“INFLUENCIA DE LA FILOSOFÍA CARTESIANA EN EL DERECHO PERUANO”
Una prospettiva post-Cartesiana - Formazione in Psicologia · classica distinzione tra nevrosi e...
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MONDI FRAMMENTATI/ STATI PSICOTICI:
Una prospettiva post-Cartesiana
DELL’ESPERIENZA DI ANNICHILIMENTO PERSONALE
George Atwood
Parole chiave: Nevrosi, psicosi, teoria classica, teoria intersoggettiva,
annichilimento, reazione maniacale, allucinazioni, trauma, dissociazione
Una delle conseguenze più importanti dell’adottare un punto di vista post-
cartesiano e fenomenologicamente coerente, è costituita dalla possibilità di
comprendere e trattare psicoanaliticamente uno dei più gravi disturbi psichici: le
cosiddette psicosi. Questa nuova possibilità si apre in virtú del fatto che le
esperienze che caratterizzano questi disturbi psichici tendono a raggrupparsi
intorno a temi di annichilimento personale e di distruzione del mondo. Queste
esperienze avvengono al di fuori dell’orizzonte dei sistemi di pensiero cartesiani,
che poggiano su una visione della mente come esistenza isolata in relazione a una
realtá esterna stabile. L’immagine cartesiana della mente - rigidamente separata
tra un soggetto mentale interno e un oggetto reale esterno - reifica e universalizza
un pattern specifico di esperienze, centrato su un senso stabile di individualitá
personale sentito come distinto e separato dal mondo esterno. Sia le esperienze di
estrema perdita del sé che quelle della disintegrazione del mondo, non possono
essere concepite all’interno di una ontologia della mente di questo tipo, poiché
esse dissolvono le strutture stesse che questa ontologia postula come esistenza
personale universalmente costitutiva.
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In ció che segue, descriveremo questa gamma estrema di disturbi psicologici da
un punto di vista intersoggettivo e fenomenologico. La teoria dell’intersoggettivitá
è una prospettiva psicoanalitica post-cartesiana che considera elemento centrale il
mondo dell’esperienza individuale, compreso nei suoi termini e senza riferirsi ad
una realtá oggettiva esterna (Atwood & Stolorow, 1984; 1993: Stolorow,
Brandchaft & Atwood, 1987; Stolorow & Atwood 1992; Orange, Atwood &
Stolorow, 1997). Inoltre, questo mondo è sempre visto nel contesto relazionale
dell’interazione con altri mondi come questo. Cominciamo con il riesaminare la
classica distinzione tra nevrosi e psicosi.
Nevrosi e Psicosi
Il criterio secondo il quale e’ stata tradizionalmente accettata la distinzione tra
nevrosi e psicosi, risiede nella valutazione del contatto che il paziente mantiene
con la realtá oggettiva. La psicosi, per definizione, viene vista come condizione
patologica che implica la rottura con la realtá, mentre la nevrosi, al contrario,
viene vista come condizione patologica nella quale il contatto con la realtá è
preservato. Questo concetto di antica data è bene illustrato nei due ben noti scritti
di Freud, “Nevrosi e Psicosi” (1924a) e “Il problema della realtá nella nevrosi e
nella psicosi”(1924b), nei quali egli provó a delineare le somiglianze e le
differenze tra queste ampie categorie della psicopatologia, riferendosi al modello
strutturale tripartito della mente. Freud sosteneva che in entrambi i casi, le
difficoltá dei pazienti derivavano alla fine dalla “perdita dell’appagamento di uno
di questi eterni incontrollabili desideri dell’infanzia che sono cosí profondamente
radicati nella nostra costituzione” (1924), ossia dagli impulsi insoddisfatti dell’Es.
La differenza tra nevrosi e psicosi, secondo questa descrizione, sta nel modo in cui
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viene riconciliato il conflitto tra i desideri istintuali insoddisfatti e le forze che si
oppongono ad essi. Nel caso della nevrosi, “l’Io resta veritiero nella sua fedeltá al
mondo esterno e tenta di soggiogare l’Es”, mentre nella psicosi “l’Io permette a sé
stesso di essere soggiogato dall’Es ed [è] in tal modo staccato dalla realtá”
(1926). In una formulazione simile ma piú complessa (Freud, 1926), nevrosi e
psicosi traggono origine dalla ribellione di una parte dell’Es nei confronti delle
frustrazioni del mondo esterno. Il conflitto è risolto in ogni caso in due stadi:
[Il primo stadio e’] lo strappo dell’Io dalla realtá, mentre [nella nevrosi] il secondo
[stadio] prova a migliorare il danno fatto e a ristabilire la relazione con la realtá a
spese dell’Es … Con la psicosi, il secondo stadio è sia un tentativo di rendere
buona la perdita della realtá, anche se a scapito di una restrizione dell’Es, che,
utilizzando un modo piú elegante, il creare una nuova realtá che non è a lungo
piu’ aperta alle obiezioni rispetto a quella che è stata abbandonata (1926, p.203-
204).
Freud ha sintetizzato la differenza dichiarando che “nella nevrosi una parte della
realtá è evitata da una sorta di volo, ma nella psicosi essa è rimodellata” (1926 b,
p.204). Questo rimodellamento rappresenta “un nuovo fantastico mondo esterno
della psicosi [che] tenta di collocarsi al posto della realtá esterna” (1926b, p.204).
La distinzione tra la nevrosi e la psicosi, cosí concepita, si basa su una visione
della mente che è cartesiana alla quinta essenza, dato che immagina la persona
come un essere - una cosa pensante - che comprende, accuratamente o no, la realtá
esterna che la circonda.
Nella psicoanalisi freudiana, e generalmente nella psichiatria tradizionale, il
giudizio se le esperienze del paziente sono in linea con questo mondo
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oggettivamente vero, è lasciato all’osservazione del clinico, che si presuppone sia
in una posizione privilegiata per poter determinare cosa sia o non sia vero e reale.
In una cornice fenomenologica post-cartesiana come devono essere viste le
differenze cliniche tra la nevrosi e la psicosi? Questo problema è coerente alla
luce del fatto che questa distinzione assoluta si basa su fondamenti cartesiani?
Concentrarsi sull’esperienza ci conduce lontano dal giudicare della veridicitá di
cosa sia percepito e creduto, e ci porta verso una valutazione delle realtá personali
e dei mondi soggettivi nei loro termini, senza alcun riferimento allo standard
esterno del Reale. Se da un lato si riconosce che un approccio rivisitato di questo
tipo mina necessariamente le basi per ogni sottile dicotomia tra questi
raggruppamenti psicopatologici, e che piú propabilmente ci troviamo a lavorare
con una sorta di continuum definito da varie dimensioni della soggettivitá,
dall’altro lato potremmo dare una risposta preliminare secondo cui le cosiddette
psicosi mostrano delle esperienze che non appaiono con la stessa rilevanza
nell’ambito di quelle diagnosticate come nevrotiche o normali. Queste esperienze,
come detto sopra, ruotano attorno al tema dell’annichilimento personale, soggetto
che noi considereremo adesso in modo piú dettagliato.
L’esperienza dell’annichilimento personale
Un’aura di impenetrabilitá ha circondato da sempre le psicosi, cosí lontane
dall’esperienza comune ordinaria e perció cosí estremamente difficili o addirittura
impossibili da raggiungere empaticamente. Questa difficoltá avvertita, appartiene
sicuramente alla definizione stessa di queste patologie, in quanto la loro
caratteristica essenziale è paragonata ad un allontanamento dal cosiddetto mondo
vero e reale in cui vive un individuo normale. Secondo il nostro punto di vista,
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tuttavia, le difficoltá che si incontrano nel provare empatia per gli stati soggettivi
presenti in questo spettro cosí ampio di disturbi psichici, non sono semplicemente
dovute alle esperienze implicate che sono cosí lontane dalla vita normale di un
essere umano. Da una fonte completamente diversa, emerge un grosso ostacolo, e
cioé le convizioni del clinico che osserva sulla natura dell’esperienza in se stessa e
in ultima analisi sulla natura della persona. Quando si pensa che una persona
possiede una mente, e a sua volta questa mente e’ concepita come se avesse
un’interioritá occupata da contenuti psichici consci (e probabilmente inconsci),
viene automaticamente stabilita una struttura che definisce nettamente i confini di
una individualitá rispetto ad un mondo esterno oggettivamente reale. Questo
quadro dicotomizza il campo soggettivo in un (mondo) interno e uno esterno,
reifica e irrigidisce la distinzione tra essi e concepisce la struttura che ne emerge
come costitutiva dell’esistenza umana in generale.
