Una rivoluzione contro il neoliberismo?

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Il 16 febbraio lessi un commento pubblicato sulla bacheca di Kullina Khalid Saed (“Siamo tutti Khaled Said”), la pagina Facebook amministrata dall'ormai famosissimo Wael Ghonim. A quel punto era lì da 21 ore. Il commento si riferiva a una notizia che riportava il fatto che i governi europei erano sotto pressione per congelare i conti bancari dei membri del regime di Mubarak recentemente deposti. Il commento dicevo: “Splendida notizia... non vogliamo vendicarci su nessuno... è nostro diritto mettere di fronte alle proprie responsabilità tutte le persone che hanno danneggiato questa nazione. Vogliamo per legge il denaro della nazione che è stato rubato... perché quello è il denaro degli egiziani, il 40% dei quali vive al di sotto della soglia di povertà.” Quando ho letto quella conversazione, 5999 persone avevano cliccato su “mi piace”, e circa 5000 avevano lasciato un commento. Non ho tentato l'impresa erculea di leggere tutti i 5000 e rotti commenti (e senza dubbio altri se ne stanno aggiungendo mentre scrivo), ma una panoramica abbastanza approfondita non ha lasciato dubbi sul fatto che la maggior parte dei commenti era stata fatta dalle persone che avevano cliccato l'icona “mi piace” sulla pagina Facebook. Ce n'erano anche alcuni di sostenitori del regime, e altri di persone a cui non piaceva il culto della personalità che era emerso intorno a Ghoneim. Questa conversazione su Facebook è sintomatico del momento. Ora che il regime di Mubarak è caduto, è arrivato in primo piano il bisogno di riconoscere i suoi crimini e identificare i suoi complici. I cori, le canzoni e le poesie recitate in piazza Tharir contenevano sempre un elemento di rabbia contro i haramiyya (ladri) che beneficiavano della corruzione del regime. Ora liste di sostenitori del regime stanno circolando sulla stampa e nella blogosfera. Mubarak e i suoi parenti più stretti (i figli Gamal e 'Ala') sono sempre in cima a queste liste. Gli articoli sulle loro ricchezze personali riportano cifre dai 3 ai 70 miliardi di dollari (il numero più alto era ripetuto su molti cartelli dei manifestanti). Si ritiene che Ahmad Ezz, segretario generale del deposto Partito Nazionale Democratico e più grande magnate dell'acciaio nel Medio Oriente, possieda 18 miliardi di dollari; Zohayr Garana, ex Ministro del Turismo, 13 miliardi di dollari; Ahmadi al-Maghrabi, ex Ministro della Casa, 11 miliardi di dollari; anche l'ex Ministro dell'Interno Habib Adli, odiatissimo per la sua supervisione di uno stato di polizia incredibilmente violento, è riuscito a mettere da parte 8 miliardi di dollari – non male per una vita da servitore dello stato. Queste cifre potranno dimostrarsi imprecise. Potrebbero essere troppo basse, o forse troppo alte, e noi potremmo non saperlo mai con precisione, perché molto del denaro è fuori dall'Egitto, e i governi stranieri indagheranno sulle finanze dei membri del regime di Mubarak sole se il governo egiziano richiederà loro formalmente di farlo. Qualsiasi siano i veri numeri, la corruzione del regime di Mubarak non è in dubbio. La cifra più bassa ipotizzata per la ricchezza personale di Mubarak, di “soli” 3 miliardi di dollari, è abbastanza infamante per un uomo che entrò nell'aeronautica nel 1950 all'età di 22 anni, intraprendendo una sessantennale carriera nel “servizio pubblico.”

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interessante articolo di Abu Atris pubblicato su Al Jazeera del 24 febbraio. Un'analisi della rivoluzione egiziana tradotta in italiano dalla rete della conoscenza

Transcript of Una rivoluzione contro il neoliberismo?

