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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DEL MOLISE Dipartimento di Economia Gestione, Società e Istituzioni Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale Tesi di Laurea in Pedagogia Sociale PEDAGOGIA E LETTERATURA. DUE ORIZZONTI A CONFRONTO NEI CONTESTI SOCIALI. RELATORE: CANDIDATA: Chiar.mo Prof. Annarita MANOCCHIO Alberto CARLI Matr. 143686 __________________________________________________ Anno Accademico 2012/2013

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DEL MOLISE

Dipartimento di Economia Gestione, Società e Istituzioni

Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale

Tesi di Laurea in Pedagogia Sociale

“ PEDAGOGIA E LETTERATURA. DUE ORIZZONTI A CONFRONTO NEI CONTESTI

SOCIALI. ”

RELATORE: CANDIDATA: Chiar.mo Prof. Annarita MANOCCHIO Alberto CARLI Matr. 143686

__________________________________________________

Anno Accademico 2012/2013

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Considerazioni introduttive

Lo studio è stato per me

il rimedio principale contro

i travagli della vita; non avendo

io mai avuto un dispiacere

che non sia passato dopo un ora di lettura

C.L. De Montesquieu

Per l’avvio delle tematiche di seguito esposte pare, al pensiero di chi

scrive, quanto mai opportuno anteporre ad esse qualche

considerazione introduttiva.

Di lunga tradizione per l’avviamento del suo discorso e per l’azione

pratica conseguente maturata in termini moderni, la pedagogia ha

affermato, discusso, riorganizzato rapporti con la filosofia, con la

tematica religiosa, con la dimensione metafisica, e in assonanza

rispetto ai contesti sociali, con la letteratura in ogni sua specifica

coloritura, realizzando con esse tutte un collegamento privilegiato.

Con l’approfondirsi della sua attenzione nei confronti di tali

discipline emergenti, essa ha cercato di approfondire le proprie

angolature prospettiche rispetto all’ambiente, la cultura, i contesti e -

per entrare maggiormente nello specifico- i rapporti con il sé, quelli

interpersonali e quelli di sviluppo formativo individuale e sociale.

Una situazione quanto mai ricca per quanto riguarda il ventaglio

ampio di possibilità emergenti e per l’approfondimento della

tematica pedagogica si riscontra nel momento in cui la pedagogia

prende contatto con la letteratura. Ma quali sono gli elementi che

legano la pedagogia alla letteratura? E in essa, quale ruolo riveste il

genere autobiografico?

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Nel primo capitolo del lavoro e con il contributo prezioso di

importanti studiosi, si sono forniti spunti riflessivi- introduttivi che

hanno poi fatto da anticamera a nuove e più specifiche domande

trattate nel secondo capitolo, relative alla pedagogia nella sua

dimensione letteraria:Che ruolo può svolgere la letteratura nei

processi pedagogici? Quali sono le dimensioni comuni che legano

questi due mondi? Quali sono le possibili modalità di accostamento a

libro e lettura in ottica pedagogico-sociale?

Il terzo capitolo ha voluto analizzare il pensiero narrativo nel

contesto culturale aprendo molte finestre nei suoi vari generi,

compreso quello autobiografico, attraverso le riflessioni su due

romanzi solo apparentemente molto diversi fra loro. Le sue

conclusioni dilatano nuovamente il focus di attenzione sul sociale e

sul ruolo coagulante della pedagogia nei vari contesti educativi.

Il quarto capitolo analizza il processo educativo e di cura di sé

attraverso lenti autobiografiche. In esso vengono analizzati i grandi

contributi tecnico-pratici di molti esperti che mettono in risalto come

la narrazione può essere realmente una componente essenziale

dell’esperienza sociale.

Il quinto ed ultimo capitolo riconduce ad omogeneità l’intera

trattazione analizzando la socialità nella sua dimensione unitaria, la

quale, prende aria proprio nei contesti educativi e lo fa grazie al

ruolo vitale e mai scontato della pedagogia nella contemporaneità del

vivere sociale. La pedagogia nel suo fare formazione in un ottica di

vocazione alla socialità, può così divenire abolizione di qualunque

barriera artificiale.

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Capitolo 1

Fra letteratura e pedagogia sociale.

1.0 Elementi introduttivi.

L’istruzione è lo sviluppo

dello spirito soggettivo nel

tempo, esso scopre nel

soggetto leggi sempre più

proprie dei settori autonomi

dello spirito obiettivo e perciò

la pedagogia costituisce quasi

l’embriologia dello spirito.

Sergej Hessen

I contenuti e i confini della ricerca in pedagogia sociale sono

continuamente interessati da rielaborazioni e revisioni dovute al rapido

mutare delle variabili sociali, economiche, politiche e culturali.

Tutto ciò apre uno spazio di riflessione quanto mai ampio e

complesso, mettendo in evidenza le nuove esigenze di formazione

proprie della società contemporanea.

Ecco, dunque, che alcuni tra gli oggetti privilegiati di indagine della

pedagogia sociale sono identificabili nelle valenze educative delle

diverse istituzioni sociali (famiglia, scuola, università, lavoro, servizi) e

nella progettazione di modalità opportune di intervento finalizzate alla

promozione del benessere personale e sociale e, di conseguenza, alla

prevenzione del disagio.

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Nello specifico, tra le diverse analisi in corso sono oggetto di

approfondimento tematiche quali l’educazione alla politica, l’importanza

del terzo settore (associazioni, volontariato, cooperative sociali),

l’individuazione di nuovi servizi sociali e di nuove dimensioni

professionali nell’ambito educativo.

Si prospetta così una pedagogia sociale sociologicamente sensibile

perché attenta ai cambiamenti della società e pedagogicamente

connotata, ossia carica di significati educativi per incrementare spazi di

azione sempre più efficaci ed efficienti1.

In particolare, la pedagogia sociale prendendo atto del concreto e

articolato procedere storico di una data società, ha come obiettivo quello

di studiare progetti educativi riguardanti l’andamento della comunità

sociale, le singole istituzioni educative, il ruolo e le funzioni dei soggetti

in esse agenti: così operando, si trova ad interpretare le esigenze sociali

per offrire un servizio alle persone tutte.

Come afferma Mencarelli, la pedagogia sociale, a partire dagli anni

’70, è stata “sollecitata dalle pressanti richieste della società” al fine di

riuscire a far fronte, inizialmente, ai problemi relativi all’emarginazione,

al disagio, all’analfabetismo e, in un secondo momento, sviluppando

specularmente il concetto di educazione permanente, il quale si è

proposto sin dall’inizio come una vasta impresa di promozione sociale.

La pedagogia sociale, dunque, può essere considerata la risposta ad una

vasta e differenziata quantità di bisogni, consapevoli o inconsapevoli,

che hanno tutti il loro asse portante nel diritto alla formazione dei

soggetti2.

1 Cfr. L. SANTELLI BECCEGATO, Pedagogia sociale, Brescia, La Scuola, 2001, p. 107. 2 Cfr. M. MENCARELLI, Il discorso pedagogico in Italia (1945-1985). Problemi e termini del dibattito, Quaderni dell’Istituto di Pedagogia, Facoltà di Magistero dell’Università di Siena, 1987, p. 151.

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Già nel 1968 Aldo Agazzi scriveva che, relativamente all’educazione,

si sono fissati alcuni nuovi orientamenti tra i quali i più importanti

possono essere ricondotti ai concetti di società educante e di educazione

permanente, per cui è corretto riflettere su che cosa la teoria e la prassi

educativa potrebbero fare per la società, ma allo stesso tempo e, proprio

a ragione di ciò, pure che cosa la società dovrebbe fare per

l’educazione3.

La società può essere educatrice ed educante, fondandosi su un

orientamento democratico che dovrebbe attraversare sistematicamente e

sinergicamente tutte le sue istituzioni di cui è responsabile, ossia la

famiglia, la scuola, la religione, gli organi legislativi, i mass-media, i

servizi sociali, le associazioni di vario genere, ecc.

Alla luce di ciò, la pedagogia sociale diviene strumento di riflessione

per analizzare e studiare le strutture e i processi educativi collegati con la

socializzazione e la crescita della persona nei vari contesti in cui si trova

inserita sin dalla sua nascita.

La pedagogia sociale mette in rilievo la finalità pratica della ricerca

pedagogica: il pedagogista sociale, prendendo atto delle diverse realtà

sociali, ne percepisce i bisogni e propone piani di azione da attuare al

loro interno. Così operando, si va ad incontrare, a confrontare o anche a

scontrare con il complesso mondo delle politiche sociali, dal quale

derivano poi determinati stili di organizzazione societaria.

Ecco allora i suoi obiettivi principali: educare, attraverso le istituzioni,

le persone alla socialità, alla responsabilità, alla solidarietà4, ma anche

sensibilizzare gli stessi organi istituzionali e chi ne è a capo.

3 Cfr. A. AGAZZI, Problematiche attuali della pedagogia e lineamenti di pedagogia sociale, Brescia, La Scuola, 1968. 4 Cfr. D. IZZO, Manuale di pedagogia sociale, Bologna, Clueb, 1997, pp. 13-24.

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Secondo le riflessioni di chi scrive una funzione fondamentale la

svolge la comunicazione sociale alla quale giustamente si riconosce un

ruolo strategico per assicurare la dovuta informazione sulle risposte ai

problemi dei cittadini e per favorire l’effettiva partecipazione attiva.

Il nesso tra bisogni educativi e dinamiche sociali mai come oggi ha

costantemente bisogno di essere chiarito. Il territorio è visto non solo

come elemento portatore di richieste di aiuto, ma anche come presidio

educativo e formativo, carico di risorse da convogliare in modo

adeguato.

Le possibili aree di intervento in ambito comunicativo si aggiornano

quotidianamente a partire dall’analisi delle principali agenzie educative:

le famiglie, la scuola, le università, i servizi sociali, l’associazionismo, il

volontariato, ecc.

Fare cultura significa dunque “dare un esempio”,” mettere dei segni”,

“dare risalto.” Notevole come genere è in tal senso la comunicazione

sociale in “forma scritta” e mi riferisco, nello specifico, ai racconti

sociali e alle biografie di vita.

A tale proposito mi par doveroso citare due maestri che hanno avuto

successi straordinari con questa tipologia di letteratura: Giuseppe

Pontiggia,Nicola Lecca.

Il primo tematizza nel suo romanzo5 una relazione particolare tra

padre e figlio disabile; il secondo autore6 si appassiona nel raccontarci le

vicende umane di un orfano che con animo candido è alla ricerca della

sua realizzazione in una Londra moderna fatta di logiche piramidali.

5 G.PONTIGGIA, Nati due volte, Milano, Arnoldo Mondadori Editore,2000. 6 N.LECCA, La piramide del caffè,Milano, Arnoldo Mondadori Editore,2013.

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Ma i racconti sociali non sono “demanio esclusivo” dei romanzieri.

Negli ultimi anni sono stati attivati molti laboratori di scrittura,7

all’interno d’essi, gli utenti dei servizi sociosanitari ed educativi, si

esprimono attraverso l’arte della scrittura, spesso affiancati dagli

operatori che svolgono il lavoro redazionale trascrivendo le storie

registrate e sistemando le biografie.

Entrambi gli esempi sono forme di espressione scritta molto efficaci al

fine di comunicare il vissuto delle persone.8

Ed è per tale motivo che risulta particolarmente chiaro come

“guardando nel profondo della vita di una comunità e dei suoi soggetti,

dei suoi dolori e delle sue aspirazioni, si può capire il mondo.”

Lo stesso Duccio Demetrio a tal proposito sostiene quanto segue:

“ Non si possono capire le tragedie che ci appaiono lontane, e per

questo ci lasciano a volte indifferenti, senza aver costruito, com’è

nell’autentica cultura popolare, un buon parametro di giudizio

artigianalmente formato in loco ed in proprio. Per questo abbiamo scelto

di analizzare le esperienze fatte nei laboratori di scrittura”. ( Demetrio,

2003).

7 L.DOZZA,L.CERROCCHI,Contesti educativi per il sociale. Approcci e strategie per il benessere individuale e di comunità, Trento, Centro Studi Erickson,2007,pp.81,82. 8 Si veda la rivista “BZ 1999” che ha pubblicato per anni delle storie di vita di persone con esperienze di migrazione , malattia psichica, emarginazione sociale nei nostri quartieri urbani.” Girasolidarietà” invece è una pubblicazione che raccoglie diverse testimonianze di persone disabili, raccolte sotto forma di interviste da vari operatori sociali e scolastici. Il progetto è stato realizzato all’interno del distretto sociale della Comunità Oltradige Bassa Atesina e affiancato da Duccio Demetrio.

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1.1 La pedagogia sociale come laboratorio di esperienza.

Anche se già sommariamente abbozzato è doveroso ribadire come la

pedagogia sociale nutra in sé la necessità di apporti mirati poiché se

costruita a tavolino si “delegittima”. La pedagogia sociale si costruisce

attraverso la grande lezione della ricerca esperienziale.

E attraverso l’esperienza diretta, il contatto, la relazione, preliminare a

qualsiasi progettazione che noi riusciamo ad entrare immediatamente

nello spirito migliore della pedagogia sociale presa nella sua grande

tradizione.

Chi fa pedagogia sociale si muove nella realtà quanto mai turbolenta

dei gruppi umani. Oggi è molto difficile riuscire ad ottenere delle

aggregazioni significative, anche se si fa pedagogia in carcere o

comunque in luoghi ben protetti e stabili c’è turbolenza individualistica

ovunque … persino a scuola. Ciò significa che in una certa misura

occorre sviluppare, in pedagogia sociale, una nuova attenzione per la

soggettività e per l’individualità.

E ormai terminato il tempo in cui si diceva: “ La pedagogia sociale si

occupa soltanto dei gruppi e delle comunità”. Occorre una pedagogia

sociale che, studiando in profondità i soggetti nelle loro differenze,

caratteristiche e motivazioni, tenti di ricostruire possibilità di

aggregazione sociale attorno degli obiettivi comuni. Per far questo si può

partire dallo studio degli individui, dalle storie di vita. La pedagogia

sociale passa così anche attraverso il laboratorio autobiografico dove

ragazzi, insegnanti, studenti, anziani ecc. hanno la possibilità di

raccontarsi scoprendo che “ le loro storie di vita” confrontate,hanno

tutte delle straordinarie corrispondenze e coincidenze.

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Il percorso autobiografico, quindi, enfatizza la soggettività e

l’individualità divenendo così un percorso di pedagogia sociale poiché si

consapevolizza come alcuni passaggi della nostra esistenza, alcuni stili

di pensiero, alcune modalità di essere, sono ricorrenti e condivisibili con

altri.

Far scaturire una socializzazione dal recupero della soggettività oggi,

mi sembra un passaggio obbligato.

1.2 Il genere autobiografico in pedagogia.

Da sempre l’autobiografia o narrazione di sé è un genere letterario

formativo e foriero di una nota retroazione sul soggetto scrivente.

Negli ultimi anni la riflessione pedagogica prima, e la prassi scolastica

dopo hanno sottolineato l’importanza e la fecondità di tale pratica.

In molti testi l’autobiografia, seppur affrontata con taglio

specificamente pedagogico, è spesso affiancata al genere letterario in

senso stretto9, prestandosi a possibili sovrapposizioni che possono

risultare ambigue ai fini educativi.

Per questo è doveroso affiancare la riflessione letteraria sul genere

comprovata anche da due esempi tratti da differenti autori alla

riflessione pedagogica; più per comprendere le differenze tra le

autobiografie che le similitudini.

9 Ad esempio,nel bel testo di FRANCO CAMBI, L’autobiografia come metodo formativo, Roma-Bari, Laterza, 2002.

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Per capire il particolare statuto attuale dell’ autobiografia sono molto

utili le considerazioni del sociologo Zygmunt Bauman nel suo testo

recente La società individualizzata10.

Nella prefazione del testo, intitolato “ Vite raccontate e storie vissute”

l’autore si interroga sulla duplicità dello scavo frenetico nel privato dei

singoli tracciando un disegno perverso circa quello a cui potrebbe

portare un insistere troppo acceso sulla dimensione individuale della

vita. Egli è convinto che la storia narrata della propria vita è volta a “fare

senso”, a creare ragioni, giustificazioni e modificazioni. Non a caso egli

dice:

“Si vive la vita come una storia ancora da raccontare, ma il modo in

cui deve essere costruita la storia che si spera di raccontare determina la

tecnica con la quale si dipana il filo della vita.”11

Tale osservazione anticipa molte delle tematiche che saranno

affrontate in ambito pedagogico; vi è un doppio filo che lega narrazione

e vita, legame che si struttura poi come influenza e condizionamento12 .

Uno dei nodi concettuali lo troviamo fra le specificità

dell’autobiografia formativa e quelle dell’autobiografia letteraria, ossia,

la possibilità di auto dirigersi e agire magari modificando le regole nel

campo che maggiormente sta a cuore, sia esso quello letterario, sia esso

quello reale.

Bauman riassume: “ Le storie raccontate ai nostri giorni hanno la

caratteristica peculiare di articolare le vite individuali in un modo che

10 ZYGMUNT BAUMAN, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, BOLOGNA, IL MULINO 2001. Alcuni temi presenti in questo testo saranno ripresi dall’autore nei suoi lavori successivi, come: Modernità liquida, Roma- Bari, Laterza 2006. 11 Z. BAUMAN, La società individualizzata, cit. p. 15. 12 Si potrebbe qui parlare di limite auto-imposto dove, per contro, THEODOR WIESENGRUND ADORNO afferma: “ La vera libertà non sta nello scegliere fra bianco o nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.”

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esclude o sopprime la possibilità di individuare i nessi che collegano il

destino del singolo ai modi e ai mezzi con i quali funziona la società nel

suo complesso”13.

Subito dopo la riflessione si sposta sul problema dell’incertezza, della

precarietà che, invece di offrire nuove alternative le riduce, e non le

annulla, prosciugando l’unicità e la varietà delle storie come se

impossibilità descrittive differenziate le rendesse prive di reali

possibilità. Al fine di arginare tale pericolo il sociologo, secondo il

pensiero di chi scrive, dovrebbe non far chiudere le narrazioni possibili;

in maniera tale che un vigile senso critico possa esercitarsi tanto sul

modo nel quale narriamo il nostro percorso esistenziale quanto sul modo

in cui lo viviamo e lo conduciamo. Ma il campo di fattibilità può essere

anche opposto, ovvero, partire dalla vita per arrivare alla narrazione.

“ La sociologia è anch’essa una storia, ma il messaggio di questa storia

particolare è che ci sono più modi di raccontare una storia di quanti ne

sogni il nostro narrare quotidiano, e ci sono più modi di vivere di quanti

ne suggerisca ciascuna delle storie che raccontiamo e a cui crediamo, e

che invece ci si propone come l’unica possibile14.”

Il focus è quindi portato sul possibile, ma ampliando l’orizzonte di

scelta; occorre necessariamente inserire l’elemento della cernita

personale, che vuol dire responsabilità e possibilità d’errore.

Questo problema della scelta e dell’attenzione che non può farsi forte

di schemi o di chiavi di lettura pregresse, sarà centrale nella riflessione

letteraria e pedagogica. E necessario sottolineare come in questa

13 Z. BAUMAN, La società individualizzata, cit. p.16. 14 Ibi, p.22

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dimensione sociologica il riferimento alla narrazione è piuttosto

marginale.

Seguendo Bauman, infatti, il raccontarsi si presenta soprattutto come

pratica individuale, senza distinguere i mezzi utilizzati per farlo. In

effetti attualmente l’autobiografia può voler dire anche e soprattutto

internet15, come pure la forma diariale dei blog16, vuol dire la

performance di narrazione; e tali profondi mutamenti negli strumenti

utilizzati, modificano l’idea dell’identità del SE che si costruisce.

Già un autore come Philippe Lejeune, nel 1980 si rendeva

perfettamente conto di quanto la pratica autobiografica, sia di chi fa della

parola la sua professione, sia di chi trova in essa un rifugio o un luogo di

sosta momentanei, fosse influenzata dalla diffusione di nuove vie di

sviluppo. Il testo cui ci si riferisce è Je est un autre. L’autobiograpie, de

la Littérature aux médias17, opera nella quale trova spazio anche un

ultimo capitolo dedicato alle autobiografie di chi abitualmente non

scrive, implicando un’idea di democratizzazione di questa pratica, resa

più fruibile e facile grazie alla diffusione di mezzi più accessibili, in

particolare per la loro capillarità e per la mancanza di un utilizzo

prolungato e continuativo18.

15 SHERY TURKLE, Life on the screen. Identity in the Age of the internet, New York, Simon and Schuster, 1995. 16 La bibliografia al riguardo è quanto mai ampia; mi limito a segnalare lo sviluppo del blog verso la dimensione visuale, sia essa intesa come foto che come film. Siti quali flickr.com o youtube.com sono esemplificativi a questo riguardo e rispondono alla volontà di socializzare virtualmente ogni esperienza individuale. 17 PHILIPPE LEJEUNE, Je est un autre. L’autobiographie, de la littérature aux médias, Paris, Editions du Seuil, SEUIL 1980. 18 In questo senso è difficile non pensare al Rinascimento quale momento principe della diffusione della pratica autobiografica che travalica il confine letterario per farsi celebrazione dell’individualità in ogni circostanza, fenomeno legato anche alla forte valorizzazione dell’esempio personale quale strumento pedagogico e momento di verifica dei propri asserti. Cfr. L.M.BATKIN , Gli umanisti italiani .Stili di vita e di pensiero, e, L’idea di individualità nel Rinascimento italiano, entrambi, per l’edizione italiana, Roma-Bari, Laterza, 1990.

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1.3 L’insicurezza di un genere e il fine di un mezzo.

Senza potere o voler dare un affresco esaustivo delle differenti teorie

sul genere autobiografico vorrei soffermarmi su due aspetti specifici che

mi sembrano significativi per le loro conseguenze in ambiti differenti, tra

i quali in primis quello pedagogico.

Il primo aspetto è l’insicurezza che il genere autobiografico sembra

alimentare senza posa: quali sono i suoi limiti? Dove finisce il romanzo e

inizia il raccontarsi?

Se la “fantasia” fa bella mostra di se nelle pagine di molte

autobiografie, ciò le esclude dal loro stesso genere di appartenenza? E

soprattutto, quali fili legano questo genere alla costruzione ed all’idea di

se?

Una prima risposta sui limiti del genere autobiografico ce la fornisce,

in modo categorico, Philippe Lejeune ne, Il patto autobiografico19 , testo

volto, come i successivi dello stesso autore a “regolamentare” un

genere; l’oggetto del contendere potrà esser detto autobiografico, solo se

è:

“Racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria

esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in

particolare sulla storia della sua personalità20.” Nel già citato testo Je est

un autre, Lejeune, conscio di aver compiuto delle semplificazioni

indebite, corregge parzialmente la nozione di patto autobiografico, anche

se compie tale operazione unicamente nel senso del lettore.

Per contro, in un’ottica pedagogico-sociale la sua posizione trasforma

e cancella la differenziazione di genere, ponendo sotto la lente di 19 PHILIPPE LEJEUNE, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986. 20 Ibi, p.12.

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ingrandimento la nozione di scrittura di se: non si tratterebbe, quindi, di

comprendere quali testi e quali parametri ci debbano essere per poter far

rientrare un opera nel genere autobiografico; piuttosto, occorrerebbe

comprendere che ogni opera “intrinsecamente” può essere

autobiografica21

Ogni opera può quindi costruire, non già ripetere un nuovo se,

un’identità che sembra vacante nella vita; la contrapposizione, il forte

polarizzarsi di vita e scrittura si colora di precise differenze che

culminano nel ruolo costitutivo, essenziale della scrittura.

Dal lato della vita, possiamo vedere le discrepanze, le discontinuità, la

perdita di un soggetto e del suo nucleo fondante; da quello della

scrittura,la capacità di reinventare un’identità plasmandola senza

asperità.

Riassumendo, ma senza volontà riduttiva possiamo dire che il lettore

esiste e lo scrittore si crea lontano dalla sua vita scollegandosi dal suo

contesto, nel quale l’esperienza esistenziale lo radica. Nello stesso

tempo, però, la scrittura è creatrice di un’identità forte, di un più in un

meno, dimenticando o ponendo tra parentesi ciò che circonda l’autore.

Ciò ampia e riduce ad un tempo i limiti del genere autobiografico;

poiché, a differenza di Lejeune, non ci troviamo di fronte a criteri

formali che, a prescindere dal contenuto, dall’epoca e dagli intenti

21 Si veda a tal proposito il libro del professor ALBERTO CARLI ( ricercatore di Teoria e storia della letteratura per l’infanzia presso l’Università degli Studi del Molise), L’ispettore di Mineo Luigi Capuana fra letteratura per l’infanzia, scuola e università, pp.31,32. Nella sua parte introduttiva, con riferimento al Capuana dice testualmente: Buona parte delle opere di Capuana possono ancora oggi essere considerate, se intese nella loro ideale unità, quasi come un’autobiografia e un ritratto dei tempi vissuti dell’autore, trasfigurati dalla reinvenzione di fatti trascorsi, soprattutto quelli della giovinezza , ma anche dei vissuti di natura scolastica ( per quanto riguarda la letteratura giovanile realistica ), della natura profonda del suo pensiero critico ( com’è più che evidente, ad esempio, nella già ricordata vicenda fiabesca del Raccontafiabe ) e di carattere politico ( per quanto riguarda la letteratura rivolta agli adulti ). Come se l’autore in un modo o nell’altro, servendosi di un registro fantastico, piuttosto che di un registro realistico, avesse sempre e soltanto scritto di sé e del proprio mondo o, piuttosto e meglio ancora, del metro con cui egli lo intendeva. MB ( Monza, Brianza), Limina Mentis, 2011.

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dell’autore possano farci attribuire l’opera ad un genere piuttosto che ad

un altro; ma nello stesso tempo ( e proprio in funzione di un più ampio

spettro definitorio) l’autobiografia è definita con rigore nella sua più

pura essenza pedagogica e con strumenti adeguati ad ogni situazione22.

1.4 L’utilizzo di un mezzo nell’autobiografia.

Uno dei primi campi di ricerca che si è indirizzato all’autobiografia per

trovarvi uno strumento di comprensione dei propri fenomeni è stata la

sociologia che, già negli anni ’50 e ’60 con Franco Ferrarotti proponeva

uno studio puntuale delle autobiografie e delle interviste per monitorare

una realtà socio-economica. Tale tecnica è stata ripresa subito dopo in

ambito più prettamente educativo, tra gli altri anche da Luigi Borelli, in

una ricerca-azione dal titolo La situazione scolastica e culturale e gli

atteggiamenti verso l’educazione in un centro agricolo della ciociaria.

Una prima sistemazione è stata fatta successivamente da Peter Abbs in

Autobiography in Education nel 1974. Da allora la storia

dell’autobiografia in campo educativo si è legata a filo doppio con quella

del cognitivismo e con l’indirizzo specifico della psicologia culturale la

quale si occupa non di comportamento ( come quella analitica ) ma della

sua controparte intenzionale cioè l’azione.

22 Si rende quindi così evidente il circolo che partendo dalla scrittura di sé, giunge alla scrittura che del sé è propria, che lo caratterizza ma che,nello stesso tempo, dal sé è creata.

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E in tale contesto che risulta quanto mai opportuno menzionare

Jerome Bruner23 che con il suo testo La ricerca del significato. Per una

psicologia culturale24affronta le caratteristiche specifiche della

narrazione; ne elenca diverse, due delle quali fondamentali: innanzitutto

la narrazione è sequenziale, cioè è composta da singoli elementi che

acquistano senso unicamente grazie alla loro posizione nell’insieme della

trama.

Il rapporto così è duplice: Da un lato ogni singolo elemento ha senso

solo nella più ampia trama, dall’altro proprio questi singoli elementi

costituiscono e strutturano la trama. Il secondo aspetto evidenziato da

Bruner è che la narrazione “ può essere reale o immaginaria ,senza che

la sua forza come racconto abbia a soffrirne […].L’estraneità del

racconto rispetto alla realtà extralinguistica sottolinea il fatto che esso

possiede una struttura interna al discorso.”

Ciò apre al racconto anche la dimensione del possibile, almeno nel

senso di permettere nuove interpretazioni, nuovi significati del reale,

tanto di singoli eventi, quanto di interi percorsi esistenziali.

Il quarto capitolo di Bruner riguarda l’autobiografia e il sé: dove si

parla del concetto di Sé narratore ovvero un’identità in perpetua

trasformazione, poiché narrare non significa solo riflettere sul passato

ma anche aiutare il presente sulla scorta di esso, o immaginare

alternative al già dato.

23 Jerome Bruner, americano, nato nel 1915 a New York in una famiglia ebrea di origine polacca, ottenuto il dottorato di ricerca ad Harvard nel 1941, divenne docente nella stessa università nel 1952. Dal 1972 al 1979 ha insegnato all’università di Oxford in Inghilterra. Successivamente ha tenuto lezioni in più università americane. E uno dei fondatori del cognitivismo, ha condotto studi di psicologia generale, dello sviluppo e dell’educazione. 24 JEROME BRUNER, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Torino, Bollati Boringheri,1992.

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Così in breve esposta la posizione di Bruner , si può comprendere il

peso dato all’interpretazione come momento chiave della pratica

conoscitiva del sé e perché si possa parlare non di semplice accettazione

di tutto ciò che è raccontato, bensì di uno studio attento volto a

comprendere “ciò che la persona pensa di aver fatto, i motivi per cui

pensa di averlo fatto, in quali tipi di situazioni pensava di trovarsi e così

via25” , nella convinzione che tutte le forze sociali che circondano

l’individuo sono comunque acquisite dai singoli attraverso percorsi

individuali, i quali, narrativamente, giustificano una scelta rispetto ad

un’altra, un’opzione rispetto a tutte le altre possibili.

Dunque, anche se in maniera molto sfumata Bruner sottolinea

l’importanza della comprensione del rapporto causa-effetto, non tanto

perché se non fosse rispettato26, allora, la narrazione non ci direbbe nulla

sul soggetto che l’ha compiuta, quanto per la possibilità pedagogica di

comprendere quali rapporti di causalità il singolo ha messo in gioco, da

quali forze ha deciso di farsi attraversare e in quali parametri esso si

percepisce.

In Italia, come già detto in apertura, questo versante pedagogico che fa

dell’autobiografismo uno strumento di primo piano, sta avendo una

grande fioritura dipanandosi in prospettive differenti.

L’approccio specifico di Duccio Demetrio27 caratterizza tale pratica

come ricerca di qualità, centrata sul singolo- si è parlato di

25 JEROME BRUNER, La ricerca del…, Torino, Bollati Boringheri, 1992, p.116. 26 Per rispetto, non si intende altro che una coincidenza con i reali rapporti di causa-effetto osservabili. 27 Fondatore, tra l’altro, dell’attiva Università dell’autobiografia, ad Anghiari.

