Una data che non si può cancellare

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Franco Franceschi Una data che non si può cancellare 1492: la ‘scoperta’ Nella fortunatissima Times Complete History of the World di Richard Overy 1 il 1492, inteso come l’anno in cui «Columbus discovers the New World, bringing the Americas into a global trading/cultural system», è solo una delle 50 date-chiave della storia dell’umanità, accanto all’invenzione della ruota e alla pubblicazione del Leviatano di Thomas Hobbes, alla battaglia di Maratona e alla messa a punto del microchip. Ma è certo che nella coscienza collettiva, almeno in quella degli europei, il 1492 appartiene al molto più ristretto novero dei riferimenti «che non si possono cancellare» 2 . Verso il 1490 un europeo poteva avere una nozione abbastanza corretta del suo continente e del mondo mediterraneo, mentre assai più vaghe dovevano essere le sue idee sulle restanti regioni dell’Asia e dell’Africa; sapeva che la terra era rotonda, ma non ne conosceva le esatte dimensioni; sognava di regioni fantastiche, ma non aveva ancora scoperto la totalità di cui faceva parte 3 . Il viaggio di Cristoforo Colombo mise di colpo in comunicazione due porzioni del globo fino ad allora separate dall’Oceano rivelando all’Europa la sua reale dimensione geografica e ponendola di fronte alla più radicale delle alterità, quella con i ‘selvaggi’ delle Indie. E’ vero, inizialmente la notizia dell’impresa restò confinata ad una piccola cerchia di persone, che comunque non poteva ancora valutarne la portata, visto che lo stesso Colombo credeva di avere raggiunto l’Asia viaggiando verso Occidente, e più precisamente le isole dinanzi alle coste della Cina e del Giappone; senza contare che l’Ammiraglio toccò realmente il suolo del continente americano solo nel 1497, con il suo terzo viaggio, mentre nei due precedenti aveva girovagato fra le isole del Golfo del Messico. Ma nell’arco di una decina d’anni, innanzitutto grazie alle spedizioni effettuate da Amerigo Vespucci al servizio dei portoghesi, una verità molto più dirompente, amplificata e propagata per mezzo della stampa, venne alla luce. Edito per la prima volta nel 1503, 1 R. Overy, The Times Complete History of the World, London, Times Books, 2007 7 . 2 J. Le Goff, L’eredità del 1492 in Europa, in 1492. Un anno fra due ere, Firenze, Banca Toscana, 1992, pp. 11-39: p. 12. 3 T. Todorov, Viaggiatori e indigeni, in L’uomo del Rinascimento, a cura di E. Garin, Roma- Bari, Laterza, 1988, pp. 331-457: p. 331; Id., La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», trad. it., Torino, Einaudi, 1992, p. 8. 1

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Nella fortunatissima Times Complete History of the World di Richard Overy il 1492, inteso come l’anno in cui «Columbus discovers the New World, bringing the Americas into a global trading/cultural system», è solo una delle 50 date-chiave della storia dell’umanità, accanto all’invenzione della ruota e alla pubblicazione del Leviatano di Thomas Hobbes, alla battaglia di Maratona e alla messa a punto del microchip. Ma è certo che nella coscienza collettiva, almeno in quella degli europei, il 1492 appartiene al molto più ristretto novero dei riferimenti «che non si possono cancellare».

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Franco Franceschi

Una data che non si può cancellare

1492: la ‘scoperta’Nella fortunatissima Times Complete History of the World di Richard Overy1 il 1492, inteso

come l’anno in cui «Columbus discovers the New World, bringing the Americas into a global trading/cultural system», è solo una delle 50 date-chiave della storia dell’umanità, accanto all’invenzione della ruota e alla pubblicazione del Leviatano di Thomas Hobbes, alla battaglia di Maratona e alla messa a punto del microchip. Ma è certo che nella coscienza collettiva, almeno in quella degli europei, il 1492 appartiene al molto più ristretto novero dei riferimenti «che non si possono cancellare»2.

Verso il 1490 un europeo poteva avere una nozione abbastanza corretta del suo continente e del mondo mediterraneo, mentre assai più vaghe dovevano essere le sue idee sulle restanti regioni dell’Asia e dell’Africa; sapeva che la terra era rotonda, ma non ne conosceva le esatte dimensioni; sognava di regioni fantastiche, ma non aveva ancora scoperto la totalità di cui faceva parte3. Il viaggio di Cristoforo Colombo mise di colpo in comunicazione due porzioni del globo fino ad allora separate dall’Oceano rivelando all’Europa la sua reale dimensione geografica e ponendola di fronte alla più radicale delle alterità, quella con i ‘selvaggi’ delle Indie.

