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CITTÀ a partire dalla Missione Dicembre 2016 LAICI MISSIONARI COMBONIANI - PALERMO Una "POTETE RESPINGERE, NON RIPORTARE INDIETRO, È CENERE DISPERSA LA PARTENZA, NOI SIAMO SOLO ANDATA"

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cittàa partire dallaMiss ione

Dicembre 2016

Laici Missionari coMboniani - PaLerMo

U n a

"Potete resPingere,

non riPortare indietro, è cenere disPersa

la Partenza, noi siamo solo andata"

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3 EditorialE

Tony Scardamaglia

4 Mappa digitalE

di Domenico Guarino

5 lavoro agricolo E lEggE dEl caporalato

di Fausta Ferruzza e Giorgia Listi’

8 avvEnto: un caMMino di spEranza

di Domenico Guarino

11 laboratorio E stili di vita: natalE

di Maria Stella Mineo

13 incontro con

Judith Gleidze

15Volti Migranti drEadlocks

di Ester Russo

18InterazioniEquilibri E disEquilibri

di Pasqua de Candia

21 opinioni

22 racconti di uno

Buon Natale

Redazione Alberto Biondo - Giulia Di Martino - Domenico Guarino

www.laicicombonianipalermo.org [email protected]

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Nella tradizione cristiana il tempo che ci prepariamo a vivere e che ci condurrà fino al Natale è l’Avvento: tempo d’atte-

sa, di desideri, di speranza.La speranza secondo il dizionario Treccani è un “sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si de-sidera”. L’avvento è un “cammino di speranza”, lo stesso cammino che percorrono i migranti nella realizzazione del proprio sogno: la spe-ranza in una vita giusta e degna di essere vis-suta.

La speranza può essere definita come la ca-pacità di resistere, di non cedere alla durez-za della vita, di non farsi annientare, come la storia di “C” ospite, suo malgrado, di uno dei tanti CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria) luoghi muti e invisibili, dove ancora una volta l’incontro con “l’altro” rischia di non realizzarsi perché troppo pieno di preconcetti, di catego-rie, di aggettivi, di storie burocratiche, di rifiuti “d’accoglienza”. Ester, in questo racconto, con la profondità che la contraddistingue ci ricorda che è attraverso il superamento del pre-giudi-zio, “Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire”, che si costruiscono rapporti empatici di fiducia dove gli sguardi attraversano le vite e le riempiono di attenzione.

La speranza cresce e si fa strada, anche nella capacità di denunciare le condizioni disumane degli ospiti del campo “Ciao Usmane” a Cam-

pobello di Mazara , dove ogni anno si ritrovano 1200 migranti per la raccolta delle olive e co-strette ad accettare condizioni di lavoro e di vita sempre più difficili ed inaccettabili. Attraverso il racconto di Fausta e Giorgia siamo sollecitati ad alzare lo sguardo e rimanere “svegli e vigili “ per non lasciarci sopraffare e assopire dalla tra-gicità della storia.

“La speranza abita gli sforzi e si libera negli attriti di forze contrarie” (Antonietta Potente), c’è chi scorge, nel buio della notte, un piccolo sentiero che porta a un nuovo mondo pieno di luce e di speranza. E per questo si impegna a trasforma-re l’amara e cruda esistenza in un dolce Natale fatto di cose buone e croccanti che come la-boriose api, con semplicità e cura, producono dolcezza per dare sapore e gusto nuovo a que-sta storia. Sono le donne e gli uomini che ogni anno si ritrovano presso il Laboratorio di dolci dei Laici Missionari Comboniani, che si appre-stano a preparare mille dolcezze che arriveran-no nelle nostre case nelle nostre vite.

È la stessa speranza che traspare nella storia che Pasqua ci narra, la storia di chi vuole trasforma-re, rigenerare la propria esistenza perché quello che vedi adesso è solo una parte. Spostati un pochino, allarga la visuale, perdi per un attimo l’equilibrio, cambia quello a cui sei abituato/a, e magari potresti scoprire che tutto il nuovo che ora ti spaventa è più bello di quello che pensavi.

Ed i t o r i a l Edi Tony Scardamaglia

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Mappa digitale

North Dakota: Nativi Americani occupano i terreni destinati a un progetto di oleodotto

“I beni temporali servono per la missione della Chiesa”

Lettera Apostolica: Misericordia et misera20 novembre 2016

Sterminate quei monaci. Firmato: il vicerè Graziani

Mappa dei campi del 2016Meltingpot.org

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Anche quest’anno siamo andate a Campo-bello a incontrare Ismail, Diop, Omar.....

