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UNIVERSITÀ DI MACERATA DISPENSE PER IL CORSO DI FILOLOGIA ARABA A.A. 2014-2015 Dott. Marco Lauri INTRODUZIONE Finalità del corso Scopo primario del corso è quello di offrire una panoramica del linguaggio nelle società arabe, e della storia intellettuale delle società arabe attraverso il linguaggio. Struttura del corso: Parte 1: la posizione linguistica dell'arabo Cenni generali di linguistica storica. Le lingue semitiche. (1-10) Le lingue afro-asiatiche: genealogia e classificazione. (3-10) L'uso politico e razziale del “semitico”. (7-10) Documentazione delle lingue semitiche e loro evoluzione. La posizione dell'arabo nelle lingue semitiche. (8-10) Il panorama linguistico dell'Arabia preislamica. La più antica documentazione dell'arabo. (14- 10) La lingua del Corano e della poesia preislamica. Cenni ai dibattiti filologici sul Corano. (15- 10) La fissazione del testo coranico. Gli approcci interpretativi al testo sacro. (21-10) L'espansione dell'arabo come lingua di cultura e la frammentazione delle lingue parlate. I modelli di formazione del neo-arabo. (22-10) Riepilogo e chiarimento. Interventi seminariali degli studenti. (28-10) Parte 2: il pensiero linguistico arabo Il pensiero linguistico arabo: caratteri generali e basi concettuali. Al-Khalīl e Sībawayh. (29-10) Le “scuole” di Baṣra e di Kūfa. Strutture soggiacenti e teoria del governo nella grammatica araba. Sviluppo storico del pensiero grammaticale arabo. (4-11) La riflessione speculativa sul linguaggio nel suo contesto intellettuale. (Ğurğānī, Ibn Ğinnī, Ibn Maḍā‘) (5-11)

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UNIVERSITÀ DI MACERATA

DISPENSE PER IL CORSO DI FILOLOGIA ARABA A.A. 2014-2015

Dott. Marco Lauri

INTRODUZIONE

Finalità del corso

Scopo primario del corso è quello di offrire una panoramica del linguaggio nelle società arabe, e

della storia intellettuale delle società arabe attraverso il linguaggio.

Struttura del corso:

Parte 1: la posizione linguistica dell'arabo

Cenni generali di linguistica storica. Le lingue semitiche. (1-10)

Le lingue afro-asiatiche: genealogia e classificazione. (3-10)

L'uso politico e razziale del “semitico”. (7-10)

Documentazione delle lingue semitiche e loro evoluzione. La posizione dell'arabo nelle lingue

semitiche. (8-10)

Il panorama linguistico dell'Arabia preislamica. La più antica documentazione dell'arabo. (14-

10)

La lingua del Corano e della poesia preislamica. Cenni ai dibattiti filologici sul Corano. (15-

10)

La fissazione del testo coranico. Gli approcci interpretativi al testo sacro. (21-10)

L'espansione dell'arabo come lingua di cultura e la frammentazione delle lingue parlate. I

modelli di formazione del neo-arabo. (22-10)

Riepilogo e chiarimento. Interventi seminariali degli studenti. (28-10)

Parte 2: il pensiero linguistico arabo

Il pensiero linguistico arabo: caratteri generali e basi concettuali. Al-Khalīl e Sībawayh. (29-10)

Le “scuole” di Baṣra e di Kūfa. Strutture soggiacenti e teoria del governo nella grammatica

araba. Sviluppo storico del pensiero grammaticale arabo. (4-11)

La riflessione speculativa sul linguaggio nel suo contesto intellettuale. (Ğurğānī, Ibn Ğinnī, Ibn

Maḍā‘) (5-11)

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Grammatica e filosofia. Grammatica e logica. Il dibattito sulle origini del linguaggio. Al-Fārābī.

Ibn Ṭufayl. (11-11)

Abū Ḥayyān al-Ġarnāṭī e la pluralità delle lingue. Riepilogo, chiarimento, discussione. (12-11)

Parte 3: scrittura, paleografia e calligrafia

Funzioni cognitive della scrittura. Tipologie di scrittura in ottica comparativa.(18-11)

Scrittura e oralità. Il libro e la trasmissione del sapere nel Medioevo islamico. (19-11)

Evoluzione della scrittura nel Vicino Oriente antico; evoluzione delle scritture antiche

dell'Arabia. Origine dell'alfabeto. (25-11)

L'evoluzione della scrittura araba nei primi secoli. Cenni di paleografia e calligrafia arabe del

Medioevo e in epoca ottomana. Approfondimenti seminariali. (26-11)

Parte 4: lingua e identità

Lingua, identità e nazionalismo. Problemi generali. (2-12)

La formazione del nazionalismo arabo nel suo contesto storico. (3-12)

Il ruolo politico della lingua araba negli Stati moderni. (9-12)

Sāṭi‘ al-Ḥuṣrī e Zakī al-Arsūzī. Riepilogo. (10-12)

Discussione seminariale (17-12)

PARTE I

LA POSIZIONE LINGUISTICA DELL'ARABO

Sezione 1

Cenni generali di linguistica storica.

Il metodo comparativo.

Filologia e linguistica.

Filologia significa, etimologicamente, “amore per il lógos” (“discorso, parola, conoscenza

discorsiva”). Il termine è impiegato già in greco classico, e in latino in epoca romana, nel senso

generale di “varia e molteplice dottrina” (Enciclopedia Italiana Treccani, s.v.). A partire dal

Rinascimento si comincia a usare questo termine per indicare una disciplina più o meno

chiaramente definita: lo studio e la ricostruzione dei testi e delle letterature del passato, in

particolare di quelli greci e latini trasmessi dall'antichità, primariamente attraverso l'analisi

comparativa dei manoscritti. Questo implicava lo studio del linguaggio scritto nel suo sviluppo

storico, l'analisi etimologica delle singole parole, lo studio, più in generale, del passato attraverso il

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linguaggio. Nel corso dell'Età Moderna, il campo di azione dello studio filologico si estende a testi

in lingue europee volgari e alle lingue “orientali” - prima di tutto quelle dell'Asia Occidentale e del

Nord Africa come l'arabo, l'ebraico, il copto e le diverse forme di aramaico, all'inizio con

motivazioni prevalentemente religiose.

I metodi filologici moderni implicano un approccio storico-critico ai testi, che ne esamina la forma

linguistica e quando possibile la modalità di trasmissione scritta. Negli ultimi decenni del

Settecento, lo studio filologico acquista nuove dimensioni in collegamento alla nascita della

linguistica storica comparata, da un lato, e della nascente, quasi rivoluzionaria convinzione che sia

possibile ottenere un sapere di carattere generale dalla conoscenza della storia, dall'altro. La

filologia si pone dunque, nell’Ottocento, con l’ambizione di rappresentare una disciplina scientifica

dello spirito umano, specialmente nelle correnti di ispirazione storicistica formatesi in particolare in

Germania. La filologia rivendica centralità come elemento fondante del sapere storico e base

epistemologica della conoscenza. Va sottolineato tuttavia il carattere particolare di ogni genere di

indagine filologica, che nel contesto intellettuale ottocentesco si connette alle aspirazioni nazionali

dei popoli europei, allora in pieno sviluppo.

La linguistica scientifica moderna si forma in quest'epoca, in stretta relazione con la filologia

scientifica. Linguistica o glottologia è lo studio del fenomeno linguistico in quanto tale. A partire

dalla rivoluzione intellettuale dei primi anni dell'Ottocento, questa si può distinguere in due ambiti

principali. La linguistica sincronica analizza la lingua nel suo funzionamento e nelle sue

articolazioni strutturali interne, continuando all'incirca, con modalità sempre più rigorose e spesso

più astratte, la tradizione di studio della grammatica. La linguistica storica o diacronica è, almeno

come studio scientifico e sistematico, una innovazione del periodo tra gli ultimi anni del Settecento

e i primi dell'Ottocento. Essa può essere considerata una estensione sistematica della tradizione di

studi filologici, e in alcuni casi può essere considerata indistinguibile dalla filologia, se non

addirittura un suo strumento (così ad esempio per Max Müller, uno dei padri degli studi sanscriti,

che vedeva la filologia come la “scienza naturale” del linguaggio); il suo scopo è l'analisi del

linguaggio nel suo mutamento temporale e la ricostruzione dei rapporti storici tra le varie lingue.

In linea generale, anche se con qualche forzatura, si potrebbe dire che la filologia si concentra sullo

studio di testi, e in particolare di testi letterari, mentre la linguistica, muovendosi solitamente su un

livello più astratto, analizza (in termini diacronici o sincronici) il linguaggio umano come sistema

in quanto tale. Dato che le attestazioni del linguaggio sono, in senso lato, appunto dei testi, questi

due gruppi di discipline risultano comunque strettamente collegati. D'altra parte, mentre esiste una

linguistica generale, che si preoccupa dei principi e dei metodi del linguaggio in sé, è molto raro

sentir parlare di “filologia generale”. La filologia è praticamente sempre legata a uno o più corpi

testuali definiti, e ai relativi ambiti culturali.

La linguistica storica.

La nascita della linguistica storica si può far risalire al lavoro di William Jones (1786), di Rasmus

Rask (1814), e di Franz Bopp (1816) sulla comparazione, soprattutto morfologica e lessicale, tra le

antiche lingue europee (greco, latino, gotico, ecc.), il persiano pahlavi e il sanscrito. La definizione

della parentela linguistica indeuropea, coincidendo con la fase di dominio globale dell'Europa e

precedendo di poco lo sviluppo dell'antropologia razziale, fu accolta con grandissimo interesse ed

entusiasmo nei circoli intellettuali europei (si veda la sezione 3).

La comparazione linguistica era vista come una chiave per ricostruire la storia al di là della

documentazione scritta disponibile. Già si sapeva che le lingue si modificano nel corso del tempo,

ma ora questo mutamento poteva essere indagato scientificamente, specialmente attraverso il

metodo comparativo. Il metodo comparativo consiste nel confronto sistematico di forme

linguistiche storicamente attestate per verificarne la relazione e ricostruire le eventuali proto-forme

da cui deriverebbero (ma che vanno comunque intese come ipotetiche). Centrale è l'individuazione

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e l'applicazione di leggi fonetiche regolari. In questa forma, il metodo si deve specialmente ai

grandi indeuropeisti della scuola filologica tedesca nella seconda metà dell'Ottocento: dapprima

Grimm, Schleicher e i neogrammatici.

Schleicher in particolare elaborò un modello genealogico di evoluzione linguistica per divergenza

da una “lingua madre” verso “lingue figlie” (Stammbaumtheorie). Pochi anni dopo Padre Joseph

Schmidt propose il modello alternativo della Wellentheorie, della diffusione cioè di caratteristiche e

forme linguistiche per “onde” da uno o più centri innovatori, anche attraverso aree linguistiche

diverse,

Questi due modelli sono stati spesso visti come competitivi, ma vanno più correttamente pensati

come complementari ed entrambi utili a spiegare storicamente i fatti linguistici. Questa

complementarità è particolarmente pertinente nello studio dello spazio linguistico semitico, come si

vedrà.

Le famiglie linguistiche.

La linguistica storica, individuando forme ancestrali, consente di costruire modelli genealogici di

relazioni tra forme linguistiche simili. Alcune forme linguistiche sono così raggruppate in famiglie

in cui determinate forme morfologiche e lessicali si trasformano in altre con il tempo.

In generale, uno dei modi più sicuri e generalmente accettati per stabilire la parentela genetica tra le

lingue è stata storicamente definita sulla base di corrispondenze paradigmatiche regolari nella

morfologia. Ad esempio, la base dello studio di Bopp sulla parentela genetica dell'indeuropeo è

fornita da corrispondenze nella coniugazione verbale greca, latina e sanscrita, in cui si potevano

mostrare corrispondenze regolari tra le desinenze delle diverse forme nelle varie lingue. Uno dei più

affidabili indicatori dell'esistenza di una famiglia linguistica è la presenza di una serie di

innovazioni condivise rispetto alle proto-forme, quando sia possibile individuarle.

Nelle parole della semitista Na'ama Pat-El:

“Le relazioni fondamentali tra lingue sono stabilite attraverso corrispondenze regolari di suoni

(fonemi), ma, per valutare l'esatta ramificazione di una famiglia linguistica, il principio più

importante è quello delle innovazioni condivise. Le innovazioni condivise sono tratti che emergono

in certe lingue e non sono, di conseguenza, parte del repertorio di tratti della lingua ancestrale

comune (o di quelli di altre lingue discendenti della stessa lingua ancestrale). Se due lingue

condividono una caratteristica innovativa, questa caratteristica è indicazione della loro vicinanza

genetica, ovvero entrambe condividono un antenato comune in cui ha avuto luogo l'innovazione. (The basic relationships between languages are established through regular sound correspondences, but in order to

evaluate the exact branching of a family the most important principle is shared innovations. Shared innovations are traits that arise in certain languages and are not, therefore, part of the repertoire of traits of the common ancestral

language (or, consequently, those of other languages descending from the same ancestral language). If two languages

share an innovative feature, that feature is indicative of their genetic closeness, i.e., they both share an ancestor in

which the innovation occurred.)” (Hackett e Pat-El 2010, traduzione mia).

Di grande importanza sono anche le corrispondenze lessicali a partire dalle quali è possibile

mostrare regolarità fonetiche nella corrispondenza tra diverse lingue. Si tende a considerare più

significative le corrispondenze nel lessico di base, che sono generalmente meno soggette a prestiti;

tuttavia, le sole corrispondenze lessicali non vanno normalmente considerate indicative di parentela

linguistica, in quanto il lessico è la componente della lingua più comunemente soggetta a

cambiamenti, specie in caso di contatto linguistico. Questo è particolarmente rilevante nei casi di

contatto continuo tra lingue geneticamente correlate e geograficamente prossime, come sono state

molte lingue semitiche per gran parte della loro storia. Esistono comunque diverse strategie per

distinguere il prestito linguistico dagli elementi ereditati (Bowern 2011).

Con alcuni antecedenti, l'individuazione di alcune delle principali famiglie genealogiche di lingue

del Vecchio Mondo è avvenuta nel corso del diciannovesimo secolo. Il lavoro comparativo

sull'indeuropeo è stato particolarmente fecondo, grazie alla ricchezza, disponibilità, varietà e

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relativa antichità della documentazione scritta. La possibilità di usare per la comparazione queste

varietà più antiche della lingua agevola il lavoro di ricostruzione. Le corrispondenze paradigmatiche

tra latino e sanscrito, ad esempio, sono quasi completamente oscurate nelle moderne lingue “figlie”

come il francese e la hindi, la cui parentela, in assenza di documentazione scritta, sarebbe assai più

difficile da documentare.

Da tempo esiste in linguistica storica una divisione approssimativa tra studiosi lumpers e splitters:

ricercatori che tendono rispettivamente a favorire raggruppamenti ampi, con ricostruzioni che si

spingono indietro nel tempo, o quelli che accettano come validi solo i raggruppamenti genetici

meglio fondati e più piccoli, reagendo con scetticismo a comparazioni ad ampio raggio.

Entrambi gli atteggiamenti possono essere considerati utili, forse necessari alla ricerca linguistica

storica. Tra i lumpers si possono segnalare quelli legati alla scuola di Mosca, particolarmente

impegnata nelle comparazioni linguistiche in profondità e nella ricostruzione di proto-forme molto

antiche. Tra i suoi principali rappresentanti si ricordano il grande comparatista Igor' D'jakonov

(Diakonoff) e Sergej Starostin.

Tra le grandi famiglie linguistiche generalmente accettate si segnalano quella indeuropea, quella

sino-tibetana, comprendente il cinese, il tibetano, il birmano e molte altre lingue dell'Asia

Orientale, quella austronesiana, che abbraccia la grande maggioranza delle lingue parlate in

Indonesia, Polinesia e Madagascar. La grande maggioranza delle lingue dell'Africa a sud del Sahara

sono considerate parte della grande famiglia Niger-Congo (o Niger-Kordofan), che è stata

riconosciuta alla metà del Ventesimo secolo; la sua precisa composizione è però ancora in parte

incerta, e diverse lingue africane potrebbero esibire caratteristiche Niger-Congo a causa di

prolungato contatto anziché di derivazione genetica.

Altre famiglie linguistiche sono state considerate valide per molto tempo ma sono attualmente

discusse: è il caso ad esempio della famiglia altaica, che comprenderebbe il turco, il mongolo e

forse il coreano ed il giapponese, la cui esistenza è al centro di una importante controversia.

Pochissimi oggi accettano la più ampia famiglia uralo-altaica, che raggruppava le lingue altaiche

con quelle “uraliche” dell’Europa settentrionale (finlandese, ungherese, ecc…) su base

prevalentemente tipologica.

La distribuzione storica e attuale delle relazioni genealogiche tra le lingue può essere un importante

indicatore di fenomeni storici, in particolare in relazione al movimento e alla diffusione di gruppi

umani. Non vi è infatti diffusione linguistica senza contatto; d'altra parte, la sostituzione di una

lingua non implica necessariamente una sostituzione di popolazione (anche se questo può avvenire,

come nel caso dell'attuale predominio di lingue indeuropee in Nord America).

Lingue e dialetti

“Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”. Questa facezia è popolare tra i linguisti,

anche se inesatta. Il linguaggio umano presenta una immensa ricchezza e variabilità di forme, che

spesso si presentano in un continuum di variazioni, solitamente geografiche o sociali. Non esiste

una definizione univoca e condivisa di cosa costituisca una “lingua” in opposizione a un “dialetto”.

In linea di massima i linguisti tendono a fare riferimento alla comprensibilità reciproca tra due

sistemi linguistici come criterio approssimativo, assieme a caratteristiche strutturali (affinità

grammaticali, cambiamenti fonetici, ecc…). È inoltre molto rilevante l’autocoscienza linguistica

delle comunità parlanti. Quest’ultimo fattore è particolarmente problematico, in quanto spesso

riflette fattori normativi (storici, sociali, di prestigio, politici, etc.) non direttamente legati alla

struttura interna del sistema linguistico.

Nell’uso comune, comunque, “l’esercito e la marina” e più ancora l’esistenza di una tradizione

scritta (in particolare una tradizione scritta normativa e codificata) sono spesso considerati elementi

fondamentali per definire una lingua. L’epoca moderna è segnata dal nazionalismo, in cui è spesso

importante l’associazione tra lingua e Stato (si veda la parte 4). Le forme linguistiche che non

godono del sostegno ufficiale dello Stato sono così relegate nella coscienza a dialetti

indipendentemente dai propri caratteri linguistici veri e propri (è questo ad esempio, storicamente, il

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caso della situazione del provenzale e del bretone in Francia, nessuna delle quali può essere

classificata come una variante dialettale del francese).

In questa sede si parlerà normalmente di “varietà linguistiche” e si considereranno in linea di

massima “lingue” quelle che presentano sufficienti caratteri di differenziazione interna (inclusa,

quando documentata, l’eventuale autocoscienza delle comunità parlanti) senza riguardo per i fattori

politici ed ideologici o per l’esistenza di una tradizione scritta. È inevitabile che questo uso implichi

un certo grado di approssimazione.

Tipologia linguistica.

Non tutte le affinità tra lingue sono spiegabili in termini genealogici, specialmente nel caso delle

caratteristiche sintattiche. Fin dal tardo Settecento, sono state tentate classificazioni delle lingue per

tipi che non implicano, in linea di massima, una parentela. Tradizionalmente, si sono indicate

quattro grandi categorie di tipi linguistici, su base morfosintattica: le lingue flessive, agglutinanti,

isolanti, e incorporanti (o polisintetiche). Un'altra categoria tipologica generale è quella delle

lingue sintetiche o analitiche. Queste distinzioni riguardano il modo in cui le parole incorporano al

loro interno informazioni sui propri rapporti nella frase. L'opera di Edward Sapir negli anni '20 e '30

ha offerto una revisione e un raffinamento delle categorie tipologiche, anche se quelle elencate qui

sono ancora occasionalmente utilizzate a fini didattici.

Contrariamente a quanto si è creduto in passato, i fatti tipologici non hanno di per sé valore ai fini

della classificazione linguistica, anche se possono risultare utili in questo senso laddove associati ad

altre indicazioni.

Linguistica di area e di contatto

Il contatto tra lingue è un fenomeno universale nell'evoluzione linguistica, ed è ritenuto un fattore

importante nel cambiamento linguistico. Il lessico è l'elemento di una lingua più comunemente

soggetto a fenomeni di contatto (prestiti lessicali). Tuttavia, non esiste parte di un sistema

linguistico che non possa essere trasmessa in caso di contatto.

Contatti linguistici prolungati possono portare a importanti convergenze tra le caratteristiche

(specialmente fonologiche e sintattiche oltre che lessicali) di lingue geograficamente vicine ma non

strettamente imparentate dal punto di vista genealogico. Questa situazione è stata documentata per

molto tempo in alcune aree specifiche come la penisola balcanica, l'India, e l'Australia. Si parla in

questi casi di “leghe linguistiche” o Sprachbund. Si è sostenuto autorevolmente, ad esempio, che le

lingue dell'Europa centrale ed occidentale, condividano alcune caratteristiche sintattiche specifiche

che permettono di parlare di un'area linguistica europea, indipendentemente dall'appartenenza ai

rami germanico, italico (neolatino) o slavo della grande famiglia indoeuropea o, nel caso

dell'ungherese, a una famiglia linguistica non indeuropea, quella uralica.

Il contatto tra lingue diverse nella stessa area può oscurare le relazioni genealogiche e far

considerare lingue geograficamente prossime più strettamente imparentate di quanto non fossero in

origine.

