Una vita nell'angolo

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di Francesca Murari Resch, narrativa

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Francesca Murari Resch

Una vita nell’angolo

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UNA VITA NELL’ANGOLO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Francesca Murari Resch ISBN: 978-88-6307-326-3

In copertina: immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Novembre 2010 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Ringrazio di cuore

Ale, che mi ha regalato lo spunto, come molte altre volte, e ne ha poi discusso in modo creativo insieme a me, durante un in-timo viaggio notturno in macchina Angiola, per avermi sempre sostenuta con entusiasmo, obietti-vità e pazienza Martina e Raphael, per aver dedicato attenzione al mio lavoro, offrendomi il punto di vista delle loro giovani menti Reneè, per l’impegno accurato e minuzioso nella revisione e correzione di bozze e per la sua saggezza Daniela, per aver letto con il cuore, trasmettendomi la sua grande emozione e per essermi stata vicina sempre con affetto e comprensione Stefy, amica sincera, per avermi suggerito di dare un respiro più ampio alla storia, elevando lo stato di coscienza di Gelindo.

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In amore non essere un mendicante. Sii un imperato-re. Dà e resta semplicemente a vedere cosa accade.

Osho

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.

Marcel Proust

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Una vita nell’angolo Angolo: parte di piano compresa tra due semirette uscenti da uno stesso punto. Può essere retto, acuto, ottuso. L’angolo in questione può definirsi ottuso.

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DI PASSAGGIO SU QUESTO PIANETA

Il negozio di scampoli si trova nel mezzo, tra il bar e la parruc-chiera. Di fronte, oltre la piazza, una scalinata irregolare con-duce alla chiesa. Gelindo è seduto davanti al negozio. Consue-tudine giornaliera nei tardi pomeriggi estivi. Ha la testa leg-germente reclinata verso la spalla sinistra. Un sottile velo di sudore gli imperla la fronte alta, partendo dalla radice dei ca-pelli radi e sottili di una indefinibile e sbiadita gradazione di colore. La bocca molle e carnosa atteggiata ad un sorriso. Gli occhi piccoli dall’ iride slavata, spalancati e quasi stupiti. Le mani larghe con il dorso ricoperto da macchie senili, abbando-nate lungo i fianchi. La brezza del pomeriggio, che in quell’angolo spira sempre alla stessa ora proveniente dalla val-le sottostante, solleva leggermente la tenda che ripara l’ingresso del negozio dalla violenza della luce estiva. Gelindo ha sempre preferito l’ombra al sole. L’angolo al tratto rettilineo. Con i suoi occhi attoniti pare os-servare con meraviglia i pochi avventori che entrano frettolo-samente nel locale adiacente, per cercare un minimo refrigerio. Anche Gelindo, a volte, si gode la frescura del ventilatore ap-peso al soffitto del bar. Sorseggia un tè freddo lentamente, mentre l’aria mossa dalle grandi pale gli scompiglia il riporto laterale. Con la mano aperta tenta di risistemarlo per la vergo-gna di mostrare la calvizie. Quel pomeriggio non cerca la fre-scura al bar, rimane immobile sulla sedia di plastica con il sole del pomeriggio che penetra obliquo nello stretto vicolo, trafig-gendone l’angolo come una spada laser. Il pomeriggio scivola lentamente nella sera e Gelindo è ancora seduto davanti al suo

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negozio. Lo stesso sorriso, gli stessi occhi stupiti, le mani lar-ghe abbandonate lungo i fianchi. Dopo il passaggio su questo pianeta ha intrapreso un lungo viaggio. Per la prima volta nella sua vita, esce dal suo angolo.

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NERINA

Nerina era sempre stata brutta. Ossuta, con il naso adunco, le labbra strette come un portamonete, l’alito pesante per cronici problemi digestivi. Il negozio di scampoli era tutta la sua vita. Come lo era stato per i suoi genitori da cui lo aveva ereditato insieme ad un dignitoso conto in banca. Ma Nerina viveva con poco. Il suo appartamento si trovava nel retrobottega del nego-zio. Piccolo, buio, con un'unica portafinestra che si affacciava sul cortile interno di un piccolo condominio popolare. Non a-veva mai pensato di trovarsi una sistemazione più confortevole. Trovava molto più comodo e utile vivere accanto al suo amato negozio. Nerina era senza amici, perché oltre al suo aspetto po-co attraente aveva anche un carattere spigoloso e diffidente. La gente del paese la rispettava, ma la frequentazione si fermava unicamente all’acquisto di scampoli di stoffa. Aveva iniziato a lavorare nel negozio quando aveva dieci anni, ma anche negli anni precedenti trascorreva tutti i pomeriggi in quella piccola e umida bottega. Sedeva sullo sgabello e con il quaderno sulle ginocchia eseguiva i compiti. Ma, al termine della quinta ele-mentare, i suoi genitori avevano ritenuto fosse un’inutile perdi-ta di tempo mandarla a scuola. E da allora l’ingresso ufficiale nel mondo del lavoro. Non arrivava nemmeno al banco, ma era già molto abile nel taglio delle stoffe e non sbagliava mai un conto o un resto. I suoi genitori, a mano a mano che trascorre-vano gli anni, lasciavano sempre più spazio alla figlia nella ge-stione del negozio. Quando poi il padre si ammalò di cirrosi epatica, Nerina si trovò a portare avanti l’attività da sola. A quel tempo vivevano appena fuori dal paese e ogni mattina,