E’ vero, inizialmente la notizia dell’impresa restò confinata ad una piccola cerchia di persone, che comunque non poteva ancora valutarne la portata, visto che lo stesso Colombo credeva di avere raggiunto l’Asia viaggiando verso Occidente, e più precisamente le isole dinanzi alle coste della Cina e del Giappone; senza contare che l’Ammiraglio toccò realmente il suolo del continente americano solo nel 1497, con il suo terzo viaggio, mentre nei due precedenti aveva girovagato fra le isole del Golfo del Messico. Ma nell’arco di una decina d’anni, innanzitutto grazie alle spedizioni effettuate da Amerigo Vespucci al servizio dei portoghesi, una verità molto più dirompente, amplificata e propagata per mezzo della stampa, venne alla luce. Edito per la prima volta nel 1503, il Mundus Novus, l’opuscolo ricco di annotazioni di carattere astronomico ed etnografico nel quale il navigatore fiorentino affermava con sicurezza di avere esplorato un continente fino ad allora sconosciuto, conobbe un successo straordinario4. Vi si raccontava di una natura lussureggiante come il paradiso terrestre, di popolazioni nude e gentili che non conoscevano la proprietà privata né il matrimonio, il commercio né la moneta, ma anche di pratiche di cannibalismo e di smodati appetiti sessuali, frutto della «scelerata libertà di vivere»5 che imperava in quelle terre lontane. Erano contenuti forti, perfetti per suscitare la curiosità e la meraviglia dei lettori e nello stesso tempo adatti ad una rapida diffusione orale: come Bertolt Brecht fa dire a Galileo, allora «perfino i centenari» si facevano «gridare all’orecchio dai giovani le ultime scoperte»6.

La ‘scoperta’, rapidamente trasformatasi in conquista, non solo conferì all’economia europea una dimensione planetaria, accelerò l’unificazione biologica, alimentare e ‘microbica’ del mondo e ridisegnò la stessa storia interna del Vecchio Continente, modificando i rapporti di potere fra le maggiori potenze, non solo pose la Cristianità dinanzi alla sconvolgente realtà dell’esistenza di genti mai raggiunte dal messaggio evangelico, ma aprì all’immaginario dell’uomo europeo un immenso spazio in cui le suggestioni provenienti dal Nuovo Mondo si incontravano con il patrimonio acquisito di sogni, di fantasie e di miti.

1 R. Overy, The Times Complete History of the World, London, Times Books, 20077.2 J. Le Goff, L’eredità del 1492 in Europa, in 1492. Un anno fra due ere, Firenze, Banca Toscana, 1992, pp. 11-39: p. 12.3 T. Todorov, Viaggiatori e indigeni, in L’uomo del Rinascimento, a cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 331-457: p. 331; Id., La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», trad. it., Torino, Einaudi, 1992, p. 8.4 F. Surdich, Verso il Nuovo Mondo. L’immaginario europeo e la scoperta dell’America, Firenze, Giunti, 2002 pp. 66-67.5 A. Vespucci, Mondo Nuovo, a cura di M. Pozzi, Milano, Serra e Riva, 1984, p. 103.6 B. Brecht, Vita di Galileo, in I capolavori di Brecht, trad. it., Torino, Einaudi, 1963, pp. 3-132, I, p. 9.

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Annus mirabilis

Nello stesso giorno in cui Colombo toccava l’isolotto di Guanahani, da lui ribattezzato San Salvador, si spegneva a Sansepolcro Piero della Francesca. La coincidenza è senz’altro suggestiva, sebbene anche questo evento, per quel che sappiamo, abbia avuto nell’immediato assai scarsa risonanza. Secondo una tradizione fondata principalmente sul racconto di Giorgio Vasari, gli ultimi anni di questo maestro della luce furono – singolare contrappasso – funestati dalla cecità, ma recentemente si è potuto affermare che la malattia divenne effettivamente invalidante solo verso il 14907. A dispetto della sua fortuna odierna, Piero è stato apprezzato in passato più per la sua attività di teorico e studioso di scienze matematiche e di geometria che per i suoi dipinti: lo stesso Vasari, sebbene tratteggi dell’artista un ritratto encomiastico, mostrando di comprendere bene il legame tra attitudine scientifica ed espressione artistica («come ne dimostrano tutte l’opere sue piene di prospettive»)8, ne sigilla la Vita con un ennesimo riferimento ai «libri», la cui importanza è tale «che meritamente gli hanno acquistato nome del miglior geometra che fusse ne’ tempi suoi»9. Destino davvero paradossale per chi, senza staccarsi mai «né immaginativamente né materialmente»10 dalla comunità natale, percorse in lungo e in largo l’Italia centro-settentrionale influenzando profondamente, con una lezione la cui ‘modernità’ è stata riconosciuta dalla critica del Novecento11, l’ambiente artistico ferrarese, toscano, umbro e marchigiano12.