Una volta compreso che la prospettiva cartesiana della persona reifica e
universalizza questo specifico modello di esperienza, si puó anche comprendere il
motivo per cui gli stati soggettivi che appaiono cosí emergenti nelle psicosi, non
potrebbero mai essere compresi adeguatamente da un sistema concettuale che
poggia su premesse cartesiane. Questi stati includono sia esperienze di
disgregamento dei confini che delimitano l’io e il non-io, sia esperienze di
frammentazione e di perdita della propria identità, nonché la disintegrazione della
realtà stessa. Al contrario una cornice fenomenologica si presenta sgombra da
immagini oggettivizzanti della mente, della psiche o dell’apparato psichico, ed è
perció libera di studiare l’esperienza senza valutarla per la sua veridicità rispetto a
una presunta realtà esterna. L’esplorazione degli stati di annichilimento non
presenta quindi particolari difficoltà filosofiche, poiché dobbiamo preoccuparci
solo della persona e del suo mondo, in qualunque stato essi si presentino.
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Nello studio dell’annichilimento psichico, ci si potrebbe concentrare
sull’esperienza di sé o più estesamente, sull’esperienza del mondo, dove la prima
è vista come un’area centrale inclusa all’interno dell’altra. Le esperienze di sé e
del mondo sono legate inestricabilmente l’una all’altra, in modo tale che qualsiasi
cambiamento importante nell’una implica necessariamente cambiamenti
corrispondenti nell’altra. La dissoluzione di sé, ad esempio, non è un evento
soggettivo che lascerebbe il mondo della persona altrimenti intatto sottraendo in
qualche modo il senso di sé della persona. L’esperienza della perdita di sé vuol
dire la perdita di un centro permanente in relazione al quale sono organizzate la
totalitá delle esperienze dell’individuo. La dissoluzione del senso di sé produce
pertanto un inevitabile effetto disintegratore sull’esperienza della persona in
generale e alla fine ha come risultato la perdita di coerenza del mondo stesso. Allo
stesso modo, la rottura dell’unitá del mondo significa la perdita di una realtá
stabile, in relazione alla quale viene definito e sostenuto il senso di sé, e a questo
segue inevitabilmente un’esperienza di frammentazione del sé. Perció la
disintegrazione del mondo e la dissoluzione del sé sono due aspetti inseparabili di
un unico processo, due lati della stessa catastrofe psichica.
L’esperienza di annichilimento si trova nel nucleo centrale delle psicosi, e ció
viene spesso espresso direttamente nelle affermazioni in cui la persona si sente
morta o che sta morendo, che non ha un sé, che non esiste, che è assente piuttosto
che presente. Spesso viene detto anche che il mondo non è reale, che si è
frammentato in piú pezzi, e che sta giungendo alla fine. Qualche volta la
distruzione della realtà personale si rende evidente nell’esperienza di precipitare
per sempre, di girare senza controllo, di contrarsi all’infinito e di scomparire, o di
essere inghiottito nell’ambiente circostante. Tuttavia nel quadro clinico
predominano piú frequentemente gli sforzi riparativi per ridare senso all’esistenza,
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e questi sforzi appaiono in una grande varietá di forme. Il senso di essere irreale o
di diventarlo, ad esempio, dà origine alla continua preoccupazione di guardarsi
allo specchio, come se fissarsi sul contorno dell’essere corporeo potesse
compensare la sensazione di un evanescente senso di sé personale. L’esperienza di
morte al centro dell’esistenza di una persona, porta in contrapposizione a cercare
un senso di vitalitá che può essere offerto dall’intensità della sensazione in un
dolore auto-inflitto, in una sessualitá bizzarra, o in situazioni e avventure eccitanti
che sfidano la morte. Il dissolversi dei confini corporei, e il sentimento terrificante
di fondersi con l’ambiente circostante fa sì che si arrivi a indossare piú abiti l’uno
sull’altro, ed esprime il tentativo di ristabilire e proteggere un senso devastato di
una integritá di sé delimitata. Una rottura nella percepita continuità dell’indentità
personale porta nel tempo all’ossessione di ricordare e rivivere un grande numero
di eventi presi dal passato recente e remoto, e rievocare i vari eventi incarna lo
sforzo di porre in un tutt’uno quei frammenti della storia personale che erano stati
temporaneamente scissi. L’esperienza della disintegrazione della realtà stessa,
dello smembrarsi del mondo in una confusione di percezioni slegate tra loro, e di
accadimenti privi di significati, apre la strada a deliri di riferimento in cui gli
elementi isolati sono tessuti insieme e forniti di un significato oscuro e
direttamente personale. Gli impercettibili cambiamenti delle sembianze dei
familiari, sembrano indicare delle modificazioni e delle rotture di identitá
preannunciando la frammentazione del mondo in un caos temporale, e queste
rotture nella continuità vengono riparate e appianate dall’idea delirante che i
familiari siano stati in qualche modo sostituiti da nefasti impostori. In ciascuna di
queste situazioni, il tratto piú importante è rappresentato dal tentativo di
reintegrare un mondo frammentato e di ristabilire la sensazione di esistere in
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modo coerente e costante, mentre al tempo stesso lo stato di annichilimento
sottostante recede nello sfondo.
In altri casi, invece, il senso di annichilimento stesso emerge in primo piano,
spesso attraverso simboli vividamente concreti, tanto che le immagini della
distruzione personale pervadono e dominano l’esperienza dell’individuo. In
questo caso, l’estremo a cui è portata la concretizzazione aiuta a mantenere la
consapevolezza dello stato di dissolvimento del senso di sé. Ad esempio
l’immagine di essere avvelenati da agenti chimici mortali o da gas invisibili,
descrive concretamente la sensazione di essere infiltrati e successivamente
eliminati dall’impatto intrusivo dell’ambiente circostante. Allo stesso modo, la
descrizione di una macchina che invia a distanza raggi che influenzano la mente e
il corpo, formula l’esperienza della perdita della sensazione di essere iniziatori
delle proprie azioni e di cadere sotto il controllo obliterante dei programmi altrui.
Vengono inoltre immaginati agenti governativi che cospirano e uccidono, e questi
personaggi concretizzano il tratto dell’annullamento psicologico nei confronti di
spinte irresistibili che provengono dagli altri individui emotivmente significativi.
Improvvisamente si percepisce che il cervello si trova nelle mani di una entità
soprannaturale, simbolizzando così una potente mancanza di convalida e
usurpazione della soggettività della persona.
Qualche volta all’immaginario dell’annichilimento si interpone o addirittura si
sostituisce qualcosa che sembra essere grandioso o delle visioni altamente
idealizzate di se stessi o degli altri. Queste ultime immagini esprimono i tentativi
di far risorgere tutte quelle parti del senso di sé e del proprio mondo che sono state
soggette alla frammentazione e alla cancellazione. I concetti di grandiosità e
idealizzazione sono comunque problematici se compresi nel contesto della
fenomenologia dell’annichilimento personale. Identificare una particolare
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esperienza come idealizzata o grandiosa, implica un giudizio e uno standard
comune che definisce cosa sia e cosa non sia ragionevole credere per una
persona. Per grandiosità si intende l’appropriarsi da parte di una persona di potere,
perfezione e importanza che in realtà non possiede. Idealizzazione, nell’accezione
tradizionalmente utilizzata del termine, significa amplificare l’importanza e la
perfezione di un’altra persona emotivamente significativa. Tuttavia, nel contesto
dell’annichilimento personale, non si può affermare che le cosiddette
idealizzazione e grandiosità si approprino o esagerino qualche cosa. Quello che,
da un punto di riferimento esterno, sembra essere una esagerazione oltraggiosa,
potrebbe essere compreso, se considerato soggettivamente, come qualcosa che
rinforza il senso di esistere di una persona, come se quella persona possedesse un
certo potere e una soggettività, come se la sua esperienza appartenesse solo a lei
stessa, come se il proprio mondo avesse coerenza e fosse perpetuamente reale. La
pretesa delirante di essere i padroni del mondo, per esempio, potrebbe
profondamente racchiudere la sensazione della dissolvenza delle proprie
percezioni e dei propri pensieri. Allo stesso modo, affermazioni stravaganti di
capacità e conquiste personali potrebbero cristallizzare e intensificare
un’esperienza altrimenti pericolosa di autonomia e senso di essere iniziatori delle
proprie azioni. Le visioni di discendere da una famiglia reale o di rappresentare il
figlio prescelto di Dio, accentuano e proteggono un evanescente senso di
connessione a un altro che sostiene il mondo. L’idea che una persona sia penetrata
nel più intimo segreto del cosmo, che conosca la chiave per comprendere le
interrelazioni di tutte le cose esistenti, custodisce e preserva l’integrità del mondo
personale a fronte del pericolo della sua totale disintegrazione. In ognuno di questi
esempi, il dato problematico non è rappresentato dal fatto che queste qualità
idealizzate o grandiose siano attribuite a se stessi o agli altri; è piuttosto che
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l’universo personale dell’individuo viene assalito e si trova in pericolo di essere
annichilito.