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micropedagogia28- che non pretende di avere, nelle conseguenze, alcun

approccio nomotetico ( ovvero osservazioni universalizzabili, in modo da

caratterizzare il soggetto osservato secondo vicinanze e continuità con

altri), bensì si assesta su un piano idiografico ( unicità dell’osservazione

e dei suoi risultati).

Tutte queste teorie, comunque, condividono una convinzione che

focalizza l’attenzione su una bi-locazione cognitiva. Con questa

espressione si intende la capacità che il soggetto “imbarcato” nell’atto

euristico di ricerca e scoperta di sé, anche in chiave di riprogettazione e

trasformazione del proprio vissuto ( passato ) e delle proprie scelte

future, dovrebbe possedere di acquisire una distanza creativa tra il sé

narrato e il sé narrante.

In sintesi possiamo dire che: fermo restando il carattere aperto,

parziale, continuamente ridiscusso dell’approccio autobiografico, ogni

soggetto è una storia da interpretare, aperta, significante nell’atto stesso

di auto-rappresentazione; che vuol dire cernita, riposizionamento.

Ma educare può voler dire anche disinnescare continuità negative,

ritornelli che chiudono il soggetto in spirali sempre più strette dalle quali

non può divincolarsi se non ridiscutendole e disinnescandole, ovvero

creando –grazie all’aiuto competente e attento dell’educatore29 - nuove

articolazioni di senso.

L’accettazione del vissuto, la coscienza che si è la propria memoria e

che la propria storia è scritta e, contemporaneamente, sempre riscritta 28 DUCCIO DEMETRIO, Micropedagogia. La ricerca qualitativa in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1992. 29 Cfr. C.MANNA, Modelli teorici del progetto autobiografico, Roma, Anicia, 2005.

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non può esimere il co-autore, l’educatore autobiografico dal collocare il

fine della relazione educativa nel ritorno alla vita del soggetto con un

bagaglio differente e capace di spenderlo.

Ecco che, allora, si palesa una possibile differenza con l’autobiografia

di chi scrive, ovvero quelle di autori letterari, e l’autobiografia in campo

educativo30 : per i primi l’autobiografia, la scrittura è un fine in se, non

semplicemente un mezzo per attingere ad altro; mentre sarebbe assai

rischioso affermare la medesima cosa in campo educativo.

Sia le autobiografie letterarie che quelle inscritte in percorsi auto-

educativi si rivelano significanti a prescindere dal loro rispecchiare

fedelmente la realtà, ma per motivi assai differenti: Le prime, opere

chiuse, possono dirsi autosufficienti perché in grado di costruire un

ordine nuovo ( presentandosi volutamente come differenti ); le seconde

possiedono la loro autosufficienza perché aprono un orizzonte di senso

altrimenti inaccessibile anche per il soggetto protagonista.

Ciò è punto di partenza per costruire una continuità positiva, una

percezione scevra di fraintendimenti delle relazioni di causa-effetto che

si diramano nella nostra realtà, non perché siano portatrici di un senso

univoco o già dato, ma poiché saranno ancora una volta interpretate e

collocate nella loro cornice sociale di appartenenza e costituiranno i

possibili fulcri già dati sui quali far leva per muoversi e per vivere nella

propria realtà; per realizzare e realizzarsi.

30 Naturalmente in campo pedagogico è meglio parlare di tecniche autobiografiche poiché i campi di applicazione sono vasti e differenziati.

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1.5 Le risorse della pedagogia sociale nei vari contesti educativi.

Le finalità pedagogico-sociali sono quelle di riconoscere e potenziare

le condizioni di ben-essere, di vivibilità, di apertura costante verso nuove

possibilità per una migliore convivenza e, allo stesso tempo, per

riconoscere e sostenere situazioni di disagio al fine di superarle.

In pratica, è necessario da una parte, teorizzare le possibilità per una

promozione e uno sviluppo sociale, dall’altra, creare condizioni adatte al

recupero e alla prevenzione31.

Ogni assetto istituzionale, dunque, può avere la fisionomia di società

educante. Proprio per questa forte responsabilità formativa che emerge,

bisognerebbe percepire ogni organo con modalità articolate che

richiamino il concetto di rete, nonché di sistema formativo integrato,

secondo una prospettiva di rigorosa coerenza organizzativa32.

La dimensione sociale è strettamente connessa nella struttura con

l’educazione, in quanto espressione della natura relazionale della

persona.

Quando la teoria dell’educazione ha come obiettivo lo studio dei vari

fattori ambientali che influiscono direttamente o indirettamente sulle

relazioni educative, essa diventa pedagogia sociale. La particolarità delle

riflessioni condotte dalla pedagogia sociale si riconduce anche alle

relazioni che essa ha con le altre scienze dell’educazione, grazie alle

31 Cfr. L. SANTELLI BECCEGATO, Pedagogia sociale,Brescia, La Scuola, pp.14-16. 32 Cfr. M. CORSI, Governare il cambiamento, Milano, Vita e Pensiero, 1993.

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quali non corre il rischio di ridursi a semplici elaborazioni tecniche-

metodologiche ed esalta la propria attenzione per l’uomo nel suo

divenire spazio-temporale.

Volgendo un breve sguardo all’indietro,( non soltanto nella visione

spazio-temporale ma anche nelle concettualizzazioni precedentemente

fatte ) si vede come negli anni sessanta e settanta si diede avvio in Italia

all’indagine sulla natura e sul significato della pedagogia sociale. A.

Agazzi, M. Mencarelli, C. Volpi, L. Santelli Beccegato e altri hanno

proposto interpretazioni e ambiti di ricerca tesi a fondare lo statuto

epistemologico della disciplina.

La pedagogia sociale, come teoria e prassi della società educante,

ossia studio sistematico e correlato delle strutture e dei modi di

funzionamento dei gruppi finalizzati ai processi formativi dell’uomo è la

definizione che propone Agazzi33; Mencarelli34 la considera una scienza

di sviluppo predisposta a promuovere e coordinare una politica educativa

che possa consentire alla società di proporsi come educante; per Volpi35

diviene lo studio dei rapporti educativi possibili in una data collettività,

ossia la riflessione sulle strutture e i processi connessi con la

socializzazione dell’individuo, la crescita della personalità umana nei

vari contesti in cui si trova progressivamente inserita e delle influenze

che si hanno sulla formazione dei suoi atteggiamenti.

Le riflessioni proposte da Tramma36 ci riferiscono che la pedagogia

sociale può essere intesa come un’area di riflessione per definizione

incerta, i cui ambiti variano con il rapido modificarsi delle variabili

economiche, politiche, culturali. 33 Cfr. A. AGAZZI, Problematiche attuali della pedagogia e…,Brescia La Scuola,1968. 34 Cfr. M. MENCARELLI, Il diritto dell’educazione. Frontiera della pedagogia sociale, Brescia, La Scuola, 1975. 35 Cfr. S. VOLPI, Crisi dell’educazione e pedagogia sociale, Teramo, Lisciani e Zampetti, 1978. 36 Cfr. S. TRAMMA, Pedagogia sociale, Milano, Guerini, 1999.

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Domenico Izzo individua quattro indirizzi di ricerca propri della

pedagogia sociale, quali: la riflessione sull’educazione in genere, quella

sull’educazione nella società, attraverso e per la società, quella sui casi di

necessità, nel senso sia del soccorso che della prevenzione, quella,

infine, come aiuto per formare l’uomo alla socialità, al senso di

appartenenza, alla responsabilità civile, al servizio verso gli altri37.

La Santelli Beccegato, inoltre, ritiene possibile assumere come oggetti

di studio della pedagogia sociale il significato educativo delle diverse

istituzioni sociali e la progettazione operativa per favorire in esse la

formazione permanente delle persone che ne fanno parte.

La pedagogia sociale rivolge, quindi, la sua attenzione alle molteplici

e complesse attività con finalità educative che sono riconoscibili nei

diversi spazi sociali e nelle diverse forme associative.

Nel momento in cui la pedagogia sociale si preoccupa dell’istituzione

familiare e dei servizi ad essa offerti, non può fare a meno di riferirsi ai

contributi della pedagogia della famiglia, la quale ha un ambito di ricerca

strettamente collegato a quello della pedagogia sociale: riflettere, infatti,

sulle questioni relative al divenire della famiglia e dei suoi membri

significa anche prendere in considerazione l’interazione permanente

della stessa con le altre istituzioni e con la società per avere il quadro

complessivo della situazione.

La pedagogia familiare, mentre si radica nel discorso pedagogico

generale, ma anche sociale, si definisce come originale ambito di studio

37 Cfr. D. IZZO, Manuale di pedagogia sociale, Bologna, Clueb,1997.

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del nascere e del divenire delle relazioni educative in precise circostanze

e in determinati contesti che interessano i componenti della famiglia.

In tal modo, l’indagine pedagogica sulla famiglia guarda a tutte le

possibili strutture familiari, si rivolge a tutti i coniugi e a tutti i genitori,

proponendo loro di farsi protagonisti attivi della loro particolare storia

familiare, interagendo con la scuola, con le altre istituzioni, con la

politica, al fine di portare avanti il proprio progetto educativo.

Inoltre, le ricerche in pedagogia familiare indagano gli orientamenti

educativi su cui si fondano le azioni dei membri delle famiglie e le loro

modalità dinamiche in interazione con l’ambiente circostante.

Riprendendo alcune definizioni offerte da Luigi Pati, quali possono

essere allora gli ambiti della riflessione pedagogico-sociale?

In modo sintetico, si possono definire attraverso lo studio delle

modalità, affinché il singolo sia messo in grado dal sistema sociale di

contribuire al processo di umanizzazione del medesimo. Nella prassi si

elaborano orientamenti pedagogico-educativi atti a formare l’uomo come

cittadino, coniuge, genitore, lavoratore, ecc. (educazione degli adulti,

scuole per genitori, progetti con particolari finalità educative da attuare

all’interno delle scuole di ogni ordine e grado).

Un secondo argomento è quello che studia i modi per favorire il

miglior adeguamento delle istituzioni alle esigenze di umanizzazione dei

soggetti che ne fanno parte. Le varie istituzioni (famiglia, scuola, extra-

scuola, governo, enti locali, servizi sociali, luoghi di lavoro, associazioni,

volontariato) vengono studiate in relazione a ciò che le stesse potrebbero

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fare per favorire i processi di formazione delle persone in esse presenti

(come ad esempio i consultori familiari, i centri di mediazione familiare,

i centri per le famiglie).

Un terzo campo può essere quello che si occupa delle variabili che

favoriscono nella società uno stile di funzionamento sempre più a misura

d’uomo. La politica, l’economia, la giurisprudenza sono analizzate

secondo la loro valenza e i loro effetti educativo-formativi sulle persone,

promuovendo anche momenti di confronto con gli esponenti dei vari

organi per attuare piani di azione efficaci ed efficienti38.

2 Capitolo.

38 Cfr. L. PATI, Dalla “pedagogia generale” alla “pedagogia sociale della famiglia”, in L. PATI (a cura di), Ricerca pedagogica ed educazione familiare. Studi in onore di Norberto Galli, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 219-253 e, sempre dello stesso Autore, La politica familiare nella prospettiva dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1995, pp. 11-12.

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La pedagogia nella sua dimensione letteraria.

2.0 Pedagogia ed educazione: Lineamenti teorici.

Mediante la cultura l’uomo

è in uno stato di costante

rivolta in cui, realizza e crea

i suoi propri valori,

in quanto la rivolta non è

un’invenzione intellettuale,

ma un’esperienza e un’azione

umana.

Albert Camus

Al fine di chiarire le premesse e gli elementi costitutivi della

pedagogia risulta fondamentale una semplificazione epistemologica e di

pensiero sulle categorie: educabilità, educazione e pedagogia.

Una spiegazione chiara viene fornita da Luigi Secco39 : << Parlare di

educazione significa riferirsi all’azione pratica, ovunque presente e

verificatasi in tutti i tempi, per cui la generazione più adulta si piega

verso la più giovane per aiutarla a sviluppare quella capacità di cui

ciascun uomo necessita per inserirsi utilmente nel contesto sociale del

tempo.[…] Questo il fine esplicito dell’educazione: aiutare ogni singolo

a pervenire alla capacità di fare da sé; di provvedere alle proprie

39 Professore ordinario (per quasi trent’anni) di pedagogia nelle università di Padova e Verona. Premio cultura 2009.

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necessità e all’inserimento nella società da protagonista e non da

succubo. In questa direzione oltre la famiglia, operano la scuola e tutte

quelle agenzie educative che nelle diverse culture e civiltà si organizzano

in funzione della promozione dell’autonomia nei più giovani.>>

Nel momento in cui l’educazione è l’atto pratico, << la pedagogia è il

discorso teoretico sull’educazione>>40.

Occorre però tener presente che l’educazione - come spiega sempre L.

Secco- è strettamente legata all’educabilità dell’uomo,<<intesa come la

capacità del soggetto di protrarsi all’attività educativa>>41.

Il rispetto del soggetto “educabile” nella sua originaria forza di farsi

attivo, protagonista del suo agire secondo la propria identità, nell’utilizzo

delle sue particolari e originali disposizioni, è l’approdo di un cammino

lungo e pieno di oscillazioni.

Oggi, pertanto, siamo giunti a concepire l’educabilità come qualità

propria del soggetto. D’altra parte sia la storia dell’educazione42 che la

storia della pedagogia43 testimoniano il diffuso convincimento

dell’educabilità dell’uomo.

40 L.SECCO, Dall’educabilità all’educazione, Morelli Editore, Verona,1990,pp.15-16. 41 Ibi,p.9. 42 “Incastonata in tale contesto storico spicca la figura di VINCENZO CUOCO (1770-1823) che occupò una posizione di assoluto rilievo nel panorama del pensiero pedagogico. La sua Antologia offre interessanti e profonde riflessioni, mettendo a fuoco questioni fondamentali che saranno affrontate dalla successiva saggistica pedagogica, storica e politica. Il titolo è: Il pensiero educativo e politico,La Nuova Italia Editrice, Firenze 1948 (PRIMA EDIZ. 1928). Nella III Parte intitolata: “Il problema educativo”egli inizia con: Un trattato sull’educazione p.143,passando attraverso la filosofia p.146, la virtù p.159, la musica p.186, le belle arti p.190, il giornalismo come mezzo di educazione p.201, l’educazione popolare p.211, fino ad arrivare nella sua conclusione all’uomo nel mondo p.221. 43 A proposito di storia sorge qui la “necessità morale” di menzionare un grande letterato come Gasparo Gozzi (1713-1786), esponente dell’illuminismo italiano. Ebbe egli un ruolo tutt’altro che marginale nel clima riformista del periodo arrivando a proporre nel suo filone pedagogico” l’allargamento dell’istruzione al popolo delle donne”.Il suo pensiero improntato su una politica di “educazione pubblica, laica e diretta a tutti” risulta estremamente evidente nel suo volume Ragionamenti e dialoghi di morale e di critica letteraria e sermoni , nella cui Prefazione, curata da Giovanni Mestica (datata 15 settembre 1877) si può leggere quanto segue:” Così gli scritti qui

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Lo stesso Pestalozzi44 ebbe a dire:<< In ogni facoltà umana è insito

l’impulso ad elevarsi dallo stato di stasi o d’inazione a quello di forza

sviluppata, che fintanto che non è sviluppata è in noi come germe di

forza e non propriamente come forza […]. L’occhio vuol vedere,

l’orecchio vuol sentire, il piede vuol camminare, la mano vuol prendere.

Ma anche il cuore vuol amare e credere, anche lo spirito vuol pensare

[…]. Analogamente scema la voglia di pensare se i mezzi con i quali si

vuol insegnare a pensare non corrispondono alla sua facoltà di pensiero

in maniera di attivarla>>.

Occorre quindi tener presente che l’educazione deve essere legata alla

fase evolutiva dell’individuo. Rousseau45 nell’ Emilio proclamava la

prefazione di ciascuna fase evolutiva: il bambino non vale meno del

fanciullo, dell’adolescente, dell’adulto; un comportamento si valuta,

dunque, secondo le forze del soggetto che le produce, secondo le sue

capacità.

Secondo Bohm46 (Winfried Bohm, professore emerito di Pedagogia

presso l’ Università di Wurzburg ), in Occidente la storia dell’educazione

e della Pedagogia mostrano per quasi 2500 anni la stessa struttura, il

passaggio dal disordine all’ordine47 all’inizio pensato come ordine

raccolti, mentre servono più che altro per modelli del ben dire, conferiscono anche ad arricchire i giovani di utili cognizioni, alle quali potranno per avventura darsi ulteriori esplicazioni e perfezionamenti […] essendo nei lavori del Gozzi spesso immedesimate la morale e la critica letteraria, le teorie e le applicazioni.”pp. VI,VII, G. Barbèra editore, Firenze, 1885. 44 E.PESTALOZZI, Il canto del cigno, La Nuova Italia,Firenze,1962, p.6. 45 J.J ROUSSEAU, Emilio, Sansoni, Firenze, 1950. 46 W. BOHM, Educazione e Pedagogia nel XXI secolo,in A. PORTERA, W .BOHM, L. SECCO, Educabilità, educazione e Pedagogia nella società complessa:lineamenti introduttivi, UTET, Torino, 2007, pp.42-47 47 Si veda a tal proposito la disquisizione sull’ argomento amabilmente bipolare nel libro di L. DE CRESCENZO, Ordine & Disordine, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996.

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cosmico, poi diventato ordine del creato ( nel cristianesimo ), e infine

mutato in ordine dato dalla ragione nell’età moderna.

In seguito alcuni studiosi come Darwin, Einstein e Nietzsche hanno

in qualche modo “ riformulato” l’ordine; e il concetto di base della

Pedagogia è divenuto il “bisogno” inteso come bisogni sociali e

individuali. Ecco allora che si inizia a parlare di pedagogia della persona

che vede nel personalismo pedagogico 48 di Flores D’Arcais il

massimo sviluppo.

2.1 Discorso pedagogico: Aspetti fondanti.

Luigi Secco49individua quelli che sono gli elementi fondanti del

discorso pedagogico:

A) Il fine educativo: per ogni persona sarà la propria e specifica

forma migliore di vita, la finalità da conseguire in educazione.

L’uomo è educato per diventare quello che può, e quindi quello

che deve diventare. Parliamo allora in termini formali di

educazione orientata a far raggiungere attraverso i singoli atti

educativi, quella forma migliore di vita di volta in volta possibile50

48 IL PERSONALISMO, corrente di pensiero incentrata sull’esistenza di persone libere e creatrici. La centralità della persona come valore assoluto è alla base del personalismo (che può essere distinto in due correnti: laica e cattolica).” L’alternativa radicale cui pone costantemente di fronte la pedagogia personalistica è quella tra l’avere e l’essere, che è anche tra l’essere e l’apparire”.( FLORES D’ARCAIS, Teorie pedagogiche, nel Nuovo dizionario di Pedagogia, p.1257). 49 L.SECCO, Dall’educabilità all’educazione. Riflessioni pedagogiche, in A.PORTERA, Educabilità, educazione e pedagogia, pp.18-28. 50 Si veda a tal proposito quell’Universo Parallelo” che sono i PNL ( programmazione neuro-linguistica) disciplina psicologica originariamente sviluppata da John Grinder e Richard Bandler.. Il

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ma sempre entro quella visione ultima dell’uomo cosciente e

responsabile delle sue scelte nell’ordine dei valori per cui l’uomo

è fatto e con cui si fa o, meglio, realizza in pienezza la sua

umanità.

B) I contenuti dell’educazione: l’educazione si avvale della cultura,

la quale va intesa innanzitutto nel suo aspetto socio-antropologico

come tutto ciò che è stato prodotto dall’uomo: usi, costumi,

tradizioni, mobilità di pensiero e di comportamento. I valori

rappresentano il distillato positivo della cultura e regnano sovrani

nella pedagogia, nel senso che si educa per i valori e con i valori.

C) Il metodo educativo: mentre in passato si utilizzava un metodo

logico, uguale per tutti, negli ultimi anni si è passati a un metodo

globale ed individuale che considera individuali ( età, genere,

bisogni, emozioni ). Il metodo passa da oggettivo a soggettivo.

D) I mezzi educativi: sono gli strumenti utilizzati per costruire il

progetto educativo. Vanno dalla penna alla televisione, ad

internet, alla lettura classica, moderna, autobiografica ai laboratori

… mezzi di comunicazione di massa la cui efficacia penetrativa

oltrepassa ogni altro veicolo.

primo è un linguista, il secondo un matematico e un terapeuta gestaltista. Hanno creato e messo a disposizione un punto di vista sistemico sul modo di duplicare ogni forma di umana eccellenza. Ad essi si sono ispirati i più noti speaker motivazionali come Anthony Robbins. Su questo tema cfr. A. ROBBINS, Come ottenere il meglio da sé e dagli altri, (Titolo originale: Unlimited power),Bompiani, Milano,2009. Risulta quanto mai doveroso nel suddetto contesto menzionare la figura del professor Fabrizio Giorgilli docente a contratto di attività didattica formale presso l’Università del Molise da sempre impegnato nel settore formativo. Insegnante di psicologia delle organizzazioni e del lavoro nel corso di Scienze del Servizio Sociale e in quello di Specialistica su “Psicologia del benessere e organizzazioni complesse”. Dal 1996-1997 Membro del Laboratorio permanente dei Formatori, presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Curatore in proposito di una quanto mai vasta e dettagliata letteratura. Si visiti ad es. a tal scopo il sito: http://www.formez.it/notizie/fabrizio-giorgilli-rilevanze-organizzative-roma-palinsesto-2013.html

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E) L’ ambiente: in pedagogia è impossibile trascurare gli apporti

dell’ambiente all’educazione protesa a valorizzare l’individuo con

la realtà che egli ha di fronte. L’educazione avviene sempre in

situazione ambientale. Potremo dire che si tratta di servirsi

dell’ambiente per imparare a vivere in esso; si dovrà giungere alla

capacità di fruire stimolazioni culturali dell’ambiente attraverso

l’esperienza del vivere a contatto, dell’essere dentro. Cultura e

ambiente sono chiaramente non fini dell’educazione ma mezzi.

Frabboni e Pinto Minerva individuano i tre poli coinvolti nel rapporto

educativo: il soggetto, la cultura, la società.51 Occuparsi della formazione

dell’individuo nel contesto culturale e sociale in cui esso è immerso, lo

svolgersi quindi dell’attività educativa, comporta sempre il collegamento

di elementi contrastanti sotto diversi aspetti.

Da una parte entrano in gioco le istanze della tradizione culturale

all’interno della quale il processo educativo si svolge; si tratta delle

istanze di conservazione, trasmissione e introiezione dei modelli valoriali

ed etici, delle forme di pensiero e di mentalità in cui una certa cosa si

sostanzia e si conosce. Dall’altra, sono in gioco le istanze sociali della

comunità dove si realizza il processo educativo. Occorre inoltre tener

presente che il rapporto educativo mette in gioco le attese del soggetto

della formazione.

Questo aspetto fa riferimento alla naturale indole dell’individuo che lo

spinge verso la piena ottimizzazione delle proprie risorse cognitive,

51 F. FRABBONI, F. PINTO MINERVA, Introduzione alla pedagogia generale, Laterza, Roma, 2003, pp.128-130.

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affettive, comunicative e relazionali. Ecco allora che il soggetto, la

cultura e la società si incontrano, si condizionano e si modificano

vicendevolmente stratificando complesse dinamiche di interdefinizione,

di cui gli stessi processi educativi sono contemporaneamente testimoni e

partecipi.

2.2 Lettura e letteratura nei processi pedagogici.

Chi sa leggere ,

si è costruito le basi

per la sua

realizzazione futura.

Bruno Rossi52

Nel contesto italiano è assai significativo l’impegno volto ad

accrescere e ad approfondire gli ambiti relativi alla pedagogia nella

lettura e nella letteratura come primaria fonte di formazione. Negli

ultimi anni, sì è oggettivamente vista fiorire e svilupparsi una forte

attenzione nei confronti della promozione alla lettura. Innumerevoli sono

state e sono le attività di sensibilizzazione dedicate a persone di ogni età

e, in modo specifico, alle nuove generazioni volte a sottolineare

52 www.fogliolapis.it

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l’importanza dei libri e soprattutto a diffondere la cultura del libro e la

passione nonché il piacere di leggere.53

Ampia è la letteratura critica che espone e rimarca l’importanza del

piacere di leggere e della sua produzione, dell’educazione alla lettura,

nelle sue dimensioni di gratuità ed intrattenimento, e della responsabilità

delle diverse agenzie educative che sono impegnate nella formazione del

lettore appassionato.

Non è necessariamente scontato che, parlando di educazione alla

lettura, l’attenzione peculiare ricada sulle due principali istituzioni

educative: la scuola e la biblioteca. Possiamo quindi affermare, per

amore dell’argomento, come già nel periodo che va dall’ Unità d’Italia (

1861 ) alla fine dell’Ottocento, l’attenzione al testo letterario è

prevalentemente focalizzata sulla sua funzione didattica; trattandosi di

un periodo storico in cui sono centrali la lotta all’analfabetismo e

l’accesso alla cultura scritta come veicolo di valori, modelli e messaggi

educativi.

Tale periodo storico -esteso poi al Novecento- è caratterizzato da

dinamismo scientifico, artistico, economico culturale e sociale; lì cresce

anche l’attenzione sulla riflessione pedagogica la quale si orienta poi

verso la centralità dell’individuo.

Tuttavia, ciò che all’inizio del XX secolo mina lo sviluppo della

letteratura, soprattutto quella per l’infanzia, è il pensiero di Benedetto

Croce secondo il quale l’arte non è mai vera arte << dal punto di vista

pedagogico a me sembra che difficilmente si possa dare in pascolo ai più

53 E utile qui citare un aforìsma degnamente intonato al contesto: “ Le passioni sono i soli oratori che persuadono sempre: il più semplice degli uomini che nutra una passione è più convincente del più eloquente che ne sia privo.” F. DE LA ROCHEFOUCAULD.

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giovani l’arte pura, che richiede troppa maturità di mente, troppo

esercizio di attenzione, troppe esperienze psicologiche per esser

gustata.>> 54. Di opposta opinione55 è chiaramente, il Capuana56 che nel

suo libro Cronache letterarie così testualmente scrive:

<< Non ho mai pensato che una fiaba o una novellina per bambini

potesse essere così diversa da una novella, diciamo, psicologica o pure di

soggetto paesano, o di un racconto di larghe proporzioni. Convinto che la

forma è tutto, o quasi, in un opera d’arte, mi sono ingegnato di dare alla

fiaba, alla novellina per bambini, alla novella psicologica paesana, al

racconto o al romanzo la loro natural forma, prestando attenzione anche

all’intimo organismo di ciascuna opera d’arte.>>

Ancora nel 1915, lo scrittore ribadiva la sua idea sulla libertà dell’arte

e dei suoi stili:57

<<” Credere che le diverse forme letterarie, i diversi generi letterari ,

come ancora si dice, siano alla mercè del capriccio individuale degli

scrittori, o per lo meno, dei genii che vi imprimono l’orma indelebile

della loro potenza creatrice, è una volgare convinzione che disconosce

l’organicità unita dello Spirito come arte. Mentre riconosciamo che tutte

le forme naturali hanno proceduto le une dalle altre, le une dopo le altre,

da potersi dire un'unica forma svolgentesi per intima virtù, per una

tensione o aspirazione delle forme più basse verso le superiori, perché

trattandosi dell’opera d’arte settaria non vogliamo riconoscere questa

54 B.CROCE, Luigi Capuana-Neera, 1912. 55 Nel senso “dilemmatico”del termine, ( dove l’argomentazione retorica procede per opposizioni nette e irriducibili ) tipicamente machiavelliano come figura caratteristica del suo stile. 56 A.CARLI, L’ispettore di Mineo Luigi Capuana fra letteratura…MB ( Monza, Brianza ) Limina Mentis, 2011, p.22. 57 Ibi,p.22.

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legge di unità, questa forza di organismo che forma in tutte le letterature

una sola letteratura?”>>.58

<< Senz’altro, Luigi Capuana afferma la natura artistica della migliore

letteratura per l’infanzia,quella in cui vive una forma narrativa

concretamente estetica, che esula dal mero pretesto informativo e

precettistico, non tradendo l’idea stessa di letteratura né escludendo, per

questo, la funzione più profondamente educativa delle prerogative di

genere>>.59

All’interno di questo quadro di lettura così intenso e particolareggiato,

la contemporaneità appare ora più che mai variegata di riflessioni che

concernono l’importanza pedagogica del leggere; nonché la rilevanza, la

complessità e il valore della relazione autore-testo-lettore, all’interno

della società odierna e dei mezzi che la contraddistinguono.

Per tali motivi non è possibile prescindere dalle premesse pedagogiche

che considerano la lettura come elemento di una scelta e di una

relazione educativa, caratterizzata da quelle dimensioni relazionali

-autonomia, dialogo e libertà- che creano il terreno comune con la

pedagogia sociale e la inseriscono nei vissuti significativi della persona

( e del suo Io più profondo ), in un libero e peculiare itinerario formativo.

58 Cfr. A.PELLIZZARI, Il pensiero e l’arte di Luigi Capuana, Napoli, Perrella,1919, p.33. 59 Ibi,p.22,23.

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2.3 Dimensioni comuni nel rapporto fra pedagogia e letteratura.

Ogni lettore , quando legge,

legge se stesso.

L’opera dello scrittore è soltanto

una specie di strumento ottico

che egli offre al lettore

per permettergli di discernere quello che,

senza libro,

non avrebbe forse visto in se stesso.

Marcel Proust.

Il discorso sinora affrontato ha voluto dare ragione della centralità nel

rapporto esistente fra libertà creativa della scrittura e autonomia del

percorso educativo ( ed interdipendente ) della persona.

Risulta quindi essenziale legittimare il rapporto con la letteratura in

termini di libertà, di crescita autonoma e di valorizzazione personale in

una pedagogia intesa come scienza che ricerca e discute intorno alla

natura dell’azione educativa nel suo complesso; azione connotata dalle

due fondamentali dimensioni di libertà e responsabilità nelle quali il

concetto di lettura diviene una sorta di “ammobiliamento della propria

biblioteca interiore” per una formazione volta alla promozione del

proprio essere in una dimensione che dia corpo e concretezza alla

categoria delle scelte.

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Da una libera e consapevole scelta può crearsi lo spazio della lettura,

luogo strutturato in maniera dialogica ( autore-testo, lettore-testo,

autore-lettore ) a partire da una ricerca di significati, da una spinta

ermeneutica ed interpretativa della realtà e dell’esistenza.

La progettualità della vita delle persone, ovvero la ricerca e la

costruzione di senso della propria esistenza, calata in un preciso contesto

storico,culturale e sociale, e la condivisione e partecipazione di tale

significazione con l’altro da sé, nella assunzione di responsabilità delle

proprie scelte, può configurarsi ed esprimersi attraverso la narrazione.