In alcuni casi, un contatto particolarmente intenso e asimmetrico può portare a fenomeni di

pidginizzazione e creolizzazione. Questi fenomeni, particolarmente documentati in contesti

coloniali nei Caraibi e in Oceania, sono stati a lungo ritenuti casi estremi ed eccezionali di

mutamento linguistico. Più di recente, tuttavia, alcuni linguisti hanno osservato che fenomeni del

genere siano molto più comuni di quel che si pensasse, inducendo scetticismo verso i

raggruppamenti genealogici. Un pidgin è una interlingua, una forma semplificata di una o più

varietà linguistiche, usata per la comunicazione di base tra gruppi linguisticamente diversi; molti

pidgin sono stati usati come lingue commerciali, anche il fenomeno delle “lingue franche” di

commercio non è perfettamente identico a quello dei pidgin. Un creolo è una forma linguistica

“ridotta” e semplificata che si stabilisce come madrelingua di una comunità (potrebbe

originariamente trattarsi di un pidgin). Un caso tipico di creolizzazione è quello in cui una lingua

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dominante viene (imperfettamente) acquisita da una popolazione linguisticamente diversa in poco

tempo e in condizioni di asimmetria gerarchica (ad esempio nel caso delle piantagioni dei Caraibi,

dove la popolazione schiava acquisì imperfettamente la lingua dei padroni). In seguito, con la

trasmissione alle generazioni successive, si ha una ristrutturazione degli elementi linguistici

d'origine in una nuova forma linguistica propria dei gruppi dominati. Il lessico è preso in gran parte

dalla lingua dominante, ma le forme grammaticali sono ricreate in modo originale. Della lingua-

sorgente si perde gran parte della complessità morfologica; alcune forme tipiche che vengono

mantenute sono i verbi all'imperativo. Nel caso in seguito diventi disponibile un migliore accesso

alla lingua-sorgente, si può avere una decreolizzazione, ovvero l'apparizione di caratteristiche

grammaticali precedentemente perdute, più vicine a quelle delle forme standard.

Sezione 2

Le lingue afro-asiatiche: genealogia, tipologia e classificazione.

L'arabo appartiene al ramo semitico della grande famiglia linguistica afro-asiatica, (Afro-asiatic o

Afrasian in inglese; la seconda forma è preferita nella tradizione accademica russa che fa

riferimento alla Scuola di Mosca) in passato nota come camito-semitica.

L'affinità piuttosto stretta tra le lingue semitiche è stata riconosciuta da molto tempo (si veda la

sezione 3). La relazione tra le lingue afro-asiatiche è più complessa, ma già nel Medioevo alcuni

grammatici avevano individuato rapporti tra lingue semitiche e berbere, e a partire dalla metà

dell'Ottocento, la parentela “camito-semitica” aveva un largo consenso in linguistica storica.

Già il nome mette in evidenza la posizione particolare attribuita, all'interno di questa famiglia

linguistica, al ramo semitico; una situazione dovuta in parte a preconcetti degli studiosi europei

dell'epoca, in parte alla natura della documentazione, assai più variegata, antica e ricca per il

semitico che per qualsiasi altra branca dell'afro-asiatico, o in effetti, di qualsiasi altra famiglia

linguistica conosciuta: l'unico possibile termine di paragone in questo senso, l'indeuropeo, non

dispone di documentazione altrettanto antica nel tempo; altra documentazione molto antica di

famiglie linguistiche come il sumerico, l'egizio e il sino-tibetano (rappresentato dal cinese arcaico

delle iscrizioni oracolari di epoca Shang) è limitata sostanzialmente ad una sola lingua e non

consente perciò indagine comparativa. Si noti che la famiglia afro-asiatica nel suo insieme,

associando la documentazione scritta mesopotamica ed antico-egizia, offre alla comparazione una

profondità storica ancora maggiore e priva di paralleli conosciuti altrove. La posizione privilegiata

del semitico, ipotizzata forse più sulla base di pregiudizi razziali e geografici che sulla realtà

linguistica (si veda sezione 3), è stata in seguito messa in discussione: si accetta oggi che non esista

nessun gruppo linguistico “camitico” con caratteri condivisi dai rami africani della famiglia in

opposizione al semitico. Tuttavia, solo verso la metà del Novecento il termine “afro-asiatico” entra

in uso, grazie soprattutto al lavoro del grande e controverso comparatista Joseph Greenberg.

Modelli di classificazione

La famiglia afro-asiatica mostra una considerevole varietà interna, che indica una diversificazione

precoce, stimata variamente dagli studiosi ma riconducibile con buona probabilità alle prime fasi

del Neolitico (ca. 12.000-9.000 anni a.C.); si considera di solito essere la più antica tra le grandi

famiglie linguistiche generalmente accettate.

Esistono sei branche frequentemente accettate dell'afro-asiatico:

1) Semitico: (si veda sotto).

2) Egiziano: la forma linguistica attestata in diverse fasi storiche dalla documentazione scritta

della civiltà faraonica e dell'Egitto ellenistico e romano. Si possono distinguere sei fasi di

sviluppo, corrispondenti a “lingue” diverse più o meno in successione:

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1. Egizio arcaico è la lingua, piuttosto mal documentata, delle più antiche iscrizioni

geroglifiche, trovate soprattutto in contesti funerari, risalenti all'ultimo periodo pre-

dinastico e alle prime due dinastie (attorno al 3000 a.C.)

2. Antico Egizio (Old Egyptian) è la lingua dell'Antico Regno, documentata in modo

abbastanza completo dai testi delle Piramidi e dai primi papiri nel terzo millennio a.C.

3. Medio Egizio è la lingua classica dell'Egitto faraonico. Si tratta della forma letteraria

della lingua probabilmente parlata nel Primo Periodo Intermedio (c.a. 2000 a.C.) e

codificata nel Medio Regno (c.a. 1900-1700 a.C.). Rimane in uso scritto quasi esclusivo

fino al regno del faraone Akhenaten attorno al 1300 a.C., e continuerà ad essere

impiegata nelle iscrizioni geroglifiche per tutta la successiva storia della civiltà

faraonica, come forma linguistica di prestigio. Si trova attestata da un ricchissimo corpus

di iscrizioni geroglifiche e di papiri, anche di contenuto letterario, in scrittura geroglifica

corsiva o ieratica.

4. Tardo Egizio è la lingua parlata nel Nuovo Regno. Emerge alla documentazione scritta,

su iscrizioni e papiri, in conseguenza della rivoluzione religiosa promossa dal faraone

Akhenaten. Presenta differenze importanti dal Medio e dall'Antico egizio, sia nella

pronuncia che nella grammatica (presenza dell'articolo determinativo). La

documentazione, anche letteraria, è molto ricca (ad esempio il Grande Inno ad Aten).

5. Demotico la lingua usata in Egitto in epoca tarda. Non va confusa con la forma di

scrittura dallo stesso nome, che è una forma altamente abbreviata e perlopiù logografica

derivata dallo ieratico usata per scrivere documenti su papiro. Tuttavia, la scrittura e la

forma linguistica demotiche appaiono più o meno contemporaneamente a partire dalla

XXVI dinastia (c.a. 650 a.C.) e restano in uso in epoca persiana, ellenistica e romana. Le

ultime documentazioni risalgono al V secolo d.C.

6. Copto è la forma finale dell'egiziano, che esprime la cultura scritta dell'Egitto cristiano.

A differenza di tutte le varietà precedenti, è documentato in una scrittura alfabetica, che

utilizza un alfabeto greco a cui sono aggiunti alcuni segni. La documentazione è molto

ricca, in particolare in campo religioso. Il copto è documentato in sei principali varietà

dialettali che presentano variazioni fonologiche e grammaticali, e risente di una forte

influenza linguistica del greco. Attestato a partire dal III-IV secolo d.C., come lingua

parlata entra in declino tra nono e decimo secolo a favore dell'arabo. Rimane nell'uso

parlato probabilmente fino al XIV o forse al XVII secolo. Tuttora è in uso come lingua

liturgica e culturale della chiesa copta d'Egitto.

3) Le lingue libico-berbere parlate nell'Africa del Nord ad ovest della valle del Nilo.

Nell'antichità sono documentate da un grande numero di brevi iscrizioni dette iscrizioni

libiche, di epoca tardo-cartaginese e romana, in alfabeto fenicio modificato (punico) o in

alfabeto latino a partire dal III secolo a.C. Alcuni testi in lingue berbere scritte con l’alfabeto

arabo sopravvivono dal periodo medievale. Le diverse forme moderne sono diffuse in aree

sparse attraverso tutto il Nordafrica ad ovest del Nilo e gran parte del Sahara centrale e

occidentale, particolarmente in Algeria e Marocco, e sono spesso indicate collettivamente

come Tamazight. Anche se strettamente imparentate tra loro, le diverse varietà non sono

mutualmente comprensibili. Si fa uso per scriverle a volte dell'alfabeto latino, altre volte di

quello arabo, o, più spesso, di diversi adattamenti moderni delle Tifinagh, un alfabeto

consonantico tradizionale, rimasto in uso sporadico e soprattutto decorativo in epoca

islamica, che sembra derivato dal fenicio e forse continua quello delle iscrizioni libiche.

Quasi certamente apparteneva al gruppo libico-berbero la lingua estinta parlata dai

Guanchos, la popolazione nativa delle isole Canarie prima della conquista spagnola alla fine

del quindicesimo secolo.

4) Le lingue chadiche, parlate in una vasta fascia di territorio nel Sahel centrale a sud del

Sahara, attorno al lago Chad e nelle savane tra Nigeria e Niger. L'appartenenza delle lingue

chadiche all'afro-asiatico è oggi generalmente accettata ma rimase a lungo controversa. La

più importante tra queste lingue è lo Hausa (oltre 30 milioni di parlanti), usato come lingua

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franca in una vasta regione del Sahel comprendente il Niger e quasi tutta la metà

settentrionale della Nigeria, e come uno dei principali veicoli della cultura islamica nella

regione. Si dividono in quattro sottogruppi principali:

1. Chadico occidentale, comprendente lo Hausa. Copre una vasta area centrata sulla

Nigeria settentrionale e il Niger centrale.

2. Chadico centrale o Biu-Mandara, un insieme di numerose lingue prive di tradizione

scritta parlate tra il nord-est della Nigeria, il Chad e il Camerun settentrionale.

3. Chadico orientale, anch'esso articolato in numerose lingue non scritte, diffuse nelle

savane centrali del Chad.

4. Masa, un piccolo gruppo di lingue strettamente imparentate diffuse tra il sudovest del

Chad e l'estremo nord del Camerun.

5) Le lingue cuscitiche, parlate soprattutto sulle coste africane del Mar Rosso e in gran parte

del Corno d'Africa: tra esse vanno ricordate l'Oromo, un gruppo di varietà linguistiche molto

diffuso in Etiopia, e il somalo. Il cuscitico prende il nome da Kush, nome antico della Nubia,

all'incirca l'odierno Sudan, ma in passato riferito a volte anche all'Etiopia. Si tratta di una

famiglia linguistica molto variegata. È complessivamente accettata una suddivisione in tre o

quattro sottogruppi principali, ma alcuni, negando l'unità del cuscitico, hanno proposto di

ritenere questi sottogruppi direttamente come divisioni dell'afro-asiatico. I quattro

sottogruppi sono:

1. Cuscitico settentrionale: Beja o Beḍawye, un gruppo di varietà parlato nella regione

desertica tra la valle del Nilo e il Mar Rosso, tra l'estremo sud-est dell'Egitto e il nord-

ovest dell'Eritrea. Non esiste una tradizione scritta se non in tempi recenti.

2. Cuscitico centrale: è rappresentato dalle lingue Agaw, parlate in varie isole linguistiche

all'interno dello spazio linguistico etio-semitico nell'altipiano dell'Etiopia settentrionale e

dell'Eritrea. Le principali sono il Bilin parlato in Eritrea, l’affine Xamtanga, il Qiment,

e lo Awngi. Si ritiene rappresentino quanto resta del substrato cuscitico delle lingue

semitiche dell'Etiopia centro-settentrionale. Esiste una letteratura moderna, soprattutto in

Bilin. Parte dell’antica comunità ebraica d’Etiopia, i Beta Israel, parlava fino a tempi

recentissimi varietà affini al Qiment, attualmente in fortissimo declino, di cui resta anche

una documentazione in manoscritti medievali. Tutte queste lingue sono solitamente

scritte con adattamenti dell’alfasillabario etiopico, tranne il Bilin, che ha adottato

l’alfabeto latino di recente.

3. Cuscitico orientale: occupa una vasta parte del Corno d'Africa a sud e a est dell'etio-

semitico, e include una ampia varietà linguistica. Si suddivide a sua volta in cuscitico

orientale delle pianure, rappresentato ad esempio dalle varietà Oromo, dallo Afar e dal

Saho (coste meridionali del Mar Rosso tra Etiopia ed Eritrea), e dal somalo, e cuscitico

orientale dell'altopiano, rappresentato da numerose lingue locali di cui le più

importanti sono le lingue Sidama. Nessuna di queste lingue presenta una significativa

tradizione scritta prima della fine del diciottesimo secolo, ma attualmente il somalo e

l'oromo possiedono ricche letterature e sono standardizzate come lingue ufficiali. Il

somalo, in passato scritto di solito con adattamenti dei caratteri arabi, attualmente

utilizza l’alfabeto latino, mentre l’oromo impiega l’alfasillabario etiopico. Inoltre nel

Ventesimo secolo ci sono stati tentativi di ideare un alfabeto specifico per il somalo, uno

dei quali per qualche anno ha avuto carattere ufficiale.

4. Cuscitico meridionale: diffuso in alcune isole linguistiche in Kenya e Tanzania,

presenta alcune affinità con cuscitico orientale, assieme al quale è a volte classificato. È

fortemente influenzato dalla vicinanza con l'ambiente linguistico Bantu (Niger-Congo)

in cui è immerso. La lingua più importante è l'Iraqw. Manca una tradizione scritta.

6) Le lingue omotiche, diffuse in una regione relativamente piccola nel Sud-ovest dell'Etiopia,

attorno alla valle del fiume Omo. Sono usualmente suddivise in omotico settentrionale e

omotico meridionale.

La posizione dell'omotico all'interno della famiglia afro-asiatica è più controversa di quella

Page 10: UNIVERSITÀ DI MACERATA DISPENSE PER IL CORSO DI …

degli altri gruppi, anche a causa della difficoltà di documentazione di queste lingue, alcune

delle quali sono estinte o minacciate di scomparsa. L'omotico è stato considerato

inizialmente una sotto-branca di cuscitico (il “cuscitico occidentale”); in seguito è stato

suggerito da alcuni che esso non costituisca una branca unitaria, ma che omotico

settentrionale e omotico meridionale siano gruppi indipendenti, con relazioni genealogiche

distinte; altri infine (Theil 2003) propongono di vedere la famiglia o le famiglie omotiche

come isolate e non appartenenti all'afro-asiatico fino a prova del contrario.

L'esatta relazione dei rami principali dell'afro-asiatico tra di loro non è ancora definitivamente

compresa. Molte delle proposte attualmente diffuse postulano un “nord-afro-asiatico” o “eritreo”

che esclude l'omotico e in molti autori il cuscitico. Sembra che una relazione più stretta esista tra

libico-berbero e chadico, e tra semitico ed egiziano.

Casi particolari

Alcune lingue afro-asiatiche pongono problemi specifici e non rientrano facilmente nello schema di

classificazione delineato sopra: si accennerà qui ai casi del Dahalo, dell'Ongota e della lingua delle

iscrizioni meroitiche.

Il Dahalo è classificato come una lingua cuscitica, probabilmente della branca cuscitica orientale (o

meridionale secondo altri), parlata da una piccola comunità di cacciatori-raccoglitori nel nord-est

del Kenya. Essa presenta caratteristiche particolari: in particolare, in campo fonologico, è una delle

poche lingue a presentare i “clicks”, dei suoni prodotti attraverso uno movimento degli organi

vocali che fa entrare aria nei polmoni, come uno schiocco della lingua. La grande maggioranza

delle lingue del mondo dispone di meccanismi sonori basati sull'aria che esce dai polmoni (o a volte

dalla glottide). I clicks sono tipici di alcune lingue dei gruppi tradizionalmente classificati nella

famiglia Khoi-san (la cui unità genetica è oggi considerata fortemente in dubbio), attualmente

diffuse nelle aree più aride dell'Africa meridionale, ma presenti in isole linguistiche (Sandawe)

nell'attuale Tanzania. I clicks sono inoltre presenti in numerose lingue del gruppo Bantu (Niger-

Congo) parlate anch'esse nell'Africa meridionale, come lo Xhosa e il Sotho; è praticamente certo

che siano stati incorporati in esse a partire da un substrato “Khoi-san”, supportando l'idea che lo

spazio linguistico “Khoi-san” fosse in passato assai più esteso su una larga parte dell'Africa

orientale e meridionale.

C'è ragione di credere che i parlanti Dahalo, parlassero in passato una lingua diversa, forse

appartenente ad uno dei gruppi “Khoi-san”, prima di adottare una forma parzialmente creolizzata di

cuscitico, probabilmente orientale; tuttavia le caratteristiche del substrato precedente hanno agito

fortemente sul Dahalo, dandogli delle caratteristiche divergenti rispetto al resto del cuscitico.

L'Ongota è una lingua parlata da una piccola comunità sud-ovest dell'Etiopia, parlata attualmente

solo dagli anziani della comunità e considerata prossima all'estinzione. Questa lingua presenta

caratteristiche in comune con l'omotico, il cuscitico orientale e con le lingue Nilo-Sahariane (in

particolare nei pronomi), una grande e molto diversificata famiglia linguistica africana che occupa,

sebbene in modo frammentario, un vasto spazio tra i Grandi Laghi, l'altopiano etiopico e il medio

corso del Niger. Va sottolineato che l'unità genetica del Nilo-Sahariano (tra i cui primi fautori era J.

Greenberg) non è universalmente accettata. La posizione genetica dell'Ongota non è chiara ed è

considerata uno dei più importanti problemi della linguistica storica dell'Etiopia. La relativa

semplicità della morfologia ha indotto alcuni a ritenere che l'Ongota fosse originariamente un creolo

prodotto dall'incontro tra gruppi di lingua afro-asiatica e nilo-sahariana. In uno studio dettagliato,

Harold Fleming ha recentemente sostenuto che l'Ongota rappresenti una branca a sé stante

dell'Afro-asiatico, separata da tutte le altre e particolarmente conservativa. Questo punto di vista

non ha però ottenuto un consenso generale. Vaclav Blažek ha sostenuto che l'Ongota vada

considerato Nilo-Sahariano; altri studiosi tendono a vedere nell'Ongota una lingua cuscitica o

Page 11: UNIVERSITÀ DI MACERATA DISPENSE PER IL CORSO DI …

omotica, quindi parte del gruppo Afro-asiatico ma senza occupare in esso una posizione speciale.

Le iscrizioni meroitiche sono una documentazione epigrafica, perlopiù su pietra risalente all'antico

regno di Meroe (o Kush), uno stato che comprendeva gran parte dell'attuale Sudan tra il sesto secolo

a.C. e il terzo secolo d.C. Il sistema di scrittura, derivato probabilmente dallo ieratico egizio ma

semplificato in un sistema alfasillabico, è stato decifrato da oltre un secolo, ma la lingua in cui le

iscrizioni sono redatte, chiamata convenzionalmente meroitico, è attualmente in gran parte

incomprensibile.

La scoperta di una relazione genetica con altre lingue potrebbe essere d'aiuto alla sua comprensione;

la ricerca si è concentrata sulle due grandi famiglie linguistiche geograficamente vicine, quella

Nilo-Sahariana (di cui fa parte il nubiano, la lingua usata nella stessa area in epoca successiva, con

la quale il meroitico non sembra però avere una relazione stretta) e quella Afro-asiatica;

recentemente una analisi della struttura fonetica del meroitico (Rowan 2006) ha rivelato schemi

coerenti con un rapporto stretto con l'afro-asiatico (è stata suggerita in particolare una relazione col

semitico, che non è però comunemente accettata). Il meroitico potrebbe dunque rivelarsi una nuova

branca dell'afro-asiatico, o parte di una delle branche già note. Tuttavia, le restrizioni fonetiche

individuate da Rowan non sono esclusive dell'afro-asiatico e costituiscono dunque solo

un'indicazione, non una prova certa, della parentela proposta.

L'urheimat afro-asiatico e i modelli di diffusione

L'antichità della documentazione afro-asiatica e la grande varietà linguistica presente all'interno di

una famiglia così estesa e numerosa hanno reso possibile proporre date approssimative per la proto-

varietà linguistica (“proto-afro-asiatico”) da cui le diverse branche deriverebbero. Questa

sembrerebbe potersi ricondurre al primo Neolitico, un'epoca particolarmente significativa per la

preistoria umana in quanto coincidente con gli inizi dell'agricoltura.

Alcune delle più antiche tracce archeologiche di agricoltura sono state trovate in aree come la

Mezzaluna Fertile e l'Egitto, dove in epoca storica sono attestate lingue afro-asiatiche. Secondo il

linguista russo Alexandr Militar'ev, autorevole esponente della Scuola di Mosca, il proto-afro-

asiatico potrebbe essere stata la lingua dei primi agricoltori del Levante, avrebbe quindi un'origine

asiatica: il semitico rappresenterebbe la continuazione locale dell'afro-asiatico, mentre le altre

branche principali si sarebbero diversificate in Africa da successive ondate migratorie provenienti

da Nord-Est. La posizione appartata del cuscitico (e dell'omotico) si spiegherebbe secondo

Militar’ev con una via di migrazione distinta, giunta in Africa attraverso la penisola araba e

attraversando il Mar Rosso dallo Yemen, mentre le altre branche (l'egiziano, il chadico e il berbero;

queste ultime due sarebbero più strettamente imparentate tra loro secondo Militar'ev) sarebbero

giunte attraverso il Sinai e la valle del Nilo.