Visto dalla Toscana, però, il 1492 è innanzitutto l’anno della morte di Lorenzo de’ Medici, l’episodio con il quale Niccolò Machiavelli chiuse le Istorie fiorentine e Francesco Guicciardini aprì la Storia d’Italia. Il Magnifico, appellativo ineccepibile per un uomo le cui qualità e comportamenti sembravano essersi sempre ispirati alla misura augustea del princeps, morì l’8 aprile nella villa di Careggi. «Acerba alla patria» e «incomodissima al resto d’Italia» – come scrisse Guicciardini13 – la scomparsa di Lorenzo generò sconforto tra i suoi amici più cari, Agnolo Poliziano e Giovanni Pico in testa, dispiacque alla vasta clientela dei suoi beneficiati, fu vissuta come la giusta fine del ‘tiranno’ dai suoi oppositori. Anche chi non lo aveva amato, tuttavia, avvertiva un’inquietudine sorda: «Oppenione nondimanco era comune» – osservò Piero Parenti nella sua Storia fiorentina – «doversi aspettare qualche afflizione nella città, overo che di drento, overo che di fuori nascessi, per la perdita d’uno homo di tanta reputazione e potenza»14. Quasi tutti i cronisti, forse anche suggestionati dai toni apocalittici della predicazione di Savonarola, espressero quest’ansia in forma mitopoietica associando alla fine di Lorenzo una serie di segni meravigliosi: una luce si accese di notte sulla villa di Careggi per spegnersi soltanto al momento della sua morte, mentre nel giardino si videro le sagome di figure enormi lottare l’una contro l’altra; lingue di fuoco brillarono sulla chiesa di San Lorenzo, luogo di sepoltura dei Medici; i leoni che tradizionalmente venivano custoditi in città come simboli del potere di Firenze si azzuffarono ferendosi mortalmente. Due giorni prima inoltre, nel corso di una violentissima bufera, un fulmine si abbatté sulla cupola di Santa Maria del Fiore staccando pezzi di marmo che caddero in direzione di palazzo Medici 15: il fatto destò enorme impressione e indusse il calderaio Bartolomeo Masi a scrivere nei suoi ricordi, fra molti «si dice», che la tempesta era stata provocata da uno spirito a lungo «tenuto legato in uno anello» di Lorenzo e da questi liberato «perché era malato grave»16. Nell’immaginario popolare,

7 J. R. Banker, Piero e i suoi libri a Sansepolcro, in Piero della Francesca e le corti italiane, Catalogo della Mostra (Arezzo, 31.III-22.VII.2007), a cura di C. Bertelli e A. Paolucci, Milano, Skira, 2007, pp. 7-11: p. 11.8 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori ed architettori..., con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, 9 voll., Firenze, Sansoni, 1878-1885, II, pp. 490-491.9 Ivi, p. 501.10 E. Battisti, Piero della Francesca, 2 voll., Roma, Istituto editoriale italiano, 1971, I, p. 11.11 A partire da R. Longhi, Piero della Francesca, Roma, Edizioni di “Valori Plastici”, 1927.12 Cfr. ora i saggi riuniti in Piero della Francesca e le corti italiane, cit.13 F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Saggio introduttivo di F. Gilbert, 3 voll., Torino, Einaudi, 1971, I, cap. II, p. 10.14 Piero di Marco Parenti, Storia fiorentina, I, 1476-78 – 1492-96, a cura di A. Matucci, Firenze, Olschki, 2004, p. 24.15 Su questo aspetto cfr. il racconto di I. Walter, Lorenzo il Magnifico e il suo tempo, Roma, Donzelli, 2004, p. 267.16 B. Masi, Ricordanze…dal 1478 al 1526, a cura di G. O. Corazzini, Firenze, Sansoni, 1906, p. 17.

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dunque, più che lo scaltro uomo politico e il saggio governante, il mecenate generoso e l’abile diplomatico, il poeta piacevole e l’elegante cavaliere, se n’era andato il Grande Mago, capace di piegare uomini e avvenimenti al suo volere grazie all’aiuto di forze arcane.

Lontano da Firenze e dagli armoniosi paesaggi dalla Toscana interna il tempo nuovo aveva fretta di correre. L’8 febbraio, nell’abbazia di Saint-Denis, veniva incoronata la nuova regina di Francia, Anna di Bretagna: la cerimonia, che seguiva di poco il matrimonio con Carlo VIII, rappresentava l’epilogo di anni di conflitti fra il sovrano francese e il duca di Bretagna e aggregava al regno il fiero e prospero principato settentrionale. Un’altra e ben più annosa controversia sembrò risolversi qualche mese più tardi, anche se l’inizio lasciava presagire tutt’altro finale: in ottobre, infatti, Enrico VII d’Inghilterra sbarcò nel porto francese di Calais e attaccò Boulogne, ma Carlo ne smorzò l’ardore guerriero con un pagamento di 745.000 scudi d’oro, somma che andava in buona parte a coprire debiti non onorati contratti da Luigi XI. Si creò così una solida base d’intesa ed il successivo 3 novembre i due sovrani siglarono un’alleanza a vita che chiuse definitivamente la guerra dei Cent’anni17.