Nel campo “Ciao Ousmane”, una distesa di tende di ogni tipo ammassate nel cortile dell’ex-oleificio “Fontane bianche”, vivono oggi più di 1200 persone: senegalesi, ma-rocchini, gambiani, tunisini, ghanesi...... Ma quest’anno non c’è lavoro che per poco più di 800!! Tanti sono arrivati dal norditalia in crisi industriale e a volte non hanno i soldi neanche per ritornarvi. I servizi sono insuffi-cienti: 20 bagni in tutto; le docce - fredde!! - allagano il campo, che sotto la pioggia di-venta una palude. L’edificio ospita l’ambula-torio medico e il magazzino abiti (qualcuno

viene a donare qualcosa), mentre quest’anno non è stato attivato alcun supporto legale, se non per interventi sporadici. Unico conforto i piccoli ristoranti di cucina tunisina, sudane-se, senegalese (dell’unica donna che vive nel campo: Bineta). E i venditori di acqua calda (!!) indispensabile per la doccia.

Il Comitato Antirazzista Cobas segue la situa-zione delle campagne di Campobello di Ma-zara (Tp) da ottobre 2013, quando il giovane Ousmane Djallo ha perso la vita in seguito alle gravissime ustioni causate dall’esplosio-ne di una bombola di gas. Questo tragico evento ha portato alla luce le drammatiche condizioni di vita dei circa 800 raccoglitori

Lo sfruttamento del lavoro migrante nelle campagne - Campobello di mazara Fausta Feruzza - Giorgia Listìcomitato antirazzista cobas PaLermo

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di olive accampati in una radura lontana dal centro abitato, in contrada “Erbe Bianche”, tra lamiere di amianto, senza acqua né luce; in queste drammatiche condizioni i lavoratori hanno passato per anni l’intera stagione la-vorativa (settembre-dicembre), senza che gli abitanti se ne occupassero minimamente. La morte di Ousmane ha attirato l’attenzio-ne dei media nazionali, costringendo le Isti-tuzioni locali (Comune e Prefettura) a pren-dere atto della situazione e a fornire servizi minimi: due prese d’acqua e il presidio della Croce Rossa Italiana. Ma soltanto la stagione successiva, grazie alle insistenti pressioni dei ragazzi e delle ragazze del Collettivo Liber-tarea - unici ad avere contatti “umani” con il campo già da prima del tragico episodio - il Comune, in collaborazione con la Prefettu-ra, ha concesso l’utilizzo di un ex oleificio confiscato ad un imprenditore mafioso, rea-lizzando docce e bagni. Il campo è gestito da Libera e dalla CRI. Tuttavia oggi la situazione è tutt’altro che risolta.......

Si parla ovviamente non di un’emergenza, ma di un fenomeno strutturale. L’olivicoltura è una delle attività agricole più redditizie del territorio di Campobello. In questa zona per la raccolta delle olive i datori di lavoro hanno due modalità di retribuire gli operai: in alcuni casi €30 alla giornata; in altri a cottimo, €3-3.50 a cassetta. I contratti vengono fatti - spe-cie da quando la situazione è sotto i riflettori - ma per un numero di giorni e ore lavorative molto inferiori alla realtà.

A differenza di altre zone d’Italia, a Campo-

bello, non è presente il fenomeno del “ca-poralato”, diffuso non solo nel meridione (Puglia, Calabria...), ma anche al nord. Soli-tamente con questa espressione si indica una mediazione illegale tra i lavoratori stranieri e il datore di lavoro, operata da un “caporale”, una figura oscura che recluta manodopera e impiega i lavoratori presso terzi in condizioni di sfruttamento, assicurando lo svolgimento del lavoro anche con l’uso di intimidazione e violenza; spesso viene imposto un esoso “servizio trasporto” verso i campi ed in alcu-ni casi ai lavoratori vengono sottratti i docu-menti, a garanzia della continuità del rappor-to di lavoro. Tra le varie tipologie di caporale troviamo anche il “caponero”, che di solito recluta lavoratori del suo stesso paese.

I lavoratori sono in genere stranieri, spesso senza il permesso di soggiorno, ma non sem-pre; i turni di lavoro sono molto lunghi (dalle otto alle dodici ore al giorno), senza garanzie né tutele, come ferie o malattia; raramente i lavoratori hanno la possibilità di accesso ad acqua o servizi igienici, i lavoratori spesso non possono allontanarsi dal luogo di lavoro e il salario pattuito non sempre viene garanti-to. Nonostante queste pratiche siano riedizio-ni moderne dello schiavismo, oggi in Italia il fenomeno è in aumento costante, coinvolge almeno 400mila lavoratori ed è stato riscon-trato oltre che al sud, in diverse aree del pae-se: con gli indiani Sikh nell’agro pontino ( La-zio), con gli africani a Saluzzo ( Piemonte).... ed in settori dell’agricoltura molto diversi tra loro. Secondo gli ultimi dati dall’osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, pubblicati nell’ultimo rapporto nel maggio 2016, questa

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pratica ha prodotto utili altissimi, alimentan-do un’economia illegale sommersa di oltre 14 miliardi di euro, ottenuti mediante infil-trazioni mafiose capaci di controllare l’intera filiera agroalimentare.