Lo spazio letterario e narrativo si definisce come “ spazio di dialogo,

cammino comune nella ricerca del significato dell’esistenza […] luogo

delle domande più radicali, ma anche delle visioni del mondo e delle

immagini dell’uomo più problematiche e dense di risonanza”.60

Appare così palesato il rapporto tra pedagogia e letteratura poiché il

discorso pedagogico è un discorso narrativo, in quanto scrittura comune

di esperienza personalmente significata e intenzionalmente testimoniata

all’altro da sé; da un protagonista che si propone come “protagonista”

cioè, autobiograficamente, come autore della propria esperienza, ma che

chiede, esige, l’ascolto, l’interpretazione, l’integrazione da parte

dell’altro, sentito come altro protagonista, altro autore di vita, di

significati e di valori, di progetti esistenziali.

60 A.M. BERNARDINIS, Narrazione e pedagogica. Appunti per una ricerca, in G. FLORES D’ACAIS, ( a cura di ), Pedagogie personalistiche c/o pedagogia della persona, Brescia, Editrice La Scuola, 1994, pp.28,29.

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2.4 Nuove modalità di accostamento a libro e lettura.

Leggendo,

calati nella logosfera del testo,

ci si può persino sentire,

occhi aperti,

immersi in un sogno

più vivo e più vero

della realtà circostante.

Ezio Raimondi.

Per una comprensione più ampia dell’aforisma introduttivo e per lo

“spasmodico” bisogno di chi scrive di evidenziare i concetti fondanti che

sono alla base del suo pensiero di grande filologo, saggista e critico

letterario verranno testualmente riportati due passaggi tratti dalla sua

opera Un’ etica del lettore:

<< Chi legge bene, scruta le parole nel profondo, le percepisce nella loro

costruzione, ne coglie le sfumature e le implicazioni, acquista il gusto

esatto del particolare e del dettaglio […]. Un buon lettore è colui che

riconosce e avvalora i particolari sapendo che in letteratura idee e

concetti generali non brillano se non irradiati dalla luce “solare” dei

dettagli.61

Il testo letterario può quindi esser definito “ gesto comunicativo” a

motivo di due caratteristiche fondamentali: da un lato l’idea che lo

61 E.RAIMONDI, Un’etica del lettore, Bologna, Il Mulino, 2007, p.31.

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scrivere dell’autore e il leggere del lettore siano azioni, gesti che

implicano in chi li compie sinceramente, la produzione di un

cambiamento, dall’altro l’idea che tale cambiamento sia prodotto in un

incontro, in una comunicazione che senza il minimo dubbio, la minima

titubanza, può esser definita “di anime”.

Ancora Raimondi:

<<La lettura non è mai un monologo ma l’incontro con un altro uomo,

che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda, […] la

solitudine diventa paradossalmente socievolezza, entro un rapporto certo

fragile come sono fragili tutti i rapporti intensi e non convenzionali, che

aspirano ad essere autentici.>>62

Promuovere seriamente la lettura63significa innanzi tutto creare le

condizioni favorevoli affinché si strutturi un approccio piacevole

all’attività di lettura stessa, è importante concentrarsi sulla creazione e

sulla promozione della motivazione al leggere, della formazione di un

lettore abituale e forte. La motivazione, per il lettore, rappresenta la forza

di orientare e dirigere un comportamento in maniera duratura e stabile:

Solo chi è veramente motivato a leggere si trasforma in “ lettore

permanente”.64

62 Ibi, p.13. 63 R.SIMONE, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari, Laterza,2000. 64 Si veda a tal proposito, e per amore dell’argomento, l’articolo “A due voci” di Angelo Villa e Ambrogio Cozzi, comparso nella rivista <<Pedagogika>> , anno XV, n°4, pp.96-99, il quale contiene le considerazioni di entrambi sul libro di A.FRANCHINI, Memorie di un venditore di libri, Venezia, Marsilio Editori,2011. Si riportano in parte e testualmente le riflessioni di taglio squisitamente pedagogico di entrambi: Angelo Villa << Un libro breve e piacevole che disegna con ironia un quadro della nostra situazione culturale. In primo piano ci sono le amare ed esilaranti dichiarazioni del “povero” Procolo, tutto intento a battere il territorio dell’Italia meridionale nel tentativo di piazzare qualche libro. Un “Don Chisciotte”che non ha perso il gusto di un umorismo sarcastico,

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Secondo Raffaele Simone staremmo vivendo nella cosiddetta “terza

fase culturale”65: La prima è dominata dalla scrittura, la seconda dalla

stampa, mentre in quella attuale si apprendono nuove forme di

acquisizione e di elaborazione della conoscenza66e se ne perdono delle

altre.

In questa terza fase, la conoscenza viene assimilata sempre più dai

mezzi di comunicazione, quelli di massa in particolare, che impongono il

predominio di una fase non alfabetica, e che producono mutamenti nei

processi di percezione e cognizione, poiché il fruitore per decifrarli e

leggerli deve attivare delle peculiari, e molto spesso, nuove competenze.

Per contro, il testo scritto,necessita di un impegno mentale maggiore,

di una vera e propria “visualizzazione immaginativa”, non producendo il

piacere “travolgente”, preconfezionato, derivante dal prodotto

multimediale.

Essendo i lettori abituati ad una lettura multisensoriale, faticheranno

dietro all’impostazione dei testi scritti, i quali possiedono, come detto,

un ritmo diverso e una sequenzialità logica che impone uno sguardo

lineare; diversamente dall’immediatezza, dalla velocità, e dalla

profondamente antiretorico, per quanto faccia un triste mestiere […]. Leggete,leggete, dunque! Appello, invocazione che, ragioni anagrafiche,mi permettono di indirizzare in particolare ai giovani, manco fossi Napolitano o Obama. Certo, i libri costano anche se molto meno di altri oggetti!>> Ambrogio Cozzi: <<Ironia e amarezza si mescolano in questo testo, dove si sa che il libro non è riducibile a merce, dove si cerca continuamente l’allargamento del mercato, essendo però sempre pronti alla disfatta, perché i libri non sono riducibili alla materia di cui sono fatti, eppure devono comunque stare sul mercato [… ]ne abbiamo di strada da fare. >> 65 R.SIMONE, La terza fase. Forme di sapere che… 66 E interessante notare come la cultura ellenica utilizzava, in base al contesto, due differenti accezioni per tradurre il sostantivo “conoscenza”: gnòsis ed epìgnosis. Il primo aveva il significato di “conoscenza” il secondo di “accurata conoscenza”. Potremo qui utilizzare un esempio per facilitarne maggiormente la comprensione: Parleremo di un “orologio”: nel primo caso si tratterà di gnòsis, ovvero conoscenza comune come quella derivante dal saperne “leggere” l’ora; nel secondo, utilizzando il sostantivo epìgnosis potremo riferirci a chi ( come l’orologiaio) ne conosce accuratamente ogni sua singola parte. Ed è qui che Bauman torna, con tutta la forza del suo pensiero, quando utilizza, in riferimento a cultura e società, il concetto di “liquidità”.

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possibilità di una lettura “a salti” proposta da un testo multimediale o

audiovisivo. Il moltiplicarsi di fonti comunicative e il loro lievitato

volume rischiano,quindi, di aumentare in maniera spropositata e caotica

la possibilità di venire a contatto con dati e informazioni.

Tale lievitazione della massa di notizie rischia di provocare uno

“stordimento” nell’individuo, e conseguentemente , un’incapacità di

selezione e di critica dei dati di cui egli entra in possesso. Nasce da qui la

necessità di “formare teste ben fatte”, a tal proposito Edgar Morin67

dice quanto segue:

<<Cosa significa una “testa ben piena” è chiaro: è una testa nella quale il

sapere è accumulato, ammucchiato, e non dispone di un principio di

selezione e di organizzazione che gli dia senso. Una “testa ben fatta”

significa che invece di accumulare il sapere è molto più importante

disporre allo stesso tempo di: 1° un’attitudine generale a porre e trattare i

problemi; 2° principi organizzatori che permettono di collegare i saperi e

di dare loro un senso.>>68

La capacità di interconnessione tra le conoscenze è l’esito più

immediato e produttivo di menti creative; tale interconnessione, inoltre, è

ciò che crea la possibilità di una continua rielaborazione dei saperi,

necessaria per una sempre ricorsiva e mai finita approssimazione alla

lettura e dunque alla conoscenza. Senza l’aspetto creativo questa

ininterrotta rielaborazione non sarà mai data e non ci potrà quindi essere

crescita interiore.

Il rischio diviene evidente, la voce della letteratura, ricca, originale,

capace di stimolare profondamente la sfera delle emozioni, può scivolare

via per cedere il posto alla stereotipia della parola massmediale (estesa 67 Edgar Morin, filosofo e sociologo francese noto per il suo approccio interdisciplinare con il quale ha trattato un’ampia gamma di argomenti. 68 E.MORIN , La testa ben fatta, Milano, Raffaello Cortina, 2000, p.15.

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sì, profonda no) che rimane maggiormente impressa per le sue qualità di

immediatezza e di coinvolgimento multisensoriale.

La lettura è prima di tutto una prassi volontaria e spontanea: per

questo motivo essa è necessariamente un’azione che si sceglie di

compiere e, in ogni scelta è intrinseco un processo di valutazione che

avviene in primis attraverso l’utilizzo di una “testa ben fatta”.

Il termine valutazione indica quell’azione che si compie quando si

attribuisce valore, positivo o negativo, a qualcosa; la lettura, essendo una

pratica che presuppone una scelta, comprende sempre una valutazione,

che si basa sul riconoscimento del valore di ciò che il lettore incontra e

può risultare positiva o negativa, rilevante o insignificante, noiosa,

pericolosa o altro.69

Ermanno Detti,70 nel suo libro Il piacere di leggere, sostiene che per

promuovere la motivazione a leggere è necessario provare un piacere

fondamentale e profondo e riuscire a godere della lettura fino al punto di

desiderare quel tipo di piacere lungo tutto l’arco della vita. Egli chiama

questa esperienza, capace di creare un’ atteggiamento positivo nei

confronti dei testi scritti, “lettura sensuale”.

Secondo l’autore questa è la lettura che investe tutti i sensi, che

richiama un’ attenzione multisensoriale; egli usa questa espressione

mutata da Italo Calvino,71 in maniera nuova.

La “lettura sensuale” è dunque il presupposto fondamentale per il

piacere della lettura: una relazione, un’esperienza che coinvolge la sfera

affettiva ed emozionale, che permette di provare un’ intenso piacere, il

quale facilita la trasmissione di contenuti e stimoli.

69 M.C.LEVORATO, Le emozioni della lettura, Bologna, Il Mulino, 2000, p.99. 70 E.DETTI, Il piacere di leggere, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia,2002. 71 I.CALVINO, Sotto il sole giaguaro, Milano, Garzanti,1986.

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La lettura sensuale intesa come partecipazione emozionale e

appassionata alla narrazione, rappresenta la condizione basilare per la

nascita e lo sviluppo dell’amore nei confronti dell’esperienza del

leggere. Il lettore sensuale legge intensamente e lo fa con tutto il corpo

investendo tutti i sensi, godendo così di un’ esperienza che conduce alla

formazione del piacere di leggere lungo tutto il suo percorso esistenziale.

L’intento è quindi quello di mettere in evidenza come la strada più

adeguata da seguire è quella che privilegia l’approccio all’esperienza

della lettura e che garantisce una stimolazione di tutti i sensi,

coinvolgendo in maniera profonda sia la sfera cognitiva, sia quella

affettivo-emozionale.

Conseguentemente risulta utile sottolineare come leggere sia

comprendere, interpretare, attribuire senso, comunicare, entrare in

empatia con l’autore ma è pure riflettere sui propri pensieri,

rispecchiarsi e riconoscersi, trovare conferme, dialogare con se stessi.

Leggere è anche accrescere le proprie conoscenze, costruire significati,

soddisfare curiosità ed interessi; è anche orientarsi nel sistema dei valori

e delle norme morali; il libro può diventare sollecitazione a riflettere

sull’etica, perché dà la possibilità di accedere ad esperienze altrui che

possono aiutare nelle scelte personali, nelle decisioni e nelle soluzioni di

interrogativi.

Al fine di dare un “ senso” conclusivo a quanto finora esposto nulla pare

al pensiero di chi scrive più appropriato dei seguenti aforìsmi:

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Benché si legga con la mente, la sede del piacere artistico è tra le scapole. Quel

piccolo brivido che sentiamo lì dietro, è certamente la forma più alta di emozione che

l’umanità abbia mai raggiunto sviluppando la pura arte e la pura scienza. Veneriamo

dunque la spina dorsale e i suoi fremiti.

Siamo fieri di esser dei vertebrati, perché siamo dei vertebrati muniti nella testa di

una fiamma divina.

Il cervello è solo una continuazione della spina dorsale; lo stoppino corre in realtà

per tutta la lunghezza della candela.

Se non siamo capaci di godere di questo brivido, se non sappiamo godere della

letteratura, rinunciamo a tutto questo […]. Ma io penso che Dikens si rivelerà più

forte.

Vladimir Nabokow72

E ancora …

Leggere, come io l’intendo,

vuol dire profondamente pensare.

Vittorio Alfieri. 73

Capitolo 3

Pensiero narrativo e contesto culturale.

3.0 Quando la pedagogia incontra il pensiero narrativo.

72 Vladimir Nabokow, (1899-1977), scrittore saggista, critico letterario e poeta. Esponente del modernismo e del postmodernismo. 73 Nulla su di lui si può aggiungere poiché indiscutibile è la sua fama. Può esser comunque interessante sottolineare, in armonia con il contesto, il fatto che fu un precursore del pensiero romantico anche nel suo stile di vita; sempre alla ricerca dell’autonomia ideologica ( non a caso lasciò tutti i suoi beni alla sorella Giulia per poter abbandonare la sudditanza dei Savoia) e nel non accettare la netta distinzione settecentesca fra vita e letteratura nel nome di valori etico-morali superiori.

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Una narrazione che non passa

attraverso l’io dell’autore,

non è letteratura,

ma solo un semplice prodotto.

Peter Handke, Corriere della sera 2002.

Mi chiedo se la forza del racconto

non nasca nell’uomo da millenni di cammino,

se il narrare non nasca dall’andare.

E se il nostro mondo abbia

disimparato a raccontare

semplicemente perché non viaggia più.

Paul Rumiz, E Oriente 2005.

Poiché -come già specificamente ponderato- leggere un libro costituisce

l’appropriarsi di uno spazio narrativo che permette di esplorare la realtà

esteriore e, attraverso la conoscenza, metterla in relazione con il proprio

mondo interiore; la narrazione74 diviene una forma di comunicazione,

secondo gli studiosi, particolarmente adatta alla mente dell’uomo.

74 Nella letteratura il termine narrativa raggruppa in se un genere letterario comprendente: a ) il romanzo, b) la novella, c) il racconto in versi, d) la novella in versi. Nel senso comune narrare significa “raccontare”quei fatti che hanno come protagonisti la storia di qualcuno o di qualcosa. Quello del narrare è pertanto una funzione (pedagogica) che viene svolta da un vasto campo di testi, molto differenti tra loro, ma tali da poter essere ricondotti a due principali categorie e cioè quei testi che hanno come oggetto la realtà, e a quelli che vivono esclusivamente dell’invenzione dell’autore.

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Quest’ultimo, infatti, ha la tendenza a condividere il senso delle

esperienze, a stabilire rapporti tra il passato ed il presente, e proiezioni

del presente nel futuro, a rappresentare le persone come soggettività

dotate di scopi, progetti, valori e legami.

Tale inclinazione si esprime specialmente nella produzione e nella

fruizione della narrativa, tanto che si ipotizza la presenza di un “pensiero

narrativo” nella mente umana.75

Jerome Bruner è il principale teorizzatore di tale tipologia di pensiero;

esperimenti psicologici hanno dimostrato che la mente umana opera

drasticamente alla ricerca del significato di ogni realtà che percepisce;

secondo Bruner questo processo di ricerca di senso si ha proprio su una

peculiare modalità di funzionamento del pensiero, che è il pensiero

narrativo.

Nel libro intitolato: La mente a più dimensioni,76 lo psicologo

americano avanza una proposta teorica innovativa e rivoluzionaria: il

narrare è una fondamentale capacità esclusiva dell’uomo, essere vivente

dotato di logos,77 che si basa sul pensiero narrativo, qualitativamente

diverso dal pensiero logico-scientifico o paradigmatico.78 Le due forme

di pensiero, di cui parla Bruner, assolvono funzioni cognitive e

comunicative differenti e ognuna rispetta determinate regole.

75 M.C.LEVORATO, Le emozioni della lettura, Bologna, Il Mulino,2000, pp.42-50. 76 J.BRUNER, La mente a più dimensioni, Bari, Laterza,2003. 77 Dal greco: scegliere, raccontare, enumerare. 78 La rivoluzione teorica di Bruner sta proprio nella proposta di una forma di pensiero, appunto quello narrativo, con pari dignità rispetto a quello che ha costituito tradizionalmente l’oggetto di studio della psicologia scientifica, il pensiero razionale.

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Il pensiero logico, razionale, concerne la realtà fisica, riguarda la

concezione della verità e costruisce teorie atte a spiegare fenomeni fisici-

naturali tramite leggi generali o universali: opera attraverso il linguaggio

matematico e logico, costruisce argomentazioni e produce teorie, analisi

rigorose e ipotesi ragionate.79

Il pensiero narrativo è il pensiero della “comprensione” dell’agire e

del sentire umano, si applica al mondo sociale, alle vicende dell’uomo e

ha lo scopo di capire gli eventi e coglierne il significato. E un pensiero

interpretativo, tiene conto dello scenario dell’azione, -successione degli

eventi- e dello scenario della coscienza, -soggettività degli attori degli

eventi- relativo ai loro pensieri, credenze, volontà e desideri.

Il pensiero narrativo si basa sulla “logica” intrinseca alle azioni

umane, riguardando le relazioni esistenti tra le azioni stesse e gli stati

interni di chi le ha compiute; le interazioni, gli affetti, le emozioni, le

credenze e i valori; e sulla logica delle interazioni interpersonali, che si

riferisce alle regole degli scambi sociali, e alle motivazioni sottese a tali

rapporti.80

3.1 Il pensiero narrativo nel suo uso “creativo”.

Il pensiero narrativo è pertanto una sorta di “mobilità” per organizzare

l’esperienza e si esprime nell’atto del narrare. L’uso creativo del

79 J.BRUNER, La mente a più … Bari, Laterza,2003, pp.18,19. 80 M.C.LEVORATO, Le emozioni della … Bologna, Il Mulino, 2000 pp. 17,18.

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pensiero narrativo produce buoni racconti, drammi avvincenti e quadri

storici credibili, anche se non necessariamente “veri”,tale pensiero si

occupa delle intenzioni e delle azioni proprie dell’uomo o a lui affini,

nonché delle vicissitudini e dei risultati che ne contrassegnano il corso.81

La narrazione risponde a un bisogno cruciale dell’uomo: basare le

proprie interazioni con la realtà fisica e sociale sulla regolarità degli

eventi, sulla prevedibilità, sulla coerenza e sul senso; quindi, avere

relazioni non caotiche, poter ricondurre l’esperienza umana a sistemi di

significato condivisi anche dagli altri individui e capaci di interpretare la

realtà circostante.82

Nella ricezione della narrativa, il lettore mette in gioco la sua

soggettività, manifesta stati emozionali, entra nel processo di

identificazione, condivide esperienze ed emozioni con i personaggi,

comprende più profondamente pensieri, sentimenti, desideri e valori

propri ed altrui.

Si può semplificare dicendo che la narrativa è una struttura simbolica

per organizzare sotto forma di pensiero il mondo degli eventi e delle

azioni, per interpretarlo e poi tradurlo in discorso; è una procedura che

ogni cultura utilizza per assegnare significato ad atti ed avvenimenti

sulla base di sistemi di credenze e scale di valori accettati e condivisi dai

suoi membri.

Un'altra fondamentale funzione del pensiero narrativo è quella di

essere utile all’interazione con il mondo sociale, diversamente dal

pensiero scientifico che punta all’efficacia delle interazioni con il mondo

81 J.BRUNER, La mente a più …Bari, Laterza,2003, p.18. 82 M.C.LEVORATO, Le emozioni della… Bologna, Il Mulino, 2000, p.8.

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fisico83. Ciò che la cultura mette a disposizione dell’uomo sono i sistemi

di significazione della realtà, tra i quali la narrazione occupa un posto

importante per la comprensione dei vissuti sociali.

Il pensiero narrativo ci permette di comprendere noi stessi e gli altri,

tenendo conto in special modo del fatto che l’esperienza di ognuno è

collocata in un contesto interpersonale. Attraverso il pensiero narrativo è

possibile:

A) Rappresentare la soggettività altrui e ipotizzarne i pensieri

(desideri, credenze, valori, scopi, etc.),

B) Riconoscere le emozioni dell’altro,

C) Mettersi con coinvolgimento empatico nei panni dell’altro

assumendo il suo punto di vista e le sue prospettive,

D)Attribuire agli altri una personalità, dei tratti e delle qualità

interne, pressoché permanenti e stabili, che diano coerenza alle

loro azioni.84

Per concretare Bruner sottolinea la priorità dei processi sociali rispetto

a quelli individuali; è attraverso l’interazione sociale che gli attori dello

scambio giungono ad una costruzione di significato e danno un senso

alla situazione in cui sono coinvolti.

83 M.NUSSBAUM, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Bologna, Il Mulino, 2011, p.111: << I cittadini non possono relazionarsi bene alla complessità del mondo che li circonda soltanto grazie alla logica e al sapere fattuale. La terza competenza del cittadino, strettamente correlata alle prime due, è ciò che chiamiamo immaginazione narrativa! Vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un'altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desideri. La ricerca di tale empatia è parte essenziale delle migliori concezioni di educazione alla democrazia, sia nei paesi occidentali che in quelli orientali. Buona parte di essa deve avvenire all’interno della famiglia, ma anche la scuola e addirittura il college e l’università svolgono una funzione importante. Per assolvere questo compito le scuole devono assegnare un posto di rilievo nel programma di studio alle materie umanistiche, letterarie e artistiche, coltivando una partecipazione di tipo partecipativo che attivi e perfezioni la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi di un'altra persona>>. 84 M.C.LEVORATO, Le emozioni della … Bologna, Il Mulino,2000, p.49.

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La lettura si iscrive così in maniera tangibile in una dimensione

costitutiva del pensiero umano, quello “narrativo”.

3.2 La narrativa diviene romanzo.

La stupidità della gente deriva dall’avere

una risposta per ogni cosa.

La saggezza del romanzo deriva dall’avere

una domanda per ogni cosa.85

Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio 1978.

La narrazione diviene dunque lo strumento con cui “ ri-incorniciare” la

nostra esperienza temporale e tramite cui addivenire inevitabilmente ad

una negoziazione del se. Attraverso essa trova soddisfazione la

necessità di condividere con altri le esperienze personali e ascoltare

quelle altrui al fine paragonarle alle proprie. Il pensiero narrativo assume

così un ruolo fondamentale per l’interazione sociale, per comprendere

l’alterità.

Da ciò discende un’altra caratteristica importante: La libertà

d’interpretazione del destinatario. Mentre la scienza esige un’assoluta

corrispondenza tra significato e significante, affinché il contenuto passi

85 << L’essenza massima della conoscenza è il sapere di non sapere, così come l’essenza pura della pedagogia -e quindi della vita- sta nel farsi sempre nuove domande.>>A. Carli.

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incorrotto da emittente a ricevente, la narrazione (ed in particolare quella

letteraria) ha come carattere costitutivo, in quanto prodotto estetico, la

possibilità e la necessità di essere rielaborata, reinterpretata.

Considerando che, la comunicazione narrativa non avviene sempre

nella situazione ideale rispetto alla comunicazione orale, la quale vede i

due interlocutori comunicare in presenza l’uno dell’altro; il testo

narrativo letterario (per citare un utile iperbole) diviene simile al modo

in cui un naufrago tenta di comunicare con il mondo: Attraverso un

messaggio in bottiglia. La sua caratteristica fondamentale, la forma

scritta, le permette di rimanere e disposizione dell’umanità e raggiungere

(proprio come avviene per un messaggio da un isola deserta) le persone

più disparate e inimmaginabili. Il testo narrativo diviene nell’accezione

più specifica del termine “romanzo” perché nel senso comune narrare è

raccontare e raccontarsi.

E nel ricordo, in effetti, che ognuno assegna un posto nella sua vita,

cioè una ricaduta esistenziale, a ogni esperienza vissuta che, in questo

modo, diventa passata, lontana e distante; chiusa nello spessore vitale

alle proprie spalle e che può quindi esser rielaborata, incorniciata e

raccontata, non importa secondo quale modalità e neppure quanto di

inventato o colorito ci possa esser dentro; si trasformerà comunque, e si

modellerà sullo stampo dei vissuti personali e soggettivi lasciando

sempre un segno pedagogico ed indelebile alla connessione dialogica tra

autore e lettore.86

86 <<Li c’è dentro tutto ciò di cui hai bisogno: sole, stelle e luna. Perché la luce che cercavi vive dentro di te>>.H. Hesse.

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3.3 Il romanzo e la sua “pedagogica saggezza”.

Romanzo:

La grande forma della prosa

in cui l’autore,

attraverso io sperimentali,

esamina fino in fondo

alcuni grandi temi dell’esistenza.

Milan Kundera, L’arte del romanzo, 1988.

Il bel romanzo non deve esser la storia di un’eccezione.

Deve essere un brano della vita di tutti i giorni,

in cui ognuno si riconosca,

e che tuttavia insegni agli uomini qualche cosa

che non tutti vedevano.

Maxence Van der Meersch, Perché non tutti sanno

quel che fanno, 1933.

In una società dove -come ebbe a dire C.Darwin- << non è la specie più

forte a sopravvivere e nemmeno quella più intelligente ma la specie che

risponde meglio al cambiamento>> la pedagogia è chiamata a riabilitare

una ricerca e una pratica in cui la nozione di formazione deve essere

utilizzata sempre più nella pluralità dei significati di volta in volta

rivestiti nei diversi contesti culturali e sociali.

La pedagogia così si radica operando in modo sempre nuovo ed

implementando la nascita di nuove prospettive di formazione; una

formazione basata sull’uso costante di dialogo come metodologia volta a

migliorare la comprensione e la comunicazione con l’altro.

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Si orienta ( come analizzato in questo lavoro di tesi ) verso nuove

pratiche discorsive fra cui l’autobiografia, la narrazione, il romanzo il

cui “fine peculiare” riguarda la ricerca di modi sempre nuovi di vivere

ed agire in un ottica di formazione “esponenziale”.

La formazione nella sua ricerca di strade inedite deve attrezzarsi per

l’uso di molteplici conoscenze intermedie; deve quindi fare un uso

efficace della conoscenza pratica ( fatta anche di saggezza popolare,

senso comune…).

La saggezza del romanzo, si connota come: “Lo spazio immaginario

in cui nessuno possiede la verità e in cui ciascuno ha diritto ad esser

capito” è “l’ambiente in cui l’individuo è rispettato, il cui scrigno

mantiene la saggezza del mondo”.

Il romanzo diviene così un nuovo territorio in cui nessuno possiede la

verità ma tutti hanno diritto ad esser capiti; un po’ come in una sorta di

“simbolica casa dalle molte finestre” 87 dove consapevolezza, sensibilità

e introiezione operano percorsi nuovi.

3.4 Riflessioni su un romanzo “pedagogicamente saggio”: La

piramide del caffè.

Il più grande privilegio,

in questo mondo gelido e senza speranza,

è quello di riuscire a scatenare una scintilla:

un’emozione capace di far battere forte il cuore.

87 H.JAMES, Prefazione di The Portrait of the Lady, 1881: <<La casa del romanzo non ha una sola finestra: ha un milione, o meglio un numero incalcolabile di finestre, ciascuna delle quali è stata aperta o deve essere ancora aperta, nella sua vasta facciata della visione individuale, dalla pressione della volontà individuale.>>

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Nicola Lecca, La piramide del caffè 2013.

Tra la visione di un origine felice e l’esperienza della solitudine, il

romanzo “si focalizza” sul secondo: Il momento della separazione. Chi è

rappresentato è il giovane che lascia il suo simbolico “mondo fatto di

certezze” per andare incontro ad un mondo totalmente nuovo; pieno di

seduzioni fisiche, morali ed intellettuali, con lo scopo preciso di

ricavarne significati e risposte. Il pensiero dell’educazione è davvero

l’espressione più alta dell’amore dello spirito verso la vita!

Nel romanzo: La piramide del caffè88 c’è un’emozione che sovrasta

tutte le altre, un’intuizione, i più scettici la chiamerebbero “illusione”: la

dolcezza, la grazia, la semplicità, l’armonia che letteralmente diventa

musica da leggere, capace di trasformare una parabola amara in un

traslato lieve, perché è noto, un poeta è colui che è in grado di

raccontare una grande verità senza esser pedante, con uno spirito di rara

intelligenza e fine ironia, affinché sia il sorriso a sigillare,

indimenticabile, il messaggio anche nella memoria più testarda e cinica.

La piramide è un simbolo89, un’architettura concettuale, l’immagine di

quell’organizzazione gerarchica, insieme di regole prestampate su di un

manuale con le quali l’efficiente società moderna pretende di educare,

dirigere, pianificare, controllare ( dominare e subire?!) l’essere uomo che

in tal modo non è più ne individuo ne umano.

88 N.LECCA, La piramide del caffè, Milano, Arnoldo Mondadori Editore,2013.Nicola Lecca,autore raffinato, colto e sensibile; una tra le voci più autentiche, intense, significative;un autore “da studiare” per tutti quelli che aspirano alla scrittura come ad una forma d’arte, una coscienza critica, una riflessione in senso platonico della vita, del mondo,di tutto quanto c’è dentro e fuori di noi. Per ulteriori info: www.nicolalecca.it 89 E a tal riguardo necessario sottolineare che lo stesso Michel Foucault adottò il modello del Panopticon di Jeremy Bentham come metafora chiave del potere moderno. Z. BAUMAN, Modernità liquida, Bari, Editori Laterza, Prefazione, pp.XXXII,XXXIII.

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La vicenda inizia nell’orfanotrofio di Landor, un piccolo villaggio

ungherese ai confini con l’Austria, dove i bimbi e i ragazzi conducono

un’esistenza semplice nella quale un bagnoschiuma, una tavoletta di

cioccolato, un pacchetto di chewing-gum diventano straordinari regali di

compleanno. E da questo luogo modesto ma protettivo che viene Imi, il

protagonista del romanzo. Imi, al compimento del diciottesimo anno,

invece di scegliere di restare a lavorare nel suo ambiente familiare decide

di “tentare l’avventura” e trasferirsi a Londra.