Intanto nella contabilità delle morti illustri si era aggiunto un altro nome, quello di papa Innocenzo VIII, spirato il 25 luglio dopo otto anni di «debole pontificato»18. Il suo appello alla crociata contro i Turchi, che nel 1480 avevano occupato Otranto, non ebbe alcun esito concreto, così come piuttosto maldestri furono i suoi tentativi di inserirsi nella complessa dinamica dei rapporti fra gli stati italiani di quegli anni. Se gli otto figli che un epigramma in circolazione a Roma gli attribuiva erano certamente troppi, non c’è dubbio che il suo ricorso alla pratica nepotistica prefigurava lo stile del suo successore, asceso al soglio di Pietro con il nome di Alessandro VI l’11 agosto. Era, quest’ultimo, il cardinale valenciano Rodrigo Borgia, la cui condotta simoniaca e concubinaria, strettamente congiunta alla «sanguinosa parabola di potere» del figlio Cesare, avrebbe finito per condizionare lo stesso giudizio di generazioni di studiosi, che in lui hanno visto «il personaggio più compromesso della storia del papato rinascimentale»19.

Malgrado apra la cronologia dell’annus mirabilis 1492, ho lasciato alla fine di questo breve giro d’orizzonte l’avvenimento che, insieme al viaggio di Colombo, ha forse segnato maggiormente l’età successiva: la liquidazione del regno nasride di Granada, ultimo lembo del dominio arabo-musulmano in Spagna e nell’Occidente cristiano. La guerra contro questo florido stato di circa 300.000 abitanti, intrapresa dai Re Cattolici nel 1482, fu vinta grazie all’impiego sistematico di cannoni e di corpi militari specializzati, ma anche sfruttando abilmente le divisioni in seno alla famiglia del sultano e fra gli alti dignitari di corte. Il 2 gennaio Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia entrarono a Granada, dove ebbe luogo un ‘rituale di appropriazione’ preparato con un’attenta regia: sottomesso, ma non umiliato, il principe Boadbil consegnò ai nemici le chiavi della città, offrendo anche un anello nel quale – secondo la testimonianza dello storico cinquecentesco Jerónimo Zurita – era scritto in caratteri arabi «non c’è altro Dio che Dio»; poi, sulla torre più alta dell’Alhambra, furono issati la bandiera con la croce e i vessilli di Santiago e di Castiglia 20. Questa attenzione per i particolari non era casuale. Per Ferdinando e Isabella, che nel 1469 si erano uniti in matrimonio mantenendo separata l’amministrazione dei rispettivi regni, il completamento della Reconquista rappresentava l’impresa che, sotto le bandiere della fede cristiana, poteva guadagnare ai sovrani il consenso di una nobiltà sempre inquieta e contribuire al rafforzamento del loro prestigio. Il successivo svolgersi degli eventi, e in primo luogo l’espulsione di tutti gli ebrei dai loro regni, decretata il 31 marzo proprio da Granada, avrebbe colorato di una luce diversa la stessa ‘scoperta’. La cacciata dei sefarditi – come ha osservato Manuel Vaquero – «è il biglietto da visita con cui l’età moderna si presenta in un’Europa occidentale che sta per imboccare il tunnel delle

17 B. Bennassar e L. Bennassar, 1492. Un mondo nuovo?, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 69-70 e 101.18 Così ne sintetizza il carattere M. Caravale, Lo stato pontificio da Martino V a Gregorio XIII, in M. Caravale e A. Caracciolo, Lo stato pontificio da Martino V a Pio IX, Torino, Utet, 1978, pp. 3-37: p. 118.19 A. Prosperi, Storia moderna e contemporanea, I, Dalla Peste Nera alla Guerra dei Trent’anni, Torino, Einaudi, 2000, p. 190.20 Bennassar e Bennassar, 1492. Un mondo nuovo?, cit., pp. 59-60.

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devastanti guerre di religione»21 e al contempo rappresenta il logico completamento di un progetto utopico: quello di un continente che vuole lanciarsi alla conquista di nuove terre ‘puro’22. Colombo stesso, nei suoi scritti, è perfettamente cosciente del legame tra i momenti salienti di quell’anno, fra il ripudio che la Spagna fa del suo Altro interno – musulmani ed ebrei – e l’incontro con l’Altro esterno rappresentato dagli ‘indiani’23: «Questo presente anno 1492, terminata che ebbero le Vostre Altezze la guerra dei Mori, che regnavano in Europa [...], pensarono di mandare me, Cristoforo Colombo, alle dette contrade dell’India»24.

«Questo nostro tempo così nuovo e così diverso da ogni altro»Bartolomé de Las Casas, il frate domenicano divenuto strenuo difensore dei diritti dei nativi

americani, non aveva dubbi: l’arrivo degli europei nel nuovo continente e la conquista avevano inaugurato un capitolo inedito della storia del mondo25; e il suo convincimento è stato condiviso da generazioni di altri uomini. Ma il punto di cesura fu davvero il 1492? E quello che questa data segnò fu effettivamente il passaggio dal Medioevo all’età moderna?