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all’alba, la ragazza inforcava la bicicletta e andava ad aprire il negozio. Di lì a poco decise che era molto più comodo vivere nel retrobottega, quindi cercò di sistemare alla meglio l’angusto locale e vi si trasferì. Una rete con un materasso liso, un piccolo armadio, un angolo cucina composto da un tavolo di formica, due sedie scompagnate, un piano cottura smaltato e sbrecciato che in tempi migliori era stato bianco, ma che l’usura del tempo aveva reso giallognolo. Nient’altro. La co-modità era una scusa, in realtà non poteva più sopportare i con-tinui lamenti della madre e la lenta agonia del padre. Non si era mai sentita particolarmente legata ai suoi genitori, silenziosi e poco espansivi. Non ricordava un Natale di festa o un comple-anno, solo lavoro e niente altro. La loro situazione economica era tutt’altro che disagiata, ma vivevano comunque in modo misero e gramo. Nerina non aveva mai visto sua madre sorride-re e suo padre, negli ultimi anni, era diventato ancora più di-stante e assente. Ogni tanto aveva l’impressione di non ricorda-re più la sua voce. Iniziava con una grappa dopo colazione e terminava alla sera con lo scolarsi due o tre bottiglie di vino. Sua madre faceva finta di non accorgersene e taceva. L’uomo aveva una sbronza triste e silenziosa. Era in grado di lavorare in negozio anche quando il suo tasso alcolico era già alle stelle. Sapeva controllare le sue sbornie. Tranne una volta, che rimase scolpita nella mente di Nerina. Era il giorno del suo complean-no, compiva tredici anni e stava diligentemente chiudendo i conti della giornata. La madre era andata all’emporio e suo pa-dre era seduto fuori dal negozio da ore, immobile e assente. Nerina non si accorse di averlo alle spalle e quando se ne rese conto fece un balzo per lo spavento. “Ah sei tu” si tranquillizzò all’istante. Ma la tranquillità durò meno di un attimo. Lui la afferrò per le spalle da dietro. “Mi fai male pà.” Oltre tutto non era abituata a nessun tipo di contatto fisico con i suoi genitori. Non aveva ricordi di coccole, abbracci, baci.

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“Perché mi stringi così?” Il padre non rispose, ma aumentò la stretta, spostando i palmi delle mani grandi e nodose per affer-rarle i seni acerbi e poggiando il ventre contro la sua schiena. Il respiro affannoso odorava di vino inacidito. Accorgersi di quell’arnese duro contro la sua spina dorsale e urlare fu tutt’uno. Il padre si staccò da lei come se avesse preso una scossa elettrica da 220wolt. Scappò fuori dal negozio inciam-pando nella sedia, dove era stato seduto per tutto il pomeriggio, facendola cadere di lato con un gran fragore. Nerina rimase immobile davanti al banco, con la cassa aperta, i soldi sparsi in terra e un tremito che non riusciva a controllare. Non ne fece parola con la madre, ma da quel giorno si guardò sempre alle spalle. Il giorno in cui Nerina compì ventidue anni, il padre morì. Non per la cirrosi epatica, ma come conseguenza di una colossale sbornia. Nonostante fosse ammalato, non aveva mai smesso di bere. Anche quando non riusciva ad alzarsi, attingeva alla sua scorta personale di alcolici che teneva sotto il letto. La madre di Nerina faceva finta di non accorgersi, piangeva, scuoteva la testa e si girava dall’altra parte. Al funerale erano in cinque. La madre, Nerina, il prete, i due becchini. Non una lacrima uscì dagli occhi delle due donne. Quando tre anni dopo anche la madre venne a mancare, Nerina provò una sorta di liberazione. Non sopportava quella vecchia quasi sconosciuta che, dopo a-verla ignorata per tutta la vita, ora si attaccava a lei come una cozza allo scoglio. Non era mai stata di molte parole, ma negli ultimi anni, dopo la morte del marito, non riusciva più a tacere. Probabilmente pensava che il silenzio l’avrebbe inghiottita e con le parole esorcizzava la paura: i suoi erano discorsi incon-sistenti, ricordi ritoccati e a volte inventati di sana pianta. Per-ché in realtà non aveva nulla da ricordare. Una vita grigia, piat-ta, senza amore, priva di qualsiasi interesse. E, dopo i racconti di una vita solo immaginata, arrivavano i lamenti, le litanie e-

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stenuanti e i pianti sommessi consumati nel retrobottega, dove Nerina avrebbe desiderato godere della sua privacy. “Mamma vai a casa, è tardi.” “Povera me, sola in quell’appartamento così buio.” “Accendi la luce mamma.” “Povera me, sola in quell’appartamento così freddo.” “Accendi la stufa mamma.” Il tono di Nerina era monocorde, lo sguardo basso, le mani affaccendate a piegare scampoli di stof-fe. “Povera me.” E giù singhiozzi e rumorose soffiate di naso. “Mamma mi fai scappare i clienti.” “Ecco il nostro destino. Una madre si occupa di dieci figli e dieci figli non riescono ad occuparsi della loro madre.” “Tu hai una sola figlia mamma.” Per fortuna. Ma non lo disse. “Che non mi vuole.” “Mamma, il retrobottega è troppo piccolo per tutte e due.” “Allora vieni a casa.” “Questa è la mia casa.” “Allora tienimi con te.” “Senti le campane mamma? Inizia la funzione della sera.” Era la salvezza per Nerina. Sua madre si alzava immediatamen-te dalla sedia, usciva dal negozio, attraversava la piazza e sali-va velocemente gli scalini irregolari che conducevano all’ingresso della chiesa. Dopo la funzione toccava a Don Ge-sualdo sorbirsi le lagne della madre. Con la scusa della confes-sione lo bloccava per più di un’ora. Ormai abituato a quella pe-nitenza, Don Gesualdo annuiva e non ascoltava nemmeno. Pensava alla cena che Irma, la perpetua, a quell’ora aveva sicu-ramente già preparato. Una bella zuppa di farro con le cotiche morbide, che si scioglievano sotto al palato. Il pane scuro a fet-te, ancora tiepido di forno. Le salsicce che sfrigolavano nella padella. E la torta di noci soffice e dolce. Nerina ne approfitta-va per chiudere la saracinesca del negozio, caso mai la madre avesse deciso di tornare dopo la funzione.

