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Un “pastore-profeta” al Vaticano II Helder Camara (1909-1999)

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Un “pastore-profeta” al Vaticano II

Helder Camara

(1909-1999)

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Nato a Fortaleza nel 1909,

Helder Camara viene ordinato

sacerdote nel 1931, a 22 anni.

I suoi primi interessi sono rivolti

alla pedagogia e alla catechesi.

Presto entra in contatto con la

teologia francese e si interessa

alla Sacra Scrittura e alla storia

della Chiesa.

Nel frattempo si impegna nella

riorganizzazione delle

associazioni cattoliche dello

Stato di Ceará. Contribuisce alla

vittoria della Lega elettorale

cattolica nelle elezioni locali del

1934 e 1935. Assume un

impegno diretto

nell’amministrazione dello Stato.

La sua esperienza politica si

conclude nel 1936: in seguito

alla morte della madre, si

trasferisce a Rio de Janeiro.

La formazione

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I primi passi a non sono facili:

l’arcivescovo Leme da Silveira

non gli concede molto spazio.

Con la nomina episcopale di

Jaime De Barros Camara (1943)

invece la situazione cambia, dal

momento che il nuovo

arcivescovo si affida al dinamico

Helder, che ben presto diventa

un punto di riferimento per

l’intera Chiesa brasiliana.

Assistente nazionale dell’Azione

cattolica rilancia il ruolo del laici

nella Chiesa, attraverso un

processo di formazione biblico-

morale che consenta loro di

testimoniare i valori cristiani

nella società.

Sebastião Leme

da Silveira Cintra

(1882-1942)

Nella diocesi di Rio de Janeiro

Jaime de Barros Câmara

(1894-1971)

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Il cattolicesimo latino-americano

negli anni ’60 del XX secolo

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Tra gli anni ’60 del Novecento lo sviluppo del cattolicesimo latino-americano è

influenzato da vari avvenimenti:

- La diffusione di movimenti di guerriglia sostenuti dall’internazionalismo

cubano

- Il fallimento del piano economico continentale che associava gli aiuti

statunitensi alle riforme strutturali e alla democratizzazione

- l’escalation di colpi di Stato militari (9 tra il 1962 2 il 1966) che rovesciano

governi ritenuti troppo deboli verso i “comunisti”

Il risultato è un cattolicesimo sempre più politicizzato, che legge la povertà del

continente non più come semplice ritardo economico da colmare, ma come

risultato di una congiunta dipendenza strutturale dalle grandi potenze occidentali

e dalle tradizionali oligarchie nazionali.

All’inizio del Concilio il cattolicesimo latino-americano è già “in effervescenza”,

dotato di mezzi, strutture e personale.

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Scambio di clero tra Europa e America Latina

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Durante il pontificato di Pio XII cresce il numero dei vescovi in America Latina:

da 268 a 436. All’apertura del Concilio l’episcopato latinoamericano rappresenta il

22% di quello mondiale.

Cresce anche il numero dei preti stranieri, a cui le chiese latino-americane

ricorrono per l’evangelizzazione. Tale crescita è anche conseguenza del fatto che

molti missionari sono stati costretti ad abbandonare l’Estremo Oriente, espulsi da

Mao.

Inoltre l’enciclica di Pio XII Fidei donum del 1957 mette a disposizione dei

vescovi un’ingente schiera di preti volontari a servizio delle chiese povere di clero:

in America Latina arrivano numerosi preti spagnoli, tedeschi, olandesi, canadesi,

statunitensi, che diffondono nuove idee teologiche e nuovi stili pastorali.

Un numero crescente di giovani sacerdoti latinoamericani si reca in Europa per

completare la propria formazione teologica: a L’Institut Catholique di Parigi, a

Lione, all’Università Cattolica di Lovanio, ecc. Così entrano in contatto con i

fermenti teologici e pastorali del vivace mondo francofono degli anni Cinquanta.