Gli storici ostentano spesso antipatia per domande di questo tenore, e in generale per le questioni di periodizzazione, premurandosi di avvertirci del carattere arbitrario di ogni partizione che suddivide l’ininterrotto flusso dell’esperienza umana, della natura euro-centrica della grande tripartizione fra ‘antico’, ‘medievale’ e ‘moderno’ che struttura dal XVI secolo la nostra visione del passato (il ‘contemporaneo’ nasce come prolungamento dell’età precedente), del permanere di elementi di continuità anche nelle fasi di più acuto cambiamento. A quest’ultimo proposito occorre ricordare subito che alcuni approcci storiografici – come le ricerche sulle mentalità e la nuova storia dello Stato, ma anche parte della scuola delle «Annales», con la sua insistenza sui tempi lunghi dei mutamenti nella sfera della geografia, del clima o della cultura materiale – hanno svuotato di significato la cesura fra Medioevo ed età moderna o l’hanno addirittura cancellata in favore di un Medioevo prolungato fino all’età dell’industrializzazione26.

Per chi continua a credere all’utilità delle periodizzazioni tradizionali e accetta di restare all’interno di una logica di datazione, le possibilità offerte dalla storiografia – come è noto – sono sostanzialmente tre: oltre all’impresa di Colombo, infatti, vengono chiamate in causa la conquista turca di Costantinopoli (1453) e l’affissione delle tesi di Lutero (1517). La profonda dissonanza nella natura dei tre avvenimenti, tuttavia, alimenta le ragioni di chi – come Jacques Heers – reputa che nessuno possa «dire con esattezza quando termina il Medioevo», perché «tutto dipende dal criterio usato e dal paese scelto», potendo esistere «tante date cardine quante scuole nazionali e scientifiche»27; oltre naturalmente a rafforzare le posizioni di quanti guardano con scetticismo alla stessa idea di associare mutamenti epocali ad un’unica data. A questo secondo gruppo appartiene Johann Huizinga, indimenticato autore de L’autunno del Medioevo, secondo cui il passaggio dall’età di mezzo a quella moderna «dev’esser visto [...] non come una grande svolta, ma come una grande serie di onde che vengono a frangersi sulla spiaggia: ciascuna si frange a una distanza diversa e in un modo diverso. Le linee di demarcazione fra vecchio e nuovo passano per punti sempre diversi; ogni forma di civiltà, ogni pensiero, ricorre al suo momento, e la trasformazione non interessa mai tutto quanto il complesso della civiltà»28.

21 M. Vaquero Piñeiro, Fra cristiani e musulmani. Economie e territori nella Spagna medievale, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. 21.22 Le Goff, L’eredità del 1492, cit., p. 25.23 Todorov, La conquista dell’America, cit. p. 60.24 C. Colombo, Gli scritti, a cura di C. Varela, Torino, Einaudi, 1992, II, Diario del primo viaggio, pp. 10-12.25 B. de Las Casas, Historia de las Indias, 3 voll., Fondo de Cultura Económica, Mexico, 19954, I, cap. 88, p. 384; Todorov, La conquista dell’America, cit., p. 7.26 Cfr., per uno sguardo sintetico su questi problemi, R. Bizzocchi, L’idea di età moderna, in Storia Moderna, Roma, Donzelli, 1998, pp. 3-21, in particolare pp. 4-8.27 J. Heers, Transizione al mondo moderno (1300-1520), Milano, Jaca Book, 1992, p. 52.28 J. Huizinga, Il problema del Rinascimento, in Id., Le immagini della storia. Scritti 1905-1941, a cura di W. De Boer, Torino, Einaudi, 1993, pp. 155–204: p. 194.

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Si dovrebbe allora preferire il ricorso ad una costellazione di eventi e/o di processi distribuiti in un arco cronologico di maggiore respiro? Puntare, in altri termini, sull’idea di ‘transizione’? Tale concetto non è meno ambiguo del precedente, perché chiede a sua volta di essere definito sotto il profilo cronologico, ma è almeno più flessibile29. Così per Ruggiero Romano e Alberto Tenenti, autori nel 1967 di un fortunato volume della Storia Universale Feltrinelli, questa fase intermedia abbraccia ben duecento anni, e precisamente quelli compresi fra il 1350, epoca della grande crisi demografica innescata dal ritorno della peste in Occidente, e il 1550, data in cui l’Europa era ormai in grado di esercitare la sua secolare supremazia30; per Jacques Heers ne include duecentoventi (1300-1520)31; per Robert Fossier, coordinatore di una Storia del Medioevo a più voci, il cambiamento epocale si colloca invece nel breve volgere del decennio 1520-1530, quando giunse a compimento il processo che, iniziato quattro secoli prima, trasformò l’Europa nell’unico centro del mondo, il solo capace di attrarre tutta la ‘ricchezza delle nazioni’32.

