ebrei (contro i quali
l’Europa aveva una lunga storia di persecuzione e discriminazione su base religiosa) ma contro il
monoteismo in genere; nel caso di Renan, questo non si esprime in una opposizione diretta al
Cristianesimo, e certamente vi furono moltissimi antisemiti che si definivano cristiani. Non va però
dimenticato che la base concettuale dell’antisemitismo è, almeno in potenza, anche ostile all’etica e
al messaggio cristiani.
Questi discorsi vanno considerati come un avvertimento a quel che può accadere quando i concetti
linguistici e filologici vengono trasformati in strumenti di categorizzazione dei gruppi umani,
quando dallo studio delle forme linguistiche si pretende di definire “razze” o “forme culturali”.
Oggi si sa che, in linea di massima, la lingua non condiziona in modo determinante il pensiero e che
non esistono rapporti diretti tra gruppi linguistici, forme culturali e discendenza. “Semitico” è
unicamente un gruppo di lingue strettamente affini tra loro, parte della più ampia famiglia
eurasiatica. Queste lingue hanno una grande importanza storica e documentaria, per essere state
scritte e parlate in regioni del mondo di antica urbanizzazione e alfabetizzazione; anzi è a persone
che parlavano una lingua semitica che si deve quasi certamente l’invenzione dell’alfabeto. Non
esiste nessuno “spirito semitico”, nessuna forma culturale intrinseca ai parlanti queste lingue,
nessun “destino” storico iscritto nelle loro strutture linguistiche.
Caratteri generali
La caratteristica generale delle lingue che più colpisce chi le studia è la radice triconsonantica. In
parte, si tratta di un fatto comune a tutto l’afro-asiatico, che nel semitico si manifesta con particolare
chiarezza anche a causa della profondità storica della documentazione e del fatto che, in moltissime
lingue semitiche, questa documentazione ci è pervenuta in una forma di scrittura consonantica.
Va inoltre ricordato che il pensiero grammaticale arabo, e quello ebraico che in gran parte ne deriva,
ha fatto della radice consonantica uno dei pilastri della descrizione linguistica, dandogli ulteriore
centralità. C’è un consenso comunque sul fatto che nel semitico si sia avuta storicamente una
tendenza generalizzare il triconsonantismo, mentre nell’afro-asiatico erano probabilmente possibili
radici sia bi-consonantiche che tri-consonantiche (e alcuni linguisti sospettano che l’elemento
radicale potesse essere in origine una sillaba del tipo CvC, consonante-vocale-consonante).
Più difficile è la ricostruzione storica della situazione delle vocali; c’è qualche motivo di credere
che il sistema vocalico dell’arabo classico, con tre vocali brevi e tre lunghe, sia molto vicino a
quello comune per il semitico (e per l’afro-asiatico, secondo D’jakonov).
La fonetica del semitico è ricca in sibilanti e suoni laringali; un ricco inventario si trova in arabo e
nelle lingue sud-arabiche; anche questi suoni sono probabilmente da ricondurre all’eredità afro-
asiatica, sebbene ci sia incertezza sulle esatte corrispondenze fonetiche. La ricostruzione delle
sibilanti è particolarmente problematica; la loro probabile corrispondenza con occlusive palatali in
egizio, e alcuni dati provenienti dall’uso dei caratteri cuneiformi per scrivere lo hittita, fanno
ritenere che in origine potessero essere delle affricate (in effetti la realizzazione della “sibilante”
enfatica sorda ṣ in ebraico moderno è l’affricata /ts/; questa potrebbe essere la situazione originaria).
Tipica dell’afro-asiatico, e specialmente del semitico, è la presenza dei suoni detti “enfatici”. La
ricostruzione più diffusa suggerisce che l’enfasi fosse originariamente un suono eiettivo (realizzato
spingendo l’aria dalla gola anziché dai polmoni) che può essere solamente sordo. Questa è la forma
di enfasi che esiste anche oggi nelle lingue semitiche d’Etiopia; anticamente, in effetti, le
consonanti enfatiche semitiche sembrano essere state solamente sorde.
In seguito, una parte delle lingue semitiche ha sviluppato una articolazione diversa delle enfatiche,
quella glottalizzata, tipica dell’arabo In arabo infatti esistono enfatiche sorde ed enfatiche sonore, ed
è possibile che la realizzazione prevalente delle enfatiche arabe nel I millennio d.C. fosse solo
sonora. Molti semitisti ritengono quindi che il sistema consonantico originario del semitico fosse
basato su triadi di una consonante sonora, una sorda ed una enfatica, una ipotesi suggerita in
particolare da Cantineau; tuttavia, vi sono diverse critiche a questa visione.
Molti studiosi ritengono, sulla base dell’arabo, dell’accadico e di quel che è stato possibile derivare
dai dati dell’ugaritico, che il semitico possedesse un sistema di tre casi molto simile a quello
dell’arabo classico; altri (ad esempio Jonathan Owens, sulla base del suo lavoro con le varietà arabe
parlate) hanno suggerito che i casi siano uno sviluppo successivo che non si applica a tutto il
semitico. Questo secondo punto di vista rimane minoritario.
Modelli di classificazione delle lingue semitiche
Tradizionalmente, le lingue semitiche erano raggruppate in tre sottogruppi su base geografica:
- il semitico nord-orientale comprendente l’accadico, la lingua semitica della Mesopotamia antica
nelle sue varietà babilonese ed assira.
- il semitico nord-occidentale comprendente l’ebraico, il fenicio, l’aramaico e l’ugaritico.
- il semitico meridionale o sud-occidentale comprendente l’arabo, le lingue sud-arabiche
(dell’antico Yemen) e le lingue semitiche del Corno d’Africa.
Si tendeva a riconoscere una parentela più stretta tra semitico nord-occidentale e meridionale, che
insieme avrebbero costituito il semitico occidentale.
Questo schema è stato sempre più criticato e discusso grazie alla scoperta e alla decifrazione di
documentazione nuova, specialmente di quella ritrovata negli anni Settanta nell’archivio di tavolette
cuneiformi dell’antica città di Ebla, in Siria, risalente a circa il 2400 a.C. Tra il 1974 e il 1976,
Robert Hetzron ha proposto un nuovo modello di classificazione, che attualmente, anche se
rimangono differenze nei dettagli ed è stato modificato in alcuni punti (per quanto riguarda il sud-
arabico in particolare), gode di largo consenso.
La seguente lista di lingue semitiche è data secondo una versione modificata dello schema di
Hetzron, ed è per quanto possibile completa. Alcune forme linguistiche restano di incerta
classificazione a causa della scarsità di documentazione.
1) Semitico Nord-Orientale:
a) Accadico: La lingua di Akkad, città della Mesopotamia nel terzo millennio a.C., per un certo
periodo capitale del primo grande impero mesopotamico. Scritta in caratteri logografici cuneiformi
(si veda la sezione sulla scrittura), derivati da quelli usati per il sumerico. Le due varietà principali
(“dialetti”) sono l’assiro e il babilonese. L’accadico babilonese è la lingua franca dell’Antico
Oriente nel secondo millennio a.C. Nelle sue due varietà, l’accadico è la grande lingua di cultura
della Mesopotamia per circa duemila anni (le ultime tavolette cuneiformi risalgono al primo secolo
d.C.).
b) Eblaita: la lingua degli archivi cuneiformi trovati a Tell Mardikh in Siria, l’antica Ebla, risalenti
a circa il 2400 a.C. Ebla fu distrutta dall’impero di Akkad. La collocazione dell’eblaita nel semitico
nord-orientale non è accettata da tutti; alcune caratteristiche sembrano collegarlo al semitico
occidentale. Tuttavia la struttura generale è più vicina all’accadico. C’è qualche ragione (legata
soprattutto ai nomi propri) di ritenere che l’eblaita fosse la lingua scritta di Ebla, ma non quella
parlata, e possa aver avuto diffusione in parti della Mesopotamia, ad esempio a Mari sull’Eufrate.
2) Semitico Occidentale:
a) Semitico d’Etiopia (o Afro-Semitico o Etiosemitico): popolazioni di lingua semitica si
stabiliscono nel Corno d’Africa dal sud della penisola araba nel corso del I millennio a.C.,
occupando gran parte degli altopiani delle attuali Eritrea ed Etiopia. Il semitico d’Etiopia si diffonde
su un substrato cuscitico (quasi certamente centrale) e si distingue nettamente in due branche
primarie:
1. Settentrionale:
a. Ge’ez (Etiopico): la lingua classica e liturgica della letteratura dell’antico regno di
Aksum e dell’Etiopia cristiana medievale. Documentata da iscrizioni in grafia sud-
arabica e da manoscritti medievali in un alfasillabario derivato da questa. Rimane la
lingua di cultura dominante in Etiopia fino al XIX secolo. Attualmente usata solo
come lingua liturgica. Da essa, o da varietà parlate estremamente simili, derivano il
tigré e il tigrino.
b. Tigré: parlata, in diverse varietà, da alcune popolazioni in prevalenza musulmane nel
nord dell’Eritrea. Pur essendo la lingua veicolare di questa regione (dove sono
presenti anche lingue cuscitiche e nilo-sahariane) non possiede una tradizione scritta
fino a tempi molto recenti.
c. Dahalik: lingua affine al Tigré (e in passato considerata una sua varietà), parlata da
un piccolo numero di persone nelle isole Dahlak nel Mar Rosso, in Eritrea (Simeone-
Senelle 2005). Presenta influssi, specialmente fonologici, dell’arabo, lingua scritta
dell’arcipelago. Non risulta una letteratura scritta.
d. Tigrino: lingua ufficiale dell’Eritrea assieme all’arabo, e lingua della regione del
Tigray in Etiopia. Possiede una ricca letteratura moderna, scritta in una variante
dell’alfasillabario etiopico.
2. Meridionale:
a. Trasversale:
i. Amharico: la lingua parlata storicamente dominante in Etiopia (in particolare
tra i cristiani), documentata a partire dal XIV secolo, con una letteratura
moderna a stampa dal XIX. Scritta in una versione lievemente modificata
dell’alfasillabario etiopico. È parlata in tutta la parte centrale dell’altopiano
etiopico. Strettamente imparentata è l’Argobba, che possiede una modesta
letteratura ma è attualmente in declino.
ii. Hararino: la lingua della città di Harar nell’Etiopia orientale,
tradizionalmente centro dell’Islam nel Corno d’Africa. Documentata da
manoscritti in caratteri arabi nel XVI secolo e da una letteratura moderna, in
una varietà linguistica piuttosto diversa solitamente scritta con l’alfasillabario
etiopico. Probabilmente rappresenta, assieme al Gurage orientale quanto
rimane di una più ampia area linguistica semitica poi ritrattasi alla fine del
Medioevo per l’arrivo di Somali e Oromo, di lingua cuscitica.
iii. Gurage orientale: con il nome di Gurage si indicavano tradizionalmente
diverse lingue semitiche parlate in varie zone dell’altopiano etiopico centro-
meridionale. In realtà le lingue raccolte sotto l’etichetta di Gurage non
risultano strettamente imparentate tra loro. Il Gurage orientale, la cui varietà
più importante è il Silt’e, è strettamente connesso con lo Hararino, mentre le
altre varietà in passato indicate come Gurage rappresentano, assieme al
Gafat, un diverso raggruppamento dell’etiosemitico meridionale. Nessuna
varietà di Gurage possiede una significativa documentazione scritta prima del
diciannovesimo secolo. Attualmente si scrivono con l’alfasillabario etiopico
modificato.
b. Esterno: i. Gafat: una lingua estinta usata nel Gojjam, (Etiopia centro-settrentionale) di
cui sopravvive una limitata letteratura religiosa risalente al diciassettesimo
secolo.
ii. Gurage Settentrionale (Soddo): il Soddo sembra mostrare una stretta
parentela con il Gafat.
iii. Gurage Occidentale: una serie di varietà linguistiche imparentate tra loro, in
isole linguistiche nel sud dell’altopiano etiopico, in area linguistica
prevalentemente cuscitica. Costituiscono l’estremità sud-occidentale dell’area
linguistica semitica.
Distribuzione approssimativa dei gruppi linguistici in Etiopia e Eritrea
b) Sud-arabico moderno: Con questo nome geografico si indicano le lingue semitiche parlate, in
prevalenza da seminomadi e pescatori in alcune regioni del sud della penisola araba, sulla costa
arida tra Yemen ed Oman e nelle isole vicine, che non sono direttamente connesse all’arabo.
Contrariamente a quanto si è pensato a lungo (e si può ancora trovare nei manuali più datati) queste
lingue non sono attualmente ritenute la continuazione dal sud arabico epigrafico (Sayhadico; si veda
sotto) documentato nelle iscrizioni antiche: l’area del sud-arabico moderno si trova perlopiù a nord-
est di quella dove sono attestate iscrizioni Sayhadiche, anche se c’è una parziale sovrapposizione (si
veda sotto). Alcune brevi iscrizioni in quello che sembra essere una derivazione dell’alfabeto sud-
arabico sono state individuate nella regione in cui si parlano oggi forme di sud-arabico moderno; è
possibile che ne documentino una forma antica (non sono in una forma di Sayhadico) ma non sono
state finora interpretate in modo soddisfacente. Sono documentate a partire dalla fine dell’Ottocento
sei lingue sud-arabiche moderne, per un probabile totale di poco più di 200.000 parlanti. Esiste una
ricca letteratura orale, trascritta da studiosi moderni, ma nessuna lingua sud-arabica moderna
possiede una rilevante letteratura scritta. Nell’uso formale e pubblico, la maggior parte dei parlanti
sud-arabico moderno fa ricorso all’arabo. Il sudarabico moderno è considerato una forma
particolarmente conservativa di semitico, in particolare nella fonologia. Vi sono diverse isoglosse in
comune con l’etiosemitico, che potrebbero rappresentare il mantenimento condiviso di caratteri
antichi, o giustificare un raggruppamento “semitico meridionale” (che escluderebbe però, a
differenza di quello tradizionale, l’arabo e probabilmente il sayhadico).
1. Il Mehri è la lingua più diffusa e importante è, diffusa nello Yemen orientale e nelle aree
confinanti dell’Oman, con 100.000/150.000 parlanti circa. Presenta marcate differenziazioni
dialettali.
2. Strettamente imparentato col Mehri è lo Harsusi, parlato da una piccola popolazione
nomadica nei deserti centrali dello Oman
3. Affine al Mehri è anche il Bathari, parlato in alcuni villaggi del Dhofar, nell’Oman.
4. Lo Hobyot, parlato da poche centinaia di parlanti, sembra rappresentare una varietà che
condivide caratteristiche sia col Mehri che con il
5. Jibbali (in passato chiamato Shehri o in altri modi) diffuso nel Dhofar, con circa 20.000
parlanti.