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Una Chiesa sempre più attenta alle questioni sociali

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Molti dei sacerdoti che tornano in America

Latina dopo aver completato gli studi in

Europa, lavorano spesso a stretto contatto

con i gruppi di Azione Cattolica, che dalla

fine degli anni 40 abbandonano il modello

italiano e spagnolo per adottare quello

franco-belga, che si organizza in

movimenti specializzati legati agli

ambienti studenteschi, operai e rurali.

I gruppi della Juventud Obrera, Agraria,

Estudiantil e Universitaria sviluppano nel

corso degli anni 50 una viva e crescente

attenzione per i problemi sociali,

diventando ricettivi nei confronti delle

analisi della realtà sociale proposte dalla

nuova sociologia religiosa. Viene coniato il

celebre metodo: vedere, giudicare, agire.

Molti di questi gruppi si ritrovano su

posizioni di avanguardia sociale.

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Manuel Larraín Errázuriz

(1900-1966), Vescovo di Talca

dal 1939

La costituzione del CELAM

Nel secondo dopoguerra papa Pio XII prende

l’iniziativa di creare un organismo che coordini

i numerosi vescovi latinoamericani.

All’inizio del 1954 dispone che, subito dopo il

congresso eucaristico che si sarebbe tenuto a

Rio de Janeiro l’anno dopo, si riunisse nella

stessa città un’assemblea dell’episcopato

continentale, la cui preparazione viene affidata

a una commissione centrale, le cui “anime”

sono mons. Camara e mons. Larraín.

Anche grazie a ciò, l’episcopato

latinoamericano si presenterà all’appuntamento

del Concilio con uno strumento importante: il

CELAM, che sarà al “cuore” del dibattito

conciliare.

D’altra parte, le riflessioni sviluppate dalle

chiese latinoamericane troveranno nel Concilio

nuova linfa, nuovi orizzonti teologici, nuove

casse di risonanza.

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Camara sostiene l’idea di creare una

struttura di coordinamento e di

promozione della Chiesa in Brasile a

livello episcopale. Nel 1952 da Roma

giunge l’autorizzazione a istituire la

Conferenza episcopale brasiliana (CNBB),

di cui Camara diventa il primo segretario.

Nel frattempo è nominato vescovo

ausiliare di Rio de Janeiro (1952).

In questi anni vive a stretto contatto con il

mondo politico della capitale brasiliana, di

cui diviene un ascoltato consigliere e un

costante punto di riferimento per le

questioni ecclesiali.

Pensa anche a un’istituzione

sovranazionale dei vescovi dell’America

Latina. Così nel 1955 nasce il Consiglio

episcopale latinoamericano (CELAM).

Camara ne sarà vice presidente dal 1958 al

1965, rendendolo uno strumento

fondamentale per la riflessione teologico-

pastorale in America Latina.

Il ruolo di Camara

nel CELAM

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Camara si prepara al Concilio Vaticano II fin dal

1959.

Nel suo densissimo votum difende l’idea di una

Chiesa aperta al futuro, una Chiesa che si

preoccupa dei poveri e si impegna nella lotta

contro le strutture che generano la povertà.

Inizia a tessere una rete di relazioni e nell’ottobre

del 1962 giunge a Roma già con un preciso piano

di lavoro e di cammino spirituale personale.

Ben presto diventa uno dei più conosciuti padri

Conciliari, pur senza prendere mai la parola in

Basilica.

Partecipa attivamente a gruppi informali che

avranno enorme influenza sull’elaborazione dei

grandi testi conciliari, in particolare la Gaudium

et Spes alla cui stesura contribuisce fin dal 1963

tramite il suo impegno nella commissione per

l’apostolato dei laici.

La preparazione al

Vaticano II

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Durante il Concilio, nel marzo 1964,

mons. Camara è nominato vescovo di

Olinda-Recife, nello Stato del

Pernambuco, nel Nord-est del Brasile.

La sua nomina precede di poche

settimane il colpo di stato, con il quale

inizia il ventennio della dittatura

militare.

A Recife la voce di Camara si leva per

denunciare le violenze dei militari.

Riafferma l’impegno della Chiesa in

favore degli ultimi, in linea con quanto

si sta discutendo al Vaticano II.

Concluso il Concilio si spende per la

promozione della recezione del

Vaticano II.