Il 16 febbraio lessi un commento pubblicato sulla bacheca di Kullina Khalid Saed (“Siamo tutti Khaled Said”), la pagina Facebook amministrata dall'ormai famosissimo Wael Ghonim. A quel punto era lì da 21 ore. Il commento si riferiva a una notizia che riportava il fatto che i governi europei erano sotto pressione per congelare i conti bancari dei membri del regime di Mubarak recentemente deposti. Il commento dicevo: “Splendida notizia... non vogliamo vendicarci su nessuno... è nostro diritto mettere di fronte alle proprie responsabilità tutte le persone che hanno danneggiato questa nazione. Vogliamo per legge il denaro della nazione che è stato rubato... perché quello è il denaro degli egiziani, il 40% dei quali vive al di sotto della soglia di povertà.”

Quando ho letto quella conversazione, 5999 persone avevano cliccato su “mi piace”, e circa 5000 avevano lasciato un commento. Non ho tentato l'impresa erculea di leggere tutti i 5000 e rotti commenti (e senza dubbio altri se ne stanno aggiungendo mentre scrivo), ma una panoramica abbastanza approfondita non ha lasciato dubbi sul fatto che la maggior parte dei commenti era stata fatta dalle persone che avevano cliccato l'icona “mi piace” sulla pagina Facebook. Ce n'erano anche alcuni di sostenitori del regime, e altri di persone a cui non piaceva il culto della personalità che era emerso intorno a Ghoneim.

Questa conversazione su Facebook è sintomatico del momento. Ora che il regime di Mubarak è caduto, è arrivato in primo piano il bisogno di riconoscere i suoi crimini e identificare i suoi complici. I cori, le canzoni e le poesie recitate in piazza Tharir contenevano sempre un elemento di rabbia contro i haramiyya (ladri) che beneficiavano della corruzione del regime. Ora liste di sostenitori del regime stanno circolando sulla stampa e nella blogosfera. Mubarak e i suoi parenti più stretti (i figli Gamal e 'Ala') sono sempre in cima a queste liste. Gli articoli sulle loro ricchezze personali riportano cifre dai 3 ai 70 miliardi di dollari (il numero più alto era ripetuto su molti cartelli dei manifestanti). Si ritiene che Ahmad Ezz, segretario generale del deposto Partito Nazionale Democratico e più grande magnate dell'acciaio nel Medio Oriente, possieda 18 miliardi di dollari; Zohayr Garana, ex Ministro del Turismo, 13 miliardi di dollari; Ahmadi al-Maghrabi, ex Ministro della Casa, 11 miliardi di dollari; anche l'ex Ministro dell'Interno Habib Adli, odiatissimo per la sua supervisione di uno stato di polizia incredibilmente violento, è riuscito a mettere da parte 8 miliardi di dollari – non male per una vita da servitore dello stato.

Queste cifre potranno dimostrarsi imprecise. Potrebbero essere troppo basse, o forse troppo alte, e noi potremmo non saperlo mai con precisione, perché molto del denaro è fuori dall'Egitto, e i governi stranieri indagheranno sulle finanze dei membri del regime di Mubarak sole se il governo egiziano richiederà loro formalmente di farlo. Qualsiasi siano i veri numeri, la corruzione del regime di Mubarak non è in dubbio. La cifra più bassa ipotizzata per la ricchezza personale di Mubarak, di “soli” 3 miliardi di dollari, è abbastanza infamante per un uomo che entrò nell'aeronautica nel 1950 all'età di 22 anni, intraprendendo una sessantennale carriera nel “servizio pubblico.”

Un problema sistemico

La caccia ai miliardi dei sodali del regime potrebbe essere una tendenza naturale dell'era post-Mubarak, ma potrebbe anche sviare gli sforzi per ricostruire il sistema politico. I generali che ora governano l'Egitto sono ovviamente contenti di lasciare che i politici incassino il colpo. I loro nomi non sono stati inclusi nelle liste dei più corrotti individui dell'era Mubarak, anche se di fatto i più alti gradi dell'esercito sono stati a lungo beneficiari di un sistema simile a (e talvolta sovrapposto con) quello che ha arricchito figure civili molto più prominenti di fronte all'opinione pubblica come Ahmed Ezz e Habib al-Adly.