6. Il Soqotri è parlato nell’isola di Socotra e nelle isolette vicine, con circa 50/60.000 parlanti.
Presenta anch’esso una significativa differenziazione in dialetti.
c) Semitico Centrale:
1. Semitico Nord-Occidentale:
a. Amorreo: Si sa poco della lingua degli Amorrei, un gruppo di popolazioni semi-
nomadi della media valle dell’Eufrate che attorno al 2000 a.C. si diffonde in gran
parte della Mezzaluna Fertile. La lingua è attestata quasi unicamente da nomi propri
in testi in altre lingue come l’accadico. Molti di questi nomi sono però brevi frasi
(Samsu-iluna, “Il Sole è il nostro Dio”) che permettono di ricostruire alcuni aspetti
della grammatica.
b. Ugaritico: La città di Ugarit, oggi Ras Shamra sulla costa della Siria, era un centro
commerciale importante nella tarda età del Bronzo, tra 1500 e 1200 a.C. Dipendente
dai grandi imperi dell’epoca (prima l’Egitto, poi lo stato Hittita) forniva loro una
interfaccia col mondo del commercio mediterraneo, allora dominato dai Micenei (un
ruolo simile, anche se con maggiore autonomia, sarà assunto dalle città fenicie
nell’età del Ferro). La scoperta degli archivi di Ugarit negli anni Trenta ha
modificato profondamente la conoscenza sia della storia dell’Antico Oriente che
della filologia semitica. I testi di Ugarit sono redatti in una scrittura consonantica
cuneiforme (con due varietà diverse), che rivela tuttavia una relazione con quello, a
base geroglifica, chiamato “lineare” o “proto-cananaico”, che si ritiene derivato da
quello proto-sinaitico e a sua volta all’origine di quelli fenicio e sud-arabico (come
discusso nella parte III del corso). Linguisticamente le tavolette di Ugarit offrono
una documentazione archivistica e letteraria ricchissima, che permette di
documentare dettagliatamente questa fase antica del semitico nord-occidentale.
L’ugaritico sembra presentare caratteri “arcaici” rispetto al cananaico (la cui
documentazione per quest’epoca è scarsa) ma in parte questo potrebbe dipendere
dalla maggiore esattezza con cui la scrittura ugaritica nota alcune differenze
fonologiche.
c. Cananaico: Il Cananaico è l’insieme delle varietà linguistiche semitiche,
strettamente imparentate tra loro, parlate in Siria meridionale e Palestina nel secondo
e in buona parte del primo millennio a.C.
Le attestazioni più antiche, decifrate solo di recente, risalgono però al terzo millennio
a.C: si tratta di alcune righe nei testi magici sulle pareti della piramide egizia di Unas
(verso il 2500 a.C.), scritte dunque in caratteri geroglifici egizi. Purtroppo si tratta di
una documentazione di consistenza minima, che non consente una conoscenza
approfondita del cananaico in questa fase. Sempre dall’Egitto provengono:
i. le iscrizioni “proto-sinaitiche” e l’iscrizione trovata a Wadi el-Hol (c.a. 1900
a.C.) nel medio Egitto, che sembrano documentare una tendenza ad utilizzare
forme semplificate dei geroglifici egizi per scrivere una lingua semitica con
una scrittura consonantica. La grande brevità dei testi, la difettività della
scrittura e le difficoltà di lettura rendono l’attribuzione di questi testi al
cananaico non del tutto certa.
ii. brevi testi in cananaico all’interno delle lettere (scritte in babilonese con
caratteri cuneiformi) trovate nell’archivio diplomatico di Tell el-Amarna
(attorno al 1330 a.C.). Questi testi sono importanti perché, grazie alla
scrittura logosillabica del cuneiforme, permettono una parziale ricostruzione
del vocalismo antico.
La documentazione cananaica, in alfabeti consonantici di elaborazione locale,
diventa più cospicua sul finire del secondo millennio a.C. (prima età del Ferro) e nel
corso del primo, consentendo di individuare diverse varietà differenziate, anche se
probabilmente mutualmente comprensibili (è dunque difficile, e in un certo senso
arbitrario, dire se fenicio ed ebraico siano due “dialetti” della stessa lingua o due
“lingue” strettamente imparentate tra loro). Alcune brevi iscrizioni risalenti al 1200-
1000 a.C. trovate in Palestina, (la più importante è il cosiddetto “calendario di
Gezer”) documentano una forma di cananaico che molti studiosi definiscono “proto-
ebraico”.
Il fenicio, è attestato da numerose iscrizioni sulle coste siriane, libanesi e cipriote
dopo il 1100 a.C., e si è diffuse verso ovest attraverso il Mediterraneo al seguito del
movimento di colonizzazione delle città fenicie, in particolare sulle coste del
Nordafrica, della Sicilia, della Sardegna e della penisola iberica nel primo millennio
a.C.; una forma di semitico derivata dal fenicio, il punico, documentato da numerose
iscrizioni sia in alfabeto fenicio che in alfabeto latino, era ancora parlato in parti
delle attuali Algeria e Tunisia all’epoca di Sant’Agostino (IV secolo d.C.). Inoltre,
alcune frasi in punico sono riportate, in caratteri latini e quindi con le vocali, nel
Poenulus di Plauto.
L’ebraico è il gruppo di varietà storicamente più importante e meglio documentata
del cananaico, grazie all’Antico Testamento, quasi interamente redatto in questa
lingua (solo poche parti sono in aramaico o in greco). L’ebraico antico (di epoca
biblica se non pre-biblica) è inoltre attestato da un certo numero di iscrizioni trovate
nel corso delle dettagliate esplorazioni archeologiche dell’area palestinese, che lo
stato di Israele ha attivamente promosso, e da vari testi non confluiti nel canone
biblico. L’ebraico cessa di essere usato come madrelingua parlata dagli Ebrei al più
tardi in epoca romana, ma probabilmente in buona misura già all’epoca della
cattività babilonese nel sesto secolo a.C; era quindi forse già solo lingua scritta
all’epoca in cui viene redatta buona parte del corpus biblico, che si ritiene risalire in
gran parte al periodo tra il 600 e il 200 a.C. (alcuni testi biblici sono certamente più
antichi, e i libri dei Maccabei, tra gli altri, ovviamente più recenti). Rimane tuttavia
in uso come lingua scritta, indissolubilmente legata alla religione. Nell’alto
Medioevo, tra settimo e decimo secolo d.C., si ha una radicale sistematizzazione del
corpus testuale biblico, che viene vocalizzato da studiosi ebrei basandosi sulle
tradizioni di recitazione orale dei testi. Su impulso dello sviluppo della grammatica
araba, anche quella ebraica viene codificata, e l’ebraico ha un grande sviluppo come
lingua di cultura, in cui sono scritti o tradotti dall’arabo testi poetici, filosofici ecc…
In età moderna l’ebraico rinasce come madrelingua parlata grazie agli sforzi del
movimento sionista. Si tratta di un caso quasi unico di rinascita di una lingua che
esisteva solo in tradizione scritta, grazie all’impegno deliberato di una comunità
politica e, in seguito, di uno stato. L’ebraico moderno risente fortemente, nella
pronuncia e nella sintassi, del background linguistico dei suoi “creatori”, in
maggioranza ebrei provenienti dall’Europa orientale di madrelingua yiddish,
polacca, tedesca o russa, e ha così perso alcuni elementi tipicamente “semitici” come
la pronuncia “enfatica” di alcune consonanti. Attualmente l’ebraico è parlato da circa
sei milioni di cittadini di Israele, di cui è lingua ufficiale assieme all’arabo.
Ad est del Giordano sono documentate alcune varietà di cananaico molto vicine
all’ebraico: il moabita è documentato principalmente da una stele, detta stele di
Mesha, risalente al nono secolo a.C. La sua importanza non è dovuta solo alla
documentazione di una varietà linguistica di cananaico meridionale altrimenti nota
solo da pochi frammenti, ma anche al suo contenuto: essa infatti riferisce, dal punto
di vista dei Moabiti, alcuni episodi a cui la Bibbia fa riferimento invece nella
prospettiva degli Ebrei, all’epoca loro nemici. Ad esso sono associate le varietà di
cananaico usate dagli Ammoniti (nell’attuale Giordania) e dagli Edomiti (nel Negev
in Israele) sono poco note e attestate su un piccolo numero di iscrizioni
frammentarie, scoperte negli ultimi decenni. Queste tre varietà sono
convenzionalmente indicate come “corpora della Transgiordania”, assieme
all’iscrizione di Deir Alla (vedi sotto).
d. Aramaico:
i. Aramaico antico: le popolazioni parlanti aramaico, hanno probabilmente origine
nella steppa siriana e si insediano nella Mezzaluna Fertile nel corso dell’età del
Ferro, dando vita a regni (il più importante dei quali ha per capitale Damasco) che
verranno poi assorbiti dall’impero assiro tra l’800 e il 700 a.C. Alcuni di questi regni
hanno lasciato iscrizioni documentate. La politica assira di deportazioni, e quella del
successivo impero neo-babilonese renderà l’aramaico la lingua parlata più diffusa
nella regione. Fin dall’inizio l’aramaico, parlato da popolazioni pastorali diffuse su
una vasta area, si mostra differenziato in diverse varietà; la varietà linguistica
definita dagli studiosi “ya’udico”, (a Zincirli nel sud della Turchia), e quella “di
Deir Alla”, entrambe documentate da una sola iscrizione, sembrano mostrare alcune
caratteristiche tipiche dell’aramaico, ma non altre e possono considerate “ai margini”
dell’area linguistica aramaica. Il tardo impero assiro, quello neo-babilonese e quello
persiano impiegano una forma codificata di aramaico, l’aramaico d’impero insieme
all’accadico, come lingua ufficiale dell’amministrazione nei territori della
Mezzaluna fertile e altrove (testi amministrativi in aramaico dell’epoca persiana sono
stati trovati in Afghanistan e si pensa che dalla scrittura aramaica possano derivare
gli alfabeti indiani). L’aramaico diventa dunque, nelle sue numerose varietà, la
principale lingua veicolare e di cultura del Vicino oriente per oltre un millennio,
anche se viene eclissato dal greco in epoca ellenistica e romana.
ii. “Aramaico medio”: La diversificazione delle varietà scritte di aramaico permette di
distinguere due raggruppamenti principali, l’aramaico orientale e quello
occidentale, rispettivamente grosso modo ad est e ad ovest dell’Eufrate. C’è
disaccordo se queste varietà di epoca romana vadano considerate come Tardo
Aramaico d’Impero o Aramaico Medio.
L’aramaico affianca inoltre l’ebraico come lingua degli Ebrei anche nella produzione
scritta, nelle varietà, piuttosto diversificate, raggruppabili con l’etichetta di aramaico
giudaico (samaritano, la lingua dei Talmud, quella delle parti in aramaico della
Bibbia, etc.). In epoca romana, alcuni Stati vicino-orientali adottano l’aramaico come
lingua ufficiale, marcando una identità propria, pur mantenendo in genere relazioni
cordiali con le potenze imperiali di Roma e della Partia. Sono così molto ben
documentate in iscrizioni, tra il II secolo a.C. e il III-IV d.C. tre varietà distinte (con
alfabeti graficamente molto diversi): 1) il palmireno, un dialetto aramaico
occidentale è impiegato nel deserto siriano intorno alla città/oasi di Palmira e nella
vicina Dura Europos sull’Eufrate, con attestazioni sparse in tutto l’Impero Romano
di cui Palmira era una dipendenza (anche in Britannia) fino al tardo III secolo d.C. 2)
il nabateo, anch’esso una varietà occidentale è la lingua di prestigio del regno
dell’omonima tribù, con capitale a Petra, che si estendeva tra il nord dello Hijaz,
gran parte della Giordania, il Sinai e il sud della Siria fino alla conquista romana nel
107 d.C.; la lingua rimane in uso dopo la conquista romana come forma locale di
prestigio (accanto al greco), e il sistema di scrittura verrà in seguito adottato con
modifiche per scrivere l’arabo; in alcune iscrizioni, appaiono nomi di persona e usi
linguistici nord-arabici o arabi; è oggetto di discussione se la lingua parlata dai
Nabatei fosse l’aramaico che scrivevano o, come pensano diversi studiosi, una
varietà araba o nord-arabica. 3) lo hatreno, una varietà aramaica orientale in uso
nella città e nel regno di Hatra, una dipendenza dell’impero partico nella
Mesopotamia settentrionale. Una quarta varietà di aramaico epigrafico, meno
documentata, è l’antico siriaco della regione di Edessa.
iii. Aramaico “tardo”: Col Cristianesimo, a partire dal II-III secolo d.C., si affermano
delle letterature religiose cristiane in diverse forme di aramaico “medio”. Queste
varietà sono classificate da alcuni autori come “aramaico medio” e da altri come
“aramaico tardo”. La più importante è il siriaco, forma letteraria assunta
dall’aramaico orientale parlato ad Edessa (oggi Urfa in Turchia) che diventerà la
lingua liturgica delle grandi chiese siro-ortodossa e nestoriana del Vicino Oriente e si
diffonderà, grazie alla loro attività missionaria, fino all’India e al nord-ovest della
Cina, dove è stata trovata una iscrizione bilingue in siriaco e cinese dell’ottavo
secolo d.C. Un’altra varietà aramaica orientale ben documentata è il mandaico, la
lingua dei testi religiosi dei Mandei (III-VI secolo d.C.) I Mandei sono una comunità
religiosa monoteista, nelle cui credenze entrano numerosi elementi gnostici,
caratterizzata da una speciale venerazione per San Giovanni battista. Comunità
mandee esistono ancora in Iraq.
iv. Aramaico moderno: L’aramaico declina gradualmente come lingua parlata in
seguito alle conquiste arabe del settimo secolo. Il siriaco e l’aramaico giudaico
rimangono uso come lingue letterarie e liturgiche delle rispettive comunità religiose,
mentre in gran parte della Mezzaluna fertile le varie forme di arabo parlato lo
rimpiazzano come madrelingua, con un processo simile a quello con l’aramaico
stesso aveva sostituito il cananaico e l’accadico oltre un millennio prima (ma senza
deportazioni). Tuttavia, alcune forme moderne, le lingue neo-aramaiche, sono
tuttora parlate dalle comunità cristiane (i cosiddetti Assiri) ed ebraiche del Kurdistan,
dai Mandei, e in alcune località della Siria. Le lingue neo-aramaiche orientali che
possiedono una tradizione letteraria (a partire dal diciottesimo secolo, in alfabeti
derivati da quello siriaco o da quello latino) sono il neo-mandaico, la lingua
Turoyo, e le varietà neo-aramaiche nord-orientali o Suret: il neo-aramaico caldeo e
il neo-aramaico assiro (basato sul dialetto dei cristiani di Urmia in Iran). Esistono
numerose altre varietà locali, giudaiche o cristiane, di neo-aramaico nord-orientale,
non sempre intelligibili tra loro, alcune con poche centinaia di parlanti. Queste lingue
riflettono una forte influenza del circostante ambiente linguistico, arabo, kurdo,
turco, armeno, in qualche caso georgiano, che le porta a differenziarsi in modo
marcato dalle altre lingue semitiche, in particolare nel sistema verbale.
Il neo-aramaico occidentale è parlato a Ma’lula in Siria e in alcune località vicine, in
prevalenza ma non esclusivamente dalla popolazione cristiana. Nel corso del
Novecento, i conflitti medio-orientali hanno colpito duramente molte delle comunità
linguistiche neo-aramaiche, che al momento in cui scrivo sono obiettivo specifico di
violenza nelle guerre civili siriana e irachena. Di conseguenza, attualmente i neo-
aramaici sono parlati e stampati spesso da comunità in diaspora stabilite in Europa,
negli Stati Uniti, in Libano, in Israele (per le comunità ebraiche) in America Latina e
altrove.