Nella grande metropoli inglese, il cui caos affascina e spaventa nello

stesso tempo, Imi trova lavoro come barista presso la Proper Coffee ,

una nota catena di caffetterie il cui cliché è regolato dalle norme del

“manuale del caffè”, una sorta di guida del buon dipendente in cui sono

contemplate tutte, o quasi, le situazioni che possono verificarsi nel corso

della giornata lavorativa.

All’inizio Imi trova tranquillizzante la struttura normativa dell’azienda e

compie ogni sforzo possibile per comportarsi secondo i modelli richiesti,

nella speranza di fare carriera e scalare i gradini della Piramide. Ma i

buoni proponimenti di Imi, che del mondo ha conosciuto soltanto le

circoscritte mura dell’orfanotrofio,si scontrano presto con il cinismo di

persone disposte a calpestare i valori più elementari in nome del

successo personale e della logica del profitto. La sua ingenuità

cristallina90 lo fa entrare in conflitto con dinamiche per lui

incomprensibili che rischiano di compromettere il suo futuro.

90 Per sottolineare l’impotenza dell’ingenuità rapportata alle dinamiche di potere contestuali sembra personalmente utile citare quasi a mo di iperbole il film drammatico:Senza pelle, Regia di Alessandro D’Alatri, 1994. “E la storia di un giovane psico-labile e ipersensibile. Nasce da un’idea forte di

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In suo soccorso si muoveranno un amico91 che lavora in una libreria, e

un’anziana scrittrice malata vincitrice di un Nobel per la letteratura, che

quasi magicamente, saprà recitare la formula per la risoluzione dei suoi

problemi.

La piramide del caffè contiene elementi realistici e realtà dolorose,

toccanti dove, come in un lieto fine (e questo fa un gran bene!) il giovane

eroe vincerà la sua battaglia finale; esso racchiude una gran sapienza

condita con un linguaggio semplice e significativo: <<perché la speranza

è forte: una droga innocua e potente, capace di vincere sempre e

comunque su tutto. Anche sulla disperazione.>>92 Tale visione non

disfattista è ciò che si sta implementando sempre più nella parte buona

della società odierna, all’interno della quale va crescendo una nuova

coscienza che risulta essere il gran bene del nostro tempo e va coltivata.

<<Ada neni ha ragione : i desideri sono ossigeno per il futuro, ma è il

presente l’unico istante in cui è possibile esser felici per davvero.

Rimpiangere ciò che è stato o preoccuparsi di ciò che ancora non è

accaduto è faticoso per l’anima, la sfinisce.>>93 Bisogna intervenire sul

presente per modificare positivamente e sensibilmente il futuro; è nel

presente che la logica del: “ Piccolo il mio, grande il nostro” trova la

sua massima realizzazione.94

partenza,sviluppata senza divagazioni né demagogia sentimentale la cui conclusione apre uno spiraglio di speranza.” 91 Cfr. N.LECCA, La piramide del caffè, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2013, p.188<< Come potrebbe mai aiutare il suo giovane amico? Certo potrebbe trovargli un nuovo lavoro,magari nella sua stessa libreria. Questo sì. E di sicuro non spenderà mai più un solo penny nelle caffetterie della Proper Coffee. Racconterà anche ai suoi amici l’ingiustizia subita da Imi: e così facendo porterà via dalla compagnia una decina di clienti, lanciando con la sua piccola fionda qualche sassolino contro una petroliera enorme mai scalfita da nulla, e da nessuno. Ma a cosa servirebbe?>> 92 Ibi,p.29. 93 Ibi,27. 94 T.TERZANI, Un altro giro di giostra, Milano, Tea, 2012, p.572 <<E necessario riscoprire l’essenza di quel meraviglioso, lapidario messaggio […] che si trova sulla facciata del Duomo di Barga in

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3.5 “Altre finestre” nel romanzo autobiografico: Nati due volte.

Quando Einstein, alla domanda del passaporto, risponde “razza umana”, non ignora

le differenze, le omette in un orizzonte più ampio, che le include e le supera.

E questo il passaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una

discriminazione, sia a chi, per evitare la discriminazione, nega la differenza.

Giuseppe Pontiggia, Nati due volte95 2000.

Il romanzo autobiografico Nati due volte, può “genuinamente” esser

definito “un’accorata invocazione alla concessione di un semplice

sorriso”; perché i bambini disabili nascono due volte: la prima li vede

impreparati al mondo, la seconda è affidata all’amore e all’intelligenza

degli altri.

In questo libro Giuseppe Pontiggia fa rivivere la sua esperienza

personale, quella di un padre che deve convivere con la situazione di

handicap96 del figlio; è un po’ come una “finestra aperta” sui problemi di

Garfagnana: Piccolo il mio, grande il nostro.>> “ C’è davvero una forte dose di Pedagogia Sociale in questa riflessione!” 95 Premio Campiello 2001.A questo romanzo si è ispirato il regista Gianni Amelio, per il film Le chiavi di casa, candidato al premio Oscar 2004/2005. 96 L’ICIDH ( International Classification of Impairments Disabilites and Handicaps) mette in evidenza la seguente sequenza: menomazione, disabilità, handicap; dove menomazione è intesa come perdita o anormalità a carico di una struttura o una funzione psicologica, fisiologica o anatomica e rappresenta l’estensione di uno stato patologico; se tale disfunzione è congenita si parla di minorazione. Disabilità è intesa come qualsiasi limitazione della capacità di agire, naturale conseguenza ad uno stato di minorazione/menomazione. Handicap è infine uno svantaggio sociale vissuto da una persona a seguito di disabilità o minorazione/menomazione.

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una famiglia che vive la tragedia della malattia del figlio Paolo, colpito

da tetraparesi spastica distonica. Il rapporto del padre (professor

Frigerio) con il figlio disabile è tutto avvolto da qualche silenziosa

richiesta, anche minima, di attenzione. Attorno ai due protagonisti si

muove una piccola folla di personaggi che incarnano le diverse reazioni

di fronte all’ handicap: l’impreparazione e il cinismo, l’imbarazzo e la

stupidità, ma anche l’amore sconfinato e la solidarietà altruistica. Di

quest’ultima l’autore traccia con sincera lucidità una rincuorante

immagine:<< Nelle reazioni più comuni di fronte al volontariato,

compresa la mia, la tendenza è di interpretare l’altruismo come configura

dell’egoismo, la generosità come gratificazione di chi la esercita, la

solidarietà come aiuto provvidenziale a se stessi, il sacrificio dell’Io

come riscatto di un Super-io tirannico. Non si impara neppure dalla

etologia, saccheggiata per spiegare l’aggressività, ma mai il suo

contrario. Gli animali che si sacrificano per la prole o per gli altri, sono

anche loro vittime di un Super-io? No, dell’istinto risponde l’etologia.

Ma all’uomo si nega questo istinto positivo, per dotarlo invece di tutti gli

altri.>> E ancora: << Ho sempre immaginato il volontariato -senza

conoscerlo, naturalmente, solo la non-conoscenza favorisce la certezza

-un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la consolazione di

sé. Finché ho conosciuto amici e amiche di Paolo. Questi giovani che lo

accompagnano nelle pizzerie, nei cinema, nei negozi di dischi usati, dove

acquista, a prezzo di amatore, canzoni e canti popolari di altri tempi (chi

salverà le tradizioni se non i giovani, i migliori, si intende?), sono gentili,

misurati,discreti. In cambio non si aspettano nulla. Non si aspettano doni

né ringraziamenti. E danno non solo un aiuto, ma ciò di cui gli uomini

hanno più bisogno quando non la sentono mai, la simpatia.>>97 97 G.PONTIGGIA, Nati due volte, Milano, Arnoldo Mondadori Editore,2000, pp.210-212.

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Concludendo poi le sue riflessioni sull’universo del volontariato

aggiunge: <<L’aiuto agli indigenti, ai malati, ai carcerati è stato il

comportamento che, alle origini, ha turbato milioni di pagani. Oggi viene

esercitato anche dai laici (ma che cosa c’è di laico nella religione

dell’uomo?), si tende più che a farne un modello, ad approfittarne.>>98

Come sovente capita scatta quindi la speranza di trovare negli altri un

sostegno morale per chi, assistendo un familiare in difficoltà, ne rimane

emotivamente coinvolto. Ma la “disattenzione generale” che spesso si

manifesta nei confronti di chi è disabile non fa che acuire nei familiari la

consapevolezza di una sempre maggiore distanza che li divide dai

“normodotati”.99 Riferendosi al collega professor Cornali, l’autore

afferma che <<non ha disturbi particolari ma solo disturbi nei rapporti

con gli altri>>100. (con la studentessa che ha reali problemi d’udito per

esenpio). Tuttavia Pontiggia ci fa capire che questo atteggiamento si

manifesta anche in chi, come i familiari, (è) indirettamente colpito dall’

handicap, e spera di intravedere in altri disabili una minorazione “più

grave” , quasi a cercare, anche se labile, un conforto al proprio dramma.

Sono queste le <<reazioni che i disabili suscitano in una specie ignota di

disabili, quelli normali.>>101 Una forma di distanza che si manifesta

anche nei familiari quando cercano di riprendere il figlio con la

macchina fotografica, la moglie Franca obietta al professore che non può

ritrarlo in quella posizione e aggiunge <<sarebbe difficile anche per

noi.>>102 Ecco come ricorra spesso anche in chi assiste i disabili questa

forma particolare di distanza NOI come “perenne termine di confronto,

98 Ibi,p.213. 99 Ibi,p.37,38. 100 Ibi,p.42. 101 Ibidem. 102 Ibi,p.58.

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simbolo di una normalità suprema”. Eppure la situazione di handicap

presente in un individuo dovrebbe far comprendere, dice l’autore, che

l’esperienza ci aiuta soltanto a capire l’handicap,ma è lo stesso handicap

che (pedagogicamente e socialmente) ci aiuta a capire noi stessi. E

questa conoscenza di noi stessi potrebbe essere assonata anche alla

questione linguistica, alla terminologia usata in maniera diversa da chi è

affetto direttamente da un handicap rispetto a chi non lo è.<< Se

qualcuno usa come epiteto spregiativo “spastico” o “mongoloide”, si può

essere certi che nessuno della sua famiglia lo è. Le disgrazie, fra i tanti

effetti, ne hanno alcuni linguistici immediati, ci rendono sensibili al

lessico interessato dal problema.[…] Molti si chiedono perché cieco sia

diventato non vedente e sordo non udente. Forse una spiegazione

plausibile è che cieco definisce irreparabilmente una persona, mentre

non vedente circoscrive l’assenza di una funzione.>>103 C’è dunque in

tutto questo una sorta di “senso di colpa” dietro il quale con una facilità

quasi istintuale ci si trincera e dove la solidarietà non è chiaramente la

dote ricorrente.

Non va comunque dimenticato un altro tipo di atteggiamento che spesso

ferisce irreparabilmente non solo chi sopporta fisicamente il peso

dell’handicap, ma anche i suoi familiari, ovvero l’insofferenza, un’offesa

<<ben più grave di uno schiaffo.>>104

E proprio in questa situazione che i disabili devono vivere, o meglio

convivere, dato che se non sono sorretti da chi sta loro attorno,

difficilmente potranno sopportare le difficoltà di (ri) vivere, (ri) nascere

alla vita.

103 Ibi.p.92. 104 Ibi,p.124.

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A chi scrive sembra che (misteri della pedagogia) ogni giorno i conti veri

e profondi vadano fatti innanzitutto e dopotutto con la paura e con la

gioia (in ogni contesto di vita) e per questo il pulsare pedagogico

suggerisce una citazione di Heinrich Heine: << Da ragazzo tanto lessi

che non ebbi più paura di nulla.>> O una di Elias Canetti: << Senza libri

tutte le gioie marciscono.>> Infine da Heinrich Boll:<< Leggere fa

pensare, può farti libero e ribelle…>> e forse anche solo questo potrebbe

bastare!?

3.6 Conclusioni a tema.

Come nei pozzi artesiani,

le opere salgono tanto più alte,

quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore.

Marcel Proust

Al di là degli argomenti qui considerati è necessario ricordare come ogni

momento e aspetto dell’organizzazione della vita sociale sia connesso ad

una possibile peculiarità educativa, non solo nell’ambito delle situazioni

maggiormente strutturate ma anche in tutte quelle meno definite e con

finalità di tipo economico, produttivo, evasivo e non direttamente

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educativo, l’approccio pedagogico-sociale può utilmente intervenire per

evidenziare i motivi concorrenti alla crescita individuale e di gruppo.

Intervento che non può risolversi solo nell’analisi dell’esistente, ma

deve riuscire ad esplicitarsi nel progetto di nuove soluzioni educative,

metodologiche, culturali oltre quelle di cui attualmente si dispone; la

pedagogia sociale deve riuscire cioè a trascendere la situazione data per

confrontarsi con esperienze nuove.

Il lasciare inalterata la realtà del momento in cui si vive non può non

essere un segno di smarrimento e di sconfitta. Certo, l’analizzare e il

comprendere quanto accade, si pone come espressione basilare,garanzia

di una fondazione e messa a punto di strumenti critici e interpretativi, ma

in queste operazioni non si può esaurire il significato della pedagogia

sociale: esso si ritrova nella costruzione di nuove realtà, nell’impostare

condizioni e forme di comportamento individuale e di gruppo che

vadano oltre le condizioni e le forme scontate e abitudinarie, nel

tracciare nuove dimensioni che concorrono ad orientare un’esistenza più

umanamente qualificata. Il valore delle sue stesse analisi teoriche sarà,

appunto testimoniato, dalla tensione nei confronti della pratica, dalla

capacità di intervenire nelle azioni concrete della vita quotidiana.

La presenza del settore pedagogico-sociale, ferme restando le

condizioni ora espresse, diviene motivo anche di un possibile

avanzamento degli stessi studi pedagogici.

L’area pedagogica si viene infatti facendo sempre più dichiaratamente

ampia, sotto lo stesso termine si rintracciano (come si è potuto intendere

dalla disamina introduttiva) contributi fra loro diversissimi senza che vi

sia la possibilità di operare una loro organica collocazione, mancando

tuttora una strutturazione pedagogica sufficientemente chiara e ordinata.

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60

La pedagogia è ancor oggi alla ricerca di una propria composizione,

della definizione dei suoi molteplici settori di competenza e della

precisazione delle sue metodologie. Il perdurare del discorso nella sua

globalità non può non comportare la conseguenza, non solo a livello

epistemologico, ma di riscontro anche operativo, di una episodicità e

genericità di indicazioni. La precisazione in vari filoni disciplinari e

interdisciplinari sembra,appunto, la via per far procedere la ricerca

pedagogica, per permetterle di svilupparsi secondo modalità più

agevolate dalla stessa circoscrizione del problemi.

Non più proposta generale esposta costantemente al rischio del

generico, ma discorso che si riconosce di volta in volta in termini di

filosofia dell’educazione, di pedagogia sperimentale, di storia della

pedagogia e della scuola105, di metodologia e didattica, di pedagogia

comparata, di pedagogia speciale e di pedagogia sociale trovando così,

nei precisi contributi dei vari settori di ricerca, la possibilità di un

andamento progressivo abbandonando la dispersività che troppo a lungo

l’ha caratterizzato.

Non si intenda questa impostazione in riferimento ad un “rigido

criterio specialistico” che nei primi decenni del Novecento veniva

proposto come via risolutiva al discorso scientifico. Le dichiarazioni di

Max Weber che riteneva possibile giungere a risultati definitivi solo

attraverso una rigorosa specializzazione, che invitava a restare

<<discosto dalla scienza chi non è capace di mettersi, per così dire, i

paraocchi>>,106 sono oggi completamente superate nel riconoscimento sì

della necessità di identificare e circoscrivere i problemi, ma secondo ben

105 A.CARLI, L’ispettore di Mineo…(MB) Monza Brianza, Limina Mentis, 2011. 106 L.SANTARELLI L.BECCEGATO, Pedagogia sociale e ricerca interdisciplinare, Brescia, Editrice La Scuola,1979 , p.215.

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altre esigenze. Non la ristretta analisi specialistica, ma il convergere di

più competenze verso quelle aree che si sono riconosciute dense di

problemi è la richiesta e la tendenza della ricerca contemporanea che

viene pertanto a configurarsi in nuovi campi di indagine di tipo

interdisciplinare.

La pedagogia sociale deve, appunto dimostrare di essere in grado di

procedere non in quanto possibile settorializzazione del discorso

pedagogico, così com’è mutuabile dall’impostazione weberiana, ma

come un nuovo approccio a determinati problemi sociali ed educativi del

tempo attuale dove le competenze pedagogiche, le idee e i progetti di

modelli anticipatori di eventi si confrontano, si relazionano, si

concretano con gli apporti provenienti dalla psicologia, dalla sociologia,

dall’antropologia e dalle discipline ad esse affini, senza peraltro

confondersi in esse, ma mantenendo costantemente presenti e operanti i

propri criteri interpretativi.

E necessario che si formino e si definiscano nuove aree di ricerca in

grado di superare sia la limitazione delle specializzazioni tradizionali,

sia gli incerti confini di generici approcci di studio.

In questo senso la pedagogia sociale può svolgere una funzione

nell’area del discorso pedagogico come specifico coagulo di interessi e

di questioni,affrontati secondo una maturata ottica interdisciplinare.

L’interpretazione dell’uomo e della società, la ricerca dei significati

educativi emergenti nel loro rapporto costituiscono un problema tanto

vasto che non può certo essere monopolizzato da una disciplina: esso è

uno di quei problemi comuni, che richiedono tentativi condotti da

prospettive diverse, cercando fra queste una possibile convergenza. La

pedagogia sociale troverà motivi di conforto e di confronto nella vasta

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serie di indagini che vengono portate avanti dagli altri vari settori

disciplinari, impegnandosi continuamente per avvicinarsi all’ideale di

una società partecipativa in cui risultino superati i pesanti limiti

individuali e strutturali oggi esistenti.

Nell’attuale grave disorientamento, ad un tempo causa ed espressione

di una crisi di valori, di una progressiva perdita di fini, i rapporti fra le

persone vengono sostituiti da rapporti “attinenti ai ruoli” oggettivabili e

gerarchizzabili secondo una direzione scalare del più e del meno

(piramidale ed imperiosamente coercitiva).

In una società così delineata ogni situazione personale e interpersonale

viene deformata: l’individuo è visto e considerato -e per i processi di

identificazione così innescati finisce col vedersi e considerarsi- per

quello che ha, per la funzione che riesce a svolgere, per l’area di potere

che riesce a ricoprire.

In una società così mercificata, in cui, secondo le parole di Oscar

Wilde, si conosce il prezzo di tutte le cose, ma di nessuna il valore,

anche i rapporti tra gli uomini si riducono a scambi tra un dare e un avere

e si considera l’altro solo se “il conto torna”.

La presenza di un interesse di ricerca quale quello pedagogico-sociale

è sorretta e giustificata dalla convinzione che sia possibile il passaggio

da una società dello scambio a una della partecipazione anche se questa

si propone come ideale, utopica: una società dove sia possibile un modo

di vivere insieme in grado di superare quegli impedimenti che

all’interno e all’esterno dell’individuo, nelle forme dell’egoismo e del

narcisismo individuale nonché delle distorsioni politiche ed economiche

del sistema, si frappongono a quello sviluppo di ciascuno che può esser

realizzato attraverso la solidarietà di tutti.

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L’importante è anche avere sempre chiaro il monito che se le grandi

soluzioni sono nella gestione politica, nelle strutture volute dalle forze

storiche del paese, le soluzioni minute, quotidiane, sono

mprescindibilmente dipendenti dalla prassi educativa; e sono appunto, le

piccole soluzioni quelle che rendono possibile il passaggio dalla fase

progettuale a quella effettivamente realizzativa.

Le più sagge scelte e decisioni politiche non trovano riscontro in una

valida e coerente attuazione a livello di singoli e di gruppi, si riducono a

vuoti schemi, invalidate da una falsa coscienza che le interpreta e le

realizza .

Il collegamento tra il momento strutturale, pubblico, e quello

individuale, privato è come abbiamo avuto occasione di seguire nelle

varie “pieghe” di questo lavoro, costante e fondamentale:

“L’approccio pedagogico-sociale ha il compito di snodarlo e di

migliorarlo nella crescente consapevolezza dell’importanza di una

personale, responsabile partecipazione partendo da intima e accurata

introiezione.”

Per aspera sic itur ad astra.107

107 “Attraverso le asperità alle stelle”, così scrive SENECA nel II Atto del suo “HERCULES FURENS”.

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Capitolo 4

Il metodo educativo nell’autobiografia.

4.0 Il raccontarsi alla base del conoscersi e del farsi conoscere

L’autobiografia come metodo educativo. Raccontarsi per conoscersi e

farsi conoscere.

La tendenza a raccontare se stessi, le vicende personali, gli eventi

particolari che hanno segnato o, in qualche modo, condizionato la

propria vita, è comune a tutti gli individui. Secondo Demetrio essa <<è

una sensazione , più che un progetto non da tutti realizzato e portato a

termine: quasi un messaggio che ci raggiunge all’improvviso … ma

capace di assumere forme ben presto più narrative. Quasi un’urgenza,

un’emergenza, un dovere o un diritto a seconda dei casi e delle

circostanze.>>108 Alcuni poi, non esprimono pienamente questa tendenza

probabilmente convinti di non esserne in grado.

108 D.DEMETRIO, Raccontarsi: L’autobiografia come cura di sé, Milano, Raffaello Cortina Editore,1996, p.9.

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Altri, invece, cominciando il proprio racconto, esprimono i singoli stati

d’animo verso se stessi e verso gli altri, iniziano così a produrre un testo

a carattere autobiografico.

Raccontare significa innanzitutto accorgersi di avere una storia, di aver

vissuto un’avventura o un evento che valga la pena narrare, una storia

che può essere guardata da una prudenziale distanza, riducendo così

l’ansia dell’operazione –c’è sempre una quota di sofferenza dietro ogni

apprendimento dovuta agli inevitabili elementi destabilizzanti che il

cambiamento comporta.

Quando si fa strada questa esigenza di raccontarsi, scrive Demetrio, <<

non si tratta di un desiderio intimistico qualsiasi, riguardante se stessi e

riferito al piacere di parlare di sé, fra sé e sé, a se stessi, o alla necessità

di ritrovare qualche sperduto ricordo in funzione di una conversazione

con gli altri o nell’istante conviviale … esso nasce dalla domanda della

mente comparsa altre volte, ma che, tuttavia, non aveva ancora raggiunto

la consistenza dovuta e propria delle idee quasi assillanti.

Il pensiero autobiografico, quell’insieme di ricordi della propria vita

trascorsa , di ciò che si è stati e si è fatto, e quindi una presenza che da

un certo momento in poi accompagna il resto della nostra vita. E’ una

compagnia segreta, meditativa, comunicata soltanto attraverso sparsi

ricordi.>>109

L’autobiografia per Demetrio, <<è un metodo ricognitivo che pone una

storia di fronte a se stessa e la riconsegna al suo legittimo autore>>110; è

per una ricostruzione attraverso la quale l’uomo parla di sé, mediante la

scrittura o il racconto riferito alla propria storia di vita. Le parole, sia

scritte che narrate, hanno la capacità di evocare il passato, di riprodurre 109 Ivi,p.10. 110 D.DEMETRIO, Raccontarsi. Per una didattica dell’intelligenza. Il metodo autobiografico nello sviluppo cognitivo, Milano, Franco Angeli, 1995, p.17.

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immagini e azioni, di ricreare ambienti o rivivere relazioni e affetti,

attaccamenti e perdite. Nel momento in cui la persona inizia a parlare di

se stessa il testo parlato o scritto che desidera costruire , realizza una

seconda nascita: come ha detto Aldo Giorgio Gargani, <<noi abbiamo

una nascita che è determinata dall’atto di procreazione dei nostri

genitori, e che poi è modellata dalle autorità parentali, familiari, sociali,

culturali e da tutte queste istanze noi siamo resi responsabili … Ma c’è

poi una nuova nascita, che non è quella recepita dall’esterno e che è

precisamente la nascita che noi ci diamo da noi stessi raccontando la

nostra storia, ridefinendola con la nostra scrittura che stabilisce il nuovo

stile secondo il quale noi ora esigiamo di essere compresi dagli altri.

E’ questa la nascita che noi, attraverso la scrittura ci diamo da noi

stessi.>>111

E’ la nascita che deriva dalla conversazione assidua con le emozioni e

con i sentimenti sbiaditi, suscitati dai propri ricordi.

La prima emozione che genera il ricordare è la sorpresa di scoprirsi

capaci di ricordare, di aver vissuto eventi, situazioni,incontri, istanti, che

si credevano cancellati per sempre e, quindi, non vissuti.

Poi, all’improvviso, nelle situazioni più impensate e inopportune,

compaiono guizzi di immagini del passato ed inizia il ricordo che, porta

con sé sensazioni di piacere e o di lacerazione. Il ricordo si porta dietro

stati d’animo che non hanno nulla a che fare con le emozioni vissute nel

presente.

<<Malinconia, nostalgia, rimpianto, scrive Demetrio, sono solitamente

considerati i sentimenti più associabili di altri al lavoro della memoria.

Non sono i soli, però, senza dubbio: l’ira, il disappunto, l’invidia, l’odio,

io ritorno di fiamma, la vendetta, l’ironia fanno parte anch’essi del 111 A.G.GARGANI, Il testo del tempo, Roma Bari, Laterza, 1992, pp.4,5.

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repertorio di immagini e circostanze ormai sigillate dal passato che

tornano a occupare la mente … In tutti i casi, ciò che accomuna le

emozioni crepuscolari e romantiche alle inquietudini dell’animo non

ancora sopite, è la dimensione del desiderio.>>112

Questo termine, anche se sembra più apprezzabile, riferito a proiezioni

verso il futuro, è utilizzato per raccontare eventi e situazioni del passato

perché il ricordare genera un desiderio, e non importa se esso è fonte di

tortura o di liberazione, se è fonte di piacere o di dolore.

L’emozione del ricordo è desiderante e, può anche, trasformarsi in atto

progettuale consapevole per chi si appresta a ricordare allo scopo di

trovar pace con se stesso e con il mondo. Si è certi, infatti, che i bei

ricordi spingono la persona a ripetere certe esperienze, a rivisitare

determinati luoghi, e ad incontrare persone già conosciute, o a provare

nuovamente vecchie sensazioni.

La riuscita di questa esperienza non è una garanzia per nessuno, anzi

essa può risultare addirittura devastante per la persona: per questo nella

vita di tutti i giorni c’è chi ha il coraggio di ripetere un’esperienza

trasformatasi in ricordo, e chi preferisce non farlo per evitare sofferenze.

A questo proposito Aldo Giorgio Gargani sostiene che è buona cosa

riconoscersi nel fatto che << gli eventi non restano, a differenza dei

concetti, che si ripetono, gli eventi non si ripresentano, e sarà per questo

che essi costituiscono la radice della nostra sofferenza … Gli eventi,

proprio perché non si ripetono, sono l’antefatto del nostro dolore

d’abbandono.

Siamo passati per gli eventi che ogni volta ci hanno abbandonati, e ora

ogni evento è la scena del medesimo dolore che si ripete … Ogni evento

è la vita stessa che sopravviene nella sua onda piena ed è poi anche il 112 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come …, p.76.

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segno del suo abbandono, del fatto che siamo abbandonati dal bagliore

che ci ha ferito ed attraversato.>>113

Per questo il desiderio deve diventare progetto di ricerca dei propri

ricordi da modellare su un pezzo di marmo, da dipingere sulla tela di un

quadro, da trascrivere su uno spartito musicale o da stampare sulla carta:

la scrittura autobiografica quando vuole recuperare il passato, il vissuto

della persona, può farlo anche senza cercare una forma originale o

quella migliore, perché ciò che conta è seguire una personale autonomia

che rispecchi il proprio progetto.

Secondo Demetrio, <<si ricorda per mettere ordine nella propria casa

interiore, senza fretta e ossessione. Ma se questo ricordare è troppo

faticoso è meglio smettere. Deve essere un gioco: non è concepibile un

gioco che ci toglie libertà … Si gioca con i propri ricordi per felicità

spontanea o perseguita, rimescolando il bello e il brutto. Nel primo caso

la sensazione di benessere e gioia ci prende quando ci gingilliamo con

quanto si è vissuto, nell’autogratificazione che ciò sia accaduto a noi;

nel secondo, quando lo scavo interiore porta alla luce eventi e

circostanze che ci mostrano quanto siamo cambiati , si spera in meglio,

nel tempo; quando è mutata la nostra visione delle cose e quanta strada

ci avvediamo di aver fatto distaccandoci da luoghi e persone o

mantenendo con loro, nel corso degli anni, una relazione che comunque

sarà cambiata.>>114

Il lavoro autobiografico come gioco rievocativo, deve liberare la persona

da dubbi e incertezze che angosciano, perché ciò che conta non è la

ricerca della precisione assoluta nel ricordare le date , episodi,

113 A.G.GARGANI, Il testo del tempo, pp.20,21. 114 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come …, p.79.

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avvenimenti vissuti, ma la consapevolezza di immaginarsi miopi rispetto

ai ricordi.

Questa capacità sarà in grado di generare nella persona il rispetto per

tutto il suo vissuto e l’accettazione anche di quegli atti inaccettabili.

A questo proposito il grande narratore russo, Israil Metter, suggerisce di

entrare con rispetto, e in silenzio, nella propria vita, nella consapevolezza

che nulla può esser più modificato o spostato perché è avvenuto per

sempre. Egli, infatti, scrive: <<tutt’attorno al mio remoto passato vado

camminando in punta di piedi; entrando, sostituisco le scarpe, come nel

vestibolo di un museo, con morbide pantofole.>>115

<<Io so di avere una storia”, e di consistere in questa storia anche

quando non mi soffermo a raccontarmela rivivendone con la memoria

alcuni episodi attraverso una sorta di monologo interiore.>>116

Nell’incessante lavoro di ricostruzione, l’autobiografia, si serve della

memoria episodica che potremmo chiamare personale la quale, nella

riorganizzazione del significato dell’esistenza della persona, agisce in

maniera selettiva. Con il passare del tempo il ricordo di un avvenimento

autobiografico riguarda soprattutto e soltanto gli aspetti più importanti,

quelli nutriti dalla conoscenza generale relativa a quel determinato

evento.

Così il pensiero autobiografico garantisce alla persona di spaziare nel

mondo della memoria, facendolo sentire vivere grazie alla percezione di

essere esistiti nel tempo, e gli permette la ricerca di frammenti di vita da

sottrarre all’oblio.

La memoria, quindi, quando si trova davanti un episodio o una parte di

vita della persona , opera in tre modi distinti: 115 I.METTER, Genealogia, Torino, Einaudi, 1994, p.60. 116 A. CAVARERO, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1996, p.50.