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RODOLFO

Rodolfo era alto, snello, aveva i capelli nero pece e portava dei baffetti sottili sulle labbra carnose, quasi femminili. Nato in Si-cilia, in un paesino sperduto della provincia di Enna, si procla-mava cittadino del mondo. In realtà era stato costretto ad espa-triare per problemi con la giustizia: truffa, circonvenzione di incapace e tentato omicidio. Aveva il sangue caldo e bastava poco a scatenare la sua furia. Nella fattispecie, aveva pestato a sangue e ridotto in fin di vita un tale Cosimo, reo di aver rivol-to un complimento troppo azzardato alla cugina. La cugina in questione, Timorata, aveva due tette grandi e dure come angu-rie ed era timorata solo di nome. Infatti amava appartarsi con i giovanotti del paese nei pressi del campo dove Ninnino, il ri-tardato, faceva pascolare le sue pecore. Il povero ragazzo assi-steva a questi incontri suo malgrado e dato che non riusciva a formulare una frase di senso compiuto, Timorata non si preoc-cupava affatto della sua presenza. Ma Ninnino rimaneva scon-volto ed eccitato insieme e, quando faceva ritorno a casa, sbat-teva la testa contro il muro e si schiaffeggiava, gettando la ma-dre nello sconforto. Timorata si recava vicino al pascolo alme-no due volte la settimana, se avesse potuto l’avrebbe fatto an-che più spesso, ma il paese era piccolo e la materia prima scar-seggiava. Gli uomini sposati erano paurosi, perché temevano di essere scoperti dalle mogli, i giovanotti spesso si innamorava-no e diventavano noiosi, quindi aveva messo gli occhi sul cu-gino che, a sua volta, aveva messo gli occhi sulle sue tette. Ro-dolfo era insaziabile e la testa di Ninnino piena di bernoccoli. Dopo le disavventure con la giustizia, Rodolfo fu costretto a fuggire lontano. Si imbarcò su un cargo diretto in Argentina.

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Una volta arrivato a destinazione si dedicò all’attività che gli riusciva meglio, vale a dire sedurre più donne che poteva. Ben presto si rese conto che se la “preda” di turno era in là con gli anni, bruttina e piena di soldi, i vantaggi erano assicurati. Per lui diventò un lavoro vero e proprio. Conquistava la loro fidu-cia e al momento giusto le abbandonava portandosi via tutto il capitale su cui riusciva a mettere le mani. Ma sperperava tutto il denaro in breve tempo. Puttane, azzardo, alcol, auto di lusso, abiti di sartoria, alberghi di prima categoria. Non si faceva mancare nulla. Ma aveva un desiderio non ancora realizzato, tornare in Italia. Gli mancava il suo paese, il cibo, i profumi, la lingua, le femmine del sud. Riuscì a procurasi una falsa identità e rientrò nel paese natìo con una nave da crociera. Sbarcò a Genova e di lì prese il treno per la Sicilia, ma con l’intenzione di fare tappa in centro Italia. Fu in quell’occasione che conobbe Nerina. Aveva deciso di fermarsi qualche giorno in quel deli-zioso paesino vicino alle Terme. Contava di fare qualche bagno nelle acque sulfuree e qualche abbuffata di cinghiale in umido accompagnato dal nettare degli dei. In Argentina il vino non era dei migliori. In quel momento si sentiva euforico. Era stato tutto il giorno nell’acqua calda della piscina termale. Dopo uno scambio di sguardi con una ragazza milanese che si trovava là in vacanza con il fidanzato, era partito all’attacco: “Sola?” “No, sono qui con il mio fidanzato.” “E dove lo hai lasciato?” “In albergo, aveva mal di pancia.” “Ma lo sa il tuo fidanzato che non può lasciare sola una bellez-za come te?” Frattanto si era avvicinato e aveva iniziato a gio-cherellare con i riccioli della ragazza, che in realtà non era per niente bella. Aveva gli occhi piccoli e vicini, la fronte bassa e il naso camuso, ma la bocca era carnosa e ben disegnata, i capelli morbidi e chiari. Il corpo non prometteva di più, le gambe era-no corte e la pancetta leggermente prominente, ma le tette quel-