2. Arabico:
a. Arabo: si veda la sezione 4.
b. Nordarabico: la parte centrale e settentrionale della penisola araba ospita, nel corso
dell’età del ferro, diverse società urbane, nomadiche o semi-nomadiche, impegnate
nel commercio a lunga distanza ed evidentemente in possesso di scrittura. Circa
dall’VIII secolo a.C., fino al IV d.C. è attestato un corpus di decine di migliaia di
brevi iscrizioni che ci testimoniano le varietà linguistiche usate da questi gruppi. La
grande maggioranza di queste iscrizioni sono estremamente brevi, consistendo anche
solo di nomi propri, rendendo problematica una conoscenza precisa delle forme
linguistiche, che comunque sono da considerare molto simili.
La grande maggioranza delle iscrizioni in questione sono in un alfabeto
originariamente simile, ma non identico, a quello sud-arabico (con qualche
differenza nel numero delle lettere, anche tra le diverse varietà). La lingua si
distingue dal Sayhadico e dall’aramaico sul piano morfologico e fonologico, ed è
affine all’arabo classico per molti aspetti. Rispetto all’arabo, la differenza più
evidente (anche se attestata poveramente in alcuni gruppi di iscrizioni) è l’articolo
determinativo h(n) (la n finale appare solo in alcuni contesti fonetici e in alcune
varietà) anziché al.
Esistono numerose varietà di nord-arabico, probabilmente mutualmente
comprensibili, ma comunque diverse. La ricerca in questo ambito è ancora aperta;
alcune varietà principali sono riconosciute primariamente sulla base del tipo di
scrittura (che varia molto), e associate convenzionalmente con le aree dei primi o
maggiori ritrovamenti. Va sottolineato come questa ripartizione (basata perlopiù sul
lavoro di Michael Macdonald) sia convenzionale e in parte arbitraria, comunque non
basata su criteri unicamente linguistici, e probabilmente provvisoria.
i. Taymanitico: è usato per indicare la scrittura e il dialetto di alcune centinaia
di iscrizioni, quasi tutti graffiti su rocce, ritrovate nella regione dell’oasi di
Tayma’ nello Hijaz settentrionale, almeno a partire dal VII secolo a.C. Una
iscrizione proveniente dalla città neo-ittita di Karkemish la scrittura
“taimaniti” verso l’800 a.C., e probabilmente è da intendersi come riferita a
questa forma. Tayma’ doveva essere un centro carovaniero molto importante
nella tarda età del Ferro; per alcuni anni a metà del VI secolo a.C., il re
babilonese Nabonedo ne fece la sua capitale. In seguito a questa presenza
babilonese l’oasi adottò anche l’aramaico come lingua scritta.
ii. Dadanitico: usato nello Hijaz settentrionale, attorno all’oasi di al-Ulà,
anticamente chiamata Dadan (Dedan in ebraico); in passato si usava
distinguere la sua fase più antica, chiamata “Dedanico”, da una più recente
associata con il regno tribale di Lihyan, chiamata quindi “lihyanitico”;
attualmente sono ritenuti sviluppi successivi della stessa scrittura. Alcune
delle più lunghe iscrizioni nordarabiche sono in questa varietà. La
documentazione, di parecchie centinaia di testi, va all’incirca dal VII al I
secolo a.C., quando l’area entra nella sfera linguistica e politica dei Nabatei.
iii. Dumaico: la scrittura e la varietà linguistica dell’oasi di Duma (oggi al-Jawf,
nell’ estremo nord dell’Arabia Saudita sulla carovaniera tra Hijaz e
Mesopotamia) documentata da pochissime iscrizioni.
Questi primi tre tipi riflettono forme linguistiche e grafiche affini e sono
classificati, assieme ad alcune iscrizioni trovate in Mesopotamia e in passato
chiamate impropriamente “caldee” (da attribuire ai contatti commerciali e
politici costanti tra quest’area e la Mesopotamia), come “Nordarabico delle
oasi”.
iv. Safaitico: è il nome convenzionale moderno per una grande quantità di
iscrizioni (oltre trentamila note, qualcuno ha ipotizzato possa esisterne un
milione), quasi tutte molto brevi, trovate perlopiù in una regione compresa tra
Siria, Arabia Saudita e Giordania nei pressi dell’altopiano lavico chiamato
Safa’, databili perlopiù tra il I secolo a.C. e il IV d.C.
v. “Thamudico”: anche questa categoria, basata su associazione del tutto
arbitraria con la tribù araba preislamica dei Thamud, citata anche nel Corano,
è fortemente convenzionale. Copre oltre diecimila iscrizioni, molto brevi,
trovate in tutta la metà occidentale della penisola araba, e presenta una
grande varietà ed irregolarità di forme delle lettere e una considerevole
profondità temporale (circa dal VI secolo a.C. al III d.C.) e geografica (dalla
Siria allo Yemen). Va considerato una classificazione di comodo che non
indica un gruppo coerente di forme grafiche o linguistiche.
vi. Hismaico: la lingua e la scrittura usate nella regione desertica di Hisma, tra
Hijaz e Giordania, all’incirca a cavallo dell’era cristiana. Tradizionalmente
classificato all’interno del Thamudico, presenta sufficienti caratteri linguistici
ed epigrafici per essere considerato un gruppo autonomo.
vii. Haseo o Hasaitico o Hagarico: si riferisce a poche decine di iscrizioni
funerarie, provenienti dalla costa del Golfo Persico, scritte in alfabeto sabeo
ma in una lingua che con ogni probabilità è una forma di nord-arabico. E’
comunque in parte separato dal resto nord-arabico sul piano geografico,
epigrafico e, probabilmente, linguistico da alcune caratteristiche proprie.
3. Sayhadico (o Sudarabico Epigrafico): E’ l’insieme di varietà linguistiche, strettamente
imparentate ma distinguibili, attestate dalla quasi totalità delle iscrizioni sud-arabiche,
ritrovate nell’attuale Yemen e nelle regioni vicine dell’Arabia Saudita e dell’Oman. Testi
scritti sono attestati dal X secolo a.C. (o forse dal XII) fino al VI secolo d.C. La
documentazione è di due tipi: una vasta documentazione di iscrizioni in una scrittura sud-
arabica “monumentale” (musnad), quasi tutte su pietra, e una un certo numero di iscrizioni
di natura privata (lettere, contratti), in una scrittura leggermente diversa chiamata “corsiva”
(zabur) incise su legno, steli di palma ec… Inoltre sono state trovate poche iscrizioni su
ceramica e altri materiali. Questo secondo tipo di materiale è noto solo da pochi decenni e di
difficile decifrazione. L’importanza dell’attività commerciale degli stati sud-arabici ha fatto
sì che si conoscano iscrizioni al di fuori dell’area sud-arabica (in Mesopotamia, altre parti
dell’Arabia, Corno d’Africa, ecc.; una è stata trovata nell’isola greca di Delo).
L’appartenenza del Sayhadico al gruppo semitico centrale non è universalmente
riconosciuta: diversi studiosi continuano a ritenere più significativi i collegamenti con
l’etiosemitico o col sud-arabico moderno, e considerare quindi plausibile un
raggruppamento “semitico meridionale” (per quanto non più comprendente l’arabo).
Si riconoscono quattro varietà Sayhadiche principali:
a. Madhabico: in passato chiamato più spesso Mineo perché documentato soprattutto
nell’antico regno di Ma’in, è però attestato anche nei centri della valle del Wadi
Madhab (Jawf), nello Yemen settentrionale, che facevano parte di altri stati. Si ritiene
che la tribù di Ma’in possa aver adottato il madhabico come lingua scritta pur
parlando una forma diversa di semitico, non direttamente documentata in modo
certo.
b. Sabeo: è la varietà meglio attestata e culturalmente dominante. Lingua ufficiale del
regno di Saba dall’VIII secolo a.C., è la principale lingua scritta di cultura di tutto lo
spazio culturale sud-arabico, tanto da essere impiegata per le iscrizioni monumentali
del regno di Himyar (circa II secolo a.C.- V secolo d.C.), anche se sappiamo che gli
Himyariti parlavano una lingua diversa.
c. Qatabanico: la lingua del regno di Qataban, documentata soprattutto in iscrizioni
monumentali della seconda metà del primo millennio.
d. Hadramutico: la lingua del regno di Hadramawt, attestata nella parte orientale dello
Yemen e nelle regioni confinanti dell’Oman. Alcune caratteristiche sembrano in
comune con il sudarabico moderno, e in generale presenta alcune differenze rispetto
alle altre varietà di Sayhadico. Si potrebbe immaginare, in analogia all’uso del
madhabico da parte dei Minei e del sabeo da parte degli Himyariti, che la lingua
parlata nello Hadramawt fosse una forma antica del sudarabico moderno, diversa
dallo Hadramutico scritto. Tuttavia, al momento non esiste nessuna evidenza che
dimostri questa ipotesi.
Sempre in area sud-arabica si hanno indicazioni per la presenza di lingue semitiche non
sayhadiche, come quella dell’iscrizione di Qāniya, che potrebbe rappresentare una
attestazione dello Himyarita, altrimenti noto solo per via indiretta (nei cenni forniti
dall’autore yemenita al-Hamdani, che scrive in epoca abbaside). La scarsità della
documentazione rende difficile definire una attribuzione chiara di queste varietà
linguistiche; è ragionevole supporre che vadano classificate come lingue semitiche centrali.
In particolare, le poche informazioni fornite dagli autori arabi successivi sullo Himyarita
fanno pensare ad una forma linguistica più vicina all’arabo classico che alle lingue
sayhadiche.
L’area di sviluppo della civiltà sud-arabica con i principali siti noti, da Hoyland 2001.
Alberi e onde
Diversi autori hanno proposto di abbandonare l’intera idea di classificazione genealogica interna al
gruppo semitico schematizzata qui sopra, per vedere invece nel semitico (se non nell’afro-asiatico)
una successione di “onde” linguisticamente innovative che si diffondono da un nucleo centrale
presumibilmente nella steppa della Siria interna. Questo punto di vista, proposto in particolare da
Giovanni Garbini, non è inconciliabile con l’idea di un “semitico centrale”, ma ne vede in modo
diverso la “centralità”: non puramente geografica ma storica, come “area innovativa” sul piano
linguistico, e connessa a società di tipo nomadico (o comunque più mobile) che da un centro
d’irradiazione nell’area della steppa interna siriana (punto d’origine delle migrazioni amorree ed
aramaiche) diffonde innovazioni linguistiche su vari spazi vicini (non esclusivamente, nella visione
di Garbini, su quelli linguisticamente semitici, come detto sopra).
In realtà, come detto sopra, i modelli “ad albero” e “ad onde” di diffusione di caratteri linguistici,
specie in un’area geografica come il Medio Oriente caratterizzata da una vasta e continua
interazione interna documentata per millenni, sono da vedere come complementari e non esclusivi.
La posizione dell'arabo nel semitico
Il modello ad albero tradizionale e quello di Hetzron differiscono principalmente per la
classificazione dell’arabo (incluso il nord-arabico); nelle versioni modificate del modello di
Hetzron, questo vale anche per il Sayhadico, che non va però per questo raggruppato assieme ad
arabo e nord-arabico.
L’arabo ha a lungo rappresentato un problema per i semitisti, a causa della sua posizione centrale a
livello sia geografico che di documentazione. Diverse caratteristiche dell’arabo appaiono “arcaiche”
o perlomeno conservative (ad esempio il sistema di casi e, in parte, i plurali fratti) e in effetti i primi
tentativi di ricostruzione del proto-semitico ne facevano una lingua estremamente simile all’arabo
classico. Inoltre nello schema tradizionale, l’arabo sembrava presentare caratteristiche comuni sia al
“semitico meridionale” che al “semitico nord-occidentale”.
Una migliore comprensione delle relazioni tra le lingue semitiche, l’arricchimento della
documentazione (in particolare di quella sud-arabica moderna, sayhadica ed etiosemitica) e il
raffinamento delle metodologie di analisi linguistica hanno portato una profonda revisione di questa
immagine. L’arabo è una lingua semitica centrale, ma, anche per prossimità geografica, condivide
con il “semitico meridionale” (etiopico e in misura minore sud-arabico moderno) alcuni caratteri
“conservativi” ereditati dal proto-semitico, che si sono persi in altre lingue. Questo contribuirebbe a
spiegare la compresenza di caratteristiche “arcaiche” e di altre più innovative.
Sezione 4
L'arabo
L’arabo pre-islamico
La penisola araba prima dell’Islam presenta un panorama linguistico piuttosto variegato. Una
qualche documentazione scritta è disponibile per quasi tutte le zone della penisola dall’inizio del I
millennio a.C., (l’Oman è la principale eccezione; l’area sembra essere stata nella sfera d’influenza
politica e culturale della Mesopotamia e dell’Iran, e la pochissima documentazione scritta che vi è
stata trovata finora riflette le lingue di queste aree), ma varia molto per quantità e qualità.
In base alla documentazione attualmente disponibile, tre gruppi di varietà linguistiche semitiche
centrali, ben distinti tra loro, sembrano dominare: il Sayhadico, il Nord-Arabico e, ai confini con la
Mezzaluna fertile verso nord, l’aramaico (specie nella sua variante nabatea). L’antenato delle lingue
sudarabiche moderne probabilmente era già parlato nel Dhofar e nelle aree vicine (e forse in altre
parti dell’attuale Oman), ma non ne esiste documentazione accertata.
L’arabo antico (distinto dal nord-arabico) è molto poco documentato in epoca pre-islamica: le
iscrizioni che lo attestano con certezza sono all’incirca una dozzina, anche se nel momento in cui
scrivo nuove scoperte vanno modificando il quadro, in particolare nella parte meridionale
dell’odierna Arabia Saudita. La caratteristica distintiva fondamentale dell’arabo, nelle iscrizioni, è
l’articolo determinativo alif+lam. Questo appare in nomi propri, attestati anche in epoca molto
antica, all’interno di iscrizioni in lingue diverse.
La prima attestazione è solitamente considerata quella del nome della divinità “Alilat” (da
interpretarsi come una variante antica di al-Lāt, “la Dea”) venerata dagli “Arabi” secondo Erodoto
(quindi risalente al V secolo a.C.).
E’ importante ricordare che la penisola araba è area di antica e diffusa alfabetizzazione per oltre un
millennio e mezzo prima dell’Islam. La grande maggioranza delle iscrizioni pervenuteci sono molto
povere di elementi linguistici – spesso consistono di una sola frase, a volte formulare – ma il loro
numero, nell’ordine delle decine di migliaia, non lascia dubbi sul fatto che la scrittura alfabetica
fosse di uso corrente tra le popolazioni della penisola, sia nomadi che sedentarie.
Le origini della lingua araba, per come è documentata in epoca islamica, presentano serie difficoltà
agli studiosi. In un contesto, come quello dell’Arabia preislamica, in cui è documentata una
significativa e antica presenza della scrittura, le fasi più antiche dell’arabo appaiono molto
poveramente documentate. L’arabo sembra essere rimasto una lingua essenzialmente parlata, senza
una tradizione scritta di rilievo, fino al IV-V secolo d.C.; tuttavia, anche in seguito, e fino ai primi
decenni dopo l’Egira, la documentazione scritta resta limitata ad un piccolissimo numero di
iscrizioni.