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-in un primo momento essa rievoca, cioè ridona voce ai ricordi, agli

avvenimenti, alle figure animate e inanimate richiamandoli alla memoria

propria e altrui;

-successivamente essa ricorda, cioè rievoca risvegliando emozioni

particolari nei racconti della persona;

-infine essa rimembra,cioè ricompone in una forma organica le varie

parti del passato.

L’autobiografia allora appare come una ricerca ,un continuo scavo nel

passato, come un rivivere per riscoprire, per interpretare e far parlare gli

avvenimenti importanti vissuti dalla persona con le sue azioni vive nel

presente e si protende nel futuro.

Infatti la memoria è custode di ogni legame fra il passato e il futuro,

governa il presente conscio ed inconscio; la memoria consente di

riconoscere e di scoprire ciò che non potremmo svelare, in mancanza dei

dati e delle percezioni che generano le inferenze necessarie

all’immaginazione, trasformandosi in racconto di avventure vissute.

Scrive Elias Canetti << bellissima è la rianimazione del passato: essendo

dimenticato da tanto tempo, adesso il passato diventa più vero. Si può

continuamente dimenticarlo di nuovo, si può intensificare la verità? […]

il passato diventa in tutti i casi troppo bello. Proviamo a far raccontare da

qualcuno il passato più tremendo: non appena l’avrà raccontato , sarà

troppo bello. La gioia e il compiacimento di essere ancora vivi dopo

determinate esperienze ne colora la descrizione.>>117

<< Quando ripensiamo a ciò che abbiamo vissuto, creiamo un altro noi.

Lo vediamo agire, amare, sbagliare, soffrire, godere, mentire, ammalarsi

117 E.CANETTI, Il cuore segreto dell’orologio, Milano, Edizioni Adelphi, 1987, p.22.

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e gioire: ci sdoppiamo, ci bilochiamo, ci moltiplichiamo. Assistiamo allo

spettacolo della nostra vita come spettatori.>>118

Si aprono tanti diversi “io” che corrispondono alle diverse identità del

nostro “io multiplo”, un “io demiurgo”, un “io tessitore”, come lo

definisce Demetrio, che collega e intreccia; ricostruendo, costruisce e

cerca quell’unica cosa che vale la pena cercare -.per il giusto cercare-

costituita dal senso della nostra vita e dalla vita.>>119

Nel momento in cui ciascuno di noi impara, senza paura a sdoppiarsi e a

moltiplicarsi, prova anche l’emozione di rinascere, perché assieme alla

nascita dei molti “io” che è stato nel passato, è possibile seguirli nei loro

passi e nella loro confusione per poi collocarli in una sequenza

cronologica sulla base della quale ricostruire la propria storia di vita.

Gli eventi che riemergono dal passatoi sono quelli che hanno contato e

che continuano ad avere un peso rilevante nella vita della persona e sarà

soprattutto ilo presente a realizzare un’azione modellante e creatrice sul

passato, richiamandolo all’interno di un progetto unitario e generale di

esistenza.

Demetrio considera la scrittura autobiografica un metodo per scoprirsi,

per abitare il presente e contemporaneamente il passato o il futuro; per

rivisitarlo individuando nel passato le tracce della continuità, del

riemergere di emozioni o desideri, delle valutazioni in sospeso e di ciò

che è stato portato a termine; per esplorare scene non viste; per

comprendere e realizzare la ricostruzione e la ricomposizione di un

puzzle che , a lavoro ultimato, consegnerà il disegno di una vita vissuta.

In questa visione quindi, l’autobiografia si presenta come un metodo

cognitivo che include memoria e reminescenza e che, ci conduce a

118 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come … p.12. 119 Ibi,p.14.

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redigere , grazie alla pazienza dell’io tessitore, non una ma molte altre

versioni della nostra esistenza.

Se il primo è il metodo della retrospezione, degli sguardi al passato, il

secondo è quello dell’interpretazione, … il terzo momento sarà infine

dedicato alla creazione di vicende e personaggi che, pur traendo

alimento dalla nostra storia e da tante altre, diventeranno altro da noi …

poiché evocare è invito a guardare con occhi diversi il fluire dei giorni

nuovi; ripensare è riflettere sull’oggi comparando e individuando le

profonde differenze; rimembrare è ricollocare nel loro giusto posto le

azioni , le decisioni, le scelte trascorse scoprendo che non le stiamo

riponendo in qualche luogo per dimenticarle ancora, bensì per utilizzarle

in altre occasioni.>>120

Il lavoro autobiografico allora, è la traduzione della nostra vita, per

questo Proust sosteneva che forse un libro non va inventato, bensì, visto

che esiste già in ciascuno di noi , va tradotto. I ricordi, già immagine del

mondo quando nascono lo sono ancora di più quando li evochiamo.121

Essi corrispondono a quelle che Nietzsche chiamava “le vere epoche

della vita”, e che coincidono con quei brevi periodi di sosta “tra il

sorgere e transitare di un pensiero o un sentimento dominante”, e in cui

gli eventi principali, più significativi si rivelano i momenti decisivi o

“pivot” (perno) per i francesi i quali, nel lavoro della memoria , sono i

primi ad esser ritrovati perché ad essi, mentre sono stati vissuti, è stato

attribuito un senso. Se nel corso della vita ciascuna persona è stata in

grado di dare alle cose , alle persone, ai sentimenti il loro giusto nome,

essi possono entrare a far parte dei loro ricordi personali e riapparire 120 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come…, pp.17,18. 121 Cfr.M.PROUST, Il tempo ritrovato, traduzione it. Di Giuseppe Grasso, Roma, Grandi Tascabili Newton, 1990.

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soltanto quando la persona ha deciso di raccontarsi. Generalmente i

ricordi sono indicati lungo una linea del tempo a carattere diacronico,

dove tutto è scandito secondo una successione temporale lineare segnata

cronologicamente dai momenti e dai passaggi salienti dell’esistenza. La

distribuzione del tempo della vita vissuta avviene in ragione di domande

che ci poniamo, e relative al prima e dopo certi periodi, certi anni o certi

momenti. Tuttavia, possono presentarsi situazioni che non permettono ai

ricordi di allinearsi con regolarità: ciò è possibile quando si manifestano

eventi cruciali quali un tradimento, una morte, una malattia etc. che

interrompono la continuità e la persona allora, posiziona gli eventi a

seconda che siano successi prima o dopo quelle interruzioni. Anzi tali

interruzioni saranno utilizzati per collocare i ricordi come accaduti prima

o dopo. Tuttavia, ciò che conta considerare è la certezza che chi scrive la

propria autobiografia lo fa “non per soffrire solamente: è forse possibile

farlo controvoglia, e proprio perché lo facciamo, manifestiamo così,

attraverso il rivivere la nostra voglia di vivere ancora. La tensione verso

il passato restaura quella per il futuro attraverso un’occupazione che si

svolge comunque nel presente.122

4.1L’autobiografia come cura di sé

La persona che si costruisce come autobiografia, si appropria del suo

passato e tesse la trama della propria apertura di vita verso il futuro. In

questo lavoro è accompagnata dalla consapevolezza che il suo vissuto è

un insieme di passaggi che confluiscono in un processo unitario e

continuo di costruzione del sé.

122 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come…,p.91.

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Tuttavia, in ogni momento la persona può interrompere questa continuità

e sottoporsi ad auto-osservazione nel senso della propria identità e ad

auto-interrogazione sul senso della propria vita. Il momento in cui

ciascuna persona sente il bisogno di interrogarsi e di raccontarsi è, come

dice Demetrio, <<segno inequivocabile di una tappa della propria

maturità. Poco importa che ciò accada a vent’anni piuttosto che a ottanta.

E’ l’evento che conta , che sancisce la tradizione a un altro modo di

essere e di pensare. E’ la comparsa di un bisogno che cerca di farsi

spazio tra gli altri pensieri, che cerca di rubare un po’ di tempo per

occuparsi di se stessi.>>123

Quindi, le domande: Che cosa stà accadendo adesso? Che cosa sto

pensando? Che cosa sto facendo? Vogliono dire interrogarsi sulla

propria storia di vita, e le risposte ad esse, con i diversi approcci

ermeneutici, che ne possono derivare , significano mostrare o donare ad

altri il proprio vissuto: l’importante è essere veri a se stessi, essere

assolutamente sinceri con se stessi, e imparare a guardare e a fruire di ciò

che si è stati e scoperto per caso , anche se, poi, la nostra verità, non

diverrà mai parola scritta o ascoltata. A questo proposito Elias Canetti

sostiene:<< quando scrivi la tua vita, in ogni pagina dovrebbe esserci

qualcosa di cui mai un uomo abbia ancora sentito parlare>>124 e che,

<<chi indaga su se stesso finisce, lo voglia o no, con l’indagare su tutto

il resto. Impara a vedere se stesso, ma all’improvviso, solo che abbia

guardato onestamente, gli appare tutto il resto, che non è meno ricco di

quanto lo fosse lui stesso, e anzi, ancora più ricco.>>125 E ancora, scrive

l’autore, è bene accettare di <<non venire a capo di nulla, iniziare e

123 Ibi, p.21. 124 E.CANETTI, Il cuore segreto dell’orologio, p.20. 125 Ibi, p.34.

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lasciare in sospeso; o non sarà semplicemente un’astuta ricetta dell’uomo

anziano che tiene aperte mille cose per non chiudersi?>>126

Lo scavo autobiografico nella propria vita, allora, nasce come una

necessità di ricominciare a vivere e a cercare , perché, nel momento in

cui inizia un indagine, ci si imbatte in enigmi e misteri , a volte in

spiegazioni impossibili che riguardano avvenimenti ormai scomparsi per

essere irripetibili. Per questo, Demetrio sostiene:<<il ricordo del passato

ci cura soltanto quando è , almeno la promessa di ulteriore futuro per la

mente , e in quanto molteplice –dentro e fuori di noi- è una risorsa. Il

passato ci cura forse ancora di più quando abbiamo la soddisfazione di

riscoprirci in molti. Al passato e al presente. E’ ciò che ci assicura perché

il problema non è quello di rintracciare il vero io, il personaggio che

siamo stati o siamo. Lo scopo diventa la ricerca di molti ruoli, delle

molte parti recitate e della figura che più ci interessa impersonificare in

quel momento o istante di vita.>>127

Per questo motivo il lavoro autobiografico ha funzione pedagogica e

formativa, esso infatti, rappresenta un modo completo, anche se

complesso di apprendere dalla propria vita in continua evoluzione e

trasformazione, senza rinunciare al passato, bensì guardando ad esso

come ad una modalità di recupero degli avvenimenti caratterizzanti la

persona.

Il lavoro autobiografico si manifesta come un ricco contributo

all’educazione esperienziale nel presente , perché, come più volte ripete

nelle sue opere Demetrio, attraverso il “fare e rifare esperienza si

alimenta l’oggi, ma deve anche intrattenere con il passato una

frequentazione incessante.”

126 Ibi, p.48,49. 127 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come …, p.35.

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Ed anche la progettualità futura, connaturata al lavoro autobiografico, si

ricopre un ruolo pedagogico e formativo perché attraverso i progetti e le

ambizioni personali, come testimonianza della capacità e del potere

progettuale presente lungo tutta l’esistenza, e in ogni tappa importante

della vita della persona, appare come un elemento che deve

continuamente essere coltivato nelle relazioni educative quale datore di

senso e significato che testimonia la disponibilità al cambiamento in

prospettiva evolutiva.

Oggi gli studi sull’educazione sono fortemente persuasi che il racconto

di sé, o autobiografia, sia in grado di favorire e promuovere ilo

cambiamento in senso evolutivo, anzi la lettura e la rivisitazione degli

avvenimenti personali permette il recupero della memoria di sé e delle

plurime memorie esistenziali che permettono un ritorno al passato, dal

quale recuperare i ricordi più significativi ma anche quelli negativi,

utilizzabili per vivere meglio il presente e per creare, in prospettiva

educativo-formativa, il futuro.

Questo vuol dire anche considerare la ricognizione autobiografica come

un metodo che si fonda essenzialmente sull’autoformazione, sul disegno

di vita stabilito da ciascuna persona, sull’appropriazione delle

conoscenze del soggetto da parte del soggetto. Così intesa allora, la

ricognizione autobiografica è trasmissione dell’esperienza personale ma

anche relazione comunicativa tra soggetti che si raccontano e che sono

reciprocamente coinvolti sul piano esistenziale ed esperienziale.

I racconti autobiografici, intesi come il frutto dell’interrogazione, della

interpretazione e della progettualità personale, in ogni caso risultano

volti ad una finalità trasformativa, educativa e formativa del per ogni

soggetto che voglia prendere coscienza di sé sul piano percettivo,

emotivo ed intellettivo.

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Quindi l’autobiografia è considerata un vero e proprio metodo educativo,

perché è capace di portare concreti risultati in termini di recupero, di

cambiamento e di progettualità.128

Anche nel passato la scrittura di sé, della propria storia di vita era

considerata un’attività terapeutica, una vera e propria cura, una sorta di

medicina dell’anima che guariva la persona restituendo storia alla vita.

I greci ad esempio utilizzavano la massima: Occupati di te stesso, mentre

i latini consideravano l’otium come cura sui, cioè una vera e propria

medicina del corpo e dell’anima.

Gli esponenti del pensiero dell’Occidente, poeti, filosofi e contemplativi

si accorsero in un primo momento che la dettatura delle proprie

memorie a scribi o liberti sviluppava una sorta di pietas di se che li

faceva star meglio creando quella speciale sensazione di benessere e di

pace che, generalmente, implementa la reminiscenza.

Demetrio scrive che questa sensazione di benessere viene identificata dal

cristianesimo con la compassione, ed è <<una sensazione che a seconda

delle convinzioni dell’educazione ricevuta, è paragonabile al senso di

liberazione che nasce dall’ammissione delle proprie colpe, sia di fronte a

Dio che di fronte agli uomini e, la conseguente presentazione delle

proprie scuse. Nel primo caso ricordare è bello, nel secondo caso è

giusto. Tuttavia, in entrambi i casi, la narrazione degli eventi personali è

un lasciarsi andare , è uno sfogo interiore che rimembra e ricostruisce

una storia di vita.>>129

Questa antica pratica pedagogica comunicativa ha un’antica tradizione

storica, era già utilizzata da Seneca e Marco Aurelio che scrissero lettere

e ricordi in funzione auto terapeutica, del più psicologico per il primo, 128 Cfr.D.DEMETRIO, L’educatore auto(bio)grafo. Il metodo delle storie di vita nelle relazioni d’aiuto. Milano, Edizioni Unicopoli, 1999. 129 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come …, p.43,44.

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più morale per il secondo. Sul loro esempio si mossero anche i primi

padri della chiesa che ad essi si ispirarono in funzione mistica, il più

conosciuto è Sant’ Agostino da Ippona, seguito dall’abate Abelardo e,

dopo molti secoli, da santa Teresa d’Avila e da sant’Ignazio di Loyola.

Non mancano opere specifiche realizzate da parte di filosofi o letterati

come Michel de Montaigne, Pascal, Rousseau, ma anche Proust, Pessoa,

Hesse ed altri, e tutta la letteratura femminile relativa alla tematica di

emancipazione della donna nel 1900.130

Le opere di questi autori, anche se rientrano in diversi generi di scrittura

biografica, fissano nell’arco della loro vita la parte positiva o negativa

che, in qualche modo ha corretto, trasformato, e realizzato la loro

salvezza.

Oggi questo dispositivo della cura di sé, legato ad un individuo più

fragile, più alla ricerca di se stesso e più problematico in sé, viene

proposto come tema centrale anche nella nostra attualità, da Foucault.

L’autore francese è conosciuto per i suoi studi sulle origini della

concezione di sé e delle pratiche di cura, che si ritrova sia nella filosofia

greca e romana, che nella patristica cristiana.

Nella sua opera l’autore scrive:<< possiamo richiamarci allora a un

fenomeno spesso evocato: l’emergere, nel mondo ellenico e romano di

un individualismo volto ad accordare uno spazio sempre maggiore agli

aspetti privati dell’esistenza, ai valori del comportamento personale e

all’interesse che si nutre per se stessi […] il movimento ascetico

cristiano dei primi secoli si è presentato come un’accentuazione

estremamente forte dei rapporti con sé.131

130 Menzionandone alcune: De Beauvoir, Cardinal, Well. 131 M.FOUCAULT, La cura di sé, Milano, Feltrinelli, 1993, pp.45-47.

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Egli, tuttavia, è conosciuto per l’attenzione rivolta alla ricerca storica di

quattro tipi fondamentali di tecnologie. Queste ultime sono definite le <<

pratiche attraverso cui gli individui, da soli o con l’aiuto di altri,

agiscono sul proprio corpo, sulla propria anima, sui propri pensieri, sul

proprio comportamento e sul proprio modo di essere, allo scopo di

trasformare se stessi e di raggiungere un determinato stato di perfezione

o di felicità, o diventare saggi o immortali.132

In effetti, utilizzando questo termine Foucault si riferiva al modo in cui

l’individuo apprende da solo , o nelle relazioni di vita a trasformarsi in

soggetto riflettendo sul proprio essere e sulla propria condizione.

Foucault sostiene che la cultura di sé può essere caratterizzata dal fatto

che<<l’arte dell’esistenza -la tecne tou biou nelle sue diverse forme- vi

si trova dominata dal principio in base al quale “bisogna avere cura di sé

stessi”; ed è tale principio della cura di sé che ne stabilisce la necessità,

ne dirige lo sviluppo e ne organizza la pratica, […] l’individuo deve

occuparsi innanzitutto di sé stesso -e subito, finché è giovane, perché a

cinquant’anni sarebbe troppo tardi.>>133

Le tecnologie cui fa riferimento Foucault sono tecnologie di produzione,

dirette a realizzare e a manipolare gli oggetti; le tecnologie dei sistemi di

segni, che ci permettono di far uso di simboli, di significati; le

tecnologie del potere, che regolano la condotta delle persone e le

sottomettono a determinati scopi; infine le tecnologie del sé, che

permettono alle persone di attuare, utilizzando i propri mezzi o

sfruttando l’aiuto di altri; un certo numero di operazioni sul proprio

corpo e sulla propria anima –dai pensieri al comportamento, al modo di

essere- e di realizzare così una trasformazione di se stessi allo scopo di 132 M.FOUCAULT, cit, in D.DEMETRIO, L’educazione nella vita adulta. Per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, Roma, La Nuova Italia Scientifica,1995, p.89. 133 M.FOUCAULT, La cura di sé, pp.47,48.

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raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, , saggezza,

perfezione o immortalità.134

Foucault nei suoi studi si è soffermato, soprattutto sul concetto di

tecnologie del sé, riferendosi a procedimenti intenzionali e riconducibili

a categorie pedagogiche che inducono soprattutto un soggetto adulto a

trasformarsi in soggetto autoriflessivo e cosciente. In quanto tali,

comportano sempre disciplina e volontà; infatti “L’epimeleia heautou, la

cura sui, implica un preciso lavoro. Richiede del tempo.

Uno dei grandi problemi di questa cultura di sé consiste appunto, nel

fissare, nell’arco della giornata o in quello della vita, la parte che è

opportuno consacrarle.135

Si realizzano, in questo modo due fondamentali mete del mondo

classico, in perfetta interazione fra loro, alla quale una studiosa

americana ne ha aggiunta una terza comunque presente nel mondo

classico:

a) L’occuparsi di se stessi;

b) Il conoscere se stesso;

c) L’amore di sé.

Nel mondo classico l’educazione di Sé intesa come attenzione rivolta a

se stessi ma anche come maggiore conoscenza interiore, obbediva a

precise e severe regole da rispettare, inoltre, essa costituiva la condizione

necessaria d’accesso alle tecniche dell’autoconoscenza.

La cura di sé diventava parte integrante del progetto auto educativo , di

chi si apprestava a divenire adulto.

134 M.FOUCAULT, cit. D.DEMETRIO, L’educazione nella vita adulta. Per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, p.90. 135 Cfr.M.FOUCAULT, La cura di sé, p.54

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Socrate, ad esempio, la consigliava soprattutto all’uomo politico, il

quale, proprio occupandosi maggiormente di sé stesso, poteva

comprendere meglio le cose degli altri e governare la polis.

Di un certo rilievo pedagogico è anche il rapporto con il mentore, cioè

con il precettore, il cui compito specifico era quello di istruire il

protetto.

La cura di se, quindi, si compiva grazie alla mediazione di un educatore,

di maggiore sapienza ed esperienza, e alla tensione verso una perfezione

che si desiderava raggiungere.

Si nota, allora, com’era fortemente sentita l’educazione nel passato e

soprattutto che cosa essa dovesse produrre. Era considerata un’attività

che produce un divenire consapevole ed esperto di tipo finalizzato, con

un conseguente cambiamento.

Oggi ci si chiede se l’autobiografia possa essere usata da tutti con cura

personale. E la risposta non è solo affermativa.

Infatti, lo psicologo clinico Paul Fraisse, sostiene che il rifugio nel

passato non è possibile nei casi di malattia patologica; quando la propria

vita appare informe o quando i ricordi rievocano ingiustizie subite o

inferte, perché il passato può, al contrario, trasformarsi in un ulteriore

fonte di sofferenza e malessere.

Nella maggior parte dei casi chi si racconta lo fa per pentirsi, per il

semplice piacere di raccontarsi, per giustificarsi o scusarsi, per

conoscersi o stare meglio nei confronti di un pubblico individuato o

potenziale; generalmente dietro uno scritto autobiografico c’è sempre

una motivazione.

Ad esempio sant’Agostino scrisse “ Le Confessioni” per un’entità

superiore, Michel de Montaigne scrisse gli “Essais”, per il proprio

piacere narrativo (in effetti più che un’opera autobiografica essi

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costituiscono un diario intimo); infine, Rousseau scrisse per rivolgersi

alla società civile.

Nei tre casi sopra menzionati, l’autobiografia si prefigge il compito di

dimostrare che esiste un’entità dai contorni incerti e misteriosi chiamata

io, separata e immersa nel mondo al tempo stesso.

Questa entità si alimenta sia di questo io sia degli altri, e li ricostruisce

per rimetterli in azione attraverso atti narrativi interni o espressi

chiaramente con la parola o la scrittura.136

Nella società attuale, di solito si sottovaluta l’impulso presente negli

uomini, nelle donne e anche nei bambini, a prendersi cura gli uni degli

altri, e il bisogno che tutti gli esseri umani hanno di essere accuditi.

Il prendersi cura può avvenire ed avviene in un ventaglio di forme,

l’assistenza agli altri esseri umani è parte della composizione di quasi

ogni vita.137

Per sostenere il pensiero di Demetrio, quando siamo in presenza di un

opera autobiografica,<< c’è sempre monologo interiore con se stessi, o

con casuali uditori […] è per questo, allora, che prima degli autori citati,

molto prima del loro tempo, vanno ritrovate le tracce del lavoro

autobiografico nei processi mentali umani.>>138

Allora, se l’autobiografia deve essere curativa come la intesero anche i

primi autobiografi, deve possedere almeno delle condizioni che, nella

loro azione offrono aiuto e sollievo.

Secondo Demetrio le condizioni per star bene con la propria storia sono

almeno cinque:

1)Le dissolvenze. Questa prima condizione è costituita dal piacere che

deriva dal ricordare. Le immagini compaiono quasi inconsistenti e 136 Cfr.D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé. 137 Cfr.M.C.BATESON,Comporre una vita, Milano, La Feltrinelli, 1992. 138 D.DEMETRIO,Raccontarsi. L’autobiografia come …, p.62-63.

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vaghe, dai contorni sfumati e sbiaditi. Anche i ricordi più nitidi

posseggono questa caratteristica nei suoni e nei toni, Le persone, i

paesaggi, le diverse immagini e situazioni sono attutiti nei colori e nel

movimento. Scrive Demetrio:<< Possiamo rimemorare voci, grida, frasi,

oppure eventi foschi e assai pesanti per l’anima, tuttavia, l’effetto è

sempre lo stesso: nulla è mai completamente a fuoco e nulla è mai

chiassoso.>>139

Il potere curativo della dissolvenza tiene vivo un sentimento di distacco,

mentale ed emozionale, che è il primo requisito di benessere che dipende

soltanto dalla persona.

2) Le convivenze. Questa seconda condizione ha inizio dove finisce la

prima. Sicuramente le storie che stanno svanendo è bene comunicarle

agli altri e non conservarle per sé. Ciò significa sviluppare il racconto e

l’ascolto del passato come mezzo di formazione personale e di

educazione altrui, anche quando la persona racconta cose che riguardano,

ad esempio, la scienza: perché ciò che conta è la consapevolezza che egli

racconta ciò in cui crede o ciò di cui dubita e, in queste vesti, si mostra

quotidianamente. Demetrio afferma che la riapparizione mattutina sulla

scena della vita , fatto naturale per la stragrande maggioranza degli

individui, (ma non per chi sta male e non si sente presentabile), coincide

con la narrazione , pur nei gesti e nelle azioni soltanto , di frammenti

della propria biografia. La cura intrapresa è già di per sé una sorta di

cura spontanea di palese carattere autobiografico. Corrisponde

all’esibizione del nostro biglietto da visita: simbolo trasparente della

139 Ibi, p.47.

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disponibilità ad ascoltare e a essere ascoltati,e, soprattutto, a essere

ricordati e cercati ancora.140

3)Le ricomposizioni. Questa condizione si fa strada quando nel

raccontare il ricordo ci trasmette la sensazione di tenere tutto insieme.

Infatti, secondo quanto sostiene Demetrio, <<il singolo ricordo, pur

gratificandoci con quel dissolvente processo cognitivo che lo

caratterizza, da solo non è mai una cura sufficiente. La mente non si

accontenta di evocare, per lo meno quando si occupa della propria

autobiografia. Ha bisogno di gettare le reti tra i ricordi, per trattenerne il

più possibile; ma soprattutto “ metterli in rete”. Facendoli conversare fra

loro in collegamento e rapporto[…]. I ricordi d’infanzia dialogano con

quelli parimenti puerili degli anni successivi; gli episodi giovanili non

possono fare a meno di andare a cercare quelli dei bambini, per

conoscere se fra essi sussistano continuità o nette fratture.141Solo

attraverso questo lavoro di continuo scavo autobiografico la persona può

realizzare la funzione curativa dell’autobiografia che si nutre non solo

del semplice ascolto e racconto, ma mediante la trama interiore che

ciascuno ha costruito e che ha dato luogo a immagini, forme e

soprattutto, a nuove storie.

4)Le invenzioni. Questa quarta proprietà curativa dell’autobiografia

vuol mettere in evidenza che non è sufficiente scrivere gli avvenimenti,

così come sono successi, e che la persona ritiene caratterizzino la sua

storia di vita fino a questo momento. E’ necessario ricorrere

all’immaginario autobiografico che, da una parte, facilita la scrittura

personale (infatti, non tutti hanno familiarità con lo scrivere o sono dotati

di una fluidità discorsiva tale da provarne un immediato piacere), e

140 Ibi, p.49. 141 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come …, cit. pp.50-51.

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d’altra parte manipola a piacere l’esistenza della persona. <<In questo

caso la cura è quanto mai antica e risaputa: ogni autobiografo celebre o

modesto ha immaginato se stesso, a seconda degli intenti, ora nel

peggior modo possibile, ora nel migliore, ora nella sua mediocrità. In

tutti i casi una fiction è stata e viene prodotta ogni volta. La realtà, quale

essa sia (e ammesso che ce ne sia una) nel momento in cui viene

trascritta, dipinta, fotografata, messa in note cambia di registro, assume

un altro volto […] e questa sorta di manipolazione inevitabile ci

conferma in modo lampante che la vita delle cose è sempre un riflesso

della vita della mente e che, di conseguenza, la vita rappresentata è

un'altra vita ancora.142

5)La spersonalizzazione. Demetrio sostiene che lo scrivere

autobiografie non è una pratica clinica a tutti gli effetti anche se esso è

stato sperimentato già alla fine dell’Ottocento, mostrando ottimi risultati.

Tuttavia, la scrittura autobiografica è stata nel passato ed è ancora oggi,

una vera e propria cura per numerosi autori in campo letterario,

filosofico ma anche in campo psico-terapeutico. All’autobiografia serve

metodicità, precisa organizzazione ma soprattutto: spersonalizzazione.

Per quanto riguarda questa condizione, Bruner afferma che <<uno

dovrebbe, almeno credo, terminare un’autobiografia cercando di

delineare che cosa intende per “se stesso”. In effetti è un’impresa

disperata, poiché nel momento in cui ci si mette a pensare al problema

appare chiaro che i confini della personalità si dileguano come neve al

sole..>>143 Per Demetrio:<< la spersonalizzazione non si compie

attraverso il riconoscimento di appartenere a una famiglia umana

naturale dalla quale in seguito si formeranno altre famiglie e

142 Ibi, p.53,54. 143 J.BRUNER,Autobiografia. Alla ricerca della mente. Roma, Armando, 1983, pp.287,288.

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constatando che dalla famiglia non c’è scampo e che ogni solitudine è

sempre fuga apparente, o momentaneo momento di transizione da una

famiglia ad un’altra. C’è spersonalizzazione quando la famiglia è

disposta a fare ricerca autobiografica con metodi e strumenti sofisticati

occupandosi delle storie degli altri, e cioè pronto a spingersi verso la

conoscenza delle altrui storie di vita ; oppure quando diventa educatore

autobiografico al fine di coinvolgere gli altri in questa metodologia di

cura.144

Comunque, la cura migliore del lavoro autobiografico, rimane la

realizzazione di un testo. Aldo Giorgio Gargani afferma che <<dare un

testo della propria vita o della propria realtà è dare un testo non della

storia, bensì della propria presenza che è appunto quel testo. Il testo si

oppone alla successione del tempo, il testo è l’antitempo, il testo è il

dispiegamento della presenza come attestazione della mia realtà

indifferente al prima, all’adesso, al dopo; la mia presenza è la mia realtà

che fuoriesce dalla storia. Nella storia mi spiego e mi descrivo, nella

presenza sono.>>145

4.2 L’azione educativa autobiografica rivolta a se stessi.

Ciò che ogni persona intuisce, coglie, osserva, ascolta, registra,

comunica in forma orale o scritta, in una parola vive continuamente nel

corso della sua esistenza, diventa parte integrante, ma in modo

pressoché inconscio, del suo mondo cognitivo che, di conseguenza, è

144 Cfr.D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia … 145 A.G.GARGANI Il testo del tempo, p.8.

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anche il risultato di un insieme di un insieme di pensieri e di opinioni,

modi di essere propri di altre persone .

Tutto ciò mette la persona in uno stato di crescita continua, grazie alla

consapevolezza di poter usufruire di ulteriori occasioni per perseguire

miglioramenti ed arricchimenti nei più disparati campi dello scibile e di

ricavare dalle trasformazioni delle proprie mete vitali, nuove svolte e

nuovi adattamenti apprendibili nel corso di tutta l’esistenza.