Descrivere lo spudorato sfruttamento del sistema politico per fini di guadagno personale come corruzione confonde la foresta con gli alberi. Questo sfruttamento è certamente un oltraggio ai cittadini egiziano, ma chiamarlo corruzione suggerisce che il problema siano le aberrazioni di un sistema che altrimenti funzionerebbe perfettamente. Se questo fosse il caso, allora i crimini del regime di Mubarak potrebbe essere attribuiti semplicemente a pessimi soggetti: cambia le persone e i problemi spariranno. Ma il vero problema con il regime non era necessariamente che membri di alto rango del governo fossero ladri nell'accezione comune. Non hanno necessariamente rubato direttamente dal tesoro. Piuttosto si sono arricchiti attraverso una fusione tra politica e affari sotto forma di privatizzazione. Più che una violazione del sistema era il modo normale di condurre gli affari. L'Egitto di Mubarak, in poche parole, era la quintessenza di uno stato neoliberista.

Cos'è il neoliberismo? Nella sua Breve storia del neoliberismo, l'eminente geografo sociale David Harvey ha individuato “una teoria delle pratiche dell'economia politica che propone che il benessere umano possa essere promosso meglio liberando le libertà e le capacità imprenditoriali individuali all'interno di una cornice istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, mercati liberi e libero scambio”. Gli stati neoliberisti garantiscono, con la forza se è necessario, il “funzionamento proprio” dei mercati; dove i mercati non esistono (per esempio, nell'uso della terra, dell'acqua, dell'educazione, della salute, della sicurezza sociale o dell'inquinamento ambientale), allora lo stato deve crearli.

Garantire la santità dei mercati dovrebbe essere il limite delle funzioni legittime dello state, e gli interventi dello stato dovrebbero sempre essere subordinate ai mercati. Tutto il comportamento umano, e non solo la produzione di beni e servizi, può essere ridotto a transazioni di mercato.

E l'applicazione del neoliberismo utopico nel mondo reale porta a società deformate tanto quanto fece l'applicazione del comunismo utopico.

Retorica vs. realtà

Due osservazioni sulla storia dell'Egitto come stato neoliberista sono dovute. Primo, l'Egitto di Mubarak era considerato all'avanguardia nell'istituzione delle politiche neoliberiste in Medio Oriente (non a caso, lo era anche la Tunisia di Ben Alì). Secondo, la realtà dell'economia politica egiziana durante l'era Mubarak era molto diversa dalla retorica, com'era in ogni altro stato neoliberista dal Cile all'Indonesia. Lo scienziato politico Timothy Mitchell ha pubblicato un saggio rivelatore sul modello Egiziano di neoliberismo nel suo libro The rule of experts (il capitolo intitolato “Dreamland” - dal nome di un quartiere popolare costruito da Ahmad Bahgat, uno dei sodali di Mubarak ora screditato dalla caduta del regime). Il nocciolo del ritratto di Mitchell del

neoliberismo egiziano era che, mentre l'Egitto era lodato da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale come faro del successo del libero mercato, i normali standard per misurare l'economia davano un quadro di gran lunga inadeguato dell'economia egiziana. In realtà la liberalizzazione dei mercati e l'agenda della privatizzazione erano applicati come minimo in maniera sbilanciata.