Questo modello è suggestivo e in certa misura riflette a grandi linee il paradigma di diffusione, assai

meglio documentato, che si ritiene abbiano avuto in seguito le lingue semitiche.

Tuttavia, la diversità linguistica dell'afro-asiatico al più alto livello di ramificazione è concentrata in

Africa; questa è considerata in linguistica storica una indicazione dell'area più probabile in cui

cercare il centro di diffusione di una famiglia linguistica; in altre parole, se l'afro-asiatico avesse

avuto origine in Asia, ci si potrebbero aspettare maggiori tracce di caratteri linguistici perduti in

semitico e conservati in altri rami della famiglia, e quindi una diversità considerevolmente maggiore

dell’Afro-asiatico documentato in Asia. Di conseguenza un buon numero di specialisti tende a

considerare l'Africa nord-orientale (il Corno d'Africa o la Valle del Nilo o, secondo un'ipotesi di

D'jakonov, il Sahara orientale) come l'urheimat, il centro originario di diffusione.

Va infine ricordata la prospettiva del semitista italiano Giovanni Garbini. Secondo Garbini, una

ricostruzione genealogica dell'afro-asiatico (così come del semitico) rappresenta una impostazione

fondamentalmente sbagliata del problema del rapporto dei vari rami della famiglia; è in effetti

perfino discutibile, dal suo punto di vista, che l’afro-asiatico si possa considerare in senso proprio

una famiglia linguistica. Facendo riferimento alla Wellentheorie di Schmidt e ai fenomeni di

Page 12: UNIVERSITÀ DI MACERATA DISPENSE PER IL CORSO DI …

pidginizzazione e contatto linguistico citati sopra, Garbini ritiene che le affinità tra le lingue afro-

asiatiche possano essere meglio comprese come “onde” di influenza, soprattutto semitica, che

hanno operano su altri gruppi linguistici africani originariamente non imparentati, a partire da uno o

più centri (come nel modello di Militar’ev, il centro principale sarebbe da cercare nel Levante).

Anziché un “albero” ramificato da un tronco comune, Garbini propone di vedere l'afro-asiatico

come una “bougainvillea” di radici, tronchi e rami distinti e variamente intrecciati. Questo punto di

vista tuttavia rimane largamente minoritario.

Diffusione delle lingue afro-asiatiche secondo una approssimazione del modello di Militar’ev

Sezione 3

Le lingue semitiche: documentazione, classificazione e caratteri generali. La posizione

dell'arabo.

«If we imagine a traveller going from oasis to oasis, from village to village from the Northern Hijaz

to the upper Euphrates let us say in the time of Alexander the Great, he would most likely never be

aware of passing from ’Arabic’-speaking areas into ’Hebrew’-speaking ones, then passing the

border to the people speaking ’Aramaic’. He would instead notice continuous small differences in

the speech of the locals on his way. Today, a similar picture would be created by a similar journey

from Mauritania to Oman through the Arabophone areas.» (Retsö 2006)

Page 13: UNIVERSITÀ DI MACERATA DISPENSE PER IL CORSO DI …

L’Arabia e le regioni vicine, da Hoyland 2001.

Il concetto di “semitico”: qualche nota storica

L'espressione “lingue semitiche” viene coniata nel 1781 dall'influente storico e linguista tedesco

August von Schlözer per indicare l'ebraico, l'arabo, l'aramaico e l'etiopico; le somiglianze tra queste

lingue erano già ben note (e sono in effetti evidenti anche una prima analisi). Erano state osservate

ad esempio dal grammatico ebreo nordafricano Ibn Quraysh già nel decimo secolo. Lo stesso Ibn

Quraysh aveva osservato le affinità col berbero. Ma fino alla fine del Settecento, non risulta che

queste somiglianze fossero mai state oggetto di una vera e propria analisi scientifica. La parola

“semitico” fa riferimento a Sem (Šām in arabo) uno dei tre figli di Noé nella Tavola dei Popoli della

Genesi biblica; secondo la Bibbia da lui discenderebbero Ebrei, Arabi, Aramei e parte degli abitanti

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della Mesopotamia, ma anche gli Elamiti, che storicamente non parlavano una lingua semitica (è

stato proposto da alcuni che l’antico Elamita sia da collegarsi lontanamente all’afro-asiatico, ma

questa ipotesi è molto dubbia e manca di consenso). Va sottolineato che il concetto di semitico

nell’uso attuale è unicamente linguistico e non fa riferimento ad una cultura o una discendenza

comuni. Non è però sempre stato così.

Nel corso dell’Ottocento è avviata l’esplorazione archeologica del Medio Oriente e la

documentazione etnografica sistematica delle società extra-europee; questo allarga enormemente la

documentazione “semitica” disponibile. È in quest’epoca che si delinea una concezione

essenzialista del “semitico”, sentito come contrapposto o complementare all’ “indeuropeo” (o,

comunemente nel linguaggio dell’epoca, “ariano”). In particolare, va segnalata l’opera del grande

studioso francese Ernest Renan, il “padre” della filologia semitica sistematica. Riassumendo

all’estremo, Renan vedeva nel “semita” e nell’ “ariano” i due poli della storia significativa della

civiltà umana (fondamentalmente, a suo modo di vedere, la civiltà europea).

In questa visione, all’ “ariano” (come razza, cultura e lingua) si attribuiscono caratteristiche di

creatività, concretezza, fantasia. Le lingue indeuropee, rappresentate tipicamente dal greco e dal

sanscrito, si prestano all’espressione del mito e della filosofia, più in generale alla rappresentazione

del molteplice, anche sulla base di presunte caratteristiche morfologiche quali la fusione di

informazioni grammaticali nella struttura fonetica della parola.

Il “semitico”, con la sua tipica struttura di radici consonantiche, viene in questo tipo di discorso

presentato come una forma linguistica rigida, che tende verso l’unità e l’astrattezza. Se le lingue

indeuropee si prestano a rendere la molteplice varietà del mondo naturale, le lingue semitiche,

formate nella monotonia del deserto, porterebbero il pensiero a concepire il monoteismo.

L’elemento intellettuale semitico è dunque, da solo, sterile. Capace di produrre un Dio trascendente

e lontano, ma non di raffigurarlo o di rapportarlo all’umanità.

Questo genere di discorsi tendevano a rappresentare la tradizione culturale europea come l’unione,

operata dal cristianesimo, degli aspetti migliori dell’elemento dominante ariano e di quello semitico,

giustificando la superiorità europea che emergeva in quest’epoca nelle conquiste coloniali.

Naturalmente, questi stessi discorsi potevano facilmente essere impiegati per escludere dall’Europa

“ariana” la tradizione ebraica (e quella islamica), fornendo una premessa intellettuale per i ben noti

esiti storici alla metà del Ventesimo secolo. È per questo motivo che, alla fine dell’Ottocento,

l’ostilità verso gli Ebrei viene chiamata “antisemitismo”. Almeno implicitamente, essa include

l’ostilità verso gli Arabi e i musulmani, sentiti come portatori anch’essi dell’estraneità culturale (e

linguistica) alla vera civiltà “ariana” che si attribuisce agli Ebrei. L’antisemitismo moderno trova

dunque in parte alimento in una opposizione non solo all’ebraismo e agli Ebrei (contro i quali

l’Europa aveva una lunga storia di persecuzione e discriminazione su base religiosa) ma contro il

monoteismo in genere; nel caso di Renan, questo non si esprime in una opposizione diretta al

Cristianesimo, e certamente vi furono moltissimi antisemiti che si definivano cristiani. Non va però

dimenticato che la base concettuale dell’antisemitismo è, almeno in potenza, anche ostile all’etica e

al messaggio cristiani.

Questi discorsi vanno considerati come un avvertimento a quel che può accadere quando i concetti

linguistici e filologici vengono trasformati in strumenti di categorizzazione dei gruppi umani,

quando dallo studio delle forme linguistiche si pretende di definire “razze” o “forme culturali”.

Oggi si sa che, in linea di massima, la lingua non condiziona in modo determinante il pensiero e che

non esistono rapporti diretti tra gruppi linguistici, forme culturali e discendenza. “Semitico” è

unicamente un gruppo di lingue strettamente affini tra loro, parte della più ampia famiglia

eurasiatica. Queste lingue hanno una grande importanza storica e documentaria, per essere state

scritte e parlate in regioni del mondo di antica urbanizzazione e alfabetizzazione; anzi è a persone

che parlavano una lingua semitica che si deve quasi certamente l’invenzione dell’alfabeto. Non

esiste nessuno “spirito semitico”, nessuna forma culturale intrinseca ai parlanti queste lingue,

nessun “destino” storico iscritto nelle loro strutture linguistiche.

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Caratteri generali

La caratteristica generale delle lingue che più colpisce chi le studia è la radice triconsonantica. In

parte, si tratta di un fatto comune a tutto l’afro-asiatico, che nel semitico si manifesta con particolare

chiarezza anche a causa della profondità storica della documentazione e del fatto che, in moltissime

lingue semitiche, questa documentazione ci è pervenuta in una forma di scrittura consonantica.

Va inoltre ricordato che il pensiero grammaticale arabo, e quello ebraico che in gran parte ne deriva,

ha fatto della radice consonantica uno dei pilastri della descrizione linguistica, dandogli ulteriore

centralità. C’è un consenso comunque sul fatto che nel semitico si sia avuta storicamente una

tendenza generalizzare il triconsonantismo, mentre nell’afro-asiatico erano probabilmente possibili

radici sia bi-consonantiche che tri-consonantiche (e alcuni linguisti sospettano che l’elemento

radicale potesse essere in origine una sillaba del tipo CvC, consonante-vocale-consonante).

Più difficile è la ricostruzione storica della situazione delle vocali; c’è qualche motivo di credere

che il sistema vocalico dell’arabo classico, con tre vocali brevi e tre lunghe, sia molto vicino a

quello comune per il semitico (e per l’afro-asiatico, secondo D’jakonov).

La fonetica del semitico è ricca in sibilanti e suoni laringali; un ricco inventario si trova in arabo e

nelle lingue sud-arabiche; anche questi suoni sono probabilmente da ricondurre all’eredità afro-

asiatica, sebbene ci sia incertezza sulle esatte corrispondenze fonetiche. La ricostruzione delle

sibilanti è particolarmente problematica; la loro probabile corrispondenza con occlusive palatali in

egizio, e alcuni dati provenienti dall’uso dei caratteri cuneiformi per scrivere lo hittita, fanno

ritenere che in origine potessero essere delle affricate (in effetti la realizzazione della “sibilante”

enfatica sorda ṣ in ebraico moderno è l’affricata /ts/; questa potrebbe essere la situazione originaria).

Tipica dell’afro-asiatico, e specialmente del semitico, è la presenza dei suoni detti “enfatici”. La

ricostruzione più diffusa suggerisce che l’enfasi fosse originariamente un suono eiettivo (realizzato

spingendo l’aria dalla gola anziché dai polmoni) che può essere solamente sordo. Questa è la forma

di enfasi che esiste anche oggi nelle lingue semitiche d’Etiopia; anticamente, in effetti, le

consonanti enfatiche semitiche sembrano essere state solamente sorde.

In seguito, una parte delle lingue semitiche ha sviluppato una articolazione diversa delle enfatiche,

quella glottalizzata, tipica dell’arabo In arabo infatti esistono enfatiche sorde ed enfatiche sonore, ed

è possibile che la realizzazione prevalente delle enfatiche arabe nel I millennio d.C. fosse solo

sonora. Molti semitisti ritengono quindi che il sistema consonantico originario del semitico fosse

basato su triadi di una consonante sonora, una sorda ed una enfatica, una ipotesi suggerita in

particolare da Cantineau; tuttavia, vi sono diverse critiche a questa visione.

Molti studiosi ritengono, sulla base dell’arabo, dell’accadico e di quel che è stato possibile derivare

dai dati dell’ugaritico, che il semitico possedesse un sistema di tre casi molto simile a quello

dell’arabo classico; altri (ad esempio Jonathan Owens, sulla base del suo lavoro con le varietà arabe

parlate) hanno suggerito che i casi siano uno sviluppo successivo che non si applica a tutto il

semitico. Questo secondo punto di vista rimane minoritario.

Modelli di classificazione delle lingue semitiche

Tradizionalmente, le lingue semitiche erano raggruppate in tre sottogruppi su base geografica:

- il semitico nord-orientale comprendente l’accadico, la lingua semitica della Mesopotamia antica

nelle sue varietà babilonese ed assira.

- il semitico nord-occidentale comprendente l’ebraico, il fenicio, l’aramaico e l’ugaritico.

- il semitico meridionale o sud-occidentale comprendente l’arabo, le lingue sud-arabiche

(dell’antico Yemen) e le lingue semitiche del Corno d’Africa.

Si tendeva a riconoscere una parentela più stretta tra semitico nord-occidentale e meridionale, che

insieme avrebbero costituito il semitico occidentale.

Questo schema è stato sempre più criticato e discusso grazie alla scoperta e alla decifrazione di

documentazione nuova, specialmente di quella ritrovata negli anni Settanta nell’archivio di tavolette

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cuneiformi dell’antica città di Ebla, in Siria, risalente a circa il 2400 a.C. Tra il 1974 e il 1976,

Robert Hetzron ha proposto un nuovo modello di classificazione, che attualmente, anche se

rimangono differenze nei dettagli ed è stato modificato in alcuni punti (per quanto riguarda il sud-

arabico in particolare), gode di largo consenso.

La seguente lista di lingue semitiche è data secondo una versione modificata dello schema di

Hetzron, ed è per quanto possibile completa. Alcune forme linguistiche restano di incerta

classificazione a causa della scarsità di documentazione.

1) Semitico Nord-Orientale:

a) Accadico: La lingua di Akkad, città della Mesopotamia nel terzo millennio a.C., per un certo

periodo capitale del primo grande impero mesopotamico. Scritta in caratteri logografici cuneiformi

(si veda la sezione sulla scrittura), derivati da quelli usati per il sumerico. Le due varietà principali

(“dialetti”) sono l’assiro e il babilonese. L’accadico babilonese è la lingua franca dell’Antico

Oriente nel secondo millennio a.C. Nelle sue due varietà, l’accadico è la grande lingua di cultura

della Mesopotamia per circa duemila anni (le ultime tavolette cuneiformi risalgono al primo secolo

d.C.).

b) Eblaita: la lingua degli archivi cuneiformi trovati a Tell Mardikh in Siria, l’antica Ebla, risalenti

a circa il 2400 a.C. Ebla fu distrutta dall’impero di Akkad. La collocazione dell’eblaita nel semitico

nord-orientale non è accettata da tutti; alcune caratteristiche sembrano collegarlo al semitico

occidentale. Tuttavia la struttura generale è più vicina all’accadico. C’è qualche ragione (legata

soprattutto ai nomi propri) di ritenere che l’eblaita fosse la lingua scritta di Ebla, ma non quella

parlata, e possa aver avuto diffusione in parti della Mesopotamia, ad esempio a Mari sull’Eufrate.

2) Semitico Occidentale:

a) Semitico d’Etiopia (o Afro-Semitico o Etiosemitico): popolazioni di lingua semitica si

stabiliscono nel Corno d’Africa dal sud della penisola araba nel corso del I millennio a.C.,

occupando gran parte degli altopiani delle attuali Eritrea ed Etiopia. Il semitico d’Etiopia si diffonde

su un substrato cuscitico (quasi certamente centrale) e si distingue nettamente in due branche

primarie:

1. Settentrionale:

a. Ge’ez (Etiopico): la lingua classica e liturgica della letteratura dell’antico regno di

Aksum e dell’Etiopia cristiana medievale. Documentata da iscrizioni in grafia sud-

arabica e da manoscritti medievali in un alfasillabario derivato da questa. Rimane la

lingua di cultura dominante in Etiopia fino al XIX secolo. Attualmente usata solo

come lingua liturgica. Da essa, o da varietà parlate estremamente simili, derivano il

tigré e il tigrino.

b. Tigré: parlata, in diverse varietà, da alcune popolazioni in prevalenza musulmane nel

nord dell’Eritrea. Pur essendo la lingua veicolare di questa regione (dove sono

presenti anche lingue cuscitiche e nilo-sahariane) non possiede una tradizione scritta

fino a tempi molto recenti.

c. Dahalik: lingua affine al Tigré (e in passato considerata una sua varietà), parlata da

un piccolo numero di persone nelle isole Dahlak nel Mar Rosso, in Eritrea (Simeone-

Senelle 2005). Presenta influssi, specialmente fonologici, dell’arabo, lingua scritta

dell’arcipelago. Non risulta una letteratura scritta.

d. Tigrino: lingua ufficiale dell’Eritrea assieme all’arabo, e lingua della regione del

Tigray in Etiopia. Possiede una ricca letteratura moderna, scritta in una variante

dell’alfasillabario etiopico.

2. Meridionale:

a. Trasversale:

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i. Amharico: la lingua parlata storicamente dominante in Etiopia (in particolare

tra i cristiani), documentata a partire dal XIV secolo, con una letteratura

moderna a stampa dal XIX. Scritta in una versione lievemente modificata

dell’alfasillabario etiopico. È parlata in tutta la parte centrale dell’altopiano

etiopico. Strettamente imparentata è l’Argobba, che possiede una modesta

letteratura ma è attualmente in declino.

ii. Hararino: la lingua della città di Harar nell’Etiopia orientale,

tradizionalmente centro dell’Islam nel Corno d’Africa. Documentata da

manoscritti in caratteri arabi nel XVI secolo e da una letteratura moderna, in

una varietà linguistica piuttosto diversa solitamente scritta con l’alfasillabario

etiopico. Probabilmente rappresenta, assieme al Gurage orientale quanto

rimane di una più ampia area linguistica semitica poi ritrattasi alla fine del

Medioevo per l’arrivo di Somali e Oromo, di lingua cuscitica.

iii. Gurage orientale: con il nome di Gurage si indicavano tradizionalmente

diverse lingue semitiche parlate in varie zone dell’altopiano etiopico centro-

meridionale. In realtà le lingue raccolte sotto l’etichetta di Gurage non

risultano strettamente imparentate tra loro. Il Gurage orientale, la cui varietà

più importante è il Silt’e, è strettamente connesso con lo Hararino, mentre le

altre varietà in passato indicate come Gurage rappresentano, assieme al

Gafat, un diverso raggruppamento dell’etiosemitico meridionale. Nessuna

varietà di Gurage possiede una significativa documentazione scritta prima del

diciannovesimo secolo. Attualmente si scrivono con l’alfasillabario etiopico

modificato.

b. Esterno: i. Gafat: una lingua estinta usata nel Gojjam, (Etiopia centro-settrentionale) di

cui sopravvive una limitata letteratura religiosa risalente al diciassettesimo

secolo.

ii. Gurage Settentrionale (Soddo): il Soddo sembra mostrare una stretta

parentela con il Gafat.

iii. Gurage Occidentale: una serie di varietà linguistiche imparentate tra loro, in

isole linguistiche nel sud dell’altopiano etiopico, in area linguistica

prevalentemente cuscitica. Costituiscono l’estremità sud-occidentale dell’area

linguistica semitica.

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Distribuzione approssimativa dei gruppi linguistici in Etiopia e Eritrea

b) Sud-arabico moderno: Con questo nome geografico si indicano le lingue semitiche parlate, in

prevalenza da seminomadi e pescatori in alcune regioni del sud della penisola araba, sulla costa

arida tra Yemen ed Oman e nelle isole vicine, che non sono direttamente connesse all’arabo.

Contrariamente a quanto si è pensato a lungo (e si può ancora trovare nei manuali più datati) queste

lingue non sono attualmente ritenute la continuazione dal sud arabico epigrafico (Sayhadico; si veda

sotto) documentato nelle iscrizioni antiche: l’area del sud-arabico moderno si trova perlopiù a nord-

est di quella dove sono attestate iscrizioni Sayhadiche, anche se c’è una parziale sovrapposizione (si

veda sotto). Alcune brevi iscrizioni in quello che sembra essere una derivazione dell’alfabeto sud-

arabico sono state individuate nella regione in cui si parlano oggi forme di sud-arabico moderno; è

possibile che ne documentino una forma antica (non sono in una forma di Sayhadico) ma non sono

state finora interpretate in modo soddisfacente. Sono documentate a partire dalla fine dell’Ottocento

sei lingue sud-arabiche moderne, per un probabile totale di poco più di 200.000 parlanti. Esiste una

ricca letteratura orale, trascritta da studiosi moderni, ma nessuna lingua sud-arabica moderna

possiede una rilevante letteratura scritta. Nell’uso formale e pubblico, la maggior parte dei parlanti

sud-arabico moderno fa ricorso all’arabo. Il sudarabico moderno è considerato una forma

particolarmente conservativa di semitico, in particolare nella fonologia. Vi sono diverse isoglosse in

comune con l’etiosemitico, che potrebbero rappresentare il mantenimento condiviso di caratteri

antichi, o giustificare un raggruppamento “semitico meridionale” (che escluderebbe però, a

differenza di quello tradizionale, l’arabo e probabilmente il sayhadico).

