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1 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 unità 2 L’autunno del Medioevo Riferimenti storiografici Nel riquadro miniatura del XV secolo che raffigura la battaglia di Crécy, combattura tra francesi e inglesi nell’ambito della guerra dei cent’anni. Sommario Filippo il Bello e Bonifacio VIII Il tumulto dei ciompi La danza macabra I nemici della cristianità: usurai, streghe ed ebrei La nuova guerra nell’Italia del Trecento e del Quattrocento Profetesse e visionarie nel Tardo Medioevo Le origini asiatiche della peste La peste: una malattia socialmente ingiusta L’appropriazione del tempo da parte dei mercanti L’industria tessile nel Tardo Medioevo La centralità della morte nella religiosità tardo medievale Urbanistica e potere nell’Italia del Quattrocento 9 8 7 2 3 1 10 11 12 4 5 6

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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

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L’autunnodel Medioevo

R i fe r i me n t i s t o r i o g r af i c i

Nel riquadro miniatura del XV secolo che raffigura la battaglia di Crécy,combattura tra francesi e inglesi nell’ambito della guerra dei cent’anni.

SommarioFilippo il Bello e Bonifacio VIIIIl tumulto dei ciompiLa danza macabraI nemici della cristianità: usurai, stregheed ebreiLa nuova guerra nell’Italia del Trecentoe del QuattrocentoProfetesse e visionarie nel Tardo MedioevoLe origini asiatiche della peste

La peste: una malattia socialmenteingiustaL’appropriazione del tempo da parte deimercantiL’industria tessile nel Tardo MedioevoLa centralità della morte nella religiositàtardo medievaleUrbanistica e potere nell’Italia del Quattrocento

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Bonifacio VIII aveva due grandi nemici: la famiglia Colonna, no-bili romani ostili alla casata dei Caetani, da cui proveniva il papa,e il Consiglio di Francia, un gruppo di giuristi che svolgevano il ruo-lo di ministri e consiglieri di Filippo il Bello. Alla tradizionale dot-trina papale delle due spade, i giuristi francesi opponevano la con-cezione della monarchia sacra, secondo cui il re di Francia ave-va ricevuto il potere direttamente da Dio. I Colonna, invece, so-stenevano che l’elezione di Benedetto Caetani (Bonifacio VIII) al pon-tificato era illegittima, in quanto l’episodio delle dimissioni di Ce-lestino V non aveva alcun precedente nella storia della Chiesa.

Nel 1294 il re di Francia Filippo IV il Bello attaccava ilfeudo della Guascogna, nel settore sudoccidentale dellaregione francese, con lo scopo di aggregarlo di fatto enon solo di diritto al suo regno; così facendo, apri-va un contenzioso con il re d’Inghilterra, titolare di quelfeudo, che nell’immediato scatenava un duro conflitto enel lungo termine avrebbe gettato la Francia nella trage-dia della Guerra dei Cent’anni. […] Dopo poco tempo dal-l’inizio del conflitto la costosissima guerra aveva messo incrisi il sistema finanziario dei due paesi contendenti etanto Filippo quanto il sovrano inglese si videro costrettia prendere una decisione d’emergenza, cioè tassare ilclero del proprio regno nonostante fosse esente in virtùdi privilegi antichissimi sempre rispettati; le vive protestedel clero si fecero sentire presso papa Bonifacio VIII, ilquale immediatamente tuonò ai due sovrani che i benidella Chiesa non potevano servire per soddisfare gli in-teressi del potere laico e li minacciò di scomunica.

La parte francese accolse malissimo la reazione pon-tificia avvertendola come l’ostacolo a una manovra lecitae necessaria nell’interesse del regno; in breve si scatenòun’acerrima disputa sui diritti della corona e del papatoche trascendeva la semplice questione fiscale. Se Boni-facio VIII ribadiva la tradizionale concezione di matriceteocratica che assegnava al papa, in quanto Vicario diCristo in terra, il diritto e il dovere di correggere i sovranidei loro eccessi, Filippo il Bello rispondeva avanzando unnuovo orientamento ideologico che faceva del principeun sovrano nel suo regno, vale a dire un’autorità perfet-tamente svincolata e indipendente da qualunque altropotere: superiorem non reconoscens [che non riconoscenessuno superiore a sé, n.d.r.]. […]

Bonifacio VIII era un papa scomodissimo per duemotivi. In primo luogo aveva innegabilmente alcuni difettiumani che, specie dopo l’esperienza del papa angelicoincarnato da Celestino V, apparivano ancor più stridentirispetto alla dignità assunta: ambizione, gusto del poteree del fasto, una visione grandiosa del ruolo di capo dellaChiesa che l’induceva a privilegiare certi aspetti anche

teatrali, come la stupefacente rivoluzione del triregno, latiara indossata dal papa quale simbolo del suo primatoche da copricapo prezioso ma semplice Bonifacio tra-sformò in un vero e proprio tesoro di oreficeria, pesan-tissimo, ornato da un rubino di grandezza e valore im-pressionanti. Ma non erano certo i lussi del papa eneppure le sue debolezze umane a turbare il Consiglio diFrancia: il secondo motivo, quello vero, era ben piùgrave. Tanto la Francia quanto i Colonna avevano capitoche su certe questioni il papa era irremovibile, dunqueper ottenere quanto desideravano sarebbe stato ne-cessario toglierlo di mezzo: e quell’elezione avvenuta inseguito al gran rifiuto, quindi in circostanze del tuttostraordinarie nella storia della Chiesa, dava lo spunto perargomentare che non si trattasse di un pontificato legit-timo.

Il cuore del problema era che Bonifacio VIII, nella logicadi una ferrea teocrazia, aveva una concezione altissimadella Chiesa di Roma, istituzione dominante nello spiritualee nel temporale, e ne difendeva strenuamente le prero-gative di sovranità; il Consiglio di Francia stava elaborandouna sua visione politica agli antipodi, che metteva il paeseal centro e mirava a conferirgli la leadership in seno alla so-cietà cristiana. Il monarca francese discendeva dalla di-nastia benedetta di Clodoveo, il quale secondo la tradi-zione era stato consacrato con un crisma miracoloso chelo stesso Spirito Santo avrebbe portato dal cielo nelle sem-bianze di una colomba. Dunque i re di Francia derivavanola loro sovranità direttamente dalla volontà di Dio e la lorodignità era spiritualmente superiore a quella di tutti gli al-tri regnanti: perciò, secondo gli ideologi di Filippo il Belloera giusto che il sovrano raggiungesse il primato anchepolitico sulla cristianità, poiché egli, il re cristianissimo,avrebbe potuto guidarla in salvo guarendola dai suoi mali.

Papa Caetani osteggiava la costruzione politica che gliavvocati francesi puntavano a far prevalere, inoltre avevadue acerrimi nemici i quali sostenevano che s’era impa-dronito del soglio apostolico con l’inganno e la sua ele-zione non era dunque valida: a un certo punto, insomma,la tesi Colonna divenne utilissima per il Consiglio di Fran-cia che riuscì a portare dalla sua parte il clero del paese eindisse un concilio per deporre Bonifacio VIII ed eleggereun altro papa più condiscendente. Da questo singolare in-crocio di idee politiche antichissime, sincere convinzioni re-ligiose e interessi politico-finanziari, i giuristi di Filippo il Belloderivarono una teoria che faceva del sovrano il salvatoredella società cristiana, un pastore del gregge di Cristo inconcorrenza con l’usurpatore del trono di Pietro.

B. FRALE, I Templari, il Mulino, Bologna 2007, pp. 110-114

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Filippo il Bello e Bonifacio VIII1

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Quale diritto/dovere avevano i papi, secondo Bonifacio VIII, nei confronti dei sovrani temporali? Filippo il Bello sosteneva che il re di Francia era pienamente sovrano, cioè non riconosceva sopra di sé alcun superiore. Contro

quali autorità era rivolta questa affermazione?Può essere definita laica la posizione dei giuristi francesi che sostengono il re di Francia e si oppongono al papa? Spiega

perché.

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Il principale nemico dei ciompi fiorentini – i salariati più po-veri, che lavoravano nell’industria tessile di Firenze – era l’Ar-te della lana, cioè l’associazione che rappresentava i grandi mer-canti. Questi importavano la materia prima e vendevano il pro-dotto finito sui mercati d’Europa o del Vicino Oriente. L’obietti-vo dei ciompi era di togliere a questo gruppo potentissimo il con-trollo della città. Il tumulto dei ciompi fu un duro scontro sociale:stranamente, per l’epoca, non fu accompagnato da fermenti ere-ticali e motivazioni religiose.