Rinascimento?Nella Short Oxford History of Italy, un’iniziativa editoriale completata da qualche anno, tra

il volume sul Medioevo centrale e quello sulla prima età moderna ne è stato previsto un altro, intitolato Italy in the Age of Renaissance 1300-155033. Sebbene nell’introduzione il curatore non evochi il problema della periodizzazione nei termini in cui lo affrontiamo qui, ma giustifichi il taglio cronologico adottato con l’evidenza di una fase della storia italiana contraddistinta da una sostanziale libertà dalle dominazioni straniere, è lecito ritenere che nel progetto complessivo dell’opera il Rinascimento e la ‘transizione al mondo moderno’ siano stati concepiti come coincidenti. Non sarebbe una novità, almeno per la Penisola34, ma neppure un’identificazione priva di problemi: pochi concetti dell’outillage teorico degli storici, infatti, sono stati messi in discussione quanto quello di Rinascimento, periodo storico dalle coordinate variabili e paradigma storiografico, mito collettivo e parametro in base a cui si è misurata la civiltà35. Si aggiunga il fatto che a partire dalla metà del Novecento il nesso fra Rinascimento e modernità, cardine della visione burckardtiana e riferimento rassicurante nel mare delle interpretazioni del divenire storico, è stato progressivamente minato dalle critiche provenienti da fronti diversi, così come lo sono stati i suoi caratteri distintivi: «la dichiarazione d’indipendenza della ragione dall’auctoritas e dal dogma, e perciò stesso la ribellione degli intellettuali contro l’oppressione culturale della Chiesa; l’avvio della moderna battaglia contro ogni forma di superstizione e dunque di una progressiva laicizzazione dei saperi; una concezione autonoma della politica, anch’essa svincolata da istanze teologiche; la nascita del moderno concetto di individuo, del suo libero rapporto con il proprio destino, del suo diritto ad autodeterminarsi slegandosi dal comunitarismo medievale; una visione immanentistica della storia e delle forze che la muovono; la forza, la volontà e la capacità di esplorare nuovi mondi, fossero essi geografici, estetici, spirituali, politici, che accomunava il genio creativo di Leonardo e di Colombo, di Michelangelo e di Machiavelli, di Giovanni Pico e di Leon Battista Alberti»36.

29 Cfr. le osservazioni di S. Guarracino, Le età della Storia. I concetti di Antico, Medievale, Moderno e Contemporaneo, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 16-17.30 R. Romano e A. Tenenti, Alle origini del mondo moderno (1350-1550), trad. it., Milano, Feltrinelli, 1967.31 Heers, Transizione al mondo moderno, cit.32 R. Fossier, Storia del Medioevo, trad. it., 3 voll., Torino, Einaudi, 1987, III, Il tempo delle crisi 1250-1520, pp. 504-505.33 Italy in the Age of Renaissance 1300-1550, ed. by J. M. Najemy, Oxford, Oxford University Press, 2004.34 Cfr. F. Franceschi, La storiografia economica sul Rinascimento e le sue metamorfosi, in The Italian Renaissance in the Twentieth Century, Acts of an International Conference, ed. by A. J. Grieco, M. Rocke, F. Gioffredi Superbi, Florence, Olschki, 2002, pp. 153-172: p. 166.35 Per un’aggiornata riflessione sul tema cfr. L. Molà, Rinascimento, in Le parole che noi usiamo. Categorie storiografiche e interpretative dell’Europa moderna, a cura di M. Fantoni e A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 11-31; M. Fantoni, Storia di un’idea, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, I, Storia e storiografia, a cura di Id., Treviso-Costabissara (Vicenza), Fondazione Cassamarca-Angelo Colla Editore, 2005, pp. 3-33.36 S. Burgio, Rinascimento laico, pagano o cristiano?, ivi, pp. 151-168: pp. 156-157.

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Le immagini odierne sono più chiaroscurali e contraddittorie, talvolta addirittura polarizzate: l’epopea delle grandi scoperte e l’idea di progresso che vi era associata non possono più essere disgiunte dagli effetti disastrosi dello sfruttamento coloniale, la visione ottimistica dell’uomo proiettato al centro del cosmo viene bilanciata dalle ricerche sulla ‘melanconia’, l’attenzione per la novità del progetto educativo degli umanisti non esclude l’interesse per le scuole cattoliche, lo studio della natura e del corpo umano è indagato in stretto rapporto con lo sviluppo della magia naturale, della cabala, dell’ermetismo, dell’astrologia e dell’alchimia37. Il Rinascimento è anche il «tempo dei maghi»38, un mondo in cui il confine fra fenomeni naturali e soprannaturali resta labile e permeabile, in cui è normale che eventi straordinari accompagnino la morte di un uomo illustre, in cui convivono il naturalismo scientifico di Leonardo e il linguaggio esoterico-simbolista di Hieronymus Bosch.