1. Il Mehri è la lingua più diffusa e importante è, diffusa nello Yemen orientale e nelle aree

confinanti dell’Oman, con 100.000/150.000 parlanti circa. Presenta marcate differenziazioni

dialettali.

2. Strettamente imparentato col Mehri è lo Harsusi, parlato da una piccola popolazione

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nomadica nei deserti centrali dello Oman

3. Affine al Mehri è anche il Bathari, parlato in alcuni villaggi del Dhofar, nell’Oman.

4. Lo Hobyot, parlato da poche centinaia di parlanti, sembra rappresentare una varietà che

condivide caratteristiche sia col Mehri che con il

5. Jibbali (in passato chiamato Shehri o in altri modi) diffuso nel Dhofar, con circa 20.000

parlanti.

6. Il Soqotri è parlato nell’isola di Socotra e nelle isolette vicine, con circa 50/60.000 parlanti.

Presenta anch’esso una significativa differenziazione in dialetti.

c) Semitico Centrale:

1. Semitico Nord-Occidentale:

a. Amorreo: Si sa poco della lingua degli Amorrei, un gruppo di popolazioni semi-

nomadi della media valle dell’Eufrate che attorno al 2000 a.C. si diffonde in gran

parte della Mezzaluna Fertile. La lingua è attestata quasi unicamente da nomi propri

in testi in altre lingue come l’accadico. Molti di questi nomi sono però brevi frasi

(Samsu-iluna, “Il Sole è il nostro Dio”) che permettono di ricostruire alcuni aspetti

della grammatica.

b. Ugaritico: La città di Ugarit, oggi Ras Shamra sulla costa della Siria, era un centro

commerciale importante nella tarda età del Bronzo, tra 1500 e 1200 a.C. Dipendente

dai grandi imperi dell’epoca (prima l’Egitto, poi lo stato Hittita) forniva loro una

interfaccia col mondo del commercio mediterraneo, allora dominato dai Micenei (un

ruolo simile, anche se con maggiore autonomia, sarà assunto dalle città fenicie

nell’età del Ferro). La scoperta degli archivi di Ugarit negli anni Trenta ha

modificato profondamente la conoscenza sia della storia dell’Antico Oriente che

della filologia semitica. I testi di Ugarit sono redatti in una scrittura consonantica

cuneiforme (con due varietà diverse), che rivela tuttavia una relazione con quello, a

base geroglifica, chiamato “lineare” o “proto-cananaico”, che si ritiene derivato da

quello proto-sinaitico e a sua volta all’origine di quelli fenicio e sud-arabico (come

discusso nella parte III del corso). Linguisticamente le tavolette di Ugarit offrono

una documentazione archivistica e letteraria ricchissima, che permette di

documentare dettagliatamente questa fase antica del semitico nord-occidentale.

L’ugaritico sembra presentare caratteri “arcaici” rispetto al cananaico (la cui

documentazione per quest’epoca è scarsa) ma in parte questo potrebbe dipendere

dalla maggiore esattezza con cui la scrittura ugaritica nota alcune differenze

fonologiche.

c. Cananaico: Il Cananaico è l’insieme delle varietà linguistiche semitiche,

strettamente imparentate tra loro, parlate in Siria meridionale e Palestina nel secondo

e in buona parte del primo millennio a.C.

Le attestazioni più antiche, decifrate solo di recente, risalgono però al terzo millennio

a.C: si tratta di alcune righe nei testi magici sulle pareti della piramide egizia di Unas

(verso il 2500 a.C.), scritte dunque in caratteri geroglifici egizi. Purtroppo si tratta di

una documentazione di consistenza minima, che non consente una conoscenza

approfondita del cananaico in questa fase. Sempre dall’Egitto provengono:

i. le iscrizioni “proto-sinaitiche” e l’iscrizione trovata a Wadi el-Hol (c.a. 1900

a.C.) nel medio Egitto, che sembrano documentare una tendenza ad utilizzare

forme semplificate dei geroglifici egizi per scrivere una lingua semitica con

una scrittura consonantica. La grande brevità dei testi, la difettività della

scrittura e le difficoltà di lettura rendono l’attribuzione di questi testi al

cananaico non del tutto certa.

ii. brevi testi in cananaico all’interno delle lettere (scritte in babilonese con

caratteri cuneiformi) trovate nell’archivio diplomatico di Tell el-Amarna

(attorno al 1330 a.C.). Questi testi sono importanti perché, grazie alla

Page 20: UNIVERSITÀ DI MACERATA DISPENSE PER IL CORSO DI …

scrittura logosillabica del cuneiforme, permettono una parziale ricostruzione

del vocalismo antico.

La documentazione cananaica, in alfabeti consonantici di elaborazione locale,

diventa più cospicua sul finire del secondo millennio a.C. (prima età del Ferro) e nel

corso del primo, consentendo di individuare diverse varietà differenziate, anche se

probabilmente mutualmente comprensibili (è dunque difficile, e in un certo senso

arbitrario, dire se fenicio ed ebraico siano due “dialetti” della stessa lingua o due

“lingue” strettamente imparentate tra loro). Alcune brevi iscrizioni risalenti al 1200-

1000 a.C. trovate in Palestina, (la più importante è il cosiddetto “calendario di

Gezer”) documentano una forma di cananaico che molti studiosi definiscono “proto-

ebraico”.

Il fenicio, è attestato da numerose iscrizioni sulle coste siriane, libanesi e cipriote

dopo il 1100 a.C., e si è diffuse verso ovest attraverso il Mediterraneo al seguito del

movimento di colonizzazione delle città fenicie, in particolare sulle coste del

Nordafrica, della Sicilia, della Sardegna e della penisola iberica nel primo millennio

a.C.; una forma di semitico derivata dal fenicio, il punico, documentato da numerose

iscrizioni sia in alfabeto fenicio che in alfabeto latino, era ancora parlato in parti

delle attuali Algeria e Tunisia all’epoca di Sant’Agostino (IV secolo d.C.). Inoltre,

alcune frasi in punico sono riportate, in caratteri latini e quindi con le vocali, nel

Poenulus di Plauto.

L’ebraico è il gruppo di varietà storicamente più importante e meglio documentata

del cananaico, grazie all’Antico Testamento, quasi interamente redatto in questa

lingua (solo poche parti sono in aramaico o in greco). L’ebraico antico (di epoca

biblica se non pre-biblica) è inoltre attestato da un certo numero di iscrizioni trovate

nel corso delle dettagliate esplorazioni archeologiche dell’area palestinese, che lo

stato di Israele ha attivamente promosso, e da vari testi non confluiti nel canone

biblico. L’ebraico cessa di essere usato come madrelingua parlata dagli Ebrei al più

tardi in epoca romana, ma probabilmente in buona misura già all’epoca della

cattività babilonese nel sesto secolo a.C; era quindi forse già solo lingua scritta

all’epoca in cui viene redatta buona parte del corpus biblico, che si ritiene risalire in

gran parte al periodo tra il 600 e il 200 a.C. (alcuni testi biblici sono certamente più

antichi, e i libri dei Maccabei, tra gli altri, ovviamente più recenti). Rimane tuttavia

in uso come lingua scritta, indissolubilmente legata alla religione. Nell’alto

Medioevo, tra settimo e decimo secolo d.C., si ha una radicale sistematizzazione del

corpus testuale biblico, che viene vocalizzato da studiosi ebrei basandosi sulle

tradizioni di recitazione orale dei testi. Su impulso dello sviluppo della grammatica

araba, anche quella ebraica viene codificata, e l’ebraico ha un grande sviluppo come

lingua di cultura, in cui sono scritti o tradotti dall’arabo testi poetici, filosofici ecc…

In età moderna l’ebraico rinasce come madrelingua parlata grazie agli sforzi del

movimento sionista. Si tratta di un caso quasi unico di rinascita di una lingua che

esisteva solo in tradizione scritta, grazie all’impegno deliberato di una comunità

politica e, in seguito, di uno stato. L’ebraico moderno risente fortemente, nella

pronuncia e nella sintassi, del background linguistico dei suoi “creatori”, in

maggioranza ebrei provenienti dall’Europa orientale di madrelingua yiddish,

polacca, tedesca o russa, e ha così perso alcuni elementi tipicamente “semitici” come

la pronuncia “enfatica” di alcune consonanti. Attualmente l’ebraico è parlato da circa

sei milioni di cittadini di Israele, di cui è lingua ufficiale assieme all’arabo.

Ad est del Giordano sono documentate alcune varietà di cananaico molto vicine

all’ebraico: il moabita è documentato principalmente da una stele, detta stele di

Mesha, risalente al nono secolo a.C. La sua importanza non è dovuta solo alla

documentazione di una varietà linguistica di cananaico meridionale altrimenti nota

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solo da pochi frammenti, ma anche al suo contenuto: essa infatti riferisce, dal punto

di vista dei Moabiti, alcuni episodi a cui la Bibbia fa riferimento invece nella

prospettiva degli Ebrei, all’epoca loro nemici. Ad esso sono associate le varietà di

cananaico usate dagli Ammoniti (nell’attuale Giordania) e dagli Edomiti (nel Negev

in Israele) sono poco note e attestate su un piccolo numero di iscrizioni

frammentarie, scoperte negli ultimi decenni. Queste tre varietà sono

convenzionalmente indicate come “corpora della Transgiordania”, assieme

all’iscrizione di Deir Alla (vedi sotto).

d. Aramaico:

i. Aramaico antico: le popolazioni parlanti aramaico, hanno probabilmente origine

nella steppa siriana e si insediano nella Mezzaluna Fertile nel corso dell’età del

Ferro, dando vita a regni (il più importante dei quali ha per capitale Damasco) che

verranno poi assorbiti dall’impero assiro tra l’800 e il 700 a.C. Alcuni di questi regni

hanno lasciato iscrizioni documentate. La politica assira di deportazioni, e quella del

successivo impero neo-babilonese renderà l’aramaico la lingua parlata più diffusa

nella regione. Fin dall’inizio l’aramaico, parlato da popolazioni pastorali diffuse su

una vasta area, si mostra differenziato in diverse varietà; la varietà linguistica

definita dagli studiosi “ya’udico”, (a Zincirli nel sud della Turchia), e quella “di

Deir Alla”, entrambe documentate da una sola iscrizione, sembrano mostrare alcune

caratteristiche tipiche dell’aramaico, ma non altre e possono considerate “ai margini”

dell’area linguistica aramaica. Il tardo impero assiro, quello neo-babilonese e quello

persiano impiegano una forma codificata di aramaico, l’aramaico d’impero insieme

all’accadico, come lingua ufficiale dell’amministrazione nei territori della

Mezzaluna fertile e altrove (testi amministrativi in aramaico dell’epoca persiana sono

stati trovati in Afghanistan e si pensa che dalla scrittura aramaica possano derivare

gli alfabeti indiani). L’aramaico diventa dunque, nelle sue numerose varietà, la

principale lingua veicolare e di cultura del Vicino oriente per oltre un millennio,

anche se viene eclissato dal greco in epoca ellenistica e romana.

ii. “Aramaico medio”: La diversificazione delle varietà scritte di aramaico permette di

distinguere due raggruppamenti principali, l’aramaico orientale e quello

occidentale, rispettivamente grosso modo ad est e ad ovest dell’Eufrate. C’è

disaccordo se queste varietà di epoca romana vadano considerate come Tardo

Aramaico d’Impero o Aramaico Medio.

L’aramaico affianca inoltre l’ebraico come lingua degli Ebrei anche nella produzione

scritta, nelle varietà, piuttosto diversificate, raggruppabili con l’etichetta di aramaico

giudaico (samaritano, la lingua dei Talmud, quella delle parti in aramaico della

Bibbia, etc.). In epoca romana, alcuni Stati vicino-orientali adottano l’aramaico come

lingua ufficiale, marcando una identità propria, pur mantenendo in genere relazioni

cordiali con le potenze imperiali di Roma e della Partia. Sono così molto ben

documentate in iscrizioni, tra il II secolo a.C. e il III-IV d.C. tre varietà distinte (con

alfabeti graficamente molto diversi): 1) il palmireno, un dialetto aramaico

occidentale è impiegato nel deserto siriano intorno alla città/oasi di Palmira e nella

vicina Dura Europos sull’Eufrate, con attestazioni sparse in tutto l’Impero Romano

di cui Palmira era una dipendenza (anche in Britannia) fino al tardo III secolo d.C. 2)

il nabateo, anch’esso una varietà occidentale è la lingua di prestigio del regno

dell’omonima tribù, con capitale a Petra, che si estendeva tra il nord dello Hijaz,

gran parte della Giordania, il Sinai e il sud della Siria fino alla conquista romana nel

107 d.C.; la lingua rimane in uso dopo la conquista romana come forma locale di

prestigio (accanto al greco), e il sistema di scrittura verrà in seguito adottato con

modifiche per scrivere l’arabo; in alcune iscrizioni, appaiono nomi di persona e usi

linguistici nord-arabici o arabi; è oggetto di discussione se la lingua parlata dai

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Nabatei fosse l’aramaico che scrivevano o, come pensano diversi studiosi, una

varietà araba o nord-arabica. 3) lo hatreno, una varietà aramaica orientale in uso

nella città e nel regno di Hatra, una dipendenza dell’impero partico nella

Mesopotamia settentrionale. Una quarta varietà di aramaico epigrafico, meno

documentata, è l’antico siriaco della regione di Edessa.

iii. Aramaico “tardo”: Col Cristianesimo, a partire dal II-III secolo d.C., si affermano

delle letterature religiose cristiane in diverse forme di aramaico “medio”. Queste

varietà sono classificate da alcuni autori come “aramaico medio” e da altri come

“aramaico tardo”. La più importante è il siriaco, forma letteraria assunta

dall’aramaico orientale parlato ad Edessa (oggi Urfa in Turchia) che diventerà la

lingua liturgica delle grandi chiese siro-ortodossa e nestoriana del Vicino Oriente e si

diffonderà, grazie alla loro attività missionaria, fino all’India e al nord-ovest della

Cina, dove è stata trovata una iscrizione bilingue in siriaco e cinese dell’ottavo

secolo d.C. Un’altra varietà aramaica orientale ben documentata è il mandaico, la

lingua dei testi religiosi dei Mandei (III-VI secolo d.C.) I Mandei sono una comunità

religiosa monoteista, nelle cui credenze entrano numerosi elementi gnostici,

caratterizzata da una speciale venerazione per San Giovanni battista. Comunità

mandee esistono ancora in Iraq.

iv. Aramaico moderno: L’aramaico declina gradualmente come lingua parlata in

seguito alle conquiste arabe del settimo secolo. Il siriaco e l’aramaico giudaico

rimangono uso come lingue letterarie e liturgiche delle rispettive comunità religiose,

mentre in gran parte della Mezzaluna fertile le varie forme di arabo parlato lo

rimpiazzano come madrelingua, con un processo simile a quello con l’aramaico

stesso aveva sostituito il cananaico e l’accadico oltre un millennio prima (ma senza

deportazioni). Tuttavia, alcune forme moderne, le lingue neo-aramaiche, sono

tuttora parlate dalle comunità cristiane (i cosiddetti Assiri) ed ebraiche del Kurdistan,

dai Mandei, e in alcune località della Siria. Le lingue neo-aramaiche orientali che

possiedono una tradizione letteraria (a partire dal diciottesimo secolo, in alfabeti

derivati da quello siriaco o da quello latino) sono il neo-mandaico, la lingua

Turoyo, e le varietà neo-aramaiche nord-orientali o Suret: il neo-aramaico caldeo e

il neo-aramaico assiro (basato sul dialetto dei cristiani di Urmia in Iran). Esistono

numerose altre varietà locali, giudaiche o cristiane, di neo-aramaico nord-orientale,

non sempre intelligibili tra loro, alcune con poche centinaia di parlanti. Queste lingue

riflettono una forte influenza del circostante ambiente linguistico, arabo, kurdo,

turco, armeno, in qualche caso georgiano, che le porta a differenziarsi in modo

marcato dalle altre lingue semitiche, in particolare nel sistema verbale.

Il neo-aramaico occidentale è parlato a Ma’lula in Siria e in alcune località vicine, in

prevalenza ma non esclusivamente dalla popolazione cristiana. Nel corso del

Novecento, i conflitti medio-orientali hanno colpito duramente molte delle comunità

linguistiche neo-aramaiche, che al momento in cui scrivo sono obiettivo specifico di

violenza nelle guerre civili siriana e irachena. Di conseguenza, attualmente i neo-

aramaici sono parlati e stampati spesso da comunità in diaspora stabilite in Europa,

negli Stati Uniti, in Libano, in Israele (per le comunità ebraiche) in America Latina e

altrove.

2. Arabico:

a. Arabo: si veda la sezione 4.

b. Nordarabico: la parte centrale e settentrionale della penisola araba ospita, nel corso

dell’età del ferro, diverse società urbane, nomadiche o semi-nomadiche, impegnate

nel commercio a lunga distanza ed evidentemente in possesso di scrittura. Circa

dall’VIII secolo a.C., fino al IV d.C. è attestato un corpus di decine di migliaia di

brevi iscrizioni che ci testimoniano le varietà linguistiche usate da questi gruppi. La

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grande maggioranza di queste iscrizioni sono estremamente brevi, consistendo anche

solo di nomi propri, rendendo problematica una conoscenza precisa delle forme

linguistiche, che comunque sono da considerare molto simili.

La grande maggioranza delle iscrizioni in questione sono in un alfabeto

originariamente simile, ma non identico, a quello sud-arabico (con qualche

differenza nel numero delle lettere, anche tra le diverse varietà). La lingua si

distingue dal Sayhadico e dall’aramaico sul piano morfologico e fonologico, ed è

affine all’arabo classico per molti aspetti. Rispetto all’arabo, la differenza più

evidente (anche se attestata poveramente in alcuni gruppi di iscrizioni) è l’articolo

determinativo h(n) (la n finale appare solo in alcuni contesti fonetici e in alcune

varietà) anziché al.

Esistono numerose varietà di nord-arabico, probabilmente mutualmente

comprensibili, ma comunque diverse. La ricerca in questo ambito è ancora aperta;

alcune varietà principali sono riconosciute primariamente sulla base del tipo di

scrittura (che varia molto), e associate convenzionalmente con le aree dei primi o

maggiori ritrovamenti. Va sottolineato come questa ripartizione (basata perlopiù sul

lavoro di Michael Macdonald) sia convenzionale e in parte arbitraria, comunque non

basata su criteri unicamente linguistici, e probabilmente provvisoria.

i. Taymanitico: è usato per indicare la scrittura e il dialetto di alcune centinaia

di iscrizioni, quasi tutti graffiti su rocce, ritrovate nella regione dell’oasi di

Tayma’ nello Hijaz settentrionale, almeno a partire dal VII secolo a.C. Una

iscrizione proveniente dalla città neo-ittita di Karkemish la scrittura

“taimaniti” verso l’800 a.C., e probabilmente è da intendersi come riferita a

questa forma. Tayma’ doveva essere un centro carovaniero molto importante

nella tarda età del Ferro; per alcuni anni a metà del VI secolo a.C., il re

babilonese Nabonedo ne fece la sua capitale. In seguito a questa presenza

babilonese l’oasi adottò anche l’aramaico come lingua scritta.

ii. Dadanitico: usato nello Hijaz settentrionale, attorno all’oasi di al-Ulà,

anticamente chiamata Dadan (Dedan in ebraico); in passato si usava

distinguere la sua fase più antica, chiamata “Dedanico”, da una più recente

associata con il regno tribale di Lihyan, chiamata quindi “lihyanitico”;

attualmente sono ritenuti sviluppi successivi della stessa scrittura. Alcune

delle più lunghe iscrizioni nordarabiche sono in questa varietà. La

documentazione, di parecchie centinaia di testi, va all’incirca dal VII al I

secolo a.C., quando l’area entra nella sfera linguistica e politica dei Nabatei.

iii. Dumaico: la scrittura e la varietà linguistica dell’oasi di Duma (oggi al-Jawf,

nell’ estremo nord dell’Arabia Saudita sulla carovaniera tra Hijaz e

Mesopotamia) documentata da pochissime iscrizioni.

Questi primi tre tipi riflettono forme linguistiche e grafiche affini e sono

classificati, assieme ad alcune iscrizioni trovate in Mesopotamia e in passato

chiamate impropriamente “caldee” (da attribuire ai contatti commerciali e

politici costanti tra quest’area e la Mesopotamia), come “Nordarabico delle

oasi”.

iv. Safaitico: è il nome convenzionale moderno per una grande quantità di

iscrizioni (oltre trentamila note, qualcuno ha ipotizzato possa esisterne un

milione), quasi tutte molto brevi, trovate perlopiù in una regione compresa tra

Siria, Arabia Saudita e Giordania nei pressi dell’altopiano lavico chiamato

Safa’, databili perlopiù tra il I secolo a.C. e il IV d.C.

v. “Thamudico”: anche questa categoria, basata su associazione del tutto

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arbitraria con la tribù araba preislamica dei Thamud, citata anche nel Corano,

è fortemente convenzionale. Copre oltre diecimila iscrizioni, molto brevi,

trovate in tutta la metà occidentale della penisola araba, e presenta una

grande varietà ed irregolarità di forme delle lettere e una considerevole

profondità temporale (circa dal VI secolo a.C. al III d.C.) e geografica (dalla

Siria allo Yemen). Va considerato una classificazione di comodo che non

indica un gruppo coerente di forme grafiche o linguistiche.

vi. Hismaico: la lingua e la scrittura usate nella regione desertica di Hisma, tra

Hijaz e Giordania, all’incirca a cavallo dell’era cristiana. Tradizionalmente

classificato all’interno del Thamudico, presenta sufficienti caratteri linguistici

ed epigrafici per essere considerato un gruppo autonomo.

vii. Haseo o Hasaitico o Hagarico: si riferisce a poche decine di iscrizioni

funerarie, provenienti dalla costa del Golfo Persico, scritte in alfabeto sabeo

ma in una lingua che con ogni probabilità è una forma di nord-arabico. E’

comunque in parte separato dal resto nord-arabico sul piano geografico,

epigrafico e, probabilmente, linguistico da alcune caratteristiche proprie.