Le manifestazioni del bisogno da parte della persona di comunicare,

apprendere, cambiare (o, viceversa, conservare) od anche di

rappresentarsi ai propri e altrui occhi, sono sempre state, e lo sono

tuttora, espressione di una necessità psicologica, simbolica, pratica di

affermazione di se stessi attraverso l’amore, il lavoro e la tecnica, la

creazione di contesti esperienziali anche lucidi e trasgressivi. Tutti

comunque ravvisabili come altrettanti spazi di identificazione, di

autoriconoscimento e scoperta.146 Essi, in quanto modalità di essere e di

agire della persona rientrano tutti nel campo educativo.

Il significato originale ed etimologico della parola educazione deriva dal

latino e-ducere che significa letteralmente condurre fuori, liberare,

portare alla luce qualcosa che è nascosto e si riferisce anche al nutrire,

che significa tutelare una crescita e orientarla. Si intende pertanto, il

processo attraverso il quale la persona riceve e impara quelle particolari

regole di comportamento che sono condivise nel gruppo familiare e nel

più ampio contesto sociale nel quale è inserita.

L’idea deriva dalla filosofia platonico-socratica , secondo la quale

imparare altro non è che un ricordare dalla nostra passata esistenza, e che

146 D.DEMETRIO, L’educazione nella vita adulta. Per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, Roma, NIS, 1995,cit. p.20.

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tale conoscenza deve essere condotta fuori da noi tramite la maieutica,

termine che letteralmente significa: arte del far partorire.

Con Emerson e le scuole a lui ispirate, l’educazione si mostra come auto-

educazione e come auto coltivazione, processi che non si esauriscono

mai, ma che durano per tutta l’esistenza della persona. In questo senso

allora, l’educare corrisponde al guidare e formare qualcuno,

affinandone e sviluppandone le facoltà intellettuali e le qualità morali.

E ancora, possiamo considerarla secondo la definizione del pedagogista

Acone , che la identifica come <<l’autorealizzazione del soggetto/

persona socialmente e culturalmente orientato, sulla scorta di una

costellazione di conoscenze, competenze, valori e significati, in vista di

un orizzonte di senso>>.147

L’educazione, in sintesi, è tutto ciò che induce processi e procedimenti

che rendono una persona, o un gruppo di persone , “diversi da prima”

spesso senza che ciò venga concepito consapevolmente ma come

conseguenza dell’aumento delle conoscenze (si verifica così un

apprendimento), e dello spostamento delle proprie mete che realizzano

cambiamenti. Questi due processi: aumento delle conoscenze e

cambiamento, sono in stretta interazione fra di loro perché, nel momento

in cui cambiano le mete, cambiano anche i saperi e apprendendo nuovi

saperi, si apprende a cambiare e, soprattutto, a saperlo fare.148

L’educazione può essere definita anche come un partecipare attivamente

ad un processo di formazione, sia autonomo che guidato, per favorire lo

sviluppo personale , secondo un modello proprio ma flessibile al tempo

stesso, di cui, protagonista effettivo, è lo stesso soggetto in crescita,

147 G.ACONE L’orizzonte teorico della pedagogia contemporanea. Fondamenti e prospettive, Salerno, Edisud, 2005, p.26. 148 Cfr.D.DEMETRIO, L’educazione nell’età adulta. Per una teoria fenomenologica…

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poiché non si è ancora completamente formati, ma ci si forma lungo tutto

l’arco della vita.

L’autobiografia è formazione, scrive Laura Formenti, non nel senso di

addestramento al e sul lavoro, ma in senso processuale e dinamico.

Formazione deriva da forma , e nella nostra lingua può indicare

indifferentemente l’atto, l’effetto, il processo del formare o del

formarsi.149

Per questo motivo quando si fa un lavoro autobiografico ci si forma,

anzi fare autobiografia è formarsi due volte, perché in un primo

momento si rilegge la formazione, per così dire già realizzata , in un

secondo momento si mette in azione un altro processo di formazione.

L’autobiografia è il viaggio di formazione più importante che ciascuno

possa intraprendere, è uno spazio aperto e incondizionato all’interno del

quale ogni persona possa agire a suo esclusivo piacere.

Infatti, nelle diverse opere autobiografiche la struttura che le caratterizza

può essere colta solo alla fine del lavoro, oppure essa si presenta già

strutturalmente organizzata sin dalle prime pagine.

Ciò dipende dall’autore delle storie di vita in quanto, come scrive lo

stesso Demetrio, <<c’è chi ha bisogno di lasciar fluire entro di sé la

creatività retrospettiva di cui è capace, senza badare alla scansione di

quel che vuole raccontare in ordine di priorità, momenti, figure

eminenti; e c’è chi sente che, senza un abbozzo preliminare dell’intero

canovaccio,, sa già che si troverà a mal partito.>>150

Come si evince, allora, da quanto detto, l’autobiografia, come teoria e

pratica educativa, da genere letterario dotato di proprie e particolari

caratteristiche, si è trasformata in discorso generale sull’educazione. 149 L.FORMENTI, cit. in M.S. Knowles ,La formazione degli adulti come autobiografia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996, p.XIII. 150 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come … cit. pp.145,146.

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Quindi, i memoriali, i diari, i resoconti delle più varie esperienze

educative sono una fonte storiografica di notevole importanza ai fini

della ricostruzione di climi, contesti o scelte di vita della persona.

Per questo motivo oggi, l’autobiografia è considerata un metodo

educativo, ed il ricorso alla metodologia autobiografica si sta

affermando sempre di più anche in Italia e in diversi ambiti disciplinari.

Anche in pedagogia l’autobiografia sta occupando uno spazio sempre più

centrale, sia nel campo pratico che in quello teorico, come strumento di

formazione personale e professionale e come elemento chiave per dar

vita ad una vera e matura pedagogia del soggetto e per il soggetto. Il

progetto educativo odierno pone al centro dell’azione pedagogica

l’autoeducazione di ciascuna persona, si basa sull’importanza

dell’imparare a riflettere soprattutto con e su se stessi, a promuovere le

proprie potenzialità, ad acquisire il più presto possibile indipendenza

intellettuale e creativa facilitando le relazioni umane. A tal proposito

Demetrio aggiunge che questo è un progetto di << verità pedagogica che

educa a distinguersi, a far da soli, a competere a certe scoperte, a

valorizzare la visione personale delle cose in funzione di (per giovani e

giovanissimi) un’autoformazione ai compiti dell’età adulta fondata sullo

sviluppo della consapevolezza e sulla responsabilità dei propri pensieri e

dei propri atti.>>151

E’ la metodologia della continua conferma di chi si è, attraverso la

continua introspezione e meditazione sulle proprie scelte e il proprio

modo di percepire le cose e di rappresentarsi il mondo ma anche di

rappresentarsi al mondo, tenendo conto che tutto ciò avviene stando

comunque con gli altri, lavorando con loro e per loro. Quindi,

l’educazione che risalta l’individualità e l’introspezione, non si 151 Ibi, p.167.

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dimentica degli altri, anzi, scrive Demetrio << le ragioni degli altri sono

interpretabili a partire dalla consapevolezza delle loro ragioni, dal

riconoscimento dei motivi in base ai quali pensano in un certo modo,

agiscono e sognano per fini diversi dai nostri, egotismo solidale e

interiorizzazione come pratica di vita, sono manifestazioni dunque al

contempo dell’ego come alter, del mio io come quello dell’altro che mi

sta accanto, e dell’alter ego dello sdoppiamento, del guardarsi agire e

vivere che soltanto chi sta bene sa fare senza danni e angosce.>>152

Seguire la metodologia autobiografica significa, allora, penetrare

nell’intimità delle persone ridando voce al loro vissuto così da produrre

maturazione e cambiamento non solo in se stessi, ma anche negli altri.

L’autobiografia, per questo, si presenta come un metodo efficace sia

culturalmente, sia soggettivamente, sia formativamente. Essa è un

metodo che arricchisce tutti i fronti della cultura, li perfeziona e li

riconsegna al suo destinatario perché l’autobiografia è una ricca pratica

di scrittura e di pensiero.

Com’è stato affermato, il pensiero autobiografico nasce quasi

istintivamente nella persona allo scopo di tenere insieme una vita e i

ricordi che ne affiorano per tessere le trame del lavoro, appartengono

alla memoria dell’individuo che, nel rimpossessarsi dei frammenti di

esperienza, si trasforma in un impresa di autoformazione.

Per Demetrio, <<ristabilire connessioni tra i ricordi equivale a ricomporli

in figure, disegni, architetture: al di la del piacere, o della penosa

evocazione, il ricordare è una conquista mentale, un apprendere da se

stessi, un imparare a vivere attraverso un rivivere non tanto spontaneo,

quanto piuttosto costruito, meditato, ragionato. Il pensiero autobiografico

152 Ibi, p.168.

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è tante operazioni cognitive insieme. Talvolta distinguibili l’una

dall’altra, talaltra assolutamente fra loro fuse.>>153

I ricordi hanno sempre un significato che si riferisce al mondo, agli

avvenimenti, alle singole persone; essi sono dei segni che, per un verso o

per un altro, hanno caratterizzato la vita della persona ma che rientrano

in un’ampia rete di ricordi che si riaffacciano a seconda delle occasioni,

ora in una scena, ora in una storia. In entrambi i casi, <<la mente non si

limita a rievocare immagini in se isolate, fra loro distinte e vaganti;

l’intelligenza retrospettiva costruisce, collega, e quindi colloca nello

spazio e nel tempo, riesce a dare senso a quell’evento soltanto se lo

socializza: trapassando così dal momento evocativo al momento

interpretativo.>>154

L’autobiografia, come la mente, cerca nessi, cause, collegamenti fra i

ricordi per fornire al protagonista i significati, i valori nei quali ha

creduto nel corso della sua vita e che ha trasformato, o nei confronti

dei quali è rimasto fedele. Con questo bagaglio in seguito si è presentato

al mondo. Generalmente, per sottolineare il pensiero di Demetrio,

<<ogni autobiografia presuppone sempre un ascoltatore, un lettore, un

uditorio. I significati vengono prodotti […] quasi mai per chiudere una

vita. Piuttosto per ricominciarla, trovare altro credito, altri allievi. Altro

pubblico.>>155

Allora la funzione educativa del ricordare è volta a recuperare le

esperienze di vita della persona, è un’azione contro il dimenticare per la

riaffermazione della vita contro la morte, che, anche se non può essere

eliminata, può essere allontanata attraverso la descrizione del vivente e

del suo vissuto che in esso si specchi e si riconosce. 153 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come … cit. p. 60. 154 Ibidem. 155 Ibi, p.61.

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Secondo quanto scrive Demetrio <<il vivere è sentire, la sua memoria è

sentire di aver sentito, è ricerca dell’autore : la verità è perseguita

attraverso il mettere insieme di quanto si è già vissuto in illo tempore.

La memoria cerca di dimostrare che l’esistenza umana può aspirare a

durare “più di un giorno solo” e avere una storia da ricordare , da

rileggere distinguendo tra ciò che dura solo lo spazio di un mattino e le

tracce, più durevoli, scie nel cielo che ciascuno può lasciare nel

tempo.>>156

Quello che non bisogna dimenticare, infatti, è la certezza di <<essere

stati per l’eternità,una volta per tutte e per sempre, nel tempo>>157 che a

ciascuno è dato vivere. Questo è un tempo che non dura un solo istante

bensì è un processo che attraverso le testimonianze scritte ma anche

orali, documenta la crescita personale, i vari miglioramenti, la

progressiva evoluzione e la conseguente trasformazione.

La memoria quindi, è un processo dinamico ed efficiente della mente,

che nell’atto di ricordare evidenzia che ciò che conta è solo il soggetto,

il quale, rielaborando la sua storia, scopre che il suo pensare è frutto di

un lavoro di introspezione che rievoca e restituisce, nella loro ricchezza

e complessità, l’esperienza e l’azione umana, arricchendole di significati

e proponendo, di volta in volta, nuove interpretazioni e chiavi di lettura.

L’introspezione , infatti, intesa come metodo maieutico formativo,

favorisce da parte della persona, la rievocazione, l’interpretazione,

l’elaborazione, la comprensione di eventi,di fatti, di azioni o di

esperienze che possono fornire alla persona stessa particolare

significato, possono essere spiegati e raccontati agli altri, possono essere

collocati in un determinato tempo e in un determinato spazio, possono

156 Ibi, p.66. 157 Ibi, p.67.

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costituire elementi di cura personale, da cui progettare azioni e

comportamenti adeguati.

Questo lavoro introspettivo non è soltanto un autoriconoscimento

immediato e definitivo degli eventi significativi che hanno caratterizzato

e segnato la vita della persona, esso è anche un processo di creazione o

ricerca dell’identità personale perché consente di collegare

razionalmente l’interno con l’esterno, evitando fratture fra il dovere

essere e il poter esser. Al termine di questo lavoro meticoloso deve

derivare un’autobiografia il cui scopo è, come scrive Demetrio:

<<rendere se stessi materia di un libro scritto da se stessi, per un cliente

lettore da individuarsi più per moda e consuetudine che per vera,

profonda , convinzione.>>158

L’attenzione rivolta all’autobiografia come ricerca di identità personale,

riporta nuovamente il discorso sulla molteplicità dei diversi volti

autobiografici o dei diversi io presenti nella persona, mantenuti o

perduti, che il tempo e il pensiero autobiografico si prefiggono, con

risolutezza e metodo, di armonizzare e fondere in un unico io.

Comunque, l’esplorazione interiore, la riflessione personale sul proprio

modo di agire e pensare, il continuo lavoro introspettivo, la profonda

meditazione, se da un lato favoriscono la raccolta degli avvenimenti

standard e quelli eccezionali che la persona vive, dall’altro promettono di

realizzare le storie di vita come strumento per educare e formare. Infatti,

<<l’autobiografia obbliga il nostro cervello ad analizzare, smontare e

rimontare, classificare e ordinare, a collegare, a connettere, a mettere in

sequenza cronologica o, persino ad inventare: allorché dalla storia di se

stessi, dall’osservazione di quanto ci accade nei fatti e nel pensiero, è

quasi una parabola naturale immaginare altre storie curiosando in quelle 158 Ibi,p.71.

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degli altri e imparando a rispettarle, ad ascoltarle, a farle rivivere in altre

storie.>>159

L’autobiografia allora può affinare le abilità e le competenze cognitive,

può ampliare gli interessi della persona grazie al continuo invito alla

lettura, alla informazione e alla documentazione con testi narrativi

favorendo formazione, o, meglio, autoformazione, inoltre, grazie al suo

potere relazionale, l’autobiografia può contribuire a evitare solitudini,

prevenire disagi, prevedere risultati e infondere nella persona la certezza

che attraverso essa, si è curati, educati, amati.

Quindi, il carattere pedagogico ed educativo dell’autobiografia come

metodo di formazione, ci permette di affermare, anche con

determinazione, che l’autobiografia sicuramente ci migliora e, un poco,

ci cambia sia culturalmente che socialmente, con risultati diversi e

gratificanti per tutti sul piano umano.

Da quanto detto finora, l’approccio autobiografico, inteso come il punto

di vista concettuale di tutta l’indagine e il metodo autobiografico, inteso

come l’insieme delle procedure e delle tecniche, non solo cooperano allo

scopo di organizzare e analizzare i ricordi, ma cooperano allo specifico

scopo di generarli o anche di crearli.

<<Infatti, l’autobiografo, non impara da se stesso soltanto attraverso la

rivisitazione dei ricordi, allenandosi a evocare con disciplina e metodo

traendo da essi alimento per l’elaborazione di sempre diverse versioni e

interpretazioni delle fasi, delle esperienze e degli esiti della propria vita.

L’autobiografo, riandando al passato, crea, inventa, immagina

[…]diventa autore di emozioni e di storie.>>160

159 D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come …, cit. p. 192. 160 Ibi, p.198.

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Tuttavia, sia che si tratti di ricordi rievocativi, sia che si tratti di creazioni

ex-novo, l’autobiografia è soprattutto formazione perché essa ci dimostra

che tutte le persone ricordano prevalentemente ciò che ha conferito una

forma, ha lasciato una traccia attraverso esperienze particolarmente

significative nella vita affettiva, in quella lavorativa, in quelle segnate

dalla morte; inoltre, ogni persona è consapevole che è la vita ad

insegnare a vivere ed è sempre maestra di vita, essa rivela che soltanto

gli incontri dai quali si è imparato qualcosa sono stati scuola di

formazione; infine, è necessario essere consapevoli che la formazione è

un processo continuo e incessante, ricomincia sempre tutte le volte che

si accettano i cambiamenti, si riproducono esperienze non per cercare

conferme ad opinioni precedenti ma per scoprire particolari non colti alla

prima osservazione.

L’autobiografia è formativa perché si basa sul principio: raccontarsi per

capirsi, è fondata sulla costruzione di significato e sull’attribuzione di

senso alle esperienze personali; essa, invitandoci a guardarci indietro e

allo stesso tempo a guardare avanti, diventa sia cammino di cura di sé,

sia percorso di apprendimento inarrestabile, permette di accrescere le

capacità autoriflessive e permette di dare ascolto alle emozioni

realizzando le proprie capacità cognitive. Essa ci aiuta a capire chi

siamo, ci consente di rispondere alla domanda: chi sono io e perché

sono così?

Ci permette di lavorare sui limiti e sulle potenzialità personali e di

prenderne atto. L’autobiografia è la testimonianza autentica <<che

abbiamo vissuto e siamo apparsi su questo pianeta per un certo periodo;

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unici tra miliardi di individui che ci hanno preceduto, ci sono

contemporanei e ci seguiranno.>>161

L’autobiografia come processo formativo si trasforma in processo auto

formativo nel momento in cui, è la persona stessa che stabilisce che cosa

fare di ciò che ha appreso e che cosa apprendere da ciò che fa,

ristabilendo spazi e tempi per se stesso che gli permettono di accrescere

le sue capacità di conoscere, di comprendere e produrre cambiamenti

tali, in grado di modificarlo e trasformarlo.

<<Apprendere dalla propria storia, è un processo ulteriore, che deriva

dal mobilizzare le capacità di retrospezione, introspezione, attenzione;

accorgersi che l’immagine che noi siamo e viviamo è ben lungi

dall’essere monolitica e coerente , bensì multipla, relazionale e

discontinua. La costruzione del nostro senso di identità è

metaforicamente assimilabile alla capacità di narrarsi, di tessere trame

narrative in grado di assicurare fluidità e coesione all’intreccio delle

tante e cangianti versioni di noi stessi che noi siamo.>>162

4.3 Il metodo autobiografico.

Quante e quali sono le vie che possono favorire un’ attento e completo

sguardo autobiografico? Le modalità di risposta a queste richieste sono

molteplici: si inizia dalla comune domanda, per passare alle forme del

pensiero riflessivo e autoriflessivo (che cosa sto facendo? dove sono? chi

sono?), poi del pensiero retrospettivo (come sono arrivato qui? chi sono

161 Ibi, p.207. 162 L.FORMENTI I.GAMELLI,Quella volta che ho imparato. La conoscenza di sé nei luoghi dell’educazione, Milano, Raffaello Cortina Editore,cit. p.51.

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stato?), e del pensiero narrativo (come mi racconto questa storia? questo

episodio che ho vissuto?).

Il metodo autobiografico poiché si propone di operare in una direzione

formativa, utilizza strumenti nati in ambiti diversi, e , spesso con altre

finalità, adattandoli però ai diversi contesti educativi di cui si occupa.

Le tecnologie proprie della ricerca qualitativa in campo pedagogico e

psicologico in educazione hanno vissuto, in quest’ultimo decennio, un

ruolo importante nell’intervento e trattamento educativo in tutte le fasi

del corso della vita dell’uomo, infatti, possono essere trasformate per

adattarsi al contesto formativo favorendo in questo modo percorsi di

autoapprendimento, auto scoperta e autoformazione.

Chiaramente la scelta di strumenti da utilizzare dipende dagli obiettivi

formativi che si vogliono raggiungere, dai tempi e dai ritmi di lavoro

stabiliti, dalle caratteristiche del gruppo su cui si opera, dai vincoli

spazio-temporali, in una parola dal contesto nel quale ci si trova ad

agire.

<<Solo una lettura attenta del contesto può dare indizi circa la

disposizione (e la disponibilità) a implicarsi, a parlare di sé, a mettere in

gioco la propria interiorità. Questo avviene sempre in relazione ai

bisogni, desideri, vissuti, relazioni del presente.>>163

Anche la cura del dettaglio è parte fondamentale della progettazione

formativa: ad esempio il luogo in cui realizzare il percorso

autobiografico (il setting), deve essere organizzato dal formatore con

meticolosità. In esso il formatore autobiografico non deve temere di

intervenire, anzi, quando serve deve modificarlo per renderlo ospitale

ed accogliente. Il formatore deve conoscere le tecniche del colloquio e

della facilitazione del dialogo, oltre che della natura complessa della 163 Ibi, p.131.

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relazione. Per questo deve mostrarsi disponibile ad un ascolto attento e

attivo, partecipe ma discreto, pronto ad invitare chi si racconta nel

luogo allestito per mettere in scena l’autobiografia, a svelarsi senza

riserve, ad abbandonare ogni remora, a superare l’iniziale imbarazzo e

diffidenza, a mettere in luce il suo vissuto, la sia esperienza.

La presenza o la riduzione al minimo di oggetti o di stimoli devianti,

l’uso di suoni, immagini, colori o gesti, la distribuzione delle persone in

cerchio levando tutti gli schemi fisici che potrebbero frapporsi,

consentendo di muoversi liberamente nello spazio, sono dettagli per

favorire le forme del pensiero della persona e accedere alla sua

interiorità.

Con una simile comunicazione si viene ad instaurare un profondo clima

di fiducia, in cui il soggetto narrante, sceglie senza costrizioni di

condividere con l’altro o con il gruppo i propri vissuti e lo fa seguendo i

propri ritmi. Il formatore autobiografico deve saper attendere, è

preparato a rispettare i tempi dell’altro, non si sente a disagio in presenza

di silenzi o di soste, perché anche le pause nella narrazione comunicano

qualcosa di importante, soprattutto a chi è in grado di gestirle ed

interpretarle in modo corretto.

Le pratiche autobiografiche di esperienza formativa, il primo incontro,

la presa di parola, l’osservazione, l’interpretazione, la discussione il

congedo, sono tutte molto antiche, appartengono e vengono utilizzate da

tutte le culture quando esse vogliono allargare le possibilità di scambio

collettivo, di narrazione di sé e di ascolto.

Gli strumenti utilizzati per svolgere un lavoro autobiografico sono

molteplici e possono distinguersi in:

a) Strumenti di lavoro individuale spontaneo o su consegna (diario

personale, testo tematico, testo creativo/espressivo, ricerca di

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documenti e testimonianze della propria storia personale, ad es.

foto di famiglia, lettere oggetti, proiezioni di filmati personali

etc.).

b) Strumenti di lavoro faccia-a-faccia con e senza osservatori

(intervista aperta, intervista qualitativa, intervista con domande

predisposte, intervista psicocognitiva.).

c) Strumenti di lavoro collettivo (condivisione orale dei documenti

prodotti con i due gruppi, discussione dei temi biografici emersi,

autopresentazione orale in gruppo , uso collettivo di materiali

proiettivi e di metodi evocativi con discussioni).

Certamente ciascuno strumento o gruppo di strumenti presenta limiti e

potenzialità perché alcuni favoriscono il pensiero narrativo dando vita

alle vicende quotidiane, ai sentimenti più intimi delle persone , altri

creano esperienze sul piano cognitivo, altri ancora lavorano su un piano

simbolico. La soluzione migliore sarebbe quella di unire insieme più

strumenti poiché:<< più che i singoli strumenti in se appaiono

affascinanti e produttivi l’intreccio, la diversificazione, la stimolazione

di processi cognitivi anche molto distanti, nell’ipotesi che la molteplicità

dei linguaggi e dei percorsi arricchisca la presa di coscienza e

l’individualizzazione.>>164

Quindi, possono essere usati diversi strumenti, e diversi linguaggi

(verbale, metaforico, iconico) per produrre un testo narrativo, quello che

deve essere tangibile è il risultato, cioè l’esito del lavoro autobiografico;

per questo motivo, allora, il metodo autobiografico si pone come

obiettivo quello di << porre e mantenere il soggetto sempre al centro del

164 L.FORMENTI I.GAMELLI, Quella volta che ho imparato. La conoscenza di sé nei luoghi dell’educazione, cit. p.133.

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proprio processo formativo, nel restituirgli la responsabilità della sua

formazione, anche nelle diverse fasi del lavoro educativo, dal primo

incontro alla valutazione finale. Ogni attività di ricognizione, di

narrazione di sé, di messa in forma autobiografica dovrebbe essere

accompagnata o seguita da attività discorsive di condivisione/ascolto e

sempre da una riflessione sul processo realizzato.>>165

Non esistono modelli educativi specifici che favoriscono la conoscenza

si sé, tuttavia esistono delle linee di principio che la favoriscono. Ad

esempio essa presuppone:

a) Una forte motivazione all’auto osservazione, necessaria, mai

svalutata né ostacolata dall’ambiente circostante bensì valorizzata

e favorita.

b) Un allenamento alla riflessione interiore attraverso il contatto con

la natura, allo scopo di favorire il silenzio ed evitare le distrazioni

esterne.

c) Una particolare attenzione ai processi corporei,psichici, sensoriali

che favoriscono una sorta di continuum in tutto l’arco della vita.

d) Infine, ma prima fra tutte, una capacità personale di narrarsi, di

raccontarsi pienamente, capacità che si sviluppa negli individui sin

dai primi stadi di vita.

Come si vede, allora, <<<le occasioni per narrarci e per scoprirci

autobiografi sono infinite>>166, e ciò comporta sicuramente

un’operazione di autocoscienza che richiede un guardarsi, un cercarsi, un

sapere di essere in un certo modo, e che viene costruita attraverso

165 Ibi,p. 136. 166 Ibi, p.141.

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numerose esperienze di interazioni e scambi reciproci ricorrenti e

regolari.

4.4 Il ruolo della memoria nel processo autobiografico.

Il sistema che controlla e coordina le operazioni deputate alla

elaborazione degli stimoli e alla conservazione temporanea delle

informazioni è la memoria.

Nella sua definizione più comune, la memoria è considerata il deposito

mentale di tutte le informazioni acquisite da una persona e, al tempo

stesso, è l’insieme dei processi che gli permettono di recuperare e di

utilizzare queste informazioni quando servono. Nota è la distinzione tra

memoria a breve e memoria a lungo termine, delle quali vediamo in

dettaglio le caratteristiche.

La definizione di memoria di lavoro (working memory) o memoria a

breve termine (MBT), si riferisce sia all’informazione contenuta nel

deposito a breve termine, sia alla capacità della mente di conservarla in

esso. Entrambe le nozioni esprimono il medesimo concetto, tuttavia la

memoria a breve termine è stata studiata prevalentemente riguardo al

ruolo di magazzino temporaneo deputato al mantenimento

dell’informazione prima che questa passi nel magazzino di memoria a

lungo termine, che la conserva per un tempo illimitato.

Negli studi recenti si predilige la seguente nozione perché vengono

attribuite funzioni più numerose e più importanti della semplice

conservazione di informazioni; infatti il concetto di memoria a breve

termine è ristretto alla funzione di magazzino temporaneo, mentre la

memoria di lavoro è coinvolta in tutti i compiti in cui è coinvolto il

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ragionamento, la comprensione e l’apprendimento.167Infatti, la memoria

di lavoro è anche la sede del pensiero conscio, cioè di tutte le percezioni,

i sentimenti, i confronti, i calcoli e i ragionamenti di cui una persona ha

coscienza.

La memoria di lavoro si compone di due funzioni fondamentali (per

quanto concerne l’argomento), che è poi quello relativo all’elaborazione

dei testi:

1) È quella di codificare l’input di entrata, di riconoscerlo,di

attribuirgli la rappresentazione semantica corrispondente;

2) E’ quella di immagazzinare informazioni per il tempo necessario a

permettere la codifica del materiale attuale che va integrato con

quello precedente.

<<Quando comprendiamo un testo, o anche altri eventi che si svolgono

nel tempo, possiamo codificare l’input che percepiamo in un dato

momento solo se sono ancora presenti nella nostra memoria le

informazioni relative agli input codificati immediatamente prima. La

condizione perché si possa ricavare il significato è che la codifica attuale

venga continuamente integrata con i risultati delle codifiche

precedenti:la memoria di lavoro perciò controlla che le informazioni

codificate vengano mantenute attive per il tempo necessario affinché

vengano integrate con le informazioni in entrata.>> 168

La memoria di lavoro è temporanea nel senso che, una volta compiute le

operazioni necessarie a ricavare il significato di una parte del testo,

questo venga trasferito nel magazzino di memoria a lungo termine

(MLT).

167 Cfr. M.C.LEVORATO, Racconti, storie e narrazioni. I processi di comprensione dei testi, Bologna, Il Mulino, 1988. 168 M.C.LEVORATO, Racconti, storie e narrazioni … pp. 96,97.

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La memoria a lungo termine è il comparto che meglio corrisponde alla

nozione comune di memoria. In esso si trova rappresentato tutto ciò che

una persona conosce e, per questo motivo, la sua capacità deve essere

enorme:praticamente illimitata.

Il deposito a lungo termine ha una capacità illimitata perché contiene

tutte le conoscenze durature, mentre quello a breve termine è pressoché

limitato in quanto contiene soltanto i pensieri del momento presente.

Inoltre, teoricamente, nel magazzino a lungo termine le informazioni

vengono trattenute per un periodo di tempo piuttosto infinito,e le stesse

vengono recuperate sia quando è necessario rievocare informazioni

elaborate precedentemente, sia quando vengono utilizzate conoscenze

precedenti per realizzare compiti di comprensione.

Tra la memoria a breve e la memoria a lungo termine vi è la stessa

differenza che passa tra il ricordare un numero telefonico appena letto

sull’elenco e il rammentare il proprio numero di telefono (cosa

estremamente familiare). Il proprio numero di telefono è conservato nel

magazzino della MLT, allo stesso modo del proprio nome, degli

avvenimenti caratterizzanti la propria vita e , salvo dei blocchi dovuti a

traumi (come traumi cranici), il loro ricordo è sostanzialmente stabile.

Mentre un numero telefonico che si è avuto sotto gli occhi per pochi

istanti, il nome di una persona appena conosciuta vengano incamerati

dalla MTB solo temporaneamente, per cui sono soggetti ad un ricordo

piuttosto temporaneo e, di conseguenza, ad una rapida perdita.169

In conclusione si può affermare che la memoria a lungo termine è un

sistema la cui finalità è quella di trattenere i risultati delle elaborazioni

più profonde, mentre la memoria di lavoro agisce come un filtro che

169 Cfr. E.R.HILGARD,R.C.ATKINSONS, R.L.ATKINSONS, Psicologia. Corso introduttivo,Firenze, Giunti Barbera, 1982, p.268.

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decide quali informazioni sia necessario elaborare profondamente in

vista della loro conservazione, e quali possono essere cestinate. Infatti, il

passaggio dalla memoria di lavoro alla memoria a lungo termine causa

una perdita delle informazioni superficiali dello stimolo.