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le sì erano sensazionali. Rodolfo adorava i seni importanti. Come quelli della cugina Timorata. “Lo sai che hai delle poppe da urlo” le aveva detto saltando di-rettamente i preliminari. “Non sta bene dire certe cose” aveva risposto la ragazza, arros-sendo violentemente, ma lasciando che la mano di Rodolfo in-dugiasse sul suo seno. L’acqua torbida occultava il palpeggia-mento alla vista degli altri bagnanti. “Siediti sopra di me” ordinò l’uomo ansimando. E lei ubbidì. “A proposito io mi chiamo Rodolfo” concluse dopo, uscendo dall’acqua. “Rina.” Ma Rodolfo era già lontano. Quindi quel pomeriggio si sentiva appagato: il sesso occasiona-le era il suo passatempo preferito, gli procurava un grande sen-so di benessere. Sorrideva tra sé e si sentiva in pace con il mon-do. Fu un caso che lo portò a fermarsi al negozio di scampoli. “Signora.” “Signorina.” “Mi scusi signorina, mi saprebbe indicare un ristorante dove poter mangiare del buon cinghiale in umido?” “In fondo al viale sulla sinistra. La Tana del Lupo” rispose Ne-rina, tenendo gli occhi bassi. “Grazie per l’informazione.” Nerina rientrò nel negozio senza rispondere. “Senta, saprebbe anche indicarmi una locanda dove poter dor-mire?” Incalzò Rodolfo seguendola all’interno del negozio. “Alla Tana del Lupo hanno anche stanze.” “Grazie, molto gentile signorina…posso sapere il suo nome?” “N-nerina” balbettò, piegando nervosamente una stoffa color porpora. “Porpora. Il mio colore preferito.” “I gusti sono gusti.” “Senta Nerina, il negozio è suo?” “Non sono fatti suoi.”

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“Sono nuovo in paese e mi va di fare un po’ di conversazione, che male c’è?” “Niente di male, certo che no” borbottò Nerina senza alzare gli occhi. “Un bel negozio” incalzò Rodolfo guardandosi intorno. “Sì è mio, l’ho ereditato dai miei genitori che sono morti.” “Interessante. Sei brava a darti da fare da sola.” “Non le sembra sconveniente darmi del tu senza conoscermi?” “Presto fatto. Mi chiamo Rodolfo.” Nerina aveva temporeggiato e poi gli aveva permesso di strin-gerle la mano molle e sudaticcia. Lo stava osservando di sot-tecchi. Bello, alto, muscoloso, con quei baffetti sottili, i capelli corvini allungati sul collo e gli occhi profondi come un pozzo. Anche Rodolfo la stava osservando. Magrissima, alta ma sgra-ziata, con due gambe storte e caviglie ossute che spuntavano dalla lunga gonna di vigogna. Non aveva proprio nulla di attra-ente, nemmeno le tette. Un’asse da stiro sarebbe stata più sedu-cente. E poi quei capelli pel di carota e la pelle bianchissima con piccole lentiggini marroni, che parevano punti neri pronti da schiacciare. L’eccessiva magrezza aveva reso la pelle del vi-so e del collo prematuramente segnata da una fitta rete di rughe sottili. Gli occhi slavati, di un triste e pallido azzurro, con le ci-glia così chiare da sembrare inesistenti, avevano un’espressione dimessa e rassegnata. Ma aveva il negozio. Ed era sola. Rodol-fo le sorrise e le disse: “Ma lo sai che sei proprio carina.”

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NERINA E RODOLFO.

Nerina non si era mai soffermata a chiedersi come mai uno sconosciuto bello e affascinante si fosse innamorato di lei al primo sguardo. Ogni dubbio e ogni incertezza era ben celata dentro la sua mente e lo stupore e la gioia di un evento talmen-te imprevisto e inaspettato erano più forti di qualsiasi sospetto. Ovviamente la gente del paese si era scatenata, inventando ogni possibile illazione e pettegolezzo. Nerina aveva quasi qua-rant’anni, non aveva mai avuto un fidanzato e nemmeno un pretendente, mentre Rodolfo, molto più giovane e affascinante, aveva l’aria di essere un inguaribile dongiovanni. Si era trasfe-rito nel retrobottega dopo solo qualche giorno di corteggiamen-to. Don Remigio, il parroco del paese, aveva cercato in tutti i modi di evitare un tale scandalo. “Non andrai nel regno dei cieli Nerina, brucerai all’inferno!” L’aveva minacciata senza tanti preamboli. “Don Remigio, con tutto il rispetto, ma non me ne importa un accidente.” Il parroco, a quella risposta, si faceva il segno della croce e u-sciva dal negozio in tutta fretta. Nerina aveva letteralmente perso la testa. Impensabile per una donna come lei, dura, fredda e di poche parole. Rodolfo le ave-va fatto scoprire le gioie del sesso e Nerina non ci aveva pensa-to due volte a donargli la sua verginità. Anche perché un’altra occasione sarebbe stata difficile. Rodolfo era costretto ad uti-lizzare tutta la sua immaginazione per riuscire a fare l’amore con lei. Senza vestiti era ancora più respingente, con un seno quasi inesistente, ma comunque vizzo e cadente, i capezzoli re-