Occupiamoci ora dei contesti intersoggettivi in cui prendono forma le esperienze
che abbiamo descritto.
Il contesto intersoggettivo dell’ annichilimento
Nel libro “Intersoggettività e lavoro clinico” (Orange, Atwood & Storolow,
1997), si afferma che l’esperienza dell’annichilimento personale riflette una
catastrofe intersoggettiva in cui sono crollate al livello più fondamentale quelle
relazioni con gli altri che sostenevano psicologicamente la persona. In che cosa
consiste questo crollo? Consiste nella perdita di connessioni convalidanti e
confermanti con gli altri e nella disgregazione del mondo soggettivo attraverso la
violazione e l’usurpazione. Sebbene le circostanze e gli eventi concreti della vita
che giocano un ruolo fondamentale nell’origine dell’annichilimento siano
particolarmente variabili, essi hanno in comune l’effetto di indebolire il senso di
esistere e di essere reale di una persona nei suoi aspetti piú essenziali, inclusa
l’esperienza di se stessa come soggetto e agente attivo, come se possedesse
un’identità coerente e avvertita come autenticamente propria, come se possedesse
un confine ben delimitato e che delimita l’io dal non io, e come fosse continua nel
tempo e oltre la storia.
Considerare l’annichilimento psichico nel contesto di un campo intersoggettivo
significa dire che questa esperienza viene interpretata come se accadesse
all’interno di un sistema vivente di mutua influenza. Le manifestazioni visibili
dell’esperienza non sono quindi viste scaturire da una condizione patologica
localizzata semplicemente all’interno del paziente; e neppure tuttavia, sono
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considerate semplicemente come reazioni conseguenti a una vittimizzazione
primaria per mano degli altri. Queste concezioni unilaterali, che sottolineano
un’unica determinazione sia da parte del paziente sia da parte dell’ambiente
umano, non tiene in considerazione il complesso processo transazionale che
avviene tra i due. Talvolta le persone che vivono le esperienze descritte sopra,
sono viste come se si portassero addosso una vulnerabilitá speciale o perfino una
predisposizione considerata come fattore determinante nella genesi
dell’annichilimento personale. Il problema di questa idea è che essa rappresenta
un ritorno al pensiero oggettivista e cartesiano, all’interno del quale i fattori
localizzati “dentro” un individuo - nella sua mente o nel suo cervello - divengono
cause operative nell’evolversi degli stati soggettivi. Abbiamo quindi il quadro di
una mente isolata, che contiene vulnerabilità ed emotività predisposte, che crolla
di fronte a pressioni esterne oggettive di qualche tipo. In una cornice di
comprensione intersoggettiva, non ci sono vulnerabilià del tutto isolabili che
esistono all’interno di qualcuno, poiché quello che appare o che non appare come
una vulnerabilitá si materializza solo entro specifici campi intersoggettivi.
Immaginate una paziente che sente di non essere presente, di non esistere, e di non
avere sé. Immaginate inoltre che qualcuno che non è abituato a gestire situazioni
come queste le chieda: “Come stai oggi?” L’uso del pronome personale “tu”
suggerisce alla paziente un livello di esistenza di cui non ha esperienza, aprendosi
di conseguenza un abisso di incomprensioni e non validazioni tra lei e
l’interlocutore. Forse la paziente risponderà: “Un miliardo di anni luce”,
esprimendo quanto si senta lontana dall’interlocutore, in considerazione della
semplice ipotesi che era stata formulata, e per cui esiste un “tu” verso il quale la
richiesta sarebbe comprensibile, un “tu” che potrebbe dare notizie su come essa si
senta in quel momento. Forse la paziente vive anche un’invasione e
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un’usurpazione da parte delle supposizioni ingiustificate dell’interlocutore, e
inizia a parlare di una macchina che invia dei raggi al centro del proprio cervello,
per dare forma e sostanza a questo profondo annichilimento. Dal punto di vista
dell’interlocutore, il quale considera le cose da un punto di vista cartesiano, le
risposte della paziente sono assolutamente incomprensibili. La domanda è stata
posta in modo chiaro e appropriato dopo tutto, e le risposte si presentano prive di
un’apparente connessione con quello che è Vero e Reale. La paziente al massimo
è lontana solo qualche metro piuttosto che anni luce, e non esiste alcuna macchina
al mondo che possa fare ciò che la paziente afferma in questo momento.
Evidentemente, egli pensa, l’emotività e le vulnerabilità di questa paziente sono
tali, che la più sottile interazione umana dà adito a reazioni bizzarre causate da
processi patologici nella mente e/o nel corpo della paziente. Così è iniziata una
disgiunzione intersoggettiva che si alimenta reciprocamente, nella quale
l’interlocutore attribuisce i difetti alla mente/cervello della paziente, proprio come
la paziente sente la propria mente/cervello come se fossero penetrati e abitati da
influenze sconosciute.
Immaginiamo adesso un secondo individuo che parla alla paziente in modo
diverso, che trova il modo di riconoscere il senso di non esistenza della paziente e
che comprenda inoltre la sua prontezza ad arrendersi a tutto quello che le venga
attribuito. Egli parlerà alla paziente in terza persona, trasmettendo la sua
conoscenza di quanto sia terribile non esistere, e fa sapere alla paziente,
utilizzando esempi molto concreti, che lei non è sola nella catastrofe rappresentata
dalla situazione che sta attraversando in questo momento della sua vita. La
paziente, sorpresa da questo approccio così differente, inizia a sentirsi veramente
compresa e, paradossalmente, inizia a sentire una vibrazione nella sua stessa
esistenza, dei momenti di esistenza appena percepiti alternati alla continua
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sensazione di non esistenza o di non essere. Questi momenti di esistenza, che si
manifestano in seguito all’esperienza validante di essere vista e riconosciuta,
contengono una dolorosa vitalità, che contrasta drammaticamente con
l’intorpidimento e il senso di morte che accompagnano il senso di non esistenza.
Probabilmente la paziente, dopo un lasso di tempo, dirà di essere stata punta da
uno sciame di api, dando forma a quei sporadici momenti di vitalità che si
alternano agli episodi familiari di morte e di non essere. Immaginiamo piuttosto
che questa seconda persona percepisca allo stesso modo la metafora di questo
delirio transitorio, e trovi i modi per affrontare l’esperienza ambivalente che la
paziente sta avendo nel tornare alla vita. In questo modo, il suo senso di esistenza
si rafforza nuovamente, attraverso l’incomparabile potere del riconoscimento
umano. La prontezza della paziente ad arrendersi alle attribuzioni e alle
definizioni degli altri, per se stessa inscritta in una complessa e infinita storia di
transazioni intersoggettive, non è implicata in primo piano in questa seconda
interazione e quindi non appare né come un difetto e tantomeno come una
vulnerabilità operativa nelle esperienze che si sviluppano. Questo accade poiché,
in questo caso, il campo intersoggettivo è caratterizzato da un lato dal graduale
sviluppo della comprensione e dall’altro dalla predominanza della convalida e da
un sempre maggiore senso di esistere.
Nell’esempio citato precedentemente, possiamo riscontrare come un clinico che
lavori basandosi su assunti cartesiani, non sia nella posizione di poter
comprendere le esperienze del non essere. Agli occhi di un osservatore del genere,
semplicemente non è vero che la paziente non esiste, non è vero che sia assente, e
la sua esclamazione sulle macchine che la influenzano utilizzando raggi penetranti
sembra delirante in modo bizzarro. Naturalmente, ogni singola reazione da parte
del clinico a questa visione, intensifica l’esperienza di non convalida e
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annichilimento della paziente, alimentando una spirale di mondi disgregati nei
quali la paziente stessa elabora immagini del proprio annullamento sempre piú
reali, e il clinico si spaventa sempre piú allo spettacolo di follia che si sta
schiudendo innanzi ai suoi occhi. I cosiddetti deliri della paziente, nel contesto di
questo circolo vizioso, emergono come espressioni di soggettivitá messe sotto
pressione, prodotti della guerra di mondi costituiti dalla mutua incomprensione e
dalla mutua non convalida.
