Una prospettiva post-Cartesiana - Formazione in Psicologia · classica distinzione tra nevrosi e...

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1 MONDI FRAMMENTATI/ STATI PSICOTICI: Una prospettiva post-Cartesiana DELLESPERIENZA DI ANNICHILIMENTO PERSONALE George Atwood Parole chiave: Nevrosi, psicosi, teoria classica, teoria intersoggettiva, annichilimento, reazione maniacale, allucinazioni, trauma, dissociazione Una delle conseguenze più importanti dell’adottare un punto di vista post- cartesiano e fenomenologicamente coerente, è costituita dalla possibilità di comprendere e trattare psicoanaliticamente uno dei più gravi disturbi psichici: le cosiddette psicosi. Questa nuova possibilità si apre in virtú del fatto che le esperienze che caratterizzano questi disturbi psichici tendono a raggrupparsi intorno a temi di annichilimento personale e di distruzione del mondo. Queste esperienze avvengono al di fuori dell’orizzonte dei sistemi di pensiero cartesiani, che poggiano su una visione della mente come esistenza isolata in relazione a una realtá esterna stabile. L’immagine cartesiana della mente - rigidamente separata tra un soggetto mentale interno e un oggetto reale esterno - reifica e universalizza un pattern specifico di esperienze, centrato su un senso stabile di individualitá personale sentito come distinto e separato dal mondo esterno. Sia le esperienze di estrema perdita del sé che quelle della disintegrazione del mondo, non possono essere concepite all’interno di una ontologia della mente di questo tipo, poiché esse dissolvono le strutture stesse che questa ontologia postula come esistenza personale universalmente costitutiva.

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MONDI FRAMMENTATI/ STATI PSICOTICI:

Una prospettiva post-Cartesiana

DELL’ESPERIENZA DI ANNICHILIMENTO PERSONALE

George Atwood

Parole chiave: Nevrosi, psicosi, teoria classica, teoria intersoggettiva,

annichilimento, reazione maniacale, allucinazioni, trauma, dissociazione

Una delle conseguenze più importanti dell’adottare un punto di vista post-

cartesiano e fenomenologicamente coerente, è costituita dalla possibilità di

comprendere e trattare psicoanaliticamente uno dei più gravi disturbi psichici: le

cosiddette psicosi. Questa nuova possibilità si apre in virtú del fatto che le

esperienze che caratterizzano questi disturbi psichici tendono a raggrupparsi

intorno a temi di annichilimento personale e di distruzione del mondo. Queste

esperienze avvengono al di fuori dell’orizzonte dei sistemi di pensiero cartesiani,

che poggiano su una visione della mente come esistenza isolata in relazione a una

realtá esterna stabile. L’immagine cartesiana della mente - rigidamente separata

tra un soggetto mentale interno e un oggetto reale esterno - reifica e universalizza

un pattern specifico di esperienze, centrato su un senso stabile di individualitá

personale sentito come distinto e separato dal mondo esterno. Sia le esperienze di

estrema perdita del sé che quelle della disintegrazione del mondo, non possono

essere concepite all’interno di una ontologia della mente di questo tipo, poiché

esse dissolvono le strutture stesse che questa ontologia postula come esistenza

personale universalmente costitutiva.

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In ció che segue, descriveremo questa gamma estrema di disturbi psicologici da

un punto di vista intersoggettivo e fenomenologico. La teoria dell’intersoggettivitá

è una prospettiva psicoanalitica post-cartesiana che considera elemento centrale il

mondo dell’esperienza individuale, compreso nei suoi termini e senza riferirsi ad

una realtá oggettiva esterna (Atwood & Stolorow, 1984; 1993: Stolorow,

Brandchaft & Atwood, 1987; Stolorow & Atwood 1992; Orange, Atwood &

Stolorow, 1997). Inoltre, questo mondo è sempre visto nel contesto relazionale

dell’interazione con altri mondi come questo. Cominciamo con il riesaminare la

classica distinzione tra nevrosi e psicosi.

Nevrosi e Psicosi

Il criterio secondo il quale e’ stata tradizionalmente accettata la distinzione tra

nevrosi e psicosi, risiede nella valutazione del contatto che il paziente mantiene

con la realtá oggettiva. La psicosi, per definizione, viene vista come condizione

patologica che implica la rottura con la realtá, mentre la nevrosi, al contrario,

viene vista come condizione patologica nella quale il contatto con la realtá è

preservato. Questo concetto di antica data è bene illustrato nei due ben noti scritti

di Freud, “Nevrosi e Psicosi” (1924a) e “Il problema della realtá nella nevrosi e

nella psicosi”(1924b), nei quali egli provó a delineare le somiglianze e le

differenze tra queste ampie categorie della psicopatologia, riferendosi al modello

strutturale tripartito della mente. Freud sosteneva che in entrambi i casi, le

difficoltá dei pazienti derivavano alla fine dalla “perdita dell’appagamento di uno

di questi eterni incontrollabili desideri dell’infanzia che sono cosí profondamente

radicati nella nostra costituzione” (1924), ossia dagli impulsi insoddisfatti dell’Es.

La differenza tra nevrosi e psicosi, secondo questa descrizione, sta nel modo in cui

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viene riconciliato il conflitto tra i desideri istintuali insoddisfatti e le forze che si

oppongono ad essi. Nel caso della nevrosi, “l’Io resta veritiero nella sua fedeltá al

mondo esterno e tenta di soggiogare l’Es”, mentre nella psicosi “l’Io permette a sé

stesso di essere soggiogato dall’Es ed [è] in tal modo staccato dalla realtá”

(1926). In una formulazione simile ma piú complessa (Freud, 1926), nevrosi e

psicosi traggono origine dalla ribellione di una parte dell’Es nei confronti delle

frustrazioni del mondo esterno. Il conflitto è risolto in ogni caso in due stadi:

[Il primo stadio e’] lo strappo dell’Io dalla realtá, mentre [nella nevrosi] il secondo

[stadio] prova a migliorare il danno fatto e a ristabilire la relazione con la realtá a

spese dell’Es … Con la psicosi, il secondo stadio è sia un tentativo di rendere

buona la perdita della realtá, anche se a scapito di una restrizione dell’Es, che,

utilizzando un modo piú elegante, il creare una nuova realtá che non è a lungo

piu’ aperta alle obiezioni rispetto a quella che è stata abbandonata (1926, p.203-

204).

Freud ha sintetizzato la differenza dichiarando che “nella nevrosi una parte della

realtá è evitata da una sorta di volo, ma nella psicosi essa è rimodellata” (1926 b,

p.204). Questo rimodellamento rappresenta “un nuovo fantastico mondo esterno

della psicosi [che] tenta di collocarsi al posto della realtá esterna” (1926b, p.204).

La distinzione tra la nevrosi e la psicosi, cosí concepita, si basa su una visione

della mente che è cartesiana alla quinta essenza, dato che immagina la persona

come un essere - una cosa pensante - che comprende, accuratamente o no, la realtá

esterna che la circonda.

Nella psicoanalisi freudiana, e generalmente nella psichiatria tradizionale, il

giudizio se le esperienze del paziente sono in linea con questo mondo

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oggettivamente vero, è lasciato all’osservazione del clinico, che si presuppone sia

in una posizione privilegiata per poter determinare cosa sia o non sia vero e reale.

In una cornice fenomenologica post-cartesiana come devono essere viste le

differenze cliniche tra la nevrosi e la psicosi? Questo problema è coerente alla

luce del fatto che questa distinzione assoluta si basa su fondamenti cartesiani?

Concentrarsi sull’esperienza ci conduce lontano dal giudicare della veridicitá di

cosa sia percepito e creduto, e ci porta verso una valutazione delle realtá personali

e dei mondi soggettivi nei loro termini, senza alcun riferimento allo standard

esterno del Reale. Se da un lato si riconosce che un approccio rivisitato di questo

tipo mina necessariamente le basi per ogni sottile dicotomia tra questi

raggruppamenti psicopatologici, e che piú propabilmente ci troviamo a lavorare

con una sorta di continuum definito da varie dimensioni della soggettivitá,

dall’altro lato potremmo dare una risposta preliminare secondo cui le cosiddette

psicosi mostrano delle esperienze che non appaiono con la stessa rilevanza

nell’ambito di quelle diagnosticate come nevrotiche o normali. Queste esperienze,

come detto sopra, ruotano attorno al tema dell’annichilimento personale, soggetto

che noi considereremo adesso in modo piú dettagliato.