Il caporalato e lo sfruttamento dei lavorato-ri irregolari non sono novità. La prima legge italiana che istituisce il reato di caporalato è del 2011, in seguito alle lotte dei lavoratori di Nardò, in Puglia. Tale normativa considerava il caporalato reato contro la persona da puni-re con la reclusione da cinque ad otto anni e con multe da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Nella nuova legge del-lo scorso 18 ottobre il reato di caporalato è semplificato ed è inteso come qualsiasi pra-tica caratterizzata dall’utilizzo di violenza o minaccia per indurre un lavoratore ad adem-piere a precisi comportamenti contro il pro-prio interesse; per la prima volta è prevista la sanzionabilità del datore di lavoro cui viene imputato anche il pagamento di retribuzioni difformi da quanto previsto dai contratti col-lettivi territoriali. In questa stessa legge si prevede il delitto di inter-mediazione illecita e sfruttamen-to del lavoro per cui è disposta la confisca obbligatoria di dena-ro e beni e la reclusione da uno a sei anni e una multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato. Nel provvedimento è previsto anche un Fondo antitrat-ta ottenuto con i proventi delle confische, destinato alle vittime di caporalato.

La recente legge dimostra come il fenomeno sia diventato un imponente fonte di reddito per le organizzazioni criminali e per singo-li sfruttatori, a scapito della sicurezza e de-gli interessi di migliaia di lavoratori invisibili ed anche di lavoratrici italiane, come si è appreso solo nel luglio 2015, con la morte, nelle campagne pugliesi, di Paola Clemente, stroncata dalla fatica per pochi euro.

Anche quest’anno ci si arrangia a Campo-bello di Mazara, sperando di essere reclutati per una giornata in più. Siamo qui anche per conoscere i progetti futuri per il campo “Ciao Ousmane”. Ma il sindaco rifiuta di parlare con la giornalista di “Redattore sociale” che è con noi. Tanto tra poco la stagione finirà. Il ministero ha appena sborsato €60.000 per compensare l’amministrazione dei non-ser-vizi erogati in questi tre anni. C’è tempo per non-pensare all’emergenza del prossimo anno...

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L’avvento è uno dei tempi liturgici dove la speranza è sostenuta e rafforzata dalla Parola. I testi del profeta Isaia che la liturgia ci pro-pone nelle quattro domeniche che precedo-no il natale, costituiscono un insistente invito alla fiducia, un incoraggiamento a rinnova-

re il nostro impegno nella trasformazione in meglio della realtà dove viviamo. L’avvento è quindi un “cammino di speranza”, lo stesso cammino che percorrono i migranti nella re-alizzazione del proprio sogno: la speranza in una vita giusta e degna di essere vissuta.

avvento: un Cammino di speranza

La speranza è una caratteristica costitutiva dell’essere umano. Nella Bibbia questa viene quasi sempre contrapposta a ogni tipo di disfattismo e di disperazione. È sinonimo di dina-mismo, di creazione, di movimento. È comunitaria perché appartiene e accompagna non

solo le singole persone, ma anche il popolo.

Domenico GuarinoMissionario Comboniano

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Il tempo che viviamo diventa allora la possi-bilità di crescere in una maggiore consape-volezza di quanto accade attorno a noi. È il tempo della speranza per “non restare bloc-cati dai conflitti o cadere nella tentazione del negativo” (discorso del papa al terzo incontro dei movimenti popolari, sala Nervi 5 novem-bre 2016).

Oggi oltre i muri che molti governi stanno co-struendo lungo i confini per mantenere intat-ti i propri interessi economici ed ideologici, ce n’è un altro molto più grande, un muro che avvolge e prende tutti: il muro dell’in-differenza. Riprendendo le parole di papa Francesco pronunciate nel terzo incontro mondiale dei movimenti popolari, un “filo invisibile, quella struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che provocano sofferenza, può consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta esistenziale che, come nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà, colpisce senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato”.

I testi biblici e la loro rilevanza per il tempo che viviamo

“Spezzeranno le loro spade e ne faranno ara-tri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazio-ne, non impareranno più l’arte della guerra” (Is 2,4). La chiave d’interpretazione di questo testo sta nella sua “bipolarità”: armi-strumenti. Ambi poli manifestano modelli contrapposti della realtà sociale e due forme antagoniste di co-scienza sociale. Il primo è il modello della cultura bellica dominante; il secondo è quel-la della contro cultura della pace proposta dai profeti. L’obiettivo che appartiene anche a noi oggi, è quello di creare una coscienza alternativa a quella dominante. Questa non solo consiste nel denunciare quei governi, tra cui l’Italia, che continuano a vendere arma-menti di ogni tipo, ma anche contrapporre una distribuzione giusta e solidale della ric-chezza, all’economia dominante dell’abbon-danza per pochi. La giustizia e la compas-sione (cum-patere / soffrire con) sono i cunei da inserire in una politica di oppressione e sfruttamento.

“Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudi-cherà con giustizia i miseri e prenderà decisio-

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ni eque per gli umili della terra” (Is 11,3-4a). Per Isaia il re si comporterà dunque come il difensore dei miseri e degli oppressi contro i violenti e gli empi, mostrando così tutta la sua giustizia e la sua fedeltà verso JHWH. Queste due virtù diventano così parte costituiva del suo modo di essere e di agire. C’è da chieder-si quanto oggi noi che ci chiamiamo cristiani siamo capaci di difendere gli ultimi e le ulti-me, gli impoveriti e le impoverite di questo sistema come i migranti, gli sfollati, i senza fissa dimora. Per Isaia la fedeltà a Dio passa attraverso la fedeltà agli ultimi.

“Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto. Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo” (Is 35,5-6.8.10). Nello scrivere questo testo, Isaia ha davan-ti agli occhi la desolazione dell’esilio e an-cor più la desolazione di Gerusalemme e del monte Sion diroccato e distrutto. Ma ai suoi occhi sorge un nuovo mondo, pieno di luce e di speranza. L’immagine è quella di

un piccolo sentiero che diventa una strada. A percorrerla saranno “i riscattati dal Signo-re”, perché i ciechi avranno la vista, i sordi acquisteranno l’udito, gli zoppi cammineran-no spediti. Anche davanti ai nostri occhi oggi le immagini sono di morte prima del tempo e di sofferenza, due realtà che sono il frutto di un mondo dove 62 super ricchi hanno la stessa ricchezza di 3.6 miliardi dei più poveri (dati OXFAM). Cosa fare? È importante uscire dall’indifferenza e riprendere comunitaria-mente il “sogno” di milioni di persone esclu-se e uccise dal sistema economico e politico vigente.

“Ecco: la vergine concepirà e partorirà un fi-glio, che chiamerà Emmanuele” (Is 7,14) In una storia chiusa e senza vie di uscita, la nascita di un bambino la apre al futuro, la proietta oltre lo stato presente difficile e fune-sto. Non posso non pensare ai bambini che nascono sui barconi. È la vita che si fa avanti in situazioni impensabili. È la speranza che diventa realtà, che si fa storia: Dio nel ventre di Maria ancora una volta vuole abitare l’u-manità.

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Il Natale è ormai alle porte e le luci del labo-ratorio delle ComboCucki si riaccendono, pronti a infarinare teglie e modellare biscot-

tini e cioccolatini per addolcire i piccoli pen-sieri da regalare ai nostri cari in prossimità delle feste. La mia domanda è perché oggi dopo 6 anni questo laboratorio prosegue la sua attività? Non ci sono già in giro abbastanza negozi, bar, supermercati dove poter trovare le stesse cose? Oggi la ricerca del bio è una moda? O uno stile?Non so se per tutti la risposta sia così deduci-bile ma di certo posso assicurarvi che non è la stessa cosa.

Cominciamo dal fatto che donne e uomini di buona volontà si riuniscono tanti pome-riggi per dedicare il loro tempo “disponibi-le” a concretizzare uno “stile di vita” che sia

Maria Stella MINEOLaica missionaria comboniana

Colorare le nostre vite di speranza e di Coraggio

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alternativo al compra e fuggi, autoproducia-mo, impastiamo, e condividiamo non solo le materie prime scelte oculatamente a Km/0 (mandorle e pistacchi siciliani) per favorire e rispettare la nostra madre terra, i coltivatori autoctoni che non spingono la produzione a discapito del prodotto poco sano, ma mentre si lavora è la vita stessa che si condivide, le relazioni di amicizia, di confronto, di affetto trovano spazio, la creatività manuale cammi-na a braccetto con lo spirito del servizio e del desiderio che qualcosa di diverso si può fare.Quest’anno poi, dopo lunghe ricerche, siamo

arrivati ad un altra conquista, abolire gli im-ballaggi in plastica e promuovere l’utilizzo (il riutilizzo a casa) di confezioni a impatto am-bientale zero. Bustine trasparenti rettangolari in Natureflex (pellicola trasparente a base di polpa di legno) biodegradabili e composta-

bili. Sono sacchetti molto robusti, ideali per conservare i prodotti che conoscete e poi scatole, con il loro vassoio estraibile, ideali per l’asporto di tramezzini, panini e torte. Grazie alla finestra trasparente in bioplastica, realizzata con amido di mais, si possono am-mirare i nostri deliziosi cibi.

Ricerchiamo la qualità, molto cibo che ci propinano è diventato veleno, torniamo alle ricette delle nonne, delle mamme e se il tem-po non c’è troviamo chi questo tempo lo mette in gioco per chi non ce l’ha.