3. Sayhadico (o Sudarabico Epigrafico): E’ l’insieme di varietà linguistiche, strettamente

imparentate ma distinguibili, attestate dalla quasi totalità delle iscrizioni sud-arabiche,

ritrovate nell’attuale Yemen e nelle regioni vicine dell’Arabia Saudita e dell’Oman. Testi

scritti sono attestati dal X secolo a.C. (o forse dal XII) fino al VI secolo d.C. La

documentazione è di due tipi: una vasta documentazione di iscrizioni in una scrittura sud-

arabica “monumentale” (musnad), quasi tutte su pietra, e una un certo numero di iscrizioni

di natura privata (lettere, contratti), in una scrittura leggermente diversa chiamata “corsiva”

(zabur) incise su legno, steli di palma ec… Inoltre sono state trovate poche iscrizioni su

ceramica e altri materiali. Questo secondo tipo di materiale è noto solo da pochi decenni e di

difficile decifrazione. L’importanza dell’attività commerciale degli stati sud-arabici ha fatto

sì che si conoscano iscrizioni al di fuori dell’area sud-arabica (in Mesopotamia, altre parti

dell’Arabia, Corno d’Africa, ecc.; una è stata trovata nell’isola greca di Delo).

L’appartenenza del Sayhadico al gruppo semitico centrale non è universalmente

riconosciuta: diversi studiosi continuano a ritenere più significativi i collegamenti con

l’etiosemitico o col sud-arabico moderno, e considerare quindi plausibile un

raggruppamento “semitico meridionale” (per quanto non più comprendente l’arabo).

Si riconoscono quattro varietà Sayhadiche principali:

a. Madhabico: in passato chiamato più spesso Mineo perché documentato soprattutto

nell’antico regno di Ma’in, è però attestato anche nei centri della valle del Wadi

Madhab (Jawf), nello Yemen settentrionale, che facevano parte di altri stati. Si ritiene

che la tribù di Ma’in possa aver adottato il madhabico come lingua scritta pur

parlando una forma diversa di semitico, non direttamente documentata in modo

certo.

b. Sabeo: è la varietà meglio attestata e culturalmente dominante. Lingua ufficiale del

regno di Saba dall’VIII secolo a.C., è la principale lingua scritta di cultura di tutto lo

spazio culturale sud-arabico, tanto da essere impiegata per le iscrizioni monumentali

del regno di Himyar (circa II secolo a.C.- V secolo d.C.), anche se sappiamo che gli

Himyariti parlavano una lingua diversa.

c. Qatabanico: la lingua del regno di Qataban, documentata soprattutto in iscrizioni

monumentali della seconda metà del primo millennio.

d. Hadramutico: la lingua del regno di Hadramawt, attestata nella parte orientale dello

Yemen e nelle regioni confinanti dell’Oman. Alcune caratteristiche sembrano in

comune con il sudarabico moderno, e in generale presenta alcune differenze rispetto

alle altre varietà di Sayhadico. Si potrebbe immaginare, in analogia all’uso del

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madhabico da parte dei Minei e del sabeo da parte degli Himyariti, che la lingua

parlata nello Hadramawt fosse una forma antica del sudarabico moderno, diversa

dallo Hadramutico scritto. Tuttavia, al momento non esiste nessuna evidenza che

dimostri questa ipotesi.

Sempre in area sud-arabica si hanno indicazioni per la presenza di lingue semitiche non

sayhadiche, come quella dell’iscrizione di Qāniya, che potrebbe rappresentare una

attestazione dello Himyarita, altrimenti noto solo per via indiretta (nei cenni forniti

dall’autore yemenita al-Hamdani, che scrive in epoca abbaside). La scarsità della

documentazione rende difficile definire una attribuzione chiara di queste varietà

linguistiche; è ragionevole supporre che vadano classificate come lingue semitiche centrali.

In particolare, le poche informazioni fornite dagli autori arabi successivi sullo Himyarita

fanno pensare ad una forma linguistica più vicina all’arabo classico che alle lingue

sayhadiche.

L’area di sviluppo della civiltà sud-arabica con i principali siti noti, da Hoyland 2001.

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Alberi e onde

Diversi autori hanno proposto di abbandonare l’intera idea di classificazione genealogica interna al

gruppo semitico schematizzata qui sopra, per vedere invece nel semitico (se non nell’afro-asiatico)

una successione di “onde” linguisticamente innovative che si diffondono da un nucleo centrale

presumibilmente nella steppa della Siria interna. Questo punto di vista, proposto in particolare da

Giovanni Garbini, non è inconciliabile con l’idea di un “semitico centrale”, ma ne vede in modo

diverso la “centralità”: non puramente geografica ma storica, come “area innovativa” sul piano

linguistico, e connessa a società di tipo nomadico (o comunque più mobile) che da un centro

d’irradiazione nell’area della steppa interna siriana (punto d’origine delle migrazioni amorree ed

aramaiche) diffonde innovazioni linguistiche su vari spazi vicini (non esclusivamente, nella visione

di Garbini, su quelli linguisticamente semitici, come detto sopra).

In realtà, come detto sopra, i modelli “ad albero” e “ad onde” di diffusione di caratteri linguistici,

specie in un’area geografica come il Medio Oriente caratterizzata da una vasta e continua

interazione interna documentata per millenni, sono da vedere come complementari e non esclusivi.

La posizione dell'arabo nel semitico

Il modello ad albero tradizionale e quello di Hetzron differiscono principalmente per la

classificazione dell’arabo (incluso il nord-arabico); nelle versioni modificate del modello di

Hetzron, questo vale anche per il Sayhadico, che non va però per questo raggruppato assieme ad

arabo e nord-arabico.

L’arabo ha a lungo rappresentato un problema per i semitisti, a causa della sua posizione centrale a

livello sia geografico che di documentazione. Diverse caratteristiche dell’arabo appaiono “arcaiche”

o perlomeno conservative (ad esempio il sistema di casi e, in parte, i plurali fratti) e in effetti i primi

tentativi di ricostruzione del proto-semitico ne facevano una lingua estremamente simile all’arabo

classico. Inoltre nello schema tradizionale, l’arabo sembrava presentare caratteristiche comuni sia al

“semitico meridionale” che al “semitico nord-occidentale”.

Una migliore comprensione delle relazioni tra le lingue semitiche, l’arricchimento della

documentazione (in particolare di quella sud-arabica moderna, sayhadica ed etiosemitica) e il

raffinamento delle metodologie di analisi linguistica hanno portato una profonda revisione di questa

immagine. L’arabo è una lingua semitica centrale, ma, anche per prossimità geografica, condivide

con il “semitico meridionale” (etiopico e in misura minore sud-arabico moderno) alcuni caratteri

“conservativi” ereditati dal proto-semitico, che si sono persi in altre lingue. Questo contribuirebbe a

spiegare la compresenza di caratteristiche “arcaiche” e di altre più innovative.

Sezione 4

L'arabo

L’arabo pre-islamico

La penisola araba prima dell’Islam presenta un panorama linguistico piuttosto variegato. Una

qualche documentazione scritta è disponibile per quasi tutte le zone della penisola dall’inizio del I

millennio a.C., (l’Oman è la principale eccezione; l’area sembra essere stata nella sfera d’influenza

politica e culturale della Mesopotamia e dell’Iran, e la pochissima documentazione scritta che vi è

stata trovata finora riflette le lingue di queste aree), ma varia molto per quantità e qualità.

In base alla documentazione attualmente disponibile, tre gruppi di varietà linguistiche semitiche

centrali, ben distinti tra loro, sembrano dominare: il Sayhadico, il Nord-Arabico e, ai confini con la

Mezzaluna fertile verso nord, l’aramaico (specie nella sua variante nabatea). L’antenato delle lingue

sudarabiche moderne probabilmente era già parlato nel Dhofar e nelle aree vicine (e forse in altre

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parti dell’attuale Oman), ma non ne esiste documentazione accertata.

L’arabo antico (distinto dal nord-arabico) è molto poco documentato in epoca pre-islamica: le

iscrizioni che lo attestano con certezza sono all’incirca una dozzina, anche se nel momento in cui

scrivo nuove scoperte vanno modificando il quadro, in particolare nella parte meridionale

dell’odierna Arabia Saudita. La caratteristica distintiva fondamentale dell’arabo, nelle iscrizioni, è

l’articolo determinativo alif+lam. Questo appare in nomi propri, attestati anche in epoca molto

antica, all’interno di iscrizioni in lingue diverse.

La prima attestazione è solitamente considerata quella del nome della divinità “Alilat” (da

interpretarsi come una variante antica di al-Lāt, “la Dea”) venerata dagli “Arabi” secondo Erodoto

(quindi risalente al V secolo a.C.).

E’ importante ricordare che la penisola araba è area di antica e diffusa alfabetizzazione per oltre un

millennio e mezzo prima dell’Islam. La grande maggioranza delle iscrizioni pervenuteci sono molto

povere di elementi linguistici – spesso consistono di una sola frase, a volte formulare – ma il loro

numero, nell’ordine delle decine di migliaia, non lascia dubbi sul fatto che la scrittura alfabetica

fosse di uso corrente tra le popolazioni della penisola, sia nomadi che sedentarie.

Le origini della lingua araba, per come è documentata in epoca islamica, presentano serie difficoltà

agli studiosi. In un contesto, come quello dell’Arabia preislamica, in cui è documentata una

significativa e antica presenza della scrittura, le fasi più antiche dell’arabo appaiono molto

poveramente documentate. L’arabo sembra essere rimasto una lingua essenzialmente parlata, senza

una tradizione scritta di rilievo, fino al IV-V secolo d.C.; tuttavia, anche in seguito, e fino ai primi

decenni dopo l’Egira, la documentazione scritta resta limitata ad un piccolissimo numero di

iscrizioni.

Si può ancora trovare riportato che l’iscrizione detta di Nemāra o di Imru al-Qays, trovata nel sud

della Siria e datata al 328 d.C., sia il primo documento dell’arabo, come è stato ritenuto a lungo.

Negli ultimi decenni sono state trovate documentazioni più antiche; l’iscrizione di En Avdat nel

Negev, scoperta negli anni Ottanta, include due righe poetiche in arabo (il resto del testo è in

aramaico nabateo), e si pensa che possa risalire al I o al II secolo d.C.; a Qaryat al-Faw nell’Arabia

Saudita meridionale l’iscrizione funeraria detta “di ‘Igl bin Haf’am” (nome del committente,

fratello del defunto), scoperta alla fine degli anni Settanta, ha pure importanti elementi linguistici

arabi, incluso l’articolo al (scritto l). Alcuni studiosi chiamano la varietà linguistica documentata

primariamente in questa iscrizione “qahtanico”, dal nome di una delle tribù arabe che sappiamo

essere state insediate nella regione di Qaryat al-Faw. Ne è stata proposta una data alla fine del I

secolo a.C., che ne farebbe il più antico testo “arabo” noto, ma è anche possibile una datazione più

tarda, verso il III secolo d.C. Si noti la vasta distribuzione geografica di queste prime tracce.

Altre possibili occorrenze dell’articolo al e altri elementi lessicali di tipo arabo si trovano in un

piccolo numero di iscrizioni dadanitiche, safaitiche e nabatee, e in due iscrizioni madhabiche; i più

antichi di questi testi potrebbero risalire al III secolo a.C., anche se si tratta di datazioni dubbie. Più

che di testi “in arabo”, si dovrebbe parlare di testi che mostrano la presenza di “caratteri linguistici

arabi”. Sembra che questi caratteri siano più comuni dopo il II-III secolo d.C., un’epoca in cui la

penisola araba appare aver attraversato mutamenti etnici, politici e sociali significativi, in parte

forse come conseguenza della conquista romana del regno nabateo. E’ possibile che, come paiono

indicare alcune fonti musulmane, popolazioni di lingua araba, precedentemente insediate in una

parte della penisola (forse nel sud-ovest), si siano diffuse su un territorio più ampio; non si dispone

comunque per ora di un quadro chiaro.

Tutte queste prime documentazioni di forme linguistiche arabe pongono difficili problemi di lettura

e interpretazione, in parte a causa della scrittura consonantica impiegata e delle gravi ambiguità

della scrittura nabatea per quanto riguarda ‘En ‘Avdat e Nemara.

Un piccolo numero di iscrizioni in arabo provenienti dalla Giordania e dal sud della Siria, risalenti

al VI secolo d.C., sembra attestare gli inizi di una tradizione scritta, per quanto assai ridotta, in

lingua araba con l’uso di caratteri derivati da quelli nabatei; la più antica è quella di Zebed, datata al

512 d.C. Altre iscrizioni datate di questo tipo sono state trovate a Jabal Usays (528 d.C.) e Harran

(568) nel sud della Siria. Si tratta di una documentazione ridottissima, quasi tutta proveniente da

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contesti cristiani; per il momento si può ritenere che la l’arabo come lingua scritta di uso comune

sia in generale successiva all’Islam.

Nell’estate del 2014 una missione archeologica francese ha annunciato il ritrovamento, sempre a

Qaryat al-Faw, di iscrizioni, databili alla fine del V secolo d.C. che attesterebbero il passaggio dalle

forme grafiche del nabateo (quelle che si hanno ad ‘En ‘Avdat e Nemara), a una fase antica della

scrittura araba. Un volta pubblicati, i dettagli di questi ritrovamenti potrebbero cambiare anche di

molto il quadro descritto qui.

La scarsità di documentazione e la difficoltà di interpretare quella esistente (non c’è ad esempio

pieno consenso sulla lettura della più importante iscrizione preislamica, quella di Nemara, per

quanto sia certo che si tratti di una varietà linguistica vicina all’arabo classico) rende anche

problematico sapere quanto la forma linguistica di queste iscrizioni sia unitaria, e quanto rifletta

l’arabo classico codificato nel periodo islamico.

Sappiamo, anche sulla base di quanto attestato dagli autori musulmani, che le diverse comunità

arabe della penisola presentassero in epoca preislamica una certa diversità linguistica, in particolare

secondo una divisione est-ovest. La lingua comune e di prestigio, riflessa dalla poesia preislamica

(sulla cui autenticità sussiste comunque qualche dubbio), sembra essere stata basata in gran parte su

quella impiegata nell’Arabia centro-orientale; sono attestate, anche da osservazioni delle fonti

musulmani, differenze rilevanti, rispetto all’uso linguistico dello Ḥijāz, in particolare nella fonetica.

Un riflesso di questa variazione è probabilmente l’ortografia della hamza, un suono che molto

probabilmente non era pronunciato dalle tribù arabe nord-occidentali (incluse quelle dell’area della

Mecca).

Molte questioni riguardanti l’arabo pre-islamico, la sua diffusione e documentazione, il suo status

come lingua poetica di prestigio o come lingua parlata, il suo rapporto con l’arabo parlato e scritto

delle epoche successive, e anche alcune sue caratteristiche grammaticali fondamentali (ad esempio

il tanwin, di cui non sembra esserci evidenza chiara nelle iscrizioni), restano per il momento aperte

ed oggetto di controversia.

La diffusione dell’arabo e lingue arabe parlate

Nella prima metà del settimo secolo, i gruppi arabi conoscono una straordinaria espansione.

Conquistano l’intera penisola araba, gran parte dell’Impero Romano d’Oriente, tutto l’impero

persiano sassanide, quasi tutta la Spagna visigota, e diversi altri territori. Questa serie di conquiste

avviene, a quanto risulta dalla grande maggioranza delle testimonianze storiche disponibili, nel

nome di una coesione comunitaria basata su un messaggio religioso – l’Islam.

Le conquiste arabe portarono l’arabo su uno spazio immenso come lingua parlata, e su uno ancora

più grande come lingua di cultura, tramite l’Islam ed il Corano. Ne risulta una tensione tra la spinta

unitaria esercitata dallo standard, e la varietà delle lingue locali.

Le origini dell’Islam, così come quelle della lingua araba classica alle quali appaiono strettamente

legate, sono oggetto di una discussione molto articolata tra gli studiosi contemporanei.

Possiamo dare per certi alcuni dei dati fondamentali dalla tradizione musulmana successiva: anche

tra gli studiosi più orientati alla critica e alla revisione, c’è consenso quasi generale che un profeta

di nome Muhammad abbia predicato un articolato messaggio di monoteismo nel nord-ovest della

penisola araba, e che questo messaggio sia stato redatto non molto tempo dopo la sua morte in un

corpo testuale in lingua araba, noto come Qur’an – il Corano. C’è però qualche motivo per pensare

che la fissazione del testo coranico sia stato un processo più lungo e più complesso di quello

presentato dalla corrente principale della tradizione musulmana.

Così come non c’è ragione di dubitare che la lingua araba, pur se solo molto raramente documentata

per iscritto, possedesse un sistema di scrittura quasi certamente derivato da quello nabateo, che i

suoi parlanti avessero in linea di massima una familiarità con la scrittura, e che esistesse un corpo

letterario di poesia orale, di cui, seppure attraverso trascrizioni di epoca islamica la cui autenticità è

a volte dubbia, ci è giunta documentazione.

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Infine sappiamo che esistevano diverse varianti linguistiche dell’arabo, secondo i gruppi tribali e le

aree geografiche; su questo le fonti musulmane e la critica moderna concordano. In particolare c’è

ragione di ritenere che esistesse una differenza tra Est ed Ovest della penisola – col problema però

della quasi totale assenza di documentazione scritta preislamica per l’Est.

Il significato di questa variazione in rapporto alla successiva storia linguistica dell’arabo, tuttavia, è

profondamente controverso. Semplificando si può dire che esistano due punti di vista fondamentali

e contrapposti:

1) Il primo vede l’arabo classico, così come si forma in quanto lingua letteraria ed è codificato dal

pensiero linguistico arabo medievale, come una standardizzazione e una cristallizzazione delle

varietà, tutto sommato simili, parlate nella parte centrale della penisola araba all’epoca di

Muhammad e delle prime conquiste. Questo arabo sostanzialmente (anche se certo non interamente)

unitario si sarebbe frammentato, dopo le conquiste, in un gran numero di forme parlate vernacolari,

anche molto distanti tra loro e dalla lingua classica, in un processo abbastanza simile a quello della

formazione delle lingue neolatine. Questo punto di vista è autorevolmente rappresentato oggi da

Kees Versteegh.

2) Il secondo modello ritiene che la situazione di alta diversificazione della lingua parlata nota nel

mondo arabo odierno sia da applicare anche al periodo preislamico. Una varietà linguistica

specifica, già in uso nella poesia orale, sarebbe stata selezionata come lingua letteraria e religiosa,

ma non rappresentava già più il tipo linguistico parlato dalla maggioranza degli arabi, e non è quella

da cui derivano le forme parlate moderne. Questa posizione è articolata in modo dettagliato in

particolare nel recente lavoro di Jonathan Owens.

Esistono diverse sfumature possibili tra le due posizioni. In particolare va ricordato che Owens

sottolinea sempre nel suo lavoro l’unitarietà sostanziale dell’arabo, sostenendo d’altra parte che una

comprensione complessiva della storia linguistica dell’arabo sia possibile sono considerandone la

documentazione nella sua interezza, e quindi attribuendo alla varietà scritta il ruolo di una variante

tra le altre.

In modo in un certo senso contro-intuitivo, è invece Versteegh a mettere in risalto la forte differenza

tra la lingua letteraria standard e le forme parlate. Versteegh teorizza infatti una cesura relativamente

brusca nella trasmissione della lingua in coincidenza delle conquiste, che avrebbe portato ad una

parziale creolizzazione, in seguito arrestata o anche invertita dalla pervasiva e crescente influenza

culturale della lingua standard.

Le varie forme parlate di arabo non sono reciprocamente comprensibili e presentano considerevoli

differenze tra loro; tuttavia, la maggior parte di loro hanno dei tratti in comune che le differenziano

dall’arabo classico, come un ordine delle parole prevalente Soggetto-Verbo-Oggetto anziché Verbo-

Soggetto-Oggetto, l’assenza di declinazione dei casi, la diffusa presenza di prefissi temporali nella

coniugazione dei verbi, ecc…

La diglossia è la coesistenza in una comunità linguistica di due forme linguistiche connesse, ma

nettamente differenziate sul piano grammaticale, in condizioni di marcata differenza di prestigio

(normalmente, tra una lingua standard letteraria di alto prestigio e una madrelingua parlata). Il

termine è stato coniato per descrivere la situazione della Grecia moderna fino agli anni Settanta –

quando la varietà colta ufficiale, la katharevousa, fu ufficialmente abbandonata in favore della

lingua colloquiale, la demotiki. Il termine è stato poi impiegato per descrivere altre situazioni più o

meno analoghe – ad Haiti, nella Svizzera di lingua tedesca, nel mondo arabo.

Il caso arabo è particolarmente complesso – alla varietà standard, sostenuta da un prestigio

immenso di tipo letterario e religioso, non si contrappone un insieme omogeneo di varietà parlate,

ma numerose parlate informali piuttosto diverse tra loro, e anche di prestigio variabile. Anziché

parlare di una dicotomia tra lingua standard e lingua parlata, gli studi recenti mettono in luce una

gradazione di livelli e registri all’interno di un continuum; questi possono variare tra l’uso, anche

nello stesso discorso, di forme tipiche del parlato colloquiale o della lingua scritta, variabili a

seconda del contesto comunicativo, della collocazione sociale e dell’educazione dei parlanti, e della

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regione. In molte zone, particolarmente in Nordafrica, il quadro è complicato dall’importante

presenza nella società delle lingue coloniali (inglese e francese).