Al fine di definire e illustrare ulteriormente il contesto dell’annichilimento
personale, vorrei parlare di un’altra paziente, una giovane donna cattolica la quale
per anni aveva avuto visioni in cui possedeva uno speciale contatto con Dio. Nelle
vivide allucinazioni e nei deliri elaborati, ella viveva un’unione con Dio il Padre e
con Dio il Figlio, identificandosi ora con la Santa Vergine, ora con lo Spirito
Santo o con lo stesso Gesù Cristo. Per il fatto di aver riferito di essersi accoppiata
sessualmente con Gesù, di essere fisicamente volata a Roma nelle braccia del
Papa, e di essere il tramite del potere curativo di Dio, colei che riappacifica
l’intera razza umana, le persone che vivevano accanto a lei non avevano la
capacità di collegare le loro esperienze personali alle sue in un dialogo sensato.
Per questo motivo fu detto che la paziente aveva perso il contatto con la Realtá e
che era psicotica. Naturalmente da un punto di vista fenomenologico una diagnosi
o un giudizio di questo tipo non sussistono, dato che si cerca invece di
comprendere la paziente nei suoi termini soggettivi stessi, esplorando la storia
degli eventi che avrebbero potuto rendere la sua situazione umanamente
intellegibile. Questa indagine ha fatto sì che emergesse un incidente significativo
accaduto negli anni dell’adolescenza della paziente, il suicidio improvviso del suo
amato padre in seguito ad amare delusioni nella vita privata e in quella
professionale. Inoltre si scoprì che il suicidio del padre era stato messo a tacere
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dalla famiglia, falsamente ridefinito come un incidente e infine nascosto dietro un
muro di silenzio impenetrabile. In tal modo i rapporti della famiglia continuarono
come se il suicidio del padre non fosse mai accaduto, si parlava così poco di lui
che egli fu relegato allo stato di qualcuno che non era mai esistito. Negli anni che
seguirono l’allontanamento della famiglia dalla vita e dalla morte del padre era
stato il contesto di un senso di morte interiore e di isolamento gradualmente
sempre più profondi della paziente. Questo fu inoltre la cornice delle sue prime
ruminazioni su Gesù Cristo e su un posto speciale nella Santa Trinitá che
immaginava per se stessa. Per più di dieci anni, i pensieri religiosi segreti sulla sua
relazione con Dio gradualmente sbocciarono in realtà deliranti ben strutturate, che
esplosero alla fine con grande violenza all’interno della famiglia, portandola al
primo dei numerosi ricoveri psichiatrici. Espressioni fondamentali della paziente
in questo periodo erano rappresentate da forti e vigorose richieste di essere
immediatamente unita a Gesú, che lei credeva si fosse miracolosamente
reincarnato nei panni di un consulente affiliato alla chiesa che aveva conosciuto
un tempo e per il quale aveva lavorato per un breve periodo di tempo.
Il legame con il padre – sostegno fondamentale per la paziente nel corso
dell’adolescenza - non solo era stato perduto quando era morto; la sua morte era
stata un suicidio intenzionale, che era impensabile se, come lei aveva creduto
durante i suoi primi anni di vita, il padre l’avesse amata realmente. Tuttavia, la
stessa esperienza insopportabile di esser stata tradita dal genitore, era stata
soppressa dalla negazione della famiglia, cosicché sia la realtà di quello che aveva
conosciuto quando lui era ancora in vita, sia le sensazioni legate alla perdita così
cruenta, furono annullate e messe a tacere, indebolendo il suo reale senso di sé
mano a mano che il sentimento di morte si espandeva e approfondiva. In che
modo si può comprendere queste forti richieste religiose apparentemente
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fantastiche, nel contesto dell’ abbandono e della devastazione personale?
L’analista cartesiano, seguendo Freud, si concentra inevitabilmente sulla evidente
disparitá tra quello che la paziente crede e la realtá oggettiva della sua vita,
percependo una carenza nel verificare la realtá, una rottura con l’oggettivamente
reale, e la creazione, al suo posto, di una alternativa idealizzata. Da questo punto
di vista, sia le tumultuose fantasie religiose che i deliri, appaiono come succedanei
soddisfacenti della perduta connessione con il padre, e il disturbo della paziente
sembra consistere precisamente nella sua immersione in queste fantasie, a scapito
della triste e dolorosa situazione reale. Al contrario, un’analisi intersoggettiva, si
focalizzerebbe su come i cosiddetti deliri della paziente proteggano e preservino
un mondo frammentato, su come ricostruiscano una realtá personale che era stata
sostanzialmente annientata, su come essi rappresentino un tentativo di resuscitare
un legame che sostenga il mondo nel corso di una esperienza di completo
annullamento. Lungi dall’esprimere un decollo dalla realtá dolorosa, secondo
questa visione post-cartesiana, si comprende come ella abbia utilizzato i simboli
della sua fede per incapsulare i resti del legame distrutto con il padre e quindi
mantenere uno stato di sospensione su tutto quello che era di piú reale nel suo
mondo e nella sua stessa esperienza. Le incessanti richieste di essere unita a Gesú
Cristo, che la paziente reiterava aggressivamente nel corso delle prime fasi del
trattamento, erano quindi lamenti per poter mantenere una connessione che salva
il mondo dalla quale dipendeva la sua stessa esistenza.
Considerare delirante una persona di questo tipo, evidenzia la disparità che esiste
tra le sue esperienze e le sue convinzioni e le condizioni della supposta realtá
esterna. Da questo punto di vista, si materializza inevitabilmente un obiettivo che
porta le idee della paziente in conformitá con tutto quello che generalmente è
accetto e considerato vero e reale. Queste convinzioni normative non hanno
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spazio per una connessione speciale con Gesú Cristo o i voli solitari verso Roma,
essendo viste solo come fantasie patologiche che debbono essere interpretate,
abbandonate e/o soppresse. Ci si potrebbe chiedere: quale é l’effetto che ha sulla
paziente l’essere visti e trattati in questo modo? Questo punto di vista comunica
inevitabilmente il messaggio che i desideri più forti della paziente sono male
interpretati e le uniche speranze di poter ripristinare la propria realtá e se stessa
restano senza fondamento. Questo messaggio rafforza ed avvalora l’abbandono
emotivo e la non convalida che la paziente ha vissuto per mano del padre e della
famiglia, e il suo effetto è quello di accelerare il processo delirante di pari passo
con la ricerca della propria sopravvivenza, in un modo vividamente
drammatizzato e sempre piú concreto. Inizia cosí un nuovo circolo vizioso, nel
quale mondi disgregati combattono l’uno con l’altro in un ciclo senza fine di
incomprensioni senza fine e di reciproche invalidazioni.
D’altro canto, un analista che comprende il significato del “grido” del paziente, si
avvicina senza l’intenzione di riallineare il contenuto della sua esperienza; il suo
intento sarà piuttosto quello di introdurre un elemento nuovo nella vita giá cosí
devastata della paziente, elemento attorno al quale ridefinire il fulcro emotivo
della sua esistenza. Questo elemento sará incorporato nell’esperienza della
paziente e nella comprensione dell’analista, fattore quest’ultimo emozionalmente
potente, calmante e rassicurante nel suo effetto.
L’analista imporrá quindi la sua presenza, all’inizio fisicamente sia nel tempo che
nello spazio, apparendo via via regolarmente e orientando l’attenzione del
paziente verso interazioni di vario tipo semplici e concrete. Quando alla fine - ed
inevitabilmente lo saranno - l’insieme di tutti gli sforzi deliranti si rivolgeranno
verso di lui nel tentativo di salvare se stessa ed il suo mondo, ed ella richiederá di
riunirla con l’uomo che crede essere Gesú Cristo, egli gentilmente ma fermamente
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risponderá dicendole che esiste solo una persona al mondo che lei dovrebbe essere
preoccupata di incontrare e che quella persona é lui stesso. Egli inoltre le
spiegherá che non vi saranno incontri con nessuno eccetto che tra di loro, e il
lavoro che svolgeranno insieme la fará sentire nuovamente bene e ritornerá a casa
dalle persone che la amano.