Ovviamente mettere su qualsiasi progetto oggi ha un costo, e anche questo lo ha, ma coperte le spese delle materie prime ciò che resta è messo a disposizione dei vari pro-getti ad intra e ad extra che i laici missionari di Palermo seguono ormai nella nostra storia da anni. Questa storia che oggi ci chiede di aprire gli occhi, di non voltarsi dall’altra parte, di non essere in-differenti di fronte alla sofferenza, di superare i pregiudizi e luoghi comuni che ci rendono anonimi e senza “profumo”, quel profumo di mille dolcezze che si può espande-re ed arrivare nelle nostre case, nel-le nostre vite e colorarle di speran-

za, di coraggio, di possibilità per tutti. Per chi arriva ad approdare in questa nostra amata e martoriata terra dove tutti siamo pellegrini e figli di un solo Padre.

Buone Feste a tutti e buon appetitooooo

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Chi è Judith?

Mi occupo di immigrazione da più di 22 anni e oramai mi definisco tramite il lavoro che re-alizzo perché prende un po’ tutta la mia vita.Vengo dalla Germania dove già mi occupavo di questa realtà dal 1994 nel caso specifico dei minori non accompagnati. In un secondo momento abbiamo cercato di creare, nella Germania dell’est, un gruppo sempre impe-gnato nel campo dell’immigrazione con una connotazione più politica. Arrivo a Palermo da questo contesto e dopo aver vissuto per tanto tempo a Berlino, da un anno prima del crollo del muro, sino al 2008, l’anno in cui mi sono trasferita in Sicilia.

Perché Palermo?

La prima volta che sono venuta in Sicilia è stata nel ‘93. Stavo preparando la tesi sul-

la mafia nella letteratura e mi sembrava più che logico essere sul posto per comprendere meglio il fenomeno. Durante quell’estate ho conosciuto un gruppo di donne che stava re-alizzando lo sciopero della fame a piazza Ca-stelnuovo. L’amicizia che si era creata è stata uno dei motivi che mi ha spinto a ritornare in svariate occasioni. Poi ho dato un cambio: dall’antimafia sono passata allo studio delle migrazioni. Quando nel 2008 ho lavorato un mese insieme a Germana e Paola fondando Borderline Sicilia, ho deciso di restare. Ger-mana abitava ad Agrigento e il cambio da Berlino rischiava di essere troppo “diverso” e quindi decisi di vivere a Palermo.

Il vissuto dei primi anni a Palermo era quello che ti aspettavi? Il passaggio è stato trauma-tico?

Assolutamente no! Conoscevo la città da

con

Judith GleitzeTedesca, da alcuni anni vive a Palermo. È una emissaria di Borderline Europe, e presidente di Borderline Sicilia, un’organizzazione internazionale che è impegna-ta sul fronte dell’immigrazione e dei diritti umani.

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quindici anni e questo mi ha permesso sen-tirmi a casa, anche perché, sin dai miei viag-gi estivi, ho vissuto quasi sempre nella stessa casa.Quando ci siamo trasferiti nel 2009, per un breve tempo sono stata da sola perché il mio compagno doveva portare a termine degli im-pegni nel nord Italia. Anche se avevo già delle amiche, il laboratorio Zeta, che frequentavo almeno due sere a settimana, ha giocato un ruolo importante nella conoscenza di tantis-sime persone. L’essere da sola mi ha costretta ad uscire e a creare nuove relazioni

Come ti senti qui a Palermo oggi?

Io mi sento bene qui, però, come sempre suc-cede, lo stare bene dipende anche con chi condividi la città. Certo anche la città aiuta se ti piace o non ti piace, però non è fonda-mentale. Questa città mi piace, è bella l’atmosfera che si vive, anche se è un po’ caotica e non è come Berlino. Mi muovo a piedi e adesso, dopo gli ultimi cambiamenti, si riesce a pas-seggiare la sera.

Cosa desideri per questa città?

I miei desideri non vanno oltre la giornata di domani e quindi non so cosa pensare per il futuro. L’unica cosa che riesco a programma-re sono i viaggi perché amo viaggiare. Per il resto vedo e mi chiedo chissà cosa ci porta il futuro.

Partendo dalla tua esperienza di lavoro e la tua appartenenza all’organizzazione Border-line Europe, quali i punti nevralgici dell’im-

migrazione qui a Palermo?

Rispetto all’accoglienza, la città di Palermo non è una delle peggiori, anche se l’imma-gine che si dipinge della città non sempre corrisponde alla realtà. Oppure le belle idee non mancano e la domanda è perché non si mettono in pratica?Per me che sono immersa in questa realtà, tutto può diventare “normale”, ma chi è nuo-vo, facilmente riesce a cogliere le contraddi-zioni di un sistema. La realtà della “non ac-coglienza” reale e delle situazioni disastrose che i migranti vivono nei CAS (centri di ac-coglienza straordinaria), appartiene un po’ a tutti i paesi europei. La particolarità della città di Palermo sono gli arrivi di migranti, in alcune occasioni anche di morti. Questo la rende speciale. È un’esperienza a cui non ri-esci mai ad abituarti, anche se già conosci le dinamiche.