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troflessi, la pelle del corpo rugosa e ruvida e i peli lunghi e ros-si anche sulle cosce magre e bianchissime. Ma non era quello il peggio, ciò che Rodolfo trovava ancora più insopportabile era l’alito. Un misto di cibo mal digerito e carie dentale trascurata. Ma l’affare era troppo interessante e Rodolfo sapeva aspettare. Quando Nerina saltò il ciclo, pensò di essere in menopausa, quindi non ci badò. Fu per questo che si accorse di essere in-cinta solo al quinto mese. “Stai mettendo su qualche chilo” le ripeteva Rodolfo “meno male, almeno ho qualche cosa da toccare.” Rodolfo la aiutava in negozio, ma ogni tanto spariva con una scusa e si rifugiava alle Terme in cerca di ragazze dalle tette grosse. Era la sua personale ricompensa per la vita grama che stava conducendo. I mesi passavano in fretta e Nerina aveva paura di soffermarsi a pensare quanto fosse felice. Avrebbe desiderato fermare il tem-po per godere all’infinito di quella beatitudine assoluta. A volte credeva di sognare e doveva pizzicarsi per essere certa che fos-se tutto reale. “Che ne dici Rodolfo se cerchiamo un appartamento un po’ più grande? Il retrobottega è troppo piccolo per tutti e tre.” “Ma stiamo tanto bene qui.” Rodolfo non aveva nessun deside-rio di sobbarcarsi un trasloco, considerato il fatto che contava di andarsene prima della nascita del marmocchio. Nerina si fi-dava di Rodolfo ogni giorno di più e glielo dimostrò, permet-tendogli l’accesso al suo conto in banca. Le sue finanze erano cospicue perché aveva ereditato, oltre all’esercizio commercia-le, un discreto patrimonio e gli affari al negozio andavano be-ne. Non spendeva nulla per sé e, vivendo nel retrobottega, non aveva costi, perciò tutti gli utili li versava in banca, tranne una parte che teneva sotto il materasso nascosta in un sacchetto di stoffa logora. Voleva risparmiare, quindi utilizzava i suoi scampoli per confezionarsi i vestiti. Prediligeva il grigio topo e la ruvida vigogna e non avendo molta dimestichezza con la

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macchina da cucire i risultati erano modesti. Gli abiti erano sempre troppo larghi, troppo lunghi e con le cuciture storte. Ogni tanto, mentre stavano cenando, Nerina si sorprendeva a fissarlo a bocca aperta. Ancora non si rendeva conto della for-tuna che aveva avuto. Così bello, innamorato, gentile, passio-nale e padre del figlio che teneva in grembo. La vita era stata generosa con lei. Inizialmente era stato il contrario: la sua in-fanzia e la sua adolescenza le ricordava molto tristi e la sua ma-turità l’aveva vissuta in solitudine. Non aveva mai avuto amici-zie e il suo lavoro era l’unico scopo della sua esistenza. Ma poi Rodolfo era passato davanti al suo negozio e tutto era cambia-to. Quasi ogni giorno andava in chiesa a ringraziare la Madon-na per il dono ricevuto. E a chiedere perdono perché viveva nel peccato. Non aveva ancora avuto il coraggio di proporre a Ro-dolfo di sposarla, ma lei era convinta che l’avrebbe fatto lui non appena fosse nato il bambino. Il fatto di rimanere incinta quando le altre donne, all’epoca, andavano in menopausa era stato un vero e proprio miracolo. Quel giorno si era svegliata con un gran mal di schiena. La pancia era diventata ingombrante e durante la notte non riusci-va a trovare mai una posizione comoda per dormire. Rodolfo, già da alcuni mesi, aveva optato per il divano. Scomodo e duro, ma molto meglio che dover dividere il letto con Nerina. Il suo fiato durante la notte era un gas micidiale, quindi aveva utiliz-zato la scusa della gravidanza per non dormire più con lei. “E’ pericoloso fare l’amore nel tuo stato. Potrebbe fare male al bambino. Meglio che io dorma sul divano per non cadere in tentazione” aveva mentito, accarezzandole la guancia scavata. Nemmeno la maternità le aveva regalato un po’ di morbidezza al viso. Sembrava che avesse ingoiato un’anguria. La pancia era tesa e dura con tante smagliature larghe e rossastre attorno all’ombelico. Quella mattina si sentiva gonfia e pesante. Faticò a mettersi in piedi e, quando si accorse che Rodolfo si era già alzato, sperò che fosse andato a prendere il latte fresco. Solita-

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mente doveva andarci lei, perché lui amava alzarsi tardi e pre-tendeva che lei gli portasse la colazione a letto. Evidentemente la sera prima doveva essersi accorto di quanto fosse stanca e affaticata. Sorrise al pensiero di quanto fosse premuroso. Acce-se la piccola stufa a carboncok, che fungeva anche da fornello, perché le giornate erano ancora fredde nonostante fosse l’inizio di marzo. Aprì la saracinesca del negozio, Rodolfo doveva es-sere uscito dal retro. Con il suo mal di schiena, alzare quella serranda era una tortura. “Buongiorno Nerina” la salutò Lia entrando nel negozio. “…giorno” “Ci siamo quasi?” “Manca un mese, ma non ce la faccio più. Sono gonfia e mi duole la schiena.” “Io di figli ne ho avuti cinque e ho lavorato nei campi fino a poche ore prima del parto.” “Beata te, io non riesco nemmeno più a muovermi.” “Eppure non sei ingrassata. Hai solo pancia.” “Ma pesa come un macigno. Guarda ho dei bellissimi scampoli che mi sono arrivati l’altro giorno, ora te li mostro.” “Era mattiniero Rodolfo oggi.” “Andava a prendere il latte. Per evitarmi gli sforzi.” “A dire il vero stava aspettando la corriera e aveva anche la va-ligia.” “Ma cosa dici?” La voce le era morta in gola. “Sì,sì. Saranno state le sei e aspettava proprio la corriera!” La voce di Lia era acuta e Nerina ebbe l’impulso di portarsi le ma-ni alle orecchie per non sentirla. “Ti senti bene?” Le chiese la donna, rendendosi conto del suo pallore improvviso. “Sì…sì…ho solo bisogno di sedermi.” Si diresse nel retrobot-tega e d’impulso alzò il materasso. Il sacchetto di stoffa logora era sparito. Affiorò una terrificante consapevolezza. Lei lo a-veva sempre saputo, ma quel pensiero molesto era stato ricac-

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ciato in un angolo molto nascosto della sua mente. “Il conto in banca” fu il suo ultimo pensiero prima di perdere i sensi.

