Una riflessione sulla Forma Partito

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Una riflessione sulla Forma Partito Il contributo del PD del Piemonte. Maggio-Luglio 2013

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Sommario INTRODUZIONE ................................................................................................................... 3

RIFONDARE SENZA DIMENTICARE ...................................................................................... 4

ALESSANDRO BIZJAK, Responsabile Dipartimento Economia PD Piemonte .....................................

NON SOLO RIVENDICARE DIRITTI, MA COSTRUIRE COMUNITÀ .......................................... 6

LUIGI BOBBA, Parlamentare PD ...................................................................................................

RISVEGLIARE LA PASSIONE CIVILE .................................................................................... 8

MONICA CANALIS, Responsabile Della Scuola del PD Piemontese ....................................................

PD, PARTITO RIFORMISTA ................................................................................................ 10

AURELIO CATALANO, Scuola del PD Piemontese .............................................................................

L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL PD............................................................................ 12

FABIO CHIAVOLINI, PD Asti ...........................................................................................................

PARTECIPAZIONE E COMPETENZE PER PROGETTARE IL FUTURO ................................... 16

BRUNA CIBRARIO, Coordinatrice del Circolo del Lavoro, PD Torino ................................................

UN PARTITO ETICO ........................................................................................................... 19

DANIELE CIRAVEGNA, Professore Ordinario di Economia Politica, Università di Torino ....................

IL PD CHE VORREI... ......................................................................................................... 22

ALDO CORGIAT, Sindaco di Settimo Torinese ................................................................................

DEMOCRAZIA (DEBOLE) E INTERNET ................................................................................ 27

JUAN CARLOS DE MARTIN, Co-direttore del Centro Nexa su Internet e Società, Politecnico di Torino

SIAMO TUTTI MINORANZA ................................................................................................ 30

UMBERTO D’OTTAVIO, Parlamentare PD ........................................................................................

ANDARE CONTROCORRENTE PER FARE IL PD .................................................................. 31

FEDERICO FORNARO, Parlamentare PD ....................................................................................

FARE PARTITO: ANTIDOTO CONTRO L'IMPOTENZA DELLA POLITICA ............................... 33

PAOLO FURIA, Segretario Giovani Democratici Piemonte ...............................................................

UN APPROCCIO ORGANIZZATIVO ALLA FORMA PARTITO ................................................. 35

GIORGIO GATTI, Scuola del PD Piemontese ...................................................................................

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L’ANIMA PERDUTA DEI PARTITI E L’ESIGENZA DI TORNARE A ESERCITARE UNA

FUNZIONE RAPPRESENTATIVA .......................................................................................... 38

ENRICO GROSSO, Docente di Diritto Costituzionale, Università di Torino .......................................

ORGANIZZARE L’IMMAGINAZIONE SOCIALE ..................................................................... 43

ENRICO GUGLIELMINETTI, Docente di Filosofia Teoretica, Università di Torino .................................

OPEN PD, PER COSTRUIRE UN PARTITO APERTO ............................................................. 45

STEFANO LEPRI, Parlamentare PD ................................................................................................

L'INDISSOLUBILITÀ DEL NESSO INDIVIDUALISMO-CRISI DELLA POLITICA ....................... 47

ILENIA MASSA PINTO, Professore associato di Diritto Costituzionale, Università di Torino ...............

PD E CLASSE DIRIGENTE, ORA PREVALGA LA "QUALITÀ” ................................................ 50

GIORGIO MERLO, Dirigente PD Piemonte ......................................................................................

NECESSITÀ DEI PARTITI E DOMANDA DI CAMBIAMENTO DELLA POLITICA ..................... 52

GIANFRANCO MORGANDO, Segretario PD Piemonte .........................................................................

IL PARTITO DEMOCRATICO ED IL COINVOLGIMENTO DELLE SUE ELETTRICI E DEI SUOI

ELETTORI .......................................................................................................................... 54

FOSCA NOMIS, Consigliera Comunale di Torino ............................................................................

CRISI DELLA MEDIAZIONE POLITICA ................................................................................ 56

UGO PERONE, Docente di Filosofia della Religione, Humboldt-Universität di Berlino .....................

IL PARTITO COME DISPOSITIVO DI UNIVERSALIZZAZIONE............................................... 58

LUCIANA REGINA, Docente a contratto di consulenza filosofica, Università di Torino ..................

LA POLITICA TORNI A PARLARE IL LINGUAGGIO DEL FUTURO ........................................ 60

ALDO RESCHIGNA, Presidente Gruppo Regionale PD......................................................................

LE FUNZIONI DEL PARTITO E LA CRISI DEL PD ................................................................ 62

SERGIO SCAMUZZI, Docente di Sociologia Generale, Università di Torino .......................................

RECUPERARE L’ESSENZIALE ............................................................................................ 65

MINO TARICCO, Parlamentare PD .................................................................................................

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INTRODUZIONE

Sabato 18 maggio 2013 si è svolto a Torino il seminario "La Forma Partito. Cosa cambiare, come

cambiare, perché cambiare", su iniziativa della Scuola del PD Piemontese.

Questo seminario si inquadra in un'opera di ripensamento critico del Partito Democratico del

Piemonte nel contesto di un sistema politico italiano in cui la maggioranza degli schieramenti non

adotta il termine “partito” per denominarsi e in cui sempre più spesso i commentatori parlano di

"politica senza partiti". Abbiamo dedicato questo momento di riflessione a porte chiuse al concetto di partito e alla sua rigenerazione, affrontandone contraddizioni e risorse, attraverso due

tipi di contributi, quello dei politici e quello degli intellettuali, convinti come siamo che il

futuro dei partiti, in quanto corpi intermedi che contribuiscono alla democrazia, è di interesse di

tutti e necessita di un’integrazione dialogica tra teoria e prassi.

Per gli intellettuali hanno contribuito Daniele Ciravegna, Juan Carlos De Martin, Mario Dogliani, Piercarlo Frigero, Enrico Grosso, Enrico Guglielminetti, Graziano Lingua, Ilenia Massa Pinto, Ugo

Perone, Luciana Regina, Sergio Scamuzzi, Francesco Tuccari.

Per i politici Alessandro Bizjak, Luigi Bobba, Monica Canalis, Aurelio Catalano, Fabio Chiavolini*, Bruna Cibrario, Aldo Corgiat Loia, Umberto D’Ottavio, Federico Fornaro, Paolo Furia, Giorgio Gatti*, Andrea Giorgis, Stefano Lepri, Giorgio Merlo, Gianfranco Morgando, Fosca Nomis, Aldo Reschigna,

Mino Taricco.

Dal punto di vista metodologico ci siamo ispirati ad una traccia omogenea, articolata intorno a tre

punti: l’essenza, la realtà, la proposta.

L’essenza: Quali sono i tratti o ingredienti irrinunciabili della forma partito, cos’è il partito nella sua essenza, cosa non può cessare di essere senza perdere la sua specificità, il suo senso, la sua

forma.

La realtà: Qual è la realtà, il modo di manifestarsi della forma-funzione partito nella vita politica

attuale. Quali altre forme si affiancano o aspirano a sostituire la forma partito nella realtà

attuale, svolgendo funzioni simili o altre funzioni non assolte dalla forma partito. Analisi dei gap.

La proposta: Quali prassi possono ridurre i gap riportando la realtà più vicina all’essenza nei

suoi tratti irrinunciabili. A quali tratti si può invece rinunciare. Quali funzioni vanno aggiunte,

inventate, costruite per venire incontro alla realtà.

Nel proporvi i risultati del nostro lavoro, ci auguriamo che possa rivelarsi utile al dibattito che sta

animando l’attuale fase politica e possa fornire spunti per le tesi dell’imminente Congresso del

PD.

Per la Scuola del PD Piemontese:

Monica Canalis

Enrico Guglielminetti

Luciana Regina

* Intervenuto in qualità di tecnico

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RIFONDARE SENZA DIMENTICARE

ALESSANDRO BIZJAK, Responsabile Dipartimento Economia PD Piemonte

Dopo il deludente risultato delle elezioni politiche, per il PD si sente sempre più spesso parlare di

Congresso di “rifondazione”. È ormai evidente a tutti che l’appuntamento programmato per il

prossimo autunno non avrà i caratteri dell’ordinarietà, tuttavia non credo si dovrà mettere in

discussione l’essenza del progetto nato nel 2007. Se ci si avviasse verso questo crinale si

aprirebbe un dibattito pericoloso e dagli esiti talmente imprevedibili, tali da non assicurare un

futuro certo per il partito.

Riflettere e discutere sul ruolo e sulla proposta dei democratici sì, snaturare la loro missione, no.

L’idea che occorresse raccogliere, mettere insieme, le più importanti culture riformiste del Paese

costruendone una sintesi adeguata alla modernità, conserva oggi intatta la sua straordinarietà ed

utilità. La risposta più adeguata alle attuali questioni sociali e l’alternativa vera al neo-liberismo

ed ai populismi di varia natura, risiede ancora pienamente nella intuizione che ha dato vita al

Partito Democratico.

La sfida che abbiamo di fronte è semmai quella di analizzare a fondo le ragioni per cui in sei anni

questo percorso non è ancora stato compiuto. Senza tatticismi è venuto il tempo di dire ai

cittadini come decliniamo concretamente i nostri fondamentali.

Vi sono a questo proposito due temi prioritari.

La politica e nello specifico i partiti, devono recuperare credibilità e fiducia nei confronti

dell’opinione pubblica, ci è richiesta discontinuità e forte rinnovamento che non abbiamo ancora

saputo dimostrare.

La crisi economica e sociale: occorre rafforzare le nostre proposte, considerate probabilmente

poco praticabili.

Sciogliere il nodo sulla forma e sul modello di partito certamente aiuterà e renderà più efficace la

nostra elaborazione politica. Inizierei dalle modalità con cui si costruiscono i processi decisionali

sia sul piano dei contenuti sia sulle scelte che riguardano le rappresentanze istituzionali.

Lo strumento delle primarie deve essere regolamentato e meglio definito, può rivelarsi elemento di

grande impatto e generatore di consensi, ma anche trasformarsi in perenne e mai conclusa resa

dei conti interna. Siamo un partito per sua natura plurale e proprio per questo in molte

circostanze affetto da unanimismo apparente che poi provoca indebolimento e lacerazione, meglio

riconoscere apertamente le diverse componenti e delinearne presenza e funzioni.

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Negli ultimi mesi abbiamo assistito infatti, al proliferare di correnti, talvolta di natura quasi

individuale, il cui obiettivo era promuovere la collocazione favorevole del leader, su questo è

necessario decisamente cambiare rotta.

Vi è poi il tema mai risolto del rapporto centro/periferia : se vi è pluralismo culturale, occorre che

vi sia anche autonomia territoriale. Il tesseramento non può più essere l’unica forma che certifica

l’appartenenza, la comunicazione e l’uso intelligente della rete posso farci scoprire nuove

potenzialità. Un partito però riflette, nel suo essere comunità, innanzitutto la sua concezione di

democrazia, in questo senso affronto in sintesi solo una questione : non credo che il sistema

politico italiano, come i recenti dati elettorali peraltro dimostrano, si sia avviato verso il

bipartitismo.

Il PD rimane quindi deve rimanere il perno principale di una coalizione di centrosinistra. Il

prossimo congresso dovrà quindi sciogliere anche il nodo della politica delle alleanze.

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NON SOLO RIVENDICARE DIRITTI, MA COSTRUIRE COMUNITÀ

LUIGI BOBBA, Parlamentare PD

Già da tempo si registrano due fenomeni: una diminuzione della partecipazione al voto e una crisi

strutturale dei partiti. Cosicché molti osservatori, partendo da queste due tendenze, parlano di

crisi della democrazia . Ma è proprio vero? La partecipazione democratica si esprime solo con il

voto e attraverso i partiti? Proviamo ad andare ai fondamenti costituzionali. L’art. 48 ci dice che il

voto è personale, libero e segreto. E i padri costituenti lo presentano come un dovere civico.

Subito dopo, all’art.49 ,entrano in scena i partiti:” I cittadini hanno diritto di associarsi

liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica

nazionale”. Un articolo che lascia pochi dubbi sul ruolo determinante che la Costituzione assegna

alle forze politiche. Quasi a dire che la democrazia senza i partiti non esiste.

Ma se è vero che i partiti svolgono una funzione rilevante, è altresì vero che la nostra Carta

costituzionale all’art.2” dice che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili

dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…”.

Dunque oltre ai partiti ,esistono altri soggetti che concorrono alla partecipazione civica e

democratica:la famiglia, la scuola, il sindacato, le associazioni, le imprese, le cooperative ecc.

Allora forse nel momento in cui cerchiamo di capire se val la pena salvare i partiti, forse bisogna

andare a cercare in ciò che precede la politica e in ciò che la eccede. Perché la politica nasce da

ciò che politico non è.

Per lungo tempo la politica si è alimentata nella sequenza :individuazione di un bisogno,

riconoscimento di un diritto, impegno delle istituzioni a rendere esigibile il diritto. Tutto cio’ ha

funzionato finché vi erano risorse da distribuire. Ma quando le risorse si sono fatte scarse ,è

scattata la rivolta contro la politica sia perché incapace di assicurare l’esigibilità dei diritti che per

un utilizzo,a volte indecoroso, di finanziamenti pubblici. La sintesi di questi due sentimenti si è

enucleata nel partito del “vaffa” che mette insieme le proteste per un disagio sociale crescente con

la rabbia per i fenomeni di malcostume che hanno visto coinvolte non poche persone con

responsabilità pubbliche. E il successo di Grillo nelle ultime elezioni è lì a testimoniare questa

crisi della politica e dei partiti. Se a ciò si aggiunge il fatto che la Rete ha fatto irruzione nelle

forme della partecipazione politica, si ha un quadro completo del cambiamento in corso. Non a

caso il tentativo di Grillo consiste nel sostituire le forme di partecipazione democratica che vivono

di mediazione e di radicamento sul territorio ,con forme di democrazia diretta potenzialmente

possibili(?) con l’uso della Rete. Ma se quest’ultima ha aperto possibilità individuali inedite, è

altresì vero che ha alimentato rilevanti fenomeni di neoconformismo ed irresponsabilità. Insomma

la democrazia , più che per la crisi dei partiti e della partecipazione al voto, rischia di morire per

eccesso di diritti avanzati come pretese assolute. Non a caso ,sempre l’art.2 della Costituzione

recita: ..e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e

sociale”. Senza obbligazioni sociali evidenti, sarà impossibile uscire da questa crisi che è prima di

tutto una crisi morale. Non a caso già S. Agostino scriveva che “dimenticata la giustizia,cosa

distingue lo Stato da una banda di briganti?”. Tradotto, senza evidenze etiche condivise, la

democrazia può facilmente precipitare in fenomeni di populismo autoritario. Quei doveri

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richiamati dall’art.2 sono i grandi dimenticati della vita sociale e politica e la loro assenza

alimenta per un verso l’irresponsabilità civica e dall’altro provoca ondate populiste che possono

abbattere anche l’ultimo partito rimasto nello scenario politico italiano, e cioè il PD.

In conclusione, la politica e i partiti sono di fronte ad un dilemma: per un verso sono obbligati a

rappresentare la società, a rispecchiarla nei loro programmi altrimenti perderebbero il contatto

con le persone e i loro bisogni; dall’altro, se non rinunciano a guidare una comunità e ad essere

anche soggetti educativi delle domande sociali, rischiano di entrare in quel cortocircuito che

conduce una parte non irrilevante del popolo verso il “vaffa”, lasciando così il paese senza una

guida, una prospettiva ,una visione. Val dunque la pena salvarli questi partiti se sapranno tenere

insieme il rispecchiamento della società e una visione per il domani, se eviteranno di

contrapporre piazza reale o virtuale con le istituzioni, se anziché alimentare solo la corrente della

rivendicazione di diritti, sapranno costruire comunità.”

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RISVEGLIARE LA PASSIONE CIVILE

MONICA CANALIS, Responsabile Della Scuola del PD Piemontese

Il mio approdo alla politica è avvenuto all’età di 27 anni, in occasione della nascita del Partito

Democratico. Da allora ho vissuto l’impegno in politica come una forma di “volontariato civile”,

naturale evoluzione del volontariato sociale che avevo praticato in precedenza. Ho interpretato

questo passaggio dall’ambito sociale (mi occupavo di cooperazione allo sviluppo, accoglienza agli

stranieri e progetti educativi per i giovani) a quello civile come un modo per tradurre in

“politiche” i valori, le buone pratiche, e anche lo stile ed il metodo che avevo appreso in tanti

anni di volontariato, in Italia e all’estero.

Questa è l’essenza di un Partito: veicolare le domande dei cittadini, offrire luoghi di elaborazione

di risposte politiche e creare le condizioni affinché queste risposte possano concretizzarsi,

soprattutto attraverso due canali, la selezione della classe dirigente e la mediazione tra le tensioni

della società e gli strumenti della politica. Partiti così hanno una vita propria rispetto agli organi

di governo locale e nazionale. Senza queste entità organizzative e culturali che sono i Partiti, le

domande della società arriverebbero alla politica in modo molto disaggregato e i meccanismi di

scelta dei candidati sarebbero dettati da logiche solo individuali. Anche i soggetti politici che si

definiscono “Movimenti”, nel momento in cui si dotano di un programma e di un gruppo di

rappresentanti, di fatto sono dei Partiti.

Tuttavia la realtà dei Partiti politici in Italia è ben diversa dall’essenza che abbiamo tracciato e

può essere sinteticamente descritta come una “partitocrazia senza Partiti”. La dimensione

oligarchica e la longevità dei gruppi dirigenti, la pervasività dei Partiti nei vari corpi sociali ed

economici (banche, sindacati, Partecipate, Pubblica Amministrazione, Università ecc.),

l’autoreferenzialità rispetto ai bisogni dei cittadini, la manipolazione della famosa “base”, la

degenerazione dei nobili (e appassionanti) compiti originari, ridotti alla mera funzione di

“comitato elettorale permanente”. La domanda è: quanto può essere attraente l’impegno in un

Partito così? Direi molto poco …

Allora la proposta è mettere in atto una serie di azioni per rendere nuovamente attraenti i

nostri Partiti e risvegliare la passione civile di chi vi si impegna. Come? Inventando modalità

di partecipazione al passo con i tempi, “ri-pescando” qualche idea dal nostro passato o dalle

esperienze di altri paesi, mutuando le buone pratiche dell’associazionismo, sancendo la

personalità giuridica dei Partiti con tutto ciò che ne consegue in termini di finanziamento,

trasparenza, regole ecc., confrontandoci continuamente con il mondo esterno - e nel farlo

superare la paura di perdere qualche certezza, dando incentivi a chi offre gratuitamente il proprio

tempo e le proprie competenze. Perché un volontario frequenta un’associazione? Perché ne riceve

gratificazione e senso. Lo stesso dovremmo poter dire per i nostri numerosissimi elettori ed

iscritti: dovrebbero frequentare il PD perché ne ricevono gratificazione e senso. La gratificazione

di sentirsi utili e di ricevere un riconoscimento per il lavoro svolto e le idee condivise; il senso

di sentirsi parte di un gruppo guidato da pochi semplici valori fondanti, che rappresentano la

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base di un’identità comune e di un essere comunità, quasi una famiglia. In un gruppo così non te

ne vai se finisci in minoranza.

Quali incentivi per l’impegno in un Partito? Certamente l’opportunità di crescere in un vivaio di

talenti, di essere progressivamente responsabilizzati e valutati sul lavoro svolto, con la possibilità

di una valorizzazione a livello amministrativo. Ma anche l’impegno nel Partito fine a se stesso,

perché un luogo di elaborazione di idee e di stretto collegamento con la società extra partitica –

quasi un think tank – può avere influenza e potere sui meccanismi decisionali quanto l’impegno

amministrativo.

Per realizzare tutto ciò sono necessari dirigenti preparati, intellettualmente vivaci e

umanamente aggreganti. Persone che adottano la modernità di internet insieme alle antiche

regole della buona organizzazione, che sanno fare squadra e spegnere i conflitti inutili, che

curano la comunicazione in modo professionale senza fare della visibilità un totem. Persone che

hanno un Progetto e che sanno ragionare ed operare secondo una logica progettuale, mettendo

sempre al centro gli obiettivi, prima dei nomi e delle risorse a disposizione. Persone capaci di

adattare i mezzi alla visione, di mobilitare sui temi, di coordinare l’elaborazione intorno alle idee,

di coltivare una comunità di valori, di riagganciare il mondo dei tecnici, degli esperti e degli

intellettuali troppo spesso estromessi dai Partiti, e di costruire un collettore di energie, una sorta

di agenzia di volontariato civile che incroci due fattori: le competenze e i bisogni del territorio.

Pre-requisito di tutto ciò è la “consapevolezza” di chi siamo (la nostra identità), da dove

veniamo (le nostre radici) e dove andiamo (il Progetto). In una fase di transizione e

trasformazione delle grandi culture politiche del ‘900, il rilancio del PD ha bisogno di

formazione per accrescere la consapevolezza e la maturità politica di dirigenti, iscritti ed elettori.

Persone più consapevoli hanno gli strumenti per smascherare le semplificazioni e l’ottusità dei

populismi e guardare con coraggio e profondità a una nuova identità finalmente Democratica.

Far parte di un Partito così è un ottimo modo per servire il Paese.

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PD, PARTITO RIFORMISTA

AURELIO CATALANO, Scuola del PD Piemontese

Il dibattito che, meritoriamente, la scuola di formazione del PD piemontese ha avviato, ci

interroga sulla natura del Partito poiché a mio avviso non vi è forma-partito se non si delinea una

figura certa di cosa il PD voglia essere.