Gli unici per cui il neoliberismo ha funzionato alla lettera sono stati i membri più vulnerabili della società, e la loro esperienza con il neoliberismo non è stata bella da vedere. Le organizzazioni dei lavoratori sono state ferocemente soppresse. I sistemi pubblici dell'educazione e della sanità sono stati colpiti da una combinazione di abbandono e privatizzazione. Gran parte della popolazione soffriva per salari stagnanti o decrescenti rispetto all'inflazione. La disoccupazione ufficiale lo scorso anno era stimata approssimativamente al 9,4% (e molto più alta per la gioventù che ha capeggiato la Rivoluzione del 25 gennaio), e si dice che circa il 20% della popolazione viva sotto la soglia di povertà definitiva a 2 dollari al giorno per persona.Per i ricchi, le regole erano differenti. L'Egitto non ho ridotto di molto il proprio settore pubblico, come la dottrina neoliberista avrebbe dettato, ma ha piuttosto riallocato le risorse pubbliche a beneficio di un'élite ridotta e già influente. La privatizzazione è stata una manna per gli individui ben connessi politicamente, che hanno potuto acquistare beni statali per molto meno del loro valore di mercato, o monopolizzare le rendite da fonti diverse come il turismo o gli aiuti dall'estero. Parti enormi dei profitti fatti dalle aziende che procuravano i materiali base per le costruzioni, come l'acciaio o il cemento, arrivavano da commesse governative, una parte dei quali erano a loro volta legate agli aiuti dei governi stranieri.

Fondamentalmente, il limitatissimo ruolo dello stato raccomandato dalla dottrina liberale in astratto fu ribaltato nella realtà. Nell'Egitto di Mubarak gli affari e il governo erano così strettamente gemellati che era spesso difficile per un osservatore esterno distinguerli. Dato che le connessioni politiche erano la rotta più sicura verso profitti astronomici, gli uomini d'affari avevano potenti incentivi a comprare incarichi politici nelle finte elezioni organizzate dal Partito Democratico Nazionale al governo. Qualsiasi concorrenza ci fosse per i seggi all'Assemblea del Popolo e al Consiglio Consultivo, si svolgeva all'interno del PDN. La rappresentanza in parlamento dei partiti di opposizione dipendeva strettamente dei calcoli politici fatti per una determinata elezione: lasciar entrare qualche candidato indipendente associato ai Fratelli Musulmani nel 2005 (e generare brividi di paura a Washington); dettare il dominio totale del PDN nel 2010 (e aprire la strada a una nuova tornata di distribuzione di beni pubblici a investitori “privati”).

Paralleli con l'America

L'economia politica del regime di Mubarak era modellata da molte correnti della storia egiziana, ma le sue linee generali non erano affatto uniche. Storie simile possono essere raccontate in tutto il resto del Medio Oriente, dell'America Latina, dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa. Ovunque il neoliberismo sia stato sperimentato, i risultati sono simili: essere all'altezza dell'ideale utopico è impossibile; misure formali di attività economica mascherano enormi disparità nelle fortune dei ricchi e dei poveri; le élite diventano “padroni dell'universo”, usando la forza per difendere le proprie prerogative e manipolando l'economia a proprio vantaggio, ma non vivendo mai in qualcosa di simile ai mondi pesantemente mercificati che sono imposti ai poveri.

La storia dovrebbe suonare familiare anche agli americani. Per esempio, le vaste fortune dei membri dell'amministrazione Bush Donald Rumsfeld e Dick Cheney, attraverso il loro coinvolgimento in aziende come Halliburton e Gilead Sciences, sono il prodotto di un sistema politico che permette loro – più o meno legalmente - di aver un piede piantato negli affari e uno nel governo, al punto

che questa distinzione diventa sfocata. I politici si trasferiscono dall'ufficio al consiglio d'amministrazione alla lobby e così via.