In tutti questi interventi, l’analista è mosso dalla consapevolezza di dover essere
colui che “eredita” le ambascie della paziente, e che la relazione con lei
rappresenta il principale campo di battaglia sul quale elaborarne la sopravvivenza
psicologica. Come risponderá la paziente a tutto questo? Il processo delirante,
lungi dall’essere esacerbato, inizia a diminuire nel momento in cui l’analista
diventa la persona in relazione alla quale la paziente può recuperare il senso di se
stessa e della realtá del suo mondo distrutto. All’inizio la dipendenza nei confronti
dell’analista è estrema, tanto che lei afferma perfino che il suo nuovo terapeuta
possiede un qualche status speciale rispetto a Dio Onnipotente. Queste espressioni
vengono capite dal terapeuta come riflesso del potere del legame che si sta
formando, legame che sottende un universo frammentato che sta nel bel mezzo di
un processo di riassemblaggio. L’analista di conseguenza non dà risposte a queste
attribuzioni a livello del contenuto letterale, e si occupa invece di rinforzare il
legame che si sta creando e che ella ha appena iniziato ad avvertire. Ogni passo
verso il consolidamento del loro legame é accompagnato sia da una ulteriore
stabilizzazione del mondo della paziente, sia da una progressiva
decentralizzazione delle sue immagini religiose, man mano che la loro funzione
viene trasferita sulla relazione terapeutica. Nelle prime fasi di questo processo di
guarigione, ogni disturbo del legame che si sta creando produce una forte reazione
di terrore e abbandono, accompagnata a volte da una nuova insorgenza di fantasie
religiose. Man mano che il legame minacciato viene ristabilito in ogni circostanza,
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il terrore scompare e l’immaginario religioso si affievolisce. In questo modo,
viene gradualmente stabilizzata la situazione entro la quale le sue esperienze di
abbandono, tradimento e non convalida possano iniziare ad essere affrontate e
curate su un fondamento duraturo.
Una volta adottato il metodo post-Cartesiano nel trattamento delle psicosi, come
l’abbiamo descritto nei due casi precedenti, si solidificano nuovi modi di
comprendere e compaiono opportunità di interventi terapeutici precedentemente
non considerati. Ora continuiamo a seguire le implicazioni di questo cambio di
prospettiva trattando altri due importanti problemi nella psicoanalisi clinica per i
quali la comprensione degli stati di annichilimento riveste un’importanza centrale:
il problema della mania e la natura del trauma psicologico nelle sue forme piú
estreme.
La protesta maniacale
Gli stati maniacali della mente sono tradizionalmente definiti come
allontanamento del tono dell’umore, del pensiero e del comportamento
dell’individuo, da uno standard prestabilito di normalitá. Tra i segni diagnostici
spesso utilizzati per identificare questo stato psicologico, vi sono caratteristiche
come l’euforia non realistica, l’accelerazione del pensiero, i progetti, i piani
grandiosi e stravaganti, l’ipersessualità, l’irritabililità estrema e l’insensibilitá
verso i bisogni e i sentimenti degli altri. L’applicazione di questi criteri all’interno
della cornice cartesiana, rimanda a concetti normativi sulla salute mutuati
dall’esterno e ostacola inevitabilmente l’esplorazione della mania vista attraverso
il mondo esperienziale del paziente. La visione psicoanalitica della mania
considerata come alterazione del tono dell’umore che trae origine esclusivamente
20
da dinamiche intrapsichiche contribuisce inoltre a non farci prendere in
considerazione il contesto relazionale in cui si inscrive questo stato soggettivo. Di
conseguenza nel momento in cui per questo problema si utilizza un orientamento
cartesiano, possiamo porci due domande. Primo, quali sono le caratteristiche della
mania quando questa viene esaminata da una prospettiva che cerca di avvicinarsi
il più possibile a come essa venga sentita? Secondo, quale é la configurazione del
campo intersoggettivo caratteristicamente connessa con l’insorgere di episodi
maniacali? Affronteremo queste domande guidati dalle fondamentali intuizioni di
Brandchaft (1993), rivisitando brevemente alcune esperienze raccontate in due
descrizioni autobiografiche di questo fenomeno: “Una brillante follia di Patty
Duke” (Duke & Hochman, 1992) e “Una mente inquieta” di Kay Jamison (1993).
Nel corso di uno dei tanti episodi maniacali avuti dalla Duke durante i primi anni
dell’etá adulta, comparve un potente delirio in cui agenti di governi stranieri si
erano infiltrati nella Casa Bianca a Washington, D.C. La Duke credeva che questi
infiltrati avessero gradualmente assunto il comando del governo americano. La
sua missione consisteva nel viaggiare in lungo e in largo per tutto il paese e
salvare personalmente la nazione, al fine di estirpare gli invasori e riconsegnare la
gestione del governo nelle mani del governo americano. Al tentativo di svolgere
nella realtà questa missione, era seguito uno dei suoi numerosi ricoveri psichiarici.
Analizzando questo tipo di delirio come possiamo chiarire la natura e il contesto
dell’esperienza maniacale? Pensiamo che la visione della Duke in cui agenti
stranieri interferiscono sulle decisioni del governo americano, concretizzi
l’usurpazione psicologica che si accompagna alla sottomissione nei confronti
degli interessi e dei programmi degli altri nel definendo la sua identitá e
governando il corso della sua vita. Il dato piú significativo della sua vita, assai
rilevante a questo fine, é rappresentato dal fatto che era cresciuta in circostanze
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dense di abusi e di sfruttamento come “creatura” dell’industria
dell’intrattenimento. Consegnata giá in giovane etá nelle mani di agenti dello
spettacolo e di produttori, era vissuta in un mondo che non era mai stato realmente
il suo, diventando, al prezzo di un’infanzia rubata, una star acclamata e conosciuta
in tutta la nazione. Comprendere questo livello di schiavitù emotiva ci aiuta a
identificare una caratteristica centrale del significato della mania nella situazione
personale della sua vita. I suoi stati maniacali contenevano nel loro nucleo il
tentativo di liberarsi - uno sfogo o una rottura - dalle determinanti esterne del
contenuto della sua identitá e della direzione della sua vita. Questa liberazione,
che Brandchaft ha descritto come "allentamento transitorio di un legame
schiavizzante" (1993, p. 72), rappresenta naturalmente solo una faccia della
medaglia, dove l’altra faccia rappresenta l’arrendersi e consegnare la propria vita
al potere definitorio dei programmi altrui. L’alternativa oscura alla mania, come
illustrano simbolicamente le immagini deliranti della Duke che rappresentano il
precario governo americano, é il continuo assoggettamento al potere normativo
delle definizioni invasive degli altri che riguardano chi siamo e come dobbiamo
vivere.
È per noi di particolare interesse che "Una Brillante Follia" sia stato scritto a
quattro mani con un giornalista scientifico, il quale ha partecipato alla stesura di
numerosi capitoli del libro della storia della Duke dal punto di vista della
psichiatria biologica. Questi capitoli, che ripercorrono il decorso di una malattia
che avrebbe basi biologiche, sono interposti tra quelle parti scritte dalla Duke, in
cui lei racconta la storia della propria vita, e di come l’ha vissuta, dal suo
personale punto di vista. Se considerassimo il libro nella sua interezza come
cronistoria del viaggio dell’anima di Patty Duke, saremmo testimoni del come un
gruppo costituito esclusivamente da determinanti esterne – proprio come gli
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infiltrati immaginari nella Casa Bianca - abbiano preso dimora nella struttura della
sua narrazione di se stessa. Quindi l’autobiografia della sua follia rispecchia il
ciclo del pattern interno della follia stessa, oscillando avanti e indietro tra una
posizione di resa accomodante all’autorità esterna e una posizione di auto-
espressione in cui tenta l’auto-liberazione.
Un alternarsi parallelo tra prospettive contrastanti e esperienzialmente
incompatibili è ciò che troviamo anche nel libro “Una mente inquieta” di Kay
Janison. Sebbene questo libro abbia un’unica autrice, nel flusso delle sue
descrizioni possiamo ascoltare due voci diverse. Una voce è alleata con l’autorità
medica e torna continuamente ad affermare le basi biologiche della malattia
maniaco-depressiva della quale soffre l’autrice. Questa voce descrive gli eventi
della vita della Janison come il dispiegarsi delle manifestazioni di una malattia
organica. L’altra voce dà ripetutamente espressione ad un amore per l’intensità
dell’esperienza che essa prova nella ciclicità degli stati umorali, e solo in modo
molto riluttante acconsente alla diagnosi medica e all’assunzione di farmaci
stabilizzatori dell’umore prescritti dai suoi dottori. Tra i molti incidenti che si
raccontano in questa storia di follia, ce ne è uno che descrive una vivida
allucinazione che codifica simbolicamente aspetti importanti della storia della
Janison. Ella ci narra come una sera – dopo un lungo periodo di attività frenetica
in cui era sempre più confusa – percepì improvvisamente una strana luce dietro i
suoi occhi e vide un’enorme centrifuga nera che in qualche modo si trovava
dentro la sua testa. Poi una figura vestita di un abito da sera bianco e vaporoso con
lunghi guanti bianchi, si avvicinava alla centrifuga portando una provetta di
sangue delle dimensioni di un vaso. L’autrice si riconobbe in questa figura e
riconobbe anche – con orrore – che il sangue macchiava sia l’abito da sera che i
guanti. La figura insanguinata mise la provetta delle dimensioni di un vaso nella
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centrifuga e poi accese l’apparecchio. Paralizzata dalla paura la Janison vide e
ascoltò l’apparecchio che girava sempre più veloce e il suono del tubo di vetro che
si sbatacchiava al metallo si fece sempre più forte. Alla fine la centrifuga esplose
schizzando fuori di sé migliaia di schegge minute. Il sangue era dappertutto,
copriva tutto e arrivava fino al cielo.