Questo suo impegno pastorale gli attira

le critiche dei militari, che cercano in

molti modi di farlo tacere, anche perché

egli non perde occasione, durante i suoi

numerosi viaggi all’estero, di

denunciare le violenze della dittatura e

di difendere i diritti umani.

Vescovo di Olinda-Recife

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In Concilio, sui dibattiti circa la

collegialità, l’esperienza del

CELAM appare come una

preziosa novità da imitare.

Occasione unica per entrare in

diretto contatto con la più

avanzata teologia europea, per

uscire da una situazione di

relativa marginalizzazione, per la

formazione di nuove reti di

relazioni e di solidarietà

differenziate – come nel caso del

gruppo “chiesa dei poveri”, che si

riunisce al Collegio belga su

iniziativa di padre Gauthier – al

Vaticano II la componente

latinoamericana inizia a

caratterizzarsi per alcuni aspetti

con tratti propri.

Il gruppo conciliare

“la chiesa dei poveri”

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In occasione del Concilio inaugura la tradizione delle

Lettere Circolari, a cui si manterrà fedele nei 20 anni

successivi. Ogni lettera, vergata a mano su carta

sottile, datata e numerata con precisione, riporta i

resoconti dettagliati dei lavori assembleari e delle

riunioni dei gruppi di lavoro informali, i commenti

sugli schemi dei testi conciliari, gli incontri con

personalità di spicco, le meditazioni poetiche

prodotte nei momenti di maggior tensione spirituale.

E poi, riflessioni sulla storia e sull’economia, le cause

della povertà, il cinema, le scienze, l’arte e qualsiasi

argomento di interesse umano.

Camara scrive le sue lettere circolari ogni giorno,

spesso nel cuore della notte, al termine delle lunghe

giornate conciliari, indirizzandole alla comunità che

vive con lui a Rio de Janeiro. Questa comunità, la

Família do São Joaquim, è composta

prevalentemente da donne che lo hanno

accompagnato fin dall’inizio del suo ministero,

condividendo con lui i progetti e le speranze di quegli

anni.

Lettere dal Concilio

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La fisionomia umana di Helder Camara

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Persona dall’apparenza modesta, accogliente e attenta. In lui convivono il

contemplativo e l’organizzatore efficiente, il mistico e l’oratore acceso, la scrittore e

il poeta.

Sarà sempre coerente ad alcune decisioni assunte nel periodo di formazione e nei

primi anni di ministero: veglie quotidiane dall’una alle cinque del mattino; Santa

Messa “celebrata sempre come se fosse la prima”; utilizzo di schemi invece che

discorsi interamente scritti; accurata preparazione in un clima di preghiera; impegno

a non predicare nulla senza esserne intimamente convinto.

Per tutta la vita si è considera “in formazione”: legge moltissimo e con attenzione,

sottolinea e annota. Chiede e accetta con umiltà consigli sulle letture da fare. Dal

1936 legge Maritain, Lebret, Chenu, Congar, De Lubac, Küng, Rahner, Teilhard de

Chardin.

È innamorato di san Francesco e dello spirito francescano.

Si interessa del movimento liturgico; studia la Bibbia e la storia della Chiesa.

In occasione del Concilio inaugura la tradizione delle Lettere Circolari, a cui si

manterrà fedele nei 20 anni successivi. Ogni lettera, vergata a mano su carta sottile,

datata e numerata con precisione, riporta i resoconti dettagliati dei lavori assembleari

e delle riunioni dei gruppi di lavoro informali, i commenti sugli schemi dei testi

conciliari, gli incontri con personalità di spicco, le meditazioni poetiche prodotte nei

momenti di maggior tensione spirituale.

E poi, riflessioni sulla storia e sull’economia, le cause della povertà, il cinema, le

scienze, l’arte e qualsiasi argomento di interesse umano.

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Nelle Lettere mons. Camara

riferisce di dialoghi avuti con

uomini di fede e di cultura quali

don Dossetti, Giorgio La Pira, frère

Roger di Taizé, Lanza del Vasto,

Jean Guitton e numerosi altri.

