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1 Università della Calabria DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE E SOCIALI DISPENSA n° 2 ad uso degli Studenti per il Corso di Laurea in Scienza dell'Amministrazione Gestione delle Risorse Umane e Leadershipa supporto delle lezioni e delle esercitazioni effettuate in aula A.A. 2012/2013

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Università della Calabria DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE E SOCIALI

DISPENSA n° 2

ad uso degli Studenti per il Corso di Laurea in Scienza dell'Amministrazione

“Gestione delle Risorse Umane e Leadership”

a supporto delle lezioni e delle esercitazioni effettuate

in aula

A.A. 2012/2013

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INTRODUZIONE

Tutte le organizzazioni si reggono sulla comunicazione tra le persone. Saper comunicare efficacemente è decisivo per esporre le proprie idee, per parlare in pubblico, per affermarsi nel lavoro; ed un’ottimale gestione delle relazioni interpersonali rappresenta un momento cruciale dell’attività professionale.

In particolar modo il “Manager delle Risorse Umane” deve essere consapevole della visione del suo ruolo, deve sviluppare una raffinata capacità d’ascolto e di comunicazione efficace, deve saper gestire team e gruppi di lavoro, gestire il tempo e dominare lo stress, saper negoziare, saper prendere decisioni, saper parlare in pubblico. Deve possedere competenze manageriali e relazionali particolarmente utili nella gestione del capitale umano e nel governo delle organizzazioni complesse quali:

1. Saper comunicare e facilitare la comunicazione per: diffondere i valori aziendali, guidare i collaboratori al raggiungimento degli obiettivi aziendali, chiedere e dare feedback produttivi ai singoli collaboratori e al gruppo di lavoro, concordare gli obiettivi dei singoli collaboratori e il gruppo.

2. Saper ascoltare e osservare: sono le capacità base per la gestione del clima e delle relazioni interpersonali sul lavoro, favoriscono la comunicazione, intesa come processo con cui si trasferiscono significati da una persona all’altra, e contribuiscono allo stabilirsi di rapporti costruttivi di collaborazione.

3. Saper negoziare per comporre le divergenze, gestire i conflitti e definire gli obiettivi da perseguire, diffondendo nell’organizzazione la logica negoziale, intesa come il modo di procedere per arrivare a una decisione il più possibile condivisa dalle parti in causa, attraverso l’integrazione delle singole posizioni e la ricerca reale di consenso. Sono necessarie tolleranza, flessibilità, capacità di ascolto e creatività.

4. Saper gestire team e gruppi di lavoro, guidando i collaboratori alla collaborazione e alla responsabilizzazione sui processi e sui risultati.

5. Saper dominare lo stress e far fronte all’incertezza, gestendo correttamente il tempo.

Pertanto il corso “Gestione risorse umane”, oltre che ad una conoscenza generale del processo di gestione delle risorse umane e delle teorie organizzative, si è posto come obiettivo quello di fornire ai partecipanti gli strumenti concettuali e le abilità operative per una gestione di se stessi mirata alla partecipazione attiva nel contesto professionale, attraverso il trasferimento di conoscenze finalizzati: ad attivare comportamenti efficaci di comunicazione, a far acquisire competenze di gestione e lavoro di gruppo e di leadership, nel problem solving e nel decision making, e a migliorare le relazioni interpersonali a tutti i livelli e in tutti i campi, da quello personale a quello professionale.

In questa dispensa saranno illustrate i principi della comunicazione, della capacità di ascolto attivo, della capacità di leadership partecipativa, del parlare in pubblico e del lavoro in team, dell’intelligenza emotiva.

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LA COMUNICAZIONE NELL’ORGANIZZAZIONE

La comunicazione è il processo con cui si trasferiscono significati da una persona all’altra, in forma di idee o di informazioni. Essa non si riduce alla semplice trasmissione di dati, ma comporta un certo grado di interazione fra chi li trasmette e chi li riceve, quanto meno nell’uso di certe tecniche (d’eloquio, di scrittura, d’ascolto, di lettura) che ne assicurino l’intesa sul piano dei significati.

Nella conversazione, per esempio, non bastano le parole crude e nude per intendersi davvero, ma occorrono le espressioni del viso, le inflessioni della voce, l’enfasi del discorso e tutti i gesti, volontari e non, che le accompagnano e suggeriscono, nel loro complesso, quale sia il vero significato di ciò che viene detto. Gran parte del tempo di chi ricopre un ruolo dirigenziale viene dedicato, in genere, proprio alla comunicazione nelle sue varie forme (lettura, scrittura, ascolto, discorso).

In un’organizzazione la comunicazione avviene attraverso canali formali e in modo informale.

La comunicazione formale, modalità prescritta del flusso dei messaggi in un organizzazione, prevede tre tipi di comunicazione:

A. La comunicazione verso il basso (downward communication):

Segue generalmente la catena di comando formale, del vertice alla base;

Tende a riflettere le relazione d’autorità e di responsabilità indicate negli organigrammi;

I messaggi vengono dal superiore diretto, da guide o da manuali per il personale, da comunicati, da promemoria, relazioni o altri documenti, da incontri discorsi e conferenze, o anche dalla discussione in piccoli gruppi o da un colloquio personale;

I messaggi riguardano:

Informazioni su politiche, regole, procedure, obiettivi e piani aziendali,

Nomine e trasferimenti, Provvedimenti in risposta a performance, Informazioni generali sull’organizzazione e i suoi risultati, Richieste di informazioni rivolte ai livelli organizzativi inferiori.

B. La comunicazione verso l’alto (upward communication):

è un feedback di dati o informazioni dalla base ai vertici manageriale;

i messaggi riguardano:

relazioni sulla performance (problemi, risultati, avanzamento dei progetti),

richieste di assistenza, informazioni o risorse, proposte di idee e suggerimenti,

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espressioni di sensazioni e giudizi che possono influire sulla performance, direttamente e indirettamente.

C. La comunicazione verso i lati (lateral communication):

Ha funzione di coordinamento fra attività di pari grado (laterali),

È un feedback di dati o informazioni fra colleghi di pari grado, nello stesso gruppo di lavoro, e/o fra unità di pari livello organizzativo.

La comunicazione informale non segue i canali ufficiali, ma ha grande importanza nel flusso informativo di tutte le organizzazioni, e serve a molti scopi:

La soddisfazione dei bisogni della persona, per esempio quello di avere rapporti con gli altri;

Il tentativo di influenzare il comportamento degli altri;

L’ottenimento di informazioni riferite all’attività di lavoro, ma non reperibili dai canali formali di comunicazione.

La voce di corridoio è la forma più nota di comunicazione informale in un’organizzazione: la trasmissione avviene di bocca in bocca, secondo modi che non fanno alcun riferimento al livello gerarchico di chi li trasmette e di chi le riceve. Le indagini condotte sull’argomento evidenziano che questa forma di comunicazione è rapida, selettiva e, spesso, molto efficace.

IL PROCESSO DI COMUNICAZIONE INTERPERSONALE

La comunicazione avviene fra le persone, non fra le organizzazioni. Il sistema di comunicazione deve perciò servire una varietà di individui che differiscono nelle convinzioni, nel livello di istruzione, nella cultura, nei bisogni e nelle esperienze di vita. Gli elementi e le fasi che entrano in gioco nella comunicazione interpersonale sono:

1. La fonte di messaggio: avvia il processo di comunicazione e ne determina molti aspetti, quali il tipo di messaggio che viene trasmesso, la sua forma e anche il canale in cui avviene la trasmissione. La comunicazione mira, in genere, a soddisfare qualche bisogno con il quale qualcun altro (il ricevente) ha a che fare. L’esigenza di trasmettere ad altri le proprie idee, informazioni, sensazioni assicura uno scopo concreto alla comunicazione, per esempio fornire informazioni, dare un consiglio, chiedere un parere, ottenere un certo comportamento.

2. La codifica del messaggio: comporta la scelta di una forma di comunicazione (verbale o non verbale) che riesca a trasferire i significati attraverso parole, scritti, gesti, o azioni. È fondamentale considerare non solo che cosa si intende comunicare, ma anche in che modo comunicarlo per ottenere l’effetto desiderato su chi riceve il messaggio, per questo è vantaggioso adattare il messaggio al livello interculturale, agli interessi e ai bisogni del destinatario. Utile è anche considerare le eventuali conseguenze non desiderate, per ridurle al minimo. Per comunicare in modo efficace

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bisogna conoscere a fondo la natura umana e avere sensibilità per l’effetto che le parole, al di là del loro significato, possono avere sulla persona. Talvolta la codifica del messaggio viene seguita non da chi trasmette, per esempio un collaboratore può trascrivere un messaggio telefonico e presentarlo al destinatario in tale forma. In questo caso l’intermediario funge anche da filtro e chi trasmette deve porre particolare attenzione nel rendere ben chiaro il suo messaggio.

3. La trasmissione del messaggio: riguarda per lo più la scelta del canale di trasmissione (medium). La comunicazione orale, per esempio, può avvalersi di molti canali (colloquio diretto, colloquio telefonico, nastro registrato, audio o videotape), può avvenire faccia a faccia oppure nel contesto di una riunione con altri partecipanti. La comunicazione orale consente l’interazione tra chi trasmette e chi riceve, attraverso il feedback che quest’ultimo può trasmettere al suo interlocutore, lo svantaggio è la sua volatilità, non c’è registrazione. La comunicazione scritta avviene per mezzo di relazioni, lettere, rapporti, note, notiziari, manuali e comunicati di vario genere, lo svantaggio è che non offre l’opportunità di una risposta diretta e immediata. La scelta del canale di trasmissione più adatto al messaggio che si intende trasmettere è una delle decisioni più importanti per chi trasmette.

4. La ricezione del messaggio: soltanto se qualcuno riceve il messaggio c’e vera trasmissione. Molti tentativi importanti di comunicare sono falliti proprio perché il messaggio non ha raggiunto il destinatario.

5. La decodifica del messaggio: è l’attribuzione di un significato al messaggio da parte del ricevente. Tale significato è il prodotto delle esperienze del passato, dei pregiudizi e del livello culturale, della mentalità e dell’ambiente. C’è sempre la possibilità che il messaggio, una volta decodificato da chi lo riceve, presenti un significato diverso da quello che attribuisce chi l’ ha trasmesso, e il mancato accertamento della decodifica del messaggio può dar luogo a fraintendimenti disastrosi. Il problema di farsi capire non è semplicemente un problema di codice linguistico e anche un problema di codice culturale.

6. Il feedback: è la risposta che il ricevente manda alla fonte circa il tipo di decodifica che ha operato.

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Nella maggior parte delle situazioni le persone sono contemporaneamente fonte e bersaglio di comunicazione: la comunicazione è un processo dinamico e non statico, che può essere valutato solo mentre accade.

Il processo comunicativo è un sistema, le parti che lo compongono sono tutte in relazione fra loro e danno vita ad un’unità che non può essere colta a partire da singoli elementi: il tutto è qualcosa di diverso dalla somma delle parti. Le relazioni reciproche fra gli elementi fanno sì che il cambiamento di un singolo elemento provochi modifiche anche in tutti gli altri. Ciò significa che il processo di comunicazione interpersonale concorre a influenzare sia la fonte che il ricevente, ma anche i futuri messaggi che saranno prodotti da questi. I Feedback reciproci che intercorrono fra i partner modificano sia i loro atteggiamenti, comportamenti, opinioni, che la loro relazione. In alcuni casi questi cambiamenti nella relazione sono particolarmente evidenti, come per esempio nel caso di un litigio, altre volte, invece la relazione si modifica in modo meno evidente, evolvendo secondo una sua storia. La natura di questi cambiamenti inevitabili appare chiara se pensiamo alle occasioni in cui avremmo voluto cancellare qualche scambio comunicativo infelice, le cui conseguenze sono state difficili da gestire.

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Abbiamo visto come tutti i nostri comportamenti comunichino dei messaggi a chi ci sta intorno, anche se noi non ce ne accorgiamo o non lo desideriamo. Qualsiasi comportamento è comunicazione. C'è una proprietà interessante di ciò che noi definiamo comportamento: non esiste un suo opposto, vale a dire che non è possibile non comportarsi. Partendo da questa considerazione ci rendiamo conto di come sia impossibile non comunicare. Se proviamo a pensare a situazioni che ci sembrano caratterizzate da assenza di comunicazione, ci accorgeremo che in realtà è impossibile trovarle. Anche quando la comunicazione non è intenzionale, non è consapevole, o non è efficace (cioè i messaggi vengono distorti ) vi è in ogni caso comunicazione. Ciascuno di noi può facilmente costatare che la comunicazione non ha quasi mai una struttura lineare semplice. Non c'è generalmente un inizio ed una fine, bensì ogni messaggio (che possiamo definire l'unità singola della comunicazione) è insieme effetto e causa di altri messaggi.

LA COMUNICAZIONE NON VERBALE e PARA-VERBALE

La comunicazione non verbale è riconosciuta come la più preponderante nelle relazioni, pensate infatti a come tutte le nostre conversazioni siano caratterizzate da sguardi, sbadigli, distrazioni degli occhi, gesti, posizioni delle mani e del corpo, tono della voce, abito, atteggiamento, tutte queste forme influenzano la comunicazione perché sono alla base delle modalità di formazione del rapporto. La posizione complessiva del corpo (postura), le espressioni del viso, l’orientazione (maniera in cui il corpo si posiziona in rapporto all’interlocutore), la disposizione nello spazio (comunicare da vicino o da lontano, assumere una posizione centrale o periferica) ed altri elementi, assunti positivamente, fanno aumentare l’incidenza del messaggio verbale. La comunicazione non verbale ha spesso più peso sull’effetto di un messaggio di quanto ne abbia la comunicazione verbale; un’indagine (Mehrabian A.: Non–verbal communications, Aldine, Chicago) ha evidenziato, che:

il 55% circa del contenuto del messaggio viene trasmesso con la mimica facciale e i gesti,

il 38% con l’inflessione e il tono della voce,

ed appena il 7% con la parola.

Considerando che i messaggi non verbali spesso contraddicono il messaggio verbale, soprattutto perché sono meno controllabili rispetto ad esso, è vantaggioso essere ben ricettivi dei messaggi non verbali che ci vengono inviati, oltre che essere ben consapevoli del fatto che anche noi li inviamo agli altri, più o meno intenzionalmente. La comunicazione non verbale gioca una parte molto importante nel processo di comunicazione, e non solo nei colloqui faccia a faccia. Un messaggio scritto, per esempio, comunica anche con il suo aspetto: può essere battuto ordinatamente al computer, oppure scribacchiato a mano, su carta di poco prezzo o su carta pergamena, in caratteri più o meno chiari ed eleganti, ecc…

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Linguaggio para-verbale:

Modulazione della voce

Tono della voce Intensità Timbro Ritmo di elocuzione Pause

Chiarezza di dizione Tratti soprasegmentali (o accentuazioni semantiche) Silenzi ecc.

Due note di spiegazione sui tratti soprasegmentali e sui silenzi: se io dico “il mio capo fa cinque riunioni di lavoro ogni sabato”. Se accentuo “mio” (tratto sopra-segmentale), escludo tuo, suo, ecc…; se accentuo selettivamente le parole capo, fa, cinque, riunioni, loro, ogni o sabato, ottengo altrettanti sensi diversi della frase, in questo caso otto. Di qui l’importanza di accentuare opportunamente le parole appropriate, le parole importanti, le parole chiave, le parole nuove e soprattutto la parola che all’interno di una frase gli dà il senso che vogliamo.