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GELINDO

Il 3 marzo 1940 venne alla luce Gelindo. Nacque con parto ce-sareo d’urgenza e con un mese di anticipo. Nerina rischiò la vi-ta e Gelindo rimase a lungo in incubatrice per difficoltà respira-torie. Quando fu dichiarata fuori pericolo, le diedero il permes-so di vedere il suo bambino, ma Nerina rifiutò. Era chiusa in un mutismo ostinato, non mangiava, non si alzava dal letto e i me-dici decisero di somministrarle l’alimentazione forzata. Non essendoci stata montata lattea, Gelindo fu allattato da una balia. Gli somministravano il latte con il biberon nell’incubatrice e, giorno dopo giorno, incominciò a riprendersi. Nerina non era ancora andata a conoscere suo figlio. La suora dell’ospedale aveva cercato in tutti i modi di richiamare la donna ai suoi do-veri di madre. Un medico le prospettò l’eventualità di dare il bimbo in adozione piuttosto che affidarlo ad un istituto. Nerina, per la prima volta, alzò gli occhi che teneva sempre bassi e scosse violentemente la testa. “Il bambino è mio e nessuno me lo porterà via!” Si era alzata di scatto e aveva raggiunto velo-cemente la nursery. Gelindo era piccolissimo, i piedini appog-giati al vetro dell’incubatrice, per contrasto, parevano enormi. Aveva la testina minuta, con tanti capelli nero-pece. Nerina lo osservò a lungo, ma ciò non bastò a farle sentire l’istinto ma-terno. Anzi. Era un piccolo estraneo con la pelle arrossata e ru-gosa, niente più. Ma le apparteneva ed era tutto ciò che le era rimasto. Rodolfo aveva ritirato tutti i soldi dal conto, non la-sciandole nemmeno uno spicciolo, le aveva rubato anche gli ori di famiglia e il logoro sacchettino sotto il materasso. Non ave-va più nulla, se non il suo negozio e le sue stoffe. Piano piano

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si sarebbe ripresa e il bambino, una volta cresciuto, sarebbe sta-to il bastone della sua vecchiaia. Accudirlo e crescerlo era un’assicurazione per il suo futuro. Aveva quarant’anni e, a quell’epoca, una donna era alle soglie della terza età. Allevarlo per averne un tornaconto. Fu quello il sentimento che provò nell’osservare quell’esserino piccolo e indifeso. Altroché istin-to materno. Il giorno prima delle dimissioni, il piccolo fu bat-tezzato nella cappella dell’ospedale. Nerina ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma la suora aveva già organizzato tutto. “Un bambino non battezzato vive nel peccato” aveva senten-ziato suor Clotilde. “Che razza di peccati può aver mai commesso se è appena ve-nuto al mondo” era stata la risposta sgarbata di Nerina. “Il peccato originale” aveva risposto la suora, sgranando gli occhi tondi da ipertiroidea. “Già il peccato originale” sibilò la donna tra i denti, serrando i pugni. “Dovrebbe confessarsi Nerina” aveva incalzato suor Clotilde “lei è vissuta per tutti questi mesi nel peccato” e si era fatta il segno della croce. La bestemmia di Nerina risuonò nel corridoio e ci mancò poco che la suora cadesse a terra, come se fosse stata schiaffeggiata e spintonata a viva forza. Il nome Gelindo fu scelto dal dottore perché Nerina si era chiu-sa nuovamente in un ostinato mutismo. Quando rientrò al negozio, decise di mettersi al lavoro il giorno stesso. La comodità di vivere nel retrobottega le permetteva di badare al bambino e contemporaneamente servire le clienti. I primi giorni ci fu un gran via-vai. In realtà non erano gli scam-poli ad attirare le donne del paese, ma la curiosità. Nerina era stata argomento di pettegolezzi sin da quando Rodolfo aveva fatto la sua comparsa, ma ora che era fuggito con i soldi, le chiacchiere si erano moltiplicate. Tutte sbirciavano nel retro-bottega sperando di vedere il bambino, ma Nerina si guardava

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bene dal soddisfare la loro curiosità. “Sta dormendo, non vo-glio svegliarlo” era la scusa per non mostrarlo a nessuno. Non lo portava mai a prender un po’ di aria e Gelindo divenne un bimbo pallido, cagionevole e rachitico. Gli mancava la vitami-na D a causa della clausura forzata. Una balia portava il latte ogni mattina, ma nemmeno lei era mai riuscita a vedere il bam-bino, attorno al quale stavano nascendo ogni genere di leggen-de. “Ha due teste.” “Gli mancano le gambe.” “Non esiste, è frutto della sua malata immaginazione.” Le illazioni erano le più fantasiose. Gelindo era un bambino tranquillo. Da neonato non piangeva mai, pareva quasi che non volesse disturbare. Nerina lo cam-biava, lo lavava, lo nutriva, ma evitava ogni altro genere di contatto. Non era stata abituata alle carezze ed era incapace di esprimere affettività. Ma in realtà non era nemmeno sicura di amare quel figlio, che le ricordava ogni minuto la sua stupidità. Si era regalata un sogno, ma il ritorno alla realtà era stato trop-po brutale e doloroso. La sua innata riservatezza si era trasfor-mata. Era diventata scontrosa, asociale, sospettosa. Non si fa-ceva avvicinare da nessuno, non usciva mai dal negozio nem-meno per fare gli acquisti. Si faceva portare la spesa dalla si-gnora Romana dell’emporio in fondo alla strada. Il 10 giugno 1940, giorno dell’entrata in guerra dell’Italia, Nerina rimase as-solutamente indifferente. Era incapace di provare gioia, ma an-che dolore. Si era totalmente anestetizzata. Fortunatamente il conflitto risparmiò il suo paese, ma la popolazione, ad un certo stadio delle ostilità, fu comunque invitata a rifugiarsi in cam-pagna. Nerina rifiutò decisamente e rimase nel suo negozio. Da sola. A quell’epoca non c’era ancora il bar e nemmeno la par-rucchiera. L’angolo era formato dalla macelleria e dal frutti-vendolo. In mezzo il negozio di scampoli. Ma sia Peppo che Tonia avevano chiuso in tutta fretta le rispettive botteghe. Non soffrì la solitudine in quel triste periodo di guerra, ma la fame. Per Nerina non fu un problema, fosse stato per lei avrebbe