Da questi scritti si coglie l’amore

profondo per la Chiesa e la sua

assoluta fedeltà a Cristo, sentita e

vissuta in autentica semplicità

evangelica e con l’unico scopo di

aiutare il Papa e la Chiesa stessa.

Un altro tratto emergente della

personalità di mons. Camara è il

suo profondo spirito ecumenico,

che si manifesta nelle relazioni

personali, nei progetti (come quello

della preghiera per l’Unità) e nelle

intenzioni (l’ammirazione e il

rispetto per tutte le espressioni

religiose).

Relazioni con grandi personalità

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Camara non prende mai la parola in aula

conciliare. Però ha un ruolo importante:

interviene con varie iniziative per alimentare

e recepire lo spirito d’aggiornamento

invocato da Giovanni XXIII.

Si fa promotore del gruppo sulla Chiesa dei

poveri, per porre all’attenzione dei Padri il

tema della povertà nella Chiesa e della

Chiesa.

Inoltre è uno dei promotori del gruppo

chiamato «ecumenico», che raccoglie i

rappresentanti di numerose conferenze

episcopali che si incontrano regolarmente

per discutere e valutare il procedere dei

lavori conciliari.

Al tempo stesso ha numerosi contatti con

personaggi di primo piano, come Suenens,

per intervenire nelle dinamiche redazionali

dei singoli schemi con la propria

testimonianza evangelica in modo da

favorire anche nella formulazione della

dottrina un ritorno all’esperienza evangelica.

Ruolo importante

nel Vaticano II

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La conoscenza di frère Roger e dell’esperienza di Taizé

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Helder Camara approfondisce la conoscenza con Roger Schultz, fondatore della

comunità di Taizé, scoprendo attraverso questa fraterna amicizia la ricchezza

della dimensione ecumenica della Chiesa.

«Oggi sono stato con Roger e Max, protestanti della comunità religiosa di Taizé.

Due persone simpaticissime. Roger, molto giovane, è il maestro; Max il

discepolo.

Roger, che è svizzero, sul finire della guerra si è stabilito a sud di Parigi, nella

diocesi di Autun. Ha occupato l’antica chiesa cattolica abbandonata e ha iniziato

ad accogliere (nella linea spirituale di un Peyriguère o di un Foucauld) i rifugiati

di tutte le razze e di tutti i credo…

Oggi i monaci protestanti sono 52. Otto sono pastori. Credono nella presenza

reale di Cristo e celebrano la Santa Messa.

Si confessano e i pastori danno l’assoluzione individuale (come noi). Recitano il

Breviario. Vogliono rimanere nella famiglia protestante, preparando l’unione.

Sono incantati dal Concilio»

(Lettera circolare del 31.10.1962)

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Amore per papa

Giovanni XXIII

Credito a papa

Paolo VI

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«Prima di andare a dormire, vengo a raccontarvi il lungo colloquio (un’ora) che ho

avuto oggi in Vaticano con il cardinal Montini […]. Mi ha infine chiesto di parlare. Per

cominciare gli ho comunicato le mie impressioni sul Concilio. L’impressione dolorosa

della Messa di apertura: pompa eccessiva e povertà liturgica. A salvare il tutto,

l’ammirevole sermone del Papa» (Circolare del 02.11.1962)

«[Padre Congar] non ha fatto cenno – è discretissimo, persino timido – alle difficoltà

che ha affrontato a causa del Sant’Uffizio. Non ha ricordato che è stato Papa Giovanni

a toglierlo dalla lista nera (lui e altri, come De Lubac e Daniélou) e a farlo passare,

con stupore e scandalo di alcuni e per la gioia e la gratitudine della maggioranza

assoluta dei vescovi, alla condizione di perito del Concilio.

Con quanto affetto si riferisce a Papa Giovanni!

L’“evento-Giovanni” secondo lui è uno dei grandi segni che Dio vuole l’ecumenismo.