Il silenzio a volte esprime più della parola. È anche un modo di rispondere, a volte drammatico. In ogni caso anche i silenzio vanno usate strumentalmente. Ad esempio prima di introdurre un concetto importante create un atmosfera di attesa con un silenzio (il messaggio è: datemi la vostra attenzione, è importante). Dopo averlo espresso fate un altro silenzio (il messaggio è: riflettete con calma è importante).

Linguaggio del corpo o linguaggio non-verbale (in senso stretto):

Espressioni del volto Sguardo Gestualità

Postura Movimento del corpo Abbigliamento Trucco Contatto a distanza corporea e gestione degli spazi (prossemica)

Reazioni somatiche Mimica Stile di atteggiamento (sicuro, esitante, amichevole, altero, ecc.) Comportamento nei confronti dell’altro o del gruppo ecc.

L’uso strumentale della comunicazione para-verbale e non verbale:

Come supporto o completamento della comunicazione verbale

Per esprimere emozioni e sentimenti

Per esprimere atteggiamenti/attitudini nei confronti degli altri (accettazione, rifiuto, diffidenza ,assenso ecc.)

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Per dare feedback all’altro

Per trasmettere informazioni sulla proprio persona.

LA CAPACITA’ DI ASCOLTO ATTIVO

Paradossalmente, ma non tanto, chi vuol comunicare con efficacia, cioè chi vuole ottenere risultati di comprensione o di apprendimento, deve sapere innanzitutto ascoltare. Ascoltare l’altro, interpretare i suoi messaggi para-verbali e corporei, capire i suoi problemi, tener conto delle sue opinioni, individuare le sue difese, i suoi punti di vista, le sue difficoltà a comprendere e cosi via.

Non è facile e di solito ci vuole molta pratica e addestramento all’ascolto, ci vuole soprattutto un atteggiamento all’ascolto che col tempo deve diventare automatismo. Ma i vantaggi sono una maggiore garanzia di convincimento, adesione e comprensione da parte dell’ascoltatore. Inoltre, l’ascolto, come in altri tipi di comportamento, è contagioso. Come è vero che all’aggressività si risponde con aggressività, alla dolcezza con la dolcezza, alla polemica con la polemica, così un atteggiamento di ascolto induce un atteggiamento di ascolto. Quando le persone vengono ascoltate “attivamente” (cioè in modo partecipativo, rispettoso e coinvolto) esse tendono a loro volta ad ascoltare se stesse e gli altri con maggior cura (e a chiarire esattamente quello che sentono e pensano).

Ascolto e osservazione rappresentano le capacità base per la gestione del clima e delle relazioni interpersonali sul lavoro e contribuiscono allo stabilirsi di rapporti costruttivi di collaborazione sul lavoro. Sono momenti essenziali sia per l’acquisizione di informazioni sui collaboratori al fine di capirne meglio le difficoltà e le motivazioni, sia per fornire un primo tipo di risposta, basata sulla comprensione, alle stesse difficoltà. Ascoltare l’altro, con uno sforzo finalizzato a capirlo, significa implicitamente comunicargli la nostra stima e la nostra fiducia nelle sue possibilità e nelle sue risorse interne. Anche il collaboratore più passivo e silente dovrebbe essere sollecitato e ascoltato, perché cosi facendo gli si comunica che il suo punto di vista significativo e che, in ultima analisi lui come persona significativo. Il collaboratore passivo, a cui il capo non chiede mai un’opinione, finirà per pensare di contare davvero poco nel gruppo se mai nessuno si sofferma un attimo ad ascoltarlo.

L ’ascolto è certamente uno strumento per raccogliere informazioni e verificare che l’altro abbia capito ma soprattutto uno strumento di gestione e relazione, perché è attraverso l’ascolto che si valorizza il collaboratore. Quando si parla di rispetto come qualità intrinseca al buon capo, si dovrebbe riflettere su quanto questo rispetto si concretizzi in un ascolto non intrusivo o valutativo, ma al contrario orientato a capire il problema dell’altro e a farsene carico. L’ascolto è una pratica assolutamente coerente con i più recenti modelli di gestione manageriale e di leadership, oltre che con le politiche e i piani organizzativi orientati alla valorizzazione delle risorse umane (Bass e Avoli La leadership trasformazionale, Guerini e Associati, Milano, 1996). Nel parlare di leadership trasformazionale si evidenziano tra le capacità del leader quella della considerazione individualizzata: ogni individuo è diverso e l’approccio è quindi

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individualizzato al di là degli stereotipi e delle generalizzazioni. Il leader capace di considerare individualmente è attento alle necessità e alle aspettative dei singoli collaboratori, riconosce le differenze individuali, crea opportunità di apprendimento, è concentrato sullo sviluppo e sulla crescita professionale dei collaboratori. “Il leader che fa considerazione individualizzata ascolta in modo efficace: è l’ascolto attento, infatti, che può permettere una gestione delle persone basata sul riconoscimento e sulla valorizzazione delle loro caratteristiche” (Bass e Avorio).

Altrettanto importante è osservare il comportamento dei collaboratori e l’insieme di fenomeni che si verificano nel gruppo di lavoro. La comunicazione non si limita alla componente verbale e molti messaggi vengono inviati utilizzando altri canali quali gesti, sguardi, postura, mimica e cosi via. E’ proprio osservando questi elementi che è possibile conferire significato emotivo e relazionale alle comunicazioni verbali, ed possibile, inoltre, cogliere tempestivamente situazioni di disagio o di difficoltà che quasi sempre vengono espresse prima (e talvolta esclusivamente) attraverso i comportamenti, poi con le parole. Massima attenzione dovrebbe essere prestata a ciò che il collaboratore fa e ai segnali che invia tramite i suoi comportamenti (assenze, ritardi, sguardi, espressioni del viso, isolamento dal gruppo) altre che al modo in cui comunica verbalmente i suoi pensieri (a un collaboratore che sostiene che va tutto bene con un tono di voce angosciato, piuttosto che ostile, deve essere concesso ulteriore ascolto).

La pratica dell’ascolto attivo rappresenta una “specie di rivoluzione copernicana” della comunicazione: l’attenzione viene centrata non tanto su se stessi e sulle proprie modalità espressive, ma sull’interlocutore e sulle sue reazioni. Effetti del mancato ascolto. L’assunto di Watzlawick “non si può non comunicare”, evidenzia che ogni comportamento ha una valenza comunicativa; quindi, di fronte a una persona che è in relazione con noi, abbiamo tre possibilità alternative:

Accettare la sua comunicazione:

Rifiutarla,

Disconfermare o squalificare la persona.

Le prime due forme equivalgono all’ascolto dell’interlocutore seppure con esiti differenti. Nel primo caso ci si accorda su una comune e condivisa definizione del problema e della relazione, nel secondo caso si mette in discussione la proposta dell’altro dopo averlo ascoltato.

Nella disconferma il messaggio che rimanda all’altro è di squalifica in quanto persona: è come se gli si dicesse “tu non esisti, tu non conti, non vali”. Sul piano del comportamento la squalifica può assumere varie forme: contraddirsi, cambiare argomento, ricorrere a stili oscuri o incomprensibili, guardare altrove, fare altro mentre si sta parlando, non accorgersi di ciò che l’altro ha detto o fatto.

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BARRIERE ALLA COMUNICAZIONE

Si definisce rumore ogni interferenza o barriere che impedisce o disturba la comunicazione. Il rumore può interferire con la comunicazione in molte fasi del processo: chi trasmette può percepire in modo negativo il destinatario; il messaggio può essere male organizzato, magari prolisso, o invece troppo stringato; chi riceve può essere distratto, o può avere timore di rispondere francamente; il canale di comunicazione può essere scadente, ecc…

A. Barriere organizzative: le organizzazioni, per loro stessa natura, tendono a ridurre l’efficacia della comunicazione; le principali barriere alla comunicazione si possono ricondurre a:

Barriere di livelli organizzativi: un messaggio, se deve passare attraverso molti livelli gerarchici, o deve transitare per molte unità o per molte persone, impiegherà molto tempo prima di raggiungere il destinatario e subirà parecchie distorsioni. Man mano che procede attraverso i vari livelli organizzativi, infatti, il messaggio viene “filtrato” più e più volte, e ogni volta può subire aggiunte, tagli, modifiche più o meno radicali;

Barriere d’autorità dei manager: il fatto che una persona abbia una supervisione sull’attività di altre persone crea una barriera che interferisce con la loro comunicazione. Molti capi sentono di non poter ammettere problemi, situazioni o risultati che li facciano apparire deboli, molti subordinati, del resto, evitano le situazioni in cui dovrebbero presentare informazioni che li potrebbero mettere in cattiva luce. E’ compito del capo creare un clima di franchezza nel gruppo di lavoro e con i singoli collaboratori;

Barriere di specializzazione: la specializzazione tende a separare gli specialisti dai loro colleghi, anche se lavorano fianco a fianco. La diversità di funzione, di interessi e persino di gergo possono farli sentire estranei, come se appartenessero a mondi del tutto diversi, ne derivano difficoltà di comprensione reciproca e la tendenza all’indifferenza, nei confronti degli altri gruppi;

Barriere di saturazione informativa: l’eccesso di informazione può causare incertezza e disorientamento in chi vi è esposto, e nei casi estremi può portare alla paralisi. L’effetto della saturazione informativa, dove i dipendenti ricevono molti più input di quanti ne possono elaborare utilmente, è ancora più forte quando si combina con le grandi possibilità offerte dalla moderna tecnologia elettronica.

B. Barriere interpersonali: molti malintesi non dipendono da fattori organizzativi, ma da fattori linguistici e personali. La distorsione del messaggio può essere dovuta:

Al modo in cui il messaggio viene percepito: la nostra percezione (processo con il quale selezioniamo, organizziamo e attribuiamo significato) è condizionata fortemente dall’esperienza. La nostra esperienza personale, diversa dall’esperienza degli altri, ci influenza

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nell’interpretare in modo a noi peculiare le comunicazioni e le azioni che si svolgono nei vari contesti, per esempio quello organizzativo. Sono soprattutto le diversità fra l’esperienza dei manager e quella dei loro subordinati a far interpretare in modo diverso il comportamento dei membri dell’uno e dell’altro gruppo, rispetto a come lo interpretano essi stessi, e questa diversità si manifesta specialmente nelle attività connesse alla comunicazione. Il ricorso a stereotipi, che ci caratterizza tutti, è la tendenza a strutturare secondo uno schema prevedibile la nostra percezione del mondo, e noi trattiamo i membri di ciascun gruppo secondo la nostra percezione dello stereotipo che corrisponde a quel gruppo e la nostra comunicazione ne è profondamente influenzata. Un’altra barriera è rappresentata dalla percezione selettiva, che riguarda il modo in cui i nostri schemi di riferimento limitano il nostro modo di percepire gli eventi, le situazioni, le persone e gli oggetti. Proprio per questa limitatezza della percezione, l’individuo non può afferrare nella sua interezza la situazione in cui si trova in un dato momento, ma presta attenzione a certi aspetti e non ad altri, e ciò dipende dall’interazione dei suoi bisogni, dei suoi umori, delle sue propensioni e degli influssi socioculturali;

Allo status di chi comunica: il messaggio viene valutato, considerato e amplificato secondo le caratteristiche di chi l’emette e soprattutto secondo la sua attendibilità, la quale a sua vota dipende dal grado di “competenza” riconosciuto a quella persona, in quel determinato campo e dal grado di sincerità che le viene attribuito, da parte di chi riceve il messaggio. I manager devono godere della fiducia e della stima dei collaboratori, altrimenti i loro sforzi di guidarli, demotivarli e di persuaderli sono compromessi in partenza;

Alle carenze di ascolto: molti capi sono riluttanti ad ascoltare i subordinati perché temono di lasciarsi coinvolgere nei loro problemi personali; questa chiusura, perciò, può compromettere la comunicazione non sugli aspetti personali, ma anche sugli aspetti lavorativi. L’ascolto richiede tempo: I manager con vaste responsabilità sono i più esposti a rischio di ascoltare male, proprio perché non hanno tempo a disposizione;

Alle imprecisioni di linguaggio: spesso crediamo che tutto il significato risieda nelle parole che usiamo, mentre spesso una parola ha significati diversi. A volte vengono scelte appositamente parole che si prestano al malinteso,naturalmente chi ricorre a espedienti di questo genere, se scoperto, mette in serio dubbio la propria serietà nei confronti dell’interlocutore. Ma soprattutto è importante ricordare che le parole possono suscitare reazioni emotive molto diverse, da persona a persona.

Ai malintesi linguistici: la varietà delle culture e dei linguaggi presenti oggi nei gruppi di lavoro, con l’espansione del commercio internazionale e con l’entrata nelle aziende nazionali di capitali e manager esteri, rende

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sempre più complesso dare istruzioni, ricevere risposte e lavorare in gruppo.

Essendo impossibile “non comunicare”, occorre sempre porsi il problema di comunicare, definendo obiettivi, formulando strategie, programmando attività di comunicazione. Lasciare queste cose al caso non significa -come si è visto- “non comunicare” (che è impossibile), significa, invece, comunicare proprio ciò che non si vorrebbe: sciattezza, incongruenza tra parole e comportamenti, lasciare l’interlocutore nell’incertezza circa gli obiettivi o le finalità perseguite dall’emittente, con la possibilità per quest’ultimo di lasciarsi attribuire le intenzioni e gli obiettivi più contraddittori.

E’ importante analizzare quali sono i comportamenti che inducono le persone a riflettere sulla situazione, in modo da poter apprezzare e prendere in considerazione i punti di vista degli altri, modalità che è alla base in una corretta comunicazione.

I comportamenti che permettono una corretta comunicazione comprendono la ricerca di informazioni, imporre domande che aiutano l’interlocutore a “rivedere” la sua posizione, la considerazione per le sue proposte ed un comportamento verbale aperto e rilassato. E’ il comportamento opposto a quello manipolatorio che non lascia alternative tra l’adesione (non certo spontanea ed entusiasta) al punto di vista di chi parla e il rifiuto di esso e quindi anche di chi parla. Tra questi comportamenti rientrano il porre domande direttive e valutative, il controbattere alle proposte con controproposte, e un linguaggio del corpo improntato all’indisponibilità e all’invadenza.

E’ indiscutibile che otteniamo di più quando ci sforziamo di “andare incontro” al punto di vista degli altri e proviamo a renderli partecipi del nostro punto di vista, usando le capacità del caso e adeguandoci al loro ritmo, in modo da indirizzarli nella direzione in cui desideriamo che vadano. Se si aiutano gli altri a “vedere” quello che le nostre proposte rappresentano per loro è molto più probabile che si riesca a persuaderli.

LE TECNICHE DI COMUNICAZIONE

Sono sostanzialmente quattro:

1. osservazione

2. ascolto

3. uso di domande

4. riformulazione e ricapitolazione

1. Osservazione

La comunicazione efficace implica di non fermarsi alle parole per analizzare un’altra importante fonte d’informazione: il linguaggio non verbale.