Si può ancora trovare riportato che l’iscrizione detta di Nemāra o di Imru al-Qays, trovata nel sud
della Siria e datata al 328 d.C., sia il primo documento dell’arabo, come è stato ritenuto a lungo.
Negli ultimi decenni sono state trovate documentazioni più antiche; l’iscrizione di En Avdat nel
Negev, scoperta negli anni Ottanta, include due righe poetiche in arabo (il resto del testo è in
aramaico nabateo), e si pensa che possa risalire al I o al II secolo d.C.; a Qaryat al-Faw nell’Arabia
Saudita meridionale l’iscrizione funeraria detta “di ‘Igl bin Haf’am” (nome del committente,
fratello del defunto), scoperta alla fine degli anni Settanta, ha pure importanti elementi linguistici
arabi, incluso l’articolo al (scritto l). Alcuni studiosi chiamano la varietà linguistica documentata
primariamente in questa iscrizione “qahtanico”, dal nome di una delle tribù arabe che sappiamo
essere state insediate nella regione di Qaryat al-Faw. Ne è stata proposta una data alla fine del I
secolo a.C., che ne farebbe il più antico testo “arabo” noto, ma è anche possibile una datazione più
tarda, verso il III secolo d.C. Si noti la vasta distribuzione geografica di queste prime tracce.
Altre possibili occorrenze dell’articolo al e altri elementi lessicali di tipo arabo si trovano in un
piccolo numero di iscrizioni dadanitiche, safaitiche e nabatee, e in due iscrizioni madhabiche; i più
antichi di questi testi potrebbero risalire al III secolo a.C., anche se si tratta di datazioni dubbie. Più
che di testi “in arabo”, si dovrebbe parlare di testi che mostrano la presenza di “caratteri linguistici
arabi”. Sembra che questi caratteri siano più comuni dopo il II-III secolo d.C., un’epoca in cui la
penisola araba appare aver attraversato mutamenti etnici, politici e sociali significativi, in parte
forse come conseguenza della conquista romana del regno nabateo. E’ possibile che, come paiono
indicare alcune fonti musulmane, popolazioni di lingua araba, precedentemente insediate in una
parte della penisola (forse nel sud-ovest), si siano diffuse su un territorio più ampio; non si dispone
comunque per ora di un quadro chiaro.
Tutte queste prime documentazioni di forme linguistiche arabe pongono difficili problemi di lettura
e interpretazione, in parte a causa della scrittura consonantica impiegata e delle gravi ambiguità
della scrittura nabatea per quanto riguarda ‘En ‘Avdat e Nemara.
Un piccolo numero di iscrizioni in arabo provenienti dalla Giordania e dal sud della Siria, risalenti
al VI secolo d.C., sembra attestare gli inizi di una tradizione scritta, per quanto assai ridotta, in
lingua araba con l’uso di caratteri derivati da quelli nabatei; la più antica è quella di Zebed, datata al
512 d.C. Altre iscrizioni datate di questo tipo sono state trovate a Jabal Usays (528 d.C.) e Harran
(568) nel sud della Siria. Si tratta di una documentazione ridottissima, quasi tutta proveniente da
contesti cristiani; per il momento si può ritenere che la l’arabo come lingua scritta di uso comune
sia in generale successiva all’Islam.
Nell’estate del 2014 una missione archeologica francese ha annunciato il ritrovamento, sempre a
Qaryat al-Faw, di iscrizioni, databili alla fine del V secolo d.C. che attesterebbero il passaggio dalle
forme grafiche del nabateo (quelle che si hanno ad ‘En ‘Avdat e Nemara), a una fase antica della
scrittura araba. Un volta pubblicati, i dettagli di questi ritrovamenti potrebbero cambiare anche di
molto il quadro descritto qui.
La scarsità di documentazione e la difficoltà di interpretare quella esistente (non c’è ad esempio
pieno consenso sulla lettura della più importante iscrizione preislamica, quella di Nemara, per
quanto sia certo che si tratti di una varietà linguistica vicina all’arabo classico) rende anche
problematico sapere quanto la forma linguistica di queste iscrizioni sia unitaria, e quanto rifletta
l’arabo classico codificato nel periodo islamico.
Sappiamo, anche sulla base di quanto attestato dagli autori musulmani, che le diverse comunità
arabe della penisola presentassero in epoca preislamica una certa diversità linguistica, in particolare
secondo una divisione est-ovest. La lingua comune e di prestigio, riflessa dalla poesia preislamica
(sulla cui autenticità sussiste comunque qualche dubbio), sembra essere stata basata in gran parte su
quella impiegata nell’Arabia centro-orientale; sono attestate, anche da osservazioni delle fonti
musulmani, differenze rilevanti, rispetto all’uso linguistico dello Ḥijāz, in particolare nella fonetica.
Un riflesso di questa variazione è probabilmente l’ortografia della hamza, un suono che molto
probabilmente non era pronunciato dalle tribù arabe nord-occidentali (incluse quelle dell’area della
Mecca).
Molte questioni riguardanti l’arabo pre-islamico, la sua diffusione e documentazione, il suo status
come lingua poetica di prestigio o come lingua parlata, il suo rapporto con l’arabo parlato e scritto
delle epoche successive, e anche alcune sue caratteristiche grammaticali fondamentali (ad esempio
il tanwin, di cui non sembra esserci evidenza chiara nelle iscrizioni), restano per il momento aperte
ed oggetto di controversia.
La diffusione dell’arabo e lingue arabe parlate
Nella prima metà del settimo secolo, i gruppi arabi conoscono una straordinaria espansione.
Conquistano l’intera penisola araba, gran parte dell’Impero Romano d’Oriente, tutto l’impero
persiano sassanide, quasi tutta la Spagna visigota, e diversi altri territori. Questa serie di conquiste
avviene, a quanto risulta dalla grande maggioranza delle testimonianze storiche disponibili, nel
nome di una coesione comunitaria basata su un messaggio religioso – l’Islam.
Le conquiste arabe portarono l’arabo su uno spazio immenso come lingua parlata, e su uno ancora
più grande come lingua di cultura, tramite l’Islam ed il Corano. Ne risulta una tensione tra la spinta
unitaria esercitata dallo standard, e la varietà delle lingue locali.
Le origini dell’Islam, così come quelle della lingua araba classica alle quali appaiono strettamente
legate, sono oggetto di una discussione molto articolata tra gli studiosi contemporanei.
Possiamo dare per certi alcuni dei dati fondamentali dalla tradizione musulmana successiva: anche
tra gli studiosi più orientati alla critica e alla revisione, c’è consenso quasi generale che un profeta
di nome Muhammad abbia predicato un articolato messaggio di monoteismo nel nord-ovest della
penisola araba, e che questo messaggio sia stato redatto non molto tempo dopo la sua morte in un
corpo testuale in lingua araba, noto come Qur’an – il Corano. C’è però qualche motivo per pensare
che la fissazione del testo coranico sia stato un processo più lungo e più complesso di quello
presentato dalla corrente principale della tradizione musulmana.
Così come non c’è ragione di dubitare che la lingua araba, pur se solo molto raramente documentata
per iscritto, possedesse un sistema di scrittura quasi certamente derivato da quello nabateo, che i
suoi parlanti avessero in linea di massima una familiarità con la scrittura, e che esistesse un corpo
letterario di poesia orale, di cui, seppure attraverso trascrizioni di epoca islamica la cui autenticità è
a volte dubbia, ci è giunta documentazione.
Infine sappiamo che esistevano diverse varianti linguistiche dell’arabo, secondo i gruppi tribali e le
aree geografiche; su questo le fonti musulmane e la critica moderna concordano. In particolare c’è
ragione di ritenere che esistesse una differenza tra Est ed Ovest della penisola – col problema però
della quasi totale assenza di documentazione scritta preislamica per l’Est.
Il significato di questa variazione in rapporto alla successiva storia linguistica dell’arabo, tuttavia, è
profondamente controverso. Semplificando si può dire che esistano due punti di vista fondamentali
e contrapposti:
1) Il primo vede l’arabo classico, così come si forma in quanto lingua letteraria ed è codificato dal
pensiero linguistico arabo medievale, come una standardizzazione e una cristallizzazione delle
varietà, tutto sommato simili, parlate nella parte centrale della penisola araba all’epoca di
Muhammad e delle prime conquiste. Questo arabo sostanzialmente (anche se certo non interamente)
unitario si sarebbe frammentato, dopo le conquiste, in un gran numero di forme parlate vernacolari,
anche molto distanti tra loro e dalla lingua classica, in un processo abbastanza simile a quello della
formazione delle lingue neolatine. Questo punto di vista è autorevolmente rappresentato oggi da
Kees Versteegh.
2) Il secondo modello ritiene che la situazione di alta diversificazione della lingua parlata nota nel
mondo arabo odierno sia da applicare anche al periodo preislamico. Una varietà linguistica
specifica, già in uso nella poesia orale, sarebbe stata selezionata come lingua letteraria e religiosa,
ma non rappresentava già più il tipo linguistico parlato dalla maggioranza degli arabi, e non è quella
da cui derivano le forme parlate moderne. Questa posizione è articolata in modo dettagliato in
particolare nel recente lavoro di Jonathan Owens.
Esistono diverse sfumature possibili tra le due posizioni. In particolare va ricordato che Owens
sottolinea sempre nel suo lavoro l’unitarietà sostanziale dell’arabo, sostenendo d’altra parte che una
comprensione complessiva della storia linguistica dell’arabo sia possibile sono considerandone la
documentazione nella sua interezza, e quindi attribuendo alla varietà scritta il ruolo di una variante
tra le altre.
In modo in un certo senso contro-intuitivo, è invece Versteegh a mettere in risalto la forte differenza
tra la lingua letteraria standard e le forme parlate. Versteegh teorizza infatti una cesura relativamente
brusca nella trasmissione della lingua in coincidenza delle conquiste, che avrebbe portato ad una
parziale creolizzazione, in seguito arrestata o anche invertita dalla pervasiva e crescente influenza
culturale della lingua standard.
Le varie forme parlate di arabo non sono reciprocamente comprensibili e presentano considerevoli
differenze tra loro; tuttavia, la maggior parte di loro hanno dei tratti in comune che le differenziano
dall’arabo classico, come un ordine delle parole prevalente Soggetto-Verbo-Oggetto anziché Verbo-
Soggetto-Oggetto, l’assenza di declinazione dei casi, la diffusa presenza di prefissi temporali nella
coniugazione dei verbi, ecc…
La diglossia è la coesistenza in una comunità linguistica di due forme linguistiche connesse, ma
nettamente differenziate sul piano grammaticale, in condizioni di marcata differenza di prestigio
(normalmente, tra una lingua standard letteraria di alto prestigio e una madrelingua parlata). Il
termine è stato coniato per descrivere la situazione della Grecia moderna fino agli anni Settanta –
quando la varietà colta ufficiale, la katharevousa, fu ufficialmente abbandonata in favore della
lingua colloquiale, la demotiki. Il termine è stato poi impiegato per descrivere altre situazioni più o
meno analoghe – ad Haiti, nella Svizzera di lingua tedesca, nel mondo arabo.
Il caso arabo è particolarmente complesso – alla varietà standard, sostenuta da un prestigio
immenso di tipo letterario e religioso, non si contrappone un insieme omogeneo di varietà parlate,
ma numerose parlate informali piuttosto diverse tra loro, e anche di prestigio variabile. Anziché
parlare di una dicotomia tra lingua standard e lingua parlata, gli studi recenti mettono in luce una
gradazione di livelli e registri all’interno di un continuum; questi possono variare tra l’uso, anche
nello stesso discorso, di forme tipiche del parlato colloquiale o della lingua scritta, variabili a
seconda del contesto comunicativo, della collocazione sociale e dell’educazione dei parlanti, e della
regione. In molte zone, particolarmente in Nordafrica, il quadro è complicato dall’importante
presenza nella società delle lingue coloniali (inglese e francese).
Va infine citata l’esistenza di quelle varietà scritte, attestate soprattutto in epoca post-classica e nella
produzione di ebrei e cristiani, tradizionalmente indicate con l’etichetta infelice di “medio-arabo”.
Il “medio-arabo” non è la documentazione di una fase linguistica cronologicamente o
socialmente intermedia tra l’arabo classico e i “dialetti” moderni, ma il risultato
dell’interferenza del parlato, o di una insufficiente padronanza della lingua scritta standard, in testi
formalmente meno curati. I testi medio-arabi presentano così iper-correttismi accanto a forme
tipiche dell’arabo parlato.
PARTE II: IL PENSIERO LINGUISTICO ARABO
Sezione 1 Formazione storica della tradizione grammaticale araba
La riflessione sul linguaggio è un fatto comune nelle società umane, e in particolare in quelle dotate
di scrittura. Il linguaggio è una un elemento fondamentale nell’identità dei gruppi umani, strumento
e oggetto al tempo stesso di discorsi.
Sappiamo ad esempio che nell’antica Mesopotamia, la necessità per gli scribi di acquisire
familiarità con un sistema di scrittura complesso e con diversi sistemi linguistici ha prodotto
dapprima dizionari (o meglio, liste di parole ad uso di scribi-traduttori) e in seguito esercizi
standardizzati per le scuole scribali, in cui elementi della grammatica sumerica sono analizzati e
descritti. Questa tradizione di analisi linguistica sumero-babilonese non sembra aver lasciato una
eredità diretta alle culture successive. Sono conosciute tre grandi tradizioni autonome di pensiero
linguistico, che hanno lasciato in vario modo il segno sulla linguistica moderna: l’indiana, basata
sulla descrizione del sanscrito, la greco-latina, nata per codificare la grammatica greca (su cui si
fonda la descrizione di quella latina e che resta, pur con modifiche, la base dell’insegnamento
grammaticale delle lingue europee) e quella araba.
L’emergere storico del pensiero grammaticale arabo è circa un millennio successivo (e
geograficamente intermedio) rispetto alle altre due tradizioni. Questo ha indotto diversi studiosi a
cercare nell’influenza della tradizione grammaticale greca, o più raramente del pensiero linguistico
indiano, le radici storiche della sua nascita.
Ci sono buone ragioni per ritenere che alcuni elementi del pensiero linguistico greco (su quello
indiano, la questione è più controversa) possano essere confluiti nella tradizione grammaticale
araba. È inoltre notevole come la descrizione grammaticale dell’arabo ci appaia documentata, già
alla fine del secondo secolo dell’Egira (ottavo secolo d.C.) come un sistema piuttosto coerente e
organico sostenuto da una riflessione teorica. La rapidità con cui questo sistema si sviluppa è
eccezionale, e contribuisce a far pensare ad apporti dall’esterno. Tuttavia, proprio come sistema
concettuale nel suo insieme il pensiero linguistico arabo manifesta una pressoché completa
autonomia rispetto alle tradizioni greche ed indiane, indipendentemente dall’eventualità che alcuni
elementi di queste vi siano stati forse incorporati.