Sebbene qualche studioso abbia cercato di rintrac-ciare una connessione tra queste agitazioni e la predi-cazione ereticale, soprattutto dei fraticelli [i francescanipiù estremisti, decisi avversari del papato, dopo chequesti aveva negato che il testamento di san Francescofosse vincolante per l’ordine, sul tema della povertà as-soluta, n.d.r.] non vediamo nei moti fiorentini, perugini osenesi caratterizzazioni religiose evidenti, e comunqueil dispiegarsi di passioni e sentimenti analogo a quello deilollardi inglesi [i predicatori popolari che sostennero la ri-volta contadina del 1381, n.d.r.] e dei beghini fiammin-ghi, e nemmeno un preannunzio di quella che sarà allafine del Quattrocento l’atmosfera della Firenze savona-roliana. A ragione è stato osservato che le notizie di re-pressioni antiereticali sono tutte successive alla disfattadei Ciompi e che «sino agli anni ottanta del XIV secolo lapredicazione della povertà non si accordava alle paroled’ordine con le quali si sollevavano gli operai salariati diSiena, Firenze ed altre città, reclamando l’uguaglianzacon i maestri, l’aumento del salario ecc.» (V. Ruten-berg). Si può forse notare che proprio questa maturitàsociale del movimento popolare e operaio – che per giu-stificare la propria agitazione non fa ricorso a ragioni re-ligiose – può essere in qualche modo d’intralcio al suostesso sviluppo, nella misura in cui non consente il coa-gularsi di forze più larghe e la formazione di un bloccocapace di contrapporsi ai gruppi dominanti […]. È diffi-cile fondare su questa assenza di motivazioni religioseun’ipotesi storiografica: tuttavia è una situazione cheporta a riflettere sulle capacità di ripresa mostrate nel se-colo precedente dalla Chiesa nella sua lotta – insieme direpressione e di propaganda – contro le eresie paupe-ristiche, ma anche sull’analogo distacco che le massepopolari italiane mostreranno in generale, poco più di unsecolo dopo, nei confronti della propaganda prote-stante. Per quel che riguarda le vicende fiorentine, ilmeccanismo del tumulto dei Ciompi è ben noto. […]Nella notte del 18 luglio i popolani di vari quartieri si riu-niscono segretamente fuori la Porta di San Pietro aGattonino ed elaborano un programma comune di ri-vendicazioni: innanzi tutto una serie di richieste nei con-fronti dell’Arte della Lana, […] poi l’allargamento deicollegi, per «avere parte nel reggimento della città».Quando il 20 luglio si sparge la notizia che tre capi deiCiompi, in seguito a delazione, sono stati arrestati e sot-toposti a tortura, il popolo minuto si leva in armi e ac-corre al palazzo della Signoria sotto i suoi gonfaloni (in

testa quello dell’Angelo, che ai tempi del duca d’Atene[Gualtieri VI di Brienne, dispotico governatore di Firenzetra il 1342 e il 1343, n.d.r.] era stato riconosciuto comebandiera delle Arti minute istituite dal duca e scioltedopo la sua cacciata). A gran voce viene imposta la li-berazione dei tre prigionieri, poi i tumultuanti si impa-droniscono del gonfalone della Giustizia, simbolo delComune, e dànno fuoco alle case dei personaggi piùdetestati e al palazzo dell’Arte della Lana. […] Lo squit-tino, ossia la scelta di cittadini di pieno diritto che pote-vano essere eletti a cariche pubbliche, viene operato inun ambito che cresce improvvisamente da poco più ditremila a circa sedicimila persone: «O Idio, che gente fuquella che ebbe a rifare tanto nobile città e così nobilereggimento – commenta il nuovo squittino un popolanograsso, sdegnoso verso questi nuovi arrivati – …non al-tro che gente, erano tutti, veniticcia, che egli medesimi,domandandogli, non sapevano donde erano venuti, nédi che paese… Non v’era niuno di famiglia, né niunobuono originale cittadino». Il superbo disprezzo per inuovi inurbati corre come un leitmotiv [un tema ricor-rente, come accade per alcune note, in una melodia mu-sicale, n.d.r.] tipico della società comunale, soprattuttodopo le immigrazioni massicce seguite alla peste, nellapolemica delle vecchie classi dirigenti […].

Le tappe della reazione sono assai rapide. I padronidelle manifatture dell’Arte della Lana rifiutano di riprenderel’attività e, nonostante le ripetute ingiunzioni del Comune,botteghe e fondaci restano chiusi. Risultato quasi altret-tanto sterile hanno i decreti per l’approvvigionamentodella città. In tal modo, gli sconfitti di luglio si prefiggonodi gettare la città nel disordine […]. Fra sanguinosi scon-tri di piazza, in cui soprattutto l’Arte dei beccai si fa stru-mento di reazione, l’Arte dei Ciompi viene sciolta, i suoicapi imprigionati o massacrati o costretti a fuggire, men-tre per vari mesi la reazione infuria spietata contro coloroche cercano in qualsiasi modo di risollevare l’insegnadell’Agnello. […] Così andava instaurandosi allora un re-gime destinato a ridursi in oligarchia sempre più ristrettae finalmente nella tirannide signorile: le stesse Arti minoridi antica costituzione vedono ridotta a un terzo e suc-cessivamente a un quarto la loro rappresentanza negli uf-fici [le cariche pubbliche, n.d.r.], e sono escluse da quellepiù importanti. Il governo del Comune venne di fatto inmano a Maso degli Albrizzi (1387-1417), poi di Rinaldodegli Albrizzi e di Niccolò da Uzzano (1417-1434).Quando Cosimo de’ Medici, nel 1434, s’impadronì delpotere, «non parve strano allora quel modo di vivere in-trodotto da Cosimo, perché molti anni innanzi s’era rettola città in simile spezie di reggimento, […] tanto che la cittàera avvezza, anzi non conosceva quasi altre spezie di re-pubblica se non potenza di pochi».

C. VIVANTI, La storia politica e sociale, in R. ROMANO, C. VIVANTI (a cura di), Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero

romano al secolo XVIII. I. La società medievale e le corti del Rinascimento, Einaudi, Torino 1974, pp. 289-296

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Il tumulto dei ciompi2

Chi sono «gli sconfitti di luglio»? Si può dire che siano i vincitori della partita, al termine del tumulto?

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L’esempio più famoso di danza macabra si trovava a Pari-gi, sui muri del cimitero degli Innocenti. Il tema della Morte cheimpone ai vivi di danzare al suo ritmo si diffuse soprattutto nel-l’Europa settentrionale. In Italia, ad esempio, i dipinti macabri diquesto genere sono pochi, e tutti concentrati nelle regioni del Nord.

Anche se l’affresco dipinto nel 1424 sui muri del ci-mitero degli Innocenti ha rappresentato un prototipo ico-nografico, resta vero che il tema della danza macabra eragià noto in precedenza. Un cronista francese, che scri-veva nel 1421, così illustrava le sventure del suo tempo:«Sono quattordici o quindici anni che è iniziata questadanza di afflizione e la maggior parte dei signori è mortadi spada o di veleno o di qualche mala morte contro na-tura». Dietro il dipinto del cimitero degli Innocenti bisognasottintendere la presenza di testi e di raffigurazioni per-dute. E questo rende plausibile la tesi di H. Rosenfeld, ilquale fa risalire al 1350, situandola nel convento dome-nicano di Würzburg, la composizione della prima poesiache abbia per tema la danza macabra. Si tratta di unacomposizione formata da tanti monologhi in latino che,uno dopo l’altro, vengono pronunciati da personaggi(papa, imperatore, cardinale ecc.) costretti ad entrare nelgirotondo funebre. Aggiungiamo che la poesia era ac-compagnata da illustrazioni. […]

Allo stato attuale delle conoscenze, si sono recensitein Europa almeno 80 danze macabre dei secoli XV-XVI (in-tendiamo parlare sia di quelle ancora esistenti sia diquelle andate perdute, ma di cui si ha certa memoria),dipinte ad affresco o scolpite e talvolta anche ricamatesu arazzi e piviali [paramenti liturgici, simili a mantelli,usati nei riti sacri, n.d.r.], oppure evocate nelle vetrate:sono 22 in Germania (aggiungendovi l’Alsazia, l’Austria,l’Estonia e l’Istria); 8 in Svizzera; 6 nei Paesi Bassi; 22 inFrancia; 14 in Inghilterra; 8 nell’Italia settentrionale. Nes-suna è anteriore all’anno 1400 e forse anche in questocaso il testo scritto ha preceduto le raffigurazioni. […]

Sotto il profilo strutturale la danza macabra è unasorta di sfilata, di processione delle diverse condizioniumane in cammino verso la morte. All’interno della sfi-lata, ogni vivo è suo malgrado trascinato da una mum-mia animata che, spesso, accenna un passo di danza.Questo schema generale si arricchì ovviamente di va-rianti diverse a seconda del tempo, del luogo e anchedello spazio in cui collocare la danza. In linea generaleil numero dei personaggi invitati a far parte della sinistraprocessione o da un morto o dalla stessa Morte si fa piùfolto man mano che cresce la diffusione e l’interesse peril tema. Così, a Ker-Maria i partecipanti alla danza sonosolo 23 e il testo latino originario che ispirò la raffigura-zione, e anche il testo in tedesco che ne era derivato,non adunavano a danzare che 24 personaggi, ed èquesta la stessa cifra che ritroviamo a Lubecca e a La

Chaise-Dieu. Invece a Berlino sono 28 e nel cimiterodegli Innocenti, stando a quanto dice Guyot Marchant,30. […] Il culmine dell’inflazione di personaggi si ha nellaDança de la muerte, pubblicata a Siviglia nel 1520 […]Infatti, ivi sono 58 i vivi che invano discutono con laMorte.

Osservando un ordine gerarchico molto rigoroso, ledanze macabre, che bisogna sempre leggere da sinistraa destra, di norma iniziano con la figura del papa epongono al termine della processione danzata o, al-meno, verso gli ultimi posti della fila, da una parte il con-tadino e dall’altra la madre e il fanciullo. Si tratta di unascala di valori che non concede nulla all’ambiguità.