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Osservare vuol dire dedicare attenzione ai comportamenti che esprimono emozioni, atteggiamenti, intenzioni. Ad esempio:

il tono di voce,

silenzi, assensi

gestualità, postura

sguardo

espressioni mimiche.

L'osservazione è il risultato del mantenimento di un contatto costante con l'interlocutore.

2. Ascolto

Un comunicatore è efficace non solo perchè sa presentare bene la sua comunicazione, ma anche perchè sa decodificare ed interpretare le comunicazioni di ritorno: in una parola sa ascoltare.

Saper ascoltare significa porsi in modo attivo nei confronti dell'interlocutore, costringendo se stesso e l'altro ad una maggior comprensione reciproca prima di formulare giudizi.

L'ascolto attivo significa elevare il proprio livello di consapevolezza rispetto alle relazioni altrui, sviluppando alcune tecniche (osservazione, uso delle domande, riformulazioni, ricapitolazioni).

La comunicazione del nostro interlocutore richiede sollecitazioni, esplicitazioni, concessioni di spazio.

3. Uso di domande

L'uso di domande rappresenta la modalità più diretta per coinvolgere, chiarire, approfondire, confrontare, entrare in sintonia.

La tipologia di domande può essere:

diretta

indiretta

aperta

chiusa

di ritorno

di suggerimento

di approfondimento.

4. Riformulazione e ricapitolazione

Per riformulazione si intende riproporre/riprendere ciò che è stato detto, usando esempi o concetti diversi.

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Per riformulare occorre riprendere l'intervento dell'altro collegandolo a situazioni comparabili o interventi precedenti.

La riformulazione permette di aggiungere valore a quanto già detto attraverso la deduzione logica.

Per ricapitolazione si intende ribadire e sintetizzare i punti essenziali della comunicazione per fare imprimere maggiormente nel ricordo le priorità.

La ricapitolazione permette di finalizzare la comunicazione chiarendone le conseguenze pratico-operative.

L’EMPATIA

L’aspetto di relazione, come abbiamo visto, ha un’importanza fondamentale per una comunicazione efficace. Relazione richiama gli ambiti di emozione, dell’affettività, del piacere di interagire, dell’entusiasmo che si mette nell’interazione, e perché no della seduzione.

Ognuno di noi ricorda dalle sue esperienze scolastiche il professore che creava entusiasmo e che, guarda caso, ci faceva amare la sua materia anche se magari non ci eravamo proprio portati.

Il termine amore, in senso lato, spiegherebbe bene il tipo di rapporto che si dovrebbe istaurare in una comunicazione fra persone per ottenere un rapporto comunicativo facile e produttivo. Ma per la sua connotazione culturale che privilegia troppo l’aspetto emotivo a scapito di quello razionale, è fuorviante.

Molto più utile e significativo è il concetto di EMPATIA.

Empatia (letteralmente soffrire insieme) è comunione di spiriti, compenetrazione psicologica, sintonia con l’altro o con il gruppo. Alla base c’è un’accettazione reciproca senza barriere e senza tante riserve (una specie di contatto psicologico), poi c’è una coltivazione del rapporto basato sul rispetto reciproco e sull’interesse comune ed infine c’è un’arte di favorire sinergia di gruppo e comporre conflitti emotivi.

Creare un clima di empatia, per esempio, in una situazione didattica, non è semplice ma fattibile quasi sempre, e comunque necessario. Una volta innescato il processo del clima empatico, tutto riesce più semplice e produttivo con soddisfazione di tutte le parti e con una forte solidarietà di gruppo. In situazione didattica, il ruolo primari di creare il clima di empatia spetta al docente e/o al tutor, ma è ovvio che senza il coinvolgimento del gruppo ogni sforzo si vanifica facilmente. In una riunione spetta al conduttore. In una intervista spetta all’intervistatore. In un lavoro di gruppo spetta al leader e cosi via.

Qui la prima regola per il successo è:

saper entrare nella testa degli altri.

O come si dice anche: sapersi mettere nei panni altrui, che per il manager significa soprattutto capire le difficoltà di comprensione dei suoi collaboratori, sintonizzarsi sul clima di gruppo, interpretare i loro bisogni, saper ascoltare e saper porre le

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domande che rilevano ciò che pensa, cosa capisce, cosa vorrebbe dire; facendogli capire nel contempo che lo si è capito.

Naturalmente non bisogna “eccedere” con l’empatia. Da evitare in particolare si scadere in un clima di cameratismo o di laissez faire, che potrebbero facilmente pregiudicare la produttività del gruppo a favore degli aspetti ludici.

IL LINGUAGGIO CORRENTE

Il gergo

Il linguaggio parlato si evolve da millenni e nella sua evoluzione arriva a costituire strutture definite come le lingue nazionali con la relativa grammatica, sintassi ecc. in questa evoluzione troviamo anche le forme dialettali che costituiscono un linguaggio anch’esso definito. Infatti viene parlato da molti e facilmente riconosciuto, ma non risulta strutturato; raramente se ne definisce una grammatica o una sintassi, se non per cultura tramandata.

Ci sono poi linguaggi parlati in uso all’interno del clan. Dal momento che il linguaggio è una delle forme più strutturate di comunicazione, ogni clan o gruppo ne adotta uno che riesca a fungere da elemento caratteristico di identificazione. Facciamo solo qualche esempio, perché sarebbe un argomento troppo vasto da trattare.

Esistono infiniti linguaggi inventati dai vari gruppi giovanili in base ai momenti storico-culturali e all’età. Ricordiamo l’intercalare usati nelle frasi, o alcuni frasi caratteristiche usate all’interno dei gruppi: “noi siamo tipi alternativi”, “però è fico è”, “dobbiamo portare avanti il discorso”.

Oppure tutti i tipi di linguaggio che sottintendono un’ideologia politica o quelli che per esprimere un concetto usano un interminabile quantità di parole senza alla fine dire nulla o affermando concetti destinati agli addetti ai lavori, che risultano perciò incomprensibili alla maggior parte delle persone. Da qui viene persino la coniazione di parole che poi vengono definite come parte del linguaggio sindacalese, politichese e cosi via.

Del resto, alcuni tipi di linguaggio, definiti “gergo”, nascono proprio per esigenze non comunicative. In molti ambienti, come quelli dei marinai, dei tecnici specializzati, delle forze armate, è necessario che le informazioni interne vengano rese volutamente incomprensibili agli estranei.

Modi di parlare

Ognuno di noi, senza per lo più rendersene conto, adotta dei modi di parlare resi diversi a seconda dell’occasione o dell’interlocutore. E’ frequente, per esempio, che si parli in lingua italiana sul lavoro e in dialetto fra amici o in famiglia. Ma ancora più particolare è l’uso di intercalari e di parole destinate ad iniziare i discorsi. Cosi come molto spesso si ascoltano personaggi americani che iniziano le risposte alle interviste dicendo “Well…”, molti di noi comunicano dicendo “Niente…..” e poi magari parlano

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anche di cose importanti. Altre forme spesso usate sono gli “allora”, “i cioè”, “i va bene”.

Ma non sono solo queste le parole usate e abusate senza controllo. Se cominciamo ad ascoltare attentamente mentre qualcuno (o noi stessi) parla, possiamo facilmente scoprire che certi termini vengono usati quasi solo per riempire un discorso, senza un’effettiva necessità linguistica.

Nei corsi dal vivo, di solito, si pone particolare attenzione a tutto ciò e allora capita di ascoltare il venditore che ripete quasi in ogni frase la parola “materialmente”, il giovane che inserisce a più non posso il termine “magari”, l’insegnante che inframmezza nel discorso molte frasi che iniziano con “voglio dire”.

Perché non ci facciamo capire?

Non si pensi, però, che tutto ciò sia frutto dell’era moderna. Nell’essere umano, come vedremo meglio in seguito, c’è un bisogno di affermazione che si affaccia costantemente e che a volte si può ottenere solo a scapito degli altri, magari facendo leva sull’ignoranza altrui. E’ indubbio che le persone che sanno, i cosiddetti “sapienti”, sono visti dagli ignoranti (cioè le persone che ignorano) come persone da riverire, è proprio su questo principio i sapienti hanno spesso forzato la mano per imporre il proprio potere di riconoscimento. Forse, la connotazione negativa e offensiva che ha assunto il termine “ignorante” potrebbe venire proprio da questa condizione imposta di sottomissione. In realtà, questa parola non ha insita nessuna intenzione di giudizio, ma significa “semplicemente persona che non è a conoscenza di qualcosa”. Ovviamente ciascuno di noi ignora qualcuno dei molteplici aspetti della vita, della tecnologia o di altre materie. E’ evidente che ogni scienza o specializzazione debba avere un suo vocabolario specifico, con termini nati per indicare oggetti o situazioni tipici di quel campo.

Su questo semplice e inevitabile fatto, gli esperti di settore che avvertono l’esigenza di imporre la propria autorità sugli altri, possono far leva per improntare una sorta di poter personale, dato proprio dalla difficoltà di farsi comprendere.

Un medico, per esempio, conosce una quantità di termini specifici che non tutti riescono a capire. In base al suo modo di essere, egli potrà usare questi termini per sentirsi importante, oppure usare i termini specifici solo con i suoi colleghi e tradurre tutto in parole semplici per i propri pazienti e le persone comuni.

I pazienti si rivolgono al proprio medico sentendosi in qualche modo affidati a lui per la loro guarigione; pensate come possono sentirsi se nemmeno riescono a capirlo. Se il medico, dopo aver visitato un bambino, dicesse ai genitori: “Il bambino ha difficoltà nella minzione, dovremmo fare ulteriori accertamenti”; ciò potrebbe facilmente generare incomprensioni. Forse sarebbe più indicato dire: “Il bambino non riesce a fare la pipì, faremo qualche altro controllo per capire perché”.

Persino un falegname, se volesse sentirsi importante, potrebbe stupirci con i suoi termini specifici. Se lo chiamiamo per sistemare una finestra, per esempio, potrebbe dirci, il lavoro è molto complesso, devo riquadrare l’infisso e lavorare finemente la sponderuola.

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Però è interessante riflettere sul fatto che, di solito, è più comune trovare un medico che parla difficile per sentirsi importante, piuttosto che un falegname.

Quante parole conosciamo e usiamo?

È utile tener conto di una statistica molto importante elaborata da esperti linguistici: in Italia la gente comune utilizza circa 1000/1500 parole di vocabolario, gli studenti di tipo universitario arrivano a 3000/4000 e gli individui di media cultura possono arrivare fino a 10.000/20.000; soltanto gli individui di alta cultura, fra parole e relativi sinonimi, riescono ad utilizzare 50.000 vocaboli, e consideriamo anche che un buon vocabolario della lingua italiana ne pubblica oltre 100/130 mila. A queste vanno ovviamente aggiunte le parole tipiche di ogni gergo.

DALL’EXPERTISE ALL’INTELLIGENZA EMOTIVA: LA NUOVA FRONTIERA DELLA MANAGERIALITÀ Gli studi effettuati e citati durante il corso hanno rilevato doti importanti che fanno sì che le basi dell’eccellenza non vadano ricercate nell’organizzazione, ma nei manager. Ma oggi qual è la misura di eccellenza? Qual è il metro di giudizio utilizzato dal mondo del lavoro? Daniel Goleman, nel suo libro Lavorare con intelligenza emotiva, dice: “La nuova misura di eccellenza dà per scontato il possesso di capacità intellettuali e di conoscenze tecniche sufficienti a svolgere il nostro lavoro. Invece, punta principalmente su qualità personali, come l’iniziativa e l’empatia, la capacità di adattarsi e di essere persuasivi”1. Evidentemente ciò vuol dire che le regole del lavoro stanno cambiando. Per cercare di dare una spiegazione innanzitutto è necessaria una breve panoramica sui nuovi scenari del contesto lavorativo, tenendo presente che oggi la tecnologia ci solleva dall’attività intellettuale ripetitiva; quindi all’uomo, che oggi non deve più lavorare come se fosse una macchina, è richiesto di tornare tale: può pensare e agire in maniera totale, non solo con la mente razionale ma coinvolgendo tutte le sfere del suo essere in maniera più consapevole. Pensare e agire con mente, corpo e cuore. E’ bene analizzare anche la complessità del mondo in cui viviamo: nel campo lavorativo si manifesta a livello di operatività, con supporti tecnologici in continuo aggiornamento, una rapidissima evoluzione dell’organizzazione aziendale e l’ampia interconnessione dei mercati. Come ha detto Gary Hamel nel testo Leader della rivoluzione, ci troviamo in uno stato di “cambiamento permanente discontinuo”. Se fino a poco tempo fa al manager veniva richiesto di analizzare dati storici e in base a questi studiare delle strategie razionali per ottenere una pianificazione visibile e quantizzabile, oggi questo non è più sufficiente. Si genera la richiesta di nuove competenze e in particolare lo sviluppo di intuito e creatività per saper cogliere al

1 D.Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva-come inventare un nuovo rapporto con il lavoro, Rizzoli,

Milano, 1998, pag. 13

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momento giusto i cambiamenti, individuare soluzioni alternative, osare e gestire il rischio. In un contesto così disagiato è necessario recuperare il significato del lavoro, l’etica d’impresa e la responsabilità sociale. “In un’epoca che non offre alcuna garanzia di lavoro sicuro, nella quale il concetto stesso di lavoro viene rapidamente sostituito con quello di capacità esportabili da un contesto all’altro, queste sono le principali abilità che ci rendono- e ci mantengono- impiegabili sul mercato”. “Competenze trasversali” è la locuzione con la quale, nel dibattito italiano, sono identificate le capacità esportabili, quelle che, entrando in gioco nei diversi ambiti applicativi, consentono di trasformare saperi e tecniche in comportamento lavorativo efficace. A questo proposito anche la Commissione della Comunità Europea si è espressa dichiarando che “l’avvicinamento all’occupazione avviene attraverso l’acquisizione delle competenze resesi necessarie con l’evoluzione del lavoro. Ciò significa che è più che mai necessario incoraggiare lungo tutto l’arco della vita la creatività, la flessibilità, l’adattabilità, la capacità di imparare ad apprendere e a risolvere i problemi. Solo a queste condizioni potremo evitare l’obsolescenza ormai rapida delle qualifiche” (1997). Dunque, l’expertise, cioè quel mix di conoscenze intellettuali, capacità tecniche, specialistiche ed abilità pratiche che consentivano di svolgere in modo adeguato il proprio ruolo, non è più sufficiente, oggi, per eccellere sul lavoro. Ci vuole qualcosa in più: occorrono competenze umane efficaci derivanti dalla combinazione armonica, di diversi e altri ingredienti, che prendano in considerazione il modo di comportarsi verso se stessi e nei confronti degli altri. Conoscersi, essere consapevoli delle proprie risorse e dei propri punti deboli, accettare pienamente i propri sentimenti e le proprie emozioni, avere fiducia nelle proprie e altrui potenzialità, mostrarsi flessibili di fronte al cambiamento, possedere motivazione ed entusiasmo, ottimismo, prontezza nel cogliere le occasioni, empatia ed abilità relazionali: sono queste le basi dell’intelligenza emotiva, nuovo criterio e nuova frontiera della professionalità. Il successo delle organizzazioni ed il miglioramento delle performance manageriali richiedono talenti di tipo emozionale e relazionale. Tali requisiti producono la capacità di formare un team, di stabilire rapporti costruttivi, di sviluppare la creatività, di diventare catalizzatori del cambiamento; requisiti ritenuti fondamentali ai fini dello sviluppo aziendale e del territorio, soprattutto in questa epoca caratterizzata da incertezze e grandi cambiamenti.