La tradizione araba medievale concepisce le origini del pensiero linguistico e grammaticale in due
scuole, quella di Basra e quella di Kufa, attive tra ottavo e nono secolo. A partire dal nono secolo,
il punto di vista “della scuola di Basra” trionfa; della scuola di Kufa abbiamo scarsa
documentazione, al punto che c’è chi ne ha messo in dubbio la reale esistenza. Sembra in generale
che si attribuiscano alla scuola di Kufa riflessioni linguistiche meno sistematiche ed astratte di
quelle della scuola di Basra, che riflettono probabilmente la fase più antica dello sviluppo delle
teorie grammaticali; la “scuola di Kufa” sarebbe dunque orientata al commento linguistico e
all’analisi del testo (in particolare del Corano) mentre a quella “di Basra” si dovrebbe attribuire
l’elaborazione di una teoria grammaticale ad un livello più astratto, che dia conto del sistema
linguistico del suo insieme (pur sempre però in riferimento alle forme attestate da un definito corpo
testuale).
Il ruolo della parola nella cultura arabo-islamica del Medioevo è assolutamente centrale; attraverso
di essa, nella riflessione islamica, Dio si manifesta agli esseri umani e fa conoscere la sua volontà,
attraverso di essa si trasmette la conoscenza.
I fondatori del pensiero linguistico arabo, tradizionalmente ascritti alla “scuola di Basra”, sono al-
Khalil e il suo allievo, il grande Sibawayh (morto nel 793 d.C.). La corrente principale del pensiero
grammaticale arabo si fonderà sull’opera di Sibawayh, il Kitab (il “libro” per eccellenza), dando
alle sue intuizioni una sempre maggiore sistematicità e coerenza intellettuale, anche grazie
all’acquisizione degli strumenti teorici della logica aristotelica.
Sibawayh si trasferisce a Baghdad, che diventa il centro dell’attività di elaborazione del pensiero
linguistico nei due secoli successivi; qui la distinzione, se mai vi era realmente stata, tra le scuole di
Basra e di Kufa si attenua.
Una parte importante del lavoro della successiva tradizione grammaticale araba, a partire
dall’ultima parte del nono secolo, sarà quella di approfondire, sistematizzare e formalizzare le
analisi di Sibawayh, specialmente attraverso una definizione sempre più rigorosa della terminologia
tecnica e della teoria delle “cause” (‘ilal) e dei fondamenti (uṣūl) del sistema grammaticale.
In particolare, al-Mubarrad (m. 898) renderà popolare l’opera di Sibawayh attraverso il suo
insegnamento; si è sostenuto che siano stati i suoi discepoli a formalizzare canonicamente la
terminologia e le teorie principali della “scuola di Baṣra” in una teoria sistematica.
Ibn al-Sarraj (m. 928) ha sviluppato gli uṣūl, i fondamenti teorici della grammatica, in un sistema
classificatorio e definitorio (parti del discorso, funzioni sintattiche, ecc…) formale nel suo Kitāb al-
Uṣūl.
La teoria delle ‘ilal viene sviluppata da al-Zajjājī (m. 951) sulla base del suo maestro Ibn al-Sarraj;
egli definisce tre livelli di “causa” o “spiegazione” di un fatto linguistico: didattiche (ta’līmiyya;
necessarie all’apprendimento della lingua corretta); analogiche (qiyāsiyya; che stabiliscono
relazioni di somiglianza tra le diverse parti del sistema per spiegare le apparenti irregolarità, ad
esempio tra nomi e verbi) e dialettico-speculative (jadaliyya wa naẓariyya; che ricercano al di fuori
del sistema, normalmente nell’equilibrio di “leggerezza” e “pesantezza”, la ragione ultima delle
analogie del secondo livello).
Dopo il grande lavoro di codificazione e teorizzazione del decimo e dell’undicesimo secolo, la
tradizione si consolida, diventando sempre più didattica e formalistica. Le grandi opere originali
vengono commentate (anche se i commentari possono spesso contenere idee originali), e con
l’eccezione di alcune importanti figure, le linee generali e le categorie d’analisi del pensiero
grammaticale arabo resteranno le basi dello studio della lingua fino all’epoca moderna.
Lessicografia
Accanto alla tradizione descrittiva ed esplicativa delle strutture del sistema linguistico (morfologia e
sintassi), che costituisce l’interesse primario dei grammatici arabo e fa riferimento a Sibawayh e
alle “scuole” di Basra e di Kufa, l’analisi linguistica dell’arabo comprende anche altri settori: la
metrica, la semantica, la retorica, la critica testuale e soprattutto la lessicografia.
Il padre della lessicografia araba è considerato al-Khalil, il maestro di Sibawayh a Basra. La sua
opera principale è il Kitāb al-‘ayn. Si tratta di una immensa raccolta di lemmi, di cui viene indicato
il significato e l’uso corretto, sulla base del corpus del Corano, della tradizione poetica e dell’uso
vivo dei parlanti arabo “corretto” vale a dire i beduini, in particolare quelli dei gruppi dell’Arabia
centrale il cui arabo era ritenuto “puro”. E’ interessante notare che in questo testo, le parole siano
ordinate per radici; a loro volta, le radici sono disposte secondo le lettere che le compongono nelle
loro varie permutazioni; le lettere non sono poste in ordine alfabetico ma in ordine fonologico,
cominciando dalla ‘ayn, articolata al fondo della cavità orale, fino alla mim, pronunciata con le
labbra.
I grandi lessicografi successivi tuttavia adotteranno dopo il decimo secolo un sistema più semplice,
di ordine alfabetico dell’ultima radicale (l’ultima era rilevante per la formazione delle rime, uno
degli scopi per i grandi dizionari venivano composti, ed era quindi comodo). Il ricchissimo
patrimonio della lingua araba letteraria è così trasmesso in alcuni grandi raccolte medievali e post-
classiche, di solito fornendo esempi d’uso per le singole parole.
La più celebre ed importante di queste raccolte è il Lisān al-‘Arab compilato da Ibn Manẓūr (m.
1311). I dizionari moderni di arabo classico, a cominciare da quello del Lane (English-Arabic
Lexicon) si fondano su questo lavoro di raccolta e sistemazione.
Sezione 2 Principi e meccanismi fondamentali
Nella sua tradizione principale (quella “di Basra”, anche se sviluppata prevalentemente a Baghdad)
la grammatica araba (naḥw) si compone di due parti principali, naḥw e taṣrīf, traducibili
rispettivamente come sintassi e morfologia. La sintassi è, in primo luogo, la sintassi dei casi e dei
modi, visti perlopiù come marche della funzione della parola nella struttura della frase. Il taṣrif, che
include anche una riflessione su quella che oggi chiameremmo fonologia, si concentra invece
sull’analisi del rapporto tra la radice tipicamente triconsonantica (jiḏr) e le varie “forme” (wazn) che
può assumere, elaborando in particolare regole e strategie per risalire allo “scheletro” radicale di
qualsiasi parola data (ištiqāq).
Un resoconto tradizionale, in diverse varianti, attribuisce la creazione del nahw a Abu al-Aswad al-
Du’ālī, un compagno del quarto califfo ‘Ali Ibn Abi Ṭālib, precisamente con l’intento di correggere
quegli errori nella pronuncia delle vocali finali (desinenze di caso) che alteravano il senso della
Parola coranica.
Probabilmente a causa della rapida perdita (o, nel modello di Owens, della mancata diffusione) di
queste vocali marcanti il caso nella lingua parlata, in particolare nelle città di nuova fondazione
dell’impero islamico (come, appunto, Basra e Kufa) esse acquisiscono un ruolo centrale nella
percezione del lavoro del grammatico. Ad esempio, nel decimo secolo, il logico cristiano Yahya Ibn
‘Adi, nel suo breve trattato sulla differenza tra grammatica e logica, afferma che lo scopo della
grammatica sia semplicemente quello di assegnare alle parole la desinenza di caso corretto
(ovviamente si tratta di una tesi polemica).
In ogni caso, Sibawayh e soprattutto suoi successori fanno molto di più che elaborare un sistema per
attribuire la desinenza corretta ai sostantivi (e ai verbi nell’imperfetto). Essi costruiscono un sistema
teorico che descrive (e spiega) interamente il funzionamento della lingua araba, così come
attestata dalle fonti “affidabili” (Corano, poesia preislamica, uso dei beduini) a partire da un
numero il più possibile limitato di regole astratte.
La parola viene anzitutto distinta in tre parti fondamentali del discorso: nome (ism) verbo (fi’l,
meglio traducibile con “azione”) e “particella” (ḥarf), una distinzione che potrebbe essere stata
influenzata da quella analoga di Aristotele. A queste parti principali e alle relative suddivisioni
minori sono assegnati diritti e doveri all’interno di una struttura gerarchica dei costituenti della
frase.
Ad esempio, i nomi hanno “diritto” a ricevere una desinenza di caso, così come i verbi “assimilati ai
nomi” (mudari’) mentre i verbi o le particelle hanno il “diritto” di assegnare la desinenza al nome
che segue: la forma reggente precede sempre la forma retta. Questa è, in breve, la teoria della
reggenza (‘amal); il principio essenziale che governa la teoria sintattica araba.
Oltre che una gerarchia di diritti e doveri, la struttura delle forme linguistiche è analizzata attraverso
una corrispondente gerarchia di pesantezza, sia sintattica che fonologica (e quindi morfologica). Le
forme “pesanti” generalmente governano quelle leggere; l’armonia e la correttezza linguistiche si
ottengono attraverso l’alternanza di leggerezza e peso: ad esempio, le particelle sono ritenute
“pesanti”, il che ne autorizza l’elisione nello stato costrutto: nella teoria classica, un nome viene
visto come troppo “leggero” per assegnare il caso genitivo al nome successivo nella costruzione
dell’iḍāfa; su questo punto tuttavia non tutti i grammatici concordavano. Analogamente, nel taṣrīf,
l’elisione delle consonanti “deboli” dei verbi con radicali y e w è generalmente spiegata con la
necessità di evitare sequenze fonologiche “pesanti”.
Il sistema fa ricorso a qualcosa di molto simile a quello che la linguistica generativa contemporanea
chiama “struttura soggiacente”: fondamento, aṣl, della frase (o della forma) reali. Si tratta di una
forma (o più) linguistica astratta che dovrebbe spiegare (di solito per analogia, qiyās) la forma reale.
Normalmente, le forme soggiacenti sono trasformate nelle forme reali attraverso l’applicazione
successiva di regole ben definite, la più importante delle quali è l’eliminazione dell’eccesso di
“pesantezza”.
Le funzioni sintattiche
Si considerino le seguenti frasi:
1) Ḍaraba Zaydun ‘Amran
2) Zaydun Ḍaraba ‘Amran
3) ‘Amran Ḍaraba Zaydun
In tutti e tre questi casi, la frase ha lo stesso significato: “Zayd ha colpito ‘Amr”. Tuttavia, la
tradizione grammaticale araba analizza queste frasi in modo molto diverso.
In 1), abbiamo una “frase verbale” (jumla fi’liyya, meglio traducibile forse come “frase d’azione”)
secondo l’ordine delle parole non marcato in arabo. In questo caso, l’azione (fi’l) è seguita da un
agente (fā’il) e da un complemento (maf’ul bihi) ai quali attribuisce rispettivamente il nominativo e
l’accusativo. Il fatto che l’agente segua l’azione ha fatto sì che la grammatica araba analizzasse le
desinenze personali del verbo al perfetto (Ḍarabtu, Ḍarabta, ecc…) non come parti della forma
verbale ma come forme particolari del pronome personale soggetto.
In 2) non si ha invece una azione, ma una informazione sul conto di Zayd, che non è dunque più
l’agente ma l’elemento noto, il mubtada’ (“ciò da cui si inizia”). Questa è una frase nominale.
Ḍaraba ‘Amran è il khabar, la “notizia” che viene data in rapporto a Zayd. Il nome non può,
secondo la tradizione maggioritaria della grammatica araba, assegnare desinenze di caso. Secondo
Sibawayh, in frasi come questa l’assegnazione del nominativo a Zayd è determinata da un elemento
astratto, la ibtida’, ovvero il fatto enunciativo di organizzare la frase a partire da un elemento noto
di cui si predica qualcosa. L’accusativo in ‘Amran non è ovviamente problematico, essendo
assegnato dall’azione. Nel caso in questione, infatti, il khabar della frase nominale è, a sua volta,
una frase verbale.
Questa distinzione grammaticale tra frase verbale e nominale non implica che i grammatici arabi
ignorassero il rapporto soggetto-predicato (isnād) così come lo conosciamo nella tradizione logico-
grammaticale di derivazione greca, né che la loro analisi fosse ancorata all’ordine superficiale delle
parole nella frase.
Infatti, in 3) abbiamo ancora una frase verbale: sebbene l’elemento iniziale sia un nome, esso non
è un mubtada’. Lo aṣl di questa frase sarebbe infatti Ḍaraba ‘Amran Ḍaraba Zaydun, in cui il
primo verbo viene eliminato perché ridondante o, nel linguaggio dei grammatici arabi, “pesante”.
Chiaramente, il complemento in prima posizione è comunque messo in evidenza; tuttavia, questa
scelta stilistica, anche se grammaticalmente corretta, non modifica la natura fondamentale della
frase. Per evidenziare (“topicalizzare”) ‘Amr come elemento noto, si direbbe infatti preferibilmente
così: ‘Amrun Ḍarabahu Zaydun in cui ‘Amr diventa il mubtada’ seguito da una frase verbale come
khabar, in cui Zayd è l’agente.
Sezione 3 Grammatica e logica
All’incirca nello stesso periodo in cui prende forma la tradizione grammaticale, le società islamiche
si confrontano con un fenomeno culturale di immensa portata, il movimento di traduzione greco-
arabo. La scienza e la filosofia greche vengono raccolte e tradotte in modo sistematico, e
successivamente commentato e rielaborato, dando origine ad una rigogliosa tradizione di pensiero e
di dibattito filosofico in lingua araba (espresso da musulmani, cristiani, zoroastriani, ebrei…).
Questa tradizione di pensiero va sotto il nome di falsafa (filosofia) ma va ricordato che essa si
riferisce più ad una corrente di pensiero che fa riferimento a determinati testi (primariamente quelli
di Aristotele, e, in secondo luogo, Platone), piuttosto che a un disciplina o a una attività, anche se
certamente i filosofi arabi ritenevano che la loro pratica intellettuale contenesse anzitutto un metodo
di ricerca della verità e della felicità (che erano sentite come corrispondenti).
Questo metodo era fondato sulla logica aristotelica (manṭiq), che veniva vista come uno strumento
per articolare correttamente il pensiero. La logica fa uso di alcune categorie d’analisi, come quelle
di soggetto e di predicato, di tipo linguistico. Nella tradizione filosofica aristotelica lo studio del
linguaggio in quanto tale non ha un posto importante (la grammatica è in effetti una delle poche
discipline a cui Aristotele non abbia dedicato studi specifici); la logica fornisce uno strumento per
distinguere le affermazioni vere da quelle false, non quelle corrette da quelle scorrette –come si
potrebbe sostenere che faccia la grammatica.
Tuttavia, la logica in questi termini si poteva proporre come la via d’accesso ad un particolare tipo
di sapere – uno ottenuto attraverso un ragionamento individuale, teoricamente in modo
indipendente dalla conoscenza trasmessa linguisticamente, dunque dalla conoscenza condivisa in
una comunità.
Una versione estrema di questa tensione si può vedere ad esempio nello Ḥayy Ibn Yaqẓān di Ibn
Ṭufayl, scritto intorno al 1170, in cui il protagonista, crescendo da solo su un’isola deserta, arriva a
comprendere razionalmente il mondo che lo circonda, senza far uso di nessun linguaggio.