In generale, gli ecclesiastici precedono i laici sianella ripartizione totale, sia quando si ha una distribu-zione alternata dei ruoli. Il primo caso è esemplificatodalla Danza di Berlino […]: tutti gli ecclesiastici vi sonocollocati prima dei rappresentanti della società laica. Ilsecondo caso è quello più frequente: un personaggioo dignitario ecclesiastico sta unito ad un cadavere concui danza una specie di polacca e questa coppia pre-cede quella formata da un laico e da una mummia o dauno scheletro animato; il papa precede l’imperatore,l’arcivescovo il cavaliere, il vescovo lo scudiero. […]

Quando le raffigurazioni macabre, e soprattutto ledanze macabre, mettono al cospetto della Morte dei ric-chi, dei grandi, dei dignitari ecclesiastici e dei giovani, al-lora la Morte ha sempre un atteggiamento da sergentecriminale (ufficiale della giustizia), che è esecutore dicomandi divini. I poveri e gli sventurati interpretavanoforse quelle raffigurazioni come una sorta di rivalsa fu-tura? Vi scorgevano qualcos’altro che non fosse l’inse-gnamento costante del cristianesimo, che contrappo-neva il trapasso tranquillo di Lazzaro a quello del riccomalvagio, così come ce li presenta a Strasburgo unquadro datato 1474? In questo quadro vediamo che ilmendicante è accolto in paradiso, mentre chi teneva ta-vola imbandita, attorniato da donne e musicisti, è predadei diavoli. […] Ecco un fatto che ci illumina retrospetti-vamente sul significato delle danze macabre. Infatti,esse promettevano o facevano balenare l’uguaglianza,ma solo dopo la morte; mentre per il presente lasciavanoaccuratamente intatte le gerarchie sociali vigenti, anzi, ipersonaggi erano disposti secondo il loro rango. Le raf-figurazioni macabre di per sé non traspirano animositàverso le gerarchie sociali e non intendono stigmatizzarle(è Dio ad averle volute): esse vogliono invece sferzare lerisibili illusioni alimentate nelle persone di rango daglionori e dal denaro.

J. DELUMEAU, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidentedal XIII al XVIII secolo, il Mulino, Bologna 1987, pp. 129-135,

153-154, trad. it. N. GRÜBER

La danza macabra3

Quali paesi hanno visto una maggiore fioritura del tema iconografico della danza macabra? Con quale figura iniziano le danze macabre? Per quale ragione?Si può affermare che le danze macabre criticassero le gerarchie sociali e spingessero a ribellarsi contro i potenti,

minacciati dalla Morte? Motiva la tua risposta.

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Unica minoranza religiosa presente all’interno dell’Europacristiana, gli ebrei erano in capro espiatorio ideale. Alla margi-nalità e alla vulnerabilità si univa la credibilità: la tradizione, in-fatti, li presentò per secoli come i perfidi assassini di Cristo.

La Christianitas [la società cristiana, n.d.r.], come ognicristiano, come già l’autore dei salmi, era circondata da ne-mici. […] Questi erano, nei casi più vistosi, l’usuraio e lastrega. «Non esigere nessun interesse dal tuo fratello», di-ceva il Deuteronomio: precetto che, al di là dell’importanzache poteva assumere per i commentatori scolastici, era alprimo posto nei pensieri del cristiano medio, come dimo-strano gli statuti di qualsiasi confraternita. Da sant’Ambro-gio, nel secolo V, a san Bernardino da Siena, nel secolo XV,i predicatori ribadivano instancabilmente che la pretesa del-l’usura, o profitto sull’uso di qualcosa dato in prestito, eraun atto di inimicizia e un’offesa alla carità verso il prossimo.Di questo tema la serie di prediche quaresimali tenute aSiena nel 1425 da san Bernardino sembra essere un’e-sposizione assolutamente classica. In esso Bernardinofaceva piazza pulita delle faticose argomentazioni escogi-tate dagli scolastici per razionalizzare il tabú a beneficio de-gli uomini d’affari, affermando l’ideale che i cristiani si pre-stassero il denaro l’un l’altro gratuitamente, senzaaspettarsi alcunché in cambio, se non la disponibilità delprossimo a fare altrettanto quando ne avessero avuto bi-sogno. […] La tradizione, come mostra anche l’interpre-tazione datane da Shakespeare nel Mercante di Venezia,voleva che «chiedere qualcosa in più» in cambio di un pre-stito fosse una violazione delle leggi dell’amicizia, e che chilo facesse pretendendosi amico del debitore ne era difatto un nemico mortale, come è confermato nella tramashakespeariana. […] Shakespeare ci dà anche, in una suatragedia, un ritratto delle streghe che, per quanto possa es-sere apprezzato dal gusto moderno, non manca di un so-lido nucleo tradizionale. A quest’epoca la strega aveva or-mai sostituito l’usuraio come incarnazione della malignità,benché non sia facile stabilire se anche attorno al 1400essa fosse già al centro di tanto interesse popolare. Le stre-ghe, quando se ne fosse suscitata l’ira – e quando le lorotecniche risultavano efficaci – colpivano il corpo o i figli, uc-cidevano i maiali, diffondevano le epidemie tra le vacche etrasformavano il loro latte in sangue, provocavano l’impo-tenza e suscitavano tempeste per rovinare i raccolti. […]Non dobbiamo meravigliarci che, in un universo in cui ilmondo fisico era soggetto alle influenze più varie – daquelle sociali, a quelle che emanavano dall’ira e dall’amoredi Dio e dall’uomo, o da esseri intermedi come i santi e idemoni –, si potesse credere realmente all’esistenza di si-mili creature. […] È chiaro tuttavia che nei primi decenni delQuattrocento qualcosa di importante deve essere acca-duto: cercare di scoprire esattamente che cosa può con-durci a scoperte significative. Potremmo definire questo fe-nomeno come il formarsi dell’idea che le streghe nonoperassero singolarmente contro questo o quel cristiano,ma fossero invece tutte coinvolte in una congiura generaleavente come scopo la distruzione della cristianità. Sa-rebbe un errore pensare che queste idee non avessero ra-

dici spontanee. Si poteva infatti ben immaginare che, nellaloro opera di pura malignità, le streghe – come quelle diMacbeth – cercassero di fare il maggior danno possibileaiutandosi tra loro; ed era altrettanto facile credere chesotto ogni manifestazione del male si nascondesse lozampino dell’universale nemico, il Diavolo. […]

Tra tutti coloro che venivano relegati al ruolo di nemicidel genere umano dai cristiani tradizionali, gli ebrei eranosicuramente i più indiscussi. La differenza di atteggia-mento nei confronti dei musulmani e degli ebrei è lam-pante, e non può essere attribuita né alle capacità di rap-presaglia dei primi, che invece mancava ai secondi, né alfatto che gli ebrei esercitassero una pressione finanziariasulla popolazione cristiana, cosa che ha indotto certi sto-rici alla tentazione di considerare questa ostilità come unepisodio di lotta di classe. Gli ebrei non erano una classe,erano un popolo, e se spesso accadeva che nella societàcristiana si occupassero di prestiti e di esazione delle im-poste, questo si doveva agli effetti di un precedente an-tagonismo: un circolo vizioso, insomma. Il carattere par-ticolarmente intenso di questa ostilità, diffusa tanto nellapopolazione che tra gli eruditi, da Raimondo Lullo nel se-colo XIII a Lutero nel XVI, non ha bisogno di spiegazionimolto sofisticate. Gli ebrei erano i nemici originari di Cristo,che ne avevano voluto la crocifissione e la morte: il suosangue ricadeva sulle teste loro e dei loro figli. Il cristianomedio non faticava certo a capire che questo era un de-litto che gridava vendetta: così, più spazio acquistavano,nell’immaginazione popolare, gli eventi della storia ter-rena di Cristo, in particolare l’Incarnazione e la Passione,più fosche diventavano le tinte con cui si dipingeva l’ine-sauribile malignità degli ebrei.

Era ovvio, dato il carattere popolare della loro mis-sione, che i frati si dedicassero a inculcare questo corolla-rio della storia anselmiana [della concezione teologica clas-sica, formulata nel 1094-1098 da sant’Anselmo da Aosta,n.d.r.] della Redenzione in un pubblico fin troppo dispostoa recepirlo. Alla sua propagazione si dedicò il domenicanocatalano Vicent Ferrer, morto nel 1419 e canonizzato nel1455, seguito da una lunga schiera di discepoli, tra i qualiBernardino da Siena. Sarebbe sorprendente scoprire cheessi non fossero coscienti che la campagna per la ricon-ciliazione tra i cristiani sarebbe stata grandemente favoritadalla proposta di un nuovo legittimo bersaglio su cui sfo-gare l’odio popolare. I periodi di predicazione penitenzialecostituivano, per le comunità ebraiche precariamente am-massate intorno alle sinagoghe, da Francoforte a Siviglia,un pericolo costante che le garanzie di benevolenza del ree delle autorità municipali non bastavano certo a evitare. ARoma, durante il carnevale, gli ebrei dovevano esporsi inpubblico, un po’ come gli altri strumenti del Diavolo, cor-rendo a gara per le strade sotto una grandine di insulti, ofrustate, o salendo sui palchi per subire il disprezzo e la de-risione degli spettatori. E ancora queste pratiche ci ap-paiono relativamente bonarie a confronto con quanto av-veniva nei regni spagnoli, dove le prediche e lerappresentazioni della passione nella Settimana santa cul-minavano abbastanza spesso con un tumulto contro il

I nemici della cristianità: usurai, stregheed ebrei

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quartiere ebraico, o nella migliore delle ipotesi con il rifiutocollettivo di vendere cibo agli ebrei, nella speranza di farlimorire di fame. Il nesso tra le rappresentazioni della pas-sione in Germania e l’antisemitismo è un tema ben noto,anche se non pare che il fenomeno precedesse la Riforma.Era convinzione diffusa che chiunque avesse rapporti congli ebrei si esponesse alla stessa vendetta divina che essisi erano da se stessi attirati: di qui la diffusa dottrina se-condo cui il contatto fisico con un ebreo era contaminante,e il conseguente tabù non solo contro i matrimoni misti, maanche contro i generi alimentari o le altre merci toccate da-gli ebrei al mercato. Poiché il tabù si estendeva anche alleprostitute (oltre che ai boia, spesso si riteneva conveniente– o spiritoso – collocare i bordelli, come a Francoforte, nellaJudengasse [la via degli ebrei, n.d.r.]. Dato il clima emotivogenerale, la reazione immediata a qualsiasi importantemanifestazione dell’ira divina in una città che ospitasse de-gli ebrei consisteva nel purgarla dalla loro presenza con l’e-spulsione, l’incendio, il massacro. Il passaggio della Peste

Nera lasciò uno strascico di comunità ebraiche disperse[obbligate con la forza ad abbandonare le città in cui risie-devano, n.d.r.] in tutta la Renania e la Germania meridio-nale; solo la migliore organizzazione delle loro difese pro-tesse gli ebrei iberici dal disastro fino al 1391, ma proprioper questo, quando venne, esso fu tanto più completo. Inquesto caso la differenza consisteva nel fatto che i re si la-sciarono convincere a mutare la volontà di sterminio in unapolitica di conversioni forzate, trasformando così (in appa-renza) il problema degli ebrei in quel problema degli ereticiche li avrebbe afflitti per più di un secolo a venire [dopo es-sere stati battezzati, formalmente gli ebrei erano cristiani;dunque, ogni deviazione dall’ortodossia – e, in particolare,ogni credenza, abitudine o usanza ebraica che fosse stataconservata – era passibile dell’accusa di eresia, n.d.r.].