Quoziente Intellettivo e Intelligenza emotiva: oltre la contrapposizione tra emozioni e razionalità Ma allora tutto questo vuol dire che, per avere successo nella vita in genere e nell'ambito lavorativo in particolare, non è sufficiente disporre di un elevato Quoziente Intellettivo (QI)? La misura del QI, infatti, riferita alle tradizionali capacità logico-matematiche, verbali e spaziali, effettuata tramite gli usuali test di intelligenza, mostra i suoi limiti, come già McClelland aveva studiato, quando viene utilizzata come indice per prevedere il successo che un dato individuo otterrà nella vita professionale e, più in generale, in

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quella sociale. Spesso, infatti, a elevati quozienti intellettivi, corrispondono risultati modesti o addirittura mediocri nel campo del lavoro e della riuscita sociale. Tale constatazione ha portato poco per volta al riconoscimento che l’intelligenza basata sull'esercizio della pura razionalità costituisce soltanto un aspetto delle più generali capacità che permettono all'uomo di misurarsi con le diverse situazioni incontrate nella vita di tutti i giorni e di risolvere adeguatamente i problemi che esse implicano. Un mito da sfatare è la contrapposizione di sentimenti ed emozioni da un lato e razionalità e pensiero analitico dall’altro. La biologia e la neurologia stanno dimostrando l’importanza crescente che le emozioni giocano nei processi mnemonici, di apprendimento e di giudizio. La componente emotiva della mente è tutt’altro che contrapposta agli stati mentali cognitivi, rappresenta piuttosto una guida, un completamento alle scelte effettuate dalle persone, ai comportamenti che attuano e alle reazioni che adottano. L’emozione rappresenta il passaggio dalla mente al corpo, il canale di comunicazione che trasforma la sensazione di un fenomeno fisico in consapevolezza del fenomeno stesso. Come già detto, il ruolo della sfera emozionale sul lavoro è sempre più significativo. Cooper e Sawaf (1998) schematizzano questo aspetto evidenziando come al significato convenzionale di emotività, come segno di debolezza, di confusione, di irrazionalità, di distrazione, di vulnerabilità si sostituisce un nuovo significato di performance elevate, come segno di forza, di apprendimento, di motivazione, di valori, di creatività ed innovazione. Potrebbe risultare esplicativo il parallelismo che esiste tra i termini emozione e motivazione; stessa radice etimologica latina, “movere” ed “emovere”, con una interessante distinzione di significati: muovere fuori e muovere verso. Le emozioni sono transitorie, sono vissute con scarso controllo della situazione, in modo istintivo verso stimoli provenienti dal mondo esterno o interno; la motivazione spinge verso il raggiungimento di obiettivi, razionalmente si sviluppa nel tempo ed è legata all’ambiente e alla sfera relazionale. Per molti autori le emozioni si configurano come fondamentali sistemi motivazionali e per questo possono agire sulle strutture di influenzamento (Frijda, 1990). Il controllo emozionale, infatti, spinge le persone ad esprimere tutto il loro potenziale, permette la libera espressione di valori ed aspirazioni personali sviluppando nuove fonti di energia motivazionale. La nozione di intelligenza emotiva, già descritta da Howard Gardner nelle due forme, intrapersonale e interpersonale2, è stata tuttavia sviluppata nei suoi molteplici componenti e conseguenze pratiche da Daniel Goleman, la persona che, indiscutibilmente, ha portato la componente emotiva all’attenzione del mondo. Goleman ha avuto l’intuizione di rivalutare il ruolo delle emozioni, trasferendole nel campo della leadership e della gestione delle persone, “Le persone che sanno controllare le loro emozioni sono capaci di vivere i momenti di grande cambiamento senza panico” (Goleman, 1998). Egli ha raggruppato sotto il termine “intelligenza emotiva” tutte le capacità che permettono agli individui di apprendere le competenze professionali necessarie per avere successo professionalmente. “Se un individuo è

2 L’ intelligenza interpersonale è l’abilità di interpretare le emozioni, le motivazioni e gli stati d'animo degli altri.

L’intelligenza intrapersonale si riferisce all’abilità di comprendere le proprie emozioni e di incanalarle in forme

socialmente accettabili.

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carente nelle abilità sociali, ad esempio, non riuscirà a persuadere o a ispirare gli altri, né ad assumersi la leadership di un team o a catalizzare il cambiamento. Chi ha una scarsa consapevolezza di sé tende a dimenticare le proprie debolezze, e allo stesso tempo non avrà la fiducia in se stesso che deriva dalla sicurezza sui propri punti di forza.” L’espressione <<intelligenza emotiva>> si riferisce alla capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le emozioni, tanto interiormente, quanto nelle nostre relazioni ”. Goleman basa tale intelligenza su cinque dimensioni ad ognuna delle quali fa attingere delle competenze emotive classificate in gruppi come riportate nelle seguenti figure.

COMPETENZA PERSONALE Determina il modo in cui controlliamo noi stessi

Consapevolezza di sé

Comporta la conoscenza dei propri stati interiori -preferenze, risorse e intuizioni

Consapevolezza emotiva: riconoscimento delle proprie emozioni e dei loro effetti

Autovalutazione accurata: conoscenza dei propri punti di forza e dei propri limiti

Fiducia in se stessi: sicurezza nel proprio valore e nelle proprie capacità

Padronanza di sé

Comporta la capacità di dominare i propri stati interiori, i propri impulsi e le proprie risorse

Autocontrollo: dominio delle emozioni e degli impulsi distruttivi

Fidatezza: mantenimento di standard di onestà e integrità

Coscienziosità: assunzione delle responsabilità per quanto attiene alla propria prestazione

Adattabilità: flessibilità nel gestire il cambiamento

Innovazione: capacità di sentirsi a proprio agio e di avere un atteggiamento aperto di fronte a idee, approcci e informazioni nuovi

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Motivazione

Comporta tendenze emotive che guidano o facilitano il raggiungimento di obiettivi

Spinta alla realizzazione: impulso a migliorare o a soddisfare uno standard di eccellenza

Impegno: adeguamento agli obiettivi del gruppo o dell'organizzazione

Iniziativa: prontezza nel cogliere le occasioni Ottimismo: costanza nel perseguire gli

obiettivi nonostante ostacoli e insuccessi

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COMPETENZA SOCIALE

Determina il modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri

Empatia

Comporta la consapevolezza dei sentimenti, delle esigenze e degli interessi altrui

Comprensione degli altri: percezione dei sentimenti e delle prospettive altrui; interesse attivo per le preoccupazioni degli altri

Assistenza: anticipazione, riconoscimento e soddisfazione delle esigenze del cliente

Promozione dello sviluppo altrui: percezione delle esigenze di sviluppo degli altri e capacità di mettere in risalto e potenziare le loro abilità

Sfruttamento della diversità: saper coltivare le opportunità offerte da persone di diverso tipo

Consapevolezza politica: saper leggere e interpretare le correnti emotive e i rapporti di potere in un gruppo

Abilità sociali

Comportano abilità nell'indurre risposte desiderabili negli altri

Influenza: impiego di tattiche di persuasione efficienti

Comunicazione: invio di messaggi chiari e convincenti

Leadership: capacità di ispirare e guidare gruppi e persone

Catalisi del cambiamento: capacità di iniziare o dirigere il cambiamento

Gestione del conflitto: capacità di negoziare e risolvere situazioni di disaccordo

Costruzione di legami: capacità di favorire e alimentare relazioni utili

Collaborazione e cooperazione: capacità di lavorare con altri verso obiettivi comuni

Lavoro in team: capacità di creare una sinergia di gruppo nel perseguire obiettivi comuni

IL FUNZIONAMENTO DEL CERVELLO ADATTATO ALLE RICERCHE SULLA NATURA DEL LAVORO MANAGERIALE.

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Per comprendere più efficacemente come opera un manager e di quali capacità ha bisogno, è utile fare riferimento ai più recenti studi sul funzionamento del cervello umano. La nostra attenzione cadrà sul concetto di specializzazione degli emisferi cerebrali, che ci consentirà di dimostrare come il cervello e l’emotività non sono poi da considerarsi mondi diversi. Il discorso sulle specializzazioni cerebrali fa riferimento a due basi teoriche: la teoria della stratificazione cerebrale e la teoria della specializzazione degli emisferi cerebrali. Per quanto riguarda la teoria dell’evoluzione stratificata del cervello, essa sostiene che nel corso della filogenesi il cervello umano sia evoluto per stratificazioni fino alla sua configurazione attuale. Una delle concezioni di maggior successo (Paul McLean, 1949), raggruppa queste stratificazioni in tre zone sovrapposte, praticamente in tre cervelli distinti e nello stesso tempo interconnessi e funzionanti in contemporanea, distinguibili per specificità anatomica e fisiologica: il cervello rettiliano, sovrintende a funzioni di automatismo fisiologico

(sopravvivenza, reazioni emotive, conservazione della specie); il cervello limbico, è la sede dell’affettività, delle emozioni e dell’umore; il cervello corticale, è la materia sovrastante conformata a lobi e solchi, è il

cervello della ragione, della parola, della coscienza. Altri studi che hanno influenzato le ricerche sulla natura del lavoro manageriale sono quelli sulla localizzazione di specifiche funzioni mentali nel lobo sinistro e nel lobo destro del cervello umano. Si è scoperto che i due emisferi esprimono due modi diversi e simultanei di fare esperienza, di pensare e di sentire. In particolare l’emisfero sinistro si caratterizza per le facoltà logiche, analitiche, verbali, razionali mentre quello destro, a sua volta, si caratterizza per le facoltà intuitive, sintetiche, corporali, emozionali. Si è verificato così che la persona di successo, nello specifico il manager, non si limita ad utilizzare le facoltà specifiche della parte sinistra del cervello ma impiega in egual modo anche le facoltà specifiche della parte destra del cervello.

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Figura 1 - CARATTERISTICHE DEI DUE EMISFERI DEL CERVELLO UMANO

Integrando queste due risorse a disposizione, il manager riesce a bilanciare idee ed azioni, analisi e sintesi e perché questo accada è necessario che la sfera emozionale sia viva, espansa rilassata ed armonica, oltre che vissuta con consapevolezza. E' quindi essenziale esplorare ed equilibrare la dimensione emotiva attingendo alle risorse che tutti abbiamo dentro e di cui non sempre siamo completamente consapevoli. LE COMPETENZE MANAGERIALI Cos’è una competenza, quali sono le competenze, come si possono analizzare e descrivere è un terreno che ancora lascia spazio alla scoperta, nel quale tutto non è “già detto”. Il motivo di tanta attenzione da parte di studiosi, consulenti, ricercatori è da ricondurre al progressivo affermarsi di modelli lavorativi basati su soluzioni organizzative sempre più flessibili e dinamiche. Flessibilità e dinamismo permettono alle organizzazione odierne di fronteggiare le incertezze e le turbolenze dei mercati che caratterizzano l’era della globalizzazione e della new economy. In questo scenario così complesso è naturale che nelle organizzazioni non è più centrale la dimensione statica del lavoro, la posizione lavorativa, ma diventa più importante valorizzare l’individuo con le sue competenze. Esistono, infatti, diversi approcci al tema delle competenze, sia per quanto riguarda la sua definizione, sia a proposito dei metodi di rilevazione. Nella psicologia organizzativa americana, tra gli ultimi anni ’60 e i primi anni ’70, si è avuto un vero e proprio “movimento delle competenze”, del quale David C. McClelland è considerato il padre fondatore. A quei tempi l’interesse ai tratti della personalità come concausa del successo di una performance lavorativa non era in

Parola

Analisi

Matematica

Ragionamento in serie

Procedimento sequenziale

Pensiero scientifico

Pensiero convergente

Deduttivo

Razionale

Realistico

Obiettivo

Dettagliato

Esplicito

Percorso lineare

Tattica

Ragionamento per algoritmi

Linguaggio digitale

Immagine

Sintesi

Geometria

Ragionamento in parallelo

Visione d’insieme

Capacità artistiche e musicali

Pensiero divergente

Metaforico

Intuitivo

Impulsivo

Soggettivo

Globale, olistico

Tacito, implicito

Panorama, spazio

Strategia

Ragionamento euristico

Linguaggio analogico

Emisfero sinistro Emisfero destro

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primo piano. Da un crescente numero di ricerche risultò, invece, che i “tradizionali test di attitudine allo studio e di cultura scolastica, così come i titoli e gli attestati scolastici: 1) non predicono l’attitudine al lavoro o il successo nella vita, 2) sono spesso viziati da pregiudizi nei confronti delle minoranze, delle donne e dei ceti sociali meno abbienti”3. Così McClelland ricorda la nascita del movimento delle competenze che fece compiere un grande passo agli psicologi che si occupavano della gestione del personale nelle organizzazioni. Allora si credeva che il modo più giusto per svolgere questo compito fosse l’analisi separata della mansione e della persona per poi cercare di ricombinarle, metodo che, pur essendo appropriato nel predire il rendimento scolastico, risultava inadeguato nel mondo del lavoro. Andò così affermandosi il metodo delle competenze grazie al quale, attraverso interviste sui comportamenti esplicitati in particolari situazioni, vengono determinate le caratteristiche personali associabili al successo della mansione. Questo tipo di approccio alle competenze offre “un metodo di gestione delle risorse umane largamente applicabile alla selezione, ai percorsi di carriera, alla valutazione della prestazione e allo sviluppo del personale”4. LE COMPETENZE RELAZIONALI

Da rilevazioni e studi effettuati risulta che un capo occupa dal 60 all’ 80% del suo tempo in attività di comunicazione: colloqui e riunioni con i collaboratori, colleghi, superiori o persona esterne all’azienda. E’ un tempo destinato ad aumentare, se si aggiungono le comunicazioni scritte, la stesura di rapporti e relazioni, ecc. e la percentuale è tanto più alta quanto più si sale nella scala gerarchica.

Tutto, oggi, avviene all’insegna della ricerca del consenso, della negoziazione e del compromesso e quindi, in ultima analisi, all’insegna della comunicazione. In un’epoca come l’attuale, quindi, saper comunicare diventa il requisito essenziale per svolgere qualsiasi attività sociale ed è una capacità essenziale richiesta a chiunque abbia un ruolo dirigenziale nelle organizzazioni. Infatti, il capo sempre meno deve gestire il sistema di premi e punizioni o svolgere attività di programmazione operativa e sempre più deve essere capace di gestire gruppi di lavoro, di dirigere riunioni, di negoziare, di colloquiare con i collaboratori per informarli, motivarli, guidarli verso l’obiettivo comune.

Un capo, al dovere di sapere fare, deve aggiungere quello di far sapere.

Le nostre convinzioni, i nostri valori e i nostri atteggiamenti influenzano i nostri comportamenti. Ci sono dei principi base che sostengono la capacità di influenzare gli altri e che permettono di essere efficaci nella comunicazione, nella gestione dei conflitti, nel lavoro di gruppo:

1. quando tentiamo di influenzare gli altri, ci riusciamo meglio se esercitiamo una delicata pressione al loro stesso ritmo che se tentiamo di spingerli con forza al

3 McClelland D.C., “Il concetto di competenza: introduzione”, in Spencer L.M., Spencer S.M., Competenza nel

lavoro. FrancoAngeli, Milano, 1995, pagg 23/24.