Va infine citata l’esistenza di quelle varietà scritte, attestate soprattutto in epoca post-classica e nella

produzione di ebrei e cristiani, tradizionalmente indicate con l’etichetta infelice di “medio-arabo”.

Il “medio-arabo” non è la documentazione di una fase linguistica cronologicamente o

socialmente intermedia tra l’arabo classico e i “dialetti” moderni, ma il risultato

dell’interferenza del parlato, o di una insufficiente padronanza della lingua scritta standard, in testi

formalmente meno curati. I testi medio-arabi presentano così iper-correttismi accanto a forme

tipiche dell’arabo parlato.

PARTE II: IL PENSIERO LINGUISTICO ARABO

Sezione 1 Formazione storica della tradizione grammaticale araba

La riflessione sul linguaggio è un fatto comune nelle società umane, e in particolare in quelle dotate

di scrittura. Il linguaggio è una un elemento fondamentale nell’identità dei gruppi umani, strumento

e oggetto al tempo stesso di discorsi.

Sappiamo ad esempio che nell’antica Mesopotamia, la necessità per gli scribi di acquisire

familiarità con un sistema di scrittura complesso e con diversi sistemi linguistici ha prodotto

dapprima dizionari (o meglio, liste di parole ad uso di scribi-traduttori) e in seguito esercizi

standardizzati per le scuole scribali, in cui elementi della grammatica sumerica sono analizzati e

descritti. Questa tradizione di analisi linguistica sumero-babilonese non sembra aver lasciato una

eredità diretta alle culture successive. Sono conosciute tre grandi tradizioni autonome di pensiero

linguistico, che hanno lasciato in vario modo il segno sulla linguistica moderna: l’indiana, basata

sulla descrizione del sanscrito, la greco-latina, nata per codificare la grammatica greca (su cui si

fonda la descrizione di quella latina e che resta, pur con modifiche, la base dell’insegnamento

grammaticale delle lingue europee) e quella araba.

L’emergere storico del pensiero grammaticale arabo è circa un millennio successivo (e

geograficamente intermedio) rispetto alle altre due tradizioni. Questo ha indotto diversi studiosi a

cercare nell’influenza della tradizione grammaticale greca, o più raramente del pensiero linguistico

indiano, le radici storiche della sua nascita.

Ci sono buone ragioni per ritenere che alcuni elementi del pensiero linguistico greco (su quello

indiano, la questione è più controversa) possano essere confluiti nella tradizione grammaticale

araba. È inoltre notevole come la descrizione grammaticale dell’arabo ci appaia documentata, già

alla fine del secondo secolo dell’Egira (ottavo secolo d.C.) come un sistema piuttosto coerente e

organico sostenuto da una riflessione teorica. La rapidità con cui questo sistema si sviluppa è

eccezionale, e contribuisce a far pensare ad apporti dall’esterno. Tuttavia, proprio come sistema

concettuale nel suo insieme il pensiero linguistico arabo manifesta una pressoché completa

autonomia rispetto alle tradizioni greche ed indiane, indipendentemente dall’eventualità che alcuni

elementi di queste vi siano stati forse incorporati.

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La tradizione araba medievale concepisce le origini del pensiero linguistico e grammaticale in due

scuole, quella di Basra e quella di Kufa, attive tra ottavo e nono secolo. A partire dal nono secolo,

il punto di vista “della scuola di Basra” trionfa; della scuola di Kufa abbiamo scarsa

documentazione, al punto che c’è chi ne ha messo in dubbio la reale esistenza. Sembra in generale

che si attribuiscano alla scuola di Kufa riflessioni linguistiche meno sistematiche ed astratte di

quelle della scuola di Basra, che riflettono probabilmente la fase più antica dello sviluppo delle

teorie grammaticali; la “scuola di Kufa” sarebbe dunque orientata al commento linguistico e

all’analisi del testo (in particolare del Corano) mentre a quella “di Basra” si dovrebbe attribuire

l’elaborazione di una teoria grammaticale ad un livello più astratto, che dia conto del sistema

linguistico del suo insieme (pur sempre però in riferimento alle forme attestate da un definito corpo

testuale).

Il ruolo della parola nella cultura arabo-islamica del Medioevo è assolutamente centrale; attraverso

di essa, nella riflessione islamica, Dio si manifesta agli esseri umani e fa conoscere la sua volontà,

attraverso di essa si trasmette la conoscenza.

I fondatori del pensiero linguistico arabo, tradizionalmente ascritti alla “scuola di Basra”, sono al-

Khalil e il suo allievo, il grande Sibawayh (morto nel 793 d.C.). La corrente principale del pensiero

grammaticale arabo si fonderà sull’opera di Sibawayh, il Kitab (il “libro” per eccellenza), dando

alle sue intuizioni una sempre maggiore sistematicità e coerenza intellettuale, anche grazie

all’acquisizione degli strumenti teorici della logica aristotelica.

Sibawayh si trasferisce a Baghdad, che diventa il centro dell’attività di elaborazione del pensiero

linguistico nei due secoli successivi; qui la distinzione, se mai vi era realmente stata, tra le scuole di

Basra e di Kufa si attenua.

Una parte importante del lavoro della successiva tradizione grammaticale araba, a partire

dall’ultima parte del nono secolo, sarà quella di approfondire, sistematizzare e formalizzare le

analisi di Sibawayh, specialmente attraverso una definizione sempre più rigorosa della terminologia

tecnica e della teoria delle “cause” (‘ilal) e dei fondamenti (uṣūl) del sistema grammaticale.

In particolare, al-Mubarrad (m. 898) renderà popolare l’opera di Sibawayh attraverso il suo

insegnamento; si è sostenuto che siano stati i suoi discepoli a formalizzare canonicamente la

terminologia e le teorie principali della “scuola di Baṣra” in una teoria sistematica.

Ibn al-Sarraj (m. 928) ha sviluppato gli uṣūl, i fondamenti teorici della grammatica, in un sistema

classificatorio e definitorio (parti del discorso, funzioni sintattiche, ecc…) formale nel suo Kitāb al-

Uṣūl.

La teoria delle ‘ilal viene sviluppata da al-Zajjājī (m. 951) sulla base del suo maestro Ibn al-Sarraj;

egli definisce tre livelli di “causa” o “spiegazione” di un fatto linguistico: didattiche (ta’līmiyya;

necessarie all’apprendimento della lingua corretta); analogiche (qiyāsiyya; che stabiliscono

relazioni di somiglianza tra le diverse parti del sistema per spiegare le apparenti irregolarità, ad

esempio tra nomi e verbi) e dialettico-speculative (jadaliyya wa naẓariyya; che ricercano al di fuori

del sistema, normalmente nell’equilibrio di “leggerezza” e “pesantezza”, la ragione ultima delle

analogie del secondo livello).

Dopo il grande lavoro di codificazione e teorizzazione del decimo e dell’undicesimo secolo, la

tradizione si consolida, diventando sempre più didattica e formalistica. Le grandi opere originali

vengono commentate (anche se i commentari possono spesso contenere idee originali), e con

l’eccezione di alcune importanti figure, le linee generali e le categorie d’analisi del pensiero

grammaticale arabo resteranno le basi dello studio della lingua fino all’epoca moderna.

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Lessicografia

Accanto alla tradizione descrittiva ed esplicativa delle strutture del sistema linguistico (morfologia e

sintassi), che costituisce l’interesse primario dei grammatici arabo e fa riferimento a Sibawayh e

alle “scuole” di Basra e di Kufa, l’analisi linguistica dell’arabo comprende anche altri settori: la

metrica, la semantica, la retorica, la critica testuale e soprattutto la lessicografia.

Il padre della lessicografia araba è considerato al-Khalil, il maestro di Sibawayh a Basra. La sua

opera principale è il Kitāb al-‘ayn. Si tratta di una immensa raccolta di lemmi, di cui viene indicato

il significato e l’uso corretto, sulla base del corpus del Corano, della tradizione poetica e dell’uso

vivo dei parlanti arabo “corretto” vale a dire i beduini, in particolare quelli dei gruppi dell’Arabia

centrale il cui arabo era ritenuto “puro”. E’ interessante notare che in questo testo, le parole siano

ordinate per radici; a loro volta, le radici sono disposte secondo le lettere che le compongono nelle

loro varie permutazioni; le lettere non sono poste in ordine alfabetico ma in ordine fonologico,

cominciando dalla ‘ayn, articolata al fondo della cavità orale, fino alla mim, pronunciata con le

labbra.

I grandi lessicografi successivi tuttavia adotteranno dopo il decimo secolo un sistema più semplice,

di ordine alfabetico dell’ultima radicale (l’ultima era rilevante per la formazione delle rime, uno

degli scopi per i grandi dizionari venivano composti, ed era quindi comodo). Il ricchissimo

patrimonio della lingua araba letteraria è così trasmesso in alcuni grandi raccolte medievali e post-

classiche, di solito fornendo esempi d’uso per le singole parole.

La più celebre ed importante di queste raccolte è il Lisān al-‘Arab compilato da Ibn Manẓūr (m.

1311). I dizionari moderni di arabo classico, a cominciare da quello del Lane (English-Arabic

Lexicon) si fondano su questo lavoro di raccolta e sistemazione.

Sezione 2 Principi e meccanismi fondamentali

Nella sua tradizione principale (quella “di Basra”, anche se sviluppata prevalentemente a Baghdad)

la grammatica araba (naḥw) si compone di due parti principali, naḥw e taṣrīf, traducibili

rispettivamente come sintassi e morfologia. La sintassi è, in primo luogo, la sintassi dei casi e dei

modi, visti perlopiù come marche della funzione della parola nella struttura della frase. Il taṣrif, che

include anche una riflessione su quella che oggi chiameremmo fonologia, si concentra invece

sull’analisi del rapporto tra la radice tipicamente triconsonantica (jiḏr) e le varie “forme” (wazn) che

può assumere, elaborando in particolare regole e strategie per risalire allo “scheletro” radicale di

qualsiasi parola data (ištiqāq).

Un resoconto tradizionale, in diverse varianti, attribuisce la creazione del nahw a Abu al-Aswad al-

Du’ālī, un compagno del quarto califfo ‘Ali Ibn Abi Ṭālib, precisamente con l’intento di correggere

quegli errori nella pronuncia delle vocali finali (desinenze di caso) che alteravano il senso della

Parola coranica.

Probabilmente a causa della rapida perdita (o, nel modello di Owens, della mancata diffusione) di

queste vocali marcanti il caso nella lingua parlata, in particolare nelle città di nuova fondazione

dell’impero islamico (come, appunto, Basra e Kufa) esse acquisiscono un ruolo centrale nella

percezione del lavoro del grammatico. Ad esempio, nel decimo secolo, il logico cristiano Yahya Ibn

‘Adi, nel suo breve trattato sulla differenza tra grammatica e logica, afferma che lo scopo della

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grammatica sia semplicemente quello di assegnare alle parole la desinenza di caso corretto

(ovviamente si tratta di una tesi polemica).

In ogni caso, Sibawayh e soprattutto suoi successori fanno molto di più che elaborare un sistema per

attribuire la desinenza corretta ai sostantivi (e ai verbi nell’imperfetto). Essi costruiscono un sistema

teorico che descrive (e spiega) interamente il funzionamento della lingua araba, così come

attestata dalle fonti “affidabili” (Corano, poesia preislamica, uso dei beduini) a partire da un

numero il più possibile limitato di regole astratte.

La parola viene anzitutto distinta in tre parti fondamentali del discorso: nome (ism) verbo (fi’l,

meglio traducibile con “azione”) e “particella” (ḥarf), una distinzione che potrebbe essere stata

influenzata da quella analoga di Aristotele. A queste parti principali e alle relative suddivisioni

minori sono assegnati diritti e doveri all’interno di una struttura gerarchica dei costituenti della

frase.

Ad esempio, i nomi hanno “diritto” a ricevere una desinenza di caso, così come i verbi “assimilati ai

nomi” (mudari’) mentre i verbi o le particelle hanno il “diritto” di assegnare la desinenza al nome

che segue: la forma reggente precede sempre la forma retta. Questa è, in breve, la teoria della

reggenza (‘amal); il principio essenziale che governa la teoria sintattica araba.

Oltre che una gerarchia di diritti e doveri, la struttura delle forme linguistiche è analizzata attraverso

una corrispondente gerarchia di pesantezza, sia sintattica che fonologica (e quindi morfologica). Le

forme “pesanti” generalmente governano quelle leggere; l’armonia e la correttezza linguistiche si

ottengono attraverso l’alternanza di leggerezza e peso: ad esempio, le particelle sono ritenute

“pesanti”, il che ne autorizza l’elisione nello stato costrutto: nella teoria classica, un nome viene

visto come troppo “leggero” per assegnare il caso genitivo al nome successivo nella costruzione

dell’iḍāfa; su questo punto tuttavia non tutti i grammatici concordavano. Analogamente, nel taṣrīf,

l’elisione delle consonanti “deboli” dei verbi con radicali y e w è generalmente spiegata con la

necessità di evitare sequenze fonologiche “pesanti”.

Il sistema fa ricorso a qualcosa di molto simile a quello che la linguistica generativa contemporanea

chiama “struttura soggiacente”: fondamento, aṣl, della frase (o della forma) reali. Si tratta di una

forma (o più) linguistica astratta che dovrebbe spiegare (di solito per analogia, qiyās) la forma reale.

Normalmente, le forme soggiacenti sono trasformate nelle forme reali attraverso l’applicazione

successiva di regole ben definite, la più importante delle quali è l’eliminazione dell’eccesso di

“pesantezza”.

Le funzioni sintattiche

Si considerino le seguenti frasi:

1) Ḍaraba Zaydun ‘Amran

2) Zaydun Ḍaraba ‘Amran

3) ‘Amran Ḍaraba Zaydun

In tutti e tre questi casi, la frase ha lo stesso significato: “Zayd ha colpito ‘Amr”. Tuttavia, la

tradizione grammaticale araba analizza queste frasi in modo molto diverso.

In 1), abbiamo una “frase verbale” (jumla fi’liyya, meglio traducibile forse come “frase d’azione”)

secondo l’ordine delle parole non marcato in arabo. In questo caso, l’azione (fi’l) è seguita da un

agente (fā’il) e da un complemento (maf’ul bihi) ai quali attribuisce rispettivamente il nominativo e

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l’accusativo. Il fatto che l’agente segua l’azione ha fatto sì che la grammatica araba analizzasse le

desinenze personali del verbo al perfetto (Ḍarabtu, Ḍarabta, ecc…) non come parti della forma

verbale ma come forme particolari del pronome personale soggetto.

In 2) non si ha invece una azione, ma una informazione sul conto di Zayd, che non è dunque più

l’agente ma l’elemento noto, il mubtada’ (“ciò da cui si inizia”). Questa è una frase nominale.

Ḍaraba ‘Amran è il khabar, la “notizia” che viene data in rapporto a Zayd. Il nome non può,

secondo la tradizione maggioritaria della grammatica araba, assegnare desinenze di caso. Secondo

Sibawayh, in frasi come questa l’assegnazione del nominativo a Zayd è determinata da un elemento

astratto, la ibtida’, ovvero il fatto enunciativo di organizzare la frase a partire da un elemento noto

di cui si predica qualcosa. L’accusativo in ‘Amran non è ovviamente problematico, essendo

assegnato dall’azione. Nel caso in questione, infatti, il khabar della frase nominale è, a sua volta,

una frase verbale.

Questa distinzione grammaticale tra frase verbale e nominale non implica che i grammatici arabi

ignorassero il rapporto soggetto-predicato (isnād) così come lo conosciamo nella tradizione logico-

grammaticale di derivazione greca, né che la loro analisi fosse ancorata all’ordine superficiale delle

parole nella frase.

Infatti, in 3) abbiamo ancora una frase verbale: sebbene l’elemento iniziale sia un nome, esso non

è un mubtada’. Lo aṣl di questa frase sarebbe infatti Ḍaraba ‘Amran Ḍaraba Zaydun, in cui il

primo verbo viene eliminato perché ridondante o, nel linguaggio dei grammatici arabi, “pesante”.

Chiaramente, il complemento in prima posizione è comunque messo in evidenza; tuttavia, questa

scelta stilistica, anche se grammaticalmente corretta, non modifica la natura fondamentale della

frase. Per evidenziare (“topicalizzare”) ‘Amr come elemento noto, si direbbe infatti preferibilmente

così: ‘Amrun Ḍarabahu Zaydun in cui ‘Amr diventa il mubtada’ seguito da una frase verbale come

khabar, in cui Zayd è l’agente.

Sezione 3 Grammatica e logica

All’incirca nello stesso periodo in cui prende forma la tradizione grammaticale, le società islamiche

si confrontano con un fenomeno culturale di immensa portata, il movimento di traduzione greco-

arabo. La scienza e la filosofia greche vengono raccolte e tradotte in modo sistematico, e

successivamente commentato e rielaborato, dando origine ad una rigogliosa tradizione di pensiero e

di dibattito filosofico in lingua araba (espresso da musulmani, cristiani, zoroastriani, ebrei…).

Questa tradizione di pensiero va sotto il nome di falsafa (filosofia) ma va ricordato che essa si

riferisce più ad una corrente di pensiero che fa riferimento a determinati testi (primariamente quelli

di Aristotele, e, in secondo luogo, Platone), piuttosto che a un disciplina o a una attività, anche se

certamente i filosofi arabi ritenevano che la loro pratica intellettuale contenesse anzitutto un metodo

di ricerca della verità e della felicità (che erano sentite come corrispondenti).

Questo metodo era fondato sulla logica aristotelica (manṭiq), che veniva vista come uno strumento

per articolare correttamente il pensiero. La logica fa uso di alcune categorie d’analisi, come quelle

di soggetto e di predicato, di tipo linguistico. Nella tradizione filosofica aristotelica lo studio del

linguaggio in quanto tale non ha un posto importante (la grammatica è in effetti una delle poche

discipline a cui Aristotele non abbia dedicato studi specifici); la logica fornisce uno strumento per

distinguere le affermazioni vere da quelle false, non quelle corrette da quelle scorrette –come si

potrebbe sostenere che faccia la grammatica.

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Tuttavia, la logica in questi termini si poteva proporre come la via d’accesso ad un particolare tipo

di sapere – uno ottenuto attraverso un ragionamento individuale, teoricamente in modo

indipendente dalla conoscenza trasmessa linguisticamente, dunque dalla conoscenza condivisa in

una comunità.

Una versione estrema di questa tensione si può vedere ad esempio nello Ḥayy Ibn Yaqẓān di Ibn

Ṭufayl, scritto intorno al 1170, in cui il protagonista, crescendo da solo su un’isola deserta, arriva a

comprendere razionalmente il mondo che lo circonda, senza far uso di nessun linguaggio.

La grammatica araba, d’altro canto, era essenziale per lo studio e la comprensione del Corano – era

il fondamento epistemologico del sistema “tradizionale” (nel senso letterale di “trasmesso”) dei

saperi che includeva il diritto e la letteratura.

Nello stesso spazio conoscitivo, a Baghdad nel X secolo, grammatica e logica si trovarono dunque a

“competere” per il ruolo di sapere fondante il sistema delle conoscenze. Abbiamo il resoconto,

trasmessoci da Abū Ḥayyān al-Tawḥīdī, di un famoso “processo” alla logica tenutosi a Baghdad nel

932 o nel 938, tra il grande grammatico al-Sirafi e l’altrettanto celebre studioso di logica cristiano

Matta Abu Bishr. Nel resoconto che abbiamo, al-Sirafi riesce a confutare gli argomenti di Abu

Bishr; lo accusa di studiare la logica greca in traduzione, laddove quelle regole non possono essere

universali, ma di trascurare la proprietà dell’espressione nella sua propria lingua. Sirafi sostiene in

sostanza che i significati non debbano essere analizzati separatamente dalla forma linguistica, che

specifica per ogni lingua, e che la logica non sia altro che la grammatica del greco.

Il dibattito tuttavia non si concluse. Due allievi di Abu Bishr, il cristiano Yahya ibn ‘Adi e il

musulmano al-Farabi, si interrogarono sul rapporto tra i due sistemi di pensiero. Entrambi

concordavano che la grammatica fosse lo studio del campo dell’espressione, mentre la logica

studiasse le strutture “universali” del pensiero indipendentemente dalla loro forma linguistica. Ma

mentre Yahya ibn Adi difendeva la supremazia della logica, riducendo il ruolo della grammatica

allo studio della correttezza formale delle desinenze dello i’rāb (un punto di vista decisamente

riduttivo) al-Farabi, nella sua Classificazione delle scienze cercò una posizione conciliante: collocò

le scienze del linguaggio al primo posto nella classificazione (basata su un ordine di progressione di

studi e su una gerarchia ascendente di merito), confermandole in ruolo fondativo, facendole seguire

immediatamente dalla logica (nella quale include la poetica).

Nello stesso periodo, i grammatici arabi incorporarono nella loro struttura teoretica, come abbiamo

visto sempre più astratta e formalizzata, diversi elementi della logica aristotelica, i cui fondamenti

diventeranno parte della loro formazione.