J. BOSSY, L’Occidente cristiano 1400-1700, Einaudi, Torino1990, pp. 90-101, trad. it. E. BASAGLIA

Secondo Bossy, nell’ostilità antiebraica tardomedievale, hanno giocato il ruolo maggiore i fattori religiosi o quellieconomici?

Quali comportamenti assumeva la gente comune nei confronti degli ebrei? Quali relazioni esistevano tra ebrei e cristiani?

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I secoli XIV e XV videro un importante cambiamento politicoe militare nell’Italia comunale. Gli Stati italiani, infatti, erano qua-si sempre in conflitto con i propri vicini, per sottometterli o di-fendersi dall’espansionismo e dall’aggressività delle città con-finanti. La guerra divenne un’attività costante, che assorbiva com-pletamente gli individui: divenne, insomma, una faccenda perprofessionisti. Di qui la nascita delle compagnie di mercenari.

Dopo il 1250, l’interesse degli imperatori tedeschi perle cose italiane non fece che scemare e così i comunidell’Italia settentrionale e centrale si trovarono liberi dalleminacce che potevano recare loro i grossi eserciti im-periali e pontifici. Prima la Lega Lombarda e poi la LegaToscana conobbero un graduale smembramento e inprimo piano comparvero le rivalità tra le città che ave-vano costituito l’una e l’altra. Era così cominciato quelprocesso che ridusse le centinaia (e non si tratta di unacifra retorica) di piccole entità signorili e di comuni indi-pendenti ad un ristretto manipolo di stati: quel processosi era concretato nell’espansione di un comune ai dannidi un altro e addirittura nell’assorbimento di altri adopera di uno più forte. Stando così le cose la guerra erada considerare un’evenienza continuamente ricorrente.Non si trattava più del breve passaggio di un esercito im-periale contro il quale bisognava adottare opportuni ri-pari, ma si doveva far fronte all’ostilità permanente dellecittà vicine. La guerra non consisteva più nella difesadelle mura cittadine occasionalmente minacciate, ma inprolungate campagne di aggressione contro i vicini.L’allargamento dell’autorità degli stati cittadini sulle cam-pagne circostanti ebbe come conseguenza che nonerano più tanto le mura, bensì le frontiere di un territo-rio a dovere essere difese. Configurandosi così la situa-zione politica, le truppe comunali chiamate in tutta frettaalle armi non costituivano più uno strumento militare ef-ficiente. Occorreva disporre di una fanteria specializzataper presidiare i confini e per condurre operazioni d’as-sedio efficaci e soprattutto c’era bisogno di una caval-leria di mestiere per le campagne militari estive e perquegli attacchi devastatori con cui si poteva mettere aterra l’economia della città rivale.

Altro effetto della diminuita incidenza delle tensioniinternazionali sulla scena italiana fu che assunse pro-porzioni sempre più gravi la lotta interna delle fazioni.Le città italiane erano un terreno quanto mai favorevolealla crescita di fazioni, soprattutto man mano che il po-tere delle autorità comunali venne ad abbracciare unapiù larga sfera di competenze e il bisogno dell’unità in-terna si fece meno sentito. Profonde fratture createdallo spirito di fazione in seno alla classe politica di uncomune resero arduo alle autorità cittadine l’allesti-mento di un’efficiente milizia comunale e questo inparticolare quando gli obiettivi di guerra non furono più

meramente difensivi. Nel contempo tali fratture fecerosì che si attribuisse un potere maggiore a quel perso-nale forestiero a cui tutti i comuni italiani affidavanol’amministrazione della giustizia e il mantenimento del-l’ordine interno. In tali circostanze quel personale – ein particolare i podestà, a cui era data responsabilità difar osservare la legge e di mantenere l’ordine pub-blico – arrivò a concentrare in sé un’autorità supremae a farsi signore della città. Capitava anche che que-ste autorità forestiere aumentassero la forza della com-pagnia di mercenari che dovevano mantenere comeforza di polizia; alcune delle più antiche compagnie dimercenari nacquero come formazioni di guardie delcorpo di autorità cittadine. […]

Da ultimo dobbiamo chiederci che incidenza ebberoi fattori prettamente militari. A questo proposito è neces-sario dare un breve sguardo agli sviluppi che l’arte dellaguerra ebbe nel secolo decimoterzo [XIII, n.d.r.] sì da ca-pire per quale ragione i mercenari e i soldati di mestierediventassero parte integrante di tutti gli eserciti europei.Una delle novità di maggiore effetto fu allora l’introduzionesu larga scala della balestra (e nell’Europa transalpina del-l’arco lungo). […] Inizialmente il papa pose al bando il ri-corso alla balestra nella guerra tra cristiani e l’arma nonvenne fabbricata su larga scala in Europa fin al secolo de-cimoterzo inoltrato. Tuttavia, a metà di quel secolo sia labalestra sia l’arco lungo erano ormai diventate armi con-suete della fanteria e così il loro uso creò problemi nuovie nuove abilità. Infatti queste armi non solo richiedevanoun lungo esercizio per essere usate con frutto (e quindicontribuirono alla formazione di specialisti e di professio-nisti nel loro uso), ma ebbero un’incidenza considerevoleanche sulle tecniche militari di coloro che da tali armi do-vevano difendersi. […] La nuova minaccia costituita daidardi scagliati dalle balestre portò gradualmente, pressoi cavalieri, a sostituire l’armatura di cuoio e maglia di ferrocon un’armatura a piastre e a cercare una qualche formadi protezione dei cavalli e, quindi, all’adozione di armatureche coprissero anche il cavallo.

Infine, per effetto di tutte queste innovazioni, il cava-liere si vide necessitato sempre più ad avere durante ilcombattimento dei cavalli di riserva che potessero so-stituire quelli eventualmente ammazzati o sfiniti dal pesodella nuova armatura; e, dunque, ebbe bisogno di unapiccola schiera di paggi e di arcieri che gli recassero i ca-valli freschi e lo proteggessero dai colpi nemici. Proprioda queste esigenze nacque la cosiddetta lancia e cioèquella piccola formazione al servizio del combattentecatafratto [corazzato, n.d.r.] che sarebbe diventata l’unitàcaratteristica della cavalleria sul finire del Medioevo.

M. MALLETT, Signori e mercenari. La guerra nell’Italia del Rinascimento, il Mulino, Bologna 1983, pp. 25-29,

trad. it. P. ALGHISI

La nuova guerra nell’Italia del Trecentoe del Quattrocento

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Perché balestra e arco lungo diedero vita a figure specializzate?Che cosa è la lancia? Quali novità nella tecnica militare hanno portato alla sua nascita?

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La figura di Giovanna d’Arco si inserisce in un più vasto fe-nomeno, che caratterizzò soprattutto gli anni 1378-1430. In que-sta fase storica, istituzioni prestigiose e riconosciute come il pa-pato (a causa del Grande scisma) e la monarchia francese (a se-guito della guerra dei Cent’anni) attraversarono una crisiprofonda. In loro soccorso, si alzò la voce di numerose figure,soprattutto femminili, che si presentarono come portatrici di unmessaggio divino, per la rinascita della cristianità.

La crisi delle istituzioni e il turbamento degli animicreano, fra il 1378 e il 1430, un clima favorevole a unapresa di parola generalizzata da parte delle donne, ge-neralmente semplici laiche, che si sentivano profonda-mente toccate dalle sventure del loro tempo e non esi-tavano a dichiarare l’origine divina delle rivelazioni dicui erano latrici [portatrici, n.d.r.]. Il caso più noto e piùsignificativo, ovviamente, è quello di Giovanna d’Arco.

Primo e più determinante connotato comune a que-sti personaggi è la consapevolezza di essere degli eletti.Dio li ha scelti per una missione particolare, malgradola loro indegnità personale, o forse piuttosto in ragionedi essa. «Io sono il tuo Dio che vuole parlare con te; ionon parlo solo per te ma per la salvezza degli altri. Tusarai il mio tramite…». Ma questa vocazione, al tempostesso umile e grandiosa, che destina la veggente afungere da intermediario dell’Altissimo fra gli uomini èaccettata solo quando le donne abbiano ricevuto ga-ranzie e precisazioni sulla propria sorte. La voce cheaveva parlato a Costanza di Rabastens nel 1384 le ri-pete: «Non temere niente e non domandare consiglioné cercare conforto da parte degli uomini, perché nonne riceverai; ma il soccorso divino non ti abbandoneràmai». Ella riprende fiato e dice: «Signore, come ciò puòaccadere, dal momento che io sono una peccatrice?».La voce le risponde: «Non dubitare, perché io ti ripetoche già il tempo è venuto che il Figlio dell’uomo [Cristo,n.d.r.] mostri il proprio potere, e sarà mostrato su di te,perché tu sei donna e attraverso la donna fu preservatala fede e attraverso la donna essa sarà risollevata, equesta donna sei tu».