4 McClelland D.C., op.cit., pag. 29.

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nostro ritmo. Decisamente troppo spesso lavoriamo sul presupposto che, solo perché noi vediamo la logica delle nostre scelte, gli altri ci debbano seguire. Questa convinzione ci spinge a fare noi l’andatura, presentare le informazioni cosi come le leggiamo, ed anche ad usare tattiche coercitive (magari morbide) quando ci troviamo di fronte a quella che ci sembra pura ostinazione. Ma anche se riusciamo a “vincere” i risultati sono perlopiù di breve periodo e non mancano effetti collaterali spiacevoli. Otteniamo di più, quindi, se andiamo incontro alle posizioni dei nostri interlocutori e li incoraggiamo educatamente ad andare nella posizione che desideriamo;

2. quando vogliamo influenzare gli altri, otteniamo risultati migliori se li coinvolgiamo nella discussione anziché accontentarci di un atteggiamento passivo;

3. la persuasione produce risultati migliori della manipolazione, anche se è facile confondere le due cose. La persuasione si basa sul rispetto degli interlocutori, sulla chiara esposizione delle idee e sull’invito ad accettarle. La manipolazione, invece, si fonda in qualche modo sul raggiro, per cui l’altro viene furbescamente indotto ad accettare il nostro punto di vista. Questo può avvenire anche se in modo non intenzionale quando, per esempio, si adottano delle tattiche che fanno sentire gli interlocutori in colpa se non si trovano d’accordo;

4. è preferibile pensare in termini di comportamento piuttosto che di personalità: nelle organizzazioni è rilevante ciò che le persone fanno e non ciò che sono. I comportamenti sono influenzati da ruoli, strutture, procedure, culture, politiche e non necessariamente sono simmetrici a quelli agiti al di fuori dell’organizzazione stessa. E’ corretto, quindi, occuparsi di ciò che le persone fanno o potranno fare e non di come sono, anche se, come esseri umani ci viene facile etichettare gli altri traendo conclusioni sulla loro personalità e mentalità, a partire dall’osservazione dei loro comportamenti. Ciò che conosciamo in realtà è solo il loro comportamento, tutto il resto sono congetture;

5. dovremmo tenere presente che le convinzioni che incidono sul nostro modo di comportarci sono probabilmente diverse da quelle degli altri. Questo aspetto è importante perché le convinzioni e gli assunti delle persone spesso sono così radicati che non possiamo neppure sperare di scalfirli superficialmente. Se ci preoccupiamo anzitutto di capire, sapremo poi molto meglio come farci capire;

6. in ambito organizzativo non è né utile né corretto utilizzare le categorie del bene-male, del buono-cattivo, del positivo-negativo a priori (idea valoriale in sè), ma valutare ogni comportamento come coerente-incoerente rispetto agli obiettivi che vogliamo raggiungere. Ogni variabile gestionale è da valutare come positiva o negativa non in sé, ma in funzione del tipo di comportamento atteso dall’organizzazione, per esempio, un comportamento metodico non è né migliore né peggiore di un comportamento intuitivo, dipende dalla situazione e dallo scopo da raggiungere;

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7. è importante formulare diagnosi non giudizi: se qualcuno sbaglia è importante chiedersi “perché ha sbagliato” piuttosto che affermare che “è un incapace”. La gestione dei collaboratori richiede quindi più attenzione nella “raccolta dei fatti” e nella “diagnosi” prima di ogni decisione. Per questo è importante rifuggire dalla tentazione di giudicare, imponendosi primo di diagnosticare: è un approccio proficuo e consente azioni più ricche nei confronti delle risorse umane gestite;

8. è fondamentale difendersi dalla naturale propensione a essere proiettivi. La “proiezione” è uno degli errori più comuni di valutazione: essa porta a gestire, valutare, scegliere, utilizzando come metro di misura la motivazione, le caratteristiche e i valori personali e a esprimere di conseguenza un giudizio positivo se questi coincidono e negativo se si discostano, al di là dell’oggettività dei fatti.

Le competenze relazionali richieste a chi ha un ruolo dirigenziale sono:

la comunicazione,

la capacità di ascolto e di osservazione,

la capacità di comprensione, di contenimento e di elaborazione,

la capacità di delegare,

la capacità di gestire gruppi di lavoro e riunioni,

l’abilità di negoziare e di gestire i conflitti,

la capacità di selezionare nuovi collaboratori e di valutare il loro potenziale e le loro prestazioni;

la capacità di tollerare stress e situazioni ansiogene.

Sull’efficacia delle azioni di un dirigente, Peter Drucker (Il futuro che è già qui. La professione del dirigente nella società postcapitalista. ETAS, Milano, 1999) puntualizza:

“I dirigenti efficaci non prendono “tutte” le decisioni, si concentrano esclusivamente sulle cose importanti. Cercano di prendere le poche decisioni importanti al massimo livello di concettualizzazione, trovando le costanti di una situazione, individuando gli elementi strategici e generalizzanti, anziché “risolvere problemi”. Vogliono sapere cosa implica la decisione e quali realtà profonde deve soddisfare, vogliono impatto, più che tecnica, vogliono agire in senso strategico più che tattico. I dirigenti passano più tempo a gestire persone e a prendere decisioni inerenti alle persone che in qualsiasi altra attività; ed è giusto che sia così. Nessun’ altra decisione ha la stessa portata, né presenta le stesse difficoltà. Eppure nel complesso i dirigenti prendono delle decisioni sul personale piuttosto scadenti. Secondo le statistiche, la situazione è la seguente: al massimo un terzo di tali decisioni si rivelano esatte, un terzo dimostra un’efficacia minimale, e un terzo sono addirittura grossi errori; in nessuna area del management si registra una performance tanto deludente”.

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Vi sono principi validi, secondo Drucker, su come prendere le decisioni riguardanti le persone, tenendo conto che non esiste un giudice infallibile delle persone, almeno in questo mondo:

se metto una persona in un certo posto e non va bene vuol dire che ho fatto un errore. Non ha senso attribuirle la colpa o lamentarsi: ho fatto un errore punto e basta;

“il soldato ha diritto a un comando competente”: era una vecchia massima già ai tempi di Giulio Cesare. E’ preciso dovere dei manager garantire la performance dei collaboratori responsabili;

di tutte le decisioni che prende un dirigente, nessuna ha l’importanza di quelle inerenti le persone, perché incidono sulla capacità di performance dell’organizzazione. Perciò dovrà dedicare una particolare cura a queste decisioni;

c’è un unico “non”. Non dare ai neoassunti nuovi incarichi di rilievo, perché questo aumenta i rischi. Questi incarichi vanno dati ai collaboratori di cui si conoscono il comportamento e le attitudini, e che si sono già meritati fiducia e credibilità in seno all’organizzazione. Il neoassunto di alto livello va inserito in una posizione consolidata, dove le aspettative sono note e c’è una struttura di riferimento.

Lo stesso autore suggerisce: “non siamo in grado di prevedere se il candidato prescelto sarà caratterialmente in grado di adattarsi al nuovo ambiente, possiamo scoprirlo solo attraverso l’esperienza. Se il passaggio da una mansione all’altra non va secondo le attese, il dirigente che ha preso la decisione deve rimediare all’errore, e in fretta. Deve dire “Ho fatto un errore, e adesso devo sistemare le cose”. Mantenere la persona sbagliata nella posizione sbagliata non è un atto di umanità, è un atto di crudeltà. Il giusto corso di azione- e avviene quasi sempre cosi- è offrire al collaboratore che delude nella nuova posizione la possibilità di tornare a quella precedente.”

IL PARLARE IN PUBBLICO Sono quattro gli strumenti di elezione per un oratoria efficace:

LO STRUMENTO VOCE

E’ lo strumento principale del comunicatore e il saperlo usare appropriatamente determina in larga misura il grado di successo o di insuccesso dell’azione persuasiva del comunicatore. Saperlo usare significa saper modulare la voce per una buona comunicazione para-verbale a sostegno del messaggio puramente verbale.

LO STRUMENTO CORPO

Un altro strumento importante è il corpo o, per meglio dire, il linguaggio del corpo, linguaggio non verbale: gesti, mimica, sguardo, abbigliamento, postura,

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sorriso, spostamenti, espressioni del viso. I grandi comunicatori eccellono forse più nel linguaggio del corpo e nel linguaggio paraverbale che nel linguaggio puramente verbale. Guardate i campioni: parola, voce e gestualità si integrano in una sapiente danza o musica armonica. Ma non temete, per prestazioni più che onorevoli, anche questo si impara.

LO STRUMENTO SGUARDO

Della strumentazione non-verbale, l’elemento più potente è lo sguardo che risulta essenziale per:

Stabilire il contatto e creare empatia Controllare l’ansia Ricevere il feed-back dall’uditorio Tenere “in tiro” e sotto controllo il gruppo

LO STRUMENTO FEED-BACK

Feed-back è l’informazione di ritorno dal gruppo, sotto forma verbale, paraverbale e non verbale. Usare il feed-back come strumento per guidare il vostro discorso (cambiare voce, ribadire con concetto, risvegliare l’attenzione ecc.) significa innanzitutto fare attenzione a, e saper interpretare, i segnali di feed-back, il che potrebbe esprimersi paradossalmente nel saper “ascoltare” gli altri mentre si parla, e, in secondo luogo, essere in grado di reagire opportunamente, il che comporta un certo grado di flessibilità nel contenuto e nella forma del discorso così come nel vostro comportamento.

Una cosa importante da imparare: RESPIRARE CORRETTAMENTE.

Per parlare bene, sia nel quotidiano ma ancor più di fronte a un pubblico, è importante una corretta respirazione.

Qualche cenno di fisiologia sulla fonazione. Sapete che lo strumento fonetico è della categoria degli strumenti a fiato (non a corde come induce pensare la dizione corde vocali). Il mantice del fiato sono i polmoni, compressi e dilatati dal diaframma addominale e dalla cassa toracica. L’aria compressa dal mantice passa nella trachea, poi nella laringe dove con l’ausilio della contrazione dei legamenti dette corde vocali l’emissione d’aria viene modulata, quindi attraverso la faringe entra nella bocca e nelle fosse nasali dove lingua, palato molle, denti e labbra modellano l’articolazione di suoni. Pressoché tutti gli spazi dai polmoni alle fosse nasali intervengono come casse di risonanza. La capacità media polmonare è di 5 litri d’aria. A riposo respiriamo aspirando ed espirando aria con cadenze intorno alle 12-18 volte al minuto e tempi più o meno uguali per le fasi di aspirazione ed espirazione, facendo circolare circa ½ litro d’aria mantenendone circa 1,5 litri di riserva nei polmoni. Mentre parliamo la respirazione cambia. Innanzitutto abbiamo bisogno di più aria, un supplemento da 1,2 a 1,6 litri che otteniamo con rapide e forti aspirazioni, in secondo luogo, i rapporti fra i tempi di aspirazione e respirazione passano da 1 a 1 ad un rapporto da 1 a 6, un breve e intenso tempo di aspirazione e un lungo e lento tempo di espirazione (20-25 secondi). Immaginate un mantice che si gonfia violentemente per immagazzinare l’aria e poi si comprime lentamente per espellere l’aria in maniera

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da poterne modulare il flusso. E’ nella fase di emissione o espirazione che si forma il suono e la voce.

Questo lo pratichiamo nel parlare di tutti i giorni in maniera pressoché automatica, eppure quando ci troviamo a parlare in pubblico non troviamo i ritmi giusti e non sappiamo modulare bene l’emissione dell’aria, in genere o ce ne mettiamo troppa o troppo poca con gravi alterazioni della voce.

Ma c’è una cosa ancor più importante da sapere: il nostro mantice polmonare può essere azionato in tre maniere diverse dette anche respirazioni diverse:

1. Respirazione addominale o diaframmatica (bassa)

2. Respirazione costale laterale (media)

3. Respirazione alta, scapolare o toracica verticale (alzare le spalle per aumentare ancor più il volume polmonare: è tipica degli atleti).

Ebbene, una delle prime cose che di solito insegnano ad un attore è di proibirgli la respirazione scapolare e di allenarlo alla respirazione addominale controllata. La respirazione scapolare è nefasta per la voce: la alterna, la storpia. La respirazione corretta è in primo luogo diaframmatica e poi costale laterale. Essa consiste nel gonfiare la pancia e, se non basta, allargare la cassa toracica per aspirare aria, e di modulare la fuoriuscita rilasciando lentamente la cintura muscolare addominale e costale. Dimenticatevi la costale, viene da sola, tenete assolutamente lente le spalle e concentratevi solo sul diaframma.

Più facile a dirsi che a farsi, e difatti ci vuole allenamento.

Altro aspetto importante: la respirazione addominale serve anche per il rilassamento e il controllo dell’ansia. Tutte le tecniche di rilassamento e autocontrollo includono la regolazione della respirazione, puntando su quella addominale.

In conclusione di questo:

Respirate (parlate) con la pancia,

Regolate il soffio che fabbrica la voce con la pancia,

Tenete ferme le spalle,

Calibrate (punteggiate) tempi e pause della dizione coi tempi di respiro,

Si parla tra un’aspirazione e l’altra emettendo lentamente la quantità d’aria che serve per modulare la voce.

Praticate tecniche di respirazione sia per migliorare la voce, la dizione e l’articolazione, che per controllare la tensione nervosa quando eccessiva.

PREPARARE UNA PRESENTAZIONE Demostene era un omiciattolo insignificante, con non pochi difetti, e per di più ansioso e balbuziente. I suoi primi tentativi di discorso pubblico furono un disastro.