La grammatica araba, d’altro canto, era essenziale per lo studio e la comprensione del Corano – era
il fondamento epistemologico del sistema “tradizionale” (nel senso letterale di “trasmesso”) dei
saperi che includeva il diritto e la letteratura.
Nello stesso spazio conoscitivo, a Baghdad nel X secolo, grammatica e logica si trovarono dunque a
“competere” per il ruolo di sapere fondante il sistema delle conoscenze. Abbiamo il resoconto,
trasmessoci da Abū Ḥayyān al-Tawḥīdī, di un famoso “processo” alla logica tenutosi a Baghdad nel
932 o nel 938, tra il grande grammatico al-Sirafi e l’altrettanto celebre studioso di logica cristiano
Matta Abu Bishr. Nel resoconto che abbiamo, al-Sirafi riesce a confutare gli argomenti di Abu
Bishr; lo accusa di studiare la logica greca in traduzione, laddove quelle regole non possono essere
universali, ma di trascurare la proprietà dell’espressione nella sua propria lingua. Sirafi sostiene in
sostanza che i significati non debbano essere analizzati separatamente dalla forma linguistica, che
specifica per ogni lingua, e che la logica non sia altro che la grammatica del greco.
Il dibattito tuttavia non si concluse. Due allievi di Abu Bishr, il cristiano Yahya ibn ‘Adi e il
musulmano al-Farabi, si interrogarono sul rapporto tra i due sistemi di pensiero. Entrambi
concordavano che la grammatica fosse lo studio del campo dell’espressione, mentre la logica
studiasse le strutture “universali” del pensiero indipendentemente dalla loro forma linguistica. Ma
mentre Yahya ibn Adi difendeva la supremazia della logica, riducendo il ruolo della grammatica
allo studio della correttezza formale delle desinenze dello i’rāb (un punto di vista decisamente
riduttivo) al-Farabi, nella sua Classificazione delle scienze cercò una posizione conciliante: collocò
le scienze del linguaggio al primo posto nella classificazione (basata su un ordine di progressione di
studi e su una gerarchia ascendente di merito), confermandole in ruolo fondativo, facendole seguire
immediatamente dalla logica (nella quale include la poetica).
Nello stesso periodo, i grammatici arabi incorporarono nella loro struttura teoretica, come abbiamo
visto sempre più astratta e formalizzata, diversi elementi della logica aristotelica, i cui fondamenti
diventeranno parte della loro formazione.
Sezione 4 Ibn Jinni, Ibn Mada, al-Gharnati
In questa sezione si discuterà brevemente di tre personalità importanti nella storia del pensiero
linguistico arabo, che in vari modi, si distaccano dalla sua corrente principale.
Ibn Jinni
Ibn Jinni (morto nel 1003) è uno dei personaggi più importanti e rappresentativi della grammatica
araba nel periodo successivo alla sua codificazione. La sua opera più importante sono le Ḫaṣā’iṣ, le
“particolarità” della lingua araba. La sua opera è informata dal senso della bellezza, dell’armonia,
della ricchezza uniche della lingua araba; nelle Ḫaṣā’iṣ cerca di mostrare come questa armonia si
manifesti in ogni aspetto o particolarità della lingua, come l’intero sistema si conformi ad un
generale equilibrio.
In questo senso va vista la sua idea più originale, che, a differenza del resto del suo lavoro, ha avuto
pochissimo seguito nella tradizione grammaticale successiva: lo ištiqāq al-kabīr o “grande
etimologia”. L’ištiqāq nel pensiero grammaticale arabo è il processo di ricondurre una forma alla
propria radice tri- o quadri-littera. Ibn Jinni porta questo principio al livello della struttura delle
radici stesse e della loro composizione; tutte parole derivanti da radici composte da combinazioni
delle stesse lettere (ad esempio ‘-B-R, B-R-‘, ‘-R-B e così via) possono essere ricondotte ad uno
stesso nucleo di significato. Il principio di combinazione era già stato impiegato per ordinare i
lemmi nel Kitab al-‘ayn di al-Khalil, ma senza attribuirgli nessun valore rispetto al significato delle
parole.
Estendendo ulteriormente il principio, secondo Ibn Jinni un significato fondamentale in comune si
può individuare nelle radici che presentano una somiglianza fonetica, ad esempio avendo due lettere
in comune, o presentano lettere “sorelle” (foneticamente simili, ad esempio per luogo
d’articolazione come ‘-R-M e ‘-L-B). Il principio include una dimensione fonosimbolica. La
differenza di significato tra ḫaḍama (masticare qualcosa di fresco) e qaḍama (masticare qualcosa di
duro) si riflette nella diversa forza fonetica delle due prime radicali.
In questo modo Ibn Jinni estende quanto più possibile l’analisi delle strutture di significato: ogni
porzione del sistema linguistico (potenzialmente ogni lettera radicale) è portatrice di significato in
relazione equilibrata e armonica con il resto del sistema, mostrando la meravigliosa armonia che fa
dell’arabo la lingua in cui la parola di Dio può essere espressa.
Ibn Maḍā’
Vissuto in Spagna alla fine del dodicesimo secolo, Ibn Maḍā’ rappresenta una eccezione nel
panorama del pensiero linguistico arabo per la sua critica radicale alla teoria grammaticale corrente,
in particolare alla teoria della reggenza. Ibn Maḍā’ aderiva alla scuola giuridica zahirita, secondo la
quale l’interpretazione del Corano debba attenersi al significato manifesto delle sue espressioni,
senza applicare ragionamenti umani come l’analogia (qiyas) o la ricerca di cause (‘ilal).
La negazione della validità delle cause è la base della critica di Ibn Maḍā’ alla teoria convenzionale
della reggenza, secondo cui alcuni elementi della struttura linguistica ne determinano altri (ad
esempio una particella assegna il caso ‘genitivo’ al nome che la segue). Era riconosciuto dalla
maggioranza dei grammatici che il sistema di reggenza fosse un costrutto teorico; vera “causa” della
forma linguistica è il parlante che lo usa.
Per lo zahirita Ibn Maḍā’ tuttavia non esistono “cause” all’infuori della volontà divina; solo Dio può
realmente agire, e quindi non è possibile che una costituente della frase agisca su un altro. La
prospettiva zahirita porta inoltre Ibn Maḍā’ a criticare l’idea delle strutture soggiacenti. La sola
forma linguistica reale è quella manifesta, e non ha senso, per lui cercare di “spiegarla” con delle
costruzioni teoriche.
Ibn Maḍā’ fa riferimento ad una visione dello studio del linguaggio come osservazione dei fatti
linguistici come sono enunciati dai parlanti (le “cause didattiche” di Zajjaji) senza speculare sulle
cause e le analogie; questo infatti potrebbe portare disaccordo e conflitto.
Il suo lavoro fu scarsamente considerato dai grammatici successivi, che continuarono a lavorare
lungo i binari consueti; ma fu stampato e riproposto nel 1947, nel contesto dei dibattiti
sull’insegnamento moderno della lingua araba, dove fu preso a modello dai sostenitori di una forte
semplificazione (tabsīṭ) dei metodi didattici che eliminasse complessità come la teoria della
reggenza.
Abū Ḥayyān al-Gharnātī
Abū Ḥayyān al-Gharnātī è uno dei pochi grammatici arabi che si sia interessato in modo sistematico
a lingue diverse dall’arabo. In generale, il pensiero grammaticale arabo si è concentrato sulla
formazione di un sistema descrittivo ed esplicativo che desse conto del funzionamento della lingua
araba classica in modo completo e coerente, dedicando modesta attenzione ad altre lingue. In
questo, non si differenzia dalle tradizioni grammaticali indiana e greco-latina prima del basso
Medioevo. Al pari di queste, tuttavia, fornisce gli strumenti concettuali per lo studio di altre lingue;
nel Medioevo appaiono descrizioni della grammatica, dapprima dei volgari europei “periferici”
come l’anglo-sassone, l’irlandese e l’islandese, poi del provenzale, dell’italiano ecc…, basati sulla
teoria grammaticale greco-latina; in India la teoria grammaticale sanscrita viene utilizzata come
base per la tradizione grammaticale tamil, e poi per quella tibetana. Allo stesso modo lo studio della
grammatica ebraica, copta e siriaca si baseranno sistematicamente sul pensiero linguistico arabo;
tuttavia, i grammatici arabi perlopiù non si occuperanno di questi sviluppi del loro lavoro adottati
dai dotti ebrei o cristiani di lingua non araba.
Al-Gharnātī è tra i pochi che, dall’interno della tradizione grammaticale araba, ne applica i sistemi
descrittivi e le categorie al funzionamento di altre lingue. Ci è pervenuta la sua grammatica del
turco, ma sappiamo che ne scrisse altre. La sua descrizione del turco è notevole perché sembra
utilizzare una espansione della nozione di struttura soggiacente (aṣl) per poter applicare le
categorie descrittive arabe alla struttura profondamente diversa del turco.
PARTE III: SISTEMI DI SCRITTURA
Sezione 1 Evoluzione e tipologia della scrittura
La scrittura è una tecnologia che rende la parola visibile. La parola scritta, visibile, è accessibile al
di fuori dell’ordinaria dimensione temporale del discorso orale, attraverso un mezzo diverso da
quello uditivo. Per ciò stesso, la scrittura rappresenta un salto cognitivo. La presenza della scrittura
rende accessibile al futuro la forma linguistica del passato, ed è per questo che tradizionalmente si
parla di storia laddove la scrittura sia presente; malgrado ciò, diversi indirizzi di ricerca negli ultimi
decenni abbiano ampliato il campo d’indagine della storia in ambiti laddove la scrittura non opera, o
perlomeno non è in grado di documentare il passato. Si tenga comunque presente che scrittura e
oralità presentano un rapporto complesso e sfaccettato, profondamente variabile a seconda delle
diverse società; malgrado l’immenso numero di iscrizioni nord-arabiche faccia pensare ad una
società di diffusa alfabetizzazione, non ci è arrivato quasi alcun indizio che la letteratura o l’attività
giudiziaria impiegassero un mezzo scritto.
In realtà, la storia dell’evoluzione e della diffusione della scrittura presenta diversi “salti” cognitivi,
collegati a innovazioni anche radicali nei vari aspetti della tecnologia della scrittura, che possono
essere riassunti così:
- Invenzione della scrittura: sembra essere avvenuta indipendentemente in Mesopotamia ed Egitto
nel IV millennio a.C., in Cina e in Mesoamerica probabilmente verso la seconda metà del II
millennio a.C. Non c’è certezza riguardo altre invenzioni pienamente indipendenti di sistemi
glottografici di scrittura.
- Segmentazione alfabetica: per quello che ne sa oggi, l’alfabeto è stato inventato
indipendentemente una sola volta, nel Levante, attorno alla metà II millennio a.C. o poco prima;
esso contribuisce ai grandi cambiamenti intellettuali della cosiddetta «Età assiale», alla metà I
millennio a.C., nel corso della quale l’uso della scrittura alfabetica sembra diffondersi in modo
considerevole.
- Altri “salti” accrescono considerevolemente la disponibilità della scrittura nelle società:
l’invenzione della carta in Cina, nel II sec. d.C. e il suo arrivo in Medio Oriente nel VIII sec. d.C;
l’evoluzione della stampa, sempre in Cina, nel I millennio d.C., e della stampa a caratteri mobili,
in Europa occidentale, XV sec. d.C.
- In questi anni stiamo vivendo un nuovo salto: l’arrivo nella società dei mezzi di comunicazione e
di scrittura basati sull’informatica sembra probabilmente destinata a cambiare in modo
fondamentale le modalità di disseminazione della conoscenza.
Tipi di scrittura
Si offre qui una classificazione delle principali tipologie di scrittura esistenti.
Pre-scrittura e Proto-scrittura
• Semasiografie (lettera jukaghira; cartelli stradali)
Questa lettera è stata incisa su una corteccia di betulla da una donna della popolazione
siberiana degli Jukaghiri. Rappresenta un messaggio al suo amato, che è andato a vivere con
una donna russa. Il messaggio è un esempio complesso di semasiografia; non rappresenta
una forma linguistica, e sarebbe incomprensibile da solo perché non è redatto in un codice
condiviso.
• Pittogrammi
La scrittura vera e propria (glottografia) è la rappresentazione del linguaggio attraverso segni
grafici.
Una classificazione dei sistemi di scrittura storici potrebbe essere fornita così:
• Logografie (cinese)
• Sistemi logosillabici (cuneiforme, maya, giapponese) e logoconsonantici (egizio)
• «Ideogrammi» (characteristica universalis di Leibniz)
• Sillabari (Cherokee, cipriota antico; i segni che indicano le diverse sillabe non sono
connessi tra loro)
• Alfabeti consonantici (abjad; fenicio, ebraico, aramaico…)
• Alfasillabari (abugida; etiopico, la maggior parte delle scritture dell’India, antico iberico;
sembrano tutti evoluzioni degli alfabeti consonantici, in cui specifiche modificazioni del
segno consonantico ne indicano la vocale; di conseguenza ogni segno rappresenta una
sillaba, ma ne riflette la composizione di vocale+consonante, come farebbe un alfabeto)
• Alfabeti in senso stretto, dotati di distinti segni per i segmenti consonantici e vocalici
(greco, latino, cirillico, armeno…)
• Scritture per tratti (featural script; coreano; i segni per i segmenti sono composti
approssimativamente in base ai tratti fonetici – sordo, sonoro, dentale, labiale, ecc… - che li
caratterizzano; possono essere considerati in un certo senso un caso particolare di alfabeto.)
Nei sistemi logografici ogni segno corrisponde in linea di massima ad una parola (o a un morfema),
come accade oggi in linea di massima nei caratteri cinesi; Molti sistemi logografici sono però, fin
dalle origini, misti; contengono una quota importante di segni che hanno, almeno in certi contesti,
valore per il proprio suono, comunemente una sillaba (nel caso dei geroglifici, una o più
consonanti). In generale, questi sistemi misti si evolvono da notazioni più semplici, spesso di tipo
pittografico, in vere e proprie glottografie introducendo una qualche variante del principio del
rebus. In passato questo accadeva anche ai caratteri cinesi, anche se in seguito il sistema si è
evoluto perdendo la trasparenza dell’elemento significativo sul piano del suono, in modo che oggi
esso si può definire pressoché pienamente logografico.
Nessun sistema storicamente attestato è propriamente definibile come “ideografico”, nel senso di
marcare graficamente le idee indipendentemente dalle parole usate per esprimerle. Tuttavia,
tentativi di elaborare sistemi del genere furono comuni in Europa, specialmente nel diciassettesimo
secolo, anche per l’influenza di un malinteso in merito alla natura dei caratteri cinesi (che tuttora
sono infatti spesso definiti “ideogrammi”). Questi sistemi, chiamati pasigrafie o caratteristiche
universali intendevano superare l’ambiguità strutturale dei linguaggi naturali e fornire uno
strumento per pensare chiaramente; non ebbero mai largo uso, ma il lavoro svolto su di essi
anticipa, per alcuni aspetti, i sistemi molto più limitati di codificazione usati in seguito nella logica
simbolica e in alcuni campi della matematica e della programmazione informatica.