L’esperienza dell’annichilimento personale

Un’aura di impenetrabilitá ha circondato da sempre le psicosi, cosí lontane

dall’esperienza comune ordinaria e perció cosí estremamente difficili o addirittura

impossibili da raggiungere empaticamente. Questa difficoltá avvertita, appartiene

sicuramente alla definizione stessa di queste patologie, in quanto la loro

caratteristica essenziale è paragonata ad un allontanamento dal cosiddetto mondo

vero e reale in cui vive un individuo normale. Secondo il nostro punto di vista,

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tuttavia, le difficoltá che si incontrano nel provare empatia per gli stati soggettivi

presenti in questo spettro cosí ampio di disturbi psichici, non sono semplicemente

dovute alle esperienze implicate che sono cosí lontane dalla vita normale di un

essere umano. Da una fonte completamente diversa, emerge un grosso ostacolo, e

cioé le convizioni del clinico che osserva sulla natura dell’esperienza in se stessa e

in ultima analisi sulla natura della persona. Quando si pensa che una persona

possiede una mente, e a sua volta questa mente e’ concepita come se avesse

un’interioritá occupata da contenuti psichici consci (e probabilmente inconsci),

viene automaticamente stabilita una struttura che definisce nettamente i confini di

una individualitá rispetto ad un mondo esterno oggettivamente reale. Questo

quadro dicotomizza il campo soggettivo in un (mondo) interno e uno esterno,

reifica e irrigidisce la distinzione tra essi e concepisce la struttura che ne emerge

come costitutiva dell’esistenza umana in generale.

Una volta compreso che la prospettiva cartesiana della persona reifica e

universalizza questo specifico modello di esperienza, si puó anche comprendere il

motivo per cui gli stati soggettivi che appaiono cosí emergenti nelle psicosi, non

potrebbero mai essere compresi adeguatamente da un sistema concettuale che

poggia su premesse cartesiane. Questi stati includono sia esperienze di

disgregamento dei confini che delimitano l’io e il non-io, sia esperienze di

frammentazione e di perdita della propria identità, nonché la disintegrazione della

realtà stessa. Al contrario una cornice fenomenologica si presenta sgombra da

immagini oggettivizzanti della mente, della psiche o dell’apparato psichico, ed è

perció libera di studiare l’esperienza senza valutarla per la sua veridicità rispetto a

una presunta realtà esterna. L’esplorazione degli stati di annichilimento non

presenta quindi particolari difficoltà filosofiche, poiché dobbiamo preoccuparci

solo della persona e del suo mondo, in qualunque stato essi si presentino.

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Nello studio dell’annichilimento psichico, ci si potrebbe concentrare

sull’esperienza di sé o più estesamente, sull’esperienza del mondo, dove la prima

è vista come un’area centrale inclusa all’interno dell’altra. Le esperienze di sé e

del mondo sono legate inestricabilmente l’una all’altra, in modo tale che qualsiasi

cambiamento importante nell’una implica necessariamente cambiamenti

corrispondenti nell’altra. La dissoluzione di sé, ad esempio, non è un evento

soggettivo che lascerebbe il mondo della persona altrimenti intatto sottraendo in

qualche modo il senso di sé della persona. L’esperienza della perdita di sé vuol

dire la perdita di un centro permanente in relazione al quale sono organizzate la

totalitá delle esperienze dell’individuo. La dissoluzione del senso di sé produce

pertanto un inevitabile effetto disintegratore sull’esperienza della persona in

generale e alla fine ha come risultato la perdita di coerenza del mondo stesso. Allo

stesso modo, la rottura dell’unitá del mondo significa la perdita di una realtá

stabile, in relazione alla quale viene definito e sostenuto il senso di sé, e a questo

segue inevitabilmente un’esperienza di frammentazione del sé. Perció la

disintegrazione del mondo e la dissoluzione del sé sono due aspetti inseparabili di

un unico processo, due lati della stessa catastrofe psichica.

L’esperienza di annichilimento si trova nel nucleo centrale delle psicosi, e ció

viene spesso espresso direttamente nelle affermazioni in cui la persona si sente

morta o che sta morendo, che non ha un sé, che non esiste, che è assente piuttosto

che presente. Spesso viene detto anche che il mondo non è reale, che si è

frammentato in piú pezzi, e che sta giungendo alla fine. Qualche volta la

distruzione della realtà personale si rende evidente nell’esperienza di precipitare

per sempre, di girare senza controllo, di contrarsi all’infinito e di scomparire, o di

essere inghiottito nell’ambiente circostante. Tuttavia nel quadro clinico

predominano piú frequentemente gli sforzi riparativi per ridare senso all’esistenza,

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e questi sforzi appaiono in una grande varietá di forme. Il senso di essere irreale o

di diventarlo, ad esempio, dà origine alla continua preoccupazione di guardarsi

allo specchio, come se fissarsi sul contorno dell’essere corporeo potesse

compensare la sensazione di un evanescente senso di sé personale. L’esperienza di

morte al centro dell’esistenza di una persona, porta in contrapposizione a cercare

un senso di vitalitá che può essere offerto dall’intensità della sensazione in un

dolore auto-inflitto, in una sessualitá bizzarra, o in situazioni e avventure eccitanti

che sfidano la morte. Il dissolversi dei confini corporei, e il sentimento terrificante

di fondersi con l’ambiente circostante fa sì che si arrivi a indossare piú abiti l’uno

sull’altro, ed esprime il tentativo di ristabilire e proteggere un senso devastato di

una integritá di sé delimitata. Una rottura nella percepita continuità dell’indentità

personale porta nel tempo all’ossessione di ricordare e rivivere un grande numero

di eventi presi dal passato recente e remoto, e rievocare i vari eventi incarna lo

sforzo di porre in un tutt’uno quei frammenti della storia personale che erano stati

temporaneamente scissi. L’esperienza della disintegrazione della realtà stessa,

dello smembrarsi del mondo in una confusione di percezioni slegate tra loro, e di

accadimenti privi di significati, apre la strada a deliri di riferimento in cui gli

elementi isolati sono tessuti insieme e forniti di un significato oscuro e

direttamente personale. Gli impercettibili cambiamenti delle sembianze dei

familiari, sembrano indicare delle modificazioni e delle rotture di identitá

preannunciando la frammentazione del mondo in un caos temporale, e queste

rotture nella continuità vengono riparate e appianate dall’idea delirante che i

familiari siano stati in qualche modo sostituiti da nefasti impostori. In ciascuna di

queste situazioni, il tratto piú importante è rappresentato dal tentativo di

reintegrare un mondo frammentato e di ristabilire la sensazione di esistere in

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modo coerente e costante, mentre al tempo stesso lo stato di annichilimento

sottostante recede nello sfondo.

In altri casi, invece, il senso di annichilimento stesso emerge in primo piano,

spesso attraverso simboli vividamente concreti, tanto che le immagini della

distruzione personale pervadono e dominano l’esperienza dell’individuo. In

questo caso, l’estremo a cui è portata la concretizzazione aiuta a mantenere la

consapevolezza dello stato di dissolvimento del senso di sé. Ad esempio

l’immagine di essere avvelenati da agenti chimici mortali o da gas invisibili,

descrive concretamente la sensazione di essere infiltrati e successivamente

eliminati dall’impatto intrusivo dell’ambiente circostante. Allo stesso modo, la

descrizione di una macchina che invia a distanza raggi che influenzano la mente e

il corpo, formula l’esperienza della perdita della sensazione di essere iniziatori

delle proprie azioni e di cadere sotto il controllo obliterante dei programmi altrui.

Vengono inoltre immaginati agenti governativi che cospirano e uccidono, e questi

personaggi concretizzano il tratto dell’annullamento psicologico nei confronti di

spinte irresistibili che provengono dagli altri individui emotivmente significativi.

Improvvisamente si percepisce che il cervello si trova nelle mani di una entità

soprannaturale, simbolizzando così una potente mancanza di convalida e

usurpazione della soggettività della persona.