La Levorato scrive:<<Il processo di comprensione e la memoria,

interagiscono e si autodeterminano reciprocamente: quanto più profonda

è l’analisi che porta alla individuazione del significato globale del

messaggio linguistico, tanto più persistenti sono le tracce che rimangono

nella memoria, e quindi tanto più facile è il processo di recupero.>>170

4.5 Sottogruppi della memoria a lungo termine: Memoria

episodica e memoria semantica.

La memoria a lungo termine comprende due sottogruppi che differiscono

fra loro per diversi aspetti e che corrispondono a due magazzini in cui

vengono collocati i prodotti delle elaborazioni compiute dalla memoria

di lavoro. I due gruppi sono i seguenti;

� La memoria esplicita o dichiarativa, che riguarda le informazioni

comunicabili, che vengono richiamate coscientemente. Essa viene

definita esplicita perché può essere valutata direttamente

mediante test che richiedono al soggetto di recuperare e poi di

riferire un’ informazione memorizzata, ed è definita dichiarativa,

perché l’informazione recuperata può essere espressa in parole. La

memoria degli episodi è la memoria esplicita delle passate

esperienze di vita di una persona;

170 M.C.LEVORATO, Racconti, storie e narrazioni, cit. p. 99.

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� La memoria implicita, non opera secondo modalità previste per il

modello che corrisponde alla mente conscia. Infatti, poiché le

persone non riescono a riferirne i contenuti, la memoria implicita è

chiamata anche memoria non dichiarativa. Questa parte della

memoria implicita è detta memoria procedurale, riguarda le

informazioni relative a comportamenti automatici, le abilità

motorie e fonetiche, le abitudini e le regole che vengono apprese

con il semplice esercizio e utilizzate senza controllo volontario.

A sua volta la memoria dichiarativa può essere suddivisa ulteriormente

in memoria semantica e memoria episodica.

� La memoria semantica è un sistema organizzato di conoscenze che

rendono possibile l’uso del linguaggio: la conoscenza delle parole

(di qui la definizione di semantica), del rapporto tra i segni

verbali e i referenti da un lato e i significati dall’altro, e del modo

in cui si combinano per dar luogo a significati più complessi. Un’

aspetto che riguarda la memoria semantica è ad esempio la

capacità di ricordarsi il nome dei personaggi di un libro o di un

film. Essa comprende tutti gli effetti dell’esperienza passata sul

comportamento di cui non siamo consapevoli ed opera in maniera

automatica. E’ la conoscenza astratta e senza tempo che la persona

condivide con gli altri, è una conoscenza decontestualizzata,

ricavata dall’esperienza personale mediante processi di

schematizzazione e di eliminazione dei dettagli considerati

irrilevanti. La memoria semantica rappresenta un modo di

conoscere non legato a conoscenze specifiche.

� La memoria episodica riguarda le informazioni specifiche a un

contesto particolare, come un luogo o un momento, può essere

evocata coscientemente e verbalizzata. Essa può anche essere

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selettiva, e riguardare la nostra memoria autobiografica: ha la

funzione di immagazzinare informazioni, fatti ed episodi di cui la

persona è testimone in un certo luogo e, per questo, è definita

relativa ad esperienze personali. Questo tipo di archivio è relativo

alla sua storia personale e alla sua identità. La memoria episodica,

quindi, permette un ricordo intenzionale riflessivo, un processo

ricostruttivo cosciente di informazioni del passato della propria

storia.

Il modo in cui sono depositate e ordinate le informazioni in

questo magazzino è.

1) Cronologico, le memorie sono più o meno recenti.

2) Determinato in un contesto spazio- temporale, le memorie si

collocano qui in un contesto di spazio e luogo.

3) Associativo, è sulla base di associazioni labili che una traccia

mnestica può costruire un indizio per il recupero di un’altra

traccia.

La memoria episodica oltre ai fatti e agli eventi percepiti direttamente,

contiene anche conoscenze di altra natura, come trame di film visti,

romanzi letti, numeri telefonici, contenuti di seminari o conferenze e

tutto ciò che ogni persona conosce del mondo e che non costituisce una

conoscenza condivisa da tutti, ma che è riferita come forma

autobiografica.

La memoria episodica può immagazzinare dati e materiale vario

attraverso l’uso volontario di strategie per l’acquisizione

dell’informazione e anche nel recupero richiede una ricerca intenzionale.

La memoria semantica funziona in maniera automatica sia in fase di

comprensione, che in fase di rievocazione. Infatti per riconoscere il

proprio numero di telefono o il significato delle parole di un libro appena

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letto, o di un film appena visto non è necessario un lavoro mentale per

recuperare dalla memoria semantica l’unità cognitiva relativa a ciò che

serve ricordare. Al contrario deve essere attivata una ricerca consapevole

per ricostruire un certo evento, un determinato fatto, o per recuperare

un’informazione dalla memoria dalla memoria episodica soprattutto se si

tratta di un episodio di anni precedenti o il numero di telefono di

qualcuno.

La memoria episodica, come è stato sostenuto, è la memoria

autobiografica; il ricordo di un evento autobiografico con il passare del

tempo conserva solo gli aspetti più importanti, quelli che sono sostenuti

dalla conoscenza generale relativa a quell’evento.

La memoria dei testi prevede l’attivazione di entrambe le memorie:

infatti l’archiviazione avviene nella memoria episodica, mentre la

memoria semantica guida la costruzione della rappresentazione

semantica del testo stesso per realizzare la comprensione. Quando si

verifica il processo di comprensione la memoria semantica attiva tutte le

conoscenze linguistiche corrispondenti al testo e le destina alla memoria

di lavoro affinché realizzi il processo. Il risultato è la costruzione di una

rappresentazione integrata del brano che contiene oltre alle informazioni

esplicite anche tutto l’insieme dei concetti associati utilizzati

nell’elaborazione.

La rappresentazione che entra nella memoria episodica è il frutto di quel

processo che può essere anche trasferito dalla memoria episodica a

quella semantica.

Si è visto quanto sia importante la funzione della memoria nella lettura,

nell’ascolto e nella scrittura di un testo narrativo anche autobiografico.

Comprendere un testo non significa soltanto riconoscere i suoni, le

parole e le loro funzioni sintattiche, quanto piuttosto ricavare il

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significato complessivo del brano e, soprattutto distinguere come

funziona il sistema nel quale si realizza il processo di comprensione.

Il tutto avviene, chiaramente, in maniera automatica perché la persona

dispone di una quantità di conoscenze tali, da utilizzare quando le

circostanze lo richiedono.

4.6 L’autobiografia in quanto rappresentazione di sé.

Le autobiografie sono un insieme inseparabile di esperienze individuali

selezionate dalla memoria del narratore- soggetto e trasmesse a viva

voce o per iscritto. Esse possono essere richieste, incentivate, promosse,

indirizzate e guidate su determinate richieste, oppure lasciate

all’iniziativa e alla spontaneità del narratore.

In quest’ultimo caso l’individuo seleziona e trasmette le immagini più

interessanti e più significative della sua esperienza di vita cercando nel

contempo di fornire la miglior impressione possibile agli altri.

In effetti la persona non può narrare di sé un’unica storia, perché:

<<esistono tante storie quanti sono i pubblici che le ascoltano e che

costituiscono parte del racconto. Inoltre, ogni storia è narrata secondo

uno schema culturale e narrativo dato che è localizzato a quel tempo e a

quel luogo.>>171

Spetta al narratore decidere che cosa, come raccontare e quale ordine

seguire quando si appresta a raccontare la propria vita, nel rispetto dei

requisiti di veridicità, apertura e causalità del racconto. La trama diviene

elemento auto-ordinatore del racconto personale.

171 M.OLAGNERO C.SARACENO, Che vita è. L’uso dei materiali biografici nell’analisi sociologica,Urbino, La Nuova Italia Scientifica, 1993, p.56.

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Su quest’ultimo aspetto una teorizzazione sostiene che l’identità (sia

essa individuale o collettiva) si costituisce oggettivamente e

soggettivamente nel trascorrere del tempo.

Si parla quindi di <<tempo individuale ( il nostro essere prima bambini,

poi adolescenti, infine adulti) tempo delle generazioni ( il fatto che

cresciamo in una società strutturata e segnata simbolicamente da chi

viene prima di noi e interagiamo con chi, più anziano rispetto a noi, ci

accompagna e ci guida), il tempo storico che scandisce i mutamenti

della società nel suo insieme.172

Sempre sull’identità una seconda teorizzazione sostiene che essa si

costituisce attraverso relazioni sociali significative che l’individuo

intrattiene con altri soggetti con cui si rispecchia e si riconosce e coi cui

condivide le esperienze.

Volendole riassumere possiamo dire che esse sono distinte nella loro

direzione di analisi ma spesso intrecciate nella pratica di ricerca

autobiografica, abbiamo a che fare, da un lato con il cammino temporale

dell’individuo, il suo progredire dell’età nell’arco della vita, dall’altro

lato abbiamo a che fare con il movimento dell’individuo all’interno della

coppia, della famiglia e delle relazioni amicali.

La vita della persona procede attraverso continui passaggi da uno status

all’altro coordinando, sincronizzando ma anche mutando l’ordine, il

tempo e le conseguenze dei vari passaggi.

172 Ibi, pp. 59,60.

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4.7 Peculiarità dell’autobiografia.

Il termine autobiografia o storia di vita o biografia, ha un significato

molto vasto. Essa si riferisce <<all’insieme organizzato in forma

cronologico- narrativa spontaneo o pilotato, esclusivo o integrato con

altre fonti di eventi, esperienze, strategie relativi alla vita di un soggetto

e da lui trasmesse direttamente, o per via indiretta ad una terza

persona.>>173

Oppure in riferimento al pensiero di Philippe Lejeune il quale definisce

dettagliatamente l’autobiografia come<< il racconto retrospettivo in

prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette

l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della

propria personalità.>>174

La suddetta definizione dell’autore francese ( come evidenziato nella

parte introduttiva del lavoro), sottolinea tre aspetti della prospettiva

autobiografica: il primo aspetto indica che essa si colloca su un punto di

osservazione retrospettivo, il secondo aspetto mostra che essa è

concentrata sulla visione individuale, il terzo punto, infine, indica che

essa riguarda la propria esistenza. In effetti l’autobiografia può essere

definita la storia di una vita concretamente vissuta e che è data

ontologicamente, la quale viene manifestata attraverso un racconto

spontaneo che avviene in circostanze naturali ed espressa sotto forma di

scrittura, musica, pittura o altri sistemi di comunicazione ( disegno,

mimo, recitazione etc.)

173 Ibi, p.10. 174 P.LEJEUNE, Il patto autobiografico …,p.12.

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Ogni manifestazione della vita di una persona è un evento che, in quanto

accaduto e conservato nel passato, domanda di essere rielaborato

biograficamente attraverso un processo di integrazione con gli eventi

che la stessa persona vive nel presente; in sostanza la persona si chiede

continuamente: perché ad un certo punto dell’esistenza, per motivi

interni o esterni, si sente la necessità di raccontare? Qual è l’impegno che

il narratore assume nel processo di trasmissione storica nei confronti di

se stesso e degli altri? Quale livello di verità si attinge da una narrazione

autobiografica? Chi è colui o colei che racconta o scrive la storia?

Quello che appare chiaramente è la presenza nell’autobiografia di una

ricerca di verità una sorta di impulso a confessare, e che induce, appunto

la persona ad interrogarsi sul senso della propria esistenza. La domanda

che è alla base dell’attitudine individuale autobiografica, nasce perché

esiste una situazione che ci chiede continui chiarimenti, ci elimina ogni

certezza acquisita ponendoci in una situazione di dubbio e perché, ad un

livello più profondo, è stata colta la differenza tra ciò che si è e ciò che

si dice di essere.

Il racconto di sé risponde all’esigenza di costruire un percorso di senso

all’interno di una linea temporale, tuttavia nel tentativi di tracciare il

percorso che l’io compie nell’ambito del racconto, accanto ad un

itinerario in cui risulta essenziale l’affermazione del principio di

soggettività nella ridescrizione di sé, si delinea un movimento che

conduce alla graduale decostruzione dello stesso principio di

soggettività.175

Un racconto autobiografico è la vita umana così come si è modellata nel

tempo vissuto perché essa, con ogni processo biologico, collega sempre

175 G.MINICHIELLO, Autobiografia e pedagogia. Il racconto di sé da Rousseau a Kafka, Brescia, La Scuola, 2000,cit. p.13.

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insieme un inizio ad una fine. Questa connessione delinea i contorni di

una storia vissuta che può essere frammentaria, può contenere elementi

diversi tratti da altre storie o contesti; tuttavia contiene quasi sempre

alcune caratteristiche di Bildungsroman, cioè del romanzo di

formazione, che sono comuni a tutte le narrazioni sulla vita umana. A

questo proposito Bruner sostiene che <<al centro di ogni storia abita un

Sé che funge da protagonista nel processo di costruzione: sia che esso si

ponga come soggetto attivo, o che passivamente subisca gli avvenimenti

o che, infine sia strumento di qualche maligno destino.>>176

Preliminare a questo discorso ritorna da un lato, l’esigenza di verità

intorno a sé stessi, e dall’altro la necessità di ricercare

un’autogiustificazione tale da attribuire significatività alla propria

esistenza, quali moventi essenziali della tendenza a raccontarsi.

Ma raccontare la propria vita vuol dire anche reinventarla per poterla

scrivere, giacché le esigenze stesse dell’opera conducono

necessariamente ad organizzare i fatti, a dare ordine, anzi un senso a ciò

che appare a prima vista, informe, frammentario, <<un’insieme di pezzi

staccati di qualcosa di ancora vivente[…], il racconto è una ri-

descrizione dell’Esserci, un’ostensione che è in effetti, una vera e

propria costruzione narrativa.>>177

Come sostiene Demetrio <<arriva un momento in cui si avverte il

desiderio di raccontare la propria storia di vita. Per fare un po’ d’ordine

dentro di sé e capire il presente, per ritrovare emozioni perdute e sapere

come si è diventati, chi dobbiamo ringraziare o dimenticare. Quando

questo bisogno ci sorprende, il racconto di quel che abbiamo fatto,

176 J.BRUNER, Il significato di “sviluppo nella narrazione autobiografica, in A.SMORTI, Il se come testo. Costruzione delle storie e sviluppo della persona, Firenze, Giunti, 1994, p. 84. 177 G:MINICHIELLO, Autobiografia e didattica. L’identità riflessiva nei percorsi educativi, Brescia, La Scuola, 2003, pp.161,162.

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amato, sofferto inizia a prender forma. Diventa scrittura di sé e alimenta

l’esaltante passione di voler lasciar traccia di noi a chi verrà dopo o ci

sarà accanto. Capita a tutti, prima o poi. Alle donne e agli uomini, e

accade ormai puntualmente, da centinaia di anni […] da quando, forse, la

scrittura si è assunta il compito di raccontare in prima persona quanto si

è vissuto e di resistere all’oblio della memoria. Sperimentiamo così il

pensiero autobiografico che richiede metodo, coraggio, ma che procura,

al contempo, non poco benessere.>>178

Quindi la scrittura autobiografica nasce da un bisogno, dall’esigenza di

comunicare le proprie emozioni, dal desiderio di superare la solitudine e

dalla certezza che essa costituisce una traccia indelebile del proprio

passaggio permettendo di sopravvivere simbolicamente alla morte.179

4.8 La scrittura autobiografica nei suoi diversi generi.

Caratteristica essenziale della scrittura autobiografica, afferma Philippe

Lejeune, è l’identità fra l’autore, il narratore e il personaggio, identificato

dal lettore come una persona che è esistita o che esiste realmente. Infatti

nel racconto il personaggio principale corrisponde al narratore- autore.

Un elemento distintivo è la distanza che si frappone fra il tempo degli

eventi narrati e il tempo della narrazione, il quale può variare da qualche

mese a qualche anno ed è per tale motivo che l’autore spesso si riferisce

ad un passato recente.

Queste caratteristiche distinguono l’autobiografia dal diario personale,

che appartiene asl genere autobiografico e che può esser definito con

178 Cfr.D.DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come … 179 Cfr. D.DEMETRIO, L’educatore auto(bio)grafico. Il metodo delle storie di vita nelle relazioni d’aiuto. Milano, Edizioni Unicopoli, 1999.

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l’annotazione scritta degli eventi di cui si è protagonisti o testimoni, oltre

che dei pensieri, degli stati d’animo, delle emozioni e dei sentimenti che

costituiscono la vita interiore del protagonista. Generalmente il diario

viene scritto ogni giorno, ma nulla impedisce di riportare le proprie

esperienze dopo un certo periodo di tempo o saltare il resoconto delle

giornate poco significative.

Il diario, infatti, viene scritto soprattutto per se stessi, per non

dimenticare esperienze di una certa importanza, e fissare sulla carta

sentimenti ed emozioni così da poterli rivivere anche in un futuro non

lontano. Tenere un diario personale può rivelarsi un’esperienza

particolarmente positiva perché aiuta a riflettere sui propri cambiamenti,

a comprendere meglio i momenti del proprio processo evolutivo, e

magari chissà, sentirsi meno soli nei momenti difficili.

Esso si configura come dialogo con se stessi, un testo di cui si è

contemporaneamente mittenti e destinatari. Infatti, come scrive anche

Minichiello: <<il lettore del diario non è altri che l’autore stesso, talché

si trova qui il luogo privilegiato dell’introspezione non destinata ad esser

pubblica. E tuttavia lo scrittore oggi sa bene che tutto può esser

pubblicato in vita o in morte.>>180

Lejeune definisce il diario il luogo per eccellenza dell’interiorità e del

ripiegamento su se stessi.

Per Demetrio il diario rappresenta un oggetto interno e

contemporaneamente esterno capace di rappresentare realtà e

immaginazione della persona e di salvaguardare la dimensione

individuale all’interno della realtà sociale. Per questo motivo nel diario si

conservano cartoline, poesie, fotografie e tutto ciò che costituisce la

testimonianza di sé per i lettori futuri. Della vita vissuta ma anche come 180 G.MINICHIELLO, Autobiografia e pedagogia … cit. p. 14.

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modo per fermare il tempo osservando parti della propria vita che non

potranno essere dimenticate ma ricreate di continuo.181

Tra gli altri generi di scrittura autobiografica si trova il saggio, il cui

autore- narratore- personaggio principale ha la stessa identità, ma in esso

non è rispettato assolutamente l’ordine cronologico di svolgimento degli

avvenimenti a favore di un ordine molto libero, in cui l’osservazione dei

fatti è accompagnata da considerazioni più personali e libere

interpretazioni da parte dell’autore. In effetti <<ci si trova dinanzi una

sorta di diario ricostruito, il cui autore esamina la propria esperienza

personale per sviluppare una riflessione d’ordine generale.182

Anche nel genere autobiografico definito memorie, autore e narratore

coincidono, ma in questo caso il narratore è un semplice testimone degli

eventi narrati e non il personaggio principale, perché in questo caso si

parla di avvenimenti a carattere storico e non di avvenimenti personali.

Per il loro carattere infatti, le memorie sono documenti molto preziosi

per gli storici.

Rientra nel genere autobiografico il racconto di vita che ha il suo

massimo sviluppo intorno agli anni Trenta, quando sia psicologi che

sociologi hanno rivolto la loro attenzione alle storie di contadini,

artigiani, operai e persone di modesta provenienza sociale, testimoni di

una società o di un gruppo sociale prossimo a scomparire o già

scomparso.

Attraverso il racconto di vita lo studioso ricostruisce non il senso (le

motivazioni,le scelte o le preferenze della persona) della vita intesa come

181 Cfr. D.DEMETRIO,L’educatore auto(bio)grafo …cit. 182 Ibi,p.14.

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processo unitario, ma i rapporti sociali e interpersonali che la

caratterizzano e le danno forma complessa e discontinua.183

Il “racconto di vita” tende a fornire informazioni su un’epoca, una classe

sociale, un processo formativo, di cui mette in luce sofferenze e valori.184

Il testo di un racconto di vita generalmente non è scritto dal protagonista

del racconto che, comunque, ne rimane il narratore, ma è riscritto, in una

sorta di messa in forma da un redattore.

Anche se non appartiene al genere autobiografico propriamente detto, si

può parlare pure delle biografie, intese come il racconto della vita di una

persona reale narrato da un’altra persona. Viene sempre narrata una

storia al centro della quale si trova una vita individuale ricostruita da chi

racconta e che rivendica al tempo stesso una funzione critica. Lo

studioso ascolta e si affida alla memoria narrante del soggetto e alla sua

competenza linguistica. Il linguaggio naturale permette di ricostruire con

ricchezza di dettagli i reali contesti di azione del soggetto, e di accedere

ai punti di vista che individuano la posizione per le valutazione del

soggetto stesso rispetto agli stessi contesti in cui l’azione viene svolta,

(risorse, reti, vincoli).

Infine può essere considerato genere autobiografico, anche il romanzo

autobiografico a patto però che il lettore conosca la vita e la personalità

dell’autore, cose che non si evincono dal testo.

In Minichello leggiamo:<< Nel romanzo autobiografico, l’eroe del

racconto, che talvolta si identifica con il narratore, talaltra no a seconda

che il testo sia scritto in prima o in terza persona, non è comunque

183 Cfr. M.OLAGNERO, C.SARACENO, Che vita è …, cit. 184 G.MINICHIELLO,Autobiografia e pedagogia, cit. p.25.

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l’autore: hanno nomi differenti, ma il lettore ha fondate ragioni per

supporre l’esistenza di similitudini tra i due.>>185

Secondo Minichiello “non è facile” tener ferma questa classificazione

dei generi autobiografici esaminati, e, nello stesso tempo, assegnare un

testo particolare ai diversi generi autobiografici a causa della grande

ambiguità che alimenta il pronome Io. Infatti , ci si può trovare di fronte

a pseudo- diari, pseudo- memorie o pseudo- autobiografie anche se ad

una prima lettura, sembra trattarsi proprio di quel genere di scrittura

autobiografica.

La presenza dell’ambiguità la si può riscontrare sia quando il racconto si

presenta come una scrittura di sé e il lettore non si trova nella condizione

di poter dire che dica o rappresenti proprio quell’io che è il suo tema

dichiarato; sia quando il racconto si presenta come una scrittura in terza

persona, oggettiva e naturale, per la quale non si può affermare con

certezza che non parli proprio di quell’ Io che dichiara di mettere da

parte.186

La scelta dell’Io narrativo, scrive Minichiello: <<tende a confondere

quell’essere di carta, che è il narratore, e quello in carne e ossa che è

l’autore. La distinzione netta tra i due non è mai possibile: il margine di

contaminazione in cui il narratore e l’autore si mescolano è sempre

presente, di modo che dovremo postulare, per la dimensione

autobiografica, una dimensione nuova e inaspettata, un Io che è e non è,

e viola il principio di identità, che aspira a guardare se stesso come un

altro, ma, nello stesso tempo, rischia di vedere in ogni altro solo se

stesso.>>187

185 Ibi, p.15. 186 Cfr. G.MINICHIELLO, Autobiografia e pedagogia…, cit. 187 Ibi, p.16.

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Qualunque genere di scrittura autobiografica venga scelto, è necessario

operare una differenza tra la forma scritta e quella orale di autobiografia.

Gli esseri umani preferiscono scrivere le loro storie in solitudine, solo

pochi raccontano a voce la loro storia (che magari alcuni scrittori

provvedono in seguito a trascrivere, magari quando il protagonista è

morto).

Il testo scritto ha il vantaggio di poter essere letto e riletto tutte le volte

che se ne sente il desiderio,esso è sempre a disposizione per qualunque

consultazione o chiarimento, al contrario del racconto orale che non ha

alcuna consistenza materiale durevole, le parole si dimenticano

facilmente e abbastanza velocemente. Tuttavia, scrive Adriana Cavarero,

<<sia il racconto scritto sia quello orale, mettono soprattutto in parole

l’unicità di un’identità che solo nella relazione è bios.>>188

Generalmente l’autobiografia rispecchia il desiderio di narrazione dei

vivi, anche se i morti pure hanno una loro storia. Anzi, i morti non sono

nient’altro che il racconto della loro storia passata che, ormai, appartiene

soltanto a chi rimane in vita e non più a loro. Nella memoria di chi resta,

soprattutto dei parenti, rimane una storia di vita di cui il protagonista non

può più sentire il racconto ma che viene comunque narrato agli altri per

stabilire un legame di affetti con l’assente.

Inoltre sembra quasi che la relazione con il defunto è stabilita proprio nel

filo del racconto.

188 A.CAVARERO, Tu che mi guardi,tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano,Feltrinelli,1996,cit. p.111.

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4.9 Riflessioni conclusive sul discorso autobiografico.

Come ampiamente discorso, <<la narrazione è una forma di

organizzazione dell’esperienza. Serve a costruire il mondo, per

caratterizzarne il flusso, per suddividere gli eventi al suo interno. […] Se

non fossimo in grado di operare tale strutturazione, ci perderemmo nel

buio di esperienze caotiche, e probabilmente non saremmo affatto

sopravvissuti come specie. Questa strutturazione è sociale, finalizzata

alla condivisione del ricordo nell’ambito di una cultura, piuttosto che

semplicemente ad assicurare un immagazzinamento individuale.>>189

Secondo Bruner l’uomo è diventato capace di vivere dentro una

comunità organizzata e strutturata culturalmente, quando ha imparato

l’arte del racconto e, attraverso il racconto ha creato civiltà e cultura.

Infatti, per Bruner, la narrazione è il primo meccanismo per interpretare

e conoscere, di cui si serve l’uomo nella sua esperienza di vita, e,

attraverso essa, l’uomo attribuisce senso e significato al suo agire.

Secondo l’autore, <<le esperienze umane non rielaborate attraverso il

pensiero narrativo, non producono conoscenze funzionali al vivere nel

contesto socio- culturale ma rimangono eventi opachi, senza relazioni,

privi di senso e di significato sul piano personale, culturale e sociale,

non interpretabili in riferimento agli stati intenzionali dei loro

protagonisti.>>190

La narrativa, intesa solo come genere letterario, in questo specifico

contesto, è considerata anche come atto psicologico, pedagogico e

sociologico, come prodotto dell’atto di narrare. Esso ha la funzione di

innescare processi di elaborazione, interpretazione, comprensione, 189 J.BRUNER, La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri 1992,pp.64,65. 190 Ibidem.

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121

rievocazione di esperienze, eventi, fatti, dando ad essi una forma che ne

renda possibile la descrizione, la spiegazione e il racconto.

La narrazione, quindi, è una componente essenziale dell’esperienza

sociale, culturale e formativa dell’individuo e la capacità di comprendere

e produrre storie è un’abilità evolutiva che si accresce e si affina nel

corso della vita della persona. I testi narrativi dunque possono essere sia

raccontati che scritti, sia ascoltati che letti. Essi, poiché investono la vita

individuale, contribuiscono alla costruzione dell’identità personale e

culturale perché l’uso della narrativa si serve delle conoscenze

dell’individuo relative al linguaggio, al mondo, alle azioni delle altre

persone, ma anche delle sue concezioni del mondo e del proprio Io

soprattutto quando la persona tende ad identificarsi con i personaggi

della stessa narrazione.

Le storie sono un modo per conoscere ma anche per trasformare se

stessi, passando da un linguaggio che in un primo momento è -per se

stessi- ad un linguaggio –per gli altri.

Questa particolare forma narrativa con la quale strutturiamo le nostre

esperienze e i nostri ricordi personali per gli altri è chiaramente

l’autobiografia, nella quale si espleta così una funzione strettamente

pedagogica formativa.

Per Demetrio (riportando il tutto a unità e sintesi) l’autobiografia è un

metodo di ricostruzione attraverso il quale l’uomo parla di sé grazie

all’uso di diverse forme: da quella scritta a quella orale, da quella grafica

a quella musicale, al fine di richiamare il passato, riprodurre immagini,

ricreare o rivivere relazioni e affetti, quindi, per riportare in vita tutto ciò

che ha caratterizzato la vita della persona.

Ma l’autobiografia è anche cura nel momento in cui essa è la promessa

di uno sviluppo futuro per la mente ; ed è anche risorsa per attingere dal

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passato guardando al presente. Produce cambiamento in prospettiva

evolutiva ed è per questo motivo che oggi le viene assegnato grande

valore formativo- pedagogico.

L’autobiografia è formativa perché si basa sul principio di raccontarsi

per capirsi, ed è fondata sulla costruzione di significato e

sull’attribuzione di senso alle esperienze delle singole persone. Essa,

invitando tutti a guardare al passato e nel contempo al futuro, diventa sia

cammino di cura di sé che percorso di apprendimento continuo ed

inarrestabile.

Inoltre, accresce la capacità autoriflessive e permette di ascoltare le

emozioni personali realizzando le proprie capacità cognitive.

Attualmente, il progetto educativo pone al centro dell’azione

pedagogica l’autoeducazione -per una testa ben fatta- di ciascuna

persona, la quale valorizza l’importanza di imparare a riflettere

principalmente con e su se stessi, a favorire le proprie potenzialità, ad

acquisire il prima possibile indipendenza intellettuale e creativa,

favorendo anche le relazioni umane.

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Capitolo 5

Socialità e dimensione unitaria.

5.0 Evoluzione della pedagogia sociale nei contesti educativi.

La pedagogia, come scienza e come disciplina, è sostanzialmente una.

Tuttavia essa volta per volta, come esaminato in modalità approfondita,

si concentra in uno specifico campo di competenza e privilegia una

specifica prospettiva. Come la filosofia tesse i suoi discorsi intorno a

problematiche determinate così la pedagogia ha molteplici momenti e

settori di riflessione, di ricerca e di intervento.

<<La pedagogia sociale si distingue dalla pedagogia generale in quanto,

pur condividendone l’intero apparato teorico, rileva ed approfondisce

quelle tematiche che si riferiscono all’impegno educativo in seno alla

realtà sociale.>>191

L’unità e specificità epistemologiche della pedagogia sociale nascono

dal rapporto dell’educazione con i condizionamenti e i bisogni micro e

macro sociali. Studiare, ad esempio, i condizionamenti positivi o

negativi in ordine al successo della crescita umana, nella conquista della

libertà etc. derivanti dall’estrazione sociale dei soggetti, della loro

cultura d’origine, dai metodi didattici più o meno improntati alla “pratica

del dominio delle menti”192 e dalla omologazione dei mezzi di

comunicazione; significa aprire la strada ad una nuova concezione e ad

una prassi della vita educativa più conformi ai bisogni del mondo attuale.