Sezione 2 L’evoluzione dell’alfabeto
Furono le popolazioni di lingua semitica della regione nota allora come Canaan e delle sue
immediate vicinanze ad ideare la segmentazione del linguaggio scritto attraverso un sistema di
poche decine di segni, corrispondenti in generale al repertorio fonetico della lingua, anche se
dapprima notando solo i segmenti consonantici. L’economicità e la relativa semplicità di questo
sistema ne fa un cambiamento di portata rivoluzionaria rispetto ai precedenti sistemi in uso nella
regione, di tipo logosillabico e logoconsonantico provenienti da Mesopotamia ed Egitto, che
implicavano la conoscenza di centinaia di segni e di regole ortografiche articolate.
Il peso ed il prestigio delle tradizioni amministrative e rituali legate alle scritture geroglifica e
cuneiforme, patrimonio di consolidate scuole scribali, fecero comunque sì che i sistemi alfabetici
rimanessero relativamente marginali per molti secoli.
La grande maggioranza della popolazione del Vicino Oriente, composta da contadini, è stata a
lungo illetterata, sebbene l’uso del cuneiforme non fosse certamente limitato solo ai circoli scribali
e di corte, almeno in Mesopotamia; molto minore doveva essere la sua diffusione in altre aree, come
l’Asia Minore). C’è ragione di credere comunque che l’alfabeto abbia consentito una penetrazione
sociale della scrittura assai più profonda di quanto fosse possibile in precedenza, e un suo maggior
distacco dai sistemi istituzionali (templi e palazzi reali coi loro archivi e le annesse scuole) in cui
era stata, sembra, originariamente creata.
La grande maggioranza degli studiosi tende a considerare come prima forma di scrittura alfabetica
quella proto-sinaitica. Questa scrittura è documentata da un certo numero di graffiti, trovati in un
tempio presso le antiche miniere di turchese di Serabit al-Khadim nel Sinai, databili attorno alla
metà del II millennio a.C. Segni simili sono stati trovati in due brevi iscrizioni a Wadi el-Hol in
Egitto, probabilmente risalenti al diciannovesimo secolo a.C.
Una delle due iscrizioni “proto-alfabetiche” di Wadi el-Hol
La decifrazione del proto-sinaitico è ancora discussa e parziale, ma da tempo la maggioranza degli
esperti ritiene che si tratti di segni adattati dal geroglifico (più precisamente dalla sua forma
stilizzata, lo ieratico) letti secondo pronuncia del loro significato logografico in una lingua semitica
molto simile al cananaico.
Il primo suono di questa parola avrebbe fornito il suono indicato dalla lettera. Ad esempio il
carattere indicante una casa stilizzata, letto normalmente per in egizio, sarebbe stato reso con bet, la
parola cananaica per “casa” o “tenda” (cfr. arabo bayt) e usato per indicare il suono consonantico
/b/. Questo principio è detto acrofonia.
Sono documentati contatti intensi tra l’Egitto del Medio Regno e del Secondo periodo intermedio e
la regione di Canaan, dove si doveva parlare una forma arcaica di cananaico. E’ possibile che questa
fosse la lingua dei minatori di Serabit al-Khadim.
I nomi di molte lettere ebraiche o etiopiche (questi ultimi documentati molto tardi) sembrano
avvalorare questa lettura, che ha permesso la decifrazione di una parte dei graffiti come dediche
religiose per gli ex-voto dei minatori; ma è importare ricordare che si tratta di una ricostruzione
basata su documentazione indiretta, e che non conosciamo i nomi “proto-sinaitici” delle lettere, se
esistevano. Quelli elencati, con la traduzione inglese nell’immagine qui sotto sono una
ricostruzione.
La prima scrittura alfabetica per cui si disponga di un corpo testuale consistente e di una
decifrazione sostanzialmente certa è quella delle tavolette trovate a Ras Shamra in Siria, l’antica
Ugarit, dal 1929, databili tra il 1400 e il 1200 a.C. circa.
schema dell’alfabeto ugaritico
La scrittura ugaritica è nota in due versioni leggermente diverse (una trovata nella città di Ugarit e
una soprattutto nella regione circostante). Si tratta di una scrittura cuneiforme, incisa su tavolette
d’argilla. L’ordine alfabetico è noto da diverse liste; anch’esso è un due versioni, che corrispondono
all’incirca a quelli documentati in seguito rispettivamente per il fenicio e l’ebraico da un lato, e il
sud-arabico e nord-arabico dall’altro.
Anche le forme di alcune lettere sembrano riflettere una relazione tra la scrittura ugaritica e quella
degli alfabeti detti “lineari” rappresentati dal successivo fenicio, ma già sporadicamente attestati in
Levante alla stessa epoca delle tavolette ugaritiche, e che si suppone siano una evoluzione del tipo
di scrittura documentato dai graffiti proto-sinaitici.
L’ugaritico sembra essere stato il prodotto di una sofisticata tradizione scribale legata alla corte e ai
templi del regno, anche se forse non limitata ad esso. Dopo la distruzione violenta della città alla
fine dell'Età del bronzo, ad opera dei “Popoli del Mare”, datata di solito al 1178 a.C., l’alfabeto
cuneiforme di Ugarit scompare.
L’alfabeto “lineare” invece mantiene il suo uso, che si deve presumere essere stato prevalentemente
informale e su materiale deperibile, meno connesso con le strutture centralizzate dei templi e dei
palazzi (che entrano in crisi alla fine dell’Età del Bronzo). Le sue attestazioni si fanno più numerose
e più estese nello spazio a cavallo del I millennio a.C., presentando due tradizioni chiaramente
distinte: una, con 22 lettere, si afferma nell’area semitica nord-occidentale, con l’alfabeto delle
iscrizioni “proto-cananee” e le prime attestazioni di quello fenicio; l’altra, con 29 o 28 lettere, si
diffonde nella penisola araba, sviluppandosi nelle scritture nord-arabica e sud-arabica (nelle
versioni monumentale, detta musnad e corsiva, detta zabur). Ciascuna tradizione preserva un
proprio ordine alfabetico, corrispondenti anche se non identici ai due attestati in ugaritico: quella
semitica nord-occidentale ha l’ordine ʼbgd, quella arabica l’ordine hlmḥ.
Alfabeto fenicio in una forma standardizzata. I nomi delle lettere sono basati su quelli ebraici, le traduzioni incerte, la
trascrizione fonetica è ricostruita.
Esempi di varie scritture nord-arabiche. Si noti che lo hasaitico è basato sul musnad sud-arabico, a differenza degli altri
tipi, di tradizione nord-arabica.
L’iscrizione funeraria di ‘Igl bin Haf’am, da Qaryat al-Faw, in arabo scritto in caratteri sudarabici monumentali musnad
La scrittura lineare cananea si diffonde e si diversifica nell’Età del Ferro; è usata nelle città-stato
fenicie, la cui attività commerciale e coloniale nel Mediterraneo la porta in Nordafrica, in Sicilia, in
Spagna. Una forma leggermente diversa è impiegata in Palestina, dove si sviluppa nella più antica
scrittura ebraica, ancora oggi usata dalle comunità samaritane. Infine, è adottata negli stati di lingua
aramaica della Siria interna, dove conosce un impiego considerevole.
La tradizione greca attribuisce ai “Fenici” l’introduzione dell’alfabeto in Grecia; qui diversi segni,
che indicavano suoni consonantici assenti in greco, sono reimpiegati per segnare le vocali greche,
producendo una delle prime scritture pienamente alfabetiche. Alcuni indizi portano però a pensare
che l’alfabeto greco abbia potuto avere anche modelli aramaici, in un’epoca in cui comunque la
forma grafica delle lettere fenicie ed aramaiche non era ancora fortemente distinta.
Le iscrizioni fenicie ed aramaiche antiche sono poche numerose.
Quelle aramaiche appaiono riflettere un impiego dell’alfabeto principalmente su materiali
deperibili, che facilita l’evoluzione nel corso dei secoli di grafie “corsive” con frequenti legature tra
le lettere (uno sviluppo parallelo avrà la scrittura punica, cioè il fenicio usato nella regione di
Cartagine). L’affermazione dell’aramaico come lingua franca del Medio Oriente sotto gli imperi
assiro e persiano, seguito la diversificazione delle sue varietà locali porta all’affermarsi di numerose
varianti del relativo alfabeto; una di queste viene probabilmente adottata dagli Ebrei a Babilonia e
va a sostituire gradualmente quella antico-ebraica, fino a diventare l’alfabeto ebraico medievale e
moderno. La scrittura aramaica viene adattata a scrivere il persiano, e si ritiene, per quanto la
questione sia ancora poco chiara, che attraverso l’Impero Persiano sia giunta in India, dove è stata
profondamente rielaborata per esprimere le lingue locali attraverso un sistema alfasillabico.
Altre forme di aramaico hanno evoluzioni parallele, a Hatra, a Palmira, a Edessa e nel regno
nabateo; tutte tendono generalmente a forme con numerose legature, che a volte oscurano le
distinzioni tra le lettere; la scrittura aramaica palmirena potrebbe essere all’origine di quella siriaca
elaborata ad Edessa, dopo il III secolo d.C., in cui cominciano apparire punti diacritici per
distinguere lettere diventate identiche.
Esempi di scrittura nabatea, da M. Macdonald, «Languages, Scripts and the Uses of Writing among the Nabateans»
L’alfabeto nabateo rimane in uso nell’Arabia settentrionale dopo la conquista romana del regno
nabateo nel 107 d.C. Nel IV secolo d.C., mentre sembra sempre più raro l’impiego delle scritture
nord-arabiche, esso comincia ad essere utilizzato sporadicamente per scrivere l’arabo, come
testimoniato dall’iscrizione di Nemara del 328 d.C.
L’iscrizione di Nemāra in caratteri nabatei, uno dei primi esempi certi di lingua araba.
La tendenza corsiva alle legature e alla confusione tra le lettere sembra accentuarsi nelle pochissime
attestazioni della scrittura “antico-araba” di questo periodo, in modo parallelo a quanto accade alle
scritture siriache. Questo alfabeto doveva essere “in crisi” quando prende forma la scrittura che
diventerà araba.
La tradizione islamica ne attribuisce lo sviluppo all’ambiente della corte lakhmide di al-Hira
sull’Eufrate, uno stato arabo dipendente dall’impero sasanide di Persia; Michael Macdonald ritiene,
pur in assenza di prove conclusive, che ci sia un nucleo di verità in questa collocazione, ma le
recenti scoperte a Qaryat al-Faw potrebbero, come scritto sopra, modificare il quadro.
La tradizione islamica riporta l’ideazione dell’alfabeto arabo sulla base di quello siriaco; diversi
studiosi moderni hanno ripreso e sviluppato questa ipotesi, ma il consenso contemporaneo è che la
scrittura araba derivi direttamente da quella nabatea, con solo la forma di alcune lettere forse
influenzata da quella siriaca.
Sezione 3 Cenni di calligrafia e paleografia arabe
Riproduzione dell’iscrizione preislamica di Umm al-Jimal e di quella islamica (anno 24 dell’Egira) di Zuhayr, da
Ghabban 2001.
Comparazione delle forme delle lettere in iscrizioni e papiri arabi del VII secolo, da Gruendler 1993.
L’avvento dell’Islam porta alla diffusione e alla trasformazione della scrittura araba; da ausilio
mnemonico di uso relativamente raro, in mezzo d’espressione della Rivelazione divina e, ben
presto, dell’amministrazione di un vasto impero. Questa trasformazione comincia molto presto,
come attestato dai papiri e dall’uso, anche se ancora non sistematico, dei punti diacritici (già
presenti in siriaco e occasionalmente in nabateo) nell’iscrizione di Zuhayr; un momento importante
di questo processo sembra essere stato il regno del califfo Umayyade ‘Abd al-Malik, a cui risale la
monetazione con legende in arabo, e l’iscrizione coranica della Cupola della Roccia a
Gerusalemme, una delle più antiche testimonianze scritte del testo coranico di datazione certa (le
forme delle lettere di questa iscrizione sono le terzo dall’alto nella tavola qui sopra); solo di recente
la datazione al carbonio 14 di alcuni manoscritti coranici ha permesso di attribuire alcuni testi ad un
periodo molto probabilmente precedente, confutando tra l’altro quelle teorie “revisioniste” radicali
che collocavano la composizione del Corano nell’ottavo secolo se non più tardi, come suggerito
negli anni Settanta da John Wansbrough.
La forma grafica della parola è assunta in epoca islamica come mezzo della manifestazione di
essa; sebbene l’oralità mantenga un ruolo importante nella trasmissione del sapere, nei primi secoli
dell’Islam, e specie a partire dal periodo abbaside (che coincide con l’introduzione della carta) il
mondo arabo-musulmano diventa una società letterata, in cui la scrittura è un deposito di valori
culturali ed estetici. Si standardizza l’uso dei punti diacritici; si codificano gli stili di scrittura a
mano per libri, documenti, iscrizioni pubbliche; si diffondono forme specifiche di codice, a volte
autentiche opere d’arte; si definisce il sistema di notazione delle vocali lunghe, già spesso indicate
dalle consonanti omorganiche (matres lectionis: solitamente ʼ,h,y,w) in ebraico e in alcune
tradizioni aramaiche; si costituisce, in parallelo agli inizi della tradizione grammaticale, la codifica
delle vocali brevi con segni aggiuntivi, anche qui seguendo una pratica che ha paralleli in ebraico e
in siriaco. La più antica scrittura a mano islamica è un “corsivo” detto ḥijāzī; la si trova nei primi
manoscritti, alcuni dei quali attribuibili al VII secolo.
Esempio di scrittura ḥijāzī.
In questo stesso periodo è attestata una scrittura “monumentale”, detta generalmente “cufica”, di
cui la Cupola della Roccia è appunto un esempio precoce. Il cufico può essere caratterizzato da
forme angolose, ben distinte tra loro, e linee di spessore costante; tuttavia questo termine copre una
varietà di forme grafiche ed è difficile da ricondurre ad un tipo unico.
Ad esso sembra collegarsi il corsivo abbaside, detto a volte “semi-cufico” tipico dei documenti di
cancelleria tra ottavo e nono secolo. Eccone un esempio (si noti la forma ormai moderna dei punti
diacritici e della vocalizzazione):
Questa è una forma di transizione con le cosiddette “scritture proporzionate” che appaiono e sono
codificate specialmente nel corso del decimo secolo, ad opera dei primi grandi calligrafi/artisti
professionali. La loro prima sistematizzazione è attribuita al “riformatore” Ibn Muqla (m. 940). Ibn
al-Bawwāb (m. 1022) è considerato il massimo interprete dell’arte calligrafica di questo tipo. La
tradizione fisserà nel numero di sei queste tipologie di scrittura canoniche, spesso raggruppate in
coppie:
1) Nasḫ (l’esempio proviene dal celebre Corano di Ibn al-Bawwāb) E’ quella diventerà la scrittura
“standard” dell’arabo, anche nella stampa:
2) Ṯuluṯ:
3) Tawqī‘:
4) Riqā‘:
5) Muḥaqqaq (si noti ne riquadro rosso in figura il tratto in alto a destra della lam e della alif, detto
tarwīsh; questo è presente in numerosi stili calligrafici di scrittura “proporzionata”)
6) Rayḥān, è classificata come il modulo “ridotto” del muhaqqaq:
Dall’undicesimo secolo il mondo musulmano conosce processi di regionalizzazione, associati alla
perdita di potere e in seguito alla distruzione (ad opera dei Mongoli, nel 1258) del Califfato. Se già
nel decimo secolo città come Bukhara, Il Cairo e Cordova possono proporsi come centri culturali
alternativi a Baghdad, questo processo diventa in seguito assai più accentuato, in particolare in
epoca mongola. E’ inoltre sempre più a partire da questo periodo che l’alfabeto arabo viene adattato
a scrivere comunemente altre lingue, anzitutto il persiano (prime manifestazioni già alla fine del
nono secolo) e più tardi il turco, numerose lingue dell’India, il kurdo, il berbero, lo hausa, il malese,
lo swahili, ecc…
Si formano così, circa a partire dal dodicesimo secolo, stili calligrafici regionali, associati a specifici
territori o a particolari corti: ad esempio le scritture Maghribi, Andalusi, ‘Ajami (nell’Africa
saheliana), Bihari (in India).