Sezione 4 Ibn Jinni, Ibn Mada, al-Gharnati

In questa sezione si discuterà brevemente di tre personalità importanti nella storia del pensiero

linguistico arabo, che in vari modi, si distaccano dalla sua corrente principale.

Ibn Jinni

Ibn Jinni (morto nel 1003) è uno dei personaggi più importanti e rappresentativi della grammatica

araba nel periodo successivo alla sua codificazione. La sua opera più importante sono le Ḫaṣā’iṣ, le

“particolarità” della lingua araba. La sua opera è informata dal senso della bellezza, dell’armonia,

della ricchezza uniche della lingua araba; nelle Ḫaṣā’iṣ cerca di mostrare come questa armonia si

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manifesti in ogni aspetto o particolarità della lingua, come l’intero sistema si conformi ad un

generale equilibrio.

In questo senso va vista la sua idea più originale, che, a differenza del resto del suo lavoro, ha avuto

pochissimo seguito nella tradizione grammaticale successiva: lo ištiqāq al-kabīr o “grande

etimologia”. L’ištiqāq nel pensiero grammaticale arabo è il processo di ricondurre una forma alla

propria radice tri- o quadri-littera. Ibn Jinni porta questo principio al livello della struttura delle

radici stesse e della loro composizione; tutte parole derivanti da radici composte da combinazioni

delle stesse lettere (ad esempio ‘-B-R, B-R-‘, ‘-R-B e così via) possono essere ricondotte ad uno

stesso nucleo di significato. Il principio di combinazione era già stato impiegato per ordinare i

lemmi nel Kitab al-‘ayn di al-Khalil, ma senza attribuirgli nessun valore rispetto al significato delle

parole.

Estendendo ulteriormente il principio, secondo Ibn Jinni un significato fondamentale in comune si

può individuare nelle radici che presentano una somiglianza fonetica, ad esempio avendo due lettere

in comune, o presentano lettere “sorelle” (foneticamente simili, ad esempio per luogo

d’articolazione come ‘-R-M e ‘-L-B). Il principio include una dimensione fonosimbolica. La

differenza di significato tra ḫaḍama (masticare qualcosa di fresco) e qaḍama (masticare qualcosa di

duro) si riflette nella diversa forza fonetica delle due prime radicali.

In questo modo Ibn Jinni estende quanto più possibile l’analisi delle strutture di significato: ogni

porzione del sistema linguistico (potenzialmente ogni lettera radicale) è portatrice di significato in

relazione equilibrata e armonica con il resto del sistema, mostrando la meravigliosa armonia che fa

dell’arabo la lingua in cui la parola di Dio può essere espressa.

Ibn Maḍā’

Vissuto in Spagna alla fine del dodicesimo secolo, Ibn Maḍā’ rappresenta una eccezione nel

panorama del pensiero linguistico arabo per la sua critica radicale alla teoria grammaticale corrente,

in particolare alla teoria della reggenza. Ibn Maḍā’ aderiva alla scuola giuridica zahirita, secondo la

quale l’interpretazione del Corano debba attenersi al significato manifesto delle sue espressioni,

senza applicare ragionamenti umani come l’analogia (qiyas) o la ricerca di cause (‘ilal).

La negazione della validità delle cause è la base della critica di Ibn Maḍā’ alla teoria convenzionale

della reggenza, secondo cui alcuni elementi della struttura linguistica ne determinano altri (ad

esempio una particella assegna il caso ‘genitivo’ al nome che la segue). Era riconosciuto dalla

maggioranza dei grammatici che il sistema di reggenza fosse un costrutto teorico; vera “causa” della

forma linguistica è il parlante che lo usa.

Per lo zahirita Ibn Maḍā’ tuttavia non esistono “cause” all’infuori della volontà divina; solo Dio può

realmente agire, e quindi non è possibile che una costituente della frase agisca su un altro. La

prospettiva zahirita porta inoltre Ibn Maḍā’ a criticare l’idea delle strutture soggiacenti. La sola

forma linguistica reale è quella manifesta, e non ha senso, per lui cercare di “spiegarla” con delle

costruzioni teoriche.

Ibn Maḍā’ fa riferimento ad una visione dello studio del linguaggio come osservazione dei fatti

linguistici come sono enunciati dai parlanti (le “cause didattiche” di Zajjaji) senza speculare sulle

cause e le analogie; questo infatti potrebbe portare disaccordo e conflitto.

Il suo lavoro fu scarsamente considerato dai grammatici successivi, che continuarono a lavorare

lungo i binari consueti; ma fu stampato e riproposto nel 1947, nel contesto dei dibattiti

sull’insegnamento moderno della lingua araba, dove fu preso a modello dai sostenitori di una forte

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semplificazione (tabsīṭ) dei metodi didattici che eliminasse complessità come la teoria della

reggenza.

Abū Ḥayyān al-Gharnātī

Abū Ḥayyān al-Gharnātī è uno dei pochi grammatici arabi che si sia interessato in modo sistematico

a lingue diverse dall’arabo. In generale, il pensiero grammaticale arabo si è concentrato sulla

formazione di un sistema descrittivo ed esplicativo che desse conto del funzionamento della lingua

araba classica in modo completo e coerente, dedicando modesta attenzione ad altre lingue. In

questo, non si differenzia dalle tradizioni grammaticali indiana e greco-latina prima del basso

Medioevo. Al pari di queste, tuttavia, fornisce gli strumenti concettuali per lo studio di altre lingue;

nel Medioevo appaiono descrizioni della grammatica, dapprima dei volgari europei “periferici”

come l’anglo-sassone, l’irlandese e l’islandese, poi del provenzale, dell’italiano ecc…, basati sulla

teoria grammaticale greco-latina; in India la teoria grammaticale sanscrita viene utilizzata come

base per la tradizione grammaticale tamil, e poi per quella tibetana. Allo stesso modo lo studio della

grammatica ebraica, copta e siriaca si baseranno sistematicamente sul pensiero linguistico arabo;

tuttavia, i grammatici arabi perlopiù non si occuperanno di questi sviluppi del loro lavoro adottati

dai dotti ebrei o cristiani di lingua non araba.

Al-Gharnātī è tra i pochi che, dall’interno della tradizione grammaticale araba, ne applica i sistemi

descrittivi e le categorie al funzionamento di altre lingue. Ci è pervenuta la sua grammatica del

turco, ma sappiamo che ne scrisse altre. La sua descrizione del turco è notevole perché sembra

utilizzare una espansione della nozione di struttura soggiacente (aṣl) per poter applicare le

categorie descrittive arabe alla struttura profondamente diversa del turco.

PARTE III: SISTEMI DI SCRITTURA

Sezione 1 Evoluzione e tipologia della scrittura

La scrittura è una tecnologia che rende la parola visibile. La parola scritta, visibile, è accessibile al

di fuori dell’ordinaria dimensione temporale del discorso orale, attraverso un mezzo diverso da

quello uditivo. Per ciò stesso, la scrittura rappresenta un salto cognitivo. La presenza della scrittura

rende accessibile al futuro la forma linguistica del passato, ed è per questo che tradizionalmente si

parla di storia laddove la scrittura sia presente; malgrado ciò, diversi indirizzi di ricerca negli ultimi

decenni abbiano ampliato il campo d’indagine della storia in ambiti laddove la scrittura non opera, o

perlomeno non è in grado di documentare il passato. Si tenga comunque presente che scrittura e

oralità presentano un rapporto complesso e sfaccettato, profondamente variabile a seconda delle

diverse società; malgrado l’immenso numero di iscrizioni nord-arabiche faccia pensare ad una

società di diffusa alfabetizzazione, non ci è arrivato quasi alcun indizio che la letteratura o l’attività

giudiziaria impiegassero un mezzo scritto.

In realtà, la storia dell’evoluzione e della diffusione della scrittura presenta diversi “salti” cognitivi,

collegati a innovazioni anche radicali nei vari aspetti della tecnologia della scrittura, che possono

essere riassunti così:

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- Invenzione della scrittura: sembra essere avvenuta indipendentemente in Mesopotamia ed Egitto

nel IV millennio a.C., in Cina e in Mesoamerica probabilmente verso la seconda metà del II

millennio a.C. Non c’è certezza riguardo altre invenzioni pienamente indipendenti di sistemi

glottografici di scrittura.

- Segmentazione alfabetica: per quello che ne sa oggi, l’alfabeto è stato inventato

indipendentemente una sola volta, nel Levante, attorno alla metà II millennio a.C. o poco prima;

esso contribuisce ai grandi cambiamenti intellettuali della cosiddetta «Età assiale», alla metà I

millennio a.C., nel corso della quale l’uso della scrittura alfabetica sembra diffondersi in modo

considerevole.

- Altri “salti” accrescono considerevolemente la disponibilità della scrittura nelle società:

l’invenzione della carta in Cina, nel II sec. d.C. e il suo arrivo in Medio Oriente nel VIII sec. d.C;

l’evoluzione della stampa, sempre in Cina, nel I millennio d.C., e della stampa a caratteri mobili,

in Europa occidentale, XV sec. d.C.

- In questi anni stiamo vivendo un nuovo salto: l’arrivo nella società dei mezzi di comunicazione e

di scrittura basati sull’informatica sembra probabilmente destinata a cambiare in modo

fondamentale le modalità di disseminazione della conoscenza.

Tipi di scrittura

Si offre qui una classificazione delle principali tipologie di scrittura esistenti.

Pre-scrittura e Proto-scrittura

• Semasiografie (lettera jukaghira; cartelli stradali)

Questa lettera è stata incisa su una corteccia di betulla da una donna della popolazione

siberiana degli Jukaghiri. Rappresenta un messaggio al suo amato, che è andato a vivere con

una donna russa. Il messaggio è un esempio complesso di semasiografia; non rappresenta

una forma linguistica, e sarebbe incomprensibile da solo perché non è redatto in un codice

condiviso.

• Pittogrammi

La scrittura vera e propria (glottografia) è la rappresentazione del linguaggio attraverso segni

grafici.

Una classificazione dei sistemi di scrittura storici potrebbe essere fornita così:

• Logografie (cinese)

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• Sistemi logosillabici (cuneiforme, maya, giapponese) e logoconsonantici (egizio)

• «Ideogrammi» (characteristica universalis di Leibniz)

• Sillabari (Cherokee, cipriota antico; i segni che indicano le diverse sillabe non sono

connessi tra loro)

• Alfabeti consonantici (abjad; fenicio, ebraico, aramaico…)

• Alfasillabari (abugida; etiopico, la maggior parte delle scritture dell’India, antico iberico;

sembrano tutti evoluzioni degli alfabeti consonantici, in cui specifiche modificazioni del

segno consonantico ne indicano la vocale; di conseguenza ogni segno rappresenta una

sillaba, ma ne riflette la composizione di vocale+consonante, come farebbe un alfabeto)

• Alfabeti in senso stretto, dotati di distinti segni per i segmenti consonantici e vocalici

(greco, latino, cirillico, armeno…)

• Scritture per tratti (featural script; coreano; i segni per i segmenti sono composti

approssimativamente in base ai tratti fonetici – sordo, sonoro, dentale, labiale, ecc… - che li

caratterizzano; possono essere considerati in un certo senso un caso particolare di alfabeto.)

Nei sistemi logografici ogni segno corrisponde in linea di massima ad una parola (o a un morfema),

come accade oggi in linea di massima nei caratteri cinesi; Molti sistemi logografici sono però, fin

dalle origini, misti; contengono una quota importante di segni che hanno, almeno in certi contesti,

valore per il proprio suono, comunemente una sillaba (nel caso dei geroglifici, una o più

consonanti). In generale, questi sistemi misti si evolvono da notazioni più semplici, spesso di tipo

pittografico, in vere e proprie glottografie introducendo una qualche variante del principio del

rebus. In passato questo accadeva anche ai caratteri cinesi, anche se in seguito il sistema si è

evoluto perdendo la trasparenza dell’elemento significativo sul piano del suono, in modo che oggi

esso si può definire pressoché pienamente logografico.

Nessun sistema storicamente attestato è propriamente definibile come “ideografico”, nel senso di

marcare graficamente le idee indipendentemente dalle parole usate per esprimerle. Tuttavia,

tentativi di elaborare sistemi del genere furono comuni in Europa, specialmente nel diciassettesimo

secolo, anche per l’influenza di un malinteso in merito alla natura dei caratteri cinesi (che tuttora

sono infatti spesso definiti “ideogrammi”). Questi sistemi, chiamati pasigrafie o caratteristiche

universali intendevano superare l’ambiguità strutturale dei linguaggi naturali e fornire uno

strumento per pensare chiaramente; non ebbero mai largo uso, ma il lavoro svolto su di essi

anticipa, per alcuni aspetti, i sistemi molto più limitati di codificazione usati in seguito nella logica

simbolica e in alcuni campi della matematica e della programmazione informatica.

Sezione 2 L’evoluzione dell’alfabeto

Furono le popolazioni di lingua semitica della regione nota allora come Canaan e delle sue

immediate vicinanze ad ideare la segmentazione del linguaggio scritto attraverso un sistema di

poche decine di segni, corrispondenti in generale al repertorio fonetico della lingua, anche se

dapprima notando solo i segmenti consonantici. L’economicità e la relativa semplicità di questo

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sistema ne fa un cambiamento di portata rivoluzionaria rispetto ai precedenti sistemi in uso nella

regione, di tipo logosillabico e logoconsonantico provenienti da Mesopotamia ed Egitto, che

implicavano la conoscenza di centinaia di segni e di regole ortografiche articolate.

Il peso ed il prestigio delle tradizioni amministrative e rituali legate alle scritture geroglifica e

cuneiforme, patrimonio di consolidate scuole scribali, fecero comunque sì che i sistemi alfabetici

rimanessero relativamente marginali per molti secoli.

La grande maggioranza della popolazione del Vicino Oriente, composta da contadini, è stata a

lungo illetterata, sebbene l’uso del cuneiforme non fosse certamente limitato solo ai circoli scribali

e di corte, almeno in Mesopotamia; molto minore doveva essere la sua diffusione in altre aree, come

l’Asia Minore). C’è ragione di credere comunque che l’alfabeto abbia consentito una penetrazione

sociale della scrittura assai più profonda di quanto fosse possibile in precedenza, e un suo maggior

distacco dai sistemi istituzionali (templi e palazzi reali coi loro archivi e le annesse scuole) in cui

era stata, sembra, originariamente creata.

La grande maggioranza degli studiosi tende a considerare come prima forma di scrittura alfabetica

quella proto-sinaitica. Questa scrittura è documentata da un certo numero di graffiti, trovati in un

tempio presso le antiche miniere di turchese di Serabit al-Khadim nel Sinai, databili attorno alla

metà del II millennio a.C. Segni simili sono stati trovati in due brevi iscrizioni a Wadi el-Hol in

Egitto, probabilmente risalenti al diciannovesimo secolo a.C.

Una delle due iscrizioni “proto-alfabetiche” di Wadi el-Hol

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La decifrazione del proto-sinaitico è ancora discussa e parziale, ma da tempo la maggioranza degli

esperti ritiene che si tratti di segni adattati dal geroglifico (più precisamente dalla sua forma

stilizzata, lo ieratico) letti secondo pronuncia del loro significato logografico in una lingua semitica

molto simile al cananaico.

Il primo suono di questa parola avrebbe fornito il suono indicato dalla lettera. Ad esempio il

carattere indicante una casa stilizzata, letto normalmente per in egizio, sarebbe stato reso con bet, la

parola cananaica per “casa” o “tenda” (cfr. arabo bayt) e usato per indicare il suono consonantico

/b/. Questo principio è detto acrofonia.

Sono documentati contatti intensi tra l’Egitto del Medio Regno e del Secondo periodo intermedio e

la regione di Canaan, dove si doveva parlare una forma arcaica di cananaico. E’ possibile che questa

fosse la lingua dei minatori di Serabit al-Khadim.

I nomi di molte lettere ebraiche o etiopiche (questi ultimi documentati molto tardi) sembrano

avvalorare questa lettura, che ha permesso la decifrazione di una parte dei graffiti come dediche

religiose per gli ex-voto dei minatori; ma è importare ricordare che si tratta di una ricostruzione

basata su documentazione indiretta, e che non conosciamo i nomi “proto-sinaitici” delle lettere, se

esistevano. Quelli elencati, con la traduzione inglese nell’immagine qui sotto sono una

ricostruzione.

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La prima scrittura alfabetica per cui si disponga di un corpo testuale consistente e di una

decifrazione sostanzialmente certa è quella delle tavolette trovate a Ras Shamra in Siria, l’antica

Ugarit, dal 1929, databili tra il 1400 e il 1200 a.C. circa.

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schema dell’alfabeto ugaritico

La scrittura ugaritica è nota in due versioni leggermente diverse (una trovata nella città di Ugarit e

una soprattutto nella regione circostante). Si tratta di una scrittura cuneiforme, incisa su tavolette

d’argilla. L’ordine alfabetico è noto da diverse liste; anch’esso è un due versioni, che corrispondono

all’incirca a quelli documentati in seguito rispettivamente per il fenicio e l’ebraico da un lato, e il

sud-arabico e nord-arabico dall’altro.

Anche le forme di alcune lettere sembrano riflettere una relazione tra la scrittura ugaritica e quella

degli alfabeti detti “lineari” rappresentati dal successivo fenicio, ma già sporadicamente attestati in

Levante alla stessa epoca delle tavolette ugaritiche, e che si suppone siano una evoluzione del tipo

di scrittura documentato dai graffiti proto-sinaitici.

L’ugaritico sembra essere stato il prodotto di una sofisticata tradizione scribale legata alla corte e ai

templi del regno, anche se forse non limitata ad esso. Dopo la distruzione violenta della città alla

fine dell'Età del bronzo, ad opera dei “Popoli del Mare”, datata di solito al 1178 a.C., l’alfabeto

cuneiforme di Ugarit scompare.

L’alfabeto “lineare” invece mantiene il suo uso, che si deve presumere essere stato prevalentemente

informale e su materiale deperibile, meno connesso con le strutture centralizzate dei templi e dei

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palazzi (che entrano in crisi alla fine dell’Età del Bronzo). Le sue attestazioni si fanno più numerose

e più estese nello spazio a cavallo del I millennio a.C., presentando due tradizioni chiaramente

distinte: una, con 22 lettere, si afferma nell’area semitica nord-occidentale, con l’alfabeto delle

iscrizioni “proto-cananee” e le prime attestazioni di quello fenicio; l’altra, con 29 o 28 lettere, si

diffonde nella penisola araba, sviluppandosi nelle scritture nord-arabica e sud-arabica (nelle

versioni monumentale, detta musnad e corsiva, detta zabur). Ciascuna tradizione preserva un

proprio ordine alfabetico, corrispondenti anche se non identici ai due attestati in ugaritico: quella

semitica nord-occidentale ha l’ordine ʼbgd, quella arabica l’ordine hlmḥ.

Alfabeto fenicio in una forma standardizzata. I nomi delle lettere sono basati su quelli ebraici, le traduzioni incerte, la

trascrizione fonetica è ricostruita.

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Esempi di varie scritture nord-arabiche. Si noti che lo hasaitico è basato sul musnad sud-arabico, a differenza degli altri

tipi, di tradizione nord-arabica.

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L’iscrizione funeraria di ‘Igl bin Haf’am, da Qaryat al-Faw, in arabo scritto in caratteri sudarabici monumentali musnad

La scrittura lineare cananea si diffonde e si diversifica nell’Età del Ferro; è usata nelle città-stato

fenicie, la cui attività commerciale e coloniale nel Mediterraneo la porta in Nordafrica, in Sicilia, in

Spagna. Una forma leggermente diversa è impiegata in Palestina, dove si sviluppa nella più antica

scrittura ebraica, ancora oggi usata dalle comunità samaritane. Infine, è adottata negli stati di lingua

aramaica della Siria interna, dove conosce un impiego considerevole.

La tradizione greca attribuisce ai “Fenici” l’introduzione dell’alfabeto in Grecia; qui diversi segni,

che indicavano suoni consonantici assenti in greco, sono reimpiegati per segnare le vocali greche,

producendo una delle prime scritture pienamente alfabetiche. Alcuni indizi portano però a pensare

che l’alfabeto greco abbia potuto avere anche modelli aramaici, in un’epoca in cui comunque la

forma grafica delle lettere fenicie ed aramaiche non era ancora fortemente distinta.

Le iscrizioni fenicie ed aramaiche antiche sono poche numerose.

Quelle aramaiche appaiono riflettere un impiego dell’alfabeto principalmente su materiali

deperibili, che facilita l’evoluzione nel corso dei secoli di grafie “corsive” con frequenti legature tra

le lettere (uno sviluppo parallelo avrà la scrittura punica, cioè il fenicio usato nella regione di

Cartagine). L’affermazione dell’aramaico come lingua franca del Medio Oriente sotto gli imperi

assiro e persiano, seguito la diversificazione delle sue varietà locali porta all’affermarsi di numerose

varianti del relativo alfabeto; una di queste viene probabilmente adottata dagli Ebrei a Babilonia e

va a sostituire gradualmente quella antico-ebraica, fino a diventare l’alfabeto ebraico medievale e

moderno. La scrittura aramaica viene adattata a scrivere il persiano, e si ritiene, per quanto la

questione sia ancora poco chiara, che attraverso l’Impero Persiano sia giunta in India, dove è stata

profondamente rielaborata per esprimere le lingue locali attraverso un sistema alfasillabico.

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Altre forme di aramaico hanno evoluzioni parallele, a Hatra, a Palmira, a Edessa e nel regno

nabateo; tutte tendono generalmente a forme con numerose legature, che a volte oscurano le

distinzioni tra le lettere; la scrittura aramaica palmirena potrebbe essere all’origine di quella siriaca

elaborata ad Edessa, dopo il III secolo d.C., in cui cominciano apparire punti diacritici per

distinguere lettere diventate identiche.