Tramite la rivelazione o la visione si opera dunque untrasferimento di potere dal Cristo alla donna, elevata re-pentinamente al rango di araldo e di portavoce di Dio. Neltentativo di sfuggire al proprio destino, quante si ve-dono affidare questa missione dichiarano la propria igno-ranza della dottrina, con il rischio di errore che essa im-plica. Ma il divino interlocutore le rassicura promettendoloro la vera saggezza, che si colloca ben al di là di tuttoil sapere dei teologi e dei dottori; il riferimento al tema bi-blico o evangelico secondo cui Dio ha rivelato preferibil-mente il proprio messaggio agli umili e ai bambini gene-ralmente basta ad aver ragione di ogni esitazione.

Il loro temperamento e la loro sensibilità possono es-sere molto diversi, ma le veggenti del tempo, una voltapersuase dell’importanza del compito di cui sono inve-stite e dell’autenticità della loro elezione, adottano tuttela medesima procedura. Non tentano di rivolgersi al

popolo, ma mirano a promuovere una riforma dellaChiesa dall’alto, come se ai loro occhi la reformatio incapite [riforma al vertice, n.d.r.] comportasse la refor-matio in membris [riforma delle membra, cioè dellaChiesa in tutte le sue componenti, laici compresi, n.d.r.].Nella maggior parte dei casi la visionaria non mette in di-scussione le strutture gerarchiche della Chiesa, e anchequando critica l’inadeguatezza dei chierici si sforza di in-durli a svolgere il proprio compito. […]

Il trasferimento del soglio pontificio da Roma ad Avi-gnone, il mancato ritorno di Urbano V, le tribolazioni delGrande Scisma dopo il 1378, e infine i conflitti che per di-versi decenni videro i papi contrapposti ai grandi concili diCostanza e soprattutto di Basilea, tutto ciò contribuì acreare un clima di smarrimento e ben presto una crisi isti-tuzionale che segnarono profondamente l’animo dei devoti.Si crearono così le condizioni favorevoli affinché prendes-sero la parola individui – quasi tutti donne – che fino a quelmomento non avevano avuto né l’occasione né la possi-bilità di esprimersi in una Chiesa entro la quale il peso dellestrutture clericali era divenuto schiacciante. Generalmentequeste manifestazioni profetiche si lasciano ricondurre auno schema stereotipato: una semplice fedele, general-mente assai pia, un bel giorno si sente chiamata da Dio alministero della Parola ed è gratificata da visioni e da rive-lazioni. Cerca quindi di comunicarle sotto forma di mes-saggi rivolti ai papi e ai sovrani, poiché hanno per oggettoil bene della Chiesa e la salvezza del popolo cristiano, delquale costoro sono responsabili in sommo grado. Noncontenta di indirizzare loro lettere, la donna ispirata sisforza di incontrarli per persuaderli dell’autenticità dellapropria missione e per fornire loro segni indubitabili dellapropria elezione da parte di Dio. […]

[Nella Francia degli anni 1380-1400, il più tipicomodo di procedere del profetismo femminile] consisteessenzialmente nel recarsi presso il sovrano – «An-diamo dal re!» – per trasmettergli moniti e segni daparte di Dio. Ritroviamo in ciò un elemento centraledella vicenda di Giovanna d’Arco, ed è lecito pensareche la Pulzella sia stata ammessa, in definitiva piuttostofacilmente, alla presenza del «re di Bourges» proprio per-ché altre profetesse l’avevano preceduta sulle scale delpalazzo, e ciò rendeva meno insolita la sua richiesta.

A prima vista, peraltro, Giovanna d’Arco parrebbemolto diversa dalle donne che abbiamo appena ricor-dato, appartenenti a una generazione precedente. LaPulzella non ci ha lasciato, infatti, né profezie né rivela-zioni e, se anche scrisse numerose lettere (agli inglesi,agli ussiti, ed altri ancora), certo non è passata alla sto-ria per questo epistolario, bensì piuttosto per la sua av-ventura militare. Tuttavia la contrapposizione non vaspinta troppo oltre; non dobbiamo dimenticare che, pro-prio come Costanza di Rabastens o come Maria Robine,Giovanna affermava di essere ispirata da voci – quelle diSanta Caterina, di Santa Margherita o di San Michele –che la incitavano a operare per la salvezza del regno.

Profetesse e visionarie nel TardoMedioevo

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Questo fu, anzi, uno dei principali capi d’imputazione for-mulati contro la Pulzella dai giudici di Rouen. D’altronde,è assai importante sottolineare che, fin dal principio, icontemporanei considerarono Giovanna una profetessa.Valgano a provarlo le osservazioni formulate da un ano-nimo cronista, noto come il Borghese di Parigi, quandoparla per la prima volta degli avvenimenti di Orléans nel1429: «Item, a quel tempo viveva una Pulzella, come sidiceva, sulle rive della Loira, che si dichiarava profeta ediceva: “Quella cosa avverrà per vero”. E si oppose alreggente di Francia e ai suoi uomini».

Infatti, è opportuno situare l’azione militare di Gio-vanna entro il suo contesto non solo politico ma anchereligioso. […] Viste in tale prospettiva, la condanna el’esecuzione della buona Lorenese assumono un si-gnificato particolare, che una lettura del fenomeno

Giovanna d’Arco orientata in senso troppo accentua-tamente patriottico finora ha lasciato in ombra: la mortesul rogo non fu soltanto la conseguenza di un conflittodinastico franco-inglese, né dello scontro politico fra ar-magnacchi e borgognoni. La sua morte illustra so-prattutto l’esasperazione dei dottori universitari e de-gli alti prelati, signori della Chiesa in quegli anni – glianni del concilio di Basilea –, dinanzi alla religione deisemplici e di fronte alle pretese di queste donne che ri-vendicavano il diritto di esprimersi liberamente nelnome dello Spirito Santo, ricevuto nella grazia del bat-tesimo.

A. VAUCHEZ, I laici nel Medioevo. Pratiche ed esperienze religiose,Il Saggiatore, Milano 1989, pp. 269-270, 309-317,

trad. it. F. SIRCANA

Che cosa intende dire André Vauchez, quando usa l’espressione «al tempo stesso umile e grandiosa», per definire lavocazione delle profetesse tardo-medievali?

Quale strategia adottarono, in genere, le visionarie? A chi, in primo luogo, comunicavano i loro messaggi e le rivelazioniche affermavano di aver ricevuto? Qual è la loro posizione nei confronti delle istituzioni politiche e religiose?

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Prima di colpire l’Europa, la peste dilagò in Cina. La sua dif-fusione verso Occidente venne facilitata dal fatto che le gran-di pianure della Russia e dell’Asia centrale, appartenendo al-l’immenso Impero dei mongoli, potevano essere attraversate conrelative regolarità e velocità dalle carovane dei mercanti.

Nel periodo del massimo potere (1279-1350) gli im-peri mongoli comprendevano l’intera Cina e quasi tuttala Russia (solo la lontana Novgorod restava indipen-dente), nonché l’Asia centrale, l’Iran e l’Iraq. Una rete dicomunicazioni costituita da messaggeri postali capaci dipercorrere cento miglia al giorno per intere settimane diseguito, e carovane di mercanti ed eserciti, che proce-devano più lentamente percorrendo avanti e indietroenormi distanze, tennero uniti questi imperi fino al sestodecennio del XIV secolo, quando la rivolta divampò inCina determinando nel 1368 la completa espulsionedei Mongoli dalla loro più ricca conquista. [...] Le co-municazioni istituite dai Mongoli ebbero un’altra impor-tante conseguenza. Numerose persone non solo viag-giarono per lunghissime distanze, attraversando frontiereculturali ed epidemiologiche, ma percorsero l’itinerariopiù settentrionale che fosse mai stato intensamentebattuto. L’antica Via della seta fra la Cina e la Siria at-traversava i deserti dell’Asia centrale, passando daun’oasi all’altra. Ora, oltre a questo vecchio itinerario, lecarovane, i soldati e i corrieri postali percorrevano a ca-vallo l’aperta prateria. Essi crearono una rete umana checopriva un vasto territorio e che univa i quartieri gene-rali mongoli di Karakorum con Kazan e Astrachan sulVolga, con Caffa in Crimea, con Kambaliq in Cina e coninnumerevoli altri caravanserragli situati lungo il per-corso. [...]

Dai documenti cinesi non emerge nulla di incon-sueto prima del 1331, quando un’epidemia scoppiatanella provincia di Hopei, secondo le fonti, uccise i nove

decimi della popolazione. Analogamente, (negli anni1353-54) l’epidemia infuriò in otto diverse e distantizone della Cina, e i cronisti riferiscono che morirono finoa «due terzi della popolazione» [...] Dopo il 1331, e piùparticolarmente dopo il 1353, la Cina iniziò un periododisastroso della propria storia. La peste coincise con laguerra civile nel periodo in cui iniziò a svilupparsi unareazione della popolazione cinese contro la domina-zione mongola, che culminò col rovesciamento dei so-vrani stranieri e con l’instaurazione di una nuova dinastiaMing nel 1368. La combinazione di guerra e pestilenzacompì una devastazione tra la popolazione cinese. Se-condo le valutazioni più attendibili vi fu una diminuzionedi popolazione dai centoventitré milioni intorno al 1200(prima che iniziassero le invasioni dei Mongoli) a soli ses-santacinque milioni nel 1323, una generazione dopo l’e-stromissione definitiva dei Mongoli dalla Cina. Nem-meno alla ferocia dei Mongoli può attribuirsi unadiminuzione così drastica. È certo che le malattie gio-carono un ruolo rilevante nel dimezzare la popolazionecinese, e la peste bubbonica, che dopo le devastazioniapportate inizialmente si ripresentò a intervalli relativa-mente frequenti, proprio come avvenne in Europa, è conogni probabilità la miglior candidata a tale ruolo. [...]