Papa Giovanni, il “Parroco del mondo intero” (in Francia, in una parrocchia

comunista, un giovane parroco ha detto a Congar: il parroco sono io, ma chi cura le

anime, le converte e le porta qui è Papa Giovanni), agiva per ispirazione diretta di

Dio… Né vasta cultura, né intelligenza particolare. Era soprattutto nelle veglie che gli

arrivavano le ispirazioni da Dio. Ad esempio, i quattro punti che ha insistito per

inserire nella Pacem in terris…

Congar ha pianto di gioia quando i suoi occhi si sono finalmente persuasi del prodigio

realizzato da Giovanni: erano presenti in pieno Concilio, ammessi a tutti i segreti più

intimi, quarantadue osservatori non cattolici» (Circolare del 20/21.10.1963)

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«Questo Concilio convocato da un Papa che

afferma la necessità di riformarci come

cammino verso l’unità; un Concilio che non

nasce per condannare quelli che sono fuori,

ma per fare un esame di coscienza e

un’autocritica di quelli che sono dentro; un

Concilio positivo, costruttivo – è strada

aperta, via reale verso l’unità…» (Circolare

del 29.10.1962)

«Ci voleva Giovanni XXIII per avere il

coraggio di affrontare la Sacra

Congregazione dei Riti. E tutto questo, in

piena Basilica di San Pietro. Sapete che il

Papa è ammalato? Già si sapeva che l’11

avrebbe fatto un’operazione (alla prostata).

Ma ieri e oggi ha cancellato le udienze. Se

Dio lo portasse via adesso, ci sarebbe chi

penserebbe che la Provvidenza lo ha tolto di

mezzo per evitare che cadesse in eresia,

trascinato dai vescovi progressisti… Non c’è

niente di meglio che lasciar fare a Dio»

(Circolare del 28/29.11.1962)

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Per una liturgia di

tutto il popolo di Dio

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«Concelebrazione della santa Messa. Si auspica l’ampliamento di quest’uso (per il

momento nella Chiesa occidentale l’unico a concelebrare è il prete durante la

propria ordinazione sacerdotale).

Probabilmente avremo concelebrazioni: il Giovedì santo (Messa nella Cena del

Signore); quando molti preti sono riuniti e non è possibile la celebrazione

individuale.

Ho intenzione di battermi per un ampliamento ancora maggiore: non solo quando

non è possibile, ma anche quando è conveniente. Ad esempio, per unire i preti fra di

loro e i preti al loro vescovo. Il fatto è che il mio sogno di realizzare la chiusura del

Concilio con un’unica e sola Messa celebrata, anzi concelebrata, dal Papa e dai

vescovi di tutto il mondo ha attecchito in un modo tale che ho l’impressione che

fosse già un’idea di tutti […].

Vi rendete conto di quanto la Santa Messa potrà guadagnare, agli occhi della gente,

come segno e fonte di unità?» (Circolare del 17.10.1962)

«In San Pietro abbiamo avuto la Messa concelebrata di Rito bizantino (spiegata in

latino). Avevo bisogno di vedere da vicino una concelebrazione. La Messa da sola

varrebbe una circolare. Come mi ha impressionato il modo che persino i fedeli

hanno di comunicare: ricevono la comunione sul palmo della mano e poi si

servono; e bevono allo stesso calice del celebrante» (Circolare del 24.10.1962)

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Per una Chiesa unita

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«Hans Küng ha enumerato i cambiamenti che spianano il cammino dell’unità:

l’atteggiamento sempre più aperto, comprensivo ed esatto di fronte alla Sacra

Scrittura (basti pensare a cosa è oggi la Giornata della Bibbia; e lo sforzo per

diffondere le Scritture; e le traduzioni sempre più numerose; e il suo utilizzo

sempre più frequente); la riforma liturgica, nella direzione di un avvicinamento

sempre maggiore fra il popolo e i misteri celebrati (le Messe comunitarie lo

riempiono di gioia); la promozione del laicato; la maturità della Chiesa

nell’ammettere le critiche (gli osservatori non cattolici sono stupefatti della libertà

assoluta di cui godono i Padri Conciliari).

Questo Concilio convocato da un Papa che afferma la necessità di riformarci come

cammino verso l’unità; un Concilio che non nasce per condannare quelli che sono

fuori, ma per fare un esame di coscienza e un’autocritica di quelli che sono dentro;

un Concilio positivo, costruttivo – è strada aperta, via reale verso l’unità […].