Dato che il dogma neoliberista non permette alcun legittimo ruolo del governo diverso dal salvaguardare la santità del libero mercato, la storia americana recente è stata segnata dalla progressiva privatizzazione dei servizi e delle risorse prima controllati dal governo. Ma sono inevitabilmente quelli che hanno maggior accesso al governo ad essere posizionati meglio per approfittare delle campagne governative di svendita delle funzioni prima esercitate dal governo stesso. Non sono solo i repubblicani a essere implicati in questa corruzione sistemica. Il coinvolgimento in Citigroup del Segretario al Tesoro dell'era Clinton Robert Rubin non regge un esame accurato. Lawrence Summer diede un sostegno cruciale alla deregulation dei derivati finanziari quando era Segretario al Tesoro sotto Clinton, e ha incassato alla grande da aziende coinvolte nelle stesse pratiche mentre lavorava per Obama (e ovviamente i derivati liberalizzati furono un elemento chiave della crisi finanziaria che porto al massiccio salvataggio statale dell'intero sistema bancario).

In termini egiziani, quindi, quando il segretario generale del PDN Ahmad Ezz controllava il mercato dell'acciaio e si vedeva affidati appalti per costruire complessi pubblico-privati, o quando l'ex Ministro del Parlamente Talaat Mustafa acquistava vasti appezzamenti di terra per il quartiere residenziale alla moda Madinaty senza dover partecipare ad alcuna procedura di gara pubblica (ma beneficiando di strade e infrastrutture fornite dallo stato), stavano forse praticando corruzione da un punto di vista logico e morale. Ma quello che stavano facendo era anche americano come la torta di mele, al meno nel panorama degli ultimi due decenni.

Comunque, nella situazione attuale la cosa più importante non sono le ruberie dei sodali del deposto regime di Mubarak, bensì piuttosto il ruolo dell'esercito nel sistema politico. È l'esercito che ora governa il paese, anche se come potere di transizione, o così spera la maggior parte degli egiziani. Nessun rappresentante degli altri gradi dell'esercito egiziano appare nelle varie liste di alleati del vecchio regime che devono essere chiamati a rispondere delle proprie responsabilità. Per esempio, il titolo dell'edizione del 17 febbraio di Ahrar, l'organo di stampa del Partito Liberale, era “Le riserve finanziarie dei corrotti ammontano a 700 miliardi di sterline [circa 118 miliardi di dollari] in 18 paesi.”

Una vasta centrale economica

Ma l'articolo non diceva una sola parola sul ruolo dei militati in questo epico furto. I militari sono stati tuttavia parte del capitalismo clientelare dell'era Mubarak. Dopo carriere relativamente brevi nell'esercito, gli ufficiali di alto rango vengono ricompensati con benefici come posizioni altamente redditizie nei consigli di amministrazione dei quartieri popolari o dei centri commerciali. Alcuni di questi sono essenzialmente aziende del settore pubblico trasferite al settore militare anche i programmi di aggiustamento imposti dal FMI richiesero la riduzione del settore pubblico civile.

Ma i generali ricevono poltrone anche dal settore pubblico. La stessa spesa militare era redditizia perché includeva sia un bilancio statale sia contratti con compagnie americane che fornivano hardware e competenze tecniche. Gli Stati Uniti fornivano molti dei fondi per queste spese con l'accordo che gran parte del denaro fosse girato ad aziende americano, ma tutti questi passaggi richiedevano intermediari. Chi può lavorare meglio da intermediario per gli appalti degli aiuti americani che uomini provenienti dallo stesso esercito designato come destinatario dei servizi pagati che questi stessi aiuti? Da questo punto di vista il complesso militare-industriale egiziano stava rubando un'altra pagina dal manuale americano: infatti, nella misura in cui l'esercito egiziano

ha beneficiato degli aiuti americani, l'Egitto era parte del complesso militare-industriale americano, che è famoso per il suo sistema di porte girevoli, con militari congedati che diventano lobbisti o collaboratori delle aziende di difesa.