Bene, io non credo si debba discutere all’infinito sulla natura del partito e/o di momenti

rifondativi: il PD è partito riformista che si colloca in Europa e rielabora in sé (dovrebbe

rielaborare) il meglio dell’esperienza dei movimenti storici riformisti italiani.

Sapendo fare memoria delle nostre radici dobbiamo coniugare oggi cosa voglia dire essere

riformisti; l’attenzione alle riforme non è solo competenza delle Amministrazioni bensì dovrebbe

rappresentare un modo d’essere di tutti i militanti del PD.

Vi è un primo modo di essere portatori di un pensiero riformista e ha origine dalla presenza

militante: si tratta di sapersi porre in ascolto dei cittadini del proprio territorio/ambiente per

capirne le ragioni e le esigenze di ricaduta politica. È il vecchio interclassismo? Non lo so, né mi

interessa darne una definizione nominalistica. Quello che è certo che un partito di centrosinistra

non può non essere attento ai più diversi strati sociali ed in qualche modo farne sintesi.

Ovviamente quanto detto è solo una premessa all’agire politico in quanto vi è un secondo modo di

essere riformisti ed è quello più ambizioso, ma che da senso al nostro fare politica. Mediare gli

interessi è stata per decenni un’arte dorotea; i riformatori di ieri e di oggi si devono fare carico di

individuare una prospettiva, devono sapersi mettere a capo dei loro cittadini per saperli

interpretare e proporre le soluzioni di interesse generale. Quello che non abbiamo fatto in questi

anni di politica maggioritaria è stato proprio questo, per un voto in più (e non era il nostro)

abbiamo inseguito la pancia degli elettori invece che costruire un percorso ragionato per il

domani. E quando si insegue la pancia si danno risposte estremistiche e non utili. Abbiamo

spiegato per anni che Berlusconi era un nemico e non un avversario, viceversa il Cavaliere

spiegava che noi affamavamo il popolo con le tasse per giungere al risultato di questi giorni che

comunque rappresenta come minimo una tregua e da spazio ad un riposizionamento della

politica.

Essere riformisti è l’esatto contrario dal farsi sollecitare dagli estremismi, si tratta anzi di

esercitare un’azione inclusiva che sia capace di recuperare il grande e frammentato corpo

centrale dell’elettorato dando prospettive di sviluppo senza avventurismi, ma tenendo sempre e

comunque puntata la barra sulle esigenze delle fasce marginali e più indifese (se no, di quale

centrosinistra si tratta?)

Se questo ragionamento ha un fondo di verità, occorre allora capire come il PD si debba

attrezzare per svolgere adeguatamente il suo ruolo. Credo che la capillare presenza territoriale sia

ancora oggi un valore imprescindibile: là dove si incontrano le persone e vi è interazione sociale si

sviluppa una capacità di elaborazione collettiva capace di offrire spunti di azione alla politica.

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In questo senso abbiamo fin troppo istituzionalizzato la rappresentanza ed il territorio togliendo il

gusto della partecipazione. Se solo fossimo capaci di superare le piccole modalità

istituzionalizzate di consenso e tornassimo a riproporre con forza la presenza di comitati di

quartiere spontanei, non sarebbe già quella un’ottima palestra per ridare senso alla

partecipazione politica?

Certo i moderni mezzi del comunicare hanno un ruolo importante, ma non certo salvifico perche

lo strumento non è democratico, è manipolabile, è implosivo. Il web è solo una scorciatoia per chi

cerca il consenso senza regole in una grigia zona di confusione delle responsabilità: questa non

può essere una sirena per il PD.

Ed infine ancora due questioni per la forma partito:

la scuola di partito

l’espressione della pluralità di pensiero

Sul primo punto credo che il PD piemontese rappresenti un modello encomiabile da moltiplicare

ancorché io sia convinto che un partito nuovo che nasce da una storia antica abbia necessità

esistenziale di fare “catechesi” delle proprie origini perché un partito non può essere una somma

di opportunità o di buone pratiche, ma abbia bisogno di una motivazione profonda dello stare

insieme perché nessuno sia giustificato a dire, come fa Renzi con giovanilistico e sbagliato

atteggiamento, “noi e loro”, le ragioni del riformismo sono un modo antico di coniugare la politica

e questo va insegnato.

La seconda questione mi sembra ineludibile per il modo d’essere del PD. È inesorabile che un

partito nato da storie diverse, ma con il forte riconoscimento storico di trarre linfa da coloro che

nell’800-900 hanno dato vita allo stato democratico non possa basarsi sulle regole del

centralismo democratico.

Va riconosciuto ed incoraggiato il libero formarsi del pensiero che in ogni momento possa

concorrere ad esprimere la struttura dirigente del partito, occorre con altrettanta forza rendersi

consapevoli richiede comunque un suggello di responsabilità collettiva che riconosca i percorsi

definiti ed approvati dalla maggioranza. Ciò vuol dire che da una parte è meglio sapere ascoltare

le ragioni dell’altro senza brandire con eccessiva disinvoltura l’arma della minaccia di espulsioni,

dalla altra parte vuol dire che è ora di smetterla di sentirsi con la valigia in mano perché le

proprie tesi in un definito momento storico non trovano immediato riscontro.

Un partito ragionevole, è un sogno impossibile?

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L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL PD

FABIO CHIAVOLINI, PD Asti

NOTA METODOLOGICA: L'intervento è volutamente modulato esclusivamente sul Partito

Democratico.

L'ESSENZA

Tratti irrinunciabili

Il PD associa persone che - partecipando ad elezioni e con la strategia di occupare cariche elettive

- condividono finalità e visione della mutazione della realtà fattuale tramite strumenti

democratici.

Cos'è il PD nella sua essenza

Nel recente passato, il PD ha preso (come la maggioranza degli altri partiti) un ruolo di

mediazione tra i propri elettori e le istituzioni di governo, in termini di controllo sugli

amministratori della cosa pubblica, stante che il divieto di mandato imperativo nell'operato degli

eletti viene traslato in un mandato imperativo de facto esercitato dagli elettori in direzione del

Partito (i tuoi eletti non fanno cosa mi hai promesso -> non voto più il PD).

Qual è la realtà del PD

Ma il PD era qualcosa di più: nei fatti, uno dei due unici veri partiti esistenti in Italia, nonché

l'unico partito del centro-sinistra dotato di un potenziale di coalizione e di un relativo potenziale

di ricatto, nonché contraltare del suo opposto naturale (Forza Italia/PDL) nel porsi come LA forza

di governo: una posizione, certo, in gran parte necessitata ma che lo ha reso, agli occhi di molti

elettori, difficilmente distinguibile dal suo opposto omologo.

Abituato ad operare in un ambito di pluralismo moderato, il PD sconta una seria difficoltà ad

operare in un ambito di pluralismo polarizzato - come quello impostosi con l'avvento del M5S - e

rischia un "frontale" con il pluralismo segmentato che rappresenta, nei fatti, il motivo stesso di

nascita - ed il fine ultimo di trasformazione della società - di Berlusconi e del berlusconismo ma -

anche - di Grillo e del grillismo.

Cosa il PD non può cessare di essere senza perdere la sua specificità

Nella rincorsa a modelli che non gli sono propri (p.e. il partito leaderistico, tipico dei pluralismi

polarizzati/segmentati) il PD rischia di perdere la sua specificità, da individuare nella difesa di

quattro macro-categorie dialettiche: il rapporto tra governo centrale e Territori, dove occorre

sempre schierarsi con i Territori, per non rischiare di essere identificato come forza lontana di

governo e così sfavorendo l'affermarsi di nefasti localismi politici o di ribellismi locali (anche con

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le loro buone motivazioni) stile NoTav o NoDalMolin; il rapporto tra religione ed istituzioni, in cui

è necessario riaffermare la laicità della cosa pubblica e, soprattutto, dell'istruzione, lasciando la

religione alla sfera del privato e dell'etica personale; il rapporto tra aree metropolitane e Territori

non metropolitani, dove occorre porre l'attenzione maggiore sui Territori non metropolitani perché

- se l'"aria della città rende liberi" e, quindi e con più o meno brevi interruzioni, le aree

metropolitane tendono a prediligere il "progressismo" - è nell'abbandono dei 626 Sistemi

territoriali non metropolitani, in cui vive oltre il 50% della popolazione, che spesso è maturata la

sconfitta del Partito e delle coalizioni che ha guidato; il rapporto tra finanza e lavoro, dove la

finanza ha sostituito il più classico capitale, in cui è necessario essere sempre schierati dalla

parte del lavoro, badando bene a seguire tale categoria nella sua evoluzione moderna (rifacendosi

a Marx, proletario - sinonimo di lavoratore - è colui la cui qualità della vita dipende

dall'andamento del mercato nell'economia reale: ecco, allora e nei fatti, che nella globalizzazione

anche commercianti, piccole partite IVA, artigiani, piccoli imprenditori, precari, tele-lavoratori,

ecc. sono proletari/lavoratori come il lavoratore dipendente).

LA REALTA'

Nel posizionamento della sua forma partito, il PD sconta un forte ritardo, oscillando tra

revanscismi vetero-comunisti e pallide riproduzioni del correntismo inclusivo democristiano,

nonché degli stanchi rituali di entrambe le grandi radici storiche del Partito: il Partito appare -

ancora prima di esserlo e soprattutto ai livelli nazionali - grigio, stanco, rituale e distante dalla

società reale.

Particolarmente grave è lo scollamento dalla parte più giovane dell'elettorato, magnetizzata dai

classici contrapposti estremismi hegeliani e, in buona parte, dal "rivoltismo" grillino.

Anche il rapporto con lo "zoccolo duro" incomincia a mostrare crepe consistenti, come

conseguenza di una collocazione ondivaga e non sicura delle linee programmatiche che seguono

ogni decapitazione del gruppo dirigente, nonché di una mancanza di connotazione ideologica -

l'incapacità di "creare il sogno", ormai divenuta un mantra; sogno che non riesce a nascere e - di

conseguenza - non può sposarsi con l'immagine di "forza del buon governo" che il Partito

continua a proporre come unico elemento distintivo rispetto alle altre proposte politiche in

campo.

Quali altre forme si affiancano o aspirano a sostituire la forma partito?

Le nuove modalità di aggregazione politica sono rappresentate dai partiti/movimenti antisistema,

i quali - a prescindere dalla loro denominazione e collocazione - intendono cambiare il sistema di

governo, ponendosi, rispetto al PD, in opposizione permanente e senza possibilità di alleanze, con

una spinta centrifuga egemonizzata dal voto ai movimenti anticasta e dall'astensione: entrambe

fenomeni di irresponsabilità politica - nel caso dei movimenti anticasta, per la propensione alla

promessa elettorale irrealizzabile, nel caso dell'astensione, per la delega in bianco agli "altri" e la

pericolosa tendenza ad essere brodo di coltura di opzioni autoritarie.

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Una riflessione sulla Forma Partito

Il contributo del PD del Piemonte. Maggio-Luglio 2013

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I gap

Il gap del PD nei confronti di questi movimenti è, fondamentalmente, nella sua forma e struttura:

i partiti e movimenti personali, proprio per la propria dipendenza da un leader maieutico,

tendono ad avere una catena di comando corta e risposte immediate, viscerali e concordi dalla

propria base "di opinione". Di converso, nel PD anche lo spostamento di un quadro su una parete

di un circolo può diventare un problema, perché ogni minimo particolare viene caricato di un

forte significato d'antica appartenenza ad una delle antiche anime del Partito.

Impossibilitato, per sua stessa natura, a divenire un partito leaderistico, il PD non può che

perseguire una natura di partito ideologico: diventa impellente, quindi, l'identificazione non tanto

di un'identità democratica, quanto quella di un'ideologia democratica, elemento maieutico della

generazione di quel "sogno fattibile" che deve nascere da una sintesi di basi ideologiche, in buona

parte già condivisa nel grande corpo del Partito.

L'ideologia, però e per non essere fine a se stessa ed avventuristica, non può non essere basata

su solide basi culturali. Ecco che, quindi, occorre rivalutare la figura gramsciana dell'intellettuale

organico, seppure in una versione 2.0: in una società sempre più complessa e verticale nelle

competenze - la società della conoscenza - l'intellettuale organico si trasforma nella figura del

"tecnico organico", ossia di colui che, condividendo l'ideologia del Partito, mette le proprie

competenze al servizio del Partito e viene utilizzato dal Partito in tutti quei ruoli tecnici (dalle

partecipate pubbliche, alla gestione amministrativa della macchina di governo, alle politiche

culturali, allo strategy planning) di cui abbisogna una moderna azione di governo del Paese,

soprattutto in ottica europea.

LA PROPOSTA

In primis, occorre identificare le tre nuove grandi categorie di "iscritti con responsabilità": gli

eletti, ovvero coloro che, in seguito a partecipazione a competizioni elettorali, vengono chiamati a

ricoprire funzioni di rappresentanti della Cosa Pubblica. In tal senso, l'azionista di riferimento

degli eletti diventa l'intero corpo sociale su cui si esplica la loro azione, con responsabilità politica

che si sviluppa anche in direzione della parte di elettorato ostile: da qui, la necessità di ribadire il

divieto di mandato imperativo ma, anche, di abbandono di ogni ruolo direttivo ed organizzativo

all'interno del Partito all'atto del conseguimento di una funzione elettiva, quale essa sia e fintanto

che non si esaurisca il relativo mandato. La forma di scelta dei candidati per tali incarichi deve

essere quella delle Primarie aperte a doppio turno.

Gli organi esecutivi del Partito, il cui ruolo dev'essere di gestione della macchina organizzativa ed

elettorale, presidio volontario dei circoli, verifica della rispondenza dell'azione degli eletti alle

peculiarità ideologiche del Partito (nel rispetto del divieto di mandato operativo), comunicazione e

propaganda: la partecipazione agli organi esecutivi deve essere resa incompatibile per Statuto con

lo status di eletto. Questa fattispecie di iscritti, a differenza degli eletti, deve essere sottoposta ad

un vero e proprio mandato imperativo, con revocabilità immediata dell'incarico nel caso in cui la

maggioranza della base elettorale interna identifichi un vulnus al mandato conferitogli ex ante

(con la preferibile opzione della "sfiducia costruttiva"). Inoltre, è consigliabile una riduzione dei

livelli gerarchici, in tutti i contesti; le Assemblee degli iscritti, quindi, devono poter eleggere

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Una riflessione sulla Forma Partito

Il contributo del PD del Piemonte. Maggio-Luglio 2013

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direttamente i propri esecutivi e questi rispondere loro senza intermediazioni - il che significa, in

ultima analisi, abolire quegli organi elettivi intermedi tra Assemblee degli iscritti ed esecutivi che,

ben lungi dal semplificare la vita del Partito, hanno dimostrato di complicarla. La forma di

generazione degli organi esecutivi (le Segreterie, nei fatti) deve essere effettuata con Primarie

riservate agli iscritti a doppio turno e presentazione preventiva della squadra di segreteria e dei

componenti degli organi tecnico/amministrativi. Nell'ottica dell'attualizzazione di un tema sentito

nella pubblica opinione, sarebbe opportuno provvedere all'eliminazione del livello provinciale del

Partito: cittadino, regionale e nazionale sono tre istanze ben rappresentative dell'anima del

Partito, con il vantaggio di eliminare un livello organizzativo ridondante/costoso e dare maggiore

rilevanza agli esecutivi locali-locali nel rapporto con il livello regionale e nazionale.

I "tecnici organici", il cui ruolo ha da essere triplice:

- nel Partito, di ancoramento al principio di realtà, all'atto della strategizzazione ideologica e della

scelta delle opzioni tattiche, tramite la verifica di fattibilità delle soluzioni ipotizzate in fase di

proposizione politica;

- sempre nel Partito, di modernizzazione della gestione, tramite l'affiancamento sistematico alla

figura del Tesoriere (colui che detiene la firma sui fondi del Partito) di quelle del Responsabile

Amministrativo (colui che pianifica con l'esecutivo la gestione amministrativa del Partito) e del

CFO (colui che controlla l'attività di Tesoriere e Responsabile Amministrativo e comunica le

proprie risultanze all'esecutivo, ai probiviri ed agli enti di certificazione esterna).

- fuori dal Partito, di risorse per la guida e la conduzione delle società partecipate e di scopo

pubbliche e pubblico/private, ad ogni livello di governo e su scelta degli eletti, in maniera tale di

essere certi della rispondenza dell'azione amministrativa "stretta" ai programmi elettorali.

La palingenesi del PD non potrebbe essere completa senza uno strumento di partecipazione

diretta della base elettorale alla vita del Partito.

Va completata la realizzazione del Albo degli Elettori del PD (previsto statutariamente) ed occorre

provvedere all'istituzione di Forum Permanenti degli Elettori Democratici, speculari a tutti i livelli,

che esprimano un proprio portavoce all'interno dell'esecutivo competente per livello, con diritto di

presenza e di parola ma non di voto, nominato con la formula della votazione Assembleare e con

il più rigido mandato imperativo. Se le Primarie sono un ottimo strumento di scelta dei vari livelli

di leadership e di rodaggio continuo della macchina elettorale, nonché di raccolta di fondi, i

Forum possono diventare il nuovo ambito di coinvolgimento degli elettori nella vita del Partito - in

una parola, la nuova cinghia di trasmissione.

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Una riflessione sulla Forma Partito

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PARTECIPAZIONE E COMPETENZE PER PROGETTARE IL FUTURO

BRUNA CIBRARIO, Coordinatrice del Circolo del Lavoro, PD Torino

Essenza

La nostra Costituzione riconosce ai partiti un fondamentale ruolo di organizzazione della

rappresentanza nell'ambito di una democrazia di tipo parlamentare e rappresentativo.

Nella società del Novecento, strutturata abbastanza rigidamente e nettamente in classi e

corporazioni, questo ruolo di rappresentanza poteva essere interpretato dai partiti in modo

lineare e netto: ogni partito aveva le proprie categorie sociali di riferimento, il proprio elettorato

abbastanza stabile e fedele.

Nella società contemporanea, liquida, complessa e globale, la pura funzione di rappresentanza

non può più costituire la ragion d'essere e l'identità di un partito. L'adesione ad un partito non è

più guidata dall'appartenenza ad una certa fascia o area sociale, ma dalla condivisione di una

visione, di un progetto di futuro. E dalla fiducia nelle persone che in quel partito operano in modo

pubblicamente visibile.

Diventa quindi importante la capacità di un partito di produrre analisi, proposte e programmi che

rispondano ai problemi dell'oggi e alla domanda di cambiamento per il domani, secondo una

visione “di parte”. Per far ciò, un partito prima di tutto deve individuare e definire la propria

“parte”; quindi, deve accogliere le conoscenze e le competenze che nella società si riconoscono in

quella stessa visione, siano esse patrimonio di singoli cittadini o frutto dell'elaborazione di

specifiche associazioni, e deve metterle a confronto e in contatto, favorendo l'incontro e la sintesi

di proposte politiche condivise, coerenti e praticabili.

Infine, poiché la globalizzazione esige movimenti transnazionali di pensiero per governare processi

che hanno dimensione mondiale, i partiti nazionali che, nei vari Paesi, si riconoscono in una

comune visione devono interagire tra loro per elaborare politiche condivise di respiro

internazionale.

Realtà

Mi limiterò ad analizzare la realtà italiana.

Il nostro Paese sconta l'handicap di una tradizione culturalmente statica e conservatrice, nonché

di una scarsa cultura della legalità e del valore delle regole e delle istituzioni. Le dinamiche sociali

sono ancora fondate su clientelismi e familismi; l'economia si regge in gran parte sul lavoro nero,

sull'evasione fiscale e contributiva, sui protezionismi di Stato, sulla corruzione di politici e

pubblici ufficiali e, sino a poco fa, sulla svalutazione competitiva.

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La politica sconta le stesse caratteristiche di chiusura e autoreferenzialità, clientelismo e

familismo, assenza di reale competizione virtuosa (da cui emergano i migliori), relativismo nel

rispetto delle regole (sino a giungere a casi di corruzione), mancanza di senso dello Stato, di

abnegazione e spirito di servizio. A ciò si aggiunge un rapporto simbiotico dei partiti con lo Stato e

le amministrazioni pubbliche che spesso si configura come una occupazione della res publica ad

opera di una casta di cooptati senza particolari meriti e competenze.

Il PD era nato per rispondere all'esigenza di avere un soggetto politico che, proponendo una

visione di centrosinistra, fosse in grado di intercettare le aspettative e la fiducia di una

maggioranza di cittadini. Nella realtà, non si è discostato molto dal modello di politica che ho

descritto sopra. Oggi lo vediamo diviso in correnti fondate non tanto su diversità di visione o di

contenuti, ma piuttosto sulla competizione di gruppi di potere contrapposti per il controllo del

partito e la spartizione dei posti, siano essi incarichi, nomine, candidature e quant'altro. In

quest'ottica, la selezione della classe dirigente non avviene per meriti e competenze, ma in base

alla fedeltà alla corrente di appartenenza e al grado di ambizione personale.

Con la pratica delle primarie si è tentata un'apertura ed un coinvolgimento degli elettori che si è

rivelato fittizio: le candidature proposte erano già il risultato di giochi interni, di raccolte firme tra

gli iscritti blindati in comitati elettorali, di regole riviste in corso d'opera (ricordiamo che gli

elettori che avevano eletto Bersani segretario lo avevano anche già indicato come candidato

premier). Forse, più che scegliere i nomi, gli elettori dovrebbero poter incidere sui contenuti dei

programmi. E solo di conseguenza, in base agli obiettivi da realizzare, scegliere le persone

adeguate per farlo.