Qualche volta all’immaginario dell’annichilimento si interpone o addirittura si

sostituisce qualcosa che sembra essere grandioso o delle visioni altamente

idealizzate di se stessi o degli altri. Queste ultime immagini esprimono i tentativi

di far risorgere tutte quelle parti del senso di sé e del proprio mondo che sono state

soggette alla frammentazione e alla cancellazione. I concetti di grandiosità e

idealizzazione sono comunque problematici se compresi nel contesto della

fenomenologia dell’annichilimento personale. Identificare una particolare

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esperienza come idealizzata o grandiosa, implica un giudizio e uno standard

comune che definisce cosa sia e cosa non sia ragionevole credere per una

persona. Per grandiosità si intende l’appropriarsi da parte di una persona di potere,

perfezione e importanza che in realtà non possiede. Idealizzazione, nell’accezione

tradizionalmente utilizzata del termine, significa amplificare l’importanza e la

perfezione di un’altra persona emotivamente significativa. Tuttavia, nel contesto

dell’annichilimento personale, non si può affermare che le cosiddette

idealizzazione e grandiosità si approprino o esagerino qualche cosa. Quello che,

da un punto di riferimento esterno, sembra essere una esagerazione oltraggiosa,

potrebbe essere compreso, se considerato soggettivamente, come qualcosa che

rinforza il senso di esistere di una persona, come se quella persona possedesse un

certo potere e una soggettività, come se la sua esperienza appartenesse solo a lei

stessa, come se il proprio mondo avesse coerenza e fosse perpetuamente reale. La

pretesa delirante di essere i padroni del mondo, per esempio, potrebbe

profondamente racchiudere la sensazione della dissolvenza delle proprie

percezioni e dei propri pensieri. Allo stesso modo, affermazioni stravaganti di

capacità e conquiste personali potrebbero cristallizzare e intensificare

un’esperienza altrimenti pericolosa di autonomia e senso di essere iniziatori delle

proprie azioni. Le visioni di discendere da una famiglia reale o di rappresentare il

figlio prescelto di Dio, accentuano e proteggono un evanescente senso di

connessione a un altro che sostiene il mondo. L’idea che una persona sia penetrata

nel più intimo segreto del cosmo, che conosca la chiave per comprendere le

interrelazioni di tutte le cose esistenti, custodisce e preserva l’integrità del mondo

personale a fronte del pericolo della sua totale disintegrazione. In ognuno di questi

esempi, il dato problematico non è rappresentato dal fatto che queste qualità

idealizzate o grandiose siano attribuite a se stessi o agli altri; è piuttosto che

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l’universo personale dell’individuo viene assalito e si trova in pericolo di essere

annichilito.

Occupiamoci ora dei contesti intersoggettivi in cui prendono forma le esperienze

che abbiamo descritto.

Il contesto intersoggettivo dell’ annichilimento

Nel libro “Intersoggettività e lavoro clinico” (Orange, Atwood & Storolow,

1997), si afferma che l’esperienza dell’annichilimento personale riflette una

catastrofe intersoggettiva in cui sono crollate al livello più fondamentale quelle

relazioni con gli altri che sostenevano psicologicamente la persona. In che cosa

consiste questo crollo? Consiste nella perdita di connessioni convalidanti e

confermanti con gli altri e nella disgregazione del mondo soggettivo attraverso la

violazione e l’usurpazione. Sebbene le circostanze e gli eventi concreti della vita

che giocano un ruolo fondamentale nell’origine dell’annichilimento siano

particolarmente variabili, essi hanno in comune l’effetto di indebolire il senso di

esistere e di essere reale di una persona nei suoi aspetti piú essenziali, inclusa

l’esperienza di se stessa come soggetto e agente attivo, come se possedesse

un’identità coerente e avvertita come autenticamente propria, come se possedesse

un confine ben delimitato e che delimita l’io dal non io, e come fosse continua nel

tempo e oltre la storia.

Considerare l’annichilimento psichico nel contesto di un campo intersoggettivo

significa dire che questa esperienza viene interpretata come se accadesse

all’interno di un sistema vivente di mutua influenza. Le manifestazioni visibili

dell’esperienza non sono quindi viste scaturire da una condizione patologica

localizzata semplicemente all’interno del paziente; e neppure tuttavia, sono

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considerate semplicemente come reazioni conseguenti a una vittimizzazione

primaria per mano degli altri. Queste concezioni unilaterali, che sottolineano

un’unica determinazione sia da parte del paziente sia da parte dell’ambiente

umano, non tiene in considerazione il complesso processo transazionale che

avviene tra i due. Talvolta le persone che vivono le esperienze descritte sopra,

sono viste come se si portassero addosso una vulnerabilitá speciale o perfino una

predisposizione considerata come fattore determinante nella genesi

dell’annichilimento personale. Il problema di questa idea è che essa rappresenta

un ritorno al pensiero oggettivista e cartesiano, all’interno del quale i fattori

localizzati “dentro” un individuo - nella sua mente o nel suo cervello - divengono

cause operative nell’evolversi degli stati soggettivi. Abbiamo quindi il quadro di

una mente isolata, che contiene vulnerabilità ed emotività predisposte, che crolla

di fronte a pressioni esterne oggettive di qualche tipo. In una cornice di

comprensione intersoggettiva, non ci sono vulnerabilià del tutto isolabili che

esistono all’interno di qualcuno, poiché quello che appare o che non appare come

una vulnerabilitá si materializza solo entro specifici campi intersoggettivi.

Immaginate una paziente che sente di non essere presente, di non esistere, e di non

avere sé. Immaginate inoltre che qualcuno che non è abituato a gestire situazioni

come queste le chieda: “Come stai oggi?” L’uso del pronome personale “tu”

suggerisce alla paziente un livello di esistenza di cui non ha esperienza, aprendosi

di conseguenza un abisso di incomprensioni e non validazioni tra lei e

l’interlocutore. Forse la paziente risponderà: “Un miliardo di anni luce”,

esprimendo quanto si senta lontana dall’interlocutore, in considerazione della

semplice ipotesi che era stata formulata, e per cui esiste un “tu” verso il quale la

richiesta sarebbe comprensibile, un “tu” che potrebbe dare notizie su come essa si

senta in quel momento. Forse la paziente vive anche un’invasione e

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un’usurpazione da parte delle supposizioni ingiustificate dell’interlocutore, e

inizia a parlare di una macchina che invia dei raggi al centro del proprio cervello,

per dare forma e sostanza a questo profondo annichilimento. Dal punto di vista

dell’interlocutore, il quale considera le cose da un punto di vista cartesiano, le

risposte della paziente sono assolutamente incomprensibili. La domanda è stata

posta in modo chiaro e appropriato dopo tutto, e le risposte si presentano prive di

un’apparente connessione con quello che è Vero e Reale. La paziente al massimo

è lontana solo qualche metro piuttosto che anni luce, e non esiste alcuna macchina

al mondo che possa fare ciò che la paziente afferma in questo momento.

Evidentemente, egli pensa, l’emotività e le vulnerabilità di questa paziente sono

tali, che la più sottile interazione umana dà adito a reazioni bizzarre causate da

processi patologici nella mente e/o nel corpo della paziente. Così è iniziata una

disgiunzione intersoggettiva che si alimenta reciprocamente, nella quale

l’interlocutore attribuisce i difetti alla mente/cervello della paziente, proprio come

la paziente sente la propria mente/cervello come se fossero penetrati e abitati da

influenze sconosciute.

Immaginiamo adesso un secondo individuo che parla alla paziente in modo

diverso, che trova il modo di riconoscere il senso di non esistenza della paziente e

che comprenda inoltre la sua prontezza ad arrendersi a tutto quello che le venga

attribuito. Egli parlerà alla paziente in terza persona, trasmettendo la sua

conoscenza di quanto sia terribile non esistere, e fa sapere alla paziente,

utilizzando esempi molto concreti, che lei non è sola nella catastrofe rappresentata

dalla situazione che sta attraversando in questo momento della sua vita. La

paziente, sorpresa da questo approccio così differente, inizia a sentirsi veramente

compresa e, paradossalmente, inizia a sentire una vibrazione nella sua stessa

esistenza, dei momenti di esistenza appena percepiti alternati alla continua

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sensazione di non esistenza o di non essere. Questi momenti di esistenza, che si

manifestano in seguito all’esperienza validante di essere vista e riconosciuta,

contengono una dolorosa vitalità, che contrasta drammaticamente con

l’intorpidimento e il senso di morte che accompagnano il senso di non esistenza.

Probabilmente la paziente, dopo un lasso di tempo, dirà di essere stata punta da

uno sciame di api, dando forma a quei sporadici momenti di vitalità che si

alternano agli episodi familiari di morte e di non essere. Immaginiamo piuttosto

che questa seconda persona percepisca allo stesso modo la metafora di questo

delirio transitorio, e trovi i modi per affrontare l’esperienza ambivalente che la

paziente sta avendo nel tornare alla vita. In questo modo, il suo senso di esistenza

si rafforza nuovamente, attraverso l’incomparabile potere del riconoscimento

umano. La prontezza della paziente ad arrendersi alle attribuzioni e alle

definizioni degli altri, per se stessa inscritta in una complessa e infinita storia di

transazioni intersoggettive, non è implicata in primo piano in questa seconda

interazione e quindi non appare né come un difetto e tantomeno come una

vulnerabilità operativa nelle esperienze che si sviluppano. Questo accade poiché,

in questo caso, il campo intersoggettivo è caratterizzato da un lato dal graduale

sviluppo della comprensione e dall’altro dalla predominanza della convalida e da

un sempre maggiore senso di esistere.