Indubbiamente molto dipende ancora una volta dal punto di osservazione, dall’ampiezza dei limiti temporali scelti, dal fatto che si privilegino i grandi centri o quelli di seconda fila, che si resti in Italia o si allarghi lo sguardo all’Europa: in definitiva anche dalla frammentazione e dallo specialismo degli studi a tema rinascimentale. Ma va comunque riconosciuto che se il Rinascimento è divenuto addirittura ‘antimoderno’ è in parte perché la nozione stessa di modernità ha subito e subisce continue metamorfosi: «il moderno è preso in un processo di accelerazione senza freno. Deve essere sempre più moderno»39. Così, mentre Burckhardt proiettava nella sua idea di Rinascimento tratti fondanti del suo tempo (per esempio l’individualismo), «i sostenitori della postmodernità non vedono ormai più alcuna continuità tra l’epoca di Alberti o Gutenberg e l’odierno predominio di internet e degli ipertesti»40. Paradossalmente inoltre, proprio seguendo una simile logica ‘revisionistica’, si potrebbe sostenere che questa terra di contrasti, ma anche di chiaroscuri, possiede in fondo uno dei requisiti essenziali delle età di passaggio fra due periodi: quello di assommare «caratteri misti un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, del prima e del poi, ma anche né dell’uno né dell’altro»41. Duplicità, contrasti e ossimori inscritti nel codice genetico di un movimento che fondava l’idea della rinascita (dell’uomo prima che della cultura) sul ritorno al passato ed esprimeva la sua modernità sotto i colori dell’antico.

Ritorno al 1492Personalmente, da medievista e cultore di storia del Rinascimento, ritengo che l’ipotesi del

periodo-cerniera tra due ere sia la meno artificiosa e che l’immagine del trapasso teorizzata in forma quasi poetica da Huizinga sia piuttosto convincente. E’ vero che ciò implica la rinuncia all’idea di un mutamento globale della società, a quello che Romano e Tenenti hanno chiamato il processo di «sbriciolamento [...] delle strutture medievali»42, ma non necessariamente si tratta di una circostanza negativa, visto che ogni età nuova conserva per un tempo più o meno lungo qualcosa della precedente. In questa prospettiva epistemologica, tuttavia, appare indispensabile identificare le ‘aree sensibili’ del cambiamento, ovvero, assodato che un uso ormai tradizionale fa coincidere l’inizio dell’età moderna con l’emergere di un mondo nuovo, gli ‘ingredienti’ della modernità.

Riadattando la provocatoria definizione che Roberto Sabatino Lopez dette della città43, si sarebbe tentati di affermare che la modernità è innanzitutto «uno stato d’animo», ossia la coscienza che un’epoca storica si è conclusa e che un tempo nuovo è cominciato per gli uomini e per gli studi. I primordi di questa consapevolezza sono rintracciabili – come è ben noto – nella vita e nell’opera

37 Su questa linea si muove il recentissimo Le scienze (volume V de Il Rinascimento italiano e l’Europa, cit.), a cura di A. Clericuzio e G. Ernst, con la collaborazione di M. Conforti, Treviso-Costabissara (Vicenza), Fondazione Cassamarca-Angelo Colla Editore, 2008.38 P. Rossi, Il tempo dei maghi. Rinascimento e modenità, Milano, Raffaello Cortina, 2006.39 J. Le Goff, Storia e memoria, Torino, Einaudi, 1982, p. 161.40 Molà, Rinascimento, cit., p. 13.41 Guarracino, Le età della Storia, cit., pp. 16-17.42 Romano e Tenenti, Alle origini del mondo moderno, cit., p. 323.43 R. S. Lopez, Le città nell’Europa post-carolingia, in I problemi comuni dell’Europa post-carolingia, Atti della II Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto, CISAM, 1955, pp. 551-552.

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di Francesco Petrarca, l’intellettuale-pellegrino che seppe rispondere come nessun altro, anche attraverso un paziente lavoro di raccolta e trascrizione dei codici antichi, al «bisogno di poesia e di parola», alla «nostalgia antica di Apollo e delle Muse» latente nella società trecentesca, guadagnandosi già in vita fama di maestro in tutti i principali centri di cultura europei44. Almeno presso i fiorentini una precoce reputazione di innovatore la meritò anche Giotto, che Dante lodò nella Commedia e Filippo Villani, nel suo De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus, non esitò a definire superiore ai maestri antichi45. Il senso del distacco dalla media aetas, se dobbiamo giudicare dalle testimonianze che ci hanno lasciato Leonardo Bruni, Lorenzo Ghiberti, Lorenzo Valla, Leon Battista Alberti, crebbe e si rafforzò nei decenni successivi. Intorno al 1450 Giovanni Rucellai poteva affermare che nella prima metà del secolo Firenze e il suo contado si erano arricchiti di «chiese, spedali, chase e palazi [...] con bellissimi addornamenti di conci [...] al modo facievano gli antichi romani»; e aggiungeva che «dal tempo de’ gientili in qua non ci sono stati simili maestri di lengname, di tarsie e commessi, di tanta arte di prospettiva che con pennello non si farebbe meglio»46. Un secolo più tardi Giorgio Vasari, nelle Vite, avrebbe impiegato correntemente il termine ‘moderno’ per indicare lo stile in uso ai suoi tempi.