Proposta

Un partito moderno (nella società liquida e globalizzata) deve poter riconoscere le mutazioni

sociali con prontezza e deve saper progettare i cambiamenti necessari, partendo dalla realtà

presente ma guardando al futuro.

Per fare ciò, bisogna avere radici nell'esistente, utilizzare le competenze diffuse nella società per

conoscerla e progettare il suo cambiamento anche strutturale secondo un approccio riformista.

A tale scopo, il Partito deve assumere una funzione di laboratorio di proposte politiche,

organizzato in dipartimenti o forum aperti ai cittadini e alle associazioni che vogliano portare il

loro contributo di idee e competenze. Occorre superare la dialettica elettori-eletti fondata solo

sulla delega della rappresentanza da una parte e sulla ricerca del consenso (e della preferenza)

dall'altra. Questa dialettica porta allo strapotere dei comitati elettorali, alle promesse mai

mantenute, alla deresponsabilizzazione dei cittadini e al loro allontanamento dalla politica.

Occorre definire una divisione di compiti tra eletti (chiamati ad amministrare e a realizzare le

riforme) e militanti ed elettori (impegnati nel partito per elaborare visione e programmi),

individuando sedi formali e periodiche di confronto sul territorio, in cui i primi (gli eletti)

incontrano i secondi (i militanti ed elettori, organizzati nei territori o nei forum tematici) per

rendere conto dell'attività amministrativa o legislativa e per discutere dei progetti in cantiere.

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Il Partito deve richiedere ai propri rappresentanti nelle istituzioni e ai propri dirigenti a tutti i

livelli delle relazioni periodiche sul loro operato, da pubblicare sul sito del Partito. Sulla base del

lavoro svolto, gli eletti e i dirigenti dovranno essere valutati dagli organismi di Partito del livello di

competenza per essere confermati o meno nel loro ruolo.

Le correnti di pensiero devono potersi organizzare, per garantire quel pluralismo che è

indispensabile in un partito a vocazione maggioritaria, che si candida a rappresentare le idee di

una vasta e variegata maggioranza della società; ma la dialettica interna tra le correnti deve

avvenire secondo regole e procedure trasparenti, con manifesti ideali chiari e distinti e adottando

il principio di maggioranza per giungere alle decisioni finali, che una volta assunte dagli

organismi dirigenti del Partito diventano impegnative per tutte le sue componenti.

Personalmente, auspico un sistema elettorale alla francese, con un semipresidenzialismo

bilanciato con adeguati poteri di controllo, compensazione e interdizione del Parlamento. Sogno

collegi bi-nominali, in cui ogni Partito si presenti con la propria coppia di candidati (un uomo e

una donna) da eleggere (in coppia) col metodo maggioritario. In un simile sistema, il successo

elettorale del Partito dipenderebbe molto dalla qualità dei candidati; perciò, le candidature

dovrebbero essere individuate in base a criteri di competenza, credibilità e autorevolezza

certificati da curriculum, e dovrebbero essere selezionate tramite primarie aperte agli elettori

iscritti all'albo, con regole che limitino la propaganda elettorale alla sola informazione degli

elettori e che prevedano sanzioni certe (come la decadenza della candidatura) in caso di

infrazione.

Ritengo invece che i ruoli di responsabilità interna al Partito debbano essere decisi dai soli

iscritti, con processi di selezione trasparenti e fondati ancora una volta su competenze, merito,

valutazione dell'operato e dei risultati conseguiti.

Non credo nel valore assoluto del ricambio generazionale, ma piuttosto nell'opportunità di avere

un mix più equilibrato di risorse giovani e di competenze mature. Le prime portano capacità di

pensiero nuovo e originale; le seconde portano esperienza, affidabilità, autorevolezza.

Infine, credo nella necessità di non sovrapporre cariche di dirigente di Partito e di amministratore

pubblico o di governo, per liberare lo Stato dall'occupazione dei Partiti e restituire alla politica un

ruolo autonomo di elaborazione, indirizzo e valutazione delle scelte amministrative.

Questo pone sicuramente una questione di retribuzione dei dirigenti e funzionari di partito, e

quindi di finanziamento della politica, che dovrebbe essere affrontata con una legge adeguata per

il finanziamento pubblico (che eviti abusi e sperperi) e con un rilancio del tesseramento.

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UN PARTITO ETICO

DANIELE CIRAVEGNA, Professore Ordinario di Economia Politica, Università di Torino

Nell’affrontare la questione dell’essenza di un partito politico, il ruolo che deve svolgere nella

società e conseguentemente anche la struttura organizzativa che deve darsi per svolgere al meglio

la sua missione, discriminante è il punto di vista che si assume: un approccio di tipo

“istituzionalistico” o un approccio di tipo “welfaristico”? Il primo ha interesse al partito quale

istituzione che vuole acquisire consenso, che vuole crescere, che vuole affermarsi, che vuole

perpetuarsi; il secondo ha interesse alla capacità del partito di svolgere un’azione efficace, capace

d’incidere positivamente sul benessere della comunità in cui opera.

Il primo non ha ragion d’essere; è solo autoreferenziale. Il secondo parte dal presupposto che un

partito politico sia un soggetto etico, che ha una sua missione da compiere nei confronti e

all’interno della comunità di riferimento.

Facciamo allora un passo indietro (e in alto). L’uomo e la donna, persone naturalmente sociali,

sono conseguentemente persone naturalmente politiche, poiché la politica è attività essenziale

per lo svolgersi di un’attività sociale. La vita sociale, e conseguentemente la vita politica, non sono

qualcosa di accessorio, bensì sono dimensioni umane essenziali e ineliminabili. Fra le due, la

comunità politica dev’essere intesa al servizio della società civile, la quale ha la preminenza in

quanto è nella società civile che trova giustificazione l’esistenza della comunità politica.

La comunità politica esiste per ottenere un fine altrimenti irraggiungibile: la crescita piena di

ciascuno dei membri della comunità sociale, chiamati a collaborare stabilmente per realizzare il

bene comune; l’autorità politica deve quindi riconoscere, rispettare e promuovere i valori umani

essenziali e deve lasciarsi guidare dalla legge morale; deve ispirarsi, nel suo operare, a valori

morali, valori propri della comunità sociale, senza i quali anche la più perfetta delle democrazie

fallisce. Infatti la democrazia è fondamentalmente un ordinamento e, come tale, è uno strumento,

non un fine. Il suo carattere morale non è insito in sé, ma dipende dalla conformità alla legge

morale cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare; dipende cioè dalla moralità

dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve.

Innanzitutto la moralità dell’azione politica non può non avere a suo fondamento la moralità delle

persone che hanno responsabilità politica. Questa moralità richiede l’impegno di condividere le

sorti della popolazione governata, ricercando la soluzione dei problemi sociali e non il prestigio

personale o l’acquisizione di vantaggi personali: la pratica dell’autorità con spirito di servizio per il

conseguimento del bene comune e non di dominio della comunità.

Da questo discende l’enorme significato negativo della corruzione politica, che tradisce allo stesso

tempo i principi della moralità individuale e sociale e le norme della giustizia sociale. La

corruzione compromette il corretto funzionamento della comunità politica, influendo

negativamente sul rapporto fra governanti e governati; introduce sfiducia nei confronti delle

istituzioni pubbliche, causando disaffezione dei cittadini nei confronti dell’attività politica e dei

suoi rappresentanti, con conseguente indebolimento delle istituzioni pubbliche; distorce alla

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radice il ruolo delle istituzioni pubbliche stesse, perché le usa come terreno di scambio politico

tra richieste clientelari e attività dei governanti. In tale modo, le scelte politiche favoriscono gli

obiettivi personali dei quanti possiedono i mezzi per influenzare tali scelte e disdegnano la

realizzazione del bene comune di tutti i cittadini.

Ma non è sufficiente essere onesti per essere buoni politici. Etica in politica non significa soltanto

che gli uomini politici, nel governare le istituzioni pubbliche, non devono pensare al loro

tornaconto personale corrente o futuro (quando avranno terminato la loro attività politica); che gli

uomini politici non devono avere rapporti privati con esponenti di aziende interessate da

provvedimenti legislativi o amministrativi in itinere; che gli uomini politici non devono ricevere

regali, se non di minimo valore; che gli uomini politici devono rendicontare periodicamente le

spese sostenute per la propria attività politica e le fonti di finanziamento delle stesse ecc.

Comportamento etico in politica significa anche che il politico imposti la sua attività in modo, non

di essere al potere per il potere, ma per condurre la pólis verso determinati obiettivi ispirati dalla

“propria verità”, che dev’essere concepita ed elaborata alla luce dei propri principi etici, e non

semplicemente – in una prospettiva agnostica e relativistica – ritenere la “verità”, ispiratrice della

propria azione, come prodotto determinato dalla maggioranza e condizionato dagli equilibri

politici. Nell’impegno sociale il politico deve sapere elaborare un’azione ispirata alla fedeltà ai

valori naturali, ai propri valori morali, ai propri valori religiosi.

L’azione politica è pienamente etica solo se il politico ha chiari obiettivi da raggiungere. Poi sarà

necessario agire in modo etico nel comportamento operativo, ma a monte ci dev’essere la scelta di

una chiara rotta d’indirizzo della pólis: il piccolo cabotaggio senza meta non è etico.

In effetti la sana (etica) lotta politica consiste nel tentativo di condurre la pólis verso un

determinato obiettivo che può risultare in contrasto con l’obiettivo di altri partiti. Non invece nella

contrapposizione di gruppi che hanno obiettivi simili e che si contrappongono solamente perché

vogliono acquisire potere di governo, emarginando altri gruppi di potere. Questa sarebbe

solamente una lotta di potere senza contenuti etici.

Per avere un comportamento etico, i partiti politici devono essere fucine nelle quali i principi

morali, i valori morali dei propri aderenti vengono forgiati; nelle quali vengono elaborate idee,

programmi per il governo della comunità. Sul piano etico, un partito che non s’impegni in questa

direzione, che non sappia attivare un’ampia attività di formazione nei confronti dei propri

aderenti è destinato a morire.

Un partito, composto da persone che non hanno un approccio etico alla politica, che non hanno

principi etici, visioni e valori condivisi, non può esprimere una chiara linea politica; rischia di

diventare, a sua volta, un mero centro di potere. In effetti, il motivo di fondo dell’attuale crisi della

politica nel nostro paese è che, per lo meno da un paio di decenni, i partiti hanno cessato di

essere laboratori culturali per lo sviluppo di obiettivi eticamente corretti, per creare idee, nonché

di essere poli di formazione in questa direzione, e si sono trasformati in centri di potere privi di

tensione etica.

Ovviamente il partito non può fermarsi allo stadio di luogo di discussione sugli obiettivi che deve

prefigurarsi, di produzione di idee. Deve anche saperli realizzare. Non è un centro culturale

solamente; dev’essere anche un centro di programmazione che trasforma obiettivi e idee in

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programmi e che trasforma i programmi in azioni di governo. Se non ha la maggioranza

all’interno della comunità e delle istituzioni, dovrà anche saper mediare con le posizioni degli altri

partiti con i quali si decide, o si è costretti, a cooperare (e non deve comunque essere una

mediazione che porta alla negazione integrale dei propri obiettivi di fondo). Si dice che la politica è

l’arte della mediazione. Questo sì al livello di operatività; non già a livello di elaborazione di

principi e obiettivi!

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IL PD CHE VORREI...

ALDO CORGIAT, Sindaco di Settimo Torinese

Sono un iscritto al Partito Democratico, anzi, se si può ancora dire, un “attivista”, addirittura un

“militante”.

Sono iscritto ad un partito da quando avevo 16 anni; nell’ordine: Manifesto, PDUP, PCI, PDS, DS,

PD.

Sì lo so, secondo lo spirito del tempo sono colpevole. Colpevole di aver frequentato sezioni di

partito, partecipato ad interminabili riunioni, votato, sostenuto, incontrato centinaia di candidati

(a non ricordo che cosa) che spesso rappresentavano la “società civile” cioè quella “pura” che, per

dirla con l’ottima presidente della Camera on. Boldrini, non “è mai stata iscritta ad un partito”.

Ho partecipato nella mia vita ad oltre 50 feste di partito, come volontario. Ho fatto il cameriere, il

barista, il lava piatti, l’addetto al bancone, il pizzaiolo, il cassiere, l’intrattenitore (non sono mai

arrivato all’eccellenza di cucinare le costine, né le salamelle). 50 feste per una media di giorni 15

per festa, più di 750 giorni di lavoro, circa 3 anni di lavoro effettivo regalato al partito.

Ho versato contributi annuali per un importo non inferiore a 50 mila euro, ho rinunciato a ferie,

week end e a possibili redditi da lavoro.

Sono un caso isolato ? Da ricovero ? No.

Sono un pentito ? Nemmeno.

Migliaia sono in questo paese quelli come me. Troppo rassegnati, troppo ragionevoli, troppo

timorosi di sentirsi rimproverare il comportamento di questo o quel dirigente, consigliere

regionale, o parlamentare che ha approfittato della carica pubblica o ha rubato, per poter tornare

a dire con orgoglio e senso di sé: sì, sono iscritto al principale partito della sinistra italiana.

Tuttavia penso che migliaia siano quelli come me che vogliono resistere, senza darla vinta ad

approfittatori, carrieristi, finti innovatori che non hanno mai fatto nulla di utile per gli altri ma

che trovano spazio semplicemente dichiarandosi “estranei alla politica”.

Sono tanti quelli come me che, seppure fra mille errori, sono convinti di aver sempre agito, oltre

che per affermare i propri convincimenti e ragioni, a tutela e affermazione degli interessi di altri e,

in molti casi, di tutti.

Sono tanti quelli come me che sanno di aver contribuito in questi anni a far eleggere come propri

rappresentanti nelle istituzioni tanta gente onesta e per bene che, in alcuni casi, ha goduto di

status giudicati oggi insostenibili ma ha certamente lavorato con dedizione e impegno.

Infine sono convinto che siano tanti quelli come me che possono dirsi orgogliosi di essersi

impegnati con molti limiti, ma anche con generosità e fatica, affinché si affermasse il diritto per le

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persone più deboli ad avere sanità, pensione, scuola, servizi sociali; o che possono dichiarare di

essersi impegnati, ogni giorno, nel proprio territorio, per migliorare la realtà, affermare la

democrazia e dare a tutti l’opportunità di partecipare e far valere i propri punti di vista.

Nel PD in questi anni si è parlato di “vocazione maggioritaria”, nei partiti in cui ho militato io nel

passato si parlava della vocazione a non essere minoritari. Mi accontento. Tradotto voleva dire

che il partito andava preservato ma anche allargato, difeso da possibili avventurieri, ma rafforzato

quotidianamente con il proselitismo. Per non essere minoritari occorreva essere sempre pronti a

fare un passo indietro, lasciare spazio alle alleanze, allargare alla società civile e alle personalità

che pur non avendo voti e consenso potevano “ampliare” la proposta politica del tuo partito.

Sono tutti termini che in questi anni abbiamo volutamente cancellato dalla nostra cultura

politica. Nel passato, la vita di partito ti insegnava che la politica era mediazione e ricerca

dell’equilibrio, era dialogo tra diversi. La democrazia era ricerca delle alleanze, che dovevano

essere costruite politicamente nella società e istituzionalmente, su basi programmatiche, con i

partiti affini.

Ora tutto questo linguaggio, certamente non sempre virtuoso e scevro da compromessi al ribasso,

pasticci e tatticismi inconcludenti è stato però cancellato sull’altare di una mal interpretata

vocazione maggioritaria.

Già nel PD, prima ancora che nei media, termini come alleanza o accordo sono stati sostituiti da

espressioni colorite come inciucio e pateracchio, il compromesso è diventato tradimento, la

moderazione o la ricerca di una sintesi sono giudicate rispettivamente come la “mancanza di

palle” o “inutile perdita di tempo”. Con questa nuova letteratura che, in alcuni casi e realtà, ha

anche formato e preteso di rappresentare lo spirito del perfetto democratico, non c’è da stupirsi

che l’avversario o il competitor diventi il nemico assoluto o che un notevole gruppo di

parlamentari si ritrovi totalmente impreparato a reggere emotivamente ai tweets ricevuti e a

scegliere tra i bocconi indigesti di Grillo e Berlusconi.

Non era e non è facile, specie per un giovane.

Sono stato giovane anch’io e, come tutti i giovani, desideroso di fare in fretta, di affermare con

rapidità le proprie ragioni senza troppe mediazioni con la realtà che vuoi trasformare. In molti

casi quell’eccessiva prudenza, che veniva proposta come arte del fare politica, o logica

conseguenza dei rapporti di forza reali, a te sembrava rinuncia, subalternità, difetto di coraggio e

di azione. E forse in alcuni casi lo era veramente. In tutti i casi il partito rappresentava, nella sua

complessità, il luogo dove la linea politica maturava, trovava nel tempo il suo punto di equilibrio.

Non sono un nostalgico e riconosco i molti, anzi i moltissimi limiti dell’esperienza vissuta dalla

mia generazione nei diversi partiti che vi ho citato. Una generazione che è stata sempre troppo

giovane per assumersi vere responsabilità e sempre troppo vecchia per rappresentare il

cambiamento.

E siamo qua….. nel Partito Democratico.

Una novità salutata da tutti (o quasi) con favore. Capace di superare vecchi schemi e

anacronistiche ritualità. Capace di allargare ancora, e di molto, gli steccati delle precedenti

esperienze politiche, proponendosi l’ambizione addirittura di rappresentare tutti (ma proprio tutti)

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i migliori riformismi italiani (democristiani, comunisti, socialisti, repubblicani, liberali, azionisti,

ambientalisti, …).

Il miracolo lo doveva fare il sistema elettorale e il cosiddetto spirito maggioritario. La legge

elettorale e i premi di maggioranza avrebbero dovuto trasformare il sistema politico italiano in un

sistema bipolare di tipo anglosassone, dove ciascun campo (centro sinistra e centro destra)

avrebbe regolato le tensioni interne semplicemente scegliendo (chi democraticamente, chi sulla

base di rapporti di forza e di denaro) un leader forte, capace di vincere le elezioni e trasferire la

propria parte politica nel governo delle istituzioni. I partiti, in questo contesto si dovevano

dunque trasformare in comitati elettorali che (a urne chiuse) organizzavano le attività degli eletti

(prima tra tutte l’ambizione di farsi eleggere alla scadenza successiva).

Il percorso del partito democratico, sotto il profilo degli iscritti, parte con un deludente meno 40%

rispetto alla somma degli iscritti delle due principali formazioni (DS e Margherita). I circa 600

mila iscritti odierni pur rappresentando ancora una ragguardevole base di partenza sono tuttavia

ben lontani dall’essere considerabili sufficienti per definire un “partito di massa”. L’inevitabile

confronto con i moderni social media o social network porta, nei fatti, all’esigenza di coinvolgere

più ampie basi omogenee di aderenti, rimandando quindi al tema delle primarie e del “registro

degli elettori”.

A tal proposito possiamo constatare come in 6 anni dalla sua nascita il PD non ha mai fatto

riferimento, nelle diverse consultazioni primarie, ad una base elettorale omogenea, usando di

volta in volta demarcazioni e caratteristiche diverse.

La stessa qualità della partecipazione è stata circoscritta di fatto alla scelta di candidati e di

persone abbinate a piattaforme distinte. È viceversa venuta a meno la partecipazione dal basso

sui contenuti e sulle opzioni strategiche.

È ora di provare non ad occupare ma a rioccuparsi un po’ di PD.

L’abbiamo detto più volte ma ora occorre farlo. In democrazia le regole sono sostanza e non si può

stare in un’organizzazione con codici, statuti, regolamenti che poi tutti dimenticano o derogano.

Occorrerebbe, anche in questo caso, avere meno norme e più progetti, affidati alla cura costante

di dirigenti e militanti che hanno voglia di far crescere il PD.

Le regole devono essere poche, semplici, chiare e condivise e soprattutto devono essere sostenibili

e valere per tutti.

Così come abbiamo bisogno di dirigenti di partito concentrati, sul pezzo, si sarebbe detto nel

passato. Oggi abbiamo segreterie di partito composte prevalentemente da eletti impegnati più a

presidiare l’organo esecutivo che a farlo funzionare (parlo ovviamente innanzitutto per me).

Domani, dovremmo a mio avviso avere esecutivi maggiormente focalizzati alla costruzione di un

partito robusto e diffuso, capace di intrattenere costantemente rapporti con gli eletti fondati su

esigenze di rappresentanza e contenuti programmatici, senza tuttavia identificarsi con essi.

Sento profondamente la necessità di un partito che torni ad avere un proprio autonomo profilo di

rapporto con le realtà associative largamente diffuse nella nostra società. I famosi corpi

intermedi, largamente sacrificati in tutti questi anni ma che ancora garantiscono a chi vuole

ascoltarli un reale e fecondo rapporto con la società.

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Una riflessione sulla Forma Partito

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Occorre valorizzare l’impegno di migliaia di persone in queste esperienze pre politiche, dare a loro

la soddisfazione di partecipare a un disegno più ampio entro il quale far contribuire la saggezza e

l’importanza delle loro esperienze. Tornare insomma ad interagire come partito, ai vari livelli, con

la società e le istituzioni non perché si detiene in qualche misura il monopolio della

rappresentanza, ma perché si recepiscono e propongono idee valide, attorno alle quali può

crescere l’impegno delle persone che le fanno proprie e le vogliono concretizzare.