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smesso di alimentarsi. Piuttosto le dava pensiero Gelindo, dato che la balia se ne era andata. Decise di utilizzare il latte di pe-cora. Nel prato appena fuori dal paese ne pascolavano alcune. Magre, denutrite, piene di zecche. Furono momenti difficili, ma Nerina li visse come se non le appartenessero. Le atrocità della guerra erano un pensiero lontano. I pochi rimasti in paese cer-cavano di aiutarsi l’un con l’altro, ma Nerina rimase sempre in disparte, nel suo angolo di nulla. Perché non c’era più dolore, ma solo un terribile, incolmabile vuoto. Il tempo passò e i suoi compaesani, cessato l’allarme bombar-damenti, tornarono alle rispettive abitazioni e attività. Purtrop-po gli affari andavano male, perché nessuno aveva più soldi da spendere in stoffe. La guerra rendeva indispensabile dare la priorità al sostentamento. L’importante era procurarsi da man-giare, non c’era tempo e denaro per altro. Gelindo era cagione-vole di salute. Raffreddore, tosse, febbre erano una costante. Nerina non chiamò mai il medico, si arrangiava con le erbe e i cataplasmi, ma quella notte del 16 febbraio 1944 fu costretta a farlo e d’urgenza. Gelindo non respirava più e la febbre era al-tissima. Il Dottor Mangiabene lo visitò con attenzione, scuo-tendo ripetutamente la testa. “Che c’è dottore, è grave?” Chiese Nerina con il suo tono mo-nocorde, quasi indifferente. “Se la febbre non scende, temo di sì. Purtroppo siamo sprovvi-sti di antibiotici, con la guerra non arriva più niente alla farma-cia. Bisognerebbe portarlo in città all’ospedale, ma temo che non sopporterebbe il trasporto. Si tratta di una polmonite, com-plicata dall’asma.” “Ha sempre sofferto di asma. Ha i polmoni piccoli. E’ nato troppo presto.” “E’ denutrito. Quanti anni ha?” “Quasi quattro.” “E’ anche piccolo di statura.” “Con la guerra manca il cibo.”

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“Lo so, lo so. Comunque per il piccolo non possiamo fare altro che aspettare. Gli faccia spugnature fredde e faccia bollire dell’acqua per aiutarlo nella respirazione. E preghi. Io tornerò domani mattina.” “Non so pregare.” Ma non lo disse.

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GELINDO CRESCE

L’8 maggio 1945 la guerra finì e tutti furono presi da una fre-nesia selvaggia. Voglia di ricominciare, di ricostruire, di diver-tirsi, di provarci. Tutto pareva meraviglioso e possibile. Una spinta irrefrenabile che inebriava e regalava una sorta di onni-potenza. Ma Nerina non fu contagiata dall’ entusiasmo colletti-vo. Anzi, sembrava ancora più rinchiusa in se stessa. La felicità degli altri le evidenziava in modo ancora più netto la propria infelicità. Non usciva quasi mai dal negozio. Teneva sempre gli occhi bassi, anche quando serviva le clienti. Sentiva la vergo-gna addosso e non sopportava la commiserazione della gente. In realtà i suoi compaesani avevano altro a cui pensare. Affron-tare il dopo guerra era una sfida per tutti. Le rovine dietro, ma mille possibilità davanti. Nerina aveva abdicato alla vita e la sua realtà era unicamente il negozio e i magri affari che con-cludeva con le poche clienti rimaste. Dopo la curiosità morbosa iniziale, il suo carattere scontroso e l’esigua scelta di stoffe a-veva portato la maggior parte delle donne del paese a raggiun-gere la città vicina per acquistare gli scampoli. Avrebbe dovuto rinnovare la bottega, trovare nuovi fornitori, sorridere un po’ di più. Avrebbe dovuto. In realtà sopravviveva e non le importava di nulla. Non aveva mai parlato a Gelindo del padre, si com-portava come se non fosse mai esistito. Le poche volte che il bambino le aveva fatto delle domande, lo aveva zittito con un violento manrovescio. Gelindo cresceva tra mille difficoltà. Soffriva di asma, era gracile, cagionevole di salute, a periodi anoressico. Inoltre era un bambino timido e pauroso sempre at-taccato alle gonne della mamma. Crescendo, aveva iniziato a