Nell’esempio citato precedentemente, possiamo riscontrare come un clinico che

lavori basandosi su assunti cartesiani, non sia nella posizione di poter

comprendere le esperienze del non essere. Agli occhi di un osservatore del genere,

semplicemente non è vero che la paziente non esiste, non è vero che sia assente, e

la sua esclamazione sulle macchine che la influenzano utilizzando raggi penetranti

sembra delirante in modo bizzarro. Naturalmente, ogni singola reazione da parte

del clinico a questa visione, intensifica l’esperienza di non convalida e

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annichilimento della paziente, alimentando una spirale di mondi disgregati nei

quali la paziente stessa elabora immagini del proprio annullamento sempre piú

reali, e il clinico si spaventa sempre piú allo spettacolo di follia che si sta

schiudendo innanzi ai suoi occhi. I cosiddetti deliri della paziente, nel contesto di

questo circolo vizioso, emergono come espressioni di soggettivitá messe sotto

pressione, prodotti della guerra di mondi costituiti dalla mutua incomprensione e

dalla mutua non convalida.

Al fine di definire e illustrare ulteriormente il contesto dell’annichilimento

personale, vorrei parlare di un’altra paziente, una giovane donna cattolica la quale

per anni aveva avuto visioni in cui possedeva uno speciale contatto con Dio. Nelle

vivide allucinazioni e nei deliri elaborati, ella viveva un’unione con Dio il Padre e

con Dio il Figlio, identificandosi ora con la Santa Vergine, ora con lo Spirito

Santo o con lo stesso Gesù Cristo. Per il fatto di aver riferito di essersi accoppiata

sessualmente con Gesù, di essere fisicamente volata a Roma nelle braccia del

Papa, e di essere il tramite del potere curativo di Dio, colei che riappacifica

l’intera razza umana, le persone che vivevano accanto a lei non avevano la

capacità di collegare le loro esperienze personali alle sue in un dialogo sensato.

Per questo motivo fu detto che la paziente aveva perso il contatto con la Realtá e

che era psicotica. Naturalmente da un punto di vista fenomenologico una diagnosi

o un giudizio di questo tipo non sussistono, dato che si cerca invece di

comprendere la paziente nei suoi termini soggettivi stessi, esplorando la storia

degli eventi che avrebbero potuto rendere la sua situazione umanamente

intellegibile. Questa indagine ha fatto sì che emergesse un incidente significativo

accaduto negli anni dell’adolescenza della paziente, il suicidio improvviso del suo

amato padre in seguito ad amare delusioni nella vita privata e in quella

professionale. Inoltre si scoprì che il suicidio del padre era stato messo a tacere

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dalla famiglia, falsamente ridefinito come un incidente e infine nascosto dietro un

muro di silenzio impenetrabile. In tal modo i rapporti della famiglia continuarono

come se il suicidio del padre non fosse mai accaduto, si parlava così poco di lui

che egli fu relegato allo stato di qualcuno che non era mai esistito. Negli anni che

seguirono l’allontanamento della famiglia dalla vita e dalla morte del padre era

stato il contesto di un senso di morte interiore e di isolamento gradualmente

sempre più profondi della paziente. Questo fu inoltre la cornice delle sue prime

ruminazioni su Gesù Cristo e su un posto speciale nella Santa Trinitá che

immaginava per se stessa. Per più di dieci anni, i pensieri religiosi segreti sulla sua

relazione con Dio gradualmente sbocciarono in realtà deliranti ben strutturate, che

esplosero alla fine con grande violenza all’interno della famiglia, portandola al

primo dei numerosi ricoveri psichiatrici. Espressioni fondamentali della paziente

in questo periodo erano rappresentate da forti e vigorose richieste di essere

immediatamente unita a Gesú, che lei credeva si fosse miracolosamente

reincarnato nei panni di un consulente affiliato alla chiesa che aveva conosciuto

un tempo e per il quale aveva lavorato per un breve periodo di tempo.

Il legame con il padre – sostegno fondamentale per la paziente nel corso

dell’adolescenza - non solo era stato perduto quando era morto; la sua morte era

stata un suicidio intenzionale, che era impensabile se, come lei aveva creduto

durante i suoi primi anni di vita, il padre l’avesse amata realmente. Tuttavia, la

stessa esperienza insopportabile di esser stata tradita dal genitore, era stata

soppressa dalla negazione della famiglia, cosicché sia la realtà di quello che aveva

conosciuto quando lui era ancora in vita, sia le sensazioni legate alla perdita così

cruenta, furono annullate e messe a tacere, indebolendo il suo reale senso di sé

mano a mano che il sentimento di morte si espandeva e approfondiva. In che

modo si può comprendere queste forti richieste religiose apparentemente

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fantastiche, nel contesto dell’ abbandono e della devastazione personale?

L’analista cartesiano, seguendo Freud, si concentra inevitabilmente sulla evidente

disparitá tra quello che la paziente crede e la realtá oggettiva della sua vita,

percependo una carenza nel verificare la realtá, una rottura con l’oggettivamente

reale, e la creazione, al suo posto, di una alternativa idealizzata. Da questo punto

di vista, sia le tumultuose fantasie religiose che i deliri, appaiono come succedanei

soddisfacenti della perduta connessione con il padre, e il disturbo della paziente

sembra consistere precisamente nella sua immersione in queste fantasie, a scapito

della triste e dolorosa situazione reale. Al contrario, un’analisi intersoggettiva, si

focalizzerebbe su come i cosiddetti deliri della paziente proteggano e preservino

un mondo frammentato, su come ricostruiscano una realtá personale che era stata

sostanzialmente annientata, su come essi rappresentino un tentativo di resuscitare

un legame che sostenga il mondo nel corso di una esperienza di completo

annullamento. Lungi dall’esprimere un decollo dalla realtá dolorosa, secondo

questa visione post-cartesiana, si comprende come ella abbia utilizzato i simboli

della sua fede per incapsulare i resti del legame distrutto con il padre e quindi

mantenere uno stato di sospensione su tutto quello che era di piú reale nel suo

mondo e nella sua stessa esperienza. Le incessanti richieste di essere unita a Gesú

Cristo, che la paziente reiterava aggressivamente nel corso delle prime fasi del

trattamento, erano quindi lamenti per poter mantenere una connessione che salva

il mondo dalla quale dipendeva la sua stessa esistenza.

Considerare delirante una persona di questo tipo, evidenzia la disparità che esiste

tra le sue esperienze e le sue convinzioni e le condizioni della supposta realtá

esterna. Da questo punto di vista, si materializza inevitabilmente un obiettivo che

porta le idee della paziente in conformitá con tutto quello che generalmente è

accetto e considerato vero e reale. Queste convinzioni normative non hanno

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spazio per una connessione speciale con Gesú Cristo o i voli solitari verso Roma,

essendo viste solo come fantasie patologiche che debbono essere interpretate,

abbandonate e/o soppresse. Ci si potrebbe chiedere: quale é l’effetto che ha sulla

paziente l’essere visti e trattati in questo modo? Questo punto di vista comunica

inevitabilmente il messaggio che i desideri più forti della paziente sono male

interpretati e le uniche speranze di poter ripristinare la propria realtá e se stessa

restano senza fondamento. Questo messaggio rafforza ed avvalora l’abbandono

emotivo e la non convalida che la paziente ha vissuto per mano del padre e della

famiglia, e il suo effetto è quello di accelerare il processo delirante di pari passo

con la ricerca della propria sopravvivenza, in un modo vividamente

drammatizzato e sempre piú concreto. Inizia cosí un nuovo circolo vizioso, nel

quale mondi disgregati combattono l’uno con l’altro in un ciclo senza fine di

incomprensioni senza fine e di reciproche invalidazioni.

D’altro canto, un analista che comprende il significato del “grido” del paziente, si

avvicina senza l’intenzione di riallineare il contenuto della sua esperienza; il suo

intento sarà piuttosto quello di introdurre un elemento nuovo nella vita giá cosí

devastata della paziente, elemento attorno al quale ridefinire il fulcro emotivo

della sua esistenza. Questo elemento sará incorporato nell’esperienza della

paziente e nella comprensione dell’analista, fattore quest’ultimo emozionalmente

potente, calmante e rassicurante nel suo effetto.

L’analista imporrá quindi la sua presenza, all’inizio fisicamente sia nel tempo che

nello spazio, apparendo via via regolarmente e orientando l’attenzione del

paziente verso interazioni di vario tipo semplici e concrete. Quando alla fine - ed

inevitabilmente lo saranno - l’insieme di tutti gli sforzi deliranti si rivolgeranno

verso di lui nel tentativo di salvare se stessa ed il suo mondo, ed ella richiederá di

riunirla con l’uomo che crede essere Gesú Cristo, egli gentilmente ma fermamente

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risponderá dicendole che esiste solo una persona al mondo che lei dovrebbe essere

preoccupata di incontrare e che quella persona é lui stesso. Egli inoltre le

spiegherá che non vi saranno incontri con nessuno eccetto che tra di loro, e il

lavoro che svolgeranno insieme la fará sentire nuovamente bene e ritornerá a casa

dalle persone che la amano.