Certamente dobbiamo confrontarci con l’enorme potenziale ma anche con il pericolo di

spersonalizzazione contenuto nei nuovi social media. Vanno maneggiati con cura, in modo non

compulsivo e senza pensare che il virtuale possa sostituire il reale. Dei nuovi strumenti si può

evocare un’immagine apocalittica o paurosa, oppure avere un approccio positivista e acritico, in

tutti i casi sappiamo che siamo solo agli inizi e che hanno già prodotto cambiamenti profondi.

Come tutti gli strumenti dobbiamo dunque usarli dalla parte giusta, affinché possano essere

posti al servizio delle buone idee e delle buone cause. In particolare penso occorra avere molto più

coraggio e disponibilità ad usarli per far crescere la partecipazione e l’intelligenza collettiva. Non

penso a sciocchi e vanitosi contenitori messi al servizio di guru o cattivi maestri ma a piattaforme

intelligenti di interazione e dialogo tra opinioni e progetti, capaci di far emergere l’idea più giusta

perché più condivisa e nel contempo l’innovazione geniale ma non ancora matura per essere

accettata.

Un partito che ascolta tutti e dialoga con tutti ma dove l’adesione è importante.

Un partito così è necessariamente un partito orgoglioso di sé, con un programma definito e

fondato su solidi ideali ma aperto ad ogni genere di contaminazioni che possono farlo crescere,

rinnovare e cambiare nel tempo. Adesione non coincide necessariamente con una tessera, può

essere semplicemente una promessa di sostegno, un ammiccamento, una strizzata d’occhio.

Purché accanto a questa informale adesione sorga la responsabilità del sostegno, del bene

comune da preservare, del dovere al comportamento corretto, alla lealtà reciproca, alla solidarietà

di squadra. Senza queste garanzie vale il detto meglio soli (e soli non siamo) che male

accompagnati.

Infine siamo qua, sull’orlo di un congresso che può essere “per la vita”.

Infatti il PD rischia di non farcela se a prevalere continuano ad essere i tatticismi e le ambiguità

che hanno caratterizzato il suo percorso. L’Italia ha bisogno del PD, ne siamo convinti in tanti.

Tuttavia sappiamo che non potrà più essere il PD del passato, pensato per un sistema

forzatamente bipolare, a vocazione maggioritaria, dove chi non era con Berlusconi era

necessariamente nel PD. Dobbiamo rilanciare e riformulare il progetto del PD pensando al futuro.

Ad un sistema istituzionale riformato, reso più efficiente, dove le rappresentanze territoriali non

siano umiliate come è successo in tutti questi anni.

Una nuova, forte e democratica Europa dovrà essere il tema riconoscibile e fondamentale del

nuovo PD.

L’Europa, da sempre patria e origine dei più gravi e devastanti conflitti, ma anche culla della

democrazia e riferimento essenziale per ritrovare il cammino e la soluzione dei problemi

dell’umanità.

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Una riflessione sulla Forma Partito

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La nuova Europa democratica e del lavoro dovrà essere il nostro mantra, l’obiettivo che ci fa

riconoscere dagli altri e ci distingue per credibilità e coerenza. In questo senso sarà necessario

che il progetto del PD contenga obiettivi certamente innovativi ed originali ma che nel contempo

superi le ambiguità di posizionamento. Dobbiamo essere pienamente riconoscibili come forza

appartenente alla più ampia famiglia politica in cui si riconoscono i partiti socialisti, social

democratici, laburisti e progressisti europei. In altre parole penso che in ambito internazionale

l’esperienza del PD si debba raccordare esplicitamente a quella del Partito Socialista Europeo.

Dobbiamo tornare ad un Partito capace di pensiero lungo, autonomo e dunque più libero da

tattiche e posizionamenti di breve, anche nei contenuti programmatici.

Un partito che sappia assumere con coerenza e determinazione il tema del rinnovamento

continuo e costante, senza deroghe, ma dove le esperienze e le persone non si rottamino mai.

Occorre pensare alle persone e alle esperienze come al patrimonio più prezioso di un partito. In

fondo un partito è una libera organizzazione di volontari, di esperienze, di idee. E dunque, cosa

c’è di più prezioso dell’accumulazione delle esperienze e del sapere delle persone che certamente

con errori ma anche con tanto sacrificio e dedizione hanno reso possibile a tutti di poter dire eh

già… io sono ancora qua.

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DEMOCRAZIA (DEBOLE) E INTERNET

JUAN CARLOS DE MARTIN, Co-direttore del Centro Nexa su Internet e Società, Politecnico di

Torino

Parlando di democrazia, la discussione politica italiana sembra polarizzata: da una parte c'è chi

prospetta, come il Movimento Cinque Stelle, una democrazia elettronica diretta, con la riduzione

del ruolo dei parlamentari a quello di semplici esecutori. Dall'altra c'è chi difende la democrazia

rappresentativa così come l'abbiamo conosciuta in questi ultimi decenni in Italia, ritenendola,

pur coi suoi difetti, il migliore dei sistemi possibili.

È necessario superare questa contrapposizione e aprire nuove strade al pensiero: le prospettive

più promettenti per il futuro della democrazia, infatti, risiedono altrove. Prima di rivolgerci al

futuro, però, è opportuno ricordare alcuni elementi di contesto senza i quali è difficile

comprendere la situazione attuale.

Primo dato: i partiti politici italiani risultano da anni l'istituzione meno gradita agli italiani, con

indici di gradimento che, a seconda dei sondaggi, scendono spesso sotto il 10%. Questo dato,

oggettivamente clamoroso, non significa che gli italiani rigettino la forma partito in quanto tale;

significa solo gli italiani non apprezzano i partiti italiani nella loro forma attuale. A questa crisi di

legittimità - aggravata da un sempre più forte astensionismo - i partiti non hanno finora reagito

in maniera adeguata.

Il secondo dato è che alla massima sfiducia nei confronti dei partiti corrisponde ancora un potere

enorme, un vero e proprio monopolio della vita pubblica, senza più neanche la legittimazione

derivante dall'avere molti iscritti.

Il terzo e ultimo dato è il processo noto come globalizzazione, che a partire dagli anni '70 ha

progressivamente ridotto la capacità delle democrazie di controllare l'economia, provocando, oltre

al resto, un'aumento generalizzato delle diseguaglianze.

Nel complesso, dunque, non sorprende che molti cittadini ritengano di vivere in un sistema

politico opaco, in cui la loro voce conta solo in occasione delle elezioni, e anche in quel caso solo

all'interno di un'offerta politica che non hanno avuto alcun modo di influenzare. Una democrazia,

insomma, che potremmo definire debole.

Nei decenni in cui si consolida la democrazia debole, però, ha luogo anche un altro processo,

ovvero il diffondersi della rivoluzione digitale, che prima riguarda il mondo sviluppato e poi parti

sempre più estese del resto del mondo (sia pure con forti limitazioni anche all'interno degli stessi

paesi ricchi). Un numero crescente di persone, dotate di computer personali, inizia a usare

Internet per comunicare, per organizzarsi, per esprimere il proprio pensiero, per informarsi e per

molto altro ancora. Sono, quindi, ormai milioni i cittadini che – reagendo, anche se a volte

confusamente, alla democrazia debole – hanno imparato a informarsi in maniera autonoma e che

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pretendono coinvolgimento e trasparenza. Le loro attività online sono un magma che a volte

include – come è inevitabile che sia - superficialità e paranoia, ma anche molti cittadini

salutarmente critici, desiderosi di accedere alle fonti, di ripensare con la propria testa questioni

fondamentali, come testimoniano i forum online di tutta Europa. Discussioni che è facile

ridicolizzare, ma che - è bene ricordarlo - non sono molto diverse da quelle che hanno partorito la

modernità, dalla Rivoluzione inglese in avanti.

Ma mentre milioni di cittadini usavano sempre di più la Rete per informarsi, discutere e

organizzarsi, i partiti politici ignoravano - e in larga parte continuano a ignorare - la

trasformazione in atto in milioni di loro potenziali elettori (soprattutto i più giovani).

Inoltre, i partiti via via al Governo non hanno ritenuto che fosse una priorità introdurre - nel

solco della democrazia parlamentare definita dalla Costituzione e nel rispetto del ruolo della

politica - nuove strumenti di democrazia diretta nelle istituzioni. In questo momento storico di

democrazia debole nuove forme, ben calibrate, di democrazia diretta avrebbero potuto - e

potrebbero ancora - acquisire una grande importanza sia simbolica, sia sostanziale.

In altre parole, mentre le conseguenze politiche di Internet sulle persone crescevano e si

consolidavano, le conseguenze sulla politica rimanevano del tutto trascurabili.

Questa inerzia partitica ha consentito che si radicasse – prima in cerchie ristrette di persone e poi

in settori sempre più ampi della popolazione - un interesse verso forme di democrazia diretta

elettronica. In altre parole, al sistema dei partiti, visto come opaco, autoreferenziale e spesso

corrotto, si è arrivati a contrapporre la democrazia diretta, giudicata intrinsecamente superiore a

quella rappresentativa. Sono, però, molte le critiche che si possono fare alla democrazia

elettronica applicata a comunità ampie come quelle nazionali. Innanzitutto, la critica, spesso

fondata, del sistema politico italiano non deve far dimenticare che l'attività politica è un'arte

essenziale per la democrazia, come scriveva Bernard Crick nel 1963 nel suo classico “Difesa della

politica”; un'arte basata su virtù come prudenza, conciliazione, compromesso e adattabilità. La

seconda critica è che c'è differenza tra sondaggio permanente e voto: la democrazia richiede

ponderazione, attenta valutazione dei pro e dei contro, capacità di dare senso e coerenza ai

percorsi politici. Infine la terza difficoltà è il divario digitale: un italiano su due non è digitale, e

molti di coloro che non sono online sono soggetti sociali deboli, come gli anziani e le famiglie di

lavoratori non qualificati, che non è accettabile escludere.

Più proficuo, dunque, riflettere su come far evolvere la democrazia rappresentativa verso forme

più partecipate, verso quella che potremmo chiamare, seguendo Stefano Rodotà, democrazia

continua. Le proposte in questa direzione non solo non mancano, ma in alcuni casi sono già state

sperimentate con successo. Oltre al dialogo continuo eletti-elettori di cui parla Nadia Urbinati, si

spazia dalle consultazioni ai bilanci partecipativi (nota è l'esperienza di Porto Alegre), dai sondaggi

deliberativi proposti da James Fishkin ai referendum propositivi, dall'obbligo di discutere in

Parlamento le proposte di legge d'iniziativa popolare al 'debat public' francese. O ancora, a livello

europeo, le direttive di iniziativa popolare, una novità introdotta dal Trattato di Lisbona.

Si tratta di proposte che la Rete consente di realizzare in maniera non solo più efficiente, ma

anche con maggiore trasparenza e dando potenzialmente più voce a chi finora ha in genere fatto

fatica a farsi sentire.

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I partiti dovrebbero fare proprie queste proposte per applicarle innanzitutto a loro stessi per poi

declinarle a livello locale, nazionale ed europeo. In altre parole, la via d'uscita dalla crisi attuale

non è né la democrazia diretta elettronica, né la difesa dello status quo, ma un'evoluzione -

condotta da partiti profondamente rinnovati (o da partiti del tutto nuovi) - della democrazia

rappresentativa verso forme più partecipate: ci sarà qualcuno, nel panorama politico italiano,

all'altezza della sfida?

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SIAMO TUTTI MINORANZA

UMBERTO D’OTTAVIO, Parlamentare PD

Innanzitutto vorrei ringraziare gli organizzatori di questo seminario nella speranza che il loro

impegno continui proprio in questa fase congressuale del Partito Democratico che proprio sulla

forma partito è chiamato ad interrogarsi e a trovare nuove ragioni per la sua battaglia politica.

Chi si interroga sulla forma partito è perché è interessato a fare politica. In questo senso non

bisogna mai dimenticare che per moltissimi, soprattutto dalla nostra parte, senza un partito

sarebbe stato impossibile pensare di fare attività politica.

Da qui si può ripartire, qualcuno ha già detto che i partiti sono “tecnicamente” indispensabili al

funzionamento delle istituzioni democratiche. Niente di più vero, ma la nostra riflessione si trova

proprio all’incrocio tra la crisi dei partiti e la contemporanea crisi delle istituzioni della nostra

democrazia rappresentativa.

Credo, infatti che le due siano intrecciate e penso che l’idea di organizzazione democratica interna

al partito corrisponda ad una idea di organizzazione delle istituzioni. Mi sembra infatti che ci sia

quasi una proporzione diretta tra quanto si ritenga complessa la democrazia interna e le

istituzioni. Quasi tutti i partiti personali sono per il presidenzialismo, mentre gli altri hanno

dubbi e perplessità.

Credo che questa discussione intreccerà la questione delle riforme istituzionali e la questione

della riforma dei partiti.

Penso inoltre che la crisi della democrazia rappresentativa sia molto legata alla difficoltà sempre

più crescente si fare “maggioranza”, anzi la rapida e continua frammentazione della società mi fa

ritenere che siamo “tutti minoranza”, nel senso che è un lontano ricordo la possibilità di

costituire blocchi sociali forti o addirittura maggioritari. Credo sia questo più che il proliferare

delle correnti il tema su cui fare i conti.

Non ho una idea finita su questo, ma la sollecitazione a riflettere mi sembra evidente.

In questi anni tra primarie di partito ed elezione diretta dei vertici degli enti locali abbiamo

contribuito ad educare in una certa direzione i nostri elettori, mi auguro una profonda riflessione

che porti a correggere il tiro, altrimenti è spianata la strada al presidenzialismo e alla riforma

della Costituzione.

Per questo auspico il più grande e fattivo contributo di tutti a cominciare dagli studiosi ed

intellettuali del nostro territorio.

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ANDARE CONTROCORRENTE PER FARE IL PD

FEDERICO FORNARO, Parlamentare PD

Di questi tempi a parlare di partiti, della sua organizzazione e dei modelli di selezione delle

leadership, occorre una buona dose di coraggio. Eppure se vogliamo salvare la nostra democrazia

bisogna avere proprio il coraggio intellettuale e politico di andare controcorrente per ridisegnare

la forma organizzativa di quello che - nonostante tutto - rimane il principale partito italiano, il

Partito Democratico e rilanciarne il suo ruolo e la sua funzione della società.

Un compito ai limiti dell'impossibile, se si tiene conto che la crisi di legittimazione democratica

della politica non interessa solamente l'Italia, ma riguarda l'intera Europa alle prese con processi

di disgregazione sociale e politica che mettono in discussione l'utilità stessa per le società

contemporanee dei partiti, messe in discussione da nuove forme di partecipazione fondate sulla

Rete, con un tentativo di rilanciare primitivi e infruttuosi tentativi di democrazia diretta.

Oggi, a essere sotto attacco è la democrazia rappresentativa e a essere entrato in crisi,infatti, è il

suo strumento principe, il partito politico.

In Italia, la critica largamente diffusa tanto tra gli studiosi quanto tra gli elettori, coinvolge non

soltanto i diretti eredi del modello novecentesco del "partito di massa", ma anche i cosiddetti

"partiti personali" largamente diffusi a partire dagli anni '90 del secolo scorso. Non caso, il

Movimento 5 Stelle ha costruito buona parte della sua immagine di "diversità" proprio sulla

orgogliosa rivendicazione di essere un "non partito", che disciplina gli aspetti organizzativi e di

dialettica interna con un "non statuto".

Il PD non può più continuare ad apparire agli occhi dell'opinione pubblica un semplice "spazio

politico" variamente frequentato nel periodo di tempo che intercorre tra un'elezione primaria e

un'altra: la drammatica vicenda delle elezioni presidenziali è una ferita profonda e ancora aperta.

Se nel recente passato si è perso troppo tempo, in una sterile discussione tra i fautori del "partito

liquido" e quelli del "partito pesante", oggi,però, occorre evitare il rischio di ripetere l' errore di

dividersi inutilmente e strumentalmente attorno al falso problema "primarie sì" - "primarie no".

Questo processo di selezione della leadership rappresenta un incontestabile tratto identitario del

PD, che è giusto rivendicare e difendere, anche in ragione della dimostrata capacità nel contrasto

al fenomeno crescente di progressiva disaffezione dei cittadini nei confronti dei partiti.

Allo stesso modo, c'è da interrogarsi non tanto sulla giustezza di usare le primarie per il

segretario nazionale qualora si modificasse la norma statutaria che unifica leadership di partito e

premiership, ma, ad esempio, se non sia stata una forzatura usare questo strumento per

l'elezione dei segretari regionali e non sia meglio,invece, privilegiare una visione organizzativa e

politica che affidi agli iscritti la selezione degli organi di partito (circolo, provinciali e regionali e

agli elettori quella dei leader (sindaci, segretario del partito e presidente del consiglio).

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Per favorire la partecipazione del "popolo delle primarie" e non limitarla al solo appuntamento

dell'individuazione del leader (del partito e/o del governo), dovrà così trovare attuazione piena

quella parte dello statuto che prevede lo svolgimento di congressi tematici annuali e di

referendum su grandi temi di interesse dell'opinione pubblica, coinvolgendo non solo gli iscritti

ma anche i votanti delle primarie.

Il prossimo Congresso nazionale del PD dovrà, dunque, essere l'occasione di avviare un

ripensamento sul modello organizzativo avviando - nel concreto - una profonda riforma in senso

federale del partito sia per quanto attiene alla ripartizione delle risorse economiche sia in merito

una revisione dei criteri di composizione degli organi nazionali (assemblea e direzione), riservando

una quota di eletti del 50% ai territori e aprendosi a innovazioni concrete in direzione di una

apertura alla partecipazione attraverso la Rete.

È essenziale, inoltre, che gli organismi di partito ai diversi livelli tornino ad essere il luogo in cui -

per davvero - si elaborano e si assumono le decisioni. Per raggiungere questo obiettivo bisogna

combattere la malattia endemica rappresentata dall'"ipertrofia numerica". Ridurre le dimensioni

degli organismi (dal circolo all'assemblea nazionale, passando per gli altri livelli intermedi) non

significa limitare la partecipazione democratica alle decisioni, ma, al contrario, valorizzare il ruolo

e le responsabilità dei gruppi dirigenti.

I rischi di trasformare progressivamente il PD in una sommatoria di comitati, perfettamente oliati

e funzionanti, in occasioni di primarie e elezioni, per poi essere assenti nella vita quotidiana dei

circoli, sono evidenti e far finta di non vedere la realtà in nome di una acritica difesa del feticcio

delle primarie, non contribuisce certo a trovare soluzioni capaci di riannodare i fili lacerati della

rappresentanza e combattere la degenerazione disgregatrice delle conventicole di potere.

Il PD è nato non per essere uno dei tanti partiti del leader (anche se eletto dalle primarie), ma un

soggetto politico collettivo capace di dare risposte di governo a una domanda di cambiamento

proveniente da una società in profonda e continua trasformazione.

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FARE PARTITO: ANTIDOTO CONTRO L'IMPOTENZA DELLA POLITICA

PAOLO FURIA, Segretario Giovani Democratici Piemonte

Ho individuato tre ragioni fondamentali della crisi del partito:

Crisi delle democrazie nazionali. Si tratta di una crisi di potenza: nello Stato vi è scarsa

concentrazione di risorse finanziarie per operare le politiche. I partiti politici hanno radici

culturali transnazionali, ma ad essere da sempre ed ancora fortemente nazionale è lo spazio

pubblico, in cui gli interessi emergono, si misurano e diventano pubblica opinione. Il linguaggio è

nazionale, il che non è indifferente ai fini della costituzione di uno spazio pubblico

transnazionale. Anche le leggi fondamentali della convivenza civile sono nazionali. Il partito

politico nasce, cresce e vive nello spazio nazionale, il quale ormai, sul piano della decisione, è in

difficoltà.

Crisi del razionalismo, che, in politica, implica che vi sia corrispondenza tra idee, intenzioni,

azioni e risultati. Le molte variabili sociali intervengono su un'azione in maniera distorsiva tra

quanto si intendeva realizzare e quanto effettivamente si realizza. Ciò induce una "crisi di

illuminismo", ossia dell'idea che attraverso l'azione collettiva si possano ottenere mutamenti

significativi della realtà. Con ciò, l'idea che il partito politico sia il soggetto che garantisce

l'ingresso nella storia politica delle istanze più deboli (che trovano nel partito la forza di

organizzarsi) tramonta. Il partito diventa uno strumento per il governo, con tutte le sue

"irrazionalità", e nient'altro.

Moltiplicazione delle autorità pedagogiche, formali e informali (tra cui i mass media, agenti di

costruzione dell'identità sociale), che portano il partito a ridimensionare la sua ambizione

culturale. Il problema è anche nell'organizzazione del lavoro. Essa indebolisce la presenza del

cittadino in una struttura-partito, che è spesso impegnativa e dispendiosa. C'è da aggiungere che

la diffusione di soggetti sociali e di volontariato che si mobilitano su singole questioni molto

sentite ha moltiplicato la possibilità di impegno per specifici argomenti. È quindi preferita

un'iniziativa settoriale ad una battaglia "di appartenenza". Questo mutamento della

partecipazione politica si traduce, dal punto di vista elettorale, nella diffusione del cosiddetto

"voto d'opinione". Una mobilitazione esclusivamente settoriale può produrre un vuoto di identità

politica assai pericoloso. La partecipazione può diventare "consumistica": frammentaria,

indisposta alla mediazione collettiva, quindi esposta alla seduzione da parte dei leader

carismatici, che non svolgono una funzione di mediazione e non favoriscono né l'autonomia dei

loro partiti né la qualità della partecipazione.

Ecco perché occorre difendere la forma dell'organizzazione politica costituzionalmente prevista.