Di conseguenza è quasi impensabile che i generali del Consiglio Militare Supremo permetteranno volontariamente cambiamenti più che cosmetici all'economia politica egiziana. Ma potrebbe essere costretti a farlo contro la propria volontà. L'esercito è un'arma spuntata, non adatta al controllo di folle di dimostranti. L'ultima dichiarazione del Consiglio Militare Supremo ripeteva sia la legittimità delle richieste dei movimenti pro-democrazia sia la richiesta che le manifestazione cessino, in modo che il paese possa tornare al lavoro. Se le manifestazioni continuassero fino al punto che il Consiglio Militare Supremo sentisse di non poterle più tollerare, allora i soldati a cui sarebbe ordinato di reprimerle (in realtà, in alcuni casi è già stato ordinato loro di reprimerle nelle prime fasi della rivoluzione, e rifiutarono) con forza letale non sarebbero i generali che erano parte della corruzione dell'era Mubarak, ma militari di leva.

I manifestanti pro-democrazia e i loro simpatizzanti hanno ripetuto spesso gli slogan “l'esercito e il popolo sono una mano sola” e “l'esercito proviene da noi”. Avevano in mente i soldati di leva, e molti non sapevano quanto fossero forti le differenze tra gli interessi dei soldati e quelli dei generali. In mezzo tra i soldati di leva e i generali ci sono reparti di ufficiali professionali di medio livello la cui lealtà è stata oggetto di molte speculazioni. I generali, per quanto li riguarda, vogliono mantenere i propri privilegi, ma non governare direttamente. Un comando diretto prolungato renderebbe gli ufficiali del Consiglio Supremo Militare vulnerabili alle sfide degli altri ufficiali che sono rimasti esclusi. Inoltre, il comando diretto renderebbe impossibile nascondere che gli ufficiali d'élite non sono parte delle “mano sola” composta dal popolo e dai soldati di leva. Appartengono invece logicamente allo stesso campo di Ahmad Ezz, Safwat al-Sharif, Gamal Mubarak, e Habib al-Adly – precisamente i nomi che compaiono sulle liste che fanno l'elenco dei membri e dei clienti del regime che dovrebbero essere processati.

In definitiva le ipotesi accurate su quanto denaro abbia rubato il regime di Mubarak e quanto il popolo possa aspettarsi che sia restituito alla nazione sono un depistaggio. Se si scoprirà che la cifra è di 50 miliardi di dollari o di 500, non importerà, se l'Egitto resterà uno stato neoliberista dedicato (di nome) al fondamentalismo del libero mercato per i poveri, mentre per i ricchi crea nuovi beni privatizzati che possono essere riassegnati agli insider politici. Se si cercano indizi per capire quanto la Rivoluzione del 25 gennaio ristrutturerà l'Egitto, sarà meglio guardare a temi come il tipo di consigli che il governo provvisorio dei generali solleciterà nel suo mandato di ricostruire il governo egiziano. Il periodo del governo militare sarà probabilmente corto com'è stato annunciato, seguito, si spera, da un governo provvisorio civile per un periodo specifico (almeno 2 anni) durante il quale ai partiti politici è permesso organizzarsi sul campo preparandosi a libere elezioni. Ma i governi provvisori spesso diventano permanenti.

Tecnocrati o ideologi?

Qualche volta si sente la proposta di costituire un governo di “tecnocrati” che assumerebbero i compiti pratici dell'amministrazione. “Tecnocrate” suona neutrale – un esperto tecnico che prendere decisioni sulla base di un principio “scientifico”. Il termine era spesso associato a Yusuf Butros Ghali, per esempio, l'ex Ministro del Tesaro, che era uno dei ragazzi di Gamal Mubarak portati nel governo nel 2006 palesemente per aprire la strada alla presa del potere del figlio del Presidente. Ghali è ora accusati di aver stanziato 450 milioni di sterline per Ahmad Ezz.