In tutti questi interventi, l’analista è mosso dalla consapevolezza di dover essere

colui che “eredita” le ambascie della paziente, e che la relazione con lei

rappresenta il principale campo di battaglia sul quale elaborarne la sopravvivenza

psicologica. Come risponderá la paziente a tutto questo? Il processo delirante,

lungi dall’essere esacerbato, inizia a diminuire nel momento in cui l’analista

diventa la persona in relazione alla quale la paziente può recuperare il senso di se

stessa e della realtá del suo mondo distrutto. All’inizio la dipendenza nei confronti

dell’analista è estrema, tanto che lei afferma perfino che il suo nuovo terapeuta

possiede un qualche status speciale rispetto a Dio Onnipotente. Queste espressioni

vengono capite dal terapeuta come riflesso del potere del legame che si sta

formando, legame che sottende un universo frammentato che sta nel bel mezzo di

un processo di riassemblaggio. L’analista di conseguenza non dà risposte a queste

attribuzioni a livello del contenuto letterale, e si occupa invece di rinforzare il

legame che si sta creando e che ella ha appena iniziato ad avvertire. Ogni passo

verso il consolidamento del loro legame é accompagnato sia da una ulteriore

stabilizzazione del mondo della paziente, sia da una progressiva

decentralizzazione delle sue immagini religiose, man mano che la loro funzione

viene trasferita sulla relazione terapeutica. Nelle prime fasi di questo processo di

guarigione, ogni disturbo del legame che si sta creando produce una forte reazione

di terrore e abbandono, accompagnata a volte da una nuova insorgenza di fantasie

religiose. Man mano che il legame minacciato viene ristabilito in ogni circostanza,

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il terrore scompare e l’immaginario religioso si affievolisce. In questo modo,

viene gradualmente stabilizzata la situazione entro la quale le sue esperienze di

abbandono, tradimento e non convalida possano iniziare ad essere affrontate e

curate su un fondamento duraturo.

Una volta adottato il metodo post-Cartesiano nel trattamento delle psicosi, come

l’abbiamo descritto nei due casi precedenti, si solidificano nuovi modi di

comprendere e compaiono opportunità di interventi terapeutici precedentemente

non considerati. Ora continuiamo a seguire le implicazioni di questo cambio di

prospettiva trattando altri due importanti problemi nella psicoanalisi clinica per i

quali la comprensione degli stati di annichilimento riveste un’importanza centrale:

il problema della mania e la natura del trauma psicologico nelle sue forme piú

estreme.

La protesta maniacale

Gli stati maniacali della mente sono tradizionalmente definiti come

allontanamento del tono dell’umore, del pensiero e del comportamento

dell’individuo, da uno standard prestabilito di normalitá. Tra i segni diagnostici

spesso utilizzati per identificare questo stato psicologico, vi sono caratteristiche

come l’euforia non realistica, l’accelerazione del pensiero, i progetti, i piani

grandiosi e stravaganti, l’ipersessualità, l’irritabililità estrema e l’insensibilitá

verso i bisogni e i sentimenti degli altri. L’applicazione di questi criteri all’interno

della cornice cartesiana, rimanda a concetti normativi sulla salute mutuati

dall’esterno e ostacola inevitabilmente l’esplorazione della mania vista attraverso

il mondo esperienziale del paziente. La visione psicoanalitica della mania

considerata come alterazione del tono dell’umore che trae origine esclusivamente

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da dinamiche intrapsichiche contribuisce inoltre a non farci prendere in

considerazione il contesto relazionale in cui si inscrive questo stato soggettivo. Di

conseguenza nel momento in cui per questo problema si utilizza un orientamento

cartesiano, possiamo porci due domande. Primo, quali sono le caratteristiche della

mania quando questa viene esaminata da una prospettiva che cerca di avvicinarsi

il più possibile a come essa venga sentita? Secondo, quale é la configurazione del

campo intersoggettivo caratteristicamente connessa con l’insorgere di episodi

maniacali? Affronteremo queste domande guidati dalle fondamentali intuizioni di

Brandchaft (1993), rivisitando brevemente alcune esperienze raccontate in due

descrizioni autobiografiche di questo fenomeno: “Una brillante follia di Patty

Duke” (Duke & Hochman, 1992) e “Una mente inquieta” di Kay Jamison (1993).

Nel corso di uno dei tanti episodi maniacali avuti dalla Duke durante i primi anni

dell’etá adulta, comparve un potente delirio in cui agenti di governi stranieri si

erano infiltrati nella Casa Bianca a Washington, D.C. La Duke credeva che questi

infiltrati avessero gradualmente assunto il comando del governo americano. La

sua missione consisteva nel viaggiare in lungo e in largo per tutto il paese e

salvare personalmente la nazione, al fine di estirpare gli invasori e riconsegnare la

gestione del governo nelle mani del governo americano. Al tentativo di svolgere

nella realtà questa missione, era seguito uno dei suoi numerosi ricoveri psichiarici.

Analizzando questo tipo di delirio come possiamo chiarire la natura e il contesto

dell’esperienza maniacale? Pensiamo che la visione della Duke in cui agenti

stranieri interferiscono sulle decisioni del governo americano, concretizzi

l’usurpazione psicologica che si accompagna alla sottomissione nei confronti

degli interessi e dei programmi degli altri nel definendo la sua identitá e

governando il corso della sua vita. Il dato piú significativo della sua vita, assai

rilevante a questo fine, é rappresentato dal fatto che era cresciuta in circostanze

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dense di abusi e di sfruttamento come “creatura” dell’industria

dell’intrattenimento. Consegnata giá in giovane etá nelle mani di agenti dello

spettacolo e di produttori, era vissuta in un mondo che non era mai stato realmente

il suo, diventando, al prezzo di un’infanzia rubata, una star acclamata e conosciuta

in tutta la nazione. Comprendere questo livello di schiavitù emotiva ci aiuta a

identificare una caratteristica centrale del significato della mania nella situazione

personale della sua vita. I suoi stati maniacali contenevano nel loro nucleo il

tentativo di liberarsi - uno sfogo o una rottura - dalle determinanti esterne del

contenuto della sua identitá e della direzione della sua vita. Questa liberazione,

che Brandchaft ha descritto come "allentamento transitorio di un legame

schiavizzante" (1993, p. 72), rappresenta naturalmente solo una faccia della

medaglia, dove l’altra faccia rappresenta l’arrendersi e consegnare la propria vita

al potere definitorio dei programmi altrui. L’alternativa oscura alla mania, come

illustrano simbolicamente le immagini deliranti della Duke che rappresentano il

precario governo americano, é il continuo assoggettamento al potere normativo

delle definizioni invasive degli altri che riguardano chi siamo e come dobbiamo

vivere.

È per noi di particolare interesse che "Una Brillante Follia" sia stato scritto a

quattro mani con un giornalista scientifico, il quale ha partecipato alla stesura di

numerosi capitoli del libro della storia della Duke dal punto di vista della

psichiatria biologica. Questi capitoli, che ripercorrono il decorso di una malattia

che avrebbe basi biologiche, sono interposti tra quelle parti scritte dalla Duke, in

cui lei racconta la storia della propria vita, e di come l’ha vissuta, dal suo

personale punto di vista. Se considerassimo il libro nella sua interezza come

cronistoria del viaggio dell’anima di Patty Duke, saremmo testimoni del come un

gruppo costituito esclusivamente da determinanti esterne – proprio come gli

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infiltrati immaginari nella Casa Bianca - abbiano preso dimora nella struttura della

sua narrazione di se stessa. Quindi l’autobiografia della sua follia rispecchia il

ciclo del pattern interno della follia stessa, oscillando avanti e indietro tra una

posizione di resa accomodante all’autorità esterna e una posizione di auto-

espressione in cui tenta l’auto-liberazione.