Ma bisogna esser consapevoli che questa forma della partecipazione democratica può tramontare,

aprendo la via a nuove tirannidi. Vi sono nel piccolo alcune strategie che possono essere

perseguite per mettere il partito sulla via "della guarigione".

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Suggerisco due questioni.

Il corpo del partito si nutre? Oggi la concentrazione delle risorse è sostanzialmente in mano agli

eletti. Il sistema di funzionariato è già in dismissione; le strutture periferiche del partito faticano a

sopravvivere. Il volontariato politico è un grande valore, ma la situazione è odiosa quando

l'impegno politico grava direttamente sulle spalle dei militanti o dirigenti di base (nel senso che

non sono riconosciuti neppure i rimborsi spese per viaggi o attività che il partito molto spesso

richiede), mentre le risorse concentrate ai piani alti della struttura o nei gruppi elettivi

continuano ad abbondare. S'insinua il sospetto tra base e vertice: ecco perché, se la situazione

finanziaria nel partito e tra partiti e gruppi sembra secondaria, in realtà sta al centro del rapporto

di fiducia tra eletti e militanti, tra base e dirigenza. È necessario rendere "meno conveniente" la

vita politica. Dobbiamo ridurre la quantità di politici per convenienza, fenomeno che genera gravi

esempi nella società e competizioni acerrime tra correnti prive di sfondo culturale, che alla fine

sono ambizioni personali: scontri che si replicano sui più giovani e sui neofiti della partecipazione

politica – che quindi o scappano o acquisiscono i vizi peggiori di chi è già dentro.

La ricerca di una visione. Il partito deve ridefinire strategie e svolgere i propri ideali a livello

internazionale. È necessario andare oltre lo spazio pubblico nazionale non mortificandolo, ma

inserendolo in una logica più ampia perché più le grandi questioni di valore sono decise nel

piccolo, più ci si deve misurare con gli effetti aggregati, così che la distorsione

"amministrativistica" diventa l'unico surrogato possibile di una politica ormai incapace di

proporre ideali e strategie concretamente praticabili per perseguirli. Il piano europeo, oggi così

accidentato da vincoli che affaticano la libera risposta della politica nazionale alla crisi, dev'essere

il luogo in cui i grandi valori e le grandi "idee" della politica devono tornare a valorizzarsi.

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UN APPROCCIO ORGANIZZATIVO ALLA FORMA PARTITO

GIORGIO GATTI, Scuola del PD Piemontese

Lo scopo di questa riflessione, presentata al Seminario del 18 maggio, è quello di ragionare

sull’essenza e la realtà della Forma Partito, individuando anzitutto i tratti o ingredienti

irrinunciabili per poi tentare di trasformare questa prima analisi in proposte.

Per cercare di conseguire lo scopo sopra indicato ho utilizzato due strumenti di natura

manageriale, due studi non proprio recentissimi ma di qualità: il primo è “Image” di Gareth

Morgan che descrive le diverse metafore con cui le organizzazioni pubbliche e private sono state

rappresentate da quando si è cominciato a scriverne.

Tra le diverse metafore individuate da Morgan ce ne sono almeno quattro che presentano

maggiori elementi di interesse per l’organizzazione/partito, o perché presenti quali modelli di

riferimento per qualcuno dei Partiti politici italiani o perché potenzialmente interessanti alla luce

dei cambiamenti in corso: la metafora della Macchina, la metafora del Cervello, la metafora del

Sistema Politico e quella della Trasformazione

Certamente in passato il modello organizzativo più diffuso e conosciuto, coincidente con le teorie

scientifiche di Frederick Taylor e di Max Weber da cui nasce la burocrazia che ha indirizzato i

partiti di massa della prima parte del secolo scorso, è quello della ”macchina”, caratterizzata da

scientificità di approccio e sostanziale attenzione alla progettazione ed al metodo, ma con evidenti

rigidità e . Al contrario la metafora cibernetica, del cervello, si pone come riferimento post

moderno per modelli adottabili in risposta al crescere della complessità ed alla turbolenza delle

competenze che spingono verso organizzazioni capaci di adattarsi al’intensità dei cambiamenti

(learning organization) ed alla “mobilitazione cognitiva”. Così come è certamente interessante per

la nostra riflessione la metafora del Sistema politico, laddove le imprese si ispirano ai sistemi

(Stati, Governi) cui compete la Politica come cura del “bene comune”. Le tre variabili

caratterizzanti questo modello (interesse, conflitto, potere) costituiscono certamente tre temi di

grande rilievo per approfondire l’organizzazione/Partito.

Il secondo strumento utilizzato è “In cerca dell’eccellenza” di T.Peters e R. Waterman un testo di

management fra i più noti basato su di una ricerca commissionata dalla McKinsey e sul modello

gestionale allora utilizzato da quella Società, quello delle 7S cioè i sette elementi che determinano

l’efficienza ed efficacia di un’azienda ed il suo successo: Struttura, Staff, Sistemi gestionali, Stile

direzionale, Skills, Strategia e Sistema di valori

La conclusione cui giunge la ricerca è che il sistema dei valori è, nella concezione sistemica che

guida il lavoro di analisi, l’elemento cardine di tale successo, la condizione determinante per

l’eccellenza di un’organizzazione.

Dalla combinazione di quanto emerge dai due studi presi in considerazione, insieme alla lettura

di altri materiali (fra cui il bel lavoro di Marco Revelli “Finale di partito”) ho cercato di tirare una

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prima sintesi: alla ricerca del Partito ottimale contribuiscono le scelte, le decisioni su quattro

variabili/caratteristiche:

1. Il modello organizzativo in tema di Accentramento/ decentramento di poteri, responsabilità

e decisioni

2. Il rapporto più o meno aperto con l’ambiente, le persone e la tecnologia ( ad esempio gli

open data)

3. Lo stile di leadership e il rapporto fra leader e follower (un leader è tale soltanto se

qualcuno lo segue!!)

4. L’equilibrio fra valori etici e culturali storici, divisi fra cattolicesimo e marxismo e quelli

post moderni, legati alla tecnologia ed alla comunicazione

Importante individuare le aree, non solo territoriali, su cui si distribuiscono il potere e le

responsabilità e le regole necessarie. Con le regole si può disciplinare la maggior parte dei temi

determinanti l’organizzazione.

Altro aspetto da considerare è il collegamento fra organizzazione e stile di leadership. I leader e il

loro stile influiscono pesantemente sulle organizzazioni (più sulla struttura informale che su

quella formale/istituzionale). Si può quasi dire che la forma partito sia conseguenza non solo

dell’organizzazione e delle sue determinanti ma della interazione fra queste e il modo in cui la

leadership ed il potere vengono esercitati Non a caso si parla della DC di De Gasperi o del PCI di

Togliatti come si parlava della Fiat di Valletta, individuando una ben precisa struttura e identità

di un certo periodo, caratterizzata anche dallo stile e dai valori del leader.

Inoltre individuare e conoscere i followers (ad esempio attraverso l’Albo degli Elettori) ed aiutarli a

crescere (e qui la Scuola di Formazione del PD Piemonte e la Banca delle Competenze cui la

stessa sta lavorando, possono essere di grande utilità) diviene, tanto più nella situazione attuale

di confusione e di sfiducia, un elemento fondamentale per rafforzare un Partito. Oggi lo stile deve

essere condiviso e coerente all’interno della struttura, specie se si pensa a forme di partecipazione

e di democrazia, altrimenti l’incoerenza (vedi M5S) può mettere in crisi l’intera organizzazione.

Accanto allo stile altra componente fondamentale, quella che tiene insieme le altre, che dà

all’insieme significato e direzione, è la cultura, il sistema dei valori che distinguono un Partito da

tutti gli altri e ne definiscono le linee guida, anche sul piano etico. Qui occorre prendere posizione

fra la tradizione delle due culture del passato (cristiana e marxista) e quella emergente e meno

ideologica dell’innovazione e del cambiamento (verso l’Europa e verso nuove forme di benessere e

di democrazia)

I quattro tratti irrinunciabili su cui si basa la proposta per rafforzare il Partito possono dunque

essere:

1. Un partito distribuito sul territorio e al contempo europeo, capace di una comunicazione

distribuita ed integrata (verso l’interno del Partito come verso l’esterno) dove le decisioni, le

responsabilità come i carichi di lavoro siano ripartiti attraverso un autonomia regolata da norme

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Una riflessione sulla Forma Partito

Il contributo del PD del Piemonte. Maggio-Luglio 2013

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ma sopra tutto da una delega e da un controllo caratterizzati da trasparenza e condivisione delle

finalità;

2. Capace di gestire in modo aperto l’informazione e la tecnologia, aperto alle idee ed alla

gente, ai simpatizzanti come a chi viene da altri paesi e da altri sistemi sociali ed alla realtà del

nostro paese che muta con una rapidità che richiede a tutti i Partiti una capacità di cambiamento

di cui l’apertura è il primo ed indispensabile passaggio;

3. Attento all’omogeneità dello stile di leadership ed al rapporto coi followers (non solo gli

iscritti ma tutti coloro che guardano al nostro Partito come ultima speranza, coinvolti e partecipi

attraverso strumenti di collegamento come l’Albo degli elettori); Un Partito che creda nella

formazione e la utilizzi come funzione strategica, parte essenziale della costruzione di un futuro

pensato e voluto coinvolgendo la propria base ;

4. Capace di comunicare ed applicare i valori culturali ed etici anche dando l’esempio e

facendo della chiarezza delle scelte etiche uno dei valori forti del proprio modo di essere. Occorre

scegliere fra il passato ed il futuro ed occorre farlo senza distruggere, senza mancare di rispetto

alle diverse opinioni e, se possibile, evitando nuovi conflitti.

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Una riflessione sulla Forma Partito

Il contributo del PD del Piemonte. Maggio-Luglio 2013

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L’ANIMA PERDUTA DEI PARTITI E L’ESIGENZA DI TORNARE A ESERCITARE

UNA FUNZIONE RAPPRESENTATIVA

ENRICO GROSSO, Docente di Diritto Costituzionale, Università di Torino

1. Cosa sono stati.

La nascita dei partiti moderni è intrinsecamente legata a quella della democrazia di massa, intesa

come regime necessariamente rappresentativo. I partiti del Novecento hanno cioè operato come

strutture intermedie indispensabili al funzionamento della rappresentanza politica in un contesto

democratico.

È peraltro necessario, a tale proposito, operare una distinzione tra due aspetti, compresenti ma

distinti, della funzione rappresentativa: l’aspetto, di più immediata percepibilità, della costruzione

di un rapporto politico tra eletti ed elettori, funzionale a garantire la legittimazione democratica

del sistema; e l’aspetto, non meno importante, della capacità di «rappresentare» agli elettori un

orizzonte ideale, una visione del mondo, un’autonoma declinazione dell’interesse generale, in

grado di costituire la necessaria integrazione politica attorno ad alcune grandi visioni o progetti di

società, che si contrappongono democraticamente e «concorrono» (per usare l’espressione

valorizzata dall’art. 49 della Costituzione) alla definizione delle singole scelte di indirizzo politico.

Insomma, i partiti hanno da un lato la funzione di garantire il collegamento stabile e permanente

tra le istituzioni e il corpo elettorale, assicurando la partecipazione politica del popolo e

traducendo la domanda sociale in azione politica. Dall’altro lato hanno il compito (e la

responsabilità) di elaborare e presentare un proprio progetto generale di società, allo scopo di

trascendere gli interessi particolari dei gruppi rappresentati e di integrarli, ossia mediarli e

sottoporli a sintesi.

Tale doppio ruolo è stato perseguito con efficacia dai partiti italiani almeno fino alla fine degli

anni Settanta. Con l’obiettivo di promuovere e sintetizzare istanze politiche, essi hanno creato con

i propri elettorati di riferimento, e quindi in definitiva con l’intera società, uno strettissimo

rapporto di ordine non solo politico ma anche più specificatamente culturale, che comprendeva

l’esercizio continuo di una funzione propriamente pedagogica. Non si trattava soltanto di

raccogliere la domanda sociale e di tradurla in azione politica, ma anche di organizzarla,

promuovendo la coscienza e la cultura delle masse, presidiando i diversi aspetti del dibattito

politico sociale e procedendo alla sua costante tematizzazione.

L’esercizio efficace di entrambe le funzioni sopra delineate era favorito dalla strutturazione dei

partiti come grandi organizzazioni collettive, oserei dire impersonali, o comunque in grado di

prescindere dalle persone fisiche che di volta in volta ne assumevano la guida. Se anche

poggiavano le proprie fortune elettorali (anche) sulla capacità dei loro leader, i partiti non ne

erano schiavi. Essi esercitavano una fondamentale funzione di selezione progressiva delle élites,

promuovendo la formazione politica dei propri aderenti e vere e proprie “scuole di politica”. Così,

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Una riflessione sulla Forma Partito

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tra l’altro, veniva assolto il compito, fondamentale in ogni organizzazione statale, di selezione

della c.d. “classe politica”.

2. Cosa sono diventati.

È quasi banale la constatazione che quel modello di partito sia entrato in profonda crisi. Molti

ritengono che si tratti di una crisi sistemica e storica, risalente addirittura alla fine improvvisa e

drammatica del progetto di Aldo Moro, di ridare legittimità ai partiti attraverso una più ampia

rappresentatività del sistema politico dopo la crisi manifestatasi oltre il tornante storico che si

colloca a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. È da allora che i partiti hanno

progressivamente dissolto il patrimonio di credibilità che avevano costruito nel tempo, perdendo

quel ruolo di guida pedagogica e di indirizzo morale e ideale nei confronti dei cittadini che

avevano esercitato a partire dall’immediato dopoguerra, e – ciò che è più grave – supplendo a tale

perdita con l’intensificazione di pratiche clientelari, con la sistematica occupazione di tutti gli

spazi istituzionali, talvolta con il ricorso alla corruzione politica.

Più recentemente, e via via più rapidamente, a partire dagli anni Novanta i fattori di crisi di quel

sistema si sono intensificati, fino al progressivo disfacimento dei legami sociali che i partiti storici

avevano garantito, e all’affacciarsi di una retorica antipartitica che ha finito per travolgere tutto e

tutti, senza che i partiti, sia quelli sopravvissuti sia quelli nel frattempo formatisi, fossero capaci

di contrastarla. Anzi, oggi le forze politiche sembrano sprofondate in un’impressionante afasia,

che non saprei spiegare diversamente che con il ricorso alla categoria psicanalitica del senso di

colpa.

Ora, se da un lato occorre riconoscere con franchezza che alcuni fattori di crisi sono

inevitabilmente riconnessi alle grandi trasformazioni della società dell’ultimo ventennio (dalla

rottura dei legami di facile e quasi “automatica” appartenenza che legava i cittadini ai partiti, in

conseguenza della crisi delle tradizionali ideologie del Novecento, alla naturale evoluzione della

complessità sociale, e dell’intreccio degli interessi, che rende assai più difficile la loro

composizione attraverso la politica), è altrettanto vero, dall’altro lato, che i partiti portano sulle

loro spalle una gigantesca responsabilità. Se la domanda sociale appare oggi frantumata in un

coacervo di micro-interessi apparentemente inconciliabili e irriducibili, la colpa è anche delle

forze politiche che hanno smesso di perseguire quel ruolo istituzionale di “parte generale”, che

contribuiva alla formazione della sintesi politica in un contesto pluralistico. Talvolta esse

appaiono oggi vere e proprie “scatole vuote”, all’interno delle quali i diversi interessi, anche i più

disparati, riescono a trovare posto, giustapposti l’uno accanto all’altro e non più oggetto di

integrazione, lacerando dall’interno il tessuto connettivo su cui i partiti poggiavano la propria

consistenza.

La crisi economica ha poi accentuato tale stato di cose, finendo per rendere credibile e addirittura

auspicabile, per molti, l’idea che la crisi si possa risolvere eliminando la politica, invece che

ridandole fiato.

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3. Cosa devono tornare ad essere.

Che fare, allora? C’è chi invita a rassegnarsi all’inevitabile declino, strada verso l’estinzione, dei

partiti intesi come strumenti organizzativi della democrazia. Secondo questa tesi, cessata la loro

funzione, che era indissolubilmente collegata con la natura delle democrazie novecentesche,

spentasi inevitabilmente la loro capacità rappresentativa, mano a mano che il processo di

modernizzazione erodeva le loro basi sociali, i partiti non sarebbero che dinosauri

provvisoriamente sopravvissuti all’inevitabile estinzione. Essi trovavano la propria linfa nel fatto

di essersi radicati all’interno delle grandi fratture che hanno segnato la formazione della

democrazia moderna (l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la secolarizzazione, la costruzione

dello Stato e cioè la concentrazione del potere), e sarebbero quindi oggi dei vecchi arnesi, inutili a

una società profondamente cambiata. Sopravvivrebbero come meri simulacri, gestori di potere, e

solo perché – fino ad ora – non si sono fatti avanti organismi che ne contestassero con sufficiente

forza il predominio sul piano del governo delle istituzioni (cfr. ad es. M. Calise, Il partito

personale, Roma, Laterza, 2000, spec. 13 ss.). Pare evidente, a questi autori, che tale

sopravvivenza non sia più garantita. E che la forma-partito stessa sia destinata ad essere

sostituita da nuove forme aggregative legate a nuove forme di espressione della vita democratica

(la partecipazione diretta, la rete, ecc.), parallelamente con la crisi del sistema che era stato la

ragion d’essere della loro nascita.

Non condivido questa analisi. Penso che dietro il funerale troppo presto celebrato alle forme della

democrazia rappresentativa si celi una gigantesca mistificazione, che alla fine, più che la

rappresentanza politica, finisce per colpire, tout court, la democrazia. Si produce l’illusione

ingenua che il superamento dell’esperienza dei partiti equivalga alla fine dei problemi, invece che

alla fine del sistema democratico in quanto tale. Invece, i vizi attuali vanno combattuti a partire

dalla riscoperta della essenziale funzione costituzionale dei partiti. Essi vanno ricostruiti, non

abbattuti, per ricostruire, e non abbattere, la democrazia. Come scriveva Kelsen, «solo l’illusione,

o l’ipocrisia, può credere che la democrazia sia possibile senza i partiti politici» (cfr. H. Kelsen,

Essenza e valore della democrazia (1929), in I fondamenti della democrazia e altri saggi, Bologna,

Il Mulino, 1970, 23).

Tra l’altro, anche dando per scontata l’evidente crisi di identità dell’attuale sistema dei partiti e la

disaffezione profonda da cui essi sono circondati, i problemi di tenuta e di capacità reattiva della

comunità appaiono oggi ancora più evidenti, anche perché non sembra proprio che siano sorte,

nel frattempo, efficaci reti di solidarietà alternative ai partiti ed esterne ad essi. Tutto ciò lascia

ritenere, come è stato osservato, che una politica senza partiti finisca per diventare una triste

vicenda di atomizzazione, e per esprimere «un deludente individualismo arelazionale di massa» (C.

Pinelli, Ascesa e declino dei partiti, in Nel lungo andare. Una Costituzione alla prova

dell’esperienza, Napoli, Editoriale Scientifica, 598).

Recuperare il legame rappresentativo che si è smarrito, ricostruendo un tessuto di solidarietà e

passione all’interno della società. Solo così si potrà sperare di innescare un nuovo circuito

virtuoso nella parabola delle organizzazioni politiche. Sinteticamente, mi limito a suggerire tre

possibili percorsi di quella che deve diventare una vera e propria battaglia culturale per il riscatto

dell’anima perduta dei partiti.

Primo: reagire a quella diffusa cultura antipolitica secondo cui i problemi politico-sociali che

richiedono risposte e decisioni sarebbero di per sé semplici, e dunque semplici e rapide

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potrebbero essere le decisioni stesse. Il dibattito pubblico, anche per effetto della deleteria azione

dei mezzi di comunicazione di massa, sembra polverizzato in una miriade di singole –

apparentemente semplici – situazioni, piuttosto che essere strutturato sulla base di problemi

complessi. Ciò finisce per trasformare la politica da confronto ragionato tra principi e programmi

che riguardano il futuro della società italiana in mera competizione tra persone che individuano

la “ricetta” più semplice per risolvere ogni singola questione. Ciò che viene a mancare, in tale

contesto, è la percezione della complessità. Lo Stato costituzionale democratico è una forma

organizzativa della convivenza delicata e complessa, che combina variamente, nel corso del

tempo, principi e istituzioni potenzialmente confliggenti, e produce mediazioni. Tutto il contrario

di ciò che traspare dalla furia semplificatrice dei populisti di ogni forma e natura. Invece di

concentrarsi sull’elaborazione di uno slogan accattivante, di essere ossessionati dall’ultimo

sondaggio (o dall’ultimo tweet), i partiti devono tornare a rappresentare nel lungo periodo, in

modo affidabile, gli interessi dei loro elettori. Chi si avvantaggia della perdita del senso del tempo

e della complessità della realtà sono – appunto – i populisti, che “la fanno facile”, che indicano

generici obiettivi semplificati come se fossero politiche, senza curarsi della loro fattibilità

all’interno del contesto complessivo, e considerando il più delle volte ogni obiezione come un mero

ingombro da tecnocrati. I partiti che vogliano reagire alla deriva populista devono riacquistare la

capacità di leggere la complessità sociale e trasformarla in elaborazione politica, resistendo alla

tentazione di solleticare i cittadini attraverso la falsa rappresentazione di facili ed ingannevoli

scorciatoie.