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Con la disciplina, col metodo e con forti motivazioni divenne il più grande oratore della Grecia antica. Si parla ad esempio che per correggere e potenziare le sue capacità fonetiche e di dizione, si esercitasse a lungo sulla spiaggia con dei sassolini in bocca e per un certo periodo in una cantina, barba e capelli rasati per non uscire. Si narra anche che veniva preso in giro dai suoi avversari perché non sapeva improvvisare. Demostene, il più grande dei suoi tempi, non improvvisava, e di fatti fino all’ultimo preparava meticolosamente ogni suo discorso. Cicerone, anche lui il è più grande dei suoi tempi, aveva tutto quel che serviva per essere un grande oratore e fin dal primo discorso ebbe subito un gran successo, eppure anche lui, si sa con certezza, preparava con scrupolo e pazienza ogni suo discorso. PUNTI CHIAVE DELLAPREPARAZIONE DEL DISCORSO

UDITORIO, caratterizzazione dell’uditorio e definizione dell’ascoltatore –tipo

OBIETTIVI, scopo del discorso ed obiettivi specifici

CONTESTO, luogo, ambiente, data, ora, vincoli e opportunità

CONTENUTI, delimitazione, scelta dei contenuti

SUDDIVISIONE DEL DISCORSO IN PARTI, struttura, unità, sequenza

PUNTI CHIAVE, enucleazione ed esplicazione dei punti chiave

TAGLIO, scelta del “taglio” da dare

TERMINOLOGIA, adattamento della terminologia

TEMPIFICAZIONE, mettere il tempo che serve nel tempo dato

FILO LOGICO, concatenazione dei contenuti e delle parti strutturali del discorso

ESEMPI E DOMANDE, predisposizione

PRIME COSE DA DIRE E FARE

CHIUSURA DEL DISCORSO

MATERIALE DA PREDISPORRE

COSE DA VERIFICARE

PROVA DEI PASSAGGI CRITICI

MAPPA DEL DISCORSO

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Il TEAM WORKING

Se vogliamo dare una definizione di Team Working (Lavorare in Gruppo) potremmo dire che si tratta di una attività in cui ci sono alcune persone che lavorano insieme in una situazione in cui esiste un compito o un mandato. Il gruppo di lavoro potrebbe, quindi, essere definito in sintesi come un insieme limitato di persone, che non appartengono o provengono necessariamente dalla stessa funzione aziendale ma che sono legate da un forte senso di appartenenza al gruppo, sono motivate al raggiungimento di un risultato e di obiettivi che sono stati loro assegnati dall’azienda. Lavorare insieme condividendo un obiettivo comune è il modo migliore per costruire qualcosa, per realizzare un progetto, per presentare una proposta a un cliente, ma non è sempre facile perché è una attività molto complessa, che richiede di impegnarsi subito sull’obiettivo da raggiungere e sul compito assegnato. Quello che veramente distingue un team working è la voglia di vincere di tutti i suoi membri. Quella tensione positiva verso il successo che spesso porta ad elevate performance può fare la differenza. Infatti, non è detto che il lavoro di gruppo sia decisamente più efficiente del lavoro individuale. Certamente insieme si riescono ad ottenere performance migliori, si lavora con più entusiasmo e le persone tendono ad impegnarsi ed a collaborare. In ogni modo lavorare in squadra è diventata un’esigenza alla quale le aziende non possono rinunciare. L’importante è imparare a farlo nel migliore dei modi. Ovvero, occorre che ogni individuo cerchi di perseguire dei risultati che vanno oltre a suo vantaggio, anche a beneficio di tutti gli altri individui.

Fattori costitutivi dei team Un team è costituito da un piccolo numero di persone dotate di competenze complementari, con uno scopo comune, obiettivi di performance e un approccio di lavoro basato sulla responsabilizzazione collettiva . Analizziamo di seguito nel dettaglio questi fattori: Piccolo numero di persone In generale, la maggior parte dei team risultano essere composti da un piccolo numero di persone compreso tra cinque e dodici. In teoria un team può essere formato da molte persone, diciamo cinquanta o anche di più. Ma è frequente che gruppi di queste dimensioni finiscano con lo scomporsi in sottogruppi, invece di operare come un team unico. Competenze complementari I team devono sviluppare il corretto mix di capacità, necessità a raggiungere gli obiettivi prefissati. Esse si possono suddividere in tre categorie:

Capacità tecniche o funzionali, Capacità di risolvere problemi o prendere decisioni, Capacità di gestire i rapporti interpersonali.

Un team deve essere in grado di identificare i problemi e le opportunità che si presentano e valutare le diverse possibilità di intervento. Allo stesso tempo, il team deve sviluppare la capacità di assumersi dei rischi, di essere costruttivi nelle critiche,

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di essere obiettivi, di saper ascoltare, di concedere il beneficio del dubbio e di rispettare le opinioni altrui.

L’impegno al raggiungimento di uno scopo comune e di comuni

obiettivi di performance. Lo scopo e gli obiettivi di performance di un team vanno di pari passo. Se gli obiettivi a breve termine non sono direttamente correlati allo scopo fondamentale, i membri del team si disorientano, perdono coesione e ricadono nella mediocrità dei comportamenti del passato. Il fatto di lavorare per uno scopo comune suscita le aspirazioni intorno alle quali il team sviluppa orientamento, slancio e impegno.

L’impegno per un approccio di lavoro comune. I team devono inoltre sviluppare un approccio comune al lavoro di squadra mirato al raggiungimento dello scopo. Per ottenere ciò, occorre un notevole investimento in termini di tempo e di impegno, pari a quello per definire lo scopo. E’ necessario tener conto di aspetti di natura economica, amministrativa e sociale e far sì che tutti i membri del team svolgano una quantità di lavoro equivalente. Nella scelta di un metodo comune è essenziale decidere collettivamente le caratteristiche peculiari del lavoro e collaborare per integrare le competenze individuali.

Responsabilità collettiva La realizzazione di una responsabilità collettiva, di cui il team non può fare a meno, costituisce una prova impegnativa. Nella sua essenza, la responsabilità di gruppo è legata alle promesse sincere che contribuiscono a rafforzare due aspetti essenziali dei team: l’impegno e la fiducia. Promettendo di assumerci la responsabilità del raggiungimento degli obiettivi del team, ci guadagniamo il diritto di esprimere il nostro punto di vista su tutti gli aspetti del lavoro svolto e di essere ascoltati in modo leale e costruttivo. Il senso di responsabilità nasce dal tempo, dall’energia e dall’impegno concreto nello sforzo di capire come e che cosa il team si propone di raggiungere e qual è il modo migliore per farlo, e si rafforza via via su questa base. Quando un gruppo di persone collabora concretamente per un obiettivo comune, fiducia e impegno scaturiscono spontaneamente. Se i membri condividono lo scopo e l’approccio, inevitabilmente si considerano responsabili, a livello individuale e collettivo, della performance dell’intero team. TENDENZE L’organizzazione dovrà essere flessibile e forte in quanto sarà in continuo cambiamento. I grandi cambiamenti nel lavoro e nella struttura organizzativa determinano che i ruoli e le relazioni tradizionali fra capi e collaboratori siano molto diversi in un’organizzazione decentrata con meno livelli gerarchici. Il manager ideale è un facilitatore, un consulente e un coordinatore, col compito di sviluppare le competenze dei dipendenti. Le tendenze future richiederanno un maggior spazio per il processo partecipativo, con maggiori responsabilità dei dipendenti nella soluzione dei problemi e nella presa di decisioni. Esse comprendono5:

5 Le tendenze future sono tratte da: AUBREY C., FELKINS P. Teamwork Editoriale Itaca

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Il potere nelle organizzazioni portato ai livelli più bassi, Strutture organizzative e processi decisionali decentrati, Maggior peso dei settori dei servizi, Supervisori di linea che assumono maggiori responsabilità come risorse

a disposizione per i loro collaboratori, Condivisione dei profitti con i dipendenti, Ingresso dei dipendenti nei Consigli di Amministrazione, Maggiori poteri ai consumatori ed ai dipendenti, Gruppi manageriali internazionali, Gruppi di lavoro ed imprenditoriali autonomi, Maggior peso delle competenze individuali, Strutture organizzative più fluide, Approccio informale al lavoro, Orari di lavori flessibile, Ambienti di lavoro più attraenti ed umanizzati, Più tempo dedicato allo svago, Maggiore diversificazione dei dipendenti, Maggior numero di persone che lavorano al di fuori delle organizzazioni, Preoccupazione dell’organizzazione per la salute dei dipendenti, Riconoscimento dei bisogni individuali di realizzazione e di crescita, Maggiori riconoscimenti nell’organizzazione per la creatività e

l’innovazione. Dalle tendenze sopra elencate vengono fuori numerose opzioni ed opportunità per il coinvolgimento dei membri nei gruppi di soluzione dei problemi e di raccolta delle informazioni. Il gruppo diventa il principale strumento di sviluppo individuale nell’organizzazione e nella comunità esterna.

Componenti del team Un gruppo di qualsiasi tipo che aspiri a diventare un vero team è formato da:

Leader, Followers.

Si pensa che il leader sia la persona più importante, ma coloro i quali lo supportano non sono “servi muti” ma persone che interagiscono continuamente con lui e ne garantiscono (o avversano) la leadership. I followers sono come gregari in una corsa ciclistica: molto spesso il capitano vince non solo per preparazione fisica ma anche per coloro che hanno condiviso ed implementato una strategia, senza però mai spingerlo direttamente. Oggi i leader non considerano più i loro seguaci come una vera truppa. Il capo non è più l’unico decisore e la leadership tende ad essere distribuita all’interno del gruppo di lavoro. LEADER E LEADERSHIP

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I concetti di leader e leadership hanno un'applicazione sempre più vasta nella nostra società, non solo in management, ma in ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Sentiamo parlare di leader in politica, si parla del leader di un gruppo musicale, si sostiene che il “tal dei tali” possiede doti di leadership. Ma cos'è veramente un leader? Perché è così importante essere leader oggi e quali sono le caratteristiche di un leader? La parola leader deriva dal verbo inglese to lead, che significa guidare, condurre, dirigere. Il leader è colui che sa guidare un gruppo di persone (che vengono definite leds o followers, cioè coloro che seguono). E’ colui che conduce la squadra al raggiungimento degli obiettivi. E’ leader colui che non ha dubbi sugli obiettivi da raggiungere e lavora con gli altri per perseguirli. Può essere leader il capo di una divisione in azienda, può essere leader un poliziotto che assume il comando della situazione in un’emergenza, è leader colui che decide cosa fare e come farlo, è leader il bambino che stabilisce le regole di un gioco. Leader, quindi, non è un concetto legato al ruolo della persona, ma un concetto legato a quello che si fa e, soprattutto, a come lo si fa. Ecco perchè oggi il termine leader non è adottato solo in management, ma in qualunque campo della nostra vita: e, in qualsiasi applicazione, i leader hanno sempre gli stessi caratteri distintivi. Data questa definizione, viene da pensare che tutti possono essere leader in determinate situazioni o in momenti specifici della propria vita, ma sicuramente non tutti hanno la capacità per esserlo, non tutti possiedono quelle che comunemente si definiscono “doti di leadership”. La leadership è ciò che conferisce ad un’organizzazione la sua “visione”, il suo “sogno” e, con esso, la capacità di tradurlo in realtà. Quando pensiamo al leader in azienda, spesso pensiamo al capo, a colui che comanda, al responsabile di una divisione, ma non è sempre così. Ci sono leader che adottano uno stile autocratico e che esercitano il loro potere in virtù della posizione che hanno e del ruolo che ricoprono in azienda. In questo caso, il leader è colui che impone le proprie decisioni solo perchè può farlo, solo perchè riveste un determinato ruolo; ed è allora che la parola capo coincide con la parola leader, è allora che il leader è il capo. Ma non è detto che tutti i capi siano leader, non tutti coloro che sono a capo di un ufficio, di una divisione, sono leader, semplicemente perché non hanno quelle che si definiscono caratteristiche di leadership. Significa, quindi, che pur avendo la posizione per dirigere e per prendere decisioni, non sanno farlo, e quindi non sono leader. Diciamo allora che non tutti i capi sono leader, ma tutti i capi dovrebbero essere leader per poter svolgere al meglio il proprio lavoro. Bennis e Nanus6 affermano che il leader ricerca il know-why, prima del know-how, cioè prima del capire come fare qualcosa, si prova a capire il perché la si deve porre in essere. L’attività del leader, quindi, è orientata al problem finding, piuttosto che dal problem solving, ossia la soluzione del problema. Proprio per queste capacità di scopritore di problemi, più che risolutore, il leader non ha solo il compito di dare ordini, ma entra in contatto con tutti i suoi follower, influenzandoli, formandoli e educandoli.

6 W. Bennis et B. Nanus, Leader, anatomia della leadership, Franco Angeli, Milano 1999.

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Il vero leader, in ogni caso, possiede delle caratteristiche fondamentali, dei tratti caratteriali che sono da ritenersi indispensabili:

Self-awareness: coscienza di sé. Il leader è pienamente cosciente delle proprie capacità, della propria intelligenza e sa come usare queste doti per raggiungere obiettivi ben precisi. Tuttavia, coscienza di sé non è da confondere con immodestia e presunzione.

Credibilità: tutti coloro che hanno a che fare con lui lo reputano una persona credibile ed affidabile; è importante che il team, che le persone in generale, si fidino di lui. Il leader è sempre ritenuto credibile.

Empatia: il leader è capace di comprendere gli altri, di “sentire” le persone, di capire quello che provano.

Onestà: il vero leader è una persona onesta, corretta e leale nei confronti degli altri leader così come nei confronti del proprio team. Il leader è la persona di cui ci si fida, nella quale si ripone fiducia.

Comunicazione: capacità di farsi capire, capacità di esprimere chiaramente le idee e gli obiettivi da raggiungere; il bravo leader sa comunicare, sa capire gli altri e sa farsi comprendere dagli altri

Active listening: capacità di ascoltare e di capire. Vision: il vero leader ha sempre una vision, guarda lontano, sa quali

saranno gli obiettivi da raggiungere ed ha la capacità di trasmettere la sua vision al proprio team.

Gli stili di leadership In management si distinguono tre stili di leadership prevalenti:

Lo stile autocratico, Lo stile democratico, Lo stile di delega o laissez faire.

Con lo stile autocratico il leader impone le proprie decisioni, egli decide cosa fare, come farla e quali sono i tempi necessari per farla. In questo modo, il leader non chiede e non ascolta il parere di altri, ma segue il proprio istinto e la propria volontà. Con lo stile democratico il leader chiede al proprio team di partecipare alla risoluzione di un problema, le decisioni sono prese in maniera democratica, il parere di tutti viene ascoltato e tenuto in considerazione per la soluzione del problema. In questo modo, i membri del team prendono parte al processo decisionale, si sentono coinvolti nel progetto e questo aiuta il leader a fare in modo che gli obiettivi di ciascun individuo coincidano con quelli dell’azienda. Un approccio democratico consente poi al leader di avviare una migliore comunicazione con il proprio staff e di conoscere meglio le singole persone; inoltre, l’approccio democratico del leader motiva il team, rende il lavoro più difficile ma sicuramente più entusiasmante e più “challenging”. Sicuramente, l’individuo che lavora in un approccio democratico è una persona motivata e soddisfatta, che raggiunge gli obiettivi con più facilità ed entusiasmo. Proprio per questo, in un approccio democratico, il rendimento, la performance in generale, è migliore che in caso di approccio autocratico. Infine, lo stile laissez faire viene adottato quando il team sa cosa fare e come fare, e, pur restando il leader il vero responsabile delle decisioni che saranno prese, è il team

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che agisce. In questo caso, il leader si fa da parte e fa decidere il team, probabilmente perché la maggior parte delle informazioni necessarie alla soluzione del problema è nelle mani del team. Non esiste uno stile “universale” e giusto di leadership; voglio dire, che non esiste uno stile che va sempre bene e che il leader può adottare in qualsiasi circostanza, ma il bravo leader è colui che sa adottare uno stile diverso in base alle situazioni che si creano. Lo stile che il leader deve adottare cambia ogni volta che il leader si trova ad affrontare una situazione diversa, e questo significa che egli adotterà uno stile contingente alla situazione. Laddove il leader si trova ad affrontare una situazione di emergenza, laddove c’è la necessità di trovare una soluzione immediata è opportuno che il leader adotti uno stile autocratico, cioè che decida rapidamente e senza dare ascolto a troppe voci perché non ha il tempo di farlo. Se invece si deve adottare la soluzione per un problema complesso ma vi è un tempo per farlo, il bravo leader saprà ascoltare il parere del suo gruppo, saprà valutare le opinioni dei suoi collaboratori adottando così uno stile democratico. Quindi, il bravo leader è colui che cambia stile in base ai problemi da fronteggiare e tenendo in considerazione che la soluzione dipende dai seguenti fattori:

Tempo a disposizione; Livello di fiducia nel team; Preparazione e competenze del team; Capire chi possiede le informazioni necessarie per risolvere il problema

e prendere le decisioni; Esistenza di eventuali conflitti tra i membri del team o con individui al di

fuori del proprio gruppo. Il team leader Il team leader è colui che ha la responsabilità del suo gruppo, che risponderà in prima persona dei successi e degli insuccessi della squadra ed anche per questo il suo ruolo è fondamentale sia nella sua funzione ispiratrice sia nella sua funzione di controllo. Spesso il team leader è legato ai componenti del gruppo da un legame formale e gerarchico, anche se oggi questo aspetto è meno frequente. Non è detto, infatti, che un project manager sia anche il superiore diretto di gran parte dei componenti della sua squadra. In questo caso il potere personale, che alcuni studiosi preferiscono chiamare potere carismatico, dovrà essere ancora più forte. In ogni caso, il leader deve essere riconosciuto come tale, altrimenti il gruppo potrebbe perdere questa importante funzione di guida e di indirizzo. Un leader per la sua squadra deve:

Credere nel gruppo, nelle persone, negli obiettivi da raggiungere, nella visione futura del successo;

Massimo impegno personale che sarà preso ad esempio dai suoi seguaci;

Elevato livello di conoscenze e di esperienza nel campo nel quale è chiamato a fornire la sua direzione;

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Cercare ogni occasione per far crescere i suoi seguaci, sia professionalmente sia psicologicamente.