Una volta sedetti vicino a Ghali in una cena durante uno dei suoi viaggi all'estero, ed ebbi l'opportunità di domandargli quanto il governo egiziano sarebbe stato pronto per libere elezioni. La sua risposta fu sputar fuori l'ormai screditata linea del regime, secondo cui le elezioni erano

impossibili perché una vera democrazia sarebbe risultata nella presa del potere da parte dei Fratelli Musulmani. Probabilmente Ghali supererà l'accusa di aver specificamente incanalato il denaro pubblico verso Ahmad Ezz. Ma come architetto chiave dei programmi di privatizzazione egiziani ma non può non essere stato consapevole del fatto che stava facilitando un sistema che rafforzava l'impero dell'acciaio di Ezz, mentre contemporaneamente distruggeva i sistemi dell'educazione e della sanità dell'Egitto.

L'ultima volta che ho incontrato la parola “tecnocrate” è stata nel libro di Naomi Klein Shock Economy – un feroce atto d'accusa del neoliberismo che sostiene che il fondamentalismo del libero mercato promosso dall'economista Milton Friedman (e immensamente influente negli Stati Uniti) è basato sulla ristrutturazione delle economie in seguito a catastrofiche distruzioni perché società che funzionano normalmente non voterebbero mai per una soluzione come questa. Le distruzioni possono essere naturali o prodotto dell'uomo, come... le rivoluzioni.

I capitoli di Shock economy su Polonia, Russia e Sudafrica sono una lettura interessante nel contesto della rivoluzione egiziana. In ciascun caso quando il governo (comunista o dell'apartheid) è caduto, i “tecnocrati” sono stati chiamati per aiutare a governare paesi che erano improvvisamente rimasti senza un governo funzionante, e a creare l'infrastruttura istituzionale per i loro successori. Pare che i tecnocrati abbiamo sempre applicato una forma di quella che Naomi Klein chiama “terapia shock” - l'imposizione di radicali programmi di privatizzazioni prima che la popolazione stordita possa considerare le proprie opzioni e magari votare per opzioni meno ideologicamente pure che rispondono ai suoi interessi.

L'ultima grande ondata di rivoluzioni avvenne nel 1989. I governi che stavano collassando allora erano comunisti, e la sostituzione in quel “momento di shock” di un sistema economico estremo con il suo opposto sembrava prevedibile e per molti perfino naturale.

Una delle cose che rendono le rivoluzioni egiziana e tunisina potenzialmente importanti su scala globale è il fatto che hanno avuto luogo in stati che erano già stati neoliberalizzati. Il completo fallimento del neoliberismo nello fornire “benessere umano” alla grande maggioranza degli egiziani è stata una delle prime cause della rivoluzione, almeno nel senso di favorire la preparazione di milioni di persone che non erano connesse ai social media di uscire in strada dalla parte degli attivisti pro-democrazia.

Ma la Rivoluzione del 25 gennaio è ancora un “momento di shock”. Si sentono appelli a rivolgersi ai tecnocrati per risollevare un'economia stordita; e ci dicono tutti i giorni che la situazione è fluida, e che c'è un vuoto di potere sulla scia non solo della caduta in disgrazia del PDN, ma anche del profondo discredito dei partiti di opposizione legali, che non hanno giocato alcun ruolo nella Rivoluzione del 25 gennaio. In questo contesto i generali sono probabilmente contenti di tutta la discussione sul reclamare il denaro rubato dal regime, perché l'altra faccia della medaglia è la preoccupazione sullo stato dell'economia. L'idea che l'economia sia in rovina – i turisti che restano distanti, la fiducia degli investitori distrutta, l'occupazione nel settore dell'edilizia in stallo, molte industrie e aziende che lavorano a livelli molto distanti dalla massima capacità – potrebbe essere l'argomento più pericoloso per imporre riforme cosmetiche che lascino intatta la relazione incestuosa tra il governo e gli affari.