191 D.IZZO, Manuale di pedagogia sociale, Bologna,CLUEB, 1997, p.12. 192 Z.BAUMAN, Modernità liquida …, p. XXXII, XXXII..

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L’esperto di pedagogia sociale, pur consapevole del fatto che molte

variabili sono comuni a campi di ricerca contigui, assume per sé compiti

specifici rispetto alle altre professionalità. Egli prende consapevolezza

dei dati reali di una determinata situazione,del comportamento delle

persone singole e dei dinamismi interni ai gruppi sociali con l’impegno

di realizzare le migliori condizioni possibili per i processi formativi.

Possiamo delineare lo sviluppo e l’articolarsi della pedagogia sociale

secondo quattro stadi di seguito ricostruiti.

� In primo luogo, la pedagogia sociale si pone come riflessione

dell’educazione in genere. Essa indica la prospettiva

dell’educazione: rapporti interpersonali, gruppi formali e

informali, enti ed istituzioni sociali etc. D’altronde, neppure la

stessa pedagogia generale può smarrire la sua dimensione sociale,

senza rischiare di rimanere svuotata del suo contenuto più

importante. In questo senso la pedagogia diventa teoria e scienza

dell’educazione sociale entro campi molto estesi che si vanno via

via profilando ed articolando.

Vi sono nella realtà sociale, considerata sotto il profilo educativo,

responsabilità individuali e collettive di primo piano.

L’educazione sociale viene impegnata in compiti disparati ai quali

è spinta dal complicarsi dei rapporti interpersonali nei vari contesti

sociali. La pedagogia sociale deve pertanto deve motivare questa

situazione in modo aggiuntivo e consolidarla al fine di agevolare

la comunicazione nei vari settori. I vari settori di indagine si

sviluppano su tre fronti:

1- L’analisi dei fattori sociali dell’educazione presenti nelle

istituzioni che hanno dichiarate intenzionalità educative.

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125

2- L’analisi dei fattori sociali dell’educazione presenti nelle

istituzioni che di per sé non hanno intenzionalità educativa ma

pur tuttavia possono essere cariche di potenzialità educative.

3- L’analisi delle finalità educative nei loro significati e nella loro

portata sociale.193

La realtà sociale è composta anche da situazioni conflittuali, da

tensioni e da dinamismi di diversa origine e natura. La

famiglia, la scuola e gli altri settori possono nutrire interessi e

concezioni educative di livello diverso. La società attraverso le

istituzioni fornisce non solo indicazioni ma anche risorse e

situazioni educanti.

� In secondo luogo si propone un precetto che risale a Natorp194,

tuttora valido nella sua genericità:<<educare nella società,

mediante la società e per la società. Il singolo uomo è

propriamente solo un’astrazione, così come lo è l’atomo del fisico.

L’uomo diventa uomo soltanto mediante la società umana. Per

convincerci di ciò nel modo più veloce, si richiami alla mente che

cosa sarebbe di lui se crescesse al di fuori di ogni influsso della

società umana. E’ certo che egli, di conseguenza cadrebbe in

basso, a livello di un animale e che, in quanto a lui, la particolare

struttura umana si svilupperebbe solo in misura estremamente

povera, non al di sopra di una sensibilità addestrata . >>195

La comunità sociale è il piano da cui gli individui, rinunciando

alla loro particolare determinatezza, si elevano all’idea e celebrano

l’universalità della propria esistenza spirituale. In verità, 193 L.SANTARELLI BECCEGATO,Pedagogia sociale e ricerca …, p.50. 194 Ibi,p.14. 195 Ibidem.

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l’educazione così intesa non ha scopi socialmente definiti, o

meglio, pur rimanendo non confutabile il precetto, quest’ultimo è

privo di quella prudentia che, nell’agire sociale, necessariamente

si accompagna alla scientia ed alla sapientia. La società rimane

una categoria trascendentale, nella quale –secondo il filosofo- può

attuarsi la libertà come creazione del mondo umano e l’uomo può

celebrare la propria natura spirituale. Nel pensiero di Natorp, sono

evidenti una concezione universale dell’umanità, una concezione

mistica della società e della comunità, una concezione etica

dell’agire pedagogico. Il contenuto della formazione e della

cultura comprende i mondi dell’intelletto, della volontà, dell’arte e

delle credenze; scopi dell’attività educativa sono le virtù

individuali ed etiche, nelle virtù sociali della giustizia. Il progresso

delle scienze sociali in genere (dall’economia alla storia,dal

diritto alla scienza politica, dall’antropologia culturale alla

sociologia e così via) rende molto meno sfumata la visione della

natura umana nella sua dimensione sociale: ne vede le occasioni,

le situazioni, e le forme. Le istituzioni sociali possono essere, in

quanto costruzioni dell’uomo, opportunità per l’uomo, a favore

dell’uomo. Non vengono meno il riconoscimento dei valori e il

rispetto della dignità umana. Al contrario, è cresciuto a dismisura;

ne consegue che la responsabilità diviene duplice nel senso di

assunzione ed assolvimento dei doveri.196

� In terzo luogo la pedagogia sociale assume i tratti di una

pedagogia per i casi di necessità, nel senso sia del senso della

formazione e della prevenzione. La pedagogia generale viene 196 D.IZZO, Manuale di pedagogia sociale, p. 15.

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intesa come scienza operativa, empirica e pragmatica. Di fronte

alla realtà di fatto, il pedagogista avverte la distanza che corre tra

ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Non esiste progetto educativo

giunto al suo traguardo finale. Non esistono obiettivi a termine. La

situazione più avanzata è quella in grado di sondare più a fondo la

realtà. Il pedagogista autentico non si perde in dichiarazioni di

intenti o in esercizi oratori per persuadere altri a fare ciò che è

doveroso. Queste caratteristiche sono accentuate nella pedagogia

sociale, nel senso che il pedagogista sociale opera fra le cose e

percepisce la necessità dei propri interventi.

In questa direzione egli si incontra con le politiche sociali. La

stessa educazione è considerata una politica sociale , quanto e più

dell’assistenza, della sanità ed altro. Senza formazione e senza

cultura il cittadino è incapace di fruire al meglio delle occasioni e

delle opportunità che gli stessi servizi sociali offrono al

pubblico.197

Le pagine più belle della storia della pedagogia sociale parlano di

educatori intrepidi, generosi, pronti alla trasgressione se

necessario. Si va da Enrico Pestalozzi a Giovanni Bosco, da don

Lorenzo Milani a Danilo Dolci. Sull’etica della responsabilità

spesso è prevalsa e prevale quella della comprensione. Non vi è

priorità tra le necessità se non quella dell’emancipazione. La

concretezza, anche materiale, del fare cose necessarie spinge a

disegnare una visione del mondo al di sopra delle stesse necessità

materiali.

� In quarto luogo, all’apice di questa sua crescita, l’educazione si

pone come aiuto per la vita e la rivendica sin da quando ne è 197 Ibidem.

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un’abbozzo. Vi sono modelli di vita da cui non è possibile

prescindere, modelli che si dilatano sempre più e ritrovano in alto

valori che sono alla base della nostra società. La società si

secolarizza nel senso che i valori della solidarietà la

compenetrano, assumendo forme visibili e tangibili. Il volontariato

non è più vita di soccorso o di mera necessità ma dono.

Nell’omologazione culturale (tutti uguali purché più in basso)

prende vita una pedagogia dell’impegno, una pedagogia sociale

autentica la quale più che disciplina diventa costume.198

Tuttavia l’impegno per scopi delimitati non esclude ma

presuppone una riflessione sugli eventi che derivano da una catena

di fattori; essi acquistano una fisionomia grazie al giudizio di cui

sono oggetto da parte degli stessi operatori sociali che si occupano

di formazione.

Fatta salva ogni altra possibile catalogazione, gli ambiti di ricerca della

pedagogia sociale sono quelli descritti e raccolti nei quattro punti

appena elencati. Una definizione, tanto sintetica quanto efficace, della

ricca articolazione della pedagogia sociale in molte e varie competenze

è quella formulata alcuni anni fa da Aldo Agazzi:<< La pedagogia

sociale è la pedagogia che, riconosciuto o meno ( da qui l’esigenza di

una preliminare verifica e teoretica in merito) che nello svolgimento e

nell’educazione dell’uomo entrano dei fattori, degli agenti, delle

influenze, delle componenti sociali (sociali in senso proprio, storiche e

civili in senso ampio, di concretezza storico- sociale in sede politica ,

198 Ibi, p. 16.

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economica, produttiva, scientifica, culturale) ne imprende la disamina e

li assume in visione educativa.>>199

Secondo Agazzi, la pedagogia sociale, (intesa come pedagogia volta al

sociale, piuttosto che a una specializzazione vera e propria) prospetta

due problematiche:<< Un conto è […] considerare l’individuo e porsi i

problemi della sua educazione alla società e perciò alla socialità, per

farne un essere sociale membro cosciente e responsabile della società

stessa, e altro problema è quello di stabilire ciò che la società, come tale

deve di educazione all’individuo, sia per educare in lui l’uomo, un

soggetto umano, sia per educare negli uomini se medesima.>> E

aggiunge:<< Nascono qui quei problemi più rigorosamente definibili di

“pedagogia sociale” , nel senso preciso di stabilire quali siano la

coscienze, le consapevolezze, i compiti, le capacità ed i metodi necessari

e più opportuni da porsi in atto da una società in quanto tale, per poter

assolvere ai propri impegni educativi. E’ cioè il problema della società in

quanto educatrice.>>200

In linea generale questa ambivalenza della pedagogia sociale (l’uomo

per la società e la società per l’uomo) è ineccepibile. Ma non si può

parlare, in concreto, di una società in quanto educatrice senza incorrere

nell’errore di sostanzializzare un termine collettivo ( il termine società)

e senza correre il rischio di attribuire una valenza educativa a tale

sostanza, quando in effetti la realtà sociale è ben più complessa e varia,

educatrice in vario modo e talvolta diseducatrice.

In realtà negli eventi e interventi educativi sono coinvolte singole e ben

definite istituzioni, sia pure entro particolari climi storici e culturali.

Questa impostazione generica della ambivalenza della pedagogia sociale 199 A.AGAZZI, Problematiche attuali della pedagogia e lineamenti di pedagogia sociale, Brescia, La Scuola, 1968, p.54. 200 Ibi, p. 111.

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-così come viene posta- discende tutto sommato dalla formula “educare

nella società, mediante la società, e per la società” già ritenuta

formalmente valida ma vuota di contenuto, risalente alla fine del secolo

diciannovesimo.

Nel frattempo, grazie al progresso stesso delle scienze umane e sociali

(tra le quali è legittimamente inserita la pedagogia), viene offerta alla

ricerca e agli interventi socio-educativi, una notevole ricchezza di

informazioni e di metodi per conoscere ed analizzare gli intrecci storici,

economici e civili che condizionano, favoriscono o bloccano i processi

formativi degli individui, dei gruppi, degli strati sociali.

La concezione della società in quanto educatrice si accorda con una

visione della società totale la quale è pura astrazione. Se si ammettessero

criteri universali per stabilire quando la società è educatrice, ci

troveremmo di fronte ad una serie senza fine di casi da esaminare. Se ci

limitassimo a dire, invece, che i casi reali e possibili sono innumerevoli,

non verremmo a capo di nulla. Aprire delle problematiche implica

l’obbligo della concretezza logica per poterle affrontare.201

5.1 L’educazione nella sua funzione sociale.

Abbiamo parlato di quattro stadi di sviluppo proprio della pedagogia

sociale: la socialità come prospettiva dell’educazione; l’educazione nella

201 D.IZZO, Manuale di pedagogia sociale …,cit. p.18.

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società, mediante la società e per la società;l’educazione per i casi di

necessità; l’educazione come aiuto per la vita.

Abbiamo affermato che, nonostante la loro varietà e ricchezza, le varie

ricerche ed attività nel campo della pedagogia sociale possono essere

contraddistinte da quattro fasi. Ma abbiamo anche voluto sottolineare il

vuoto di contenuti che contraddistingue lo stesso termine società se esso

viene usato se3nza alcun riferimento a teorie o a riflessioni critiche. Lo

stesso vale per termini derivati, come sociale o socializzazione.

Pertanto abbiamo espresso il parere che al pedagogista sociale non può

essere concesso di essere disinformato in materia. Ciò non significa che

la pedagogia sociale debba scomparire per ridursi a sociologia. Analoghi

discorsi si potrebbero fare circa i rapporti tra pedagogia sociale e

psicologia sociale.

Pur tenendo debito conto dei dati sociali e psicologici i pedagogisti

indicano, o suggeriscono, procedure che si riferiscono anche ad altre

variabili: eventi storici, situazioni ambientali, tradizioni culturali, stili di

vita etc. In concreto il sociologo, a seguito delle sue analisi, segnala quali

sono a suo parere gli effetti della formazione nei comportamenti sociali.

Lo psicologo indaga nel campo dello sviluppo e analizza anche i processi

di apprendimento.

Tuttavia non spetta al sociologo né allo psicologo suggerire tipi e

modalità di intervento educativo vero e proprio. Educazione ed

istruzione acquistano pienezza di significato quando vengono

istituzionalizzate in un corpo sociale.202

Apprendere ad insegnare ed imparare ad apprendere sono pratiche che

richiedono la creazione di norme e permettono la stabilizzazione di

aspettative. Le norme sono aspettative di comportamento. 202 Ibi, p. 22.

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Luhmann ebbe in proposito a scrivere: << E’a partire da questo

momento che l’insegnamento può diventare professione. Le scuole e una

pedagogia che può essere studiata costituiscono la forma finale di questo

sviluppo. Un’ apprendimento dell’apprendimento si ha soltanto quando

la necessità di apprendere si presenta con una tale ampiezza e con una

tale durata nel tempo che vale la pena investire energie in questa

soluzione indiretta. Ciò si verifica nel caso dell’appropriazione di un

sapere specialistico complicato, che richiede per la sua stessa

organizzazione interna una precisione metodologica dell’approccio. Ma

in modo molto più inosservato assistiamo ad un apprendimento anche

nei casi in cui si tratta soltanto di conoscere situazioni, persone, ruoli,

scritti od oggetti sempre nuovi. Nelle società caratterizzate da un’alta

mobilità, infatti, anche imparare a fare conoscenza, a familiarizzarsi con

circostanze sempre nuove comincia a rivelarsi utile. La maniera di

avvicinarsi ad una città sconosciuta nella quale ci si trattiene per un certo

periodo di tempo, l’inserimento in una nuova organizzazione

professionale e l’acquisizione delle necessarie nozioni legate al proprio

posto di lavoro, l’inizio di un nuovo rapporto affettivo o di amicizie

legate ad uno scopo preciso, i viaggi con le guide turistiche , tutto ciò

che può e deve essere imparato […]. L’apprendimento, una volta che lo

si è imparato, è facile e il vantaggio lo si avverte fin nel rapporto che si

instaura con ciò che è stato appreso.

Chi ha imparato ad imparare è anche in grado di imparare cose nuove.

Ciò che è stato appreso secondo determinate regole di apprendimento

non fa parte di noi stessi nella stessa misura dell’esperienza personale.

Perciò è più facile sbarazzarsene e la critica da parte di terzi non colpisce

in modo così personale quanto la confutazione di conoscenze che sono

state presentate come frutto di esperienze proprie.

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La riflessività dell’apprendimento consente così uno stile di discussione

informale e obiettivo e favorisce, anche grazie a questo, il potenziale dei

sistemi sociali per la trattazione di problemi complessi in termini di

contenuto e di tempo.>>203

Il pedagogista può ricavare dai risultati delle analisi sociologiche e

psicologiche soltanto gli scopi dei propri interventi: combattere

l’analfabetismo, favorire il recupero sociale degli emarginati, e dei

disadattati, innalzare il livello medio di formazione, fare consulenza per

le famiglie etc. Ma non può di certo ricavare da quelle analisi i

suggerimenti per le procedure, i modi o i metodi dei suoi interventi. Egli,

il pedagogista deve conoscere la realtà sociale sia per affrontarla sia per

ricavarne le risposte necessarie al suo operare.

Ma non potrà mai dare soluzioni univoche a problemi differenti o

suggerire comportamenti analoghi per casi identici ma diversamente

collocati. Il suo compito è guidare, condurre le scelte in base, appunto

alla concreta realtà sociale, vista secondo le categorie spazio –tempo.204

Alle variabili spaziali e temporali vanno aggiunte l’esperienza e le

motivazioni culturali di chi è responsabile degli interventi educativi.

Vi è una ragione in più per dire che i modelli pedagogici non derivano da

quelli sociologici. Di fatto l’educazione è qualcosa di più, della

socializzazione. Si intende per socializzazione l’inserimento di individui

o di gruppi entro la rete di norme formali e informali che regolano la vita

sociale. Ma non è detto che quelle norme siano le migliori. Il sociologo

si ferma di fronte a comportamenti adeguati per quel tipo di società. (

acquisitiva, ascrittiva, patriarcale etc.) Il pedagogista e l’educatore

devono andare oltre.

203 N.LUHMANN, Illuminismo sociologico, Milano, Il Saggiatore, 1983, tr.it. p. 106. 204 D.IZZO, Manuale di pedagogia sociale …, cit. pp.22,23.

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Accanto alla normale socializzazione -ha osservato Niklas Luhmann -

che avviene continuamente con la semplice partecipazione alla

comunicazione, si sviluppa una socializzazione particolare, intenzionale

e quindi educativa: l’educazione nasce proprio quando, a partire

dall’intenzione pedagogica, un comportamento viene presentato come

giusto. Socializzazione ed educazione non coincidono, anche se,

naturalmente, la socializzazione è un presupposto per l’educazione

poiché solo chi è socializzato può essere educato.205

L’educatore non può rinunciare a una sua visione finalistica del soggetto

visto in seno alla comunità in cui vive e rispetto alla realtà sociale che

contribuisce a costruire. Vi sono valori come la dignità dell’uomo e la

libertà da cui non è lecito distogliere lo sguardo. Vi sono modelli

culturali, arcaici propri di società stratificate che non sono affatto pari a

modelli culturali evoluti (ma cos’è un modello culturale evoluto?!) .

L’educatore deve educare alla socialità, al senso di appartenenza alla

responsabilità civile tutti comportamenti che non sono semplice

socializzazione. La pedagogia sociale si occupa dei vari settori di questa

complessa problematica educativa.206

I suoi ambiti di ricerca e di intervento non sono elencabili. Permanente è

soltanto il criterio col quale è possibile riconoscere tali ambiti:

l’educazione in funzione sociale con ricerche ed interventi indirizzati a

tale scopo. E’ un vero e proprio agire pedagogico che non si limita alla

teorizzazione, alla riflessione e ai buoni propositi.

Il pedagogista sociale pertanto può interessarsi dei gruppi nella loro

formazione ed evoluzione , delle istituzioni nella loro struttura e nelle

varie forme della loro partecipazione, del lavoro nelle sue molteplici

205 Ibi, p.24. 206 Ibidem.

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occasioni di formazione, della educazione popolare come innalzamento

del livello medio culturale e come coscientizzazione,207 (formazione

consapevole evolutasi poi in autoformazione nella sua attuale accezione)

la delimitazione degli ambiti propri della pedagogia sociale implica,

necessariamente come accennato nella parte introduttiva, la distinzione

tra le competenze proprie e quelle di altre pedagogie che le sono più o

meno affini. Quella che le più affine in assoluto è la pedagogia speciale.

Tuttavia i confini tra i campi di competenza in questo caso, sono molto

più marcati di quanto possa apparire a prima vista.208

Ogni realtà di fatto (quella che può essere censita nei suoi connotati) può

essere interpretata e spiegata soltanto se le viene contrapposta una realtà

virtuale, quella che noi costruiamo concettualmente. La riflessione

pedagogica sui fenomeni sociali (allo scopo di misurarne e valutarne la

valenza educativa) presuppone questa capacità di analizzare la realtà di

fatto. La pedagogia sociale ha avuto uno sviluppo parallelo ad altre

teorie sociali dall’economia al diritto, alla sociologia, alla scienza

politica alla medicina sociale. La sua ricerca si estende dai problemi

specifici della famiglia e della comunità, alla pedagogia del lavoro,

all0educazione permanente . Il fatto che le varie discipline offrano quadri

di riferimento ad altre discipline fa sì che temi affrontati finora

isolatamente assumano una nuova luce e appaiano nella loro globalità e

complessità.

La storia come scienza sociale per eccellenza ci aiuta a scoprire

l’esistenza di nessi tra fatti, eventi ed interventi. La pedagogia sociale è

una scienza pratica. L’espressione non significa, come si potrebbe

pensare a prima vista, una scienza che si occupa di fare cose: empirismo

207 Ibi, p.25. 208 Ibidem.

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fine a se stesso o pragmatismo cieco. L’aggettivo –pratica- vuole avere

un significato etico:operare per dare a ciascuno la formazione migliore.

Vi sono ipotesi di segno valoriale che noi premettiamo e a cui puntiamo

per il raggiungimento delle aspirazioni individuali. Nella sua essenza la

pedagogia sociale non ricerca per poi agire, ma agisce per mutare le

situazioni di fatto.209

5.2 Socialità come dimensione umana ed unitaria.

L’educazione alla socialità non avviene attraverso la pura, semplice

socializzazione. E’ una dimensione umana che viene logicamente prima:

il senso della comunità e del bene comune, la consapevolezza di sé, la

convinzione che ciascuno può partecipare all’interesse di tutti e che

l’interesse generale è l’interesse di ciascuno. Ma ancor prima precede

un’educazione alla socialità che è educazione etica tanto che il

conoscere il bene, e il volere il bene si identificano.

L’essere stato educato alla socialità consiste, tra l’altro, nel possesso di

una particolare forma mentis secondo regole formali e informali che

connettono l’individuo con il sé e con l’altro da sé. Ma è possibile fare

una riprova di quanto appena affermato con un’iperbole: se un gruppo di

persone stabilisce un patto per delinquere, indubbiamente esso realizza

un caso del tutto speciale di socializzazione, tanto per definirlo in

termini tecnici, associazione per delinquere. Per quanto vi siano scopi ed

interessi comuni, non è certo l’educazione alla socialità di cui si è

argomentato. Quest’ultima non richiede la capacità di scegliere fra il

bene e il male come se bene e male fossero due semplici opzioni di

209 Ibi, 26.

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scelta, bensì richiede la capacità di agire per il bene, che va riconosciuta

in qualsiasi situazione problematica della vita. Ora l’educazione alla

socialità richiede la dimensione sociale di ogni forma di sapere e di

agire comunicativo.

La coscienza di sé a fondamento di ogni azione razionale e motivata

può esser formata attraverso esercizi propri che sono dell’autentica

cultura nel suo farsi. Qualsiasi disciplina ha una razionalità che forma

le capacità di giudizio del discente. Ma il modo di trattarla con i dicenti

può oscillare tra due poli: uno dogmatico e l’altro critico. Nel primo dei

casi, si danno informazioni, si narrano avvenimenti o si adottano

procedure senza alcun diritto di replica. Nel secondo caso le discipline

vengono trattate in piena libertà di replica, ossia con la comune

consapevolezza che approfondimenti e percorsi alternativi sono sempre

possibili.210

Tutto è storia. Tutte le discipline hanno uno sviluppo che si è realizzato

da una generazione all’altra, si vive nel presente per operare in funzione

del futuro. Questa è la contemporaneità del vivere sociale. La cultura, o

meglio il far cultura, è problematizzazione, invenzione, creatività.

La cultura si pone a diversi livelli perché si innalza nella misura in cui

approfondisce i suoi contenuti, essa è dialettica che coglie le

contraddizioni e ne sfrutta i dinamismi. La pedagogia nel suo fare

formazione, secondo un ottica di vocazione alla socialità, è abolizione o

rifiuto di qualsiasi barriera artificiale fra persone. Qualsiasi discorso è

sempre universale e particolare, aperto e definito, perenne e precario:

l’arte con i suoi stili, le scienze con i loro campi differenziati di ricerca,

la letteratura con la sua capacità d’esser pregnante sull’io.

210 D.IZZO, Manuale di pedagogia …, cit. p. 111.

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138

La chiave di ogni discorso può esser ricercata nella contemporaneità:

sono io che studio l’antichità e agisco per il futuro vivendo nella mia

contemporaneità.

L’intera gamma delle scienze umane e storico- sociali è obbligata a

guardare alla contemporaneità, ossia, ad una determinata epoca nel suo

divenire. La cultura linguistico – letteraria non può rimanere isolata dal

mondo esterno, contraddistinto da rapide trasformazioni nel campo

vastissimo della comunicazione. La stessa dialettica della filosofia, oltre

a recuperare la categoria storica della contemporaneità deve confrontarsi

con la rifondazione continua del sapere e dei linguaggi specifici.211

Il taglio storico di qualsiasi sapere ha come riferimento non il presente

calendario ma l’interesse di tutti per questa o quella questione. Non è

presente l’oggi che fugge. E’ a noi contemporaneo ciò che diventa

oggetto del nostro interesse. Matura e cresce la consapevolezza del

nostro presente non tagliandolo dal passato bensì mediante quella che

Theodor W. Adorno – con un’allusione di sapore psico-analitico

chiamava “la nostra rielaborazione del passato”. Passato e presente sono

l’uno il quadro referente dell’altro.212 La contemporaneità dovrebbe

permettere di recuperare, senza distorsioni, i tesori del passato nella

consapevolezza che molto dipenda dal valore che si è in grado di

cogliere e detenere dal loro recupero.

Considerazioni conclusive.

211 Ibidem. 212 Ibi, p. 113.

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INDICE

Capitolo 1

Fra letteratura e pedagogia sociale.

1.0 Elementi introduttivi. Pag.1

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144

1.1 La pedagogia sociale come laboratorio

di esperienza. Pag.6

1.2 Il genere autobiografico in

pedagogia. Pag.7

1.3 L’insicurezza di un genere e il fine

di un mezzo. Pag.11

1.4 L’utilizzo di un mezzo nell’autobiografia. Pag.13

1.5 Le risorse della pedagogia sociale nei vari

contesti educativi. Pag.18

Capitolo 2

La pedagogia nella sua dimensione letteraria.

2.0 Pedagogia ed educazione:Lineamenti teorici. Pag.23

2.1 Discorso pedagogico: Aspetti fondanti. Pag.26

2.2 Lettura e letteratura nei processi pedagogici. Pag.29

2.3 Dimensioni comuni nel rapporto fra

pedagogia e letteratura. Pag.33

2.4 Nuove modalità di accostamento fra

libro e lettura. Pag.35

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145

Capitolo 3

Pensiero narrativo e contesto culturale.

3.0 Quando la pedagogia incontra il pensiero

narrativo. Pag.42

3.1 Il pensiero narrativo nel suo uso

“creativo”. Pag.45

3.2 La narrativa diviene romanzo. Pag.47

3.3 Il romanzo e la sua “pedagogica

saggezza”. Pag.49

3.4 Riflessioni su un romanzo “pedagogicamente

saggio”:La piramide del caffè. Pag.51

3.5 “Altre finestre” sul romanzo autobiografico”:

Nati due volte. Pag. 54

3.6 Conclusioni a tema. Pag.59

Capitolo 4

Il metodo educativo nell’autobiografia

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146

4.0 Il raccontarsi alla base del conoscersi e del

farsi conoscere. Pag.65

4.1 L’autobiografia come cura di sé. Pag.74

4.2 L’azione educativa autobiografica rivolta

a sé stessi. Pag.87

4.3 Il metodo autobiografico. Pag.98

4.4 Il ruolo della memoria nel processo

autobiografico. Pag.103

4.5 Sottogruppi della memoria a lungo termine:

memoria episodica e memoria semantica. Pag.106

4.6 L’autobiografia in quanto rappresentazione

di sé. Pag.110

4.7 Peculiarità dell’autobiografia. Pag.111

4.8 La scrittura autobiografica nei suoi

diversi generi. Pag.115

4.9 Riflessioni conclusive sul discorso

autobiografico. Pag.121

Capitolo 5

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147

Socialità e dimensione unitaria.

5.0 Evoluzione della pedagogia sociale nei

contesti educativi. Pag.124

5.1 L’educazione nella sua funzione sociale. Pag.131

5.2 Socialità come dimensione umana e

unitaria. Pag.137

Considerazioni conclusive. Pag.140

Riferimenti bibliografici. Pag.141

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148

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Considerazioni conclusive

Quando si parla di spazi per la pedagogia sociale lo si fa in un’ottica

figurata. Tutto quel che accade ha un’origine sia pur lontana, nella storia di

un’area sociale, oppure profonda, nelle strutture stesse della società. Se i

pedagogisti sociali non possono né mutare la storia, né le strutture, essi

hanno il dovere di intervenire, per quanto loro compete, sapendo progettare

per tempi lunghi o brevi. Quando si parla di spazi per la pedagogia sociale ,

ovviamente ci si riferisce anche ai compiti degli esperti della materia:

compiti che non possono esser ridotti (nel senso della minimizzazione) ad

un mansionario predisposto per realtà immutabili o ignote. Le competenze

vanno dalla consulenza alla ricerca, dalle prestazioni di servizio in vari enti

al lavoro sul campo, dall’organizzazione di servizi educativi ad una

gamma, più o meno estesa, delle diverse sfere della convivenza civile con

finalità educative. Vi è poi tutto il mondo dei servizi sociali; siamo alla

vigilia della istituzione di nuove competenze e nuovi ruoli e questo

configura l’esigenza per la pedagogia di studiare l’andamento del Welfare

State. E già stato autorevolmente notato che, nonostante i limiti e le

contraddizioni delle politiche sociali e la crisi dello Stato sociale, la

riflessione su alcune tematiche fa puntare lo sguardo su molteplici stati di

deprivazione e di esclusione cui sono condannate fasce sempre più ampie

di popolazione . Il criterio di uniformità delle prestazioni che si è venuto

progressivamente affermando trascura talora la specificità dei beneficiari; i

livelli di benessere possono risultare assai differenti in relazione alle

caratteristiche delle persone e al contesto sociale in cui vivono.

L’evoluzione non sempre organica della rete di sicurezza sociale ha

accresciuto talora le diseguaglianze, generando nicchie di protezione per

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particolari categorie di cittadini e lasciando prive di tutela altre. L’attuale

crisi dovuta (ma non solo) ad eventi economico-finanziari dei vari paesi,

segnala il pericolo di una involuzione dello stato assistenziale che,

nell’intento di perequare situazioni estremamente diversificate, provochi

moti di livellamento verso il basso e convalidi passività sociale. I

movimenti di empowerment e i dinamismi del terzo settore vanno in

tutt’altra direzione: promuovere l’autonomia, la cultura (che rende

l’individuo meno manipolabile rispetto a determinate logiche) investire

risorse pubbliche per stimolare il privato… in questo spazio di crescita,

dove le posizioni sono arrovesciate (dalle attese passive alle libere

iniziative), la pedagogia sociale potrà assumere ruoli attivi, integrativi,

innovativi di enorme rilievo.

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