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piangere per un nonnulla, soprattutto di notte, ed era preda di incubi ricorrenti. Dormiva con Nerina, e l’avrebbe fatto fino in tarda età. Aveva l’abitudine di tenere tra le dita un ciuffo ispido dei capelli pel di carota della madre che, dal canto suo, detesta-va quel contatto, ma l’aveva accettato in nome del riposo not-turno. Infatti Gelindo riusciva ad addormentarsi solo in quel modo. Non era mai uscito dall’angolo compreso tra il negozio di scampoli, la macelleria e il fruttivendolo. Giocava davanti alla porta, ma non aveva il coraggio di avventurarsi oltre. Anche raggiungere gli scalini della chiesa di fronte era un’impresa impossibile. Qualche volta usciva dalla porta del retrobottega dove vivevano, ma non si allontanava nemmeno di mezzo me-tro. Osservava il prato antistante, dove sarebbe sorto, di lì a qualche anno, un piccolo condominio popolare. Sognava ad occhi aperti di giocare a pallone con gli altri bambini, ma Ge-lindo non aveva amici e non ne avrebbe avuti nemmeno in se-guito, perché Nerina aveva deciso di non mandarlo né all’asilo, né a scuola. “Il mondo è un posto pericoloso” affermava con il suo tono piatto” la gente è cattiva e ti accoltella alle spalle.” Gelindo era terrorizzato da quei discorsi e, quando qualche cliente si affac-ciava alla porta del negozio, scappava nel retrobottega e si na-scondeva dietro il letto. “Mamma perché non chiudi la saracinesca, così stiamo più al sicuro e nessuno può accoltellarci.” “Devo lavorare Gelindo, altrimenti come lo compero il pane e il latte?” “Io ho paura mamma.” “Fai bene ad avere paura Gelindo. Il mondo è un inferno pieno di diavoli.” I Diavoli presero il posto degli accoltellatori nella mente del povero Gelindo. Poi fu la volta dei mostri, delle streghe, dei maniaci, dei pazzi. Il mondo era un covo di malvagi, questo il

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messaggio che gli passava quotidianamente Nerina e Gelindo decise di non farne mai parte. Un’infanzia all’insegna del terro-re per qualsiasi essere umano che non fosse sua madre. L’unica persona che riuscì ad avvicinarlo, oltre al medico, che Nerina era costretta a chiamare almeno una volta alla settimana per gli innumerevoli problemi di salute del figlio, fu Belinda la giova-ne maestra della scuola locale. Era una ragazza idealista e con un cuore grande, sempre pronta ad aiutare gli altri e a sostenere i più deboli. Svolgeva il suo lavoro di insegnante come se fosse una missione. Si rendeva conto dell’immensa responsabilità che presupponeva un’attività come la sua. Educare ed istruire i bambini era un compito così importante e delicato che richie-deva la massima attenzione e sensibilità. Dapprima Nerina fu molto ostile nei suoi confronti. “Gelindo non ha bisogno di niente. Tantomeno delle cose inuti-li che lei vorrebbe insegnargli.” “Il bambino ha diritto ad un’istruzione, non può crescere come un analfabeta.” “Gelindo è ammalato e non può uscire di casa.” “Allora verrò io. Nel pomeriggio ho un po’ di tempo. Un paio di ore ogni giorno per insegnargli a leggere, a scrivere, a fare di conto.” “Non se ne parla.” “Nerina, non sia così ostile. Deve permettere a suo figlio di a-vere un futuro.” “Per avere un futuro non occorre la cultura.” “Non è vero. Il futuro si basa anche sulla cultura, sul sapere, sull’apprendimento dei minimi strumenti indispensabili per vi-vere il quotidiano.” “Non mi incanta con tutti questi paroloni. E poi non ho denaro a sufficienza per pagare un’insegnante privata.” “Non voglio soldi. Verrò gratuitamente.” “Nessuno fa mai niente per niente.” “Deve avere conosciuto persone molto negative nella sua vita.”

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“Che ne sa lei della mia vita. Cosa hanno spettegolato?” “Non è mia abitudine ascoltare i pettegolezzi. Mi baso sempre sulla mia opinione personale e sono sempre disposta a cambia-re idea. Non ci sono persone cattive, ma solo persone in diffi-coltà.” “Lei ha una lingua troppo lunga per i miei gusti, ma le dico su-bito che Gelindo ha paura di tutti, quindi non credo che si farà avvicinare da lei.” “Mi lasci provare.” Nerina cedette, ma più che altro perché non ne poteva più di quel figlio frignone e sempre appiccicato alle sue gonne. Be-linda era una ragazza speciale, idealista, ma con un senso prati-co molto sviluppato. A scuola i bambini la adoravano e, dopo un po’ di tentativi, riuscì ad instaurare un contatto anche con Gelindo. Con la pazienza, la sua sensibilità e, in certi momenti, anche la fermezza, riuscì a conquistare la fiducia del bambino. Belinda era bella e dolce e Gelindo non era abituato alla bellez-za e soprattutto al sorriso. Spesso si soffermava ad osservarla a bocca aperta. Belinda aveva denti bianchi e regolari e due occhi blu dolci e carezzevoli. E poi era sempre allegra e ottimista. Attraverso di lei cominciò ad avere una prospettiva diversa del mondo e delle persone. Così, senza aver mai mosso un piede dal negozio, intraprese un viaggio affascinante. Belinda gli in-segnò a leggere, a scrivere, a disegnare, gli spiegò la storia, la geografia, la religione e soprattutto lo educò alla fiducia nel prossimo. Ma non riuscì mai a convincerlo ad uscire dal suo angolo rassicurante. FINE ANTEPRIMACONTINUA...