Secondo: investire profondamente sulla formazione della classe politica. Nel 1962 Vittorio De

Caprariis, grande intellettuale allievo di Benedetto Croce, così scriveva: «Diciamolo francamente:

nella società democratica di massa v’è bisogno di élites assai migliori di quelle che detenevano il

potere cent’anni fa, meglio preparate, più responsabili ed evolute, meglio consapevoli delle tanto

più immani responsabilità che gravano sulle loro spalle». A distanza di cinquant’anni, si è

perduta la consapevolezza della necessità che la selezione della classe politica non sia affidata

soltanto ai naturali meccanismi di selezione/competizione interna ai singoli partiti. Il

disinvestimento operato negli ultimi decenni rispetto alle sedi di formazione politica nelle quali i

partiti, in passato, impegnavano una mole impressionante di risorse umane ed economiche non

può essere certo estraneo allo stato di crisi in cui i partiti si dibattono.

Terzo: recuperare il senso dell’«interesse generale». I partiti hanno smesso di occuparsi della

propria visione dell’interesse generale, forse perché si sono per lo più ridotti a “cartelli”, a

contenitori privi di identità, assemblando tra loro pezzi sparsi, ciascuno dei quali persegue la

somma algebrica degli interessi particolari massimizzante il proprio consenso. Un tempo i partiti

erano quotidianamente impegnati in un’accanita battaglia intorno a opposte concezioni

dell’interesse generale. Oggi, tutt’al più, sia tra partiti, sia soprattutto (e questo è più grave)

all’interno di ciascuno, si combatte per stabilire quale interesse particolare debba prevalere

sull’altro. Si tratta di un atteggiamento esiziale, che priva i partiti di quell’essenziale funzione

rappresentativa dei grandi orizzonti ideali e delle complessive visioni del mondo, di cui si parlava

all’inizio. Un partito che non è più in grado di offrire ai cittadini una sua complessiva

rappresentazione del futuro possibile, accompagnata dalla proposta politica ritenuta idonea a

realizzarlo, ha perso la principale delle funzioni cui è chiamato. E tale carenza produce a sua

volta ulteriore frammentazione sociale, che come un volano genera, a cascata, debolezza della

politica.

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Una riflessione sulla Forma Partito

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Anche sotto questo profilo, se i partiti non sapranno recuperare l’anima che hanno perso,

attraverso una profonda rimeditazione delle pratiche di formazione dell’elaborazione politica

perseguite negli ultimi decenni, la loro dissoluzione avrà dato ragione a chi oggi ne preconizza la

fine. Quella dissoluzione, tuttavia, si porterà via con sé un’idea di democrazia alla quale, forse,

non siamo disposti a cuor leggero a rinunciare.

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ORGANIZZARE L’IMMAGINAZIONE SOCIALE

ENRICO GUGLIELMINETTI, Docente di Filosofia Teoretica, Università di Torino

Vorrei proporre innanzitutto, sul piano dell’essenza, una definizione dei due termini che

compongono l’espressione “forma partito”.

1. “Forma”. Va inteso nel senso che la politica, e i partiti in particolare, danno la forma alla

società civile. Ma forma, in linguaggio filosofico, si dice eidos, con parola greca. E “eidos”, da

Platone in poi, si traduce sia con forma sia con idea. Affermare che i partiti danno la forma alla

società civile significa dunque che i partiti immettono da fuori un’idea-guida nel corpo della

società. Per questo si parla di “classi dirigenti”. Le classi dirigenti non sono classi seguenti,

proprio perché non si accodano all’economia, non seguono pedissequamente le istanze che

provengono dalla società, ma – ascoltandole e raccogliendole – le mettono in forma, danno loro

cioè una configurazione, proponendo al Paese un’idea di che cosa il Paese dovrebbe essere,

un’idea cioè della direzione da prendere. I partiti si distinguono quindi sulla base delle loro idee,

presentano un’offerta politica differenziata, e chiedono agli elettori di selezionare e premiare l’idea

più convincente.

2. “Partito”. È una parola che viene da “parte”. Ma la parola “parte” va intesa in due modi. i)

“parte” del corpo sociale: un partito, anche il più generalista, rappresenta sempre in via eminente

gli interessi di una quota di elettorato (nel caso del PD: gli interessi di chi fa fatica, sia esso

operaio, pensionato, precario, negoziante, piccolo imprenditore…); ii) “parte” nel senso che la

politica e i partiti costituiscono quella parte del complesso della società che è la parte dell’anima.

Se la società è il corpo, i partiti sono (cioè dovrebbero essere) l’anima di questo corpo. “Anima” sia

nel senso di intelligenza, che come abbiamo detto immette nel corpo da fuori le idee; sia nel senso

di sentimento ed emozione, perché la politica ha bisogno anche di passioni, così come di

immagini e simboli (soprattutto oggi, quando il potere delle idee deve essere accompagnato da

quello delle immagini, per risultare convincente).

L’idea che il partito immetta da fuori idee nel corpo della società, che il partito sia cioè

innanzitutto una sorta di intellettuale collettivo, come ha ricordato recentemente Fabrizio Barca,

pur venendo dalla tradizione marxista, ha qualcosa di vero, anzi di irrinunciabile, anche per un

partito non marxista. Occorre però che ad essa vengano apportati alcuni correttivi, per rendere

questa idea di nuovo utilizzabile per noi oggi:

a. La società civile, in cui il partito immette la sua idea, non è un corpo informe, che abbia

bisogno delle stecche del busto di gramsciana memoria per tenerlo su. La società (nei suoi diversi

sotto-sistemi: economia, diritto, cultura, religione… e con i suoi corpi intermedi di natura

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Una riflessione sulla Forma Partito

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apolitica) è un sistema autopoietico, che cioè si auto-organizza e si dà la forma da solo. La forma

che la politica immette è dunque una forma delle forme, che raccoglie, umilmente ascolta e

coordina le forme già disponibili nel campo della società.

b. L’idea che il partito immette non è la Verità (come era nella tradizione bolscevica),

innanzitutto perché i partiti stanno tra loro in un regime di competizione democratica e plurale.

Non della Verità si tratta, ma di proposte. Le idee politiche sono cioè interpretazioni, rischiose per

chi le avanza e soggette al giudizio degli elettori, circa la piega che la società dovrebbe prendere.

Dire che un’idea politica è un’interpretazione significa dire che essa non tanto determina la

società, ma la riflette (nel senso kantiano della parola: si pensi al giudizio riflettente della Critica

del Giudizio), cioè ne raccoglie e ascolta tutte le voci, e prova a fonderle in un progetto di senso

complessivo.

Ma – si chiederà – qual è la nostra idea? Qual è l’identità – finora in vero né cercata né trovata, e

tuttavia reale ed esistente – della forma politica PD? Ne esiste una formulazione semplice ed

efficace? Secondo me sì, ed è questa:

i. Il PD (cioè il rappresentante italiano della sinistra europea) immette nel corpo sociale la

forma dell’aggiunta. Traduzione: è la forza che si propone di creare spazi addizionali ovunque le

persone (ma anche le imprese, ecc.) vivano con l’acqua alla gola, in condizioni di ristrettezze

morali e materiali, e non vedano spazi di vita davanti a sé.

ii. Per creare più-spazio, il PD persegue politiche creative dell’invenzione. Occorre cioè

organizzare politicamente l’immaginazione sociale. È da questa che, in tempo di crisi, vengono le

proposte più innovative (p. es. è stato aperto un supermercato dove chi non ha soldi può fare la

spesa gratis in cambio di ore di lavoro). Il PD deve raccogliere tutti i casi di invenzione siffatti

(prima di essere buone pratiche, sono invenzioni), e organizzare una politica che agevoli il

cambiamento della società. Quello che la società inventa ha peso 1, ma – se la politica lo riprende

(lo riflette, dicevamo prima) e lo organizza – può avere peso 1000.

iii. È nell’essenza della politica creare spazio, la politica è ciò che fa spazio. È di destra creare

spazio aggressivamente; è di sinistra creare spazio tramite politiche dell’aggiunta.

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OPEN PD, PER COSTRUIRE UN PARTITO APERTO

STEFANO LEPRI, Parlamentare PD

Per rilanciare il PD non serve altro che tutelare e perseguire la sua vocazione originale: quella di

essere un partito aperto e partecipato. Anzitutto, mantenendo la sua più significativa

innovazione, quella delle primarie per l’elezione dei leader di governo, ai diversi livelli, e per il

segretario nazionale e regionale. Primarie aperte anche ai non iscritti e pertanto capaci di

interessare chi è deluso dalle altre offerte politiche; chi - anche solo al secondo turno - può essere

attratto dalla leadership di un candidato o da un partito a vocazione maggioritaria.

Per far vincere il PD credo serva anche prevedere sistemi elettorali dove i candidati sono visibili e

scelti: meglio con le preferenze, ma anche con i collegi uninominali. Noi abbiamo mediamente un

classe dirigente radicata e una militanza capace di mobilitarsi intorno alle candidature, cosa

difficilmente riscontrabile nei partiti aziendali o a vocazione populista. Non è un caso che il PD,

anche quest’anno, sia andato molto meglio alle elezioni regionali e a quelle amministrative, dove il

peso delle preferenze si è fatto sentire.

Peraltro, il PD non deve ridursi a luogo in cui ci si mobilita solo per votare (alle primarie o alle

elezioni), pena il rischio di diventare un grande contenitore di comitati elettorali. Ci vuole anche il

nerbo dell’organizzazione quotidiana, del radicamento territoriale. Andiamo oltre, dunque, la

stupida alternativa tra partito solido e partito liquido: ci vuole, al contempo, appartenenza e

riferimento.

La partecipazione occasionale può avvenire in ambiti prepolitici. Ad esempio i meet up altro non

sono che una riedizione dei vecchi comitati di quartiere: ci si ritrova a casa dell’uno o dell’altro, o

al bar, pro o contro un’opera, un fatto, un’idea. Raggiunto o mancato l’obiettivo, ci si scioglie, o

restano legami. I partiti dovrebbero guardare con rispetto e distanza tali esperienze, ma debbono

anche mettersi in ascolto, interpretarne le istanze e, se del caso, perseguirle.

Altro modo per favorire una nuova partecipazione occasionale, di riferimento, è il coinvolgimento

on line di chi ha dichiarato attenzione al partito, a cominciare da chi è venuto alle primarie: si

dovrebbero coinvolgere (senza troppa insistenza e frequenza) in sondaggi, richiesta di

suggerimenti, ecc.

Dentro il partito possono organizzarsi componenti che si ritrovano intorno a specifiche idee e a

un leader. Nel PD esse vanno riconosciute senza demonizzarle, evitando peraltro che prevarichino

rispetto all’esigenza di sintesi e di unità. Certamente possono servire, se non degenerano, a

favorire una partecipazione più intima, face to face, specie in partiti grandi come il nostro; a

creare ponti per passare dal prepolitico, dall’associazionismo alla vita di partito.

Infine, l’articolazione del PD. I circoli sono importanti, ma vanno svecchiati nel modo di lavorare e

nell’immagine. Le icone di un tempo servono a rassicurare chi ha vissuto la storia, non a

motivare chi ce l’ha davanti. I circoli (servono anche quelli tematici, non solo quelli territoriali!)

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sono i luoghi fondamentali per il coinvolgimento di nuovi militanti: molto dipende dalla capacità

dei dirigenti di essere accoglienti e di valorizzare chi si avvicina e vuole darsi da fare.

Più in generale, nel circolo e negli organi di partito, così come in ogni organizzazione, valgono

alcune abilità e modi d’essere largamente conosciuti per avere successo nel lungo periodo e

valorizzare le persone: ti faccio entrare; ti faccio parlare; ti ascolto; ti assegno ruoli precisi; chiedo

conto dei tuoi risultati, ti valorizzo se meriti, non se brilli per servilismo o tatticismo. E, infine, ti

faccio posto, dando fiducia ai migliori.

Infine, vale sempre, in ogni luogo, lo spirito con cui si lavora e si conduce la vita di partito. Se

vincono la prevaricazione, il calcolo di breve periodo, il gregarismo, avremo il fiato corto. Se

prevalgono pratiche di fraternità, andremo lontano.

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L'INDISSOLUBILITÀ DEL NESSO INDIVIDUALISMO-CRISI DELLA POLITICA

ILENIA MASSA PINTO, Professore associato di Diritto Costituzionale, Università di Torino

1. L’essenza

La “Forma Partito” non esiste nella “natura delle cose”: è un mezzo inventato in un preciso

momento storico per rispondere a una precisa esigenza concreta. Anche se si è tentato di

impiegare la relativa formula con riferimento a esperienze precedenti, la “Forma Partito”, come

organizzazione di massa, non può risalire oltre la seconda metà dell’Ottocento. Il primo tipo di

partito dell’Europa continentale è stata una invenzione della classe operaia: è nota la ragione per

la quale questa, nel momento in cui arrivava a una forza e a una unità sufficienti per consentirle

di partecipare alla lotta politica, in quanto classe, doveva costruire questa forma di

organizzazione; ed è altrettanto noto perché, di conseguenza, solo la classe operaia avrebbe

potuto inventare una tale forma di organizzazione.

Il partito è dunque storicamente la condizione di esistenza della classe operaia (come forza

soggettivamente consapevole di sé). Da questa essenza derivano i suoi tratti: adesione

individuale; rigorosa e formalizzata distinzione tra iscritti e simpatizzanti; forte disciplina di

partito; esistenza di un apparato di direzione professionale, stabile nel tempo e addestrato;

dualità tra partiti come associazioni autonome della società civile, da un lato, che elaborano

visioni del mondo, presupposti culturali, e organi costituzionali dello stato, dall’altro.

Questa è la “Forma Partito”: né bene né male. Maquesto: l’unico modo che una massa indistinta

di individui – socialmente, culturalmente, economicamente deboli – ha per poter esistere e

partecipare al conflitto politico.

Una volta che la classe operaia inventa una tale forma di organizzazione, gli altri gruppi sociali

sono costretti ad adattarsi, creando organizzazioni simili. I loro obiettivi sono però diversi: ne

deriva che i caratteri delle loro organizzazioni non sono i medesimi. I partiti politici presenti sin

dall’inizio negli Stati Uniti – dove la classe operaia non ha mai superato la fase sindacale di

organizzazione – sono un’esemplificazione di queste diverse organizzazioni. I partiti americani –

meri partiti elettorali – non sono ciò che il partito operaio europeo continentale – partito

d’indirizzo o di lotta – aspirava a essere: il portatore di un nuovo interesse generale, che aveva un

progetto, certo in quanto partito operaio, ma per l’intera società. Nell’ultimo ventennio i partiti

politici europeo continentali, nati come partiti di lotta o di indirizzo, hanno di fatto rovesciato i

loro obiettivi iniziali e si stanno progressivamente avvicinando alle caratteristiche dei partiti

americani. E con questo vengo al secondo punto.

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Una riflessione sulla Forma Partito

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2. La realtà

Gli anni in cui esplode la crisi dei partiti in Italia – 1992/1994 – sono gli anni in cui si manifesta

un dato culturale essenziale: si mettono in discussione le regole sulle forme della lotta politica e

dunque sulla forma della democrazia (da democrazia organizzata, fondata sulla mediazione dei

partiti, a democrazia individualistica, fondata sul rapporto immediato tra singoli e

rappresentanti): è questo passaggio culturale – giunto a maturazione in quegli anni, ma

inseminato già nella strategia della c.d. “grande riforma” – che segna ufficialmente l’inizio della

crisi, più che il terremoto che investì i partiti tradizionali a seguito delle inchieste giudiziarie e la

falcidia elettorale che quasi tutti subirono in quegli anni.

Questo passaggio culturale ha comportato non soltanto il ripudio del parlamentarismo come

forma di governo fondata sulla mediazione dei partiti, ma altresì il ripudio della democrazia

rappresentativa, almeno intendendo quest’ultima come strettamente legata allo stato dei partiti.

Personalizzazione e direttismo sono i termini che hanno caratterizzato questa fase che ha

rivalutato la risorsa carismatica.

Questo dato culturale essenziale si proietta sulle caratteristiche della nuova forma che i partiti

sono venuti assumendo. Il dato più importante, dal punto di vista politico-costituzionale, è la

perdita di dualità tra Governo e partiti di maggioranza (per cui si registra l’assorbimento

sostanziale e totale della funzione di direzione politica nei vertici del Governo) e la parallela

perdita di dualità tra opposizione parlamentare e partiti di opposizione (per cui si registra il

simmetrico assorbimento sostanziale e totale della funzione di opposizione politica nei vertici dei

gruppi parlamentari).

Questa perdita di dualità deriva, a sua volta, dal venir meno della consistenza sociale autonoma

dei partiti stessi.

La nuova organizzazione è perfettamente funzionale allo scopo, che non è quello di organizzare,

educare e unificare per la lotta comune milioni di individui, ma quello di conciliare, mediare,

integrare diversi gruppi di interesse, cosicché il partito è come una camera di compensazione,

nella quale i diversi rappresentanti di tali gruppi si accordano volta a volta sul modo migliore di

conciliare gli interessi ammessi alla contrattazione. A questo tipo di partito, del resto, non

interessano gli iscritti, ma interessano gli elettori, per questo la disciplina sarebbe un grave

ostacolo, perché renderebbe più difficile il raggiungimento, attraverso il confronto, di un

compromesso accettato dai gruppi ammessi. I partiti elettorali sono partiti che cercano la loro

ragion d’essere nell’esercizio del potere istituzionale, anziché nella loro autonomia sostanziale.

3. La proposta

Sarebbe necessario approfondire le ragioni che hanno determinato questa trasformazione della

forma partito. Mi limito a un’osservazione: quando si parla di crisi politica si pensa subito alla

crisi dei partiti, mentre la crisi è più profonda. In una battuta: se il partito politico è lo strumento

dell’agire politico, ad essere in crisi è, prima ancora del partito, l’agire politico medesimo.

Individualismo e perversione del legame sociale sono le parole chiave per sintetizzare i noti

contesti nei quali ci troviamo a vivere: la società postfordista e postmaterialista non è certo

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incline a comportamenti solidali di ampio respiro. Il principio di autodeterminazione e la retorica

dilagante dei diritti individuali – specie dei diritti civili – sbandierati anche da partiti sedicenti di

sinistra devono essere considerati un tarlo della partecipazione politica. Theda Skocpol ha

sottolineato come, se è giusto attribuire «virtually all healthy developments in contemporary U. S.

democracy to the Civil Rights struggles of the 1960s, which were followed by feminist agitations

and a variety of other movements for minority rights and public interest causes», perché

certamente «such movements expressed important democratic aspirations, broke down old

barriers to full participation, and put new issues on the public agenda», tuttavia «the social

movements of the 1960s and 1970s also inadvertently helped to trigger a reorganization of

national civic life, in which professionally managed associations and institutions proliferated

while cross-class membership associations lost ground». E la conclusione non poteva che essere

nel senso che «in our time, civicly engaged Americans are organizing more but joining less.

Solidarity across class lines has dwindled, even as racial and gender integration has increased.

The professionally managed organizations that dominate American civic life today are, in

important respects, less democratic and participatory than the pre-1960s membership

federations they displaced» (T. Skocpol. Diminished democracy, University of Oklahoma Press,

2003, p. 13).

Oggi ricorrono quelle stesse condizioni di fatto che avevano motivato l’invenzione del partito di

lotta o di indirizzo?

Mutatis mutandis, si stanno ripresentando, sebbene sotto altre sembianze, le medesime

condizioni di fatto che avevano mosso l’organizzazione della forma partito di cui si è detto. È forse

possibile sostenere che ci sono condizioni in parte analoghe a quelle vissute dalla classe operaia

alla fine dell’Ottocento, e che si pongono storicamente obiettivi comparabili con quelli da essa

perseguiti: è il momento drammatico che la cultura occidentale europea sta vivendo che potrebbe

mettere in moto un circolo virtuoso che promuova quel conflitto che impone di essere gestito

attraverso le procedure e che non può fare a meno dei partiti di indirizzo. Sono le grandi lotte,

anche a livello planetario, sono i conflitti micidiali, le sfide lanciate dalle forti diseguaglianze, dove

i singoli, in quanto tali, sono sperduti, mai sufficientemente preparati e istruiti, a poter richiedere

di tornare alla forma originaria di partito. Anzi, le condizioni sono oggi ancora più congeniali,

poiché la massa dei deboli, dei singoli dispersi, è variegata, mentre alla fine dell’Ottocento, in

fondo, era già in parte unificata e disciplinata dalle grandi fabbriche.

Nell’attesa che i conflitti mettano in moto processi virtuosi ciò che si può fare:

- non alimentare la retorica dei diritti individuali (perché la rappresentanza politica non è

solo la somma registrata delle preferenze dei cittadini, ma è la indicazione di un dover essere

della società “resa presente” davanti ai cittadini dai soggetti politici organizzati. Se si toglie

quest’aspetto della mediazione politica resta solo la lotta tra i branchi);

- rendere esplicito il conflitto e non camuffarlo dietro la pretesa vigenza di ineluttabili leggi

economiche che prescriverebbero determinate scelte: per esempio elaborando progetti, visioni del

mondo, su temi in cui il conflitto è latente: il lavoro, in primis.

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PD E CLASSE DIRIGENTE, ORA PREVALGA LA "QUALITÀ”

GIORGIO MERLO, Dirigente PD Piemonte

Partiti, democrazia interna ai partiti e selezione della classe dirigente. Sono 3 temi fortemente

intrecciati tra di loro che qualificano, come sempre, la stessa conservazione della democrazia nel

nostro paese. Del resto, una democrazia è solida e credibile se si regge su questi 3 capisaldi che

denotano, al di là di tante chiacchiere, la "qualità della nostra democrazia .