O, peggio, se il movimento pro-democrazia si lascia mettere in difficoltà dalla narrazione della “rovina economia”, i “tecnocrati” potrebbero mettere in campo, sotto l'egida del governo militare di transizione, strutture che porterebbero il futuro governo civile ad accelerare il ritmo delle privatizzazioni. Gli ideologi, compresi quelli delle fila neoliberiste, tendono a un modo di pensare simile alla stregoneria: se l'incantesimo non funziona, non è colpa della magia, ma piuttosto colpa dello sciamano. In altre parole, la spiegazione potrebbe essere che non è stato il neoliberismo a

rovinare l'Egitto di Mubarak, ma la cattiva applicazione del neoliberismo.

I primi tentativi di sperimentare questa narrazione stregonesca sono già stati fatti fuori dall'Egitto. Il New York Times ha pubblicato un articolo il 17 febbraio definendo l'esercito come una forza reazionaria che si oppone alle privatizzazioni e mira a un ritorno allo statalismo nasserista. L'articolo oppone l'apparente “lato buono” del regime di Mubaral (i programmi di privatizzazione) al vecchio cattivo socialismo arabo, ignorando completamente il fatto che mentre il sistema di privilegi dei militari può preservare alcune risorse pubbliche trasferite dal settore civile sotto la pressione dei programmi di aggiustamento strutturale del FMI, l'impero dei generali non si limita affatto a un settore pubblico semiclandestino.

Gli ufficiali erano ricompensati anche con benefici privati; gli imperi politico-finanziari civili hanno mescolato i ruoli pubblici e privati al punto che era indistinguibile quello che era statale e quello che era privato; sia i militari sia i civili intascavano rendite dagli aiuti esteri. I generali potrebbero preferire una nuova ondata di stregoneria neoliberista. Nuove privatizzazioni libererebbero beni e rendite a cui solo chi ha connessioni politiche (compresi i generali) potrebbe accedere. Sistemare uno stato neoliberista fallita con un'applicazione più rigida del neoliberismo potrebbe essere la via più sicura per loro per preservare i propri privilegi.

Una nuova iniezione di neoliberismo, in ogni caso, sarebbe una tragedia per il movimento pro-democrazia. Le richieste dei manifestanti erano chiare e in gran parte politiche: rimuovere il regime; farla finita con le leggi d'emergenza; fermare la tortura di stato; tenere libere e corrette elezioni. Ma implicita in queste richieste fin dall'inizio (e decisiva fino alla fine) c'era un'aspettativa di maggiore giustizia sociale ed economica. I social media possono aver aiutato a organizzare il nocciolo del movimento che avrebbe rovesciato Mubarak, ma gran parte di ciò che ha portato abbastanza persone in piazza per sopraffare le forze di sicurezza era costituita da problemi economici intrinsechi al neoliberismo. Questi problemi non possono essere ridotti alla miseria nera, perché le rivoluzioni non sono mai fatte dai più poveri tra i poveri. È stato piuttosto lo sgretolamento dell'idea che alcune sfere della vita umana dovrebbero essere estranee alla logica del mercato. L'Egitto di Mubarak ha smantellato scuole e ospedali e garantito salari ampiamente inadeguati, in particolare nel sempre crescente settore privato. Questo è stato ciò che ha trasformato centinaia di impegnati attivisti in milioni di manifestanti determinati.

Se la rivoluzione del 25 gennaio risulterà in nient'altro che un rinsaldamento del neoliberismo, o addirittura una sua intensificazione, quei milioni saranno stati imbrogliati. Il resto del mondo potrebbe essere imbrogliato allo stesso modo. Egitto e Tunisia sono le prime nazioni a portare a termine con successo rivoluzioni contro regimi neoliberisti. Gli americani potrebbero imparare dall'Egitto. In effetti, sembra che lo stiano già facendo. Gli insegnanti del Wisconsin che protestano contro i tentativi del loro governatore di rimuovere il diritto alla contrattazione collettiva mostravano striscioni che paragonavamo Mubarak al governatore. Gli egiziano potrebber dire all'America «'uqbalak» (tocca a te).

Abu Atris è lo pseudonimo di uno scrittore che lavora in Egitto. Le posizioni espresse in questo articolo sono dell'autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.