Come possiamo capire questa allucinazione? Cosa ci dice della mania della
Janison? Il sangue contenuto nel tubo di vetro può essere visto come simbolo
della sua vitalità interiore, imbottigliato in un ruolo di identità che si basava sulla
compiacenza verso le condizioni in cui era stata allevata. Questa identità, che si
esprimeva nell’immagine della figura in abito da sera, materializza ciò che ci si
aspettava da una giovane donna nel mondo militare tradizionale dell’infanzia della
Janison. Come figlia di un ufficiale dell’aeronautica ci si aspettava da lei che
imparasse “le delicate regole delle buone maniere, la danza, i guanti bianchi e
altre irrealtà della vita” (1995, p. 27); e all’interno della condizione determinata da
queste aspettative c’era ben poco spazio per quella ragazza intensa e mercuriale
che lei descrive di essere stata. La visione del sangue sottoposto all’enorme
pressione della centrifuga dà forma all’effetto schiacciante che avevano avuto i
ruoli che le si richiedeva di ricoprire sull’esperienza di sé della Janison. Quando
esplode la centrifuga questi ruoli sono disintegrati e ha luogo una sorta di
liberazione dello spirito vitale che precedentemente era imprigionato. Ma questa
liberazione avviene in un caos senza struttura che nega il mondo ordinato e
strutturato al quale aveva dovuto adattarsi, ma che non contiene nulla di
organizzato che ne prenda il posto.
Lo stato maniacale, visto da un punto di vista post-cartesiano intersoggettivo, non
deve essere descritto solo come difesa ontro la depressione e non può essere
spiegato come l’esito di trasformazioni esclusivamente intrapsichiche. Un
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significato della mania che ha un’importanza pervasiva è che essa può esprimere
una sorta di protesta contro gli accomodamenti annichilenti verso programmi e
ruoli che non sono autenticamente quelli della persona stessa. La mania dunque
fornisce una riparazione transitoriadella sensazione di essere iniziatori delle
proprie azioni e della autenticità dato che rompe la “coesione a prestito”
(Brandchaft, 1993) di un’identità che si basa sulla compiacenza verso i programmi
degli altri. La ragione per cui questa riparazione può essere solamente transitoria
ed è sempre tanto distruttiva, è che la protesta maniacale è un’esplosione di
pattern familiari che avviene in assenza di qualsiasi tipo di organizzazione
psicologica che possa costituirne un’alternativa. I segni diagnostici classici che
definiscono lo stato maniacale possono quindi venir compresi come
manifestazioni dell’esplosione attiva in una libertà caotica di una vita che si era
arresa. La mania sgorga nell’esistenza grazie a deboli immagini e altrettanto
deboli intuizioni che hanno le loro radici in possibilità di autenticità ormai perse:
quindi il mondo che sembra materializzarsi brevemente negli stati maniacali è
carico di un eccitamento emozionante e di euforia. Improvvisamente tutto sembra
possibile perché un nuovo universo di libertà si è aperto, le opportunità per
un’espressione di sé creativa sono molte, e forse per la prima volta nella sua vita
la persona ha la sensazione esilarante di sapere chi è. Nelle situazioni estreme
ogni limite del pensiero e dell’azione si dissolve e il caos regna in ogni sfera
dell’esistenza personale. Infine – inevitabilmente – il nuovo mondo comincia a
crollare perché non c’è nulla e nessuno che lo sostenga, e perché alla sua base non
c’è alcuna organizzazione che lo abbia mai consolidato. A questo punto appare
spesso una depresisone schiacciante via via che la vecchia identità comincia a
riorganizzarsi e si reinstaurano i vecchi pattern di accomodamento (Brandchaft,
1993). La libertà appena trovata evapora; i sogni di un destino personale glorioso
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svaniscono e i sentimenti di capacità e di essere iniziatori delle proprie azioni che
erano brevemente diventati più intensi vengono sostituiti da un’inerzia mortifera e
annichilente.
L’esperienza della mania coem ogni stato soggettivo, non può essere compresa a
prescindere dal contesto intersoggettivo nel quale appare. I tentativi di “spiegare”
questo stato mentale attribuendolo esclusivamente a fattori interni non
considerano il ruolo costitutivo del campo intersoggettivo e rischiano di cadere in
un riduzionismo iper-semplificatorio. Volgiamo ora la nostra attenzione a un
secondo importante problema nella psicoanalisi clinica: la relazione tra le forme
estreme di trauma e le esperienze di annichilimento personale.
Trauma e annichilimento
Come mai alcune persone rispondono al trauma con un riuscito atto dissociativo,
che lascia cioè relativamente intatta l’organizzazione del loro mondo, mentre
invece altre persone regiscono con l’esperienza di dissoluzione di sé e del proprio
mondo? I punti di vista psicoanalitici tradizionali tendono a rispondere a questa
domanda con concetti come quello di forza dell’Io, che rinvia a un fattore di
resistenza intrinseca esistente all’interno della mente isolata dell’individuo. Si è
spinti a questo tipo di spiegazione nella misura in cui il trauma è concepito in
modo rozzo ed esteriore; quindi si osservano menti differenti che rispondono in
modo differente agli stessi avvenimenti oggettivi.
La teoria psicoanalitica post-cartesiana se da una parte non nega l’esistenza della
forza individuale, dall’altra riconosce che le risorse di ognuno entrano in gioco
nell’ambito di specifici campi intersoggettivi. Inoltre, la natura del trauma stesso
viene compresa in modo variabile parzialmente in funzione del contesto
26
relazionale e storico in cui esso avviene. L’esperienza del trauma che conduce
all’annichilimento, inscritta nel suo particolare contesto, probabailmente differisce
notevolmente da quella in cui avviene una dissociazione. In che cosa consiste
questa differenza? Cercheremo di rispondere a questa domanda rivolgendoci di
nuovo a una storia clinica. Si tratta di una giovane donna la cui vita includeva un
pattern ripetuto per lungo tempo di dissociazione di un trauma estremo e anche,
nella tarda adolescenza, il crollo di questa dissociazione e la comparsa di
esperienze di annichilimento.
La paziente di cui parliamo aveva diciotto anni quando ebbe la sua prima crisi
psicologica che implicava una sensazione di annichilimento personale. Questa
crisi venne scatenata da una persistente allucinazione uditiva che cominciò un
pomeriggio in cui aveva finito i soldi e non sapeva come fare a tornare a casa dei
genitori. Chiamò la madre per chiedere un passaggio e si sentì dire con calma e
cortesia che era perfettamente in grado di trovare per conto suo un modo per
tornare a casa. La paziente era molto depressa a causa di una miriade di
circostanze estremamente difficili nella sua vita in quel momento, e la risposta di
sua madre era disperante e confusiva. Pensava di non essere affatto capace di
trovare alcun modo di tornare a casa, né tantomeno si sentiva capace di percorrere
da sola il tragitto di trenta miglia per tornare a casa. Tuttavia la madre era stata
così positiva e incoraggiante nel dirle di contare su se stessa. Rimase in piedi nella
cabina telefonica dalla quale aveva chiamato, sommersa dalle impressioni confuse
dovute alla conversazione, e improvvisamente sentì una voce che diceva: “Vedi
… sei cieca … vedi … sei cieca … vedi … sei cieca …”. La voce continuava a
dire queste parole senza sosta, spaventandola e confondendola ancora di più. Non
sapeva chi stesse parlando e il significato delle cose che venivano dette era strano
e le sembrava che si spostasse intorno mentre ascoltava. Le affermazioni si
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contraddicevano l’una con l’altra, per cui la prima affermazione diceva che lei
poteva e la seconda diceva che lei non poteva. Con questa confusione ancora non
risolta, tornò a sentire la voce una seconda volta: sembrava spiegarle che in realtà
lei non poteva vedere niente, che di fatto era cieca. Ma se era cieca, e quindi non
poteva vedere assolutamente niente, si domandava, come ci si poteva aspettare da
lei che vedesse di essere cieca? Pensava che la voce ora le dicesse di vedere che
non poteva vedere niente, ma non era in grado di capire cosa ciò potesse
significare. Alla fine le parole stesse si dissolsero e ogni cosa, incluso il suo
corpo, cominciò a perdere solidità e a sembrare irreale. Dopo aver vagato in uno
stato disorientato per parecchie ore, fu raccolta dalla polizia e portata all’ospedale
psichiatrico. I suoi resoconti di quel giorno la descrivono come una persona in uno
stato di psicosi florida.