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La scelta di un titolo per una narrazione che oltretutto deve parlare di relazioni e di le-gami tra persone è sempre un’operazione

complessa e potrei dire che lì, in quella scelta consapevole e inconsapevole, si intrecciano e si svelano le storie di incontri, di emozioni e relazioni tra molti, a tre in questo caso.

Secondo alcuni vocabolari on line comu-nemente utilizzati, la parola dreadlocks non ha dei significati precisi, la radice inglese dread è un sostantivo che significa “paura”, “timore”, mentre to lock significa “blocca-re” per cui la parola potrebbe significare “rigido intreccio”. Le trecce “rigide” di lui erano abbastanza evidenti, disordinate, in-flessibili, indeformabili forse come era stata

la sua presentazione prima che riuscissimo ad incontrarlo per la prima volta. Anche lui abita un CAS (Centro di Accoglienza Straor-dinaria) come le persone che incontriamo quotidianamente, ma lui in particolare ne ha abitati tanti di questi luoghi muti e invisibili, e quando si parla di lui, ancora prima che lo incontriamo, si parla di un soggetto che im-paurisce, pericoloso, antisociale come si dice nel linguaggio psicologico, un aggettivo che spaventa pure gli psicologi. Il racconto su quest’uomo è denso di categorie entro cui si incastra la sua esistenza: alcool, aggressività, “ingestibilità” come per gli animali indome-sticabili (proteste dentro il centro), categorie che tentano il nostro immaginario rispetto a questo primo incontro ingabbiato da pregiu-

Ester RUSSOPsicoLoga – PsicoteraPeuta. missione itaLia - medici senza Frontiere

dreadlocks

Volti migranti

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dizi e concepimenti di altri.

Parlo sempre al plurale in questo articolo per-ché racconto di incontri e relazioni a tre, io, lui e il mio straordinario collega mediatore

Ablaygalo che ci permette di esprimere i no-stri pensieri e di scambiarceli, di tradurli cul-turalmente insieme ed oltre ai nostri sguardi, a volte incomprensibili, a volte incuriositi. Un percorso partecipato, un percorso tra sog-getti alla ricerca di un’orizzontalità distrutta dall’assoggettamento e dalla subordinazione.

Entrambi, io e Ablaygalo, ci avviciniamo a C. con “timore e tremore”, come quando qual-cosa ti suscita sentimenti ambivalenti, curio-sità della relazione e inquietudine. Il nostro spazio mentale e di concezione dell’altro è troppo pieno in questa occasione, pieno di

preconcetti, di categorie, di aggettivi, di sto-rie burocratiche, di rifiuti “d’accoglienza”.Si, i suoi dreadlocks manifestavano eviden-temente il suo desiderio di esistere, erano la prima cosa che colpiva la nostra attenzione,

voluminosi e strutturati rispetto al suo corpo magro e abbandona-to forse al digiuno e all’alcool, disorientato e spaventato, arrab-biato e bisognoso di un’ancora umana, di uno sguardo neutro o comprensivo. C. era stanco, stanco di dover spiegare la sua rabbia e la sua stanchezza, in-sieme alla sua nostalgia, on-deggiava il suo corpo quando camminava verso di noi, come un cantante rap che ha smesso di fare le rime, i suoi jeans erano “al limite della decenza”, direb-bero gli operatori della struttura in cui è ospite, io direi al limite dell’amore per sé. Quando lo in-

contriamo per la prima volta era appena stato trasferito da un’altra struttura, era stato coinvolto in una rissa, ci mostra dei lividi al braccio, ci racconta e ci lascia inten-dere di quanto è difficile concepire la pro-pria casa che non hai scelto, con persone che non hai scelto, in luoghi che non hai scelto. Lo guardavamo e pensavamo: “Si C., spesso dimentichiamo quanto vivere in contenitori scelti da altri sia estremamente difficile, vive-re in cattività, trasformarsi in numeri e rego-larizzati da un tempo cronometrato, in spazi di vita vuoti, può far rischiare di trasformare la bontà in violenza, la chiarezza in confu-sione, i legami in caos”. A proposito di que-