Innanzitutto i partiti. Chi le contesta, chi li contrasta, chi li vuole annullare, chi li vuole

cancellare semplicemente persegue un disegno di destra e di restaurazione. E questo non solo

perché i partiti sono costituzionalmente previsti ma per la semplice ragione che senza i partiti il

potere è appaltato nelle mani di poche persone che possono disporre della fiducia anche di

milioni di persone. Gli esempi non mancano, ieri come oggi. Certo, i partiti sono

progressivamente degenerati negli ultimi anni e sono andati in crisi in virtù di una

autoferenzialità che li ha chiusi in una dimensione sganciata dai movimenti che attraversano la

società. Ma i partiti, comunque sia, restano lo "strumento democratico essenziale capace di

trasformare i ceti popolari da classe subalterna a ceto dirigente nel nostro paese" come recitava

con efficacia e precisione negli anni '80 Carlo Donat-Cattin. E quella, almeno secondo la mia

opinione, resta un monito insostituibile per qualsiasi democratico.

In secondo luogo la democrazia interna ai partiti. Questa era e resta la vera anomalia politica nel

nostro paese. I partiti "personali" o i partiti a sfondo "proprietario" si moltiplicano, tanto a destra

quanto a sinistra. Il caso più clamoroso è il movimento di Grillo dove, accanto al rinnegamento

della democrazia rappresentativa a vantaggio del web, persiste una inquietante degenerazione

della stessa prassi democratica. Una degenerazione che azzera il dissenso interno, cancella il

confronto aperto e democratico e, soprattutto, crea l'adulazione e la cortigianeria . L'esatto

contrario di tutto ciò che qualifica un vero partito democratico. Sotto questo aspetto il PD

potenzialmente presenta le carte migliori per tradurre concretamente l'ideale democratico nella

quotidiana attività' di partito. Ma questo è un obiettivo che si può perseguire solo se viene

riconosciuta sino in fondo quella "pluralità" culturale ed ideale che resta la cifra distintiva che

qualifica la stessa originalità politica del Partito democratico. Pluralità non vuol dire correntismo

esasperato ma dare cittadinanza politica a tutte quelle correnti di pensiero che hanno contribuito

a costruire il PD. Altroché il "pensiero unico" desiderato da qualcuno o, in nome di un maldestro

e pericoloso nuovismo, la cancellazione di tutte le articolazioni ideali. Democrazia interna retta

ovviamente anche da regole ma, soprattutto, ispirata ad una concezione che individua nel

pluralismo e nel libero confronto gli aspetti caratterizzanti ed irrinunciabili.

Infine la selezione della classe dirigente. Ora, al i là di chi nel PD ha trasformato le primarie in un

dogma infallibile ed intoccabile, è ovvio che una classe dirigente È credibile nella misura in cui

riceve la sua legittimità direttamente dal corpo elettorale. Certo, molto se non tutto dipende dai

vari sistemi elettorali. Ma è indubbio che non possono essere le primarie farlocche di Natale e

Capodanno del PD, o qualche decina di click del movimento di Grillo o la designazione

centralistica di tutti gli altri partito i sistemi più congeniali per selezionare la classe dirigente.

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Questi sono metodi che offendono la democrazia e riducono la politica a puro scambio. La

selezione della classe dirigente deve ritornare ad essere un elemento decisivo e centrale per ogni

partito democratico. E un partito popolare, democratico, interclassista e di massa come il PD su

questo tema deve essere inflessibile. Nessuno sconto ai falsi nuovismi e nessuna concessione ad

una maldestra modernità. La classe dirigente ridiventa credibile solo se ricava la sua legittimità

direttamente dal corpo elettorale. O attraverso la preferenza o con il ritorno al collegio

uninominale Tutto il resto è solo propaganda, demagogia e populismo.

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NECESSITÀ DEI PARTITI E DOMANDA DI CAMBIAMENTO DELLA POLITICA

GIANFRANCO MORGANDO, Segretario PD Piemonte

Si tratta di appunti necessariamente schematici, che dividerei così:

1) Necessità dei partiti? Il punto interrogativo è ampiamente giustificato dall’emergere di un

ampio dibattito sulla politica e sulla democrazia senza i partiti. Si parte dalla riscoperta e dalla

ripubblicazione di classici contributi sull’argomento: Adriano Olivetti, “Democrazia senza i

partiti”; Simone Weil, “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”. Sulla linea della messa in

discussione dell’esperienza dei partiti così come l’abbiamo conosciuta ho l’impressione che la

letteratura stia diventando sterminata. Cito per tutti la recente lettura di Marco Revelli, “Finale di

partito”.

Il tema è reso di particolare attualità dai risultati delle ultime tornate elettorali, che hanno visto

crescere a dismisura il fenomeno dell’astensionismo. Nelle recenti elezioni amministrative ha

raggiunto punte significativamente superiori al 50%. Il rifiuto della politica che determina questi

dati è soprattutto il rifiuto della politica dei partiti.

Di fronte a questa constatazione abbiamo tutti assecondato il clima di opinione prevalente,

rinunciando ad una battaglia culturale sulla concezione della democrazia e sul ruolo

fondamentale dei partiti. “La democrazia senza i partiti non esiste”, è stato detto nel nostro

seminario. Non basta però l’enunciazione, ma occorre una iniziativa. Approfondire le differenze

tra democrazia diretta (con i connessi rischi plebiscitari) e democrazia della rappresentanza.

Evidenziare il legame tra la democrazia della rappresentanza e la concezione di una società che

riconosce i corpi intermedi come elemento fondamentale della struttura sociale. Costruire una

nuova idea della rappresentanza, che non si esaurisce nel momento elettorale, ma dà vita ad un

processo politico capace di costruire un canale continuo di comunicazione con gli elettori.

2) I partiti sono necessari. Per fare che cosa? Secondo il “Dizionario di politica” di Bobbio,

Matteucci e Pasquino, essi devono in primo luogo “trasmettere la domanda politica”, cioè

“svolgere tutte quelle attività che hanno lo scopo di far sì che a livello decisionale vengano presi in

considerazione i bisogni e le necessità della popolazione”. In secondo luogo i partiti devono essere

strumenti della “partecipazione delle masse al processo di formazione delle decisioni politiche”,

cioè che “atti come l’organizzazione delle elezioni, la nomina del personale politico, la selezione dei

programmi” siano il frutto di una larga partecipazione e di una decisione democratica. Queste

due funzioni dei partiti sono state elaborate dalla teoria politica classica, e mantengono del tutto

inalterata la loro attualità.

I partiti politici di oggi tuttavia realizzano soltanto in minima parte questi obiettivi. Sono diventati

partiti oligarchici, personalistici e centralistici. Anche il PD, che pure si presenta come l’unico

soggetto politico democratico e contendibile, non è immune da questi difetti. La letteratura sulla

crisi del PD sta diventando assai imponente. Tra le tante ragioni di questa crisi vorrei richiamare

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la sua “autoreferenzialità”. Non trovo un termine più adatto per indicare la difficoltà del PD a

rappresentare l’articolazione sociale nella sua complessità e nella sua continua trasformazione.

Rappresentiamo ceti sociali in calo e abbiamo difficoltà ad essere in sintonia con gli orientamenti

che si formano nella pubblica opinione.

3) La domanda di cambiamento che sale dalla base del PD esprime in modo confuso la

necessità di correggere gli errori che ho elencato. La confusione talvolta è tale che la risposta

viene individuata in un aggravamento del male. Penso agli eccessi di personalizzazione che

circonda il fenomeno di Renzi, o all’esasperazione correntizia che affida a pochi capi riuniti in

“caminetti” le decisioni più importanti. Se dovessi proporre un obiettivo sintetico per indicare una

prospettiva nuova, direi che dobbiamo lavorare per un “partito aperto”, caratterizzato

essenzialmente per la capacità di relazione con la ricchezza della società.

4) Provo ad individuare alcune possibili strade per realizzare questo obiettivo. A) occorre

rafforzare la dimensione associativa del partito. Non è semplice in un tempo di “fuga

dall’appartenenza” come quello attuale. Forse si tratta di rinunciare all’idea di un tradizionale

partito di massa, a favore di un “partito dei legami”, che connette soggetti singoli e associati.

Farei una riflessione sull’ipotesi di un modello di “associazione di associazioni”. B) Occorre

inventare modalità di partecipazione più adatte alle nuove sensibilità. Se è in calo la disponibilità

alla partecipazione “forte”, in linea con una minor pervasività della politica, non è venuto meno

l’interesse per una partecipazione più “debole”, basata su rapporti saltuari, sul coinvolgimento

per singoli problemi. Sarebbe opportuno individuare strumenti organizzativi adatti per

raggiungere questo obiettivo. C) Occorre affrontare seriamente il problema del rapporto

centro/periferia, su cui si sono fatti molti passi indietro. Le modalità con cui si realizza questo

rapporto è prevalentemente costituito oggi dalle filiere di corrente. Ritorno al modello di partito

federato ? D) Occorre una riflessione specifica sull’esperienza dei circoli.

5) Nessuna risposta organizzativa potrà tuttavia risolvere il problema principale del PD, che è

quello di costruire una sua visione generale, una sua “concezione del mondo”. Giustamente nel

nostro seminario è stato sottolineato che le elezioni si vincono con idee generali, potremmo dire

con dei “sogni di futuro”. Non credo si tratti di elaborare un proprio sistema di pensiero, quanto

di essere permeabili al dibattito che anima le culture del paese, molto ricco ed alla ricerca di

interlocutori.

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IL PARTITO DEMOCRATICO ED IL COINVOLGIMENTO DELLE SUE ELETTRICI E DEI SUOI

ELETTORI

FOSCA NOMIS, Consigliera Comunale di Torino

Lo Statuto del Partito Democratico, approvato dall’Assemblea nazionale del 21 – 22 maggio 2010,

che possiamo considerare parte della sua essenza, prevede che le elettrici e gli elettori siano

soggetti fondamentali della vita democratica del Partito e individua alcune norme generali

riguardanti diritti e doveri degli elettori del PD, che possono essere esercitati a seguito

dell’iscrizione a un albo. Il Partito Democratico nasce quindi come un partito di iscritti/e che

vuole coinvolgere elettrici ed elettori, pensando che possano essere una risorsa importante, e che

possano essere gli iscritti di domani. Per dare una risposta alla richiesta di nuove modalità di

partecipazione che favoriscano lo sviluppo di una cultura politica che incoraggi i cittadini a

prendere parte attiva alla vita della loro comunità, è sufficiente dare piena attuazione allo Statuto

del Partito Democratico e ritrovare quell’intuizione originale di apertura che ha segnato la nascita

di questo nuovo soggetto politico. Il coinvolgimento risponde anche alla necessità di aprire le

strutture tradizionali di consenso, quali i partiti, individuando regole chiare e condivise, che siano

la cornice all’interno della quale può avvenire un dialogo propositivo e costruttivo. Questo

coinvolgimento è possibile solo se esiste un partito, una struttura che possa accogliere proposte e

istanze, rielaborarle e farle diventare parte della propria proposta politica.

Nella realtà molte sono le iniziative a livello locale che vedono già un coinvolgimento “misto” di

iscritti ed elettori, che interpretano la volontà dello Statuto del PD e, più semplicemente, una

volontà di tante persone che si riconoscono nei valori del centrosinistra, di esserci, di essere

ascoltati, di dare un contributo positivo in un momento di difficoltà del sistema politico e

democratico del nostro Paese. Ci sono più di quattrocento persone che hanno firmato un appello

per l’istituzione dell’albo delle elettrici e degli elettori in Piemonte, che rappresenta peraltro

un’opportunità di far partecipare coloro che vivono e lavorano in Italia ma non hanno (ancora)

cittadinanza e quindi diritto di voto, ma che possono e vogliono fare politica in questo Paese. È in

corso una riflessione anche in altri partiti del centrosinistra europeo sulle modalità di

coinvolgimento dei propri simpatizzanti, poiché le derive populiste, la percentuale di afflusso alle

urne in costante diminuzione e la riduzione del numero di iscritti ai partiti, sono un minimo

comun denominatore sul quale sarebbe opportuna un riflessione comune. Le modalità

tradizionali di partecipazione alla vita politica non bastano più, si rende necessaria una maggiore

articolazione che risponda alla complessità della società contemporanea, e che trovi un

bilanciamento fra la valorizzazione del singolo e delle sue capacità, e l’appartenenza ad una

comunità, nella quale sentirsi accolti e della quale sentirsi parte.

La proposta è di creare l’Albo delle elettrici e degli elettori, contenente i dati che hanno fornito

coloro che hanno espresso il proprio consenso a registrarvisi. Si possono iscrivere tutti coloro che

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votano, chi ha un permesso di soggiorno e chi ha compiuto 16 anni. La condizione di pubblicità

dei dati, cosi raccolti ed elaborati dovrebbe essere strutturata nel rispetto della privacy1.

Referente per la gestione dei dati dell’Albo degli elettori è il livello regionale, che ne coordina la

raccolta, la sistematizzazione e che definisce una strategia e un piano generale di dialogo e

comunicazione con elettori ed elettrici. Potranno essere messi a disposizione del livello provinciale

e dei circoli i dati dei registrati all’Albo di quel territorio, garantendo che la gestione delle

anagrafiche avvenga nella tutela della privacy2. Elemento chiave che dà significato al lavoro di

strutturazione di un Albo di elettrici ed elettori, è la volontà poi di dialogare con loro e di

coinvolgerli, definendo un piano di comunicazione che includa strumenti diversi, formali e

informali, analogici e digitali, che abbia un orizzonte temporale di medio lungo periodo, che tenga

conto delle caratteristiche di gruppi di persone anche molto diverse fra loro.

Lo Statuto prevede il coinvolgimento di elettrici ed elettori nella vita politica del partito sia

attraverso l’elezione delle più importanti cariche interne (primarie per il Segretario Nazionale e

Regionale) e la scelta delle candidature per le principali cariche istituzionali (primarie dei Sindaci,

dei Presidenti di Provincia, di Regione e dei Parlamentari), che attraverso la scrittura condivisa

delle linee programmatiche e contribuendo ai forum tematici, nonché con la partecipazione alle

attività dei circoli territoriali, d’ambiente e on-line, e ai forum tematici. Particolare attenzione

dovrebbe essere dedicata all’utilizzo di piattaforme che consentono modalità di partecipazioni più

agili ma non per questo da trascurare. Le tecnologie e i social media rappresentano inoltre un

linguaggio che è familiare a tanti che il linguaggio tradizionale della politica non riesce ad

intercettare, soprattutto i giovani e le generazioni di nativi digitali.

Infine la formazione politica e culturale che può offrire un partito strutturato è uno dei valori da

mettere a disposizione di elettrici ed elettori.

1 Con le primarie della Colazione Italia Bene Comune è stata già prevista la privacy dei dati di chi si registrava all’Albo

degli elettori per votare alle primarie, si tratterebbe quindi di seguire questa pratica. 2 E’ necessario definire, come previsto dal d.lgs. n. 196/2003, un Documento Programmatico sulla Sicurezza dei dati.

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CRISI DELLA MEDIAZIONE POLITICA

UGO PERONE, Docente di Filosofia della Religione, Humboldt-Universität di Berlino

La realtà: crisi dell’appartenenza sostituita dalla semplice adesione

La situazione di fronte a cui si trovano oggi i partiti è considerevolmente mutata. Il tramonto delle

visioni del mondo mette in crisi i fenomeni di appartenenza e dà luogo ad adesioni fluide e

temporanee, orientate non tanto su un modello di cittadinanza, quanto su rapporti più

occasionali come quello tra utenti, fruitori, clienti e agenzia fornitrice di servizi. Due dei

raggruppamenti maggiori (PDL, M5S) evidenziano, pur nell’opposizione, un tratto comune di

questo tipo. Per il PDL l’elettore è colui che si è lasciato convincere della bontà del prodotto

politico e/o ne ha riscontrato il vantaggio per lui (non vi è adesione ideologica, se non nella forma

negativa di rifiuto del “comunismo); per il M5S l’elettore instaura un rapporto individuale e

diretto con il movimento e con il suo leader e ne diventa fruitore (in questo caso del generico

prodotto “politica”), nel momento in cui riconosce in quel movimento un modello di

partecipazione, che, nella forma dell’immediatezza dell’espressione di un orientamento (complice

la rete), si traduce, senza mediazioni ideologiche né appartenenze, in volontà politica. Il primo è il

cliente individuale di un prodotto politico, il secondo accede individualmente all’universale della

politica, dopo averne respinto le forme tradizionali. In entrambi, forte è il rifiuto/disagio per la

mediazione.

Ciò corrisponde del resto a un’organizzazione liquida della società (di cui tutti più o meno siamo

partecipi) che ha avuto per effetto il generarsi di un perpetuo stato di eccezione come condizione

normale del vivere (e sul piano del lavoro la precarietà ne è l’espressione). I mezzi di

comunicazione, destituiti anch’essi di appartenenze ideologiche, praticano un continuo rilancio

dell’informazione, che mira in modo indifferenziato all’incremento delle vendite e del proprio

potere (il quarto potere, anch’esso autoreferenziale). Ma così il futuro si colora sempre

maggiormente di improbabili tratti apocalittici. Ciò che manca è la normalità, il giorno dopo

giorno che corregge però le storture, che allarga le attese. Quando viene presentata assume i

caratteri grigi del funzionariato e quelli minacciosi della casta.

Politiche in luogo di politica

A questa realtà – della nostra società e dei partiti – fa riscontro, sopratutto sul terreno locale, la

diffusa esperienza, sovente ascrivibile a governi vicini al PD, di una buona pratica

amministrativa. Ma questa non ha forza di messaggio e, come giustamente è stato detto, le

elezioni si vincono anzitutto sulle idee. Se è vero che le idee sono necessarie, non si deve tuttavia

dimenticare il fatto che, in prospettiva medio lunga, occorre anche che esse, in quanto idee

politiche, sappiano tradursi in decisioni coerenti. Ciò che manca nel modo più vistoso è la

mediazione tra orizzonte delle idee (che nel PD attuale restano indistinte) e pratiche politiche

(talora buone ed esistenti, ma incapaci di eccedere la buona amministrazione). Insomma esistono

bensì politiche, anche in grado di ricevere un discreto apprezzamento, ma stentano a costruire

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orizzonti complessivi di impegno. Del resto, proprio in riferimento al PD, la forbice tra buoni

risultati sul piano amministrativo locale e mediocri risultati sul terreno nazionale ne fornisce in

qualche modo conferma.

Verrebbe da dire che ciò che sperimentiamo è la morte della politica, come capacità di operare

mediazioni in vista di un progetto. Con lei sono condannati i partiti, a cui è peraltro da attribuirsi

una diretta responsabilità per questi esiti. Più di chiunque altro ne soffre l’unico partito

tradizionale esistente (il PD). Il punto è che della dimensione tradizionale, dopo aver sperperato il

tesoro ideale dell’Ulivo, a questo partito rischia di non restare altro che l’apparato e le pratiche

spartitorie.

Qualche proposta

Credo che i partiti si riproporranno come necessari, perché l’immediatezza non è praticabile come

progetto politico su base nazionale ed è addirittura foriera di sviluppi pericolosi. Ma i partiti,

proprio per rispettare la loro essenza, debbono riformarsi drasticamente. La politica deve

ritornare a essere servizio a tempo e trovare perciò dei correttivi alla professionalizzazione di

quello che, appunto, non è un mestiere ma un servizio. Due norme, interne a un partito,

potrebbero servire: per chi voglia fare politica occorre anzitutto e preliminarmente avere un

mestiere e una professionalità propri, da cui si viene e a cui si torna; occorre inoltre porre il

vincolo dei due (in caso eccezionali, tre) mandati consecutivi (per quanto compiuti a livelli

diversi). E infine è necessario andare oltre l’ormai consumato contenuto dell’incontro tra culture

diverse (laica, socialista, cattolica) per elaborare un progetto non ideologico ma ideale di futuro

possibile. In questo progetto il respiro internazionale e la dimensione europea dovrebbero avere

un ruolo primario e rappresentare un orizzonte politico per cui vale la pena di lavorare, tornare a

essere un sogno e non un vincolo. Gli italiani sono spesso migliori della loro politica, e questa

riesce persino a essere migliore dei partiti che la esprimono. Si tratta di un mondo alla rovescia,

di un cono che va capovolto, restituendo ai partiti il compito di un progetto, che si traduce poi, al

meglio possibile nella situazione data, in una politica che crei le condizioni per cittadini migliori.

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IL PARTITO COME DISPOSITIVO DI UNIVERSALIZZAZIONE

LUCIANA REGINA, Docente a contratto di consulenza filosofica, Università di Torino

Essenza

L’esercizio fenomenologico che provo a fare è guardare la forma partito così come l’ho vista

stagliarsi nel momento in cui mi sono avvicinata per la prima volta a una sua incarnazione,

prendendo una tessera e varcando una soglia.

Quando parliamo di guadagnare uno sguardo sull’essenza non stiamo parlando dello sguardo che

si posa immediatamente sulla realtà e la spolpa dei suoi accidenti, facendone emergere un

nucleo, ma di quello che ricostruisce l’incontro fra l’intenzionalità che il soggetto porta con sé e la

realtà, incontro che è ospitato in un’essenza.

Se ha senso cercare qualcosa come un’essenza è proprio perché l’essenza eccede e misura la

realtà e anche l’intenzione, e spesso la realtà rispetto all’essenza si mostra come qualcosa di

mediocre, caotico, miserabile; l’intenzione velleitaria.