Non dimentica che 400 anni (protestanti) e 800 anni (ortodossi) di pregiudizi,

invettive e sospetti reciproci non possono essere dissipati in un solo incontro (Papa

Giovanni ora preferisce questa parola così nostra. Chi dice incontro, riconosce la

necessità di non rimanere fermo ad aspettare che tutta la strada sia fatta dall’altro.

Il Papa non ha esitato a riconoscere che abbiamo una grande colpa per tutto ciò che

è accaduto)» (Circolare del 29.10.1962)

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Per una Chiesa

collegiale

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«I diritti e le attribuzioni delle conferenze episcopali dovranno essere chiariti al

Concilio. Nel caso dei vescovi, fino a quando non si vedrà con chiarezza che il

Papa non è un despota, fino a quando non si vedrà come agisce nel collegio

episcopale, il riavvicinamento di molte famiglie cristiane incontrerà difficoltà

insormontabili» (Circolare del 11/12.11.1962)

«Si tratta sempre della collegialità episcopale. La curia romana sente che se la

collegialità sarà promulgata tale e quale è stata proposta dalla commissione mista

(commissione dottrinale più segretariato per l’unità delle chiese) e approvata a

larghissima maggioranza dal Concilio, per l’eccessiva centralizzazione decorrente

dal Vaticano I sarà la fine. E allora, è facile prendere a pretesto l’amore per il Papa

e lo zelo per la difesa del primato di Pietro.

Non dubito (tanto è fragile la natura umana e tanto abili siamo noi a giustificarci ai

nostri stessi occhi) che agiscano inconsapevolmente: probabilmente pensano di

salvare la Chiesa da un pericolo terribile, da un’assurdità, da un’eresia […].

L’ho già detto e lo ripeto: non è una questione di infallibilità del Papa. Se fosse un

caso di infallibilità starei tranquillo: al momento giusto lo Spirito Santo

interferirebbe, non per salvare la mia tesi bensì la verità oggettiva, la verità vera…

Qui si tratta di decidere sull’opportunità della promulgazione»

(Circolare del 12/13.11.1964)

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«È stata letta la petizione che abbiamo intenzione di presentare a proposito della

presenza dei laici al Concilio. Chiediamo: che se ne aumenti il numero (in funzione

dei mezzi di sostentamento, dei gruppi di lavoro e delle regioni. La rappresentanza

femminile è un punto pacifico); che ci siano dei supplenti, per poter avere un

avvicendamento (i laici devono guadagnarsi da vivere e non possono passare tutto il

loro tempo al Concilio); un Padre Conciliare che li accompagni e vegli su di loro; dei

periti che, in Basilica, riassumano in lingue accessibili le discussioni in latino; testi

degli schemi, tradotti, per i laici; laici come periti nelle commissioni conciliari; un

aiuto economico per il viaggio e l’ospitalità»

(Circolare del 11.10.1963)

«E al diaconato ci avete pensato? Sui particolari non si è ancora trovato un accordo

definitivo. C’è abbastanza unanimità, come ho già detto, su tre gruppi: celibi decisi a

non sposarsi; sposati, comprovatamente fedeli; frati laici. Di fronte all’esperienza di

Nízia-Floresta ( e all’esperienza personale di Marie Thérèse), mi pare evidente che

sarebbe il caso di trovare il coraggio di spingersi alle diaconesse. Ma sento che al

momento non c’è il clima per arrivare a tanto […]. Da parte mia, mi spingerei ancor

più lontano: non percepisco nessuna impossibilità metafisica o di ordine

soprannaturale che impedisca alla donna l’accesso al sacerdozio»

(Circolare del 01.11.1963)

Valorizzazione dei carismi, dei laici e dei diaconi

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Per una Chiesa povera e per i poveri

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«Mons. Mercier desidera che i Padri

Conciliari facciano un gesto simbolico:

lasciare qui tutte le loro croci pettorali e fare

ritorno a casa con delle croci di legno»

(Circolare del 24.10.1962)

«Sarebbe incredibile se, di ritorno nei nostri

paesi (e sembra che la fine della 1ª fase sia

confermata per il 7 dicembre), a chi ci

chiedesse del Concilio rispondessimo:

abbiamo parlato di liturgia e di teologia.