Vale la pena di citare gli stili nelle regioni centrali del Medio Oriente, specialmente in Iran, dove
opera il grande calligrafo Yāqūt al-Musta‘ṣimī (m. 1298) ultimo grande codificatore delle sei
scritture “proprozionate”.
Nel XIII secolo prende piede uno stile rapido di scrittura cancelleresca ornata e curvilinea detto
ta’līq (sospeso) per il suo tipico andamento obliquo; da questo si evolverà, in particolare per i
documenti ufficiali dello stato ottomano, la dīwānī, la scrittura “di corte”, caratterizzata da elaborate
legature.
Nel corso del XIV secolo prende piede nelle scuole calligrafiche dell’Iran occidentale (Tabriz ed
Isfahan in particolare) la caratteristica grafia nasta’līq (da naskh-e ta’līq, cioè “naskh sospeso”; qui
sotto un esempio) un’elaborata evoluzione del naskh usato in particolare nella poesia persiana. Da
essi si svilupperà più tardi la shekaste, la scrittura “spezzata”, rapida e corsiva, che caratterizza la
scrittura persiana a mano in età moderna.
PARTE IV: LINGUAGGIO E NAZIONALISMO
Il racconto di un’autoctonia esclusiva, ossia di un’identità potenzialmente assassina.
Marcel Detienne
Sezione 1 Nazionalismo e linguaggio
Il concetto di “nazione” segna in modo fondamentale la storia degli ultimi secoli ed è uno degli
elementi centrali della modernità. E’ difficile fornire una definizione adeguata di “nazione”, ma
vale la pena di richiamare quella offerta da Ernest Renan: “Un plebiscite de tous le jours”, un
plebiscito quotidiano. Questa definizione riflette una concezione “civica” dell’appartenenza
nazionale, tipica delle tradizioni politiche francesi successive alla rivoluzione, che mette al centro la
partecipazione del cittadino alla vita pubblica e dunque la dimensione di adesione consapevole alla
vita nazionale.
A questa concezione se ne contrappone un’altra, tipicamente associata ai pensatori di area tedesca, e
attribuibile per certi aspetti a Herder, che vede invece nell’appartenenza alla nazione un dato
primario dell’identità definito dalla nascita, dalla terra, dalla lingua prima e al di sopra della
partecipazione politica o dell’esistenza stessa di uno Stato.
Questa differenza contrassegna il dibattito pubblico europeo per buona parte dei secoli
diciannovesimo e ventesimo; in circostanza e modi molti diversi, essa è rilevante ancora oggi, ad
esempio, nei dibattiti sulla cittadinanza e sull’adozione dello ius soli al posto dello ius sanguinis.
Parallelamente, vi è una distinzione tra gli studiosi “modernisti” e “primordialisti”, quelli cioè che
concepiscono la nazione come una creazione “artificiale” della modernità, come Eric Hobsbawm o
Benedict Anderson, e quelli che mettono invece l’accento sui sentimenti di comunità e solidarietà
politica che “fondano” simbolicamente la nazione nel sentire comune, e che sarebbero connessi ad
un senso di appartenenza “originario” e essenzialmente spontaneo. Una versione moderata di questo
punto di vista è stata autorevolmente sostenuta da Anthony Smith.
E’ chiaro che nelle formazioni nazionali esista un certo grado di artificialità; esse sono costruite, a
partire da uno Stato o da una ideologia di mobilitazione che, normalmente, aspira a farsi Stato.
Tuttavia, è anche vero che la comunità nazionale può avere una esistenza al di fuori della struttura
statale, strutturandosi intorno a simboli ed elementi condivisi.
Tra questi, il linguaggio è un fattore di primaria importanza. I nazionalismi europei del
diciannovesimo secolo enfatizzano il ruolo della lingua (normalmente nella sua varietà letteraria)
come manifestazione, e al tempo stesso come base, della solidarietà tra i membri di una nazione e
come caratteristica distintiva essenziale della comunità nazionale; come nota correttamente
Benedict Anderson, tuttavia, questo non è altrettanto valido per i contemporanei nazionalismi del
continente americano, presso i quali la lingua non costituiva un fattore distintivo importante
(sebbene vi siano stati tentativi di definire una “lingua americana” o di adattare l’ortografia dello
spagnolo alle pronunce locali del Sudamerica, il successo di queste operazioni è stato limitato).
Esiste in effetti una considerevole varietà nei modi con cui i diversi movimenti nazionali hanno
approcciato le questioni linguistiche. Si possono comunque individuare alcune tendenze di fondo,
con l’avvertenza che non esauriscono la complessità dei discorsi sul rapporto tra comunità
nazionale e lingua, o lingue, presenti nella realtà storica.
- Il nazionalismo, come parte del progetto moderno, promuove spesso una standardizzazione
normativa (grammaticale, ortografica e stilistica) ed una omogeneizzazione della lingua
“nazionale”. Negli Stati nazionali, questo può avvenire attraverso la costituzione di accademie della
lingua che ne definiscano ad esempio l’ortografia, attraverso la scolarizzazione di massa, i mass
media, ecc… Nel caso di movimenti nazionali non statali, è storicamente critico il ruolo della
stampa.
- In molti Stati post-coloniali, si ha un tentativo di codificare lingue di tradizione orale in una forma
scritta, e, spesso contestualmente, di modernizzare la lingua per renderla capace di esprimere i
concetti tipici della vita moderna, specialmente tramite ampliamenti lessicali (usualmente prestiti o
calchi). E’ parte di quella che viene chiamata “ingegneria linguistica”.
- In molti casi, gli stati e i movimenti nazionali possono promuovere politiche di sostituzione
linguistica, imponendo o favorendo una varietà “nazionale” contro altre (lingue minoritarie, locali,
ecc…). Ad esempio, in Italia, il fascismo promosse politiche repressive contro l’uso delle lingue
minoritarie (in particolare tedesco, sloveno e croato). Non sempre tuttavia queste politiche sono
declinate in senso repressivo. Il movimento sionista è riuscito a suscitare una adesione largamente
volontaria (anche se certamente sostenuta da una forte pressione sociale e da politiche ufficiali
favorevoli) all’uso dell’ebraico come lingua nazionale della comunità ebraica immigrata in
Palestina e nello stato d’Israele.
- Altrove, gli Stati nazionali possono scegliere di promuovere la diversità linguistica come valore
storico-identitario da preservare. Questo approccio, relativamente più raro, è stato sostenuto almeno
in linea di principio da una importante corrente all’interno del movimento nazionale indiano, ed è
operante anche altrove (ad esempio in Sudafrica e più recentemente in Scozia).
Sezione 2 Lo sviluppo del nazionalismo arabo
Il nazionalismo arabo si caratterizza per il fortissimo risalto ideologico che viene dato alla lingua
come espressione dell’identità e dei valori della comunità nazionale, e per lo spazio teorico che
viene dato di conseguenza alla discussione sulla lingua. Questa situazione riflette da un lato
l’importanza della lingua araba e la sua centralità nella percezione storica dei popoli arabi come
veicolo primario d’espressione della civiltà arabo-islamica; dall’altro, la criticità della situazione di
diglossia rispetto all’aspirazione unitaria simbolizzata dalla lingua standard.
Il nazionalismo arabo, come movimento politico, appare relativamente tardi, come reazione al
declino dell’Impero multinazionale ottomano. Uno dei fattori di crisi dell’Impero Ottomano è
proprio la pressione esercitata dai nuovi movimenti nazionali delle popolazioni cristiane dei
Balcani, una delle aree più ricche dell’Impero, che iniziano a manifestarsi alla fine del diciottesimo
secolo e per tutto il diciannovesimo. Dapprima Serbi e Greci, poi Bulgari e Romeni, infine Albanesi
e, fuori dai Balcani, Armeni iniziano a definire la propria appartenenza nazionale, su base a un
tempo linguistica e religiosa; le élites colte di queste popolazioni ambiscono, con l’appoggio e
l’incoraggiamento delle potenze imperialiste europee (in particolare della Russia) a farsi classe
dirigente di nuovi stati-nazione moderni.
La reazione del centro ottomano a queste tensioni è molteplice e attraversa diverse fasi. Da un lato
si lancia, tra molte contraddizioni, un programma di modernizzazione, particolarmente in campo
giuridico, dove un codice fondato sul diritto francese sostituisce in molti campi il tradizionale
sistema “islamico” amministrato dai qāḍī. Sono le riforme, le cosiddette tanzimat (a partire
dall’editto di Gülhane nel 1839). Dall’altro, sotto il regno di Abdülhamid (1878-1908) si enfatizza
l’identità musulmana dello Stato (che perde proprio nel 1878, in seguito alla guerra contro la Russia
e al congresso europeo di Berlino, molti dei suoi restanti territori a popolamento cristiano) e il ruolo
del sultano ottomano come Califfo. Infine dopo il 1908 il potere viene assunto da un gruppo di
ufficiali dell’esercito, il Comitato Unione e Progresso, detti “Giovani Turchi”, che fanno propria
una visione nazionalista turca, e cercano di promuoverla in tutto l’impero (che nel 1912 perde anche
la Libia, in seguito all’invasione italiana, e la quasi totalità dei restanti territori balcanici) a fronte
del fallimento di definire lo Stato ottomano su base dinastica o religiosa.
E’ di fronte alle conseguenze linguistiche di questa ultima fase che il nazionalismo arabo, da
movimento culturale di “rinascita” letteraria passa a rivendicazioni politiche. Il nazionalismo turco
aliena infatti parte delle élites arabe dalla fedeltà al governo ottomano nel tentativo di imporre il
turco come lingua dell’amministrazione delle province arabe.
La Prima Guerra Mondiale distrugge l’Impero Ottomano, ma nonostante le vaghe promesse del
governo inglese alla dinastia hashimita dello Hijāz, che guida una rivolta araba contro i Turchi,
dopo la guerra non si costituirà uno Stato nazionale arabo. Il nazionalismo arabo dovrà dunque
fronteggiare una nuova situazione di divisione politica del mondo arabo in numerose entità politiche
sotto tutela delle potenze coloniali.
Inoltre, tre di queste entità pongono problemi particolarmente acuti. Il Libano, anche se quasi
interamente arabofono, è dominato politicamente e demograficamente dalla comunità cristiana
maronita che, legata alla Francia, vede svilupparsi al suo interno movimenti orientati a promuovere
una visione non araba dell’identità libanese: associazione con l’eredità storica fenicia, tentativi di
promozione dell’arabo parlato locale come lingua letteraria in caratteri latini. L’Iraq si trova ad
ospitare entro i suoi confini una consistente minoranza kurda, non arabofona e non intenzionata ad
assimilarsi ad un progetto nazionale arabo che vedrebbe comunque in posizione di favore le élites
arabo-sunnite dell’area a nord di Baghdad.
Infine, in Palestina le aspirazioni politiche degli arabi della regione si trovano in un conflitto sempre
più acuto e irrisolvibile con quelle del movimento sionista.
Il nazionalismo arabo si trova dunque a confrontarsi con la realtà di identità “locali” dotate di tutta
la forza che le forniscono gli apparati statali, in tensione con le aspirazioni “unitarie” basate
soprattutto sulla comune lingua scritta letteraria.
In questo contesto, il linguaggio diventa la chiave per definire una identità “araba” alla base di un
progetto ideale di unificazione e di liberazione dal dominio coloniale. Nonostante la formazione
della Lega degli Stati Arabi dopo la Seconda Guerra Mondiale e la liberazione dalla dominazione
coloniale europea, tutti i tentativi di attuare questo progetto di unificazione (in particolare l’unione
tra Egitto e Siria nel 1959) falliscono. La salita al potere di movimenti nazionalisti arabi in Egitto,
Siria, Iraq dopo gli anni Cinquanta, inoltre, non porta ad una stabile integrazione sociale ed
economica tra questi paesi; il prestigio dei regimi nazionalisti crolla dopo la sconfitta contro Israele
nel 1967.
Sezione 3 Lingua araba e nazionalismo
Due voci all’interno del variegato discorso nazionalista arabo vanno ricordate per aver discusso in
modo dettagliato il rapporto tra lingua e nazione araba. Si tratta di Satiʼ al-Ḥuṣrī e Zakī al-Arsūzī,
entrambi esponenti del Ba’ṯ, il partito nazionalista e socialista arabo (ma non, beninteso,
“nazionalsocialista”; anche se certe influenze del fascismo europeo sul pensiero del Ba’ṯ possono
essere individuate, molto più vicine al nazismo sono le posizioni del Partito Nazionale della Grande
Siria, guidato da Anṭun Sa’ada. Questo partito rifiuta il nazionalismo “arabo” a base etnico-
linguistica e fa invece riferimento all’eredità storica dell’impero assiro come spazio “naturale” di
una nazione “siriana” su base perlopiù geografica).
Satiʼ al-Ḥuṣrī
La vita e l’opera di Satiʼ al-Ḥuṣrī (1882-1968) sono quelle di un appassionato educatore. L’amore
per la lingua araba come segno e simbolo dell’unità “naturale” dei popoli arabi è il centro del suo
pensiero. L’identità e l’unità araba è per lui fondata su di essa. Sul piano politico, questo si traduce
nella promozione della lingua standard e nella sua modernizzazione lessicale (un programma
comunque già avviato nell’Ottocento, prima ancora della formazione del nazionalismo arabo come
movimento politico con ambizioni statali) e nella lotta per difenderne la ricchezza e la purezza.
Secondo Satiʼ al-Ḥuṣrī, pur tra molte contraddizioni, tutte le nazioni sono fatti essenzialmente
linguistici, in quanto la lingua esprime lo spirito più profondo di un popolo; l’unificazione degli
stati arabi sarebbe dunque un adeguamento al “normale” stato di cose dei gruppi umani nel mondo
moderno.
Zakī al-Arsūzī
Lo yemenita Zakī al-Arsūzī (1899-1968), importante dirigente del Ba’ṯ, assume una posizione
originale rispetto al problema della diglossia nelle società araba. Nella sua visione, infatti, la
diversità degli arabi parlati a fronte di una lingua scritta unitaria non è un fattore di divisione o un
problema, ma il genio stesso della lingua araba, capace di esprimere in questa dualità di parlato e
scritto la dualità dello spirito umano, tra cuore (la madrelingua, l’arabo parlato) e ragione (la lingua
formale, appresa a scuola).