Nel nostro esempio, io non incontro il partito reale solo nel cono di luce di un soggettivo desiderio

o punto di vista, ma nella luce prismatica di un’intenzionalità mediata con l’idea-essenza di ciò

che il partito è-deve essere in quanto tale. E cioè in quanto non è un movimento, non è

un’associazione di scopo, non è un’azienda, non è una famiglia, non è lo Stato, non è la

circoscrizione ecc.. Anche altre mediazioni intervengono, mescolandosi una all’altra: quella con

l’idea che è stata costruita socialmente, quella con la foggia concreta che i partiti hanno assunto,

con quella di questo particolare partito, con le critiche che il partito ha ricevuto in quanto pare

che assolva o non assolva ai suoi compiti, funzioni e valori.

Guardando dunque dentro quella forma ospite, che ancora si rivela, trovo:

Il partito come spazio che accoglie un impegno, una sfera d’azione in cui mettere a disposizione

un fare, che sia un fare politico.

Quando accade da adulti ci si aspetta di riversare in quella sfera d’azione un patrimonio, un

bagaglio, anche di competenze ma non solo.

Non ci si avvicina a quello spazio come a un luogo di scambio, dove si spende quello che si decide

e si sceglie una merce, ma come a uno spazio di travaglio creativo, che trasformi quello che entra

dalle diverse parti dell’ambiente in esiti qualificati, sempre in divenire.

Il trattamento e la tipicità di quel luogo, in quanto ambito politico che non è l’intero del politico, è

l’universalizzazione. In un senso filosofico e hegeliano in particolare. Trattare e attraversare le

contraddizioni reali, trattare e prendersi carico dei particolari.

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Quello spazio accoglie e trasforma storie, esperienze, visioni, in modo che non restino

giustapposte. In modo che diventino qualcosa di più e di diverso dalla loro somma. Se restano

giustapposte quella forma viola il principio specifico della sua ospitalità.

Realtà

La distanza rispetto a quell’aspettativa si manifesta quando c’è appiattimento sull’esistente,

attenzione alla conservazione di piccoli patrimoni di influenza, differenze che non si offrono in

forma di posizioni mediabili e che non incontrano dispositivi della mediazione. Quando il partito,

invece di proporre pratiche di universalizzazione, permette che vi si disputino conflitti non

formativi e non trasformativi, semplici giochi o scontri di forze invece che confronti fra forme.

Quando questo accade ciò che viene immesso nel partito, che è differenza qualitativa, si

trasforma in differenza quantitativa, in peso, massa, velocità. Molto desiderio e pochi momenti

per mettere le idee al lavoro e farne qualcosa, molti posti per le parole che esprimono punti di

vista e opinioni, poca sollecitazione a fare la fatica di portare al concetto le opinioni, poca

dialettica. Nella realtà ci sono, è cosa nota, sacrificio personale, buona volontà e talenti,

intelligenze già e non ancora politiche. Ma anche spreco di molte di queste risorse, motivazioni e

valori pregiati, organizzazione lacunosa e irriflessa, comunicazione assente, occasionale,

interrotta. Uno statuto spesso disatteso, reti tanto auspicate e indispensabili quanto, per il

momento, vacanti. Tante persone che vorrebbero avvicinarsi a questo partito per vivere qualcosa

di diverso dal ruolo di spettatori di dibattiti televisivi, e che non lo fanno, o lo fanno una volta

sola. E altre, dentro il partito, che hanno talmente paura del tritacarne del gioco di forze che

preferiscono regole ferree e leaderismo, scelte di ripiego pur di evitare l’annientamento reciproco.

Capita che si offrano alla scelta opzioni che, non essendo state esaminate alla luce di un’idea

risultano non mediabili, semplici polarità, e talvolta nessuna di esse avrebbe titolo di figurare fra

le opzioni di un partito democratico. Lo stesso uso che nel partito si fa a volte dell’aggettivo

“politico” è oscurante ed escludente, invece che rischiarante e includente. Si brandisce per

significare qualcosa di fatale, quello che non puoi capire a meno di essere stato allattato dentro

un partito o una corrente, quello che non capendo non puoi maneggiare. Non sinonimo di bene

comune, né di formazione alla volontà generale, ma semmai di sfuggente, paludoso, non

argomentabile, non suscettibile di essere esposto all’esterno e al libero, ragionevole esame.

Proposta

La via lunga è mettere le mani, una per una, sulle distonie sopra descritte. In ogni punto dei

processi che ci sono già, impiantare pratiche che portino i materiali presenti a un grado di

maggiore universalità, pretendere che ogni bisogno, o tema, o interesse, che transiti per il partito

venga aperto e salga. Non smascherato ma dischiuso per una maggiore inclusività dell’altro da sé.

E che ogni decisione, poiché lascia sul terreno dei resti, si faccia carico di reimpastarli, quei resti,

di reinvestirli. Una via breve, utopica (e non ripetibile) è mettere la forma partito, una tantum, a

testa in giù, come una clessidra. Azzardando una specie di sillogismo: la logica vincente, quella di

chi sta in alto in un partito non dialettico, è spregiudicatezza, semplificazione e determinazione a

conquistare potere interno. Chi sta in basso, al confine con l’esterno, spesso protegge i tratti

costitutivi e irrinunciabili della forma partito.

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Una riflessione sulla Forma Partito

Il contributo del PD del Piemonte. Maggio-Luglio 2013

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LA POLITICA TORNI A PARLARE IL LINGUAGGIO DEL FUTURO

ALDO RESCHIGNA, Presidente Gruppo Regionale PD

La discussione sulla forma partito si ripresenta sistematicamente nel calendario politico

soprattutto come riflessione postuma a seguito di deludenti risultati elettorali per poi spegnersi

inesorabilmente nei tempi successivi.

Siamo di fronte ad una profonda contraddizione : abbiamo la certezza che i partiti sono in crisi ed

altrettanta certezza sul fatto che tutte le forme alternative di partecipazione politica per lo meno a

livello di rappresentanza nelle istituzioni entrano velocemente in sofferenza .

Devo dire che la contrapposizione un po' semplicistica tra partito leggero e partito organizzato

non sappia cogliere la complessità dei temi.

Quali allora i problemi.

La politica ed i partiti sono in crisi perché non sanno più parlare al futuro, sono cioè piegati

pesantemente sul presente e conseguentemente la loro immagine diventa quella di soggetti che

gestiscono il presente e quindi il potere .

Più che la forma è la dimensione temporale della politica che la allontana dalla comunità.

La politica ed i partiti sono in crisi anche perché la costruzione del futuro la si definisce in ambiti

che non sono solo quelli nazionali ma sono almeno quelli europei .

La politica ed i partiti sono in crisi perché appaiono sempre più non nella dimensione della

comunità ma nella dimensione della individualità: il partito diventa uno strumento .

A tutte queste crisi non sfugge il PD che anche se appare l'unico partito non personale rischia di

sopravvivere più per il residuo del passato dei partiti fondatori piuttosto per essere stato capace

di aprire spazi e luoghi nuovi.

Come tentare di affrontare queste crisi?

Il progetto del PD ha riscosso grandi attenzioni al momento della sua nascita perchè si

presentava come il tentativo di dare vita ad un grande partito riformista con un progetto che

parlasse al futuro e capace di innovare fortemente il nostro paese e la nostra vita politica ; questa

innovazione è andata sempre più affievolendosi perché il PD è rimasto troppo in mezzo al guado

avendo paura di attraversarlo e avendo timore a non farlo.

Il guado va attraversato : il progetto di un partito riformista e capace di tornare a dare una

speranza di futuro al nostro paese va ripreso.

Se la politica non è più capace di governare molto perché molte decisioni trovato luoghi almeno

europei è evidente che la non collocazione internazione del PD va colmata perché non possiamo

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Una riflessione sulla Forma Partito

Il contributo del PD del Piemonte. Maggio-Luglio 2013

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essere provinciali e va colmata non decidendo a quale famiglia appartenere tra quelli esistenti ma

ponendoci il tema di costruire una nuova famiglia riformista ma in quella dimensione territoriale.

Il PD deve essere un partito di comunità cioè il luogo nel quale si incontrano pensieri diversi e si

costruiscono sintesi; non lo siamo e tutte le volte che dimostriamo che invece siamo un partito di

individualità entriamo in crisi nel rapporto con il paese.

Una ultima annotazione.

Il PD deve rimanere un partito legato al territorio.

Se nelle elezioni amministrative otteniamo ancora risultati significativi è perché è importante

mantenere una organizzazione capillare e radicata sul territorio perché aiuta anche a costruire

dirigenti e amministratori che maturano e crescono avendo quelle comunità quali destinatari

delle proprie azioni e delle proprie attenzioni.

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Una riflessione sulla Forma Partito

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LE FUNZIONI DEL PARTITO E LA CRISI DEL PD

SERGIO SCAMUZZI, Docente di Sociologia Generale, Università di Torino

Non conosciamo democrazie vere senza partiti. Tra le poche leggi della scienza politica c’è quella

della indispensabilità di partiti per una democrazia funzionante. I testi canonici identificano

alcune caratteristiche e funzioni essenziali dei partiti per la democrazia. Purtroppo il PD

manifesta forti segni di crisi e carenze su quasi tutte. Ma potrebbe mobilitare risorse morali e

culturali per superarle che in parte ha ancora in sé e attorno a sé e , grazie a questo sforzo,

acquisirne di nuove.

Partito è qualsiasi gruppo sociale che concorre alle elezioni per vincerle.

Una perdita secca di dimensioni storiche da sola è ragione di crisi profonda, più difficile da

superare se non è dovuta solo a un competitore vincente ma soprattutto ad un crescente

astensionismo e a una protesta trasversale che provoca una cessione di voti al M5S (in Piemonte

più che altrove), se per giunta produce uno stallo. Una crisi economica lunga e grave senza

risposte politiche adeguate, salvo l’emergenza dei conti pubblici ben fronteggiata dal governo

Monti, spiega molto della situazione ma non tutto e non può fornire alibi.

Funzione del partito, specie in Europa, è aggregare domanda sociale che, se si esprime solo in

gruppi di pressione e potentati, sovraccarica le decisioni di governo e ostacola l’interesse generale

e nel caso italiano anche la legalità.

Il PD, presentandosi come partito moderato di opinione progressista, ridotto quasi a un comitato

elettorale che per di più è in grado di fare poca compagna elettorale (delegata ai leader in tv), con

un radicamento territoriale e sociale in declino, non può che perdere di fronte a partiti populisti o

di protesta pura e all’astensione. La base sociale del PD sono la classe operaia fino a tempi

recenti garantita e il ceto medio, entrambi in profonda crisi da due decenni di aumento delle

disuguaglianze che li erode e dalla recessione che dal 2008 li distrugge, con particolare severità

verso i loro figli più giovani. Il PD paga una iniziativa troppo debole di rapporto con il lavoro e

l’economia – un rapporto non scontato ma da guadagnare sul campo, rivolgendosi non solo ai

vertici dei corpi intermedi e ai propri membri nel sottogoverno – e la propria dipendenza

conseguente da fonti di conoscenza delle sue domande sociali che sono indirette e parziali,

principalmente due : un mondo dei media che, quando parla di politica, la intende solo come

schieramento (mutevole e personalizzato, perche così fa spettacolo) e non come politiche

sostantive (evocate solo come risposta a scandali, che fanno spettacolo), ed è purtroppo spesso

mimato nelle occasioni di dibattito interno al partito; o le relazioni di amministratori e

parlamentari coi gruppi sociali organizzati e specifici interessati alle singole misure.

Funzione del partito, ovunque, è rappresentare la domanda sociale di classi, ceti e territori

determinati e tradurla in indirizzi politici e se del caso alleanze, e comunicarla efficacemente.

Indirizzi e alleanze sono parsi deboli e troppo effimeri, più posizioni per schierarsi che

schieramenti su posizioni, il PD non sembra essere una sede per l’elaborazione e la

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comunicazione degli indirizzi e dei contenuti delle politiche autonoma e autorevole. Le affida

invece completamente a chi ha responsabilità di governo e amministrazione nazionale e locale,

cioè a ruoli necessitati alla flessibilità e alla contingenza, o a una sorta di ‘eccesso di concretezza

e realismo’ che non le rende comunicabili ad una opinione pubblica ampia e non competente con

effetti motivanti fiducia e delega ampia e duratura. L’elaborazione delle policies nazionali e locali

avviene in sedi non partitiche (si pensi come es. ai piani strategici delle città o ai cda delle public

utilities o alle think tank legate a singoli leader) . Difficile dire e specificare quale modello di

società sostenga il PD, se intendiamo un livello di elaborazione intermedio tra i grandi valori e le

piccole decisioni nelle delibere e nei ddl, che richiede forze intellettuali - in un rapporto interattivo

con gli istituti culturali e di ricerca- insieme con rapporti non solo personali con la società

civile(vedi 2). Difficile persino trovarlo sul sito del PD nazionale e di quelli locali, entrambi

migliorabili, una volta sviluppati i nuovi contenuti, che pure consentirebbe un tipo di

comunicazione autonoma al partito, di non essere parlati dalla televisione e secondo le sue

esigenze.

Funzione del partito è selezionare candidati da presentare alle elezioni e a responsabilità interne.

È evidente il ritardo, specie nazionale, nel ricambio del gruppo dirigente e una gestione delle

carriere affidata a logiche di corrente e cordata e non di partito. Troppo sottovalutata è la

(mancata) formazione di cultura politica come tappa della carriera e come patrimonio quotidiano

comune nel partito: visioni del futuro, conoscenze della realtà, valori, costruzione delle opzioni di

scelta politica sono state oggetto di poche iniziative, molto più spazio hanno avuto tecniche di

governo, (di per sé necessarie: la politica e l’amministrazione pubblica richiedono professionalità

specifiche) o una sorta di cultura progressista generale e di grandi principi. Nulla poi è stato fatto

per superare la separatezza e un certo declino rispetto alle origini delle culture costituenti del PD

(lib-lab, cattolica democratica, social-comunista, verde). Del resto, se il partito non ha funzioni di

rappresentanza ed elaborazione politica e culturale forti (vedi anche punti 2 e 3) ma solo di

anticamera di ruoli amministrativi, poco resta a motivare durevolmente il militante il cui

volontariato invece potrebbe essere incoraggiato da una partecipazione vera e dallo sviluppo di

saperi diffusi.

Funzione del partito è organizzare la competizione per vincere ai seggi e nelle assemblee.

Crisi finanziaria e sperperi passati, il devastante caso Lusi, l’attuale populistica intenzione di

eliminare finanziamenti pubblici, declino della militanza, pregiudicano tale possibilità

organizzativa. Ma la palese inefficacia delle regole di decisione e democrazia interna che, al livello

nazionale degli eletti e della segreteria, hanno permesso e fatto considerare legittime le note

oscillazioni e divaricazioni nelle candidature alle più alte cariche dello stato, renderebbe vana

anche la più robusta delle organizzazioni, con effetti devastanti sulla fiducia degli elettori.

Funzione del partito, complementare alla selezione, è il controllo dell’operato e della dignità

morale degli eletti e dei propri incaricati.

La corruzione è sempre un rischio, poiché fin dall’epoca della ‘questione moralÈ sollevata da

Berlinguer non è emersa una legislazione anticorruzione efficace e la magistratura esercita una

supplenza anche dell’autocontrollo dei partiti quando non c’è. Il PD ha complessivamente una

classe dirigente onesta e competente, in misura in molte sedi superiore ad altri partiti, in parte

senza merito ma per eredità virtuosa del Pci, della sinistra Dc e dell’area cattolica in genere, di

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componenti sane del Psi, in parte per forza propria ideale di reclutamento, ma un supplemento di

codici di autoregolamentazione, specie per situazioni non regolate (es. odierno i rimborsi ai

consiglieri regionali) sarebbe utile, anche come modo per manifestare in concreto un’idea di

politica come servizio e non privilegio o spettacolo populista ad altre forze e al paese.

Funzione del partito è raccordare il centro con la periferia

Il PD non ha realizzato un vero federalismo e resta vittima di un centralismo con poca capacità

di sintesi territoriale. Dove però la carenza è più vistosa e meno compresa è nel rapporto tra

Unione Europa e regioni/città : per molta politica locale l’UE è il vero centro, in quanto fornisce

obiettivi molto specifici alle politiche e finanziamenti per conseguirli. È più importante che Torino

e le altre città discutano di Horizon 2020 con i propri deputati europei e i membri di altri partiti

affini francesi o tedeschi o inglesi che con i salotti romani. È altrettanto importante che le elezioni

europee del 2014 e la posizione del PSE e degli altri partiti della sinistra europea presentata ad

esse nei confronti delle politiche di sola austerità sostenuto dalla destra siano al centro

dell’attenzione del PD anche e soprattutto a livello locale, ed i conseguenti rapporti entrino nella

cultura quotidiana. (l’incontro al Regio sul Rinascimento europeo è stato un bell’esempio ma non

basta) del partito.

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RECUPERARE L’ESSENZIALE

MINO TARICCO, Parlamentare PD

Non ho potuto essere presente per un impegno familiare concomitante e mi è molto dispiaciuto

perché credo che il tema di questo seminario fosse e sia, in questa fase della politica in generale,

e del PD in particolare, straordinariamente importante.

Per rispondere a cosa sia il partito nella sua essenza penso che si possa definire un’associazione

di persone che condividendo una comune visione del mondo e della convivenza civile, almeno nei

suoi tratti fondamentali, ed essendo convinti che in quella direzione si possono creare le

premesse e le condizioni per una vita migliore per tutti, e soprattutto per coloro che hanno meno

voce, decidono di lavorare insieme in questa direzione.

Ho sempre vissuto il partito non tanto come una entità organizzativa e strutturata, ma

soprattutto come una associazione di persone, che nella loro vita fanno ciascuna il proprio lavoro

e le proprie esperienze, e che tuttavia condividono una speranza e la convinzione che insieme

possono migliorare la “città dell’uomo”.

Questa esperienza non è soltanto teorica, perché nella prima stagione dei “Popolari” nella

provincia di Cuneo, che ebbi la fortuna di vivere, fu effettivamente così ; centinaia di iscritti che ci

credevano veramente , impegno e volontariato, grandi occasioni di confronto e di elaborazione

culturale e progettuale sui problemi e sulle opportunità delle nostre città e della provincia, e pur

con tutte le differenze e le difficoltà, la convinzione di essere portatori di una responsabilità verso

la comunità, e la convinzione di poter fare bene nel governo appunto delle citta e della comunità.

L’impegno politico che nasce dalla responsabilità e dall’amore per la propria comunità, e nasce

dall’esigenza di condividere con altri la stessa passione e lo stesso impegno, per aiutarci a fare

meglio e per essere insieme più capaci di camminare.

Il partito e la politica sono strumenti per fare ciò che è il cuore della scelta di impegno : mettersi a

servizio, con altri, di una comunità .

Oggi purtroppo guardando i partiti , troppe volte anche guardando il nostro, si ha la sensazione

di essere di fronte a gruppi di persone che hanno scelto di “fare politica”, e per farlo sono entrate

nel partito che è diventato il luogo della competizione per arrivare.

Il partito, diventato luogo della gestione del potere, si è strutturato ed è diventato anche lo

strumento per la costruzione di carriere o quanto meno per l’agevolazione delle stesse.

In questa logica è diventato importantissimo poter pesare il consenso interno, e per poterlo fare e

diventato necessario definire con precisione i confini tra il dentro ed il fuori, ed in qualche misura

l’allargamento del partito è stato vissuto come un problema o come una minaccia , che rende

necessario controllare bene chi entra, perché non rischi di alterare gli equilibri.

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Una riflessione sulla Forma Partito

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Nella mia prima esperienza di impegno nei “popolari” di Cuneo negli anni ’90 avevo letto un

documento programmatico che tratteggiava le condizioni per il successo di quella nascente

formazione politica e diceva che l’esperienza si sarebbe potuta dire riuscita se le migliori risorse

della comunità nei vari ambiti , lavorativo, culturale , associativo, del volontariato, dell’impegno

civile, che condividevano con noi un quadro valoriale e progettuale, avessero deciso di impegnarsi

amministrativamente e politicamente e avessero deciso di farlo con noi.

In quella esperienza nessuno di noi cercava un posto, nessuno di noi cercava li il proprio

riconoscimento professionale o sociale , ognuno di noi questo lo costruiva nei suoi ambiti di vita

professionale , ma eravamo uniti da una grande passione e una gran voglia di dimostrare che un

mondo migliore era possibile e che noi potevamo contribuire a realizzarlo.

Credo sia necessario recuperare quello spirito.

Quali scelte sono necessarie per recuperarlo.

Può sembrare radicale ma io penso sia necessario stabilire che per “tutte” le candidature a

cariche istituzionali sia necessario passare attraverso primarie aperte a tutti gli elettori

interessati, con una eventuale unica eccezione per elezioni con più candidati in lista con sistemi

con le preferenze.

Per gli incarichi nel partito credo vada comunque garantita una significativa forma di apertura

che oltre agli iscritti coinvolga anche albi di sostenitori .

La forma partito che penso possa aiutarci vede negli iscritti coloro che partecipano della missione

del partito e che collaborano a determinare la costruzione di una proposta politica condivisa , ma

che condividono le decisioni “di potere” con cerchie di elettori-sostenitori allargate .

Il partito deve a mio giudizio coniugare il massimo di apertura e di accoglienza verso tutti coloro

che vogliono contribuire al suo cammino e a determinarne gli orizzonti .

La forma e le regole sono importanti perché sono un elemento identitario forte e in questo

momento dire di noi che siamo aperti al contributo dei nostri elettori sia per la costruzione

dell’idea di Italia e di comunità che vogliamo sia per la scelta delle persone cui affidare il compito

di portare questa idea nelle istituzioni, credo sia un atto di coraggio che può permetterci di

piantare semi fecondi.