C’erano tre circostanze che influenzavano questa giovane donna al momento del
suo primo crollo. La prima era che si era diplomata alla scuola superiore ed era
entrata in una grande università dove non conosceva nessuno. Aveva passato i
mesi prima della crisi in una progressiva alienazione e solitudine, in forte
contrasto con le sue precedenti esperienze scolastiche. Durante gli anni della
scuola secondaria e della scuola media, aveva avuto un sacco di amici e buoni
professori, e si era immersa in piacevoli attività extracurriculari. Adesso, invece,
si trovava in un territorio sconosciuto, seguiva lezioni che non le interessavano, e
passava lunghe ore da sola nella sua stanza del dormitorio del college. L’unica
tregua in questo isolamento era stata una serie di brevi incontri sessuali con
diversi uomini che aveva incontrato, nessuno dei quali aveva però mostrato una
qualsiasi inclinazione a coinvolgersi in modo più duraturo con lei. La seconda
circostanza angosciosa era che aveva saputo che sua madre aveva un tumore alle
ovaie già in fase di metastasi. Rendendosi conto che la madre poteva vivere solo
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un anno o meno, la paziente si prefigurava la sua morte come la fine del mondo
normale e della vita normale in cui aveva sempre cercato di credere. Alcuni di
questi sentimenti su tutto ciò sembravano essere simbolizzati in un incubo che
aveva in quel periodo, in cui c’era un enorme mucchio di terra che si gonfiava e
cresceva minacciosamente nel giardino posteriore della casa della sua infanzia.
Riteneva che il mucchio di terra fosse una tomba sempre più grande per sua
madre. La terza circostanza insopportabile di questo periodo disastroso aveva a
che fare con un incidente di macchina in cui la paziente aveva subito una grave
commozione cerebrale e una ferita al ginocchio che le aveva procurato parecchie
settimane di fortissimo dolore. Il suo corpo ferito, precedentemente intatto e fonte
di sicurezza, adesso era diventato luogo di grande sofferenza e di una sensazione
di vulnerabilità senza precedenti.
La reazione catastrofica alla risposta non convalidante della madre alla sua
richiesta di aiuto, sicuramente non è indipendente dalle situazioni di potente stress
appena descritte. Come possiamo comprendere l’impatto di queste diverse
circostanze traumatiche e del loro contributo alla sua successiva esperienza di
annichilimento? Per rispondere a questa domanda torniamo alla storia della vita
della paziente.
Fino al momento della crisi e della successiva ospedalizzazione, la paziente era
stata - in ogni caso almeno in apparenza - una persona che funzionava a un livello
molto alto. Aveva mantenuto la media di Ottimo nel corso di tutta la carriera
scolastica, aveva molte amicizie di lunga data, ed era considerata una persona
felice da tutti quelli che la conoscevano. Anche la sua famiglia sembrava del tutto
normale al mondo esterno, teneva bene il prato, andava regolarmente in chiesa, e
contribuiva alle organizzazioni della loro comunità. Tuttavia nella famiglia c’era
una follia nascosta perché la paziente aveva subito abusi sessuali segreti da parte
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del padre durante tutta l’infanzia. A partire dall’età di due anni aveva fornito
gratificazione sessuale orale al padre due o più volte ala settimana. Le visite del
padre nella sua camera da letto avvenivano sempre nel bel mezzo della notte
quando tutti gli altri membri della famiglia stavano dormendo. Lui era molto
gentile durante questi incontri: la svegliava con parole del tipo “Ok, tesoro è di
nuovo il nostro momento speciale” dopodiché le inseriva il pene nella bocca e
lentamente raggiungeva l’erezione e poi l’orgasmo. A questo punto le rimboccava
le coperte e se ne andava silenziosamente. Soltanto una volta la paziente aveva
detto qualcosa a qualcuno proposito di queste visite notturne, quando all’età di sei
anni aveva descritto le azioni del padre a una compagna di scuola. A quel tempo
pensava che tutti i padri facessero rituali simili con le figlie e rimase molto
sorpresa davanti allo shock e all’orrore della sua amichetta. La compagna lo disse
alla madre e questa a su volta chiamò la madre della paziente e le raccontò la
storia. Sconvolta terribilmente la madre chiamò il medico di famiglia e raccontò
tutto l’incidente. Fu rassicurata enormemente quando il medico le spiegò che le
bambine intorno ai sei anni inventano comunemente storie del genere che non
sono altro che l’espressione del loro precoce sviluppo sessuale. Più tardi nello
stesso giorno la madre informò con durezza la paziente che sarebbe stata
duramente punita se avesse continuato a inventarsi bugie del genere. Anche il
padre prese la figlia da parte il giorno dopo dicendole che sarebbe stato meglio per
lei se avesse mantenuto il silenzio a proposito della loro speciale relazione.
Aggiunse che le persone generalmente non erano ancora pronte a capire e ad
accettare cose del genere, ma nel tempo il mondo sarebbe cambiato e padri e figlie
avrebbero comunque vissuto i loro “momenti speciali”. Il padre le diceva anche
che nelle case reali dell’antico Egitto e dell’antica Grecia i genitori e i figli
partecipavano in questo tipo di atti d’amore e i risultati straordinari che queste
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società avevano ottenuto tanti secoli fa erano in parte dovuti a questo tipo di
pratiche. Aveva proseguito col dirle che lui e lei erano in realtà dei precursori di
una nuova età in cui quei vecchi rituali sarebbero stati fatti rivivere e in cui
l’intero mondo sarebbe stato rinnovato. Nel frattempo, tuttavia, sarebbe stato
meglio se lei si fosse tenuta per sé questi episodi. Lei promise che non avrebbe
detto più niente a nessuno e l’abuso era continuato senza interruzioni fino a
quando la paziente ebbe tredici anni, e cioè al momento in cui un parente della
famiglia aveva sorpreso il padre mentre aveva un rapporto anale con il fratello più
piccolo della paziente.
Come era sopravvissuta a queste condizioni la nostra paziente? Lo aveva fatto
sbarrando fuori dalla coscienza, durante il giorno, le esperienze notturne con il
padre. Durante le ore del giorno non pensava mai a ciò che avveniva di notte e
invece si buttava a capofitto nella normalità della sua vita scolastica e con i suoi
amici. Anche il padre durante il giorno era completamente differente e sembrava
un padre di famiglia premuroso e dedito; così come la madre che sembrava una
casalinga anch’essa del tutto devota. I genitori, che avevano un orentamento
politico conservatore, facevano di tutto per instillare nei loro figli fiducia in se
stessi e rette virtù, e spesso durante la cena facevano delle piccole conferenze
sull’importanza dei valori morali e di una condotta etica. In un certo numero di
occasioni il padre istruì persino sua figlia su cosa fare quando in momenti
successivi della sua vita avrebbe incontrato dei ragazzi che l’avrebbero attirata in
situazioni sessuali per le quali non sarebbe stata pronta. Intanto le visite notturne
continuavano, come se fossero su un altro piano di realtà, radicalmente dissociate
dalle esperienze che costituivano la normale vita diurna. La paziente si arrendeva
al padre durante gli incontri segreti, compiacendolo rispetto alle sue gentili
intrusioni, e ogni giorno quando si svegliava al mattino era come se la notte
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precedente non fosse accaduto nulla. Tuttavia durante il periodo dell’abuso era
perseguitata da incubi ricorrenti, da sogni che descrivevano con intensità la sua
situazione psicologica nella famiglia.