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sto, C. ci racconta subito del suo caos: non arriva la data di udienza, si sente perseguitato dalle sventure, non dorme la notte, i pensieri persecutori lo assillano, il senso di solitudi-ne lo corrode, lo annienta, lo divora insieme all’alcool che apparentemente lo seda, che è diventato terapia della sua sofferenza e del suo dolore inerente il suo presente cosi’ insopporta-bile, così indigeribile. I suoi rasta ricordano quelli di certi asceti induisti che ri-nunciano al mondo, al pia-cere delle relazioni umane e intersoggettive, questo sembra accaduto a C., che come le persone nel limbo dei diniegati dal sistema, hanno smesso di avere spe-ranza nei propri progetti di vita e il senso di vergogna frantuma anche le relazioni annesse alle proprie radici. C. non riesce più a sentire la madre, forse il suo fal-limento immobilizza i suoi legami, ma il suo sentimento di nostalgia si mostra immediata-mente di fronte ai nostri occhi non solamente come un sentimento di abbandono alla mor-te, ma attraverso i ricordi della sua terra, la Guinea e poi il Gambia, dove è cresciuto, at-traverso anche un sentimento di critica socia-le, sembra esprimere una forma di resistenza che sentiamo subito nei nostri incontri come un sentimento vitale su cui costruire una im-portante alleanza di lavoro… per cosa? Per lottare contro la perdita della speranza, per restituire un orizzonte di significato a ciò che sembra non avere senso, come i naufragi in mare, le esperienze vissute e sopravvissute e

viste, le violenze in Libia subite e sopravvis-sute e viste, il vuoto subito e coabitante di chi da vittima si trasforma in carnefice, tutto subito, vissuto e visto.

Da quel giorno ad oggi, uno sguardo, l’atten-zione con cui abbiamo accolto l’emergenza

dei suoi racconti e del suo limite, ha per-messo piano piano di costruire un rapporto di fiducia in cui l’esperienza etilica diventa sempre meno saturante e sempre meno so-luzione ai suoi dolori. Il suo modo di acco-glierci oggi, quando lo incontriamo nel suo centro tra le coltivazioni di olive coltivate dai suoi connazionali, ci ricorda e ci resti-tuisce immediatamente la semplicità e allo stesso tempo la complessità dei suoi bisogni, primari e talmente urgenti da trasformare le nostre risposte straordinariamente supportive e umane, risposte che fanno compagnia in contenitori mortiferi.

Dreadlocks, senza paura e senza timore.Dreadlocks che resistono, che sopravvivono.

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Pasqua DE CANDIAoPeratrice ciss - PaLermo

InterazIone

Chi sei? A chi appartieni?Queste sono le prime domande – ov-viamente potete immaginarle in sici-

liano – che qualcuno fa davanti a una per-sona sconosciuta e a cui si è davanti per la prima volta e che magari ti rivolge pure la parola! Magari non sempre queste domande ti verranno rivolte, ma nella maggior parte dei casi, è molto probabile che la persona che hai davanti, se non te le ha fatte direttamente, per lo meno le ha pensate… magari non in questa forma... ma sicuramente le ha pensate.Questa persona X che hai davanti perché è lì, cosa vuole, chi l’ha introdotta, che interesse ha ad essere lì… e questo in dinamiche nor-mali... Il disequilibrio dell’ignoto. Figuratevi cosa può succedere davanti a una/uno che ha un colore di pelle diverso, che ha lineamen-

ti diversi, che parla una lingua diversa. Una persona così oggi spesso fa paura, spesso non la si vuole, o se proprio deve restare, lo farà magari, dopo tanta fatica, attraversando posti e spazi ben precisi e disegnati, nella maggior parte dei casi da altri.

Per fortuna non sempre va così. Quella che qui comincia è una rubrica diffi-cile.. ma comunque vuole soprattutto essere uno spazio di racconti positivi. Almeno que-sto è nelle intenzioni.Parla di viaggi che, pur nella loro comples-sità, si realizzano in storie, percorsi, vite, di persone, a volte piccole a volte grandi, che hanno – non sempre scegliendolo – lascia-to la propria terra d’origine per andare in al-tri luoghi, incontrare altre persone, culture,

equilibri e disequilibri

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possibilità.. Non è detto che non si trovino a dover sentire le domande di cui sopra, ma sono persone che in questa terra di mezzo, affermandosi, hanno deciso di restarci e oggi sono in costante equilibrio nella loro com-plessa identità… e, in questo, non sono soli.

Questa di seguito è la storia di una donna, di cui non farò il nome, una storia che parte da un racconto di qualche tempo fa fatto da lei stessa in una intervista rilasciata per una campagna di sensibilizzazione realizzata dalla ONG CISS per la campagna “Luoghi comuni”.La storia è quella di una persona che consi-dero una grande donna, una lottatrice, arriva-ta qui piccola dodicenne, che in tanti hanno atteso, a dimostrazione del fatto che quando le storie le tocchi, quando riduci le distanze, davvero non esistono più differenze.Questa storia nasce lontano, in un paese afri-cano, da cui una famiglia, a poco a poco par-te e si ricongiunge in un piccolo paesino del catanese. Un piccolo paesino che non era la meta scelta, ma che col tempo lo è diventa-ta, perché le dimensioni di piccola comunità facevano pensare che fosse il posto migliore per educare i due figli in un contesto e in una cultura diverse.. forse più controllabile.. Siamo a metà degli anni ’80 e in questo pae-sino questa famiglia era l’unica famiglia stra-niera, tutti conoscevano la loro storia e tutti seguivano l’iter, faticosissimo, del ricongiun-gimento e tutti aspettavano l’arrivo di questi due bambini. Finché, finalmente, sono arri-vati.L’inserimento nella nuova comunità non è semplice quando tu e tuo fratello siete gli