Sembra quindi estremamente probabile che la Pa-steurella pestis avesse invaso la Cina nel 1331 [...]. Poil’infezione deve aver percorso le vie carovaniere dell’A-sia nel corso dei successivi quindici anni raggiungendola Crimea nel 1346, dopo di che il bacillo salì a bordo eprocedette alla penetrazione di quasi tutta l’Europa e delVicino Oriente lungo le vie che dai porti si irradiano nel-l’entroterra.

W. McNEILL, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagiodall’antichità all’età contemporanea, trad. di L. COMOGLIO,

Einaudi, Torino 1981, pp. 137-138, 147-149

Le origini asiatiche della peste 7

Quale ruolo ebbe l’esistenza dell’Impero mongolo nella diffusione della peste verso Occidente?Che effetti provocò la peste, all’interno della Cina?Quale fattore di tipo politico si aggiunse alla peste e contribuì alla drastica diminuzione della popolazione cinese nel

Trecento?

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A causa delle pessime condizioni igieniche e della cronicasottoalimentazione, i poveri erano colpiti dalla peste in modo mol-to più micidiale dei borghesi o dei nobili.

Pur non risparmiando nessuno, la peste trovò neipoveri un magnifico terreno per attecchire, predispostoda una prolungata sequenza di carestie: «Dopo la famedomina la peste» ripete un detto popolare. L’insistenzadei cronisti nel mostrare, come gli artisti delle danze ma-cabre, un’eguale vulnerabilità del ricco e del povero, ècorretta dalle testimonianze del triste primato della po-vertà. La malattia colpì dapprima i quartieri poveri, peresempio a Rimini, a Orvieto – dove i ricchi beneficiaronodi una tregua di tre mesi –, a Narbonne, tra i tintori dellerive dell’Aude. Altrove la peste accentuava i suoi dannifra i poveri: a Lincoln i notabili furono praticamente ri-sparmiati, a Lubecca la media della mortalità fra i pos-sidenti (25%) è inferiore del 50% alla media generale(50%) nelle città tedesche. Sembra che nella Francia delNord siano morti, nel 1348-49, due poveri per ogniricco: si può parlare così di «epidemia proletaria». Alcunicontemporanei constatarono il carattere selettivo diquelle mortalità. Guido di Chauliac, il più celebre medicodi quel tempo, fu testimone della Peste Nera e del suoritorno nel 1361 e annotò questa differenza fra le dueepidemie: «Nella prima morirono più popolani, nella se-conda più ricchi e nobili». Il suo collega, Simon de Cou-vin, che partecipò alle consultazioni della Facoltà di Me-dicina di Parigi in occasione della peste, mostrò unaperspicacia molto rara, con una punta di psicologia so-ciale: «Colui – scrisse – che era nutrito di alimenti pocosostanziosi cadde colpito al più piccolo soffio della ma-lattia. L’uomo del volgo molto povero (pauperrima turba)accetta volentieri la morte, perché per lui vivere è morire.Ma la Parca [dea pagana della morte, n.d.r.] crudele ri-sparmiò i principi, i cavalieri e i giudici: pochi fra loro mo-rirono, perché era stata data loro una vita dolce in que-sto mondo». […]

Simon de Couvin aveva ragione quando ponevasotto accusa soprattutto la malnutrizione. Il regime ali-mentare dei poveri, a Firenze, per esempio, mostragravi carenze energetiche e vitaminiche: carenze di pro-

teine e di lipidi, di calcio e di vitamine antiscorbuto (A, C)e antirachitiche (D). Un artigiano negli anni 1340-1347 amalapena poteva aggiungere al pan bigio, fatto essen-zialmente di orzo e spelta, un quantitativo sufficiente dicarne, formaggio, latte e legumi. Un’intera popolazioneurbana affrontò la peste in uno stato di grave deperi-mento. Il caso di Firenze non è isolato e sembra condi-viso dalla vicina Orvieto; gli indizi raccolti in altre città dell’Oc cidente non smentiscono questi dati. Nella cam- pagna la malnutrizione superava la sottoalimentazione,grazie a cereali poveri, a una proporzione eccessiva disalumi rispetto alla carne fresca, di legumi ricchi di fecola(piselli, fave, farinate), di vino acetato e di acqua mal-sana. Dovunque si era lontani, soprattutto fra i poveri,dal regime sofisticato prescritto dalla Facoltà (di Medi-cina di Parigi) per sfuggire alla peste: pane di buon fru-mento, carni bianche, agnelli d’un anno, pochi legumi,evitando porri, cipolle e rape, «che provocano gran ven-tosità», in breve alimenti «fini e leggeri». […]

Sarebbe servita una certa igiene dei vestiti e dellapelle per tener lontana la pulce, autentico vettore dellapeste, data la sua stretta simbiosi col ratto. Solamentei ricchi potevano permettersi le novità della moda versoil 1310. Quanti contadini e salariati di città portavano unacamicia di tela – e soprattutto la cambiavano – sotto ipanni di grossa lana, spesso comprati da un rigattiere,o sotto le pellicce comuni (coniglio, gatto, volpe o mon-tone) sempre più diffuse nel XIV secolo? L’uso di indos-sare le pelli con il pelo all’esterno non era sufficiente pereliminarne i parassiti. Inoltre non ci si lavava e i consiglimedici di non bagnarsi erano per molti superflui; tutt’alpiù, sconsigliando la frequentazione dei bagni pubblici,si poteva evitare occasioni di contagio; ma i contadininon vi andavano mai. Delle altre indicazioni della Facoltài poveri non sapevano che farsene: lavorare meno, ac-contentarsi di sforzi moderati, dormire con la testa sol-levata da drappi «buoni e ben odorosi», usare disinfet-tanti aromatici costosi, incenso, mirra, aloé di Socotra,irrorare la propria camera d’acqua di rose.

M. MOLLAT, I poveri nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993,pp. 221-224, trad. it. M. C. DE MATTEIS, M. SANFILIPPO

La peste: una malattia socialmenteingiusta

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Che cosa intende sottolineare Michel Mollat, nel momento in cui definisce la peste una «epidemia proletaria»?Quali comportamenti e quali fattori avrebbero potuto attenuare la violenza dell’epidemia?Perché i consigli dei medici appaiono del tutto privi di senso, per la maggior parte della popolazione?

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A fianco del tempo della Chiesa, alla fine del Duecento fecela sua comparsa il tempo del mercante, finalizzato a rende-re più rigido l’orario di lavoro degli operai dell’industria tes-sile. Scandito, in una prima fase, da un’apposita campana, iltempo del mercante trovò infine il proprio simbolo nell’oro-logio meccanico.

L’unità del tempo di lavoro nell’Occidente medievaleè la giornata: agli inizi, giornata del lavoro rurale [...] e, asua immagine, giornata del lavoro urbano, definita me-diante il riferimento mutevole al tempo naturale, dal sor-gere al tramonto del sole, e sottolineata approssimati-vamente dal tempo religioso, quello delle horaecanonicae [= i momenti di preghiera dei monaci – n.d.r.],derivato dall’antichità romana. [...] All’ingrosso il tempodel lavoro è quello di un’economia ancora dominatadai ritmi agrari, esenti dalla fretta, senza scrupolo diesattezza, senza preoccupazioni di produttività e di unasocietà a sua immagine, «sobria e pudica», senza grandiappetiti, poco esigente, poco capace di sforzi quantita-tivi. [...] Ora, a partire dalla fine del secolo XIII, questotempo del lavoro è messo in discussione, entra in crisi.Offensiva del lavoro notturno, asprezza soprattutto nelladefinizione, nella misura, nella pratica della giornata di la-voro, conflitti sociali, infine, intorno alla durata del lavoro:così si manifesta in questo campo la crisi generale delXIV secolo, un progresso d’insieme attraverso gravi dif-ficoltà di adattamento. [...] I padroni infatti, di fronte allacrisi, cercano dal canto loro di regolamentare quantomeglio possono la giornata di lavoro, lottando contro gliimbrogli degli operai in questo campo. Allora si moltipli-cano le campane di lavoro (Werkglocken), di cui ricor-diamo alcuni esempi. [...]

A Amiens, il 24 aprile 1335, Filippo VI accoglie favo-revolmente la richiesta del sindaco e degli scabini (= fun-zionari del governo cittadino, preposti alla giustizia –n.d.r.), che gli hanno chiesto «che essi possano fareun’ordinanza su quando gli operai nella detta città e suodistretto (banlieue) andranno ogni giorno di lavoro allaloro opera il mattino, su quando dovranno andare amangiare e su quando dovranno tornare all’opera dopomangiato; come pure la sera, su quando dovranno la-sciare l’opera per la giornata; e che per la detta ordi-nanza che faranno, possano suonare una campana, chehanno fatto appendere alla torre della detta città, che èdifferente dalle altre campane». [...] A Aire-sur-la-Lys, il15 agosto 1355, Giovanni di Picquigny, governatoredella contea di Artois, accorda [...] di costruire una torrecampanaria con una campana speciale a causa «delmestiere di drapperia e altri mestieri dove convengono

parecchi operai a giornata, che vanno e vengono all’o-pera in certe ore».

La nostra ricerca non è certo esauriente, ma essa èsufficiente a indicare che il problema della durata dellagiornata di lavoro è soprattutto acuto nel settore tessile,dove la crisi è più sensibile e dove la parte dei salari nelprezzo di costo e nei guadagni dei padroni è conside-revole. Così la vulnerabilità alla crisi in questo settore dipunta nell’economia medievale ne fa il campo di elezionedi un progresso nell’organizzazione del lavoro. Lo dicebene il testo concernente Aire, che spiega la necessitàdella nuova campana «perché la detta città è governatadal mestiere di drapperia». Conferma a contrario: dovela drapperia non ha una posizione dominante, non si ve-dono apparire Werkglocken. Fagniez l’aveva giusta-mente notato già per Parigi.