Un alternarsi parallelo tra prospettive contrastanti e esperienzialmente

incompatibili è ciò che troviamo anche nel libro “Una mente inquieta” di Kay

Janison. Sebbene questo libro abbia un’unica autrice, nel flusso delle sue

descrizioni possiamo ascoltare due voci diverse. Una voce è alleata con l’autorità

medica e torna continuamente ad affermare le basi biologiche della malattia

maniaco-depressiva della quale soffre l’autrice. Questa voce descrive gli eventi

della vita della Janison come il dispiegarsi delle manifestazioni di una malattia

organica. L’altra voce dà ripetutamente espressione ad un amore per l’intensità

dell’esperienza che essa prova nella ciclicità degli stati umorali, e solo in modo

molto riluttante acconsente alla diagnosi medica e all’assunzione di farmaci

stabilizzatori dell’umore prescritti dai suoi dottori. Tra i molti incidenti che si

raccontano in questa storia di follia, ce ne è uno che descrive una vivida

allucinazione che codifica simbolicamente aspetti importanti della storia della

Janison. Ella ci narra come una sera – dopo un lungo periodo di attività frenetica

in cui era sempre più confusa – percepì improvvisamente una strana luce dietro i

suoi occhi e vide un’enorme centrifuga nera che in qualche modo si trovava

dentro la sua testa. Poi una figura vestita di un abito da sera bianco e vaporoso con

lunghi guanti bianchi, si avvicinava alla centrifuga portando una provetta di

sangue delle dimensioni di un vaso. L’autrice si riconobbe in questa figura e

riconobbe anche – con orrore – che il sangue macchiava sia l’abito da sera che i

guanti. La figura insanguinata mise la provetta delle dimensioni di un vaso nella

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centrifuga e poi accese l’apparecchio. Paralizzata dalla paura la Janison vide e

ascoltò l’apparecchio che girava sempre più veloce e il suono del tubo di vetro che

si sbatacchiava al metallo si fece sempre più forte. Alla fine la centrifuga esplose

schizzando fuori di sé migliaia di schegge minute. Il sangue era dappertutto,

copriva tutto e arrivava fino al cielo.

Come possiamo capire questa allucinazione? Cosa ci dice della mania della

Janison? Il sangue contenuto nel tubo di vetro può essere visto come simbolo

della sua vitalità interiore, imbottigliato in un ruolo di identità che si basava sulla

compiacenza verso le condizioni in cui era stata allevata. Questa identità, che si

esprimeva nell’immagine della figura in abito da sera, materializza ciò che ci si

aspettava da una giovane donna nel mondo militare tradizionale dell’infanzia della

Janison. Come figlia di un ufficiale dell’aeronautica ci si aspettava da lei che

imparasse “le delicate regole delle buone maniere, la danza, i guanti bianchi e

altre irrealtà della vita” (1995, p. 27); e all’interno della condizione determinata da

queste aspettative c’era ben poco spazio per quella ragazza intensa e mercuriale

che lei descrive di essere stata. La visione del sangue sottoposto all’enorme

pressione della centrifuga dà forma all’effetto schiacciante che avevano avuto i

ruoli che le si richiedeva di ricoprire sull’esperienza di sé della Janison. Quando

esplode la centrifuga questi ruoli sono disintegrati e ha luogo una sorta di

liberazione dello spirito vitale che precedentemente era imprigionato. Ma questa

liberazione avviene in un caos senza struttura che nega il mondo ordinato e

strutturato al quale aveva dovuto adattarsi, ma che non contiene nulla di

organizzato che ne prenda il posto.

Lo stato maniacale, visto da un punto di vista post-cartesiano intersoggettivo, non

deve essere descritto solo come difesa ontro la depressione e non può essere

spiegato come l’esito di trasformazioni esclusivamente intrapsichiche. Un

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significato della mania che ha un’importanza pervasiva è che essa può esprimere

una sorta di protesta contro gli accomodamenti annichilenti verso programmi e

ruoli che non sono autenticamente quelli della persona stessa. La mania dunque

fornisce una riparazione transitoriadella sensazione di essere iniziatori delle

proprie azioni e della autenticità dato che rompe la “coesione a prestito”

(Brandchaft, 1993) di un’identità che si basa sulla compiacenza verso i programmi

degli altri. La ragione per cui questa riparazione può essere solamente transitoria

ed è sempre tanto distruttiva, è che la protesta maniacale è un’esplosione di

pattern familiari che avviene in assenza di qualsiasi tipo di organizzazione

psicologica che possa costituirne un’alternativa. I segni diagnostici classici che

definiscono lo stato maniacale possono quindi venir compresi come

manifestazioni dell’esplosione attiva in una libertà caotica di una vita che si era

arresa. La mania sgorga nell’esistenza grazie a deboli immagini e altrettanto

deboli intuizioni che hanno le loro radici in possibilità di autenticità ormai perse:

quindi il mondo che sembra materializzarsi brevemente negli stati maniacali è

carico di un eccitamento emozionante e di euforia. Improvvisamente tutto sembra

possibile perché un nuovo universo di libertà si è aperto, le opportunità per

un’espressione di sé creativa sono molte, e forse per la prima volta nella sua vita

la persona ha la sensazione esilarante di sapere chi è. Nelle situazioni estreme

ogni limite del pensiero e dell’azione si dissolve e il caos regna in ogni sfera

dell’esistenza personale. Infine – inevitabilmente – il nuovo mondo comincia a

crollare perché non c’è nulla e nessuno che lo sostenga, e perché alla sua base non

c’è alcuna organizzazione che lo abbia mai consolidato. A questo punto appare

spesso una depresisone schiacciante via via che la vecchia identità comincia a

riorganizzarsi e si reinstaurano i vecchi pattern di accomodamento (Brandchaft,

1993). La libertà appena trovata evapora; i sogni di un destino personale glorioso

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svaniscono e i sentimenti di capacità e di essere iniziatori delle proprie azioni che

erano brevemente diventati più intensi vengono sostituiti da un’inerzia mortifera e

annichilente.

L’esperienza della mania coem ogni stato soggettivo, non può essere compresa a

prescindere dal contesto intersoggettivo nel quale appare. I tentativi di “spiegare”

questo stato mentale attribuendolo esclusivamente a fattori interni non

considerano il ruolo costitutivo del campo intersoggettivo e rischiano di cadere in

un riduzionismo iper-semplificatorio. Volgiamo ora la nostra attenzione a un

secondo importante problema nella psicoanalisi clinica: la relazione tra le forme

estreme di trauma e le esperienze di annichilimento personale.

Trauma e annichilimento

Come mai alcune persone rispondono al trauma con un riuscito atto dissociativo,

che lascia cioè relativamente intatta l’organizzazione del loro mondo, mentre

invece altre persone regiscono con l’esperienza di dissoluzione di sé e del proprio

mondo? I punti di vista psicoanalitici tradizionali tendono a rispondere a questa

domanda con concetti come quello di forza dell’Io, che rinvia a un fattore di

resistenza intrinseca esistente all’interno della mente isolata dell’individuo. Si è

spinti a questo tipo di spiegazione nella misura in cui il trauma è concepito in

modo rozzo ed esteriore; quindi si osservano menti differenti che rispondono in

modo differente agli stessi avvenimenti oggettivi.

La teoria psicoanalitica post-cartesiana se da una parte non nega l’esistenza della

forza individuale, dall’altra riconosce che le risorse di ognuno entrano in gioco

nell’ambito di specifici campi intersoggettivi. Inoltre, la natura del trauma stesso

viene compresa in modo variabile parzialmente in funzione del contesto

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relazionale e storico in cui esso avviene. L’esperienza del trauma che conduce

all’annichilimento, inscritta nel suo particolare contesto, probabailmente differisce

notevolmente da quella in cui avviene una dissociazione. In che cosa consiste

questa differenza? Cercheremo di rispondere a questa domanda rivolgendoci di

nuovo a una storia clinica. Si tratta di una giovane donna la cui vita includeva un

pattern ripetuto per lungo tempo di dissociazione di un trauma estremo e anche,

nella tarda adolescenza, il crollo di questa dissociazione e la comparsa di

esperienze di annichilimento.