Quando un leader non agisce in questo modo, ma continua a ricoprire formalmente la sua carica, per il gruppo agisce da “non –leader”, da “assente”. Non parlo di colui che delega, ma di colui che “abdica” interessandosi a tutte altre cose. Il disinteresse però, prima o poi, danneggia le squadre, in particolare nei momenti di difficoltà, quando le persone entrano in contrasto, quando ci sono delle incomprensioni o quando gli affari cominciano ad andare male. Il leader sarà uno sconosciuto e le persone non avranno nessuna voglia di ascoltarlo.

Il leader che esprime la sua voce e ispira gli altri a trovare la loro Per raggiungere le vette più alte del genio e della motivazione umana ovvero la voce, oltre ad alcune necessità essenziali quali l’eccellenza, la realizzazione, l’attuazione appassionate, il contributo efficace, occorre un’inaudita struttura mentale, nuove abilità e nuovi mezzi: trova la tua voce e ispira gli altri a trovare la loro. Questa regola, dettata da Stephen Covey, si pone in netto contrasto con il dolore e la frustrazione della realtà odierna. E’ la voce dello spirito umano, colma di speranza e intelligenza, resistente agli urti per natura, dotata di un potenziale sconfinato a servizio del bene comune. Questa voce racchiude, inoltre, l’anima delle organizzazioni che sopravvivranno, prospereranno e avranno un impatto profondo sul futuro del mondo. La voce è la parte più intima di ciascuno di noi; quella specificità che si manifesta nel momento in cui affrontiamo le sfide più grandi e che ci rende alla loro altezza. Come illustrato nella seguente figura, la voce è l’area d’intersezione tra:

Talento: la forza e i doni innati; Passione: ciò che naturalmente ci dà energia, stimolo, motivazione e

ispirazione; Bisogni: incluso ciò di cui il mondo necessita per ripagarci; Coscienza: quella calma voce interiore che ci dà la certezza di ciò che è

giusto e ci incita a farlo

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concretamente. Quando ci s’impegna in compiti che fanno sgorgare il nostro talento e alimentano la nostra passione è lì che troviamo la voce, la vocazione, il codice genetico della nostra anima. In ognuno di noi esiste un profondo, innato, quasi inesprimibile desiderio di trovare questa voce nella vita. “Quando sei ispirato da un grande proposito, da un progetto straordinario, tutti i tuoi pensieri valicano i loro confini. La mente trascende i propri limiti, la consapevolezza si espande in ogni direzione e ti ritrovi in un mondo nuovo, grande e meraviglioso”.7 Questa frase espressa nello Yoga Sutras di Pantanjali8 sintetizza in modo chiarissimo il significato di voce. Nel momento in cui, infatti, ci sentiremo parte integrante nel progetto in cui lavoreremo o più in generale nella situazione in cui vivremo, saremo di fronte alla nostra voce.

Scopri la tua voce La voce risiede in noi fin dalla nascita. Alla nascita abbiamo ricevuto doni magnifici come talento, capacità, privilegi, intelligenza, opportunità, che nessuno potrebbe utilizzare se non attraverso la propria determinazione e propri sforzi. I tre doni più importanti sono:

La libertà e il poter di scelta, Le leggi naturali o principi, Le quattro intelligenze/capacità.

La libertà di scelta

Il potere di scegliere è il nostro dono più grande. L’essenza dell’uomo sta nella capacità d’indirizzare la nostra vita verso il percorso che vogliamo. Il potere di scegliere la direzione della nostra vita permette rinnovamento, di cambiare il futuro e di influenzare significativamente il resto dell’universo. La libertà di scelta è il dono che permette di utilizzare tutte le altre doti, che permette d’innalzare la nostra vita a livelli sempre più alti. Il potere di scelta significa che non siamo solamente un prodotto del nostro passato o dei nostri geni; non siamo un prodotto di come ci trattano gli altri. Veniamo, indiscutibilmente, influenzati ma non determinati. Siamo noi ad autodeterminarci attraverso le nostre scelte. “C’è uno spazio tra stimolo e risposta. In quello spazio risiedono la nostra libertà e il nostro potere di scegliere la nostra risposta. In quelle scelte risiedono la nostra crescita e la nostra felicità.” L’ampiezza dello spazio tra stimolo e risposta è determinata, in larga misura, dalla nostra eredità genetica o biologica, dalla nostra educazione e dalle circostanze del momento.

7 Stephen Covey L’ottava regola. Dall’efficacia all’efficienza Franco Angeli 2005

8 Verso il 500 A.C., Patanjali compilò nei Yoga Sutras, tutta la conoscenza esistente sullo Yoga, testo basilare

riconosciuto unanimamente da tutte le scuole di yoga. Gli Yoga Sutras sono la base del Raja Yoga. Lo Yoga di

Patanjali costituisce quello che possiamo chiamare lo yoga classico, sistematico, un preciso insieme di regole

pratiche d’accordo con i principi metafísici dello Samkhya.

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“Il non notare l’esistenza dello spazio tra stimolo e risposta uccide la nostra capacità di cambiare. Infatti, l’insieme delle cose che pensiamo e che facciamo è limitata da ciò che non riusciamo a notare. E poiché non riusciamo a notare ciò che non riusciamo a notare, possiamo fare ben poco per cambiare, fare al momento in cui notiamo come non notare plasmi pensieri e azioni”. Indifferentemente da cosa sia accaduto, cosa stia accadendo, o accadrà, c’è uno spazio tra gli eventi che circondano la vita e la nostra risposta. Questo spazio rappresenta il nostro potere di scegliere la nostra risposta a qualsiasi situazione.

Le leggi naturali o principi

Vivere nel rispetto dei principi o leggi naturali, significa avere il dono della saggezza. I principi sono universali, in altre parole trascendono la cultura e la geografia. Essi sono anche senza tempo, non cambiano mai, principi quali equità, bontà, rispetto, onestà, coerenza. Sono inoltre indiscutibili, ossia sono autoevidenti, ad esempio senza lealtà non si può ottenere una fiducia duratura. E’ una legge naturale. Il dominio delle leggi naturali è l’autorità morale, in altre parole l’uso della nostra libertà e del potere di scegliere nel rispetto dei principi.

Le quattro intelligenze/capacità della nostra natura

A quattro parti del nostro corpo che consistono in corpo, mente, cuore e spirito, corrispondono quattro intelligenze che ognuno di noi possiede: l’intelligenza fisica o del corpo, l’intelligenza mentale, l’intelligenza emotiva e l’intelligenza spirituale. Queste intelligenze rappresentano il terzo dono. L’intelligenza mentale è la nostra capacità di analizzare, ragionare, pensare in maniera astratta, usare il linguaggio, visualizzare e comprendere. L’intelligenza fisica, del corpo, è un tipo d’intelligenza di cui siamo implicitamente consapevoli. Basta pensare a quello che fa il nostro corpo senza nessuno sforzo cosciente. Fa funzionare il sistema circolatorio, nervoso, respiratorio e altri sistemi vitali. L’intelligenza emotiva è la conoscenza di sé, l’autoconsapevolezza, la sensibilità sociale, l’empatia e l’abilità di comunicare efficacemente con gli altri. E’ capire quando è il momento giusto, interagire socialmente in maniera appropriata ed esprimere e rispettare le differenze. Per raggiungere alti livelli in ogni lavoro, in ogni campo, la competenza emotiva è due volte più importante della pura capacità cognitiva. Per ottenere il successo ai massimi livelli, nelle posizioni di leadership, la competenza emotiva rappresenta un vantaggio assoluto. L’intelligenza spirituale è fondamentale perché indica la direzione alle altre tre. L’intelligenza spirituale rappresenta il nostro anelito verso il senso delle cose e verso un legame con l’infinito.

Esprimi la tua voce Tutti gli individui che hanno realizzato grandi cose hanno ampliato le quattro intelligenze. In particolare, le manifestazioni di queste intelligenze sono: per quella mentale la visione, per quella fisica la disciplina, per quella emotiva la passione, per quella spirituale la coscienza. Queste quattro manifestazioni rappresentano il modo più nobile in cui esprimiamo la nostra voce.

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Visione significa vedere con gli occhi della mente ciò che è possibile realizzare nelle persone, nei progetti, nelle cause e nelle imprese. La visione rappresenta i desideri, i sogni, le speranze, gli obiettivi e i progetti. Questi sogni non sono solo fantasie ma rappresentano la realtà non ancora trasportata nella sfera materiale. Albert Einstein disse: “L’immaginazione è più importante della conoscenza”. Visione è soprattutto scoprire e ampliare il modo in cui vediamo gli altri, li affermiamo, crediamo in loro e li aiutiamo a realizzare il loro potenziale, li aiutiamo a trovare la loro voce. Disciplina significa affrontare lo sforzo di trasformare la visione in realtà. E’ avere a che fare con la dura, pragmatica e brutale realtà e fare ciò che è necessario per far accadere le cose. La disciplina emerge quando alla visione si unisce l’impegno. Riconosce lo stato delle cose così com’è. La passione è il fuoco, il desiderio, la forza della convinzione e lo slancio che incoraggia alla disciplina nel realizzare la visione. La passione viene dal cuore e si manifesta attraverso l’ottimismo, il fervore, il coinvolgimento emotivo e la determinazione. Aristotele disse “Dove convergono il talento e il bisogno del mondo, lì è la vostra vocazione”. Lì è la nostra voce. La coscienza è l’intima consapevolezza morale di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, lo stimolo verso significato e contributo. Immanuel Kant disse “Due cose non smettono mai di stupirmi: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. La coscienza è la legge morale dentro di noi. I migliori leader agiscono su quattro dimensioni: visione, realtà, etica e coraggio. Sono le quattro intelligenze, le quattro forme di percezione, i linguaggi della comunicazione, indispensabili per ottenere risultati significativi e duraturi. Il leader che possiede una visione pensa alla grande, pensa in modo nuovo, pensa guardando avanti e, cosa più importante, è a contatto con la struttura profonda della coscienza umana e del potenziale creativo.

Ispira gli alti a trovare la loro Ispira gli altri trovare la loro voce significa che solo lavorando e lottando per risolvere le sfide e i propri problemi personali è possibile aumentare la nostra influenza nel privato e nell’organizzazione. La decisione di ispirare gli altri a trovare la loro voce ci porta ai quattro problemi cronici delle aziende: diffidenza, assenza di visione e di valori condivisi, disallineamento e delegittimazione. Chiunque di noi abbia trovato la sua voce ha il potere di riscrivere il software negativo9 dell’età industriale per la propria azienda. Questo processo individua quattro ruoli che diventano l’antidoto ai quattro problemi aziendali. Si tratta della manifestazione positiva di corpo, cuore, mente e spirito10 (vedi figura 3).

9 Il software negativo dell’età industriale per un’azienda è rappresentato dal capo, dalle regole, dall’efficienza e

dal controllo dell’azienda stessa. 10

Secondo Covey gli esseri umani hanno quattro dimensioni: corpo, mente cuore e spirito. Esse rappresentano i

quattro bisogni di ogni persona: vivere, amare, imparare e lasciare un’eredità. La nuova era del knowledge

worker è fondata proprio su questo paradigma ovvero della persona a tutto tondo.

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La giusta esternazione delle dimensioni conduce alla soluzione dei problemi cronici:

Dove c’è diffidenza ci concentriamo sull’essere un modello di lealtà per creare fiducia (spirito);

Dove non c’è una visione o dei valori condivisi, ci concentriamo sul trovare la strada per costruire una visione e un insieme di valori comuni (mente);

Dove c’è disallineamento, ci concentriamo sull’allineamento di obiettivi, strutture, sistemi e processi per favorire e alimentare la legittimazione di persone e cultura per servire visione e valori (corpo);

Dove c’è delegittimazione, ci concentriamo sulla legittimazione di individui e gruppi a livello di progetto di lavoro (cuore).

Questi rappresentano i quattro ruoli della leadership: Essere un modello (coscienza); Trovare la strada (visione); Allineare (disciplina); Legittimare (passione).

Il processo di ispirare gli altri a trovare la loro voce può essere riassunto in due parole: focalizzazione ed esecuzione. La focalizzazione racchiude i ruoli dell’essere un modello (modeling) e trovare la strada (pathfinding). L’esecuzione include i ruoli di allineare (aligning) e legittimare (empowering).

Focalizzazione Essere un modello è lo spirito e il centro di ogni sforzo della leadership. Inizia col trovare la voce attraverso visione, disciplina, passione e coscienza. Essere un modello in queste caratteristiche della leadership personale valorizza e cambia l’essenza degli

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altri tre ruoli. Il modeling non è un lavoro individuale, ma di squadra. Quando una squadra si basa sulla forza di ogni individuo e si organizza in modo da compensare le debolezze individuali, lì c’è il vero potere dell’azienda. Essere un modello significa quindi pensare in termini di squadra complementare, dove ogni membro compensa le debolezze degli altri, nessuno possiede tutte le qualità e pochissime persone possono eccellere in ogni ruolo. Il rispetto reciproco diventa un imperativo morale. Essere un modello significa vivere le sette regole per aver successo (S. Covey).

Regola 1 ~ Sii proattivo Significa riconoscere di essere responsabili delle nostre scelte e che la nostra libertà di farlo si basa su principi e valori piuttosto che su umori o situazioni.

Regola 2 ~ Comincia pensando alla fine Occorre avere chiaro nella mente un obiettivo, identificare principi, relazioni e scopi ai quali teniamo maggiormente e ci dedichiamo in tutto e per tutto.

Regola 3 ~ Dai precedenza alle priorità Vuol dire vivere ed essere guidati dai principi più importanti per noi e non dalle urgenze o dalle forze che premono dall’esterno.