Così, almeno nelle città produttrici di panni, untempo nuovo incombe sulla città: il tempo dei drappieri(= i grandi mercanti-imprenditori, che forniscono la ma-teria prima agli artigiani ed esportano il prodotto finito –n.d.r.); perché questo tempo è quello della domina-zione di una categoria sociale. È il tempo dei nuovi pa-droni. [...] Alla fine del secolo [XIV – n.d.r.] e all’inizio delsecolo successivo vediamo bene che la durata dellagiornata di lavoro – non il salario direttamente – è la po-sta delle lotte operaie. [...]

Resta il fatto che la campana del lavoro, spinta cer-tamente da corde, cioè a mano, non presenta alcuna in-novazione tecnica. Ma il progresso decisivo verso le «orecerte» è evidentemente l’invenzione e la diffusione del-l’orologio meccanico, del sistema a scappamento, chepromuove infine l’ora in senso matematico, come laventiquattresima parte della giornata. Senza dubbio,proprio il secolo XIV supera questa tappa essenziale. Ilprincipio dell’invenzione è acquisito alla fine del secoloXIII, il secondo quarto del secolo successivo ne vedel’applicazione in quegli orologi urbani, la cui area geo-grafica è appunto quella delle grandi zone urbane: Ita-lia del Nord, Catalogna, Francia settentrionale, Inghilterrameridionale, Fiandre, Germania. Una ricerca più ap-profondita permetterebbe forse d’intravedere che, più omeno, le regioni dell’industria tessile in crisi ricoprono l’a-rea di diffusione degli orologi meccanici. Dalla Norman-dia alla Lombardia s’installa l’ora di sessanta minutiche, all’alba dell’età preindustriale, sostituisce la giornatacome unità del tempo di lavoro.

J. LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del mercante e altri saggisul lavoro e la cultura nel Medioevo, trad. di M. ROMANO,

Einaudi, Torino 1977, pp. 26-36

L’appropriazione del tempo da parte dei mercanti

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In quale settore produttivo, e per quali ragioni, il lavoro non è più scandito dal sorgere e dal tramontare del sole, bensì dalsuono di una campana?

Che cosa intende dire J. Le Goff mediante l’espressione «il tempo dei drappieri (...) è quello della dominazione di unacategoria sociale. È il tempo dei nuovi padroni»?

Quale innovazione tecnica renderà ancora più rigido e preciso il «tempo dei drappieri»?

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Quella tessile fu l’unica vera attività che, nel Medioevo, as-somigliasse alla moderna produzione industriale. La principa-le materia prima utilizzata era la lana, trasformata in pregiatitessuti che, insieme alle spezie, costituivano la voce più signi-ficativa del commercio di lusso su lunghe distanze.

Non abbiamo cifre precise sul grado di occupa-zione, ma è probabile che più della metà dei cinquan-tamila abitanti che, secondo certe stime, formavano lapopolazione di Gand e facevano di essa la più grandecittà dell’Europa nordoccidentale traessero il loro so-stentamento, direttamente o indirettamente, dall’indu-stria della lana. La percentuale era, forse, ancora più altaa Ypres, una città di dimensioni un po’ più ridotte che,nel 1313, esportava non meno di 40000 pezze dipanno, secondo i calcoli più recenti. Lovanio e Malinesne producevano 25000 ciascuna. (Per fare un con-fronto, si può ricordare che Troyes, uno dei maggioricentri di produzione della Champagne, raggiunse ap-pena – nello stesso periodo – le duemila pezze all’anno,mentre l’intera Inghilterra, che attraversava allora unperiodo di depressione, esportò in dodici mesi, nel1347-48, non più di 4422 pezze). Le proporzioni eranoancora largamente inferiori a quelle della rivoluzione in-dustriale, ma avevano ormai superato in modo definitivoi limiti della tradizionale produzione di mestiere del Me-dioevo. [...]

Anche il saggio [= tasso – n.d.r.] di meccanizzazioneraggiunse un valore intermedio fra quello delle comuniimprese artigiane e quello del primo stadio della rivolu-zione industriale. Nel secolo XII, come nel XVIII, la primagrossa trasformazione si ebbe nei processi di filatura etessitura, così strettamente intrecciati fra loro che unaqualsiasi accelerazione introdotta nell’uno esigeva un’e-guale accelerazione nell’altro. Mentre nel corso della ri-voluzione industriale furono introdotte, una dopo l’altra,tutta una serie di innovazioni meccaniche, nel corso de-

gli anni della crescita preindustriale il progresso si limitòa due dispositivi semplici e poco costosi, che consenti-rono un notevole risparmio di lavoro: il telaio a pedale alposto del telaio a mano, la ruota a filare al posto dellarocca e del fuso. Si sarebbe potuto facilmente fare un al-tro passo avanti impiegando il mulino ad acqua per azio-nare ruote a filare e telai a pedale; la forza motrice del-l’acqua venne infatti impiegata a questo scopo agli inizidella rivoluzione industriale del Settecento. E già intornoalla metà del secolo XIII il principio del mulino ad acquafu applicato in Italia al torcitoio che preparava il delicatofilo destinato all’industria della seta. Non venne inveceimpiegato per il filo di lana – più rozzo e meno costoso– probabilmente perché non conveniva investire denaroin un dispositivo complicato quando si poteva far filare lalana a domicilio da filatrici miseramente pagate. [...]

Nel Medioevo come nel Settecento (anche se in mi-nor misura) alla meccanizzazione si accompagnò unacrescente divisione del lavoro e l’integrazione industrialeconferì una direzione unificata alle sparse operazionidella produzione artigiana. Non vi fu, tuttavia, alcuna fu-sione dei laboratori e delle botteghe artigiane in im-prese industriali di grandi dimensioni, simili alla fabbricamoderna. Intorno alla metà del secolo XIII le fonti testi-moniano l’esistenza di più di trenta fasi successive nellaproduzione dei tessuti e di quasi altrettante corporazionio gruppi non organizzati di lavoratori ai quali era affidatala lavorazione di ciascuna fase. [...] Gli attrezzi, in genere,non erano così pesanti e i processi di lavorazione cosìinterdipendenti da rendere necessaria la concentrazionedi tutti i lavori sotto lo stesso tetto; l’imprenditore si li-mitava a fornire successivamente la materia prima a cia-scuno degli artigiani a cui era affidata una determinatafase della lavorazione.

R. S. LOPEZ, La rivoluzione commerciale del Medioevo, trad. di A. SERAFINI, Einaudi, Torino 1975, pp. 168-172

L’industria tessile nel Tardo Medioevo10

Quali dimensioni aveva l’industria tessile nell’Europa del tardo Medioevo? Com’era organizzata la divisione del lavoro?

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La Morte occupa il centro dell’immaginario religioso dei se-coli compresi fra la peste nera del 1347-1350 e la Riforma pro-testante. Ma pensare alla Morte significava soprattutto, per l’uo-mo del Quattro cento, riflettere sul giudizio che, dopo la fine del-la vita, ogni individuo avrebbe dovuto sostenere davanti a Dio.

Sembrava che la morte dominasse l’intera esistenza;essa era per gli uomini quasi come il pane quotidiano.Media vita in morte sumus: nella vita siamo circondatidalla morte. La morte era l’oggetto dell’esperienzaumana del XV secolo. Ed è significativo che le prime vol-garizzazioni tedesche di quell’antica antifona [= ritornellocantato durante una liturgia di preghiera monastica –n.d.r.] abbiano luogo proprio in questo periodo. Il tetrosentimento della morte intravista fa sì che il pensiero del-l’uomo del tardo medioevo si volga incessantemente allamorte. A partire dal XIV secolo e sino alla Riforma, os-serviamo un ampliarsi crescente delle espressioni edelle testimonianze intorno alla morte. In nessuna epocacome questa il pensiero di ciascuno fu incessantementefisso sulla morte: memento mori, pensa che devi morire.Fra tutte le forme e figure intorno alle quali si volgono ilpensiero e la devozione, la fiducia e l’angoscia, l’amoree il timore degli uomini, una è più vivida e rilevata, quelladella morte, anzi, del «Sire Morte».

Le «danze macabre» riproducono quello che l’espe-rienza dell’epoca ha connesso con la morte. Dapper-tutto, ben presto, si trova una copiosa [= abbondante –n.d.r.] diffusione della sua immagine, ora oggetto dirappresentazione drammatica, ora di pittura, ora di in-cisione su legno. Raffigurazioni delle danze macabre ri-coprono le pareti delle cappelle cimiteriali, degli ossari,dei conventi, dei chiostri, e sembra quasi che da queiluoghi vogliano presentarsi come una predica rivolta atutti; oppure sotto una forma di foglio miniato o di librettopopolare, pervengono sino al singolo individuo, rag-giungendo il borghese nel suo salotto, come il monaconella sua cella. Nata originariamente come una ridda [=ballo – n.d.r.] del morto col vivente, la danza macabrasi trasforma in danza della morte con l’uomo, che essasorprende da solo, in coppia o in folla. Artisti, piccoli egrandi, raffigurano, in variazioni sempre nuove, la pre-dominante potenza della morte, la sua minacciosa vici-nanza e la sua forza livellatrice.