unici bambini extracomunitari, ma allo stesso tempo può essere – e lo è stato – abbastanza rapido per due bambini.. E il primo mezzo attraverso cui ti inserisci è la lingua. Scoprire un’altra lingua è stato nel caso del-la nostra protagonista, bizzarro, tutto quasi come fosse un gioco, a volte ridicolo e per questo facilissimo, imparato a scuola, ma an-che da un balcone ad un altro – come nelle migliori tradizioni del sud Italia – scambian-dosi parole con i bambini del vicinato cia-scuno nella propria lingua, senza capirsi, ma ridendo di santa ragione! E poi cercare di impararla rapidamente quella lingua... per non sentirsi più così diversi, e sfidare i propri genitori, la propria cultura e a volte con essi confliggere.

E poi si cresce e arrivano le prime vere scelte. Un altro viaggio, nella città in cui ora vive, Palermo, la prima scelta di autonomia, per gli studi. Un percorso importante che l’ha resa forte e che la vede protagonista di tante lot-te e di tante storie, quelle delle persone che accompagna nell’intricato percorso di esse-re migranti in Italia, e che aiuta a essere più consapevoli e a chiedere ed esigere i propri diritti.A volte è arrabbiata, a volte delusa perché nulla è facile e anzi diventa sempre, purtrop-po, tutto più difficile. Ma da buona mediatri-ce e psicologa quale è lotta, costantemente.

Ed è una mediatrice anche con se stessa, quando ripensa al suo percorso di inserimen-to nella comunità italiana. Arrivata piccolissi-ma forse è diventata italiana repentinamente

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rischiando di perdere un po’ della sua cultu-ra, facendo fatica a trovare un equilibrio tra quella acquisita e quella d’origine. Semplice-mente voleva essere uguale agli altri, come tutti gli altri ragazzini. Poi crescendo, come sempre, si capiscono tante cose, e si recupe-rano le origini e la propria cultura e si cerca di trovare un equilibrio personale tra le due. Come anche lei ha felicemente fatto.

Oggi è sempre qui, conosciuta e stimata, nel-la sua Palermo – forse un poco amata e un poco odiata – dove alcune cose non sono cambiate.. La discriminazione c’è ancora, l’altro fa paura, anzi forse anche più di pri-ma, quando diventa rispecchiamento del lato oscuro di noi stessi, espressione incarnata delle paure e delle insicurezze. Paure e in-sicurezze che, come nella storia della prota-gonista di queste righe, potrebbero cambiare e trasformarsi se solo si decidesse di fare un passo e capire davvero chi c’è dietro numeri e immagini. Magari potremmo scoprire che anche il nostro piccolo mondo potrebbe es-sere più ricco e funzionare meglio, che le paure indotte si possono supera-re cambiando un poco il punto di vista.. Quello che abbiamo davanti, tutte e tutti, può essere una pagina bianca da scrivere, oppure una pagina già scritta da altri a cui conformarsi..Noi stessi siamo sempre molte-plici e mai uguali a noi stessi, siamo sempre frutto di un do-saggio complesso e alchemico che nel tempo si trasforma con e per tutto quello che viviamo

- che ci attraversa - che incontriamo - che ri-cordiamo e portiamo con noi, come nel caso della protagonista di questa storia.

Chi sono? A chi appartengo? Un pochino an-che a te che me lo chiedi e tu a me.L’identità non è un’etichetta data una volta per tutte, si costruisce e trasforma nel corso delle nostre esistenze, forse dovremmo lavorare su noi stessi per concepire la nostra identità nel segno delle diverse appartenenze che sentia-mo e costruiamo, piuttosto che cercarne una sola, come saggiamente dice Amin Maalouf.

Magari quello che vedi adesso è solo una parte… spostati un pochino… allarga la vi-suale… perdi per un attimo l’equilibrio… cambia quello a cui sei abituato/a, magari potresti scoprire che tutto il nuovo che ora ti spaventa è più bello di quello che pensavi e non ti toglie nulla, anzi. E questo vale per tut-te e per tutti.

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opinioni

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È Natale! È un tempo nuovo.Non possiamo dormire la notte di natale,dobbiamo restare svegli per accogliere gli impoveriti e le impoverite della terra,

I piccoli e le piccole del Regno.Ogni notte dobbiamo vivere la notte santa del Regno

Buon natale!