La paziente di cui parliamo aveva diciotto anni quando ebbe la sua prima crisi

psicologica che implicava una sensazione di annichilimento personale. Questa

crisi venne scatenata da una persistente allucinazione uditiva che cominciò un

pomeriggio in cui aveva finito i soldi e non sapeva come fare a tornare a casa dei

genitori. Chiamò la madre per chiedere un passaggio e si sentì dire con calma e

cortesia che era perfettamente in grado di trovare per conto suo un modo per

tornare a casa. La paziente era molto depressa a causa di una miriade di

circostanze estremamente difficili nella sua vita in quel momento, e la risposta di

sua madre era disperante e confusiva. Pensava di non essere affatto capace di

trovare alcun modo di tornare a casa, né tantomeno si sentiva capace di percorrere

da sola il tragitto di trenta miglia per tornare a casa. Tuttavia la madre era stata

così positiva e incoraggiante nel dirle di contare su se stessa. Rimase in piedi nella

cabina telefonica dalla quale aveva chiamato, sommersa dalle impressioni confuse

dovute alla conversazione, e improvvisamente sentì una voce che diceva: “Vedi

… sei cieca … vedi … sei cieca … vedi … sei cieca …”. La voce continuava a

dire queste parole senza sosta, spaventandola e confondendola ancora di più. Non

sapeva chi stesse parlando e il significato delle cose che venivano dette era strano

e le sembrava che si spostasse intorno mentre ascoltava. Le affermazioni si

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contraddicevano l’una con l’altra, per cui la prima affermazione diceva che lei

poteva e la seconda diceva che lei non poteva. Con questa confusione ancora non

risolta, tornò a sentire la voce una seconda volta: sembrava spiegarle che in realtà

lei non poteva vedere niente, che di fatto era cieca. Ma se era cieca, e quindi non

poteva vedere assolutamente niente, si domandava, come ci si poteva aspettare da

lei che vedesse di essere cieca? Pensava che la voce ora le dicesse di vedere che

non poteva vedere niente, ma non era in grado di capire cosa ciò potesse

significare. Alla fine le parole stesse si dissolsero e ogni cosa, incluso il suo

corpo, cominciò a perdere solidità e a sembrare irreale. Dopo aver vagato in uno

stato disorientato per parecchie ore, fu raccolta dalla polizia e portata all’ospedale

psichiatrico. I suoi resoconti di quel giorno la descrivono come una persona in uno

stato di psicosi florida.

C’erano tre circostanze che influenzavano questa giovane donna al momento del

suo primo crollo. La prima era che si era diplomata alla scuola superiore ed era

entrata in una grande università dove non conosceva nessuno. Aveva passato i

mesi prima della crisi in una progressiva alienazione e solitudine, in forte

contrasto con le sue precedenti esperienze scolastiche. Durante gli anni della

scuola secondaria e della scuola media, aveva avuto un sacco di amici e buoni

professori, e si era immersa in piacevoli attività extracurriculari. Adesso, invece,

si trovava in un territorio sconosciuto, seguiva lezioni che non le interessavano, e

passava lunghe ore da sola nella sua stanza del dormitorio del college. L’unica

tregua in questo isolamento era stata una serie di brevi incontri sessuali con

diversi uomini che aveva incontrato, nessuno dei quali aveva però mostrato una

qualsiasi inclinazione a coinvolgersi in modo più duraturo con lei. La seconda

circostanza angosciosa era che aveva saputo che sua madre aveva un tumore alle

ovaie già in fase di metastasi. Rendendosi conto che la madre poteva vivere solo

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un anno o meno, la paziente si prefigurava la sua morte come la fine del mondo

normale e della vita normale in cui aveva sempre cercato di credere. Alcuni di

questi sentimenti su tutto ciò sembravano essere simbolizzati in un incubo che

aveva in quel periodo, in cui c’era un enorme mucchio di terra che si gonfiava e

cresceva minacciosamente nel giardino posteriore della casa della sua infanzia.

Riteneva che il mucchio di terra fosse una tomba sempre più grande per sua

madre. La terza circostanza insopportabile di questo periodo disastroso aveva a

che fare con un incidente di macchina in cui la paziente aveva subito una grave

commozione cerebrale e una ferita al ginocchio che le aveva procurato parecchie

settimane di fortissimo dolore. Il suo corpo ferito, precedentemente intatto e fonte

di sicurezza, adesso era diventato luogo di grande sofferenza e di una sensazione

di vulnerabilità senza precedenti.

La reazione catastrofica alla risposta non convalidante della madre alla sua

richiesta di aiuto, sicuramente non è indipendente dalle situazioni di potente stress

appena descritte. Come possiamo comprendere l’impatto di queste diverse

circostanze traumatiche e del loro contributo alla sua successiva esperienza di

annichilimento? Per rispondere a questa domanda torniamo alla storia della vita

della paziente.

Fino al momento della crisi e della successiva ospedalizzazione, la paziente era

stata - in ogni caso almeno in apparenza - una persona che funzionava a un livello

molto alto. Aveva mantenuto la media di Ottimo nel corso di tutta la carriera

scolastica, aveva molte amicizie di lunga data, ed era considerata una persona

felice da tutti quelli che la conoscevano. Anche la sua famiglia sembrava del tutto

normale al mondo esterno, teneva bene il prato, andava regolarmente in chiesa, e

contribuiva alle organizzazioni della loro comunità. Tuttavia nella famiglia c’era

una follia nascosta perché la paziente aveva subito abusi sessuali segreti da parte

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del padre durante tutta l’infanzia. A partire dall’età di due anni aveva fornito

gratificazione sessuale orale al padre due o più volte ala settimana. Le visite del

padre nella sua camera da letto avvenivano sempre nel bel mezzo della notte

quando tutti gli altri membri della famiglia stavano dormendo. Lui era molto

gentile durante questi incontri: la svegliava con parole del tipo “Ok, tesoro è di

nuovo il nostro momento speciale” dopodiché le inseriva il pene nella bocca e

lentamente raggiungeva l’erezione e poi l’orgasmo. A questo punto le rimboccava

le coperte e se ne andava silenziosamente. Soltanto una volta la paziente aveva

detto qualcosa a qualcuno proposito di queste visite notturne, quando all’età di sei

anni aveva descritto le azioni del padre a una compagna di scuola. A quel tempo

pensava che tutti i padri facessero rituali simili con le figlie e rimase molto

sorpresa davanti allo shock e all’orrore della sua amichetta. La compagna lo disse

alla madre e questa a su volta chiamò la madre della paziente e le raccontò la

storia. Sconvolta terribilmente la madre chiamò il medico di famiglia e raccontò

tutto l’incidente. Fu rassicurata enormemente quando il medico le spiegò che le

bambine intorno ai sei anni inventano comunemente storie del genere che non

sono altro che l’espressione del loro precoce sviluppo sessuale. Più tardi nello

stesso giorno la madre informò con durezza la paziente che sarebbe stata

duramente punita se avesse continuato a inventarsi bugie del genere. Anche il

padre prese la figlia da parte il giorno dopo dicendole che sarebbe stato meglio per

lei se avesse mantenuto il silenzio a proposito della loro speciale relazione.

Aggiunse che le persone generalmente non erano ancora pronte a capire e ad

accettare cose del genere, ma nel tempo il mondo sarebbe cambiato e padri e figlie

avrebbero comunque vissuto i loro “momenti speciali”. Il padre le diceva anche

che nelle case reali dell’antico Egitto e dell’antica Grecia i genitori e i figli

partecipavano in questo tipo di atti d’amore e i risultati straordinari che queste

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società avevano ottenuto tanti secoli fa erano in parte dovuti a questo tipo di

pratiche. Aveva proseguito col dirle che lui e lei erano in realtà dei precursori di

una nuova età in cui quei vecchi rituali sarebbero stati fatti rivivere e in cui

l’intero mondo sarebbe stato rinnovato. Nel frattempo, tuttavia, sarebbe stato

meglio se lei si fosse tenuta per sé questi episodi. Lei promise che non avrebbe

detto più niente a nessuno e l’abuso era continuato senza interruzioni fino a

quando la paziente ebbe tredici anni, e cioè al momento in cui un parente della

famiglia aveva sorpreso il padre mentre aveva un rapporto anale con il fratello più

piccolo della paziente.

Come era sopravvissuta a queste condizioni la nostra paziente? Lo aveva fatto

sbarrando fuori dalla coscienza, durante il giorno, le esperienze notturne con il

padre. Durante le ore del giorno non pensava mai a ciò che avveniva di notte e

invece si buttava a capofitto nella normalità della sua vita scolastica e con i suoi

amici. Anche il padre durante il giorno era completamente differente e sembrava

un padre di famiglia premuroso e dedito; così come la madre che sembrava una

casalinga anch’essa del tutto devota. I genitori, che avevano un orentamento

politico conservatore, facevano di tutto per instillare nei loro figli fiducia in se

stessi e rette virtù, e spesso durante la cena facevano delle piccole conferenze

sull’importanza dei valori morali e di una condotta etica. In un certo numero di

occasioni il padre istruì persino sua figlia su cosa fare quando in momenti

successivi della sua vita avrebbe incontrato dei ragazzi che l’avrebbero attirata in

situazioni sessuali per le quali non sarebbe stata pronta. Intanto le visite notturne

continuavano, come se fossero su un altro piano di realtà, radicalmente dissociate

dalle esperienze che costituivano la normale vita diurna. La paziente si arrendeva

al padre durante gli incontri segreti, compiacendolo rispetto alle sue gentili

intrusioni, e ogni giorno quando si svegliava al mattino era come se la notte

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precedente non fosse accaduto nulla. Tuttavia durante il periodo dell’abuso era

perseguitata da incubi ricorrenti, da sogni che descrivevano con intensità la sua

situazione psicologica nella famiglia.