Questo va bene per noi. Il popolo però si

scandalizzerebbe, e non senza ragione, se non

tenessimo le antenne ritte sui pensantissimi

problemi che gli gravano addosso»

(Circolare del 04.11.1962)

«Signore: apri i miei occhi! A che cosa serve

lodarti nel presepe della Chiesa se non ti

riconosco quando piangi dal freddo e dalla

fame in milioni di baracche del mondo

sottosviluppato?»

(Circolare del 10/11.11.1964)

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«Noi che viviamo in mezzo al mondo,

sappiamo bene che le uniche due Encicliche

che la gente è riuscita a capire e ha avuto

interesse a leggere sono state la Mater et

Magistra e la Pacem in terris. Questo è un

avvertimento grave e importante che tutto il

Concilio deve tener ben presente.

Nel caso particolare di questo schema, poi,

non se ne parla nemmeno… Perché

ridicolizzare lo stile giornalistico?

Se per stile giornalistico si intende che si

parte dagli avvenimenti più appassionanti

(dai segni dei tempi) presentandoli nel

linguaggio di oggi, dell’uomo di oggi, al fine

di suscitare l’interesse della cospicua

maggioranza che assedia da tutti i lati il

cattolicesimo e il cristianesimo (ma che dico,

per cercare di suscitare l’interesse dei

cristiani stessi, che ormai non accettano più

luoghi comuni proferiti in tono solenne),

allora benedetto sia lo stile giornalistico»

(Circolare del 9/10.03.1964)

Per una Chiesa

capace di comunicare

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«Sto organizzando un piano per ottenere che il Santo Padre si rivolga ai vescovi

dell’America Latina, in un linguaggio diretto e personale (senza luoghi comuni,

senza quel tono solenne e pietistico che i suoi consulenti sono soliti preparare

quando il Santo Padre deve parlare alle gerarchie), dicendo loro che […] chiede

insistentemente ed esige (nella misura in cui, in nome di Cristo, può esigere) che i

vescovi, senza ulteriori perdite di tempo: si liberino dalle terre della chiesa

donandole con intelligenza ai poveri; si pongano apertamente, decisamente e senza

eccezioni dalla parte delle riforme strutturali; stimolino i movimenti per la non

violenza affinché esercitino una pressione democratica che aiuti a vincere l’inerzia e

l’egoismo dei poteri economici; stimolino lo sviluppo cercando di assicurargli un

senso umano e cristiano, al fine di salvaguardare la dimensione umana nei piani

d’investimento e di preparare l’uomo allo sviluppo attraverso programmi educativi

che portino le masse subumane a trasformarsi in popoli»

(Circolare del 10/11.09.1965)

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Jorge Mario Bergoglio, primo Papa a non

aver preso parte al Vaticano II, ha come filo

rosso del suo pontificato la realizzazione e

l’attualizzazione della primavera conciliare.

Il Concilio costituisce il vero programma di

Francesco e il suo magistero va interpretato

e vissuto alla luce del Vaticano II.

Per esempio, il suo maestro è proprio il

Papa che ha voluto la novità epocale del

Vaticano II. Si possono legare le figure di

san Giovanni XXIII e di Francesco in

quanto è Giovanni che ha indetto il

Concilio. Accostare il “Papa buono” con il

“Papa misericordioso” consente di

comprendere l’attuazione del programma

conciliare nella sua prospettiva

autenticamente conciliare.

Papa Francesco si preoccupa di ritrovare nel

Concilio i testi che si riferiscono in un

modo o in un altro alla Chiesa povera per i

poveri.

Papa Francesco,

sulla scia del Concilio

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Rimandi bibliografici

H. Camara, Roma, due del mattino. Lettere del

Concilio Vaticano II, San Paolo, Cinisello B. 2008

S. Scatena, In populo pauperum. La Chiesa latinoamericana

dal Concilio a Medellín (1962-1968), Il Mulino, Bologna

2007.