In uno di questi sogni – che disse aver avuto dozzine di volte durante la sua prima
infanzia e fino all’adolescenza – era in piedi e sola sul pavimento di linoleum
della cucina della famiglia intensamente illuminata. Notava sul pavimento la
presenza di numerose piccole macchie nere o puntini, ciascuno non più grande di
un punto alla fine di una frase. Vedeva anche che sopra ciascun puntino c’era il
nulla come se una piccola colonnina di un potere disintegratore invisibile
emanasse dal pavimento verso l’alto. Ogni oggetto che si estendeva spazialmente
sopra il pavimento aveva buchi al suo interno che erano precisamente della stessa
dimensione dei puntini sul pavimento. Mentre fissava quegli strani puntini di buio
notò che stavano cambiando perché lentamente diventavano più grandi. Ma, mano
che i puntini crescevano, crescevano anche i buchi negli oggetti al di sopra e ben
presto intere sezioni dell’illuminazione delle mensole e del soffitto cominciarono
a scomparire. Nella misura in cui lei stessa stava in piedi sullo stesso pavimento, i
puntini sempre più grandi minaccavano anche lei e il sogno finiva sempre con lei
che si muoveva e danzava spaventata intorno all’oscurità che diventava più grande
cercando sempre di rimanere nella luce. Le immagini di buio e di luce in questo
sogno sembrano connettersi con la condizione di scissione tra mondo diurno e
mondo notturno dell’infanzia della paziente. Durante il giorno tutto era come
doveva essere: la madre e il padre sembravano ed erano genitori amorevoli e
solidi, lei lavorava sodo e aveva molti successi a scuola e si immergeva in attività
piacevoli con tanti amici. Lei poteva esistere in questo mondo di luce sostenuta da
una grande quantità di legami con altri che non erano contaminati dagli eventi
dell’oscurità. Quando veniva la notte, tuttavia, era tutto differente: il padre
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amorevole del giorno scompariva, uno strano ghigno lubrico gli attraversava le
fattezze e cominciava l’abuso sessuale. Durante i “momenti speciali” si sentiva
cancellata, obliterata, trasformata in una cosa. Un modo di poter sopportare questi
momenti mortiferi, come ricordò anni dopo, era di guardare la luna con l’angolo
degli occhi, perdendosi nella sua superficie illuminata fino a che il padre non
aveva finito. Questo modo di resistere sembra essersi riflesso successivamente
durante il periodo della sua psicosi con una convinzione delirante persistente
secondo la quale la luna era un’entità cosciente che la seguiva e vegliava su di lei
proteggendola.
La scissione tra l’esperienza diurna e quella notturna della paziente rispecchiava
strettamente una divisione nell’essere del padre che oscillava anche lui tra due
stati nettamente contrastanti: lo stato in cui era un genitore normale per sua figlia
e quello in cui era un violentatore sessuale lascivo con strane fantasie sull’amore e
sull’antica regalità. Un secondo sogno ricorrente dell’infanzia della paziente
esprimeva la tensione creata da queste due figure paterne e dai mondi separati in
cui esse portavano avanti attività estremamente diverse. In questo incubo la
paziente giaceva prostrata e priva di abiti sul terreno. In ciascun lato del corpo
c’erano sei o sette piccoli uomini, come elfi o gnomi, e ciascuno di essi reggeva
un pezzo di corda. Alla fine di ciascun pezzo di corda c’era un gancio inserito
nella pelle della paziente. Inizialmente la linea degli elfi di destra cominciava a
tirare le sue corde tirando la pelle della paziente fino a spostarla tutta verso
l’esterno, e poi la fila dei piccoli uomini di sinistra cominciavano a loro volta a
tirare corde e ganci così che la pelle della paziente veniva tirata alternativamente
prima a destra e poi a sinistra e poi ancora a destra, e così via fintantochè, alla
fine, si svegliava terrorizzata e confusa.
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Torniamo alla nostra domanda iniziale: quale è la differenza più importante tra
esperienze traumatiche che portano all’annichilimento e quelle che portano alla
reazione, meno grave, della dissociazione? Le circostanze presenti nel contesto
del crollo della paziente a diciannove anni possono essere fatte risalire a un
triplice attacco al suo mondo normale – esso stesso protetto da una costante
dissociazione – che l’avevano sostenuta per tutta la vita. Aveva perso la struttura
di sostegno sociale dei suoi anni scolastici, la madre era minacciata dal cancro e
lei stessa aveva subito un violento attacco da parte dell’ambiente fisico quando
aveva avuto l’incidente di macchina. Considerando queste perdite possiamo forse
comprendere l’enorme significato che era connesso alla sua richiesta di aiuto alla
madre nel giorno stesso del collasso, e l’effetto devastante che aveva avuto la
risposta non convalidante e obliterante della madre a quel grido di dolore. Quella
non validazione che avveniva in un momento di estrema vulnerabilità aveva
riassunto precisamente le reazioni di entrambi i genitori durante la sua infanzia
quando lei aveva espresso un qualsiasi bisogno in relazione all’enorme abuso al
quale veniva sottoposta.
Il trauma che annichilisce è quello che sovverte l’intero modo in cui una persona
dà senso alla propria vita e che attacca i legami di sostegno all’ambiente umano al
loro livello più fondamentale; il trauma che può essere dissociato, pur essendo
anch’esso una minaccia alle organizzazioni dell’esperienza esistenti, lascia fino a
un certo punto intatti i legami di sostegno così da far sopravvivere una piattaforma
stabile per il senso del sé in cui possono venire incapsulati e dissociati gli eventi
traumatici. Nel caso clinico che abbiamo appena descritto una dissociazione
relativamente costante dei mondi diurno e notturno era possibile grazie alla stessa
stabilità della sfera diurna, e le esperienza di annichilimento ebbero inizio soltanto
allorché il mondo stesso della normalità cominciò a disintegrarsi. L’evento
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specifico che aveva preceduto e scatenato il crollo della paziente era stata la
risposta della madre alla sua richiesta di aiuto. Questa richiesta non era stata
soltanto rifiutata; era stata anche ridefinita in termini per i quali essa non aveva
alcun fondamento: la madre aveva “cortesemente” ricordato alla figlia che lei era
perfettamente capace di occuparsi di se stessa. La stessa struttura del disperato
tentativo della paziente di mettersi in contatto con la famiglia perché qualcuno
corresse in suo aiuto veniva in tal modo recisa e lei cominciò a sentire che la
realtà dell’universo come lo aveva percepito fino ad allora cominciava a
dissolversi. L’allucinazione che ripeteva il messaggio “Vedi … sei cieca … vedi
… sei cieca” cristallizzava questo dissolversi in forma uditiva.
Molto spesso non ci sono eventi drammatici e facilmente identificabili che
precedono immediatamente l’avvento della disintegrazione del sé e del mondo, e
ciò può portare l’osservatore cartesiano a concludere che la psicosi del paziente
nasca da fattori e processi completamente interni. Una conclusione di questo tipo
che si poggia su una distinzione grossolana tra psicopatologia endogena ed
esogena non riesce a prendere in considerazione l’unicità dei significati che
avvenimenti apparentemente ordinari o persino triviali possono assumere nel
campo intersoggettivo al quale essi appartengono. Questo contesto include
talvolta temi profondi e continui di formazione del mondo che risalgono alle
vicissitudini della vita precoce, temi che hanno a che fare con la stessa capacità di
una persona di fare esperienza del “io sono”. Il flusso degli avvenimenti della vita
quotidiana, nessuno dei quali appare notevole a un osservatore esterno, può
diventare incessantemente traumatico quando è in relazione a questi temi e
erodere progressivamente legami di sostegno con gli altri minando alle basi il
significato che una persona attribuisce alla propria esistenza. Crolli improvvisi
senza una causa che li provoca, deterioramenti graduali in assenza di un trauma o
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di uno stress significativi, esplosioni inspiegabili di esperienze psicotiche che non
possono avere altra fonte che un processo patologico situato all’interno del
paziente: questi sono alcuni tra i fenomeni che appaiono con evidente chiarezza
sotto la lente della comprensione cartesiana. Il punto di vista post-cartesiano, al
contrario, ci permette di concentrarci sul fatto che queste esperienze catastrofiche
sono incluse in campi transazionali e intersoggettivi. Un’ottica di questo tipo ci
apre gli occhi a significati che precedentemente non vedevamo nelle espressioni
del paziente; significati nei termini dei quail le manifestazioni della cosiddetta
psicosi diventano improvvisamente nuovamente comprensibili. Alla luce di
questo nuovo modo di comprendere, cosa ancor più importante, appaiono anche
nuove opportunità di intervento terapeutico, e la stessa devastazione del mondo
del paziente forse si apre a una trasformazione curativa.