Regola 4 ~ Pensa win/win Pensare vinco/vinci è una struttura della mente e del cuore che cerca il vantaggio e il rispetto reciproco in qualsiasi tipo d’interazione. E’ non pensare egoisticamente (vinco/perdi) o da martire (perdo/vinci). E’ pensare a “noi” anziché a “me”.

Regola 5 ~ Prima cerca di capire, poi di farti capire Significa ascoltare con l’intenzione di capire gli altri piuttosto che con l’intento di rispondere. In questo modo le opportunità di parlare apertamente e di essere capiti si presentano in maniera più semplice e naturale. Per cercare di capire occorre prendere in considerazione chi si ha davanti; per cercare di farsi capire occorre coraggio. L’efficacia sta nel giusto equilibrio e nella giusta integrazione di entrambe le cose.

Regola 6 ~ Sinergizza La sinergia è la terza alternativa, in altre parole non fare a modo mio, né a modo tuo, ma in un terzo modo che è migliore rispetto alla soluzione a cui saremmo arrivati entrambi per conto nostro. E’ il risultato a cui si arriva rispettando, valorizzando e perfino celebrando le differenze. E’ risolvere i problemi, cogliere le opportunità ed elaborare le differenze.

Regola 7 ~ Affila la lama Significa rinnovarci costantemente nelle quattro dimensioni della vita: fisica, sociale/emotiva, mentale e spirituale. E’ la regola che aumenta la nostra capacità di vivere efficacemente tutte le altre regole.

Trovare la strada verso una visione, dei valori e delle priorità strategiche comuni vuol dire unire in una sola voce, in un solo grande obiettivo, persone con punti di forza e modi di vedere il mondo diversi. Per trovare la strada abbiamo a disposizione alcune alternative. La prima alternativa consiste nell’annunciare una visione, dei valori e una strategia al gruppo senza un reale coinvolgimento da parte loro.

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La seconda alternativa è basata sul coinvolgimento esagerato in analisi e riunioni, affrontare discussioni infinite e fuori luogo, lavorare quasi partendo dal presupposto che non sia necessario mettere in atto alcuna strategia o legittimazione. La terza alternativa consiste non solo nel coinvolgere adeguatamente le persone nel processo di sviluppo di visione, missione e strategia, ma anche di riconoscere che se riusciamo a costruire una cultura della fiducia adeguatamente salda e se anche noi siamo leali, il potere di identificazione sarà proporzionale al potere di coinvolgimento. Solo attraverso la terza strategia saremo in grado di trovare la strada verso una visione comune. E’, infatti, proprio la visione che a livello personale si traduce nel trovare la strada a livello organizzativo. Mentre individualmente serve ad identificare ciò che reputiamo veramente importante e rilevante per noi stessi.

Esecuzione Il lavoro di allineamento (aligning) non finisce mai. Richiede sforzi e aggiustamenti costanti perché le numerose realtà coinvolte mutano costantemente. I sistemi, le strutture e i processi devono essere flessibili in modo da potere essere sempre tarati in base alla realtà che cambiano. Tuttavia devono fondarsi su principi immutabili. Con questa combinazione d’immutabilità flessibile è possibile creare un’azienda stabile e agile allo stesso tempo. Le aziende e le istituzioni allineate realmente fondate sui principi hanno un’autorità morale istituzionalizzata. Essa è la capacità istituzionale di produrre qualità affidandosi costantemente alle relazioni con gli stakeholder e focalizzandosi su efficienza, rapidità, flessibilità e buon posizionamento sul mercato. L’essenza del principio dell’allineamento sta nel partire dai risultati. L’efficacia è data dall’equilibrio tra la produzione di risultati desiderati e la capacità di produzione. In altre parole, le persone vogliono le uova d’oro, ma è la gallina a deporle. L’essenza dell’efficacia sta nell’ottenere i risultati desiderati in modo da poter ottenere ancora più risultati in futuro. La passione è il fuoco, l’entusiasmo e il coraggio che prova un individuo facendo qualcosa che gli piace portando a compimento un nobile fine, qualcosa che soddisfa i suoi bisogni più importanti. La radice della parola entusiasmo significa “Dio dentro di te”. La legittimazione (empowering) è esattamente la stessa cosa, solo che si tratta del contesto aziendale dei lavoratori che fanno quello che amano, in modo tale da soddisfare i loro bisogni più profondi e quelli essenziali dell’azienda. Le loro voci si integrano. Oggi la leadership è l’argomento più scottante. La new economy è basata sul lavoro intellettuale e knowledge work è sinonimo di persona. Il knowledge worker è il nostro più grande investimento finanziario. Il knowledge work di qualità ha un tale peso che, liberando il suo potenziale, offre alle aziende una straordinaria opportunità di creare altissimo valore. Dà valore aggiunto a tutti gli altri investimenti già fatti dall’azienda. I knowledge worker, infatti, sono il punto di connessione con tutti gli altri investimenti dell’azienda. Forniscono focalizzazione, creatività nell’utilizzo degli investimenti volti al miglior raggiungimento degli obiettivi dell’impresa. Il capitale intellettuale e sociale sono la chiave per dare valore aggiunto e ottimizzare tutti gli altri investimenti.

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E’ quindi di cruciale importanza concepire la legittimazione delle persone (allineare le voci) come il frutto dell’essere un modello, allineare e trovare la strada. Altrimenti le aziende citeranno e proclameranno la legittimazione ma non saranno in grado di metterla in pratica. Non avranno una visione comune, non avranno alcuna disciplina e certamente nessuna passione. Il motore interno per trovare la propria voce e ispirare gli altri trovare la loro, è alimentato da un fine dominante: servire i bisogni umani. Se non andiamo verso gli altri e se non soddisfiamo i loro bisogni, non espandiamo né sviluppiamo, come invece potremmo, la nostra libertà di scelta. Le nostre relazioni migliorano e diventano più profonde quando tutti insieme cerchiamo di servire la nostra famiglia, un’altra famiglia, un’organizzazione, una comunità o altri bisogni umani. Paradigmi Ricorda: Il modo in cui noi vediamo le cose, dipende dal modo in cui esse sono o dal modo in cui dovrebbero essere. I nostri atteggiamenti e comportamenti nascono proprio da queste credenze, il modo in cui vediamo le cose è la fonte del nostro modo di pensare e del nostro modo di agire. Tutto dipende dai nostri paradigmi (modello, modo di percepire, un prospetto o un sistema di riferimento) che in senso generale sono il modo in cui noi vediamo il mondo, non in termini fisici, ma nei termini di percepire, comprendere, interpretare. Per comprendere i paradigmi dobbiamo vederli come MAPPE, noi sappiamo che la mappa non è il territorio, essa è la rappresentazione di certi aspetti del territorio. Es: vogliamo raggiungere via Condotti a Roma ed utilizziamo una cartina sbagliata (per errore tipografico c’è scritto Roma ma in realtà è Firenze) naturalmente cercheremo invano di raggiungere la nostra destinazione e ciò provoca frustrazione.

o Potremmo lavorare sul comportamento: essere più attento, raddoppiare la velocità, ma il risultato è arrivare più in fretta nel posto sbagliato.

o Potremmo lavorare sull’atteggiamento: pensare in modo più positivo, ma anche in questo caso non arriveremmo alla nostra destinazione, anche se forse non ci importerebbe perché siamo felici.

Il punto è che ci siamo persi, il problema fondamentale non ha nulla a che vedere con comportamento e atteggiamento, ma con la cartina sbagliata. Il primo e più importante requisito è la precisione della mappa , ciascuno di noi ha nella propria testa moltissime mappe. Noi interpretiamo tutto quello che percepiamo attraverso queste mappe mentali, e presumiamo che il modo in cui vediamo le cose sia il modo in cui esse siano o in cui dovrebbero essere. Ricordi l’esercitazione fatta in aula sulla figura con i due volti? La conclusione è stata: due persone possono vedere la stessa cosa non trovarsi d’accordo, eppure avere entrambe ragione. Insegnamento

1) Quanto sia forte l’effetto del condizionamento sulle nostre modalità di percezione, sui nostri paradigmi. Se 10 secondi hanno quel tipo di impatto sul nostro modo di vedere le cose, che dire del condizionamento di una vita intera? Le influenze subite nella nostra vita dalla famiglia, scuola, colleghi etc..

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hanno contribuito a formare i nostri schemi mentali, i nostri paradigmi, le nostre MAPPE.

2) Dimostra anche che tali paradigmi, sono la fonte dei nostri atteggiamenti e comportamenti.

3) Con quanta forza i nostri paradigmi influenzino il modo di interagire con gli altri. Per quanto chiaramente e obiettivamente noi crediamo di vedere le cose, ci stiamo cominciando a rendere conto che gli altri vedono le stesse cose in modo diverso, in base al proprio punto di vista altrettanto chiaro e obiettivo.

Questo non significa che non esistono fatti, i fatti sono identici. E’ l’interpretazione di questi fatti che si basa su esperienze precedenti. Essere consapevoli dei nostri paradigmi, mappe o sistemi di riferimento, dal

modo in cui noi siamo stati influenzati dalla nostra esperienza. Se ne siamo consapevoli possiamo testarli nella realtà, prestare ascolto ad altre persone ed essere aperti alle loro percezioni, ottenendo un quadro più ampio e una visione molto più obiettiva. La più importante scoperta che si ottiene da questa dimostrazione è il “SALTO DEL PARADIGMA”, l’esperienza in cui qualcuno finalmente “vede” in modo diverso la figura. I nostri paradigmi (corretti o scorretti) sono la fonte dei nostri atteggiamenti e

comportamenti e in definitiva dei nostri rapporti con gli altri. Se vogliamo fare cambiamenti relativamente modesti nella nostra vita, forse possiamo focalizzarci in modo appropriato sui nostri atteggiamenti e comportamenti. Se vogliamo un cambiamento importante dobbiamo lavorare sui paradigmi fondanti. Concentrarsi solo sulla tecnica è come basare la propria vita scolastica esclusivamente sugli esami, in questo modo si è promossi con voti alti, ma se non si lavora non conosceremo mai veramente quanto abbiamo studiato ne potremo sviluppare una vera istruzione. Questo è vero anche nelle relazioni a lungo termine, se non vi è una profonda integrità ed una vera forza di carattere, le sfide della vita porteranno in superficie le motivazioni reali e il fallimento del rapporto prenderà il posto di un successo a breve termine.

“Quello che tu sei mi grida così forte nelle orecchie che non posso udire quel che dici” (Emerson).

Ciascun individuo ha il potere di influenzare la propria vita, questo è il riflesso costante di quello che l’uomo è realmente non di quello che appare o finge di essere. Il carattere etico (integrità, umiltà, fedeltà) si fonda sull’idea chiave che esistono dei principi che governano l’efficacia: leggi naturali, immutabili e indiscutibilmente presenti. I principi (sono il territorio) non sono valori (sono le mappe). Quando noi costruiamo il nostro sistema di valori su principi corretti, abbiamo la verità, ovvero la conoscenza delle cose come realmente sono. I principi sono le fondamenta, linee guida (per capirne l’evidenza considerate una vita basata sui loro opposti).

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Le mappe corrette esercitano un impatto enorme sulla nostra efficacia personale ed interpersonale, un impatto molto maggiore di qualsiasi nostro sforzo per cambiare i nostri atteggiamenti e comportamenti. PRINCIPI DI CRESCITA E CAMBIAMENTO: durante la nostra vita ci sono stadi successivi di crescita e di sviluppo. Ogni passo è importante e ciascuno richiede tempo (principio del processo nell’area della crescita fisica e fisiologica). Lo stesso è per le emozioni, per le relazioni umane e nel carattere. Quindi bisogna partire dai principi e rivedere i nostri paradigmi e poi impegnarsi nel processo di sviluppo, concentrare gli sforzi verso principi che procurino risultati a lungo termine. UN NUOVO LIVELLO DI PENSIERO Approccio all’efficacia personale ed interpersonale fondato sui principi, sul carattere e sul concetto INSIDE-OUT, iniziare da noi stessi, dai nostri paradigmi, dal nostro carattere e dalle nostre motivazioni. Prima successo privato poi successo pubblico, fare promesse a noi stessi e poi mantenerle, è inutile anteporre la personalità al carattere e cercare di migliorare le relazioni con gli altri senza migliorare noi stessi. Se seminiamo bene, raccogliamo bene. “ Noi non dobbiamo cessare di esplorare, e il fine di tutta la nostra esplorazione sarà quella di arrivare là dove cominciammo e di conoscere quel posto per la prima volta.” Il carattere è fatto di abitudini, regole che ci diamo nella quotidianità. Le abitudini, in quanto regole che ci siamo dati o che abbiamo appreso, possono essere imparate e disimparate, esso è un processo graduale che necessita di un enorme impegno. Ricorda: essere proattivi, non significa solo prendere l’iniziativa ma che come esseri umani noi siamo responsabili della nostra vita. Il nostro comportamento è funzione delle nostre decisioni, non delle condizioni in cui viviamo. Le persona proattive accettano questa responsabilità, non sono METEREOPATICHE, non si lasciano influenzare dal tempo sociale. I reattivi sono influenzati dall’ambiente sociale, dal tempo sociale, sono spinti dalle circostanze, dal loro ambiente. Le persone proattive sono spinte dai principi e dai valori, compiono scelte basate sui valori e si prendono la responsabilità di ciò. “A ferirci non è quello che ci succede ma la nostra reazione a quanto ci succede”.

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CONCLUSIONI Attraverso questa dispensa ho voluto sottolineare che le regole del lavoro stanno cambiando. Oggi siamo valutati e valutiamo secondo un nuovo criterio: non solo in base a quanto siamo intelligenti, preparati ed esperti, ma anche prendendo in considerazione in nostro modo di comportarci verso noi stessi e di trattare con gli altri. La nuova misura di eccellenza dà per scontato il possesso di capacità intellettuali e di conoscenze tecniche sufficienti a svolgere il nostro lavoro. Invece, punta principalmente su qualità personali (il “PLUS”), sulle cosiddette soft skills, come l’iniziativa e l’empatia, la flessibilità, la creatività, la capacità di adattarsi, la proattività, ecc... Per questo parliamo di “voce”. Solo quando saremo in grado di guardarci dentro, ma soprattutto quando vorremmo conoscere noi stessi, i nostri bisogni, le cose per noi più importanti, saremo in grado di esprimere la nostra voce. Desidero sottolineare, che tutti noi siamo dotati di talento. In ognuno di noi risiedono delle doti innate, che abbiamo fin dalla nascita, forse ancora non le conosciamo, ma stanno lì ad aspettare che noi le scopriamo. Quindi quasi come un fiore che sboccia in primavera, scopriamo tali doni o talenti che utilizzati appropriatamente ci portano a condurre una vita equilibrata, coerente ed efficace. Se seguiamo i principi sviluppiamo gradualmente autorità morale, le persone si fidano di noi e, se le rispettiamo davvero, se ne intuiamo il valore e il potenziale e le coinvolgiamo, possiamo arrivare a condividere una visione comune. Solo mettendo al di sopra di ogni interesse personale il servizio dei bisogni umani si arriverà al successo, proprio perché è questo il vero DNA del successo. Ricorda: NOI SIAMO GLI ARTEFICI DELLA NOSTRA VITA.

"Non puoi insegnare qualcosa a un uomo, puoi solo aiutarlo a scoprire dentro di sé" G. Galilei

BUON STUDIO e PROFICUO LAVORO. SIATE FELICI!