In uno di questi sogni – che disse aver avuto dozzine di volte durante la sua prima

infanzia e fino all’adolescenza – era in piedi e sola sul pavimento di linoleum

della cucina della famiglia intensamente illuminata. Notava sul pavimento la

presenza di numerose piccole macchie nere o puntini, ciascuno non più grande di

un punto alla fine di una frase. Vedeva anche che sopra ciascun puntino c’era il

nulla come se una piccola colonnina di un potere disintegratore invisibile

emanasse dal pavimento verso l’alto. Ogni oggetto che si estendeva spazialmente

sopra il pavimento aveva buchi al suo interno che erano precisamente della stessa

dimensione dei puntini sul pavimento. Mentre fissava quegli strani puntini di buio

notò che stavano cambiando perché lentamente diventavano più grandi. Ma, mano

che i puntini crescevano, crescevano anche i buchi negli oggetti al di sopra e ben

presto intere sezioni dell’illuminazione delle mensole e del soffitto cominciarono

a scomparire. Nella misura in cui lei stessa stava in piedi sullo stesso pavimento, i

puntini sempre più grandi minaccavano anche lei e il sogno finiva sempre con lei

che si muoveva e danzava spaventata intorno all’oscurità che diventava più grande

cercando sempre di rimanere nella luce. Le immagini di buio e di luce in questo

sogno sembrano connettersi con la condizione di scissione tra mondo diurno e

mondo notturno dell’infanzia della paziente. Durante il giorno tutto era come

doveva essere: la madre e il padre sembravano ed erano genitori amorevoli e

solidi, lei lavorava sodo e aveva molti successi a scuola e si immergeva in attività

piacevoli con tanti amici. Lei poteva esistere in questo mondo di luce sostenuta da

una grande quantità di legami con altri che non erano contaminati dagli eventi

dell’oscurità. Quando veniva la notte, tuttavia, era tutto differente: il padre

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amorevole del giorno scompariva, uno strano ghigno lubrico gli attraversava le

fattezze e cominciava l’abuso sessuale. Durante i “momenti speciali” si sentiva

cancellata, obliterata, trasformata in una cosa. Un modo di poter sopportare questi

momenti mortiferi, come ricordò anni dopo, era di guardare la luna con l’angolo

degli occhi, perdendosi nella sua superficie illuminata fino a che il padre non

aveva finito. Questo modo di resistere sembra essersi riflesso successivamente

durante il periodo della sua psicosi con una convinzione delirante persistente

secondo la quale la luna era un’entità cosciente che la seguiva e vegliava su di lei

proteggendola.

La scissione tra l’esperienza diurna e quella notturna della paziente rispecchiava

strettamente una divisione nell’essere del padre che oscillava anche lui tra due

stati nettamente contrastanti: lo stato in cui era un genitore normale per sua figlia

e quello in cui era un violentatore sessuale lascivo con strane fantasie sull’amore e

sull’antica regalità. Un secondo sogno ricorrente dell’infanzia della paziente

esprimeva la tensione creata da queste due figure paterne e dai mondi separati in

cui esse portavano avanti attività estremamente diverse. In questo incubo la

paziente giaceva prostrata e priva di abiti sul terreno. In ciascun lato del corpo

c’erano sei o sette piccoli uomini, come elfi o gnomi, e ciascuno di essi reggeva

un pezzo di corda. Alla fine di ciascun pezzo di corda c’era un gancio inserito

nella pelle della paziente. Inizialmente la linea degli elfi di destra cominciava a

tirare le sue corde tirando la pelle della paziente fino a spostarla tutta verso

l’esterno, e poi la fila dei piccoli uomini di sinistra cominciavano a loro volta a

tirare corde e ganci così che la pelle della paziente veniva tirata alternativamente

prima a destra e poi a sinistra e poi ancora a destra, e così via fintantochè, alla

fine, si svegliava terrorizzata e confusa.

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Torniamo alla nostra domanda iniziale: quale è la differenza più importante tra

esperienze traumatiche che portano all’annichilimento e quelle che portano alla

reazione, meno grave, della dissociazione? Le circostanze presenti nel contesto

del crollo della paziente a diciannove anni possono essere fatte risalire a un

triplice attacco al suo mondo normale – esso stesso protetto da una costante

dissociazione – che l’avevano sostenuta per tutta la vita. Aveva perso la struttura

di sostegno sociale dei suoi anni scolastici, la madre era minacciata dal cancro e

lei stessa aveva subito un violento attacco da parte dell’ambiente fisico quando

aveva avuto l’incidente di macchina. Considerando queste perdite possiamo forse

comprendere l’enorme significato che era connesso alla sua richiesta di aiuto alla

madre nel giorno stesso del collasso, e l’effetto devastante che aveva avuto la

risposta non convalidante e obliterante della madre a quel grido di dolore. Quella

non validazione che avveniva in un momento di estrema vulnerabilità aveva

riassunto precisamente le reazioni di entrambi i genitori durante la sua infanzia

quando lei aveva espresso un qualsiasi bisogno in relazione all’enorme abuso al

quale veniva sottoposta.

Il trauma che annichilisce è quello che sovverte l’intero modo in cui una persona

dà senso alla propria vita e che attacca i legami di sostegno all’ambiente umano al

loro livello più fondamentale; il trauma che può essere dissociato, pur essendo

anch’esso una minaccia alle organizzazioni dell’esperienza esistenti, lascia fino a

un certo punto intatti i legami di sostegno così da far sopravvivere una piattaforma

stabile per il senso del sé in cui possono venire incapsulati e dissociati gli eventi

traumatici. Nel caso clinico che abbiamo appena descritto una dissociazione

relativamente costante dei mondi diurno e notturno era possibile grazie alla stessa

stabilità della sfera diurna, e le esperienza di annichilimento ebbero inizio soltanto

allorché il mondo stesso della normalità cominciò a disintegrarsi. L’evento

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specifico che aveva preceduto e scatenato il crollo della paziente era stata la

risposta della madre alla sua richiesta di aiuto. Questa richiesta non era stata

soltanto rifiutata; era stata anche ridefinita in termini per i quali essa non aveva

alcun fondamento: la madre aveva “cortesemente” ricordato alla figlia che lei era

perfettamente capace di occuparsi di se stessa. La stessa struttura del disperato

tentativo della paziente di mettersi in contatto con la famiglia perché qualcuno

corresse in suo aiuto veniva in tal modo recisa e lei cominciò a sentire che la

realtà dell’universo come lo aveva percepito fino ad allora cominciava a

dissolversi. L’allucinazione che ripeteva il messaggio “Vedi … sei cieca … vedi

… sei cieca” cristallizzava questo dissolversi in forma uditiva.

Molto spesso non ci sono eventi drammatici e facilmente identificabili che

precedono immediatamente l’avvento della disintegrazione del sé e del mondo, e

ciò può portare l’osservatore cartesiano a concludere che la psicosi del paziente

nasca da fattori e processi completamente interni. Una conclusione di questo tipo

che si poggia su una distinzione grossolana tra psicopatologia endogena ed

esogena non riesce a prendere in considerazione l’unicità dei significati che

avvenimenti apparentemente ordinari o persino triviali possono assumere nel

campo intersoggettivo al quale essi appartengono. Questo contesto include

talvolta temi profondi e continui di formazione del mondo che risalgono alle

vicissitudini della vita precoce, temi che hanno a che fare con la stessa capacità di

una persona di fare esperienza del “io sono”. Il flusso degli avvenimenti della vita

quotidiana, nessuno dei quali appare notevole a un osservatore esterno, può

diventare incessantemente traumatico quando è in relazione a questi temi e

erodere progressivamente legami di sostegno con gli altri minando alle basi il

significato che una persona attribuisce alla propria esistenza. Crolli improvvisi

senza una causa che li provoca, deterioramenti graduali in assenza di un trauma o

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di uno stress significativi, esplosioni inspiegabili di esperienze psicotiche che non

possono avere altra fonte che un processo patologico situato all’interno del

paziente: questi sono alcuni tra i fenomeni che appaiono con evidente chiarezza

sotto la lente della comprensione cartesiana. Il punto di vista post-cartesiano, al

contrario, ci permette di concentrarci sul fatto che queste esperienze catastrofiche

sono incluse in campi transazionali e intersoggettivi. Un’ottica di questo tipo ci

apre gli occhi a significati che precedentemente non vedevamo nelle espressioni

del paziente; significati nei termini dei quail le manifestazioni della cosiddetta

psicosi diventano improvvisamente nuovamente comprensibili. Alla luce di

questo nuovo modo di comprendere, cosa ancor più importante, appaiono anche

nuove opportunità di intervento terapeutico, e la stessa devastazione del mondo

del paziente forse si apre a una trasformazione curativa.