Naturalmente per lo storico la coscienza di essere ‘nuovi’ o ‘moderni’ non è sufficiente a segnare una reale discontinuità, se non si accompagna ad altri elementi distintivi. Sfruttando la sua conoscenza della storiografia e la consuetudine con il mondo della manualistica scolastica ed universitaria, Scipione Guarracino ha mostrato come la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna vengano tradizionalmente associati dalla maggior parte degli studiosi ad alcuni processi di vastissimo respiro: una positiva accelerazione, collocabile fra il 1470 e il 1490, della costruzione delle strutture statuali e dell’idea dello stato-nazione, dopo decenni di crisi politica per tutte le grandi monarchie europee; la formazione, a partire dalla discesa del re francese Carlo VIII in Italia (1494), di un vero e proprio sistema di stati monarchici sovrani contraddistinto da rivalità, tentativi di egemonia, alleanze e controalleanze; il pieno dispiegarsi, nei decenni-cerniera fra XV e XVI secolo, degli «opposti motivi della rivoluzione culturale moderna»: la tendenza all’unificazione indotta dalla diffusione della stampa e quella verso la divisione alimentata dalla frattura religiosa determinata dalla Riforma; le grandi spedizioni nautiche compiute nel decennio compreso fra il 1487 e il 1497-98, con la scoperta del Capo di Buona Speranza, l’impresa colombiana, il viaggio dal Portogallo all’India: premesse ad una mondializzazione che assunse la forma della colonizzazione e dello sfruttamento delle risorse americane ma anche quella della diaspora commerciale verso l’Asia e l’Africa47.

Nel loro insieme questi svolgimenti si dipanarono approssimativamente fra il 1450 e il 1530, ossia in un arco cronologico non troppo ampio e rispetto al quale, curiosamente, il 1492 rappresenta una sorta di termine mediano, ma soprattutto resta il riferimento più pregnante. Una volta che si accetti l’ipotesi di far coincidere la fase di transizione all’età moderna con un certo numero di decenni a cavallo fra Quattro e Cinquecento, infatti, non esiste alcuna altra data in grado di riassumere meglio del 1492 il senso della trasformazione del mondo sia in termini materiali che simbolici. E’ probabile, come sostengono Lucile e Bartolomé Bennassar, che il secondo significato abbia finito per prevalere sul primo, che il tempo ricreato dalla memoria delle generazioni abbia alterato la percezione del tempo realmente vissuto48, ma non bisogna dimenticare che nella vicenda

44 M. Feo, Petrarca e l’Europa, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, cit., II, Umanesimo ed educazione, a cura G. Belloni e R. Drusi, Treviso-Costabissara (Vicenza), Fondazione Cassamarca-Angelo Colla Editore, 2007, pp. 33-69, citazioni a p. 35.45 Cfr. R. Goldthwaite, Realtà economico-sociale e status culturale dell’artigiano, in Arti fiorentine. La grande storia dell’artigianato, 6 voll., Firenze, Giunti, 1998-2003, II, Il Quattrocento, a cura di F. Franceschi e G. Fossi, pp. 9-25: pp. 18-21.46 Giovanni Rucellai ed il suo Zibaldone, 2 voll., London, The Warburg Institute, 1960 e 1981, I, Il Zibaldone quaresimale, pagine scelte a cura di A. Perosa, pp. 60-61.47 Guarracino, Le età della Storia, cit., pp. 206-209, citazione a p. 208.48 Bennassar e Bennassar, 1492. Un mondo nuovo?, cit., p. 230.

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dell’uomo le costruzioni culturali non hanno meno valore dei dati materiali, né che senza il gioco del loro «intreccio equivoco» qualunque discorso critico diventerebbe impossibile49.

In sostanza il 1492 si presenta al nostro immaginario di uomini di inizio ventunesimo secolo come una prodigiosa concatenazione di eventi, dominata dall’avventura colombiana ma legata da fili di lunghezza e spessore diversi alla più grande trama evenemenziale di un’epoca in cui il battito della storia si accelera. Un luogo ideale da cui partire alla ricerca di personaggi, idee, esperienze intellettuali e categorie culturali che continuano ad appassionarci e a dividerci.

49 F. Cardini, 1492. Gli eventi, i luoghi, i protagonisti, in 1492. Un anno fra due ere, cit., pp. 72-177: pp. 82-83.

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