Ora la morte sta sui rami di un albero, sotto cuiamoreggiano il garzone e la sguattera, ora afferra il con-

tadino tra i buoi nell’atto di arare, ora abbraccia il corpodi una donna che si guarda allo specchio, ora si ponein agguato della coppia d’amanti che passeggianospensierati, ora sbalza il cavaliere dalla sella, e non ri-sparmia neppure il bambino. La morte prende tutto, da-vanti ad essa tutti gli uomini sono eguali, tutte le classisociali vengono passate al suo vaglio: papa, imperatore,cavalieri, contadini, signori, servi, mendicanti, «tuttoquello che è nato ha in sorte di dover soffrire l’amaramorte». Così, alle danze macabre viene a collegarsi unatendenza democratica; esse finiscono, infatti, con il ri-vestire il carattere di una satira sociale, nel contesto deifermenti e dei rivolgimenti del tempo. [...]

La morte non viene avvertita (tanto – n.d.r.) come unpredatore della vita, quanto piuttosto come un predatoredella salute [= salvezza – n.d.r.] dell’anima. E perciò l’in-tensa esperienza della morte, sul finire del medioevo,non conduce ad un arricchimento e ad un approfondi-mento della vita, ma, al contrario, trascina i pensieri de-gli uomini proprio in direzione dell’aldilà e stimola inloro, ancora più profondamente, la preoccupazione dellavita eterna. Un aspetto condiziona l’altro, ed è come uncircolo vizioso: quanto più intensamente gli uomini te-mono la morte, tanto più appassionatamente, per ciòstesso, si preoccupano della salvezza della loro animae, di converso, quanto più appassionatamente si preoc-cupano della salute della loro anima, tanto più temonola morte. Ne scaturisce l’espressione del giudizio cosìterribilmente paventoso [= spaventoso – n.d.r.] e dellatemuta penitenza, che risuona sino a noi attraverso lenote del canto dei flagellanti:

«Or sollevate le mani ché Dio conduce la grandemorte. Or levate il braccio eche Dio abbia di noi pietà. Gesùcon il tuo rosso sanguepreservaci dalla nera morte».

È questa l’impressione che l’esperienza vissuta e ge-neralizzata della morte produce allora nella maggiorparte degli uomini: il castigo di Dio incombe; il suo sde-gno deve essere placato.

H. ZAHRNT, Il tempo dell’attesa, trad. di F. VOLTAGGIO, Coines, Roma 1973, pp. 63-66

La centralità della morte nellareligiosità tardo medievale

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In che senso la «danza macabra» (che fu la rappresentazione più diffusa della potenza della morte sugli uomini) aveva una «tendenza democratica» e un significato di «satira sociale»?

La «grande morte» del canto dei flagellanti si riferisce alla «peste nera»: come viene interpretata quest’ultima? Chi l’ha inviata contro gli uomini?

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Nel corso del xv secolo, l’Italia centro-settentrionale assi-ste al fiorire dell’urbanistica, cioè della pianificazione dello spa-zio urbano. L’edificazione di palazzi, chiese e strade non è piùlasciato al caso, ma rispetta le esigenze del signore, le neces-sità difensive e quelle abitative della corte.

Gli edifici – la loro genesi, conformazione e sito – co-stituiscono uno dei più eloquenti documenti di una so-cietà ed una sua eccellente base di lettura e di inter-pretazione. Tra le varie forme di creazione artistica,quella architettonica è senz’altro – con quella teatrale –una di quelle dotate di più densi significati collettivi. Nésembra dubbio che la deliberata utilizzazione degli edi-fici a scopo di prestigio privato e pubblico abbia avutonella Penisola un incremento rinnovato e molto rilevantenel corso del XV secolo.

Non è questa la sede per valutare in modo ade-guato se la gerarchia dei vari tipi di costruzione siastata più accentuata nel periodo comunale o in quellodei principati. È certo comunque che nel Quattrocentoessa è stata perseguita e realizzata in maniera mani-festa ed intenzionale, al punto da potersi sostenere cheessa abbia rappresentato uno dei modi di concretareun processo di aristocratizzazione in atto su vari altripiani [la struttura degli edifici e l’impianto urbanistico di-ventano lo specchio evidente del fatto che il potere nonè più nelle mani del popolo, ma di un pugno di aristo-cratici: i signori e i principi, n.d.r.]. Se cioè il contestocostituito dalla comunità cittadina rimaneva lo sfondodi riferimento, su di esso si tendeva a far campeggiaresempre meglio e sempre di più la presenza di attori sin-goli. […]

In altri termini il dominio politico si manifestò – certoin gradi diversi e nelle forme più svariate da una città al-l’altra – e si tradusse regolarmente ed in larga misura sulpiano urbanistico ed architettonico. I centri che furonomaggiormente investiti da tale fenomeno furono innan-zitutto quelli ove risiedevano i signori e i principi, cioè ingenere le capitali degli Stati, oltre a quelli ove il poterecentrale intendeva proiettare l’immagine e segnare l’im-pronta della propria supremazia.

A Milano ed in varie altre città lombarde i Viscontiavevano impresso già nel secolo XIV le tracce visibili delloro dominio: basterebbe citare in merito il castello diPavia. Alla morte dell’ultimo loro duca, Filippo Maria, imilanesi cercarono di realizzare il sogno di restaurareil precedente regime municipale. Molto breve fu non-dimeno la stagione della loro Repubblica ambrosiana[di sant’Ambrogio, patrono di Milano, n.d.r.] (1447-1450), che dovettero capitolare di fronte alle milizie delcondottiero Francesco Sforza. Quest’ultimo operò su-bito in modo da ridurre alla soggezione i suoi nuovisudditi proprio intervenendo in modo decisivo sul tes-suto urbano della metropoli milanese [Milano è chia-mata metropoli in quanto (come Venezia e Napoli)aveva circa 200 000 abitanti, in un momento storico incui Genova e Firenze ne avevano 60 000, Bologna e

Palermo 55 000, Roma appena 25 000, n.d.r.]. Per fis-sarvi la propria residenza egli scelse – come già ave-vano fatto i Visconti – un sito al margine del centro abi-tato, alla cerniera fra la zona popolosa dell’agglomeratoed il suburbio circostante. Vari signori d’Italia e di altripaesi avevano già optato per una soluzione del genereed a metà del Quattrocento, nel suo trattato De re ae-dificatoria [Sulle modalità del costruire, n.d.r.], LeonBattista Alberti consigliava al principe proprio questotipo di residenza. Resta il fatto che la colossale moledel Castello sforzesco, innestata nella cerchia dellemura milanesi, corrispose pressoché perfettamentealle esigenze del nuovo duca e dei suoi successori.Con le sue possenti strutture e le sue vaste dimensionisi rivelò adatta a svolgere tanto la funzione di cittadellache quella di fastosa struttura. […]

L’azione degli Estensi a Ferrara fu in certo modo piùoriginale, per quanto anch’essi si fossero fatti costruireverso la fine del Trecento la propria sede in un castelloche rimase al margine della città per quasi tutto il secoloXV. Nel 1492, nondimeno, il duca Ercole I diede inizio allapiù grande operazione urbanistica cui si assistette nellaPenisola a quell’epoca. Quel principe decise un ingran-dimento tale della superficie di Ferrara che essa ne ri-sultò quasi triplicata. Il suo castello si venne allora a tro-vare pressoché nella parte centrale dell’abitato, fra ilnucleo medioevale ed il nuovo spazio creato dall’am-pliata cerchia delle mura.

Questo ampliamento prese il nome di Addizione er-culea e risultò improntato a caratteristiche inabituali,rese possibili anche dalla pressoché completa libertà dicui godé Biagio Rossetti di tracciarvi arterie rettilinee edi ritmarlo con piazze adeguate. Il criterio al quale l’ar-chitetto s’ispirò fu di collegare la zona della residenzaducale ai nuovi quartieri a settentrione per mezzo di vielarghe e diritte, punteggiate da dimore dai vasti cortili in-terni. La più notevole toccò ad un membro della fami-glia estense, Sigismondo, e fu detta Palazzo dei dia-manti per il singolare rivestimento decorativo a cuspididella facciata. […] Fra le nuove arterie, una delle più im-portanti fu proprio quella che collegava il giardino del ca-stello ad una residenza esterna di sollazzo posta all’e-stremità dell’Addizione. Questo permetteva al duca disfilare in mezzo ai propri sudditi ogniqualvolta intra-prendeva quel percorso.

Di non minore spicco fu l’intervento dei nuovi si-gnori di Urbino, i Montefeltro, e particolarmente di Fe-derico (morto nel 1484) che vi governò per circa unquarantennio. Condottiero come Francesco Sforza,egli era titolare di una signoria limitata in quanto il suoterritorio era subordinato alla sovranità dello Stato pon-tificio. Il carattere singolare dell’iniziativa che egli preseverso la metà del Quattrocento consistette nella strut-tura del tutto diversa ch’egli volle dare alla sua resi-denza: non più un castello e tanto meno una cittadella(anche se vi erano annessi di possibile impiego militare)

Urbanistica e potere nell’Italia del Quattrocento

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ma un palazzo. Le imponenti strutture di quest’ultimosposarono in modo felice la conformazione topograficaed il sito seducente. Il palazzo costituì il centro di gra-vitazione di un vero e proprio quartiere che, oltre allacattedrale, comprendeva delle scuderie modello, unapiazza d’armi contigua e dei sotterranei abilmente si-

stemati. Questo insieme urbanistico, completato dauna vicina arteria fiancheggiata da dimore per funzio-nari e cortigiani, venne a costituire una delle realizza-zioni più alte e riuscite del Quattrocento italiano.

A. TENENTI, L’Italia del Quattrocento. Economia e società,Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 8-11

Quali scopi si proponevano di raggiungere i principi, promuovendo una vasta azione urbanistica, nelle loro capitali?Che cosa distingue la residenza di Francesco Sforza da quella dei duchi estensi? E che cosa, invece, distingue la residenza

del duca di Urbino da quelle dei duchi di Milano e di Ferrara?