Esempi di scrittura nabatea, da M. Macdonald, «Languages, Scripts and the Uses of Writing among the Nabateans»

L’alfabeto nabateo rimane in uso nell’Arabia settentrionale dopo la conquista romana del regno

nabateo nel 107 d.C. Nel IV secolo d.C., mentre sembra sempre più raro l’impiego delle scritture

nord-arabiche, esso comincia ad essere utilizzato sporadicamente per scrivere l’arabo, come

testimoniato dall’iscrizione di Nemara del 328 d.C.

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L’iscrizione di Nemāra in caratteri nabatei, uno dei primi esempi certi di lingua araba.

La tendenza corsiva alle legature e alla confusione tra le lettere sembra accentuarsi nelle pochissime

attestazioni della scrittura “antico-araba” di questo periodo, in modo parallelo a quanto accade alle

scritture siriache. Questo alfabeto doveva essere “in crisi” quando prende forma la scrittura che

diventerà araba.

La tradizione islamica ne attribuisce lo sviluppo all’ambiente della corte lakhmide di al-Hira

sull’Eufrate, uno stato arabo dipendente dall’impero sasanide di Persia; Michael Macdonald ritiene,

pur in assenza di prove conclusive, che ci sia un nucleo di verità in questa collocazione, ma le

recenti scoperte a Qaryat al-Faw potrebbero, come scritto sopra, modificare il quadro.

La tradizione islamica riporta l’ideazione dell’alfabeto arabo sulla base di quello siriaco; diversi

studiosi moderni hanno ripreso e sviluppato questa ipotesi, ma il consenso contemporaneo è che la

scrittura araba derivi direttamente da quella nabatea, con solo la forma di alcune lettere forse

influenzata da quella siriaca.

Sezione 3 Cenni di calligrafia e paleografia arabe

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Riproduzione dell’iscrizione preislamica di Umm al-Jimal e di quella islamica (anno 24 dell’Egira) di Zuhayr, da

Ghabban 2001.

Comparazione delle forme delle lettere in iscrizioni e papiri arabi del VII secolo, da Gruendler 1993.

L’avvento dell’Islam porta alla diffusione e alla trasformazione della scrittura araba; da ausilio

mnemonico di uso relativamente raro, in mezzo d’espressione della Rivelazione divina e, ben

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presto, dell’amministrazione di un vasto impero. Questa trasformazione comincia molto presto,

come attestato dai papiri e dall’uso, anche se ancora non sistematico, dei punti diacritici (già

presenti in siriaco e occasionalmente in nabateo) nell’iscrizione di Zuhayr; un momento importante

di questo processo sembra essere stato il regno del califfo Umayyade ‘Abd al-Malik, a cui risale la

monetazione con legende in arabo, e l’iscrizione coranica della Cupola della Roccia a

Gerusalemme, una delle più antiche testimonianze scritte del testo coranico di datazione certa (le

forme delle lettere di questa iscrizione sono le terzo dall’alto nella tavola qui sopra); solo di recente

la datazione al carbonio 14 di alcuni manoscritti coranici ha permesso di attribuire alcuni testi ad un

periodo molto probabilmente precedente, confutando tra l’altro quelle teorie “revisioniste” radicali

che collocavano la composizione del Corano nell’ottavo secolo se non più tardi, come suggerito

negli anni Settanta da John Wansbrough.

La forma grafica della parola è assunta in epoca islamica come mezzo della manifestazione di

essa; sebbene l’oralità mantenga un ruolo importante nella trasmissione del sapere, nei primi secoli

dell’Islam, e specie a partire dal periodo abbaside (che coincide con l’introduzione della carta) il

mondo arabo-musulmano diventa una società letterata, in cui la scrittura è un deposito di valori

culturali ed estetici. Si standardizza l’uso dei punti diacritici; si codificano gli stili di scrittura a

mano per libri, documenti, iscrizioni pubbliche; si diffondono forme specifiche di codice, a volte

autentiche opere d’arte; si definisce il sistema di notazione delle vocali lunghe, già spesso indicate

dalle consonanti omorganiche (matres lectionis: solitamente ʼ,h,y,w) in ebraico e in alcune

tradizioni aramaiche; si costituisce, in parallelo agli inizi della tradizione grammaticale, la codifica

delle vocali brevi con segni aggiuntivi, anche qui seguendo una pratica che ha paralleli in ebraico e

in siriaco. La più antica scrittura a mano islamica è un “corsivo” detto ḥijāzī; la si trova nei primi

manoscritti, alcuni dei quali attribuibili al VII secolo.

Esempio di scrittura ḥijāzī.

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In questo stesso periodo è attestata una scrittura “monumentale”, detta generalmente “cufica”, di

cui la Cupola della Roccia è appunto un esempio precoce. Il cufico può essere caratterizzato da

forme angolose, ben distinte tra loro, e linee di spessore costante; tuttavia questo termine copre una

varietà di forme grafiche ed è difficile da ricondurre ad un tipo unico.

Ad esso sembra collegarsi il corsivo abbaside, detto a volte “semi-cufico” tipico dei documenti di

cancelleria tra ottavo e nono secolo. Eccone un esempio (si noti la forma ormai moderna dei punti

diacritici e della vocalizzazione):

Questa è una forma di transizione con le cosiddette “scritture proporzionate” che appaiono e sono

codificate specialmente nel corso del decimo secolo, ad opera dei primi grandi calligrafi/artisti

professionali. La loro prima sistematizzazione è attribuita al “riformatore” Ibn Muqla (m. 940). Ibn

al-Bawwāb (m. 1022) è considerato il massimo interprete dell’arte calligrafica di questo tipo. La

tradizione fisserà nel numero di sei queste tipologie di scrittura canoniche, spesso raggruppate in

coppie:

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1) Nasḫ (l’esempio proviene dal celebre Corano di Ibn al-Bawwāb) E’ quella diventerà la scrittura

“standard” dell’arabo, anche nella stampa:

2) Ṯuluṯ:

3) Tawqī‘:

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4) Riqā‘:

5) Muḥaqqaq (si noti ne riquadro rosso in figura il tratto in alto a destra della lam e della alif, detto

tarwīsh; questo è presente in numerosi stili calligrafici di scrittura “proporzionata”)

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6) Rayḥān, è classificata come il modulo “ridotto” del muhaqqaq:

Dall’undicesimo secolo il mondo musulmano conosce processi di regionalizzazione, associati alla

perdita di potere e in seguito alla distruzione (ad opera dei Mongoli, nel 1258) del Califfato. Se già

nel decimo secolo città come Bukhara, Il Cairo e Cordova possono proporsi come centri culturali

alternativi a Baghdad, questo processo diventa in seguito assai più accentuato, in particolare in

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epoca mongola. E’ inoltre sempre più a partire da questo periodo che l’alfabeto arabo viene adattato

a scrivere comunemente altre lingue, anzitutto il persiano (prime manifestazioni già alla fine del

nono secolo) e più tardi il turco, numerose lingue dell’India, il kurdo, il berbero, lo hausa, il malese,

lo swahili, ecc…

Si formano così, circa a partire dal dodicesimo secolo, stili calligrafici regionali, associati a specifici

territori o a particolari corti: ad esempio le scritture Maghribi, Andalusi, ‘Ajami (nell’Africa

saheliana), Bihari (in India).

Vale la pena di citare gli stili nelle regioni centrali del Medio Oriente, specialmente in Iran, dove

opera il grande calligrafo Yāqūt al-Musta‘ṣimī (m. 1298) ultimo grande codificatore delle sei

scritture “proprozionate”.

Nel XIII secolo prende piede uno stile rapido di scrittura cancelleresca ornata e curvilinea detto

ta’līq (sospeso) per il suo tipico andamento obliquo; da questo si evolverà, in particolare per i

documenti ufficiali dello stato ottomano, la dīwānī, la scrittura “di corte”, caratterizzata da elaborate

legature.

Nel corso del XIV secolo prende piede nelle scuole calligrafiche dell’Iran occidentale (Tabriz ed

Isfahan in particolare) la caratteristica grafia nasta’līq (da naskh-e ta’līq, cioè “naskh sospeso”; qui

sotto un esempio) un’elaborata evoluzione del naskh usato in particolare nella poesia persiana. Da

essi si svilupperà più tardi la shekaste, la scrittura “spezzata”, rapida e corsiva, che caratterizza la

scrittura persiana a mano in età moderna.

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PARTE IV: LINGUAGGIO E NAZIONALISMO

Il racconto di un’autoctonia esclusiva, ossia di un’identità potenzialmente assassina.

Marcel Detienne

Sezione 1 Nazionalismo e linguaggio

Il concetto di “nazione” segna in modo fondamentale la storia degli ultimi secoli ed è uno degli

elementi centrali della modernità. E’ difficile fornire una definizione adeguata di “nazione”, ma

vale la pena di richiamare quella offerta da Ernest Renan: “Un plebiscite de tous le jours”, un

plebiscito quotidiano. Questa definizione riflette una concezione “civica” dell’appartenenza

nazionale, tipica delle tradizioni politiche francesi successive alla rivoluzione, che mette al centro la

partecipazione del cittadino alla vita pubblica e dunque la dimensione di adesione consapevole alla

vita nazionale.

A questa concezione se ne contrappone un’altra, tipicamente associata ai pensatori di area tedesca, e

attribuibile per certi aspetti a Herder, che vede invece nell’appartenenza alla nazione un dato

primario dell’identità definito dalla nascita, dalla terra, dalla lingua prima e al di sopra della

partecipazione politica o dell’esistenza stessa di uno Stato.

Questa differenza contrassegna il dibattito pubblico europeo per buona parte dei secoli

diciannovesimo e ventesimo; in circostanza e modi molti diversi, essa è rilevante ancora oggi, ad

esempio, nei dibattiti sulla cittadinanza e sull’adozione dello ius soli al posto dello ius sanguinis.

Parallelamente, vi è una distinzione tra gli studiosi “modernisti” e “primordialisti”, quelli cioè che

concepiscono la nazione come una creazione “artificiale” della modernità, come Eric Hobsbawm o

Benedict Anderson, e quelli che mettono invece l’accento sui sentimenti di comunità e solidarietà

politica che “fondano” simbolicamente la nazione nel sentire comune, e che sarebbero connessi ad

un senso di appartenenza “originario” e essenzialmente spontaneo. Una versione moderata di questo

punto di vista è stata autorevolmente sostenuta da Anthony Smith.

E’ chiaro che nelle formazioni nazionali esista un certo grado di artificialità; esse sono costruite, a

partire da uno Stato o da una ideologia di mobilitazione che, normalmente, aspira a farsi Stato.

Tuttavia, è anche vero che la comunità nazionale può avere una esistenza al di fuori della struttura

statale, strutturandosi intorno a simboli ed elementi condivisi.

Tra questi, il linguaggio è un fattore di primaria importanza. I nazionalismi europei del

diciannovesimo secolo enfatizzano il ruolo della lingua (normalmente nella sua varietà letteraria)

come manifestazione, e al tempo stesso come base, della solidarietà tra i membri di una nazione e

come caratteristica distintiva essenziale della comunità nazionale; come nota correttamente

Benedict Anderson, tuttavia, questo non è altrettanto valido per i contemporanei nazionalismi del

continente americano, presso i quali la lingua non costituiva un fattore distintivo importante

(sebbene vi siano stati tentativi di definire una “lingua americana” o di adattare l’ortografia dello

spagnolo alle pronunce locali del Sudamerica, il successo di queste operazioni è stato limitato).

Esiste in effetti una considerevole varietà nei modi con cui i diversi movimenti nazionali hanno

approcciato le questioni linguistiche. Si possono comunque individuare alcune tendenze di fondo,

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con l’avvertenza che non esauriscono la complessità dei discorsi sul rapporto tra comunità

nazionale e lingua, o lingue, presenti nella realtà storica.

- Il nazionalismo, come parte del progetto moderno, promuove spesso una standardizzazione

normativa (grammaticale, ortografica e stilistica) ed una omogeneizzazione della lingua

“nazionale”. Negli Stati nazionali, questo può avvenire attraverso la costituzione di accademie della

lingua che ne definiscano ad esempio l’ortografia, attraverso la scolarizzazione di massa, i mass

media, ecc… Nel caso di movimenti nazionali non statali, è storicamente critico il ruolo della

stampa.

- In molti Stati post-coloniali, si ha un tentativo di codificare lingue di tradizione orale in una forma

scritta, e, spesso contestualmente, di modernizzare la lingua per renderla capace di esprimere i

concetti tipici della vita moderna, specialmente tramite ampliamenti lessicali (usualmente prestiti o

calchi). E’ parte di quella che viene chiamata “ingegneria linguistica”.

- In molti casi, gli stati e i movimenti nazionali possono promuovere politiche di sostituzione

linguistica, imponendo o favorendo una varietà “nazionale” contro altre (lingue minoritarie, locali,

ecc…). Ad esempio, in Italia, il fascismo promosse politiche repressive contro l’uso delle lingue

minoritarie (in particolare tedesco, sloveno e croato). Non sempre tuttavia queste politiche sono

declinate in senso repressivo. Il movimento sionista è riuscito a suscitare una adesione largamente

volontaria (anche se certamente sostenuta da una forte pressione sociale e da politiche ufficiali

favorevoli) all’uso dell’ebraico come lingua nazionale della comunità ebraica immigrata in

Palestina e nello stato d’Israele.

- Altrove, gli Stati nazionali possono scegliere di promuovere la diversità linguistica come valore

storico-identitario da preservare. Questo approccio, relativamente più raro, è stato sostenuto almeno

in linea di principio da una importante corrente all’interno del movimento nazionale indiano, ed è

operante anche altrove (ad esempio in Sudafrica e più recentemente in Scozia).

Sezione 2 Lo sviluppo del nazionalismo arabo

Il nazionalismo arabo si caratterizza per il fortissimo risalto ideologico che viene dato alla lingua

come espressione dell’identità e dei valori della comunità nazionale, e per lo spazio teorico che

viene dato di conseguenza alla discussione sulla lingua. Questa situazione riflette da un lato

l’importanza della lingua araba e la sua centralità nella percezione storica dei popoli arabi come

veicolo primario d’espressione della civiltà arabo-islamica; dall’altro, la criticità della situazione di

diglossia rispetto all’aspirazione unitaria simbolizzata dalla lingua standard.

Il nazionalismo arabo, come movimento politico, appare relativamente tardi, come reazione al

declino dell’Impero multinazionale ottomano. Uno dei fattori di crisi dell’Impero Ottomano è

proprio la pressione esercitata dai nuovi movimenti nazionali delle popolazioni cristiane dei

Balcani, una delle aree più ricche dell’Impero, che iniziano a manifestarsi alla fine del diciottesimo

secolo e per tutto il diciannovesimo. Dapprima Serbi e Greci, poi Bulgari e Romeni, infine Albanesi

e, fuori dai Balcani, Armeni iniziano a definire la propria appartenenza nazionale, su base a un

tempo linguistica e religiosa; le élites colte di queste popolazioni ambiscono, con l’appoggio e

l’incoraggiamento delle potenze imperialiste europee (in particolare della Russia) a farsi classe

dirigente di nuovi stati-nazione moderni.

La reazione del centro ottomano a queste tensioni è molteplice e attraversa diverse fasi. Da un lato

si lancia, tra molte contraddizioni, un programma di modernizzazione, particolarmente in campo

giuridico, dove un codice fondato sul diritto francese sostituisce in molti campi il tradizionale

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sistema “islamico” amministrato dai qāḍī. Sono le riforme, le cosiddette tanzimat (a partire

dall’editto di Gülhane nel 1839). Dall’altro, sotto il regno di Abdülhamid (1878-1908) si enfatizza

l’identità musulmana dello Stato (che perde proprio nel 1878, in seguito alla guerra contro la Russia

e al congresso europeo di Berlino, molti dei suoi restanti territori a popolamento cristiano) e il ruolo

del sultano ottomano come Califfo. Infine dopo il 1908 il potere viene assunto da un gruppo di

ufficiali dell’esercito, il Comitato Unione e Progresso, detti “Giovani Turchi”, che fanno propria

una visione nazionalista turca, e cercano di promuoverla in tutto l’impero (che nel 1912 perde anche

la Libia, in seguito all’invasione italiana, e la quasi totalità dei restanti territori balcanici) a fronte

del fallimento di definire lo Stato ottomano su base dinastica o religiosa.

E’ di fronte alle conseguenze linguistiche di questa ultima fase che il nazionalismo arabo, da

movimento culturale di “rinascita” letteraria passa a rivendicazioni politiche. Il nazionalismo turco

aliena infatti parte delle élites arabe dalla fedeltà al governo ottomano nel tentativo di imporre il

turco come lingua dell’amministrazione delle province arabe.

La Prima Guerra Mondiale distrugge l’Impero Ottomano, ma nonostante le vaghe promesse del

governo inglese alla dinastia hashimita dello Hijāz, che guida una rivolta araba contro i Turchi,

dopo la guerra non si costituirà uno Stato nazionale arabo. Il nazionalismo arabo dovrà dunque

fronteggiare una nuova situazione di divisione politica del mondo arabo in numerose entità politiche

sotto tutela delle potenze coloniali.

Inoltre, tre di queste entità pongono problemi particolarmente acuti. Il Libano, anche se quasi

interamente arabofono, è dominato politicamente e demograficamente dalla comunità cristiana

maronita che, legata alla Francia, vede svilupparsi al suo interno movimenti orientati a promuovere

una visione non araba dell’identità libanese: associazione con l’eredità storica fenicia, tentativi di

promozione dell’arabo parlato locale come lingua letteraria in caratteri latini. L’Iraq si trova ad

ospitare entro i suoi confini una consistente minoranza kurda, non arabofona e non intenzionata ad

assimilarsi ad un progetto nazionale arabo che vedrebbe comunque in posizione di favore le élites

arabo-sunnite dell’area a nord di Baghdad.

Infine, in Palestina le aspirazioni politiche degli arabi della regione si trovano in un conflitto sempre

più acuto e irrisolvibile con quelle del movimento sionista.

Il nazionalismo arabo si trova dunque a confrontarsi con la realtà di identità “locali” dotate di tutta

la forza che le forniscono gli apparati statali, in tensione con le aspirazioni “unitarie” basate

soprattutto sulla comune lingua scritta letteraria.

In questo contesto, il linguaggio diventa la chiave per definire una identità “araba” alla base di un

progetto ideale di unificazione e di liberazione dal dominio coloniale. Nonostante la formazione

della Lega degli Stati Arabi dopo la Seconda Guerra Mondiale e la liberazione dalla dominazione

coloniale europea, tutti i tentativi di attuare questo progetto di unificazione (in particolare l’unione

tra Egitto e Siria nel 1959) falliscono. La salita al potere di movimenti nazionalisti arabi in Egitto,

Siria, Iraq dopo gli anni Cinquanta, inoltre, non porta ad una stabile integrazione sociale ed

economica tra questi paesi; il prestigio dei regimi nazionalisti crolla dopo la sconfitta contro Israele

nel 1967.

Sezione 3 Lingua araba e nazionalismo

Due voci all’interno del variegato discorso nazionalista arabo vanno ricordate per aver discusso in

modo dettagliato il rapporto tra lingua e nazione araba. Si tratta di Satiʼ al-Ḥuṣrī e Zakī al-Arsūzī,

entrambi esponenti del Ba’ṯ, il partito nazionalista e socialista arabo (ma non, beninteso,

“nazionalsocialista”; anche se certe influenze del fascismo europeo sul pensiero del Ba’ṯ possono

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essere individuate, molto più vicine al nazismo sono le posizioni del Partito Nazionale della Grande

Siria, guidato da Anṭun Sa’ada. Questo partito rifiuta il nazionalismo “arabo” a base etnico-

linguistica e fa invece riferimento all’eredità storica dell’impero assiro come spazio “naturale” di

una nazione “siriana” su base perlopiù geografica).

Satiʼ al-Ḥuṣrī

La vita e l’opera di Satiʼ al-Ḥuṣrī (1882-1968) sono quelle di un appassionato educatore. L’amore

per la lingua araba come segno e simbolo dell’unità “naturale” dei popoli arabi è il centro del suo

pensiero. L’identità e l’unità araba è per lui fondata su di essa. Sul piano politico, questo si traduce

nella promozione della lingua standard e nella sua modernizzazione lessicale (un programma

comunque già avviato nell’Ottocento, prima ancora della formazione del nazionalismo arabo come

movimento politico con ambizioni statali) e nella lotta per difenderne la ricchezza e la purezza.

Secondo Satiʼ al-Ḥuṣrī, pur tra molte contraddizioni, tutte le nazioni sono fatti essenzialmente

linguistici, in quanto la lingua esprime lo spirito più profondo di un popolo; l’unificazione degli

stati arabi sarebbe dunque un adeguamento al “normale” stato di cose dei gruppi umani nel mondo

moderno.

Zakī al-Arsūzī

Lo yemenita Zakī al-Arsūzī (1899-1968), importante dirigente del Ba’ṯ, assume una posizione

originale rispetto al problema della diglossia nelle società araba. Nella sua visione, infatti, la

diversità degli arabi parlati a fronte di una lingua scritta unitaria non è un fattore di divisione o un

problema, ma il genio stesso della lingua araba, capace di esprimere in questa dualità di parlato e

scritto la dualità dello spirito umano, tra cuore (la madrelingua, l’arabo parlato) e ragione (la lingua

formale, appresa a scuola).